Corrispettività, onerosità e gratuità: Profili tributari 9788834855072, 8834855078

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Corrispettività, onerosità e gratuità: Profili tributari
 9788834855072, 8834855078

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Indice
Premessa d
i Andrea Fedele
INTRODUZIONE - LE DIVERSE DIMENSIONI DELLA CORRISPETTIVITÀ, ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ NEL DIRITTO TRIBUTARIO DELL’IMPRESA di Valerio Ficari
PARTE I: ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ - SEZIONE I: ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ: CATEGORIE GENERALI NEL DIRITTO PRIVATO E RILEVANZA TRIBUTARIA
ONEROSITÀ, GRATUITÀ, LIBERALITÀ di Lucilla Gatt
LA RILEVANZA DEI PROFILI FUNZIONALI NELLA DISCIPLINA SOSTANZIALE DEI TRIBUTI di Valeria Mastroiacovo
QUALIFICAZIONE DELL’ATTO DI AFFIDAMENTO DI BENI AL TRUSTEE NELLE IMPOSTE SUI TRASFERIMENTI
di Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti
L TRATTAMENTO FISCALE DELLE MANCE CORRISPOSTE AL PORTIERE D’ALBERGO
di Valeria Guido
SEZIONE II: ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ NELLA PROSPETTIVA DELL’IMPRESA INDIVIDUALE, SOCIETARIA E CONSORTILE
ECONOMICITÀ NELLE IMPRESE INDIVIDUALI E SOCIETARIE E ATTI ONEROSI, GRATUITI E LIBERALI di Elisabetta Loffredo
CONTRATTI DI COLLABORAZIONE FRA IMPRESE, CONSORZI E RETI DI IMPRESE di Carlo Ibba
LUCRO E IMPRESA COMMERCIALE NEL SISTEMA IMPOSITIVO di Alessandro Giovannini
L’IMPRESA CONSORTILE NELLE IMPOSTE DIRETTE E NELL’IVA di Maurizio Interdonato
LA “FISCALITÀ” DEI CERTIFICATI VERDI TRA NATURA E FORME DI CIRCOLAZIONE di Paolo Barabino
SPUNTI SULLA NOZIONE DI ATTIVITÀ ECONOMICA DEGLI ENTI PUBBLICI IN AMBITO IVA di Barbara Denora
LA PRASSI NEGOZIALE DELLA CESSIONE DI CUBATURA E DEGLI ATTI DI REDISTRIBUZIONE DI AREE TRA CO-LOTTIZZANTI NON RIUNITI IN CONSORZIO: SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL TRATTAMENTO FISCALE AI FINI DELLE IMPOSTE INDIRETTE (IVA E REGISTRO)
di Cesare Simone
BREVI NOTE SULLA RILEVANZA DEL REGIME PATRIMONIALE CONIUGALE NELL’IMPUTAZIONE DEI REDDITI DA PARTECIPAZIONE O DERIVANTI DALL’ESERCIZIO DI UN’IMPRESA di Viviana Capozzi
IL PASSAGGIO DEI BENI DELL’IMPRENDITORE INDIVIDUALE DALLA SFERA PERSONALE A QUELLA IMPRENDITORIALE di Viviana Capozzi
PARTE II: ATTRIBUZIONE, DESTINAZIONE E SCAMBIO - SEZIONE I: ATTRIBUZIONE, DESTINAZIONE E SCAMBIO. DETERMINAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE E DEL VALORE NELLA CIRCOLAZIONE DEI BENI FUORI DAL REGIME D’IMPRESA
DETERMINAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE DEGLI ATTI DI CIRCOLAZIONE DEI BENI NELLE IMPOSTE INDIRETTE di Guido Salanitro
LA POTESTÀ DI RISCATTO DEL VENDITORE di Roberto Calvo
I PROFILI DI RILEVANZA FISCALE DEL CONTRATTO: SPUNTI DI RIFLESSIONE di Andrea Carinci
LA CESSIONE DEL CONTRATTO NELL’IMPOSTA DI REGISTRO di Guglielmo Fransoni
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA RILEVANZA DELL’AVVIAMENTO NELLA CESSIONE “INDIRETTA” DELL’AZIENDA E SULLA DETERMINAZIONE DEL VALORE DEGLI IMMOBILI di Susanna Cannizzaro
L’IMPOSTA DI REGISTRO NELL’AMBITO DELL’OPERAZIONE CONTRATTUALE “PRELIMINARE-DEFINITIVO” di Raffaele Di Giovine
IL CALCOLO DELLA BASE IMPONIBILE NELLE IMPOSTE DI REGISTRO: IL CASO PARTICOLARE DELLE VENDITE CON ASTA di Donato Pianoforte
SEZIONE II:
TRASFERIMENTO DEI BENI D’IMPRESA. RILEVANZA DEL CORRISPETTIVO E DEL VALORE NELLA BASE IMPONIBILE
IL VALORE NELL’IVA FRA REGOLE DI QUANTIFICAZIONE DEL CORRISPETTIVO E DISPOSIZIONI NAZIONALI E COMUNITARIE: L’USO “ANORMALE” DEL VALORE NORMALE* di Pierpaolo Maspes
RILEVANZA AI FINI DELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO DEGLI SCONTI COMMERCIALI NELL’AMBITO DELLE CESSIONI DI BENI di Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti
PERMUTA, OPERAZIONI PERMUTATIVE E DATIO IN SOLUTUM TRA NORMATIVA EUROPEA E DISCIPLINA INTERNA di Susanna Cannizzaro
RILEVANZA DELLE OPERAZIONI GRATUITE NELL’AMBITO DELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO E SPUNTI RICOSTRUTTIVI IN TEMA DI CONSUMO di Barbara Denora
AZIENDA ED AVVIAMENTO TRA ACCERTAMENTO, “PREZZI” E “AUTONOMIA” DEL CONTRIBUENTE di Valerio Ficari
CESSIONE DI AZIENDA VERSO COSTITUZIONE DI RENDITA VITALIZIA ED IMPOSIZIONE REDDITUALE di Francesco Pepe
CESSIONE D’AZIENDA, TRASFERIMENTO DEL MARCHIO E VALORI IMPONIBILI NEL “SISTEMA” IVA-REGISTRO di Giuseppe Scanu
L’IMPOSIZIONE INDIRETTA DEL PASSAGGIO GENERAZIONALE DELL’AZIENDA TRA REGIMI AGEVOLATI E CRITICITÀ DI SISTEMA* di Valeria Mastroiacovo
IL PATTO DI FAMIGLIA E IL PASSAGGIO GENERAZIONALE DELL’IMPRESA di Viviana Capozzi
SEZIONE III: ATTRIBUZIONE, DESTINAZIONE E SCAMBIO NEI GRUPPI DI SOCIETÀ
IL VALORE DEL GRUPPO E IL VALORE NEL GRUPPO. DISCIPLINA CIVILISTICA E FISCALE DEGLI SCAMBI INFRAGRUPPO A VALORE DIVERSO DA QUELLO DI MERCATO di Emiliano Marchisio
IL GRUPPO NAZIONALE di Loredana Carpentieri
ACCORDI DI CONSOLIDAMENTO E FLUSSI COMPENSATIVI INFRAGRUPPO di Concetta Ricci
SEZIONE IV: LA RILEVANZA DEGLI SCAMBI TRA MERCATO E TERZO SETTORE. LE COOPERATIVE, GLI ENTI NON COMMERCIALI E GLI ENTI NON LUCRATIVI
DIREZIONE E CONDIZIONI DELLO SCAMBIO NELLE COOPERATIVE E NELLE ORGANIZZAZIONI NON PROFIT TRA REGOLE CIVILISTICHE E REGOLE TRIBUTARIE di Giorgio Marasà
CONSIDERAZIONI A MARGINE DI UN CONVEGNO FOGGIANO di Cinzia Motti
LA RILEVANZA DEGLI SCAMBI TRA MERCATO E TERZO SETTORE: CON RIFERIMENTO AGLI ENTI NON COMMERCIALI ED ENTI NON PROFIT di Laura Castaldi
ASSETTI NEGOZIALI, SCAMBI MUTUALISTICI E “STATUTO FISCALE” DELLA SOCIETÀ COOPERATIVA: I RIFLESSI TRIBUTARI DELLE MODALITÀ DI ATTRIBUZIONE DEL “VANTAGGIO MUTUALISTICO”* di Francesco Pepe
ASPETTI FISCALI DEGLI ENTI NON COMMERCIALI: BREVI CONSIDERAZIONI IN TEMA DI ECONOMICITÀ E ONEROSITÀ di Cesare Simone
NEUTRALITÀ DELLO SCHEMA SOCIETARIO: SCOPO MUTUALISTICO E SCOPO LUCRATIVO di Nicola Tacente
SEZIONE V: LA DETERMINAZIONE DEI PREZZI E DEI VALORI NEL TRASFERIMENTO DELLE PARTECIPAZIONI IN SOCIETÀ
IL TRASFERIMENTO DI PARTECIPAZIONI. PROFILI ECONOMICI E DETERMINANTI DEL VALORE DI SCAMBIO di Francesca Bernini
PARTECIPAZIONE SOCIALE, QUOTAZIONI DI BORSA E VALUTAZIONE DELLE AZIONI di Marco Maugeri
CONCLUSIONI di Augusto Fantozzi
INDICE AUTORI
INDICE CONVEGNI
Volumi pubblicati

Citation preview

DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO Ed EUROPEO Collana diretta da F. Amatucci, M. Basilavecchia, R. Cordeiro Guerra, L. del Federico, E. della Valle, V. Ficari M.C. Fregni, A. Giovannini, M. Logozzo, G. Marini, S. Muleo, F. Paparella, L. Salvini, L. Tosi

3 Sezione Studi ed attualità

Tutti i Contributi pubblicati nella Collana sono stati sottoposti alla valutazione collegiale del Comitato di direzione; le Monografie sono state, altresì, sottoposte alla revisione anonima da parte di due dei componenti del Comitato scientifico dei revisori in base all’apposito Regolamento (consultabile sul sito www.giappichelli.it/Home/riviste10.aspx?codice=R10) Amministrazione: presso la casa editrice G. Giappichelli, via Po 21 – 10124 Torino

Corrispettività, onerosità e gratuità Profili tributari a cura di

Valerio Ficari e Valeria Mastroiacovo

G. Giappichelli Editore – Torino

© Copyright 2014 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-348-5507-2

Volume finanziato con fondi PRIN 2009 sul tema del progetto di ricerca “Corrispettività, onerosità e valore di trasferimento nel diritto dell’impresa e nella circolazione dei beni” (V. Ficari, responsabile Unità A Università degli Studi di Sassari – DISEA Dipartimento di Scienze economiche e aziendali e V. Mastroiacovo, responsabile Unità B Università degli Studi di Foggia – Dipartimento di Giurisprudenza). Alcuni dei contributi destinati a questo Volume sono stati già pubblicati su riviste scientifiche previa autorizzazione dei curatori.

Stampa: LegoDigit s.r.l. - Lavis (TN)

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

INDICE

pag.

PREMESSA di Andrea Fedele

XXXIII

INTRODUZIONE LE DIVERSE DIMENSIONI DELLA CORRISPETTIVITÀ, ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ NEL DIRITTO TRIBUTARIO DELL’IMPRESA di Valerio Ficari 1. 2. 3. 4.

5.

Il “lessico” normativo e giurisprudenziale La necessità di delimitazioni concettuali, anche meramente convenzionali, dei termini “corrispettività”, “onerosità”, “gratuità”, “liberalità” e “prezzo” Interessi economici ed atti dispositivi unilaterali “rinunciativi” ed “omissivi” Prezzo in denaro e in natura e pricing: uno, nessuno, centomila? 4.1. Le caratteristiche del prezzo 4.2. Il valore normale tra imposte sul reddito ed IVA 4.3. La vendita “in blocco” Le “operazioni” permutative, le “operazioni” con funzione solutoria e il pagamento di un prezzo in natura tra ii.dd., IVA e registro 5.1. Operazioni con funzione permutativa e solutoria nelle ii.dd. 5.2. Permuta e datio in solutum nell’IVA tra disciplina comunitaria e disciplina nazionale 5.3. Pagamento in natura del compenso del lavoratore subordinato ed autonomo e funzione solutoria dell’erogazione in natura

1 7 12 14 14 16 17 19 20 20 23

VIII

INDICE

pag. 5.4. Cessione di beni culturali al fine del pagamento di tributi Corrispettività, onerosità e gratuità nelle dinamiche interne al gruppo di società 7. (segue) Spunti e conferme dall’elaborazione economico-aziendale in materia di gruppi 8. (segue) Rilevanza delle caratteristiche peculiari dell’impresa nel gruppo a fini “para-normativi” 9. Apparenti divagazioni: la finanza islamica 10. Il diritto tributario degli scambi al tempo della crisi e il diritto tributario della crisi di impresa

24

6.

25 28 33 34 36

PARTE I ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ SEZIONE I ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ: CATEGORIE GENERALI NEL DIRITTO PRIVATO E RILEVANZA TRIBUTARIA ONEROSITÀ, GRATUITÀ, LIBERALITÀ di Lucilla Gatt 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

L’irrilevanza dello spirito di liberalità nei contratti a causa non liberale con efficacia esclusiva tra le parti La liberalità come effetto avente titolo in un contratto a causa non liberale I contratti a causa onerosa: sproporzione e «risultato di liberalità» (segue) La vendita ad effetti liberali, la divisione, la transazione, i contratti associativi e altre fattispecie a profilo oneroso Sproporzione notevole e «risultato di liberalità» Onerosità causale e effetto liberale: il ruolo sistematico dell’art. 809 c.c. I contratti a causa gratuita: differenza tra vantaggio ed effetto liberale Il contenuto dell’effetto liberale (risultato di liberalità)

43 50 57 63 67 74 78 80

Indice

IX

pag. LA RILEVANZA DEI PROFILI FUNZIONALI NELLA DISCIPLINA SOSTANZIALE DEI TRIBUTI di Valeria Mastroiacovo 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Struttura dell’atto e suo inserimento nell’attività ai fini della identificazione del presupposto d’imposta Le imposte patrimoniali Le imposte ipotecaria e catastale L’imposta di registro e l’imposta sulle successioni e donazioni L’imposta sul valore aggiunto Le imposte sul reddito

83 86 88 90 94 96

QUALIFICAZIONE DELL’ATTO DI AFFIDAMENTO DI BENI AL TRUSTEE NELLE IMPOSTE SUI TRASFERIMENTI di Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti 1. 2.

3.

4.

5.

Introduzione 1.1. L’atto di “affidamento di beni al trustee” 1.2. Le problematiche emergenti Considerazioni preliminari 2.1. Caratteri generali dell’atto di affidamento di beni al trustee 2.2. Trust e imposta sulle successioni e donazioni 2.3. Trasmissioni di beni nell’ambito del trust 2.4. Prospettiva dell’Amministrazione finanziaria Rilevanza delle attribuzioni patrimoniali nell’ambito del trust 3.1. Trust e presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni 3.2. Il concetto di attribuzione patrimoniale 3.3. Immediata rilevanza fiscale della trasmissione dei beni al trustee. Critica 3.4. Inidoneità dell’atto di affidamento al trustee a determinare attribuzioni patrimoniali (gratuite) Trasmissione di beni operata con l’atto di affidamento. Qualificazione 4.1. La supposta gratuità della trasmissione di beni al trustee 4.2. I rapporti giuridici interni al trust 4.3. Il carattere dell’attribuzione che il trustee riceverebbe Considerazione complessiva della vicenda determinata dal trust

108 108 110 112 112 116 117 118 119 119 124 126 129 131 131 132 135 139

X

INDICE

pag.

6.

7.

8.

5.1. L’atto di affidamento nell’ambito del trust 5.2. Il programma sotteso al trust Assetti onerosi e gratuiti ed applicazione al trust delle imposte sui trasferimenti 6.1. La valorizzazione della segregazione da parte dell’Agenzia delle entrate 6.2. Inadeguatezza dell’anticipazione del prelievo rispetto ad un effettivo arricchimento 6.3. Necessità di focalizzazione sul trasferimento finale, complessivamente determinato Cenni in tema di imposte ipotecaria e catastale 7.1. Tentativo di ricostruzione del presupposto delle imposte ipotecaria e catastale 7.2. Conseguenze sulla determinazione della base imponibile 7.3. L’interpretazione più recente della giurisprudenza sull’atto di affidamento al trustee Conclusioni

139 141 144 144 146 149 155 155 157 158 160

IL TRATTAMENTO FISCALE DELLE MANCE CORRISPOSTE AL PORTIERE D’ALBERGO di Valeria Guido 1. 2. 3. 4.

Premessa La qualificazione giuridica della mancia L’irrilevanza reddituale delle donazioni nel sistema fiscale italiano Le liberalità nel sistema “chiuso” del TUIR 4.1. Le liberalità nella disciplina dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo 4.2. (segue) e rispetto alla categoria dei redditi da lavoro dipendente 4.2.1. Le norme fiscali sulle mance ai croupiers delle case da gioco 4.2.2. La complessa figura del portiere d’albergo 4.3. La mancia rispetto agli «…obblighi di fare, non fare, permettere…» di cui all’art. 67 del TUIR 5. Considerazioni conclusive: il problema delle mance, fra dovere alla contribuzione e certezza del diritto

162 164 168 172 173 175 178 183 185 186

Indice

XI

pag.

SEZIONE II ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ NELLA PROSPETTIVA DELL’IMPRESA INDIVIDUALE, SOCIETARIA E CONSORTILE ECONOMICITÀ NELLE IMPRESE INDIVIDUALI E SOCIETARIE E ATTI ONEROSI, GRATUITI E LIBERALI di Elisabetta Loffredo 1. 2. 3. 4. 5.

Attività economica, atti onerosi e atti non corrispettivi antieconomici La compatibilità con l’attività economica di atti onerosi non remunerativi e di atti non onerosi a rilievo economico L’apprezzamento dell’atto nella relazione con l’attività e con l’operazione economica Il rispetto del criterio di economicità e le compensazioni esterne Economicità della gestione, atti non remunerativi e senza corrispettivo nelle imprese individuali e societarie tra moventi e causa associativa

193 195 199 201

205

CONTRATTI DI COLLABORAZIONE FRA IMPRESE, CONSORZI E RETI DI IMPRESE di Carlo Ibba 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Varie forme di collaborazione fra imprese Le reti d’imprese Il contratto di rete: cronistoria legislativa La rete nuovo centro d’imputazione e la rete meramente interna Problemi di disciplina Rete e consorzio con attività esterna Postilla

210 211 212 215 216 217 218

XII

INDICE

pag. LUCRO E IMPRESA COMMERCIALE NEL SISTEMA IMPOSITIVO di Alessandro Giovannini 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Introduzione sulla nozione di impresa commerciale in diritto tributario. Delimitazione e piano dell’indagine L’impresa come fattispecie e come centro di produzione e imputazione della ricchezza. La “gratuità” come elemento estraneo al procedimento di qualificazione Il lucro come elemento della nozione fiscale di impresa: il lucro c.d. oggettivo nelle imposte sui redditi (segue) Il lucro c.d. oggettivo nell’IVA e nell’IRAP La nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario e l’irrilevanza dell’elemento lucrativo Lucro soggettivo, destinazione altruistica della ricchezza e impresa sociale (segue) Mutualità dello scopo sociale e lucro Prospettive di riforma: per il superamento della distinzione tra redditi di attività commerciale e di attività non commerciale (e tra redditi d’impresa e di lavoro autonomo)

219 222 224 228 229 231 233 235

L’IMPRESA CONSORTILE NELLE IMPOSTE DIRETTE E NELL’IVA di Maurizio Interdonato 1. 2. 3.

4.

Scopo mutualistico e causa consortile La compatibilità dello scopo mutualistico con quello di lucro Le conseguenze sotto il profilo tributario dell’asserita natura mutualistica del consorzio 3.1. La mutualità e la soggettività tributaria del consorzio 3.2. La mutualità e la commercialità dell’attività svolta dal consorzio 3.3. La mutualità e la riferibilità dell’attività alle consorziate I consorzi e le imposte dirette 4.1. Il trattamento fiscale dei ristorni 4.2. Il trattamento fiscale dei contributi e dei canoni consortili

237 240 241 241 245 246 248 248 251

Indice

XIII

pag. 5.

I consorzi nell’imposta sul valore aggiunto 5.1. I ristorni e l’IVA 5.2. I corrispettivi 5.3. Regime IVA dei contributi e canoni consortili

255 255 255 256

LA “FISCALITÀ” DEI CERTIFICATI VERDI TRA NATURA E FORME DI CIRCOLAZIONE di Paolo Barabino 1. 2. 3. 4.

Introduzione: la natura dei certificati verdi e la tutela ambientale La natura tributaria dei certificati verdi 2.1. I certificati verdi e le agevolazioni fiscali 2.2. I certificati verdi e gli aiuti di Stato La circolazione dei certificati verdi 3.1. Gratuità, onerosità, corrispettività e liberalità 3.2. I certificati verdi tra imposte sul reddito e IVA Osservazioni conclusive

258 261 267 271 274 274 276 281

SPUNTI SULLA NOZIONE DI ATTIVITÀ ECONOMICA DEGLI ENTI PUBBLICI IN AMBITO IVA di Barbara Denora 1. 2. 3. 4. 5. 6.

La nozione di “attività economica” rilevante ai fini IVA secondo la normativa europea: la centralità del mercato quale luogo di scambio in regime di libera concorrenza Il requisito di “economicità” dell’attività e la discussa rilevanza del lucro oggettivo L’attività economica degli enti pubblici I criteri utilizzati per la verifica dell’economicità dell’attività svolta dagli enti pubblici Le attività economiche esercitate dall’ente pubblico in veste di “pubblica autorità” e la verifica degli effetti che le stesse producono sul mercato Attività economiche svolte da privati ma in veste di “pubblica autorità”. I perduranti dubbi circa la disciplina applicabile al caso concreto

284 286 289 294 297 302

XIV

INDICE

pag. LA PRASSI NEGOZIALE DELLA CESSIONE DI CUBATURA E DEGLI ATTI DI REDISTRIBUZIONE DI AREE TRA CO-LOTTIZZANTI NON RIUNITI IN CONSORZIO: SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL TRATTAMENTO FISCALE AI FINI DELLE IMPOSTE INDIRETTE (IVA E REGISTRO) di Cesare Simone 1. 2. 3. 4.

5. 6.

Premessa La cessione di cubatura: natura ed effetti Il negozio di cessione di cubatura: aspetti fiscali relativi all’imposta di registro Il piano di lottizzazione: brevi cenni della disciplina urbanistica di riferimento 4.1. Le convenzioni di lottizzazione 4.2. Atti di redistribuzione di aree tra i co-lottizzanti La tassazione IVA degli atti di redistribuzione Conclusioni

307 309 313 317 318 319 320 325

BREVI NOTE SULLA RILEVANZA DEL REGIME PATRIMONIALE CONIUGALE NELL’IMPUTAZIONE DEI REDDITI DA PARTECIPAZIONE O DERIVANTI DALL’ESERCIZIO DI UN’IMPRESA di Viviana Capozzi 1. 2 3. 4. 5. 6.

Regimi patrimoniali coniugali: beni in comunione legale immediata, beni in comunione de residuo e beni personali Criteri di imputazione dei redditi dei beni in comunione legale (segue) I redditi da partecipazione in società La titolarità dei beni relativi all’azienda gestita da entrambi i coniugi o da uno solo di essi (segue) I redditi derivanti dall’esercizio di un’azienda coniugale L’impresa familiare

327 329 331 333 336 339

Indice

XV

pag. IL PASSAGGIO DEI BENI DELL’IMPRENDITORE INDIVIDUALE DALLA SFERA PERSONALE A QUELLA IMPRENDITORIALE di Viviana Capozzi 1. 2.

3. 4.

Premessa L’evoluzione normativa 2.1. La disciplina dettata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 2.2. L’introduzione dell’art. 77 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (oggi art. 65 del c.d. “Nuovo TUIR”) I criteri di distinzione fra i beni personali dell’imprenditore individuale e quelli relativi all’impresa I criteri di valutazione dei beni nel passaggio dalla sfera personale a quella imprenditoriale

343 344 344 345 347 349

PARTE II ATTRIBUZIONE, DESTINAZIONE E SCAMBIO SEZIONE I ATTRIBUZIONE, DESTINAZIONE E SCAMBIO. DETERMINAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE E DEL VALORE NELLA CIRCOLAZIONE DEI BENI FUORI DAL REGIME D’IMPRESA

DETERMINAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE DEGLI ATTI DI CIRCOLAZIONE DEI BENI NELLE IMPOSTE INDIRETTE di Guido Salanitro 1. 2. 3. 4.

Circolazione dei beni e capacità contributiva La base imponibile nel sistema tradizionale dell’imposta di registro Il valore venale Il rapporto tra i criteri di cui all’art. 51, il valore normale e i valori determinati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (Omi)

357 359 362 364

XVI

INDICE

pag. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.

Primi cenni sulla valutazione automatica Le nuove disposizioni normative che hanno introdotto il c.d. prezzo-valore La base imponibile costituita dal valore catastale La base imponibile costituita dal prezzo vero La disciplina della valutazione automatica La rilevanza del prezzo vero rispetto all’accertamento sintetico L’applicazione dell’imposta di registro alle abitazioni censite, al momento del trasferimento, con la rendita proposta o con la rendita presunta La base imponibile nell’IVA L’azienda La base imponibile nelle imposte sulle successioni e donazioni Il c.d. doppio binario nelle imposte ipotecarie e catastali Conclusioni

365 367 369 371 375 378 379 380 382 383 385 385

LA POTESTÀ DI RISCATTO DEL VENDITORE di Roberto Calvo 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Premessa Il riscatto tra proprietà e contratto Profili di diritto tributario (segue) La sussumibilità del riscatto nell’àmbito della condizione La circolazione del patto La pattuizione ex post

387 390 392 393 399 403

I PROFILI DI RILEVANZA FISCALE DEL CONTRATTO: SPUNTI DI RIFLESSIONE di Andrea Carinci 1. 2. 3. 4.

Premessa Profili metodologici: rilevanza e fattispecie tributaria (segue) L’impiego in diritto tributario di figure civilistiche La rilevanza del contratto nella configurazione della fattispecie impositiva: nell’imposta di bollo e nell’imposta di registro

405 406 408 411

Indice

XVII

pag. 5. 6. 7.

(segue) Nell’imposta sul valore aggiunto (segue) Nelle imposte sui redditi Effetti giuridici ed effetti economici: il senso di un’alternativa e le ragioni di un fraintendimento

413 415 418

LA CESSIONE DEL CONTRATTO NELL’IMPOSTA DI REGISTRO di Guglielmo Fransoni 1.

2. 3.

4.

5.

6. 7.

L’evoluzione della disciplina della cessione del contratto nell’imposta di registro 1.1. La cessione del contratto fra prassi e disciplina positiva 1.2. La successione nei rapporti contrattuali nell’imposta di registro francese 1.3. L’evoluzione della disciplina in Italia: a) fino alla riforma fiscale del 1972 1.4. (segue) b) la riforma del 1972, il testo unico del 1986 e le più recenti modifiche legislative L’ambito oggettivo di applicazione della disciplina vigente L’obbligo di registrazione 3.1. Le regole generali 3.2. Particolari forme di circolazione del contratto 3.3. Cessione di contratto mediante scambio di corrispondenza I soggetti passivi 4.1. I soggetti passivi dell’imposta dovuta relativamente alla cessione del contratto 4.2. I soggetti passivi dell’imposta dovuta relativamente al contratto ceduto La base imponibile 5.1. La successione delle discipline relative alla base imponibile: a) fino al 1972 5.2. (segue) b) l’art. 41 del D.P.R. n. 634/1972 5.3. (segue) c) la soluzione vigente 5.4. Caparra e corrispettivo della cessione 5.5. Cessione del contratto e contratto per persona da nominare L’aliquota Le duplicazioni d’imposta

425 425 427 429 431 432 435 435 435 437 438 438 439 441 441 443 444 446 446 447 448

XVIII

INDICE

pag. 7.1. A) Con riferimento alle ipotesi di successione del cessionario nell’obbligazione di imposta per il contratto ceduto: a) in generale 7.2. (segue) b) con particolare riferimento alla cessione dei contratti di locazione 7.3. Le duplicazioni con riguardo alle cessioni di contratti soggetti a imposta sul valore aggiunto

449 450 450

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA RILEVANZA DELL’AVVIAMENTO NELLA CESSIONE “INDIRETTA” DELL’AZIENDA E SULLA DETERMINAZIONE DEL VALORE DEGLI IMMOBILI di Susanna Cannizzaro 1. 2. 3.

Sintesi del caso e della decisione Cessione d’azienda e di partecipazioni. L’avviamento Ulteriori considerazioni sulla cessione di immobili. Valori catastali, venali e normali

452 454 456

L’IMPOSTA DI REGISTRO NELL’AMBITO DELL’OPERAZIONE CONTRATTUALE “PRELIMINARE - DEFINITIVO” di Raffaele Di Giovine 1. 2. 3. 4. 5. 6.

La determinazione della base imponibile nell’operazione contrattuale “preliminare - definitivo” Le clausole accessorie e l’applicazione dell’art. 10 della Tabella allegata al D.P.R. n. 131/1986 La caparra confirmatoria e l’acconto sul prezzo L’operazione contrattuale “preliminare - definitivo”, quale manifestazione di unica capacità contributiva Il limite della tassazione del preliminare, in caso di agevolazioni e/o esenzioni applicabili al definitivo Il diritto al rimborso della maggiore imposta versata e la rimborsabilità dell’imposta di registro versata all’atto del preliminare nel caso di mancata conclusione del definitivo

461 462 463 464 467 468

Indice

XIX

pag. IL CALCOLO DELLA BASE IMPONIBILE NELLE IMPOSTE DI REGISTRO: IL CASO PARTICOLARE DELLE VENDITE CON ASTA di Donato Pianoforte 1. 2. 3. 4.

La determinazione della base imponibile alla luce del criterio del “prezzo-valore” L’applicazione del “prezzo-valore” ai Beni Culturali La determinazione della base imponibile nelle aste 3.1. (segue) Il caso particolare delle “Aste S.C.I.P.” Conclusioni

471 474 475 480 481

SEZIONE II TRASFERIMENTO DEI BENI D’IMPRESA. RILEVANZA DEL CORRISPETTIVO E DEL VALORE NELLA BASE IMPONIBILE IL VALORE NELL’IVA FRA REGOLE DI QUANTIFICAZIONE DEL CORRISPETTIVO E DISPOSIZIONI NAZIONALI E COMUNITARIE: L’USO “ANORMALE” DEL VALORE NORMALE di Pierpaolo Maspes 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Introduzione Criteri generali per la determinazione della base imponibile IVA I casi in cui assume rilievo il valore normale nella disciplina comunitaria I casi in cui assume rilievo il valore normale nella disciplina italiana Cessioni e prestazioni gratuite Passaggi interni di beni tra le attività separate Operazioni permutative

485 487 487 488 489 491 495

XX

INDICE

pag. RILEVANZA AI FINI DELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO DEGLI SCONTI COMMERCIALI NELL’AMBITO DELLE CESSIONI DI BENI di Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti 1.

2.

3.

4.

Introduzione 1.1. Considerazioni introduttive 1.2. Gli effetti dello sconto 1.3. Sconti condizionati Gli sconti commerciali nel sistema dell’IVA 2.1. Disciplina essenziale degli sconti 2.2. Formalizzazione del corrispettivo dell’operazione 2.3. Momento di previsione dello sconto 2.4. Le cessioni di beni “a titolo di sconto” nella disciplina nazionale Rilevanza dello sconto ai fini dell’IVA 3.1. Rapporto con la compravendita 3.2. Lo sconto come titolo di attribuzione 3.3. Sconto e cessioni di beni 3.3.1. Effetto tipico delle cessioni di beni 3.3.2. Il contesto “economico” delle cessioni di beni 3.3.3. Qualità dell’effetto delle cessioni di beni 3.3.4. Idoneità dello sconto a determinare attribuzioni onerose-non corrispettive Conclusioni. Ipotesi sul trattamento IVA delle cessioni di beni onerose-non corrispettive 4.1. Specificità delle “cessioni di beni a titolo di sconto” 4.2. Cessioni onerose-non corrispettive e IVA 4.3. Possibili conseguenze in tema di teoria dell’IVA

498 498 500 501 502 502 504 508 510 512 512 514 516 517 521 523 525 528 528 529 531

PERMUTA, OPERAZIONI PERMUTATIVE E DATIO IN SOLUTUM TRA NORMATIVA EUROPEA E DISCIPLINA INTERNA di Susanna Cannizzaro 1.

Premessa

533

Indice

XXI

pag. 2.

Le categorie concettuali entro le quali si muove il diritto di matrice europea 2.1. La posizione della giurisprudenza UE sulla permuta e le operazioni permutative 2.2. La base imponibile ai fini IVA. I criteri per la valorizzazione del corrispettivo 3. La disciplina interna 3.1. Vendita, permuta e datio in solutum, i distinti profili causali 3.2. La permuta, le operazioni permutative e la datio in solutum nell’IVA 3.3. Base imponibile e momento impositivo nella permuta, nelle operazioni permutative e nella datio in solutum 4. La compatibilità della disciplina interna rispetto alle disposizioni della direttiva

534 538 540 546 546 548 550 552

RILEVANZA DELLE OPERAZIONI GRATUITE NELL’AMBITO DELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO E SPUNTI RICOSTRUTTIVI IN TEMA DI CONSUMO di Barbara Denora 1. 2. 3.

4.

Gratuità ed onerosità nel diritto civile: la nuova prospettiva che individua nella gratuità uno strumento potenzialmente idoneo alla realizzazione di interessi onerosi Gratuità ed onerosità nel diritto europeo: la svalutazione delle categorie civilistiche e la prevalenza delle nozioni di “scambio” e “vantaggio” Il presupposto oggettivo dell’IVA e la rilevanza delle operazioni “onerose” nella prospettiva che definisce l’IVA quale imposta volta a colpire la “spesa” del consumatore finale 3.1. Il corrispettivo quale unico parametro di determinazione della base imponibile 3.2. L’utilizzo del valore normale come strumento antielusivo: l’irrilevanza del corrispettivo nelle ipotesi caratterizzate dalla presenza di limiti al diritto di detrazione Il presupposto oggettivo dell’IVA e la rilevanza delle operazioni “senza corrispettivo” giustificata da ragioni di “cautela fiscale”

556 561 565 570 571 574

XXII

INDICE

pag.

5.

4.1. Le operazioni imponibili tra gratuità ed onerosità. In particolare, il problema delle operazioni effettuate a fronte del rimborso delle spese 4.2. Le operazioni imponibili tra gratuità ed onerosità. In particolare, il problema della rilevanza della rinuncia al corrispettivo quale vicenda sopravvenuta che incide sulla natura dell’operazione Considerazioni conclusive

581

587 591

AZIENDA ED AVVIAMENTO TRA ACCERTAMENTO, “PREZZI” E “AUTONOMIA” DEL CONTRIBUENTE di Valerio Ficari 1. 2. 3. 4.

Premessa e quadro normativo La nozione di azienda, la vendita frazionata e il trasferimento (economico) dell’azienda attraverso quello delle partecipazioni Il valore dell’azienda tra avviamento, pluralità di “componenti” del prezzo e pluralità di imposte “interessate” Circolazione dell’azienda, elusione ed abuso del diritto tra imposte sul reddito ed imposta di registro

594 597 599 604

CESSIONE DI AZIENDA VERSO COSTITUZIONE DI RENDITA VITALIZIA ED IMPOSIZIONE REDDITUALE di Francesco Pepe 1. 2. 3.

4.

Premessa Le soluzioni offerte da dottrina, giurisprudenza e prassi dominanti Osservazioni critiche in merito alla ricostruzione in termini “duali” della fattispecie “cessione di azienda verso costituzione di rendita vitalizia”: (i) il mutato contesto normativo e l’improprio riferimento all’“avviamento commerciale” (segue): (ii) l’intrinseca opinabilità dell’apprezzamento (unitario o duale) della fattispecie in esame: la rilevanza della causa negoziale nell’interpretazione e nell’applicazione della disciplina fiscale. Il dovere di “coerenza” dell’interprete e l’incoerenza “interna” della tesi “dualistica”

609 612

616

618

Indice

XXIII

pag. 5. 6.

(segue): (iii) i profili di probabile incoerenza “esterna”, ossia rispetto alla ratio dell’IRPEF, della tesi “dualistica” La maggior adeguatezza della lettura “unitaria” della fattispecie, ma l’inevitabile connotazione lato sensu “valoriale” delle scelte che essa impone all’interprete

623

627

CESSIONE D’AZIENDA, TRASFERIMENTO DEL MARCHIO E VALORI IMPONIBILI NEL “SISTEMA” IVA-REGISTRO di Giuseppe Scanu 1. 2. 3. 4. 5. 6.

La distinzione tra cessione d’azienda e trasferimento dei beni nel sistema IVA-Registro La disciplina civilistica e settoriale della circolazione del marchio La diacronica prospettiva degli artt. 2 e 3 del D.P.R. n. 633/1972 tra esclusioni e assimilazioni La (ri)qualificazione degli atti e la ricerca della causa reale L’apprezzamento del marchio quale autonomo valore di scambio Considerazioni conclusive

632 635 637 640 645 651

L’IMPOSIZIONE INDIRETTA DEL PASSAGGIO GENERAZIONALE DELL’AZIENDA TRA REGIMI AGEVOLATI E CRITICITÀ DI SISTEMA di Valeria Mastroiacovo 1. 2.

3. 4.

Il passaggio generazionale “dell’impresa” L’evoluzione normativa dell’imposizione indiretta 2.1. (segue) e i confini sistematici dell’oggetto della donazione di azienda L’interpretazione della disciplina di favore sul passaggio generazionale secondo la prassi dell’Agenzia delle entrate Una scelta differente ai fini delle imposte sui redditi: l’irrilevanza della prossimità parentale

654 656 664 668 675

XXIV

INDICE

pag. IL PATTO DI FAMIGLIA E IL PASSAGGIO GENERAZIONALE DELL’IMPRESA di Viviana Capozzi 1. La disciplina civilistica di riferimento e la natura del contratto 2. Modelli impositivi applicabili al patto di famiglia, ai fini delle imposte dirette 2.1. Il trasferimento dell’azienda 2.2. Il trasferimento delle partecipazioni 2.3. La disciplina antielusiva 3. Le imposte indirette applicabili al patto di famiglia 3.1. Il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni 3.2. La liquidazione della quota spettante ai legittimari non assegnatari 3.3. La liquidazione dei legittimari sopravvenuti

677 682 682 684 685 686 687 690 693

SEZIONE III ATTRIBUZIONE, DESTINAZIONE E SCAMBIO NEI GRUPPI DI SOCIETÀ IL VALORE DEL GRUPPO E IL VALORE NEL GRUPPO. DISCIPLINA CIVILISTICA E FISCALE DEGLI SCAMBI INFRAGRUPPO A VALORE DIVERSO DA QUELLO DI MERCATO di Emiliano Marchisio 1.

2.

3.

Sanzione della antieconomicità delle operazioni intragruppo e modelli giurisprudenziali di tassazione del reddito “normale” 1.1. La rilevanza fiscale della accertata “antieconomicità” dello scambio Il valore del gruppo e il valore nel gruppo nel diritto civile 2.1. La produzione dei “vantaggi da gruppo” mediante operazioni a valori differenti da quelli di mercato Il favor normativo per la produzione dei “vantaggi da gruppo” 3.1. Conseguenze del favor normativo sul piano societario

697 700 702 705 709 709

Indice

XXV

pag.

4.

3.1.1. In particolare: i confini della liceità delle direttive di gruppo dannose. Rischio d’impresa, integrale eliminazione del danno e vantaggi compensativi 3.1.2. Accentramento di funzioni in società di gruppo “specializzate” (cenni) 3.1.3. Gli interessi in conflitto con l’effettuazione di operazioni infragruppo a valori diversi da quelli di mercato. La eterogestione della società interamente partecipata 3.2. Conseguenze del favor normativo sul piano degli atti intragruppo 3.3. Conseguenze del favor normativo nelle procedure concorsuali 3.3.1. Regole espressamente destinate al gruppo 3.3.2. Regole interpretativamente estese al gruppo 3.3.3. Proposte di valorizzazione del gruppo nella “gestione” della crisi Il problema di coordinamento normativo ed il rischio di disincentivo, di origine fiscale, a condotte imprenditorialmente efficienti e civilisticamente lecite o doverose 4.1. Le ragioni del dissenso rispetto all’orientamento interpretativo in esame 4.2. Una proposta di coordinamento tra disciplina fiscale e disciplina civilistica

712 717

718 719 722 722 725 727

728 730 732

IL GRUPPO NAZIONALE di Loredana Carpentieri 1. 2. 3. 4.

5.

Il lento riconoscimento del “gruppo di imprese” ai fini fiscali La svolta operata con la riforma fiscale del 2003: il passaggio dall’IRPEG all’IRES e alla participation exemption Dal riconoscimento fiscale della svalutazione delle partecipazioni ai nuovi meccanismi opzionali di consolidamento degli imponibili Il progressivo riconoscimento dei collegamenti (non solo partecipativi, ma anche funzionali) tra le imprese: le prospettive evolutive del nostro sistema fiscale Le problematiche fiscali suscettibili di emergere all’interno del gruppo nazionale: il caso del transfer pricing “interno”

733 734 736

738 742

XXVI

INDICE

pag. 6. 7.

Il tentativo della giurisprudenza di legittimità di superare l’impasse normativa Il ruolo del valore normale: osservazioni conclusive

746 749

ACCORDI DI CONSOLIDAMENTO E FLUSSI COMPENSATIVI INFRAGRUPPO di Concetta Ricci 1. 2. 3. 4. 5.

6. 7. 8.

Premessa Il regime fiscale dei compensi infragruppo nelle imposte sui redditi I compensi infragruppo nell’IVA I compensi infragruppo nell’IRAP Le altre ipotesi di riequilibrio dei rapporti infragruppo 5.1. Interruzione della tassazione di gruppo e mancato rinnovo dell’opzione 5.2. Il trasferimento delle eccedenze del Risultato operativo lordo (Rol) e degli interessi passivi indeducibili 5.3. Il trasferimento delle eccedenze d’imposta e dei crediti d’imposta I compensi infragruppo fiscalmente rilevanti I compensi infragruppo nella proposta di direttiva sulla CCCTB e profili comparati Conclusioni

752 755 763 764 765 766 767 772 773 774 776

SEZIONE IV LA RILEVANZA DEGLI SCAMBI TRA MERCATO E TERZO SETTORE. LE COOPERATIVE, GLI ENTI NON COMMERCIALI E GLI ENTI NON LUCRATIVI DIREZIONE E CONDIZIONI DELLO SCAMBIO NELLE COOPERATIVE E NELLE ORGANIZZAZIONI NON PROFIT TRA REGOLE CIVILISTICHE E REGOLE TRIBUTARIE di Giorgio Marasà 1.

Premessa

781

Indice

XXVII

pag. 2.

3.

4.

5. 6.

Direzione degli scambi e tipologia delle cooperative 2.1. Rilevanza meramente fiscale della categoria delle cooperative a mutualità prevalente 2.2. Rapporto tra operatività prevalente con i soci e attribuzione della qualifica di C.M.P. 2.3. C.M.P. e agevolazioni fiscali 2.4. Conclusioni Cooperative e condizioni degli scambi 3.1. Realizzazione dello scopo mutualistico e condizioni degli scambi con i soci 3.2. Parità di trattamento tra i soci e condizioni di scambio con i terzi Connotati e rilevanza della categoria delle O.N.L.U.S. 4.1. La direzione degli scambi nelle O.N.L.U.S. 4.2. Le condizioni degli scambi nelle O.N.L.U.S. 4.3. O.N.L.U.S. e cooperative: l’intreccio tra categorie privatistiche e categorie tributarie 4.4. O.N.L.U.S. e cooperative sociali 4.5. Conclusioni sull’intreccio tra regole privatistiche e regole tributarie Connotati e rilevanza della categoria delle imprese sociali 5.1. Direzione e condizioni degli scambi nelle imprese sociali Direzione e condizioni degli scambi nelle associazioni del Libro I del codice civile 6.1. Direzione e condizioni degli scambi e qualifica tributaria di ente non commerciale 6.2. Direzione e condizioni degli scambi e qualifica d’impresa ex art. 2082 c.c.

782 783 783 785 786 786 787 788 789 790 790 791 793 794 795 796 797 798 800

CONSIDERAZIONI A MARGINE DI UN CONVEGNO FOGGIANO di Cinzia Motti 1. 2. 3.

La “non commercialità” degli enti del terzo settore La nozione di impresa nel diritto comunitario (segue) La destinazione al mercato

804 805 806

XXVIII

INDICE

pag. 4. 5.

Terzo settore e servizi di interesse generale Il problema delle fonti di finanziamento

807 809

LA RILEVANZA DEGLI SCAMBI TRA MERCATO E TERZO SETTORE: CON RIFERIMENTO AGLI ENTI NON COMMERCIALI E ENTI NON PROFIT di Laura Castaldi 1. 2. 3.

Premessa. Alcune precisazioni terminologiche La rilevanza normativa del fenomeno Si precisa il piano dell’indagine 3.1. La valenza delle disposizioni di cui all’art. 148 TUIR 3.2. La maggiore problematicità del disposto di cui all’art. 150 comma 1 TUIR

810 811 814 816 819

ASSETTI NEGOZIALI, SCAMBI MUTUALISTICI E “STATUTO FISCALE” DELLA SOCIETÀ COOPERATIVA: I RIFLESSI TRIBUTARI DELLE MODALITÀ DI ATTRIBUZIONE DEL “VANTAGGIO MUTUALISTICO” di Francesco Pepe 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Premessa: oggetto e limiti dell’indagine Assetti negoziali e “statuto fiscale” dell’impresa cooperativa: i termini del problema (segue) I requisiti di “mutualità prevalente”. La loro “sensibilità” agli assetti negoziali impiegati nell’esercizio dell’attività “mutualistica” L’incidenza degli assetti negoziali sull’attività mutualistica delle cooperative: a) le cooperative di consumo in senso stretto (segue) b) le cooperative di credito (segue) c) le cooperative di produzione e lavoro Il problema della evidenziazione contabile dei “ristorni” e l’incidenza sul rapporto tra assetti negoziali e soglia di “prevalenza” Brevi considerazioni conclusive

822 825 829 832 834 836 838 841

Indice

XXIX

pag. ASPETTI FISCALI DEGLI ENTI NON COMMERCIALI: BREVI CONSIDERAZIONI IN TEMA DI ECONOMICITÀ E ONEROSITÀ di Cesare Simone 1. 2. 3. 4. 5.

Premessa L’evoluzione e le attuali problematiche del settore non profit L’economicità come modello di gestione dell’attività Il concetto di onerosità sul piano civilistico e fiscale L’onerosità non è indice di economicità delle attività esercitate dalle strutture associative

843 844 847 849 853

NEUTRALITÀ DELLO SCHEMA SOCIETARIO: SCOPO MUTUALISTICO E SCOPO LUCRATIVO di Nicola Tacente 1. 2. 3.

Neutralità causale nei contratti associativi Scopo lucrativo e scopo mutualistico Conclusioni

856 857 861

SEZIONE V LA DETERMINAZIONE DEI PREZZI E DEI VALORI NEL TRASFERIMENTO DELLE PARTECIPAZIONI IN SOCIETÀ IL TRASFERIMENTO DI PARTECIPAZIONI. PROFILI ECONOMICI E DETERMINANTI DEL VALORE DI SCAMBIO di Francesca Bernini 1. 2. 3. 4.

Introduzione Pacchetti azionari e trasferimento del controllo Il processo per la valutazione dei pacchetti azionari in ipotesi di trasferimento I concetti di valore e prezzo nella dottrina economico-aziendale

867 868 871 874

XXX

INDICE

pag. 5.

6.

7.

Quadro teorico per la classificazione dei processi valutativi dei pacchetti azionari 5.1. Logiche valutative 5.2. Approcci di valutazione: cenni ai criteri diretti e indiretti 5.2.1. Criteri diretti 5.2.2. Criteri indiretti 5.3. Configurazioni di valore-obiettivo maggiormente ricercate nella prassi italiana La stima delle basi di valore: criteri indiretti 6.1 Stime neutrali: basi di valore coerenti con la stima del capitale economico 6.2. Stime di parte: basi di valore coerenti con la determinazione del valore sinergico di acquisizione 6.3. Stime di parte: basi di valore coerenti con la determinazione del valore sinergico di cessione L’applicazione di premi e sconti alle basi di valore 7.1. Il premio di controllo: considerazioni teoriche e approcci valutativi 7.2. Lo sconto per mancanza di controllo: considerazioni teoriche e approcci valutativi 7.3. Lo sconto per mancanza di negoziabilità: considerazioni teoriche e approcci valutativi

875 876 877 877 878 881 885 885 886 891 894 895 901 902

PARTECIPAZIONE SOCIALE, QUOTAZIONI DI BORSA E VALUTAZIONE DELLE AZIONI di Marco Maugeri 1. 2. 3. 4. 5. 6.

La valutazione delle azioni come problema giuridico La specificità dogmatica del problema per le società quotate: l’azione come “partecipazione all’impresa” e come “bene” Le conseguenze metodologiche: criteri di valutazione assoluti (o analitici) e criteri di valutazione relativi (o di mercato) Determinazione del valore e vicende dell’investimento. Le ipotesi di “liquidazione” della partecipazione: il recesso (segue) L’offerta pubblica di acquisto Le ipotesi di “concambio” della partecipazione: la fusione e la scissione

905 909 913 918 923 928

Indice

XXXI

pag. 7.

(segue) Valore “derivato” dell’azione, pluralismo metodologico e rilevanza delle quotazioni: la fusione/scissione tra società indipendenti 8. (segue) La fusione/scissione endogruppo 9. L’ipotesi della esclusione “semplificata” del diritto di opzione (art. 2441, comma 4, seconda parte, c.c.): gli interessi protetti dalla norma 9.1. (segue) La prospettiva dell’azione come “partecipazione all’impresa” 9.2. (segue) La prospettiva dell’azione come “bene” 10. Conclusioni

932 939 946 948 950 953

CONCLUSIONI di Augusto Fantozzi

957

INDICE AUTORI

961

INDICE CONVEGNI

963

XXXII

INDICE

PREMESSA

di Andrea Fedele

1. Il tema della rilevanza e del diverso apprezzamento, ai fini dell’applicazione dei tributi, degli assetti negoziali onerosi, gratuiti o liberali è stato costantemente dibattuto, nella dottrina e nella giurisprudenza, da quasi un cinquantennio. La ricerca di cui si pubblicano i risultati ha il merito di aggiornare il dibattito, nelle diverse prospettive secondo le quali si è attribuita rilevanza a quella classificazione, evidenziando, in taluni casi, la necessità di un riferimento alle categorie summenzionate per una corretta applicazione della disciplina tributaria, altre volte la problematicità delle distinzioni stesse in relazione a specifiche norme ed istituti (per un’efficace sintesi si può, innanzitutto, fare riferimento al contributo di Ficari). Anzi, mi sembra che, in questa come in altre molteplici ipotesi, è il riferimento agli specifici assetti normativi ed alla casistica applicativa a chiarire il senso di concetti e categorie generali. 2. La questione forse da maggior tempo emersa nella dottrina e nella casistica giurisprudenziale attiene alla possibilità di definire la fattispecie di “realizzazione” di determinate componenti del reddito imponibile derivante dall’esercizio di attività economiche identificandole con ipotesi di alienazione a titolo oneroso di componenti del patrimonio del contribuente. È evidente che la risposta a tale interrogativo dipende, una volta superata l’originaria concezione della “realizzazione” come “monetizzazione” di beni e diritti, della diversa prospettiva secondo la quale si affronta il tema del “momento” rispetto al quale può essere attribuito, ai fini della determinazione del reddito, un valore monetario a componenti patrimoniali non immediatamente espressi in moneta, quindi soggette, nel tempo, alle inevitabili variazioni dei prezzi di mercato (cui peraltro sono soggette, sia pure con oscillazioni ordinariamente minori, anche le disponibilità meramente monetarie). Infatti, chi mantiene fermo l’archetipo dello scambio con denaro come modalità “naturale” della quantificazione reddituale è portato a ricercare ipotesi di “certezza e definitività” dell’arricchimento del contribuente che prescindono da

XXXIV

PREMESSA

determinate caratteristiche strutturali degli assetti negoziali. Si manifestano quindi tendenze ad identificare “onerosità” e “corrispettività” (ma con notevoli incertezze circa il regime “naturale” degli scambi “in natura”) ed insieme ad includere nella fattispecie della “realizzazione” sia assetti la cui natura meramente “gratuita” è quanto meno discutibile (ad es., le assegnazioni ai soci) sia vere e proprie forme di attribuzione liberale. È chiaro, comunque che, in questa prospettiva, si attribuisce rilevanza al “valore” del bene o diritto che “esce” dal patrimonio destinato all’attività economica. Ho sempre ritenuto preferibile un diverso approccio, che muove dall’esigenza, propria di ogni sistema di misurazione dei risultati delle attività economiche, di determinare, con riguardo a parametri oggettivi, il “valore” fiscalmente destinato alle attività stesse. In quest’ottica, risulta essenziale individuare correlazioni necessarie fra effetti giuridici che esprimono l’“uscita” di beni e diritti (anche “nuovi” si veda il saggio di Barabino) dal patrimonio destinato all’attività ed effetti che si risolvono in corrispondente incremento così da realizzare fenomeni di “sostituzione” patrimoniale, identificabili non solo nell’ambito del sinallagma contrattuale in senso stretto (sia pure più complesso dello “scambio” di prestazioni in parte “attualizzate” – si veda il saggio di Pepe sulla cessione di azienda contro costituzione di rendita vitalizia), ma anche con riguardo a negozi a causa onerosa non corrispettiva (negozi con comunione di scopo, negozi solutionis causa, combinazioni di realità del contratto ed obbligazioni restitutorie, forse anche disposizioni correlate a “vantaggi compensativi” – si vedano i saggi di Marchisio e Ricci) o ad assetti assimilabili all’onerosità per collegamento (mandato gratuito ad alienare, trasferimenti al trustee ed ai beneficiari, ecc.) (per il riferimento ai profili strutturali e funzionali degli assetti negoziali si veda il contributo di Mastroiacovo; con riguardo alle singole ipotesi di affidamento “fiduciario” il saggio di Bartolazzi Menchetti). D’altronde, analoghe vicende di “sostituzione” patrimoniale possono derivare dalla combinazione di meri fatti ed obbligazioni indennitarie (perimento del bene assicurato e nascita del credito per l’indennizzo nei confronti dell’assicuratore). Risulta evidente che il “valore” cui si fa riferimento in questa prospettiva è quello dei beni e diritti che “entrano” nel patrimonio considerato. Oltre l’area dei negozi “onerosi” (inclusiva anche degli assetti onerosi per collegamento), non possono identificarsi fenomeni di vera e propria “realizzazione”: la mera “gratuità” (ad es., del comodato o del mandato) non implica perdita della titolarità dei beni o diritti interessati, ma anche l’“alienazione” gratuita, essenzialmente “liberale”, ovvero la “dismissione” (rinunzia, abdicazione) o presuppongono “destinazione a finalità estranea” (l’atto gratuito può essere estraneo all’attività economica – si veda il saggio di Giovannini) o, al limite, se “strumentali” all’oggetto dell’attività, possono dar luogo a “costi” ovvero, potenzialmente, a “perdite” (per interessanti considerazioni sui rapporti fra singoli atti ed attività

Andrea Fedele

XXXV

economica si può rinviare al saggio di Loffredo); prescinde del resto da vicende traslative la mera destinazione a o dal patrimonio relativo all’attività (vedi il saggio di Capozzi in tema di art. 65 TUIR), rileva, comunque, il valore del bene o diritto “dismesso”. 3. Nel sistema dell’IVA, gli artt. 2 e 3 del D.P.R. n. 633/1972 sembrano riproporre l’alternativa tra “onerosità” e “gratuità”. Si riproduce però il contrasto fra chi identifica “onerosità” e “corrispettività” e chi invece estende la categoria oltre il mero scambio, soluzione quest’ultima che sembra inevitabile se non si vogliono escludere dall’area di operatività dell’imposta intere categorie di negozi (ad es., tutti quelli a causa solutoria, dalla datio in solutum all’adempimento di obbligazioni di “dare”). Nell’elaborazione delle direttive e della giurisprudenza della Corte di giustizia sembra piuttosto prevalere un’esigenza di individuare l’esatta misura del vantaggio patrimoniale corrispondente a ciascuna cessione di beni o prestazione di servizi, con il tendenziale rifiuto di riferimenti a prezzi di mercato o comunque valori medi per tipologie di beni e servizi, che risulterebbero in contrasto con l’essenziale carattere di “neutralità” dell’IVA (sul tema si vedano i saggi di Maspes, Cannizzaro, Denora e Bartolazzi Menchetti). Ciò non esclude, comunque, l’accoglimento di una nozione di “onerosità” che superi non solo lo schema del contratto con corrispettivo in denaro, ma anche la stessa necessità del sinallagma contrattuale, estendendosi all’ampia gamma di cause onerose ma non di scambio addietro già richiamate. Peraltro, sembra significativo che il più chiaro riconoscimento giurisprudenziale della rilevanza fiscale dei collegamenti negoziali, risultante dal costante orientamento a qualificare come unitaria cessione di azienda le distinte alienazioni di sue singole componenti (si veda il saggio di Ficari), operi innanzitutto sul piano dell’IVA, determinandone l’inapplicabilità alle singole cessioni, quindi l’inopertività del principio di alternatività di cui all’art. 40 D.P.R. n. 131/1986, che precluderebbe, altrimenti, l’applicazione dell’imposta di registro. Parrebbe dunque possibile, anche in ambito IVA, l’individuazione di assetti negoziali onerosi per collegamento di più atti o negozi, secondo un criterio d’altronde già adottato nelle direttive e dal legislatore italiano nel disciplinare alla stregua di una doppia cessione dal committente al commissionario e da questi al terzo acquirente il mandato a vendere seguito dalla vendita da parte del mandatario senza rappresentanza. 4. Infine, il dibattito sulla valenza normativa delle qualificazioni legislative di “onerosità”, “gratuità” e “liberalità” si è riacceso con la reintroduzione o “reviviscenza” dell’imposta sulle successioni e donazioni, disposta con un decreto legge (D.L. n. 262/2006) il cui contenuto è stato totalmente stravolto dalla legge di conversione (L. n. 289/2006), che ha però lasciato sussistere l’iniziale formula

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PREMESSA

definitoria del presupposto del tributo che vi include i “trasferimenti gratuiti” (art. 2, comma 47, L. n. 289/2006). L’amministrazione finanziaria ha, come è noto, optato per una definizione della “gratuità” in termini di “non corrispettività”, nel contesto non sostenibile (poiché, a rigore, comporterebbe l’inclusione nell’ambito di operatività dell’imposta sulle successioni e donazioni anche dei contratti ad effetti traslativi, ma non corrispettivi: ad es., la datio in solutum). Tuttavia è appunto questa definizione che è stata utilizzata per risolvere questioni dibattute sin dall’approvazione del D.Lgs. n. 346/1990, con esiti non condivisibili (come, ad es., l’assoggettamento di tutte le rinunzie all’imposta sulle donazioni). Dottrina e giurisprudenza sembrano oggettivamente in difficoltà nell’integrare ed applicare un dato testuale in origine inserito, si noti, nel contesto del già citato decreto legge, con il quale si intendeva estendere l’ambito di operatività dell’imposta di registro a tutti gli atti tra vivi, compresi quelli sicuramente liberali, come le donazioni, secondo l’assetto tradizionale, vigente sino all’abrogazione del T.U. n. 3269/1923. Personalmente ritengo si debba tener conto del riferimento testuale dell’aggettivo “gratuiti” ai “trasferimenti”, non agli “atti”. Ciò consente di mantener fermo l’assoggettamento ad imposta di registro dei contratti gratuiti non traslativi (comodato, mandato e trasporto gratuiti, ecc.). Per gli atti ad effetti traslativi, l’adozione di una nozione di “onerosità” estesa anche agli atti collegati in assetti onerosi (che consentirebbe di risolvere il problema dei trasferimenti meramente “strumentali”) dovrebbe portare all’identificazione dei “trasferimenti gratuiti” con le attribuzioni liberali (in una prospettiva vicina, anche se non coincidente, con quella delineata nel saggio della Gatt; per specifiche applicazioni al patto di famiglia si può fare riferimento al contributo di Capozzi).

INTRODUZIONE

LE DIVERSE DIMENSIONI DELLA CORRISPETTIVITÀ, ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ NEL DIRITTO TRIBUTARIO DELL’IMPRESA

di Valerio Ficari SOMMARIO 1. Il “lessico” normativo e giurisprudenziale. – 2. La necessità di delimitazioni concettuali, anche meramente convenzionali, dei termini “corrispettività”, “onerosità”, “gratuità”, “liberalità” e “prezzo”. – 3. Interessi economici ed atti dispositivi unilaterali “rinunciativi” ed “omissivi”. – 4. Prezzo in denaro e in natura e pricing: uno, nessuno, centomila? – 4.1. Le caratteristiche del prezzo. – 4.2. Il valore normale tra imposte sul reddito ed IVA. – 4.3. La vendita “in blocco”. – 5. Le “operazioni” permutative, le “operazioni” con funzione solutoria e il pagamento di un prezzo in natura tra ii.dd., IVA e registro. – 5.1. Operazioni con funzione permutativa e solutoria nelle ii.dd. – 5.2. Permuta e datio in solutum nell’IVA tra disciplina comunitaria e disciplina nazionale. – 5.3. Pagamento in natura del compenso del lavoratore subordinato ed autonomo e funzione solutoria dell’erogazione in natura. – 5.4. Cessione di beni culturali al fine del pagamento di tributi. – 6. Corrispettività, onerosità e gratuità nelle dinamiche interne al gruppo di società. – 7. (segue) Spunti e conferme dall’elaborazione economico-aziendale in materia di gruppi. – 8. (segue) Rilevanza delle caratteristiche peculiari dell’impresa nel gruppo a fini “para-normativi”. – 9. Apparenti divagazioni: la finanza islamica. – 10. Il diritto tributario degli scambi al tempo della crisi e il diritto tributario della crisi di impresa.

1. Il “lessico” normativo e giurisprudenziale Di corrispettività, onerosità, gratuità e liberalità nonché di prezzo, corrispettivo e valore si trova “traccia” nell’esperienza normativa ed applicativa di imposte di diverso genere e specie. Tali concetti assumono importanza in ordine a fenomeni economici e “sfere” giuridiche riconducibili ad assetti di natura sia imprenditoriale (individuale, societaria e di gruppo riferibili a soggetti del Libro I e V del codice civile) che non imprenditoriale.

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Gli stessi sono “sensibili”, nella loro declinazione 1, alle modalità con cui si soddisfa l’interesse di entrambe le parti in una dimensione che può anche trascendere quella del singolo atto o contratto per sostanziarsi in quella della c.d. operazione economica 2; peraltro, si evidenzia, l’attuale tempo di crisi economica (crisi di liquidità e di domanda) rende sempre più necessarie sinergie di scala e scelte gestionali volte alla massima efficienza e condiziona sia la determinazione dei valori di scambio che le modalità di pagamento dei prezzi in assenza di disponibilità in denaro: di qui le crescenti “tensioni” degli operatori verso forme di pagamento in natura 3 nonché strumenti di ristrutturazione del debito di cui l’ordinamento tributario, solo di recente e parzialmente, si è reso consapevole 4. Sebbene l’autonomia scientifica e sistematica del diritto tributario possa giustificare l’indipendenza di concetti, è frequente che il legislatore tributario, pur senza esplicitarne la relativa nozione, usi termini e categorie giuridiche di lunga tradizione 5, in modo talvolta fungibile e contraddittorio all’interno di identiche sedi normative 6, causando gravi disorientamenti 7 rispetto ad elaborazioni consolidate proprie del diritto comune dell’impresa e dell’obbligazione 8 nonché della 1

Sul rapporto tra astrazione concettuale, nome e termini giuridici leggasi GALGANO, Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel diritto, Bologna, 2010, spec. p. 125 in ordine agli «affari» e ai diversi livelli di astrazione tra vendita, donazione e testamento. 2 Di indubbio orientamento per una teorizzazione a fini tributari gli scritti di E. GABRIELLI, «Operazione economica» e teoria del contratto, Milano, 2013, passim, spec. pp. 19 ss., 34 ss., 61 ss., 159 ss. 3 Si ricordino, in questo senso straordinarie (ancora per poco?), le esperienze della retribuzione in natura e della cessione di beni culturali con funzione solutoria di obbligazioni tributarie. È un dato innegabile la crisi dell’economia monetaria: il bisogno di denaro negli scambi non sempre è soddisfatto nonostante il fabbisogno di beni e servizi (sulla nascita, invece, dell’economia monetaria come impiego sempre diffuso della grande quantità di denaro coniato disponibile si legga LE GOFF, Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, Bari, 2010, passim. 4 Fenomeni sostanzialmente di ristrutturazione si rinvengono, peraltro, anche nelle modalità di estinzione diverse dall’adempimento e nelle vicende estintive dell’obbligazione per evoluzioni soggettive. 5 Rammenta LIPARI, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013, p. 23 come diversamente dall’ordinamento tedesco in quello italiano non sia contenuta (es. nel c.c.) una «parte generale (…) che possa, (…), essere assunta quanto meno ad indice di alcune consolidate categorie giuridiche». 6 Forse anche nel diritto tributario si può ammettere, come riconosce per il diritto civile LIPARI, Le categorie del diritto civile, cit., p. 26 che molte categorie «si sono venute storicamente modificando sotto i nostri occhi fino a ridursi a meri simulacri formali, nient’altro che parole dietro le quali non c’è più la sostanza che ne aveva connotato la storia». 7 Si ricordi, allora, CICERONE, in L’arte di comunicare, Milano, 2007, p. 30 il quale, nel proporre le basi di un ragionamento, affermava che «bisognerà, dunque, conoscere il significato originario dei termini, i diversi usi che se ne fanno e i tipi di parole, sia prese singolarmente sia accostate tra di loro; sapere, inoltre, in quante maniere possa essere espresso un concetto, su che basi si possa distinguere tra il vero e il falso, che cosa derivi da una determinata premessa, che cosa sia conseguente e che cosa contrario a un’affermazione; e siccome molte cose vengono dette in modo ambiguo, si dovrà sapere anche come e che cosa sia opportuno distinguere e chiarire». 8 Sull’autonomia della materia e delle categorie e sul ruolo della Corte costituzionale quale

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giurisprudenza tributaria comunitaria; in altri termini non sempre l’autonomia della materia si rivela autonoma rispetto a forzature strumentali ad uno solo degli interessi coinvolti 9. La Sezione tributaria della Corte di Cassazione, impegnata nella sua vocazione nomofilattica, raramente è stata coinvolta nelle problematiche citate, rivelandosi, in linea generale, attenta non solo (e non tanto) alla tradizione giuridica formale delle categorie dei trasferimenti e delle scelte gestionali quanto (e, forse, soprattutto) ai profili più prettamente economici e funzionali degli stessi. La Corte di Giustizia CE (anche) nella materia qui in esame assolve ad un ruolo sempre più necessario nella correzione ex post degli interventi del legislatore nazionale, della prassi e di alcuni orientamenti giurisprudenziali, spesso ondivaghi e disattenti rispetto alla genesi comunitaria dell’imposta 10 e, più in generale, ai principi di derivazione comunitaria 11. giudice della razionalità della specialità finalizzata alla tutela dell’interesse erariale cfr. tra gli altri DE MITA, Diritto tributario (giur. cost.), in Enc. dir., ad vocem, p. 258 ss. Sulla rilevanza delle categorie nel corso dell’evoluzione del diritto vedasi da ultimo LIPARI, Le categorie del diritto civile, cit., spec. p. 12 ss. ma anche p. 18 ove l’Autore riconosce come «la categoria costituisce per il giurista una sorta di tranquillizzante punto di riferimento, un modo per rendere le proprie scelte interpretative meno personali ed arbitrarie in quanto condizionate dall’assorbente punto di riferimento di segno categoriale»; si aggiunga anche per un’analisi storica VINCENTI, Diritto senza identità. La crisi delle categorie giuridiche tradizionali, Roma-Bari, 2007, passim. 9 Ancora attuali le osservazioni di MICHELI, (Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1977, I, p. 419 ss. ma anche in MICHELI, Opere minori di diritto tributario, Milano, 1982, II, p. 324 da dove si cita) il quale scriveva che termini ed istituti «che sono nati e sono disciplinati in altri campi del diritto» talvolta nel diritto tributario non sono «assunti nel significato che hanno in questi ultimi» ma con «un significato ed una portata notevolmente diversi»: ciò, però, precisa l’Autore, «perché la norma tributaria ha una sua finalità da raggiungere, il soddisfacimento dell’interesse finanziario dell’Ente Pubblico» di modo che è ammissibile solo «l’uso di strumenti giuridici diversi, particolarmente idonei a impedire l’elusione e l’evasione dall’imposta»; adde ID., Legge (dir. trib.), in Enc. dir., Milano, 1973, p. 1095 ss.; tra gli altri anche BOSELLO, La formulazione della norma tributaria e le categorie giuridiche civilistiche, in Dir. prat. trib., 1981, I, p. 1433 ss. La problematica, prima della riforma degli anni ’70, aveva già suscitato l’interesse sia di FEDELE (sin da Profilo dell’imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili, Napoli, 1965, passim, spec. pp. 339 ss., 377 ss.) che di FANTOZZI (già in Contributo allo studio della realizzazione dell’avviamento quale presupposto dell’imposta di ricchezza mobile, in Riv. dir. fin., 1965, I, p. 22 ss.; ID., Ancora in tema di realizzazione delle plusvalenze, ivi, 1965, I, p. 457 ss.) entrambi nella prospettiva di un apprezzamento soggettivo e non meramente oggettivo degli assetti giuridici propri dell’atto di trasferimento. 10 Sul diverso approccio comunitario (anche in materia diverse da quella tributaria) più semplicemente volto ad apprezzare lo scambio in quanto tale e il suo impatto sulla concorrenza cfr. CIPPITANI, Onerosità e corrispettività: dal diritto nazionale al diritto comunitario, in Europa e dir. priv., 2009, p. 503. Vedi DENORA, Rilevanza delle operazioni gratuite nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto e spunti ricostruttivi in tema di consumo in questo Volume; sulla frequenza delle ipotesi di difformità anche MASPES, Il valore nell’IVA fra regole di quantificazione del corrispettivo e disposizioni nazionali e comunitarie: l’uso «anormale» del valore normale, ibidem. 11 In generale vedi FEDELE, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, in Riv. dir. trib., 2013, I, p. 875 ss.

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Ciò premesso, l’analisi normativa 12 consente una sorta di classificazione per genere delle diverse disposizioni che, a vario modo, si interessano dei concetti e delle categorie sopra menzionate. a) In alcuni casi si menziona semplicemente il corrispettivo e si individua nel primo la base imponibile 13 senza darne alcuna definizione: sembra che il legislatore presupponga che l’operatore debba trarre tale indicazione aliunde 14. b) In altri il legislatore si rivela consapevole che il corrispettivo pagato per il trasferimento di un bene può non essere costituito da denaro e che il trasferimento di un bene relativo all’impresa può aver luogo anche senza l’incontro di una domanda e di un’offerta ma per scelta unilaterale dell’imprenditore disponente: in questi casi il concetto di corrispettivo nelle imposte sul reddito 15 e di base imponibile, seppur solo in alcune ipotesi, nell’IVA 16 e in via generale

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Ancora valide le indicazioni offerte da NUSSI, in L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, spec. p. 62 ss. 13 La base imponibile è individuata secondo una definizione generale nell’«ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente, aumentato delle integrazioni direttamente connesse con i corrispettivi dovuti da altri soggetti» (art. 13, comma 1, D.P.R. n. 633/1972) e, quindi, secondo disposizioni più analitiche (art. 13, comma 2), nell’«indennizzo comunque denominato» se l’operazione dipende da un atto della pubblica autorità, nel «prezzo» di acquisto o di vendita o di fornitura nel caso di commissione o mandato, nel «valore normale», nel «corrispettivo della cessione diminuito del valore accertato dall’ufficio doganale all’atto della temporanea importazione», nel «valore normale dei beni e servizi se è dovuto un corrispettivo superiore a tale valore e se le operazioni sono effettuate» tra soggetti legati da vincoli di controllo diretto o indiretto. 14 Sono operazioni imponibili le prestazioni effettuate «verso corrispettivo» (art. 3 del D.P.R. n. 633/1972); il momento impositivo, per i servizi, viene individuato «all’atto del pagamento del corrispettivo» (art. 3 del D.P.R. n. 633/1972); nella fattura devono essere indicati i «h) corrispettivi ed altri dati necessari per la determinazione della base imponibile, compresi quelli relativi ai beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono» ed i «i) corrispettivi relativi agli altri beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono» (art. 21, comma 2, D.P.R. n. 633/1972). 15 Si «considera corrispettivo conseguito il valore normale dei beni e dei crediti conferiti» non inferiore al valore normale ove si tratti di azioni, quote o titoli negoziati (art. 9, comma 2, TUIR n. 917/1986); è ricavo «il valore normale dei beni» indicati nell’art. 85 «destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore» (art. 57); tra i ricavi sono compresi oltre a svariate ipotesi di «corrispettivi» anche «contributi in denaro» e «il valore normale di quelli in natura» nonché il valore normale dei beni «assegnati ai soci o destinati a finalità» extraimprenditoriali (art. 85); sono plusvalenze imponibili quelle «realizzate mediante cessione a titolo oneroso» e determinate dalla «differenza fra il corrispettivo …» «o il “valore normale”» se a titolo oneroso «e il costo non ammortizzato dei beni» (art. 86). 16 Il rinvio al valore normale è espresso dall’art. 13, comma 2, lett. d), D.P.R. n. 633/1972 solo per le cessioni e prestazioni di cui all’art. 11 e, cioè, per quelle effettuate in operazioni permutative e in dazioni in pagamento.

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nell’imposta di registro 17 è fatto corrispondere ad un valore normale o ad un valore genericamente inteso. c) Nell’imposta sul valore aggiunto, escludendosi le ipotesi appena menzionate, quando il trasferimento avviene in occasione di autoconsumo e di destinazioni extraimprenditoriali la base imponibile è individuata nel prezzo di acquisto o di costo del bene o di beni similare e dalle spese sostenute per l’esecuzione del servizio 18. d) In alcune occasioni il concetto di valore normale è inteso espressamente quale specifica unità di monetizzazione del reddito imponibile e della base imponibile 19 non necessariamente coincidente con il corrispettivo 20, rinviandosi ad un (fantomatico) mercato di libera concorrenza come “luogo” nel quale poter rinvenire il dato (sic!). 17

Nell’imposta di registro la base imponibile (art. 43, comma 1, T.U. n. 131/1986) anche quando il trasferimento segue ad un atto dell’autorità giudiziaria (art. 43, comma 4, T.U. n. 131/1986) è costituita «dal valore del bene o del diritto» per «i contratti a titolo oneroso», «dal valore del bene che dà luogo all’applicazione della maggiore imposta» per «le permute», «dal valore del bene ceduto o della prestazione che dà luogo all’applicazione della maggiore imposta» per «i contratti che importano l’assunzione di una obbligazione di fare in corrispettivo della cessione di un bene o dell’assunzione di altra obbligazione di fare», «dall’ammontare dell’obbligazione assunta o estinta e, se questa ha per oggetto un bene diverso dal denaro, dal valore del bene alla data dell’atto» per «gli atti portanti assunzione di una obbligazione che non costituisce corrispettivo di altra prestazione o portanti estinzione di una precedente obbligazione» e, più in generale dai corrispettivi pattuiti nel contratto; inoltre, la base imponibile è formata anche dai «debiti» e dagli «altri oneri accollati» e dalle «obbligazioni estinte per effetto dell’atto» (art. 43, comma 2); infine, per il trasferimento di beni mobili e immobili in sede di espropriazione forzata, asta pubblica, pubblico incanto «dal prezzo di aggiudicazione», in sede di espropriazione per pubblica autorità e per ogni altro atto della pubblica autorità «dall’ammontare definitivo dell’indennizzo» o «dal prezzo» in caso «di trasferimento volontario all’espropriante» (art. 44) nonché «dall’ammontare del canone ovvero da quello del corrispettivo pattuito». 18 In questi termini l’art. 13, comma 2, lett. c), D.P.R. n. 633/1972 in ordine alle operazioni di cui all’art. 2, comma 2, nn. 4), 5) e 6) e all’art. 3, commi 1 e 3, secondo periodo dello stesso D.P.R. n. 633. 19 Il valore normale è individuato nel «prezzo o corrispettivo mediamente praticato ...» (art. 9, comma 3, TUIR n. 917/1986); nella distribuzione di utili in natura «il valore imponibile è determinato in relazione al valore normale degli stessi …» (art. 47, comma 3). Il valore normale è inteso nell’«intero importo» che si dovrebbe pagare «in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o prestatore indipendente per ottenere i beni o servizi in questione nel tempo e nel luogo di tale cessione o prestazione» oppure, ove non sia possibile il riferimento ad un mercato, nel «prezzo di acquisto» o «di costo» per le cessioni di beni e nelle «spese sostenute» per l’esecuzione per le prestazioni di servizi (art. 14 del D.P.R. n. 633/1972). Nella solidarietà prevista per il cessionario ove l’operazione sia avvenuta «a prezzi inferiori al valore normale», il cessionario «può tuttavia documentalmente dimostrare che il prezzo inferiore dei beni è stato determinato in ragione di eventi o situazioni di fatto oggettivamente rilevabili o sulla base di specifiche disposizioni di legge e che comunque non è connesso con il mancato pagamento dell’imposta» (art. 60 bis, commi 2 e 3). 20 È reddito diverso la «differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni dell’imprenditore».

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e) Nella diversa prospettiva della concettualizzazione delle fattispecie, il legislatore menziona le cessioni a titolo oneroso 21 e liberale 22 e gratuito 23 senza, però, differenziarle da quelle a titolo corrispettivo. Analoga omissione si rinviene quando si attribuisce rilevanza fiscale ad atti rinunciativi in sede di sopravvenienze attive 24, con funzione compensativa con riguardo al consolidato fiscale 25, permutativa e solutoria ai fini dell’imposta sul valore aggiunto 26; l’omessa elaborazione concettuale è aggravata, quantomeno in materia di IVA, dalla mancata “presa visione” delle scelte fatte dalla Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006 e dell’evoluzione della giurisprudenza comunitaria 27. 21 Le regole dettate per le «cessioni a titolo oneroso valgono anche per gli atti a titolo oneroso che importano costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento e per i conferimenti in società» (art. 9, comma 5, TUIR n. 917/1986); la tassazione separata si applica alle plusvalenze, compreso l’avviamento, che si realizzano «mediante cessione a titolo oneroso di aziende possedute da più di cinque anni» e, più in generale, ad una serie di plusvalenze su immobili e partecipazioni originate da cessioni «a titolo oneroso» (art. 17). Sono operazioni imponibili le cessioni effettuate «a titolo oneroso», le «cessioni gratuite» e le destinazioni a finalità extraimprenditoriali, le «assegnazioni ai soci fatte a qualsiasi titolo da società di ogni tipo e oggetto» (art. 2, comma 2, D.P.R. n. 633/1972). Nell’imposta di registro il riferimento è effettuato ad atti «in parte» a titolo «oneroso» e «in parte gratuito» (art. 25, T.U. n. 131/1986), a «presunzione di liberalità», «donazioni» e trasferimento «a titolo gratuito» nei «trasferimenti immobiliari» e «di partecipazioni sociali (…) posti in essere tra coniugi ovvero tra parenti» (art. 26). 22 Nell’individuazione degli oneri deducibili si menzionano più volte, in seno all’art. 10 TUIR n. 917/1986, ipotesi di donazioni ed erogazioni liberali in denaro così come in quella degli oneri detraibili l’art. 15 del TUIR n. 917/1986 riferisce di erogazioni liberali in denaro ed erogazioni liberali tout court al pari dell’art. 100 per gli oneri di utilità sociale. 23 A condizione della continuità dei valori fiscalmente riconosciuti il «trasferimento di azienda (…) per atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenze dell’azienda stessa» (art. 58). 24 Pur senza menzionare il titolo non si considerano sopravvenienze attive, tra l’altro, «i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale» a soggetti passivi dell’IRES da parte dei soci «e la rinuncia dei soci ai propri crediti» (art. 88, comma 4). 25 In materia di consolidato fiscale non sono imponibili «in quanto escluse le somme percepite o versate tra le società di cui al comma 1 in contropartita dei vantaggi fiscali ricevuti o attribuiti» (art. 118, comma 4). 26 Nel definire le operazioni permutative e le dazioni in pagamento ci si riferisce a quelle «effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi» oppure effettuate «per estinguere precedenti obbligazioni» (art. 11 del D.P.R. n. 633/1972). 27 In tale contesto normativo, ad esempio, l’onerosità del titolo di trasferimento è in molti casi intesa come corrispettività al punto da escludere l’imponibilità per l’assenza di un nesso diretto tra il trasferimento/la prestazione ed un controvalore ricevuto, per l’eventualità e non obbligatorietà del controvalore stesso e, più in generale, per l’assenza di un nesso di sinallagmaticità ove il trasferimento non avvenga in ragione di un’obbligazione di fare, non fare e permettere. In un caso è proprio il testo letterale a divergere da quello nazionale: si legga, ad esempio, l’art. 73 della Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006 ove la base imponibile è ricondotta al valore di «tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare (…)».

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Si ha, pertanto, l’impressione che l’unico apporto concettuale espresso offerto dal legislatore tributario sia quello relativo al valore normale di cui all’art. 9 del TUIR n. 917/1986 e dell’art. 14 del D.P.R. n. 633/1972 nei limiti e alle condizioni ivi fissate; per il resto si evidenzia l’equazione corrispettivo/base imponibile e corrispettivo/valore normale ove il prezzo non sia pagato in denaro e l’assenza di una definizione concettuale delle categorie ai fini tributari.

2. La necessità di delimitazioni concettuali, anche meramente convenzionali, dei termini “corrispettività”, “onerosità”, “gratuità”, “liberalità” e “prezzo” L’indagine volta a scoprire in quali termini si debbano sostanziare i concetti e le categorie sopra citate può, allora, trovare utili indicazioni nell’approfondimento dei caratteri che la causa e la funzione del contratto e dello scambio assumono nell’esatta comprensione dell’assetto economico delle pattuizioni. Per dipanare la “matassa” che emerge dai diffusi richiami nelle diverse disposizioni tributarie la distinzione potrebbe ruotare intorno al termine, da un lato, di “corrispettività” per definire, a contrario, cosa si intenda per trasferimento effettuato a titolo oneroso, gratuito e liberale e, dall’altro, di “corrispettivo” e di “prezzo” per indagare l’eventuale rilevanza delle diverse forme di pagamento e di adempimento dell’obbligazione. A) Gli effetti giuridico/economici di un trasferimento di beni e servizi soddisfano un interesse di almeno una delle parti non solo nella corrispettività ma anche nell’onerosità 28 e nella gratuità 29; è, invece, incerto se ciò accada nella liberalità 30 priva, nel suo momento dispositivo, di una valenza remuneratoria immediatamente tangibile: sia le diverse forme di rinuncia che la donazione remuneratoria ex art. 770 c.c. sembrano, infatti, offrire spunti per cogliere, in tal senso, profili di interesse anche economico di una delle parti 31. 28 Il punto è diffusamente trattato nella letteratura civilistica: per tutti leggasi CATAUDELLA, Bilateralità, corrispettività ed onerosità nel contratto, in Scritti sui contratti, Padova, 1998, p. 39. 29 Ad es. nel contratto di deposito e di comodato. 30 Così, tra gli altri, PALAZZO, Gratuità ed attuazione degli interessi, in AA.VV., I contratti gratuiti, a cura di Palazzo e Mazzarese, in Trattato dei contratti diretto da Rescigno-Gabrielli, Torino, 2008, p. 6 ss. il quale ricorda (p. 14 ss.) come nei rapporti c.d. di cortesia sia assente la gratuità se abbiano luogo tra imprese (si pensi alla messa a disposizione di veicoli, di personale dipendente o di immobili) a favore dell’onerosità; si veda anche MOROZZO DELLA ROCCA, Profili civilistici delle «donazioni» d’impresa, in Contr. e impresa, 2008, p. 227 ss. Nel senso del testo anche LOFFREDO, Economicità nelle imprese individuali e societarie e atti onerosi, gratuiti e liberali in questo Volume. 31 Per la rinuncia vedi MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2012, p. 29 ss.

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L’attribuzione ad altri di un vantaggio di natura patrimoniale misurabile in termini monetari e, in corrispondenza, la sussistenza di “vantaggi” economici per il disponente sono “episodi” sempre più frequenti in assetti non corrispettivi. Nella dinamica tra imprese all’interno di un gruppo 32 cui si dedicherà successivamente attenzione, i decrementi patrimoniali di una società possono soddisfare interessi economici propri sia della holding che del gruppo. Si pensi, ancora, alla crescente attenzione delle imprese di grandi dimensioni per forme di mecenatismo e/o di spesa con finalità di utilità sociale con beneficiari talvolta indeterminati, talvolta determinati solo per genere o specie in un ente no profit o, addirittura, solo all’interno del personale dell’impresa 33. Egualmente significativi l’assegnazione di beni ai soci, i negozi di destinazione e di trasferimento di beni aziendali all’interno della famiglia; più in particolare: – nell’assegnazione, a fronte di un trasferimento in termini reali, resta incerto il titolo in quanto l’interesse delle parti può essere il più vario e perseguito utilizzando diversi strumenti giuridici; – nel negozio di destinazione, il bene/servizio potrebbe, invece, anche non mutare titolarità ma solo vincolo funzionale; – nella destinazione extraimprenditoriale dei beni relativi all’impresa – quando cambia l’oggetto della destinazione imprenditoriale (da commerciale ad agricola) oppure, addirittura, la stessa destinazione imprenditoriale commerciale – il legislatore tributario apprezza anche il mero mutamento del vincolo economicogiuridico collegato a un interesse diverso da quello tipicamente remunerativo sotteso al pagamento del corrispettivo seppur riportabile ad un interesse oneroso dell’imprenditore 34. Nella circolazione dei beni aziendali tra familiari ai sensi del c.d. patto di famiglia l’assenza di un corrispettivo non comporta la gratuità del negozio in quanto il 32 Si ricordano, come vedremo successivamente, gli atti gratuiti che, in quanto onerosi, soddisfano un interesse societario come nella prestazione di garanzie infragruppo: lo rileva anche PALAZZO, Gratuità e corrispettività indiretta, cit., p. 41. 33 Sul punto da ultima GIANONCELLI, Fiscalità di impresa e utilità sociale, Torino, 2013, spec. pp. 26 ss., 40 ss., 55 ss. e 101 ss. 34 L’eccezionale facoltatività della rivalsa ex art. 18, comma 3 del D.P.R. n. 633/1972 per le cessioni e prestazioni riconducibili alla destinazione a finalità extraimprenditoriali potrebbe, in tal senso, lasciar intendere, con ricadute, se vogliamo anche sul fronte della deducibilità di eventuali costi conseguenti a tal destinazione extraimprenditoriale, che in tale circostanza sarebbe rimesso al cedente/prestatore valutare il nesso dell’operazione gratuita in quanto priva di corrispettivo alla sua impresa e, quindi, apprezzarne, comunque, una rilevanza economica quale atto oneroso. Vedi CASTALDI, Le operazioni imponibili, in AA.VV., L’imposta sul valore aggiunto (diretta da Tesauro), Torino, 2001, p. 59. Sulla rilevanza del mutamento di destinazione da imprenditoriale in non imprenditoriale e viceversa vedi CAPOZZI, Il passaggio dei beni dell’imprenditore individuale dalla sfera personale a quella imprenditoriale in questo Volume.

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trasferimento dell’azienda soddisfa interessi sia di successione ereditaria che di continuità dell’impresa, elemento questo che fonda il regime di neutralità del trasferimento della proprietà 35. B) Se, dunque, l’interesse economico sotteso all’onerosità è per sua natura soggettivo, la natura onerosa è riscontrabile in una prospettiva sia bi-soggettiva che uni-soggettiva qualora la causa del negozio sia variabile e perda la sua unitarietà in ragione della presenza di un solo interesse soggettivo 36. Tale aspetto è tangibile, tra l’altro, nelle seguenti ipotesi. a) I versamenti soci a fondo perduto ed i finanziamenti infruttiferi evocano la realtà degli atti unilaterali e del contratto con obbligo del solo proponente ex art. 1333 c.c. nota al diritto civile. b) Il finanziamento della società da parte del socio con erogazioni che non si sostanziano né in conferimenti né nella sottoscrizione di titoli di debito è un ulteriore esempio di causa variabile in cui la mancata o minima remunerazione del capitale come dichiarata dalle parti ben può sottintendere l’intenzione, da un lato, del socio di conservare un valore anticipando situazioni di crisi troppo gravi e, dall’altro, della società di avere un credito interno e non esterno ad essa, con risparmio di costi, diretti e indiretti, nonché del rischio del mancato finanziamento stesso. c) Nelle c.d. lettere di patronage e nelle garanzie prestate infragruppo è soddisfatto un interesse economico sia dell’una che dell’altra parte senza alcun assetto sinallagmatico e corrispettivo 37. d) Nelle garanzie la mera erogazione di una somma non ha di per sé una necessaria funzione solutoria 38. e) Con riguardo all’accollo e al contratto a favore di terzo in un contesto imprenditoriale si può dubitare che si tratti di atti gratuiti/liberali o, invece, anche gratuiti/onerosi. Pur in assenza di una remunerazione l’assunzione dell’obbligazione potrebbe essere “interessata” qualora il vantaggio per il debitore accollato o per il terzo corrisponda anche ad un interesse economico del accollante e dello stipulante 39. Se così fosse, come pare, la base imponibile andrebbe individuata non solo nel corrispettivo in denaro pagato al venditore ma anche nel mancato depaupera35

Cfr. CAPOZZI, Il patto di famiglia e il passaggio generazionale dell’impresa in questo Volume. Ad es. in occasione di una cessione di crediti come negozio a causa variabile. 37 Lo ricordano anche PALAZZO, Gratuità e corrispettività indiretta, cit., p. 42 ss. e SASSI, Contratti di garanzia, ibidem, pp. 453 ss. spec. 495 ss. e 504 ss. 38 Si pensi alla dinamica degli appalti in cui la ritenuta a garanzia da parte del committente in nulla sostanzia una fattispecie corrispettiva per la diversa destinazione della somma. Per un caso di specie vedi Cass. 5 ottobre 2012, n. 16977. 39 Cfr. CAREDDA, Donazioni indirette, in AA.VV., I contratti gratuiti, cit., p. 268 ss. anche per indicazioni e casi. 36

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mento di cui lo stesso beneficerebbe in ragione di pattuizioni regolate sia all’interno che all’esterno del contratto di trasferimento del bene o di prestazioni: si pensi all’accollo del mutuo gravante sull’immobile venduto da parte del cessionario 40. f) Analoghe considerazioni valgono per la rinunzia e la remissione del debito 41 come si vedrà successivamente. g) Nella confusione – ai sensi dell’art. 1253 c.c. l’obbligazione, infatti, si estingue se le qualità di creditore e debitore «si riuniscono nella stessa persona» – la vicenda, avente funzione estintiva di due distinte obbligazioni e, quindi idonea a soddisfare gli interessi di due diversi creditori evocherebbe assetti onerosi seppur non corrispettivi in quanto privi del pagamento di un prezzo. Si potrebbe, però, obiettare che nella confusione non vi sarebbe la stessa soddisfazione degli interessi patrimoniali che si avrebbe con l’esatto adempimento. In realtà, a ben vedere, nella pluralità delle ipotesi di confusione 42 vi è si una reciproca soddisfazione di interessi ma, talvolta, non equivalente a quella che si avrebbe con l’esatto adempimento, potendosi declinare con intensità diversa fenomeni di mera acquisizione di “altro” rispetto al denaro e fenomeni di piena successione nel rapporto e soddisfazione in virtù di una sostanziale identità economica. Il rischio, allora, che in assenza di una equivalenza la funzione pienamente satisfattiva e, quindi, equivalente all’adempimento sia dubbia induce ad una certa prudenza nel concludere che l’avvenuta confusione dia sempre luogo all’imposizione reddituale e integri il momento impositivo ai fini dell’applicazione ex art. 6 del D.P.R. n. 633/1972 dell’IVA. h) Una dimensione particolare nella quale indagare la rilevanza degli interessi soggettivi a connotazione onerosa è quella in cui, come accade, peraltro, nel conferimento, il trasferimento (della proprietà o del mero diritto di godimento) di beni o la prestazione (o diritto di utilizzazione) di servizi sia funzionale non ad un’immissione nel mercato ma, invece, alla perfezione di mere forme giuridiche di collaborazione e/o alla costituzione di vere e proprie strutture soggettive associative aventi una marcata vocazione organizzativa: si pensi alle cooperative e agli 40

Che la base imponibile IVA comprenda sia l’uno che l’altro valore ai sensi dell’espressa disposizione dell’art. 13 del D.P.R. n. 633/1972 è affermato da Cass. 26 giugno 2013, n. 10201 la quale esclude che l’accollo, nella sua qualità di negozio astratto, possa configurare, invece, un finanziamento. Ai fini dell’imposta di registro, ove l’accollo sia espresso ai sensi dell’art. 43, comma 2 del T.U. n. 131/1986, costituirà base imponibile il valore del debito o dell’onere accollato, salva, ovviamente l’alternatività con l’IVA. 41 Il punto è, comunque, evidenziato anche da CAREDDA, Donazioni indirette, cit., p. 276 ss. e VALENTINO, Remissione del debito, in AA.VV., I contratti gratuiti, cit., p. 663 ss. 42 Dettagliatamente ricordate da FRANSONI, Estinzione dell’obbligazione per confusione e momento impositivo nell’IVA, in Rass. trib., 2012, p. 57 ss.

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enti soggettivamente non lucrativi 43, ai consorzi e contratti di rete nella loro alternativa dimensione di mero contratto o anche di soggetto 44. Con riferimento alle “reti” di imprese, l’atto di attribuzione esprime un’onerosità legata, nella “rete-contratto”, all’attività e ai vantaggi seguenti all’opera del mandatario; nella “rete-soggetto”, invece, la soggettivizzazione sia civilistica che fiscale pone il problema del nesso funzionale tra quanto destinato, l’attività di collaborazione e di scambio di informazioni e prestazioni ed altre attività più tradizionalmente commerciali. i) Pari osservazioni possono essere svolte per i negozi in cui, in assenza di un legame partecipativo tra soggetti (come nel gruppo e per gli istituti che presuppongono tale rapporto come nel consolidato fiscale nazionale) il trasferimento è funzionale alla costituzione di meri vincoli di destinazione, a segregazioni patrimoniali; più in generale, quando il trasferimento assuma una veste minor rispetto a quella propria dei trasferimenti sul mercato anche per l’assenza, nel rapporto, di una controparte dotata di autonoma soggettività tributaria; emblematici i problemi posti dall’istituzione e gestione dei trusts sotto il profilo dell’imposizione indiretta dell’atto di costituzione ai fini dell’imposta di donazione, ipotecaria e catastale 45. l) Infine, la recente esperienza in materia urbanistica della cessione di cubatura e della redistribuzione di aree tra i soggetti co-lottizzanti privi di legami consortili evidenzia come nei rapporti sia tra privati che tra privati ed enti comunali l’assenza di corrispettivo nel trasferimento non privi gli atti di una rilevanza economica rendendoli a titolo gratuito; ovviamente la conclusione sarebbe in tal caso diversa se il trasferimento avesse la funzione di adempiere ad un obbligo derivante dalla convenzione di lottizzazione e non quella meramente perequativa nel senso di garantire un riequilibrio della capacità edificatoria in quanto, in tal caso, la natura corrispettiva non muterebbe in ragione del trasferimento del bene con funzione solutoria 46. 43

Su cui vedi MARASÀ, Direzione e condizioni dello scambio nelle cooperative e nelle organizzazioni non profit tra regole civilistiche e regole tributarie nonché PEPE, Assetti negoziali, scambi mutualistici e «statuto fiscale» della società cooperativa: i riflessi tributari delle modalità di attribuzione del «vantaggio mutualistico», entrambi in questo Volume. 44 Sul punto, oltre al contributo sui profili civilistici di IBBA, Contratti di collaborazione fra imprese, consorzi e reti di imprese in questo Volume vedi anche TASSANI, Profili fiscali del contratto di rete tra soggettività giuridica e separazione patrimoniale, in Riv. dir. trib., 2013, I, p. 569 ss. nonché, per alcuni spunti, anche INTERDONATO, Il «ribaltamento» obbligatorio di costi e ricavi nei consorzi, tra esasperata valorizzazione della mutualità ed esigenze di contrasto all’abuso del diritto, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 510 ss. 45 Tra gli altri vedi TASSANI, I trusts nel sistema fiscale italiano, Pisa, 2012, spec. pp. 11 e ss., 113 e ss. e 137 e ss.; LAROMA JEZZI, Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, Milano, 2006, passim spec. pp. 43 ss. e 101 ss. 46 Sul punto amplius in SIMONE, La prassi negoziale della cessione di cubatura e degli atti di redistribuzione di aree tra co-lottizzanti non riuniti in consorzio: spunti di riflessione sul trattamento fiscale ai fini delle imposte indirette (IVA e registro) in questo Volume.

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Da quanto sopra si traggono alcuni dati. In primo luogo, la frequenza con la quale beni relativi all’impresa sono trasferibili in assetti non corrispettivi con soddisfazione di interessi economici anche di soggetti diversi dal trasferente. Quindi, che la remuneratività del trasferimento può anche non costituire l’unico interesse economico rilevante senza che ciò privi l’operazione della natura onerosa. Da ultimo, la presenza nell’ordinamento di strumenti giuridici (di rilevanza sia generale che speciale) di cui quello tributario non può essere inconsapevole ove questi consentano di soddisfare l’interesse economico del creditore con trasferimento di beni diversi dal denaro.

3. Interessi economici ed atti dispositivi unilaterali “rinunciativi” ed “omissivi” L’alternativa tra onerosità, gratuità e liberalità (come aliud rispetto alla corrispettività) emerge nel diritto tributario dell’impresa anche con riguardo al tema della “rinuncia” 47. Vi è una “varietà” di atti unilaterali di natura rinunciativa attraverso i quali il rinunciante (imprenditore, non imprenditore, società di un gruppo) ben può, attraverso un atto dispositivo (la rinuncia a un fare o a un dare), soddisfare un interesse economico sia proprio che, eventualmente, di un terzo 48. Nella rinunzia (espressa o anche riconducibile alla mera inerzia) si assiste, infatti, a depauperamenti o mancati incrementi patrimoniali propri e, corrispondentemente, a mancati depauperamenti altrui la neutralità del cui “titolo”, dal punto di vista della funzione, non è sempre necessaria; ove, infatti, la rinunzia sia collocata in un contesto di «attività funzionalizzate» 49, come quella imprenditoriale anche di gruppo o della famiglia cui appartenga un imprenditore 50, ben si 47

Oggetto della recente monografia di MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2012, passim. 48 L’eventualità è considerata attuale anche da PALAZZO, Gratuità e corrispettività indiretta, cit., p. 35 ss.; sembra, invece, escluderlo LOFFREDO, Economicità nelle imprese individuali e societarie e atti onerosi, gratuiti e liberali, in questo Volume sebbene l’Autrice proponga anche una prospettiva di valutazione complessiva e non limitata al singolo atto. 49 Efficace e condivisibile espressione di MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative, cit., p. 3. 50 Per una disamina di casi relativi al trasferimento dell’azienda tra vendita e donazione all’interno della famiglia si rinvia ai contributi di FICARI, Continuità del programma imprenditoriale, gratuità del trasferimento e valori imponibili nell’imposizione delle plusvalenze aziendali: aspetti sostanziali e procedimentali, BEGHIN, Il trasferimento dell’azienda e l’imposizione sulle plusvalenze nei recenti arresti giurisprudenziali: alla ricerca di punti fermi e di schemi generali di ragionamento e MURARO, Gli atti di trasferimento dell’azienda tra rapporti di parentela, rapporti di affinità e prova della gratuità dell’operazione tutti pubblicati in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 125 ss.

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configura un interesse economico e, quindi, un assetto oneroso. Pertanto, qualora l’atto di rinuncia abbia effetti patrimoniali e permetta di perseguire interessi economici è legittimo chiedersi in che termini per i soggetti coinvolti (il rinunziante e il terzo) si realizzi il presupposto di una o più imposte e siano applicabili le regole di deduzione/detrazione in ragione dell’incremento (o mancato depauperamento) patrimoniale 51 di cui godono sia l’una che l’altra parte anche disgiuntamente. Nel regime dell’impresa la rinunzia, in conseguenza del perseguimento di un interesse economico dell’imprenditore rinunziante e nonostante l’assenza di un corrispettivo, è riconducibile al novero degli atti con finalità imprenditoriale e, quindi, a titolo oneroso; qualora, invece, manchi l’interesse economico del rinunziante gli effetti della rinunzia esprimerebbero una ipotesi di destinazione a finalità extraimprenditoriali 52. L’eventuale rilevanza reddituale per il terzo corrisponderebbe, per non esservi incoerenze sistematiche, alla deducibilità/detraibilità per il disponente rinunciante, impedita se il nesso funzionale degli effetti della rinunzia rispetto al programma imprenditoriale del rinunziante 53 fosse assente. Una volontà rinunziatoria si avrebbe anche nelle cessioni di credito con clausola pro soluto che originino componenti negative di reddito ove il prezzo incassato sia inferiore a quello di iscrizione (i.e. il valore fiscalmente riconosciuto); in tal caso, se, il credito costituisce un bene relativo all’impresa, la sua dismissione, nelle modalità giuridiche ed economiche di trasferimento e di quotazione, potrebbe rispondere a scelte gestionali le cui ragioni economiche risalirebbero alla discrezionalità imprenditoriale 54. Poiché la rinunzia si manifesta, almeno nella generalità delle ipotesi, solo quale implicito effetto e non anche come tipo di atto dispositivo di un diritto non par dubbia l’applicazione della disciplina tributaria della perdita su crediti; ove, invece, la rinunzia abbia espressamente ad oggetto in tutto o in parte un credito di 51

Cfr. MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative, cit., p. 81 ss. Si pensi, tra le altre ipotesi, alla funzione di finanziamento o di aumento del capitale attraverso un conferimento atipico della rinuncia al credito del socio verso la società, all’eventualità di una sopravvenienza attiva e alle conseguenze del valore di quanto rinunciato sul valore fiscale della partecipazione; alla riqualificazione della rinuncia al diritto di credito come atipico incasso di dividendi. Vedi anche MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative, cit., p. 121 ss. 53 Sul punto MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative, cit., p. 87 ma così già in FICARI, Reddito di impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, pp. 241 ss. e 253 ss. 54 Di modo che ci si può chiedere in che termini la rinunzia alla differenza sia sindacabile, ai sensi dell’art. 37 bis, comma 2 del D.P.R. n. 600/1973, sotto il profilo della validità delle ragioni economiche considerando che l’operazione ipotizzata non è la rinunzia in quanto tale che emergerebbe solo quale effetto ma, es. una cessione di un credito. 52

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impresa, occorrerebbe considerare l’applicazione della disciplina (non tanto della perdita su crediti quanto) delle minusvalenze 55. L’eventuale perdita a seguito della rinunzia potrebbe, però, acquisire rilevanza di per sé a prescindere dall’onere di acquisire elementi certi e precisi qualora la cancellazione del credito nel bilancio del rinunziante sia operata in conformità ai principi contabili nazionali 56. L’ordinamento tributario attribuisce rilevanza a comportamenti omissivi dell’imprenditore privi dell’intenzione di scambio o di realizzazione di plusvalori anche nel trasferimento della sede all’estero qualora il contribuente non mantenga in Italia una stabile organizzazione; l’imposizione in caso di mancata “attribuzione” a stabili organizzazioni situate in Italia di beni aziendali evidenzia la rilevanza tributaria (forse in termini eccezionali e derogatori ma pur sempre significativi) della mancata adozione di scelte gestionali (cioè di comportamenti omissivi) 57.

4. Prezzo in denaro e in natura e pricing: uno, nessuno, centomila? 4.1. Le caratteristiche del prezzo Il prezzo, sotto il profilo della causa e con riguardo al contratto più diffuso, quello di compravendita, è il corrispettivo dovuto per conseguire la titolarità di un diritto (art. 1470), da esprimersi in denaro in base ad una equivalenza riferibile alle reciproche valutazioni soggettive 58; le sue caratteristiche sono individuabili nella serietà, verità e certezza 59: a queste pare utile dedicare attenzione ai fini della presente indagine. 55 Spunti, tra gli altri, in BEGHIN, Perdite e svalutazioni dei crediti a seguito di rinunce, transazioni o insufficienza dell’attivo, in AA.VV., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi (a cura di Paparella), Milano, 2013, p. 1020 ss. 56 In tal senso il novellato ultimo periodo dell’art. 101, comma 5 del TUIR n. 917/1986. 57 La menzionata imposizione, in base ai commi 4 quater e 4 quinquies dell’art. 166 del TUIR, è sospesa (cioè le plusvalenze restano latenti) a seguito di quanto ha sancito la CGE e di quanto in dettaglio disposto dal D.M. 2 agosto 2013 il quale ha previsto che la plusvalenza sui beni che non confluiscano in una stabile organizzazione in Italia sia unitariamente determinata in base al valore normale dei beni aziendali, comprendendo «il valore dell’avviamento e quello delle funzioni e dei rischi propri dell’impresa, determinati sulla base dell’ammontare che imprese indipendenti avrebbero riconosciuto per il loro trasferimento». Cfr. la sentenza 29 novembre 2011 causa C-371/10 National Grid Indus BV. 58 È un dato storico acquisito quello secondo cui l’individuazione di un prezzo nasce innanzitutto come corrispondenza ad una stima condivisa espressa in una valuta comune alle parti dello scambio e solo successivamente come diretta corrispondenza al denaro: cfr. LE GOFF, Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, cit., p. 35. 59 Sul punto MACARIO-QUARTICELLI, Il Prezzo. I. La determinazione, in AA.VV., I contratti di vendita, II, a cura di Valentino in Trattato dei contratti diretto da Rescigno-Gabrielli, Torino, 2007, p. 881 ss.

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a) La serietà attiene alla fissazione di un valore che sia giusto per le parti nella soddisfazione dei loro reciproci interessi e che corrisponda ad un valore “giusto” (o “normale” secondo la terminologia del legislatore tributario) solo ove la legge fissi un valore di mercato venale diverso da quello ritenuto soddisfacente dalle parti. Il prezzo c.d. vile o irrisorio, peraltro, non cela necessariamente una simulazione assoluta né causa la nullità del contratto per assenza di un requisito essenziale – ciò accadrebbe solo in presenza del prezzo simbolico e meramente apparente – mentre potrebbe, al limite, far dubitare della causa di scambio del contratto e della natura corrispettiva del trasferimento, lasciando aperta la configurabilità di una vendita mista a donazione 60: anche in quest’ultimo caso, però, il differenziale tra valore effettivo del bene/servizio e prezzo in denaro corrisposto presuppone il riferimento ad un valore di mercato individuabile oggettivamente e la prova dell’intento di liberalità. b) Un secondo carattere è quello della verità. Esso attiene all’assenza di un accordo simulatorio sull’esazione del prezzo; di conseguenza, un’eventuale simulazione riguarderebbe non la causa ma solo l’ammontare del prezzo e, quindi, l’occultamento di materia imponibile in pregiudizio dell’interesse erariale ex art. 53 Cost.; non darebbe, invece, luogo ad alcun dubbio di simulazione relativa l’accordo in base al quale, secondo i termini della datio in solutum, il prezzo fosse pagato res pro pecunia oppure con l’accollo di un debito dell’acquirente o la remissione di un debito o la compensazione 61. c) Il terzo, la certezza, presenta profili di interesse quando l’ammontare del prezzo o le sue modalità di pagamento siano oggetto di rinegoziazione oppure la certezza del valore è fissata dalla legge che la rimette all’esito di procedimenti amministrativi o di scelte di pubblici ufficiali 62. Il punto, peraltro, è rilevante qualora, ad esempio, il pagamento non avvenga in denaro ma con operazioni permutative e di datio in solutum, con l’accollo di debiti, con buoni sconti emessi dallo stesso cedente, dal produttore e presentati al dettagliante – buoni il cui valore concorre alla formazione della base imponibile IVA essendo gli stessi da considerarsi alla stregua di mezzi di pagamento 63 – e, infine, con la costituzione di una rendita vitalizia attraverso la cessione di un bene o di un’azienda in cui il valore dell’azienda ha la funzione di quantificare il corrispettivo e la rendita 64. 60 Cfr. anche per indicazioni dottrinali e giurisprudenziali sempre MACARIO-QUARTICELLI, Il Prezzo. I. La determinazione, cit., p. 881 ss. 61 Leggasi, anche con riguardo agli orientamenti giurisprudenziali, MACARIO-QUARTICELLI, Il Prezzo. I. La determinazione, cit., p. 894. 62 Ad esempio ai sensi dell’art. 44 T.U. 131/1986 in materia di registro. 63 Cfr. CGE 16 gennaio 2003 causa C-398/99; in materia di remunerazione degli apporti dei soci di una cooperativa Cass. 18 giugno 2003, n. 9753. 64 Per un caso leggasi Cass. 8 marzo 2013 n. 5886.

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4.2. Il valore normale tra imposte sul reddito ed IVA Un cenno merita il c.d. valore normale, alla cui nozione, come accennato, il legislatore dedica espressa attenzione. Si tratta di un criterio legale di determinazione oggettiva del prezzo menzionato nell’art. 9 del TUIR n. 917/1986 e nell’art. 14 del D.P.R. n. 633/1972 e, in quanto tale, applicabile nei limiti in cui la norma preveda il “genere di appartenenza” dello scambio oggetto di valorizzazione. Poiché la disposizione in materia di imposizione sul reddito può non menzionare alcuni “mercati” di riferimento definiti per carattere “merceologico”, a fronte della valorizzazione scelta del contribuente (considerando che il corrispettivo è quanto un soggetto è disposto a pagare per acquistare il bene/servizio secondo le proprie scelte e valutazioni) nella propria autonomia contrattuale, un’eventuale normalità sarebbe rimessa, in tali casi, ad un giudizio soggettivo di una parte (l’Erario) o del giudice definita, sotto l’aspetto quantitativo, dalle risultanze di massime di esperienza secondo il modello della presunzione semplice. Nell’IVA il ricorso all’elemento del valore normale è, invece, recessivo rispetto a quello del corrispettivo, considerato necessario dalla stessa giurisprudenza comunitaria al fine di una corretta interpretazione ed applicazione dei principi comunitari. Il corrispettivo ben potrebbe, quindi, corrispondere al mero prezzo di costo con la conseguenza di determinare una base imponibile in assenza di un vero e proprio valore aggiunto 65. Il valore normale costituirebbe, allora, uno strumento utilizzabile eccezionalmente dai singoli Stati in virtù della facoltà concessa dall’art. 80 della Direttiva IVA n. 2006/69/CE solo per finalità antielusive o antievasive 66 negli scambi all’interno della famiglia o di gruppi 67; a seguito della facoltà concessa l’art. 13, comma 3 del D.P.R. n. 633/1972 menziona il valore normale in ordine alla base imponibile delle operazioni tra soggetti collegati aventi un limite alla detrazione sugli acquisti. Nelle regole proprie dell’IVA ed in assetti nei quali a fronte dello scambio il cedente/prestatore soddisfa un interesse economico proprio ed altrui ma non riceve un corrispettivo in denaro, il termine di paragone costituito dal valore normale ha, pertanto, ragione d’essere solo se, a fronte del trasferimento, il cedente/prestatore non riceva un bene avente già il valore pari alla somma di denaro nella misura pattuita; altrimenti detto: il valore normale è utilizzabile solo se 65

Il punto è colto già da DENORA, Rilevanza delle operazioni gratuite, cit. Evidenzia come il legislatore nazionale, in contrasto, preveda l’utilizzo del valore normale in luogo del principio del «corrispettivo soggettivo» anche al di fuori delle transazioni infragruppo e di finalità antielusive MASPES, Il valore nell’IVA, cit. 67 Cfr. ancora DENORA, Rilevanza delle operazioni gratuite, cit. 66

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l’operazione sia a titolo gratuito o sia effettuata per finalità extraimprenditoriali ma non anche quando sia presente un corrispettivo sia in denaro che in natura ma predeterminato dalle parti in denaro (es. datio in solutum). In questo senso è apprezzabile la modifica apportata all’art. 13 del D.P.R. n. 633 nella parte in cui ora si dispone che per le cessioni e prestazioni gratuite la base imponibile non è il valore normale che si trae dal mercato ma, invece, il costo di acquisto o di produzione del bene o il costo delle spese di esecuzione del servizio 68.

4.3. La vendita “in blocco” L’esperienza degli scambi evidenzia come il prezzo in denaro sia suscettibile di variare a seconda che, da un lato, l’acquirente manifesti interesse a compravendere non uno ma più beni e/o servizi dello stesso genere offerti dal venditore e, dall’altro, il venditore su cui grava il rischio di impresa in termini di sostenimento del costo dell’invenduto sia disposto a considerare tale vantaggio rispetto alla diversa situazione in cui la propria offerta sia destinata non ad un unico interlocutore certo ma a potenziali più acquirenti non ancora, però, concretamente rivelatisi. Nella vendita c.d. in blocco risponde ad una massima di comune esperienza che beni ceduti “in blocco” ad un unico acquirente siano trasferiti ad un prezzo per sua natura inferiore a qualsiasi prezzo normale si intenda attribuire ad una compravendita singolarmente considerata senza che ciò possa generare il dubbio di un occultamento di corrispettivo né, si aggiunge, che si tratti di un negozio misto a donazione 69; di conseguenza è errato ritenere che ad essa si debbano applicare le stesse regole economiche di pricing che varrebbero nelle ipotesi di vendite c.d. unitarie 70. La formazione di un prezzo presenta, infatti, componenti sia soggettive che oggettive. Le prime sono apprezzabili da soggetti diversi dalle parti del contratto solo se in qualche modo riconducibili a prassi imprenditoriali e a nessi di inerenza non criptici o autoreferenziali ma espliciti e riferibili, in termini di strumentalità anche indiretta, al programma imprenditoriale. 68

Cfr. MASPES Il valore nell’IVA, cit. Cfr. tra gli altri anche per indicazioni PALAZZO, Gratuità e corrispettività indiretta, cit., pp. 29 e ss. e CAREDDA Donazioni indirette, ibidem, spec. pp. 175 ss. e 248 ss. 70 Per un caso di locazione in blocco di un complesso di appartamenti Cass. 14 gennaio 2003, n. 398 in Riv. dir. trib., 2003, II, p. 498 ss. Che il prezzo unitario sia inferiore nelle vendite in blocco è un dato assodato nella letteratura aziendalistica anche internazionale: cfr. GRIFFITH-LEIBTAG-LEICESTER-NEVO, Consumer Shopping Behavior: How Much Do Consumers Save, in Journal of Economic Perspectives, 2009, p. 107. 69

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Le seconde, quelle oggettive, nel ricondursi a quanto più frequentemente accade nell’esperienza, sono individuabili: i) sia, semplicemente, parcellizzando il “grande mare” del mercato in tanti mercati quanti sono i diversi tipi di operatori e/o di contratti; ii) sia nello schema delle presunzioni legali relative. Il contribuente, infatti, al fine di garantirsi un acquirente per la maggior parte dei beni o servizi che intenda trasferire non può che praticare una decurtazione del prezzo di vendita rispetto ai valori di mercato in ragione della tipologia della compravendita, in molti casi notevole per numero e valore; l’acquirente c.d. “blocchista” spunta un prezzo, ad esempio a mq nelle transazioni immobiliari, che costituisce la compensazione del trasferimento anche del rischio dell’invenduto che per il venditore potrebbe essere causa di fallimento se attendesse di vendere ad acquirenti fra loro diversi e indipendenti 71. In questi termini e con riguardo all’art. 9 del TUIR n. 917/1986, il riferimento ivi effettuato al solo mercato borsistico soffre, allora, dei limiti nella quotazione di un valore che dovrebbe, però, costituire anche un prezzo il più effettivo possibile: l’elemento del valore normale è impermeabile a molte circostanze ed informazioni puntuali di tipo e questo non lo rende decisivo. Con riguardo alla vendite di partecipazioni, il valore, anche se normalizzato rispetto alla media delle quotazioni discende da una presunzione semplice (legale nel solo caso delle quotate); non si può negare che all’interno del prezzo si debba attribuire, un valore ad esempio, al premio di maggioranza o di controllo, alla persistenza di uno stato di crisi, alla c.d. lack of marketability 72 nonché ai motivi sottesi a scelte rispondenti a best practices gestionali nella logica di un fenomeno economico metaindividuale come quello di gruppo. È un dato esperienziale che il prezzo (in denaro o in natura), seppur legato all’azienda in misura più o meno intensa a seconda dell’entità della partecipazio71

In questo senso alcuni cenni si rinvengono nella giurisprudenza tributaria la quale (CTR Liguria 31 gennaio 2013, n. 21, in Boll. trib., 2013, p. 1051) ha affermato che le quotazioni Omi costituiscono un parametro stimato che non sempre può assurgere ad elemento identificativo del prezzo pattuito tra le parti poiché influenzato da diversi fattori tra i quali la vendita congiunta di diversi beni di talché il valore di ciascun bene parte di una vendita in blocco non può corrispondere alla mera sommatoria del valore dei singoli beni. 72 Per utili e argomentate riflessioni cfr., nella prospettiva dell’aziendalista, BERNINI, I pacchetti azionari. Analisi del fenomeno e aspetti valutativi, Milano, 2011, passim, spec. p. 123 ss. e 168 ss. ove si analizzano in dettaglio i diversi tipi di premi e sconti sul prezzo considerando i benefici sia economici che psicologici sul fronte sia dell’acquirente che del cedente (p. 233 ss.). Si aggiunga, sul punto, l’analisi effettuata da ONESTI, in Sconti di minoranza e sconti di liquidità. Ridotti poteri e mancanza di mercato nella valutazione delle partecipazioni, Padova, 2002, passim. Si aggiunga, anche per citazioni comparatistiche, MAUGERI-FLEISCHER, Problemi giuridici in tema di valutazione delle azioni del socio recedente: un confronto tra diritto tedesco e diritto italiano, in Riv. soc., 2013, p. 78 ss. e MAUGERI, Partecipazione sociale, quotazioni di borsa e valutazione delle azioni, in corso di pubblicazione.

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ne rispetto al capitale 73, non sempre corrisponde al valore: il primo è spesso influenzato da condizioni soggettive di negoziazione che incidono sullo stesso in termini incrementativi o decrementativi rispetto all’esito di una valutazione astratta, teorica seppur strettamente oggettiva 74. Altrimenti detto: non esiste un valore normale di borsa per i pacchetti di controllo 75 così come per quei pacchetti il cui trasferimento è accompagnato ad obbligazioni laterali che impattano sul prezzo finale soggettivamente determinato 76.

5. Le “operazioni” permutative, le “operazioni” con funzione solutoria e il pagamento di un prezzo in natura tra ii.dd., IVA e registro Il legame fra valori di scambio, qualificazione funzionale degli atti di trasferimento e collegamento fra gli stessi in termini di unitarietà dell’operazione economica emerge con riguardo ai negozi ed alle “operazioni” con funzione permutativa 77 e solutoria (es. permuta e datio in solutum) nonché alle ipotesi in cui l’obbligazione debitoria sia adempiuta attraverso il trasferimento di beni in natura (es. nel pagamento della retribuzione in tutto o in parte in natura oppure della cessione di beni culturali al fine dell’adempimento dell’obbligazione tributaria) 78. 73 Per qualche ulteriore indicazione se si vuole vedasi quanto già osservato in FICARI, Azienda ed avviamento tra accertamento, «prezzi» e «autonomia» del contribuente in questo Volume. 74 Il punto è ben sottolineato nella letteratura aziendalistica; cfr. BERNINI, I pacchetti azionari. Analisi del fenomeno e aspetti valutativi, cit., p. 88 ss. 75 Lo rileva anche BERNINI, I pacchetti azionari. Analisi del fenomeno e aspetti valutativi, cit., pp. 90 ss. e 98 ss. la quale distingue, ad esempio, acquisizioni mosse da interessi alla gestione operativa oppure strategica così come sottolinea la particolarità del valore/prezzo ove vi sia un premio di acquisizione. 76 Clausole sulla cui autonomia vedi Cass. 19 ottobre 2012, n. 17948, in Riv. trim. dir. trib., 2013, II, p. 669 ss. con nota di CANÈ, Cessione di partecipazioni e clausole di garanzia ed in GT con nota di SALANITRO, Cessione di azioni, cessione di azienda e clausole sulla consistenza economica della società tra interpretazione dell’atto e tassazione di disposizioni plurime; sulla tematica anche FRANSONI, Note in tema di compravendita di partecipazioni e regime fiscale delle somme corrisposte e la violazione delle clausole di garanzia, in Dir. prat. trib., 2012, p. 1057 ss. e STEVANATO, Acquisizioni di società e obblighi del venditore per le passività sopravvenute: la qualifica fiscale dell’indennizzo come «differenza prezzo», in Dialoghi trib., 2011, p. 387 ss. 77 Sul maggior impiego della permuta in un contesto di crisi finanziaria anche COTTINO, Riporto. Permuta sub art. 1552, a cura di Guccione, in Commentario Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2012, p. 78 ss. 78 Prima dello sviluppo dell’economia monetaria ovvero fino al 1300, come ricorda LE GOFF, Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, cit., p. 37 ss., la vita economica e sociale non era monetarizzata nel senso che la parte contrattuale forte era quella che poteva ricompensare l’altrui lavoro o scambio con il godimento di beni essenziali per il prestatore ed il cedente (come l’abitazione, il campo e gli animali da allevamento).

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5.1. Operazioni con funzione permutativa e solutoria nelle ii.dd. A fronte della regola generale fissata dall’art. 86, comma 2 del TUIR secondo cui, ove il corrispettivo della cessione di un bene plusvalente sia «costituito esclusivamente da beni ammortizzabili, anche se costituenti un complesso o ramo aziendale» non vi sarà tassazione di alcuna plusvalenza se i beni ceduti «vengono complessivamente iscritti in bilancio allo stesso valore al quale vi erano iscritti i beni ceduti», il legislatore si occupa espressamente di operazioni permutative e solutorie in poche occasioni. Da un lato, l’art. 177 del TUIR regola lo scambio (alias permuta) di partecipazioni di controllo ex art. 2359 c.c. solo con riguardo ad operazioni di cui siano parti soggetti passivi dell’IRES mantenendo fermo, ai fini della neutralità, la condizione che il costo (valore contabile) delle quote ricevute sia pari a quello delle azioni date in permuta, ferma la tassazione del possibile conguaglio e la possibile applicazione della c.d. pex ex art. 87 del TUIR 79; ove una o entrambe le parti non siano imprenditori la permuta dovrebbe essere irrilevante a condizione che il riferimento al costo sia inteso come al valore fiscale della partecipazione 80. Dall’altro, il comma 5 dell’art. 86 del TUIR prevede, che, in ogni caso, non si originano plusvalenze o minusvalenze nella cessione di beni ai creditori in sede di concordato preventivo. Il legislatore apprezza, in quest’ultima sede normativa, la funzione solutoria e non di realizzo del trasferimento, rinviando la tassazione di eventuali plusvalori al momento in cui i beni verranno nuovamente trasferiti a terzi questa volta, però, con un’operazione tipicamente “da mercato”. Si aggiunga che se tale è la ratio e se, quindi, è rinvenibile una logica sistematica e non di mera agevolazione, l’irrilevanza del trasferimento con funzione solutoria andrebbe valorizzata anche per tutte le occasioni nelle quali, all’interno della legge fallimentare, si prevede la ristrutturazione del credito ed un accordo con i creditori (es. accordi di ristrutturazione e transazione fiscale)

5.2. Permuta e datio in solutum nell’IVA tra disciplina comunitaria e disciplina nazionale Con riguardo all’IVA la disciplina della permuta e della datio in solutum si palesa diversa a seconda che la si individui nella prospettiva comunitaria o nazionale italiana. Al punto dedica attenzione anche NUSSI, L’imputazione del reddito, cit., p. 116 ss. sebbene non specificamente alla datio in solutum quanto alla cessione del credito. 79 Per tutti PACITTO, Fusioni, scissioni e scambi di partecipazioni, in AA.VV., Imposta sul reddito delle società (IRES), diretta da Tesauro, Bologna, 2007, p. 862 ss. 80 Sul punto da ultima CAZZATO, Commento all’art. 177, in AA.VV., Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo III. TUIR e leggi complementari, Padova, 2010, p. 901.

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a) Nel diritto comunitario e nella giurisprudenza della Corte di Giustizia la distinzione non sembra adottata 81. a1) Da un lato, più scambi sono ricostruibili in termini unitari e non di autonomia ove la funzione economica assuma una dimensione unica e non plurima e, quindi, la pluralità non sia artificiale in ragione del collegamento funzionale. Il riconoscimento del collegamento economico fra l’uno e l’altro scambio definisce il nesso sinallagmatico in quanto, perdendosi l’autonomia degli scambi, uno sarà legato all’altro in termini di corrispettività. In questo senso, una volta accertata la funzionalità di uno scambio all’altro in termini di corrispettivo, la circostanza che questo sia pagato in denaro o in natura non potrà giustificare alcuna differenza nella disciplina e causare ostacoli al principio di neutralità ed alla libertà di scelta delle forme di pagamento 82. Se, quindi, si distinguesse il regime IVA in ragione del mezzo di pagamento (denaro o bene in natura) sancendo la pluralità di operazioni imponibili ove questo fosse costituito dal trasferimento di un bene in natura, si avrebbe un indebito condizionamento della scelta dell’operatore 83 in quanto si considererebbe merce ciò che nell’assetto voluto dalle parti non lo è (bene/servizio funzionalmente identico al denaro ai fini del pagamento del corrispettivo). a2) Dall’altro, premesso che gli scambi effettuati senza pagamento di un corrispettivo in denaro sono alternativamente ricondotti alle operazioni a titolo oneroso o gratuito e che le prime rientrano normalmente nell’ambito applicativo dell’imposta mentre le seconde solo a particolari condizioni, tra le quali quella della previa detrazione dell’imposta assolta a monte a prescindere dalla finalità imprenditoriale del trasferimento, nell’esperienza la base imponibile è determinata facendo riferimento non al mercato ma prezzo di acquisto o di costo del bene o al prezzo delle spese sostenute per la prestazione del servizio 84. A tale regola solo recentemente sembra essersi adeguato il legislatore nazionale, come vedremo, nel nuovo testo dell’art. 13 del D.P.R. n. 633/1972. Dal quadro comunitario emerge, quindi, un concetto di corrispettivo indifferente rispetto alla natura di quanto trasferito al fornitore/prestatore a titolo di prezzo essendo sufficiente che le parti, nel proprio accordo contrattuale, abbiano inteso che quanto ricevuto sia idoneo a soddisfare il credito a titolo di controprestazione; di conseguenza, il versante soggettivo dal quale muovere per la valorizzazione della base imponibile sarà quello del cedente/prestatore che nelle pattuizioni risulti creditore. 81

Vedasi anche per approfondimenti di dottrina e giurisprudenza CANNIZZARO, Permuta, operazioni permutative e datio in solutum tra normativa comunitaria e disciplina interna in questo Volume. 82 In tal senso da ultima CGE 19 dicembre 2012 causa C-549/11 Orfey – Bulgaria. 83 Sul punto anche CANNIZZARO, Permuta, operazioni permutative e datio in solutum, cit. 84 Cfr. MASPES, Il valore nell’IVA, cit.

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In questi termini è, allora, derogatoria la facoltà concessa agli Stati dall’art. 80 della Direttiva 2006/112/CE nella parte in cui si consente di valorizzare quanto scambiato alla luce del valore di quanto ceduto/prestato dal creditore ai fini antielusivi e con riguardo agli scambi fra soggetti imprenditori collegati; pertanto, si violerebbe tale regola in materia di corrispettivo soggettivo, ove si facesse riferimento a parametri ascrivibili a quanto ceduto e non, invece, ricevuto. b) In generale, l’art. 13, comma 1 del D.P.R. n. 633/1972 individua la base imponibile IVA nell’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti. Ai sensi del combinato disposto degli artt. 11 e 13, comma 2 del D.P.R. n. 633/1972 85, invece, a fronte della distinzione fra operazioni permutative e datio in solutum (cioè tra cessioni/prestazioni «effettuate in corrispettivo» di altre «per estinguere precedenti obbligazioni»), la scelta che, almeno apparentemente, sembra essere stata seguita dal legislatore italiano è quella di considerare esistenti due operazioni autonome; la base imponibile sarebbe costituita dal corrispettivo dovuto la cui entità, nella lettera della disposizione, andrebbe individuata per due operazioni distinte e nel valore normale di quanto trasferito rispetto alla sfera del cessionario/beneficiario cioè al valore di mercato che questi dovrebbe sostenere se lo acquistasse. Secondo, invece, un approccio orientato alle linee comunitarie, che pare preferibile in ragione del primato comunitario 86, si dovrebbe escludere la distinzione funzionale fra le due tipologie di trasferimento e individuare il valore normale corrispondente, ai sensi del successivo art. 13, comma 2 al valore che quel bene o servizio ha in capo al cedente/prestatore e non in quello del bene o prestazione che si riceve; più chiaramente al valore di acquisto o di costo o a quello delle spese sostenute proprie del soggetto che cede o presta. Si tratterebbe, quindi, nella visione domestica, di una valorizzazione che non considera, in termini di corrispettivo, quanto ricevuto e che si differenzia nettamente dalla tesi della giurisprudenza comunitaria la quale è concorde nel ritenere che il valore vada, invece, identificato in quanto il cedente/prestatore sarebbe disposto a pagare per ricevere il bene/servizio trasferito allo stesso trasferito 87. Si deve, infine, evidenziare una finale condizione affinché il trasferimento con funzione solutoria non sia assoggettato ad IVA e, cioè, che il bene ceduto al momento del suo acquisto o della sua produzione da parte del cedente/debitore non abbia dato luogo alla detrazione dell’imposta ex art. 19 del D.P.R. n. 633/1972: è, infatti, evidente che la detrazione si rivelerebbe indebita ove la cessione attraverso una datio in solutum non fosse tassata. 85 Cfr. BUTTUS, Commento all’art. 11, in AA.VV., Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo IV. IVA e imposte sui trasferimenti (a cura di Marongiu), Padova, 2011, p. 158 ss. 86 Per tale ordine di problemi da ultimo anche per indicazioni D’ANGELO, Integrazione europea e interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2013, passim spec. p. 59 ss. 87 Cfr. MASPES, Il valore nell’IVA, cit. anche per gli orientamenti della giurisprudenza della CGE.

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Il problema pratico che emerge è che il produttore al momento dell’acquisto o della produzione del bene poi trasferito con funzione solutoria non avrà previsto, probabilmente, di essere costretto a pagare un prezzo in natura e, quindi, avrà detratto l’imposta addebitatagli. La soluzione pare rinvenirsi nella rettifica della detrazione di cui al successivo art. 19 bis 2, commi 1 e 2 ai sensi del quale è ammessa una rettifica in diminuzione qualora i beni (ammortizzabili e non) siano utilizzati per effettuare operazioni che danno diritto alla detrazione in misura diversa da quella inizialmente operata 88.

5.3. Pagamento in natura del compenso del lavoratore subordinato ed autonomo e funzione solutoria dell’erogazione in natura Un cenno volutamente breve può essere fatto alla funzione solutoria del trasferimento di beni in natura in luogo di denaro a fronte, riconosciuta come “fisiologica” dal legislatore in un importante settore impositivo come quello della fiscalità del lavoro dipendente 89 e, in particolare, dei c.d. fringe benefits 90. Se, come pare, l’obbligazione di pagare la retribuzione può essere adempiuta dal datore di lavoro anche attraverso l’erogazione in natura, ci si accorge che il “bene in natura” diverso dal denaro è di per sé idoneo ad estinguere, almeno parzialmente, l’obbligazione del debitore e, di conseguenza, a costituire ricchezza imponibile per il creditore lavoratore e costo deducibile per l’erogante 91. L’analisi del disposto normativo in materia (artt. 49-52 del TUIR n. 917/1986) oltre che la nozione del presupposto dell’IRPEF e dell’IRES (artt. 1 e 72 del TUIR) ci dimostra, infatti, che il compenso in cui si può sostanziare il reddito di lavoro dipendente può essere formato sia da “somme” che da “valori” purché la loro corresponsione avvenga per derivazione da e in relazione al rapporto di lavoro. Analoghe considerazioni possono svolgersi per il reddito di lavoro autonomo (artt. 53-54 del TUIR) sebbene il legislatore tributario, nella relativa disciplina, 88 Vedi COPPA, Commento all’art. 19 bis 2, in AA.VV., Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo IV IVA e imposte sui trasferimenti ad vocem. 89 Ciò in conseguenza anche del dato acquisito nella legislazione lavoristica secondo cui ai sensi dell’art. 2909 c.c. «il prestatore di lavoro può essere retribuito, in tutto o in parte, con una partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigioni o con prestazioni in natura» sebbene la retribuzione, per prassi, non sia esclusivamente pagata in natura. 90 Cfr. TOGNONI, I Fringe benefits, in AA.VV., I redditi di lavoro dipendente (a cura di Ficari), Torino, 2003, p. 55 ss.; CROVATO, Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 2001, p. 336 ss. 91 Per approfondimenti sulla rilevanza di un valore economico ai fini della tassazione tra gli altri CROVATO, Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 2001, p. 336 ss., URICCHIO, Flessibilità del lavoro e imposizione tributaria, Bari, 2004, p. 82 ss. nonché anche FICARI, La nozione di reddito di lavoro dipendente. Profili generali, in AA.VV., I redditi di lavoro dipendente, cit., p. 4 ss.

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faccia riferimento generico ai compensi e ai corrispettivi. In entrambi i casi il problema della valorizzazione – ferma l’idoneità solutoria e la rilevanza reddituale di quanto erogato – è risolto attraverso il rinvio al valore di mercato con le stesse problematiche di cui si è parlato in precedenza 92.

5.4. Cessione di beni culturali al fine del pagamento di tributi Attenzione merita, infine, il caso in cui la funzione solutoria del trasferimento è riconosciuta con riguardo al pagamento di tributi. a) L’art. 28 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 prevede che l’IRPEF, l’IRES e le altre imposte erariali, compresi interessi, sanzioni 93 possano essere pagati attraverso la cessione «allo Stato, in pagamento totale o parziale» di beni culturali; il comma 2 sancisce che la proposta di cessione, diversamente da quanto accade, come si vedrà, per l’imposta sulle successioni e donazioni, contenga solo «la descrizione dettagliata dei beni offerti» ma non anche del loro valore il quale, in base al successivo comma 4, è stabilito «con decreto del Ministro dei beni culturali e ambientali di concerto con il Ministero delle Finanze» sentita un’apposita commissione di nomina interministeriale 94. Ove il valore del bene sia superiore al debito tributario, il contribuente potrà utilizzare l’eccedenza nei cinque anni successivi alla cessione, scaduti i quali potrà, ai sensi dell’art. 28 bis, comma 12, «chiedere il rimborso della differenza, senza corresponsione di interessi». Questa disciplina presuppone che, ove il bene ceduto sia di proprietà di una impresa e iscritto in bilancio al costo di acquisto quale potenzialmente plusvalente, a seguito della cessione il suo valore dovrebbe essere eliminato al pari di quello del debito tributario soddisfatto così come l’eventuale eccedenza (differenza positiva tra il valore del bene e il debito tributario) si trasformerebbe in un credito verso l’Erario fruibile in compensazione nel quinquennio e poi, per la rimanenza, rimborsabile; l’eventuale altra ipotesi, cioè quella della non corrispondenza tra misura del credito e valore della plusvalenza, pare soffrire di una certa incoerenza ed illogicità. 92

Cfr. TOGNONI, I Fringe benefits, cit., p. 67 ss. Nel senso che sia estensibili anche a tributi diversi da quelli indicati Ris. Agenzia Entrate 5 agosto 2008 n. 347/E ma non per obbligazioni tributarie future. 94 Sulla natura di datio in solutum cui MOSCATELLI, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, pp. 362 ss. spec. 367 ss.; GUIDARA, Gli accordi nella fase della riscossione, in AA.VV., Autorità e consenso nel diritto tributario, Milano, 2007, p. 371; SCICHILONE, Note in tema di cessione di beni culturali in pagamento di imposte, in Riv. dir. trib., 1993, I, p. 367 ss.; in precedenza GRANELLI, Il pagamento delle imposte dirette e indirette mediante cessione dei beni culturali, in AA.VV., Il regime tributario e amministrativo dei beni culturali, RomaMilano, 1986, p. 113 ss. 93

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b) Ai sensi dell’art. 39 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 95 gli eredi e legatari possono «proporre la cessione allo Stato, in pagamento totale o parziale dell’imposta sulla successione, delle relative imposte ipotecaria e catastale, degli interessi e delle sanzioni amministrative, di beni culturali vincolati o non vincolati» così come definiti dal precedente art. 1 «e di opere di autori viventi o eseguite da non più di cinquanta anni». Al fine di tale proposta è il contribuente a indicare nella stessa sia la «descrizione dettagliata dei beni offerti» sia i «relativi valori» sebbene il successivo comma 4 disponga che «il valore della cessione» è stabilito (anche) con decreto ministeriale, non essendo previsto che le parti pubbliche, «ai fini dell’estinzione del debito tributario», possano provvedere loro stesse alla valorizzazione del bene. Inoltre, in base al comma 8 dell’art. 39, ove il valore del bene così come determinato dal contribuente sia «inferiore all’importo dell’imposta e degli accessori», si dovrà «pagare una differenza»; ove, invece, il valore fosse superiore il contribuente non avrà «diritto al rimborso». Le disposizioni citate, nel riconoscere funzione solutoria al trasferimento dei beni culturali, non risolvono espressamente il problema se la dismissione di tale bene, ove disposta da un imprenditore che lo abbia acquistato nell’esercizio dell’impresa a titolo di investimento, origini una componente positiva o negativa di reddito a titolo di plus- o minus-valenza. L’ipotesi che si abbia una manifestazione reddituale potrebbe essere esclusa per le stesse ragioni che, in precedenza, abbiamo esposto con riguardo al più generale fenomeno della datio in solutum.

6. Corrispettività, onerosità e gratuità nelle dinamiche interne al gruppo di società Il tema oggetto della ricerca può essere declinato in diverse angolature se letto nel prisma del gruppo la cui natura di fenomeno innanzitutto economica deve essere apprezzata per cogliere, anche ai nostri fini, la fisiologia di taluni comportamenti e scelte in tema, ad es., di gestione, valutazione, trasferimento etc. che una visione circoscritta alla dimensione imprenditoriale fra parti indipendenti non consente. La distinzione concettuale tra impresa nel gruppo, impresa di gruppo e impresa del gruppo 96 segna in modo netto le prospettive di originalità e necessaria autonomia di disciplina: nella prima lo scambio avviene all’interno della struttura 95

Cfr. Circ. Min. cultura e ambiente 30 novembre 1982, n. 5131; Ris. Agenzia Entrate 24 settembre 2002, n. 308/E. 96 Su cui sia consentito rinviare anche per indicazioni a FICARI, Profili tributari, in FICARIGIAMPAOLINO, Profili fallimentari e tributari, in Trattato delle società a responsabilità limitata, diretto da Ibba-Marasà, Padova, 2012, VIII, p. 140 ss.

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con produzione di vantaggi “da gruppo” 97 rilevanti anche al fine di una esatta comprensione delle dinamiche infragruppo; la seconda e la terza assumono, invece, un rilievo meno importante in questa sede in quanto attinenti al diverso tema della soggettivizzazione del gruppo in quanto tale 98 e della sussistenza di una realtà solo economica apprezzabile negli effetti della condotta 99. Con riguardo alla prima delle tre diverse prospettive, il gruppo di imprese “sostanzia” anche ai fini fiscali una vera e propria tecnica di disciplina dello scambio tale da consentire, nella ricerca dell’efficienza ad opera delle parti, vantaggi sia nell’allocazione di costi, ricavi, etc. inerenti all’impresa (sia delle singole imprese che) del gruppo attraverso operazioni di scambio sia in atti riorganizzativi endogeni al gruppo guidati da scopi perseguiti attraverso i poteri di eterodirezione e coordinamento delle attività dall’ente controllante esercitati con intenti economicamente virtuosi 100. In tale visuale, le problematiche fiscali dei finanziamenti infragruppo sono più facilmente dipanabili 101; la natura sia strettamente finanziaria che (anche) di incremento della consistenza del capitale (quando si tratta dei finanziamenti simili ai c.d. apporti atipici) ben si coniuga, infatti, con la finalità della circolazione della ricchezza all’interno del gruppo con intenzioni sia di maggior efficienza che di riduzione del rischio di impresa che giuridicamente si conserva in capo alla singola società operante 102. La prospettiva economica delle diverse forme di finanziamento consente al giurista di apprezzare come interesse rilevante sia quello al salvataggio o rafforzamento della singola unit del gruppo che quello dell’impresa di gruppo quale realtà economicamente metasoggettiva seppur giuridicamente imputata ai diver97

Espressione anch’essa efficace tratta da MARCHISIO, Usi alternativi del gruppo di società, Napoli, 2009, p. 13 ss. 98 Amplius in FICARI, Profili tributari, cit., pp. 140 ss. e 164 ss.; n generale, tra gli altri, DAMI, Gruppi di imprese (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, 2007, ad vocem; ID., I rapporti di gruppo nel diritto tributario, Milano, 2011, passim. 99 Lascia, peraltro, sorpresi l’affermazione assai tranchant con la quale la Cassazione (Cass. 27 febbraio 2013, n. 4901, in GT-Riv. giur. trib., 2013, p. 877 ss.) sostiene che, al fine di apprezzare l’inerenza delle scelte della singola controllata, poiché «l’inserimento in un gruppo non annulla, ai fini fiscali, la soggettività del singolo contribuente», l’inerenza della scelta andrebbe valutata sulla capacità della scelta di produrre utili per la partecipata stessa. 100 Cfr. ancora MARCHISIO, Usi alternativi del gruppo di società, cit., passim spec. pp. 21 ss. e 105 ss. 101 Si segnala, sul tema, CTR Lombardia, sez. II, 12 settembre 2012, n. 12 la quale apprezza il vantaggio economico di un’operazione di finanziamento infragruppo infruttifero dalla controllante alla controllata alla luce della riduzione degli oneri finanziari per entrambe le società del gruppo. 102 Lo rileva anche MARCHISIO, Usi alternativi del gruppo di società, cit., p. 128 ss. ove indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali.

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si centri soggettivi costituiti dalle singole società agenti, in una logica comportamentale attenta alla minimizzazione del rischio di impresa ricadente giuridicamente sulla singola unità. Ecco, quindi, che lo stesso sbilanciamento nel contenuto e nelle clausole dei contratti con cui si perfezionano gli scambi e gli “apporti” di beni, servizi e denaro e, in genere, nelle modalità con le quali le società di un gruppo si relazionano fra loro può essere compreso attraverso l’orientamento di tali comportamenti all’impresa di gruppo da parte del management dell’ente controllante 103. Lo squilibrio nel valore e nelle modalità contrattuali si rivelerebbe solo apparente – in assenza di disposizioni legislative di normalizzazione come capita nel transfer pricing internazionale 104 – ove si condividesse il dato secondo cui tale squilibrio viene cercato nel momento in cui si preferisce l’articolazione dell’impresa nella forma del gruppo 105 rispetto agli assetti tra parti indipendenti. Salvo diverse tipizzazioni ope legis, il bilanciamento dei valori di scambio all’interno del gruppo avviene, dal punto di vista economico, in un modo tipicamente diverso da quanto accade all’esterno di esso. La ragioni economiche sia del valore che della scelta di una determinata operazione contrattuale, pertanto, ove riferite ad una operazione infragruppo trovano coincidenza con quelle che fondano la costituzione stessa dell’articolazione in gruppo e del gruppo dal punto di vista economico, attraverso la creazione dei legami di controllo e collegamento. L’appartenenza di una società ad una realtà di gruppo è circostanza idonea a plasmare la causa dei singoli contratti di una connotazione funzionale specifica, quasi autoreferenziale ed autogiustificativa, in quanto legata ai risultati che la stessa può consentire nella dimensione soggettiva del gruppo stesso e, in ogni ca103

Ciò è, tra l’altro, coerente a quanto accade nella disciplina delle sanzioni amministrative tributarie in materia di «fenomeni» di gruppo: in particolare, si ricorda che nella c.d. liquidazione IVA di gruppo ex art. 73 del D.P.R. n. 633/1972 le sanzioni per omesso versamento sono irrogate alla controllante così come nel consolidato tributario ex art. 127 TUIR. Cfr. DAMI, I rapporti di gruppo nel diritto tributario, cit., p. 272 ss. il quale correttamente apprezza la titolarità del potere di direzione in funzione dell’imputabilità dell’illecito; se si vuole vedasi anche quanto da noi osservato in FICARI, Liquidazione congiunta dell’IVA di gruppo ex art. 73 D.P.R. 633 e rilevanza del gruppo di società, in Riv. dir. trib., 1992, I, p. 154 ss. e Gruppo di imprese consolidato fiscale all’indomani della riforma tributaria, in Rass. trib., 2005, p. 1587 ss. 104 Sulla cui natura di norma antielusiva (non condivisibilmente) da ultima Cass. 23 ottobre 2013, n. 24005 spec. § 2.2.2; nel senso che l’art. 9 del TUIR sia applicabile anche alle operazioni infragruppo domestiche soprattutto ove il ricavo sia ottenuto da una società cooperativa e che l’onere della prova della normalità del prezzo gravi sul contribuente cfr. Cass. 16 aprile 2014, n. 8849. 105 Sulla rideterminazione dei prezzi di trasferimento infragruppo nazionale solo a condizione che a fronte del prezzo dichiarato inferiore a quello di costruzione e della successiva locazione del bene ceduto allo stesso cedente si provi l’occultamento di ricavi cfr. CTR Emilia Romagna 10 aprile 2006, n. 23, in Boll. trib., 2007, p. 1238 ss. con nota di FICARI, Transazioni infragruppo, finalità imprenditoriali e valore di scambio.

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so, suscettibile di sindacato solo sotto il profilo della stretta inerenza e dell’esistenza con onere in capo all’Agenzia 106. Tale carattere funzionale della causa contrattuale ove espresso con ragionevoli modalità di gestione e di scambio, potrebbe giustificare la diversità rispetto alle normali condizioni e clausole contrattuali, remunerazioni in forme non dirette cioè corrispettiva ma indirette cioè di efficienza delle sinergie e dei vantaggi di gruppo 107. Un ultimo aspetto deve essere rimarcato e, cioè, in che termini l’attività di direzione e di coordinamento propria dell’impresa holding possa di per sé giustificare assetti onerosi ed impegni di spesa per quanto essa non produca ricavi; è infatti, indubbio che il ruolo di controllo ha dei costi la cui deducibilità non pare dubbia a condizione di apprezzare un concetto di onerosità nel gruppo che possa anche prescindere dal mercato per quanto attiene non solo, come visto per gli scambi interni, alla valorizzazione ma anche all’inerenza rispetto ad un ruolo non direttamente produttivo.

7. (segue) Spunti e conferme dall’elaborazione economico – aziendale in materia di gruppi Nella prospettiva aziendale la ricerca scientifica ha posto all’attenzione profili non sempre considerati nell’analisi giuridica tributaria. A) Muovendo dall’importante premessa secondo cui il modello di analisi non può essere quello elaborato con riguardo ad organizzazioni produttive fra loro indipendenti, si è evidenziato come il gruppo esprima unitarietà in ragione della connotazione specifica che assumono tre caratteri fondamentali della nozione di azienda nel gruppo: la coordinazione sistemica, l’economicità e l’autonomia. a) La coordinazione sistemica (o sistematicità) dimostra la natura finalistica del gruppo al perseguimento uno scopo economico metaindividuale riferibile alla produzione di un valore economico aggregato ed esprime quell’opera di coor106

Sulla possibilità di una remunerazione a forfait con descrizione generica in fattura a seguito di un cost sharing agreement cfr. Cass. 16 aprile 2014, n. 8847. 107 In questo senso Cass. 11 marzo 1996 n. 2001 (in Foro it., 1996, I, c. 1222 citata da MARCHISIO, op. cit., p. 146, nota 289) la quale esclude si tratti di donazione l’attribuzione patrimoniale formalmente priva di un corrispettivo ma attuata in una «logica di gruppo … espressione di una politica imprenditoriale volta al perseguimento di obiettivi che trascendono quelli delle singole società partecipanti». Non trascurabile peraltro, l’apprezzamento in molte espressioni della legislazione speciale e provvedimenti delle diverse Autorità di vigilanza e controllo di un interesse alla stessa stabilità e conservazione del gruppo attraverso interventi volti a rendere adeguata la dotazione patrimoniale ed ottimale l’organizzazione e gestione sia delle singole società che delle relazioni infragruppo: vedi ancora MARCHISIO, Usi alternativi del gruppo di società, cit., p. 266 ss.

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dinamento funzionale dei diversi sottosistemi corrispondenti ai singoli soggetti appartenenti al gruppo. L’interesse di gruppo, seppur filtrato da quello della maggioranza e tutelato dalle disposizioni contro l’abuso della stessa, è il presupposto del fine specifico delle singole unità 108. b) L’economicità dell’impresa, in questo contesto, assume una dimensione sovrasoggettiva ed il giudizio sulle scelte si differenzia tra l’economicità aziendale della singola unità e quella in funzione del gruppo; la sua concreta sussistenza e l’effettività dell’apporto ad essa da parte della singola unità è accertabile ipotizzando le conseguenze se, nella dinamica imprenditoriale infragruppo di un particolare anno, fosse stata assente la singola unità. L’assenza dell’economicità, si noti, pregiudicherebbe la natura compiuta del sistema gestionale di gruppo a causa della mancanza di una durevole vitalità economica diretta e riflessa della singola società: di qui la possibilità di rinvenire nella conservazione del sistema di gruppo la ragione stessa di un’operazione societaria straordinaria o di un trasferimento di beni e servizi a determinate condizioni c) L’autonomia economica, pur nei limiti giuridici propri della soggettività giuridica singolare e delle regole poste a tutela delle minoranze, è la conseguenza della coordinazione e dell’economicità come sopra intese; la grandezza principale cui mirare è, allora, il profitto di gruppo al netto degli utili prodotti dagli scambi infragruppo e rispetto al quale devono essere lette le scelte che interessano le singole imprese delle società del gruppo e gli scambi tra loro. In questo senso muove a favore di una rilevanza autonoma dell’interesse di gruppo (e dell’impresa che né è strumento) la circostanza che ai sensi dell’art. 2497, comma 1, c.c. «Non vi è responsabilità» del soggetto che esercita attività di direzione e coordinamento «quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette». In ragione di tali caratteristiche (nelle loro plurime e particolari espressioni) l’unicità del soggetto economico e dell’azienda si affianca alla pluralità dei soggetti giuridici seppur tra loro legati da nessi di controllo e/o collegamento. Il sistema aziendale nel gruppo origina una unità produttiva di gruppo di cui sono parte i diversi soggetti giuridici la cui iniziativa può essere per il mercato, cioè per il diretto perseguimento del profitto singolare e/o per il gruppo cioè in una logica funzionale alle diverse espressioni dell’economicità della gestione del gruppo da parte dell’ente controllante. 108

Molti spunti sono stati tratti da E. DI CARLO, I gruppi aziendali tra economia e diritto, Torino, 2009, spec. pp. 16 ss., 25 e 272 ss. cui si rinvia nonché da MARANO, La struttura di gruppo nell’economia dell’impresa, Padova, 1998, spec. pp. 105 ss. e 203 ss.; da ultimo, senza pretesa di esaustività, si vedano anche SANNINO-TARTAGLIA POLCINI, Business combinations e bilancio consolidato nell’impostazione Ias/Ifrs. La rappresentazione degli interessi di minoranza (non – controlling interests), in AA.VV., I bilanci straordinari, a cura di Montagnani, Milano, 2013, p. 119 ss.

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B) L’approccio appena esposto consente di comprendere il senso di talune scelte gestionali e di pricing 109: l’offerta di beni e/o servizi a basso costo ma funzionali, per il tramite del low cost, a veicolare clienti e, quindi, ricavi, su altre società del gruppo che offrono beni e/o prestazioni accessorie e/o contigue a quelli oggetto della offerta low cost 110 oppure la presenza di società la cui impresa è funzionale all’ottenimento di risorse liquide da impiegarsi da parte di altri soggetti al fine della competitività del gruppo in un nesso funzionale solo finanziario 111. L’esperienza dimostra, peraltro, che i nessi di strumentalità dell’attività di una società rispetto a quella di un’altra nel perseguimento di un fine di gruppo difficilmente trovano fondamento nello statuto (si pensi alla previsione della funzione di tesoreria) e si rinvengono, invece, nelle modalità concrete di comportamento, disciplinate da contratti scritti 112 anche se non richiesti ad substantiam e negli esiti raggiunti, tutti coerenti con l’orientamento strategico che la holding imprime a livello aziendale con impatto sulle modalità e forme di investimento, sulla politica dei prezzi e dei dividendi, sulle operazioni di ristrutturazione e sulla dislocazione territoriale 113. Ne discende che il gruppo, in quanto soggetto economico unitario pur se articolato in unità giuridicamente autonome dal punto di vista soggettivo, rappresenta in tale dimensione economica la parte sia venditrice che acquirente 114; di conseguenza, la formazione del prezzo non potrà che essere coerente a tale morfologia, fermo restando che l’esercizio della direzione e del coordinamento non potrà mai, in sede di pricing, ledere i diritti delle minoranze. La possibilità, dunque, che il prezzo infragruppo sia diverso da quello che si presume intercorra tra parti indipendenti è fisiologica alla luce di uno dei motivi di costituzione del gruppo e, cioè quello dello sfruttamento delle economie di 109 Si ricorda che i motivi di costituzione non sono solo quelli di economie di scala in punto di costi ma (lo ricorda, tra gli altri e con esempi, E. DI CARLO, I gruppi aziendali tra economia e diritto, cit., p. 81 ss.) anche quello della limitazione della responsabilità nello svolgimento di un’impresa con iniziative articolate, di ottimizzazione dei processi decisionali attraverso una articolazione delle unità produttive, il miglior controllo dei risultati in presenza di più imprese con propri rami di azienda, la localizzazione strategica. 110 L’esempio è quello di Ryanair tratto da E. DI CARLO, I gruppi aziendali tra economia e diritto, cit., p. 12 ss. 111 Nell’efficace gergo aziendale unità cash generator o cash cow e cash absorber. 112 Per l’inerenza delle c.d. management fees o spese di regia in presenza di un contratto scritto CTR Milano 21 novembre 2011, n. 115. 113 Per approfondimenti sempre E. DI CARLO, I gruppi aziendali tra economia e diritto, cit., p. 192 ss. 114 L’unitarietà economica potrebbe peraltro, indurre ad apprezzare una fisionomia tributaria metasoggettiva ovvero una capacità contributiva diversa da quella delle singole società del gruppo (in senso diverso sia permesso rinviare a quanto già osservato, da ultimo, in FICARI, Holding, impresa di gruppo e consolidato: profili procedimentali, in Rass. trib., 2012, p. 1413 ss.).

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scala e di esperienza; la crescita della dimensione della capacità produttiva nella maggior parte dei casi consente di diminuire i costi unitari dell’output sul mercato e, quindi, di ottenere un maggiore mark up tra il costo di produzione e il prezzo di vendita all’esterno. Rilevante, quindi, ricordare come la letteratura aziendalistica abbia ormai consolidato la teorizzazione di un “quasi-mercato” di gruppo 115 nel quale la competitività è attenuata o inesistente e gli scambi funzionali all’ottimizzazione del profitto di gruppo anche attraverso la minimizzazione dei profitti da scambi infragruppo; in particolare è un dato ormai acquisito che se le forze costituite dalla domanda ed offerta di un prodotto ne determinano il prezzo (appunto di mercato), negli scambi infragruppo è naturale che la libertà di contrattazione sia limitata e, comunque, orientata dalla politica gestionale dell’ente controllante nella sua triplice veste di soggetto potenzialmente acquirente e/o venditore e/o mera holding. Risponde, quindi, ad una massima di esperienza la circostanza che la politica sia di pricing che di timing delle operazioni sia dettata dalle scelte della maggioranza di controllo le quali, ovviamente, non dovranno pregiudicare la minoranza seppur in un contesto in cui i c.d. vantaggi compensativi ben possono temperare un danno, in realtà, solo apparente o, comunque, non ingiusto 116. Coerente a tali assunti è la giurisprudenza tributaria comunitaria la quale, in materia IVA, ricorda che solo a seguito di una specifica autorizzazione e in presenza di effettivi rischi di frode ed evasione fiscale è consentito agli Stati membri derogare alla regola secondo la quale, in presenza di operazioni a titolo oneroso – intendendosi per tali anche quelle fra soggetti collegati ad un valore inferiore a quello di mercato – la base imponibile deve essere determinata facendo riferimento al corrispettivo effettivamente ricevuto dal soggetto venditore 117. Si pensi al minor ricarico nell’operazione infragruppo nazionale ove l’acquirente abbia sede nel Mezzogiorno e il minor costo di acquisto costituisca uno strumento per destinare maggiori risorse all’occupazione in una zona svantaggiata 118; qui nuovamente emergerebbe l’esigenza di considerare fisiologiche delle 115

E. DI CARLO, I gruppi aziendali tra economia e diritto, cit., p. 284 ss. Nel senso che la regolamentazione dello scambio infragruppo non possa «quasi per definizione» essere improntata agli stessi criteri degli scambi sul mercato concorrenziale E. DI CARLO, I gruppi aziendali tra economia e diritto, cit., p. 290 ss. ove indicazioni di letteratura domestica ed anglosassone conforme. Ritiene, invece, che pur essendovi una organizzazione trans-soggettiva e, talvolta, transnazionale per le operazioni di scambio di beni materiali sia ipotizzabile una normalizzazione al valore dell’operazione tra parti indipendenti VIGNOLI, La determinazione differenziale della ricchezza ai fini tributari, Roma, 2012, p. 185 la quale, per le spese di regia, ben evidenzia il ruolo decisivo della documentazione che dimostri a priori l’adozione del criterio e le ragioni sottese. 117 Cfr. CGE 9 giugno 2011 causa C-285/10 Campsa Estaciones de Servicio SA ma sul punto anche MASPES, Il valore normale, cit. 118 In senso opposto la Cass. 24 luglio 2013, n. 17955 (in Riv. dir. trib., 2013, II, p. 448 ss. con nota di CARPENTIERI, Valore normale e transfer pricing «interno» ovvero alla ricerca dell’arma ac116

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“asimmetrie” fiscali nel regime impositivo conseguenti alle scelte gestionali di localizzazione e di adozione tipologica societaria. Alcuni esempi. Nel ripianamento delle perdite di una società controllata, l’art. 2447 c.c., impone, se la perdita supera un terzo del capitale e lo riduce sotto il minimo, il suo abbattimento e ricostituzione almeno per una “cifra non inferiore al detto minimo”: orbene, laddove la ricostituzione sia tale da ricapitalizzare in misura notevolmente superiore all’originaria consistenza sarebbe contrastante con l’esistenza di un interesse di gruppo affermare che la differenza tra il minimo e il valore ricostituito rappresenti una liberalità e sia priva di qualsiasi utilità per la società partecipata, soprattutto ove la partecipazione nella società neoricapitalizzata sia ceduta ad altra società del gruppo al valore pari al neocapitale 119 e la norma civilistica lasci libero il socio di apportare capitale anche in misura superiore al minimo. Nella scelta della controllante di coprire le perdite non con un nuovo apporto ma con la rinunzia ad un credito gli effetti della remissione dipendono, sul versante della deducibilità di quanto eccede la copertura del capitale quale perdita su crediti ex art. 101 del TUIR, oltre che dalla sussistenza di una perdita in senso tecnico-giuridico e non meramente economico 120, anche dalla consapevolezza che un simile intervento sia inerente ad una “logica” di gruppo metaindividuale. Non costituirebbe finanziamento “anomalo” tale da generare una sopravvenienza attiva tassabile in capo alla controllata la rinuncia alla restituzione del finanziamento a favore della controllante non costituendo una impropria distribuzione di dividendi dalla partecipata alla partecipante 121. L’anomalia del comportamento finanziario dovrebbe essere accertata, infatti, alla luce dell’art. 2467, comma 2, c.c. applicabile alle operazioni infragruppo ai sensi del rinvio di cui all’art. 2497 quinquies c.c.: si considerano, infatti, finanziacertativa perduta e di BORIA, Il transfer pricing interno come possibile operazione elusiva e l’abuso del diritto) risolve la questione ancora una volta in termini di abuso del diritto, riconoscendo all’art. 9 del TUIR norma di valutazione oggettiva delle operazioni infragruppo nazionali ed escludendo che tra società di un gruppo si possano concedere sconti diversi da quelli propri di operazioni fra parti indipendenti; conforme, se non erriamo, VIGNOLI, La determinazione differenziale della ricchezza ai fini tributari, Roma, 2012, p. 124, la quale riconduce la cessione di beni ad una consociata localizzata in un territorio nazionale agevolato fiscalmente ad una ipotesi di elusione ove non sorretta da valide ragioni economiche. 119 Cfr., anche per la teorizzazione, nel caso, di una ipotesi di abuso del diritto, Cass. 27 febbraio 2013, n. 4901. 120 Vedi Cass. 26 settembre 2012, n. 16331. 121 Si rinvia a FICARI, Mancato incasso del dividendo, delibera di distribuzione e presunzione di finanziamento fruttifero a favore di una «piccola» società di capitali, in Rass. trib., 2010, p. 201 ss. Nel senso che la rinuncia del socio al redito all’interno di un gruppo abbia natura finanziaria coerente con l’interesse di gruppo e non costituisca una distribuzione atipica di dividendi né sopravvenienza attiva CTR Milano 12 settembre 2012, n. 129.

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menti soci quei finanziamenti «in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento». La stessa tempistica nel pagamento degli interessi passivi nei finanziamenti infragruppo trova nell’esistenza del gruppo stesso una valida ragione economica nel senso che la dilazione nel pagamento anche nel caso di un termine fissato contrattualmente di per sé non determinerebbe alcuna anomalia, ove se ne possa dare ragione documentata in nulla potendosi configurare intenti elusivi anche nella prospettiva della disciplina della thin capitalization di cui all’abrogato art. 98 del TUIR 122. 8. (segue) Rilevanza delle caratteristiche peculiari dell’impresa nel gruppo a fini “para-normativi” Se da quanto precede emerge l’autonomia concettuale della dinamica infragruppo, ci può chiedere se le peculiari modalità di relazione che la caratterizzano, soprattutto per quanto riguarda le forme e i valori di scambio, siano riconducibili a quegli usi e consuetudini che le disposizioni sulla legge in generale, all’art. 1, riconducono al novero delle “fonti del diritto”. Consuetudine e massime di esperienza tendono a confondersi nella dimensione della regola non scritta di comportamenti il più frequenti possibili in un dato ambito socio/economico e temporale; ciò che caratterizza marcatamente la consuetudine è la convinzione di giuridicità che sostiene la regola fattuale di cui si sostanzia la consuetudine 123; si tratta di capire se tale convinzione si esaurisca nella convinzione della mera doverosità o, anche, come crediamo, della rilevanza giuridica del comportamento intesa quale conformità dello stesso ad una regola non scritta ma condivisa. Si ha la sensazione (forse superficiale ma immediata) che i comportamenti economico/gestionali e la determinazione dei valori e dei prezzi negli scambi infragruppo siano assoggettati a “regole” rispondenti a pratiche costantemente adottate, da sempre, dagli operatori economici giuridicamente “appartenenti” ad un gruppo. L’uniformità nei motivi di costituzione di un gruppo e le conseguenti ricadute sulle scelte gestionali e sul pricing esprimono una realtà costante e, cioè, quella che gli imprenditori creano gruppi per realizzare e beneficiare di economie di 122 Nel senso elusivo di una dilazione superiore ai 60 gg. vedasi, invece, Cass. 26 novembre 2013, n. 26489. 123 SACCO, Le fonti informali. I. Il diritto non scritto, cit., p. 67.

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scala: se nel nostro ordinamento esistesse il contratto di gruppo si potrebbe affermare che ciò costituirebbe il motivo essenziale. In questo senso, allora, è ipotizzabile che, come fatto (notorio) 124, le scelte e i prezzi definiti consensualmente all’interno del gruppo siano diversi da quelli che si formano definiscono fra parti indipendenti. Ciò non rende, però, essere recessive le regole di fonte sia costituzionale/comunitaria che ordinaria 125; si intende, solo, evidenziare come esistano parametri oggettivi idonei ad orientare il giudice laddove scelte e valori non siano “normalizzati” e “normalizzabili” e, tuttavia, siano sindacabili da interpreti (Amministrazione finanziaria e giudici) diversi dall’operatore attraverso l’uso di presunzioni semplici relative, considerando come, ove non si tratti di beni o servizi riferibili ad un mercato con quotazioni note, il sindacato sia lecito solo utilizzando elementi presuntivi, purché precisi, gravi e concordanti 126. Se così è, gli esiti delle diverse prassi infragruppo, nella loro sindacabilità nell’an e nel quantum, non troverebbero altro fondamento se non quello delle presunzioni semplici relative: si tratterebbe, in ipotesi, di una consuetudine praeter legem in quanto operante in settori non coperti da una previa regolamentazione legislativa e, quindi, superabili solo da contraria disposizione o, in ipotesi, da prevalenti e più rigorose presunzioni semplici.

9. Apparenti divagazioni: la finanza islamica Una menzione, che muove dalla considerazione dello sviluppo di nuovi istituti e problematiche in ragione della globalizzazione dei mercati finanziari, meritano le caratteristiche della c.d. finanza islamica. Seppur in termini essenziali deve essere, infatti, ricordato che la crescita del finanziamento da e a favore di soggetti islamici in Paesi sia di civil che di common law in modo conforme alle prescrizioni della Sharia’ah pone questioni anche tributarie in ragione di alcune caratteristiche del fenomeno che qui andiamo brevemente ad esporre 127, considerando che la loro sussistenza al fine della conformità alla prescrizione è accertata preventivamente all’interno dell’ente investitore o finanziatore: a) il divieto di applicazione di un tasso di interesse il quale, se violato, renderebbe l’operazione non conforme alla prescrizione giuridico/religiosa; 124 Così, nella teoria generale, SACCO, Le fonti informali. I. Il diritto non scritto, in AA.VV., Le fonti del diritto italiano. 2. Le fonti non scritte e l’interpretazione, Torino, 1999, p. 11 ss. 125 Lo rammenta SACCO, Le fonti informali. I. Il diritto non scritto, cit., p. 12. 126 Così anche in materia di transfer pricing internazionale Cass. 8 maggio 2013, n. 10739. 127 Cfr. FLORA, La finanza islamica: principi generali ed esperienze internazionali, in Fiscalità internazionale, 2009, p. 105 ss. nonché ALTIERI, Banche islamiche in contesto non islamico e regime fiscale, in Rass. trib., 2007, p. 1751 ss. anche per le diffuse indicazioni bibliografiche.

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b) il divieto seppur relativo di stipulare contratti aleatori (di natura finanziaria) in cui il rischio sia eccessivo rispetto ad un interesse socialmente utile e, di conseguenza, l’assunzione da parte delle operazioni finanziarie di un carattere quasi istantaneo al fine di ridurre il rischio o il vantaggio del mercato per eliminare il rischio; c) il divieto di investire il capitale in alcune attività vietate o di perseguire attività speculative diverse da quelle in cui il rischio (sia di guadagno che di perdita) sia proprio della natura imprenditoriale: ciò significa la distinzione fra operazioni in regime di impresa e di non impresa; d) l’obbligo che l’investimento abbia un ritorno di natura non solo economica ma anche etico-sociale. Ciò ricordato, la necessaria assenza della remunerazione del capitale investito attraverso un interesse attivo comporta il ricorso a strumenti contrattuali diversi nei quali si combinano, a seconda delle situazioni, diversi contratti. a) In alcuni casi due contratti di vendita e due prezzi/valori: il soggetto finanziatore acquista da un terzo il bene ad un certo prezzo e successivamente vende al cliente finale lo stesso ad un prezzo maggiorato che viene corrisposto normalmente a rate; se l’interesse è quello ad ottenere liquidità, il cliente rivende al finanziatore il bene stesso e con la liquidità ottenuta paga le rate o, addirittura, seguendo lo schema del leasing sia operativo che finanziario, l’ente finanziatore si procura il bene e lo concede in locazione. b) In altri, la costruzione tra l’investitore e il cliente di una sorta di associazione in partecipazione in cui il soggetto che apporta il capitale, a fronte della remunerazione non dell’investimento ma della gestione dell’iniziativa, sostiene esclusivamente il rischio. c) Infine, la possibile emissione da parte dell’investitore, attraverso una società appositamente costituita proprietaria del bene produttivo, di strumenti finanziari rappresentativi della proprietà indivisa del bene la cui sottoscrizione consente all’investitore di avere una percentuale degli utili dallo sfruttamento del bene e non un interesse attivo. Il finanziatore opera quale intermediario reale tra il fornitore/produttore e il cliente/investitore facendo ricorso a strumenti giuridicamente diversi da quelli propri dell’investimento finanziario e della produzione di interessi attivi ma economicamente simili. Rispetto, allora, al quadro normativo tributario positivo, premesso che il legislatore tributario italiano non ha, sul punto, preso posizione in deroga alle regole normali 128, si dovranno ritenere applicabili le disposizioni sulla tassazione degli 128

Nel sistema anglosassone e in quello francese, invece, si è da subito scelto di adottare un regime tributario sostanziale che, superando la forma, applicasse ai c.d. alternative finance arrangements le regole degli interessi attivi a seguito di contratti di mutuo e similari evitando l’appli-

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interessi attivi, ai fini delle imposte sul reddito, sul trasferimenti dei beni mobili ed immobili ai fini delle imposte sul reddito, sul valore aggiunto, di registro ed ipocatastali a prescindere dall’unitarietà economica dei duplici trasferimenti 129. Incidentalmente deve essere, però, osservato che la limitazione operata dalla regola religiosa sull’accesso agli strumenti giuridici di finanziamento e di remunerazione potrebbe costituire, in termini oggettivi, la valida ragione della scelta contrattuale obbligata, coerente, per i soggetti Ias, al principio della prevalenza della sostanza sulla forma 130.

10. Il diritto tributario degli scambi al tempo della crisi e il diritto tributario della crisi di impresa In diversi punti e passaggi dell’analisi fin qui svolta è emerso come la tempistica di atti dispositivi, la valorizzazione di quanto trasferito e l’individuazione di concreti interessi economici di entrambe o, almeno, di una delle parti dello scambio siano condizionati da elementi “ambientali” eterogenei rispetto alla volontà delle parti stesse; in alcuni casi l’estraneità è relativa come accade per i gruppi di società ove l’interesse metaindividuale può assumere rilevanza essenziale mentre in altri, che qui accenniamo, è il mercato stesso, nella sua evoluzione, a condizionare le scelte e, in particolare, i mezzi di pagamento, i tempi e i valori di scambio. La crisi economica, infatti, ove se ne riesca ad apprezzare e dimostrare l’oggettiva rilevabilità e conoscibilità, rappresenta il motivo non sindacabile: (i) della tendenza degli imprenditori, ad esempio, verso interventi economico/finanziari di “conservazione” delle singole unità di un gruppo, forme di estinzione dell’obbligazione non mediante pagamento di denaro, in passato meno diffuse seppur note (la datio in solutum, ad esempio); (ii) della necessità di modificare assetti contrattuali a rilevanza reddituale con effetti ex tunc in ragione di accordi inter partes (creditore privato o pubblico vs debitore) tipizzati dal nuovo “diritto” delle ristrutturazioni debitorie; (iii) della difficile marketability di beni merce e della partecipazione a causa della difficile se non improbabile distribuzione dei dividendi 131 e, più in generale, dell’esistenza di un avviamento negativo 132 non trascurabile nella individuazione cazione delle imposte indirette sui trasferimenti immobiliari (sul punto FLORA, La finanza islamica, cit., p. 109 ss. e ALTIERI, Banche islamiche, cit., p. 1755 ss.). 129 Cfr. FLORA, La finanza islamica, cit., p. 111 ss. 130 Vedi ALTIERI, Banche islamiche, cit., p. 1757 ss. 131 Per la prospettiva aziendalistica BERNINI, I pacchetti azionari. Analisi del fenomeno e aspetti valutativi, cit., passim., spec. p. 351 ss. 132 Per un caso in cui anche a fronte di perdite e minori ricavi prospettici si è escluso il badwill Cass. 6 giugno 2012, n. 9115; in senso diverso, invece CTR Milano 27 giugno 2012, n. 104/1/2012 la quale condivide l’esigenza di una valutazione prospettiva a breve termine e, in ogni caso, ido-

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dell’eventuale materia imponibile pena la necessità, affatto virtuosa, per le parti di trovare pattuizioni contrattuali tali da condizionare il pagamento di una parte finale del corrispettivo a determinati risultati o mancati risultati futuri e successivi al trasferimento 133 o, infine, di vendere beni merce al di sotto del costo di produzione 134. Se è indubbio che la crisi condiziona i comportamenti facendo emergere anche interessi economici alla mera conservazione e maggiore efficienza dell’apparato produttivo, l’ordinamento tributario dovrebbe essere in grado di offrire strumenti e regole per apprezzare la crisi economica (oggettivamente come caratteristica del mercato e soggettivamente quale connotazione del singolo operatore, creditore o debitore che sia) alla stregua di un elemento della disciplina del presupposto e del potere di accertamento. In questo senso si ricorda l’art. 44, comma 1 del T.U. n. 131/1986 il quale, in termini eccezionali e derogatori, individua la base imponibile dell’atto sottoposto alla registrazione nel «prezzo di aggiudicazione» «Per la vendita di beni mobile e immobili in sede di espropriazione forzata ovvero all’asta pubblica e per i contratti stipulati o aggiudicati a seguito di pubblico incanto la base imponibile è costituita dal prezzo di aggiudicazione»; il testo letterale è chiaro nell’escludere altri valori che l’ufficio possa individuare attraverso presunzioni semplici. Leggendo l’art. 44, comma 1 del T.U. 26 aprile 1986, n. 131 sia ha da subito la convinzione che questa disposizione esclude per la vendita ad incanto accertamenti di valore diversi dal prezzo di aggiudicazione: in tal senso orientata sia la giurisprudenza di legittimità 135 che la prassi 136 anche alla luce nea ad apprezzare in termini concreti le mutazioni del contesto economico specifico del settore merceologico ed imprenditoriale di riferimento dell’azienda ceduta. Sul punto, da ultimo, CIPOLLA, La valutazione delle aziende nel sistema della tassazione delle imposte sui redditi, in AA.VV., I bilanci straordinari a cura di Montagnani, Milano, 2013, p. 81 ss. spec. 88 ss. in ordine ai mezzi di prova dell’esistenza o meno di un avviamento positivo muovendo dal dato noto costituito dal valore di mercato. 133 Sulle criticità della probabile natura aleatoria delle c.d. clausole di earn out vedi LANCIANI, Il prezzo (modalità, aggiustamenti, garanzie del pagamento dilazionato), in AA.VV., Le acquisizioni societarie (a cura di Irrera), Bologna, 2011, p. 319 ss. spec. 325. 134 Cfr. Cass. 3 luglio 2013, n. 16695, in Boll. trib., 2014, p. 394 ss. per le vendite in sede fallimentare. 135 La quale è, al riguardo, chiara nel ritenere che l’art. 44 del T.U. n. 131/1986 impedisca all’ufficio di rettificare la base imponibile costituita dal prezzo di aggiudicazione in sede di asta giudiziaria a seguito di espropriazione forzata (Cass. 29 ottobre 2010, n. 22141), dovendosi ammettere che tale potere sussista solo per le vendite effettuate dall’aggiudicatario successivamente all’aggiudicazione; tale principio è stato già espresso in ordine ai trasferimenti per pubblici incanti da parte di liquidatori e commissari giudiziali a nulla rilevando che nell’atto sia stata fatta richiesta di attribuzione della rendita catastale (Cass. 6 giugno 2007, n. 13217). Nel senso che anche nella vendita all’incanto di immobili di Enti previdenziali il valore debba corrispondere a quello effettivamente pagato Cass. 11 luglio 2014, n. 15948. 136 L’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che tale normalizzazione legale della base imponibile

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di un recente arresto della Corte costituzionale 137. Sotto altro aspetto, la crisi dell’impresa nelle diverse forme di risoluzione (es. concordato preventivo, accordi di ristrutturazione) oppure nelle forme di irreversibile consolidamento a seguito di procedure concorsuali infruttuose ha un impatto sulla disciplina sia delle sopravvenienze attive e delle perdite su crediti ai fini delle imposte sul reddito che delle note di variazione ai fini IVA. Circoscrivendo le riflessioni all’ipotesi in cui la perdita derivi da assetti convenzionali tra le parti all’interno dei quali ciascuna di esse previamente svolge delle valutazioni discrezionali sulle possibilità di soddisfazione integrale o parziale del credito, il punto critico è in che termini la volontà negoziale delle parti all’esito della quale il creditore, in ogni caso, rinunzia o riconosce a sé stesso l’infruttuosità dell’azione di recupero permetta di configurare una delle situazioni proprie del modello normativo. a) Per le imposte sui redditi, l’art. 88, comma 4 del TUIR, nel chiarire quando non si abbia sopravvenienza attiva tassabile, si interessa sia delle rinunce che delle riduzioni del debito a seguito di procedure anche non concorsuali. Da un lato, l’imposizione è esclusa solo se il rinunciante è un socio. Dall’altro, la riduzione del debito non origina una ipotesi di sopravvenienza se ha luogo in sede di concordato fallimentare o preventivo o di accordi di ristrutturazione e piani attestati ex artt. 67, comma 3, lett. d) e 182 bis della L. fall. sebbene, a seguito della novella legislativa, il valore del mandato debito debba essere previamente utilizzato, negli ultimi due casi, per ripianare perdite fiscali, essendo la sopravvenienza attiva non tassabile circoscritta alla parte eccedente le perdite 138. Infine, la definitività della perdita su di un credito è, ormai, pacificamente riconosciuta ex art. 101, comma 5 del TUIR sin dall’avvio della procedura concorsuale o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o, ancora più importante, del decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione b) Quanto all’IVA, l’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 ammette la variazione ove sia dichiarata la «nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili» oppure ove il mancato (parziale) pagamento sia avvenuto a «causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose» 139. sia applicabile a diverse ipotesi di aggiudicazione di immobili abitativi: si tratta delle aggiudicazioni da parte delle società di cartolarizzazione di immobili pubblici (Scip) (cfr. Ris. Agenzia Entrate 17 maggio 2007, n. 102/E) e di un ente regionale di sviluppo agricolo (cfr. Ris. Agenzia Entrate 16 giugno 2006, n. 80/E) nonché delle vendite giudiziali da parte della curatela fallimentare (Ris. Agenzia Entrate 17 gennaio 2006, n. 10/E). 137 Corte Cost. 15 gennaio 2014, n. 6. 138 Sul punto ci siamo già soffermati in FICARI, Problematiche fiscali degli accordi di ristrutturazione e relative evoluzioni normative, in AA.VV., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi (a cura di Paparella), Milano, 2013, p. 907 ss. 139 Da ultima, nella prospettiva del tema in esame, vedi DENORA, Procedure concorsuali infruttuo-

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Laddove si riconoscesse all’art. 26, come pare, la funzione di cogliere dati sostanziali e non solo regolare aspetti procedurali, la nota risponderebbe ad un’esigenza di tutela del creditore. L’interesse erariale dovrebbe essere tutelato attraverso la previsione di eventi che, con ragionevole certezza, consentano di riconoscere una situazione d’insolvenza tale da far presumere l’infruttuosità di un’azione di recupero; è, però, vero che una situazione di crisi/insolvenza non necessariamente dovrebbe essere riconosciuta all’esito di una procedura potendo essere dimostrata su base oggettiva anche in modo unilaterale o consensuale. La seconda ipotesi – cioè quella di ammettere che, con forma scritta e data certa, le parti possano ristrutturare una situazione d’indebitamento definendo un importo da pagare minore di quello dovuto, con la conseguenza di perfezionare una riduzione del credito e, dunque, che l’iva dovuta sia in relazione al valore delle prestazioni corrispondenti al credito ridotto – da un lato, sarebbe coerente all’evoluzione degli strumenti giuridici di composizione della crisi e, dall’altro, eliminerebbe il rischio che il debitore virtualmente ma non ancora dichiaratamente insolvente possa detrarre l’imposta addebitata ma non versata con danno per l’erario e pregiudizio del principio di neutralità dell’imposta. Che l’insolvenza virtuale non sia, in realtà, eterea ma degna di pari considerazione lo si desume dalla valenza esterna che la legge fallimentare ha attribuito a tutte quelle procedure non fallimentari, diverse dall’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e dalla liquidazione coatta amministrativa, nelle quali la libertà delle parti non si traduce nell’assenza di una rilevanza anche pubblica, in ragione, tra l’altro, della funzione e contenuto della relazione asseverata, della responsabilità dell’asseveratore e dell’intervento, in diversa gradazione secondo i casi, di un giudice. Peraltro, dato significativo, il disposto nazionale non menziona, diversamente da quanto prevede l’art. 90 della Direttiva IVA n. 2006/112/CE del 28 novembre 2006 il caso di «non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione» 140; se tale omissione è giustificabile solo in virtù della facoltà di deroga concessa ai singoli Stati per esigenze di prevenzione di elusioni, frodi ed evasioni, nel caso di specie il posticipo dell’emissione della nota non sarebbe conforme a tale principio l’individuazione di un momento antecedente a quello della chiusura della procedura, individuabile nella perfezione dell’accordo tra il debitore e i creditori. Ciò, si aggiunge, è simmetrico a quanto accade, come visto sopra, ai fini delle imposte sui redditi per le quali la perfezione di accordi di ristrutturazione giustise e note di variazione in diminuzione ai fini IVA: la tutela del creditore a fronte dell’inadempimento del debitore, in AA.VV., Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, cit., 1029. 140 Sul punto vedi anche DENORA, Procedure concorsuali infruttuose e note di variazione, cit.

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fica la mancanza di una sopravvenienza attiva e la deducibilità della perdita su crediti 141. Un cenno finale può farsi all’impatto che la crisi dell’impresa, intesa come difficoltà sia di remunerazione adeguata che di incasso vero e proprio, ha sull’applicazione delle sanzioni tributarie sia amministrative che penali e, in particolare, sulla sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito e di eventuali esimenti a titolo di forza maggiore ex art. 6, comma 5 del D.Lgs. n. 472/1997 ed art. 45 c.p. Temperando alcune novità emerse nella giurisprudenza di merito 142, la Corte di Cassazione, pur non escludendo di per sé la rilevanza della circostanza del mancato (o minore) incasso di somme soprattutto se dovute da enti pubblici 143, ha precisato che l’esimente sarebbe applicabile solo se il trasgressore/contribuente creditore verso lo Stato dimostri di aver cercato soluzioni di finanziamento esterno all’impresa, trattandosi, nella fattispecie, di dolo generico e non, invece, specifico 144. Se, però, il mancato versamento attenesse a somme che il trasgressore avrebbe dovuto versare a titolo di sostituto o a titolo di IVA incassata dal proprio acquirente, la forza maggiore difficilmente sarebbe configurabile in quanto la provvista ottenuta a seguito dell’avvenuta ritenuta e dell’avvenuto incasso dell’imposta addebitata ben sarebbe potuta essere versata e non, anche, impiegata per finanziare l’impresa risolvendo le conseguenze della crisi; ad altra conclusione si potrebbe, invece, giungere, ove il mancato pagamento sia riferibile a somme rispetto alle quali il trasgressore si ponga nelle vesti di vero e proprio contribuente (es. IRPEF, IRES, IRAP, imposta di registro etc.) dal momento che in tal caso lo stesso, per adempiere, non avrebbe avuto altra soluzione che il finanziamento esterno.

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Cfr. ancora DENORA, Procedure concorsuali infruttuose e note di variazione, cit. Cfr., ad esempio, Trib. Catania sez. III pen. sent. 3 giugno 2013, n. 1770, in GT-Riv. giur. trib., 2013, p. 979 ss. 143 Per il caso delle Asl e dell’omesso versamento delle ritenute Cass. 4 febbraio 2014, n. 5467; in ordine, invece, al mancato versamento dell’IVA incassata ma non versata Cass. 21 gennaio 2014, n. 2614 la quale non esclude a priori la sussistenza di una possibile esimente. 144 In termini possibilistici di un’ipotesi di stato di necessità ex art. 54 c.p., a seconda del completo assolvimento dell’onere probatorio gravante sul contribuente, tra le altre, Cass. sez. III pen., 4 aprile 2014, n. 15416. 142

PARTE I ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ

SEZIONE I ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ: CATEGORIE GENERALI NEL DIRITTO PRIVATO E RILEVANZA TRIBUTARIA

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di Lucilla Gatt SOMMARIO: 1. L’irrilevanza dello spirito di liberalità nei contratti a causa non liberale con efficacia esclusiva tra le parti. – 2. La liberalità come effetto avente titolo in un contratto a causa non liberale. – 3. I contratti a causa onerosa: sproporzione e «risultato di liberalità». – 4. (segue) La vendita ad effetti liberali, la divisione, la transazione, i contratti associativi e altre fattispecie a profilo oneroso. – 5. Sproporzione notevole e «risultato di liberalità». – 6. Onerosità causale e effetto liberale: il ruolo sistematico dell’art. 809 c.c. – 7. I contratti a causa gratuita: differenza tra vantaggio ed effetto liberale. – 8. Il contenuto dell’effetto liberale (risultato di liberalità).

1. L’irrilevanza dello spirito di liberalità nei contratti a causa non liberale con efficacia esclusiva tra le parti Porsi il problema della rilevanza o irrilevanza causale dello spirito di liberalità negli atti negoziali diversi dalla donazione presuppone: il rifiuto delle tesi che sostengono l’astrattezza causale 1 della donazione nonché l’identificazione dell’elemento causale nel corpo di interessi riassunto nella locuzione spirito liberale. Sul piano logico si presuppone, altresì, l’esistenza di una “convizione” secondo cui lo spirito di liberalità (vale a dire l’elemento causale della donazione tipica) sia presente sul piano causale degli atti non donativi dai quali «risulta una liberalità». Solo ammettendo tali presupposti ha senso interrogarsi sul ruolo della causa donandi (o spirito di liberalità) in atti che donazioni non sono e che, tuttavia, il legislatore assoggetta a talune regole disciplinari proprie del contratto tipico di donazione. 1

Riafferma con decisione la causalità della donazione di diritto positivo attraverso un’attenta e dettagliata disamina delle fonti romanistiche A. PALAZZO, La causalità della donazione tra ricerca storica e pregiudizio dogmatico, in Riv. crit. dir. priv., 2002, p. 245 ss., in particolare, p. 261 ss., là dove sottolinea come la forma solenne non sia mai stata nel diritto romano una “stampella” su cui si appoggia una “causa debole” o ancor peggio una donazione astratta, come attestano le storie della lex Cincia, del divieto delle donazioni tra coniugi, della pollicitatio nonché della forma solenne constantiniana e giustinianea.

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Difronte ad un atto negoziale a contenuto cosiddetto dispositivo 2 sia esso atto tipico o atipico 3, avente una causa non liberale e una struttura bilaterale o plurilaterale, produttivo di un effetto, in senso lato, attributivo 4 soltanto tra le parti, sorge l’esigenza di verificare quale sia l’elemento dal quale se ne fa derivare la qualificazione giuridica, e che sia per ciò stesso idoneo a giustificare 5 tutti gli effetti che ne scaturiscono. In altri termini, il riferimento alla figura del contratto ad efficacia esclusiva inter partes diverso dalla donazione vale a dire concretamente 6 diretto alla realizzazione di un determinato complesso di interessi non liberali, impone l’identificazione del dato da cui far dipendere, in primo luogo, l’individuazione della disciplina del contratto medesimo. Nel tentativo di definire i contorni dell’elemento suddetto non può non rilevarsi come l’adottare una concezione unitaria 7 della causa come interna al con2

Sul contenuto possibile della disposività negoziale: OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947, pp. 293-296; SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, 9a ed., Napoli, 1989, p. 224: «la distinzione fra negozi onerosi e negozi gratuiti trova applicazione ai soli negozi di attribuzione patrimoniale»; SARGENTI, Sul criterio di distinzione tra negozio oneroso e gratuito, in Foro pad., 1946, I, c. 445 ss. 3 Si pensi anche ai c.d. rapporti contrattuali di fatto, vale a dire, in concreto, ai rapporti fondati su di un contratto invalido, il quale, però, al momento in cui o ne viene accertata l’invalidità o se ne rendono operanti gli effetti, ha già prodotto una misura di efficacia di per sé irreversibile: in tal senso LIPARI, Rapporti di cortesia, rapporti di fatto, rapporti di fiducia, in Studi in onore di G. Scaduto, III, Padova, 1970, pp. 53 ss., 57 nota 50, che, tra l’altro, pone in risalto l’estraneità alla problematica dei rapporti contrattuali di fatto delle fattispecie contemplate negli artt. 590 e 799 c.c. 4 Di negozio patrimoniale di attribuzione o negozio attributivo si è parlato con riguardo al contenuto di procurare un accrescimento di valore (attribuzione patrimoniale, arricchimento, vantaggio) nel patrimonio di un altro soggetto [corsivo nel testo]; ciò mediante l’assunzione di un obbligo o la perdita di un diritto da parte di chi fa l’attribuzione (e questi subisce una corrispondente diminuzione di valore nel proprio patrimonio): così MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, I, 9a ed., Milano, 1957, p. 493. 5 Per giustificazione degli effetti negoziali si intende il loro sostegno sul piano giuridico sia con riferimento alla loro valida esplicazione sia con riferimento alla loro conservazione: cfr. per indicazioni di sintesi sulla problematica troppo vasta per essere affrontata in questa sede, DI MAJO, (voce) Causa del negozio giuridico, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, 1988, pp. 4-6. 6 Il negozio deve essere valutato e classificato secondo la sua causa reale, cioè in base all’interesse concreto che costituisce il fondamento dell’operazione giuridico-economica. Se il perseguimento di interessi diversi da quello liberale non fosse concreto, cioè effettivo si incorrerebbe nel fenomeno della simulazione: cfr. DATTILO, Tipicità e realtà nel diritto dei contratti, in Riv. dir. civ., 1984, I, p. 808 ss.; REDENTI, La causa del contratto secondo il nostro codice civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, p. 909; v. anche di recente MOROZZO DELLA ROCCA, Gratuità, liberalità e solidarietà, Milano, 1998, p. 74 ss. e per l’analisi della dottrina francese cfr. NAJJAR, Donation, in Encyclopédie Juridique Dalloz. Répertoire de droit civil, V, Paris, 1991, p. 29. Si vede, dunque, come la tematica del risultato di liberalità presupponga che siano superati ovvero che non si pongano affatto problemi attinenti alla validità (per mancanza – o non meritevolezza – della causa) dell’atto posto in essere: sul punto v. anche infra nel testo parr. 3 e 5, n. 86, 87. 7 La concezione unitaria individua nella causa la ragione del riconoscimento giuridico del

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tratto attributivo 8, porti l’interprete a far capo ad essa – vale a dire al contratto che ne costituisce il mezzo di espressione ed attuazione – per intendere a quale titolo l’attribuzione è stata fatta 9, cioè a quale titolo gli effetti attributivi si sono prodotti nei confronti di un certo soggetto. Parlare di «funzione concreta» 10 ovcontratto medesimo ed, al contempo, la ragione dello spostamento patrimoniale che esso produce: cfr. DONISI, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972, pp. 240-244, che accoglie la nozione unitaria di causa negoziale in cui risulta assorbita quella di iusta causa dell’attribuzione, rilevando che una diversa impostazione è, in realtà, frutto dell’influenza esercitata dalla teorica del Rechtsgrund der Zuwendung (cfr. KLINGMÜLLER, Der Begriff des Rechtsgrundes, in Studien zur Erläuterung des bürgerlichen Rechts, VI, Breslau, 1901, pp. 13, 35; FLUME, Allgemeiner Teil des Bürgerlichen Rechts, B. II, Das Rechtsgeschäft, 4. Aufl., Berlin, 1992, p. 152; KÜBLER, Festellung und Garantie, Tübingen, 1967, p. 212) sulla dottrina italiana (v., infatti, l’analisi di DEIANA, Alcuni chiarimenti sulla causa del negozio giuridico e dell’obbligazione, in Riv. dir. civ., 1938, p. 132 ss.). Il Donisi afferma che richiedere una giustificazione causale anche per la vicenda attributiva ha senso in ordinamenti come quello germanico che conserva un margine ancora consistente alla regola dell’astrattezza. Nel sistema giuridico italiano il «titolo» dell’attribuzione e la «giustificazione» di essa si identificano. Così anche SCALISI, (voce) Negozio astratto, in Enc. dir., XXVIII, s.d. ma Milano, 1978, p. 98 e nota 336; SANGIORGI, (voce) Giusta causa, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, p. 556; DI MAJO GIAQUINTO, L’esecuzione del contratto, Milano, 1967, p. 256. Contra BARCELLONA, Note critiche in tema di rapporti fra negozio e giusta causa dell’attribuzione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1955, p. 23, che mantiene due prospettive separate, quella del negozio e quella dell’attribuzione. Cfr. GIORGIANNI, (voce) Causa (dir. priv.), in Enc. dir., VI, s.d. ma Milano, 1960, pp. 564-566, il quale ritiene che in alcuni casi la funzione del negozio e la causa dell’attribuzione coincidano mentre in altri (le cosiddette prestazioni isolate) la distinzione sussista. A questa osservazione del Giorgianni risponde il CHECCHINI, Regolamento contrattuale e interessi delle parti, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 239, nota 47, là dove afferma che la ricerca della causa non si pone fuori dal negozio, ma al di dentro, nel rapporto che si viene a creare tra programma negoziale e interesse convenzionalmente presupposto dalle parti del contratto. 8 Carattere interno che permane anche quando per la sua determinazione in concreto si possa fare riferimento al contesto dell’operazione complessiva in cui il (singolo) contratto viene ad inserirsi in quanto ciò non significa riconoscere che la giustificazione causale degli effetti dell’atto sia o possa essere fuori dall’atto medesimo: cfr. BIANCA, Il contratto2, Milano, 2000, pp. 453-454, 470 ss.; PALERMO, Funzione illecita ed autonomia privata, Milano, 1970, pp. 110 e 124; G.B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966 (rist. 1968), p. 251 ss. In giurisprudenza cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 1973, n. 63, in Foro it., 1973, I, c. 1085. 9 Così MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, I, cit., p. 493. Cfr. anche DI MAJO GIAQUINTO, L’esecuzione del contratto, cit., p. 256. 10 Questa è la concezione di causa che attualmente riceve maggiori consensi in dottrina: cfr. BIANCA, Il contratto, cit., pp. 452-454; G.B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, cit., p. 372 ss. Cfr. ROPPO, (voce) Contratto, in Digesto IV, Disc. priv., sez. civ., IV, Torino, 1989, p. 114; BIGLIAZZI GERI-BRECCIA-BUSNELLI-NATOLI, Diritto civile, Fatti e atti giuridici, Torino, 1987, rist. 1989, p. 700. Cfr. anche ALPA, Causa e contratto: profili attuali, in Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica a cura di L. Vacca, Torino, 1997, p. 269; ID., L’uso giurisprudenziale della causa del contratto, in Nuova giur. civ. comm., 1995, II, p. 10 e FERRIGNO, L’uso giurisprudenziale del concetto di causa del contratto, in Contr. e impresa, 1985, p. 143. Cfr. anche Cass. 5 luglio 1993, n. 7844, in Giur. it., I, 1, c. 734. Posizione particolare è quella del SACCO, in SACCO e DE NOVA, Il contratto, in Trattato dir. civ. diretto da R. Sacco, I, Torino, 1993, p. 635 ss.

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vero di causa in senso oggettivo ha dunque senso solo ove la causa stessa sia valutata elemento sufficiente, in via esclusiva, a giustificare interamente la vicenda effettuale attributiva 11 derivante dal contratto (che ne è espressione), nonché elemento su cui fondare la qualificazione del contratto medesimo. Un contratto diverso dalla donazione proprio in quanto tale, ha già una sua causa (non liberale) che assorbe ed elimina a priori ogni questione di giustificazione causale degli effetti 12 da esso stesso prodotti. Se la causa non liberale non fosse idonea da sola a giustificare l’intera vicenda effettuale prodotta dal contratto, tale causa non esisterebbe giuridicamente come causa diversa dalla causa liberale, e, quindi non esisterebbe quel determinato contratto non donativo, tipico o atipico 13. Ciò significa che ove si sia in presenza di un contratto (qualificabile, a conclusione del procedimento interpretativo, come) diverso dalla donazione, non solo non è necessario, ma non è consentito indagare se il contratto soddisfi anche un interesse liberale 14. Lo spirito di liberalità (cioè l’interesse liberale consapevolmente e concordemente perseguito), se anche fosse presente (in una o in en11

La dottrina (per tutti SCALISI, (voce) Negozio astratto, in Enc. dir., cit., pp. 97-99) ha rilevato che l’espressione attribuzione patrimoniale viene impiegata come sinonimo di atto (cioè mezzo mediante il quale essa si realizza) ovvero, il più delle volte, come sinonimo di effetto di un negozio. L’attribuzione (quale situazione effettuale) non prospetta alcuna esigenza di giustificazione causale autonoma rispetto a quella del negozio. Della stessa idea è TRABUCCHI, (voce) Arricchimento (azione di), in Enc. dir., III, s.d. ma Milano, 1958, pp. 64, 67. 12 Non a caso parte della dottrina (CAREDDA, Liberalità diverse dalla donazione tipica, Torino, 1996, p. 106) per contrastare la definizione del concetto di liberalità che fa riferimento esclusivo all’effetto prodotto da un insieme (indifferente) di atti, ha affermato che «ogni effetto ha la sua causa. Tale causa non può essere irrilevante». Al contrario, riteniamo che la causa dell’effetto, nel senso di titolo al quale si produce quell’effetto, sussiste, ma non è (e non può essere, pena il mutamento della qualificazione giuridica della fattispecie negoziale dalla quale l’effetto deriva) liberale. 13 La stessa CAREDDA, Le liberalità diverse dalla donazione, cit., p. 193, d’altra parte, non può fare a meno di sostenere che, se mancasse l’interesse liberale, il contratto continuerebbe a sussistere, mentre, se venisse meno l’altro interesse, cioè la causa di cui l’interesse liberale è profilo, allora verrebbe meno l’atto. Emerge così la contraddizione insita nella sua stessa tesi che attribuisce rilevanza causale ad un interesse non essenziale per la validità dell’atto (cioè per la giustificazione dei suoi effetti). L’elaborazione da parte dell’a. dell’ipotesi concettuale del «profilo causale» rivela come l’a. medesima abbia percepito chiaramente l’esigenza di sfuggire alle secche del negozio misto, senza, però, riuscirvi pienamente. A margine si aggiunga che il considerare la causa (concreta) di un atto negoziale quale giustificazione esclusiva degli effetti prodotti dal negozio non porta necessariamente ad identificarla con la sintesi degli effetti giuridici essenziali del negozio medesimo: cfr. L. RICCA, Contratto e rapporto nella permuta atipica, Milano, 1974, pp. 134146, sull’autonomia della causa dagli effetti del contratto e viceversa e v. infra par. 5 e nota 86. 14 In questa direzione sembra andare CARNEVALI, Le donazioni, in Trattato dir. priv., diretto da P. Rescigno, VI, 2a ed., Torino, 1997, p. 486 ss., là dove esclude la necessità di verificare negli atti negoziali diversi dalla donazione la sussistenza dello spirito di liberalità quale interesse non patrimoniale, nonché la sua rilevanza sul piano causale. Cfr. anche MANZINI, Il contratto gratuito atipico, in Contr. e impresa, 1986, p. 914: lo spirito di liberalità non è la causa delle «donazioni indirette», la quali si identificano con atti negoziali aventi ciascuno una propria autonoma causa.

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trambe le parti), non potrebbe comunque rilevare giuridicamente sul piano causale, neanche nella forma di «profilo» della causa non liberale. Infatti, ove si assuma la prospettiva fondata sulla concezione rigorosamente oggettiva della causa contrattuale, la ricerca dell’interesse liberale e l’attribuzione ad esso di rilevanza giuridica sul piano causale impone di considerare presenti in uno stesso atto due cause diverse o – il che è lo stesso – profili diversi di una stessa causa. Tale ammissione obbliga ad attribuire all’atto medesimo una qualificazione diversa ovvero ulteriore rispetto a quella che gli deriva dalla sua causa non liberale 15; ma la qualificazione diversa sfocia nella eterogeneità del tipo contrattuale così come la qualificazione ulteriore nella mistione dei tipi contrattuali. È quindi consequenziale l’affermazione secondo cui il contratto che non è (contratto di) donazione non può avere una qualificazione diversa né deve avere una qualificazione ulteriore, poiché la causa non liberale ne esaurisce interamente l’aspetto causale in funzione della qualificazione giuridica e, perciò stesso, della determinazione del corpo di regole da applicare in relazione agli interessi “qualificanti” perseguiti dalle parti 16. Qualora esse adottino un contratto diverso dalla donazione per la realizzazione anche 17 di un interesse liberale, subiranno le conseguenze della loro scelta, consistenti nella irrilevanza giuridica (sul piano causale) di tale interesse 18. 15

Se poi l’interesse liberale si considera un motivo ulteriore eccezionalmente rilevante non mutano i termini sostanziali dell’impostazione fondata sulla causa diversa ovvero ulteriore. Ciò nonostante, la dottrina italiana sembra non poter fare a meno di tale intento soggettivo di produrre il vantaggio liberale (cfr. CATAUDELLA, Donazione e liberalità, in Studi in onore di P. Rescigno, II, Diritto privato, 1. Persone, famiglia, successioni, proprietà, Milano, 1998, p. 183). Anche M. D’ETTORE, Intento di liberalità e attribuzione patrimoniale, Padova, 1996, pp. 22, 36, 39-50, affronta il problema dell’autonoma rilevanza dello spirito di liberalità rispetto alla causa donandi, sul presupposto della necessità del medesimo ai fini della distinzione tra atti gratuiti e atti liberali, giungendo ad elaborarne una nozione tanto affascinante quanto inafferrabile. Viceversa riteniamo verosimile sostenere che quando il legislatore ha voluto attribuire rilevanza giuridica al motivo, inteso come interesse ulteriore rispetto a quello causale (tipico) ovvero come interesse che va a definire in concreto la causa dell’atto posto in essere, lo ha fatto espressamente e ne ha differenziato la rilevanza a seconda che si tratti di donazione o di altri atti negoziali inter vivos: si veda sul punto A. MARINI, Il modus come elemento accidentale del negozio gratuito, Milano, 1976, p. 73. 16 Viene esclusa, così, a priori la possibilità stessa di qualificazioni diverse ovvero ulteriori. Se così non fosse, verrebbero a riproporsi tutti i problemi che si è tentato – invano – di risolvere, elaborando la figura del negozio misto, o a causa mista, e del negozio indiretto: L. RICCA, (voce) Motivi (dir. priv.), in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, p. 280 s.; ID., Contratto e rapporto nella permuta atipica, cit., p. 243 ss., 221 ss., 271-296. Per la negazione del negozio indiretto come categoria giuridica cfr. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 182 ss. e ID., Interposizione di persona, negozio indiretto e successione della prole adulterina, in Foro it., 1931, I, c. 177 ss. Indicativi, in proposito, anche i rilievi del PUGLIATTI, Precisazioni in tema di vendita a scopo di garanzia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, p. 332. 17 Se l’interesse liberale fosse esclusivo, sarebbero integrati gli estremi della simulazione relativa: cfr. BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, p. 227 ss. 18 Cfr. la riflessione di CASULLI, Donazioni indirette e rinunzie ad eredità o legati, Roma, 1950,

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A questo genere di conclusioni potrebbe facilmente obiettarsi di non aver tenuto debitamente conto della corrente ermeneutica che, superando il dogma tradizionale della contrapposizione tra «causa» e «motivi» nella fattispecie contrattuale, giunge ad elaborare una nozione di causa negoziale quale causa «reale», nella quale confluiscono tutti gli interessi oggettivamente apprezzabili come «ragione giustificativa» dello spostamento patrimoniale prodotto dal contratto, valutato complessivamente ed in relazione al suo concreto atteggiarsi 19. A ben vedere, però, la nozione di «causa concreta» del contratto quale giustificazione esclusiva degli effetti derivanti dal contratto medesimo, è stata utilizzata, nell’ambito delle argomentazioni da noi esposte poc’anzi, ai fini della determinazione del titolo al quale gli effetti si producono, vale a dire nel procedimento di qualificazione della fattispecie contrattuale. Tale nozione di causa non esclude, a ben vedere, la possibilità di concepire una «causa reale» 20, derivante dalla combinazione della funzione del tipo negoziale considerata astrattamente con le ulteriori o diverse «aspettative o previsioni» considerate nella loro oggettività di interessi determinanti l’«economia» del rapporto negoziale. La «causa concreta» si sostanzia nell’individuazione del titolo al quale certi effetti si producono e nella determinazione della disciplina dettata in ragione degli interessi che l’adozione di quel titolo normalmente realizza; la «causa reale», invece, assume un ruolo suo proprio nell’individuazione di quelle che potrebbero definirsi, genericamente, le specifiche individuali 21 che hanno indotto l’una o l’altra parte all’adozione di quel titolo, nonché nella focalizzazione di quelle regole che precludono o rimuovono gli effetti dell’esecuzione del contratto in caso di mancata realizzazione delle «aspettative o previsioni individuali» o, più specificamente, in caso di sopravvenienza di eventi che sconvolgono il sinallagma delle p. 106, il quale, rilevando la difficoltà di provare l’animus donandi, fa notare che, vigente il codice Pisanelli, la revoca per ingratitudine e per sopravvenienza di figli non era stata estesa alle liberalità non donative perché era imputata al donante la conseguenza anche negativa di non aver adottato il contratto di donazione [corsivo nostro]. La scelta fatta sotto la vigenza del codice ottocentesco attesta – ci sembra – che, all’epoca, lo spirito liberale negli atti negoziali non donativi era percepito come motivo giuridicamente irrilevante, quantomeno ai fini dell’applicazione dei rimedi suddetti. 19 Si allude, in particolare, all’elaborazione teorica del BESSONE, del quale oltre alla indagine compiuta in Adempimento e rischio contrattuale, cit., pp. 138 ss., 207 ss., si vedano, altresì, i rilievi espressi dall’a. ne Motivi del contratto, dogma della loro irrilevanza e obiter dicta giurisprudenziali, in Riv. dir. comm., 1979, II, p. 98; ID., Il tipo negoziale e l’alea normale del contratto, la sua «causa» e il dogma della irrilevanza dei motivi, in Giur. it., 1979, I, c. 1035. Per l’accoglimento giurisprudenziale di tale impostazione cfr., ad esempio, Cass. 26 gennaio 1995 n. 975, in I contratti, 1995, p. 362. 20 La locuzione è di BESSONE, Obiter dicta della giurisprudenza l’accertamento della «causa» reale dei contratti, gli equivoci sulla funzione economico-sociale del negozio, in Riv. not., 1978, p. 947 ss.; ID., Causa tipica e motivo del contratto, dogmi di teoria generale, orientamenti della giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, p. 1104. 21 Cfr. BESSONE, Causa tipica ecc., cit., p. 1105.

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prestazioni 22. Si vede dunque come le due nozioni di «causa» operino su piani distinti: la prima rileva ai fini della determinazione del tipo negoziale adottato; la seconda ai fini dell’applicazione di alcuni istituti che danno spazio a moventi individuali o che presuppongono il mutamento delle circostanze che hanno accompagnato la nascita del contratto. L’assunzione di tale prospettiva pone in luce l’estraneità della tematica della «causa reale» rispetto a quella della liberalità non donativa. Si è già detto, infatti, che l’interesse liberale non può emergere nelle fattispecie contrattuali non donative ad efficacia inter partes, neppure come motivo-interesse oggettivamente apprezzabile nell’economia dell’affare, cioè neppure sul piano, appunto, della cosiddetta «causa reale» 23. Ciò è confermato dal fatto che gli istituti contemplati nell’art. 809 del codice civile 24 e, in particolare, gli istituti della riduzione per lesione di legittima e della revocazione per sopravvenienza di figli (cui aggiungiamo la collazione contemplata nell’art. 737 c.c.), non attengono alla problematica della (mancata) realizzazione dell’interesse liberale eventualmente presente in una o in entrambe le parti di un contratto diverso dalla donazione (non sono cioè rimedi che – come già detto – precludono o rimuovono gli effetti dell’esecuzione 22 BESSONE, Causa tipica e motivo del contratto, dogmi di teoria generale, orientamenti della giurisprudenza, cit., pp. 1102-1105, 1111-1112, dove analizza le norme sul «motivo» in materia di donazione e di atto gratuito. Più in generale, può dirsi che nell’analisi del Bessone (specialmente nel testo monografico Adempimento e rischio contrattuale, cit., pp. 3 ss., 207 ss.) la critica al dogma della cosiddetta irrilevanza dei motivi mira, in sintesi, a soddisfare esigenze, in senso lato, di «affidamento» della controparte in merito alla realizzazione dei suoi effettivi interessi mediante la conclusione di quello specifico contratto. Il ruolo dei «motivi» nell’ambito di tale genere di valutazioni non può, dunque, essere accostato a quello che gli stessi possono assumere nel procedimento di qualificazione giuridica della fattispecie (cfr. L. RICCA, (voce) Motivi (dir. priv.), in Enc. dir., cit., p. 278), cioè nell’ambito della nozione di causa «concreta». 23 Più precisamente, si potrebbe affermare che nel contratto diverso dalla donazione i cosiddetti presupposti o le cosiddette aspettative individuali – che compongono la nozione di «causa reale» – sono entrati a far parte del contenuto del contratto, in quanto hanno determinato la scelta del tipo e lo stesso articolarsi del regolamento negoziale (CATAUDELLA, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, p. 160 ss.), e, di conseguenza, – potremmo aggiungere – del “tipo” di effetto derivante dal contratto: cfr. L. RICCA, (voce) Motivi (dir. priv.), in Enc. dir., cit., p. 276. Ed, infatti, non sembra da ammettersi la risoluzione di un contratto di compravendita, che preveda il pagamento di un prezzo molto elevato per realizzare una liberalità in favore dell’alienante, qualora, al momento dell’esecuzione, per tutta una serie di possibili circostanze, tale prezzo non risulti più così elevato, ma perfettamente corrispondente al valore di mercato del bene compravenduto. Altrettanto peregrina risulterebbe l’idea dell’applicazione alla fattispecie menzionata delle norme sulla buona fede a fini risarcitori o di quelle sull’annullamento del contratto per errore sul motivo comune. 24 Le norme contenute nell’articolo citato nel testo rappresentano il dato normativo al quale è necessario fare riferimento in via prioritaria ai fini dell’individuazione della realtà giuridica della liberalità non donativa: sul ruolo esegetico del dato normativo in materia di liberalità cfr. CHECCHINI, Rapporti non vincolanti e regola di correttezza, Padova, 1977, p. 233.

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del contratto in caso di mancata realizzazione delle «aspettative o previsioni individuali»). Essi concernono piuttosto la salvaguardia di interessi facenti capo a soggetti diversi (i legittimari, i figli sopravvenuti) da colui che eventualmente fosse stato animato da spirito di liberalità. Se ciò è vero, deve altresì concludersi per la non applicabilità ai contratti ad efficacia esclusiva inter partes di istituti che presuppongono la rilevanza dello spirito di liberalità (quali, ad esempio, la revocazione per ingratitudine) e che, dunque, appare ragionevole sostenere siano stati previsti in riferimento a fattispecie negoziali diverse dai contratti ad efficacia esclusiva tra le parti (cfr. supra nota 18; infra nota 95).

2. La liberalità come effetto avente titolo in un contratto a causa non liberale Sostenere la non rilevanza causale dello spirito di liberalità nei contratti a causa non liberale conduce di fronte ad una duplice alternativa: o si ritiene che da un contratto diverso dalla donazione non possa risultare una liberalità ovvero si afferma il contrario con il corollario che ne deriva – e che si è tentato di dimostrare –, cioè l’indipendenza della causa liberale dall’effetto liberale. Verso quest’ultima soluzione sembra orientato il dato normativo che, regolando il risultato di liberalità derivante da atti non donativi, dà per presupposta l’idea secondo cui da un contratto diverso dalla donazione possa risultare una liberalità 25 e, dunque – potremmo aggiungere – il corollario appena illustrato. Al fine di verificare una tale deduzione è opportuno, in primo luogo, notare che, in relazione ai contratti diversi dalla donazione con efficacia esclusiva tra le parti, l’espressione normativa «liberalità che risultano da atti diversi» (art. 809) 25

Cfr. in tal senso MIRABELLI, Dialoghi in tema di liberalità, in Scintillae iuris, Studi in memoria di G. Gorla, III, Milano, 1994, p. 1957: «Il contratto vive di una vita propria, l’animus per cui viene posto in essere non ha alcuna rilevanza»; MANZINI, Il contratto gratuito atipico, cit., pp. 914, 918. Nella dottrina francese affiora, sì, la concezione oggettiva della liberalità non donativa (GHESTIN, La formation du contrat. Traité de droit civil, 3a ed., Paris, 1993, p. 396: «une libéralité, en tant que phénomène économique de transfert de valeur à titre gratuit, pourrait résulter d’une opération juridique quelconque»; GUERRIERO, L’acte juridique solennel, Paris, 1965, p. 120) ma senza trovare pieno sfogo, in quanto viene pur sempre menzionata l’intention libérale. Più audaci alcuni studiosi dell’Ottocento come M.G. PELLISIE DU RAUSAS, Des libéralités indirectes entre époux en droit romain et en droit français, thèse de la Faculté de droit de Toulouse, Paris, 1886, p. 213 ss., là dove con riferimento al vantaggio patrimoniale mero derivante a favore di uno solo dei coniugi da una convenzione matrimoniale assoggettabile ex art. 1527 code civil ad una azione di retranchement da parte dei figli di primo letto del coniuge donante, affermava che, per apprezzare se c’è stato vantaggio indiretto, non è necessario ricercare quale intenzione abbia presieduto alla redazione del contrat de mariage perché «il faut uniquement s’attacher aux effets produits par les conventions matrimoniales. L’action en retranchement devrait être admise quand bien même il serait prouvé que l’épouse binube, en consentant la clause, qui l’a appauvri au profit de son conjoint, n’était animé d’aucune intention libérale».

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non può che essere riferita all’effetto 26 prodotto dal contratto. Il termine liberalità assume, infatti, un’accezione tecnica precisa, indicativa di un “tipo” di effetto, che, in prima approssimazione, si può definire equivalente 27 a quello derivante dal contratto di donazione e, dunque, in senso lato, meramente vantaggioso in favore di una sola delle parti e produttivo per l’altra di una mera decurtazione patrimoniale 28. L’esclusione dell’elemento causale quale ambito comune alla donazione e al contratto diverso da cui risulti una liberalità conduce ragionevolmente a ritenere che almeno l’ambito effettuale, inteso in senso lato, dell’una e dell’altro debba essere lo stesso. La contiguità delle due figure sul piano disciplinare e nel linguaggio legislativo può spiegarsi solo in riferimento a tale identità: l’effetto liberale o risultato di liberalità si identifica dunque con l’effetto di arricchimento (di “tipo”) donativo, vale a dire con l’arricchimento mero 29. 26

Pone con chiarezza in risalto la duplice accezione del termine liberalità quale atto e quale effetto nel nostro sistema giuridico CHECCHINI, Interesse a donare, in Riv. dir. civ., 1976, p. 311; ID., Rapporti non vincolanti e regola di correttezza, cit., p. 232, là dove scrive che le liberalità in senso stretto [art. 809, comma 1, n.d.r.] sono caratterizzate sulla base di un effetto patrimoniale e non di una causa negoziale unitaria. Cfr. BARBERO, Sistema del diritto privato italiano, II, Torino, 1965, p. 630: la liberalità in un certo senso rappresenta un effetto prima e più che una causa. L’a. prosegue il ragionamento nella nota 4, affermando che non è la donazione che può essere o non un contratto ma è la liberalità che può essere realizzata con «donazione» (contratto) ovvero anche altrimenti (cfr. MANENTI, Sul concetto di donazione, in Riv. dir. civ., 1911, p. 345 ss.). Secondo CARRARO, Il mandato ad alienare, Padova, 1947, pp. 135 e 137: la categoria della donazione indiretta è economica e non giuridica come quella della donazione diretta: l’elemento comune è il risultato pratico consistente nell’arricchimento. Trattandosi di una categoria che serve per capire perché certe norme per ratio ovvero per espressa previsione legislativa si applicano anche a fenomeni di arricchimento che donazioni non sono, è impossibile [ma diremmo più esattamente non ha senso] definire a priori gli elementi giuridici dell’atto che realizza l’effetto economico previsto dalle cosiddette norme materiali. In linea MANZINI, Il contratto gratuito atipico, cit., p. 912; MIRABELLI, Dialoghi in tema di liberalità, cit., p. 1955. 27 CARNEVALI, Le donazioni2, cit., p. 498 e BALBI, Saggio sulla donazione, Torino, 1942, p. 118. 28 Conta rilevare che nel sistema italiano non c’è accordo sulla nozione di arricchimento e sul ruolo di esso quale elemento costitutivo della fattispecie donativa in correlazione al depauperamento: il dibattito è ben illustrato da A. MARINI, Il modus come elemento accidentale del negozio gratuito, cit., p. 52 ss. Ritiene, ad esempio, che l’arricchimento non sia elemento costitutivo della donazione e, quindi, non lo sia della liberalità, che si sostanzia in una mera decurtazione patrimoniale non collegata ad un arricchimento MIRABELLI, Dialoghi in tema di liberalità, cit., p. 1953 s. Nel sistema tedesco il ruolo costitutivo della correlazione arricchimento-depauperamento è consolidato e indiscusso: cfr., ad esempio, W. SIEBERT, Schenkung, in Rechtsvergleichendes Handwörterbuch für das Zivil – und Handelsrecht des In- und Auslandes, B.VI, Berlin, 1938, p. 146: la Schenkung è una «Zuwendung durch die nicht nur das Vermögen des Beschenkten bereichert, sondern auch das des Schenkers vermindert wird»); analogamente nel diritto francese: cfr., per tutti, MALAURIE, Les successions, les libéralités. Cours de droit civil par Malaurie et et Aynès, 4e éd., Paris, 1998, p. 199: «pour qu’il y ait libéralité [...] il faut un appauvrissement du disposant, un enrichissement du gratifié et un rapport de causalité entre l’un et l’autre». 29 CARNEVALI, (voce) Liberalità (atti di), in Enc. dir., XXIV, s.d. ma Milano, 1964, p. 214. Cfr.

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Tale effetto deve essere, tuttavia, parte integrante del complesso effettuale consapevolmente perseguito dalle parti con il contratto posto in essere. Non può dirsi, infatti, che si sia prodotto un effetto liberale al momento della conclusione del contratto, se l’arricchimento è determinato da circostanze fortuite o accidentali ovvero da un vizio della volontà (errore, violenza o dolo) di una o di entrambe le parti; o ancora dallo stato di pericolo o di bisogno in cui si trova – o si trovava, al momento della conclusione del contratto – il (soggetto che risulta) depauperato; oppure da una situazione di conflitto di interessi tra chi agisce (in nome e) per conto di colui che risulta depauperato ed il depauperato stesso 30. Se, dunque, l’arricchimento derivante dai contratti diversi dalla donazione non deve essere frutto di circostanze accidentali o di una volontà viziata, è, tuttavia, necessario e sufficiente che la causa non liberale (vale a dire la totalità degli interessi che ad essa fanno capo) sia effettivamente perseguita 31: in tal caso, la presenza (eventuale) di un interesse liberale non acquista alcun rilievo ai fini dell’individuazione del risultato di liberalità. L’identificazione di un risultato di liberalità in presenza di un contratto diverso dalla donazione consiste, dunque, nell’analisi dell’esplicazione effettuale 32 di un NICOD, Le formalisme en droit des libéralités, Thèse, Paris-XII, 1996, II, pp. 457-458, rileva che nell’«ancien droit» la percezione dell’equivalenza effettuale tra donations e donations tacites ou conjecturales (oggi donations indirectes e déguisées) era accettata come dato non controverso. L’a. supporta la sua affermazione, citando J.M. RICARD, Traité des donations entre vifs et testamentaires, Paris, 1730, I part., Ch. III, Sect. XVI, p. 164 ss.: «Bien qu’en déguisant la forme du contrat on lui ait donné une autre couleur, il contient en sa substance l’effet d’une donation [...] de sorte qu’il en reçoit toutes les lois». Il problema dell’equivalenza di effetti coinvolge nel senso che attiene ed è contiguo a quello dell’ambito oggettivo della donazione e della liberalità. Si veda, poi, BALBI, Liberalità e donazione, in Riv. dir. comm., 1948, p. 175, secondo il quale la donazione e la liberalità hanno lo stesso ambito oggettivo. Al contrario riteniamo che parlare di equivalenza di effetti non comporta necessariamente l’ammissione di un’identità di ambito oggettivo: si rinvia sul punto al nostro La liberalità, I, Torino, 2002, Cap. 4, Sez. I, par. 4; Cap. 6, par. 1. 30 Si pensi, ad esempio, all’atto posto in essere da un rappresentante legale o volontario, ovvero da un amministratore. In questo come negli altri casi citati nel testo si ricade, infatti, in ambiti normativi (cioè in ambiti di tutela di «interessi») differenti: gestione delle sopravvenienze contrattuali e, quindi, eventuale risoluzione del contratto ovvero rescissione per lesione; annullamento per errore o conflitto di interessi dell’atto posto in essere; o, al limite, arricchimento senza causa (cfr. Cass. 28 agosto 1993, n. 9144, in Corr. giur., 1994, p. 218). Cfr. le riflessioni della MANZINI, Il contratto gratuito atipico, cit., p. 914: l’arricchimento deve essere intenzionale e non legato a circostanze fortuite o non espressamente previste o valutate dal disponente. 31 Ed il perseguimento di interessi lato senso onerosi può dirsi effettivo entro certi limiti oggettivi su cui v. oltre nel testo e in part. par. 5 e nota 90. 32 L’imposizione dell’analisi del complesso effettuale ai fini dell’applicazione di determinate regole non sembra isolata. Si pensi all’art. 764, da cui si deduce che anche l’effetto di cessazione della comunione o effetto divisorio in senso lato da qualunque atto derivi e, soprattutto, sia o non sia specificamente voluto, rende l’atto stesso rescindibile, cioè diviene l’unico presupposto di applicazione del rimedio rescissorio proprio della divisione ereditaria: così MOSCARINI, Gli atti

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certo regolamento negoziale per statuirne gli aspetti di equivalenza con quello derivante dal contratto di donazione. Assumendo quest’angolo prospettico l’equivalenza effettuale viene a porsi come unico presupposto per l’applicazione della disciplina del risultato di liberalità derivante da contratti non donativi ad efficacia esclusiva tra le parti 33. In ragione di ciò non appare, dunque, corretto definire il contratto a causa non liberale come posto in essere a titolo di liberalità, perché in questa espressione il termine liberalità possiede un’accezione causale e non effettuale, che è, invece, l’unica che il termine stesso può assumere in relazione al contratto a causa non liberale. Il contratto avente causa non liberale viene a costituire il titolo 34 unico ed esclusivo dell’effetto vantaggioso mero, il quale, di per sé, rappresenta la liberalità 35: si comprende, così, il perché della mancata previsione dell’onere della forma equiparati alla divisione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1963, I, p. 533, p. 537 e nota 13, secondo il quale l’adozione della formula normativa «atti aventi ad effetto la cessazione della comunione» attesta un’indicazione legislativa nel senso dell’adozione di un criterio oggettivo di individuazione degli atti (diversi dalla divisione) soggetti a rescissione, con il conseguente abbandono di criteri soggettivi basati sull’intenzione o scopo delle parti e quindi attinenti, in senso lato, al profilo causale dell’atto. E ciò in armonia con una concezione oggettiva del negozio giuridico e con il principio dell’affidamento. Su questa linea anche MIRAGLIA, Gli atti estintivi della comunione ex art. 764 cod. civ. Vendita di quota e transazione tra coeredi, Milano, 1995, p. 77. 33 La giurisprudenza italiana va “inconsapevolmente” in questa direzione quando presume lo spirito di liberalità in fattispecie contrattuali non donative: v., ad esempio, Cass. 19 marzo 1998, n. 2912, in Giur. it., 1998, I, p. 2019; Cass. 18 luglio 1991, n. 7969, in Giust. civ., 1992, I, p. 728; Trib. Genova 28 settembre 1989, in Nuova giur. civ. comm., 1990, I, p. 686. Cfr. infra nota 38. 34 Sembra, perciò, totalmente esclusa la tematica dell’arricchimento senza causa che nella sua impostazione tradizionale e preferibile non viene ab origine in considerazione quando l’arricchimento soddisfa un interesse meritevole di tutela (NICOLÒ, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, p. 187; GORLA, Causa, consideration e forma nell’atto d’alienazione inter vivos. I. La civil law, in Riv. dir. comm., 1952, I, p. 173; TRABUCCHI, (voce) Arricchimento (azione di), in Enc. dir., cit., pp. 64-66; TRIMARCHI, L’arricchimento senza causa, Milano, 1962, p. 35. Cfr. anche BIANCA, La responsabilità, Diritto civile, V, Milano, 1994, p. 817. Contra l’orientamento dominante – come già detto – BARCELLONA, Note critiche in tema di rapporti fra negozio e giusta causa dell’attribuzione, cit., pp. 19-20). Cfr. VALENTE, L’intestazione di beni sotto nome altrui, Milano, 1958, p. 237, là dove afferma che il sistema delle donazioni indirette si basa proprio sulla ricezione della regola della ineliminabilità degli effetti concreti già realizzati, non potendosi ammettere nel nostro ordinamento la permanenza di attribuzioni patrimoniali risultanti sine causa. 35 A sostegno della concezione oggettivo-effettuale della liberalità (derivante da contratti diversi dalla donazione) può addursi – senza con ciò volere proporre inesatte identificazioni – la nozione di Zuwendung propria del diritto tedesco, nozione che (come è stato individuato dalla dottrina italiana, DEIANA, Alcuni chiarimenti sulla causa del negozio giuridico e dell’obbligazione, cit., p. 137; NICOLÒ, (voce) Attribuzione patrimoniale, in Enc. dir., IV, s.d. ma Milano, 1959, p. 283 ss.) non si identifica con quella di negozio di attribuzione bensì con quella di effetto del negozio, altrimenti non si spiegherebbe perché una Zuwendung possa derivare – come è generalmente affermato dai giuristi tedeschi – oltre che da negozi anche da meri atti giuridici o addirittura da fattispecie legali (W. SIEBERT, Schenkung, in Rechtsvergleichendes Handwörterbuch, cit., p. 146:

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pubblica per la validità dei contratti diversi dalla donazione ad effetti liberali: tale genere di forma risulta, infatti, ontologicamente connesso alla espressione ed alla realizzazione (sul piano giuridico) dell’interesse (ossia della causa) liberale 36. Allo stesso modo, per considerare esistente la liberalità non è necessario provare 37 «Zuwendung ist jede Rechtshandlung, durch welche jemand einem anderen einen Vermögensvorteil verschafft. Eine solche Zuwendung kann in ganz verschiedener Weise erfolgen [...] ferner auch durch nichtrechtsgeschäftliche Handlungen»). Sulla concezione meramente oggettiva della Zuwendung quale «fattispecie effettuale» per la cui esistenza non sono necessari elementi soggettivi v., in particolare, LIEBISCH, Das Wesen der unentgeltlichen Zuwendungen unter Lebenden im bürgerlichen Recht und im Rechtssteuerrecht, Leipzig, 1927, p. 16: l’Absicht del Vorteilverschaffung da parte dello Zuwendende non è necessaria, perché ciò che rileva è solo l’obiektive Vorteilverschaffung. 36 Al contrario di quanto avviene nel diritto tedesco dove si ammette la conclusione tacita (stillschweigend) dell’Einigung sulla gratuità dell’attribuzione (cfr. ENNECCERUS u. LEHMANN, Recht der Schuldverhältnisse, 14. Aufl., Tübingen, 1954, § 120, p. 476; LARENZ, Lehrbuch des Schuldrechts, B. Teil, B. II, H. 1, 12. Aufl., 1981, § 47 I, p. 200), in ordinamenti come quello italiano il riconoscere, sul piano generale, la possibilità di realizzare la causa liberale in assenza di forma pubblica crea un’insanabile frattura sul piano sistematico. V., in tal senso, le intuizioni del TORRENTE, I requisiti formali della donazione, in Riv. not., 1958, p. 338: l’arricchimento nella «donazione indiretta» non è la causa ma il motivo del negozio che ha una causa diversa, e imporre il requisito della solennità anche a questi negozi equivarrebbe ad autorizzare un’introspezione psicologica che rappresenterebbe un limite alla libera esplicazione dell’autonomia privata. E ciò anche quando l’interesse liberale non è solo, ma si affianca ad interessi differenti effettivamente perseguiti con il contratto posto in essere (contra CAREDDA, Le liberalità diverse dalla donazione, cit., p. 113). La possibilità di esprimere e realizzare l’interesse liberale senza forma pubblica non sembra infatti da ammettersi sia quando l’interesse liberale è l’unico ad essere perseguito, sia quando esso è perseguito in concomitanza con altri, a meno che non sussista un’espressa previsione normativa (es.: artt. 783, 770, comma 2). Anche in Francia la dottrina si è “arresa” al riconoscimento giurisprudenziale di una pratique che da molto tempo procede à une desolennisation des donations, e ha elaborato la categoria delle donations non notariées, tentando di dar loro una collocazione ed una giustificazione sistematica: MALAURIE, Les successions. Les libéralités, cit., p. 227; NICOD, Le formalisme en droit des libéralités, cit., t. II, p. 455 ss. Contra CARBONNIER, Droit civil. Introduction, 25em éd., 1997, n°28, p. 67 ss., che qualifica il riconoscimento giurisprudenziale delle donazioni non notariées «une coutume contra legem». 37 Prevedono la necessità di tale prova: Cass. 22 febbraio 2001, n. 2606; Trib. Firenze, 3 ottobre 2000, n. 2593, in Arch. civ., 2001, p. 1268; Cass. 11 aprile 1959 n. 1067, in Foro it., 1959, I, c. 760, con nota di A. T(orrente). Cfr. L. LEVENEUR et S. MAZEAUD-LEVENEUR, SuccessionesLibéralités. Leçon de droit civil par H. et L. Mazeaud, J. Mazeaud, F. Chabas, t. IV, v. 2°, 5a ed., Paris., 1999, p. 663, per provare l’esistenza di una donation indirecte «il faut démontrer l’intention libérale» e a tale scopo tutti i mezzi di prova sono ammessi. In questi casi i juges du fond hanno un potere sovrano d’appréciation. I giuristi tedeschi, dal canto loro, si mostrano consapevoli, soprattutto nella conduzione di indagini di tipo comparatistico, della non essenzialità dello spirito liberale o, più esattamente, dell’intenzione di arricchimento ai fini della qualificazione in termini di Schenkung (termine, il cui ambito semantico può valutarsi coincidente con quello della liberalità secondo il linguaggio giuridico italiano) di una determinata fattispecie: cfr. W. SIEBERT, Schenkung, cit., p. 146: «nicht schon jede in Bereicherungsabsicht gemachte (und angenommene) Zuwendung ist Schenkung». Ciò che si reputa necessario è, più specificamente, l’Einigung über

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la sussistenza della causa liberale (o intenzione liberale) – nonché l’accordo delle parti sulla causa medesima. Mentre l’affermazione di sussistenza di un contratto di donazione è subordinata alla prova dei suoi estremi: arricchimento e spirito di liberalità, la cui presunzione è, come regola generale, esclusa, ove si abbia riguardo a dati giudiziali 38, e soprattutto normativi 39, diversamente, l’accertamento di un risultato di liberalità derivante da contratto diverso dalla donazione non richiede la prova dell’animus donandi 40, incentrandosi, piuttosto, sull’ambito effettuale del contratto non die Unentgeltlichkeit, che, tuttavia, è un elemento dai connotati causali in senso soggettivo. Tale soggettivià viene, però, temperata dall’operatività di altre regole, come quella suddetta della (possibilità di una) conclusione tacita dell’Einigung (v. supra nota 36). 38 Cfr., ad esempio, la già citata Cass. 22 febbraio 2001, n. 2606; Cass. 5 dicembre 1998, n. 12325, in Corr. giur., 1999, p. 1142 (con nota di Morozzo della Rocca; in Giust. civ., 1999, I, p. 3095, con nota V. Barba); Cass. 7 luglio 1988, n. 4469, in Giur. it., 1989, I, 1, c. 258; Cass. 25 ottobre 1972, n. 3299, in Riv. not., 1973, p. 492. A volte, poi, la nostra giurisprudenza sembra facilitare la prova dell’elemento soggettivo della fattispecie donativa, ammettendo – come già detto: v. supra nota 33 – la possibilità di presumerne l’esistenza: espressamente in tal senso Cass. 19 marzo 1998, n. 2912, cit. Commentando questa decisione della Suprema Corte, il VILLANI, Brevi note sulla distinzione tra donazione e negozio a titolo gratuito, in Giur. it., 1998, p. 2021, non manca di rilevare che, per quanto in presenza di determinate circostanze, l’esistenza dello spirito di liberalità possa essere presunta, trattasi, però, di presunzione iuris tantum. L’a. sottolinea, inoltre, che pure nel caso in cui venga adottato l’atto pubblico, sebbene l’indagine risulti assai semplificata, non è esclusa la possibilità di provare l’inesistenza effettiva dell’interesse liberale. Si vedano anche Cass. 23 aprile 1998, n. 4197, in Guida al diritto, 1998, n. 20, p. 71 e App. Perugia, 21 febbraio 1996, n. 44, in Rass. giur. umbra, 1996, p. 324. 39 Referenti che prevedono, piuttosto, ipotesi specifiche di presunzioni di causa liberale a fini determinati. Si veda, in primo luogo, l’art. 741, che imponendo la collazione di una serie di «assegnazioni» poste in essere dal defunto a favore dei suoi discendenti, statuisce una presunzione assoluta sul titolo donativo di tali assegnazioni. Nell’art. 743 si presume il titolo liberale di quanto conseguito dall’erede mediante la società contratta senza frode con il defunto, se le condizioni non sono state regolate con atto di data certa. Interessante, altresì, la norma contenuta nell’art. 26 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Testo Unico dell’Imposta di Registro) nella versione che risulta dopo la pronuncia della Corte cost. 25 febbraio 1999, n. 41, in Famiglia e diritto, 1999, p. 213 e dopo l’art. 69, comma 5, lett. b) del Collegato fiscale alla Finanziaria 2000 (L. 21 novembre 2000, n. 342: cfr. in proposito il commento in Successioni e donazioni, Guida normativa il Sole24Ore, novembre 2000, p. 17, p. 21 ss.). Tale norma, nel contenuto che ne risulta dopo gli interventi citati, dispone una presunzione relativa (e non più assoluta) di donazione per gli atti di trasferimento immobiliare posti in essere tra coniugi e parenti in linea retta e per gli atti di trasferimento di partecipazioni sociali posti in essere tra i medesimi soggetti. È importante, tuttavia, tenere presente che la problematica della presunzione di liberalità tra coniugi e parenti in linea retta sollevata dalle norme citate è stata superata, sebbene solo in parte, dall’art. 13 della L. 18 ottobre 2001, n. 383, che ha abrogato l’imposta sulle successione e donazioni: per un’analisi della riforma tributaria cfr. U. FRIEDMANN-G. PETRELLI, Il nuovo regime impositivo delle successioni e delle donazioni e liberalità tra vivi, Studio del C.N.N. n. 90/2001/T approvato dalla Commissione Studi Tributari del 26 ottobre 2001. 40 L’animus è e rimane un elemento che, di fatto, nella fattispecie contrattuale non donativa

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donativo e traducendosi in valutazione di elementi oggettivamente rilevabili 41 (v. infra parr. 3, 5). La liberalità si configura dunque quale risultato (economico 42) di assume connotati squisitamente soggettivi al di là di qualsiasi tentativo di oggettivizzazione in termini causali. Si veda PRINGSHEIM, Animus donandi, in Zeitsch. der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, 42 (1921), p. 288, parla di animus (donandi) in termini di innere Voluntas, e dichiara interpolti molti testi, attribuendo a Giustiniano la dottrina dell’animus (antitetica la posizione del BIONDI, Corso di diritto romano. Le donazioni, Milano, 1940, p. 216 s., là dove critica le conclusioni del Pringsheim e sottolinea, altresì, come il problema dell’animus sia diverso da quello circa il rapporto tra verba e voluntas). Cfr., altresì, le brevi ma incisive osservazioni di G(iuseppe) A(zzariti) espresse nella breve nota a Trib. Ravenna 12 febbraio 1971, in Giur. mer., 1972, p. 219: il ricorso al concetto di animus donandi pur consacrato da antica tradizione e, tuttora, accolto in senso forse acritico dalla dottrina prevalente può suscitare fondati dubbi di validità: un’attenta disamina delle norme pare, infatti, confermare che l’animus donandi non è altro che una formula assai comoda ma scarsamente operativa utilizzata per coprire una serie di problemi (rilevanza della volontà del disponente; importanza dei motivi che hanno determinato la donazione; attuale significato della causa della donazione) che tuttora tormentano la dottrina. 41 Cfr. DUPEYROUX, Contribution à la théorie générale de l’acte à titre gratuit, Paris, 1955, p. 178: «l’intention libérale, entendue comme élément autonome, n’existe pas. Il est temps de réagir contre cette «mystique» de l’intention libérale». F. HAYMANN, Die Schenkung unter einer Auflage nach römischem und deutschem bürgerlichen Recht, Berlin, 1905, p. 4 nota 2, in cui afferma che la Bereicherungsabsicht è «eine reine Fiktion, das Ergebnis einer praesumptio iuris et de iure im Fall del Wille unentgeltlich zuzuwenden feststeht. Somit kommt es eben nur auf diesen Willen an». Si veda anche BESSONE, Adempimento e rischio contrattuale, cit., p. 236 ss. e nota 53, là dove afferma lucidamente che il concetto di animus donandi – al pari di quelli informati ad un apprezzamento psicologico dei fenomeni giuridici – non è operativo nell’ampia misura in cui ciò che è psicologico sfugge a qualsiasi possibilità di controllo. A ciò si aggiunga la presenza nel nostro ordinamento di limiti di rilevanza dell’intento laddove non sia espresso nelle forme legalmente predisposte (cfr. M. CASELLA, (voce) «Negozio giuridico (interpretazione)», in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 30 ss.) nonché di limiti di compatibilità tra interessi perseguiti e «strutture» utilizzate per la loro realizzazione. Sul punto ancora attuali le riflessioni di LENEL, Parteiabsicht und Rechtserfolg, in Jherings Jahrbücher, 19 (1881), pp. 155-170 e pp. 249-253; PATARIN, Le problème de l’equivalence juridique des resultats, Paris, 1954, p. 8. Cfr. sull’attuale ruolo della volontà nel sistema privatistico in un’ottica comparatistica il contributo di G. B. FERRI, La volontà privata e la teoria del negozio giuridico, in Dir. giur., 1997, p. 11 ss. 42 BIANCA, Il contratto2, cit., p. 494, là dove afferma che se nella donazione modale la gratuità, a causa del valore del modo, è inesistente, il fine di liberalità non si è realizzato, mostrando, così, di ritenere che la realizzazione di tale fine è inscindibilmente connessa alla attuazione di un risultato di arricchimento in senso economico, che – ci pare – venga perciò stesso a configurarsi nella concezione dell’a. come effetto [normale o n.d.r.] tipico del contratto di donazione. Nel diritto tedesco l’arricchimento (Bereicherung) è considerato elemento costitutivo della fattispecie donativa al pari dell’impoverimento (Entreicherung): cfr. ENNECCERUS u. LEHMANN, Recht der Schuldverhältnisse,cit., § 120, p. 473: «Der Schenkungsbegriff erfordert demnach: 1. Eine Zuwendung, die den Beschenkten bereichert […]»; l’idea affonda le sue radici nella elaborazione dei Pandettisti: cfr., ad esempio, WÄCHTER, Pandekten, Besonderer Theil, B. II, Leipzig, 1881, § 196, p. 433, che annovera tra gli elementi costitutivi del contratto di donazione in senso proprio (eigentliche Schenkung) il fatto che der Empfänger muß bereichert, d. h. sein Vermögen vermehrt werden. Altrettanto radicata appare l’idea secondo cui tale arricchimento debba avere una valenza economica: REISEN G., Der Charakter des Kausalgeschäfts der Schenkung, Köln, 1928, p. 15: c’è donazione solo

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arricchimento di un patrimonio, correlato al «risultato economico di depauperazione» 43 di un altro. Ciò detto, appare di notevole rilievo teorico-pratico determinare più precisamente i criteri di individuazione del risultato di liberalità in relazione ai contratti onerosi.

3. I contratti a causa onerosa: sproporzione e «risultato di liberalità» L’avvio di un percorso di analisi sul rapporto possibile tra onerosità e liberalità presuppone la condivisione di alcuni assunti. In primo luogo, la definizione stessa di contratto oneroso quale contratto in cui alla prestazione principale a carico di una parte corrisponde una prestazione principale a carico dell’altra 44. Si tratta, poi, di considerare oneroso il contratto nel quale le prestazioni principali a carico delle parti siano tutte patrimoniali nel senso di suscettibili di valutazione economica, accogliendo, così, una nozione oggettivo-economica di onerosità che risulta attualmente prevalente, nonché maggiormente conforme ai dati normativi (cfr. art. 1174 c.c.) 45. L’ampiezza della categoria dell’onerosità così formulata è tale da se il mutamento (o spostamento) patrimoniale dal disponente al beneficiario non sia compensato da un altro specifico Vermögensänderung che «die ökonomische Wirkung wieder aufheben würde». 43 Pone l’accetto sulla necessità che il patrimonio del disponente risulti depauperato in senso economico MIRABELLI, Dialoghi in tema di liberalità, cit., p. 1955. 44 Così BIANCA, Il contratto2, cit., pp. 489, 493; BALBI, Liberalità e donazione, cit., p. 159. Cfr. W. SIMSON, Der Begriff des Entgeltes, Halle a. S., 1909, p. 16 ss.: «entgeltlich ist ein Rechtsgeschäft, wenn sich in ihm zwei wesentliche Anspruchsverpflichtungen gegenüberstehen, unentgeltlich, wenn dies nicht der Fall ist». In dottrina si ravvisa la – condivisibile – tendenza, segnalata da CATAUDELLA, Donazione e liberalità, cit., p. 177 e nota 4 e, di recente, da MOROZZO DELLA ROCCA, Gratuità, Liberalità e Solidarietà, cit., p. 2 ss., ad equiparare i concetti di onerosità (e gratuità) a quelli di corrispettività (e non corrispettività). Questa nozione di onerosità comprensiva di quella di corrispettività emerge, in termini ancora più ampi, nel diritto tedesco (cfr. KOLLHOSSER, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, B. III, 3. Aufl., München, 1995, § 516, Rdnr. 13-18, pp. 991-993; H. THELEN., Entgeltliche Geschäfte ohne beiderseitige Leistungspflicht, Bonn, 1934, p. 18 ss.) e francese (cfr. DUPEYROUX, Contribution à la théorie générale de l’acte à titre gratuit, cit., p. 104: «le titre onéreux implique l’existence d’un lien d’interdépendance juridique entre les prestations»). Distingue, invece, tra i concetti di onerosità e corrispettività, considerandoli indipendenti l’uno dall’altro BISCONTINI, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti. Il problema della donazione mista, Napoli, 1984, pp. 155-159, che giunge a definire la donazione modale un contratto gratuito a prestazioni corrispettive. Intermedia sembra la posizione del CATAUDELLA, op. ult. cit., p. 178, che considera il contratto a prestazioni corrispettive una species dell’atto a titolo oneroso, che abbraccia anche contratti non caratterizzati dallo scambio. 45 Relativamente di recente sul punto è tornato MOROZZO DELLA ROCCA, Gratuità, liberalità e solidarietà, cit., pp. 11-12. Già estremamente significative sull’Entgeltbegriff le considerazioni di F. HAYMANN, Die Schenkung unter einer Auflage nach römischem und deutschem bürgerlichen Recht, cit., pp. 1-9.

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consentire l’ascrizione ad essa di tutti i contratti a prestazioni corrispettive, commutativi o aleatori 46, ma anche la divisione 47, la transazione e gli stessi contratti associativi 48. L’accoglimento della suddetta concezione oggettiva comporta, sì, l’accantonamento della concezione che potremmo definire soggettiva (o volontaristicocausale) dell’onerosità 49, senza, tuttavia, condurre necessariamente ad affermare 46

Considerano onerosi i contratti aleatori TILOCCA, Onerosità e gratuità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1953, p. 71 s.; PINO, Il contratto con prestazioni corrispettive, Padova, 1963, p. 138; DI GIANDOMENICO, Il contratto e l’alea, Padova 1987, pp. 259-261; da ultimo L. BALESTRA, Il contratto aleatorio e l’alea normale, Padova, 2000, pp. 183-184, p. 188. 47 Cfr. BIANCA, La proprietà, Diritto civile, VI, Milano, 1999, p. 486, che sottopone alla qualifica di onerosità l’atto di divisione sul presupposto della sua natura costitutiva e non meramente dichiarativa; SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità o gratuità del titolo, in Riv. dir. civ., 1980, II, p. 85; MINERVINI, Divisione contrattuale ed atti equiparati, Napoli, 1990, p. 102. Una sentenza di merito App. Milano 3 febbraio 1999, in Foro it., 2000, I, c. 2980, ha escluso la possibilità di qualificare oneroso o gratuito il contratto di divisione, collocandolo nel tertium genus dei c.d. atti neutri. Tuttavia, a questa conclusione il giudice giunge sul presupposto della attribuzione al contratto divisorio di una natura dichiarativa che, invece, i più recenti orientamenti dottrinali smentiscono. Inoltre, nella decisione relativa all’ammissibilità dell’azione revocatoria ordinaria senza la necessità della prova della scientia damni del terzo, la corte d’appello assimila l’atto c.d. neutro all’atto gratuito, offrendo così lo spunto per ribadire la debolezza della tesi dell’atto neutro, in quanto privo di supporto disciplinare ad hoc: v. infatti la critica di BALBI, Liberalità e donazione, cit., p. 188, alla tesi dell’Oppo, che appunto afferma la neutralità di determinati atti, salvo, poi, applicare ad essi le norme proprie dei negozi gratuiti. Cfr. sul problema disciplinare H. THELEN, Entgeltliche Geschäfte ohne beiderseitige Leistungspflicht, cit., pp. 23, 46. 48 Sul punto cfr. BIANCA, Il contratto2, cit., p. 489. 49 Secondo la concezione soggettiva il contratto è oneroso se ed in quanto l’indagine sulla («sovrana») volontà delle parti rivela che esse hanno considerato una prestazione correlata all’altra, senza che sia necessario che tutte le prestazioni siano valutabili economicamente: cfr. GORLA, Causa, consideration e forma nell’atto di alienazione inter vivos, cit., pp. 174, 183, 186; anche CATAUDELLA, Bilateralità, corrispettività ed onerosità del contratto, in Studi in onore di G. Scaduto, I, Padova, 1970, p. 225 ss., nega che per aversi onerosità il sacrificio sostenuto debba avere una certa consistenza economica; cfr. H. THELEN, Entgeltliche Geschäfte ohne beiderseitige Leistungspflicht, cit., p. 10, per il quale è la volontà delle parti a decidere se una prestazione e quindi l’intero negozio sia gratuito ovvero oneroso. Anche OPPO, Adempimento e liberalità, cit., p. 289, facendo dipendere la non gratuità dell’atto di adempimento di obbligazione naturale dall’assenza di animus donandi, mostra di considerare la gratuità connessa ad un elemento volontaristico-causale. Nel sistema giuridico tedesco si rinviene l’idea secondo cui la Gegenleistung, che esclude la presenza della fattispecie donativa, non deve essere necessariamente «vermögensrechtlicher Art»: la sussistenza della Schenkung è addirittura negata ove il marito faccia un’attribuzione alla moglie perché vuole che essa torni a casa! (così KOLLHOSSER, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., § 516, Rdnr. 21, p. 994; cfr. ROTHOEFT, System der Irrtumslehre als Methodenfrage der Rechtsvergleichung, Tübingen, 1968, p. 135: «Das Entgelt […] braucht kein Vermögenswert zu haben»). La concezione soggettiva dell’onerosità ovvero del corrispettivo è consolidata nel diritto anglosassone (cfr. FRANCESCHELLI, “Causa” e “Consideration” nel diritto privato italiano e anglosassone, in Causa e consideration a cura di Alpa e Bessone,

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che il contratto per essere qualificato oneroso debba avere su un piano oggettivo efficacia transitiva, nel senso di incrementativa di valori patrimoniali (economici) delle sfere giuridiche dei soggetti coinvolti 50. L’efficacia incrementativa reciproca può sussistere, ma atteggiarsi in vario modo 51 ovvero – secondo una possibile interpretazione – può mancare completamente 52. Si tratta di ipotesi di contratti onerosi aventi ad oggetto una prestazione, in senso lato, di fare (“eliminazione” fisica o giuridica) in favore dell’alienante da parte del soggetto “beneficiato” con il trasferimento del bene. Quest’ultimo libera l’altra parte da situazioni passive, ottenendo in cambio il bene che crea la situazione, in senso lato, di passività. Gli interessi perseguiti con la stipulazione del contratto sono di carattere economico e le prestazioni hanno un valore economico (anche negativo), ma non c’è efficacia transitiva reciproca di valori patrimoniali, perché l’alienante considera “corrispettivo” dell’alienazione la propria “libePadova, 1984, pp. 107-109) in cui una valida consideration, idonea ed escludere la necessità del deed ai fini della vincolatività dell’impegno assunto o della stabilità del trasferimento eseguito, è identificata anche nel detriment derivante da una (promessa di) controprestazione non avente carattere patrimoniale (es.: promessa di smettere di fumare): cfr. ATIYAH, An introduction to the law of contract, Oxford, 1961, p. 63. Accosta espressamente i concetti di Entgelt e di consideration ROTHOEFT, op. ult. cit., p. 132 ss. 50 Ricca di spunti sul tema è l’indagine di TILOCCA, Onerosità e gratuità, cit., p. 53 ss. Invita a non confondere il piano della valutazione economica della prestazione con quello dei suoi effetti economici CIAN, Interesse del creditore e patrimonialità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1968, I, p. 246, in quanto ciò significherebbe smarrire la fondamentale distinzione tra patrimonialità della prestazione e patrimonialità (o non) patrimonialità dell’interesse che la prima è volta a soddisfare. Sembra trascurare questa distinzione MOROZZO DELLA ROCCA, op. ult. cit., p. 6, quando ritiene necessaria ai fini dell’onerosità la realizzazione di una efficacia transitiva di valori patrimoniali, estremizzandone, così, la concezione oggettiva. 51 Si pensi alla sponsorizzazione (cfr. S. PICCININI, Sponsorizzazione tra onerosità e gratuità, in Rass. dir. civ., 1993, p. 815). Valenza esemplificativa spetta, poi, a tutti quei contratti in cui ad una prestazione di dare (trasferire) valori patrimoniali fa fronte una prestazione di fare economicamente valutabile, ma che non realizza incrementi (trasferimenti) di valori patrimoniali nella sfera del beneficiario in quanto realizza un interesse non patrimoniale del medesimo (es.: prestazioni di assistenza e simili: cfr. Cass. 15 febbraio 1983, n. 1166, in Foro it., 1983, I, c. 933: realizza una funzione di scambio e non è quindi donazione il contratto con il quale una parte in corrispettivo del trasferimento di un immobile, si obbliga a prestare all’altra servizi, assistenza e cure mediche. Cfr. anche Cass. 28 giugno 1986, n. 4344, in Riv. not., 1987, p. 561 e Cass. 11 dicembre 1995, n. 12650, in Riv. not., 1996, p. 234). 52 Come avviene in caso di trasferimento senza corrispettivo di un bene (es.: auto usata) ad un soggetto affinché provveda al trasporto del bene fuori dai luoghi di appartenenza del titolare e alla sua distruzione fisica. Si può pensare anche al trasferimento di un credito difficilmente esigibile da parte del titolare ad un terzo (es.: factor), che, non solo non versa alcun corrispettivo al titolare, ma anzi pretende da questi una commissione. Esempi significativi sono, altresì, i trasferimenti di aziende o di pacchetti azionari di società in perdita passati all’acquirente senza che questi provveda a pagare un prezzo ed anzi con l’aggiunta di contributi totali o parziali in suo favore per l’azzeramento o il totale risanamento delle perdite.

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razione” dalla titolarità del bene trasferito (e dalle eventuali situazioni passive ad esso connesse). Nessun valore dal patrimonio dell’acquirente transita in quello dell’alienante, mentre, l’acquirente, da parte sua, riceve un bene privo di valore (positivo) di mercato, cui generalmente si affianca un corrispettivo in denaro che vale da corrispettivo per la “disponibilità” dell’acquirente a diventare titolare del bene di cui l’alienante intende appunto privarsi. Lo stesso negozio fiduciario può farsi rientrare in questo genere di trasferimenti in quanto si sostanzia in un trasferimento unilaterale di valori patrimoniali da un soggetto ad un altro, che non solo non paga un prezzo, ma riceve, in alcuni casi, anche un corrispettivo per l’intestazione fiduciaria e la restituzione ad nutum pattuita, cioè per il «servizio di gestione» dei beni che egli (fiduciario) pone in essere per il fiduciante 53. In relazioni a tali fattispecie la giurisprudenza italiana ha assunto un atteggiamento più semplicistico di quello, pur non univoco, proposto dalla dottrina, in quanto ha affermato che il difetto tout court della pattuizione di un corrispettivo o, comunque, della ragione giustificativa della prestazione prevista, comporta l’assoluta mancanza di causa del contratto e, quindi, la nullità di esso 54. Così facendo, essa mostra di non uscire dall’impasse di una rigida alternativa tra causa di scambio e causa liberale, nonché di rimanere legata ad una certa interpretazione di esse. Al contrario, appare più verosimile ritenere che l’onerosità di una fattispecie contrattuale non dipenda dall’idoneità delle prestazioni (principali) ad incidere direttamente ed immediatamente – incrementandoli e, rispettivamente, depauperandoli – su tutti i patrimoni coinvolti nella fattispecie medesima, là dove per patrimonio si intenda un complesso di beni e di rapporti giuridici attivi valutabili in termini pecuniari 55. L’onerosità risulta, piuttosto, connessa ad una nozione di patrimonio quale complesso di tutti i beni e rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo ad un soggetto, eccezion fatta per i diritti della personalità e per alcuni rapporti di dirit53

In tal senso G. SANTINI, Della compravendita con prezzo a carico del venditore e di altri scambi anomali con natura di servizi, in Contr. e impresa, 1987, pp. 416-422, che esamina in un’ottica che appare in gran parte condivisibile le fattispecie menzionate nel testo. 54 Cfr. Cass. 20 novembre 1992, n. 12401, in Foro it., 1993, I, 1, c. 1506, che ha considerato privo di causa e quindi nullo il contratto di trasferimento della titolarità della concessione di autolinee senza alcuna contropartita per la società cedente che si era determinata alla cessione all’esclusivo fine di scorporare le autolinee dalla residua parte del patrimonio sociale, essendo divenuto il loro esercizio troppo oneroso. Ma parte della dottrina ha convincentemente criticato la scelta dei giudici di legittimità, propendendo verso una qualificazione in termini di corrispettività della fattispecie: così PALAZZO, Atti gratuiti e donazioni, in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, I singoli contratti, 2, Torino, 2000, pp. 89-94; cfr. CATAUDELLA, Donazione e liberalità, cit., p. 184. Sulla questione v. anche infra nota 90. 55 Sebbene riferita alla problematica specifica del risarcimento del danno, puntuale e chiarificante risulta l’analisi del concetto e della definizione di patrimonio di S. PATTI, Il danno patrimoniale, estratto da Digesto IV, disc. priv., sez. civ., Torino, 1989, pp. 8-13.

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to familiare fondati sul matrimonio e sulla parentela 56. Può, dunque, definirsi oneroso ogni contratto le cui prestazioni incidono reciprocamente in modo principale 57 sui patrimoni (delle parti) considerati nella loro accezione lata, cioè ne modificano (in modo definitivo) la consistenza economico-giuridica, ampiamente intesa 58. 56

Elabora questa nozione di patrimonio CIAN, Interesse del creditore e patrimonialità della prestazione, cit., p. 253, che giunge ad identificare patrimoniale con negoziabile, ritenendo che una prestazione rimanga patrimoniale anche se non ha effetti patrimoniali, intesi come effetti economici incrementativi del patrimonio del soggetto in favore del quale è eseguita. La sua patrimonialità, ossia la sua valutazione in termini economici, è indipendente dal “tipo” di effetto che produce nonché dal tipo di interesse (economico o non economico) che è idonea a soddisfare. L’a. fa l’esempio della vendita di una lettera che rappresenti un ricordo di famiglia, ponendo in luce – come già detto – la differenza tra patrimonialità della prestazione e patrimonialità dell’interesse. Ma v. quanto detto infra par. 5. 57 Non è principale la prestazione che costituisce oggetto di un modus apposto ad un contratto di donazione, ma se il valore economico oggettivo di essa è uguale al valore economico oggettivo della prestazione del donante, allora si è in presenza di un contratto oneroso, nonostante la diversa qualificazione delle parti in quanto ciò appare conforme alla nozione economico-oggettiva di onerosità che si è scelta come presupposto delle riflessioni che si vanno svolgendo (in questa direzione BIANCA, Il contratto2, cit., p. 494). Non sembra, quindi, inverosimile sostenere che un contratto possa qualificarsi gratuito quando non si articola in prestazioni cosiddette principali a carico di una parte e a carico dell’altra; tuttavia, qualora sia rilevabile un’equivalenza di valore (economico) delle prestazioni, non sussiste giuridicamente gratuità: cfr. infra par. 5, note 90, 91. In quest’ottica pare potersi affermare che l’art. 793 – a tenore del quale l’onere può assorbire l’intero vantaggio (economico) della donazione senza che questa cessi di essere tale – provveda a regolare un’ipotesi di “sopravvenienza”: TILOCCA, Onerosità e gratuità, cit., p. 66, chiaramente scrive che l’art. 793 non riguarda il momento della formazione del negozio, bensì quello dell’esecuzione; così anche MOROZZO DELLA ROCCA, Gratuità, liberalità e solidarietà, cit., p. 29. 58 Già agli inizi del XX secolo si muoveva in questa direzione F. HAYMANN, Die Schenkung unter einer Auflage nach römischem und deutschem bürgerlichen Recht, cit., p. 8, là dove scrive che per l’applicazione dell’elemento dell’onerosità in senso proprio è necessario che sussista una Zuwendung idonea a produrre, non soltanto in senso giuridico formale, una dingliche Rechtsänderung, bensì, in senso economico, uno spostamento patrimoniale (Vermögensverschiebung). Sulla scia di tale ragionamento l’a. giunge ad affermare che l’Erfüllung non è gratuito nel senso del § 516 ma non è neanche oneroso, in quanto in tal caso non viene in considerazione l’Entgeltbegriff (affermazioni che – ci sembra – possano considerarsi in linea con la tesi dell’Oppo relativa alla neutralità dell’adempimento). Sia qui consentito far rilevare che questo come altri riferimenti e riflessioni svolti avendo riguardo al sistema giuridico tedesco, in questo lavoro come ne La liberalità, I, cit., sono stati, in buona parte, maturati durante i soggiorni di studio trascorsi presso l’Institut fùr ausländisches und internationales Privat- und Wirtschaftsrecht dell’Università di Heidelberg in virtù dell’ospitalità concessa dal prof. Dr. dr. h. c. mult. Erik Jayme, al quale esprimo particolare gratitudine e alle cui idee (E. JAYME, Osservazioni per una teoria postmoderna della comparazione giuridica, in Riv. dir. civ., 1997, p. 813 ss.) sul significato attuale del metodo comparativo in ambito giuridico queste pagine sono improntate. Sui compiti attuali del metodo comparativo cfr. anche le lucide riflessioni di P. POLLICE, Towards a new uniform European conctract law, in corso di pubblicazione, in Atti del Convegno del 5 gennaio 2003 tenutosi presso la East China University of Shangai (in corso di pubblicazione), là dove pone in risalto come la comparazione non possa ave-

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Se ciò è vero, deve, tuttavia, rilevarsi come la nozione di patrimonio appena enunciata non assuma il ruolo di referente ai fini della statuizione di sussistenza di un risultato liberale. Tale ruolo spetta, invece, ad una nozione più ristretta: quella di patrimonio aggredibile da terzi. L’effetto liberale ha, infatti, carattere incrementativo in senso economico; esso è preso in esame dal legislatore in quanto idoneo ad incidere sulla consistenza dei soli beni che possono costituire oggetto di garanzia patrimoniale. Se, infatti, si pone attenzione agli istituti che regolano la liberalità non donativa, appare corretto affermare che l’effetto liberale riguardi quella parte della consistenza economica 59 del patrimonio di un soggetto che può sottoporsi ad esecuzione da parte di soggetti terzi rispetto all’atto posto in essere e che si considerano lesi nei propri interessi dall’effetto che ne è derivato 60. La qualifica in termini di onerosità di una fattispecie negoziale dipende dunque da elementi non (del tutto) coincidenti con quelli rilevanti ai fini dell’individuazione di un effetto liberale, potendosi procedere a determinare l’onerosità di una certa fattispecie contrattuale parallelamente ed indipendentemente dall’individuazione del «risultato di liberalità» (eventualmente) derivante dalla fattispecie medesima 61. Più in particolare, l’effetto liberale può dirsi prodotto da un contratto oneroso in tutti i casi in cui dal contratto medesimo derivi un arricchimento (mero) in favore di una sola delle parti. Tale arricchimento non è (percepito come) il risultato normale del contratto posto in essere, ma come risultato che può derivare in re di mira una conoscenza oggettiva ma una “comprensione” [Verstehen]; nel senso che essa ha necessità: (i) dell’anticipazione progettuale del risultato che persegue; (ii) di un costante processo di comunicazione o di mediazione [cosiddetto circuito ermeneutico] tra gli elementi che, storicamente determinati, compongono un ordinamento giuridico e gli elementi extra-giuridici [economici, sociali, ideologici, religiosi, ecc.] presenti in quella data società. 59 La nozione economica di patrimonio è molto vasta perché comprensiva non solo dei diritti acquisiti ma anche della potenzialità di acquisto (C. AMBERG, Der obligatorische Vertrag auf unentgeltliche Wohnungsüberlassung. Ein Beitrag zur Lehre der Leihe und der Schenkung, Jena, 1907, p. 28: nel concetto giuridico di patrimonio rientrano solo i Rechte bereits erworbene; nel concetto economico invece sono comprese anche le Erwerbsmöglichkeiten) nonché dei risparmi di spesa, ma – come si tenterà di dimostrare – questa nozione di patrimonio così ampia non è quella presupposta dalle norme relative al risultato di liberalità. 60 Cfr. già su questa linea interpretativa la ricostruzione del SANDULLI, Gratuità dell’attribuzione e revocatoria fallimentare, Napoli, 1976, p. 175 e p. 312. 61 Possono, dunque, sussistere contratti onerosi già sul piano astratto non idonei a generare effetti liberali: ad esempio, il contratto avente ad oggetto lo scambio tra una prestazione di trasporto e l’esecuzione di un brano al pianoforte. È evidente che, in tal caso, non sussistono in astratto gli estremi di un «risultato di liberalità», perché anche se ci fosse sproporzione tra il valore di mercato delle prestazioni oggetto delle reciproche obbligazioni (v. oltre nel testo), dall’esecuzione delle medesime non deriverebbe incremento e depauperamento (economico) dei rispettivi patrimoni nel senso che rileva – come vedremo – ai fini dell’individuazione di un effetto liberale.

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concreto 62 da una sproporzione 63 del valore economico delle prestazioni, ossia da una mancanza di adeguatezza in senso oggettivo delle medesime tale da arricchire una parte a carico dell’altra, la quale subisce, così, una mera depauperazione del proprio patrimonio. Il contratto oneroso produce, dunque, un «risultato» di liberalità ogniqualvolta da esso derivi un effetto di arricchimento mero di contenuto idoneo ad incidere sulla consistenza economica (aggredibile da terzi) del patrimonio di una delle parti contraenti.

4. (segue) La vendita ad effetti liberali, la divisione, la transazione, i contratti associativi e altre fattispecie a profilo oneroso La mancanza di adeguatezza oggettiva vale a dire la sproporzione di valore tra le prestazioni può rinvenirsi non solo nella cosiddetta vendita mista a donazione, o, più esattamente, vendita ad effetti liberali 64, ma in ogni contratto, commutativo o 62 La configurabilità «in concreto» dell’arricchimento vale solo per i contratti che non producono normalmente effetti di arricchimento: cfr. MANZINI, Il contratto gratuito atipico, cit., p. 913. In giurisprudenza, con riferimento al contratto di compravendita, si afferma che l’arricchimento da essa derivante in favore di una delle parti «non è l’effetto tipico del negozio che le parti adottano per realizzarlo»: Cass. 10 febbraio 1997, n. 1214, in Foro it., 1997, I, c. 743. Nella massima di Cass. 7 dicembre 1989, n. 5410, in Dir. fam. pers., 1990, p. 428, si legge, in termini ancora più generali, che il negozio oneroso produce in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio l’effetto indiretto dell’arricchimento. Specularmente si rinvengo affermazioni della dottrina secondo cui nei contratti onerosi a prestazioni corrispettive «normalmente ciascuna parte vuole che il proprio arricchimento sia contemporaneo all’arricchimento dell’altro contraente»: S. GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni nei contratti con prestazioni corrispettive, in Riv. dir. comm., 1963, I, p. 457; SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, in Banca borsa tit. cred., 1973, I, p. 382 ss. 63 L’impiego nel testo del termine sproporzione si giustifica in considerazione del fatto che ad esso il legislatore ricorre espressamente per indicare l’esistenza di una differenza di valore economico tra le prestazioni contrattuali come, ad esempio, nell’art. 1448, comma 1, c.c.; anche nell’art. 64 L. fall. è rilevabile l’uso del termine proporzione. In dottrina (S. GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni ecc., cit., p. 443) si è, tuttavia, preferito fare ricorso all’espressione «mancata adeguatezza», sottolineando l’accezione tecnico-economica dei termini proporzione, equivalenza ed equilibrio, accezione che, secondo l’opinione del Gatti, ne impedirebbe l’impiego in ambito giuridico, a meno di non volerne stravolgere il significato, creando divari non auspicabili tra la scienza economica e quella giuridica. In realtà, ci sembra che il referente normativo valga a dissolvere ogni dubbio in proposito. Sui caratteri di tale sproporzione v. infra par. 5. 64 Sui problemi di forte rilievo teorico-pratico sollevati dall’ “ambiguità” della figura torna di nuovo e di recente M. PATUELLI, “Negotium mixtum di donazione” e prelazione agraria, in Notariato, 2002, p. 375, in una nota a Cass. 15 maggio 2001, n. 6711, ibidem, p. 373, che, in maniera acritica, si uniforma all’orientamento consolidato in sede di legittimità volto ad escludere l’estensione della prelazione agraria alla vendita c.d. mista in forza di un’unica argomentazione: l’incompatibilità dell’intento liberale con l’applicazione del diritto di prelazione e riscatto. Ma tale argomentazione mostra la sua debolezza proprio là dove si richiede l’inserimento in atto di una clausola in cui risulti espressamente l’intento del venditore di arricchire a titolo di liberalità il compratore

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aleatorio, che realizza una funzione di scambio in senso lato, presupponendo, naturalmente, che le prestazioni oggetto dello scambio siano idonee alla produzione di arricchimento mero 65. La sproporzione può rilevarsi anche riguardo alla divisione con assegnazione ad uno dei condividenti di una porzione di beni di valore superiore (o inferiore) alla quota a lui spettante per legge. In proposito, si parla, infatti, di un’ipotesi di «donazione indiretta» 66. Non manca, tuttavia, chi, facendo leva sulla tesi tradizionale della natura dichiarativa della divisione è giunto a sostenere che, ove i condividenti, anziché limitarsi al riconoscimento delle quote legali, effettuino, in favore di una delle parti, una spontanea assegnazione di beni che prescinde dalle ragioni in riferimento alle quali la divisione deve essere compiuta, si vada oltre lo schema dell’atto divisorio, e si sconfini in quello della donazione diretta per la quale è necessaria la forma dell’atto pubblico senza la rinuncia ai testimoni 67. Più convincente appare, tuttavia, l’opinione secondo cui il contratto di divisione ha natura costitutiva, da cui deriva un effetto di conversione delle quote in porzioni, cioè un effetto costitutivo a carattere retroattivo per volontà legislativa 68. Ne consegue la configurabilità anche nel contratto di divisione della sprononché la stessa dichiarazione dell’acquirente di essere a conoscenza e di accettare l’intento liberale del debitore. L’inserimento di una clausola di tale contenuto non potrebbe non incidere sulla qualificazione dell’atto: non più vendita ma donazione, eventualmente modale, per la cui validità è necessaria la forma pubblica. Al contrario, proprio la irrilevanza dello spirito liberale nella vendita ad effetti liberali porta ad abbracciare l’orientamento che, pur con meno incisive motivazioni, estende la prelazione agraria anche alla figure miste. Cfr. CAPOZZI, Successioni e donazioni, II, Milano, 1982, p. 794. Situazione analoga a quella del negotium mixtum cum donatione è stata ravvisata nella datio in solutum di valore superiore (o inferiore) alla prestazione originaria: BIANCA, L’obbligazione, Diritto civile, IV, Milano, 1993, p. 442 nota 40; ZACCARIA, La prestazione in luogo di adempimento tra novazione e negozio modificativo del rapporto, Milano, 1987, p. 46 ss.; VON TUHR, Der Allgemeine Teil des Deutschen Bürgerlichen Rechts, B. II, H. 2, Berlin, 1957, § 72, p. 77 nota 100. L’analogia presuppone, però, una ricostruzione in chiave negoziale della datio: in giurisprudenza v. Cass. 28 ottobre 1988, n. 5852, in Foro it., 1989, I, c. 80. Ove, invece, si assegni alla prestazione in luogo di adempimento natura meramente solutoria (così DI MAJO, Adempimento in generale (Artt. 1177-1200), in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1994, p. 346 ss.), si potrebbe ipotizzare che l’elemento della notevole sproporzione possa sussistere oltre che nella fase del perfezionamento della fattispecie contrattuale (negotium mixtum cum donatione), anche successivamente, nella fase esecutiva: per approfondimenti sul punto si rinvia a La liberalità, I, Cap. 3, Sez. I, par. 5. 65 Sulla nozione di arricchimento mero e di quella strettamente connessa di mancanza di adeguatezza in senso oggettivo tra le prestazioni cfr. infra nel testo n. 5. 66 Cfr. BIONDI, Le donazioni, in Trattato di diritto civile italiano diretto da F. Vassalli, XII, Torino, 1961, p. 953, e, in giurisprudenza, App. Torino, 20 luglio 1951, in Giur. it., 1952, I, 2, c. 754. 67 Così A. VENDITTI, Dell’annullabilità per errore della divisione consensuale. Atto di divisione e donazione indiretta, in Giust. civ., 1952, p. 711. 68 Così BIANCA, La proprietà, cit., p. 485 ss.

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porzione tra le assegnazioni senza che ciò incida sulla qualificazione in termini di divisione della fattispecie contrattuale posta in essere, la quale, dunque, può considerarsi (astrattamente) idonea alla produzione di effetti di arricchimento 69. Considerazioni simili possono farsi riguardo alla transazione in cui sia ravvisabile una sproporzione di valore tra le reciproche concessioni 70, nonché in relazione ai contratti associativi, in particolare societari. Che la struttura societaria sia di per sé idonea a realizzare attribuzioni gratuite a carattere incrementativo risulta chiaramente dall’art. 743 c.c. Esso, prendendo in esame il caso specifico della società tra erede e socio defunto, esclude a certe condizioni, la necessità della collazione di tali attribuzioni gratuite, presupponendone, quindi, la realizzabilità e la qualifica in termini di risultati di liberalità 71. In tali contesti l’analisi della produ69

Come per il contratto di società, anche riguardo il contratto di divisione, vigendo la regola della proporzionalità tra quota e assegnazione (in proposito cfr. PERLINGIERI, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, p. 349, là dove parla di proporzionalità c.d. legale), ci si può chiedere se l’effetto liberale sussista già quando non vi sia corrispondenza tra valore della quota e valore dei beni assegnati, indipendentemente dal requisito della “notevolezza” della sproporzione: v. infra nota 101. Problemi sorgono, poi, ove si consideri che per la divisione vige la regola della rescindibilità in caso di lesione oltre il quarto, quindi, si tratta di sapere quando la proposizione dell’azione è esclusa nonostante che siano integrati gli estremi della lesione, tenendo, altresì, conto del fatto che tale azione non presuppone stati soggettivi particolari, come accade, invece, per l’azione di rescissione di altri contratti onerosi (art. 1448): per l’analisi del problema rinviamo a La liberalità, I, cit., Cap. 3, Sez. I, par. 3, nota 80. 70 In tal caso deriva un arricchimento la cui sussistenza emerge sul piano oggettivo della valutazione economica degli effetti prodotti dall’accordo transattivo e non sul piano causale: cfr. NAJJAR, Donation, cit., p. 10, che dopo aver qualificato la transazione in termini di onerosità fa notare come «la gratuité pourrait dès lors s’infiltrer au travers de cette inéquivalence des prestations». Parla invece, in termini generali, di sovrapposizione di funzione e di causa elastica della transazione MOSCARINI, La transazione mista, in Studi in onore di F. Santoro-Passarelli, III, Napoli, 1972, p. 470, che, tuttavia, sembra contraddirsi proprio quando rileva che la funzione transattiva tipica rimane intatta e la diversa funzione sovrapposta può essere rilevata solo nella estrinsecazione sul piano degli effetti della prima, cioè come «proiezione effettuale». In giurisprudenza, riguardo la revocabilità del contratto di transazione ex art. 67, comma 1, n. 1, L. fall. (vecchio testo), si è precisato che è necessario operare un giudizio comparativo esclusivamente tra le prestazioni dedotte dalle parti nel contratto e quindi prescindendo dalle pretese originarie dei contraenti, cioè senza considerare quanto ciascuna parte avrebbe ipoteticamente potuto ottenere da una sentenza favorevole del giudice o perdere in conseguenza di una sentenza sfavorevole: v. Cass. 20 marzo 1976, n. 1016, in Dir. fall., 1971, I, c. 402. Cfr. M. GENNA, Appunti in tema di revocabilità della transazione ex art. 67 L. fall., in Dir. fall., 1978, I, p. 330. Contra questa impostazione va PALAZZO, Atti gratuiti e donazioni, cit., p. 96 s. e ivi le note, che esclude a priori la sussistenza dell’effetto di arricchimento nel caso di transazione, rilevando che la sinallagmaticità non sussiste in tale contratto, sostituita come è dalle reciproche concessioni: la mancanza di corrispettività e l’eventuale lesione non incide sulla validità del contratto transattivo (arg. ex art. 1970): se c’è intento transattivo, c’è irrilevanza dei valori economici in termini di prezzo relativi allo scambio di interessi. 71 Cfr. PALAZZO, Le donazioni2 (Artt.769-809), in Il Codice civile, Commentario a cura di P. Schlesinger, Milano, 2000, p. 670; cfr. W. KOEPPEN, Das negotium mixtum cum donatione nach

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zione dell’effetto di arricchimento può presentare delle peculiarità, nel senso di appuntarsi sul rapporto tra conferimento e sua retribuzione (vale a dire utile) ovvero sul rapporto tra il valore oggettivo di mercato del bene conferito e il valore stimato ai fini della quantificazione del conferimento e quindi della partecipazione sociale 72. Il fenomeno della sproporzione tra quantum spettante per legge e quantum ricevuto può manifestarsi anche in fattispecie quali la divisione dei beni oggetto della comunione legale 73, nonché negli accordi traslativi conclusi tra coniugi in occasione della separazione o del divorzio 74. Pandektenrecht und Reichsgesetzen, Berlin, 1901, p. 45 ss., che include la realizzazione di una liberalità mediante contratto di società nelle ipotesi di negotia mixta cum donatione «im weiteren Sinne». In un ambito societario, oltre che dalla notevole sproporzione tra la quota di utili assegnata e il valore del conferimento, l’arricchimento può derivare da altre situazioni: si vedano in tal senso NICOLÒ, Collazione di lucri derivanti da società tra defunto ed erede, in Raccolta di scritti, I, Milano, 1980, p. 296; CARNEVALI, Le donazioni2, cit., p. 500 s.; ZOPPINI, Contributo allo studio delle disposizioni testamentarie in forma indiretta, in Studi in onore di P. Rescigno, II, Diritto privato. Persone, famiglia, successioni, proprietà, Milano, 1998, p. 969 nota 133. Più in generale, può dirsi che l’elemento della sproporzione notevole può manifestarsi in tutte le fattispecie contrattuali associative (cfr. REALMONTE, Associazione in partecipazione e obbligo di collazione, in Riv. soc., 1961, p. 514 ss.) che perseguono scopi (soggettivi) di lucro, escludendo, invece, tale possibilità per gli enti cosiddetti non profit, la cui configurazione codicistica ed extracodicistica sul piano degli scopi perseguibili e degli strumenti ammessi per la realizzazione degli scopi medesimi elimina a priori le problematiche oggetto d’esame: cfr. sul tema degli enti senza scopo di lucro la recente e penetrante analisi di R. RASCIO, Gli enti del Libro primo. Dalla moltitudine dei modelli speciali ai tipi del codice, in Dir. giur., 2003, p. 1 ss. e sull’approfondimento della nozione di arricchimento liberale il nostro La liberalità, II, Torino, 2004, in corso di pubblicazione. 72 Cfr. DE GENNARO, I contratti misti, Padova, 1934, p. 206. Tra conferimento e utile deve sussistere, salva diversa disposizione delle parti, una vera e propria proporzione (arg. ex artt. 2263 e 2350 c.c.). Sul punto v. le osservazioni di S. GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni ecc., cit., p. 443 nota 41: «solo nei rapporti societari ciascun dividendo è funzione diretta in senso matematico del conferimento». Proprio in ragione di ciò, viene spontaneo chiedersi se in ambito societario sia sufficiente anche una minima alterazione di tale rapporto di proporzionalità tra conferimento e utile conseguito perché possa parlarsi di arricchimento (risultato di liberalità) ovvero se sia necessario che tale sproporzione sia notevole (v. infra par. 5) come per gli altri contratti onerosi. In ogni caso la giurisprudenza non ravvisa la violazione del divieto del patto leonino in caso di notevole sproporzione: Cass. 21 gennaio 2000, n. 642, in Contratti, 2000, p. 309; in Le Società, 2000, p. 697, in cui si esclude la nullità per violazione del divieto del patto leonino – art. 2265 – della clausola sociale che esenta il socio di una società semplice dalle perdite e lo ammette a percepire un utile nella misura del 1% con limite massimo di £100.000 (euro 516, 00). 73 Cfr. Trib. Bergamo 18 marzo 1983, in Riv. not., 1984, p. 247 ss. 74 Cfr. BRIGANTI, Crisi della famiglia ed attribuzioni patrimoniali, in Riv. not., 1997, p. 12 s.: è necessario verificare che l’atto traslativo posto in essere nel contesto della separazione personale sia effettivamente solutorio, cioè che il trasferimento non sia di valore notevolmente sproporzionato [corsivo nostro] rispetto agli obblighi legali di mantenimento (così come determinati nel quantum in sede consensuale o giudiziale) o addirittura non abbia alcun legame con essi. L’a. esorta a mantenere una visione critica delle tendenze dottrinali che individuano negli accordi tra-

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5. Sproporzione notevole e «risultato di liberalità» L’identificazione del «risultato di liberalità» derivante da contratto oneroso nella sproporzione di valore tra le prestazioni oggetto del contratto medesimo richiede lo svolgimento di un passaggio logico intermedio relativo all’ammissibilità sul piano giuridico di un contratto oneroso a prestazioni sproporzionate. Un risposta affermativa in tal senso viene dalla lettura dall’art. 67, comma 1, n. 1, L. fall., che, anche nel testo novellato, prevede la revocabilità, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato di insolvenza del debitore, degli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso. Da tale previsione normativa si evince, in primo luogo, che il contratto oneroso rimane tale non solo quando non esiste una equivalenza oggettiva 75 tra le prestazioni, ma anche quando esse abbiano slativi perfezionati dai coniugi in occasione della separazione o del divorzio un profilo causale autonomo consistente nel coacervo di interessi personali o patrimoniali che accompagnano la crisi familiare. Individua questo complesso di interessi e lo isola, conferendogli dignità causale DORIA, Autonomia privata e “causa” familiare, Milano, 1996, pp. 224, 300 ss. Ma una causa familiare o «di separazione» (art. 158, comma 2, c.c.) può servire ad aggirare i casi di lesione dei diritti dei legittimari e dei creditori che ben possono verificarsi in determinate circostanze. Al pari di ogni altra causa anche quella di separazione si accompagna ad una certa situazione effettuale che appare ragionevole identificare in una regolamentazione da parte dei coniugi dei rispettivi assetti patrimoniali il più possibile conforme alle previsioni legislative in materia, le quali generalmente tendono ad un equo contemperamento dei contrapposti interessi dei soggetti coinvolti (cfr. art. 5, comma 8, l. div., e cfr. App. Bari, 19 ottobre 1999, in Fam. dir., 2000, p. 261). Ciò che conta, dunque, al fine di attribuire carattere di arricchimento all’effetto derivante dall’atto solutorio traslativo, è la notevole difformità rispetto alle previsioni normative dell’assetto predisposto a vantaggio di un coniuge ed a carico dell’altro. Non c’è effetto di arricchimento, invece, ove tale difformità si verifichi rispetto all’accordo omologato, ogniqualvolta i patti privati integrino o modifichino, migliorandole, le disposizioni fissate nel verbale di separazione, nell’accordo omologato o nella sentenza di divorzio, entro i limiti legalmente previsti (cfr. Cass. 22 gennaio 1994, n. 657, in Fam. dir., 1994, p. 139). 75 Cfr. BIANCA, La vendita e la permuta2, in Trattato diritto civile italiano a cura di F. Vassalli, Torino, 1993, p. 69: la causa di scambio non implica l’equivalenza oggettiva [del valore economico n.d.r.] delle prestazioni. Cfr. anche TILOCCA, Onerosità e gratuità, cit., p. 63. Nel diritto tedesco vige il principio della subjective Äquivalenz secondo cui l’autonomia delle parti è libera di determinare il valore delle prestazioni, potendo, quindi, sussistere tra le medesime objektiv ein großes Mißverhältnis: KOLLHOSSER, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., § 516, Rdnr. 23, p. 995; cfr. FROMHOLZER, Consideration; US-amerikanisches Recht im Vergleich zum deutschen, Tübingen, 1997, p. 30, che adduce quale dato normativo di fondamentale importanza a sostegno del principio dell’equivalenza soggettiva proprio la norma sulla Schenkung: «[…] Schon die Frage, ob überhaupt eine Gegenleistung vorliegt, wird nach § 516 Abs. 1 BGB subjektiv bestimmt» (p. 36). Cfr. lo scritto di F. HAYMANN, Zur Grenzziehung zwischen Schenkung und entgeltlichem Geschäft. Ein Beitrag zur Causalehre, in Jherings Jahrbücher, 56 (1909), p. 86 ss., in part. 92 ss. Per un’evoluzione del principio dell’equivalenza soggettiva nel diritto tedesco cfr. infra nota 82.

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un valore (economico) sproporzionato. Dal testo dell’articolo si evince, altresì, che la sproporzione deve essere di oltre il quarto del valore, mentre nel vecchio testo si parlava, più semplicemente, di sproporzione notevole. Il comma 1, n. 1, e il comma 2 dell’art. 67 L. fall. sono estremamente significativi perché, letti in combinato disposto, fanno emergere l’esistenza nel nostro sistema di due diverse ipotesi di atto a titolo oneroso (quello in cui le prestazioni del fallito sorpassano di oltre un quarto – vale a dire notevolmente? – ciò che a lui è stato dato o promesso e quello a prestazioni non notevolmente sproporzionate), sottoponendole ad un regime di revocabilità diverso sul piano probatorio. La disposizione citata attesta che la notevole sproporzione 76 del valore oggettivo delle prestazioni ha rilevanza giuridica nel nostro ordinamento al di là, ma contemporaneamente accanto ai fenomeni della rescissione per lesione o della eccessiva onerosità sopravvenuta. Nel sistema sembra dunque esserci spazio per assumere una prospettiva di analisi del rapporto tra le prestazioni contrattuali diversa da quella presupposta dagli istituti menzionati 77. La percezione di anormalità dell’effetto di arricchimento mero derivato da un contratto oneroso, comune a dottrina e giurisprudenza, trova, infatti – verosimilmente – fondamento nell’operatività di un presupposto concettuale ragionevolmente identificabile nell’idea secondo cui “è normale” che le prestazioni della fattispecie astratta-contratto oneroso siano oggettivamente adeguate in relazione al loro valore economico 78, vale a dire non notevolmente sproporzionate. Questa 76

Tale requisito non va certo confuso con la mera convenienza dell’affare. I contratti onerosi non realizzano quasi mai uno scambio perfettamente equilibrato dal punto di vista economico ed esiste pur sempre un dislivello tra il vantaggio di una parte e quella dell’altra: si parla in proposito di «rendita dello scambista» (S. GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni ecc., cit., p. 442 e nota 37; v. la posizione in parziale dissenso di SCOZZAFAVA, Il problema dell’adeguatezza negli scambi e la rescissione del contratto di lesione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, p. 339 ss.). Questa differenza che, approssimativamente, potremmo definire ontologica al contratto oneroso in quanto tale, non integra gli estremi dell’arricchimento. Cfr. infra par. 6 e nota 97. 77 Gli istituti della rescissione e della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta sono considerati nel nostro sistema giuridico due istituti generali tendenti a tutelare l’adeguatezza oggettiva fra le prestazioni nei contratti con prestazioni corrispettive (cfr. PERLINGIERI,. Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, cit., p. 342 ss., che le considera applicazioni del principio di proporzionalità nel codice civile; S. GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni ecc., cit., p. 444, p. 453; SCOZZAFAVA, Il problema dell’adeguatezza negli scambi e la rescissione del contratto di lesione, cit., p. 354). 78 Cfr. SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., p. 382. A conferma di quanto detto nel testo può, altresì, rilevarsi come nel sistema tedesco, che, al pari di quello italiano, non contiene previsioni normative sul controllo dell’adeguatezza oggettiva delle prestazioni, si ritiene che la presenza di un auffallend großes Mißverhältnis von Zuwendung und Gegenleistung ingeneri la tatsächliche Vermutung che le parti siano consapevoli di questo Mißverhältnis e che esse siano d’accordo sulla teilweise Unentgeltlichkeit. Inoltre, tale presunzione vale non solo nell’ipotesi di conflitto tra le parti, come nel caso di revoca ai sensi dei §§ 528 e 530 ma anche nei confronti di

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idea appare direttamente derivata dalle norme vigenti. Si pensi ai casi in cui una valutazione dell’«adeguatezza» delle prestazioni ad opera delle parti manchi del tutto: l’ordinamento giuridico interviene, stabilendo, «in via suppletiva», che debba essere costituito un rapporto tra le prestazioni tale da risultare adeguato sulla base dell’oggettiva valutazione dei prezzi di mercato dei beni scambiati (cfr. artt. 1474, 1675, 1709, 1733 c.c.) 79. Non sembra perciò inverosimile ritenere che l’adeguatezza in senso oggettivo costituisca un vero e proprio principio normativo 80, il cui raggio di azione, tra l’altro, è oggi in progressiva espansione seppure con differenti articolazioni. L’adeguatezza oggettiva delle prestazioni contrattuali non deve, infatti, essere confusa con quella dell’equilibrio contrattuale 81. Non si può, tuttavia, negare che tali problematiche siano strettamente connesse 82. soggetti terzi quali i legittimari nell’ambito del § 2325 o gli eredi contrattuali nell’ambito del § 2287: così KOLLHOSSER, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., § 516, Rdnr. 24, p. 995 s. e nota 96 per i riferimenti giurisprudenziali. 79 Cfr. S. GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni ecc., cit., p. 444. 80 Giunge a questo risultato chiaramente PERLINGIERI. Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, cit., pp. 334, ss., e in part. 340-342, 347-351 e nota 44, là dove individua il fondamento costituzionale del principio di proporzionalità e la sua necessaria applicazione all’attività di diritto privato, ponendo, altresì, in risalto i collegamenti tra i princìpi di proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza. Dello stesso a. cfr. anche Nuovi profili del contratto, in Rass. dir. civ., 2000, pp. 560-563. 81 La disciplina delle clausole vessatorie (artt. 1469 bis-1469 sexies c.c.) e, più in generale, la corposa normativa consumeristica; la legislazione in materia di usura (L. 7 marzo 1996, n. 108 che, oltre a ridisegnare la fattispecie penalistica dell’usura, ha modificato l’art. 1815, comma 2, c.c., sanzionando con la nullità la clausola con cui sono convenuti interessi usurari), e, ancora, la recente regolamentazione delle vendite sottocosto (D.P.R. 6 aprile 2001, n. 218), per citare solo alcuni dei provvedimenti più rilevanti, attestano, complessivamente considerati, una diffusa esigenza di contemperare contrapposti interessi, mirando a garantire scambi che, presentino, in termini generici, una complessiva equità sostanziale intesa in senso lato: l’art. 1469 ter, comma 2, esclude infatti che in senso specifico la valutazione di vessatorietà di una clausola possa attenere, tra l’altro, all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tale elemento sia individuato in modo chiaro e comprensibile, ma di recente M. D’ETTORE, Liberalità e scambio. La donazione mista, in La donazione, Trattato diretto da Bonilini, Torino, 2001, I, p. 149 ss., ha posto in luce come l’art. 1, comma 2, lett. e) della L. 30 luglio 1998, n. 281, riconosca al consumatore il diritto alla «[…] equità nei rapporti contrattuali concernenti beni o servizi». È interessante qui rilevare come la modifica apportata dalla legge sull’usura 108/96 all’art. 1815, comma 2, c.c. (e letta alla luce della L. 28 febbraio 2001 n. 24, che ne fornisce l’interpretazione autentica), abbia radicalmente escluso la possibilità di realizzare effetti liberali stipulando un mutuo in cui il mutuatario si obblighi a pagare interessi ingentissimi rispetto al capitale trasferito dal mutuante. Se, poi, si tiene conto che il mutuo ad interessi esigui, di fatto, può sfociare nella donazione simulata, si vede come il mutuo oneroso nel nostro sistema non sia idoneo a realizzare effetti liberali non potendo sussistere, per volontà legislativa, notevole sproporzione tra le prestazioni (contra PALAZZO, Le donazioni2, cit., p. 52). 82 Cfr. S. GATTI, op. ult. cit., p. 448 s., che parla espressamente di profonda sproporzione fra le

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L’operatività a livello di principio generale del criterio dell’adeguatezza oggettiva non può negarsi neppure appellandosi alla sua cosiddetta residualità 83 rispetto al principio dell’adeguatezza soggettiva. È vero che nel nostro ordinamento il legislatore non verifica, di regola (come può argomentarsi, tra gli altri, dagli artt. 1349, 1473 c.c.), se, nell’ambito di un contratto oneroso, la valutazione (del rapporto economico tra le prestazioni) compiuta dai contraenti corrisponda a quella oggettiva del mercato, in quanto ciò rappresenterebbe un attentato all’autonomia privata 84. Il fatto che il criterio «suppletivo» sia quello della «adeguatezza oggettiva» porta, tuttavia, a credere che quest’ultima sia percepita, in un’ottica sistematica, come idonea a realizzare la «funzione» di scambio in modo paradigmatico. attribuzioni per la mancanza o la grave limitazione della libertà di iniziativa e di contratto; R. LANZILLO, Regole del mercato e congruità dello scambio contrattuale, in Contr. e impresa, 1985, p. 309 e della stessa a., La proporzione tra le prestazioni contrattuali, Padova, 2003; COSTANZA, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Contr. e impresa, 1987, II, p. 433. La connessione logica tra la tematica dell’adeguatezza delle prestazioni e quella della tutela del contraente debole emerge anche in common law: ALPA-R. DELFINO (a cura di), Il contratto nel common law inglese, 2a ed., Padova, 1997, p. 65 ss. Di notevole interesse sono, poi, le riflessioni di FROMHOLZER, Consideration, cit., p. 39 ss., che parla espressamente di notwendiger Zusammenhang zwischen Äquivalenzstörung und Willensfreiheit, giungendo, così, ad identificare la tematica della sproporzione di valore delle prestazioni, cioè quella della qualificazione di una fattispecie contrattuale in termini di onerosità o gratuità con quella della tutela del contraente debole: «Mit Ausnahme von Schenkungen liegt daher bei fehlender objektiver Äquivalenz immer eine Einschränkung der Willensfreiheit einer Seite vor». Cfr. sul punto anche MEDICUS, Abschied von der Privatautonomie im Schuldrecht, Köln, 1994, p. 20 ss. E che questo sia l’orientamento affermatosi nel sistema tedesco risulta, altresì, dalla recente riforma del II libro del BGB (Schuldrechtsmodernisierungsgesetz), con la quale si è proceduto a codificare gran parte della legislazione consumeristica, in particolare quella relativa alla tutela della parte-consumatore nei rapporti contrattuali, mostrando così di voler soddisfare un’esigenza di equilibrio nei rapporti di forza tra parti del contratto, esigenza che si realizza anche con la determinazione di limiti alla sproporzione di valore tra le prestazioni: cfr. sul problema della protezione del consumatore dai prezzi sopraelevati le brevi ma puntuali osservazioni di H. KÖHLER, Einführung, in BGB, 51. Aufl., München, 2002, p. XXIX, là dove non manca di sottolineare che nella logica codicistica la Preisgestaltung era lasciata fondamentalmente alle parti, traendo il contratto la sua legittimazione non dalla equivalenza (di valore in senso oggettivo: Gleichwertigkeit) delle prestazioni bensì dalla Selbstbindung delle parti. La giurisprudenza negli ultimi anni ha mostrato una tendenza correttrice di tale concezione, andando verso un’estensione della figura del contratto usurario e della dichiarazione di nullità del medesimo in quanto contrario al buon costume là dove gli interessi pattuiti superavano il doppio o il dodici per cento di quelli di mercato, mostrando di tornare alla cosiddetta laesio enormis del diritto comune. In particolare l’a. fa notare come un intervento giudiziale nella correzione del prezzo possa venire in considerazione solo quando il prezzo pattuito si discosti notevolmente (stark) in eccesso o in difetto dal prezzo di mercato. 83 Cfr. in tal senso l’analisi di S. GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni ecc., cit., p. 443 s. 84 Puntuali in proposito sono le osservazioni di SCHLESINGER, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. it., IV, 1999, p. 231 s. Cfr. BIANCA, Il contratto2, cit., p. 490; PINO, Il contratto a prestazioni corrispettive, cit., p. 83; CAROPPO, Gratuità ed onerosità dei negozi di garanzia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, p. 440.

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Affermare che l’effetto “normale” o “tipico” – per usare il linguaggio giurisprudenziale – di un contratto oneroso non sia di arricchimento mero, ma di arricchimento, per così dire, reciproco e che tale “tipo” di effetto rappresenti la “migliore” espressione della causa di scambio 85 non significa riproporre la tesi della identificazione della causa e degli effetti del negozio 86. Da un contratto può, infatti, derivare, in concreto, un effetto di arricchimento (mero in favore di uno dei contraenti) senza che venga meno la causa, lato senso, di scambio, del contratto stesso, la quale dunque non si identifica con determinati effetti, essendo idonea a giustificarne di molteplici, anche non essenziali, purché non incompatibili con essa. Il rapporto tra adeguatezza soggettiva e oggettiva di configura dunque nel nostro sistema giuridico non tanto in termini di «residualità» quanto, piuttosto, di coesistenza su piani distinti. Non è richiesta ai fini della validità ed efficacia del contratto oneroso l’adeguatezza in senso oggettivo delle prestazioni, che possono, quindi, risultare notevolmente sproporzionate per libera e consapevole scelta 87 delle 85 Cioè la sua realizzazione “topica”: cfr. S. GATTI, op. ult. cit., p. 457; SANDULLI, op. ult. cit., p. 382, il quale cita la Relazione al codice civile del Ministro Guardasigilli n. 123, per affermare che l’equilibrio tra le prestazioni delle parti o l’equità del vantaggio conseguito da ciascuna di esse costituisce l’ideale di una sana circolazione dei beni. Anche in ordinamenti come quello inglese, che tradizionalmente esclude qualsiasi giudizio sull’adequacy della consideration, attualmente consente un giudizio sull’adeguatezza non già alla stregua della convenienza dell’affare né delle condizioni patrimoniali delle parti ma con riferimento alla ragionevolezza ossia ad un criterio oggettivo di efficiente distribuzione delle ricchezze: così M. SERIO, Note su consideration e causa, in Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica a cura di L. Vacca, Torino, 1997, p. 391. Questo mutamento di rotta rilevabile nel diritto inglese e statunitense avvicina common law e civil law che, al contrario, in un’ottica generale, rimangono distanti proprio su questo punto della necessità di adeguatezza oggettiva delle prestazioni oggetto di scambio: v. l’analisi comparatistica di FROMHOLZER, Consideration, cit., pp. 37-42, là dove pone in luce che il problema del controllo dell’Austauschgerechtigkeit è trattato e risolto nei sistemi tedesco e americano in maniera non dissimile sul piano dei risultati pratici (p. 42). I risultati dell’analisi del Fromholzer ci sembrano confermati dalla lettura della manualistica sul diritto inglese dei contratti: cfr., a titolo esemplificativo, SHARES & STEPHENSON, James’ Introduction to English Law, 13th ed., London, 1996, p. 231: «At common law consideration need not to be “adequate”. Where, however, there is inequality of bargaing power between the parties equity may re-open the bargain and by statute (Consumer Credit Act 1974, ss. 137-139) if the court finds a credit bargain (eg a loan) extortionate it may reopen it so as to do justice». 86 Il riferimento è alla ricostruzione del PUGLIATTI, Nuovi aspetti del problema della causa nei negozi giuridici, in Diritto civile, Metodo-Teoria-Pratica, Saggi, Milano, 1951, p. 83. 87 La scelta deve essere libera e consapevole, altrimenti, potrebbero essere integrati i requisiti soggettivi richiesti dalle norme sulla rescissione per lesione (stato di bisogno e approfittamento: cfr. Trib. Messina 18 giugno 1948, in Temi, 1950, V, p. 168) oppure si ricadrebbe in un’ipotesi di «nullità» della clausola negoziale: cfr. art. 1815, comma 2, c.c. e il recente contributo sul tema di OPPO, Lo squilibrio contrattuale tra diritto civile e diritto penale, in Riv. dir. civ., 1999, p. 533. La sproporzione non deve essere frutto di errore: TILOCCA, Onerosità e gratuità, cit., p. 67. L’indagine sulla integrità e libertà della volontà dei contraenti non deve spingersi, però, fino a stabilire quale

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parti. La presenza della notevole sproporzione può, tuttavia, tradursi concretamente nella produzione di effetti rispetto ai quali il legislatore non assume un atteggiamento di indifferenza, bensì di considerazione a fini specifici, in particolare a scopi di tutela dell’interesse di determinati soggetti come i creditori del fallito 88 ovvero, qualora dalla notevole sproporzione derivi un effetto liberale 89, anche gli eredi e i legittimari della parte che risulti depauperata. Rilevare la produzione di un effetto liberale non incide sulla qualificazione in termini di onerosità del contratto posto in essere, purché l’operazione interpretativa riveli che con quel contratto le parti perseguono effettivamente gli interessi di sia la ragione (interesse) che ha indotto le parti a realizzare la sproporzione tra le prestazioni. Su questa linea oggettiva ci pare vada l’art. 323-2 della Compilación de Cataluña che esclude l’esperibilità dell’acción rescisoria por lesión nei confronti del negocio mixto con donación, come riferisce J. L. DE LOS MOZOS, La donación en el código civil y a través de la jurisprudencia, Madrid, 2000, p. 111. Per una prospettiva di diritto contrattuale europeo, cfr. il Progetto preliminare del Libro I del Codice europeo dei contratti, Milano, 2002, redatto dall’Accademia dei Giusprivatisti Europei coordinati dal prof. G. Gandolfi, e, in particolare, l’art. 156, comma 5, dove si esclude l’esperibilità del rimedio della rescissione per lesione, o meglio il presupposto di tale rimedio consistente nell’abuso consapevole di una delle parti della situazione di inferiorità dell’altra, se la controparte ha manifestato la volontà di versare una somma elevata in ragione «d’une affection particulière envers l’objet du contrat, ou bien que des rapports entre les parties on puisse deduire que celles-ci ont voulu conclure un contrat mixte, à titre tant onéreux que lucratif». La formulazione di questa norma attesta, infatti, che la consapevolezza della sproporzione, comunque motivata, vale ad escludere la patologia nella formazione della volontà contrattuale ed i rimedi ad essa relativi. 88 Basti pensare all’art. 67 L. fall. sopra citato, al quale si rifà SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., p. 383, ponendo in risalto come in alcune ipotesi speciali e specifiche sia approntata dal sistema una tutela di secondo grado dell’interesse di soggetti terzi rispetto alle parti del contratto, tutela che presuppone l’autorizzazione ad indagare sul valore delle prestazioni di un contratto di scambio. 89 Per aversi arricchimento liberale non basta una sproporzione qualsiasi tra la prestazione dell’una e la controprestazione dell’altra, dovendo la sproporzione rivestire carattere di notevole entità (così Cass. 22 giugno 1963, n. 1685, in Giust. civ., 1963, II, p. 1812; Cass. 22 settembre 1959, n. 2598, in Banca borsa tit. cred., 1960, II, p. 363, che rimane comunque ancorata alla concezione attualmente corrente di donazione indiretta quando afferma che la sproporzione deve essere notevole così da far apparire l’attribuzione dell’eccedenza come attribuzione autonoma e indipendente e riposante su «una causa diversa». Cfr. FROMHOLZER, Consideration, cit., p. 41, nell’ambito di sistemi giuridici come quello tedesco ed americano in cui non è richiesto ai fini della validità ed efficacia del contratto un Äquivalenzverhältnis, la Gleichwertigkeit der Leistungen può essere esclusa solo da una extreme objektive Wertdifferenz. Interessante è, altresì, il riferimento ai Principi UNIDROIT, in particolare all’Art. 3. 10 rubricato Gross disparity, nel cui primo paragrafo si ammette la possibilità per una parte di avoid il contratto o una clausola di esso qualora dal momento della conclusione, il contratto o la clausola risultano produrre in favore di una delle parti un excessive advantage. Nel commento 1 al suddetto articolo si legge: «As the term “excessive” advantage denotes, even a considerable disparity in the value […] it is not sufficient to permit the avoidance or the adaptation of the contract under this article. What is required is that the disequilibrium is in the circumstances so great as to shock the conscience of a reasonable person».

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scambio che esso è tipicamente volto a realizzare. Ove infatti il valore di una prestazione sia assolutamente irrisorio non è l’equivalenza – che di per sé non rileva – ma la corrispettività (vale a dire l’onerosità stessa) che manca in quanto risulta ictu oculi che la contropartita è semplicemente apparente e la corrispettività simulata 90. Pertanto, è necessario sottolineare che nel nostro ordinamento risulta, sì, decisiva, ai fini della qualificazione della fattispecie contrattuale in termini di onerosità, la valutazione, fatta dalle parti, del valore economico delle prestazioni, ma occorre che tale valutazione non si discosti eccessivamente da quella obiettiva, pena il mutamento di qualificazione giuridica della fattispecie contrattuale (può parlarsi, ad esempio, di donazione modale). La sussistenza di un’eccessiva (cioè più che notevole) sproporzione ha immediati riflessi sull’individuazione, dal punto di vista giuridico, dei reali interessi delle parti. L’eccessiva sproporzione costituisce dunque il limite dell’“elasticità” della causa onerosa 91. 90

La sproporzione «eccessiva» del valore delle prestazioni non può essere tollerata perché impone l’applicazione delle norme sulla simulazione ovvero, se ne sussistono i presupposti, sulla conversione negoziale: cfr. CAROPPO, Gratuità ed onerosità dei negozi di garanzia, cit., p. 441; TILOCCA, Onerosità e gratuità, cit., p. 67 s.; cfr. BIANCA, Il contratto2, cit., p. 494. Al contrario, nel diritto americano e tedesco non può sorgere un problema analogo di invalidità perché le donazioni sono in entrambi i sistemi efficaci mediante esecuzione («Schenkungen sind in beiden Systemen zumindest nach Vollzug wirksam»: FROMHOLZER, Consideration, cit., p. 39 e note 115, 116) e, quindi, per salvare dall’inefficacia l’atto a prestazioni anche eccessivamente sproporzionate, o meglio per rendere irripetibile quanto prestato è sufficiente verificare il momento soggettivo. Non rientrano nei casi di sproporzione eccessiva le sopra analizzate fattispecie onerose prive di efficacia incrementativa (supra par. 3). In tali ipotesi, per determinare se c’è arricchimento non si può avere riguardo soltanto alla vicenda traslativa in sé considerata. Essa da un punto vista giuridico produce trasferimento di valori patrimoniali; da un punto di vista economico, però, il trasferimento non depaupera il patrimonio dell’alienante né incrementa il patrimonio dell’acquirente che può essere incrementato eventualmente dalla dazione di una somma di denaro in aggiunta al bene trasferito. Allora, si tratta di vedere se questa dazione trova adeguata corrispondenza nell’eliminazione dal patrimonio dell’alienante di situazioni di passività oppure se sia di ammontare notevolmente sproporzionato all’ammontare di tali passività e in generale del valore di mercato della prestazione offerta dall’acquirente. 91 Parla in proposito di equivalenza soggettiva temperata: TILOCCA, Onerosità e gratuità, cit., p. 65. I contrasti tra la concezione oggettivo-economica e quella soggettivo-causale di onerosità emergono in BALBI, Saggio sulla donazione, cit., p. 137 ss., dove si afferma chiaramente che l’arricchimento può derivare da ogni negozio gratuito e anche da negozi onerosi; l’onerosità consiste nel giudizio di equivalenza tra ciò che ciascuna parte dà e ciò che riceve; l’arricchimento e l’impoverimento, per contro, dipendono dalla valutazione oggettiva del patrimonio di ogni parte, prima e dopo l’esistenza del negozio oneroso «ed è possibile che pure ritenendo ogni parte di fronte all’altra equivalente ciò che riceve con ciò che dà, un patrimonio risulti arricchito e l’altro impoverito secondo la valutazione dell’uomo medio»; M. D’ETTORE, Intento di liberalità ecc., cit., p. 90 ss.: l’intento di scambio e la valutazione soggettiva della corrispondenza delle attribuzioni, trova il suo limite nella gratuità oggettiva e, d’altra parte, se i valori delle prestazioni sono equivalenti non è dato cercare l’intento liberale. Cfr. anche DUPEYROUX, Contribution à la théorie généra-

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Entro i confini di tale “elasticità”, deve ammettersi che la qualifica del contratto come oneroso o gratuito non è ontologicamente connessa all’equivalenza o adeguatezza in senso oggettivo dei valori economici delle prestazioni medesime. L’onerosità e la gratuità sono, piuttosto, qualifiche che attengono alla causa del contratto ad effetti, in senso lato, attributivi, la quale, se consiste nello scambio (e ciò si deduce dall’esistenza effettiva di prestazioni principali a carico delle parti, purché – come detto – tutte suscettibili di valutazione economica e dal valore non eccessivamente sproporzionato), è onerosa, mentre è gratuita in tutti gli altri casi: tertium non datur 92.

6. Onerosità causale e effetto liberale: il ruolo sistematico dell’art. 809 c.c. Le nozioni di onerosità e gratuità non si esauriscano nell’ambito (soggettivo)causale del fenomeno negoziale, operando su due piani: l’uno attinente alla sfera (giuridico-)causale; l’altro attinente alla sfera (economico-)effettuale del negozio posto in essere. Di conseguenza, è possibile definire parzialmente gratuito un contratto oneroso, in quanto il termine gratuito assume in tal caso un’accezione non causale, ma effettuale, relativa agli effetti del contratto valutati da un punto di vista economico. La gratuità effettuale (cioè economica) parziale 93 rileva quando si assume il le de l’acte à titre gratuit, cit., p. 196: la cause rivela l’esistenza di un rapporto di equivalenza tra due sacrifici antagonisti oggettivamente ineguali e, con tale equivalenza, il titolo oneroso della convenzione; in assenza di questo rapporto di equivalenza la cause non può che far presumere la gratuità che, però, può essere distrutta dall’analisi economica se i sacrifici sono oggettivamente uguali. Cfr. la recente lucida analisi di R. RASCIO, I Principi di diritto europeo e la causa del contratto, in Europa dir. priv., 2003, I, p. 255 ss., in part. 265, là dove, in un ampio quadro di raffronto tra gli artt. 2:101 e 2:102 dei Principles of European Contract Law (PECL) e gli artt. 1325, 1418 del nostro codice, pone in risalto le difficoltà incontrate dalla giurisprudenza e dalla dottrina italiane nella distinzione tra i vari “generi” di sproporzione e ciò in considerazione della tendenza ad escludere la sussistenza della causa onerosa in presenza di una sproporzione «enorme». In particolare, l’a. fa rilevare come l’indagine sulla sproporzione e sulla “sopravvivenza” della fattispecie presuppongano l’accertamento in senso negativo della sussistenza dello spirito liberale, la cui presenza attribuirebbe alla fattispecie carattere liberale. 92 Così già SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., pp. 391-394, là dove confuta, in modo che ci appare convincente, la tesi contraria di OPPO, Adempimento e liberalità, cit., p. 289 ss. 93 La gratuità (intesa in senso (economico-)effettuale e non in senso causale) non può che essere parziale, altrimenti il contratto sarebbe simulato ovvero nullo con eventuale possibilità di essere convertito (su questa tematica v. per tutti l’indagine G. GANDOLFI, La conversione dell’atto invalido. Il problema in proiezione europea, II, Milano, 1988, pp. 231-308; cfr. anche l’approfondita analisi di C. VENDITTI, Disposizione testamentaria orale e conferma ex art. 590, in Dir. giur., 1988, p. 151 ss.). Al corrispondente concetto di onerosità parziale si fa riferimento in dottrina riguardo

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punto di vista di soggetti diversi dai contraenti 94. In particolare, quando essa si configura come «risultato di liberalità» vengono in considerazione alcuni istituti contemplati nell’art. 809 c.c., che presuppongono la lesione di quegli stessi interessi che vengono generalmente lesi dall’effetto economico proprio del contratto di donazione 95. La sussistenza dell’effetto di arricchimento (o liberale), considerato di per sé stesso 96, oggettivamente, nella sua valenza economica 97, determina l’applicazione al contratto oneroso di certe regole, che tutelano interessi di soggetti diversi dai contraenti. Tale applicazione avviene non soltanto senza che si debba dimostrare l’esistenza dello spirito di liberalità, eventualmente presente, ma anche quando esso sia del tutto assente, perché, ad esempio, il prezzo notevolmente più alto del valore di mercato del bene è stato consapevolmente pagato dall’acquirente per mancanza di abilità a contrattare: quando, cioè, si tratta di un “cattivo affare” per una delle parti 98. la donazione modale ovvero i contratti a titolo gratuito per i quali sia possibile l’apposizione di un onere: BIANCA, Il contratto2, cit., p. 494; SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., pp. 389-396. 94 Questa conclusione si differenzia da quella del SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., pp. 366, 390-397, 402; ID., Gratuità dell’attribuzione e revocatoria fallimentare, Napoli, 1976, p. 40 nota 61, che, pure, ne costituisce lo spunto concettuale. 95 Così MIRABELLI, Dialoghi in tema di liberalità, cit., p. 1962. Non trovano invece applicazione i rimedi come la revocazione per ingratitudine perché essa presuppone la rilevanza giuridica dello spirito di liberalità e più in generale dell’accordo sulla gratuità dell’attribuzione: si rinvia sul punto a La liberalità, I, Torino, 2002, Cap. 3, Sez. I, par. 3 e Cap. 6, par. 2 e più ampiamente La liberalità, II, Torino 2005 (ristampa on line 2012). 96 La dottrina ha, da tempo, assunto la consapevolezza dell’esistenza nel sistema di norme che hanno ad oggetto un particolare effetto e che mirano a tutelare soggetti determinati: CHECCHINI, Regolamento contrattuale e interessi delle parti, cit., p. 247 ss. e nota 76: per le singole figure contrattuali possono essere dettate regole improntate a maggiore specializzazione, in quanto ricollegate ad un effetto giuridico o economico. Ad esempio il Checchini cita la disciplina della garanzia per evizione e quella «delle liberalità che determinano un arricchimento come risultato di atti diversi dalla donazione». Cfr. anche supra nota 33. 97 Si è sostenuto, tuttavia, che l’arricchimento inteso in senso economico quale incremento sostanziale del patrimonio sia risultato normale, ma non essenziale della donazione (Ant. D’ANGELO, La donazione rimuneratoria, cit., p. 15; CHECCHINI, Interesse a donare, cit., p. 308; BALBI, La donazione, in Trattato di dir. civ. diretto da Grosso e Santoro-Passarelli, II, Milano, 1964, p. 15). Al contrario, non può farsi a meno di rilevare che la problematica della liberalità attiene all’arricchimento in senso economico correlato al depauperamento del disponente. Se non c’è un soggetto che si arricchisce in senso sostanziale a carico di un altro, non c’è il soggetto passivo dei rimedi contemplati dall’art. 809 c.c. In altri termini è il combinato disposto degli artt. 769 e 809 a far emergere il riconoscimento legislativo dell’essenzialità dell’arricchimento in senso economico in tutte le fattispecie liberali, a partire dalla donazione (BIANCA, Il contratto2, cit., p. 494 ed in giurisprudenza cfr. la recente Cass. 26 maggio 2000, n. 6994, in I contratti, 2000, p. 1085). 98 Escluso l’errore giuridicamente rilevante ovvero la lesione o l’abuso di posizione dominante, il fatto che la sproporzione di valori tra le prestazioni sia frutto di una “maldestra” contratta-

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Nell’ambito di una tale prospettiva si superano le impostazioni correnti secondo cui la disposizione dell’art. 809 c.c. crea una frattura nel sistema in quanto spezza l’unitarietà della fonte contrattuale donativa riguardo alla produzione dell’effetto liberale. Al contrario, una volta esclusa la rilevanza giuridica dell’intento liberale nei contratti ad efficacia inter partes e incentrata la comunanza di elementi tra donazione contrattuale e atti diversi sul tipo di effetto prodotto, la previsione menzionata si inserisce armonicamente all’interno della compagine codicistica, rivelandosi, a sua volta, fonte di principi generali. In particolare, sostenere che dai contratti onerosi possano risultare effetti liberali disciplinati dall’art. 809, significa affermare la regola secondo cui, in tali contratti, pur non essendo necessaria ai fini della validità e dell’efficacia una adeguatezza economica oggettiva delle prestazioni, debba, comunque, sussistere, tra le stesse, una proporzione 99 oggettivamente rilevabile, altrimenti, ove la sproporzione del loro rispettivo valore di mercato sia notevole e produca (in concreto) arricchimento in favore di una sola delle parti, il contratto rimane, sì, interamente oneroso sul piano causale (e sul piano della disciplina connessa a quella causa 100), ma, diviene, da un punto di vista economico, seppure solo parzialmente, gratuito, e per ciò stesso sottoposto a specifiche regole che prescindono dalla onerosità causale suddetta. Se ciò è vero, si vede come l’art. 809 assume sul piano sistematico il ruolo di norma che va ad interferire con il principio dell’autonomia delle parti nella determinazione dei valori economici delle prestazioni. Una sproporzione notevole 101 zione di uno dei contraenti, non può rilevare ai fini dell’applicazione degli istituti della riduzione e della collazione nonché della revoca per sopravvenienza di figli. Non appare, infatti, ragionevole tutelare i coeredi ed i legittimari nonché i figli sopravvenuti quando il de cuius vende sottoprezzo per spirito di liberalità e non quando, invece, vende sottoprezzo perché, ad esempio, inetto nell’esercizio dell’ars stipulatoria o desideroso di avere per motivi personali un oggetto privo di valore di mercato. 99 Cfr. GORLA, Il contratto, I, Milano, 1955, p. 108 nota 2bis; TILOCCA, Onerosità e gratuità, cit., p. 71 ss. Cfr., vigente il codice Pisanelli, PACIFICI-MAZZONI, Il codice civile italiano commentato, X, Trattato delle successioni, Torino, 1929, pp. 142-144. Quanto detto nel testo non va però considerato come avallo di tesi secondo le quali il contratto riceve giuridica tutela solo quando sia mezzo per l’attuazione di un giusto assetto di interessi non solo fra le parti ma anche rispetto ai terzi (in tal senso, invece, S. GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni ecc., cit., p. 449 nota 60). La protezione di determinati terzi lesi dagli effetti (eventuali) della mancanza di adeguatezza oggettiva delle prestazioni sia ispirata ad una ratio sua propria non identificabile con l’esigenza di attuazione da parte del contratto posto in essere di un giusto assetto di interessi e tra le parti e rispetto ai terzi: cfr. anche quanto detto supra note 75, 82. 100 Vale a dire sul piano degli interessi concretamente perseguiti e integranti la funzione oggettiva del contratto. 101 È ricorrente tra i giudici di merito l’affermazione secondo cui la consistenza della notevole sproporzione debba aggirarsi intorno a percentuali non inferiori al quarto (v. la rassegna di pronunce elaborata da N. PERROTTA, Fallimento. Rassegna sotto la direzione di M. Sandulli, in Giur.

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tra i valori delle prestazioni, ove produca arricchimento in favore di una delle parti, costituisce il presupposto per l’applicazione di determinati istituti, qualunque sia la ragione 102 che ha mosso le parti (o una di esse) a determinare quel dislivello di valori. Tutto ciò a tutela di interessi di soggetti (terzi) che si trovano in una comm., 1988, p. 237 ss., pp. 238-244.). Il problema è stato affrontato e risolto nei termini suddetti con riguardo alla norma fallimentare (art. 67, comma 1, n. 1, L. fall., testo novellato in cui – come già detto – si fa espresso riferimento alla lesione oltre il quarto) e risulta in parte influenzato dall’esigenza di favorire il fallimento. Più che su un orientamento giurisprudenziale sembrerebbe corretto, al fine di fornire criteri utili alla quantificazione della notevole sproporzione, far leva su elementi normativi, in particolare, su quelli relativi alla rescissione per lesione dei contratti e alla rescissione del contratto di divisione, cui possono aggiungersi le considerazioni fatte sulla non eccessività della sproporzione tra le prestazioni nonché il criterio della sproporzione oltre il quarto indicato nella già menzionata legge fallimentare. Ciò indurrebbe a confermare, in linea di massima, il criterio normativo del quarto per contratti come la divisione ed il contratto di società in cui vige la regola della proporzione tra quota e assegnazione. Per essi si potrebbe pensare che anche un divario non particolarmente consistente possa considerarsi sufficiente ad integrare gli estremi della “notevolezza”; mentre per gli altri contratti onerosi potrebbe essere ragionevole identificare la sproporzione notevole con la sproporzione ultra dimidium, poiché in assenza di norme analoghe a quelle vigenti in materia di rescissione della divisione, una sproporzione oltre il quarto potrebbe ascriversi alla sfera della convenienza. In ogni caso, dato che tali criteri non sono indicati espressamente dalla legge per la quantificazione della notevole sproporzione ai fini dei rimedi dell’art. 809 c.c., bensì menzionati in contesti ed a fini completamente diversi, appare altrettanto ragionevole affermare con Cass. 22 settembre 1959, n. 2598, cit., che l’entità della sproporzione non deve essere determinata e precisata nel suo ammontare, ben potendo, dal semplice e superficiale raffronto tra le due prestazioni, risultare palese l’assoluta inadeguatezza dell’una rispetto all’altra ed il grave divario fra esse esistente. L’apprezzamento della notevole sproporzione rimane un giudizio di fatto rimesso esclusivamente al giudice di merito che dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto e che sostanzialmente si risolve nell’individuazione di una sproporzione evidente, purché non eccessiva, pena il mutamento di qualificazione della fattispecie. Già sotto la vigenza del codice del 1865 DE GENNARO, I contratti misti, cit., p. 229 s., rilevava, in chiave critica, la proposta del Gabba – il quale traeva spunto dall’allora vigente art. 1529 che ammetteva la rescissione per lesione della vendita in cui il venditore fosse stato leso oltre la metà nel giusto prezzo dell’immobile anche se tale sproporzione era voluta da entrambe le parti – del criterio secondo cui la vendita non è mista a donazione se c’è una sproporzione inferiore alla metà. Se, dunque, i criteri del quarto e della metà del valore possono essere utilizzati solo indicativamente, deve anche rilevarsi come tali indicazioni siano preziose al fine di evitare l’arbitrium iudicis. Ciò che manca, comunque, in tutte le pronunce sul tema (cfr. di recente Trib. Napoli, sez. VI, 31 marzo 2011, in Foro napoletano, 2013, p. 219 ss., con nota di P. MILONE, in cui appunto non risulta in alcun modo trattata la questione dell’individuazione di parametri normativamente fondati necessari all’individuazione della notevole sproporzione di valore fra le prestazioni di un contratto vendita, riproponendosi invece vecchie questioni di confusione con il contratto simulato e il negozio indiretto). 102 Cfr. S. GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni ecc., cit., p. 441: vendita di un lotto di terreno posta in essere ad un prezzo superiore al doppio del suo valore commerciale, in quanto permette al lotto edificatorio dell’acquirente, prima intercluso, di avere un fronte sulla strada comunale; acquisto a prezzo eccezionale di alcune azioni perché esse consentono all’acquirente di dominare l’assemblea della società.

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particolare relazione 103 con il depauperato e, in alcuni casi, a tutela del depauperato medesimo. L’esclusione della rilevanza dello spirito liberale nei contratti onerosi conduce verso l’individuazione della liberalità sulla base di un unico elemento, consistente nella effettiva produzione da parte del contratto, di un mero vantaggio patrimoniale (arricchimento) in favore di una sola delle parti ed a carico dell’altra 104. Per distinguere, tra i contratti onerosi, quelli capaci di produrre liberalità ai sensi dell’art. 809 e quelli che, invece, tali non sono 105, sebbene presentino un notevole squilibrio del valore economico delle prestazioni. Sarà, dunque, necessario precisare, in altra sede, la nozione di arricchimento liberale, avanzando fin da ora l’ipotesi che essa possa avere un’ampiezza superiore a quella di arricchimento donativo ma inferiore a quella di arricchimento senza causa.

7. I contratti a causa gratuita: differenza tra vantaggio ed effetto liberale Appare ragionevole e conforme al disposto di una molteplicità di dati normativi sparsi nel sistema assumere una nozione ampia di causa gratuita in termini di interesse al conferimento di un bene o alla prestazione di un servizio senza una corrispondente prestazione principale a carico del destinatario del bene o del servizio. L’ampiezza di questa nozione di causa gratuita oltre a non essere in contrasto con alcun dato normativo, induce, altresì, a respingere concezioni che limitano l’interesse gratuito non liberale all’ambito degli interessi patrimoniali e che iden103 Questa espressione è assunta in un significato ampio al fine di comprendere vari generi di rapporti intercorrenti tra il disponente e l’arricchito: rapporti di coniugio o parentela; di coeredità; di credito. Ogniqualvolta sussistono tali rapporti, può venire in considerazione un problema di pregiudizio di diritti di soggetti terzi rispetto al contratto posto in essere (cfr. FROMHOLZER, Consideration, cit., p. 54 ss.). 104 In tal senso sembra andare – finalmente – la recente Cass., sez. II civ., 20 febbraio 2014, n. 4083 in materia di vendita ad effetti liberali, dove l’arricchimento derivante dalla sproporzione di valore tra le prestazioni non pare essere ancorato all’elemento causale dello spirito di liberalità. Sull’importanza del solo «risultato del negozio» (arricchimento), seppure in termini di eccezionalità, già intuitivamente G. SCALFI, Compravendita con intento di liberalità e rescissione, in Temi, 1950, p. 377: «sarebbe legittimo chiedersi se il problema della rilevanza (eccezionale) del risultato di arricchimento […] possa presentarsi anche in negozi rispetto ai quali quel risultato non sia anormale ma non sia nemmeno tipico e se, perciò, nella rilevanza di questo risultato in negozi giuridici che non siano contratti di donazione debba costruirsi la nozione di donazione indiretta». Allo stesso modo SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., p. 380 nota 92, scrive che l’onerosità e la gratuità rilevano essenzialmente nei confronti dei terzi; la mera intenzione delle parti non può influire riguardo a quelli. 105 La questione si pone, ad esempio, per i contratti aventi ad oggetto prestazioni di garanzia. Per la trattazione di questa come di altre problematiche non compiutamente affrontate in questo lavoro rinviamo agli sviluppi delle presenti riflessioni contenute in testi di prossima pubblicazione.

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tificano, altresì, l’interesse gratuito non patrimoniale con l’interesse liberale. Si è, piuttosto, indotti a credere, tenendo conto delle prescrizioni legislative vigenti, che gli interessi gratuiti non liberali possano avere contenuto sia patrimoniale sia non patrimoniale. È infatti consolidata e diffusa l’idea secondo cui ha contenuto patrimoniale l’interesse che tipicamente (relegando nella sfera dei motivi, eventuali interessi non patrimoniali) anima i contratti di comodato, di deposito, di mandato gratuito, di trasporto gratuito, di mutuo gratuito e, in generale, i contratti gratuiti tipici (diversi dalla donazione). Consistente appare, altresì, l’opinione che identifica interessi gratuiti non patrimoniali diversi da quello liberale nello «spirito di solidarietà» ovvero nella causa c.d. familiare. Sembra corretto affermare che le fattispecie della comunione convenzionale, del fondo patrimoniale, dell’atto di destinazione ex art. 2645 ter e/o del trust sorretto da interessi, in senso lato, familiari ovvero successori (v. infra), del patto di famiglia abbiano una causa che, pur non essendo liberale, ovvero, più precisamente, pur non identificandosi tout court con quella liberale, sia pur sempre una causa gratuita valutata idonea a giustificare uno spostamento patrimoniale ontologicamente a carattere liberale, vale a dire un risultato di liberalità . Ciò dimostra l’operatività nel sistema – quantomeno – codicistico di cause gratuite non liberali idonee a giustificare la produzione di effetti liberali, vale a dire spostamenti patrimoniali attributivi da un soggetto ad un altro. Se ciò è vero, deve anche rilevarsi come i negozi gratuiti tipici non donativi produttivi di effetti liberali siano soggetti agli stessi oneri formali prescritti per la donazione, cosa che – ci sembra – attesti, al di là di ogni possibile ulteriore considerazione 106, il legame esistente nel nostro sistema tra causa gratuita, effetto liberale e forma solenne. Tale connessione induce a chiedersi quale sia il rapporto possibile nell’ordinamento italiano tra forma (pubblica) e fattispecie gratuita atipica produttiva di effetti liberali. Prima di rispondere a questa domanda è utile precisare i contorni della liberalità alias effetto liberale. Si pensi, ad esempio, al trust c.d. interno. È evidente che anch’esso debba considerarsi soggetto all’onere della forma solenne non solo nell’ipotesi in cui l’interesse con esso perseguito sia liberale in senso proprio ma assuma connotazioni di tipo familiare, di trasmissione del patrimonio, di regolamentazione dei rapporti tra coniugi o conviventi, di regolamentazione dei rapporti tra genitori e figli o tra fratelli 107. 106 Vale a dire al di là della ipotizzazione di un vero e proprio principio generale di necessaria osservanza di determinati oneri formali ogniqualvolta sia accertata l’esistenza di una causa gratuita idonea a giustificare un effetto attributivo: è il problema dei requisiti di validità dei c.d. contratti gratuiti atipici su cui oltre nel testo. 107 A parere di chi scrive la questione viene, poi, ad essere risolta ab origine assimilando l’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c. alla figura del trust c.d. interno. Assimilazione dalla quale discende l’assoggettamento del trust interno all’onere della forma pubblica a pena di nullità. La questione si affina ulteriormente là dove ci si interroghi su quale tipologia di forma pubblica. In

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8. Il contenuto dell’effetto liberale (risultato di liberalità) Non ci pare condivisibile la tesi che riconosce agli effetti derivanti dall’esecuzione delle prestazioni di fare un impatto patrimoniale identico o analogo a quello prodotto da prestazioni di dare. Appare, infatti, maggiormente conforme ai dati normativi ritenere che la nozione di arricchimento, vale a dire di (risultato di) liberalità sia una sommatoria di componenti economiche e giuridiche, intendendo per componenti giuridiche le scelte legislative sul rapporto tra donazione e contratti gratuiti tipici e dunque sulle prestazioni che ne possono costituire oggetto. Anche ammettendo, quindi, che le prestazioni di fare producano arricchimento in senso economico, il legislatore, tipizzandone alcune in contratti gratuiti diversi dalla donazione, cioè escludendole espressamente dall’area dell’arricchimento donativo, induce a ritenere che anche quelle prestazioni di fare, che si possono definire atipiche, siano comunque escluse dalla medesima area. La ragione di tale esenzione può essere identificata nell’ampiezza del principio della libertà di non arricchirsi prestando la propria opera mentre, se si è disposto di beni diversi dalla propria opera, cioè si è intaccato il proprio patrimonio nell’accezione di beni aggredibili in senso giuridico, diminuendone l’ammontare senza adeguata contropartita, entrano in gioco le norme a tutela di determinati terzi (legittimari in primis). Sembra, dunque, verosimile affermare la restrizione dell’effetto liberale (a contenuto) obbligatorio all’assunzione di un’obbligazione di dare ovvero a quella di fare che si traduca sostanzialmente in un dare 108. In definitiva, fuori dal tale ultimo ambito e da quello dell’effetto reale (immediato o differito), cui sono ascrivibili, in una accezione lata, anche i trasferimenti di diritti di credito ad una prestazione di dare una somma di denaro o altro bene idoneo ad integrare la «garanzia patrimoniale», appare aderente ai dati normativi sostenere che la tipologia effettuale di un contratto gratuito integri gli estremi del vantaggio (effetto) gratuito e non quelli dell’arricchimento (effetto) liberale (anche detto: liberalità), non venendo perciò in considerazione la relativa disciplina. altri termini: sono o non sono necessari i testimoni? Seguendo il ragionamento che si va svolgendo nel testo, la forma pubblica con assistenza dei testimoni sarebbe sempre necessaria ogniqualvolta l’atto produca un effetto liberale per un interesse/causa, in senso lato, gratuito/a anche se non liberale in senso stretto. L’aggettivo liberale ha, infatti, significati diversi a seconda che venga riferito alla causa ovvero all’effetto di un atto negoziale. Sulla questione e sul suo superamento si consentito rinviare a L. GATT, Dal trust al trust, 2a ed., Napoli, 2010, pp. 223 ss., p. 268 ss. 108 Quest’ultimo genere di prestazione si distingue da quella differita di dare: occorre infatti verificare «se nell’obbligazione di fare non si nasconda un’obbligazione di dare, nel qual caso si ha vera donazione, se compiuta per spirito di liberalità, costituendo l’obbligazione di dare, idoneo oggetto di donazione», salvo, poi, superare le difficoltà relative all’individuazione di fattispecie concrete in cui un’obbligazione di fare «nasconda» un’obbligazione di dare.

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Va, poi, rilevato che l’eccettuazione della prestazione di fare dall’ambito oggettivo del contratto di donazione prospetta la possibilità di una esclusione in termini generali dal raggio dell’effetto liberale del risparmio di una spesa quale lato «attivo» del mancato guadagno (omissio adquirendi), il quale ultimo non vale ad integrare gli estremi della liberalità, cioè di quel determinato depauperamento che incide su quella determinata nozione di patrimonio facente capo ad un soggetto, decurtandone la parte attiva o aumentandone la parte passiva. Nell’ambito della problematica della liberalità rileva una determinata nozione di patrimonio e, dunque, una determinata nozione di (depauperamento-)arricchimento che assume, come già detto, una duplice connotazione: economica e giuridica. Questa nozione potrebbe non coincidere con quella rilevante ai fini dell’applicazione di altri istituti quali l’azione revocatoria ordinaria o fallimentare o l’azione di ingiustificato arricchimento. Tali azioni, ragionando in astratto, potrebbero riguardare i vantaggi derivanti dall’esecuzione a titolo gratuito di una prestazione di fare. Tuttavia, se per l’azione di ingiustificato arricchimento si prospetta un ampliamento della sfera del vantaggio rilevante ai fini dell’esperibilità dell’azione, per il rimedio della revocatoria (ordinaria e fallimentare) convincente appare l’idea che esclude l’omissio adquirendi e, dunque, il corrispondente risparmio di una spesa, dal raggio dell’effetto economico o vantaggio rilevante ai fini dell’esperibilità del rimedio medesimo, giustificandosi tale esclusione con l’argomento secondo cui tale rimedio non mira ad eliminare dei semplici effetti economici (tale è appunto anche l’effetto derivante da omissio adquirendi), ma solo gli effetti pregiudizievoli derivanti da un atto di disposizione del soggetto che li subisce. Deve aggiungersi, poi, che l’effetto liberale alias liberalità rilevante ai fini dell’esperibilità di determinati rimedi (riduzione, collazione, imputazione ex se, revocazione per ingratitudine e sopravvenienza di figli) deve essere di ammontare non modico con riguardo alle condizioni economiche del donante. In altri termini: non tutte le donazioni producono un effetto che decurti in maniera non modica il patrimonio del donante. Le donazioni manuali producono un effetto vantaggioso che ha il «contenuto» della liberalità (in senso effettuale in quanto si tratta di un dare) ma che non presenta i connotati «quantitativi» di essa e dunque non è in grado di produrre determinate conseguenze sul patrimonio del donante. Ciò è in sintonia con la già rilevata connessione tra causa gratuita, effetto liberale e forma solenne: gli oneri formali ad substantiam actus hanno ragion d’essere se l’effetto derivante da un atto gratuito è liberale in senso proprio, abbia, cioè, non solo un certo contenuto ma anche un certo ammontare 109. 109

Si consentito rinviare a L. GATT, L’ammontare della liberalità, in Scritti in onore di A. De Cupis, a cura di C.M. Bianca, Milano, 2005, pp. 95-106 e ID., Ricostruzione dell’asse ereditario e liberalità, nota a Trib. Napoli, Sez. IV, 9 maggio 2005, in Dir. giur., 2007, p. 134 ss.

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In questa prospettiva appare chiara la ratio degli artt. 737 e 809 c.c.: ogniqualvolta da un atto valido ed efficace diverso dalla donazione formale derivi una liberalità di non modico valore, possono trovare applicazione le norme relative agli istituti della collazione, della riduzione per integrazione di legittima e della revocazione per ingratitudine e sopravvenienza di figli, eccezion fatta per alcune ipotesi espressamente previste 110. Una lettura dei dati normativi che appare coerente sul piano logico-sistematico ha portato fin qui a rilevare come, per volontà legislativa, l’effetto derivante da ciascuno dei contratti gratuiti tipici a forma libera non possa mai essere, in ogni sua possibile configurazione, equivalente a quello derivante dal contratto di donazione, così come non può essere tale un effetto che produce una modica decurtazione del patrimonio del disponente o che addirittura non decurti il patrimonio del disponente, ma anzi lo implementi, liberandolo da una passività o garantendogli il risparmio di una spesa.

110 Tra queste ipotesi vanno incluse le attribuzioni che non eccedono notevolmente la misura ordinaria (art. 742, comma 2), le quali non devono notevolmente eccedere la misura ordinaria tenuto conto delle condizioni economiche del donante ma ciò non significa che per questo siano modiche. Lo stesso ragionamento vale per l’adempimento di obbligazione naturale. Altra ipotesi, sebbene solo ai fini della collazione, va identificata negli incrementi conseguiti a seguito di società contratta senza frode con il defunto, se le condizioni sono state regolate con atto di data certa (art. 743). Ci si può chiedere se tali incrementi siano da considerarsi risultati di liberalità ai sensi dell’art. 809 e dunque riducibili e revocabili per sopravvenienza figli, ma per espressa previsione normativa, non collazionabili. Dato normativo questo che porrebbe in luce un duplice binario sul quale si muove la disciplina della liberalità: uno facente capo all’art. 809 e l’altro all’art. 737.

LA RILEVANZA DEI PROFILI FUNZIONALI NELLA DISCIPLINA SOSTANZIALE DEI TRIBUTI*

di Valeria Mastroiacovo SOMMARIO: 1. Struttura dell’atto e suo inserimento nell’attività ai fini della identificazione del presupposto d’imposta. – 2. Le imposte patrimoniali. – 3. Le imposte ipotecaria e catastale. – 4. L’imposta di registro e l’imposta sulle successioni e donazioni. – 5. L’imposta sul valore aggiunto. – 6. Le imposte sul reddito.

1. Struttura dell’atto e suo inserimento nell’attività ai fini della identificazione del presupposto d’imposta Il presente intervento si propone di verificare in che termini la causa di un negozio giuridico – inteso quale elemento essenziale per la validità del negozio stesso nell’ordinamento giuridico – costituisca un elemento necessariamente determinante nella individuazione e applicazione dei tributi. Sembra infatti ragionevole sostenere che il profilo funzionale degli atti assuma una valenza decisiva solo relativamente a quei tributi per i quali l’individuazione del presupposto si fondi su tale aspetto, restando per il resto del tutto irrilevante o al più costituendo uno degli elementi che concorrono nell’applicazione del tributo sotto il profilo fattuale. Dunque per stabilire quale sia la rilevanza dei profili funzionali nella disciplina sostanziale dei tributi occorre verificare come operino le categorie della onerosità, gratuità e liberalità nell’individuazione del singolo presupposto e valutare in che termini queste categorie “interagiscano” anche con i diversi concetti che vengono in rilievo nella prospettiva tributaria come quello di destinazione (attraverso atti) di beni e servizi all’attività, di destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa e, finanche, di inerenza all’attività. * Il presente scritto, con sostanziali integrazioni rese necessarie dalle sopravvenute modifiche normative, muove da quanto già scritto nel III capitolo della monografia La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2012 (pubblicata con fondi prin 2009).

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Il concetto di destinazione di beni ad un ciclo produttivo o ad un’attività funzionalizzata si colloca infatti su un piano evidentemente differente da quello della causa negoziale e d’altra parte tale elemento funzionale non appare in sé discretivo neanche ai fini del concetto di destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’attività o ancora di un giudizio di inerenza di atti all’attività, rendendosi comunque opportuna una valutazione in termini più complessi rispetto alla mera verificazione della causa dell’atto. In particolare il concetto di destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa 1 ha, sia agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto che dell’imposta sul reddito, un’ampiezza decisamente maggiore di quella della causa negoziale, essendo condizionato da una logica diversa dalla individuazione della funzione economico sociale del singolo atto (e finanche del collegamento tra atti), implicando a monte una verifica che involge l’intera attività nella prospettiva del programma imprenditoriale in ragione della destinazione impressa ai beni (in forza delle disposizioni di legge o negoziali, nei limiti consentiti dall’ordinamento). L’inerenza 2, in questo contesto, può essere descritta come un meccanismo di 1 Per considerazioni sul tema si rinvia per tutti a F. GAFFURI, Rilevanza fiscale del trasferimento non oneroso, in Dir. prat. trib., 1974, I, p. 1261. Seppure giunge a conclusioni a nostro avviso non condivisibili, si segnala l’accurato esame ricostruttivo, anche dal punto di vista storico evolutivo, circa la rilevanza delle cessioni gratuite dei beni agli effetti della destinazione a finalità estranee nel sistema delle imposte sui redditi e dell’IVA di M. VERSIGLIONI, Profili tributari della cessione gratuita de beni relativi all’impresa, in Riv. dir. fin., 1992, I, p. 481, anche tenuto conto della precisazione dello stesso Autore per cui le sue considerazioni andavano a rivolgersi alle donazioni vere e proprie e solo indirettamente «a tutti quei trasferimenti non onerosi che, per la tenuità ed aleatorietà del risvolto economico ad essi collegabile, risultano difficilmente inquadrabili nella relazione causale rilevante ai fini della determinazione fiscale del reddito di impresa – o del valore aggiunto –». 2 Sul concetto di inerenza il dibattito ha radici profonde; relativamente alla disciplina del TUIR si segnalano senza pretesa di esaustività i contributi di F. GRAZIANI, L’evoluzione del concetto di inerenza e il trattamento fiscale dei finanziamenti ad enti esterni di ricerca, in G. FALSITTA-F. MOSCHETTI (a cura di), I costi di ricerca scientifica, Milano, 1988, p. 47; G. TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, p. 246; M. BEGHIN, Atti di gestione “anomali” o “antieconomici” e prova dell’afferenza del costo all’impresa, in Riv. dir. trib., 1996, I, p. 413; L. ROSA, Il principio di inerenza, in AA.VV., Il reddito di impresa, Padova, 1997, p. 137; A. SILVESTRI, Destinazione a finalità estranee all’impresa e principio di inerenza nelle imposte sui redditi, in Riv. dir. fin., 1998, I, p. 475; A. PANIZZOLO, Inerenza ed atti erogativi nel sistema delle regole di determinazione del reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 1999, I, p. 675; G. TINELLI, Il principio di inerenza nell’evoluzione del reddito di impresa, in Riv. dir. trib., 2002, I, p. 438; E. MARELLO, Involuzione del principio di inerenza?, in Riv. dir. fin., 2002, I, p. 480; L. PEVERINI, Giudizio di fatto e giudizio di diritto in materia di costi non inerenti all’attività, in Riv. dir. trib., 2008, I, p. 885; G. FRANSONI, La finanziaria 2008 e il concetto di inerenza, in AA.VV., Finanziaria 2008, Saggi e commenti (a cura di G. Fransoni), in Quaderni Riv. dir. trib., 2008, p. 145. Si segnala inoltre l’interessante riflessione di G. ZIZZO, Inerenza ai ricavi o all’attività? Nuovi spunti su una vecchia questione, in Rass. trib., 2007, a commento delle sentenza di Cass. n. 16826/2007 per cui non si richiede che la diminuzione patrimoniale sia preordinata alla produzione del reddito, ma che l’evento che l’ha generata si collochi all’interno dell’attività imprenditoriale; cfr. anche Cass. nn. 7340/2008 e 1465/2009.

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verifica che consente di scomporre l’attività in atti per valutare in che termini abbiano effettivamente concorso al risultato dell’attività; essa si desume in concreto dalle caratteristiche dell’attività posta in essere da un soggetto ed attiene al profilo funzionale della stessa 3, ma da intendersi – a nostro avviso – secondo una definizione di “economicità” nella prospettiva strategica per l’attività 4, ovverosia non necessariamente limitata ad assetti onerosi 5. Dunque se un componente negativo è ascrivibile all’attività in quanto sostenuto in funzione o in ragione dell’attività appare irrilevante agli effetti del giudizio di inerenza la natura e la causa del fatto che ha determinato la diminuzione patrimoniale. Già in precedenti occasioni avevamo infatti ipotizzato che attribuendo rilievo alla “sostanza economica”, l’interesse economico, inteso come fine per il soddisfacimento di un bisogno mediante l’utilizzo di risorse scarse non dovesse essere circoscritto esclusivamente ad assetti corrispettivi od onerosi, nei quali cioè lo stipulante si obbliga ad una prestazione nei confronti del promettente e lo scambio ha ad oggetto posizioni misurabili in moneta rinvenibili nel mercato. Sembra infatti coerente con quella impostazione ipotizzare che assumano rilievo anche assetti di per sé “antieconomici” – del tutto estranei ad una logica di scambio – che producono comunque un soddisfacimento di bisogni, così da assumere essi stessi una valenza “economica”. Assumendo come economico il comportamento umano indice di una relazione tra fini e mezzi scarsi suscettibili di usi alternativi non possiamo, cioè, escludere ragioni che trovino il loro fondamento al di fuori del mercato (inteso come luogo di incontro della domanda e dell’offerta) e che siano “irrazionali” (o secondo la terminologia utilizzata dalla Cassazione “distorte”) rispetto ad un modello classico di razionalità della scelta economica e tuttavia “validamente” discriminanti nell’adozione di una scelta quanto al profilo dell’allocazione della ricchezza. Inoltre, se è vero che l’attività dei soggetti si esprime attraverso un insieme di atti causalmente ordinabili secondo le regole del diritto comune, occorre puntualizzare che in materia tributaria tutte le vicende giuridiche (e dunque anche i 3 Come è noto, ad esempio, ai fini della determinazione del reddito imponibile un componente negativo può incidere solo se inerente all’attività, ma ciò implica che nel calcolo debbano essere considerati solo quegli eventi economici che sono connessi o conseguenziali alla produzione del reddito che si intende misurare ovverosia senza tenere conto né di quelli che rappresentano un momento di disposizione dello stesso, sia di quelli che afferiscono alla produzione di ricchezza estranea all’esercizio dell’attività. 4 Cfr. V. MASTROIACOVO, L’economicità delle valide ragioni (note minime a margine della recente evoluzione del principio dell’abuso del diritto), in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 449. 5 Ancora diversa, ci sembra, la posizione di A. CICOGNANI, L’imposizione del reddito d’impresa, Padova, 1980, p. 216, che in forza del paradigma dell’inerenza imprenditoriale dei costi di gestione sostiene la possibilità di rinvenire l’inerenza alla produzione del reddito in tutte le donazioni d’impresa.

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contratti e i negozi in genere) rilevano sub specie di fatti 6; pertanto la causa dei “fatti” rilevanti agli effetti del tributo deve essere conforme alla definizione stessa del presupposto.

2. Le imposte patrimoniali In prima approssimazione possiamo constatare che la causa dell’estinzione o dell’attribuzione di un diritto appare del tutto irrilevante agli effetti di un’imposizione di tipo patrimoniale, che assuma ragionevolmente a presupposto il possesso di un bene in un determinato tempo. Si pensi ad esempio all’Ici e all’Imu strutturate come imposte patrimoniali a carattere reale 7 relative al possesso dei fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato italiano, a qualsiasi uso destinati (ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l’attività di impresa). Rispetto a questa tipologia di tributi appare essenzialmente discriminante agli effetti della capacità contributiva la permanenza di una relazione tra il soggetto e il bene in termini di diritto reale 8, restando del tutto irrilevanti sia la causa 6 È ben nota la tematica della digressione del negozio da atto a fatto; cfr. A. BERLIRI, Principi di diritto tributario, Milano, 1957, p. 206; D. JARACH, Il fatto imponibile, Padova, 1987, p. 117. In argomento si rinvia a A. CARINCI, L’invalidità del contratto nelle imposte sui redditi. Profili sostanziali, Padova, 2003, p. 61, anche per relative indicazioni di bibliografia. 7 Si tratta di tributi reali, a carattere patrimoniale (Corte cost. n. 111/1997) e sono quindi imposte dirette, in quanto strutturate in modo tale da colpire direttamente l’indice significativo della ricchezza. Si rinvia a G. MARINI, Contributo allo studio dell’imposta comunale sugli immobili, Milano, 2000, p. 23. Come evidenziato da autorevole dottrina «nell’imposta reale il presupposto può essere definito (e normalmente lo è) a prescindere da qualsiasi considerazione del soggetto passivo. L’elemento soggettivo è mero criterio di riferimento di un fatto (l’elemento oggettivo) altrimenti individuato e determinabile», così A. FEDELE, Imposte reali e imposte personali nel sistema tributario italiano, in Riv. dir. fin., 2002, I, p. 460. 8 Il legislatore, con l’introduzione, in sede di conversione del D.L. n. 201/2011, del comma 12 quinquies dell’art. 4 del D.L. n. 16, sembra aver preso finalmente atto della natura patrimoniale e reale del tributo, ad esempio, con riferimento al tema, di grande attualità, della riferibilità soggettiva dell’imposta nel caso di assegnazione della casa coniugale al coniuge, disposta a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, disponendo che tale assegnazione «si intende in ogni caso effettuata a titolo di diritto di abitazione». È evidente che l’assegnazione della casa coniugale, a seguito di separazione dei coniugi, al coniuge affidatario della prole minore o – dopo le modifiche introdotte dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54 – in caso di affidamento condiviso, al coniuge con il quale la prole minore stabilisce la propria residenza abituale, non integra in capo al coniuge assegnatario un diritto reale di abitazione, ma solo un diritto di natura personale, in quanto disposta unicamente nell’interesse della prole (Cass. civ., sez. V, sent. n. 6192/2007). Si tratta cioè di un’ipotesi in cui lo stesso legislatore ha riconosciuto – a seguito di una lunga evoluzione legislativa (cfr. la differente disciplina previgente ex comma 3 bis art. 6 D.Lgs. n. 504) e giurisprudenziale (cfr. Cass. n. 6192/2007) –

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che ha determinato il presupposto o lo ha fatto venire meno per effetto dell’estinzione del relativo diritto, sia la circostanza che il titolare non goda direttamente del suo diritto per effetto di eventuali contratti di locazione, affitto o comodato 9. Questi contratti, siano essi pattuiti gratuiti od onerosi, infatti, non importando uno spostamento della titolarità del diritto reale, sono del tutto ininfluenti agli effetti del presupposto e della sua riferibilità al soggetto passivo. In quest’ottica, eventuali attenuazioni 10 del tributo trovano giustificazione nei casi, ad esempio, in cui la constatata inagibilità o inabitabilità del bene può oggettivamente comportare un decremento dello stesso sotto il profilo patrimoniale. In considerazione dell’articolazione del presupposto di queste imposte è allora “particolare” la rilevanza che il legislatore ha attribuito (evidentemente a scopo incentivante) alla destinazione del bene a determinate finalità di carattere culturale, all’esercizio del culto, all’assistenza, alla previdenza, alla didattica, ecc. In questi casi la destinazione del bene importa l’esenzione dello stesso dal tributo. Questa previsione, infatti, proprio avuto riguardo al carattere reale del tributo cui inerisce, al di là di puntuali deroghe, dovrebbe, a nostro avviso, essere intesa in senso oggettivo, nell’irrilevanza della coincidenza o meno della destinazione del bene con la destinazione all’attività del soggetto che ne è titolare o ancora della necessaria attuazione della destinazione esclusivamente da parte del soggetto che ne è titolare 11. che fosse più rispondente all’essenza stessa di un tributo patrimoniale e reale far convergere la tassazione in capo al soggetto detentore dell’indice di ricchezza, piuttosto che sul soggetto cui è riferibile il diritto reale quale situazione giuridica in astratto. 9 Cfr. circ. n. 65/E/II/2/1083/C del 21 maggio 1994. 10 Art. 8 del D.Lgs. n. 504/1992, rinviato con modificazioni agli effetti dell’Imu dall’art. 13 del D.L. n. 201/2011. 11 Tuttavia, in particolare nell’ipotesi di immobili utilizzati da enti non commerciali (ai sensi dell’art. 87, comma 1, lett. c), TUIR), e destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, ecc. la giurisprudenza (Cass. n. 2821/2012; Corte cost. ord. n. 172/2011; Cass. n. 8495/2010) e l’amministrazione finanziaria (circolare n. 2/DF del 2009) si sono uniformate su un’interpretazione che nega l’applicabilità dell’esenzione nel caso in cui l’ente commerciale non realizzi direttamente la destinazione, ma la persegua attraverso un soggetto terzo, eventualmente dietro corresponsione di un canone. Al di là di una piuttosto evidente contraddizione degli elementi testuali della disposizione, questa conclusione non appare del tutto compatibile con le caratteristiche di un tributo reale. Se infatti appare innegabile che sullo sfondo della citata giurisprudenza e della prassi amministrativa, vi sia il timore di una perdita di una ricchezza che si intuisce come sussistente, non sembra incompatibile con la natura patrimoniale reale del tributo un’interpretazione appunto oggettiva dell’esenzione correlata cioè ai soli elementi esplicitati dal legislatore ovverosia l’utilizzo e la destinazione a prescindere dalla riferibilità ad altri della situazione giuridica integrante il possesso dell’immobile. Tuttavia, questa interpretazione non ha un fondamento sistematico anzi è frutto di «una coloritura soggettivamente caratterizzata al presupposto di imposta di per sé estranea alla configurazione che ne tratteggia per converso l’art. 1 del d.lgs. n. 504/1992»; in questi termini L. CASTALDI, Riflessioni sparse sull’esenzione Ici di cui all’art. 7, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 504/1992 e la Corte di cassazione, in Rass. trib., 2009, p. 793.

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3. Le imposte ipotecaria e catastale Altri tributi rispetto ai quali la causa del negozio sembra essere indifferente sono le imposte ipotecarie e catastali, anche se il loro presupposto non appare attualmente correttamente definito dal legislatore. Ed infatti, secondo la rubrica dell’art. 1 del testo unico (D.Lgs. n. 347/1990) oggetto dell’imposta ipotecaria sono le formalità di trascrizione nei pubblici registri 12, ciò nonostante a noi sembra potersi ragionevolmente affermare che il presupposto di queste imposte è tipologicamente stabilito dal legislatore in ragione degli effetti che legittimano la formalità, non assumendo invece rilevanza né la formalità stessa, né il fatto in sé con la sua eventuale giustificazione causale. L’art. 2643 c.c. nell’elencare gli atti soggetti a trascrizione si disinteressa del tutto dell’eventuale funzione economico sociale degli stessi, avendo riguardo esclusivamente all’individuazione tassativa 13 dei possibili atti rispetto ai quali dover disporre una forma di pubblicità, in ragione dei loro effetti 14, al fine di tutelare la buona fede e i diritti dei terzi. Questi tributi sono invece spesso stati considerati ancillari, anche quanto alla disciplina sostanziale 15, alle imposte indirette sui trasferimenti, il cui presupposto L’indice di capacità contributiva evidenziato dai giudici nelle citate pronunce appare del tutto estraneo al presupposto dell’Ici/Imu quali imposte patrimoniali reali, assumendo invece i connotati della ricchezza reddituale. Se infatti dal punto di vista reddituale potrà assumere significato in termini differenziali di capacità contributiva la circostanza che l’immobile sia o meno concesso in locazione, non appare invece irragionevole – agli effetti del sistema Imu – una previsione che consideri la medesima circostanza irrilevante, con ciò intendendo dare risalto all’indice di capacità contributiva assunto nella sua oggettività, intesa anche in ragione della sua funzionalizzazione a determinate attività – individuate dal legislatore come socialmente rilevanti – a prescindere dall’elemento soggettivo. 12 La richiesta o l’esecuzione della trascrizione risulta, in effetti, del tutto irrilevante in quanto, utilizzando la categoria dell’obbligazione tributaria, dovremmo rilevare che rispetto a questo momento l’obbligazione sorge quando il pubblico ufficiale riceve o autentica l’atto soggetto a trascrizione. Ciò è confermato dall’art. 2669 c.c. che prevede la possibilità di trascrivere prima del pagamento dell’imposta di registro. Se dunque questi tributi sono dovuti anche se la trascrizione non è richiesta né effettuata, è evidente che la trascrizione non è il presupposto del tributo e la fattispecie imponibile rilevante è l’esistenza di un atto o provvedimento soggetti a trascrizione o di un fatto (apertura della successione) che determini un effetto tipizzato. 13 Si tratta di un principio consolidato, confermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità per cui «secondo il nostro ordinamento, non esiste una trascrivibilità facoltativa, in quanto la trascrizione è ammessa soltanto nei casi in cui essa è richiesta, in ordine a determinate categorie od a determinati tipi di atti» (Cass. 5 maggio 1960, n. 1029, in Giust. civ., 1960, I, p. 1340). 14 Una conferma di questa impostazione sembra emergere dalla giurisprudenza sul legato a favore di terzo che importa acquisto immediato (e retroattivo) del bene e implica la debenza delle imposte ipotecaria e catastale in quanto alla fattispecie apertura della successione corrisponde un trasferimento immobiliare previsto in un atto, ma rilevante in ragione del suo effetto negoziale. 15 In tal senso A. FEDELE, Le imposte ipotecarie. Lineamenti, Milano, 1968, p. 51; ID., Ipoteca

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viene effettivamente delineato (ormai proprio in termini di alternatività) sulla rilevanza dell’eventuale causa negoziale. Tale prospettiva, da un lato sembrava superata da una maggiore autonomia strutturale delle imposte ipotecaria e catastale a seguito delle modifiche apportate dal decreto c.d. Bersani che ha sensibilmente innovato il ruolo delle stesse nell’applicazione del principio di alternatività iva registro 16, dall’altro sembra oggi riemergere a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 10 del D.Lgs. n. 23/2011 alla tassazione degli atti di trasferimento immobiliare a titolo oneroso 17. A ben vedere, la gradazione della capacità contributiva rispetto alla manifestazione del presupposto così individuato, storicamente, ha sempre avuto riguardo agli effetti traslativi o non traslativi dell’atto, essendo prevista solo per i primi un’imposizione di tipo proporzionale. Tuttavia una ricostruzione del presupposto che consideri oggi del tutto irrilevante la causa dell’atto può apparire superata dalle citate modifiche introdotte relativamente alla tassazione degli atti di trasferimento immobiliare a titolo oneroso, le quali, tra l’altro, si riflettono in virtù del c.d. meccanismo di “assorbimento”, anche sugli atti non traslativi e le formalità direttamente conseguenti posti in essere per effettuare gli adempimento presso il catasto ed i registri immobiliari. A nostro avviso, tuttavia, l’introduzione della nuova misura fissa di cinquanta euro limitatamente al microsistema dei trasferimenti a titolo oneroso non agevolati, né soggetti a iva, trova la sua giustificazione storica solo in esigenze di semplificazione (ancorché tale obiettivo non possa dirsi effettivamente raggiunto, stante il proliferarsi di imposte in misura fissa e di pluralità di regimi fiscali concorrenti in relazione al medesimo negozio, come nel caso di un atto di trasferimento relativo ad un bene soggetto a registro, uno al regime agevolato ppc e uno ad IVA) e non già di tipo sistematico. Va inoltre considerato che la nuova misura fissa, introdotta dal 1° gennaio 2014, non può comunque prescindere dall’imposta in misura proporzionale di registro del 9%, anche tenuto conto dell’imposta minima di mille euro (con effet(diritto tributario), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, p. 852; contra S. CARDARELLI, Ipotecarie (imposte), in Dig. disc. priv. sez. comm., Torino, 1993, VII, p. 487. A fini esemplificativi sia consentito il rinvio a V. MASTROIACOVO, L’esenzione dei beni culturali dal tributo successorio non riguarda le imposte ipocatastali, in Corr. trib., 2007, p. 2122. 16 Il riferimento è alle modifiche apportate al principio dell’alternatività (dunque limitatamente agli atti onerosi) dal D.L. n. 223/2006, che hanno stravolto la simmetria degli atti soggetti ad IVA, rispetto a quelli assoggettati all’imposta di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa (salvo le deroghe previste, comunque “allineate”), prevedendo inoltre l’introduzione dell’aliquota maggiorata dell’imposta ipotecaria. Cfr. M. BASILAVECCHIA, Problematiche concernenti il nuovo sistema di alternatività tra IVA e imposta sui trasferimenti della ricchezza in Novità e problemi nell’imposizione tributaria relativa agli immobili (a cura della Fondazione italiana del notariato), Milano, 2006. 17 Sia consentito il rinvio a V. MASTROIACOVO, sub art. 1, tariffa parte I, in Codice delle leggi tributarie, a cura di Fedele, Mariconda, Mastroiacovo, Torino, 2014, p. 410.

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ti economici anche più gravosi della precedente applicazione dell’aliquota proporzionale) e, dunque, sotto il profilo della valutazione della capacità contributiva l’atto con effetti traslativi resta correttamente regolato ai fini della tassazione in modo più gravoso rispetto a quello che tale effetto non produce.

4. L’imposta di registro e l’imposta sulle successioni e donazioni Nell’attuale disciplina dell’imposta di registro e dell’imposta sulle successioni e donazioni, l’eventuale causa negoziale dell’atto di trasferimento della ricchezza incide in maniera determinante, ai fini dell’individuazione del presupposto, costituendone “la linea di demarcazione”, in una prospettiva definita dalla stessa amministrazione finanziaria in termini di alternatività tra tributi 18. In verità si tratta di una prospettiva relativamente recente a fronte di un precedente sistema impositivo che sussumeva in un’unica disciplina la tassazione degli atti 19. Eccezion fatta per l’ipotesi della successione legittima, originariamente era il negozio, a prescindere dalla sua causa, l’elemento necessario affinché assumesse rilevanza una vicenda traslativa di beni e diritti da un patrimonio a un altro 20, seppur con la precisazione che il documento era da considerarsi mero “veicolo” per la tassazione della convenzione in esso contenuta 21. 18

Circ. n. 44/E del 2011. Detta alternatività – in verità solo incidentalmente riconosciuta dall’Agenzia delle entrate – è stata più volte auspicata e argomentata in via sistematica da A. FEDELE, Il regime fiscale di successioni e successioni e liberalità, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, II, Padova, 2010, p. 579. 19 Si ricorda che la legge del 1862 disponeva che gli atti civili, giudiziali e stragiudiziali e le trasmissioni dei beni per causa di morte erano soggetti alle imposte denominate Tasse di registro. Per una puntuale ricostruzione storico sistematica di questi tributi si rinvia a A. FEDELE, Riforma dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni come esito dell’evoluzione storica del tributo, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 39; ID., Il regime di successioni e liberalità, cit., p. 575. 20 Va tuttavia ricordato che, dal punto di vista della commisurazione della ricchezza agli effetti della manifestazione della capacità contributiva, fin dall’origine si distingueva una valutazione al netto per i trasferimenti esito di una vicenda ereditaria e una valutazione al lordo per gli altri trasferimenti, confermando così la natura del tributo di registro in termini di imposta sull’attività giuridica. Ricorda A. UCKMAR, La legge di registro, in Il diritto tributario commentato, Padova, 1958, I, p. 7, che «l’origine delle tasse di registro è molto remota, giacché sin dai tempi antichissimi lo Stato intervenne negli atti giuridici della vita privata soprattutto al fine di tutelare i diritti dei terzi; per tale intervento pretese uno speciale tributo, che dapprima rappresentava il costo del servizio reso e nei tempi a noi più prossimi si trasformò in vera imposizione gravante sulla circolazione della ricchezza». 21 La necessarietà della valutazione del contenuto convenzionale fu sancita per la prima volta nell’art. 7 della L. n. 585/1862; la previsione fu poi reiterata nei testi di legge successivi, con l’ulteriore riferimento alla eventuale non corrispondenza al “titolo”; cfr. art. 8 del R.D. n. 3269/1923; art. 19 D.P.R. n. 634/1972 e da ultimo art. 20 del D.P.R. n. 131/1986.

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Solo nel 1923 si assistette ad una divaricazione delle relative discipline 22; progressivamente risultò in effetti discriminante anche agli effetti ricostruttivi del presupposto la circostanza che nella tassazione delle vicende successorie si tenesse in debito conto delle eventuali componenti negative per un’imposizione che gravasse sul solo saldo attivo derivante dall’incremento patrimoniale del beneficiario. Un passaggio dell’evoluzione normativa, a nostro avviso, fondamentale ai fini della presente indagine circa la rilevanza della causa agli effetti del presupposto, deve considerarsi la trasformazione dell’aliquota sulle successioni da proporzionale a progressiva: questa scelta politica fu il segnale di una mutata considerazione 23 dei trasferimenti a seconda che derivassero da vicende ereditarie o da altre cause 24. Rimanevano tuttavia escluse dalla disciplina del presupposto le liberalità indirette, in quanto non soggette a requisiti di forma. L’evoluzione del sistema tributario 25 confermò il mutamento della funzione del tributo di registro da tassa ad imposta finalizzata a cogliere i trasferimenti della ricchezza (al lordo) quali modificazioni qualitative del patrimonio di un soggetto in conseguenza di un atto negoziale non riconducibile ad una causa liberale 26. Conseguentemente la sussistenza di un atto non apparve più elemento suffi22 Si ricorda che il R.D.L. 4 maggio 1942, n. 434, in vigore dal 12 maggio 1942, istituì un’imposta sull’asse ereditario con carattere autonomo rispetto al tributo successorio, la c.d. “Globale sull’asse ereditario netto”; questa imposta si andava a sovrapporre al tributo sull’entrata dei singoli successori e fu, all’origine, giustificata dall’emergenza del periodo bellico. Solo con l’art. 69 della L. n. 342/2000 si è disposta la sua abrogazione. L’imposta globale fu definita da Einaudi “l’imposta sul morto” in quanto, per la struttura del tributo, l’indice di capacità contributiva sembrava collegato unicamente ad un soggetto la cui morte determinava il concorso alla pubbliche spese per gli eredi (effettivi soggetti passivi). La dottrina criticò apertamente questa duplicazione di prelievo in occasione della successione di un patrimonio, tuttavia, la Corte cost. investita più volte della questione, affermò sempre l’autonomia dei due tributi e la natura reale dell’imposta globale, che evidenziava un indice di capacità contributiva “oggettivamente” rilevante e non coincidente con l’arricchimento patrimoniale degli eredi (Corte cost. sent. n. 147/1975; n. 68/1985 e successive ordinanze fino alla più recente n. 453/2005). 23 Osserva correttamente A. FEDELE, Riforma dell’imposta sulle successioni, cit., p. 52, che «il carattere “gratuito” della causa da cui scaturiva la trasmissione dell’incremento patrimoniale comportava per il legislatore tributario un diverso apprezzamento della ricchezza». 24 In questo passaggio evolutivo, del tutto peculiare era la disciplina degli atti di donazione in quanto se formalmente restavano attratti alla disciplina dell’imposta di registro, venivano assimilate – agli effetti della tassazione – agli atti mortis causa con l’applicazione delle aliquote progressive (secondo parte della dottrina in funzione di anticipato godimento della predetta successione, cfr. L. RASTELLO, Il tributo di registro, Roma, 1955, p. 287). 25 Per la rilevanza anche agli effetti di questo processo evolutivo dell’abrogazione del principio di improcedibilità in giudizio degli atti non registrati si segnala F. TESAURO, Sospensione fiscale del processo civile e , in Riv. dir. fin., 1976, II, p. 241. 26 In questi termini si veda ancora A. FEDELE, Riforma, cit., p. 57; ID., Il regime fiscale di successioni, cit., p. 4.

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ciente a mantenere la tassazione delle donazioni all’ambito dell’imposta di registro, sembrando allora opportuno disporre un’imposizione delle liberalità inter vivos, pur nella molteplice diversità delle loro “forme”, nell’ambito del tributo successorio. Nel susseguirsi delle modificazioni legislative dell’imposta sulle successioni e donazioni il dato progressivamente più significativo dal punto di vista del presupposto sembra potersi rinvenire nella rilevanza dell’effettivo incremento patrimoniale del beneficiario quale esito di una modificazione patrimoniale di tipo quantitativo 27. Come acutamente osservato da autorevole dottrina, dopo una complessa evoluzione i due tributi sembrano nel tempo prendere a riferimento vicende analoghe «la distinzione si fonda, allora, sulla natura di detta modificazione patrimoniale, che sarà meramente quantitativa o essenzialmente qualitativa a seconda che sia conseguenza di un assetto liberale o non liberale» 28. Va infine ricordato che l’unitaria tassazione degli atti, per quanto distante possa apparire nella prospettiva storica, effettivamente si palesa piuttosto attuale solo che si consideri il tentativo di riforma che il legislatore aveva voluto introdurre con l’art. 6 del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 29, riallocando l’intera disciplina dei trasferimenti per successione e donazione nell’ambito dell’imposizione di registro 30. Tuttavia, lo stesso legislatore, in sede di conversione 31, si è reso probabilmente conto delle difficoltà di ordine sistematico che avrebbe comportato un unico assetto disciplinare. Pertanto, il tributo sulle successioni e donazioni soppresso nel 2001, è stato nuovamente istituito ad opera dell’art. 2, comma 47, della legge di conversione n. 286/2006. Tralasciando una serie di dubbi interpretativi che probabilmente discendono dalla tecnica redazione adottata dal legislatore, il presupposto, anche a seguito delle ultime modificazioni normative, si identifica con l’incremento patrimoniale «non derivante da atti o attività del beneficiario intenzionalmente rivolti a produrlo (secondo la definizione di “reddito prodotto”), ma correlato e conseguente 27

Altra parte della dottrina individua il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni nell’arricchimento del beneficiario; si rinvia per tutti a D. STEVANATO, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, Padova, 2000, p. 12; F. GAFFURI, Imposta sulle successioni e donazioni – trust e patti di famiglia –, Padova, 2008, p. 120. 28 A. FEDELE, Riforma dell’imposta, cit., p. 58. 29 Agli effetti della tassazione degli atti di rinuncia pura e semplice l’approvazione del citato art. 6 avrebbe certo risolto in radice tutte le problematiche circa l’indagine della causa ai fini discriminanti della tassazione dell’atto. 30 Si rinvia a A. FEDELE, Il regime fiscale di successioni, cit., p. 591 il quale osserva che si trattava di un ulteriore ed integrale ritorno all’originaria disciplina indistinta dei trasferimenti della ricchezza, inter vivos o mortis causa, ma in un contesto normativo e sistematico ormai evoluto in senso diverso. 31 Il citato articolo è stato interamente sostituito dai commi da 47 a 54 dell’art. 2 della l. di conversione n. 286/2006.

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alla decurtazione o distribuzione del patrimonio di un altro soggetto» 32. La nozione di trasferimento viene dunque ad essere parzialmente svalutata, assumendo come rilevanti ai fini del presupposto anche gli effetti giuridici (a causa liberale) 33 che determinano comunque un incremento patrimoniale. In questa ottica anche il riferimento testuale, nel citato comma 47, alla gratuità dell’effetto (in luogo della previgente espressione “altre liberalità”) sembra doversi interpretare in senso meramente confermativo dell’alternatività con assetti onerosi (siano essi corrispettivi e/o solutori). Del resto la prospettiva che pone in rilievo l’efficienza causale dell’arricchimento ai fini dell’individuazione del presupposto, in termini discriminanti tra l’imposta di registro e l’imposta sulle successioni e donazioni, unitamente alla dirimente valutazione degli effetti giuridici causalmente orientati dal disponente, appare, ad esempio, illuminante circa il tema della rinuncia, quale negozio muto quanto alla causa, e della sua rilevanza agli effetti della tassazione degli atti. È evidente, infatti, che assumere come elemento discriminante agli effetti di questi tributi la funzione economica e sociale del negozio implica una riflessione più profonda 34 sul contenuto negoziale dell’atto, sia isolatamente considerato, sia in ragione del collegamento con altri atti, anche nella vicenda negoziale complessa delle liberalità indirette (attuate mediante negozi onerosi o anche assetti negoziali neutri 35) ed in particolare del negotium mixtum cum donatione 36. 32

Così A. FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 600. Si pensi ad esempio alla natura non traslativa, bensì meramente obbligatoria del legato di cosa dell’onerato o di cosa altrui, certamente rientrante nel presupposto del tributo successorio. In argomento sia consentito il rinvio a V. MASTROIACOVO, Regime fiscale del trasferimento in esecuzione del legato di cosa dell’onerato ex art. 651 c.c., in Riv. dir. trib., 2008, I, p. 3. 34 Per ampie riflessioni sul tema si rinvia a A. FEDELE, Il regime fiscale di successioni, cit., p. 608, in particolare circa la qualificazione causale del contratto a favore di terzo; F. GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, cit., p. 105, secondo il quale «il presupposto del tributo sulle donazioni è l’incremento patrimoniale derivante da un atto gratuito, tale per la sua causa», mentre «l’atto oneroso tipico mantiene inalterato il suo carattere, indipendentemente da motivi di munificenza che possono avere indotto uno dei protagonisti ad agire e a richiedere una controprestazione coscientemente inadeguata»; contra D. STEVANATO, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, cit., p. 207, per il quale «a ben vedere, infatti, nelle donazioni indirette la liberalità (più precisamente, per quanto a noi interessa, l’arricchimento per spirito liberale) non è l’effetto giuridico (uno degli effetti) di negozi a causa onerosa, quanto il risultato empirico che le parti perseguono, pur attraverso la stipula di contratti a causa onerosa (compravendita, contratto a favore di terzo, ecc.)». 35 Secondo la teoria che accentua il profilo oggettivo agli effetti dell’individuazione del presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni l’arricchimento del terzo non è necessaria conseguenza di un contratto-mezzo oneroso, «ma è più spesso un risultato obliquo, frutto di un’operazione complessa, in cui si combinano (e talvolta si confondono) più momento negoziali (o anche atti negoziali o meri comportamenti), che rimangono concettualmente distinti», così D. STEVANATO, Donazioni e liberalità indirette, cit., p. 209, il quale in via esemplificativa richiama l’adempimento del terzo, ma anche la rinuncia eventualmente tacita all’azione di riduzione. 33

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5. L’imposta sul valore aggiunto La tassazione indiretta di un singolo atto di “trasferimento” della ricchezza, discriminata, come visto, in ragione della causa, può incidere diversamente sull’attività di un soggetto agli effetti dell’IVA. Se infatti nell’ambito dell’imposta di registro è previsto il principio di alternatività, il concorso con l’imposta sulle successioni e donazioni è esplicitamente disciplinato all’art. 56, comma 5, D.Lgs. n. 346/1990 37. Ciò premesso, la rilevanza o meno della causa negoziale agli effetti dell’applicazione dell’IVA discende immediatamente dalla definizione del presupposto cui si acceda. È infatti evidente che se il presupposto è la destinazione al consumo 38 di beni e servizi essa potrà configurarsi anche a prescindere dalla onerosità o meno dell’atto che produce l’effetto. Più precisamente, in quest’ottica assume rilievo il passaggio al consumo in sé, restando ininfluenti quei trasferimenti di beni (eventualmente non onerosi) che non incidono in alcun modo sulla destinazione all’attività (si pensi, ad esempio, alla morte dell’imprenditore). Diversamente, assumendo come rilevanti solo le cessioni dei beni e le prestazioni dei servizi a titolo oneroso, salvo eccezioni circa la rilevanza degli assetti non onerosi, puntualmente disciplinate dal legislatore, è evidente che l’indagine circa la causa riveste un diverso spessore. Al di là di una prima analisi volta a verificare l’ampiezza del termine onerosità rispetto a quello di corrispettività 39, più volte utilizzati dal legislatore nazionale ai fini IVA (a nostro avviso, indifferentemente) sarebbe infatti poi opportuno discernere in concreto gli assetti, diversi dalle donazioni, effettivamente gratuiti 40. 36 Stevanato, coerentemente con quanto sostenuto in termini generale (e qui evidenziato nelle note precedenti) conclude per l’irrilevanza, ai fini della tassazione del negotium mixtum cum donatione, dell’art. 25 dell’imposta di registro, ritenendo di dover avere unico riguardo al risultato empirico liberale dell’assetto negoziale (D. STEVANATO, Donazioni e liberalità indirette, cit., p. 228). A considerazioni differenti, a nostro avviso condivisibili, giunge la dottrina prevalente si veda per tutti, A. FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, p. 994; S. GHINASSI, in Manuale di diritto tributario, (a cura di Russo), Milano, 2009, p. 381. 37 Osserva correttamente A. FEDELE, Il regime fiscale di successioni, cit., p. 599, nt. 81 che, seppur opinabile sotto il profilo della razionalità delle scelte, il diverso trattamento parrebbe fondato su una differente considerazione dei tributi sul trasferimento della ricchezza secondo il criterio della maggiore o minore attitudine ad incidere sull’esercizio delle attività economiche piuttosto che sulla sfera patrimoniale della persona. 38 In questo senso A. BERLIRI, L’imposta sul valore aggiunto, Milano, 1971, p. 10; l’impostazione sembra costantemente confermata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia della Comunità europea (cfr. A. COMELLI, IVA comunitaria e IVA nazionale, Padova, 2000, p. 316). Criticano questa ricostruzione del presupposto P. FILIPPI, Le cessioni dei beni nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 1984, p. 78; M. VERSIGLIONI, Profili tributari della cessione gratuita, cit., p. 547. 39 Sul tema si rinvia alle considerazioni di P. FILIPPI, Le cessioni di beni, cit., p. 77 ss. 40 Non è certo questa la sede per affrontare un tema così ampio come quello dell’applicabilità

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Svalutando ai fini del presupposto l’immissione dei beni al consumo, le cessioni gratuite di beni non darebbero mai luogo ad applicazione dell’IVA, salve le fattispecie espressamente disciplinate, prime fra tutte, le cessioni gratuite di beni la cui produzione o commercio rientri nell’attività propria dell’impresa 41. L’eccezionalità di tale previsione verrebbe ovviamente meno se invece si considerassero anche le alienazioni a titolo gratuito, pur rientranti nell’esercizio dell’impresa, passaggi al consumo che integrano un’operazione imponibile. Questa seconda impostazione sembra, a nostro avviso, trovare una conferma anche avuto riguardo alle modifiche legislative che hanno interessato l’individuazione degli importi che non concorrono a formare la base imponibile dell’IVA 42. Ed infatti, tra di essi sono menzionati i valori normali dei beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono in conformità alle originarie condizioni contrattuali, tranne quelli la cui cessione è soggetta ad aliquota più elevata; questi valori, in ogni caso, dovranno essere esposti in fattura a prescindere dal fatto che rientrino o meno nella produzione o commercio dell’impresa cedente 43. della teoria dell’operazione complessa in materia tributaria, tuttavia appare interessante segnalare le implicazioni che questo tipo di approccio avrebbe, ad esempio, nell’ambito dell’IVA ove andassimo a evidenziare un concetto di gratuità per differenza da quello di onerosità così come si desume dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (ovverosia quale “scambio di reciproche prestazioni nel quale il prezzo riscosso dall’alienante costituisce il controvalore effettivo del ben ceduto” cfr. CGCE, 3-3-1994, C-16/94 Tolsma, 14; CGCE, 27-4-1999, C-48/97 Kuwait Petroleum, 26; CGCE, 16-10-1997, C-258/95, Fillinbeck, 13). In questi termini significative appaiono alcune fattispecie oggetto di interpello da parte dell’Agenzia delle entrate; si pensi alle vendite “party plan system” (Ris. n. III/6/0865 del 1-7-1994); alle cessioni gratuite di quotidiani, c.d. “free press” (Ris. n. 13/E del 4-2-2005); alle cessioni gratuite “voucher” per acquisto beni/servizi da terzi (Ris. n. 21/E del 22-2-2011); ai bonus a concessionaria in relazione al volume vendite auto (Ris. n. 120/E del 17-9-2004; CT I° gr. Torino, 30-9-1991) e ancora alle cessioni “gratuite” ai Comuni nell’ambito dell’attuazione di piani di programmazione urbanistica (Ris. nn. 349/E e 350/E del 2008). 41 Sul punto occorre precisare in primo luogo che per questa tipologia di operazioni imponibili, al pari delle ipotesi di destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa (art. 2, comma 2, n. 4 e 5), la rivalsa è facoltativa; in secondo luogo, sotto un distinto profilo, la fattispecie va coordinata con quella prevista al successivo comma 3, lett. d) per cui non sono considerate cessioni di beni quelle che hanno ad oggetto campioni gratuiti di modico valore appositamente contrassegnati. 42 Art. 15, comma 1, n. 2. 43 Osserva al riguardo la dottrina che «l’ampia portata della regola generale formulata in ordine alle cessioni a titolo gratuito fa ritenere che sia sostanzialmente ridisegnata la stessa formulazione normativa del presupposto di imposta, apparendo notevolmente svalutato l’elemento della onerosità ai fini della individuazione delle operazioni imponibili», così P. BORIA, Il sistema tributario, Torino, 2008, p. 629; nello stesso senso si veda anche L. CARPENTIERI, L’imposta sul valore aggiunto, in A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., p. 941; ID., Autoconsumo, in Enc. giur., IV, Roma, 1998, Agg., la quale osserva che l’assimilazione alle cessioni rilevanti ai fini IVA è giustificata dall’esigenza di evitare che i beni oggetto di cessione gratuita possano giungere al consumo detassati per effetto dell’avvenuta detrazione IVA sull’acquisto; R. CORDEIRO GUERRA, Art. 2 d.p.r. n. 633/1972, in Breviaria Juris, a cura di G. Falsitta-A. Fantozzi-G. Marongiu-F. Moschetti, Padova, 2011, p. 9.

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Certo l’immissione al consumo è più evidente rispetto alla nozione di destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’attività, che del resto ha origine proprio in relazione al meccanismo dell’IVA e solo successivamente è stata introdotta anche nell’ambito delle imposte sui redditi. Tale nozione acquista significato in ragione del fatto che le cessioni di beni e le prestazioni di servizi sono rilevanti ai fini dell’applicazione dell’IVA solo se e in quanto effettuate nell’esercizio d’impresa (o di un’arte o di una professione 44) essendo espressione di un’attività economica autonomamente organizzata. In quest’ottica la destinazione implica comunque una disposizione volitiva autonoma del soggetto che ne è titolare in termini di “consumazione” dell’indice su cui viene misurata la capacità contributiva. Questa prospettiva importa evidentemente una funzione quasi residuale della fattispecie in ogni ipotesi in cui non sia rinvenibile un’inerenza dell’atto all’attività o ancor meglio al “programma” imprenditoriale (anche in termini di ritorno economico dell’operazione) che dunque trascende i limiti stessi del concetto di causa.

6. Le imposte sul reddito Come già verificato relativamente all’IVA, l’analisi circa la rilevanza della causa negoziale degli atti può condurre a diversi risultati sul piano interpretativo proprio in ragione delle possibili differenti ricostruzioni giuridiche del presupposto d’imposta. Rispetto all’imposizione sul reddito le difficoltà di un’indagine, secondo l’angolo di visuale proposto 45, sembrano acuite, in particolare, dalla mancanza di una definizione positiva di reddito che consenta di circoscrivere con certezza la rilevanza causale, sia sul lato attivo che passivo del rapporto, di atti dispositivi della ricchezza, in termini coerenti con il principio di capacità contributiva. La dottrina ha a lungo tentato di dare una definizione del concetto giuridico di reddito 46 (distinguendo questa definizione da quella degli scienziati delle fi44

Occorre precisare che attualmente la fattispecie della destinazione a finalità estranee è prevista con riguardo all’attività di impresa e all’esercizio dell’arte o della professione limitatamente alle cessioni di beni, mentre relativamente alle prestazioni viene menzionata solo l’attività d’impresa. 45 Per un’analisi in questa prospettiva si segnala fin d’ora V. FICARI, Reddito d’impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, p. 241 che esamina l’inerenza delle scelte dell’imprenditore alla luce delle categorie civilistiche della gratuità e dell’onerosità, evidenziando come agli effetti della tassazione del reddito d’impresa assuma rilevanza determinante il programma imprenditoriale. 46 Cfr. N. D’AMATI, La progettazione giuridica del reddito, II, Padova, 1975, p. 2; E. POTITO, Il sistema delle imposte dirette, Milano, 1989, p. 9; R. RINALDI, L’evoluzione del concetto di reddito, in Riv. dir. fin., 1981, I, p. 401; L. TOSI, La nozione di reddito, in F. TESAURO, Giur. Sistematica dir. trib., L’Irpef, I, Torino, 1994, p. 9. Nella prospettiva del reddito prodotto si veda L. EINAUDI, Sag-

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nanze e degli economisti) e al contempo di dare un confine certo al carattere di residualità (prima nell’imposta di ricchezza mobile e, poi, nell’ambito della tassazione dei redditi diversi). Entrambi questi due tentativi interpretativi avevano l’unico scopo di delimitare l’imposizione reddituale ai soli incrementi patrimoniali di natura, appunto, reddituale, scongiurando quindi interpretazioni ed applicazioni che attraessero al presupposto di questo tributo fattispecie estranee al concetto di reddito legislativamente assunto, seppur per implicito. Come primo elemento necessario alla nozione di reddito è stato individuato quello dell’incremento patrimoniale preesistente sub specie di aumento di valore, concretamente determinabile, nel patrimonio di una persona 47. In questa prospettiva il reddito è un’entrata netta costituita da una somma di denaro o da un bene in natura (analogamente stimabile in denaro) che viene ad aumentare il patrimonio del soggetto titolare della ricchezza, ma anche un aumento degli elementi positivi o una diminuzione degli elementi passivi. Pertanto, in negativo, non sarà reddito ciò che non è incremento di patrimonio in quanto non rientra nel concetto stesso di patrimonio: in quest’ottica non rilevano le qualità intellettuali e la posizione sociale di un soggetto 48, i “vantaggi” che il titolare ritrae dai propri beni 49 e le somme erogate a titolo di risarcimento del danno emergente, gi sul risparmio e l’imposta, Torino, 1965, p. 5; secondo C. COSCIANI, Stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria, Milano, 1964, p. 214 perché vi sia reddito sarebbe necessaria la predisposizione da parte dell’individuo di una volontà e di un disegno preordinato a voler conseguire “quel maggior valore”. Nella prospettiva del reddito entrata cfr. G. FALSITTA, Le plusvalenze nel sistema dell’imposta mobiliare, Milano, 1966. Per un’attenta ricostruzione, sotto il profilo storico, nonché sistematico, della nozione di reddito si rinvia a F. PAPARELLA, Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, p. 45 ss. 47 Il patrimonio è il complesso di diritti che fanno capo ad una persona e che hanno un valore economico e rileva in quanto stock, il reddito è invece un flusso di nuovo patrimonio formatosi in un determinato arco temporale (convenzionale). Più precisamente il patrimonio consisterebbe nel complesso dei diritti o dei rapporti giuridici «se del patrimonio occorra dare, a certi effetti, una nozione comprensiva delle passività» che fanno capo ad una persona e che hanno un valore economico. In tal senso A.D. GIANNINI, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, p. 165. 48 Certo sia le qualità intellettuali, che la posizione sociale possono essere situazioni idonee a prefigurare sul mercato “vantaggi”, in termini comparativi rispetto ad altri soggetti che ne sono privi, anche al fine dell’acquisto di ulteriore ricchezza (si pensi ad esempio alla maggiore facilità di accesso a contratti di aperture di credito o di mutuo), tuttavia tale circostanza per assumere rilievo agli effetti impositivi deve trovare riscontro con il principio della capacità contributiva, nel rispetto dei limiti sanciti in costituzione. Sotto un profilo diverso da quello che emerge dal codice civile, eventualmente riconducibile a un concetto di fonte produttiva, la cessione della clientela, frutto di qualità intellettuali del cedente, è fattispecie che può dar luogo a redditi, se e in quanto riconducibile ad un’obbligazione di non fare o permettere e art. 67, comma 1, lett. l), del TUIR. Con il D.L. n. 223/2006 è stato però espressamente disciplinata la fattispecie, prevedendo che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela (art. 54, comma 1 quater del TUIR). 49 Salvo dover precisare che relativamente agli immobili la proprietà del bene non fa venire

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mancando anche in questo caso il profilo incrementativo della ricchezza 50. Se dunque l’incremento patrimoniale è un elemento tendenzialmente essenziale per la verificazione del presupposto dell’imposta sui redditi, non ogni incremento di patrimonio (anche eventualmente in considerazione di risparmi di spesa o di effetti indiretti di vicende estintive) è necessariamente reddito. Al tema tradizionale affrontato dalla dottrina circa la rilevanza del profilo causale che ha determinato l’incremento stesso, va successivamente ad aggiungersi quello circa l’imprescindibile riconducibilità della fattispecie ad una delle categorie reddituali. Nella prospettiva ormai storica dell’imposta di ricchezza mobile le fonti del reddito 51 implicavano la relazione causale tra la fonte e il reddito nel senso che quest’ultimo doveva trovarsi in relazione di effetto a causa con un’energia o forza produttiva. In particolare, ai fini che qui interessano, l’analisi si soffermava sul concetto di “elargizioni spontanee” in relazione alle donazioni pure e semplici; mentre queste ultime, pur importando incremento del patrimonio, sarebbero capitali e non redditi, le prime venivano fatte rientrare nel presupposto dell’imposta sui redditi in quanto comunque in corrispettivo di “uffizi o ministeri” 52. meno la rilevanza reddituale del cespite, con attenuazioni in caso di abitazione principale e con amplificazioni nel caso di immobile a disposizione e dunque a prescindere da “vicende causali” legate all’incremento del patrimonio, che nella specie appunto manca, forse per coerenza con altri valori costituzionali. In argomento A. FEDELE, L’imposizione immobiliare. Dalla metafora della “fonte” all’intenzionalità del risultato produttivo, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 535. A diverse conclusioni sembra potersi giungere invece con riferimento a vantaggi ritratti su beni altrui; per considerazioni critiche sul tema della rilevanza reddituale si rinvia a M. BEGHIN, Le intestazioni societarie “di comodo” nel d.l. n. 138/2011 tra difetto di inerenza e resistibile tassazione dei risparmi di spesa, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 141 il quale, con riferimento alla nuova fattispecie di redditi diversi introdotta all’art. 67, comma 1, lett. h ter) del TUIR, osserva che «la felicità e il piacere si possono toccare con mano. Tuttavia essi non possono elevarsi a “reddito”, trattandosi di stati psicologici soggettivi che non rilevano, per chi si trova in quella situazione, la benché minima idoneità al pagamento del tributo. L’utilità non può pertanto declinare in quell’incremento del patrimonio che sta alla base del concetto di reddito, cosicché anch’essa deve per forza rimanere estranea a quest’area dell’imposizione». 50 Art. 6, comma 2, TUIR; in argomento V. MASTROIACOVO, La rilevanza fiscale delle somme percepite in ragione di transazioni di lavoro, in Riv. dir. trib., 2002, II, p. 435 anche per riferimenti bibliografici. 51 In tal senso O. QUARTA, Commento alla legge sull’imposta di ricchezza mobile, Milano, 1902, vol. 1; con particolare riferimento all’art. 3, comma 1, lett. e) del R.D. sulla ricchezza mobile. 52 La citata dottrina si interroga – anche sulla scorta di interessante giurisprudenza – sulla rilevanza reddituale delle elargizioni spontanee per i “diritti di stola bianca e nera”, per “l’affitto delle sedie ai fedeli che convengono in chiesa”, per provvedere alle spese di culto, concludendo per la tassabilità delle stesse in quanto date in corrispettivo «non nel senso di compenso dovuto, bensì e solo nel senso che le offerte spontanee dovessero aver luogo in occasione, in contemplazione di un uffizio, di un ministero, di una qualità qualsiasi, di che quegli a cui si fanno sia rivestito. Laddove non ha nessun valore l’obbiezione (…), che non si potessero ritenere dati in compenso dell’opera prestata dal prete per celebrare la messa, perché la celebrazione della messa è d’un valore inestimabile. Il legislatore in altri

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A questa impostazione è stato però obiettato che il reddito non è mai esito di un’unica causa, ritenendo più congrua un’efficacia “condizionalistica” dell’efficienza causale, nel senso che l’operazione compiuta dal soggetto deve costituire il minimo necessario affinché il reddito sia a lui imputabile, con conseguente possibilità di applicare l’imposta 53. In altri termini, cercando di giustificare questa qualificazione nell’ambito di un sistema che ritiene più ragionevole una nozione di reddito prodotto (in conseguenza di una forza produttiva), piuttosto di quella di reddito entrata, la dottrina osservava che «la novella ricchezza derivante dalla donazione fatta a scopo di rimunerazione di un servizio ricevuto è pur sempre prodotta da chi ha effettuato il servizio o la prestazione». Tuttavia, se era evidente che la prestazione del servizio non poteva di per sé considerarsi causa della “rimunerazione”, dovendosi dare risalto alla gratuità dell’atto e allo spirito di liberalità a sostegno dell’arricchimento altrui 54, nella prospettiva condizionalista si concludeva che «la funzione causale svolta dall’operato del donatario si può sintetizzare affermando che senza di esso la donazione non sarebbe stata fatta: esso ha svolto la funzione di condizione indispensabile, ma non sufficiente, perché si producesse il risultato che di fatto è stato conseguito» 55. Ai fini della definizione del reddito potremmo in prima approssimazione concludere che la causa dell’incremento del patrimonio non è di per sé determinante, stante la necessità di verificarne l’efficienza causale in termini di risultato produttivo derivante da un atto o da un’attività posta in essere, tendenzialmente al netto dei costi. Con questa impostazione appare conforme un concetto di reddito prodotto quale incremento patrimoniale derivante da un agire umano cosciente e consapevolmente ordinato a produrlo 56, il quale è certamente esito di atti onerosi o attività termini ha detto: sia pure che quel che si dà per la messa non importi un compenso dovuto, sicché al prete non competa azione giuridica per poterne pretendere il pagamento, sarà sempre vero che sia una cosa data spontaneamente per effetto, in vista della celebrazione della messa e quindi sarà un provento derivante dalla spontanea offerta fatta in corrispettivo, in contemplazione di un ufficio o ministero, non potendosi dubitare che la funzione della messa costituisca uffizio o ministero». O. QUARTA, op. cit., pp. 152 e 153. 53 In tal senso G. FALSITTA, Le plusvalenze, cit., p. 87. 54 In altri termini la vera donazione remuneratoria origina sì dalla prestazione, ma si connota – prevalentemente – per il compimento di una liberalità non dovuta in ragione del servizio. 55 G. FALSITTA, Le plusvalenze, cit., p. 89. Ad analoghe conclusioni si può agevolmente pervenire avuto riguardo alle liberalità che si fanno in occasione di servizi resi o comunque in conformità di usi (art. 770 c.c.). Sul tema della rilevanza in termini reddituali delle erogazioni liberali, in particolare nell’ambito del rapporto di lavoro, e per riflessioni di carattere sistematico si rinvia a V. GUIDO, Il trattamento fiscale delle mance corrisposte al portiere d’albergo, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 491; V. MASTROIACOVO, Le mance ai croupiers, in I redditi di lavoro dipendente, a cura di V. Ficari, Torino, 2003, p. 371. 56 Evidentemente il rapporto tra ciò che è reddito e non è patrimonio emerge con tutta la sua

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corrispettive, ma non pare di per sé inconciliabile con il beneficio derivante da atti di liberalità 57. Se, infatti, di regola 58 questi ultimi non determinano, per chi li riceve, componenti reddituali positive, a diverse conclusione sembra doversi giungere avuto riguardo all’attività d’impresa, «per sua natura ordinata a far fronte a qualsiasi rischio ed a profittare di qualsiasi vantaggio anche derivanti da eventi non considerati e

problematicità in fase di accertamento tutte le volte in cui la ricchezza è evidenziata attraverso indici rilevatori (flussi bancari, beni, ecc.) non supportati idoneamente da atti scritti e che lascino presumere l’omessa denuncia di redditi prodotti. Si pensi, ad esempio, all’accertamento sintetico e ai dati raccolti con questionari o in sede di contraddittorio: proprio in questa prospettiva era stata predisposta la disciplina dell’art. 56 bis del D.Lgs. n. 346/1990. Come è noto si tratta di un articolo di particolare rilevanza “trasversale” introdotto nel testo unico dell’imposta sulle successioni e donazioni in occasione della L. n. 342/2000 al fine di rilevare le liberalità non formalizzate. Questo articolo dispone che ferma restando l’esclusione delle donazioni o liberalità di cui agli artt. 742 e 783 c.c., per l’accertamento delle liberalità diverse dalle donazioni e da quelle risultanti da atti di donazione effettuati all’estero a favore di residenti può essere effettuato esclusivamente in presenza di due condizioni «quando l’esistenza delle stesse risulti da dichiarazioni rese dall’interessato nell’ambito di procedimenti diretti all’accertamento dei tributi e quando le liberalità abbiano determinato, da sole o unitamente a quelle già effettuate nei confronti del medesimo beneficiario, un incremento patrimoniale superiore all’importo di 350 milioni di lire». Per le liberalità così accertate è prevista l’aliquota del 7 per cento; esse possono essere altresì registrate volontariamente. La previsione aveva appunto lo scopo, relativamente alle «liberalità indirette, realizzate attraverso i sopra menzionati atti neutri, o trasferimenti informali, (…) di evitare una intromissione del fisco nella sfera privata degli interessati», tuttavia la dottrina si accorse ben presto che «l’accertamento sintetico poteva essere utilizzato come espediente per accertare surrettiziamente le donazioni indirette in modo molto più invadente di come potrebbe fare il più incisivo potere di indagine ai fini del tributo successorio». In questi termini R. LUPI, I trasferimenti non formali: dalle scelte rinunciatarie del legislatore del 1973 all’imbarazzo di quello del 2000, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 299; in argomento si rinvia a G. MONTELEONE, Il nodo delle liberalità indirette, ibidem, p. 331. In verità oggi, con il susseguirsi delle modificazioni, soppressioni e nuove istituzioni del tributo sulle successioni e donazioni non è del tutto chiaro se questa disposizione sia ancora in vigore. Se infatti la sua ratio e la sua funzione possono certamente dirsi salvaguardate anche nella prospettiva dell’attuale disciplina, è necessario operare una significativa interpretazione “adeguatrice” al fine di espungere gli elementi attualmente incompatibili (quali ad esempio il riferimento a una franchigia e ad una aliquota del tutto disallineate rispetto alla disciplina ordinaria). In argomento si rinvia a G. PETTERUTI, Rilevanza fiscale delle liberalità indirette, cit., p. 817; F. GAFFURI, Note riguardanti la novellata imposta sulle successioni e donazioni, in Rass. trib., 2007, p. 449; S. GHINASSI, Le liberalità indirette, cit., p. 401. 57 Si veda V. FICARI, Continuità del programma imprenditoriale, gratuità del trasferimento e valori imponibili nell’imposizione delle plusvalenze aziendali: aspetti sostanziali e procedimentali, in V. FICARI-M. BEGHIN-D. MURARO, La circolazione dell’azienda nella recente giurisprudenza tributaria, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 125. 58 In termini derogatori potrebbe essere interpretata tuttavia la previsione dell’art. 50, comma 1, lett. i), TUIR circa la rilevanza reddituale degli assegni periodici corrisposti in forza di testamento o donazione modale (eventualmente applicabile anche alle ipotesi di rendite vitalizie costituite a titolo gratuito), a cui corrisponde la deducibilità delle somme per l’obbligato (art. 10, comma 1, lett. d), TUIR).

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non prevedibili nel programma dell’attività stessa» 59. Seguendo questa impostazione, l’inclusione delle liberalità tra le componenti reddituali dell’impresa non avrebbe valenza derogatoria 60 del concetto di reddito prodotto (a favore di quello di reddito entrata), potendosi considerare – in una certa misura – l’evoluzione dell’elaborazione, innanzitutto giurisprudenziale, della necessaria speculatività dell’attività di impresa 61. L’elemento discriminante a questi fini appare allora esclusivamente la destinazione dell’oggetto dell’attribuzione liberale all’attività 62: come, a nostro avviso, correttamente osservato dalla dottrina 63 l’incremento patrimoniale potrebbe addirittura essere giuridicamente non riconducibile ad alcuna specifica opzione nell’ambito dell’attività d’impresa e, tuttavia, essere rilevante agli effetti del reddito in ragione appunto della destinazione all’attività. Oppure, l’atto dispositivo della “ricchezza” potrebbe essere causalmente connotato e comunque risultare irrilevante ai fini reddituali, proprio in ragione della destinazione all’attività, ad esempio, nel caso di versamenti dei soci alla società a scopo di finanziamento 64. 59

Così A. FEDELE, Il regime fiscale, cit., p. 643, per il quale la rilevanza dell’incremento patrimoniale a titolo liberale è qui subordinata all’inserimento tra i risultati dell’attività di impresa, istituzionalmente rivolta all’acquisizione di qualsiasi vantaggio patrimoniale ad essa connesso, come conseguenza prima dell’assunzione e “governo” dei rischi che in ogni modo incidano sui risultati dell’attività stessa. 60 Contra, nel senso di considerare la previsione di cui all’art. 88, comma 3, lett. b), TUIR, relativa alle sopravvenienze attive, come un’ipotesi di reddito entrata, pare tuttavia la dottrina dominante, cfr. M. BEGHIN, I contributi e le liberalità a favore dell’impresa, Milano, 1997. In argomento si veda anche L. CARPENTIERI, Le indecisioni del legislatore tributario in materia di sopravvenienze attive: il caso dei proventi conseguiti dall’impresa a titolo di liberalità e contributo, in Riv. dir. trib., 1994, I, p. 190. 61 Questo elemento è invece, a nostro avviso, caratterizzante, ma non “determinante” di un’attività di lavoro autonomo, seppure le recenti modifiche introdotte nel TUIR circa le componenti positive del reddito di lavoro autonomo tendano ad un’assimilazione delle modalità della determinazione di questo reddito a quelle dell’impresa. 62 Ciò evidentemente a prescindere dal valido titolo, anche quanto alla causa, dell’atto che ha posto il soggetto in una situazione di possesso in relazione ai beni produttivi. Del resto la stessa rilevanza della sentenza dichiarativa dell’usucapione di un bene immobile, in termini di sopravvenienza attiva pari al valore normale del bene, appare conseguenziale alla destinazione già impressa al bene nel corso del ventennio utile e valida ai fini dell’accertamento del diritto; fermo restando che resteranno validamente attratti al reddito i proventi eventualmente ritratti dal fondo nel periodo antecedente alla sentenza. 63 Osserva ancora A. FEDELE, Il regime fiscale, cit., p. 656 che se l’attribuzione mortis causa va accettata, qualora a titolo universale, o può essere rifiutata, se trattasi di legato, sia l’accettazione che la rinuncia «(sicuramente riconducibili all’attività d’impresa se l’attribuzione ad essa è rivolta) sono atti successivi al verificarsi di un primo effetto (chiamata all’eredità od immediato acquisto del bene legato) derivante da fatti estranei alle scelte dell’imprenditore». Del resto se il soggetto beneficiario non è imprenditore, «neppure l’obbligo a lui eventualmente imposto, di intraprendere l’attività, destinandovi il bene donato, può escludere la necessità di un’autonoma decisione del beneficiario medesimo, con conseguente destinazione all’impresa del bene alla stregua di ogni altro bene o diritto preesistente nel suo patrimonio “personale”». 64 Il riferimento è evidentemente all’art. 88, comma 4, TUIR in forza del quale non si conside-

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Dal punto di vista dell’arricchimento patrimoniale, anche al di fuori dell’attività d’impresa, la causa negoziale dell’atto produttivo di una ricchezza agli effetti della sussistenza del “reddito” non pare in sé discriminante neanche avuto riguardo, ad esempio, all’attuale tassazione dei proventi illeciti, verificata la sola sussistenza della situazione giuridica riconducibile al requisito del possesso 65. Emerge poi una certa diffidenza da parte della prassi amministrativa o dello stesso legislatore a considerare come genuina la gratuità o parziale gratuità di un negozio dispositivo di un cespite produttivo di reddito 66 o comunque di “utilità” rano sopravvenienze attive i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale alle società e agli enti commerciali, dai propri soci e la rinuncia dei soci ai crediti, né la riduzione dei debiti dell’impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo o per effetto della partecipazione alle perdite da parte dell’associato in partecipazione, trattandosi di conferimenti in patrimonio. L’erogante non può portare in deduzione tali somme (art. 101, comma 7, TUIR) e il loro ammontare si aggiunge al costo della partecipazione. Cfr. V. MASTROIACOVO, Art. 101 tuir, in Commentario breve alle leggi tributarie, Breviaria Juris, III, a cura di Falsitta-Fantozzi-MarongiuMoschetti, Padova, 2010, p. 532; in argomento si segnala L. DEL FEDERICO, Minusvalenze patrimoniali, sopravvenienze passive, perdite ed accantonamenti per rischi su crediti, in Giur. sistematica, Irpef, a cura di Tesauro, Torino, 1994, p. 793. 65 In argomento si rinvia a F. TESAURO, La tassazione dei proventi di reato e gli enunciati del legislatore-interprete, in Giur. it., 1995, I, 2001; A. MARCHESELLI, Legittimità costituzionale, responsabilità penale e problemi applicativi della tassazione dei proventi illeciti, in Dir. prat. trib., 1997, p. 452; ID., Le attività illecite tra fisco e sanzione, Padova, 2001; A. GIOVANNINI, Provento illecito e presupposto dell’imposta personale, Milano, 2000, p. 47; G. FALSITTA, La tassazione dei proventi da reato nell’analisi della giurisprudenza dell’ultimo decennio, in Rass. trib., 2001, p. 1123; M. NUSSI, Proventi di attività illecite, in Rass. trib., 2008, p. 495; ID., Prelievo fiscale sui proventi illeciti, in Rass. trib., 2010, p. 501. Come noto nonostante l’emanazione della n. 537/1993, risultava ancora alquanto incerta la sorte dei proventi derivanti da attività illecita, non sottoposti a sequestro o confisca penale, ma non rientranti, però, in nessuna delle categorie reddittuali tipizzate dal TUIR. Al fine di riempire questo vuoto normativo, il legislatore è intervenuto nuovamente sulla materia in questione. La novella è contenuta nell’art. 36, comma 34 bis, D.L. n. 223/2006 (noto come “decreto Visco-Bersani”, convertito in L. 4 agosto 2006, n. 248), il quale recita «in deroga all’art. 3 della Legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell’art. 14 della Legge n. 537/1993, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del Testo unico delle imposte sui redditi (di cui al d.P.R. n. 917/1986), sono comunque considerati come redditi diversi». 66 Si segnala ad esempio la particolare posizione dell’Agenzia delle entrate (ris. 381/E 2008 e ris. 394/E 2008) in merito alla tassazione del reddito prodotto dalla locazione del fabbricato da parte del comodatario di un immobile. L’Agenzia in questa fattispecie afferma che, non intervenendo a seguito del comodato un trasferimento (quindi un mutamento nella titolarità del reddito fondiario), il reddito del fabbricato deve essere imputato al proprietario dell’immobile anche in questo caso (sempre secondo le ordinarie regole della tassazione sulla base della rendita o, se maggiore, del canone ridotto del 15%). In altri termini, il comodato è considerato a questi effetti del tutto trasparente: questa soluzione lascia intravedere appunto una diffidenza dell’amministrazione riguardo ad assetti gratuiti eventualmente funzionali ad “allocare” in famiglia (o altrove) il reddito e determinare un abbassamento dell’aliquota marginale del singolo. A nostro avviso, sia che si segua la tesi per cui ai fini dell’imposta sul reddito occorre guardare alla realità della fonte

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su beni altrui 67, in quanto probabilmente considerate funzionali alla non riconducibilità in termini soggettivi del presupposto al titolare del bene 68, seppur in relazione a schemi negoziali non pianamente sussumibili all’interposizione fittizia, né all’elusione, né alla simulazione, pur incidenti sulla determinazione del reddito per il titolare giuridico del bene. Invece, spostando l’attenzione dal soggetto che ottiene l’incremento patrimoniale esito di un atto negoziale, al soggetto che pone in essere un atto idoneo a produrre un reddito imponibile, sembrerebbe pacifico che atti di alienazione non onerosi (né corrispettivi) di una qualsiasi posizione giuridica economicamente valutabile in termini patrimoniali dovrebbero comportare una componente reddituale negativa 69. Al più si potrebbe osservare che l’atto gratuito di intenzionale (che per i redditi fondiari sarebbe produttiva di un reddito a prescindere dalla percezione dello stesso), sia che si segua la tesi per cui ciò che rileva è la possibilità di disporre del bene produttivo, saremmo comunque fuori del presupposto. Infatti, secondo la prima ricostruzione mancherebbe comunque in capo al comodante il possesso del reddito derivante dal contratto di locazione stipulato dal comodatario (possesso che è presupposto dell’imposizione); in ragione della seconda impostazione l’autorizzazione del comodante al comodatario alla stipula del contratto di locazione (nel senso di non considerarlo contrario all’uso per il quale il comodato è stato concesso) non sarebbe sufficiente a ricondurre il relativo importo in capo al primo sub specie di reddito non essendo frutto di una disposizione del bene a lui riconducibile. A nostro avviso, appare innegabile che, se la tassazione ai fini dei redditi di fabbricati dovesse restare in capo al proprietario (in virtù della natura non traslativa del comodato), il corrispettivo della locazione dovrebbe rilevare quale reddito diverso, pur mancando anche in questo caso il possesso del reddito in presenza del possesso della fonte. 67 Significativa, ad esempio, la già menzionata recente introduzione della fattispecie di cui alla lett. h) ter dell’art. 67 del TUIR (introdotta dall’art. 36 quinquiesdecies del D.L. n. 138/2011), che disciplina un’ipotesi di plusvalenza data dalla «differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni dell’impresa a soci o familiari dell’imprenditore», con la precisazione che tale differenza concorre alla formazione del reddito imponibile del socio o familiare utilizzatore con criteri di rilevazione specifici. È evidente che in questo contesto si vogliono cogliere fenomeni elusivi (o meglio evasivi d’imposta) attraverso intestazione di beni a società che poi concedono gli stessi in utilizzo, spesso esclusivo, ai soci o familiari verso corrispettivi annui irrisori; tuttavia attenta dottrina ha evidenziato come – assumendo una certa nozione di reddito e qualificando la fattispecie in esame come mero risparmio di spesa – non sussisterebbe il presupposto sul quale operare la tassazione in capo al beneficiario del bene; in questi termini M. BEGHIN, Le intestazioni societarie di comodo, cit., p. 159, prospettando in conclusione il dubbio circa la legittimità costituzionale della norma. 68 In termini generali sul tema si rinvia in argomento a F. PAPARELLA, Possesso di redditi, cit., p. 235 ss. 69 Nell’ambito del reddito d’impresa le liberalità rilevano come componenti negativi deducibili secondo le ipotesi disciplinate dall’art. 100 del TUIR. La dottrina si è interrogata circa l’interpretazione dell’ultimo comma di questo articolo che sembra stabilire una clausola di chiusura delle liberalità deducibili alle sole fattispecie previste. Se questa considerazione può certamente trovare un fondamento nelle esigenze antielusive della disciplina, non pare però che una disposizione circa la regolamentazione di una singola componente del reddito d’impresa possa – in mancanza di una deroga certa – porsi in termini di discontinuità rispetto al principio generalis-

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destinazione di parte della ricchezza al soddisfacimento di interessi meritevoli a livello ordinamentale sia irrilevante agli effetti della determinazione del reddito 70, non per mancata integrazione del presupposto, ma al fine di incentivare la destinazione anche nell’ottica del “salvataggio” individuale di aree di fallimento statale. Posta la questione in questi termini, l’atto negoziale, in ragione del principio del consenso e a prescindere dalla sua causa, determinerebbe uno spostamento patrimoniale rilevando agli effetti della valutazione reddituale solo in occasione di una modificazione qualitativa, in termini positivi, del patrimonio del disponente, determinando – negli altri casi – solo l’evento in conseguenza del quale il bene stesso possa eventualmente rilevare in capo al beneficiario, in ragione di puntuali criteri d’imputazione temporale. Tuttavia, è innegabile che l’indagine della dottrina 71, quanto alla rilevanza reddituale della causa degli atti dispositivi, si è essenzialmente soffermata sulle fattispecie “realizzative” come sintomatiche del momento in cui un bene plusvalente usciva dal patrimonio di un soggetto. Impostata in questi termini, infatti, la plusvalenza ai fini dell’imposizione sul reddito era l’esito di un trasferimento a titolo oneroso che avesse determinato un incremento patrimoniale del disponente. Nella prospettiva dell’attività d’impresa, questa ricostruzione risultò però presto insufficiente, apparendo necessario dare risalto alla certezza e definitività dell’incremento di valore come condizione essenziale per la sua rilevanza reddituale; si ammise, conseguentemente, la suscettibilità di produrre plusvalenze sia alle donazioni di beni, che alle assegnazioni degli stessi ai soci 72. Si andava via via simo che informa la tassazione del reddito d’impresa per cui, ai fini della sua determinazione, assumono rilevanza tutte (e solo) quelle vicende a rilevanza patrimoniale, conseguenze di atti che compongono l’attività, valutabili sotto questo profilo in ragione del criterio dell’inerenza. In questo senso V. FICARI, Reddito d’impresa, cit., p. 242, che individua una serie di atti gratuiti comunque preordinati ad un interesse economico mediato ed indiretto della società erogante in posizione di strumentalità con l’attività produttiva. Per considerazioni sulla portata sistematica o meno delle previsioni dell’art. 100 si rinvia a V. MASTROIACOVO, Art. 100 tuir, in Commentario breve alle leggi tributarie, Breviaria Juris, III, a cura di G. Falsitta-A. Fantozzi-G. Marongiu-F. Moschetti, Padova, 2010, p. 520. 70 Si pensi ad esempio alle deduzioni di erogazioni liberali di cui all’art. 10, comma 1, lett. g), i), l), l ter), TUIR; tra l’altro, eccezion fatta per le erogazioni in denaro per il pagamento degli oneri difensioni dei soggetti ammessi al gratuito patrocinio, a conferma della particolare rilevanza sotto il profilo degli interessi coinvolti, trattasi di deduzioni applicabili anche al soggetto non residente (art. 24, comma 2, TUIR). 71 Sul tema si rinvia innanzitutto a G. FALSITTA, Le plusvalenze nel sistema della imposta mobiliare, cit.; ID., Le plusvalenze e le sopravvenienze, in G. FALSITTA, La tassazione delle plusvalenze e delle sopravvenienze nelle imposte sui redditi, Padova, 1983, p. 3; A. FANTOZZI, Ancora in tema di realizzazione delle plusvalenze, in Riv. dir. fin., 1965, p. 486. 72 Va però precisato che con riferimento a questa fattispecie viene in rilievo in misura determinante anche una finalità legislativa di tipo antielusivo, comunque in una prospettiva diversa da quella del realizzo della plusvalenza; del resto sembra compatibile con la natura non meramente

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prospettando l’idea che l’attività economica non potesse essere ridotta all’esame dei singoli atti intenzionali (differenziati anche in ragioni della causa), ma dovesse essere considerata nel suo complesso come programmata di per sé al risultato del reddito. Solo in quest’ottica poteva, allora, trovare una sua coerente sistemazione il concetto, già accennato in ambito iva, della destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’attività, come fattispecie di emersione di ricavi e plusvalenze imponibili seppur esito di una vicenda priva di utilità 73 (neanche intesa in termini sostitutivi) 74. Tuttavia, come è noto, proprio sul punto della rilevanza degli atti liberali la dottrina si è assestata su tesi antitetiche dalla sistematica irrilevanza 75, alla necessaria applicazione del principio della continuità dei valori 76, alla rilevanza di tutte le plusvalenze esito di attribuzioni non ascrivibili all’ambito dell’onerosità 77. A gratuita (quanto piuttosto “interessata”) dell’assegnazione al socio, una giustificazione della fattispecie sotto forma di riparto di utile “a valle” di una produzione di reddito. Rispetto all’assegnazione ai soci la dottrina rinviene una caratteristica ulteriore rispetto a quella dell’autoconsumo e della destinazione a finalità estranee e, cioè, quella di comprendere al suo interno «atti dispositivi a titolo propriamente gratuito ed atti invece a titolo oneroso senza che tale distinzione condizioni, in negativo, il fondamento argomentativo dell’imposizione». Così V. FICARI, Reddito d’impresa, cit., p. 337; cfr. G. FALSITTA, Le plusvalenze nel sistema dell’imposta mobiliare, cit., p. 248. 73 Al riguardo V. FICARI, Reddito d’impresa, cit., p. 342, per il quale assume rilievo agli effetti del rispetto del principio di capacità contributiva, la disponibilità di un risultato produttivo a seguito di un atto intenzionale dell’imprenditore volto al cambiamento della destinazione, per quanto si tratti di atto non corrispettivo e privo di strumentalità con l’esercizio d’impresa. 74 Osserva A. FEDELE, Riorganizzazione delle attività produttive e imposizione tributaria, in Riv. dir. trib., 2000, I, p. 489, che «la mancata considerazione del valore o del maggior valore dei beni “destinati” alla soddisfazione di interessi e bisogni estranei all’esercizio dell’impresa pregiudicherebbe una corretta determinazione dei risultati di quest’ultima: le disposizioni in questione soddisfano un’esigenza distinta da quella che ispira le norme sulla “realizzazione” di ricavi e plusvalenze, ma non sono per questo riducibili a regole eccezionali, esprimendo piuttosto un autonomo principio, coordinato con quello che esige la valutazione dei beni ed utilità pervenuta “in sostituzione” di altri nel quadro di una corretta determinazione del reddito d’impresa». 75 Su questa posizione innanzitutto M. VERSIGLIONI, Profili tributari della cessione gratuita, cit., p. 481; si veda inoltre M. NUSSI, Ancora sul regime dei beni d’impresa: trasferimenti gratuiti d’azienda e imposta sui redditi, in Riv. dir. trib., 1997, I, p. 604, secondo il quale il trasferimento gratuito di beni non implica che l’eventuale plusvalenza maturata presso il donante abbia rilevanza reddituale e ritiene che il beneficiario possa assumere i beni al valore normale e non al valore di acquisto del donante. 76 Cfr. D. STEVANATO, Il nuovo regime dei trasferimenti d’azienda a titolo gratuito, in Riv. dir. trib., 1997, I, p. 363; ID., Riorganizzazione delle attività produttive e rilevanza delle plusvalenze iscritte, in Rass. trib., 1998, p. 1524; R. LUPI, In margine alla neutralità dei trasferimenti gratuiti d’azienda, in Corr. trib., 1997, p. 265; G. PORCARO, Le ragioni della sistematica neutralità delle recenti norme sulle ristrutturazioni aziendali, in Rass. trib., 1997, p. 1574, per cui il mancato assoggettamento in capo al donante della plusvalenza maturata, impone che il beneficiario assuma il bene al valore fiscalmente riconosciuto presso il donante; contra A. FEDELE, Riorganizzazione delle attività produttive, cit., p. 485. 77 Si veda M. MICCINESI, Le plusvalenze d’impresa, Inquadramento teorico e profili ricostruttivi, Milano, 1993, p. 177.

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fronte delle distinte prospettazioni, sembra comunque di dover individuare una possibile soluzione alla luce del principio generale d’inerenza all’attività: se l’atto dispositivo non oneroso è redditualmente irrilevante perché non inerente al programma imprenditoriale, esso non potrà avere a oggetto beni relativi all’impresa (in quanto destinati all’attività), se prima i beni stessi non sono stati distratti dalla predetta destinazione mediante un atto (immediatamente precedente) rilevante in termini di destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa 78. In altri termini, qualsiasi atto negoziale dispositivo di beni d’impresa può assumere rilevanza agli effetti della determinazione del reddito a prescindere dalla causa dell’atto di per sé discriminante: rispetto ad assetti onerosi si terrà conto della realizzazione del reddito, rispetto ad assetti non onerosi sarà invece l’inerenza o meno all’attività a determinare l’irrilevanza o la rilevanza (quale destinazione a finalità estranee) degli stessi agli effetti della determinazione del reddito. In termini generali, sembra del resto conforme al principio di capacità contributiva affermare il principio d’imputazione dell’eventuale plusvalenza in capo al soggetto che la “realizza” attraverso una maturazione nel relativo periodo. Unitamente a questa osservazione, parte della dottrina ha inoltre prospettato la possibilità di configurare l’attribuzione a terzi, quale atto con il quale «si manifesta ed esaurisce il potere di disporre nell’interesse proprio e dunque il “possesso” del reddito» 79. Questa prospettiva, coerente con una definizione di reddito legata alla capacità di “autogoverno” della ricchezza, sollecita a una estensione della stessa anche in ambiti diversi dall’attività d’impresa, nei quali, tuttavia, sembra opportuna una preliminare verifica di compatibilità con il principio di imputazione temporale della cassa, il quale sembrerebbe presupporre una prestazione a favore del possessore del reddito, per lo più dedotta in rapporti onerosi (anche in termini di utilità sostitutive) 80. Certo, accogliendo questa ricostruzione, verrebbero, ad esempio, ad assumere rilevanza reddituale anche diritti di credito, maturati in conseguenza di assetti onerosi, e rinunciati puramente e semplicemente, pur in assenza di un “incasso”, in ragione della definitività “giuridica” dell’atto dispositivo 81. In verità, a noi sembra che questa ipotesi vada più profondamente valutata 78

In questi termini A. FEDELE, Il regime fiscale di successioni, cit., p. 653 il quale osserva che «è questione interpretativa stabilire se, ai fini delle imposte sui redditi, possano considerarsi inerenti solo le liberalità rientranti in categorie normativamente previste ovvero anche ipotesi di erogazioni o contributi a tali categorie non riconducibili, ma evidentemente strumentali per il conseguimento dell’oggetto sociale», concludendo che l’eventuale scelta in termini restrittivi non risponde a ragioni sistematiche, ma di interesse fiscale in relazione anche a possibili (e difficilmente discriminabili) comportamenti elusivi. 79 Così A. FEDELE, Il regime fiscale di successioni, cit., p. 650. 80 Salvo il caso di rendita costituita per donazione (art. 44, comma 1, lett. c), TUIR). 81 Ad esempio compensi per prestazione di lavoro autonomo e retribuzioni di lavoro dipendente (nei limiti consentito dall’ordinamento).

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cercando eventualmente di discriminare ipotesi in cui il disponente possa ritrarre un’utilità dalla vicenda abdicativa 82, rispetto a casi in cui questo non accada. Ed infatti, ritenendo pressoché anacronistico il riferimento alla percezione di species monetarie, stante il generalizzato ricorso a mezzi di pagamento “virtuali”, il principio di cassa potrebbe oggi ragionevolmente coincidere con il momento in cui il “programma” obbligatorio, al quale un soggetto risulti vincolato, trovi attuazione mediante un effetto “reale”, che – a nostro avviso – può anche consistere nella realizzazione di un assetto in cui l’interesse del disponente (in termini di utilità economica e secondo una logica di scambio) si soddisfi immediatamente per effetto di un atto di disposizione. Se questa interpretazione è valida avuto riguardo al negozio di cessione, non appaiono ostacoli di ordine sistematico a estenderla anche al negozio unilaterale di rinuncia, in cui sia apprezzabile una vicenda “di ritorno” in capo al rinunciante. Resta poi fermo che oltre a considerazioni sul presupposto, la causa dell’atto negoziale che può originare l’incremento patrimoniale sollecita riflessioni in ordine ai criteri di determinazione della base imponibile, avuto riguardo sia a quanto già accennato circa l’eventuale deducibilità di erogazioni liberali, che alla deducibilità degli interessi passivi o, ancora, alla rilevanza in termini discriminanti della causa del negozio acquisitivo di un bene suscettibile di determinare plusvalenza agli effetti della determinazione del reddito 83.

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Il riferimento è alla teoria del c.d. incasso giuridico in occasione di rinuncia al credito da parte del socio titolare di un reddito rilevante in ragione del principio di cassa su cui più ampiamente V. MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2012, cap. IV, p. 87. 83 Appare significativo richiamare alcune fattispecie relativamente alle quali l’Agenzia delle entrate si è pronunciata, con risposte di interpello, al fine di chiarire le modalità per operare la valorizzazione di redditi in natura. Si segnala il caso della rinuncia a servitù (che si configura come un assetto negoziale bilaterale corrispettivo) trattato nella ris. n. 210/E del 2008, rispetto al quale si afferma l’imponibilità della plusvalenza argomentando ex art. 9, comma 5, TUIR. L’Agenzia, a nostro avviso impropriamente, individua la plusvalenza non in ragione dell’onerosità dell’assetto negoziale suscettibile di giustificare un reddito in termini di “sostituzione”, quanto piuttosto argomentando da precedenti determinazioni di prassi (risoluzione del 16 febbraio 2007, n. 25), in cui, agli effetti dell’imposizione indiretta sulle successioni e donazioni, era stata confermata l’assimilabilità della rinuncia abdicativa (!) alla cessione di beni, in quanto «pur trattando un tema diverso, ha, sostanzialmente, espresso tale criterio ermeneutico di carattere generale». In senso conforme, relativamente ad una servitù di passaggio, ris. n. 379/E del 10 ottobre 2008.

QUALIFICAZIONE DELL’ATTO DI AFFIDAMENTO DI BENI AL TRUSTEE NELLE IMPOSTE SUI TRASFERIMENTI

di Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti SOMMARIO: 1. Introduzione. – 1.1. L’atto di “affidamento di beni al trustee”. – 1.2. Le problematiche emergenti. – 2. Considerazioni preliminari. – 2.1. Caratteri generali dell’atto di affidamento di beni al trustee. – 2.2. Trust e imposta sulle successioni e donazioni. – 2.3. Trasmissioni di beni nell’ambito del trust. – 2.4. Prospettiva dell’Amministrazione finanziaria. – 3. Rilevanza delle attribuzioni patrimoniali nell’ambito del trust. – 3.1. Trust e presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni. – 3.2. Il concetto di attribuzione patrimoniale. – 3.3. Immediata rilevanza fiscale della trasmissione dei beni al trustee. Critica. – 3.4. Inidoneità dell’atto di affidamento al trustee a determinare attribuzioni patrimoniali (gratuite). – 4. Trasmissione di beni operata con l’atto di affidamento. Qualificazione. – 4.1. La supposta gratuità della trasmissione di beni al trustee. – 4.2. I rapporti giuridici interni al trust. – 4.3. Il carattere dell’attribuzione che il trustee riceverebbe. – 5. Considerazione complessiva della vicenda determinata dal trust. – 5.1. L’atto di affidamento nell’ambito del trust. – 5.2. Il programma sotteso al trust. – 6. Assetti onerosi e gratuiti ed applicazione al trust delle imposte sui trasferimenti. – 6.1. La valorizzazione della segregazione da parte dell’Agenzia delle entrate. – 6.2. Inadeguatezza dell’anticipazione del prelievo rispetto ad un effettivo arricchimento. – 6.3. Necessità di focalizzazione sul trasferimento finale, complessivamente determinato. – 7. Cenni in tema di imposte ipotecaria e catastale. – 7.1. Tentativo di ricostruzione del presupposto delle imposte ipotecaria e catastale. – 7.2. Conseguenze sulla determinazione della base imponibile. – 7.3. L’interpretazione più recente della giurisprudenza sull’atto di affidamento al trustee. – 8. Conclusioni.

1. Introduzione 1.1. L’atto di “affidamento di beni al trustee” Ai fini delle c.d. “imposte sui trasferimenti di ricchezza” riveste particolare interesse l’atto con cui il settlor destina alcuni propri beni alla realizzazione del pro Contributo modificato rispetto a quello già pubblicato in Riv. dir. trib., II, 2012, p. 150 ss., dal titolo Considerazioni su affidamento di beni al trustee e imposte sui trasferimenti di ricchezza.

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gramma che intende realizzare mediante il trust che istituisce, o ha già istituito 1. Questa particolare vicenda è stata oggetto di attenzione, in campo tributario, da parte dell’Amministrazione finanziaria, della dottrina e della giurisprudenza. È infatti noto che il trust, essendo propriamente un complesso di diritti su beni, non ha una propria soggettività civilistica 2, con la conseguenza che i beni destinati alla realizzazione del disegno ad esso sottostante vengono intestati formalmente al trustee, che ne dispone non in quanto proprietario bensì, appunto, a titolo di trust. Ciò comporta vari effetti, tra i quali maggiore rilievo sembra essere stato attribuito a quello di segregazione che su tali beni si verifica, i quali vanno a costituire una massa separata rispetto al patrimonio del trustee. Sembra, fortunatamente, in via di superamento l’iniziale diffidenza con cui si guardava a questo strumento, la cui grandissima versatilità pareva, in una cultura giuridica totalmente differente da quella in cui esso ha avuto origine, destinarlo unicamente alla realizzazione di manovre dai dubbi scopi. Le indagini degli operatori si sono dunque concentrate, principalmente, sulla qualificazione dell’atto con cui si realizza il primo dei trasferimenti di diritti cui si assiste nella vicenda di un trust 3, ossia quello con cui il settlor si spoglia di beni propri rimettendoli al trustee, che ne diviene per l’effetto formale titolare. Può parlarsi, in proposito, di un atto di “affidamento di beni al trustee” 4 e dell’assunzione, da parte di quest’ultimo, di una proprietà vincolata allo scopo 5, 1 È noto che la dotazione di beni del trust può avvenire sia contestualmente alla sua istituzione che in un momento successivo, con atto separato. 2 In ambito tributario, è espressamente prevista una soggettività passiva del trust unicamente per le imposte sui redditi, dall’art. 73 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, così come risultante in seguito alle modifiche operate dall’art. 1, comma 74, lett. a), n. 1), della L. 27 dicembre 2006, n. 296. La disposizione anzidetta contempla ora il trust tra i soggetti passivi dell’IRES, salva l’imputazione per trasparenza dei redditi prodotti ai beneficiari che risultassero individuati, prevista dal secondo comma dell’art. 73 TUIR. 3 Quanto detto non dovrebbe valere – ma nella casistica che si citerà si vede come ciò non sia sempre vero – nel caso in cui il trust sia del tipo c.d. “autodichiarato”, nel quale è il disponente stesso ad assumere la qualifica di trustee. L’intestazione formale dei beni di cui il trust viene dotato rimane quindi la medesima, ma cambia il relativo titolo. Gli stessi beni di cui il disponente era proprietario vengono ad essere da lui “detenuti” a titolo di trust, e dunque con obbligo di destinarli unicamente alle finalità del trust, delineate nell’atto istitutivo. 4 Sembra, questa, una terminologia idonea ad individuare l’atto con cui il disponente si spoglia di propri beni rimettendoli al trustee in una prospettiva fiduciaria, ossia confidando nel fatto che egli adempirà al disegno predisposto dal settlor stesso. Si noti, infatti, che una volta trasferiti i propri beni al trustee, il settlor perde ogni possibilità di coercizione dell’opera del gestore, sussistendo tali poteri unicamente in capo ai beneficiari o all’eventuale guardiano. Su tale aspetto si veda LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008, p. 11. 5 Cfr. FRANCO, Trust testamentario e liberalità non donative: spiragli sistematici per una vicenda delicata, in Riv. not., 2009, p. 1449 che prospetta la possibilità di considerare il diritto attribuito al trustee sui beni come una «proprietà conformata allo scopo», tale da funzionalizzare, fin dall’ori-

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per esprimere il fatto che il trustee riceve i beni unicamente al fine di realizzare il programma delineato dal disponente nell’atto istitutivo. Nella considerazione tributaria dell’assetto che viene in tal modo a determinarsi sembra avere prevalso una prospettiva in cui il c.d. “atto di dotazione”, con cui i beni sono trasmessi al trustee e destinati alle finalità del trust, assume rilevanza pregnante rispetto alla successiva attribuzione dei beni, che dovrebbe invece integrare l’unico elemento rilevante nelle imposte sui trasferimenti, in quanto effettivamente traslativa di ricchezza. Neppure nel caso in cui i beneficiari del trust possano dirsi individuati fin dall’origine si assiste ad una considerazione più ampia della vicenda, dato che la principale rilevanza è comunque attribuita all’atto “di destinazione” dei beni stessi alle finalità del trust.

1.2. Le problematiche emergenti La presente indagine trae origine dall’esame dell’orientamento espresso dall’Agenzia delle entrate 6 proprio in ordine a quell’atto con cui i beni sono dal settlor affidati al trustee, così come recepito e messo in pratica da alcuni Uffici locali 7. gine, lo stesso diritto in ragione del vincolo «tanto nel profilo del godimento come in quello della disposizione». 6 Il riferimento è costituito, principalmente, dalle circolari dell’Agenzia delle entrate n. 48/E del 6 agosto 2007 e n. 3/E del 22 gennaio 2008, in def.finanze.it – Servizio di documentazione economica del Ministero dell’Economia e delle Finanze. 7 Tra i casi esaminati si distinguono quelli in cui l’Amministrazione ha considerato imponibile la costituzione di un vincolo di destinazione tout court e quelli in cui, invece, si è ritenuto imponibile il trasferimento (inteso come mero subentro nella titolarità) dei beni al trustee. In quest’ultima categoria rientrano, principalmente, i casi di cui alle sentenze: Commissione tributaria provinciale di Lodi, sez. II, 4 aprile 2011, n.60, in Riv. dir. trib., 2011, II, p. 146; Commissione tributaria regionale di Milano, sez. IV, 26 ottobre 2010, n. 96, in banca dati fisconline, in cui l’Ufficio, con una formula “ibrida” qualifica l’atto di dotazione del trust come un atto dispositivo a titolo gratuito che, privo dello spirito di liberalità proprio delle donazioni, è preordinato non all’arricchimento del destinatario dei beni, ma essenzialmente alla costituzione di un vincolo di destinazione sui beni oggetto del trasferimento”; Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. I, 14 ottobre 2009, n. 95, in banca dati fisconline. Può aggiungersi, nonostante l’argomentazione per cui il trustee «diviene titolare, sia pure nell’ambito di un patrimonio separato…», la sentenza della Commissione tributaria regionale di Firenze, sez. 24, 17 novembre 2011, n. 24 (in www.trusts.it – Archivio mondiale dei trust a cura dell’Associazione “Il trust in Italia”). Tra i casi in cui si è vista come imponibile la mera costituzione di vincoli di destinazione: Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. IX, sent. 19 giugno 2013, n. 293 (in www.trusts.it); Commissione tributaria regionale di Venezia-Mestre, sez. XXIX, sent. 21.02.2012, n. 10 (in www.trusts.it); Commissione tributaria regionale di Bologna, sez. IX, 4 febbraio 2011, n. 16 (pronunciatasi sulla sentenza CTP Bologna, sez. II, 30 ottobre 2009, n. 120, entrambe in banca dati fisconline); Commissione tributaria regionale di Milano, sez. IV, 26 ottobre 2010, n. 88 (in banca dati fisconline); infine Commissione tributaria provinciale di Pesaro, sez. I, 9 agosto 2010, n. 287 e Commissione tributaria

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Nei casi considerati, tutti comunque originati dagli indirizzi di prassi espressi in materia, risulta evidente che gli accertatori hanno perlopiù considerato il passaggio di beni dal disponente al trustee come evento che, in sé, giustificherebbe l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni. Nell’episodio forse più indicativo 8, l’Ufficio locale aveva ritenuto di assoggettare all’imposta sulle successioni e donazioni proprio l’atto con cui i beni del disponente sono trasmessi 9 al trustee, al fine di costituire il c.d. trust fund 10. Quanto sopra si deduce dal fatto che in tal caso la base imponibile dell’imposta sulle donazioni richiesta risultava, secondo l’Ufficio locale, “pari a zero” giacché dal valore dell’attivo (costituito dal quello dei beni e diritti assegnati al trustee) si sarebbe dovuto computare in diminuzione l’onere di ritrasferimento degli stessi beni in favore dei soggetti beneficiari finali dello stesso trust. Appare poi singolare che si sia ritenuto di applicare l’imposta sulle donazioni in un caso in cui il contesto complessivo dell’operazione si presentava manifestamente oneroso (e dunque sicuramente non gratuito), trattandosi di negozio solutorio, e quindi di un trust per mezzo del quale il disponente intendeva adempiere preesistenti obbligazioni. Ci si è dunque chiesti se sia possibile considerare in via autonoma l’atto di affidamento di beni al trustee e ritenere che tale stessa fattispecie realizzi un trasferimento di ricchezza rilevante per l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni. Altro interessante spunto fornito dai casi in esame riguarda le imposte ipotecarie e catastali da applicare alla trasmissione di immobili in favore del trustee, giacché alcune corti di merito 11 hanno ritenuto tali tributi non applicabili in misura proporzionale alla fattispecie esaminata, sul presupposto che il negozio di dotazione del trust non comporterebbe alcun effettivo trasferimento di ricchezza in favore del trustee. provinciale di Milano, sez. XL, sent. 11 febbraio 2014, n. 1462 (in banca dati fisconline), originate, addirittura, da casi in cui l’Ufficio locale aveva ritenuto applicabile l’imposta sulle donazioni all’atto istitutivo di un trust “autodichiarato”, nel quale cioè, come si è detto, è lo stesso settlor ad assumere l’ufficio di trustee. 8 Si tratta di quello esaminato ai fini dell’emanazione della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Lodi, sez. II, 4 aprile 2011, n.60, in Riv. dir. trib., 2011, II, p. 146. 9 Questa la terminologia che sembra più adeguata, in quanto riferibile alla «attribuzione di qualsiasi situazione giuridica» (FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in RESCIGNO, Trattato breve sulle successioni e donazioni, Padova, 2010, p. 595, nota n. 63). 10 Ossia, come noto, il complesso di beni destinati al trust, formalmente intestati al trustee. 11 CTP Lodi, sent. n. 60/2011, cit. In senso analogo, in precedenza: Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. 1, sent. 25 febbraio 2011, n. 14 (in www.trusts.it); Commissione tributaria provinciale di Perugia, sez. I, sent. 27 gennaio 2011, n. 35 (in www.trusts.it); Commissione tributaria provinciale di Salerno, sez. XV, sent. 8 ottobre 2010, n. 465 (in banca dati fisconline); Commissione tributaria provinciale di Treviso, sez. I, sentt. 30 aprile 2009, n. 47 e 48, entrambe confermate dalla Commissione tributaria regionale di Venezia-Mestre, sez. IV con sentenze del 21 settembre 2010, n. 75 e 76 (tutte in banca dati fisconline).

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Anche riguardo alle imposte ipo-catastali, per ciò che attiene la loro applicazione in misura proporzionale, emerge la necessità di appurare se debba tenersi conto del mero fatto della variazione della titolarità dei beni o – come è sembrato necessario ai fini dell’imposta sulle donazioni – possa essere attribuito rilievo alla posizione del trustee ed al titolo in base al quale egli esercita il proprio “dominio” su di essi, tenuto dunque conto della complessiva fattispecie in cui la trasmissione degli immobili avviene 12. Quanto appena detto sembra riproporre la disputa, tuttora irrisolta, sull’individuazione del reale presupposto delle imposte ipotecaria e catastale, nonché tra chi ritiene che il rinvio dell’art. 2 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347 ai criteri di determinazione della base imponibile previsti per l’imposta di registro o per quella sulle successioni e donazioni riguardi la sola determinazione del valore venale degli immobili oggetto delle formalità, senza possibilità di tenere conto delle passività su di essi gravanti 13, e chi, invece, osserva che anche ai fini delle imposte ipotecarie e catastali dovrebbero scomputarsi gli oneri gravanti sui beni e diritti trasferiti, con necessità di verificare, conseguentemente, la effettiva consistenza della base imponibile su cui applicare il tributo 14.

2. Considerazioni preliminari 2.1. Caratteri generali dell’atto di affidamento di beni al trustee La necessità di caratterizzare l’atto di affidamento di beni al trustee trae origine, principalmente, dall’esigenza di stabilire se esso integri o meno il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni ovvero quello dell’imposta di registro, facendolo quindi rientrare nell’area dell’onerosità (nel qual caso dovrebbe sem12 La prassi ministeriale – principalmente, circolare 6 agosto 2007, n. 48/E – ritiene che nel corso delle vicende di cui gli immobili sono oggetto in esecuzione del trust, ogni singola modificazione della loro titolarità (dal disponente al trustee, e da quest’ultimo ai beneficiari, nonché in ogni caso in cui si rendesse necessario sostituire la persona del trustee) richiederebbe l’applicazione dei tributi ipo-catastali in misura proporzionale. 13 Di questa opinione è l’Agenzia delle entrate (ad es., Min. Fin. Dir. gen. Tasse, Risoluzione 23 settembre 1991, n. 350865). 14 CARDARELLI, (voce) Ipotecarie (imposte), in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1992, VII, pp. 567 ss.; FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 604, secondo cui l’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria, laddove applica un criterio di tassazione “al lordo”, contrapposto a quello – cui è protesa l’imposta sulle successioni e donazioni – “al netto”, forza la lettera della legge. FEDELE, Le imposte ipotecarie, Milano, 1968, p. 162, rimarca l’irrilevanza delle disposizioni contenute nella disciplina delle imposte di registro e sulle successioni e donazioni al fine di individuare il presupposto dell’imposta ipotecaria e sottolinea al contempo la necessità di impiegare la regolamentazione inerente registro e successioni e donazioni unicamente ai fini della determinazione della base imponibile.

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pre trovare applicazione l’imposta di registro) o in quella della gratuità (campo elettivo dell’imposta sulle donazioni 15, come recentemente reistituita dal D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 16). Il cosiddetto “atto di affidamento” dà infatti luogo ad un subentro del trustee rispetto al disponente nella titolarità di alcuni beni, con assunzione di un potere gestorio limitato e vincolato dalla destinazione ad essi impressa dal settlor. L’intestazione formale del compendio in capo al trustee, disposta dalla Convenzione dell’Aja 17, sembra del resto poco indicativa dell’esistenza di una vicenda traslativa di ricchezza, essendo niente più che un espediente formale per trasporre in una apparenza più consona ai sistemi di civil law il dualismo, proprio del common law, tra legal ownership e beneficial ownership 18, dal quale il trust trae origine e giustificazione. Nel richiamato sistema giuridico, sui beni facenti parte del trust coesistono una proprietà “in law” ed una “in equity”, di modo che la prima compete al trustee, mentre la seconda è attribuita ai soggetti beneficiari del trust, titolari del diritto – giudizialmente azionabile – a vedere garantita la destinazione dei beni al progetto delineato dal disponente 19. In common law, pertanto, resta ben evidente che il titolo in base al quale il trustee opera sui beni attribuitigli per via del trust è limitato, coesistendo contemporaneamente con una proprietà “equitativa” attribuita a soggetti diversi (i beneficiari) e potendo, di conseguenza, individuarsi la posizione del fiduciario in or15 Peraltro, FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 598, solleva dubbi circa la possibilità di individuare atti non onerosi soggetti ad imposta sulle successioni e donazioni, diversi dalla liberalità vera e propria. 16 Convertito con modificazioni dalla L. 24 novembre 2006, n. 286. È noto che la diposizione (art. 2, comma 47) in cui è descritto l’oggetto dell’imposta fa ora riferimento ai «trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito» ed alla «costituzione di vincoli di destinazione». Sulle rilevanti modifiche apportate in sede di conversione, che hanno sancito l’uscita del tributo dalle logiche dell’imposta di registro entro la quale invece si intendeva, originariamente, far confluire la tassazione su successioni e liberalità, si veda FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 590 ss. 17 Si fa riferimento alla Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985 relativa alla legge applicabile ai trust ed al loro riconoscimento, resa esecutiva in Italia con legge 16 ottobre 1989, n. 364, al cui articolo 2, lettera b), è previsto che l’intestazione formale dei beni in trust faccia capo al trustee. 18 Utile in proposito, per un inquadramento generale, l’analisi dell’istituto e della sua genesi nell’ordinamento di common law originario di GAMBARO, (voce) Trust, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1999, XIX, p. 450. 19 Anche per tali profili, ed in particolare in relazione alla genesi della giurisdizione di equity, nata e concepita in funzione complementare, per correggere il rigore e rimediare alle carenze del Common law (in questi termini, MOCCIA, (voce) Common law, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1988, p. 17) mediante le soluzioni equitative concesse da chi amministrava la giustizia per conto del Sovrano a fronte di lacune o deficienze della legge formale, si veda l’analisi di GAMBARO, Trust, cit., par. 3.

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dine ai beni del trust come un diritto limitato al perseguimento degli scopi indicati nell’atto istitutivo 20. Questo non accade nei sistemi di diritto comune, i quali, per ciò che riguarda i negozi fiduciari 21, non hanno grande familiarità con l’istituto della fiducia germanistica 22 – cui il trust sembra più simile – ma trovano maggiormente accordabile con i propri principi quello della fiducia romanistica (o proprietà fiduciaria) che sembra, del resto, il più compatibile con il sistema di pubblicità immobiliare adottato nel nostro ordinamento 23. La fiducia romanistica prevede che al trasferimento della proprietà piena del bene si accompagni la costituzione di un rapporto obbligatorio per cui l’avente causa è tenuto a gestire i beni ricevuti – dei quali è però proprietario a tutti gli effetti – nell’interesse del dante causa, o fiduciante. L’effetto obbligatorio che così viene costituito, tuttavia, mal si presta ad essere reso conoscibile dai terzi ed a costoro opponibile, con la conseguenza che il fiduciante resterà esposto, per le proprie ragioni di credito, al concorso con gli altri creditori del fiduciario 24. La fiducia germanistica comporta invece che il fiduciante mantenga la proprietà del bene, che dunque rimane aggredibile dai suoi creditori, ma attribuisca al fiduciario il diritto di disporne. Nel trust si verifica una segregazione dei beni, che quindi divengono separati dagli averi del disponente, così come da quelli personali del trustee, dando luogo ad una separazione nell’ambito del patrimonio (unico) di quest’ultimo. Sul fiduciario grava l’obbligo – opponibile ai terzi salve ristrette eccezioni – di disporre di 20 La stessa Convenzione dell’Aja, sopra richiamata, nell’individuare i tratti fondamentali del trust, all’art. 2 lo indica come un complesso di diritti su beni a sé stante che vengono posti «sotto il controllo» di un trustee in un rapporto «di affidamento» (LUPOI, Trusts, Milano, 2001, pp. 9-11). 21 Su tali concetti, in generale, si veda PUTTI, (voce) Negozio fiduciario, in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, II, Torino, 2003, p. 914. 22 Applicazioni significative dell’istituto nel nostro ordinamento si rinvengono, perlopiù, in tema di intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie. Si vedano, in proposito, NUSSI, (voce) Fiducia nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1991, VI, p. 85 (in specie, par. 2 e 3) ed i contributi ivi richiamati, nonché PUTTI, (voce) Negozio fiduciario, in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, II, Torino, 2002, p. 914. 23 È pur vero che la introduzione, ad opera del D.L. 30 dicembre 2005, n. 273 (conv. con mod. in L. 23 febbraio 2006, n. 51), dell’art. 2645 ter c.c. ha reso possibile la trascrizione del vincolo di destinazione impresso a beni immobili o mobili registrati, ma sembra che la disposizione introduca in realtà un correttivo volto a temperare la rigidità che, altrimenti, sarebbe emersa dal nostro sistema giuridico e pubblicitario (si veda, in proposito, l’analisi, relativa anche alla specifica rilevanza della disposizione citata ai fini del trust, di LUPOI, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter c.c. quale frammento di trust, in Riv. not., 2006, I, p. 467). Si noti, inoltre, che la stessa Convenzione dell’Aja, all’art. 12, prevede che «il trustee che desidera registrare beni mobili o immobili o i titoli relativi a tali beni, sarà abilitato a richiedere l’iscrizione nella sua qualità di trustee o in qualsiasi altro modo che riveli l’esistenza del trust» (traduzione proposta dall’associazione “Il trust in Italia”, in www.il-trust-in-italia.it). 24 GAMBARO, Trust, cit., par. 2.

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tali beni soltanto secondo gli scopi del trust. La destinazione dei beni al trust è poi garantita da determinate tutele, attuate con strumenti diversi da quelli propri della tradizione civilistica 25, che si collocano entro un sistema volto a preservare il trust fund per garantire la sua destinazione ai beneficiari o allo scopo individuato. Le difficoltà di inquadramento del trust appaiono evidenti nei documenti di prassi emanati dall’Agenzia delle entrate, in alcuni passi dei quali si assiste a tentativi di “entificazione” dell’istituto, quali la ricostruzione del trasferimento di beni dal disponente al trustee alla stregua di un conferimento 26, oppure indicazioni secondo cui “il disponente trasferisce alcuni beni di sua proprietà al trust” 27. La descritta prospettiva storico-culturale consente di capire per quale motivo l’Amministrazione finanziaria, ragionevolmente preoccupata della possibilità che mediante il trust si sottraessero a tassazione dei trasferimenti imponibili, sembrerebbe essere incorsa in una ricostruzione per certi versi troppo semplificatrice della vicenda 28, con notevoli ripercussioni sul tema della applicazione delle imposte sui trasferimenti.

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In sostanza, ci si riferisce al fatto che, in caso di alienazione dei beni del trust da parte del trustee, il vincolo già gravante sui primi beni si trasferisce, automaticamente, su quanto ricevuto quale loro corrispettivo. Nel caso di alienazione illegittima, sono vari i rimedi, a seconda che l’avente causa rivesta o meno la figura del «bona fide purchaser for value without notice». L’avente causa dal trustee in mala fede verrà, ad esempio, istituito di diritto constructive trustee, subentrando, dunque, nella stessa posizione debitoria del trustee precedente nei confronti dei beneficiari. Si veda, in proposito, LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, cit., pp. 7-8 e pp. 107-109. Le tutele di cui si è detto si sostanziano in un effetto non propriamente riconducibile ai tradizionali strumenti civilistici. 26 Ad esempio, circ. 48/E del 6 agosto 2007, par. 5.2. 27 Così la circolare n. 61/E del 27 dicembre 2010. Simili “imprecisioni” sembrano in realtà frutto di una occasionale mancata ponderazione della sostanza dell’istituto, giacché in altri documenti di prassi (come anche all’interno delle stesse circolari richiamate) l’Amministrazione finanziaria offre invece una puntuale ricostruzione di esso. Si veda, ad es., la circolare n. 3/E del 2008, ove si legge che il trust «comporta la segregazione dei beni sia rispetto al patrimonio personale del disponente (disponente) che rispetto a quello dell’intestatario di tali beni (trustee)». È poi noto che il regime di pubblicità immobiliare adottato per il trust prevede la formale intestazione dei beni al trustee – in ossequio a quanto stabilito dalla Convenzione dell’Aja, art. 2, lett. b) – mentre si ritiene possibile l’annotazione nei registri immobiliari del titolo (trust) in base al quale tale titolarità è assunta, in conformità a quanto prevede l’art. 12 della Convenzione dell’Aja, già citato. In proposito si segnala, tuttavia, il recente decreto (10 luglio 2014) con cui la Corte d’Appello di Venezia, sez. III, ha ordinato la trascrizione nei registri immobiliari di un atto istitutivo di trust autodichiarato, “contro” il disponente ed “a favore” del trust istutito. 28 Analogamente insoddisfacente sembra la scelta di suddividere i trust nelle due macrocategorie di quelli con e senza beneficiari individuati (riassunta nella risoluzione 4 ottobre 2007, n. 278/E), mettendo in ombra la grandissima versatilità dell’istituto.

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2.2. Trust e imposta sulle successioni e donazioni È noto che nel reistituire l’imposta sulle successioni e donazioni, con il D.L. n. 262/2006 il legislatore ha aggiunto tra le fattispecie imponibili dello stesso tributo, oltre alle tradizionali figure del trasferimento di beni e diritti per causa di morte e per donazione, quelle dei trasferimenti a titolo gratuito, nonché “la costituzione di vincoli di destinazione”. L’Agenzia delle Entrate ha così ritenuto che l’attribuzione di beni al trust, in quanto atto idoneo a generare su di essi un vincolo di destinazione, rilevi «in ogni caso» ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni 29, con ciò negando la necessità di un’indagine sui reali effetti giuridici prodotti da tale atto di disposizione e, dunque, sulla effettiva manifestazione di un indice di capacità contributiva. Come è stato osservato 30, invero, nella elencazione del D.L. n. 262/2006 non esiste una figura che espressamente si riferisca al trust 31, il cui negozio di dotazione può dunque essere considerato imponibile nel solo caso in cui si ritenga che esso integri gli estremi di una delle fattispecie effettivamente considerate dal legislatore. A tale proposito, attenta dottrina ha inoltre rilevato che tra le tre anzidette figure ve ne sarebbe una che non aggiungerebbe niente di nuovo al precetto contenuto nell’art. 2, comma 47 del D.L. n. 262/2006, quand’anche non fosse stata inclusa nella sua formulazione letterale 32. Si tratterebbe della “costituzione di vincoli di destinazione”, che la stessa Agenzia delle entrate – salva l’unica ecce29

Circolare n 3/E del 2008, cit. Tra gli altri, DE RENZIS SONNINO, Il riconoscimento del trust nell’ambito dell’imposizione indiretta e l’eterogeneità dei diversi trusts, in FRANSONI-DE RENZIS SONNINO (a cura di), Teoria e pratica della fiscalità dei trust, Milano, 2008, p. 243 ss. 31 Recente conferma si rinviene in Commissione tributaria provinciale di Milano, sez. II, sent. 19 febbraio 2013, n. 77 nonché, in senso molto specifico, in Commissione tributaria regionale di Venezia-Mestre, sez. VII, sent. 27 novembre 2013, n. 90 (entrambe le decisioni in www.trusts.it), ove «La Commissione Tributaria Regionale, esaminati gli atti e sentite le parti osserva che il D.L. 262/06 che configura i “vincoli di destinazione” non comprende il contratto di Trust, mutuato da sistemi giuridici di “common law”». 32 FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 594, il quale ritiene che sia impossibile riconoscere nella mera “costituzione” del vincolo di destinazione un indice di capacità contributiva rilevante ai fini del’imposta sulle successioni e donazioni. Ciò è confermato dalla interpretazione “adeguatrice” – continua l’Autore – adottata dall’Agenzia delle entrate (circolari 22 gennaio 2008, n. 3/E e 27 marzo 2008, n. 28/E), che ha ritenuto la costituzione di vincoli di destinazione imponibile, ai fini del tributo che qui interessa, nel solo caso in cui importi trasferimento di beni o diritti. Lo stesso Autore, inoltre, nota come in tale ultima fattispecie (traslativa) di costituzione di vincoli di destinazione si individui una vicenda solo testualmente diversa ed ulteriore rispetto ai “trasferimenti di beni e diritti”, tra i quali, secondo l’interpretazione universalmente accolta, dovrebbe invece trovare collocazione. 30

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zione, costituita dal trust – qualifica come imponibile soltanto nel caso in cui alla costituzione del vincolo si accompagni un effetto traslativo. In tale ultima eventualità, tuttavia, si realizza solitamente un “trasferimento di beni e diritti” e sembra quindi corretto ritenere che sia per questo motivo – anziché per la costituzione del vincolo in sé – che se tale trasferimento avviene a titolo gratuito la vicenda possa integrare il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni 33.

2.3. Trasmissioni di beni nell’ambito del trust L’istituto del trust presenta però indubbiamente delle importanti particolarità che necessitano che quanto appena detto venga opportunamente contestualizzato. Se si cerca di capire se il trust è idoneo a realizzare un trasferimento a titolo gratuito, è doveroso premettere che una tale indagine potrà essere opportunamente condotta soltanto assumendo la giusta prospettiva. Nella complessa vicenda del trust con beneficiari si inseriscono infatti due principali trasmissioni di beni, ossia quella compiuta dal disponente in favore del trustee e quella con cui i beni sono devoluti ai beneficiari. Nel caso, invece, del trust c.d. “di scopo”, nel quale i beneficiari mancano per definizione, essendo il trust istituito per perseguire determinate finalità, l’atto da qualificare dovrebbe essere il solo affidamento di beni al trustee 34, da intendersi però come negozio che attua la destinazione dei beni allo scopo 35. È quindi utile e necessario capire se ad assumere rilevanza ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni possa essere la prima vicenda attinente la titolarità 33 FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 575 ss. e pp. 598-599 ritiene che nella mera “costituzione di vincoli di destinazione”, tenuto conto della ratio del tributo successorio, non possa riconoscersi un indice rilevante ai fini della capacità contributiva considerata e conseguentemente esclude che tale dicitura assuma rilevanza pratica autonoma, in quanto in tutti i casi in cui una tale fattispecie risultasse imponibile, rientrerebbe nel “trasferimento di beni e diritti”. 34 Sebbene sia possibile, anche nel trust di scopo, che si preveda una devoluzione finale del trust fund a soggetti terzi, ad esempio per i casi di scadenza del trust, di impossibilità nel continuare il perseguimento dello scopo o di suo definitivo raggiungimento. 35 È infatti possibile che il trust con scopo “charitable” (sostanzialmente, caratterizzato dal perseguimento di scopi di utilità pubblica) abbia durata indefinita e quindi manchi – o almeno non possa essere astrattamente considerata come certa – una devoluzione finale dei beni, essendo previsto, per il principio detto “cy-pres” che lo scopo individuato dal disponente, enunciato in termini troppo vaghi per essere concretamente perseguito o divenuto impossibile, venga modificato in uno diverso, quanto più possibile vicino a quello originario. Si veda, in proposito, LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, cit., p. 135 ss. È chiaro che nel caso del trust di scopo risulta più difficile immaginare, in esito allo svolgimento del complessivo negozio, un risultato finale tale da caratterizzare la fattispecie in senso oneroso. Si noti, tra l’altro, che il trust “di scopo” è solitamente indicato in inglese come “charitable trust”, ossia “trust caritatevole” (LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust, cit., p. 135 ss.).

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dei beni, la seconda, o entrambe e come il fatto effettivamente significativo in quanto integrante un “trasferimento di beni e diritti” possa essere qualificato secondo le categorie di onerosità o gratuità, chiarendo che cosa debba intendersi con “trasferimento a titolo gratuito” e quale rilevanza abbiano, nella fattispecie in esame, le categorie sopra richiamate.

2.4. Prospettiva dell’Amministrazione finanziaria Quanto al primo aspetto, si osserva nella prassi amministrativa l’idea che l’applicazione del tributo sulle donazioni debba essere anticipata al momento della dotazione del trust, focalizzando l’attenzione sulla prima delle due cessioni, che si ritiene integrare il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni «in funzione della gratuità del trasferimento o, in alternativa, in funzione della eventuale idoneità del negozio stesso a costituire un vincolo di destinazione» 36. La prospettiva assunta appare fondamentalmente errata per i seguenti motivi: – in primo luogo, centrare l’attenzione sulla prima trasmissione di beni rischia di forzare l’applicazione di un tributo destinato naturalmente a gravare su chi, in esito ad una vicenda traslativa, beneficia di un arricchimento definitivo, che dunque potrebbe essere, al più, il beneficiario del trust, dato che il potere del trustee è temporaneo e, soprattutto, consiste in una posizione che, come si vedrà, non determina un suo arricchimento; – in secondo luogo – e in correlazione con quanto si è detto prima – sembrerebbe difficile poter considerare imponibile secondo l’imposta sulle successioni e donazioni il trasferimento operato dal disponente in favore del trustee in quanto atto evidentemente non liberale 37, posto che tale ultimo soggetto è, a ben vedere, niente più che un ausiliare del settlor, e non un soggetto che quest’ultimo intende arricchire; – da ultimo, la coerenza interna che deve caratterizzare la struttura del tributo 38 impone che il presupposto dell’imposta sulle donazioni venga individuato 36

Agenzia delle Entrate, circolare n. 28/E del 27 marzo 2008. Circa la gratuità dell’affidamento di beni al trustee, si veda anche la circolare n. 3/E del 2008 dove, testualmente (par. 5.2): «L’atto dispositivo con il quale il settlor vincola i beni in trust è un negozio a titolo gratuito». Non sembra dirimente in contrario il fatto che si sia precedentemente affermato (circ. n. 48/E del 2007, cit.) che la costituzione del vincolo di destinazione avverrebbe, sin dall’origine, in favore dell’eventuale beneficiario, né che al fine di determinare le aliquote dell’imposta sulle successioni e donazioni debba guardarsi al rapporto tra disponente e beneficiario. Tali ultimi aspetti sembrano essere considerati soltanto al fine della determinazione del tributo, il cui evento imponibile verrebbe tuttavia ravvisato nell’impressione, ai beni, di una determinata destinazione, in una logica propria di una imposta d’atto. 37 Ma neppure gratuito, come si dirà (par. 4.1 e ss.). 38 In proposito, la Corte costituzionale (sent. 22 aprile 1997, n. 111) afferma la necessaria sussistenza di una «coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico».

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non nel mero fatto della realizzazione di una delle figure cui la legge si riferisce (trasferimento di beni e diritti o costituzione di vincoli di destinazione), ma in una effettiva manifestazione di capacità contributiva, in capo a coloro che sono individuati come soggetti passivi del tributo, che da tali fattispecie tipiche derivi 39. Se dunque non sembra di poter convenire sul fatto che l’atto di dotazione di un trust integrerebbe “in ogni caso” il presupposto dell’imposta sulle successioni per la sua attitudine a costituire un vincolo di destinazione, diviene necessario capire se l’affidamento di beni al trustee realizzi quantomeno un trasferimento di beni e diritti a titolo gratuito. Il tutto, con la primaria esigenza di comprendere quale rilievo assuma la fattispecie del trasferimento ai fini del tributo considerato e quando questo possa considerarsi effettuato “a titolo gratuito”. Dal che, emerge l’utilità dell’utilizzo delle categorie di onerosità e gratuità.

3. Rilevanza delle attribuzioni patrimoniali nell’ambito del trust 3.1. Trust e presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni Tentando una sommaria ricostruzione del presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni, riteniamo che esso non possa essere identificato, sic et simpliciter, nelle fattispecie elencate nella nuova formulazione impiegata nel D.L. n. 262/2006. Esse costituiscono, più correttamente, i fatti a cui l’imposta mostra di attribuire rilievo, che dimostra di tenere in considerazione e che costituiscono, quindi il c.d. “oggetto del tributo” 40. 39

Ciò è stato posto in evidenza, tra le più recenti in tema di trust, dalla sentenza della CTP di Firenze, sez. VIII, del 12 febbraio 2009, n. 30, confermata dalla CTR Firenze, sez. XXIV, con sentenza n. 77/2011, cit., dalla CTP Treviso, sez. I, sent. n. 14/2011, cit. e dalla CTP Perugia, sez. I, sent. n. 35/2011, cit. 40 Parla, in proposito, di “fattispecie oggettiva” dell’imposta FALSITTA, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2010, p. 843. FANTOZZI, Il Diritto Tributario, Torino, 2003, p. 175 indica la “fattispecie” come «complesso di elementi oggetto di valutazione giuridica», distinguibile in fattispecie oggettiva «quando la qualificazione normativa attribuisce rilevanza ed efficacia ad un fatto o complesso di fatti» e soggettiva «quando essa individua punti di riferimento soggettivo di conseguenze giuridiche». Utili e precisi chiarimenti sulla questione, e nello specifico circa la distinzione tra presupposto e “fattispecie oggettiva” si rinvengono peraltro in FRANSONI, Tipologia e struttura della norma tributaria, in FANTOZZI (a cura di), Diritto Tributario, Milanofiori Assago, 2012, p. 235 ss., in specie p. 268 ss. nonché pp. 275 e 276, ove l’A. chiarisce che «sebbene fin dalle prime sentenze del giudice delle leggi il termine “presupposto” sia stato impiegato nel senso di elemento di fatto indice della capacità contributiva che giustifica il prelievo, la stessa formula definitoria, in realtà, pone in evidenza un certo “stacco” fra presupposto e fattispecie. È vero che in essa si mantiene il riferimento a un “elemento di fatto”, ma tale elemento è considera-

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Partendo dal fenomeno maggiormente caratterizzante tra quelli presi in considerazione dall’imposta, ossia il trasferimento di beni e diritti – per quanto qui interessa, a titolo gratuito – si evidenzia, in primo luogo, che esso non può intendersi come un riferimento al mero subentro nella titolarità di situazioni giuridiche. Il necessario coordinamento con la disciplina preesistente, contenuta nel testo unico di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, tornato all’operatività per espresso richiamo del D.L. n. 262/2006, impone infatti di tenere conto anche del secondo comma del primo articolo del D.Lgs. n. 346/1990 e dunque di comprendere nella nozione di “trasferimento” – cui consegue l’applicazione del tributo – anche atti produttivi di effetti semplicemente costitutivi di rapporti obbligatori, anziché derivativo-costitutivi o estintivi 41. Perché l’imposta sulle successioni e donazioni non si risolva in un duplicato dell’imposta di registro, da cui altrimenti si distinguerebbe unicamente per la particolarità dei fatti che danno origine al fatto imponibile, appare inoltre necessario individuare un ulteriore fatto economico, indicativo di capacità contributiva, che al “trasferimento” deve accompagnarsi 42. I caratteri del tributo in esame erano stati individuati, nella vigenza del D.Lgs. n. 346/1990, nella contemporanea e necessaria sussistenza di alcuni elementi qualificanti. In senso oggettivo si richiedeva che si realizzasse un trasferimento di ricchezza sorretto, quantomeno, da un intento liberale (ora a titolo gratuito 43). Dal lato soggettivo, invece, elemento necessario del tributo sarebbe l’arricchimento di un altro soggetto, conseguente all’anzidetto trasferimento 44. to dal punto di vista della sua idoneità a “disvelare” la capacità contributiva – così giustificando razionalmente il prelievo – piuttosto che nella prospettiva della produzione degli effetti (l’obbligazione)». Quanto appena riportato sembra contribuire a chiarire che i fatti enucleati dal legislatore nel comma 47 dell’art. 2 del D.L. n. 262/2006 (trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito; costituzione di vincoli di destinazione) sono elementi in fatto sui quali si indirizza l’attenzione della norma tributaria in quanto idonei a rivelare – in via eventuale, non certa – la sussistenza del presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni, ossia di un arricchimento del beneficiario di una attribuzione mediante essi determinata. 41 FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 595. 42 GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, Padova, 2008, p. 25 pone infatti in evidenza come il semplice trasferimento non sia idoneo a qualificare in modo autonomo e sufficiente il tributo. La semplice trasmissione dei beni non può quindi rilevare in sé, ma soltanto qualora, con essa, si dia causa ad un effetto rilevante quale manifestazione di capacità contributiva autonoma rispetto a quella denotata dalla semplice “emersione” del compendio caduto in successione o donato. Se così non fosse, si rientrerebbe né più, né meno nell’ambito applicativo dell’imposta di registro. Dal punto di vista storico e sistematico, FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 593 ss. ricorda come l’idea sottesa al D.L. n. 262/2006, rinnegata in sede di conversione, fosse quella di ricondurre la tassazione di successioni e liberalità entro gli schemi dell’imposta di registro. 43 La liberalità appare infatti tradizionalmente riconducibile entro il genus degli atti gratuiti, pur essendone differenziata per specificazione, in quanto sostenuta da causa tipica, liberale. 44 Nei termini citati, DE RENZIS SONNINO, L’imposizione indiretta del trust: gli ultimi orienta-

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Le stesse conclusioni debbono poter essere utilmente recuperate anche nell’analisi dell’imposta come reintrodotta nel 2006, dati gli espressi richiami 45 al decreto previgente 46. La sua menzione nella disposizione attribuisce quindi al trasferimento 47 dignità di mezzo tipico per conseguire un risultato nel quale, soltanto, potrà identificarsi l’indice di forza economica che effettivamente il tributo intende colpire 48, nel rispetto dell’art. 53 della Costituzione 49. Ciò a cui l’imposta intende fare riferimento richiedendo l’esistenza di un trasferimento a titolo gratuito non è quindi il mero fatto della modificazione nella menti di giurisprudenza e prassi, in Corr. trib., 2009, p. 2032 ss.; GAFFURI, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 30, nota che il riferimento, nell’art. 2 del D.Lgs. n. 346/1990 ai «beni e diritti trasferiti» non servirebbe semplicemente a quantificare la base imponibile dell’imposta (come ritiene invece GHINASSI, Le altre imposte indirette sui trasferimenti, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Milano, 2009, p. 383), ma ne indicherebbe il reale presupposto, correlato alla effettiva attribuzione dei beni e delle corrispondenti utilità. 45 Il rinvio è contenuto nell’art. 2, comma 47 del D.L. n. 262/2006, laddove espressamente si dispone che l’imposta sia istituita «secondo le disposizioni del testo unico concernente l’imposta sulle successioni e donazioni, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente alla data del 24 ottobre 2001, fatto salvo quanto previsto dai commi da 48 a 54». 46 FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., per il quale il rinvio al previgente testo unico comporta necessariamente che siano riportati all’operatività anche i risultati interpretativi e l’elaborazione giurisprudenziale affermatisi nel vigore della sola precedente disciplina. 47 Peraltro inteso in senso lato, e dunque comprensivo delle vicende di cui al secondo comma dell’art. 1 del D.Lgs. n. 346/1990, come si è osservato. 48 GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, cit., p. 24 osserva che il trasferimento, quale variazione nella titolarità dei rapporti giuridici, può assumere importanza ai fini tributari soltanto in quanto, attraverso il suo meccanismo formale, produca vantaggi patrimoniali per il nuovo o il precedente titolare. Formalmente diversa ma molto simile negli effetti la ricostruzione di GHINASSI, Le altre imposte indirette sui trasferimenti, cit., p. 383 che individua il presupposto dell’imposta sulle successioni (indicando poi che quello dell’imposta sulle donazioni dovrebbe sostanzialmente ricalcarlo) nel trasferimento realizzato tramite i fatti ed atti tipici, mentre vede nell’incremento patrimoniale del soggetto passivo la base imponibile del tributo. Confrontando le due analisi, nel caso in cui la trasmissione di beni si accompagni all’imposizione di un onere che assorba tutte le utilità economiche di cui il dante causa si è spogliato, secondo la prima teoria difetterebbe un trasferimento, inteso come effetto dell’attribuzione, e dunque arricchimento dell’avente causa, e quindi non verrebbe integrato il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni. Nel secondo caso, dovrebbe ammettersi che il presupposto sarebbe integrato, ma non potrebbe farsi applicazione dell’imposta, giacché la stessa andrebbe computata su una base imponibile nulla. Le implicazioni potrebbero forse essere più positive adottando la seconda teoria, giacché in tal caso potrebbe probabilmente farsi applicazione del principio di alternatività tra imposta sulle successioni e donazioni ed imposta di registro di cui all’art. 25 del D.P.R. n. 131/1986 (letto secondo l’interpretazione dell’Agenzia delle entrate, circolare n. 44/E del 7 ottobre 2011), con la conseguenza che, trovando applicazione alla fattispecie l’imposta sulle successioni e donazioni – pur con base imponibile nulla e dunque senza che sorga un vero e proprio debito di imposta – non si potrebbe tassarla con l’imposta di registro. 49 In proposito, CTR Firenze, sent. 77/2011, cit.

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titolarità formale di una situazione giuridica, ma un ulteriore ed eventuale effetto giuridico 50 dell’atto traslativo, individuabile nella produzione di un vantaggio in termini di incremento patrimoniale che il destinatario della vicenda traslativa ottiene 51 senza aver compiuto alcuna attività diretta a produrlo 52 e dunque, come efficacemente è stato detto, «immeritatamente» 53 o «senza sforzo» 54. L’individuazione del presupposto del tributo nell’arricchimento del beneficiario dell’atto gratuito 55 consente inoltre di individuare un’unica e coerente ratio ispiratrice dell’imposta sulle successioni e donazioni, rappresentata dall’intento di colpire il risultato che tramite le vicende individuate dal legislatore viene raggiunto, ossia l’effetto giuridico che si risolve nel definitivo arricchimento del beneficiario, anziché il mero fatto traslativo in sé considerato 56. Il termine “trasferimenti di beni e diritti” farebbe quindi riferimento ad una trasmissione di utilità economiche, diversamente qualificabile in considerazione del rapporto in cui avviene. 50

GAFFURI, Note riguardanti la novellata imposta sulle successioni e donazioni, in Rass. trib., 2007, p. 453, giustifica la necessità di un arricchimento del destinatario, o di un suo «vantaggio economico di identica natura» affermando che «l’atto gratuito in tanto è tassabile [..] in quanto determini un trasferimento di ricchezza, almeno nella forma di un’utilità percepibile ed economicamente significativa». E. DELLA VALLE, Brevi note in tema di fiscalità del trust, in Giur. it., 2008, p. 2899 ss., osserva che la ratio sottesa al tributo «è quella di colpire l’arricchimento del destinatario di una attribuzione patrimoniale». FEDELE, Le innovazioni nella legge n. 342 del 2000, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 69, individua l’oggetto dell’imposizione nell’incremento netto, confluito nel patrimonio di un dato soggetto, a seguito di una vicenda modificativa. 51 STEVANATO, Trusts e imposta sulle donazioni, cit., p. 534 ss. individua il fatto giustificativo del prelievo mediante imposta sulle donazioni nel «definitivo accrescimento di una sfera patrimoniale diversa da quella del disponente». 52 FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 600. Concorde FALSITTA, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2010, p. 845. 53 FALSITTA, Manuale di diritto tributario, parte speciale, cit., p. 845, che appunto indica i vantaggi rilevanti ai fini dell’imposta in discorso come “immeritati”, proprio perché non sono frutto di una attività di produzione. 54 L’efficace espressione è utilizzata da GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, cit., p. 99, oltre che da STEVANATO, Trusts e imposta sulle successioni e donazioni: prime reazioni giurisprudenziali alle forzature della prassi amministrativa, in Riv. giur. trib., 2009, p. 534 ss. 55 Come pare tra l’altro confermato dalla previsione di aliquote differenziate in ordine ai rapporti familiari dell’accipiens nei confronti del dante causa, nonché dal dato, più squisitamente testuale, per cui il D.L. n. 262/2006, nell’individuare aliquote e franchigie, le riferisce ai trasferimenti «in favore» di tali soggetti, che sono tra l’altro individuati come soggetti passivi dell’imposta dall’art. 5 del D.Lgs. n. 346/1990. Tali argomenti sono contenuti nella sentenza della CTP di Firenze, n. 30/2009, cit., oltre che nella sua conferma da parte della CTR di Firenze, con sentenza n. 77/2011, cit. e nella sentenza della CTP di Bologna, n. 120 del 30 ottobre 2009. 56 FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., pp. 581 e 586; GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, cit., p. 24 ss.

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Le rappresentate esigenze di coerenza interna del tributo in relazione ai fatti colpiti, nonché di rispetto del principio di capacità contributiva, rendono quindi chiaro che la costituzione di vincoli di destinazione non può essere considerata quale vicenda imponibile in sé, ma può divenirlo soltanto in quanto ad essa si accompagni il trasferimento dei beni su cui il vincolo viene ad insistere, e dunque un arricchimento – quantomeno giuridico 57 – del destinatario 58. Quanto appena detto consente alcune riflessioni inerenti la prospettiva in cui la vicenda del trust deve essere esaminata ai fini dell’imposta sulle donazioni. Il tributo in discorso è chiaramente volto a tassare l’arricchimento del beneficiario, e non certo l’impoverimento di colui che dona 59, motivo per cui si può ritenere che la manifestazione di capacità contributiva che dà luogo all’applicazione dell’imposta debba essere rinvenuta in capo a colui che è individuato come soggetto passivo del tributo nel redivivo (ed opportunamente coordinato con la novella) art. 5 del D.Lgs. n. 346/1990 ossia, per i trasferimenti liberali e a titolo gratuito, il donatario o il beneficiario 60. La prospettiva corretta per la valutazione dell’incremento patrimoniale che deve necessariamente prodursi in esito alla vicenda traslativa, riguardante ovviamente almeno due patrimoni, sembra quindi essere proprio quella del beneficiario.

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Ossia la prospettiva incontrovertibile, ancorché soltanto futura, di un arricchimento (GAF-

FURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, cit., 166). 58

FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 575 ss. e pp. 598-599, ritiene che sia impossibile, tenuto conto della ratio del tributo successorio, riconoscere nella mera “costituzione di vincoli di destinazione” un indice rilevante per l’applicazione di tale imposta e che, quindi, la dicitura in questione non assuma rilevanza pratica autonoma, posto che ogni caso in cui la stessa risultasse imponibile, ricadrebbe nel “trasferimento di beni e diritti”, come sopra individuato. 59 STEVANATO, I “Trusts” e la capacità economica colpita dal tributo successorio, in Dialoghi trib., 2009, p. 333 afferma che ciò che deve essere assoggettato al prelievo «non è quanto trasferito dal disponente (che misura il suo impoverimento), bensì quanto ricevuto dal beneficiario (ovvero il suo arricchimento)». FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 584 nota che la prospettiva adottata già nel testo unico del 1990 è quella «che privilegia il profilo dell’imposizione degli incrementi dei beneficiari», rispetto alla tassazione della delazione ereditaria in quanto tale, e quindi del “distacco” dell’asse ereditario dal suo originario titolare. 60 Occorre tuttavia osservare che le dizioni adottate nella disposizione in oggetto, non essendo intervenuto un qualche coordinamento con le fattispecie considerate dal D.L. n. 262/2006 sembrano contribuire ad alimentare il dubbio circa il fatto se nell’ambito dell’imposta sulle successioni e donazioni possano esistere attribuzioni gratuite non riconducibili alla liberalità vera e propria. Quando lo stesso art. 5 parla di «beneficiari», lo fa con riferimento ai destinatari delle «altre liberalità tra vivi», con la conseguenza che l’imposta sulle successioni e donazioni, così come attualmente vigente, sembrerebbe non individuare nello specifico il soggetto passivo per il caso di «trasferimento di beni e diritti [...] a titolo gratuito» (art. 2, co. 47, D.L. 3 ottobre 2006, n. 262).

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3.2. Il concetto di attribuzione patrimoniale Si ritiene a questo punto utile assumere, ai fini di individuare i “trasferimenti di beni e diritti” per i quali ricorra quel “titolo gratuito” cui il D.L. n. 262/2006 si riferisce, il concetto di “attribuzione patrimoniale”. Quest’ultima è intesa come il risultato di un’attività giuridica, consistente nella produzione di un vantaggio, in termini di incremento patrimoniale, nella sfera giuridico-economica di un soggetto con detrimento del patrimonio di un altro 61. Tale concetto, quindi, si presta magnificamente allo scopo di esaminare i fatti considerati dall’imposta sulle donazioni, i quali, si è visto, risultano imponibili solo in quanto si tratti di vicende da cui derivi l’arricchimento di uno dei soggetti coinvolti nel rapporto. È poi il carattere dell’attribuzione patrimoniale, intesa come complesso di effetti 62 dell’atto o del negozio, a poter essere qualificato in termini di onerosità o gratuità, anziché l’atto in quanto tale 63. Quest’ultimo potrà invece essere designato come “a titolo gratuito” o “a titolo oneroso” in quanto idoneo a determinare attribuzioni 64 di carattere gratuito o oneroso. Nella prospettiva adottata, quindi, la qualifica di oneroso o gratuito non viene riferita all’atto o al negozio posto in essere 65, né al trasferimento, inteso come vi61

NICOLÒ, (voce) Attribuzione patrimoniale, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 283. In termini sostanzialmente conformi, FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 596, che riconduce alla nozione di “attribuzione” o di “effetti liberali” un complesso di effetti giuridici «che implicano incremento, misurabile in moneta, di un dato patrimonio e correlato decremento (o dissoluzione di un altro)». Una definizione alternativa, ma nella sostanza conforme, si rinviene in SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, in Banca borsa, 1973, p. 374, che la considera come «ogni forma di utilità economicamente valutabile intesa, questa, nel senso più ampio della parola, che proveniente da un soggetto, sia diretta o, comunque, risulti a vantaggio di un altro diverso soggetto di diritto». 62 FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 596. 63 SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., p. 353, osserva come sia necessario mantenere distinti lo strumento per mezzo del quale l’attribuzione è attuata e il contenuto patrimoniale della fattispecie, che costituisce, invece, l’attribuzione patrimoniale. Analoga distinzione dovrebbe essere mantenuta, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, tra lo strumento impiegato (donazione, atto gratuito, costituzione di vincoli di destinazione) ed i suoi effetti (trasferimento), rilevanti in quanto scaturenti nell’arricchimento del destinatario. 64 Quindi definibile “negozio attributivo”, caratterizzato dalla produzione dell’effetto in cui l’attribuzione si risolve, dunque arricchimento di una sfera patrimoniale a spese di un’altra (NICOLÒ, (voce) Attribuzione patrimoniale, cit., p. 283). Indica quali «negozi di attribuzione patrimoniale» quelli il cui contenuto sarebbe un’attribuzione patrimoniale nel senso di «mutamento patrimoniale socialmente e giuridicamente rilevante», BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in VASSALLI, Trattato di diritto civile Italiano, XV-2, Torino, 1950, p. 290. 65 Sul piano negoziale assumono dimensione centrale valutazioni inerenti la spontaneità o doverosità della prestazione, ma ciò, lungi dal poter essere considerato tramite le categorie di onerosità e gratuità, sembrerebbe portare unicamente a ricondurre la causa del contratto a quella liberale, oppure corrispettiva o di scambio.

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cenda traslativa o costitutiva inerente la titolarità di beni, cui il negozio dia luogo, assumendo invece rilievo il risultato “aritmetico” del flusso patrimoniale, in entrata e in uscita, che interessa i due patrimoni coinvolti. Ciò che può essere qualificato come oneroso o gratuito è quindi il titolo di imputazione soggettiva dell’attribuzione patrimoniale 66, intesa come complesso di effetti giuridici che dal negozio derivano ai soggetti che ne sono parti. Pertanto, sono gli effetti del negozio o dell’atto, il loro contenuto ultimo, a poter essere considerati gratuiti o onerosi. In una prospettiva che attiene alla “qualità dell’acquisto”, e non alla “qualità dell’atto” 67. Nell’accertare il carattere gratuito o oneroso di una attribuzione si avrà pertanto riguardo all’effetto patrimoniale che questa produce e, più precisamente, all’utilità economica 68 che ne deriva ai soggetti coinvolti. Sicché, avendo riguardo all’attribuzione come «risultato di una attività negoziale» 69, non necessariamente semplice, ma anche complessa, si potrà qualificarla in base alla natura del profitto che il negozio mira complessivamente a recare alla controparte o al terzo 70, senza concentrare più del dovuto l’attenzione sui singoli atti e sui singoli passaggi di cui la fattispecie si compone. Detto “profitto”, inteso entro la nostra prospettiva di attribuzione patrimonia66 SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, p. 224 – che tuttavia riferisce la qualifica di onerosità o gratuità al negozio – ritiene che un tale carattere possa essere riscontrato soltanto in presenza di una attribuzione, ossia di una tendenza dell’atto a procurare a un soggetto, partecipe o no al negozio, un vantaggio patrimoniale, in termini di disposizione, ossia di diminuzione patrimoniale per l’altro soggetto, o di obbligazione, e quindi di assunzione di un obbligo di comportamento sempre da parte di questi. 67 SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità o gratuità del titolo, in Riv. dir. civ., 1980, p. 68 ss., che però conclude per la impossibilità di applicare le categorie dell’onerosità o gratuità all’attribuzione patrimoniale, ritenendo necessaria una analisi dell’atto, per la determinazione del suo titolo (pag. 77). Secondo SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., p. 353, invece, la qualificazione richiede un netto distacco tra lo strumento con cui l’attribuzione viene attuata ed il suo contenuto patrimoniale da leggersi nello svolgimento dinamico dei rapporti intersoggettivi. 68 NICOLÒ, Attribuzione patrimoniale, cit., p. 283 spiega che tale risultato, dal punto di vista del soggetto beneficiario, è suscettibile di molteplici qualificazioni giuridiche risultanti, infine, in un vantaggio economico, sotto varie configurazioni quali, ad esempio, l’acquisto di un diritto, la liberazione da un obbligo o responsabilità, la rimozione di un limite nel conseguimento della disponibilità di un bene, e così via. Nello stesso senso le osservazioni, in tema di effetto rilevante del trasferimento ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, di FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 595. 69 NICOLÒ, Attribuzione patrimoniale, cit. 70 Questa l’analisi di BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 313. L’A. prende in esame l’onerosità e gratuità del negozio come relativa alla sua causa. È però da notare che la questione viene riferita ai “negozi patrimoniali”, dunque non parrebbe errato ritenere che possa aversi qui riferimento a quelli che abbiamo indicato come “negozi attributivi”, ossia idonei a determinare attribuzioni patrimoniali

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le, sarà quindi costituito dalle variazioni, di segno positivo o negativo, che si verifichino nel patrimonio dei soggetti agenti per effetto del negozio attributivo, e lo stesso “profitto” conseguito dall’autore dell’attribuzione sarà considerato oneroso se ad esso corrisponde un sacrificio patrimoniale a carico dell’altro soggetto 71, senza che tra di essi sussista necessariamente un nesso sinallagmatico, né che sia necessaria una qualche loro equivalenza 72.

3.3. Immediata rilevanza fiscale della trasmissione dei beni al trustee. Critica Vediamo ora se è davvero così scontato che la istituzione di un trust con affidamento di beni al trustee integri “in ogni caso” il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni 73. La suddetta conclusione sembra essere stata favorita dal maggiore interesse per il c.d. “effetto segregativo” del trust, per il quale i beni ad esso destinati fuoriescono – perlopiù definitivamente 74 – dalla sfera di disponibilità del settlor 75. Per 71 Su questo punto BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., pp. 313-314 sembra tuttavia ritenere che il profitto derivante dal negozio (con ciò potendosi intendere la stessa attribuzione patrimoniale), per risultare oneroso, dovrebbe rappresentare «il corrispettivo di un sacrificio patrimoniale sostenuto in vista di esso», giungendo quindi ad avvicinare, se non sovrapporre, le nozioni di onerosità e corrispettività. Per maggiori riferimenti sullo stesso argomento si veda infra, par. 4.1 e relative note. 72 SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità o gratuità del titolo, cit., p. 78, secondo il quale ciò deriva dal fatto che «il nostro ordinamento è ispirato al principio che vuole ognuno miglior giudice dei propri interessi». Utili sembrano inoltre le considerazioni, pur riferite specificamente al contratto a prestazioni corrispettive, di GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive, in Riv. dir. comm., 1963, I, p. 424, secondo cui «nei contratti a prestazioni corrispettive le parti sono libere non solo di addivenire o meno allo scambio, ma anche di determinare il rapporto tra le prestazioni che, in presenza delle condizioni fondamentali dell’economia di mercato, è per principio accettato come adeguato dall’ordinamento» (op. cit., p. 441). 73 Il riferimento è alla circolare n. 3/E-2008, cit., nella quale, dopo la premessa (par. 5.1) per cui si ritiene che l’imposta sulle donazioni «possa essere assolta solo in relazione a vincoli di destinazione costituiti mediante trasferimento di beni», trattando specificamente del trust si osserva (par. 5.4.2) che «La costituzione di beni in trust rileva, in ogni caso, ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, indipendentemente dal tipo di trust». Per la critica di tali documenti si rinvia alle osservazioni di LUPOI, L’Agenzia delle Entrate e i principi sulla fiscalità dei trust, in Corr. trib., 2007, p. 2785 ss., che spiega come «A fronte della assoluta mancanza di qualsiasi impostazione concettuale ricavabile dai nuovi testi normativi [...] l’Agenzia ha adottato una serie di opzioni, non intuitivamente desumibili dal dettato legislativo, che consentono alle nuove norme di avere effetto e di averlo in modo ragionevole». In tal modo, l’Agenzia «ha più volte sostanzialmente riscritto le norme e ha così eliminato in radice le aporie e le incongruenze che sarebbero state esaltate dalla interpretazione letterale dei nuovi testi normativi». 74 Salvo il caso, ad esempio, in cui si tratti di trust c.d. “di ritorno”. 75 Non potrebbe spiegarsi in nessun altro modo la posizione espressa in ordine al trust c.d. “autodichiarato” (nella circolare n. 3/E del 2008, par. 5.4.2, e sulla quale si veda STEVANATO,

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giungere a tali conclusioni, tuttavia, oltre a sembrare sminuita l’ulteriore conseguenza dell’effetto segregativo – per cui andrebbe osservato che gli stessi beni non si confondono neppure con il patrimonio del trustee 76 – o si è considerata la segregazione dei beni come imponibile a prescindere dalla verifica sulla sussistenza di un effettivo arricchimento di alcuno 77, oppure è stata acriticamente adottata la conclusione per cui, se tali beni non sono più del disponente, necessariamente devono essere attribuiti ad altri, che in qualche modo se ne arricchisce 78. Non sembra possibile – sebbene siano pure rinvenibili elementi in tal senso 79 Vincoli di destinazione e atti gratuiti nell’imposta sulle successioni e donazioni, in FRANSONI-DE RENZIS SONNINO (a cura di), Teoria e pratica della fiscalità dei trust, Milano, 2008), nel quale è il disponente stesso ad assumere l’ufficio di trustee ed al cui atto di dotazione, pur essendo del tutto inidoneo a determinare trasferimenti e attribuzioni patrimoniali l’Agenzia delle entrate ritiene applicabile l’imposta sulle successioni e donazioni «pur in assenza di formali effetti traslativi». 76 L’effetto segregativo si concreta nella attuazione del vincolo che il disponente ha voluto imprimere ai beni destinati al trust, inteso come somma delle limitazioni e degli obblighi imposti per garantire la loro destinazione al raggiungimento del fine delineato nel negozio istitutivo (cfr. FUSARO, (voce) Destinazione (vincoli di), in Dig. disc. priv., sez. comm., V, Torino, 1989, p. 321). 77 È questo, in verità, l’argomento capitale emergente dalle decisioni che hanno ritenuto assoggettato ad imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale il negozio di dotazione semplicemente in quanto determinante una “costituzione di vincoli di destinazione” come fattispecie letteralmente nominata nel D.L. n. 262/2006, quindi a prescindere da una indagine sull’effettiva produzione di un trasferimento di ricchezza (nel senso descritto, possono vedersi Commissione tributaria di primo grado di Bolzano, sent. 30 aprile 2013, n. 43 e sent. 24 giugno 2013, n. 89; CTR di Napoli-Salerno, sez. IX, sent. 16 dicembre 2013, n. 367 e CTP di Pesaro, sez. I, sent. 21 marzo 2014, n. 123, tutte in www.trusts.it). A confutazione di tale argomento, in nota 23, per cui il trust non potrebbe essere ridotto alla produzione di un vincolo di destinazione (LUPOI, Gli “atti di destinazione”, cit.), possono citarsi CTP di Bologna, sez. XIII, sent. 12 novembre 2013, n. 169 e CTR Milano, sent. 4 luglio 2012, n. 73 (in www.trusts.it) ove si osserva che il trust ed i vincoli di destinazione sono istituti diversi. 78 FEDELE, Il trasferimento dei beni al trustee nelle imposte indirette, in FRANSONI-DE RENZIS SONNINO (a cura di), Teoria e pratica della fiscalità dei trust, cit., p. 13 ss. osserva che alla conclusione di ritenere il trust imponibile “in ogni caso” l’Agenzia sembra essere pervenuta sulla scorta delle disposizioni introdotte con la L. n. 286/2006, oltre che del riconoscimento al trust di una soggettività tributaria ai fini delle imposte dirette, operato con la modifica dell’art. 73 del TUIR, da cui sembrerebbe che il trust stesso venga considerato come beneficiario dell’attribuzione compiuta dal disponente. Si veda, in proposito, la circolare n. 48/E del 6 agosto 2007, nella quale (par. 5.2), si afferma chiaramente che «L’atto dispositivo con il quale il settlor vincola i beni in trust è un negozio a titolo gratuito». Quanto appena detto non pare smentito dal contenuto della successiva circolare n. 3/E del 2008, che nel giustificare la richiesta di applicazione dell’imposta sulle donazioni «al momento della segregazione del patrimonio» (par. 5.4.2) con l’esigenza di tenere conto dell’unicità della causa sottesa al trust, intende l’imposta sulle donazioni, in questo caso, dovuta sic et simpliciter «sulla costituzione di vincoli di destinazione». 79 Il riferimento è al dato testuale, contenuto nella circolare n. 3/E del 2008, cit., dove (par. 5.4.2.) si legge, testualmente «il soggetto passivo dell’imposta sulle successioni e donazioni è il trust, in quanto immediato destinatario dei beni oggetto della disposizione segregativa» che tuttavia si ritiene non debba essere sopravalutato, giacché non è improbabile che per un refuso si sia parlato di trust, anziché di trustee.

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– che l’Agenzia delle entrate abbia validamente potuto ritenere, contrariamente alla qualificazione civilistica dell’istituto ed in difetto di un dato normativo di supporto 80, di attribuire soggettività passiva al trust in quanto tale, così da considerarlo diretto beneficiario della disposizione del settlor e quindi soggetto passivo dell’imposta sulle successioni e donazioni 81. Sussistono inoltre dubbi circa la possibilità che l’Amministrazione finanziaria 80

Emerge, al contrario, dalla nozione internazionalmente condivisa contenuta nella Convenzione dell’Aja che il trust non è soggetto di diritti (in particolare, all’art. 2: «per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato». Tale istituto non vale infatti a costituire un nuovo ente, ma a determinare una relazione particolarmente qualificata tra il patrimonio e un soggetto che lo gestisca, di modo che il primo venga destinato (per mezzo dell’opera del gestore e dunque come mezzo e non come soggetto) alla realizzazione delle finalità delineate dal disponente. È stato osservato che «in diritto inglese come in tutte le altre legislazioni sui trust è fuori discussione che, dal punto di vista del diritto civile, il fondo in trust non ha personalità giuridica, non è un ente, non è un soggetto di diritti», LUPOI, Istituzioni del diritto dei Trust, cit., p. 10 ss. Le disposizioni tributarie (in tema di imposte dirette) con cui si è riconosciuto il trust come soggetto passivo (dell’IRES, art. 73 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), sono peraltro rimaste isolate, con la conseguenza che sembrerebbe possibile escludere che il legislatore abbia inteso, loro tramite, consacrare un principio generale latente. FRANSONI, La disciplina del trust nelle imposte dirette, in Riv. dir. trib., 2007, I, p. 229, nell’esaminare le conseguenze dell’addenda operata dalla L. n. 296/2006 all’art. 73, lett. b), c) e d) del TUIR pone in evidenza che il trust non è stato “incluso” tra gli «enti pubblici e privati diversi dalle società», ma ad essi “affiancato”, quale nuova figura soggettiva. Tale dato testuale, letto in uno con l’espressa previsione dell’obbligo di tenuta delle scritture contabili specificamente inserito, con riferimento al trust, nell’art. 13 del D.P.R. n. 600/1973 per effetto della stessa novella, pone in evidenza la alterità che, rispetto ai soggetti passivi precedentemente individuati, è sembrata al legislatore caratterizzare l’istituto. Oltre a ciò, lo stesso Autore nota che le modifiche apportate al TUIR non possono essere considerate come espressione di un principio generale, con la conseguenza che va escluso che il trust possa essere considerato soggetto passivo dell’IRAP a prescindere da un’analisi sulla sua attività – come invece previsto dall’art. 3 del D.Lgs. n. 446/1997 per le società e gli enti, ovvero destinatario degli obblighi riferiti dagli artt. 23 e ss. del D.P.R. n. 600/1973 ai sostituti d’imposta, così come pure, ai fini ICI (e ora, riteniamo, IMU), il trust non potrà caratterizzarsi come soggetto passivo del tributo, dato che questi andrà individuato nel soggetto titolare del patrimonio immobiliare segregato, ossia nel trustee (sull’argomento, sia pure consentito il rinvio a BARTOLAZZI MENCHETTI, Soggettività passiva del trust ai fini dell’ICI ed applicabilità di alcune agevolazioni, in Boll. trib., 2013, p. 610). La dottrina maggioritaria – come anche la giurisprudenza di merito esaminata supra – appare poi concorde sul fatto che neppure il D.L. n. 262/2006 conterrebbe riferimenti diretti al trust (si veda, tra gli altri, DE RENZIS SONNINO, Il riconoscimento del trust nell’ambito dell’imposizione indiretta e l’eterogeneità dei diversi trusts, in FRANSONI-DE RENZIS SONNINO (a cura di), Teoria e pratica della fiscalità dei trust, Milano, 2008, p. 243 ss.). 81 L’equivoco sarebbe pure possibile, ed infatti FEDELE, Il trasferimento dei beni al trustee nelle imposte indirette, cit., p. 14, si spiega l’orientamento di prassi per cui si ritiene rilevante anche la istituzione del trust “autodichiarato”, in cui il disponente stesso diviene trustee e manca quindi un trasferimento (considerato necessario per l’imposizione dei “vincoli di destinazione”, e quindi in ogni caso per l’applicazione dell’imposta) unicamente assumendo che l’Agenzia abbia esteso all’area dell’imposizione sulle successioni e donazioni il riconoscimento di una soggettività passiva dei trusts.

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possa realmente considerare la trasmissione di beni al trustee come imponibile in sé, in quanto produttiva di un effetto segregativo sui beni. La stessa Agenzia delle entrate ha espressamente chiarito 82 che ciò che legittima l’imposizione sulla costituzione di vincoli di destinazione è la presenza di un effetto traslativo. Questo effetto, secondo le considerazioni già svolte in ordine al presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni, non dovrebbe ritenersi riscontrabile al momento della dotazione del trust. Tuttavia, anche assumendolo come limitato alla mera modificazione della titolarità dei beni (come la prassi richiamata sembrerebbe suggerire), l’effetto traslativo, nell’atto di affidamento di beni al trustee, si verificherebbe, semmai, in favore di quest’ultimo soggetto. Per tale motivo, anche la costituzione di vincoli di destinazione “traslativa” sarebbe presa in considerazione dall’Agenzia delle entrate non in quanto tale, ma solo in quanto idonea a determinare un “trasferimento” di beni e diritti, pur nel senso fatto proprio dall’Ufficio, ossia in vantaggio del trustee. La conseguenza obbligata è quindi quella (peraltro confermata da uno dei casi cui ci riferiamo in questo lavoro 83) per cui sarebbe proprio l’atto di “affidamento” dei beni, operato dal settlor in favore del trustee, a giustificare l’applicazione dell’imposta in quanto, procedendo per esclusione, tale atto integrerebbe un trasferimento di beni e diritti a titolo gratuito. Questo sembrerebbe confermato dalla prospettiva espressa dall’Amministrazione finanziaria, secondo cui costituirebbero atti a titolo gratuito «tutti i trasferimenti di beni e diritti privi dell’animus donandi, ossia della volontà del donante di arricchire il donatario con contestuale suo impoverimento» 84.

3.4. Inidoneità dell’atto di affidamento al trustee a determinare attribuzioni patrimoniali (gratuite) Dovendo capire se l’atto di affidamento di beni al trustee sia idoneo a determinare una attribuzione gratuita, si osserva in primo luogo che non è così scontato già il fatto che tramite l’atto di dotazione si realizzi un’attribuzione patrimoniale di cui il trustee sarebbe beneficiario. Se infatti consideriamo l’attribuzione patrimoniale come acquisto giuridicamente ed economicamente rilevante, e dunque in un’ottica che dovrebbe “misurare” l’incremento patrimoniale di chi la riceve, è possibile osservare che il patrimonio del trustee non viene arricchito per effetto del trasferimento disposto in suo favore dal settlor, per almeno due motivi. 82

Circolare n. 3/E del 2008, cit. Nello specifico, si tratta di quello sottoposto alla CTP di Lodi, deciso con sentenza n. 60/2011, cit. 84 Circolare n. 28/E del 27 marzo 2008, par. 4. 83

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In primo luogo, il trustee non può disporre come meglio crede dei beni che riceve, come potrebbe invece fare un proprietario, ma può gestirli soltanto secondo le indicazioni contenute nell’atto istitutivo del trust. Ciò non è ininfluente, se solo si considera la ricchezza come utilità che il singolo può percepire dai beni di cui dispone, e si tiene presente che in questo caso per il trustee verrebbe meno qualsiasi utilità dall’utilizzo del patrimonio ricevuto 85, che è tenuto a gestire secondo le istruzioni ricevute 86. Sotto altro profilo, l’effetto segregativo che si accompagna alla destinazione dei beni alla realizzazione del disegno del settlor, oltre a determinare la loro fuoriuscita dalla sfera economica di quest’ultimo, li mantiene distinti anche dal patrimonio del trustee 87, in guisa che i beni avuti a titolo di trust non potranno mai essere aggrediti dai creditori particolari del trustee né, di converso, fungere per costui da garanzia patrimoniale, neppure generica ex art. 2740 c.c. Quanto appena detto escluderebbe per il trustee qualsiasi utilità economicamente apprezzabile dalla formale intestazione in suo favore del trust fund. Infine – profilo che è forse niente più che una trasposizione sul piano giuridico-economico delle più semplici considerazioni svolte al primo punto – l’onere imposto al trustee, di trasferire a tempo debito i beni ai beneficiari, o di destinarli alla realizzazione di fini individuati, sembrerebbe idoneo ad “azzerare” l’attribuzione ricevuta e privarla di qualsiasi valore economico 88. Una assegnazione di ricchezza non definitiva e, soprattutto, di cui è certa ed obbligatoria la futura devoluzione secondo indicazioni altrui, non può infatti realizzare un arricchimento definitivo dell’accipiens. 85 Nota la CTR Bologna, sent. n. 16/2011, cit., che l’atto con cui i beni vengono trasmessi al trustee, in realtà, non realizza alcun trasferimento di ricchezza. 86 In tal caso, sembrerebbe proprio di trovarsi di fronte ad un atto che, se anche potesse essere considerato gratuito (come in realtà non pare), tuttavia non andrebbe sottoposto a prelievo tributario in quanto, «ancorché gratuito ed idoneo a consentire un qualche beneficio esistenziale, teoricamente misurabile in termini economici, non arricchisce colui al quale è concesso l’uso del bene senza compenso reciproco o è prestato un servizio disinteressatamente» (GAFFURI, Note riguardanti la novellata imposta sulle successioni e donazioni, cit., p. 456). 87 La CTP di Napoli, sez. XIX, sent. 2 ottobre 2013, n. 571 rileva infatti che «sebbene si è in presenza di un atto traslativo di un diritto di proprietà di un bene immobile (dal disponente al trustee), non si è tuttavia verificato alcun arricchimento tassabile, atteso che i beni in parola non entrano a far parte del patrimonio del trustee né si confondono con esso (nostro il corsivo, n.d.a.)». 88 Viene infatti notato che «Il trasferimento dei beni al trustee non incrementa affatto il patrimonio del trustee, ma realizza un’intestazione funzionale alla realizzazione degli scopi del negozio» (E. DELLA VALLE, Brevi note in tema di fiscalità del trust, cit., p. 2904, richiamando la circolare Assonime n. 13 del 12 marzo 2007). Nello stesso senso si segnalano, più di recente, le sentenze CTP di Lodi, Sez. II, 7 marzo 2014, n. 70 e CTP di Milano, sez. IX, 19 giugno 2013, n. 293, entrambe in www.trusts.it. Il trustee è inoltre considerato come un semplice «mezzo per la realizzazione del progetto concordato» (CTR Bologna, sent. n. 16/2011, cit.) o come un «mero gestore del patrimonio destinato al predetto scopo» (CTP Milano, sent. n. 293/2013, cit.).

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Considerando il solo passaggio di beni dal disponente al trustee sembrerebbe quindi di poter a monte escludere che quello in esame sia un negozio di tipo attributivo. Si dovrebbe di conseguenza ritenere che difetti già il presupposto del trasferimento di beni e diritti, inteso nel senso conforme alla ratio dell’imposta sulle successioni e donazioni che si è tentato di delineare.

4. Trasmissione di beni operata con l’atto di affidamento. Qualificazione 4.1. La supposta gratuità della trasmissione di beni al trustee Se anche, nonostante quanto sopra, si ritenesse che l’affidamento di beni al trustee realizzi un’attribuzione in favore di questo soggetto, al fine di assoggettare tale atto all’imposta sulle successioni e donazioni si renderebbe necessario poter considerare “gratuita” la attribuzione patrimoniale effettuata. Anche sotto questo aspetto, sembra che l’Amministrazione finanziaria riconduca nell’area della gratuità tutto ciò che non è corrispettivo, con la conseguenza che, di riflesso, l’onerosità viene a farsi erroneamente coincidere con la corrispettività 89. Sembra difficile spiegarsi altrimenti affermazioni come quella per cui «l’atto dispositivo con il quale il settlor vincola i beni in trust è un negozio a titolo gratuito», per tali intendendosi quelli «che non prevedono a carico del beneficiario alcuna controprestazione» 90. In tale enunciato pare infatti di leggere che se il disponente non riceve nulla dal trustee a fronte dei beni che gli trasmette, solo per tale motivo starebbe effettuando una attribuzione a titolo gratuito. Con ciò si ignora che il settlor potrebbe istituire il trust – per dirne soltanto una – solvendi causa, ossia al fine di garantire, tramite l’opera gestoria o realizzativa del trustee sui beni affidati, l’adempimento di obbligazioni precedentemente contratte nei confronti del soggetto indicato come “beneficiario” del trust 91. L’equivoco sembra quindi quello di escludere la gratuità solo laddove vi sia corrispettività, con la conseguenza di far coincidere indebitamente onerosità e corrispettività 92. 89

Rilevano l’equivoco FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 596 nonché FRANSONI, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. trib., 2008, p. 645. 90 Circolare n. 48/E del 2008, cit., par. 5.2. 91 Questa era proprio la causa sottostante al trust – liquidatorio solutorio – costituito dal disponente nel caso esaminato dalla Commissione tributaria provinciale di Lodi nella sentenza n. 60/2011, cit. 92 Contrapponibile alla corrispettività sembrerebbe, invero, essere la liberalità, ma con l’avvertimento che tale antitesi potrebbe porsi soltanto entro una logica contrattuale. Le nozioni di onerosità e gratuità, essendo riferite ad un effetto patrimoniale (l’attribuzione), potrebbero invece

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Invero, mentre la corrispettività identifica la presenza di un nesso causale, di un sinallagma tra due prestazioni, tale per cui l’una trova causa nella esecuzione dell’altra 93, l’onerosità prescinde da simile relazione causale ed è sufficiente, perché una attribuzione sia onerosa, che i patrimoni delle due parti coinvolte conoscano un impoverimento, compensato da una movimentazione economica positiva di riequilibrio 94, senza che tra i sacrifici debba esistere una qualche equivalenza 95.

4.2. I rapporti giuridici interni al trust Introdotte le categorie in uso, cerchiamo di capire se l’atto di affidamento di beni al trustee, oltre a non essere corrispettivo – come sembra acclarato dalla prassi dell’Agenzia delle entrate – possa essere considerato anche non-oneroso, e dunque gratuito. Con le dovute contestualizzazioni e premesse derivanti dalla sua collocazione all’interno dei sistemi di common law e della sua origine nell’ambito dell’equity 96, la struttura del trust può essere ricostruita come segue. In primo luogo si tratta di un negozio fiduciario. Ci si trova pertanto al cospetessere utilmente impiegate anche laddove un contratto non vi fosse. In proposito, FANTOZZI, Ancora in tema di realizzazione delle plusvalenze, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1965, I, p. 457 considera l’onerosità riferita «anche agli atti e ai fatti, o meglio ai loro effetti», contrariamente alla corrispettività, «che invece si riferisce esclusivamente ai contratti». 93 ROPPO, Diritto privato, Torino, 2010, descrive i contratti con prestazioni corrispettive come «quei contratti onerosi in cui vantaggi e sacrifici delle parti sono interdipendenti, nel senso che ciascuna delle prestazioni è fatta e ricevuta come diretta contropartita dell’altra: la prestazione sta a fronte di una controprestazione». 94 Cfr. FANTOZZI, Ancora in tema di realizzazione delle plusvalenze, cit., p. 465, secondo cui: «la sostanziale differenza tra le due categorie consiste nel fatto che, mentre nella corrispettività lo scambio di prestazioni è inquadrato in un meccanismo di interdipendenza contrattuale [...], nell’onerosità rileva semplicemente il fatto che colui che ha effettuato l’attribuzione abbia al tempo stesso conseguito un vantaggio patrimoniale in qualunque forma giuridica ciò sia avvenuto». DUSI, Istituzioni di diritto civile, Torino, 1930, pp. 132-133, descrive l’atto gratuito come quello in cui «ciascuna parte procura all’altra un vantaggio economico per ottenere, in compenso, un vantaggio per sé medesima». Simile la formulazione di BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., (su cui già retro, par. 3.2) che, suggerendo di qualificare l’atto come gratuito o oneroso in base alla natura del profitto che mira a recare (dunque in base al titolo dell’attribuzione patrimoniale che mira a produrre), indica che tale profitto andrebbe considerato oneroso «quando rappresenti il corrispettivo di un sacrificio patrimoniale sostenuto in vista di esso, o abbia per contrappeso il compenso di un sacrificio patrimoniale altrui». Tale ultima definizione sembra comprendere al suo interno, nel primo enunciato quella di atto corrispettivo e nel secondo quella relativa all’atto oneroso non corrispettivo. 95 SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità o gratuità del titolo, cit., p. 78. 96 Si veda retro, par. 2.1, nonché, anche per un inquadramento storico-culturale dell’istituto ed una completa analisi dei suoi tratti fondamentali, GAMBARO, Trust, cit., p. 450.

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to di almeno due soggetti, uno dei quali intende disporre dei propri beni secondo una determinata intenzione, che non potrebbe (o non potrebbe al meglio) realizzare autonomamente, per cui si rivolge ad un secondo soggetto affidandogli i propri beni non perché li abbia come propri, ma perché li destini alle finalità espresse dal fiduciante. Il trust si caratterizza dunque per essere istituito mediante un negozio unilaterale, senza necessità di una convenzione tra settlor e trustee, ma soltanto di una manifestazione di volontà del disponente tesa a costituire il trust e delinearne il programma, nominare un trustee ed attribuirgli determinati beni per la realizzazione delle finalità indicate nel progetto, cui segue l’assenza di rifiuto da parte del trustee individuato 97. Come nel negozio fiduciario generico, nel trust il titolo di colui che riceve i beni è limitato – ma in questo caso anche definito – in considerazione delle prerogative dei soggetti deboli, alla soddisfazione del cui interesse è diretto il negozio stesso. Costoro sono individuabili nei beneficiari del trust, ai quali già l’equity, ed ora le normative sul diritto dei trust dei singoli Stati 98, attribuiscono una serie di tutele, latamente “reipersecutorie” 99. La stessa causa del c.d. negozio dispositivo, con il quale il disponente trasmette al trustee i beni che intende destinare al trust, e che costituiranno il c.d. trust fund, è tipica e consiste nella attuazione del programma delineato nell’atto istitutivo 100, con ricomprensione, dunque, della destinazione dei beni alle anzidette finalità. L’affidatario dei beni li riceve quindi per un titolo che, in vario modo, considera l’intenzione dell’affidante di favorire determinati soggetti o di perseguire un certo fine. 97 Più specificamente: «il negozio istitutivo di trust è un negozio unilaterale programmatico, recettizio e soggetto a rifiuto» (LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008, p. 6). 98 È noto che, non esistendo in Italia una normativa sui trust, i c.d. “trust interni” sono disciplinati da una legge straniera che tale istituto regolamenti, come previsto dalla Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985. 99 Il c.d. “Tracing” non è un vero e proprio “diritto di seguito” quali quelli conosciuti dai sistemi di civil law (per fare un esempio proprio al nostro ordinamento, si pensi al diritto, attribuito al creditore ipotecario dall’art. 2808 c.c., di espropriare i beni vincolati alla sua garanzia anche in confronto del terzo divenutone proprietario). Il suo oggetto non sono infatti i beni in sé individuati, bensì il valore del trust fund. I beneficiari del trust possono quindi far valere le proprie pretese sul prezzo dell’alienazione dei beni, così come sui nuovi assets che il trustee dovesse successivamente avere acquistato con quello stesso valore economico. Su tali aspetti si veda quanto già osservato in nota circa la assunzione, in confronto dei beneficiari, del ruolo di trustee da parte del soggetto che in mala fede si faccia avente causa dal gestore originario nonché, amplius, GAMBARO, Trust, cit. 100 LUPOI, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, cit., p. 7.

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Tale contemplazione del disegno del fiduciante limita il dominio dell’affidatario. L’intento perseguito, tuttavia, non resta confinato sul piano dei motivi, ove sarebbe giuridicamente irrilevante, ma ottiene tutela mediante i rimedi concessi ai beneficiari per il caso di inadempimento o infedeltà del trustee. Tali soggetti, qualora individuati o individuabili, hanno infatti una legittima aspettativa a conseguire i beni su cui insiste il trust secondo il programma delineato 101. I beni affidati al trustee si troveranno quindi segregati 102 sia rispetto al patrimonio del disponente (che li ha di fatto alienati), sia rispetto al patrimonio dell’affidatario, proprio per l’esistenza del diritto, attribuito ai soggetti beneficiari, di rivendicare il valore dei beni destinati al trust anche se alienati e sostituiti, con un effetto di ricomprensione nel trust del prezzo di ciò che ad esso era stato destinato, opponibile ai terzi 103. Da una tale fattispecie consegue che il trustee riceve sul compendio il “titulus”, ma non il “commodum” 104: assume, cioè, la titolarità formale di beni da cui non può trarre alcun vantaggio patrimoniale. Mediante il negozio di affidamento si dà vita ad una fattispecie che è solamente prodromica rispetto alla produzione di attribuzioni patrimoniali, in un’ottica che potrebbe essere intesa come di “costituzione di provvista” 105 con la particola101

Molte sentenze di merito definiscono tale posizione come di “aspettativa giuridica”. Può citarsi, in proposito, la sentenza della Commissione tributaria regionale di Firenze, n. 77/2011, cit. 102 A garanzia che non possano essere distratti dalle finalità del trust nel corso del suo svolgimento. 103 Si veda GAMBARO, Trust, cit., il quale nota come la soluzione di prevedere la tendenziale opponibilità dei diritti del beneficiary non solo ai creditori ma anche, in una certa misura, agli aventi causa dal trustee, fa si che l’inadempimento del trustee non possa pregiudicare i diritti dei beneficiari neppure a vantaggio dei terzi. Il diritto di riportare i beni illegittimamente alienati dal trustee entro il trust fund spetta inoltre ai beneficiari qualora l’avente causa abbia ricevuto dal trustee gratuitamente o con proprio dolo o colpa grave circa l’esistenza del trust e l’appartenenza ad esso dei beni trasferiti. 104 LEUZZI, Trust e mezzi di tutela in rapporto al “vincolo obbligatorio”, in Trusts e attività fiduciarie, 2011, p. 377, che paragona la posizione del trustee a quella dell’erede fiduciario, definendolo titolare di un diritto reale non nell’interesse proprio, ma altrui. 105 Sotto l’aspetto di quella “costituzione di provvista” di cui sopra si è detto, volendo riferirci ad una figura meglio conosciuta dagli ordinamenti di civil law, potremmo confrontare – nella presente sede, soltanto sommariamente – il trust con il contratto di mandato, anticipando che il confronto, pur stimolante, è destinato a risolversi in maniera poco soddisfacente data la fondamentale diversità tra gli istituti. Nel contratto richiamato, il mandante può attribuire al mandatario dei beni perché li utilizzi secondo le proprie indicazioni, ossia alienandoli, impiegandoli per l’acquisto di altri beni che il mandante intende procurarsi, ecc. Nel caso in cui il mandato sia senza rappresentanza, e non si preveda dunque la c.d. contemplatio domini, ossia la spendita del nome del mandante al momento dell’acquisto dei nuovi beni, più teorie hanno tentato di dare spiegazione alle modalità operative dell’azione di rivendica che l’art. 1706 c.c. attribuisce al mandante, che può divenire egli stesso proprietario dei beni mobili oggetto del contratto di compravendita

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rità che ciò che si mira a conseguire non è soltanto la destinazione di quel patrimonio agli scopi o alle persone individuati, ma anche la sua gestione intermedia per la realizzazione – se il disponente lo ha previsto – di un programma collaterale destinato ad essere perseguito e ad avere vita soltanto finché non si creino le condizioni per la eventuale devoluzione, in modo da conseguire la maggiore utilità da quegli stessi beni in una prospettiva tutt’altro che statica 106 ed idonea a conseguire da essi anche effetti positivi che vanno oltre la mera segregazione.

4.3. Il carattere dell’attribuzione che il trustee riceverebbe Se quindi si prende a riferimento la ristretta prospettiva del solo negozio (che qui consideriamo traslativo) con cui i beni destinati al progetto del trust escono dalla titolarità del disponente ed entrano in quella del trustee, la considerazione del “titolo di dominio” sui beni che fa capo al trustee per effetto di tale devoluziodel quale è formalmente parte attiva il mandatario. Tra quelle principali (sulle quali si veda BELLI CONTARINI, Profili tributari del contratto di mandato senza rappresentanza, in Riv. dir. trib., 1997, I, p. 519) quella che sembra prevalere, e che si presenta di maggiore interesse per la nostra analisi è quella del c.d. “doppio trasferimento automatico”, secondo cui il diritto acquistato in nome proprio dal mandatario in esecuzione del mandato si trasferirebbe automaticamente al mandante. Sembra di poter cogliere nell’aspetto appena citato una similitudine con ciò che avviene quando il trustee acquista dei beni impiegando attività provenienti dal trust fund: quegli stessi beni divengono formalmente intestati al trustee ma automaticamente anche su di essi – come già sul tantundem che è stato pagato per ottenerli – viene a costituirsi il vincolo di destinazione alla realizzazione del programma delineato dal disponente. Secondo giustizia, dunque, mentre nel contratto di mandato il mandante assume il diritto di divenire proprietario dei beni perché è lui che ha fornito la provvista con cui sono stati acquistati, analogamente nel trust viene preservato il diritto dei beneficiari sull’insieme, e non sui singoli beni individuati. Di conseguenza, le utilità economiche che il disponente ha destinato a soddisfare determinate esigenze mantengono tale destinazione anche nel caso in cui venga ad essere modificata la composizione di quella stessa massa. A conferma del fatto che il trust non è un ente entro cui vengono “conferiti” determinati beni, bensì un complesso di diritti su beni «posti sotto il controllo di un trustee» (così l’art. 2 della Convenzione de L’Aja del 1 luglio 1985). Neppure soddisfacente può rivelarsi il confronto con la c.d. fiducia germanistica, alla quale tuttavia il trust sembrerebbe accomunato per la dissociazione tra proprietà e gestione del bene che viene realizzata. Nella fattispecie fiduciaria richiamata, infatti, proprietario dei beni a tutti gli effetti resta in ogni caso il fiduciante che pure attribuisce al fiduciario il diritto di disporre – secondo indicazioni – degli stessi beni, e ciò nella consapevolezza che il fiduciario si atterrà alle istruzioni fornite. Non così nel trust, il cui effetto segregativo fa sì che gli stessi beni si separino fin dall’origine dal patrimonio del disponente, senza però confondersi con quelli del trustee. L’adeguata considerazione di tale aspetto permette quindi di considerare il trust come un fenomeno fiscalmente rilevante nell’analisi delle vicende di interesse tributario che si verificano in ordine al trust fund, a differenza di quanto accade nel caso della fiducia germanistica, ove il ruolo del fiduciario, proprio in quanto la proprietà dei beni è mantenuta in capo al fiduciante, è destinato a restare nella sostanza irrilevante, giacché gli effetti – anche fiscali – della sua opera si produrranno direttamente nella posizione del fiduciante. 106 Quale sarebbe qualora si considerasse esclusivamente il profilo della segregazione dei beni.

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ne dovrebbe portare ad escludere che nella fattispecie si realizzino attribuzioni e, in ogni caso, che esse siano gratuite e che dunque gratuito sia il trasferimento che si ritenga atto a determinarle. Oltre a quanto già osservato, si ritiene di dover pervenire alla predetta conclusione anche perché, qualora non sia previsto uno specifico corrispettivo, lo stesso soggetto gestore addirittura si impoverisce a fronte dell’opera prestata 107, nonché in considerazione del fatto che l’utilità di cui il disponente beneficia avvalendosi dell’opera del trustee deve essere adeguatamente computata nel giudizio di bilanciamento tra le attribuzioni, pur non necessariamente corrispettive 108. Affermando che il settlor, affidando propri beni al trustee, resta impoverito senza beneficiare di movimentazioni economiche inverse, di riequilibrio, si finisce per svalutare il profilo dinamico del trust, rappresentato dall’utilità stessa che il disponente trae dall’operato qualificato del trustee. Questo potrebbe già consentire di guardare alla fattispecie in maniera diversa, 107

Tale visione pare condivisa nelle riflessioni di SACCO, Il contratto, Torino, 2004, II, pp. 475-476, che dimostra come anche la prestazione di puro fare possa rappresentare una perdita, un passivo, per chi la rende. Considerando quanto sopra, potrebbe finanche pervenirsi alla opposta conclusione per cui è il trustee ad arricchire il disponente, qualora a fronte dell’operato del gestore non sia pattuito specifico compenso. Proprio come nel mandato, la qualificazione di onerosità o gratuità del rapporto dipende dal fatto che per l’opera del trustee-mandatario sia o meno previsto uno specifico compenso. Sul tema – sicuramente molto interessante anche se riferito al contratto di mandato – della necessità di scindere la valutazione sul piano del “servizio reso dal mandatario” e del relativo compenso, rispetto a quello inerente “l’attribuzione che egli riceve (dal mandante o da un terzo) o che egli opera (al mandante o al terzo)”, si vedano gli spunti di SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., p. 406, ma anche MINERVINI, Il Mandato, la commissione, la spedizione, in VASSALLI, Trattato di diritto civile italiano, Torino, vol. VIII-1, 1952, p. 5 ss., secondo il quale l’attività del mandatario costituirebbe attività di lavoro, secondo la definizione classica (CARNELUTTI, SANTORO-PASSARELLI, RIVA SANSEVERINO), per cui essa sarebbe ravvisabile laddove ricorrano: «a) un’attività, b) la deviazione del risultato di tale attività a persona diversa dall’agente». La prestazione del mandatario sarebbe poi una prestazione di lavoro autonomo, qualificata dalla particolare natura dell’attività del mandatario, che non potrebbe intendersi come limitata al compimento di meri fatti giuridici, ma diretta al compimento di atti giuridici, per la cui validità sia necessaria la sussistenza di coscienza e volontà dell’agente. Il che contribuisce a spiegare il valore che l’attività del mandatario può avere per il mandante, e quindi quello che per il settlor può avere l’operato qualificato del trustee, cui sono affidate la realizzazione del programma del disponente e la gestione intermedia del patrimonio ricevuto. 108 FEDELE, Il trasferimento dei beni al trustee nelle imposte indirette, cit., p. 13 ss., precisa appunto come non sia corretto definire gratuito «ogni trasferimento che si realizzi in assetti non corrispettivi», giacché sarebbero certamente onerosi «anche i trasferimenti strumentali, nell’ambito di una sequenza negoziale unitaria alla realizzazione di situazioni effettuali vantaggiose anche per chi il trasferimento dispone». In questo senso, può osservarsi che poter fruire dell’opera del trustee – peraltro a fronte della trasmissione ad esso di una situazione che prevede obblighi e responsabilità, di cui il fiduciario si fa carico – costituirebbe sicuramente un vantaggio economicamente valutabile per chi compie l’attribuzione, tale da mettere in dubbio la sussistenza di un assetto gratuito.

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giacché emergerebbe l’interesse che fa determinare il settlor ad affidare i propri beni al trustee, in considerazione della fiducia che ripone in esso e delle capacità di questo di realizzare il progetto, trattandosi certamente, per la sua caratterizzazione fiduciaria, di rapporto connotato dall’intuitus personae. Di conseguenza, anche assumendo la sola prospettiva patrimoniale del disponente, emergerebbe un profilo latente di rilevanza economica per cui, pur non sussistendo corrispettività in un simile rapporto, considerato isolatamente dal restante svolgimento del trust 109, potrebbero affiorare profili di onerosità dell’affidamento di beni al trustee, non richiedendosi a tale proposito la necessaria equivalenza tra quanto dal settlor ricevuto (utilità, economicamente apprezzabile, del negozio e dell’opera del trustee) e quanto, invece, trasmesso (ciò che va a costituire il trust fund) 110. Considerando poi il punto di vista del beneficiario del trasferimento 111, ossia 109

Diverse potrebbero essere le conclusioni se si guardasse al complessivo rapporto determinato dal trust e si ritenesse possibile assimilarlo ad un contratto a favore di terzo di cui agli artt. 1411-1413 c.c., cosa quantomeno dubbia, essendo il trust istituito mediante un atto unilaterale nei cui confronti il trustee non ha espresso rifiuto. D’altra parte, tra le due fattispecie emergono similitudini rilevanti, quale l’attribuzione al beneficiario di un diritto di credito nei confronti del promissario, assimilabile alle prerogative che l’equity attribuisce ai beneficiari del trust avverso il trustee. Interessanti le considerazioni di ROPPO, Diritto privato, cit., p. 451 che nota come nel contratto a favore di terzo sia necessaria la sussistenza di un interesse dello stipulante ad attribuire il diritto al terzo, che può identificarsi in «uno spirito di liberalità nei suoi confronti (e allora l’acquisto del terzo è gratuito); oppure può dipendere dal fatto che l’attribuzione costituisce adempimento di un precedente obbligo dello stipulante verso il terzo, o elemento di uno scambio tra loro (e in questo caso l’acquisto è oneroso)». Sembrano inoltre utili le osservazioni di MESSINEO, Dottrina generale del contratto, Milano, 1949, pp. 198-199 che, in ambito esclusivamente contrattuale, parla di contratto «sinallagmatico imperfetto» in proposito di quello, ad es., di mutuo ad interesse (o feneratizio), di mandato retribuito, di deposito retribuito e, secondo alcuni, anche di donazione cum modo (o modale). In relazione a tale tipologia contrattuale, spiega l’Autore, si renderebbero inapplicabili le regole del contratto con prestazioni corrispettive ed andrebbero impiegate quelle del contratto con prestazioni a carico di una sola parte. La categoria così individuata si caratterizzerebbe, quindi, giacché «le due serie di obbligazioni hinc inde nascono in momenti diversi e in base a ragioni diverse e non stanno in quel nesso di interdipendenza, in cui esse stanno nei contratti con prestazioni corrispettive». Viene inoltre notato, in particolare, che la retribuzione non è elemento essenziale del contratto di mandato, ma un mero elemento accidentale, «che, comunque, non assurge alla funzione di controprestazione». 110 Si veda, in proposito di adeguatezza economica fra le reciproche attribuzioni, quanto osservato in nota 72. Rileva inoltre la difficoltà connessa all’accertamento di cosa debba significare “equivalenza” nel caso in cui manchi l’identità tra le prestazioni dedotte e dell’incertezza che conseguentemente si determinerebbe nei rapporti commerciali SANDULLI, Le nozioni giuridiche, cit. Le richiamate considerazioni di GATTI, L’adeguatezza fra le prestazioni, cit., p. 424, danno inoltre conto di come il legislatore avrebbe assunto quello dell’adeguatezza oggettiva solo come criterio suppletivo rispetto all’autonomia privata, il cui soggettivo giudizio dovrebbe sempre essere rispettato, salvi i casi-limite in cui si sia determinato per insufficiente libertà. 111 Sempre che di trasferimento possa parlarsi. Si è infatti visto supra (par. 3.4) che sembre-

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il trustee, oltre a quanto già osservato, nella prospettiva di valutazione degli effetti patrimoniali che si è indicata come propria dell’indagine inerente l’onerosità o gratuità delle attribuzioni, l’obbligo di devoluzione dei beni ai beneficiari o di loro destinazione allo scopo proprio del trust deve certamente essere tenuto in considerazione come onere 112. Per cui, se si confrontano le utilità patrimoniali “in entrata” e “in uscita” nel patrimonio del trustee, come mero flusso patrimoniale, si vede come l’attribuzione che questi riceve non possa essere qualificata in sé gratuita 113. Anche immaginando, per assurdo, che il fiduciario possa ritrarne un qualche vantaggio, l’attribuzione suddetta dovrebbe forse essere qualificata come “neutra” – ossia priva di contenuto patrimoniale – proprio perché il flusso economico che andrebbe computato in capo al trustee consiste in realtà in una trasmissione di beni soltanto strumentale a permettergli di compiere quanto altro il disponente si aspetta da lui 114. In un’ipotesi di scuola, in cui le condizioni per la devoluzione rebbe possibile dubitare anche della stessa idoneità dell’atto di affidamento a determinare attribuzioni patrimoniali. 112 Tale sembra essere la logica adottata proprio dal legislatore dell’imposta sulle successioni e donazioni, laddove ha inteso, con la previsione di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 346/1990, assumere un criterio di tassazione “al netto”. Infatti, secondo SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità o gratuità del titolo, cit., p. 82, in caso di imposizione di un onere, fino a concorrenza del valore del modus l’attribuzione sarebbe a titolo oneroso, così come nell’ipotesi in cui il valore del bene oggetto del modo assorba l’intero arricchimento (nello stesso senso SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., p. 396). La stessa situazione rileva ai fini tributari ai sensi dell’art. 2, comma 49, D.L. n. 262/2006, che assume come base imponibile per l’applicazione dell’imposta sulle donazioni il valore globale dei beni e diritti, al netto degli oneri di cui è gravato il beneficiario. 113 Come sarebbe, invece, se all’utilità recata alla controparte non corrispondesse alcun sacrificio del destinatario. 114 L’affidamento di beni al trustee, considerato isolatamente dalla vicenda in cui si colloca, come visto mal si presterebbe ad assumere connotati di gratuità. Potrebbe, al più essere considerato atto “interessato”, categoria entro la quale vengono solitamente ricondotti negozi apparentemente gratuiti dal punto di vista patrimoniale, ma per mezzo dei quali il soggetto agente persegue un interesse proprio, non immediatamente identificabile in termini monetari, ma in ogni caso teso a consentire un suo arricchimento o ad evitare un suo impoverimento. Assumere una prospettiva in tal modo parziale porterebbe inoltre difficoltà di ordine pratico nel momento in cui, in sede di devoluzione dei beni, il trustee effettuasse le dovute attribuzioni patrimoniali in favore dei beneficiari. In quel momento, infatti, se si mantenesse una prospettiva “atomistica”, le attribuzioni determinatesi, a prescindere dalle finalità perseguite e dal contesto in cui dovessero collocarsi, risulterebbero di difficile qualificazione. Infatti, il trustee opererebbe un trasferimento in favore dei beneficiari dando luogo ad una attribuzione patrimoniale. Si porrebbe, a questo punto, il problema della qualificazione di tale attribuzione, con notevoli complicazioni. In primo luogo il trustee, nell’effettuare il trasferimento, non si impoverirebbe, giacché perderebbe soltanto la titolarità formale di beni di cui non poteva disporre se non proprio ed esclusivamente per realizzare questo trasferimento. Né potrebbe ravvisarsi in capo ad esso una volontà di arricchire i beneficiari, giacché effettuerebbe il trasferimento semplicemente in adempimento di quanto previsto nel disegno istitutivo del trust, e dunque del titolo in base al quale ha detenuto quegli stessi beni. È

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finale si realizzassero immediatamente dopo la costituzione e dotazione del trust, il patrimonio già del disponente entrerebbe nella sfera giuridica del trustee e subito ne uscirebbe, di modo che sarebbe evidente che egli non ne consegue alcun arricchimento. Concludendo, pertanto, è possibile affermare che in tale fattispecie non si verifica neppure un’attribuzione patrimoniale 115 o, restando nella valutazione degli effetti, che quello che si ha di fronte debba essere considerato un atto (economicamente) neutro.

5. Considerazione complessiva della vicenda determinata dal trust 5.1. L’atto di affidamento nell’ambito del trust La strumentalità dell’atto di affidamento di beni al trustee, per la realizzazione del complessivo disegno del disponente, non sembra tuttavia idonea a privare completamente tale atto di una sua autonomia, e quindi a farlo ricomprendere entro un unico negozio complesso 116, composto di tale fattispecie e dell’altra, anch’essa attributiva, individuabile nella devoluzione finale dei beni. È però evidente che le difficoltà che si incontrano nella qualificazione dell’atto di affidamento dei beni derivano dal suo inscindibile legame con l’atto istitutivo (nel quale è delineato il programma del disponente) e con quello devolutivo, in quanto è soltanto la sequenza di questi atti, opportunamente coordinata, a consentire al disponente di raggiungere l’effetto che si prefigge. Stante la funzione unitaria che si mira a perseguire, all’interno di un unico indubbio che in favore dei beneficiari si osserverebbe un flusso patrimoniale di segno positivo ma non sarebbe equo, né ragionevole, che da ciò si giungesse senz’altro alla conseguenza per cui in capo a costoro si determinerebbe un arricchimento senza contestuale impoverimento, con applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni. In tal modo si renderebbe infatti irrilevante la reale causa del trasferimento che viene realizzato – dal disponente ai beneficiari per il tramite del trustee – e dunque si ometterebbe di considerare le attribuzioni patrimoniali (e gli scompensi nel patrimonio di costoro) che i beneficiari avessero precedentemente effettuato in favore del disponente, situazione al ricorrere della quale il trust paleserebbe la propria natura solutoria, inidonea a recare arricchimento ad alcuno dei soggetti coinvolti e volta unicamente al doveroso riequilibrio dei patrimoni coinvolti. Le difficoltà di inquadramento dell’atto sembrerebbero tuttavia riconducibili alla impossibilità di qualificarlo come vero e proprio “trasferimento”. 115 Se questa va intesa, come crediamo, quale effetto patrimoniale dell’atto, l’assenza di valore economico del trust fund per la posizione personale del trustee di cui si è dato conto potrebbe risultare idonea ad annullare gli effetti economici della trasmissione di beni operata dal settlor, con la conseguenza che l’attribuzione non sussisterebbe o, in qualche modo, sarebbe “nulla”. 116 Parla di «situazione negoziale complessa» SCOGNAMIGLIO, (voce) Collegamento negoziale, in Enc. dir., VII, p. 376, riferendosi a quella creata dalle parti mediante una serie di dichiarazioni relative a una pluralità di prestazioni e simili.

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programma 117 e per la realizzazione di una complessiva fattispecie caratteristica, sembra quindi di essere al cospetto di un collegamento negoziale 118, il cui effetto ultimo sarà la produzione dell’attribuzione patrimoniale dal disponente ai beneficiari. Di conseguenza, non sembra errato assumere che, in presenza di una attività negoziale molteplice ma coordinata in maniera tale che ogni negozio si giustifichi in funzione dell’esistenza dell’altro, ciò che deve essere qualificato sia proprio il risultato ultimo, in considerazione del rapporto nell’ambito del quale l’attività è stata compiuta 119, che informerà della sua stessa qualifica le singole attribuzioni 120, le quali potranno così riguardarsi come onerose o gratuite “per collegamento” 121. Se si ritiene possibile individuare una funzione del negozio attributivo (come idoneità a determinare attribuzioni patrimoniali, gratuite o onerose) in quanto inserito in un collegamento negoziale 122, essa deve tuttavia essere ricondotta a 117

Cfr. SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità o gratuità del titolo, cit., p. 75. Individuabile dove ci sia esistenza di una pluralità di negozi posti, a vario titolo, in connessione (SCOGNAMIGLIO, (voce) Collegamento negoziale, cit., p. 375) o, meglio, laddove «si ha una pluralità di negozi, ognuno perfetto in sé e produttivo dei suoi effetti, ma gli effetti dei vari negozi si coordinano per l’adempimento di una funzione fondamentale» (SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 215). In contrario, si avrebbe un unico contratto, “complesso”, laddove esso risultasse «dalla fusione organica e inscindibile di più atti senza efficacia a sé stante» (BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 300). 119 NICOLÒ, (voce) Attribuzione patrimoniale, cit., pp. 283-284, indica che «la cosiddetta causa dell’attribuzione (solvendi, donandi, credendi) individua il rapporto fondamentale che giustifica lo spostamento patrimoniale che una data attività negoziale ha provocato». 120 SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., p. 368 nota che «spesso l’onerosità (o la gratuità) del rapporto va riguardata con riferimento a più negozi tra loro collegati che, in funzione di tale collegamento, vedono mutare il titolo dell’acquisto o dell’alienazione che essi comportano». Trattandosi di onerosità o gratuità “del rapporto”, sembra corretto intendere che andrà qualificato il risultato ultimo cui si pervenga per mezzo dei negozi collegati. 121 FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 597. L’Autore specifica, a tale proposito: «si potrebbe qui fare riferimento ai trasferimenti “strumentali” (quindi in sé e per sé “neutri”) ad ulteriori attività giuridicamente rilevanti, che, in quanto onerose, li qualificano come tali». Molto stimolanti in ordine ai temi trattati le considerazioni dello stesso Autore, laddove spiega che «tutte le ipotesi di collegamento o di procedimento negoziale implicano le possibilità di una “propagazione” dell’onerosità a negozi od atti in sé “neutri”, ma inseriti in un contesto in cui si correlano, per chi li pone in essere, effetti di (anche solo potenziale) decurtazione od incremento patrimoniale». 122 Quello di “causa del collegamento” è un termine con il quale sembra ci si riferisca comunemente alla funzione unitaria che i vari negozi, distinti, realizzano nell’ambito di un unico programma, da individuarsi quindi come fenomeno e non come categoria negoziale (SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità o gratuità del titolo, cit., p. 75). Ritiene possibile individuare, «al di sopra della funzione dei vari negozi» una «funzione della fattispecie negoziale nel suo complesso» SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 216. L’Agenzia delle entrate ha definito il trust «un rapporto giuridico complesso» (circ. 48/E del 2007, cit., par. 5.2), cui è propria «un’unica causa fiduciaria». Tale affermazione sembra quindi confermare, anche da par118

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quella del rapporto fondamentale, così che sia possibile determinare il titolo dell’attribuzione che, mediante il complessivo svolgimento del rapporto contrattuale, viene realizzata. Quest’ultima, poi, potrà essere adeguatamente apprezzata soltanto in considerazione del risultato economico che venga complessivamente perseguito nell’intera operazione. Pertanto, sembra corretto dedicare la principale attenzione alle utilità economiche arrecate dai negozi, coordinati nel loro complesso entro una medesima operazione, ai vari patrimoni da essi riguardati.

5.2. Il programma sotteso al trust Appare allora necessario, sia per la corretta ricostruzione del negozio che ai fini dell’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, che la vicenda in cui hanno luogo le attribuzioni patrimoniali che si realizzano nel corso della vita di un trust venga considerata in via complessiva. Solo la valorizzazione del programma delineato dal settlor nell’atto con cui istituisce il trust consente di cogliere il reale fondamento dei successivi negozi, produttivi di attribuzioni patrimoniali, e del loro collegamento 123, in vista della realizzazione del progetto complessivo 124. Così contestualizzata, l’attribuzione al trustee mostra pienamente la sua strumentalità alla realizzazione della attribuzione finale dei beni, e quindi del progetto che la prevede 125. Quest’ultimo non potrebbe essere completato senza quel primo trasferimento, compiuto dal disponente esclusivamente in vista di un intete dell’Amministrazione finanziaria, la possibilità di ricostruire la vicenda cui l’istituto dà luogo come collegamento negoziale, cui è certamente sottesa un’unica “causa”, nel senso anzidetto, rappresentata nell’atto istitutivo. 123 Sembrerebbe trattarsi di un collegamento c.d. “funzionale”, nel quale più negozi vengono collegati, in modo da influire ciascuno sulla vita dell’altro, per la soddisfazione di una funzione fondamentale, non raggiungibile mediante il singolo tipo negoziale impiegato (SCOGNAMIGLIO, (voce) Collegamento negoziale, cit., p. 379). In questo caso, la causa di ogni contratto comprenderebbe, si è detto (ROPPO, Il contratto, Bologna, 1989), anche l’esistenza e l’operatività dell’altro, proprio perché ciascuno si giustifica anche attraverso l’altro. 124 La presenza di un negozio istitutivo, nel quale il disponente delinea le fasi ed i passaggi giuridici attraverso i quali il progetto dovrà essere realizzato, rende inequivocabile il collegamento tra l’affidamento dei beni al trustee e la successiva attribuzione ai beneficiari o destinazione dei beni allo scopo, che avverranno secondo le indicazioni già formalizzate dal disponente. La consacrazione formale del progetto rivela quindi la volontà di considerare economicamente connesse tali attribuzioni (SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., p. 402). 125 Nel contesto complessivo del trust, parlano di «atto prodromico con funzione destinatoria» MURITANO- PISCHETOLA, Trust liquidatori e relativi profili impositivi, in Fisco, 2010, 1, p. 6973. Anch’essi definiscono l’atto di dotazione come atto “neutro”, vale a dire né oneroso, né gratuito, esclusivamente funzionale all’assegnazione al trustee del potere/dovere di amministrare e gestire i beni in trust.

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resse proprio 126 ed allo scopo ulteriore di avvalersi dell’opera gestoria intermedia di un fiduciario. Il trustee può dunque essere visto come un ausiliare, per il tramite del quale il disponente realizza, in più passaggi giuridici, il proprio intento di effettuare un’attribuzione, gratuita od onerosa che sia 127. L’individuazione del collegamento sussistente tra i passaggi attraverso i quali il trust si sviluppa progressivamente attenua la rilevanza delle singole fattispecie trasmissive, consentendo di incentrare l’indagine sulla vicenda complessivamente considerata e di giungere a qualificare quest’ultima sola come onerosa o gratuita, ai fini dell’imposta sulle donazioni.

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Si tratterebbe, pertanto, di un atto “interessato”, categoria nella quale vengono tradizionalmente ricondotti negozi apparentemente gratuiti dal punto di vista patrimoniale, ma per mezzo dei quali il soggetto agente persegue anche un interesse proprio, non immediatamente identificabile in termini monetari, ma teso a consentire, in ogni caso, un suo arricchimento o ad evitare un suo impoverimento. Si noti che anche la giurisprudenza di merito ha ritenuto, in alcuni casi, che il trasferimento di beni dal disponente al trustee non sarebbe né gratuito, né oneroso, bensì neutro (ad esempio, CTP Firenze, sent. 12 febbraio 2009, n. 30) e tale, perciò, da qualificarsi nell’uno o nell’altro senso solo in esito ad un’analisi del complessivo rapporto (SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità o gratuità del titolo, cit., pp. 74-75). 127 Continuare a ricercare la possibilità di assoggettare a tributo sulle successioni e donazioni il negozio di dotazione iniziale porterebbe ad ulteriori difficoltà. Risulterebbe infatti difficile inquadrare il trustee tra le figure dei soggetti passivi del tributo indicate dall’art. 5 del D.Lgs. n. 346/1990. Oltre a questo, si può notare che, stante il vincolo di indisponibilità, a rigor di logica (temperata dall’interpretazione dell’Agenzia, che considera soggetto passivo il trust stesso – circ. 3/E-2008) il trustee dovrebbe far fronte all’imposta con mezzi esclusivamente propri (la questione è sollevata da PISTOLESI, La rilevanza impositiva delle attribuzioni liberali realizzate nel contesto dei trusts, in Riv. dir. fin., 2001, p. 117). Infine, neppure la successiva devoluzione dei beni ai beneficiari finali potrebbe essere ritenuta imponibile ai fini del tributo sulle donazioni se considerata di per sé, poiché costituirebbe mero adempimento dell’obbligazione fiduciaria assunta dal trustee (PISTOLESI, La rilevanza impositiva, cit., p. 143) e difetterebbe dell’elemento dell’impoverimento del dante causa visto che il trustee, entrando in relazione con il trust fund, non se ne arricchisce né, dunque, potrebbe impoverirsi quando si privasse di quello stesso compendio di beni vincolato. Prima della riforma del 2006, GIOVANNINI, Trust e imposte sui trasferimenti, in Rass. trib., 2000, p. 1111 (spunti simili in GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, cit.) ha evidenziato come il trasferimento sia volto a realizzare l’interesse del disponente alla costituzione del trust e proponeva una assimilazione del rapporto intercorrente tra questi e il trustee ad un mandato senza rappresentanza. Conseguentemente, la devoluzione finale ai beneficiari verrebbe eseguita in attuazione del “mandato” e quindi in esecuzione della volontà del “mandante”. Questa ricostruzione confermerebbe la necessità di compiere una valutazione economica complessiva della vicenda. Il trust fund sarebbe la “provvista” fornita dal disponente. Quando questa venisse trasferita ai beneficiari, l’atto del trustee si ripercuoterebbe nella sfera patrimoniale del settlor, determinando la definitiva fuoriuscita di quei beni dal patrimonio di quest’ultimo. Soltanto per effetto della devoluzione finale ai soggetti individuati, quindi, la fattispecie sarebbe completa verificandosi, nel caso di trust liberale, l’arricchimento – fiscalmente rilevante – dei beneficiari a fronte dell’impoverimento definitivo del disponente.

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In definitiva, è l’intento sotteso all’intera vicenda 128 – che funzionalizza in vista della sua realizzazione ogni passaggio intermedio – a costituire l’elemento di indagine determinante per assoggettare, eventualmente, all’imposta sulle donazioni la attribuzione patrimoniale compiuta per mezzo del trust 129. La sua natura di mero strumento scelto dal disponente per la realizzazione di precise finalità rende doveroso considerare quale sia l’esito del trust, ossia quali siano la intrinseca natura del negozio e gli effetti giuridici che esso determina 130, senza potersi fermare ad analizzare i singoli passaggi – certamente autonomi, ma pur sempre collocati entro il contesto del trust in quanto ricompresi nel progetto del disponente – per qualificarli ai fini dell’imposizione sui trasferimenti. A tale proposito, il trasferimento (e quindi l’attribuzione) che deve essere considerato è soltanto quello, complessivo, che in esito al trust si determina dal disponente ai beneficiari, proprio come se il trustee non intervenisse. Solo all’esito di questo si rende possibile individuare attribuzioni potenzialmente rilevanti per l’applicazione del tributo, delle quali i beneficiari risultino destinatari 131, 128

SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, cit., p. 402, parla di «volontà delle parti a che più prestazioni si considerino tra loro economicamente connesse con rilevanza anche nella realtà giuridica». 129 Anche qualificando la singola attribuzione, nell’ambito dello stesso negozio potrebbero benissimo coesisterne di gratuite e di onerose (SANDULLI, Le nozioni giuridiche, cit., p. 405). Al collegamento negoziale potrebbero essere applicati i principi desumibili dall’interpretazione dell’art. 21 D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 adottata dalla Corte di cassazione (sentenze 7 giugno 2004, n. 10789 e 4 maggio 2009, n. 10180), ma anche dall’Agenzia delle entrate (circolare Ag. Entrate 7 ottobre 2011, n. 44), secondo cui le singole disposizioni contenute in uno stesso atto non possono che rilevare autonomamente soltanto nel caso in cui «ciascuna di esse sia espressione di una autonoma capacita contributiva». Da ciò sembrerebbe possibile assumere una considerazione complessiva del trust, con la conseguenza che la medesima vicenda andrebbe considerata per l’unico effetto fiscalmente rilevante, anch’esso complessivo, che è idonea a determinare, senza che possano assumere rilievo i passaggi strumentali, privi degli effetti che le imposte in discorso considerano. 130 Anche il principio interpretativo desumibile dall’art. 20 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 potrebbe utilmente applicarsi al collegamento, soprattutto alla luce dell’interpretazione che ne è stata data, anche se in tema di imposta di registro, dalla Cassazione, secondo cui «una pluralità di negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto giuridico finale, vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva» (Cass. 25 febbraio 2002, n. 2713; Cass. 23 luglio 2007, n. 16280 recentemente confermate da Cass. 23 febbraio 2010, n. 4269). Nella sentenza della CTP di Treviso, 30 aprile 2009, n. 47, l’art. 21 del Testo unico sull’imposta di registro è infatti dichiarato «estensibile a tutte le imposte indirette che toccano i soggetti contribuenti [..] a mente del principio costituzionale italiano sancito dall’art. 53». Emerge quindi chiaramente la necessità che gli atti posti in essere nella realizzazione di un medesimo effetto giuridico-economico rilevante ai fini dell’imposta sulle successioni vengano singolarmente tassati solo nel caso in cui costituiscano autonome manifestazioni di capacità contributiva. 131 In proposito, non sarebbe giustificabile la scelta (espressa dall’Amministrazione finanziaria – vedere circ. n. 48/E del 2007 e 3/E del 2008, cit.) di applicare l’imposta stessa al primo degli atti di trasmissione dei beni, insuscettibile di produrre alcun arricchimento e quindi di integrare il

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caratterizzandole nel senso della onerosità o gratuità, e tenendo in considerazione il rapporto giuridico in cui eventualmente il trust venga a collocarsi 132.

6. Assetti onerosi e gratuiti ed applicazione al trust delle imposte sui trasferimenti 6.1. La valorizzazione della segregazione da parte dell’Agenzia delle entrate Si può a questo punto tentare di ipotizzare in che modo, concretamente, le imposte sui trasferimenti andrebbero applicate all’attribuzione di ricchezza realizzata per tramite del trust. Come si è detto, la prospettiva assunta dall’Agenzia delle Entrate si concentra sul momento in cui i beni fuoriescono dalla sfera di disponibilità del settlor e vengono destinati alla realizzazione degli scopi del trust. Sembra che detta anticipazione nell’applicazione dell’imposta sia fondata sulla individuazione di un unico negozio complesso, che pertanto andrebbe tassato nel momento della sua concreta attuazione. Tale prospettiva appare smentita laddove l’Agenzia delle entrate ritiene necessario precisare che “la devoluzione ai beneficiari” – vista quindi come fattispecie a sé stante – “non realizza, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, un presupposto impositivo ulteriore” 133. Tuttavia, tale affermazione non viene motivata argomentando che l’evento che l’imposta considera imponibile non si realizzerebbe, bensì perché, si dice, quegli stessi beni «hanno già scontato l’imposta sulla costituzione del vincolo di destinazione al momento della segregazione in trust, funzionale all’interesse dei beneficiari» 134. Una tale impostazione rende evidente che si persegue l’interesse erariale alla immediata percezione del tributo, senza che il Fisco debba attendere (e, soprattutto, seguire) il complessivo svolgimento del trust e del progetto in cui esso si sviluppa. requisito della effettività della capacità contributiva, che invece giustifica costituzionalmente il prelievo (cfr. FEDELE, Il trasferimento dei beni al trustee nelle imposte indirette, cit., p. 16; in senso conforme GAFFURI, La nuova manifestazione di pensiero dell’Agenzia delle Entrate, cit., p. 24, il quale fa anche notare che «la semplice programmazione di un atto liberale, quantunque sia giuridicamente impegnativa, non è e non può essere ancora l’evento cui la norma impositiva, secondo la sua ratio, fa verosimilmente riferimento»). 132 Cfr. FRANSONI, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, cit., p. 649 nonché FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 611, dal quale l’indicazione che si debba escludere categoricamente l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni quando si rinvenga nel trust una finalità solutoria, in adempimento di precedenti obbligazioni contratte dal disponente. 133 Agenzia delle Entrate, circolare n. 3/E del 2008, cit. 134 Agenzia delle Entrate, idem c.s.

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Sembra, in sostanza, che con le proprie indicazioni l’Agenzia delle Entrate abbia voluto semplicemente introdurre una anticipazione del prelievo rispetto al completamento della fattispecie imponibile 135, che potrebbe al limite essere avallata per i casi in cui appare ragionevole che la destinazione dei beni al trust possa con sufficiente certezza determinare il futuro arricchimento dei beneficiari. Si è detto “al limite” in quanto non pare comunque possibile superare l’incongruenza per cui, in assenza di una previsione di legge, sarebbe l’Amministrazione finanziaria a disporre la corresponsione anticipata delle imposte, prima del completamento della fattispecie imponibile. Se quest’ultima, come si è detto, può essere considerata perfetta solo con il prodursi dell’effetto traslativo, e dunque del definitivo arricchimento del beneficiario, prima di tale momento non potrebbe ammettersi che la corresponsione di meri acconti. Inoltre, perché il prelievo di siffatte anticipazioni si mantenga entro limiti di legittimità costituzionale, lo stesso dovrebbe essere giustificato dalla concomitante progressiva formazione della base imponibile, cosa che non si ravvisa nel caso esaminato, ove la trasmissione dei beni al trustee non spiega in via immediata effetti economicamente rilevanti nella situazione patrimoniale del beneficiario, ma si pone soltanto come passaggio strumentale a determinare tale risultato. Parte della dottrina ha mostrato di avallare l’anticipazione del tributo prospettata dall’Agenzia delle entrate, offrendo però argomenti differenti. Alcuni Autori hanno giustificato tale anticipazione rinvenendo il fatto imponibile dell’imposta sulle successioni e donazioni non nella mera apposizione del vincolo di destinazione ai beni, ma nella devoluzione prospettica di essi a soggetti che, proprio in virtù della destinazione ad un tale scopo impressa al compendio, ne divengono destinatari 136. L’atto di dotazione viene quindi considerato imponibile in quanto attuativo della concreta destinazione dei beni al fine delineato dal disponente 137, 135 Di questa idea FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 612 che per quanto riguarda le fattispecie «con funzione solo “strumentale” alla realizzazione di risultati ulteriori» sottolinea come il trasferimento “iniziale”, essendo semplicemente «strumentale a successive attribuzioni liberali», «non giustifica, di per sé, l’applicazione dell’imposta, in quanto l’indice di capacità contributiva costituito dall’incremento dei beneficiari si realizzerà solo successivamente». 136 GAFFURI, La nuova manifestazione di pensiero dell’Agenzia delle Entrate sulla tassazione indiretta dei trusts, in FRANSONI-DE RENZIS SONNINO (a cura di), Teoria e pratica della fiscalità dei trust, 2008, Milano, pp. 22-23. Secondo lo stesso Autore (ma: L’imposta sulle successioni e donazioni, 2008, Milano, p. 482), l’anticipazione del tributo concorrerebbe alla funzione di «rendere concretamente efficace e tempestivo il prelievo, che potrebbe allontanarsi insopportabilmente dall’evento storico, matrice prima della fattispecie imponibile e della connessa manifestazione di capacità contributiva». 137 Argomenta GAFFURI, Note riguardanti la novellata imposta sulle successioni e donazioni, cit., p. 460, che tali negozi «attuano la destinazione, giuridicamente vincolante del bene alla soddisfazione del fine, tipicamente altruistico, per il quale l’entità è stata costituita». Negli stessi termini si pone AIELLO, L’atto costitutivo di trust e l’imposta sulle donazioni, in Boll. trib., 2009, p. 1482 ss.

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dovendosi tuttavia verificare che la individuazione dei beneficiari sia effettiva 138 e definitiva. L’erogazione finale, quindi, nel caso in cui i beneficiari siano individuati, diverrebbe soltanto il completamento del programma liberale, che invece acquisterebbe rilevo nella sfera impositiva già «con l’aumento del potere economico del beneficiario» 139.

6.2. Inadeguatezza dell’anticipazione del prelievo rispetto ad un effettivo arricchimento Se si segue la prospettiva che si è proposta nella presente indagine, ogni impostazione teorica che proponga l’anticipazione della corresponsione del tributo rispetto all’effettivo trasferimento di ricchezza tende a risultare insoddisfacente. Le teorie che fanno coincidere l’applicazione del tributo con la dotazione del trust attribuiscono rilevo pregnante, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, all’atto di affidamento dei beni al trustee, e dunque allo spoglio di tali beni da parte del disponente. Si osserva invece che nel caso in cui il trust (liberale) preveda dei beneficiari, nel momento in cui viene costituito il trust fund mediante impressione del vincolo di destinazione ai beni e loro segregazione la fattispecie impositiva non può dirsi ancora completa. Se, infatti, ciò che giustifica l’applicazione del tributo è l’arricchimento che il beneficiario consegue per effetto del complessivo svolgimento del trust, così come delineato dal disponente, non sembra che possa avere legittimamente rilievo il semplice compimento di “atti preparatori”, pur univoci, ma soltanto strumentali a conseguire quell’effetto, imponibile. Neppure sostenibile – come pare di avere dimostrato – sembra la ricostruzione per cui l’atto con cui il settlor dota di beni il trust senza nulla di tangibile ricevere in cambio, sarebbe per ciò solo (e quindi per l’assenza di corrispettività) gratuito. Inoltre, una anticipazione come quella proposta dall’Amministrazione finanziaria, con tendenziale irrilevanza della successiva devoluzione dei beni, svilirebbe la finalità, propria dell’imposta sulle successioni e donazioni, di colpire la capacità contributiva effettivamente manifestata, giacché si ignorerebbero le vicen138

ZIZZO, La ricchezza erogata dai trust, tra reddito e capitale, in Rass. trib., 2008, p. 1280, osserva come «se l’indice di riparto delle spese pubbliche colpito dall’imposta considerata è l’incremento di ricchezza conseguito dal beneficiario, [...] non si possa prescindere dalla individuazione dello stesso beneficiario e dalla definizione dell’oggetto della sua posizione nell’ambito delle risorse complessivamente soggette (a vario titolo) al vincolo». 139 ZIZZO, La ricchezza erogata dai trust, cit., p. 1280. L’aumento del potere economico del beneficiario conseguirebbe, secondo l’Autore, al valore di scambio che la situazione giuridica acquista in conseguenza della individuazione del beneficiario e della definizione dell’oggetto della posizione.

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de che, medio tempore, dovessero interessare il trust fund, incrementandolo o diminuendolo 140. Allo stesso modo sarebbe penalizzata la “personalizzazione” che al tributo si è inteso dare, quantomeno con la previsione di differenti aliquote e franchigie. Queste ultime, infatti, nel caso di trust con beneficiari non individuati, ma soltanto “individuabili” entro una delle categorie di cui alle lettere a), a-bis) e b) dell’art. 2, comma 48 del D.L. n. 262/2006, secondo la posizione dell’Agenzia delle entrate non potrebbero trovare applicazione, o potrebbero farlo unicamente con riferimento a quello, tra i possibili beneficiari, per il quale sia previsto il trattamento fiscalmente più oneroso 141. Ugualmente inappagante, sotto l’aspetto teorico, risulta la soluzione di considerare la dotazione di trust al pari di una donazione sottoposta ad oneri secondo l’art. 58, comma 1, D.Lgs. n. 346/1990 142, giacché si finirebbe con il qualificare il trustee stesso donatario dei beni, in contrasto con quanto si è osservato. La via percorribile sembra quindi essere quella di applicare analogicamente al trust liberale il trattamento fiscale previsto per la donazione sottoposta a condizione sospensiva. Come molte sentenze di merito hanno osservato 143, quella dei beneficiari è una posizione di semplice “aspettativa giuridica”, nel senso che essi sono prospetticamente destinatari dei beni del trust, ma non possono ottenerne benefici finché non si sia compiuto l’intero progetto delineato 144. Dunque, ben potrebbe applicarsi l’art. 58, comma 2 del D.Lgs. n. 346/1990 145, con rinvio alla 140 STEVANATO, Vincoli di destinazione e atti gratuiti, cit., spiega che si verrebbe a creare un «vuoto nell’imposizione di effettivi incrementi patrimoniali che il beneficiario si trovasse a conseguire al momento della devoluzione a suo favore dei frutti accumulati dal trust, corrispondenti a redditi già tassati presso il trust medesimo». 141 Circ. n. 48/E del 2007, par. 5.2. Evidenti le ragioni di cautela erariale sottese a tale interpretazione. 142 Presentata, tra gli altri, da CANTILLO, Il regime fiscale del trust dopo la finanziaria del 2007, in Rass. trib., n. 4/2007, p. 1047 ss. Tale soluzione prevede l’applicazione dell’imposta sulle donazioni all’atto con cui il disponente trasmette i propri beni al trustee, con scomputo dalla base imponibile dell’onere di ritrasferimento inerente gli stessi beni. Tale stesso valore verrebbe ad essere considerato come una donazione in favore del beneficiario. Se l’ipotesi appena presentata ha il pregio di consentire la calibrazione della tassazione direttamente in capo ai beneficiari, ossia coloro che effettivamente manifestano la capacità contributiva considerata dal tributo, tuttavia parte dalla considerazione dell’atto di affidamento come liberalità attuata in favore del trustee. 143 Tra le prime, si menziona la sentenza 12 febbraio 2009, n. 30 della CTP di Firenze, la cui fortunata espressione è stata poi ripresa in numerose decisioni successive, tra cui: CTR VeneziaMestre, sent. 27 novembre 2013, n. 90, cit.; CTP Napoli, sent. 2 ottobre 2013, n. 571/2013, cit. 144 Tra le più recenti, si segnalano in tal senso la sentenza della CTP di Perugia, sez. 1, 27 febbraio 2011, n. 35 nonché quella della CTP di Treviso, sez. 1, 25 febbraio 2011, n. 14. 145 Si noti che il quinto comma dell’art. 58 del D.Lgs. n. 346/1990 prevede l’applicabilità delle disposizioni del capo in cui esso è contenuto, in quanto compatibili, «anche per gli atti di liberalità tra vivi diversi dalla donazione», entro i quali potrebbe ricondursi una donazione indiretta, eseguita per il tramite di un trust liberale.

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disciplina di cui all’art. 27 del D.P.R. n. 131/1986, inerente le disposizioni sottoposte a condizione sospensiva 146, con la conseguenza che sarebbe possibile applicare il tributo in misura proporzionale soltanto al trasferimento di ricchezza che risultasse, in definitiva, compiuto tramite il definitivo svolgimento del trust, con computo delle aliquote e franchigie secondo la effettiva devoluzione ed i reali caratteri di parentela (se sussistenti) tra disponente e beneficiari 147. Peraltro, le recenti indicazioni dell’Agenzia delle entrate 148 mostrano che la previsione di cui all’art. 25 del D.P.R. n. 131/1986 è considerata espressiva di «un principio generale di alternatività tra l’imposta di registro e l’imposta sulle successioni e donazioni». Si potrebbe quindi ritenere che, se a giustificare l’imposizione è la produzione di una attribuzione patrimoniale gratuita (in favore dei beneficiari), senza poter considerare autonomamente i passaggi in cui essa si scompone, tutta la vicenda del trust sarebbe unitariamente assoggettata all’imposta sulle successioni e donazioni, ancorché sotto condizione sospensiva fino al verificarsi dei presupposti per la devoluzione. Pertanto, non sarebbe neppure possibile applicare un’autonoma imposta fissa (di registro) 149 all’atto di affidamento dei beni 150, che ai fini fiscali andrebbe invece ricompreso nella complessiva vicenda. Nel caso in cui, poi, il trust liberale sia “di scopo” – del tipo “charitable” – non sarebbe possibile individuare suoi specifici beneficiari. Come avviene, ad esempio, per le fondazioni, benché esistano sicuramente dei soggetti beneficiati dagli

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Ai sensi del richiamato combinato disposto, gli atti sottoposti a condizione sospensiva vengono intanto registrati con il pagamento dell’imposta fissa. Dopodiché, «quando la condizione si verifica, o l’atto produce i suoi effetti, si riscuote la differenza tra l’imposta dovuta secondo le norme vigenti al momento della formazione dell’atto e quella pagata in sede di registrazione». 147 Le vicende del trust fund verrebbero in ogni modo adeguatamente “tracciate”, facendo leva anche sulle sanzioni previste per la mancata denuncia dell’avveramento della condizione previste dall’art. 69 del D.P.R. n. 131/1986, analoghe a quella per la omissione della richiesta di registrazione. 148 Circolare n. 44/E del 7 ottobre 2011. 149 È noto che l’imposta sulle successioni e donazioni non prevede una disposizione che obblighi alla sua applicazione in misura non inferiore ad un importo minimo, come avviene invece, ad esempio, per le imposte ipo-catastali, secondo l’art. 18 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347. I casi in cui l’imposta sulle successioni e donazioni viene applicata in misura fissa non trovano causa nella esiguità della base imponibile, ma nella tipologia dei beni ceduti (beni culturali vincolati, titoli del debito pubblico), il che mostra chiaramente la funzione di agevolazione (insuscettibile di applicazione analogica) delle previsioni di cui all’art. 59 TUS. 150 Discorso a parte andrebbe fatto per l’atto istitutivo del trust, cui non si accompagnasse la contestuale dotazione di beni. Tale atto, in quanto formato autonomamente dalla fattispecie che dà luogo al trasferimento – in ordine al quale, invece, l’affidamento di beni al trustee si pone come passaggio strumentale obbligato – potrebbe infatti essere considerato autonomamente quale atto privo di contenuto patrimoniale.

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atti con cui si dispone del patrimonio di cui esse sono dotate 151, lo scopo perseguito resta preminente e qualifica quanto la fondazione compie nel corso della propria esistenza come un’attività complessa volta a realizzare un medesimo fine, invece che come singole attribuzioni, nei confronti di una pluralità indefinibile a priori di soggetti. Per tali motivi, pur avendo presente la diversità delle fattispecie concrete di cui trattasi, sembrerebbe di individuare una analogia tra la dotazione di un trust caritatevole e quella di una fondazione, ponendo in risalto la “destinazione” del patrimonio piuttosto che il suo “trasferimento” 152, che nella prospettiva indicata risulterebbe di fatto assente.

6.3. Necessità di focalizzazione sul trasferimento finale, complessivamente determinato Osservando ora il caso in cui mediante il trust siano perseguiti assetti onerosi, si nota che figure come il trust di scopo 153 o di garanzia sono quelle che mostrano la maggiore funzionalizzazione verso il fine dei beni segregati, che in un certo senso si autonomizzano. Senza che ciò consenta di giungere fino alla soggettivazione del fondo in trust, ai fini della capacità contributiva considerata – stavolta – dall’imposta di registro, specifica rilevanza sembrerebbe assunta dallo strumento predisposto e dai suoi effetti immediati su ciò che ne è oggetto anziché (come invece per l’imposta sulle successioni e donazioni) dalle sue conseguenze ultime, quindi la produzione del trasferimento di ricchezza 154. È chiaro che la istituzione del trust, che non venga contestualmente dotato di un proprio fondo, è atto che non ha ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale e come tale verrà dunque tassato mediante applicazione dell’imposta fissa

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Si parla, per indicare il modello tipico di fondazione preso a riferimento dal legislatore, di «fondazione erogatrice», individuata in quella «che destina le rendite per il perseguimento dello scopo» (GAZZONI, Manuale di Diritto privato, Napoli, 2009, p. 166). 152 Cfr. FEDELE, Visione di insieme della problematica interna, in AA.VV., I trusts in Italia oggi, Milano, 1996, p. 279. Con quanto appena detto non si intende certo affermare la soggettività del trust ai fini delle imposte indirette, quanto tenere nella dovuta considerazione la funzionalizzazione dei beni al perseguimento di uno scopo che non è più direttamente ricercato dal settlor, né diviene proprio del trustee. Il trust di scopo è con ogni probabilità quello che mostra la maggiore funzionalizzazione del patrimonio, destinato secondo quanto dedotto nell’atto istitutivo del trust. 153 Ravvisabile, ad esempio, nel caso in cui il trust venisse istituito per la mera gestione o conservazione di taluni beni secondo le indicazioni del settlor. 154 UCKMAR-DOMINICI, (voce) Registro (imposta di), in Dig. disc. priv., sez. comm., XII, Torino, 1996, p. 258, indicano l’oggetto dell’imposta di registro in «un effetto giuridico (costitutivo, traslativo, dichiarativo), concretamente individuato in relazione alla sua potenziale incidenza sul patrimonio dei soggetti passivi».

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di registro, secondo l’art. 11 della Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986 155. La giurisprudenza di merito, peraltro, appare univoca nell’indicare che l’atto di dotazione del trust sarebbe economicamente neutro 156 e dunque inidoneo, anche nel perseguimento di assetti propriamente onerosi, a giustificare l’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale. Sembra però che le decisioni citate siano giunte a tali conclusioni assecondando le istanze di considerazione unitaria degli effetti del negozio avanzate ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. In tale ultimo ambito, appare evidente che l’atto di affidamento è meramente strumentale e privo di una effettiva autonoma rilevanza, mentre l’attenzione va rivolta al trasferimento che viene posto in essere gratuitamente, mediante il trust. La collocazione del trust entro un assetto oneroso non potrebbe comunque giustificare, anche ai fini dell’imposta di registro, la considerazione della relativa vicenda come somma di più atti distinti anziché – come si è proposto per le imposte sulle successioni e donazioni e come sembra essere per le ipo-catastali 157 – come vicenda unitaria 158. L’applicazione del tributo di registro è riferita ad atti suddivisi in categorie omogenee individuate, nella Tariffa, secondo la tipologia di effetti che sono idonei a produrre. L’imposta proporzionale trova applicazione nei confronti degli atti i cui effetti assumono rilevanza effettivamente traslativa 159. È però evidente che l’oggetto imponibile considerato dall’imposta di registro, pur applicata su trasferimenti di ricchezza, si pone in termini differenti rispetto a ciò che è considerato rilevante nel tributo sulle donazioni. 155

Di questo avviso è, pacificamente, anche l’Amministrazione finanziaria. Afferma la CTR Lombardia, sez. LXIII, sent. 22 maggio 2007, n. 130, sostenendo che nessuna imposta proporzionale di registro sarebbe applicabile, che «nessuna operazione avente carattere patrimoniale, può dirsi essere stata effettuata con l’atto in questione». Allo stesso modo, la CTP di Brescia, sez. I, nella sentenza n. 205 dell’11 gennaio 2006, ha sostenuto che ciò che avrebbe dovuto essere oggetto di tassazione, in un trust del quale erano individuati come beneficiari la disponente stessa o altri soggetti in subordine, sarebbe stato il risultato della gestione del trustee riscontrato «con l’erogazione in retrocessione del capitale o del capitale e del plusvalore o con la liquidazione intermedia di quote economiche» nei casi previsti. 157 Su cui, infra, par. 7. 158 La Cassazione interpreta infatti l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 nel senso che «una pluralità di negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto giuridico finale, vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva» (ex multis, Cass., sez. V., sent. 23 febbraio 2010, n. 4269). 159 FEDELE, Visione di insieme della problematica interna, cit., p. 280, che già con grande anticipo rispetto alle riflessioni suscitate, in seguito, dalle citate circolari dell’Agenzia delle entrate, concludeva affermando che, nel settore dei tributi sui trasferimenti di ricchezza, le vicende inerenti i trust avrebbero dovuto rilevare esclusivamente per la produzione di effetti traslativi. 156

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Ai fini dell’imposta di registro deve infatti tenersi conto degli effetti giuridici propri dell’atto esaminato in relazione ai beni o diritti che ne formano oggetto, effetti che rilevano principalmente per determinare l’assoggettamento ad imposizione fissa o proporzionale. Tuttavia, in simile prospettiva, anche l’atto con cui viene data concreta attuazione al progetto del disponente, mediante il quale ai beni si imprime la destinazione da cui non potranno essere distratti, sembra assumere autonoma rilevanza. Andrebbe quindi opportunamente valorizzata anche l’utilità rappresentata dalla genesi del trust 160, nella speranza che non si incorra in un trattamento fiscale troppo oneroso, che finirebbe per svilire l’impiego pratico dell’istituto. Fino a che non si addivenga al trasferimento dei beni in favore di soggetti terzi rispetto al rapporto settlor/trustee, sembra che la capacità contributiva cui riferirsi ai fini dell’imposta di registro appartenga al disponente. I beni vincolati nel trust provengono infatti da esso, e sono quindi un indice di capacità economica a lui riferibile, emergente dall’atto in questione. Ciò pare confermato dal fatto che l’atto istitutivo di trust è considerato un atto unilaterale, soggetto a rifiuto, con la conseguenza che lo stesso dovrebbe potersi dire rispetto all’atto di affidamento di beni 161. Conseguentemente, l’atto di dotazione potrebbe essere incluso nella categoria residuale degli atti aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale di cui all’art. 9 della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, proprio per gli effetti di costituzione del vincolo di destinazione che suo tramite si producono sui beni. Non si è infatti presenza di un atto meramente dichiarativo, ossia produttivo di effetti dichiarativi 162, individuabili in quelle trasformazioni capaci di incidere su una situazione giuridica senza mutarne il contenuto, rafforzandola (effetto ricognitivo), specificandola (effetto di specificazione o di determinazione del contenuto della situazione giuridica) o affievolendola, con effetto riduttivo dell’originaria efficienza della situazione giuridica 163. Neppure, tuttavia, si è ancora in presenza di un vero effetto traslativo. 160

GIOVANNINI, Trust e imposte sui trasferimenti, in Rass. trib., 2000, p. 1111 evidenzia la rilevanza della produzione della separazione patrimoniale ed indica, a tal fine, come un effetto che rende manifesta la forza economica sottostante all’atto la costituzione di un patrimonio che, fuoriuscendo dalla sfera dispositiva del settlor e venendo imputato ad altro soggetto, diviene insensibile ai vincoli di responsabilità di cui all’art. 2740 c.c. 161 Non si necessiterebbe, in questo caso, di accettazione espressa. In primo luogo, si è al cospetto di negozio che non può certamente ricondursi all’ambito della donazione. Inoltre, dall’assunzione concreta del proprio incarico, al trustee non potrebbero derivare pregiudizi patrimoniali diretti, stante la segregazione dei beni del trust fund rispetto ai propri. 162 UCKMAR-DOMINICI, (voce) Registro (imposta di), cit., p. 258 163 FALZEA, (voce) Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, 1965, p. 494 ss.

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Sarebbe invece la situazione giuridica stessa che in relazione ai beni viene costituita, la loro segregazione per restare destinati alla realizzazione del programma, insensibili alle vicende esterne, a manifestare una forza economica che potrebbe giustificare l’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale. Resta però da chiedersi se, per la sua strumentalità alla produzione di effetti ulteriori, l’atto di dotazione non potrebbe ritenersi in qualche modo assorbito nelle eventuali vicende traslative successive, che certamente assumerebbero il ruolo principale nella vicenda complessiva. Se fosse possibile considerare il collegamento tra i vari negozi in cui il trust si sostanzia, il principio di cui all’art. 21 del D.P.R. n. 131/1986 consentirebbe di limitare l’imposizione proporzionale alla sola disposizione che darebbe luogo all’imposizione più onerosa, dunque il trasferimento finale dei beni, qualora previsto 164. Deve tuttavia osservarsi che la giurisprudenza nega che il collegamento negoziale possa integrare quel nesso di reciproca derivazione tra le disposizioni richiesto dall’art. 21 citato 165. Soltanto l’adeguata considerazione del principio di cui all’art. 20 del testo unico sull’imposta di registro potrebbe quindi portare a considerare la capacità contributiva complessivamente manifestata nell’ambito della vicenda del trust secondo l’apprezzamento, quale fenomeno unitario, dei passaggi in cui essa si articola 166. 164

Effettivamente, sembrerebbe questa l’ipotesi più vicina alla realtà, giacché la dotazione del trust e la devoluzione dei beni sono entrambi contemplati nell’atto istitutivo del trust. Lo stesso trattamento sembrerebbe tuttavia riconducibile all’apposizione di una duplice condizione, consequenziale. Il negozio istitutivo del trust, infatti, non realizzando ancora effetti traslativi, non potrebbe giustificare l’applicazione dell’imposta proporzionale. Gli stessi effetti non si verificherebbero neppure con la dotazione del trust, a meno di intendere il trasferimento come mero subentro nella titolarità dei beni, visione che pare smentita dagli orientamenti emersi nella giurisprudenza di merito che si è occupata del trust ai fini delle imposte ipotecarie e catastali. Nelle decisioni cui si fa riferimento si è infatti escluso che il trust realizzi un effetto traslativo prima della devoluzione finale dei beni. 165 In particolare, le sentenze Cass., sez. V, 4 maggio 2009, n. 10180 e Cass., sez. V, 31 agosto 2007, n. 18374 focalizzano l’attenzione sulla sussistenza di una causa autonoma, che si ravvisa nei singoli negozi collegati, pur informati, nel loro complesso a quella che può essere identificata come “causa complessiva” dell’operazione, facendone discendere che ognuno di essi è autonoma espressione di capacità contributiva, da assoggettare dunque individualmente al prelievo secondo il disposto del primo comma dell’art. 21 del D.P.R. n. 131/1986. Non così nel caso del negozio complesso, considerato dalle stesse decisioni della Suprema Corte come derivante da più atti, riconducibili ad una medesima causa, così intrinsecamente connessi tra loro da risultare volti alla realizzazione di una vicenda giuridica unitaria ed inscindibile. 166 La necessità di considerare, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario – anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva – il caso di «una pluralità di negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre un effetto giuridico finale» pare costituire principio ormai assorbito dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass., sez. V, sent. 23 febbraio 2010, n. 4269, nonché Cass., sez. V, sent. 25 febbraio 2002, n. 2713 e

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Sembrano quindi due le alternative percorribili: – o si valorizza l’effetto giuridico che per il tramite del trust è perseguito, e quindi lo si tassa per ciò che esso è idoneo infine a produrre (segnatamente, un effetto traslativo o no, a prescindere da ciò che avviene in precedenza) e si applica l’imposta fissa all’atto di dotazione e quella proporzionale soltanto alla devoluzione; – oppure si pone l’attenzione (anche) sullo strumento stesso che per il tramite dell’atto sottoposto a registrazione viene costituito per realizzare il fine del disponente, assumendo che l’imposta di registro debba colpire l’atto per la sua intrinseca natura ed i suoi effetti giuridici, comprensivi, dunque, della creazione del trust e della temporanea segregazione dei beni. Entrambe le vie sembrerebbero in astratto ugualmente percorribili giacché valorizzano, sia pure sotto profili differenti, la manifestazione di capacità contributiva, correlata all’atto ed ai suoi effetti giuridici, che il tributo intende colpire 167. Secondo la prima ipotesi, dovrebbe quindi impiegarsi l’articolo della Tariffa applicabile caso per caso in base alla natura dei beni che risulteranno trasferiti in esito al trust. Anche nel trust volto a realizzare attribuzioni onerose, ai fini dell’imposta di registro potrebbe farsi applicazione della disciplina prevista per gli atti sottoposti a condizione sospensiva, dunque con riscossione dell’imposta in misura fissa al momento della trasmissione dei beni al trustee ed in misura proporzionale (se applicabile secondo la natura dei beni) al momento del trasferimento definitivo dei beni ai beneficiari del “trust oneroso” 168. Ugualmente percorribile sembrerebbe la via di valorizzare secondo l’art. 20 del TUR come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità 169 il collegamento strutturale e funzionale, teso alla produzione di un unico effetto giuridico finale, sussistente tra i vari passaggi di cui il trust si compone, facendo sì che l’atto sia colpito per la sua reale sostanza. Nella seconda delle ipotesi, invece, l’imposta di registro troverebbe applicazione in ognuna delle fattispecie di cui la vicenda del trust si compone, senza considerazione del legame con gli altri passaggi. Dunque, dopo l’applicazione delCass., sez. V, sent. 23 luglio 2007, n. 16280). Nel caso del trust, sussistono pochi dubbi circa la sussistenza di un collegamento funzionale tra i negozi in cui esso si sviluppa. Per ciò che attiene il dato formale, si osserva invece che la vicenda del trust è unitariamente rappresentata, nella sua essenza, nell’atto istitutivo. 167 GIOVANNINI, Trust e imposte sui trasferimenti, cit., p. 1111, osserva che la radice della tassazione ai fini dell’imposta di registro non andrebbe ricercata «nell’onerosità, ma nel fatto che l’effetto traslativo consente di apprezzare l’esistenza di una ricchezza che in quanto tale denuncia attitudine alla contribuzione». 168 Il trasferimento andrebbe quindi inteso come realizzazione della condizione fissata dal disponente per l’operatività – fino ad allora sospesa – della disposizione inerente la devoluzione. 169 Cass., sent. n. 4269/2010, cit.

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l’imposta fissa all’atto istitutivo del trust, il negozio di dotazione sconterebbe una ulteriore imposta, determinata ai sensi dell’art. 9 della Tariffa, non potendosi considerare l’effetto prodotto sui beni in trust come propriamente traslativo (che dovrebbe verificarsi, come non pare tuttavia sostenibile, in favore del trustee), né risultando possibile negare l’autonoma rilevanza della dotazione, dato l’effetto giuridico-economico prodotto sui beni del disponente. L’atto devolutivo successivo, dotato di effetto traslativo, sconterebbe poi l’imposta nella misura calcolata secondo la natura dei beni oggetto del trust 170. La trasmissione di un patrimonio al trustee entro un trust di scopo riconducibile ad un assetto non gratuito e non volto a produrre un successivo trasferimento, inoltre, non realizzando una vicenda traslativa 171 che possa essere individuata come centro di preminente interesse tributario della fattispecie, potrebbe sopportare l’imposizione in misura proporzionale soltanto ex art. 9 della Tariffa, parte prima, per l’effetto giuridico-economico prodotto sugli stessi beni, in ragione della loro segregazione. Tentando di riportare quanto sopra entro un’ottica sistematica, e sul presupposto che in questo senso debba dirigersi l’interpretazione del principio generale di cui all’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 172, si ritiene dunque che anche ai fini dell’imposta di registro sia l’effetto patrimoniale traslativo che caratterizza la vicenda nel suo complesso, e che viene realizzato mediante il trust, a dover assumere la maggiore considerazione. Conseguentemente, sembra opportuno valorizzare il trasferimento finale dei beni a discapito di ciò che li interessa intermediamente. Soltanto nel caso in cui l’effetto traslativo sia geneticamente escluso si potrà considerare una imposizione che si interessi in via immediata dell’atto di affidamento di beni al trustee, in quanto attuativo della destinazione dei beni alla realizzazione dello scopo del trust, e dunque in quanto idoneo a realizzare la loro segregazione 173. 170 Alternative a questo trattamento potrebbero essere individuate, nel caso di trust di garanzia, nell’applicazione dell’art. 6 della Tariffa, giacché in un simile assetto la dotazione del trust varrebbe proprio a costituire la garanzia che si intende concedere. In tal caso, l’autonomia dello strumento in considerazione dei suoi effetti non sarebbe tale da giustificare che il suo trattamento fiscale si discosti da quello di una costituzione di garanzia più convenzionale. 171 Tale non potendosi intendere la semplice costituzione del vincolo di destinazione alla realizzazione dello scopo del trust. 172 Disposizione che, secondo UCKMAR- DOMINICI, (voce) Registro (imposta di), cit., assieme all’art. 1 del medesimo testo unico concorrerebbe ad individuare l’oggetto del tributo di registro negli «effetti giuridici che l’atto è potenzialmente idoneo a produrre». 173 Lo stesso dovrebbe dirsi nel caso in cui non si abbia la certezza che il trust debba effettivamente adempiere la funzione per la quale ha trovato attuazione. In un caso piuttosto recente (Comm. Trib. Prov. di Ravenna, sez. I, sent. 30 novembre 2012, n. 143), una Corte di merito ha infatti ritenuto che la istituzione e dotazione di un trust volto a costituire una garanzia per quanto

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7. Cenni in tema di imposte ipotecaria e catastale 7.1. Tentativo di ricostruzione del presupposto delle imposte ipotecaria e catastale Anche per quanto riguarda le imposte ipo-catastali, l’Agenzia delle entrate ha espresso una posizione piuttosto netta, che sembra assumere quale realizzazione autonoma del presupposto di tali tributi l’atto con cui il disponente trasmette i propri beni immobili al trustee 174. È evidente, nella interpretazione adottata dall’Amministrazione finanziaria, che anche l’atto di dotazione del trust è considerato capace di produrre un effetto traslativo, dunque un «trasferimento di proprietà di beni immobili» 175, soggetto ad imposta in misura proporzionale. Se è valida la nozione di “trasferimento di beni e diritti” che si è cercato di delineare in merito all’imposta sulle successioni e donazioni, e per la quale tale fattispecie rileva soltanto in quanto mezzo idoneo a determinare attribuzioni di ricchezza, occorre vedere se lo stesso può valere ai fini delle imposte ipotecaria e catastale. Potremmo semplicemente richiamarci a quanto già esposto circa l’inidoneità dell’atto di affidamento a dare luogo ad un trasferimento inteso come definitivo passaggio di ricchezza da un soggetto ad un altro, e concludere che anche ai fini delle imposte ipotecarie e catastali il negozio di dotazione non può essere considerato idoneo a determinare immediati effetti traslativi capaci di integrare il presupposto del tributo. Tali considerazioni, tuttavia, verrebbero scavalcate in quanto l’Agenzia delle entrate, confermando i propri orientamenti pregressi, ha mostrato di ritenere il presupposto delle imposte ipotecarie e catastali integrato per la sola richiesta ed esecuzione delle formalità di trascrizione e voltura catastale 176. Questa ricostruzione trae origine da una interpretazione dell’oggetto del tributo, individuato negli artt. 1 e 10 del D.Lgs. n. 347/1990, tale per cui le formalità ivi considerate assurgerebbero a presupposto delle imposte in discorso, le quai disponenti fossero stati condannati a rifondere ad un Comune all’esito di un contenzioso giudiziale dovesse essere assoggettata alla sola imposta di registro in misura fissa, data la “precarietà” del vincolo costituito sui beni, destinato, ad esempio, a decadere nel caso in cui il contenzioso fosse venuto per qualsiasi motivo a cessare. 174 Circolare n. 48/E del 2007, cit., par. 5.3. L’Amministrazione finanziaria ritiene infatti che «sia l’attribuzione con effetti traslativi di beni immobili o diritti reali immobiliari al momento della costituzione del vincolo, sia il successivo trasferimento dei beni medesimi allo scioglimento del vincolo, nonché i trasferimenti eventualmente effettuati durante il vincolo, sono soggetti alle imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale». 175 Così l’art. 1 della Tariffa allegata al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347. 176 In questo senso, con riferimento al trust, la circolare n. 48/E del 2007, par. 5.3.

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li, dunque, costituirebbero in certo qual modo il corrispettivo dell’attività prestata dagli Uffici di Conservatoria 177. La dottrina ammette invece la qualificazione dei tributi ipotecari e catastali come tasse nel solo caso in cui esse, per la carenza di effetti traslativi nella fattispecie, trovino applicazione in misura fissa, unico caso in cui il presupposto andrebbe rinvenuto nella esecuzione stessa della formalità 178. Diversamente, la contiguità di tali imposte con quelle “principali”, di registro e sulle successioni, senza privare i tributi ipo-catastali della loro autonomia riducendoli a sovra-imposte 179, determinerebbe la necessità di assumere per essi lo stesso presupposto 180, costituito dal complesso degli effetti dell’atto o provvedimento soggetto a trascrizione o della vicenda successoria 181, in quanto manifestino capacità contributiva. Viene infatti posto in evidenza che, nel caso di trascrizione di atti idonei a produrre effetti traslativi nel senso sopra precisato, il tributo è dovuto a prescindere dall’esecuzione della formalità, ossia anche se questa non sia richiesta o non sia effettuata, tanto che non è in alcun modo prevista la restituzione delle somme già versate, qualora nei fatti la trascrizione non abbia effettivamente luogo 182. In tali casi, dunque, il presupposto delle imposte ipotecaria e catastale continuerebbe a definirsi con riferimento a quelle stesse vicende in cui si ravvisa quello delle imposte sulle successioni e donazioni, di modo che anche i soggetti passivi, delineati con formula invero poco eloquente nell’art. 11 del D.Lgs. n. 347/1990, resterebbero gli stessi individuati ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, non potendo assumere valore ai fini dell’assunzione del carico tributario la mera qualità di “richiedente” la formalità 183. 177

La stessa interpretazione è fatta propria dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Si citano, tra le molte, le sentenze: sez. V, 9 luglio 2009, n. 10751; sez. V, 20 dicembre 2007, n. 26854; sez. I, 23febbraio 1991, n. 1963. 178 FEDELE, (voce) Ipoteca – Diritto tributario, in Enc. dir., XXII, 1972, p. 854; RUSSO, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Milano, 2009, p. 396; FALSITTA, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, 2010, p. 827. Contra: CARDARELLI, (voce) Ipotecarie (imposte), in Dig. disc. priv., sez. comm., 1992, p. 559 ss. 179 FEDELE, Ipoteca, cit., p. 856. Lo stesso Autore fonda l’autonomia dei tributi ipo-catastali, rispetto a quelli da cui mutuano parte della disciplina applicativa sul fatto che il presupposto dei primi è interamente definito dalla legge ipotecaria. Ciò comporta che il riferimento ai criteri stabiliti per imposte differenti, ai soli fini della determinazione della base imponibile, non può in alcun modo incidere sulla identificazione delle imposte ipotecaria e catastale. Queste ultime individuano, infatti, i beni e i diritti il cui valore deve essere assunto quale imponibile, lasciando alla disciplina delle imposte di registro e sulle successioni e donazioni soltanto i criteri e le modalità per la loro valutazione. 180 FEDELE, (voce) Ipoteca, cit., p. 855. 181 Cfr. CARDARELLI, (voce) Ipotecarie (imposte), cit., p. 562. 182 FEDELE, (voce) Ipoteca, cit., p. 855 183 FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., pp. 622-623. Negli stessi termini,

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Anche in questo ambito, secondo i principi desumibili dall’art. 53 Cost., i criteri assunti per la determinazione dell’imponibile dovrebbero essere «tali da commisurare il tributo alla capacità contributiva manifestata dal presupposto» 184, e quindi, per i casi in cui l’imposta ipotecaria sia dovuta in misura proporzionale, la base imponibile dovrà essere commisurata al diritto o ai diritti reali immobiliari capaci d’ipoteca il cui trasferimento integra il presupposto stesso 185. Anche l’atto di affidamento di beni al trustee andrebbe considerato, per ciò che riguarda gli effetti traslativi, neutro dal punto di vista fiscale 186 e non manifestativo di capacità contributiva difettando, come si è visto, un arricchimento del fiduciario rilevante ai fini dell’imposta sulle donazioni ma anche – viste le considerazioni svolte appena sopra in tema di presupposto delle imposte sulle trascrizioni e volture – dei tributi ipo-catastali.

7.2. Conseguenze sulla determinazione della base imponibile Così ricostruito, per sommi capi, il presupposto delle imposte ipotecaria e catastale, pertanto, la relativa base imponibile non potrebbe che risultare dal “valore netto” delle utilità trasferite, con la necessità, quindi, di tenere in considerazione gli oneri gravanti sul beneficiario del trasferimento. L’assunzione di una nozione assolutamente formale di presupposto delle imposte ipotecarie e catastali porta invece l’amministrazione finanziaria ad escludere la possibilità di computare in diminuzione dal valore venale degli immobili e dei diritti reali trasferiti o costituiti le componenti negative rilevanti per le altre imposte 187, incluso quindi l’onere di ritrasferimento gravante sul trustee. Questa impostazione è stata criticata da quella dottrina che ha posto in eviCANNIZZARO-TASSANI, La tassazione degli atti di destinazione e dei trust nelle imposte indirette, C.N.N., Studio tributario n. 58-2010/T, approvato dalla Commissione studi tributari il 21 gennaio 2011, in www.notariato.it, p. 19. 184 FEDELE, Le imposte ipotecarie, cit., p. 152. 185 FEDELE, Le imposte ipotecarie, cit., p. 155. 186 BRUNELLI, Negozio fiduciario e imposte indirette, C.N.N., Studio n. 86-2003/T, approvato dalla Commissione studi tributari il 26 marzo 2004. Questa interpretazione veniva seguita anche dall’Amministrazione finanziaria periferica in ordine all’intestazione fiduciaria di un immobile a società autorizzata ai sensi della L. 23 novembre 1969, n. 1966, giacché si riteneva che l’intestazione dei beni compiuta in favore di esse affinché possano perseguire le finalità gestorie tipiche del negozio fiduciario «non comporta il trasferimento della proprietà dei beni atteso il complesso delle disposizioni legislative che disciplinano l’attività delle società in argomento» (DRE Lombardia, parere 31 dicembre 2011, n. 118299). 187 A tale proposito, FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., pp. 624-625, parla di un orientamento dell’Amministrazione finanziaria fermo nell’applicare il criterio dell’imposizione del valore “lordo”, contrapposto alla propensione, nell’imposta sulle successioni e donazioni, a determinare il valore “netto” dell’attribuzione ai beneficiari.

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denza che un tale indirizzo forza la lettera della legge 188, nella quale non si rinviene traccia di una tale limitazione, ma soltanto un semplice (e in alcun modo circoscritto) rinvio, per la determinazione della base imponibile, alla disciplina dettata per le imposte di registro e sulle successioni e donazioni (art. 2 del D.Lgs. n. 347/1990). Resterebbe infatti difficile spiegarsi come uno stesso fatto possa assumere in ambito fiscale differente rilevanza economica, anche se ai fini di imposte diverse 189.

7.3. L’interpretazione più recente della giurisprudenza sull’atto di affidamento al trustee Applicare le imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale sia al passaggio di beni dal disponente al trustee (che assume una titolarità strumentale) che alla successiva devoluzione in favore dei beneficiari sembrerebbe per prima cosa iniquo 190, giacché a fronte di un unico effetto realmente traslativo di ricchezza, il tributo verrebbe applicato più volte. Si è posto in evidenza, con argomenti poi fatti propri da numerose Corti di merito, che il subentro del trustee nella titolarità dei beni immobili ha soltanto una funzione strumentale a realizzare il fatto che, effettivamente, dà luogo all’applicazione del tributo 191. Sembrerebbe ingiusto anche che si dovesse applicare l’imposta proporzionale ogni volta che il trustee, per qualsiasi motivo, venisse sostituito da altro soggetto 192. A ben vedere, però, la considerazione di tale situazione e della posizione in cui il nuovo trustee subentrerebbe non fa che rendere più chiaro che gli effetti traslativi mancherebbero, analogamente, anche all’atto della trasmissione iniziale dei beni dal disponente al soggetto fiduciario. 188

CARDARELLI, (voce) Ipotecarie (imposte), cit., p. 568 e LA MEDICA, (voce) Ipotecarie e catastali (imposte), in Enc. giur. Treccani, XVII. 189 CARDARELLI, (voce) Ipotecarie (imposte), cit., p. 568, rileva che, se così fosse, si violerebbero i principi informatori del sistema tributario, dato che, ad esempio, uno stesso fatto verrebbe considerato come manifestazione di diversa capacità contributiva ai fini dell’imposta di registro (o sulle successioni e donazioni) e dell’imposta sulle trascrizioni. 190 Lo sottolineano CANNIZZARO-TASSANI, La tassazione degli atti di destinazione e dei trust nelle imposte indirette, cit., p. 19. 191 Può vedersi Commissione tributaria provinciale di Milano, sent. 19 giugno 2013, n. 293 (in www.trusts.it), ove, in relazione ad un trust di tipo “liquidatorio” si afferma che «nessun arricchimento si è verificato in capo al trustee in quanto lo stesso, quale mero gestore del patrimonio destinato al predetto scopo, è stato incaricato solo di liquidare i beni conferiti e di distribuire il ricavato ai creditori». 192 In tal caso sarebbe pienamente evidente che non avverrebbe nessun trasferimento con movimentazione di ricchezza, giacché si avrebbe solo una formale variazione di intestazione, in relazione a beni su cui permane il vincolo di destinazione impresso dal negozio istitutivo e di dotazione.

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La soluzione che la giurisprudenza di merito più recente propone, suggerendo l’applicazione dell’imposta ipotecaria e catastale in misura fissa all’atto con cui il disponente affida i propri immobili al trustee 193, appare quindi condivisibile. Le sentenze di merito mostrano la sensibilità dei giudici per l’argomento, riconoscendo l’assenza di arricchimento personale e di accrescimenti definitivi del patrimonio del trustee, e quindi il difetto di un trasferimento di ricchezza in favore di costui, giungendo conseguentemente a dichiarare l’atto di dotazione soggetto alle imposte ipotecaria e catastale in misura fissa 194. Le decisioni rinvenute, nel ritenere inapplicabili le imposte proporzionali, individuano nel negozio in questione: la mancanza di «una effettiva ed attuale configurazione “traslativa”» 195; il compimento di un «atto traslativo di un diritto di proprietà» ma implicante «una proprietà del tutto particolare, cioè condizionata e limitata nel tempo in quanto è destinata a concludersi con il raggiungimento dello scopo per cui il trust è stato posto in essere» 196; il fatto che non può ravvisarsi intento di arricchire il trustee «in quanto quest’ultimo costituisce solo il mezzo per la realizzazione del programma concordato» 197. Si rileva inoltre l’assenza di incremento patrimoniale in capo al fiduciario, e che soltanto al momento della devoluzione si verificherà «un effettivo trasferimento della proprietà» 198. In definitiva, i principali dubbi emergono e si concentrano in ordine alla reale presenza di un effetto traslativo, idoneo a determinare l’applicazione dell’imposta in misura proporzionale, all’atto della dotazione del trust 199.

193

E quindi, immaginiamo, anche ad ogni caso di sostituzione del trustee, senza cessazione del

trust. 194

Questo l’argomento fatto proprio, principalmente, dalle sentenze della CTP di Lodi, n. 70/2014, cit. e n. 60/2011, cit., ma anche da CTP Milano, sent. n. 293/2013, cit. 195 CTP di Salerno, sent. n. 465/2010, cit. 196 CTR Venezia-Mestre, sent. nn. 75 e76/2010, cit. 197 Sent. CTP Treviso, n. 95/2009, cit. Sottolineano la natura strumentale alla realizzazione del programma del trust dell’atto di dotazione anche la CTP di Perugia, con sent. n. 234/2010, che parla di «atto strumentale e neutro». Non ultimo, si segnala l’orientamento espresso dalla CTR Puglia, sez. XI, sent. 15 marzo 2012, n. 25, che per il caso di atto traslativo (in specie, trasferimento coattivo) sottoposto a condizione sospensiva ha ritenuto che le imposte ipotecarie e catastali trovino applicazione soltanto nel momento in cui si realizza la condizione. 198 CTR Venezia-Mestre, sent. n. 90/2013, cit. 199 Più di recente, con la sentenza 25 luglio 2013, n. 100 la Commissione tributaria provinciale di Lodi, Sez. I (in banca dati fisconline), ha dichiarato l’atto di istituzione e dotazione di beni immobili di un trust “autodichiarato” soggetto ad imposte ipotecarie e catastali in misura fissa per difetto del «presupposto per l’applicazione delle imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale», proprio come «per le volture eseguite in dipendenza di atti che non comportino trasferimento di beni immobili». Analogamente ha proceduto la CTP di Napoli, nella cui sent. n. 571/2013, cit., si dichiara l’inapplicabilità ad un trust auto dichiarato delle imposte in misura proporzionale, in quanto previste «per i soli casi di trasferimento immobiliare “in favore” di terzi».

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QUALIFICAZIONE DELL’ATTO DI AFFIDAMENTO DI BENI AL TRUSTEE

La natura strumentale di tale negozio, costituente un passaggio in una più ampia fattispecie economicamente e giuridicamente rilevante, che solo in quanto tale è idonea a dar causa ad una vicenda traslativa-attributiva, consente di ritenere che esso non debba scontare le imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale, come un vero e proprio trasferimento di ricchezza, ma le sole imposte fisse, giustificate per il subentro del trustee al disponente nella posizione formale di titolare dei beni, priva però di dominio proprietario 200.

8. Conclusioni All’esito di questa indagine, che non può porsi altro intento se non quello di aprire spunti per un più proficuo esame delle questioni, sembra quindi di poter concludere affermando che l’atto di affidamento di beni al trustee, in sé e per sé considerato, non può valere ad integrare il presupposto delle imposte sui trasferimenti di ricchezza, individuato nella produzione di un arricchimento patrimoniale definitivo, economicamente valutabile. Tale negozio mal si presta ad assumere qualificazioni (quale quella nel senso della onerosità e gratuità) che richiedono l’accertamento della sua idoneità a determinare attribuzioni patrimoniali, e dunque dell’esistenza di un fatto che susciti l’operatività dei tributi in parola. È del resto difficilmente contestabile la natura strumentale, nell’ambito di quella operazione che il disponente intende realizzare mediante il trust, della iniziale trasmissione dei beni al trustee. È anche chiaro che l’unico esito rilevante ai fini delle imposte sui trasferimenti di ricchezza si verifica, nel trust, a conclusione di quella vicenda complessa in cui il passaggio dei beni al trustee si inserisce, ed il cui risultato è quello di produrre – secondo le intenzioni del settlor – quelle attribuzioni patrimoniali che effettivamente rilevano ai fini delle imposte ipotecarie e catastali in quanto produttive di un reale trasferimento di ricchezza, nonché ai fini dell’imposta di registro o di quella sulle successioni e donazioni, a seconda che l’effetto attributivo possa qualificarsi oneroso o gratuito. Stante quanto sopra, pertanto, sembra corretto affermare che la qualificazione dell’atto di affidamento di beni al trustee, in ossequio al principio costituzionale di capacità contributiva, possa essere proficuamente compiuta soltanto in considerazione del contesto entro il quale tale negozio si inserisce, e soprattutto degli esiti cui, mediante la vicenda formata dai vari passaggi collegati secondo il programma dettato dal disponente, effettivamente si pervenga. 200

Molto interessante ed innovativa l’argomentazione della CTP di Treviso nella sentenza n. 14/2011, cit., laddove l’applicazione dell’imposta fissa viene spiegata come «avente significato di mera prenotazione dell’evento finale sospensivo e condizionante».

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Rilevanti ai fini dell’imposizione qui considerata non sono pertanto i singoli atti nei quali il trust sviluppa il suo svolgimento, ma la complessiva fattispecie traslativa di ricchezza suo tramite realizzata. Resta in ogni caso l’auspicio che con intervento legislativo si detti, finalmente, una disciplina fiscale specifica per il trust, cosicché possano dissiparsi i dubbi e le incertezze applicative di cui si è dato conto.

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di Valeria Guido

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La qualificazione giuridica della mancia. – 3. L’irrilevanza reddituale delle donazioni nel sistema fiscale italiano. – 4. Le liberalità nel sistema “chiuso” del TUIR. – 4.1. Le liberalità nella disciplina dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo. – 4.2. (segue) e rispetto alla categoria dei redditi da lavoro dipendente. – 4.2.1. Le norme fiscali sulle mance ai croupiers delle case da gioco. – 4.2.2. La complessa figura del portiere d’albergo. – 4.3. La mancia rispetto agli «... obblighi di fare, non fare, permettere ...» di cui all’art. 67 del TUIR. – 5. Considerazioni conclusive: il problema delle mance, fra dovere alla contribuzione e certezza del diritto.

1. Premessa Nel linguaggio comune, la mancia è l’attribuzione di una somma di denaro che si aggiunge al compenso contrattualmente pattuito per la prestazione di un servizio. Il fenomeno, sebbene espressamente vietato, in Italia, dall’art. 95 del contratto nazionale di lavoro dei dipendenti di pubblici esercizi (alberghi, bar, ristoranti) 1, risulta particolarmente frequente nelle località ad alta vocazione turistica. Invero, la mancia è in alcuni contesti un gesto rituale ed irrinunciabile, un’abitudine signorile e di cortesia del turista moderno, che, di fatto, rappresenta per molti operatori una considerevole fonte di arricchimento, e per il Fisco, una componente significativa e tutt’altro che trascurabile dell’economia nazionale. Si tratta infatti di un “filone d’oro” (come titolava qualche anno fa il Corriere della Sera), spesso oggetto dell’attenzione e della voracità dell’Amministrazione finanziaria, la quale ha più volte cercato, anche grazie al supporto di efficaci cam Contributo modificato solo in alcune note rispetto a quello già pubblicato in Riv. dir. trib., I, 2010, p. 491 ss. 1 Che prevede altresì multe salatissime per chi la sollecita.

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pagne mediatiche 2, di scoraggiare tale prassi, dalle origini assai remote 3 e largamente diffusa sul territorio europeo 4. Il fenomeno, molto frequente in tutte le aree geografiche e presso tutte le fasce di lavoratori impiegati nel settore turistico, assume maggiore rilevanza ed interesse fiscale nell’ambito di contesti o strutture ricettive elitarie, destinate ad una clientela di target medio-alto, nelle quali esso si presenta con caratteristiche dimensionali significative e produce grandi quantitativi di materia potenzialmente imponibile, che, pur non essendo, per legge, espressamente soggetta ad alcuna specifica tassazione, rappresenta tuttavia una fetta di ricchezza facilmente aggredibile e particolarmente succulenta per il Fisco. Il presente lavoro si prefigge proprio l’obbiettivo di analizzare le problematiche fiscali correlate col fenomeno delle mance (indagando su possibili profili di 2

Ci si riferisce, per esempio, all’intervista rilasciata al Corriere della Sera del 27 aprile del 1993, dall’allora sottosegretario alle finanze Stefano De Luca, che dichiarava l’intento del Fisco di «... affondare il suo piccone ...» su forme di ricchezza che, fino a quel momento, non erano mai state assoggettate a tassazione, come, appunto, le mance o i redditi di provenienza illecita. Più recentemente, il fenomeno ha destato l’attenzione di diversi quotidiani locali della regione Sardegna; si fa riferimento, in particolare, ai numerosi articoli pubblicati nel corso dell’estate 2009, dal quotidiano La nuova Sardegna, che ha segnalato al lettore la problematica del trattamento fiscale delle mance corrisposte ai portieri ed ai capi ricevimento degli alberghi di lusso, nell’ambito di una più ampia inchiesta condotta dalla Guardia di finanza di Olbia, che ha gettato scompiglio nell’ovattato mondo degli alberghi della Costa Smeralda. Si veda, per esempio, La nuova Sardegna del 6 agosto 2009, p. 4. 3 La mancia è un gesto di “cortesia” che risale al galateo delle corti medievali dell’Europa centrale. La parola deriva dall’abitudine che avevano le dame francesi di donare una parte della manica del loro vestito (in francese manche) ai loro cavalieri durante i tornei. Nel tardo medioevo, in Italia, la mancia venne ribattezzata “paraguanto”, termine che indicava un accessorio del guanto (che serviva a ricoprirlo quando si porgeva la mano tesa) e che palesa la più probabile origine nobile dell’usanza (solo i nobili, infatti, indossavano i guanti a quel tempo); quasi certamente, si trattava di un modo di ringraziare i vassalli dei servigi resi al signore o al feudatario. L’uso si consolidò verso la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando la mancia divenne l’unica forma di retribuzione per molti servitori che ricevevano solo vitto e alloggio. Con il tempo, il gesto di dare denaro a chi rendeva un servizio si estese ad altri ceti e divenne una consuetudine, tramandandosi fino ai nostri giorni e diventando di fatto, per molte categorie di lavoratori, una fonte importante di integrazione del proprio reddito. Si veda la rivista telematica www.focus.it. 4 La consuetudine di dare la mancia, uniformemente distribuita e fortemente consolidata in tutta Europa (specialmente in Francia, dove la si corrisponde a chiunque presti un servizio, compresi i benzinai ed i parcheggiatori), nel resto del mondo è tuttavia soggetta a regole molto diversificate: negli Stati Uniti è obbligatoria nei ristoranti (nella misura del 15% del prezzo pagato), mentre in altri paesi è considerata un gesto umiliante ed offensivo (in particolar modo, nei paesi a radicata ideologia comunista, come Cuba, Cina, Corea del Nord, è vietata perché considerata, oltreché lesiva della dignità personale, immorale, alla stregua di una tangente o di un tentativo di corruzione, sebbene recentemente l’evoluzione dei costumi ha portato una generale attenuazione di tale rigidità; anche in Australia e Nuova Zelanda la mancia è considerata un insulto). Si veda ancora la rivista telematica www.focus.it.

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illegittimità del relativo assoggettamento a tassazione), con specifico riferimento ai riflessi che tali problematiche producono in capo alla figura professionale del portiere d’albergo.

2. La qualificazione giuridica della mancia Le mance rappresentano una particolare forma di liberalità erogata dal beneficiario di un servizio in favore del soggetto che ha effettuato la prestazione. La causa liberale del negozio, unitamente alla frequenza con cui trova attuazione in alcuni contesti, hanno portato la dottrina maggioritaria a qualificare la fattispecie come “liberalità remuneratoria d’uso” 5 (che, ai sensi del comma 2 dell’art. 770 c.c., non è una donazione e va distinta dalla “donazione remuneratoria” 6, di cui al comma 1 dello stesso articolo). Sebbene la distinzione di cui all’art. 770 c.c. non sia affatto agevole, la dottrina maggioritaria ha evidenziato 7 che, pur essendo ravvisabile in entrambi gli istituti 5

Il comma 2 dell’art. 770 c.c. precisa che «non costituisce donazione la liberalità che si suole fare in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli usi.». Sulla qualificazione della mancia come “liberalità d’uso”, si veda GALGANO, Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, Milano, 2002, II ed., p. 91; dello stesso avviso MORA, in Le liberalità d’uso, in VI, Le donazioni, da Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da Bonillini, Milano 2009, p. 226. Sul punto, si veda ancora PALAZZO, Le donazioni, in Il Codice civile commentato, diretto da Schlesinger, Milano, 2000, pp. 77-80, il quale, a dire il vero, senza addentrarsi troppo nella questione della qualificazione giuridica della mancia, si limita a prendere atto dell’orientamento giurisprudenziale prevalente. Vanno tuttavia rilevati orientamenti diversi da quello anzidetto: per esempio, in senso favorevole alla qualificazione della mancia come una vera e propria donazione, si veda ABELLO, Trattato della donazione, II, Torino, 1919, p. 494. Più isolata la posizione di FLUMENE, La consuetudine nel suo valore giuridico, Sassari, 1925, p. 112, che ha ravvisato, nella dazione della mancia, l’adempimento di un’obbligazione naturale; quest’ultima tesi appare non condivisibile per il carattere di onerosità intrinseco alla fattispecie di cui all’art. 2034 c.c. 6 Secondo il disposto di cui al comma 1 dell’art. 770 c.c., è donazione anche la liberalità fatta per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario o per speciale remunerazione. Nelle “donazioni remuneratorie”, l’atto di liberalità non si snatura, perché colui che ha ricevuto il servizio è sempre libero di donare e quindi sussiste sempre, nonostante il motivo che spinge all’atto della liberalità, quella piena libertà che costituisce la caratteristica essenziale del contratto di donazione. Per approfondimenti sul tema e sul rapporto di tali atti, contraddistinti dall’animus donandi, con quelli posti in essere per adempiere ad uno specifico dovere giuridico o ad un dovere morale o sociale (è il caso delle cc.dd. obbligazioni naturali disciplinate dall’art. 2034 c.c.), caratterizzati invece dall’animus solvendi, si rinvia a GALLO, La donazione remuneratoria, in VI Le donazioni …, cit., pp. 405-430. Si veda ancora, CASULLI, Donazione, in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, p. 966; CARNEVALI, Le donazioni, in RESCIGNO (diretto da), Trattato di diritto privato, Torino, 1997; FONTANA, Adempimento di obbligazione naturale o donazione rimuneratoria?, in Vita not., 1988, p. 128. 7 Per tutti, MORA, Le liberalità …, cit.

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l’intento liberale, nella “liberalità d’uso”, tale animus è in realtà secondario rispetto al bisogno di conformarsi ad un uso 8 ed anzi, proprio il particolare atteggiarsi dello spirito di liberalità rispetto all’uso porta ad escluderne la natura donatoria 9. L’orientamento dottrinario prevalente (che potrebbe definirsi, per così dire, “causalista”) ha dunque individuato la linea di demarcazione fra l’istituto della “donazione remuneratoria” e quello di cui al comma 2 dell’art. 770 c.c., nella diversità della causa 10, che, nel primo caso, coincide con l’animus donandi e, nel secondo caso, con il bisogno di uniformarsi ad un uso 11. Tuttavia, si è osservato 12 che, perché vi sia “liberalità d’uso” e si possa escludere la natura donatoria dell’attribuzione, l’uso deve essere talmente consolidato nel contesto sociale di riferimento, da doverne stabilire la misura e le modalità di corresponsione, in modo che la liberalità che varchi i limiti fissati dall’uso vigente debba essere qualificata come donazione, eventualmente remuneratoria. Inoltre, se l’uso in fatto esiste ma l’accordo delle parti non è caduto sulla sua osservanza (perché non è da esse conosciuto o perché, in ogni caso, esse non agiscono allo scopo di conformarvisi), non si avrà liberalità d’uso, ma molto più probabilmente, donazione remuneratoria. Dunque, non potendosi determinare aprioristicamente l’elemento causale della liberalità e la sua riconducibilità all’uso, che deve essere infatti valutata caso per caso, sono state individuate in dottrina specifiche e concrete caratteristiche della liberalità che segnalerebbero la prevalenza di un elemento causale rispetto all’altro 13. Secondo alcuni 14, la modicità e “normalità” dell’attribuzione, oltre che la man8

Secondo MORA, Le liberalità …, cit., si tratterebbe pur sempre di un uso di fatto, non giuridico, e da ciò discenderebbe la natura comunque liberale dell’attribuzione e la profonda diversità rispetto alle obbligazioni naturali. 9 BIONDI, Le donazioni, in Tratt. dir. civ. it., diretto da Vassalli, Torino, 1961. 10 Si veda anche CAPOZZI, Successioni e donazioni2, tomo secondo, Milano, 2002, pp. 824-825 e pp. 874-876. 11 Si è altresì osservato (MORA, Le liberalità …, cit.), che, dal punto di vista soggettivo, il beneficiante pone in essere un comportamento necessitato dal costume sociale e dall’uso, mentre il beneficiario, destinatario dell’attribuzione, vanta una vera e propria aspettativa di fatto, non di diritto, ad ottenere la liberalità. Sotto il profilo dell’animus, entrambi i soggetti ritengono che il comportamento del beneficiante sia liberale ma anche doveroso, sotto il profilo della necessità di conformarsi ad un uso. 12 D’ANGELO, La donazione remuneratoria, Milano, 1962, p. 41. 13 Il problema di distinguere un istituto rispetto all’altro si pone prevalentemente nel caso in cui l’attribuzione liberale derivi da un servizio svolto dal beneficiario, che si può configurare come donazione per speciale rimunerazione di cui al comma 1 dell’art. 770 c.c. oppure come liberalità d’uso per un particolare servizio ricevuto di cui al comma 2 dello stesso articolo. 14 CARNEVALI, (voce) Liberalità (atti di), in Enc. dir., vol. XXIV, s.l., ma Milano s.d., ma 1974, p. 218.

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canza di rischi per il patrimonio del donante (la normalità dovrebbe infatti essere valutata in relazione al tenore di vita del disponente), sarebbero importanti segnali della natura non donatoria della liberalità. Secondo altri, un significativo criterio di distinzione fra “liberalità d’uso” e “donazione remuneratoria” può essere individuato nella speciale relazione intercorrente fra l’attribuzione liberale e l’attività posta in essere dal percipiente, che, nel primo caso, consiste in un vero e proprio nesso di interdipendenza (poiché la causa della liberalità coincide con l’esigenza di ricompensare il servizio ricevuto) e, nel secondo caso, si sostanzia in un rapporto di mera occasionalità (nel senso che «… tali servizi costituiscono solo lo spunto per una remunerazione che altri non farebbe pur nelle stesse circostanze…» 15). Ancora, si è osservato 16 che mentre la “donazione remuneratoria” viene compiuta spontaneamente, con la consapevolezza di non dover adempiere alcun obbligo giuridico, morale o sociale, pur se in correlazione con un precedente comportamento del donatario (nei cui confronti la liberalità si pone come generica riconoscenza o apprezzamento di meriti), per la configurabilità della “liberalità d’uso”, si richiede non solo che l’attribuzione liberale sia effettuata per ottemperare ad un obbligo sociale o ad una consuetudine, ma anche una certa equivalenza economica fra il valore delle cose donate e quello dei servizi ricevuti e dunque, uno “specifico apprezzamento” di questi ultimi in termini monetari. A questo proposito, la giurisprudenza (che sulla precisa delimitazione fra primo e secondo comma dell’art. 770 c.c. è stata particolarmente prolifica) ha asserito che, perché si abbia “donazione remuneratoria”, occorre che l’attribuzione patrimoniale venga effettuata spontaneamente, come segno di riconoscenza e apprezzamento dei servizi ricevuti, ma senza che alla detta attribuzione possa essere data valenza o funzione di corrispettivo; mentre, perché tale figura sia esclusa e ricorra la “liberalità d’uso” (che donazione non è), occorre che l’attribuzione venga effettuata in funzione di corrispettivo, configurandosi come una datio in solutum e sussista una qualche equivalenza economica fra il suo valore e quello del servizio ricevuto dal disponente 17. 15

PALAZZO, in op. cit., p. 77, ha rilevato che mentre la liberalità d’uso viene corrisposta in occasione di servizi resi, viceversa la donazione remuneratoria vera e propria presenta dal punto di vista soggettivo il prevalere dell’animus donandi nel senso che «…il motivo determinante è svincolato dall’entità dei servizi che il donante ha ricevuto e tali servizi costituiscono solo lo spunto per una remunerazione che altri non farebbe pur nelle stesse circostanze…». 16 Si veda CENDON-BALDASSARRI (a cura di), Codice civile annotato con la giurisprudenza, Torino, 2007, p. 794 ss. 17 È stato altresì precisato che, qualora la donazione remuneratoria sia diretta anche al soddisfacimento di prestazioni ricevute, il rapporto, che resta unitario e non scindibile in due negozi distinti, è regolato in base al criterio della prevalenza. Si veda Cass. Civ., sez. II, 28 giugno 1976, n. 2452, Cass. sez. I, 5 settembre 1974, n. 2421, Cass. sez. II, 20 agosto 1990, n. 8446.

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Proseguendo lungo tale percorso interpretativo, si potrebbe concludere che sono mere “donazioni remuneratorie”, di cui al comma 1 dell’art. 770 c.c., con le conseguenze proprie del contratto di donazione, tutte le attribuzioni liberali che, come le mance, vengono corrisposte in occasione della prestazione di un servizio che trova comunque, altrove, la propria congrua remunerazione sul mercato (sia esso quello espletato da lavoratori dipendenti o da imprenditori e lavoratori autonomi) e che hanno necessariamente un valore monetario diverso, proprio in quanto discrezionalmente stabilito dal soggetto erogante, rispetto al “prezzo” fissato dal mercato per tale servizio (sia esso lo stipendio del dipendente, il corrispettivo o il compenso rispettivamente pattuito dall’imprenditore o dal lavoratore autonomo). Viceversa, le liberalità corrisposte in concomitanza ed in occasione della ricezione di un servizio non diversamente remunerato e che, per ragioni di opportunità, si avvicinano verosimilmente al valore ad esso comunemente attribuibile sul mercato, si configurerebbero come “liberalità d’uso”, che, secondo il dettato di cui al comma 2 dell’art. 770 c.c., sono diverse dalle donazioni e del tutto assimilabili ai corrispettivi contrattuali. Orbene, trascurando i molteplici tentativi della dottrina e della giurisprudenza di trovare concreti e precisi parametri di discriminazione di un elemento causale rispetto all’altro, e riportando la questione lungo il tracciato delineato dal più generale criterio della “prevalenza dell’uso rispetto all’animus donandi”, si può correttamente argomentare che le mance liberamente corrisposte in occasione della ricezione di un servizio e discrezionalmente quantificate dal disponente (per assenza di un uso vigente o, semplicemente, per difformità in eccesso rispetto all’importo da esso fissato), hanno natura non corrispettiva e sono chiaramente qualificabili come “donazioni remuneratorie” (almeno per la parte eccedente la misura prevista). Mentre, le mance corrisposte in ottemperanza all’uso vigente (nelle quali l’intento liberale è secondario rispetto al bisogno di conformarvisi) ed erogate nella misura da esso prestabilita, si configurano come vere e proprie maggiorazioni di prezzi e sono più propriamente qualificabili come “liberalità d’uso”. Dunque, si può concludere che, nei contesti geografici (come quello italiano) in cui l’erogazione della mancia è un atto libero e volontario, che prescinde da obblighi o condizionamenti morali e sociali e dipende unicamente all’animus donandi del soggetto erogante ed il cui importo è discrezionalmente stabilito dal disponente (perché, pur in presenza dello stesso servizio, varia molto in base agli umori e alle disponibilità economiche), il fenomeno si attaglia perfettamente allo schema della donazione remuneratoria. Al contrario, nelle località in cui l’erogazione della mancia risponde ad un preciso obbligo o dipende da una stato di soggezione del cliente rispetto ad una prassi consolidata (come accade, per esempio, negli Stati uniti d’America, dove vige l’uso di corrispondere la mancia nella misura del 15% del prezzo pagato per

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la prestazione ricevuta) 18, sembra indiscutibile che tale erogazione sia qualificabile come “liberalità d’uso”. A questo punto, appurato che, in linea di massima, nel territorio nazionale, la più corretta qualificazione civilistica della mancia risponde allo schema proprio della “donazione remuneratoria” di cui al comma 1 dell’art. 770 c.c. (comportandone dunque tutte le conseguenze giuridiche), occorre verificare se tale considerazione assuma specifico rilievo sul piano fiscale, ed in particolare, con riferimento alla nozione di reddito imponibile 19.

3. L’irrilevanza reddituale delle donazioni nel sistema fiscale italiano Sul piano fiscale, la distinzione fra donazioni ed attribuzioni non liberali non è di poco conto, se si consideri che una parte della dottrina 20 è propensa a considerare le donazioni generalmente irrilevanti ai fini IRPEF, in armonia con il risalente orientamento del Legislatore fiscale italiano ad accogliere, fra le varie definizioni di reddito tradizionalmente annoverate (reddito-consumo 21, reddito-entrata 22, reddito-prodotto 23), quella di reddito “prodotto”, cioè valutato in relazione alla relativa fonte di provenienza 24. 18 E dove, sull’argomento, sono stati condotti persino approfonditi studi economico-sociologici, che hanno dimostrato l’irrilevanza del rapporto fra qualità del servizio ricevuto e quantità dei soldi corrisposti a titolo di mancia e la preponderanza, rispetto ad esso, della soggezione psicologica del cliente, che lascia un “extra” per garantirsi la benevolenza del personale e degli altri commensali, per ridurre l’ansia o l’imbarazzo di dover essere serviti e per sentirsi meglio con se stessi. Si fa riferimento, in particolare agli studi condotti da Michael Lynn, Professore associato di “comportamento del consumatore” presso la Cornell University di Ithaca, nello stato di New York, che ha dedicato 25 pubblicazioni (su The journal of Socio-Economics) e vent’anni della sua vita a studiare i comportamenti umani di fronte al condizionamento delle mance. 19 Il problema si è posto anche in ambiti del diritto tributario diversi rispetto a quello delle imposte dirette. Per esempio, sui riflessi fiscali, in materia di imposte di successione donazione, della qualificazione civilistica delle liberalità e delle donazioni indirette come donazioni, si veda GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni: trust e patti di famiglia, Padova, 2008, p. 132. 20 Così TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Vol. 2, parte speciale, Torino, 2004, p. 22. 21 La tassazione del reddito come consumo è stata teorizzata in Italia soprattutto da EINAUDI, in Saggi sul risparmio e l’imposta, Torino, 1941, p. 365 ss. 22 Il concetto di reddito come entrata è stato affermato soprattutto negli Stati Uniti d’America, dove la dottrina maggioritaria definisce il reddito come «... il valore monetario dell’accrescimento netto del potere economico di un individuo tra due istanti di tempo» (HAIG, The concept of income. Economic end legal aspects (1921), 59, in MUSGRAVE-SHOUP (a cura di), Readings in the Economics of Taxation, Londra, 1959). 23 Per una definizione classica di reddito, QUARTA, in Commentario alla legge sull’imposta di ricchezza mobile, vol. II, Milano, 1902, p.103, secondo il quale il reddito è una «… ricchezza novella … in relazione di effetto a causa con una energia o forza produttiva.». 24 Anche se, a tale riguardo, va rilevato comunque che tutta la dottrina italiana concorda sulla

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La stessa dottrina cui si deve la prima elaborazione della concezione del reddito come ricchezza prodotta 25, ha tuttavia precisato che le “donazioni remuneratorie”, attribuite (pur se spontaneamente) a titolo di remunerazione di una prestazione ricevuta, a differenza di quelle pure e semplici, che sono invece prive di qualunque energia produttrice, sono rilevanti sotto il profilo reddituale. Tale considerazione (che evidentemente attenua la portata significativa della qualificazione fatta sopra della mancia come “donazione remuneratoria” e della distinzione rispetto alla “liberalità d’uso”), sembrerebbe altresì confermata da quell’orientamento dottrinario secondo cui, preso atto della progressiva tendenza del Legislatore italiano ad assoggettare ad imposizione fiscale forme di reddito-entrata, la relazione intercorrente fra un reddito imponibile e la sua fonte può efficacemente essere descritta come la «... minima efficacia condizionalistica» dell’azione umana verso il risultato di arricchimento, nei cui confronti la detta azione assurge a «... condicio sine qua non» e ne determina l’imputabilità al soggetto e la tassabilità con imposta sul reddito 26. Questa impostazione, sebbene molto suggestiva, non consente però di individuare in astratto un preciso discrimine tra fatti che possono essere assunti a vero presupposto di un fenomeno di arricchimento fiscalmente imponibile e fatti che tendenziale apertura del nostro Legislatore fiscale verso forme di tassazione improntate sul concetto di reddito-entrata. In tal senso, lo stesso TESAURO, in Istituzioni …, cit., pp. 16-17. Sul punto, si veda ancora FICARI-PAPARELLA, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in FANTOZZI, Il diritto …, cit., p. 773 ss.; CORDEIRO GUERRA, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Milano, 2002, pp. 1 ss.; TOSI, La nozione di reddito, in TESAURO (diretto da), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 1994, pp. 4-6. Comunque, la tendenziale e indiscutibile apertura del Legislatore verso forme specificamente elencate di tassazione di reddito-entrata, non implica l’abbandono del tradizionale orientamento verso una definizione di reddito come reddito-prodotto, che è un principio evidentemente sotteso alla classificazione delle forme di reddito in sei categorie ben individuate. 25 Così QUARTA (citato da FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte speciale5, Padova, 2008, p. 15), il quale, al fine di chiarire entro quali limiti siano reddito mobiliare le elargizioni spontanee, precisa che le donazioni semplici, a differenza di quelle remuneratorie, sono irrilevanti in quanto annoverabili tra i capitali e non tra i redditi, per difetto di “energia produttrice”. 26 Così FALSITTA, in Manuale …, cit., p. 15 ss. Ancora, secondo autorevole dottrina, la rilevanza fiscale di un reddito deriverebbe piuttosto dalla circostanza che esso sia il risultato di un agire umano intenzionato a produrlo. Si veda FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da Rescigno, coordinato da Ieva, Padova, 2010, vol. II, p. 575 ss.; per un approfondimento sull’evoluzione del sistema normativo e sul progressivo abbandono della concezione che ricostruiva il reddito prodotto come una ricchezza che si distaccava dalla fonte, si veda ancora FEDELE, Profili dell’imposizione degli incrementi di valore nell’ordinamento tributario italiano, in AA.VV., L’imposizione dei plusvalori patrimoniali, Milano, 1970, p. 125 ss. Sulla progressiva sostituzione della fonte produttiva di reddito (il fondo) con l’agire umano (l’attività lavorativa in esso esercitata), si veda anche PICCIAREDDA, La nozione di reddito agrario, Milano, 2004. Si veda ancora NUSSI, L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996 e STEVANATO, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, Padova, 2000.

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interferiscono su quel fenomeno a titolo di mere “concause”. In altre parole, a noi sembra necessario valutare e distinguere le situazioni in cui l’azione umana (o fonte produttiva) rappresenti una delle tante condizioni necessarie a generare l’arricchimento, interferendo a titolo di mera “concausa”, da quelle in cui l’azione ne rappresenti la condizione (da sola) sufficiente a produrlo, realizzando una relazione di vera derivazione e interdipendenza con esso. A titolo esemplificativo, basti pensare che l’arricchimento derivante dal rinvenimento, sul luogo di lavoro o nel tragitto per recarvisi, di “preziosi” o denaro contante, pur essendo in relazione con il rapporto di lavoro (in termini di efficacia “condizionalistica” di quest’ultimo, che ne rappresenta certamente una condicio sine qua non), non realizza però un nesso causale tale da poter considerare il suddetto rapporto il suo presupposto fiscale e far divenire la fattispecie tassabile a fini reddituali. Tornando alla specifica questione che qui interessa, si potrebbe osservare che la vera condicio sine qua non della percezione di una “donazione remuneratoria” non è tanto l’esecuzione di una prestazione (per esempio, da parte del lavoratore che riceva la mancia), che trova altrove la propria corrispondente remunerazione, quanto un quid pluris, cioè un elemento aggiuntivo alla detta prestazione (e proprio in ciò sta la distinzione fra “donazione remuneratoria” e “liberalità d’uso”!), che attiene a caratteristiche assolutamente variabili e soggettive del prestatore o a fatti, situazioni e sensazioni psicologico-emotive del donante e/o del percipiente, che non possono dar luogo, proprio in quanto non oggettivabili, ad alcun fenomeno impositivo. Rispetto alla percezione della “donazione remuneratoria”, solo quel quid pluris può esserne considerata la vera condicio sine qua non, mentre l’attività svolta dal ricevente rappresenta solo l’occasione da cui esso scaturisce, uno dei tanti fatti della “rete della vita” (per citare Fritjof Capra 27) che, al pari di qualunque altra circostanza, rende possibile il verificarsi di una certa situazione, e solo in tal senso è in relazione di causa-effetto con essa. Alla luce delle considerazioni che precedono, appare ragionevole affermare l’irrilevanza reddituale delle donazioni (anche remuneratorie) e dei fenomeni che possono essere qualificati tali, nel sistema fiscale italiano. A supporto di quanto detto sopra, si osserva che, in generale, l’irrilevanza reddituale (in capo al percipiente) della donazione, è altresì confermata dal “divieto di doppia imposizione” (che probabilmente è un enunciato sotteso alla tradizionale concezione del reddito come ricchezza prodotta e ne rappresenta un corollario). 27

CAPRA (fisico e teorico dei sistemi), in La rete della vita, Milano, 2001, ha elaborato una nuova teoria, che vede nella natura e negli esseri viventi non entità isolate, ma organismi fra loro interdipendenti in un intreccio di relazioni, che costituiscono la rete della vita, intesa come trama che connette tutti gli esseri in un unico processo in continua evoluzione.

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Il “divieto di doppia imposizione”, che trova i propri referenti normativi negli artt. 67 del D.P.R. n. 600/1973 e 127 del D.P.R. 917/1986 (a mente dei quali «La stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi…»), è un principio fondamentale dell’ordinamento tributario, di probabile derivazione dell’art. 53 Cost., che, pur essendo sancito con legge ordinaria e non potendosi pertanto riferire direttamente all’operato del Legislatore 28, ha certamente una portata applicativa generale 29 ed efficacia “condizionante” l’attività normativa in materia fiscale 30. In base ad esso, la donazione, avendo una causa non oggettivabile e non riconducibile ad alcuna attività del percipiente, esprime una ricchezza riferibile in ultima istanza esclusivamente ad un fatto o un’attività del donante, che, essendo già tassata in capo allo stesso, non è suscettibile di generare fenomeni impositivi a carico del percipiente. A questo punto, tenuto conto della complessità delle questioni della qualificazione della mancia come “donazione remuneratoria” o “liberalità d’uso” e dell’irrilevanza reddituale delle erogazioni liberali nel sistema tributario italiano (interessante sotto il profilo squisitamente speculativo ma non risolutiva, perché involve teorie e concetti troppo generali e teorici per consentire di pervenire ad esiti certi ed unanimemente condivisibili), occorre studiare il problema sotto diversa prospettiva, spostando il piano dell’analisi su un terreno più concreto, per cercare conferme di carattere particolare alle considerazioni generali fatte sopra. Considerata inoltre l’esistenza dell’orientamento dottrinario civilistico prevalente, che attribuisce alla mancia la natura di “liberalità d’uso”, si deve necessariamente valutare l’impatto fiscale che tale qualificazione produce, con particolare riguardo al sistema dell’imposizione reddituale adottato nel D.P.R. n. 917/1986.

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Così FALSITTA, in Manuale…, cit., Parte generale, sesta edizione, Padova, 2008, p. 233. Sebbene la prima norma citata abbia una valenza espressamente procedurale e la seconda sia riferibile alle sole imposte sui redditi, è opinione diffusa che il principio del divieto di doppia imposizione abbia un ambito applicativo estensibile a tutte le aree del diritto tributario ed una portata sostanziale. Sulla differenza fra divieto di doppia imposizione e duplicazione dell’attività impositiva, si veda per esempio DONATELLI, Sulla duplicazione dell’attività impositiva nel caso di mancato esercizio della autotutela sostitutiva, in Rass. trib., 2002, commento a sentenza Cass. n. 10650/1997 e n. 3951/2002, su banca dati Fisconline. 30 Secondo MARELLO (Il divieto di doppia imposizione come principio generale del sistema tributario, in Giur. cost., 1997, p. 4127 ss.), la doppia imposizione non è solo questione di rapporti tra atti ma anche e soprattutto di rapporti tra norme. Tale principio, coperto costituzionalmente dall’art. 53 Cost. potrebbe infatti assurgere a principio generale dell’ordinamento tributario che permetterebbe di valutare in termini di coerenza la coesistenza di più tributi sullo stesso fatto economico. 29

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4. Le liberalità nel sistema “chiuso” del TUIR Nel vigente Testo Unico delle imposte sui redditi non vi è una definizione generale di reddito imponibile 31, che deve essere necessariamente desunta, per astrazione generalizzatrice, attraverso la definizione dei singoli redditi e le regole di determinazione delle relative categorie di appartenenza 32. Il Legislatore fiscale del 1986 ha infatti sostituito, ad una definizione “aperta” della materia tassabile (che aveva suscitato forti dubbi di legittimità costituzionale in relazione alla riserva di legge statuita dall’art. 23 della Costituzione 33), un sistema “chiuso”, cioè un metodo casistico, che porta ad escludere la rilevanza fiscale dei fatti non espressamente contemplati nelle categorie classificate dalla legge 34. A conferma della tassatività delle fattispecie assoggettate all’IRPEF, vi è anche la normativa in tema di redditi di provenienza illecita 35. La disposizione di cui all’art. 14, comma 4, L. 24 dicembre 1993, n. 537, ponendo fine al lungo dibattito dottrinale circa la possibilità e l’opportunità di assoggettare a tassazione redditi scaturenti da comportamenti costituenti reato 36, ne aveva infatti statuito la soggezione alle regole in materia di IRPEF, solo se classificabili all’interno delle categorie reddituali e se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. È evidente, a questo punto, che anche le liberalità, siano esse riconducibili allo schema delle “donazioni remuneratorie” o a quello delle “liberalità d’uso”, assumono rilevanza nel sistema fiscale sopra delineato, solo se ascrivibili ad una delle sei categorie reddituali tassativamente individuate dal D.Lgs. n. 917/1986 37. Il testo unico delle imposte sui redditi dà specifico risalto alle erogazioni liberali prevalentemente nell’ambito della categoria dei redditi da lavoro dipendente (dove la fattispecie viene più volte richiamata e precisamente disciplinata), seb31

L’art. 1 del D.P.R. 917/1986 si limita a dire che il presupposto oggettivo dell’imposta sui redditi delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6 dello stesso decreto. Si veda FICARI-PAPARELLA, L’imposta …, cit., p. 379. 32 Così TESAURO, in Istituzioni …, cit., p. 17. 33 Il vecchio articolo 80 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, che prevedeva la tassazione di «…ogni altro reddito non espressamente considerato» aveva reso incerto e controverso il perimetro dei fatti tassabili e suscitato forti dubbi di illegittimità costituzionale. 34 Sull’argomento, si veda TESAURO, Istituzioni …, cit., p. 15. 35 Si veda FICARI, Reddito d’impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, pp. 213-219. 36 Comportamenti che dunque, per il legislatore, non dovrebbero neanche configurarsi come possibili. In questi termini, già QUARTA, in Commentario, cit., vol. I, p.162. 37 In effetti, anche la mancia sarebbe un provento illecito, stante il divieto sancito dall’art. 95 del contratto nazionale di lavoro dei dipendenti di pubblici esercizi, e non è un caso che le questioni siano state sollevate simultaneamente (si veda ancora l’intervista rilasciata al Corriere della Sera del 27 aprile del 1993, dall’allora sottosegretario alle finanze Stefano De Luca), e disciplinate (limitatamente al caso dei croupiers, si intende) in periodi molto vicini (1990 e 1993).

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bene la percezione di liberalità, come forma di arricchimento, venga contemplata anche nell’ambito del reddito d’impresa, dove prende la denominazione di “contributo” 38. In realtà, il fenomeno della mancia, pur assumendo maggiore frequenza ed interesse (interesse del fisco, si intende, in ragione della sproporzione sovente riscontrabile fra l’importo della mancia e quello della retribuzione ordinaria e media del percettore) nell’ambito del lavoro dipendente, è tuttavia presente, specialmente in contesti geografici a forte caratterizzazione turistica, anche nell’ambito di attività d’impresa e di lavoro autonomo (si pensi ai piccoli ristoratori, ai tassisti o, ancora, alle guide turistiche), dove, non trovando alcuna specifica regolamentazione, può verosimilmente essere oggetto di contesa con il Fisco. Esso pertanto, va analizzato in una prospettiva più ampia rispetto al reddito da lavoro dipendente ed in riferimento a tutte e sei le categorie reddituali.

4.1. Le liberalità nella disciplina dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo La disciplina delle liberalità nell’ambito del reddito d’impresa è rinvenibile essenzialmente negli artt. 85 e 88 del TUIR, che statuiscono le modalità e i tempi di tassazione 39 delle componenti positive di reddito rispettivamente qualificabili come ricavi o come sopravvenienze 40. Mentre l’art. 85 (in tema di ricavi) contempla solo le liberalità (denominate “contributi”) aventi fonte legale o negoziale, l’art. 88 adotta una formula residuale che ricomprende nel novero delle “sopravvenienze attive” tutti i proventi, in 38 Il trattamento fiscale del “contributo” è espressamente disciplinato dagli artt. 85 e 88, e assimilato a quello riservato ai ricavi o alle sopravvenienze, a seconda che si configuri rispettivamente come un contributo in conto esercizio (destinato, cioè, a finanziare costi d’esercizio dell’impresa ricevente) o in conto capitale (destinato al finanziamento delle necessità strutturali dell’impresa che implicano il sostenimento di costi di carattere pluriennale). Sull’argomento, si veda BEGHIN, I contributi e le liberalità a favore delle imprese nel D.P.R. n. 917/1986, in Il Fisco, n. 30 del 28 luglio 1997, p. 8493. 39 BEGHIN, in I contributi e le liberalità …, cit., rileva che tali articoli di legge non sono esclusivamente finalizzati a rendere tassabili i contributi e le liberalità percepite dall’imprenditore, ma sono altresì volti a chiarirne le modalità e i tempi di imposizione, giacché i suddetti proventi rientrerebbero comunque tra quelli tassabili, in virtù del principio di derivazione del reddito fiscale dall’utile civilistico, proprio in quanto destinati a transitare nel bilancio del beneficiario. 40 BEGHIN, (op. cit.) rileva che la linea di demarcazione fra liberalità aventi natura di ricavo e liberalità ascrivibili alla categoria di sopravvenienze non è sempre netta, potendosi, per esempio verificare che contributi di fonte privatistica che devono incorporarsi in beni strumentali, costituiscano ricavi e concorrano integralmente alla formazione del reddito d’esercizio (è il caso di una società concessionaria di un ramo autostradale che esegua lavori di sistemazione di un raccordo e, in base ad una convenzione, riceva contributi da altre società interessate all’esecuzione dell’opera), oppure che contributi erogati per legge “in conto esercizio” servano per fronteggiare spese correnti che però consentano all’impresa di ottenere la disponibilità di beni strumentali.

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denaro o in natura, conseguiti a titolo di liberalità, con la sola esclusione dei contributi già compresi nelle lett. e) ed f) dell’art. 85, le quali concorrono a formare il reddito d’impresa come “ricavi”. Ciò lascerebbe intendere che, in linea generale, non vi sono forme di contributi o liberalità alle imprese che non vengano tassate, a condizione però che il beneficiario acquisisca l’attribuzione in qualità di imprenditore 41. Orbene, se per le società è indubbio che tutte le erogazioni liberali, in virtù del principio di “omnicomprensività” o “attrazione” del reddito degli enti societari, siano riconducibili alle componenti positive del reddito d’impresa, altrettanto non si può dire per gli imprenditori individuali, per i quali bisogna necessariamente valutare, volta per volta, la riferibilità dell’attribuzione liberale alla sfera, per così dire, “privata”, o imprenditoriale, della persona. Ferma restando la necessità di valutare la fattispecie caso per caso, si ritiene, in generale, che il contributo o la liberalità ricevuta dall’imprenditore a titolo di ricavo ai sensi dell’art. 85 del TUIR, debba necessariamente provenire, stando al dettato della norma citata, da una fonte contrattuale o legale; e si ritiene altresì che la liberalità ricevuta a titolo di sopravvenienza di cui all’art. 88 non possa comunque prescindere da una riferibilità alla “dimensione imprenditoriale” dell’individuo, essendo essa necessariamente indipendente da qualsiasi elemento riconducibile alla sfera privata o psicologico-emotiva del percipiente. D’altra parte, è proprio la riferibilità dell’erogazione liberale alla condizione imprenditoriale piuttosto che a quel quid pluris di cui già si è detto 42 che comporta anche la necessità e l’obbligatorietà di annotazione contabile di una operazione ed il conseguente concorso del provento da essa derivante alla determinazione del reddito d’impresa 43. Quanto fin qui asserito dovrebbe valere, a maggior ragione, per i lavoratori 41 Questo confermerebbe la teoria di FEDELE della “rilevanza dell’intendimento” di realizzare il reddito (si veda la nota 26), giacché l’impresa nasce istituzionalmente orientata a perseguire tale intendimento (fine di lucro). Chiaramente diversa la prospettiva del lavoratore dipendente, che storicamente, nel rapporto dialettico con l’imprenditore/datore di lavoro, si è spesso posto come un soggetto estraneo alle problematiche ed alle finalità proprie dell’impresa e che, solo nelle teorizzazioni di filosofi come BOBBIO o studiosi come CONYON e FREEMAN (questi ultimi, in Share modes of Compensation and Firm Performance: UK Evidence, hanno ipotizzato che le attitudini imprenditoriali dei lavoratori dipendenti possano essere stimolate con la partecipazione finanziaria e la maggior influenza nei processi decisionali dell’impresa) e nelle indicazioni programmatiche della Commissione europea (si veda, per esempio, la COM-2002-364 def. Del 05/07/2002) ha assunto un assetto dimensionale più evoluto. 42 Che può consistere in una particolare condizione psicologico-emotiva del percipiente o nello specifico legame di amicizia, complicità istintiva o parentela di quest’ultimo col donante. 43 Per approfondimenti sul principio di derivazione del reddito fiscale dall’utile civilistico si rinvia a FRANSONI, La categoria dei redditi d’impresa, in RUSSO, Manuale …, cit., p. 199 ss.

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autonomi, per i quali l’esigenza di riferibilità del compenso alla prestazione lavorativa ed all’apporto personale all’attività professionale è decisamente più stringente rispetto agli imprenditori, e per i quali si è peraltro espressamente affermata l’impossibilità di riconoscere l’imputabilità di componenti reddituali di carattere straordinario 44.

4.2. (segue) e rispetto alla categoria dei redditi da lavoro dipendente Volendo circoscrivere l’indagine alla categoria dei redditi da lavoro dipendente (nell’ambito della quale il fenomeno ha suscitato maggiore attenzione e causato negli anni numerose diatribe con l’Amministrazione finanziaria), bisogna rilevare subito che il principio secondo cui sono soggette a tassazione anche le somme e i beni percepiti a titolo di liberalità, vige nell’ordinamento tributario italiano da tempo risalente (già dalla riforma degli anni ’70). Tale principio trova adesso una precisa codificazione nell’art. 51 del D.P.R. 23 dicembre 1986, n. 917, come modificato dal D.Lgs. n. 314/1997, a mente del quale «Il reddito da lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti …, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro». Il citato articolo di legge ha subito negli anni numerose modifiche: la prima versione, contenuta nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, che faceva riferimento a «… tutti i compensi e gli emolumenti, comunque denominati ... anche sotto forma di partecipazione agli utili e a titolo di sussidio o liberalità ...» è stata poi sostituita, con l’entrata in vigore del Testo Unico del 1986 dall’espressione «… tutti i compensi in denaro o in natura … comprese … le erogazioni liberali ... percepiti … in dipendenza del rapporto di lavoro», per essere infine traslata (a seguito della riforma operata con D.Lgs. n. 314/1997) nell’attuale art. 51 del Testo Unico sulle imposte sui redditi, contenente la più generica e neutrale formulazione «… somme e valori in genere … percepiti … in relazione al rapporto di lavoro». La successione nel tempo delle suddette disposizioni ha risposto probabilmente all’esigenza del legislatore italiano di impedire il facile aggiramento delle norme che impongono oneri tributari e contributivi a carico del lavoratore dipendente e del datore di lavoro e che sarebbe altrimenti difficilmente rilevabile, proprio in ragione del particolare vincolo che intercorre fra i due soggetti del rapporto. Alla stessa logica si sono certamente ispirati gli interventi normativi in tema di erogazioni liberali, che sono considerate non imponibili solo se corrisposte alla generalità dei lavoratori, entro un certo limite quantitativo e in occasione di festi44 Così BORIA, in Le categorie di reddito, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, parte speciale2, Milano, 2009, p. 145.

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vità e ricorrenze o sotto forma di sussidi per rilevanti esigenze personali o familiari del dipendente (anche se, in linea di massima, è stato accolto il principio che le somme corrisposte al lavoratore dipendente siano imponibili in capo allo stesso se e nella misura in cui le stesse rappresentano costi deducibili per il datore di lavoro 45). Il Legislatore del 1997 ha dunque fornito una definizione di reddito da lavoro dipendente più ampia rispetto a quella precedente, includendo nella categoria qualsiasi provento collegato alla prestazione svolta da un soggetto alle dipendenze di altri. È venuto meno il riferimento al “lavoro prestato” 46 e si è adottata una nozione di reddito che, seppur collegata, sotto il profilo della relazione causale, con il rapporto di lavoro (che rappresenta comunque l’occasione che determina la percezione di tali somme), è indipendente dall’accertamento della natura retributiva delle somme percepite. La novellata disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 314/1997 ha inizialmente indotto parte degli interpreti e degli operatori del settore 47 a riconsiderare seriamente l’ipotesi del trattamento fiscale delle mance in tale ambito (il dibattito si era sviluppato, prima che venisse espressamente regolamentato, specialmente in riferimento al caso dei croupiers, di cui si parlerà diffusamente nel prosieguo del presente lavoro). In particolare, il riferimento alle «… somme e valori in genere, anche sotto forma di erogazioni liberali» e non più ai «compensi» ed il riferimento alla percezione delle stesse «in relazione al» piuttosto che «in dipendenza del» rapporto di lavoro, ha persuaso taluni 48 che potesse essere ricompresa nella categoria dei redditi da lavoro dipendente qualsiasi attribuzione comunque percepita che, come la mancia, senza essere direttamente dipendente dal rapporto di lavoro, fosse con esso in relazione anche di mera occasionalità (la parola occasionalità viene qui utilizzata non nel senso di eccezionalità, ma bensì nell’accezione di offerta di un’occasione o opportunità). Anche l’orientamento giurisprudenziale è stato variamente condizionato dal45 Tale principio si evince dall’art. 95, D.Lgs. n. 917/1986, in tema di deducibilità dal reddito d’impresa delle spese per prestazioni di lavoro. 46 A questo proposito, osserva SACCHETTO, in Relazione tra normativa civilistica e fiscale. Il rapporto di lavoro ed il reddito di lavoro, in Rass. trib., 1989, fasc. 9, p. 389, che, in conseguenza dell’emanazione del TUIR, «non è più il lavoro effettuato a produrre materia imponibile, ma questa scaturisce in dipendenza di una fattispecie contrattuale avente per oggetto il rapporto di lavoro». Sulla mutazione della qualificazione del reddito di lavoro dipendente da “retribuzione” a reddito giustificato da un rapporto di lavoro dipendente, si veda anche PUOTI, Lavoro subordinato (diritto tributario), in Enc. giur., Roma, 1990, p. 2. 47 La Stessa Agenzia delle Entrate, con circolare n. 326 del 23 dicembre 1997, si è espressa a favore della piena qualificazione delle mance come redditi da lavoro dipendente. 48 Tale posizione (a dire il vero minoritaria) è ben rappresentata da FERRAÙ, in Natura giuridica della mancia. Profili civilistici e fiscali, in Corr. trib., 1984, p. 1217.

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l’evoluzione della disciplina menzionata. Se verso la metà del secolo scorso, la Corte di Cassazione aveva affermato (con riferimento al servizio prestato presso bar, ristoranti e pubblici esercizi in genere 49), che le mance non hanno generalmente natura retributiva, in quanto costituiscono delle elargizioni volontarie ed aleatorie da parte di persone diverse dal datore di lavoro, in epoca successiva, la Suprema Corte 50 ha affermato il principio secondo cui, nonostante la mancia sia totalmente estranea al rapporto di lavoro, in tutti i casi in cui la sua corresponsione sia periodica e regolamentata in sede di contrattazione collettiva, non vi è dubbio che essa risulti attratta nell’ambito del monte retribuzione, con le relative conseguenze sul piano contributivo-previdenziale 51. Gli autori che hanno trattato l’argomento della possibile rilevanza fiscale delle mance 52, si sono espressi per lo più con argomentazioni a sfavore, dando risalto specialmente alla circostanza che l’elargizione del denaro nei confronti del lavoratore dipendente avviene in totale assenza di una relazione giuridica tra il tradens e l’accipiens. Nell’analisi della fattispecie si possono infatti individuare tre distinti rapporti: tra datore di lavoro e dipendente intercorre un’obbligazione avente ad oggetto la prestazione di lavoro; tra imprenditore e cliente vi è un contratto il cui contenuto può variare dalla cessione di beni alla prestazione di servizi; infine, tra il cliente e l’esecutore materiale del servizio (il lavoratore dipendente) c’è solo un rapporto di fatto, privo di rilevanza giuridica, da cui trae origine l’elargizione della mancia 53. In effetti, la totale estraneità del soggetto erogatore della liberalità rispetto al rapporto di lavoro dipendente porta ad escludere che la mancia possa essere fiscalmente collocata nell’ambito della categoria dei redditi da lavoro dipendente e trattata alla stessa stregua della retribuzione corrisposta dal datore di lavoro. 49

Cass. Civ., 21 gennaio 1966, n. 260, in Giust. civ., 1966, I, p. 1116. Per una rassegna completa della giurisprudenza sul tema, si veda BONARETTI, Mancia e retribuzione, in Lav. prev. oggi, 1989, p. 412. 51 In questi termini, Cass., sez. lavoro, 18 ottobre 1991, n. 10978, in Riv. dir. lav., 1992, II, p. 895 ss., per cui non è un fatto inusuale nella prassi della contrattazione del lavoro che le parti tengano in considerazione, nella determinazione contrattuale del trattamento economico del lavoratore, delle occasioni offerte dall’attività lavorativa di conseguire vantaggi economici extratributari. 52 In senso fortemente critico alla possibilità di assoggettare a tassazione le mance corrisposte ai lavoratori dipendenti da parte di soggetti diversi dal datore di lavoro, si veda, in particolare VIOTTO, Considerazioni in merito al trattamento fiscale delle mance percepite dai lavoratori dipendenti, in Riv. dir. trib., 2002, fasc. 2, pp. 1139-1159, pt. 1; VIOTTO, Regime fiscale e contributivo delle liberalità erogate ai lavoratori dipendenti da soggetti diversi dai datori di lavoro, in Riv. dir. trib., 2003, fasc. 10. pp. 815-832, pt. 2; sulla relazione fra trattamento fiscale e contributivo, si veda BEGHIN, L’insostenibile sovrapposizione tra le definizioni di reddito di lavoro dipendente valevoli ai fini fiscali e previdenziali, in Riv. dir. trib., 2003, fasc. 4, pp. 428-444, pt. 2. 53 MASTROIACOVO, Le mance ai croupiers, in I redditi di lavoro dipendente, a cura di Ficari, Torino, 2003, p. 373. 50

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Infatti, come è stato osservato 54, se da un lato, è indiscutibile che il Legislatore del 1997 abbia introdotto nozioni di reddito da lavoro dipendente neutrali e generiche, al fine di rendere «… più oggettiva la fattispecie …», dall’altro non si può ritenere che la struttura della categoria sia stata stravolta al punto da essere venuta meno la necessità di una relazione giuridica qualificata. In particolare, l’inciso «... somme e valori in genere a qualunque titolo percepiti, anche sotto forma di liberalità ...» di cui al già menzionato art. 51, non può certo valere ad escludere l’esistenza di un nesso di derivazione giuridica fra la prestazione ricevuta e la liberalità erogata, nesso che, peraltro è espressamente richiesto dall’art. 49 dello stesso decreto, che nella sua sintetica formula definitoria, fa preciso riferimento a redditi «derivanti da … rapporti aventi ad oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione altrui ...». Sembra dunque che, nonostante l’indiscutibile estensione della nozione di reddito da lavoro dipendente ad ambiti diversi ed ulteriori rispetto a quelli direttamente correlati alla mera prestazione eseguita, in cui trovano spazio anche compensi e benefici che non hanno funzione strettamente remunerativa dell’attività lavorativa, tale estensione debba essere intesa in modo da non debordare dai rapporti che hanno ad oggetto la prestazione di lavoro e da assoggettare a tassazione solo i proventi che trovano causa e fonte nel rapporto che intercorre fra il datore di lavoro ed il proprio dipendente 55. 4.2.1. Le norme fiscali sulle mance ai croupiers delle case da gioco Prima che il Legislatore intervenisse, con L. n. 381/1990, introducendo nel corpo del vecchio art. 47 del D.P.R. n. 917/1986 (ora art. 50) una nuova fattispecie di reddito assimilato ai redditi di lavoro dipendente, dedicata espressamente alle mance dei croupiers ed inserendo, nel successivo art. 48 (ora art. 51), un ultimo comma, volto a limitare la tassazione di tali mance al 75 per cento dell’ammontare percepito, la questione della tassabilità delle suddette mance era stata fortemente dibattuta in dottrina ed in giurisprudenza. Prima di tale intervento normativo, la giurisprudenza di merito, in diverse occasioni, aveva considerato tassabili le mance dei croupiers, sulla scorta dell’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione in ambito giuslavoristico, secondo cui le mance corrisposte con carattere di abitualità e continuità acquisirebbero natura retributiva soltanto nel momento in cui le stesse siano oggetto di uno specifico accordo negoziale e rappresentino a tutti gli effetti elemento integrativo 54 FICARI, La nozione di reddito di lavoro dipendente. Profili generali, in I redditi da lavoro dipendente, a cura di Ficari, cit., p. 17. 55 Così VIOTTO, in Considerazioni…, cit., pp. 1157-1158.

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della retribuzione. Tale scelta era stata mutuata dai giudici tributari, che avevano così fondato la tassabilità delle mance dei croupiers sul presupposto dell’esistenza di precisi accordi aziendali sul c.d. “punto mancia” 56 fra datore di lavoro/casa da gioco e dipendente/croupier. L’orientamento non era però condiviso dalla maggioranza degli autori 57 che dubitava fortemente della rilevanza fiscale delle suddette attribuzioni, per il fatto che si trattava, in realtà, di liberalità non provenienti dal datore di lavoro, non remunerative di alcun servizio e non aventi fonte né causa nel rapporto di lavoro. In particolare, si era rilevato che la mancia destinata al croupier, a differenza di quelle erogate alla generalità dei lavoratori, non è collegata ad una specifica prestazione ma ad un fatto assolutamente aleatorio (giacché, a fronte dell’indistinta esecuzione del servizio verso giocatori vincenti e non vincenti, solo i primi provvedono a corrispondere una somma proporzionale alla vincita) e totalmente svincolato dalle potenzialità dell’impiegato della casa da gioco 58. Per sgombrare il campo da tutte queste incertezze, il Legislatore aveva regolamentato la questione con la L. n. 381/1990, prevedendo anche una sorta di sanatoria per le annualità pregresse (che presupponeva il riconoscimento della natura interpretativa della citata disposizione) 59, che consentiva la liquidazione delle imposte dovute per gli anni precedenti, senza l’applicazione di sanzioni ed interessi. Risolto il problema delle mance agli impiegati tecnici delle case da gioco, rimaneva aperta la questione relativa alle altre categorie di lavoratori, anche perché l’intervento normativo citato appariva circoscritto ad uno specifico ambito e non estensibile dunque ad altri contesti, in considerazione di una così puntuale e precisa delimitazione soggettiva. La scelta del Legislatore, probabilmente condizionata dall’orientamento giurisprudenziale sopra citato, sembrava dunque essere stata ispirata da esigenze di semplificazione dell’azione accertatrice dell’Amministrazione finanziaria, che ve56

Previsti peraltro dall’art. 4 del D.P.R. n. 1420/1971. In particolare, in senso contrario alla tassabilità delle mance dei croupiers, si veda TESAURO, Le mance dei croupiers: reddito o liberalità, in Boll. trib., 1984, fasc. 7, p. 555; TESAURO, Ancora sulle mance dei croupiers, in Corr. trib., 1984, p. 1305. Più recentemente, PORCARO, Liberalità erogate al lavoratore dipendente da soggetti terzi, in Corr. trib., 1997, p. 2472. In senso favorevole, invece, si veda FERRAU’, Natura giuridica della mancia …, cit. 58 Così già SANTORO PASSARELLI, Mance dei giocatori vincenti e retribuzioni, in Giur. it., 1955, IV, p. 4; TESAURO, Le mance ..., cit.; più recentemente, si veda PURI, Mance ai croupiers: les jeux son faits?, in Riv. dir. trib., 1994, fasc. 6, p. 423. 59 Sul punto, si veda ancora MASTROIACOVO, Le mance ..., cit., p. 379, che, in senso critico verso l’orientamento della Corte di Cassazione di attribuire natura interpretativa e, dunque, efficacia retroattiva, alla norma in oggetto, osserva che, sebbene l’efficacia retroattiva della norma sia evincibile dal testo, ciò non esime l’interprete da una rigorosa verifica della natura interpretativa o innovativa della norma. 57

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niva finalmente sollevata dall’onere di dimostrare l’esistenza di dettagliate contrattazioni sul “punto mance”. Tale ratio sembra però essere venuta meno con l’entrata in vigore del già citato D.Lgs. n. 314/1997, che, oltre ad aver sostituito, come già rilevato, il nesso di dipendenza dal rapporto di lavoro con una mera relazione di occasionalità, ha radicalmente modificato la collocazione della fattispecie delle mance dei croupiers nell’ambito della categoria dei redditi da lavoro dipendente, che non viene più annoverata fra i casi di assimilazione, ma fa parte integrante della definizione generale ed in tale ambito è espressamente disciplinata. A questo punto, occorre chiedersi se tale modifica sottenda un mutamento di valutazione del Legislatore relativamente alla generalità delle mance percepite dai lavoratori dipendenti. A favore di tale interpretazione possono essere fatte alcune considerazioni. In primo luogo, la relazione governativa di accompagnamento del D.Lgs. n. 314/1997 attribuisce alla norma sui croupiers non più funzione “semplificativa”, bensì “agevolativa”, il ché sembrerebbe presupporre la tassabilità di tutte le altre mance (perché non avrebbe senso riconoscere l’esistenza di una norma di favore se non rispetto ad una regola generale deteriore rispetto ad essa); tale considerazione è inoltre avvalorata dalla sostituzione, nel dettato normativo, della formula in negativo «… non concorrono a formare il reddito … le mance … nella misura del 25 per cento …» con la formula in positivo «… le mance di cui all’art. … costituiscono reddito imponibile nella misura del 75 per cento …», che lascerebbe intendere che tutte le mance sono generalmente assoggettate a tassazione nella misura del 100 per cento. Tuttavia, ammettere tale soluzione implicherebbe introdurre nell’ordinamento tributario un caso di lampante disparità di trattamento fra due fattispecie analoghe (le mance ai croupiers e le mance agli altri lavoratori dipendenti) che non avrebbe alcuna ragion d’essere e alcuna giustificazione costituzionale rispetto agli artt. 3 e 53 della Cost., in virtù dei quali le disparità di trattamento fiscale devono essere ragionevoli, fondate su differenze effettive e coerenti con le finalità perseguite dal legislatore 60. Peraltro, nel caso di specie, la fattispecie agevolata sarebbe proprio quella che maggiormente rispecchia i tratti tipici della categoria di appartenenza, per la sistematicità e periodicità dell’erogazione delle mance, l’intermediazione del datore di lavoro nella corresponsione e la previsione contrattuale della mancia (che può essere legittimamente e giudizialmente pretesa dal croupier, in caso di omessa o erronea distribuzione). Sembra pertanto più ragionevole che siano state proprio tali peculiarità ad aver indotto il Legislatore del 1997 a modificare la collocazione e definizione del60

VIOTTO, Considerazioni …, cit.

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la fattispecie dai casi di mera assimilazione all’ambito proprio della categoria dei reddito da lavoro dipendente, e che la presunta funzione “agevolativa” (di cui alla relazione governativa già menzionata) rispetto alle mance corrisposte a tutti gli altri lavoratori dipendenti sia in realtà una funzione di mera forfetizzazione 61 rispetto alle generali regole di tassazione previste per tale categoria dei redditi da lavoro dipendente 62. Quanto alla possibilità di applicare analogicamente 63 la regola prevista per i croupiers alle altre categorie di lavoratori dipendenti, tale soluzione sarebbe da escludere, stante il divieto sancito dall’art. 14 delle preleggi di applicare le leggi che fanno eccezione (quali sono appunto le leggi che implicano una deroga o un’agevolazione rispetto ad una regola generale di tassazione) oltre i casi e i tempi in esse considerati 64. In verità, la dottrina tributaria ha prevalentemente ammesso il ricorso a procedimenti interpretativi analogici (asserendone la compatibilità con il principio di riserva di legge 65), tutte le volte che fossero giustificati dall’esistenza di un 61 La percentuale di esenzione, nella misura del 25 per cento, rappresenta la componente munifica della mancia, che, in quanto tale, non può essere tassata e, per semplicità, viene espressa in termini percentuali sul totale delle somme percepite. 62 VIOTTO, Considerazioni …, cit. 63 In questo caso sembra più corretto parlare di vera e propria integrazione analogica, nonostante la più volte rilevata difficoltà di distinguere casi di interpretazione estensiva da quelli di integrazione analogica (sul punto, FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, p. 108). Secondo MELIS (L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, pp. 378-379), la differenza fra interpretazione estensiva ed integrazione analogica sarebbe ravvisabile nella funzione e negli effetti, che, nel primo caso sarebbero, appunto, meramente interpretativi (muovendosi il procedimento all’interno di una norma) e, nel secondo, più propriamente integrativi ed effettivamente produttivi di una nuova norma, prima inesistente. Tale distinzione è stata altresì considerata importante dalla giurisprudenza penale, che ha riconosciuto l’operatività del divieto di cui all’art. 14 delle preleggi limitatamente ai casi di integrazione analogica (Cass., sez. pen., 29 aprile 1974, n. 1041, in Giust. pen., 1975, II, p. 655 ss.; Cass., sez. pen., 8 gennaio 1980, in Giust. pen., 1980, II, p. 490 ss.: «Con l’analogia, vietata in via di principio, non va confusa l’interpretazione estensiva, che si ha quando l’ambito di applicazione di una norma penale viene, per necessità logica e non per similitudine di rapporti, esteso ad un caso che, non essendo ivi previsto, si deve ritenere compreso nella norma stessa, risalendo all’intenzione del legislatore, cui si riferisce l’art. 12 delle disposizioni della legge in generale.»). Sulla base di tale differenziazione qualitativa, inoltre, si è escluso che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 236, comma 1, L. fall., al fatto espressamente previsto di attribuirsi attività inesistenti potesse essere equiparata la condotta di sopravvalutazione di attività esistenti (così Cass., sez. pen., 3 luglio 1991, in Foro it., 1992, II, c. 146 ss.). 64 In ambito tributario, tale divieto era stato fissato anche con maggiore enfasi, nell’ormai decaduta L. n. 80/2003 (legge delega per la “codificazione” del diritto tributario), che vietava «applicazione analogica delle norme fiscali che stabiliscono il presupposto e il soggetto passivo, le esenzioni e le agevolazioni». 65 FEDELE, in Appunti…, cit., p. 51 ss e pp. 108-109, osserva che «… la riserva di legge non

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principio di carattere generale (sotteso alla norma analogicamente applicata) estensibile ad altri ambiti non espressamente disciplinati 66. E tale ricorso è stato frequentemente ammesso anche in riferimento a norme di carattere eccezionale o derogatorio (quali sono appunto le norme agevolative o contenenti fattispecie di esclusione od esenzione 67), che, nel diritto tributario, sono spesso corpi normativi a carattere sistematico e dunque privi del carattere di specialità ed eccezionalità 68. In effetti, le norme di carattere eccezionale 69 o derogatorio sono, non di rado, espressione di un principio generale del diritto tributario, nel cui ambito si potrebbe procedere ad interpretazione estensiva e anche, ove ne ricorrano i presupposti, ad integrazione analogica 70. Orbene, per quanto attiene il trattamento fiscale delle mance corrisposte ai croupiers ed i principi da esso sottesi, possono essere fatte due ordini di riflessioni: da un lato, è evidente che l’agevolazione (o forfetizzazione o semplificazione) ad esse riservata dal legislatore, risponde alla chiara volontà di esentare da tassazione la componente munifica o liberale dell’attribuzione (il che ci porterebbe ad estendere analogicamente tale norma eccezionale ad altri casi di mance); dall’altro lato, non si può negare che la scelta di assoggettare la parte residua al trattamento riservato ai redditi da lavoro dipendente, ne presuppone la qualificazione come un’attribuzione non liberale, proprio in quanto oggetto di un preciso obbligo del datore di lavoro e, pertanto, del tutto assimilabile alla retribuzione contrattuale (qualificazione che, evidentemente, per le ragioni già evidenziate, non può essere estesa agli altri tipi di mance). esclude neppure l’interpretazione analogica nell’area della disciplina individuante i singoli istituti tributari (attinente cioè al presupposto ed ai soggetti passivi) ... pur essendo “… comunque limitata dalle tecniche redazionali normalmente utilizzate dal Legislatore fiscale, fortemente condizionato da esigenze di certezza del diritto e di esaustività della previsione testuale ...». 66 Sul punto, GIANNINI, L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1941, p. 120 ss.; in senso conforme, MAFFEZZONI, Valore positivo dei principi costituzionali in materia tributaria, in jus, 1956, p. 331, nota 12, per il quale, «… il principio di diritto è … elemento della norma impositiva, onde il non applicare tale norma a tutte le ipotesi a cui il principio del diritto può essere esteso, equivale a violarla». Ancora, secondo autorevole dottrina, l’analogia sarebbe lo strumento che l’ordinamento ha creato per permettere al giudice ed all’amministratore di attuare la legge secondo i principi che la informano (MICHELI, Corso di diritto tributario8, Torino, 1989, p. 81; FANTOZZI, Il diritto…, cit., p. 235; FEDELE, La riserva di legge, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, I, t. 1, p. 174). 67 Sulla nozione di “agevolazione” si veda BASILAVECCHIA, Agevolazioni, esenzioni, ed esclusioni, in Rass. trib., 2002, p. 421 ss. 68 FANTOZZI, Il diritto ..., cit., p. 229. 69 MELIS, in L’interpretazione …, cit., pp. 431-434, evidenzia la difficoltà di fornire una definizione precisa di norma eccezionale nell’ambito del diritto tributario. 70 MELIS, in L’interpretazione …, cit., p. 434.

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Da queste considerazioni discende l’assunto per cui proprio un’attenta riflessione sulle ragioni di principio sottese alla qualificazione ed al trattamento fiscale riservato dal legislatore alle mance dei croupiers, ci spinge a negare la possibilità di un’interpretazione estensiva o analogica. A conferma di quanto appena detto, si osserva che anche l’analisi dei lavori preparatori alla riforma introdotta con D.Lgs. n. 314/1997 (particolarmente utile al fine di individuarne la ratio e coglierne lo spirito 71) porta ad escludere da tassazione le mance diverse da quelle dei croupiers: in una delle ultime Relazioni parlamentari di accompagnamento del decreto legislativo citato 72, si legge molto chiaramente «… per quanto concerne le mance contrattualmente previste ai croupiers, valuti il Governo se non sia possibile escludere tali mance quantomeno dalla base imponibile previdenziale; quelle non previste contrattualmente non costituiscono reddito da lavoro dipendente …». È dunque evidente che non era intenzione del Legislatore assoggettare a tassazione le mance corrisposte a lavoratori dipendenti diversi dai croupiers. 4.2.2. La complessa figura del portiere d’albergo Una delle figure professionali (diverse dal croupier) maggiormente interessate dal fenomeno delle mance è quella del portiere d’albergo o concierge (in gergo internazionale) 73, cui si vuole dedicare uno specifico approfondimento nel presente lavoro, per evidenziare i riflessi fiscali correlati alle peculiari e molteplici mansioni cui è preposto (che costituiscono anche la ragione della simpatia di cui generalmente gode nell’immaginario collettivo). Discreto osservatore di un’umanità variegata, in micro mondi (i grandi alberghi), dove trovano espressione i vizi e le virtù della società contemporanea, il portiere d’albergo è certamente un personaggio molto suggestivo (presente anche nel cinema 74 e nella letteratura 75), per la sua privilegiata posizione di scruta71 Il cosiddetto argomento psicologico (o ricorso alla volontà del legislatore) rappresenta, in assenza di riferimenti normativi precisi, uno degli elementi da considerare per giungere all’individuazione della mens legis. Si veda FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 1997, pp. 175-177. Si veda ancora FEDELE, Appunti, cit., p. 102 ss. e FANTOZZI, Il diritto ..., cit., p. 226 ss. 72 Relazione della Commissione parlamentare consultiva in materia di riforma fiscale ai sensi della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (legge delega del D.Lgs. n. 314/1997), Resoconto di martedì 22 luglio 1997, Presidente Salvatore Biasco. 73 Qualcuno fa risalire l’origine della parola concierge al latino conversus, che significa persona convertita in età adulta alla vita monastica e di preghiera; più evidente la derivazione della parola italiana “portiere” dalla parola “porta” (accesso). 74 Si pensi a Il portiere di notte film italiano del 1974 per la regia di Liliana Cavani, nel quale, la misteriosa figura del portiere d’albergo e del suo habitat diviene il pretesto per raccontare le profondità ed i turbamenti dell’animo umano e il dramma dell’Olocausto; si pensi, molto più recen-

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tore dell’animo umano e per la sua naturale propensione a risolvere problemi e soddisfare aspettative. La professione del concierge ha origini piuttosto risalenti, da ricercare fin nel lontano medioevo, in cui era invalsa l’usanza di far presidiare gli accessi ai luoghi importanti (città, castelli, caserme e palazzi patrizi o di governo) da personaggi dotati di forte senso di responsabilità, cultura ed acume, in grado di capire velocemente chi meritasse di essere accolto ed eventualmente aiutato e chi respinto. Le funzioni del portiere, come già rilevato, sono molteplici. Egli è preposto all’accoglimento dei clienti dell’albergo, dà il benvenuto, si preoccupa dell’accompagnamento in camera e, durante la permanenza, svolge innumerevoli servizi ad essa accessori e funzionali: suggerisce e prenota ristoranti, acquista biglietti di spettacoli teatrali e cinematografici, di eventi sportivi, dà suggerimenti in merito ad eventi artistici, culturali e ricreativi in genere, prenota taxi ed acquista biglietti di treni e aerei, gestisce i bagagli degli ospiti in entrata ed in uscita, occupandosi anche della spedizione ed organizza egli stesso eventi ricreativi per i clienti, in occasione di particolari e straordinarie circostanze, all’interno della struttura alberghiera. Il portiere è colui che per primo e per ultimo vede il cliente, un autentico padrone di casa, punto di riferimento di ogni ospite, capace di soddisfare tutte le esigenze con proverbiale discrezionalità. Offre sicurezza, qualità e soddisfazione e la sua presenza è indispensabile per rendere indimenticabile la vacanza dei turisti. Il concierge è inoltre chiamato ad interagire con tutti i reparti della struttura alberghiera, proprio in quanto destinatario delle costanti sollecitazioni, richieste e lamentele del cliente, che fà proprie fino alla completa risoluzione. Le mansioni che dunque il portiere d’albergo è chiamato a svolgere sono molteplici, estremamente variegate e tali da creare un fortissimo legame di complicità ed intimità col cliente, che si sentirà personalmente obbligato in misura proporzionale alla simpatia ed alla cortesia riscontrata. È evidente che il portiere d’albergo, più di tanti altri lavoratori dipendenti, è direttamente interessato dal fenomeno delle mance, che saranno tendenzialmente proporzionali alle esigenze del cliente (verosimilmente maggiori in strutture di lusso) ed alla qualità dei servizi eseguiti. La peculiarità (sotto il profilo dei possibili risvolti fiscali connessi alla percezione delle mance) di tale figura professionale sta in ciò, che la molteplicità delle mansioni da lui eseguite potrebbe facilmente ingenerare, presso operatori del temente, al raffinato personaggio (portiere – maestro di vita di una giovanissima Julia Roberts) nell’ormai celebre film Pretty Woman. 75 Solo per citare gli esempi più recenti, si pensi al sensibile portiere di Risveglio a Parigi di Margherita Oggero o all’enigmatico personaggio femminile di L’eleganza del riccio, di Muriel Barbery, (quest’ultimo ambientato, in verità, non in un albergo, ma in un elegante palazzo di Parigi).

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settore (in special modo organi verificatori) l’equivoco convincimento dell’esercizio di una impresa di servizi generici, con possibile notevole pregiudizio (in termini soprattutto di conseguente assoggettamento ad IVA dei maggiori imponibili accertati) per il portiere oggetto di verifica fiscale. Per questa ragione è sembrato opportuno precisare che le variegate mansioni già menzionate rientrano pienamente nel ruolo “istituzionalmente” ed internazionalmente riconosciuto al concierge, sebbene esse non siano sempre oggetto di espressa pattuizione con l’albergo/datore di lavoro, e dànno luogo unicamente alla corresponsione di vere e proprie mance (fiscalmente irrilevanti, in base a quanto detto finora) da parte dei clienti e non già a ricavi derivanti dall’esercizio di attività d’impresa.

4.3. La mancia rispetto agli «… obblighi di fare, non fare, permettere ...» di cui all’art. 67 del TUIR A questo punto, esaminata la questione delle mance nell’ambito delle categorie dei redditi da lavoro dipendente, d’impresa e autonomo, ed appurato che la fattispecie in tali ambiti non presenta profili di “imponibilità”, configurandosi come liberalità non direttamente scaturente dalla relativa fonte produttiva, nei termini meglio precisati sopra in riferimento a ciascuna delle suddette categorie, non resta che valutare la possibilità di fare ricadere la fattispecie studiata in una delle ipotesi contemplate e tassativamente elencate dall’art. 67 del TUIR. Nella categoria denominata “redditi diversi” il legislatore ha raggruppato una serie di ipotesi residuali ed eterogenee, tassativamente elencate e dettagliatamente descritte, non riconducibili alle categorie “tipiche” per mancanza di uno o più elementi essenziali, cui è stata aggiunta una formula di chiusura di portata generale, riguardante redditi che derivano da «… obblighi di fare, non fare e permettere …» 76, che rende il sistema delle imposte sui redditi tendenzialmente comprensivo di ogni ipotesi di reddito prodotto. Nonostante la genericità della formula di chiusura citata e la sua potenziale adattabilità alle più svariate situazioni non espressamente annoverate nella vasta casistica di fenomeni imponibili disciplinati nel TUIR, si può affermare, alla luce dello studio condotto fin qua, che essa non appare comunque idonea a ricomprendere la fattispecie studiata. La condizione di totale libertà e piena discrezionalità del donante nell’atto di 76

Si è osservato che tale generica formulazione, pur essendo diversa da quella precedente (che conteneva una previsione di chiusura secondo la quale al reddito complessivo concorreva «…ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati.»), finisce di fatto per riaprire le porte a quella incertezza interpretativa che si era voluta eliminare con l’emanazione del TUIR. Così FANTOZZI, in Il diritto…, cit., p. 868.

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corresponsione della mancia e la qualificazione operata sopra come “donazione remuneratoria” (che ci porta ad escludere persino l’esistenza di doveri “non contrattuali” di carattere morale o sociale) risultano infatti del tutto incompatibili con qualsiasi situazione di “obbligo”. Tuttavia, anche la diversa qualificazione giuridica delle mance come “liberalità d’uso” (che si è precedentemente esclusa) non dovrebbe comunque comportare l’applicabilità di tale articolo di legge, qualora si consideri l’«…obbligo di fare, non fare o permettere» cui fa riferimento la citata norma, un vero e proprio obbligo contrattuale, diverso da quello sociale derivante da meri usi di fatto 77.

5. Considerazioni conclusive: il problema delle mance, fra dovere alla contribuzione e certezza del diritto Alla luce delle argomentazioni che precedono, si possono trarre alcune sintetiche considerazioni finali. Lo studio condotto sulla particolare fattispecie delle mance corrisposte nel territorio nazionale a soggetti diversi dal croupier ci ha portato a qualificarle come “donazioni remuneratorie” di cui al comma 1 dell’art. 770 c.c., in ragione del fatto che esse non hanno valenza o funzione retributiva del servizio reso. La qualificazione delle mance come donazioni ci ha poi (“istintivamente”) indotto a considerarle fiscalmente irrilevanti nel sistema reddituale italiano, in armonia con importanti principi generali dell’ordinamento tributario (come il principio di “derivazione del reddito da una fonte produttiva” 78 e di “divieto di doppia imposizione”). Successivamente, l’analisi della disciplina delle liberalità nella casistica annoverata nel sistema reddituale del TUIR, ha, sorprendentemente, mostrato una certa coerenza di tale sistema con i principi generali dapprima evocati, confermando le considerazioni fatte sopra. Tale analisi ha infatti mostrato che, in generale, il sistema del TUIR richiede, perché una liberalità (per esempio, una mancia) sia assoggettata a tassazione, una certa riferibilità alla fonte produttiva di volta in volta esaminata, o, più precisamente, una relazione di causa-effetto, e non di mera occasionalità, con l’azione 77 Peraltro, a seguito delle modifiche introdotte dal Decreto Bersani, anche le somme erogate in ragione di obblighi di fare, non fare, permettere, sono soggette a ritenuta ex art. 25 D.P.R. 600/73; per cui, anche in considerazione di tale obbligo, tale ipotesi non appare estensibile alla fattispecie studiata. 78 Si è peraltro osservato che l’indubbia apertura del Legislatore fiscale verso forme di imposizione di casi di reddito-entrata non ha comunque attenuato la portata del principio di derivazione del reddito dalla relativa fonte produttiva.

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umana (o la “condizione umana”) assunta a presupposto di tassazione della relativa categoria. Lo studio delle singole categorie reddituali ha dunque confermato le considerazioni svolte in caratteri generali sulla necessità di tassare solo redditi prodotti dal percipiente e di ravvisare pertanto un nesso “sufficientemente stringente” fra l’arricchimento e l’attività produttiva che ne è causa o concausa; nesso che, nella categoria dei redditi da lavoro dipendente, si sostanzia in una vera e propria «..derivazione dal rapporto di lavoro» e, nella categoria del reddito d’impresa o di lavoro autonomo, richiede quanto meno la riconducibilità allo status di imprenditore. In particolare, lo studio della categoria dei redditi da lavoro dipendente è pervenuto all’esito per cui non sembra ammissibile, anche alla luce delle significative modifiche apportate dal D.Lgs. 314/1997, l’inclusione di redditi aventi col rapporto di lavoro una mera relazione di occasionalità e non di vera e propria «derivazione», come espressamente richiesto dall’art. 49 del D.Lgs. 917/1986. L’esistenza di un rapporto liberale fra l’erogatore ed il percettore della mancia, che nasce in occasione dello svolgimento dell’attività del lavoratore alle dipendenze del datore di lavoro, non sembra sufficiente a realizzare quel nesso di derivazione richiesto dall’art. 49 citato, che postula con una certa chiarezza il verificarsi di una situazione nella quale il reddito trova la sua causa e la sua fonte nel rapporto di lavoro. Nella stessa direzione è orientata parte della dottrina tributaria 79 che, in generale, ravvisa nell’esistenza di uno specifico riferimento causale al rapporto di lavoro il discrimine fra erogazioni liberali tassabili e non tassabili 80. 79

TOSI, Predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, p. 60; CROVATO, La riforma dei redditi da lavoro dipendente, in Corr. trib., ins. n. 12/1997, p. 4; CROVATO, Redditi di lavoro dipendente: quale rapporto tra liberalità e compensi imponibili?, in Riv. dir. trib., 1997, fasc. 2, pp. 340-341. 80 A questo proposito, va tuttavia segnalato il più recente e contrastante orientamento della Giurisprudenza di merito della Sardegna, che riflette, a ben vedere, la complessità e difficoltà della questione analizzata. In particolare, la sentenza n. 23/03/12 della Terza Sezione della Commissione Tributaria Provinciale di Sassari ha escluso qualsiasi possibilità di tassazione della mance percepite dal “capo portiere” di un altro albergo della Costa Smeralda, perché non riconducibili nella nozione di retribuzione, in quanto erogate da un soggetto terzo e totalmente estraneo al rapporto di lavoro subordinato; secondo i Giudici della terza sezione sassarese infatti l’estensione della tassazione dei redditi da lavoro dipendente alle liberalità (operata con le citate riforme) sarebbe comunque riferibile in via esclusiva alle erogazioni fatte dal datore di lavoro nell’ambito ed in dipendenza del rapporto subordinato. Invece, contrariamente, la sentenza n. 157/01/12 della Prima Sezione della stessa Commissione Tributaria Provinciale ha ammesso la rilevanza fiscale delle mance percepite dal “capo ricevimento” di un albergo della Costa Smeralda (recependone la qualificazione fatta dall’Ufficio finanziario come reddito da lavoro dipendente), in ragione dello stretto rapporto causale con le mansioni esercitate nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato e sul presupposto che le modificazioni (in senso estensivo) operate negli anni sull’art. 51 del

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IL TRATTAMENTO FISCALE DELLE MANCE CORRISPOSTE AL PORTIERE D’ALBERGO

Quanto fin qui detto, chiaramente, non vale per le mance corrisposte ai croupiers, che sono contrattualmente previste e fanno parte integrante della retribuzione corrisposta dal datore di lavoro (al punto che possono essere legittimamente rivendicate, in caso di omessa o erronea quantificazione) e per le quali, evidentemente, non viene meno quel nesso di derivazione dal rapporto di lavoro, in considerazione del necessario intervento del datore di lavoro / casa da gioco nella raccolta e nella distribuzione delle stesse. Le particolari caratteristiche delle mance corrisposte ai croupiers, che le rendono del tutto parificabili ai redditi da lavoro dipendente, hanno probabilmente indotto il Legislatore a modificarne la collocazione nel TUIR, dalle fattispecie di mera assimilazione di cui all’art. 50 all’ambito generale della categoria, per differenziarne il trattamento fiscale rispetto alle altre mance, che nelle intenzioni del Legislatore (chiare ed evidenti anche nei lavori preparatori alla riforma), «..non costituiscono redditi da lavoro dipendente..». A questo punto, appurata l’assenza di norme che disciplinino il trattamento fiscale delle mance corrisposte a soggetti diversi dai croupiers, appare doverosa 81 una riflessione circa l’impossibilità di desumerne la tassazione per diretta applicazione dell’art. 53 della Costituzione 82, stante l’indiscutibile rilevanza del fenomeno, sotto il profilo della capacità contributiva da esso espressa, nell’ambito di contesti turistico-ricettivi di lusso. L’art. 53 della Costituzione non può essere utilizzato per trarre l’assoggettamento ad imposizione di fattispecie non espressamente disciplinate, pur se fortemente sintomatiche di capacità economica, perché la sua principale funzione consiste nel porre un limite alla potestà impositiva del Legislatore, per garantire equità ed eguaglianza ed evitare privilegi e disparità che non trovino giustificazione in una differente attitudine al concorso alla spesa pubblica 83. D.P.R. 917/86 rivelerebbero l’intento del Legislatore di estendere i confini della tassabilità della categoria dei redditi da lavoro dipendente ad ipotesi che prima ad essa sfuggivano. Va tuttavia rilevato che la Sezione Staccata di Sassari della Commissione Tributaria Regionale di Cagliari, con sentenze n. 65/08/14, n. 66/08/14 e n. 67/08/14, ha poi ribaltato l’esito di quest’ultima sentenza, escludendo per le mance dei portieri d’albergo qualsiasi rilevanza reddituale. 81 Soprattutto, in considerazione della prassi operativa invalsa presso gli uffici finanziari di attuare procedure di accertamento a carico di soggetti fruitori di mance, facendo ricorso al principio di cui all’art. 53 Cost. 82 Sulla questione, che si è posta recentemente, anche se in termini diversi, nell’ambito dell’elusione fiscale, si veda FEDELE, Appunti …, cit., pp. 60-61. Si vedano ancora FICARI, Elusione ed abuso del diritto comunitario tra “diritto” giurisdizionale e certezza normativa, in Boll. trib., 2008, fasc. 22, pp. 1775-1778, FICARI, Clausola generale antielusiva, art. 53 della Costituzione e regole giurisprudenziali, in Rass. trib., II, 2009, p. 390 e BEGHIN, Abuso del diritto, giustizia tributaria e certezza dei rapporti tra Fisco e contribuente, in Riv. dir. trib., fasc. 5, 2009, 2, pp. 415-417. 83 Per approfondimenti, si veda FEDELE, Concorso alle spese pubbliche e diritti individuali, in Riv. dir. trib., 2002, fasc. 1, p. 31 ss.

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Per realizzare tale fine, però l’art. 53 ha necessità della mediazione dell’art. 23 della Costituzione, che impone al Legislatore di operare una selezione dei fatti espressivi di tale capacità e di individuare le regole più appropriate per assicurarne la congrua tassazione. L’art. 23 ha quindi il compito fondamentale di garantire certezza nel rapporto tra Fisco e contribuenti (che altrimenti sarebbe lasciato alla libera determinazione delle parti 84), offrendo stabili indicazioni in merito all’entità dei carichi tributari scaturenti dalle fattispecie concretamente poste in essere e sulle precise modalità tecniche per assolvere a tali carichi 85. A tale proposito, appare utile evidenziare che, nella fattispecie studiata, l’assenza di precise indicazioni normative e tecnico-operative (per esempio in tema di ritenuta d’acconto o sostituzione d’imposta) renderebbe praticamente impossibile il concorso alla spesa pubblica da parte dei percettori di mance che desiderassero comunque adempiere spontaneamente e proporzionalmente alle stesse, a differenza di quanto accade invece ai croupiers, che sono soggetti a regole certe e a chiari meccanismi di “intermediazione” e sostituzione della casa da gioco. Per concludere, si ritiene insostenibile la posizione dell’Amministrazione finanziaria, che, nonostante l’indiscutibile assenza di riferimenti normativi, pretende di inferire la tassabilità delle mance corrisposte a tutti i lavoratori dipendenti, dalla disciplina prevista per i croupiers, fondando tale convinzione sull’erroneo presupposto che la disposizione di cui all’art. 51, comma 2, lett. i), contenga una norma di favore rispetto all’asserita imponibilità ordinaria di tutte le mance. Al contrario, la puntuale disciplina del trattamento fiscale delle mance corrisposte ai dipendenti delle case da gioco nell’ambito della categoria dei redditi da lavoro dipendente è, a ben vedere, la dimostrazione che il Legislatore ha riscontrato una totale rispondenza ai requisiti fissati per la nozione generale di tale categoria ed ha ritenuto opportuna l’applicazione delle relative regole di tassazione (pur riconoscendo l’applicazione di una franchigia corrispondente alla componente munifica della mancia), differenziandone il trattamento fiscale rispetto all’esenzione generalmente riconosciuta a tutte le altre mance.

84 Sui limiti all’integrabilità della disciplina da parte dell’Amministrazione finanziaria si veda ancora FEDELE, Appunti…, cit., pp. 64-65. 85 FANTOZZI, in Il diritto ..., cit., p. 53, osserva che la relazione fra i due principi costituzionali può essere efficacemente descritta come il rapporto fra due sfere concentriche, in cui la più ampia ed esterna rappresenta la grande categoria delle prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost., e la più piccola e interna rappresenta le prestazioni di cui all’art. 53. Tale metafora esprime bene anche la prevalenza del principio di riserva di legge rispetto a quello di capacità contributiva.

                         

SEZIONE II ONEROSITÀ, GRATUITÀ E LIBERALITÀ NELLA PROSPETTIVA DELL’IMPRESA INDIVIDUALE, SOCIETARIA E CONSORTILE

ECONOMICITÀ NELLE IMPRESE INDIVIDUALI E SOCIETARIE E ATTI ONEROSI, GRATUITI E LIBERALI

di Elisabetta Loffredo SOMMARIO: 1. Attività economica, atti onerosi e atti non corrispettivi antieconomici. – 2. La compatibilità con l’attività economica di atti onerosi non remunerativi e di atti non onerosi a rilievo economico. – 3. L’apprezzamento dell’atto nella relazione con l’attività e con l’operazione economica. – 4. Il rispetto del criterio di economicità e le compensazioni esterne. – 5. Economicità della gestione, atti non remunerativi e senza corrispettivo nelle imprese individuali e societarie tra moventi e causa associativa.

1. Attività economica, atti onerosi e atti non corrispettivi antieconomici Le questioni evocate dal titolo, in questa sede possono venire affrontate solo in una prospettiva limitata, orientata a tracciare le linee di interferenza e i criteri di compatibilità tra i canoni giuridici dell’esercizio di un’attività imprenditoriale e lo svolgimento, in quel medesimo contesto, non solo di atti onerosi remunerativi, come è proprio di esso, ma anche di atti apparentemente antieconomici, poiché a titolo gratuito e liberali. Rispetto alla fattispecie dell’impresa assunta nel diritto commerciale la relazione si instaura tra un’attività che, come è noto, deve risultare programmata, al suo minimo, a recuperare i costi di produzione quale condizione minima per la prosecuzione dell’iniziativa produttiva, e in funzione di tale carattere qualificata economica 1, e singoli atti giuridici di diversa natura, non tutti compatibili in astratto o non compatibili in uguale modo con l’indirizzo economico che caratterizza lo svolgimento di un’impresa. Le conseguenze di una deviazione dal perseguimento di tali obiettivi, anche 1 Sul concetto di economicità dell’attività nell’impresa sia permesso rinviare a LOFFREDO, Economicità e impresa, Torino, 1999, passim.

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con un singolo atto non remunerativo, in modo diretto o indiretto, dei costi di esercizio, si svolgono sul terreno della responsabilità dell’imprenditore – nonché dei suoi partecipanti, nelle società di persone, e in ogni caso suoi gestori -, e su quello dell’illecito concorrenziale, per violazione delle regole sulla lealtà della concorrenza e sulla concorrenza non falsata. L’apprezzamento dell’attività secondo una prospettiva unitaria, che si impone a causa della saldatura che la finalità economica produttiva opera tra i diversi atti che la compongono, potrebbe indurre a formulare giudizi di segno opposto, in relazione all’appartenenza dell’atto stesso ad una o ad altra categoria. In particolare, sembrerebbero da doversi considerare distintamente, da un lato, tutti gli atti a titolo oneroso, nei quali entrambe le parti del rapporto subiscono sacrifici e acquisiscono vantaggi, anche in misura diversa e non necessariamente proporzionata o sinallagmatica, e, dall’altro, tutti quelli che non sono a titolo oneroso o, meglio, non sono corrispettivi. Semplificando, e quindi rinunciando a una gran parte della ricchezza di posizioni e della vivacità del dibattito tuttora in corso nella dottrina civilistica a proposito dei concetti di gratuità e di liberalità, può assumersi come criterio identificativo degli atti gratuiti quello della assenza di un corrispettivo immediato o diretto, e nell’essere preordinati a realizzare l’arricchimento del beneficiario, in assenza di qualsiasi interesse economico del disponente, la connotazione degli atti di liberalità 2. Sulla base di questa sintetica prospettazione, dunque, nel valutare i singoli e diversi atti di cui l’attività d’impresa si compone, potrebbe parere, a prima vista, che si debba esprimere un giudizio generale di coerenza degli atti a titolo oneroso con l’equilibrio economico necessario all’impresa, e di incoerenza, secondo un grado crescente, degli atti gratuiti e di quelli liberali, benché possa ritenersi sostanzialmente ormai fugato ogni dubbio sulla capacità di donare dell’impresa 3 e, quindi, sulla teorica ammissibilità di liberalità anche di carattere donativo da parte di quest’ultima. 2 Per i concetti di liberalità e gratuità, oltre che al contributo fondamentale di PALAZZO, Le donazioni, in Il codice civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1991, e ai più recenti dello stesso A., Atti gratuiti e donazioni, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, II, I singoli contratti, Torino, 2000, passim, si rinvia al volume I contratti gratuiti, a cura di Palazzo e Mazzarese, in Tratt. dei contratti, diretto da Rescigno e Gabrielli, 10, Torino, 2008, ove, in particolare, PALAZZO, Gratuità e attuazione degli interessi, p. 17 ss. Per la compiuta ricostruzione dell’ambito delle liberalità diverse dalla donazione, la ricerca e l’individuazione dei criteri di qualificazione delle figure che vi si riconducono, si v. CAREDDA, Le liberalità diverse dalla donazione, Torino, 1996, passim. 3 Per la disciplina previgente inerente ai limiti alla donazione da parte di delle persone giuridiche e l’impostazione, ad allora risalente, coinvolgente anche le società commerciali si v., per tutti, TORRENTE, La donazione, Milano, 1956; in senso diverso però, cfr., ad esempio, OPPO, Sulle erogazioni gratuite delle aziende di credito, in Banca, borsa, tit. cred., 1982, I, p. 926 ss., e ora in Scritti giuridici, IV, Padova, 1992. Per una ricostruzione recente del problema cfr. MOROZZO DELLA ROCCA, Profili civilistici delle “donazioni” d’impresa, in Contr. e impresa, 2008, p. 227 ss.

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Infatti, ove se ne faccia una considerazione astratta, gli atti a titolo oneroso svolti nel contesto della attività imprenditoriale generano per l’impresa il diritto, o l’aspettativa giuridicamente tutelata, a un vantaggio patrimoniale. Quindi, essi sono quelli grazie ai quali possono venire rigenerate le risorse impiegate nel ciclo della produzione e garantita la continuità aziendale. Invece, gli atti dispositivi privi di corrispettivo – gratuiti e in specie liberali, anche diversi dalla donazione -, improduttivi di vantaggi patrimoniali diretti, causano diseconomie dissipando ricchezza, di modo che, ancora in astratto, si prospettano nocivi per l’equilibrio della gestione. In presenza di questi ultimi, quindi, si motiverebbe l’assoggettamento della condotta complessiva o del singolo atto a regole differenziate rispetto a quelle ordinarie che regolano la dimensione dell’azione imprenditoriale svolta correttamente nei rapporti di mercato, e secondo criteri di buona e corretta gestione nei rapporti interni e nei confronti dei creditori.

2. La compatibilità con l’attività economica di atti onerosi non remunerativi e di atti non onerosi a rilievo economico A una riflessione più attenta, invece, può giustificarsi l’accoglimento di opinioni meno nette rispetto a quelle poco sopra prospettate, o se non altro più articolate. Nella categoria degli atti onerosi rientrano, infatti, anche atti in concreto incapaci di contribuire alla stabilità dell’impresa, quando la onerosità non si traduca né in piena corrispettività, né in un livello almeno adeguato alla remunerazione dei costi della prestazione resa. Situazione, questa, che si evidenzia in modo emblematico nelle vendite sotto costo 4 o effettuate a prezzi predatori, ma anche in presenza di atti con prestazioni affette da squilibri meno gravi per l’impresa, conseguenti all’adozione di politiche concorrenziali aggressive, sia quale nuovo entrante, sia quali forme di sfruttamento del mercato da parte del soggetto in posizione dominante 5. Tutte le ipotesi di manovre ribassiste, salvo che non siano giustificate da fini promozionali, dalle caratteristiche del prodotto – deperibilità, 4

La casistica giurisprudenziale in tema, è articolata in interventi del giudice ordinario, della Autorità Garante della concorrenza e del mercato e del giudice amministrativo e così nutrita che non è possibile qui richiamarla. In generale, sul concetto di vendita sotto costo e l’interferenza tra slealtà concorrenziale e regole antitrust, v. NICCOLINI, Le vendite sottocosto, Torino, 2001, e in giurisprudenza, per tutte, Cass. 16 novembre 2000, n. 14844. Per applicazioni nell’esperienza più recente, v., ad esempio, Cass. 14 giugno 2010, n. 14251, per la vendita sottocosto posta in essere da impresa in posizione dominante tale da frapporre l’ingresso nel mercato di altri concorrenti; Trib. Bari, 28 aprile 2011, in www.Giurisprudenzabarese.it, 2011. 5 V. Trib. Torino, 25 marzo 2004, in Giur. comm., 2005, II, p. 33, con nota di FAELLA, Vendita sotto costo e slealtà concorrenziale: applicazioni opinabili di una figura in cerca d’autore.

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obsolescenza, stagionalità – o dalla riduzione dei costi di produzione 6, risultano, infatti, prive di un fondamento di tipo gestionale e si motivano in termini di pura strategia commerciale di genere predatorio. Gli atti finalizzati a tali obiettivi concorrenziali erodono risorse e presuppongono, se reiterati e posti in essere durevolmente, o almeno in modo non episodico, che l’impresa possegga direttamente o attinga all’esterno a una ricchezza finanziaria sufficiente a sostenere l’antieconomicità 7 della gestione. Si collocano, perciò, al di fuori del “normale” esercizio e possono fondare specifiche responsabilità dell’impresa in termini di rispetto delle regole sulla lealtà e sulla non alterazione della concorrenza. D’altra parte, minando l’integrità del patrimonio destinato all’attività e rischiando di compromettere la continuità aziendale, possono giustificare l’esperimento di azioni risarcitorie contro il titolare o i gestori dell’impresa sociale. L’opposto può dirsi per taluni atti privi di corrispettivo i quali, anche se immediatamente depauperativi della sostanza patrimoniale dell’impresa, possono tuttavia essere interdipendenti con una diversa attribuzione a suo favore, generata anche da un rapporto distinto, o con un risultato sperato utile, sicché, senza che a causa di ciò muti il carattere gratuito dell’atto, essa risulta portatrice di un interesse economico rispetto agli effetti dell’atto medesimo. Non vi sarebbe quindi alcuna contraddizione con il criterio di economicità di gestione quando l’atto gratuito si colleghi al ciclo produttivo, secondo uno o altro criterio, che si cercherà qui di seguito di precisare. La tipologia degli atti gratuiti ma economicamente interessati a mio parere comprende, in primo luogo, atti “interni”, cioè posti a servizio del ciclo produttivo e funzionali alla sua maggiore efficienza ed efficacia. A questo genere potrebbero ascriversi, ad esempio, il trasporto gratuito dei dipendenti, il comodato di un immobile in relazione a prestazioni di custodia o di manutenzione, la gestione della mensa interna e così via. Vi si potrebbero ricondurre, altresì, le prestazioni di fare o dare gratuite o non remunerative e l’assunzione di obbligazioni da parte di una società a favore di altra società del gruppo, in particolare di obbligazioni di garanzia o la prestazione di patronage, fondate sulla esistenza di direzione e

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Per l’esclusione della concorrenza sleale per vendita sottocosto quando la vendita di prodotti a prezzi più vantaggiosi derivi da una contrazione del profitto o da una reale diminuzione dei costi, v. Trib. Nuoro, 3 luglio 2003, in Riv. giur. sarda, 2004, p. 759, nota DEPAU. 7 In questi termini VIGO, Le vendite a prezzi predatori e le strategie di marketing, in Giur. comm., 2003, II, p. 165, al quale si rinvia anche per i riferimenti alla letteratura sul tema. Per una applicazione giurisprudenziale costituente uno dei leading cases, a esito di una vicenda con contrastanti esiti giurisprudenziali, cfr. Cons. Stato, 1 ottobre 2002, n.5156, sez. VI, in Giur. comm., 2003, II, p. 150 ss., con nota di COLANGELO, Enel/Infostrada e la “terza via” del Consiglio di Stato; più di recente, Cons. Stato, 13 maggio 2011, n. 2925, sez. VI, in Foro amm., 2011, p. 1261 ss.

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coordinamento unitari 8. Il criterio che riconduce questo genere di atti nella prospettiva dell’economicità della gestione risulta quindi quello della loro diretta riferibilità all’esercizio dell’impresa – propria o di società del gruppo –, con il quale risultano funzionalmente integrati. Appartengono poi alla stessa categoria di atti gratuiti economicamente interessati tutti gli atti di mercato, cioè destinati ad un pubblico indeterminato di consumatori e utenti o allo specifico contraente, o anche quelli riservati a soci e dipendenti, che attengono a prestazioni complementari, accessorie o prodromiche rispetto a quelle proprie dell’impresa e svolte tramite contratti essenzialmente gratuiti o privi o con corrispettivo solo simbolico. Gli esempi possono rinvenirsi nel mandato, nel deposito o, ancora, nella prestazione di altri servizi svolti in guisa di prestazioni accessorie gratuite rese in numerosi ambiti di impresa 9, o di prestazioni funzionali collocate a monte rispetto alla prestazione tipica, come nel caso della concessione di licenza gratuita, di software o di altri oggetti protetti dalla proprietà intellettuale, da parte degli Internet Providers agli utenti, come presupposto funzionale, appunto, del servizio fornito. L’interdipendenza tra atto gratuito e risultato utile assume, in queste situazioni, la forma della accessorietà o della connessione del servizio o della prestazione svolti a titolo gratuito rispetto a un rapporto principale, il quale funge da strumento di attrazione del primo nella economicità della gestione. Agli atti già indicati si sommano, inoltre, tutte le forme di cessione gratuita di beni, singoli o in abbinamento, ampiamente diffuse nella prassi di molti settori merceologici, e le forniture effettuate nel contesto di rapporti di sponsorizzazione, che sempre più vanno connotandosi come donazione remuneratoria 10, o di paternariato culturale: ipotesi accomunate dalla presenza di un fine informativo e promozionale che neutralizza la gratuità degli atti con i quali esso viene perseguito, giacché il fine pone in relazione la prestazione gratuita con il risultato, programmato ed economicamente significativo per l’impresa, della valorizzazione della propria immagine e di crescita e fidelizzazione della clientela. Infine, viene in considerazione ogni operazione nella quale l’impresa presta servizi o fornisce beni gratuitamente o con remunerazione figurativa (sottocosto), ma reintegra lo sbilancio con forme di compensazione pubblica degli oneri di servizio sopportati nella gestione dell’attività, in ragione della rilevanza pubbli8 Da questo studio esula la prospettiva delle prestazioni infragruppo, alla quale in questo volume è specificamente dedicato il lavoro di MARCHISIO, al quale si rinvia. 9 Nella prassi emergono di frequente prestazioni di deposito: ad esempio, nelle attività di autoriparazione, o di lavanderia, o rispetto a valori mobiliari in amministrazione, oppure a strumenti, mezzi e materiali, nell’appalto di opere o di servizi. Per l’ampia casistica cfr., ex multis, Cass. 18 settembre 2008, n. 23845, Cass. 23 agosto 2011, n. 17512. 10 In particolare cfr., per una recentissima ricostruzione e qualificazione contrattuale del fenomeno, MUSSO, La sponsorizzazione come contratto commerciale, in Aedon, 2, 2013.

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cistica di questa e della propria posizione rispetto ai poteri pubblici. Qui è il valore programmato della compensazione a ricomporre, a saldo, l’economicità della gestione, anche in assenza di autonomia finanziaria dell’impresa. Invece, negli atti realmente liberali – sia che si avvalgano della struttura della donazione o di contratti essenzialmente gratuiti, come nell’esempio del comodato di cose sociali a favore dei soci, ex art. 2256 11, sia che utilizzino strutture negoziali diverse, ad esempio quella della rinuncia (al corrispettivo, alla rivalsa o ad altri diritti), quella della prestazione di garanzie per debiti scaduti 12, quella del contratto a favore di terzo, o dell’adempimento del debito altrui 13, figure queste ultime nelle quali il beneficiario rimane estraneo all’accordo 14 –, difetta a livello causale un interesse economico dell’impresa disponente e risulta difficilmente individuabile un nesso con l’attività svolta che annulli la diseconomicità prodotta. Per essi, che producono quindi l’arricchimento gratuito del beneficiario senza che sia possibile rinvenire una prospettiva di collegamento con il ciclo produttivo, come emerge invece nelle situazioni che si sono sopra rassegnate, parrebbe da escludersi la compatibilità con il principio di economicità di gestione dell’impresa. Tuttavia, anche a questo proposito può farsi una diversa considerazione, in quanto pure all’atto o al negozio ispirato da un animus e con risultati propriamente liberali – doppio criterio al quale la dottrina civilistica subordina il riconoscimento di un atto di tale specie –, può corrispondere una aspettativa che, se anche non tutelata, quale è una semplice speranza di una contropartita di rilevanza economica per l’impresa, come l’accreditamento della propria immagine 15, potrebbe neutralizzare l’inefficienza economica della liberalità e ricondurre l’atto alla dimensione di mercato.

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Cfr. Cass., sez. trib., 10 febbraio 2006, n. 2934, che pronunciando sul trattamento fiscale di un immobile sociale in parte ceduto in comodato al socio, legittima l’operazione; Cass. 18 settembre 2008, n. 23853, sul comodato gratuito degli impianti di distribuzione carburanti; Trib. Perugia, 16 marzo 2009, in Giur. comm., 2011, II, p. 687. 12 Sulla quale, da ultimo, v. Cass. 3 luglio 2013, n. 16624. 13 Al riguardo cfr. in particolare, Cass., sez. un., 18 marzo 2010, n. 6538, sulla quale si tornerà più avanti. 14 Sulle liberalità realizzate con l’uso del contratto a favore di terzo, tramite l’adempimento del debito altrui e la rinunzia, si v., per tutti, CAREDDA, Le liberalità diverse, cit., p. 126 ss., ove compiuti riferimenti. 15 Ad esempio penso alla figura, ricorrente nelle attuali forme di raccolte di fondi per fini di beneficienza e solidarietà sociali, della prestazione congiunta di un servizio gratuito da parte di imprese di telefonia nel trasferimento di contributi via sms e di gestione gratuita del fondo da parte di imprese bancarie. Taluno suggerisce così la costruzione della categoria delle “attività benevole dell’impresa”, strumentali alla costruzione della propria immagine positiva e sorrette da una “apparenza” di disinteresse economico: così MOROZZO DELLA ROCCA, Profili civilistici, cit., p. 230.

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3. L’apprezzamento dell’atto nella relazione con l’attività e con l’operazione economica Dunque, non deve escludersi pregiudizialmente che la gestione che comprende atti a titolo gratuito e liberalità – più in generale atti senza corrispettivo – e produce, a causa di quelli, immediate diseconomie, sia compatibile con il riconoscimento di un’impresa svolta in condizioni di “normalità”; allo stesso tempo, e all’opposto, altrettanto non deve presumersi che tutti gli atti a titolo gratuito, inclusi quelli liberali, siano lesivi del credito d’impresa o rappresentino comportamenti in sé non consentiti e contra ius. Per superare tali preconcetti ed evitare il rischio di giudizi apodittici, il confronto tra attività imprenditoriale e atti non remunerativi, nella prospettiva del diritto commerciale, può utilmente avvalersi di una doppia linea di analisi, i cui risultati forse potrebbero avere anche rilevanza trasversale, ad esempio proprio rispetto al diritto tributario, o in ordine alle tutele laburistiche che operano solo nei rapporti con datori di lavoro di carattere imprenditoriale, talvolta negate per il disconoscimento di tale qualificazione in un organismo che opera senza compiuta autonomia finanziaria 16. Le due prospettive secondo le quali è possibile valutare il ruolo e l’incidenza nell’impresa di atti di diversa natura e, in particolare, per quanto si è detto, la capacità di taluni di essi o a certe condizioni di determinare scostamenti giuridicamente significativi dall’economicità della gestione imprenditoriale, ovvero la loro neutralità funzionale ed effettuale rispetto a quest’ultima, attengono l’una all’atto oggettivamente considerato, l’altra a condizionamenti di diversa origine nella attività d’impresa che ne connotano il concreto svolgimento. La prima linea di analisi, quella che riguarda oggettivamente l’atto in sé, si sviluppa nella ricerca e nella verifica del collegamento – in senso lato – che esso presenta con l’iniziativa produttiva. In altre parole, si tratta di valutare se l’inserimento dell’atto in una condotta imprenditoriale possa attribuirgli, nella sua specifica conformazione, una giustificazione in concreto capace di trasformarne la non corrispettività 17 e di individuare un criterio – quali l’integrazione funzionale, l’accessorietà, la rilevanza promozionale o altro – che rende l’atto coerente con il metodo economico della gestione. 16 Si v. di recente Cass. 27 maggio 2011, n. 11777, rispetto alle fondazioni (nella specie la Fondazione teatrale bolognese), sull’assunto che l’ente sarebbe un datore di lavoro non imprenditoriale per il difetto di autonomia finanziaria, a causa del quale il pareggio di bilancio può raggiungersi solo attraverso l’acquisizione di contributi e sovvenzioni pubbliche e private. Nella prospettiva qui assunta, invece, nella misura in cui questi ultimi siano programmabili ex ante nella struttura delle entrate, non vi è alcuna contraddizione con il principio di economicità di gestione proprio di un’impresa. 17 BISCONTINI, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti, Napoli, 2005, p. 69.

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L’ipotesi si avvalora nella logica dell’operazione economica che la dottrina civilistica contemporanea ha proposto da tempo 18, e la giurisprudenza ha con decisione assunto come contesto interpretativo del singolo atto giuridico, e che trova piena valorizzazione nell’attività d’impresa. Sia l’economicità che la non corrispettività nell’impresa, infatti, sono categorie che non si confrontano con il singolo negozio nella sua considerazione isolata, ma impongono una valutazione complessa da riferirsi a una serie non finita di atti collegati e unificati nel fine produttivo 19, l’una, con l’intera operazione economica la seconda 20. In queste prospettive cambia, o può acclararsi correttamente, la qualificazione dell’atto stesso valutato nella sua connotazione astratta, come è ben evidente nell’indirizzo in questo senso uniforme dei giudici di legittimità in materia tributaria per l’accertamento del fine elusivo di un’operazione. Nell’ottica del diritto commerciale, la questione della qualificazione dell’atto assume specifica rilevanza nel sistema revocatorio fallimentare e, in particolare, rispetto alla alternativa della applicazione o dell’art. 64 o dell’art. 67 L. fall., per il diverso trattamento degli atti pregiudizievoli ai creditori in base alla loro gratuità od onerosità. Con l’autorevole avallo prestato di recente da Cass., sez. un., 18 marzo 2010, n. 6538 21, in ordine al pagamento di debito altrui, ma con affermazioni che in via generale riguardano l’apprezzamento del titolo di un atto, può dirsi consolidato il criterio che impone di accertare l’eventuale appartenenza di questo a un’operazione economica complessa, con la quale le parti perseguono interessi meritevoli di tutela e della cui qualificazione l’atto partecipa. Ne consegue il vizio di apoditticità della considerazione dell’atto nella sua struttura astratta, poiché, per richiamare le parole dei giudici di legittimità, essa si svolge senza tenere conto del “collegamento con il complessivo regolamento contrattuale predisposto dalle parti ed ancor più con l’effettivo rapporto economico da esse inteso perseguire”. Secondo questo indirizzo, che si ricostruirà qui solo per puntualizzazioni 18 Per indicazioni sul concetto di operazione economica quale concetto unificante nella logica del contratto, nell’ambito di una letteratura ormai molto ampia, mi limito a rinviare ai diversi saggi dedicati da GABRIELLI al tema e raccolti ora nel volume «Operazione economica» e teoria del contratto. Studi, Milano, 2013. 19 Sulla rilevanza della attività nell’impresa e dalla sua qualificazione in termini di economicità cfr., ancora, LOFFREDO, Economicità e impresa, cit. 20 Sul riconoscimento del nesso di corrispettività ravvisabile anche tra negozi distinti si v. già BISCONTINI, Onerosità, corrispettività, cit..; più di recente, nella prospettiva suggerita dell’operazione economica come canone interpretativo delle liberalità non donative v. ampiamente CAREDDA, Le liberalità, cit., p. 25; p. 115 ss. 21 Per un puntuale commento alla decisione e ampi riferimenti sui principi di diritto in essa affermati, si v., tra altri, L. BENEDETTI, La revocatoria fallimentare del pagamento di debito altrui: l’intervento delle Sezioni Unite, in Giur. comm., 2011, II, p. 585 ss. Per successive riaffermazioni del criterio cfr. Cass. 14 giugno 2013, n. 14995.

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schematiche, l’individuazione del carattere gratuito di un atto non può procedere sulla base del concetto tradizionale di causa tipica valutata in astratto, che in passato conduceva a qualificarlo sempre e soltanto in funzione del rapporto bilaterale tra chi attua una attribuzione e colui che se ne avvantaggia, e a concludere per la gratuità dell’atto di disposizione tutte le volte in cui non risultasse un corrispettivo o un rapporto causale che la giustificasse secondo il modello tipico. Grazie alla analisi della categoria delle prestazioni isolate, e di alcune figure negoziali in sé e in astratto prive di corrispettivo – che assumono la struttura di una prestazione di garanzia per debito altrui, dell’adempimento del terzo, della cessione del credito o della rinuncia a un diritto, come nella remissione di debito –, da tempo è emerso, infatti, che le difficoltà che si incontrano nella ricerca della causa oggettiva di queste situazioni possono essere superate solo assumendo una diversa impostazione relativamente al concetto di causa. La causa individuata in concreto rappresenta, infatti, l’approccio concettuale più idoneo e corretto per accertare il titolo di un atto compreso in un’operazione economica complessa, corrispondente a interessi meritevoli di tutela, realizzata ricorrendo anche al collegamento di più negozi distinti. Sembra quindi evidente che se taluni atti isolatamente considerati potrebbero avere titolo sia oneroso sia gratuito, essi si apprezzano adeguatamente solo in base ad un esame dell’affare considerato nella sua unitarietà, e in questa logica, per quanto qui interessa, possono rivelarsi coerenti con l’economicità della gestione imprenditoriale. Solo per atti che anche nella prospettiva dell’operazione economica di rilevanza imprenditoriale risultino privi di corrispettività, e difettino di giustificazione causale concreta in termini economici, si motiva l’attivazione della disciplina latamente sanzionatoria funzionale alla maggiore tutela dei creditori, specie in sede fallimentare, ma non soltanto, di quella dei soci – come soggetti co-interessati al rispetto della integrità del patrimonio sociale depauperato dall’atto gratuito, da un lato, e come interessati al conseguimento di un avanzo di gestione, dall’altro –, e di quelle della concorrenza, lesa da un atto non corrispondente alle logiche della competizione leale o della parità degli operatori sul mercato.

4. Il rispetto del criterio di economicità e le compensazioni esterne La seconda linea di analisi concerne invece, come si è sopra anticipato, la condotta imprenditoriale complessiva, in relazione alle concrete espressioni che essa assume in quanto condizionata da elementi – finalità, motivi o ragioni della persona fisica, causa della struttura societaria, situazione del titolare rispetto a pubblici poteri, specificità dei partecipanti – che attengono al soggetto al quale essa è riferibile. Vale a dire che la qualità e le caratteristiche del soggetto potrebbero contribuire ad acclarare la causa concreta di un atto dispositivo gratuito in-

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serito nella condotta imprenditoriale e, quindi, qualificarlo come pertinente ad essa. Ora, il rapporto tra economicità dell’attività e atti attraverso i quali essa si svolge si prospetta esattamente nei medesimi termini per le imprese individuali e per quelle organizzate in forma societaria, individuate entrambe in base al metodo economico che sostiene l’iniziativa. Per le regole giuscommercialistiche, e in particolare per l’applicazione dello statuto dell’imprenditore e delle regole sulla concorrenza non falsata, è un approdo da tempo pacifico che, per la qualificazione imprenditoriale dell’iniziativa e del soggetto, o dell’organismo, al quale essa è riferibile, rilevano esclusivamente le modalità di organizzazione e di finanziamento dell’attività, e la stessa nozione sembra ora affermata anche nella dimensione del diritto tributario. La S.C. pare infatti stabilizzata, anche nella logica impositiva, nel considerare di carattere imprenditoriale «l’attività economica, organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi ed esercitata in via esclusiva o prevalente, che sia ricollegabile ad un dato obiettivo inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, che riguarda il movente soggettivo che induce l’imprenditore ad esercitare la sua attività» 22. È irrilevante, del resto, anche il modo in cui si realizza la remunerazione dei fattori produttivi: se sulla base di una totale autonomia finanziaria dell’ente, o se grazie alla compensazione con contributi privati o con risorse pubbliche di prestazioni rese gratuitamente o connotate da squilibrio economico, sotto forma di sovvenzioni o di rinuncia a introiti da parte del soggetto pubblico 23. L’economicità dell’attività si valuta, infatti, come si è già ricordato, sulla base della sua programmazione ex ante verso l’equilibrio di bilancio e non della realizzazione di questo in via eventuale, sulla base del risultato eventuale del pareggio. A questo ulteriore approdo ha fortemente contribuito il contesto comunitario. L’applicazione delle regole del mercato interno segue infatti da tempo principi consolidati nella giurisprudenza comunitaria per il riconoscimento di una attività economica; principi che hanno acquisito via via ambiti di applicazione più ampi. Il criterio per il quale l’impresa si individua essenzialmente per il modo in cui l’attività è svolta, organizzata e finanziata, adoperato in relazione a tutte le attività di carattere economico, indipendentemente da fini lucrativi e forme or-

22 Il criterio interpretativo è ripercorso, da ultimo, in Cass., sez. trib., 6 novembre 2013, n. 24910, per l’esclusione del carattere imprenditoriale di un’attività nel caso in cui essa sia svolta in modo del tutto gratuito, dato che non può essere considerata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti, e Cass. n. 16612/2008, per la precisazione che, ai fini dell’industrialità dell’attività svolta, è sufficiente l’idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio. 23 Cfr., ad esempio, C. Giust., 16 dicembre 2010, causa C-239/09, Seydaland.

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ganizzative 24, ha conquistato in un primo tempo l’ambito dei servizi di interesse economico generale e, di recente, anche il terreno dello svolgimento di servizi sociali di interesse sociale (SSIG), cioè di quelli «… generalmente forniti in maniera personalizzata, al fine di rispondere alle esigenze di utenti vulnerabili, e (che) si basano sul principio di solidarietà e di parità d’accesso». Questo processo di progressiva estensione delle regole del mercato interno ad ambiti in passato esclusi perché ontologicamente non economici, viene puntualizzato da una serie di interventi della Commissione europea, a iniziare dal 2006 25, nei quali si evidenzia che, eccetto che per le attività che partecipano all’esercizio di pubblici poteri, di norma escluse dall’applicazione di tali regole, «un numero sempre maggiore di attività svolte quotidianamente dai servizi sociali vadano a rientrare nel campo di applicazione del diritto comunitario, nella misura in cui sono considerate a carattere economico». A segnare le tappe di questo percorso sono state le misure adottate sulle compensazioni per oneri di servizio pubblico contenute nel “Pacchetto Monti-Kroes” del 2005, prima, e nel cosiddetto “Nuovo pacchetto SIEG”, adottato nel dicembre del 2011 26, ambito nel quale è stata ricompresa anche un’ampia serie di servizi sociali 27: da quelli sanitari a quelli rivolti alla in24

Cfr. in particolare, C. Giustizia, Grande Sezione, Sentenza 9.12.2008, C-442/07, per la quale «il fatto che l’offerta di prodotti o servizi non abbia uno scopo di lucro non sia determinante. Infatti, la circostanza che un’ associazione caritativa non persegua uno scopo di lucro non esclude che essa possa avere come obiettivo di creare e, successivamente, conservare uno sbocco per i propri prodotti o servizi». Le considerazioni dell’avvocato generale Radetzky-Orden al riguardo segnalano che, del resto, esistono servizi di beneficenza remunerati, posto che diversi tipi di associazioni senza scopo di lucro che, a prima vista, forniscono gratuitamente i loro servizi, in realtà vengono finanziati mediante sovvenzioni o percepiscono compensi sotto varie forme. Il provvedimento e la valutazione sono ora ripresi, in ambito italiano, da Trib. Bologna, Sez. spec. propr. industr. ed intell. (Ord.), 2 luglio 2010. Per una diversa prospettiva dei giudici comunitari, nella quale invece rileva forma organizzativa e causa del soggetto, v., ampiamente, CUSA, Aiuti di Stato, polimorfismo imprenditoriale e principi costituzionali, reperibile nel sito Associazione Disiano Preite, Materiali. 25 V. Comunicazione CE, 20 novembre 2007, “I servizi di interesse generale, compresi i servizi sociali di interesse generale: un nuovo impegno europeo”. 26 Si tratta dell’insieme dei documenti varati in data 20 dicembre 2011: Comunicazione della Commissione C(2011) 9404 def.; Decisione della Commissione C(2011) 9380 def.; Comunicazione della Commissione, C(2011) 9406 def.; ai quali si è accompagnato il Regolamento n. 360/2012, c.d. Regolamento de minimis SIEG. Per una prima analisi della disciplina cfr. FILPO, La nuova disciplina dell’Unione Europea in materia di aiuti di Stato per la compensazione di oneri di servizio pubblico, in Contr. e impresa Europa, 2013, p. 102 ss. 27 Così, per esempio, in materia di assistenza sanitaria, superando gli indirizzi della giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale dell’Unione Europea, per la quale gli ospedali pubblici che sono parte integrante di un servizio sanitario nazionale, non agiscono come imprese e, quindi, non sono soggetti alle regole sugli aiuti di Stato, per il nuovo pacchetto SIEG la sussistenza di un certo grado di concorrenza tra ospedali relativamente alla prestazione di servizi sanitari rende sufficiente la qualificazione dell’attività come economica.

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clusione e alla coesione sociale. La penetrazione dei principi e delle regole sugli aiuti di stato nel diritto nazionale sul piano dell’affidamento in concessione di servizi di interesse generale, conferma, per quanto qui interessa, che anche in presenza di vincoli a gestioni non remunerative, quali conseguenza degli obblighi di servizio pubblico, le compensazioni entrano, senza affatto negarla, come maggiori entrate o risparmi di spesa, nella gestione economica imprenditoriale 28. I parametri della economicità della gestione reggono, infine, anche le gestioni svolte nella prospettiva estintiva degli enti, come quelle conservative e sostitutive: si pensi a quelle delle aziende gestite dal custode, in relazione a provvedimenti di sequestro, e a quelle temporanee svolte dal curatore nel fallimento. Queste ultime, in particolare, giustificate dalla esigenza di non disperdere il valore delle attività produttive in atto, e in specie, di non dissipare un valore di avviamento ancora collegabile alla iniziativa, sono comunque finalizzate alla migliore liquidazione, da realizzarsi poi tramite vendita o conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione (art. 105 L. fall.). Si tratta, come la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire più volte, di gestioni che devono seguire i canoni ordinari della economicità. È vero, però, che nel fallimento l’esercizio provvisorio potrebbe svolgersi al di sotto del livello di remuneratività, pur di mantenere in atto l’azienda e non comprometterne il valore di cessione, inclusivo dell’avviamento. Ma il criterio ordinatore sarà comunque quello della convenienza economica, da apprezzare avendo riguardo alla presumibile entità del realizzo, al netto delle spese di gestione e di vendita. La regola si attenua solo nella liquidazione di aziende socialmente rilevanti, ove il criterio viene temperato dall’esigenza di conservazione, in funzione del mantenimento dei livelli occupazionali. Solo in difetto di una gestione economica nei termini già indicati, il comportamento va ascritto all’area delle attività che, anche se si concretizzano in prestazioni di natura economica, hanno carattere erogativo, e sono quindi estranee alla sfera di interesse del diritto commerciale e delle tutele che esso appresta a fronte dello svolgimento di iniziative svolte con economicità di metodo. Di conseguenza, risultano irrilevanti i moventi e le finalità ultime dell’azione imprenditoriale e, in conclusione, la destinazione dei risultati positivi della gestione a vantaggio dei partecipanti all’iniziativa o di terzi.

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Si v., al riguardo, la Guida relativa all’applicazione ai servizi di interesse economico generale, e in particolare ai servizi sociali di interesse generale, delle norme dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato, di appalti pubblici e di mercato interno, Bruxelles, 29 aprile 2013 SWD(2013) 53 final/2.

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5. Economicità della gestione, atti non remunerativi e senza corrispettivo nelle imprese individuali e societarie tra moventi e causa associativa Nell’impresa individuale le finalità di chi agisce appartengono interamente alla sfera dei motivi: dunque, accertabili solo ex post, sono giuridicamente irrilevanti e inefficienti rispetto alla qualificazione di un’attività, mentre negli organismi strutturati (societari e non) è ormai dato del tutto pacifico che le finalità dell’agire imprenditoriale si saldano nella causa “economica” 29 del negozio e della struttura che ne viene generata. Esse condizionano piuttosto che la gestione – certo ispirata in ragione di una causa lucrativa alla massimizzazione del profitto, e spinta invece dalla presenza di una causa mutualistica o ideale a una redditività meno accentuata – l’attribuzione degli utili conseguiti, che segue logiche differenti. Può trattarsi del vantaggio egoistico dei partecipanti – in guisa di remunerazione dell’investimento, propria della società lucrative, o di acquisizione di benefici economici diversamente commisurati, nelle società mutualistiche di genere cooperativo o consortile – o invece della destinazione degli avanzi di gestione a terzi, in una prospettiva di devoluzione esterna interamente altruistica e secondo le logiche del dono, negli schemi di azione causalmente (associazioni, fondazioni 30) o funzionalmente (imprese sociali in forma di società lucrative e altre società di capitali legalmente non lucrative) senza fini di lucro. Motivi di carattere personale e familiare possono sottostare al compimento da parte della persona fisica imprenditore di atti dispositivi non remunerativi, la (in)compatibilità dei quali con l’impresa si svela normalmente nel trattamento fallimentare di essi 31; in pari modo, moventi e fini ideali, spirito caritativo, solidaristico o di mecenatismo del soggetto al quale è riferibile l’impresa individuale possono indurlo al compimento di atti non onerosi o non corrispettivi e moltiplicarli, giacché essi corrispondono a un “fondamentale bisogno della vita che consiste nell’arricchimento altrui” 32. Di questi ultimi non è tuttavia da escludersi il loro legame con l’impresa, che 29

Mutuo l’espressione cause economiche, comprensiva dell’attività economico-lucrativa e dell’attività economico-mutualistica da G. MARASÀ, Le «società» senza scopo di lucro, Milano, 1984, passim, spec. p. 420 ss. Con riguardo al fenomeno delle attività non lucrative, si rinvia ai contributi sulle strutture consortili contenuti nel Capitolo II, e a quelli relativi agli enti senza scopo di lucro del Capitolo IV di questo Volume, tra i quali, in particolare per la prospettiva giuscommercialistica, a quello di MARASÀ. 30 In tema si v., per tutti, la ricostruzione di CETRA, L’impresa collettiva non societaria, Torino, 2003, passim. 31 Così per quanto concerne le questioni affrontate dalla giurisprudenza in tema di costituzione di fondo patrimoniale, o di cessione di un bene a prezzo nettamente inferiore a quello di mercato al coniuge dell’imprenditore. 32 In questi termini CAREDDA, Le liberalità diverse, cit., p. 117.

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potrebbe rilevarsi anche in termini oggettivi, sebbene solo in via presuntiva, sulla base di diversi indici. Lo si potrebbe dedurre dai dati della specie di attività esercitata, ad esempio inerente a settori culturalmente o socialmente rilevanti, a vantaggio dei quali anche l’atto gratuito sia destinato, delle modalità di gestione adottate, improntate al rispetto di principi etici, e dalla proporzionalità dell’atto stesso rispetto alle capacità patrimoniali dell’impresa. Estranei all’impresa, quando siano posti in essere nella libertà di motivi e di bisogni propria delle condotte individuali, o invece integrati nella azione economica del soggetto, sull’impresa riferibile alla singola persona fisica questi atti finiscono comunque per incidere. Infatti, gravano in entrambi i casi sul patrimonio del titolare che, nella sua interezza, sostiene la responsabilità per l’impresa, ex art. 2740, comma 1, e devono emergere comunque nella rappresentazione contabile dell’iniziativa restituita dall’inventario (art. 2214). La loro nocività per l’equilibrio gestionale e per la tutela dei creditori dell’impresa viene di conseguenza compensata dall’informazione sulla capienza complessiva del patrimonio della persona fisica alla quale l’impresa è riferibile, che sorregge la responsabilità del debitore-imprenditore, e dalla possibile ricostruzione del patrimonio depauperato, in danno dei creditori, attraverso le azioni revocatorie. Appunto nella logica della sottrazione di risorse alla responsabilità d’impresa possono infatti rilevare atti gratuiti dell’imprenditore individuale ispirati a motivi familiari, come il conferimento di beni in fondo patrimoniale, del quale si afferma, con un’elevata uniformità in dottrina e in giurisprudenza, la natura liberale e, quindi, la revocabilità 33, sia con azione ordinaria, sia con azione della curatela fallimentare. Nella dimensione dell’impresa societaria, gli atti antieconomici – al di fuori dell’ambito delle gestioni coordinate o unitarie di più società nel quale frequentemente si manifestano, alle quali si è già fatto cenno 34, – possono nutrirsi, oltre 33

Cfr., da ultimo, per la revocatoria fallimentare dell’atto di destinazione, Cass. 16 luglio 2010, n. 16761, in conformità con più risalenti pronunce (Cass. 23 marzo 2005, n. 6267, Cass. 8 settembre 2004, n. 18065), che riafferma il principio per il quale «la costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia (art. 167 c.c., e segg.) non integra adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti». In dottrina da ultimo cfr., per tutti e per riferimenti, CENNI, Il fondo patrimoniale, in Tratt. dir. famiglia, diretto da Zatti, Milano, 2002, III, p. 578 ss.; FUSARO, commento all’art. 167, in Commentario del codice civile, Della famiglia, diretto da Gabrielli, Torino, 2010, III, p. 1051 ss. Per il diverso trattamento della medesima operazione, ugualmente considerata gratuita, nel fallimento in estensione al socio illimitatamente responsabile di società fallita, si esprime la giurisprudenza di merito, a causa del carattere specifico della responsabilità del socio in sede fallimentare. 34 Si è già ricordato che è estraneo a questo intervento il tema delle gestioni non profittevoli nel contesto dei gruppi di società, nel quale possono rilevare diverse ipotesi di prestazioni gratuite interne al gruppo e di deviazioni dalla gestione economica remunerativa, nella prospettiva dei vantaggi compensativi; il rinvio è qui, pertanto, al contributo di MARCHISIO, in quest’Opera.

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che dell’oggetto dell’impresa, come nel caso dell’impresa individuale, anche della causa della struttura organizzativa, rivelando una loro strumentalità 35 rispetto all’attuazione del programma societario. Alla luce di tali elementi l’atto non oneroso può venire attratto nella logica dell’economicità e trovare quindi la propria piena giustificazione imprenditoriale. Così, alla stessa stregua che per le imprese delle associazioni e delle fondazioni, la gestione di servizio a favore dei soci, mutualistica e cooperativistica in specie, e quella delle imprese sociali in forma di società lucrative, può avvantaggiarsi piuttosto che indebolirsi nel compimento di atti gratuiti strumentali che risultano indirettamente atti propri del loro specifico mercato 36. Ma anche nelle gestioni causalmente e funzionalmente lucrative non può escludersi la piena legittimazione di atti privi di corrispettivo che non si pongono in diretta relazione con l’obiettivo della massimizzazione del profitto, e che comprimono o sopprimono l’avanzo di gestione o attingono a riserve disponibili. Liberalità di tipo solidaristico e sociale non connessi con oggetto e causa della struttura societaria sono infatti oggi da ritenersi legittime con maggiore facilità che in passato 37. Al raggiungimento di questa convinzione contribuiscono dati di rilievo positivo, come le evidenze normative sull’incentivazione fiscale alle attribuzioni a titolo gratuito a favore di enti non profit (cfr., ad esempio, l’art. 9, D.Lgs. n. 460/1997), e sulla tipizzazione normativa della figura dell’impresa sociale. Ben più significativa, però, è l’apertura offerta, sul piano interpretativo e applicativo, dai risultati più recenti della riflessione sul rapporto tra gestione delle attività di impresa e interessi coinvolti, a proposito dei quali devo qui limitarmi a una brevissima indicazione. Si tratta, in estrema sintesi, sotto un primo profilo, dell’affermarsi di principi di Corporate Social Responsibility e, più in generale, di principi di etica dell’impresa che comportano l’accoglimento, nella gestione, di istanze rivolte ad affermare, ad esempio, il rispetto dei diritti umani delle persone coinvolte nell’esercizio dell’impresa, specie dei lavoratori, della tutela dell’ambiente, o del contributo al progresso socio-culturale del contesto in cui l’impresa agisce, della moraliz35

Indirizza in senso restrittivo rispetto alla valorizzazione del nesso di strumentalità con oggetto e “missione” dell’ente, acclarato da eventuali riferimenti dello statuto, MOROZZO DELLA ROCCA, Profili civilistici, cit., p. 232. 36 Sulla mutualità altruistica delle banche popolari, connotata quale legame e contributo al miglioramento del patrimonio collettivo delle comunità in cui esse operano si v. le riflessioni recenti di MARASÀ, Governo e “controllo” delle banche popolari prima e dopo le recenti modifiche del T.U.B. e del T.U.I.F., in Banca, borsa, tit. cred., 2013, I, p. 517 ss. 37 In senso restrittivo, in passato, OPPO, Sulle erogazioni gratuite, cit., p. 934, per il quale la liberalità donativa risultava legittima solo se strumentale rispetto all’impresa, in vista della finalità mediata di incremento della sua clientela.

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zazione dell’azione degli organi sociali e di numerose altre 38, che possono imporre una gestione comprensiva di atti antieconomici e, in specie, senza corrispettivo. Sotto altro profilo, il diritto delle società di capitali – in particolare per le società quotate o diffuse –, riflette oggi l’esistenza e la rilevanza corporativa di interessi ulteriori rispetto a quelli dell’azionariato, in relazione ai quali entra in crisi il criterio dello Shareholder Value come unico canone con il quale confrontare la correttezza della condotte gestorie e far emergere le corrispondenti responsabilità. La presenza e il riconoscimento, anche a livello normativo, di diversi stakeholders 39, legittima, infatti, indirizzi di gestione rivolte alla massimizzazione del risultato economico complessivo in prospettive diverse da quella di breve periodo e funzionali al vantaggio non dei soli azionisti, ma di tutti i finanziatori e investitori sociali 40, portatori di aspettative diverse in ordine ai tempi e ai modi di accresci38

La letteratura specifica in tema di etica e di responsabilità sociale dell’impresa è talmente ricca da imporre qui solo alcuni riferimenti: ex multis, per i contributi di carattere generale, cfr. OPPO, Diritto dell’impresa e morale sociale, in Scritti Giuridici, I, Padova, 1990, spec. p. 259 ss.; e i numerosi saggi dedicati al tema da Guido Rossi – tra i quali Il conflitto epidemico, Milano, 2003, e Capitalismo e diritti umani, in Riv. soc., 2011, p. 5 ss. -; tra quelli che attengono a profili societari più specifici, v., ad esempio, GUACCERO, Il ruolo della Corporate Governance e delle regole di responsabilità nella condotta societaria, in Il mercato giusto e l’etica della società civile, a cura di Semplici, Milano, 2005, p. 181; ROMAGNOLI, Corporate Governance, Shareholders e Stakeholders: interessi e valori reputazionali, in Giur. comm., I, 2004, p. 350 ss.; SANTONI, Etica della società per azioni e recenti misure di moralizzazione del governo societario, in Finanza, Impresa e Nuovo Umanesimo, a cura di Capriglione, Bari, 2007, p. 59 ss., CONTE, Codici etici e attività d’impresa nel nuovo spazio globale di mercato, in Contr. e impresa, 2006, p. 136 ss.; e ai diversi saggi raccolti nel volume La responsabilità sociale dell’impresa, a cura di Conte, Roma-Bari, 2008. 39 La prospettiva è quella che si pone alla base dell’Action Plan della Commissione Europea, European company law and corporate governance – A modern legal framework for more engaged shareholders and sustainable companies (Strasburg, 12 dicembre 2012). 40 È secondo questa impostazione, riconducibile alla teoria dell’enlightened Shareholder Value, che si è proceduto, nello scorso decennio alla riforma del Company Law Act britannico del 2006 nella prospettiva di privilegiare il perseguimento di obiettivi di lungo termine (sec. 172, Company Act). Anche la letteratura italiana registra significative prese di posizione in questa direzione: per esigenze di sintesi richiamo solo alcuni recenti interventi, tra i molti: LIBERTINI, Impresa e finalità sociali. Riflessioni sulla teoria della responsabilità sociale dell’impresa, in Riv. soc., 2009, p. 26, ove la sottolineatura che l’interesse a una “duratura presenza dell’impresa nel mercato” legittima la cura degli interessi degli stakeholder, anche a scapito degli interessi immediati degli azionisti attuali alla massimizzazione dei profitti e del valore delle azioni; CALANDRA BUONAURA, Funzione amministrativa e interesse sociale, in AA.VV., L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders, Milano, 2010, p. 108; MONTALENTI, Interesse sociale e amministratori, ora in Montalenti, Società per azioni, corporate governance e mercati finanziari, Milano, 2011, p. 5 ss.; e, da ultimo, VELLA, L’impresa e il lavoro: vecchi e nuovi paradigmi della partecipazione, in Giur. comm., 2013, I, p. 1120 ss., ove ampi e aggiornati riferimenti al tramonto del primato del “breveperiodismo” e l’indicazione per la riscoperta di una valorizzazione dell’investimento azionario nel lungo periodo. In termini più ampi cfr., inoltre, GUACCERO, Interesse al valore per l’azionista e interesse della società, Milano, 2007.

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mento del valore dell’impresa. Atti non corrispettivi, quindi possono motivarsi in una prospettiva di creazione di valore di lungo periodo, restando intatta la prospettiva di gestione economica dell’impresa societaria. Se, poi, la compagine societaria comprende soggetti di natura pubblica, l’interesse pubblico alla attività può riflettersi nella adozione di linee di gestione preordinate anche al rispetto di valori e posizioni che esorbitano dalla sfera prettamente economica 41, con effetti di moderazione degli indirizzi speculativi dell’azione societaria 42. Entrambe le prospettive, quindi, indirizzano a ritenere non incongruente con l’attività d’impresa e con la causa lucrativa l’ingresso nella gestione sia di atti onerosi non corrispettivi, sia di atti gratuiti, sia di atti liberali in senso proprio. Tuttavia, permane il limite della corretta e diligente gestione dell’impresa societaria, da osservare a pena dell’assoggettamento alla responsabilità da gestione che opera in qualunque struttura societaria 43 – benché modulata diversamente per parametri di diligenza e per direzione della responsabilità stessa nei diversi tipi, inclusiva o non di una azione propria dei creditori sociali. Va escluso, perciò, che la considerazione di interessi esterni e di quelli dei diversi stakeholders possa giungere a determinare il totale sganciamento della gestione dalle prospettive di remunerazione autonoma dell’attività e di redditività, da mantenersi almeno nella prospettiva di lungo periodo.

41 Per l’indicazione che il carattere pubblico dell’interesse dei partecipanti in questi casi si riflette necessariamente sulla gestione del patrimonio e sui poteri relativi, come può rilevarsi nell’esempio più significativo rappresentato dalla Patrimonio dello Stato s.p.a., v. OPPO, Le grandi opzioni, cit., p. 16. Per una riflessione sulla possibile incidenza sull’interesse sociale delle istanze connesse all’interesse del socio pubblico, v., in particolare, GUACCERO, Alcuni spunti in tema di governance delle società pubbliche dopo la riforma del diritto societario, in Riv. soc., 2004, p. 842 ss. 42 In tali situazioni si impone, in altri termini, l’esigenza di contemperare l’obiettivo “privatistico” di perseguimento del profitto (in mancanza del quale sarebbe privo di significato l’apertura al mercato), con quello “pubblicistico” di conseguimento di un adeguato standard nella prestazione del servizio, assunto dall’ente come “servizio pubblico”: così GUERRERA, Lo statuto della nuova società “a partecipazione mista” pubblico-privata, in Riv. dir. civ., 2011, II, p. 511. 43 In ordine alla responsabilità degli amministratori nelle società con soci pubblici è nota la difficoltà di tracciare le corrette linee di riparto di giurisdizione tra responsabilità gestoria e responsabilità contabile. Al riguardo si vedano gli indirizzi giurisprudenziali da ultimo ricostruiti in Cass. 25 novembre 2013, n. 26283, che decide peraltro in controtendenza rispetto ai propri precedenti, e sulla quale si appunta il commento critico di IBBA, in Giur. comm., II, 2014. Nel caso oggetto dell’intervento della Suprema Corte si trattava, appunto, della remunerazione del terzo per una prestazione non svolta, quindi di un atto – al di là dei profili di responsabilità – di natura gratuita.

CONTRATTI DI COLLABORAZIONE FRA IMPRESE, CONSORZI E RETI DI IMPRESE

di Carlo Ibba SOMMARIO: 1. Varie forme di collaborazione fra imprese. – 2. Le reti d’imprese. – 3. Il contratto di rete: cronistoria legislativa. – 4. La rete nuovo centro d’imputazione e la rete meramente interna. – 5. Problemi di disciplina. – 6. Rete e consorzio con attività esterna. – 7. Postilla.

1. Varie forme di collaborazione fra imprese Entro subito in argomento muovendo dalla prima parte del titolo, quella che allude ai “contratti di collaborazione fra imprese”. Ora, la collaborazione può essere un fatto puramente occasionale ed episodico o, invece, qualcosa di più stabile e duraturo, e, in entrambi i casi, verosimilmente alla base di essa ci sarà un accordo contrattuale. Credo comunque che il titolo voglia invitare a riflettere sulla seconda ipotesi – o almeno io lo interpreto così –, intendendo per “contratti di collaborazione fra imprese” quelli che hanno per oggetto o per effetto la programmazione, la disciplina e la realizzazione di forme di cooperazione, fra gli imprenditori che ne sono parte, destinate a esplicarsi nel tempo (ossia pensate per avere una certa durata). Se, allora, guardiamo a questa tipologia di cooperazione, ci accorgiamo che, in realtà, più che di una si tratta di più tipologie di cooperazione; perché esse possono avere e, di fatto, hanno contenuti diversi (si va da un mero coordinamento o da collaborazioni “settoriali” e circoscritte a forme di integrazione più o meno estesa dei cicli produttivi) e possono esplicarsi attraverso strumenti giuridici diversi: ad esempio, associazione in partecipazione, associazione temporanea di imprese, geie, consorzi, società, e in particolare società consortili, oppure ancora contratti di franchising o di subfornitura, magari collegati fra loro. A questo proposito ricordo una linea di demarcazione che è tradizionale e fondamentale e sulla quale nel prosieguo concentrerò l’attenzione. Mi riferisco alla distinzione fra i casi in cui la collaborazione fra più soggetti è di tipo “associa-

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tivo” in senso forte, nel senso che dà luogo ad un’attività giuridicamente riferibile al gruppo dei partecipanti unitariamente inteso (come tipicamente avviene, ad esempio, là dove più persone costituiscano una società e attraverso questa operino: e si ricordi la definizione codicistica di società, connotata dal fatto che l’attività – economica e con finalità lucrative – è esercitata in comune: art. 2247 c.c.) e i casi in cui, invece, questo non accade (pensiamo all’associazione in partecipazione, nella quale l’associante, dietro corrispettivo di un determinato apporto, attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa [art. 2549 c.c.]; malgrado il nome, si tratta di un contratto di scambio più che di un contratto associativo e comunque, a prescindere dalla qualificazione, è pacifico che non dia luogo a un esercizio in comune dell’impresa: l’impresa è, e resta, giuridicamente imputata all’associante). Ricordo poi il contratto di consorzio, la cui caratteristica è quella di poter dar vita, a seconda delle scelte dei contraenti, all’una o all’altra forma di cooperazione (nell’art. 2602 c.c. si legge infatti che con tale contratto più imprenditori istituiscono una organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese; dove l’alternativa fra la semplice disciplina e lo svolgimento evidenzia, appunto, che l’organizzazione comune può limitarsi a regolare i rapporti fra gli imprenditori contraenti – con efficacia, dunque, meramente interna e obbligatoria – o può, invece, sfociare nell’esercizio di attività nei confronti dei terzi – e si parla, in tal caso, di consorzi con attività esterna, per i quali sono dettate alcune norme speciali negli artt. 2612 ss.).

2. Le reti d’imprese In questo contesto s’inserisce il fenomeno delle così dette reti di imprese; formula che, in senso ampio, allude a qualunque relazione stabile fra imprese che, pur mantenendo la loro autonomia giuridica, collaborano variamente in relazione alle rispettive attività economiche, nella fase produttiva e/o in quella distributiva. Sempre in questo contesto s’inserisce anche l’intervento del legislatore – o meglio, come vedremo, s’inseriscono svariati interventi del legislatore – volto a introdurre nel nostro ordinamento e regolare il contratto di rete; interventi ispirati non solo e non tanto dall’esigenza di dare una precisa disciplina ai fenomeni in questione (disciplina che tutto sommato, per quanto detto, esisteva già o comunque era rintracciabile in questa o quella tipologia contrattuale o associativa, pur essendo magari migliorabile o meritevole di adeguamenti), quanto – nel quadro economico generale che è a tutti tristemente noto – da finalità di politica industriale: in particolare quella di incentivare – anche con la previsione di benefici fiscali, amministrativi e creditizi – tutte quelle forme di aggregazione fra im-

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prese che fossero tese a favorirne la crescita, migliorando la loro capacità innovativa e competitiva. Malgrado ciò – malgrado quindi, ad esempio, i possibili vantaggi fiscali (anche se forse anche da questo angolo visuale “non è oro tutto quel che luccica; ma non posso addentrarmi in questo tema) – leggevo qualche tempo fa sul Sole 24ore che i contratti di rete iscritti nel registro delle imprese, al momento, sono un’ottantina e coinvolgono circa 800 imprese complessivamente: numeri tutto sommato abbastanza bassi, dunque, a fronte di una diffusione del fenomeno delle reti che, viceversa, parrebbe assai più consistente (soprattutto negli ultimi venti anni, in Europa c’è stato un vero e proprio boom delle “aggregazioni reticolari”). Si riscontra dunque uno scarso successo non del fenomeno economico, ma dell’istituto giuridico del contratto di rete, così come è stato normativamente configurato, nei suoi primi tre anni di vita. Il fatto è che – come vedremo – son stati tre anni di vita travagliata, nei quali il legislatore è già intervenuto quattro volte sulla stessa norma, creando grande confusione e non riuscendo a pervenire a un testo finale che possa ritenersi minimamente soddisfacente (tanto da indurmi a sperare in un ulteriore intervento, pur consapevole della possibilità che questo sia peggiorativo); e in effetti è probabile che, ancora una volta, proprio la pochezza tecnica dell’articolato normativo, con i dubbi e le incertezze che esso suscita su punti centrali della disciplina, abbia contribuito e contribuisca a scoraggiare i potenziali fruitori dell’istituto dal servirsene.

3. Il contratto di rete: cronistoria legislativa Prima ancora di essere regolata dal nostro legislatore, la “novità” delle reti di imprese è stata studiata e “sistematizzata” inizialmente dalla dottrina economica e poi da quella giuridica anche comparatistica, che ha elaborato la concezione, ormai imperante, del così detto contratto transtipico. In sostanza, si è osservato, l’espressione “contratto di rete” non individua la fattispecie di uno specifico tipo di contratto, ma si presta a designare tutta una serie di ipotesi in cui sono presenti alcuni elementi di uno schema negoziale in un certo senso “aperto” e multifunzionale, capace cioè di “coprire” svariate forme di cooperazione fra imprese e di concretarsi, a seconda delle scelte operate di volta in volta dalle parti, in diverse forme giuridiche di collaborazione, da quelle che si traducono nella semplice assunzione di obblighi reciproci, magari prevedendo ove necessario il conferimento di un mandato a rappresentare i contraenti, fino a quelle sfocianti nella costituzione della “rete” come centro d’imputazione unitario di diritti e obblighi: sia le così dette reti contrattuali o meramente obbligatorie, dunque, sia le così dette reti associative.

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Guardiamo ora alla disciplina positiva introdotta in Italia, facendo un po’ di cronistoria legislativa. a) In base al primo intervento legislativo (L. 9 aprile 2009, n. 33, che in sede di conversione D.L. n. 5/2009 ha introdotto l’art. 3, comma 4 ter), «con il contratto di rete due o più imprese si obbligano ad esercitare in comune una o più attività economiche rientranti nei rispettivi oggetti sociali allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato». Si parla dunque di esercizio in comune, e si fa poi riferimento a un fondo comune, costituito mediante conferimenti, e a un organo comune dotato di poteri di rappresentanza. Ne ricaverei, superando alcuni indici parzialmente discordanti (penso alla mancata previsione del nome e della sede della rete e alla non chiarissima previsione secondo cui «il contratto di rete è iscritto nel registro delle imprese ove hanno sede le imprese contraenti»): a) che la rete è configurata come un nuovo centro d’imputazione di diritti e obblighi (che poi la si costruisca come soggetto, cosa che a me parrebbe naturale, o come mero fenomeno di destinazione patrimoniale, come altri preferiscono, mi pare problema largamente nominalistico, anche se credo che la seconda soluzione rischi di creare dei problemi operativi); b) che, conseguentemente, il testo legislativo non recepisce affatto la teoria del contratto transtipico, e lascia fuori dal suo ambito applicativo tutte le reti meramente obbligatorie; ciò nonostante la dottrina, a prezzo di non poche forzature interpretative, anche in questa fase ha continuato a dare per scontato che di contratto transtipico si tratti, tutt’al più suggerendo al legislatore di “chiarire meglio” tale natura. b) Il secondo intervento legislativo (L. 23 luglio 2009 n. 99, art. 1, comma 1) introduce fondamentalmente due novità: a) da un lato stabilisce che, salvo diversa previsione, l’organo comune agisce in rappresentanza delle imprese partecipanti in alcune procedure con le pubbliche amministrazioni e con le banche; previsione che parrebbe muovere dall’implicito ma, direi, sicuro presupposto che di regola (ossia al di fuori delle menzionate procedure) l’organo comune agisca in rappresentanza della rete; b) dall’altro aggiunge che al fondo comune si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 2614 e 2615 c.c., ossia le disposizioni che delineano l’autonomia patrimoniale nei consorzi con attività esterna, stabilendo per un verso che il fondo consortile si alimenta mediante contributi e altri acquisti e che esso è soggetto a un vincolo di destinazione operante nei confronti dei partecipanti e dei loro creditori particolari (art. 2614), per un altro che delle obbligazioni consortili risponde solo il fondo consortile (beneficio della così detta responsabilità limitata), salvo che si tratti di obbligazioni assunte nell’interesse di singoli consorziati, nel qual caso questi rispondono in solido con il fondo consortile (art. 2615); e mi pare innegabile che il rinvio alle citate disposizioni connoti con ancor maggior sicurezza la qualificazione della rete come centro d’imputazione unitario e, direi, come soggetto giuridico (tanto che c’è chi parla del contratto di rete come specie del consorzio con attività esterna).

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La dottrina specialistica (gli specialisti … della rete, intendo), peraltro, ha continuato a sostenere tesi che, come vedremo, sono state recepite successivamente, ma certamente non erano compatibili col testo di legge allora vigente: si è continuato a dire, cioè, che quello regolato dalla legge è un contratto transtipico, che sono possibili reti meramente interne, che l’organo comune è solo eventuale, ecc.; e lo si è fatto perché, in caso contrario, le reti di imprese non rientranti nella nozione legislativa sarebbero state escluse dalla fruizione delle agevolazioni previste dalla legge. A questo fine si è cercato di sminuire la portata del rinvio agli artt. 2614 e 2615, valorizzando oltre misura l’inciso “in quanto compatibili” che ne circoscrive l’applicazione e predicando la tendenziale incompatibilità di tali norme con quelle sul contratto di rete. A me sembra che la formula sia spiegabile semplicemente osservando che le norme richiamate contengono riferimenti che, presi alla lettera, non sarebbero applicabili ai contratti di rete, e che perciò richiedono alcuni adattamenti: in luogo dei contributi dei consorziati dovrà guardarsi ai conferimenti dei partecipanti; al fondo consortile corrisponderà il fondo patrimoniale comune; agli organi del consorzio l’organo comune; e via dicendo. In alternativa si potrebbe interpretare quell’inciso riferendolo alla pur non perspicua ipotesi – di cui non ho finora parlato – in cui il fondo comune sia costituito “mediante ricorso alla costituzione da parte di ciascun contraente di un patrimonio destinato all’affare” (lett. c dell’art. 3, comma 4 ter cit.). c) Il terzo intervento legislativo (art. 42 D.L. n. 78/2010), in parte caducato in sede di conversione, in parte prodromico ad agevolazioni varie, non mi pare incida sulla nozione di rete e dunque sul nostro discorso. d) Il quarto intervento (in sede di conversione del citato D.L. n. 78: L. 30 luglio 2010, n. 122, integralmente sostitutiva dell’art. 3, comma 4 ter) è invece molto incisivo. Per quanto qui interessa, ridefinisce il contratto di rete come quello con il quale più imprenditori, al fine di accrescere la loro capacità innovativa e la loro competitività sul mercato, si obbligano, sulla base di un programma comune, «a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese», ovvero «a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica» ovvero ancora «ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa». La nuova definizione, con la congiunzione disgiuntiva che connette le tre formule, certamente comprende la rete meramente obbligatoria, che si esplica, cioè, nella collaborazione o nello scambio di informazioni (il legislatore, insomma, si è finalmente accorto dell’esistenza delle reti interne, contrattuali, e le ha incluse nella nuova nozione); altrettanto certamente essa non esclude la rete “entificata” (come invece alcuni hanno ritenuto, così aggiungendosi alla confusione creata dal legislatore quella provocata dagli interpreti), cui allude la formula dell’esercizio in comune e per la quale sono appropriate, in particolare, le previsioni sulla costituzione del fondo comune.

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4. La rete nuovo centro d’imputazione e la rete meramente interna A questo punto, da un certo angolo visuale può dirsi finalmente recepita la teoria del contratto transtipico (inteso come schema contrattuale di carattere generale, idoneo ad abbracciare ipotesi differenti, ovvero come figura ibrida, trascendente l’ambito dei contratti associativi). In particolare emergono, sia pure confusamente, le due “anime” del contratto di rete: a seconda della configurazione che le parti decidano di dargli, fascio di rapporti obbligatori o nuovo centro d’imputazione. La fattispecie descritta dalla norma comprende, insomma, sia le reti di imprese dotate – secondo me – di soggettività (al pari di un consorzio con attività esterna, di un’associazione non riconosciuta o di una società di persone), sia i contratti di rete con valenza meramente obbligatoria. Il problema è che la legge regola promiscuamente le due subfattispecie: il legislatore ha reagito alle osservazioni dottrinali cercando di recepirle, ma non si è accorto che, avendo così ampliato la nozione, occorreva definire con un minimo di puntualità la disciplina, fissando le regole dell’una e dell’altra forma di rete. Si tratta infatti di due fattispecie nettamente distinte sotto il profilo giuridico e, conseguentemente, una soluzione che risulta appropriata per l’una non lo è per l’altra. Così, ad esempio, rispetto a una rete meramente interna è del tutto fuor di luogo il rinvio agli artt. 2614 e 2615 c.c., che come abbiamo visto disciplinano il fondo consortile e la responsabilità per le obbligazioni consortili; mentre, se pensiamo a una rete-soggetto, è stupefacente che si dica che l’istituzione di un fondo comune è puramente eventuale («qualora sia prevista l’istituzione di un fondo…»), ed è impensabile che sia eventuale la presenza di un organo comune («se il contratto ne prevede l’istituzione…»): non si è ancora visto un soggetto giuridico (diverso dalla persona fisica) che possa fare a meno di un organo di gestione e di rappresentanza! Ma, dove non mette ordine il legislatore, deve provare a farlo l’interprete; per cui, tracciata la distinzione fra le reti meramente obbligatorie e quelle dotate di rilievo reale, proverò a ricomporre la disciplina delle seconde. Mi occuperò solo di queste ultime non solo per ragioni di tempo, ma anche perché mentre nelle reti meramente interne la disciplina può ben essere lasciata pressoché integralmente all’autonomia contrattuale (e non mi pare si pongano particolari problemi per i terzi), in quelle dotate di rilievo reale vengono coinvolti, appunto, gli interessi dei terzi, ponendosi problemi di responsabilità patrimoniale “comune”. Passerò così in rapida rassegna alcuni interrogativi, prospettando le possibili risposte.

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5. Problemi di disciplina È essenziale – nelle reti “con attività esterna” – la presenza del fondo patrimoniale comune? Sicuramente sì, essendo logicamente implicata dal concetto di esercizio in comune, ossia di svolgimento dell’attività imprenditoriale in nome e per conto del gruppo dei partecipanti unitariamente inteso, con conseguente imputazione degli effetti: gli acquisti, dunque, saranno acquisti della rete e non determineranno situazioni di comproprietà o contitolarità fra tutti i partecipanti. La legge prevede il fondo come eventuale solo perché vorrebbe dettare una regola valevole, nella sua genericità, per qualunque tipo di rete e dunque anche per quelle meramente interne. È essenziale la presenza dell’organo comune? Sicuramente sì, per le ragioni indicate poco sopra. Dall’attività negoziale dell’organo comune, svolta in nome e per conto della rete d’imprese, scaturiranno gli effetti che saranno imputati al fondo comune. Come fa a identificarsi nella rete d’imprese, in una determinata rete d’imprese, la parte di un determinato atto negoziale? Occorre spenderne il nome, così determinando la direzione degli effetti, ed a tal fine, se non altro per ragioni di semplificazione linguistica, sarà opportuno che questo nome sia indicato nel contratto di rete; ma lo stesso problema si pone, là dove si neghi la soggettività della rete (propendendosi per una qualificazione in termini di destinazione patrimoniale), al fine dell’imputazione dell’attività e dei suoi effetti al patrimonio destinato (e v. l’art. 2447-quinquies, ult. comma, c.c., secondo cui «gli atti compiuti in relazione allo specifico affare debbono recare espressa menzione del vincolo di destinazione; in mancanza ne risponde la società con il suo patrimonio residuo»). Come mai l’autonomia patrimoniale perfetta (nei termini di cui all’art. 2615 c.c.) è concessa senza prevedere alcun obbligo di contabilità? In realtà non mi pare sia così, nel senso che, ogni volta che sia configurabile l’esercizio da parte della rete di un’attività commerciale, a suo carico sorgono, per effetto dell’art. 2214 c.c., gli obblighi di contabilità propri di tutti gli imprenditori commerciali non piccoli; tutt’al più mancherebbe l’obbligo di pubblicizzare la situazione patrimoniale, che nei consorzi con attività esterna è previsto dall’art. 2615 bis. L’autonomia patrimoniale perfetta è subordinata all’iscrizione nel registro delle imprese? Nei consorzi con attività esterna si ritiene comunemente di sì pur in assenza di una previsione testuale in tal senso; nel caso delle reti d’imprese la medesima conclusione mi pare più agevolmente argomentabile dall’art. 3, comma 4-quater della citata L. n. 5/2009, secondo cui «l’efficacia del contratto inizia a decorrere da quando è stata eseguita l’ultima delle iscrizioni» nel registro delle imprese. Da questa norma può desumersi – per quanto qui interessa – che l’iscrizione, oltre a condizionare la concessione delle agevolazioni, è costitutiva della rete

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come soggetto (o comunque della separazione o autonomia patrimoniale perfetta). È chiaro però, che in questa prospettiva, dovrebbe essere iscritta la rete in quanto tale; la legge, viceversa, prevedendo una pluralità di iscrizioni (tante quanti sono i partecipanti?), e pur non chiarissimamente, sembra dettare una regola appropriata per le reti meramente interne e oggettivamente incongrua per quelle dotate di rilievo esterno. Ma l’iscrizione della rete in quanto tale può dirsi impedita dalla sua mancata previsione, e dunque dal contrasto con il principio di tipicità delle iscrizioni (art. 2188 c.c.)? Forse no, se è vero che l’obbligo d’iscrizione può farsi discendere nel caso di reti esercenti attività commerciali dall’art. 2195 c.c. e nel caso di reti esercenti attività agricola dalle norme che assoggettano a pubblicità, mediante iscrizione nella relativa sezione speciale del registro delle imprese, gli imprenditori agricoli. Infine: qual è il regime della responsabilità gestoria del “soggetto prescelto per svolgere l’ufficio di organo comune” (o dei soggetti prescelti per tale incarico, posto che, benché la legge adoperi il singolare, ciò non mi pare preclusivo di una composizione pluripersonale dell’organo gestorio)? Nei consorzi l’art. 2608 rinvia in proposito alla disciplina del mandato, con quel che ne consegue (cfr. gli art. 1710 ss. c.c.); nel caso nostro la stessa soluzione potrebbe forse essere argomentata – ma certo con un minor grado di sicurezza – dalla qualifica del soggetto in questione come “mandatario comune”.

6. Rete e consorzio con attività esterna Concludendo, ho la sensazione che molti dubbi sarebbero risolti se si riconducesse la rete (parlo naturalmente della rete-soggetto, non di quelle meramente interne) nell’alveo della disciplina – pur essa non del tutto esauriente ma certo meno lacunosa di quella qui in esame – dei consorzi con attività esterna. A tal fine penso sarebbe utile inserire, in apertura del contratto di rete, la formula che segue od altra analoga: «È costituita, ai sensi dell’art. 3, co. 4-ter ss. del decreto-legge n. 5 del 2009, una rete di imprese in forma di consorzio con attività esterna…». Una previsione del genere (oltre ad essere perfettamente in linea con la tesi della natura transtipica del contratto) consentirebbe alla rete di fruire delle agevolazioni previste dalla legge, senza però restare nelle sabbie mobili di una disciplina così incerta qual è quella sin qui esaminata, disciplina che verrebbe ad essere integrata automaticamente dalla disciplina codicistica dei consorzi. Sarebbero così provvisti di un fondamento normativo, in particolare, l’esigenza d’indicazione della denominazione e della sede della rete, l’obbligo della sua iscrizione nel registro delle imprese, la sua soggezione agli obblighi di contabilità (con rela-

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tiva pubblicità), la soggezione dei suoi “amministratori” alla responsabilità del mandatario. Non mi nascondo che alcuni di questi effetti potrebbero non essere graditi ai singoli partecipanti (che perciò potrebbero non volere l’inserimento della clausola in questione), ma certamente essi sono conformi agli interessi del mercato e, quindi, a un beninteso interesse della rete come impresa.

7. Postilla Dopo la stesura di questa relazione il lavorìo di modifiche, correzioni e ripensamenti vari del legislatore è proseguito prima con la L. 7 agosto 2012, n. 134 (in sede di conversione, ovviamente con modifiche, del D.L. 22 giugno 2012, n. 83), poi con il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, infine (per ora) con la sua legge di conversione (L. 17 dicembre 2012, n. 221). Il testo vigente prima dell’ultimo intervento legislativo – pur non esente da imprecisioni e oscurità – era volto a risolvere alcuni dei problemi sul tappeto. Esso infatti, fra l’altro, sia pure con espressioni talvolta tortuose e non sempre ben coordinate fra loro, dopo aver previsto la possibilità che il contratto istituisca «un fondo patrimoniale comune» e «un organo comune destinato a svolgere un’attività, anche commerciale, con i terzi», (solo) per tale evenienza: a) imponeva l’indicazione nel contratto della denominazione e della sede della rete; b) prevedeva l’iscrizione del contratto nel registro delle imprese del luogo in cui la rete ha sede, precisando che con tale iscrizione la rete acquista soggettività giuridica; c) disciplinava il fondo e il regime di responsabilità mediante rinvio, nei limiti della compatibilità, agli artt. 2614 e 2615 c.c., precisando che per le obbligazioni contratte dall’organo comune in relazione al programma di rete i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo comune; d) delineava una disciplina contabile che ricalca (e rinvia a) quella prevista dall’art. 2615 bis c.c. per i consorzi con attività esterna. Con l’ultimo intervento, peraltro, il legislatore ha ulteriormente articolato la fisionomia delle reti d’imprese. Il contratto di rete con attività esterna, infatti, può ora sfociare in due diverse subfattispecie, entrambe dotate di rilievo reale e caratterizzate da un regime di autonomia patrimoniale sostanzialmente perfetta, delle quali, peraltro, l’una è dotata di soggettività giuridica, l’altra no (v. infatti il testo vigente dell’art. 3, comma 4 ter, ultima parte, e dell’art. 3, comma 4 quater, D.L. n. 5/2009), lasciandosi alle parti la scelta fra l’una e l’altra forma giuridica.

LUCRO E IMPRESA COMMERCIALE NEL SISTEMA IMPOSITIVO

di Alessandro Giovannini SOMMARIO: 1. Introduzione sulla nozione di impresa commerciale in diritto tributario. Delimitazione e piano dell’indagine. – 2. L’impresa come fattispecie e come centro di produzione e imputazione della ricchezza. La “gratuità” come elemento estraneo al procedimento di qualificazione. – 3. Il lucro come elemento della nozione fiscale di impresa: il lucro c.d. oggettivo nelle imposte sui redditi. – 4. (segue) Il lucro c.d. oggettivo nell’IVA e nell’IRAP – 5. La nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario e l’irrilevanza dell’elemento lucrativo. – 6. Lucro soggettivo, destinazione altruistica della ricchezza e impresa sociale. – 7. (segue) Mutualità dello scopo sociale e lucro. – 8. Prospettive di riforma: per il superamento della distinzione tra redditi di attività commerciale e di attività non commerciale (e tra redditi d’impresa e di lavoro autonomo).

1. Introduzione sulla nozione di impresa commerciale in diritto tributario. Delimitazione e piano dell’indagine Le nozioni di impresa commerciale in diritto tributario e in particolare nelle imposte sui redditi, nell’imposta regionale sulle attività produttive e nell’imposta sul valore aggiunto, sono desumibili da poche disposizioni contemplate nelle leggi istitutive dei singoli tributi. Il metodo di costruzione di queste nozioni è però identico: con rinvii infrasistematici, siano essi ad altri rami del diritto, come accade per le imposte sui redditi e per l’IVA (art. 55 del D.P.R. n. 917/1986 e art. 4 del D.P.R. n. 633/1972), siano essi interni allo stesso diritto tributario, com’è per l’IRAP (art. 3 del D.Lgs. n. 446/1997), l’impresa commerciale in materia tributaria riproduce le sue connotazioni fondamentali dalle disposizioni del codice civile. Com’è noto, il legislatore della riforma tributaria degli anni ’70, memore anche delle questioni sorte per la classificazione dei redditi in seno all’imposta di ricchezza mobile 1, ritenne di tagliar corto la discussione, costruendo la nozione 1 Sulle questioni accennate, si veda, per tutti, CICOGNANI, Ancora sulla nozione fiscale di reddito d’impresa, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1980, I, p. 294 ss.

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intorno all’art. 2195 del codice civile ed espungendo radicalmente o relegando in secondo piano requisiti pur fondamentali previsti dall’art. 2082 c.c. e in specie quello dell’organizzazione 2. Anche in materia di imposta sul valore aggiunto, nonostante la sua matrice comunitaria, si fece la scelta, con l’art. 4 del D.P.R. n. 633/1972, di adottare una definizione di imprenditore commerciale costruita intorno al nucleo centrale dell’art. 2195, cosicché, anche in questo tributo, l’imposizione formale finì per concentrarsi su soggetti individuati, almeno in prima battuta, col metodo del rinvio alle norme civilistiche, sebbene, anche per essi, con espulsione del requisito dell’organizzazione 3. L’impresa commerciale, dunque, entrò nel diritto tributario riformato monca di uno dei suoi elementi qualificatori fondamentali per il diritto civile, ma per il resto, almeno apparentemente, conservò immutati tutti gli altri tratti. A specifici fini, poi, il legislatore della riforma tentò un ampliamento della nozione civilistica d’impresa e, in particolare, per le imposte sui redditi, assimilò ai redditi d’impresa propriamente intesi quelli prodotti nello svolgimento di attività di servizi non riconducibili all’art. 2195, se organizzate in forma d’impresa. In poche e scheletriche parole, ritenne di dover assimilare ai redditi d’impresa quelli provenienti, secondo il mio modo di vedere, dall’esercizio di professioni intellettuali svolte con un’organizzazione similare a quella dell’impresa medio grande 4. Su questo impianto, nel cui seno dimorava anche una disciplina particolare per le attività di sfruttamento dei beni della terra e delle acque, e per le imprese agricole 5, intervenne, dapprima, la Corte costituzionale con la sentenza n. 42/1980, che stabilì la non assoggettabilità all’I.Lo.R. dei redditi di lavoro autonomo non assimilabili a quelli d’impresa, e successivamente, per svelenire il dibattito e gli inesauribili e talvolta stucchevoli contrasti giurisprudenziali, il legislatore con una 2

Ampiamente, cfr. MICHELI, Reddito d’impresa e imprenditore commerciale, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1974, I, p. 396 ss. 3 Cfr., anche per interpretazioni non convergenti, i fondamentali studi di FANTOZZI, Imprenditore e impresa nelle imposte su redditi e nell’IVA, Milano, 1982, e di POLANO, Attività commerciali e impresa nel diritto tributario, Padova, 1984. 4 L’attrazione nell’art. 51, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi del 1996 (ora art. 55, comma 2) delle attività svolte dai c.d. professionisti-imprenditori non è generalmente condivisa, ma questa interpretazione rimane, per me, la soluzione più lineare per uscire dal dedalo dei rinvii infrasistematici tra vecchio art. 51, appunto, e vecchio art. 49 del testo unico (ora art. 53). Se si vuole, cfr. GIOVANNINI, Le professioni intellettuali tra legislazione civile e fiscale: note critiche ed interpretative, in Rass. trib., 1988, p. 265 ss., e ID., Una “ipotesi di lavoro” per qualificare i redditi professionali, in Riv. dir. trib., 1991, II, p. 58 ss. Per una diversa impostazione, SACCHETTO, I redditi di lavoro autonomo, Milano, 1984. Assume una posizione più sfumata, GRIPPA SALVETTI, Redditi d’impresa e redditi professionali, Milano, 1993. 5 Cfr. PICCIAREDDA, La nozione di reddito agrario, Milano, 2004, p. 241 ss.

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previsione espressa di esclusione dall’I.Lo.R. dei redditi d’impresa derivanti da attività commerciali organizzate prevalentemente con il lavoro del contribuente e dei suoi familiari (L. n. 408/1990, di modifica dell’art. 115 del testo unico delle impose sui redditi). L’assetto normativo originario sulle nozioni di impresa, però, si è mantenuto costante nel corso del tempo e solo con la legge sull’IRAP ha subito una prima, profonda mutazione. È vero che il D.Lgs. n. 446/1997, nell’individuazione dei soggetti passivi, ha conservato il tradizionale schema definitorio, basato su rinvii infrasistematici, ma è altresì vero che esso ha introdotto un nuovo concetto di “autonoma organizzazione”, non coincidente né con quelli civilistici dell’art. 2082 e dell’art. 2083, né con quello storicamente ereditato dalle norme in materia di I.Lo.R., finendo così per rompere quella sostanziale osmosi tra tributi che fino a quel tempo aveva caratterizzato l’imposizione sulla ricchezza d’impresa, compresa quella coincidente col valore aggiunto di tipo consumo 6. In tempi relativamente recenti, però, è tornata in primo piano una problematica tradizionalmente studiata di passata o affrontata solo settorialmente, problematica in parte derivante dall’ordinamento interno e in parte sollecitata dall’ordinamento comunitario e dalle sue interpretazioni. La questione che si è posta attiene al rapporto tra nozione di impresa commerciale ed elemento della “gratuità”. Di qui, allora, il piano della mia relazione. Il primo profilo che intendo affrontare attiene alla individuazione del metodo speculativo che guidi alla definizione di impresa nella nostra materia e consenta di separare gli elementi ad essa propri da quelli estranei. Confido, così, di riuscire e mettere in risalto il diverso ruolo che, in questo contesto, la gratuità può rivestire, potendo bensì riguardare singole operazioni o atti propri dell’impresa o riconducibili al contratto societario o a vincoli statutari, ma non potendo mai reagire su quella nozione. Questo modo di impostare l’analisi consentirà, per una sorta di antitesi concettuale, di arrivare a battere dove davvero il dente duole, a verificare, cioè, se ed in quali termini il lucro, inteso in senso oggettivo, possa concorrere ad integrare la nozione d’impresa nelle imposte sui redditi, nell’IVA e nell’IRAP, anche rivalutando, in termini concretamente nuovi, la disciplina dell’impresa sociale e, con eguale intensità, l’ordinamento di fonte comunitaria. Da ultimo, l’indagine intende farsi carico delle questioni che ruotano attorno al lucro inteso in senso soggettivo e più precisamente di quelle attinenti alla compressione o limitazione in punto di sua distribuzione, con attenzione specifica agli enti non commerciali, alle ONLUS, alle società cooperative, all’impresa sociale, ai consorzi e alle reti d’impresa, ossia ad enti che possono essere tra di lo6 Si veda la ragionata posizione di SCHIAVOLIN, L’imposta regionale sulle attività produttive, Milano, 2007, p. 263 ss.

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ro accomunati dallo scopo esclusivamente o prevalentemente mutualistico. Con una duplice prospettiva: qualificare quelle limitazioni, da un lato, come elementi conformativi di un peculiare sistema fiscale di determinazione del reddito imponibile e, dall’altro, come elementi giustificativi di un regime di tassazione, per così dire, agevolativo o derogatorio, almeno all’apparenza, rispetto a quello delle società commerciali in senso stretto.

2. L’impresa come fattispecie e come centro di produzione e imputazione della ricchezza. La “gratuità” come elemento estraneo al procedimento di qualificazione Il primo aspetto da esaminare attiene al rapporto tra nozione di impresa commerciale ed elemento della “gratuità”. A questo riguardo occorre un’immediata precisazione sul ruolo che tale elemento può rivestire nella costruzione della nozione di impresa; precisazione che ha non solo dimensione terminologica, ma anche primari riflessi sostanziali. Secondo me l’elemento della gratuità, anche se considerato nelle sue più variegate configurazioni e qualificazioni nominalistiche, riguarda profili estranei alla nozione qui indagata. Se per impresa, diversa da quella agricola, si intende il centro di produzione e imputazione di una ricchezza riconducibile ad un’attività di cui all’art. 2195, anche se non in atto e anche se auto organizzata, ovvero di una ricchezza riconducibile ad un’attività di servizi diversa da quelle indicate nell’art. 2195, purché, questa volta, organizzata nella forma dell’impresa medio grande 7, mi sembra di poter senz’altro escludere la gratuità dagli elementi costitutivi di siffatta nozione. In sostanza e detto diversamente, se per impresa s’intende un centro di riferimento di situazioni obiettive sintomatiche di capacita contributiva, derivanti da una di quelle attività, l’indagine sulla nozione deve adottare lo stesso metodo che caratterizza, in teoria generale, il procedimento di qualificazione e dunque fare leva, in ultima istanza, sugli elementi costitutivi della fattispecie 8. Stando così le cose, allora, ritengo di poter affermare che la fattispecie complessa qualificabile alla stregua d’impresa, deve essere analizzata, appunto, soltanto in relazione ai suoi elementi fondativi, come desumibili dal diritto positivo 9. Elementi diversi in quanto estranei o esterni al nocciolo della nozione, non possono ridon7 Vale a dire – lo ricordo di nuovo – un’attività riconducibile, secondo me, alla figura del c.d. professionista-imprenditore. V. retro, nota 4. 8 Cfr. PANUCCIO, Teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1974, p. 120 ss. 9 Questo aspetto è chiarito molto bene da FANELLI, Introduzione alla teoria giuridica dell’impresa, Milano, 1950, p. 63 ss.

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dare nella dimensione statica, nella dimensione qualificatoria della fattispecie, ma possono solo incidere sui suoi profili dinamici ovvero sui singoli rapporti giuridici che da questa germinano, compresi quelli propri al contratto societario. Insomma e conclusivamente, la definizione della nozione d’impresa, siccome si pone giuridicamente come un prius rispetto all’analisi delle sue dinamiche, deve essere elaborata avuto riguardo solo ai tratti costitutivi fondamentali che le attribuisce il legislatore e, dunque, non considerando elementi che, potendo solo incidere sugli effetti della fattispecie racchiusa in quella nozione, non possono, come tali, avere valenza conformativa della fattispecie stessa. In questa prospettiva, pertanto, l’elemento della gratuità non può albergare nella nozione che ci occupa. Esso, piuttosto, può attenere alla qualificazione delle singole operazioni e all’individuazione del loro regime fiscale, sia che esse vengano svolte dall’impresa, sia che esse siano rese a favore dell’impresa 10. La gratuità – come la liberalità – può poi attenere al rapporto tra impresa e soggetti che ne sono partecipi, anche in punto di conferimenti 11, come accade nell’impresa cooperativa, nelle società di mutua assicurazione, nei consorzi e, per alcuni profili, nelle ONLUS e negli enti non commerciali. Anche in questo caso, però, si tratta di elementi che non incidono sulla definizione dell’impresa in quanto tale o in sé e per sé considerata. Inoltre, la destinazione altruistica o non egoistica della ricchezza – assunta, questa destinazione, come declinazione della gratuità o della liberalità – mi pare possa costituire bensì elemento distintivo di specifici regimi fiscali, ma solo, come vedremo meglio tra poco, per categorie di enti collettivi che la legge, con una valutazione precostituita funzionale alla veste giuridica da questi adottata e ad ulteriori specifici vincoli, presuppone come esercenti attività non commerciali. Mai, però, questa “speciale” destinazione della ricchezza può ridondare nella nozione di imprenditore individuale, per il quale casomai rileva per la determinazione del reddito imponibile o per l’assoggettamento all’IVA delle operazioni nelle quali, essa destinazione, si concretizza; così come, allo stato attuale della normazione fiscale, mai può venire in risalto per le società costituite nelle forme di quelle commerciali tout court, atteso che, per gli aspetti schiettamente tributari, la legislazione sull’impresa sociale, introdotta dal D.Lgs. n. 155/2006, non ha ancora avuto attuazione per la mancata emanazione degli appositi regolamenti. Ciò nondimeno, parlare di gratuità, di liberalità o di destinazione non egoistica della ricchezza, può aiutare a introdurre, per evocazione in antitesi concettuale, il vero elemento sul quale, come già ricordato, si è aperta, più recentemente, la discussione e sul quale giova appuntare la nostra riflessione, elemento da individuare nel lucro. 10 11

Ampiamente BEGHIN, I contributi e le liberalità a favore delle imprese, Milano, 1997. Cfr. TURCHI, Conferimenti e apporti nel sistema delle imposte sui redditi, Torino, 2008, p. 234 ss.

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Il cuore del problema, secondo me, è, infatti, questo: se, anche alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento comunitario, il lucro debba essere assunto, in positivo, a elemento costitutivo della nozione fiscale d’impresa commerciale, oppure se esso, al contrario, debba essere considerato a questa estraneo o in questa presupposto.

3. Il lucro come elemento della nozione fiscale di impresa: il lucro c.d. oggettivo nelle imposte sui redditi Individuato così l’oggetto dell’ulteriore analisi, occorre verificarlo da un doppio punto di vista. Per riprendere la tradizionale partizione del diritto commerciale, si tratta di capire il rilievo che assume il lucro inteso sia in senso oggettivo, sia in senso soggettivo. Preciso, per chiarezza, il significato che qui attribuisco a queste locuzioni. Per lucro oggettivo, nella nostra materia, si deve intendere il conseguimento di proventi remunerativi dei fattori della produzione o utili riconducibili ad un’attività, anche se non in atto o considerata di mero godimento, mentre, per lucro soggettivo, si deve assumere la devoluzione, anche figurata, di quella ricchezza allo stesso imprenditore, se individuale, o ai soggetti che concorrono alla compagine associativa o societaria, se siffatta ricchezza è prodotta o comunque riferita a un ente collettivo. Inizio dal lucro oggettivo e cerco di muovermi con ordine, prendendo le mosse dalle imposte sui redditi. Per queste, come ho ricordato in apertura, ciò che viene in rilievo è che l’attività, indipendentemente dall’organizzazione, sia svolta abitualmente e sia riconducibile a quelle elencate nell’art. 2195 c.c. Una considerazione attenta e una lettura, per così dire, pulita dell’art. 55, comma 1, del testo unico convincono, a mio modo di vedere, come lo svolgimento di una di quelle attività sia di per sé sufficiente a integrare la nozione fiscale di impresa individuale e ad imporre lo statuto normativo conseguente, sia in punto di configurazione e determinazione dell’obbligazione d’imposta, sia in punto di obblighi a questa strumentali e strumentali all’attività amministrativa d’accertamento. Intendiamoci, il richiamo compiuto dalle norme tributarie al solo art. 2195 c.c. non esclude che l’interprete si possa anche riferire all’art. 2082 c.c. e dunque, in ipotesi, che da quest’ultima previsione riprenda l’elemento dell’“autosufficienza economica” o del “metodo economico” della conduzione dell’attività, o la regola della “copertura dei costi con i ricavi” 12, secondo un modo di concepire la 12 Queste espressioni sono riprese da CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 1, Diritto dell’impresa, Torino, 2008, pp. 31 e 32.

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nozione di “attività economica” fortemente legato a valutazioni sistematiche proprie del diritto commerciale 13. Anzi, che tra art. 2195 e art. 2082 vi possa essere un legame stringente anche ai fini fiscali lo sostenni venticinque anni fa e qui credo di doverlo ribadire 14. Per lo specifico profilo del lucro, però, centrare la ricerca sull’art. 2082, non solo non sarebbe risolutivo, atteso che esso è oggetto di interpretazioni difformi anche in seno alla dottrina e alla giurisprudenza commercialistiche 15, ma potrebbe essere addirittura foriero di confusione sistematica in ragione, principalmente, delle esigenze che diritto commerciale e diritto tributario perseguono, esigenze che normalmente divergono in ragione degli interessi concreti oggetto di tutela. D’altra parte, che, dal punto di vista fiscale, il riferimento all’art. 2082 possa non essere necessario è dimostrato, oltre che dall’art. 55 del testo unico, già richiamato, dagli artt. 148, 149 e 150 dello stesso testo unico, nonché dall’art. 10 del D.Lgs. n. 460/1997 sulle ONLUS. Privilegiando logica e struttura che governano i tributi di tipo reddituale, che già di per sé orientano alla soluzione, e tentando una lettura il più possibile unitaria di queste disposizioni, si possono trarre, secondo me, due conclusioni tra di loro simmetriche. Da un lato e in prima battuta, esse convincono di come, proprio in aderenza al presupposto oggettivo dell’imposta sul reddito e anzi in ragione di questo e cioè per l’esigenza di assoggettare a tassazione una ricchezza novella qualificabile come reddito, l’esercizio delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. venga dal legislatore considerato, in ogni caso e salva deroga espressa, produttivo di reddito qualificabile come d’impresa 16. Così come produttivo di reddito d’impresa si rivela anche lo svolgimento di una qualunque attività nelle forme delle società commerciali in senso proprio previste dal Libro V del codice civile (art. 6, comma 3 e art. 81, T.U.), forme che, 13

Cfr. MARASÀ, Le “società” senza scopo di lucro, Milano, 1984, p. 73 ss. Mi permetto di rinviare a GIOVANNINI, L’imprenditore commerciale e l’art. 51 del T.U. imposte dirette: una “nuova lettura” per armonizzare il sistema, in Rass. trib., 1988, 607 ss., tesi poi ripresa e ampliata in La nozione di imprenditore, in Giur. sit. dir. trib., diretta da Tesauro, Torino, 1994, p. 461 ss. 15 Per rendersene conto è sufficiente porre a confronto la tesi di GLIOZZI, L’imprenditore commerciale, Bologna, 1998, p. 129 ss., e di GENOVESE, La nozione giuridica dell’imprenditore, Padova, 1990, p. 27 ss., favorevoli ad una lettura dell’art. 2082 c.c. inclusiva dell’elemento lucrativo, e quella di GALGANO, Il concetto di imprenditore e di imprenditore commerciale, in Trattato dir. comm. e dir. pubbl. ec., II, L’impresa, diretto da Galgano, Padova, 1978, p. 23 ss., ma specialmente 63, tesa a ridurre il concetto di “attività economica” a quello della “obiettiva economicità”. Questo dibattito, da noi, è ripercorso puntualmente da PROTO, La fiscalità degli enti non societari, Torino, 2003, p. 108 ss. 16 Può apparire banale dirlo, ma se in uno specifico caso difetta la capacità o l’attitudine della singola attività economica a produrre lucro, quello che viene meno non è la qualificazione dell’attività in termini di impresa ai fini fiscali, ma, più semplicemente, il reddito. 14

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coerentemente con l’art. 2247 c.c., ma nella logica semplificatoria del legislatore tributario, consentono da sole di tenere in non cale l’elemento del lucro e in ogni caso di considerare irrilevante la verifica del suo raggiungimento. In termini semplici, se l’attività è commerciale, secondo l’elencazione adottata dalla disposizione civilistica, ovvero è svolta in una di quelle forme sopra richiamate, deve sempre ritenersi produttiva di un reddito d’impresa. E il reddito resta d’impresa anche se esso rappresenta solo uno spicchio della ricchezza complessiva riferibile all’ente in ragione della non prevalenza dell’attività commerciale rispetto ad altre attività e fonti di reddito imputabili all’ente stesso (art. 143, comma 1, T.U.). A favore di questa ricostruzione, in termini a mio parere sufficientemente chiari, depone, del resto, l’art. 143, comma 1, ultimo periodo, T.U.II.DD., sugli enti non commerciali residenti, che esclude la natura commerciale per le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195, da essi rese in conformità alle finalità istituzionali, se “i corrispettivi non eccedono i costi di diretta imputazione”. Ciò dimostra, a contrariis e per l’appunto, come la finalità lucrativa sia “data per scontata”, salve deroghe espresse, per tutte le attività dell’art. 2195 e perciò – e non sembri un paradosso – sia esclusa dalla definizione della fattispecie tributaria, ossia non concorra a formarla e quindi non esiga verifica rispetto alla sua ricorrenza 17. Mi rendo conto che questa parte dell’art. 143 può anche esser vista come norma di “nicchia” 18, ma, anche a volerla così qualificare, a me sembra che essa 17 La legislazione in materia di enti non commerciali e di ONLUS è per la verità disseminata di previsioni tese a escludere la natura commerciale di una serie variegata di attività. La scelta del legislatore, infatti, è stata quella di procedere a una minuziosa individuazione ed elencazione di attività che, proprio perché espressamente individuate, sono escluse dall’IRES e dall’IVA. Cfr., per tutti, FEDELE, La disciplina fiscale delle Onlus, in Riv. notariato, 1999, p. 537 ss., e ID., Disciplina degli enti non profit: profili tributari, in AA.VV., La disciplina degli enti non profit, Torino, 1998, p. 35 ss.; ZIZZO, Ragionando sulla fiscalità del terzo settore, in Rass. trib., 2010, p. 974 ss. Sui temi della commercialità e dell’economicità, cfr. CASTALDI, Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999, p. 246 ss., p. 258 ss., che ritiene di vedere nella economicità della gestione il requisito minimo e sufficiente per la qualificazione dell’attività come d’impresa, similmente, mi pare, a NUZZO, Questioni in tema di tassazione di enti non economici, in Rass. trib., 1985, I, p. 105 ss., specie 124, e anche a INTERDONATO, Il regime fiscale dei consorzi tra imprenditori, Milano, 2004, p. 112 ss. Per PROTO, La fiscalità degli enti non societari, già cit., p. 117 ss., invece la commercialità non può ridursi alla mera economicità della gestione, richiedendo, piuttosto, una programmazione lucrativa, tesi, del resto, che si desume chiaramente anche dal suo Brevi considerazioni sulla nozione di attività commerciale, in Riv. dir. trib., 1992, I, p. 882 ss., specie p. 889. Per GALLO, La natura ai fini fiscali dell’ente che ha conferito ad una s.p.a. la propria azienda creditizia, in Riv. dir. trib., 1991, I, p. 537 ss., specie p. 541, il corrispettivo che si ricava dall’attività deve essere tendenzialmente “in grado di remunerare i diversi fattori produttivi impiegati”. 18 Cfr. FEDELE, Disciplina degli enti, cit.; CASTALDI, Gli enti non commerciali, cit., 248; INTERDONATO, Il regime fiscale dei consorzi, cit., p. 113 ss.

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esprima, in realtà, una regola che si conforma perfettamente a quella, identica e più generale, desumibile dalla lettura “pulita” dell’art. 55 che qui suggerisco e, dunque, al presupposto del tributo personale, vale a dire il reddito inteso come ricchezza novella. Provo a spiegarmi in maniera ancora più semplice, confidando di riuscire a chiarire definitivamente il mio pensiero. La norma espressa nell’art. 55 del T.U. palesa come il legislatore fiscale, poiché ha come obiettivo unico quello colpire la ricchezza prodotta da un dato soggetto, abbia privilegiato una nozione di impresa, per così dire, semplificata, addirittura scheletrica, indifferente alla dimensione del lucro. Certo, nelle attività indicate nell’art. 2195 l’elemento del lucro può anche essere considerato presupposto dal punto di vista economico, così come lo è senz’altro nella definizione del contratto societario di cui all’art. 2247 c.c., ma, in ogni caso, esso scolorisce e si allontana nella prospettiva tributaria perché “sostituito” e “superato” dall’elemento del reddito. Ecco perché la previsione dell’art. 143, da ultimo richiamata, può essere utilizzata a mo’ di “cerniera” sistematica. Essa, infatti, è suscettibile di unire due lembi di tessuto: quello dell’impresa con attività commerciale, di per sé orientata alla produzione di una ricchezza novella, e quello dell’ente, diverso dalle società, con attività non commerciale, il quale, se può conseguire anche ricchezza nuova, è normalmente programmato solo alla obiettiva economicità della gestione. Con la conseguenza che, nel primo caso, il reddito complessivamente prodotto sarà qualificato tutto come d’impresa e i redditi provenienti da fonti di natura diversa saranno comunque ricondotti a questa categoria; nel secondo, invece, sarà qualificato d’impresa solo quella porzione di reddito ritratta da un’attività di natura commerciale o da una attività di servizi non commerciale ma senz’altro lucrativa, mentre altri redditi continueranno ad appartenere alle categorie individuate per il tramite della loro fonte. Da un diverso punto di vista, le disposizioni prima ricordate testimoniano come la natura commerciale o non commerciale dell’ente sia legata all’attività in concreto esercitata, ovvero, per quanto riguarda le attività svolte nelle forme societarie previste dal Libro V del codice civile, alla forma giuridica prescelta 19. Sono la tipologia di attività e la forma assunta, non il lucro o la obiettiva economicità della gestione, a distinguere l’attività commerciale da quella che non lo è, salvo, ovviamente, che il legislatore non preveda espressamente criteri “speciali” di qualificazione o esclusioni specifiche. E mi pare che questo ragionamento trovi 19 Qui semplifico volutamene il ragionamento. La non commercialità, infatti, è contornata anche da vincoli ulteriori e assai penetranti, riguardanti sia la forma giuridica prescelta per l’esercizio dell’attività, sia le limitazioni alla distribuzione degli utili o gli obblighi di loro accantonamento a riserve indisponibili. Su questi aspetti, tuttavia, tornerò tra poco, nella parte in cui mi soffermerò sul lucro inteso in senso soggettivo.

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conferma proprio nelle norme del testo unico che, nelle ipotesi in cui non sia assorbente la forma societaria, legano la commercialità al tipo di attività per come in concreto esercitata (art. 149 T.U.), secondo lo schema dell’art. 2195 prima tratteggiato e conformemente, come già sottolineato, al primo comma dell’art. 55 del D.P.R. n. 917/1986. In definitiva, da questo complesso reticolato legislativo si ha conferma del fatto che il lucro oggettivo, per le imposte sui redditi, non è elemento che concorre alla definizione della fattispecie d’impresa o del quale rilevi la sua ricorrenza o la sua non ricorrenza. Esso, pertanto, si configura quale elemento del tutto estraneo al procedimento di qualificazione come imprenditoriali delle attività civilisticamente commerciali, anche, come detto, nelle ipotesi in cui queste siano imputabili ad una società. Se è così, lo svolgimento per professione abituale di una delle attività previste nell’art. 2195 non può che determinare, salve espresse previsioni in deroga, il loro assoggettamento agli obblighi di quelle commerciali in materia di imposte sui redditi. Si potrebbe obiettare che la disciplina sull’impresa sociale, introdotta dal D.Lgs. n. 155/2006, supera addirittura la distinzione tra attività d’impresa commerciale e attività non commerciale, qualificando come d’impresa anche quella che abbia finalità esclusivamente sociali, sebbene costituita nelle forme previste dal Libro V del codice civile. Questa obiezione, secondo me, non coglierebbe però nel segno, ma verrebbe in qualche modo a rafforzare le mie conclusioni, sia perché l’art. 1 di quella legge dimostra, per altra via, come la nozione d’impresa sia connessa semplicemente allo svolgimento di un’attività economica rivolta a terzi (di «un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale»); sia perché il suo art. 3, riferendo espressamente ad essa la doppia possibilità di conseguire utili o di operare con criteri di obiettiva economicità, non consente di guardare né all’una possibilità, né all’altra, come espressive di elementi qualificatori dell’impresa stessa 20.

4. (segue) Il lucro c.d. oggettivo nell’IVA e nell’IRAP Per l’imposta sul valore aggiunto il discorso non cambia nella sostanza, sebbene una precisazione si renda necessaria. Leggendo con attenzione i commi 2, 4, 5 e 6 dell’art. 4 della legge sull’IVA, sull’“esercizio di imprese”, e privilegiando la particolare “natura” della ricchezza che questo tributo, alla fin fine, tende a 20

Il superamento della distinzione tra attività commerciale e attività non commerciale potrà costituire, secondo me, la “nuova frontiera” della tassazione della ricchezza imputabile alle attività economiche, ma su questo profilo tornerò tra poco nelle conclusioni.

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colpire, ossia il valore aggiunto di tipo consumo incorporato nel prezzo finale del bene o servizio, si può arrivare a concludere che anche qui il lucro è elemento irrilevante. La conclusione è quindi identica a quella che vale per le imposte sui redditi, ma la ragione è diversa, essendo connessa alla struttura del tributo 21. Per i soggetti passivi formali, ossia imprenditori individuali e lavoratori autonomi, enti commerciali ed enti non commerciali, infatti, quel che conta è che la singola operazione sia valutabile economicamente in funzione di un corrispettivo, oppure di un “valore aggiunto” che, se non sottoposto a tassazione, determinerebbe un salto d’imposta nella catena traslativa dell’incidenza impositiva. Tant’è che, da un lato, soggetti passivi formali sono considerati anche gli enti non commerciali e gli enti pubblici, compresi, in determinate, ipotetiche circostanze, lo Stato, le regioni, le province e i comuni; da un altro, le cessioni gratuite di beni e le prestazioni di servizi sono sì imponibili, ma solo se per esse sia stata detratta l’imposta sugli acquisti e quindi sia sorto antecedentemente un diritto di credito del soggetto passivo nei confronti dello Stato [artt. 2, comma 2, punto 4) e punto 5), nonché art. 3, comma 3, del D.P.R. n. 633]. E ciò conferma proprio come l’elemento del lucro oggettivo sia totalmente irrilevante, venendo in considerazione, piuttosto, la singola operazione, tanto riguardata come espressiva di un valore aggiunto altrimenti non attratto al procedimento plurifase della tassazione, tanto riguardata, casomai, come espressiva della realizzazione di atti di natura commerciale da parte di un ente privato non commerciale o di un ente pubblico. Infine, in materia d’imposta regionale sulle attività produttive, la conclusione è senz’altro identica a quella ora prospettata in materia di IVA. Com’è risaputo, infatti, l’elemento lucrativo è completamente estraneo al suo presupposto, non soltanto oggettivo, ma anche soggettivo, essendo sottoposti al tributo pure gli enti pubblici non economici, le amministrazioni pubbliche, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, la Presidenza della Repubblica, la Corte costituzionale e gli organi legislativi delle regioni a statuto speciale (art. 3, comma 1, lett. e-bis, D.Lgs. n. 446/1997). Enti e organi, dunque, ai quali è impossibile riferire finalità lucrative.

5. La nozione d’impresa nell’ordinamento comunitario e l’irrilevanza dell’elemento lucrativo Le cose finora dette trovano puntuale conferma nella legislazione comunitaria. Anzi, mi pare di poter affermare che il diritto domestico, per questo profilo e

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Cfr. CASTALDI, Gli enti non commerciali, cit., p. 253.

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se interpretato nei termini proposti, si è fatto inconsapevolmente anticipatore dell’interpretazione elaborata a livello comunitario 22. È noto che, in quest’ultimo ordinamento, la nozione d’impresa – sebbene assolva la funzione fondamentale di perno di tutta la normazione sulla concorrenza e come tale sia invocata già nell’ambito delle disposizioni fondative del Trattato 23 – non trova una definizione positiva espressa 24, salvo voler considerare per tale la generica previsione dell’art. 9 della direttiva n. 112/E/2006, di definizione dei soggetti passivi dell’imposta sul valore aggiunto, per la quale è «“attività economica” ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate». La prassi della Commissione e la giurisprudenze del Tribunale di Primo Grado e della Corte di Giustizia, hanno avuto modo di chiarire, peraltro, che, nel contesto del tessuto normativo che regola il mercato comune europeo, deve ritenersi impresa qualsiasi «entità esplicante un’attività economica, indipendentemente dallo stato giuridico e dal suo modo di finanziamento» 25, con l’ulteriore precisazione per la quale «costituisce un’attività di natura economica qualsiasi attività che partecipi agli scambi economici, anche a prescindere dalla ricerca di profitto» 26 (il corsivo è mio), con esclusione solo di quelle che costituiscano esercizio di poteri autoritativi, riservati ex lege ad autorità pubbliche 27, ovvero siano svolte in adempimento di funzioni di carattere essenzialmente sociale 28. 22

Per un inquadramento generale, cfr. F. AMATUCCI, Identificazione dell’attività d’impresa ai fini fiscali in ambito comunitario, in Riv. dir. trib., 2009, I, p. 781 ss. 23 Si vedano gli artt. 81, in materia di intese restrittive, l’art. 82, in materia di abuso di posizione dominante, e l’art. 87, in materia di aiuto di stato, del Trattato. 24 Sul punto, cfr. AFFERNI, La nozione di impresa comunitaria, in Trattato dir. comm. e dir. pubbl. ec., II, L’impresa, diretto da Galgano, già cit., p. 129 ss.; BONELLI-SPADAFORA, La nozione di impresa in diritto comunitario, in Giust. Civ., 1990, II, p. 283 ss.; BRAUN-GLEISS-HIRSCH, Droit des ententes de la Cee, Bruxelles, 1997, p. 52 ss.; ROTH, La notion d’entreprise selon la jurisprudence récente relative à l’article 85 du Traité CE, in Raffaelli, Antitrust between EC Law and National Law, Milano, 1998, p. 13 ss. 25 Così CGCE, 23 aprile 1991, Klaus Höfner e Fritz Elser c. Macroton GmbH, causa C41/90. 26 Cfr. decisione n. 92/521/CEE della Commissione del 27 ottobre 1992. 27 Sul rilievo di questo elemento, per la sussistenza dell’impresa nell’IVA, cfr. CENTORE, Soggettività passiva IVA degli enti pubblici in funzione della natura economica dell’attività, nota a Cass., 7 marzo 2012, n. 3513, in Corr. trib., 2012, p. 1717 ss., e ID., L’IVA sull’attività degli enti pubblici: la distorsione della concorrenza presunta, minima, trascurabile e non, in Riv. giur. trib., 2008, 1027 ss., nota a CGUE, 16 settembre 2008, causa C-288/07. 28 CGCE, 22 gennaio 2002, Cisal di Battistello Venanzio e C. s.a.s. c. I.n.a.i.l., causa C218/00. Cfr., sul punto, Ferraro, Il rapporto tra le nozioni di impresa ed ente pubblico nella giurisprudenza comunitaria: una riflessione sulla base della decisione della Corte di Giustizia nel caso InailCisal-Battistello, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2002, p. 802 ss.

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La dimensione lucrativa dell’attività è stata ritenuta, dunque, non determinante ai fini qualificatori, e la nozione di impresa in ambito comunitario è stata costruita esclusivamente intorno alla considerazione dell’idoneità dell’attività esercitata ad essere valutata in termini di mercato 29, a prescindere dalle modalità della sua organizzazione, dalla forma giuridica assunta, dal suo finanziamento e dalla sua stessa idoneità a produrre ricchezza, per chi la gestisca, nella forma del lucro oggettivo, per come inteso secondo la nostra tradizione giuridica. Il profilo lucrativo, pertanto, non trova spazio neppure nell’interpretazione della Corte di Giustizia UE, la quale, invero, non lo ha considerato elemento fondante della nozione d’impresa, né del concetto “limitrofo” di attività economica, neanche per l’imposta sul valore aggiunto. La Corte, infatti, in questo limitato ambito, con la decisione 16 settembre 2008, causa C-288/07, già richiamata, ha bensì attinto a un concetto “economico” proprio del sinallagma contrattuale, ossia alla corrispettività delle prestazioni, ma al solo scopo di determinare la riconducibilità a tassazione di operazioni svolte da enti pubblici in regime non di monopolio, come tali potenzialmente lesive del principio di non discriminazione e di quello della libertà di concorrenza. Ancora una volta, pertanto, la Corte ha governato la giustizia rimessa nelle sue mani con la bilancia del mercato, inteso come bene giuridico in senso proprio. Non ha recuperato la corrispettività per fondare su di essa la nozione di economicità dell’attività e men che meno quella confinante del lucro oggettivo, ma soltanto per saldare alla corrispettività la dimensione di parametro per la valutazione dell’idoneità dell’attività a spiegare effetti sul mercato e, pertanto, a risultare potenzialmente pregiudizievole in punto di concorrenza. In conclusione, la Corte ha ripreso la corrispettività al solo fine di valutare le potenziali distorsioni che operazioni in tal modo caratterizzate possono determinare sul mercato unico; distorsioni che, nella logica del Trattato, sono quelle che, sopra ad ogni altra questione, ordinano l’interpretazione dei diversi istituti giuridici, sebbene quegli stessi istituti, se collocati nei singoli ordinamenti degli stati membri, possano assumere valenza e sprigionare effetti anche di natura radicalmente diversa 30.

6. Lucro soggettivo, destinazione altruistica della ricchezza e impresa sociale Il discorso fin qui svolto ci ha accompagnato naturalmente ad affrontare l’altro corno del problema, ossia il rapporto tra lucro soggettivo e nozione d’impresa a fini fiscali. 29

CALAMIA, La nuova disciplina della concorrenza nel diritto comunitario, Milano, 2004, p. 7 ss. Questo diverso modo di approcciarsi agli istituti di fonte europea e a quelli di origine domestica, è messo in luce da CALAMIA, La nuova disciplina della concorrenza nel diritto comunitario, cit., p. 9. 30

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Il problema si pone quando la ricchezza riconducibile ad un’attività economica deve, per legge, essere destinata a finalità altruistiche o non egoistiche e non può, quindi, essere distribuita agli appartenenti alla compagine societaria o associativa dell’ente al quale quella attività è riferibile. Questi divieti o limitazioni, pur di grande rilievo, non hanno però, conseguenza diretta sulla nozione di impresa. Casomai, essi possono determinare conseguenze, per così dire, indirette, le principali delle quali le sintetizzo nei termini che mi accingo ad esporre. La prima attiene al regime di determinazione del reddito complessivo e agli obblighi strumentali al rapporto d’imposta. Per gli enti non commerciali e per le ONLUS, come per le fondazioni di origine bancaria 31, per i consorzi e per le reti d’impresa 32, il divieto di distribuzione degli utili e i vincoli alla loro destinazione, costituiscono elementi che, unitamente ad un ventaglio ulteriore di prescrizioni e alla tipologia di attività in concreto esercitata, consentono di non attrarre nella categoria unificante del reddito d’impresa i vari proventi a quegli enti riferibili e, in alcune circostanze, consentono perfino di escluderli da tassazione (art. 148, testo unico delle imposte sui redditi). Così come permettono di escludere dall’IVA le singole operazioni eseguite (art. 4, comma 6, D.P.R. n. 633/1972). Da questo punto di vista la compressione del lucro soggettivo riverbera, come condizione necessaria, ma non esclusiva, sul regime impositivo in concerto applicabile all’ente produttore della ricchezza, atteso che, in presenza di quelle limitazioni, la legge assume che il reddito imponibile sia determinato secondo le regole degli enti non commerciali. Al divieto di distribuzione, però, non si accompagnano necessariamente l’assenza di un’impresa e la presenza di un’attività non improntata al conseguimento del lucro. Questa conclusione trova duplice conferma. Anzitutto nell’art. 149, T.U., che disciplina la perdita del carattere della non commercialità dell’attività e dunque la sua riqualificazione in termini propriamente d’impresa ai fini fiscali, riconnettendo quella perdita a una modifica non strutturale dell’ente, ma solo a una variazione del profilo “quantitativo” dell’attività in concreto svolta. Poi nel D.Lgs. n. 155/2006 sull’impresa sociale. Esso, infatti, dimostra come 31

Sulla tormentata vicenda delle fondazioni di origine bancaria, che nell’economia di questo lavoro ricordo solo di passata al fine di mettere in risalto come anche ad esse siano imposti severi vincoli in punto di distribuzione e utilizzazione degli utili, cfr., per tutti, Perrone, Le vicende delle agevolazioni tributarie sul reddito delle fondazioni di origine bancaria, in Rass. trib., 2010, p. 25 ss.; GALLO, Fondazioni e fisco, in Rass. trib., 2004, p. 1159 ss.; RUSSO-LAROMA JEZZI, Il revirement della Cassazione sul regime fiscale delle fondazioni bancarie: spunti per una riflessione a tutto campo, in Rass. trib., 2002, p. 1031 ss.; FICARI, La disciplina fiscale delle attività delle fondazioni bancarie, in Riv. dir. trib., 1999, I, p. 775 ss. 32 Come risultanti disciplinate dalla L. n. 122/2010.

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impresa e lucro anche soggettivo non siano tra di loro avvinti da un rapporto di coessenzialità. Strutturalmente l’impresa esiste, come già si è detto, in ragione dell’attività in concreto esercitata, che deve coincidere con «un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale», quale che sia la forma giuridica adottata e comprese le amministrazioni pubbliche e gli enti ecclesiastici. E la qualificazione come d’impresa non viene per nulla scalfita dalle limitazioni alla distribuzione. Anzi la disciplina positiva testimonia il contrario: ai sensi dell’art. 3, lo ricordo nuovamente, l’impresa deve destinare gli utili di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio e a tale fine non può mai distribuirli, neppure in forma indiretta, in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori.

7. (segue) Mutualità dello scopo sociale e lucro La seconda conseguenza riconducibile ai divieti o alle limitazioni proprie alla distribuzione della ricchezza prodotta, riguarda il sistema delle c.d. agevolazioni impositive e viene in particolare considerazione per le società cooperative. La tesi per la quale le società cooperative, potendo senz’altro svolgere attività esterna, possono perseguire uno scopo oggettivamente lucrativo e che questo aspetto sia perfettamente compatibile con il loro scopo mutualistico, ossia con la gestione di servizi a favore dei soci, mi pare prevalente tra gli studiosi del diritto commerciale 33. Lo scopo mutualistico, insomma, che caratterizza natura e funzione di questa particolare forma societaria, non elide l’elemento teleologico del lucro oggettivo; piuttosto, determina – a garanzia, per così dire, della purezza degli intenti e delle funzioni – compressioni del lucro soggettivo, con limitazioni rilevanti alla possibilità di distribuire gli utili prodotti nell’esercizio dell’attività 34. Soddisfazione di preesistenti bisogni dei soci, da un lato, e compressione alla distribuzione degli utili, dall’altro, costituiscono i fondamentali profili causali delle società cooperative e del loro contratto, ma anche espressione delle guarentigie offerte alla mutualità dall’art. 45 della Costituzione, guarentigie che nel diritto tributario trovano completamento ed esaltazione 35. 33 Cfr. VERRUCOLI, Cooperative (imprese), in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 549 ss., specie p. 355 ss. La questione sul rapporto tra funzione mutualistica e lucro in senso oggettivo, è stata analiticamente affrontata, per la sua centralità, anche dai tributaristi, Per un’esposizione ragionata, cfr. INGROSSO, Le cooperative e le nuove agevolazioni fiscali, Torino, 2011, 1 ss., e PEPE, La fiscalità delle cooperative, Milano, 2009, p. 109 ss. 34 Ampiamente, LOTITO E NARDELLA, Commentario alla Costituzione, a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, sub art. 45, vol. I, Torino, 2006, p. 915 ss., specie pp. 926 e 927. 35 Cfr. ROMBOLI, Problemi costituzionali della cooperazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1977, p. 106 ss.

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Per il nostro diritto, infatti, le limitazioni normative e negoziali alla distribuzione degli utili, unitamente alle altre regole dello statuto normativo della cooperazione (art. 2514 e ss., c.c.) 36, vengono in considerazione non tanto come elementi costitutivi della nozione d’impresa, quanto come fattori giustificativi dello specifico regime di tassazione, che, per le imposte sui redditi, comporta una riduzione assai significativa del suo gravame rispetto a quello delle imprese non cooperative. I divieti o le limitazioni alla distribuzione degli utili, pertanto, determinano e concorrono a giustificare la previsione di un sistema differenziato di prelievo. Non già, secondo me, come invece tradizionalmente si ripete, di un sistema agevolativo o di parziale esenzione o di “sottrazione”, piuttosto di un regime bensì di settore, ma non derogatorio al sistema generale. Se mi si consente di riprendere quanto scrissi alcuni anni fa a proposito di concorrenza fiscale e di aiuti di stato, credo che la disciplina costituzionale, unitamente a quella civilistica, fondino un sistema generale di settore, caratterizzato da regole peculiari, ma pur sempre generali, quindi e per l’appunto non “sottrattive”, perché non derogatorie 37. Su questo argomento, con riguardo alle società cooperative di produzione e lavoro, è intervenuta – come si sa – la Corte di Giustizia con la sentenza 8 settembre 2011, cause riunite da C-78/08 a C-80/08. Anche senza scendere in una sua analisi dettagliata, il riferimento ad essa consente di chiarire ulteriormente il rapporto tra limitazione alla distribuzione degli utili e tassazione differenziata. Le cooperative di produzione e lavoro, come ha ricordato la Corte, sono governate da regole di funzionamento diverse da quelle degli altri operatori economici, che comportano, tra l’altro, la limitazione dei diritti dei soci e la prevalenza dello scopo mutualistico rispetto alla finalità lucrativa. Di conseguenza, il sistema fiscale per esse dettato è in qualche misura “necessitato”, funzionale, com’è, alle loro peculiarità economiche, strutturali e di gestione, e alle garanzie costituzionali che il nostro ordinamento ad esse riserva 38. Ragionando nei termini ora esposti, allora, non mi sembra azzardato affermare che il loro regime impositivo trova fondamento e giustificazione proprio in siffatti profili, nei limiti alla distribuzione degli utili, nell’obbligo di accantonamento di questi a riserve indisponibili e nell’obbligo annuale di versamento di una loro percentuale ai fondi nazionali mutualistici, nei vincoli di destinazione finale 36

Cfr. INGROSSO, Le cooperative, cit., p. 137 ss. GIOVANNINI, Concorrenza fiscale e aiuti di stato. Princìpi e tassazione delle società cooperative, in Boll. trib., 2006, p. 1589 ss. Mi pare condivida questa impostazione INGROSSO, op. ult. cit., p. 319 ss. Offre soluzioni articolate, largamente incentrate sulla “persona” del socio e dunque volte a qualificare, in particolare, gli artt. 10 e 11 del D.P.R. n. 601/1973 come disposizioni di “esclusione”, PEPE, La fiscalità delle cooperative, cit.,11 ss., p. 27 ss. e poi p. 274 ss. 38 Cfr. correttamente MARINELLO, Regimi impositivi differenziati e società cooperative secondo la Corte di giustizia UE, in Riv. trim. dir. trib., p. 218 ss., specie p. 226. 37

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della ricchezza accantonata. E ciò in conformità, per l’ordinamento comunitario, al principio di proporzionalità, di non discriminazione e al divieto di selettività, secondo i parametri interpretativi dell’art. 107 del TFUE sugli aiuti di stato (già art. 87 del TCE), avuto in particolare riguardo “alla natura e struttura del sistema tributario interno”; per l’ordinamento italiano, in conformità al principio del concorso alle spese pubbliche ex art. 53 Cost., come espressione di quello di eguaglianza di cui all’art. 3, e al principio di ragionevolezza, in adesione agli interessi e ai valori raccolti nell’art. 45 39.

8. Prospettive di riforma: per il superamento della distinzione tra redditi di attività commerciale e di attività non commerciale (e tra redditi d'impresa e di lavoro autonomo) Le cose fin qui dette hanno messo in evidenza, almeno credo, l’irrilevanza dell’elemento del lucro nella costruzione della nozione d’impresa e hanno anche messo in evidenza come, ferma l’irrilevanza ai fini definitori di questo elemento, la distinzione tra attività di tipo commerciale e attività di tipo non commerciale si debba basare sull’attività in concreto svolta, ovvero sulla forma. Credo che queste considerazioni, ove condivise, possano contribuire a formulare delle proposte di riforma. Ritengo che il superamento della distinzione tra attività commerciale e attività non commerciale costituisca la vera, “nuova frontiera” della tassazione della ricchezza imputabile alle attività economiche. Questa distinzione – storicamente accreditata anche in ragione delle sue radici civilistiche che affondano sia nella tradizione economica precodicistica, sia in quella giuridica che condusse all’unificazione del codice civile del 1865 e del codice di commercio del 1882 nel nuovo codice del 1942 40 – in una prospettiva di ripensamento dell’assetto impositivo e, più in generale, di rivisitazione del sistema di welfare state e welfare work deve essere abbandonata. Il suo superamento è infatti essenziale non tanto o non soltanto per ammodernare il sistema o per un semplice vezzo riformista, quanto per integrare, in 39

Approfondimenti e considerazioni ulteriori in INGROSSO, Le cooperative, cit., specie p. 317 ss.; MARINELLO, Regimi impositivi, cit., e, in termini più generali, SALVINI, Le misure fiscali per la cooperazione, in SALVINI, Le misure fiscali per la cooperazione, in (a cura di) SALVINI, Aiuti di Stato in materia fiscale, Padova, 2007, p. 489 ss., DI PIETRO, Requisiti fiscali per le agevolazioni delle cooperative, in UCKMAR-GRAZIANO, La disciplina civilistica e fiscale della “nuova” società cooperativa, Padova, 2006, p. 87 ss.; BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2010, p. 219 ss., e FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, Pisa, 2007. 40 Cfr. PORTALE, Il diritto commerciale italiano alle soglie del XXI secolo, in Riv. soc., 2008, 1 ss.; GALGANO, Lex mercatoria, Bologna, 1976, passim, ma specialmente p. 193 ss.

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termini concretamente apprezzabili, le capacità d’intervento dello Stato rispetto alle nuove e sempre maggiori esigenze sociali. D’altra parte, mi pare di poter dire che questo abbandono risponderebbe a quanto già desumibile dal D.Lgs. n. 155/2006 sull’impresa sociale e al modello d’impresa che, in via interpretativa, si sta affermando nell’ordinamento comunitario; modello che, lo dico per inciso, imporrebbe anche l’abbandono della vecchia distinzione tra redditi d'impresa e redditi di lavoro autonomo. In una nuova visione di sistema, pertanto, quel che dovrebbe contare non dovrebbe essere più la tipologia di attività esercitata – commerciale o non commerciale, strumentale o non strumentale agli scopi istituzionali – o la forma giuridica da questa assunta, quanto la finalità ultima perseguita dall’ente o dalla società, finalità ultima intesa come destinazione filantropica e sociale della ricchezza prodotta o raccolta. Dovrebbe essere, in buona sostanza, l’utilità sociale, il bisogno non egoistico soddisfatto dalla ricchezza a tal fine indirizzata, quale che sia l’attività che la produce, a ricondurre l’ente o la società al regime impositivo di “favore”, magari improntato ad aliquote impositive differenziate in ragione dei diversi interessi e bisogni soddisfatti con quella ricchezza. Una simile innovazione dovrebbe esigere, però, l’introduzione di un’accurata gabbia di cautele e stringenti limiti, accompagnati da un sistema di controlli efficace e sufficientemente esteso, così come l’introduzione di vincoli statutari limitativi dei diritti dei soci e degli amministratori, e vincoli severi sulla distribuzione degli utili sotto qualsiasi forma. Non mi sfugge, certo, che questa proposta, qui formulata come semplice bozza di lavoro, dovrebbe essere ulteriormente affinata, avuto riguardo anche alle previsioni di fonte comunitaria, già ricordate, sugli aiuti di stato; e non mi sfugge neppure il fatto che essa esigerebbe un raccordo attento con le finanze pubbliche che, con senso di realismo, impongono prudenza nei cambiamenti e severità nel controllo dei saldi di bilancio 41. Mi auguro, ciò nonostante, che, come un sasso lanciato nello stagno, l’idea possa contribuire a riaccendere l’attenzione su un tema fondamentale per la nostra materia e a riprendere in considerazione, in termini concretamente nuovi, il rapporto tra lucro e impresa. “Non bisogna toccare gli idoli: la doratura resta sulle mani”, ammonisce Floubert in “Madame Bovary”, ma un po’ di coraggio può non guastare. 41 Questi argomenti sono ampiamente trattati in GIOVANNINI, “Proposta per una riforma organica della legislazione sul terzo settore”, formulata nell’ambito del gruppo di studio insediato dall’Agenzia nazionale per le ONLUS, in Araté, Supplemento, 2009, e da me sintetizzati in Enti del terzo settore: linee sistematiche di riforma, in Rass. trib., 2009, p. 137 ss.; spunti di ricerca, nel senso indicato, anche in La fiscalità del terzo settore, a cura di Zizzo, Milano, 2011, specialmente nello scritto di BOFFANO, Disciplina fiscale e “finalità” degli enti del terzo settore, p. 75 ss.

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di Maurizio Interdonato SOMMARIO: 1. Scopo mutualistico e causa consortile. – 2. La compatibilità dello scopo mutualistico con quello di lucro. – 3. Le conseguenze sotto il profilo tributario dell’asserita natura mutualistica del consorzio. – 3.1. La mutualità e la soggettività tributaria del consorzio. – 3.2. La mutualità e la commercialità dell’attività svolta dal consorzio. – 3.3. La mutualità e la riferibilità dell’attività alle consorziate. – 4. I consorzi e le imposte dirette. – 4.1. Il trattamento fiscale dei ristorni. – 4.2. Il trattamento fiscale dei contributi e dei canoni consortili. – 5. I consorzi nell’imposta sul valore aggiunto. – 5.1. I ristorni e l’IVA. – 5.2. I corrispettivi. – 5.3. Regime IVA dei contributi e canoni consortili.

1. Scopo mutualistico e causa consortile Qualsiasi intervento in tema di imprese consortili non può che prendere le mosse dalla considerazione che la causa consortile, intesa come finalità sociale ed economica del contratto, ha natura mutualistica. Secondo la dottrina maggioritaria, infatti, la circostanza che il consorzio opera, essenzialmente, a favore della cerchia delle imprese consorziate qualifica la causa del contratto di consorzio come mutualistica 1. 1

Prima della riformulazione dell’art. 2602 c.c. ad opera della L. 10 maggio 1976, n. 377, in dottrina si rinvenivano, sostanzialmente, due principali correnti di pensiero: la prima, riconducibile agli scritti dell’Ascarelli, individuava la causa del contratto di consorzio nella restrizione della concorrenza tra gli imprenditori consorziati, la seconda, riconducibile al Franceschelli, identificava per contro la causa nell’adeguamento della produzione al mercato. Cfr. GUGLIEMETTI, (voce) Consorzi industriali, in Noviss. Dig. It., IV, Torino, 1964, p. 272. Dopo le richiamate modifiche, tuttavia, la dottrina maggioritaria si è orientata nel senso che la causa del contratto di consorzio abbia natura mutualistica. In questo senso si vedano VOLPE PUTZOLU, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in AA.VV., Diritto commerciale, Bologna, 2007, p. 406; BORGIOLI, Consorzi e società consortili, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da CICU e MESSINEO, Milano, 1985, Vol. XLI, t. 3, pp. 95-96; FRANCESCHELLI, Dei consorzi per il coordina-

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Partendo dal disposto dell’art. 2602 c.c., si può ricordare come tale norma stabilisca che con il contratto di consorzio più imprenditori danno vita ad “un’organizzazione comune” volta a “disciplinare” o “svolgere” una o più fasi delle loro imprese, la mutualità consortile può, dunque, essere individuata proprio nella disciplina o svolgimento di una o più fasi delle imprese consorziate allo scopo di far conseguire nelle economie di quest’ultime un vantaggio economico sotto forma di maggiori entrate o minori spese 2. Vale la pena evidenziare che il vantaggio economico realizzato tramite la partecipazione al consorzio non viene conseguito da quest’ultimo e poi distribuito alle imprese sode, bensì emerge direttamente nella gestione delle consorziate. Questo concetto di mutualità consortile, che secondo la dottrina rappresenta la causa del contratto di consorzio, si rinviene tanto nei consorzi esterni 3, vale a dire in quei consorzi che si inseriscono come intermediari tra le consorziate e i terzi estrinsecandosi la loro attività nell’intrattenimento di rapporti economici verso l’esterno, quanto in quelli interni, nei quali l’attività del consorzio è rivolta alla regolamentazione dei rapporti tra consorziati, alla verifica degli obblighi assunti e alla risoluzione di eventuali conflitti tra le stesse imprese consorziate 4. Anche nei consorzi interni, infatti, si mira a realizzare un vantaggio economico in capo alle consorziate, ad esempio, sostenendo il prezzo di vendita dei beni o servizi prodotti, ovvero mantenendo basso il costo di acquisizione dei fattori produttivi. mento della produzione e degli scambi, in SCIALOJA-BRANCA (a cura di), Commentario al codice civile, Roma, 1970, p. 39. Di diverso avviso, invece, MOSCO, I consorzi tra imprenditori, Milano, 1988, pp. 79-80, il quale ritiene che di mutualità consortile si possa parlare, a differenza di quanto accade nella cooperativa, come finalizzazione eventuale, ma non necessaria, del contratto di consorzio. 2 In questo senso PAOLUCCI, (voce) Consorzi e società consortili nel diritto commerciale, in Digesto, sez. comm., Torino, 1988, p. 436. 3 La richiamata distinzione tra consorzi esterni ed interni si fonda sul disposto dell’art. 2612 c.c. che assoggetta i primi ad un regime particolare di pubblicità e responsabilità. La nozione di consorzio interno, invece, dev’essere ricavata in negativo da quella dettata per i consorzi esterni, mancando un’apposita disciplina nel codice civile. Sulla distinzione tra le due tipologie di consorzi e sul connesso problema se la natura imprenditoriale dell’attività svolta possa fungere da criterio discriminante ai fini della qualificazione, si vedano MOSCO, I consorzi tra imprenditori, cit., p. 103 ss.; FRANCESCHELLI, Dei consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, cit., pp. 44-45; PAOLUCCI, (voce) Consorzi e società consortili nel diritto commerciale, cit., pp. 435-436. Quest’ultimo tiene a precisare (ivi p. 436) che la distinzione tra consorzi interni ed esterni non riguarda lo scopo posto che l’attività esterna eventualmente svolta non è fine a se stessa, ma volta alla realizzazione dell’organizzazione comune delle consorziate. 4 La dottrina ha evidenziato come nei consorzi interni i rapporti con i terzi non siano totalmente preclusi, ben essendo possibile che il consorzio intrattenga rapporti con soggetti terzi (ad esempio, stipulando contratti d’affitto, assumendo dipendenti, ecc.) fermo restando che a tali rapporti non deve conseguire lo svolgimento di un’attività commerciale. Sul punto si vedano BORGIOLI, Consorzi e società consortili, cit., pp. 73-74; MARASÀ, Le società senza scopo di lucro, Milano, 1975, p. 241 ss.; MOSCO, I consorzi tra imprenditori, cit., p. 103 ss.

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Peraltro, a parere di chi scrive, questo concetto di mutualità – si ribadisce, inteso come conseguimento di determinati vantaggi direttamente nella sfera degli associati tramite l’organizzazione associativa – non presenta più alcuna distinzione dal concetto di mutualità esplicitamente richiamato dal legislatore all’art. 2511 c.c. in relazione alle cooperative 5. A seguito delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 (decreto di riforma del diritto societario in vigore dal 2004), l’art. 2512 c.c. definisce cooperative a mutualità prevalente 6 quelle in cui l’attività è svolta prevalentemente a favore dei soci o ci si avvale prevalentemente delle prestazioni lavorative dei soci, o ancora dell’apporto dei loro beni e servizi, per lo svolgimento dell’attività. Del pari, il terzo comma dell’art. 2538 c.c. offre la possibilità, qualora lo “scopo mutualistico” della cooperativa venga realizzato attraverso l’integrazione delle imprese degli associati, di attribuire il diritto di voto in assemblea in ragione della partecipazione allo scambio mutualistico. Dalle norme sopra richiamate si evince chiaramente come anche gli imprenditori possano utilizzare la cooperativa come forma associativa, con la conseguenza che non v’è più alcuna differenza tra la cosiddetta mutualità speculativa (propria dei consorzi) e quella non speculativa (propria delle cooperative). In entrambe le fattispecie, infatti, lo scopo perseguito è quello di procurare un vantaggio economico 7 diretto nelle economie dei soci, in termini di maggiori entrate o minori spese. 5

Nel senso che non si dovesse distinguere tra mutualità consortile e mutualità cooperativa anche prima della riforma si veda PAOLUCCI, Consorzi e società consortili nel diritto commerciale, cit., p. 438. 6 Nel codice civile manca una definizione espressa di mutualità. Secondo la relazione al codice (n. 1025), la mutualità può essere intesa come la possibilità di “fornire beni o servizi od occasioni di lavoro ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che incontrerebbero sul mercato”. Il citato decreto n. 6/2003 ha introdotto la nota distinzione tra cooperative a mutualità prevalente e non prevalente, peraltro riservando solo alle prime l’applicazione delle norme fiscali di carattere agevolativo. Sul tema, si rinvia a DI PIETRO, Le ragioni fiscali delle nuove cooperative, in DI VELLA (a cura di), Gli statuti delle imprese cooperative dopo la riforma del diritto societario, Torino, 2004, p. 101; SALVINI, La riforma del diritto societario: le implicazioni fiscali per le cooperative, in Rass. trib., 2003, p. 840 ss.; CAPOLUPO, Cooperative: riforma societaria e coordinamento fiscale, in Il fisco, 2003, p. 5129 ss.; MACRÌ-RAVAIOLI, Il regime fiscale, in GENCO (a cura di), La riforma delle società cooperative, Milano, 2003, p. 375; SARTI, Imposizione diretta: confronto tra cooperative a mutualità prevalente e non, in Coop. e consorzi, 2006, n. 1; nonché, per la prassi, oltre alla Circ. Ag. Entr. n. 24 del 15 luglio 2005 (in Il fisco, 2005, p. 2-4740) anche a C.N.N. (estensore Petrelli), La disciplina fiscale delle cooperative a seguito della riforma del diritto societario, Studio 71/2004/T, e a C.N.N. (estensore Petrelli), I profili della mutualità nella riforma delle società cooperative, Studio n. 5308/I, entrambi reperibili sul sito del Notariato (www.notariato.it). Per un’analisi della compatibilità con l’art. 45 Cost. del combinato disposto del novellato art. 2512 c.c. e dell’art. 223 duodecies disp. att. c.c. sia consentito rinviare a INTERDONATO, Commento all’art. 45 Cost., in FALSITTAFANTOZZI-MARONGIU-MOSCHETTI, Commentario breve alle leggi tributarie – Diritto costituzionale tributario e Statuto dei diritti del contribuente, Tomo I, Padova, 2011, p. 169 ss. 7 Sulla natura economica del vantaggio perseguito si veda BORGIOLI, Consorzi e società consortili, cit., p. 94. Sulla base delle argomentazioni riportate nel testo, l’Autore giunge ad ammettere lo

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2. La compatibilità dello scopo mutualistico con quello di lucro Questione estremamente rilevante appare quella della compatibilità tra lo scopo mutualistico e lo scopo di lucro. Semplificando, possiamo ricordare come in passato si riteneva incompatibile lo scopo mutualistico con quello di lucro (c.d. tesi della mutualità pura), per lo più argomentando in base alla definizione stessa di consorzio. Secondo questa impostazione, infatti, la circostanza che l’oggetto dell’impresa consortile possa essere soltanto una o più fasi delle consorziate, avrebbe come necessario corollario che il consorzio stesso sarebbe obbligato ad operare solamente per conto delle imprese sode e, quindi, non per conto dei terzi 8. La dottrina più recente 9, di contro, ha sostenuto la limitata compatibilità tra lo scopo mutualistico e quello di lucro. Ciò non è solo pacificamente ammesso per le cooperative, le quali pur avendo scopo mutualistico possono perseguire un intento lucrativo, ancorché solo in via secondaria o marginale, ma lo si desume dalla natura speciale della norma di cui all’art. 4 della L. n. 240/1981, la quale impone di inserire nello statuto un divieto di distribuzione sotto qualsiasi forma di utili alle imprese consorziate. Quest’ultima disposizione, infatti, ha carattere speciale attenendo ad una determinata tipologia di consorzi 10 e prevedendo le condizioni indispensabili per fruire di particolari agevolazioni tributarie, di talché, a contrariis, se ne può ricavare la possibilità per i consorzi in generale di perseguire uno scopo di lucro e, addirittura, la possibilità di distribuire utili. svolgimento di un’attività con i terzi e di eventuali distribuzioni di utili sempreché lo scopo di lucro rimanga non preponderante rispetto a quello mutualistico. 8 In questo senso si erano espressi VOLPE PUTZOLU, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, cit., pp. 344-345; COTTINO, Diritto commerciale, I, tomo II, Padova, 1999, p. 677 ss. Questa tesi, peraltro, sembrerebbe aver avuto un revirement nella recente sentenza n. 13925 del 17 giugno 2011, della Corte di Cassazione. Sul punto si rinvia a quanto si dirà infra par. 3.3. 9 L’argomentazione è stata proposta da BORGIOLI, Consorzi e società consortili, cit., p. 134 ss. Secondo l’Autore il problema non è tanto se il consorzio possa o meno perseguire (anche) un fine di lucro – posto che non esiste alcun limite o divieto espresso nel nostro ordinamento, come avviene, invece, per le cooperative – ma un problema di qualificazione della fattispecie: “fino a quando lo scopo mutualistico è prevalente (il che significa che quello lucrativo è solo secondario o accessorio), siamo in presenza di un consorzio. Diversamente, se prende il sopravvento una finalità di guadagno, allora il fenomeno va qualificato come società (lucrativa)”. Cfr. BORGIOLI, op. loc. cit., p. 138. 10 Il citato art. 4, infatti, nello stabilire il divieto di distribuzione degli utili sotto qualsiasi forma (divieto che deve risultare dallo statuto), richiama espressamente “i consorzi e le società consortili di cui all’art. 1” della medesima legge, vale a dire i consorzi e le società consortili costituiti, anche in forma cooperativa, tra piccole e medie imprese operanti nei settori dell’industria, del commercio e dell’artigianato, allo scopo di promuovere lo sviluppo, la razionalizzazione e la commercializzazione dei prodotti delle aziende associate.

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Sotto questo profilo, l’unico limite al perseguimento di un intento lucrativo deve intendersi nella causa stessa del contratto di consorzio che impone la preponderanza dello scopo mutualistico 11. In sostanza, aderendo a questa seconda impostazione, si ritiene che sia ammissibile lo svolgimento da parte del consorzio di un’attività lucrativa, sempreché quest’ultima non snaturi la causa del contratto di consorzio, cioè rimanga secondaria rispetto allo scopo mutualistico perseguito.

3. Le conseguenze sotto il profilo tributario dell’asserita natura mutualistica del consorzio Chiarito il concetto di mutualità consortile nei termini sopra esposti, è naturale chiedersi come la stessa impatti sul regime tributario riservato a questa tipologia di soggetti. La risposta a questo interrogativo, tuttavia, impone di analizzare quali siano i riflessi della natura mutualistica propria del consorzio sotto diversi aspetti. In altri termini, a parere di chi scrive, se si vuole proficuamente individuare quali siano le conseguenze della mutualità sul regime fiscale dei consorzi, occorre capire come la stessa incida sotto il profilo della soggettività tributaria dei medesimi, sotto il profilo della natura commerciale delle operazioni poste in essere e, infine, sotto il profilo della riferibilità delle operazioni al consorzio piuttosto che alle consorziate.

3.1. La mutualità e la soggettività tributaria del consorzio In primo luogo, si è detto, sembra opportuno chiedersi quali siano gli effetti della mutualità consortile sulla soggettività passiva dei consorzi. Anticipando la conclusione possiamo subito rispondere che, sotto tale profilo, la mutualità si appalesa irrilevante. La circostanza che il consorzio coordini o attui una o più fasi delle imprese consorziate, in altri termini, non implica che lo stesso possa ritenersi “trasparente” agli effetti tributari. D’altro canto, la circostanza che i consorzi 11 Invero, pur essendo condiviso l’assunto, sul punto, in dottrina si rinvengono diverse sfumature. Così v’è chi ammette la possibilità per il consorzio di operare anche con i terzi, ma solo nella misura “necessaria a conferire il massimo grado di economicità alla gestione del servizio” e senza possibilità di distribuire utili (MARASÀ, Le «società» senza scopo di lucro, cit., p. 218, è opinione dell’A. che “l’impresa consortile, come del resto tutte le imprese mutualistiche, opera tendenzialmente per conseguire il pareggio”, cfr. MARASÀ, Consorzi e società consortili, Torino, 1990, p. 25) e chi ammette la possibilità che il consorzio interagisca col mercato, ma solo in via occasionale e solo nella misura in cui sia giustificata dal perseguimento dell’oggetto consortile (MOSCO, I consorzi tra imprenditori, cit., pp. 116-118 e, in part. nt. 117 e 118).

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siano contemplati espressamente all’art. 73 TUIR, se conferma la soggettività tributaria dei consorzi esterni – già pacifica nel diritto civile – non implica necessariamente che quelli interni siano soggetti tipici, dovendosi per contro verificare la loro soggettività sulla base degli indici indicati nel comma 2 del medesimo articolo, vale a dire l’organizzazione, la non appartenenza a terzi e la realizzazione in modo unitario e autonomo del presupposto d’imposta. Invero, secondo la migliore dottrina, di soggettività tributaria si può parlare quando un insieme organizzato di persone o di beni dotato di autonomia amministrativa può essere chiamato ai fini del prelievo a rispondere con un patrimonio distinto da quello delle singole persone fisiche che lo compongono 12. Si è già detto, l’inquadramento soggettivo dei consorzi con rilevanza esterna appare questione abbastanza semplice da affrontare. A seguito delle modifiche dell’art. 2615 ad opera della L. 10 maggio 1976, n. 377, i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo consortile per le obbligazioni assunte in nome del consorzio esterno dalle persone che ne hanno la rappresentanza, mentre dall’art. 2614 c.c. viene precluso ai terzi, creditori particolari degli associati, di rivalersi sul fondo consortile, donde la conclusione che i consorzi esterni godono di autonomia patrimoniale perfetta 13. I consorzi esterni sono inoltre tenuti, ai sensi dell’art. 2615 bis c.c., a depositare presso l’ufficio del registro delle imprese la situazione economico patrimoniale redatta da coloro che ne hanno la direzione 14 e, pertanto, godono di autonomia di bilancio rispetto alle consorziate. Infine, i consorzi esterni possiedono autonomia amministrativa, posto che i loro organi consortili risultano indipendenti rispetto ai singoli consorziati. In proposito, non deve trarre in inganno il disposto dell’art. 2608 c.c., laddove stabilisce la responsabilità nei confronti delle imprese consorziate di coloro che sono preposti al consorzio secondo le norme sul mandato. In realtà, in tale norma il riferimento al mandato viene usato in modo atecnico poiché gli amministratori del consorzio non si limitano a risolvere delle potenziali situazioni di conflitto tra consorziati, ma svolgono un’attività di gestione dell’impresa consortile, soggettivamente separata dai consorziati 15. 12 Nel senso di valorizzare soprattutto l’autonomia patrimoniale FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 2003, pp. 300 e 307. Sul tema si veda anche FALSITTA, Diritto tributario – Parte generale, Padova, 2012, pp. 265-266, il quale osserva che, comunque, i reali soggetti passivi dell’obbligazione tributaria rimangono, al di là degli “artifici verbali”, i soggetti dotati di capacità giuridica. 13 Sul punto si veda BORGIOLI, Consorzi e società consortili, cit., p. 85; PAOLUCCI, Consorzi e società consortili nel diritto commerciale (voce), cit., p. 446. 14 Per una ricognizione delle considerazioni della dottrina sull’introduzione del citato obbligo, sia consentito rinviare a INTERDONATO, Il regime fiscale dei consorzi tra imprenditori, Milano, 2004, p. 37, in part. nt. 86 e 87. 15 Cfr. PAOLUCCI, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in RESCIGNO

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Sotto il profilo del diritto comune, la circostanza che il consorzio con rilevanza esterna goda di autonomia patrimoniale, di bilancio ed amministrativa, fa sì che lo stesso possa essere qualificato come un organismo sicuramente dotato di soggettività giuridica, come tale idoneo ad essere destinatario di diritti, obblighi e doveri, anche tributari. Da tanto discende che il consorzio esterno è un organismo separato dalle imprese consorziate e perciò in grado di realizzare autonomamente il presupposto dell’IRES ai sensi dell’art. 73 TUIR. Meno intuitiva appare, invece, l’inclusione anche dei consorzi senza rilevanza esterna (c.d. consorzi interni) tra i soggetti passivi IRES. La normativa tributaria, si è detto, ai fini dell’attribuzione della soggettività passiva, fa perno sui concetti di “organizzazione” e di “non appartenenza a terzi”, quest’ultimo, a sua volta, declinato negli elementi dell’autonomia patrimoniale e dell’autonomia amministrativa 16. Quanto all’organizzazione, in tema di consorzi privi di rilevanza esterna, si è affermata l’esistenza di una organizzazione di tipo corporativo alla quale sono preposti gli organi amministrativi e l’assemblea dei consorziati. Tale convinzione poggia sulla circostanza che dall’insieme delle norme sui consorzi in genere (art. 2603 per l’attribuzione agli organi consortili dei poteri, in particolare, di rappresentanza; art. 2605 c.c. per l’attribuzione dei poteri di controllo; artt. 2606-2608 c.c. che disciplinano l’assemblea e l’organo direttivo), emergerebbe un modello organizzativo minimo di tipo collettivistico corporativo quale elemento causale del consorzio 17. Con riferimento all’autonomia patrimoniale, poi, occorre considerare che, se (diretto da), Trattato di diritto privato, Torino, 1983, p. 463, in part. nt. 23; IDEM, (voce) Consorzi e società commerciali, cit., p. 445. 16 Sul tema, che esula di gran lunga i confini del presente intervento, si rinvia oltre agli Autori citati in nota 12 a GIOVANNINI, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, p. 195 ss.; CIPOLLA, Art. 73 [Commento], in FALSITTA-FANTOZZI-MOSCHETTI-MARONGIU, Commentario breve alle leggi tributarie – T.u.i.r. e leggi complementari, Padova, Tomo II, 2010, p. 385; PEREZ DE AYALA, La soggettività tributaria, in AMATUCCI (diretto da), Trattato di diritto tributario, Padova, 1994, II, pp. 382-383; D’AMATI, Le basi teoriche del diritto tributario, Bari, 1995, p. 75 ss.; URICCHIO, La soggettività degli enti non commerciali nell’imposta sul reddito delle società, in ESPOSITO-PAPPARELLA (a cura di), La nuova imposta sul reddito delle società – Atti del convegno, Napoli, 2006, p. 63 ss.; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario – Parte speciale, Torino, 2009, p. 92 ss. e, mi sia consentito, INTERDONATO, Il regime fiscale dei consorzi, cit., p. 12 ss. Sul tema si veda altresì BERLIRI, Corso istituzionale di diritto tributario, Milano, 1980, Vol. I, pp. 145-146. Sulle relazioni tra soggettività tributaria e capacità giuridica di diritto comune si veda G.A. MICHELI, Opere minori di diritto tributario – Teoria generale e sistema impositivo, Vol. II, Milano, 1982, p. 321 ss. 17 In questo senso si esprime espressamente MOSCO, I Consorzi tra imprenditori, cit., pp. 99100. Riporta il contratto di consorzio alla categoria dei rapporti associativi non societari anche PAOLUCCI, (voce) Consorzi e società consortili, cit., p. 436. Si veda altresì GUGLIELMETTI, (voce) Consorzi e società consortili, in Noviss. Dig. It., app., Torino, 1981, p. 489 ss.

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è pur vero che l’art. 2603 c.c. non richiede l’indicazione dei contributi dovuti dai consorziati per la validità del contratto di consorzio, è altrettanto vero che un fondo consortile deve necessariamente sussistere affinché le consorziate possano dotarsi dell’organizzazione, anche minima, necessaria all’espletamento dell’attività consortile: diversamente ci si troverebbe di fronte ad un mero cartello. A meno di snaturare le finalità del consorzio (tutela della concorrenza e cooperazione tra imprese) consentendo ai terzi creditori particolari delle consorziate di aggredire il fondo consortile, occorre concludere nel senso che le quote consortili, intese come quote di partecipazione al fondo consortile, devono perlomeno essere qualificate come patrimonio separato dalle imprese consorziate. E ciò indipendentemente dalla circostanza che per le obbligazioni consortili i singoli consorziati o i legali rappresentanti (a seconda delle diverse teorie esaminate dalla dottrina) 18 possano essere chiamati a rispondere unitamente al fondo consortile. L’autonomia patrimoniale imperfetta dei consorzi interni, unita all’indubbia autonomia amministrativa degli organi consortili, ne appalesa la non appartenenza a terzi. Il grado di autonomia testé complessivamente ricostruito sembra quindi sufficiente a qualificare anche tali consorzi come autonomi centri di imputazione di diritti, doveri ed obblighi tributari o, per usare altri termini, sembra sufficiente ad affermarne la loro soggettività tributaria 19. 18 Per la prima teoria si veda BORGIOLI, Consorzi e società consortili, cit., p. 126, per la seconda si vedano invece CABRAS, I consorzi tra imprenditori, in Banche e banchieri, 1977, p. 130; GUGLIELMETTI, Consorzi e società consortili, cit., p. 492. 19 Diverso il caso dei contratti di rete, ancorché, com’è noto, gli stessi fossero, sebbene non unanimemente, assimilati al contratto di consorzio per la similitudine dell’oggetto (cfr. ad es. VILLA, Reti di impresa e contratto plurilaterale, in Giur. Comm., I, 2010, p. 947, il quale, pur qualificando il contratto di rete come “un particolare tipo contrattuale” non manca di sottolineare come lo stesso si appalesi “vicino al consorzio con attività esterna”. Contra MALTONI-SPADA, Il contratto di rete, in NOTARIATO, Studio n. 1-2011/l, p. 4). Invero, mentre il consorzio è definito dall’art. 2605 c.c. come il contratto attraverso cui più imprenditori “istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina e lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”, il contratto di rete viene definito, ai sensi dell’art. 3 del D.L. 10 febbraio 2009, n. 5, come il contratto attraverso cui più imprenditori “perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato” e, per far ciò, si obbligano a collaborare scambiandosi informazioni o prestazioni industriali, commerciali, tecniche o tecnologiche, ovvero – il che è forse più illuminante sulle ragioni che hanno portato parte della dottrina ad avvicinare teoricamente i due contratti – “ad esercitare in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa”. Tanto premesso, v’è da dire che, secondo la dottrina, il legislatore, pur regolando le modalità di tassazione dell’eventuale dotazione patrimoniale della rete, non sembrerebbe essersi spinto sino a riconoscere alla stessa un’autonomia tributaria. Sul punto si veda SCALINCI, Il tributo senza soggetto – Ordinamento e fattispecie, Padova, 2011, p. 377 ss. in part. p. 382. Anche la prassi si è orientata nel senso dell’assenza di soggettività tributaria delle reti d’impresa. Cfr. Circ. n. 4/E del 15 febbraio 2011 nella quale l’Agenzia delle Entrate ha, infatti, precisato che “l’adesione al contratto di rete non comporta l’estinzione, né la modificazione della soggettività tributaria delle imprese che aderiscono all’accordo in questione, né l’attribuzione di soggettività tributaria alla

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3.2. La mutualità e la commercialità dell’attività svolta dal consorzio Del pari si può rilevare come la mutualità non faccia venire meno l’eventuale natura commerciale delle attività poste in essere dal consorzio. Invero, la dottrina tributaria normalmente tende a non riconoscere alcuna rilevanza, nella valutazione della natura commerciale dell’attività svolta, allo scopo perseguito dal soggetto agente 20. L’art. 143 TUIR, infatti, nel disciplinare la determinazione del reddito complessivo degli enti non commerciali (gli unici, a ben vedere, per i quali potrebbe aver senso porsi il problema dell’eventuale rilevanza dello scopo perseguito) prescinde dall’effettiva destinazione dello stesso (e ciò trova indiretta conferma nella circostanza che solo per talune tipologie di enti non commerciali la disciplina speciale attribuisce rilevanza all’assenza di scopo di lucro 21). Donde la conclusione che se la destinazione del reddito è ininfluente ai fini del suo assoggettamento a tassazione, la circostanza che l’ente lo impieghi, in conformità a quanto stabilito nel proprio statuto, per fini sociali, umanitari, di volontariato, ecc. non assume alcuna rilevanza 22. Appare perciò evidente come lo scopo mutualistico perseguito dall’impresa consortile risulti insignificante ai fini della qualificazione dell’attività svolta come commerciale o non commerciale. Anche se si sposano le teorie più recenti che attribuiscono all’economicità un ruolo rilevante nella commercialità, lo scopo perseguito non può in ogni caso influire sul requisito di economicità 23, inteso come remunerazione dei fattori prorete risultante dal contratto” (ivi, par. 20.2), nonché Ris. n. 70/E del 30 giugno 2011. Per l’approfondimento della tematica dei contratti di rete, si rinvia a BERTOLASO, Qualificazione giuridica e fiscale dei contratti di rete, in Dialoghi tributari, 5/2011, p. 512 ss.; GALLIO, la disciplina agevolativa dei contratti di rete di impresa, in Il fisco, 2012, pp. 1-1593 ss. 20 Cfr. ZIZZO, L’imposta sul reddito delle società, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario – Parte speciale, Padova, 2012, p. 282; POLANO, Attività commerciali e impresa nel diritto tributario, Padova, 1984, p. 210; MACCARONE, Teoria e tecnica delle imposte sui redditi, Milano, 1990, Vol. II, p. 853; FICARI, Art. 55 [Commento], in FALSITTA-FANTOZZI-MOSCHETTI-MARONGIU, Commentario breve alle leggi tributarie – T.u.i.r. e leggi complementari, cit., p. 293; ROSSI, Art. 143 [Commento], in FALSITTA-FANTOZZI-MOSCHETTI-MARONGIU, Commentario breve alle leggi tributarie – T.u.i.r. e leggi complementari, cit., p. 727. Per la prassi si vedano Ris. n. 11/242 del 1 aprile 1980 e Ris. n. 11/471 del 15 febbraio 1979. 21 Si richiamano, ad esempio, la L. 16 dicembre 1991, n. 398 in materia di associazioni sportive dilettantistiche e l’art. 10 del D.Lgs. 10 dicembre 1997, n. 460 in materia di Onlus. 22 Cfr. PACITTO, La nozione di ente non commerciale, in TESAURO (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario – L’imposta sul reddito delle persone giuridiche e l’ilor, Torino, 1996, pp. 242-243; ROSSI, Art. 143 [Commento], in FALSITTA-FANTOZZI-MOSCHETTI-MARONGIU, Commentario breve alle leggi tributarie – T.u.i.r. e leggi complementari, op. loc. cit. 23 Sul rilievo del citato criterio, pur in assenza di una precisa disposizione normativa sia consentito rinviare a INTERDONATO, Il regime fiscale dei consorzi tra imprenditori, cit., p. 100 ss., nonché alla dottrina ivi citata.

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duttivi e come orientamento al mercato. Infatti, la remunerazione dei fattori produttivi non implica necessariamente il programmato realizzo di un utile o di un avanzo, ben potendosi avere l’economicità anche nel caso in cui si programmi il pareggio 24. A definitiva riprova della non rilevanza dello scopo mutualistico sulla commercialità, infine, si può notare come l’art. 73 TUIR includa tra i soggetti “commerciali” anche le cooperative, per le quali lo scopo mutualistico non è in discussione, di talché risulta evidente come lo stesso non influenzi mai la natura commerciale o meno dell’attività svolta. Quanto, poi, al requisito dell’orientamento al mercato 25, occorre notare come, anche in questo caso, la mutualità si appalesi ictu oculi ininfluente. Basti in proposito pensare ai consorzi per la vendita, per i quali il rapporto con il mercato appare necessario al perseguimento dello scopo stesso del consorzio, pur rivolgendosi l’attività consortile direttamente ai consorziati in virtù, appunto, della mutualità. Del resto, l’orientamento al mercato si può individuare, per il tramite delle consorziate, anche nei consorzi interni, essendo gli stessi comunque finalizzati a procurare vantaggi economici alle consorziate da ritrarre attraverso il mercato (si pensi ai consorzi di contingentamento della produzione).

3.3. La mutualità e la riferibilità dell’attività alle consorziate Siamo così giunti al punto della riferibilità alle consorziate delle attività svolte dal consorzio. Contrariamente a quanto sinora abbiamo evidenziato con riferimento alla soggettività e alla natura commerciale o meno delle attività svolte, in questo caso la mutualità del consorzio assume una precisa rilevanza. Invero, la mutualità che caratterizza il consorzio ha indubbiamente effetto sulla riferibilità dell’attività da esso svolta alle consorziate, posto che i vantaggi derivanti dallo svolgimento dell’attività del primo emergono direttamente nelle economie delle seconde, ancorché, come si è anticipato, recentemente la Cassazione abbia, a parere di chi scrive, estremizzato il principio affermando che il ribaltamento di tutti i costi e ricavi con azzeramento del risultato consortile vi debba essere in ogni caso. Nella recente sentenza 19 gennaio 2011, n. 13295 i Giudici di Cassazione hanno, infatti, affermato che «la società consortile, per sua natura e funzione, oltre che per scopo, non ha un proprio interesse economico né produce un reddito proprio, di talché, nei rapporti interni, essa si appalesa sempre e soltanto come uno strumento 24

Cfr. ZIZZO, op. cit., pp. 287-288 e la dottrina ivi richiamata. GIOVANNINI, La nozione di imprenditore, in TESAURO (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario – L’imposta sul reddito delle persone fisiche, Torino, 1994, p. 453; ROSSI, op. cit., p. 728. 25

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operativo per cui le operazioni poste in essere dalla stessa sono per il fisco operazioni proprie delle consociate che l’hanno costituita. Ne discende l’obbligo per il Consorzio costituito per gli scopi previsti dall’art. 2602 cod. civ. di ribaltare sulle imprese consorziate – nel rispetto del principio di inerenza e dei criteri legittimamente fissati dallo statuto, se non elusivi (…) – tutte le operazioni economiche da esso eseguite, sia nel caso in cui siano realizzate da una o più imprese consorziate, sia nell’ipotesi in cui siano realizzate dal Consorzio stesso con strutture proprie o con impiego di imprese terze» 26. La sentenza sembra inficiata dall’orientamento, di cui si è dato conto sopra, secondo cui lo scopo mutualistico sarebbe totalmente incompatibile con quello di lucro 27. Questa tesi (datata) trova, si è già detto, tra l’altro un ostacolo nella normativa vigente, posto che l’art. 4 della L. 21 maggio 1981, n. 240, impone a consorzi di prevedere nello statuto il divieto di distribuire utili per poter godere delle agevolazioni ivi previste, così potendosi affermare, ragionando a contrariis, che quantomeno la distribuzione di utili marginalmente prodotti dal consorzio sia legittima e quindi che un limitato scopo di lucro sia perseguibile. Ad ogni buon conto, seguendo questa impostazione la Corte di Cassazione finisce per imporre al consorzio il ribaltamento anche dei costi e dei ricavi relativi alle attività autonomamente svolte dal consorzio, trascurando di considerare che, in questo caso, mancando l’elemento della mutualità non v’è nemmeno modo di trovare un criterio mutualistico idoneo al ribaltamento. Stante lo scopo mutualistico perseguito, imprescindibile, si è detto, nel fenomeno consortile, il ribaltamento dei costi e dei ricavi deve necessariamente avvenire in base ad un criterio rispettoso della mutualità, ciò che normalmente avviene utilizzando quale parametro di riparto il grado di utilizzo del servizio consortile. Il medesimo criterio si appalesa corretto anche quando il consorzio svolge talune attività in proprio, ma comunque strumentali allo scopo mutualistico perseguito. Per fare un esempio, si può pensare ad un insieme di imprese edili che si riuniscano per procacciarsi una commessa alla quale singolarmente non avrebbero potuto accedere. Se, in ipotesi, la commessa prevede anche la realizzazione di determinati lavori di impiantistica che nessuna delle consorziate è in grado di offrire, può ben accadere che a ciò provveda il consorzio autonomamente anche tramite imprese terze non consorziate. Appare evidente, in tal caso, che i costi e i ricavi dell’attività “autonomamente” svolta dal consorzio – strumentale, a ben vedere, allo scopo per il quale è stato costituito – potranno essere ribaltati sulle consorziate in base ai medesimi criteri mutualistici impiegati per il ribaltamento dei costi e ricavi dell’attività principale. 26 Così Cass. 19 gennaio 2011, n. 13295, pubblicata in Riv. trim. di dir. trib., n. 2/2012, con nota del sottoscritto, Il “ribaltamento” obbligatorio di costi e ricavi nei consorzi, tra esasperata valorizzazione della mutualità ed esigenze di contrasto all’abuso di diritto, ivi, p. 524 ss. 27 Si vedano i riferimenti bibliografici citati alla precedente nt. 8.

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Diverso il caso, affrontato dalla Corte, in cui una parte dei lavori era procacciata e svolta autonomamente dal consorzio con strutture proprie e/o tramite imprese terze senza alcun apparente legame con l’attività mutualistica svolta. La Corte, si è detto, nel risolvere la controversia in parola, impone il ribaltamento anche di tali costi e ricavi. Tuttavia, in tal caso, il risultato economico realizzato dal consorzio non presenta, a parere di chi scrive, alcuna differenza rispetto a quello che realizzerebbe una società lucrativa, di talché non si comprende per quale ragione tale risultato dovrebbe subire un trattamento tributario difforme 28. Tanto più che, laddove si cerchi di individuare le concrete modalità “mutualistiche” con cui detto ribaltamento dovrebbe avvenire, l’unica soluzione ragionevole rimarrebbe quella di ripartire il risultato sulla base delle quote di partecipazione al fondo consortile 29. È da ritenere, pertanto, che la generalizzata estensione delle conclusioni raggiunte in riferimento all’imputazione dell’attività consortile alle consorziate, sostenuta dalla Corte, anche alle attività autonomamente svolte ed indipendenti da quelle mutualistiche, contrasta non solo con la (ancorché limitata) compatibilità dello scopo di lucro con quello mutualistico oramai riconosciuta in diritto civile, ma anche con i criteri di imputazione soggettiva dell’imponibile.

4. I consorzi e le imposte dirette Quanto sinora affermato in termini generali, permette ora di approfondire con cognizione di causa, anche taluni aspetti particolari del regime tributario dei consorzi tra imprenditori, dapprima sotto il profilo delle imposte dirette e, successivamente, sotto il profilo dell’imposta sul valore aggiunto (IVA).

4.1. Il trattamento fiscale dei ristorni Si è visto come il risultato economico realizzato dal consorzio tramite l’attività mutualistica venga azzerato attraverso il ribaltamento dei relativi costi e ricavi 28 La sentenza in parola, per la verità, risulta carente anche sotto altri profili, in particolare in tema di abuso del diritto e di inerenza, per la disamina approfondita dei quali si rinvia a INTERDONATO, Il “ribaltamento” obbligatorio di costi e ricavi nei consorzi, tra esasperata valorizzazione della mutualità ed esigenze di contrasto all’abuso di diritto, cit., p. 538 ss. 29 Sul punto, sia consentito rinviare a INTERDONATO, Il “ribaltamento” obbligatorio di costi e ricavi nei consorzi, tra esasperata valorizzazione della mutualità ed esigenze di contrasto all’abuso di diritto, cit., pp. 532-533; nonché, amplius, INTERDONATO, Il regime fiscale dei consorzi tra imprenditori, cit., p. 184. Conforme REBECCA-VENCATO, Consorzio e utili – Aspetti civilistici e fiscali, in Il fisco, 2005, 1, pp. 820-821, secondo i quali, in tal caso, “sembra difficile ipotizzare un modello di distribuzione che sia incondizionato dalla quota capitale di ciascun consorziato e quindi che non sia proporzionale ad essa”.

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sulle consorziate secondo criteri mutualistici (usualmente il quantum di utilizzo del servizio consortile). Sotto il profilo tecnico, detto azzeramento può avvenire attraverso la stima dei costi del consorzio, ad esempio quelli di gestione, quelli di acquisizione dei fattori produttivi, ecc., e del grado di utilizzo del servizio consortile, cioè dei volumi di domanda delle consorziate. Stante le molteplici variabili capaci di influire su detti costi, tuttavia, può accadere che, al termine dell’esercizio, molto probabilmente detta stima non corrisponda al dato effettivo. Mentre qualora emerga un differenziale negativo le consorziate saranno chiamate, ciascuna per la propria quota, a fornire al consorzio le risorse necessarie – ipotesi che verrà affrontata nei prossimi paragrafi per la parte che attiene ai contributi consortili a ripiano perdite –, diverso appare il caso in cui, a fine esercizio, dal bilancio del consorzio emerga un avanzo. In tal caso, il suddetto avanzo, potrà essere ripartito tra le imprese sode tramite i ristorni 30. Quest’ultimi, derivando dall’attività con le consorziate, non costituiscono utili distribuiti, bensì rappresentano solo una restituzione dell’eccedenza del prezzo del servizio consortile versato in acconto dalle stesse. In tal senso, i ristorni si appalesano come una riduzione di elementi di costo e, com’è intuitivo, non dovrebbero assumere rilevanza ai fini impositivi quali dividendi. A riprova della correttezza della tesi si può far riferimento alla disciplina dei ristorni nelle cooperative e nei consorzi di cooperative. In tal caso, i ristorni possono avvenire, sia sotto forma di integrazione retributiva – ciò, chiaramente, nelle cooperative di produzione e lavoro –, sia sotto forma di attribuzione di somme ai soci a titolo di restituzione di una parte del prezzo dei beni e servizi acquistati, ovvero di maggiore compenso per i conferimenti effettuati nelle società cooperative e nei loro consorzi in genere. Il D.L. 15 aprile 2002, n. 63, al comma 2 dell’art. 6, dispone che gli stessi, qualora destinati ad aumento del capitale sociale, non concorrano a formare il reddito imponibile in capo ai soci, ne valore della produzione ai fini IRAP. Per la cooperativa che li eroghi, dunque, i ristorni costituiscono costi deducibili, ancorché possa sembrare a tal fine necessaria la previa imputazione a capitale per effetto della norma citata. In verità, è lo stesso comma 2, disciplinando l’ipotesi della successiva restituzione del capitale sociale costituito tramite l’accanto30 In generale, sulla disciplina dei ristorni anche nelle cooperative, si vedano SALVINI, I ristorni nelle società cooperative: note sulla natura civilistica e sul regime fiscale, in Rass. trib., 2002, p. 1903; PISANI, La disciplina dei ristorni nelle società cooperative, in Il fisco, 2004, p. 1-647; REBECCAVENCATO, Consorzio e utili – Aspetti civilistici e fiscali, cit., p. 1-819; BALZANO, La destinazione dei risultati – I ristorni, in MARASÀ (a cura di), Le cooperative prima e dopo la riforma del diritto societario, Padova, 2004, p. 164 ss.; CUSA, I ristorni nelle società cooperative, Milano, 2000, p. 17; BASSI, Dividendi e ristorni nelle società cooperative, Milano, 1979, p. 13 ss.; CASTALDI, Utili e ristorni: disciplina fiscale, in SANDULLI-SANTORO, La riforma delle società cooperative (artt. 2511-2548 cod. civ.), Torino, 2003, p. 21.

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namento dei ristorni, a precisare che, quando i ristorni per loro natura non siano imponibili al momento della loro distribuzione – com’è nel caso dei ristorni derivanti da restituzione di una parte del prezzo 31 –, anche la successiva distribuzione della parte di capitale aumentato tramite il loro accantonamento deve intendersi non imponibile. Anche l’Amministrazione finanziaria 32 ha avuto modo di affermare che, quanto ai ristorni accantonati a capitale e in origine destinati a ridurre i costi di acquisizione dei servizi o dei beni, la successiva restituzione non può qualificarsi come imponibile in capo ai soci percettori, posto che, in tal caso, il ristorno altro non è se non una “restituzione di una parte del corrispettivo della cessione dei beni e servizi”. In altri termini, solo quando le medesime somme sarebbero state immediatamente assoggettate a tassazione in assenza della preventiva imputazione a capitale, si può ritenere verificato il presupposto impositivo al momento della, successiva, effettiva distribuzione ai soci del capitale con esse aumentato. Quindi, infatti, tanto nel caso in cui i ristorni da restituzione di parte del prezzo siano immediatamente corrisposti ai soci a titolo di ristorno, quanto nel caso in cui siano preventivamente imputati a capitale e successivamente distribuiti, gli stessi costituiscono in capo ai soci un minor costo o, laddove correlati a un costo precedentemente dedotto 33, una sopravvenienza attiva imponibile 34. Tali considerazioni, essendo basate sulla natura “restitutoria” dei ristorni, trovano perfetta applicazione anche ai consorzi tout court. In definitiva, i ristorni relativi all’attività con le consorziate costituiscono per il consorzio un componente negativo deducibile, mentre per le imprese sode costituiscono un minor costo o, se corrispondenti a componenti negativi dedotti in precedenti esercizi, una sopravvenienza attiva imponibile ai sensi dell’art. 88 TUIR.

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E non per i ristorni costituiti da integrazioni retributive, imponibili ai fini IRPEF in capo ai soci al momento della distribuzione. 32 Cfr. Circ. n. 53 del 18 giugno 2002, in Diritto e pratica tributaria, parte I, 2002, p. 633. 33 La Circ. n. 53/2002 cit. precisava, avendo ad oggetto i ristorni nelle cooperative, che “nell’ipotesi in cui siano direttamente ristornate al socio somme relative a beni ceduti o servizi prestati, le stesse costituiranno per il socio un minor costo del servizio acquistato e quindi non sono assoggettabili a tassazione, non verificandosi alcun presupposto impositivo, salvo l’ipotesi di socio esercente un’attività d’impresa o di lavoro autonomo”. 34 Sulla nozione di sopravvenienze si rinvia a MARINI, Le sopravvenienze nel reddito d’impresa, Padova, 1984, p. 47 ss.; PADOVANI, Art. 88 [Commento], in FALSITTA-FANTOZZI-MOSCHETTIMARONGIU, Commentario breve alle leggi tributarie – T.u.i.r. e leggi complementari, cit., p. 443; LEO, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 2010, Tomo II, p. 1526.

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4.2. Il trattamento fiscale dei contributi e dei canoni consortili La copertura dei costi del consorzio, si è detto, avviene normalmente imponendo alle imprese consorziate un corrispettivo per i servizi consortili, oppure dei canoni variamente collegati al potenziale utilizzo del consorzio stesso da parte delle imprese sode. Vi sono poi i “contributi consortili”, richiesti ai consorziati una tantum o a cadenza periodica, per ripianare le perdite qualora i corrispettivi o i canoni non siano in grado di coprire i costi. Mentre nel primo caso, la rilevanza delle somme versate come ricavi imponibili appare scontata, nel caso dei contributi sembra opportuno fare alcune precisazioni. Sotto il profilo dei tributi diretti, viene in rilievo, a tal proposito, l’art. 85 TUIR, che contempla tra i ricavi sia i contributi in denaro (o il valore normale di quelli in natura), spettanti sotto qualsiasi denominazione in base a contratto 35, sia i contributi spettanti esclusivamente in conto esercizio a norma di legge 36. Non solo. Il successivo art. 88 TUIR, infatti, contempla, al co. 3, lett. b), i proventi in denaro o in natura “conseguiti a titolo di contributo” diversi da quelli contemplati all’art. 85 TUIR. Ai fini delle imposte dirette, dunque, appare evidente che i contributi percepiti nell’esercizio d’impresa concorrono in generale alla formazione della base imponibile, e ciò – a differenza di quanto avviene ai fini IVA 37 – a prescindere dalla sussistenza di un rapporto di sinallagmaticità tra le somme versate dalle consorziate e il servizio consortile. Tuttavia, l’attenta lettura delle richiamate disposizioni rivela che l’imponibilità dei contributi versati dalle imprese sode al consorzio non è affatto scontata e, anzi, a parere di chi scrive, in talune fattispecie dovrebbe essere respinta. Ma andiamo con ordine. L’esperienza dimostra che i contributi consortili possono essere strutturati sia come dazioni obbligatorie a fronte dei servizi fruiti dai consorziati (secondo variegati schemi statutari o contrattuali), sia come versamenti necessari per il ripiano delle perdite eventualmente realizzate dal consorzio. Il citato art. 85 TUIR, si è detto, contempla tanto i contributi versati “in base a 35

Cfr. art. 85, co. 1 lett. g), TUIR. Cfr. art. 85, co. 1 lett. h), TUIR. 37 Sul punto si rinvia infra par. 5.3. Per un esame della disciplina tributaria dei contributi si rinvia a BEGHIN, I contributi e le liberalità a favore delle imprese, Milano, 1997, passim; FANTOZZI, Contributi in conto esercizio, in Guida fiscale italiana – Imposte dirette, Torino, 1980, p. 309; TOSI, Il regime tributario delle unità sanitarie locali, Rimini, 1992, p. 259 ss.; MIELE, Contributi e liberalità: esposizione in bilancio e trattamento tributario, in Corr. trib., 1999, pp. 2017 ss.; ODOARDI, Art. 85 [Commento], in FALSITTA-FANTOZZI-MOSCHETTI-MARONGIU, Commentario breve alle leggi tributarie – T.u.i.r. e leggi complementari, cit., p. 424. 36

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contratto” [lett. g)], quanto quelli spettanti “in conto esercizio a norma di legge” [lett. h)]. Il successivo art. 88, poi, contempla tutti i contributi “esclusi i contributi di cui alle lettere g) e h) del comma 1 dell’art. 85” 38, in tal senso assumendo, secondo la dottrina 39, una portata residuale. I contributi in oggetto sono versati dalle imprese consorziate in base alle previsioni dall’atto costitutivo del consorzio, di talché non sembra possa essere seriamente posta in dubbio la loro natura negoziale. V’è tuttavia che, da un lato, enfatizzando la natura del contributo percepito, si può giungere a sostenere che dovrebbero qualificarsi come ricavi ai sensi dell’art. 85 TUIR i soli contributi in conto esercizio, tutti gli altri assumendo rilevanza ai fini impositivi eventualmente sulla base dell’art. 88 TUIR; dall’altro lato, individuando nella fonte del contributo l’elemento discriminante ai fini della tassazione si può giungere, invece, a sostenere che tutti i contributi di fonte privata (i.e. di origine contrattuale), siano essi in c/esercizio, in c/capitale o in c/impianti, rientrano sempre nel disposto dell’art. 85 TUIR 40. Si è dato conto dei due possibili orientamenti per una ragione. Se si aderisce alla seconda delle impostazioni menzionate, si sarebbe indotti a ritenere sempre imponibili quali ricavi i contributi consortili a prescindere dalla causa degli stessi, attesa la loro natura contrattuale. Di contro, laddove si ritenga preponderante ai 38

Per economia del discorso e non essendo rilevante ai fini che qui interessano si è omesso di dar conto della circostanza che il citato art. 88 TUIR espunge dal proprio ambito di applicazione anche i contributi “destinati all’acquisto di beni ammortizzabili indipendentemente dal tipo di finanziamento adottato”. Si tratta del c.d. contributi in conto impianti, i quali non trovano un’autonoma disciplina all’interno del TUIR, ma assumono rilevanza ai fini fiscali attraverso l’esposizione di quote di ammortamento proporzionalmente ridotte. In proposito si rinvia a ROSSI RAGAZZI, La nuova disciplina dei contributi «in conto impianti» le novità introdotte dalla «finanziaria ’98», in Boll. trib., 1998, p. 730 ss.; DI SIMONE, Plusvalenze e contributi: il concetto di costo fiscalmente riconosciuto, in Corr. trib., 1999, p. 3382 ss. Sulla distinzione tra contributi in conto impianti e contributi in conto capitale si veda altresì Cass., sez. trib., 14 gennaio 2011, n. 781, in banca dati fisconline. 39 In questo senso MANZANA, Contabilizzazione dei contributi in conto impianti, in conto esercizio e in conto capitale, in Forum fiscale, 1 gennaio 2005, n. 1 e la Ris. n. 81/E del 14 maggio 1999 in banca dati fisconline. 40 Dà atto del problema BEGHIN, I Contributi e le liberalità alle imprese, cit., p. 59 ss. giungendo a ritenere poco convincente, sotto il profilo della razionalità, l’enfatizzazione della “fonte” contrattuale (IDEM, I contributi e le liberalità a favore delle imprese nel D.P.R. n. 917/1986, in Il fisco, 1997, p. 1-8494). Si veda anche, per la tesi che valorizza la natura del contributo, BUONO, Commento alla R.M. 29 dicembre 2003, n. 231/E, in Corr. trib., 7/2004, p. 564, mentre per la tesi contraria che valorizza la fonte del contributo cfr. SORIGNANI-ROCCHI, Il nuovo T.u.i.r. non risolve la problematica qualificazione dei contributi alle imprese, in Corr. trib., 2004, p. 50; FANELLI, Contributi per l’acquisto e la manutenzione straordinaria di beni ammortizzabili, in Corr. trib., 2001, p. 3139. Cfr. anche ZIZZO, L’imposta sul reddito delle società, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario – Parte speciale, Padova, 2012, p. 381, laddove valorizza la distinzione tra contributi in conto esercizio e contributi in conto capitale solo con riferimento alla lett. h) dell’art. 85 TUIR.

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fini della qualificazione la natura del contributo percepito, i contributi consortili potrebbero non ricadere necessariamente nel disposto dell’art. 85 TUIR, ma in quello dell’art. 88 TUIR, come, ad esempio, quando percepiti in conto capitale. La conseguenza di tale impostazione potrebbe essere la non imponibilità dei contributi in conto capitale che possiedono i requisiti per essere esclusi dal novero delle sopravvenienze attive. Invero l’art. 88 TUIR prevede, al comma 4, che non possono essere qualificati come sopravvenienze attive “i contributi in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale alle società e agli enti di cui all’art. 73, comma 1, lett. a) e b), dai propri soci e la rinuncia dei soci ai propri crediti”, di talché, seguendo questa impostazione, la causa del contributo può divenire elemento discriminante ai fini dell’imponibilità o meno di quanto percepito dal consorzio 41. È opinione di chi scrive che i contributi consortili non debbano, solo perché corrisposti in base allo statuto (rectius, in base a contratto) assumere necessariamente rilevanza ai fini impositivi quali ricavi, appalesandosi invece necessario indagarne la precipua natura giuridica 42. D’altro canto, è evidente che la volontà del legislatore dell’art. 85 lett. g) era quella di considerare ricavi tutti quei proventi che, indipendentemente dalla denominazione, avessero funzione integrativa del corrispettivo contrattuale. A riprova della correttezza della tesi, basti ricordare che il previgente art. 61 TUIR contemplava espressamente i versamenti a copertura perdite (come possono essere, si è detto, anche quelli percepiti dai consorzi commerciali) tra i versamenti a fondo perduto o in conto capitale, ciò che escluderebbe la natura di ricavo degli stessi basata sull’enfatizzazione della natura “contrattuale” del contributo consortile. Invero, pur non riprodotta oggi nell’art. 94 TUIR, la qualificazione non sembra variata discendendo dalla natura stessa dei contributi a ripiano perdite. Chiarito questo primo problema di natura interpretativa, rimane da stabilire se, o quando, i contributi consortili possono rientrare nell’esclusione del quarto comma dell’art. 88 TUIR. Occorre precisare che l’esclusione disposta dal quarto comma dell’art. 88, più che natura agevolativa, assume natura sistematica. Se si pone attenzione al fatto che, subito dopo aver contemplato i versamenti “a fondo perduto o in conto capitale”, il legislatore continua menzionando anche “la rinuncia dei soci ai crediti”, si può affermare che la ratio della norma sia quella di escludere da imposizione tutte quelle somme che non trovano la propria causa 41

Si pensi al caso in cui il contributo consortile non sia precisamente collegato al quantum delle prestazioni rese dal consorzio e dalla relativa corresponsione dipenda o meno il mantenimento dello status di consorziato. 42 Per PADOVANI, op. cit., p. 446, “lo spartiacque tra le due diverse categorie di contributi (in conto esercizio e in conto capitale) deve ricercarsi nella loro diversa destinazione funzionale”.

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giustificatrice nella prestazione ricevuta dalla società, bensì nel rapporto associativo stesso, in tal senso gli stessi configurandosi piuttosto come conferimenti atipici anche se non espressamente finalizzati alla copertura delle perdite. A questa stregua, in altri termini, si può, allora, concludere nel senso che i contributi consortili richiesti ai consorziati a ripiano delle perdite risultano imponibili, ai sensi dell’art. 85, quali ricavi quando richiesti a fronte dei servizi resi dal consorzio, viceversa, allorquando richiesti non in funzione della fruizione del servizio consortile, ma in ragione dell’acquisizione o del mantenimento dello status di consorziato 43, dovrebbero ritenersi esclusi da imposizione visto il citato co. 4 dell’art. 88 TUIR. La natura dell’esclusione in parola può infatti essere ricondotta alla volontà di escludere da imposizione tutte quelle attribuzioni che rappresentano elementi costitutivi dell’organizzazione e non il risultato della sua esistenza 44. Le conclusioni cui si è appena giunti in merito ai contributi, soccorrono anche nell’inquadramento del trattamento tributario dei c.d. canoni consortili. Si tratta di versamenti periodici in corso d’esercizio normalmente parametrati all’uso potenziale – e non effettivo – del consorzio da parte delle imprese sode. Ferma restando la necessità di indagare, caso per caso, le clausole statutarie 45 che delineano la struttura di tali canoni, si è dell’opinione che gli stessi non assumano rilevanza ogniqualvolta la fruizione del servizio consortile non si appalesi essere la loro causa giuridica, ma solo un criterio per la quantificazione degli stessi, trovando la debenza del contributo la propria causa giuridica unicamente (nell’acquisizione o) nel mantenimento dello status di consorziato.

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In tal senso detti contributi presentano aspetti di complementarietà con i ristorni consortili. Quest’ultimi, secondo la dottrina, per essere presenti necessitano, infatti, di tre elementi: “un avanzo di gestione, l’esecuzione di un apporto diverso dal conferimento e lo status di socio” (cfr. CUSA, I ristorni nelle società cooperative, cit., p. 20). A ben vedere, dunque, pare potersi affermare che i contributi in parola altro non sono che quegli stessi apporti dovuti in relazione allo status di socio che non costituiscono un tipico conferimento (ancorché lo siano in forma atipica, sotto il profilo economico patrimoniale) e che, laddove eccedenti le necessità del consorzio, non danno luogo a ristorni. 44 In senso conforme ZIZZO, op. cit., p. 402; LUPI, Versamenti a fondo perduto e rinunce a crediti dei soci nell’imposizione sui redditi, in Boll. trib., 1992, pp. 1061-1062. 45 Ad esempio eventuali previsioni in merito alla debenza del canone anche in assenza di fruizione dei servizi consortili, oppure clausole di esclusione del consorziato in assenza dei versamenti dei contributi richiesti ecc. Nel senso che i canoni consortili, a differenza dei contributi, non sarebbero commisurati ai servizi erogati dal consorzio, si veda NERI, I contributi in denaro nella disciplina delle società consortili, in Giur. comm., 1986, I, p. 136.

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5. I consorzi nell’imposta sul valore aggiunto Esaminati i profili maggiormente interessanti dei consorzi nelle imposte dirette, occorre ora analizzare gli stessi in relazione all’imposta sul valore aggiunto (IVA).

5.1. I ristorni e l’IVA Per quanto attiene ai ristorni, si osserva che, data la loro natura, per la quale si rinvia al par. 4.1, gli stessi non possono non rilevare ai fini IVA, trattandosi di rettifiche in diminuzione del prezzo del servizio consortile già applicato dalle imprese sode. Come si è visto parlando del regime impositivo diretto, infatti, i ristorni consortili altro non sono che una restituzione dell’eccedenza del prezzo del servizio consortile versato in acconto dalle imprese sode. Da qui l’indubbia applicabilità dell’art. 26 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 46 in caso di mutamento dell’imponibile al momento della successiva variazione, sotto forma di ristorno, del corrispettivo dovuto.

5.2. I corrispettivi Il consorzio, si è detto, provvede alla copertura dei costi solitamente imponendo alle consorziate dei corrispettivi per il servizio reso. Quest’ultimi sono normalmente calcolati dagli organi amministrativi del consorzio e, in quanto dovuti a fronte dei servizi resi, hanno natura sinallagmatica, rappresentando la controprestazione di quanto ricevuto dal consorzio. Orbene, l’imposta sul valore aggiunto, per effetto degli artt. 2 e 3 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, trova applicazione alle cessioni di beni e prestazioni di servizi “a titolo oneroso” e “verso corrispettivo” o, in altri termini, solo qualora sussista un sinallagma tra prestazione e controprestazione 47 (escluse le note eccezioni che confermano la regola 48). 46 In senso conforme Ris. min. 29 marzo 1991, n. 561299, in Il fisco, 1991, p. 3758. Per un approfondimento in tema di variazioni successive all’emissione della fattura, si rinvia a BASILAVECCHIA, Le note di variazione, in TESAURO (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, cit., p. 634 ss.; RENDA, Art. 26 [Commento], in FALSITTA-FANTOZZI-MOSCHETTI-MARONGIU, Commentario breve alle leggi tributarie – L’IVA e le imposte indirette, Padova, 2011, p. 267 ss. 47 Cfr. CASTALDI, Le operazioni imponibili, in TESAURO (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario – L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, p. 53 ss.; MOSCHETTI, Sul concetto di corrispettivo ai fini IVA, in Boll. trib., 1982, p. 1611 ss.; FILIPPI, Le cessioni di beni nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 1984, passim; FALSITTA, Manuale di diritto tributario – Parte speciale, cit., p. 763. Per la nozione di controprestazione, in giurisprudenza, si veda Corte di giustizia, sentenza 5 febbraio 1981, causa C-154/80, in Foro it., 1982, IV, p. 99 ss. 48 Cessioni gratuite, assegnazioni ai soci, ecc.

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Nel caso dei corrispettivi, dunque, non sembra possa essere posta in dubbio la loro rilevanza ai fini IVA. Di contro, maggiori problemi pongono, come subito si vedrà, le altre forme di finanziamento dei consorzi.

5.3. Regime IVA dei contributi e canoni consortili Come già chiarito parlando del relativo regime nelle imposte dirette, laddove i corrispettivi richiesti dal consorzio non risultino sufficienti a coprirne le spese, normalmente si procede a chiedere alle consorziate il versamento di contributi a ripiano delle perdite. Il rapporto di sinallagmaticità, in tal caso, non risulta immediatamente percepibile e, d’altro canto, è pur vero che l’autonomia contrattuale delle parti nella redazione dello statuto, si è già detto, rende praticamente illimitata la casistica. A parere di chi scrive, dunque, per quanto attiene ai contributi occorrerà procedere ad un’analisi caso per caso dello statuto per dedurre se, nella fattispecie specifica, la strutturazione del contributo renda o meno possibile l’individuazione di quel nesso di sinallagmaticità che giustifica il prelievo 49. In particolare, ogniqualvolta dall’indagine di cui sopra si possa evincere che l’obbligo di corresponsione dei contributi in parola sia giuridicamente 50 riconducibile allo status di socio dell’impresa consorziata, piuttosto che al servizio ricevuto dal consorzio, è da ritenere che gli stessi non possano qualificarsi come imponibili ai fini IVA. Ciò, vale la pena di precisarlo, anche nel caso in cui il meccanismo di determinazione del contributo dovuto sia in qualche modo collegato al quantum di utilizzo del servizio consortile. Si pensi, ad esempio, al caso di un consorzio che svolga attività pubblicitaria per conto delle consorziate e che proceda a ripianare le perdite imponendo dei contributi alle imprese sode sulla base del loro volume d’affari, contributi il cui mancato pagamento può generare financo l’esclusione dal consorzio o la perdita di alcuni diritti connessi alla posizione di consorziato. In tal caso, se è ragionevole pensare che le imprese di maggiori dimensioni abbiano fruito in misura maggiore del servizio pubblicitario, la causa giuridica delle somme versate non può che essere individuata nel mantenimento della posizione giuridica di socio del consorzio, di talché, pur poten49

Non si condivide, perciò, l’orientamento dell’Amministrazione finanziaria che, partendo da una nozione di corrispettivo molto ampia, giunge a ritenere sempre imponibili i contributi consortili in quanto (comunque) riconducibili ai servizi erogati dal consorzio. Si vedano Ris. n. 430596 del 7 ottobre 1992; Ris. n. 460194 del 28 maggio 1987; Ris. n. 384248 del 19 gennaio 1981, in banca dati fisconline. 50 Sulla distinzione tra nesso economico e giuridico dei contributi consortili, nonché per alcune argomentazioni sulla non imponibilità dei contributi anche laddove si assuma un’ottica puramente economica, sia consentito rinviare a INTERDONATO, Il regime fiscale dei consorzi tra imprenditori, cit., pp. 247-249.

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zialmente parametrato al grado di utilizzo del servizio consortile, l’ipotizzato contributo risulterebbe non imponibile ai fini IVA per assenza del rapporto di sinallagmaticità della prestazione. Ferma restando la necessità di un’indagine caso per caso al fine di verificare l’assenza del rapporto di sinallagmaticità come causa del versamento, a conclusioni nient’affatto diverse si può giungere per i cosiddetti canoni consortili, i quali, ogniqualvolta parametrati all’uso solo potenziale del consorzio, dovrebbero risultare, a parere di chi scrive, comunque non rilevanti ai fini IVA 51.

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Di diverso avviso la citata Ris. min. 7 ottobre 1992, n. 430596.

LA “FISCALITÀ” DEI CERTIFICATI VERDI TRA NATURA E FORME DI CIRCOLAZIONE

di Paolo Barabino SOMMARIO: 1. Introduzione: la natura dei certificati verdi e la tutela ambientale. – 2. La natura tributaria dei certificati verdi. – 2.1. I certificati verdi e le agevolazioni fiscali. – 2.2. I certificati verdi e gli aiuti di Stato. – 3. La circolazione dei certificati verdi. – 3.1. Gratuità, onerosità, corrispettività e liberalità. – 3.2. I certificati verdi tra imposte sul reddito e IVA. – 4. Osservazioni conclusive.

1. Introduzione: la natura dei certificati verdi e la tutela ambientale I certificati verdi rappresentano uno strumento ideato dal legislatore per incentivare la produzione di energia rinnovabile, attraverso la creazione di un mercato in cui l’intervento normativo risulta essere istitutivo e non (solo) regolamentare 1. Tale esperienza funzionale alla tutela ambientale, di origine interna1 Il legislatore italiano ha istituito i certificati verdi per opera del D.Lgs. n. 79/1999, in attuazione della Direttiva comunitaria 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica, nel rispetto degli impegni internazionali previsti dal protocollo di Kyoto (in particolare vedasi l’art. 11 del decreto citato). Modifiche alla materia sono state apportate dal Decreto del ministero dell’industria dell’11 novembre 1999, dal D.Lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 e dalla Legge del 23 luglio 2009, n. 99. Nello specifico, l’art. 11, rubricato “Energia elettrica da fonti rinnovabili” recita al primo comma: «Al fine di incentivare l’uso delle energie rinnovabili, il risparmio energetico, la riduzione delle emissioni di anidride carbonica e l’utilizzo delle risorse energetiche nazionali, a decorrere dall’anno 2001 gli importatori e i soggetti responsabili degli impianti che, in ciascun anno, importano o producono energia elettrica da fonti non rinnovabili hanno l’obbligo di immettere nel sistema elettrico nazionale, nell’anno successivo, una quota prodotta da impianti da fonti rinnovabili entrati in esercizio o ripotenziati, limitatamente alla producibilità aggiuntiva, in data successiva a quella di entrata in vigore del presente decreto.» Il terzo comma prosegue introducendo i certificati verdi stabilendo che «Gli stessi soggetti possono adempiere al suddetto obbligo anche acquistando, in tutto o in parte, l’equivalente quota o i relativi diritti da altri produttori, purché immettano l’energia da fonti rinnovabili nel sistema elettrico nazionale, o dal gestore della rete di trasmissione nazionale. I diritti relativi agli impianti di cui all’articolo 3, comma 7, della legge 14 novembre 1995, n. 481 sono at-

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zionale e comunitaria 2, vede l’operatore economico produttore di energia, da un lato, destinatario di divieti e sanzioni e, dall’altro lato, attore consapevole nel preservare l’ambiente tramite la gestione dei suddetti strumenti giuridici di regolazione 3. Il sistema dei certificati verdi contempla, sia un obbligo legislativo che impone ai produttori 4 di energia di immettere nella rete un determinato quantitativo di energia prodotta da fonti rinnovabili, sia la possibilità di adempiere (al suddetto obbligo) tramite l’acquisto dei certificati verdi rappresentanti la quota equivalente generata da produttori di energia verde. Il Gestore del Servizio Elettrico può “ritirare” 5 i certificati verdi e corrispondere al possessore una somma determinatribuiti al gestore della rete di trasmissione nazionale. Il gestore della rete di trasmissione nazionale, al fine di compensare le fluttuazioni produttive annuali o l’offerta insufficiente, può acquistare e vendere diritti di produzione da fonti rinnovabili, prescindendo dalla effettiva disponibilità, con l’obbligo di compensare su base triennale le eventuali emissioni di diritti in assenza di disponibilità». 2 La Commissione europea con l’elaborazione della Direttiva 96/92 “Direttiva europea concernente norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica” ha lavorato per la creazione di un mercato unico dell’elettricità, passando attraverso la liberalizzazione degli scambi e la libertà delle iniziative delle imprese. Per la ricostruzione dei lavori comunitari in ambito energetico cfr. B. POZZO, Le politiche comunitarie in campo energetico, in Riv. giur. amb., 2009, 06, p. 841 ss., D. FOUQUET, Le nuove linee guida dell’Unione europea sui sussidi statali riguardanti la protezione ambientale, in Riv. giur. amb., 2001, 02, p. 369 ss. 3 F. MERUSI, Analisi economica del diritto e diritto amministrativo, in Dir. amm., n. 3/2007, p. 427 ss., riflette sulle conseguenze di tali strumenti, in particolare visti come “commercio” di autorizzazioni e concessioni, e rimanda per approfondimenti sulle esperienze anche internazionali a M. CLARICH, La tutela dell’ambiente attraverso il mercato, in Diritto pubblico, 2007, fasc. 1, pp. 219239, M. LIPARI, Il commercio delle emissioni, in E.B. LIBERATI-E.F. DONATI (a cura di), Il nuovo diritto dell’energia tra regolazione e concorrenza, Torino, 2007, p. 183 ss. 4 Di recente, si sta sviluppando un filone giurisprudenziale avente ad oggetto la particolare fattispecie del contratto di tolling collegato al funzionamento dei certificati verdi (v. CTP Milano, Sez. XXIV, n. 265 del 25 settembre 2012, annotata da A. CONTRINO, Titoli ambientali, contratto di tolling e operazioni imponibili ai fini IVA: note a margine della prima giurisprudenza, in Rass. trib., 3/2013, p. 683 ss.; sul medesimo argomento cfr. CTP Milano, Sez. XXI, n. 181 del 19 luglio 2012, CTP Milano, Sez. XXIII, n. 23 del 2 febbraio 2012, CTP Milano, Sez. XXXV, n. 17 del 19 gennaio 2012, CTP Milano, Sez. XVII, n. 297 del 10 novembre 2011, CTP Milano, Sez. XXXV, n. 102 del 31 marzo 2011). Lo sforzo del giudice tributario, volto a colmare la disciplina dei certificati verdi lacunosa nel non prevedere alcunché in relazione al contratto di tolling, si sostanzia nell’attribuzione della qualifica di produttore anche al toller, pur non essendo tale soggetto gestore degli impianti di produzione. Sulla ripartizione del rischio (commerciale o produttivo) tra toller e toll processor e per approfondire la disciplina del contratto di tolling si rinvia a G. GRAZIOSI, Il contratto di tolling, in Dir. comm. internaz., 3/2002, p. 511 ss. 5 Il “ritiro” dei Certificati verdi è previsto dall’art. 20, comma 3, D.M. 6 luglio 2012, il quale recita: «Fermo restando il rispetto della quota d’obbligo di cui all’articolo 11 del decreto legislativo79/99, su richiesta del detentore, il GSE ritira, al prezzo stabilito all’articolo 25, comma 4, del decreto legislativo n. 28 del 2011 e secondo modalità definite dallo stesso GSE e pubblicate sul proprio sito internet» (…) i Certificati verdi relativi alle produzioni dal 2012 al 2015 entro il 2013 e 2016.

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ta. L’imprenditore dovrà effettuare una scelta tra la diretta produzione di energia rinnovabile investendo in nuovi impianti, ovvero l’acquisto dei certificati verdi da produttori non tradizionali. Il meccanismo mostra una doppia struttura dei certificati verdi: da un lato, un obbligo provvisto di sanzione, da altro lato, i diritti trasferibili che consentono di simulare il meccanismo di mercato sotto il controllo pubblico 6. In ambito giuridico individuare una definizione di certificato verde che esprima appieno la natura di quest’ultimo, non risulta essere un esercizio del tutto agevole, in considerazione delle differenti caratteristiche che lo distinguono 7. Anche per le similari quote di emissione di gas serra (EU ETS) istituite in Italia in attuazione della Direttiva Emissions Trading 2003/87/CE, si è verificata la medesima difficoltà di qualificazione delle rispettive quote: “biens meubles incorporels” è la definizione legislativa presente nell’ordinamento francese, a differenza di quello italiano, ove gli interpreti del diritto si muovono dalla nozione di concessione amministrativa a quella di strumento finanziario 8. In linea generale, i certificati verdi sono collocabili all’interno di una nozione ampia di bene giuridico 9. Più nello specifico, escludendo le ipotesi di assimilazione ai titoli di credito atipici (stante la non astrazione e la non autonomia tra possessore del titolo e dante causa), ai titoli impropri (dato che le parti tra le quali circola il certificato verde non devono provare la legittimazione a pretendere la prestazione), ai titoli di legittimazione (i quali consentono esclusivamente di identificare agevolmente il soggetto destinatario della prestazione), ai diritti soggettivi (con i quali i certificati verdi condividono solamente i caratteri della disponibilità e della trasferibilità), si può affermare che i certificati oggetto del pre6

N. RANGONE, Fonti rinnovabili di energia: stato della regolazione e prospettive di riforma, Nota a Corte costituzionale 124/2010, in Giur. cost., 2/2010, p. 1490 ss. Nella citata sentenza, in materia di energie rinnovabili, la Corte costituzionale dichiara illegittime le Leggi Regionali 38/2008 e 42/2008 della Regione Calabria in quanto avevano introdotto dei limiti differenti (potenza nominale inferiore o uguale a 500 kW) rispetto quelli previsti dalla normativa nazionale, distorcendo per di più il principio della libera concorrenza mediante l’introduzione del regime semplificato della DIA solo per gli impianti destinati all’autoconsumo. 7 F. PERNAZZA, I certificati verdi: un nuovo “bene giuridico”?, in Rass. giur. ener. elettr., 2006, p. 180 ss. 8 Nell’ambito del diritto privato comparato vedasi V. JACOMETTI, La direttiva Emissions Trading e la sua attuazione in Italia: alcune osservazioni critiche al termine della prima fase, in Riv. giur. amb., 2008, 02, p. 273 ss. 9 Sulle differenti tesi vedasi V. COLCELLI, La natura giuridica dei certificati verdi, in Riv. giur. amb., 2012, 02, p. 179 ss., la quale approfondisce dal punto di vista del diritto civile la natura dei certificati verdi. Interessante anche il parallelismo con le quote latte (di origine comunitaria) in ragione, da un lato, della appartenenza di queste alla categoria dei beni strumentali aziendali, condizionanti l’attività e la dimensione dell’impresa, da altro lato, della autonomia quale bene giuridico a contenuto patrimoniale, cedibile indipendentemente dall’azienda.

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sente studio raffigurino delle new properties 10: certificazioni concesse dallo Stato, assimilabili alle autorizzazioni o alle concessioni rilasciate dalla pubblica amministrazione alle quali, dottrina e giurisprudenza, hanno attribuito la veste di bene immateriale. L’autonomia tra una concessione e il bene sottostante, la trasferibilità a terzi, ben raffigurano il parallelismo con i certificati verdi, i quali anche grazie al provvedimento amministrativo che li immette in circolazione, confermano un’idoneità a costituire oggetto di situazioni soggettive, integrando, dunque, la nozione di bene giuridico (ex art. 810 c.c.) 11.

2. La natura tributaria dei certificati verdi Dall’ottica dell’interprete del diritto tributario occorre indagare sulle conseguenze (fiscali) generate, per un verso, dalla natura (ibrida) dei certificati verdi e, per altro verso (e di conseguenza), dalla loro circolazione. Con maggior precisione, si sottolinea che l’analisi è da circoscrivere, ora, all’obbligazione consistente nella produzione di energia verde, piuttosto che al “bene” certificato verde. Preliminarmente, a favore della configurabilità della “prestazione patrimoniale imposta” dei certificati verdi (meglio, dell’obbligazione rappresentata dai certificati verdi) si può osservare che l’obbligo di produzione di (una quota di) energia da fonti rinnovabili incide sulla parte quantitativa oltreché (ma non solo) qualitativa della composizione del patrimonio del privato (produttore di energia), riducendone (almeno inizialmente 12) il valore economico. Nella fattispecie concreta, si ritiene possibile affermare che prevalga la rilevanza dell’art. 23 rispetto l’art. 41 della Costituzione, considerata l’incisione sul patrimonio dell’imprenditore, la quale non è una mera limitazione della libera iniziativa economica 13. Il legislatore prevedendo l’obbligo di produzione di ener10

Nuovi beni di notevole interesse, rispondenti a crescenti sollecitazioni del mercato, pur determinando «una confusione crescente tra ciò che è reale e ciò che è finanziario, generando problemi nuovi di identificazione, misurazione, circolazione e controllo della ricchezza finanziaria». Così G. TREMONTI, Il regime fiscale dei nuovi beni, in Dalle res alle new properties, AA.VV., a cura di G. DE NOVA, B. INZITARI, G. TREMONTI, G. VISENTINI, Milano, 1991, p. 99. 11 V. COLCELLI, La natura giuridica dei certificati verdi, in Riv. giur. amb., 2012, 02, p. 179, la quale per approfondire la qualificazione delle autorizzazioni come beni immateriali rinvia anche a A. BELLELLI, A.G. CIANCI, Beni e situazioni giuridiche di appartenenza, Torino, 2008. 12 Successivamente alla produzione di energia verde, l’imprenditore otterrà un incremento del suddetto valore in virtù dell’attribuzione dei certificati verdi conseguenti al corretto adempimento dell’obbligazione. 13 Non si configura una prestazione patrimoniale imposta laddove manchi l’incisione del patrimonio imprenditoriale e laddove sia presente solo una deviazione della libertà di iniziativa economica. Così possono essere tradotte le considerazioni sulle ipotesi di esclusione dalla nozione di prestazione patrimoniale con particolare attenzione alle limitazioni alla facoltà di contrarre, effettuate autorevolmente da A. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, p. 44.

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gia verde, quindi “interferendo” sul mercato, non solo condiziona l’attività del produttore, ma crea una decurtazione patrimoniale in capo a quest’ultimo laddove occorre o sostenere maggiori costi per la produzione di energia verde o acquistare i certificati verdi, ovvero sottostare alla emanazione delle sanzioni per violazione di legge: detto diversamente, l’imposizione dell’onere da parte del legislatore di generare (almeno) un determinato quantitativo di energia da fonti rinnovabili, o in alternativa di acquistare sul mercato i certificati verdi (che rappresentano un’avvenuta produzione di energia alternativa), pare andare oltre ad un mero onere 14, ad un vincolo, il cui conformarsi agevola l’attività imprenditoriale. Indagando, preliminarmente, sulla finalizzazione di detta decurtazione, la funzione sottostante all’obbligo rappresentato dai certificati verdi, consistente nella difesa del bene ambientale attraverso l’incentivazione di produzione di energia alternativa in luogo di quella tradizionale, può assumere dei connotati tributari laddove si viene a delineare lo schema del tributo ambientale 15. L’incisione patrimoniale, utile per la qualificazione tributaria dei certificati verdi, ricordando che non tutte le prestazioni imposte sono qualificabili come tributi (e viceversa) 16, si verificherebbe in quello che si potrebbe definire primo periodo di vita del certificato verde, a fronte della quale il produttore di energia deve farsi carico di maggiori componenti negativi di reddito siano essi costituiti da maggiori costi per la produzione di energia verde, oppure (in mancanza di ciò) dall’acquisto dei certificati. Tuttavia, potrebbe permanere qualche dubbio sulla realizzazione di una prestazione patrimoniale imposta nella specifica condizione del soggetto che produce energia esclusivamente da fonti rinnovabili, la cui attività non pare vada incontro a oneri ulteriori (rispetto la produzione abituale) necessari per il rispetto dell’obbligo ambientale: tale condizione, renderebbe inconsistente la tesi tributaria. Circa l’onere, apparentemente di carattere autorizzatorio 17, sostenuto dall’im14

«L’onere individua un comportamento necessitato, cui però non corrisponde alcun diritto, ma che l’ordinamento impone per la tutela d’interessi generali, subordinando all’esecuzione del comportamento dovuto la realizzazione di un interesse dello stesso titolare dell’onere». Così, U. MAJELLO, Situazioni soggettive e rapporti giuridici, in Istituzioni di diritto privato, a cura di M. BESSONE, Torino, 1997, p. 70. 15 Sulla natura giuridica e sulla funzione dei certificati verdi si rinvia al precedente par. 1, in particolare, per gli approfondimenti sulla assimilazione dei certificati alla nozione di tributo ambientale vedasi nota 29. 16 Sulla delimitazione della categoria delle prestazioni patrimoniali imposte A. FEDELE, op. cit., p. 45 ss. 17 Anche altre prestazioni coattive con caratteristiche autorizzatorie possono assumere i connotati del tributo. Concordi in tal senso L. DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, p. 254 ss.; ID., Tributi paracommutativi e finanziamento dei servizi pubblici. Caso italiano e prospettive europee, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1/2003, p. 264 ss.; F. FICHERA, L’oggetto della giurisdizione tributaria e la nozione di tributo, in Rass. trib., 4/2007, p. 1059 ss.

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prenditore, esso si manifesterebbe non tanto come corrispettivo coattivo (carattere tipico del tributo), piuttosto come corrispettivo di mercato (in cui vengono scambiati i certificati verdi): tuttavia, la coattività sarebbe rinvenibile non nel corrispettivo in sé, ma nel prodromico obbligo di acquisizione. Inoltre, non si dovrebbe dimenticare quella risalente dottrina 18 che ipotizzò un tributo assolto mediate una prestazione non pecuniaria: risulterebbe allora concepibile un tributo caratterizzato da una prestazione di fare (e non solo di dare) che, nel presente lavoro, potrebbe raffigurarsi nei certificati verdi rappresentanti dell’obbligazione di produzione di energia verde. Medesima dottrina, approfondendo i concetti di obbligazione tributaria, obbligazione secondaria e debito d’imposta, ha inglobato nella prima anche quella di fare (allora, lo studio verteva sull’annullamento del valore bollato quale obbligazione non di dare), pur in assenza di un debito d’imposta, a condizione che questa non si esaurisca in una obbligazione accessoria, in quanto il corretto adempimento «determina, direttamente o indirettamente, l’arricchimento del soggetto attivo e il depauperamento di quello passivo» 19. L’elemento pecuniario si manifesterebbe, senza dubbio, quando il produttore di energia da fonti tradizionali assolverebbe l’obbligazione di immissione di energia rinnovabile mediante l’acquisto (a titolo oneroso) dei certificati verdi, non (auto)producendo direttamente l’energia alternativa. Proseguendo e richiamando una definizione “allargata” di tributo 20, elaborata in sede giurisprudenziale, secondo la quale sono tributarie tutte quelle prestazioni imposte in via coattiva, senza il consenso dell’obbligato, che non rappresentino il corrispettivo privatistico di una prestazione dell’ente impositore, si vuole approfondire l’osservazione della sovrapposizione (totale o parziale) di tale nozione sui connotati dei certificati verdi. Pare sia possibile estrapolare una sorta di test desumibile dalle interpretazioni fornite dalla dottrina 21 e dalla più recente giurisprudenza della Corte Costituzio18

Per una sintesi del ruolo svolto nel diritto tributario da Antonio Berliri, vedasi E. DE MITA, Ricordo di Antonio Berliri, in Riv. dir. trib., 2008, 04, p. 305. Il Berliri definì la tassa come «la spontanea prestazione di dare o di fare avente per oggetto una somma di danaro o un valore bollato o la spontanea assunzione di una obbligazione, costituenti una condizione necessaria per conseguire un determinato vantaggio e della quale non si può chiedere la restituzione una volta conseguito il vantaggio»; sul richiamo e sulla attualizzazione dei sottostanti concetti cfr. L. DEL FEDERICO, I tributi paracommutativi e la teoria di Antonio Berliri della tassa come onere nell’attuale dibattito su autorità e consenso, in Riv. dir. fin., 2009, 01, p. 69. 19 Così, A. BERLIRI, Appunti sul rapporto giuridico d’imposta e sull’obbligazione tributaria, in Scritti scelti di diritto tributario, Milano, 1990, p. 234. 20 In tali termini, chiaramente, sintetizza F. TESAURO, Compendio di diritto tributario, Terza edizione, Milano, 2007, p. 6. 21 F. AMATUCCI, Le prestazioni patrimoniali locali ed ampliamento della giurisdizione tributaria, in Rass. trib., 2/2007, p. 365 ss.; concorde con G.M. CIPOLLA, Le nuove materie attribuite alla giurisdizione tributaria, in Rass. trib., 2/2003, p. 463 ss.

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nale 22 per poter qualificare una prestazione imposta come tributo: (i) autoritatività, (ii) coattività, (iii) concorso alle spese pubbliche ex art. 53 Cost., (iv) mancanza di sinallagmaticità, sono i caratteri in presenza dei quali si configurerebbe un tributo, definibile come prestazione avente natura coattiva ad assetto (para) 23 commutativo il cui fine coincida con la copertura delle spese pubbliche tra i consociati. I certificati verdi appaiono rispondere positivamente al test suddetto considerata (i) la legge statale di recepimento comunitario che li istituisce, (ii) l’obbligo dell’acquisto da parte dei produttori di energia in mancanza del quale trova applicazione apposita sanzione 24, (iii) il concorrere alla tutela ambientale in ragione della quantità di energia prodotta 25, (iv) l’assenza della sinallagmaticità dell’obbligo ex lege di produrre almeno una quota di energia da fonti rinnovabili 26. Tali aspetti soddisfarebbero anche il più moderno (e di più agevole applicazione) concetto di tributo, nel quale si può identificare quella prestazione patrimoniale imposta, caratterizzata dall’attitudine a determinare il concorso alle pubbliche spese 27. Lo studio della fiscalità dei certificati verdi consente, ora, di osservare tale strumento a finalità ambientale dall’ottica della capacità contributiva. Se, infatti, fosse possibile attribuire natura tributaria all’obbligazione rappresentata dai certificati in oggetto, apparirebbe naturale associare quest’ultimi ai tributi ambientali, 22 A prescindere dal nomen iuris gli elementi individuati dal giudice delle leggi consistono nella doverosità della prestazione, nella mancanza di un rapporto sinallagmatico e nel collegamento della prestazione imposta alla pubblica spesa in ragione del presupposto economicamente rilevante. Da ultimo vedasi le sentenze Corte Cost. nn. 141/2009, 3/2009, 238/2009. Così E. DELLA VALLE, I contrassegni SIAE hanno natura di imposta di scopo, in Rass. trib., 5/2011, p. 1337 ss. 23 L. DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, p. 103, sottolinea la possibilità di individuare nei tributi ambientali ragionevoli criteri di riparto e nel principio del “chi inquina paga” elementi comuni con i tributi paracommutativi. 24 In base all’entità dell’inadempienza dall’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 387/2003. A titolo esemplificativo si cita la sanzione di 2.984.103,00 Euro irrogata dall’Autorità per l’energia alla Ottana Energia S.r.l., per non aver adempiuto all’obbligo di acquisto dei certificati verdi negli anni di produzione di energia elettrica 2003, 2004 e 2005. 25 Nella logica del tributo ambientale, il concorso alle pubbliche spese viene raffigurato dalla protezione del bene pubblico ambientale. 26 Anche nella particolare ipotesi secondo la quale i certificati verdi vengano attribuiti ad un produttore di energia rinnovabile, l’apparente veste di controprestazione (dello Stato che elargisce il certificato cedibile sul mercato) non pare essere reale in considerazione della non automatica attribuzione dei certificati al produttore di energia (per la quale occorre una ulteriore istanza). Nelle altre ipotesi di conferimento dei certificati, questi ultimi appaiono un obbligo e non una controprestazione. 27 In tal senso, L. DEL FEDERICO, I tributi paracommutativi e la teoria di Antonio Berliri della tassa come onere nell’attuale dibattito su autorità e consenso, in Riv. dir. fin., 1/2009, p. 69 ss.

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in considerazione del presupposto di fatto che consisterà nella relazione attività espletata/danneggiamento (reversibile 28) dell’ambiente in un rapporto di causa/effetto 29. Si pone, allora, la questione di comprendere se la produzione di energia (l’unità fisica che genera il danno ambientale) possa essere costituzionalmente assunta quale presupposto del tributo ai sensi dell’art. 53 Cost., ovverosia se essa sia un atto espressivo di ricchezza economica attuale e concreta. Poiché non si crede di errare nel risolvere tale quesito positivamente, l’energia prodotta in modo tradizionale, non da fonti rinnovabili, depaupera l’ambiente, impoverisce il bene ambientale scarso. Così ricostruito, il meccanismo scaturente dai certificati verdi pare ben rispettare il principio di uguaglianza (ex art. 3 Cost.) sottostante a quello di capacità contributiva (ex art. 53 Cost.) il quale si traduce in una sorta di compensazione tra l’imprenditore che inquina e produce (tendenzialmente) utili e la collettività. Detto diversamente, il principio comunitario del “chi inquina paga” ribaltato nell’ordinamento italiano può essere espresso come criterio di riparto delle esternalità negative 30. Quanto detto è occasione per dimostrare la correttezza di quella teoria che legge la capacità contributiva ex art. 53 della Costituzione quale “limite relativo” alle scelte del legislatore: in tal modo, dall’ottica della fiscalità ambientale, la capacità contributiva diventa elastica, fino a inglobare la facoltà di sfruttare per il proprio interesse i beni di godimento pubblico 31. I certificati verdi (o meglio l’obbligazione che rappresentano) potrebbero essere allora inquadrati come tributo ambientale in senso proprio in considerazione del fatto che il presupposto proviene dalla stessa produzione di energia e, più nello specifico, all’interno dello schema dell’imposta, e non della tassa 32, poiché 28

L’esser irreversibile del danno ambientale non sarebbe concepibile o compatibile con la funzione del tributo, piuttosto rientrerebbe nell’area sanzionatoria. Così C. VERRIGNI, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, in Rass. trib., 1/2003, p. 1614 ss., il quale richiama a tal fine la Comunicazione CE 97/C emanata dalla Commissione europea per coordinare le tasse e le imposte ambientali nell’UE. 29 In tal senso, parlando di prelievi coattivi ecologici, G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2008, p. 36. 30 F. GALLO, Profili critici della tassazione ambientale, in Rass. trib., 2/ 2010, p. 303 ss. Il quale definisce il prelievo ambientale come tributo in quanto «previsione di situazioni di fatto al cui verificarsi il soggetto passivo è tenuto a una corrispondente misura di concorso alle pubbliche spese». I certificati verdi, risulterebbero allora una applicazione (italiana) del tributo Climate change levy la quale si è manifestata in altri ordinamenti sia come tributo ambientale in senso proprio che in senso funzionale a seconda dell’inquadramento del presupposto. 31 «A questo diverso livello, la capacità contributiva si risolve in criterio di razionalità complessiva del sistema e dell’intera disciplina del concorso alle pubbliche spese». Così A. FEDELE, op. cit., pp. 30 e 31. 32 Poiché il presupposto della tassa ambientale consisterebbe nella «richiesta e nell’utilizzo del servizio di risanamento del danno ambientale» sarebbe come legittimare il danno e non applicare

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la funzione del risanamento ambientale non risulta immediatamente collegabile alla prestazione imposta ma rientra in uno dei compiti fondamentali dello Stato 33. Concordemente con la suddetta tesi, si potrebbe propendere maggiormente per una qualificazione dell’obbligazione qui studiata quale imposta in ragione della sua acausalità e non quale tributo paracommutativo, ove la causa dovrebbe necessariamente caratterizzare il presupposto, restando tale proprietà circoscritta alla ratio del tributo 34. Inoltre, l’obbligazione consistente nella produzione di energia rinnovabile (in ragione di quella prodotta in maniera tradizionale) esemplifica quella teoria che identifica i tributi ambientali in senso proprio come imposte sui consumi 35: il presupposto coincidente con la produzione di energia tradizionale, rappresenta il beneficio del produttore che effettua la scelta inquinante (di produrre energia da fonti tradizionali, non rinnovabili); l’imprenditore nel produrre energia tradizionale mantiene una certa volontarietà nella scelta di inquinare e la determinazione dell’entità del danno (e la relativa quantificazione del beneficio) potrebbe essere misurata proprio in ragione dell’alternativa produzione di energia rinnovabile 36. Diversamente, sminuendo il nesso di causalità in quanto non risulterebbe rinvenibile quell’oggettiva risultanza tecnico-scientifica tra presupposto e danno ambientale, il tributo rappresentato dai certificati verdi potrebbe essere qualificato come imposta di fabbricazione con finalità extrafiscali di tutela ambientale, la cui diretta conseguenza consisterebbe in una lettura dell’art. 53 Cost. meno vincolante in quanto il presupposto dovrebbe misurare solo il valore economico della produzione 37. correttamente in principio “chi inquina paga” (il quale dovrebbe avere funzione disincentivante e non (solo) di risanamento); inoltre, si correrebbe il rischio di qualificare come danno ambientale solo quello tipizzato dal legislatore, solo quello risanato dalla tassa ambientale. In tal senso, cfr. F. GALLO, F. MARCHETTI, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., 1/1999, p. 115 ss. 33 Così, se sono state ben comprese le riflessioni effettuate da F. GALLO, op.cit., p. 304, si può desumere ribaltando tale teoria sull’argomento oggetto del presente lavoro. 34 In tal senso si ritiene applicare gli insegnamenti di L. DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, pp. 103 e 104. 35 Cfr. F. GALLO-F. MARCHETTI, op. cit., p. 115 ss., in particolare par. 7.2. “Unità fisica che determina il danno ambientale e sua valutazione in termini di attitudine o forza economica”. 36 Secondo tale ragionamento, il presupposto/indice unità di misura consistente nella produzione di energia tradizionale manifesta sia, la funzione incentivante/disincentivante verso la produzione di energia alternativa, sia assume l’effetto inquinante (energia tradizionale prodotta) come parametro di commisurazione (della quantità di energia verde da immettere nel sistema). Così come osservato in relazione alla fattispecie del servizio idrico integrato da V. GUIDO, Spunti per una riflessione sulla natura giuridica della quota di tariffa per il “servizio di depurazione e scarico delle acque reflue” e del prelievo per il “servizio idrico integrato”, nota a Corte Costituzionale, 335/2008, in Riv. dir. trib., II, 5/2009, p. 349 ss. 37 Cfr. F. GALLO-F. MARCHETTI, op. cit., p. 115 ss., in particolare sulla “ricostruzione del tributo ambientale in termini di imposta ambientale sui consumi”, distinguendo tra consumo di prodotti

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2.1. I certificati verdi e le agevolazioni fiscali Circoscrivendo ora l’analisi ai certificati verdi (e non più all’obbligazione che rappresentano) e, in particolare, al caso in cui essi siano attributi al produttore di energia verde, si osserva che nel momento della successiva cessione sul mercato si genereranno (tendenzialmente) componenti positivi di reddito 38 (in capo al cedente) in considerazione dell’assenza di particolari oneri aggiuntivi 39 e della loro elargizione avvenuta precedentemente senza corrispettivo. In una prima analisi, l’elemento agevolatorio sarebbe riscontrabile laddove i certificati verdi attributi ai produttori verdi nella sostanza si concretizzano in un “alleggerimento” 40 dell’obbligazione in capo al produttore di energia da fonti rinnovabili, consistente in una copertura dei costi sostenuti per svolgere l’attività incentivata dal legislatore grazie al conseguimento di componenti positivi di reddito derivanti dalla cessione con corrispettivo dei certificati. È utile sottolineare che la ricerca della presenza di una misura agevolativa appare lecita nella fattispecie in esame richiamando quell’affermazione «non c’è agevolazione senza tributo» 41, la quale può trovare applicazione sostenendo che: non c’è l’agevolazione consistente nei certificati verdi attribuiti gratuitamente al produttore verde, senza l’istituto tributario dell’obbligazione di produzione di energia rinnovabile. Diversamente detto – ricordando che occorre distinguere l’obbligo di produrre energia verde dalla possibilità di adempiere a tale obbligo comprando certificati verdi e dalla ricezione dei certificati verdi a seguito della avvenuta produzione di energia verde – si potrebbe ipotizzare che i certificati verdi, attribuiti gratuitamente dal Gestore elettrico al produttore di energia rinnovabile, rappresentino per quest’ultimo un’agevolazione che si contrappone all’obbligazione di produzione di energia verde. In linea generale, lo studio delle agevolazioni attiene ad una serie di problematiche sulla natura delle norme, ai loro rapporti, alla loro interpretazione, al collegamento con i principi costituzionali 42. L’interprete del diritto, chiamato a doinquinanti e consumo di beni ambientali scarsi. Sulla stessa linea anche A. GIOVANNINI, Capacità contributiva e imposizione patrimoniale: discriminazione qualitativa e limite quantitativo, in Rass. trib., 5/2012, p. 1131 ss. 38 L’iscrizione contabile nel bilancio del produttore cedente dovrebbe avvenire, sulla base del principio contabile n. 7, valorizzando la voce “altri ricavi”, imputati per competenza (cfr. nota 82). 39 Se non quelli relativi alla necessaria certificazione di qualità degli impianti richiesta dal GSE per concedere il certificato verde. 40 Cfr. A. FEDELE, op. cit., p. 160, il quale argomentando sulle agevolazioni fiscali riassume la posizione della dottrina sulla elaborazione di una nozione di carattere generale delle agevolazioni fiscali comprendenti sia le esenzioni in senso proprio sia quelle che prevedono una riduzione della misura del tributo, dilazioni dei versamenti, mero “alleggerimento” degli oneri fiscali. 41 F. PEPE, Le agevolazioni fiscali “regionali” in materia ambientale, in Riv. dir. trib., 3/2012, p. 281. 42 M. BASILAVECCHIA, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni (diritto tributario), in Rass. trib., 2/2002, p. 421, per una disamina delle possibili definizioni attribuibili alle agevolazioni.

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ver attribuire ad una determinata misura la natura di agevolazione, percorre un terreno dai confini incerti sulla cui apposizione qualificata dottrina ha avuto modo di esprimersi 43. Stante l’assenza di una definizione normativa di agevolazione tributaria, occorre rifarsi a quelle fornite dalla dottrina 44. Come prima approssimazione, si riscontrerebbe una coerenza tra la teoria funzionale 45 delle agevolazioni e i certificati verdi: questi, attribuiti senza corrispettivo al produttore di energia da fonti rinnovabili, a seguito della loro successiva circolazione (la quale si può concretizzare con l’acquisto da parte di altri produttori di energia o mediate il ritiro 46 da parte del GSE) manifesterebbero il collegamento con una spesa fiscale concretizzantesi nel ritiro dei certificati da parte dello Stato 47, garantendo un flusso finanziario a favore del beneficiario, similmente a quanto potrebbe avvenire per mezzo di un contributo pubblico e non tramite lo strumento del prelievo tributario. In seconda battuta, con richiamo alla teoria strutturale 48 delle agevolazioni, la sovrapposizione con i certificati verdi apparirebbe imprecisa per carenza del carattere derogatorio dell’agevolazione rispetto la finalità propria del tributo. Infatti, se si propendesse per la natura tributaria 49 dell’obbligazione di produrre energia verde, considerando che la ratio di tale tributo consisterebbe nel tutelare l’ambiente, l’agevolazione sottostante ai certificati verdi non sembrerebbe discostarsi da tale logica, anzi mirerebbe a perseguire il medesimo fine. Il “ritiro” dei Certificati da parte del Gestore o la loro vendita sul mercato non si concretizzerebbe tanto in una limitazione 50 del presupposto del tributo, quanto nell’attri43

V. note successive. Inoltre, per una visione sia economica che giuridica, con riflessioni in ambito di efficacia delle agevolazioni e di necessità di riordino, si vedano rispettivamente, A. DI MAJO, Le agevolazioni fiscali alle imprese: aspetti economici, in Le agevolazioni fiscali, a cura di M. LECCISOTTI, Bari, 1995, p. 121 ss.; S. LA ROSA, Le agevolazioni fiscali alle imprese: aspetti giuridici, in Le agevolazioni fiscali, op. cit., p. 103 ss. 45 Cfr. S. LA ROSA, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, a cura di A. AMATUCCI, Padova, 1994, p. 410 ss. 46 Si ricorda che il Gestore Servizi Elettrici ritira, ex art. 20 comma 3 del D.M. 6 luglio 2012, D.Lgs. n. 28/2011, i Certificati verdi rilasciati per le produzioni da fonti rinnovabili degli anni dal 2012 al 2015, ad un prezzo di ritiro pari al 78% del valore risultante dalla differenza tra 180 €/MWh e il valore medio annuo del prezzo di cessione dell’energia elettrica registrato nell’anno precedente e definito dall’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas (il prezzo di offerta dei Certificati da parte del GSE è definito dal comma 148 dell’articolo 2 della Legge Finanziaria 2008). 47 L’azionista unico del GSE è costituito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. 48 Cfr. F. FICHERA, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, p. 32 ss. 49 Così come argomentato nel relativo paragrafo del presente lavoro. 50 Il richiamo è alla tradizionale discussione dottrinale avente ad oggetto l’esclusione e l’esenzione quali valori agevolativi nel sistema tributario. La più risalente è quella costituita da A.D. GIANNINI, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956; A. BERLIRI, Principi di diritto tributario, Milano, 1957; E. ANTONINI, La formulazione della legge e le categorie giuridiche, Milano, 1958. 44

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buzione di una potenziale entrata finanziaria, frutto del corretto adempimento dell’obbligazione tributaria. A dimostrazione della non facile opera di definizione di una agevolazione, entrambe le teorie suddette mostrano profili di criticità 51 in quanto la prima rischierebbe di essere eccessivamente onnicomprensiva (e nel caso di specie potrebbe far propendere per qualificare i certificati verdi come agevolazione a discapito di altre ipotesi 52), mentre la seconda comporterebbe una concreta difficoltà di distinzione delle due ratio, del tributo e dell’agevolazione: tale problematicità è ben rappresentata nello studio qui svolto il quale tende a mostrare una natura ibrida della misura ideata a tutela dell’ambiente. Dalle suddette teorie, tenendo a mente sia il carattere derogatorio che la finalità extrafiscale della misura, se la misura sottrattiva del tributo nasce per una finalità tributaria non derogatoria e produce effetti coerenti al tributo, essa non costituisce una agevolazione fiscale 53. Alla luce di tali considerazioni, i certificati verdi attribuiti al produttore di energia verde, lasciano intravedere dei connotati agevolativi che, tuttavia, non sembrano tali da poter attribuire la qualifica di agevolazione fiscale in quanto fuori dagli schemi dottrinali: se, infatti, fosse presente la finalità extratributaria dell’attribuzione senza corrispettivo del certificato al produttore (meritevole in quanto) verde, tuttavia essa risulterebbe coerente con la finalità istitutiva dell’obbligazione tributaria di produzione di una quota di energia da fonti rinnovabili. Di conseguenza, l’apparente natura agevolativa generata dalla distribuzione senza corrispettivo dei certificati verdi e il conseguente “ritiro” per opera del Gestore, ovverosia, il trattamento differenziato che evidenzia profili di gratuità in capo al produttore verde contrapponibili a quelli di onerosità gravanti sul produttore tradizionale, mostra non una ratio derogatoria (e in tal caso dando luogo 51

Cfr. M. BASILAVECCHIA, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, in Rass. trib., n. 2/2002, p. 421 ss. L’autore, in definitiva, ritiene che deve sussistere una funzione di favore, la quale sottragga «al regime comune, per ragioni estranee a quelle recepite nella strutturazione essenziale del singolo prelievo, le ipotesi ritenute meritevoli (per ragioni comunque extrafiscali) di ottenere una attenuazione della tassazione e/o degli oneri formali ad essa connessi». Egli prosegue, a tal proposito, avanzando dei dubbi la possibilità di considerare come agevolazioni fiscali in senso proprio quelle vere e proprie sovvenzioni che vengono concesse ai contribuenti sotto forma di buoni o crediti d’imposta, che pur derivino da fattispecie estranee alla disciplina del tributo: i dubbi nascono dall’osservazione che la determinazione dell’imposta dovuta non subisce deroghe e la sovvenzione (o la agevolazione?) si manifesta solo nel momento solutorio, quando il credito d’imposta potrà essere compensato con i debiti del contribuente. 52 V. infra. 53 Così dalla analisi e dalla sintesi operata da S. FIORENTINO, Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, in Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. INGROSSO e G. TESAURO, Napoli, 2009, p. 387 ss.

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ad una agevolazione) ma un «logico corollario dell’applicazione del tributo» 54: da una attenta rilettura del funzionamento dei certificati verdi, si può capire che la gratuità e l’onerosità si manifestano in capo a soggetti diversi e si giustificano proprio in considerazione della produzione o meno di energia verde (trattamento differenziato pienamente coerente con la ratio di tutela ambientale della misura tributaria in questione), e risultano quindi «espressione di principi che informano la stessa configurazione essenziale del tributo» 55. Guardando ad una tesi che si ricollega agli studi di diritto pubblico per una alternativa lettura (e possibile definizione) delle agevolazioni, i certificati verdi attribuiti gratuitamente paiono essere assimilabili alle agevolazione-incentivo 56: essi, infatti, rispondono alla logica di intervento dello Stato nell’economia 57, provocano l’attuazione di una specifica attività da parte dei privati (produzione di energia da fonti rinnovabili), prevedono un vantaggio, una controprestazione a favore del privato (attribuzione senza corrispettivo del certificato, futura fonte di componenti positive di reddito), non sono autoritativi e, in loro assenza l’attività incentivata (produzione di energia verde) non sarebbe ugualmente posta in essere. Se, in prima istanza, può apparire che i certificati in questione abbiano una componente autoritativa in ragione dell’obbligo imposto in forza di legge di produzione di una quota di energia da fonti rinnovabili, tuttavia, a ben vedere, pare che l’obbligo suddetto sia prodromico all’attribuzione dei certificati e la componente agevolativa che essi possono manifestare si appalesa solamente laddove il produttore di energia verde decida di negoziarli, restando in capo a quest’ultimo elementi di volontarietà 58. Le conseguenze di taglio pratico scaturenti da una simile classificazione, attribuendo ai certificati verdi la natura di norme-incentivo 54 Tale espressione è utilizzata da F. PEPE, op. cit., p. 281, il quale, così osservando, contribuisce a chiarire le difficoltà interpretative delle agevolazioni fiscali in materia ambientale. 55 Tale affermazione è stata effettuata da M. BASILAVECCHIA, op. cit., p. 421, in merito alle detrazioni IRPEF, per negarne la natura agevolativa. 56 Il richiamo è riferito ad A. DAGNINO, Agevolazioni fiscali e potestà normativa, Padova, 2008, p. 24 ss., il quale cita tra i suddetti studiosi G. GUARINO, Sul regime costituzionale delle leggi di incentivazione e di indirizzo, in Scritti di diritto pubblico dell’economia e di diritto dell’energia, 1962; N. IRTI, L’età della decodificazione, Milano, 1979; N. BOBBIO, Dalla struttura alla funzione, Milano, 1977. Le agevolazioni-incentivo risultano differenti dalle agevolazioni-conferimento nelle quali manca la controprestazione del beneficiario della disposizione. 57 Esempio di quel cambiamento che ha investito l’energia e le politiche ambientali, mostrando un passaggio da un approccio amministrativo formato da divieti, ad un approccio economico mediante l’uso di “tasse sull’inquinamento e premi al risanamento ambientale”. Così E. GERELLI-G. MURARO, Verso un’economia immateriale, in Dalle res alle new properties, AA.VV., a cura di G. DE NOVA, B. INZITARI, G. TREMONTI, G. VISENTINI, Milano, 1991, p. 23. 58 Tali osservazioni applicate ai certificati verdi nascono dalle considerazioni di carattere generale effettuate sulle diverse tipologie di agevolazioni ad opera di A. DAGNINO, Agevolazioni fiscali e potestà normativa, Padova, 2008, p. 23 ss.

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(o agevolazioni-incentivo), consisterebbero nel riconoscere i caratteri della irretroattività, nel poter esser vincolanti (anche in capo al legislatore), nella raffigurazione delle scelte sociali ed economiche, tendenzialmente temporanee fino al raggiungimento dell’obiettivo preposto 59.

2.2. I certificati verdi e gli aiuti di Stato Esclusa la natura agevolativa della misura, si osserva tuttavia che il corretto adempimento (immissione nel sistema elettrico nazionale di una quota di energia rinnovabile) dando luogo pur sempre all’attribuzione (gratuita) di un bene immateriale (il certificato verde) dalla cui cessione possono originare dei componenti positivi di reddito si traduce pur sempre in un vantaggio: tale trattamento di favore, essendo rivolto ad attività economiche, potrebbe rilevare quale alterazione della libera concorrenza configurando un aiuto di Stato. Se precedentemente sono stati osservati dei vincoli di legittimità costituzionale, ora l’ambito di riferimento trasla sulla compatibilità comunitaria 60. L’Unione europea ha regolamentato gli aiuti di Stato 61 al fine di tutelare la libertà di concorrenza fra le imprese, messa a rischio da misure agevolative emanate dagli Stati membri a favore di determinate categorie di soggetti economici o di determinate produzioni, penalizzando i soggetti non beneficiari. Nel presente lavoro, l’elemento discriminatorio sarebbe individuabile tra il produttore di energia da fonti tradizionali e quello da fonti rinnovabili, destinatario quest’ultimo dei certificati verdi a titolo gratuito. Il regime degli aiuti di Stato, quale limite relativo (o assoluto) 62 di origine comunitaria, prevede (nel secondo e terzo paragrafo dell’art. 107 TFUE) delle 59 Così osserva (in generale) per le agevolazioni A. DAGNINO, op. cit., p. 35 in contrapposizione alle agevolazioni-conferimento, le quali possono essere retroattive, sono meno vincolanti ed abrogabili. 60 Il riferimento è a quanto rilevato nei paragrafi precedenti, in particolare sul limite della capacità contributiva relativamente alla natura tributaria dei certificati verdi. Sul citato doppio ordine di limiti riscontrabile nelle agevolazioni e negli aiuti di Stato, cfr. A. FEDELE, op. cit., p. 161. 61 In particolare vedasi l’art. 107 ss. del TFUE. 62 Relativo sia in quanto il Trattato non prevede un divieto di aiuti di Stato quanto un divieto di aiuti di Stato illegali (in tal senso cfr. G. FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di stato, Pisa, 2007, p. 92 ss., sia in quanto esiste una deroga per quelli sottostanti alla soglia del c.d. regime de minimis (per il quale si rinvia a D. STEVANATO-I. PIRELLI-S. SERASIN, Se l’agevolazione fiscale è un illegittimo aiuto di Stato si recupera anche quella inferiore alla soglia de minimis?, in Dialoghi trib., 1/2012, p. 101). In senso contrario, M. INGROSSO, La comunitarizzazione del diritto tributario e gli aiuti di Stato, in Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. INGROSSO, G. TESAURO, Napoli, 2009, pp. 64 e 65, il quale ritiene assoluto il divieto di aiuti di Stato posto dall’Ordinamento comunitario, ritenendo che le deroghe siano tali in quanto non costituirebbero una alterazione delle condizioni di mercato e della concorrenza.

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condizioni di compatibilità: uno Stato membro potrebbe istituire un aiuto compatibile con l’Ordinamento comunitario se si attuasse una coincidenza dei fini della misura agevolativa con quelli dell’Unione europea, potendo utilizzare la «tributarietà in funzione extrafiscale promozionale» 63 dello sviluppo economico e sociale. Tenendo a mente la definizione di aiuto fiscale estrapolabile 64 dal primo paragrafo dell’articolo sopracitato, e in linea con quanto espresso dalla Commissione 65, i certificati verdi attributi gratuitamente al produttore di energia da fonti rinnovabili a) attribuiscono a questi un vantaggio consistente nella negoziabilità del certificato; b) tale vantaggio in caso di ritiro dei certificati per opera del Gestore Servizi elettrici è concesso tramite risorse statali; c) la negoziabilità dei certificati incide sugli scambi in quanto genera componenti positive di reddito che altrimenti l’imprenditore non avrebbe conseguito; d) la misura favorisce la specifica produzione di energia da fonti rinnovabili a discapito di quella prodotta da fonti tradizionali, e dunque, parrebbe selettiva 66. Tale selettività, tuttavia, alla luce dell’interpretazione giurisprudenziale comunitaria 67, apparirebbe giustificabile 63

Così sintetizza M. INGROSSO, op. cit., p. 60 richiamando, ma non condividendo, il pensiero di P. BORIA, Diritto tributario europeo, Torino, 2010; G. FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, cit.; M. BASILAVECCHIA, L’evoluzione della politica fiscale dell’Unione europea, in Riv. dir. trib., 1/2009, I, p. 369 ss. 64 A. MAROTTA, Aiuti di Stato e aiuti fiscali: struttura e differenze, in Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. INGROSSO, G. TESAURO, Napoli, 2009, p. 147, riassume così i caratteri necessari per poter definire un aiuto fiscale di Stato: a) vantaggio che riduca gli oneri di bilancio; b) vantaggio concesso tramite risorse statali; c) la misura deve incidere sulla concorrenza e sugli scambi tra Stati membri; d) selettività della misura a favore di talune imprese o talune produzioni. 65 V. Comunicazione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese, in GUCE C-384 del 10/12/1998. 66 Sulla non selettività dei certificati verdi si è espressa anche l’Assonime laddove ha analizzato la compatibilità di tali aiuti con le agevolazioni c.d. Tremonti ter. Cfr. Circolare Assonime n. 7 del 26 febbraio 2010. La questione della compatibilità era nata dall’art. 2, comma 152, L. n. 244/2007, il quale, per non consentire l’accumulazione tra diverse agevolazioni ha previsto l’incompatibilità dei certificati verdi con «altri incentivi pubblici di natura nazionale, regionale, locale o comunitaria in conto energia, in conto capitale o in conto interessi con capitalizzazione anticipata». Sulla cumulabilità con altre agevolazioni a tutela ambientale cfr. T. MARINO, Cumulabilità della Tremonti ter con gli incentivi in materia di energia eolica, in Corr. trib., 45/2009, p. 3659 ss. 67 Vedasi la sentenza del Tribunale di Prima Istanza (TPI), causa T-233/04, 10 aprile 2008, sul sistema olandese dei diritti di emissione di inquinanti atmosferici disciplinati dalla Direttiva 2001/81/CE, nella quale il giudice comunitario afferma che nonostante in prima facie la misura agevolativa differenziando tra imprese apparirebbe selettiva, la differenziazione era conseguenza della stessa natura del sistema generale di diritti di emissione destinato alle sole imprese ad elevato consumo energetico. «Tale chiarimento restituisce ragionevolezza al controllo delle misure fiscali di vantaggio nazionali e sembra legittimare le disposizioni che risultano non derogatorie in quanto compatibili con la ratio del singolo tributo» così F. AMATUCCI, Il ruolo del giudice nazionale in materia di aiuti fiscali, in Rass. trib., 5/2008, p. 1282. Sulla stessa linea, sentenza CGE 6 settembre 2006, causa C-88/03, Portogallo/Commissione, commentata da A. CARINCI, Autonomia impositiva degli enti sub statali e divieto di aiuti di stato, in Rass. trib., 5/2006, p. 1760 ss.

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dalla natura o dalla struttura del sistema, in quanto la produzione di energia da fonti rinnovabili è strettamente correlata alla tutela ambientale, la quale è coerente con la logica di sviluppo del sistema economico e dei principi di tutela ambientale 68. Inoltre, a supporto di tale ultima tesi, si osserva che essa rappresenta bene quel punto di contatto tra la nozione di agevolazione fiscale e la nozione di aiuto di Stato, tra il carattere derogatorio della prima e la natura del sistema fiscale della seconda, qualifiche (di agevolazione e di aiuto di Stato illegale) entrambe negabili in considerazione della medesima ratio del prelievo, dell’agevolazione, dell’aiuto (compatibile) 69. Di conseguenza, la misura agevolativa sopra delineata dei certificati verdi può essere collocata nell’area degli aiuti di Stato, compatibili con l’ordinamento comunitario. Tale compatibilità, rinvenibile nella selettività giustificabile come sopra delineata, è ancor più intellegibile alla luce del Regolamento 800/2008 mediante il quale la Commissione ha disciplinato delle esenzioni per categoria, dichiarando compatibili e privi dell’obbligo di notifica quegli aiuti finalizzati alla tutela ambientale 70. La ratio del citato Regolamento mostra l’evoluzione del rapporto intercorrente tra tutela ambientale, tributo ambientale, aiuto di Stato, la quale consente di apprezzare la natura di aiuto dei certificati verdi gratuiti, rispettosi dei limiti esterni comunitari grazie alla specifica esenzione applicata agli aiuti ambientali 71. In tal modo, la Commissione previene un uso di aiuti di Stato non mirati o eccessivi, distorsivi della concorrenza e (probabilmente) non efficaci nel perseguire l’obiettivo della tutela ambientale 72.

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Per altri esempi di selettività giustificata dalla natura o dalla struttura del sistema si rimanda a G. CAPUTI, La selettività in generale, in Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, cit., p. 203 ss., il quale esprime posizioni allineate a G. TESAURO, Diritto comunitario, Torino, 2008, p. 800. 69 Sul raffronto tra agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, F. PEPE, op. cit., p. 283. 70 In particolare, gli artt. 17-25 del Regolamento 800/2008 si richiama l’attenzione i) sulla tutela della qualità dell’ambiente, ii) esonero degli aiuti di Stato in materia ambientale anche attraverso agevolazioni da imposte ambientali. 71 Sul superamento del tabù del divieto dell’aiuto di Stato elargito mediante agevolazioni fiscali, vedasi R. PIGNATONE, Agevolazioni su imposte ambientali ed aiuti di Stato, in Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, cit., p. 754. 72 In tal senso, R. ALFANO, Agevolazioni fiscali in materia ambientale e vincoli dell’Unione europea, in Rass. trib., n. 2/2011, p. 328 ss., la quale specifica che un aiuto è proporzionato «qualora non sarebbe stato possibile ottenere gli stessi risultati con un aiuto di entità minore».

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3. La circolazione dei certificati verdi L’obbligazione di produrre una determinata quota di energia da fonti rinnovabili, possiede al suo interno una componente circolatoria dei certificati verdi dalle conseguenze fiscali strettamente connesse sia alla natura di quest’ultimi, sia alla natura del percipiente del certificato quale produttore di energia rinnovabile, tradizionale o trader.

3.1. Gratuità, onerosità, corrispettività e liberalità Una peculiare chiave di lettura per poter studiare la natura dei certificati verdi consiste in una loro visione tenendo a mente i concetti di gratuità, onerosità, corrispettività e liberalità. Si tiene a precisare che tali attributi sono da riferire esclusivamente ai certificati verdi in quanto beni immateriali e non all’obbligo di produzione di energia rinnovabile (al quale è ricollegabile la nozione di tributo sopraesposta), nei confronti del quale i certificati verdi rappresentano o (per così dire) un regime sostitutivo di adempimento o un aiuto (compatibile) alla produzione di energia rinnovabile. Elementi di gratuità 73 sono riscontrabili laddove i certificati verdi vengono distribuiti al produttore di energia da fonti rinnovabili: sebbene l’acquisto dei certificati da parte dell’imprenditore verde potrebbe qualificarsi a titolo originario 74 piuttosto che a titolo gratuito, certamente esso è inquadrabile quale attribuzione senza corrispettivo, quale atto gratuito (non liberale 75). 73 In prima approssimazione la gratuità è riscontrabile in quegli atti ove «si ha, in sostanza, un vantaggio patrimoniale di una parte non controbilanciato da un correlativo sacrificio». Cfr. U. CARNEVALI, Liberalità (atti di) [XXIV, 1974], in Enciclopedia del diritto, DeJure; nella quale si rimanda per approfondimenti sulle categorie dell’onerosità e della gratuità a G. SCALFI, Corrispettività e alea nei contratti, Milano-Varese, 1960, p. 79 ss. 74 Sarebbe l’attività caratteristica svolta dall’impresa produttrice di energia da fonti rinnovabili che consente, in quanto meritevole, di entrare in possesso dei certificati verdi a fronte di alcun corrispettivo, ovvero è l’impresa che ha prodotto (le condizioni necessarie per poter conseguire) il bene “certificato verde”. Così come avviene, in maniera analoga, per l’acquisto a titolo originario della proprietà intellettuale ove dalla lettura dell’art. 2576 c.c. e dell’art. 6 l. n. 633, si definisce la natura originaria dell’acquisto del diritto di autore tramite il collegamento con l’attività creativa, espressione del lavoro intellettuale. Cfr. G. GIACOBBE, Proprietà intellettuale [XXXVII, 1988], in Enciclopedia del diritto, DeJure. Tuttavia se il momento della nascita del diritto ad ottenere i certificati verdi coincide (in quanto a titolo originario) con lo svolgimento (preordinato) dell’attività produttiva di energia, la manifestazione reale di tale diritto avrà luogo con la (successiva) richiesta e la percezione dei certificati verdi. Ricordando che la differente qualificazione dell’acquisizione genera anche differenti effetti di contabilizzazione, pare ragionevole preferire una soluzione che propenda per l’acquisizione senza corrispettivo in ragione della solo eventuale richiesta ed attribuzione dei certificati da parte del Gestore dell’energia. 75 Si rimanda alle osservazioni successive sul concetto di liberalità.

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Il concetto di onerosità 76, nella fattispecie qui studiata, emerge sotto differenti aspetti. Specularmente alla gratuità, nell’ottica del produttore di energia da fonti rinnovabili che ottiene i certificati verdi dal Gestore del Servizio Elettrico a titolo gratuito, si possono osservare degli elementi onerosi rappresentati sia dai maggiori costi sostenuti per produrre da fonti rinnovabili 77, sia da quanto necessario per ottenere la certificazione dei propri impianti necessaria per il rilascio dei certificati. Inoltre, una particolare assimilazione dell’obbligo di produrre energia verde al concetto di onere è osservabile, in capo al produttore di energia in quanto tale (sia esso tradizionale o verde), dovendosi attuare un comportamento (la produzione di energia rinnovabile o l’acquisto dei certificati verdi) al fine di poter realizzare il proprio interesse (lo svolgimento dell’attività d’impresa) 78. La presenza di un corrispettivo pare sia distinguibile laddove i certificati verdi vengano acquistati da una società produttrice di energia tradizionale o nella compravendita effettuata da una Società intermediaria. In tale ambito il corrispettivo coincide con un prezzo determinato dal mercato, generato dall’incontro della domanda con l’offerta. Infine, in merito all’attributo della liberalità, in seno ai certificati verdi non pare rintracciabile né l’esser nullo iure cogente 79 né l’animus donandi, ovverosia lo spirito di liberalità, a causa dell’interesse del soggetto erogante (lo Stato tramite il Gestore Servizi Energetici) indirizzato al perseguimento di un fine meritevole di tutela (ambientale); la liberalità caratterizzata da elementi di straordinarietà è qui contrapposta alla programmabilità tipica dei contributi, i quali si inseriscono in tal modo nel programma di remunerazione dei fattori produttivi 80. Pare opportuno sottolineare che, le suddette considerazioni devono tener conto del differente ambito di applicazione delle norme civilistiche rispetto a 76

Cfr. T. SCOZZAFAVA OBERDAN, Onere [XXX, 1980, DeJure], in Enciclopedia del diritto, DeJure, «l’onere si identifica come un vincolo connesso a un potere. Se il titolare del potere si uniforma al vincolo - adempie cioè l’onere - il potere si dispiega incondizionatamente e il soggetto passivo non potrà evitarne le conseguenze». 77 Maggiori se il produttore di energia possiede quale output sia energia da fonti tradizionali che rinnovabili, e l’attività di quest’ultima è stata intrapresa per evitare di acquistare a titolo oneroso i certificati verdi generati da altri produttori. 78 L’onere può essere definito come quello strumento attraverso il quale l’ordinamento impone al soggetto di tenere un determinato comportamento, così evitando di subire alcune conseguenze giuridiche sfavorevoli, differenziandosi dal dovere in quanto derivante dall’esercizio di una potere; in tal senso, T. SCOZZAFAVA OBERDAN, op. cit. DeJure. 79 Presupposto esattamente antitetico all’adempimento, il quale rappresenta un atto dovuto. Cfr. U. CARNEVALI, Liberalità e adempimento di obbligazione naturale, in commento alla voce Liberalità, in Enciclopedia del diritto, DeJure, XXIV, 1974. 80 In generale, sui caratteri distintivi tra contributi e liberalità v. M. BEGHIN, I contributi e le liberalità a favore delle imprese, Milano, 1997, p. 5 ss.

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quelle fiscali: infatti, le attribuzioni liberali formano materia imponibile in quanto all’interno della categoria del reddito d’impresa sono assoggettate a tassazione anche le «componenti reddituali innominate» 81.

3.2. I certificati verdi tra imposte sul reddito e IVA Nell’ambito delle imposte sul reddito, il certificato verde in capo al produttore di energia rinnovabile è acquisito in assenza di corrispettivo e genera componenti positive di reddito al momento della cessione. Tali componenti contabilizzabili 82 come contributi in conto esercizio, fiscalmente nascondono delle criticità. In assenza di una definizione di contributo elaborata dal legislatore fiscale, occorre guardare al profilo funzionale 83 al fine di qualificare la misura come contributo in conto esercizio, capitale o impianti. Preliminarmente si constata che attribuire ai certificati verdi la natura di contributo significa applicare una definizione 84 allargata di quest’ultimo: i certificati assumeranno (compiutamente) i connotati dei contributi esclusivamente nel momento in cui il Gestore li ritirerà al produttore di energia, liquidandone il valore. Le differenze di inquadramento quali contributi in conto esercizio, capitale, impianti rileveranno in considerazione dell’appartenenza dei primi tra i ricavi ex art. 85 TUIR, dei secondi tra le sopravvenienze attive ex art. 88 TUIR, e del81

Il richiamo è all’art. 109 del TUIR il quale al primo comma recita «I ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente Sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni». Nel senso sopra interpretato da M. BEGHIN, op. cit., p. 22, il quale approfondisce l’argomento anche alla luce delle modifiche normative subite nel tempo dalla disciplina del reddito d’impresa. 82 Contabilmente il recentissimo Principio contabile n. 7, rubricato “I certificati verdi”, ha stabilito che tali strumenti rappresentino «un’incentivazione alla produzione da fonti rinnovabili sotto forma di integrazione ai ricavi d’esercizio, analoga ai contributi in conto esercizio» (v. punto 22 del Principio) e, in quanto tali, debbano essere iscritti nel Conto economico alla voce A5) Altri ricavi, seguendo il principio della competenza. Per la contabilizzazione a seconda che i certificati siano emessi a preventivo o a consuntivo, si rimanda a S. MAZZOCCHI, Trattamento civilistico e corretta imputazione delle quote di CO2 e dei certificati verdi, in Bilancio e reddito d’impresa, 4/2012, p. 29 ss., F. DEZZANI-L. DEZZANI, Oic n. 7: certificati verdi: imputazione per competenza, in Il Fisco, 10/2013, p. 1417 ss. 83 Sulla tale necessità cfr. G. GIRELLI, I contributi, commento all’art. 85, in Commentario al Testo unico delle imposte sui redditi, a cura di G. TINELLI, Padova, 2009, p. 695. 84 I presupposti giuridici sulla base dei quali si possono individuare le sopravvenienze attive sono l’oggetto (percezione di proventi in denaro o in natura), la causa (assoluta mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le prestazioni) e lo scopo (la finalità che si intende perseguire). Così G. GIRELLI, op. cit., p. 739.

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l’esclusione degli ultimi dal computo del costo ammortizzabile 85: da notare che tali norme-chiave rispondono alla imposizione di tutte le eterogenee misure agevolative, ivi compresi gli aiuti di Stato (legittimi) 86. Più nello specifico, così come rilevato dalla prassi contabile 87, occorre scomporre l’analisi anche a seconda dei soggetti che verranno coinvolti nella circolazione del certificato verde, analizzando la questione dal punto di vista del Gestore dei servizi energetici, del produttore di energia tradizionale o della Società trader. Solo nel primo caso, si ritiene che i certificati verdi possano essere definiti contributi e, in particolare, contributi a causa neutra 88: infatti, poiché pare assente una chiara destinazione d’uso da parte del legislatore, si dovrà osservare l’utilizzo effettuato nella pratica da parte del beneficiario al fine di poterlo inquadrare fiscalmente in modo corretto. A seconda delle effettive scelte imprenditoriali sulla destinazione del contributo ricevuto – sia esso per ridurre i costi necessari per la produzione di energia alternativa tramite un sostegno economico di tipo ordinario (contributo in conto esercizio), sia esso per modificare la struttura dell’impresa per produrre (incrementare) energia rinnovabile traducendosi in un strumento straordinario di intervento nella vita economica (contributo in conto capitale) 89 – si dovrà assolvere l’onere dichiarativo (fiscale) adottando o la disciplina dei contributi in conto esercizio o quella in conto capitale, la cui differenza principale consisterebbe nel diverso criterio di imputazione temporale. Se, quindi, da un lato esiste la difficoltà interpretativa della qualificazione dei contributi, dall’altro, essa è compensata da una questione che si tradurrebbe in timing differences 90. 85

Tale esclusione finalizzata alla riduzione dell’ammortamento degli impianti agevolati, è stata disposta ad opera della L. n. 449/1997 modificativa dell’attuale art. 110 TUIR, già art. 76 il quale prevedeva che «il costo è assunto al lordo delle quote di ammortamento già dedotte e degli eventuali contributi». Cfr. F. VITALE, Commento all’art. 110, in Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo III, a cura di A. FANTOZZI, Padova, 2010, p. 599. 86 Sulla mutevolezza delle forme tecniche e sulla varietà degli strumenti impiegati dal legislatore, cfr. M. BEGHIN, I contributi e le liberalità a favore delle imprese, Milano, 1997, p. 2. 87 L’OIC 7 evidenzia la differenza di trattamento contabile che si dovrebbe generare a seconda che il certificato verde collocato sul mercato venga ritirato dal Gestore o venga comprato da altro produttore o da società trader: rispettivamente, contributo da contabilizzare alla voce A5) Altri ricavi, onere di sistema da registrare nella voce B14) Oneri diversi di gestione, bene merce da rilevare in B6) Costi della produzione e in A1) Ricavi delle vendite. 88 A. E. GRANELLI, Contributi in conto esercizio e in conto capitale, in Dir. prat. trib., 1/1978, p. 60. 89 Come è noto, i contributi in conto esercizio rilevano secondo il principio di competenza, mentre quelli in conto capitale per cassa. Per un quadro di sintesi sulle differenze tra contributi in conto esercizio e in conto capitale cfr. G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Padova, 2008, p. 320. 90 D. STEVANATO, Valutazioni civilistico-contabili per la deduzione di “altre spese” relative a più esercizi, in Corr. trib., 16/2006, p. 1268 ss.

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In ogni caso, anche in presenza di contributi c.d. a causa neutra, sebbene la qualificazione commerciale, la contabilizzazione e le scelte imprenditoriali generino i loro effetti sulla qualificazione fiscale del contributo, devono restare salvi i principi del diritto tributario sulla determinazione del reddito d’impresa 91. Inoltre, alla registrazione dei certificati quali contributi fa da contraltare la posizione creditoria del soggetto produttore di energia nei confronti del GSE 92, da valutare al presumibile valore di realizzo 93. Da segnalare, tuttavia, quella posizione della prassi della amministrazione finanziaria 94 che assimilando i certificati verdi ad altri beni immateriali quali le concessioni e le licenze richiederebbe un trattamento fiscale che veda l’emersione di plusvalenze da cessione. Percorrendo tale strada, valorizzando l’utilità pluriennale data dalla vita massima triennale dei certificati e considerando l’acquisizione senza corrispettivo, la determinazione della plusvalenza sarebbe data dalla differenza tra il prezzo di cessione e il costo fiscalmente riconosciuto del bene. A parere di chi scrive, simile qualificazione sarebbe da escludere nel caso in cui la cessione dei certificati avvenga tramite il ritiro degli stessi da parte del GSE (dovendo preferire, in tal caso, la natura di contributo) mentre potrebbe essere ammissibile in caso di cessione diretta ad altro produttore di energia. L’ipotesi di circolazione del certificato che coinvolga un produttore di energia tradizionale rileverà contabilmente 95 e fiscalmente alla stregua di componenti negative di reddito da registrare per competenza 96. Si supponga, ora, che i certificati verdi attributi al produttore di energia alternativa restino nella disponibilità dell’imprenditore, il quale decida di non domandare al Gestore il ritiro degli stessi, e di utilizzarli per adempiere, nell’anno 91

Sulla «qualificazione dei contributi c.d. a causa neutra in base alle disposizioni civilistiche e la rilevanza delle scritture contabili ai fini tributari» si rimanda a M. BEGHIN, op. cit., p. 120. 92 Da registrare contabilmente nell’attivo circolante dello Stato patrimoniale quale crediti verso altri, voce CII 5) (in tal senso OIC 7, p. 8). 93 Similmente a quanto avviene per la contabilizzazione dei certificati bianchi. Cfr. Assonime, caso 2/2012 e D. MARINI, Contabilizzazione dei certificati bianchi, in Boll. trib., 6/2013, p. 411 ss. Sulle problematiche della deducibilità delle perdite su crediti si rimanda a F. TUNDO, Atti dispositivi dei crediti: cessioni pro soluto e criteri di imputazione temporale, in Rass. trib., 5/2011, p. 1137 ss., M. BEGHIN, Perdite su crediti, atti dispositivi del diritto ed elementi certi e precisi: un arresto giurisprudenziale bipartisan, in Riv. dir. trib., 2/2008, p. 157 ss. 94 La Circolare 32/2009 definendo i certificati verdi come «beni immateriali strumentali al pari delle concessioni, licenze», propende per l’applicazione della normativa sulle plusvalenze patrimoniali ex art. 86 TUIR. 95 L’OIC 7, suggerisce di adoperare per il Conto economico il conto B14) Oneri diversi di gestione e per lo Stato patrimoniale quello D14) Altri debiti, al fine di rilevare correttamente l’obbligo di consegna al GSE dei certificati verdi. 96 Sull’applicazione del principio di competenza ai certificati verdi vedasi la recente sentenza CTP Milano, n. 150 del 6 maggio 2013, in fisconline.

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successivo, all’obbligazione di produzione di una quota di energia da fonti rinnovabili. In tale ipotesi l’imprenditore non genererebbe alcun ricavo dalla cessione dei certificati verdi e non riceverebbe alcun contributo (monetario) da parte dello Stato, salvo voler comprendere, in senso lato, dentro la nozione di contributo anche l’assolvimento dell’obbligazione di produzione di energia verde senza produrne ulteriormente e senza acquistare altri certificati. Pare ragionevole ritenere che anche in tale situazione, i certificati assumano rilevanza fiscale in ragione della loro qualificazione di beni immateriali pluriennali, intercettando i principi di competenza, certezza, obiettiva determinabilità 97, essendosi già verificato quello spostamento patrimoniale, rilevante qualitativamente, necessario per dare luogo a effetti reddituali 98. Nel caso in cui una società trader effettui compravendita dei certificati verdi, non pare di scorgere particolari problemi in quanto quest’ultimi rappresenteranno beni merce dell’impresa, generando quindi costi, ricavi e rimanenze. In ambito IVA, occorre preliminarmente comprendere dove ricondurre i certificati verdi, se nell’alveo delle cessioni di beni (immateriali) o nelle prestazioni di servizi 99. Se apparentemente, partendo sia dal trattamento contabile che fiscale delle imposte dirette, l’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972 sembrerebbe dover trovare applicazione in considerazione della natura di bene (immateriale) attribuibile ai certificati verdi immessi sul mercato dell’energia, tuttavia, pare maggiormente in linea con la ratio della normativa IVA l’inquadramento di tali certificati come prestazione di servizi. Di conseguenza, nella presente fattispecie, sfumerebbe la differenziazione terminologica adoperata dal legislatore per qualificare il requisito oggettivo della cessione dei beni o della prestazione di servizi adoperando, rispettivamente, l’attributo della onerosità ovvero della corrispettività 100. 97

Per l’approfondimento dei suddetti principi cfr. A. CAZZATO, Commento all’art. 109, Norme generali sui componenti del reddito d’impresa, in Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di A. FANTOZZI, Padova, 2010, p. 576; M. BEGHIN, Competenza e valutazione secondo la Suprema Corte, in Corr. trib., 45/2007, p. 3684; G. ZIZZO, La determinazione del reddito delle società e degli enti commerciali, in G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2008, p. 284. 98 Così si può desumere, mutatis mutandis, sulla base di quanto affermato da V. MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2012, p. 89 ss. Nella particolare ipotesi sopracitata, i certificati verdi resteranno capitalizzati tra le immobilizzazioni e verranno dedotte le relative quote di ammortamento. 99 Non si genera, in ogni caso, una cessione a titolo oneroso dei certificati verdi nel passaggio degli stessi dal toller al tollee (mero detentore) per la consegna al GSE. In tal senso, A. CONTRINO, op. cit., p. 693. 100 Il richiamo alla “difforme formulazione normativa” deriva dagli studi di A. DI PIETRO, Regime fiscale della concessione e delle convenzioni edilizie ed urbanistiche, Rimini, 1985, p. 30 ss.; il quale ricorda che, in linea generale, l’onerosità è riferibile all’impoverimento di un soggetto a prescindere dalla prestazione, mentre la corrispettività attiene al sinallagma delle prestazioni.

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Più nello specifico, proprio in ragione dell’assenza di corrispettività l’imposta non troverà applicazione in capo al produttore verde dando luogo ad una operazione esclusa ex art. 3 D.P.R. 633/72, mentre al momento della cessione si porrà in essere un’operazione attiva, una prestazione di servizi 101: così pare di non correre in errore assimilando (e ricomprendendo) i certificati verdi a quanto indicato nel punto 2 del secondo comma dell’art. 3 D.P.R. n. 633/1972 il quale annovera tra le prestazioni di servizi le «invenzioni industriali, …marchi, …, concessioni, licenze e simili relative a diritti o beni similari ai precedenti». Tale presa di posizione, che trova supporto anche nella amministrazione finanziaria 102 e nella normativa comunitaria 103, esplica i suoi effetti in relazione al principio della territorialità. Se ai certificati verdi si attribuisse natura ai fini IVA di beni il principio della territorialità seguirebbe il criterio generale del luogo di esistenza fisica del bene (ex art. 7 bis, D.P.R. n. 633/1972); diversamente, propendendo per la cessione di un servizio, la territorialità si esplicherebbe in funzione della natura del committente (ex art. 7 ter, D.P.R. n. 633/1972). Nella fattispecie specifica, poiché i certificati verdi possono essere richiesti solo sul mercato italiano si genererà un rapporto “business to business” 104 che ai fini del presupposto territoriale valorizzerà quale criterio generale la sede del committente 105. Nella particolare ipotesi ove i certificati verdi vengano ritirati dal Gestore dei servizi energetici, dando luogo alla corresponsione di un contributo al produttore cedente, si ritiene che si genererebbe una operazione imponibile ai fini IVA del contributo somministrato dallo Stato 106, in considerazione della eroga101

P. CENTORE, Regime IVA delle cessioni di beni immateriali, in Corr. trib., 30/1997, p. 2208 ss. Cfr. la Risoluzione del 20 marzo 2009, n. 71/E e la Circolare del 6 luglio 2009, n. 32/E, quest’ultima incentrata sulla figura dell’imprenditore agricolo, con commento di M. BAGNOLI-I. DE LEONARDIS, È attività connessa la produzione di energia rinnovabile da parte delle imprese agricole, in Corr. trib., 35/2009, p. 2868 ss. 103 Sulla nozione residuale di prestazioni di servizi sancita dall’art. 9 della sesta Direttiva IVA, cfr. G. MELIS, Osservazioni a margine della Proposta di modifica della VI Direttiva CEE sul regime di imposta sul valore aggiunto applicabile a determinati servizi prestati mediante mezzi elettronici, in Rass. trib., 3/ 2001, p. 713 ss. 104 La Risoluzione n. 71/E del 20 marzo 2009, nel quale si effettua una analisi della territorialità ai fini IVA sia dei certificati verdi che dei certificati CO2, con particolare attenzione a quest’ultimi ove si dovrà osservare il luogo di effettivo utilizzo ex art. 7, comma 4, lett. f), D.P.R. n. 633/1972. 105 Sulle problematiche che possono emergere nell’applicazione dei nuova normativa sulla territorialità cfr. E. DELLA VALLE-E. D’ALFONSO, Incertezze operative sullo status di soggettivo passivo IVA nella localizzazione dei servizi, in Corr. trib., 19/2011, p. 1549 ss.; relativamente alla cessione di beni, P. CENTORE, L’evoluzione della territorialità delle cessioni di beni, in Corr. trib., 12/2010, p. 914 ss.; relativamente alla prestazione di servizi, M. LOGOZZO, La territorialità ai fini IVA delle prestazioni di servizi generiche, in Corr. trib., 12/2010, p. 919 ss. 106 Salvo deroghe specifiche, come avvenne per gli aiuti agricoli concessi dalla Azienda per gli interventi sul mercato agricolo, espressamente dichiarati non imponibili ai fini IVA ex art. 7 ter 102

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zione a fronte di una obbligazione di fare (la produzione di energia rinnovabile) 107.

4. Osservazioni conclusive Lo studio dei certificati verdi e dell’obbligazione sottostante (di produzione di una determinata quota di energia rinnovabile) ha consentito di osservare come le esigenze di tutela ambientale hanno spinto il legislatore a ideare strumenti e mercati ad hoc, i quali tuttavia devono confrontarsi con i principi civilistici, contabili, commerciali e fiscali. Il risultato di tale intervento è l’istituzione di uno strumento ibrido che in quanto tale può dare luogo ad incertezza applicativa. I certificati verdi non rappresentano una unica esperienza in tal senso: i diritti di prelievo sulle quote latte 108, le quote tonno rosso 109, il diritto di reimpianto dei vigneti 110, sono altri esempi che hanno dato luogo a problematiche di (rispettivamente) giurisdizione, trattamento ai fini IVA, individuazione della categoria reddituale. La chiave di lettura tramite i concetti di gratuità, onerosità, corrispettività e liberalità ha consentito di far emergere in ambito fiscale le criticità e la natura ibrida dei certificati verdi ed esporre le possibili soluzioni interpretative: onerosità per l’acquisto da produttori di energia verde, gratuità per l’acquisizione direttamente dal GSE, contributo in conto esercizio o in conto capitale per il produttore di energia verde, onere d’esercizio per il produttore tradizionale, infine, merce di scambio per le società trader. del D.L. 29 dicembre 1983, n. 746. Cfr. G. CATTELAN, Disciplina dei contributi della politica agricola comune, in Corr. trib., 45/2006, p. 3607 ss. 107 Cfr. Risoluzione n. 395 del 27 dicembre 2002, la quale ha affermato che «un contributo assume rilevanza ai fini IVA se erogato a fronte di un’obbligazione di dare, fare, non fare o permettere, ossia quando si è in presenza di un rapporto obbligatorio a prestazioni corrispettive». Nello stesso senso vedasi Risoluzioni n. 309 del 25 settembre 2002, n. 54 del 24 aprile 2001. 108 Attribuire natura tributaria alle quote latte (considerata la finalità pubblica e le specifiche modalità di riscossione, V. GUIDO, I diritti di prelievo sulle quote latte, in Il processo tributario, a cura di E. DELLA VALLE, V. FICARI, G. MARINI, Padova, 2008, p. 40 ss.) o negarla (inquadrandole come strumento regolatore del mercato agricolo, C. GLENDI, Difetto di giurisdizione delle Commissioni tributarie e traslazione del giudizio al Tar, in Corr. trib., 9/2007, p. 712; sulla tematica cfr. anche la Risoluzione 51/2006), dimostra la difficoltà interpretativa generata da simili quote. 109 Cfr. la Risoluzione 20/2011, la quale ha offerto una interpretazione secondo la quale il trasferimento delle suddette quote costituisce una prestazione di servizi relativa alla cessione di un bene immateriale ex art. 3, comma 2, D.P.R. 633/72. 110 Cfr. la Risoluzione 51/2006 la quale ha ritenuto che la cessione dei diritti di reimpianto dei vigneti siano da ricomprendere nella categoria del reddito agrario, da determinare su base catastale ex art. 32 TUIR.

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Inoltre, aver evidenziato i punti di contatto tra l’obbligazione della produzione di energia rinnovabile con il concetto di tributo, d’imposta, di tassa, potrebbe consentire di vedere, ora, un parallelismo tra la «struttura binomia della Tia» 111 e la struttura ibrida dei certificati verdi, in particolare considerando il termine del 2015 relativo al passaggio dei certificati verdi ad una logica di incentivo 112. Come pure ha consentito di osservare il doppio controllo di costituzionalità interna e di compatibilità comunitaria dei certificati che si sono dimostrati essere un’applicazione preventiva del principio comunitario del “chi inquina paga” 113. Nell’ottica del superamento 114 dei certificati verdi e delle problematiche di simili strumenti ibridi, si potrebbe propendere verso l’uso di tariffe o incentivi, i quali potrebbero dimostrarsi maggiormente flessibili ed efficienti rispetto lo strumento tributario 115. In definitiva, la duplice valenza dei certificati verdi, ovverosia l’obbligazione consistente nella produzione di energia rinnovabile e l’agevolazione (in senso la111

F. AMATUCCI, Le prestazioni patrimoniali locali ed ampliamento della giurisdizione tributaria, in Rass. trib., 2/2007, p. 365 ss., con tale termine sintetizza la posizione divergente della dottrina sulla natura della Tia come tariffa o tributo, dimostrando una denominazione impropria, in ragione da un lato di indici reddituali, dall’altro di una efficiente ripartizione dei costi del servizio per la salvaguardia ambientale. 112 Nei primi mesi del 2013 il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare lo schema di decreto legislativo per l’attuazione della direttiva europea sulle rinnovabili n. 2009/28/CE, con una conversione del diritto ai certificati verdi in incentivo. 113 Cfr. M. RENNA, I principi in materia di tutela dell’ambiente, 1-2/2012, in Riv. quadr. di dir. dell’amb., p. 62 ss. 114 Pur ricordando che non sarebbe sufficiente un mutamento del nomen, dovendo accertare se l’assetto tributario verrà sostituito da uno di tipo negoziale. In tal senso, E. SEPE, La nuova giustizia tributaria: oggetto e limiti, in Sistema di garanzie e processo tributario, Napoli, 2005, pag. 215. Sulle problematiche interpretative per il passaggio dalla Tarsu alla Tia cfr. V. MASTROIACOVO, La tariffa di igiene ambientale, in Il processo tributario, cit., p. 34 ss.; M. GREGGI, La tariffa di igiene ambientale al vaglio della consulta: nuovi orientamenti giurisprudenziali sulla nozione di tributo e sull’applicabilità dell’IVA, Le Nuove Leggi Civili Commentate, 1/2010, p. 3 ss. 115 F. GALLO-F. MARCHETTI, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. trib., 1/1999, p. 115 ss. suggerivano come preferibile allo strumento tributario quello della tariffa o dei contributi o dei prezzi pubblici, in ragione del l’esser prestazioni imposte maggiormente flessibili (sposando il modello OCSE a discapito di quello proposto dalla UE). Tuttavia, anche tenendo conto delle esperienze straniere (Si pensi ai precios publicos spagnoli configurabili come entrate pubbliche intermedie, collocabili tra i tributi ed i corrispettivi di diritto privato, aventi fonte e natura contrattuale: istituiti con la l. 8/1989 al fine di ripartire su basi più chiare le spese pubbliche collegate alle attività della pubblica amministrazione, talvolta sono state attratte dalla giurisprudenza nella sfera delle prestazioni imposte. In tal senso e per approfondimenti, L. DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, p. 247 ss.; in particolare le conclusioni a p. 265 sul confronto con l’esperienza italiana), potrebbe apparire estremo l’uso dei prezzi pubblici in materia ambientale proprio considerata la difficoltà di conciliare il principio del beneficio e della controprestazione che li caratterizza con un tributo ambientale istituito sotto la forma dell’imposta in quanto riferibile ad un servizio non divisibile come la tutela ambientale.

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to) ottenibile a seguito del corretto adempimento, hanno dimostrato di atteggiarsi quali elementi di fondamentale importanza nelle scelte imprenditoriali in considerazione delle limitazioni alle scelte imprenditoriali, della modificazione del programma imprenditoriale, dell’attitudine a far leva su quell’elemento razionale contenuto nel singolo comportamento capace di incidere sulla funzionalità e sull’economicità dell’impresa 116.

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Sul programma imprenditoriale e sull’orientamento dei comportamenti dell’imprenditore, cfr. V. FICARI, Reddito di impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, p. 9 ss.; E. LOFFREDO, Economicità ed impresa, Torino, 1999, p. 73 ss.

SPUNTI SULLA NOZIONE DI ATTIVITÀ ECONOMICA DEGLI ENTI PUBBLICI IN AMBITO IVA

di Barbara Denora SOMMARIO: 1. La nozione di “attività economica” rilevante ai fini IVA secondo la normativa europea: la centralità del mercato quale luogo di scambio in regime di libera concorrenza. – 2. Il requisito di “economicità” dell’attività e la discussa rilevanza del lucro oggettivo. – 3. L’attività economica degli enti pubblici. – 4. I criteri utilizzati per la verifica dell’economicità dell’attività svolta dagli enti pubblici. – 5. Le attività economiche esercitate dall’ente pubblico in veste di “pubblica autorità” e la verifica degli effetti che le stesse producono sul mercato. – 6. Attività economiche svolte da privati ma in veste di “pubblica autorità”. I perduranti dubbi circa la disciplina applicabile al caso concreto.

1. La nozione di “attività economica” rilevante ai fini IVA secondo la normativa europea: la centralità del mercato quale luogo di scambio in regime di libera concorrenza Il presupposto soggettivo dell’IVA si realizza, secondo la normativa nazionale, allorché l’operazione è effettuata nell’esercizio dell’impresa, arte o professione o, come indica più genericamente la norma europea, è resa nell’ambito dello svolgimento di un’attività economica. È evidente che la definizione offerta dal legislatore interno è diversa e maggiormente circoscritta rispetto a quella proposta dal legislatore europeo. In particolare, per quest’ultimo, l’attività economica rilevante ai fini IVA è volta alla cessione di beni o alla prestazione di servizi o allo sfruttamento di beni con il fine di ottenere introiti aventi carattere di stabilità. Ai sensi dell’art. 9 della Direttiva del 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE (ex art. 4 della Sesta Direttiva del 17 maggio 1977, n. 77/388/CE) «si considera soggetto passivo chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività». Il secondo comma dell’art. 9 citato precisa, a sua volta, che per attività economica si deve intendere ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi,

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comprese le attività estrattive, agricole e quelle delle professioni liberali o assimilate, rientrando nel novero delle attività rilevanti quelle consistenti nello sfruttamento di beni, materiali o immateriali, per ricavarne introiti con un certo carattere di stabilità. A questo proposito è stato correttamente rilevato come il requisito di economicità sia inteso in senso “oggettivo” in quanto la norma si limita a descrivere «il tipo di attività svolta (produzione, commercio, ecc. …) o il tipo di azione – di sfruttamento – da esercitare sui fattori della produzione” al punto che “nella direttiva comunitaria sembrerebbe prescindersi totalmente dal rapporto ricavi-costi» 1. A ciò si può aggiungere che l’economicità dell’attività è necessaria ma non sufficiente di per sé ai fini dell’integrazione del presupposto soggettivo dell’IVA in quanto requisito imprescindibile è che l’attività economica sia rivolta al mercato e ciò in quanto il tributo mira a salvaguardare il libero mercato e ad eliminare effetti distorsivi sulla concorrenza. Detta esigenza è prioritaria ed ineludibile al punto che un’attività economica che sia svolta in un settore ove il mercato e la concorrenza non possono esistere non può essere considerata rilevante ai fini IVA 2. Una conferma in tal senso proviene dalla giurisprudenza europea in tema di attività illecite, in quanto la Corte di Giustizia ha più volte precisato che queste rilevano ai fini IVA a condizione che sussista un mercato di riferimento e, quindi, una possibile concorrenza. Nella prospettiva del giudice europeo, infatti, l’IVA è un tributo che evita disparità di trattamento tra operatori economici nell’ambito di un determinato settore di mercato. Pertanto, allorché non sussista un mercato dell’illecito in concorrenza con quello del lecito, non può sorgere alcuna distorsione della concorrenza e, di conseguenza, non vi è l’esigenza di applicare l’IVA 3. 1 Secondo INERDONATO, Gli imprenditori, in TESAURO (diretto da), L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, p. 129, il requisito di economicità inteso come rapporto tra costi e ricavi «finirebbe con il discriminare sul piano della concorrenza, ad esempio, i servizi resi da imprese che, avendo istituzionalmente fini di lucro (ed essendo programmaticamente orientate a realizzare ricavi superiori ai costi di esercizio), devono applicare l’IVA, da quelli resi dagli enti non profit, che sarebbero, per effetto di tale interpretazione, esclusi da IVA, in virtù del difetto di economicità così inteso». 2 Sul punto si vedano AMATUCCI, Identificazione dell’attività di impresa ai fini fiscali in ambito comunitario, in Riv. dir. trib., 2009, I, p. 781 ss.; BEGHIN, L’esercizio di impresa nell’IVA, ivi, p. 795 ss. 3 Esemplare in questo senso è la vicenda relativa ai “coffeshop” olandesi, in relazione alla quale la Corte di Giustizia UE ha sottolineato come il divieto di importazione e commercializzazione di stupefacenti vigente in tutti gli Stati membri escluda l’esistenza di un mercato di simili prodotti in relazione ai quali, pertanto, non è possibile, da un lato, invocare i vantaggi del mercato comune (v. Corte di Giustizia UE, 16 dicembre 2010, causa C-137/09, Marc Michel Josermans – Burgemeester van Maastricht, punto 42) e, dall’altro, applicare l’IVA (v. Corte di Giustizia UE, 29 giugno 1999, causa C-158/98, Coffeeshop Siberie, punto 19, ove è chiaramente evidenziato che «l’attività che può essere assoggettata ad imposta nella fattispecie non è la vendita di stupefacenti, ma una prestazione di servizi costituita dalla messa a disposizione di un’area in cui la vendita di tali prodotti viene praticata con il consenso del fornitore della prestazione»). Sul tema della rilevanza delle operazioni illecite nell’IVA in generale si veda STRADINI, L’imponibilità ai fini dell’imposta sul

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In questo senso, occorre distinguere le attività economiche per le quali vige un divieto assoluto di svolgimento nell’ambito del mercato europeo (ad esempio, vendita di stupefacenti 4) da quelle che sono vietate solo in senso relativo in quanto per esse esiste un mercato concorrenziale (come nel caso dei prestiti ad usura 5): infatti, il divieto assoluto di svolgimento vigente all’interno dell’Unione Europea comporta l’esclusione dalla sfera di applicazione dell’IVA delle prime in ragione della loro estraneità agli scopi delle direttive. In conclusione, perché sussista un’attività economica rilevante ai fini IVA non basta accertare che esista una domanda o un’offerta di determinati beni o servizi, ma occorre altresì verificare se l’operatore economico operi in un libero mercato, almeno potenzialmente, in concorrenza con altri operatori. In questo senso appare determinante, nella prospettiva dell’Unione Europea, garantire la libera concorrenza ed evitare qualsiasi effetto distorsivo sul mercato dato che lo scopo dell’armonizzazione dei diversi sistemi nazionali di imposta sulla cifra d’affari è «un’uniforme applicazione del tributo sugli scambi di beni e servizi effettuati nella Comunità come se questa fosse un grande mercato nazionale» 6.

2. Il requisito di “economicità” dell’attività e la discussa rilevanza del lucro oggettivo Chiarito che ai fini IVA l’attività economica rilevante è solo quella che si colloca in un mercato, è opportuno approfondire il tema dell’“economicità” dell’attività ed in questa prospettiva occorre innanzitutto considerare che il problema è stato oggetto di approfondito studio da parte della dottrina in ambito tributario, sebbene soprattutto con riguardo alla normativa relativa alle imposte sui redditi 7. valore aggiunto dei proventi illeciti: tra norme interne e principi comunitari, in Rass. trib., 2007, p. 1197 ss.; PROTO, L’orientamento della Corte di Giustizia U.E. e la tassazione delle attività illecite, in Rass. trib., 1999, p. 1292 ss. 4 V. Corte di Giustizia UE, 5 luglio 1988, causa C-289/86 Happy Family, punti 17 e 18. 5 Si veda Corte di Giustizia UE, 7 luglio 2010, causa C-381/09, Curia, (punto 18), ove è chiarito che il principio di neutralità fiscale non consente di distinguere in via generale fra operazioni lecite ed illecite in quanto «la qualificazione di un comportamento come riprovevole non comporta, di per sé, una deroga all’assoggettamento all’imposta. Una siffatta deroga entra in considerazione solo in situazioni specifiche nelle quali, a causa delle caratteristiche particolari di talune merci o di talune prestazioni, è esclusa qualsiasi concorrenza tra un settore economico lecito e un settore illecito. In questa situazione specifica, il non assoggettamento all’IVA non può compromettere il principio della neutralità fiscale». 6 GIORGI, Detrazione e soggettività passiva nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005, p. 53. 7 In tema si vedano PROTO, La fiscalità degli enti non societari, Torino, 2003, passim; CASTALDI, Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999, passim; CASTALDIFICARI-PURI-ROSSI, in FEDELE (a cura di), Il regime fiscale delle associazioni, Padova, 1998, passim.

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Le considerazioni formulate in relazione alle imposte sui redditi mantengono comunque la loro rilevanza anche in ambito IVA. Secondo un’opinione più o meno condivisa, l’attività “economica” sarebbe quella: i) indirizzata ad un fine produttivo e quindi diretta alla creazione di nuove utilità, anche sotto forma di incremento di valore di beni già esistenti; ii) il cui risultato è destinato al mercato ed oggettivamente idoneo a produrre un introito; iii) a fronte della quale il corrispettivo è idoneo a remunerare i diversi fattori produttivi impiegati, in modo da aumentare o, quantomeno, reintegrare il patrimonio. Proprio quest’ultimo profilo è particolarmente dibattuto. Infatti, da un lato e sotto un profilo squisitamente civilistico, occorrerebbe in via prioritaria chiarire che cosa si debba intendere per lucro oggettivo e cioè se la nozione ricomprenda solo l’astratta e potenziale attitudine a conseguire un profitto, ovvero anche l’oggettiva idoneità ad evitare una perdita e, quindi, ad assicurare la remunerazione dei fattori produttivi ed il pareggio rispetto alle spese sostenute per disporre di capitale e lavoro 8. Dall’altro e successivamente, occorrerebbe chiarire se e quale rilevanza è stata assegnata dal legislatore al lucro oggettivo in ambito tributario ma in questa sede è possibile esclusivamente ripercorrere i punti fermi cui è pervenuta la dottrina e le questioni ancora aperte. A questo proposito, in conformità ai risultati raggiunti in ambito civilistico, nel settore tributario si è pervenuti alla pacifica conclusione della carenza di economicità di tutte quelle attività che sono volte ad erogare risorse e, quindi, preordinate al conseguimento di una perdita o di un depauperamento del patrimonio: non può essere economica, infatti, quell’attività svolta per fini di beneficienza mediante erogazione gratuita di beni o servizi. Altrettanta certezza è stata raggiunta in merito all’economicità di quelle attività volte al conseguimento di un profitto e, quindi, preordinate ad ottenere un utile. Viceversa, non vi è concordia in relazione alle attività che sono finalizzate al mero pareggio del bilancio e cioè volte alla sola copertura dei costi di produzione e, quindi, alla mera autosufficienza finanziaria. È comunque largamente condivisa in dottrina la conclusione che dette attività dovrebbero essere in ogni caso considerate economiche ed intese quale risultato programmatico minimo al di sotto del quale non è consentito parlare di pianificazione imprenditoriale 9. Sarebbe comunque irragionevole fondare 8

Questo tema attiene strettamente al settore del diritto commerciale e non può essere oggetto di esame in questa sede. Si veda però in argomento MARASÀ, Lucro, mutualità e solidarietà nelle imprese. (Riflessioni sul pensiero di Giorgio Oppo), in Giur. comm., 2012, p. 197 ss. 9 Sul tema si vedano, in generale, ANTONINI, Considerazioni sull’imposizione degli enti pubblici non economici, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1978, I, p. 582 ss.; E. NUZZO, Questioni in tema di tassazione di enti non economici, in Rass. trib., 1985, I, p. 110 ss.; GALLO, I soggetti del Libro I del codice civile e l’Irpeg: problematiche e possibili evoluzioni, in Riv. dir. trib., 1993, p. 348 ss.; ID., Fondazioni e fisco, in Rass. trib., 2004, p. 1166 ss.; PROTO, Classificazione degli enti diversi dalle società e natura delle attività esercitate, in Rass. trib., 1995, p. 553 ss.

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l’esclusione dell’“economicità” dell’agire dell’ente sulla base della mera previsione della esatta remunerazione dei costi di diretta imputazione in quanto il problema consisterebbe piuttosto nel «distinguere le attività di mera erogazione da quelle che, in presenza degli ulteriori requisiti previsti dalla legge, possono essere qualificate commerciali». In questa prospettiva, infatti, l’indagine dovrebbe essere fondata «sul rapporto, nella programmazione dell’attività, fra forme di sovvenzione effettivamente contributiva o liberale e corrispettivi: se sono le prime a prevalere, quantitativamente e funzionalmente, cosicché i corrispettivi risultino non essenziali (ed in sostanza equiparabili a forme di “concorso” nell’attività di erogazione) l’attività non potrà qualificarsi come commerciale; se, invece, prevalgono i proventi dello scambio sul mercato di cose o di servizi, le altre forme di sovvenzione possono essere equiparate (ex art. 55 Tuir) a quelle corrispettive e l’attività considerata commerciale» 10. Quando dalle imposte sui redditi si passa al sistema impositivo dell’IVA la situazione non sembra apparentemente mutare: la questione della “non commercialità” e, quindi, della “non economicità” in ambito IVA è stata proposta negli stessi termini e ha portato ad analoghe soluzioni in quanto è stato evidenziato come l’entrata debba garantire all’impresa quanto meno di “sopravvivere” sul mercato. In questo senso, la presenza del requisito di economicità deve essere valutata rispetto al metodo con il quale viene gestita l’attività e non con riguardo all’atto singolarmente considerato 11, fermo restando che le possibili divergenze tra operazioni «estranee alla formazione del reddito d’impresa ma assoggettabili ad Iva si spiegano in base alla «ragione normativa» che si preoccupa di evitare comportamenti distorsivi del principio di neutralità dell’imposizione sugli scambi» 12. 10 FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, p. 349. Per l’Autore non sembrano esserci dubbi sul fatto che «in base alle regole generali, la prestazione di servizi per corrispettivi non eccedenti i costi di diretta imputazione dia luogo ad attività commerciale». In questa prospettiva sembrano porsi altresì FICARI, Strumentalità dell’attività commerciale e fine non lucrativo nella tassazione delle associazioni, in CASTALDI-FICARI-PURI-ROSSI, in FEDELE (a cura di), Il regime fiscale delle associazioni, cit., p. 5; CASTALDI, op. cit., p. 129, la quale rileva in particolare come, ai fini delle imposte sui redditi, più che alla misura del corrispettivo, occorra guardare alla tipologia di introito in quanto le forme di eterofinanziamento di tipo sovvenzionatorio (erogazioni a fondo perduto degli enti pubblici territoriali) o contributivo (contributi versati da associati o partecipanti) sarebbero indicative della mancanza di economicità dell’attività svolta da determinati soggetti «onde la dinamica gestionale che li caratterizza li vede piuttosto come centri di raccolta e di redistribuzione (o reimpiego non produttivo) di redditi prodotti e già tassati in capo ad altri soggetti, invece che come moduli di svolgimento di attività produttive ex se di nuova ricchezza». 11 FICARI, Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto: l’impresa e l’impresa dell’ente commerciale, in Riv. dir. trib., 1999, I, p. 567. 12 E. NUZZO, Questioni in tema di tassazione di enti non economici, cit., p. 110. In questo senso si veda altresì CASTALDI, op. cit., p. 253, che osserva come il lucro oggettivo non rilevi ai fini del tributo in esame mentre sarebbe determinante la soggezione di tutte le operazioni che impattano sul libero mercato in ragione dell’esigenza «di garantire la neutralità dell’imposta nei passaggi intermedi del bene entro il ciclo produttivo e redistributivo ed evitare così che, inserendo isole di non

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Più recentemente, tuttavia, è stato osservato come il lucro oggettivo, sia se inteso come conseguimento di proventi meramente remunerativi dei fattori della produzione, che di utili riconducibili ad un’attività, sarebbe un concetto del tutto estraneo alle definizioni normative di impresa e di attività economica prescelte dal legislatore in ambito IVA. In quest’ottica, esclusivamente la tipologia di attività in concreto svolta o la forma istituzionale assunta configurerebbero caratteristiche idonee a distinguere l’attività “economica” da quella non economica, essendo invece del tutto indifferente il lucro o l’obiettiva economicità della gestione. Quindi, il legislatore si sarebbe discostato dalle valutazioni sistematiche proprie del diritto commerciale ed avrebbe considerato assolutamente irrilevante «l’elemento dell’“autosufficienza economica” o del “metodo economico” della conduzione dell’attività o la regola della “copertura dei costi con i ricavi”» 13. Alla luce delle precedenti considerazioni, risulta confermata la particolare ampiezza della nozione di attività economica rilevante ai fini IVA nonché le peculiari caratteristiche del requisito di economicità che deve essere considerato ai fini di questo specifico tributo. Occorre a questo punto verificare se le medesime conclusioni valgano anche in relazione all’attività economica svolta da una particolare categoria di soggetti passivi del tributo e cioè dagli enti pubblici.

3. L’attività economica degli enti pubblici Operando un confronto tra normativa nazionale ed europea si evince che la prima è volta principalmente a stabilire, tramite presunzioni assolute, quali attività presentino ipso iure il requisito di commercialità, onde distinguerle da quelle che non rilevano ai fini IVA in quanto appunto ritenute “non commerciali”. Per contro, la normativa europea, come è già stato evidenziato, da un lato, offre una nozione quanto mai ampia di attività “economica”, richiedendo genericamente che la stessa sia idonea a produrre “introiti” di una certa stabilità (concetto ulteriormente ribadito, per quanto concerne gli enti pubblici, dal richiamo effettuato commercialità (ma meglio sarebbe dire non imprenditorialità) all’interno di siffatto ciclo si finisca per reintrodurre surrettiziamente un’imposta plurifase a cascata (del tipo IGE)». 13 Così GIOVANNINI, Lucro e impresa commerciale nel sistema impositivo, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 473, che ritiene la conclusione valida sia per l’IVA che ai fini delle imposte sui redditi, con la differenza però che nell’IVA la giustificazione si rinviene nella stessa struttura del tributo posto che ciò che conta è evitare «un salto d’imposta nella catena traslativa dell’incidenza impositiva». In senso conforme sembrerebbe esprimersi anche PADOVANI, Problemi in tema di trattamento tributario degli enti non commerciali tra storia e prospettive di riforma, in Riv. dir. trib., 2002, I, p. 812, secondo il quale, a fronte del dato normativo formale, sarebbe «del tutto inconferente il tendenziale perseguimento da parte dell’organizzazione del pareggio di bilancio e la circostanza che tale pareggio sia ottenuto attraverso contribuzioni pubbliche, come pure non rileva il rapporto tra queste ultime e le entrate di carattere corrispettivo».

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indifferentemente ai “diritti, canoni, contributi o retribuzioni”). Dall’altro, presuppone che la verifica dell’economicità sia condizione necessaria ma ex se non sufficiente ai fini dell’integrazione del presupposto soggettivo in quanto l’attività economica rilevante è solo quella che si colloca nell’ambito di un mercato ed in relazione alla quale è possibile individuare una concorrenza. È noto come, rispetto alla nozione di attività economica rilevante ai fini IVA ricavabile dal quadro normativo e giurisprudenziale dell’Unione Europea, il legislatore nazionale abbia preferito ricorrere a definizioni di diritto interno analoghe a quelle che, nell’ambito delle imposte sui redditi, individuano i soggetti che producono redditi di impresa e di lavoro autonomo e così, ad esempio, l’art. 4 del D.P.R. n. 633 del 26 ottobre 1972 fornisce criteri diversificati in base alla natura del soggetto, onde individuare le operazioni compiute nell’esercizio dell’impresa 14. Al secondo comma, punto 1), dell’art. 4 citato, è prevista una presunzione assoluta di commercialità per i soggetti che assumono una determinata veste giuridica 15. Peraltro, la normativa nazionale considera “in ogni caso” effettuate nell’esercizio dell’impresa le cessioni di beni e le prestazioni di servizi rese, oltre che dalle società commerciali, anche «da altri enti pubblici e privati, compresi i consorzi, le associazioni o altre organizzazioni senza personalità giuridica e le società semplici, che abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole» (art. 4, comma 2, n. 2, D.P.R. n. 633/1972). Specularmente, al quarto comma dell’art. 4 è chiarito che «per gli enti indicati al n. 2) del secondo comma, che non abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole, si considerano effettuate nell’esercizio di imprese soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte nell’esercizio di attività commerciali o agricole» 16. Infi14 Per l’allineamento della nozione fiscale di impresa e di imprenditore ai fini IVA su quella accolta nel TUIR si rimanda ad FANTOZZI, Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell’IVA, Milano, 1982, p. 26; FICARI, Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto: l’impresa e l’impresa dell’ente commerciale, cit., p. 547. 15 Per le società commerciali è disposta una presunzione secondo la quale qualunque cessione o prestazione di servizi, anche in favore dei propri soci, associati o partecipanti, si considera effettuata nell’esercizio di impresa. V. INTERDONATO, Gli imprenditori, cit., p. 140; CONTRINO, Art. 4 del D.P.R. n. 633 del 1972, in MARONGIU (a cura di), Commentario breve alle leggi tributarie, IV, IVA e imposte sui trasferimenti, Padova, 2011, p. 28 ss.; ID., Incertezze e punti fermi sul presupposto soggettivo dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., 2011, I, p. 535 ss.; COMELLI, L’esercizio di impresa quale elemento soggettivo della sfera di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., 2007, I, p. 687 ss. Sul punto si veda altresì FICARI, Tipo societario e qualificazione dell’attività economica nell’imposizione sul reddito e sul valore aggiunto, in Rass. trib., 2004, p. 1245, ove l’Autore rileva l’inadeguatezza dell’attuale normativa, soprattutto se interpretata come espressiva di una presunzione assoluta/qualificazione legale di commercialità per i soggetti che assumono una determinata veste giuridica. 16 In tema si veda DELLA VALLE, IVA: l’ente che non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole, in Rass. trib., 1999, p. 1001 ss.; GASPARINI BERLINGIERI, Gli enti non commerciali, in TESAURO (diretto da), L’imposta sul valore aggiunto, cit., p. 179.

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ne, il quinto comma dispone quali attività sono considerate «in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti pubblici» e quali attività non sono considerate commerciali «anche in deroga al secondo comma». Per quanto concerne gli enti pubblici la norma nazionale era: i) scarna relativamente alla soggettività passiva di questi enti in quanto lo status giuridico di “ente pubblico” non rilevava autonomamente per l’individuazione della soggettività passiva ai fini IVA; ii) volta principalmente a stabilire, tramite presunzioni assolute, quali attività presentassero ipso iure il requisito di commercialità, onde distinguerle da quelle che non rilevavano ai fini IVA in quanto appunto ritenute “non commerciali”. La norma interna doveva pertanto essere coordinata con le previsioni contenute nell’art. 13 della direttiva del 2006/112/CE (ex art. 4, n. 5, comma 1, della Sesta direttiva n. 77/388/CEE) 17 in quanto la disposizione europea stabilisce che: a) in via di principio ed in deroga alla disciplina ordinaria, l’attività economica degli enti pubblici non rileva ai fini IVA se svolta in veste di pubblica autorità. In questa prospettiva è infatti previsto che «gli Stati, le regioni, le province, i comuni e gli altri enti di diritto pubblico non sono considerati soggetti passivi per le attività o le operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità, anche quando, in relazione a tali attività od operazioni, percepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni»; b) la circostanza che l’attività sia svolta dall’ente pubblico in regime di diritto pubblico è condizione necessaria ma non sufficiente ad escludere la soggettività passiva IVA allorché detta attività sia in grado di alterare il regime di libero mercato in quanto è disposto che «tuttavia, allorché tali enti esercitano attività od operazioni di questo genere, essi devono essere considerati soggetti passivi per dette attività od operazioni quando il loro non assoggettamento provocherebbe distorsioni della concorrenza di una certa importanza»; c) infine, la soggettività ai fini IVA dell’ente pubblico può essere esclusa anche in relazione allo svolgimento di un’attività economica qualora la stessa sia trascurabile perché è previsto che «in ogni caso, gli enti succitati sono considerati soggetti passivi per quanto riguarda le attività elencate nell’allegato I quando esse non sono trascurabili». Dato che la normativa nazionale avrebbe dovuto limitarsi a rappresentare mera attuazione ed integrazione della disciplina europea, non è mancato chi in passato ha espresso dubbi sulla relativa conformità 18. La questione non può ritenersi 17

In generale, sulla disposizione in esame si vedano DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, p. 140, nonché MONTANARI, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, Torino, 2013, p. 117, anche per gli ulteriori riferimenti di dottrina europea; CIUFFARELLA, L’ente pubblico non economico come soggetto passivo dell’IVA, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 109 ss. 18 TESAURO, Appunti sulla illegittimità comunitaria delle norme IVA relative agli enti pubblici, in Boll. trib., 1987, p. 1757 ss.; ID., Il regime IVA delle attività degli enti pubblici, in Riv. dir. fin., 1992,

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definitivamente risolta a seguito dell’intervento del legislatore del 2012, con il quale è stato integrato il quinto comma dell’art. 4 citato, che attualmente precisa come non siano considerate commerciali «le operazioni effettuate dallo Stato, dalle regioni, dalle province, dai comuni e dagli altri enti di diritto pubblico nell’ambito di attività di pubblica autorità» 19. Nonostante l’intervento legislativo risulti apprezzabile in quanto chiarificatore sul punto, appare ancora largamente carente per una pluralità di motivi. In questo senso, innanzitutto, si mostra lacunoso laddove non individua il concetto di “attività di pubblica autorità” rilevante ai fini IVA. In proposito e come verrà meglio chiarito nel prosieguo, la Corte di Giustizia si è limitata a precisare che l’attività è irrilevante se «esercitata nell’ambito di un regime giuridico proprio degli enti pubblici. Ciò si verifica quando l’esercizio di tale attività implica l’uso di poteri propri della pubblica autorità» 20. Di conseguenza è al diritto nazionale che occorre far riferimento per individuare le attività svolte in veste di pubblica autorità. Sotto un diverso profilo, la norma nazionale, contrariamente a quella europea, non assegna alcuna rilevanza agli effetti potenzialmente anticoncorrenziali dell’attività. Questo è ancor più grave, posto che, ai fini dell’esclusione della soggettività dell’ente pubblico, l’art. 13 della direttiva assegna un ruolo centrale alla possibile distorsione della concorrenza. In terzo luogo, la lettura integrale dell’attuale quinto comma si presta ad ulteriori equivoci e fraintendimenti derivanti dalla sua non felice formulazione dato che, mentre la normativa europea esige per le attività dell’allegato I la verifica della “trascurabilità” dell’attività, la norma nazionale contraddittoriamente sembra escluderne in ogni caso la rilevanza ponendo una sorta di presunzione assoluta di non economicità delle attività svolte in veste di pubblica autorità. In questo senso, si ha la netta sensazione che, ancora una volta, il legislatore I, p. 103 ss. La questione in questa sede non può essere oggetto di ulteriore approfondimento ma c’è chi ha giustamente sottolineato che il rapporto tra normativa nazionale e normativa europea può essere ricostruito in chiave sia di “integrazione” del diritto interno rispetto alla direttiva, che di conflitto ed incompatibilità ma, in ogni caso, troverebbe sempre diretta applicazione la norma europea, con eventuale disapplicazione di quella nazionale incompatibile. FALSITTA-CENTORE, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Il sistema delle imposte in Italia, Padova, 2013, p. 780 e, in particolare, nota 70. 19 Il quinto comma è stato modificato dall’art. 38, comma 2, lett. a), del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221. In argomento si veda Ris. 30 maggio 2014, n. 56/E. 20 Sul concetto di attività svolta in veste di pubblica autorità si vedano in particolare le sentenze della Corte di Giustizia UE, 14 dicembre 2000, causa C-446/98, Fazenda Publica, punto 24, nonché 16 settembre 2008, causa C-288/07, Isle of Wight Council, punto 31, in Riv. dir. trib., 2009, IV, p. 197, con nota di MONDINI, Poteri pubblici locali e distorsioni della concorrenza: la Corte di Giustizia “riscrive” il regime IVA delle attività svolte “in quanto pubblica autorità”. In argomento si veda anche NIKIFARAVA, La neutralità concorrenziale dell’IVA e le attività economiche degli enti pubblici, in Rass. trib., 2009, p. 289 ss. Per la prassi si veda Ris. 7 agosto 2008, n. 348/E; Ris. 6 maggio 2009, n. 122/E; Ris. n. 29 dicembre 2010, n. 139/E.

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nazionale, per esigenze di semplificazione, preferisca ricorrere a criteri di individuazione predeterminati ed astratti che fanno perno sulla qualificazione istituzionale del soggetto che pone in essere l’attività e che, purtroppo, tradiscono la ratio della disciplina europea, volta al contrario a riconoscere la soggettività passiva IVA solo a coloro che, a seguito di una verifica casistica e da svolgere in concreto, esercitino un’attività economica rilevante sul mercato concorrenziale. Resta fermo in ogni caso che l’IVA rappresenta il tributo europeo per eccellenza e questo non solo in quanto è disciplinata a livello europeo tramite una serie di direttive e regolamenti emanati fin dal lontano 1967, ma anche perché la sua uniforme applicazione in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea è garantita dalla Corte di Giustizia, unico giudice competente a fornire in via pregiudiziale la corretta interpretazione delle norme in materia 21. Ne deriva che, sebbene l’IVA sia stata istituita in Italia con il D.P.R. n. 633/1972, la normativa interna è (o almeno, dovrebbe essere) meramente attuativa ed integrativa della disciplina sostanziale posta a livello europeo e cioè, in primis, dall’insieme delle disposizioni contenute nel Trattato istitutivo dell’Unione Europea e delle direttive e regolamenti succedutisi nel tempo, secondo l’uniforme interpretazione garantita dalla Corte di Giustizia 22. 21 La diretta applicabilità dell’art. 4, n. 5 della direttiva del 1977 (ora art. 13 della direttiva del 2006) è stata ripetutamente affermata dalla Corte di Giustizia UE. In particolare, si vedano le sentenze 17 ottobre 1989, causa C-231/87 e C-129/88, Comune di Carpaneto Piacentino; 16 settembre 2008, causa C-288/07, cit., nonché 8 giugno 2006, causa C-430/04, Feuerbestattungsverein Halle, ove la Corte ha riconosciuto che l’applicazione diretta della disciplina europea può essere invocata: a) dal singolo operatore, allorché l’attività svolta dall’ente pubblico nell’esercizio di poteri pubblici arrechi pregiudizio alla concorrenza e, viceversa, b) dall’ente pubblico, per opporsi all’eventuale assoggettamento ad IVA di un’attività di carattere pubblico-autoritativo che non sia idonea a provocare significative distorsioni della concorrenza. Per un caso recente di diretta applicazione della normativa europea, si veda Cass., 7 marzo 2012, n. 3513, in Corr. trib., 2012, p. 1722, con nota di CENTORE, Soggettività passiva IVA degli enti pubblici in funzione della natura economica dell’attività, nonché in Riv. trim. dir. trib., 2013, II, p. 1095, con nota di MONTANARI, La soggettività IVA degli enti pubblici territoriali alla luce di un recente orientamento della Suprema Corte. 22 Sulla natura europea dell’imposta si rimanda, per tutti, a COMELLI, IVA comunitaria e IVA nazionale: contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, passim; ID., La natura dell’imposta, in (diretta da) TESAURO, L’imposta sul valore aggiunto, cit., p. 3 ss. Corollario della natura europea del tributo è la necessaria disapplicazione della normativa interna che non recepisca correttamente la disciplina posta a livello europeo. Infatti è noto che le direttive emanate in materia vincolano il legislatore nazionale e, allorché si presentino sufficientemente precise e dettagliate, si rendono immediatamente efficaci nell’ordinamento interno, imponendo la disapplicazione della norma nazionale che con esse si ponga eventualmente in contrasto. Sul punto si veda PERRONE, L’armonizzazione dell’IVA: il ruolo della Corte di Giustizia, gli effetti verticali delle direttive e l’affidamento del contribuente, in Rass. trib., 2006, p. 423 ss. Sugli effetti interpretativi delle sentenze della Corte di Giustizia si veda in generale MELIS-MICELI, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia delle Comunità Europee nel diritto tributario: spunti dalla giurisprudenza relativa alle direttive sull’“imposta sui conferimenti” e sull’IVA, in Riv. dir. trib.,

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Ad ogni modo e volendo trarre delle prime considerazioni sul punto, dal quadro normativo di riferimento emergono con chiarezza le peculiarità della disciplina impositiva riguardante gli enti pubblici al punto che per essi occorre distintamente verificare: a) in base a quali criteri l’attività possa ritenersi economica; b) la rilevanza del limite costituito dallo svolgimento dell’attività in veste di pubblica autorità; c) gli effetti che lo svolgimento dell’attività economica produce sul mercato. In proposito, gli interventi della giurisprudenza europea sembrano militare nella prospettiva in base alla quale non è lo svolgimento di determinate attività né tanto meno la modalità di svolgimento (in regime privatistico o pubblicistico) dell’attività isolatamente considerata ad implicare il riconoscimento della soggettività passiva ai fini IVA dell’ente pubblico in quanto si deve accertare una serie di ulteriori circostanze ed in particolare se per la concreta attività svolta esista o meno un mercato di riferimento, se l’ente operi in veste di pubblica autorità, che tipo di conseguenze, in concreto e caso per caso, lo svolgimento della predetta attività può provocare sul mercato 23.

4. I criteri utilizzati per la verifica dell’economicità dell’attività svolta dagli enti pubblici La Corte di Giustizia ha in più circostanze chiarito che, in relazione agli enti pubblici, occorre sempre dapprima verificare la sussistenza dello svolgimento di un’attività economica ai sensi dell’art. 9 della direttiva del 2006 e, solo in caso affermativo, accertare se ricorrono le condizioni di applicabilità della disciplina speciale contenuta nel successivo art. 13 24. In questa prospettiva, una prima rilevante peculiarità riguarda i criteri utilizzabili per verificare l’economicità dell’attività dell’ente pubblico 25. Nonostante 2003, p. 111 ss.; NUCERA, Sentenze pregiudiziali della Corte di Giustizia e ordinamento tributario interno, Padova, 2010, passim. 23 Sul punto si veda PORCARO, Attività dell’ente locale tra autoritatività e consensualità: riflessi in tema di soggettività passiva IVA, in Rass. trib., 2006, I, p. 775 ss. 24 V. Corte di Giustizia UE, 29 ottobre 2009, causa C-246/08, Commissione delle Comunità europee - Repubblica di Finlandia, punti 39 ss., ove i giudici hanno precisato che in assenza del carattere economico dell’attività svolta dall’ente pubblico, non è possibile verificare la rilevanza dell’attività ai sensi dell’art. 13 della direttiva e, quindi, accertare se la stessa è resa in veste di pubblica autorità e/o produca distorsioni della concorrenza di una certa importanza. 25 Sotto questo profilo, non è peraltro superfluo sottolineare che l’individuazione del carattere della “economicità” dell’attività svolta dagli enti pubblici non è agevole neppure nell’ambito delle imposte sui redditi, ma in quella sede il problema è risolto a monte, grazie ad una specifica disposizione normativa e cioè all’art. 74 del TUIR (ex art. 88) che nega la soggettività passiva degli enti pubblici. Non è chiaro tuttavia se la norma in esame abbia natura di “regola” o di “deroga” nel-

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quanto sopra brevemente richiamato in ordine alla discussa rilevanza del profilo del lucro oggettivo ai fini della verifica della economicità dell’attività, la Corte di Giustizia è ricorsa, in alcune circostanze, proprio al criterio del lucro oggettivo per escludere il carattere economico dell’attività svolta dagli enti pubblici. Infatti, pur nella consapevolezza di non poter giungere a conclusioni valevoli in via generale, dall’analisi della giurisprudenza europea è possibile argomentare che, in alcuni casi, la natura, i criteri di determinazione nonché la stessa misura dell’introito rappresentano strumenti idonei ad individuare il carattere economico dell’attività concretamente posta in essere e, pertanto, incidono sulla individuazione del requisito di economicità. In questo senso, i giudici europei hanno escluso l’economicità dell’attività resa da un ufficio pubblico di assistenza legale in ragione del fatto che il fruitore del servizio era tenuto ad una remunerazione che solo parzialmente reintegrava i costi di gestione, in quanto determinata non in funzione del valore del servizio, bensì diversamente modulata in base alle condizioni soggettive reddituali del fruitore 26. È interessante notare come nel caso di specie la Corte di Giustizia escluda la gratuità delle prestazioni rese dall’ente pubblico ma consideri indicativo della non economicità del servizio l’esiguo ammontare dell’introito corrisposto dagli utenti 27. In altri termini, secondo i giudici, lo svolgimento di un’attività sistematicamente remunerata solo in modo parziale sarebbe indicativa della mancanza di l’ambito delle imposte sui redditi. Secondo una prima ricostruzione, poiché l’attività economica rilevante ai fini delle imposte sui redditi sarebbe quella fondata sull’attitudine a conseguire astrattamente un profitto, l’ente pubblico dovrebbe essere fisiologicamente considerato come un ordinario soggetto passivo dell’IRES di modo che la norma disporrebbe un’esenzione giustificata da finalità estranee alla ratio del tributo. Per altri, invece, l’art. 74 del TUIR esprimerebbe una scelta legislativa di fondo, prevedendo un’esclusione vera e propria per gli enti pubblici in considerazione della loro complessiva inattitudine produttiva e dei moduli di reperimento, gestione ed allocazione delle risorse disponibili che ne contraddistinguono la dinamica operativa in ragione dei vincoli istituzionali e pubblicistici loro propri. Per le varie teorie ricostruttive v. Autori citati nella nota 7. 26 V. Corte di Giustizia UE, 29 ottobre 2009, causa C-246/08, cit. In quella sede, i giudici hanno evidenziato come la remunerazione fosse solo parziale e non coprisse l’intero importo degli onorari fissati dalla normativa nazionale a titolo di retribuzione per i servizi di assistenza legale forniti dagli uffici pubblici e dai consulenti privati ed hanno concluso per la mancanza di qualsiasi nesso con il servizio erogato dall’ente pubblico, escludendo così lo svolgimento di attività economica. 27 La Corte infatti ha precisato (punto 46 della sentenza) che i servizi di assistenza legale non erano “erogati” dagli uffici pubblici e che non potevano essere considerati quali prestazioni di servizi rese a titolo gratuito. Ciò che risulta oggetto di contestazione è proprio la misura della controprestazione e la sua inidoneità a coprire i costi della gestione del servizio al punto che si conclude nel senso che «la remunerazione parziale a carico dei beneficiari debba essere assimilata a un canone, la cui riscossione non conferisce da sola carattere economico ad una determinata attività, piuttosto che ad una retribuzione vera e propria».

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economicità. Pertanto, la mancanza di un nesso causale diretto tra il servizio reso ed il corrispettivo ricevuto – determinata dall’esiguità dell’importo, che non rispecchia l’effettivo valore della prestazione – rileverebbe sotto il profilo soggettivo in quanto «il nesso tra i servizi di assistenza legale forniti dagli uffici pubblici e il controvalore che i beneficiari devono pagare non risulta avere quel carattere diretto che è necessario perché tale controvalore possa essere considerato la retribuzione di detti servizi e, conseguentemente, perché questi ultimi costituiscano attività economiche». In altre circostanze, la Corte di Giustizia ha escluso che l’attività di pubblicità svolta dalla sezione regionale di un partito politico austriaco (ente di diritto pubblico) in favore delle sue articolazioni provinciali e locali potesse configurare un’attività economica rilevante ai fini IVA in ragione della tipologia di introiti ricevuti 28. In questo caso era discussa la stessa sussistenza di una controprestazione in senso giuridico, in quanto l’attività svolta dall’ente era remunerata sulla base di criteri discrezionali ed il contributo versato dai fruitori prescindeva totalmente dalle spese effettivamente sostenute per l’erogazione del servizio. Poiché la remunerazione dell’attività non permetteva la sussistenza dell’ente, i giudici europei hanno verificato che la continuità del servizio era assicurata da finanziamenti pubblici nonché da donazioni e contributi erogati dai membri del partito. Pertanto, «le sole entrate dotate di un carattere di permanenza provengono dal finanziamento pubblico e dai contributi dei membri di tale partito, ove dette entrate compensano, in particolare, le perdite causate dall’attività oggetto della causa principale». Nel caso di specie i giudici hanno quindi ritenuto che l’ente ricevesse esclusivamente introiti di tipo contributivo-sovvenzionatorio in assenza di un obbligo contrattuale di remunerazione dei costi per l’effettuazione delle prestazioni ed hanno conseguentemente escluso lo svolgimento di un’attività economica. Le pronunce in esame sembrano quindi confermare la validità ai fini IVA delle tesi, già avanzate con riguardo alle imposte sui redditi e sopra brevemente richiamate, che riconoscono la necessità di verificare l’economicità dell’attività (anche) alla luce della qualificazione e/o della quantificazione degli introiti di modo che lo svolgimento di un’attività economica da parte dell’ente pubblico si realizzerebbe esclusivamente nel caso in cui la remunerazione assicuri sistematicamente un margine di profitto o, quanto meno, l’autosufficienza finanziaria e quindi la copertura dei costi di gestione. Vale a dire che il risultato negativo di gestione deve essere meramente occasionale e non “strutturale” e cioè programmato ex ante 29. 28 V. Corte di Giustizia UE, 6 ottobre 2009, causa C-267/08, SPO Landesorganisation Karnten. 29 Analoghe considerazioni sono formulate ai fini delle imposte sui redditi da CASTALDI, op. cit., p. 285, la quale pone l’accento sulla complessiva dinamica gestionale dell’ente pubblico che operi sulla base di entrate contributive o sovvenzionatorie. L’Autrice rileva inoltre come la circostanza che l’ente pubblico sia una struttura operante in via di principio sulla scorta di un sistema di tipo “erogativo” non sia altrettanto rilevante in ambito IVA, in quanto detto tributo è volto a

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5. Le attività economiche esercitate dall’ente pubblico in veste di “pubblica autorità” e la verifica degli effetti che le stesse producono sul mercato Come anticipato, il riconoscimento dell’economicità dell’attività svolta dall’ente pubblico è necessario ma non sufficiente ai fini della integrazione del requisito soggettivo in ambito IVA. Una volta qualificata l’attività come economica ai sensi dell’art. 9, occorre verificare la ricorrenza o meno delle condizioni previste dal successivo art. 13. Infatti, da quanto rilevato in precedenza emerge chiaramente che la soggettività IVA dell’ente pubblico deve essere esclusa allorché l’attività in concreto svolta sia considerata non economica in base alla regola generale stabilita dall’art. 9 della direttiva. Altrettanto pacificamente l’ente pubblico deve essere considerato soggetto passivo IVA allorché svolga attività economica secondo moduli organizzativi propri degli operatori privati. Allorché, invece, l’attività sia economica ma lo svolgimento della stessa presenti il carattere dell’autoritatività, occorre tener conto della speciale disciplina espressamente contemplata dall’art. 13 e, quindi, verificare se l’eventuale esclusione della soggettività passiva IVA derivi, da un lato, dal riconoscimento della natura autoritativa dell’attività svolta e, dall’altro, dalla sua ininfluenza rispetto al mercato. In questa prospettiva, innanzitutto è necessario chiarire cosa si intenda per attività resa in veste di “pubblica autorità” e sul punto è già stato anticipato che le indicazioni dei giudici europei non appaiono dirimenti in quanto hanno precisato che, per essere irrilevante ai fini IVA, l’attività deve essere «esercitata nell’ambito di un regime giuridico proprio degli enti pubblici. Ciò si verifica quando l’esercizio di tale attività implica l’uso di poteri propri della pubblica autorità» 30. In altra sede, la Corte di Giustizia ha ulteriormente rilevato che l’art. 13 prevede una deroga alla rilevanza ai fini IVA delle attività degli enti pubblici esercitate in quanto autorità pubbliche e che «pur essendo di natura economica, sono strettamente connesse all’uso di prerogative di pubblico potere» di modo che «il non assoggettamento all’IVA dei suddetti enti per tali attività non ha potenzialmente effetti anticoncorrenziali, in quanto queste ultime sono generalmente esercitate dal settore pubblico in via esclusiva o quasi esclusiva» 31. garantire la tassazione di tutti gli scambi intermedi all’interno del circuito produttivo. Secondo l’Autrice infatti «è tutto l’impianto normativo IVA a dimostrarsi estraneo alla logica di principio che colloca l’economicità (e, in via successiva, la commercialità) fiscale sul piano della lucratività. Il sistema IVA infatti appare improntato a coinvolgere nella propria sfera di operatività tutti i soggetti che agiscono e tutte le operazioni (per ciò solo) che si inseriscono nella dinamica di mercato: irrilevante risultando al riguardo il fatto che l’attività economica sia svolta secondo criteri di gestione volti al conseguimento di un profitto ovvero alla mera remunerazione dei fattori di produzione». ID., op. cit., p. 253. 30 Corte di Giustizia UE, 14 dicembre 2000, causa C-446/98, cit. 31 Corte di Giustizia UE, 16 settembre 2008, causa C-288/07, cit.

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In prima battuta può quindi ritenersi che le attività in oggetto siano quelle svolte secondo il regime proprio degli enti pubblici e non in base a strumenti giuridici ordinariamente utilizzati dagli operatori economici privati 32. La considerazione appare tuttavia ancora troppo vaga ed imprecisa ed in questo senso si dimostra molto più proficua un’indagine volta innanzitutto a distinguere tra attività svolta in regime di pubblica autorità ed attività configuranti un pubblico servizio. Infatti, l’art. 13 non assume alcuna specifica rilevanza in relazione alle attività esercitate dall’ente pubblico in quanto “istituzionali” ed espressione di un pubblico servizio dato che queste, a seconda del carattere economico o meno, rileveranno ai fini IVA in base all’art. 9 della direttiva 33. Viceversa, l’attività che deve essere sottoposta al vaglio dell’art. 13 è: i) tipicamente economica; ii) svolta mediante l’utilizzo di poteri autoritativi e, quindi, esercitata in «posizione dominante e praticamente di monopolio» 34. Dunque, il problema è quello di verificare se l’attività economica posta in essere dall’ente pubblico sia in via ordinaria riservata al settore pubblico in quanto non esercitabile dal privato. Ciò può avvenire, oltre che in ragione della riserva monopolistica legale eventualmente disposta dallo Stato, anche per ulteriori circostanze fattuali, in quanto ad esempio si tratta di attività che il privato non ha interesse ad esercitare a motivo dello scarso rilievo economico della stessa o che è impossibilitato ad esercitare in quanto trattasi di attività collegata allo svolgi32 In questo senso, ad esempio, l’Amministrazione Finanziaria ha escluso che gli organismi di mediazione istituiti dai singoli consigli degli ordini degli avvocati svolgessero attività in veste di pubblica autorità secondo l’art. 13 della direttiva. V. Ris. 29 novembre 2011, n. 113, ove è stato precisato che l’attività di mediazione non può essere ricondotta tra le attività non commerciali di tipo pubblicistico al pari della tenuta dell’albo degli avvocati e del registro dei praticanti; della verifica della pratica forense; della gestione dei procedimenti disciplinari, ecc. 33 Osserva in proposito CENTORE, Enti non commerciali: profili IVA nazionali e comunitari, in Enti non profit, 2009, p. 11, come occorra distinguere le ipotesi in cui l’esclusione della soggettività passiva dell’ente pubblico dipende dallo svolgimento di attività istituzionali che non sono (e non possono essere) in concorrenza, dai casi in cui l’ente svolge attività economiche trascurabili e, quindi, marginali, sotto il profilo della concorrenza e del libero mercato. Infatti, «le attività esercitate dall’ente pubblico in quanto tale (ad esempio: l’Anagrafe) sono irrilevanti, non tanto per il nomen dell’ente pubblico (che costituisce l’errore della norma nazionale, simile a quello commesso per la qualificazione per chiamata nominativa degli imprenditori) quanto, semplicemente, perché non vi è pietra di paragone su cui misurare la commercialità e, finalmente, il valore aggiunto attribuibile a tali operazioni». 34 In questo senso, si veda Cass., 7 marzo 2012, n. 3513, cit., ove la Corte di Cassazione ha applicato direttamente l’art. 13 della direttiva riconoscendo l’assoggettabilità ad IVA dell’attività di costruzione dello stadio comunale e di gestione di parcheggi su suolo pubblico in quanto esercitate in posizione dominante e praticamente di monopolio «con un effetto distorsivo della concorrenza, attuale e potenziale (e non meramente ipotetico), restando a tal fine irrilevante invece il fatto che il risultato della distorsione della concorrenza non si presenti nella fattispecie come futuro ed eventuale, ma si sia già di fatto prodotto».

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mento di una funzione pubblica non delegabile al privato 35. In simili casi, infatti, l’attività, pur potendo risultare intrinsecamente economica secondo i criteri sopra evidenziati, è del tutto irrilevante ai fini IVA in ragione dell’assenza di un mercato di scambio di modo che l’ente pubblico non può essere considerato soggetto passivo del tributo. In questa prospettiva, l’art. 13 sembrerebbe porre una norma di esclusione, condizionando la soggettività passiva dell’ente pubblico alla verifica dell’esistenza di un – ancorché potenziale – mercato per l’attività concretamente svolta 36 e contribuire alla specificazione dell’ambito applicativo del tributo. In conclusione, solo nel caso in cui l’attività economica sia fisiologicamente esercitata dall’ente pubblico in via esclusiva o quasi esclusiva sarà possibile escluderla dall’ambito applicativo dell’IVA in quanto improduttiva di effetti anticoncorrenziali 37. La ratio della norma deve essere indagata avendo presente ancora una volta che l’IVA risponde a criteri di generalità e neutralità fiscale e deve garantire la salvaguardia del libero mercato, evitando l’alterazione della concorrenza fra operatori economici. Vale a dire che la logica del tributo in esame è quella di garantire la tassazione in relazione a tutti gli scambi intermedi, evitare salti di imposta e coinvolgere nel prelievo tutti i soggetti e le operazioni che si inseriscono nella dinamica del mercato. In questa prospettiva, la norma europea vieta al legislatore nazionale di eludere la disciplina IVA tramite «l’attribuzione da parte del legislatore del regime pubblicistico a un’attività che potrebbe essere esercitata, per sua natura, in un normale regime privatistico (come emerge dal fatto che il parametro di riferimento è la distorsione della concorrenza)» in quanto ciò porterebbe ad un’indebita sottrazione della stessa dalla sfera applicativa del tributo ed alla conseguente alterazione della concorrenza fra operatori economici 38. Anche sotto questo profilo, quindi, è possibile confermare che nella dinamica 35 In tema si vedano DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, cit., p. 144; MONDINI, Poteri pubblici locali e distorsioni della concorrenza: la Corte di Giustizia “riscrive” il regime IVA delle attività svolte “in quanto pubblica autorità”, cit., p. 211 ss. 36 In ordine alla ricostruzione in termini di esenzione o di esclusione delle previsioni contenute nel citato art. 13, tema sul quale non è possibile soffermarsi in questa sede, si rimanda al contributo di MONTANARI, La soggettività IVA degli enti territoriali alla luce di un recente orientamento della Suprema Corte, cit., p. 1095 ss., nonché ID., Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, cit., p. 117. 37 Sul tema si veda DEL FEDERICO, op. cit., p. 151, il quale osserva che «ove l’ente operi nell’ambito del regime pubblicistico suo proprio, può ritenersi che eserciti attività “in quanto pubblica autorità”» mentre «ove l’ente pubblico eserciti un’attività che risulti di fatto concorrenziale con analoghe attività esercitate dai privati, nonostante il proprio peculiare regime pubblicistico, l’IVA dovrà trovare applicazione secondo il meccanismo ordinario». 38 CONTRINO, Art. 4 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in MARONGIU (a cura di), Commentario breve alle leggi tributarie, cit., 46.

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del tributo in esame lo svolgimento dell’attività economica è condizione necessaria ma non sufficiente ai fini dell’integrazione del requisito soggettivo perché la soggettività passiva dell’ente pubblico è riconosciuta in ragione di un complesso di fattori volti alla verifica dell’incidenza dell’attività sul mercato. In questo senso, occorre ulteriormente precisare che la suddetta verifica deve considerare anche gli effetti anticoncorrenziali meramente potenziali. La Corte di Giustizia, infatti, ha affermato che «le distorsioni di concorrenza di una certa importanza che sarebbero provocate dal non assoggettamento degli enti di diritto pubblico operanti in quanto autorità pubbliche devono essere valutate con riferimento all’attività in questione, in quanto tale, senza che tale valutazione abbia per oggetto un mercato locale in particolare»; in altri termini, occorre prendere in considerazione «non soltanto la concorrenza attuale, ma anche la concorrenza potenziale, purché la possibilità per un operatore privato di entrare sul mercato rilevante sia effettiva, e non meramente ipotetica». In tale sede è stato altresì chiarito che l’espressione “di una certa importanza” utilizzata dalla norma europea «dev’essere intesa nel senso che le distorsioni di concorrenza attuali o potenziali devono essere più che trascurabili» 39. In conclusione, alla luce delle precedenti considerazioni e preso atto che il regime speciale previsto dall’art. 13 della direttiva del 2006 per le attività economiche svolte dagli enti pubblici trova applicazione allorché l’ente svolge attività economiche caratterizzate, sul piano strutturale, dall’utilizzo di poteri autoritativi e, sul piano degli effetti, dall’assenza di turbativa sul mercato concorrenziale, può ragionevolmente concludersi che la norma trovi applicazione in ipotesi marginali perché l’ente pubblico tende ormai nella maggioranza dei casi, da un lato, ad agire secondo moduli tipicamente privatistici sia sotto il profilo funzionale che organizzativo e, dall’altro, a svolgere attività che incidono sul mercato. Alla stregua delle precedenti conclusioni ed in forza della necessità di interpretare l’art. 13 più volte citato in chiave “antielusiva”, cioè volto ad impedire al legislatore di disciplinare in termini pubblicistici un’attività che è fisiologicamente esercitabile dal privato secondo moduli organizzativi privatistici, è agevole comprendere la conseguente svalutazione dei profili che attengono alla natura dell’introito che, per espressa scelta del legislatore europeo, può essere indifferentemente configurato in termini di “diritto, canone, contributo o retribuzione”. Vale a dire che la qualificazione e/o la quantificazione degli introiti se, da un lato, rileva quale criterio idoneo per verificare l’economicità dell’attività resa dall’ente 39

Corte di Giustizia, 16 settembre 2008, causa C-288/07, cit., punti 53, 65 e 79. In ordine alla difficile individuazione del carattere di “non trascurabilità” dell’attività economica svolta (che, secondo taluni, dovrebbe essere posto in correlazione con il concetto di “abitualità” della stessa) ed in merito alla possibilità o meno di effettuare una lettura coordinata del secondo e del terzo paragrafo dell’art. 13 nel senso che la “non trascurabilità” dell’attività debba essere posta in relazione alla distorsione della concorrenza di “una certa importanza”, si vedano gli Autori citati in nota 20, nonché MONTANARI, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, cit., p. 119.

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ai sensi dell’art. 9 della direttiva del 2006 e, quindi, incide sul profilo soggettivo dimostrando l’eventuale assenza di economicità laddove sia sistematicamente insufficiente a remunerare l’attività svolta, dall’altro, non assume autonoma e decisiva rilevanza ai fini dell’applicabilità del successivo art. 13 40. In altri termini, la corrispettività, la commutatività e la sinallagmaticità che caratterizzano il profilo oggettivo del tributo in esame sono fortemente svalutate nella prospettiva dell’art. 13 41. È evidente infatti che la natura e la qualificazione dell’introito come corrispettivo ovvero prestazione imposta o tributo non muta i termini della questione in quanto: a) laddove non sussista un mercato per l’attività economica svolta dall’ente pubblico in veste di pubblica autorità, la non imponibilità discende a monte dall’applicazione dell’art. 13, indipendentemente dalla natura dell’introito; b) mentre la riconosciuta rilevanza non sinallagmatica dei tributi paracommutativi 42 non può essere di ostacolo all’applicabilità dell’art. 13.

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Ed in questa prospettiva il problema non è di poco conto. Si pensi alla vicenda relativa all’applicabilità dell’IVA alla TIA, esclusa dalla Consulta sulla base dell’art. 13 della direttiva perché ricondotta ai “diritti, canoni, contributi” percepiti per attività che gli enti pubblici esercitano in quanto pubbliche autorità ed in relazione alle quali il mancato assoggettamento ad imposta non comporta una distorsione della concorrenza posto che “il servizio di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa”. Corte cost., 24 luglio 2009, n. 238 (in argomento v. altresì GUIDO, Considerazioni a margine della recente qualificazione tributaria della Tia operata dalla Corte Costituzionale, in Rass. trib., 2009, p. 1107 ss.). Sul tema si veda inoltre ALFANO, Tributi ambientali. Profili interni ed europei, Torino, 2012, p. 333, la quale evidenzia come la pretesa non imponibilità ai fini IVA della TIA per carenza del presupposto oggettivo affermata dalla Corte costituzionale sulla base del citato art. 13 della direttiva «spinge a verificare se la mancata previsione dell’IVA sulla TIA non possa però evidenziare una possibile violazione della normativa europea in materia». 41 In questo senso sembra esprimersi anche DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, cit., p. 143, il quale osserva che “ove l’ente vada a collocarsi nello stesso regime degli operatori economici privati dovrà essere assoggettato ad IVA secondo i criteri ordinari (…) a nulla rilevando a tal proposito la configurabilità di prestazioni imposte ex art. 23 Cost.”. 42 V. sul tema DEL FEDERICO, I tributi paracommutativi e la teoria di Antonio Berliri della tassa come onere nell’attuale dibattito su autorità e consenso, in Riv. dir. fin., I, 2009, p. 69 ss., il quale sottolinea che lo “scambio di utilità” proprio dei tributi paracommutativi non ha alcuna rilevanza sinallagmatica in quanto la «specifica correlazione – giuridicamente rilevante a livello di fattispecie imponibile – tra attività pubblica (o beni pubblici) e prestazione pecuniaria del contribuente» non ha nulla a che vedere con «rapporti tributari corrispettivi o commutativi (in termini civilistici), inesistenti nella vigente legislazione». In argomento si veda anche ID., Il concorso dell’utente al finanziamento dei servizi pubblici, tra imposizione tributaria e corrispettività, in Rass. trib., 2013, p. 1222 ss.

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6. Attività economiche svolte da privati ma in veste di “pubblica autorità”. I perduranti dubbi circa la disciplina applicabile al caso concreto Da ultimo, ci si potrebbe domandare se sia possibile estendere le considerazioni formulate in ordine agli enti pubblici anche ai soggetti privati che svolgano le medesime attività ed eventualmente ricomprendere questi ultimi nella sfera applicativa dell’art. 13 in ragione della circostanza che, sempre più spesso, attività di interesse pubblico sono affidate a soggetti privati. È evidente che la risposta allo stato attuale deve essere negativa, anche alla luce di quanto rilevato in precedenza in ordine alla ritrosia del legislatore nazionale ad utilizzare, ai fini della soggettività passiva IVA, parametri diversi dalla forma giuridica assunta dal soggetto che opera sul mercato. Ciò non toglie che la tematica sia di grande attualità ed offra molti spunti di riflessione di modo che non appare inutile qualche cenno alle questioni di maggior rilievo e che rivelano l’inadeguatezza della normativa nazionale laddove persiste nell’individuare “aree” di soggettività statiche, facendo ricorso a qualificazioni predeterminate che appaiono inidonee a fotografare una realtà in continua evoluzione. Infatti, sempre più spesso la struttura societaria è utilizzata dagli enti pubblici per svolgere attività che sono espressione di una pubblica funzione 43 ovvero di un servizio pubblico 44 o meramente strumentali 45 allo svolgimento di ulteriori attività. Per esse, da un lato, è in via di principio preclusa una verifica della soggettività ai fini IVA, pur potendosi in alcuni casi dubitare del carattere “economico” dell’attività in concreto svolta 46; dall’altro, è negata aprioristicamente l’applicabilità 43

In tema si veda L.I. NERI, Le attività degli enti pubblici. Funzioni di pubblica autorità in DI PIETRO (a cura di), Lo stato della fiscalità nell’Unione europea, Roma, 2003, p. 82 ss. 44 Ulteriore problema, del quale non è possibile dar conto in questa sede, attiene altresì alla corretta individuazione della nozione di servizio pubblico che, com’è noto, può essere inteso in senso squisitamente soggettivo e, quindi, incardinato sulla rilevanza della natura pubblica del soggetto che svolge l’attività, ovvero in termini oggettivi, come servizio reso nell’interesse generale della collettività. Sul punto si veda CAIA, La disciplina dei servizi pubblici, in MAZZAROLLI-PERICU-ROMANO-ROVERSI MONACO-SCOCA (a cura di), Diritto Amministrativo, 2001, I, p. 945. 45 Per la distinzione tra attività qualificabili come servizio pubblico in quanto costituite da una serie di prestazioni rivolte alla collettività o comunque a terzi (rispetto agli enti costituenti la società) e le attività che la pubblica amministrazione “rende a sé stessa” in quanto meramente strumentali (come i servizi informatici dei propri uffici o di manutenzione dei propri immobili), si veda IBBA, Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, in IBBA-MALAGUTI-MAZZONI (a cura di), Le società pubbliche, Torino, 2011, p. 1 ss. 46 In questo senso, basti evidenziare che l’art. 10, n. 5, del D.P.R. n. 633 del 1972 non contempla più la riscossione di somme aventi carattere tributario tra le attività esenti di modo che si è

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della speciale disciplina contenuta nell’art. 13 della direttiva del 2006 47. Infatti, secondo l’orientamento della Corte di Giustizia, ai fini dell’operatività di tale ultima disposizione «devono essere congiuntamente soddisfatte due condizioni, vale a dire l’esercizio di attività da parte di un ente pubblico e l’esercizio di attività in veste di pubblica autorità» 48. In altri termini, la Corte di Giustizia ha precisato che l’art. 13 della direttiva del 2006 non è applicabile in relazione ad attività ed operazioni poste in essere da un terzo che, pur delegato dall’ente pubblico e svolgente funzioni di pubblica autorità, agisca in posizione di autonomia ed indipendenza. La suesposta conclusione può destare alcune perplessità perché le peculiarità proprie dell’IVA non sembrerebbero giustificare l’automatica rilevanza impositiva delle attività che, pur rientrando tra le prerogative degli enti pubblici, siano esercitate sotto una diversa veste giuridica. Un caso problematico sotto questo profilo è rappresentato dalle società in house providing che rilevano sempre come soggetti passivi del tributo, nonostante, nel settore amministrativo, il rapporto tra società ed ente pubblico sia pacificamente ricostruito in termini di “delegazione interorganica” proprio in ragione posto il problema di individuare, alla luce dell’attuale disciplina normativa, il trattamento fiscale dell’aggio di riscossione, che altrimenti risulterebbe soggetto ad IVA. Nonostante la veste di società per azioni di Equitalia s.p.a. alcuni Autori tuttavia dubitano che l’attività di riscossione dei tributi possa essere considerata economica. V. CANNIZZARO, Rinvio alla Corte di Giustizia UE sulla natura di aiuto di Stato dell’aggio di riscossione, in Corr. trib., 2013, p. 1596 ss. In tema si veda altresì M. NUZZO, Prime note sul diritto all’aggio da riscossione. Profili storico-ricostruttivi, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 1010, la quale esclude la configurabilità dell’aggio in termini di corrispettivo per l’attività resa da Equitalia s.p.a. in ragione della sua natura di soggetto svolgente un’attività di interesse pubblico e di ente strumentale dell’Agenzia delle Entrate. Sul punto si è comunque recentemente espressa l’Agenzia delle Entrate: infatti, con la già citata Ris. n. 56/E del 2014 è stato confermato che l’aggio relativo all’attività di riscossione dei tributi deve essere assoggettato ad IVA con aliquota ordinaria. 47 Si pensi al caso delle società di gestione del servizio idrico integrato, in relazione alle quali sono stati espressi dubbi circa la qualificazione commerciale dell’attività svolta ai fini IVA in ragione delle caratteristiche del servizio oggettivamente prestato. V. FICARI, La “fiscalità” dell’acqua tra “federalismo” fiscale e privatizzazione della disciplina e della gestione, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 114. 48 Secondo i giudici europei allorché l’attività, pur implicando l’uso di prerogative della pubblica autorità, sia affidata ad un soggetto «terzo indipendente o esercitata da enti non integrati nell’organizzazione della pubblica amministrazione, sotto forma di un’attività economica indipendente» l’art. 13 non può trovare applicazione. In questo senso la giurisprudenza europea ha riconosciuto piena soggettività passiva ai fini del tributo in esame ai soggetti privati partecipati da enti locali che svolgevano attività rientranti tra i compiti istituzionali di questi ultimi. V. Corte di Giustizia UE, 12 giugno 2008, causa C-462/05, Commissione delle Comunità europee – Repubblica portoghese, punto 39 e, in senso analogo, Corte di Giustizia, 12 settembre 2000, causa C-276/97, Commissione delle Comunità europee – Repubblica francese, punto 45.

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della carenza di autonomia imprenditoriale in capo alla società e della mancanza di qualsiasi potere decisionale distinto dall’ente 49. Sotto il profilo amministrativo, infatti, la società “in house providing” non è un soggetto terzo rispetto all’ente, mancando di qualsiasi alterità soggettiva ed essendo espressione del principio di autonomia istituzionale o di auto-organizzazione dell’ente 50. Detta considerazione dovrebbe essere dirimente al fine di escludere anche in ambito IVA la configurabilità di un soggetto terzo indipendente rispetto all’ente pubblico e dovrebbe (per lo meno) suggerire la possibilità di far ricorso ai medesimi criteri utilizzati per verificare la soggettività passiva dell’ente pubblico 51. Ciò nonostante, in ambito tributario non è data alcuna rilevanza al rapporto intersoggettivo sussistente tra l’ente e l’in house. A chiarire ogni dubbio in proposito è intervenuta anche l’Amm. Fin. secondo la quale ai fini fiscali non potrebbe essere data rilevanza neppure alla definizione di organismo di diritto pubblico 49 I tratti caratteristici dell’istituto dell’affidamento in house di un servizio pubblico sono stati precisati per la prima volta dalla Corte di Giustizia nella nota sentenza Teckal (del 18 novembre 1999, causa C-107/98), ove è stato affermato che le condizioni necessarie affinché si possa derogare alla gara pubblica sono: a) l’esercizio sul soggetto affidatario da parte del committente di un “controllo analogo” a quello che esercita sui propri servizi; b) la necessità che il soggetto affidatario realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente committente che la controlla (destinazione prevalente). Non sembra invece determinante la partecipazione pubblica totalitaria che è stata considerata condizione necessaria (ma non sufficiente) per aversi affidamento in house. Recentemente, infatti, tale posizione è stata rivista e, in una prospettiva sostanzialistica, è stato mitigato il divieto di contaminazione dell’azionariato pubblico con quello privato. V. Corte di Giustizia, 17 luglio 2008, causa C-371/2005, Commissione delle Comunità europee – Repubblica italiana. 50 È peraltro proprio la caratteristica della sussistenza di una mera relazione interorganica tra l’in house e l’ente affidante che giustifica la deroga della procedura ad evidenza pubblica e del rispetto delle norme a tutela della concorrenza. 51 La questione sembrerebbe porsi in termini diversi per le c.d. società miste, in relazione alle quali è stata affermata l’indiscutibile soggettività passiva secondo i criteri ordinari. Si veda in tema MICELI, Società miste e diritto tributario: le questioni aperte, in Rass. trib., 2006, p. 817, la quale osserva che l’attività svolta da una società mista non potrebbe essere considerata come pubblica in quanto «non è svolta da un ente pubblico (ma da una società), attraverso poteri autoritativi (bensì mediante una organizzazione privatistica) e, in particolare, opera in regime di concorrenza» mentre l’Unione Europea è stata sempre molto rigorosa nel riconoscere l’esclusione da IVA delle sole attività svolte in quanto pubblica autorità e quindi «esercitate da organismi di diritto pubblico, nel perseguimento di uno scopo istituzionale, attraverso l’esercizio di poteri autoritativi». L’Autrice, conseguentemente, evidenzia che «non ritenere la società mista un soggetto passivo IVA è una contraddizione che rischia di determinare un danno alla concorrenza: si favorirebbe, infatti, lo svolgimento di un’attività economica all’interno della Comunità in condizioni differenti rispetto agli altri operatori economici; si pregiudicherebbero le imprese in concorrenza con la società mista; si agevolerebbe l’attività della società mista stessa, contraddicendo lo stesso scopo che ha portato alla sua trasformazione da azienda municipalizzata in società mista».

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contenuta nell’art. 3, comma 26, del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 52. In questo senso infatti è stato precisato che «la nozione di organismo di diritto pubblico, mutuata dalla giurisprudenza e dalla normativa in materia di appalti pubblici in base alla quale le società in house potrebbero essere assimilate ad enti pubblici, non può ritenersi applicabile in materia tributaria» 53. Di conseguenza, la società in house è, in ambito tributario, soggetto giuridicamente distinto dall’ente pubblico che la controlla perché è costituita nella forma giuridica di società di capitali e, conseguentemente, agli effetti dell’IVA, è soggetto passivo del tributo ai sensi dell’art. 4, comma 2, n. 1), del D.P.R. n. 633 del 1972 dal momento che «lo “status giuridico” di ente non commerciale non può essere trasferito in capo a soggetti diversi, quali le società commerciali, aventi una personalità giuridica distinta dall’ente da cui promanano». Vale a dire che la società in house non gode dell’esclusione dalla soggettività passiva IVA: i) sia nel caso in cui svolga un’attività qualificabile come “non economica” se effettuata da un ente pubblico; ii) sia nell’ipotesi in cui svolga attività economica che astrattamente rispetterebbe i parametri fissati dall’art. 13 della direttiva del 2006 in quanto detta norma troverebbe applicazione limitatamente agli enti pubblici. Dunque, in ultima analisi, le prestazioni rese dalla società in house nei confronti dell’ente pubblico sono sempre rilevanti ai fini IVA e ciò nonostante in alcuni casi il requisito dell’economicità dell’attività possa mancare in concreto. In conclusione, quindi, nonostante il rilievo determinante assegnato dal legislatore alla veste giuridica commerciale, potrebbe essere forse più proficuo verificare caso per caso l’incidenza dell’attività sul mercato e quindi l’eventuale distor52

In base al quale l’«organismo di diritto pubblico» è qualsiasi organismo, anche in forma societaria: a) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; b) dotato di personalità giuridica; c) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico. 53 V. la già citata Ris. n. 56/E del 2014 nonché Ris. 9 novembre 2006, n. 129/E; Ris. 8 marzo 2007, n. 37/E; Ris. 16 aprile 2008, n. 155/E. Non solo, perché secondo l’Amm. Fin. la società in house non fruirebbe neppure delle esenzioni che prevedono come requisito soggettivo la qualifica di “organismo di diritto pubblico” (come ad esempio nell’ipotesi dell’art. 10, n. 27ter del D.P.R. n. 633 del 1972). Detta ultima conclusione peraltro potrebbe risultare non in linea con l’orientamento giurisprudenziale europeo in tema di estensione delle esenzioni ai soggetti privati che esercitino attività di interesse pubblico. V. in questo senso Corte di Giustizia UE, 23 aprile 2009, causa C-357/07, TNT Post UK Ltd, in tema di servizi postali svolti da privati.

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sione della concorrenza, piuttosto che applicare, secondo un sistematico automatismo, una disciplina normativa non sempre idonea a rappresentare ed inquadrare una realtà variegata ed in continua evoluzione 54.

54 Sul tema si veda MONTANARI, op. ult. cit., p. 179. Si pensi anche alla disciplina della c.d. “impresa sociale” di cui al D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 155 che sembra porre nuovi e rilevanti interrogativi. In argomento v. PIANTAVIGNA, Profili fiscali dell’impresa sociale: esigenze di disciplina e di sistema, in Riv. dir. fin., 2012, p. 62 ss.; ID., Un modello per la disciplina fiscale dell’impresa sociale: low profit limited liability company, ivi, 2011, p. 592, ove si evidenzia che «l’esistenza di nuove entità socio-istituzionali originali operanti secondo principi non coerenti con la tradizione classica delle teorie economiche segna, da un lato, il fallimento delle stesse, atteso che tali soggetti seguono una logica pubblicistica (massimizzazione del flusso della spesa rispetto ai proventi) ma adottano schemi privatistici; dall’altro, testimonia l’incapacità dello Stato – inteso nelle sue plurime articolazioni – e delle sue strutture pubbliche a far fronte ai crescenti bisogni di una società plurale».

LA PRASSI NEGOZIALE DELLA CESSIONE DI CUBATURA E DEGLI ATTI DI REDISTRIBUZIONE DI AREE TRA CO-LOTTIZZANTI NON RIUNITI IN CONSORZIO: SPUNTI DI RIFLESSIONE SUL TRATTAMENTO FISCALE AI FINI DELLE IMPOSTE INDIRETTE (IVA E REGISTRO)

di Cesare Simone SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La cessione di cubatura: natura ed effetti. – 3. Il negozio di cessione: aspetti fiscali relativi all’imposta di registro. – 4. Il piano di lottizzazione: brevi cenni della disciplina urbanistica di riferimento. – 4.1. Le convenzioni di lottizzazione. – 4.2. Atti di redistribuzione di aree tra i co-lottizzanti. – 5. La tassazione IVA degli atti di redistribuzione. – 6. Conclusioni.

1. Premessa Il persistente interesse ai fini fiscali, e più in particolare nell’ambito delle imposte indirette (IVA e Registro), di alcune figure negoziali consolidate dalla prassi urbanistica muove la presente analisi. I negozi giuridici oggetto di studio sono la cosiddetta cessione di cubatura 1 che rappresenta – in base all’esperienza maturata nel settore della pianificazione 

Il presente contributo riproduce, con sostanziali integrazioni rese necessarie dalle sopravvenute modifiche normative, quanto già pubblicato in Riv. dir. trib., 2013, I, p. 737 ss. 1 L’espressione “cessione di cubatura” è nella prassi sostituita con quella di “trasferimento di cubatura”, tuttavia, la differenza tra i termini “cessione” e “trasferimento” non è priva di significato. Sul punto, S. SELVAROLO, Il negozio di cessione di cubatura, Napoli, 1989, p. 12 ss. L’autore in merito alla distinzione terminologica suddetta osserva che: «Considerata la complessità degli effetti di questa fattispecie, si può osservare che il termine “cessione” attiene ai rapporti che si instaurano fra le parti ed è più pertinente all’atto oneroso e gratuito, ma sempre inter vivos che si forma tra i privati. Il termine “trasferimento, invece, meglio si attaglia agli effetti generali del negozio come è più evidente nella successione testamentaria (…)». In merito alla validità del contratto di cessione di cubatura (laicità della causa e dell’oggetto) si rimanda a M. LIBERTINI, Sui «trasferimenti di cubatura», in Contr. e imp., 1991, p. 80 ss.

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territoriale – lo strumento diretto a realizzare, nel rispetto delle disposizioni dettate dagli strumenti urbanistici, il trasferimento di volumetria fra terreni non riconducibili ad un unico soggetto 2 al fine di conseguire il rilascio del permesso a costruire con una cubatura maggiore rispetto all’edificabilità del terreno su cui realizzare l’erigendo manufatto, nonché, gli atti di redistribuzione di aree tra colottizzanti 3 in seguito all’attuazione dei piani di lottizzazione. Il recente intervento legislativo 4 in materia di trascrivibilità dei diritti edificatori ed il nuovo indirizzo accolto dalla prassi amministrativa 5 sul trattamento fiscale degli atti di redistribuzione di aree tra co-lottizzanti non riuniti in consorzio ripropongono problematiche che, ad oggi, non hanno consentito di raggiungere – in queste ipotesi – una valutazione unanime sul trattamento fiscale ai fini delle imposte indirette (IVA e registro). La pratica contrattuale relativa alla cosiddetta cessione di cubatura è caratterizzata dalla difficoltà 6 (della dottrina e della giurisprudenza) di pervenire ad una classificazione univoca degli accordi negoziale posti in essere dalle parti in assenza di una disciplina legislativa specifica (ovvero una tipizzazione dello schema con2

Nelle ipotesi di un soggetto proprietario di entrambi i terreni si rientra nella cosiddetta concentrazione di volumetria. Così CIMMINO, La cessione di cubatura nel diritto civile, in Riv. not., 2003, p. 1116. 3 In tal senso M. LIBERTINI, Sui «trasferimenti di cubatura», in Contr. e imp., 1991, p. 73 ss. che prevede: «In proposito, va fatta una distinzione preliminare. Può accadere che “trasferimenti di cubatura” siano previsti nell’ambito di convenzioni urbanistiche tra Comune e privati: così, ad esempio, in una convenzione di lottizzazione tipica, in cui si preveda l’asservimento ad un qualunque uso pubblico non edificatorio di un’area privata, e dall’altro una contestuale concentrazione in un’altra area (omissis). In questa sede ci occupiamo, invece, della figura più semplice, supponiamo che gli strumenti urbanistici – sia generali che attuativi – rimangano fermi: il problema del t/c è posto pertanto solo in sede di rilascio della concessione edilizia». 4 L’art. 5, comma 3, D.L. 13 maggio 2011, n 70 in vigore dal 14 maggio 2011 come modificato dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, ha introdotto all’art. 2643 del c.c. il n. 2 bis) che prevede la trascrivibilità dei “contratti che trasferiscono, costituiscono e modificano i diritti edificatori comunque denominati previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale”. 5 Sul punto si è espressa l’Amministrazione finanziaria con la Risoluzione del 4 gennaio 2012, n. 1. L’Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Normativa nel parere formulato concludeva che: «Tali operazioni risultano di fatto attuative della convenzione di lottizzazione, a prescindere dalla circostanza che i proprietari coinvolti risultino costituiti in giudizio. Si ritiene, pertanto, che detti atti di redistribuzione, se posti in essere dai soggetti che hanno assunto gli obblighi connessi con l’attuazione della convenzione di lottizzazione possono beneficiare del regime di favore di cui all’articolo 32 del D.P.R. n. 601 del 1973». 6 In tal senso M. LIBERTINI, Sui «trasferimenti di cubatura», cit., p. 74 che osserva: «dottrina e giurisprudenza continuano a manifestare incertezze in ordine all’inquadramento sistematico della figura e quindi a vari profili della disciplina ad esso applicabile. Molte incertezze derivano dal fatto che il fenomeno si svolge in una “zona di confine” fra diritto pubblico e privato, cioè in un ambito in cui i giuristi italiani continuano a muoversi con difficoltà».

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trattuale); tuttavia, tale attività riceve una regolamentazione nei piani regolatori 7 comunali e da leggi regionali. L’incerta ricostruzione civilistica del negozio di cessione di volumetria – che non è superata dalla mera regolamentazione di settore 8 – solleva, inevitabilmente 9, le medesime problematiche anche ai fini dell’imposta di registro. Altro argomento di riflessione è rappresentato dagli atti di redistribuzione di aree tra co-lottizzanti non riuniti in consorzio, fattispecie non priva di soluzioni divergenti in merito alla tassazione ai fini IVA o rispetto al regime agevolato previsto dal combinato disposto degli artt. 20 della L. n. 10/1977 10 e 32 del D.P.R. n. 601/1973 per quanto attiene le cessioni gratuite di aree tra i soggetti aderenti al piano di lottizzazione.

2. La cessione di cubatura: natura ed effetti Per approfondire il regime tributario della cosiddetta cessione di cubatura 11, 7

Sul punto, M. LIBERTINI, Sui «trasferimenti di cubatura», cit., p. 73 ss.; S. SELVAROLO, Il negozio di cessione di cubatura, Napoli, 1989, p. 16 ss. L’autore cita le norme di attuazione del PRG di Torino, approvate con D.P.R. 6 ottobre 1959, n. 308, che dettano specifiche disposizioni per i trasferimenti di cubatura. 8 S. SELVAROLO, Il negozio di cessione di cubatura, cit. 9 Il rapporto tra l’imposta di registro e la normativa civilistica è un dato incontrovertibile si veda sul punto N. D’AMATI, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, p. 63 ss. 10 Il riferimento alle agevolazioni fiscali collegate all’art. 20 della cosiddetta legge Bucalossi deve essere integrato dal recente intervento legislativo introdotto – in materia di imposta di registro – dall’art. 10, comma 4, del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23 che prevede: «In relazione agli atti di cui ai commi 1 e 2 sono soppresse tutte le esenzioni e le agevolazioni tributarie, anche se previste in leggi speciali». In particolare, l’amministrazione finanziaria con la circolare del 21 febbraio 2014, n. 2, in forza delle recenti disposizioni non considera più applicabili – a partire dal 1 gennaio 2014 – le agevolazioni di cui all’art. 32, D.P.R. n. 601/1973 per i trasferimenti conclusi a titolo oneroso nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione. 11 CANDIAN, Trasferimento di volumetria, in Digesto disc. priv., Sez, civ. (aggiornamento), Torino, 2000, p. 735 ss.; CIMMINO, La cessione di cubatura nel diritto civile, in Riv. not., 2003, p. 1114 ss.; DI PAOLO, Trasferimenti di cubatura d’area e «numero chiuso» dei diritti reali, in Riv. not., 1975, p. 547 ss.; IANNELLI, La cessione di cubatura e i così detti atti di asservimento, in Giur. merito, 1977, IV, p. 740 ss.; N. GRASSANO, La cessione di cubatura, in Riv. not., 1992, p. 1069 ss.; M. LIBERTINI, Sui «trasferimenti di cubatura», in Contr. e imp., 1991, p. 73 ss.; M. LEO, Il trasferimento di cubatura, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studi e Materiali, VI, t. 2, 1998-2000, Milano, 2001, p. 669 ss.; G.B. PICCO-A.M. MAROCCO, I così detti trasferimenti di cubatura, in Riv. not., 1974, p. 626 ss.; R. TRIOLA, La natura giuridica delle cessioni di cubatura, in Giust. civ., 1974, I, p. 1424; ID., La «cessione di cubatura»: natura giuridica e regime fiscale, in Riv. not., 1974, p. 115; S.G. SELVAROLO, Il negozio di cessione di cubatura, Napoli, 1989; G. CECCHERINI, Il c.d. «trasferimento di cubatura», Milano, 1985; ID., Funzione ed efficacia della cessione di cubatura, in Giust. civ., 1990, II, p. 103; A. GAMBARO, La proprietà edilizia, in Trattato dir. civile, diretto da P. Rescigno, VII, 1, Torino, 1982, p. 527;

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alla luce delle recenti disposizioni legislative 12 in materia di circolazione dei diritti edificatori, non si può prescindere da una breve disamina del fenomeno. La cessione di cubatura consiste in un accordo tra proprietari di aree contingenti 13, aventi la stessa destinazione urbanistica, in forza del quale il proprietario di un’area edificabile non sfrutta per sé la cubatura realizzabile sul proprio terreno per consentire all’altro di disporre di una volumetria maggiore di quella espressa dal terreno di sua proprietà 14. In altri termini la volumetria realizzabile sui singoli terreni – secondo gli standards urbanistici – viene utilizzata (anche solo in misura parziale) a favore di un solo fondo. Secondo l’orientamento costante della dottrina e dei giudici di legittimità è riconosciuta la possibilità di stipulare tali convenzioni 15, in quanto, l’eccedenza di volumetria che si realizza mediante il negozio in questione trova compensazione nella minore edificazione dell’area asservita 16. P.L. TROJANI, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali e cessioni di cubatura. Lo stato della dottrina e della giurisprudenza ed una ipotesi ricostruttiva originale, in Vita not., 1990, p. 285 ss.; V. VANGHETTI, Profili civilistici della c.d. «cessione di cubatura», in Not., 1996, p. 417. 12 L’art. 5, comma 3, D.L. 13 maggio 2011, n. 70 in vigore dal 14 maggio 2011, come modificato dalla L. 12 luglio 2011, n. 106. 13 La problematica della collocazione dei suoli viene affrontata da N. A. CIMMINO, La cessione di cubatura nel diritto civile, in Riv. not., 2003, p. 1118 «La necessità di un effettiva e significativa vicinanza tra i suoli ai fini della formazione del lotto edificabile è stata costantemente affermata dalla giurisprudenza amministrativa (nota 14 Cons. St. sez. V, 28 giugno 1971, n. 632, cit.; TAR Piemonte 10 luglio 1974, n. 52, in Foro amm., 1974, I, p. 861; TAR Piemonte 13 novembre 1974, n. 80, in Foro amm., 1974, I, p. 1434; TAR Umbria 7 febbraio 1975, n. 42, in Riv. giur. edil., 1976, I, p. 776; Cons. St., sez. V, 8 luglio 1977, n. 755, in Foro amm., 1977, I, p. 1777; TAR Lazio 22 novembre 1978, n. 917, in in Foro amm., 1979, I, p. 151; Cons. St., sez. V, 12 gennaio 1979, n. 13, in Riv. giur. edil., 1979, I, p. 68; TAR Piemonte 13 novembre 1979, n. 521, in Foro amm., 1980, I, p. 449; Cons. St. sez. V, 27 febbraio 1986, n. 147, in Rep. Giur. it., 1986, Edilizia e urbanistica, n. 783). Va tuttavia rilevato che gli stessi giudici amministrativi in numerose pronunce hanno fornito una interpretazione sufficientemente elastica del richiamato principio; così, ad esempio, si è evidenziato, non senza qualche equilibrismo giuridico, che non è richiesta la continuità ed unicità del lotto, ma semplicemente che i fondi siano contigui (nota 15 – Cons. St., sez. V, 1 ottobre 1986, n. 477, in Riv. giur. edil., 1986, I, p. 1014) … omissis…». 14 In questo senso Cass. 20 maggio 2009, n. 21177. 15 Sul punto una breve considerazione di carattere generale rispetto al principio di autonomia delle parti di concludere contratti diversi da quelli tipici e, in particolare, E. GABRIELLI, Studi sui contratti, Torino, 2000, p. 716 ss. secondo il quale «Il principio di autonomia che l’ordinamento riconosce ai privati nell’art. 1322 c.c. rappresenta una delle norme di maggior impegno interpretativo della materia dei contratti in generale, poiché quello della meritevolezza dell’interesse perseguito dalle parti nel contratto atipico è stato definito “il problema centrale dell’autonomia privata” (FERRI G.B., [30], 87) giacché coinvolge, fra l’altro, il tema della definizione del rapporto tra libertà dei privati e valori dell’ordinamento e per altro verso quello della dinamica di produzione degli effetti giuridici». 16 Sul punto N. GRASSANO, La cessione di cubatura, in Riv. not., 1992, p. 1070 che sottolinea

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Nonostante il negozio di trasferimento di cubatura rientri pienamente nella prassi negoziale non si rinviene la stessa unanimità per quanto attiene l’individuazione dello schema contrattuale diretto a perseguire un tale assetto di interessi. Parte della dottrina 17 – supportata da una risalente giurisprudenza 18 – sostiene la teoria della servitù assimilando l’accordo tra le parti alla costituzione di una servitus altius non tollendi nel caso di trasferimento parziale di volumetria o di una servitus inaedificandi nelle ipotesi di traslazione totale della volumetria. In entrambi i casi, il trasferimento avviene mediante un atto costitutivo di servitù a non edificare per tutta o una parte della volumetria del fondo servente a favore del terreno (fondo dominante) di un altro proprietario 19. Altri autori 20 ricostruiscono la cessione di cubatura come un negozio ad effetti meramente obbligatori 21 considerato che il proprietario cedente assume l’obbligo di non costruire sul proprio terreno e di prestare la sua opera per il rilascio della concessione (che tiene conto della volumetria ceduta) a favore del cessionario. come: «l’eccedenza di volumetria che si realizza in virtù del negozio in questione, trova compensazione nella correlativa minore edificabilità dell’area asservita; cossichè, l’alterazione del rapporto di densità edilizia è da reputarsi, avuto riguardo alla considerazione complessiva della zona interessata, inesistente». Secondo M. LIBERTINI, Sui «trasferimenti di cubatura», in Contr. e imp., 1991, p. 7, il fenomeno della cessione di cubatura non lede di norma alcun interesse pubblico; l’autore evidenzia in nota 2) che «L’accorpamento di cubatura può avere, semmai, un significato urbanisticamente positivo, in quanto può stimolare la ricerca di soluzioni più elaborate e impegnative». 17 G. PICCO, Natura ed efficacia dei vincoli volumetrici conseguenti a piani regolatori o regolamenti urbanistici – il trasferimento di cubatura, Relazione al XV Congresso nazionale del Notariato, Verona, 1966; G. PICCO-A.M. MAROCCO, I così detti “trasferimenti di cubatura”, in Riv. not., 1974, p. 626; M. MARÈ, Natura e funzione dell’atto d’obbligo nell’ambito del procedimento di imposizione di vincoli di destinazione urbanistica, in Riv. not., 1990, p. 1347; N. GRASSANO, La cessione di cubatura, in Riv. not., 1992, p. 1069; F. GERBO, La cessione di volumetria, in Il Notaro, 1998, p. 105; R. COLLETTI, La servitù e la cessione di cubatura, in Nuova Rassegna, 1996, p. 68. 18 Si veda al riguardo Cass. 25 ottobre 1973, n. 2743, in Giust. civ., 1974, I, p. 922; Cass. 25 febbraio 1980, n. 1317, in Giur. it., 1981, I, 1, p. 1346; Cass., SS.UU., 20 dicembre 1983, n. 7499, in Giur. it., 1984, I, 1, p. 209. 19 Rispetto a tale ricostruzione il rilascio del titolo abitativo da parte del Comune viene qualificato come condictio iuris sospensiva dell’accordo costitutivo della medesima servitù. 20 L’opinione è stata sostenuta da G. CECCHERINI, Il cd. trasferimento di cubatura, Milano, 1985, p. 53 ss.; in seguito da V. DE LORENZI, Sul cd. trasferimento di cubatura, in Corr. giur., 1989, p. 280; A. CHIANALE, Osservazioni sul cosiddetto trasferimento di cubatura, in Giur. it., 1989, I, 1, p. 1548; A. CANDIAN, Il contratto di trasferimento di volumetria, Milano, 1994; F. GAZZONI, La cosiddetta cessione di cubatura, in Commentario al codice civile diretto da P. Schlesinger, Milano, 1991, Vol. I, p. 658 ss. 21 N. CIMMINO, La cessione di cubatura nel diritto civile, in Riv. not., 2003, p. 1126, spiega gli effetti meramente obbligatori in quanto ritiene che: «il provvedimento della p.a. non si limita a prendere atto della ridistribuzione della volumetria edificabile programmata dai privati, bensì opera una vera e propria modifica degli strumenti urbanistici in vigore». Sul punto si segnala Cass. 14 dicembre 1988, n. 6807, in Giur. it., 1989, I,1, c. 1544; Cons. St. sez. V, 28 giugno 2000, n. 3637, in Foro amm., 2000, I, p. 2186.

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La prevalente giurisprudenza di legittimità (in adesione alla teoria dell’atto traslativo di diritti reali immobiliari) valuta la cubatura edificatoria – vale a dire la possibilità di sfruttamento edilizio del fondo – come un bene in senso economico giuridico 22. Pertanto, il titolare del diritto edificatorio – ovvero il proprietario del fondo – ha facoltà di esercitarlo in autonomia rispetto alla successiva autorizzazione rilasciata dalla Pubblica amministrazione. Ne discende che il diritto di edificare è un diritto disponibile del proprietario del suolo edificatorio e, in quanto tale, può essere trasferito ad altri soggetti (pensiamo alle ipotesi di trasferimento della stessa proprietà o del diritto di superficie). Nell’ipotesi di cessione della cubatura il proprietario non esercita il proprio diritto di realizzare sul fondo la volumetria consentita dagli strumenti urbanistici, poiché trasferisce la cubatura 23 realizzabile sulla propria area al proprietario di un altro fondo. Le summenzionate tesi – avallate dalla giurisprudenza di legittimità –, dirette a ricostruire il fenomeno del negozio di cessione, sono rappresentative di due principali linee di analisi. Un primo orientamento privilegia il profilo c.d. pubblicistico, in quanto, qualifica la cessione di cubatura come un contratto atipico ad effetti obbligatori quale atto preparatorio e procedimentale senza oneri di forma pubblica o di trascrizione, finalizzato al trasferimento di volumetria, la cui fonte risiede esclusivamente nel provvedimento amministrativo 24 (rientrano in questa classificazione le impostazioni che considerano il trasferimento di volumetria come un atto di rinuncia del proprietario 25, un negozio plurilaterale 26 o trilatero 27) 28. 22 R. ZAMPINI, Cessione di cubatura: registro o i.v.a.?, in Giur. imp. Dirette, 1989, p. 171 ss. che richiama, sul punto, l’orientamento della Corte di Cassazione: «La Corte ha quindi concluso per la tesi che ravvisa nella cessione di cubatura “effetti assimilabili a quelli propri di un trasferimento immobiliare” ritenendo che “la cubatura costruttiva realizzabile costituisce perciò una utilitas dello stesso (terreno) ed, in definitiva, un bene in senso economico-giuridico». 23 In questo senso A. CANDIAN, Trasferimento di volumetria, in Dig. disc. priv., Sez. civ. (aggiornamento), Torino, 2000, p. 738, secondo il quale: «È infatti evidente che nella nostra tradizione giuridica la volumetria in sé non può essere qualificata come un bene a se stante, ma come una mera utilità del fondo». 24 In tal senso TAR Veneto 10 settembre 2004, n. 3263; Cons. Stato 28 giugno 2000, n. 3637, secondo le pronunce riportate si riteneva non necessario un vero e proprio atto di asservimento o cessione, reputandosi sufficiente l’adesione del cedente, da manifestarsi o sottoscrivendo l’istanza e/o il progetto del cessionario. 25 M. COSTANZA, in Nuova giur. civ. comm., 1989, p. 368. 26 A. GAMBARO, La proprietà edilizia, in Trattato dir. civile, diretto da P. Rescigno, VII, 1, Torino, 1982. 27 Così M. LIBERTINI, Sui «trasferimenti di cubatura», in Contr. e imp., 1991, p. 80, sintetizza le conclusioni di P.L. TROJANI, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali e cessioni di cubatura. Lo stato della dottrina e della giurisprudenza ed una ipotesi ricostruttiva originale, in Vita not., 1990, p. 285 ss. 28 La giurisprudenza di legittimità con recenti pronunce, ex pluris sentenza n. 20623/2009, qualifica il trasferimento di volumetria come una fattispecie complessa a formazione complessiva.

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Per contro, l’indirizzo c.d. privatistico riconosce la necessità del ricorso a strumenti negoziali di ius privatorum (come la servitù di non edificare 29 e la superficie atipica 30) attraverso i quali il proprietario può asservire il proprio terreno a favore di un altro proprietario limitrofo per trasferire a quest’ultimo la volumetria maggiore di quella che il suo terreno gli consente, configurandosi in tale ottica un atto “assimilabile al trasferimento di un diritto reale immobiliare” 31.

3. Il negozio di cessione di cubatura: aspetti fiscali relativi all’imposta di registro In via preliminare è necessario individuare i soggetti che pongono in essere l’atto di cessione, poiché, nel rapporto tra IVA e imposta di registro si deve tenere conto – ai sensi dell’art. 40 del D.P.R. n. 131/1986 – del particolare regime di alternatività tra le due imposte. Nell’ambito della presente riflessione si circoscrive l’analisi del trattamento tributario della cessione di cubatura alle ipotesi di circolazione dei beni al di fuori del regime d’impresa, in quanto le cessioni 32 di beni strumentali all’attività di impresa seguono la regola generale 33 della “prevalenza giuridica” 34 dell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto rispetto alle altre imposte indirette. L’incerta qualificazione contrattuale del trasferimento di volumetria solleva divergenze operative in merito all’individuazione, ai fini della tassazione di registro, della determinazione della base imponibile e dell’aliquota, considerando, le possibili soluzioni del fenomeno sotto il profilo negoziale. A tal proposito si ricorda “il legame non occasionale” 35 – fin dalle origini della legislazione unitaria – tra la legge di registro e l’ordinamento civilistico 36, infatti Secondo questa impostazione l’accordo dei privati non è sufficiente a produrre gli effetti perseguiti dalle parti in assenza dell’intervento dell’amministrazione nel rilascio dei relativi provvedimenti edilizi. 29 G.B. PICCO-A.M. MAROCCO, I così detti trasferimenti di cubatura, in Riv. not., 1974, p. 626. 30 S.G. SELVAROLO, Il negozio di cessione di cubatura, Napoli, 1989. 31 Cass. 14 maggio 2007, n. 10979; Cass. 14 dicembre 1988, n. 6807. Il Consiglio di Stato ha equiparato i trasferimenti di volumetria ai negozi di trasferimento di diritti immobiliari. Cfr. Cons. St. sez. V, 13 agosto 1996, n. 918. 32 Nei casi di cessioni concluse tra soggetti IVA che agiscono entrambi nell’esercizio di impresa emerge la neutralità dell’imposta. 33 Sul punto BORIA, Il sistema tributario, Torino, 2006, p. 774 ss. 34 Così BORIA, Il sistema tributario, cit., p. 774 ss. 35 Espressione utilizzata da FERRARI, Registro (imposta di), in Enc. giur., Roma, 2006. 36 RASTELLO, Registro (imposta di), in Enc. giur., Roma, 1993. Sul rapporto tra imposta di registro e diritto civile a partire dalla prima legge italiana CLEMENTINI, Le leggi sulle tasse di registro

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la qualificazione civilistica dell’atto si riflette in termini ricostruttivi della fattispecie e della base imponibile ai fini del trattamento tributario. Ai sensi dell’art. 1 del T.U. l’imposta di registro si applica: «agli atti soggetti alla registrazione e a quelli volontariamente presentati per la registrazione»; tuttavia, il presupposto – “oggetto” – del tributo non è l’atto inteso come instrumentum ma il contenuto e gli effetti giuridici dello stesso. L’applicazione del tributo segue – così come evidenziato da parte della dottrina 37 – i due criteri dettati dal legislatore: i) “l’inclusione di determinati atti nell’apposita tariffa”; ii) “l’individuazione dei singoli soggetti interessati alla registrazione”; tuttavia, per quanto attiene il primo dei criteri sopra indicati è utile ricordare che la tariffa 38 opera una distinzione degli atti sulla base degli effetti prodotti o rispetto alla mera indicazione degli stessi nell’elencazione riportata dal testo di legge (riferimento al c.d. nomen iuris); tuttavia, la funzione delle due tariffe è quella di stabilire il quantum del tributo. L’oggetto dell’imposta 39 di registro è il negozio giuridico 40 e, quindi, il tributo è strettamente correlato al contenuto dell’atto 41, nonché, agli effetti che lo stesso annotate, Torino, 1888-1889, evidenziava che: «l’indole della legge di registro vuole che la si applichi secondo le idee ed i metodi che regolano il diritto civile». 37 In tal senso D’AMATI, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, in particolare, l’Autore evidenzia rispetto all’inclusione di determinati atti nell’apposita tariffa che: «Non si incontrano gravi difficoltà, dal momento che prevale la tipicità normativa». 38 La tariffa conserva le caratteristiche introdotte dal D.P.R. n. 634/1972, tuttavia, la diversa impostazione sistematica adottata dal Legislatore trova risalto nel passaggio con la precedente legislazione e, quindi, con la legge 1923. Sul punto, AVEZZA, Imposta di registro, Milano, 1973. L’autore esamina l’art. 19 del D.P.R. n. 634/1972 osserva che: «la nuova tariffa ha assunto una fisionomia decisamente diversa da quella del 1923, ispirata questa, al principio della minuziosa specificazione, laddove la legge delega ha invece prescritto il criterio del raggruppamento degli atti per grandi categorie, con evidente assimilazione di atti che, pur sotto diverso nomen iuris, hanno una comune radice giuridica (…)». 39 Non si è arrestato il dibattito in merito al carattere di imposta o tassa di registro. Parte della dottrina ravvisa una natura mista e, quindi, utilizza il concetto di tassa nei casi in cui il dovuto è determinato in misura fissa ed imposta nelle ipotesi di quantificazione in misura proporzionale. In questo senso SANTAMARIA, Registro (Imposta di), in Enc. dir., Milano, 1988, XXXIX; GRAZIANI, Istituzioni di scienza delle finanze, Torino, 1929; JAMMARINO, Commento alla legge sulle imposte di registro, I, Torino, 1962; RASTELLO, Il tributo di registro, Roma, 1955, PUGLIESE, Le tasse nella scienza e nel diritto positivo italiano, Padova, 1930; TESAURO, Novità e problemi nella disciplina dell’imposta di registro, in Riv. dir. fin., 1975, I; FERRARI, Registro (imposta di), in Enc. giur., Roma, 2006. 40 In tal senso UCKMAR, La legge di registro, Padova, 1958, GHINASSI, L’imposta di registro, in RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2003. Per contro, RASTELLO, Il tributo di registro, Roma, 1955 che individua il presupposto nella redazione di un atto scritto. 41 Sul punto, FERRARI, Registro (imposta di), in Enc. giur., Roma, 2006: «Dall’esame delle varie disposizioni che regolano il tributo si evince che il legislatore mira più che al documento al suo contenuto». Si rinvia a A. UCKMAR-V. UCKMAR, Registro (Imposta di), in Nss. D.I., XV, Torino, 1968, p. 39 ss.; SANTAMARIA, L’imposta di registro, Milano, 1977, p. 34; URICCHIO, in D’AMATI,

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realizza. Per liquidare l’imposta – individuato il contenuto degli accordi negoziali conclusi tra le parti 42 – si deve determinare, secondo i principi generali e le regole comuni, il relativo regime tributario 43. Conclusa l’analisi diretta a definire l’oggetto dell’atto stipulato dai contraenti è necessario stabilire il valore imponibile dell’atto e individuare le regole da applicare per la determinazione della base imponibile: artt. 43 e ss. del T.U. La disposizione sopra indicata suddivide – salvo le particolari ipotesi dettate dai successivi articoli – gli atti in categorie omogenee (art. 43, dalla lett. a) alla lett. i)) con la previsione, per ciascuna di esse, delle relative modalità di formazione della base imponibile. In tale contesto si inscrive la riflessione in merito ai contratti 44 innominati 45 che sono di difficile sussunzione all’interno dei modelli contrattuali richiamati dal T.U. n. 131/1986. Sebbene la cessione di cubatura rappresenti una figura priva di regolamentazione normativa, secondo l’orientamento prevalente 46 – accolto dalla stessa La nuova disciplina dell’imposta di registro. Il TU n. 131 del 26 aprile 1986, commentato articolo per articolo, Torino, 1989, p. 90. 42 Sul punto BERLIRI, Le imposte di bollo e di registro, Milano, 1970, p. 129 ss. La necessità di determinare il contenuto dell’atto “per individuare la norma di legge ad esso applicabile”, secondo l’autore trova la sua giustificazione: «nella natura stessa della imposta di registro che, in realtà, colpisce l’atto e non il trasferimento. Il fatto giuridico che determina il sorgere del rapporto d’imposta non è il trasferimento di un bene, l’assunzione di una obbligazione (…), tanto è vero che l’imposta non è dovuta, salvo casi eccezionali, se il contratto è stipulato verbalmente». In senso conforme RASTELLO, Il tributo del registro, Roma, 1955. 43 In particolare si richiama BERLIRI, Le imposte di bollo e di registro, Milano, 1970, p. 129 ss. L’autore nel capitolo dedicato alla “determinazione del regime tributario dell’atto” premette che: «Individuato in base ai principi sopra esposti il contenuto dell’atto, occorre, per poter giungere alla liquidazione dell’imposta, determinarne il regime tributario; per il che è necessario tener presenti: 1) alcuni principi generali comuni a tutti gli atti; 2) alcune regole comuni non a tutte, ma a vaste categorie di atti; 3) le regole speciali proprie delle singole categorie di atti. I principi generali sono: (…) d) la ricerca analogica della norma applicabile nel caso di atti non nominativamente elencati nella tariffa (…) Le regole comuni a vaste categorie di atti riguardano: (…) c) la determinazione del valore imponibile per gli atti soggetti ad imposta graduale, proporzionale o progressiva». 44 CLARIZIA, Contratti innominati, in Enc. giur., Roma, 1993; DE NOVA, Il tipo contrattuale, Padova, 1974; MESSINEO, Contratto innominato, in Enc. dir., X, Milano, 1962. 45 Così, URBANI, Le innovazioni in materia edilizia privata nella L. N. 106/2011 di conversione del D.L. 70 13 maggio 2011. Semestre europeo – prime disposizioni urgenti, in Riv. giur. edilizia, 2011: «La cessione di cubatura o di volumetria è quel contratto innominato, sorto nella prassi edilizia e ampiamente utilizzato da tempo nell’attuazione della pianificazione urbanistica». 46 In dottrina si segnala GRASSANO, La cessione di cubatura nel processo conformativo della proprietà edilizia privata, in Giur. it., 1990, IV, LIBERTINI, Sui «trasferimenti di cubatura», in Contr. e imp., 1991, p. 80. Per quanto attiene l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità si rimanda a: Cass., 6 luglio 1972, n. 22365; Cass., 9 marzo 1973, n. 641, in Foro it., 1973, I, 2117; Cass., 21 marzo 1973, n. 802, in Riv. leg. fisc., 1973, 2220; Cass., 14 dicembre 1988, n. 6807.

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Amministrazione finanziaria 47 –, tale negozio produce un effetto analogo a quello proprio dei trasferimenti dei diritti reali immobiliari. Per i contratti a titolo oneroso traslativi o costitutivi di diritti reali, ai sensi dell’art. 43, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 131/1986, la base imponibile è determinata dal valore del bene o del diritto alla data dell’atto. Il valore che si assume come base imponibile è quello “venale in comune commercio” ai sensi dell’art. 51, comma 1; infatti, l’Amministrazione finanziaria può rettificare e liquidare la maggiore imposta oltre interessi e sanzioni – ex art. 52 – se ritiene che il valore dichiarato nell’atto sia inferiore al valore in commercio. L’adesione al suddetto indirizzo fa sì che alla cessione di cubatura si renda applicabile l’aliquota di cui all’art. 1 della Tariffa, all. A, parte 1^ del D.P.R. 131/86 48. Nonostante il recente intervento legislativo relativo alla trascrizione dei diritti edificatori ai sensi dell’art. 2643, n. 2 bis), c.c. e, quindi, la possibilità – ravvisata da una parte della dottrina – di configurare, in forza del nuovo dato legislativo, i diritti edificatori come diritti immobiliari secondo l’accezione di cui all’art. 2645 c.c. (opponibilità ai terzi, diritto di seguito), non si ritiene, tuttavia, di condividere tale impostazione che sul piano fiscale rafforza – ai fini della tassazione dell’imposta di registro – l’adesione alla risoluzione n. 250948 del ’76. Appare del tutto evidente che l’inserimento dei contratti costitutivi o modificativi dei diritti edificatori (comunque denominati) tra gli atti elencati dall’art. 2643 c.c. non risolve il problema della natura reale o meno di tali diritti. A tal proposito si osserva che il n. 2 bis) dell’art. 2643 c.c. affronta – con la necessaria pubblicità degli atti citati attraverso la trascrizione 49 – solo la problematica relativa alla circolazione dei beni. 47 Il consolidarsi di questo orientamento veniva recepito dalla prassi amministrativa con la risoluzione dell’Amministrazione finanziaria n. 250948 del 17 agosto 1976, secondo cui: «.. sembra a questo Ministero che si debba convenire con quanto più volte affermato dalla Corte di Cassazione (cfr. sentenze n. 2235 del 06.07.1972, n. 6807 del 14.12.1988), nel senso che il caso di specie dà luogo alla produzione di effetti analoghi a quelli derivanti da un atto costitutivo di diritti reali immobiliari (…) nella cessione di cubatura si verifica l’acquisto di un diritto strutturalmente assimilabile alla categoria dei diritti reali immobiliari di godimento (…)». 48 In senso contrario, l’altalenante qualificazione giuridica del negozio di cessione – ad esempio in termini di contratto ad effetti obbligatori – renderebbe applicabile l’art. 9 della tariffa, parte I (aliquota del 3 per cento, sia per atti relativi a beni diversi da quelli indicati all’art. 1, sia per quelli diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale). 49 TORRENTE SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 2007. La manualistica individua: «la funzione originaria della trascrizione è quella di strumento per la soluzione dei conflitti tra più soggetti acquirenti di diritti reali su determinati beni. Il diritto reale acquistato su un bene immobile diventa opponibile ai terzi soltanto per effetto della trascrizione. (…) Siccome la circolazione dei beni deve essere favorita, perché giova all’economia generale, l’ordinamento giuridico soccorre con apposite regole che si ispirano fondamentalmente a due diversi criteri di soluzione dei conflitti, che assumono quali elementi determinanti o l’apprensione materiale della res oggetto del diritto, ovvero l’attuazione di un sistema di pubblicità dell’atto traslativo o costitutivo di un diritto reale»; ZACCARIA TROIANO, Gli effetti della trascrizione, Torino, 2005; GAZZONI, La tra-

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La liquidazione dell’imposta di registro non può prescindere dall’individuazione del contenuto dell’atto e, nell’ipotesi della cessione di cubatura, tale valutazione assume come unico riferimento il negozio concluso dalle parti (che può essere costituito, ad esempio, attraverso una divisione nei casi di redistribuzione tra lottizzanti o la costituzione di un diritto di superficie) in assenza della legislazione statale di riferimento; ciononostante, la prassi amministrativa – per quanto attiene il profilo fiscale – ha indirizzato il contribuente con la risoluzione n. 250948/76.

4. Il piano di lottizzazione: brevi cenni della disciplina urbanistica di riferimento Il trattamento fiscale dell’atto di redistribuzione di aree tra co-lottotizzanti (riuniti o meno in forma consortile) nell’imposizione indiretta, impone una più ampia riflessione sistematica sugli istituti o figure che la manualistica raggruppa nella categoria delle convenzioni urbanistiche 50 e, più in particolare, nella convenzione di lottizzazione. Non si può prescindere da un’elencazione sistematica della disciplina statale di riferimento in materia urbanistica (legislazione che interviene anche sul trattamento fiscale di determinati atti come ad esempio l’art. 20 della L. n. 10/1978): la cosiddetta legge fondamentale del 17 agosto 1942, n. 1159 (LU) 51 e ss.mm. che ha previsto l’adozione su tutto il territorio nazionale dei piani urbanistici; L. 18 aprile 1962, n. 167 in tema di acquisizione di aree per l’edilizia economica e popolare; L. 29 settembre 1964, n. 847 che definisce le opere di urbanizzazione; L. 28 gennaio 1977, n. 10 (LS) e, infine, ma solo ai fini di sintesi, il recente TU in materia edilizia D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 entrato in vigore dal 30 giugno 2003 (ha abrogato la L. n. 10/1977 oltre alla L. n. 1902/1952, art. 31 L. n. 457/1978 e L. n. 493/1993). In origine le convenzioni urbanistiche erano dei contratti attraverso i quali i privati regolavano con i Comuni l’assetto urbanistico di determinate zone del territorio di competenze dell’ente realizzando, in considerazione del contenuto degli accordi, una funzione di piano regolatore 52. scrizione immobiliare, I, artt. 2643 – 2634, in Il Cod. civ. commentario diretto da Schlesinger, Milano, 1991. 50 URBANI-CIVITARESE MATTEUCCI, Diritto Urbanistico, Torino, 2004. 51 Le più importanti modifiche alla legge urbanistica sono state introdotte dalla L. 6 agosto 1967, n. 765 c.d. “Legge Ponte” attraverso la previsione di limitazioni all’attività costruttiva in assenza degli strumenti urbanistici generali, le norme di disciplina delle lottizzazioni convenzionate, l’obbligo di licenza edilizia in tutto il territorio comunale; la necessaria presenza delle opere di urbanizzazione primaria ai fini del rilascio della licenza edilizia e l’obbligatorietà dell’applicazione delle misure di salvaguardia in presenza di un nuovo strumento urbanistico. 52 In questo senso V. MAZZARELLI, Le convenzioni urbanistiche, Bologna, 1979.

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Sebbene la LU all’art. 28 – nella formulazione originaria – individuasse le lottizzazioni come strumenti di “terzo livello” rientranti nella competenza del sindaco e nessuna disposizione affrontava la disciplina delle convenzioni; tale lacuna legislativa è stata colmata dall’art. 8 della LP, con la previsione dell’aggiunta di undici commi all’art. 28 in sostituzione dei primi due. A seguito della suddetta novella il legislatore ha introdotto l’istituto della convenzione che diventò obbligatorio in tutte le ipotesi di lottizzazione di aree a scopo edilizio (vietata prima dell’approvazione del PRG o del PRF) 53.

4.1. Le convenzioni di lottizzazione Le diverse ipotesi di convenzione previste dalla legislazione urbanistica possono essere raggruppate – secondo autorevole dottrina – in due principali subcategorie: i) convenzioni a contenuto conformativo (piani di lottizzazione, piani di recupero di iniziativa privata) che intervengono in sostituzione del provvedimento di piano nel determinare le prescrizioni urbanistiche; ii) convenzioni a contenuto operativo dirette a regolare l’aspetto attuativo dei piani (convenzioni per insediamenti produttivi, edilizia residenziale pubblica convenzioni edilizie). A questo punto, senza affrontare le problematiche sollevate dalla dottrina in merito alla qualificazione giuridica delle convenzioni, maggiore rilievo assume lo schema operativo (ai sensi dell’art. 28 LU) che permette la stipula di tali atti: i) i proprietari dei suoli, gli imprenditori o entrambi i soggetti predispongono un progetto da sottoporre all’amministrazione comunale per l’assetto urbanistico di una determinata area; ii) il progetto raggiunge un punto di sintesi a conclusione di una trattativa tra il pubblico e il privato; iii) i contraenti privati assumono a fronte della convenzione 54 una serie di obbligazioni e, più in particolare, si sottolineano quelle di urbanizzazione. In base all’art. 28 della LU gli obblighi previsti dalla convenzione a carico dei privati devono rispettare le seguenti condizioni: 53

La previsione normativa delle convenzioni – ex art 8 della legge ponte – introduce nella legislazione urbanistica numerosi modelli contrattuali caratterizzati dalle diverse finalità perseguite. Sul punto URBANI-CIVITARESE MATTEUCCI, in Diritto Urbanistico, Torino, 2004, che individuano i seguenti modelli: «a) le convenzioni previste dalla l. 865/1971 (artt. 27 e 35) relative all’attuazione dei piani per l’edilizia economica e popolare e dei paini per insediamenti produttivi; b) le varie specie di convenzioni, cosiddette edilizie, previste dagli artt. 7, 9 e 11 della legge sulla edificabilità dei suoli; c) le convenzioni previste dalla l 457/1978 in tema di recupero edilizio ed urbanistico (artt. 27, 28, 30, 32); d) le convenzioni relative alla realizzazione di autoparcheggi previste dalla legge 122/1989». 54 L’Amministrazione comunale per contro si impegna a non mutare nel tempo le determinazioni sulla scelta urbanistica concordata. L’obbligazione consiste non in un facere quanto in un comportamento negativo (non facere) che si realizza nel mancato esercizio del potere di pianificazione urbanistica per modificare l’assetto del territorio così come definito nella convenzione.

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i) nella cessione gratuita in favore del Comune delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché, per la quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria; ii) nell’assunzione a carico del lottizzante degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria e di allacciamento ai servizi pubblici; iii) nell’indicazione dei termini di esecuzione della convenzione non superiore ai dieci anni; iv) nella previsione delle congrue garanzie finanziarie per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione. Le condizioni sopra riportate fanno sì che a seguito della cessione gratuita a favore del Comune per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria (in questo caso solo per una quota parte) si possa determinare tra i lottizzanti una situazione di “squilibrio” 55, considerato che alcuni lottizzanti possono risentire di una diminuzione parziale o, addirittura, totale – rispetto ad alcuni lotti – della propria capacità edificatoria. Ne consegue l’esigenza di intervenire a favore dei soggetti incisi attraverso l’assegnazione o trasferimento di aree edificatorie per ripristinare il rapporto originario tra la superficie a propria disposizione e la relativa capacità edificatoria. Proprio queste ipotesi sono oggetto di studio al fine di determinare – in base alle premesse riportate nel precedente paragrafo – l’assoggettabilità o meno all’imposta sul valore aggiunto.

4.2. Atti di redistribuzione di aree tra i co-lottizzanti Il concetto di area edificabile in materia fiscale trova una fondamentale definizione nell’art. 36, D.L. n. 223/2006 che prevede: «un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall’approvazione della regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo». La disposizione segna l’adesione alla teoria sostanzialistica, poiché non richiede il perfezionamento dello strumento urbanistico; infatti, l’art. 36, comma 2, assume come passaggio ai fini dell’edificabilità dell’area lo strumento urbanistico generale comunale e non l’approvazione della Regione o l’adozione dei vari piani di attuazione del piano regolatore generale. È indispensabile il richiamo a tale concetto, in quanto la redistribuzione tra i colottizzanti riguarda proprio le aree edificabili (soprattutto è importante stabilire in quale momento qualificare edificabile un’area). La volumetria edificabile riconosciuta dal piano di lottizzazione è calcolata sulla superficie complessiva che risulta dalla sommatoria delle aree dei singoli 55 Studio CNN n. 28-2006/T, Atto di redistribuzione di aree tra co-lottizzanti non consorziati e relativo trattamento fiscale.

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proprietari co-lottizzanti. La superficie complessiva è oggetto di esame per quanto attiene la predisposizione dei vari lotti, nonché, delle aree da destinare per le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie – in quota parte –). La destinazione obbligatoria ai sensi della legislazione urbanistica nazionale di una parte della superficie totale di lottizzazione per le opere suddette può determinare per i singoli proprietari una maggiore o minore edificabilità rispetto a quella realizzabile ab origine. Ne discende un effetto distorsivo della capacità edificatoria tra i co-lottizzanti; tuttavia, tale effetto può essere riequilibrato mediante un atto di ricomposizione fondiaria. Nella prassi l’atto di ricomposizione fondiaria è assimilato a diversi schemi negoziali di seguito indicati (aspetto rilevante anche ai fini fiscali): a) cessioni reciproche senza corrispettivo tra i lottizzanti; b) permute senza conguaglio; c) assegnazione a ciascun lottizzante dei lotti in proporzione alla capacità edificatoria degli stessi; d) trasferimento delle aree dei lottizzanti a favore di un consorzio costituito da questi ultimi. Un aspetto di particolare interesse nasce dalla limitazione che incontra la redistribuzione di aree, in quanto, non sempre si realizza una puntuale corrispondenza tra lotti e originaria capacità edificatoria dei singoli proprietari delle aree rientranti nella lottizzazione e, pertanto, in tali ipotesi il riequilibrio può avvenire tramite conguaglio.

5. La tassazione IVA degli atti di redistribuzione La tassazione ai fini IVA delle acquisizioni e/o cessioni di aree in esecuzione dei piani di lottizzazione è disciplinata dall’art. 51 della l. 342/2000 limitatamente alle operazioni 56 poste in essere a favore dei Comuni; mentre, gli atti di redistribuzione di aree tra co-lottizzanti (in possesso dei requisiti IVA) non sono assoggettati a speciali disposizioni fiscali, pertanto in queste ipotesi può trovare applicazione l’ordinario regime di tassazione, sebbene, non manchino orientamenti discordanti. Il problema fondamentale da risolvere nelle ipotesi sopra indicate consiste nell’analisi finalizzata a verificare se in tali operazioni il contenuto della cessione sia corrispondente alla nozione dettata dal legislatore nell’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972 57. 56

Operazioni che si caratterizzano per la non rilevanza ai fini IVA così come previsto dall’art. 51 della L. n. 342/2000: «Non è da intendere rilevante ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, neppure agli effetti delle limitazioni al diritto alla detrazione, la cessione nei confronti dei comuni di aree (…)». 57 Tuttavia, l’operazione redistributiva non può rientrare nell’art. 2, comma 2, n. 4, del D.P.R. n. 633/1972 e, quindi, essere considerata una cessione gratuita.

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I requisiti “qualificanti” 58 della cessione di beni – ai fini della imponibilità dell’operazione – sono: i) l’onerosità; ii) l’effetto traslativo della proprietà, oppure, la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento. Ai fini della presente analisi non si può prescindere da una breve riflessione sulla distinzione che sussiste, sotto il profilo contrattuale, tra atti giuridici onerosi e gratuiti. La riflessione in merito alla distinzione fra le due tipologie di atti si può estendere in materia di imposta di registro poiché, in considerazione dei recenti interventi legislativi 59, le agevolazioni tributarie “previste in leggi speciali” non trovano applicazione 60 per gli atti traslativi a titolo oneroso. Le disposizioni codicistiche vigenti 61 non riportano una definizione dei concetti di onerosità e gratuità 62. Secondo una parte della dottrina la distinzione fra gli atti a titolo oneroso o gratuito non si incardina 63 sul “concetto di reciprocità delle prestazioni” 64. In considerazione dell’impostazione seguita, il contratto è oneroso quando ciascuna delle parti contraenti sopporta un sacrificio al fine di realizzare l’assetto di interessi del negozio giuridico concluso; invece, il sacrificio 58 Così CASTALDI, Le operazioni imponibili, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, (a cura di) Tesauro, Milano, 2001. 59 L’art. 10 del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, modificato dall’art. 26, comma 1, D.L. 12 settembre 2013, n. 104, convertito dalla L. 8 novembre 2013, n. 128 e dall’art. 1, comma 608, L. 27 dicembre 2013, n. 147, introduce nuove disposizioni rispetto alla tassazione dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale degli atti di trasferimento o di costituzione a titolo oneroso dei diritti reali immobiliari. 60 Lo Studio CNN n. 1011-2013/T relativo alla “Tassazione dei trasferimenti immobiliari a titolo oneroso dal 1° gennaio 2014” evidenzia che: «La soppressione non dovrebbe riguardare, allora, quelle disposizioni aventi un ambito più ampio, funzionali a particolari “istituti” o al perseguimento di determinati fini o interessi rispetto ai quali il trasferimento di beni non costituisce l’oggetto dei regimi di favore e che potrebbero trovare applicazione anche (ma non solo) rispetto ai trasferimenti immobiliari, a prescindere dalla loro natura onerosa o gratuita». In senso contrario Cir. n. 2/E del 21 febbraio 2014. 61 ANGELONI, Liberalità e solidarietà, Padova, 1994, p. 17 ss. L’Autore richiama le definizioni di atti a titolo oneroso o gratuito del codice civile del 1865, in particolare, l’art. 1101 c.c. che definiva contratti a titolo oneroso “quel contratto nel quale ciascuno dei contraenti intende, mediante equivalente, procurarsi un vantaggio”, invece a titolo gratuito il contratto “in cui uno dei contraenti intende procurare un vantaggio all’altro senza equivalente”. 62 ANGELONI, op. cit., p 17 ss. 63 Parte della dottrina considera la nozione di onerosità distinta da quella di corrispettività, in questo senso BIANCA, Diritto Civile, 3, Il contratto, Milano, 1984; BISCONTINI, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti, Napoli, 1984, p. 29 ss.; DE RUGGERO-MAROI, Istituzioni di diritto privato, Vol. II, Milano, 1957, p. 155 ss.; MESSINEO, Il contratto in genere, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da Cicu e Messineo, Vol. XXIII, Milano, 1973; SACCO, Il contratto, in Tratt. dir. civ., t. 2, Torino, 1993, p. 640; SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1976, p. 224 ss. 64 In tal senso ANGELONI, Liberalità e solidarietà, Padova, 1994, p. 29 ss.; SCALFI, Corrispettività e alea nei contratti, Milano, 1960.

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sostenuto da un solo soggetto per realizzare risultati fruibili da altri caratterizza la gratuità dell’atto. Nella prassi la nozione di gratuità è assimilata alla donazione, tuttavia, la dottrina 65 ha chiarito che l’atto di donazione 66 è un tipo contrattuale della più ampia categoria degli atti gratuiti 67; infatti, il codice civile disciplina diversi contratti tipici 68 a titolo gratuito ciascuno dei quali è diretto a regolare un determinato assetto di interessi tra le parti. La causa 69 dei negozi liberali consiste nell’arricchimento del beneficiario conseguente all’impoverimento del soggetto che eroga l’attribuzione patrimoniale gratuita 70. Per quanto attiene la legislazione tributaria e, più in particolare al D.P.R. n. 633/1972, diversi articoli (2, 3 e 13) del decreto richiamano i termini “corrispettivo” e “onerosità”, mutuati dal diritto civile 71 ed espressione – sotto il profilo privatistico -di contenuti non equivalenti; tuttavia, secondo autorevole dottrina la distinzione tra i due termini in materia fiscale non sussiste 72, in quanto il “corrispettivo IVA assume in definitiva il significato di mera controprestazione economica collegata ad una cessione di beni” 73. 65 Sul punto MOSCO, Onerosità e gratuità degli atti giuridici, con particolare riguardo ai contratti, Milano, 1942. 66 BALDI, Saggio sulla donazione, in Memorie dell’Istituto Giuridico Università di Torino, 1942, p. 123 ss.; ID., La donazione in Trattato di diritto civile, diretto da Grosso e Santoro Passarelli, II, Tomo 4, Milano, 1964; BIONDI, Le Donazioni, in Trattato di diritto civile diretto da F. Vassalli, XII, Tomo 4, Torino, 1961. 67 Il tema della distinzione tra atti gratuiti e liberali è affrontato da OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947. 68 Rientrano in questa categoria ad esempio il comodato “art. 1803” c.c., il deposito “art. 1767” c.c. (gratuità presunta). Nonostante la presunta onerosità possono essere a titolo gratuito il mandato “art. 1709” c.c.; il mutuo “art. 1815, comma 1” c.c. 69 ANGELONI, op. ult. cit. 70 D’ETTORE, Intento di liberalità e attribuzione patrimoniale, Padova, 1996, p. 2 ss. L’Autore nel richiamare in nota la dottrina più risalente prevede che: «La causa dell’attribuzione gratuita viene allora fatta consistere nell’intento di procurare ad altri un vantaggio patrimoniale senza equivalente, e la gratuità dell’attribuzione viene intesa in senso oggettivo, cioè compiuta senza corrispettivo. Nella donazione l’attribuzione patrimoniale gratuita si attua (si opera) mediante la disposizione di un diritto o l’assunzione di un obbligazione che procura l’arricchimento di chi la riceve e l’impoverimento del donante». 71 Parte della dottrina considera la nozione di onerosità distinta da quella di corrispettività, in questo senso BIANCA, Diritto Civile, 3, Il contratto, Milano, 1984; BISCONTINI, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti, Napoli, 1984 p. 29 ss.; DE RUGGERO-MAROI, Istituzioni di diritto privato, Vol. II, Milano, 1957, p. 155 ss.; MESSINEO, Il contratto in genere, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da Cicu e Messineo, Vol. XXIII, Milano, 1973; SACCO, Il contratto, in Tratt. dir. civ., t. 2, Torino, 1993, p. 640; SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1976, p. 224 ss. 72 FILIPPI, Le cessioni di beni nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 1984. 73 BEGHIN, I contributi e le liberalità a favore delle imprese, Milano, 1997, p. 208 ss.; CASTALDI, Le operazioni imponibili, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, (a cura di) Tesauro, Milano, 2001.

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In base all’art. 2, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972 costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà; tuttavia, al n. 4) del comma 2 il legislatore considera operazioni imponibili le cessioni gratuite di beni con l’indicazione di alcune esclusioni. In considerazione delle disposizioni dettate dallo stesso decreto un elemento caratterizzante ai fini del tributo è l’effetto 74 giuridico 75 (in termini di trasferimento di proprietà o costituzione e trasferimento di diritti reali di godimento) che gli atti producono. Negli atti di redistribuzione 76 l’effetto che si realizza consiste nel trasferimento della proprietà di porzioni di aree a favore dei soggetti incisi dal piano di lottizzazione. In questi casi il presupposto IVA si perfeziona nonostante la non onerosità della cessione in quanto tale requisito non è essenziale 77, infatti le disposizioni del D.P.R. n. 633/1972 qualificano come operazioni imponibili anche le cessioni gratuite 78.

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In tal senso la giurisprudenza comunitaria Corte di Giustizia CE, 6 febbraio 2003, n. C18501, sottolinea che: «la nozione di cessione di un bene non si riferisce al trasferimento del diritto di proprietà nelle forme previste dal diritto nazionale vigente, bensì comprende qualsiasi operazione di trasferimento di un bene effettata da una parte che autorizza l’altra a disporre di tale bene come se ne fosse il proprietario». 75 Parte della dottrina all’indomani dall’entrata in vigore della normativa IVA intendeva la cessione non in termini meramente giuridici ma sotto il profilo economico come trasferimento della disponibilità di un determinato bene PERRONE CAPANO, L’imposta sul valore aggiunto, Napoli, 1977, p. 297; SCARLATA FAZIO, I presupposti dell’imposta sul valore aggiunto, Cessione – concetto e natura, in Boll. trib., 1972, p. 567; INGROSSO, Le operazioni imponibili ai fini IVA, in Dir. prat. trib., 1973, I, p. 476. 76 In senso contrario, C.N.N. – Studio n. 28-2006/T e, in particolare, si rinvia alla motivazione relativa alla non imponibilità ai fini IVA delle cessioni tra co-lottizzzanti: «Ora, se si accede alla teoria della tipicità causale della fattispecie negoziale al vaglio nonché si esalta la funzione di ristabilimento del rapporto di originaria proporzionalità tra volumetria edificabile complessiva dell’intero comparto e il singolo lotto di proprietà di ciascuno dei lottizzanti, e quindi la mera funzione riparatoria/distributiva di tale volumetria con la consequenziale identificazione dei lotti cui essa – così come ripartita – va ad inerire, si coglie con evidenza che non riverifica alcuna “cessione” imponibile ai fini IVA. E ciò per il semplice motivo per cui non vi sono trasferimenti di diritti e/o situazioni giuridiche attive già di titolarità esclusiva di alcuni soggetti (disponenti) prima e di altri soggetti (accipienti/beneficiari) poi che l’assumono ex novo, ma si attua solo una più equa allocazione all’interno di un medesimo comparto delle relative capacità edificatorie (…)». 77 CASTALDI, Le operazioni imponibili, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, (a cura di) Tesauro, Milano, 2001. Secondo l’analisi dell’Autore in merito all’imponibilità delle operazioni poste in essere a titolo gratuito: «Il generalizzato assoggettamento ad imposizione delle operazioni di cessione dei beni a prescindere dal fatto che le stesse siano o meno effettuate dietro pagamento di un corrispettivo sembra, infatti, riposare sulla necessità di soddisfare le esigenze di funzionamento proprie del tributo in questione il quale richiede che tutti i passaggi subiti dal bene nel circuito produttivo e ridistribuivo fino all’immissione al consumo finale siano inclusi nella sfera di operatività della disciplina IVA». 78 Risoluzione n. 83/E del 3 aprile 2003.

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Una diversa soluzione può essere proposta accogliendo l’ipotesi 79 di applicare – ai trasferimenti di aree tra i co-lottizzanti – il trattamento fiscale disposto dall’art. 51 della L. n. 342/2000 80 sulla base dei seguenti presupposti: i) il rapporto che intercorre tra la convenzione di lottizzazione e gli atti redistributivi (considerati atti attuativi della convenzione stessa); ii) l’assenza di corrispettivi nei trasferimenti tra i co-lottizzanti. Le cessioni di aree a favore dei co-lottizzanti incisi dalla cessione gratuita di superfici al Comune sono dirette a ripartire i suoli residui del piano di lottizzazione riequilibrando, in tal modo, le volumetrie originarie dei singoli proprietari. La fattispecie descritta sollecita una riflessione in merito: i) alla nozione di gratuità (art. 51 L. n. 342/2000) nel rapporto tra i soggetti che aderiscono alla lottizzazione ed il Comune; ii) all’assenza di corrispettivo nelle cessioni di aree tra i colottizzanti. Il primo punto di riflessione pone l’accento sulla gratuità degli atti indicati dall’art. 51 della L. n. 342/2000. L’art. 28 della L.U. – già ampiamente richiamato nei paragrafi precedenti – prescrive a carico dei lottizzanti la cessione delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria senza corrispettivo da parte del Comune, nonché, l’adempimento dei relativi oneri che – ai sensi dell’art. 11 della L. n. 10/77 – possono essere scomputati con l’esecuzione diretta dell’intervento di urbanizzazione. Il sacrificio dei lottizzanti – tramite l’atto di cessione delle aree a favore del Comune – è sostenuto per realizzare il nuovo assetto urbanistico dell’area interessata dalla convenzione di lottizzazione. Dalle argomentazioni sostenute è evidente che la causa concreta 81 o “ragione pratica” 82, nonché, l’interesse perseguito dalle parti attraverso l’atto di cessione non è diretto a realizzare un negozio a titolo gratuito ma l’adempimento verso l’amministrazione comunale degli obblighi scaturenti dalla convenzione di lottizzazione. Per quanto attiene l’assenza di corrispettivo negli atti di redistribuzione tra i co-lottizzanti tale caratteristica non incide sulla rilevanza delle citate operazioni 79 RIZZI, La perequazione urbanistica tra diritti edificatori e ricomposizione fondiaria (ossia la perequazione quale causa di negozi giuridici), Abano Terme 5 maggio 2012, www.notaitriveneto.it/file/massime/108/1336548688_Perequazione_Padova.5maggio.2012.slides.ppt.pdf. 80 La circolare n. 207/E del 16 novembre 2000 prevede che: «la cessione ai Comuni di aree ed opere di urbanizzazione da parte dell’impresa titolare della concessione ad edificare, a scomputo del contributo di urbanizzazione o in esecuzione di convenzioni di lottizzazione, costituisce una operazione non rilevante agli effetti IVA, alla stregua del trattamento fiscale applicabile al versamento in denaro del predetto contributo effettuato alternativamente dalla stessa impresa». 81 La giurisprudenza di legittimità Cass. civ., sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490 abbandona: «la nozione di causa come funzione economico-sociale, in virtù dell’obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa come strumento di controllo della sua utilità sociali (omissis) la causa in termini di sintesi reale degli interessi che è diretto a realizzare anche al di là del modello tipico utilizzato (c.d. causa concreta)». 82 Espressione indicata da BIANCA, Diritto civile, n. 3 Il contratto, Milano, 2000, p. 447 ss.

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dal campo di applicazione dell’IVA. L’accezione di corrispettivo – nell’ambito del tributo in esame – assume un significato più ampio di quello attribuito dal diritto civile; infatti, l’art. 13 del D.P.R. n. 633/1972 ne dilata il contenuto (ai fini della determinazione base imponibile) includendo tutto ciò che è dovuto al cedente secondo le condizioni contrattuali 83.

6. Conclusioni Le contrastanti posizioni richiamate nei precedenti paragrafi sono rappresentative di un metodo di indagine che si basa sui seguenti passaggi: i) qualificazione dell’attività negoziale conclusa dalle parti; ii) individuazione degli effetti giuridici prodotti dagli atti di autonomia privata. Secondo autorevole dottrina tale impostazione non risponde all’esigenza di individuare la concreta funzione dell’atto. In tale prospettiva assume rilievo il concetto di operazione economica 84 in grado di rappresentare gli interessi non manifestamente espressi dallo schema contrattuale 85 adottato dalle parti contraenti. In questa logica si afferma l’inadeguatezza del negozio giuridico a garanti-

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In tal senso BEGHIN, I contributi e le liberalità a favore delle imprese, Milano, 1997, p. 211. In particolare, l’autore osserva che : «Gli studiosi non hanno mancato di rilevare che: “dall’esame degli artt. (…) 3, (…), 13 del decreto sembra evincersi che, ai fini dell’applicazione del tributo, si sia voluto dare rilievo, indipendentemente dalla terminologia adoperata, a quella categoria di atti in cui ciascuna parte riceve una prestazione che si trova in un certo rapporto con quella che essa adempie”». Sul punto FILIPPI, Le cessioni di beni nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 1984, p. 85; VILLA, Il riaddebito di servizi, in AA.VV., IVA, Milano, 1996. 84 Sul punto E. GABRIELLI, Studi sui contratti, Torino, 2000, p. 737 ss. L’Autore considera il contratto non idoneo ad individuare in concreto la funzione dell’atto posto in essere dalle parti per interessi particolarmente articolati e complessi. Rispetto a tali ipotesi osserva che: «In tali situazioni la totalità degli interessi di cui si compone la costruzione dell’atto di autonomia privata si esprime, sia sul piano storico, sia sul piano dinamico, con maggior compiutezza tramite il concetto di operazione economica. La nozione infatti coglie nella loro globalità e complessità la qualità degli interessi delle parti e la rilevanza che in concreto assumono poiché ne offre una più ampia e comprensiva rappresentazione rispetto al più limitato schema del tipo contrattuale. L’operazione economica identifica una sequenza unitaria e composita che comprende in sé il regolamento, tutti i comportamento che con esso si collegano per il conseguimento dei risultati voluti, e la situazione oggettiva nella quale il complesso delle regole e gli altri comportamenti si collocano, poiché anche tale situazione concorre nel definire la rilevanza sostanziale dell’atto di autonomia privata». 85 G. BENEDETTI, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, p. 222, secondo il quale l’operazione: «non trova lo strumento esclusivo nel contratto; lo stesso contratto, d’altro lato, non sempre esprime l’affare nella sua totalità. Non solo può avvenire che alcuni soltanto degli interessi in gioco abbiano assetto patrizio, ma può anche darsi che alla realtà sociale dell’accordo non faccia riscontro il fenomeno giuridico del contratto: donde il diverso congegno».

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re l’unità dell’operazione 86 posta in essere dalle parti, con la conseguenza che assume rilievo non l’assetto di interessi prefigurato dal contratto adottato ma l’affare nella sua totalità 87. Dalle argomentazioni sostenute ne deriva che nelle ipotesi di redistribuzione di aree tra co-lottizzanti l’atto è diretto a realizzare un effetto meramente perequativo, e non assume rilievo l’effetto giuridico del trasferimento di aree tra i colottizzanti, pertanto, anche i soggetti IVA sono esclusi dall’assoggettamento all’imposta sul valore aggiunto, poiché, l’operazione tende a ripristinare gli squilibri creati dalla convenzione di lottizzazione. In conclusione, la valutazione degli atti secondo una logica diretta ad attribuire rilevanza all’operazione economica (ad esempio il riequilibrio della capacità edificatoria attraverso una ricomposizione dell’assetto delle aree comprese nel piano di lottizzazione e/o comparto) ottiene il risultato di generare situazioni di non imponibilità – dettate dall’autoregolamentazione degli interessi dei privati – in assenza di disposizioni normative. Sul piano fiscale non può trovare accoglimento uno “spostamento d’attenzione dal singolo negozio all’operazione” 88 considerata la necessità, invece, di perseguire un’omogeneità degli effetti prodotti dall’attività negoziale 89 posta in essere dalle parti.

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Espressione che si deve a G. PALERMO, Divergenza e incompatibilità fra il tipo negoziale e l’interesse perseguito, in Studi in onore di F. Santoro Passarelli, Napoli, 1972, III, p. 646. 87 C. SCOGNAMIGLIO, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992, p. 428, in particolare si richiama la nota 9) che sul punto prevede: «Così, in particolare, G. BENEDETTI, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, 222; ma si veda anche, sia pure in una prospettiva peculiare, P. BARCELLONA, Sui controlli della libertà contrattuale, in Riv. dir. civ., 1965, II, p. 603, dove si rivela che “non sussiste sempre e necessariamente coincidenza tra la fattispecie negoziale e operazione economica”, nel senso che il controllo sull’adeguatezza e proporzionalità dei rispettivi sacrifici “non possa essere affrontato e risolto sul piano del regolamento pattizio”. Si sofferma, da ultimo, sulla tendenza della dottrina recente ad un approfondimento degli “interessi in gioco nella vicenda negoziale, talvolta anche oltre la fattispecie negoziale in senso stretto” A. CHECCHINI, Regolamento contrattuale e interessi delle parti, cit., p. 230». 88 Espressione indicata da C. SCOGNAMIGLIO, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992, p. 428. 89 Si rinvia a BEGHIN, I contributi e le liberalità a favore delle imprese, Milano, 1997, p. 211, nota 6): «Sul concetto di “corrispettivo” cfr. altresì VILLA, Il riaddebito di servizi, in AA.VV., IVA – 1996, Analisi di alcune significative fattispecie giuridiche (a cura di Claudio Sacchetto), Milano, 1996, p. 7 ss. e in particolare p. 16 ss., dove l’Autore, pur in assenza di puntuali riferimenti normativi, tenta di separare il concetto di “corrispettività” da quello di “economicità” dell’operazione (leggesi infatti che il concetto di corrispettivo va distinto “dall’eventuale convenzione economica o dal guadagno ricavato dall’espletamento dell’operazione. Un’operazione non può essere considerata gratuita (…), e quindi non assoggettabile al tributo, solo perché non ha prodotto guadagno (…)”».

BREVI NOTE SULLA RILEVANZA DEL REGIME PATRIMONIALE CONIUGALE NELL’IMPUTAZIONE DEI REDDITI DA PARTECIPAZIONE O DERIVANTI DALL’ESERCIZIO DI UN’IMPRESA

di Viviana Capozzi

SOMMARIO: 1. Regimi patrimoniali coniugali: beni in comunione legale immediata, beni in comunione de residuo e beni personali. – 2. Criteri di imputazione dei redditi dei beni in comunione legale. – 3. (segue) I redditi da partecipazione in società. – 4. La titolarità dei beni relativi all’azienda gestita da entrambi i coniugi o da uno solo di essi. – 5. (segue) I redditi derivanti dall’esercizio di un’azienda coniugale. – 6. L’impresa familiare.

1. Regimi patrimoniali coniugali: beni in comunione legale immediata, beni in comunione de residuo e beni personali Con la riforma del diritto di famiglia, attuata con la L. 19 maggio 1975, n. 151, viene introdotto come regime patrimoniale coniugale ordinario il regime della comunione legale, operante salva diversa convenzione espressa e volto a realizzare, anche a livello patrimoniale, la perequazione fra coniugi che ha ispirato la cennata riforma. Come noto, la riforma del diritto di famiglia ha rafforzato il profilo economico dell’istituto familiare, sancendo l’uguaglianza fra i coniugi. Il previgente regime della separazione dei beni era, infatti, inquadrato in un momento storico nel quale l’attività del marito era solitamente svolta fuori dell’ambito familiare e quindi maggiormente lucrativa di quella della moglie che, anche quando non si dedicava in via esclusiva alle attività domestiche, raggiungeva comunque dei livelli reddituali inferiori, confinata in un ruolo di inferiorità sociale ed economica in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 29 e 30 della Cost. Il nuovo sistema legale, delineato oggi dagli artt. 159 e ss. c.c., rimuove la sperequazione economico-sociale esistente fra i coniugi, stabilendo che il regime patrimoniale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione matrimoniale, è

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quello della comunione dei beni. La comunione è quindi il regime legale patrimoniale per tutti i matrimoni contratti successivamente al 20 settembre 1975, mentre per i precedenti, salvo diversa manifestazione di volontà, opera solo sugli acquisti di beni effettuati successivamente a tale data 1. Il modello di comunione legale adottato dal legislatore non integra una comunione di tipo universale comprensiva di tutti i beni dei coniugi, ma è una comunione di tipo “misto”. Il codice civile, infatti, disciplina due categorie di beni: quelli comuni (artt. 177 e 178 c.c.) e quelli personali (art. 179 c.c.). Dei beni comuni, inoltre, alcuni entrano nel patrimonio familiare al momento dell’acquisto (c.d. “comunione immediata”), altri solo allo scioglimento della comunione medesima, se ancora esistenti (c.d. “comunione de residuo”). Formano oggetto di comunione immediata, ai sensi del comma 1 lett. a), art. 177 c.c., gli acquisti compiuti dai coniugi, anche disgiuntamente, in costanza di matrimonio, fatta eccezione per i beni personali, l’azienda coniugale costituita o acquistata dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi, nonché gli utili o incrementi dell’azienda che apparteneva ad uno solo dei coniugi già prima del matrimonio e che viene successivamente gestita da entrambi i coniugi (art. 177, lett. d), c.c.). Rientrano, invece, nella comunione de residuo, ai sensi degli artt. 177, comma 1, lett. b) e c) e 178 c.c., i frutti dei beni propri di ciascun coniuge e i proventi della loro attività separata, i beni destinati all’esercizio dell’impresa gestita da uno solo dei due (costituita dopo il matrimonio) e gli incrementi dell’impresa individuale di uno dei due coniugi, costituita anche precedentemente al matrimonio. Ai sensi dell’art. 179 c.c., infine, sono beni personali: i beni di cui ciascun coniuge era titolare prima del matrimonio, i beni acquisiti successivamente al matrimonio per successione o donazione (quando nell’atto non è specificato che sono attribuiti alla comunione), i beni di uso strettamente personale, i beni che servono all’esercizio della professione, i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali (purché sia espressamente dichiarato all’atto di acquisto). Le definizioni normativamente date di beni personali e di beni appartenenti alla comunione immediata ovvero a quella de residuo, risultano, tuttavia, imprecise e complessivamente poco adatte a comprendere una serie di incrementi patrimoniali non espressamente contemplati; da qui le perplessità manifestate, in materia tributaria, in ordine ai criteri di imputazione dei redditi derivanti da detti beni. Infatti, a causa dell’espresso richiamo della disciplina codicistica, operato dall’art. 4, comma 1, lett. a) del TUIR ai fini dell’individuazione dei criteri di imputazione dei redditi dei beni in comunione legale, le difficoltà riscontrate nella determinazione dell’ambito di applicazione del cennato regime patrimoniale fi1

Sul regime transitorio, si veda: BRANZINI, Comunione dei beni fra coniugi. Esclusione dell’effetto retroattivo, in Arch. civ., 1989, p. 1204; DE FALCO, Comunione dei beni dei coniugi. Comunione legale. Regime transitorio, in Nuov. giur. civ. comm., 1989, I, p. 238.

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niscono per riflettersi anche in materia tributaria, ulteriormente complicate dalla necessità di coordinare detti criteri di imputazione del reddito con la nozione di possesso di reddito, assunta a presupposto impositivo IRPEF.

2. Criteri di imputazione dei redditi dei beni in comunione legale La dottrina tributaria più risalente, sulla base del diverso significato attribuito alla nozione di possesso di reddito, ha sostenuto che l’imputazione dei redditi dei beni in comunione legale, di cui all’art. 4 del TUIR, risultava corrispondente alla materiale disponibilità di detti redditi, dipendente dal regime civilistico dei beni medesimi 2. A seguito dell’emanazione del TUIR, tale orientamento è stato in parte superato, grazie all’affermazione dell’idea che il termine “possesso di reddito” indichi una relazione giuridicamente qualificata fra soggetto e fatto che integra il reddito medesimo. La dottrina maggioritaria, quindi, abbandonato il criterio della disponibilità materiale del reddito, ha identificato il presupposto impositivo IRPEF con la titolarità della fonte del reddito 3. Con specifico riferimento all’imputazione del presupposto impositivo in presenza del regime di comunione legale, inoltre, alcuni autori hanno sottolineato che «la medesima dipende dal regime giuridico sostanziale quale risulta dalla disciplina della comunione legale e non dalla titolarità formale del cespite produttivo di reddito che, talvolta, può anche essere differente» 4. Mentre, altri hanno altrettanto autorevolmente sostenuto che la cennata imputazione non sarebbe conseguenza del regime patrimoniale civilisticamente fissato, posto che la comunione rileverebbe solo come indizio dell’esercizio in comune di attività economiche da cui discenderebbe il particolare regime impositivo 5. 2 GALEOTTI FLORI, Il possesso del reddito, Padova, 1983, p. 29; MICHELI, Corso di diritto tributario, Torino, 1989, pp. 371-374. 3 BORIA, Il principio di trasparenza nell’imposizione delle società di persone, Milano, 1996, p. 264; CARINCI, Invalidità del contratto nelle imposte sui redditi, Padova, 2003, pp. 83 ss.; ESCALAR, Possesso di redditi ed imputazione soggettiva dei frutti derivanti dai titoli effetto di riporto, in Riv. dir. trib., 1994, I, p. 34; MICCINESI, L’imposizione sui redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, p. 87; PAPARELLA, Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, p. 157 (ove è rinvenibile una accurata rassegna dell’ampio dibattito dottrinale intervenuto in merito al significato da attribuire all’inciso “possesso di reddito”); TABET, Confusione nell’anti-elusione (a proposito della comunione convenzionale dei redditi), in Boll. trib., 1989, p. 1284; TOSI, L’efficacia fiscale delle convenzioni matrimoniali fra coniugi, in Rass. trib., 1987, p. 165 ss. 4 TARIGO, Profili tributari della separazione e del divorzio, in Riv. dir. trib., 2002, I, p. 264. In senso conforme: LUPI, La comunione legale: i “diritti che non si vedono” e gli “incroci pericolosi” dell’anagrafe tributaria, in Rass. trib., 1994, p. 1503; LUNELLI, Quando l’intestazione formale non rispecchia il regime di comunione legale: a quale coniuge imputare i redditi di capitale?, in Rass. trib., 1994, p. 1498. 5 PROTO, Riflessioni in tema di tassazione dei redditi del nucleo familiare, in Riv. dir. trib., 1991, I,

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A nostro avviso, se si pone l’accento sul reddito quale strumento idoneo a soddisfare bisogni e interessi, i criteri di imputazione del medesimo devono tener conto di quali siano gli interessi e i bisogni alla cui soddisfazione il medesimo è indirizzato e, quindi, di chi siano i soggetti che esercitano i poteri decisionali circa la sua destinazione 6. Il fatto, poi, che detti poteri di consueto ineriscano la titolarità di situazioni soggettive, fa sì che il criterio di imputazione del reddito prevalentemente utilizzato sia quello dell’individuazione dei soggetti titolari di situazioni giuridiche soggettive rilevanti. Tale dato, tuttavia, non deve spostare il piano della ricerca dall’identificazione dei soggetti che manifestano la capacità contributiva a quelli che risultano titolari di determinate situazioni soggettive. Infatti, solo ponendo l’accento sul reddito quale strumento idoneo a soddisfare bisogni e interessi, è possibile riscontrare i motivi per i quali i criteri di imputazione dei redditi familiari hanno sempre tenuto conto del fatto che detto reddito è prevalentemente destinato al soddisfacimento dei bisogni familiari 7. Del resto, l’art. 186, comma 1, lett. c), c.c. dispone che i beni della comunione rispondono «delle spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia». Pertanto, l’espresso dettato normativo, insieme con il regime di amministrazione dei beni appartenenti alla comunione legale, non lasciano dubbi in merito al fatto che i redditi dei beni appartenenti alla comunione legale siano destinati al soddisfacimento dei bisogni familiari e che il potere decisionale sotteso a tale destinazione viene esercitato da entrambi i coniugi. Alla luce di siffatta ricostruzione, appare perfettamente coerente con il dettato costituzionale di cui all’art. 53 l’imputazione di detti redditi ai coniugi medesimi, di cui all’art. 4, comma 1, lett. a), del TUIR. Ciò posto, una volta individuate le fattispecie reddituali che, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. a) del TUIR, devono essere imputate al 50 per cento fra i due coniugi, si tratterà di verificare se ed eventualmente in che misura, le medesime trovano corrispondenza nella nozione di possesso di reddito da ultimo descritta. Tuttavia, anche l’esatta individuazione delle fattispecie reddituali riconducibili al dettato del più volte richiamato art. 4 del TUIR richiede, in alcuni casi, un certo sforzo esegetico; dal momento che il rinvio operato dal legislatore tributario alla normativa codicistica, al fine di individuare la natura “personale” o “comune” del bene produttivo di reddito, fa sì che le incertezze manifestate dagli interpreti del p. 809 ss. secondo il quale il possesso non andrebbe ravvisato né nella titolarità della fonte né nella disponibilità del reddito, bensì nell’esercizio di un’attività economica idonea a produrre ricchezza. Similmente: NUZZO, Modelli ricostruttivi della forma del tributo, Padova, 1987, p. 23. 6 FEDELE, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del “cumulo”, in Giur. cost., 1976, p. 2164. 7 Sul punto ci si consenta di rinviare a: CAPOZZI, La famiglia nella riforma IRPEF, in Riv. dir. trib., 2005, I, p. 333 ss.

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diritto civile, in ordine alla riconducibilità o meno di uno specifico bene alla comunione immediata o de residuo, si rifrangano sulla corretta individuazione del regime impositivo applicabile ad alcuni redditi prodotti all’interno del nucleo familiare. Venendo, quindi, all’esame dei criteri di imputazione di cui all’art. 4 TUIR, deve ricordarsi come l’art. 186, comma 1, lett. c), c.c. dispone che i beni della comunione rispondono “delle spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia”. L’espresso dettato normativo, insieme con il regime di amministrazione dei beni appartenenti alla comunione legale, non lasciano dubbi in merito al fatto che i redditi dei beni appartenenti alla comunione legale siano destinati al soddisfacimento dei bisogni familiari e che il potere decisionale sotteso a tale destinazione viene esercitato da entrambi i coniugi. Alla luce di siffatta ricostruzione, appare quindi perfettamente coerente con il dettato costituzionale di cui all’art. 53 l’imputazione di detti redditi ai coniugi medesimi, di cui all’art. 4, comma 1, lett. a), TUIR. Passando quindi ad un esame più dettagliato della norma da ultimo richiamata, si evidenzia che il riferimento operato dall’art. 4 del TUIR alle disposizioni codicistiche non lascia dubbi in merito al fatto che il termine “bene” debba essere inteso nella più ampia accezione possibile, fino a comprendervi tutti gli acquisti di cui al comma 1 lett. a) dell’art. 177 c.c. Restano esclusi da detta imputazione pro quota sia i beni personali indicati nel successivo art. 179 c.c., sia quelli ricadenti nella comunione de residuo. Ed è, infatti, ad una parte di questi ultimi beni, vale a dire ai «proventi dell’attività separata di ciascun coniuge», che fa riferimento l’esclusione di cui all’ultimo periodo del comma 1, lett. a), art. 4 del TUIR, aggiunta dall’art. 26, comma 1, del D.L. 2 marzo 1989, n. 69, convertito con modificazioni dalla L. 27 aprile 1989, n. 154, con effetto dal 1° gennaio 1988.

3. (segue) I redditi da partecipazione in società La possibilità di far ricadere nel descritto regime impositivo di cui all’art. 4 del TUIR alcune fattispecie di redditi da capitale e d’impresa è una tematica strettamente connessa a quella inerente l’inclusione o meno dei diritti di credito nell’ambito della comunione legale immediata. In sostanza, si tratta di determinare se alla comunione legale siano riconducibili esclusivamente la proprietà e i diritti reali di godimento e non anche i diritti di credito, quindi di stabilire se tali acquisti siano riconducibili alla comunione immediata ovvero a quella de residuo, traendone le debite conseguenze ai fini dell’applicazione dell’art. 4 del TUIR. Nell’ottica di escludere dalla comunione legale i diritti di credito, è stato sottolineata la natura personale e relativa dei medesimi, l’incerta possibilità di quali-

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ficare il credito come “bene”, il suo carattere strumentale alla futura acquisizione e la difficoltà per i terzi di accertarsi dello status del loro contraente 8. Di contro, la dottrina maggioritaria ha evidenziato che non sussiste alcuna preclusione in tal senso, che la finalità della comunione legale è proprio quella di far beneficiare entrambi i coniugi del più ampio novero di incrementi patrimoniali possibili e, infine, che non sussistono ostacoli strutturali all’accoglimento di siffatta teoria interpretativa 9. Con specifico riferimento ai titoli partecipativi in società, gli interpreti hanno trovato soluzioni sostanzialmente unanimi con riferimento alle partecipazioni in società di capitali, riconducendole alla comunione immediata dal momento che nelle stesse risulta predominante la finalità di investimento del capitale 10. Più discussa la qualificazione delle partecipazioni in società di persone. Secondo alcuni, le medesime costituirebbero beni personali riconducibili all’esclusione di cui all’art. 179, comma 1, lett. d), c.c., in quanto «beni che servono all’esercizio della professione del coniuge» 11. Altri hanno evidenziato che la peculiarità della natura giuridica del rapporto sottostante le quote di partecipazione in società di persone impedisce di estendere a queste ultime le conclusioni raggiunte in relazione alle società di capitali; inoltre, insito nello status di socio vi è, in queste ipotesi, l’assunzione di una responsabilità illimitata e il porre in comunione la titolarità delle quote societarie acquistate singolarmente, comporterebbe necessariamente il dover condividere con il coniuge una responsabilità non assunta consapevolmente 12. La giurisprudenza tributaria ha inizialmente recepito le conclusioni raggiunte dalla dottrina civilistica, riconoscendo la possibilità di operare l’imputazione al 50 per cento dei redditi coniugali in relazione ai proventi derivanti da partecipazioni in società di capitali e escludendola per gli utili conseguiti mediante la partecipazione a società di persone 13. Da principio, seppure con specifico riferimen8

BARBIERA, Comunione e regime patrimoniale della famiglia, Bari 1979, p. 55; SCHLESINGER, Comunione legale, in Commentario Carraro-Oppo-Trabucchi, vol. I, p. 375, l’Autore, tuttavia, fa eccezione per i diritti di credito e di partecipazione incorporati in titoli. 9 Fra gli altri: BUSNELLI, La “comunione legale” nel diritto di famiglia riformato, in Riv. not., 1976, I, p. 42; CHIANTERA, Contratto preliminare e comunione legale, in Giur. it., 1989, I, 2, p. 593; CIAN VILLANI, La comunione dei beni fra coniugi (legale e convenzionale), in Riv. dir. civ., 1980, p. 392; GABRIELLI, Comunione legale ed investimento in titoli, Milano, 1979, p. 10. 10 COSTI, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976, p. 67 ss.; FANTOZZI, Regime tributario, in La comunione legale a cura di C.M. Bianca, p. 1102 ss.; SANGUINETI, Partecipazioni sociali e comunione legale fra coniugi, in Dir. prat. trib., 1988, II, p. 19. 11 DE RUBERTIS, Comunione legale di azienda e società di fatto, in Vit. not., 1979, p. 80. 12 GIACCARDI MARMO, Le partecipazioni in società di persone nel sistema della comunione legale, in Giur. com., 1980, I, p. 627; OPPO, Diritto di famiglia e diritto dell’impresa, in Riv. dir. civ., 1977, II, p. 390. 13 CTP Treviso, 13 gennaio 2010, n. 2.

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to alle quote possedute dal socio accomandante di una S.a.s., la Cassazione 14 ha disposto l’imputabilità pro quota di detti redditi sulla base della considerazione che, stando al tenore letterale della normativa di riferimento, «non è dato ravvisare l’intenzione del legislatore civile di escludere alcuna forma di partecipazione societaria dall’ambito della comunione legale». E poiché la norma tributaria espressamente richiama le disposizioni del Codice civile, i redditi da partecipazione devono in ogni caso essere imputati al 50 per cento. Secondo la Suprema Corte, l’esclusione di cui all’ultimo periodo della lett. a), comma 1 art. 4 del TUIR fa riferimento, non tanto ai beni appartenenti alla comunione de residuo di cui alla lett. c), comma 1, dell’art. 177 c.c., quanto ai beni personali di cui al successivo art. 179 c.c. e poiché le partecipazioni in società non sono espressamente menzionate dalla disposizione normativa da ultimo richiamata, debbono ritenersi incluse nell’ambito della comunione legale. Tale fondamentale principio è stato poi ulteriormente specificato evidenziando che il medesimo deve trovare applicazione con riferimento alle quote di partecipazione in qualsiasi tipo di società di persone 15. In particolare, secondo la Suprema Corte di Cassazione, le partecipazioni in società di persone, ferma restando la distinzione tra la titolarità delle medesime e la legittimazione all’esercizio dei diritti nei confronti della società che dette partecipazioni attribuiscono al socio, rientrano tra gli acquisti che, a norma dell’art. 177 c.c., lett. a), costituiscono oggetto della comunione legale immediata tra i coniugi, anche se effettuati durante il matrimonio ad opera di uno solo di essi e non beni personali, ove non ricorra una delle ipotesi previste dall’art. 179 c.c. Le conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte, ci sembra che trovino perfettamente riscontro nella nozione di possesso di reddito adottata, alla luce della quale non può non considerarsi realizzato in capo ad entrambi i coniugi il presupposto impositivo IRPEF sia con riferimento ai redditi derivanti da partecipazioni tanto in società di capitali, quanto di persone.

4. La titolarità dei beni relativi all’azienda gestita da entrambi i coniugi o da uno solo di essi Come anticipato, la disciplina relativa alla titolarità dei beni aziendali posseduti da coniugi sposati in regime di comunione legale, nonché dei relativi incrementi e utili, è dettata dal combinato disposto degli artt. 177, comma 1, lett. d) e comma 2, c.c. e 178 c.c., i quali operano delle distinzioni in funzione del fatto che la gestione dell’azienda sia comune o individuale e la costituzione e/o acquisi14 15

Cass. 24 febbraio 2001, n. 2736. Cass. 2 febbraio 2009, n. 2560.

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zione della stessa sia antecedente o successiva al matrimonio. In estrema sintesi, in base alla richiamata disciplina codicistica, è possibile tracciare il seguente schema 16: A. Beni in comunione immediata: – l’azienda coniugale costituita/acquistata dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi; – gli “incrementi 17” e gli utili dell’azienda che apparteneva ad uno solo dei coniugi già prima del matrimonio e viene gestita da entrambi i coniugi. B. Beni in comunione de residuo: – i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita dopo il matrimonio e gestita da uno solo dei due coniugi; – gli “incrementi” dell’impresa individuale di uno dei due coniugi, costituita precedentemente al matrimonio; – gli incrementi dell’impresa acquistata da un coniuge (in costanza di matrimonio) a titolo gratuito (ovvero costituita o acquistata a titolo oneroso ma con reimpiego di beni personali del coniuge), ove nell’atto di acquisto sia stata effettuata la dichiarazione di esclusione dalla comunione. C. Beni personali: – i beni (non anche gli “incrementi”) dell’impresa individuale costituita prima del matrimonio; – l’azienda acquistata da un coniuge (in costanza di matrimonio) a titolo gratuito (ovvero costituita o acquistata a titolo oneroso ma con reimpiego di beni personali del coniuge), ove nell’atto di acquisto sia stata effettuata la dichiarazione di esclusione dalla comunione. Posto, quindi, che la disciplina codicistica pone l’accento sul criterio della gestione comune o individuale dell’azienda per decidere se collocare i beni aziendali nel patrimonio della comunione attuale o residuale, analogo criterio dovrà essere adottato anche con riferimento ai successivi acquisti effettuati dall’imprenditore, i quali confluiranno nella comunione attuale se inerenti l’azienda gestita da entrambi i coniugi e in quella de residuo se inerenti l’impresa individuale 18. A 16

Diffusamente sul tema: DI MARTINO, Gli acquisti in regime di comunione legale fra coniugi, Milano, 1987, p. 158 ss.; ID., La comunione legale fra coniugi: l’oggetto, in Il diritto di famiglia trattato diretto da Bonilini-Cattaneo, vol. II, Torino, 1997, pp. 103-106. 17 Il legislatore non ci offre alcuna indicazione in merito alla corretta individuazione della nozione di “incrementi” dell’azienda; in mancanza di indicazioni specifiche, fra gli interpreti del diritto civile sembrerebbe essere prevalsa l’idea che tale nozione vada accolta nella sua più ampia accezione, atta a ricomprendere qualunque aumento di valore (anche dell’avviamento) sia dell’azienda nel suo complesso, sia dei singoli beni aziendali, quali, ad esempio il miglioramento degli impianti e di altri beni dovuti a lavori interni, nonché nuovi investimenti. Cfr. DI MARTINO, La comunione legale fra coniugi: l’oggetto, cit., 107. 18 BARONE-BARALIS, Impresa individuale, associazione in partecipazione e società, in relazione al-

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tal uopo, sembra opportuno specificare che il bene destinato alla comunione de residuo entra nel patrimonio dell’imprenditore individuale solo temporaneamente (fino allo scioglimento della comunione legale matrimoniale), semplicemente a causa della destinazione ad uso aziendale del bene medesimo. Di conseguenza, secondo parte della dottrina, in questo caso non si renderebbe necessario l’espletamento delle formalità di cui all’art. 179, lett. f) e ultimo periodo del c.c. al fine di evitarne la caduta in comunione legale immediata; formalità che, viceversa, sono necessarie qualora si voglia attribuirgli natura di bene definitivamente personale 19. Maggiori incertezze interpretative si registrano in ordine alla corretta individuazione della titolarità del bene appartenente alla comunione de residuo, perché destinato all’esercizio dell’impresa individuale di uno dei coniugi, qualora il medesimo cessi di essere usato nel contesto aziendale. Secondo alcuni Autori, il cambiamento della destinazione del bene comporterebbe il mutamento della condizione giuridica dello stesso che verrebbe a confluire nella comunione immediata 20. Tuttavia, altrettanto autorevolmente è stato sostenuto che la nuova destinazione del bene non ne determinerebbe il trasferimento dal patrimonio della comunione de residuo a quello della comunione attuale, dovendo solo influire sulla sorte degli utili e degli incrementi 21. Infine, altra parte della dottrina ha evidenziato che il cambiamento della destinazione del bene può farne mutare la natura solo se in senso favorevole alla comunione immediata 22, così che resterebbe in comunione immediata il bene comune che venga destinato all’esercizio dell’impresa individuale di uno dei due coniugi, mentre confluirebbe nella comunione attuale il bene che cessi di essere utilizzato nell’impresa individuale di uno dei coniugi. Sotto il profilo reddituale, va osservato come i criteri di imputazione degli utili derivanti dallo svolgimento dell’attività aziendale non sempre riflettono le regole dettate, seppur con qualche incertezza, per la titolarità dei beni. In particolare, ai sensi delle richiamate disposizioni, cadono in comunione legale immediata gli utili derivanti dalla gestione congiunta di un’impresa coniugale, sia essa costituita da uno solo dei coniugi prima del matrimonio, ovvero da entrambi i coniugi in un momento successivo alle nozze; viceversa, sono imputati al solo coniuge imla comunione legale dei beni: aspetti civilistici e tributari, in Riv. not., 1980, p. 1467. In senso analogo: Cass. 29 novembre 1986, n. 7060. 19 DI MARTINO, La comunione legale fra coniugi: l’oggetto, cit., p. 108 e, in giurisprudenza, la già citata Cass. n. 7060/86. 20 SACCÀ-MOLLURA, Impresa collettiva societaria e comunione legale fra coniugi: società fra coniugi, partecipazione di uno dei coniugi a società, Milano, 1981, p. 53 ss. 21 DI TRANSO, La comunione de residuo, in Scritti in onore di Capozzi, I, 1, Milano, 1992, p. 537. 22 DE RUBERTIS, Comunione coniugale di azienda e società di fatto, cit., 1979, p. 78.

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prenditore gli utili derivanti dalla conduzione dell’impresa individuale, essendo irrilevante ai fini delle imposte dirette la loro eventuale successiva confluenza nella comunione de residuo 23. A tale ultimo proposito, è stato evidenziato che l’inapplicabilità del criterio dell’imputazione reddituale pro quota fra i coniugi al momento della confluenza dei proventi dell’attività individuale nella comunione de residuo si spiega in ragione del fatto che detti redditi sono già stati tassati in capo al percettore al momento della loro produzione; i medesimi, quindi, giungono in comunione de residuo dopo aver mutato natura da reddituale a patrimoniale. Conseguentemente, sebbene sotto il profilo civilistico è possibile che i beni di uno dei due coniugi producano redditi destinati alla comunione de residuo, non è tuttavia possibile che tali redditi siano fiscalmente imputati pro quota ai coniugi «perché, prima del verificarsi della comunione, essi spettano interamente al coniuge che li ha prodotti, mentre, dopo il suo verificarsi, hanno ormai perso la propria natura reddituale» 24.

5. (segue) I redditi derivanti dall’esercizio di un’azienda coniugale La tassazione dei proventi maturati attraverso la conduzione dell’azienda coniugale è un tema particolarmente complesso in quanto, da un canto, presuppone l’individuazione della discussa natura di tale istituto e, dall’altro, implica la necessità di ricondurre nell’ambito degli schemi impositivi preesistenti i redditi derivanti dall’esercizio della medesima, non essendo stata dettata dal legislatore fiscale una disciplina ad hoc, a differenza di quanto è avvenuto per l’impresa familiare. La gestione comune dell’azienda, secondo la volontà espressa dal legislatore, rappresenta l’elemento caratterizzante l’azienda coniugale nonché la linea di confine fra questa, l’impresa familiare e l’impresa individuale. Sarà pertanto la valutazione dell’effettiva portata del termine “cogestione” a determinare se ci si

23

FICARI, Brevi riflessioni sulla responsabilità tributaria del coniuge obbligato “dipendente” tra impresa individuale e dichiarazione congiunta, in Boll. trib., 2013, p. 485. In particolare, secondo l’Autore, dal combinato disposto dell’art. 4, lett. a), ultimo periodo, del TUIR e dell’art. 178 c.c. discenderebbe che «i redditi prodotti dall’impresa individuale in comunione andrebbero attribuiti al solo coniuge imprenditore, potendosi prescindere dalla proprietà personale o comune dei beni, bensì rilevando il solo possesso esclusivo dei medesimi in capo al titolare dell’azienda». In senso analogo: TURCHI, La famiglia nell’ordinamento tributario – parte I – I modelli di tassazione dei redditi familiari, Torino, 2012, p. 244. In senso contrario: LEO, Le imposte sul reddito nel Testo unico, Milano, 2010, I, p. 85; secondo il quale nell’ipotesi di impresa coniugale, essendo la fonte reddituale ravvisabile nella titolarità del complesso aziendale e non nella cogestione dello stesso, i criteri di imputazione del reddito dovrebbero seguire quelli della titolarità dei beni. 24 TURCHI, Imputazione dei redditi e comunione dei beni fra coniugi. Considerazioni sull’art. 4 del Testo unico, in Rass. trib., 2013, pp. 165-167.

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trovi in presenza di una fattispecie di tipo societario ovvero imprenditoriale 25. Una volta individuato l’elemento caratterizzante l’azienda coniugale, non è semplice definire i modelli impositivi a questa applicabili. In linea di principio, infatti, non è possibile ricondurre automaticamente la fattispecie ai criteri di imputazione del reddito di cui all’art. 4 del TUIR, posto che il regime fiscale dei proventi inerenti la comunione legale ha ad oggetto esclusivamente i redditi “da beni” in comunione e non quelli derivanti “dall’esercizio di un’attività” 26. Inoltre, qualora si concordi nel riscontrare una diversa natura dell’azienda coniugale rispetto all’impresa familiare 27, la necessità di ricondurre il reddito d’impresa prodotto attraverso la cogestione di un’azienda coniugale a uno dei modelli impositivi esistenti, induce ad assimilare la fattispecie in esame a quella della società di fatto fra coniugi, o comunque all’applicazione in via analogica del regime di tassazione per trasparenza di cui all’art. 5 del TUIR, assimilando l’impresa coniugale alle organizzazioni a base personale 28. Qualora, invece, si ritenga che il semplice esercizio congiunto di un’impresa non comporti di per sé l’adozione di un modello societario 29, i redditi prodotti attraverso l’azienda coniugale potrebbero es25

FANTOZZI, Regime tributario, cit., p. 1106 ss. Contra: NUSSI, L’imputazione del reddito del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, p. 348, il quale nell’individuazione della disciplina impositiva dell’azienda coniugale, sostiene che non si debba valorizzare «eccessivamente la pur evidenziata inapplicabilità dell’art. 4, lett. a), Tuir, sulla base della derivazione del reddito da una cogestione di attività piuttosto che da un “bene” comune; la terminologia della norma, infatti, riprende quella civilistica già propria della disciplina codicistica, senza contare che nel caso di specie il bene “azienda” è comune ad entrambi i coniugi». In senso analogo: CARTANESE, Il regime tributario dei redditi dell’impresa cogestita dai coniugi in regime di comunione legale, in Rass. trib., 2009, p. 755 ss. 27 CARTANESE, Il regime tributario dei redditi dell’impresa cogestita dai coniugi in regime di comunione legale, cit., p. 760. L’Autrice esclude il ricorso all’applicazione in via analogica della disciplina fiscale dettata per le imprese familiari di cui all’art. 230 bis c.c., in quanto queste configurano un fenomeno imprenditoriale alquanto peculiare, in quanto connotata da una serie di specifiche e rigorose condizioni, sicché detta disciplina ha pur sempre carattere speciale ed è, conseguentemente, di dubbia applicazione analogica. 28 GRANELLI, Profili civilistici e riflessi tributari del nuovo diritto di famiglia, in Boll. trib., 1977, p. 1445; CARTANESE, Il regime tributario dei redditi dell’impresa cogestita dai coniugi in regime di comunione legale, cit., passim. 29 Sulla distinzione fra il fenomeno societario e quello dell’azienda coniugale: MICELI, La prova del conferimento societario e la rilevanza dei rapporti familiari ai fini dell’individuazione dell’esistenza di una società di fatto, in Riv. dir. trib., 2000, p. 233. Secondo l’Autrice, l’indagine per verificare l’esistenza di un vincolo societario attiene principalmente ad un esame concreto dell’attività esercitata, «l’elemento centrale su cui si dovrà concentrare tale prova riguarderà invece l’autonomia dell’attività svolta dai coniugi, che dovrà prescindere totalmente dalla volontà di gestire o amministrare il patrimonio familiare. In tal caso, quindi, si dovranno rinvenire delle prove che attestino la volontà di svolgere congiuntamente fra loro, ed autonomamente rispetto alla gestione degli affari familiari, un’attività organizzata in esecuzione di un tacito patto contrattuale volto alla produzione di un utile». 26

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sere assoggettati a tassazione unicamente secondo il regime dettato per l’impresa familiare 30. Il D.M. 12 febbraio 1993 di approvazione del modello di dichiarazione dei redditi per l’anno 1993 aveva chiarito che solo nel caso in cui l’azienda coniugale fosse gestita in forma societaria trovavano applicazione le regole dettate per le società di persone, altrimenti il fenomeno andava assimilato a quello dell’impresa familiare, salvo la diversa imputazione dei redditi prodotti. Tali conclusioni sono state fortemente criticate dalla dottrina 31 che, oltre a evidenziare l’opportunità di un intervento normativo volto a dettare una disciplina fiscale ad hoc per l’azienda coniugale 32, si è prevalentemente orientata nel senso di ricondurre il fenomeno a quello della società fra coniugi (assoggettata, quindi, alle regole di cui all’art. 5 del TUIR), evidenziando, in proposito, che «salva la soggettivazione dell’azienda ai soli fini degli obblighi formali e dell’accertamento, l’applicazione del regime della “trasparenza” porta all’imputazione del reddito, per quote, ai coniugi, cioè ad un risultato coerente con la disciplina dei redditi dei beni ricadenti nella comunione» 33. Più di recente, la circolare dell’Agenzia delle Entrate 29 aprile 2003, n. 23/E, nel fornire chiarimenti in merito alla sanatoria fiscale di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, ha incidentalmente affermato che fra i redditi dei beni che formano oggetto della comunione legale, di cui all’art. 4, lett. a) del TUIR, rientrano anche quelli derivanti dall’esercizio dell’azienda coniugale che vanno conseguentemente imputati al 50 per cento fra i coniugi medesimi. In ogni caso, sia che si opti per una applicazione analogica dei criteri impositivi di cui all’art. 4 del TUIR, sia che si qualifichi l’azienda coniugale secondo il modello societario tassato per trasparenza, si addiverrà comunque ad un’imputazione al 50 per cento tra i coniugi del reddito prodotto.

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Di diverso avviso TURCHI, La famiglia nell’ordinamento tributario – parte I – I modelli di tassazione dei redditi familiari, cit., p. 236 ss.; secondo il quale «in entrambe le ipotesi di cogestione dell’impresa coniugale previste dall’art. 177 c.c. l’imputazione dei redditi avviene sulla base del criterio di contitolarità della fonte, non codificato ma implicito nel sistema e desumibile a contrario dallo stesso art. 4, lett. a), T.U., che imputa per intero al coniuge i redditi derivanti dall’attività separata. La cogestione dell’impresa commerciale rappresenta la fonte produttiva degli utili e degli incrementi aziendali e ne giustifica l’assoggettamento alle regole della comunione immediata». 31 FANTOZZI, ivi, p. 114; NIPOTE, Comunione legale e dichiarazione dei redditi, in Boll. trib., 1982, p. 692. 32 SCHIAVOLIN, I soggetti passivi, in Giurisprudenza Sistematica di diritto tributario diretta da Tesauro, tomo I, Imposta sul reddito delle persone fisiche, Torino, 1994, p. 107. 33 FEDELE, La comunione legale nel diritto tributario, in Dir. prat. trib., 2002, p. 33.

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6. L’impresa familiare Passando, infine, ad esaminare alcuni aspetti peculiari dell’impresa familiare, si deve ricordare che perché si configuri la fattispecie di cui all’art. 230 bis c.c., è necessario che esista un’impresa (sia agricola che commerciale), che sussista un rapporto familiare (legalmente tipizzato) con colui che si qualifica come imprenditore e che vi sia una prestazione continuativa, ancorché non esclusiva, di lavoro subordinato o autonomo nell’impresa ovvero la prestazione della propria attività lavorativa in famiglia che consenta agli altri componenti il nucleo familiare di dedicarsi esclusivamente all’impresa 34. A tutti i familiari che collaborano nell’impresa spetta il diritto di partecipare alle decisioni che riguardano l’impiego degli utili e la gestione straordinaria, sia che svolgano la loro attività nell’impresa sia che la svolgano in ambito familiare. Detti diritti non sono commisurati alla partecipazione all’impresa stessa, posto che ogni familiare ha diritto ad un voto e la maggioranza viene computata per capi. A lungo gli interpreti del diritto civile si sono interrogati in merito alla qualificazione dell’impresa familiare come impresa individuale o collettiva 35, suffragando le diverse soluzioni proposte con valide e contrastanti argomentazioni. Sembra, tuttavia, che l’orientamento interpretativo ormai prevalente sia nel senso di riconoscerle la natura di impresa individuale, suscitando, in tal modo, una serie di 34

In tal senso, fra gli altri: COLUSSI, Impresa familiare, in Noviss. dig., app. IV, Torino, 1983, p. 177; DI FRANCIA, Il rapporto di impresa familiare, Padova, 1991, p. 310. Va, inoltre, sottolineato che POLI (La riforma della riforma (Commento alla Legge 2 dicembre 1975, n. 576), in Boll. trib., 1976, p. 7) ha incluso fra i requisiti essenziali all’esistenza di un’impresa familiare anche quello della convivenza dei collaboratori. Secondo l’Autore, infatti, «benché l’art. 230-bis del codice civile, nell’indicare le persone che si intendono come familiari, non faccia alcun cenno alla convivenza dei partecipi, riteniamo che il riferimento alla “famiglia” implichi necessariamente il riferimento alla “convivenza”, senza la quale, peraltro, non si comprenderebbe la parificazione dell’attività di lavoro nell’impresa della famiglia e non essendo concepibile l’esistenza di un gruppo familiare che non conviva». In senso contrario: DETTI, Impresa e azienda nella comunione legale, in Riv. not., 1975, I, p. 775; GRANELLI, L’impresa familiare nella riforma tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1976, p. 624; MOGOROVICH, Aspetti fiscali dell’impresa familiare, in Dir. prat. trib., 1985, I, p. 1440 (il quale evidenzia come non silenzio normativo, non sia corretto supporre che anche la convivenza sia uno degli elementi essenziali all’esistenza di un’impresa familiare). 35 Nel senso di qualificare l’impresa familiare come una struttura plurisoggettiva con rilevanza esterna si ricordano, fra gli altri: BUSNELLI, Impresa familiare e azienda gestita da entrambi i coniugi, in Studi Sassaresi, Milano, 1979, p. 93; CARROZZA, Impresa familiare e comunione tacita familiare, in L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, Napoli, 1977, passim. Dell’opinione, invece, che l’impresa familiare si qualifichi come impresa individuale: COSTI, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, cit., p. 67 ss.; COTTINO, Diritto commerciale, vol. I, Padova, 1985, p. 117. Per un dettagliato esame del citato dibattito dottrinale: NUZZO, L’impresa familiare, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini-Cattaneo, vol. II Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 446 ss.

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perplessità nella dottrina tributaria connesse con l’imputazione reddituale di cui agli ultimi due commi dell’art. 5 del TUIR. Come noto, infatti, l’impresa familiare non costituisce un autonomo soggetto passivo d’imposta, tuttavia, la medesima diviene rilevante ai fini fiscali qualora risultino da un atto pubblico o da una scrittura privata autenticata i nominativi dei familiari partecipanti all’impresa ed il relativo rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore. Espletata detta formalità, in un momento antecedente l’inizio del periodo d’imposta, il comma 4 dell’art. 5 del TUIR dispone che «i redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230-bis del codice civile, limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.». Ebbene, se siffatta imputazione reddituale non suscita alcuna perplessità in quanti riconoscono all’impresa familiare natura collettiva 36, diversamente avviene qualora si voglia sostenere che detta impresa ha natura individuale. In particolare, gli autori che hanno aderito a questo secondo orientamento, hanno evidenziato che, sebbene la disciplina fiscale dell’impresa familiare si trovi nell’art. 5 TUIR, non se ne deve desumere che il legislatore abbia inteso equipararla alla società di persone 37. Del resto, il rinvio espresso all’art. 230 bis c.c. non può che esprimere la natura individuale dell’impresa, come riconosciuta dagli interpreti del diritto civile 38. Secondo questi Autori, l’inserimento della disciplina 36

Fra quanti sostengono che l’impresa familiare ha natura associativa, è stato evidenziato che la partecipazione dei familiari non solo agli utili ma anche agli acquisti ed incrementi denoterebbe l’esercizio in comune di un’attività produttiva, seppur inteso come contitolarità della fonte di produzione e non come cogestione. In tal senso: CERNIGLIARO DINI, Aspetti fiscali della riforma del diritto di famiglia, in Dir. prat. trib., 1975, I, p. 1343. 37 A tal proposito è stato evidenziato (GRANELLI, L’impresa familiare nella riforma tributaria, op. cit., p. 631) che la necessità, avvertita dal legislatore, di aggiungere un comma all’art. 5 del TUIR al fine di disciplinante i criteri di imputazione del reddito nell’impresa familiare – con l’art. 9 della L. 2 dicembre 1975, n. 576 –, evidenzia come questa ultima non potesse essere ricondotta alla disciplina preesistente per le società di persone. Ed, invero, «la presenza di una norma apposita, intesa a regolamentare l’imputazione sul reddito ai soggetti partecipanti ai fini della tassazione personale, indica, risolvendo nel senso da noi indicato un altro punto controverso, che l’impresa familiare non riveste, neppure in sede tributaria, la natura di società a base personale: se così fosse, infatti, il trattamento tributario di tale impresa avrebbe trovato compiuta disciplina nell’originaria formulazione dell’art. 5 del citato d.P.R. n. 598». L’Autore, peraltro, conclude affermando che la disciplina fiscale dell’impresa familiare deve essere letta come «una norma di favore, non coessenziale alla struttura della fattispecie, e non esprimente, quindi, un principio insito nel sistema». Riconosce natura individuale e non societaria all’impresa familiare anche: MICHELI, Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Riv. dir. fin., 1977, I, p. 427. 38 GRANELLI, L’impresa familiare nella riforma tributaria, cit., p. 623; FANTOZZI, Impresa familiare (diritto tributario), in Noviss. dig. it., App., vol., IV, Torino, 1983, p. 87; MULÈ, Imputazione

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dell’impresa familiare nell’art. 5 del TUIR, starebbe ad indicare, non tanto una natura associativa, quanto l’operatività nei confronti della medesima del criterio di imputazione del reddito per trasparenza 39. Per quanto concerne poi la ratio sottesa al criterio di imputazione plurisoggettiva del reddito prodotto da un’impresa personale quale quella familiare, è stato evidenziato che non può essere ravvisata neppure nella disponibilità materiale del reddito stesso: posto che detta imputazione prescinde dalla effettiva distribuzione degli utili e, quindi, dalla loro materiale percezione. I medesimi Autori, inoltre, sostengono che il criterio legittimante siffatta imputazione va ravvisato nell’esercizio di un’attività economica da parte dei collaboratori dell’impresa, in funzione del quale viene loro riconosciuto il diritto di partecipare agli utili d’impresa. Del resto, se «si ritiene che la ratio dell’istituto dell’impresa familiare nel diritto civile è quella di riconoscere giuridicamente le prestazioni di lavoro dei familiari, prive di un rapporto formale, attraverso la distribuzione ai medesimi del diritto ad una parte degli utili dell’impresa, la conseguenza in sede tributaria non può che essere il riconoscimento dell’attività economica esercitata e degli utili distribuiti mediante la loro imputazione ai soggetti che esercitano l’attività» 40. Siffatta ricostruzione, seppur senza dubbio più appagante di altre soluzioni prospettate in dottrina, non appare, tuttavia, pienamente condivisibile. Ancora una volta, infatti, ci sembra che nel ricercare la ratio sottesa ad un particolare criterio di imputazione reddituale, ci si debba soffermare sul fatto che il legislatore tributario individua i soggetti passivi nell’imposizione diretta in base alla riferibilità a questi ultimi della potenzialità economica manifestata dal reddito: vale a dire la sua potenzialità di soddisfare bisogni ed interessi. Ne consegue che il reddito medesimo deve essere riferito a quei soggetti alla cui soddisfazione di bisogni ed interessi viene destinato. Ebbene, come correttamente evidenziato in dottrina, il “vincolo di comunione” ravvisabile nell’impresa familiare è rappresentato dall’affectio familiaris, vale a dire dalla «formazione spontanea del rapporto, diretto oltre che al fine di mantenere la reciproca assistenza familiare e spirituale dei componenti, quello di incrementare il patrimonio familiare» 41; conseguentemente, il reddei redditi nell’impresa familiare ai fini dell’imposizione sul reddito, in Dir. prat. trib., 1985, I, p. 305; POLI, La natura giuridica dell’impresa familiare e l’imposta di registro, in Dir. prat. trib., 1982, II, p. 981. A suffragio di siffatto orientamento dottrinale è stato, altresì, evidenziato che la disciplina tributaria individua nel titolare dell’impresa l’unico soggetto responsabile per l’adempimento del tributo, nonché il soggetto tenuto ai relativi adempimenti formali. 39 MULÈ, Imputazione dei redditi nell’impresa familiare ai fini dell’imposizione sul reddito, cit., p. 313. 40 PROTO, Riflessioni in tema di tassazione dei redditi del nucleo familiare, cit., 1991, I, p. 819, cui si rinvia anche per un approfondimento del dibattito dottrinale tenutosi in relazione alla corretta qualificazione del reddito imputato al collaboratore secondo i richiamati criteri di collegamento (ivi, pp. 819-827). 41 POLI, La riforma della riforma (Commento alla Legge 2 dicembre 1975, n. 576), cit., p. 8.

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dito derivante dall’esercizio di un’impresa familiare non può che essere imputato a quei componenti della famiglia, che prestano la propria attività nell’impresa a tal fine costituita; essendo, peraltro, proprio questi ultimi soggetti che, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., decidono, a maggioranza di voti, la destinazione degli utili.

IL PASSAGGIO DEI BENI DELL’IMPRENDITORE INDIVIDUALE DALLA SFERA PERSONALE A QUELLA IMPRENDITORIALE

di Viviana Capozzi SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’evoluzione normativa. – 2.1. La disciplina dettata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597. – 2.2. L’introduzione dell’art. 77 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (oggi art. 65 del c.d. “Nuovo TUIR”). – 3. I criteri di distinzione fra i beni personali dell’imprenditore individuale e quelli relativi all’impresa. – 4. I criteri di valutazione dei beni nel passaggio dalla sfera personale a quella imprenditoriale.

1. Premessa Il confine fra i beni personali dell’imprenditore e quelli riconducibili al suo patrimonio aziendale può essere sfumato al punto da generare difficoltà nella corretta individuazione del regime fiscale cui assoggettare sia i costi di acquisto e manutenzione di detti beni, sia le somme eventualmente ricavate dalla vendita degli stessi. Nell’individuazione dei criteri distintivi dei beni personali dell’imprenditore da quelli destinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale e, quindi, delle modalità con le quali l’imprenditore è tenuto a evidenziare l’eventuale destinazione di un bene personale al proprio complesso aziendale, un elemento essenziale risulta essere il tipo di utilizzo al quale il bene è destinato e quindi la sua qualificazione come bene merce, bene strumentale (per natura o destinazione), ovvero bene patrimoniale. Infatti, i beni che provengono dal patrimonio personale dell’imprenditore e che da questi vengono utilizzati nell’impresa possono essere di diverso tipo. A tal uopo, sembra utile ricordare che si qualificano come beni merce quelli oggetto dell’attività d’impresa, la cui cessione è considerata produttiva di ricavi ai sensi dell’art. 85, comma 1, lett. a) e b) del TUIR. Con specifico riferimento ai beni immobili, va osservato che si considerano beni merce unicamente quelli oggetto dell’attività di costruzione e/o compravendita dell’impresa immobiliare e

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che per detti beni l’iscrizione nell’inventario (tenuto ai fini civilistici ex art. 2217 del c.c. e fiscali ex art. 15 del D.P.R. n. 600 del 1973) non ha valore costitutivo poiché, come si vedrà meglio nel prosieguo, i beni merce si considerano relativi all’impresa in ogni caso, anche a prescindere dall’iscrizione nell’inventario 1. Nell’ambito dei beni strumentali, si devono distinguere i beni strumentali per natura da quelli strumentali per destinazione. Con specifico riferimento ai beni immobili, l’art. 43, comma 2, del TUIR qualifica come immobili strumentali per destinazione quei beni utilizzati esclusivamente per l’esercizio dell’arte o professione o dell’impresa commerciale da parte del possessore. A mero titolo esemplificativo, rientrano in questa categoria gli immobili utilizzati per la sede dell’impresa e i negozi utilizzati per l’esercizio dell’attività commerciale. Il secondo periodo del medesimo comma 2 dell’art. 43 del TUIR dispone, viceversa, che sono immobili strumentali per natura quelli che, per le loro caratteristiche, non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni. Rientrano in questa definizione gli immobili appartenenti alle seguenti categorie catastali: A/10 (ufficio e studi privati), B (Unità immobiliari ad uso alloggi collettivi), C (unità immobiliari a destinazione ordinaria commerciale), D (immobili a destinazione speciale) ed E (immobili a destinazione particolare). Infine, ai sensi e per gli effetti di quanto disposto dall’art. 90 del TUIR, sono immobili patrimoniali gli immobili che non costituiscono né beni merce né beni strumentali, facenti parte del patrimonio aziendale, il cui reddito concorre a formare il reddito d’impresa secondo i criteri di quantificazione dettati ai fini IRPEF. Il tema dell’individuazione dei criteri sottesi alla distinzione e alla valorizzazione dei beni personali dell’imprenditore individuale da quelli relativi all’attività commerciale dal medesimo svolta ha da tempo suscitato l’interesse degli interpreti e registrato importanti interventi normativi. Pertanto, prima quindi di addentrarci in una breve ricostruzione della fattispecie, sembra opportuno tracciare i lineamenti dell’evoluzione storico normativa intervenuta in detta materia.

2. L’evoluzione normativa 2.1. La disciplina dettata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 Prima dell’entrata in vigore del TUIR, sotto la vigenza del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, l’imprenditore individuale aveva la facoltà di decidere quali beni attrarre al patrimonio aziendale e quali conservare nella sfera personale. Basti a tal uopo ricordare quanto evidenziato dalla Suprema Corte di Cassazione, in una risalente pronuncia, resa in merito dell’assoggettabilità ad IVA di una cessione di 1

CORRADIN-SPINA, Guida alla tassazione degli immobili, Milanofiori Assago (MI), 2006, p. 378.

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beni la cui appartenenza alla sfera personale o imprenditoriale risultava controversa 2. In detta sede, la Corte ha ricordato come, in base alla legislazione vigente ai fatti di causa, fosse pacifico che mentre i beni facenti parte del patrimonio di una società erano sempre relativi all’impresa, altrettanto non può dirsi con riferimento ad un’impresa individuale, nei cui confronti la disciplina dell’IVA è applicabile unicamente per la cessione di beni esplicitamente inerenti all’esercizio dell’impresa, «quali macchinari ed attrezzature, tra i quali non rientrano, ad esempio, l’alloggio dell’imprenditore o la sua autovettura utilizzata non per ragioni di lavoro». Ai sensi di quanto disposto dall’art. 4 del D.P.R. n. 633 del 1972, nel tenore testuale vigente ai fatti di causa, sono assoggettate ad IVA unicamente le cessioni di beni realizzate nell’esercizio di impresa. Secondo la Corte «l’ampia previsione normativa induce a ritenere che la disposizione di legge riguardi tutti i beni dell’impresa, anche se non strumentali in senso proprio. Devono perciò considerarsi relativi all’impresa i beni facenti parte del patrimonio aziendale, e per stabilire tale rapporto di destinazione deve necessariamente farsi riferimento alla volontà dell’imprenditore, essendo a lui riferibile la formazione dell’azienda e la correlativa distinzione fra i beni da includere nel patrimonio aziendale e quelli da lasciare nel suo patrimonio personale». In sostanza, come correttamente evidenziato in dottrina, prima dell’entrata in vigore del testo unico delle imposte sui redditi, quindi, mancava qualsiasi regolamentazione della materia in esame, per cui ci si riportava, con diverse incertezze, alla situazione di fatto, da accertare e provare con qualsiasi mezzo idoneo 3. In sostanza, come peraltro sottolineato dalla medesima Corte di Cassazione nella pronuncia richiamata, l’individuazione dei beni relativi all’impresa implicava «un problema di prova che talvolta può presentarsi di non facile soluzione».

2.2. L’introduzione dell’art. 77 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (oggi art. 65 del c.d. “Nuovo TUIR”) La tematica inerente la corretta individuazione dei beni appartenenti alla sfera personale dell’imprenditore individuale e di quelli relativi all’impresa, viene affrontata per la prima volta a livello normativo con l’introduzione nel nostro ordinamento dell’allora art. 77 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, poi trasfuso nell’art. 65 del c.d. “Nuovo TUIR”, rubricato per l’appunto «beni relativi all’impresa». Ai sensi del comma 1 della richiamata disposizione (nel dato testuale originario), per le imprese individuali si consideravano relativi all’impresa, oltre ai beni merce e alle materie prime e semilavorati, ai beni strumentali per l’esercizio dell’impresa e ai crediti acquisiti nell’esercizio stesso, i beni iscritti in pubblici 2

Cass. 5 luglio 1984, n. 3942. LUNELLI, Imprenditore individuale. L’immobile strumentale per destinazione, in Il Fisco, 1992, p. 2154. 3

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IL PASSAGGIO DEI BENI DELL’IMPRENDITORE INDIVIDUALE

registri a nome dell’imprenditore e i titoli in serie o di massa lui appartenenti, che non fossero indicati tra le attività estranee all’impresa nell’inventario redatto e vidimato a norma dell’art. 2217 c.c. Con riferimento al ricordato assetto normativo, la Commissione tributaria centrale 4, aveva altresì chiarito che, a partire dal 1° gennaio 1998 (data di entrata in vigore del TUIR) per i beni iscritti nei pubblici registri, l’unico mezzo di prova della loro natura personale o imprenditoriale era costituito dall’inclusione o meno nel registro dell’inventario. «Quell’atto, che in precedenza costituiva uno dei tanti possibili elementi di prova e che, nel concorso di altri elementi, poteva essere disatteso, diviene ora prova esclusiva, e quindi equivalente in sostanza al fatto da provare» posto che viene sostanzialmente introdotta una presunzione iuris et de iure di appartenenza all’impresa dei beni che non vengano espressamente indicati quali estranei. In sostanza, l’art. 77 del TUIR, nel suo tenore originario, consentiva di indicare come estranei all’impresa unicamente i beni immobili (o anche mobili) iscrivibili in pubblici registri, mentre gli altri beni strumentali restavano comunque relativi all’impresa per espressa previsione normativa. Il ricordato comma 1 dell’art. 77 del TUIR è stato poi sostituito dall’art. 10 bis del D.L. 2 marzo 1989, n. 69 convertito con modificazioni dalla L. 27 aprile 1989, n. 154. In base al nuovo dettato normativo, si consideravano relativi all’impresa, oltre ai beni merce, alle materie prime e ai semi lavorati, a quelli strumentali per l’esercizio dell’impresa e ai crediti acquisiti nell’esercizio dell’impresa stessa, anche i beni appartenenti all’imprenditore che fossero indicati tra le attività relative all’impresa nell’inventario redatto e vidimato a norma dell’art. 2217 c.c. La nuova disposizione, quindi, consentiva di destinare all’impresa anche dei beni non strumentali, mediante la loro indicazione nell’inventario. A tal fine, il comma 3 bis aggiunto al citato art. 77, individuava degli appositi criteri di valorizzazione dei beni personali dell’imprenditore che questi volesse destinare alla propria attività commerciale, mediante indicazione degli stessi nell’inventario. La disciplina in esame, tuttavia, non aveva ancora trovato il suo assetto definitivo e, infatti, il più volte menzionato comma 1 dell’art. 77 veniva nuovamente integrato dall’art. 2 del D.L. 27 aprile 1990, n. 90 convertito con modificazioni dalla L. 26 giugno 1990, n. 165; inserendo, all’ultimo periodo, la previsione che gli immobili strumentali per natura (di cui all’ora secondo periodo del comma 2 dell’art. 40 – oggi art. 43 – del TUIR) si consideravano relativi all’impresa solo se indicati nell’inventario (per i soggetti in contabilità ordinaria) o nel registro dei beni ammortizzabili (per i soggetti in contabilità semplificata). Siffatto intervento normativo, quindi, introduceva, per la prima volta, una distinzione fra il regime dei beni strumentali per destinazione (vale a dire quelli utilizzati esclusivamente nell’attività imprenditoriale) da quello degli strumentali per natura (vale a 4

CTC, Sez. V, 4 giugno 1991, n. 4369.

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dire quelli non suscettibili di diversa destinazione senza radicali trasformazioni) che si consideravano sempre relativi all’impresa. La nuova formulazione del comma 1 dell’art. 77 del TUIR, infatti, mentre consentiva di estraniare dal regime d’impresa l’immobile strumentale per natura, omettendo di indicarlo nell’inventario o nel registro dei beni ammortizzabili, confermava implicitamente che gli immobili strumentali per destinazione dovevano essere sempre considerati come relativi all’impresa. Ma la vicissitudini di questa articolata questione ancora non potevano dirsi concluse, a rimodulare l’intera materia è, infatti, da ultimo intervenuto l’art. 58 della L. 30 dicembre 1991, n. 413, il quale ha conferito all’art. 77 del TUIR l’assetto definitivo, poi confluito nell’art. 65 del Nuovo TUIR, attualmente in vigore.

3. I criteri di distinzione fra i beni personali dell’imprenditore individuale e quelli relativi all’impresa La scelta operata dal legislatore del 1991 è stata sostanzialmente quella di unificare il regime previsto per gli immobili strumentali per destinazione a quello degli immobili strumentali per natura. In base a quanto disposto dall’art. 77 del TUIR tutti gli immobili strumentali dell’imprenditore sono in grado di superare la presunzione di appartenenza al regime d’impresa, contenuta nel primo periodo del comma 1 dell’art. 77 del TUIR; a tal fine, sarà sufficiente dimostrare la mancata annotazione degli stessi nell’inventario o nel registro dei beni ammortizzabili. Pertanto, a far data dal 1° gennaio 1992, tutti gli immobili strumentali acquisiti dall’imprenditore si considerano relativi all’impresa solo se iscritti nell’inventario o nel registro dei beni ammortizzabili. Il regime fiscale cui vengono assoggettati gli immobili appartenenti 5 all’imprenditore individuale viene quindi oggi fatto discendere da una libera scelta dell’imprenditore medesimo, così che se questi deciderà di iscrivere il bene nell’inventario o nel registro dei beni ammortizzabili, il bene medesimo concorrerà a formare il reddito d’impresa, risultando da un canto ammortizzabile il costo del bene e dall’altro deducibili le spese relative alla sua manutenzione o gli oneri passivi per finanziamenti. Viceversa, se l’imprenditore opta per la conservazione del bene alla propria sfera personale, il medesimo concorrerà all’incremento della sua componente reddituale unicamente quale reddito fondiario. 5

TASINI (Commentario al testo unico delle imposte sui redditi 2005 diretto da Miele e Stesuri, Verona, 2005, p. 730) osserva come il concetto di “appartenenza” dovrebbe essere letto nel senso di identificare quali beni dell’impresa quelli per i quali l’impresa medesima dispone della proprietà o di altro diritto reale di godimento; sì da escludere dal novero dei beni relativi all’impresa quelli disponibili in virtù di un contratto di locazione, di comodato e di leasing.

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Dal descritto quadro normativo (art. 65 del TUIR) discende che quando una persona fisica decide di avviare un’attività d’impresa, gli immobili che eventualmente costituiscono beni merce (in caso di imprese edili) sono automaticamente sottratti alla sfera privata per confluire nel regime d’impresa; mentre gli immobili strumentali e patrimoniali confluiscono nel regime d’impresa solo se iscritti nell’inventario o nel registro dei beni ammortizzabili. In sostanza, l’iscrizione del bene nell’inventario rappresenta «la forma richiesta dalla legge ad substantiam per la qualificazione dell’immobile strumentale come relativo all’impresa» 6. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha riacceso l’interesse degli interpreti sulla corretta interpretazione della normativa in esame 7. A mezzo della cennata pronuncia la Suprema Corte ha infatti affermato il principio secondo il quale gli immobili strumentali per destinazione, anche se non indicati nell’inventario o nel registro dei beni ammortizzabili, devono sempre essere considerati relativi all’impresa. Ebbene, nonostante la sentenza in esame risulti sostanzialmente corretta con riferimento alla fattispecie sub iudice, posto che l’immobile in questione era stato acquistato prima del 1992 e, quindi, per lo stesso operava la presunzione di appartenenza all’impresa derivante dal tipo di utilizzo cui il bene era stato assoggettato, tuttavia, la Corte non ha fondato la propria motivazione su tale determinante elemento temporale, preferendo affermare un principio che sembrerebbe voler essere di portata generale. In particolare, ha suscitato diverse perplessità il fatto che la Cassazione sembrerebbe aver fondato le sue conclusioni sulla circostanza che il comma 2 dell’art. 40 del TUIR (oggi art. 43 del c.d. Nuovo TUIR) richiami l’art. 77 del TUIR (oggi art. 65 del c.d. Nuovo TUIR) con esclusivo riferimento agli immobili strumentali per natura e non anche a quelli strumentali per destinazione. Un’estesa e generica applicazione del principio affermato dalla Corte di Cassazione condurrebbe al non auspicabile risultato di rintrodurre, con un’interpretazione peraltro apertamente contra legem, una presunzione assoluta di appartenenza all’impresa degli immobili strumentali per destinazione 8. 6 LOGOZZO, I proventi immobiliari, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario diretta da Tesauro, Torino, 1994, p. 609. In senso analogo ARTINA, (La redazione dell’inventario iniziale per il neo imprenditore, in Prat. prof., I Casi, 9, 1999, p. 319) secondo il quale detta iscrizione rappresenta «una condizione necessaria al fine della deducibilità fiscale delle quote di ammortamento dei beni strumentali, sia per quanto concerne il valore di riferimento per il calcolo delle quote, sia per quanto riguarda l’esercizio a partire dal quale dette quote di ammortamento sono ammesse in deduzione». 7 Cass., sez. trib., 14 gennaio 2011, n. 772; in senso analogo anche Cass., sez. trib., 20 ottobre 2006, n. 22587, annotata da POGGIOLI, Immobili strumentali “relativi” all’impresa individuale e indicazione nei registri, in Corr. trib. 2006, p. 3809. 8 LOVECCHIO, Immobili strumentali relativi all’impresa individuale anche se non contabilizzati, in Corr. trib., 2011, p. 964. Sempre critico sulla motivazione della sentenza in rassegna: CAMISASCA, Imprenditori individuali e immobili relativi all’impresa, in Bil. e red. d’imp. 2011, p. 16.

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In netto contrasto con un orientamento interpretativo di tal guisa si pone, peraltro, la stessa Amministrazione finanziaria, la quale nella risoluzione 15 aprile 2008, n. 39/E ha espressamente chiarito che «ai sensi dell’articolo 65, comma 1, del TUIR, gli immobili strumentali per natura o per destinazione di cui all’articolo 43, comma 2, del TUIR, si considerano relativi all’impresa individuale solo se annotati nell’inventario o, per le imprese in contabilità semplificata, nel registro dei beni ammortizzabili. Tale previsione normativa, già contemplata nel previgente articolo 77, è stata introdotta dalla Legge 30 aprile 1991 n. 913, con decorrenza dal periodo d’imposta 1992. Si ricorda che prima dell’entrata in vigore della Legge n. 413/1991 gli immobili strumentali per destinazione erano sempre considerati relativi all’impresa, anche se non indicati nell’inventario, mentre l’indicazione nell’inventario era richiesta solo per gli immobili strumentali per natura». Nel complesso più corretta, e comunque in linea con la prassi amministrativa appena richiamata, appare la sentenza della Commissione tributaria regionale impugnata dinanzi il Giudice di legittimità. La Commissione regionale, infatti era giunta a conclusioni analoghe a quelle rassegnate dalla cassazione con la sentenza esaminata, evidenziando, tuttavia, come il mancato inserimento dei suddetti beni nell’inventario non incida sull’appartenenza di diritto degli stessi alla sfera imprenditoriale, trattandosi di beni acquistati prima del 1° gennaio 1992, rispetto ai quali l’iscrizione nel libro dell’inventario era un obbligo, non una facoltà, salvo l’esercizio dell’opzione prevista dalla legge per l’estromissione degli immobili dal patrimonio dell’impresa, opzione che non era stata esercitata dal contribuente.

4. I criteri di valutazione dei beni nel passaggio dalla sfera personale a quella imprenditoriale Allorché i beni posseduti dalla persona fisica vengono distolti dalla sfera privata per essere destinati a quella imprenditoriale, sorge il problema di attribuire a detti beni il valore fiscale con il quale verranno immessi in detto regime. Per quanto riguarda la valorizzazione dei beni trasferiti dalla sfera personale a quella imprenditoriale, il comma 3 bis dell’art. 65 del TUIR detta specifiche disposizioni unicamente con riferimento ai beni strumentali, senza nulla statuire con riferimento alle altre tipologie di beni. Ai sensi della richiamata disposizione, «per i beni strumentali dell’impresa individuale provenienti dal patrimonio personale dell’imprenditore è riconosciuto, ai fini fiscali, il costo determinato in base alle disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1974, n. 689, da iscrivere tra le attività relative all’impresa nell’inventario di cui all’articolo 2217 del codice civile ovvero, per le imprese di cui all’articolo 66, nel registro dei cespiti ammortizzabili. Le relative quote di ammortamento sono calcolate a decorrere dall’esercizio in corso

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alla data dell’iscrizione.». Stando, quindi, al dettato normativo, per la valorizzazione dei beni strumentali immessi nel complesso aziendale dell’imprenditore individuale si dovrà fare riferimento alla disciplina recata dal D.P.R. n. 689/1974 e, in particolare, a quanto disposto dall’art. 4 del richiamato decreto in relazione ai beni immobili e mobili iscritti nei pubblici registri e dall’art. 5 per i beni mobili strumentali non iscritti nei pubblici registri. Entrambe le disposizioni richiamate fanno riferimento a criteri basati sul costo storico dei beni. In particolare, a norma dell’art. 4 del D.P.R. n. 689/1974, i beni iscritti in pubblici registri vanno valutati al costo rappresentato dal valore definitivamente accertato ai fini delle imposte di registro o di successione e donazione (o, in mancanza, in base al prezzo indicato nell’atto di acquisto) maggiorato degli oneri accessori di diretta imputazione. Per quanto riguarda i beni costruiti in economia o in appalto, si assume il costo di produzione documentato o da stimare con riferimento alla data di ultimazione lavori. I valori così determinati, inoltre, andranno maggiorati, a titolo di spese incrementative, nella misura del 3% annuo (applicabile anche per la frazione di anno superiore a sei mesi) o nella maggior misura risultante dalla relativa documentazione. Analogo criterio a quello disciplinato dall’art. 4 del D.P.R. n. 689/1974 è dettato dal successivo art. 5 del medesimo D.P.R. n. 689/1974 con riferimento ai beni non iscritti nei pubblici registri. Con riferimento a tali ultimi beni, inoltre, qualora manchi la documentazione relativa al costo di acquisto, si dovrà assumere il valore normale del bene alla data di acquisizione. Tali criteri di stima sono stati oggetto di critiche da una parte della dottrina che ha evidenziato come la disposizione recata dall’art. 65 del TUIR pecchi di eccessivo pragmatismo, finalizzata come è ad ovviare a problemi di natura valutativa. Secondo tali autori l’adozione di un valore coincidente con il costo rappresenta una “soluzione di comodo” che ha il vantaggio di evitare agli uffici fiscali laboriose verifiche volte ad appurare la corretta determinazione del valore dei beni immessi nel regime d’impresa. Motivo per cui il criterio di valorizzazione di cui all’art. 65 del TUIR dovrebbe essere letto non tanto come principio generale, quanto come «una scelta di semplicità troppo discorsiva per essere assunta a paradigma sistematico» 9. Con riferimento ai beni diversi dai beni strumentali, la mancanza di una specifica disciplina normativa in merito ai criteri di determinazione del valore di detti beni ai fini della loro immissione nel regime d’impresa, ha da sempre suscitato difficoltà operative e dubbi interpretativi sfociati in soluzioni oscillanti tra la valutazione al costo storico e la valutazione al valore normale, tutte non prive di elementi di criticità. 9 LUPI-BENAZZI, Trasformazione eterogenea e valore sistematico dell’art. 65 TUIR sulla valorizzazione dei beni immessi nel regime d’impresa, in Dialoghi trib., 2004, p. 1467.

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Sul punto l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione 19 luglio 2002, n. 242/E ha sostanzialmente affermato che tanto l’applicazione del costo storico, quanto quella del valore normale possono portare ad effetti distorsivi e potenzialmente elusivi, censurabili nella prospettiva dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. In particolare, si legge nella cennata risoluzione come per i beni merce non sia possibile utilizzare i criteri di valutazione dettati dal comma 3-bis dell’art. 65 del TUIR per i beni strumentali; infatti «l’ambito oggettivo d’applicazione del comma 3-bis citato è limitato ai beni strumentali suscettibili d’ammortamento, come espressamente indicato dalla norma e come confermato dal riferimento al registro dei cespiti ammortizzabili ed al calcolo delle quote di ammortamento». Non potendo applicare il criterio del costo storico, nel caso di specie, dovrebbero trovare applicazione i criteri generali vigenti in materia di attribuzione di un valore fiscale a beni relativi all’impresa e, quindi, il criterio del valore normale di cui all’art. 9, comma 3, del TUIR, richiamato come criterio generale/residuale dall’art. 110, comma 2, del medesimo Testo Unico. In tal senso si è espressa parte della dottrina, sottolineando altresì come il criterio del valore normale avrebbe dovuto trovare applicazione anche con riferimento ai beni strumentali, in assenza della specifica deroga dettata dal più volte citato comma 3 bis dell’art. 65 del TUIR 10. Così che, vista l’eccezione prevista in via normativa per i beni strumentali, non v’è dubbio che per i beni diversi da quelli strumentali debba trovar luogo la valorizzazione a valore normale. A parziale confutazione della correttezza di siffatta ipotesi interpretativa, tuttavia, non può tacersi come la richiamata risoluzione n. 242/2002 sollevi alcune perplessità in merito al verificarsi di possibili effetti distorsivi e potenzialmente elusivi anche nel caso di utilizzo del criterio del valore normale. Il cennato documento di prassi, dopo aver ricordato che «l’ipotesi di ingresso di beni nel regime d’impresa, al di fuori dell’acquisizione a titolo oneroso e fatta salva la norma a carattere eccezionale di cui all’art. 77 comma 3-bis (oggi art. 65, n.d.r) per i beni strumentali, non è espressamente disciplinata, per quanto riguarda – in particolare – i profili valutativi, da alcuna norma del Tuir», precisa che «in mancanza di una norma specifica che regoli la fattispecie, occorre comunque salvaguardare il principio generale del sistema in base al quale i componenti di reddito debbono rilevare nel regime nel quale sono maturati e non in un regime diverso, al fine di evitare arbitraggi rivolti a scegliere il regime di tassazione più conveniente». Peraltro, sottolinea l’Amministrazione finanziaria come anche la valorizzazione al valore norma10 PORCARO (Il trasferimento di un terreno ereditato dalla sfera personale a quella imprenditoriale, in Corr. trib. 1998, inserto “Filo diretto”) secondo il quale «L’esigenza sistematica vorrebbe la valorizzazione del bene al valore normale dello stesso alla data di immissione nell’impresa, in modo che non diventi imponibile l’incremento di valore maturato nel tempo in cui detto bene apparteneva alla sfera personale». In senso analogo FALSITTA, La tassazione delle plusvalenze e sopravvenienze nelle imposte sui redditi, Padova, 1986, p. 126.

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le, nel caso in cui detto valore risultasse superiore al costo storico, determinerebbe un salto d’imposta. Ciò posto, appare evidente come valorizzando i beni al valore normale sussiste il rischio che l’Amministrazione finanziaria possa ravvisare in tale scelta l’intento di operare un arbitraggio fiscale, con conseguente applicabilità della disciplina antielusiva. Secondo altra parte della dottrina, la soluzione che meno esporrebbe a critiche da parte dell’Amministrazione finanziaria potrebbe essere rappresentata proprio dall’utilizzo del criterio di valutazione al costo storico dei beni non strumentali 11. Sebbene tale soluzione comporti una discrasia nel sistema che potrebbe finire per attrarre al regime d’impresa plusvalenze generate al di fuori della sfera imprenditoriale, la medesima sembra comunque preferibile a quella dell’utilizzo del criterio di valorizzazione al valore normale. Tuttavia, qualora al momento dell’immissione nel regime d’impresa del bene non strumentale al medesimo venisse riconosciuto un valore fiscale inferiore al valore corrente, detto plusvalore, maturato bella sfera personale dell’imprenditore, verrebbe attratto a tassazione nel regime d’impresa 12. Sempre con riferimento alla fattispecie in esame, alcuni autori si sono interrogati in merito alla possibilità di applicare all’ipotesi di destinazione all’impresa di beni personali dell’imprenditore, il disposto dell’art. 88, comma 3, lett. b) del TUIR, ai sensi del quale costituiscono sopravvenienze attive i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità. Sul punto è stato correttamente osservato come il semplice passaggio dalla sfera privata a quella imprenditoriale di un bene non dovrebbe configurare una sopravvenienza attiva posto che la richiamata disposizione fa espresso riferimento a proventi “conseguiti”, mentre nel caso in esame si ha unicamente un atto di destinazione all’impresa del bene che appartiene già all’imprenditore. Risultando, altresì irrilevante il fatto che l’inverso passaggio dalla sfera imprenditoriale a quella personale è viceversa tassato, atteso che si tratta di ipotesi (quella dell’autoconsumo) espressamente disciplinata dagli artt. 85 e 86 del TUIR 13. A tale ultimo proposito, è appena il caso di ricordare che quando si verifica il passaggio dalla sfera imprenditoriale a quella personale di un bene dell’imprenditore individuale, il maggior valore nel tempo maturato da detto bene deve essere assoggettato a tassazione nel regime d’impresa, nel quale il plusvalore medesimo è maturato. Pertanto, la fuoriuscita del bene dal regime d’impresa determinerà un componente positivo di reddito, qualificabile come un ricavo ex art. 85 11 MAZZUOCCOLO, Transito dei beni dalla sfera privata a quella d’impresa: conseguenze e termini di tassazione e loro valorizzazione nelle imposte sui redditi, in Boll. trib., 2002, p. 1384; STEVANATO, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994, p. 96 ss. 12 LUPI, Profili tributari della fusione di società, Padova, 1989, p. 63 ss. 13 CORRADIN-SPINA, Guida alla tassazione degli immobili, cit., p. 384.

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del TUIR (se il bene destinato a finalità estranee è un bene merce) ovvero come una plusvalenza ex art. 86 del TUIR (se il bene destinato a finalità estranee è un bene strumentale o patrimoniale). Tale regime di tassazione, che rappresenta il criterio ordinario dell’estromissione di beni dalla sfera imprenditoriale, ha conosciuto, tuttavia, alcune deroghe da parte di disposizioni agevolative a carattere temporaneo. Ci si riferisce alle diverse disposizioni che, al verificarsi di determinati presupposti, hanno nel tempo consentito agli imprenditori individuali di trasferire dal patrimonio dell’impresa a quello personale alcuni beni immobili strumentali, mediante assoggettamento ad un regime di tassazione agevolato, sia ai fini delle imposte dirette che indirette 14.

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L’art. 30, comma 1, della L. 27 dicembre 1997, n. 449, che agevolava l’estromissione degli immobili acquisiti prima del 30 settembre 1997 e l’art. 3, commi da 4 a 6, della L. 28 dicembre 2001, n. 448, che agevolava l’estromissione utilizzati alla data del 30 novembre 2001. Per approfondimenti, fra gli altri, si veda: ARTINA, Estromissione agevolata dei beni immobili dell’imprenditore, in Prat. fisc. prof., 2008, p. 5; GAVELLI, Estromissione degli immobili con coefficienti “maggiorati”, in Corr. trib., 2008, p. 850; GAVELLI, L’estromissione dell’immobile strumentale da parte dell’imprenditore individuale nella legge Finanziaria 2002, in Il Fisco, 2002, p. 3391; ROCCHI, L’estromissione agevolata dei beni immobili dal patrimonio dell’impresa individuale, in Corr. trib., 2002, p. 229; STEVANATO, Immobili di proprietà utilizzati per la professione o per l’impresa: qual è la miglio strategia fiscale? la disciplina fiscale dell’immobile estromesso dall’impresa, in Rass. trib., 1994, p. 14; ZANETTI, D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito in L. 28 febbraio 2008, n. 31: l’estromissione degli immobili dell’impresa individuale dopo il decreto “milleproroghe”, in Il Fisco, 2008, p. 2470.

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PARTE II ATTRIBUZIONE, DESTINAZIONE E SCAMBIO

SEZIONE I ATTRIBUZIONE, DESTINAZIONE E SCAMBIO. DETERMINAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE E DEL VALORE NELLA CIRCOLAZIONE DEI BENI FUORI DAL REGIME D’IMPRESA

DETERMINAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE DEGLI ATTI DI CIRCOLAZIONE DEI BENI NELLE IMPOSTE INDIRETTE

di Guido Salanitro

SOMMARIO: 1. Circolazione dei beni e capacità contributiva. – 2. La base imponibile nel sistema tradizionale dell’imposta di registro. – 3. Il valore venale. – 4. Il rapporto tra i criteri di cui all’art. 51, il valore normale e i valori determinati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (Omi). – 5. Primi cenni sulla valutazione automatica. – 6. Le nuove disposizioni normative che hanno introdotto il c.d. prezzo-valore. – 7. La base imponibile costituita dal valore catastale. – 8. La base imponibile costituita dal prezzo vero. – 9. La disciplina della valutazione automatica. – 10. La rilevanza del prezzo vero rispetto all’accertamento sintetico. – 11. L’applicazione dell’imposta di registro alle abitazioni censite, al momento del trasferimento, con la rendita proposta o con la rendita presunta. – 12. La base imponibile nell’IVA. – 13. L’azienda. – 14. La base imponibile nelle imposte sulle successioni e donazioni. – 15. Il c.d. doppio binario nelle imposte ipotecarie e catastali. – 16. Conclusioni.

1. Circolazione dei beni e capacità contributiva Tradizionalmente la circolazione dei beni è considerata dal legislatore una fattispecie fiscalmente rilevante, al cui verificarsi è possibile applicare un tributo. Si tratta delle imposte indirette sui trasferimenti, imposte che colpiscono la ricchezza indirettamente, al suo manifestarsi in occasione del trasferimento di beni a titolo oneroso o a titolo gratuito, inter vivos o mortis causa. Nel nostro ordinamento l’art. 53 della Costituzione recita che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. In linea puramente teorica, può dubitarsi della conformità all’art. 53 dei tributi sui trasferimenti, in quanto dovrebbero essere colpiti soltanto fatti indice di capacità economica complessiva del contribuente, quali non sono evidentemente quelli assunti a presupposto dei tributi indiretti 1. Sarebbe però puro esercizio teorico 1

Cfr. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, p. 232 ss., per il quale,

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approfondirne l’eventuale incostituzionalità, perché da sempre nel nostro ordinamento giuridico, e negli ordinamenti giuridici degli altri Stati, sono presenti tassazioni dei trasferimenti a titolo oneroso e a titolo gratuito. In questa sede merita, pertanto, solo un cenno il dibattito sul presupposto dell’imposta di registro, costituito per alcuni dall’atto, per altri dalla sostanza economica, per altri ancora dall’atto nel caso di imposta fissa e dalla sostanza economica nel caso di imposta proporzionale 2. È sufficiente anche un semplice richiamo alle attuali diatribe relative all’opportunità di spostare il carico fiscale dalle imposte dirette a quelle indirette, nell’ottica di una più equa distribuzione del carico fiscale e della lotta all’evasione 3; e alle controversie non solo giuridiche, ma anche squisitamente ponell’ambito di uno studio volto a ricondurre la nozione di capacità contributiva in quella di forza economica complessiva, sono in gran parte illegittime le imposte di bollo, di registro, ipotecarie, catastali, le quali normalmente non hanno ad oggetto i fatti indice di capacità economica, bensì colpiscono nello stesso modo il ricco e il povero e non tengono conto della situazione personale e familiare del contribuente. Nello stesso senso, sottolineando che il denaro utilizzato è sovente preso a prestito, MANZONI, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, p. 146. Tradizionalmente, invece, si riconosce la legittimità dell’imposizione assumendo che ogni trasferimento implichi un lucro per almeno uno dei contraenti: cfr. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2006, vol. I, p. 72. Cfr. anche GAFFURI, L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969, p. 183 ss., per il quale è ricchezza lo stesso bene trasferito, preso nel momento in cui viene meno la sua eventuale destinazione produttiva. Più recentemente, a favore della legittimità costituzionale dei tributi indiretti, si afferma che consumi e valutazioni qualitative o quantitative dei patrimoni forniscono in sé indici di capacità contributiva non perché implicano, con buona probabilità, possesso di redditi o patrimoni, ma in quanto evidenziano situazioni differenziali, misurabili in denaro, tali da giustificare razionalmente un corrispondente concorso alle pubbliche spese: così FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, p. 170. 2 Cfr. GHINASSI, Imposte di registro e di successione, Profili soggettivi ed implicazioni costituzionali, Milano, 1996. 3 Si ritiene, infatti, che il reddito, oggetto delle imposte dirette, sarebbe volatile, soprattutto con riferimento alla territorialità, e facilmente occultabile; mentre il consumo, e quindi le cose, oggetto delle imposte indirette, sarebbe più facilmente individuabile in quanto ancorato al territorio. In particolare, si propone di attuare indirettamente la progressività aumentando la tassazione indiretta, in base all’idea che “chi più ha più spende”. Tesi sviluppate con riferimento principalmente alle imposte sui consumi, e che quindi concernono in particolare l’IVA, ma che si adattano anche alle imposte sui trasferimenti, dove tra limiti all’uso del contante e forfetizzazioni della base imponibile, diventa difficile, e comunque rischioso, evadere le tasse. Mentre non v’è dubbio che in linea di massima chi acquista un bene di maggior valore ha anche una ricchezza, una capacità contributiva, maggiore. In tal modo si risponde anche alle problematiche relative alla tassazione dei grandi redditi, che cercano di sfuggire attraverso lo spostamento in Paesi a fiscalità più vantaggiosa. Cfr. CORDEIRO GUERRA, Diritto tributario internazionale, Padova, 2012, p. 46 ss., il quale sottolinea come l’attuazione di tali orientamenti implementerebbe la tassazione su base territoriale; LANG, La tassazione delle imprese nella competizione internazionale, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2012, p. 237 ss. Ancora, i valori e prezzi di trasferimento possono rilevarsi utili per accertare il reddito in base ai consumi, essendo l’acquisto di un immobile manifestazione di ricchezza accertata, in quanto ad identità personale, importo dichiarato e mezzi di pagamento, dal notaio pubblico ufficiale.

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litiche, sull’opportunità della soppressione dell’imposta sulle successioni e donazioni, da una parte della dottrina qualificata anche come imposta sul patrimonio, in quanto colpisce il patrimonio di un soggetto al momento della sua morte 4. E si può infine sorvolare sulle differenti aliquote e sulla molteplicità di agevolazioni 5, che non di rado appaiono incomprensibili nella loro varietà e mutevolezza, ma che sarebbero sempre salvate in un giudizio di costituzionalità alla luce del riconoscimento della discrezionalità del legislatore 6. In questa sede cercheremo invece di analizzare le norme sulla determinazione della base imponibile nei vari tributi indiretti, rispetto ai quali il legislatore utilizza il criterio del prezzo, del valore catastale, del valore venale in comune commercio o del valore venale come strumento di controllo della verità del prezzo dichiarato 7.

2. La base imponibile nel sistema tradizionale dell’imposta di registro Alla determinazione della base imponibile dell’imposta di registro è dedicato il Titolo IV del D.P.R. n. 131/1986, dall’art. 43 all’art. 53 bis. La pluralità delle norme è dovuta alla molteplicità delle fattispecie imponibili. Compito dell’interprete è verificare la possibilità di individuare un principio comune che unifica in qualche modo le varie ipotesi. A tal fine appare opportuno concentrare l’attenzione sui beni immobili e le aziende, che costituiscono certamente la parte più importante, ed anche giuridicamente più significativa, soprattutto con riferimento alla circolazione dei beni. 4

Per riconoscere la legittimità costituzionale dell’imposta sulle successioni si richiama anche l’art. 42, comma 4, Cost. (così CARDARELLI, (voce) Tributo successorio, in Enc. dir., vol. XLV, Milano, 1992). Ma l’opinione non convince perché la norma riguarda esclusivamente i diritti privatistici spettanti allo Stato come erede, ben diversi dall’applicazione di un tributo su diritti spettanti a terzi. In generale sul punto cfr. AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001. 5 Si pensi all’agevolazione prima casa, che nell’imposta di registro è pari al 2 per cento del valore catastale, mentre nell’IVA è pari al 4 per cento del prezzo vero, normalmente notevolmente più alto. Le aliquote e le agevolazioni sono state ridotte di numero con l’entrata in vigore dell’art. 10, D. Lgs. 14 marzo 2011, n. 23. 6 Sulle agevolazioni fiscali cfr., da ultimo, GUIDARA, (voce) Agevolazioni fiscali, in Diritto online, Treccani. 7 È peraltro discussa la rilevanza del valore accertato ai fini dell’imposta di registro rispetto al valore ai fini delle imposte dirette: cfr., sul punto, da ultimo, GARGANESE, Riflessioni in tema di accertamento della plusvalenza patrimoniale da trasferimento di azienda a titolo oneroso, in Riv. dir. trib., 2012, n. 2, II, p. 51 ss.; MARINI, Note minime in tema di rilevanza ai fini dell’imposizione sui redditi del maggior valore dell’avviamento definito in sede di imposta di registro, in Riv. trim. dir. trib., 2012, n. 1, p. 190 ss. Si riscontrano vari orientamenti che vanno dalla sostanziale irrilevanza, alla efficacia diretta, all’affermazione di una presunzione di corrispondenza, salvo prova contraria.

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A norma dell’art. 43, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, nell’imposta di registro la base imponibile è costituita dal valore dei beni o dei diritti. Detto valore è quello dichiarato dalle parti nell’atto e, in mancanza o se superiore, quello corrispondente al corrispettivo pattuito per l’intera durata del contratto (art. 51, comma 1) 8. Con riguardo agli atti che hanno per oggetto beni immobili o diritti reali immobiliari, si intende per valore il valore venale in comune commercio (art. 51, comma 2) 9. Dalla lettura di queste norme la dottrina ha unanimemente tratto l’idea che la base imponibile sia costituita dal valore venale in comune commercio; in ciò sottolineando la differenza con l’IVA, dove la base imponibile, per scelta della normativa comunitaria, è costituita dal prezzo 10. 8

Dalla lettera della norma si desume solitamente che il criterio principale di determinazione della base imponibile sia determinato dal valore; opinione che può essere condivisibile nella misura in cui non sfuggano alcuni degli articoli dal 44 al 49, che per i beni diversi da quelli immobili sembrano dare rilevanza prevalentemente al prezzo, e non si dimentichi che difficilmente si dichiara in sede di registrazione un valore superiore al prezzo nelle ipotesi in cui, come per i beni diversi da quelli immobili, non è previsto l’accertamento di maggior valore. 9 Le norme sulla determinazione della base imponibile sembrano applicabili anche all’istituto della mediazione: cfr. MASTROIACOVO, Regime fiscale degli atti del procedimento di mediazione di cui al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, Studio n. 190-2010/T del consiglio nazionale del notariato, in Studi e materiali, 2011, n. 2, p. 567 ss. 10 Per determinare la base imponibile occorre aver riguardo allo stato di fatto e di diritto dell’immobile “alla data dell’atto”, di talché, nel caso della cessione di un terreno, non è rilevante la sua successiva abusiva utilizzazione a scopo edificatorio (Cass., 14 maggio 2008, n. 12021). Occorre però ricordare un orientamento divergente per il quale la norma, allorché stabilisce che il valore del bene o del diritto trasferito è fissato alla data dell’atto, dispone che si tenga conto, nella valutazione medesima, sia delle condizioni attuali che delle potenziali utilizzazioni dell’oggetto della prestazione, non essendo contestabile che anche le seconde concorrano ad individuare, con notazione di attualità, il valore venale in comune commercio (Cass. 19 gennaio 2001, n. 767). Tale orientamento rileverebbe per esempio con riferimento a fabbricati in stato di degrado oggetto di futura ristrutturazione. Nella valutazione di beni trasferiti con scrittura privata non autenticata deve farsi riferimento al momento in cui la scrittura privata ha acquistato data certa, e quindi alla data della sua registrazione, e non a quella della sottoscrizione perché il legislatore fiscale ha inteso ampliare il concetto di terzo cui fa riferimento l’art. 2704 c.c. comprendendovi anche l’amministrazione finanziaria, titolare di un diritto di imposizione collegato al negozio documentato e suscettibile di pregiudizio per effetto di esso (Cass. 17 dicembre 2008, n. 29451). La norma nello stabilire che la base imponibile del contratto traslativo o costitutivo di diritti reali sottoposto a condizione sospensiva è segnata dal valore del bene alla data in cui si producono i relativi effetti, ha riferimento al tempo del verificarsi della condizione (Cass. 11 maggio 1999, n. 4657). Tale orientamento, che attribuisce rilevanza al momento in cui si verifica l’evento dedotto in condizione e non al momento in cui il contratto è stato concluso, tende a assoggettare ad imposizione la differenza di valore accumulata per qualsiasi causa dal momento della stipula dell’atto fino al verificarsi della condizione. Per un opposto orientamento rileva invece il momento in cui il contratto è stato concluso, perché la condizione sospensiva ha effetti retroattivi ai sensi dell’art. 1360 c.c.: cfr. IANNIELLO-MONTESANO, Imposta di registro e imposte ipotecarie e catastali, 2003, p. 224; MESIANO, Commento sub art. 43, in La nuova disciplina dell’imposta di registro, a cura di D’Amati, Torino, 1989, p. 275.

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Inoltre, nonostante la disposizione, per i diritti immobiliari, non faccia riferimento al corrispettivo, è egualmente maggioritaria l’opinione che esso vada assunto quale base imponibile quando è superiore al valore venale 11: si assume, infatti, che il riferimento testuale al valore venale in comune commercio posto nel comma 2 dell’art. 51 non mira ad escludere la rilevanza del corrispettivo 12, ma va collegato alla previsione dell’avviso di accertamento di maggior valore 13 solo per gli immobili e le aziende 14. Per completare il quadro normativo, e a conferma della tesi prevalente, va ancora aggiunto che mentre l’art. 71 determina la sanzione per il caso di insufficiente dichiarazione di valore, l’art. 72 dispone a sua volta che, “se viene occultato anche in parte il corrispettivo convenuto” 15, è irrogabile una sanzione amministrativa, commisurata alla differenza tra l’imposta dovuta e quella già applicata in ba11 Cfr. FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 1998, p. 784; CICALA-GUAZZONE, Manuale della tassazione degli immobili, 1995, p. 255; NASTRI, L’imposta di registro e le relative agevolazioni, Milano, 1990, p. 251; RAU, L’accertamento su base catastale nelle imposte sui trasferimenti: la cd. valutazione automatica degli immobili, in Dir. prat. trib., 1999, I, p. 367 ss., ivi p. 380; SALANITRO, Occultamento di corrispettivo e valutazione automatica nell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., p. 111 ss. 12 Per una tesi minoritaria, invece, per gli atti aventi ad oggetto immobili o aziende, a seguito dell’approvazione del testo unico dell’imposta di registro «la base imponibile è determinata avendo esclusivo riguardo al valore venale del bene in comune commercio», a nulla rilevando il prezzo, con conseguente «inapplicabilità agli atti in discorso della norma che sanziona l’occultamento di corrispettivo»: cfr. UCKMAR-DOMINICI, (voce) Registro (imposta di), in Dig., disc. priv., sez. comm., vol. XII, Torino, 1996, p. 258 ss., ivi p. 264. Tale opinione è basata sulla lettera dell’art. 51, D.P.R. n. 131/1986, che al comma 1 definisce come valore dei beni, salvo il disposto dei commi successivi, quello indicato dalle parti nell’atto e, in mancanza o se superiore, il corrispettivo pattuito; nel comma 2, invece, precisa che per gli atti che hanno per oggetto immobili, per valore si intende il valore venale in comune commercio. La tesi è rimasta isolata, anche perché il suo accoglimento avrebbe condotto a riconoscere che con il T.U. del 1986 si sarebbe introdotta una rilevante innovazione nel sistema delle imposte indirette, in quanto nei previgenti sistemi normativi era pressoché pacifica la rilevanza del corrispettivo ove superiore al valore: cfr., fra gli altri, BATISTONI FERRARA, La determinazione della base imponibile nelle imposte indirette, Napoli, 1964, p. 82. 13 Con contestuale liquidazione. 14 Com’è noto, infatti, mentre per i beni immobili e le aziende si può procedere, in base al comma 3 dell’art. 51, al controllo di congruità dei valori dichiarati e dei corrispettivi pattuiti rispetto al valore venale in comune commercio, per gli altri beni e diritti l’imposta è sempre ancorata al corrispettivo, e si può procedere alla liquidazione di maggiori imposte solo ove ne emerga l’occultamento. 15 Con riferimento a questa norma, l’orientamento tradizionale dell’amministrazione finanziaria è nel senso che l’occultamento del prezzo deve risultare da atti certi ed inoppugnabili, come una controdichiarazione sottoscritta da entrambe le parti, ma non da una dichiarazione unilaterale o da una presunzione: cfr. Ris. Min., 4 marzo 1981, n. 250180, in Corr. trib., n. 29/1981, 1266. Anche la dottrina ritiene sufficiente come prova la controdichiarazione sottoscritta da tutti i contraenti: cfr. BERLIRI, Le leggi di registro, Milano, 1960, p. 540 ss.; UCKMAR, La legge del registro, vol. III, Padova, 1953, p. 194 ss.

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se al corrispettivo dichiarato, detratta la sanzione eventualmente irrogata ai sensi dell’art. 71.

3. Il valore venale L’art. 51, comma 3, del D.P.R. n. 131/1986 indica i criteri per la determinazione del valore venale 16. I criteri indicati sono tre: – il criterio comparativo, per il quale si considerano i trasferimenti a qualsiasi titolo, le divisioni e le perizie giudiziarie, anteriori di non oltre tre anni alla data dell’atto o a quella in cui si produce l’effetto traslativo, che abbiano avuto per oggetto gli stessi immobili o altri di analoghe caratteristiche; – il criterio della capitalizzazione, che considera il reddito netto di cui gli immobili sono suscettibili capitalizzato al tasso mediamente applicato alla detta data e nella stessa località per gli investimenti immobiliari; – il criterio residuale, ovvero ogni altro elemento di valutazione, anche sulla base di indicazioni fornite dai comuni. Per parte della giurisprudenza, i criteri di valutazione previsti dall’art. 51, comma 3, del D.P.R. n. 131/1986, sono assolutamente pari ordinati, ben potendo l’amministrazione, nell’accertamento di maggior valore, seguirne uno qualsiasi 17. La soluzione accolta lascia perplessi laddove si riconosca che l’uso dei diversi criteri possa condurre a risultati differenti. In questa ipotesi, infatti, mancherebbe in sede contenziosa il parametro di giudizio da applicare. Per evitare simile inconveniente, si potrebbe ritenere che, scelto un criterio da parte dell’amministrazione, il contribuente possa solo contestare le modalità di attuazione del criterio adottato. In questo modo però si rimetterebbe all’amministrazione un potere di scelta che non sembra riconosciuto dalla legge e che porrebbe il contribuente in una posizione di inferiorità. Se invece si ammette, come sembra preferibile e come appare riconosciuto dalla giurisprudenza 18, che il contribuente possa contestare la determinazione del valore venale richiamando altri criteri che conducono a diversi risultati, di16

Per una definizione di valore venale appare opportuno un riferimento a UCKMAR, La legge del registro, vol. I, Padova, 1958, p. 333, per il quale «colla parola valore si è voluto senza dubbio comprendere l’insieme di tutte quelle utilità, che secondo i principi dell’economia politica, danno pregio ad una cosa; soggiungendo l’aggettivo venale si è voluto alludere al rapporto di quantità intercedente fra le cose dal punto di vista dello scambio; e coll’inciso in comune commercio si è inteso di ragguagliare il valore della cosa al prezzo corrente che cose uguali abbiano abitualmente in libere contrattazioni, escluso tanto il prezzo così detto d’affezione (massimo), che la troppa sua esiguità (minimo) attribuibile a sconsideratezza o a generosità del venditore». 17 Cfr. Cass. 12 ottobre 2009, n. 21644; Cass. 24 febbraio 2006, n. 4221, entrambe non particolarmente motivate. 18 Cass., sez. un., 3 agosto 1989, n. 3578.

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venta inevitabile riconoscere una gerarchia tra i criteri, basata sull’ordine di enunciazione nella legge. Inoltre, appare comunque condivisibile l’idea che si riscontra in parte della dottrina e della giurisprudenza per la quale i “criteri innominati” possono essere utilizzati solo se in concreto non siano utilizzabili i “criteri nominati”. Pertanto, in caso di criteri diversi da quelli espressamente menzionati (comparazione e capitalizzazione), l’avviso deve evidenziare le ragioni che li rendono inutilizzabili. Scelto il criterio, l’ufficio non potrebbe modificarlo in sede giudiziaria 19. Volgendo lo sguardo ai singoli criteri, si ricorda l’opinione per la quale il riferimento ai tre anni precedenti, non comporta, in assenza di espressa previsione di legge, la nullità dell’avviso che si basi su atti di periodo anteriore, salva la loro minore attendibilità 20: soluzione che si può condividere solo se si considera tale determinazione come rientrante tra gli altri elementi di valutazione, e quindi in base al criterio residuale. In tema di determinazione del valore venale, peraltro, la giurisprudenza ha più volte chiarito che la determinazione del valore venale in comune commercio non può prescindere dal prezzo effettivo pattuito dalle parti, il quale rappresenta ordinariamente e per sua natura, il valore venale del bene, che non è altro che quello che può ricavarsi dalla vendita del bene in condizioni di normalità 21. Tesi che può dirsi solo rafforzata dalla attuale previsione, sulla quale ci soffermeremo più avanti, della dichiarazione delle parti contraenti in ordine al prezzo stesso che va inserita nelle compravendite immobiliari e che è penalmente rilevante in caso di mendacio. Con riguardo alle indicazioni eventualmente fornite dai Comuni, l’Amministrazione ha suggerito di inoltrare specifiche richieste agli enti territoriali, quali ad es. le caratteristiche delle costruzioni, la pianificazione urbanistica, le infrastrutture, ecc. 22. Tra gli elementi forniti dai comuni possono figurare i valori dei terreni considerati edificabili ai fini dell’Ici ai sensi dell’art. 59, comma 1, lett. g), del D.Lgs 15 dicembre 1997, n. 446 23. Il valore catastale può rientrare tra gli elementi di valutazione, così come le caratteristiche del bene, quali la destinazione, la tipologia, lo stato di conservazione 24. 19

IANNIELLO-MONTESANO, Imposta di registro e imposte ipotecaria e catastale, 2003, p. 290. Così Cass. 22 dicembre 2000, n. 16076. 21 Con riferimento all’art. 43, per Cass., sez. V, 11 marzo 2011, n. 5836, dal combinato disposto degli artt. 43 e 51, 1° comma, si ricava una presunzione di conformità tra il valore del bene e il prezzo pattuito, presunzione che può superarsi sulla base di specifici dati di fatto relativi al caso concreto. 22 Cfr. Dir. gen. Tasse imp. ind. 15 marzo 1978, n. 1/272913. 23 FIORENTINO, sub art 51, Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di Marongiu, t. IV, Padova, 2011, p. 911. 24 Cfr. Cass. 28 novembre 2001, n. 15080. 20

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4. Il rapporto tra i criteri di cui all’art. 51, il valore normale e i valori determinati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (Omi) L’art. 1, comma 307, della L. 27 dicembre 2006, n. 296 stabilisce che per la uniforme e corretta applicazione delle norme di cui all’art. 54, comma 3, D.P.R. n. 633/1972 (ora soppresso nella parte de qua), e dell’art. 52 del D.P.R. n. 131/1986, con provvedimento del direttore dell’agenzia delle entrate sono individuati periodicamente i criteri utili per la determinazione del valore normale dei fabbricati, ai sensi dell’art. 51, comma 3, del D.P.R. n. 131/1986. In forza di tale disposizione è stato emanato il provvedimento del 27 luglio 2007, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 182 del 7 agosto 2007, per il quale i criteri utili per la determinazione periodica del valore normale dei fabbricati sono stabiliti sulla base dei valori dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia del territorio (ora delle Entrate). Si tratta di una banca dati che fornisce la rilevazione del valore di mercato minimo e massimo degli immobili, suddivisi per zona e tipologia. I dati dell’Omi, più precisamente, in base a detto provvedimento, costituiscono una base alla quale applicare coefficienti correttivi in funzione della tipologia edilizia, categoria catastale, stato di conservazione, taglio di superficie e livello di piano. Si è altresì precisato che, al di là delle risultanze dell’Omi, che non sono da intendersi come vincolanti, l’Ufficio dovrà tenere conto di tutte le informazioni in suo possesso, utili per una definizione oggettiva del valore dell’immobile 25. I valori indicati nell’Omi sono relativi ai fabbricati; ma nella prassi sono utilizzati anche per individuare il valore dei terreni edificabili, attraverso il metodo del valore di trasformazione, per il quale si determina il volume teorico realizzabile, i vani realizzabili, il valore delle quotazioni immobiliari per vano e il valore (pari ad una percentuale) del valore di permuta praticato ordinariamente per terreni aventi le stesse caratteristiche 26. Non è chiaro il rapporto tra i criteri di cui all’art. 51 del D.P.R. n. 131/1986, dove si fa riferimento al valore venale, e il valore normale basato sui dati Omi 27. 25 Precisazione che è stata criticata da parte della dottrina in quanto anello anomalo della catena valutativa, basato su informazioni difficilmente accessibili al cessionario: cfr. MASTROIACOVO, L’Agenzia delle Entrate fissa i criteri utili per la determinazione del valore normale dei fabbricati, in Corr. trib., 2007, n. 37, p. 3011 ss.; PISCHETOLA, L’agenzia delle entrate detta criteri per la determinazione del valore normale di fabbricati, in Il Fisco, 2007, p. 4860. In realtà, oltre a confermare la non vincolatività assoluta dei coefficienti ivi previsti (così FIORENTINO, sub art. 51, cit.) la precisazione è oltremodo utile per individuare il valore più conforme alla situazione concreta del bene oggetto di accertamento. 26 Per es. se su un lotto di terreno sono realizzabili sei vani si procede al seguente calcolo: vani 6 per valore Euro al vano 50.000,00 x 25% (valore di permuta) = Euro 75.000,00 da attualizzarsi riducendolo in base ai tempi di costruzione stimati utilizzando un saggio di attualizzazione. 27 Per una coincidenza tra valore venale e valore normale cfr. FIORENTINO, Commento sub art.

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Si potrebbe ritenere che la norma del 2006 ha abrogato, in quanto successiva, la parte de qua dell’art. 51, riducendo i criteri di accertamento del valore al solo criterio del valore normale. Ma osta a questa soluzione la considerazione che la norma fa riferimento ad una uniforme e corretta applicazione 28. Sembra pertanto preferibile ritenere che nulla sia stato innovato e che si tratta di una norma di indirizzo, come pure il provvedimento attuativo, una norma cioè che impone all’amministrazione di emanare direttive che indirizzino l’amministrazione nella valutazione dei criteri previsti dall’art. 51 29.

5. Primi cenni sulla valutazione automatica Altra norma rilevante, infine, è quella posta nell’art. 52, comma 4, dove si esclude la rettifica del valore o del corrispettivo se non inferiori ai “valori automatici”, derivanti dall’applicazione di determinati coefficienti alle rendite catastali, per i fabbricati e i terreni non edificabili 30: la norma, per l’interpretazione comune, non individua la base imponibile, equiparandola ai valori catastali; ma costituisce un limite al potere di rettifica, impedendo un accertamento di maggior valore se si è dichiarato un valore o un corrispettivo inferiore a quello catastale. La valutazione automatica è stata introdotta per ridurre le controversie relative alla determinazione del valore dei beni, e alleggerire il carico di lavoro non so-

51, in Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo IV, Padova, 2011, p. 909 ss. A ben vedere, invece, le espressioni “valore normale” e “valore venale” non coincidono non solo sul piano terminologico, ma anche concettuale, rilevando nel primo caso il prezzo di cessione e nel secondo le caratteristiche del bene. 28 Riferimento che sembra, peraltro, escludere l’utilizzazione del valore normale con finalità di controllo, allo scopo di individuare le ipotesi per le quali procedere ad accertamento. 29 Nello stesso senso PISCHETOLA-TASSANI, L’accertamento immobiliare in base al valore normale dopo la legge comunitaria n. 88/2009, Studio del Consiglio Nazionale del Notariato, in www.notariato.it, per i quali le rilevazioni dell’Omi hanno valore semplicemente indiziario e restano rilevanti, ai fini dell’accertamento, solo i criteri già richiamati nell’art. 51, comma 3, D.P.R. n. 131/1986. Fa rientrare i valori Omi tra gli altri elementi di valutazione di cui all’art. 51 FIORENTINO, Commento sub art. 51, Commentario breve, cit., p. 911). Opinione non condivisibile perché in contrasto con la lettera della legge. 30 Ai fini dell’inapplicabilità del sistema di valutazione automatica, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 36, comma 2, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, conv. dalla L. 4 agosto 2006 n. 248, l’edificabilità di un’area deve essere desunta dalla qualificazione ad esso attribuita nel piano regolatore generale approvato dal comune, indipendentemente dall’approvazione dello stesso da parte della regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi (Cass. 30 novembre 2006, n. 25505). Pertanto non occorre né che l’area sia edificabile immediatamente né che il piano regolatore sia anche approvato oltre che adottato (l’approvazione è il momento finale dell’iter procedimentale ed è effettuata dalla regione o dalla provincia) (BUSANI, L’imposta di registro, 2009, p. 699 ss.).

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lo delle commissioni tributarie ma anche degli uffici, alla luce della complessità e della difficoltà della valutazione di un bene 31. La valutazione automatica, a causa dell’incapacità del catasto a seguire l’effettivo andamento del mercato, ha condotto talvolta a individuare valori differenti da quello venale, in misura inferiore, o addirittura superiore, al prezzo vero. Ma ha consentito di indicare con certezza un valore sul quale applicare l’imposta di registro 32 riducendo ampiamente il relativo contenzioso 33. Il testuale riferimento dell’art. 52 anche al corrispettivo ha indotto alcuni autori ad escludere la rettifica, in forza della valutazione automatica, anche quando vi è un corrispettivo occultato e conseguentemente ad escludere l’applicazione della relativa sanzione 34. Tale soluzione è stata contrastata dalla prevalente dottrina perché trascura di considerare che l’art. 52 concerne esclusivamente l’accertamento di maggior valore, intendendo per tale la rettifica in base al valore venale in comune commercio; rettifica che può riguardare il valore o il corrispettivo a seconda di quanto dichiarato dal contribuente quale base imponibile. E pertanto il riferimento contenuto nel comma 4 dell’art. 52 al corrispettivo riguarda solo la rettifica in base al valore venale in comune commercio 35. Laddove invece si è in presenza di occultamento di corrispettivo (rilevante, 31

Cfr. la Relazione Ministeriale, in Il Fisco, 1986, p. 2935, ivi p. 2938. Il contribuente parte dell’atto di trasferimento chiede(va) solitamente al pubblico ufficiale di indicare il valore che non comportasse successivi accertamenti, ma definisse il costo fiscale dell’operazione; il prezzo vero era spesso rimesso a scritture private ma non risultava nell’atto pubblico, talvolta dando vita a successivi problemi civilistici collegati alla simulazione, ma fornendo tranquillità e certezza fiscale al contribuente. 33 Sicuramente lo scopo deflattivo era stato raggiunto dalla valutazione automatica: prima della sua introduzione, le controversie in materia di rettifica di valore erano numerose. Come si ricorda in dottrina, la maggior parte delle controversie sulla motivazione dell’accertamento erano in questa materia, anche perché le rettifiche si basavano su nozioni di esperienza comune relative al mercato immobiliare in un dato tempo e luogo, le quali non indicavano un valore preciso ma una fascia ampia tra un minimo e un massimo: cfr. LUPI, Diritto tributario, parte speciale, Milano, 2006. 34 Cfr. GRECO, Commento sub art. 72, in La nuova disciplina dell’imposta di registro, a cura di D’Amati, Torino, 1989, p. 407 ss.; IANNIELLO, Il gettito minimo non ferma l’accertamento del fisco, in Guida normativa n. 197/2000, p. 21; NASTRI, L’imposta di registro e le relative agevolazioni, cit., p. 447; DE MITA, La Corte inciampa su casa e registro, in Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2000, p. 25. 35 In questo senso RAU, L’accertamento su base catastale nelle imposte sui trasferimenti: la cd. valutazione automatica degli immobili, in Dir. prat. trib., 1999, I, p. 367 ss.; A. MESSINA, Valutazione automatica per gli immobili non censiti, in Il Fisco, 1990, p. 356 ss., nota 10; ANNECCHINO, Sull’art. 52 testo unico delle disposizioni sull’imposta di registro e sulla sua applicazione retroattiva, in Foro it., 1993, I, p. 3045 ss., il quale sottolinea che gli uffici non hanno fatto largo uso del potere derivante dall’art. 72, “sia per le caratteristiche strutturali degli uffici del registro, inidonei a condurre indagini e verifiche esterne, sia per la scelta politica – giammai affermata esplicitamente, ma riscontrabile nei fattidell’amministrazione nel senso di tollerare tali violazioni”; SALANITRO, Occultamento, cit. 32

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come s’è visto anche per i beni immobili) trovano applicazione 36, in luogo dell’art. 52, l’art. 76, comma 2, lett. b), e comma 3, che prevede la liquidazione della maggior imposta sul corrispettivo occultato (e non un avviso di accertamento di valore), e l’art. 72, che dispone l’applicazione della relativa sanzione commisurata alla maggiore imposta liquidata 37.

6. Le nuove disposizioni normative che hanno introdotto il c.d. prezzo-valore La legge finanziaria per il 2006 (L. 23 dicembre 2005, n. 266) e la L. 4 agosto 2006, n. 248 la quale ha convertito il D.L. 4 luglio 2006, n. 223 hanno profondamente modificato la disciplina della base imponibile nell’imposta di registro 38. L’art. 1, comma 497, della L. n. 266/2005, in deroga alla disciplina posta nell’art. 43 del testo unico sull’imposta di registro, dispone che, (per le sole cessioni fra persone fisiche che non agiscano nell’esercizio di attività commerciali artistiche o professionali, aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo e relative pertinenze, all’atto della cessione e su richiesta della parte acquirente resa al notaio), la base imponibile ai fini delle imposte di registro, ipotecari e catastali è costituita dal valore dell’immobile determinato attraverso i coefficienti catastali (art. 52, commi 4 e 5, D.P.R. n. 131/1986), indipendentemente dal corrispettivo indicato nell’atto 39. Corrispettivo che, secondo il successivo D.L. n. 223/2006, le parti hanno comunque l’obbligo di indicare nell’atto (art. 35, comma 21, lett. a), n. 1). Infine, il comma 309 dell’art. 1 della L. 27 dicembre 2006, n. 296 (la finanziaria per il 2007) ha soppresso il riferimento alle sole cessioni tra persone fisiche e precisato che si deve trattare di cessioni nei confronti di persone fisiche che non agiscono nell’esercizio di impresa o professione, prevedendo pertanto che l’opzione possa essere esercitata anche se il cedente è soggetto diverso da persona fisica 40. 36

Cfr., in questo senso, RUSSO, Manuale di diritto tributario, 1999, p. 319. In questo senso anche Cass. 28 ottobre 2000 n. 14250. In senso contrario Cass. 24 aprile 2003, n. 6542, con nota di BORDIERI, Prezzo valore: una conferma, in Notariato, 2003, p. 568, per la quale il valore catastale costituisce la base imponibile. La norma si applica anche al caso di cessione di beni mobili: cfr. SANTARCANGELO, La tassazione degli atti notarili, Torino, 2011, p. 266. 38 SALANITRO, La base imponibile nell’imposta di registro fra prezzo, valore catastale e valore venale, in Riv. dir. trib., 2007, I, p. 63 ss. 39 La norma prevede anche una riduzione degli onorari notarili del venti per cento, poi aumentato al trenta, per evitare che a tariffe notarili invariate aumenti l’onorario. 40 L’art. 1, comma 309, della L. 27 dicembre 2006 n. 296, a seguito dell’ampliamento soggettivo del procedimento opzionale, ha aggiunto, al citato comma 497, che è fatta salva l’applicazione dell’art. 39, comma 1, lett. d), ultimo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (come modificato dall’art. 35, comma 3, del D.L. n. 223/2006 convertito in L. n. 248/2006); norma che 37

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Il comma 498 prevede che i contribuenti che si avvalgono delle disposizioni di cui ai commi 496 e 497 sono esclusi dai controlli di cui al comma 495 41 e nei loro confronti non trovano applicazione le disposizioni di cui agli artt. 38, comma 3 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 52 comma 1, del D.P.R. n. 131/1986 42. E il D.L. n. 223/2006 ha aggiunto, all’art. 35, comma 21, lett. b), che se viene occultato, anche in parte il corrispettivo pattuito, le imposte sono dovute sull’intero importo di quest’ultimo e si applica la sanzione amministrativa dal cinquanta al cento per cento della differenza tra l’imposta dovuta e quella già applicata in base al corrispettivo dichiarato, detratto l’importo della sanzione eventualmente irrogata ai sensi dell’art. 71 D.P.R. n. 131/1986. Il successivo comma 22 dell’art. 35 ha aggiunto che all’atto della cessione dell’immobile, anche se assoggettato ad IVA, le parti hanno l’obbligo di rendere apposita dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà recante l’indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo. Con le medesime modalità vi è l’obbligo di dichiarare se si è avvalsi di un mediatore, dichiarando l’ammontare della spesa sostenuta per la mediazione. In caso di omessa, incompleta o mendace indicazione dei predetti dati, si applica una sanzione amministrativa da euro 500,00 a euro 10.000,00 e, ai fini dell’imposta di registro, i beni trasferiti sono assoggettati ad accertamento di valore ai sensi dell’art. 52, comma 1, D.P.R. n. 131/1986 (comma 22.1) 43. Dall’art. 35, comma 23 ter, ancora, è stata esclusa l’applicazione della valutazione automatica alle cessioni di immobili e relative pertinenze diverse da quelle disciplinate dal predetto art. 1, comma 497. Infine (art. 35, comma 26) sono stati ampliati i poteri istruttori consentendo l’esercizio dei poteri di cui all’art. 31 ss., D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, anche ai fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali 44.

consentiva all’amministrazione, nell’ambito degli accertamenti dei redditi d’impresa, di assumere il valore normale, determinato ai sensi dell’art. 9, comma 3 del D.P.R. n. 917/1986, ai fini della prova dell’infedeltà dei ricavi in caso di cessione di immobili. 41 Il comma 495 dispone la destinazione di quote significative delle risorse dell’Agenzia delle Entrate e del Corpo della Guardia di Finanza al controllo del settore delle vendite immobiliari. 42 Il comma 496 consente di assoggettare ad imposizione le plusvalenze eventualmente derivanti dalla vendita ad un’imposta sostitutiva del 12,50% poi elevata (dall’art. 21, D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, con. dalla L. 24 novembre 2006, n. 286) al 20% (opzione non consentita in caso di cessione di terreni edificabili). Per RASI, Il dualismo corrispettivo – valore normale tra imposta sui redditi e imposta di registro, in Giur. it., 2006, c. 1761 ss., le preclusioni contemplate dal comma 498 si applicano solo se il contribuente si avvale congiuntamente delle opzioni dei commi 497 e 498; ma il testo della norma non sembra consentire tale interpretazione. 43 La norma è stata riscritta con l’art. 1, comma 48 della finanziaria per il 2007 ma con modifiche minime, relative ai mediatori, che non rilevano ai fini del presente studio. 44 Aggiungendo l’art. 53 bis del D.P.R. n. 131/1986.

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7. La base imponibile costituita dal valore catastale Occorre valutare come si inseriscono nel sistema le norme introdotte con la L. 23 dicembre 2005, n. 266 e con la L. 4 agosto 2006, n. 248. La nuova disciplina ha introdotto una regolamentazione che solo formalmente si inserisce nella normativa generale senza abrogarla, ma che, in effetti, la modifica anche negli aspetti ricostruttivi relativi alla determinazione della base imponibile, seguendo tecniche redazionali ormai diffuse benché ampiamente contestate, perché produttive di esiti interpretativi incerti a causa del succedersi di disposizioni non chiaramente coordinate. Secondo il citato comma 497 la base imponibile si identifica, – quando la cessio45 ne ha per oggetto unità abitative 46 e dall’atto risulta la richiesta dell’acquirente 47 – 45

Il contratto può avere ad oggetto un qualsiasi diritto reale (piena o nuda proprietà, usufrutto, uso, abitazione, superficie). Il contratto deve essere soggetto all’applicazione dell’imposta proporzionale di registro (quindi non si deve trattare di contratto imponibile ai fini dell’IVA) ciò che accade quando il cedente non agisce nell’esercizio di impresa, arte o professione, oppure quando il contratto, pur essendo soggetto a IVA, è esente dall’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto (BUSANI, op. cit., p. 264). 46 La cessione a titolo oneroso deve avere per riferimento unità abitative e loro pertinenze; la disciplina risulta applicabile anche quando si acquista una pertinenza successivamente all’acquisto dell’unità abitativa, e indipendentemente dal numero o dalla tipologia delle pertinenze che si acquistano (purché suscettibili di valutazione catastale, e quindi dotate di una propria rendita catastale). Dovendo trattarsi di unità abitative, sono esclusi i fabbricati non abitativi (uffici, negozi, opifici) e relative pertinenze. Sono anche esclusi i fabbricati che possono essere pertinenza di un’abitazione ma, di fatto, non lo sono (per es. la disciplina non si applica nel caso di acquisto di garage da parte di chi non ha un’abitazione). Nel caso di atto avente ad oggetto sia unità abitative sia unità non abitative (per es. bottega e negozio) si può chiedere l’applicazione della disciplina limitatamente all’unità abitativa. Sono comprese pure le abitazioni di lusso e i terreni, anche se censiti al catasto terreni, che siano pertinenza di abitazioni (R.M. n. 149 del 11 aprile 2008). Nel concetto di pertinenza rientrano i beni censiti nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, e il lastrico solare. Dal concetto di pertinenza, in quanto bene al servizio di un altro, si potrebbe desumere l’esistenza di un limite numerico, ma il silenzio della norma induce a consentire la determinazione catastale indipendentemente dalla quantità, in modo da evitare contenziosi sulla natura soggettiva o oggettiva delle pertinenze. 47 L’opzione deve risultare dall’atto di cessione: dalla lettera della norma si desume che l’opzione non può essere esercitata in un successivo atto integrativo (così ris. n. 145/E del 9 giugno 2009). Non è invece necessario, anche se diffuso nella prassi, inserire il valore catastale. Ove le parti abbiano espressamente richiesto la tassazione in base al valore catastale, in caso di errore materiale commesso nel calcolo dell’imposta, i maggiori oneri fiscali devono essere applicati sulla differenza fra quanto autotassato e quanto dovuto sulla base del corretto calcolo gabellare, senza che si possa fare riferimento al valore venale (Comm. Trib. Prov. Livorno, 30 marzo 2009, n. 60, in Riv. not., 2009, 1019). Dal riferimento al corrispettivo pattuito discende che deve trattarsi di cessione a titolo oneroso, nella quale nozione rientrano, oltre alla compravendita, anche la permuta, la datio in solutum, la costituzione di rendita vitalizia, la rinuncia traslativa. La cessione deve essere fatta per atto notarile perché la dichiarazione deve essere ricevuta da un notaio: sono

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con il valore catastale 48. Quest’ultimo, nei casi di applicazione della norma, non è più un limite al potere di rettifica rispetto al valore venale, ma è lo strumento di determinazione della base imponibile. Con la particolarità che è il contribuente a decidere se optare per il valore catastale. La rimessione della scelta al contribuente si comprende se si considera la situazione del catasto, che conduce sovente alla determinazione di valori non corrispondenti a quelli reali. Ma una simile opzione, che ovviamente sarà esercitata in base a valutazioni di convenienza, sul piano teorico appare discutibile nella misura in cui affida al contribuente, per la determinazione della base imponibile, la scelta fra due differenti valori 49. La norma è in realtà finalizzata a fare emergere per atto pubblico i corrispettivi reali, attraverso cui determinare verosimili valori venali e successivamente utilizzarli come base per la revisione delle rendite catastali; ma la determinazione dell’imponibile e dell’imposta dovrebbe solo avere la finalità di consentire al contribuente di partecipare al riparto delle spese pubbliche. La finalità di fare emergere il corrispettivo reale si desume anche dalla previsione della sanzione per il caso di occultamento del corrispettivo, essendo previsto che in tal caso l’opzione del contribuente diventa inefficace e le imposte sono dovute sull’intero importo del corrispettivo pattuito 50. escluse pertanto le scritture private non autenticate. Non si applica ai trasferimenti disposti mediante provvedimento giudiziale ex art. 2932 c.c. sia perché non si tratta di atti notarili, sia perché la normativa è stata introdotta per favorire l’emersione del prezzo vero: Ris. n. 141/E del 2007. V., però, Corte cost., 23 gennaio 2014, n. 6, per la quale la disciplina si applica agli acquisti in sede di espropriazione forzata o a seguito di pubblico incanto. L’imposta, come per tutti gli atti notarili soggetti a registrazione, è “autoliquidata” dal notaio: sul punto cfr. SALANITRO, L’autoliquidazione nella disciplina dell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2004, n. 11, p. 1245 ss.; TABET, Spunti critici sulla figura del notaio nel sistema di registrazione telematica, in Rass. trib., .2013, n. 1, I, p. 94 ss. 48 La norma è senz’altro applicabile anche ai beni immobili culturali, con applicazione della rendita propria del bene (e senza che rilevi l’art. 11 L. 30 dicembre 1991, n. 413, che fa riferimento alla minore tra le tariffe d’estimo previste nella zona censuaria in cui è collocato il fabbricato, norma che riguarda solo le imposte dirette): cfr. PISCHETOLA, La regola del prezzo valore e sua applicazione all’alienazione di beni immobili culturali, in Studi CNN, studio n. 76/2006/T, Milano, 2006, p. 1587 ss. 49 Più precisamente, a seguito delle modifiche introdotte dal D.L. n. 223/2006, che si esamineranno anche nei prossimi paragrafi, il contribuente in realtà opta tra l’imposizione basata sul corrispettivo pattuito e quella basata sul valore catastale. 50 Per Comm. Trib. Prov. di Isernia, sez. I, 8 novembre 2011, n. 121, con nota di SCALINCI, Risultanze bancarie non giustificate, prova dell’occultamento del prezzo effettivo di una compravendita immobiliare e sistema del c.d. prezzo – valore, in Giur. mer., 2012, n. 1, p. 247 ss., per dimostrare la falsità del prezzo dichiarato in atto l’ufficio deve fornire prova certa che non può essere fondata su presunzioni illogiche o improbabili, quali prelievi bancari non giustificati quanto a destinazione e beneficiari. Sembra inoltre emergere una prassi amministrativa e giurisprudenziale milanese, citata sempre da Scalinci, per la quale l’occultamento del prezzo potrebbe desumersi dal maggior valore ve-

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L’unica via interpretativa per salvare le norme sul piano della legittimità costituzionale (e della conformità al principio della imposizione in base alla capacità contributiva) sarebbe quello di considerare un’agevolazione fiscale, che appunto si concede su richiesta, la tassazione su base catastale, agevolazione che viene riconosciuta se si dichiara il prezzo vero 51. Resta comunque abbandonato il tradizionale principio della base imponibile determinata attraverso il valore venale: principio superato non solo dal riferimento al valore catastale, ma anche dalla previsione per la quale se il prezzo dichiarato non è vero, l’imposta è commisurata sul prezzo vero e non sul valore di mercato. E sotto questo profilo lascia perplessi l’esclusione dell’applicazione del solo art. 52, comma 1, D.P.R. n. 131/1986, che consente il potere di rettifica in base al valore venale, perché la base imponibile è disciplinata dai commi 1 e 2 dell’art. 51, D.P.R. n. 131/1986, del quale la norma tace. E lascia perplessi il riferimento all’art. 71 che riguarda l’insufficiente dichiarazione di valore, mentre avrebbe dovuto essere richiamato l’art. 72, relativo all’occultamento del prezzo 52.

8. La base imponibile costituita dal prezzo vero Nella nuova disciplina non è espressamente previsto l’obbligo di indicare il prezzo vero: si può però affermare che sia desumibile dall’obbligo di indicare sia il corrispettivo pattuito sia le esatte modalità di pagamento con i relativi importi, modalità che riguardano ovviamente l’intero corrispettivo, non il solo prezzo dichiarato nell’atto. Se le indicazioni sono false o incomplete si procede all’accertamento di maggior valore. Da questa disposizione si può desumere che non si può accertare il maggior valore se il prezzo è indicato, anche sotto l’aspetto delle modalità, in modo conforme al vero (art. 35, comma 22.1). L’interpretazione qui proposta consente di affermare che per gli atti di cessione di immobili 53, l’art. 35, comma 22, sembra aver mutato il parametro relativo nale; tesi sicuramente da rigettarsi con riferimento ai beni soggetti a prezzo-valore, e anche agli altri beni se si accoglie la tesi più avanti esposta in forza del comma 22.1. 51 Sottolinea il dubbio della costituzionalità della delimitazione alle sole abitazioni e loro pertinenze, escludendo fabbricati non abitativi e terreni agricoli, PETRELLI, La nuova disciplina tributaria della base imponibile dei trasferimenti ai fini delle imposte indirette, in Il Fisco, 2006, fsc. 1, n. 7/2006, p. 948 ss. 52 In caso, invece, di errore nella determinazione del valore catastale, l’amministrazione potrà procedere al recupero dell’imposta con un avviso di liquidazione. E sotto questo profilo assumeranno notevole rilievo le questioni relative alla messa in atti dei dati catastali ed alla rilevanza della loro notificazione, sulle quali si rimanda a SALANITRO, Profili sostanziali e processuali dell’accertamento catastale, Milano, 2003. 53 Stipulati sia in forma pubblica, sia in forma autenticata, sia in forma scritta non autenticata. La dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ex artt. 38 e 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, può essere anche non autenticata, purché sia allegata fotocopia del documento di identità.

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alla base imponibile, perché considera l’accertamento di maggior valore come una sanzione quando le modalità di pagamento del prezzo sono indicate in modo falso o incompleto 54. Va però riconosciuto che sembra prevalente una diversa e opposta lettura per la quale, ridotto l’ambito di applicazione della valutazione automatica, ha ripreso rilevanza il valore venale, con la conseguenza che, in base alla disciplina generale che non sarebbe sul punto derogata dal citato art. 35, si può procedere all’accertamento di maggior valore senza dimostrare la falsità del prezzo dichiarato 55. Ma a rafforzare l’idea che il prezzo costituisca attualmente la base imponibile conducono alcune considerazioni. Innanzitutto, il divieto di circolazione del denaro contante. La legge non consente pagamenti in contanti pari o superiori a mille euro 56. Il necessario utilizzo di strumenti di pagamento tracciabili, e verificabili ex post, unitamente alla dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 445/2000, che le parti contraenti sono chiamate a fare, con l’annessa sanzione penale fino a due anni di reclusione (art. 483 c.p.), spingono a dichiarare il vero corrispettivo. In presenza di un corrispettivo “vero”, e fino a prova contraria, dovrebbe essere precluso un accertamento di maggior valore, così come avviene nelle ipotesi disciplinate dagli artt. 44 e 45 del D.P.R. n. 131/1986, dove la base imponibile è data dal prezzo perché non ne è contestabile l’autenticità e si deve presumere la corrispondenza del prezzo al valore di mercato 57. In secondo luogo, le indagini bancarie sempre più ampie e penetranti 58. Le movimentazioni di denaro, una volta tracciate, sono facilmente rilevabili dall’amministrazione e consentono di ricostruire il prezzo effettivamente pattuito 59. Di54 Così SALANITRO, La base imponibile nell’imposta di registro fra prezzo, valore catastale e valore venale, in Riv. dir. trib., 2007, I, p. 63 ss. 55 GHINASSI, L’imposta di registro, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2009, p. 377. 56 In base all’art. 49, D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231, è vietato il trasferimento di denaro contante, libretti di deposito e titoli al portatore, quando il valore oggetto di trasferimento è pari o superiore a mille Euro (importo, originariamente di Euro 12.500,00, aggiornato con l’art. 12, comma 1, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214). In caso di violazione, è previsto l’obbligo di comunicazione al Ministero dell’economia e delle finanze. È discutibile se la violazione incida anche sulla validità dell’atto, comportandone la nullità per violazione di norme imperative. 57 Questa, almeno, la giustificazione della disciplina contenuta negli artt. 44 e 45 (trasferimenti coattivi e concessioni dello Stato) secondo l’unanime opinione: cfr. MESIANO, in L’imposta di registro, a cura di D’Amati, Torino, 1989, p. 277. 58 Cfr. LA ROSA, Principi di diritto tributario, Torino, 2012, cit., p. 306 ss.; TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, vol. I, Torino, 2011, p. 188 ss. 59 L’unica ipotesi nella quale l’amministrazione può incontrare obiettive difficoltà si ha quando il pagamento del prezzo è differito nel tempo: si pensi al caso in cu si rateizzi il pagamento. Benché si possa ammettere che la successiva quietanza dovrà indicare le modalità di pagamento, la stessa sarà fatta solo eventualmente e dopo alcuni anni dalla stipula.

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sciplina, peraltro, ben nota alla generalità dei contribuenti, forse addirittura terrorizzati dal c.d. grande fratello di cui parlano, non sempre con cognizione di causa, i mass media. In particolare, va ricordato che l’art. 53 bis D.P.R. n. 131/1986 dispone che le attribuzioni e i poteri di cui agli artt. 31 e seguenti del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e successive modificazioni, possono essere usati anche ai fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali 60. Il richiamo non è relativo solo alle ispezioni e verifiche ma anche alle indagini bancarie 61: la stessa amministrazione 62 evidenzia che le indagini potranno risultare particolarmente utili ai fini del controllo degli atti di compravendita immobiliare, consentendo il controllo anche nei confronti di terzi, con particolare riguardo a coloro che sono legati al contribuente da vincoli familiari 63. In terzo luogo, l’orientamento della giurisprudenza, per la quale il primo indice del valore venale è costituito dal prezzo indicato nell’atto 64. Ripetutamente la Suprema Corte osserva che l’accertamento del valore venale in comune commercio non può prescindere dal prezzo effettivo pattuito dalle parti, il quale rappresenta, ordinariamente e per sua natura, il valore venale del bene, che non è altro che quanto può ricavarsi dalla sua vendita in condizioni di normalità 65. Verificato che è sempre più difficile occultare il corrispettivo e sempre più facile accertarlo, non vi è più motivo di fare riferimento al valore venale, che tendenzialmente dovrebbe corrispondere al prezzo vero, e che in questa fase storica, caratterizzata da una profonda crisi di liquidità, è anche di difficile determinazio60

Cfr. BASILAVECCHIA, I nuovi poteri di controllo dell’amministrazione finanziaria nelle imposte di registro, ipotecaria e catastale, studio n. 68-2007/T, del Consiglio nazionale del notariato, in Studi e materiali, 2008, p. 243 ss.; SALANITRO, Nuove forme di adesione all’accertamento ed esercizio dei poteri d’indagine ai fini delle imposte sui trasferimenti e del classamento degli immobili, in Riv. dir. trib., 2011, n. 10, parte I, p. 987 ss. 61 Alla luce del richiamo rileva anche l’art. 11 del D. L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214 e l’art. 7 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 605. Le comunicazioni delle movimentazioni bancarie e il relativo archivio dell’anagrafe tributaria sono, infatti, raccolte ai fini di cui all’art. 32, comma 1, n. 7. Va riconosciuto, però, che la rilevanza delle norme approvate nel 2011 rispetto alle imposte indirette sembra sfuggire all’amministrazione che, con il provvedimento n. 2013/37561 del 25 marzo 2013, sembra considerale rilevanti solo per le imposte dirette. 62 Cfr. circ. min. n. 6 del 6 febbraio 2007. 63 Indagini bancarie, quindi, consentite, anche se da effettuarsi con prudenza e ragionevolezza, in particolare quando abbracciano un arco temporale troppo ampio rispetto alla data di stipula dell’atto o si rivolgono a soggetti terzi. 64 Cfr. la giurisprudenza riportata da FIORENTINO, sub art. 51, cit. 65 Una conferma della tendenza legislativa ad attribuire una maggiore rilevanza al prezzo dichiarato si può riscontrare anche nell’art. 19, comma 15, D.L. 6 dicembre 2011, conv. con modificazioni dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214 (disciplina dell’imposta sul valore degli immobili situati all’estero) dove si dispone che il valore imponibile è costituito dal costo risultante dall’atto di acquisto, e in mancanza, secondo il valore di mercato.

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ne. Nell’attuale situazione di mercato, infatti, l’operatore assiste alla vendita quasi esclusivamente di beni di provenienza ereditaria, per i quali l’esigenza di vendere prevale sul desiderio di ricavare quanto avrebbe consentito l’astratto valore di mercato 66. Nella realtà in cui opera chi scrive (Sicilia orientale), si dice che i prezzi reali attuali sono inferiori del trenta per cento rispetto ai valori Omi. Può solo dubitarsi, in presenza di un significativo scostamento tra il valore venale e il prezzo effettivo, quale sia la tassazione maggiormente conforme alla capacità contributiva. Dubbio che può essere risolto solo prendendo una posizione definitiva riguardo all’alternativa se l’art. 53 imponga una tassazione solo della ricchezza effettiva o anche di quella potenziale 67. Sul punto ci si può limitare a osservare che l’eventuale guadagno di chi compra un bene al prezzo inferiore al (presunto) valore venale verrà tassato al momento della successiva vendita, attraverso l’imposizione della plusvalenza, nei termini e nei modi di legge 68. Inoltre, la tassazione sul valore venale non consente al contribuente – ancorché diligente – di conoscere al momento della stipula dell’atto l’importo degli oneri tributari ad esso connessi. Singolarmente, anche le indicazioni relative al mediatore sono collegate all’accertamento di maggior valore. Ciò può essere dovuto ad un difetto di redazione della norma, difficilmente superabile attraverso una lettura interpretativa 69; o da una concezione distorta dell’attività di accertamento, che da un’attività diretta ad una distribuzione del carico fiscale in relazione alla capacità contributiva si trasforma in un’attività sanzionatoria. Peraltro non è detto che il valore sia superiore a quanto dichiarato nell’atto, a conferma che l’accertamento non può essere usato come sanzione. Va ancora ricordato che la norma fa riferimento ad ogni atto di cessione di 66 Le attività di controllo e di accertamento dell’amministrazione finanziaria sono meno complesse se rivolte esclusivamente alla determinazione del valore venale. È però possibile obiettare che anche la determinazione dei redditi sarebbe più agevole se basata sui redditi “normali o presunti”: a ben vedere, il valore venale, come gli studi di settore, potrebbe invece essere uno strumento per selezionare e indirizzare i controlli. 67 Considerare il valore venale come parametro di imposizione della capacità contributiva conduce a considerarlo sempre prevalente rispetto al prezzo vero; se, invece, si ritiene che il riferimento al valore venale ha solo la funzione di evitare “una facile evasione” (e tale sembra essere lo scopo se si considera la norma generale per la quale rileva il prezzo se superiore al valore), può concludersi agevolmente nel senso della maggiore rilevanza del prezzo. 68 Sulle plusvalenze cfr. di recente, BASILAVECCHIA-CIGNARELLA, Plusvalenze immobiliari: lo stato dell’arte, Studio n. 45-2011 del Consiglio Nazionale del Notariato, in Studi e materiali, 2012, n. 4, p. 1161 ss.; RAPONI, Plusvalenze immobiliari: aspetti notarili, Studio n. 21-2012/T del consiglio nazionale del notariato, in Studi e materiali, 2012, n. 3, p. 837 ss. Per uno studio più risalente nel tempo cfr. FERLAZZO NATOLI, Le plusvalenze speculative, Milano, 1984. 69 Anzi, da escludersi a seguito della riscrittura della norma ad opera dell’art. 1 comma 98 della finanziaria per il 2007, che ha lasciato inalterato sul punto il testo.

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immobile; e si applica in ogni caso, anche quando si realizza l’ipotesi prevista dal comma 497, e cioè quando il contribuente richiede l’applicazione dell’imposta sul valore catastale. In quest’ultima ipotesi, però, la norma può trovare applicazione solo sotto il profilo sanzionatorio in senso stretto (la sanzione amministrativa da euro 500,00 a euro 10.000,00), non sotto il profilo della base imponibile, data l’esclusione dell’applicazione dell’art. 52 e quindi dell’accertamento di maggior valore ad opera del comma 498 citato 70. In realtà, si è di fronte ad una mancanza di coordinamento normativo 71, dovuta non solo alla necessità e urgenza di procedere all’emanazione del decreto, ma anche a due diverse logiche ispiratrici: la legge finanziaria per il 2006 tende a liberare il contribuente dalla preoccupazione di dichiarare il prezzo vero consentendo di commisurare la base imponibile al valore catastale 72; la L. n. 248/2006 tende invece a commisurare la base imponibile al prezzo vero, restando la tassazione sul valore catastale una sorte di agevolazione per le compravendite di abitazioni, e l’accertamento di maggior valore uno strumento parasanzionatorio. Infine, è da osservarsi che non è espressamente previsto il recupero dell’imposta sul prezzo eventualmente occultato; anche se nulla sembra impedire l’applicazione della disciplina generale prima esposta.

9. La disciplina della valutazione automatica Il comma 23 ter dell’art. 35, del D.L. n. 223/2006, ha disposto 73 che le disposizioni relative alla valutazione automatica non si applicano relativamente alle cessioni di immobili e relative pertinenze diverse da quelle disciplinate dall’art.1, comma 497, della L. 23 dicembre 2005, n. 266 e successive modificazioni. È sorto il dubbio se la valutazione automatica operi solo nelle cessioni in cui il contribuente ha dichiarato di voler applicare il valore catastale ovvero in ogni cessione di abitazioni e pertinenze tra persone fisiche. Il dubbio non ha ragion di essere perché, in effetti, non si può ricorrere al criterio della valutazione automatica, intesa come limite al potere di rettifica, in nessuna delle due ipotesi. Nella prima ipotesi non vi è spazio per l’applicazione della valutazione auto70

Inoltre, si è dichiarato comunque il valore catastale, che continua a valere come limite della rettifica per queste ipotesi. A meno che non si ritenga, nonostante il silenzio della legge, che l’esclusione dell’accertamento e la persistente rilevanza della valutazione automatica vengano meno ove non sia dichiarato il prezzo vero. 71 Che si manifesta anche nella redazione del comma, che inizia con «all’atto della cessione dell’immobile», facendo sorgere spontaneamente la domanda di quale immobile trattasi. 72 Dichiarando il prezzo vero la parte acquirente contribuente non si espone alle conseguenze negative che si ricollegano civilisticamente alla simulazione del prezzo. 73 Aggiungendo il comma 5 bis all’art. 52, D.P.R. n. 131/1986.

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matica perché essa costituisce solo un limite al potere di rettifica, limite che in questo caso non sarebbe applicabile perché la base imponibile è data dal valore catastale 74. O tutt’al più si può applicare per il sol caso del prezzo dichiarato falsamente, come ulteriore, ma ovvia, argomentazione contro la possibilità di un accertamento di maggior valore. Il criterio della valutazione automatica, peraltro, non appare applicabile neppure nella seconda ipotesi, quando il contribuente non manifesta l’opzione per il valore catastale 75. Infatti, se si riconosce valenza sanzionatoria all’attività di accertamento, risulta difficilmente comprensibile porre ad essa un limite per le cessioni nelle quali non si richiama il valore catastale e si dichiara un corrispettivo inferiore a quello vero ma non inferiore a quello catastale. Se si dichiara il vero corrispettivo, e le reali modalità di pagamento, non rileva più il valore venale (in forza del citato comma 22), e viene quindi a mancare ogni efficacia alla valutazione automatica. Inoltre, sul piano pratico, il contribuente non opta per la tassazione basata sul valore catastale quando il prezzo è inferiore a detto valore; in tali ipotesi a nulla giova la valutazione automatica. Al di fuori del campo di applicazione del comma 497 (per esempio cessione di un garage non pertinenziale ad un appartamento dello stesso acquirente o di una bottega) poiché non si applica più la valutazione automatica, ma è rilevante solo il prezzo vero, non si può chiedere di applicare l’imposta sul valore catastale diverso e superiore al prezzo vero (richiesta frequente con la disciplina previgente per non incorrere in un successivo accertamento). Più precisamente, non essendo disciplinato il rimborso d’ufficio 76, nulla impedisce di effettuare una siffatta autoliquidazione, ma sarebbe semplicemente inutile, non impedendo, in caso di occultamento del corrispettivo sia il recupero dell’imposta sul prezzo occultato (ma tale recupero era ammissibile già prima delle riforme in esame) sia l’accertamento di maggior valore 77. La valutazione automatica, a seguito delle norme in esame, sembra mantenere la sua valenza in altre ipotesi che non integrano una cessione quali le rinunce pu74

A ben vedere, il legislatore, con il richiamo normativo al comma 497, mostra di non aver chiara l’esatta valenza della valutazione automatica disciplinata dall’art. 52. 75 In senso contrario sottolineando che il comma 5 bis si riferisce non alle cessioni per le quali sia stato richiesto il regime del prezzo-valore, ma alle cessioni disciplinate dall’art. 1, comma 497, e pertanto alle cessioni per le quali l’acquirente può richiedere il predetto regime, BUSANI, op. cit., p. 265; PISCHETOLA, I limiti ai poteri di rettifica dell’amministrazione finanziaria e valutazione catastale automatica dopo il decreto Bersani n. 233/2006, Studi Cnn, studio n. 117/2006/T, in Studi e materiali, Milano, 2006; e forse anche circ. n. 28/E 4 agosto 2006, dell’Agenzia delle entrate. 76 Cfr. SALANITRO, L’autoliquidazione nella disciplina dell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2004, p. 1245 ss. 77 Né ha senso determinare l’imposta sul valore venale se si dichiara il prezzo vero.

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re e semplici non traslative e le divisioni senza conguaglio. Con riferimento alle divisioni senza conguaglio, la circolare 9 febbraio 2007, n. 6/E è nel senso della rilevanza della valutazione automatica; in senso contrario sembra essere la risoluzione 14 giugno 2007, n. 136/E, perché prevede testualmente l’esclusione del criterio gabellare alle divisioni senza conguaglio 78. Con riguardo alle cessioni di azienda, l’Amministrazione finanziaria ammetteva l’applicazione della valutazione automatica se erano indicati distintamente i valori degli immobili aziendali 79. Ma ciò sull’idea che, a causa dell’indicazione di distinti valori, gli immobili non avrebbero dovuto considerarsi compresi in una universitas complessiva (l’azienda). Se si rimane in tale ordine di idee, e se quindi si seguita a ritenere che si è in presenza di atti di cessione di immobili, trova applicazione la nuova disciplina e non può più operare la valutazione automatica 80. Con riguardo alle cessioni di azienda, l’Amministrazione finanziaria ammetteva l’applicazione della valutazione automatica se erano indicati distintamente i valori degli immobili aziendali 81. Ma ciò sull’idea che, a causa dell’indicazione di distinti valori, gli immobili non avrebbero dovuto considerarsi compresi in una universitas complessiva (l’azienda). Se si rimane in tale ordine di idee, e se quindi si seguita a ritenere che si è in presenza di atti di cessione di immobili, trova applicazione la nuova disciplina e non può più operare la valutazione automatica 82. Sorge poi il dubbio della applicazione retroattiva della nuova disciplina legislativa. Poiché un limite al potere di rettifica è norma procedimentale e non sostanziale, la rimozione del limite può operare retroattivamente; anzi, verosimilmente non è neppure corretto parlare di retroattività, perché la norma si applica ai procedimenti di rettifica successivi alla sua introduzione, anche se relativi a fattispecie realizzatesi precedentemente. Né si può richiamare il principio di affidamento del contribuente perché questi aveva comunque l’obbligo di indicare il prezzo, e il valore venale se superiore. Sulla stampa specialistica si è sollevata la preoccupazione che l’esclusione della valutazione automatica possa condurre ad un aumento del contenzioso; ma in realtà tale preoccupazione è infondata una volta che la base imponibile è costituita dal prezzo vero 83. Un aumento del contenzioso potrà esservi solo se dal78

La risoluzione, però, deve essere intesa con riferimento al prezzo valore: cfr. A. BUSANI, op. cit., p. 262. 79 Circ. n. 87 del 29 dicembre 1990, dir. Min Fin. 80 Contra PISCHETOLA, op. cit. 81 Circ. n. 87 del 29 dicembre 1990, dir. Min Fin. 82 Contra PISCHETOLA, op. cit. 83 Per GHINASSI, La base imponibile nei trasferimenti immobiliari: il sistema del c.d. prezzo – valore, in Novità e problemi nell’imposizione tributaria relativa agli immobili, Milano, 2006, e CAPOLUPO, La tassazione degli immobili a valore normale, in Il Fisco, n. 41/2006, fasc. 1, p. 6315, l’abrogazione della valutazione automatica comporta il ritorno al valore venale tout court: sembra

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l’attività ispettiva emergeranno facilmente prezzi veri diversi da quelli dichiarati; ma non sembra che i poteri ispettivi possano essere utilizzati in misura generalizzata, e quindi a regime la tassazione sul prezzo vero dichiarato potrebbe paradossalmente condurre ad una riduzione del gettito.

10. La rilevanza del prezzo vero rispetto all’accertamento sintetico Il citato comma 498 esclude l’applicazione del comma 3 dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 (relativo all’accertamento delle imposte dirette) ai contribuenti che hanno chiesto la determinazione della base imponibile ai fini delle imposte di registro, ipotecari e catastali, sulla base del valore catastale dell’immobile. È implicita in questa previsione la preoccupazione del legislatore per il rischio che il contribuente sia portato a nascondere il prezzo vero per non incorrere in accertamenti delle imposte dirette. Dall’atto di cessione si desume, infatti, una capacità di spesa che potrebbe non avere riscontro nei redditi dichiarati dall’acquirente. Il riferimento però al comma tre appare erroneo e può frustrare le finalità della norma. L’art. 38, comma 3, riguarda, infatti, l’accertamento analitico, consentendo di desumere l’incompletezza, la falsità e l’inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione dei redditi dal confronto con le dichiarazioni relative ad anni precedenti e dai dati e dalle notizie raccolti dagli uffici delle imposte, anche sulla base di presunzioni semplici, perché gravi, precise e concordanti. L’accertamento delle imposte dirette compiuto in base agli investimenti del contribuente è invece contemplato dal successivo comma 4 dell’art. 38, che consente all’ufficio di determinare sinteticamente il reddito complessivo di una persona fisica in base ad elementi e circostanze di fatto certi. Non è dato sapere se il legislatore è incorso in un error calami o ha consapevolmente mantenuto ferma la possibilità di procedere ad accertamenti sintetici; ma appare certo che allo stato della normativa questi sono ammissibili 84. E poiché l’esclusione riguarda solo il caso previsto dal comma 497 (cessioni di immobili ad uso abitativo e relative pertinenze), è senza dubbio possibile procedere ad accertamenti delle imposte dirette sulla base di ogni altro tipo di atto da cui emerga il prezzo vero.

sfuggire agli autori che nelle ipotesi in cui la valutazione automatica non si applica più non ha più rilievo il valore venale salvo che a fini sanzionatori. 84 Contra PETRELLI, La nuova disciplina, cit. per il quale la norma preclude gli accertamenti induttivi.

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11. L’applicazione dell’imposta di registro alle abitazioni censite, al momento del trasferimento, con la rendita proposta o con la rendita presunta Rispetto al comma 497 si pone il problema della sua applicabilità agli immobili non censiti, ovvero censiti solo con la rendita proposta ma non ancora definitiva. Com’è noto, con riguardo alla disciplina tradizionale della valutazione automatica, è prevista la possibilità di chiedere l’attribuzione della rendita 85. A seguito di tale attribuzione, secondo l’opinione prevalente l’ufficio deve procedere al recupero, tramite mera liquidazione, della maggior imposta dovuta, ma non può effettuare alcun rimborso se il valore catastale risulta inferiore; soluzione che si può apprezzare se si ricorda che nel sistema tradizionale la base imponibile è comunque data dal valore superiore tra il prezzo e il valore venale. Approvata la nuova disciplina legislativa, escludere l’applicazione della normativa che consente l’istanza di attribuzione della rendita farebbe sorgere gli stessi dubbi di costituzionalità che a suo tempo condussero all’introduzione della norma; ed infatti il software ministeriale prevede apposita casella 86. Tuttavia, una volta che il valore catastale non costituisce più un limite al potere di rettifica, ma si identifica con la stessa base imponibile, occorre ammettere il rimborso quando il valore catastale definitivo risulta inferiore a quello provvisoriamente dichiarato. L’art. 19 del D.L. 31 maggio 2010 87 ha disposto che in mancanza di presentazione delle dichiarazioni catastali, l’Agenzia del Territorio (ora delle Entrate), attribuisce, con oneri a carico dell’interessato, una rendita presunta, da iscrivere transitoriamente in catasto. Si tratta, in altri termini, di immobili accatastati d’ufficio con una rendita che, in quanto stabilita in base ad un sopralluogo esterno, senza planimetria e con modalità semplificate, è definita presunta. Nulla sembra escludere l’applicazione della disciplina prevista dal comma 497 nel caso di trasferimenti di immobili censiti con la rendita presunta: si può dubitare, piuttosto, non trattandosi di imposta periodica, dell’applicabilità della disciplina nella parte in cui prevede che i tributi erariali e locali sono corrisposti a titolo di acconto, salvo conguaglio in caso di attribuzione di una rendita definitiva a seguito di dichiarazione del possessore dell’immobile. È, però, improbabile che siano stipulati 85

Sul punto cfr. SALANITRO, Brevi note sulla valutazione automatica degli immobili non censiti, in Riv. dir. trib., 1997, I, p. 41 ss.; da ultimo NICCOLINI, La motivazione degli avvisi di liquidazione emanati ex art. 12 del dl n. 70/1988, in Riv. dir. trib., 2006, II, p. 571 ss. 86 La norma è peraltro agevolmente applicabile nel caso di rendita proposta, che già risulta agli atti catastali e consente di determinare un valore, benché provvisorio. Qualche problema potrebbe esservi per gli immobili privi di rendita: ma nulla impedisce (e in questo senso sembra orientarsi la prassi) alle parti o di dichiarare un valore sulla base di una rendita presunta non risultante dagli atti catastali o di limitarsi a dichiarare il solo corrispettivo, sul quale provvisoriamente applicare l’imposta, richiamando espressamente la normativa sul prezzo-valore. 87 Convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122.

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atti aventi ad oggetto questi beni perché non sono muniti di planimetria ed è nullo l’atto nel quale non risulti la dichiarazione che lo stato di fatto dell’immobile è conforme alla planimetria depositata in catasto, in base al comma 1 bis dell’art. 29 della L. 27 febbraio 1985, n. 52 88.

12. La base imponibile nell’IVA Almeno un cenno meritano le differenze di disciplina tra l’atto soggetto a imposta di registro e l’atto soggetto a IVA 89, limitandoci anche in questo caso alle norme relative alla base imponibile 90. In particolare, con riferimento all’imposta sul valore aggiunto la base imponibile è data dal prezzo. Ai sensi dell’art. 13 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 la base imponibile delle cessioni di beni è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente. Vi è stato un periodo, dal 2006 al 2009, nel quale ha assunto particolare rilevanza anche il valore normale. Infatti, a seguito delle modifiche introdotte con il D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248), l’art. 54, comma 3, del D.P.R. n. 63/1972 prevedeva che la prova con88

Come modificato dal comma 14 dell’art. 19 del D.L. 30 maggio 2010, n. 78, convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122. Sulla disciplina degli immobili dotati di rendita presunta cfr. SALANITRO, Rendita presunta per i fabbricati non dichiarati in catasto, in Corr. trib., 2012, n. 2, p. 139 ss.; SALANITRO, Aggiornamento degli atti catastali a seguito delle sentenze tributari, in Corr. trib., 2012, n. 13, p. 992 ss. L’ipotesi di un trasferimento di immobili con rendita presunta può verificarsi perché la nullità è sanzione civilistica che non impedisce la registrazione. 89 I campi di applicazione dell’IVA e dell’imposta di registro sono ben delineati e non creano all’interprete grosse difficoltà; non è questa, comunque, la sede per esaminare puntualmente il principio di alternatività (art. 40 D.P.R. n. 131/1986) e le innumerevoli eccezioni che proprio nel campo degli immobili possono ravvisarsi e che forse lo hanno col tempo messo in crisi; si rinvia per tutti a NASTRI, Il principio di alternatività tra imposta sul valore aggiunto e imposta di registro, Torino, 2012. Si segnalano, però, le problematiche relative al c.d. imprenditore occasionale, colui che costruisce o ristruttura alcuni appartamenti o villette e poi le vende, conferendo in appalto a terzi i lavori o comunque senza creare una organizzazione particolarmente complessa. In questo caso si pone il problema se si è dinanzi ad un imprenditore, anche se quest’ultimo compie un solo affare, con conseguente applicazione dell’IVA. Problema, però, che non può essere affrontato dal notaio in sede di stipula, ma va risolto a monte, in occasione della pianificazione dell’intera operazione. Sul punto si rinvia, anche per riferimenti, a SALANITRO, Le attività occasionali nel sistema delle imposte sui redditi, Catania, 2011, passim. 90 Una differenza rilevante si ha con riferimento alle aliquote. Senza poter scendere nelle ipotesi più particolari, nell’acquisto da privato, si applica l’aliquota del due o del nove per cento sul valore catastale; nell’acquisto da costruttore si applica l’aliquota del 4 o del 10 per cento sul prezzo, oltre alle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa. Si può pure ammettere che chi acquista un immobile di nuova costruzione manifesti maggiore capacità contributiva, ma la differenza tra le aliquote appare notevole e poco ragionevole.

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cernente l’esistenza di maggiori operazioni imponibili IVA si intendeva integrata anche se detti dati fossero desunti sulla base del valore normale dei predetti beni, determinato ai sensi dell’art. 14 del D.P.R. n. 633/1972. In modo analogo, era stato riformato l’art. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. n. 600/1973 per il quale l’infedeltà dei ricavi poteva essere desunta sulla base del valore normale, determinato ai sensi dell’art. 9, comma 3, TUIR 91. Il comma 4 dell’art. 35 del D.L. n. 233/2006 aveva abrogato anche l’art. 15 del D.L. n. 41/1995, il quale prevedeva che nell’ambito IVA, non si procedesse a rettifica del corrispettivo delle cessioni dei fabbricati classificati (o classificabili) nei gruppi A, B, e C, se il corrispettivo veniva indicato in atto in misura non inferiore al valore catastale determinato ai sensi dell’art. 52, comma 4, del D.P.R. n. 131/1986, salvo che da atto o da documento non emergesse un corrispettivo maggiore. Ancora, il comma 23 bis dell’art. 35 del D.L. n. 223/2006, dispone tuttora che, nelle ipotesi di trasferimento immobiliari soggetti ad IVA, finanziati mediante mutui fondiari o finanziamenti bancari, ai fini dell’applicazione dell’art. 54, comma 3, ultimo periodo, D.P.R. n. 633/1972, il valore normale non può essere inferiore all’ammontare del mutuo o finanziamento erogato. Nel periodo di vigenza della norma che attribuiva rilevanza al valore normale, ci si era chiesti se detto valore fosse divenuto il criterio sostanziale per la determinazione della base imponibile dei trasferimenti immobiliari, o se la modifica avesse solo introdotto una presunzione relativa di cui l’amministrazione finanziaria potesse avvalersi nell’ambito dell’attività di accertamento, diretta alla verifica del (reale e non simulato) corrispettivo contrattuale. Poiché una ricostruzione nel senso sostanziale avrebbe comportato l’affermazione di una notevole modifica dei principi dell’IVA, e forse un contrasto con le direttive comunitarie, si era suggerita una lettura procedimentale della norma, per la quale essa aveva introdotto una presunzione relativa, juris tantum, di corrispondenza fra il corrispettivo e il valore normale. Al contribuente si sarebbe dovuto riconoscere, pertanto, il potere di dimostrare che l’erroneità della determinazione del valore normale del bene da parte dell’amministrazione, oppure la natura del tutto fisiologica della differenza tra valore normale e prezzo, visto che il concetto di medietà implica che vi siano comportamenti al di sopra o al di sotto della media 92. 91 Sulle norme v. TASSANI, I trasferimenti immobiliari tra corrispettivo contrattuale e valore normale dopo il d.l. 223/2006, Studio del Consiglio nazionale del Notariato, n. 152-2006/T, in Studi e materiali, 2007, p. 277 ss. 92 Nel senso della natura procedimentale anche l’amministrazione finanziaria con la circolare n. 11/E del 16 febbraio 2007, annotata da CANNIZZARO, Accertamento sulle vendite immobiliari soggette ad IVA: applicazione retroattiva del criterio del valore normale, in CNN notizie del 23 febbraio 2007.

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Per eliminare ogni dubbio sul contrasto con la disciplina comunitaria 93, la L. 7 luglio 2009, n. 88 ha modificato l’art. 39, comma 1, e l’art. 54, comma 3, ripristinando la formulazione anteriore alle suddette norme ed escludendo pertanto la possibilità di una rettifica in base al solo valore normale. Non si è però riapprovata la norma sulla valenza dei valori catastali e non si è abrogata l’art. 35, comma 23 bis del D.L. n. 223/2006 relativo al rapporto tra valore venale e mutui. È da ritenersi che la mancata abrogazione di tale norma sia solo il frutto di una distrazione del legislatore e che sia stata tacitamente abrogata, anche se va avvisato che non tutti gli uffici sono in questo senso. Eliminata la presunzione legale, il valore normale può essere utilizzato come presunzione semplice, ai sensi dell’art. 39 comma 1, e 54 comma 2 94. Quanto al valore catastale, invece, resta irrilevante, a sottolineare ulteriormente le differenze tra le discipline dell’imposta di registro e dell’IVA.

13. L’azienda Riemerge in modo netto la rilevanza del valore venale nelle cessioni di azienda. L’art. 51, comma 4, del D.P.R. n. 131/1986 dispone che per gli atti che hanno per oggetto aziende e diritti reali su di esse il valore venale è controllato dall’ufficio con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento. Nessuna norma consente di attribuire particolare rilevanza al prezzo dichiarato, senza particolari formalità, in atto. È vero che la tracciabilità dei pagamenti e la stessa normativa antiriciclaggio assume rilevanza anche e soprattutto in materia di aziende; ma è anche vero che non è imposta l’indicazione dei mezzi di pagamento e nessuna norma può essere letta nel senso che l’accertamento è subordinato alla dimostrazione della falsità del prezzo. In altri termini, le modifiche normative che abbiamo esposto nei precedenti paragrafi non hanno interessato la cessione di azienda. Ai fini del presente lavoro, si può solo ricordare come sia discusso se l’accertamento di maggior valore sia relativo solo all’avviamento 95 (e ai beni immobili ricompresi nell’azienda) o riguarda anche i beni mobili facenti parte dell’azienda 93 Per una lettura favorevole alla norma, e che si autodefinisce non ideologicamente orientata (excusatio non petita, manifesta accusatio), cfr. COLONNA, Il criterio del “valore normale” nella disciplina IVA della cessione degli immobili, in Fiscalitax del 18 dicembre 2008. La denuncia di incompatibilità fu fatta dall’associazione dottori commercialisti: per queste informazioni cfr. BORGOGLIO, La Comunitaria 2008 pone fine agli accertamenti immobiliari basati sui soli valori Omi, in Corr. trib., 2009, n. 32, p. 5277 ss. 94 In questo senso TASSANI, Legge comunitaria 2008 (legge n. 88/09): abrogata la presunzione legale fondata sul valore normale per gli accertamenti immobiliari, in CNN notizie del 28 luglio 2009. 95 Sui criteri di valutazione dell’avviamento cfr. BUSANI, op. cit., p. 313.

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stessa. Manca inoltre ogni riferimento normativo in ordine ai criteri per effettuare tale valutazione 96.

14. La base imponibile nelle imposte sulle successioni e donazioni L’imposta sulle successioni ha per oggetto il valore complessivo netto dei beni caduti in successione 97. La norma fa riferimento pertanto al valore globale dei beni e non al valore della quota di eredità o legato. Il riferimento al valore globale dei beni, se può apparire privo di pregnanza significativa con riferimento alle aliquote che oggi sono proporzionali e non progressive, mantiene la sua rilevanza ad altri fini, quale per es., quello della previsione della solidarietà passiva degli eredi 98. Quanto alle donazioni, il legislatore parla di donazioni e atti a titolo gratuito, che comportano il trasferimento di beni e diritti 99. La base imponibile nell’imposta sulle successioni è disciplinata dagli artt. 14 e seguenti del D.Lgs. n. 346/1990. Le stesse norme rilevano per l’imposta sulle donazioni, alla luce del richiamo effettuato dall’art. 56, comma 4. Con riferimento agli immobili si tiene conto del valore venale in comune commercio alla data di apertura della successione. La norma dell’art. 14 non prevede i criteri per determinare il valore venale, a differenza della previgente disciplina dell’imposta sulle successioni. Ma in realtà occorre, come nell’imposta di registro, volgere lo sguardo alla norma sull’accertamento, contenuta nell’art. 34, comma 4, che fa riferimento a criteri identici a quelli dell’imposta di registro. Non rilevano espressamente i valori Omi in quanto la legge non sembra richiamata.

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Per entrambe le questioni, e per ogni altri aspetto, si rinvia a NASTRI, L’imposta di registro e le relative agevolazioni, Milano, 1990, p. 261 ss.; IANNELLO-MONTESANO, Imposta di registro ..., cit., p. 292 ss.; FIORENTINO, Commento sub art. 51, cit., p. 912 ss.; AA.VV., Problematiche giuridiche e fiscali in tema di trasferimenti di azienda, Quaderni della fondazione italiana per il notariato, n. 3/10, Milano, 2012. 97 Si può solo fare un cenno al rapporto tra tributo successorio e imposizione sul reddito, che talvolta si cumulano; per es., nel caso in cui cadono in successione crediti (professionali) o beni (di impresa) in attesa di tassazione ai fini delle imposte sul reddito. Sul punto cfr. STEVANATO, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, Padova, 2000, p. 231 ss. 98 Cfr. SALANITRO, Solidarietà tra gli eredi e cumulo delle donazioni nella nuova disciplina dell’imposta sulle successioni e donazioni, in Riv. dir. trib., 2009, n. 6, parte I, p. 591 ss. 99 Poiché è necessario il trasferimento di beni, non rileva certamente il comodato: così FRIEDMANN-GHINASSI-MASTROIACOVO-PISCHETOLA, Prime note a commento della nuova imposta sulle successioni e donazioni, Studio del Consiglio nazionale del notariato n. 168/2006/T, in Studi e materiali, Milano, 2006.

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Per il resto si pongono le stesse problematiche che risultano nell’imposta di registro. Esclude l’esistenza di una gerarchia tra i criteri parte della dottrina 100, che afferma anche, traendo spunto dal riferimento al reddito netto di cui sono suscettibili, che rileverebbe il maggior o minor reddito futuro. Entrambe le tesi lasciano perplessi; in particolare sulla seconda, il valore è chiaramente quello attuale; valore attuale che può dipendere, questo sì, da prospettive future, come per i terreni per i quali sia in corso di approvazione definitiva il procedimento dal quale dipende una diversa destinazione. A differenza dell’imposta di registro, nell’imposta sulle successioni sembrano rettificabili anche i valori dei beni diversi da quelli immobiliari e aziendali 101, con la precisazione che, ex art. 34 ultimo comma, non vanno considerati per detti beni le differenze di valore della quale sia evidente la scarsa rilevanza. L’art. 34, commi 5 e 6, riporta una disciplina della valutazione automatica corrispondente a quella tradizionale dell’imposta di registro. A seguito dell’approvazione della disciplina del prezzo valore, si è aperto un dibattito sulla sua possibile rilevanza nella materia de qua. Sul piano testuale, la nuova disciplina normativa non precisa se si debba trattare di cessioni a titolo oneroso, e pertanto si potrebbe essere indotti ad escludere in tali ipotesi la valutazione automatica; e si ricorda il richiamo dell’art. 60 del D.Lgs., n. 346/1990. In senso contrario militano la ratio ispiratrice della riforma legislativa, diretta superare la simulazione del prezzo, e il coordinamento normativo: la limitazione data dal valore catastale è disposta per le donazioni ancora oggi dall’art. 34, comma 5, D.Lgs. n. 346/1990 che non è stato abrogato 102, anche dopo l’approvazione della disciplina che prima ha aumentato l’imposizione fiscale su tali trasferimenti (D.L. 3 ottobre 2006, n. 262) e poi ha reintrodotto l’imposta sulle successioni e donazioni (la legge di conversione) 103. 100

Considerando residuale il riferimento a “ogni altro elemento di valutazione, anche sulla base di indicazioni fornite dai comuni”: cfr. GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, Trust e patti di famiglia, Padova, 2008, p. 251 ss., ove la precisazione che la norma non ammette l’arbitrio estimatorio, dovendosi l’ufficio avvalersi di elementi certi, sicuramente verificabili ed inequivoci, senza indulgere a procedimenti immotivati o a indicazioni capricciose, prive di qualsiasi serio riscontro. 101 Cfr. GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, cit., p. 250. 102 Non è infatti corretto ritenere che trovi applicazione l’art. 35, comma 23 ter, D.L. n. 223/2006 che esclude la valutazione automatica per le cessioni di immobili tranne quelle contemplate dal comma 497, perché tali norme riguardano gli atti a titolo oneroso e non quelli a titolo gratuito. Si considerino il riferimento al prezzo vero nel comma 497 e l’intero impianto della L. n. 248/2006, diretta a provocare l’emersione dei corrispettivi effettivi. 103 In probabile violazione dell’art. 4 dello Statuto del contribuente che vieta l’istituzione di nuovi tributi, norma attuativa dell’art. 23 Cost. Più precisamente, è da considerarsi illegittima l’imposizione fissata con il decreto legge, e fatta salva dall’art. 1, comma 2, della legge di conversione. Né sembra possibile introdurre un tributo con la legge di conversione di un decreto legge,

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In conclusione, nelle imposte sulle successioni e donazioni, in mancanza del prezzo, rileva il valore venale.

15. Il c.d. doppio binario nelle imposte ipotecarie e catastali Gli artt. 2 e 10 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347 danno rilevanza alla base imponibile determinata ai fini dell’imposta di registro. Le basi imponibili delle tre imposte dovrebbero quindi sempre coincidere. Ma poiché la norma non fa riferimento agli oneri e alle passività gravanti sul bene, l’amministrazione finanziaria ritiene che rilevi il valore al lordo e non al netto; in altri termini, la base imponibile delle imposte ipotecarie e catastali sarebbe data dal valore venale dell’immobile in sé. In particolare, per esempio, l’accollo di mutuo nell’ambito di una donazione, va considerato come onere detraibile dal valore del bene donato solo con riferimento all’imposta sulle quote di donazione, ove sia applicabile, mentre non incide sulla base imponibile delle imposte ipotecarie e catastali. Altre ipotesi in cui rileva la tesi del doppio binario sono costituite dal trasferimento di azienda con immobili gravati da passività e dal conferimento di immobili in società. In senso contrario, si argomenta a favore della rilevanza degli oneri e delle passività, sia sottolineando la scarsa coerenza della tesi dell’amministrazione finanziaria con i principi costituzionali (in particolare l’art. 53 della Costituzione), sia richiamando la lettera della disposizione, che fa riferimento, senza nulla aggiungere o precisare, “alla base imponibile determinata ai fini dell’imposta di registro o dell’imposta sulle successioni e donazioni” 104.

16. Conclusioni L’eterogeneità delle imposte e delle fattispecie contemplate dalle norme non consentono una ricostruzione unitaria della base imponibile degli atti di circolazione dei beni nelle imposte indirette. Nelle fattispecie nelle quali non è presente un prezzo, la base imponibile è data dal valore venale, dichiarato dalle parti e oggetto di accertamento solo in quelle ipotesi nelle quali il legislatore ritenga che se sostanzialmente eludendo (anche alla luce delle procedure previste, diverse da quelle relative all’approvazione di leggi ordinarie) il divieto posto dallo Statuto. 104 Sul punto cfr., anche per altri riferimenti, PAPPA MONTEFORTE, Commento art. 2, d.lgs. n. 347/1990, in Commentario breve alle leggi tributarie, a cura di Marongiu, Padova, 2011, tomo IV, p. 1082 ss.; SALANITRO, Società di fatto, trasferimento mortis causa dell’azienda e imposte ipotecarie e catastali, nota a Cass., Sez. I civ., n. 4775/1998, in Riv. dir. trib., II, 1998, p. 886 ss.; più in generale, sull’autonomia dei tributi ipotecari rispetto alle imposte di registro e di successioni, cfr. FEDELE, Le imposte ipotecarie, Milano, 1968, p. 151 ss.

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DETERMINAZIONE DELLA BASE IMPONIBILE DEGLI ATTI DI CIRCOLAZIONE DEI BENI

ne possa trarre un rilevante vantaggio fiscale. Nel caso in cui si ha un prezzo, le osservazioni sviluppate nei precedenti paragrafi consentono di affermarne la rilevanza sempre maggiore, tranne nei casi in cui rileva il valore catastale, non più limite al potere di accertamento ma strumento di determinazione della base imponibile.

LA POTESTÀ DI RISCATTO DEL VENDITORE

di Roberto Calvo SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il riscatto tra proprietà e contratto. – 3. Profili di diritto tributario. – 4. (segue) La sussumibilità del riscatto nell’àmbito della condizione. – 5. La circolazione del patto. – 6. La pattuizione ex post.

1. Premessa Il venditore può essere interessato al riacquisto del bene trasferito; tale interesse è assecondato dagli artt. 1500 ss. c.c. disciplinanti la circolazione delle cose con patto di riscatto. Tramite detto patto – qualificabile anche come retratto convenzionale 1 – il cedente si riserva la facoltà di riottenere la proprietà già trasferita «mediante la restituzione del prezzo e i rimborsi» stabiliti nell’art. 1502 c.c. (art. 1500, comma 1, c.c.). Allo scopo di proteggere il venditore dallo stato di debolezza economica in cui potrebbe trovarsi di fronte alla controparte, l’art. 1500, comma 2, c.c., decreta la nullità – nei limiti dell’eccedenza – della clausola vincolante alla restituzione del soprapprezzo 2. Ne deriva la nullità delle condizioni generali di contratto il cui fine sia quello di eludere la precitata norma rendendo artificiosamente difficoltoso l’esercizio del riscatto: deve pertanto ritenersi invalido il patto condizionante l’esercizio del diritto in esame alla rivendita di altro bene del riscattante, nonché qualunque tipo di accordo mirato a limitare od ostacolare la potestà sopraindicata 3. Per identità di ragioni è similmente nulla la clausola che impone al riscattan1

R.T. TROPLONG, De la vente, Bruxelles, 1844, p. 327, testo e nota 2. In caso di simulazione relativa del corrispettivo il riscattante dovrà restituire il prezzo dissimulato: cfr. Cass. 29 maggio 1978, n. 2703, in Giur. it., 1979, I, 1, c. 72; in dottrina v. P. GRECOG. COTTINO, Vendita, 2a ed., in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 343; D. RUBINO, La compravendita, 2a ed. (rist.), in Tratt. dir. civ. comm., diretto da CicuMessineo, Milano, 1971, p. 1052. 3 Si veda B. GRUNEWALD, Kaufrecht, Tübingen, 2006, p. 328. I nessi tra patto di riscatto e li2

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te l’obbligazione di pagare gl’interessi sul prezzo oggetto di restituzione 4; è tuttavia valida la clausola di garanzia monetaria utile sia a contrastare il rischio di svalutazione monetaria correlato al principio nominalistico, sia ad evitare che il riscatto diventi uno strumento di abuso a pregiudizio di chi lo «subisce» 5. L’art. 1500, comma 2, c.c. – incanalandosi nel solco della tradizione consacrata dal cristianesimo 6 – svela la finalità della fattispecie negoziale di cui ci stiamo occupando: essa non solo tutela l’interesse appena descritto, ma soddisfa altresì l’ulteriore interesse del venditore a beneficiare di una sorta di finanziamento tramite l’incasso del prezzo (e dunque per mezzo della commutazione in moneta del valore di scambio dell’oggetto trasferito), ferma restando la possibilità, una volta superata la transitoria situazione di difficoltà economica, di riacquistare la res restituendo il corrispettivo ricevuto 7. È stato osservato con tono suggestivo che nella esposta situazione il proprietario vende «malvolentieri» 8, giacché il suo interesse prevalente è mirato al finanziamento nella prospettiva del riscatto. In definitiva, riusciamo a scorgere l’inversione di posizioni di minorità economica rispetto alla vendita con riserva di proprietà, perché in questa è il compratore – di massima – che agisce come partie faible 9, mentre nell’alienazione con patto di riscatto è perlopiù al trasferente cui bisogna assegnare il ruolo di parte debole. Sta di fatto che la proprietà del compratore, perdurando la potestà del dante causa, è sui generis (ossia non perfettamente libera) 10 siccome l’assolutezza del dominio viene inevitabilmente depotenziata dagli effetti «purgativi» (o «purificeità degli accordi in deroga al modello legale sono presi in considerazione da A. CIATTI, L’autonomia «funzionale» del riscatto nella compravendita, in Rass. dir. civ., 2012, p. 384 ss. 4 Cass. 11 aprile 1972, n. 1113, in Giust. civ., 1972, I, c. 645, e in Foro it., 1972, I, c. 3180. 5 P. GRECO-G. COTTINO, Vendita, cit., p. 343, nota 1; A.C. JEMOLO, In tema di vendita con patto di riscatto, in questa rivista, 1978, II, p. 341. 6 Lev., 25, 23-25. 7 A. BRUNETTI, Del riscatto convenzionale nella compra-vendita. Studio, Torino, 1902, p. 6; F. DEGNI, La compravendita, 3a ed., Padova, 1939, p. 141; B. GRUNEWALD, Kaufrecht, cit., p. 327; F. LAURENT, Principes de droit civil, 3e éd., XXIV, Bruxelles-Paris, 1878, p. 368; E. PACIFICIMAZZONI, Trattato della vendita, II, in Cod. civ. it. comm., Torino, 1930, p. 145 ss. 8 P. TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, 17a ed., Milano, 2007, p. 406. 9 Tale tipologia di vendita è strumentale al soddisfacimento dell’interesse nutrito dal trasferente di conservare nella propria sfera giuridica il diritto sulla cosa in funzione di garanzia del credito. Per tale motivo l’effetto traslativo è ex lege sospensivamente condizionato all’estinzione del debito gravante il compratore. Nello stesso tempo quest’ultimo s’avvantaggia del termine di adempimento (correlato al pagamento rateale), che gli consente di evitare il ricorso al credito bancario per far fronte alla necessità di disporre dell’intera provvista da corrispondere uno actu all’alienante. Rispetto al tratteggiato beneficio spunta, come contrappeso, il rischio che l’acquirente assume su di sé – sin dalla consegna – nell’evenienza di perdita fortuita, in deroga alla massima res perit domino (art. 1465 c.c.). 10 B. CARPINO, L’acquisto coattivo dei diritti reali, Napoli, 1977, p. 8.

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cativi») 11 del riscatto: il venditore che lo ha esercitato «riprende» la cosa emancipata dai pesi e dalle ipoteche su di essa eventualmente costituiti 12. Ciò significa che il dominio «claudicante» dell’acquirente è sostanzialmente paralizzato dato che qualsiasi terzo, avvedendosi che il suo eventuale acquisto potrebbe essere travolto dal riscatto, è disincentivato dal negoziarla. Allo scopo di evitare che il patto di riscatto possa far nascere un vincolo reale sine die, con la conseguenza di stravolgere il sistema ipotecario 13, l’art. 1501 c.c. stabilisce – senza possibilità di deroga convenzionale – che il termine per l’esercizio del diritto potestativo non possa oltrepassare i due anni per i mobili ed i cinque per gl’immobili. Il termine in questione dovrebbe decorrere dal perfezionamento dell’effetto reale allorché non sia contestuale all’accordo traslativo. Importa bene considerare che il riscatto è un atto unilaterale 14 recettizio 15 a contenuto patrimoniale. Esso è minuziosamente regolato dagli artt. 1502 ss. c.c. La retrocessione del diritto di proprietà non deriva dalla semplice dichiarazione di volontà, ma esige l’adempimento dell’obbligazione di restituzione del prezzo (e degli accessori) ricadente sul riscattante (art. 1503, comma 1, c.c.). Prima di chiudere queste note introduttive conviene segnalare che gli effetti del riscatto sono opponibili ai terzi, in quanto il patto sia a sua volta loro opponibile (i requisiti di opponibilità sono i soliti: trascrizione per gl’immobili e mobili registrati, data certa per gli altri mobili) 16. 11

Cfr. L. COVIELLO, nota a Cass. Roma, 5 febbraio 1895, I, 1, c. 569. Ma è tenuto a mantenere le locazioni fatte senza frode, purché abbiano data certa e siano state convenute per un tempo non superiore ai tre anni (art. 1505 c.c.). 13 Cfr. F. FERRARA, Teoria del negozio illecito nel diritto civile, 2a ed., Roma-Milano-Napoli, 1914. 14 O. VON GIERKE, Deutsches Privatrecht, III, Schuldrecht, München-Leipzig, 1917, p. 499; P. OERTMANN, Recht des Bürgerlichen Gesetzbuches, II, 2 Aufl., Berlin-Leipzig, 1919, p. 25; F. SCHOLLMEYER, Das Recht des Bürgerlichen Gesetzbuchs in Einzeldarstellungen, IV, Das Recht der einzelnen Schuldverhältnisse, 2. Aufl., Berlin, 1904, p. 40. 15 H. BROX, Besonderes Schuldrecht, 22. Aufl., München, 1997, p. 72; L. ENNECCERUS-H. LEHMANN, Recht der Schuldverhältnisse. Ein Lehrbuch, II, Tübingen, 1958, p. 471. 16 Si rammenti che l’art. 2653, n. 3, c.c., disciplina l’opponibilità della dichiarazione di riscatto per le vendite immobiliari o di mobili registrati (v. al riguardo il rinvio operato dall’art. 2691 c.c.). Nell’ordinamento tedesco il patto di riscatto ha invece mera efficacia obbligatoria. Ne consegue che il venditore ha diritto al risarcimento del danno verso la sua controparte ove quest’ultima, avendo medio tempore disposto del bene, non possa soddisfare la pretesa alla restituzione (§ 457, Abs. 2, BGB). È tuttavia ammissibile determinare l’opponibilità del patto erga omnes (in caso d’immobili) attraverso la Vormerkung (§ 883, Abs. 2, BGB). Cfr. D. ASSMANN, Die Vormerkung (§ 883 BGB), Tübingen, 1998, spec. p. 39; C. BERGER, Rechtsgeschäftliche Verfügungsbeschränkungen, Tübingen, 1998, p. 197; G. BOEHMER, Einführung in das Bürgerliche Recht, Tübingen, 1954, p. 170; G. VON BUCHKA, Vergleichende Darstellung des Bürgerlichen Gesetzbuches für das Deutsche Recht und des gemeinen Rechts, 2 Aufl., Berlin, 1898, p. 106; M. CASPER, Der Optionsvertrag, Tübingen, 2005, p. 216; C. CROME, System des deutschen bürgerlichen Rechts, Tübingen, 1902, p. 490; L. ENNECCERUS-H. LEHMANN, Recht der Schuldverhältnisse, cit., p. 472; W. FIKENTSCHER-A. 12

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2. Il riscatto tra proprietà e contratto Secondo l’orientamento tradizionale, il patto di riscatto costituisce una condizione risolutiva di natura potestativa 17, che determina il trasferimento ex tunc della proprietà a favore dell’avente titolo (venditore) 18. Si tratta di una clausola unilateralmente vincolante, la quale assicura il riacquisto della cosa (provvisoriamente) trasferita al compratore 19; di lì trae origine una situazione d’appartenenza provvisoriamente assoggetta alla discrezionalità del dante causa 20. Già Domat ricondusse il patto in parola nello spazio della vendita risolutivamente condizionata 21. Coloro che concentrano l’attenzione intorno alla titolarità HEINEMANN, Schuldrecht, 10. Aufl., Berlin-New York, 1997, p. 458; O. VON GIERKE, Deutsches Privatrecht, cit., p. 497; K. LARENZ, Lehrbuch des Schuldrechts, II, 1, Besonderer Teil, 13. Aufl., München, 1986, p. 150; P. MADER, sub § 456, in VON STAUDINGERS, Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch mit Einführungsgesetz und Nebengesetzen. Buch 2. Recht der Schuldverhältnisse, Berlin, 2004, p. 534; T. MAYER-MALY, Beobachtungen und Gedanken zum Wiederkauf, in Festschrift für Franz Wieacker zum 70. Geburtstag, Göttingen, 1978, p. 425; D. REINICKE-K. TIEDTKE, Kaufrecht, 7. Aufl., München, 2004, p. 419; H.P. WESTERMANN, sub § 456, in Münchener Kommentar zum Burgerlichen Gesetzbuch, Band 3, 4. Aufl., München, 2004, p. 411. 17 Cfr., per tutti, E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, 2a ed. (rist.), Napoli, 1994, p. 521, il quale osserva che la dichiarazione del venditore di voler riavere la cosa ex art. 1500 c.c. ha natura «optativa»: essa, presupponendo una valutazione di convenienza, non ha carattere di condizione meramente potestativa; A. DE MARTINI, Profili della vendita commerciale e del contratto estimatorio, Milano, 1950, spec. p. 323 ss. L’idea già dominava sotto il vigore del codice abrogato: si veda A. BRUNETTI, Del riscatto convenzionale nella compra-vendita, cit., p. 16 ss.; T. CUTURI, Della vendita, della cessione e della permuta, 2a ed., in Dir. civ. it., a cura di Fiore, Napoli-Torino, 1915, p. 529; F. DEGNI, La compravendita, cit., p. 143; C.L. GASCA, Trattato della compra-vendita civile e commerciale, 2a ed., II, Torino, 1915, p. 1037; E. PACIFICI-MAZZONI, Trattato della vendita, cit., p. 144. R.J. POTHIER, Trattato del contratto di vendita, trad. it., II, Venezia, 1834, p. 82, chiarisce inoltre che il retratto è un diritto di credito: ius ad rem e non già in re. Nella medesima direzione cfr. A. DE MARTINI, op. cit., p. 317, il quale mette in luce che il riscatto è dotato di un’«incidenza reale, e non soltanto obbligatoria sugli effetti del contratto di vendita, condizionando anche quel fondamentale suo effetto reale che è l’effetto traslativo» (corsivi originali). 18 A. DE MARTINI, Profili della vendita commerciale e del contratto estimatorio, cit., p. 317. 19 F. MESSINEO, Il contratto in genere, in Tratt. dir. civ. comm., diretto da Cicu-Messineo, Milano, 1968, p. 758. 20 P. RESCIGNO, Diritto privato italiano, 11a ed. (III rist.), Napoli, 1997, p. 789. 21 J. DOMAT, Les Loix civiles dans leur ordre naturel, Paris, MDCCV, Liv. I, Sec. VII, p. 40. L’idea era similmente imperante nell’antico sistema consuetudinario francese, ove affiorava il convincimento secondo cui il diritto venduto era posto nelle mani e soggetto al potere dell’alienante. Cfr. J. DELALANDE, Coutumes d’Orléans, Orléans, 1673, p. 148. Anche la letteratura transalpina contemporanea, facendosi orientare dalla stessa logica, considera la vendita con patto di riscatto alla stregua di un’intesa sottoposta alla condizione (potestativa) risolutiva: v. P.H. ANTONMATTEI-J. RAYNARD, Droit civil. Contrats spéciaux, 2e éd., 2000, p. 142; J. HUET, Les principaux contrats spéciaux, 2e éd., in Traité de droit civil, sous la direction de Ghestin, Paris, 2001, p.

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scorgono i lineamenti del contratto di scambio dal quale discende una proprietà «risolubile» 22, «revocabile» 23, oppure sottoposta a «cessazione» 24. Dai superiori cenni si percepisce una biforcatura concettuale: per un verso – ad avviso dell’opinione maggioritaria – il riscatto è identificato come una fattispecie incidente sulla vendita («atto») con effetti eliminativi della stessa 25; per l’altro – a giudizio di una diversa (e più convincente) impostazione – esso si riverbera sul passaggio di proprietà («rapporto»), nel senso che modifica la vicenda circolatoria discendente dal contratto di scambio con l’effetto di far retrocedere (entro la sfera giuridico-patrimoniale del compratore) il ius in re tramite una pretesa opponibile ai terzi 26. Allo scopo di scansare l’accennata alternativa si potrebbe argomentare – traendo ispirazione dalla scuola tedesca – che la vendita con patto di riscatto sia sottoposta ad una condizione sospensiva di natura potestativa 27, assodato che l’eser406; J. LARGUIER, La formation du contrat dans les diverses ventes commerciales, in La vente commerciale de marchandises, Études de Droit Commercial publiées sous la direction et avec une Préface de Hamel, Paris, 1951, p. 63; P. MALAURIE-L. AYNÈS-P.Y. GAUTIER, Les contrats spéciaux, 13e éd., in P. MALAURIE-L. AYNÈS, Cours de droit civil, VIII, Paris, 1999, p. 79; sul versante del diritto giudiziale si rinvia, in senso conforme, a Cass., 3e, 31 janvier 1984, in Bull. civ., III, n. 21; Cass., Ch. comm., 20 novembre 2007, ivi, IV, n. 250. V. altresì F. LAURENT, Principes de droit civil, cit., p. 370; J. LIMPENS, La vente en droit belge, avec la collaboration de J. Heenen-E. Gutt-J. Matthys-J. Van Damme, Bruxelles-Paris, 1960, p. 742; K.S. ZACHARIAE VON LINGENTHAL, Manuale del diritto civile francese, riv. da C. Crome, trad. it. e note di L. Barassi, II, Milano, 1907, p. 247, nota 28. 22 In tal senso v. già T. CUTURI, Della vendita, cit., p. 531, secondo cui «viene trasmessa al compratore una proprietà modificata per modo che ha in sé, fin dall’origine, il germe della risoluzione» (ivi, p. 542). V. ora A.C. PELOSI, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, Milano, 1975, pp. 350 e 367. 23 L. COVIELLO, nota a Cass. Roma, 5 febbraio 1895, cit., c. 569. 24 R. LUZZATTO, La compravendita, ed. postuma a cura di Persico, Torino, 1961, p. 425. È stata anche sostenuta la tesi della c.d. proprietà temporanea: cfr. G. GORLA, La compravendita e la permuta, in Tratt. dir. civ. it., diretto da Vassalli, Torino, 1937, p. 304; D. BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, 3a ed., II, Torino, 1951, p. 296. Ma v. le obiezioni sollevate in proposito da B. CARPINO, L’acquisto coattivo dei diritti reali, cit., p. 7; da S. PULEO, I diritti potestativi (individuazione delle fattispecie), Milano, 1959, p. 125; e da D. RUBINO, La compravendita, cit., p. 1030. 25 V., per tutti, A. DE MARTINI, Profili della vendita commerciale e del contratto estimatorio, cit., p. 323 ss.; G. PACCHIONI, Elementi di diritto civile, 3a ed., Torino, 1926, p. 557 ss.; S. PULEO, I diritti potestativi, cit., spec. p. 126. Alcuni studiosi ritengono che detto effetto promani dalla revoca del contratto (cfr. D. RUBINO, La compravendita, cit., p. 1030 ss.), altri dall’esercizio del diritto potestativo di recesso (C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, 2a ed., II, in Tratt. dir. civ. it., fondato da Vassalli, Torino, 1993, p. 640 ss.; G. GABRIELLI, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Milano, 1985, p. 94; contra L. BARASSI, La teoria generale delle obbligazioni, III, L’attuazione, Milano, 1946, p. 958). Quanto al diritto francese v., ad esempio, R.T. TROPLONG, De la vente, cit., p. 328. 26 G. GORLA, La compravendita e la permuta, cit., p. 307. L’argomentazione non persuade A. DE MARTINI, Profili della vendita commerciale e del contratto estimatorio, cit., p. 321 ss. 27 W. FLUME, Allgemeiner Teil des Bürgerlichen Rechts, II, Das Rechtsgeschäft, 4. Aufl., BerlinHeidelberg-New York, 1992, p. 687.

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cizio del diritto riservato all’alienante (di perfezionare il negozio unilaterale) e gli effetti (reali ed obbligatori) ad esso correlati dipendono dalla sua autodeterminazione 28. La natura sospensiva della condizione trae giustificazione dal rilievo che i richiamati effetti vengono in essere soltanto allorché sia stato esercitato il diritto potestativo. Quest’ultima costruzione (che potremmo definire di tipo «atomistico»), rafforzante l’autonomia dei due negozi (vendita e patto di riscatto), permette da un canto di escludere che la dichiarazione del riscattante importi l’estinzione ex tunc del contratto di scambio 29, dall’altro di riconoscere – a mo’ di conseguenza logica – che essa si limiti a trasformarlo da condizionato in semplice 30. Al di là di tutto, su un elemento si può senz’altro essere d’accordo: il sopravvenuto «contro-trasferimento» (o «contro-disposizione») dà luogo non già ad una nuova vendita 31, bensì al riacquisto il cui impulso causale è rintracciabile nella clausola di «retrocessione» aggiunta al (principale) contratto di scambio 32 la quale, come si desumeva dall’antico diritto consuetudinario francese 33, non ha un fine di profitto perché risponde all’esigenza di «restaurare» il dominio sulla res tradita 34.

3. Profili di diritto tributario Il diritto tributario dimostra che la discussione appena sviluppata ha rilevanza pratica. Prova ne sia che se si accogliesse la tesi della vendita sospensivamente condizionata, si creerebbero le premesse per l’applicazione dell’art. 28, comma 1, D.P.R. n. 131/1986, a mente del quale «La risoluzione del contratto è soggetta 28 H. BROX, Besonderes Schuldrecht, cit., p. 72; L. ENNECCERUS-H. LEHMANN, Recht der Schuldverhältnisse, cit., p. 470; P. MADER, sub § 456, cit., p. 527; F. SCHOLLMEYER, Das Recht des Bürgerlichen Gesetzbuchs in Einzeldarstellungen, cit., p. 39 ss.; K. TONNER, Schuldrecht. Vertragliche Schuldverältnisse, Baden-Baden, 2005, p. 76; H.P. WESTERMANN, sub § 456, cit., p. 408. 29 R.E. ULLMER, Commentar zum privatrechtlichen Gesetzbuche des Kantons Zürich, I, Zürich, 1870, p. 266. 30 B. GRUNEWALD, Kaufrecht, cit., p. 327. Contra W. FIKENTSCHER-A. HEINEMANN, Schuldrecht, cit., p. 458, secondo i quali – all’unisono con l’indirizzo da noi dominante – l’evento sospensivamente condizionante determinerebbe la risoluzione della compravendita. 31 G. BONELLI, nota a Cass. Roma, 5 febbraio 1895, in Foro it., 1895, I, c. 601; O. VON GIERKE, Deutsches Privatrecht, cit., p. 498; F. SCHOLLMEYER, Das Recht des Bürgerlichen Gesetzbuchs in Einzeldarstellungen, cit., p. 39. 32 L’additata accessorietà è espressamente sancita nel § 1067 ABGB. V. C.F. VON GLÜCK, Ausführliche Erläuterung der Pandecten nach Hellfeld, 16, 1, Erlangen, 1814, p. 199. 33 Si veda l’art. 112 della Coutume d’Orléans. 34 R.J. POTHIER, Trattato del contratto di vendita, cit., pp. 80 e 105; R.T. TROPLONG, De la vente, cit., p. 328.

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all’imposta in misura fissa se dipende da clausola o da condizione risolutiva espressa contenuta nel contratto stesso ovvero stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata entro il secondo giorno non festivo successivo a quello in cui è stato concluso il contratto» 35. All’opposto, qualora si revocasse in dubbio la correttezza dell’interpretazione accostante il patto ex art. 1500 c.c. alla condizione risolutiva, occorrerebbe assoggettare il negozio di riscatto alla tassazione ordinaria. Acclarato in apicibus che l’imposta deve essere applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione (art. 20, D.P.R. n. 131/1986), a noi pare – come cercheremo di dimostrare appresso – che sia preferibile la tesi inglobante il patto di riscatto nell’orbita del succitato art. 28, con la conseguente riscossione dell’imposta fissa. Si continui ad osservare che tale scelta rileva sul piano sostanziale quando lo studioso del diritto civile debba entrare in relazione con la disciplina tributaria, nella quale – mette conto ripetere – occorre badare più alla sostanza che alla forma. L’accennata inclinazione al sano realismo ci porta a riconoscere che il riscatto è appunto accostabile alla condizione risolutiva di natura potestativa 36 perché: a) la retrocessione del diritto di proprietà dipende dalla volontà del venditore; b) siffatta potestà è alla base dello stato d’incertezza iniziale sul «se» della vicenda traslativa «a ritroso» (o in direzione inversa) 37, conformemente alla situazione che viene di regola in essere a séguito dell’incertezza circa il verificarsi dell’evento condizionante il rapporto obbligatorio.

4. (segue) La sussumibilità del riscatto nell’àmbito della condizione L’obiezione più stringente alla sussunzione del riscatto nel succitato art. 28 consiste in ciò, che l’esercizio del diritto potestativo ex latere venditoris non sembra avere – nonostante il diverso avviso della nostra letteratura prevalente 38 – le 35

Per quanto riguarda invece la vendita con riserva di proprietà l’art. 27, comma 3, D.P.R. n. 131/1986 sottopone detto contratto all’imposta proporzionale sin dalla stipula. V. anche l’art. 109, comma 2, lett. a), D.P.R. n. 917/1986, in tema d’imposta sul reddito d’impresa, che non tiene conto – a tali fini – della clausola di riserva. 36 Secondo A.C. PELOSI, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, cit., p. 348, si tratterebbe di una condizione meramente potestativa, operante come condizione unilaterale. 37 J. LIMPENS, La vente en droit belge, cit., p. 742. 38 C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, cit., pp. 641 e 643; F. DEGNI, La compravendita, cit., p. 143; R. LUZZATTO, La compravendita, cit., p. 417; C.L. GASCA, Trattato della compra-vendita civile e commerciale, cit., p. 1037 ss.; E. PACIFICI-MAZZONI, Trattato della vendita, cit., p. 145; S. ROMANO, Vendita. Contratto estimatorio, in Tratt. dir. civ., diretto da Grosso-Santoro Passarelli, Milano, 1960, p. 206; D. RUBINO, La compravendita, cit., p. 1028, secondo cui il riscatto «è una forma di scioglimento retroattivo della vendita».

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fattezze della vicenda implicante la risoluzione ex tunc della compravendita 39 (da tale vicenda – è noto – deriva la finzione di reputare la res come mai alienata) 40. L’esercizio del riscatto modifica unicamente il vincolo commutativo creando un nuovo rapporto giuridico con effetti «riedificativi» della titolarità originaria in capo al dante causa 41. Così stando le cose, all’effetto reale della vendita si può sovrapporre il negozio di retrocessione del diritto assoluto, con l’esito di duplicare i rapporti giuridici convergenti nell’unico contratto 42. È indubbio che il riscatto si riverberi sull’effetto traslativo con efficacia retroattivo-reale (art. 1504 c.c.) 43; ma ciò non basta ad ipotizzare che esso costituisca una fattispecie estintiva del sottostante vincolo obbligatorio. Il riscatto presuppone la validità e l’efficacia della vendita cui è collegato 44. Segno che la «mu39 Cfr. O. VON GIERKE, Deutsches Privatrecht, cit., p. 499. Se ne rende perfettamente conto R.J. POTHIER, Trattato del contratto di vendita, cit., p. 99, il quale osserva che il retratto determina perciò la risoluzione della vendita soltanto ex nunc; nella medesima direzione v. C.F. VON GLÜCK, Ausführliche Erläuterung der Pandecten nach Hellfeld, cit., p. 202; H.P. WESTERMANN, sub § 456, cit., p. 409. Analoga sensibilità è percettibile in una parte della nostra dottrina contemporanea: cfr. R. LUZZATTO, La compravendita, cit., p. 418, secondo cui «la facoltà di riscatto, si chiami revoca, oppure recesso, lascia, a mio avviso, intatti gli effetti già prodotti dalla vendita, ed agisce soltanto per l’avvenire» (corsivi originali); A. LUMINOSO, La vendita con riscatto, in Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 1987, p. 171, a parere del quale «può convenirsi sulla possibilità di assegnare al riscatto convenzionale una funzione ripristinatoria (ex nunc) della titolarità della cosa in capo al riscattante» (corsivi originali); G. GABRIELLI, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, cit., p. 94 ss., nota 187, ove riemerge con nettezza la biforcazione tra atto (contratto) e rapporto (effetto traslativo). Una diversa soluzione pareva accreditata dall’art. 1514 c.c. abr. Tale disposizione – il cui antecedente normativo è dato dall’art. 1658 code civil – non è stata rinnovata nel codice vigente. In ogni caso, come presagì F. LAURENT, Principes de droit civil, cit., p. 369 s., la lettera di tali disposizioni continua ad influenzare la giurisprudenza teorica incline perlopiù a considerare il riscatto come vicenda estintiva della vendita. 40 T. CUTURI, Della vendita, cit., p. 542. D’altra parte, è diffusa – come osserveremo oltre (infra, nota 50) – l’idea secondo cui la stessa regola accreditante la retroattività della condizione, seppure recepita nell’art. 1360 c.c., sia contraddetta dall’art. 1361 c.c. 41 Cfr. O. VON GIERKE, Deutsches Privatrecht, cit., p. 499. 42 Cfr. P. MADER, sub § 457, in VON STAUDINGERS, Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch mit Einführungsgesetz und Nebengesetzen. Buch 2. Recht der Schuldverhältnisse, Berlin, 2004, p. 540 ss. 43 A parere di R. LUZZATTO, La compravendita, cit., p. 423 ss., la possibilità di esercitare il riscatto a danno del terzo subacquirente è una conseguenza del principio «nemo plus iuris ad alium transferre potest, quam ipse habet» (D., 50, 17, 54); in senso conf. si veda B. CARPINO, L’acquisto coattivo dei diritti reali, cit., p. 8. Cfr. anche T. CUTURI, Della vendita, cit., p. 530. Questa lettura consente di emancipare il ragionamento dalla finzione connessa alla retroattività della condizione; il suo limite consiste tuttavia in ciò, che in assenza di trascrizione il terzo acquisterebbe il diritto sull’immobile svincolato dalla potestà «riappropriativa» spettante al primo alienante. 44 Cfr., similmente, A. LUMINOSO, La vendita con riscatto, cit., p. 172, secondo cui il riscatto, mira a «richiamare il diritto alienato nel patrimonio del riscattante, lasciando intatto il titolo con cui questi, in origine, l’aveva acquistato». Da qui «sembra doversi riconoscere un primato alla

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tilazione» dell’originario effetto reale non ridonda in «mutilazione» del contratto. Insomma, il titolo del riacquisto è il contratto unitariamente considerato; ritenere che con il riscatto, ossia con l’esercizio del potere connaturato all’accordo, l’accordo stesso si sciolga rasenta la contraddizione in termini che deve essere espunta dal ragionamento giuridico. A supporto di questa interpretazione milita il rilievo che prima dell’esercizio del diritto potestativo il godimento del compratore è avvenuto uti dominus 45; l’investitura contrattuale, seppur risolutivamente condizionata dalla determinazione volitiva dell’alienante (la quale si sostanzia – come notammo – in un negozio giuridico unilaterale volto alla riedificazione del ius in re), non viene travolta ex tunc, ancorché i diritti costituiti dal proprietario «provvisorio» siano sottoposti alla spada di Damocle dell’art. 1505 c.c. 46. La forza retroattivo-reale del riscatto si piega all’esigenza di rafforzare il diritto di credito del titolare della potestà in maniera da renderlo opponibile agli aventi causa del compratore. Se così non fosse tale diritto irradierebbe meri effetti obbligatori, come capita nel sistema tedesco (§ 458 BGB) 47, convertendosi la pretesa del riscattante nel diritto al risarcimento del danno per equivalente in ipotesi di esercizio del ius disponendi per opera della controparte 48. L’evocato rafforzamento non giustifica però il corollario dell’estinzione con effetti retroattivi del vincolo di scambio. Risponde invece al vero – lo abbiamo da poco notato – che il godimento della res vendita è stato posto in essere da chi era titolato; l’additata legittimazione, non essendo abolita «ora per allora» dal riscatto, esclude che l’utilizzo della res vendita antecedente all’esercizio del diritto potestativo rilevi quale arricchimento ingiustificato (art. 2041 c.c.) 49. A chiarimento ulteriore della riflessione serve segnalare che una regola non dissimile concorre a plasmare lo statuto (di diritto comune) in tema di contratto risolutivamente condizionato (art. 1361, comma 2, c.c.) 50. Ma il distinguo consivicenda della proprietà sulla vicenda del contratto» (ivi). Si veda altresì, con riguardo alla disciplina dettata nel codice civile tedesco, K. LARENZ, Lehrbuch des Schuldrechts, cit., p. 147. 45 E. GIANTURCO, Contratti speciali, II, Compra-vendita. Lezioni raccolte da N. Stolfi, Napoli, 1905, p. 140. 46 Cfr. D. RUBINO, La compravendita, cit., p. 1029. 47 V. supra, nota 16. 48 La causa del danno è l’inadempimento imputabile al compratore dell’obbligazione di tutelare la pretesa (ri)traslativa vantata dal titolare del diritto al riscatto. 49 Cfr. C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, cit., p. 661; T. CUTURI, Della vendita, cit., p. 542; A.C. PELOSI, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, cit., p. 357; S. PULEO, I diritti potestativi, cit., p. 109. Si veda, in ipotesi di risoluzione del preliminare, Cass. 6 luglio 1990, n. 7139, in Mass. Giust. civ., 1990. Quanto ai diritti dell’acquirente sul tesoro ritrovato ante retratto v. R.J. POTHIER, Trattato del contratto di vendita, cit., p. 97 ss., a giudizio del quale il tesoro stesso spetta a tale parte non essendo compreso nell’oggetto dello scambio. 50 Cfr., ad esempio, A. DE MARTINI, Profili della vendita commerciale e del contratto estimatorio,

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ste in ciò, che mentre l’evento condizionante l’efficacia del contratto – qual è, ove sia stata pattuita la clausola «in diem addictio», la sopravvenuta miglior offerta di acquisto (entro il previsto termine finale) da parte del terzo, che se accettata dal venditore ha effetto estintivo dell’antecedente passaggio di proprietà (salvo che sia stata congegnata come condizione sospensiva) qualora il primo acquirente non intenda annientare tale conseguenza pagando il «sovrapprezzo» 51 – è ad esso esterno (rilevando quindi come «fatto» anziché come «atto») 52, la retrocessione conseguente al riscatto dipende invece da una dichiarazione di volontà («atto») interna alla vendita, sottoposta al formalismo negoziale di cui all’art. 1503, 3° comma, c.c. 53. Siamo dinanzi a una determinazione volitiva sostanziantesi nell’esercizio del potere riservato ad una delle parti dall’identico rapporto composto di un accordo fondamentale e di un’intesa collaterale; siffatta determinazione, la cui validità presuppone – si osservi incidentalmente – l’attuale capacità d’agire 54, s’innesta pertanto all’interno dell’unitaria fattispecie complessa concorrendo alla causazione dei suoi effetti eventuali (retrocessione) 55. La tratteggiata unitarietà rafforza l’osservazione elaborata da chi scrisse che la retrocessione avviene sia ex causa antiqua et necessaria (nel senso che il preesistente contratto rappresenta il titolo del rinnovato trasferimento) 56, sia ex causa nova et voluncit., p. 326. Si rammenti che gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscono al tempo in cui è stato concluso l’accordo, salvo che – per volontà delle parti o per la natura del rapporto – gli effetti del contratto o della risoluzione debbano essere riportati a un momento diverso (art. 1360, comma 1, c.c.). L’avveramento della condizione ha quindi efficacia reale, essendo opponibile a chiunque ove sia stata soddisfatta – in ipotesi di diritti reali immobiliari o altri diritti soggetti a trascrizione – la formalità di cui all’art. 2659, comma 2, c.c. La letteratura ha tuttavia svelato il carattere fittizio della retroattività della condizione: si veda A.C. PELOSI, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, cit., p. 140 ss., secondo cui gli atti di disposizione compiuti dal compratore durante la pendenza della condizione sono l’aspettativa (o diritto eventuale) in ipotesi di condizione sospensiva, e il diritto «risolubile» in ipotesi di condizione risolutiva (ivi, p. 147); cfr. altresì F. BOCCHINI, Vendite con contenuti speciali, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 11, 2a ed., Torino, 2000, p. 190; A. BLOMEYER, Studien zur Bedingungslehre, 1. Teil, Über bedingte Verpflichtungsgeschäfte, Berlin-Leipzig, 1938, p. 5 ss. 51 D. RUBINO, La compravendita, cit., p. 1075 ss. A nostro avviso i limiti al ius alienandi che indirettamente derivano da tale pattuizione a nocumento del compratore giustificano la possibilità di estendere in subiecta materia i termini dettati nell’art. 1501 c.c. (arg. ex art. 1379 c.c.). 52 G. BONELLI, nota a Cass. Roma, 5 febbraio 1895, cit., c. 602; D. RUBINO, La compravendita, cit., p. 1030. Ma in senso contrario v. A. DE MARTINI, Profili della vendita commerciale e del contratto estimatorio, cit., p. 322, che considera – in modo tuttavia contraddittorio – la determinazione volitiva del riscattante alla stregua di un «fatto» estrinseco al negozio. 53 B. CARPINO, L’acquisto coattivo dei diritti reali, cit., p. 4 ss. 54 Cfr. L. COVIELLO, nota a Cass. Roma, 5 febbraio 1895, cit., c. 569. 55 Cfr. A. FALZEA, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, p. 133; S. PULEO, I diritti potestativi, cit., p. 142. 56 Ad avviso di G. BONELLI, nota a Cass. Roma, 5 febbraio 1895, cit., c. 604, il sopravvenuto divieto normativo ad acquistare il bene alienato non impedirebbe al riscattante di riavere la cosa.

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taria (perché il medesimo trasferimento esige un’ulteriore determinazione volitiva) 57. Vale la pena insistere che l’antecedente causale della descritta retrocessione è dato dalla clausola accessoria alla compravendita 58, utile ad appagare le già esposte finalità giuridico-economiche. Siamo, dopotutto, al cospetto di un negozio di secondo grado, il quale trae – come notammo – la propria base di legittimazione dall’intesa-cardine 59. Per arricchire il quadro si osservi che la scindibilità del diritto di riscatto in caso di bene indiviso (art. 1507 c.c.), mal si confà alla tesi – comunemente accolta – professante l’estinzione ex tunc della vendita 60. Possiamo inoltre immaginare che il riscattante sia convenzionalmente tenuto a restituire un prezzo inferiore a quello ricevuto 61: in tale eventualità la differenza Ma in senso opposto v. L. COVIELLO, nota a Cass. Roma, 5 febbraio 1895 cit., c. 569, secondo cui la legge proibitiva di ordine pubblico estende i propri effetti ai rapporti pendenti. 57 G. BONELLI, nota a Cass. Roma, 5 febbraio 1895, cit., c. 603. 58 Il punto è ben colto da A.C. PELOSI, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, cit., p. 342; sul crinale del diritto tedesco in senso conforme si veda, per tutti, L. ENNECCERUS-H. LEHMANN, Recht der Schuldverhältnisse, cit., p. 471; O. VON GIERKE, Deutsches Privatrecht, cit., p. 498. Contra, tuttavia, F. BOCCHINI, Vendite con contenuti speciali, cit., p. 679, il quale sostiene che, dal punto di vista economico, l’operazione è unitaria, e tale unitarietà sarebbe compromessa dalle impostazioni accreditanti la semplice connessione tra vendita e patto di riscatto. Anche A. DE MARTINI, Profili della vendita commerciale e del contratto estimatorio, cit., p. 316, insiste, e – osserverei – a ragion veduta, sul nesso di accessorietà (volontaria) tra patto di riscatto e antecedente compravendita: egli, a questo proposito, osserva che «il patto di riscatto costituisce una clausola accessoria del contratto di vendita cui inerisce, rispetto al quale manca di autonomia strutturale e funzionale: strutturale, in quanto non è un contratto a se stante, ma una porzione del regolamento precettivo dell’unico contratto di vendita, e precisamente un elemento accidentale di questo, introdotto dalla volontà dei contraenti; e funzionale, in quanto non tende alla creazione d’un nuovo rapporto, o d’un nuovo vincolo, ma solo alla limitazione (e precisamente: sottoposizione a condizione) dell’unico rapporto generato dal contratto di vendita» (corsivi originali). 59 Quanto sostenuto non impedisce di dedurre in condizione l’adempimento, come putacaso accade quando il venditore condizioni gli effetti della vicenda traslativa al pagamento integrale del prezzo. È vero che nella rappresentata eventualità l’evento furto ed incerto è interno al contratto (ma, a ben osservare, lo è anche riguardo alla fattispecie disciplinata negli agli artt. 1523 ss. c.c.); sennonché, è pure vero che non è correlato – come succede in ipotesi di riscatto – ad un atto negoziale, bensì ad un fatto qual è l’adempimento dell’obbligazione pecuniaria: per ulteriori riferimenti sia consentito rinviare a R. CALVO, Deducibilità dell’adempimento in condizione e autonomia negoziale, nota a Cass. 23 giugno 1993, n. 7007, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 901 ss. L’adempimento assume dunque la natura di fatto giuridico dovuto in forza del sottostante rapporto obbligatorio, i cui effetti sono acquisiti dal destinatario automaticamente, ad astrarre dalla volontà solutoria (fatta salva la determinazione contraria, con cui il debitore impedisce tale conseguenza) e dall’accettazione da parte del creditore. 60 A. CIATTI, L’autonomia «funzionale» del riscatto nella compravendita, cit., p. 381. 61 B. CARPINO, L’acquisto coattivo dei diritti reali, cit., p. 5; D. RUBINO, La compravendita, cit., p. 1051 ss.; A.C. PELOSI, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, cit., p. 341; S. PULEO, I diritti potestativi, cit., p. 111; M.C. TATARANO, sub art. 1500, in Cod. civ. annotato, 3a ed.,

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viene trattenuta dal compratore in forza del titolo che, per l’appunto, non può essere considerato tamquam non esset a séguito dell’esercizio del diritto potestativo. Serve rinnovare alla memoria che l’effetto reale scaturente dal riscatto non dirama da una rivendita, bensì dall’originario contratto di scambio che rappresenta l’unitario titolo di giustificazione del doppio trasferimento tra le medesime parti 62. Qui giunti, disponiamo di sufficienti elementi per fissare questa conclusione intermedia: la retrocessione innervata dal riscatto determina l’estinzione, per assenza di causa, di taluni obblighi tipici della compravendita, come ad esempio quelli riguardanti le garanzie sulla titolarità del diritto e sull’assenza di vizi o difetti qualitativi dell’oggetto negoziato. Ma una cosa è la caducazione di tali obblighi, altra è la risoluzione ex tunc dell’intero contratto. Risolvere il contratto è cosa diversa dal diritto di riacquistare la proprietà del bene, così come il trasferimento venato dal riscatto è cosa diversa dalla circolazione della ricchezza a titolo di compravendita 63. Il negozio unilaterale perfezionato dal riscattante non si prefigge lo scopo di estinguere retroattivamente il contratto, essendo soltanto proiettato alla retrocessione eventuale della res vendita 64. Il filo rosso che lega il meccanismo sotteso dalla risoluzione cui fa riferimento la norma tributaria al riscatto ex art. 1500 c.c. è rappresentato dalla retrocessione del diritto reale animata dalla potestà di uno degli stipulanti. Qualora si ammetta che la lex specialis (art. 28 cit.) voglia alleggerire l’onere fiscale perché, in definitiva, lo spostamento patrimoniale inizialmente concordato non si è definitivamente radicato nella sfera giuridica del compratore, diventa inevitabile estenderne l’àmbito di applicazione alla vendita regolata dagli artt. 1500 ss. c.c. siccome pure in essa l’acquisto (ossia l’effetto reale) è travolto dalla volizione del trasferente. Poco importa, in tale prospettiva, che il riscatto non risolva la vendita giacché il punto d’unione è dato – conviene ripetere – dalla retrocessione del diritto assoluto. Se così, il dibattito intorno alla qualificazione della retrocessione fluente dal riscatto come autentica condizione risolutiva, oppure – secondo l’indirizzo che a noi pare più corretto – come vicenda stimolata dal perfezionamento di un negozio giuridico che dà attuazione ad una potestà radicata nel patto accessorio alla compravendita, passa in secondo in piano di fronte all’identità sostanziale di effetti pratici. Le due vicende ora indagate sono unite dal minimo comun denominatore del riacquisto giustificante l’identità di trattamento; tant’è che la postulata transitorietà (o assenza di definitività) determinata dalla condizione risolutiva propriaa cura di G. Perlingieri, IV, I, Napoli, 2010, p. 1307. A parere di R.J. POTHIER, Trattato del contratto di vendita, cit., p. 107, tale convenzione contiene una liberalità indiretta. 62 J. LIMPENS, La vente en droit belge, cit., p. 742. 63 O. VON GIERKE, Deutsches Privatrecht, cit., p. 498. 64 C. CROME, System des deutschen bürgerlichen Rechts, cit., p. 491.

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mente detta è analogamente ravvisabile nella vendita ex artt. 1500 ss. c.c., in quanto l’esercizio del riscatto dà luogo ad un nuovo trasferimento, uguale e contrario a quello originario, traente la propria (iniziale) ragione giustificatrice dallo scambio antecedente. In altre parole, il riscatto è alimentato sotto il profilo causale dalla vendita, di guisa che il suo esercizio non può estinguerla siccome – usando una metafora – ciò equivarrebbe a riconoscere che un edificio possa sorreggersi nonostante la demolizione delle fondamenta. Sarebbe perciò errato scindere con le lame del coltello la vendita dall’eventuale esercizio del diritto potestativo riservato all’alienante, oppure affermare che il riscatto si autoalimenta potendo sopravvivere all’estinzione del contratto che ne dà causa. La tesi criticata finisce per andare incontro ad una contraddizione giacché presupporrebbe l’ontologica autonomia del riscatto dalla compravendita che, all’inverso, è perlopiù negata – osserverei a ragion veduta – dai suoi sostenitori. D’altronde, la medesima tesi costringerebbe l’interprete ad equiparare quoad effectum il riscatto al mutuo dissenso, ossia ad un accordo estintivo dotato di un’autonomia funzionale rispetto all’intesa preesistente. La forzatura che deriverebbe dall’ipotizzata equiparazione non richiede commenti ulteriori 65.

5. La circolazione del patto È giunto il momento di appurare se il patto di riscatto, là dove non sia diversamente stabilito 66, possa essere ceduto indipendentemente dalla posizione di venditore, e quindi ad astrarre dal meccanismo regolato negli artt. 1406 ss. c.c. Giova osservare, a mo’ di premessa, che l’elemento caratterizzante la cessione del contratto è rappresentato dall’oggetto del trasferimento, consistente nel passaggio di titolarità della situazione giuridica incastonata nel preesistente accordo. È allora possibile scorgere i tratti distintivi della cessione qualora sia stata negoziata la partecipazione al contratto non sostanziantesi in una mera posizione di 65 Anche la magistratura di legittimità condivide l’accostamento del riscatto alla condizione risolutiva di matrice potestativa: cfr. Cass., sez. trib., 18 novembre 2011, n. 24252, in Giust. civ., 2012, I, p. 2089; Cass. 13 dicembre 1994, n. 10648, in Mass. Giust. civ., 1994; Cass. 3 novembre 1979, n. 5705, ivi, 1979; Cass. 16 maggio 1975, n. 1895, in Giur. it., 1976, I, 1, c. 1589; Cass. 12 aprile 1958, n. 1300, in Mass. Giur. it., 1958. Sempre sul fronte del diritto giudiziale, la differenza tra riscatto, che di per sé non estingue la vendita, e pattuizioni di altra natura le quali hanno viceversa vocazione risolutiva, emerge con particolare chiarezza in un precedente ove si dibatteva se rientrasse nella fattispecie di cui all’art. 1500 c.c. la clausola attribuente al dante causa la potestà di estinguere il contratto dietro pagamento di una multa penitenziale (art. 1373, 3° comma, c.c.): v. Cass. 25 gennaio 1992, n. 812, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 48. 66 Cfr. A.C. PELOSI, La proprietà risolubile nella teoria del negozio condizionato, cit., p. 358.

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credito o di debito. Ad esempio, se il venditore, il quale abbia già ricevuto il pagamento del prezzo, cede il contratto non trasferisce semplicemente il credito, ma dispone della situazione soggettiva di parte, con la conseguenza che il subentrante risponderà degli eventuali vizi e difetti materiali o giuridici. Il cessionario diventa cioè la controparte dell’acquirente, sebbene questi abbia già eseguito la propria prestazione corrispettiva 67. Secondo l’orientamento della magistratura la partecipazione al contratto per opera del venditore cui spetti il diritto di riscatto, avendo natura personale, sarebbe incedibile inter vivos all’infuori del negozio di cui all’art. 1406 c.c. Viene pertanto ripudiata l’autonomia del patto di riscatto, con il risultato che esso non potrebbe circolare disgiuntamente dalla suddetta partecipazione 68. A supporto di quanto precede si fa notare che il trasferimento di proprietà verrebbe altrimenti a perfezionarsi, in virtù del riscatto, fra compratore e terzo senza che il primo abbia assunto alcun obbligo nei confronti di quest’ultimo 69. Detta interpretazione non riesce a convincerci. Sembra anzitutto priva di fondamento la congettura che il patto di riscatto avrebbe natura personale, essendo dunque inseparabile dalla posizione di venditore 70. Questi è libero di cedere il diritto potestativo su cui stiamo riflettendo perché, come si è cercato di dimostrare, il suo esercizio non produce la risoluzione del contratto, ma importa esclusivamente la retrocessione dell’oggetto trasferito ed il consequenziale annientamento, per assenza di causa, dei diritti derivanti dalla compravendita inscindibilmente legati allo scambio del bene. Il terzo riscattante non s’intromette nel rapporto di vendita esercitando potestà implicanti la qualità di parte, ma si avvale soltanto di una potestà che trae origine da un patto accessorio il cui esercizio non sembra esigere la qualità di dante causa. Tra vendita e clausola di riscatto intercede un collegamento governato dall’autonomia dei privati 71; come le parti sono libere di modificare la vendita risol67 Cass. 2 giugno 2000, n. 7319, in Contr., 2000, p. 977 ss., con nota di F. BESOZZI, La cessione del contratto ad effetti reali, ivi, p. 979 ss., cui rinviamo per ogni riferimento; v. anche Cass., sez. trib., 18 novembre 2011, n. 24252, già cit. 68 Cass. 24 settembre 1979, n. 4921, in Giust. civ., 1980, I, p. 662 ss., con nota critica di M. COSTANZA, Sulla cessione del patto di riscatto, ivi, p. 665 ss. Contra, tuttavia, Cass. 16 maggio 1975, n. 1895, cit. supra, nota 65. 69 Cass. 24 maggio 1979, n. 2999, in Foro it., 1979, I, c. 2629 ss., con nota di A. JANNARELLI, Sulla cessione del diritto di riscatto, ivi, e in Riv. dir. comm., 1979, I, p. 245 ss., con nota di B. CARPINO, Sulla cedibilità del diritto di riscatto, ivi. 70 Cfr. M. COSTANZA, Sulla cessione del patto di riscatto, cit., p. 666 ss.; R.T. TROPLONG, De la vente, cit., p. 331. 71 Cfr. J. LIMPENS, La vente en droit belge, cit., p. 742; sulla natura del patto di riscatto come convenzione accessoria alla vendita già concordava H. DERNBURG, Pandekten, III, 7. Aufl., Berlin, 1903, p. 261. Diversa è la soluzione accolta nel § 1070 ABGB: tale disposizione decreta la natura rigorosamente personale del patto escludendone la trasmissione per atto tra vivi o a causa di mor-

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vendo consensualmente il patto di riscatto (ossia troncando detto collegamento volontario), così il titolare del diritto potestativo (alienante) può trasferirlo per atto tra vivi senza che ciò cagioni la novazione soggettiva del sottostante accordo traslativo. L’indipendenza genetica (o causale) del contratto di scambio rispetto al retratto convenzionale permette di scindere ex uno latere (ossia al di fuori dell’istituto ex art. 1406 c.c.) la posizione di parte (scil. venditore) da quella di semplice titolare della potestà 72. Questa lettura non è smentita dal rilievo che tra patto di riscatto e vendita si possa configurare, tenuto conto delle specificità della singola situazione litigiosa, un collegamento orizzontale anziché piramidale 73. A completamento del discorso è utile segnalare che l’alienante, il quale trasferisca al terzo – prima del riscatto o dello spirare del termine fissato per il suo esercizio – l’identica cosa già ceduta all’originario compratore, dispone di un bene altrui perché all’epoca del secondo scambio era privo del diritto di proprietà. Esercitando efficacemente il riscatto tale venditore assolverà l’obbligazione traslativa assunta nei confronti dell’acquirente «ulteriore» grazie al doppio trasferimento automatico che ne consegue (dal primo compratore al venditore e, scintilla iuris, da questi al terzo); in caso contrario suddetta obbligazione dovrà essere adempiuta attraverso il riacquisto del bene consolidatosi nella sfera patrimoniale del primo avente causa, oppure inducendo il compratore a trasferirlo solvendi causa al terzo 74. A prescindere da ogni altro rilievo, una cosa è la vendita del bene altrui, altra la cessione del diritto di riscatto: nei casi dubbi occorrerà verificare ciò che le parti hanno effettivamente voluto, non essendo possibile equiparare in modo aprioristico la circolazione autonoma del patto di riscatto alla vendita di res aliena. Va da sé che coloro i quali, in senso opposto, ravvisino l’inscindibilità del riscatto dovrebbero ritenere conseguentemente nulla l’intesa concernente la sua cessione stante l’impossibilità giuridica dell’oggetto. te. Per altro verso, la medesima circoscrive la possibilità di concordare il riscatto agli immobili a causa delle limitazioni alla libera circolazione della ricchezza che esso genera. Cfr. T. MAYERMALY, Beobachtungen und Gedanken zum Wiederkauf, cit., p. 429, il quale osserva che nel sistema austriaco il riscatto può essere esercitato dal venditore (ove sia una persona fisica) vita natural durante, salvo patto contrario. La morte del venditore segna l’estinzione del diritto in esame ancorché sia stato pattuito a favore del terzo: si veda P. APATHY, sub § 1070, in H. KOZIOL-P. BYDLINSKI-R. BOLLENBERGER (Hrsg.), ABGB Kommentar, Wien-New York, 2005, p. 1088. 72 Cfr. D. BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, cit., p. 296 ss.; R.T. TROPLONG, De la vente, cit., p. 331; K.S. ZACHARIAE VON LINGENTHAL, Manuale del diritto civile francese, cit., p. 495. 73 Beninteso, le parti possono a priori troncare ogni discussione sul punto concordando l’inscindibilità del patto dalla vendita cui accede. 74 Su questo tema sia consentito rinviare a R. CALVO, Contratti e mercato, 2a ed., Torino, 2011, p. 23 ss.

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Chi accetta il ragionamento sviluppato in queste pagine non ha difficoltà a confermare l’erroneità dell’argomentazione che così suona: «se si ammettesse la cessione del diritto di riscatto, non potendo la proprietà del bene essere trasferita direttamente al terzo in conseguenza della sua dichiarazione di riscatto – in quanto questa, determinando il solo scioglimento del contratto di compravendita, avrebbe il limitato effetto di fare riacquistare la proprietà del bene al venditore –, dovrebbe riconoscersi l’obbligo del compratore a prestarsi alla cessione della proprietà del bene al terzo, il che è inconcepibile non avendo egli assunto tale impegno contrattuale» 75. È invece vero il contrario, ossia – torna utile rinnovare alla memoria – che l’esercizio del diritto di riscatto non determina ex se la risoluzione (o altra vicenda estintiva) della compravendita 76, la quale non soltanto ha giustificato pleno iure il trasferimento provvisorio (che dà luogo, come già rilevammo, ad una proprietà «instabile»), ma costituisce nello stesso istante la fonte mediata del diritto potestativo legittimante l’eventuale retrocessione (non potendo sopravvivere il patto di riscatto alla «caducazione» della vendita cui accede: simul stabunt, simul cadent). La cessione di tale diritto, allorché non sia stata convenzionalmente esclusa, implica la separazione della posizione di venditore da quella di titolare del diritto potestativo 77; si tratta di un effetto che non trova alcun limite nel nostro ordinamento essendo, per l’appunto, da dimostrare l’inscindibilità del retratto volontario dalla vendita 78. 75

Cass. 20 dicembre 1988, n. 6963, in Nuova giur. civ. comm., 1989, I, p. 759 ss., con nota di N. CANESSA, Vendita – Patto di riscatto, ivi, 762 ss.; nella stessa direzione cfr. Cass. 24 maggio 1979, n. 2999, cit. supra, nota 69. 76 Non è sindacabile che tale potere presupponga la qualità di parte. 77 Cfr. O. VON GIERKE, Deutsches Privatrecht, cit., p. 498. 78 In senso conf. v. B. CARPINO, Sulla cedibilità del diritto di riscatto, cit., p. 251, secondo cui «se il diritto di riscatto deve essere qualificato come diritto (astratto) all’acquisto della proprietà, non si vede perché non debba esserne possibile il trasferimento. Il terzo acquirente sarà, pertanto, titolare della situazione-mezzo che gli consentirà, in caso di esercizio della medesima, di ottenere la produzione dell’effetto cui quella situazione è preordinata, vale a dire l’acquisto della proprietà del bene venduto con patto di riscatto»; A. LUMINOSO, La vendita con riscatto, cit., p. 333 ss., il quale, coerentemente, ammette il patto di riscatto a favore del terzo (ivi, p. 337 ss.); cfr. inoltre C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, cit., p. 669. G. WALTER, Kaufrecht, Tübingen, 1987, p. 604, ravvisa nella specie gli estremi del contratto pro terzo, di modo che questi, attraverso la dichiarazione di riscatto, diventa creditore del diritto (e non già soltanto di un’aspettativa) al trasferimento del ius in re, e – nello stesso tempo – debitore del prezzo (v. anche P. MADER, sub § 456, cit., p. 534; H.P. WESTERMANN, sub § 456, cit., p. 411). La posizione di vantaggio del terzo è suscettibile di limitazione indiretta ove da essa derivino, tenuto conto dello statuto regolante l’oggetto della promessa, oneri giuridici o fiscali. Ad esempio, il vantaggio può concretarsi nel trasferimento al terzo di un diritto reale immobiliare implicante, per l’appunto, la nascita di obblighi tributari o di obbligazioni propter rem. In ogni caso, a noi pare corretto evitare interpretazioni eccessivamente restrittive dell’art. 1411 c.c. siccome il beneficiario è sempre libero di rifiutare l’attribuzione pa-

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6. La pattuizione ex post Continuando a percorrere il sentiero appena tracciato, la tesi del collegamento volontario (scil. scindibile) offre la possibilità di trasformare la vendita semplice in vendita arricchita dal riscatto 79. Coloro i quali propendono per la negativa affermano che nella rappresentata ipotesi il patto verrebbe ad assumere le sembianze della mera promessa di retrovendita priva di efficacia reale (e quindi accostabile al preliminare unilaterale) 80. trimoniale qualora intenda svincolarsi dalle evocate prestazioni. Utili indizi possono essere tratti dal contratto di trasporto: oltrepassata l’idea secondo cui i diritti del destinatario contro il vettore sorgono per effetto di una cessione (fittizia) tra il primo ed il mittente, l’interpretazione dominante inquadra la fattispecie ex art. 1689 c.c. nella categoria del contratto a favore del terzo. Per rovesciare quest’orientamento non vale obiettare che c’è incompatibilità tra contratto a favore di terzo e disciplina ex art. 1689 cpv. c.c. Vero difatti è che «l’attribuzione al beneficiario di diritti condizionati all’adempimento di determinati oneri non è affatto in contrasto con la struttura del contratto a favore di terzi»: A. ASQUINI, Del contratto di trasporto, 5a ed., in Cod. comm. commentato, diretto da Bolaffio e Vivante, Torino, 1925, p. 131. Contro l’interpretazione che precede v. tuttavia L.V. MOSCARINI, Il contratto a favore di terzi, 2a ed., in Cod. civ. Comm., fondato da Schlesinger, diretto da Busnelli, Milano, 2012, spec. p. 118. In senso similmente contrario cfr. R. LUZZATTO, La compravendita, cit., p. 440; S. ROMANO, Vendita. Contratto estimatorio, cit., p. 203; nonché Cass. 18 luglio 1953, n. 2386, in Giur. it., 1953, I, 1, c. 974. Anche la letteratura tedesca non nutre dubbi in merito alla cedibilità (inter vivos o mortis causa) del patto: si veda, ad esempio, E. BARRE, Bürgerliches Gesetzbuch und Code civil, 2. Aufl., Berlin, 1897, p. 152; P. MADER, sub § 456, cit., p. 524; A.J. MUSIELAK, Grundkurs BGB, 5. Aufl., München, 1997, p. 99; C. STALLBERG, sub § 456, in T. HOERENM. MARTINEK (Hrsg.), Systematischer Kommentar zum Kaufrecht, Recklinghausen, 2002, p. 484. 79 C.M. BIANCA, La vendita e la permuta, cit., p. 647; F. BOCCHINI, Vendite con contenuti speciali, cit., p. 682; S. ROMANO, Vendita. Contratto estimatorio, cit., loc. cit. Occorre nondimeno essere consapevoli che la tesi appena esposta va incontro alla critica secondo cui il patto sopravvenuto rischia di snaturare la già esaminata ratio economico-giuridica della vendita in esame, come avverte J. HUET, Les principaux contrats spéciaux, cit., p. 408. Sennonché, il sopravvenuto interesse del compratore a riacquisire la proprietà tramite il retratto convenzionale non sembra rappresentare un ostacolo insormontabile all’ammissibilità del patto aggiunto. Eventuali abusi possono essere contrastati con gli strumenti di diritto comune (nullità, azione revocatoria). È controverso se il termine legale per l’esercizio del diritto potestativo debba nella specie risalire sempre alla compravendita, oppure se decorra dal perfezionamento dell’accordo modificativo. A noi pare più corretta la prima soluzione, anche in considerazione del fatto che l’opposta idea potrebbe sostanziarsi in un grave pregiudizio a scapito del compratore, specie se medio tempore si sia verificata una rilevante perdita del potere di acquisto della moneta, assodato che l’obbligazione di pagamento ex art. 1503 c.c. è di valuta, dovendo quindi detto stipulante sopportare il rischio dell’inflazione, fatta eventualmente salva la possibilità di far ricorso alla teoria della presupposizione o del fondamento negoziale (cfr. P. MADER, sub § 456, cit., p. 539; C. STALLBERG, sub § 456, cit., p. 489; contra: D. RUBINO, La compravendita, cit., p. 1052, secondo cui il venditore non può invocare il rimedio ex art. 1467 c.c.; Cass. 26 maggio 1954, n. 1693, in Mass. Giur. it., 1954). Sulla natura di tale obbligazione si veda, in senso analogo, Cass. 24 febbraio 1951, n. 466, in Mass. Foro it., 1951; Cass. 5 aprile 1954, n. 1056, ivi, 1954; Cass. 16 marzo 1962, n. 1089, in Foro it., 1962, I, c. 1289. 80 F. DEGNI, La compravendita, cit., p. 144; A. DE MARTINI, Profili della vendita commerciale e

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Eppure – approssimandoci alla conclusione del nostro lavoro – l’art. 1500 c.c. non sembrerebbe tributare al requisito della contemporaneità la caratteristica di tassello costitutivo della fattispecie. Il problema, casomai, consiste nel verificare se il patto successivo abbia o no finalità elusiva o abusiva 81. Ma è evidente che il problema si sposta dalla discussione intorno agli essentialia negotii a quella sui profili degenerativi della fattispecie.

del contratto estimatorio, cit., p. 328; L. FERRI, Trascrizione immobiliare, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1967, p. 293; C.L. GASCA, Trattato della compra-vendita civile e commerciale, cit., p. 1037; E. GIANTURCO, Contratti speciali, cit., p. 135 ss.; P. GRECO-G. COTTINO, Vendita, cit., p. 339; R. LUZZATTO, La compravendita, cit., p. 425 ss.; E. PACIFICIMAZZONI, Trattato della vendita, cit., p. 151 ss.; D. RUBINO, La compravendita, cit., p. 1034; A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 37a ed., Padova, 1997, p. 730. V. inoltre S. ROMANO, Vendita. Contratto estimatorio, cit., p. 202. Nello stesso senso cfr. F. LAURENT, Principes de droit civil, cit., p. 371; J. LIMPENS, La vente en droit belge, cit., pp. 743 e 746; R.T. TROPLONG, De la vente, cit., p. 329. Sul fronte della letteratura tedesca domina l’idea secondo cui la vendita semplice possa essere trasformata in una vendita con riscatto per effetto del sopraggiunto accordo modificativo: si veda H. BROX, Besonderes Schuldrecht, cit., p. 72; W. FIKENTSCHER-A. HEINEMANN, Schuldrecht, cit., p. 458; O. VON GIERKE, Deutsches Privatrecht, cit., p. 498; U. KRESS, Lehrbuch des Allgemeinen Schuldrechts, München, 1929, p. 170; K. LARENZ, Lehrbuch des Schuldrechts, cit., p. 148; P. MADER, sub § 456, cit., p. 533; C. STALLBERG, sub § 456, in T. HOEREN-M. MARTINEK (Hrsg.), Systematischer Kommentar zum Kaufrecht, cit., p. 486; G. WALTER, Kaufrecht, cit., p. 604; T. ZERRES, Bürgerliches Recht, 5. Aufl., Berlin-Heidelberg-New York, 2005, p. 215. 81 Dal lato del diritto giudiziale prevale la tesi accreditante il requisito della necessaria contestualità: si veda Cass. 3 luglio 1980, n. 4254, in Mass. Giur. it., 1980; Cass. 39 aprile 1962, n. 848, in Giur. it., 1962, I, 1, c. 803, e in Foro it., 1962, I, c. 1808; Cass. 6 agosto 1953, n. 2670, in Mass. Giur. it., 1953. Si tende tuttavia ad ammettere che il patto possa essere racchiuso in un documento separato da quello incorporante la compravendita, purché tragga origine da un accordo unitario: cfr. Cass. 3 luglio 1980, n. 4254, in Mass. Giust. civ., 1980.

I PROFILI DI RILEVANZA FISCALE DEL CONTRATTO: SPUNTI DI RIFLESSIONE

di Andrea Carinci SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Profili metodologici: rilevanza e fattispecie tributaria. – 3. (segue) L’impiego in diritto tributario di figure civilistiche. – 4. La rilevanza del contratto nella configurazione della fattispecie impositiva: nell’imposta di bollo e nell’imposta di registro. – 5. (segue) Nell’imposta sul valore aggiunto. – 6. (segue) Nelle imposte sui redditi. – 7. Effetti giuridici ed effetti economici: il senso di un’alternativa e le ragioni di un fraintendimento.

1. Premessa La rilevanza del contratto nella configurazione della fattispecie impositiva costituisce un fenomeno proprio dei modelli impositivi delle economie più evolute e dinamiche. In quelle più arcaiche la tassazione colpiva semmai il contratto in quanto veicolo di circolazione della ricchezza, ma non anche quale strumento di sua produzione 1. Le attività di produzione della ricchezza, laddove tassate, lo erano in base a parametri medi e forfetari, che prescindevano dalla ricchezza effettivamente prodotta. Ne conseguiva, inevitabilmente, la naturale tendenziale irrilevanza del contratto ai fini impositivi 2. Il contratto inizia ad assumere rilevanza per le imposte sulla produzione della 1 Evidenziano il ruolo del contratto da strumento di circolazione a strumento di produzione della ricchezza, tra gli altri, E. DE MITA, Interesse fiscale e tutela del contribuente, in Riv. dir. trib., 1995, I, p. 43; S. CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, Padova, 1992, p. 33. 2 In epoca comunale, una qualche rilevanza del contatto si poteva rinvenire nella gabella contractum, che per sommi capi può essere assimilata ad un’imposizione sugli atti corrispondente all’ imposta di registro (era un’imposta svincolata dalla prestazione di un servizio pubblico, che si applicava in ragione del contenuto dell’atto mentre la base imponibile era individuata nel valore del contratto). Nell’imposizione diretta, invece, le collette (per capita o fumantes ovvero per solidum et libram) non colpivano la ricchezza effettivamente prodotta e si connotavano per una natura eminentemente patrimoniale (A. BERLIRI, L’Ordinamento tributario medioevale nella prima metà del XIV secolo nell’Opera di Bartolo di Sassoferrato, Ristampa dell’ed. del 1952, Milano, 1997).

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ricchezza man mano che queste, in un mutato quadro economico, vengono introdotte e quindi strutturate per colpire la ricchezza effettivamente prodotta. Ciò accade a partire dall’800, sebbene in un primo tempo in ragione di modelli impositivi incentrati ancora sull’impiego di estimi e, come tali, congeniati per colpire una ricchezza essenzialmente media ordinaria piuttosto che effettiva. Del resto, come osservato in dottrina, una retrospettiva storica sulla legislazione in materia di imposte dirette rende evidente un’«evoluzione in senso contrattuale del presupposto d’imposta», al punto che gli atti legislativi, intervenuti nel corso del tempo, ben «possono essere ordinati, secondo il duplice criterio dell’analiticità e della dipendenza dai tipi civilistici, in un climax ascendente, che va dai livelli minimi della legislazione di fine ottocento ai livelli massimi del Testo unico delle imposte sui redditi» 3.

2. Profili metodologici: rilevanza e fattispecie tributaria In via preliminare, sorge l’esigenza di precisare i termini dell’indagine che s’intende condurre, definendo i concetti e le categorie con cui procedere. Ebbene, volendo trattare di rilevanza del contratto in seno alla fattispecie tributaria, si pone innanzitutto di chiarire cosa intendere, rispettivamente, con i concetti di rilevanza e di fattispecie. Come noto, il termine fattispecie, dal latino medioevale facti species 4, è impiegato nel lessico giuridico quale sinonimo di fatto rilevante per il diritto, ossia di fatto giuridico. A tale riguardo, va poi rilevato come, superando le più risalenti elaborazioni, che identificavano la rilevanza giuridica del fatto nella sua idoneità a realizzare modificazioni di situazioni giuridiche (effetti giuridici) 5, le più moderne letture tendono a cogliere la giuridicità del fatto nella sua qualificazione ed assunzione in seno alla dimensione giuridica ad opera della norma. 3

Così S. CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, cit., p. 23 ss. Registra lo «sviluppo casistico, cioè contrattuale» della legislazione in esame anche G. TREMONTI, Autonomia contrattuale e normativa tributaria, in Riv. crit. del dir. priv., 1985, p. 514. 4 E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 2, nt. 2. Per un’ampia rassegna delle diverse soluzioni interpretative, cfr. A. CATAUDELLA, (voce) Fattispecie, in Enc. dir., 1967, XVI, p. 926 ss. L’argomento non è nuovo agli studi di diritto tributario; senza pretesa di completezza, si vedano A. PARLATO, Il responsabile d’imposta, Milano, 1963, p. 56 ss., L. FERLAZZO NATOLI, La fattispecie tributaria, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, vol. II, p. 53; A. GIOVANNINI, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, p. 215 ss. Sul tema, si consenta infine un rinvio a A. CARINCI, L’invalidità del contratto nelle imposte sui redditi, Padova, 2003, p. 3 ss., dove più ampi riferimenti bibliografici. 5 F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, p. 200; F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, V ed., Napoli, 1957, p. 87; S. PUGLIATTI-A. FALZEA, I fatti giuridici, Milano, 1996, p. 3.

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L’assunto di partenza è così la presa d’atto che la fattispecie giuridica costituisce, prima di tutto, un momento di elaborazione di un concetto normativo. Essa non rappresenta semplicemente «esplicazione di concetti dati», quanto piuttosto l’elaborazione di concetti ex novo 6. Il fatto naturale, promanante dalla realtà extragiuridica, non penetra nel diritto ma è nel diritto «come il diritto richiede che sia» 7: il fatto, insomma, non viene semplicemente recepito ed immesso nella realtà giuridica bensì elaborato e forgiato ad elemento di detta realtà. Consegue da ciò che il significato di una fattispecie deve essere colto, innanzitutto, nel processo di qualificazione 8 della realtà fattuale compiuto dalla norma, prima ancora che nella realizzazione degli effetti giuridici. Questi ultimi rappresentano, difatti, solo la soluzione congeniata dalla norma giuridica per trattare quella realtà, coerentemente con gli interessi di cui è portatrice e che hanno presieduto all’assunzione e qualificazione, in seno alla stessa, dei fatti espressi da detta realtà 9. Perno di tale ragionamento diviene così la categoria della rilevanza 10, utilizzata per identificare l’operazione di assunzione e mediazione delle istanze manifestate dalla realtà extragiuridica di riferimento, in ordine alla realizzazione di elementi della fattispecie ed in vista della predisposizione di risposte (gli effetti) ritenute dal Legislatore coerenti ed adeguate a quelle istanze 11. Un fatto, una vicenda, va considerato come giuridico non perché produce effetti, ma già e solo perché è rilevante per la norma giuridica e, come tale, costituisce elemento di una fattispecie. Solo quest’ultima è propriamente ordinata, nel suo complesso (ovvero, nella combinazione dei vari elementi rilevanti che la integrano), alla realizzazione di effetti. Si chiarisce così l’oggetto della presente indagine. Ciò che s’intende indagare diviene allora se e come il contratto, quale vicenda espressa dalla realtà di riferi6 N. IRTI, (voce) Rilevanza giuridica, in Nov.sso Dig. it., Torino, 1968, XV, p. 1105; ID., Teoria generale del diritto e problema del mercato, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 3. 7 N. IRTI, (voce) Rilevanza giuridica, cit., p. 1108; R. SCOGNAMIGLIO, Fatto giuridico e fattispecie complessa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, p. 350. Alle stesse conclusioni, in ambito tributario, è giunto anche E. DE MITA, La definizione giuridica dell’imposta di famiglia, Napoli, 1965, p. 32. 8 Così già H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, Torino, 1956, 3ª ed., p. 30, secondo il quale «la norma funziona così come schema qualificativo». 9 In via di estrema sintesi, è possibile raffigurare il fenomeno ipotizzando una sequenza articolata in tre momenti: fatto reale, fatto qualificato, effetti. Si tratta di momenti distinti ma tra loro connessi e proprio in ragione della norma giuridica: il fatto reale enuncia l’esigenza di una tutela (A. FALZEA, (voce) Fatto giuridico, in Enc. dir., 1967, XVI, p. 946), la qualificazione giuridica del fatto in seno alla fattispecie giuridica sottende all’impostazione del problema ai fini della tutela, l’effetto, infine, compie detta tutela (R. SCOGNAMIGLIO, Fatto giuridico e fattispecie complessa, cit., p. 354). 10 A. FALZEA, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939, p. 7. 11 R. SCOGNAMIGLIO, Fatto giuridico e fattispecie complessa, cit., p. 355.

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mento della fattispecie tributaria, viene assunto in seno alla medesima quale fatto rilevante 12; ciò, indipendentemente dalla realizzazione di effetti ma solo in quanto fattore in grado di condizionare la conformazione di detta fattispecie nonché il funzionamento/applicazione. Nell’ambito della fattispecie tributaria 13, poi, oggetto di indagine diviene segnatamente il presupposto, concepito come «il fatto o la circostanza fattuale nella quale si compendia o per il cui tramite si disvela la situazione… assunta dal legislatore, nel suo riferimento ad un dato soggetto, quale titolo giustificativo dell’imposizione a carico di costui» 14. Come il fatto che partecipa, in concorso con altri, alla configurazione della fattispecie tributaria, indagato però non in ragione della produzione di effetti, bensì in quanto risultato di una qualificazione normativa volta a selezionare ed individuare le ragioni dell’imposizione 15.

3. (segue) L’impiego in diritto tributario di figure civilistiche Per trattare di rilevanza del contratto in seno alla fattispecie impositiva occorre poi – con ogni evidenza – risolvere l’ulteriore questione preliminare del senso e delle ragioni dell’impiego, da parte del diritto tributario, di figure e nozioni ad esso esogene, come nel caso del contratto di matrice civilistica. La questione si presenta in una duplice prospettiva. Innanzitutto, sul piano terminologico. Va verificato difatti se le espressioni contratto, elementi del contratto ed effetti del contratto debbono essere intese in diritto tributario nella medesima accezione, che è propria della branca del diritto di provenienza, o, al contrario, interpretate in modo affatto peculiare. 12

Ha dedicato particolare attenzione alla possibilità di recepire il concetto di rilevanza del fatto giuridico negli studi di diritto tributario, L. FERLAZZO NATOLI, La rilevanza del fatto in diritto tributario, in Studi in onore di V. Uckmar, Padova, 1997, Tomo I, p. 445. Riconosce l’utilità della contrapposizione tra rilevanza ed efficacia, seppur essenzialmente sul piano logico di comprensione astratta del fenomeno giuridico, A. GIOVANNINI, Soggettività e fattispecie impositiva, Padova, 1996, p. 232. 13 Concepita qui in una prospettiva statica, secondo un approccio di tipo fenomenologico (cfr. A. PARLATO, Il responsabile d’imposta, Milano, 1963, p. 58; A. FANTOZZI, La solidarietà nel diritto tributario, Torino, 1968, p. 5; S. LA ROSA, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1968, p. 152. Ha evidenziato l’inscindibile collegamento tra studio della fattispecie in ambito tributario e studio della fattispecie giuridica in sede di teoria generale L. FERLAZZO NATOLI, La fattispecie tributaria, in AA.VV., Trattato di Diritto tributario diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, II, p. 53). 14 P. RUSSO, L’obbligazione tributaria, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, vol. II, p. 19. 15 Come osserva G. CONSO, Il concetto e le specie d’invalidità, Milano, 1955, p. 20, «per i fatti giuridici che compongono una fattispecie complessa... ciascuno di essi, preso in sé e per sé, non produce effetti, nemmeno qualora sia perfetto: in questo senso, il fatto è solamente idoneo a produrne, cioè... meramente rilevante».

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A tale riguardo è stato osservato che il Legislatore fiscale, laddove utilizza una figura civilistica, può assumerla con il medesimo significato e valore del settore di provenienza, come pure, per soddisfare esigenze peculiari al settore di impiego, integrarla se non, addirittura, riqualificarla. Non è neppure escluso, peraltro, che il Legislatore fiscale si limiti a mutuare la figura civilistica nella sua mera valenza terminologica 16. In definitiva, va scartata ogni soluzione ispirata alla specialità del diritto tributario con una presunzione pro o contro la «costanza terminologica» 17. Si deve condurre invece un’esegesi del dato normativo attraverso gli ordinari canoni ermeneutici valevoli per ogni branca del diritto 18, verificando di volta in volta, alla stregua dei criteri filologici e teleologici dettati dall’art.12 delle preleggi, come le espressioni di origine esogena per il diritto tributario sono utilizzate dalla specifica disposizione tributaria. Sotto una differente prospettiva, il problema investe il senso e la portata dell’utilizzo ad opera della norma tributaria di figure estranee al diritto tributario. In questo caso si tratta di chiarire se nella fase di costruzione di una fattispecie incentrata sul contratto sia richiamato il fatto storico/materiale, che ha occasionato l’intervento qualificatore della norma civilistica, o, piuttosto, il concetto che, in ragione di detto intervento, quest’ultima ha elaborato. Il dubbio che occorre risolvere – in altri termini – è se la norma tributaria, rinviando al contratto, intenda utilizzare la figura di diritto civile quale mera «rappresentazione ellittica della realtà» 19 da disciplinare, oppure – di contro – per assumere quale realtà di riferimento proprio quella che risulta dal processo di concettualizzazione condotto dalla norma civilistica 20. Ebbene, secondo l’insegnamento tradizionale, il rapporto giuridico di diritto civile è assunto dalla norma tributaria, nella configurazione della fattispecie impositiva, quale mero dato di fatto 21. La norma tributaria, nel cogliere il contratto quale espressione dei presupposti di tassazione, non ne recepirebbe quindi la disciplina predisposta dal diritto civile, ma si limiterebbe ad adottarlo quale mero fatto compiuto. 16

F. BOSELLO, La formulazione della norma tributaria e le categorie giuridiche civilistiche, in Dir. prat. trib., 1981, I, p. 1434. 17 S. CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, cit., p. 117. 18 A. D. GIANNINI, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, p. 39. 19 S. CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, cit., p. 92. 20 La qualificazione operata da una norma giuridica comporta una concettualizzazione della realtà empirica (in questo senso N. IRTI, (voce) Rilevanza giuridica, cit., p. 1104, che parla espressamente di «concettualizzazione della realtà»; nonché, A. GIOVANNINI, Soggettività e fattispecie impositiva, Padova, 1996, p. 65). 21 A. D. GIANNINI, I concetti fondamentali del diritto tributario, cit., 163; R. LUPI, Elusione fiscale: modifiche normative e prime sviste interpretative, in Rass. trib., 1995, p. 412.

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Sennonché, tale insegnamento non risolve il problema ma, semmai, riesce fuorviante. Appare certamente utile richiamare a tale proposito quell’attenta dottrina che ha osservato non esistere «un fatto reale contrapposto alla rappresentazione che di esso ne faccia la legge civile» né «concetti “economici” di “vendita” e di “impresa”, concetti pregiuridici che costituiscano parametro e della legge civile e della legge tributaria» 22. Questo perché, così argomentando, questa dottrina è giunta a concludere – in termini assolutamente condivisibili – che la norma tributaria, allorché fa ricorso a categorie e figure del diritto civile, non intende riqualificare il fatto empirico ad esse sotteso, quanto assumere la realtà fattuale «proprio in quella forma già mediata giuridicamente» 23. Si è così suggerito di parlare di rapporto di presupposizione tra diritto civile e diritto tributario 24, proprio per evocare la configurabilità di un legame più intenso della mera costanza terminologica tra diritto civile e diritto tributario. Non si tratterebbe quindi più di assegnare semplicemente ad un’espressione il medesimo significato rivestito nella branca giuridica di provenienza, quanto di riconoscere che la realtà colta dalla norma tributaria è già e solo quella già qualificata dalla norma civile, attraverso le figure giuridiche dalla prima richiamate 25. L’esito di un tale percorso identifica la realtà di riferimento della norma tributaria nella concettualizzazione della realtà extragiuridica operata dal diritto civile. Questo significa che l’impiego di figure ed istituti civilistici da parte della norma tributaria deve allora essere concepito come precisa opzione del Legislatore tributario di demandare alla norma civilistica l’individuazione dei fatti della realtà storica cui dare rilevanza ai fini fiscali. Con l’ulteriore conseguenza di dover poi interpretare detta realtà con gli strumenti, nei limiti e nei modi che sono propri della disciplina (quella civilistica), che ha condotto l’originaria qualificazione normativa della realtà fenomenica materiale 26. 22 DE MITA, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, cit., p. 154; in termini corrispondenti, anche G. GAFFURI, I redditi diversi, in Dir. prat. trib., 1979, I, p. 769, il quale osserva che «qualsiasi fenomeno, interessante l’economia, è anche un fatto giuridico»; F, GALLO, Tassazione delle attività finanziarie e problematiche dell’elusione, in Rass. trib., 1994, p. 190; R. LUPI, L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali, in Rass. trib., 1994, p. 227. 23 S. CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, cit., p. 81. 24 G. TREMONTI, Autonomia contrattuale e normativa tributaria, cit., 1985, p. 511; S. CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, cit., p. 65. 25 Così E. DE MITA, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, cit., p. 153, secondo il quale «una volta scelta la norma civilistica, non vi è una realtà economica diversa da quella espressa, che riemerga nell’interpretazione della legge tributaria, fino alla vanificazione dell’espressione civilistica». 26 Ovviamente, sempre ed in quanto non risulti che la legge tributaria abbia inteso prevedere diversamente, riqualificando ai propri fini la realtà empirica evocata semplicemente con il richiamo alle categorie civilistiche; così E. DE MITA, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, cit., p. 154 ss., ad avviso del quale «…la priorità del diritto civile non è assoluta ma solo «logica e

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4. La rilevanza del contratto nella configurazione della fattispecie impositiva: nell’imposta di bollo e nell’imposta di registro Così inquadrato il piano di indagine, come pure gli strumenti metodologici che s’intendono impiegare, si può procedere ad indagare se e come il contratto costituisca vicenda oggetto di qualificazione nella configurazione delle differenti fattispecie tributarie e, qui, dei relativi presupposti d’imposta 27. Tradizionalmente, si sono individuati due ipotesi di rilevanza del contratto in seno alla fattispecie impositiva 28. Viene in esame, innanzitutto, l’imposta di bollo, di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642. Tale imposta si applica su atti e documenti indicati nella tariffa allegata (art. 1), per il semplice fatto di essere formati nello Stato (c.d. fin dall’origine) ovvero in caso d’uso, cioè in quanto presentati per la registrazione (art. 2). Ai sensi dell’art. 1, Tariffa parte I, poi, l’imposta di applica agli atti rogati, ricevuti o autenticati da notai, indipendentemente dal tipo e, conseguentemente, dagli effetti che vi sono riconnessi, nonché alle scritture private (art. 2, Tariffa, parte I) contenenti convenzioni con le quali si creano, si modificano, si estinguono, si accertano ovvero si documentano rapporti giuridici di ogni specie 29. Dall’esame del dato positivo si evince che il contratto non rileva qui tanto per il contenuto ovvero per gli effetti ad esso riconducibili, quanto essenzialmente quale documento 30. Non è il contratto quale fattispecie giuridica, né tanto meno i suoi effetti, ad assurgere ad oggetto di qualificazione normativa, bensì esclusivamente la sua formalizzazione per iscritto 31. La dottrina ha parlato a tale proposito di principio documentale, per evidenziare come solo «la forma scritta del neprogrammatica», sicché vi possono essere norme espresse che interrompono il collegamento sovrapponendo «un’entità fiscale» alla realtà cristallizzata dal codice civile». 27 Come segnala DE MITA, La definizione giuridica dell’imposta di famiglia, cit., p. 35, non è possibile ricostruire un concetto aprioristico di fatto imponibile, ragione per cui occorre comunque far riferimento alla disciplina positiva di ciascuna imposta. 28 Il termine contratto può essere impiegato per indicare, a seconda dei casi, il testo, il precetto ovvero le vicende del rapporto (in tal senso R. SACCO, La nozione di contratto, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, vol. X, tomo II, Torino, 1995, p. 7 ss.). 29 In argomento, cfr. Codice delle leggi tributarie, (a cura di) A. Fedele-G. Mariconda-V. Mastroiacovo, Torino, 2014, p. 917 ss. 30 Secondo F. GASBARRI, sub art. 1, D.P.R. 26.10.1972, n. 642, in Codice delle leggi tributarie, cit., p. 919, nell’attuale versione dell’imposta di bollo, sebbene in via generale continui a non rilevare il contenuto proprio dell’atto, vi sono diverse ipotesi in cui l’applicazione dell’imposta dipende dal tipo di atto posto in essere. Motivo, questo, che induce l’Autore a suggerire di rivedere la tradizionale caratteristica di cartolarità dell’Imposta di bollo. 31 A. BERLIRI, La legge di bollo, Milano, 1953, p. 74, «non è il rapporto giuridico (la compravendita, il mutuo ecc.) o il fatto economico (scambio di ricchezza, trasferimento di merci ecc.) che viene preso in considerazione, ma solo il documento che contiene quel determinato negozio giuridico».

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gozio, astraendo completamente dalla sua efficacia e dalla sua validità» 32, assuma significato ai fini del prelievo. Un diverso modello di rilevanza del contratto è quello previsto invece per l’imposta di registro, di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131. Qui il presupposto 33 è realizzato da situazioni, vicende o rapporti rispetto cui il contratto non rileva più quale mero instrumentum, bensì quale gestum 34. In questo caso, insomma, il contratto rileva per gli effetti che lo stesso appare idoneo a realizzare, ancorché solo potenziali e non necessariamente attuali 35. Il differente rilievo che il contratto assume rispetto nelle predette imposte trova conferma, del resto, nella disciplina dedicata all’ipotesi in cui un medesimo documento comprenda una pluralità di convenzioni. Nell’imposta di bollo una tale vicenda non dà luogo all’applicazione di imposte diverse 36, diversamente da quanto accade con l’imposta di registro dove è prevista – in via di principio – una distinta applicazione dell’imposta per ciascuna convenzione 37. 32

A. BERLIRI, La legge di bollo, cit., 75; N. D’AMATI, (voce) Bollo (imposta di), in Dig. disc. priv., sez. comm., vol. II, 1987, p. 259. 33 La disciplina positiva si esprime, in verità, in termini di oggetto dell’imposta e non di presupposto, come rileva L. FERLAZZO NATOLI, Il fatto rilevante nel diritto tributario. Contributo allo studio del «presupposto di fatto del tributo», cit., p. 439 ss. 34 La rilevanza del contratto quale gestum e non già quale instrumentum costituisce una conclusione acquisita oramai da tempo; cfr. A. UCKMAR, La legge del registro, Padova, 1958, vol. I, p. 188; S. GHINASSI, Imposte di registro e di successione. Profili soggettivi ed implicazioni costituzionali, Milano, 1996, p. 2. 35 Il riferimento alla potenzialità degli effetti è imposto dall’art. 38 del D.P.R. n. 131/1986, ai sensi del quale «la nullità o l’annullabilità dell’atto non dispensa dall’obbligo di richiedere la registrazione e di pagare la relativa imposta», salvo il rimborso dell’imposta che ecceda la misura fissa, ove ricorrano date condizioni enunciate al successivo comma 2 (M.A. FERRARI, (voce) Registro (imposta di), cit., p. 10; A. URICCHIO, Art. 38, in N. D’AMATI, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, p. 247; V. UCKMAR-R. DOMINICI, (voce) Registro (imposta di), in Dig. disc. priv., sez. comm., 1996, vol. XII, p. 261). 36 Così l’art. 13 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642 (Facoltà di scrivere più atti sul medesimo foglio): «In ogni caso e con il pagamento di una sola imposta possono scriversi sul medesimo foglio: (omissis) 15) gli atti contenenti più convenzioni, istanze, certificazioni o provvedimenti, se redatti in un unico contesto». A tale proposito, è stato osservato che «la deroga di cui al n. 15 trova applicazione quando, in un medesimo atto, siano comprese più distinte stipulazioni o disposizioni, anche se indipendenti e non derivanti le une dalle altre e ciò ancorché nell’atto pubblico o nella scrittura privata intervengano più persone non collegate poi da rapporti contrattuali; ciò in virtù del principio che la legge di bollo ha riguardo esclusivamente alla forma estrinseca dell’atto, che resta unico ogni qualvolta sia redatto in un unico contesto e sotto la stessa data» (F. GASBARRI, sub art. 13, D.P.R. 26.10.1972, n. 642, in Codice delle leggi tributarie, cit., p. 940). 37 Ai sensi dell’art. 21, comma 1, del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Atti che contengono più disposizioni): «Se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto». L’Agenzia ha chiarito, a questi fini, che per disposizione si deve intendere «una convenzione nego-

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5. (segue) Nell’imposta sul valore aggiunto Accanto alle due soluzioni di rilevanza del contratto – in un certo senso tradizionali – offerte dalla disciplina dell’imposta di bollo e di registro, si possono poi rinvenire forme differenti di rilevanza del contratto nella configurazione del presupposto d’imposta. Ciò in particolare, con riferimento alla disciplina dell’IVA e delle Imposte sui Redditi. Qui, a rigore, non sembrerebbe poter assumere rilevanza il contratto; nella disciplina dei rispettivi presupposti parrebbero, in effetti, rilevare piuttosto le modificazioni della realtà giuridica, e quindi gli effetti giuridici, indipendentemente dalla circostanza di essere o meno riferibili ad un contratto. Sennonché, una più attenta considerazione del dato positivo induce ad una differente conclusione. Nel caso dell’IVA, in effetti, la rilevanza del contratto in seno alla fattispecie impositiva emerge in modo espresso già dalla definizione dell’elemento oggettivo 38. Le cessioni di beni, ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972, sono infatti individuate negli «atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere»: il riferimento agli atti a titolo oneroso sottintende, con ogni evidenza, la rilevanza dei contratti produttivi degli effetti considerati (costituzione/trasferimento di diritti reali di godimento). In misura ancora più marcata, infine, la rilevanza del contratto si evince nella definizione delle prestazioni di servizi, che l’art. 3 individua nelle «prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte» 39. Sennonché, si deve altresì osservare che una simile rilevanza del contratto rappresenta una soluzione affatto peculiare del regime nazionale rispetto a quello comunitario 40. La traduzione della disciplina comunitaria nel nostro ordinamenziale suscettibile di produrre effetti giuridici valutabili autonomamente, in quanto in sé compiuta nei suoi riferimenti soggettivi, oggettivi e causali» (Circ. n. 18/E del 29 maggio 2013). 38 Sul punto cfr. P. FILIPPI, L’imposta sul valore aggiunto, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, vol. IV, p. 221 ss.; R. LUPI, (voce) Imposta sul valore aggiunto (IVA), in Enc. giur. Treccani, 1989, p. 3 ss.; A. COMELLI, IVA comunitaria e IVA nazionale, Padova, 2000. 39 Né si può trascurare l’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 in tema di variazioni dell’imponibile e dell’imposta, da cui appare inevitabile evincere una rilevanza del contratto, quale fonte degli effetti giuridici integranti il presupposto dell’IVA, nella misura in cui è qui data rilevanza a quelle vicende patologiche del contratto in grado di condizionare la realizzazione di detti effetti; sul tema cfr. A. CARINCI, Le variazioni IVA: profili sostanziali e formali, in Riv. dir. trib., 2000, I, p. 726 ss.; M. BASILAVECCHIA, Le note di variazione, in AA.VV., L’Imposta sul valore aggiunto, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario diretta da F. Tesauro, Torino, 2001, p. 633. 40 Cfr. A. COMELLI, IVA comunitaria e IVA nazionale, cit., p. 547; P. FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto, in L’imposta sul valore aggiunto. Aspetti economici e giuridici, Atti del convegno Assonime-LUISS del 21 e 22 settembre 2009, p. 31.

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to è stata operata, infatti, per il medio delle figure contrattuali, che sono invece assenti nella definizione comunitaria, tanto di cessione di beni 41 quanto di prestazione di servizi 42. A ben vedere, il dato comunitario valorizza la mera realizzazione degli effetti rilevanti, trascurando, idealmente, la loro provenienza da un contratto/atto; diversamente da quanto accade nella versione nazionale. Questo non toglie, tuttavia, che anche nella versione comunitaria gli effetti rilevanti siano tali in ragione della loro derivazione da un’attività negoziale di un soggetto agente: in tal senso debbono difatti essere letti tanto il requisito dell’onerosità, comunque prescritto, quanto l’incidenza del profilo soggettivo, accanto a quello oggettivo, parimenti decisivo nella configurazione della fattispecie impositiva 43. Al contempo, però, è indubbio che la previsione comunitaria marca il solo profilo espresso dalla realizzazione di un dato assetto di interessi/effetti – nel senso che sono questi a stabilire il se ed il come dell’applicazione di questa imposta – trascurando la particolare conformazione della fonte degli stessi; di conseguenza, la fonte di detti effetti ben può essere un singolo atto/contratto quanto o piuttosto la combinazione di più atti/contratti 44. Quanto sopra porta così a concludere che per la disciplina comunitaria – cui va adeguata l’interpretazione di quella nazionale e, segnatamente, la rilevanza ivi accordata al contratto – il rilievo comunque riconosciuto alla vicenda negoziale realizzativa degli effetti qualificanti ai fini impositivi va interpretato individuando 41 L’art. 14 della Direttiva 2006/112/Ce del Consiglio del 28 novembre 2006 individua le cessioni di beni nel «trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario», con ciò palesando che a rilevare è solo l’effetto (trasferimento del potere) e non la fonte (ossia l’atto, come è nella versione italiana). 42 Ai sensi dell’art. 24 della Direttiva 2006/112/Ce «si considera “prestazione di servizi” ogni operazione che non costituisce una cessione di beni». 43 Così l’art. 2, lett. a), della Direttiva, ai sensi del quale sono soggette all’IVA «le cessioni di beni effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale»; di analogo tenore è poi la lett. c), riferita alle prestazioni di servizi. 44 Ciò appare evidente nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. Si veda, ad esempio, Corte di Giustizia del 27 giugno 2013, causa C-155/12, Minister Finansów c. RR Donnelley Global Turnkey Solutions Poland sp. z o.o., dove si afferma (punto 20): «dalla giurisprudenza della Corte emerge che, in determinate circostanze, più prestazioni formalmente distinte, che potrebbero essere fornite separatamente e dare così luogo separatamente a imposizione o a esenzione, devono essere considerate come un’unica operazione quando non sono indipendenti (sentenze del 21 febbraio 2008, Part Service, C-425/06, Racc. pag. I-897, punto 51, e del 27 settembre 2012, Field Fisher Waterhouse, C392/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 15)», ulteriormente chiarendo che (punto 21) «una prestazione deve essere considerata unica quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono così strettamente collegati da formare, oggettivamente, un’unica prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale (v., in tal senso, sentenze del 27 ottobre 2005, Levob Verzekeringen e OV Bank, C-41/04, Racc. pag. I-9433, punto 22, e Field Fisher Waterhouse, cit., punto 16)». Nello stesso senso, cfr. anche Corte di Giustizia, 13 marzo 2014, causa C464/12, ATP PensionService A/S, punto 58.

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nell’operazione, intesa quale possibile combinazione di più atti e contratti, e non nel singolo contratto la figura di riferimento oggetto di rilevanza in seno alla particolare fattispecie impositiva 45.

6. (segue) Nelle imposte sui redditi A conclusioni sostanzialmente corrispondenti a quelle cui si è giunti con l’imposta sul valore aggiunto è possibile pervenire anche con riguardo alle imposte sui redditi, seppure alla stregua di un percorso più articolato. Vero è che, in questo caso, il dato positivo non sembra far emergere profili di rilevanza del contratto nella definizione del presupposto, posto che, ai sensi dell’art. 1, del D.P.R. n. 917, del 22 dicembre 1986, il «presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6». Sennonché, in ragione del metodo casistico impiegato dal legislatore fiscale 46, non pare in discussione che le nozioni di reddito e di possesso, integranti il presupposto di detta imposta, vadano indagate al livello delle singole categorie di reddito richiamate dall’art. 6 47. In altri termini, ancorché il presupposto dell’imposta sui redditi sia integrato dal reddito complessivo, cui fa riferimento la definizione dell’art. 1 citato 48, non vi è dubbio che gli elementi oggettivo e soggettivo (reddito e possesso) del medesimo debbano essere ricercati in concreto nelle singole fattispecie tipizzate quali ipotesi di reddito nell’ambito delle diverse categorie 49. 45

Così G. FRANSONI, Il presupposto dell’imposta di registro fra tradizione ed evoluzione, in Rass. trib., 2013, p. 955, secondo il quale «È fuori discussione, infatti, che l’imposta sul valore aggiunto è orientata a conferire rilievo alle operazioni – anche a livello nominalistico: si pensi solo alle rubriche degli artt. 6, 10, 11, 21, D.P.R. n. 633/1972 nonché alle innumerevoli volte in cui la parola ricorre nel testo delle disposizioni (più di 30 nel solo art. 21, D.P.R. n. 633/1972) – termine che individua una porzione dell’agire negoziale degli operatori di mercato molto più ampio di quello di “atto”». 46 Cfr. E. DE MITA, La nozione giuridica di reddito, in Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi ed altri scritti, Studi in memoria di Antonio Emanuele Granelli, Milano, 1990, p. 15; F. GALLO, Tassazione delle attività finanziarie e problematiche dell’elusione, in Rass. trib., 1994, p. 190; G. TREMONTI, Autonomia contrattuale e normativa tributaria, p. 514. 47 R. RINALDI, L’evoluzione del concetto di reddito, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1981, I, p. 401; L. TOSI, La nozione di reddito, in AA.VV., Imposta sul reddito delle persone fisiche, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da F. Tesauro, Torino, 1994, tomo I, p. 3 ss.; M. MICCINESI (voce) Reddito delle persone fisiche (imposta sul), in Digesto delle discipline privatistiche, sez. comm., 1996, XII, p. 173; C. GLENDI, La nozione di reddito fiscale, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo Testo Unico, Padova, 1988, p. 127; L. PERRONE, Il reddito d’impresa: specificazioni, in AA.VV., Il reddito d’impresa nel nuovo Testo Unico, Padova, 1988, p. 131. 48 A. CARINCI, Il fattore temporale nell’imposta sui redditi: tra disciplina e definizione delle ipotesi categoriali e del reddito complessivo, in Riv. dir. fin. e sc. delle fin., 2000, I, p. 664. 49 Alle predette tipizzazioni è pacificamente riconosciuta la funzione sia di condizionare la de-

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Ebbene, proprio l’opzione del legislatore per un sistema di tipo casistico ha comportato un’esaltazione del ruolo del contratto nella configurazione del presupposto dell’imposta sui redditi. La rinuncia ad una nozione di possesso di reddito di portata generale, a favore di specifiche definizioni categoriali, ha di fatto comportato il proliferare di ipotesi categoriali costruite in massima parte avendo a riferimento proprio figure negoziali 50. Diversamente da quanto accade con l’imposta di registro, però, il contratto costituisce qui oggetto di qualificazione normativa in via solo mediata. Ai fini delle imposte sui redditi il contratto concorre alla definizione di talune ipotesi di reddito segnatamente in quanto strumento utile ad identificare l’oggetto della qualificazione normativa, integrato dalle modifiche della realtà rappresentate dagli effetti dello stesso 51. Sono gli effetti giuridici, infatti, ad essere propriamente assunti nella configurazione del reddito e del possesso, mentre il contratto riveste la funzione di fonte qualificata di detti effetti 52. Un’implicita quanto sicura conferma della correttezza di tale soluzione, utile altresì a precisarne la portata, è offerta dalla disciplina dedicata al contrasto dell’elusione fiscale in materia di imposte sui redditi. Per comune riconoscimento, invero, l’elusione costituisca un fenomeno largamente imputabile proprio all’impiego del metodo casistico nonché e, soprattutto, alla valorizzazione del contratto da parte del legislatore tributario 53. D’altra parte, se così non fosse, non si dovrebbe neppure porre un problema “elusione”, distinto ed ulteriore rispetto alle comuni questioni di accertamento della materia imponibile. Soprattutto, non si renderebbe necessaria, con specifico riguardo alle imposte sui redditi, una discifinizione di reddito, ovvero delle singole categorie di reddito (E. POTITO, Il sistema delle imposte dirette, Milano, 1989, p. 7) sia di delimitare l’ambito di ciò che deve e può essere assoggettato ad imposizione (G. TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, p. 54). 50 Così F. GALLO, Tassazione delle attività finanziarie e problematiche dell’elusione, cit., p. 190, che osserva: «l’impostazione casistica sembra… aver trasferito nel campo del diritto tributario e, in particolare, dell’imposizione sui redditi, i principi dell’intangibilità dell’autonomia negoziale e della libera creatività delle forme». In termini corrispondenti anche G. TREMONTI, Autonomia contrattuale e normativa tributaria, cit., p. 513 ss.; DE MITA, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, cit., p. 151; S. CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, cit., p. 42 ss. 51 Per la concezione degli effetti giuridici quale modificazione della realtà, tra gli altri, si vedano S. PUGLIATTI, La trascrizione, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1957, vol. XIV –1, t.1, p. 401 ss.; A. FALZEA, (voce) Efficacia giuridica, cit., p. 488 ss. 52 Per considerazioni in parte corrispondenti, N. D’AMATI, Introduzione. Le imposte sul reddito nel sistema tributario italiano, in N. D’AMATI (a cura di), L’imposta sul reddito delle persone giuridiche e l’imposta locale sui redditi, Torino, 1994, p. 67. 53 Così G. TREMONTI, Autonomia contrattuale e normativa tributaria, cit., p. 514; in termini che appaiono corrispondenti, R. LUPI, Elusione fiscale: modifiche normative e prime sviste interpretative, in Rass. trib., 1995, p. 411, ad avviso del quale «l’elusione comincia laddove finisce l’interpretazione».

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plina quale quella prevista dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, appositamente diretta a contrastare detto fenomeno 54. Ebbene, come noto, ai sensi dell’articolo richiamato, in presenza di determinate condizioni, l’amministrazione finanziaria può invocare l’inopponibilità di taluni assetti negoziali. A contrario, ciò induce ad concludere che, in difetto di simili condizioni, la stessa amministrazione non possa farlo, sull’ovvio presupposto che gli assetti negoziali siano ordinariamente ad essa opponibili 55. La portata argomentativa e sistematica della previsione è però un’altra ed è quella di consentire all’A.F. di svincolare la qualificazione normativa, sottesa alla configurazione del presupposto (possesso di reddito), dalla derivazione degli effetti rilevanti dai singoli contratti, come l’approccio casistico, che informa il sistema dell’imposizione sul reddito, parrebbe altrimenti imporre. Detto risultato è reso possibile permettendo, a certe condizioni, di valorizzare quale parametro di lettura delle vicende giuridiche significative ai fini dell’imposizione, non più il singolo contratto bensì l’operazione nel suo complesso di cui il contratto è mero “frammento” 56. In forza dell’art. 37 bis l’amministrazione finanziaria 57 è difatti 54

In argomento, senza alcuna pretesa di completezza, si veda A. LOVISOLO, (voce) Evasione ed elusione tributaria, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988; F. GALLO, Brevi spunti in tema di elusione e frode alla legge (nel reddito d’impresa), in Rass. trib., 1989, p. 11; P. PISTONE, Abuso del diritto ed elusione fiscale, Padova, 1995; E. NUZZO, Elusione, abuso dello strumento negoziale, fraudolenza, in Rass. trib. 1996, p. 1314; P.M. TABELLINI, (voce) Elusione fiscale, in Enc. dir., Aggiornamento, vol. III, 1999, p. 545; G. ZIZZO, Prime considerazioni sulla nuova disciplina antielusione, in M. MICCINESI (a cura di), Commento agli interventi di riforma tributaria, Padova, 1999, p. 435; D. STEVANATO, La norma antielusiva nei pareri del comitato per l’interpello, in Dir. prat. trib., 2002, I, p. 219; V. FICARI, Clausola generale antielusiva, art. 53 della Costituzione e regole giurisprudenziali, in Rass. trib., 2009, p. 390; S. LA ROSA, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 785; G. FALSITTA, Natura delle disposizioni contenenti “norme per l’interpretazione di norme” e l’art. 37 bis sull’interpretazione analogica o antielusiva, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 5199; V. MASTROIACOVO, L’economicità delle valide ragioni (note minime margine della recente evoluzione del principio dell’abuso del diritto), in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 449. Per una prospettiva comparata, A. DI PIETRO (a cura di), L’elusione fiscale nell’esperienza europea, Milano, 1999. 55 Come osserva M. NUSSI, Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi, in Riv. dir. trib., 1998, I, p. 506, «Resta quindi pacifico che, ordinariamente, la forma civilistica è espressiva della sostanza economica dell’affare». 56 Si tratta di una soluzione già auspicata in sede civilistica, dove si è preso atto di come la concezione tradizionale di contratto sia oramai inadeguata a rappresentare la realtà sostanziale dell’affare. Sul tema, ampiamente, E. GABRIELLI, Il contratto e le sue classificazioni, in Riv. dir. civ., 1997, p. 705; G. TARANTINO, Contratto autonomo di garanzia: causa e operazione economica, in I Contratti, 2009, p. 1106. 57 Che l’art. 37 bis introduca un potere riservato all’amministrazione finanziaria sembra una conclusione necessitata dal tenore stesso della norma; va rilevato, tuttavia, che la giurisprudenza maggioritaria e l’amministrazione finanziaria sono giunte a leggere in termini sostanziali la previsione in oggetto, sì da imporne l’applicazione anche al contribuente e da giustificare l’applicazione delle sanzioni nel caso di inadempimento; per una lettura critica di tale soluzione, si consenta

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abilitata ad interpretare l’operazione unitariamente e globalmente, superando la frammentazione derivante dalla distinta considerazione delle figure contrattuali singolarmente coinvolte 58. Detta previsione non implica però una modificazione dell’oggetto della qualificazione normativa sottesa alla definizione del presupposto dell’imposta. Questo, difatti, rimane in ogni caso la realizzazione di effetti (giuridici) integrante un’ipotesi categoriale (la disposizione elusa) di possesso di reddito, unico indice di capacità contributiva concretamente qualificato dalla disciplina positiva.

7. Effetti giuridici ed effetti economici: il senso di un’alternativa e le ragioni di un fraintendimento Acquisito che la rilevanza del contratto ai fini impositivi (nelle imposte sulla circolazione e produzione della ricchezza) è essenzialmente (fatta eccezione per l’imposta di bollo) dovuta alla circostanza di costituire fonte di effetti, dal momento che sono propriamente questi ultimi l’oggetto di qualificazione come fatto rilevante indice di capacità contributiva legittimante l’imposizione, si pone l’ulteriore questione della natura di detti effetti, nell’alternativa tra effetti c.d. giuridici ed effetti c.d. economici. Come noto, tale contrapposizione si è manifestata originariamente in tema di imposta di registro per essere però risolta, a favore degli effetti giuridici, anche in ragione delle modifiche apportate al dettato normativo 59. Almeno così si riteneva. In tempi recenti, difatti, detta contrapposizione si è riproposta e la conclusiodi rinviare a A. CARINCI, Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Dir. prat. trib., 2012, I, p. 785. 58 La Cir. n. 320/E del 19 dicembre 1997 individua, tra le ragioni dell’introduzione della nuova disposizione, la presa d’atto che «l’elusione si realizza solitamente non mediante un’unica operazione, bensì tramite una serie di atti tra loro coordinati»; nello stesso senso G. ZIZZO, Prime considerazioni sulla nuova disciplina antielusione, cit., p. 447; M. NUSSI, Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi, cit., p. 506. 59 Nel vigore del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, era sorto un vivace dibattito sulla natura degli effetti del contratto cui dare rilevanza ai fini dell’imposta di registro (A. UCKMAR, La legge del registro, cit., vol. I, p. 191; A. BERLIRI, Le leggi di registro, Milano, 1961, p. 141 ss.; L. RASTELLO, Il tributo di registro, Roma, 1955, 258; F. BATISTONI FERRARA, Atti simulati ed invalidi nell’imposta di registro, Napoli, 1969, p. 26.). Con gli artt. 19, D.P.R. n. 634/1972 prima e art. 20, D.P.R. n. 131/86, poi, il legislatore è però intervenuto precisando che gli effetti in questione sono solo quelli giuridici e non altri presunti economici (E. NUZZO, Modelli ricostruttivi della forma del tributo, cit., p. 34; B. SANTAMARIA, (voce) Registro (imposta di), in Enc. dir., vol. XXXIX, 1988, p. 542; R. PIGNATONE, L’imposta di registro, in AA.VV., Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, vol. IV, p. 167; M.A. FERRARI, (voce) Registro (imposta di), cit., p. 2; A. URICCHIO, Art. 20, in N. D’AMATI, La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, p. 178). Sul punto, cfr. G. MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, p. 244 ss.

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ne che si è venuta affermando è quella opposta, che induce a preferire gli effetti economici. Ciò, in particolar modo, presso la giurisprudenza di legittimità 60 e per effetto della dottrina del divieto dell’abuso del diritto quale clausola generale anti elusiva 61. Si può allora osservare che la contrapposizione tra effetti giuridici ed effetti economici trova fondamento nell’idea di una non perfetta identità tra realtà materiale/economica e realtà giuridica. Il che, alla stregua di quanto detto in precedenza, costituisce una conclusione quanto meno ovvia, posto che la prima (la realtà materiale/economica) è l’oggetto di un processo di qualificazione ed assunzione volto a realizzare la seconda (la c.d. realtà giuridica). Sicché, che per preferire gli effetti economici a quelli giuridici ai fini dell’applicazione delle diverse imposte occorrere dimostrare che solo i primi, e non i secondi, sono in grado di cogliere la reale capacità contributiva manifestata da una particolare vicenda. In verità, tale preferenza tradisce semplicemente una sorta di diffidenza verso il contratto, concepito quale espressione del dominio della volontà delle parti private. Sottintende, più in generale, una malcelata preoccupazione ad accordare spazi di rilevanza all’autonomia privata nella determinazione della situazione rilevante ai fini del prelievo fiscale. Tradizionalmente, infatti, la preferenza accordata agli effetti economici a scapito di quelli giuridici trova ragione nell’avvertita esigenza di sottrarre «alla volontà privata un potere creativo dell’obbligazione tributaria, in contraddizione con il principio fondamentale per cui è la legge la fonte del rapporto giuridico tributario» 62. Nasce da qui, essenzialmente, la convinzione che per cogliere la capacità contributiva occorre disattendere gli effetti giuridici, espressione della volontà delle parti, per valorizzare quelli economici, gli unici in grado di rappresentare le effettive modificazioni della realtà economico-sostanziale, non mediata giuridicamente, espressive delle esatte (secondo la Legge) ragioni e misura del concorso alle pubbliche spese 63. 60

Così, più di recente, Cass. 13 marzo 2014, n. 5877, dove si legge «l’autonomia contrattuale e la rilevanza degli effetti giuridici dei singoli negozi (e non anche di quelli economici, riferiti alla fattispecie globale) restano necessariamente circoscritti alla regolamentazione formale degli interessi delle parti, perché altrimenti finirebbero per sovvertire detti criteri impositivi»; in termini, anche Cass. 14 febbraio 2014, n. 3481; Cass. 19 marzo 2014, n. 6405; Cass. 4 maggio 2007, n. 10273. 61 Sul punto, limitandosi alle pronunce più recenti, che comunque ripetono i precedenti più risalenti, si vedano Cass. 13 marzo 2014, n. 5877; Cass. 26 febbraio 2014, n. 4604; Cass. 19 febbraio 2014, n. 3938; Cass. 15 novembre 2013, n. 25671. In dottrina, cfr. AA.VV. (a cura di G. Maisto), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009; G. FRANSONI, Appunti su abuso di diritto e “valide ragioni economiche”, in Rass. trib., 2010, p. 932; M. BEGHIN, L’abuso e l’elusione fiscale tra regole “scritte”, giustizia tributaria e certezza del diritto, in Corr. trib., 2012, p. 1298; G. ZIZZO, La giurisprudenza in materia di abuso ed elusione nelle imposte sul reddito, in Corr. trib., 2012, p. 101. 62 D. JARACH, Il fatto imponibile, Padova, 1987, p. 116. 63 Ancora D. JARACH, Il fatto imponibile, cit., p. 120 ss., che esprime il concetto parlando di «autonomia dogmatica» del diritto tributario.

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Si tratta di una soluzione indubbiamente suggestiva, che tuttavia non appare persuasiva per diverse ragioni. Innanzitutto, perché anche in diritto civile si è andata ridimensionando la concezione del contratto come affermazione della c.d. «signoria della volontà» 64. Poi e soprattutto, perché non si comprende come, contestando l’idoneità del contratto a costituire parametro per l’identificazione delle vicende significative ai fini del prelievo, si riesca a giustificarne il rilievo comunque accordato dalla disciplina positiva in sede di configurazione della fattispecie impositiva. Si ripropone la questione, esaminata in precedenza, del rapporto tra realtà empirica (economica), realtà concettualizzata dal diritto civile e fattispecie tributaria. Ebbene, preso atto che la disciplina positiva impiega il contratto per cogliere gli indici di capacità contributiva, per quanto visto sopra appare inevitabile concludere che la realtà di riferimento della norma tributaria sia (solo) quella concettualizzata dal diritto civile e che i predetti indici debbono essere ricercati alla stregua di quest’ultimo. D’altra parte, non sembra potersi mettere in discussione che il contratto, quale espressione di autonomia privata, sia idoneo a realizzare materia imponibile. Opinare diversamente significherebbe andare contro il dato positivo, che valorizza fortemente un simile ruolo del contratto. Non può essere messo in dubbio che sia nel potere dei privati decidere se, come e quando creare materia imponibile: anche volendo contenere la rilevanza del contratto alle modificazioni intervenute nella sola, ideale, realtà economica, si dovrebbe in ogni caso riconoscere che si tratta di modificazioni “volute” dai soggetti privati. Sono i soggetti privati, insomma, a decidere (volere) se, come, quando e quanta materia imponibile creare; ciò che a loro resta sottratta, semmai, è l’esatta ricognizione della stessa. Una volta “creata” la materia imponibile, l’integrazione del presupposto diventa, infatti, un fenomeno esclusivamente legale, sottratto, questo sì, alla libera disponibilità delle parti. Non occorre però invocare a questo fine una presunta realtà economica da contrapporre alla “forma” giuridica. Gli effetti del contratto, benché riconducibili all’accordo intervenuto tra le parti, non costituiscono il prodotto della loro volontà 65,

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Oltre alle note pagine di E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1955, p. 52 ss., più di recente M. BIANCA, Diritto civile, vol. III, Il contratto, Milano, 1998, p. 34 ss. 65 Come osserva E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 84, «è di competenza dei singoli determinare, nei rapporti tra loro, gli scopi pratici da raggiungere e le vie da seguire nel dare assetto ai propri interessi. È di competenza dell’ordine giuridico sceverare e valutare alla stregua di finalità generali le categorie di interessi e scopi pratici che i singoli sogliono perseguire, prescrivendo ai loro atti le modalità e i requisiti di validità e di efficacia e ricollegandovi situazioni giuridiche congrue, tali cioè da tradurre in atto con la massima approssimazione le funzioni sociali cui quegli scopi appartengono».

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perché è la legge che li ricollega al contratto, nel senso che il contratto produce gli effetti che la legge vi riconosce 66. Da ciò discendono due importanti corollari: il primo è costituito dalla vicenda dell’integrazione degli effetti del contratto, rispetto a quelli «programmati dalle parti», e quindi dall’ampliamento e/o rimodulazione degli effetti in virtù di quanto disposto dalla legge, dagli usi e dall’equità (art. 1374 c.c.) 67. Il secondo è integrato invece dall’interpretazione e dalla qualificazione del contratto 68, operazioni entrambe assoggettate ad una puntuale disciplina legislativa. Per opinione pressoché pacifica, l’interpretazione del contratto costituisce un’attività soggetta a criteri legali 69, dettati dal codice civile 70 e, come tali, sicuramente vincolanti 71. Lo stesso dicasi per la qualificazione del “fatto della vita” che dovrebbe esprimere un contratto, tanto da rendere non determinanti né il nomen iuris, eventualmente utilizzato dai contraenti 72, né l’esplicita indicazione degli effetti giuridici voluti 73. Da questi brevi cenni, si può argomentare per una sorta di oggettivazione del processo d’individuazione degli effetti del contratto 74 che, disciplinato com’è

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Non è il contratto la fonte diretta degli effetti, quanto la legge; cfr. E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 85; M. BIANCA, Diritto civile, cit., p. 19, nt. 63, nonché, più in generale, sul fenomeno di realizzazione degli effetti contrattuali, cfr. A. FALZEA, L’atto negoziale nel sistema dei comportamenti giuridici, in Riv. dir. civ., 1996, I, p. 36 67 F. MESSINEO, Contratto, Milano, 1961, p. 157; L. BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione del contratto, in Il Codice civile – Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1991, p. 23. 68 Su cui, senza pretese di completezza, L. BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione del contratto, cit.; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, Padova, 1990, vol. II, tomo 1, p. 377. 69 Come segnala F. MESSINEO, Contratto, cit., p. 166, «gli artt. 1362 ss. sono vere e proprie norme giuridiche»; in termini corrispondenti R. SACCO-G. DE NOVA, Il contratto, in Trattato di Diritto Civile diretto da Rodolfo Sacco, Torino, 1993, tomo II, p. 23, secondo cui «…il significato giuridicamente rilevante di quei segni (della dichiarazione contrattuale) viene prescelto dal diritto con il fatto stesso di prescegliere i canoni per l’interpretazione». 70 Taluni di questi palesemente diretti a cogliere il significato oggettivo del contratto (artt. 1366 e ss. del cod. civ.); sul tema, cfr. F. MESSINEO, Contratto, cit., p. 170. 71 L. BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione del contratto, cit., p. 32. 72 F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, cit., p. 386. 73 Come rileva E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, cit., p. 85, «l’indicazione di effetti giuridici che sia fatta direttamente dalle parti nello stesso tenore della dichiarazione, non basta a configurare quelli come contenuto del negozio. L’indicazione può valere solo come indice di valutazione di quegli effetti. Tale valutazione, riservata esclusivamente alla legge, è possibile anche in senso discrepante dall’aspirazione delle parti». 74 Sembra riconoscere all’operare dei criteri ermeneutici la funzione di fornire una «valutazione obiettiva e finale» del contratto, L. BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione del contratto, cit., p. 19.

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da precise regole giuridiche, rimane evidentemente sottratto all’arbitrio delle parti. Se questo vale in sede di teoria generale, altrettanto deve essere per la materia tributaria 75. Non vi è difatti alcuna ragione di mutare l’insegnamento tradizionale secondo cui ai fini dell’imposizione il contratto non è assunto in ragione della sua particolare valenza di atto, bensì quale mero fatto 76. Nella fattispecie tributaria, infatti, entrano solo gli effetti del contratto, che rimane il fatto storico che li ha generati, a loro volta oggettivati dalle regole legali che ne presiedono l’esatta identificazione. Una volta acquisito che la ricognizione della materia imponibile non è lasciata all’“arbitrio delle parti” 77, non c’è ragione per dubitare che il rinvio al contratto, quale strumento di produzione della ricchezza, valga ad individuare gli effetti giuridici dello stesso. Il contratto può essere così considerato “affidabile”, nel senso di idoneo a costituire parametro e misura della materia imponibile, che andrà coerentemente rinvenuta nelle modificazioni della realtà giuridica determinate dallo stesso, senza possibilità di ricercare un’ipotetica ed ulteriore realtà economico/sostanziale 78. Questo significa che le varie norme e congegni antielusivi (l’art. 37 bis del 75 In questi termini G. ZIZZO, In tema di qualificazione dei contratti ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1992, II, p. 174; C. CAUMONT CAIMI, Autonomia contrattuale delle parti e poteri interpretativi dell’Amministrazione finanziaria, in Riv. dir. trib., 2000, II, p. 296; M. FORMENTIN, Autonomia negoziale e principio generale di applicazione dell’imposta in base agli effetti giuridici, in il Fisco, 1999, p. 11068, ed ivi per ulteriori indicazioni bibliografiche. Paventando «un utilizzo eccessivamente disinvolto dello strumento interpretativo» (p. 1060) da parte dell’amministrazione finanziaria, propende per un impiego dei criteri previsti dall’art. 1362 c.c., secondo «modalità particolarmente “restrittive”», S. FIORENTINO, Riflessioni sui rapporti tra qualificazione delle attività private e accertamento tributario, in Rass. trib., 1999, p. 1062. 76 Si assiste ad un fenomeno di digressione del contratto da atto a fatto; cfr. A. BERLIRI, Principi di diritto tributario, Milano, 1957, p. 206; D. JARACH, Il fatto imponibile, cit., p. 117; F. BATISTONI FERRARA, Atti simulati ed invalidi nell’imposta di registro, Napoli, 1969, p. 49. Che il contratto rilevi non quale atto bensì quale fatto è stato sostenuto, tra gli altri, da A. D. GIANNINI, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, p. 163; R. LUPI, L’elusione come strumentalizzazione delle regole fiscali, in Rass. trib., 1994, p. 226; E. DE MITA, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, cit., p. 152. 77 Anche l’amministrazione finanziaria, come e prima del giudice, è legittimata ad utilizzare le regole di interpretazione per argomentare soluzioni ermeneutiche differenti da quelle prospettate dalle parti, finanche quelle dalle stesse concordemente accolte. 78 S. LA ROSA, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 788, secondo cui «può ormai dirsi acquisita la consapevolezza dell’erroneità della stessa contrapposizione tra la forma (giuridica) e la sostanza (economica) dei fatti fiscalmente rilevanti».

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D.P.R. n. 600/1973 79, come pure l’art. 20 del TUR 80, che secondo un orientamento diffuso, seppure non condivisibile, presenterebbe se non la natura, comunque una finalità antielusiva 81) non possono essere intesi come rivolti a cogliere una realtà economica da contrapporre a quella giuridica, ma, semmai e solo, a consentire di rinvenire gli effetti giuridici concretamente realizzati (ad esempio, attraverso la valorizzazione del comportamento complessivo delle parti, «anche posteriore alla conclusione del contratto», come previsto dall’art. 1362 c.c., ovvero ricercando, laddove consentito, gli effetti giuridici realizzati dalla combinazione/sequenza di diversi contratti), ben oltre la (mera) rappresentazione degli stessi offerti dall’autonomia privata. Ne riesce ribadito, insomma, che sono proprio e solo gli effetti giuridici del contratto a costituire l’oggetto della qualificazione normativa 82. Occorre allora superare quello che, in definitiva, appare un fraintendimento circa la possibilità/necessità di disattendere la realtà giuridica a favore di quella economica, in 79 L’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, difatti, non autorizza l’Amministrazione a ricercare la realtà economica sottostante al contratto reso inopponibile. Se è vero che l’amministrazione può interpretare gli assetti sostanziali realizzati, disattendendo la configurazione predisposta dalle parti, resta comunque fuor di dubbio che, alla fine, deve pur sempre riqualificarli in termini giuridici. Per calcolare «le imposte determinate in base alle disposizioni eluse», infatti, occorre comunque ricondurre i predetti assetti alle previsioni categoriali, le quali fanno riferimento a figure proprie della realtà giuridica (sul punto, in senso conforme G. ZIZZO, Prime considerazioni sulla nuova disciplina antielusione, cit., p. 459; P.M. TABELLINI, (voce) Elusione fiscale, in Enc. dir., Aggiornamento, vol. III, 1999, p. 566, laddove osserva che è «superfluo rilevare che quest’opera di riqualificazione deve essere necessariamente giuridica, consistendo essa nell’identificare il risultato dell’operazione con una fattispecie imponibile, nel ricondurre l’uno all’altra»). Alle medesime conclusioni, infine, si deve giungere anche con il nuovo istituto del divieto di abuso del diritto, la cui introduzione è prevista dalla legge di delega 11 marzo 2014, n. 23. Qui, in effetti (art. 5), tra i criteri direttivi non è previsto anche quello di prevedere l’obbligo per l’Amministrazione, una volta disapplicata l’operazione abusiva e disconosciuto il relativo risparmio d’imposta, di applicare altresì le disposizioni eluse. Ma detta soluzione appare ugualmente necessitata. In effetti, l’obiettivo che s’intende perseguire con la delega non è certo quello di introdurre una nuova ed ulteriore ipotesi di possesso di reddito, ma sempre e comunque di consentire l’applicazione delle disposizioni eluse, aggirate, le quali implicano sempre e solo la rilevanza delle vicende giuridiche oggetto di qualificazione quali ipotesi di possesso di reddito. 80 In argomento, G. MARONGIU, L’abuso del diritto nella legge di registro tra principi veri e principi asseriti, in Dir. prat. trib., 2013, pt. 1, p. 361; G. GIRELLI, Abuso del diritto e imposta di registro, Torino, 2012, p. 61 ss.; G. CORASANITI, L’interpretazione degli atti e l’elusione fiscale nel sistema dell’imposta di registro, in Dir. prat. trib., 2012, pt. 1, p. 963. 81 Sull’art. 20 come norma antielusiva ex plurimis Cass. Ord. n. 24739 del 5 novembre 2013; Cass., sez. trib., 19 giugno 2013, n. 15319; Cass., sez. trib., 16 aprile 2010, n. 9162. 82 Come osserva T. TASSANI, I confini dell’abuso del diritto ed il caso del conferimento di azienda con successiva cessione delle partecipazioni, in Riv. dir. trib., 2011, pt. I, p. 336 «anche volendo individuare la sola “sostanze economica” di un comportamento non è comunque possibile ignorare gli effetti giuridici, a meno di non voler dare un contenuto del tutto generico, neppure descrittivo e quindi tutto sommato poco utile, alla “definizione economica” della fattispecie».

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I PROFILI DI RILEVANZA FISCALE DEL CONTRATTO: SPUNTI DI RIFLESSIONE

nome di un’asserita opzione (implicita) della norma tributaria per la seconda e a scapito della prima 83. La norma tributaria rende infatti palese, attraverso una pluralità di indici positivi, che l’unica realtà di riferimento è quella giuridica, frutto della qualificazione della realtà materiale, storica ed economica, operata dalla norma giuridica civilistica 84, le cui figure, categorie e concetti sono diffusamente impiegati nella formulazione e configurazione della fattispecie tributaria 85.

83

Ancora E. DE MITA, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, cit., p. 163, ad avviso del quale «la contrapposizione tra fattispecie formali e fatti economici non può essere intesa nel senso che esistano vicende economiche pure che solo il diritto tributario potrebbe prendere in considerazione», cosicché, «non c’è di regola un concetto economico dietro una vicenda contrattuale particolare». Come evidenzia A. AMATUCCI, Formazione ed applicazione della legge tributaria, in Applicazione e tecnica legislativa, Atti del Convegno di Bologna, 9-10 maggio 1997, Milano, 1998, p. 272, la considerazione economica dei fatti va limitata alla sola fase metagiuridica, di predisposizione della norma; ma dal momento in cui questa viene emanata, si apre la fase giuridica, in cui cioè è possibile solo una considerazione/lettura in termini giuridici dei concetti impiegati; nello stesso senso anche G. TINELLI, Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, p. 145. 84 Più in generale, sui rapporti tra forma giuridica e realtà economica, L. MENGONI, Forma giuridica e materia economica, in Studi in onore di A. Asquini, Padova, 1965, vol. III, p. 1075. 85 E. DE MITA, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, cit., p. 153: «...una volta scelta la norma civilistica, non vi è una realtà economica diversa da quella espressa, che riemerga nell’interpretazione della legge tributaria, fino alla vanificazione dell’espressione civilistica».

LA CESSIONE DEL CONTRATTO NELL’IMPOSTA DI REGISTRO

di Guglielmo Fransoni SOMMARIO: 1. L’evoluzione della disciplina della cessione del contratto nell’imposta di registro. – 1.1. La cessione del contratto fra prassi e disciplina positiva. – 1.2. La successione nei rapporti contrattuali nell’imposta di registro francese. – 1.3. L’evoluzione della disciplina in Italia: a) fino alla riforma fiscale del 1972. – 1.4. (segue) b) la riforma del 1972, il testo unico del 1986 e le più recenti modifiche legislative. – 2. L’ambito oggettivo di applicazione della disciplina vigente. – 3. L’obbligo di registrazione. – 3.1. Le regole generali. – 3.2. Particolari forme di circolazione del contratto. – 3.3. Cessione di contratto mediante scambio di corrispondenza. – 4. I soggetti passivi. – 4.1. I soggetti passivi dell’imposta dovuta relativamente alla cessione del contratto. – 4.2. I soggetti passivi dell’imposta dovuta relativamente al contratto ceduto. – 5. La base imponibile. – 5.1. La successione delle discipline relative alla base imponibile: a) fino al 1972. – 5.2. (segue) b) l’art. 41 del D.P.R. n. 634/1972. – 5.3. (segue) c) la soluzione vigente. – 5.4. Caparra e corrispettivo della cessione. – 5.5. Cessione del contratto e contratto per persona da nominare. – 6. L’aliquota. – 7. Le duplicazioni d’imposta. – 7.1. A) Con riferimento alle ipotesi di successione del cessionario nell’obbligazione di imposta per il contratto ceduto: a) in generale. – 7.2. (segue) b) con particolare riferimento alla cessione dei contratti di locazione. – 7.3. Le duplicazioni con riguardo alle cessioni di contratti soggetti a imposta sul valore aggiunto.

1. L’evoluzione della disciplina della cessione del contratto nell’imposta di registro 1.1. La cessione del contratto fra prassi e disciplina positiva È noto che il diritto civile arriva relativamente tardi a elaborare una nozione e una disciplina autonoma di “cessione del contratto”. In Italia è sintomatico che ancora nel 1938 il Nuovo Digesto ne tratti in un paragrafo della voce “Cessione di crediti e di altri diritti” 1 mentre nel 1959 la 1

Cfr. SOTGIA S., Cessione di crediti e altri diritti, in N.vo Dig. It., Torino, 1938, III, p. 70 ss.

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medesima voce del Nuovissimo Digesto – opera dello stesso autore 2– rinvia ad un autonomo lemma di uno dei primi studiosi della nuova fattispecie contrattuale introdotta espressamente dal codice civile del 1942 (artt. 1406 ss.) 3. Ed in effetti, la dottrina sembra incominciare ad interessarsi del tema solo in epoca di poco anteriore a quella prima voce del enciclopedica quando il problema della “vendita del contratto” riceve l’attenzione dei giuscommercialisti 4. I sommari riferimenti cronologici aiutano a capire il peculiare rapporto esistente fra questa particolare fattispecie negoziale e un tributo come l’imposta di registro la cui data di nascita è di almeno 150 anni anteriore. L’interesse dei giuscommercialisti per la “vendita del contratto” denota – è anche banale rilevarlo – una diffusione della prassi negoziale largamente precedente la sua espressa disciplina legislativa. Al di là della conferma che si riceve dalla Relazione del Guardasigilli al Codice Civile 5 valgono per tutte le eloquenti espressioni di Lorenzo Mossa che esordiva sottolineando come che “Sotto l’onda incessante del traffico le vecchie forme giuridiche si corrodono e si trasformano” 6 mentre più sobriamente Enrico Finzi rilevava che “Vendita di contratti, cessione di contratti, pegno di contratti: tutte cose che il commercio conosce e il codice ignora” 7. Questa anteriorità della prassi rispetto alla disciplina positiva spiegano perché gli istituti fiscali non restarono e non potevano restare ad essa insensibili. Così se, come diremo, le vicende circolatorie del contratto non erano pese in considerazione dalla prima legge istitutiva dell’imposta di registro e la cessione del contratto come tale sarà disciplinata solo nel 1972, tuttavia, alcuni riferimenti specifici a questa figura si trovano, come pure avremo modo di segnalare, fin dalla fine del 1800. Al tempo stesso, è importante evidenziare che, nel modo in cui la disciplina tributaria reagisce agli usi, emerge il particolare rapporto fra imposta di registro e diritto commerciale. È singolare infatti che, proprio nel momento in cui veniva dato rilievo ad al2

V. SOTGIA S., Cessione di crediti e di altri diritti, in N.mo Dig.It., Torino, 1959, III, p. 156 ss. È la voce CARRESI F., Cessione del contratto, in N.mo Dig.It., Torino, 1959, III, p. 147 ss. 4 Di particolare rilievo sono due contributi specificamente dedicati al tema: MOSSA L., La vendita del contratto, in Riv. dir. comm., 1928, II, p. 633 ss. e FONTANA G., Cessione di contratto, in Riv. dir. comm., 1934, I, p. 173 ss. Ma non bisogna dimenticare che questi scritti sollecitarono l’interesse dei civilisti più sensibili alle novità e, fra tutti, di FINZI E., Verso un nuovo diritto del commercio, in Arch. di studi corporativi, 1933, p. 2 (ora in L’“officina delle cose”. Scritti minori a cura di E. Grossi, Milano, 2013, p. 71 ss.) e CARNELUTTI F., Teoria giuridica della circolazione, Padova 1933, p. 44 ss. 5 Nel § 34 della relazione al Libro sulle Obbligazioni si rivendica appunto il merito di aver assecondato l’esigenze proprie della pratica commerciale. 6 Così MOSSA L., La vendita del contratto, cit., p. 633. 7 In questo senso FINZI E., Verso un nuovo diritto del commercio, cit., p. 89. 3

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cune ipotesi di circolazione del contratto ai fini impositivi, l’attenzione, come si dirà, era attratta dai contratti di locazione e, invece, si ignorava proprio la figura che rivestiva il massimo interesse per i giuscommercialisti, ossia la cessione del contratto di compravendita di merci. Non è azzardato dire che questo potrebbe essere il riflesso di una duplice incomunicabilità. Da un lato, il rapporto privilegiato dell’imposta di registro con il diritto civile rendeva meno immediato l’adeguamento della prima agli istituti propri del diritto commerciale; dall’altro lato, il diritto dei “commercianti” tendeva a preservare questi ultimi da forme di imposizione che intralciavano i “traffici” e che, comunque, apparivano coerenti con assetti in cui assumeva rilevanza il mero “scambio” e non là dove, come sottolineava puntualmente Finzi, era prevalente la “organizzazione per lo scambio” 8. Il dato è certamente rilevante ai fini di una comprensione in chiave storica anche degli istituti di diritto tributario, ma non è privo di significato anche ai fini della migliore comprensione della disciplina fiscale della cessione del contratto, la quale, come vedremo, risulta elaborata prevalentemente in chiave “privatistica” piuttosto che in quella “commercialistica”.

1.2. La successione nei rapporti contrattuali nell’imposta di registro francese Alla luce di quanto si è appena osservato, non deve stupire l’assenza di ogni riferimento alla cessione del contratto nella legge del 22 frimaio dell’anno 7. In realtà, almeno fino agli inizi del secolo trascorso – e diversamente da quanto avviene in Italia – non solo le disposizioni legislative, ma la stessa trattatistica d’Oltralpe – nonostante la sua ampiezza e capillarità – sembra disinteressarsi del tema. È inutile indagare le cause di questa assenza, basterà segnalare che sebbene il diritto commerciale francese conoscesse la vente en filiére essa era ricostruita facendo riferimento all’istituto della delegazione 9, quindi tentando di non alterare le architetture napoleoniche del Code civil. Viceversa vi è una tradizionale attenzione alla disciplina della riserva di nomina dell’acquirente. La scelta del legislatore francese fu quella di applicare una sola imposta proporzionale alla vendita fatta sotto riserva di nomina a condizione che tale riserva fosse espressa e che la nomina avvenisse in forma di atto pubblico da notificarsi entro le ventiquattr’ore dalla stipula dell’atto. 8

Cfr. FINZI E., Verso un nuovo diritto del commercio, cit., p. 85. Così THALLER E.-PERCEROU J., Traité élémentaire de droit commercial, 8me ed., Paris 1931, nn. 1036 ss. 9

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Tutti i commentatori considerano concordemente questa disciplina come una soluzione di natura “puramente fiscale” 10, ma forniscono una spiegazione diversa della sua ratio. Gli autori più risalenti 11 vi vedono una presunzione. Se la riserva viene sciolta successivamente al termine previsto, si “presume” che il primo acquirente abbia comprato per sé per poi rivendere. Questa ricostruzione è finalizzata ad ammettere un’applicazione elastica della regola. Si sostiene, infatti, che siccome le presunzioni legali sono sempre relative se non è diversamente stabilito in modo espresso, anche quella appena menzionata ammetterebbe la prova contraria. In epoca successiva viene offerta una spiegazione “civilistica” incentrata sugli effetti “retroattivi” della nomina del terzo. Il ragionamento parte dalla constatazione che la formula normativa si riferiva alle “dèclarations ou élections de command ou d’ami” 12 e che quindi abbracciava due ipotesi: quella delle “dèclarations … de command” presupponente quindi l’esistenza di un rapporto di mandato 13 e quella delle “élections de .. d’ami” riferita alla negotiorum gestio. Queste due ipotesi, nella sistematica francese dell’epoca, presentavano caratteri netteamente distinti sotto il profilo civilistico per il motivo che, sebbene entrambe implicassero l’acquisto della proprietà già dal primo acquirente (ancorchè, per così dire, ad interim) salvo il trasferimento della proprietà al momento della nomina, tuttavia, mentre nel mandato l’acquisto da parte del terzo aveva decorrenza “retroattiva” verificandosi una “risoluzione necessaria” dell’acquisto del mandatario, nel caso della gestione di affari tale retroattività dell’acquisto dell’amico eletto non sarebbe stata possibile secondo i principi, ciò che aveva obbligato i civilisti a ricorrere alla figura del “mandato presunto” oppure dell’apparenza dell’acquisto non nell’interesse proprio 14. E siccome l’accertamento del mandato presunto o dell’apparenza sono molto difficili, la regola fiscale veniva considerata come una semplificazione diretta a evitare di dover compiere verifiche “beaucup plus déliés” 15. Se la nomina viene fatta nei termini previsti, essa esplica ai fini fiscali un effet10

Cfr. WAHL A., Traité de droit fiscal, I,1, Parigi 1902, p. 269. Si veda CHAMPIONNIÈRE, RIGAUD, Traité des droits d’enregistrement, I, Bruxelles, 1852, nn. 1932-1933. 12 Art. 68, § 1, n. 24 e art. 69, § 7, n. 3 della Legge 22 frimaio dell’anno 7. 13 Si pone, anzi, in grande evidenza come, a fronte del termine “mandato” tipicamente latino, “le mot commandé est trés espressif, il est français et rend bien la pensée”, così DEMANTE G., Principes de l’enregistrement, I, Paris, 1879, p. 259. 14 Questa spiegazione – che, ovviamente, qui si riferisce senza alcuna verifica sulla sua effettiva coerenza con l’evoluzione del pensiero civilistico francese dell’epoca – è proposta in modo univoco sia da DEMANTE G., Principes de l’enregistrement, cit., p. 259 ss., sia da WAHL A., Traité de droit fiscal, cit., p. 269 ss. 15 Cfr. DEMANTE G., Principes de l’enregistrement, cit., p. 262. 11

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to praticamente “retroattivo”, l’operazione è trattata come una sola vendita con conseguente applicazione di un’imposta proporzionale e di una fissa. Se le condizioni non vengono rispettate manca l’effetto retroattivo e si hanno due vendite e due imposte proporzionali. In questa prospettiva, ovviamente, non vi è spazio alcuno per un’applicazione “elastica” della regola 16. È evidente, tuttavia, che tutte le diverse ricostruzioni proposte sono accomunate dall’idea che il contratto per persona da nominare realizza una successione nel diritto non nel rapporto contrattuale.

1.3. L’evoluzione della disciplina in Italia: a) fino alla riforma fiscale del 1972 Come è noto, l’imposta di registro fu introdotta per la prima volta nell’Italia unificata dalla L. 21 aprile 1862, n. 585 che replicava pedissequamente la L. 22 frimaio dell’anno 7 17. Non desta quindi sorpresa che tale legge non contemplasse in alcun modo la cessione del contratto e, al tempo stesso, regolasse il contratto persona da nominare in modo del tutto analogo a quanto aveva fatto il legislatore francese. L’art. 94, n. 49 e l’art. 95, nn. 20 e 28 disciplinavano, infatti, “le dichiarazioni di mandato, ossia la nomina della persona per cui si fece un acquisto” a seconda che fossero fatte entro o, rispettivamente, oltre “il giorno successivo” e, ove dovesse applicarsi l’imposta proporzionale, a seconda che l’acquisto avesse ad oggetto beni mobili o immobili. Tuttavia, già il primo intervento organico di riforma – operato dal R.D. 14 luglio 1866, n. 3121 – introduceva una novità di rilievo per quanto riguarda il nostro tema. Quanto al contratto per persona da nominare, la relativa disciplina veniva espunta dalla “tariffa” e collocata nell’art. 42 fra le disposizioni che, successivamente, formeranno il Capo delle “Disposizioni speciali per l’applicazione e liquidazione delle tasse sugli atti e contratti civili” 18. Mutava, inoltre, anche la formula normativa, facendosi riferimento al più generico concetto di “Le dichiarazioni o nomine pure e semplici”. Ancora più rilevante è, tuttavia, la novità costituita dall’introduzione nell’art. 16

Si giunge, quindi, a una conclusione diametralmente opposta a quella di Championnière e Rigaud. Così sia DEMANTE G., Principes de l’enregistrement, cit., p. 262 e A. WAHL, Traitè de droit fiscal, cit., p. 269 ss. 17 Per una visione di sintesi dell’evoluzione della disciplina mi permetto di rinviare a FRANSONI G., Il presupposto dell’imposta di registro fra tradizione ed evoluzione, in Rass. trib., 2013, p. 955 ss. 18 Capo così già denominato nella successivo R.D. 13 settembre 1874, n. 2076.

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40, recante la disciplina dei contratti di locazione di cose e di opere, di un comma 2 dedicato alla determinazione della base imponibile della cessione dei contratti stessi secondo la formula “Nella cessione di simili contratti la tassa proporzionale sarà limitata alle rate, non peranco decorse, dei prezzi e dei corrispettivi, ed ai maggiori corrispettivi che fossero pattuiti”. Quanto all’aliquota questa era fissata dalle singole voci di tariffa che prendevano in considerazione, in particolare, le locazioni (art. 41 Tariffa), le concessioni di diritti d’acqua (art. 44 Tariffa), le concessioni di riscossione dei dazi (art. 47 Tariffa) e gli appalti (art. 49 Tariffa). Da segnalare, anche perché si introducono concetti che ritroveremo successivamente, che in tutte queste voci di tariffa la cessione del contratto è di norma accomunata, quanto all’aliquota, alla risoluzione e che, con riguardo alla risoluzione, pressoché ognuna delle disposizioni citate conteneva un’eccezione costituita dall’applicazione della “tassa fissa” alle risoluzioni “fatte per rinunzia senza rilascio o corrispettivi” 19. I successivi interventi normativi seguono fedelmente l’impostazione descritta: il R.D. 13 settembre 1874, n. 2076 e il R.D. 20 maggio 1897, n. 217 anzi, riproducono quasi esattamente anche le scelte linguistiche e la collocazione delle disposizioni della legge precedente, mentre il R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, si limita a innovare nella numerazione degli articoli di tariffa e nella suddivisione della disciplina della base imponibile (prima contenuta nell’unico articolo dedicato alla locazione di cose e di opere) in tre diverse disposizioni (gli artt. 54, 55 e 56) aventi ad oggetto, rispettivamente, la locazione di cose, la locazione di opere e gli appalti e i contratti di concessione di servizi pubblici. Si deve segnalare, tuttavia, che la divisione della materia in più articoli consente al legislatore un chiarimento terminologico. Al posto della generica formula secondo cui la base imponibile era costituita, per le locationes rerum et operarum unitariamente considerate, dalle “rate, non peranco decorse, dei prezzi e dei corrispettivi”, il nuovo art. 54, u.c., dedicato alla sola locazione propriamente detta, fa riferimento “alle rate non peranco decorse dei fitti e degli altri corrispettivi della locazione” mentre la precedente formula viene mantenuta solo dall’art. 55 avente ad oggetto la disciplina dell’appalto. Forse l’unica innovazione propria di quest’ultimo intervento normativo potrebbe aver riguardato la cessione dei contratti di concessione di servizi pubblici la cui base imponibile sarebbe stata determinata, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 56 ,“sempre sui proventi lordi” (con esclusione, quindi, del corrispettivo 19

Questa è la formula utilizzata dall’art. 41 Tariffa, ma gli altri articoli utilizzano espressioni molto simili: “se la risoluzione risulti consistere nella rinunzia gratuita e senza rilasci” (art. 47 Tariffa); “per la risoluzione o rinunzia gratuita e senza rilasci” (art. 48 Tariffa); “se la risoluzione si riduce a rinunzia gratuita” (art. 49 Tariffa).

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della cessione); ma i commentatori non sembrano dare molto rilievo a questa differenza, probabilmente di natura agevolativa 20.

1.4. (segue) b) la riforma del 1972, il testo unico del 1986 e le più recenti modifiche legislative Il vero mutamento d’impostazione si ha, quindi, con la riforma del 1972 e poi con il testo unico del 1986 che comportano due innovazioni di rilievo. La prima è l’introduzione di una disciplina generale della cessione del contratto: dal 1972 in avanti, la rilevanza fiscale della cessione del contratto, anziché essere limitata, come nella previgente disciplina speciale, ai soli contratti di locazione e di appalto, viene estesa alla cessione di qualunque contratto. Questo risultato viene raggiunto, sul piano normativo, sostituendo una disciplina unitaria della base imponibile e dell’aliquota della cessione di contratto alle previgenti specifiche norme sull’aliquota (contenute nella diverse disposizioni della tariffa) e sulla base imponibile (inserite nelle disposizioni dedicate alle poche figure contrattuali rilevanti ai fini della cessione). In particolare, l’aliquota viene disciplinata dall’art. 29 del D.P.R. n. 634/1972 e poi dall’art. 31 della D.P.R. n. 131/1986 prevendendo che “la cessione del contratto è soggetta all’imposta con l’aliquota propria del contratto ceduto” e che “per la cessione verso corrispettivo di un contratto a titolo gratuito l’imposta si applica con l’aliquota stabilita per il corrispondente contratto a titolo oneroso”. Con riguardo alla base imponibile, poi, la relativa disciplina generale è stata posta dapprima nell’art. 41, comma 1, n. 4, del D.P.R. n. 634/1972 e, poi, nell’art. 43, comma 1, lett. d) del TUR. La seconda delle due innovazioni di cui si è detto precedentemente è rappresentata proprio dalla disciplina della base imponibile. Ancorché apparentemente in modo impercettibile, le formule normative subiscono una progressiva e non irrilevante trasformazione. Anteriormente al 1972, come si è già indicato, la base imponibile era costituita dalle “rate, non peranco decorse, dei prezzi e dei corrispettivi e dai maggiori corrispettivi”. L’art. 41, comma 1, n. 5, del D.P.R. n. 634/1972 sostituisce a questa formula quella che individua la base imponibile nell’“ammontare complessivo del corrispettivo pattuito per la cessione o dal valore delle prestazioni ancora da eseguire”: quindi viene meno il riferimento ai “maggiori corrispettivi” e si introduce un rapporto di alternatività (anziché di cumulatività) fra “corrispettivi complessivi della cessione” e “valore delle prestazioni ancora da eseguire”. Infine, ai sensi dell’art. 43, comma 1, lett. d) del TUR, la base imponibile è costituita dal “corrispettivo pattuito per la cessione e dal valore delle prestazioni ancora 20

Cfr. UCKMAR A., La legge del registro, 1935, II, p. 286.

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da eseguire”: cosicché, per un verso, ritorna la cumulatività fra corrispettivo e valore delle prestazioni future, per l’altro verso, continua a restare fermo il riferimento al corrispettivo e non al “maggior corrispettivo”. Vi è poi una terza innovazione che viene realizzata nel 1986 la quale non investe direttamente il tema della cessione del contratto, ma ha, forse, un rilievo sistematico solo sporadicamente notato in dottrina e che, tuttavia, potrebbe rivestire un certo interesse. Si tratta, in particolare, della soppressione della regola di cui all’art. 1, cpv. della Tariffa parte prima che, riproducendo analoga previsione contenuta nel n. 1, lett. d) della Tariffa allegata al R.D. n. 3269/1923, disponeva la riduzione dell’aliquota nel caso di trasferimenti realizzati “entro 5 anni da altro trasferimento” 21. Le ulteriori modifiche da segnalare sono assai limitate e puntuali. Nel 1997 viene modificato l’art. 5 della Tariffa con l’inserimento di un ultimo periodo alla Nota I che stabilisce la registrazione a imposta fissa delle cessioni senza corrispettivo dei contratti di locazione (nonché con l’espressa previsione di questa ipotesi come eccezione alla regola di cui all’art. 31 nell’ultimo periodo dell’art. 31 stesso). Infine, la legge di stabilità 2014 (L. 27 dicembre 2013, n. 147) ha introdotto un ultimo periodo all’art. 40, comma 1 bis, per effetto del quale, in deroga al principio di alternatività, sarebbero soggetti a imposta di registro proporzionale anche “le cessioni, da parte degli utilizzatori, di contratti di locazione finanziaria aventi ad oggetto immobili strumentali, anche da costruire ed ancorché assoggettati all'imposta sul valore aggiunto, di cui all'articolo 10, primo comma, numero 8-ter), del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972” e, inoltre, ha previsto una specifica voce di Tariffa per tale ipotesi nell’art. 8 bis della Parte Prima.

2. L’ambito oggettivo di applicazione della disciplina vigente In apparenza, come si può constatare dalle scarne osservazioni che i commentatori hanno da sempre dedicato al tema, la disciplina così delineata dà luogo a pochi problemi. Se si parte dalla premessa – che attiene alle condizioni civilistiche di realizzazione della fattispecie – per cui sono suscettibili di cessione i contratti a esecuzione differita o continuativa in cui risultino ineseguite, almeno parzialmente, le prestazioni di entrambe le parti, talché la cessione del contratto è un negozio 21

Molto critico per l’impatto che la modifica esplica sul piano dell’impianto complessivo dell’imposta è BRACCINI R., Contratto per persona da nominare: II) Diritto tributario, in Enc. giur. it., Roma 1988, IX, p. 3 in quanto farebbe venir meno il carattere dell’imposta di registro di “imposta patrimoniale a carattere saltuario”.

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strutturalmente a titolo oneroso 22, si deve concludere che l’ambito di applicazione dell’imposta di registro, rispetto alla fattispecie contrattuale in esame, è estremamente ampio risultando limitato esclusivamente, da un lato e sotto il profilo soggettivo, dalle cessioni di contratto in cui il cedente operi nell’esercizio di impresa, arti o professioni, nel qual caso l’operazione sarà rilevante ai fini IVA in applicazione del noto principio dell’alternatività; e dall’altro lato da alcune ipotesi in cui, fra le prestazioni ancora da eseguire da parte del contraente ceduto e quelle poste a carico del cessionario esista una sproporzione talmente rilevante da consentire di affermare l’esistenza di assetti riconducibili ai sensi dell’art. 25 TUR all’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni 23. Peraltro, si deve notare che la modifica introdotta dalla L. n. 147/2013 all’art. 40, comma 1 bis, TUR, ha evidentemente ampliato tale ambito di applicazione poiché, per effetto della nuova disposizione, le cessioni di contratti di leasing immobiliare poste in essere dall’utilizzatore, anche se soggette ad IVA, sono altresì imponibili anche ai fini dell’imposta di registro proporzionale con l’aliquota del 4% prevista dall’art. 8 bis, Tariffa Parte Prima. Per il resto, come è evidente dalla formulazione normativa e, a contrario, dalla stessa previsione contenuta nell’art. 5, Nota I, Tariffa Parte Prima, TUR, la struttura intrinsecamente onerosa del contratto è idonea a rendere applicabile l’imposta di registro anche alle cessioni per le quali non sia individuato un corrispettivo ulteriore. Si deve, infine, segnalare come, anche in questo caso, il diritto tributario ha una concezione della circolazione del contratto più ampia di quella propria del diritto civile: quando quest’ultimo non aveva una specifica disciplina della cessione del contratto, la sua cessione era già contemplata come fattispecie imponibile dalla legge di registro; ora che la cessione di contratto ha una specifica disciplina nell’art. 1406 c.c., ma limitatamente ai contratti a prestazioni corrispettive, l’imposta di registro definisce i confini della fattispecie in termini più ampi. Il comma 2 dell’art. 31 TUR, infatti, prevede l’applicazione del regime proprio della cessione del contratto anche alla cessione dei contratti gratuiti (p.es. mandato, mutuo, comodato ecc. 24). 22

In questo senso la dottrina unanime. Cfr., senza pretesa di completezza, CARRESI F., Cessione del contratto, in N.ssimo Dig. It., cit., p. 148, CICALA R., Cessione del contratto, in Enc. dir., Milano, 1960, VI, p. 878 ss.; BRIGANTI E., Cessione del contratto: I) Diritto civile, in Enc. giur. It, Roma 1988, VI, p. 1 ss., ALPA G.-FUSARO A., Cessione del contratto¸ in Dig. IV, Disc. priv., Sez. civ., Torino, 1988, II, p. 338 ss.; ANELLI F., La cessione del contratto, in Tratto dei contratti (diretto da P. Rescigno), Il contratto in generale (a cura di E. Gabrielli)**, 1999, p. 1171 ss. 23 Per l’individuazione di simili ipotesi si veda, in termini generali, STEVANATO D., Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, Padova, 2000, p. 218 ss. Per la qualificazione della cessione in cui vi è sproporzione fra prestazione come negotium mixtum cum donatione, espressamente, CICALA R., Cessione del contratto, cit., p. 893. 24 Per la possibile casistica si veda FORMICA F., Commento all’art. 31, in Codice delle Leggi Tri-

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Tuttavia, vi è una differenza fra le due ipotesi. Mentre, anteriormente al 1942, la cessione del contratto, ignorata dal codice civile e conosciuta dall’imposta di registro, era largamente ammessa dalla prassi e dalla giurisprudenza, dopo il 1942, la giurisprudenza si è attestata a favore della sola cedibilità dei contratti a prestazioni corrispettivi e, quindi, in un senso difficilmente compatibile con la previsione di cui al comma 2 dell’art. 31 TUR. Si deve peraltro ammettere che la posizione sufficientemente consolidata da parte della giurisprudenza, non è altrettanto monolitica in dottrina che si interroga costantemente sulla ammissibilità di “cessioni atipiche” ed è sempre molto cauta anche nei casi in cui aderisce all’orientamento giurisprudenziale dominante 25. È indubbio, peraltro, che lo spazio per l’applicazione della disciplina tributaria della cessione del contratto ai contratti gratuiti è molto limitato. Si pensi come, per il comodato, la cessione del rapporto è un effetto legale del trasferimento della cosa per il comodante mentre per il comodatario, a parte la sua esclusione ove si aderisca alla tesi dell’unilateralità del comodato, essa (cessione) risulta in larga misura assorbita dalla figura del sub comodato (art. 1804, comma 2, c.c.) in considerazione del rapporto diretto che si instaura fra comodante e subcomodatario secondo la dottrina prevalente 26. Anche per il mutuo, poi, un eventuale spazio per la cessione sembra circoscritto ai soli casi in cui l’effetto reale non si è verificato (dovendosi viceversa considerare prevalente il profilo dell’accollo o della cessione del credito); al tempo stesso, ammettendosi un contratto di mutuo a effetti obbligatori, la cedibilità di un simile contratto, ove esso sia gratuito, come previsto dall’art. 31, comma 2 TUR, sembra incontrare le difficoltà che la dottrina civilistica annette alla cessione dei contratti con obbligazioni a carico di una sola parte. In ogni caso, sembrerebbe corretto ritenere che, in questa ipotesi, deve essere data la priorità alla qualificazione civilistica. Se la vicenda negoziale avente ad oggetto un contratto gratuito può circolare mediante cessione del contratto, si applicherà la disposizione appena citata. butarie, a cura di Mariconda G., Fedele A., Mastroiacovo V., Torino, 2014, p. 163 ss. Sul punto si vedano DI PAOLA O., Commento all’art. 31, in La nuova disciplina dell’imposta di registro (a cura di N. D’Amati), Torino, 1989, p. 218 e RAGUCCI G., Commento all’art. 31, in Commentario breve alle leggi tributarie. IV IVA e imposte sui trasferimenti (a cura di Gianni Marongiu), Padova, 2011, p. 829. 25 Si vedano, al riguardo, BRIGANTI E., Cessione del contratto: I) Diritto civile, cit., p. 2; ANELLI F., La cessione del contratto, cit., p. 1177. Specificamente, sul tema della cedibilità dei contratti gratuiti, si veda, per la soluzione negativa MIRABELLI G., Dei contratti in generale, in Commentario cod. civ., Torino, 1967, IV, 2, p. 391 il quale ritiene che l’espressione contratti a prestazioni corrispettive di cui all’art. 1406 c.c. possa essere esteso fino a ricomprendervi i contratti a titolo oneroso, ma non anche quelli gratuiti. 26 Su questi aspetti, in sintesi, TETI R., Comodato, in Dig. IV, Disc. priv., Sez. civ., Torino, 1988, III, pp. 37 e 48.

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3. L’obbligo di registrazione 3.1. Le regole generali L’applicazione dell’imposta di registro presuppone (e dipende da) l’obbligo di registrazione dell’atto soggetto all’imposta in quanto ricompreso nella prima o nella seconda parte della Tariffa. È altresì noto che, secondo la regola generale, sono soggetti all’obbligo di registrazione (in termine fisso o in caso d’uso a seconda che siano elencati nella Tariffa Parte Prima o nella Tariffa Parte Seconda) solo gli atti scritti, costituendo l’obbligo di registrazione dei contratti verbali un’eccezione prevista solo per i contratti di trasferimento o di costituzione di diritti reali immobiliari o su aziende e per i contratti di locazione o affitto di beni immobili o aziende. Ora, per quanto riguarda la cessione dei contratti, è decisamente prevalente l’opinione secondo cui la forma del contratto di secondo grado non è condizionata da quelle del contratto di primo grado, salvo che questa sia è prevista ad substantiam 27. In altri termini, la cessione del contratto viene sottoposta al regime dei patti aggiunti per i quali il generale principio della libertà di forma – desumibile dall’art. 2723 c.c. – vale anche per i contratti originariamente redatti per iscritto, salvo che la forma scritta non sia necessaria per legge. Sono quindi soggetti all’obbligo di registrazione in termine fisso (se previsti nella Tariffa Parte Prima) i contratti di cessione formati per iscritto nel territorio dello stato, restando, specularmente, esclusi da tale obbligo le cessioni verbali di contratto e quelle formate anche per iscritto all’estero. Questa conclusione è peraltro avvalorata dalla previsione dell’art. 3 TUR che espressamente stabilisce l’obbligo di registrazione per le cessioni anche verbali dei soli contratti di locazione e affitto di beni immobili e di trasferimento o affitto di aziende.

3.2. Particolari forme di circolazione del contratto Ci si è soffermati sui principi generali – peraltro praticamente indiscussi – che presiedono all’obbligo di registrazione perché essi costituiscono la premessa per la soluzione del problema relativa alla particolare forma di circolazione del contratto disciplinata dall’art. 1407, comma 2, c.c. il quale prevede che se tutti gli elementi del contratto risultano da un “documento” nel quale è inserita la clausola “all’ordine” la girata del documento produce la sostituzione del giratario nella posizione del girante. 27

Cfr. CARRESI F., Cessione del contratto, cit., 150; ANELLI F., La cessione del contratto, cit., p. 1201.

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L’inquadramento teorico di questa fattispecie non è pacifica fra i civilisti essendosi sostenuto sia che il documento di cui parla l’art. 1407, comma 2, c.c. è, ai sensi dell’art. 2002 c.c., un titolo di credito “improprio” (perché il diritto in esso incorporato sarebbe esigibile solo subordinatamente all’adempimento della prestazione dovuta dal giratorio e ricompresa nella posizione contrattuale del girante in cui egli è stato sostituito) 28; sia che si tratterebbe solo di una semplificazione delle modalità di conseguimento del consenso del contraente ceduto 29 (distinguendosi dalla fattispecie di cui all’art. 1407, comma 1, c.c. – quella del contratto alla cui cessione sia stato dato il preventivo consenso – solo sul piano dell’esonero dall’obbligo di notificazione). Vi è, però, unanimità di vedute quantomeno sulla circostanza che – al di là del rilievo eventualmente implicato dalla clausola all’ordine per ciò che attiene al consenso del ceduto al trasferimento – la fattispecie di cui all’art. 1407, comma 2, c.c. replica, quantomeno sul piano della forma del trasferimento, la tecnica di circolazione del titolo di credito 30. In altri termini, le due diverse prospettive di inquadramento risultano comunque coincidenti per quanto riguarda i seguenti elementi: (a) il subentro del cessionario nella posizione del contraente-cedente è a titolo derivativo 31; (b) tale successione deve avvenire in forza di un valido negozio di trasmissione del rapporto del tutto distinto dal trasferimento del titolo 32; (c) la girata non realizza di per sé il trasferimento del titolo (e, quindi e a maggior ragione, non realizza il trasferimento del rapporto) essendo comunque necessaria anche la consegna del documento, in assenza della quale la girata può sempre essere validamente cancellata senza pregiudicare la regolarità del titolo (arg. ex art. 20 l.c.) 33; (d) conseguentemente, la girata non realizza di per sé alcun effetto, mentre la girata e la consegna del documento rappresentano solo momenti esecutivi del negozio di trasferimento del rapporto 34. 28

In questo senso, in particolare, CARRESI F., Cessione del contratto, cit., 152 nonché ANELLI F., La cessione del contratto, cit., pp. 1195-1196. 29 Ampie considerazioni e una puntuale ricostruzione del dibattito, in BRIGANTI E., Cessione del contratto: I) Diritto civile, cit., p. 7. 30 In questo senso anche il principale oppositore della tesi che individua nel “documento” un titolo di credito improprio, ossia NATOLI U., Sulla cessione del contratto mediante girata del documento, in Banca borsa, 1951m I, p. 59. 31 Sulla natura derivativa dell’acquisto di un titolo di credito improprio ex art. 2002 c.c. (e, quindi, a maggior ragione nel caso di cessione “all’ordine” di un documento sostitutivo della notificazione, secondo l’altra tesi) cfr., per tutti, ASQUINI A., Titoli di credito, Padova 1966, p. 51. 32 Questa regola vale, come noto, addirittura per gli stessi titoli di credito propri. 33 Cfr. MARTORANO F., Titoli di credito, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2002, p. 754. 34 È noto che, là dove viga il sistema della cartolarità della circolazione del diritto, è dibattuta la tesi se il negozio di trasmissione del diritto sia soggetto al principio consensuale di cui all’art. 1376 c.c. (talché la consegna del titolo di credito sarebbe mero momento esecutivo del contrat-

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In sintesi, per ciò che attiene alla forma, qualunque tesi si segua in ordine alla natura del documento di cui all’art. 1407, comma 2, c.c., si perviene comunque alla conclusione che l’apposizione della “girata” non integra un atto scritto di “trasferimento” 35. Con la conseguenza che l’esistenza di un atto scritto quale la girata ex art. 1407, comma 2, c.c. non rileva ai fini della verifica della sussistenza dell’obbligo di registrazione in termine fisso della cessione del contratto, dovendosi aver riguardo, invece, alla forma (scritta o verbale) del (presupposto) negozio di cessione. In quanto atto scritto, tuttavia, la girata pone un problema – autonomo – di applicazione dell’imposta di registro che è di facile soluzione se la girata è autenticata, applicandosi in questo caso la disciplina propria degli atti privi di contenuto patrimoniale risultanti da atto pubblico o scrittura privata autentica di cui alla Tariffa Parte Prima 36. Ove, invece, manchi l’autenticazione della sottoscrizione, risulta difficile individuare una corrispondente voce di Tariffa (tanto nella prima quanto nella seconda parte) e ciò indurrebbe a ritenere che la girata sia atto scritto escluso dall’obbligo di registrazione coerentemente a quanto disposto dagli artt. 8 e 11 della Tabella per le girate dei titoli di credito propriamente detti.

3.3. Cessione di contratto mediante scambio di corrispondenza Un ultimo cenno merita la cessione del contratto mediante scambio di corrispondenza la quale costituisce una particolare “forma scritta” del contratto, per la quale, in omaggio alle esigenze proprie dell’attività commerciale, l’art. 1 della Tariffa Parte Seconda dispone l’obbligo di registrazione solo in caso d’uso per i contratti di cui agli artt. 2, comma 1, 3, 6, 9 e 10 della Tariffa Parte Prima. Per effetto del rinvio operato dall’art. 31 TUR alle corrispondenti voci della Tariffa, la possibilità di applicare la speciale previsione dell’art. 1 della Tariffa Parte Seconda al contratto di cessione è condizionata alla riconducibilità del contratto ceduto a una delle predette voci della Tariffa Parte Prima. to), ovvero se vi sia una deroga a tale principio e il contratto abbia natura reale (talché il trasferimento del titolo costituirebbe momento di perfezionamento del contratto). La letteratura al riguardo è vastissima e non pare significativo richiamarla. È sufficiente dire che questo dibattito ha senso, appunto, nella prospettiva dei titoli di credito veri e propri. In caso di titoli di credito impropri o di documenti privi anche di questa natura, non può che riespandersi il principio consensualistico. 35 Sotto il profilo della rilevanza della volontà, la girata si qualifica “atto giuridico non negoziale” (cfr. ASQUINI A., Titoli di credito, cit., p. 141). Dal punto di vista della struttura essa è considerata quale “atto unilaterale non recettizio” (cfr. MARTORANO F., Titoli di credito, cit., p. 761). 36 Salvo che non sia autenticata, nel qual caso sarebbe da ricondurre all’art. 11 della Tariffa Parte Prima.

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Con la conseguenza che, al di fuori dei contratti direttamente riconducibili a voci di tariffa specifiche, per la generalità delle cessioni di contratto rileverà solo il generico (e indefettibile) contenuto patrimoniale del negozio di cessione che dovrà essere ricondotto all’art. 9 della Tariffa Parte Prima. In questi casi, pertanto, la cessione conclusa mediante scambio di corrispondenza sarà soggetta a registrazione solo in caso d’uso.

4. I soggetti passivi La cessione del contratto comporta che per le parti del negozio – nei termini in cui si dirà – sorge, unitamente all’obbligo di registrazione, anche l’obbligazione d’imposta. In alcuni casi, tuttavia, la cessione comporta una successione nell’obbligazione d’imposta relativa al contratto ceduto. Le due fattispecie devono essere, quindi, autonomamente considerate.

4.1. I soggetti passivi dell’imposta dovuta relativamente alla cessione del contratto Parti del contratto di cessione sono certamente il contraente cedente e il contraente cessionario. Più discussa, in dottrina, è se il contraente ceduto – il quale deve prestare il proprio consenso – diventi parte del negozio di cessione ovvero se la manifestazione di volontà di questi costituisca solo condizione di efficacia del negozio di cessione. Nonostante quest’ultima soluzione sia stata sostenuta dalla dottrina cui è dovuto il più esaustivo studio della cessione del contratto 37 e sia stata riproposta da un’autorevole dottrina la quale ha considerato possibile una “cessione semplice” di contratto (ossia con effetti meramente “interni”) 38, tuttavia, la dottrina prevalente e la giurisprudenza unanime considerano la cessione di contratto quale negozio plurilaterale – eventualmente a formazione progressiva – i cui effetti nascono solo dalla convergente volontà del contraente-cedente, del contraentecessionario e del contraente-ceduto 39. 37 La rilevanza del consenso del ceduto come condizione di efficacia del contratto di cessione è, in effetti, coerente con la prospettiva secondo cui tale contratto è la mera sommatoria di una cessione di crediti e di un accollo di debiti: in questo senso, come noto, CICALA R., Cessione del contratto, cit., p. 894. 38 In questo senso, RESCIGNO P., Studi sull’accollo, Milano, 1958, p. 61; ALPA G.-FUSARO A., Cessione del contratto¸ cit., p. 345. 39 Cfr., CARRESI F., Cessione del contratto, cit., 149; ANELLI F., La cessione del contratto, cit., p. 1187; nello stesso senso, sia pure con qualche apertura verso la tesi contraria, BRIGANTI E., Cessione del contratto: I) Diritto civile, cit., p. 6.

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Quest’ultima è certamente la prospettiva più coerente con la concezione “unitaria” della cessione di contratto (da intendersi come teoria contrapposta a quella – c.d. “atomistica” – che ricostruisce la fattispecie come sommatoria di cessioni di crediti e accolli di debiti). Tuttavia, come si avrà modo di dire, le scelte normative proprie dell’imposta di registro sembrano influenzate dalla concezione atomistica che, d’altra parte, è quella più risalente nel tempo e maggiormente conforme alla prospettiva “civilistica”. Forse è per questo che non è mai posta in rilievo la circostanza che il contraente-ceduto è obbligato alla registrazione ed è coobbligato al pagamento dell’imposta. Si tratta, comunque, di soluzione imposta dalla scelta di considerare il ceduto come parte contraente alla stessa stregua del cedente e del cessionario e della previsione dell’art. 57 TUR secondo cui “sono solidalmente obbligati al pagamento dell’imposta le parti contraenti” senza altra specificazione.

4.2. I soggetti passivi dell’imposta dovuta relativamente al contratto ceduto Maggiore interesse, anche sotto il profilo sistematico, la questione relativa al possibile coinvolgimento del cessionario negli obblighi fiscali connessi al contratto ceduto. Al riguardo si deve premettere che il problema non si pone quando tutti gli obblighi strumentali e l’obbligazione di imposta siano stati già adempiuti anteriormente alla cessione. Tuttavia, la cessione del contratto può riguardare anche (i) i contratti soggetti a condizioni sospensive ovvero che comunque danno luogo ad ulteriore liquidazione dell’imposta e (ii) i contratti di locazione per i quali la liquidazione dell’imposta può essere assolta annualmente ai sensi dell’art. 17, comma 3, TUR. Le due ipotesi devono essere esaminate separatamente. Infatti, in entrambi i casi si ha una divergenza fra soggetto tenuto al pagamento dell’imposta e parte (originariamente) contraente. Tuttavia, tale divergenza si verifica secondo moduli non coincidenti. A) In presenza di contratti soggetti a condizione sospensiva o i cui effetti reali siano differiti nel tempo o, ancora, in cui le prestazioni rilevanti ai fini dell’applicazione dell’imposta divengano determinabili successivamente, si ha una modificazione soggettiva della titolarità tanto dell’obbligo di denuncia della verificazione dell’evento (per effetto del quale il contratto diventa efficace, o l’effetto traslativo si realizza, o la prestazione diventa determinata) disciplinato dall’art. 19 TUR, quanto della conseguente obbligazione d’imposta che, ai sensi dell’art. 57 TUR, è riferibile ai (soli) soggetti che “hanno sottoscritto o avrebbero dovute sottoscrivere le denunce” di cui all’art. 19. La determinazione dei soggetti obbligati alla denuncia costituisce il presuppo-

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sto per l’identificazione dei soggetti tenuti, in solido, al pagamento dell’imposta. L’art. 19 riferisce l’obbligo di denuncia solo alle parti contraenti o ai loro aventi causa, senza distinguere fra le possibili diverse vicende per le quali si realizza la successione nel rapporto. Poiché il cessionario del contratto subentra al cedente ai sensi dell’art. 1406, egli deve essere considerato quale “avente causa” del primo. Come tale, il cessionario è obbligato (insieme con il contraente ceduto) alla sottoscrizione della denuncia relativa agli eventi che rendono efficace il contratto ceduto o determinate le prestazioni nello stesso dedotte ed è tenuto (in solido con il ceduto medesimo) al pagamento dell’imposta ai sensi dell’art. 57 TUR. Simmetricamente, si deve ritenere che il dante causa (ossia il contraentecedente), è estraniato tanto dagli obblighi di registrazione della denuncia, quanto dall’obbligazione di imposta. B) Per i contratti di locazione, diversamente dal caso precedentemente esaminato, l’obbligo di registrazione è stato assolto e non vi è alcun altro obbligo formale differito nel tempo. La (peraltro facoltativa) liquidazione annuale dell’imposta relativa ai contratti di locazione pluriennale di immobili urbani costituisce un’agevolazione, nella misura in cui consente una dilazione (frazionata e con interessi “impliciti”) del pagamento di un’obbligazione unitaria già sorta al momento della registrazione del contratto. Tuttavia, non è dubbio che la successione nel contratto determini la successione nel debito d’imposta: è sufficiente pensare al caso della cessione dell’immobile da parte del locatore che determina certamente la successione del nuovo proprietario sia nella titolarità del rapporto di locazione, sia nel debito d’imposta per le rate non ancora scadute. Si deve quindi ritenere che l’art. 57 debba essere interpretato nel senso che le parti contraenti solidamente tenute al pagamento dell’imposta, non sono quelle originarie, bensì sono quelle che hanno tale qualità al momento in cui l’imposta deve essere versata. D’altra parte, con specifico riferimento ai contratti pluriennali di locazione di immobili urbani, non si deve sottovalutare la circostanza che, ancorché l’obbligazione d’imposta sorga al momento della registrazione del contratto, la sua effettiva debenza è risolutivamente condizionata alla permanenza del rapporto locativo, essendo espressamente previsto il rimborso dell’imposta in caso di risoluzione del contratto 40.

40 Si veda, al riguardo, C.I.C.T. di Roma n. 39 del 21 febbraio 1987, Dir. TT.AA., nella quale si è escluso, con riferimento al contratto di locazione di immobili con validità pluriennale, che l’Ufficio, dopo la registrazione, dovesse procedere all’iscrizione a campione unico delle rate in sospeso ai fini della riscossione delle annualità di imposta successive alla prima “in quanto tali annualità di imposta non sono dovute in caso di scioglimento anticipato del contratto pluriennale di locazione di immobili”.

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5. La base imponibile Nell’imposta di registro, come è noto, la regola generale che presiede alla determinazione della base imponibile dei contratti bilaterali con prestazioni a carico di entrambe le parti (come desumibile dal complesso delle regole che disciplinano i singoli contratti) è che essa (base imponibile) (i) è costituita dal valore delle prestazioni di una sola parte e (ii) che tale prestazione può essere individuata o nel corrispettivo, o nel valore dichiarato nell’atto dei beni e diritti, o, infine, nel valore venale degli immobili, dei diritti reali immobiliari o delle aziende per gli atti che hanno ad oggetto gli stessi. Nella prospettiva della tesi oggi dominante secondo cui la cessione di contratto ha ad oggetto il trasferimento, verso corrispettivo, della posizione contrattuale (c.d. teoria unitaria), la base imponibile dovrebbe essere rappresentata o dal corrispettivo o dal valore della posizione contrattuale. Tradizionalmente, come si è anticipato, la soluzione prescelta dal legislatore attesta la sua preferenza per la c.d. tesi “atomistica” e questo risulta evidente dal fatto che, fin dall’origine, la regola sulla determinazione della base imponibile prendeva in considerazione sia le prestazioni disciplinate dal contratto di cessione, sia quelle proprie del contratto ceduto.

5.1. La successione delle discipline relative alla base imponibile: a) fino al 1972 L’affermazione appena fatta trova immediata corrispondenza nella disciplina della base imponibili delle cessioni di contratto vigente fino al 1972. Si è già detto, infatti, che la formula normativa restata in vigore per quasi un secolo individuava la base imponibile nelle “rate non per anco decorse dei prezzi e dei corrispettivi”. Essa riguardava la circoscritta fattispecie delle locazioni. Ora, rispetto alle locazioni propriamente dette, occorre osservare che la cessione del contratto può avvenire solo da parte del conduttore. Il proprietario non può cedere il rapporto senza trasferire anche il bene 41. La regola sulla determinazione della base imponibile si risolveva, quindi, nell’affermazione secondo cui la base imponibile era costituita dai canoni di locazione ancora dovuti dal (nuovo) conduttore e dal corrispettivo aggiuntivo da questi dovuto al cedente in quanto «questa somma per il cessionario è un maggior corrispettivo» della locazione 42. 41 Lo notava puntualmente CLEMENTINI P., Le leggi sulle tasse di registro, Torino, 1907, I, p. 601 secondo il quale, quando la cessione è posta in essere dal proprietario e non dal conduttore «torna applicabile […] la norma di tassazione per le cessioni dei crediti». 42 Così CLEMENTINI P., Le leggi sulle tasse di registro, cit., p. 602.

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La disciplina adottata dall’art. 54 del R.D. n. 3269/1923, nel riferirsi testualmente alle “rate […] dei fitti”, rappresentava null’altro che la riformulazione di questo principio in modo più aderente alla fattispecie una volta che le locazioni erano state opportunamente distinte dagli appalti. È evidente, insomma, come questa regola consideri che la prestazione del cessionario del contratto è costituita, non già dal solo corrispettivo della cessione, ma anche dalle prestazioni “passive” nelle quale egli succede secondo la logica per cui la cessione di contratto è una vendita delle prestazioni “attive” dovute dal contraente ceduto in cui “l’intero prezzo, tutto i corrispettivo dell’attivo … non è costituito soltanto dal cosiddetto prezzo della cessione … ma è costituito dal peso debiti più il prezzo della cessione” 43. La disciplina della base imponibile poneva qualche problema in più per i contratti di appalto. Probabilmente l’ipotesi cui il legislatore faceva riferimento era quella della cessione del contratto da parte dell’appaltante, ma è evidente che nella prassi poteva presentarsi anche il caso opposto in cui il contratto era ceduto dall’appaltatore. Fu subito avvertito che in una simile fattispecie il ruolo economico svolto dal “corrispettivo” della cessione era diverso. In un sistema in cui la regola generale per la determinazione della base imponibile è rappresentata dal “corrispettivo”, è certamente differente la funzione propria della maggior somma dovuta dal cessionario del contratto, se il cedente è colui su cui incombe l’obbligazione pecuniaria corrispettiva del godimento del bene e della esecuzione dell’opera (ossia il conduttore o l’appaltante) rispetto al caso in cui la cessione venga realizzata dall’appaltatore. Se, infatti, nel caso di cessione del contratto di locazione o di appalto da parte di colui che succede nella posizione del conduttore o di appaltante, il maggior prezzo che il contraente cedente riceve dal cessionario corrisponde a un maggior corrispettivo che si somma alla prestazione accollata costituente il termine di riferimento per la determinazione dell’imponibile, viceversa la somma aggiuntiva pagata da colui che subentra, per effetto della cessione, nella posizione dell’appaltatore implica un conguaglio a suo favore della prestazione di riferimento. Questo problema trovava soluzione, secondo la prospettiva della dottrina dell’epoca, nel riferimento da parte della norma ai “maggiori corrispettivi”. Si riteneva, infatti, che la base imponibile non fosse semplicemente aumentata delle somme dovute dal cessionario al cedente, ma solo da quelle che rappresentavano un incremento del corrispettivo 44. Ne conseguiva che, nel caso di cessione da 43

In questo senso, il maggior esponente della tesi “atomistica” ossia CICALA R., Cessione del contratto, cit., p. 890. 44 In questo senso, molto chiaramente, UCKMAR A., La legge di registro, cit., p. 275 e, ivi, anche la citazione della giurisprudenza e degli orientamenti ministeriali conformi; BERLIRI A., Le leggi di registro, Milano, 1961, p. 390 (il quale però riferisce di una pronuncia della Cassazione orientata in senso contrario).

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parte dell’appaltatore, avrebbe concorso alla formazione della base imponibile solo la somma eventualmente corrisposta dal cedente al cessionario e non viceversa 45. Il tutto, lo ripetiamo, in aderenza alla prospettiva atomistica che rifletteva una visione “civilistica” dell’istituto (e quindi più vicina, come si è già detto, alla logica complessiva del tributo di registro) e, viceversa, in contrapposizione alla soluzione “unitaria” propria dei commercialisti e incentrata sulla specifica funzione circolatoria di secondo grado propria della “vendita di contratto” 46.

5.2. (segue) b) l’art. 41 del D.P.R. n. 634/1972 La formula impiegata nell’art. 41, comma 1, n. 4), del D.P.R. n. 634/1972, come si è detto, si discosta da quella previgente facendo riferimento all’“ammontare complessivo del corrispettivo pattuito per la cessione o [d]al valore delle prestazioni ancora da eseguire”. Letteralmente sembra una soluzione molto diversa da quella precedente. Si deve tener conto, tuttavia, di due elementi. Il primo è che, comunque, la si voglia interpretare, anche la formula dell’art. 41 cit., appare ispirata alla considerazione non già delle sole prestazioni proprie del contratto di cessione, ma anche a quelle proprie del contratto ceduto secondo il criterio che già presiedeva alla disciplina precedente. Il secondo è che il legislatore del 1972, nell’applicazione di tale criterio, si venne a trovare nella necessità di individuare una formula che fosse idonea ad abbracciare tutte le tipologie contrattuali, giacché, a differenza del regime anteriore, la nuova disciplina della cessione riguardava sia fattispecie contrattuali la cui base imponibile era costituita dai “corrispettivi”, sia altre per le quali prevaleva il riferimento al “valore”. Il principio della considerazione “cumulativa” del contratto ceduto e del contratto di cessione, in altri termini, deve essere applicato tenendo anche conto delle diverse regole di determinazione del valore. In questa prospettiva, pertanto, l’art. 41, comma 1, n. 4 del D.P.R. n. 634/1972 non sarebbe altro che una particolare declinazione dell’art. 48 del D.P.R. n. 634/1972 (corrispondente all’odierno art. 51 TUR): (i) i “corrispettivi complessivi” sarebbero costituti dal corrispettivo eventualmente dovuto da cessionario al contraente-cedente e dalle prestazioni “passive” accollate al medesimo; (ii) questo corrispettivo rappresenterebbe la base imponibile per la cessione di tutti i contratti la cui base imponibile è costituita sempre dal corrispettivo; (iii) vicever45

Così BERLIRI A., Le leggi di registro, cit., p. 390. Secondo la prospettiva affermata, fin da subito, da MOSSA L., La vendita del contratto, cit., passim. 46

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sa, per i contratti la cui base imponibile è costituita dal valore dichiarato ovvero dal valore venale, si dovrebbe fare riferimento al valore dichiarato (se maggiore dei corrispettivi) o al valore venale (in ogni caso) ciò che giustificherebbe la congiunzione disgiuntiva “o” presente nell’art. 41, comma 1, n. 4) cit.

5.3. (segue) c) la soluzione vigente Sebbene non constino particolari applicazioni dottrinali o giurisprudenziali non sembra tuttavia che la soluzione indicata sia quella consolidatasi nella prassi. Tanto è vero che l’art. 43, comma 1, lett. d) del TUR – nel momento in cui ha stabilito che la base imponibile delle cessioni di contratto è costituita “dal corrispettivo dovuto per la cessione e dal valore delle prestazioni ancora da eseguire” – ha disciplinato la base imponibile in un modo che non è semplice ricondurre all’interpretazione appena proposta. La stessa Corte costituzionale, sia pure incidentalmente, ha rilevato la differenza nella disciplina recata dall’art. 41, comma 1, n. 4) rispetto a quella risultante dal vigente art. 43, comma 1, lett. d) TUR 47 ed è difficile sostenere, come pure si è fatto in dottrina, che la modifica sia un mero refuso anche tenuto conto del fatto che nella nuova disposizione, oltre alla sostituzione della disgiuntiva “o” con la copulativa “e”, è venuto meno il pur importante riferimento al corrispettivo “complessivo”. Questo non significa, peraltro, che sia venuto meno l’implicito riferimento alla concezione atomistica che, anzi, appare rafforzato proprio dall’impiego della copulativa. Nel ricercare l’esatto significato della nuova formula, si deve quindi tenere presente a nostro avviso che, nella prospettiva tradizionalmente seguita dal legislatore, sia pure con le oscillazioni segnalate, è sempre rimasto fermo il concetto che le prestazioni “passive” in cui il contraente cessionario succede, costituiscono parte del corrispettivo della cessione secondo la logica, come si è detto, dell’accollo e che, proprio seguendo tale impostazione il corrispettivo della cessione in senso stretto costituisce una maggiorazione del prezzo della cessione (da sommare, cioè, alle prestazioni accollate) se dovuto dal cessionario; se, invece, il corrispettivo della cessione è dovuto dal cedente, esso “semplicemente conguaglia la sperequazione fra credito ceduto e debito accollato” 48. Questo rilievo, sembra escludere la possibilità che il corrispettivo della cessione, se dovuto dal cedente, si sommi alle prestazioni “accollate” dal cessionario. La necessità, tuttavia, di cumulare in ogni caso il corrispettivo della cessione e 47 48

Cfr. Corte cost., sent. n. 336/1992. In questo senso, ancora, CICALA R., Cessione del contratto, cit., p. 892.

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il valore delle prestazioni residue [derivante dalla formula dell’art. 43, comma 1, lett. d)] impone, allora, di assumere un diverso termine di riferimento proprio per queste ultime. In altri termini, secondo la proposta che sembrerebbe di poter formulare, la base imponibile sarebbe diversamente determinata a seconda che il corrispettivo della cessione sia dovuto dal cessionario o dal cedente. Poiché, secondo la prospettiva propria di questa disciplina, il prezzo rappresenta, in ogni caso e in definitiva, il conguaglio della differenza di valore fra le prestazioni “passive” accollate e quelle “attive” cedute, appare logico che il conguaglio sia sommato a quella, fra le prestazioni che, a seconda di chi è tenuto a pagare il conguaglio, dovrebbe risultare, secondo l’apprezzamento dei contraenti, inferiore. Cosicché, se il corrispettivo della cessione è dovuto dal cessionario, la base imponibile sarà costituita, secondo la soluzione classica, dalla somma delle prestazioni “passive” in cui questi succede e dal corrispettivo. Se il corrispettivo della cessione è dovuto da cedente, la base imponibile sarà costituita dalle prestazioni “attive” di cui il cessionario diventa creditore e dal corrispettivo. In entrambi i casi, per la valutazione delle prestazioni ancora dovute si dovrà fare riferimento alle regole ordinarie di valutazione dell’imposta di registro, eccezion fatta per il rilievo che l’art. 51, comma 1, TUR attribuisce al valore dichiarato in atto che, a contratto in corso di esecuzione, risulta privo di qualsiasi valore indicativo. Se manca il corrispettivo per la cessione, si dovrebbe procedere semplicemente a determinare la base imponibile secondo le regole proprie del contratto ceduto. Questa interpretazione non sembra incoerente con la Nota I del nuovo art. 8bis della Tariffa che prevede un’aliquota ad hoc del 4% per le cessioni di contratti di leasing. Secondo la disposizione in esame, la base imponibile è costituita dal corrispettivo della cessione e dalla quota capitale dei canoni residui. E sembrerebbe allora corretto – secondo la lettura proposta e tenuto conto che questa disciplina si riferisce alle sole cessioni dei contratti di leasing immobiliare da parte dell’utilizzatore e che, di norma, questi chiederà il rimborso anche della quota residua del maxicanone – che il corrispettivo di cui è debitore il cessionario del contratto si sommi alle prestazioni nel cui debito il cessionario subentra. Resta fermo che la nuova disciplina è, invece e comunque, innovativa nella misura in cui attribuisce rilievo alla sola quota capitale dei canoni di leasing e non ai canoni lordi. Non dovrebbero, invece, considerarsi ricomprese nella disposizione in esame i casi, sempre possibili, in cui l’utilizzatore ha interesse a liberarsi delle obbligazioni e riconosce un corrispettivo al cessionario. Rispetto a tali ipotesi ci sembrerebbe più congruo mantener fermo il criterio prima indicato (e, quindi, indivi-

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duare la base imponibile nella somma delle conguaglio dovuto dal cedente e delle prestazioni “attive” nelle quali il conduttore succede).

5.4. Caparra e corrispettivo della cessione Un problema a parte è costituito dall’inserzione nel contratto di cessione di pattuizioni aggiuntive che riguardano la restituzione di somme anticipate dal cedente senza funzione di corrispettivo. Questo è, tipicamente, il caso della caparra ove non sia previsto che essa sia imputabile in conto prezzo. In tali ipotesi, poiché il contraente che ha ricevuto la caparra deve restituirla, in caso di conclusione del contratto, alla parte che ha eseguito tale prestazione o al suo avente causa, è giusto che se il cessionario del contratto corrisponda al contraente-cedente una somma pari alla caparra, se per effetto del contratto succede nel diritto alla restituzione, ovvero riceva dal cedente una somma equivalente, se invece si ha successione nel debito. In nessuno dei due casi, tali attribuzioni patrimoniali hanno la funzione di corrispettivo della cessione – specie secondo la logica propria della disciplina illustrata – e non possono concorrere alla formazione della base imponibile.

5.5. Cessione del contratto e contratto per persona da nominare Merita segnalare, infine, che questa disciplina della base imponibile, comunque la si voglia interpretare, certamente attribuisce rilievo, nelle vicende circolatorie del contratto, alle vicende patrimoniali che intercorrono fra cedente e cessionario. Questa soluzione, certamente corretta in linea di principio, evidenzia però un ulteriore profilo di irrazionalità nella già scarsamente razionale disciplina della cessione del contratto per persona da nominare. Invero, anche questa disciplina appare ispirata, nei casi in cui il termine per la nomina sia contrattualmente fissato in una durata maggiore dei canonici 3 giorni (e l’electio avvenga di fatto dopo il terzo giorno) all’idea della doppia cessione e al principio di “equiparazione” 49. Tuttavia, mentre è certo che nella cessione di contratto propriamente detta, la base imponibile dell’imposta è influenzata, nei termini anzi detti, dal corrispettivo della cessione, nel caso del contratto per persona da nominare tale corrispettivo non riceve alcuna considerazione normativa. Si prospettano quindi, a mio avviso, due soluzioni interpretative. 49

Cfr. FEDELE A., Le presunzioni nella disciplina delle imposte di registro e sull’incremento di valore degli immobili, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1985, I, p. 562 e BRACCINI R., Contratto per persona da nominare: II) Diritto tributario, cit., p. 9.

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O si applica analogicamente l’art. 43, comma 1, lett. d) a tutte le cessioni di contratto, sia quelle espressamente qualificate tali, sia quelle implicitamente equiparate. Oppure si considera la convenzione fra stipulante e amicus in cui sia pattuito un prezzo della cessione come un generico contratto avente contenuto patrimoniale ai sensi dell’art. 43, comma 1, lett. h). Ancorché la prima potrebbe apparire quella più razionale, sembra difficilmente argomentabile su base normativa. E questo specialmente perché, anche ove si riuscisse ad ampliare la base imponibile della “cessione di contratto” realizzata tramite la riserva di nomina fino ad includervi il corrispettivo riconosciuto dal cessionario al cedente, sembra non agevole pervenire all’affermazione dell’identità di aliquota essendo chiara la distinzione che, sotto tale profilo, viene delineata dagli artt. 31 e 32 TUR. Non resta che optare, quindi, per la seconda soluzione che, ovviamente, comporta l’applicazione dell’aliquota residuale del 3%.

6. L’aliquota Come si è detto, la regola generale è quella secondo cui l’aliquota applicata alla cessione di contratto è quella propria del contratto ceduto. Le modifiche recentemente introdotte – ossia l’ultimo periodo dell’art. 40, comma 1 bis e, in special modo, l’introduzione del nuovo art. 8 bis della tariffa – hanno scarso valore sistematico, ma certamente presentano il pregio di aver evidenziato un problema che si pone, con riguardo alla determinazione dell’aliquota, quando il contratto ceduto è soggetto a IVA. Invero, il caso contemplato dalle nuove disposizioni è derogatorio rispetto alla disciplina generale solo se l’utilizzatore è un soggetto IVA che ha sottoscritto il contratto di locazione finanziaria nell’esercizio della sua attività e che ancora sta proseguendo nell’attività medesima. Infatti, in linea generale e conformemente a quanto si ritiene anche per il contratto per persona da nominare in caso di electio tardiva 50, il fatto che il contratto ceduto (e, quindi, anche il contratto di leasing) sia soggetto a imposta sul valore aggiunto, non impedisce in alcun modo che la relativa cessione sia soggetta a imposta di registro se il cedente non è un soggetto IVA 51. L’art. 31 TUR, nel rinviare all’aliquota propria del contratto ceduto, infatti, non presuppone che il contratto ceduto sia effettivamente soggetto a imposta di 50 Cfr. BRACCINI R., Contratto per persona da nominare: II) Diritto tributario, cit., 7 ss. RAGUCCI G., Commento all’art. 32, cit., p. 830. 51

Nel medesimo senso RAGUCCI G., Commento all’art. 31, cit., p. 827.

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registro, bensì solo che vi sia un corrispondente “tipo contrattuale” per il quale sia prevista l’imposta. Ne consegue che, se lo specifico tipo contrattuale non è riconducibile a un preciso articolo di Tariffa Parte Prima, si applicherà la disposizione residuale dell’art. 9 Tariffa Parte Prima che fissa l’aliquota nella misura del 3%. Questa disciplina sembrerebbe trovare eccezione nel caso in cui il contratto ceduto sia un contratto di locazione visto che l’ultima parte dell’art. 31, TUR stabilisce l’esclusione “della cessione prevista dall’articolo 5 della parte prima della tariffa”. Tuttavia, secondo la prassi amministrativa, l’esclusione riguarda le sole “cessioni” previste dall’art. 5 Tariffa Parte Prima, ovvero soltanto le “cessioni senza corrispettivo” disciplinate dalla Nota I all’art. 5 cit. 52. E, d’altronde, se l’eccezione riguardasse la cessione di tutti i contratti di locazione si dovrebbe pervenire alla conclusione, abbastanza incongrua, di ritenere applicabile a tali atti l’aliquota residuale di cui all’art. 9 della Tariffa Parte Prima. Una seconda questione relativa alla misura dell’imposta dovuta per le cessioni di contratti di locazione attiene all’esatta determinazione dell’ambito di applicazione della disciplina. La ratio della disposizione non è chiarissima, ma si deve considerare che essa riguarda essenzialmente la posizione del conduttore, non essendo possibile, come si è già detto, la cessione del contratto da parte del locatore. Può quindi profilarsi il dubbio, in questa prospettiva, se, con riferimento alle sublocazioni – la cui cessione è espressamente ricondotta al particolare regime in esame dal medesimo art. 5 della tariffa –, possa applicarsi l’imposta fissa anche alle cessioni poste in essere dal sublocatore. Probabilmente, però, la questione deve avere soluzione positiva, specie se questa disciplina può essere spiegata nella chiave sistematica di cui si dirà al successivo n. 7.

7. Le duplicazioni d’imposta Al di là dei problemi interpretativi esaminati e che, pur se con talune incertezze, sembrano complessivamente risolvibili, il regime delineato può dar luogo a fenomeni che si configurano come vere ipotesi di duplicazioni di imposta ai quali conviene conclusivamente far cenno. Ovviamente, non si ha alcuna duplicazione di imposta per il solo fatto che l’imposta proporzionale di registro sia applicata sia al contratto ceduto, sia alla sua successiva cessione.

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Cfr., Cir. 12/E del 16 gennaio 1998 e Cir.36/E del 9 luglio 2003.

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Se si ricostruisce la vicenda come un doppio trasferimento, l’iterazione dell’imposta è perfettamente naturale tanto nel caso della cessione vera e propria, quanto in quello della nomina del terzo dopo la scadenza del termine di tre giorni 53. In tutti questi, l’inesistenza di una duplicazione è resa evidente dalla diversità soggettiva degli obbligati: per il primo passaggio l’imposta è dovuta dalle parti del contratto ceduto, nel caso del secondo trasferimento l’imposta è dovuta dalle parti del negozio di cessione.

7.1. A) Con riferimento alle ipotesi di successione del cessionario nell’obbligazione di imposta per il contratto ceduto: a) in generale Il problema si pone – per vero sia rispetto al contratto per persona da nominare, sia rispetto alla cessione del contratto – quando il secondo trasferimento riguardi un contratto per il quale l’obbligazione di imposta sia sospesa o sia dilazionata nel tempo. È il caso, sul quale ci siamo già soffermati, dei contratti sospensivamente condizionati o con prezzo da determinare e di quelli di locazione pluriennali di immobili urbani. In questi casi, la liquidazione dell’imposta è rinviata per la totalità del valore del contratto o relativamente alle prestazioni per le quali il corrispettivo non sia ancora determinato o per le annualità future di corrispettivo della locazione. Intervenuta la cessione, pertanto, il cessionario del contratto, come si è già rilevato, sarà obbligato sia al pagamento (in solido con il contraente cedente e il contraente ceduto) dell’imposta relativa alla cessione (secondo le regole illustrate in precedenza), sia al pagamento (in solido con il solo contraente ceduto e con esclusione del contraente cedente) dell’imposta relativa al contratto ceduto quando si avvererà la condizione sospensiva o il corrispettivo sarà determinato ovvero al compiersi di ciascuna annualità. È evidente che di tale maggior onere si terrà verosimilmente conto nei rapporti interni fra le parti (oltre che nel calcolo del corrispettivo della cessione anche mediante appositi “patti sull’imposta” che mai come in questo caso appaio legittimi). Ma è altresì evidente che questo modo di operare è in contrasto proprio con la logica del doppio trasferimento, perché affida, tutt’al più, all’operare dell’autonomia negoziale (e dei variabili rapporti di forza fra i contraenti), l’applicazione dell’imposta su una delle parti che ha posto in essere il primo trasferimento e che, in quella logica, ha integrato il presupposto e posto in essere la fattispecie espressiva di capacità contributiva.

53 Correttamente esclude la duplicazione BRACCINI R., Contratto per persona da nominare: II) Diritto tributario, cit., p. 8.

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7.2. (segue) b) con particolare riferimento alla cessione dei contratti di locazione È forse in questa prospettiva che può essere spiegato – in chiave, quindi, sistematica – il particolare regime della cessione dei contratti di locazione pluriennali di immobili urbani di cui alla Nota I della Tariffa Parte Prima. Essa evita, in altri termini, che il cessionario sia soggetto all’imposta sia con riguardo al contratto di locazione, sia con riguardo alla cessione del contratto.

7.3. Le duplicazioni con riguardo alle cessioni di contratti soggetti a imposta sul valore aggiunto Non dissimile è il caso in cui il contratto ceduto sia soggetto all’imposta sul valore aggiunto se il momento impositivo si verifica successivamente alla cessione. In questi casi, se il contraente cedente non è un soggetto IVA e la posizione contrattuale ceduta è quella del compratore del bene o del committente del servizio, il cessionario sarà soggetto all’imposta di registro (in solido con il cedente) e all’imposta sul valore aggiunto quando sarà realizzato il momento impositivo. Si noti, peraltro, che in questa ipotesi non vi è solidarietà quanto alla seconda obbligazione. La situazione si complica ulteriormente tendendo al parossismo se si considera l’ipotesi della cessione del contratto di leasing immobiliare da parte di un utilizzatore soggetto passivo ai fini dell’imposta sul valore aggiunto a favore di un privato. Invero, se si accede alla tesi, certamente da preferirsi, secondo cui il riferimento alle cessioni di contratto verso corrispettivo di cui all’art. 3, comma 1, n. 5 del D.P.R. n. 633 del 1972 comprende anche le cessioni a titolo oneroso, la cessione del contratto di leasing è certamente soggetta a IVA, anche se non vi è un corrispettivo aggiuntivo, su una base imponibile pari al debito per i canoni futuri, in quanto tale prestazione rappresenta, nei rapporti fra contraente cedente e cessionario del contratto, l’accollo del debito del cedente che costituisce il “corrispettivo” della cessione 54. Inoltre, il medesimo soggetto, mano a mano che maturerà il debito per i singoli canoni, sarà nuovamente soggetto all’IVA applicata dalla locatrice. In tutti e due i casi, se, come abbiamo ipotizzato, il cessionario non è un soggetto passivo ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, l’IVA non è ovviamente per questi detraibile. Infine, per espressa previsione dell’art. 40, comma 1-bis e dell’art. 8-bis Tariffa Parte Prima TUR, il medesimo soggetto sarà obbligato anche al pagamento dell’imposta di registro nella misura del 4% sull’ammontare della quota capitale dei canoni non ancora scaduti. 54

In questo senso CICALA R., Cessione del contratto, in Enc. dir., Milano, 1960, VI, p. 878 ss.

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Volendo ulteriormente complicare si può solo immaginare che il cedente, pur avendo anticipato il maxicanone, decida, per spirito di liberalità, di non chiedere il rimborso di tale ammontare al cessionario. Il caso merita di essere segnalato solo per la questione teorica che pone. Ci si può chiedere, infatti, se l’esclusione dell’alternatività – prevista dal citato art. 40, comma 1 bis – valga solo ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, o implichi, più genericamente, l’assoggettamento del negozio alla totalità delle regole proprio dell’istituto tributario, ivi inclusa quella di cui all’art. 25 TUR, ancorché questa disposizione a sua volta rinvii, in parte, alle disposizioni dell’imposta sulle successioni e donazioni. Se così fosse, come sembrerebbe corretto, allora, nel caso ipotizzato si avrebbe, oltre al doppio assoggettamento a IVA e alla applicazione dell’imposta di registro anche l’applicazione dell’imposta sulle donazioni per la parte corrispondente alla disposizione a titolo gratuito.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA RILEVANZA DELL’AVVIAMENTO NELLA CESSIONE “INDIRETTA” DELL’AZIENDA E SULLA DETERMINAZIONE DEL VALORE DEGLI IMMOBILI

di Susanna Cannizzaro SOMMARIO: 1. Sintesi del caso e della decisione. – 2. Cessione d’azienda e di partecipazioni. L’avviamento. – 3. Ulteriori considerazioni sulla cessione di immobili. Valori catastali, venali e normali.

1. Sintesi del caso e della decisione Il caso di cui alla sentenza da cui si prende spunto per svolgere le considerazioni che seguono 1, riguarda la ripresa a tassazione ai fini IRPEG in capo ad una SRL, e IRPEF nei confronti del socio di maggioranza (titolare della quota partecipativa dell’ottantanove per cento), di plusvalenze non contabilizzate derivanti da cessione di una quota di partecipazione del novanta per cento in altra società e di alcuni immobili precedentemente acquistati. L’Agenzia delle Entrate aveva contestato, quanto alla cessione della partecipazione, la mancata considerazione del valore dell’avviamento commerciale dell’azienda detenuta dalla società cui afferiva la partecipazione ceduta. Circa il trasferimento degli immobili, l’emersione di una plusvalenza e la sua ripresa a tassazione derivava dalla rettifica, operata dall’amministrazione, del prezzo di cessione dichiarato dalle parti, ritenuto dall’Agenzia “inverosimile” in quanto inferiore al prezzo d’acquisto del bene stesso. Il ricorso proposto dalla società contribuente e dal socio contro gli avvisi notificati era stato inizialmente respinto dal giudice di primo grado, ma successivamente accolto dalla Commissione tributaria regionale. Il giudice di secondo grado aveva escluso che la cessione degli immobili potesse dar luogo, nel caso di specie, all’emergenza di una plusvalenza, poiché il valore dichiarato era superiore 1

Cass., sent. 21 dicembre 2011, n. 27987, in Riv. trim. dir. trib., 2012, p. 1079.

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a quello ricavabile dalle risultanze catastali e da ciò doveva scaturire l’impossibilità per l’amministrazione di procedere ad una rettifica. Quanto alla cessione della partecipazione, la Commissione tributaria regionale – pur non soffermandosi sulla correttezza dell’operato dell’ufficio in ordine alla considerazione dell’avviamento come elemento da includere nella determinazione del valore di realizzo della partecipazione – aveva escluso in radice che potessero essere assoggettate a tassazione plusvalenze in capo alla società, attesa l’esistenza, negli anni contestati, di perdite deducibili. La Cassazione, rigettando il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate e rispondendo ai quesiti di diritto formulati, è entrata invece nel merito delle questioni sottese all’avviso emanato nei confronti dei contribuenti e ha chiarito che nella fattispecie non poteva ravvisarsi alcuna plusvalenza fiscalmente rilevante. Per la cessione di partecipazioni, infatti, non poteva in alcun modo essere preso in considerazione l’avviamento, posto che quest’ultimo si atteggia a bene dell’azienda solo nel caso di trasferimento dell’azienda stessa o di un suo ramo. Secondo la Cassazione, tuttavia, il realizzo dell’avviamento può avvenire non solo con la «sostituzione nell’impresa di un soggetto diverso mediante trasferimento del complesso dei beni aziendali ad altra società o ad altro imprenditore» ma anche «mediante la concentrazione dell’intero pacchetto nella persona di un unico socio». Non può invece «ravvisarsi il realizzo dell’avviamento nella cessione di una quota sociale ad un terzo estraneo alla società». Il giudice di legittimità, dunque, pur negando che sussistessero i presupposti per il realizzo nel caso di specie, ha ritenuto possibile considerare l’avviamento al fine di verificare l’emersione della plusvalenza in caso di cessione della totalità delle partecipazioni, considerando quindi pienamente equiparabili la cessione di azienda e la concentrazione di tutte le partecipazioni in mano ad un unico soggetto. Quanto alla seconda delle problematiche affrontate, riguardo l’asserita esistenza di una plusvalenza immobiliare, la Cassazione afferma che, in linea generale, sulla scorta dell’orientamento consolidato in tema, esiste una presunzione di corrispondenza del valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro con il prezzo incassato, rilevante ai fini della determinazione di un’eventuale plusvalenza tassabile. Per l’imposta di registro, tuttavia, laddove siano previsti meccanismi automatici per limitare l’azione accertatrice, non è esclusa la possibilità per l’ufficio di rideterminare il valore degli immobili solo ai fini delle imposte dirette. Ciò in quanto, secondo la Cassazione, con il meccanismo della c.d. “valutazione automatica” il legislatore «non ha inteso individuare per i beni, immobili una base imponibile diversa dal valore venale del bene, ma soltanto introdurre ... una mera preclusione al potere d’accertamento». Entrambe le questioni affrontate nella decisione in commento destano interesse e meritano un approfondimento.

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ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA RILEVANZA DELL’AVVIAMENTO

2. Cessione d’azienda e di partecipazioni. L’avviamento Nella pronuncia in questione il giudice di legittimità afferma che l’azienda può essere “trasferita” anche mediante la concentrazione dell’intero pacchetto delle partecipazioni nella persona di un unico soggetto e, in ragione di ciò, ritiene che l’avviamento, in quanto bene aziendale autonomo, si realizzerà, così come prevedono l’art. 51, comma 4, D.P.R. n. 131/1986, ai fini del suo assoggettamento all’imposta di registro. Non risulta chiaramente se, nel caso di specie, l’atto sia stato “riqualificato” utilizzando la leva dell’art. 20 TUR 2. Né, quindi, è dato sapere se l’accertamento effettuato abbia preso le mosse dal controllo sugli atti sottoposti alla registrazione. La Corte sembrerebbe però sostenere che la rilevanza dell’avviamento anche ai fini delle imposte dirette derivi da una diversa qualificazione dell’operazione ai fini delle imposte indirette. Anche muovendo da questo presupposto e ritenendo pienamente equiparabile la cessione della totalità delle partecipazioni alla cessione d’azienda, non paiono comunque condivisibili le conclusioni cui sembra addivenire la Cassazione. La determinazione o la rettifica del valore di avviamento, operata secondo le regole dell’imposta applicabile sul trasferimento del complesso aziendale, non può avere diretta rilevanza in ordine alla determinazione della base imponibile ai fini delle imposte sul reddito, poiché nell’imposizione reddituale i criteri di valutazione rilevano, di regola, solo come indizi di occultamento di corrispettivo. La base imponibile per l’applicazione delle imposte dovute sul “trasferimento” dell’azienda è, infatti, diversa rispetto a quella considerata ai fini delle imposte sul reddito. Nel primo caso si fa riferimento al “valore” del bene, o del complesso dei beni, inteso come valore di mercato degli stessi 3; nel secondo caso per verificare l’emersione, in occasione della cessione, di una componente reddituale, occorre aver riguardo al “corrispettivo” ricevuto e alla differenza rispetto al costo del bene stesso. Se è vero che l’orientamento prevalente della Cassazione è nel senso di presumere coincidente il valore dell’azienda (avviamento compreso) determinato ai 2 La cessione di partecipazioni presenta, sotto il profilo delle imposte indirette, un diverso regime impositivo. Quest’ultimo atto sconta, infatti, l’imposta di registro in misura fissa, mentre la tassazione della cessione d’azienda avviene in misura proporzionale Tale diverso regime deriva, peraltro, dall’eliminazione di un’imposizione alternativa rimossa in ossequio ad una Direttiva comunitaria, ovverosia la tassa sui contratti di borsa, abrogata in ottemperanza alla Direttiva MIFID (Direttiva 21 aprile 2004, n. 39). In tema si veda DENORA, Abolizione della tassa sui contratti di borsa, in Studi e Materiali, 2008, p. 569 ss. 3 Per l’applicazione dell’imposta di registro il corrispettivo risulta rilevante ai fini e della determinazione della base imponibile solo laddove sia superiore al valore del bene dichiarato in atto, soggetto a rettifica per gli immobili e le aziende se non corrispondente al “valore venale” dei beni trasferiti.

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fini dell’imposta di registro con il corrispettivo ricevuto in occasione della sua cessione, è anche vero che nella Pronuncia in esame tale orientamento è richiamato ad altri fini 4. Neppure è possibile sostenere che nei due sistemi impositivi considerati la nozione di avviamento coincida. Al concetto economico di avviamento parrebbe in effetti riferirsi l’art. 51, comma 4, del D.P.R. n. 131/1986 laddove prevede il controllo del valore del complesso aziendale, ai fini della determinazione della base imponibile dell’imposta di registro, anche in relazione all’avviamento. Qui dovrebbe venire in considerazione la sua dimensione meramente economica, la sua determinazione infatti è generalmente effettuata per differenza tra valori di mercato dei singoli beni e valore del complesso aziendale. Quale quota parte della plusvalenza realizzata da chi cede il complesso aziendale, l’avviamento assume invece una connotazione tributaria sicuramente non economica (o solo eventualmente tale), sempre di valore differenziale, emergente però, dallo scostamento tra il corrispettivo pagato dall’acquirente e valore fiscalmente riconosciuto dei singoli cespiti che compongono il compendio aziendale 5. Comunque discutibile appare l’affermazione del giudice di legittimità circa il realizzo dell’avviamento nel caso di specie, qualora si muova dalla diversa prospettiva secondo cui a diversi strumenti giuridici debba essere ricondotta una propria identità e funzione economica, talché l’uno non possa essere considerato equivalente all’altro 6. In quest’ottica si può facilmente osservare che le partecipazioni sono beni di secondo grado, suscettibili di assumere un valore solo in relazione al patrimonio della società emittente e non in via autonoma, quali beni in sé e per sé considerati a prescindere dal patrimonio cui afferiscono 7. Quindi, il valore dell’avviamento dovrebbe sì venire in rilievo nel caso di cessione della (o delle) partecipazione (/i), ma solo in quanto elemento attivo del patrimonio sociale. L’entità dell’avviamento potrà dunque riflettersi sulla determinazione del valore della partecipazione e, di conseguenza, solo indirettamente sulla definizione del corrispettivo 4

Come vedremo nel paragrafo seguente. Così DELLA VALLE, L’avviamento nell’ordinamento tributario, in AA.VV., L’avviamento nel diritto tributario, a cura di Della Valle-Ficari-Marini, Torino, 2012, p. 93 ss. 6 Si veda in questo senso FICARI, Azienda ed avviamento tra accertamento, “prezzi” e autonomia del contribuente, in AA.VV., L’avviamento nel diritto tributario, cit., p. 354; per un caso simile a quello oggetto della sentenza citata in epigrafe si veda PURI, Sulla riqualificabilità come cessione di azienda della cessione dell’intero capitale di una s.r.l., in Studi e Materiali, studio n. 170/2010/T, 2012, secondo il quale lo schema negoziale della cessione totalitaria della partecipazione non è sindacabile ai sensi dell’art. 20 TUR ed inoltre appare incoerente con lo stesso sistema voler qualificare la cessione dell’intera partecipazione come cessione (indiretta) dell’azienda, ove si consideri che l’ordinamento tributario pone, strutturalmente e fisiologicamente, le due operazioni su un piano di pari dignità e di completa alternatività. 7 Così GIACONIA-PRECAGLIA, Cessione e permuta di partecipazioni sociali, in AA.VV., Il regime fiscale delle operazioni straordinarie, a cura di Della Valle-Ficari-Marini, Torino, 2009, p. 88. 5

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della cessione della stessa, che rimarrà in ogni caso liberamente determinabile dalle parti. Si tratterebbe comunque, in questa ipotesi, dell’avviamento pregresso che, in realtà, all’atto della cessione d’azienda, si “consuma” ovverosia si estingue in capo a chi lo aveva in precedenza rilevato, per dar luogo, in capo al nuovo titolare, ad un diverso avviamento, derivante dai termini del nuovo accordo con il precedente titolare 8. L’avviamento di cui il legislatore contempla il realizzo attraverso la cessione del compendio aziendale al quale inerisce è, invece, l’avviamento non contabilizzato, quello “originario” che non è suscettibile di realizzo se non per effetto della cessione del compendio aziendale cui è riferibile. Le plusvalenze cui fa riferimento la disposizione di cui all’art. 86 TUIR sono quelle “delle aziende”, parte delle quali si devono alla valorizzazione dell’avviamento, e non è l’avviamento il “bene” che genera la plusvalenza. In altri termini senza la cessione dell’azienda non può esserci plusvalenza o minusvalenza che sia generata dall’avviamento isolatamente considerato 9.

3. Ulteriori considerazioni sulla cessione di immobili. Valori catastali, venali e normali L’ulteriore questione, evidenziata nel paragrafo introduttivo, che la Pronuncia in esame pone, si ricollega all’orientamento (ormai consolidato) dello stesso giudice di legittimità, cui si faceva prima cenno. Sebbene non manchino pronunce di segno diverso 10, la giurisprudenza della Cassazione da tempo ritiene che in caso di cessione d’azienda o trasferimento di terreni edificabili il valore determinato ai fini dell’imposta di registro sia vincolante per determinare la base imponibile dell’imposta sul reddito, in particolare allo scopo di verificare l’emersione di una plusvalenza fiscalmente rilevante. La giurisprudenza utilizza, per sostenere la sua tesi, due distinte argomentazioni che portano ad una diversa incidenza del valore determinato ai fini del registro nel comparto delle imposte dirette. In alcune pronunce viene invocata l’esistenza di un principio generale – richiamato anche dalla giurisprudenza costituzionale – secondo cui la base imponibile dei tributi che interessano (anche indirettamente) il trasferimento deve essere determinata uniformemente. Muovendo da tale presupposto si afferma 8 Si veda, in questo senso LUPI, L’avviamento è proprio un bene come tutti gli altri?, in Dialoghi trib., 2011, p. 433 ss. 9 Così condivisibilmente ritiene DELLA VALLE, op. cit., p. 96. 10 Cass. n. 16700/2005, CTP Milano n. 202/2010; CTR Lazio n. 83/2007; CTR Lombardia n. 7/2007, nella prassi si veda Nota 7 novembre 1980, n. 9/2512; R.M. 1° luglio 1980, n. 9/1437.

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che per la determinazione della plusvalenza debba farsi diretto riferimento al valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro 11. In altre e più numerose pronunce, i giudici di legittimità hanno sostenuto che il valore acquisito in sede di accertamento dell’imposta di registro abbia invece rilevanza indiretta e possa essere utilizzato come elemento per fondare una presunzione di corrispondenza tra valore venale del bene e corrispettivo 12. L’orientamento della Cassazione, che certamente non incontra il favore della dottrina 13, fino ad oggi ha avuto un ambito di applicazione piuttosto limitato, 11 Cass. n. 1918/2012, in cui si afferma che l’amministrazione finanziaria può fondare il suo accertamento sul valore dato al bene in sede di conciliazione giudiziale ai fini dell’imposta di registro, senza necessità di dover provvedere ad un ulteriore autonomo atto di valutazione; Cass. n. 4117/2002 annotata da SEPIO, Limiti all’efficacia dell’accertamento tributario tra valore venale dei beni e corrispettivo pattuito, in Rass. trib., 2002, p. 1357 e da LUPI, Sentenze giuste, generalizzazioni sbagliate, postilla a RENDA-STANCATI, Vincolanti i valori definiti ai fini dell’imposta di registro ai fini delle imposte sui redditi, in Corr. trib., 2002, p. 2365. L’estensione dei risultati dell’accertamento acquisiti in ambiti impositivi diversi, si assume fondata sull’affermata esistenza di un vincolo, per l’Amministrazione finanziaria, direttamente discendente dai principi costituzionali di uguaglianza, d’imparzialità e di capacità contributiva (artt. 3, 97 e 53 Cost.). Di tali principi infatti – spiega il giudice di legittimità – la Corte costituzionale ha fatto specifica applicazione, nella sent. n. 473/1995, per escludere che un medesimo bene possa subire una diversa valutazione ai fini dell’imposta di registro e dell’INVIM. L’impostazione seguita dalla Cassazione è criticata da MARINI, L’accertamento di maggior valore dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro: eventuali effetti ai fini delle imposte sui redditi in AA.VV., L’avviamento nel diritto tributario, cit., p. 368 ss. 12 Cass. n. 5078/2011, annotata da GARGANESE, Riflessioni in tema di accertamento della plusvalenza patrimoniale da trasferimento di azienda a titolo oneroso, in Riv. dir. trib., 2012, p. 49; Cass. n. 9404/2010; Cass. n. 19380/2008, annotata da D’ANGELO, Note (critiche) sull’utilizzo del valore definitivo ai fini dell’imposta di registro per l’accertamento ai fini delle imposte sui redditi, in Riv. dir. trib., 2009, II, p. 57; Cass. n. 21055/2005; Cass. n. 14581/2001; Cass. n. 14448/2000; Cass. n. 4914/1986; Cass. n. 2101/1990. 13 Senza pretesa di esaustività si veda MARINI, op. cit., p. 365 ss., CORASANITI, La controversa (il)legittimità della rettifica della plusvalenza da cessione d’azienda in base al valore di avviamento definito ai fini del registro, in GT-Riv. giur. trib., 2010, p. 711 ss.; MANCUSO, Automatica trasposizione del valore accertato ai fini dell’imposta di registro nell’accertamento della plusvalenza da cessioni di immobili, in Il Fisco, 2010, p. 7280 ss.; VANNINI, Cessione d’azienda: ancora in tema di contaminazioni tra imposta di registro e imposte dirette, in Dir. prat. trib., 2010, p. 879 ss.; PEDROTTI, La rettifica del corrispettivo conseguito in occasione di cessione di azienda sulla base del valore dell’azienda ceduta definito ai fini dell’imposta di registro, in Dir. prat. trib., 2010, p. 1267 ss.; BEGHIN, La differenza prezzo-valore rileva solo in una “vera” valutazione d’insieme, in Corr. trib., 2008, p. 2934 ss.; ID., Cessione di azienda e presunzione di corrispondenza tra prezzo e valore di mercato, in Corr. trib., 2008, p. 2849 ss.; ID., Il differenziale prezzo-valore (riferito all’azienda) e i cortocircuiti argomentativi della Suprema Corte, in Rass. trib., 2008, p. 1085 ss.; ID., Il trasferimento dell’azienda e l’imposizione sulle plusvalenze nei recenti arresti giurisprudenziali: alla ricerca di punti fermi e di schemi generali di ragionamento, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 135 ss.; FICARI, La “circolazione” dell’azienda nella recente giurisprudenza tributaria, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 125 ss.; D’ANGELO, Note (critiche), cit., p. 59 ss.; BOCCALATTE, Spunti di riflessione sull’azienda ceduta, imposte di registro e sui redditi, in GT-Riv. giur. trib., 2008, p. 84 ss.; GIARETTA, Plusvalenze da cessione d’azienda tra corri-

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perché ristretto era il novero degli atti che si sottraevano al criterio della “valutazione automatica”, in futuro la sovrapposizione di atti di rettifica ai fini dell’imposta di registro e di avvisi di accertamento delle imposte sui redditi è presumibilmente destinata a proporsi con maggiore frequenza 14. Prima dell’introduzione del meccanismo del c.d. “prezzo-valore” 15 nel sistema dell’imposta di registro, era infatti possibile, per le cessioni di immobili, utilizzare il c.d. “valore automatico” determinato sulla base delle risultanze catastali, al fine di precludere all’amministrazione la possibilità di effettuare accertamenti di maggior valore. Attualmente per le cessioni di immobili acquistati in regime d’impresa (o nell’esercizio di un’attività di lavoro autonomo), non potendo più applicarsi il limite al potere di rettifica – almeno secondo quanto ritiene l’amministrazione finanziaria – il valore dichiarato in atto sarà suscettibile di variazione. Viene da chiedersi, allora, a quali conseguenze possa portare un più ampio utilizzo del richiamato orientamento giurisprudenziale, che la stessa Corte sembra adombrare nella pronuncia in commento. È interessante notare, in proposito, che tra gli altri elementi di valutazione di cui gli uffici possono servirsi per l’accertamento di maggior valore 16, vanno annoverati i criteri basati sulle quotazioni dell’osservatorio del Mercato immobiliare dell’Agenzia del Territorio, che l’amministrazione finanziaria utilizza ampiamente come parametro di riferimento 17. L’impiego di tali criteri porta non già spettivo e valore normale, in Corr. trib., 2007, p. 1805 ss.; CAPOLUPO, Valore venale e base imponibile Irpef: un rapporto difficile, in Il Fisco, n. 27, 3 luglio 2006, p. 1-4121 ss.; RENDA-STANCATI, Vincolanti i valori definiti per l’imposta di registro ai fini delle imposte sui redditi, cit., p. 2360 ss.; RAVACCIA, Definizione di azienda e utilizzabilità del valore venale definito per l’imposta di registro anche ai fini dell’Irpef, in Corr. trib., 2000, p. 168 ss. 14 V. in questo senso D’ANGELO, Note critiche, cit., p. 61 ss. 15 Introdotto dalla disposizione di cui all’art. 1, comma 497, L. n. 266/2006. Si veda anche il comma 5 bis, dell’art. 52 TUR e l’interpretazione restrittiva adottata dall’amministrazione secondo la quale il valore automatico può essere utilizzato attualmente solo per determinare la base imponibile nelle ipotesi in cui, sussistendo i presupposti, sia stata espressa specifica opzione Circ. n. 6/E/2007. Adotta un’interpretazione più ampia invece la dottrina, si veda in questo senso MELIS, Questioni attuali in tema di catasto e fiscalità immobiliare, in Rass. trib., 2010, p. 703 ss. 16 Ai sensi dell’art. 51, comma 3, TUR il controllo del valore dichiarato per i beni immobili e i diritti reali immobiliari, può avvenire sulla base di un triplice ordine di criteri; a) effettuando una comparazione con i trasferimenti dello stesso immobile o di immobili similari anteriori di non oltre tre anni; b) capitalizzando il reddito netto mediamente ritraibile da immobili similari; c) utilizzando ogni altro elemento utile, anche eventualmente in relazione alle informazioni fornite dai Comuni. 17 Si veda Agenzia delle entrate, Provvedimento 27 luglio 2007. Le disposizioni del Provvedimento rispondono all’esigenza di determinare periodicamente in modo unitario il valore normale degli immobili oggetto di compravendita nei settori dell’imposta sul valore aggiunto, delle imposte sui redditi e dell’imposta di registro. Per effetto del menzionato Provvedimento del-

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all’accertamento dei valori effettivi dei beni ma dei valori normali 18. In questo caso, dunque, seguendo l’orientamento della Cassazione, laddove il valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro sia determinato su base dei dati OMI, l’emersione di una plusvalenza dovrebbe essere verificata con riferimento a quel valore tendenzialmente “normale” e non all’effettivo valore di mercato 19. Non è peraltro questo l’unico caso in cui nel sistema dell’imposta di registro si fa riferimento a criteri medi o forfettari per la determinazione del valore dei beni, sebbene sia necessario distinguere tra valenza sostanziale o meramente procedimentale delle disposizioni che introducono tali criteri. Attualmente, il “valore automatico”, in deroga alle regole generali di cui all’art. 43 TUR, può costituire la base imponibile per l’applicazione dell’imposta di registro laddove il trasferimento abbia ad oggetto immobili abitativi, sia effettuato nei confronti di soggetti che non esercitano un’attività d’impresa, un’arte o una professione e sia resa specifica opzione in atto 20. Detto in altri termini, dunque, il criterio catastale per le ipotesi in cui si applica il meccanismo del “prezzo-valore”, assume valenza non più solo procedimentale ma sostanziale. Nella prospettiva in cui si pone la giurisprudenza, in questi casi non dovrebbe sussistere la possibilità di avvalersi della presunzione di corrispondenza tra valore e corrispettivo su cui ci si è prima soffermati, con la conseguenza che l’amministrazione potrebbe addivenire ad una diversa determinaziol’Agenzia delle entrate si perviene al valore del fabbricato attraverso un’operazione aritmetica, differente a seconda che si tratti di immobili abitativi o non abitativi. Si veda in tema MASTROIACOVO, L’Agenzia delle entrate fissa i criteri utili per la determinazione del valore normale dei fabbricati, in Corr. trib., 2007, p. 3011 ss.; BEGHIN, I valori dell’OMI al bivio tra presunzioni semplici e legali, in Corr. trib., 2008, p. 2447 ss. 18 Occorre notare che pure per gli immobili ceduti da soggetti IVA, era stata introdotta una presunzione legale di corrispondenza tra corrispettivo e valore normale successivamente eliminata dalla legge comunitaria 2008 che, con l’art. 24 commi 4, lett. f), e 5, ha riformulato l’art. 54, comma 3, D.P.R. n. 633/1972 (in materia IVA) e l’art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/1973 (in materia di imposte sui redditi d’impresa e professionali), eliminando le previsioni in tema di accertamenti immobiliari e valore normale introdotte dal D.L. n. 223/2006 e, quindi, la presunzione legale pro fisco in esse contenuta. V. in tema TASSANI-PISCHETOLA, L’accertamento immobiliare in base al valore normale dopo la legge comunitaria n. 88/2009, in Studi e Materiali, 2009, p. 1489 ss. 19 I valori OMI devono però considerarsi alla stregua di una presunzione semplice. Sul punto si veda da ultimo CTR Lombardia n. 3/2012, in GT-Riv. giur. trib., 2012, p. 627 ss. annotata da PURI, Il tramonto degli accertamenti OMI e la difficile strada per gli accertamenti di valore. L’A. osserva come la vicenda degli accertamento OMI rischi di divenire per l’Amministrazione un boomerang con l’affermarsi di una giurisprudenza pronta ad annullare tutti gli accertamenti basati su tali presunzioni senza entrare nel concreto della prove addotte dalle parti. Soluzione forse più equa degli “accertamenti-fotocopia” fondati su valori di difficile riscontro, ma che non aiuta a risolvere il problema della “sottodichiarazione” nei trasferimenti immobiliari. 20 In queste ipotesi, dovrà comunque essere indicato il corrispettivo pattuito, pena l’inoperatività del meccanismo opzionale, cosicché risulterà sicuramente distinto il “valore” dal corrispettivo.

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ne della plusvalenza solo accertando l’effettivo occultamento di corrispettivo 21. In definitiva, la strada tracciata dalla Cassazione, se imboccata, sembrerebbe condurre per un verso ad una progressiva erosione, ai fini fiscali, della distinzione esistente tra i concetti di corrispettivo e valore, considerati equivalenti, per altro verso ad una sostituzione del corrispettivo, con un valore medio o normale, in evidente ed aperto contrasto con il dato normativo. Partendo dal presupposto che valore e corrispettivo sono concetti differenti e che tale differenza va tenuta ferma, non può comunque negarsi che il valore di mercato dei beni (partecipazioni, aziende ed immobili) influisca sulla determinazione del corrispettivo. Parimenti non può sottacersi che esista una certa difficoltà nello svolgimento dell’attività d’accertamento, in special modo per le imposte sui trasferimenti, in ragione del fatto che i valori di mercato dei beni (partecipazioni, aziende ed immobili) oggi sono maggiormente soggetti a frequenti oscillazioni rispetto al passato, da qui l’esigenza, particolarmente avvertita dall’amministrazione finanziaria, di semplificare la sua attività. Le risposte fin qui fornite dalla giurisprudenza e dal legislatore ai problemi descritti tendono però ad introdurre nel sistema elementi di disarmonia ed incoerenza attraverso l’individuazione o di fattispecie di deroga alle regole generali riguardanti la disciplina della base imponibile, o di criteri da utilizzare in sede di accertamento che disattendono completamente il dato positivo. Sarebbe forse opportuno, allora, tenendo conto degli impulsi provenienti dalla giurisprudenza, compiere un’analisi critica circa le regole di determinazione del valore dei beni, nell’ambito delle imposte indirette e dirette, al fine di verificare la coerenza delle medesime regole rispetto al sistema di riferimento, ma anche l’idoneità delle norme procedimentali a fornire un adeguato supporto all’attività di accertamento. Non può essere questa, tuttavia, la sede per approfondire il tema introdotto, fermo restando che le considerazioni qui svolte potrebbero comunque costituire un primo spunto di riflessione.

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Oppure, se si ritenesse valida l’esigenza, invocata da altra parte della giurisprudenza, di individuare criteri uniformi per la determinazione della base imponibile per tutti i tributi che interessano il trasferimento, al fine di verificare l’emersione di una plusvalenza dovrebbe aversi riguardo al medesimo criterio forfettario.

L’IMPOSTA DI REGISTRO NELL’AMBITO DELL’OPERAZIONE CONTRATTUALE “PRELIMINARE-DEFINITIVO”

di Raffaele Di Giovine SOMMARIO: 1. La determinazione della base imponibile nell’operazione contrattuale “preliminare - definitivo”. – 2. Le clausole accessorie e l’applicazione dell’art. 10 della Tabella allegata al D.P.R. n. 131/1986. – 3. La caparra confirmatoria e l’acconto sul prezzo. – 4. L’operazione contrattuale “preliminare-definitivo”, quale manifestazione di unica capacità contributiva. – 5. Il limite della tassazione del preliminare, in caso di agevolazioni e/o esenzioni applicabili al definitivo. – 6. Il diritto al rimborso della maggiore imposta versata e la rimborsabilità dell’imposta di registro versata all’atto del preliminare nel caso di mancata conclusione del definitivo.

1. La determinazione della base imponibile nell’operazione contrattuale “preliminare-definitivo” La determinazione della base imponibile dell’imposta di registro, nell’ambito dell’operazione contrattuale rappresentata dal binomio “preliminare-definitivo”, ha determinato dei problemi di ordine interpretativo e sistematico, con particolare riferimento all’utilizzo di pattuizioni, cosiddette accessorie, quali ad esempio la caparra confirmatoria ovvero gli acconti sul prezzo, nonché con riferimento alla misura della tassazione ed alla possibilità di rimborso delle somme eventualmente versate in eccesso, in sede di registrazione del preliminare, rispetto a quelle effettivamente dovute per il contratto definitivo. La vicenda negoziale “preliminare-definitivo”, considerata in un’ottica di unitaria manifestazione di capacità contributiva, tiene conto delle peculiarità derivanti dalla valenza e dall’autonomia delle pattuizioni accessorie inserite nel contratto preliminare, nonché delle funzioni teleologiche e dei risultati, che le stesse sono dirette a realizzare nell’ambito del definitivo. Il contratto preliminare, seppur riconosciuto, ma non definito dall’art. 1351 c.c., rappresenta la fonte negoziale dell’obbligo a contrarre e produce l’obbli-

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gazione convenzionale di stipulare un successivo contratto avente effetti traslativi, cosiddetto definitivo 1. Il preliminare, infatti, assolve ad una funzione preparatoria e strumentale rispetto alla stipulazione del successivo contratto definitivo, poiché le parti in esso definiscono gli aspetti essenziali della futura contrattazione e assumo l’obbligazione di contrarre il definitivo, produttivo degli effetti ultimi, che le stesse intendono realizzare. L’operazione contrattuale “preliminare-definitivo”, ai fini dell’imposta di registro, trova riferimento normativo nell’art. 10 della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, che prevede l’applicazione di un’imposizione fissa ai contratti preliminari di ogni specie 2. La citata disposizione, coerentemente con gli effetti meramente obbligatori, che discendono dal contratto preliminare, prescinde dalla natura giuridica o dalle obbligazioni che le parti assumono all’atto della sottoscrizione del preliminare, anche rispetto al suo successivo momento perfezionativo, rappresentato dalla stipula del contratto definitivo 3.

2. Le clausole accessorie e l’applicazione dell’art. 10 della Tabella allegata al D.P.R. n. 131/1986 Le parti attraverso il contratto preliminare possono perseguire delle finalità diverse rispetto a quella di mera assunzione dell’obbligo a contrarre il successivo contratto definitivo, ricorrendo all’assunzione di clausole accessorie, che hanno “… non soltanto l’obiettiva funzione di anticipazione della prestazione dovuta, ma anche quella di rafforzamento e di garanzia del vincolo obbligatorio” 4. 1

MESSINEO, Contratto preliminare, contratto preparatorio e contratto di coordinamento, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 166 ss.; CHIANALE, voce Contratto preliminare in Banca dati Dig. disc. pubbl., 1989. 2 Ai sensi dell’art. 26, comma 2, D.L. 12 settembre 2013, n. 104, convertito con modificazioni dalla L. 8 novembre 2013, n. 128, a decorrere dal 1° gennaio 2014, l’importo è stato elevato ad € 200,00: «Modifiche alle imposte di registro, ipotecaria e catastale. [1] (omissis). [2] L’importo di ciascuna delle imposte di registro, ipotecaria e catastale stabilito in misura fissa di euro 168 da disposizioni vigenti anteriormente al 1° gennaio 2014 è elevato ad euro 200. [3] Le disposizioni del comma 2 hanno effetto dal 1 gennaio 2014 in particolare hanno effetto per gli atti giudiziari pubblicati o emanati, per gli atti pubblici formati, per la donazioni fatti e per le scritture private autenticate, a partire da tale data, per le scritture private non autenticate e per le denunce presentate per la registrazione dalla medesima data, nonché per le formalità di trascrizione, di iscrizione, di rinnovazione eseguite e per le domande di annotazione presentate a decorrere dalla stessa data ...». 3 URICCHIO, Commento all’art. 10 della tariffa, in La nuova disciplina dell’imposta di registro, a cura di D’Amati, Torino, 1989, pp. 546-547. 4 Cass. 21 ottobre 2011, n. 21917 in Imm. e propr., 2012, 1, p. 56.

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In particolare, le clausole accessorie, quali la caparra confirmatoria e l’acconto sul prezzo sono assoggettate, ai sensi della nota di cui all’art. 10 della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, rispettivamente, all’imposta di registro proporzionale, nella misura dello 0,50 per cento, ex art. 6 della medesima Tariffa, ovvero all’imposizione nella misura del 3 per cento, sempreché l’operazione non sia soggetta ad IVA, ex art. 9 della Tariffa, parte prima, allegata al TUR 5. La diversa misura di imposizione, tra la caparra confirmatoria e l’acconto sul prezzo, trova la propria ratio nelle finalità, che le clausole pattizie sono dirette a realizzare.

3. La caparra confirmatoria e l’acconto sul prezzo La caparra confirmatoria, prevista e disciplinata dall’art. 1385 c.c., assolve essenzialmente ad una funzione risarcitoria e di liquidazione convenzionale anticipata del danno, riconducibile all’inadempimento contrattuale di una delle parti del negozio 6; tale dazione essendo inconciliabile con la nozione di corrispettivo, non rientra nel campo di applicazione dell’IVA, per mancanza del presupposto oggettivo di cui agli artt. 2 e 3, D.P.R. n. 633/1972, con la conseguenza di rendere l’intero atto assoggettabile a registrazione nei termini generali 7. Tale clausola ha un carattere reale, poiché richiede che, antecedentemente all’esecuzione dell’obbligazione principale, intervenga la dazione materiale di una somma o di una cosa fungibile ed è diretta ad assolvere una “funzione economico sociale propria” rispetto al contratto cui accede 8. 5 FEDELE, Trascrizione del contratto preliminare e disciplina tributaria, in Riv. notariato, 1998, p. 1116; MONTELEONE, Aspetti fiscali del contratto preliminare, in Riv. notariato, 2000, p. 2; TASSANI, Osservazioni in merito alla tassazione del contratto preliminare per persona da nominare, in Studio del CNN, 2007, 32/T, p. 2. 6 Cass., sez. II, 17 dicembre 2013, n. 28204, in Banca dati pluris on line; Cass., sez. II, 21 ottobre 2011, n. 21917, in Imm. e propr., 2012, 1, p. 54; Cass., sez. un., 14 gennaio 2009, n. 553 in Contratti, 2009, 8-9, p. 779; Cass., sez. V, 23 dicembre 2005, n. 28697 in Dir. prat. trib., 2006, 2, 2, p. 429; Cass., sez. V, 22 gennaio 2007, n. 1320 in Dir. prat. trib., 2007, 2, 2, p. 474: «La clausola pattizia racchiude normalmente il duplice scopo di anticipare, in una certa misura, la prestazione dovuta in caso di adempimento e di rafforzare e garantire il vincolo obbligatorio, in caso di inadempimento, conferendo alla parte non inadempiente la scelta fra la ritenzione (o la restituzione del doppio) della caparra e l’esercizio delle ordinarie azioni contrattuali e di risarcimento del danno». 7 Ag. Entr., ris. n. 411673/1977; ris. 197/E/2007; CTR Toscana, 25 giugno 2010, n. 55: «La caparra confirmatoria, avendo funzione “rafforzativa” dell’accordo suggellato dalle parti, non ha natura di corrispettivo per la prestazione di servizi o di cessione di beni e, pertanto, non é soggetta ad IVA per carenza del presupposto oggettivo. Tale requisito, invece, si realizza all’atto della conversione della stessa caparra nell’acconto sul prezzo di vendita». CTP Bari, 28 gennaio 2013, n. 21; Cass. 22 gennaio 2007, n. 1320 in Dir. prat. trib., 2007, 2, 2, p. 474. 8 MASTROIACOVO, Codice delle Leggi tributarie, 2014, p. 527; Cass. 4 marzo 2005, n. 4777, in Contratti, 2006, 2, p. 122.

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Tuttavia, la caparra confirmatoria può svolgere una funzione ambivalente, ossia, avere sia finalità risarcitoria, che di anticipazione del corrispettivo sul prezzo pattuito per il definitivo. In tal caso, deve aversi riguardo all’effettiva intenzione perseguita dalle parti 9, ragion per cui se la somma da corrispondere non è diretta, immediatamente, ad assumere una funzione di anticipazione del corrispettivo, sarà assoggettabile ad imposizione, ai fini del registro, come caparra e non come acconto 10; viceversa, qualora non vi sia un’espressa ed inequivoca manifestazione risarcitoria, tale dazione dovrà qualificarsi come acconto ed essere assoggettata alla tassazione proporzionale, prevista dall’art. 10 della Tariffa, allegata al TUR 11. Inoltre, l’ammontare dell’acconto è assoggettato ad imposizione, anche a prescindere dalla sua effettiva dazione, qualora sia versato contestualmente o in un momento postumo rispetto alla sottoscrizione del preliminare, purché antecedente alla stipula del contratto definitivo 12.

4. L’operazione contrattuale “preliminare-definitivo”, quale manifestazione di unica capacità contributiva Il meccanismo di tassazione anticipata delle clausole accessorie, previsto dall’art. 10 della Tariffa, allegata al TUR, ha determinato un vivace dibattito, in ordine alla configurabilità dell’operazione contrattuale “preliminare-definitivo”, quale manifestazione di un’unica capacità contributiva. Nella prassi, infatti, accadeva sovente che le somme versate a titolo di caparra confirmatoria o di acconto sul prezzo fossero assoggettate ad imposizione in misura proporzionale, a prescindere da qualsiasi futura applicazione dell’imposta di registro e delle relative agevolazioni previste all’atto della stipula del contratto definitivo. L’Amministrazione finanziaria, infatti, negava espressamente che al contratto preliminare potessero estendersi le agevolazioni applicabili al contratto definiti9

Ag. Entr., ris. 1 agosto 2007, n. 197/E e circ. 29 maggio 2013, n. 18/E. LOMONACO, Note in tema di tassazione della caparra confirmatoria nei contratti preliminari in Studio del CNN, n. 185-2011/T, p. 3; FERRAÙ, Regime tributario della caparra confirmatoria in un preliminare di vendita, in GT-Riv. giur. trib., 2002, p. 773; Cass. 23 dicembre 2005, n. 28697, in Dir. prat. trib., 2006, 2, 2, p. 429; Cass., sez. V, 21 febbraio 2007, n. 4047, in Riv. notariato, 2007, 3, p. 250; CTP Milano 27 gennaio 2012 n. 1. 11 Cass., 22 agosto 1977, n. 3833, in Banca dati pluris on line; Cass., 17 maggio 1985, n. 3014, in Mass. Giur. it., 1985; BRACCINI, Caparra, II) Diritto tributario, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma, 1988, p. 2; Ag. Entr., Ris. 1 agosto 2007, n. 197/E. 12 MONTELEONE, Aspetti fiscali del contratto preliminare, in Riv. notariato, 2000, p. 2; LOMONACO-MASTROIACOVO, I profili fiscali dei nuovi obblighi dei mediatori e la disciplina tributaria del contratto preliminare, in Studio del CNN, 2007, n. 13/T, p. 20. 10

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vo, previste in tema d’imposta di registro 13, affermando espressamente che: “… le agevolazioni fiscali in esame si rendono applicabili agli atti di trasferimento a qualsiasi titolo posti in essere. Tra i predetti atti, però non vi rientra anche il contratto preliminare, in quanto esso non produce effetti traslativi, bensì solo effetti obbligatori”. Il richiamato assunto trovava fondamento nel dato testuale di cui al combinato disposto degli artt. 5 del D.P.R. n. 131/1986 e 10 della Tariffa, prima parte, allegata al citato D.P.R., nonché in base ad una presunta diversità ontologica tra le due fattispecie contrattuali. Il contratto preliminare, ad avviso dell’Amministrazione, non poteva, in alcun modo, accedere ai benefici e alle agevolazioni e/o esenzioni previste per il successivo contratto definitivo. Tale impostazione è stata superata dall’orientamento dottrinale, che ha considerato la vicenda negoziale, rappresentata dal binomio “preliminare-definitivo”, quale unica espressione e manifestazione di capacità contributiva 14. Pertanto, ad avviso della richiamata dottrina, la misura della tassazione, anche per le clausole accessorie inserite nel preliminare, sarebbe preventivabile ex ante, poiché commisurata al limite massimo d’imposizione dovuta per il contratto definitivo. Tale ricostruzione dottrinale, infatti, mira ad assicurare una sostanziale parità di trattamento e a non discriminare, dal punto di vista del prelievo tributario, i trasferimenti immobiliari, nei quali sia stato pattuito ovvero corrisposto un acconto sul prezzo in sede di sottoscrizione del preliminare, ed i trasferimenti con effetti immediatamente traslativi e che si realizzino in un unico contesto negoziale 15. Tale impostazione trova fondamento nel dato testuale di cui alla nota dell’art. 10 Tabella, allegata al D.P.R. n. 131/1986, in base al quale l’imposizione scontata per la caparra confirmatoria o per gli acconti deve essere imputata a quella principale, dovuta per la registrazione del contratto definitivo. Diversamente opinando, infatti, si verificherebbe una duplicazione d’imposta ed un contrasto con il principio dell’imputazione delle somme, proprio in ragione del fatto che la tassazione del preliminare rappresenta un’anticipazione dell’imposta dovuta sul definitivo 16. 13 Ag. Ent., Ris. 30 ottobre 2008, n. 407/E, su interpello proposto dal contribuente ed avente ad oggetto l’esenzione dell’imposta di registro per la registrazione del contratto preliminare, dovuta per la costituzione di un compendio unico ex art. 5 bis, D.Lgs. n. 228/2001. 14 MASTROIACOVO, Codice delle Leggi tributarie, cit., p. 530. 15 Cass., sez. V, 28 novembre 2000, n. 15276, in Dir. prat. soc., 2001, 7, p. 87. La Suprema Corte afferma che: «La registrazione del contratto preliminare di compravendita non comporta la tassazione proporzionale con l’imposta di registro delle somme costituite a titolo di caparra confirmatoria. La tassazione di tali somme, infatti, compete al momento del loro trasferimento, vale a dire che al verificarsi delle ipotesi di inadempimento contrattuale che legittimano l’appropriazione da parte del prenditore, che fino a quella data rimangono quindi di competenza del debitore». Circ. Min., 10 giugno 1986, n. 37. 16 LOMONACO-MASTROIACOVO, I profili fiscali dei nuovi obblighi dei mediatori e la disciplina tributaria del contratto preliminare, cit., pp. 20-21.

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L’IMPOSTA DI REGISTRO NELL’AMBITO DELL’OPERAZIONE CONTRATTUALE

Sul punto, si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che nel caso di “graduale costituzione di uno stesso rapporto giuridico, qualunque sia il contenuto di un vincolo obbligatorio voluto dalle parti, occorre avere riguardo al contratto definitivo e non a quello preliminare, sicché, quando si tratta di accertare il contenuto dei singoli patti e di interpretare le singole clausole, bisogna aver riguardo solo al primo che assorbe e toglie efficacia al contratto preliminare e detta l’unica disciplina sul rapporto che ne forma l’oggetto” 17. L’annosa questione è stata risolta dai recenti orientamenti emersi nella prassi amministrativa, che sostanzialmente hanno accolto le posizioni già espresse dalla giurisprudenza e dalla dottrina, innanzi richiamate. L’Amministrazione, infatti, ha riconosciuto al contribuente la possibilità di poter versare l’imposta di registro nella misura dovuta per il definitivo ed, ai sensi e per gli effetti dell’art. 77 TUR, il diritto al rimborso della maggiore imposta proporzionale versata per la caparra confirmatoria ovvero per l’acconto sul prezzo, nel caso in cui sia superiore a quella dovuta per il contratto definitivo 18. L’Amministrazione ha, altresì, fugato i dubbi interpretativi relativi alla possibilità di detrarre dall’intero ammontare dell’imposta proporzionale, dovuta per il contratto definitivo, il tributo proporzionale assolto in sede di registrazione del preliminare ovvero di detrarre, anche e comunque, l’imposta fissa, di cui all’art. 10 ult. cit. La dottrina, infatti, riteneva che facendosi luogo alla detraibilità dell’intero importo vi sarebbe stata una mancata tassazione del contratto preliminare registrato, allorquando fosse stata conclusa l’operazione “preliminare-definitivo” 19. Anche in tal caso i problemi interpretativi sono stati dissipati, poiché l’Amministrazione ha riconosciuto, in virtù dell’unitarietà dell’operazione negoziale “preliminare-definitivo”, che le imposte versate per la caparra confirmatoria e per il pagamento di acconti sul prezzo possano essere scomputate dall’imposta versata in sede di stipula del contratto definitivo; non è da ritenersi scomputabile, invece, l’imposta versata, in misura fissa, all’atto della registrazione del preliminare 20. Nella prassi applicativa può, infatti, verificarsi che le parti di un contratto preliminare, contenente le clausole della caparra confirmatoria o dell’acconto sul 17 Cass., sez. lav., 28 aprile 1989, n. 1993, in Notiz. giur. lav., 1989, p. 382; Cass., sez. II, 11 novembre 1994, n. 9493 in Contratti, 1995, 2, p. 166. 18 Ag. Entr., circ. 29 maggio 2013, n. 18/E. L’Agenzia delle Entrate ha avuto modo di precisare che, ai sensi dell’art. 77, comma 1, D.P.R. n. 131/1986 il rimborso d’imposta deve essere richiesto, a pena di decadenza dal contribuente «entro tre anni dal giorno del pagamento ovvero, se posteriore, da quello in cui è sorto il diritto alla restituzione». Dunque, il termine triennale decorre dalla data di registrazione del contratto definitivo. 19 LOMONACO-MASTROIACOVO, I profili fiscali dei nuovi obblighi dei mediatori e la disciplina tributaria del contratto preliminare, cit., p. 19 ss. 20 Ag. Entr., circ. 29 maggio 2013, n. 18/E.

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prezzo, esprimano, all’atto della stipula del definitivo, la volontà di avvalersi del metodo di determinazione dell’imponibile in base al sistema del “prezzo-valore” catastale, ex art. 1, comma 497, L. 23 dicembre 2005, n. 266 21. In questo caso, potrebbe accadere che l’imposta di registro proporzionale per il contratto preliminare, possa essere superiore a quella dovuta per il contratto definitivo, poiché, a prescindere dal corrispettivo dichiarato in atto, l’imponibile deve calcolarsi in base al valore catastale degli immobili, rivalutato con i coefficienti previsti dalla legge. Analoga situazione si verifica nell’ipotesi in cui le parti del contratto intendano beneficiare delle agevolazioni previste per l’acquisto della “prima casa” 22, per l’acquisto di beni di interesse storico-artistico, ovvero nel caso in cui ricorrano le agevolazioni per la formazione e per l’arrotondamento della piccola proprietà contadina 23. In effetti, la minore imposta dovuta per il contratto definitivo costituisce il limite massimo d’imposizione dell’intera operazione contrattuale “preliminaredefinitivo”, dovendosi versare l’imposta proporzionale fino alla concorrenza di quanto dovuto per il contratto definitivo.

5. Il limite della tassazione del preliminare, in caso di agevolazioni e/o esenzioni applicabili al definitivo Alla luce dei menzionati orientamenti dottrinali, giurisprudenziali e della prassi amministrativa, nel caso in cui ricorrano i requisiti previsti per l’applicazione dei benefici o delle agevolazioni fiscali, il limite di tassazione per il contatto preliminare, contenente le clausole accessorie, deve essere individuato nel sistema di agevolazioni o esenzioni prescelto dall’acquirente per il contratto definitivo 24. Tale inquadramento deve tener conto, altresì, della novella normativa di cui all’art. 10, comma 2, del D.Lgs. n. 23/2011, con la quale è stato previsto che l’im21

V. art. 1, comma 497, L. 23 dicembre 2005, n. 266, così come modificato dall’art. 35, comma 21, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni L. 4 agosto 2006, n. 248 e art. 1, comma 309, L. 27 dicembre 2006, n. 296. 22 Nota II-bis, art. 1 Tariffa, parte prima, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; Ag. Entr., circ. 12 agosto 2005, n. 38. 23 D.Lgs. n. 23/2011 ha previsto la soppressione dei regimi di favore, quali ad esempio le agevolazioni e delle esenzioni per la costituzione del cosiddetto “compendio unico montano”, di cui all’art. 5 bis L. 97/94, ovvero del “compendio unico generale”, previsto e disciplinato dall’art. 5 bis D.Lgs. n. 228/2001, «ad eccezione delle disposizioni di cui all’art. 2, comma 4 bis, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 194, ovverosia delle agevolazioni per la piccola proprietà contadina». 24 LOMONACO-MASTROIACOVO, I profili fiscali dei nuovi obblighi dei mediatori e la disciplina tributaria del contratto preliminare, cit., p. 19 ss.

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L’IMPOSTA DI REGISTRO NELL’AMBITO DELL’OPERAZIONE CONTRATTUALE

posta di registro, applicabile agli atti di cui al comma 1 dell’art. 10 D.Lgs. n. 23 cit., sia determinata nella misura minima di 1.000,00 euro. La dottrina, sul punto, ha ritenuto che restino «impregiudicati i meccanismi di scomputo finora applicati quali, ad esempio la detrazione di cui alla nota 10 della tariffa parte prima allegato al TUR...» 25.

6. Il diritto al rimborso della maggiore imposta versata e la rimborsabilità dell’imposta di registro versata all’atto del preliminare nel caso di mancata conclusione del definitivo Particolarmente dibattuta, soprattutto in passato, è stata la possibilità per il contribuente di richiedere all’Amministrazione finanziaria il rimborso, ai sensi dell’art. 77 D.P.R. n. 131/1986, delle maggiori somme versate in sede di registrazione del preliminare, rispetto a quelle effettivamente dovute all’atto della stipula del contratto definitivo. Tale orientamento è stato accolto dell’Amministrazione finanziaria, che ha riconosciuto la rimborsabilità, ex art. 77 del TUR, della maggiore imposta proporzionale, versata in sede di registrazione del preliminare e corrisposta per la caparra confirmatoria e per gli acconti di prezzo, rispetto a quella effettivamente dovuta per il contratto preliminare. È stato, altresì, precisato che tale rimborso deve essere richiesto, a pena di decadenza dal contribuente, “entro tre anni dal giorno del pagamento ovvero, se posteriore, da quello in cui è sorto il diritto alla restituzione”, ossia dalla data di registrazione del contratto definitivo 26. Per completezza argomentativa deve, inoltre, analizzarsi una fattispecie che esula dall’esame della determinazione della base imponibile dell’imposta di registro nell’ambito dell’operazione contratto “preliminare-definitivo” ed, in particolare, l’ipotesi della rimborsabilità dell’imposta di registro versata all’atto del preliminare, nel caso in cui il contratto definitivo non sia stato sottoscritto dalle parti. In merito, deve rilevarsi che nel D.P.R. n. 131/1986 non è rinvenibile alcuna previsione normativa, che disciplini in maniera specifica l’ipotesi di rimborso delle somme versate in sede del preliminare, se non quella di cui all’art. 38 ult. cit., la cui portata applicativa è indubbiamente circoscritta all’ipotesi in cui il contratto 25

AA.VV., La tassazione dei trasferimenti immobiliari a titolo oneroso dal 1° gennaio 2014, in Studio del CNN, 2013, n. 1011/T, p. 17. Pertanto, dall’imposta principale dovuta in sede di registrazione del contratto definitivo deve essere detratta l’imposta proporzionale corrisposta per le caparre confirmatorie o gli acconti sul presso, pattuiti nei contratti preliminari, dovendosi versare un importo pari a zero o comunque inferiore ad € 1.000,00. 26 Ag. Entr., circ. 29 maggio 2013, n. 18/E.

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definitivo non sia stato stipulato in conseguenza di una dichiarazione di nullità o di annullamento del preliminare, per causa non imputabile alle parti. La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha avuto modo di fornire un’esatta interpretazione della norma statuendo che: «in tema di imposta di registro, ai sensi dell’art. 38 D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, la restituzione dell’imposta assolta, per la parte eccedente la misura fissa, quando l’atto sia dichiarato nullo o annullato con sentenza passata in giudicato e non sia suscettibile di ratifica, convalida o conferma, presuppone che la causa della nullità non sia imputabile alle parti, per cui la restituzione non spetta nel caso di atto dichiarato nullo per simulazione assoluta, la quale, per definizione, è imputabile alle parti» 27. L’Amministrazione finanziaria, sul punto, ha affermato che: “nel caso in cui il contratto definitivo non venga posto in essere, le somme riscosse in sede di registrazione del preliminare rimarranno definitivamente acquisite all’Erario” 28. Tuttavia, tale impostazione appare più il frutto di un’affermazione di principio, che di una valida ricostruzione sistemico-normativa del problema della rimborsabilità delle somme versate, in sede di registrazione del preliminare, nel caso di mancata sottoscrizione del contratto definitivo. L’assunto dell’Amministrazione finanziaria è fondato, per lo più, su un dato di carattere negativo, rappresentato dalla circostanza che l’eventuale eccedenza d’imposta, versata all’atto della registrazione del preliminare, non possa essere considerata un credito d’imposta, per la mancanza di un’espressa disposizione normativa in tal senso. Infatti, sia dall’analisi del dato letterale del citato art. 10 della Tariffa, prima parte, allegata al D.P.R. n. 131/1986, che dalle altre disposizioni del TUR, non è rinvenibile alcun elemento a sostegno della tesi del credito d’imposta. Pertanto, al contribuente sarebbe preclusa la possibilità di procedere al recupero dell’eccedenza tramite una richiesta di rimborso diretta all’Amministrazione finanziaria. La Suprema Corte di Cassazione, tuttavia, spingendosi, al di là, del mero dato testuale normativo, ha statuito che laddove il contratto preliminare non sia seguito dal definitivo, anche per causa imputabile alle parti, queste non abbiano più il diritto di ottenere il rimborso dell’imposta fissa versata all’atto della registrazione del preliminare, ma debba “essere restituita dall’Erario l’imposta proporzionale sull’acconto” e, ciò, anche indipendentemente dal fatto che non vi sia un’espressa previsione normativa, che preveda il rimborso dell’imposta versata sull’acconto in misura eccedente rispetto alla misura fissa 29. 27

Cass., sez. V, 31 marzo 2011, n. 7340; Cass., sez. V, 7 maggio 2008, n. 11083; Cass., sez. V, 13 dicembre 2001, n. 15733. 28 Ag. Entr., circ. 10 giugno 1986, n. 37. 29 Cass., 15 giugno 2007, n. 14028, in Riv. notariato, 2007, 5, p. 492.

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L’IMPOSTA DI REGISTRO NELL’AMBITO DELL’OPERAZIONE CONTRATTUALE

La predetta statuizione rappresenta, quindi, un punto di frattura rispetto alla prassi comunemente seguita e all’orientamento assunto dall’Amministrazione finanziaria 30. La Suprema Corte, quindi, considera la disposizione di cui al citato art. 10 della Tariffa del D.P.R. n. 131/1986, norma di carattere eccezionale, nel momento in cui prevede che l’anticipazione d’imposta sia da computare in quella «principale dovuta per la registrazione del contratto definitivo», e, comunque, tale da non poter «...essere estesa dall’interprete al diverso caso in cui la registrazione del contratto definitivo non segua affatto, per mancata stipula di questo. In tal caso, l’imposta parziale, anticipatamente versata, risulta indebitamente trattenuta dal fisco che, perciò, è tenuto alla restituzione in base ad una regola di carattere generale, di cui è traccia evidente nel D.P.R. n. 131 del 1986, art. 77». In conclusione, nell’ipotesi di mancata stipula del contratto definitivo ed in assenza di qualsivoglia imputazione, al contribuente dovrebbe essere riconosciuta la titolarità del rimborso delle somme proporzionali versate, a titolo di imposta di registro, sull’acconto o sulla caparra confirmatoria.

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Ag. Entr., circ. 10 giugno 1986, n. 37.

IL CALCOLO DELLA BASE IMPONIBILE NELLE IMPOSTE DI REGISTRO: IL CASO PARTICOLARE DELLE VENDITE CON ASTA

di Donato Pianoforte SOMMARIO: 1. La determinazione della base imponibile alla luce del criterio del “prezzo-valore”. – 2. L’applicazione del “prezzo-valore” ai Beni Culturali. – 3. La determinazione della base imponibile nelle aste. – 3.1 (segue) Il caso particolare delle “Aste S.C.I.P.”. – 4. Conclusioni.

1. La determinazione della base imponibile alla luce del criterio del “prezzovalore” La regola generale per la determinazione della base imponibile per il calcolo dell’imposta di registro si desume dall’art. 43 D.P.R. n. 131/1986 (d’ora in poi TUR), nel quale si fa riferimento ad una elencazione specifica per le diverse fattispecie di contratti e atti; i seguenti artt. da 44 a 49 disciplinano invece casi particolari. A fronte di questa disciplina sostanziale della base imponibile, in particolare, nelle compravendite immobiliari si era assistito progressivamente a un appiattimento dei valori indicati in atto per ragioni di carattere fiscale, stante le ripercussioni, indirette, della disciplina dell’accertamento riguardo alla valutazione automatica. L’art. 52, comma 4, del TUR non individua la base imponibile 1, ma si limita ad escludere il potere di rettifica del valore o del corrispettivo, nel caso in cui si dichiari in atto un valore non inferiore a quello catastale 2. 1 Detto valore è calcolato applicando alla rendita catastale dell’immobile rivalutata a norma dell’art. 3, comma 48 e comma 51 della L. 23 dicembre 1996, n. 662 i moltiplicatori, così come rivalutati dall’art. 2, comma 63 della L. 24 dicembre 2003, n. 350, nonché per gli immobili diversi dalla prima casa e relative pertinenze dall’art. 1 bis, commi 7 e 8 del D.L. 12 luglio 2004, n. 168 così come convertito con modifiche dalla L. 30 luglio 2004, n. 191. 2 Cosi sul punto, NASTRI, La determinazione della base imponibile nell’imposta di registro: i trasferimenti immobiliari tra prezzo-valore e valore normale”, in Riv. dir. trib., 2007, p. 1133.

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IL CALCOLO DELLA BASE IMPONIBILE NELLE IMPOSTE DI REGISTRO

Per ovviare a questa situazione 3 è stata prevista con la Legge Finanziaria del 2006 l’applicazione del criterio del “prezzo-valore” 4. Secondo tale norma il valore catastale dell’immobile diventa la base imponibile sulla quale dovrà calcolarsi l’imposta purché presenti determinate condizioni procedurali quali l’indicazione nell’atto del prezzo effettivamente pattuito, e non più solo come mero limite al potere d’accertamento d’ufficio, ai sensi dell’art. 52, comma 4, del TUR 5. Per poter accedere a tale criterio è necessario che vi siano determinati presupposti oggettivi e soggettivi. Per quanto riguarda i primi si fa riferimento soltanto alle cessioni di “immobili ad uso abitativo e relative pertinenze”, tale riferimento va letto in maniera estensiva 6, potendo far rientrare un numero indefinito di pertinenza immobiliare, purché ricorra il vincolo civilistico, anche se negoziata separatamente rispetto al bene principale 7. Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate 8 ha precisato che l’art.1, comma 497, L. n. 266/2005 si applica unicamente agli immobili ad uso abitativo e relative pertinenze e, pertanto, ai soli fabbricati che siano censiti come abitativi all’atto della cessione 9. Dal punto di vista soggettivo, invece, tale norma si applica “per cessioni nei confronti di persone fisiche che non agiscono nell’esercizio di attività commerciale, artistiche o professionali”, mentre il cedente potrà essere sia persona fisica che un altro soggetto (società, ditta individuale, fondazione ecc.). Oltre a ciò è necessario indicare il prezzo pattuito e fare esplicita richiesta al notaio per l’applicazione di ta3 Cfr. MASTROIACOVO, sub art.43 TUR, in Codice delle leggi tributarie, a cura di Fedele, Mariconda, Mastroiacovo, Torino, 2014, p. 232. 4 L’art 1, comma 497, della L. n. 266/2005 prevede che: «In deroga alla disciplina di cui all’articolo 43 del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, (…) per le sole cessioni nei confronti di persone fisiche che non agiscano nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali, aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo e relative pertinenze, all’atto della cessione e su richiesta della parte acquirente resa al notaio, la base imponibile ai fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali è costituita dal valore dell’immobile determinato ai sensi dell’articolo 52, commi 4 e 5, del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 131 del 1986, indipendentemente dal corrispettivo pattuito indicato nell’atto. Le parti hanno comunque l’obbligo di indicare nell’atto il corrispettivo pattuito…». 5 Cosi sul punto, GHINASSI, La base imponibile nei trasferimenti immobiliari: il sistema del c.d. “prezzo valore”, in AA.VV., Novità e problemi nell’imposizione tributaria relativa agli immobili, (Atti Convegni Roma 22-23 settembre 2006 e Milano 28 ottobre 2006), I Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato - 4, Milano, 2006, p. 2. 6 V. GHINASSI, La base imponibile nei trasferimenti immobiliari: il sistema del c.d. “prezzo valore”, cit., p. 4. 7 V. GHINASSI, La base imponibile nei trasferimenti immobiliari: il sistema del c.d. “prezzo valore”, cit., p. 7. 8 Circolare Agenzia delle Entrate del 13 febbraio 2006, n. 6/E. 9 Consiglio nazionale del Notariato, Studio n.30/2006/T del 3 marzo 2006.

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le regime 10. La volontà del legislatore è quella da una parte di ridurre il contenzioso e dall’altra di concedere un’agevolazione al tramite l’opzione per il sistema catastale 11, purché accompagnata sempre dall’indicazione del prezzo effettivo 12: in caso di occultamento anche parziale, l’amministrazione potrà, infatti, applicare una sanzione specifica 13 oltre al venir meno dell’applicabilità del valore catastale come riferimento della base imponibile, dovendo calcolare la maggior imposta sulla differenza tra il corrispettivo pattuito e la somma già versata. Tale somma sarà utilizzata anche per il calcolo delle sanzioni e interessi. Possiamo quindi senza dubbio affermare che il criterio del “prezzo-valore” è una deroga rispetto all’art. 43 del TUR 14 e al valore venale di mercato, di fatti il legislatore esordisce nella legge finanziaria del 2006 con le seguenti parole: «in deroga alla disciplina di cui all’art. 43 del TUR...», facendo ritenere ad autorevole dottrina che in tal modo, volesse circoscrivere la nuova disciplina a tutte le ipotesi di cessioni disciplinate da tale articolo sia per i soggetti che per l’oggetto presi in considerazioni 15. 10

Il contribuente dovrà farne esplicita richiesta al notaio, il quale dovrà espressamente menzionare in atto l’applicazione del disposto normativo. Il valore catastale potrà non essere indicato nell’atto esplicitamente essendo sufficiente la mera richiesta dell’applicazione del prezzo valore in deroga alla disciplina ordinaria. Eventuali errori nella liquidazione comporteranno solo l’obbligo di versamento delle maggiori imposte o il rimborso, ma non l’accertamento del maggior valore. 11 Così si è espressa da ultimo la Corte costituzionale con la sentenza n. 6/2014, la quale afferma testualmente «... esprime anche un evidente valenza agevolatrice, laddove consente al contribuente di non scegliere immancabilmente, tra i diversi criteri di determinazione della base imponibile, quello fondato sul valore tabellare, bensì quello ritenuto meno oneroso e quindi più conveniente». 12 Si veda sul punto GHINASSI, La base imponibile nei trasferimenti immobiliari: il sistema del c.d. “prezzo valore”, cit., p. 3; SALANITRO, La base imponibile nell’imposta di registro fra prezzo, valore catastale e valore venale, in Riv. dir. trib., 2007, p. 69, il quale afferma: «la finalità di far emergere il corrispettivo reale si desume anche dalla previsione della sanzione per il caso di occultamento del corrispettivo...», e A. MONTESANO, Risoluzione 9 novembre 2007, n. 320/E: il meccanismo del “prezzovalore” è applicabile anche alle permute immobiliari, in Il Fisco, 2007, p. 5835. 13 V. L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 498, così modificata dall’art. 35 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modifiche con la L. 4 agosto 2006, n. 248, la quale prevede l’applicazione di una sanzione che va commisurata da un minimo del 50 per cento ad un massimo del 100 per cento della differenza di imposta dovuta. 14 L’applicazione del c.d. valore automatico e la relativa preclusione alla rettifica del valore prevista dall’art. 52 commi 4 e 5 del D.P.R. n. 131/1986, troverà, applicazione per tutti gli atti che non costituiscono cessioni di immobili ad es. cessioni di aziende e divisioni immobiliari aventi mero effetto dichiarativo. Restano, altresì, in vigore in tema di donazioni e successioni le disposizioni in tema di valutazione automatica ed i limiti al potere di rettifica dei valori dichiarati, purché non inferiori ai valori catastali ex art. 34, comma 5, D.Lgs. n. 346/1990. Sul punto più ampiamente V. PISCHETOLA, I nuovi poteri di accertamento e di controllo dell’Amministrazione Finanziaria nel settore immobiliare, in Riv. not., 2007, I, p. 90. 15 Cosi sul punto AA.VV., Finanziaria 2006 - La nuova disciplina tributaria delle cessioni di immobili abitativi ai fini delle imposte indirette (prezzo-valore), in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 116/2005/T.

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IL CALCOLO DELLA BASE IMPONIBILE NELLE IMPOSTE DI REGISTRO

2. L’applicazione del “prezzo-valore” ai Beni Culturali Il regime del prezzo valore pare applicabile anche in occasione della vendita di beni immobili soggetti a vincolo culturale qualora sussistano i requisiti circa la natura dell’immobile o del particolare status giuridico del cessionario 16. Non risultano esserci dunque condizionamenti rispetto all’applicazione del diritto di prelazione riconosciuto ai beni soggetti al vincolo culturale 17 da parte dello Stato o degli altri Enti pubblici territoriali: infatti la prelazione dovrà comunque essere esercitata con riguardo al prezzo “effettivo” convenuto e debitamente riportato in atto. Il “valore catastale”, infatti, costituirà solo la base imponibile, da utilizzare ai fini della liquidazione delle imposte di registro, di trascrizione e catastale, detto valore dovrà essere calcolato utilizzando la rendita attribuita 18. Tutto ciò conduce a concludere per l’assenza di qualsiasi interferenza in materia di beni culturali tra la peculiarità del “microsistema” fiscale in materia di imposte dirette e quello in materia di imposte indirette, con consequenziale attrazione di quest’ultimo nell’alveo applicativo generale per quanto attiene alla quantificazione della base imponibile 19. Si può concludere sostenendo che in base alla caratteristiche del “prezzovalore” e all’inesistenza di particolari vincoli procedimentali connessi con l’eventuale acquisto in via di prelazione, è senz’altro applicabile anche alla alienazione di beni immobili “culturali” la particolare procedura di quantificazione “forfetaria” della relativa base imponibile di cui al cit. art. 1, comma 497, L. n. 266/2005. Si era inoltre posta la questione se in caso di atti di vendita di bene culturale rispetto al quale non fosse stata formulata l’opzione per il prezzo valore, la stessa potesse essere validamente resa in occasione di atto di avveramento della condizione a seguito di mancato esercizio della prelazione. In merito la cassazione ha concluso in senso positivo seppur esplicitamente solo riguardo a quegli atti di compravendita stipulati prima dell’entrata in vigore della L. n. 266 il cui atto di 16

In tal senso si veda PISCHETOLA, La regola del “prezzo–valore” e sua applicazione all’alienazione di beni immobili culturali, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 72/2006/T, p. 2. 17 V. PISCHETOLA, La regola del “prezzo-valore” e sua applicazione all’alienazione di beni immobili culturali, cit., p. 4, afferma sul punto: «Tutto ciò conduce a concludere per l’assenza di qualsiasi interferenza in mate-ria di beni culturali tra la peculiarità del “microsistema” fiscale in materia di imposte dirette e quello in materia di imposte indirette, con consequenziale attrazione di quest’ultimo nell’alveo applicativo generale per quanto attiene alla quantificazione della base imponibile». 18 V. RIZZI, Prezzo valore nei contratti immobiliari. Presupposti soggettivi ed oggettivi per l’applicabilità e problematiche emerse nella pratica, in Convegno Il valore fiscale degli immobili del 18 novembre 2008. 19 PISCHETOLA, La regola del “prezzo-valore” e sua applicazione all’alienazione di beni immobili culturali, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 72/2006/T, p. 3.

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avveramento sia stato redatto successivamente nel vigore del regime del prezzo valore 20.

3. La determinazione della base imponibile nelle aste Rilevata l’eccezionalità della deroga del regime del “prezzo-valore” è opportuno, a questo punto, analizzare un’altra particolarità nella determinazione della base imponibile per l’imposta di registro, ossia l’art. 44 del TUR. Tale articolo stabilisce, per la vendita di beni mobili e immobili fatta in sede di espropriazione forzata, asta pubblica o aggiudicati in seguito a pubblico incanto, che «…la base imponibile è costituita dal prezzo di aggiudicazione, diminuito, nell’ipotesi prevista dall’art. 587 del codice di procedura civile, della parte già assoggettata all’imposta…». L’art. 44, comma 1, del TUR, pur contemplando fattispecie differenti fra loro, si ispira ad un principio generale dell’ordinamento 21, nel senso che, al contrario delle ipotesi ordinarie, quando il trasferimento di un bene o di un diritto avviene sotto il controllo di un’autorità giudiziaria o amministrativa, non essendo contestabile l’autenticità del prezzo del trasferimento e dovendosi presumere la sua corrispondenza al prezzo di mercato, all’Amministrazione Finanziaria è precluso l’accertamento dell’eventuale maggior valore venale in comune commercio del bene o del diritto, avendo il legislatore eccezionalmente predeterminato tale valore in misura corrispondente al prezzo pagato in sede di aggiudicazione. Le fattispecie specificamente individuate dal citato art. 44, comma 1, sono le seguenti: vendita in sede di espropriazione forzata (che, a norma dell’art. 503 c.p.c., può farsi con incanto o senza), vendita all’asta pubblica, contratti stipulati o aggiudicati in seguito a pubblico incanto. In sostanza, la circostanza che la determinazione del prezzo di aggiudicazione di un bene avvenga sotto il controllo di un’autorità (giudiziaria o amministrativa) e previo procedimento sottoposto a rigorose forme di pubblicità, costituisce la ratio della norma contenuta nel primo comma dell’art. 44, che individua unicamente in tale prezzo la base imponibile dei trasferimenti dei beni mobili ed immobili fatti all’asta pubblica, nonché dei contratti stipulati o aggiudicati a seguito di pubblici incanti, secondo le disposizioni del codice di procedura civile. I requisiti che si desumono dall’art. 44 TUR comportano presupposti rigidi di applicabilità 22, richiedendo, da un lato che il trasferimento sia fatto in sede di 20

Cass. nn. 7877, 7878 e 16562/2012. Cosi sul punto S. SALVATORE, Aste pubbliche: base imponibile degli immobili trasferiti”, in Pratica fiscale e professionale, 2007, 27, 15. 22 Risoluzione Agenzia delle Entrate n. 102/E del 17 maggio 2007. 21

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espropriazione forzata ovvero all’asta pubblica (oppure tramite contratti aggiudicati o stipulati a pubblico incanto), dall’altro che vi sia un prezzo di aggiudicazione fissato in sede di una pubblica gara, cui commisurare la base imponibile 23. Ci troviamo di fronte a casi nei quali per la determinazione della base imponibile risulta essere preso a riferimento il valore di aggiudicazione del bene mobile o immobile, quindi trattasi di un prezzo certo emerso durante una procedura pubblica. Di fatti la determinazione della base imponibile nei casi espressamente richiamati dall’art. 44 TUR risulta certa e stabilita a seguito di una pubblica procedura, diretta da un soggetto terzo ed imparziale, esercente la sua funzione pubblica e non potrebbe essere messa in discussione attraverso una rettifica del prezzo di aggiudicazione 24. Il fine è quello di scegliere nel miglior modo possibile il contraente, accertando che questi offra le condizioni più vantaggiose rispetto ad altri all’interno della procedura pubblica, onde realizzare, attraverso il meccanismo della normale concorrenza, la vendita del bene ad un prezzo quanto più prossimo al valore di mercato. Per assolvere a tale scopo, è prevista l’adozione di idonei mezzi di pubblicità, l’osservanza di forme e termini per la celebrazione dell’incanto, la determinazione di un prezzo base, il libero concorso delle offerte, nonché la sorveglianza da parte delle pubbliche autorità, in modo da evitare qualsiasi turbativa in sede di incanto. I casi sopra indicati – fatta eccezione per la vendita forzata senza incanto – presuppongono che il trasferimento del bene avvenga nell’ambito di una pubblica gara. Si tratta di sistemi di vendita che offrono garanzie sull’autenticità del prezzo pagato e hanno la finalità di individuare un prezzo di vendita prossimo, in quel dato luogo e in quel momento, al valore venale del bene. Per l’ipotesi di vendita forzata senza incanto (artt. 570-575 c.p.c.) non si realizza, invece, una forma di pubblica gara, ma sussiste comunque la garanzia che il prezzo di vendita sia autentico e presumibilmente corrispondente al prezzo di mercato. Infatti, in tale caso, si rinviene “un procedimento di determinazione del valore venale che, per essere posto sotto il controllo del giudice dell’esecuzione, e subordinato a rigoro23

Cosi sul punto la sentenza Cass. n. 6403/2003. Va evidenziato che la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che il citato art. 44 del TUR, di stretta interpretazione, non è suscettibile di applicazione analogica e che l’elencazione ivi contenuta è tassativa. Sul punto anche Cass. 19 gennaio 2001, n. 763 e Cass. 11 luglio 1992, n. 85470. 24 Si veda da ultimo Cass. n. 22141/2010, in cui si sostiene che «l’art. 44 del D.P.R. n. 131/1986 dispone che, per la vendita di beni immobili avvenuta in sede di espropriazione forzata, la base imponibile è costituita dal prezzo di aggiudicazione. Di conseguenza, l’Ufficio non può rettificare la base imponibile individuata dalle parti nel prezzo di aggiudicazione, in quanto l’art. 44 configura norma eccezionale che deroga ai normali principi in materia di accertamento immobiliare ai fini dell’imposta di registro». Si veda anche Cass. n. 13217/2007 e Cass. n. 3420/2002.

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se forme di pubblicità, presenta ampie garanzie di oggettività ed automatismo per la realizzazione del massimo ricavo possibile” 25. In tale contesto sia la prassi 26, sia parte della dottrina e la giurisprudenza avevano ritenuto che l’art. 44 del TUR richiamava un diverso e peculiare criterio di determinazione della base imponibile, e ad esso non poteva applicarsi la deroga prevista dall’articolo 1, comma 497, della L. n. 266/2005, poiché riferita espressamente al solo art. 43 del TUR. Inoltre, stante la qualificazione del prezzo valore quale regime in deroga alla norma generale tali requisiti andavano letti in modo restrittivo non essendo suscettibile d’interpretazione analogica o estensiva, cosi come richiamato dal generale divieto contenuto nell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile. Inoltre, considerato che tra le condizioni espressamente richieste per l’applicabilità del “prezzo-valore” vi è la dichiarazione da effettuarsi al notaio, da parte dell’acquirente, contestualmente all’atto della cessione veniva rilevato che nei casi di cui all’art. 44, mancando la figura del notaio, non fosse possibile rendere la dichiarazione stessa. L’Amministrazione Finanziaria si è espressa sul punto ritenendo impossibile adottare tale criterio in assenza del Notaio 27, precisando che tale richiesta può essere fatta all’atto della cessione e non, invece, con un atto integrativo successivo alla permuta immobiliare, ciò al fine di garantire maggiore certezza dei rapporti giuridici. L’Amministrazione Finanziaria ha, inoltre, chiarito che il sistema del “prezzovalore” non è compatibile con le fattispecie di cessioni aventi a oggetto immobili a uso abitativo effettuate tramite scrittura privata non autenticata. 25 V. Sentenza della Corte costituzionale del 28 novembre 1983, n. 328 con cui era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del soppresso art. 42 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 – poi sostanzialmente trasfuso nell’attuale art. 44 del TUR – nella parte in cui non disponeva che anche per le vendite forzate senza incanto la base imponibile ai fini dell’imposta di registro fosse costituita dal prezzo di aggiudicazione. 26 Cosi sul punto la Risoluzione Agenzia delle Entrate n. 102/E del 17 maggio 2007, p. 4, la quale conclude affermando «In definitiva, la base imponibile per il trasferimento di immobile abitativo in seguito ad aggiudicazione all’asta pubblica è costituita dal prezzo di aggiudicazione e non può essere calcolata col meccanismo del c.d. “prezzo valore”». Si veda anche sul punto AA.VV., Finanziaria 2006 - La nuova disciplina tributaria delle cessioni di immobili abitativi ai fini delle imposte indirette (prezzo-valore), cit. , p. 5. 27 V. Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 9 giugno 2009, n. 145/E. a diverse conclusioni cercava di giungere in via interpretativa la dottrina; cfr. V. D’ORSOGNA, Quale è la base imponibile per le vendite forzate di immobili e per le procedure espropriative: il valore catastale o il prezzo di aggiudicazione? - Articolo 1, comma 497, legge Finanziaria 2006 e risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 46/E del 13 aprile 2005, in Il Fisco, 2006, XIII, p. 1971, il quale afferma «... il soggetto acquirente che sia rimasto aggiudicatario dell’immobile urbano, in sede di formazione dell’atto di trasferimento, da parte del giudice ovvero del notaio da questi delegato, renderà la prescritta dichiarazione secondo il disposto del comma in esame».

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La norma subordina alla condizione della richiesta “resa al notaio” l’applicabilità del sistema in parola, escludendo che possano rientrare nel suo campo operativo tutte le ipotesi nelle quali il trasferimento immobiliare si perfeziona senza il ministero del notaio. Per questa stessa ragione, l’Amministrazione Finanziaria 28 ha escluso l’applicabilità del meccanismo in esame ai trasferimenti coattivi disposti con sentenza costitutiva 29, fattispecie nelle quali non interviene la figura del notaio, in tutti questi casi, la base imponibile dell’imposta di registro, ipotecaria e catastale, sarà costituita dal valore dell’immobile alla data dell’atto, ai sensi dell’art. 43, comma 4, del D.P.R. n. 131/1986 e, cioè, dal valore venale in comune commercio 30. A modificare radicalmente il quadro normativo è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale del 15 gennaio 2014, n. 6, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del regime del prezzo valore nella interpretazione in cui non consente l’applicazione anche alle fattispecie di cui all’art. 44, comma 1 del TUR. Con l’ordinanza del 21 giugno 2010 31 con la quale veniva sollevata dalla Commissione Tributaria di Grosseto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 497, L. n. 266/2005, nella parte in cui derogando al solo art. 43 TUR, non consentiva la determinazione “tabellare” della base imponibile ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, ipotecarie e catastali nei casi di applicabilità dell’art. 52, commi 4 e 5 D.P.R. n. 131/1986. Si dubitava della costituzionalità di tale disparità di trattamento in merito alla mancata previsione di utilizzo del criterio del prezzo valore in relazione al principio di uguaglianza sostanziale cosi come disciplinato dall’art. 3 della Costituzione. Non trovava giustificazione la disparità di trattamento dovuto alla modalità di acquisto dell’immobile, ossia asta pubblica o trattativa privata, nel caso in cui ricorressero tutti i requisiti previsti dall’art. 1, comma 497 della L. n. 266/2005. La Corte costituzionale, nell’analisi dell’intera situazione normativa, ha messo in evidenza, come la determinazione della base imponibile nei casi disciplinati dall’art. 43 TUR, consente non solo la possibilità di esercitare un diritto potestativo secondo un criterio tabellare, ma anche di non chiederne l’applicazione. Ciò si tradurrebbe in un ampliamento della sfera soggettiva dell’acquirente consentendogli di potere effettuare tale scelta secondo un criterio di maggior convenienza. L’evidenziarsi di tale finalità agevolatrice nella scelta ammessa dall’art. 1, com28

Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 1 giugno 2007, n. 121. Applicando l’art. 2932 c.c. 30 Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 21 giugno 2007, n. 141. 31 Per un approfondimento dell’ordinanza si può consultare il testo integrale all’indirizzo: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2012/12/19/012C0482/s1;jsessionid=1HZMm0now6t Xv8cLs++yOQ__.ntc-as1-guri2a 29

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ma 497, L. n. 266/2005, fa emergere un’ingiustificata disparità di trattamento riferita al mero contesto acquisitivo del bene. Pertanto la Corte costituzionale con Sentenza del 23 gennaio 2014, n. 6 ha dichiarato: “illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 497, L. 266/05 nella parte in cui non prevedeva tale facoltà, per gli acquirenti di immobili ad uso abitativo e relative pertinenze acquisiti in sede di espropriazione forzata o a seguito di pubblico incanto, i quali non agiscono nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali, di chiedere, in deroga all’art. 44, comma 1,TUR, la base imponibile ai fini dell’imposte di registro, ipotecarie e catastali sia costituita dal valore dell’immobile determinato ai sensi dell’art. 52, comma 4 e 5”. Con tale pronuncia la Corte ha rideterminato i confini di applicazione del criterio del “prezzo-valore”, estendendolo anche ai casi di vendita all’asta purché ricorrenti i requisiti oggettivi e soggettivi per la sua applicazione. Tuttavia la rimodulazione degli ambiti operativi del criterio del “prezzovalore” comporterà non pochi problemi applicativi. La mancanza della figura del notaio implicherà che la richiesta di utilizzo di detta modalità di calcolo dovrà effettuarsi preventivamente all’aggiudicazione in sede di espropriazione forzata o pubblico incanto, magari attraverso un’istanza depositata presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione. Non pare invece ammissibile l’utilizzo di una dichiarazione integrativa, cosi come previsto per “l’agevolazione prima casa” 32, in quanto la scelta di volersi avvalere di tale criterio di determinazione della base imponibile inibisce i poteri di rettifica da parte degli Uffici deposti al controllo 33, e si troverebbe di fronte all’interruzione dell’attività accertativa a seguito di istanza integrativa del contribuente. Un’ulteriore problematica che emerge da un’attenta analisi del dispositivo della sentenza della Corte costituzionale riguarda l’estensione del criterio del prezzo valore soltanto all’ipotesi di cui all’art. 44, comma 1 del TUR e non anche alle ipotesi di cui art. 45 TUR 34. Cosi la Corte nell’intento di equiparare situazioni simili nel rispetto dell’art. 3 della Costituzione, cosi come esplicitato nelle motivazioni della sentenza 35, ha finito per ingenerare essa stessa una possibile disparità di trattamento tra situazioni potenzialmente simili, lasciando anche sul punto la possibilità di un forte dibattito dottrinale. 32

Circolare Agenzia delle Entrate n. 38 del 12 agosto 2005. Circolare Agenzia delle Entrate n. 145/E del 9 giugno 2009. 34 L’art. 45 recita: «Per gli atti concernenti le concessioni di cui all’art. 5 della parte prima della tariffa, nonché’ per gli atti portanti trasferimento di beni immobili o diritti reali immobiliari da o ad amministrazioni dello Stato, compresi gli organi dotati di personalità giuridica, con valore determinato dall’ufficio tecnico erariale in base a disposizioni di legge, la base imponibile è costituita, rispettivamente dall’ammontare del canone ovvero da quello del corrispettivo pattuito». 35 Sentenza Corte costituzionale del 15 gennaio 2014, n. 6, p. 11. 33

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Da ciò si discerne che l’apertura adoperata da parte della Corte costituzionale ha portato con se molti dubbi applicativi che dovranno essere sciolti.

3.1 ( segue) Il caso particolare delle “Aste S.C.I.P.” Prima della pubblicazione della citata sentenza della Corte costituzionale n. 6/2014 si era posta la questione dell’applicabilità del regime del prezzo valore agli atti di vendita all’asta S.C.I.P. Le “S.C.I.P. 36”, create con il D.L. 25 settembre 2001, n. 351 37, attraverso il quale si è modificato in parte la disciplina delle dismissioni del patrimonio degli enti pubblici attraverso la cartolarizzazione dei beni immobili dello Stato 38. Tale meccanismo fu mutuato dalla cartolarizzazione dei crediti avutasi per la prima volta in Italia con la L. 30 aprile 1999, n. 130. Successivamente attraverso il D.L. 24 dicembre 2002, n. 282 39,per il perseguimento di obiettivi di finanza pubblica, è stato previsto che l’Agenzia del demanio è autorizzata a vendere a trattativa privata, anche in blocco, i beni appartenenti al patrimonio dello Stato indicato in due elenchi annessi al decreto legge predetto, e viene chiarito che “la vendita fa venir meno l’uso governativo, le concessioni in essere e l’eventuale diritto di prelazione spettante ai terzi anche in caso di rivendita”. Da una prima lettura delle normative che regolano le vendite “S.C.I.P. 40” si è 36

Società di Cartolarizzazione Immobili Pubblici. Convertito con L. 23 novembre 2001, n. 410. 38 Indicare le modalità di vendita attraverso le SCIP1 e SCIP2, lo stato per anticipare i flussi di cassa ha previsto la creazioni di queste società di cartolarizzazione, alle quali veniva trasferita la proprietà degli immobili a seguito di una anticipazione finanziari, in questo modo si riuscivano ad ottenere anticipi sulle future vendite. Successivamente detta società avrebbe provveduto ad vendere gli immobili e corrispondere il residuo allo stato. 39 L’art. 80, al comma 4, dispone che al fine della valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato, del recupero, della riqualificazione e della eventuale ri-destinazione d’uso, entro il 30 aprile di ogni anno, gli enti locali interessati ad acquisire beni immobili del patrimonio dello Stato ubicati nel loro territorio possono farne richiesta all’Agenzia del Demanio. Il successivo comma 5, prevede che entro il 31 agosto di ogni anno, l’Agenzia del Demanio, su conforme parere del Ministero dell’economia e delle finanze anche sulle modalità e sulle condizioni della cessione, comunica agli Enti locali la propria disponibilità all’eventuale cessione. L’art. 84 autorizza le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri Enti locali a costituire o promuovere società a responsabilità limitata aventi ad oggetto esclusivo la realizzazione di operazioni di cartolarizzazione dei proventi derivanti dalla dismissione dei rispettivi patrimoni immobiliari. La relativa disciplina è essenzialmente mutuata dal D.L. n. 351/2001. 40 È opportuno ricordare in tale sede che vi sono due decreti S.C.I.P. Lo S.C.I.P.1 e lo S.C.I.P.2, ma che nel 2009 è stata sancito il fallimento dell’esperienza della cartolarizzazione, è stato così emanato all’art. 43 bis del D.L. n. 207/2008, convertito con L. n. 14/2009, che ha chiu37

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potuto rilevare che esse si avvalgono del metodo delle aste pubbliche, dovendo applicare gli stessi principi valevoli per le fattispecie ricomprese nell’art. 44, così come affermato dalla giurisprudenza 41 oltre che dall’Amministrazione Finanziaria 42. La stessa Amministrazione aveva ritenuto che qualora i trasferimenti di immobili erano attuati a mezzo della procedura dell’asta pubblica, non rientravano nel campo di applicazione dell’art. 1, comma 497 citato, ossia nessuna deroga era ammessa dalla norma in forza della quale il tributo andava calcolato sul prezzo di aggiudicazione, in quanto ci troviamo di fronte ad un soggetto terzo ed imparziale che vigila sulla determinazione del prezzo, che sarebbe dovuto essere, tra le altre cose, il più possibile vicino a quello di mercato. Come è noto, tuttavia, tale modalità non era l’unica, infatti, era possibile che per la cessione di immobile ad uso abitativo a favore dei conduttori titolari del diritto di opzione all’acquisto vi fosse trattativa diretta tra le parti; in queste circostanze venivano meno i requisiti di applicabilità dell’art. 44 TUR e la base imponibile era comunque determinata ai sensi dell’art. 43 del TUR, potendo avvalersi, in presenza dei requisiti, del criterio individuato dall’art. 1, comma 497 43 della legge finanziaria del 2006. Evidentemente, a seguito della menzionata sentenza della Consulta del 2014 la distinzione delle procedure quanto all’applicazione del prezzo valore non ha più una valenza significativa.

4. Conclusioni A seguito di quanto detto finora, non possiamo che concludere ritenendo che il criterio del “prezzo-valore”, essendo una deroga alla disciplina originaria della determinazione della base imponibile e per l’esplicito richiama contenuto nella stessa norma di emanazione non può che applicarsi ai casi previsti dall’art. 43 del TUR, ricorrendo tutti i requisiti soggettivi, oggettivi e le attività richieste. Tuttavia, con la pronuncia della Corte costituzionale del 15 gennaio 2014, sentenza n. 6, tale criterio andrà applicato anche ai casi previsti dall’art. 44 del TUR, purché ricorrano i requisiti soggetti e oggettivi normativamente richiesti, dovendo abbandonare l’interpretazione restrittiva sostenuta più volte dall’Amministrazione Finanziaria, dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza. so le S.C.I.P., ritrasferendo attraverso un complessa operazione, gli immobili residui agli enti previdenziali. 41 V. Sent. Cass. n. 2206/2006 e Cass. n. 6403/2002. 42 Si veda risoluzione Agenzia delle Entrate n. 102/E del 17 maggio 2007. 43 V. SERVIDIO, Aste pubbliche: base imponibile degli immobili trasferiti, in Pratica Fiscale e Professionale, 2007, XXVI, p. 15.

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Nonostante tale apertura rimangono aperte importanti questioni applicative da risolvere, quali la figura alla quale effettuare tale richiesta in mancanza del Notaio, se quindi essa dovrà essere rivolta alla cancelleria del giudice dell’esecuzione e del momento in cui tale richiesta dovrà essere resa, stante l’impossibilità di effettuare dichiarazioni integrative da inviare successivamente e la necessità di effettuarla nel momento in cui avviene la cessione, cosi come normativamente previsto. A queste problematiche dovranno darsi risposte nei prossimi mesi affinché si possa rendere applicabile l’apertura effettuata dalla Corte costituzionale.

                         

SEZIONE II TRASFERIMENTO DEI BENI D’IMPRESA. RILEVANZA DEL CORRISPETTIVO E DEL VALORE NELLA BASE IMPONIBILE

IL VALORE NELL’IVA FRA REGOLE DI QUANTIFICAZIONE DEL CORRISPETTIVO E DISPOSIZIONI NAZIONALI E COMUNITARIE: L’USO “ANORMALE” DEL VALORE NORMALE*

di Pierpaolo Maspes SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Criteri generali per la determinazione della base imponibile IVA. – 3. I casi in cui assume rilievo il valore normale nella disciplina comunitaria. – 4. I casi in cui assume rilievo il valore normale nella disciplina italiana. – 5. Cessioni e prestazioni gratuite. – 6. Passaggi interni di beni tra le attività separate. – 7. Operazioni permutative.

1. Introduzione La disciplina comunitaria dell’IVA è oggi in buona parte contenuta in quella sorta di testo unico che è la direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006. Tale direttiva ripropone in modo più organico e più ordinato le disposizioni in precedenza contenute nella direttiva 77/388/CE del 17 maggio 1977, la “sesta direttiva” in materia di armonizzazione delle imposte sulla cifra d’affari. A distanza di ormai quasi trentacinque anni dal recepimento nell’ordinamento nazionale della sesta direttiva 1, viene ancora da interrogarsi sui motivi che hanno indotto il legislatore nazionale ad adottare un impianto normativo tanto distante, nello schema e nei singoli istituti, dal modello comunitario. La questione della conformità dell’ordinamento interno con la normativa comunitaria è stata in più occasioni affrontata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, la quale ha più volte ravvisato profili di incompatibilità. In assenza di una serie di sostanziali modifiche è facilmente ipotizzabile che * Parte del presente contributo è stato già pubblicato in Il fisco, 2014, p. 2466 ss., dal titolo Il valore normale nell’Iva: discrasie tra disciplina nazionale e disciplina comunitaria. 1 Tale recepimento è avvenuto per il tramite delle modifiche recate al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dal D.P.R. 29 gennaio 1979, n. 24, e dal D.P.R. 31 marzo 1979, n. 94.

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tali occasioni aumentino esponenzialmente, considerato anche il ruolo nomofilattico svolto in maniera ogni giorno continuamente più incisiva dalla Corte di Giustizia, sempre più frequentemente chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con la normativa comunitaria degli ordinamenti nazionali. Allo stato attuale, evidenti disarmonie sono ravvisabili nella disciplina del momento di effettuazione e dell’esigibilità, nelle esenzioni, nella disciplina del commercio internazionale, nelle aliquote, nella disciplina della detrazione, nei regimi speciali e perfino negli stessi concetti di cessione di beni e di prestazioni di servizi. Per quanto in questa sede segnatamente interessa, tali disarmonie hanno investito e continuano a investire la determinazione della base imponibile e, in particolare, i casi in cui è legittimo utilizzare per la determinazione della stessa il valore normale. Prima di addentrarci nell’esame di tali disarmonie, non può che formularsi l’auspicio di un pronto intervento normativo volto a sanare le stesse. Sotto questo aspetto, anche la recente legge di delega per la riforma fiscale 2 rappresenta – nell’attuale formulazione – una (ennesima) occasione perduta. Il mancato corretto recepimento delle disposizioni comunitarie rappresenta infatti, per lo Stato inadempiente, un evidente rischio. Ove, come accade nella generalità dei casi per le disposizioni in materia di IVA contenute nella direttiva 2006/112/CE, le stesse siano dettagliate e sufficientemente precise, in caso di difformità tra la normativa comunitaria e la normativa interna lo Stato e il contribuente si troveranno in due posizioni di forza ben distinte. Mentre lo Stato non potrà che pretendere l’applicazione della disciplina nazionale, non potendo invocare la diretta applicabilità della disciplina comunitaria non correttamente recepita, il contribuente potrà operare una sorta di cherry-picking, potendo lo stesso scegliere se applicare la disciplina interna ovvero quella comunitaria 3. Essendo plausibile che un contribuente avveduto possa scegliere il comportamento per lo stesso meno penalizzante, sono quindi evidenti le conseguenze pregiudizievoli per lo Stato di un non corretto recepimento della normativa comunitaria. Se dunque appare indifferibile un intervento di profondo restyling della normativa italiana in materia di IVA, è auspicabile che questo avvenga approntando un testo unico, al fine di riunire più organicamente disposizioni “sparse” in vari provvedimenti – si pensi che la disciplina degli scambi intracomunitari di beni o delle cessioni di beni usati non è contenuta nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ma, rispettivamente, nel D.L. n. 331/1993 e nel D.L. n. 41/1995 – così come ha opportunamente fatto il legislatore comunitario con la direttiva 2006/112/CE. 2

Cfr. la L. 11 marzo 2014, n. 23. Cfr. le sentenze della Corte di Giustizia: 26 febbraio 1986, C-152/84; 8 ottobre 1987, C80/86; 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C 9/90, punto 21; 26 settembre 1996, C168/95, punto 42; 30 marzo 2006, C-184/04, punto 28. 3

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2. Criteri generali per la determinazione della base imponibile IVA È principio fondamentale, in materia di IVA, che la base imponibile sia da individuare nel corrispettivo convenuto. Più in particolare, il principio-guida cui deve farsi riferimento è quello del “corrispettivo soggettivo”, in base al quale la base imponibile dell’imposta: – coincide con il corrispettivo realmente ricevuto e non già con un valore stimato secondo criteri obiettivi 4; – deve essere determinata al netto degli sconti e riduzioni eventualmente applicate 5. Solo in tale modo, infatti, può essere rispettato il principio che è posto a fondamento dell’intero sistema, per cui l’IVA deve gravare unicamente sul consumatore finale e non può essere superiore al corrispettivo effettivamente pagato 6. In tale situazione, il legislatore potrebbe aver interesse a prevedere l’utilizzazione del valore normale, in luogo del corrispettivo solo in due ipotesi: nell’ipotesi in cui il corrispettivo non sia previsto o sia difficilmente determinabile e nell’ipotesi in cui l’utilizzazione di tale valore assuma una valenza antielusiva. È interessante al riguardo notare come la normativa nazionale abbia utilizzato il valore normale per sovvenire a entrambe le predette finalità, a fronte di una normativa comunitaria che prevede invece la possibilità di utilizzare il valore normale solo con una valenza squisitamente antielusiva.

3. I casi in cui assume rilievo il valore normale nella disciplina comunitaria Il concetto di valore normale è stato inserito nella normativa comunitaria, in buona sostanza, solo con la direttiva 69/2006/CE del 24 luglio 2006, che ha modificato la sesta direttiva, che sostanzialmente non prevedeva l’utilizzazione del valore normale quale criterio di determinazione della base imponibile IVA. Da tale mancata previsione conseguiva che, come riconosciuto dalla Corte di Giustizia, il corrispettivo non poteva essere messo in discussione neppure quando, nei rapporti tra parti correlate, fosse fissato a un livello anormalmente basso 7. Le disposizioni in materia recate dalla predetta direttiva sono oggi contenute nell’art. 80 della direttiva 2006/112/CE. Tali disposizioni si riferiscono, esclusi4 Cfr., tra le altre, le sentenze della Corte di Giustizia: 23 novembre 1988, C-230/87; 27 marzo 1990, C-126/88; 24 ottobre 1996, C-317/94; 3 luglio 2001, C-380/99. 5 Cfr. le sentenze della Corte di Giustizia: 27 marzo 1990, C-126/88; 24 ottobre 1996, C317/94; 15 ottobre 2002, C-427/98. 6 Cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 27 aprile 1999, C-48/97. 7 Cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 20 gennaio 2005, C-412/03.

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vamente, a operazioni dietro corrispettivo. Più in particolare, si tratta di disposizioni che intendono, appunto, contrastare fenomeni elusivi che possono attuarsi attraverso la fissazione del corrispettivo a un certo livello in presenza di situazioni di collegamento che possono intercorrere tra le parti di un’operazione. Ancora più in particolare, tali disposizioni intendono contrastare abusi del diritto alla detrazione e trovano quindi applicazione solo quando, in presenza di operazioni tra parti correlate, sussistano limitazioni al diritto alla detrazione in capo al cedente/prestatore oppure al cessionario/committente. Con tali disposizioni si intende in particolare evitare che, dati i criteri di collegamento tra le parti: – venga fissato un corrispettivo irragionevolmente basso per un’operazione imponibile, per far beneficiare di una riduzione dell’imposta indetraibile un cessionario o committente con un limitato diritto alla detrazione. Verificandosi tale circostanza, se il corrispettivo è fissato in misura inferiore al valore normale, la base imponibile è individuata nel valore normale; – venga fissato un corrispettivo irragionevolmente alto per un’operazione imponibile, per far beneficiare di un incremento dell’imposta detraibile un cedente o prestatore con un limitato diritto alla detrazione. Verificandosi tale circostanza, se il corrispettivo è fissato in misura superiore al valore normale, la base imponibile è individuata nel valore normale; – venga fissato un corrispettivo irragionevolmente basso per un’operazione esente, per far beneficiare di un incremento dell’imposta detraibile un cedente o prestatore con un limitato diritto alla detrazione. Verificandosi tale circostanza, se il corrispettivo è fissato in misura inferiore al valore normale, la base imponibile è individuata nel valore normale. Tali disposizioni, si ribadisce, non trovano applicazione per le operazioni senza corrispettivo, per cui – come meglio si dirà appresso – operano criteri affatto differenti, che prescindono completamente dal valore normale.

4. I casi in cui assume rilievo il valore normale nella disciplina italiana A fronte di questo limitatissimo uso nella normativa comunitaria del valore normale, la normativa nazionale conosceva e tuttora conosce un ben più diffuso uso di tale criterio ai fini della determinazione della base imponibile IVA. Oltre alle predette disposizioni per le operazioni dietro corrispettivo nei confronti di parti correlate, per cui le disposizioni nazionali coincidono sostanzialmente con quelle comunitarie 8, la normativa nazionale ha fatto o fa uso del criterio del valore normale anche per la determinazione della base imponibile: delle 8

Cfr. in particolare l’art. 13, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972.

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cessioni e delle prestazioni gratuite; per i passaggi interni di beni tra soggetti che applicano separatamente l’imposta per alcune delle attività esercitate; per le operazioni permutative.

5. Cessioni e prestazioni gratuite Sulle cessioni gratuite la normativa nazionale sembrava essere incorsa in un totale fraintendimento. Non è un caso che la rilevanza ai fini impositivi per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi sia prevista di regola solo in presenza di un corrispettivo e che le cessioni gratuite e le prestazioni gratuite siano soggette a IVA solo al ricorrere di determinate condizioni. In particolare, per quanto riguarda i beni, si prevede l’assimilazione alla cessione a titolo oneroso – con l’assoggettamento a tassazione – quando lo stesso bene abbia dato diritto a una detrazione totale o parziale dell’IVA, indipendentemente dal fatto che detta destinazione o detto trasferimento siano o meno avvenuti per esigenze dell’impresa 9. Al riguardo, la Corte di Giustizia ha sottolineato che la norma ha una funzione “correttiva”, volta a evitare che i beni e servizi – in relazione al cui acquisto è stata, appunto, operata la detrazione – possano essere consumati senza scontare l’IVA. In particolare, in riferimento alla ratio della norma, la Corte di Giustizia ha osservato che “lo scopo di tale disposizione consiste nel garantire la parità di trattamento tra, da un lato, il soggetto passivo che prelevi un bene o che fornisca servizi per proprie esigenze private o per quelle del proprio personale e, dall’altro, il consumatore finale che si procuri un bene o un servizio dello stesso tipo” 10. La stessa esigenza di “correzione” si pone anche per le prestazioni di servizi gratuite. Queste ultime, peraltro, diversamente dalle cessioni di beni, rilevano ai fini IVA solo se effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore ovve9 Cfr. l’art. 16 della direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006. In merito all’irrilevanza dei fini dell’impresa nel caso di cessione di beni senza corrispettivo cfr. la citata sentenza della Corte di Giustizia 27 aprile 1999, C-48/97, nella quale è stato chiarito che “Emerge … dal tenore stesso dell’articolo 5, n. 6, prima frase, della sesta direttiva che esso equipara ad una cessione effettuata a titolo oneroso, assoggettandolo quindi all’IVA, il prelievo di un bene della propria impresa da parte di un soggetto passivo il quale lo trasferisca a titolo gratuito, quando lo stesso bene abbia consentito una deduzione dell’IVA riscossa a monte, senza rilevanza, in via di principio, del fatto che il trasferimento avvenga o no per le esigenze dell’impresa. Infatti, la seconda frase di questa disposizione, che esclude l’assoggettabilità all’imposta dei prelievi eseguiti ad uso dell’impresa per effettuare regali di scarso valore e campioni, sarebbe priva di senso se la prima frase non assoggettasse all’IVA i prelievi che il soggetto passivo trasferisce a titolo gratuito, anche per l’uso dell’impresa”. 10 Sotto tale profilo, la norma in questione presenta finalità analoghe a quelle delle disposizioni che disciplinano la rettifica della detrazione, determinando i medesimi effetti economici sostanziali.

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ro per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa 11. Ne deriva, dunque, che le prestazioni di servizi gratuite non sono comunque soggette a tassazione – anche nel caso in cui per l’esecuzione del servizio siano stati effettuati acquisti assoggettati a IVA e l’IVA addebitata per tali acquisti sia stata detratta – quando i servizi siano resi per finalità imprenditoriali 12. Come precisato dalla Corte di Giustizia, la fattispecie non rileva ai fini impositivi, ove la prestazione gratuita sia effettuata per finalità imprenditoriali, anche quando comporti l’effetto “collaterale” di arricchire il destinatario 13. In coerenza con la natura “correttiva” del presupposto cessione gratuita/prestazione gratuita, la normativa comunitaria individua la base imponibile di tali operazioni (ove, in presenza dei requisiti sopra illustrati, rilevanti ai fini impositivi): – per quanto riguarda le cessioni gratuite, nel prezzo di acquisto o, in mancanza, nel prezzo di costo 14; – per quanto riguarda le prestazioni gratuite, nelle spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione del servizio 15. Anteriormente alle modifiche recate dalla legge comunitaria 2008 16, la normativa nazionale non risultava conforme alla disciplina comunitaria, in quanto stabiliva che la base imponibile delle cessioni gratuite e delle prestazioni gratuite, quando rilevanti agli effetti dell’IVA, era costituita dal valore normale 17. Solo l’art. 24 della legge comunitaria 2008, nella consapevolezza di tale difformità, ha modificato la disciplina nazionale, e in particolare l’art. 13 del D.P.R. n. 633/1972 18, in senso del tutto conforme a quella comunitaria, chiarendosi opportunamente che la base imponibile non è costituita dal valore normale, bensì dal prezzo di acquisto (o, in mancanza, dal prezzo di costo) per le cessioni di beni e dalle spese di esecuzione per le prestazioni di servizi. Più in particolare, dato che nella specie si tratta, come ripetuto, di “corregge11

Cfr. l’art. 26 della Direttiva 2006/112/CE. Cfr. le sentenze della Corte di Giustizia 16 ottobre 1997, C-258/95, e 11 dicembre 2008, C-371/07. 13 Cfr. le citate sentenze della Corte di Giustizia 16 ottobre 1997, C-258/95, e 11 dicembre 2008, C-371/07, in cui si afferma che l’attrazione nel campo impositivo dei servizi gratuiti non opera quando il vantaggio personale che i destinatari dei servizi stessi ne traggono “risulta soltanto come accessorio rispetto alle esigenze dell’impresa”. 14 Cfr. l’art. 74 della direttiva 2006/112/CE, che ripropone la disposizione in precedenza contenuta nell’art. 11, paragrafo 1, lett. b), della sesta direttiva. 15 Cfr. l’art. 75 della direttiva 2006/112/CE, che ripropone la disposizione in precedenza contenuta nell’art. 11, paragrafo 1, lett. c), della sesta direttiva. 16 Trattasi della L. 7 luglio 2009, n. 88. 17 Cfr. il previgente testo dell’art. 13, comma 2, lett. c), del D.P.R. n. 633/1972. 18 Cfr. in particolare l’art. 13, comma 2, lett. c), del D.P.R. n. 633/1972 come risultante, appunto, dall’art. 24, comma 4, lett. b), della legge comunitaria 2008. 12

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re” la detrazione operata, appare coerente che debba tenersi conto, a tal fine, solo degli acquisti per cui l’IVA abbia trovato applicazione e, con riferimento a tali acquisti, dell’IVA effettivamente detratta 19. Tale impostazione trova supporto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. La Corte, in particolare, ha chiarito che, nei limitati casi in cui le operazioni gratuite sono imponibili agli effetti dell’IVA, la relativa base imponibile è commisurata agli elementi che hanno conferito diritto alla detrazione dell’IVA 20. Per quanto riguarda le cessioni gratuite di beni ciò appare più agevole, dovendosi eminentemente tenere conto dell’IVA detratta in sede di acquisto degli stessi. Per quanto riguarda le prestazioni di servizi a titolo gratuito – in cui la base imponibile è ora da rinvenirsi nelle spese per l’esecuzione del servizio – deve ritenersi che, quando ci si riferisce a tali spese, si intenda riferirsi ad acquisti soggetti a IVA e per i quali l’IVA sia stata (almeno in parte) detratta, dovendosi considerare sottratte all’imposizione, nel procedere all’assoggettamento a IVA delle prestazioni di servizi gratuite, le “prestazioni di servizi che il soggetto passivo ha ottenuto da terzi … senza poter detrarre l’imposta versata a monte” 21.

6. Passaggi interni di beni tra le attività separate Se per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi gratuite la base imponibile è stata infine disciplinata dal legislatore nazionale in conformità ai criteri comunitari, un notevole fraintendimento permane tuttora, nella legislazione nazionale, per i passaggi di beni e servizi tra le attività di soggetti che, esercitando più attività, optano per l’applicazione separata dell’imposta per le stesse. Tale opzione è accordata dal legislatore nazionale – con l’art. 36 del D.P.R. n. 633/1972 – fondamentalmente per tener conto delle distorsioni che può comportare l’applicazione di un criterio forfettario e indiretto quale quello della percentuale di detrazione (c.d. pro rata) applicata alla totalità degli acquisti e delle importazioni poste in essere. Il diritto alla detrazione – in base alla normativa comunitaria “standard” 22 – è esercitato nel seguente modo:

19 Cfr. R. COPPA-P. MASPES, “La base imponibile delle prestazioni gratuite rilevanti ai fini IVA”, in Corriere Tributario n. 47 del 2009, p. 3828. 20 Cfr. in particolare la sentenza della Corte di Giustizia 17 maggio 2001, C-322/99 e C323/99. 21 Cfr. le sentenze della Corte di Giustizia 27 giugno 1989, C-50/88, e 25 maggio 1993, C193/91. 22 Cfr. gli artt. 168 e 173, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE.

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1. è detraibile l’IVA relativa agli acquisti utilizzati per l’effettuazione di operazioni imponibili o a queste assimilate 23; 2. non è detraibile l’IVA relativa agli acquisti utilizzati per l’effettuazione di altre tipologie di operazioni 24; 3. è detraibile in funzione del pro rata (rapporto tra le operazioni di cui al n. 1, al numeratore, e la somma tra tali operazioni e quelle di cui al n. 2, al denominatore) l’IVA relativa agli acquisti promiscuamente utilizzati per effettuare operazioni imponibili (o a queste assimilate) e altre tipologie di operazioni 25. Gli Stati hanno la facoltà di utilizzare diversi metodi per la determinazione dell’imposta detraibile 26 ma solo, come chiarito dalla Corte di Giustizia per l’imposta relativa ai beni e servizi promiscuamente utilizzati da un soggetto passivo per effettuare nel contempo operazioni economiche che danno diritto a detrazione e operazioni economiche che non conferiscono diritto a detrazione; i predetti diversi metodi di determinazione dell’imposta detraibile possono quindi riguardare solo detti beni e servizi 27. Al contrario, i beni e servizi utilizzati dal soggetto passivo unicamente per effettuare operazioni economiche che danno diritto a detrazione non ricadono nella sfera di applicazione del criterio del pro rata, ma la relativa imposta è integralmente detraibile 28. A fronte di tali previsioni comunitarie, la normativa nazionale in materia di IVA prevede, in estrema semplificazione, che per i soggetti che pongono in essere sistematicamente sia operazioni imponibili, o assimilate, che operazioni esenti la determinazione dell’IVA detraibile è operata in funzione del pro rata per tutti gli acquisti di beni e servizi (c.d. “pro rata generale”), e non solo per quelli promiscuamente utilizzati per l’effettuazione di operazioni imponibili (o a queste assimilate) e operazioni esenti 29. Tale disposizione appare fondarsi sulla facoltà accordata dall’art. 173, paragrafo 2, lett. d), della direttiva 2006/112/CE, in base al quale: “Gli Stati membri possono adottare le misure seguenti: (…) d) autorizzare od obbligare il soggetto passivo ad operare la detrazione secondo la norma di cui al paragrafo 1, primo comma 30, relativamente a tutti i beni e servizi utilizzati per tutte le operazioni ivi contemplate”. 23

Cfr. l’art. 168 della direttiva 2006/112/CE. Cfr. l’art. 168 della direttiva 2006/112/CE. 25 Cfr. l’art. 173, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE. 26 Cfr. l’art. 173, paragrafo 2, della direttiva 2006/112/CE. 27 Cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 6 settembre 2012, C-496/11, punto 40. 28 Cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 6 settembre 2012, C-496/11, punto 41. 29 Cfr. l’art. 19, comma 5, del D.P.R. n. 633 del 1972. 30 Trattasi della citata disposizione secondo cui l’imposta detraibile è calcolata in funzione del pro rata. 24

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La citata giurisprudenza della Corte di Giustizia 31 pone peraltro più di un dubbio sulla compatibilità con l’ordinamento comunitario della regola del pro rata generale di cui all’art. 19, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972, giacché in base a tale regola il criterio di cui all’articolo 173, paragrafo 2, lettera d), della direttiva 2006/112/CE troverebbe applicazione – in difformità da quanto affermato in tale giurisprudenza – anche per gli acquisti di beni e di servizi utilizzati esclusivamente per l’effettuazione di operazioni imponibili o assimilate. Tali dubbi permangono anche ove si tenga conto della più sfumata posizione assunta dalla Corte di Giustizia in un’altra sentenza 32, nella parte in cui, pur non soffermandocisi espressamente sulla disposizione di cui all’art. 173, paragrafo 2, lett. d), della direttiva 2006/112/CE, si chiarisce che, nel loro complesso, le disposizioni di cui al predetto art. 173 sono volte a trovare applicazione solo “in fattispecie determinate”. Le stesse, infatti, secondo la predetta sentenza “sono finalizzate, segnatamente, tenendo conto delle caratteristiche specifiche proprie delle singole attività del soggetto passivo, a consentire agli Stati membri di pervenire a risultati più precisi nel calcolo del pro rata di detrazione”. Sulla base di quest’ultima sentenza, pare possibile sostenere che la regola del pro rata generale di detrazione possa sì trovare applicazione, ma solo nei limitati casi in cui la stessa consenta di pervenire a risultati più precisi in termini di determinazione dell’IVA detraibile, tenendo conto delle specifiche caratteristiche del soggetto passivo. È evidente che una tale circostanza non può ritenersi realizzata quando – come nell’attuale normativa italiana – la regola del pro rata generale sia applicata alla generalità dei contribuenti. Per la maggior parte dei contribuenti, invero, il sistema che consentirebbe di pervenire a risultati più precisi in termini di determinazione dell’IVA detraibile sarebbe proprio quello previsto dalla normativa comunitaria standard. La possibilità di ritenere la normativa italiana in qualche misura compatibile con la disciplina comunitaria è, in definitiva, fondamentalmente da ricercarsi nella possibilità di dare ingresso, per altra via, ai criteri comunitari. A tal fine deve, appunto, essere presa in considerazione la disposizione di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 633/1972, che accorda ai soggetti che trovano la determinazione forfettaria dell’imposta detraibile penalizzante, la possibilità di optare, nel rispetto di certe condizioni, per l’applicazione separata dell’imposta. L’esercizio di tale opzione potrebbe in qualche misura consentire – in armonia con i principi comunitari – di applicare il criterio del pro rata ai soli acquisti di utilizzazione promiscua, salvaguardando il diritto alla detrazione in misura piena per gli

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Cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 6 settembre 2012, C-496/11. Cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 8 novembre 2012, C-511/10.

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acquisti di beni e di servizi utilizzati esclusivamente per l’effettuazione di operazioni imponibili o assimilate 33. Il predetto art. 36 del D.P.R. n. 633/1972 contiene tuttavia – nel suo attuale tenore letterale – disposizioni complesse e, per certi versi, vessatorie, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedimentale, che possono rendere agli interessati difficoltoso o gravato da impropri oneri impositivi l’accesso al regime opzionale. Tornando al tema che più direttamente ci occupa, una di queste disarmonie riguarda proprio i passaggi di beni e di servizi da una ad altra attività per cui l’IVA sia applicata separatamente. Nell’attuale normativa, rientrano in generale nel campo di applicazione dell’IVA tutti i passaggi di beni da una ad altra attività e, per quanto riguarda i passaggi di servizi, tutti quelli nei confronti di un’attività con detrazione ridotta ovvero forfettizzata 34. La relativa base imponibile è costituita, appunto, dal valore normale. Nella direttiva comunitaria la disciplina dei passaggi tra attività è contenuta negli artt. 18, lettera a), e 27 della direttiva 2006/112/CE ovvero nell’ambito delle operazioni assimilate a cessioni di beni a titolo oneroso e prestazioni di servizi verso corrispettivo (insieme all’interno del quale è riconducibile pure il sottoinsieme delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi gratuite, disciplinate come rilevato dagli artt. 16 e 26 della direttiva 2006/112/CE). Anche per tali operazioni, infatti, secondo il legislatore comunitario, l’assoggettamento a IVA è previsto in determinate ben specifiche ipotesi, connotate dall’esigenza – di carattere eccezionale – di introdurre presupposti di natura, per così dire, “correttiva”, volti a evitare che determinati beni e servizi possano pervenire al consumo senza scontare l’IVA Sotto tale profilo, le disposizioni in materia di imponibilità dei passaggi di beni e di servizi contenute nell’attuale quinto comma dell’art. 36 del D.P.R. n. 633/1972 – se letteralmente intese – si porrebbero in aperto contrasto con la funzione correttiva loro attribuita dall’ordinamento comunitario, in particolare là dove dispongono la rilevanza ai fini impositivi degli stessi anche nei casi in cui non si renda necessario procedere ad alcuna correzione della detrazione operata (in via esemplificativa perché nessuna detrazione è stata operata all’atto dell’acquisto) e là dove continuano a prevedere che la base imponibile sia costituita dal valore normale e non già dal prezzo di acquisto. Fermo restando che sarebbe auspicabile – per quanto sopra accennato – una più compiuta rivisitazione dell’intera disciplina del diritto alla detrazione del33 Cfr. P. MASPES-G. SCIFONI, “L’applicazione separata dell’Iva ‘ancora di salvezza’ della disciplina nazionale della detrazione”, in Corriere Tributario n. 20 del 2014, p. 1532. 34 Cfr. l’art. 36, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972.

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l’IVA sugli acquisti, per quanto più specificamente attiene al tema analizzato in questo intervento appare quanto meno auspicabile che il legislatore nazionale possa completare l’azione intrapresa con la legge comunitaria 2008 con riferimento anche ai passaggi di beni e di servizi nell’ambito dell’attività separata. Tali passaggi dovrebbero essere più opportunamente inquadrati nell’ambito delle operazioni senza corrispettivo, che assumono rilevanza ai fini IVA solo in presenza dell’esigenza di correzione di una detrazione operata e con una base imponibile, in tal caso, parametrata appunto alla detrazione operata (così come avviene per le cessioni e le prestazioni a titolo gratuito di cui si è trattato nel precedente paragrafo).

7. Operazioni permutative Anche per le operazioni permutative il legislatore nazionale ha scelto, sin dal recepimento della sesta direttiva, una strada del tutto autonoma rispetto al percorso tracciato dal legislatore comunitario. La normativa comunitaria non reca una disciplina specifica per le operazioni permutative, evidentemente nell’assunto che si tratta di prestazioni aventi carattere oneroso la cui disciplina è, appunto, quella ordinaria delle operazioni aventi carattere oneroso. Il legislatore nazionale – tenendo conto che nell’operazione permutativa la cessione di beni o la prestazione di servizi resa da una parte ha come corrispettivo il bene ceduto o il servizio prestato dall’altra parte – ha inteso dare soluzione a quella che è la difficoltà di carattere obiettivo riscontrabile nella fattispecie, ovvero la determinazione del corrispettivo in assenza di un valore monetario. La strada scelta dall’art. 13 del D.P.R. n. 633/1972 35 è, in particolare, quella di ravvisare la base imponibile del bene ceduto o del servizio prestato nel valore normale del bene o servizio stesso (senza guardare al valore normale del bene o servizio ricevuto in corrispettivo dalla controparte, che costituisce invece la base imponibile della cessione di beni o della prestazione di servizi resa dalla controparte stessa). Tale strada appare fortemente divergente da quella comunitaria 36. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia – già in precedenza ricordata – l’imponibile è il corrispettivo realmente ricevuto e non già un valore stimato secondo criteri obiettivi 37. 35

Cfr. in particolare l’art. 13, comma 2, lett. d), del D.P.R. n. 633/1972. Cfr. M. PEIROLO, “L’esigibilità e la base imponibile dell’IVA nelle permute”, ne L’IVA n. 2 del 2013, p. 42. 37 Cfr., tra le altre, le sentenze della Corte di Giustizia: 23 novembre 1988, C-230/87; 27 marzo 1990, C-126/88: 24 ottobre 1996, C-317/94; 3 luglio 2001, C-380/99. 36

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IL VALORE NELL’IVA FRA REGOLE DI QUANTIFICAZIONE DEL CORRISPETTIVO

Trattandosi di operazioni dietro corrispettivo, non è derogato quindi il principio-guida del corrispettivo soggettivo, in base al quale la base imponibile è costituita non già dal valore normale del bene ceduto o del servizio prestato, bensì dal controvalore del bene o del servizio ricevuto. Più in particolare, la Corte di Giustizia, in considerazione delle difficoltà conseguenti all’assenza di un controvalore monetario, ha spiegato che il corrispettivo soggettivo deve essere individuato, nell’ipotesi di operazioni permutative, nel valore che una parte attribuisce ai beni o ai servizi forniti dalla controparte, che costituiscono il corrispettivo della operazione che tale parte rende, e deve quindi corrispondere alla somma che essa è disposto a pagare a tal fine 38. In sostanza, come spiegato da tale giurisprudenza, tale valore non corrisponde al valore normale della operazione resa, ma corrisponde ai costi sostenuti dalla parte dell’operazione permutativa per rendere la propria operazione alla controparte. Per meglio comprendere l’ottica completamente rovesciata in cui si pone il legislatore nazionale, può farsi riferimento a una delle operazioni permutative più famose della letteratura, quella intercorrente tra Renzo e Azzeccagarbugli. Per far rientrare nell’ambito impositivo entrambe le transazioni di cui si compone l’operazione permutativa de qua, si assuma che Renzo chieda all’avvocato consulenza professionale non già su una questione personale, ma su una questione attinente alla propria impresa agricola (nonché che la consulenza sia poi effettivamente resa e pagata, diversamente da quanto nel romanzo manzoniano alla fine accade). Nell’esemplificazione proposta, la differenza tra l’impostazione nazionale e quella comunitaria è la seguente: – sulla base dell’impostazione nazionale, la base imponibile dell’operazione resa da Azzeccagarbugli è individuata in funzione del valore normale del servizio reso dallo stesso e la base imponibile dell’operazione resa da Renzo è individuata in funzione del valore normale dei quattro capponi; – sulla base dell’impostazione comunitaria, la base imponibile dell’operazione resa da Azzeccagarbugli è individuata in funzione di quanto egli è disposto a pagare per ottenere i quattro capponi (verosimilmente da individuare nel costo che egli sostiene per rendere il servizio, che dovrebbe di regola essere in funzione del tempo impiegato) e la base imponibile dell’operazione resa da Renzo è individuata di quanto egli è disposto a pagare per ottenere il servizio reso da Azzeccagarbugli (verosimilmente da individuare nel costo che egli ha sostenuto per l’acquisizione o la produzione dei quattro capponi). 38

Cfr. le sentenze della Corte di Giustizia: 2 giugno 1994, C-33/93; 3 luglio 2001, C-380/99; 19 dicembre 2012, C-549/11. In quest’ultima, in particolare, si è escluso che la base imponibile delle transazioni di cui si compone un’operazione permutativa possa essere individuata sulla base del valore normale.

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Anche su tale punto una rivisitazione della normativa nazionale appare in conclusione necessaria, considerato in particolare che anche di recente la Corte di Giustizia ha espressamente escluso che la base imponibile delle transazioni di cui si compone un’operazione permutativa possa essere individuata sulla base del valore normale delle stesse 39.

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Cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 19 dicembre 2012, C-549/11, punto 49.

RILEVANZA AI FINI DELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO DEGLI SCONTI COMMERCIALI NELL’AMBITO DELLE CESSIONI DI BENI

di Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti SOMMARIO: 1. Introduzione. – 1.1. Considerazioni introduttive. – 1.2. Gli effetti dello sconto. – 1.3. Sconti condizionati. – 2. Gli sconti commerciali nel sistema dell’IVA. – 2.1. Disciplina essenziale degli sconti. – 2.2. Formalizzazione del corrispettivo dell’operazione. – 2.3. Momento di previsione dello sconto. – 2.4. Le cessioni di beni “a titolo di sconto” nella disciplina nazionale. – 3. Rilevanza dello sconto ai fini dell’IVA. – 3.1. Rapporto con la compravendita. – 3.2. Lo sconto come titolo di attribuzione. – 3.3. Sconto e cessioni di beni. – 3.3.1. Effetto tipico delle cessioni di beni. – 3.3.2. Il contesto “economico” delle cessioni di beni. – 3.3.3. Qualità dell’effetto delle cessioni di beni. – 3.3.4. Idoneità dello sconto a determinare attribuzioni onerose-non corrispettive. – 4. Conclusioni. Ipotesi sul trattamento IVA delle cessioni di beni onerose-non corrispettive. – 4.1. Specificità delle “cessioni di beni a titolo di sconto”. – 4.2. Cessioni onerose-non corrispettive e IVA. – 4.3. Possibili conseguenze in tema di teoria dell’IVA.

1. Introduzione 1.1. Considerazioni introduttive Il sistema dell’imposta sul valore aggiunto è intimamente connesso con la realtà degli scambi commerciali. È quindi ovvio che ogni aspetto in cui l’attività economica che precede il consumo si articola debba trovare adeguata collocazione all’interno di tale tributo, inteso a colpire il valore aggiunto dei beni e servizi che pervengono al consumo 1, ma la cui struttura attribuisce rilevanza 1

Senza potere in questa sede entrare adeguatamente nel merito della questione circa la identificazione del presupposto dell’IVA, nel comma 2 dell’art. 1 della Direttiva 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE è descritto l’intento di applicare «un’imposta generale sui consumi». In ordine alle teorie sviluppatesi, alternative alla individuazione del presupposto del tributo nel consumo, utili le trattazioni di FILIPPI, (voce) Valore aggiunto (imposta sul), in Enc. dir., XLVI, Milano,

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proprio a fatti che l’immissione al consumo precedono 2. Tra questi, gli sconti commerciali rivestono particolare interesse, in quanto costituiscono una fattispecie che incide concretamente sulla determinazione della base imponibile dell’operazione considerata ai fini IVA. Lo sconto, infatti, può essere individuato come una clausola contrattuale idonea a far sì che il beneficiario di una certa prestazione (solitamente di dare), ricevuta nell’ambito di un rapporto di tipo corrispettivo, ottenga dalla controparte determinate utilità a condizioni più favorevoli – ossia subendo un impoverimento minore – rispetto a quanto avverrebbe in applicazione delle condizioni che il cedente pratica abitualmente 3. Avendo riguardo alle cessioni di beni, ciò può significare, in primo luogo, che mediante lo sconto il cedente concede al cessionario una riduzione sul prezzo della compravendita, sicché il corrispettivo dovuto per l’acquisto di un medesimo bene o di una stessa quantità di cose risulterà più basso di quello che, senza lo sconto, il cessionario avrebbe dovuto pagare per procurarsele. Lo sconto, tuttavia, può essere concesso anche “in natura”, ossia facendo sì che il minore impoverimento del cessionario abbia luogo mediante trasmissione, 1993, p. 130 ss. nonché CARPENTIERI, L’imposta sul valore aggiunto, in FANTOZZI, Il Diritto tributario, Torino, 2003, p. 933 ss. ed i riferimenti di bibliografia ivi citati. Principalmente, in via molto stringata, la dottrina si divide in coloro che hanno individuato il presupposto nella singola operazione imponibile (INGROSSO, PERRONE CAPANO, BOSELLO, SAMMARTINO); chi ritiene che l’imposta colpisca l’esercizio di attività di impresa o di attività professionali, in quanto applicata sulla somma algebrica della massa delle operazioni effettuate dal soggetto passivo nel periodo di imposta (FANTOZZI); chi considera che il presupposto sia integrato nell’intero ciclo di operazioni e vada quindi imputato a tutti i soggetti passivi in proporzione alla quota di quel valore aggiunto complessivo che hanno contribuito a formare (AMATUCCI); chi, infine, ritiene che lo scambio in sé integri il presupposto, e la detrazione intervenga quindi soltanto a detassare a posteriori quegli scambi che non si siano rivelati destinati al consumo (LUPI). 2 In questi termini SAMMARTINO, (voce) Cessione di beni (dir. trib.), in Enc. giur. Agg., X, Roma, 2002, p. 1. 3 Che sono poi quelle rappresentate nel regolamento contrattuale principale, vale a dire quello che si applica in difetto di previsione dello sconto, ossia di un elemento accidentale che interviene a modificare l’elemento – necessario – del contratto di compravendita costituito dal prezzo convenuto a carico dell’acquirente. L’applicazione dello sconto non sembra però operare semplicemente come riduzione del prezzo. Si ritiene infatti che lo sconto debba essere considerato come una clausola facente parte della regolamentazione contemplata nel contratto, ossia un elemento a quest’ultimo accessorio, giacché ogni qualvolta un rivenditore concede una riduzione sul prezzo di vendita dei propri beni a scopo promozionale, si ha comunemente contemplazione e del prezzo che sarebbe ordinariamente dovuto, e della decurtazione che su di esso viene concessa. Se tra le parti venisse infatti semplicemente previsto il corrispettivo dovuto, già decurtato dello sconto concesso, probabilmente il venditore perderebbe la funzione promozionale che concedendo lo sconto intende invece perseguire giacché, per dirne una, la controparte potrebbe non avere esatta percezione delle condizioni di maggior favore, rispetto ad es. ai listini ordinari, che in suo favore vengono praticate.

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in suo favore, di una maggiore quantità degli stessi beni che richiede, come pure attribuendogli – appunto, “a titolo di sconto”, per citare l’art. 15, comma 1, n. 2 del D.P.R. n. 633/1972, di cui si dirà – beni ulteriori, anche diversi da quelli oggetto della cessione originariamente pattuita 4. Il problema cui attiene la presente indagine è pertanto quello di capire se lo sconto, o più specificamente la fattispecie individuabile come “cessione di beni a titolo di sconto” – che si intende analizzare – sia, effettivamente, elemento idoneo a determinare autonomamente una “cessione di beni” ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972 e in che modo, conseguentemente, essa assumerebbe rilievo nel sistema dell’IVA.

1.2. Gli effetti dello sconto La casistica supera certamente la possibilità ricognitiva finalizzata al presente studio. Solo per chiarezza e comodità di indagine, si possono individuare in via esemplificativa una serie di fattispecie peculiari, relative all’applicazione di sconti nel caso elementare di una vendita di cose fungibili 5. In primo luogo, lo sconto può consistere semplicemente in una decurtazione del prezzo della cessione (100 pezzi a 90 euro anziché a 100 euro). È poi possibile che la concessione dello sconto intervenga sulla cessione originaria, in modo tale che se l’acquirente chiede 100 pezzi, si convenga di fornirgliene 90 a titolo di compravendita (per complessivi 90 euro), e gli ulteriori 10 a titolo di sconto, quindi senza corrispettivo ulteriore 6. Infine, lo sconto può risolversi nella cessione di una quantità ulteriore di beni, 4

Per la fattispecie da ultimo nominata, il trattamento ai fini IVA sarebbe esattamente lo stesso riservato alla cessione, a titolo di sconto, di beni analoghi a quelli che il cessionario ha manifestato di volere acquistare in quella che potrebbe definirsi “operazione principale”. In proposito, la conferma della esclusione dal concorso alla determinazione della base imponibile della cessione a titolo di sconto anche di beni diversi da quelli che hanno formato oggetto della cessione cui accedono si rinviene nelle Ris. Dir. TT.AA. n. 362125 del 24 luglio 1986 e n. 360953 del 14 gennaio 1977 (in Banca dati fisconline). Conforme, con la precisazione che i beni ceduti a titolo di sconto possono anche essere stati acquistati presso un soggetto terzo, anziché unicamente di propria produzione, la Ris. Dir. TT.AA. n. 363705 del 21 dicembre 1979, in Banca dati fisconline. 5 Occorre porre l’avvertenza di non confondere lo sconto, elemento sul quale si forma il consenso delle parti, con la diversa fattispecie della rinuncia a parte del corrispettivo da parte del venditore (sulla quale si veda MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2012, p. 110). 6 L’esempio differisce da quello precedente in quanto, in questo caso, il “prezzo unitario” dei beni ceduti rimane invariato, mentre muta unicamente la quantità di beni per la quale esso trova applicazione.

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della stessa specie di quelli acquistati, o anche di tipologia differente (100 pezzi a 100 euro, con l’aggiunta di ulteriori pezzi). Notiamo subito che le prime due fattispecie nominate si equivalgono per gli effetti prodotti in capo al cessionario (che in ogni caso riceverà i 100 pezzi desiderati e corrisponderà comunque 90 euro), ma presentano una significativa differenza dal punto di vista giuridico. Nel primo caso, il corrispettivo è determinato nella misura – ridotta rispetto all’ordinario – di 90 euro per l’intera fornitura, senza apparente contemplazione di elementi accessori. Nel secondo e nel terzo caso, invece, alla pattuizione del corrispettivo della vendita si aggiunge un elemento ulteriore, ossia la cessione aggiuntiva, invariato il corrispettivo 7, di beni in favore del cessionario. Emerge dunque in primo luogo la differenza tra lo sconto “in natura”, che si sostanzia nella attribuzione all’acquirente di beni ulteriori rispetto a quelli che acquista, rispetto a quello “in denaro”, che apparentemente non sarebbe altro che una decurtazione del corrispettivo dovuto dall’acquirente.

1.3. Sconti condizionati Ulteriore distinzione che può essere compiuta in relazione alle tipologie di sconto rinvenibili nella prassi può essere individuata nella circostanza che questi vengano concessi immediatamente, in via incondizionata, ovvero trovino applicazione soltanto in un momento successivo a quello nel quale la cessione viene concordata. La seconda fattispecie potrebbe ricorrere o perché, per i più vari motivi e senza che ciò fosse inizialmente previsto, in un secondo momento le parti si accordano per l’applicazione di uno sconto, in denaro o in natura, oppure perché l’operatività dello sconto viene fin dall’origine condizionata all’avveramento di determinate condizioni attinenti fatti relativi al rapporto contrattuale in essere. In quest’ultimo caso, la prassi mostra come la concessione dello sconto possa essere subordinata, tra l’altro, all’assunzione da parte del cessionario che sia a sua volta rivenditore degli stessi beni – quindi soggetto passivo IVA anch’esso – di obblighi di fare con i quali il suo dante causa indirizza l’attività di rivendita, in modo che essa si svolga con determinati criteri o secondo certe modalità. Su questo punto, l’Amministrazione finanziaria 8 ha ritenuto che tra la concessione dello sconto e le prestazioni ulteriori richieste al cessionario possa individuarsi un sinallagma, giungendo a considerare che lo sconto medesimo costituirebbe il corrispettivo, a carico del cedente, di prestazioni di servizi rese dal ces7

Rispetto ad una cessione che avvenga a condizioni “ordinarie”. Principalmente, Ag, delle Entrate, Risoluzioni n. 120/E del 17 settembre 2004 e n. 36/E del 7 febbraio 2008. 8

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sionario che ciò si obblighi a fare all’atto dell’approvvigionamento dei beni che andrà a rivendere al pubblico, così da beneficiare di condizioni di acquisto più favorevoli 9.

2. Gli sconti commerciali nel sistema dell’IVA 2.1. Disciplina essenziale degli sconti Prima di entrare nel merito delle questioni delineate, è opportuna una rapida ricognizione della disciplina dettata per gli sconti nell’IVA. Il sistema dell’imposta in esame, pragmaticamente attento perlopiù ai risvolti economici delle operazioni 10, sembra prendere in considerazione gli sconti commerciali essenzialmente per la loro idoneità ad incidere sul corrispettivo dell’operazione imponibile. 9

Non è possibile la trattazione estesa nella presente sede dell’argomento, sul quale si rinvia LUPI-PACIERI-SERPIERI, Incentivi di vendita collegati a standard qualitativi del rivenditore: sconti o prestazioni autonome?, in Dialoghi trib., 2008, p. 134, COVINO, Trasformazione degli sconti in autonome operazioni IVA: un altro caso di travisamento del rapporto tassazione-diritto civile, in Dialoghi trib., 2010, DAMIANI, La trasformazione degli sconti in fantomatici “servizi inversi” dal cliente al fornitore, in Dialoghi trib., 2009 e SCOPACASA, Servizi promozionali e sconti commerciali, in Corr. trib., 2008, p. 1225. Si rappresenta, tuttavia, che l’orientamento dell’Agenzia è stato ritenuto infondato dalle Corti di merito interessatesi del caso. Tra queste, si segnalano: Commissione tributaria Regionale di Ancona, sez. IX, sent. 11 marzo 2008, n. 32; Comm. Trib. Provinciale di Lecce, sez. II, sent. 3 aprile 2012, n. 115; Comm. Trib. Regionale di Torino, sez. XXIX, sent. 17 febbraio 2011, n. 10, tutte in banca dati fisconline. L’ultima sentenza citata si segnala per aver correttamente evidenziato che «la previsione dello sconto interviene proprio, in aggiunta al margine base contrattuale, a soddisfare un ulteriore interesse che fa capo non al fornitore, ma all’acquirente dei beni, che ha così modo di procurarseli a condizioni più vantaggiose». La materia risulta pervenuta all’esame della Cassazione nel solo caso da cui la sentenza della Sezione tributaria 10 giugno 2011, n. 12751, risolto in maniera favorevole al contribuente. Più di recente, infatti, con ordinanza 29 luglio 2014, n. 17250, la sez. VI della Corte di cassazione si è limitata (a quanto pare per via dei motivi di impugnazione formulati dalla contribuente) a dichiarare soltanto la sussistenza di quelle «obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni» che, ai sensi dell’art. 6, comma 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, escludono la punibilità dell’autore di violazioni tributarie, e dunque l’irrogazione di sanzioni. 10 Nota FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, in Dir. prat. trib., 2009, I, p. 1202, con riferimento alla Direttiva n. 2006/112/CE, come essa «da un lato presupponga l’esistenza di istituti civilistici, di mezzi e di forme giuridiche dell’attività economica, di forme contrattuali degli atti e delle operazioni economiche, ma dall’altro si sforzi di formulare la norma fiscale in modo che essa sia sganciata o, per meglio dire, sganciabile all’occorrenza, da questo substrato giuridico». L’Autrice prosegue osservando: «Il problema che si pone consiste dunque nel dover costruire un modello giuridico (e nazionale) di tributo – che tra diritto civile e categorie fiscali deve per forza mediare – derivandolo però da un modello (quello comunitario) che è pensato per soddisfare finalità economiche».

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È infatti noto che le regole di determinazione dell’IVA incentrano il proprio funzionamento sulla individuazione e determinazione del “corrispettivo” contrattualmente dovuto al soggetto passivo, ossia di quanto ad esso corrisposto o in favore di questi pattuito, elemento che l’art. 73 della Direttiva 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE e l’art. 13 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 assumono come riferimento per la determinazione della base imponibile sulla quale l’imposta trova applicazione nell’ambito dell’operazione 11. In proposito, le pronunce del Giudice europeo non hanno mancato di porre in adeguata evidenza che detto corrispettivo, per la migliore applicazione dell’imposta 12, deve essere sempre quantificato in via effettiva, quale corrispettivo soggettivo realmente ricevuto dal soggetto passivo 13. È per tale ultimo motivo che la disciplina europea, come pure quella nazionale, espressamente prevedono e disciplinano l’ipotesi in cui il prezzo della cessione venga nei fatti ad essere decurtato per effetto dell’accordo delle parti, contemplando gli opportuni correttivi 14. 11

Le due disposizioni citate prevedono, rispettivamente e per quanto qui di interesse: «Per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi [...], la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo» e «La base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali». 12 E quindi, sostanzialmente, per garantire che essa risulti neutrale per il soggetto passivo, fintanto che esso li riutilizzi nell’ambito della propria attività. 13 Un antecedente di rilievo è costituito dalla sentenza Corte di Giustizia UE, 23 novembre 1988, causa 230/87, N.Y.C., nella quale è stato chiarito che il controvalore percepito dal cedente che funge da base imponibile di una cessione è un valore soggettivo, dovendosi individuare l’imponibile dell’operazione non in un valore stimato, pur con criteri obiettivi, ma nel corrispettivo realmente ricevuto. In proposito, la Corte di Giustizia si è ad esempio interessata delle cessioni nelle quali intervengono “voucher” o buoni sconto (su cui, ad esempio: Corte di Giustizia UE, sez. VI, sent. 19 giugno 2003, causa C-149/01, con commento di BARONE, Rientra nel calcolo dell’iva «base da base» per le agenzie di viaggio l’importo aggiuntivo pagato dall’intermediario per coprire lo sconto praticato al viaggiatore, in GT-Riv. giur. trib., 2003, p. 909 e Corte di Giustizia UE, sent. 15 maggio 2002, causa C-427/98 con commento di PEIROLO, Riduzione della base imponibile in proporzione al valore dei buoni sconto riconosciuti ai consumatori finali, in GT-Riv. giur. trib., 2003, p. 113), nonché dei casi in cui la cessione si accompagni a prestazioni di tipo accessorio di cui è il cedente stesso a farsi carico (ad es. prestazioni di finanziamento c.d. “a tasso zero” a fronte delle quali il corrispettivo a carico del consumatore resti il medesimo, essendo il venditore a farsi carico degli oneri richiesti dalla società finanziatrice, su cui Corte di Giustizia UE, sent. 15 maggio 2001, n. 34), benché sia il cessionario ad usufruirne giungendo a stabilire, in tutti i casi predetti, che la base imponibile sulla quale l’imposta deve essere applicata è comunque costituita da quanto il cedente, effettivamente, riceve. 14 MANDÒ-MANDÒ, Manuale dell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2012, p. 334, notano che «l’iva va ordinariamente ragguagliata al corrispettivo complessivo dell’operazione, quale risulta dal contratto e dalle sue clausole». È chiaro, quindi, che se si considera lo sconto come elemento del contratto, di esso dovrà tenersi conto nella determinazione della base imponibile dell’operazione.

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2.2. Formalizzazione del corrispettivo dell’operazione Considerando in prima istanza la distinzione tra sconti “incondizionati” e sconti “condizionati” 15, è possibile osservare che, nel primo caso, in cui venga concordata fin dall’origine l’immediata applicazione dello sconto, non si pongono particolari problemi. In tale evenienza, infatti, il corrispettivo viene da subito determinato nella sua misura definitiva, sicché è sempre e soltanto a tale ammontare, pattuito a carico del cessionario e rappresentato in fattura così come già contrattualmente determinato – quindi “al netto” dello sconto – che dovrà farsi riferimento nel calcolo della base imponibile dell’IVA 16. Dal punto di vista formale, soltanto il dato europeo richiede la rappresentazione in fattura anche dello sconto in denaro incondizionato, e si propone perciò come più specifico di quello interno, che si limita invece a prescrivere la rappresentazione del solo sconto in natura. Infatti, l’art. 226 della direttiva n. 2006/112/CE, al suo n. 8, richiede che la fattura indichi «la base imponibile per ciascuna aliquota o esenzione, il prezzo unitario al netto dell’IVA, nonché gli eventuali sconti, riduzioni o ristorni se non sono compresi nel prezzo unitario» 17. L’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972, invece, prevede (lett. h) la esplicitazione dei «corrispettivi ed altri dati necessari per la determinazione della base imponibile, compresi quelli relativi ai beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono di cui all’articolo 15, primo comma, n. 2», nonché dei «corrispettivi relativi agli altri beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono» 18. 15

La distinzione si fonda, essenzialmente, sulla certezza, o meno, dell’an dello sconto, il cui quantum sarebbe, per regola, sempre previsto nelle condizioni contrattuali, salvo il caso in cui lo sconto venga concordato soltanto in un momento successivo alle «originarie condizioni contrattuali», cui l’art. 15, comma 1, n. 2 ed indirettamente l’art. 26, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 fanno riferimento. 16 Con disposizione forse superflua, posto il già preciso dato normativo attinente la determinazione della base imponibile emergente dal suo stesso art. 73, la Direttiva n. 2006/112/CE specifica, all’art. 79, che non sono compresi nella base imponibile: «gli sconti sul prezzo per pagamento anticipato» (lett. a), nonché «i ribassi e le riduzioni di prezzo concessi all’acquirente o al destinatario della prestazione ed acquisiti nel momento in cui si effettua l’operazione». È quindi chiara l’intenzione di assumere come corrispettivo effettivo, dunque rilevante ai fini IVA, la prestazione a carico del cessionario, al netto degli sconti applicati. 17 La Direttiva, quindi, considera lo sconto come elemento idoneo perlopiù a ridurre il prezzo di cessione unitario ordinariamente praticato. 18 Tale ultima previsione, letta in combinazione con il dettato dell’art. 15, comma 1, n. 2, andrebbe intesa come relativa (anziché ai “corrispettivi”) al “valore normale” degli altri beni ceduti a titolo di sconto, premio ed abbuono e sembrerebbe essere dettata autonomamente al fine di disciplinare il caso in cui tali cessioni non siano previste nelle originarie previsioni contrattuali, ed indipendentemente dall’aliquota applicabile (in questo senso MANDÒ-MANDÒ, Manuale dell’im-

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Un primo problema sembra invece porsi, per le cessioni di beni 19, nel caso in cui lo sconto, pur essendo pattuito fin dall’origine, trovi concretamente applicazione soltanto in corso di rapporto, ossia in un momento successivo alla cessione dei beni compravenduti, come nel caso in cui le parti predeterminino il prezzo di singole forniture in relazione alla quantità di beni che verrà acquistata nell’ambito di ciascuno degli ordini che saranno effettuati 20. È però possibile osservare che, in tale situazione, ogni singola operazione di acquisto non viene in essere finché le parti non concordano la quantità specificamente acquistata nell’ambito della singola fornitura, sicché fino a quel momento l’operazione imponibile, ai sensi dell’art. 6 del D.P.R. n. 633/1972 21, non si perfeziona e non si pone la necessità di rappresentarla in una fattura, che verrà quindi emessa, stabilita la richiesta, con contemplazione del prezzo effettivamente praticato, predeterminato nell’originario accordo tra le parti 22. Diverso il caso in cui lo sconto è contrattualmente previsto fin dall’origine, ma diviene applicabile soltanto in corso di svolgimento del rapporto, in un momento posta sul valore aggiunto, cit., pp. 563-564). L’esigenza di formalizzare la cessione a titolo di sconto sembrerebbe in ogni caso spiegabile in considerazione della necessità, per il cedente, di giustificare la fuoriuscita dei beni dalla propria disponibilità, soprattutto considerato che egli ha potuto detrarre l’imposta sul loro acquisto o sulla loro produzione. A fronte di ciò, la formalizzazione della cessione “a titolo di sconto” varrebbe a dare conto del titolo dell’operazione, e quindi a porla nell’ambito IVA, pur con esclusione dall’imponibile del relativo valore (e quindi senza applicazione dell’imposta), o comunque a ricondurla nell’ambito dell’attività economica del soggetto passivo, così da consentire il recupero dell’IVA versata a monte. È chiaro che tale esigenza emerge con maggiore pregnanza nel caso in cui lo sconto sia concesso al di fuori delle originarie previsioni contrattuali e, soprattutto, non sia contemplato nel medesimo documento in cui è formalizzata l’operazione cui esso accede. 19 Salvo casi particolarissimi, non si ravviserebbero difficoltà per le prestazioni di servizi, visto che la necessità di emettere fattura si porrebbe ai sensi degli artt. 6, comma 3 e 21, comma 4 del D.P.R. n. 633/1972 soltanto nel momento del pagamento del corrispettivo, ossia in un momento in cui lo sconto avrebbe sicuramente già trovato applicazione. 20 Si pensi al caso in cui le parti prestabiliscano i corrispettivi dovuti per singole forniture di beni, parametrandoli alla quantità di essi che verrà concretamente ogni volta acquistata, creando così una sorta di “listino” variabile in funzione del numero di pezzi acquistato nell’ambito di ciascun ordine. In detta situazione, non sarebbe possibile determinare preventivamente il prezzo applicato per ogni ordine. 21 Il quale, come noto, salvi i casi particolari ivi contemplati, prende a riferimento per i beni mobili il momento «della consegna o spedizione». 22 Può vedersi, in proposito, Ag. delle Entrate, Risoluzione 19 maggio 2008, n. 204/E, in Banca dati fisconline, nella quale, per una fattispecie in cui una casa automobilistica conteggiava, in favore dei propri clienti, determinati “punti” in proporzione agli importi da questi spesi per manutenzione o altri servizi, in seguito spendibili sotto forma di sconto su successive operazioni analoghe, l’Amministrazione ha ritenuto trattarsi di sconto analogo a quello incondizionato, immediatamente influente sul corrispettivo dell’operazione nella quale i punti venivano spesi dal cliente, la cui base imponibile, pertanto, ai sensi dell’art. 13 del D.P.R. n. 633/1972, va «determinata al netto degli sconti dovuti ed applicati direttamente in fattura al cliente».

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in cui si sono già verificate, secondo il medesimo regolamento contrattuale, delle cessioni (a prezzo pieno) il cui importo sia stato autonomamente pagato o che in ogni caso possano considerarsi “effettuate” ai sensi dell’art. 6 del D.P.R. n. 633/1972 e per le quali si sia quindi reso necessario emettere fattura 23. 23

Fattispecie analoga sembrerebbe essere quella degli “sconti sui medicinali” di cui all’art. 4, L. 4 agosto 1955, n. 692 e succ. mod. (abrogato a partire dal 1 giugno 1977 per effetto del D.L. 4 maggio 1977, n. 187), che prevedeva l’obbligatoria concessione di uno sconto del 25% sul prezzo al pubblico dei medicinali, in caso di loro acquisto da parte degli enti con finalità assistenziali rientranti nell’elenco di cui all’art. 2 della stessa legge (sulla natura di prestazione patrimoniale imposta dalla legge di tale sconto, riconosciuta da C. Cost., sent. 16 dicembre 1960, n. 70, e qualificata come rientrante nel campo applicativo dell’art. 53 Cost. da C. Cost., sent. 18 maggio 1972, n. 92 e 24 luglio 1972, n. 144, si vedano MICHELI, Prestazioni imposte, sconto di medicinali, capacità contributiva e sostituzione tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1973, II, p. 121 ss. nonché FEDELE, (commento) Art. 23, in BRANCA (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, 1978, pp. 49, 51 e 72, in nota). Lo sconto in parola era determinato da una componente del 6% sul prezzo di vendita finale a carico del farmacista, e da una del 19% a carico del produttore (sull’applicazione dell’IVA in tale fattispecie di sconto-prestazione imposta, tema di grande interesse, ma alla cui specifica trattazione non è possibile procedere nella presente sede, si vedano FEDELE, Gli “sconti” sui prezzi che realizzano prestazioni imposte e l’IVA, in Riv. dir. trib., 1994, II, p. 59, nonché GRANELLI, L’IVA e gli “sconti farmaceutici”, in Boll. trib., 1976, p. 1001 e LOMBARDI, Sulla discussa applicabilità dell’iva agli sconti farmaceutici, in Dir. prat. trib., 1982, II, p. 483, le sentenze Cass., 17 ottobre 1979, n. 4168 e, più di recente, 21 maggio 1990 – 16 giugno 1991, n. 6207 ed infine le risoluzioni del Ministero Finanze-Tasse e imposte indirette sugli affari 10 agosto 1973, n. 503548 ed 8 gennaio 1974, n. 500007, nonché la circ. 12 febbraio 1976, n. 9, quest’ultima introduttiva di un revirément dell’Amministrazione, la quale, a seguito dei pronunciamenti della Consulta per la natura tributaria, quale “contributo”, dello sconto in discorso, ritenne – contrariamente ai propri precedenti pronunciamenti – che l’ammontare dello sconto dovuto per legge concorresse in ogni caso alla determinazione della base imponibile dell’operazione di cessione al consumatore). Con le dovute cautele, data la riconosciuta natura tributaria dello sconto sui medicinali, con ogni conseguenza anche in tema di rivalsa, l’analogia della fattispecie degli sconti sui medicinali con quella dello sconto che diviene applicabile solo successivamente alla sua previsione contrattuale potrebbe ravvisarsi nella circostanza che anche in relazione agli sconti sui medicinali il farmacista, non potendo sapere all’atto dell’approvvigionamento chi avrebbe acquistato i farmaci – se cioè un comune consumatore, il quale avrebbe acquistato “a prezzo pieno”, ovvero un ente mutualistico, che avrebbe avuto diritto allo sconto – né, quindi, quale importo avrebbe dovuto addebitare al produttore al fine di ripetere la quota di sconto da esso dovuta, che si sarebbe dovuta conteggiare in favore del farmacista quale riduzione del prezzo di acquisto dei medesimi beni, avrebbe acquistato i prodotti in ogni caso a prezzo pieno. In caso di successiva rivendita a soggetto che avesse avuto titolo per l’applicazione dello sconto legale, l’originario prezzo di cessione dal produttore al farmacista avrebbe dovuto essere successivamente defalcato della quota di sconto che il farmacista avrebbe dovuto anticipare. Per tale caso, parte della dottrina (GRANELLI, L’IVA e gli “sconti farmaceutici”, cit., p. 1003) ipotizzava la possibilità di fare applicazione della disciplina prevista dal D.M. 15 novembre 1975 per le «cessioni di beni con prezzo da determinare», per tali intendendosi quelle «il cui prezzo, in base a disposizioni legislative, usi commerciali, accordi economici collettivi o clausole contrattuali, è commisurato ad elementi non ancora conosciuti alla data di effettuazione dell’operazione», e per le quali, dunque, è previsto che «la fattura può essere emessa entro il mese successivo a quello in cui i suddetti elementi sono noti o il prezzo è

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È in questo caso che può ricomprendersi, ad esempio, lo sconto che sia condizionato all’acquisto, da parte del cessionario, di una determinata quantità di beni del cedente, poniamo, nel corso dell’anno solare. In tale situazione si assisterebbe, fino al raggiungimento della quota di acquisto pattuita, alla fatturazione delle operazioni di vendita “a prezzo pieno”. Divenuto applicabile lo sconto, il prezzo di cessione dovrebbe essere opportunamente decurtato con effetto retroattivo ed è chiaro che il cedente dovrebbe “rimborsare” al proprio cliente quanto versato “in più” rispetto al prezzo scontato, divenuto operativo a seguito dell’avveramento della condizione prevista (acquisto nell’anno di una certa quantità di beni) 24. Parallelamente, si verificherebbe ex post una variazione in diminuzione della base imponibile considerata a fini IVA, fino a tale momento rappresentata anch’essa “a prezzo pieno” nei documenti emessi. Di conseguenza, si rende necessario prendere atto della diminuzione della base imponibile dell’operazione e consentire alle parti della compravendita di dare conto, con gli opportuni aggiustamenti e con effetto retroattivo, del mutamento del contenuto del contratto come diminuzione del corrispettivo (oppure, come si intende mostrare 25, variazione del titolo di parte della cessione), nonché di recuperare l’imposta applicata in eccesso e nella stessa misura sovrabbondante addebitata al cessionario a titolo di rivalsa. stato comunque determinato» (testo citato dall’art. 1, comma 1 del D.M. poc’anzi nominato; il Decreto prevede inoltre, all’art. 2, delle cautele di ordine formale chiaramente volte ad impedire la fuoriuscita di beni dal circuito produttivo senza la successiva fatturazione della loro cessione). Il medesimo Autore, peraltro, riteneva che la corresponsione al produttore dell’intero prezzo di vendita non si sarebbe dovuta posticipare al momento della rivendita al pubblico, ben potendo succedere che l’acquisto dei farmaci presso il produttore avvenisse con pagamento, da parte del farmacista, del normale prezzo all’ingrosso, già decurtato del 19% del prezzo di rivendita al pubblico, che sarebbe poi stato corrisposto, con autonoma fatturazione ai sensi dell’art. 26, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972, solo in caso di acquisto del farmaco da parte di un privato senza diritto allo sconto. La descritta soluzione incontrerebbe tuttavia delle notevoli difficoltà operative, posto che la situazione contabile risulterebbe notevolmente complicata e che si obbligherebbe il produttore a rinunciare, a tempo indeterminato, a parte del corrispettivo, il diritto a pretendere la quale rimarrebbe peraltro incerto fino al momento della effettiva vendita. Apparirebbe forse più lineare la soluzione dell’immediato pagamento del prezzo “intero”, corrispondente al caso “ordinario”, con successiva retrocessione al farmacista della parte di sconto da esso anticipata. 24 La fondamentale differenza tra la fattispecie in esame e quella dei c.d. “premi di fine anno” risiede proprio nel fatto che mentre la “restituzione” di parte del prezzo in applicazione (successiva) dello sconto trova titolo nel rapporto contrattuale e nella avvenuta modifica delle sue condizioni economiche, il premio non è altro che una semplice cessione di denaro che, se pure trova latamente titolo nel rapporto in essere tra le parti, essendo comunque erogata in considerazione del suo svolgimento, interviene in assenza di modificazioni dei termini economici pattuiti ed è esclusa dal campo applicativo dell’IVA ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a) del D.P.R. n. 633/1972. 25 Infra, par. 3.2.

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Sia la normativa europea che quella interna si interessano quindi di prevedere l’adeguamento della situazione cristallizzata nelle fatture già emesse all’effettivo svolgimento dei rapporti tra le parti 26. Gli artt. 184 e 185 della Direttiva n. 2006/112/CE si limitano a disporre la rettifica della detrazione operata inizialmente (dal cessionario) quando essa «è superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo ha diritto», «in particolare, quando, successivamente alla dichiarazione dell’IVA, sono mutati gli elementi presi in considerazione per determinare l’importo delle detrazioni, in particolare, [...] qualora si siano ottenute riduzioni di prezzo». Per consentire tecnicamente la rettifica, l’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 27 predispone lo strumento della “nota di variazione” o “nota di credito”, che consente al cedente di portare in detrazione l’IVA versata “in più” sull’operazione 28.

2.3. Momento di previsione dello sconto Ulteriore distinzione emergente dal sistema dell’IVA è quella inerente la pattuizione dello sconto nelle originarie previsioni contrattuali o meno 29. Nel primo caso, infatti, l’applicazione dello sconto non incorrerà in limiti 26 Perché si renda necessaria una variazione ai fini dell’IVA conteggiata e dovuta sull’operazione, è logicamente necessario che l’applicazione dello sconto sia successiva alla effettuazione dell’operazione ai sensi dell’art. 6 D.P.R. n. 633/1972, giacché altrimenti tale elemento rientrerebbe, più in generale, nell’accordo inerente il corrispettivo e rileverebbe immediatamente ai fini del computo della base imponibile. 27 L’art. 186 della direttiva rimette agli Stati la determinazione delle concrete modalità in cui la rettifica può avvenire. 28 Ed al cessionario al quale essa fosse stata addebitata in rivalsa, di ripeterla. Notano MANDÒMANDÒ, Manuale, cit., pp. 687-688, che l’applicazione dello sconto previsto nelle originarie pattuizioni contrattuali potrebbe sopravvenire in qualsiasi momento, diversamente da quanto avverrebbe, ai sensi del terzo comma dell’art. 26 del Decreto IVA, per il caso in cui l’accordo fosse raggiunto soltanto successivamente, dato che in quest’ultima fattispecie la variazione in diminuzione sarebbe consentita solo se effettuata entro un anno dall’operazione originaria. Appare infine piuttosto evidente il ribaltamento di prospettiva tra il dato europeo e quello interno. La Direttiva si preoccupa infatti di far sì che la detrazione operata dal cessionario venga diminuita in conseguenza dell’applicazione dello sconto, e quindi della diminuzione della base imponibile. Il D.P.R. n. 633/1973 (tra l’altro prevedendolo in via facoltativa) punta invece a permettere al cedente di detrarre la maggiore IVA versata rispetto all’imponibile dell’operazione, successivamente decurtato dallo sconto, con diritto del cessionario a ripetere quanto pagato a titolo di rivalsa. 29 Sembrerebbe che non possano a tal fine rilevare, in luogo delle pattuizioni contrattuali, consuetudini ed usi commerciali (Cass., sent. 8 aprile 1992, n. 4310, in Corr. trib., 1992, p. 1709) che pure, come rileva BASILAVECCHIA, Le note di variazione, in AA.VV., L’Imposta sul valore aggiunto, in F. TESAURO (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 2001, sono da ritenere fonti integrative della disciplina contrattuale, stante il disposto dell’art. 1374 c.c.

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temporali o di altra natura, e sarà sempre possibile l’emissione (facoltativa) 30 di una nota di variazione qualora si tratti di sconto in denaro su corrispettivi già percepiti, così come a fronte della concessione di uno sconto in natura andrà emessa fattura con indicazione del valore normale dei beni ceduti, nonché dell’accordo inerente la cessione. Diversamente, nel caso in cui la applicazione dello sconto venga concordata in un momento successivo a quello in cui le parti raggiungono l’accordo originario, per lo sconto in denaro non si rientrerebbe nei casi di cui all’art. 26, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972, che richiede che gli abbuoni o sconti siano «previsti contrattualmente», con ciò intendendo che la loro previsione deve ricorrere fin dall’origine 31, sicché troverebbe applicazione il terzo comma del medesimo articolo, il quale, riferendosi alle variazioni che derivino da un «sopravvenuto accordo tra le parti», pone per la emissione della relativa nota il limite temporale di un anno dalla effettuazione dell’operazione 32, in funzione chiaramente cautelativa per le ragioni erariali. Per ciò che attiene infine gli sconti “in natura”, la pattuizione successiva rispetto al sorgere dell’obbligazione principale sembrerebbe implicare la necessità di applicare l’imposta in ogni caso alla cessione di beni a titolo di sconto, in relazione al prezzo di acquisto o di costo dei beni ceduti 33.

30 Lo evidenzia, tra gli altri, BASILAVECCHIA, Le note di variazione, cit. Diverso sembrerebbe, invece, il dato normativo europeo, visto che gli articoli 184 e 185 della Direttiva 2006/112/CE paiono imporre al cessionario la rettifica della detrazione operata in tutti i casi in cui, successivamente alla sua determinazione, si verifichi una variazione degli elementi sulla base dei quali essa è stata computata. 31 Ciò anche sulla base della testuale disposizione di cui al successivo comma 3, che disciplina in maniera differente il caso della applicazione dello sconto «per sopravvenuto accordo tra le parti», e giacché risulterebbe arduo individuare un caso in cui lo sconto non derivi da un accordo delle parti, posto che, anche nel caso in cui fosse il venditore ad insistere per la sua concessione, l’acquirente conserverebbe, fino alla manifestazione del proprio consenso, il diritto a vedersi applicare le condizioni originarie, concordemente pattuite. È chiaro che le ipotesi in cui l’acquirente pretenda l’applicazione, in suo confronto, di un prezzo di favore, o rifiuti la concessione di ulteriori beni senza nulla dover sborsare per essi, appaiono in concreto piuttosto remote. 32 MANDÒ-MANDÒ, Manuale, cit., p. 684. 33 In questo senso, Min. Finanze, Dir. Tt.Aa., circ. 3 agosto 1979, n. 25 (prot. n. 364695/79), in Boll. trib., 1979, p. 1327. A mente del medesimo pronunciamento dell’Amministrazione, non rileverebbe neppure l’eventuale rispetto dei limiti di cui all’art. 2, comma 2, n. 4) del D.P.R. n. 633/1972 (per la ben diversa fattispecie della cessione gratuita di beni che non derivino dall’attività di produzione o commercio del cedente o per i quali non sia stata detratta l’imposta all’atto dell’acquisto o dell’importazione) giacché la gratuità della cessione sarebbe senz’altro esclusa per la persistenza del legame con l’operazione principale, chiaramente onerosa.

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2.4. Le cessioni di beni “a titolo di sconto” nella disciplina nazionale A questo punto, è possibile notare quella che parrebbe essere una interessante differenza, nell’ambito degli sconti c.d. “in natura”, tra la disciplina europea e quella interna, la quale ultima detta per tale caso una disciplina specifica. L’art. 15, comma 1, n. 2 del D.P.R. n. 633/1972, al quale si accennava inizialmente, esclude infatti dalla base imponibile della cessione «il valore normale dei beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono in conformità alle originarie condizioni contrattuali, tranne quelli la cui cessione è soggetta ad aliquota più elevata» 34. Una previsione attinente il medesimo caso non si rinviene invece nel dato europeo, posto che la Direttiva n. 2006/112/CE (come già l’art. 11, lett. A, n. 3 della Direttiva n. 77/388/CEE, c.d. “sesta direttiva”) opera riferimenti, nell’art. 87, unicamente agli “sconti sul prezzo” ed ai “ribassi e riduzioni di prezzo”, con ciò disponendo specificamente soltanto per la fattispecie degli sconti in denaro. Una succinta analisi della disciplina interna relativa agli sconti in natura 35 mostra che il legislatore sembra individuare un titolo, diverso da quello proprio della compravendita, in base al quale avviene il trasferimento dei beni che ha luogo mediante lo sconto e che ciononostante tale trasferimento sarebbe rilevante ai fini dell’IVA 36, sebbene rimanga escluso dalla determinazione della base imponibile, con la conseguenza che la fattispecie esaminata non subisce applicazione dell’imposta. Stabilendo che non concorre a formare la base imponibile il valore normale dei beni ceduti a titolo di sconto, il legislatore sembra proprio indicare: che il corrispettivo unitario della cessione rimane invariato; che la base imponibile dovrebbe ordinariamente essere costituita dal prodotto di tale corrispettivo per il numero di beni ceduti; ma che invece in tale somma non va computato il valore normale dei beni ceduti “a titolo di sconto” ossia, il prezzo unitario ordinariamente praticato per tali beni al medesimo stato di commercializzazione 37, molti34 È peraltro necessario che le due condizioni, costituite dalla originaria pattuizione della cessione a titolo di sconto e della non soggezione dei beni in tal modo ceduti ad un’aliquota più elevata rispetto a quella gravante i beni compravenduti, ricorrano congiuntamente. Diversamente, secondo la prassi dell’Amministrazione (Dir. TT.AA., Circ. n. 35 – prot. 364695/79 – del 3 agosto 1979), la cessione in tal modo operata non potrebbe beneficiare della non imponibilità, ma subirebbe l’applicazione dell’imposta, in relazione al valore normale dei beni ceduti. 35 Depurata delle previsioni chiaramente antielusive, tra le quali potrebbero comprendersi, in primo luogo, la limitazione della esclusione dalla base imponibile al caso in cui l’aliquota cui è soggetta la cessione dei beni ceduti a titolo di sconto sia pari o inferiore a quella gravante sui beni contestualmente compravenduti, nonché il riferimento al loro “valore normale”, anziché ad altri parametri che il cedente potrebbe più liberamente padroneggiare. 36 Data, fra le altre cose, la necessità della sua indicazione in fattura. 37 Come noto, la disciplina per la determinazione del valore normale dei beni è contenuta nell’art. 14 del D.P.R. n. 633/1972, che lo definisce «l’intero importo che il cessionario o il

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plicato per il numero di beni in cui si esplica lo sconto in natura 38. Il fatto che detta cessione avvenga “a titolo di sconto” esclude in definitiva che parte del complessivo trasferimento di beni subisca l’applicazione dell’imposta. Questo impone di riflettere sulla natura della cessione di beni “a titolo di sconto” e sul perché il legislatore abbia sentito la necessità di stabilire che essa non concorre a determinare la base imponibile. Se infatti lo sconto intervenisse semplicemente a ridurre il corrispettivo globale della cessione 39 – e, di conseguenza, quello dovuto per ogni singolo bene – probabilmente sarebbe sufficiente la disciplina di cui all’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 e non ci sarebbe alcun bisogno della previsione di cui all’art. 15, comma 2, n. 2) del decreto medesimo. Il trattamento previsto dall’art. 15 del D.P.R. n. 633/1972 sembrerebbe derivare dal fatto che la cessione a titolo di sconto si realizza, in effetti, senza previsione di alcuno specifico corrispettivo per i beni che vengono trasferiti 40. L’interpretazione data dalla Corte di Giustizia al sistema dell’IVA indica che l’operazione priva di corrispettivo si porrebbe, in linea di principio, al di fuori dell’ambito di applicazione del tributo 41, con la conseguenza che la stessa non necessitecommittente, al medesimo stadio di commercializzazione di quello in cui avviene la cessione di beni o la prestazione di servizi, dovrebbe pagare, in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o prestatore indipendente per ottenere i beni o servizi in questione nel tempo e nel luogo di tale cessione o prestazione». Segue, per le cessioni di beni, il criterio suppletivo costituito dal «prezzo di acquisto dei beni o di beni simili o, in mancanza, il prezzo di costo, determinati nel momento in cui si effettuano tali operazioni». È chiara nel nostro caso la finalità antielusiva della disposizione, che preclude alle parti di individuare autonomamente il valore dei beni ceduti a titolo di sconto. 38 Quella appena esposta è forse soltanto una articolazione, che l’onere formale e procedurale imposto consente di trarre, del più generale principio secondo cui la base imponibile su cui l’IVA trova applicazione nelle cessioni imponibili «è costituita dal corrispettivo effettivamente ricevuto a tale fine dal soggetto passivo. Tale corrispettivo costituisce quindi il valore soggettivo, ossia realmente percepito, e non un valore stimato secondo criteri oggettivi» (Corte di Giustizia UE, sent. 9 giugno 2011, n. 285). 39 Di questo avviso sembra essere la Corte di Cassazione, di cui si segnalano la sentenza 05 marzo 2007, n. 5006 nonché, più di recente, la conferma dello stesso principio nella sentenza della Sezione V, 29 maggio 2013, n. 13312, entrambe in Banca dati fisconline. 40 Questo sembra essere l’indirizzo emergente dalla Min. Finanze – Tasse e imposte indirette sugli affari, Risoluzione 25 maggio 1973, n. 500527, dove si afferma: «Pertanto lo sconto concesso al cliente, non costituendo corrispettivo della cessione (con ciò volendosi intendere “trattandosi di cessione priva di corrispettivo”, n.d.a.), non concorre a formare la base imponibile ai fini dell’IVA». 41 Quale leading case può citarsi la sentenza della Corte di Giustizia “Staatssecretaris van Financiën contro Hong-Kong Trade Development Council” del 1 aprile 1982, causa 89/81, in Banca dati fisconline, nella quale si rinviene l’affermazione per cui, nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, «le prestazioni gratuite si differenziano, per natura, dalle operazioni imponibili le quali presuppongono, nell’ambito del sistema dell’imposta sul valore aggiunto, la stipulazione di un prezzo o di un controvalore». Appare chiara, in tale enunciato, la riconduzione, da parte della Corte, delle operazioni imponibili unicamente a quelle caratterizzate dall’esistenza di un sinallagma con-

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rebbe neppure di alcuna formalizzazione. Se ciò dovesse valere per la cessione a titolo di sconto, tuttavia, ne conseguirebbe 42 che il cedente che conceda al proprio cliente uno sconto in natura si vedrebbe disconoscere la detrazione sull’acquisto dei beni in tal modo trasferiti, ricavando una penalizzazione da quello che avrebbe dovuto essere, per la sua attività, un atto di promozione. Ribadendone l’esclusione dal concorso alla formazione dell’imponibile, l’art. 15 del D.P.R. n. 633/1972 sembra invece intervenire proprio a confermare che la cessione “a titolo di sconto” rileva ai fini dell’IVA, pur non subendo l’applicazione dell’imposta per mancato concorso alla formazione di imponibile. Lo stesso dato normativo sollecita, quindi, una riflessione riguardo alla possibilità che lo sconto attuato mediante cessione di beni, per suoi particolari caratteri che si tenterà di delineare, integri una “cessione di beni a titolo oneroso”, seppure nei fatti “non imponibile”.

3. Rilevanza dello sconto ai fini dell’IVA 3.1. Rapporto con la compravendita Apriamo una breve parentesi per spiegare che è chiaro che, sebbene si prendano le mosse da una specifica previsione legale, non sembra opportuno suddividere de plano una operazione che, nei fatti, pur essendo composta, presenta un legame ineludibile tra le sue articolazioni, quale è la vendita accompagnata da una cessione a titolo di sconto. In primo luogo, è ovvio che lo sconto accede ad una fattispecie (o ad una serie di fattispecie) di vendita; sicché, non può esistere una cessione a titolo di sconto al di fuori di una compravendita, giacché in tal caso l’assenza di corrispettivo, unita all’estraneità ad un qualsiasi assetto propriamente oneroso, qualificherebbero il trasferimento senza dubbio come gratuito 43 e non si potrebbe avere sconto, trattuale, nelle quali alla cessione/prestazione faccia da diretta contropartita (si parla di «stipulazione») una obbligazione economicamente valutabile a carico del cessionario/fruitore. È peraltro noto che la disciplina IVA prevede (Art. 16 Direttiva n. 2006/112/CE; art. 2, comma 2, n. 4 del D.P.R. n. 633/1972) l’assimilazione alle cessioni a titolo oneroso di quelle che siano, invece, gratuite. 42 Si veda l’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972, che dichiara indetraibile «l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta» ma anche, forse ancora più chiaramente, l’art. 168 della Direttiva n. 2006/112/CE che attribuisce il diritto a detrarre l’IVA assolta “a monte” unicamente «nella misura in cui i beni e i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta». 43 In tal caso, si esulerebbe dalla fattispecie degli sconti e si sarebbe, piuttosto, in presenza quantomeno della concessione di un “contributo a fondo perduto” in natura, se non di un atto di liberalità. Tali fattispecie sarebbero certamente escluse dall’ambito applicativo dell’IVA qualora

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elemento che deve pur intervenire a “scontare”, nel senso di “scomputare a partire da” e quindi “ridurre” 44, qualcosa (ossia il prezzo, o meglio, l’impoverimento, contrattualmente convenuto a carico del cessionario, diminuito mediante una concessione di segno contrario, in denaro o in natura). Potrebbe poi osservarsi che lo stesso dato normativo da cui muoviamo prevede che la pattuizione dello sconto debba essere contemplata nelle originarie previsioni contrattuali, il che sembrerebbe privare la cessione a titolo di sconto di qualsiasi sua autonoma rilevanza. Tale formula assume tuttavia finalità cautelative per l’Erario 45, al fine di delimitare – e soprattutto rendere più facilmente controllabili – i casi in cui agli operatori economici è consentito cedere beni senza applicazione dell’imposta, sicché non pare idonea a sminuire la rilevanza dell’individuazione legale di un differente titolo di cessione. D’altra parte, anche la mera formalizzazione dello sconto (come della cessione che a tale titolo avviene) viene sempre compiuta con riferimento alla pattuizione inerente la vendita, posto che, come si è visto, la fattura deve sempre specificare il valore dei beni ceduti a titolo di sconto nonché – visto il riferimento compiuto dall’art. 15 – richiamare gli accordi contrattuali in base ai quali esso viene concesso. Ugualmente, la nota di credito emessa in caso di successiva concessione dello sconto deve dare atto dell’accordo sopravvenuto circa la riduzione del corrispettivo dell’operazione. Il legame dello sconto con la compravendita viene quindi sempre valorizzato. poste in essere mediante denaro (Dir. TT.AA., Ris. 15 maggio 1985, n. 355215; Comm. Trib. Reg. Aosta, sent. 8 marzo 2011, n. 1, entrambe in banca dati fisconline), trattandosi di cessione di denaro non costituente corrispettivo di una cessione di beni o di una prestazione di servizi, quindi operazione esclusa ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. A) del D.P.R. n. 633/1972. Nel caso in cui il contributo consistesse invece in beni, si renderebbe applicabile la equiparazione alle cessioni onerose di cui all’art. 2, comma 2, n. 4) del medesimo decreto, con la conseguenza che la cessione – gratuita – soggiacerebbe ad imposta, calcolata sull’imponibile determinato secondo l’art. 13, comma 2, lett. C). 44 La radice etimologica del vocabolo “scontare” – da cui “sconto” – proviene dalla locuzione latina “ex-comptare”, ossia scomputare, «pagare una somma in diminuzione o estinzione di un debito» (PINIGIANI, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Roma, 1907). 45 La conferma della finalità cautelativa della previsione si rinviene in Dir. TT.AA., Circolare 10 luglio 1979, n. 19 (prot. n. 363378), in Banca dati fisconline ove, commentando una modifica dell’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972 (nel quale, con il D.P.R. 29 gennaio 1979, n. 24, si introduceva tra gli elementi da indicare in fattura il valore normale dei beni ceduti a titolo di sconto – e la relativa imposta – per il caso in cui i beni ceduti fossero soggetti ad una aliquota più alta di quella originaria oppure la cessione a titolo di sconto non fosse contemplata nelle originarie pattuizioni), si afferma che la descritta riforma nel contenuto prescritto per la fattura «trova il suo fondamento nella disposizione di cui all’art. 15, n. 2, la quale, nel confermare la in tassabilità delle cessioni a titolo di sconto, già prevista dall’art. 2, terzo c., lett. D), ne delimita il campo di applicazione, per motivi di cautela fiscale, soltanto ai beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono, in conformità alle originarie pattuizioni contrattuali» (nostro il corsivo).

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Ciò non toglie che la fattispecie riceve un trattamento specifico, sicuramente differente rispetto a quello della cessione gratuita di beni (sul cui valore normale altrimenti l’imposta dovrebbe essere calcolata) ma anche rispetto alla cessione corrispettiva, a titolo di compravendita, dalla quale si distingue, nei fatti, in quanto non concorre a determinare la base imponibile dell’operazione. Il fatto che nell’art. 15 del D.P.R. n. 633/1972 si parli di “beni ceduti a titolo di sconto” sembra quindi avvalorare l’idea che il legislatore abbia considerato, quale effetto dello sconto, non la diminuzione del corrispettivo della cessione, ma uno sdoppiamento dell’oggetto stesso dell’operazione, con il relativo titolo, sicché una quantità di beni verrebbe ceduta a titolo di compravendita 46 ed un’altra a titolo di sconto.

3.2. Lo sconto come titolo di attribuzione Osserviamo ora un altro aspetto che sembra dar conto di una rilevanza autonoma dello sconto, quale elemento idoneo a determinare un trasferimento di beni. Anche nel caso in cui lo sconto non sia concesso in natura, ridurre il suo effetto a quello di diminuire il corrispettivo dovuto dal cessionario dei beni compravenduti per la medesima fornitura 47 potrebbe non rendere adeguata contezza del fenomeno, soprattutto se inquadrato entro la disciplina dell’IVA. In una cessione di un certo numero di beni fungibili, sia il caso dello sconto “in denaro”, che quello in cui sia concesso “in natura”, possono essere riguardati come se il prezzo o corrispettivo unitario, dovuto per ciascuno dei beni ceduti, rimanesse invariato, contribuendo invece lo sconto ad integrare la complessiva quantità di beni che il cessionario ottiene. Nel caso dell’applicazione di sconti “in denaro”, lo sconto sembrerebbe idoneo ad attribuire a parte della cessione un titolo autonomo, anziché semplicemente a mutare il corrispettivo globale della stessa. Nel complessivo trasferimento di beni al cessionario, sembrerebbe infatti possibile individuare una cessione che trovi titolo proprio nello sconto, la quale riguarderebbe, in specie, quella quantità di beni che il cedente, secondo le ordinarie condizioni, non avrebbe potuto ottenere dietro pagamento del prezzo che ha pattuito, e che invece ottiene ugualmente. La fattispecie potrebbe quindi essere ricostruita, anziché come una vendita “a prezzo ridotto”, come se fossero poste in essere una vendita a prezzo ordinario di una determinata quantità di pezzi, ed una ulteriore attribuzione di beni, senza corrispettivo, “a titolo di sconto”. L’effetto, nelle due prospettive, sarebbe il me46 47

Ossia quale corrispettivo del prezzo della compravendita. Con l’effetto, quindi, di diminuire il prezzo unitario dei beni ceduti.

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desimo, giacché ricevendo una quantità di beni senza pagarla, invariato invece il prezzo dei beni ricevuti “per vendita”, l’acquirente otterrebbe, con lo stesso esborso, di entrare in possesso di un numero di beni maggiore di quelli che avrebbe potuto acquistare a condizioni ordinarie, proprio come avverrebbe a fronte di una riduzione di corrispettivo. Allo stesso modo, nel caso di applicazione successiva dello sconto condizionato, se pure sarebbe agevole concludere che tale movimentazione diminuisce il corrispettivo complessivo, e dunque anche quello unitario dovuto per la cessione di ciascun bene, in alternativa potrebbe individuarsi un mutamento del titolo della cessione di una determinata quantità dei beni ricevuti dal cessionario, che diviene ora effettuata “a titolo di sconto” anziché “di vendita”. Questo farebbe sì che l’acquirente debba essere rimborsato della differenza tra le somme derivanti dalla moltiplicazione del corrispettivo unitario (che assumiamo quindi fisso e invariato) per l’intera fornitura ricevuta – che ha già pagato – e quelle che, per effetto dello sconto, si ottengono dal prodotto del medesimo corrispettivo unitario per quella quantità di beni che continua ad essergli stata ceduta a titolo di compravendita 48. Lo sconto, in definitiva, determinerebbe un vantaggio dell’acquirente non decurtando il corrispettivo ad esso richiesto per ogni bene, bensì elidendone l’impoverimento aggiungendo beni a quelli di cui egli entra in possesso pagandone il prezzo “ordinario”. Anticipando alcune considerazioni che saranno a breve sviluppate, l’effetto di arricchimento del cessionario a fronte dell’impoverimento del cedente renderebbe quindi lo sconto idoneo ad integrare una “attribuzione patrimoniale”, intesa come risultato di una attività giuridica, importante il definitivo passaggio di una utilità economica dalla sfera soggettiva di un soggetto a quella di un altro 49. In ognuno di tali casi, quindi, sarebbe possibile riconoscere una attribuzione che trovi titolo nella vendita, e quella, di una ulteriore quantità di beni, determinata in applicazione dello sconto. Questo punto di vista viene sollecitato dal fatto che sulla base testuale dell’art. 15, comma 1, n. 2, sembra possibile identificare, nell’ambito di un’operazione il cui risultato è comunque quello di una cessione di beni come definita dall’art. 2 del Decreto IVA, un secondo titolo (oltre alla vendita) in base al quale i beni vengono trasferiti al cessionario così che si determinerebbero una cessione di 48 Il riferimento al prezzo unitario dei beni è fatto proprio dalla Direttiva n. 2006/112/CE, il cui art. 226, nell’enucleare le indicazioni che la fattura deve contenere, al n. 8 fa riferimento al «prezzo unitario al netto dell’IVA, nonché gli eventuali sconti, riduzioni o ristorni se non sono compresi nel prezzo unitario». Detta formulazione pare indicare che la regola dovrebbe essere quella della diminuzione del prezzo unitario (sconti immediati), ma ammette il caso in cui, invariato il prezzo di ogni singolo bene, venga applicato uno sconto. 49 NICOLÒ, (voce) Attribuzione patrimoniale, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 283.

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beni a titolo di vendita, il cui corrispettivo costituirebbe base per l’applicazione del tributo, ed una cessione “a titolo di sconto”, che non concorrerebbe a determinare l’imponibile. Il legislatore interno sembra pertanto considerare entrambe le ipotesi ricostruttive circa l’applicazione dello sconto, posto che fa riferimento, da un lato, all’effetto di determinare una riduzione sul prezzo da pagare come corrispettivo, accordata per effetto di previsioni contrattuali; dall’altro, l’art. 15 del D.P.R. n. 633/1972 sembra presupporre che lo sconto possa effettivamente risolversi nella riduzione del quantum dovuto per la cessione di un determinato numero di beni di certa specie (non per effetto della riduzione del corrispettivo unitario, ma) per effetto della cessione di ulteriori beni, così da compensare in parte il prezzo pagato dal cessionario, la prestazione a carico del quale si riduce di conseguenza (ciò che solitamente avviene in esito all’applicazione di sconti c.d. “in natura”). Si potrebbe pertanto dire che nella fattispecie esaminata la cessione dei beni originariamente prevista come integralmente effettuata a titolo di compravendita verrebbe ex-post, in applicazione della pattuizione contrattuale inerente lo sconto, “riqualificata” come cessione di minore quantità di beni a titolo di compravendita, accompagnata da cessione di ulteriore quantità di beni, priva di corrispettivo, effettuata, nell’ambito dello stesso rapporto contrattuale – commerciale, a titolo di sconto. L’Erario, in definitiva, consentendo la variazione dell’imponibile, prenderebbe atto del mutamento nel titolo della cessione e consentirebbe alle parti di adottare una diversa rappresentazione contabile della cessione tenendo conto del mancato concorso alla formazione della base imponibile del valore di quei beni che verrebbero, ora, ceduti non più quale corrispettivo del prezzo della compravendita bensì, senza corrispettivo, quale sconto in favore del cessionario.

3.3. Sconto e cessioni di beni Esaminiamo a questo punto la possibilità che lo sconto (quantomeno in natura, ma lo stesso potrebbe forse arrivare a dirsi anche per quello in denaro, se sono giuste le considerazioni svolte 50) sia strutturalmente idoneo a realizzare una operazione imponibile e quindi, in primo luogo, se suo tramite si realizzi una “cessione di beni”, ai sensi dell’art. 14 della Direttiva n. 2006/112/CE e dell’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972. Come è noto, l’operazione imponibile che va sotto il nome di “cessione di beni”, così come individuata al primo comma dell’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972, si compone nell’ordinamento interno, verificata la ricorrenza dell’elemento territo-

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Vd. supra, par. 3.2.

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riale e di quello soggettivo 51, di due principali connotati, l’uno attinente l’effetto in cui essa si concreta 52, che deve essere tale da determinare un subentro nella disponibilità del bene 53, e l’altro relativo, invece, alla qualificazione di tale effetto 54, il quale deve verificarsi “a titolo oneroso”, entrambi comunque collegati al compimento di un atto giuridico 55. 3.3.1. Effetto tipico delle cessioni di beni Sotto il primo aspetto, la cessione consiste in un atto dal quale derivi il trasfe51 Disciplinati, rispettivamente, dagli articoli da 7 a 7 septies e 4 e 5 del D.P.R. n. 633/1972 e per la cui trattazione, qui impossibile, si rinvia alle considerazioni di CARPENTIERI, L’imposta sul valore aggiunto, cit., pp. 943-949. 52 L’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972 fa infatti riferimento agli «atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere», con ciò manifestando principale interesse per l’effetto giuridico – tipizzato – che all’atto, genericamente considerato, deve accompagnarsi. BECCARIA, (voce) Valore aggiunto (imposta sul), in Nov.mo Dig. It., XX, Torino, 1975, p. 447, pone in evidenza come la categoria fiscale delle cessioni sia «individuata esclusivamente sotto il profilo dell’effetto (trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento)». Nota che ai fini dell’imposta deve farsi riferimento agli effetti giuridici dell’atto, e non a quelli economici FILIPPI, Le cessioni di beni nell’Imposta sul valore aggiunto, Padova, 1984, p. 21. Sottolineano la necessità di ricostruire il concetto di cessione di beni in termini prettamente giuridici BERLIRI, L’imposta sul valore aggiunto. Studi e scritti vari, Milano, 1971, p. 203 ss. nonché BOSELLO, L’imposta sul valore aggiunto, Aspetti giuridici, Bologna, 1979, p. 36. 53 Su tale aspetto, principalmente, FILIPPI, (voce) Valore aggiunto (imposta sul), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, p. 125 ss., nonché, per i rispettivi profili, gli Autori citati nelle successive note. 54 CARPENTIERI, L’imposta sul valore aggiunto, cit., p. 941, individua come «elementi caratterizzanti di una cessione di beni suscettibile di integrare il profilo oggettivo del presupposto IVA»: «l’esistenza di un atto (compresi i trasferimenti coattivi disposti dalla pubblica amministrazione o dall’autorità giudiziaria) traslativi della proprietà o di altro diritto reale e l’onerosità di tale atto». PADOVANI, L’imposta sul valore aggiunto, in RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2009, p. 283 considera comprese nella definizione del legislatore nazionale tutte quelle che, sotto il profilo soggettivo, si caratterizzino per la presenza dei due seguenti elementi: «i) un atto avente effetti traslativi o costitutivi della proprietà o di altro diritto reale di godimento; ii) l’onerosità dell’atto medesimo». 55 FILIPPI, Le cessioni di beni, cit., p. 29, osserva che il riferimento compiuto dal legislatore, in generale, all’atto giuridico dimostra la volontà di concentrare l’attenzione sugli effetti giuridici della fattispecie, escludendo solamente quegli effetti che possano derivare da meri “fatti”, presi in considerazione soltanto in via eccezionale, mediante tassative deroghe al principio generale. PADOVANI, L’imposta sul valore aggiunto, cit., p. 284, spiega il preciso riferimento all’atto con la finalità (diversamente da quanto si avrebbe ottenuto con il riferimento al negozio giuridico) di considerare «una serie di comportamenti giuridici traslativi o costitutivi di diritti reali su beni a prescindere dall’esistenza del requisito della volontà», così da ricomprendere nella nozione «pure i trasferimenti, anche coattivi, disposti per ordine della pubblica amministrazione o dell’autorità giudiziaria».

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rimento della titolarità giuridica di beni, o anche soltanto l’attribuzione del diritto reale di goderne 56. Il principale riferimento del concetto in esame va quindi all’effetto giuridico 57 che, in conseguenza di un atto posto in essere entro un determinato contesto delimitato dagli elementi soggettivo e territoriale di cui il presupposto del tributo si compone, deve verificarsi per aversi una “cessione di beni”. Il dato europeo è certamente più elastico e meno rigoroso laddove, nei fatti, si considera effettuata una cessione di beni allorché un soggetto riceve da un altro il potere di disporre di un bene materiale “come se” ne fosse proprietario 58, con ciò riferendosi alla mera «traslazione della disponibilità economica dei beni» 59. Tale discrasia ha indotto parte della dottrina a ritenere che la formulazione dell’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972 vada intesa non in senso strettamente giuridico, ma in senso economico, quale semplice «trasferimento della disponibilità di un dato bene o diritto» 60. È chiaro che se la disciplina europea si pone il fine di creare un mercato unico a condizioni uniformi, sia stato necessario, nel dettarla, ricorrere ad elementi quanto più condivisibili possibile negli Stati membri 61, di modo che non accada che una stessa operazione possa essere considerata imponibile in un Paese, ed esclusa dal campo applicativo dell’IVA in un altro. 56

FILIPPI, Le cessioni di beni, cit., p. 24. FALSITTA, Manuale di diritto tributario – parte speciale, Padova, 2010, p. 750 sottolinea come integri una cessione di beni «qualsiasi atto produttivo di quegli effetti giuridici traslativi o costitutivi». BORIA, Il Sistema tributario, Torino, 2008, p. 627, nota che «l’effetto traslativo costituisce il nucleo concettuale della operazione imponibile in quanto configura il dato che vale a produrre lo scambio dei beni tra diversi soggetti e dunque a realizzare l’evento rilevante ai fini dello schema applicativo del tributo secondo la concezione originaria». Ancora FILIPPI, Valore aggiunto, cit., 125, osserva che la volontà precisa di individuare l’ambito delle cessioni solo laddove si produca l’effetto di «passaggio della titolarità del bene indipendentemente dalla fonte che lo ha posto in essere», emerge chiaramente, posto che «se in alcuni atti manca un elemento della fattispecie – quale il trasferimento della proprietà – il legislatore interviene per qualificarli espressamente come cessione». 57 FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, in Dir. prat. trib., 2009, I, p. 1205; ID., Valore aggiunto, cit., p. 142. 58 FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, cit., p. 1201, che nota come la Corte di giustizia abbia «affermato la piena autonomia comunitaria della nozione di “cessione” rispetto a quel “sub-strato” di diritto civile nazionale che il concetto di trasferimento della proprietà potrebbe evocare. L’autonomia, cioè, di una nozione sì giuridica, ma svincolata dal diritto nazionale, e identificata attraverso la funzione economica». 59 CENTORE, IVA Europea. Percorsi commentati della giurisprudenza comunitaria, Milanofiori Assago, 2012, p. 118. 60 PERRONE CAPANO, L’imposta sul valore aggiunto. Disciplina legislativa ed effetti. Spunti ricostruttivi, Napoli, 1977, p. 298. 61 FILIPPI, I profili oggettivi, cit., p. 1202 osserva che nella disciplina comunitaria «vengono recepiti soltanto quegli elementi che (si suppone) costituiscano il minimo comun denominatore del “diritto degli affari” dei Paesi membri».

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A ben vedere, tuttavia, l’apparente inconciliabilità della definizione interna di cessione, attenta all’effetto giuridico, con quella europea, più incentrata sull’effetto economico, potrebbe essere superata entro una sintesi. Per il legislatore tributario italiano non è possibile fare a meno dei concetti civilistici che permeano il sistema giuridico entro il quale la sua opera si colloca, sicché è ovvio che la costruzione della disposizione tributaria, ove necessiti di richiamarsi a situazioni aventi rilevanza giuridica disciplinate in altri settori, non potrà che riferirsi al significato assunto nel contesto loro proprio da tali categorie, eventualmente potendo, all’occorrenza, attribuire «significati diversi e propri», purché puntualmente evidenziati 62 e resi espliciti. Considerando infatti anche le fattispecie “assimilate” alle cessioni di beni di cui all’art. 2, comma 2 del D.P.R. n. 633/1972, le quali dunque, pur non rientrando nel concetto generale di cessione, subiscono la stessa considerazione di queste 63, si nota un fine quasi “machiavellico” nell’operato del legislatore italiano 64, che avvicina moltissimo il dato interno alla previsione europea. Nel sistema europeo, come visto, si richiede unicamente una valutazione della situazione di fatto in cui il cessionario viene a trovarsi per effetto della cessione (ossia: poter disporre della cosa come farebbe un proprietario, sia che lo divenga, o meno). Nella disciplina interna, in via del tutto analoga, si ha una preminente contemplazione dell’effetto che dalla cessione deve derivare, anche se ricondotto ad una precisa relazione giuridica del soggetto con il bene 65, lasciando pressoché libera la individuazione dell’atto mediante il quale a tale risultato si perviene. Dunque, sia la normativa europea che quella nazionale attribuiscono la maggiore considerazione all’effetto che al cessionario deriva dalla realizzazione della cessione, con la sola differenza che mentre il legislatore europeo ha fatto riferimento ad una situazione “di fatto”, corrispondente all’assunzione della disponibilità economica del bene, senza interessarsi del diritto effettivo che al cessionario venga attribuito 66, la disciplina interna, dovendo in ogni caso integrarsi in un si62

MASTROIACOVO, Dalla norma generale e astratta all’applicazione concreta, in FANTOZZI (a cura di), Diritto tributario, Milanofiori Assago, 2012, p. 348. 63 In questi termini CARPENTIERI, L’imposta sul valore aggiunto, cit., p. 941. 64 FILIPPI, (voce) Valore aggiunto, cit., 141 nota che nella categoria giuridica della “cessione di beni” rilevano tutti quegli atti che comportano trasferimento della proprietà o la costituzione o il trasferimento di diritti reali, ivi ricomprendendosi, dunque, non solo «negozi di diritto privato tipicamente destinati al trasferimento dei beni, ma anche [...] tutti gli atti giuridici che producono tale effetto, come si verifica, ad esempio, per le cessioni derivanti da atti della pubblica autorità». 65 Consistente, come visto, nell’assunzione della proprietà o di un diritto reale sul bene. 66 Il modo in cui si è attribuito rilievo a questa situazione fattuale assomiglia, in qualche maniera, a quanto ha compiuto il legislatore interno nel descrivere il “possesso” di beni, il cui ben noto concetto è espresso nell’art. 1140 c.c. come «il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale».

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stema giuridico imperniato su determinate categorie civilistiche, pur prescindendo dall’individuazione dell’atto dal quale la cessione possa derivare, ha ricondotto l’effetto tipico a quello, apprezzabile secondo le categorie del diritto civile, di trasferimento del diritto di proprietà, o di costituzione o trasferimento del numerus clausus dei diritti reali 67, dunque in ogni caso all’effetto di porre in capo al cessionario una situazione giuridica che, nei fatti, attribuisce “poteri immediati sulla cosa” 68. L’operato del legislatore interno non ha quindi altro significato che quello di inquadrare la previsione europea inerente la cessione di beni entro un sistema di diritto civile che non ammette situazioni di dominio non riconducibili a quelle tipizzate dal codice 69. L’attenzione è pertanto rivolta ad un effetto che si riscontra certamente “in fatto” in termini economici, ma che è pur sempre, ancor prima, un effetto giuridico 70, concretantesi nella estinzione in capo al cedente del potere sul bene ceduto, Sul tema della preminente rilevanza, in ambito europeo, degli effetti economici dell’IVA e quindi, per le cessioni di beni, della semplice traslazione della disponibilità economica dei beni CENTORE, IVA europea, cit., p. 118 ss. e le sentenze della Corte di Giustizia UE 8 febbraio 1990, causa C-320/88, Shipping and Forwarding Enterprise Safe; 6 febbraio 2003, causa C-185/01, Auto Lease Holland; 14 luglio 2005, causa C-435/03, B.A.T. Internationale; 6 aprile 2006, causa c245/04, Emag; 16 dicembre 2010, causa C-430/09, Euro Tyre; tutte ivi commentate. 67 FILIPPI, I profili oggettivi, cit., p. 1205 acutamente osserva che, ciononostante, la definizione impiegata dal legislatore italiano risulta per certi aspetti anche più ampia di quella comunitaria, posto che «la cessione infatti è definita in funzione dell’effetto giuridico di trasferimento o costituzione di diritti reali di godimento, indipendentemente dall’oggetto del diritto, laddove la Direttiva prevede invece l’inclusione facoltativa nelle cessioni soltanto del trasferimento dei diritti reali minori su beni immobili». La medesima Autrice rileva tuttavia (p. 1207) che una lettura dell’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972 che non valorizzi il trasferimento della disponibilità del bene «in senso economico» potrebbe risultare «troppo ristretta rispetto al modello comunitario». 68 Cfr. PUGLIESE, (voce) Diritti reali, in Enc. dir., Milano, 1964, XII, p. 764. CECAMORE, (voce) Valore aggiunto (imposta sul), in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1999, XVI, p. 355, sottolinea che l’assoggettamento a tributo come cessioni dei negozi costitutivi o traslativi di diritti reali trova ragione nella idoneità di essi a produrre «effetti economici, sotto il profilo della immissione in consumo dei beni che ne formano oggetto, abbastanza simili, anche se limitati, al trasferimento della proprietà del bene: è evidente quindi l’esigenza, sotto l’aspetto perequativo, di assoggettare anche tali atti al tributo come cessioni». 69 FILIPPI, (voce) Valore aggiunto, cit., nota peraltro che nella nozione interna di cessione di beni si è fatto riferimento «ad una categoria che ha un’estensione più ampia della nozione privatistica di cessione che si evince dalle disposizioni del codice civile che ad essa fanno riferimento» e cita, ad esempio, gli artt. 447, 1198, 1260, 1264 e da 1406 a 1410 c.c. Sulla impossibilità di rinvenire diritti reali di godimento “atipici” può vedersi GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, p. 251 ss. Concorde PUGLIESE, (voce) Diritti reali, cit., p. 775. In senso contrario, ma limitatamente ai diritti reali su beni mobili, GAMBARO, La proprietà: beni, proprietà, comunione, in IUDICA-ZATTI (a cura di), Trattato di diritto privato, X, Milano, 1990, p. 73. 70 Sottolinea la necessità, nel diritto tributario, di considerare prioritariamente in termini giuridici la cosiddetta “sostanza economica” di vicende o situazioni di fatto, FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, p. 132 ss.

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cui fa da contraltare la sua acquisizione da parte del cessionario 71 in una forma tale da attribuire il potere di godere del bene, escludendo quello altrui. L’effetto tipico in cui la “cessione di beni” pare consistere si manifesterebbe, anzi, proprio nella trasmissione di tale posizione soggettiva qualificata sui beni, ossia allorquando il bene fuoriesce dalla disponibilità giuridica (e conseguentemente economica, per riprendere la concezione europea) del cedente e, parallelamente, entra in quella del cessionario 72. 3.3.2. Il contesto “economico” delle cessioni di beni Nell’introdurre la seconda componente dell’operazione “cessione di beni”, costituita dalla necessità che quell’effetto latamente traslativo di cui si è detto si caratterizzi come “a titolo oneroso”, occorre prendere in considerazione anche un altro elemento della fattispecie imponibile, vale a dire quello c.d. “soggettivo”, che in certo qual modo influisce, come andremo ad illustrare, sul requisito della onerosità che caratterizza l’atto volto a produrre la cessione. Come noto, ai sensi dell’art. 1 del D.P.R. n. 633/1972, le cessioni di beni rilevano ai fini dell’IVA unicamente se ed in quanto poste in essere da soggetti che esercitano imprese (come definiti nell’art. 4 del Decreto), o arti e professioni (secondo quanto all’art. 5 del D.P.R.). I c.d. “soggetti passivi” si qualificano quindi perché intervengono nell’operazione in veste di esercenti una attività economica 73, comunque finalizzata al consumo, perché i suoi destinatari imme71

O comunque la ragionevole aspettativa alla produzione di una tale posizione, come potrebbe dirsi in relazione alle fattispecie “assimilate” di cui all’art. 2, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 quali, ad esempio, la vendita con riserva di proprietà (n.1) o le locazioni con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per ambedue le parti (n. 2). 72 BOSELLO, Appunti sulla struttura giuridica dell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. fin., 1978, I, p. 420 pone in evidenza che «l’imposta (o l’obbligazione d’imposta) resta sempre e solo quella che sorge per avere ceduto un bene, prestato un servizio, effettuata una importazione». Si può al riguardo notare come, concentrandosi sull’analisi dell’effetto traslativo in cui la cessione di beni si risolve, sarebbe facile giungere alla conclusione per cui, a rilevare, sarebbe essenzialmente l’atto dismissivo posto in essere dal cedente, visto che è in capo a tale soggetto, qualificato del resto come soggetto passivo del tributo, che andrebbe verificato l’effettivo assolvimento dell’imposta, e dunque la applicazione di questa nel momento in cui beni per i quali l’IVA è stata detratta siano trasmessi a soggetto ulteriore. Tuttavia, avuto riguardo all’ulteriore elemento di cui la cessione si compone, ossia il necessario carattere oneroso di quel “trasferimento” menzionato nel primo comma dell’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972, è possibile notare come la fattispecie presupponga un rapporto intersoggettivo. Sul delicato tema della rilevanza della rinuncia nell’IVA si rinvia alle considerazioni di MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative, cit., p. 108 ss., che tra le altre cose osserva come parte della dottrina abbia ritenuto che la rinuncia potrebbe essere considerata imponibile soltanto nel caso limite in cui essa sia esercitata verso corrispettivo, integrando, tuttavia, una prestazione di servizi, anziché una cessione di beni. 73 L’art. 2 della Direttiva n. 2006/112/CE considera soggette all’imposta «le cessioni di beni

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diati sono soggetti “consumatori” 74, oppure perché essa si rivolge a soggetti che, a loro volta, impiegano ciò che acquistano per svolgere un ulteriore ciclo produttivo, ovvero si pongono quali ulteriori intermediari verso chi acquista senza perseguire scopi economici. Senza potere in questa sede entrare nella questione della individuazione del presupposto del tributo 75, l’attività considerata dall’IVA sembrerebbe poter comunque essere individuata, combinando gli enunciati degli artt. 9 ed 1 della Direttiva n. 2006/112/CE, in una “attività economica”, da intendersi come quell’attività che si esplica in operazioni che intervengono nel processo di produzione e di distribuzione antecedente alla fase d’imposizione, incentrata sul “consumo”. Tra gli elementi che caratterizzano questa attività (in specie, visto il campo della nostra indagine, quando svolta in forma di impresa 76) ai fini dell’individuazione della qualifica di onerosità che, secondo l’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972, deve caratterizzare la trasmissione del potere sui beni ceduti, può considerarsi quello della “economicità”. Quest’ultimo carattere si impernia, principalmente, sulla conduzione con metodo economico 77 (valutazione prognostica) dell’attività posta in essere dall’operatore, cui fa ordinariamente seguito la economicità del risultato (valutazione a consuntivo); sicché, parallelamente, alla preordinazione dell’attività a porre in essere operazioni di natura onerosa, farà riscontro l’ordinario compimento di operazioni onerose, potendosi tuttavia riscontrarne altre a carattere gratuito, inerenti beni e servizi inseriti nel medesimo ambito d’impresa 78. effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale». 74 Individuati “per differenza”, per essere privi del diritto di detrarre l’imposta loro addebitata, principalmente «in quanto “non agenti nell’esercizio di imprese, arti o professioni”» (LUPI, (voce) Imposta sul valore aggiunto (IVA), in Enc. Giur., XVI, Roma, 1988, p. 2). FRANSONI, Spunti sulla nozione di “consumo” di beni e servizi nell’IVA con particolare riferimento alle operazioni internazionali, in Riv. dir. trib., 2004, II, p. 545 ricostruisce il “consumo” nella realizzazione di un interesse “finale”, contrapposto a quello, meramente “strumentale”, di coloro che realizzano acquisti “inerenti l’attività economica”. L’idoneità dell’operazione a realizzare quell’interesse principale, nota l’Autore, viene giuridicamente individuata solo indirettamente, tramite «l’esclusione della definitiva applicazione del tributo (per effetto del meccanismo della detrazione)» sugli acquisti che siano invece rivolti alla soddisfazione di interessi strumentali. 75 Come si è premesso retro (nota n. 1). 76 Ossia, illustra FICARI, Il profilo soggettivo nell’imposta sul valore aggiunto: l’impresa e l’impresa dell’ente commerciale, in Riv. dir. trib., 1999, I, p. 547: la professionalità/abitualità, l’economicità e l’organizzazione in forma di impresa. 77 GALGANO, (voce) Imprenditore, in Dig. disc. priv., sez. comm., VII, Torino, 1992 nota come la “obiettiva economicità”, ossia il ben noto principio del “pareggio di bilancio” costituisca «la sola uniformità ravvisabile in tutte le attività legislativamente considerate come “imprese”». 78 Cfr. FICARI, Il profilo soggettivo, cit., p. 566. MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative, cit., p. 67, in tema di una definizione di “economicità” dell’attività, nota che essa «nella prospettiva strategica, non è necessariamente limitata ad assetti onerosi».

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3.3.3. Qualità dell’effetto delle cessioni di beni Ciò premesso, quando la formulazione dell’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972 postula che quell’effetto traslativo di cui si è detto si realizzi “a titolo oneroso”, ha riguardo, precisamente, ad una qualità che tale effetto deve possedere 79. La trasmissione della posizione di dominio sul bene che si determina con la “cessione” è quindi un risultato che si presta ad essere qualificato in termini di onerosità o gratuità, a seconda dell’effetto patrimoniale prodotto dall’attribuzione, e dunque dell’utilità economica che al soggetto agente derivi o meno dal proprio comportamento, entro il contesto economico-giuridico in cui questo è posto in essere 80. Passando al dato europeo, l’art. 14 della Direttiva n. 2006/112/CE esordisce senza operare alcuna distinzione, definendo come «cessione di beni»: «il trasferimento del potere di disporre di un bene come proprietario», dunque in apparenza a prescindere dal titolo di tale trasferimento. L’enunciato trova però specificazione negli articoli che seguono (numeri 16, 17 e 18) i quali prevedono una equiparazione di determinate fattispecie alla «cessione di beni a titolo oneroso», con ciò lasciando intendere che tale requisito sia assunto come già caratterizzante la figura imponibile di riferimento, cessione di beni, che deve quindi caratterizzarsi per un atto dispositivo del bene, che abbia luogo, anche in questo caso, “a titolo oneroso”. Sia la dottrina 81 che la giurisprudenza stessa della Corte di Giustizia 82, mostrano che il legislatore europeo, non potendo lasciare la ricostruzione del carat79

La qualificazione in termini di onerosità o gratuità attiene infatti alla “qualità dell’acquisto” e non alla “qualità dell’atto” (SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità o gratuità del titolo, in Riv. dir. civ., 1980, p. 68 ss.), dunque non allo strumento impiegato, ma al suo risultato, nello svolgimento dinamico dei rapporti. Cfr. SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, in Banca borsa, 1973, p. 353. L’atto da cui esso deriva viene detto oneroso o gratuito soltanto latamente, ossia in quanto, per la sua natura “attributiva”, sia idoneo a determinare quell’effetto che va sotto il nome di “attribuzione patrimoniale”. Cfr. NICOLÒ, (voce) Attribuzione patrimoniale, cit., p. 283 che, trattando di “negozi attributivi”, ne indica la caratteristica nella produzione dell’effetto attributivo, ossia «arricchimento di una sfera patrimoniale a spese di un’altra». 80 SANDULLI, Le nozioni giuridiche, cit., pp. 368 e 381. 81 FILIPPI, Le cessioni di beni, cit., 85; CASTALDI, Le operazioni imponibili, in AA.VV., L’imposta sul valore aggiunto in TESAURO (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 2001, p. 53 ss. Si veda anche PEIROLO, Nozione di nesso diretto tra servizio reso e controvalore ricevuto, in GT.- Riv. giur. trib., 2010, p. 195. 82 La Corte osserva, principalmente, come tra l’operazione imponibile considerata e ciò che il cessionario è tenuto a fare per ottenerla debba sussistere un «nesso di collegamento soggettivo», di modo che l’operazione venga posta in essere a fronte di un corrispettivo soggettivo (ossia realmente ricevuto). Si possono vedere le Sentenze 5 febbraio 1981, causa C-154/80, Cooperatieve Aardappelenbewaarplaats e 3 marzo 1994, causa C-16/93, Tolsma.

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tere della onerosità 83 alla normativa dei singoli Stati membri, che sul punto appare divergere 84, consideri tale requisito integrato in presenza di operazioni comunque “corrispettive” 85, quindi qualificate per l’esistenza di un nesso sinallagmatico che lega, sul piano logico e giuridico, quanto ciascun soggetto si obbliga a fare nei confronti dell’altro 86 così che si determini un nesso di interdipendenza causale tra i vantaggi ed i sacrifici delle parti 87. 83 L’espressione «a titolo oneroso» è presente, tra l’altro: nell’art. 2 della Direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, nell’art. 2, comma 1, lett. a) della Direttiva 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE nonché, per ciò che attiene la disciplina interna, nell’art. 2 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 84 Si noti che, dal punto di vista testuale, la versione inglese del testo della direttiva fa riferimento, negli articoli 16, 17 e 18 alla fattispecie di «supply of goods for consideration». Per «consideration» può intendersi «a fee charged in advance to retain the services of someone», ovvero «(In a contractual agreement) anything given or promised or forborne by one party in exchange for the promise or undertaking of another», sicché la nozione sembra rinviare alla esistenza di un nesso di corrispettività. Simile il testo tedesco, ove sostanzialmente si ha riferimento alla cessione di beni (Lieferung von Gegenständen) che avvenga dietro remunerazione (gegen Entgelt). La versione francese recita invece, nei medesimi articoli: «livraison de biens effectuée à titre onéreux», avvicinandosi, in qualche modo, alla formula che si rinviene nella versione italiana dell’atto. Cercando un sostrato comune alle definizioni riportate, emerge con chiarezza l’intento di porre in rilievo il legame della cessione con una utilità economica che al cedente derivi dal cessionario, il che, dunque, non sembra escludere che tale rapporto possa porsi in termini diversi dalla corrispettività, sulla quale, v. la seguente nota n. 87. 85 Come rilevato da FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto, cit., il diritto europeo tende a recepire «soltanto quegli elementi che (si suppone) costituiscano il minimo comun denominatore del “diritto degli affari”». Se, dunque, per citare i soli esempi riportati nella precedente nota, abbiamo due previsioni che si riferiscono ad un atto specificamente qualificato come “corrispettivo”, ed altri due che pongono come riferimento la categoria della onerosità, appare ragionevole che la Corte si sia indirizzata a far emergere il sostrato comune, caratterizzato dalle operazioni corrispettive, le quali, come noto (si veda la nota 87, che segue) si pongono in rapporto di species a genus rispetto a quelle onerose. 86 Cfr. FILIPPI, Le cessioni di beni, cit., p. 85. 87 In tal senso, ROPPO, Diritto privato, Torino, 2010, p. 414. Limitando l’esposizione – che richiederebbe ben altro spazio – a quanto necessario ai fini della presente indagine, è possibile osservare che la categoria della corrispettività è, se si vuole, una specie del più ampio genus comprendente gli atti qualificabili come onerosi. Essa comprende unicamente i contratti di scambio (SANDULLI, Le nozioni giuridiche, cit., p. 339), ossia i rapporti c.d. sinallagmatici, nei quali le prestazioni dei contraenti trovano specifica causa l’una nell’altra (SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, p. 225, che compie un riferimento al disposto dell’art. 1452 c.c. ma si veda anche, per una sintetica ma efficace analisi sul punto, FRANSONI, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. trib., 2008, p. 649). Deve tuttavia osservarsi che la qualifica in discorso non può essere applicata al singolo atto, al fine di qualificarne il cosiddetto “titolo” se non in via mediata. Un atto può infatti dirsi oneroso se, trattandosi di negozio attributivo (che tende, cioè, a procurare ad un soggetto un vantaggio patrimoniale, secondo NICOLÒ, (voce) Attribuzione patrimoniale, cit., p. 283) esso è idoneo a determinare attribuzioni di carattere oneroso (SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, p. 224), ossia

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Se davvero così fosse, le operazioni non corrispettive, a meno di specifiche previsioni assimilative (quali quelle contenute nell’art. 6 della Direttiva n. 2006/112/CE e nell’art. 2, co. 2°, n.4 del D.P.R. n. 633/1972), risulterebbero al di fuori del campo applicativo del tributo. Ne conseguirebbe che esse non necessiterebbero di formalizzazione, non concorrerebbero alla determinazione del volume di affari del soggetto passivo, ma anche che non sarebbe possibile portare in detrazione il tributo assolto sul loro acquisto. 3.3.4. Idoneità dello sconto a determinare attribuzioni onerose-non corrispettive Il trattamento previsto per gli sconti in natura mostra, al contrario, che la cessione a tale titolo, pur non trovandosi in diretta correlazione con una controprestazione, viene ricompresa nel campo di applicazione dell’IVA, nonostante non concorra a determinare un imponibile, e quindi non sussista obbligo di versamento del tributo. La cessione a titolo di sconto, per il suo effetto di trasferire definitivamente ad altro soggetto il potere immediato sui beni che ne formano oggetto, determina chiaramente il risultato considerato nella definizione delle cessioni di beni come operazioni imponibili, così come si è tentato di ricostruirlo 88. Infatti, il soggetto passivo che trasmette una certa quantità di beni al proprio avente causa in applicazione di uno sconto, fa sì che il secondo soggetto diventi proprietario di essi 89, subentrando dunque nel loro godimento 90. realizzate le quali si verifichino, nel patrimonio del soggetto erogante (come pure, specularmente, in quello del percettore), la sopportazione di un sacrificio economico ed un vantaggio patrimoniale (identificabile in varie forme, secondo R. NICOLÒ, op. ult. cit., p. 283), non necessariamente di ammontare corrispondente (in questo senso SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità o gratuità, cit., p. 78 nonché FRANSONI, Allargata l’imponibilità, cit., p. 649) e senza che sussista necessariamente un vincolo sinallagmatico tra le attribuzioni. Oggetto di valutazione e qualificazione, nel senso della onerosità o, all’opposto, della gratuità, non è infatti il rapporto causale che lega le reciproche attribuzioni, ma il risultato da esse determinato (sottolinea il carattere di «risultato di una attività negoziale» dell’attribuzione NICOLÒ, Attribuzione patrimoniale, cit., p. 283). La qualificazione in discorso attiene quindi agli effetti dell’atto, ossia al carattere – appunto, oneroso o gratuito – delle attribuzioni alle quali con esso si dà causa (FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in RESCIGNO, Trattato breve sulle successioni e donazioni, Padova, 2010, p. 596, conforme a NICOLÒ, (voce) Attribuzione patrimoniale, cit., p. 283). 88 Vd. supra, par. 3.3.1 e 3.3.2. 89 Questa la posizione giuridica di dominio ordinariamente trasferita. Pare difficile ipotizzare una operazione commerciale che, a titolo di sconto, preveda l’attribuzione di un differente diritto reale sui beni nei quali lo sconto si esplica. 90 Lo stesso vale, in senso lato e chiaramente al di fuori dell’ipotesi dello sconto, nel caso in cui venga trasferita o costituita una posizione giuridica inerente un diritto reale diverso dalla proprietà. DUSI, Istituzioni di diritto civile, Torino, 1930, I, p. 294, ravvisa infatti la caratteristica dei diritti reali nella circostanza che «avendo per oggetto immediato la cosa, si fanno valere contro qualun-

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Tale effetto, tuttavia, benché la parte di cessione che avviene “a titolo di sconto” difetti di una controprestazione specifica, che possa costituirne “controvalore effettivo”, anche per il fatto di accedere ad una operazione di vendita, onerosa per antonomasia, non può essere qualificato gratuito 91. Inoltre, avuto riguardo alla disciplina illustrata, non sembrerebbe in alcun modo spiegabile un trattamento affatto diverso da quello riservato alle cessioni gratuite, nelle quali l’intenzione di evitare la sottrazione dall’imposta dei beni che fuoriescono dalla sfera imprenditoriale al di fuori di operazioni corrispettive ha consigliato la previsione della loro tassazione, in riferimento al valore determinato in base al prezzo di acquisto dei beni o del costo per produrli 92. Se si focalizza l’attenzione sull’interesse che anima il venditore nel momento in cui concede lo sconto, si considera l’atto medesimo per la sua collocazione nell’ambito dell’impresa e la sua funzione di agevolare la produzione di ulteriori ricavi e si ammette che mediante lo sconto sia possibile determinare attribuzioni patrimoniali in capo all’acquirente – in termini, quantomeno, di minore impoverimento, rispetto alle condizioni “ordinarie” – diviene possibile valutare gli effetti prodotti dall’elemento in discorso, idoneo a determinare una cessione di beni (pur nell’ambito di una compravendita) priva di specifico corrispettivo, ma non gratuita. La figura esaminata si presterebbe ad assumere carattere oneroso, in considerazione di vari elementi. In primo luogo, è di tutta evidenza che il fabbricante che concede lo sconto sui propri prodotti non fa ciò per agevolare gratuitamente la controparte, ma al fine di ricavarne un vantaggio economico 93. In secondo luogo, è il contesto stesso entro il quale lo sconto viene conces94 so , ossia lo svolgimento dell’attività economica del cedente, nei suoi caratteri que persona, che si ponga con la cosa in tale rapporto da impedire l’esercizio dé diritti stessi (onde sono detti diritti assoluti)». 91 Potrebbe quindi trattarsi di onerosità “per collegamento” che A. FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., p. 597 individua nelle vicende strumentali ad ulteriori attività giuridicamente rilevanti, ossia di per sé neutre, ma inserite in un contesto ove, complessivamente, si realizzano una decurtazione o un incremento patrimoniale per chi le pone in essere. 92 Art. 13, comma 2, lett. C) del D.P.R. n. 633/1972. La ratio della assimilazione delle cessioni gratuite a quelle a titolo oneroso è rinvenuta nella necessità di «evitare che un bene giunga al consumo detassato» (LUPI, Diritto tributario, parte speciale, Milano, 2002, p. 299) ed ha quindi finalità di chiusura del sistema. 93 Costituito, dal caso più semplice al più complesso, dalla conclusione del contratto che viene in tal modo sollecitata, da una stabilizzazione nel tempo delle transazioni con lo stesso soggetto, con l’effetto di ampliare il mercato del produttore, creare per lui un maggior ricambio del magazzino e nuove economie di scala, infine, influire sulle modalità di rivendita al pubblico dei propri prodotti secondo il modello dei bonus qualitativi. 94 Spunti circa la considerazione, da parte del diritto europeo, di quello che può essere indica-

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già delineati, a far sì che lo si debba considerare nella sua essenza, ossia quale atto di impresa, volto a procurare, in prospettiva, una entrata quantomeno corrispondente al sacrificio patito nell’immediato 95. Si potrebbe pertanto individuare nei benefici che il cessionario ritiene di poter ricavare per la propria attività economica dalla concessione dello sconto (quale atto che implica per esso un impoverimento) il vantaggio (immediato o futuro) per l’attività d’impresa, che sarebbe ottenuto mediante sacrificio economico del cliente 96. Per tale sua natura, quindi, l’attribuzione patrimoniale procurata alla controparte con l’applicazione dello sconto non può che essere considerata onerosa, e tuttavia priva di corrispettivo 97.

to come “intento pratico” perseguito dai soggetti coinvolti nel rapporto possono rinvenirsi in CIPPITANI, Onerosità e corrispettività: dal diritto nazionale al diritto comunitario, in Europa e diritto privato, 2009, p. 549. 95 Non sembra errato desumere l’onerosità di un atto in quanto inserito in un contesto imprenditoriale e quindi volto, chiaramente, a procurare all’imprenditore un maggiore utile futuro, in una sorta di parallelismo con ciò che è stato suggerito per il giudizio di inerenza dei costi nelle imposte sui redditi. In tale ultimo ambito, attenta dottrina (FRANSONI, La finanziaria 2008 e i criteri di inerenza e congruità, in AA.VV., Finanziaria 2008 – saggi e commenti, Milano, 2008, p. 145) ha osservato, in breve, che l’atto di impresa deve essere inteso quale vicenda patrimoniale legata all’acquisizione, organizzazione e trasformazione di fattori produttivi, in ogni caso volontaria, comprensiva anche del semplice conseguimento di una situazione di vantaggio, non necessariamente apprezzabile sul mercato. Tornando alla vicenda degli sconti, appare chiaro che se la concessione dello sconto è idonea a procurare una utilità all’imprenditore, anche in termini di vantaggio di impresa soltanto prospettico e non destinato a trovare necessariamente realizzazione, ma comunque capace di prodursi materialmente soltanto se lo sconto viene, appunto, accordato, essa si pone come atto volto a procurare una movimentazione economica positiva, di segno inverso, e quindi, chiaramente, come attribuzione onerosa. In merito, sembra utile richiamare la sentenza della Corte di Giustizia UE “Hong Kong Trade”, cit., dove si afferma: «L’indole onerosa delle operazioni imponibili è confermata dal fatto che le attività economiche dei soggetti passivi, ai sensi dell’allegato A, n. 2, primo comma, sono necessariamente attività svolte al fine di ricavare un controvalore e che possono venir compensate mediante un controvalore». 96 Quanto appena osservato connoterebbe in senso oneroso lo sconto, secondo la definizione, pur riferita ai contratti, contenuta nell’abrogato codice civile del 1865, il cui art. 1101, individuava il carattere oneroso in quei rapporti nei quali «ciascuna parte subisce un sacrificio patrimoniale allo scopo di procurarsi un vantaggio». 97 Ben potendo la movimentazione economica di segno opposto pervenire anche al di fuori dello stesso contratto di compravendita, il quale, alla concessione dello sconto, ed al momento del pagamento del corrispettivo definitivo, si esaurisce rendendo evidente la prospetticità del vantaggio che l’imprenditore si aspetta di conseguire, nel senso che l’acquirente, pur soddisfatto dello sconto ottenuto, potrebbe anche non tornare mai più a contrarre.

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4. Conclusioni. Ipotesi sul trattamento IVA delle cessioni di beni onerose-non corrispettive 4.1. Specificità delle “cessioni di beni a titolo di sconto” Si deve a questo punto mettere in adeguata evidenza come la cessione di beni a titolo di sconto, se pure costituisce fattispecie pienamente adatta a mostrare la considerazione che nel sistema dell’IVA sembrano assumere le cessioni di beni onerose, ma non corrispettive, trova comunque titolo nel più ampio contratto di compravendita, al quale pure accede, quale elemento accessorio. La disciplina degli sconti sembra infatti retta dalla unica finalità di determinare la base imponibile ai fini dell’IVA di una medesima operazione, adeguandone il corrispettivo nel caso degli sconti in denaro, o stabilendo che cosa concorra o meno all’imponibile, come avviene nel caso delle cessioni a titolo di sconto. Il noto principio della unicità dell’operazione 98 impone di non attribuire autonoma rilevanza, ai fini dell’imposta, a singoli elementi di cui l’operazione imponibile si compone 99. Tuttavia, nulla vieta di analizzare compiutamente, come si è cercato di fare, una componente peculiare di quest’ultima, al fine di trarne conclusioni che possano in qualche modo aiutare la comprensione del sistema dell’IVA. La possibilità di attribuire autonoma rilevanza nell’IVA alla cessione di beni a titolo di sconto, o allo sconto in natura, si scontra con la necessità di ancorare tale elemento ad un rapporto di compravendita, nel quale tale elemento intervenga, come per sua natura, a modificare l’equilibrio tra le controprestazioni contrattualmente dovute. È però altrettanto evidente che il particolarissimo trattamento delineato dalla legge per la cessione di beni a titolo di sconto sollecita una considerazione specifica di tale fattispecie, sì da consentire, in ogni caso, l’individua98

Teorizzato da PERRONE CAPANO, L’Imposta sul Valore Aggiunto, Napoli, 1977, p. 59 ss. L’indirizzo dell’Amministrazione finanziaria (di cui alle Risoluzioni n. 120/2004 e n. 36/2008, cit.) volto ad individuare nella concessione dello sconto non un elemento facente parte del rapporto di compravendita in essere tra le parti, bensì il corrispettivo di autonome prestazioni di servizi (che il cessionario avrebbe reso al cedente, il quale ultimo in tal modo lo avrebbe remunerato) si poneva proprio il fine di astrarre lo sconto dalla vendita alla quale, naturalmente, esso accedeva. La giurisprudenza interessatasi di tali casi (in particolare: Commissione tributaria Regionale di Ancona, sez. IX, sent. 11 marzo 2008, n. 32; Comm. Trib. Regionale di Torino, sez. XXIX, sent. 17 febbraio 2011, n. 10; Comm. Trib. Provinciale di Lecce, sez. II, sent. 3 aprile 2012, n. 115, tutte in banca dati fisconline) ha disatteso le conclusioni dell’Agenzia delle Entrate correttamente rivalutando, sotto vari aspetti, la ricomprensione dell’attività ulteriore entro il contratto di compravendita, e dunque l’unicità dell’operazione, costituita dalla vendita “ordinaria”, oltre alla previsione dello sconto e di obblighi ulteriori a quello di pagamento del prezzo, a carico del cedente. Con ciò sembra confermata l’impossibilità di attribuire autonoma considerazione ad elementi pur specificamente in rapporto tra di loro, e tuttavia contemplati entro un unico rapporto, di compravendita. 99

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zione di un titolo di cessione che, pur non essendo autonomo da quello di compravendita, proprio di quella parte di beni ordinariamente trasferita, tuttavia da questo si distingua e si specifichi, consentendo di desumerne una particolare considerazione da parte del legislatore, alla quale non può non sottintendersi l’intento di conformare anche tale “microcosmo” al generale sistema dell’imposta.

4.2. Cessioni onerose-non corrispettive e IVA A quanto osservato potrebbe quindi conseguire, in termini più generali, che anche una cessione di beni semplicemente onerosa e non corrispettiva può rientrare nell’ambito applicativo dell’imposta sul valore aggiunto, pur non concorrendo all’emersione di imponibile, stante l’assenza di corrispettivo, al quale ultimo la base imponibile delle cessioni di beni viene invece ordinariamente parametrata, salve diverse disposizioni 100. Il trattamento della particolare fattispecie esaminata, anziché costituire una ipotesi speciale, sembra quindi previsto in coerenza con l’individuazione del profilo oggettivo del presupposto dell’IVA, considerando la cessione a titolo di sconto effettivamente soggetta al tributo seppure non imponibile. La sua non imponibilità discenderebbe, del resto, proprio dall’essere tale cessione onerosa-non corrispettiva, in quanto priva di immediato e diretto corrispettivo. Riportando tali osservazioni più in generale, la categoria degli atti onerosi-non corrispettivi atti in esame sembra quindi beneficiare del medesimo trattamento – primo fra tutti il diritto a detrarre l’IVA addebitata sulle operazioni “a monte” – previsto per gli atti ordinari d’impresa, categoria che, alla luce delle considerazio100 Ciò in quanto, ai sensi dell’art. 11, parte A, lett. a) della sesta direttiva, 77/388/CEE (principio ora trasfuso nell’art. 73 della direttiva n. 2006/112/CE), la base imponibile dell’IVA è costituita da «tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o prestatore» – ovvero, come recita l’art. 13 del D.P.R. n. 633/1972, «dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali». La Corte di giustizia ha peraltro avuto modo di chiarire con pronunce afferenti casi abbastanza variegati che all’IVA è sotteso il principio di tassazione dell’imponibile effettivo risultante dall’operazione. Il Giudice europeo fa correntemente riferimento al “corrispettivo realmente ricevuto”, inteso quale «corrispettivo che costituisce un valore soggettivo, esprimibile in denaro, e che si trova in un rapporto diretto con la fornitura o la prestazione» (sent. 24 ottobre 1996, Argos, causa C-288/94, in Banca dati fisconline nonché sent. 3 luglio 2001, causa C-380/99, Bertelsmann, in Corr. trib., 2001, p. 2881, con commento di PEIROLO). Su tali aspetti si veda BARONE, La Corte di Giustizia torna a trattare del presupposto di onerosità e definisce la base imponibile delle operazioni di gioco a premi, in GT-Riv. giur. trib., 2003, p. 120. Analogamente interessanti sono le decisioni della Corte di Giustizia in tema di voucher e buoni sconto distribuiti ai consumatori dal produttore dei beni posti in vendita nella grande distribuzione, tra le quali Corte di Giustizia UE, sent. 15 ottobre 2002, causa C427/98, in Banca dati fisconline.

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ni svolte sopra, dovrebbe essere considerata come comprensiva di un oggetto più ampio, rispetto ai semplici rapporti contrattuali, corrispettivi, estendendosi a quelli che possano comunque essere qualificati onerosi in contemplazione del contesto in cui si collocano, per l’essere strettamente funzionali a determinare un profitto – o comunque una entrata – che concorra al volume d’affari del soggetto passivo. La valutazione “prospettica” dell’inerenza dei costi sui quali al soggetto passivo è concesso portare in detrazione l’imposta addebitatagli in rivalsa si basa infatti, ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, sulla circostanza che essi siano stati sopportati «nell’esercizio dell’impresa, arte o professione», quindi nell’ambito dell’attività economica, circostanza riscontrabile a fronte della destinazione dei beni e servizi acquistati ad operazioni attive soggette all’IVA, che danno quindi 101 diritto alla detrazione dell’imposta dovuta su tali acquisti 102. Giungendo ad una conclusione, pertanto, la cessione di beni a titolo di sconto potrebbe costituire un modello di operazione soggetta ad IVA, ancorché non imponibile, considerata in ogni caso “inerente” all’attività, e dunque pienamente funzionale a quel programma economico che, come si è visto, si assume volto a determinare scambi onerosi, che garantiscano la sopravvivenza dell’impresa 103. Seguendo gli indirizzi sollecitati dalla dottrina 104, pertanto, sembra di poter confermare che nel sistema dell’IVA, quantomeno nell’ambito di quel frammento di operazione imponibile che va sotto il nome di “cessione di beni”, si tenda ad attribuire rilievo all’intento pratico perseguito dai soggetti che intervengono nell’operazione, rispetto al tipo di atto adottato ed al carattere corrispettivo o meno della cessione di beni posta in essere. Il sistema del tributo, indagato per mezzo di tale modello, intenderebbe quindi garantire la neutralità di tutte quelle operazioni che siano immediatamente funzionali al perseguimento dell’attività economica, sollevando il soggetto passivo dal peso del tributo su di esse applicabile 105. 101

Arg. ex art. 19, comma 2 del D.P.R. n. 633/1972. Cfr. CARPENTIERI, L’imposta sul valore aggiunto, cit., p. 937. 103 Tornando alla possibilità di detrarre l’IVA a monte, P. BORIA, Il sistema tributario, cit., p. 667 osserva che «elemento determinante ai fini della ammissibilità della detrazione è dunque l’inerenza dei beni o servizi acquistati o importati rispetto alle operazioni imponibili (rectius all’attività economica che genera operazioni imponibili)». 104 In specie, CIPPITANI, Onerosità e corrispettività, cit., p. 549. 105 Del resto, considerando che i cessionari che non abbiano la qualifica di soggetti passivi non hanno diritto a detrarre l’imposta, la imponibilità delle cessioni gratuite poste in essere da un operatore economico, per il quale sia quindi verificabile, a mente della sua struttura ed attività, il posizionamento nel circuito produttivo e dunque la sussistenza di un interesse “strumentale” a procurarsi beni, contrapposto a quello “finale” cui corrisponde il consumo (FRANSONI, Spunti 102

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Tale carattere sembra emergere, come si è cercato di illustrare, proprio nel caso della cessione di beni a titolo di sconto, che pur costituendo cessione “onerosa in senso lato” beneficia della medesima neutralità a monte prevista per gli atti economici “tipici” (in specie, quelli di scambio) e che, in applicazione del criterio ordinario, non viene colpita da imposta in quanto non manifesta base imponibile.

4.3. Possibili conseguenze in tema di teoria dell’IVA Da tali conclusioni deriva peraltro che se, effettivamente, l’IVA intende considerare tutte le attribuzioni che trovano luogo entro un contesto economico, assimilando nella tassazione l’atto oneroso e quello corrispettivo, e stante anche la tendenziale equiparazione – come noto, avente finalità “antievasive” – delle cessioni gratuite a quelle proprie dell’attività di impresa, si otterrebbe il risultato per cui ogni operazione posta in essere da un soggetto passivo sarebbe astrattamente rilevante nel sistema dell’IVA. Il carattere (oneroso, corrispettivo o gratuito) dell’attribuzione diverrebbe infatti privo di rilievo (se non ai fini della determinazione dell’imponibile 106), giacché il sistema del tributo mostrerebbe di attribuire principale importanza all’esistenza di un legame dell’operazione con il soggetto passivo e con la sua attività di impresa, divenendo invece irrilevante il carattere della cessione 107. Simile visione renderebbe quanto mai attuali le considerazioni di quella dottrina 108 che ha notato come la vera natura dell’IVA sembrerebbe essere quella, anziché di imposta sui consumi, di imposta sul «valore aggiunto globale della impresa», passando quindi da una concezione di imposta sui consumi ad una di imposta sulla produzione economica.

sulla nozione di “consumo”, cit., p. 547) non sembra avere altro fondamento che quello cautelativo, fondato sulla presunzione che tali operazioni avvengano fuori dall’ordinaria attività del soggetto passivo, parificandole quindi, ex-lege, ad atti di consumo, consentendo all’Erario di recuperare la relativa imposta detraibile “a monte”. 106 Si vedano gli artt. 13 e 14 del D.P.R. n. 633/1972. 107 Si avrebbe quindi riferimento, oltre ai requisiti soggettivi ed oggettivi di cui all’articolo 1 del D.P.R. n. 633/1972, anche ad un requisito di tipo “teleologico”, ossia volto a valorizzare l’inserimento dell’atto in una dimensione di impresa e dunque nel suo essere finalisticamente ordinato alla (profittevole) prosecuzione dell’attività imprenditoriale. Simile intento sembrava del resto trasparire dalla formulazione dell’art. 4 della Direttiva 11 aprile 1967, n. 67/288/CE, che considerava soggetto passivo: «chiunque compia, in modo indipendente ed abituale, con o senza scopo di lucro, atti relativi alle attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi». 108 FANTOZZI, Presupposto e soggetti passivi dell’imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., 1972, I, p. 725 ss.

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RILEVANZA AI FINI DELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO DEGLI SCONTI COMMERCIALI

Se fosse infatti necessario, per l’applicazione dell’imposta, soltanto che la cessione di beni o la prestazione di servizi avvenga entro un contesto economico, dovrebbe ammettersi uno spostamento dell’oggetto dell’imposizione dall’attività (consumo) riferibile a colui che acquista, nell’ultima operazione imponibile, per realizzare un interesse “finale”, a quella (attività economica) propria, invece, dei c.d. “soggetti passivi” 109.

109 Per quanto dovrebbe in ogni caso rimanere necessario anche accertare, nella fattispecie considerata, la ricorrenza di una ipotesi lato sensu di “consumo”, come la Corte di Giustizia ha sottolineato in una ipotesi di contributi pubblici concessi a fronte dell’obbligo, assunto da alcuni agricoltori, di cessare l’attività, caso in cui la prestazione di servizi costituita dall’assunzione dell’obbligo di non-fare è stata ritenuta non assoggettabile ad IVA proprio in quanto impegno non implicante un consumo (Corte di Giustizia UE, sent. 18 dicembre 1997, n. 384).

PERMUTA, OPERAZIONI PERMUTATIVE E DATIO IN SOLUTUM TRA NORMATIVA EUROPEA E DISCIPLINA INTERNA

di Susanna Cannizzaro SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le categorie concettuali entro le quali si muove il diritto di matrice europea. – 2.1. La posizione della giurisprudenza UE sulla permuta e le operazioni permutative. – 2.2. La base imponibile ai fini IVA. I criteri per la valorizzazione del corrispettivo. – 3. La disciplina interna. – 3.1. Vendita, permuta e datio in solutum, i distinti profili causali. – 3.2. La permuta, le operazioni permutative e la datio in solutum nell’IVA. – 3.3. Base imponibile e momento impositivo nella permuta, nelle operazioni permutative e nella datio in solutum. – 4. La compatibilità della disciplina interna rispetto alle disposizioni della direttiva.

1. Premessa Ai fini della comprensione e dell’applicazione della disciplina IVA, sempre maggiore importanza assume il contributo della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, che ha inciso profondamente sulla definizione dei concetti fondamentali posti a base del tributo, indirizzando l’opera del legislatore nazionale in merito al recepimento delle norme comunitarie e vigilando costantemente sulla realizzazione delle finalità sottese all’ordinamento europeo. Per tali motivi, nel condurre l’analisi qui svolta, si è ritenuto opportuno in primis valorizzare l’interpretazione delle disposizioni di matrice europea, in materia di IVA che interessano il tema in questione. Per la corretta comprensione delle statuizioni della Corte è apparso altresì preliminare tentare di individuare gli schemi concettuali entro cui il legislatore europeo e, probabilmente, anche la giurisprudenza sovranazionale, si muovono. Solo dopo aver, in tal modo, identificato una chiave di lettura, infatti, è possibile valutare se la disciplina domestica risulti o meno conforme ai precetti comunitari.

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2. Le categorie concettuali entro le quali si muove il diritto di matrice europea In primo luogo occorre rilevare che nelle direttive IVA non v’è traccia di diposizioni che considerino specificamente la permuta, le operazioni permutative e la datio in solutum, cosicché il primo problema che sorge riguarda il profilo dell’unitarietà dell’operazione a fronte di due cessioni o due prestazioni entrambe astrattamente rilevanti sotto il profilo dell’applicazione del tributo. La giurisprudenza della Corte di Giustizia, sebbene con riferimento alle “operazioni miste” 1 afferma che la direttiva IVA da un lato impone che ciascuna operazione sia considerata come autonoma e indipendente, dall’altro richiede che l’operazione costituita da un’unica prestazione sotto il profilo economico non sia artificialmente divisa in più parti per non alterare la funzionalità del sistema dell’IVA. La dottrina ha sottolineato come tale impostazione faccia emergere due preoccupazioni: tenere distinte operazioni diverse che sono economicamente e funzionalmente autonome anche se vengono combinate in negozi giuridici e schemi contrattuali, eventualmente atipici unitari e considerare unitariamente operazioni, pur giuridicamente distinte, laddove le stesse siano collegate funzionalmente per l’effettuazione di un’operazione unitaria sotto il profilo economico 2. Il ragionamento, svolto con riferimento ad operazioni autonome ma collegate, sembra valere, a maggior ragione, nel caso di operazioni giuridicamente ed economicamente unitarie. La giurisprudenza sovranazionale che sin qui si è occupata di permuta ed operazioni permutative – pronunciandosi, come vedremo, in merito alla determinazione della base imponibile – non sembra mettere minimamente in dubbio che le prestazioni in discussione debbano considerarsi parte 1

Corte di Giustizia UE sentenza 29 marzo 2007, causa C-111/05, Aktiebolaget NN. Nell’analisi di un’operazione mista non si deve derogare al principio costante in materia di IVA secondo cui occorre fare riferimento alla realtà economica. Dato che il trasferimento del potere di disporre del cavo deve avvenire solo al termine dell’installazione e del collaudo, non sarebbe conforme alla realtà economica di tale operazione considerare che il committente abbia acquistato, da un lato, il cavo sottomarino a fibre ottiche, e, dall’altro, successivamente le prestazioni di servizi relativi alla sua posa in opera. Tale operazione, pertanto, è stata considerata come un’unica operazione ai fini dell’applicazione della VI Direttiva. La qualifica di un’operazione mista deve fondarsi sul confronto tra l’importanza rispettiva della cessione del bene e delle prestazioni di servizi e tale confronto va effettuato in base a criteri oggettivi onde pervenire a un risultato prevedibile per gli operatori economici. Il carattere chiaramente prevalente del prezzo del bene nel costo totale dell’operazione è considerato un criterio rispondente a tali esigenze. 2 V. FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, in Dir. e prat. trib., 2009, I, p. 1217 ove specifici riferimenti in giurisprudenza; Corte giustizia CE , 19/11/2009, n. 461, sez. IV in Riv. dir. trib., 2010, p. 238 con nota di DEL VAGLIO, La disciplina IVA della cessione di aree fabbricabili sulle quali insistono fabbricati da demolire: riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte di Giustizia Ue. Sul punto si veda anche PADOVANI, Imposta di registro e collegamento negoziale nel pensiero della Cassazione, in Riv. trim. dir. trib., 2014, p. 248 nota 29, il quale mette in luce come sia in atto un processo di contaminazione tra IVA e imposta di registro.

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di un’operazione economica unitaria se si pongano in rapporto di corrispettività 3, ovverosia laddove esista tra le stesse un nesso diretto, stabilito contrattualmente, che non consenta di considerarle sganciate l’una dall’altra 4. Ma v’è di più. È stato costantemente affermato, che il principio generale della parità di trattamento, di cui – secondo la Corte – il principio generale della neutralità fiscale costituisce un’espressione particolare a livello di diritto derivato dell’Unione e nel settore peculiare della fiscalità, impone di non trattare diversamente situazioni analoghe, salvo che una differenza di regime sia obiettivamente giustificata 5. Ne consegue che tale principio di neutralità osta, da una parte a che merci o prestazioni di servizi analoghe, che si trovano quindi in concorrenza le une con le altre, siano considerate in modo diverso dal punto di vista dell’IVA e, dall’altra, a che operatori economici che effettuano le stesse operazioni siano trattati in modo diverso in materia di riscossione dell’imposta 6. Seguendo questo ragionamento la giurisprudenza è arrivata, in più occasioni (e a diversi fini), ad affermare che «i contratti di permuta, in cui il corrispettivo è per definizione in natura, e le operazioni per le quali il corrispettivo è in denaro sono, dal punto di vista economico e commerciale, due situazioni identiche» 7, laddove esista un nesso diretto tra la prestazione di servizi e/o la cessione di beni oggetto del contratto, e se il loro «valore possa essere espresso in denaro» 8. La giurisprudenza europea pare dunque disconoscere le peculiarità degli schemi negoziali permutativi, ritenendoli in sostanza equivalenti a quelli in cui oggetto di una delle due prestazioni corrispettive è una somma di denaro e ciò nel presupposto che lo strumento contrattuale in concreto utilizzato deve risulta3 V. FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, in Dir. prat. trib., 2009, I, p. 1210, secondo la quale “senza una contropartita avente un nesso diretto con il servizio ed un effettivo «valore soggettivo», che rappresenti, appunto, il controvalore «causale» dell’utilità ricevuta, non c’è scambio in senso giuridico, ma semplice coesistenza di prestazioni sganciate l’una dall’altra, e quindi non c’è operazione economica rilevante”. 4 Fra le altre Corte di giustizia UE 5 febbraio 1981, causa 154/10. 5 Corte di Giustizia UE, 10 aprile 2008, causa C-309/06, Marks & Spencer, Corte di Giustizia UE 29 ottobre 2009, causa C-174/08, NCC Construction Danmark, Corte di Giustizia UE 19 dicembre 2012, causa C-549/11, Orfey Bulgaria. 6 Così Corte di Giustizia UE 19 dicembre 2012, causa C-549/11, Orfey Bulgaria che richiama 29 ottobre 2009, causa C-174/08, NCC Construction Danmark. 7 Corte di Giustizia UE 19 dicembre 2012, causa C-549/11, Orfey Bulgaria, che richiama CGUE 3 luglio 1997 causa C-330/95, Goldsmiths. Con quest’ultima sentenza la Corte ha statuito che la deroga prevista dall’art. 11 parte c, n. 1, comma 2 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE dev’essere interpretata nel senso che essa non autorizza uno stato membro che emani disposizioni dirette a consentire il rimborso dell’IVA in caso di mancato pagamento totale o parziale del corrispettivo, a escludere il rimborso stesso quando il corrispettivo non pagato sia in natura ed a concederlo quando il corrispettivo sia in denaro. 8 Si veda, in tal senso, Corte di Giustizia UE del 3 luglio 2001, causa C-380/99, Bertelsmann, Racc. pag. I-5163, punto 17 e giurisprudenza ivi citata.

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re neutrale rispetto all’applicazione dell’imposta, ingenerandosi, diversamente, un ostacolo nella libertà di scelta dell’operatore economico 9. Per inquadrare correttamente tale prospettiva, non ci si può esimere dal considerare che tanto il legislatore quanto (probabilmente) i giudici sovranazionali si muovono entro schemi concettuali diversi da quelli del legislatore e della giurisprudenza interni. Tale diversa visione, peraltro, non risulta più indifferente agli operatori e agli studiosi del diritto civile, in particolare per quanto riguarda il diritto dei contratti, atteso che oggi una molteplicità di fattispecie contrattuali, solo in parte collocabili all’interno del c.d. diritto dei consumatori, vengono ad essere regolate da norme che hanno fonte in provvedimenti assunti dagli organi dell’Unione Europea, in forza dell’obiettivo di ravvicinamento delle legislazioni sancito dal trattato 10. Si è osservato in proposito che nell’odierno quadro del diritto di origine comunitaria, è possibile cogliere una sorta di funzionalizzazione dell’agire del singolo, sia esso consumatore o impresa, ad un interesse pubblico generale che è la regolazione del mercato, inteso non in senso economicistico, come mero ordo naturalis, ma in senso giuridico costruttivistico, come ordo legalis, conformato cioè dalle regole di diritto positivo. Tale funzionalizzazione parrebbe implicare una torsione e, in certa misura, una riscrittura degli strumenti tradizionali dell’autonomia privata, che vengono riutilizzati per raggiungere finalità economiche o, comunque, ultronee rispetto agli interessi delle parti 11. Il consumatore sceglie i 9

Si vedano in proposito le conclusioni dell’Avv. Generale La Pergola alla sentenza Goldsmith di cui si riporta uno stralcio: «ai fini fiscali, dunque, le prestazioni in natura, quando sono suscettibili di valutazione in danaro, vengono sostanzialmente equiparate a quelle così perfezionate [n.d.r. le operazioni permutative]; e, a ben vedere, da tale equiparazione deve discendere, in via di principio, la necessaria parità di trattamento tra i due tipi di negozi» ed ancora «Sotto il profilo economico… non diversamente dalla vendita dietro corrispettivo in denaro la transazione in natura è uno strumento attraverso il quale si sviluppa la vita commerciale. Non si giustifica che l’una categoria sia discriminata rispetto all’altra. Tale disparità di trattamento si concreta, ai sensi della direttiva e del diritto comunitario, in un’ingiustificata interferenza, tutt’altro che neutrale sul piano fiscale, nella libertà di scelta dell’operatore economico». 10 In quest’ottica la locuzione di diritto contrattuale europeo, viene intesa come complesso di norme di fonte comunitaria che regolano specifiche fattispecie contrattuali operanti in Italia. Si veda in questo senso ALPA, Il diritto contrattuale di fonte comunitaria, in CASTRONOVO-MAZZAMUTO (a cura di), Manuale di diritto privato europeo, Milano, p. 252. 11 Così si esprime MAZZAMUTO, Il contratto di diritto europeo, Torino, 2012, p. 96 il quale sostiene che nella prospettiva comunitaria il consumatore non deve essere inteso come beneficiario esclusivo degli interventi di protezione. In realtà nella vendita di beni di consumo come in campi analoghi, il consumatore è individuato dal legislatore comunitario come il soggetto più adeguato – perché portatore di un interesse diretto – alla messa in opera di quell’apparato normativo fatto di diritti, rimedi e tutele che è volto anche a conformare giuridicamente il mercato. L’autore sottolinea come, a suo avviso, il «consumatore, rispetto al complesso ordito del legislatore comunitario, sia più un mezzo che un fine esso stesso: l’agente delle rivoluzione, insomma, assoldato a sua insaputa al servizio del Re di Prussia».

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beni da acquistare e le sue decisioni finiscono per incidere e per condizionare la formazione dell’offerta e le dinamiche concorrenziali tra gli operatori commerciali. In quest’ottica il legislatore comunitario non accoglie la propensione (propria degli ordinamenti giuridici interni e in specie di quello nazionale) a disciplinare singoli tipi contrattuali, distinguendoli in ragione della relativa causa, ma tende – in funzione del riconoscimento all’autonomia negoziale di spazi operativi assai ampi – a non disegnare le situazioni tipo al cui verificarsi la norma giuridica ricollega determinati effetti. Gli obiettivi del mercato unico impongono più semplicemente interventi imperativi per quei gruppi di contratti ove può annidarsi un momento distorsivo della concorrenza 12. A questa impostazione è informata la tecnica normativa utilizzata dal legislatore comunitario 13 che, nel disciplinare i contratti, li distingue in relazione ai soggetti (contratti dei consumatori e contratti d’impresa) e non al tipo inducendo ad un superamento del profilo funzionale della causa quale criterio di qualificazione dell’atto 14. In sostanza l’ordine di idee da cui muove il legislatore sovranazionale (che non sembrerebbe sconosciuto, come si vedrà, anche alla giurisprudenza della Corte di giustizia UE) presuppone che l’autonomia negoziale non debba essere imbrigliata in schemi predeterminati normativamente in relazione ai quali s’individua un interesse meritevole di tutela. La prospettiva appare ribaltata: sono gli strumenti giuridici a disposizione del singolo a doversi “piegare” alla realizzazione del suo interesse concreto 15, il cui perseguimento conduce all’attuazione 12

Ciò può dirsi anche in relazione alla più recente disciplina sulla vendita di beni mobili di consumo, la quale esplicitamente opera rispetto ai contratti di permuta e di somministrazione nonché a quelli di appalto, di opera e tutti gli altri contratti comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre così MAZZAMUTO, Il contratto, cit., pp. 141-142. 13 Tale modello, diverso da quella cui si informa il codice civile vigente, secondo alcuni è adottato anche dal legislatore interno. Si è osservato come, in quest’ambito, si possano individuare quattro linee direttrici: 1) vengono disciplinati i soggetti e non i contratti (come accade nelle ipotesi di mediazione, assicurazione; leasing e factoring); 2) quando si disciplinano i contratti non si adotta come modello quello del tipo contrattuale, ma quello del raggruppamento dei contratti; 3) anche quando si disciplinano i singoli tipi contrattuali la natura delle disposizioni dettate si discosta da quella originariamente propria delle disposizioni di cui al titolo Terzo del libro IV del codice civile, evidenziando una spiccata tendenza a dettare norme imperative ispirate a finalità di controllo e di tutela e volutamente indeterminate quanto al loro ambito di applicazione; 4) in ultimo, si affida il compito di procedere alla tipizzazione ad autorità amministrative. Si veda in tema DE NOVA, Nuovi Contratti, Torino, 1994, p. 16 ss.; ID., I singoli contratti: dal Titolo III del libro IV del codice civile alla disciplina attuale, in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano, I, 1995, p. 497 ss.; ID., Contratto: per una voce, in Riv. dir. priv., 2000, p. 655 ss. 14 Si veda in questo senso PICARDI, La causa e il tipo, in N. LIPARI (a cura di), Trattato di diritto privato europeo, vol. III, L’attività e il contratto, Torino, 2003, p. 274. 15 Si è osservato in dottrina come i fatti del commercio internazionale incidono sulla costruzione di schemi e istituti prima assenti nella nostra realtà municipale e favoriscono il diffondersi di una rinnovata visione circa le fonti di assetto giuridico dei conflitti di interesse. Si assiste al

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di interessi superiori e generali: quelli del mercato. Conseguentemente, l’unico limite al libero spiegarsi dell’autonomia privata è che questa non conduca a falsare le regole della concorrenza 16.

2.1. La posizione della giurisprudenza UE sulla permuta e le operazioni permutative Sembrerebbero trovare ragione in questa logica le statuizioni della Corte UE, relative ai presupposti per verificare la sussistenza di un’operazione permutativa. Per i giudici comunitari affinché si configuri un’operazione di questo genere è sufficiente, dunque, che ciascuna cessione o prestazione trovi causa e giustificazione nell’altra, valorizzando in tal modo l’interdipendenza delle obbligazioni dei contraenti. L’accordo bilaterale a contenuto patrimoniale troverebbe infatti sostegno nella sussistenza di un serio intento delle parti di vincolarsi per il perseguimento di un interesse concreto 17. Inserita nel quadro che si è delineato sembrerebbe trovare anche ragione l’affermazione relativa all’equivalenza tra gli schemi negoziali della permuta e delle operazioni permutative e quello della vendita. L’operatore economico, per garantire il corretto funzionamento del mercato, deve poter scegliere liberamente tra più strumenti giuridici laddove ad essi sia riconducibile una medesima funzione, senza che il regime fiscale dell’atto possa essere in grado di condizionare tale scelta in un senso o nell’altro 18. progressivo attenuarsi delle differenze nello stile di redazione dei contratti grazie all’utilizzazione anche negli ordinamenti romanisti di modelli contrattuali estremamente analitici in passato propri solo della prassi dei paesi di Common Law. In questo senso PICARDI, op. cit., 281; DE NOVA, Contratto, cit., p. 634 ss. 16 C’è chi teme che una tale tendenza, che inevitabilmente incide negli ordinamenti interni, unitamente all’espansione sovranazionale dei modelli contrattuali comporti il pericolo di uno “scavalcamento” o “aggiramento” di norme inderogabili contenute nella disciplina dei singoli tipi contrattuali a tutela di interessi superiori e di un radicale e programmatico scardinamento di quel tessuto di regole razionali sedimentatesi nella disciplina positiva dei tipi. Si veda BIN, La circolazione internazionale dei modelli contrattuali, in Contr. e impr., 1993, p. 479. 17 È stato sottolineato in dottrina che di causa si possa parlare nell’ambito dell’ordinamento comunitario facendo riferimento al modello della consideration dei sistemi di common law. Tale dottrina pur ponendo in luce l’insufficienza dello schema astratto del tipo a cogliere l’unità dell’operazione economica e l’interesse effettivamente perseguito dai contraenti, suggerisce la possibilità di recuperare alla causa un ruolo diverso da quello di elemento identificativo del tipo assegnandole una funzione di controllo dell’utilità del contratto e di salvaguardia dell’interesse in vista del quale esso è stato concluso, ancorandola in tal modo al principio di proporzionalità di matrice comunitaria e collocandola in posizione complementare rispetto alla clausola generale di buona fede, al fine di assicurare il perseguimento di esigenze di giustizia contrattuale a tutela del corretto funzionamento del mercato PICARDI, op. cit., p. 305. 18 È stato evidenziato come nel diritto comunitario, anche il principio generale di uguaglianza,

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Va chiarito a riguardo che l’identità di funzione degli schemi contrattuali prescelti, nell’ottica europea, va valutato non già in relazione alla funzione obiettiva economico-sociale del tipo contrattuale utilizzato, ma, anche qui, in ragione dell’interesse in concreto perseguito dalle parti. Ciò sul presupposto che i beni, nell’approccio sovranazionale, sono considerati nella sola dimensione della circolazione. Tradizionalmente i “beni” 19 sono contraddistinti dal riconoscimento della loro idoneità a soddisfare un interesse oggettivamente valutabile e rilevante e in, ragione di ciò, dall’essere correlati a posizioni giuridiche soggettive. Su questa circostanza si fonda la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e s’individua nel primo il fondamento del secondo. In altri termini è la presenza di un valore di uso del bene a costituire il prius logico per l’individuazione e la rilevanza, una volta introdotto un sistema di relazioni sociali di scambio prima e di mercato poi, del valore che il medesimo bene assume nella circolazione giuridica normalmente affidata al mercato 20. Si è osservato, in proposito, che l’evoluzione del diritto comunitario non ha interessato la nozione di bene né la disciplina dell’appartenenza. Nella prospettiva del trattato e del diritto derivato, infatti, il processo di qualificazione dei beni e la disciplina relativa alle forme di appartenenza sono state date per presupposte in quanto governate da regole interne. La ragione alla base di tale indirizzo si ritrova nel fatto che la normativa comunitaria ha come finalità ultima quella di fache attiene in linea generale ai diritti fondamentali della persona assuma una valenza marcatamente economica orientata al mercato, traducendosi in tal modo nel principio di non discriminazione in base alla cittadinanza o alla residenza o nel principio di non restrizione delle libertà economiche dei cittadini/residenti propri di un paese rispetto ai soggetti di altro stato membro che esercitino una delle libertà fondamentali. V. FANTOZZI, Armonizzazione fiscale tra modelli comunitari e autonomia normativa degli Stati, Relazione al Convegno di studi “Le ragioni del diritto tributario in Europa”. Bologna 26-27 settembre 2003; BORIA, L’antisovrano. Potere tributario e sovranità nell’ordinamento comunitario, Torino, 2004, 59, p. 103 ss. 19 Nell’ambito del diritto privato la nozione di “bene” viene in considerazione innanzitutto per definire tanto le entità oggettive assunte come punto di riferimento di interessi giuridicamente rilevanti, quanto le stesse posizioni giuridiche che a loro volta possono avere ad oggetto beni del primo tipo. Nello stesso tempo queste situazioni giuridiche possono rilevare per finalità diverse come beni. Per esempio nel nostro sistema il debitore (ai sensi dell’art. 2740 c.c.) risponde delle obbligazioni con tutti i suoi beni, ossia con tutte le situazioni giuridiche aventi contenuto patrimoniale e suscettibili di esecuzione forzata, vale a dire di circolazione forzata. 20 Cfr. in tema JANNARELLI, Profili generali, in N. LIPARI (a cura di), Trattato di diritto privato europeo, vol. II, I soggetti (seconda parte) – Beni, interessi valori, Torino, 2003, p. 293 ss. Sulla centralità del valore d’uso, indipendentemente dallo scambio nella configurazione tradizionale dei beni sia dal punto di vista giuridico che della teoria economica si rinvia a COMMONS, I fondamenti giuridici del capitalismo, Bologna, 1981, passim e a RIPERT, Aspect juridique du capitalisme moderne, Paris, 1951, passim, in ambito economico si veda NAPOLEONI, Valore, Milano, 1976.

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vorire la circolazione dei “beni”, in qualunque modo essi vengano individuati nell’ambito del sistema interno 21. In questa ottica, in cui assume rilevanza centrale il mercato e, di conseguenza, i trasferimenti della ricchezza, perdono di significato le differenze relative ai benicose ma anche, fra i beni-cose, tra i mobili e gli immobili, atteso che il loro valore può essere espresso in denaro in funzione del loro valore di scambio 22. La tendenza a tradurre, in funzione della loro circolazione, i beni nel loro valore di scambio espresso in termini monetari – che contraddistingue la società moderna e caratterizza il diritto privato di fonte comunitaria – finisce però per incidere, ancorché indirettamente, nel processo di formazione dei valori e nella loro rilevanza anche sotto il profilo giuridico, giungendo ad invertire i termini del rapporto valore d’uso – valore di scambio e ha portato inoltre a ritenere che il processo di formazione dei valori si realizzi non già prima dell’attività negoziale, bensì all’interno della stessa 23. Alla luce di tali considerazioni, paiono chiarirsi le statuizioni della Corte di giustizia. Se un bene risulta equivalente al suo valore di scambio espresso in termini monetari, l’ipotesi in cui sia previsto un prezzo in moneta e quella in cui il “prezzo” sia costituito dal valore di un bene espresso in termini monetari rappresentano «due situazioni identiche» 24.

2.2. La base imponibile ai fini IVA. I criteri per la valorizzazione del corrispettivo I principi enucleati dalla Corte di Giustizia, in tema di permuta ed operazioni permutative attengono, anche all’individuazione e valorizzazione del corrispetti21

JANNARELLI, op. cit., pp. 308-309. «nella misura in cui il denaro pesa tutta la varietà delle cose in modo uniforme ed esprime tutte le differenze qualitative in termini quantitativi, nella misura in cui il denaro con la sua assenza di colori e la sua indifferenza si erge ad equivalente universale di tutti i valori, esso diventa il terribile livellatore, svuota senza scampo il nocciolo delle cose, la loro particolarità, il loro valore individuale, la loro imparagonabilità. Le cose galleggiano con lo stesso peso specifico nell’inarrestabile corrente del denaro si situano tutte sullo stesso piano, differenziandosi unicamente per la superficie che ne ricoprono» SIMMEL, La metropoli e la vita dello spirito, Roma, 1995, p. 43. 23 Tradizionalmente l’attività destinata ad attribuire rilevanza ad alcune entità oggettive, quale presupposto per la successiva valorizzazione giuridica di queste ultime in termini di beni è stata identificata nell’azione umana alla base della quale vi è sostanzialmente il lavoro in tutte le sue estrinsecazioni. Attualmente l’attività “produttiva” comprende anche quella contrattuale, ossia quella che determina il sorgere di vincoli e di aspettative. Il contratto non presuppone l’avvenuta produzione di merci, ma è esso stesso a creare merci, sino al punto da divenire a sua volta una merce. Il tratto più significativo di questo fenomeno è che l’intero processo che conduce alla creazione di beni è fondamentalmente affidato all’autonomia contrattuale, sia pure, per ciò che attiene al nostro sistema codificato, all’interno del controllo di meritevolezza degli interessi. Così JANNARELLI, op. cit., p. 307. 24 Così sentenza 19 dicembre 2012, C-549/11, Orfey Bulgaria. 22

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vo nella permuta e nei contratti permutativi, che sembrerebbe a sua volta ricollegarsi al problema dapprima posto. Giova osservare, in proposito, che l’art. 8 della seconda direttiva IVA (Seconda direttiva del Consiglio 11 aprile 1967, n. 67/228/CEE) individuava la base imponibile per le cessioni e prestazioni di servizi, in tutto ciò che componeva il controvalore della cessione del bene o della prestazione di servizi stesse, comprese tutte le spese ed imposte, ad eccezione dell’imposta sul valore aggiunto. L’espressione “controvalore” era definita al punto 13 dell’allegato A di tale direttiva come segue: «per “controvalore” si intende tutto ciò che è ricevuto quale corrispettivo della cessione del bene o della prestazione di servizi, comprese le spese accessorie (imballaggio, trasporto, assicurazione, ecc.), vale a dire non solo l'importo delle somme riscosse ma anche, ad esempio, il valore dei beni ricevuti in cambio o, in caso di espropriazione effettuata dalla pubblica amministrazione od in suo nome, l’importo dell'indennità riscossa». La dottrina riferisce che nella originaria proposta di sesta direttiva, presentata dalla Commissione al Consiglio il 29 giugno 1973, la definizione di base imponibile era fondata, come criterio generale, sul “prezzo espresso in una somma di denaro, mentre le modifiche alla stessa proposta, presentate al consiglio il 12 agosto 1974 con particolare riferimento all’art. 12 parte A, hanno mutato il concetto, comprendendovi “tutto ciò che compone il controvalore corrisposto o da corrispondere al fornitore o al prestatore per l’operazione considerata” 25. La formulazione recepita nella sesta direttiva, all’art.11 par. 1 lett. a), ora confluita nell’art. 73 della direttiva 2006/112/CE, non fa riferimento al concetto di prezzo e neanche a quello di “controvalore”, ma individua la base imponibile nel corrispettivo inteso in senso ampio, cioè incassato o meno dal fornitore o prestatore, ivi comprese le somme eventualmente versate da terzi, nonché le sovvenzioni connesse direttamente col prezzo dell’operazione 26. Al riguardo è possibile osservare che nel passaggio dalla seconda alla sesta direttiva le modifiche hanno interessato non il singolo termine ma l’intero testo normativo. Mentre l’art. 8 della seconda direttiva faceva riferimento “a tutto ciò che compone il controvalore” l’art. 73 individua come base imponibile “tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore … da parte dell'acquirente”. In maniera più efficace, e forse più vicina alla ratio della modifica, nella versione inglese la disposizione è resa nel seguente modo “everything which constitutes consideration obtained or to be obtained by the supplier in return for the supply from the cu25

Si veda sul punto COMELLI, IVA comunitaria e IVA nazionale, Padova, 2000, p. 632. L’art. 73 della direttiva del Consiglio 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE (ex art. 11 parte A par. 1, Dir. 77/388/CEE) stabilisce che «per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi diverse da quelle di cui agli art. 74 a 77, la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni». 26

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stomer…” ovverosia tutto ciò che costituisce la controprestazione che il fornitore ha ottenuto o deve ottenere dal cliente in cambio della fornitura. V’è da notare che, nella traduzione inglese, la differenza più rilevante tra la seconda e la sesta direttiva circa la formulazione della disposizione che riguarda la definizione della base imponibile, sta nel verbo utilizzato e non nel complemento oggetto. Mentre in entrambi i testi normativi si utilizza il termine consideration, per designare ciò che nelle versioni italiane della seconda e della sesta direttiva si indica, rispettivamente, come controvalore e corrispettivo, nell’un caso viene impiegato il verbo make up, nell’altro il verbo obtain 27. La diversità terminologica appare rilevante in quanto l’evoluzione normativa sembrerebbe anche il frutto dell’interpretazione adottata dalla Corte di Giustizia. I giudici comunitari, avevano infatti sostenuto, per la prima volta in costanza della seconda direttiva IVA, che il “controvalore” fosse “un valore soggettivo giacché l’imponibile… è il corrispettivo realmente ricevuto” 28. Pare possibile sostenere, quindi, che l’attuale formulazione della disposizione contenente la definizione della base imponibile, costituisca la sintesi tra la nozione di “controvalore” definita dall’art. 13 allegato A della seconda direttiva e la stessa nozione come delimitata nell’esperienza giurisprudenziale. La base imponibile IVA, dunque, deve essere individuata in ciò che il cedente o il prestatore riceve effettivamente in cambio del bene o del servizio. In quest’ottica si spiega la natura derogatoria dell’art. 80 della direttiva 2006/112/CE, il quale prevede che gli stati possano prendere misure affinché per la cessione dei beni e la prestazione di servizi la base imponibile sia pari al valore normale dei beni ceduti o dei servizi prestati e non sia invece costituito dal quantum ricevuto dal cedente o dal prestatore. La deroga al criterio del corrispettivo, infatti, è consentita in alcuni specifici casi, puntualmente individuati dallo stesso art. 80, in cui si ritrova una ratio antielusiva. Si tratta di una disposizione finalizzata a contrastare fenomeni di sovra o sotto fatturazione che si possono verificare in relazione ad operazioni effettuate tra “soggetti collegati” e in presenza di limiti al diritto di detrazione delle parti contrattuali e si dimostra, quindi, uno strumento con finalità correttiva dei possibili effetti distorsivi che i limiti al diritto di detrazione possono produrre sul mercato 29. 27 Nelle versioni inglese, francese e spagnolo della seconda direttiva menzionata il termine “controvalore” presente nella traduzione italiana è, reso nel modo seguente: consideration in inglese, contre-valeur in francese e contravalor in spagnolo. In tutte e tre le lingue il verbo utilizzato è ottenere. 28 V. Corte di Giustizia UE 5 febbraio 1981 causa C-154/80, Staatssecretaris van Financiën contro Association coopérative “Coöperatieve Aardappelenbewaarplaats GA. 29 Si esprime così DENORA, Rilevanza delle operazioni gratuite nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto e spunti ricostruttivi in tema di consumo, in Riv. dir. trib., 2013, cui si rinvia per l’ampia disamina del tema.

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In sintesi, dunque, l’impianto della direttiva mostra chiaramente che non è possibile “stimare” il corrispettivo in funzione del valore economico del bene ceduto o del servizio prestato, se non negli specifici casi su menzionati, poiché ciò che risulta rilevante nella determinazione della base imponibile, è il quantum ricevuto in cambio per la prestazione o la cessione. In tema di operazioni permutative la Corte di giustizia ha affermato che il corrispettivo di una fornitura di beni può consistere in una prestazione di servizi e costituirne la base imponibile ai sensi dell’art. 11 punto A n. 1 lett. a) della sesta direttiva, oggi art. 73 citato, se sussiste un nesso diretto fra la fornitura dei beni e la prestazione di servizi e se il valore di quest’ultima può essere espresso in denaro, precisando altresì che il controvalore che funge da base imponibile per una fornitura di beni è un valore soggettivo, poiché l’imponibile è il corrispettivo realmente ricevuto, non già un valore stimato secondo criteri obiettivi. Non consistendo in una somma di denaro stabilita fra le parti detto valore per essere soggettivo, deve essere quello che il beneficiario della prestazione di servizi, la quale costituisce il corrispettivo della fornitura dei beni, attribuisce ai servizi che esso intende procurarsi e deve corrispondere alla somma che esso è disposto a pagare a tal fine 30. In relazione alle massime elaborate dalla Corte ed appena riportate, occorre però operare un distinguo. In alcuni casi si è infatti posto il problema di verificare se gli artt. 73 e 80 della direttiva dovessero essere interpretati nel senso di ostare ad una disposizione nazionale in base alla quale, qualora il corrispettivo dell’operazione sia interamente costituito da beni o servizi, la base imponibile dell’operazione sia rappresentata dal valore normale di tali beni e servizi 31. In altre ipotesi, pur in presenza di una disposizione interna del genere appena delineato 32, la pregiudiziale è stata posta con riferimento ad una determinata interpretazione della disciplina comunitaria atta ad individuare ed a valorizzare in concreto la controprestazione 33. 30

CGUE 23 novembre 1988, causa C-230/87, Naturally Yours Cosmetics; CGUE 2 giugno 1994, Causa C-33/93, Empire Stores. Nella sentenza Empire Stores la fattispecie riguardava la cessione gratuita di un bene in cambio di informazioni personali o presentazione di un cliente e la base imponibile è stata individuata nel prezzo di acquisto pagato dal committente per il bene ceduto. 31 Sentenza 19 dicembre 2012, causa C-549/11, Orfey Bulgaria. Qui la norma interna (art. 26 par. 7 dello ZDDS) prevedeva che “qualora il corrispettivo sia determinato, in tutto o in parte in natura (il pagamento viene effettuato in tutto o in parte in beni o servizi), la base imponibile è costituita dal valore normale del bene ceduto o della prestazione effettuata, calcolato nel momento in cui l’imposta è divenuta esigibile”. 32 Sentenza 23 novembre 1988, C-230/87, Naturally Yours Cosmetics, in questo caso la norma domestica (art.10 n.3 del Value Added Tax Act del 1983) prevedeva che “se la cessione è priva di corrispettivo o ha un corrispettivo non pecuniario o non completamente tale, il suo valore è considerato pari al valore normale di mercato”. 33 CGUE 23 novembre 1988, causa C-230/87, Naturally Yours Cosmetics; CGUE 2 giugno 1994 Causa C-33/93 Empire Stores. Nella prima sentenza, in cui un bene veniva ceduto in cambio

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Sulla prima questione la Corte di Giustizia, muovendo dall’analisi del sistema delineato dagli artt. 73 e 80, si è espressa in senso assolutamente contrario ad ammettere la possibilità di individuare il corrispettivo stimandolo in funzione del valore “normale” della prestazione effettuata o del bene ceduto. D’altra parte i giudici comunitari non hanno fornito dei criteri generali al fine di valorizzare il corrispettivo, laddove questo non sia determinato in denaro, essendosi limitati a risolvere il problema caso per caso, avendo riguardo alle disposizioni contrattuali e alle circostanze concrete. Pare dunque possibile sostenere con certezza che nella permuta e nelle operazioni permutative la base imponibile debba essere costituita dalla cessione o dalla prestazione effettivamente ricevuta come controprestazione, ma non è chiaro quale sia il criterio per attribuire a tale controprestazione un valore in denaro. In relazione ad uno dei casi prima esaminati l’Avvocato Generale, nelle sue conclusioni, ha evidenziato, appunto, come il legislatore comunitario abbia lasciato in sospeso le modalità con cui si deve determinare o valutare il corrispettivo quando questo non consista in una somma di denaro. Un dato da cui è possibile trarre degli spunti di riflessione può essere ancora ricavato dalle disposizioni della seconda direttiva IVA. Al riguardo la Corte di Giustizia ha precisato che, attesa la finalità legislativa comune della seconda e della sesta direttiva, nell’interpretazione di quest’ultima, occorre tener conto della giurisprudenza relativa alla prima 34. I principi elaborati, in costanza della seconda direttiva, per individuare la nozione di corrispettivo sono rinvenibili nella sentenza 5 febbraio 1981 35. Con riferimento all’impianto normativo della seconda direttiva, la giurisprudenza aveva affermato che la definizione di “controvalore” non era demandata agli stati membri ma, come abbiamo visto, era specificamente individuata da una disposizione normativa, l’art. 13 allegato A. In base a tale disposizione si doveva intendere come controvalore, tutto ciò che fosse ricevuto quale corrispettivo della cessione o della prestazione ed in proposito la norma in questione specificava “non solo l’importo delle somme riscosse, ma anche il valore dei beni ricevuti in cambio”. Sebbene la disposizione di cui all’art. 73 non presenti la medesima formulazione, pare plausibile ritenere, alla luce delle considerazioni effettuate, che laddove il corrispettivo sia costituito da un bene o da un servizio è al valore di questi che si deve far riferimento per determinare la base imponile. di una somma di denaro e di un servizio, la base imponibile è stata individuata nella somma tra il prezzo pagato e il valore del servizio prestato, valore a sua volta ricavato individuando il valore di mercato del bene che veniva ceduto per la prestazione del servizio. Nella seconda sentenza citata la corte afferma che il corrispettivo deve essere individuato nel costo sostenuto dal committente per l’acquisto del bene ceduto in corrispettivo del servizio prestato. 34 CGUE 8 marzo 1988, causa 102/86, Apple and Pear development council. 35 Vedi sentenza citata alla nota n. 28.

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Dovendosi tuttavia trattare di un valore “soggettivo”, il punto problematico sta nel determinare il valore che le parti hanno inteso attribuire ai suddetti beni o servizi. Dalle pronunce esaminate ciò che sembra emergere con sufficiente grado di chiarezza è che tale valore non può essere predeterminato normativamente. Non sembrerebbe compatibile con le disposizioni comunitarie, dunque, una norma interna che individui a priori il valore da attribuire ai beni o ai servizi in questione o i criteri per determinarlo. Non appare invece da escludere, seguendo le indicazioni della Corte che, avendo riguardo alle circostanze concrete e in assenza di diversi riferimenti, il valore del bene o del servizio possa essere costituto dal suo valore di mercato. Se è vero, come sostiene la Corte, che l’IVA deve colpire la spesa effettivamente sostenuta e che le operazioni di cui qui si tratta devono essere considerate alla stregua di quelle in cui il corrispettivo è determinato in una somma di denaro, sembra possibile ritenere che il valore del bene (o del servizio) ricevuto in controprestazione possa essere costituito dalla somma di denaro che si sarebbe ottenuta cedendolo sul mercato nel momento in cui l’operazione avviene. Pare possibile ritenere che sia quella la somma che il cessionario (o il committente) è disposto a spendere (non in denaro ma in natura) per ottenere il bene o (il servizio) che è oggetto del contratto 36. In conclusione, due sono i dati che emergono dall’esame della giurisprudenza comunitaria. Da una parte si afferma espressamente che il corrispettivo “in natura” non possa essere normativamente determinato in misura pari al valore “normale” del bene ceduto o del servizio prestato, d’altra parte, il principio enucleato dalla Corte, in base al quale l’IVA deve essere applicata in relazione alla “spesa effettiva”, non porta ad escludere che il corrispettivo possa essere costituito dal valore di mercato del bene o del servizio ricevuto in controprestazione 37.

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Nella causa 230/87 (Naturally Yours Cosmetics) In taluni casi il ricorso alla nozione di valore di mercato, afferma ancora l’avvocato generale è l’unico modo per valutare il corrispettivo e per evitare i vantaggi ingiustificati che risulterebbero dalla sua mancata presa in considerazione. Tuttavia, il valore normale va preso in considerazione soltanto quando sia impossibile (o, quantomeno eccessivamente difficile) attribuire, in altro modo, alla controprestazione il suo valore effettivo nell’operazione o, quantomeno, il suo reale valore di mercato. L’avvocato generale ribadisce comunque che l’IVA in quanto imposta sul consumo, deve colpire il più esattamente possibile la spesa effettiva del consumatore; pertanto, la sostituzione dei valori reali con valori normali (al di fuori dei casi in cui è espressamente contemplata) dovrà ammettersi soltanto in mancanza di un altro sistema che costituisca criterio migliore di quello che la corte ha chiamato “valore soggettivo” del corrispettivo. 37 L’art. 14 definisce un valore di mercato e non un valore normale nel senso inteso dalla corte.

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3. La disciplina interna 3.1. Vendita, permuta e datio in solutum, i distinti profili causali L’analisi che precede è funzionale, come s’è già anticipato in premessa, a verificare se la disciplina interna sia o meno in linea con i precetti comunitari e con l’interpretazione che di essi ne ha fornito, nel tempo, la Corte di Giustizia. Prima di esaminare più in particolare le norme che, nel sistema interno dell’IVA, riguardano la permuta, le operazioni permutative e la datio in solutum, pare qui opportuno fare brevemente riferimento agli elementi in ragione dei quali, nella disciplina sostanziale domestica, le figure contrattuali menzionate si sogliono distinguere. Com’è possibile rilevare dal raffronto, anche solo testuale, tra le due disposizioni che disciplinano la vendita da un lato e la permuta dall’altro 38, la differenza più rilevante tra i due istituti, è che il corrispettivo è rappresentato per l’una dal prezzo in danaro, cioè dallo scambio della cosa con il prezzo mentre nell’altra lo scambio riguarda il reciproco trasferimento della proprietà di cose o anche di diritti. Sotto il profilo della fattispecie, infatti, la distinzione tra vendita e permuta si fonda, per quest’ultima sull’assenza di un prezzo (rectius: della creazione di un’obbligazione pecuniaria) che è presente nell’altra 39. Mentre la vendita deduce asimmetricamente un’attribuzione traslativa contro una prestazione (avente ad oggetto il pagamento del prezzo), la permuta consiste in una duplicità di attribuzioni traslative incrociate. Anche sotto il profilo funzionale e causale la distinzione teorica tra i due schemi è netta: nella permuta ciascuno dei contraenti acquista il bene offerto dall'altro per usarlo o per impiegarlo direttamente secondo l'utilità naturale, nella vendita, un’attribuzione ha per oggetto un bene assunto per la sua utilità diretta, l'altra (prestazione dell'acquirente) ha invece ad oggetto un prezzo, come tale assunto per quella speciale utilità strumentale che è costituita dalla funzione misuratrice dei valori economici 40. Conseguentemente la permuta non può trovar 38 A norma dell’art. 1552 c.c. «la permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all’altro». Il codice civile (all’art. 1470) definisce la vendita come «il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo». 39 Per “prezzo” deve intendersi una determinata somma espressa in moneta avente corso legale ancorché i mezzi di pagamento prescelti comprendano titoli di credito non destinati di per sé a funzione surrogatoria della moneta, ma ai quali le parti attribuiscano concordemente tale funzione. Così OBERTO, (voce) Permuta, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1995, pp. 370-371. 40 Cfr. COTTINO, Del riporto, della permuta, in Commentario del Cod. Civ. Scialoja-Branca, libro quarto – Delle obbligazioni, artt. 1548-1555, Bologna-Roma, 1970, p. 95. Oberto, Queste considerazioni, apparentemente nitide nell’enunciazione teorica, possono concretamente porre non pochi interrogativi. Si è reputato di qualificare come permuta e non come vendita lo scambio fra

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luogo quando le parti manifestano la volontà di trasferire una cosa contro un prezzo determinato 41. Dalla permuta devono ulteriormente distinguersi i negozi atipici o innominati che sono quelli per cui la legge, a differenza dei tipici o nominati, non ha predisposto uno schema particolare e che derivano perciò dall’inventiva delle parti le quali possono forgiarli a piacimento 42. La dottrina suole classificare tali contratti in quattro amplissime schematizzazioni: do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut facias e alle loro combinazioni, come ad es. do ut des et facias, do et facio ut des ecc. 43. due monete, anche se tuttora in circolazione, quando dalle parti siano state considerate per il loro valore intrinseco (si pensi all’epoca in cui circolavano le cinquecento lire di argento) ovvero lo scambio di moneta di tagli grossi con quella di tagli piccoli LUMINOSO, I contratti tipici ed atipici, in Tratt. di dir.priv., a cura di Iudica-Zatti, Milano, 1995, p. 192 che cita Cass. 988/1985. Potrebbe ritenersi permuta anche lo scambio fra una cosa e titoli di credito (ti pago questo appartamento con una cambiale di cento milioni, con un titolo obbligazionario emesso dalla Repubblica Ceca). Per il tramite di detti titoli, in sostanza, si trasferisce la titolarità di un diritto di credito, ciò che potrebbe rientrare fra gli “altri diritti” menzionati dall’art. 1552 c.c. In effetti, però, perlomeno alcuni titoli di credito (assegno circolare, vaglia bancario assegno bancario, ecc.) hanno una funzione surrogatoria della moneta, altri (titoli obbligazionari, cambiali) sono connotati da una quotazione che riflette l’affidabilità del debitore RUBINO, La compravendita, in Tratt. di dir. civ. e comm., diretto da Cicu-Messineo, vol. XXIII, Milano, 1971, p. 239 e BIANCA, La vendita e la permuta, in Tratt. di dir. civ. it., diretto da Vassalli, Torino, 1972, p. 1144. 41 In questo senso GIANNATTASIO, La permuta, il contratto estimatorio, la somministrazione, in Tratt. dir. civ. e comm., a cura di Cicu-Messineo, Milano, 1960, p. 7; RUBINO, La compravendita, in Tratt. dir. civ. e comm., a cura di Cicu-Messineo, Milano, 1962, p. 234, il quale sostiene che è il prezzo a distinguere la compravendita non solo dalla permuta ma anche da tutti quegli altri contratti con prestazioni corrispettive nei quali la prestazione di una parte consiste, come per la vendita, nel trasferimento di un diritto, ma il corrispettivo, in funzione di controprestazione, non è costituito da una somma di danaro. 42 L’art.1322 del codice civile, stabilendo che le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare prevede il riconoscimento della più ampia autonomia (nei limiti di cui all’art. 1322) in materia contrattuale. 43 È pacificamente riconosciuto che il contratto innominato, come il contratto nominato, sia unitario CLARIZIA, (voce) Contratti innominati, in Enc. giur. Treccani, p. 3. Diverse sono, tuttavia, le indicazioni fornite dalla dottrina quanto ai criteri per determinare se, di fronte ad una fattispecie complessa atipica, ricorra un contratto unico o una pluralità di contratti. Secondo l’indirizzo prevalente, il contratto può essere considerato unico quando è unica la sua causa LA LUMIA, Deposito e locazione d’opera. Negozio unico e pluralità di negozi, in Riv. dir. comm., 1912, II, p. 916; DE GENNARO, I contratti misti, Padova, 1934, p. 53 ss.; GASPERONI, Collegamento e connessione tra i negozi, in Riv. dir. comm., 1955, I, p. 360; CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli s.d., p. 322 ss.; SCOGNAMIGLIO, Collegamento negoziale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 376. In proposito si è autorevolmente obiettato che la rilevazione dell’unicità o pluralità di cause è successiva a quella della unicità o pluralità di negozi e, pertanto, l’unico criterio appagante per la soluzione del problema sarebbe quello di verificare se nella pluralità di intenti empirici, diretti ad una pluralità di conseguenze economiche, sia possibile individuare la prevalenza di una conseguenza economica alla quale le altre siano subordinate: in tal caso il contratto sarà unico GIORGIANNI, Negozi giuridici collegati, in Riv. it. sc. giur., 1937, p. 1.

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La datio in solutum, in ultimo, è un negozio meramente solutorio attraverso il quale il debitore può liberarsi dall’obbligazione offrendo in luogo dell’adempimento una diversa prestazione. Si può rilevare che la differenza tra dazione in pagamento e adempimento, si sostanzia nella natura negoziale della prima, che deve essere invece negata all’adempimento. Va rilevato, inoltre, che l’adempimento estingue entrambi i termini del rapporto obbligatorio poiché, al contempo, realizza il diritto del creditore ed attua l’obbligo del debitore, diversamente nella datio in solutum, la diversa prestazione offerta dal debitore non equivale ad adempimento ma ne tiene il luogo, allorquando il creditore l’accetti e quest’ultima venga eseguita. Nel primo caso, dunque, la prestazione del debitore è diretta all’attuazione del proprio obbligo e quindi alla realizzazione del diritto del creditore, provocando, di conseguenza, l’estinzione del rapporto obbligatorio. Nell’altro caso la diversa prestazione offerta dal debitore è volta all’estinzione dell’obbligazione originaria tramite l’esecuzione di diversa prestazione con il consenso del creditore.

3.2. La permuta, le operazioni permutative e la datio in solutum nell’IVA Nel previgente sistema dell’IGE la permuta veniva trattata come un’unica operazione, assumendo come imponibile il valore di uno solo dei beni permutati 44. Come attualmente è previsto nel sistema del tributo di registro, l’imposta si applicava, infatti, in relazione alla cosa permutata che aveva maggior valore. Qualora per le cose permutate avessero trovato applicazione aliquote diverse, l’imposta si sarebbe applicata in relazione alla cosa per il cui trasferimento era dovuta l’imposta maggiore. Tale regime aveva provocato una diffusa applicazione della permuta per mascherare fattispecie di doppia vendita, seguita da compensazione tra le parti dei rispettivi debiti di prezzo 45. Nell’ambito delle norme sull’IVA le prestazioni derivanti dalla permuta e dalla tipologia di contratto innominato do ut facias o facio ut facias hanno trovato la loro disciplina nell’art. 11 46 che riguarda genericamente le operazioni permutative 47, in base alla quale le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in 44

Art. 10, R.D.L. n. 452/1943. CASERTANO SPERA, IVA, Milano-Roma, X ed., 1999, p. 183; STAMMATI, L’imposta generale sull’entrata, Torino, 1956, p. 169; MANDÒ, Imposta generale sull’entrata, Vicenza, 1964, p. 879 ss. 46 L’art. 11 del D.P.R. n. 633/1972 rubricato “Operazioni permutative e dazioni in pagamento” dispone al primo comma quanto segue: “Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi, o per estinguere precedenti obbligazioni, sono soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali sono effettuate”. 47 Che hanno un oggetto più ampio della permuta civilistica strutturata sullo scambio di cosa contro cosa ovvero di diritto contro diritto ex art. 1552 c.c. Cfr. MANDÒ-MANDÒ, Manuale 45

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corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi sono soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali sono effettuate. Il trattamento fiscale delle operazioni permutative è identico a quello stabilito per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate ad estinzione di precedenti obbligazioni. Sembrerebbero da ricondurre nell’ambito di tale ultima categoria le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate ai sensi dell’art. 1197, primo comma, c.c. L’art. 11 è infatti testualmente rubricato “operazioni permutative e dazioni in pagamento” e fa, quindi, riferimento all’istituto della datio in solutum, che trova la sua disciplina sostanziale nell’art. 1197 c.c. Ad ogni modo, le cessioni o le prestazioni dipendenti da contratti di permuta o del tipo do ut facias o facio ut facias e le dazioni in pagamento - queste ultime a prescindere dalla natura del contratto le cui obbligazioni vanno ad estinguere – sono accomunate ai fini IVA e costituiscono oggetto di autonoma disciplina. Ciascuna delle cessioni o prestazioni rileva, infatti, come operazione a sé stante a tutti gli effetti, e ciò sia per determinare il momento in cui debba considerarsi effettuata, sia per stabilire se sia soggetta o non soggetta all’imposta e con quale aliquota, sia infine per determinare l’ammontare imponibile. Tale criterio si applica, quindi, non solamente quando il rapporto di corrispettività tra le due operazioni è chiaramente stabilito dalle parti fin dall’origine, ma anche quando venga convenuto in un secondo momento, come in caso di datio in solutum, in cui una cessione o prestazione viene eseguita ed accettata per estinguere le obbligazioni derivanti da altra precedente cessione o prestazione. Le due prestazioni sinallagmatiche che compongono il contratto di permuta, i contratti innominati di cui s’è detto, e le dazioni in pagamento, devono quindi essere considerate isolatamente, come se si trattasse di operazioni di destinazione a finalità estranee, anziché di operazioni facenti parte di un unico accordo in base al quale l’una è in relazione di corrispettività con l’altra 48. La ratio di tale regime, introdotto con l’avvento dell’IVA è stata chiarita nella relazione ministeriale allo schema del D.P.R. n. 633/1972, in cui si legge che «l’esigenza di colpire entrambi i beni od i servizi scambiati scaturisce dalla necessità di consentire a ciascuna delle parti contraenti di effettuare la detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi acquistati». Analogo discorso va fatto per le dazioni in pagamento, nella citata relazione la tassazione separata della prestazione in luogo di adempimento è giustificata utilizzando la medesima argomentazione.

dell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2005, p. 58; Cass. 23 dicembre 2000, n. 16173, in Banca dati Corr. trib., 2001, p. 295. 48 BORIA, (voce) Permuta nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm., XI, Torino, 1995, p. 42.

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3.3. Base imponibile e momento impositivo nella permuta, nelle operazioni permutative e nella datio in solutum Ai sensi dell’art. 13, comma 1 del D.P.R. n. 633/1972 la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita in via generale dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente, aumentato delle integrazioni direttamente connesse con i corrispettivi dovuti da altri soggetti. In forza dello stesso art. 13, comma 2, lett. d), per le operazioni permutative e le dazioni in pagamento di cui all’art. 11 i corrispettivi sono costituiti dal valore normale dei beni e dei servizi che formano oggetto di ciascuna di esse. La norma sembrerebbe quindi introdurre un’equiparazione tra corrispettivo e valore normale dei beni o delle prestazioni che formano oggetto della dazione in pagamento, della permuta o dell’operazione permutativa. In questo caso, quindi, ognuno dei due contraenti dovrà fatturare, nei confronti dell’altro, un ammontare pari al valore del bene che trasferisce o del servizio che presta, determinandolo sulla base dell’importo che il cessionario o il committente, al medesimo stadio di commercializzazione di quello in cui avviene la cessione di beni o la prestazione di servizi, dovrebbe pagare, in condizioni di libera concorrenza, ad un cedente o prestatore indipendente per ottenere i beni o servizi in questione nel tempo e nel luogo di tale cessione o prestazione 49, applicando l’aliquota prevista per ciascuna tipologia di operazione 50. Se invece solo una delle due operazioni è assoggettabile ad IVA, solo su questa dovrà essere corrisposta l’imposta, sempre determinando la base imponibile alla stregua del valore normale del bene trasferito o del servizio prestato. Il principio della tassazione separata della permuta è stato, infatti, recepito anche ai fini dell’imposta di registro. L’art. 40 comma 2 del D.P.R. n. 131/1986 prevede che per le operazioni di cui all’art. 11 del D.P.R. n. 633/1972, l’imposta di registro si applichi sulla cessione o prestazione non soggetta all’IVA. La formulazione normativa, ha portato la dottrina a ritenere, nelle ipotesi in 49

Cfr. art. 14, D.P.R. n. 633/1972. LUPI-GIORGI, (voce) Imposta sul valore aggiunto, in Enc. giur. Treccani, 2006, p. 6. Ciascuno dei contraenti, infatti, fatturerà sulla base del valore normale della cessione o prestazione che egli stesso effettua o rende e non del valore della prestazione o del bene che riceve. Segnala la dottrina che la scelta italiana anche alla luce della giurisprudenza comunitaria non appare del tutto in linea con la direttiva, nella quale il separato assoggettamento ad imposta arriva qui fino la punto di trascurare il valore del bene o del servizio acquisito in qualità di controprestazione e che può essere diverso dal valore di mercato del bene ceduto o del servizio reso. Cfr. FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, in Dir. e prat. trib., 2009, I, p. 1216. 50

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cui accanto alla cessione del bene sia previsto anche un conguaglio, che quest’ultimo non assuma rilevanza ai fini impositivi, atteso che la sua funzione nella permuta è solo quella di colmare la differenza di valore tra i due beni scambiati che saranno, entrambi e ciascuno per il loro intero valore, assoggettati ad imposizione 51. Tale considerazione sembrerebbe valida anche per le altre ipotesi di cui all’articolo 11, ovverosia per le operazioni permutative diverse dalla permuta e per le dazioni in pagamento attesa l’equiparazione disposta dall’art. 13, comma 2, lett. d) del D.P.R. n. 633/1972 menzionato, in base al quale i corrispettivi su cui calcolare l’imposta, nella permuta, nelle operazioni permutative e nella datio in solutum sono costituiti (solo) dal valore normale dei beni e dei servizi che formano oggetto di ciascuna cessione o prestazione di cui si compone l’operazione. La regola dell’applicazione separata dell’imposta di cui all’art. 11 più volte menzionato, dovrebbe dar luogo all’autonoma considerazione delle prestazioni o delle cessioni dedotte in contratto anche sotto il profilo del momento impositivo. Un dubbio tuttavia sorge con riferimento all’applicabilità della disposizione di cui all’art. 6, comma 4 del D.P.R. n. 633/1972, la quale prevede che, se prima della stipula o del trasferimento, viene pagato in tutto o in parte il corrispettivo, l'operazione si considera effettuata, limitatamente all'importo pagato, alla data del pagamento. La giurisprudenza e la prassi concordano nel ritenere che la norma possa applicarsi nel caso della permuta e individuano così il momento impositivo per entrambe le cessioni al momento in cui il contratto viene stipulato, in considerazione del fatto che la cessione del bene presente costituisce il corrispettivo del bene futuro 52. Tale interpretazione sembrerebbe tuttavia presupporre una considerazione unitaria del negozio ai fini fiscali, considerazione che, come abbiamo visto, non sembra trovare accoglimento nel sistema dell’IVA così come delineato dalla disciplina interna. Seguendo la logica dell’autonomia delle prestazioni oggetto di scambio, l’una dall’altra e della datio in solutum rispetto all’obbligazione che si va ad estinguere, si giungerebbe infatti a ritenere inapplicabile la disposizione menzionata. A diverse conclusioni si potrebbe invece pervenire avendo riguardo alle norme comunitarie e all’interpretazione che di esse ne ha fin’ora fornito la Corte di Giustizia.

51 In questo senso si veda INGROSSO, (voce) Permuta, in Enc. giur. Treccani; FANTOZZI, Permuta e dazioni in pagamento, in Guida fiscale italiana, I, Imposte indirette, Torino, 1976, p. 822. 52 Di permuta di immobile presente con immobile futuro Ris. n. 460210 dell’8 giugno 1989, Cass. 484/1982, Cass. 10510/1991.

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4. La compatibilità della disciplina interna rispetto alle disposizioni della direttiva La disciplina interna delle operazioni qui esaminate sembra modellata sullo schema della permuta e, in particolare, pare che il legislatore abbia fatto leva sulla funzione che nell’ordinamento interno è riconosciuta a tale contratto, ovverosia quella di consentire lo scambio in ragione dell’utilità diretta che il bene (o il diritto su un bene) possano arrecare ai permutanti. Nell’ambito della loro autonomia negoziale le parti potrebbero tuttavia porre in essere un negozio che rientri formalmente nello schema della permuta, ma in cui l’interesse concreto sia quello di utilizzare uno dei beni scambiati per misurare il valore economico dell’altro, ossia, in altri termini, i contraenti potrebbero impiegare il bene, in ragione del suo valore di scambio “come se” fosse moneta. A maggior ragione il discorso potrebbe valere nell’ipotesi in cui lo schema contrattuale utilizzato non rientri in quello della permuta, ma possa qualificarsi come contratto innominato permutativo. In definitiva, il risultato concreto che le parti potrebbero voler ottenere utilizzando lo schema della permuta o del contratto permutativo potrebbe essere equivalente a quello realizzabile con la vendita ancorché il contratto posto in essere non preveda la costituzione di un’obbligazione pecuniaria a carico di una delle parti, ma risulti comunque evidente la funzione solutoria di una delle due attribuzioni dedotte in contratto. In virtù delle considerazioni che precedono e della disamina prima effettuata, non pare dunque possibile ritenere che la disciplina interna sia completamente in linea con il sistema comunitario dell’IVA tratteggiato dalle norme della direttiva, così come interpretate dalla Corte di Giustizia. Come s’è visto, un dato, in particolare, pare emergere con certezza. La funzione degli strumenti negoziali utilizzati va sempre valutata in ragione dell’interesse perseguito dalle parti in concreto ed indipendentemente dalla funzione obiettiva economico-sociale che agli stessi è riconosciuta nell’ordinamento interno. Da ciò dovrebbe conseguire l’incompatibilità della normativa interna che introduca aprioristicamente un determinato regime fiscale ai fini IVA in ragione dell’utilizzo di un certo strumento negoziale. In quest’ottica dovrebbe essere valutata la disciplina interna che, indipendentemente da ogni indagine sull’interesse in concreto perseguito dalle parti, prevede, nel caso della permuta, delle operazioni permutative e della datio in solutum l’autonoma assoggettabilità a tassazione di entrambe le cessioni o le prestazioni dedotte in contratto. Nei casi in cui, nella permuta e nelle operazioni permutative e nella datio in solutum, pur in assenza della previsione di un prezzo in denaro, sia possibile interpretare la volontà delle parti nel senso che uno dei beni o delle prestazioni (og-

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getto del contratto o della datio) è assunto, in funzione del suo valore di scambio, come misura del valore dell’altro bene o dell’altra prestazione allora, seguendo il ragionamento della Corte di giustizia, solo una delle due prestazioni dovrebbe essere assoggettata ad IVA. In base a questa logica, laddove nelle operazioni prima richiamate, permuta compresa, una delle due cessioni o prestazioni oggetto del contratto, sia assunta come “controvalore” dell’altra e sia dunque considerata non già per la sua utilità diretta ma in ragione della sua utilità strumentale ovverosia in funzione di “misurare” il valore economico dell’altra prestazione (o cessione), la base imponibile dovrebbe essere costituita non già dal valore di entrambe le cessioni o le prestazioni ma da quella tra le due assunta come “corrispettivo” dell’altra o, comunque, accettata in funzione sostitutiva del “corrispettivo” 53. Una delle due attribuzioni dedotte in contratto o quella oggetto della datio assolverebbe, in altri termini, alla funzione di mezzo di pagamento dell’altra 54- 55. Elemento che, in concorrenza ad altri, potrebbe indurre a ritenere che l’interesse delle parti sia quello appena illustrato, è quello della parità di valore economico tra i beni o le prestazioni, ma anche la previsione contrattuale circa l’ob53 Anche ammettendo che possa ritenersi compatibile con le prescrizioni della direttiva e l’interpretazione della Corte di giustizia la previsione interna secondo la quale nelle fattispecie qui considerate ambedue le prestazioni o le cessioni dedotte in contratto (o comunque la prestazione o la cessione dedotta in contratto e quella oggetto di datio in solutum) debbano essere assoggettate ad imposta, non ci si può esimere dal rilevare che il corrispettivo da assoggettare (eventualmente ad IVA) dovrebbe comunque essere costituito, per ciascun contraente dalla prestazione che riceve dall’altro contraente. 54 Si ricorda in proposito che in base alla normativa interna appartengono alla categoria delle cessioni escluse anche quelle che hanno ad oggetto denaro e l’esclusione si giustifica secondo una parte della dottrina in base ad evidenti motivi di opportunità trattandosi di un bene la cui cessione, a prescindere dalla causa per cui si realizza, postula un trasferimento della titolarità giuridica cfr. in questo senso COMELLI, IVA Comunitaria e IVA nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, pp. 544-545, che richiama LUPI, Diritto tributario, parte speciale, p. 286, nota 30; nello stesso senso DUS, L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 1981, p. 296, secondo il quale le cessioni di denaro sono dichiarate estranee dalla sfera impositiva dell’IVA per evitare la doppia imposizione delle compravendite, potendo ognuna di queste considerarsi una permuta di merce contro denaro. 55 Per uno spunto circa la possibilità di considerare un “bene” quale mezzo di pagamento e includerne il valore al fine di determinare la base imponibile si veda Ris. 21/E 2011 nella quale si afferma che la cessione dei buoni acquisto effettuata dall’emittente a favore dell’azienda cliente non assume rilevanza ai fini dell’IVA ai sensi dell’articolo 2, terzo comma, lettera a), del D.P.R. n. 633 del 1972, in base al quale non sono considerate cessioni di beni, le cessioni che hanno per oggetto denaro o crediti in denaro. In sostanza, in questa fase, la circolazione del documento di legittimazione non integra alcuna cessione di beni o prestazione di servizi ed il relativo pagamento assume carattere di “mera movimentazione di carattere finanziario”. In tema si veda PEIROLO, Buoni sconto e determinazione della base imponibile, in Corr. trib., 2002, p. 419.

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bligo di uno dei contraenti di corrispondere un conguaglio oltre al bene o alla prestazione. In questi casi sorgerebbe anche il problema di qualificare l’operazione stessa eventualmente in funzione dell’una o dell’altra prestazione e/o cessione dedotta originariamente in contratto, o successivamente pattuita. Potrebbe allora risultare utile, tanto per la configurazione della operazione nei termini suesposti, quanto per la sua qualificazione a fini fiscali, fare riferimento agli stessi criteri elaborati relativamente alle operazioni accessorie 56 e, quindi, alla volontà delle parti considerata comunque la finalità complessiva dell’operazione 57. Qualora sia possibile individuare in tal modo l’oggetto “principale” del contratto, è in funzione di questo che dovrà essere qualificata l’operazione come cessione di beni o prestazione di servizi 58. A diverse conclusioni si potrebbe invece giungere nell’ipotesi in cui l’interesse delle parti sia quello di ottenere il bene o la prestazione in ragione della sua utilità 56 Si suole considerare accessoria l’operazione che assume una posizione secondaria rispetto a quella principale nel contesto giuridico in cui si manifesta e che sia a questa collegata da un nesso di condizionalità necessaria, nel senso che l’operazione accessoria, seppur apprezzabile autonomamente, non possa prescindere dall’operazione principale. Il rapporto di accessorietà sorge dal vincolo di subordinazione funzionale dell’una rispetto all’altra, dipendente dalla volontà contrattuale delle parti. In tema CENTORE, Operazioni complesse e operazioni accessorie nel regime di territorialità, nota a Corte di giustizia UE, sez III, sent. 29 marzo 2007, causa C-111/05, in Corr. trib., 2007, p. 1711; ID., I confini dell’accessorietà nelle operazioni IVA, in Corr. trib., 2006, p. 2769, DE RINALDIS, Il principio di accessorietà tra normativa nazionale e giurisprudenza comunitaria, l’IVA, 2001, p. 877. Le disposizioni comunitarie e le norme interne non indicano tuttavia criteri in base ai quali verificare l’esistenza di un tale nesso di accessorietà. Secondo alcuni, la soluzione va trovata non soltanto nella comparazione economica delle due operazioni, ma anche nel risultato complessivo dell’operazione stessa così come configurata dalle parti. LUPI, Diritto tributario, Parte speciale, Milano, III ed., p. 370. In giurisprudenza si segnala 25 febbraio 1999, causa 349/96, ove ai fini dell’individuazione del nesso di accessorietà la corte avverte che, quando l’operazione è costituita da una serie di elementi e di atti occorre valutare le circostanze nelle quali si svolge l’operazione considerata. In pratica la prestazione può considerarsi accessoria alla principale quando essa non costituisce un fine a sé stante ma, piuttosto, il mezzo necessitato per fruire, nelle migliori condizioni della prestazione principale. L’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale sul tema, sebbene non sia direttamente utilizzabile in relazione alle operazioni permutative, può risultare utile per la soluzione dei problemi qui posti. La distinzione tra operazioni accessorie e principali è funzionale, da una parte per la qualificazione dell’operazione come cessione di beni o prestazione di servizi, dall’altra al fine di determinare la base imponibile. 57 Si è osservato che per individuare la prestazione principale, occorre esaminare di volta in volta le caratteristiche del caso concreto, ma il criterio di riferimento sembra essere quello del “bene della vita” cui ha interesse la parte. In questo senso LUPI-GIORGI, op. loc. ult. cit. 58 Il criterio qui indicato dovrebbe valere anche per determinare se si tratti di un’operazione imponibile, esente o fuori campo IVA. D’altro canto il valore della cessione o della prestazione individuata come controprestazione dell’altra dovrebbe considerarsi come parametro per la valorizzazione della base imponibile indipendentemente dalla sua assoggettabilità ad IVA (es. cessione fabbricato contro terreno agricolo – valore terreno agricolo base imponibile).

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diretta. In tal caso avrebbe senso assumere come base imponibile il valore di entrambe le cessioni o le prestazioni prima menzionate in ragione del fatto che l’una costituirebbe corrispettivo dell’altra. Ciò potrebbe accadere nel caso in cui i beni o le prestazioni scambiate abbiano un diverso valore economico. Da tale dato potrebbe infatti trarsi un indizio riguardo la circostanza che l’interesse concreto delle parti sia quello di conseguire reciprocamente l’utilità diretta data dai beni o dalle prestazioni dedotte in contratto, a prescindere dal loro valore economico. È evidente, comunque, che la soluzione del problema fiscale, nell’uno o nell’altro senso, dipenda principalmente da come l’operazione viene configurata, nell’esercizio della propria autonomia negoziale, dai contraenti. In quest’ottica, l’esigenza di seguire i criteri dettati a livello comunitario potrebbe condurre non solo a condizionare l’esercizio dell’autonomia negoziale, ma anche a stravolgere gli schemi in base ai quali la stessa si esplica, appiattendo la permuta e i contratti innominati permutativi sul modello della vendita e svalutando, in tal modo, i differenti elementi causali.

RILEVANZA DELLE OPERAZIONI GRATUITE NELL’AMBITO DELL’IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO E SPUNTI RICOSTRUTTIVI IN TEMA DI CONSUMO

di Barbara Denora SOMMARIO: 1. Gratuità ed onerosità nel diritto civile: la nuova prospettiva che individua nella gratuità uno strumento potenzialmente idoneo alla realizzazione di interessi onerosi. – 2. Gratuità ed onerosità nel diritto europeo: la svalutazione delle categorie civilistiche e la prevalenza delle nozioni di “scambio” e “vantaggio”. – 3. Il presupposto oggettivo dell’IVA e la rilevanza delle operazioni “onerose” nella prospettiva che definisce l’IVA quale imposta volta a colpire la “spesa” del consumatore finale. – 3.1. Il corrispettivo quale unico parametro di determinazione della base imponibile. – 3.2. L’utilizzo del valore normale come strumento antielusivo: l’irrilevanza del corrispettivo nelle ipotesi caratterizzate dalla presenza di limiti al diritto di detrazione. – 4. Il presupposto oggettivo dell’IVA e la rilevanza delle operazioni “senza corrispettivo” giustificata da ragioni di “cautela fiscale”. – 4.1. Le operazioni imponibili tra gratuità ed onerosità. In particolare, il problema delle operazioni effettuate a fronte del rimborso delle spese. – 4.2. Le operazioni imponibili tra gratuità ed onerosità. In particolare, il problema della rilevanza della rinuncia al corrispettivo quale vicenda sopravvenuta che incide sulla natura dell’operazione. – 5. Considerazioni conclusive.

1. Gratuità ed onerosità nel diritto civile: la nuova prospettiva che individua nella gratuità uno strumento potenzialmente idoneo alla realizzazione di interessi onerosi La dottrina tradizionale che, nel settore del diritto civile, si è occupata delle nozioni di onerosità e gratuità tiene a precisare che trattasi di fenomeni antitetici “in quanto assumono a proprio fondamento la presenza o l’assenza di un corrispettivo, cioè di una contropartita economicamente apprezzabile a compenso del sacrificio che fa ciascuna delle parti contraenti nell’addivenire al contratto” 1. 1

V. R. CASULLI, Donazione (dir. civ.), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 967.

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Al di là di questa primissima considerazione, il tema è di particolare complessità 2 al punto che in questa sede è possibile svolgere solo alcune limitate ed essenziali osservazioni. Innanzitutto, è stato rilevato che “la contrapposizione tra atti a titolo oneroso e gratuito interessa un ambito di negozi alquanto più vasto di quello cui attiene la contrapposizione tra contratti con prestazioni corrispettive e contratti con prestazioni non corrispettive” 3. Nel diritto comune è infatti riconosciuta la differente valenza concettuale delle nozioni di “onerosità” e “corrispettività”: il contratto a prestazioni corrispettive, da un lato, richiederebbe la tendenziale equivalenza tra vantaggi e sacrifici reciproci. Dall’altro, assolverebbe ad una funzione di scambio in quanto l’una prestazione sarebbe in funzione dell’altra ed il vizio o difetto che colpisce l’una inciderebbe necessariamente sull’altra. Si farebbe riferimento anche alla nozione di sinallagma o contratto sinallagmatico per sottolineare il nesso di interdipendenza fra obbligazioni reciproche o la connessione di due situazioni giuridiche 4. In real2 Per F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, p. 833, la distinzione si coglie sul piano dei sacrifici che si ricavano dalla contrattazione in quanto nel contratto a titolo gratuito il sacrificio è sopportato solo da un contraente a vantaggio dell’altro. Ciò nonostante, l’Autore avverte che il contratto a titolo gratuito non è “privo di utilità per chi sopporta il sacrificio. Esso, al contrario, è sorretto da un interesse economico che non si esprime però e non consegue ad una prestazione dell’altro contraente”. Secondo A. CHECCHINI, L’interesse a donare, in Riv. dir. civ., I, 1976, p. 277, è individuabile un contratto a titolo oneroso “non ogni qual volta siano previsti sacrifici economici reciproci a carico delle parti, ma quando l’interesse contrattuale delle stesse, quale appare socialmente apprezzabile nell’intenzione comune di cui parla l’art. 1362 ss., risulti essenzialmente soddisfatto da siffatta previsione, in quanto ciascun sacrificio (economicamente apprezzabile) risulti direttamente compensato da un sacrificio corrispondente”. 3 Così A. CATAUDELLA, Bilateralità, corrispettività ed onerosità nel contratto, in Scritti sui contratti, Padova, 1998, p. 39, il quale sottolinea come la nozione di onerosità sia estremamente ampia e debba essere tenuta distinta da quella di corrispettività in quanto quest’ultima ha “riguardo esclusivo ai contratti, mentre il problema dell’onerosità o gratuità interessa certamente anche i negozi unilaterali e gli stessi atti giuridici: emerge, ad es., nella promessa al pubblico, nella negotiorum gestio, nella mediazione. Secondo taluno interessa anche meri fatti giuridici, quali la datio, implantatio, inaedificatio”. Sul tema si veda altresì G. BISCONTINI, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti. Il problema della donazione mista, Napoli, 1984, p. 12 ss. 4 La posizione tradizionale che individua l’equivalenza tra vantaggi e sacrifici come caratteristica specifica dei contratti a prestazioni corrispettive è stata oggetto di critica perché derivante dal principio espresso dall’art. 1101 del Codice abrogato, il quale disponeva che “è a titolo oneroso quel contratto nel quale ciascuno dei contraenti intende, mediante equivalente, procurarsi un vantaggio”. Non è possibile esaminare in questa sede, esulando dal tema in oggetto, l’annoso problema della eventuale mancanza di equivalenza delle reciproche prestazioni. Si può tuttavia sottolineare che lo squilibrio delle prestazioni reciproche giuridicamente rileva se e nella misura in cui sia indice di una diversa ed ulteriore anomalia del contratto, attenendo alla eventuale diversa configurazione della causa negoziale e/o alla stessa esistenza del prezzo (si pensi alla c.d. vendita nummo uno che pone rilevanti problematiche ma in relazione alla quale V.R. CASULLI, op. cit., p. 967, spe-

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tà, è stato osservato come “quello che caratterizza positivamente i contratti con prestazioni corrispettive, cioè l’interdipendenza delle prestazioni, la quale fa sì che l’una trovi la sua causa nell’altra, non può valere a caratterizzare gli atti a titolo oneroso, per la ragione che (…) tale categoria abbraccia anche fattispecie non contrattuali, nelle quali, per l’assenza di una controparte, non è configurabile lo scambio tra prestazioni, che assurga a funzione dell’atto o del negozio unilaterale” 5. Dunque, si può ragionevolmente affermare che tutti i negozi a prestazioni corrispettive sono necessariamente anche a titolo oneroso mentre non è vero il contrario, dato che il negozio a titolo oneroso può anche non essere a prestazioni corrispettive 6. In altri termini, la corrispettività si colloca in rapporto di species a genus rispetto al più ampio concetto di onerosità e, in particolare, sarebbe riferibile ai contratti di scambio, indicando un nesso fra contrapposte prestazioni che si trovano in un rapporto di reciproca causalità. Peraltro, i due concetti risponderebbero ad esigenze diverse: la corrispettività atterrebbe alla struttura del singolo rapporto giuridico scaturente dall’atto, mentre l’onerosità individuerebbe gli effetti prodotti nell’ambito del complessivo regolamento di interessi tra i soggetti al di là del singolo atto giuridico 7. Nell’ambito della ricostruzione tradizionale, infine, la gratuità è considerata categoria “residuale” in quanto è espressione della mancanza di onerosità, corrispettività, equivalenza e proporzione tra prestazioni: l’atto a titolo gratuito è caratterizzato dalla presenza di una prestazione unica ed a carico di una sola parte 8. Altrettanto netta sembrerebbe essere la distinzione tra gratuità e liberalità. Il negozio gratuito non donativo deve essere tenuto distinto dalla donazione perché, oltre all’assenza dello spirito di liberalità (animus donandi), manca dei caratcifica come “la vendita di merce per un prezzo inferiore al costo o al suo valore effettivo è sempre atto oneroso e non gratuito”). Ulteriore problema del quale non è possibile dare conto in questa sede riguarda la possibilità o meno di ricostruire in termini di corrispettività quei contratti che non sono “di scambio” come, ad esempio, i contratti associativi o aleatori. Alcuni autori ritengono che la corrispettività si manifesterebbe, nei contratti di scambio, come equivalenza tra vantaggi e sacrifici di carattere patrimoniale assunti reciprocamente dalle parti ovvero, nei contratti associativi, come proporzionalità tra apporto e quota di utili e perdite. In particolare, nei contratti associativi, laddove lo scambio non si realizza in quanto le reciproche prestazioni rispondono ad uno scopo comune, sussisterebbe la reciproca condivisione del sacrificio (o del rischio) e del vantaggio. In questi termini si esprime V.R. CASULLI, op. cit., p. 967. 5 Cfr. A. CATAUDELLA, Bilateralità, corrispettività ed onerosità nel contratto, cit., p. 41. 6 Il contratto a titolo oneroso “non è necessariamente a prestazioni corrispettive, non è, cioè, sempre basato sul sinallagma, con tutto ciò che ne consegue in termini di vizio per squilibrio tra le prestazioni”. Cfr. F. GAZZONI, op. cit., p. 833. 7 M. SANDULLI, Le nozioni giuridiche di onerosità e gratuità, in Banca, borsa e tit. cred., 1973, I, p. 339. 8 Cfr. P. MOROZZO DELLA ROCCA, Negozi a titolo gratuito, in Enc. giur., Roma, 2002, p. 3; ID., Gratuità, liberalità e solidarietà, Milano, 1998, passim.

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teri essenziali propri di quest’ultima e cioè: i) dell’“arricchimento” del beneficiario, inteso come attribuzione di carattere economico 9; ii) del “depauperamento” di chi pone in essere la prestazione gratuita in quanto costui subirebbe, al più, un sacrificio economico che non si traduce in una perdita patrimoniale 10. In altri termini, negli atti a titolo gratuito mancherebbe l’impoverimento del “disponente”, che non si priverebbe di una “posta attiva” nell’ambito dei suoi diritti patrimoniali e, correlativamente, l’arricchimento del “beneficiario” che, eventualmente, potrebbe usufruire di un “risparmio” nell’ipotesi in cui avesse deciso ex ante di affrontare la spesa o questa si rendesse comunque necessitata 11. Tuttavia, è raro che nella prassi si verifichino ipotesi di “gratuità pura” mentre frequentemente il negozio gratuito non donativo subisce rilevanti modificazioni sotto il profilo degli effetti giuridici allorché sia apposto un elemento accidentale (condizione, termine, modus) il cui contenuto condiziona la stessa efficacia, in termini di soddisfazione degli interessi sostanziali, dell’esecuzione della prestazione tipica. La dottrina più recente ha quindi analizzato le differenze tra liberalità e gratuità dando maggior risalto all’intento di chi effettua l’attribuzione ed in questa prospettiva, l’assetto negoziale preso in considerazione, nonostante l’assenza del vincolo di sinallagmaticità e del carattere della corrispettività, avrebbe 9 Ma l’accertamento andrebbe effettuato caso per caso in quanto un negozio gratuito può “assurgere a donazione indiretta quando l’attribuzione ecceda il mero favore che contraddistingue il negozio gratuito. Il comodato della casa di villeggiatura per una sola stagione è contratto a titolo gratuito non donativo, ma il comodato per tutte le stagioni estive della vita del donante, che in pratica non l’ha mai usato, lasciandolo in pieno godimento al «comodatario», è donazione indiretta. Si riscontra nel primo caso la gratuità, nel secondo caso la liberalità donativa”. A. PALAZZO, Gratuità e attuazione degli interessi, in A. PALAZZO-S. MAZZARESE (a cura di), I contratti gratuiti, in P. RESCIGNO-E. GABRIELLI (diretto da), Trattato dei contratti, Torino, 2008, p. 25. 10 Gli atti gratuiti non liberali infatti non inciderebbero sul patrimonio di chi li pone in essere diminuendone la consistenza “perché o si riferiscono, come nel comodato e nel mutuo infruttifero, all’uso di una cosa o di una somma di denaro, che nella sostanza e nel suo ammontare non subisce alterazioni, o si riferiscono ad una prestazione d’opera (…) o si riferiscono a garanzie accordate a un debitore (…), ipotesi nelle quali non vi è affatto diminuzione di patrimonio stante l’azione di rivalsa accordata dalla legge contro il debitore, ma eventualmente un danno provocato dalla sua insolvenza”. R. CASULLI, op. cit., p. 969. 11 Ciò nonostante, sul piano degli effetti, la sussistenza dell’arricchimento inteso come “risultato” del negozio – e non come “volontà di arricchire” – non può essere esclusa a priori. Vale a dire che in relazione agli atti a titolo gratuito potrebbe sempre verificarsi, sul piano economico, un risparmio di spesa e, quindi, un vantaggio, che può concretamente rappresentare un arricchimento allorché la spesa sia necessitata o già preventivata. Cfr. A. CHECCHINI, L’interesse a donare, cit., p. 314, che si pone il problema della rilevanza del profilo dell’arricchimento nell’ambito degli assetti liberali ma non manca di evidenziare come dovrebbe essere altresì rivalutato il ruolo dell’impoverimento del soggetto che effettua la liberalità e che andrebbe inteso “non nel senso di «sacrificio comunque sostenuto» ma come «modifica giuridica pregiudizievole» del patrimonio del disponente causata o dalla perdita di una «posta attiva» (diritto di natura economica) o dall’acquisto di una «posta passiva» (obbligazione)”.

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mostrato di volta in volta i caratteri della onerosità (con riguardo alla causa dell’attribuzione) o della bilateralità (seppure imperfetta, allorché sia previsto il rimborso delle spese alla parte che effettua la prestazione a titolo gratuito). In altri termini, non sarebbe stata ancora individuata l’esatta portata del modello dell’attribuzione negoziale gratuita quale mezzo per realizzare interessi corrispettivi, mentre la casistica “offre una serie di ipotesi di gratuità, ove gli strumenti che la caratterizzano sono figure negoziali idonee a soddisfare sia esigenze di corrispettività immediata che di gratuità strumentale ad uno scambio di interessi, la cui corrispettività è indiretta” 12. In conclusione, è stato evidenziato che “la regola di favore del debitore ha un senso esclusivamente se il contratto è liberale. La presenza di un interesse economico nel disponente a titolo gratuito è sufficiente per assoggettare l’atto al regime di responsabilità previsto per l’atto a titolo oneroso, con esclusione di ogni attenuazione di essa” 13. In considerazione delle rilevanti problematiche interpretative che le teorie tradizionali non sembrano idonee a fugare, la più recente dottrina ha tentato una individuazione “in positivo” dell’atto a titolo gratuito, definito come manifestazione di un interesse meritevole e degno di protezione in quanto non suscettibile di valutazione economica di mercato. Detta ricostruzione implica la necessità di verificare, caso per caso, il corretto inquadramento del regolamento negoziale in quanto la mancata previsione contrattuale di un corrispettivo non è indice di per sé sufficiente ed idoneo per la qualificazione del regolamento come “gratuito”. 12 In questa prospettiva, una prestazione “strutturalmente” gratuita potrebbe rilevare in termini di onerosità in quanto “funzionalmente” corrispettiva. A. PALAZZO, op. cit., p. 21. Per un approfondimento sul tema di si veda altresì ID., Negozi indiretti di scambio e gratuità strumentale, in Atti gratuiti e donazioni, in R. SACCO (diretto da), Trattato di diritto civile, Torino, 2000, p. 75 ss., nonché, in relazione alla teoria della c.d. operazione economica complessa, E. GABRIELLI, Contratto e operazione economica, in Dig. disc. priv., Agg., 2011, p. 243; ID., L’operazione economica nella teoria del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, I, p. 905; ID., Il contratto e l’operazione economica, in Riv. dir. civ., 2003, I, p. 93. Sul collegamento negoziale, cfr. anche O.T. SCOZZAFAVA, La qualificazione di onerosità e gratuità del titolo, in Riv. dir. civ., 1980, I, p. 68. 13 A. GIANOLA, Atti gratuiti non liberali, in Dig. disc. priv., Agg., Torino, 2010, p. 45, sottolinea come solo di recente si sia data maggiore rilevanza alle finalità perseguite dal disponente al fine di distinguere l’atto gratuito dalla donazione, mentre “fino a non molto tempo fa il pensiero prevalente sosteneva che ogni attribuzione patrimoniale priva di corrispettivo e non dovuta, avente ad oggetto una prestazione di dare, costituiva donazione”. L’Autore sottolinea che “generosità e gratuità non coincidono. I fini perseguiti da colui che si obbliga o esegue una prestazione senza alcuna contropartita possono essere assai diversi”. In questa prospettiva, “tra i due estremi della donazione totalmente spontanea e dettata dal puro altruismo e del contratto di scambio tra prestazioni aventi contenuto patrimoniale, scambio voluto, programmato e condiviso da entrambe le parti, esistono svariate ipotesi intermedie in cui, sebbene latiti qualsivoglia contropartita, la generosità è soppiantata da moventi diversi” e, pertanto, “onerosità non coincide più con corrispettività. Un contratto rigorosamente unilaterale sia dal punto di vista dell’obbligazione che da quello dell’attribuzione può rivelarsi oneroso in presenza di un motivo capace di reagire, permeandola di sé, sulla causa dell’atto”.

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2. Gratuità ed onerosità nel diritto europeo: la svalutazione delle categorie civilistiche e la prevalenza delle nozioni di “scambio” e “vantaggio” Nonostante l’importanza che l’individuazione delle nozioni di onerosità e gratuità riveste nel contesto nazionale, dette questioni sembrano sostanzialmente trascurate in ambito europeo in quanto la Corte di Giustizia, allorché è chiamata a delinearne i confini ed a circoscriverne il contenuto, interviene di volta in volta al fine precipuo di evitare l’equivoco che l’assenza di una controprestazione impedisca l’applicazione di una determinata normativa europea. È stato così osservato che il diritto europeo non definisce in modo univoco i concetti di “onerosità” e “gratuità”, mentre predilige nozioni quali “scambio” e “vantaggio”. Nella prospettiva europea, infatti, è necessario valutare, indipendentemente dalla presenza o meno di un corrispettivo, se le eventuali posizioni di vantaggio acquisite dai soggetti coinvolti in una determinata operazione economica possano o meno falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune. In particolare, per l’ordinamento europeo rileverebbe, indipendentemente dalla tecnica giuridica utilizzata: i) lo scambio di utilità che si realizza nell’ambito di un determinato rapporto giuridico; ii) la mancanza di scambio, allorché sia comunque individuabile un vantaggio patrimoniale a favore di uno solo dei soggetti coinvolti nell’operazione idoneo a realizzare un’ingiustificata posizione concorrenziale di un’impresa rispetto alle altre 14. Di conseguenza, i parametri offerti dal diritto civile nazionale ed il tradizionale modello dei negozi onerosi, bilaterali ed a titolo corrispettivo non sembrano idonei a cogliere una realtà giuridica sovranazionale che si presenta evidentemente più complessa 15. Le suesposte conclusioni valgono anche ai fini IVA, in quanto è stato correttamente osservato che l’imposta in esame esprime l’idea di fondo “per cui la migliore neutralità dell’imposta si ottiene soltanto trattando e qualificando allo stesso modo operazioni che sono equivalenti sotto l’aspetto del risultato economico persegui14

R. CIPPITANI, Onerosità e corrispettività: dal diritto nazionale al diritto comunitario, in Europa e dir. priv., 2009, p. 522, rileva che gli ordinamenti nazionali “inducono a ritenere che chi dispone di un bene o svolge un’attività senza un corrispettivo, debba essere tenuto a obblighi meno intensi di chi, invece, percepisce un prezzo. Questo minore rigore è giustificato dalla logica patrimonialistica, ma rischia di contrastare con il raggiungimento degli obiettivi del diritto comunitario”. Secondo l’Autore per il diritto europeo rileverebbe esclusivamente lo scambio (in particolare, per la normativa IVA e sui contratti pubblici) ovvero la mancanza di scambio (ed il conseguente vantaggio patrimoniale dei soggetti coinvolti), realizzabile indipendentemente dalla presenza di corrispettività (in relazione alla tutela della concorrenza ed all’applicazione della disciplina sugli aiuti di Stato). 15 R. CIPPITANI, op. cit., p. 547, osserva che “il diritto comunitario sembra liberare i rapporti giuridici dalla stretta alternativa tra onerosità e gratuità, corrispettività e non corrispettività, che caratterizzano il paradigma tradizionale (…). La coppia onerosità-gratuità non riesce più a spiegare e a comprendere tutti i problemi giuridici legati ai rapporti di diritto privato nel nuovo contesto”.

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to”, a prescindere dalla qualificazione giuridica, più o meno rigorosa, delle operazioni imponibili 16. Secondo il consolidato orientamento europeo 17, l’IVA sarebbe un’imposta sul consumo, destinata a gravare sui soggetti che acquistano beni o servizi in qualità di “consumatori finali” e cioè al di fuori dell’esercizio di imprese, arti e professioni di modo che il principio di neutralità rileverebbe quale caratteristica intrinseca del tributo. L’art. 1 della Direttiva del Consiglio del 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, stabilisce inequivocabilmente che “il principio del sistema comune d’IVA consiste nell’applicare ai beni ed ai servizi un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi, qualunque sia il numero delle operazioni intervenute nel processo di produzione e di distribuzione antecedente alla fase d’imposizione. A ciascuna operazione, l’IVA, calcolata sul prezzo del bene o del servizio all’aliquota applicabile al bene o servizio in questione, è esigibile previa detrazione dell’ammontare dell’imposta che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del prezzo”. Come ripetutamente affermato dalla Corte di Giustizia, la base imponibile è data dal corrispettivo realmente ricevuto di modo che il singolo Stato membro non può esigere a titolo di IVA un importo superiore o diverso da quello concretamente percepito dal soggetto attivo dell’operazione 18. I giudici europei hanno infatti sempre sostenuto che la base imponibile della cessione di un bene o della prestazione di un servizio effettuata a titolo oneroso è costituita da tutto ciò che viene effettivamente ricevuto a tal fine dal soggetto attivo dell’operazione come corrispettivo del servizio o bene fornito e che questo costituisce un valore soggettivo al punto che i provvedimenti nazionali che, al fine di prevenire frodi o evasioni fiscali, tendono ad individuare un valore stimato secondo criteri oggettivi non possono derogare, in linea di principio, al rispetto della base imponibile IVA 16 In questo senso, P. FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, in Dir. prat. trib., 2009, I, p. 1201, che evidenzia come la nozione ai fini IVA di cessione di beni sia autonoma rispetto a quella propria del diritto civile nazionale al punto che anche l’atto espropriativo integra la fattispecie normativa. 17 Emergente dall’analisi delle direttive e successivamente recepito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Sul tema si vedano F. GALLO, Profili di una teoria dell’imposta sul valore aggiunto, Roma, 1974, p. 17; A. BERLIRI, L’imposta sul valore aggiunto, Milano, 1971, p. 85; G.A. MICHELI, L’IVA: dalle direttive comunitarie al decreto delegato. Considerazioni di un giurista, in Opere minori di diritto tributario, II, Teoria generale e sistema impositivo, 1982, p. 417 (già in Riv. dir. fin., 1973, I, p. 431); A. COMELLI, IVA comunitaria e IVA nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, 653. 18 Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 26 gennaio 2012, causa C-588/10, punto 27, in Riv. dir. trib., 2012, IV, p. 43, con nota di L. STRIANESE, Debita riduzione dell’imponibile tra potere discrezionale interno, principio di neutralità dell’IVA e principio di proporzionalità; sentenza del 3 luglio 1997, causa C-330/95, punto 15, in Riv. dir. trib., 1997, IV, p. 796, con nota di P. PISTONE, Il processo di armonizzazione in materia di IVA ed i limiti alla derogabilità della normativa comunitaria.

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se non nei limiti strettamente necessari per raggiungere tale specifico obiettivo 19. Ciò nonostante, il tributo trova applicazione anche in caso di destinazione a finalità estranea all’esercizio dell’attività o di autoconsumo del bene o del servizio, ovvero di operazione derivante da atto a titolo gratuito e l’imponibilità di dette operazioni è esclusa solo allorché non sia stato esercitato il diritto di detrazione a monte. D’altro canto, nella dinamica del tributo in esame si deve tener conto che il principio di neutralità non opera in riferimento alle operazioni che non danno diritto alla detrazione. La dottrina ha osservato come “la definitiva acquisizione per l’erario dell’Iva gravante sull’operazione” si verifichi proprio a seguito dell’indetraibilità che, per ragioni oggettive o soggettive, caratterizza le fattispecie ed ha rilevato come “il legislatore, per conseguire lo stesso effetto – la definitività dell’acquisizione del prelievo tributario in relazione ad una determinata fattispecie – si sia avvalso di due strumenti” 20. Dunque, dal quadro normativo sopra brevemente richiamato, emerge che l’applicabilità del tributo non sempre presuppone l’onerosità dell’operazione, al punto che è stato efficacemente rilevato come “la destinazione del bene o del servizio al consumo è definita solo per contrapposizione alla destinazione del bene e del 19

Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 16 ottobre 1997, causa C-285/95, punto 13; sentenza del 29 marzo 2001, causa C-404/99, punto 38; sentenza del 20 gennaio 2005, causa C-412/03, punto 21, in Riv. dir. trib., 2005, IV, p. 242, con nota di R. ALFANO, Brevi considerazioni in tema di consumo e analogia. 20 La neutralità è esclusa in relazione sia alle operazioni effettuate nei confronti dei consumatori finali, oggettivamente inidonee a far sorgere il diritto di detrazione, sia alle operazioni esenti, in riferimento alle quali, per circostanze di carattere soggettivo, tale diritto non spetta. Cfr. L. SALVINI, Rivalsa, detrazione e capacità contributiva nell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1993, I, p. 1299, secondo la quale (p. 1327) la definitività del prelievo nei confronti di un determinato soggetto si attua attraverso la negazione del diritto – obbligo di rivalsa ovvero del diritto di detrazione in quanto il meccanismo è volto a gravare “dell’imposta chi immette il bene al consumo senza potersi giuridicamente rivalere” ed in caso di operazioni esenti “l’esenzione consente di traslare – se l’operazione è svolta nei confronti di un consumatore finale – un quid minore dell’imposta teoricamente gravante sull’operazione in assenza di esenzione, commisurato all’ammontare dell’IVA indetraibile per il soggetto che effettua l’operazione esente”. Sulla detrazione nell’IVA, in generale, si veda M. GIORGI, Detrazione e soggettività passiva nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005, p. 32 ss.; E. FAZZINI, Il diritto di detrazione nel tributo sul valore aggiunto, Padova, 2000, passim. In questa prospettiva si veda altresì A. FANTOZZI, Presupposto e soggetti passivi dell’Imposta sul valore aggiunto, in Dir. prat. trib., I, 1972, p. 729, il quale, ai fini generali, osserva che “a meno di estendere a questi soggetti la definizione di consumatori finali, deve ammettersi che in questi casi si ha una non lieve limitazione al principio secondo cui l’IVA opera come imposta al consumo”. L’Autore correttamente evidenzia “la possibilità non meramente teorica che si abbia un definitivo prelievo di ricchezza prima della cessione dal dettagliante al consumatore: quest’ultima possibilità si verifica in tutti i casi in cui, per le limitazioni al diritto alla deduzione, l’IVA pagata a monte diviene elemento di costo per l’impresa, ovvero nei casi in cui pur essendo obbligatoria la rivalsa dell’IVA tra soggetti d’imposta, questa viene economicamente vanificata dalle obiettive condizioni di mercato”.

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servizio ad un’attività di impresa o artistico-professionale; altrimenti detto, in base allo schema dell’imposta di consumo, sono consumatori tutti quelli che acquistano beni e servizi al di fuori dell’esercizio dell’impresa, talché l’idoneità dell’operazione a realizzare un interesse «finale» (ovvero ciò che costituisce «consumo») è giuridicamente individuata solo indirettamente, ossia attraverso l’esclusione della definitiva applicazione del tributo (per effetto del meccanismo della detrazione) sugli acquisti inerenti l’attività economica e, come tali, rivolti alla soddisfazione di interessi meramente «strumentali»” 21. La successiva ricerca è volta ad individuare la giustificazione dell’imponibilità delle operazioni “senza corrispettivo”, ai fini della conferma o, viceversa, della confutazione della tesi tradizionale in base alla quale l’imponibilità delle predette fattispecie dovrebbe essere considerata eccezionale ed ispirata a ragioni di cautela fiscale, non rispondendo alla ratio di un tributo volto a colpire il “consumatore finale” 22. 21

G. FRANSONI, Spunti sulla nozione di «consumo» di beni e servizi nell’IVA con particolare riferimento alle operazioni internazionali, in Riv. dir. trib., 2004, II, p. 543. 22 Secondo la visione europea, l’IVA è un’imposta sul consumo. Di conseguenza, soggetto passivo del tributo sarebbe il consumatore finale e la rivalsa sarebbe preordinata a porre l’imposta a carico del consumatore, assumendo un’indubbia rilevanza fiscale. Ciò nonostante si è ben consapevoli delle diverse ricostruzioni del presupposto impositivo formulate dalla dottrina. Alcuni Autori riconoscono la soggettività passiva del tributo agli imprenditori, artisti o professionisti cui si riferiscono le singole operazioni o l’attività economica nel suo complesso e configurano la neutralità dell’imposta come “agevolazione” per gli operatori economici. In tema si veda M. INGROSSO, Il credito d’imposta, Milano, 1984, p. 92. È stato peraltro osservato che l’IVA sarebbe un’imposta “afferente i consumi, ma non come un’imposta di consumo” in quanto solo “lo scopo ultimo, tecnico finanziario, dell’IVA è quello di colpire la spesa del consumatore finale del bene o del servizio” mentre l’imposta sarebbe attuata tramite un meccanismo giuridico che “tende a colpire il volume di affari del singolo operatore economico, cioè un’entità economica differente dal consumo, e cioè il c.d. giro d’affari, ragguagliato ad un dato periodo di tempo”. G.A. MICHELI, op. cit., p. 425. L’IVA è stata infatti ricostruita come imposta sulle singole operazioni imponibili (cfr. M. INGROSSO, Le operazioni imponibili ai fini dell’IVA, in Dir. prat. trib., 1973, I, p. 448; R. PERRONE CAPANO, L’imposta sul valore aggiunto, Napoli, 1977, p. 437; F. BOSELLO, Appunti sulla struttura giuridica dell’IVA, in Riv. dir. fin., 1978, I, p. 420; S. SAMMARTINO, Profilo soggettivo del presupposto dell’IVA, Milano, 1979, p. 19) o, comunque, gravante sui risultati dell’attività economica esercitata (in questa prospettiva, si veda A. FANTOZZI, Presupposto e soggetti passivi …, cit., p. 725, nonché F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, p. 196). Secondo A. AMATUCCI, Struttura ed effetti della fattispecie contenuta nelle norme istitutive dell’IVA, in Riv. dir. fin., 1976, I, p. 592, la manifestazione di capacità contributiva colpita dall’IVA andrebbe riferita all’intero ciclo delle operazioni e a tutti i soggetti passivi, nella misura in cui essi hanno contribuito alla formazione del valore aggiunto complessivo, mentre il consumatore finale subirebbe solo una traslazione economica giuridicamente irrilevante. Per R. LUPI, Imposta sul valore aggiunto (IVA), in Enc. giur., Roma, XVI, 1989, p. 5, il fatto indice di capacità contributiva preso a base nell’IVA dovrebbe essere riferito ad entrambi i soggetti coinvolti nell’operazione e consisterebbe nello scambio di beni e servizi oggettivamente considerato, riducendo la detrazione a strumento

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Ai fini che rilevano in questa sede, non è superfluo aggiungere che l’indagine appare sicuramente più interessante alla luce della nuova prospettiva evidenziata dalla più recente dottrina civilistica, la quale tende a “ridimensionare” l’ambito della gratuità, ponendo l’accento sulla idoneità delle operazioni gratuite a realizzare assetti onerosi, sebbene in via strumentale ed indiretta. In questa prospettiva, lo “scambio” di utilità, quanto meno in senso economico, sembra realizzabile anche attraverso strumenti diversi dal contratto a prestazioni corrispettive ed emergere dall’operazione considerata nel suo complesso. Questa conclusione determina specifiche conseguenze nell’ambito dell’IVA che, come noto, considera gli assetti onerosi in generale e non solo quelli corrispettivi.

3. Il presupposto oggettivo dell’IVA e la rilevanza delle operazioni “onerose” nella prospettiva che definisce l’IVA quale imposta volta a colpire la “spesa” del consumatore finale In via di principio e come già anticipato, nella prospettiva del diritto europeo la distinzione tra assetti onerosi e gratuiti sembrerebbe alquanto sfumata e, ad ogni modo, la questione perderebbe centralità in funzione delle esigenze di volta in volta tutelate dalla singola normativa europea di riferimento. Ciò nonostante è necessario tentare di offrire una soluzione ai quesiti posti e cioè se il legislatore europeo abbia voluto ricomprendere nell’ambito applicativo del tributo in esame le operazioni rese nel contesto di un assetto “corrispettivo” ovvero, più genericamente, “oneroso”. Occorre poi chiarire se l’onerosità possa essere considerata condizione necessaria, o quanto meno sufficiente, per la rilevanza di una determinata operazione ai fini del tributo in esame. Appare quindi proficua un’indagine che parta dalla ratio del tributo e, sotto questo profilo, l’IVA rappresenta, innanzitutto, dal punto di vista degli effetti economici nonché nella visione europea – che, per l’appunto, valorizza i risultati economici delle singole operazioni trascurando a volte il corretto inquadramento giuridico delle stesse secondo le categorie del diritto civile nazionale – un’imposta sul consumo i cui caratteri peculiari sono la generalità e la neutralità. Ai fini della individuazione delle operazioni rientranti nel campo applicativo dell’IVA occorre richiamare i principi generali di cui al D.P.R. n. 633 del 26 ottobre 1972 tecnico per detassare a posteriori gli scambi intermedi, cioè non rivolti al consumo finale. In questa prospettiva, infatti, “la giustificazione dell’imposta in termini costituzionali potrebbe essere ravvisata (…) nell’operazione imponibile intesa come obiettivo atto di scambio (…). Il meccanismo di applicazione dell’IVA costituisce uno tra i possibili criteri per realizzare un’imposta costituzionalmente giustificata dal fatto obiettivo dello scambio, ma eliminando effetti cumulativi dell’applicazione del tributo nei passaggi intermedi tra produttori e distributori”.

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per cui, in sostanza, assume rilievo qualsiasi fatto, negozio o attività posto in essere purché sussistano contemporaneamente i tre requisiti previsti dall’art. 1 e, cioè, i presupposti territoriale, soggettivo ed oggettivo. Il presupposto oggettivo è, di norma, integrato allorché le cessioni di beni o le prestazioni di servizi siano effettuate “a titolo oneroso” o, come specifica il legislatore nazionale per le prestazioni di servizi, “verso corrispettivo”. L’art. 2, comma 1, della Direttiva del Consiglio n. 2006/112/CE, analogamente al previgente art. 2 della Sesta Direttiva del Consiglio n. 77/388/CE del 17 maggio 1977, stabilisce inequivocabilmente che le operazioni rilevanti ai fini IVA sono esclusivamente quelle effettuate “a titolo oneroso”. Passando alla normativa nazionale, ai sensi dell’art. 2 del D.P.R. n. 633/1972, “costituiscono cessioni di beni gli atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere” mentre, secondo quanto previsto dall’art. 3 del decreto, “costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte”. La normativa europea non individua in modo univoco il concetto di “onerosi23 tà” che presiede all’applicabilità del tributo in esame, ma la Corte di Giustizia, ai fini dell’integrazione del presupposto oggettivo, assegna un rilievo decisivo al c.d. “nesso diretto” che deve intercorrere tra prestazione e controprestazione, richiamando così apparentemente il concetto di corrispettività proprio del diritto comune. Tuttavia, si considera sufficiente la sussistenza di una controprestazione economicamente valutabile, anche se non dipendente necessariamente da un contratto a prestazioni corrispettive. L’operazione si considera a titolo oneroso ogni qualvolta alla cessione di beni o alla prestazione di servizi si ricolleghi, sul piano causale, una controprestazione, in denaro o in natura, apprezzabile in termini economici 24. 23

Nella versione inglese è utilizzato il termine “for consideration”. E, quindi, è necessaria una correlazione causale (anche non sinallagmatica) tra l’operazione resa e la controprestazione economica ricevuta. Sul punto si veda P. FILIPPI, Le cessioni di beni nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 1984, p. 79, secondo la quale, in ambito IVA, “sembra essersi accolta fiscalmente una concezione più complessa e sfumata di onerosità senza eccessive preoccupazioni dogmatiche (...) dall’esame degli artt. 2, 3, 6, 13 del decreto sembra evincersi che, ai fini dell’applicazione del tributo, sia voluto dare rilievo, indipendentemente dalla terminologia adoperata, a quella categoria di atti in cui ciascuna parte riceve una prestazione che si trova in un certo rapporto con quella che essa adempie, in antitesi a quella in cui non vi è controprestazione. E ciò trova conferma nella relazione ministeriale al decreto delegato nella quale ci si riferisce a norme particolari che vengono (...) previste per la determinazione della base imponibile relativa ad alcune operazioni per le quali non esiste una controprestazione (come, ad esempio, in caso di autoconsumo esterno, di cessioni gratuite o di prestiti di consumo) o nelle quali la controprestazione consiste, totalmente o parzialmente nella cessione di un bene o nella prestazione si un servizio”. Nello stesso senso, ID., Valore aggiunto (Imposta), 24

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È peraltro pacifico che nel sistema dell’IVA il principio di onerosità prescinda dalla remuneratività dell’operazione effettuata e, quindi, dal lucro, inteso sia in senso oggettivo che soggettivo, al punto che assumono di norma rilievo anche le fattispecie che si contraddistinguono per la corresponsione di introiti inferiori ai costi effettivamente sostenuti per l’operazione 25. Per conferma, basti segnalare l’orientamento della Corte di Giustizia, secondo la quale “la circostanza che un’operazione economica venga svolta ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo è irrilevante ai fini della qualificazione di tale operazione come «negozio a titolo oneroso». Tale nozione presuppone, infatti, unicamente l’esistenza di un nesso diretto tra la cessione di beni o la prestazioni di servizi ed il corrispettivo realmente percepito dal soggetto passivo” 26. Occorre tuttavia domandarsi se l’onerosità sia requisito sufficiente per considerare imponibile una determinata operazione ed in questa prospettiva, può essere richiamata la nozione residuale di prestazione di servizi contemplata dall’art. 3 del D.P.R. n. 633/1972, ai sensi del quale rilevano come operazioni imponibili anche le obbligazioni a titolo oneroso “di non fare e di permettere quale ne sia la fonte”. in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, p. 142, ove è precisato che nell’IVA vi è una coincidenza tra principio di corrispettività e principio di onerosità in quanto rilevano i soli atti con i quali ciascuna parte riceve una prestazione che si trova in un certo rapporto con quella che si adempie, in antitesi a quella in cui non vi è controprestazione. 25 Sul punto da ultimo si veda A. GIOVANNINI, Impresa commerciale e lucro nelle imposte dirette e nell’IVA, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 467 ss. Il lucro oggettivo non è determinante in ambito IVA ed il principio di corrispettività non coincide con quello di “remuneratività” di modo che è sufficiente che alla prestazione di servizio o alla cessione di beni sia causalmente ricollegabile una controprestazione economicamente valutabile. In argomento si veda L. CASTALDI, Le operazioni imponibili, in F. TESAURO (diretta da), L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, p. 54. Assumono pertanto rilievo anche le fattispecie che si contraddistinguono per una controprestazione la cui misura non assicura un utile, essendo addirittura inferiore ai costi sostenuti. Cfr. G. MANDÒ-D. MANDÒ, Manuale dell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2005, p. 42. Per l’irrilevanza della misura del corrispettivo si esprime altresì E. BELLI CONTARINI, Osservazioni a margine dei principi che regolano il regime impositivo degli enti non commerciali, in Riv. dir. trib., 1992, I, p. 386. 26 Corte di Giustizia, sentenza del 20 gennaio 2005, causa C-412/03, punti 21 e 22, cit. Non è superfluo peraltro rilevare che spesso il profilo della onerosità dell’operazione si confonde con (o si sovrappone a) quello della economicità dell’attività svolta dal soggetto che effettua l’operazione. A tal proposito, si veda Corte di Giustizia, sentenza del 25 ottobre 2007, causa C174/06, punti 32-35, in Riv. dir. trib., 2009, IV, p. 109, con nota di M.P. NASTRI, La concessione di beni demaniali è assimilabile alla locazione di beni immobili, ove si afferma l’imponibilità di una operazione resa a fronte di una controprestazione “il cui importo è notevolmente inferiore al valore del bene” perché “considerato il suo contenuto, tale rapporto è assimilabile ad un atto contrattuale che rientra nell’ambito delle attività di natura industriale e commerciale”. In argomento si veda altresì A. COMELLI, Sul requisito dell’onerosità delle operazioni soggette all’IVA, in Riv. dir. trib., 2003, IV, p. 85 ss., che evidenzia come l’orientamento giurisprudenziale europeo sia teso ad evitare elusioni d’imposta al punto che vengono ricomprese nell’ambito applicativo del tributo operazioni derivanti da impegni presi “sull’onore” da parte del prestatore di servizi e, quindi, giuridicamente non vincolanti.

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Nonostante la perentoria prescrizione normativa, l’inquadramento ai fini IVA delle prestazioni di servizi appare di gran lunga più complesso rispetto alle cessioni di beni 27 ed occorre procedere caso per caso perché, mentre ai fini della qualificazione delle cessioni di beni rileva soprattutto l’effetto giuridico traslativo (o costitutivo), per la definizione di prestazione di servizi è essenziale il riferimento allo schema negoziale dello scambio 28. In proposito, la Corte di Giustizia ha ritenuto che le prestazioni di servizi che si sostanziano in obbligazioni di non fare, pur assunte a fronte del pagamento di un’indennità (pubblica) e rilevando quali operazioni onerose, non appaiono conformi ad un’imposta generale sul consumo 29. Per la Corte, infatti, il soggetto obbligato “assumendo un impegno del genere, non fornisce alcun servizio ad un consumatore identificabile né un vantaggio che possa considerarsi come un elemento costitutivo del costo dell’attività di una terza persona nel circuito commerciale”. Secondo la dottrina, il consumo sarebbe visto dai giudici europei in un’ottica soggettiva, come servizio reso ad un determinato consumatore finale al punto che il problema non sarebbe tanto “quello di costruire la nozione di consumo, di regola identificabile con l’acquisto di un servizio (o, aggiungiamo noi, di un bene) contro corrispettivo, indipendentemente, come precisa la Corte, dalla destinazione riservata al servizio da chi lo compensa, quanto quella di identificare, in ipotesi peraltro peculiari, il consumatore destinatario del servizio” 30. Altri autori hanno ulteriormente evidenziato che “l’ac27

Le prestazioni di servizi infatti rappresenterebbero una categoria residuale e sarebbero individuabili “in negativo”: ciò che non è cessione di beni rileva come prestazione di servizi al punto che la nozione tende a sovrapporsi a quella di attività economica. La dottrina ha rilevato, infatti, che l’imponibilità di queste è spesso esclusa perché “non rientrano nel presupposto oggettivo e al tempo stesso chi effettua solo servizi gratuiti non può essere soggetto passivo. I due profili del presupposto hanno problemi definitori comuni, incentrati sui concetti di onerosità, corrispettività, sinallagmaticità, commercialità. Nell’interpretazione comunitaria verificare se un’operazione abbia o meno rilevanza economica quale «prestazione di servizi a titolo oneroso», appare spesso come questione preliminare per stabilire se si può configurare quale manifestazione di un’«attività economica», e quindi comportare una soggettività passiva”. Così P. FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, cit., p. 1202. 28 P. FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, cit., p. 1210, evidenzia come “il sinallagma do aut facio ut des aut facias rimane fondamentale per individuare l’area delle operazioni imponibili quali prestazioni di servizi”. Secondo l’Autrice, la corrispettività deve essere intesa come interdipendenza giuridica di prestazioni in quanto “senza una contropartita avente un nesso diretto con il servizio ed un effettivo «valore soggettivo», che rappresenti, appunto, il controvalore «causale» dell’utilità ricevuta, non c’è scambio in senso giuridico, ma semplice coesistenza di prestazioni sganciate l’una all’altra, e quindi non c’è operazione economica rilevante”. 29 P. FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, cit., p. 1203, che richiama tra l’altro le cause Mohr (C-215/94 del 29 febbraio 1996) in Riv. dir. trib., 1996, II, p. 1135, con nota di A. COMELLI, L’IVA quale imposta sul consumo; Landboden (C-384/95 del 18 dicembre 1997), in G.T.-Riv. giur. trib., 1998, p. 411, con nota di A. COMELLI, Ancora sull’IVA quale imposta generale sul consumo. 30 In questo senso R. CORDEIRO GUERRA, L’IVA quale imposta sui consumi: riflessi applicativi

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cezione comunitaria di consumo presuppone la cessione di beni o la prestazione di servizi a favore «di clienti identificabili in cambio di un prezzo corrisposto da questi o da terzi», a condizione che vi sia un vantaggio diretto e specifico a favore del cessionario (ovvero del committente). Il consumo postula, pertanto, che quest’ultimo soggetto realizzi l’operazione «a proprio uso», vale a dire in considerazione di un beneficio «che gli giova personalmente», in quanto se l’operazione fosse effettuata nell’interesse generale, non vi sarebbe alcuna forma di consumo apprezzabile ai fini della sfera di applicazione dell’imposta” 31. Nonostante il problema sia stato analizzato, principalmente, sul piano della rilevanza “soggettiva” del consumo, ai fini che ci occupano, sembra necessario attribuire uguale attenzione al diverso profilo dell’assenza di un servizio, parimenti sottolineato dalla Corte di Giustizia e rilevante sul piano squisitamente oggettivo. Ciò che manca nell’ipotesi considerata è un servizio oggettivamente individuabile ed il prezzo percepito (l’indennità) non rappresenta il costo dell’attività posta in essere dall’operatore economico (o da terzi e cioè da soggetti che sono intervenuti in precedenza all’interno del circuito produttivo - distributivo) per la realizzazione di un servizio. Laddove il prezzo non sia espressivo del costo del bene o del servizio, l’imposta non risulta applicabile così come l’IVA sugli acquisti non è detraibile. È stato infatti correttamente rilevato che ai sensi dell’art. 2 della direttiva del 2006 “la deduzione in tanto è consentita in quanto il costo del bene o servizio acquistato sia «elemento di prezzo» di un bene o servizio la cui cessione o prestazione è soggetta ad imposta; la deduzione è invece esclusa se la cessione o la prestazione sono non soggette o esenti” 32. In conclusione, le precedenti considerazioni potrebbero rappresentare una prima indiretta conferma del superamento del principio di onerosità in ambito secondo la Corte di Giustizia, in Rass. trib., II, 2000, p. 322, secondo il quale, peraltro, “così argomentando, il consumatore finale entra nel circuito giuridico dell’imposta; al punto che la sua mancata identificazione conduce ad escludere l’applicazione del tributo. Si tratta di una posizione, occorre prendere atto, difficilmente compatibile con gli orientamenti secondo i quali la rivalsa, quale rapporto privato estraneo alla fattispecie impositiva, non è da tenere in considerazione per la ricostruzione giuridica dell’IVA”. 31 Così A. COMELLI, La natura dell’imposta, in F. TESAURO (a cura di), L’Imposta sul valore aggiunto, cit., p. 9, secondo il quale si dovrebbe distinguere tra profilo soggettivo ed oggettivo del consumo, sebbene entrambi i profili siano reciprocamente complementari e quindi collegati in modo indissolubile. In particolare, il profilo oggettivo del consumo sarebbe individuato nello “sfruttamento, ovvero l’utilizzazione, di un bene (ad utilità pluriennale o meno), o di un servizio a fini privati, vale a dire al di fuori di un circuito produttivo o distributivo, anche se tra l’immissione al consumo e lo sfruttamento o l’utilizzazione può trascorrere un significativo margine temporale”. 32 Cfr. L. SALVINI, La detrazione IVA nella sesta direttiva e nell’ordinamento interno: principi generali, in Riv. dir. trib., I, 1998, p. 145. L’Autrice rileva (ivi, nota 23) che i giudici europei hanno disconosciuto il diritto di deduzione anche nell’ipotesi in cui il corrispettivo era talmente basso da far considerare l’operazione una liberalità “in quanto l’acquisto non si è riflesso sul prezzo del bene o servizio ceduto”.

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IVA, nel senso che detto requisito non sembrerebbe determinante ai fini della rilevanza di una determinata operazione economica.

3.1. Il corrispettivo quale unico parametro di determinazione della base imponibile Il principio in base al quale l’IVA deve essere applicata sul corrispettivo realmente percepito dal soggetto attivo dell’operazione è ulteriormente confermato dalle norme che disciplinano la determinazione della base imponibile. La regola generale fissata dall’art. 73 della direttiva del 2006 è che la base imponibile deve essere determinata esclusivamente sulla base del corrispettivo al punto che l’utilizzo di ulteriori parametri – quali il “valore normale” o il “costo di produzione o di acquisto” – configura un’eccezione alla regola e può essere giustificato solo in presenza di tassative condizioni normativamente predeterminate. La normativa nazionale sembra, solo in parte, conformarsi a quanto previsto a livello europeo. In particolare, l’art. 13, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972 offre una definizione di corrispettivo quanto mai ampia e stabilisce che la base imponibile è costituita “dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali, compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente”. Tuttavia, in passato il legislatore ha sistematicamente utilizzato il parametro del valore normale in caso di operazioni permutative e dazioni in pagamento che rappresentano ipotesi tipiche di operazioni caratterizzate da controprestazione non espressa in denaro e che non sono autonomamente contemplate dalla normativa europea. Non solo, perché il parametro del valore normale è ancora oggi utilizzato dal legislatore nazionale 33 nonostante la Corte di Giustizia abbia ripetutamente precisato che anche in simili ipotesi la base imponibile è rappresentata dal corrispettivo realmente ricevuto e, quindi, sempre da un valore soggettivo, anche in mancanza di una quantificazione in denaro. In particolare, secondo i giudici europei, una disposizione nazionale che, nei casi in cui il corrispettivo di una prestazione è determinato, parzialmente o interamente, in natura, individua la base imponibile nel valore normale dei beni ceduti o delle prestazioni effettuate non è compatibile con gli artt. 73 ed 80 della direttiva del 2006. Ciò in ragione del fatto che “non consistendo in una somma di denaro stabilita tra le parti, detto valore, per essere soggettivo, deve essere quello che il beneficiario della prestazione di servizi, la quale costituisce il corrispettivo della forni33

Cfr. artt. 11 e 13, comma 2, lett. d), del D.P.R. n. 633/1972, dai quali si ricava il principio dell’imposizione separata, sulla base del valore normale, delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni o prestazioni o per estinguere precedenti obbligazioni. In tema si veda S. CANNIZZARO, Permuta, operazioni permutative e datio in solutum tra normativa europea e disciplina interna, in questo Volume.

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tura dei beni, attribuisce ai servizi che esso intende procurarsi e deve corrispondere alla somma che esso è disposto a pagare a tal fine” 34. Il principio espresso dai giudici europei sollecita una prima determinante considerazione: se il valore normale – che di norma è più elevato del “prezzo di costo”, perché comprende il valore aggiunto prodotto dall’ultimo operatore economico – non può essere utilizzato in simili ipotesi, si deve concludere che l’IVA non colpisce in via generale e sistematica il valore aggiunto prodotto dall’operatore economico. In questo caso, infatti, la base imponibile è rappresentata dal costo sopportato dal singolo operatore economico per realizzare l’operazione e, cioè, dalla spesa da quest’ultimo sostenuta per concludere l’affare.

3.2. L’utilizzo del valore normale come strumento antielusivo: l’irrilevanza del corrispettivo nelle ipotesi caratterizzate dalla presenza di limiti al diritto di detrazione Dall’analisi della normativa europea si evince che l’unica ipotesi in cui è legittimo ricorrere al criterio del valore normale per la determinazione della base imponibile è contemplata dall’art. 80 della direttiva del 2006 35. La norma ha una chiara ratio antielusiva in quanto è volta a contrastare fenomeni di sovra o sotto fatturazione che si possono verificare in relazione ad operazioni effettuate tra “soggetti collegati” ed in presenza di limiti alla piena detraibilità dell’IVA di una o di entrambe le prati contrattuali (come avviene in caso di operazioni esenti o allorché una delle parti sia consumatore finale). Ai sensi del par. 1 dell’art. 80 “allo scopo di prevenire l’elusione o l’evasione fiscale gli Stati membri possono, nei seguenti casi, prendere misure affinché, per la cessione di beni e la prestazione di servizi a destinatari con cui sussistono legami familiari o altri 34

Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 2 giugno 1994, C-33/93 nonché, da ultimo, la recente sentenza del 19 dicembre 2012, causa C-549/11, in Corr. trib., 2012, con nota di P. CENTORE, Il «cambio-vani» all’attenzione dei giudici comunitari, con la quale è stato perentoriamente affermato che “gli articoli 73 e 80 di tale direttiva devono essere interpretati nel senso che ostano ad una disposizione nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, in forza della quale, qualora il corrispettivo dell’operazione sia interamente costituito da beni o da servizi, la base imponibile dell’operazione sia rappresentata dal valore normale dei beni o dei servizi forniti”. 35 Detta possibilità è stata introdotta dalla direttiva n. 2006/69/CE. Peraltro, anteriormente all’introduzione dell’art. 80, l’art. 27 della sesta direttiva (ora art. 395, Dir. n. 2006/112/CE) disponeva che i singoli Stati avrebbero dovuto richiedere un’autorizzazione preventiva alla Commissione Europea per introdurre una norma di cautela basata sul valore normale. In questo senso, la Corte di Giustizia, con sentenza del 9 giugno 2011, causa C-285/10, in Corr. trib., 2011, p. 3255, con nota di M. PEIROLO, La base imponibile IVA nelle operazioni tra soggetti collegati, ha chiarito che la normativa spagnola (introdotta sin dal 1992) si poneva in contrasto con quanto previsto dalla disciplina europea per mancanza di autorizzazione e che a nulla valeva il fatto che fosse poi sopravvenuto l’art. 80 che, ex post, avesse confermato la ragionevolezza della norma nazionale.

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stretti vincoli personali, gestionali, di associazione, di proprietà, finanziari o giuridici quali definiti dallo Stato membro, la base imponibile sia pari al valore normale”. Pertanto, l’utilizzo del valore normale presuppone che l’operazione intervenga tra soggetti relativamente ai quali sussistono: i) legami familiari o altri stretti vincoli personali, gestionali, di associazione, di proprietà, finanziari o giuridici, quali definiti dal singolo Paese membro; ii) limiti alla piena detraibilità dell’IVA. Tuttavia, la norma lascia ampia margini di recepimento agli Stati membri in quanto è previsto che “quando applicano l’opzione di cui al paragrafo 1, gli Stati membri possono definire le categorie di prestatori, cedenti, acquirenti o destinatari cui tali misure si applicano”. I casi previsti dal legislatore europeo sono tre e, precisamente, il valore normale è applicabile: a) se l’operazione è imponibile, il corrispettivo è inferiore al valore normale e l’acquirente dei beni o il destinatario dei servizi non ha interamente diritto alla detrazione 36; b) se l’operazione è esente, il corrispettivo è inferiore al valore normale ed il cedente o prestatore non ha interamente diritto alla detrazione 3737; c) se l’operazione è imponibile, il corrispettivo è superiore al valore normale ed il cedente o prestatore non ha interamente diritto alla detrazione 38. La Corte di Giustizia ha confermato la finalità antielusiva e la conseguente necessità di procedere ad una stretta interpretazione della norma. Per la Corte il rischio di elusione e di evasione fiscale non ricorre se l’operazione, anche se con prezzo artificialmente basso o alto, è posta in essere tra soggetti passivi che possono esercitare la detrazione in misura integrale e ciò in quanto non può verificarsi alcun vulnus al principio di neutralità 39. Secondo i giudici europei, infatti, “qualora beni e servizi siano forniti a un prezzo artificialmente basso o elevato fra parti che godono entrambe interamente del diritto a detrazione dell’IVA, non può sussistere, in tale fa36 In questo caso, la sottofatturazione permette di alleviare la misura di IVA indetraibile a carico del cliente che incorre in limiti alla detraibilità perché effettua solo operazioni esenti (il che esclude integralmente il diritto di detrazione) ovvero “miste” e cioè in parte imponibili ed in parte esenti (il che implica l’applicazione del pro rata). 37 In questo secondo caso la sottofatturazione risponde all’esigenza del soggetto attivo dell’operazione, che ha interesse a diminuire la base imponibile delle operazioni esenti a valle, in quanto incidente negativamente sulla determinazione del pro rata. 38 In questa terza ipotesi, speculare rispetto alla precedente, la sovrafatturazione risponde all’esigenza del soggetto attivo dell’operazione: infatti, la percentuale di imposta assolta a monte che può essere detratta aumenterà se il valore delle operazioni a valle soggette ad imposta viene artificialmente aumentato. 39 Fermo restando che il principio di neutralità dell’IVA non è vulnerato allorché l’operazione interviene tra soggetti passivi che non hanno limiti di detraibilità, secondo M. BASILAVECCHIA, Base imponibile «impermeabile» all’abuso, in L’IVA, 2011, p. 5, la Corte di Giustizia con la sentenza del 9 giugno 2011, causa C-285/10, avrebbe riaffermato “il primato della direttiva e la palese prevalenza delle esigenze di certezza nella determinazione della base imponibile su quelle di repressione dell’abuso”.

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se, alcuna elusione o evasione fiscale. È solo a livello del consumatore finale, o nel caso di un soggetto passivo misto che beneficia unicamente del diritto al prorata di detrazione, che un prezzo artificialmente basso o elevato può comportare una perdita di gettito fiscale. Pertanto, solo se la persona interessata dall’operazione non ha interamente diritto alla detrazione sussiste un rischio di elusione o di evasione fiscale che gli Stati membri possono prevenire in forza dell’articolo 80, paragrafo 1, di tale direttiva” 40. Con la finanziaria 2008 (L. 24 dicembre 2007, n. 244) prima e con la legge comunitaria 2008 (L. 7 luglio 2009, n. 88) poi il legislatore nazionale ha riformulato il comma 3 dell’art. 13 che attualmente prevede, in deroga alla regola del corrispettivo pattuito ed in attuazione della norma europea sopra richiamata, la determinazione dell’imponibile sulla base del valore normale per le operazioni poste in essere tra soggetti collegati che hanno limiti al diritto di detrazione. Tuttavia, rispetto al citato art. 80 i soggetti collegati non possono essere di qualsiasi tipo perché, sotto il profilo soggettivo, l’ambito applicativo della deroga è limitato alle sole “società che direttamente o indirettamente controllano tale soggetto, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla il predetto soggetto” 41. Vale a dire che il legislatore nazionale ha escluso l’operatività della norma, tra l’altro, nel caso in cui l’operazione intercorra con il consumatore finale, diversamente da quanto invece sembra disporre la corrispondente norma europea. La conclusione che si ricava dall’analisi del quadro normativo in esame è che ai fini della determinazione della base imponibile la regola è sempre costituita dal corrispettivo, quale valore soggettivo realmente percepito, mentre il criterio del valore normale si dimostra strumento derogatorio con finalità correttiva dei possibili effetti distorsivi che i limiti al diritto di detrazione sono idonei a produrre sul libero mercato. 40

Così Corte di Giustizia, sentenza del 26 aprile 2012, cause riunite C-621/10 e C-129/11, punti 47-48, in Corr. trib., 2012, p. 1953, con nota di M. PEIROLO, Limiti applicativi del valore normale nelle operazioni tra soggetti collegati. Secondo i giudici europei le condizioni che gli Stati membri devono soddisfare per prevedere che la base imponibile di un’operazione tra parti collegate sia fondata sul valore normale sono tassative e, al di fuori delle ipotesi contemplate dall’art. 80, il contribuente ha diritto di opporsi all’applicazione delle disposizioni interne in contrasto con quelle europee. Sul punto, però, si vedano le conclusioni dell’Avvocato generale Sharpston presentate il 26 gennaio 2012 (punti 44 e ss.), il quale sottolinea come, solo in via ipotetica, il singolo potrebbe far valere l’efficacia diretta dell’art. 80 contro lo Stato membro. In concreto, una simile eventualità potrebbe verificarsi nel caso sub c) dell’art. 80 e, cioè, nell’ipotesi di sovrafatturazione, allorché il cliente, pur avendo concordato di pagare un prezzo artificialmente maggiorato, non avesse interamente diritto alla detrazione e fosse interessato, quindi, a pagare un’IVA minore. 41 Esula dal tema oggetto di esame in questa sede se occorra o meno fare riferimento al concetto di controllo contenuto nell’art. 2359 c.c., fermo restando che la disposizione è formulata in modo identico rispetto all’art. 110, comma 7, del TUIR di modo che potrebbe ritenersi che il collegamento rilevante non si esaurisca nelle fattispecie previste dall’art. 2359 c.c. ma riguardi più in generale ogni ipotesi di influenza economica, potenziale o attuale.

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Infatti, il “valore normale” – che rappresenta il prezzo mediamente praticato in un determinato stadio di commercializzazione del bene o del servizio, come specificato, rispettivamente, dagli artt. 72 della direttiva n. 2006/112/CE e 14 del D.P.R. n. 633/1972 – è un valore stimato secondo criteri oggettivi e prescinde dalla spesa effettivamente sostenuta dal soggetto passivo dell’operazione. Ergo, nell’ottica europea, il parametro del valore normale è uno strumento distorsivo della concorrenza che può essere legittimamente utilizzato ai fini della determinazione della base imponibile esclusivamente in chiave antielusiva ed allorché sussistano limiti alla piena detraibilità dell’IVA, i quali ex se, già rappresentano elementi idonei a falsare la concorrenza all’interno del mercato comune 42.

4. Il presupposto oggettivo dell’IVA e la rilevanza delle operazioni “senza corrispettivo” giustificata da ragioni di “cautela fiscale” Come anticipato, la disciplina IVA non ignora le operazioni a titolo gratuito che, a determinate condizioni, rilevano per esigenze che la dottrina tradizionale sostanzialmente riconduce a finalità di “cautela fiscale” 43. In realtà, più di recente, alcuni autori hanno evidenziato come in ambito IVA l’onerosità non sia condizione necessaria per la rilevanza di una determinata operazione e che anzi la centralità dell’onerosità sembrerebbe fortemente ridimensionata posto che a livello europeo l’operazione economica è valutata unicamen42 In questa prospettiva appare rilevante anche la previsione contenuta nell’art. 27 della direttiva del 2006, ai sensi del quale “per prevenire distorsioni di concorrenza e previa consultazione del comitato IVA, gli Stati membri possono assimilare a una prestazione di servizi a titolo oneroso la fornitura, da parte di un soggetto passivo, di un servizio per le esigenze della sua impresa, qualora la fornitura di detto servizio da parte di un altro soggetto passivo non gli dia diritto alla detrazione totale dell’IVA”. Ai sensi del successivo art. 77 infatti è chiarito che “per le prestazioni di servizi effettuate da un soggetto passivo per le esigenze della sua impresa di cui all’articolo 27, la base imponibile è costituita dal valore normale dell’operazione in questione”. A detta ratio potrebbe forse essere ricondotta la disciplina prevista dall’art. 36 del D.P.R. n. 633/1972 in relazione allo svolgimento di attività diverse da parte del medesimo soggetto passivo IVA: l’articolo infatti disciplina il passaggio dei beni da un’attività all’altra prevedendo regole specifiche in ordine all’imponibilità dei suddetti beni sulla base del valore normale, nonché in relazione all’esercizio della detrazione in caso di utilizzazione promiscua degli stessi. 43 L’idea che la soggezione ad imposta delle operazioni “senza corrispettivo” rappresenti una deroga nell’ambito della disciplina del tributo ed abbia finalità di cautela fiscale è condivisa in dottrina, la quale evidenzia l’esigenza di evitare che determinati beni o servizi possano giungere al consumo detassati. Cfr. L. CECAMORE, Valore aggiunto (imposta sul), in Dig., disc. priv., XVI, Torino, 1999, p. 360; R. LUPI, Diritto tributario, Parte speciale, I sistemi dei singoli tributi, Milano, 1998, p. 285 ed in particolare nota 28; P. FILIPPI, Valore aggiunto (Imposta), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, p. 131; R. COPPA-P. MASPES, La base imponibile delle prestazioni gratuite rilevanti ai fini IVA, in Corr. trib., 2009, p. 3828.

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te in ragione degli effetti che la stessa può determinare sul libero mercato 44. Detta conclusione implica, quale ulteriore corollario, che, sotto il profilo squisitamente applicativo, una medesima operazione economica può simultaneamente rilevare ai fini IVA ed in relazione ad altri settori impositivi come, ad esempio, l’imposta sulle donazioni 45. Ciò non è di poco conto, considerata la pressoché condivisa opinione in base alla quale deve essere esclusa la vigenza di un principio di alternatività tra i due tributi, diversamente da quanto previsto in relazione alle imposte di registro ed ipocatastali 46. 44 Più in generale è stata rilevata la sostanziale svalutazione del requisito di onerosità quale tratto caratterizzante l’elemento oggettivo del presupposto d’imposta. Cfr. P. BORIA, Il sistema tributario, Torino, 2008, p. 631. Osserva correttamente R. CIPPITANI, op. cit., p. 517, come “la realizzazione del presupposto oggettivo dell’IVA può trovare origine anche riguardo a contratti senza prestazioni corrispettive (…). Ma ai fini dell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto non è neppure necessario che vi sia un contratto. Ciò, non solo perché la stessa legge adotta una espressione molto ampia, come accade nell’art. 3, d.p.r. 633/1972, dove si prescrive che il presupposto di imposta ricorre quando la prestazione di servizi dipende «in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte». Inoltre la legge qualifica come presupposti fattispecie che non possono ricondursi certo ai contratti, come accade per l’espropriazione di pubblico interesse e per l’autoconsumo dell’imprenditore”. 45 L’imposta sulle successioni e donazioni è stata “reintrodotta” nell’ordinamento italiano ad opera del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 convertito con L. 24 novembre 2006, n. 286. Il legislatore ha “istituito” la suddetta imposta, ai sensi dell’art. 2, commi 47 e seguenti del D.L. 262 citato “sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione”. 46 Com’è noto, il rapporto tra IVA e tributo di registro è risolto dal principio di alternatività stabilito dall’art. 40 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, mentre la nota dell’art. 1, comma 1, della Tariffa allegata al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347 nonché l’art. 10, comma 1, del medesimo decreto dispongono la regola dell’alternatività per le imposte, rispettivamente, ipotecarie e catastali. Per quanto concerne l’imposta sulle donazioni, le uniche indicazioni normative si ricavano dall’art. 56, quinto comma, ultimo periodo, del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, che impone lo scomputo dell’IVA afferente la cessione “se alla richiesta di registrazione dell’atto di donazione è allegata la fattura” e che è stato inteso come confermativo della sussistenza del principio di alternatività dalla giurisprudenza di merito (cfr. Comm. Trib. Prov. di Lecce, sentenza n. 170 del 14 giugno 1997); nonché dall’art. 1, comma 4-bis, del medesimo testo normativo, che esclude l’applicazione dell’imposta sulle donazioni in relazione ad eventuali liberalità indirette emergenti dal collegamento con altri atti e rispetto alle quali la cessione assoggettata ad IVA risulti strumentale. Ciò nonostante, la dottrina è concorde sull’assenza di un principio di alternatività tra IVA ed imposta sulle successioni e donazioni. Sul punto si veda A. FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in P. RESCIGNO (diretto da), Trattato breve delle successioni e donazioni, II, Padova, 2010, p. 599, che sottolinea come per detta imposta il concorso con l’IVA sia espressamente ammesso e che “il diverso trattamento parrebbe fondato su una diversa considerazione dei tributi sui trasferimenti della ricchezza secondo una maggiore o minore attitudine ad incidere sull’esercizio delle attività economiche piuttosto che sulla sfera patrimoniale della persona, ma la razionalità della discriminazione risulta comunque opinabile”. Secondo l’Autore, nella dinamica IVA “anche la cessione liberale ma funzionale all’esercizio dell’attività economica rileva in termini di destinazione al consumo, e quindi configura sicuramente un’ipotesi di destinazione a finalità estranea all’esercizio dell’impresa”.

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Il decreto IVA prevede espressamente l’imponibilità di alcune operazioni effettuate “senza corrispettivo” che possono essere prevalentemente ricondotte alle ipotesi di autoconsumo (esterno) 47 e destinazione a finalità estranea all’impresa. In questo senso, l’art. 2, secondo comma, nn. 4 e 5, del D.P.R. n. 633 del 1972, assimila alle cessioni di beni, pur in assenza di corrispettivo: i) le cessioni gratuite di beni (ad esclusione di quelli la cui produzione o il cui commercio non rientra nell’attività propria dell’impresa se di costo unitario non superiore ad euro 25,82 e di quelli per i quali non sia stata operata, all’atto dell’acquisto o dell’importazione, la detrazione dell’imposta); ii) la destinazione di beni all’uso o al consumo personale o familiare dell’imprenditore o del professionista o ad altre finalità estranee alla impresa o all’esercizio dell’arte o della professione (anche se determinata da cessazione dell’attività, con esclusione di quei beni per i quali non è stata operata, all’atto dell’acquisto, la detrazione dell’imposta) 48. L’art. 3, comma 3, del medesimo decreto a sua volta dispone la generale imponibilità delle prestazioni (di valore superiore ad euro 25,82) contemplate nei superiori commi primo e secondo, salvo le eccezioni tassativamente indicate dalla norma stessa, allorché “l’imposta afferente agli acquisti di beni e servizi relativi alla loro esecuzione sia detraibile” se effettuate in assenza di corrispettivo “per l’uso personale o familiare dell’imprenditore, ovvero a titolo gratuito per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa”. Le richiamate disposizioni divergono per alcuni aspetti. La differente formulazione ed il conseguente diverso ambito applicativo delle due disposizioni appare evidente laddove l’art. 3, comma 3, si riferisce esclusivamente all’imprenditore di modo che le prestazioni gratuite di servizi, la destinazione delle stesse a finalità estranee e l’autoconsumo del professionista risultano assolutamente fuori campo 47 L’autoconsumo interno invece non è soggetto ad imposizione perché consiste nell’utilizzazione del bene o del servizio per l’espletamento dell’attività di impresa e cioè per esigenze relative o comunque connesse allo svolgimento dell’attività economica. In merito alle ragioni della mancata rilevanza dell’autoconsumo interno nell’ambito della disciplina nazionale, si veda R. PERRONE CAPANO, L’imposta sul valore aggiunto, cit., p. 313. 48 Il successivo n. 6 prevede inoltre l’imponibilità delle assegnazioni ai soci fatte “a qualsiasi titolo” da società di ogni tipo e oggetto nonché le assegnazioni e le analoghe operazioni fatte da altri enti privati o pubblici, compresi i consorzi e le associazioni o altre organizzazioni senza personalità giuridica. Quindi, nell’ambito dell’art. 2 le assegnazioni sono imponibili “a qualunque titolo” ed a prescindere dalla detraibilità a monte dell’imposta. Secondo L. CECAMORE, Valore aggiunto (imposta sul), in Dig., disc. priv., XVI, 1999, p. 360, l’autonoma previsione dell’imponibilità delle assegnazioni di beni ai soci contemplate al n. 6 del comma 2 dell’art. 2 del D.P.R. n. 633 del 1972, troverebbe fondamento “sia nel fatto che potrebbe dubitarsi se l’assegnazione sia atto portante trasferimento di beni a titolo oneroso, sia, e soprattutto perché nell’atto di assegnazione non può non ravvisarsi una operazione che comporta la immissione in consumo dei beni assegnati”. Tuttavia, secondo l’Amministrazione finanziaria l’assegnazione ai soci realizza un’ipotesi di destinazione a finalità estranea all’esercizio di impresa e, pertanto, l’IVA non è applicabile se l’imposta a monte non è stata detratta. Cfr. Ris. n. 191/E del 23 luglio 2009.

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IVA 49. Ciò nonostante, ad un più approfondito esame, le differenze non sembrano determinanti mentre non può essere posta in dubbio la medesima ratio ispiratrice dell’imponibilità che tuttavia pone rilevanti problemi sul piano sistematico. Infatti, come già rilevato, se l’IVA è un’imposta sul consumo, il soggetto passivo del tributo dovrebbe essere individuato nel consumatore finale e cioè in colui che acquista beni o servizi al di fuori dell’esercizio di imprese, arti e professioni 50. In questa prospettiva, il tributo in esame dovrebbe essere volto a colpire la “spesa” sostenuta dal consumatore finale per l’acquisto di un bene o di un servizio e la rivalsa dovrebbe essere preordinata a porre l’imposta a suo carico, assumendo un’indubbia rilevanza fiscale. Alle suesposte conclusioni sembra opporsi proprio la previsione di imponibilità delle operazioni “senza corrispettivo” che, per definizione, potrebbero eventualmente arrecare solo un vantaggio in termini di “risparmio” di spesa in capo al beneficiario. Vale a dire che la previsione di imponibilità dell’autoconsumo, della destinazione a finalità estranea all’attività economica nonché dell’operazione gratuita mal si conciliano con la ratio del tributo in esame così intesa. Peraltro, la nozione di consumo finale non potrebbe essere estesa fino a ricomprendere il mero “arricchimento” del consumatore finale, il quale si limita ad acquistare un bene o ad usufruire di un servizio gratuitamente. Si suole quindi affermare che la giustificazione delle citate assimilazioni consisterebbe nell’evitare che i beni ed i servizi pervengano al consumo “detassati” in quanto non gravati da alcun onere impositivo in ragione del diritto di detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti di modo che l’imponibilità sarebbe giustificata nel49

In relazione all’esclusione dell’imponibilità per le prestazioni rese dall’esercente arti o professioni, si veda P. FILIPPI, I profili oggettivi del presupposto dell’IVA, cit., p. 1213, la quale segnala lo scostamento del legislatore nazionale rispetto a quello europeo e ricorda che nel 1995 è stata tentata l’introduzione di una disciplina di assimilazione anche per l’autoconsumo e per la destinazione a finalità estranee di servizi le cui conseguenze irrazionali sono state ben evidenziate dalla dottrina (G. FALSITTA, Per un fisco civile, Milano, 1995) in quanto “così si doveva assoggettare ad imposta la parrucchiera che si lava i capelli, l’avvocato che difende gratuitamente il figlio, l’arrotino che si affila la lama del coltello della sua cucina”. 50 Peraltro, la stessa possibilità di enucleare una nozione di “consumatore” valevole in tutti i settori dell’ordinamento presenta indubbi profili di criticità. Cfr. G. ALPA-G. CHINÉ, Consumatore (Protezione del), in Dig., disc. priv., Agg., 1997, p. 541. L’art. 3 del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. Codice del Consumo) si limita a definire i consumatori e gli utenti come “le persone fisiche che acquistino o utilizzino beni o servizi per scopi non riferibili all’attività imprenditoriale e professionale eventualmente svolta”. In argomento si veda altresì E. GABRIELLI, Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato: i contraenti, in Giust. civ., 2005, p. 183, secondo il quale, poiché la rilevanza che il legislatore assegna alla figura del consumatore si spiega con la necessità di rimuovere la fisiologica asimmetria informativa tra le parti contrattuali, la nozione di consumatore dovrebbe essere rivista alla luce del fatto che il deficit informativo può riguardare anche il soggetto che opera sul mercato in relazione agli atti relativi e strumentali allo svolgimento dell’attività diversi dagli atti tipici.

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la prospettiva della cautela fiscale. È stato peraltro osservato che mentre per le operazioni gratuite l’assimilazione è volta ad evitare che i beni o i servizi giungano al consumo detassati per effetto della detrazione sugli acquisti, l’autoconsumo e la destinazione a finalità estranee riprendono formule normative già adottate per la tassazione delle plusvalenze dei beni d’impresa, esprimendo l’esigenza di sottoporre ad imposizione beni relativi all’attività di impresa e di lavoro autonomo al momento della fuoriuscita dal circuito produttivo per ragioni di simmetria fiscale 51. Detta osservazione sembrerebbe ulteriormente confermata dalla generalizzata previsione della facoltatività della rivalsa contenuta nel comma 3 dell’art. 18 del D.P.R. n. 633/1972, che paleserebbe la volontà legislativa di ritenere non integrato il presupposto del consumo al punto che è stato finanche osservato come “nelle cessioni o prestazioni gratuite, ovvero nell’autoconsumo familiare, non vi è infatti una spesa per consumo dell’acquirente che imponga, secondo le finalità dell’IVA, di porre a suo carico l’onere del tributo, mentre nel caso dell’autoconsumo personale difetta l’alterità tra cedente e acquirente che è presupposto necessario della traslazione” 52. Il soggetto attivo dell’operazione in queste ipotesi è tenuto all’emissione della fattura ed al pagamento della relativa imposta ma può scegliere se esercitare o meno la rivalsa che risulta pertanto pienamente disponibile 53. Alla luce però di quanto rilevato in precedenza in merito alla svalutazione dei 51

P. BORIA, Il sistema tributario, cit., p. 628, chiarisce come in relazione a detti beni, “essendo stato detratto il relativo costo di acquisto, appare opportuno per coerenza che essi siano sottoposti a tassazione al momento della uscita dalla sfera dell’attività economica”. Per la rilevanza di tali fattispecie nell’ambito delle imposte sui redditi si veda V. FICARI, Reddito di impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, p. 313. 52 Così L. SALVINI, Art. 18 IVA, in G. MARONGIU (a cura di), Commentario breve alle leggi tributarie – Tomo IV: IVA e imposte sui trasferimenti, Padova, 2011, p. 199. 53 Secondo L. CASTALDI, op. cit., p. 59, la previsione in argomento consentirebbe al soggetto attivo dell’operazione “di opportunamente ponderare la reale connotazione da attribuire all’operazione non corrispettiva nell’economia del proprio contesto produttivo: e, dunque, se considerarla comunque, al di là della sua gratuità, un’operazione rientrante nel ciclo produttivo e redistributivo, come tale soggettivamente neutrale (e dunque suscettibile di rivalsa), ovvero se la gratuità dell’operazione di cessione debba intendersi come denotante, a monte, un avvenuto distacco del bene che ne è oggetto dal ciclo produttivo con contestuale immissione al consumo finale già all’interno della realtà produttiva aziendale e professionale in un momento contestuale ma logicamente antecedente alla sua cessione gratuita o al suo distacco materiale dal contesto produttivo stesso, come tale preclusiva alla neutralità soggettiva del tributo: quest’ultimo da considerarsi, viceversa, un costo”. Peraltro, non è superfluo rilevare che ai fini delle imposte sui redditi e a differenza di quanto disposto in relazione all’IVA indetraibile, il costo rappresentato dal mancato esercizio della rivalsa per volontaria rinuncia del titolare non è deducibile. Cfr. art. 99 del TUIR (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) ove è previsto che “Le imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione”. In tema si veda V. MASTROIACOVO, Commento art. 99 TUIR, in G. TINELLI (a cura di), Commentario al testo unico delle imposte sui redditi, 2009, p. 841 ss.

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concetti di onerosità e gratuità in ambito europeo occorre domandarsi se davvero l’imponibilità delle operazioni “senza corrispettivo” debba essere considerata ipotesi eccezionale e rilevante esclusivamente alle condizioni tassativamente indicate dal legislatore. In altri termini, la circostanza che in queste ipotesi non possa essere individuata una “spesa” per consumo dell’acquirente e che l’applicazione del tributo sia giustificata da esigenze di cautela fiscale non esime dal verificare se l’imponibilità sia comunque conforme alla ratio del tributo e, quindi, debba essere considerata quale regola applicabile in via generale. L’analisi delle disposizioni europee (artt. 74 e 75 della direttiva del 2006) che regolano la determinazione della base imponibile per le operazioni gratuite evidenzia come questa sia rappresentata, per le cessioni, dal prezzo di acquisto ovvero, in mancanza, dal prezzo di costo di produzione determinati al momento in cui l’operazione si considera effettuata; per le prestazioni, dalle spese sostenute per l’esecuzione del servizio 54. Il legislatore nazionale ha modificato solo di recente le regole di determinazione della base imponibile per dette operazioni, prima impropriamente incentrate sul parametro del valore normale 55. L’art. 24 della legge comunitaria 2008 ha infatti modificato l’art. 13 del decreto IVA che attualmente si dimostra più coerente con la ratio del tributo in quanto la base imponibile è commisurata agli elementi di “costo” che hanno conferito il diritto alla detrazione. Infatti, ai sensi della nuova lett. c) del secondo comma dell’art. 13 per le suddette cessioni di beni la base imponibile è rappresentata “dal prezzo di acquisto o, in mancanza, dal prezzo di costo dei beni o di beni simili, determinati nel momento in cui si effettuano 54

Per completezza si evidenzia che l’art. 80 della direttiva del 2006, analizzato in precedenza, introduce la regola del valore normale solo per operazioni infragruppo effettuate verso corrispettivo e, pertanto, l’articolo non risulta applicabile alle operazioni infragruppo gratuite, mentre restano operativi i criteri di determinazione della base imponibile previsti in via generale per le operazioni gratuite. In questa prospettiva, è stato evidenziato che il finanziamento infruttifero concesso da una società del gruppo con limitato diritto alla detrazione non sarebbe sottoposto alla disciplina di cui all’art. 80 ma neanche ad imposizione quale prestazione di servizi gratuita perché rappresenterebbe un’operazione finalizzata ad un migliore raggiungimento dell’oggetto sociale, non estranea all’attività di impresa e pertanto rientrante nell’ambito del c.d. “autoconsumo interno”. Cfr. N. ARQUILLA, Esteso l’obbligo di determinare al valore normale i servizi infragruppo, in Corr. trib., 2009, p. 717. 55 Poiché il criterio del valore normale non è più applicabile in relazione alle operazioni gratuite risulta, peraltro, superato il principio espresso dalla Corte di Cassazione secondo la quale “ove l’imprenditore destini un bene aziendale a consumo personale, l’imposta sul valore aggiunto deve essere ragguagliata al valore normale del bene cioè al suo valore di mercato; tale valore può formare oggetto di accertamento da parte dell’ufficio, cui è consentito dimostrare che la somma indicata dall’imprenditore in sede di fatturazione per autoconsumo è inferiore al valore normale del bene”. Così Cass. 24 maggio 2006, n. 12322, in GT-Riv. giur. trib., 2006, p. 972, con nota di M. PEIROLO, La quantificazione dell’imponibile nell’autofatturazione del bene consumato.

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tali operazioni; per le prestazioni di servizi di cui al primo e al secondo periodo del terzo comma dell’articolo 3, nonché per quelle di cui al terzo periodo del sesto comma dell’articolo 6, dalle spese sostenute dal soggetto passivo per l’esecuzione dei servizi medesimi”. In proposito, è stato evidenziato che l’operazione è tassata senza considerare il valore aggiunto prodotto dal soggetto attivo (altrimenti si sarebbe dovuto far ricorso al parametro del valore normale) e che l’imponibilità mostrerebbe una ratio “correttiva”, mirante al recupero dell’IVA portata in detrazione a monte al punto che l’operazione sarebbe esclusa dall’ambito applicativo del tributo se detta detrazione non è stata operata. Peraltro, in relazione alle cessioni, il parametro sarebbe rappresentato dal prezzo di acquisto o di costo “attualizzato”, cioè determinato al momento di effettuazione dell’operazione di modo che detto valore tenderebbe necessariamente a coincidere con quello “residuo”, che è dato dalla somma degli importi pagati per l’acquisto o la produzione del bene al netto del deprezzamento che lo stesso ha subito nel tempo 56. Per le prestazioni, la spesa rilevante sarebbe solo quella relativa ad acquisti soggetti ad IVA e per i quali l’IVA è stata, almeno in parte, detratta di modo che non rileverebbero, ad esempio, i costi generali e le spese del personale dipendente (i primi perché sarebbero stati affrontati anche in assenza dell’operazione non onerosa ed i secondi perché esclusi da IVA) 57. Dunque, volendo aggiungere un’ulteriore considerazione rispetto a quanto già osservato in precedenza, la normativa di riferimento suggerisce di ritenere in questi casi non integrato il consumo inteso come “spesa” dell’acquirente bensì come spesa sostenuta dall’ultimo operatore economico, analogamente a quanto i giudici europei sembrano indicare per le operazioni a titolo oneroso caratterizzate dalla mancanza di un corrispettivo quantificabile in denaro. In questa prospettiva, l’imponibilità di dette operazioni non sembra avere natura derogatoria ed eccezionale ma trova la sua giustificazione nella necessità di garantire la definitività del prelievo nel momento in cui termina il circuito produttivo del bene o del servizio ed è volta a “correggere” la detrazione dell’imposta esercitata a monte. A questo punto, sulla base delle conclusioni raggiunte in precedenza, è possibile esaminare alcune fattispecie che sembrano in apparenza problematiche in quanto la verifica in merito alla loro imponibilità è stata condotta, principalmente, in ragione della individuazione della natura, onerosa o gratuita, dell’operazione.

56

Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 17 maggio 2001, cause riunite C-322/99 e 323/99. Cfr. sul punto R. COPPA-P. MASPES, La base imponibile delle prestazioni gratuite rilevanti ai fini IVA, cit., p. 3828. 57

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4.1. Le operazioni imponibili tra gratuità ed onerosità. In particolare, il problema delle operazioni effettuate a fronte del rimborso delle spese A prima vista possono sorgere problemi in relazione alle operazioni rese al costo e le perplessità più rilevanti attengono alla individuazione della natura, onerosa o gratuita, delle prestazioni di servizi sebbene, in via generale, sia difficile ipotizzare che una prestazione resa a fronte del rimborso delle “spese vive” possa – sotto il profilo civilistico ed al di fuori di determinate e particolarissime ipotesi 58 – essere configurata come gratuita e non onerosa. In ambito tributario, il problema è tuttavia agevolmente risolto in via generale dal legislatore nazionale sulla base della qualificazione del “rimborso spese” in termini, alternativamente, di corrispettivo ovvero anticipazione. Infatti, da un lato, l’art. 13 più volte citato del decreto IVA prevede che concorrano alla determinazione della base imponibile anche le “spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente”. Dall’altro, l’art. 15, n. 3, del medesimo decreto esclude dalla base imponibile “le somme dovute a titolo di rimborso delle anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, purché regolarmente documentate”, facendo chiaramente riferimento al rapporto di mandato con rappresentanza. È vero che l’interpretazione letterale dell’art. 13 potrebbe indurre a ritenere che l’operazione rilevante ai fini IVA sia solo quella a fronte della quale è previsto un corrispettivo, comprensivo o meno del “rimborso del costo”, mentre l’isolata pattuizione del mero reintegro delle spese non sia qualificabile giuridicamente in termini di corrispettivo bensì di “anticipazione”. Ogni dubbio è però fugato dal citato art. 15 che riconosce la rilevanza dell’“anticipazione” solo in presenza di determinate condizioni e cioè la spendita del nome del cessionario o committente e la relativa intestazione dei dati di spesa 59. 58

Cfr. R. SACCO, Contratto sinallagmatico o con prestazioni corrispettive, in Dig., disc. priv., Agg., 2011, p. 272. Il problema sembrerebbe sostanzialmente riguardare la categoria delle promesse unilaterali condizionate nonché la fattispecie disciplinata dall’art. 1333 del c.c. del contratto con obbligazioni del solo proponente. Trattasi di fattispecie chiaramente marginali in quanto è evidente che in queste ipotesi il solo soggetto obbligato è colui che si impegna a rimborsare le spese, mentre il prestatore è libero di effettuare o meno il servizio, come si evince dagli esempi dell’Autore (si veda il primo esempio: “se io prometto a Tizio, unilateralmente, che – se acquisterà per me un certo libro – gli rimborserò le spese (le pure spese vive!), ecco che il solo contraente che si arricchisce sono io, mentre il solo contraente obbligato (sotto condizione) sono ancora io”. Nella stessa prospettiva, il secondo esempio: “un amico, il cui coniuge villeggia a dieci chilometri dal mio, sa che mi recherò a passare la fine settimana presso la mia famiglia, e mi incarica di recapitare a sua moglie un pacco, promettendomi il rimborso delle spese di taxi; io gli rispondo che difficilmente avrò tempo e voglia di occuparmi del pacchetto; l’amico insiste perché io, senza impegno, prenda il pacco, dicendo che comunque, se lo recapiterò, gli farò cosa grata, ed egli mi rimborserà il taxi. Dopo questo scambio di frasi, il mio conoscente è impegnato, mentre non sono impegnato io. Se recapito il plico, l’amico mi dovrà il prezzo del viaggio. Ma, poiché mi rimborsa solo la spesa viva, la mia prestazione non viene compensata (e perciò è gratuita)”). 59 L’Amministrazione finanziaria pacificamente afferma che la norma trova applicazione solo

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Nonostante il c.d. “riaddebito” dei costi 60configuri un’operazione sempre rilevante ai fini IVA ed a fronte della tradizionale e consolidata interpretazione del quadro normativo di riferimento, possono comunque essere segnalate isolate opinioni di segno contrario che appaiono di sicuro interesse ai fini dell’indagine. Secondo parte della dottrina, infatti, sarebbe sempre necessario distinguere tra prestazioni gratuite ed onerose. In questo senso, nell’ipotesi in cui il soggetto “esegua la propria prestazione gratuitamente, ricevendo un mero rimborso spese per la prestazione dallo stesso effettuata, non può individuarsi, a rigore, alcun corrispettivo per gli effetti di cui al menzionato articolo 13” 61 di modo che l’operazione risulterebbe in ogni caso irrilevante ai fini IVA. Inoltre, anche qualora la prestazione dovesse essere considerata onerosa, perché è corrisposto, unitamente al rimborso delle spese, un compenso, l’importo versato a titolo di rimborso dovrebbe esnell’ipotesi di mandato con rappresentanza e non nel caso di appalto di servizi. Cfr. Ris. n. 430084 del 15 dicembre 1990; Ris. n. 102 del 17 giugno 1996 nonché Ris. n. 203/E del 5 agosto 2009, ove è chiarito che l’applicabilità della norma è limitata in quanto riguarda esclusivamente “operazioni inquadrabili nell’ambito del contratto di mandato con rappresentanza (articolo 1704 c.c.) in forza del quale le somme anticipate dal mandatario nei confronti di terzi e poi rimborsate specificatamente dal mandante – ovvero le somme anticipate dal mandante al mandatario come “provvista fondi” – sono escluse dalla base imponibile IVA e, quindi, sono fuori dal campo di applicazione dell’imposta, a condizione che risultino regolarmente documentate da idonea fattura emessa da un terzo ed intestata direttamente al mandante”. Il problema della imponibilità o meno del c.d. “fondo spese” si pone anche in altre ipotesi. Si pensi all’art. 3 del D.M. 31 ottobre 1974, ai sensi del quale “per le somme ricevute in deposito, globalmente ed indistintamente, sia a titolo di corrispettivo che a titolo di spese da sostenere in nome e per conto dei clienti, gli esercenti la professione notarile, quella forense, nonché quella di commercialista, devono emettere la fattura, relativamente al pagamento dei corrispettivi”. Detta norma è stata interpretata nel senso che il problema delle somme versate a titolo di “fondo spese” si risolve in una “questione di prova, dovendo risultare, in base alle caratteristiche complessive dell’operazione, l’effettiva ragione del versamento”. Cfr. R. LUPI, Diritto tributario, Parte speciale, I sistemi dei singoli tributi, cit., p. 295 e in particolare nota 56, il quale ritiene che detto articolo dimostrerebbe a contrario come le somme versate a professionisti esclusivamente a titolo di deposito per spese da sostenere per conto del cliente debbano essere considerate escluse da IVA, indipendentemente dalla spendita del nome. Nello stesso senso, ma sulla base di una diversa argomentazione, G. PETRELLI, Rimborsi spese e collaborazioni coordinate e continuative: imposte dirette ed IVA, Studio n. 865 bis del 17 maggio 1999 del CNN. 60 Il c.d. “riaddebito dei costi” si configurerebbe ogni qualvolta apposite pattuizioni contrattuali stabiliscano il rimborso analitico da parte del cliente delle spese sostenute per l’espletamento della prestazione. Poiché il riaddebito non è riconducibile al concetto di “anticipazione”, si deve concludere che il corrispettivo contrattualmente pattuito è rappresentato dalle spese effettivamente sostenute per l’espletamento della prestazione e determinato sulla base di una rendicontazione analitica. In argomento si veda N. VILLA, Il riaddebito dei servizi, in C. SACCHETTO (a cura di), IVA – 1996. Analisi di alcune significative fattispecie giuridiche, Milano, 1996, p. 7, che tuttavia sembra limitare il riaddebito alle sole prestazioni rese nell’ambito del contratto di mandato senza rappresentanza. 61 G. PETRELLI, op. cit.

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sere comunque escluso dalla base imponibile nelle ipotesi in cui l’anticipazione per conto del cliente trova titolo nella legge o nel contratto. Alla base di una simile ricostruzione vi è la convinzione che l’art. 15, n. 3, del citato decreto non debba essere interpretato come norma speciale e derogatoria di un principio generale di onerosità delle operazioni rese al costo e che, superando il dato formale ed in una prospettiva sostanziale, debba essere considerato confermativo della natura oggettiva di anticipazione del rimborso. In altri termini, l’art. 15 statuirebbe l’esclusione dalla base imponibile in ragione dell’oggettiva natura di anticipazione per conto altrui e, quindi, di “partita di giro” del rimborso spese, anche in assenza di una formale spendita del nome del cessionario o committente 62. Pertanto, ogni volta che il prestatore anticipi una determinata spesa, che tuttavia, per legge o per obbligo contrattuale, è posta a carico del committente che poi ne esegue il rimborso, si sarebbe di fronte ad una mera anticipazione e non ad un corrispettivo ai sensi dell’art. 13 del D.P.R. n. 633 del 1972. Quindi, in definitiva, occorrerebbe distinguere: i) la prestazione a titolo oneroso rilevante ai fini IVA come richiede in via generale l’art. 13 in quanto la controprestazione è rappresentata dal corrispettivo, al quale si affianca il rimborso delle spese quale ulteriore modalità di determinazione del corrispettivo; ii) la prestazione a titolo oneroso resa a fronte del rimborso delle spese (che per legge o per contratto sono poste a carico del cliente) e del corrispettivo, rilevante in relazione solo a tale ultimo importo, perché nell’ipotesi in cui il soggetto “anticipi una determinata spesa, che tuttavia, per legge o per obbligo contrattuale, è posta a carico del committente che poi ne esegue il rimborso, si è di fronte ad una mera anticipazione e non ad un corrispettivo per gli effetti di cui all’art. 13” 63. 62

Riconosce la possibilità di applicare la norma anche in assenza della formale spendita del nome e, quindi, all’infuori di un rapporto giuridico qualificabile in termini di mandato con rappresentanza ma ferma restando la necessità di documentare, ai fini probatori, la natura di rimborso spese dell’introito, R. LUPI, Diritto tributario, Parte speciale, I sistemi dei singoli tributi, cit., 306 e in particolare nota 95; così si esprimono anche G. PETRELLI, Rimborsi spese e collaborazioni coordinate e continuative: imposte dirette ed IVA, cit.; G. ARNAO, I rimborsi di anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, in Corr. trib., 1985, p. 1854. 63 G. PETRELLI, op. cit., ove è affermato come l’art. 13 “nella misura in cui ricomprende tra i corrispettivi anche gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione, costituisca il logico pendant della disposizione civilistica contenuta nell’art. 1196 c.c., in base alla quale il debitore è tenuto a sopportare le spese della propria prestazione. Ove, viceversa, tali spese gravino sul creditore della prestazione medesima, la norma non ha più ragion d’essere”. Negli stessi termini si esprime G. ARNAO, op. cit., p. 1857, il quale conclude che l’esclusione da IVA è operante anche in assenza di un rapporto di mandato nelle ipotesi in cui “il diritto di ripetizione delle somme trae origine, tutt’al più, da un sottostante rapporto obbligatorio, quello per l’appunto che pone a carico del cessionario o committente talune spese con riserva di ripetizione per il cedente o prestatore nel caso in cui questi dovesse anticiparle” di modo che dovrebbero essere esclusi dalla base imponibile “i meri rimborsi di somme relative a debiti e oneri contrattualmente facenti carico al cessionario o al committente per i quali il cedente o il prestatore abbia provveduto – per qualsiasi motivo – ad anticipare i relativi importi”.

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La tesi appare suggestiva ed a questo proposito, è utile segnalare una peculiare vicenda giurisprudenziale, che evidenzia come la Corte di Cassazione abbia interpretato una specifica norma prevista ai fini IVA in tema di c.d. distacco o prestito del personale sulla base di un analogo percorso argomentativo. Ai sensi dell’art. 8, comma 35, della L. 11 marzo 1988, n. 67 “non sono da intendere rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto i prestiti o i distacchi di personale a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo”. Detta norma è stata interpretata come derogatoria del principio generale in base al quale la prestazione resa al costo è sempre considerata onerosa ed effettuata “verso corrispettivo”. In questo senso, l’Amministrazione finanziaria ha più volte precisato che la disposizione prevede un’esclusione dell’operazione dall’ambito applicativo dell’IVA a condizione che: a) lo schema negoziale utilizzato per la fornitura della manodopera corrisponda all’istituto del prestito o distacco del personale come normativamente disciplinato 64; b) sia rimborsato esclusivamente l’esatto costo del personale prestato. In assenza di una delle due condizioni ed in particolare, ai fini che rilevano in questa sede, qualora le somme oggetto di rimborso siano pattuite in misura superiore o inferiore al costo, l’intero importo sarebbe imponibile ai fini IVA in quanto la prestazione si qualificherebbe come generico appalto di servizi 65. Ciò nonostante, con la sentenza n. 19129 del 7 settembre 2010, la Corte di Cassazione ha fornito un’originale interpretazione della norma in esame dal momento che ha in sostanza individuato una sorta di “franchigia”: secondo la ricostruzione dei giudici di legittimità sarebbe imponibile ai fini IVA la sola eccedenza pattuita rispetto al rimborso del costo del personale sostenuto dal distaccante, perché il soggetto che distacca il personale non effettua, nei limiti del relativo costo, alcuna prestazione nei confronti del distaccatario mentre solo l’importo eccedente il rimborso del costo sarebbe imponibile ai fini IVA “per la sua corrispondenza all’acquisto di un bene o all’acquisizione di un servizio”. In altri termini, il rimborso del costo sarebbe sintomatico dell’assenza di una prestazione a titolo oneroso o meglio, di un sinallagma contrattuale. L’assunto è meglio chiarito laddove viene precisato che “se il beneficiario del distacco rimborsasse una somma inferiore, sarebbe evidente che esso non avrebbe acquistato alcun bene e non 64

L’istituto del distacco di personale è attualmente disciplinato dall’art. 30 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 e ricorre allorché un datore di lavoro, per proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa, di modo che il titolare del rapporto di lavoro rimane il distaccante, tenuto all’adempimento in favore del lavoratore di tutti gli obblighi (retributivi, fiscali, previdenziali e contrattuali, come ad esempio il rimborso di eventuali spese sostenute dal dipendente) derivanti dal rapporto ai sensi di legge, mentre il costo sostenuto per il lavoratore distaccato è rimborsato dal distaccatario. 65 Cfr. Ris. n. 346/E del 5 novembre 2002; Ris. n. 262/E del 2 agosto 2002.

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avrebbe usufruito di alcuna prestazione da parte del soggetto distaccante il personale, onde si continuerebbe a versare nel campo dell’irrilevanza per l’IVA” 66. Il ragionamento non sembra cogliere nel segno: nell’ipotesi considerata non appare corretto parlare di “mancanza di acquisto” ovvero ricostruire la vicenda in termini di rapporto giuridico gratuito. La prestazione è comunque a titolo oneroso in quanto esiste un servizio acquistato ad un determinato prezzo che ne rappresenta il costo di esecuzione, fermo restando che ciò che manca è, semmai, la remunerazione espressiva del valore aggiunto apportato dal soggetto attivo ma, come rilevato in precedenza, detta circostanza non è determinante ai fini della rilevanza di una determinata operazione nell’ambito del tributo in esame. È doveroso evidenziare che la richiamata ipotesi ricostruttiva, già duramente criticata dai primi commentatori 67, è stata di lì a poco superata dalla successiva sentenza n. 23021 del 7 novembre 2011 resa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, ove è stato nuovamente riaffermato il consolidato orientamento in base al quale la norma rappresenta una deroga e deve essere intesa “nel senso che il distacco di personale è irrilevante ai fini dell’IVA soltanto se la controprestazione del distaccatario consista nel rimborso di una somma esattamente pari alle retribuzioni ed agli altri oneri previdenziali e contrattuali gravanti sul distaccante” 68. Il distacco quindi 66 Secondo P. CENTORE, Il distacco di personale fra norma nazionale e comunitaria, in GT-Riv. giur. trib., 2012, p. 97, la norma appare chiara “nell’intento di sterilizzare il puro addebito del costo, ritenuto, si può immaginare, non come vero «corispettivo» dell’operazione, che, di conseguenza, degrada nell’ambito delle situazioni «non soggette ad imposta» per carenza del presupposto oggettivo”. Peraltro, l’Autore evidenzia il possibile contrasto della norma nazionale con la disciplina europea. Sul punto si veda altresì F. CAPELLO, Il distacco di personale secondo le Sezioni Unite e la compatibilità con le direttive IVA, in Dir. prat. trib., II, 2013, p. 272. 67 G. MARINI, Disciplina dell’IVA e distacchi di personale: a proposito di una recente sentenza, in Dir. prat. trib., II, 2011, p. 562; ID., Riflessioni su una recente (e innovativa) sentenza circa la disciplina IVA del distacco di personale, in Il fisco, 2011, p. 1353; F. CAPELLO, Il regime IVA del prestito di personale, in Dir. prat. trib., 2011, II, p. 991; M. MANTOVANI-B. SANTACROCE, Nei prestiti di personale il rimborso del costo del lavoro è sempre escluso da IVA?, in Corr. trib., 2010, p. 3566. 68 Le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato la differente formulazione della norma in tema di distacco del personale rispetto a quella successivamente prevista in materia di contratto di somministrazione di lavoro (e prima di lavoro interinale). L’art. 26-bis della L. 24 giugno 1997, n. 196, le cui disposizioni, ai sensi dell’art. 86, comma 4, del D.Lgs. n. 276/2003, devono attualmente intendersi riferite alla disciplina della somministrazione di lavoro, prevede, infatti, che “i rimborsi degli oneri retributivi e previdenziali che il soggetto utilizzatore di prestatori di lavoro temporaneo è tenuto a corrispondere (...) all’impresa fornitrice degli stessi, da quest’ultima effettivamente sostenuti in favore del prestatore di lavoro temporaneo, devono intendesi non compresi nella base imponibile dell’IVA di cui all’articolo 13”. Alla stregua della formulazione letterale, la norma sembrerebbe disporre che la base imponibile è rappresentata in ogni caso dal solo mark up e cioè dal margine eccedente il rimborso del costo. La diversa considerazione normativa del rimborso del costo nei due casi (distacco e somministrazione di personale) appare peraltro difficilmente giustificabile, sol che si pensi, da un lato, al fatto che la comune ratio dovrebbe essere rinvenuta principalmente nell’esigenza di non sottoporre ad IVA i trattamenti retributivi derivanti da contratti di lavoro

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rappresenta una prestazione di servizi sempre rilevante ai fini IVA ed imponibile per l’intero ammontare pattuito, sia esso inferiore o superiore al costo del personale, mentre è escluso dall’ambito applicativo del tributo solo il distacco a fronte del quale sia previsto esattamente il rimborso del costo del personale 69. Peraltro, merita segnalare che anche la motivazione addotta dalle Sezioni Unite desta alcune perplessità. Infatti, secondo i giudici, la previsione normativa dell’irrilevanza del distacco di personale trova la sua giustificazione perché l’operazione è sostanzialmente neutra e cioè non comporta “un guadagno per il distaccante ma nemmeno un risparmio per il distaccatario”. Tuttavia, da un lato, il principio del lucro oggettivo è del tutto estraneo alla disciplina dell’IVA, come già ampiamente rilevato, di modo che il margine di profitto ricavabile dall’espletamento dell’operazione è sostanzialmente irrilevante e, dall’altro, la nozione di “risparmio” è ben lungi dall’evocare il concetto di “spesa” per consumo 70. Ad ogni modo e volendo trarre delle brevi conclusioni, la vicenda giurisprudenziale segnalata sembra confermare il principio in base al quale il rimborso del costo è sempre rilevante in termini di corrispettivo a meno che non sussistano specifiche norme derogatorie di segno contrario. Dal che discende che l’opinione in base alla quale il rimborso del costo sarebbe indicativo di una prestazione subordinato, dall’altro, che mentre nel contratto di somministrazione di lavoro l’interesse del fornitore del servizio è prioritariamente quello di ottenere un vantaggio economico dalla messa a disposizione del personale, nel distacco l’interesse del distaccante è riconducibile alla finalità di ottimizzare le risorse umane e non è, di norma, collegato al conseguimento di un mark up. 69 Secondo i giudici di legittimità, infatti, l’art. 8, comma 35, “ha effettivamente introdotto una eccezione al regime normale, prevedendo che il distacco di personale che, come si è detto, integrerebbe in astratto una prestazione di servizi soggetta all’IVA non può, in concreto, più essere considerato tale nel caso in cui il beneficiario rimborsi al concedente il solo costo del personale utilizzato. Tale rimborso deve essere, però, esattamente uguale alle retribuzioni ed agli altri oneri perché ciò che occorre ai fini della irrilevanza è, come riconosciuto dalla dottrina e dall’Amministrazione finanziaria, che si tratti di una operazione sostanzialmente neutra, ovverosia di una vicenda che non comporti un guadagno per il distaccante, ma nemmeno un risparmio per il distaccatario, visto che, in caso contrario, non vi sarebbe ragione di riservarle un trattamento diverso dal normale”. 70 La questione è di più ampio respiro ed involge il problema della rilevanza in ambito tributario del c.d. risparmio di spesa che riceverebbe sempre maggior attenzione da parte del legislatore. Fattispecie nelle quali è ravvisabile il solo risparmio di spesa – evidentemente, considerato dal legislatore indicativo di “arricchimento” – sono a volte tassate nell’ambito di tributi che colpiscono il reddito ovvero le successioni e le donazioni. Cfr. M. BEGHIN, Le intestazioni societarie “di comodo” nel DL n. 138/2011 tra difetto di inerenza e resistibile tassazione dei risparmi di spesa, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 153, che critica l’accostamento del risparmio di spesa al reddito inteso come incremento patrimoniale, nonché G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, 2008, p. 762, per il quale, a seguito della reintroduzione nel 2006 dell’imposta sulle successioni e donazioni, il tributo avrebbe natura di imposta diretta sull’arricchimento degli eredi e legatari in quanto sussiste “il primo elemento che contrassegna il concetto di reddito” cioè l’incremento del patrimonio. Ciò nonostante, l’imposta colpisce anche gli atti a titolo gratuito (ad esempio, la rinuncia) che, per definizione, non sarebbero volti a produrre un arricchimento.

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“senza corrispettivo” e quindi gratuita ai fini IVA, per quanto suggestiva, non può essere seguita. In conclusione, come evidenziato in precedenza e salvo ipotesi eccezionali, la prestazione resa a fronte del rimborso del costo è e rimane una prestazione onerosa e non gratuita di modo che il parametro del rimborso rappresenta esclusivamente una modalità di quantificazione del corrispettivo pattuito dalle parti. Peraltro, anche a voler ammettere che in alcune ipotesi le operazioni rese a fronte del rimborso del costo possano essere qualificate come gratuite anziché onerose, ciò non toglie che occorra sempre verificarne la rilevanza ai fini IVA in quanto non è possibile escludere a priori la loro imponibilità, secondo quanto già ampiamente rilevato in precedenza.

4.2. Le operazioni imponibili tra gratuità ed onerosità. In particolare, il problema della rilevanza della rinuncia al corrispettivo quale vicenda sopravvenuta che incide sulla natura dell’operazione Per completare l’indagine, non manca che fugare i dubbi in merito all’eventuale rilevanza della c.d. “rinuncia” al credito in ambito IVA. Infatti, secondo parte della dottrina, la sopravvenuta rinuncia al corrispettivo potrebbe essere autonomamente considerata ai fini dell’operatività dell’art. 26 del decreto IVA 71. Com’è noto, il secondo comma dell’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 contempla, tra le varie ipotesi che legittimano il cedente e/o il prestatore ad emettere una nota di variazione in diminuzione (detta anche, comunemente, nota di credito o di accredito) nei confronti del proprio cliente, anche il caso in cui il corrispettivo dell’operazione non sia stato pagato, parzialmente o per l’intero, “a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose”. L’art. 26, pertanto, equipara ai casi di invalidità o di improduttività degli effetti del contratto derivanti da nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili e che determinano il venir meno, in tutto o in parte, dell’operazione ovvero ne riducono la base imponibile, anche l’ipotesi in cui si verifica un mero inadempimento contrattuale che, per definizione, non implicherebbe il venir meno dell’operazione assoggettata ad imposta “non potendo di per sé il mancato pagamento del corrispettivo trasformare in gratuita un’operazione di natura onerosa”, bensì incide sulla tassabilità della stessa in quanto “l’insolvenza manterrebbe pur sempre in astratto tassabile l’(atto giuridico da cui deriva l’)operazione (…) che 71

Sulla nozione di corrispettivo ricavabile dall’art. 13 del D.P.R. n. 633/1972 si veda F. MOSul concetto di «corrispettivo» ai fini IVA (in ordine al trattamento IVA del «contributo integrativo» nel sistema di previdenza forense), in Boll. trib., 1982, p. 1611. SCHETTI,

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di per sé resta valida ed efficace” salvo che “l’inadempimento si traduca automaticamente in causa risolutiva del contratto” 72. La disposizione in esame è stata introdotta soltanto nel 1997 73ed è attuativa degli artt. 90 e 185 della direttiva 2006/112/CE. In particolare, l’art. 90 (ex art. 11, parte C, par. 1, della Direttiva n. 388 del 1977) con formulazione molto più ampia, prevede che, oltre alle ipotesi di “annullamento, recesso, risoluzione” anche in caso di “non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri”. Anche la norma in esame è espressione del fondamentale principio secondo cui la base imponibile IVA è data dal corrispettivo realmente ricevuto di modo che il singolo Stato membro non può esigere a titolo di IVA un importo superiore o diverso da quello concretamente percepito dal soggetto attivo dell’operazione. Se nell’ottica europea il mancato pagamento del corrispettivo, di per sé inidoneo a determinare il venir meno dell’operazione, sembra rilevare quale evento che comporta l’“annullamento” o la “diminuzione” della base imponibile, nella prospettiva del legislatore nazionale, non ogni mancato pagamento legittima l’emissione di una nota di variazione in diminuzione: rileva, infatti, esclusivamente l’inadempimento che deriva da un’insolvenza del debitore ormai conclamata, perché emergente dalla chiusura di procedure esecutive, individuali o concorsuali, rimaste infruttuose 74. Inoltre, il diritto del soggetto attivo ad emettere la nota 72

M. BASILAVECCHIA, Le note di variazione, in F. TESAURO (diretta da), L’imposta sul valore aggiunto, Torino, 2001, p. 644. Sul tema si veda altresì A. CARINCI, Le variazioni IVA: profili sostanziali e formali, in Riv. dir. trib., 2000, I, p. 711. La rilevanza dell’inadempimento è tuttavia residuale dato che, come chiarito dalla stessa Amministrazione Finanziaria, la norma limita “la rilevanza del mancato pagamento alle ipotesi di «procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose», perché solo in tali ipotesi si ha una ragionevole certezza dell’incapienza del patrimonio del debitore. Il mancato pagamento assume, quindi, rilievo costitutivo nelle sole ipotesi in cui il creditore abbia esperito tutte le azioni volte al recupero del proprio credito ma non abbia trovato soddisfacimento. Il mancato pagamento è ininfluente, invece, nelle altre ipotesi previste dall’articolo 26, per le quali ciò che rileva è che l’operazione sia venuta meno in tutto o in parte o che se ne sia ridotto l’ammontare imponibile, a prescindere dal fenomeno finanziario del pagamento”. Cfr. Ris. n. 195/E del 16 maggio 2008 ove è altresì precisato che “nelle ipotesi in cui il creditore esperisca azioni esecutive o concorsuali per recuperare il proprio credito, il diritto alla variazione presuppone che abbia avuto inizio una procedura esecutiva e che la stessa si sia conclusa infruttuosamente”. 73 Nella sua formulazione originaria, che si deve alla legge di conversione n. 30 del 28 febbraio 1997 che ha aggiunto la lettera c-bis all’art. 2, comma 1, D.L. 31 dicembre 1996, n. 669, la norma aveva riguardo al mero “avvio di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose”. Il riferimento all’avvio della procedura è stato eliminato ad opera dell’art. 13 bis, comma 1, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79, inserito in sede di conversione dalla L. 28 maggio 1997, n. 140. 74 Ed in relazione alle quali il creditore sia stato parte attiva fino alla chiusura della procedura. Cfr. Ris. n. 120/E del 5 maggio 2012 ove l’Amministrazione Finanziaria ha ritenuto che in caso di cessione pro-soluto di un credito successivamente all’instaurazione di una procedura concorsuale

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di credito sorge, secondo l’orientamento espresso dall’Amministrazione finanziaria e fatto successivamente proprio anche dalla giurisprudenza 75, esclusivamente a seguito della chiusura della procedura esecutiva, a nulla rilevando che l’incapienza del debitore e, quindi, la “certezza” dell’inadempimento si sia verificata in un momento antecedente alla chiusura della procedura e possa essere provata aliunde. In proposito, è stato osservato che l’inadempimento rileva nella misura in cui trova titolo nella mancata realizzazione dell’interesse del creditore “senza che entri anche in gioco lo scioglimento del contratto; strada – questa – ovviamente sempre percorribile” 76. È indubbio infatti che il venir meno, per qualunque causa, del titolo negoziale consente di stornare l’operazione fatturata e di detrarre l’IVA pari a quella registrata ed in questa prospettiva, semmai, eventuali problemi si pongono in relazione al negozio unilateralmente inadempiuto in quanto l’eventuale ripetizione delle somme dovute a titolo di indebito oggettivo potrebbe comportare la necessità di procedere ad una nuova fatturazione 77. Secondo alcuni autori, tuttavia, il problema della limitata applicabilità dell’art. 26 potrebbe essere superato alla luce della considerazione che la rinuncia al corrispettivo è idonea “ad incidere sull’esistenza o entità del diritto di credito” indipendentemente dal fatto che il soggetto obbligato sia coinvolto in procedure esecutive, di modo che la nota di variazione potrebbe essere legittimamente emessa nel corso della procedura concorsuale ed anche a prescindere dall’eventuale partecipazione alla stessa da parte del soggetto attivo dell’operazione 78. In modo ancor più radicale, altri autori hanno evidenziato che la rinunzia al credito o la remissione del debito interverrebbero “con riferimento ad un’operala nota di variazione in diminuzione possa essere emessa dal solo cedente che non sia stato estromesso dalla procedura. 75 Cfr. Circ. n. 77/E del 17 aprile 2000. Per la giurisprudenza si veda Comm. Trib. Reg. Bari, n. 20 del 1 marzo 2010; Cass., n. 27136 del 16 dicembre 2011. 76 Cfr. G. TABET, Sull’applicabilità della procedura di variazione in diminuzione ex art. 26, comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972 nei confronti dei clienti morosi, in Rass. trib., 1999, p. 79 ss. 77 Sul tema si veda ancora G. TABET, op. cit., p. 79 ss., che distingue gli effetti prodotti dalla risoluzione per inadempimento a seconda che il negozio abbia avuto esecuzione istantanea ovvero continuativa o periodica. Nel primo caso e stante l’effetto retroattivo inter partes della risoluzione, l’Autore segnala che le somme dovute a titolo di risarcimento dei danni sono escluse dalla base imponibile IVA ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 633/1972 mentre “se successivamente il controvalore delle utilità prestate viene recuperato a titolo di ripetizione dell’indebito oggettivo, scatta l’obbligo di fatturare nuovamente l’operazione stornata in precedenza”. Nella seconda ipotesi, invece, la risoluzione opera ex nunc esclusivamente in relazione alle reciproche prestazioni già eseguite in riferimento alle quali il rapporto può considerarsi esaurito mentre la regola della retroattività deve essere considerata pienamente vigente nel caso in cui il contratto ha avuto solo unilateralmente esecuzione periodica. 78 In questi termini, A. CARINCI, op. cit., p. 741, al quale si rimanda anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici.

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zione la quale, per atto dispositivo intervenuto successivamente al suo perfezionamento, ha perduto il suo profilo di onerosità. Altrimenti detto: si è versata un’imposta (e se ne è parallelamente detratto l’importo, riguardando l’operazione dalla prospettiva del cessionario) con riferimento ad un valore aggiunto che, alla resa dei conti, è risultato inesistente” 79. Ma in senso contrario, non sembra pacificamente sostenibile che “il venir meno del corrispettivo per effetto di un atto dispositivo del titolare del diritto implichi necessariamente il mutamento della funzione economico sociale del precedente contratto” 80. Dunque, il sopravvenire della rinuncia non sembra idoneo a “mutare” l’operazione da onerosa in gratuita e, ad ogni modo, ad incidere sull’imponibilità della stessa. A ciò deve peraltro aggiungersi che la soluzione qui criticata e che implica il riconoscimento dell’irrilevanza (sopravvenuta) dell’operazione ai fini IVA: a) estende irragionevolmente l’applicabilità dell’art. 26 citato al di là delle intenzioni del legislatore, sia nazionale che europeo, in quanto riconosce la discrezionalità del soggetto attivo in merito alla scelta del venir meno dell’imponibilità di un’operazione; b) è formulata sulla base del presupposto che la rinuncia del soggetto attivo dell’operazione possa avere ad oggetto il solo corrispettivo pattuito ad esclusione del credito per rivalsa 81. 79 Così L. CASTALDI, Rinuncia nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., Sez. comm., XII, Torino, 1996, p. 534. 80 Cfr. V. MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2012, p. 111. L’Autrice pertanto suggerisce “cautela nell’attribuire immediata rilevanza all’atto dispositivo di rinuncia, come idoneo a far venire meno l’operazione imponibile, a prescindere da una valutazione in concreto di questa vicenda”. Vero è che, sotto il profilo squisitamente civilistico, alcuni Autori hanno osservato come “affinché si possa rinunziare deve essere già sorto, appunto, ex lege o ex contractu, un diritto di credito come conseguenza dell’esecuzione della prestazione di fare”. Secondo A. CHECCHINI, L’interesse a donare, cit., 14, nell’ipotesi di obbligazione di fare a titolo gratuito l’impoverimento mancherebbe sempre non potendo essere lo stesso ravvisato nel mero dispendio di energie fisiche o intellettuali. Diversamente, nel caso in cui durante l’esecuzione dell’obbligazione intervenga la rinuncia al corrispettivo, perché in questo caso è già sorto ex lege o ex contractu un diritto di credito di modo che il rinunciante si priverebbe di una posta attiva nell’ambito dei suoi diritti patrimoniali. In ogni caso, anche accedendo alla tesi della gratuità “sopravvenuta” dell’operazione, non potrebbe escludersi l’imponibilità di quest’ultima secondo quanto chiarito in precedenza. Pertanto, più che un problema di irrilevanza dell’operazione e conseguente applicabilità dell’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972, si potrebbe porre semmai la questione di individuare i corretti criteri di determinazione della base imponibile. 81 Cfr. L. CASTALDI, Rinuncia nel diritto tributario, cit., p. 534, secondo la quale non si porrebbero problemi in relazione al credito per rivalsa il cui esercizio non può essere oggetto di rinuncia “quest’ultima configurandosi in termini di diritto/dovere nella sistematica applicativa del tributo di cui trattasi. Invero, nel complesso meccanismo IVA, la traslazione dell’onere impositivo dal cedente al cessionario è obbligatoria e indefettibile costituendo cardine per ottenere quella neutralità dell’imposizione nei passaggi intermedi del ciclo produttivo e distributivo dei beni e servizi che costituisce il fine ultimo cui è improntata tutta la disciplina del tributo in questione; si versa, pertanto, in quella situazione di

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Peraltro, non può sottacersi che la svalutazione della problematica inerente la possibilità di disporre del credito per rivalsa 82 incide notevolmente sulla condivisibilità della ricostruzione. Infatti, la tesi della gratuità “sopravvenuta” dell’operazione dovrebbe portare conseguentemente a ritenere disponibile anche la rivalsa secondo il dettato dell’art. 18, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972. D’altronde, solo qualora si ammettesse che la rivalsa in questo caso è disponibile, la soluzione in esame potrebbe essere adottata senza particolari problemi. Per contro, accedere alla tesi della indisponibilità e, quindi, della irrinunciabilità del suddetto credito – ricavabile dal divieto sancito dal quarto comma dell’art. 18 del D.P.R. n. 633/1972 – impone di affrontare il problema delle conseguenze dell’applicazione dell’art. 26 sulla sorte del credito di rivalsa. In questa prospettiva, si potrebbe alternativamente sostenere che: i) la rivalsa è e rimane legittima di modo che la procedura di cui all’art. 26 dimostrerebbe la sua inutilità essendo preclusa una rettifica delle reciproche posizioni debitorie e creditorie che i soggetti coinvolti nell’operazione hanno maturato nei confronti dell’Erario, ovvero ii) la rivalsa è indebita, di modo che la rettifica ex art. 26 dimostrerebbe la sua utilità, fermo restando che il soggetto attivo dell’operazione sarebbe tenuto a restituire al cliente le somme eventualmente conseguite a titolo di IVA. In conclusione, in ambito IVA la rinuncia al corrispettivo non sembra rappresentare un evento idoneo a mutare la qualificazione giuridica di una determinata operazione economica, la quale ultima, evidentemente, rimane onerosa e pienamente rilevante ai fini del tributo in esame.

5. Considerazioni conclusive L’indagine svolta nei precedenti paragrafi sembrerebbe aver dimostrato che l’onerosità non è requisito determinante ai fini della imponibilità di un’operazione economica in ambito IVA e che anche le operazioni “senza corrispettivo” o, più in generale, gratuite, possono rilevare ai fini di questo tributo, coerentemente con la ratio dell’IVA, che è volta a tutelare il libero mercato ed eliminare qualsiasi potenziale effetto distorsivo della concorrenza. Sotto questo profilo, occorre chiedersi se dette conclusioni legittimino l’interprete ad estendere la nozione di consumo rilevante ai fini IVA fino a ricomprendervi anche le ipotesi in cui manca una spesa per consumo sostenuta dall’acquiindisponibilità della situazione giuridica soggettiva che implica altresì e correlativamente la sua irrinunciabilità”. 82 Sul tema, che involge profili di particolare complessità di cui non è possibile dar conto in questa sede si veda, per tutti, F. PAPARELLA, L’accollo del debito di imposta, Milano, 2008, passim.

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rente e, sotto il profilo oggettivo, la definitività del prelievo risulti condizionata esclusivamente dalla detraibilità dell’IVA a monte. L’indagine imporrebbe una scelta di fondo in ordine alla ricostruzione della finalità del meccanismo applicativo dell’IVA ed alla individuazione della nozione oggettiva di consumo scelta dal legislatore europeo: infatti, qualora si ritenesse il tributo in esame come volto a colpire la soddisfazione di un interesse personale e finale dell’acquirente – e non meramente strumentale allo svolgimento dell’attività di impresa – si potrebbe individuare il consumatore finale nell’operatore economico che pone in essere l’operazione “senza corrispettivo”. Detta ricostruzione sembrerebbe confortata proprio dal fatto che la misura della soddisfazione di questo interesse è data dalla spesa sostenuta da quest’ultimo per porre in essere l’operazione stessa. Tuttavia, se si adotta questa prospettiva, occorre prendere atto della piena disponibilità della rivalsa, prevista dal legislatore come facoltativa. Per contro, potrebbe ritenersi che la definitività del prelievo sia collegata all’esigenza di colpire la “spesa” per consumo solo in relazione alle operazioni onerose, mentre in riferimento alle operazioni gratuite rilevi esclusivamente la necessità di “neutralizzare” il diritto di detrazione esercitato a monte dall’operatore economico. In questa prospettiva, come già evidenziato in precedenza, l’imponibilità dell’operazione rileverebbe quale eccezione dettata da motivi di “cautela fiscale”. In senso contrario, tuttavia, potrebbero militare le regole di determinazione della base imponibile previste in relazione alle operazioni non onerose – in particolare, quelle relative alle cessioni di beni – le quali dimostrerebbero che, in queste ipotesi, l’imposta è volta a colpire la spesa per consumo, sostenuta però non dall’acquirente, bensì dall’operatore economico. A prescindere dalla prospettiva che si intende adottare, occorre prendere atto che l’imposizione sembra prescindere da un apprezzamento della spesa per consumo in chiave “soggettiva”. Vale a dire che non appare rilevante la perdita dello status di soggetto attivo dell’operatore economico che, distraendo il bene o il servizio dall’attività, sarebbe qualificabile come consumatore finale 83. Osta infatti a questa ricostruzione la circostanza che la definitività del prelievo, sul piano soggettivo, può realizzarsi a carico, indipendentemente, dell’operatore economico che distrae dall’attività il bene e il servizio, ovvero del “beneficiario”. Il legislatore 83

Sul punto si veda però la sentenza del 1 aprile 1982, causa 89/81 (Hong Kong Trade), ove la Corte di Giustizia ha affermato che, se un prestatore di servizi fornisce “esclusivamente prestazioni senza contropartita diretta, non vi è una base imponibile e dette prestazioni gratuite non sono dunque soggette all’imposta”, dovendosi equiparare, in questa fattispecie, il prestatore al consumatore finale, laddove “al suo livello termina il circuito di produzione e di distribuzione”. Più in generale, la Corte afferma che le prestazioni gratuite si differenziano per loro natura da quelle imponibili in quanto queste ultime “presuppongono, nell’ambito del sistema dell’imposta sul valore aggiunto, la stipulazione di un prezzo o di un controvalore”.

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è infatti indifferente alla scelta del soggetto sul quale deve ricadere l’onere impositivo e che è demandata all’operatore economico tramite la previsione della rivalsa facoltativa 84.

84 In questa prospettiva, si possono menzionare le recenti pronunce dei giudici europei che condizionano il rimborso del tributo alla quota di imposta non traslata sul consumatore e che potrebbero implicitamente confermare la disponibilità della rivalsa obbligatoria. Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 10 aprile 2008, causa C-309/06, punti 41-44. Sul tema si veda R. MICELI, Indebito comunitario e sistema tributario interno. Contributo allo studio del rimborso d’imposta secondo il principio di effettività, Milano, 2009, passim. Può ulteriormente essere osservato che il legislatore non può costringere il creditore ad esercitare il proprio diritto, di per sé disponibile e quindi rinunciabile in quanto la caratteristica propria del diritto soggettivo è quella di attribuire un complesso di facoltà di agire nell’esclusivo interesse del titolare. È stato in proposito rilevato che la previsione dell’obbligatorietà della rivalsa non assicura in ogni caso che il trasferimento dell’onere impositivo possa in concreto verificarsi, perché “la legge può costringere un soggetto a costituirsi creditore ma non ad azionare il suo credito”. In altri termini, obbligatoria è la costituzione di un diritto di credito, non già il suo concreto esercizio. F. BOSELLO, Rivalsa (dir. trib.), in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991, p. 1. Da ultimo, si veda Cass., ordinanza n. 6482 del 14 marzo 2013, ove i giudici di legittimità hanno affermato che l’obbligo di esercitare la rivalsa “si risolve nel compimento dell’atto giuridico che consiste nell’addebito dell’imposta in fattura, ma non impone in concreto di esercitare la rivalsa. In altri termini, il soggetto passivo IVA non può decidere se esercitare o meno la rivalsa, e ciò in forza dalla terminologia utilizzata dal legislatore tributario e, quindi, come espresso dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 18, comma 1 deve addebitare la relativa imposta, ossia deve costituirsi creditore dell’imposta mediante addebito in fattura, ma ciò che è obbligatorio è la costituzione del diritto di credito e non già il suo esercizio e, d’altra parte, sarebbe contraddittorio il riconoscere un diritto di credito e contemporaneamente imporre al creditore il dovere di esercitarlo. In conclusione, l’obbligo di esercitare la rivalsa e il divieto di ogni patto contrario opera nei confronti dell’Erario fino al compimento dell’atto con cui, addebitando l’imposta in fattura, il soggetto passivo si costituisce creditore del cessionario e non comprende il dovere di trasferire in concreto a valle l’onere dell’imposta. Ne discende che, maturato a favore del soggetto passivo il credito di rivalsa con l’addebito in fattura, tale soggetto può disporre del suo credito e non esercitarlo e ciò può avvenire anche in forza di accordi contrattuali”. Sul tema della rivalsa nell’IVA si veda, da ultimo, F. RANDAZZO, Le rivalse tributarie, Milano, 2012, passim.

AZIENDA ED AVVIAMENTO TRA ACCERTAMENTO, “PREZZI” E “AUTONOMIA” DEL CONTRIBUENTE

di Valerio Ficari SOMMARIO: 1. Premessa e quadro normativo. – 2. La nozione di azienda, la vendita frazionata e il trasferimento (economico) dell’azienda attraverso quello delle partecipazioni. – 3. Il valore dell’azienda tra avviamento, pluralità di “componenti” del prezzo e pluralità di imposte “interessate”. – 4. Circolazione dell’azienda, elusione ed abuso del diritto tra imposte sul reddito ed imposta di registro.

1. Premessa e quadro normativo L’azienda e l’avviamento costituiscono “beni” rispetto alla cui circolazione e valorizzazione la dialettica tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria manifesta una intensa conflittualità. Tale conflittualità è puntualmente tangibile ogniqualvolta si tratti di stabilire, ad esempio, se l’oggetto della “circolazione” (nelle diverse forme consentite ed operando direttamente sui beni o sui soggetti) sia un’azienda o un insieme di beni fra loro funzionalmente non collegati, quale sia il valore fiscale e imponibile di quanto trasferito, se l’operazione (semplice o articolata) con la quale l’azienda sia ceduta abbia come unica finalità quella di consentire l’applicazione di un regime fiscale (di neutralità o, quantomeno, di maggiore convenienza rispetto ad altri propri di altre “operazioni”) e, quindi, sia suscettibile di essere sindacata sotto il profilo dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto 1. In termini ancora più semplici si tratta di discutere, da un lato, su “cosa sia” l’oggetto del trasferimento e su “come” questo possa essere realizzato e, dall’altro, in quali termini il legislatore tributario e i “principi” dell’ordinamento tribu1

Si pensi, da subito, alla tassazione delle plusvalenze ai fini delle imposte sul reddito ed all’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale nel caso della compravendita dell’azienda, da un lato, e, dall’altro, alla neutralità fiscale (seppur condizionata) del conferimento d’azienda e della cessione delle partecipazioni in regime Pex ed all’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa.

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tario (nazionale e comunitario) lascino il contribuente libero nelle sue scelte, lo inducano ad adottarne alcune e non altre o, infine, ne vietino altre ancora. L’ampiezza del tema, nelle sue diverse angolature e intersezioni con la disciplina sostanziale e procedimentale costringono, per semplicità, a evocare i dati normativi che fissano, in diverse sedi, la disciplina della “circolazione” dell’azienda e ad analizzare la recente esperienza giurisprudenziale su singoli punti. Come è noto, infatti, la trasformazione, la fusione e la scissione appartengono alle c.d. operazioni di riorganizzazione ovvero a quelle operazioni che non riguardano direttamente i beni delle imprese ma i soggetti e che, quindi, assolvono ad un ruolo funzionale e non immediatamente traslativo; l’apprezzamento per la valenza riorganizzativa e non direttamente traslativa delle operazioni c.d. straordinarie costituisce, peraltro, un trend del legislatore dal momento che la neutralità fiscale è altresì riconosciuta per operazioni diverse da quelle sui soggetti come i conferimenti di partecipazioni di controllo e collegamento e i conferimenti di azienda ex artt. 175 e 176 del TUIR anche quando la partecipazione ricevuta venga, successivamente, trasferita; tale natura giustifica la, seppur condizionata e vigilata, neutralità fiscale anche quando l’operazione di scissione riguarda soggetti residenti in stati membri diversi dell’Unione europea. Ciò è dimostrato nello stesso testo normativo che regola, con riguardo alle operazioni di trasformazione, fusione e scissione, i profili dell’imposizione sul reddito (artt. 170-172 del TUIR 22 dicembre 1986, n. 917) 2. Nell’apprezzare l’esogena distinzione fra operazioni sui beni ed operazioni sui/fra i soggetti, il legislatore tributario ne ha valorizzato l’esito riorganizzativo escludendo che i trasferimenti patrimoniali (azienda, altri beni, partecipazioni) costituiscano vicende traslative a titolo oneroso imponibili idonee ad evidenziare plusvalenze o minusvalenze; ciò nella prospettiva non dell’agevolazione ma di circoscrivere le ipotesi di tassazione a scelte esclusivamente o principalmente traslative e realizzative, idonee a manifestare in modo inequivoco la volontà della 2

Più in particolare, infatti, si legge: – all’art. 170 (“Trasformazioni della società”) che «La trasformazione della società non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento» ed all’art. 171 (“Trasformazione eterogenea”) che, nel caso della trasformazione eterogenea regressiva (da società IRES in ente non commerciale) «i beni della società si considerano realizzati in base al valore normale, salvo che non siano confluiti nell’azienda o nel complesso aziendale dell’ente stesso» e che, nel caso di quella eterogenea progressiva (da ente non commerciale in società IRES), la trasformazione stessa «si considera conferimento limitatamente ai beni diversi da quelli già compresi nell’azienda o complesso aziendale dell’ente stesso»; – all’art. 172 («Fusione di società») che «La fusione tra più società non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni delle società fuse o incorporate comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento»; – all’art. 173 («Scissione di società») che la scissione «non dà luogo a realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni della società scissa comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento».

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“monetizzazione” dei plusvalori e/o dell’abbandono dell’oggettiva destinazione imprenditoriale dei beni trasferiti. Nella più ampia dimensione della riorganizzazione imprenditoriale, attraverso modifiche dei soggetti e delle forme di esercizio, la trasformazione, la fusione e la scissione si affiancano, allora, ad altri strumenti di circolazione e razionalizzazione (es. il conferimento sia di azienda che di partecipazioni di controllo in regime pex) in cui il trasferimento del bene (azienda o partecipazione di controllo) assolve in via primaria al menzionato ruolo funzionale: per tali ragioni tali “strumenti” godono di regimi di neutralità fiscale sistematica e non più eccezionale e meramente agevolativa. L’art. 175 del TUIR («Conferimenti di partecipazioni di controllo o di collegamento») consente di giungere alla neutralità fiscale dell’operazione laddove il valore attribuito alle partecipazioni ricevute a seguito del conferimento di una partecipazione che, direttamente o assieme ad altre ottenute dal soggetto conferitario, permetta di ottenere il controllo o il collegamento ex art. 2359 c.c., non sia superiore a quello che il conferitario andrà ad attribuire alle partecipazioni ricevute in cambio. L’art. 176 del TUIR («Regimi fiscali del soggetto conferente e del soggetto conferitario»), in modo ancora più netto, riconosce che il conferimento di aziende effettuato tra soggetti imprenditori commerciali non dia luogo a plusvalenze o minusvalenze laddove il conferente assuma, «quale valore delle partecipazioni ricevute, l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita» puntualizzando, con grande rilevanza sistematica, che il conferimento dell’azienda, prima, e la successiva cessione delle partecipazioni ricevute, poi, effettuati entrambi in regime di neutralità, non costituiscono operazioni sindacabili sotto il profilo elusivo ex art. 37 bis del D.P.R. n.600/1973. La questione del valore di un’azienda di cui si sia previamente accertata l’esistenza, si rivela fondamentale anche nel settore del procedimento sanzionatorio e, quindi, non solo in quello sostanziale della tassazione dal momento che l’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 limita la responsabilità solidale del cessionario con benefico di previa escussione del cedente ai «limiti del valore dell’azienda o del ramo d’azienda» che sia circolata attraverso non solo una compravendita ma anche altri negozi giuridica di natura anche non corrispettiva ma liberale (donazione) e riorganizzativa (conferimento) 3.

3

Cfr. per tutti anche per indicazioni MARINI, La responsabilità per i debiti tributari del cessionario dell’azienda, in AA.VV., Il regime fiscale delle operazioni straordinarie (a cura di Della ValleFicari-Marini), Torino, 2009, p. 459 ss.

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2. La nozione di azienda, la vendita frazionata e il trasferimento (economico) dell’azienda attraverso quello delle partecipazioni Un concetto preliminare ma già esso stesso problematico, come anticipato, è quello di azienda o di un ramo aziendale. L’esistenza o meno dell’azienda costituisce, infatti, lo spartiacque tra due diverse discipline: una sostanzialmente di favore volta, attraverso la neutralità (seppur condizionata) del trasferimento nelle sue molteplici possibilità (operando, cioè, direttamente sui beni o, invece, sui soggetti), a garantire lo sviluppo delle imprese nella forma e nella consistenza valorizzando la continuità della destinazione imprenditoriale dei beni; altra, invece, che assoggetta a tassazione la circolazione di tutti i beni che, singolarmente o nel loro collegamento, non si caratterizzano per il nesso funzionale sotteso al concetto di azienda 4. La circostanza che il legislatore abbia sancito la neutralità del trasferimento giuridico di beni costituenti un’azienda o un ramo aziendale pone, evidentemente, all’attenzione la questione di enucleare una nozione che possa agevolare la distinzione fra l’una e l’altra situazione; il trasferimento di beni che non costituiscano un’azienda ma, invece, beni merce o beni strumentali darebbe, infatti, luogo all’imposizione sul reddito dei possibili ricavi o plusvalenze ed a quella sul valore aggiunto; qualora si trattasse di azienda il trasferimento, ove non fosse fiscalmente neutrale, all’applicazione dell’imposta di registro. Se, da un lato, non pare contestabile la natura aziendale del compendio dei singoli beni ove il cessionario con esso prosegua l’impresa del suo dante causa non mutandone l’oggetto 5, dall’altro, non pare da escludersi la natura aziendale dell’insieme dei beni venduti nel caso in cui la società cessionaria al momento del trasferimento abbia un oggetto incompatibile con quello proprio della destinazione dei beni, restando, infatti, sempre possibile un mutamento dell’oggetto oppure l’affitto a terzi dell’azienda acquisita 6. 4

Per diffuse considerazioni che si muovono, condivisibilmente, dal più ampio concetto di bene per meglio definire quello di azienda, si vedano, tra gli altri, FEDELE, Il trasferimento dell’azienda. Profili di rilevanza fiscale, in AA.VV., Problematiche giuridiche e fiscali in tema di trasferimenti di azienda, I Quaderni della Fondazione italiana per il notariato, Milano, 2010, p.102 ss.; PEDROTTI, Cessioni di aziende e di partecipazioni nel reddito di impresa ai fini dell’IRES, Milano, 2010, p. 31 ss. nonché MASPES, L’IVA nelle operazioni straordinarie, in AA.VV., Il regime fiscale delle operazioni straordinarie, cit., p. 337 ss. 5 Nel senso che sia azienda il compendio di beni sufficienti da soli a consentire al cessionario di proseguire l’impresa del cedente Cfr. CGE 10 novembre 2011 causa C-444/10. 6 Cfr. nel senso che la destinazione aziendale debba essere stabilita ex ante ma possa essere anche meramente potenziale e non circoscritta ad un oggetto sociale preesistente della cessionaria Cass 10 ottobre 2008, n. 24913; Cass. 11 giugno 2007, n. 13580. Sull’assenza, ai fini dell’IVA, di un’impresa nel caso in cui un imprenditore individuale acquista un’azienda per affittarla, prima, e venderla, poi, ad un terzo Cass. 12 gennaio 2010, n. 281.

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Pertanto, si avrà una vendita frazionata che dissimula una vendita di un compendio aziendale solo quando, al momento della singola cessione e rispetto all’arco temporale ragionevolmente breve in cui le singole cessioni hanno avuto luogo, i beni trasferiti non abbiano perso quel collegamento funzionale necessario per permettere al cessionari odi svolgere con essi un’impresa; il collegamento funzionale dei beni ben potrebbe testimoniare, quello negoziale dei trasferimenti frazionati e, quindi, dimostrare, nella corretta prospettiva di cui all’art. 20 del T.U. n. 131/1986, che l’effettiva volontà sia quella di trasferire un’azienda e di permettere al cessionario di continuare l’impresa originaria 7. In questi termini, ad esempio, si potrebbe cercare di risolvere la questione della cessione del marchio ovvero se esso di per sé possa costituire un’azienda o se, per farlo, debba essere accompagnato da altri elementi ad esso funzionalmente collegati 8. Per dimostrare la sussistenza dell’azienda (e con essa l’imposizione proporzionale ai fini dell’imposta di registro) a prescindere dalla descrizione e qualificazione data dalle parti negli atti presentati per la registrazione e per individuare il concreto contenuto dell’onere probatorio gravante sull’ufficio accertatore, sembra, infatti, corretto valorizzare le caratteristiche anche solo potenziali dei beni e del loro collegamento funzionale il quale potrà senza dubbio essere attivato e sviluppato (di misura maggiore) dal cessionario (rispetto a quanto non avesse fatto il cedente) 9. L’apprezzabilità anche del solo collegamento potenziale fra i beni non può, però, permettere, come si vedrà, di estendere lo spazio di legittima individuazione delle fattispecie tributarie attraverso gli effetti giuridici del trasferimento in capo al cessionario fino ad ammettere che il raggiungimento del controllo della società proprietaria dell’azienda attraverso la cessione di una più quote partecipative significative in essa sia equiparabile (ai fini giuridici) al trasferimento dell’azienda stessa: un determinato risultato economico ben può essere raggiunto, per espressa previsione legislativa, attraverso diversi strumenti giuridici ciascuno, però, con una propria identità giuridica e funzione economica 10. Infine, di pari importanza per dimostrare l’esistenza dell’azienda è la necessaria presenza di alcuni “diritti” e “posizioni contrattuali”: un approccio esclusivamente atomistico al tema rischierebbe di far trascurare la natura non astratta di molti negozi giuridici collegabili a tipi sì autonomi ma in molti casi considerabili alla stregua di componenti aggreganti del compendio aziendale in senso ampio 11. 7

Cfr. Cass. 16 aprile 2010, n. 9163, in Riv. giur. trib., 2010, p. 591 ss. Cfr. Cass. 16 febbraio 2010, n. 3571, in Riv. dir. trib., 2010, II, p. 333 ss. 9 Cfr. Cass. 16 aprile 2010, n. 9163, cit. 10 In senso diverso, invece, cfr. Cass. 30 giugno 2011, n. 14367. 11 Si pensi al trasferimento del contratti di locazione, alla cessione di crediti e di contratti; sul punto per tutti FEDELE, Il trasferimento dell’azienda. Profili di rilevanza fiscale, cit., p. 106. 8

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3. Il valore dell’azienda tra avviamento, pluralità di “componenti” del prezzo e pluralità di imposte “interessate” L’art. 86, comma 2 del TUIR 22 dicembre 1986, n. 917 prevede che concorrano alla formazione del reddito anche le «plusvalenze delle aziende, compreso il valore di avviamento, realizzate unitariamente mediante cessione a titolo oneroso» facendosi riferimento al corrispettivo della cessione ma, altresì, precisando che, nel caso in cui l’oggetto della cessione sia costituito «esclusivamente da beni ammortizzabili, anche se costituenti un complesso o ramo aziendale», non vi sarà plusvalenza se i beni «vengono complessivamente iscritti in bilancio allo stesso valore al quale erano iscritti i beni ceduti» e non vi sia alcuna pattuizione di conguagli. L’art. 51 comma 2 del T.U. 26 aprile 1986 n.131 individua come valore imponibile nel trasferimento di azienda assoggettato all’imposta di registro il relativo «valore venale in comune commercio», puntualizzando, al successivo comma 4, che ai fini del controllo si debba far riferimento «al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento (…) al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili o d atti aventi data certa a norma del codice civile, tranne quelle che l’alienante si sia espressamente impegnato ad estinguere (…). L’ufficio può tenere conto anche degli accertamenti compiuti ai fini di altre imposte» 12. La complessità dei rapporti giuridico/patrimoniali attribuibili ad un compendio aziendale senza dubbio condiziona la determinazione del valore dello stesso in sede di trasferimento e, quindi, anche il valore fiscalmente riconosciuto dei beni ammortizzabili, la fissazione di un prezzo o del valore dell’azienda o ramo di azienda trasferito nonché la valorizzazione dell’avviamento 13. 12

Nel senso che il valore dell’avviamento non possa essere separato dalle componenti che costituiscono il prezzo del trasferimento nel caso della cessione di una partecipazione da parte di una persone fisica non imprenditore, non assumendo rilievo autonomo (e, quindi, accertabile singolarmente) neppure quando la partecipazione sia molto significativa cfr. Cass. 21 dicembre 2011, n. 27987. 13 La cui problematicità emerge dall’assenza di criteri legali di determinazione, considerando che il disposto di cui all’art. 2, comma 4 del D.P.R. n. 460/1996, riguardante, in realtà, il solo accertamento con adesione, è stato considerato dall’Agenzia norma di generale applicazione; cfr. CTP Vercelli 2 luglio 2010 n.54; che la procedura di cui all’art. 2 non sia vincolante è, ad es., affermato da CTP Reggio Emilia 22 giugno 2010, n. 114 (in Boll. trib., 2010, p. 1416 ss.) nonché, da ultimo, da Cass. 12 dicembre 2011, n. 26550 per la quale il giudice ben può basare la propria decisione sul contenuto di una perizia di parte purché ne dia adeguata motivazione. Nel senso che l’A.F. possa scegliere, in sede di rettifica del valore di un’azienda con avviamento, di seguire il metodo patrimoniale c.d. complesso (che valorizza l’avviamento anche nelle operazioni infragruppo) in luogo di quello c.d. semplice adottato (differenze tra attività e passività) dalla società cfr. CTR Milano 14 luglio 2010, n. 82/15/2010. Il disposto dell’art. 2, comma 4 del citato D.P.R. n. 460/1996 si deve, però, intendere abrogato dal successivo D.Lgs. n. 218/1997. Ancora attuale CARINCI, Profili di rilevanza fiscale dell’avviamento (Rassegna di giurisprudenza) in Riv. dir. trib., 1996, p. 475 ss.

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Peraltro, ove il trasferimento non fosse fiscalmente neutrale, la concorrenza nel prelievo di imposte di genere diverso (imposte sul reddito e di registro) evidenzierebbe il problema dell’autonomia o meno degli accertamenti e degli eventuali giudicati, potendosi ipotizzare, ma con evidenti lati di criticità, che il valore possa essere diverso tra imposte o, con un arrièrepenser di unicità dell’accertamento del fatto/valore, che un giudicato per l’una possa giustificare, quale presunzione semplice della certezza del valore anche dell’avviamento 14, un accertamento ai fini della seconda o, addirittura, il giudizio sulla stessa. La distinzione tecnica tra corrispettivo e valore potrebbe, forse, impedire la commistione ove il primo costituisse l’esclusivo riferimento ai fini della individuazione della base imponibile: poiché il corrispettivo incorpora la monetizzazione del valore dei beni ammortizzabili (i.e. il valore fiscalmente riconosciuto) la distinzione pare, però, più apparente che sostanziale. La rilevanza dell’avviamento è chiara ove lo si intenda come differenza tra il prezzo pagato ed il valore del patrimonio netto. Ai fini civilistici, peraltro, di tale valore si ha contezza con riguardo sia ai criteri di valutazione sia alla nota integrativa: da un lato, l’art. 2426 c.c. prescrive che l’avviamento possa essere «iscritto nell’attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale, se acquistato a titolo oneroso, nei limiti del costo per esso sostenuto e deve essere ammortizzato entro un periodo di cinque anni»; dall’altro l’art. 2427 c.c. si preoccupa (anche) di richiedere l’indicazione nella nota integrativa della «natura» e dell’«obiettivo economico di accordi non risultanti dallo stato patrimoniale, con l’indicazione del loro effetto patrimoniale, finanziario ed economico, a condizione che i rischi e i benefici da essi derivanti siano significativi e l’indicazione degli stessi sia necessaria per valutare la situazione patrimoniale e finanziaria e il risultato economico della società». L’avviamento costituisce, dunque, per l’acquirente un bene acquisibile (l’art. 2426 c.c. ne ipotizza, infatti, un acquisto a titolo oneroso) cui corrisponde un costo ammortizzabile dal punto di vista fiscale ex art. 103 del TUIR in misura non superiore a 1/18 del valore iscritto nell’attivo patrimoniale del bilancio e se esso è suscettibile di essere ridotto (con conseguente diminuzione del costo ammortizzabile) qualora la capacità di produzione si riduca per eventi sopravvenuti al trasferimento dell’azienda e, con esso, alla prima valutazione dell’avviamento 15. 14 In questo senso Cass. 2 marzo 2011, n. 5078; Cass. 13 agosto 2010, n. 18705 e Cass. 24 marzo 2010, n. 7023 le quali considerano ai fini della plusvalenza elemento di una presunzione semplice il valore dettato ai fini dell’imposta di registro, ammettendo la prova dell’assenza di un avviamento; contra Cass. 20 aprile 2010, n. 9404; Cass. 30 settembre 2009, n. 21020; che non sia legittimo l’automatismo è affermato anche da CTP Milano 17 maggio 2010, n. 202 in GT-Riv. giur. trib., 2010, p. 709 ss. con nota di CORASANITI, La controversa (il)legittimità della rettifica della plusvalenza da cessione d’azienda in base al valore di avviamento definito ai fini del registro. 15 Così Cass. 30 dicembre 2010, n. 26429.

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L’iscrizione di un valore di avviamento non sarebbe condizionata dal pagamento di un prezzo per il trasferimento dell’azienda: la capacità di produrre sarebbe autonomamente valutabile ed affatto subordinata alla consistenza attiva del patrimonio 16 e l’avviamento positivo potrebbe essere trasferito anche senza un pagamento di somme di denaro ma, es., mediante l’acquisto dell’azienda con accollo dei debiti, ammettendo il testo letterale dell’art. 2426 cit. un titolo anche solo oneroso e non necessariamente anche corrispettivo dell’acquisto 17. La rilevanza dell’avviamento (nelle diverse conseguenze per l’acquirente ed il cedente) potrebbe essere temperata da una verifica ex post della continuità dell’impresa (ovvero dell’oggetto sociale) di derivazione: in altri termini l’avviamento perderebbe di consistenza se la capacità produttiva da questo espressa fosse esclusa dal cambiamento dell’oggetto sociale ove, ad esempio, il cessionario intenda utilizzare i beni aziendali per altra specie di impresa 18. Si deve, però, osservare sul punto che l’avviamento assume rilevanza fiscale al momento della circolazione dell’azienda ed è rispetto a questo momento che si deve verificare il vantaggio che il cessionario potrebbe ottenere dall’avviamento stesso. Rilevante anche l’ipotesi in cui al momento del trasferimento dell’azienda emerga un avviamento negativo, soprattutto in un contesto di generalizzata crisi in cui la “circolazione” dell’azienda, nelle sue molteplici forme, assume un ruolo strategico per la sopravvivenza dell’impresa e del livello occupazionale: si pensi non solo alla compravendita ma anche al conferimento di azienda a seguito del quale il valore contabile delle attività e passività sia maggiore del valore delle partecipazioni ricevute. Occorre, allora, stabilire se l’esistenza e determinazione di un avviamento negativo sia condizionata dal risultato economico della gestione o da quello, più circoscritto e parte di un insieme, dei ricavi realizzati. L’assenza di utili di esercizio per annullamento degli eventuali (pochi) ricavi negli ultimi tre periodi di imposta farebbe corrispondere il criterio per l’avviamento negativo a quello fissato per quello positivo; ove, invece, si intendesse escludere il condizionamento delle passività, l’avviamento negativo potrebbe essere individuato in valori inferiori facendo riferimento ai ricavi, comunque conseguiti sebbene insufficienti a formare un utile di esercizio 19. 16

Cfr. Cass. 13 maggio 2011, n. 10586 ma già Cass. 20 gennaio 2006, n. 1137 e Cass. 25 febbraio 2002, n. 2702. 17 Così Cass. 13 maggio 2011, n. 10586. 18 Per un caso vedi CTP Savona 22 maggio 2009, n. 131, in Boll. trib., 2010, p. 801 ss. con nota di VERNA. 19 In questo senso Cass. 30 giugno 2011, n. 14336, in Rass. trib., 2011, p. 1585 ss. con nota di G. SELICATO, la rettifica induttiva del valore di avviamento tra formule matematiche, medie aritmetiche e inopportuna svalutazione nella fase procedimentale.

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Poiché l’avviamento consente al soggetto che trasferisce l’azienda di ipotizzare un valore di scambio superiore a quello che deriva dalla somma dei valori dei singoli beni aziendali, logica vorrebbe che l’impatto possa essere anche in termini decrementativi. Qualora esso fosse costituito dalla differenza fra il patrimonio netto della società ceduta ed il prezzo, è evidente che il corrispettivo potrebbe essere anche irrisorio se rapportato al valore fiscale dei beni ammortizzabili o, comunque, delle immobilizzazioni (es. brevetti) ma la sua entità troverebbe logica nell’assunzione del rischio della crisi, rischio rappresentato nell’appostazione di un fondo rischi nel bilancio del cessionario. La rilevanza dell’avviamento negativo, pertanto, si apprezza non solo nella determinazione del “prezzo” ma anche nella sua stessa individuazione come fattispecie autonoma 20. Il valore economico (e non fiscalmente riconosciuto) dell’azienda, nella dinamica delle parti del negozio attraverso il quale avviene la circolazione (sia esso una compravendita che un conferimento che un’operazione societaria straordinaria), è, infatti, individuabile in base ad un criterio non solo statico ma anche che dinamico; la quantificazione terrà, quindi, conto non solo del valore non ancora ammortizzato dei beni plusvalenti (il valore fiscalmente riconosciuto) ma anche, sebbene in misura soggettivamente apprezzabile, del rischio dell’insuccesso nella continuazione dell’impresa testimoniato dalla manifestazione contabile di un avviamento negativo. Il ragionamento è simile a quello che si farebbe quando, a fronte di plusvalori latenti dell’azienda nel suo trasferimento, il cessionario si accollasse debiti od obbligazioni non necessarie (es. quella di non licenziare i dipendenti per un determinato periodo oppure quella di non trasferire la sede o gli stabilimenti in altra Regione o Stato). Pertanto, se è “bene” tutto ciò che è suscettibile di valutazione economica, nella “chiusura” del prezzo di cessione di un’azienda o del suo valore di trasferimento in occasione di conferimenti od operazioni societarie straordinarie il valore dell’azienda, nella dinamica dello scambio (bene vs denaro, bene vs partecipazioni, mutamento della titolarità e mutamento degli assetti partecipativi), non corrisponderà necessariamente al valore fiscale dei beni materiali e/o immateriali che, se ceduti singolarmente, potrebbero dare luogo a plusvalenze in quanto nello scambio la parte cessionaria individua come “costi” anche elementi non patrimonializzati o immobilizzati ma certi e prevedibili. In questo senso, allora, la rilevanza dell’avviamento negativo potrebbe essere 20

Sulla sua autonomia dal punto di vista contabile non paiono esservi dubbi: cfr. il documento FONDAZIONE ARISTEIA, Il trattamento contabile del badwill nelle aggregazioni di impresa, Roma, 2006.

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diversa da quella del contenuto es. di una pattuizione definita nello stesso negozio giuridico o in una sideletter, ai sensi della quale la parte cessionaria si impegnasse ad un facere o non facere o a un pati, laddove questa non si traducesse in una espressa quantificazione sebbene, nei fatti, ad essa si colleghi una riduzione del prezzo in denaro che, in assenza, sarebbe stato più alto. La differenza verrebbe senza dubbio meno laddove in entrambi i casi la componente decrementativa del prezzo lordo corrispondente al valore non ancora ammortizzato dei beni strumentali fosse quantificabile. Essa, però, a ben vedere, non sussisterebbe quando l’assunzione dell’obbligazione non venisse espressamente monetizzata. Del suo impatto monetario ben si potrebbe avere contezza sottraendo dalla somma dei beni immobilizzati e degli eventuali altri beni e crediti trasferiti come parte del compendio aziendale così come risultanti nel bilancio del cedente il prezzo in denaro pagato dal cessionario; il disallineamento, quindi, tra prezzo e valori patrimoniali sarebbe indicativo del valore monetario dell’avviamento negativo e/o dell’assunzione delle menzionate obbligazioni. Qualora la cessionaria creasse nel bilancio un fondo nel passivo denominato “avviamento negativo” per coprire le perdite temute ma accettate 21 è evidente che lo stesso potrebbe considerarsi fiscalmente indeducibile a fronte della sua mancata corrispondenza ai fondi tipizzati dall’art. 107 del TUIR e del divieto di cui al comma 4 del citato art. 107; di conseguenza, laddove l’impresa avesse successo ed il fondo venisse ridotto o annullato si potrebbero configurare delle sopravvenienze attive imponibili così come ove il fondo venisse utilizzato per coprire perdite: in altri termini, si dovrebbe ipotizzare un nesso tra fondo e sopravvenienze tale per cui, in modo simmetrico, alla deducibilità del primo corrisponda la tassabilità delle seconde. Se la neutralità della circolazione d’azienda fosse condizionata dal legislatore alla continuità dei valori fiscali dei beni trasferiti, come accade ex art. 176 del TUIR nel caso del conferimento in cui non vi è tassazione se il valore delle partecipazioni ricevute è pari all’ultimo valore fiscale dell’azienda, la presenza di un avviamento negativo difficilmente consentirebbe di mantenere una continuità dei valori dei beni scambiati. Si deve, quindi, dissentire dalla tesi secondo la quale ove si realizzi un conferimento di azienda in neutralità fiscale, il conferitario non potrà acquisire il relativo valore di avviamento destinato a restare di pertinenza del conferente il quale in via esclusiva potrà continuare ad ammortizzare il residuo valore dell’avviamento così come il conferente dovrà valorizzare le partecipazioni ricevute senza tener conto del valore dell’avviamento 22. 21 22

Cfr. Ris. Agenzia Entrate 25 luglio 2007, n. 184/07. Circolare Agenzia Entrate 4 marzo 2010, n. 8/E.

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AZIENDA ED AVVIAMENTO TRA ACCERTAMENTO, “PREZZI” E “AUTONOMIA”

Non si può trascurare che l’avviamento, sebbene legato agli esiti dell’impiego dell’azienda da parte del cedente, è pur sempre un’entità che esiste in relazione al compendio aziendale ed è suscettibile di trasferimento quale bene immateriale 23 salvo intenderlo come componente del prezzo e del valore fiscale dell’azienda ovvero costo pluriennale 24 e coneizionato al buon o cattivo utilizzo che di questo farà il cessionario.

4. Circolazione dell’azienda, elusione ed abuso del diritto tra imposte sul reddito ed imposta di registro Il legislatore riconosce piena opponibilità ai fini fiscali alla combinazione, nella circolazione di beni di primo e secondo grado, tra conferimento di azienda in neutralità e successiva cessione delle partecipazioni in regime Pex; il comma 3 dell’art. 176 del TUIR, infatti, sancisce l’irrilevanza di tale complessa operazione ai fini della norma antielusiva costituita dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973. Questa disposizione, peraltro, contiene un secondo dato significativo ai nostri fini nella parte in cui, al comma 3, lett. f), annovera tra le «operazioni» sindacabili (solo) «le valutazioni e le classificazioni di bilancio aventi ad oggetto i beni ed i rapporti di cui all’articolo 81, comma 1, lettere da c) a cquinquies» del TUIR ovvero titoli e partecipazioni produttivi di realizzare capital gains qualificabili come redditi diversi, lasciando, cosi, intendere l’estraneità, almeno per il momento, di qualsiasi connotazione elusiva e possibilità di sindacato di valutazioni e classificazioni in bilancio che attengano a beni diversi da quelli tipizzati, tra i quali, ad esempio, le immobilizzazioni riconducibili a valori di avviamento o disavviamento oppure ai beni che formano il compendio aziendale. Premesso che la scelta effettuata dal legislatore per un settore impositivo fondamentale come quello delle imposte sul reddito è nel senso di una chiara tipizzazione delle ipotesi elusive e dei relativi poteri amministrativi, pare opportuno effettuare una serie di puntualizzazioni, probabilmente utili per meglio comprendere, rispetto a questo punto dell’indagine, la diversa realtà che caratterizza l’accertamento nel settore dell’imposta di registro, come noto alternativa, nella sua applicazione ai trasferimenti di beni, all’imposta sul valore aggiunto. Il riferimento al potere antielusivo deve essere, infatti, circoscritto 25 a vicende 23

Cfr. per primi commenti ANDREANI-TUBELLI, L’avviamento segue sempre il complesso aziendale, in Corr. trib., 2011, p. 2250 ss. 24 Sul punto cfr. GALLIO-BADIL-STEVANATO-LUPI, Quale sorte per l’avviamento iscritto dal cedente su un’azienda oggetto di conferimento «neutrale», in Dialoghi trib., 2010, p. 340 ss. 25 Come rileva FEDELE in Assetti negoziali e forme di impresa tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 1094 ss.

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che attengono a manifestazioni negoziali e non anche a meri accertamenti di fatto; questi ultimi possono avere ad oggetto, ad esempio, l’esistenza di rapporti funzionali fra beni intesa non come effetto di un atto giuridico ma quale conseguenza di un comportamento a mera rilevanza fattuale; altrimenti detto: la contestazione di una circostanza di fatto come la “collocazione funzionale” dei beni e la loro inerenza all’impresa non potrebbe mai evocare nozioni di potere antielusivo e di divieto di abuso del diritto 26 così come il superamento dell’apparenza negoziale dovrebbe trovare la sua unica strada nell’accertamento di una simulazione anche quando il creditore sia, come nel nostro caso, l’Amministrazione finanziaria 27. Se, come pare, la destinazione funzionale di uno o più beni all’impresa si rapporta ad un atto giuridico/negoziale nel solo momento della sua espressione esterna il collegamento negoziale fra atti, fatti e negozi di cui al comma 1 dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 non sarebbe pertinente; di converso, lo potrebbe essere quello ad una disposizione che rapportasse l’applicazione della (corretta) imposizione al collegamento effettivo tra la situazione fattuale definita dalle parti e concretamente espressa nel comportamento al “tipo” (atto, contratto) e che, quindi, consentisse di applicare la disciplina del “tipo” in base alla realtà fattuale/comportamentale accertata e non a quella rappresentata nell’adozione di un “tipo apparente”. In questa prospettiva non si può ritenere che ad un preciso “fatto economico” debba corrispondere l’unicità e non anche pluralità della “sostanza economica” dei possibili ed alternativi strumenti giuridici 28 in quanto la fisiologica alternativa dei mezzi non sarebbe superabile, nell’applicazione della regola, dall’identità del “fatto economico” se non attraverso espresse equiparazioni o disconoscimenti a livello normativo. Più in particolare e con specifico riferimento alla necessità di fondamento normativo della riconducibilità del comportamento ad una regola diversa da quella applicata dal contribuente, poiché l’operatore, in realtà, non qualifica ma solo riconduce una fattispecie fattuale ad un modello normativo astratto, non pare preciso riferirsi ad un potere accertativo di riqualificazione trattandosi, al pari di quanto accade per l’autorità giudiziaria, di un intervento (solo) qualificatorio: qualsiasi “qualificazione” del comportamento del contribuente dovrebbe, infatti, avvenire “sulla base di una regola creata ad hoc” 29. Ciò premesso, con riguardo all’ipotesi secondo la quale nel settore dell’imposta di registro (per sua natura imposta sui trasferimenti ed imposta d’atto) la leg26

Cfr. ancora FEDELE, Assetti negoziali, cit., p. 1095 ss. Cfr. FEDELE, in Assetti negoziali, cit., p. 1103. 28 Spunti in FEDELE, Assetti negoziali, p. 1108 ss. 29 FEDELE, Assetti negoziali, cit., p. 1112. 27

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ge consentirebbe ex art. 20 del T.U. n. 131/1986 30 una (ri)qualificazione ai fini dell’imposta di registro di uno o più “operazioni” non sindacabili ai fini delle imposte sul reddito, attraverso l’accertamento in fatto dell’assenza di azienda e di valide ragioni economiche, al fine di dimostrare la natura intrinseca ed effetti non corrispondenti a quelli di un atto di trasferimento di azienda 31 si è in grado, in base alle premesse, di osservare quanto segue. Se l’applicazione che tale disposizione risente della suggestione del dibattito acceso nel settore delle imposte sul reddito e sul valore aggiunto in materia di normativa antielusiva ed abuso del diritto, occorre ribadire che l’art. 20, in ragione sia del suo chiaro disposto letterale che della natura dell’imposta alla cui applicazione si riferisce (l’imposta di registro come imposta anche d’atto), è disposizione non antielusiva ma sull’interpretazione degli atti giuridici e sulla loro (ri)qualificazione ai fini della sola imposta di registro 32. Se così è, come pare , nei casi che interessano si potrà discutere se gli effetti giuridici voluti dalle parti siano stati o meno quelli di realizzare una compravendita o un atto di mera riorganizzazione societaria (es. conferimento di azienda e cessione di partecipazioni vs cessione dell’azienda) e se la natura dell’atto, quanto al suo contenuto ed oggetto, sia quello di un atto dispositivo di un’azienda o di una serie di beni distinti ma non della validità delle ragioni economiche dell’operazione né di quale sia stato il motivo esclusivo o principale della sua realizzazione 33. 30

In base al quale «L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente». 31 Da ultimo sulla specifica questione per tutti FEDELE, Assetti negoziali , cit., p.1112 ss.; anche TASSANI, I confini dell’abuso del diritto ed il caso del conferimento di azienda con successiva cessione delle partecipazioni, in Riv. dir. trib., 2011, I, p. 329 ss. e DELLA VALLE, L’elusione nella circolazione indiretta del complesso aziendale in AA.VV., Il regime fiscale delle operazioni straordinarie (a cura di Della Valle-Ficari-Marini), Torino, 2009, p. 567 ss. In giurisprudenza, tra l’altro vedi CT II Bolzano 20 maggio 2009, n. 36 e CTP Emilia 9 ottobre 2009, n. 190, in Dir. prat. trib., 2010, II, p. 566 ss. con nota di CORASANITI, L’art. 20 del T.U. dell’imposta di registro e gli strumenti di contrasto all’elusione: brevi spunti ricostruttivi a margine di due contrastanti pronunce della giurisprudenza di merito. 32 In dottrina la posizione è maggioritaria: per tutti anche per citazioni vedi CERRATO, Elusione fiscale ed imposizione indiretta nelle operazioni societarie, in AA.VV., Elusione ed abuso del diritto tributario, (a cura di Maisto), Milano, 2009, p. 380 ss. Nel senso che ai sensi dell’art. 20 non sia possibile riqualificare come cessione di azienda il conferimento della stessa seguito dalla cessione delle partecipazioni in regime di Pex da ultimo CT II Bolzano 5 agosto 2011 n.59 e CTP Prato 29 giugno 2011, n. 65. 33 Cfr. CTP Milano 19 novembre 2010, n. 388, in Riv. dir. trib., 2011, II, p. 221 e ss. con nota di PEDROTTI, Conferimento di ramo di azienda e successiva cessione di quote attribuite al soggetto conferente. Considerazioni introno alla presunta elusività dell’operazione ai fini dell’imposta di registro, per il caso di un’operazione di aumento di capitale, successivo conferimento di azienda in neutralità fiscale e successiva cessione del 100% delle partecipazioni della conferitaria non configurabile come cessione di azienda; contra CTP Milano n. 26/2010 e CTR Bologna n. 53/2009.

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Ove si condivida l’estraneità dell’art. 20 cit. al modus operandi proprio dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973, si dovrebbe, altresì, negare l’ipotesi di una (ri)qualificazione di un atto in ragione del collegamento negoziale (esterno) dello stesso ad altri atti tipizzati nell’art. 37 bis. Il superamento del titolo e della forma dovrebbero avvenire circoscrivendo la realtà dei comportamenti e degli atti valutabili al contenuto del singolo atto (collegamento negoziale interno) 34. A tale risultato interpretativo non potrebbe giungersi applicando i criteri civilistici di interpretazione dei contratti nella parte in cui, ai sensi dell’art. 1362, comma 2, c.c., la «comune intenzione delle parti» può essere dimostrata valutando «il loro comportamento anche posteriore alla conclusione del contratto» in quanto, nella disciplina dell’imposta di registro, sono eccezionali (artt. 21, 22 e 24, comma 2 del T.U. n. 131/1986) le ipotesi in cui si attribuisce rilevanza al collegamento negoziale e ad elementi esterni all’atto presentato per la registrazione. Con riguardo all’azienda ed alle sue molteplici forme di circolazione, ciò significa che la (ri)qualificazione in via amministrativa/giudiziale di quella (apparentemente) scelta dal contribuente in altra forma non consentirebbe di mantenere inalterata la sostanza economica in quanto (ri)qualificando il negozio di trasferimento come cessione e non conferimento assoggettabile, quindi, ad un’imposta di registro proporzionale e non fissa si disconoscerebbe anche il fatto economico. Altrimenti detto: si sarebbe di fronte ad un accertamento inteso non più ad assumere uno stesso fatto economico ed una stessa sostanza economica ma, invece, a disconoscere lo stesso fatto economico con uno strumento giuridico diverso come tipo civilistico e come regola tributaria. A fronte delle diverse forme giuridiche di trasferimento “economico” di un’azienda (vendita o conferimento diretto, vendita o conferimento della partecipazione totalitaria o di controllo nella società che ne ha la proprietà) e delle diverse regole impositive tra la vendita diretta e tutte le altre operazioni, ai fini dell’imposta di registro l’indagine sulle intenzioni delle parti potrebbe condurre a negare la corrispondenza dello stesso oggetto del trasferimento (non azienda ma singoli beni) ma non attraverso un sindacato delle ragioni economiche delle scelte negoziali effettuate. Dal momento che l’alternatività delle scelte con pari dignità giuridica anche se con diverso regime fiscale e con corrispondenza degli effetti realizzati a quelli economico/giuridici tipici del negozio adottato è riconosciuta come insuperabile nelle imposte sul reddito neppure evocando il principio dell’abuso del diritto 35 in 34 Per l’impossibilità di definire l’effettiva causa negoziale valorizzando la sommatoria degli effetti di negozi giuridici distinti Cass. 28 luglio 2006, n. 17221. 35 Cfr. Cass. 21 gennaio 2011, n. 1372, in Riv. dir. trib., 2011, III, p. 95, con nota di CARAC-

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quanto fisiologicamente foriera di vantaggi virtuosi per il contribuente perché ammessi dal legislatore 36, è difficile ipotizzare che tale superamento sia realizzabile in virtù dell’art. 20 del T.U. n. 131/1986, che si limita a legittimare una (ri)qualificazione non per asserita finalità abusiva o elusiva ma per natura ed effetti giuridici concreti ex post dimostrati come diversi da quelli dichiarati 37 e, quindi, in termini di simulazione e dissimulazione 38.

CIOLI,

Nuovo indirizzo cautelativo sull’“abuso del diritto” e conseguenze sull’obbligo di denunzia pe-

nale. 36

Sull’impossibilità di poter configurare un uso distorto di un regime tributario in presenza di un’alternatività di scelte ciascuna con una propria diversa regolamentazione per tutti FRANSONI, Appunti su abuso del diritto e valide ragioni economiche, in Rass. trib., 2010, p. 952 ss. 37 Sul punto, da ultimo, anche TASSANI, I confini dell’abuso del diritto ed il caso del conferimento di azienda con successiva cessione delle partecipazioni, cit., p. 344 ss.; DELLA VALLE, L’elusione nella circolazione indiretta del complesso aziendale in AA.VV. Il regime fiscale delle operazioni straordinarie, cit., p. 563 ss.; vedi anche CTP Treviso 22 aprile 2009, n. 41. 38 Su cui da ultimo FALSITTA, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto abuso del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, II, p. 349 ss. nonché FEDELE, Assetti negoziali, cit., p. 1112 ss. con particolare riferimento alla teoria cella c.d. interpretazione funzionale della scuola del Griziotti, nonché p. 1114.

CESSIONE DI AZIENDA VERSO COSTITUZIONE DI RENDITA VITALIZIA ED IMPOSIZIONE REDDITUALE

di Francesco Pepe SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le soluzioni offerte da dottrina, giurisprudenza e prassi dominanti. – 3. Osservazioni critiche in merito alla ricostruzione in termini “duali” della fattispecie “cessione di azienda verso costituzione di rendita vitalizia”: (i) il mutato contesto normativo e l’improprio riferimento all’“avviamento commerciale”. – 4. (segue): (ii) l’intrinseca opinabilità dell’apprezzamento (unitario o duale) della fattispecie in esame: la rilevanza della causa negoziale nell’interpretazione e nell’applicazione della disciplina fiscale. Il dovere di “coerenza” dell’interprete e l’incoerenza “interna” della tesi “dualistica”. – 5. (segue): (iii) i profili di probabile incoerenza “esterna”, ossia rispetto alla ratio dell’IRPEF, della tesi “dualistica”. – 6. La maggior adeguatezza della lettura “unitaria” della fattispecie, ma l’inevitabile connotazione lato sensu “valoriale” delle scelte che essa impone all’interprete.

1. Premessa Come osservato in dottrina, il nostro ordinamento tributario manifesta una tendenziale indifferenza rispetto ai profili funzionali del negozio giuridico 1. Salvo il caso dell’imposta di registro e dell’imposta sulle successioni e donazioni (la causa del negozio rappresentando proprio il discrimen tra i due prelievi) 2, le altre tipologie di imposte indirette e dirette appaiono pressoché insensibili alla natura – onerosa, corrispettiva, gratuita o liberale 3 – di quegli atti o negozi pur fiscal1 In tal senso, e sul tema, si veda ampiamente MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2013, spec. p. 65 ss., ove per una completa disamina dei profili di rilevanza della causa negoziale nell’ambito delle diverse tipologie di tributo; con specifico riferimento alla disciplina del reddito d’impresa, si veda FICARI, Reddito d’impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004. 2 Cfr. MASTROIACOVO, op. ult. cit., p. 72 ss. 3 La dottrina civilistica è solita operare una serie di sotto-distinzioni all’interno della più generale dicotomia “onerosità/gratuità” degli atti. All’interno del primo concetto (onerosità), come

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mente rilevanti 4. Ciò avviene anche nel contesto dell’imposizione reddituale, la causa negoziale degli atti di scambio non rilevando in sé, ma solo in quanto di fattore incidente o sintomatico della presenza/assenza di “inerenza dell’atto all’attività” 5. Sul punto, è stato tuttavia opportunamente precisato come questa tendenza rappresenti non un connotato (per così dire) intrinseco o “naturale” del diritto tributario, ma estrinseco e contingente, ossia legato alla particolare morfologia delle fattispecie impositive vigenti, così come impressa loro dal legislatore storico 6. Quest’ultima osservazione non esclude quindi che – con riferimento ad alcune fattispecie imponibili ed in relazione ad alcuni casi particolari – ben possa emergere, più o meno nitidamente, una qualche più immediata rilevanza, ai fini fiscali, della causa negoziale (o, quanto meno, del modo in cui essa è concretamente apprezzata dall’interprete). Ebbene, una simile circostanza sembra manifestarsi in relazione ad una fattispecie che, nel contesto dell’imposizione reddituale 7, ha spesso sollecitato l’attenzione di dottrina, giurisprudenza e prassi degli uffici finanziari: la cessione di azienda verso la costituzione di una rendita vitalizia; vicenda che vede coinvolto un imprenditore (spesso un farmacista) il quale cede ad altri la propria azienda o ramo d’azienda, a fronte della costituzione, in suo favore e da parte del cessiona-

noto, si è soliti distinguere tra “corrispettività” (interdipendenza funzionale reciproca di due prestazioni, tali che ciascuna trova la propria “ragion d’essere” nell’altra), “comunione di scopo” (legame funzionale non tra le prestazioni dedotte in contratto, ma delle prestazione rispetto ad uno scopo che le trascende, qual è solitamente il funzionamento di una struttura o organizzazione comune), nonché “normatività” del contratto. Nell’ambito del secondo concetto (gratuità) si è dare specifica considerazione agli atti c.d. “liberali”, quali atti gratuiti contraddistinti dallo “spirito di liberalità” della parte sacrificata, ossia l’essere la prestazione gratuita contraddistinta dall’assenza di costrizione giuridica e morale (non essere, ad esempio, adempimento di un’obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., ovvero prestata in conformità agli “usi” ex art. 770, comma 2 c.c.), nonché l’essere l’interesse “empirico” del disponente di carattere non patrimoniale. Le suddette distinzioni hanno rilievo su diversi fronti: sulla forma richiesta per la validità del negozio, sui rimedi esperibili in caso di inadempimento o di eccessiva onerosità sopravvenuta, sulle condizioni per l’annullamento o per la revocatoria fallimentare dell’atto. Sul tema la letteratura è ovviamente sconfinata. In questa sede, si può solo rinviare, anche per ampie indicazioni bibliografiche, a GALGANO, Il negozio giuridico2, in Tratt. dir. civ. dir. comm. diretto da A. Cicu , F, Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, III, t. 1, Milano, 2002, p. 108 ss.; ROPPO, Il contratto2, in Tratt. dir. priv. a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2011, p. 346 ss.; BIANCA, Diritto civile, 3. Il contratto2, Milano, 2000, p. 487 ss.; SACCO, La elaborazione degli effetti contrattuali, in R. SACCO-G. DE NOVA, Il contratto, II, in Tratt. dir. civ. diretto da R. Sacco3, Torino, 2004, p. 469 ss. 4 Cfr. MASTROIACOVO, op. ult. cit., p. 72 ss. 5 MASTROIACOVO, op. ult. cit., spec. p. 84 ss.; FICARI, op. ult. cit., spec. p. 241. 6 Si veda al riguardo, ampiamente, MASTROIACOVO, op. ult. cit., p. 80 ss. 7 Si precisa sin d’ora come le osservazioni che verranno svolte nel presente scritto riguarderanno il solo contesto delle imposte sui redditi.

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rio, di una rendita vitalizia, il cui ammontare annuale è predeterminato nel contratto di cessione 8. Questa fattispecie ha, sul piano tributario, sollevato essenzialmente tre questioni: (i) se essa integri una ipotesi di “doppia imposizione (c.d. interna)”, dunque vietata ex art. 163 TUIR: la fattispecie in esame mostra infatti di ricadere – almeno formalmente – entro la sfera applicativa delle plusvalenze patrimoniali d’impresa 9, nonché, per quanto attiene alla rendita percepita dal cedente, dei redditi di lavoro dipendente c.d. assimilati 10; (ii) come determinare l’entità della (eventuale) plusvalenza patrimoniale, atteso che l’effettivo ammontare della rendita (ove considerata corrispettivo della cessione) non è, all’atto del realizzo, quantificabile con esattezza, dipendendo esso da un evento certo nell’an, ma incerto nel quando (la vita del cedente-vitaliziato); (iii) se ed in che modo attribuire rilevanza fiscale agli eventuali “scarti” (per eccesso o per difetto) intercorrenti tra la rendita approssimativamente determinata all’atto della cessione e la rendita effettivamente percepita (oggettivamente quantificabile solo alla morte del cedente-vitaliziato). 8

Sul tema, si veda, in particolar modo, GIRELLI, La cessione dell’azienda contro costituzione di rendita vitalizia nell’imposizione sui redditi, in Rass. trib., 2000, p. 1823; STEVANATO, Cessione di azienda verso costituzione di rendita vitalizia: distinte fattispecie imponibili o plurimi prelievi sullo stesso presupposto?, in Dir. prat. trib., 2006, I, p. 210; ANDRIOLA-LUPI-STEVANATO, Cessione di azienda con costituzione di rendita vitalizia: i flussi reddituali e la norma antielusiva, in Dialoghi trib., 2006, p. 326; CAPULA, Realizzo di plusvalenze e rendita vitalizia, in Rass. trib., 2007, p. 1559; NUSSI, In tema di rendita vitalizia, ovvero l’aleatorietà della misura del corrispettivo nell’imposizione sui redditi, in Riv. dir. trib., 1993, I, p. 107; MARCHESE, In tema di tassazione dell’avviamento derivante da cessione di azienda contro costituzione di rendita vitalizia, in Dir. prat. trib., 1990, II, p. 527; ID., Ancora sulla rendita vitalizia come corrispettivo per la cessione di azienda, in Dir. prat. trib., 1993, II, p. 1104; GASTALDO-RAGGI, Cessione di azienda (farmacia) contro costituzione di rendita vitalizia: un escamotage legittimo, ma ancora utile?, in Dir. prat. trib., 2005, II, p. 795; PORCARO-STEVANATO, La cessione di azienda, in AA.VV., La fiscalità delle operazioni straordinarie d’impresa, a cura di Lupi-Stevanato, Il Sole 24 ore, 2002, p. 173 ss.; DI DIO, La cessione e la permuta di azienda, in AA.VV., Il regime fiscale delle operazioni straordinarie, a cura di Della Valle-Ficari-Marini, Torino, 2009, p. 58 ss.; PALESTINI-LUPI-STEVANATO, Rendita vitalizia, reddito d’impresa e doppia imposizione, in Dialoghi trib., 2013, n. 3. 9 Cfr. artt. 58, 86 TUIR, fatta salva l’opzione per la tassazione separata di cui all’art. 17, comma 1, lett. g) TUIR. 10 Cfr. art. 50, comma 1, lett. h) TUIR, che assimila ai redditi di lavoro dipendente le rendite vitalizie costituite “a titolo oneroso”, venendo invece le altre rendite (perpetue e vitalizie non onerose) ricondotte entro la categoria dei redditi di capitale (art. 44, comma 1, lett. g quinquies) TUIR). Per osservazioni critiche su tale differenziazione, si veda CASTALDI, I redditi di capitale, in AA.VV., L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Giur. sist. dir. trib. diretta da Tesauro, I, Torino, 1994, p. 294; RINALDI, Contributo allo studio dei redditi di capitale, Milano, 1989, p. 263; perplesso sulla collocazione tout court delle rendite vitalizie “onerose” tra i redditi di lavoro dipendente, in quanto non collegati ad alcuna attività di lavoro, né attuale, né precedente, G. RUSSO, I redditi assimilati ai redditi di lavoro dipendente, in AA.VV., I redditi di lavoro dipendente, a cura di Ficari, Torino, 2003, pp. 277-278.

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Come si può intuire, tra le tre questioni – così distinte per semplicità espositiva – vi è un rapporto di (più o meno immediata) reciproca interferenza. Il problema degli “scarti” è legato alla quantificazione approssimativa del corrispettivo di cessione e quindi della eventuale plusvalenza; cosa che ovviamente presuppone la tassabilità di quest’ultima (ponendosi il problema del quantum della plusvalenza come logicamente successivo a quello dell’an dell’imposizione); specularmente, la quantificazione approssimativa del corrispettivo di cessione può far dubitare del “se” tassare la plusvalenza, potendo ciò comprometterne l’oggettiva determinabilità ai sensi dell’art. 109, comma 1 TUIR; così come – si vedrà 11 – il relativo criterio di quantificazione può condizionare (e/o essere condizionato dal) la ricostruzione, ai fini fiscali, della fattispecie in esame, incidendo altresì sul problema della “doppia imposizione”.

2. Le soluzioni offerte da dottrina, giurisprudenza e prassi dominanti Senza dilungarsi nella ricostruzione storica delle posizioni più risalenti 12, l’apprezzamento della fattispecie “cessione di azienda verso rendita vitalizia”, appare oggi tendenzialmente uniforme. Di essa si afferma la rilevanza ai fini sia della tassazione delle plusvalenze di azienda che dei redditi di lavoro dipendente, escludendo tuttavia che ciò dia luogo ad un’ipotesi di “doppia imposizione” ex art. 163 TUIR; nel combinato operare delle due fattispecie impositive (plusvalenza, reddito di lavoro) giurisprudenza 13, prassi 14 e (parte della) dottrina 15 ravvisano infatti due differenti prelievi aventi ad oggetto forme di ricchezza distinte ed autonome, dunque, non giuridicamente “sovrapposte”. A sostegno di tale affermazione vi è, innanzitutto, un’osservazione di tipo concettuale, secondo cui la tassazione della plusvalenza colpirebbe l’“avviamento commerciale” maturato presso il cedente (e realizzato dallo stesso con la cessio11

Cfr. infra, par 4. Per una sintesi delle quali, si rinvia a NUSSI, op. ult. cit., p. 107 ss.; GIRELLI, op. ult. cit., p. 1823 ss.; CAPULA, op. ult. cit., p. 1565 ss., ove per ampi riferimenti. 13 Cfr. Cass., sez. trib., 8 marzo 2013, n. 5886; Cass., sez. trib., 14 novembre 2012, n. 19839; Cass., sez. trib., 1 agosto 2012, ord. n. 13823; Cass., sez. trib., 27 gennaio 2012, n. 1175; Cass., sez. trib., 21 dicembre 2011, n. 27990; Cass., sez. trib., 20 maggio 2011, n. 11229; Cass., sez. trib., 24 novembre 2010, ord. n. 23874; Cass., sez. trib., 11 maggio 2007, n. 10801; tra la giurisprudenza di merito, cfr. in special modo CTR Puglia, sez. VIII, 6 maggio 2010, n. 38. 14 Cfr. ris. n. 5792 del 29 luglio 1997, DR Campania; ris. n. 13212 del 6 luglio 1998, DR Lazio; CCNA, parere n. 30 del 14 ottobre 2005; in termini analoghi, ma con riferimento alla cessione dello sfruttamento economico del diritto di immagine verso costituzione di rendita vitalizia, ris. n. 255/E del 2 ottobre 2009. 15 GIRELLI, op. ult. cit., p. 1829 ss., spec. p. 1831. 12

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ne), mentre la tassazione sulla rendita colpirebbe il “frutto” derivante dall’impiego del capitale-azienda; questo in virtù di due elementi: (i) di una ricostruzione del negozio di “cessione di azienda verso rendita vitalizia” in termini duali, quale sintesi di due negozi distinti ed autonomi (anche) fiscalmente (vendita di azienda verso corrispettivo e re-impiego del corrispettivo per la costituzione di una rendita vitalizia) 16; (ii) di un preciso dato di diritto positivo – che corroborerebbe tale ricostruzione “duale” – ossia la parziale imponibilità della rendita (tassata quale reddito di lavoro dipendente nella sola misura del 60%) 17, da cui emergerebbe la volontà del legislatore di assoggettare a prelievo solo il “reddito” risultante dalla cessione e non anche il “plusvalore” da essa acquisito (e già tassato come plusvalenza patrimoniale) 18. Altrimenti detto: l’esenzione parziale della rendita fungerebbe da criterio di coordinamento tra il prelievo sulla plusvalenza aziendale ed il prelievo sulla rendita vitalizia, teso ad evitare – sebbene in modo 16

In tal senso, si veda, in special modo, CCNA, parere n. 30 del 14 ottobre 2005, ove si nega l’esistenza di una “doppia imposizione” e si afferma la sussistenza di due autonomi presupposti impositivi (plusvalenza e rendita vitalizia). Più precisamente, da una parte, si assimila l’operazione unitaria “cessione di azienda verso rendita vitalizia” alla duplice operazione “cessione di azienda verso corrispettivo” seguita dall’“impiego del corrispettivo per la costituzione di una rendita vitalizia”; dall’altra, si afferma l’identità economica delle due operazioni, da cui dovrebbe scaturire l’identità di regime tributario (per l’appunto, l’iniziale tassazione della plusvalenza seguito dalla successiva tassazione delle rate delle rendita effettivamente percepite dal vitaliziato); nella stessa prospettiva si veda GIRELLI, op. ult. cit., p. 1831 ss., spec. p. 1832, per il quale infatti “nella fattispecie in esame il cedente aliena l’azienda e, in un momento solo logicamente successivo [corsivo aggiunto, n.d.a.], “reinveste” quanto avrebbe percepito a titolo di corrispettivo in numerario “restituendolo” al cessionario quale capitale per costituire la rendita Il momento impositivo, quindi, è duplice”. Per considerazioni critiche in ordine a tale ricostruzione, si rinvia sin d’ora a STEVANATO, Cessione di azienda, cit., p. 210 ss., spec. p. 211-212; ID., Divieto di doppia imposizione e capacità contributiva, in PERRONE-BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, pp. 78-79, ove si sostiene, da un lato, come la fattispecie in esame abbia struttura unitaria e non “duale”, rappresentando l’erogazione periodica della rendita vitalizia solo una modalità di corresponsione (dilazionata nel tempo) del corrispettivo di cessione dell’azienda; dall’altro, come il negozio “cessione di azienda verso costituzione di rendita vitalizia” non possa essere, ai fini impositivi, equiparato all’operazione “cessione di azienda verso corrispettivo di un prezzo” e “reimpiego del corrispettivo per la costituzione di una rendita vitalizia”, attesa l’impossibilità di reimpiego integrale del prezzo di cessione che, in quanto autonomamente imponibile e, sarebbe dunque re-investibile nel vitalizio solo in parte, ossia al netto del prelievo gravante sulla plusvalenza. Sul punto, per ulteriori osservazioni critiche in merito alla ricostruzione dominante, si veda infra, parr. 3, 4, 5. 17 Cfr. art. 48-bis, comma 1, lett. c) TUIR (vecchia numerazione). 18 Secondo la giurisprudenza il 60% della rendita vitalizia rappresenterebbe la «componente reddituale delle stesse, in tal modo esentando dall’imposta il capitale tassato all’atto del trasferimento» (così, Cass., sez. trib., 14 novembre 2012, n. 19839 e pronunce ivi citate); di converso, il restante 40% costituirebbe invece il «rientro del capitale già assoggettato a tassazione» quale plusvalenza (cfr. Cass., sez. trib., 11 maggio 2007, n. 10801).

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approssimativo e forfetario – appunto il realizzarsi di una “doppia imposizione” 19. Chiaro che tale approccio al caso in esame presuppone, quanto alla misurazione della plusvalenza (rectius: del corrispettivo della cessione di azienda), il rifiuto dell’idea – pur originariamente accolta da parte della giurisprudenza 20 – secondo cui l’“alea” insita nella rendita vitalizia 21 ne impedirebbe l’oggettiva de19 In senso contrario, cfr. tuttavia GIRELLI, op. ult. cit., pp. 1831-1832, per il quale non avrebbe senso far leva sull’esenzione in esame per negare una forma di “doppia imposizione”, dovendosi ritenere essa esclusa in re ipsa dalla totale autonomia delle due fattispecie impositive (l’esenzione giustificandosi solo dall’esigenza di evitare un prelievo su una somma che, in quanto “restituzione di capitale”, non costituirebbe concettualmente reddito). 20 Cfr. CTR Emilia Romagna, sez. VIII, 14 aprile 2005, n. 63; CTR Puglia, sez. XXVI, 13 novembre 2004, n. 101; CT c.le, sez. V, 11 giugno 1997, n. 3101. 21 Il frequente riferimento al carattere “aleatorio” della rendita vitalizia (il suo essere collegata ad un evento certo nell’an, ma incerto nel quando, ossia la morte del vitaliziato), sembrerebbe doversi qui intendere in una accezione strettamente tributaria, nel senso cioè di incertezza in ordine alla misura (complessiva) esatta della rendita vitalizia che il vitaliziante dovrà – a rate – versare al vitaliziato. Non sembra invece potersi acriticamente trasporre, all’interno del discorso tributario, l’idea di “alea” accolta nel settore civilistico, non solo perché elaborata in vista di altri scopi, ossia in funzione della identificazione della causa concreta (e quindi della disciplina legale) del contratto “oneroso” di rendita (ossia di aspetti che con l’incertezza sul quantum dovuto c’entrano marginalmente, solo perché legati alla identificazione delle forme di “protezione” e delle relative condizioni di operatività che, pur in un quadro di strutturale “incertezza”, la legge assicura alle parti: sul tema, si veda, per ampi riferimenti di giurisprudenza e dottrina, A. MARINI, La rendita perpetua e vitalizia, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 13**, Torino, 2008, p. 160 ss., spec. pp. 162-163; RICCIO, Le rendite vitalizie, in AA.VV., I contratti speciali. I contratti aleatori, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. XIV, Torino, 2005, p. 321 ss., ove nel senso dell’essenzialità dell’“alea” ai fini della validità del negozio di rendita vitalizia); ma anche perché in quello stesso contesto l’aleatorietà della rendita vitalizia è stata oggetto di recente e profonda revisione critica. In particolare, si è osservato (si veda PARADISO, Giuoco, Scommessa, Rendite, in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, I singoli contratti, vol. 8, Torino, 2006, spec. pp. 253 e 318 ss.) come l’“alea” riferibile al contratto “oneroso” di rendita vitalizia, da un lato, assuma una portata ben più ampia rispetto alla mera incertezza della vita del vitaliziato (da cui l’incertezza sull’ammontare complessivo della rendita da versare), finendo per abbracciare altre forme di rischio, come – ad esempio – il rischio di svalutazione monetaria ovvero, se contrattualmente ad essi legata, il rischio di mutamento dei bisogni del vitaliziato (da cui la variazione quantitativa e/o qualitativa delle prestazioni da erogare); dall’altro, essa appaia tratto non più “essenziale”, ma solo “naturale” del contratto di rendita vitalizia, ben potendo essere concretamente ridotta – e finanche neutralizzata – da apposite clausole contrattuali (ad esempio, ove la rendita sia erogata da istituti di assicurazione, la cui organizzazione e le cui modalità gestione dei rischi “su grandi numeri” riducono pressoché a zero l’“alea” intesa come rischio economico-finanziario). Da qui l’idea che l’“alea” debba considerarsi meramente strumentale alla causa specifica cui concretamente le parti pre-ordinano il contratto: di scambio (rendita “onerosa”), liberale (rendita gratuita o parzialmente gratuita, se con modus), risarcitoria (art. 2057 c.c.), indennitaria (pensioni di invalidità previste da leggi speciali, con clausola “rebus sic stantibus”), alimentare (vitalizia alimentari, vitalizia di mantenimento, rendite e pensioni di reversibilità), solidaristica (assegno al coniuge superstite), successoria (artt. 580, 594 c.c.), ecc… (sul punto, si veda ancora PARADISO,

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terminabilità ai fini fiscali e, dunque, l’assoggettamento a tassazione come plusvalenza; al riguardo si è ritenuto infatti che l’impiego di criteri empirici di capitalizzazione consenta di pervenire ad una valutazione del corrispettivo di cessione (rendita vitalizia) che – pur approssimativa – soddisferebbe comunque il requisito di “oggettiva determinabilità” di cui all’art. 109, comma 1 TUIR 22. Quanto alla rilevanza fiscale dell’eventuale “scarto” tra il suddetto corrispettivo di cessione (approssimativamente determinato) e la rendita complessiva effettivamente percepita (quantificabile solo alla morte del cedente-vitaliziante) si è reputato che esso possa trovare riconoscimento ove il vitaliziato abbia mantenuto la qualifica di “imprenditore” ai fini fiscali, potendo così operare l’istituto delle “sopravvenienze” attive o passive 23.

op. ult. cit., p. 257 ss., il quale comunque precisa come la causa specifica sia in ogni caso destinata ad integrare la causa “generale”, pressoché comune a tutte le tipologie di rendita vitalizia, ossia la sua funzione lato sensu “previdenziale”). Sul punto, cfr. altresì la giurisprudenza civile citata da GIRELLI, op. cit., p. 1826, in nota 9, laddove si enuclea un serie di fattispecie nelle quali non sussisterebbe alcuna “alea” nel contratto di rendita vitalizia (ammontare della rendita molto basso e probabile vita del vitaliziato molto ridotta, circostanze tali da escludere “a monte” il rischio di “perdite” da parte del cessionariovitaliziante). 22 In tal senso, GIRELLI, op. ult. cit., p. 1838, nonché la giurisprudenza e la prassi citate retro, note 13 e 14. 23 Cfr. GIRELLI, op. ult. cit., spec. p. 1853 ss., il quale peraltro esclude che, in tal caso, allo “scarto” possa essere attribuito rilievo fiscale quale sopravvenienza attiva/passiva “propria” (non manifestandosi alcuna esigenza di “correzione” di precedenti elementi reddituali imputati a conto economico), ma – pur nella consapevolezza della difficile aderenza al dato normativo – quale sopravvenienza “impropria”. Peraltro, il riferimento a tale “atipica” componente di reddito d’impresa non in ogni occasione è apparso all’Autore necessario, talvolta emergendo la rilevanza fiscale dello “scarto” di per sé, quale comune componente di reddito: nel caso di durata della vita superiore a quanto previsto, quale (ulteriori) costi deducibili per il vitaliziante (sul presupposto della deducibilità delle rate da questi erogate al vitaliziato), quale (ulteriore) rata imponibile – sotto specie di reddito di lavoro dipendente assimilato o provento d’impresa imponibile – per il vitaliziato. Sul punto, cfr. altresì NUSSI, op. ult. cit., p. 121 ss. Si potrebbe comunque sostenere, sulla scia di altra dottrina, che anche nel caso di cessazione dell’impresa, conseguente alla cessione dell’unica azienda da parte del cedente-vitaliziato, non sia impedita la (successiva) rilevanza degli eventuali “scarti”, almeno ove si ritenga il regime del reddito d’impresa contraddistinto da una “naturale” tendenza al proprio “trascinamento” anche in periodi d’imposta successivi al venir meno della qualifica di “impresa” ai fini tributari (in tal prospettiva, si veda STEVANATO, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994, p. 270 ss., con riferimento al regime di rateazione della plusvalenza da cessione d’azienda; nonché, in relazione alla fattispecie in esame, PORCARO-STEVANATO, La cessione di azienda, cit., p. 177).

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3. Osservazioni critiche in merito alla ricostruzione in termini “duali” della fattispecie “cessione di azienda verso costituzione di rendita vitalizia”: (i) il mutato contesto normativo e l’improprio riferimento all’“avviamento commerciale” Questo inquadramento fiscale della “cessione di azienda verso costituzione di rendita vitalizia” suscita, soprattutto oggi, alcune perplessità. In primo luogo, esso è legato ad un contesto legislativo superato, ossia al previgente regime di parziale tassazione della rendita quale reddito di lavoro dipendente assimilato; regime oramai venuto meno, stante l’abrogazione del vecchio art. 48 bis [ora, art. 52], comma 1, lett. c) TUIR, il quale – attualmente – ne prevede la tassazione integrale 24. È così caduta la principale argomentazione che giurisprudenza e dottrina utilizzavano per negare la sussistenza di una “doppia imposizione”. Peraltro, sotto questo aspetto, due osservazioni sembrano imporsi: da un lato, il fatto che la parziale imponibilità della rendita più che provare l’assenza di “doppia imposizione” ne dimostrava l’implicita presenza; più che negare il fenomeno l’ordinamento pareva aver predisposto con essa una via per renderlo “tollerabile”. Ed infatti, l’affermazione secondo cui, essendo la rendita vitalizia tassata solo parzialmente, ciò ne impediva una “doppia imposizione” 25, implicitamente finiva per ammettere, sul piano concettuale, l’esistenza di un simile fenomeno 26, pragmaticamente evitato grazie al parziale “retrocedere” – per volontà legislativa – di una delle due fattispecie impositive (quella collocata nella categoria dei redditi di lavoro) 27. Dall’altro, come la dimensione quantitativa della base imponibile (40% rendita) – seppur logicamente susseguente rispetto alla definizione del presupposto d’imposta – abbia inciso “a ritroso” sull’apprezzamento della dimensione qualitativa della fattispecie (quale forma di tassazione della sola componente “reddituale”) e sul rapporto con l’imposizione della plusvalenza aziendale. È pro24 Abrogazione ad opera dell’art. 13, comma 1, lett. e) D.Lgs. n. 47/2000, con decorrenza a partire dal 1° gennaio 2001: sul punto, STEVANATO, Cessione d’azienda, cit., p. 212; nonché CAPULA, Realizzo di plusvalenze, cit., p. 1575. 25 “Doppia imposizione” per lo meno limitatamente alla quota “capitale” ed alla quota “avviamento” ad essa riferibile. 26 Su cui, si veda infra, par. 5. 27 L’osservazione compiuta nel testo va ovviamente calata nel contesto della tesi “dualistica” dominante, ed in funzione critica. L’abbattimento forfettario del 40%, ora abrogato, aveva infatti una sua specifica ed autonoma razionalità, laddove riferito (come qui si ritiene: cfr. infra, par. 6) alla tassazione quali redditi di lavoro dipendente assimiliate delle sole rendite costituite attraverso la cessione di beni al di fuori del regime d’impresa (come tali, se tassata integralmente, gravanti anche sulla quota di “rientro del capitale” investito nella rendita, ossia su una grandezza priva di valenza reddituale). In tal senso, si veda l’opinione di Lupi in PALESTINI-LUPI-STEVANATO, Rendita vitalizia, reddito d’impresa e doppia imposizione, cit.

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prio su questo “interno legame” tra profilo quantitativo e qualitativo del prelievo che – si vedrà 28 – la causa negoziale della cessione mostra di avere una diretta rilevanza sul piano fiscale. In secondo luogo, l’affermazione secondo cui la tassazione della plusvalenza ricadrebbe «sull’avviamento commerciale» (e, quindi, integrerebbe un presupposto diverso e non sovrapponibile alla tassazione delle rendita vitalizia, la quale ricadrebbe sui “frutti” dell’investimento) appare poco convincente. In linea generale, l’avviamento – comunque lo si voglia intendere – non assume infatti una autonoma ed immediata rilevanza fiscale, ma solo mediata, in quanto (se esistente) “dissolto” nella plusvalenza imponibile 29. La quantificazione della plusvalenza in ragione della rendita vitalizia attualizzata appare poi non (univocamente e/o oggettivamente) correlabile al valore “economico” dell’avviamento, non tanto per quei fattori che – normalmente, nel gioco delle trattative negoziali – possono condurre ad un prezzo divergente da tale valore 30, quanto per effetto della “flessibilità” della causa specifica che le parti possono imprimere al rapporto di rendita, la cui entità potrebbe infatti completamente prescindere dal “valore” dell’azienda ricevuta (ad esempio, ove la rendita sia legata ai bisogni del vitaliziato ed alla loro eventuale “variazione” nel tempo: bisogni alimentari, sanitari, socio-assistenziali, ecc.) 31. Altrimenti detto, se normalmente la connessione concettuale tra plusvalenza imponibile e “avviamento” può apparire ragionevole (pur in presenza di “fat28

Cfr. infra, par. 4. E senza che sia possibile o doveroso operarne uno “scorporo”, almeno ai fini fiscali e nella prospettiva del cedente. Sul tema, si veda, da ultimo ed ampiamente, DELLA VALLE, L’avviamento nell’ordinamento tributario: considerazioni di sintesi, in AA.VV., L’avviamento nel diritto tributario, a cura di Della Valle-Ficari-Marini, Torino, 2012, p. 91 ss. 30 Sulla discrasia tra “valore” e “prezzo” dell’azienda, si veda ampiamente BIANCHI, L’avviamento nei suoi aspetti economici e tecnico contabili, in AA.VV., L’avviamento nel diritto tributario, cit., p. 71 ss., spec. pp. 73-78, ove si evidenzia come il “valore” esprima un dato astratto, ossia la stima del probabile valore di mercato; il “prezzo” un dato concreto, frutto dell’effettivo incontro delle parti, nel quale entrano in gioco – oltre al “valore” astratto dell’azienda – altri fattori, quali la reciproca “forza contrattuale”, le condizioni attuali di mercato e le future aspettative, ecc…; per una rassegna di tali fattori, esplicitati dal principio contabile nazionale OIC 24, si veda DI DIO, L’avviamento derivato dall’acquisizione di una azienda: presupposti generatori delle perdite d’avviamento e profili fiscali, ibidem, p. 193, nota 11; nonché, FICARI, Azienda ed avviamento tra accertamento, “prezzi” e “autonomia” del contribuente, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 205 ss., spec. p. 214 ss., ove sull’incidenza di una serie di obblighi di facere, non facere o di pati che, pur non oggetto di specifica valutazione economica, ciononostante possono essere determinanti ai fini della conclusione dell’accordo e della determinazione del prezzo o corrispettivo di cessione (impegno a non licenziare dipendenti, impegno a non trasferire la sede in altra regione, ecc…); sulle modalità di quantificazione del corrispettivo di cessione delle aziende, si veda, da ultimo ed in generale, PEDROTTI, Cessioni di aziende e di partecipazioni sociali nel reddito d’impresa ai fini dell’Ires, Milano, 2010, p. 105 ss., ove per riferimenti. 31 Su tali fattispecie, si veda ampiamente PARADISO, op. ult. cit., p. 257 ss. 29

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tori di scollamento” tra i due valori), nel caso in cui il corrispettivo assuma la forma di “rendita vitalizia”, tal ragionevolezza – almeno in astratto – viene meno, dovendosi indagare sulla concreta causa negoziale della rendita 32.

4. (segue): (ii) l’intrinseca opinabilità dell’apprezzamento (unitario o duale) della fattispecie in esame: la rilevanza della causa negoziale nell’interpretazione e nell’applicazione della disciplina fiscale. Il dovere di “coerenza” dell’interprete e l’incoerenza “interna” della tesi “dualistica” Al di là di questi aspetti, vi è un dato di fondo su cui occorre ragionare: la scelta tra lettura “unitaria” o “duale” del negozio qui considerato è in sé opinabile. Non essendoci nel settore impositivo reddituale una disposizione analoga a quella, in ambito IVA, di cui all’art. 11 D.P.R. n. 633/1972 33, si schiude la possibilità di apprezzare la “cessione di azienda verso costituzione di rendita vitalizia” in entrambe le prospettive. Chiaro che la soluzione in un senso o nell’altro sarà influenzata dalla disciplina fiscale che si riterrà più ragionevole applicare e viceversa, rilevando l’atto – nella prospettiva del diritto tributario – come “fatto” 34 ed essendo l’apprezzamento del fatto e l’interpretazione del diritto destinate a inte32

Vero è che l’avviamento, quale capacità dell’azienda di produrre redditi futuri, normalmente incide sul corrispettivo di cessione e dunque, anche nel caso in esame, può incidere sulla determinazione contrattuale della rendita da corrispondere annualmente al cedente-vitaliziato; non è detto però che questi due valori siano sempre e/o debbano essere tra loro (anche solo tendenzialmente) corrispondenti. Nella fissazione della rendita – oggetto di libera ed autonoma negoziazione tra le parti – possono infatti agire fattori “extra-economici”, suscettibili di determinare una più o meno significativa divaricazione tra i due valori: ad esempio, il rapporto di parentela/colleganza/amicizia tra cedente e cessionario, le aspettative di vita del cedente come “percepite” dallo stesso, il tenore di vita da quest’ultimo considerato sufficiente. Fattori – questi – che attengono alla specifica funzione economica del contratto di rendita con riferimento alla posizione del cedentevitaliziato e che, di certo, non appaiono riscontrabili nelle comuni cessioni di azienda. Altrimenti detto, vero è che la tassazione della plusvalenza può ricadere anche sull’“avviamento” (ove esistente), ma non sembra ciò rappresentare il perno attorno al quale giustificarla sul piano sistematico, a ben vedere connettendosi questa al semplice incremento patrimoniale del cedente (“reddito”) ed a prescindere dalla sua “origine”: se da un “avviamento” monetizzato con la cessione ovvero grazie al suo maggiore “potere negoziale” del cedente, ovvero per la presenza di “oneri” collaterali non patrimonializzati, ma incidenti sullo scambio, ecc. 33 La quale, in ambito IVA, impone all’interprete una lettura “duale” alle operazioni permutative ed alle dazioni in pagamento (con valutazione delle stesse in base al “valore normale” del bene ceduto, anziché di quello ricevuto in corrispettivo). In argomento, anche per riferimenti, si veda da ultimo BUTTUS, sub Art. 11 d.p.r. n. 633/1972, in AA.VV., IVA e imposte sui trasferimenti, a cura di G. Marongiu, in Breviaria Iuris. Commentario breve alle leggi tributarie, tomo IV, Padova, 2011, p. 158 ss. 34 Cfr. MASTROIACOVO, op. cit., p. 67, nota 6, per riferimenti.

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grarsi e “darsi luce” a vicenda, secondo il ben noto “circolo ermeneutico” 35. È proprio sotto questo aspetto che, da un lato, sembra affiorare – in generale – un profilo di immediata rilevanza fiscale della causa negoziale e, dall’altro ed in relazione al caso in esame, si manifesta il principale limite della tesi “dualistica”. L’ideale “scissione” in due dell’operazione di cessione di azienda verso costituzione di rendita vitalizia si traduce, infatti, essenzialmente in un “recidere” – nella prospettiva tributaria – il legame di “corrispettività” che, sul piano civilistico e negoziale, intercorre tra le due prestazioni. Il che appare tutt’altro che irrilevante. Se infatti decidiamo di considerare la cessione di azienda come – si osservi: idealmente – effettuata verso corrispettivo di un prezzo, e consideriamo – altrettanto idealmente – il suddetto “prezzo” come poi re-impiegato nella costituzione della rendita, allora dobbiamo, per coerenza logica, apprezzare – sempre ed ancora una volta idealmente – la medesima cessione come rivolta “al mercato” e non alla controparte (cessionario-vitaliziante). Ma se così è, allora il corrispettivo di cessione di azienda dovrà essere quantificato non – come si ritiene – in ragione della rendita attualizzata (valore che infatti, in una prospettiva “duale”, atterrebbe al secondo e successivo negozio, quello costitutivo della rendita), bensì al “valore normale”. La (ideale) quantificazione del corrispettivo di cessione in base alla rendita vitalizia (attualizzata) implica infatti – di per sé e logicamente – la negazione del carattere “duale” dell’operazione, l’aggancio del corrispettivo di cessione alla rendita presupponendo, anche nella prospettiva fiscale, un nesso di “corrispettività” tra le prestazioni (e di unitarietà della causa negoziale) 36. La fattispecie in esame sembra cioè mettere in evidenza un aspetto fondamentale in ordine ai rapporti tra causa negoziale e imposizione fiscale. Se è vero che, in genere, il profilo funzionale dei negozi giuridici di per sé non incide – quanto meno ai fini reddituali – sulla qualificazione fiscale degli atti (se non indirettamente sull’inerenza dell’atto all’attività) e se è vero che, diversamente dall’IVA, l’apprezzamento (in fatto) di tali profili è rimesso alla discrezionalità dell’interprete, ciò tuttavia non dispensa quest’ultimo dal dovere di coerenza, nell’identificazione della disciplina tributaria del negozio, tra apprezzamento dei profili funzionali del negozio, da un lato, e dimensioni “qualitativa” e “quantitativa” del prelievo, dall’altro 37. 35

VIOLA-ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 2002, spec. p. 254 ss. 36 Detto in altri termini: o si ritiene l’operazione espressiva di un negozio unico, ed allora la rendita certamente andrà intesa quale corrispettivo dell’azienda, oppure la si ritiene espressiva di due negozi distinti, ed allora, inevitabilmente (quale logico e razionale corollario di tale assunto), la rendita vitalizia non avrà nulla a che vedere con la cessione di azienda, riguardando quest’ultima altro negozio, da considerarsi “esterno” rispetto a quello costitutivo della rendita stessa. Sembra proprio che tertium non datur. 37 Va precisato come qui il dovere di coerenza nell’identificazione della disciplina fiscale vada messo in relazione non tanto alla natura della causa negoziale (onerosa, gratuita, corrispettiva,

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Si può cioè scegliere come apprezzare il profilo funzionale del negozio e che rilievo assegnargli ai fini impositivi, ma tale valutazione (in fatto) deve poi implicare (in diritto) scelte interpretative internamente coerenti, non tanto per un’esigenza di corretta interpretazione della volontà negoziale delle parti, dunque di matrice civilistica 38, quanto per ragioni interne al modo di essere della normativa tributaria. Sul punto occorre soffermarsi, e focalizzare brevemente l’attenzione sul modo di costruzione della legislazione tributaria sostanziale. Se analizziamo a fondo il tessuto normativo fiscale, possiamo renderci conto di come esso possa ragionevolmente leggersi alla stregua di una complessa ed articolata rete di situazioni giuridiche patrimoniali (attive e passive) di matrice civilistica, tra loro diversamente combinate dal legislatore tributario, nell’ambito di ciascun tributo-istituto giuridico. Per comprendere ciò occorre partire da alcuni postulati, frutto delle riflessioni di parte della dottrina sui rapporti tra diritto civile, diritto tributario ed economia, sulla cui dimostrazione non è possibile soffermarsi in questa sede 39, ossia: (i) l’intrinseca giuridicità dell’economia, intesa quale “ordine” plasmato – nei suoi “strumenti” – dal diritto 40; (ii) la considerazione di ogni maliberale: rispetto alla quale valgono le considerazioni di MASTROIACOVO, op. cit., p. 65 ss.), quanto alla sua configurazione strutturale, al modo di fissazione dei nessi funzionali tra le diverse prestazioni dedotte. Sotto questo aspetto infatti emerge il vero discrimine tra lettura “dualistica” ed “unitaria” della cessione di azienda verso rendita vitalizia, nell’un caso il legame tra le due prestazioni viene reciso, a differenza dell’altro. 38 Atteso che, come evidenziato da autorevole dottrina, l’identificazione della causa, dell’oggetto, degli effetti e degli spostamenti patrimoniali stabiliti in contratto null’altro sono che diverse prospettive di analisi dell’unico, e comune, regolamento contrattuale, come tali da considerare ed interpretare in armonia tra loro: in tal senso, con molta chiarezza ed efficacia, ROPPO, Il contratto2, cit., p. 312-313. 39 Sul tema, si veda, da ultimo, FRANSONI-LUPI, La determinazione dei tributi tra diritto e capacità economica individuale, in Dialoghi trib. trib., 2009, p. 9 ss.; FRANSONI, Tipologia e struttura della norma tributaria, in A. FANTOZZI (a cura di), Diritto tributario, Torino, 2012, spec. pp. 259260; nonché, seppur in relazione ad altra tematica, PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto dei carichi pubblici e scopo mutualistico, Milano, 2009, spec. p. 58 ss. 40 Cfr. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, III ed., 2004, nonché, per un dibattito sul tema, AA.VV., Il dibattito sull’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1999. Tra diritto ed economia non vi è antitesi, ma coincidenza, trovando gli istituti economici fonte e forma nei corrispondenti istituti giuridici: “l’accordo circa lo scambio tra proprietà di un bene e corrispettivo d’un prezzo non sta in rerum natura […], ma fa tutt’uno con l’istituto giuridico della compravendita” (così IRTI, op. ult. cit., pp. 39-40). In questa prospettiva, sul piano logico, il confine tra “diritto civile”, “economia” e “diritto tributario” può intendersi in questi termini: (i) il diritto civile crea le “regole del gioco” economico, ossia gli strumenti giuridici di scambio (IRTI, op. ult. cit., spec. pp. 63-66) e, quindi, i mezzi di produzione e di valutazione della “ricchezza”; (ii) l’economia e gli studi economici elaborano – per così dire – le “tattiche di gioco”, che presuppongono dette regole e che fanno tesoro dell’esperienza umana nell’agire economico onde comprendere come meglio utilizzare gli strumenti economici predisposti dalla legge (ogni studio economico necessariamente presuppone, in termini più o meno espliciti, l’esistenza e l’operatività di un dato ordinamento giuridico, nel

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nifestazione di “capacità economica” quale espressione di situazioni giuridiche patrimoniali attive e passive di matrice civilistica (effetti giuridici di atti-fatti-negozi rilevanti, sul piano patrimoniale, per il diritto civile); (iii) la definizione delle singole “fattispecie impositive” e del “fatto imponibile” (ricchezza assunta ad indice di riparto dei carichi pubblici) 41 come frutto della combinazione, da parte del legislatore tributario, di tali situazioni 42; (iv) l’identificazione del “fatto imponibile” attraverso la (non sempre agevole) concreta opera dell’interprete 43. quale siano definiti gli strumenti di azione economica e le regole per il loro uso: in tal senso, LIBONATI, in AA.VV., Il dibattito, cit., p. 103 ss., spec. pp. 112-117); (iii) il diritto tributario si occupa del risultato di tale uso, ossia della “ricchezza” conseguita attraverso l’uso degli strumenti giuridico-privatistici, onde selezionarne la parte da assumere a parametro di identificazione della quota individuale di concorso alle spese pubbliche, in ottemperanza ed in coerenza con i dettami dell’art. 53 Cost. (cfr. PEPE, op. ult. cit., pp. 65-67, ove per riferimenti). 41 “Fatto imponibile” emergente dalla lettura complessiva e sistematica – “combinata” – delle singole “fattispecie impositive”, tra loro strutturalmente distinte ed eventualmente collocate in “disposizioni” differenti: per considerazioni al riguardo, seppur con terminologia diversa, si veda FRANSONI, Tipologia e struttura della norma tributaria, cit., p. 268 ss.). 42 Assunta la matrice civilistica dei flussi economici (cfr. retro, nota 40), si deve ritenere la “capacità (o sostanza) economica” sottostante i fatti imponibili frutto di una (preventiva) valutazione convenzionale dell’ordinamento giuridico privatistico e di una (successiva) selezione e misurazione da parte del legislatore fiscale. Alla luce della precedenza logica-funzionale del diritto civile sul diritto tributario sostanziale, in ultima analisi a definire il “fatto imponibile” sarebbero cioè gli effetti giuridici civilistici sottesi alle singole “fattispecie impositive” sostanziali ed secondo la loro “combinazione” (ampie osservazioni in senso analogo in D’AMATI, Il reddito complessivo nell’imposta complementare, in Boll. trib., 1966, spec. p. 682; ID., La progettazione giuridica del reddito, I, Le ipotesi della riforma tributaria, Padova, 1973; ID., La progettazione giuridica del reddito, II, I redditi fondiari, Padova, 1974; ID., La progettazione giuridica del reddito, III, I redditi mobiliari, Padova, 1975; NUZZO, Modelli ricostruttivi della forma del tributo, Padova, 1987, p. 23 ss.; ID., Riflessioni sul presupposto del tributo successorio e degli altri tributi sulla circolazione di ricchezza, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1984, I, spec. p. 462 ss.; CARINCI, L’invalidità del contratto nelle imposte sui redditi. Profili sostanziali, Padova, 2003, spec. p. 29 ss.; PIERRO, Beni e servizi nel diritto tributario, Padova, 2003, spec. p. 132 ss.; URICCHIO, Flessibilità del lavoro e imposizione tributaria, Bari, 2004, pp. 97-98). 43 Alla precedenza logico-funzionale del diritto civile sul diritto tributario sostanziale e, specularmente, alla dipendenza logica del secondo dal primo (cfr. retro, nota 42), non corrisponde una dipendenza (anche) strutturale, potendo il legislatore fiscale, nell’elaborazione testuale delle fattispecie impositive, rinviare ad istituti, concetti, nomenclature di matrice civilistica ed assumerle direttamente nel contesto fiscale, apportarvi “modifiche”, sganciarsi completamente da esse ed elaborare ex novo concetti e figure proprie, optare per una descrizione della fattispecie in termini sintetici, analitici, finanche casistici, ecc…, talché il comprendere a quali di questi effetti giuridici civilistici (“qualificanti e quantificanti”) la legge fiscale intenda di volta in volta riferirsi implica una comune attività di interpretazione della legge stessa. Sul tema, si veda BOSELLO, La formulazione della norma tributaria e le categorie giuridiche civilistiche, in Dir. prat. trib., 1981, I, p. 1433 ss.; DE MITA, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, in Riv. dir. trib., 1995, I, p. 145 ss., spec. p. 153; TREMONTI, Autonomia contrattuale e normativa tributaria: il problema dell’elusione tributaria., in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, p. 372; CIPOLLINA, La legge civile e la legge fiscale, Padova, 1992,

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Più esattamente, il legislatore fiscale, nella definizione del prelievo, si trova costretto ad affrontare e risolvere due questioni: la selezione e la misurazione della “ricchezza” da assoggettare ad imposizione (rectius: da assumere quale parametro per l’identificazione della quota individuale di concorso alle spese pubbliche). Per la misurazione, egli può servirsi di criteri differenti, a seconda delle specifiche esigenze e problemi che la fonte di ricchezza solleva (anche sul piano della gestibilità amministrativa): può far leva sui corrispettivi contrattuali (ossia agganciare la quantificazione dell’imponibile ad uno specifico effetto giuridico negoziale) o, per ragioni tecniche (assenza di corrispettivo in denaro) o di cautela fiscale, sul c.d. “valore normale” o “di mercato” o, ancora, su valori lato sensu “figurativi” (ad esempio, i redditi fondiari o l’IMU). Tutti questi “valori” identificano, sul terreno fiscale 44, quello che potrebbe qui definirsi l’“effetto giuridico civilistico quantificante (rectius: concorrente a quantificare)” il prelievo 45; un effetto che – si osservi – di solito viene poi fiscalmente qualificato sulla base dell’ulteriore effetto giuridico civilistico, obbligatorio o reale, funzionalmente ad esso connesso per vincolo contrattuale o per volontà legale, ossia sul piano civilistico (effetto “qualificante” il prelievo) 46. Questa opera di “selezione, misurazione e qualificazione” della “ricchezza” avviene su due livelli: (a) innanzitutto, a livello di singole fattispecie impositive, poi (b) a livello di disciplina del singolo tributo. Il legislatore tributario procede infatti anche alla “combinazione” degli effetti giuridici civilistici “qualificanti” e “quantificanti” delle singole “fattispecie impositive”, fissandone i termini di collegamento funzionale: si osservi, il collegamento è funzionale poiché, attraverso di p. 43 ss.; ZIZZO, Riflessioni in tema di tecnica legislativa e norma tributaria, in Rass. trib., 1988, I, p. 184 ss.; FRANSONI, Tipologia e struttura della norma tributaria, cit., spec. pp. 261-263. Sull’interpretazione nel diritto tributario, si veda in generale MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003. 44 Sulla normale rilevanza dei corrispettivi contrattuali nell’imposizione sul reddito d’impresa, si veda LUPI, Diritto tributario. Parte speciale9, Milano, 2007, p. 64; sui diversi criteri di quantificazione delle componenti reddituali, si veda CARPENTIERI, Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi, Milano, 1997. 45 Sul punto, appare utile una piccola precisazione terminologica. Vero è che – ad esempio, in una vendita – l’entità del corrispettivo è, nella prospettiva civilistica, misura dell’effetto giuridico. In questa ottica, l’espressione “effetto giuridico quantificante” – impiegata nel testo – potrebbe giustamente apparire impropria, se non concettualmente erronea. Tuttavia, essa si lega all’idea che l’effetto giuridico civilistico non entri nel settore fiscale tout court, ma sempre per il tramite di una opzione (selezione) normativa ad opera del legislatore tributario. L’effetto giuridico civilistico è, cioè, assunto come un “fatto”, già plasmato dalla normativa civilistica (anche nella sua misura) e successivamente “selezionato” dal legislatore tributario (che ben potrebbe infatti attribuirvi rilevanza solo parziale: ad esempio, costi solo parzialmente deducibili, ricavi in parte esente, ecc…). Sulla “digressione dell’effetto in fatto”, si veda, per indicazioni di teoria generale, seppur in relazione ad altra tematica, PARLATO, Il sostituto d’imposta, Padova, 1969, p. 143, sub nota 169. 46 Cfr. CARINCI, L’invalidità del contratto, cit., p. 78; OSTERLOH, Il diritto tributario e il diritto privato, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Annuario, Padova, 2005, p. 86 ss.

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esso (e dunque attraverso la connessione dei diversi effetti giuridici civilistici contemplati dalle distinte “fattispecie impositive”), il presupposto del tributo prende forma specifica, delinea il suo oggetto e mostra la sua ratio 47. Ed allora, una volta ricostruiti – da parte dell’interprete – i profili causali del negozio, gli effetti giuridici patrimoniali in esso contemplati, ove rilevanti ai fini tributari, dovranno trovare qualificazione e quantificazione secondo i loro legami funzionali di matrice civilistica, ovviamente nei modi e nei termini di “combinazione” discrezionalmente fissati dal legislatore tributario nell’ambito di ciascun tributo-istituto giuridico. Ma se così è, allora appare evidente l’aspetto maggiormente critico della tesi “dualistica”, almeno per come fino ad oggi prospettata: la rendita vitalizia attualizzata (effetto giuridico quantificante) non sembra infatti poter sottostare ad un regime impositivo, quale quello delle plusvalenze patrimoniali d’impresa, il cui presupposto (effetto giuridico qualificante) è infatti rappresentato da un atto (la cessione di azienda) che per definizione, nella prospettiva “dualistica”, è considerato funzionalmente “slegato” alla rendita. Il che lascia dubitare della bontà di detta tesi. Ma non solo.

5. (segue): (iii) i profili di probabile incoerenza “esterna”, ossia rispetto alla ratio dell’IRPEF, della tesi “dualistica” Affermata la necessità di coerenza tra apprezzamento dei profili funzionali dell’operazione e disciplina tributaria, a completamente del discorso ed in relazione al caso in esame, occorre evidenziare un ulteriore profilo di “incoerenza” della tesi “dualistica”, sebbene non sotto l’aspetto “interno”, bensì “esterno”, in relazione cioè alla stessa ratio dell’IRPEF (dunque per ragioni strutturali, di sistema). Appare utile riprendere in mano il problema circa la sussistenza di una “doppia imposizione” nella fattispecie qui considerata – fenomeno, come evidenziato 48, espressamente escluso dai sostenitori della tesi “dualistica”. Va osservato come questo interrogativo sia stato spesso appiattito sul “divieto di doppia imposizione” di cui all’art. 163 TUIR, collocando così il problema sul piano dell’interpretazione di tale disposizione, con ciò non potendo condurre a risultati univoci, attesa l’incertezza che caratterizza il contenuto del suddetto divieto 49. Sem47

Cfr. FRANSONI, op. ult. cit., p. 268 ss. Si pensi al differente modo di collegare – ai fini fiscali – le medesime voci di conto economico nella definizione del reddito d’impresa e del “valore della produzione netta” IRAP: è la semplice deducibilità-indeducibilità dei costi di lavoro e degli interessi passivi – ossia il loro diverso “collegarsi” ai restanti elementi positivi e negativi di bilancio – a determinare la profonda divergenza di oggetto e di ratio tra i due tributi. 48 Cfr. retro, par. 2. 49 In ordine alla sua ratio (atteso che per alcuni avrebbe solo valenza procedimentale, per altri

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bra maggiormente opportuno, quindi, affrontare il tema dell’inquadramento fiscale della “cessione di azienda verso rendita vitalizia” prescindendo da tale divieto normativo, atteso che il problema della “doppia imposizione” sarebbe infatti emerso anche in assenza di una disposizione come l’art. 163 TUIR. Ebbene, a tal riguardo, appare ancora una volta utile far leva, in questa sede, sulla matrice civilistica della legislazione tributaria sostanziale come sopra evidenziata 50; in questa prospettiva teorica, e seguendo ancora la tesi “dualistica” dominante, sembra possibile ravvisare nel caso in esame una – si passi l’espressione volutamente descrittiva ed atecnica – “doppia rilevanza tributaria del medesimo elemento attivo patrimoniale”, facente capo al cedente-vitaliziato: l’entità della rendita vitalizia contrattualmente fissata (e poi effettivamente percepita) esprime infatti una situazione giuridica soggettiva attiva di matrice civilistica (diritto di credito) che, in base all’interpretazione maggioritaria, assumerebbe rilevanza sia ai fini della tassazione dei redditi di lavoro dipendente (quale rendita percepita tout court), che ai fini della tassazione del reddito d’impresa (quale plusvalenza, sebbene solo per l’eccedenza sul “valore fiscalmente riconosciuto” al complesso dei beni aziendali) 51. Il problema è se tale “duplice rilevanza” integri davvero una “doppia imposianche sostanziale ed interpretativa), in ordine al senso da assegnare al concetto stesso di “doppia imposizione” (più o meno variamente inteso ed aggettivato), nonché considerando l’intrinseca carica “ideologica” che esso disvela e la sua insufficienza, non fornendo di per sé, tale norma, un criterio per risolvere gli eventuali conflitti di imposizione, sia sostanziali che formali. Su queste problematiche, che non è possibile trattare compiutamente in questa sede, si rinvia ai contributi di ADONNINO, (voce) Doppia imposizione (dir. trib.), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, pp. 1017108; ID., (voce) Doppia imposizione, in Enc. giur. Treccani, XIII, Roma, 1989, p. 1 ss.; ARDIZZONE, (voce) Doppia imposizione – interna, in Dig. disc. priv., sez. comm., vol. V, Torino, 1990, pp. 176177; ID, Doppia imposizione nel procedimento tributario (T.U.I.D., art. 7), in Riv. dir. fin. sc. fin., 1969, II, p. 391 ss., spec. p. 401 ss.; ID., Il principio del “ne bis in idem” nell’imposizione diretta (Contributo ad un’analisi della duplicazione di diritto interno), in Riv. dir. fin. sc. fin., 1972, I, pp. 11 e 275 ss.; ID., (voce) Doppia imposizione – interna, cit., p. 175 ss., spec. 178; nonché TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Vol. 1. Parte generale11, Torino, 2011, p. 206; GENTILLI, Sul divieto di doppia imposizione, in Dir. prat. trib., 1989, II, p. 915; FREGNI, Appunti in tema di “doppia imposizione” interna, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1993, II, pp. 20-21; PORCARO, Il divieto di doppia imposizione interna nel diritto tributario, Padova, 2001, p. 359 ss.; FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale8, Padova, 2012, p. 250-251; STEVANATO, Divieto di doppia imposizione e capacità contributiva, cit., p. 73; MARELLO, Il divieto di doppia imposizione come principio generale del sistema tributario, in Giur. cost., 1997, p. 4130; MIRAULO, (voce) Imposizione doppia, in Nov. Dig. it., vol. VIII, Torino, 1962, p. 283; PEPE, Spunti sul divieto di doppia imposizione “interna”, in Rass. trib., 2010, spec. p. 1403 ss. 50 Cfr. retro, par. 4. 51 In tal senso, cfr. altresì, STEVANATO, Cessione di azienda, cit., p. 212, il quale osserva come i rendimenti finanziari (i “frutti” del capitale, tassati quali redditi di lavoro dipendente assimilati) siano infatti inclusi nel valore della plusvalenza aziendale; nonché PALESTINI-LUPI-STEVANATO, Rendita vitalizia, reddito d’impresa e doppia imposizione, cit.

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zione” sulla medesima capacità economica (i.e. sul medesimo indice di riparto dei carichi pubblici) o esprima – come credono dottrina e giurisprudenza 52 – semplicemente il realizzarsi di due distinte forme di imposizione, relative a due indici di riparto differenti. Per rispondere ad un simile interrogativo sembra necessario passare attraverso una doppia e logicamente susseguente verifica: (a) in ordine alla omogeneità o eterogeneità funzionale del contesto entro cui la “duplice rilevanza tributaria” del medesimo elemento patrimoniale si manifesta: se, cioè, quest’ultimo configuri “tassello” di fattispecie afferenti al medesimo tributo o a diversi tributi e, dunque, se le disposizioni che lo contemplano rispondano o meno ad un’unica ratio; nonché, nel primo caso, (b) in ordine alla conformità o meno di siffatta “duplice rilevanza” alla ratio del tributo (inteso quale istituto giuridico) cui le diverse fattispecie impositive sono formalmente riconducibili. Ebbene, è proprio seguendo questo itinerario d’indagine che affiorano le ragioni dell’istintiva problematicità del caso in esame, almeno per come inquadrato dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti. Le due fattispecie impositive coinvolte (plusvalenza patrimoniale sub reddito d’impresa e rendita vitalizia sub redditi di lavoro dipendente) sono infatti collocate in un contesto impositivo funzionalmente omogeneo. Appaiono cioè fattispecie imponibili afferenti il medesimo tributo (IRPEF) e – almeno nella misura in cui si affermi l’unitarietà del presupposto 53 – rispondenti ad una medesima ratio, ossia il riparto dei carichi pubblici in base al (quanto più “effettivo”) “reddito complessivo” del contribuente, inteso quest’ultimo quale incremento complessivo del patrimonio della persona fisica, concretamente “prodottosi” nel periodo d’imposta 54. 52

Cfr. retro, par. 2. Potrebbe infatti astrattamente apprezzarsi il presupposto IRPEF sia in termini unitari, che atomistici: ciò discende dalla complessità o “ibridismo” strutturale del fatto assunto ad oggetto di tale imposta, in quanto formalmente disarticolato in diverse discipline di categoria ed in relazione alla varie possibili “fonti” produttive di reddito. Ovviamente, ove si opti per una visione atomistica, il problema – nel caso oggetto della presente indagine – non avrà neppure motivo di essere posto, attesa l’indipendenza delle varie discipline di categoria. Sulla complessità della struttura dell’IRPEF, si veda SALVINI, Introduzione, in AA.VV., TUIR e leggi complementari, a cura di Fantozzi, in Breviaria Iuris. Commentario breve alle leggi tributarie, tomo III, Padova, 2010, pp. 6-7, ove nel senso di una lettura unitaria; nonché, analogamente, FRANSONI, sub art. 1 TUIR, ibidem, p. 17; cfr. altresì MARCHETTI, (voce) Persone fisiche (imposta sul reddito delle), in Diz. dir. pubblico diretto da Cassese, Milano, 2006, p. 4275, ove evidenzia come oggetto dell’IRPEF sia il reddito complessivo (unitariamente considerato), mentre presupposto il “possesso” dei singoli redditi rientranti nelle categorie previste dall’art. 6 TUIR (atomisticamente considerate). Sul ruolo delle categorie di reddito nel sistema IRPEF e IRES, si veda comunque infra, par. 6. 54 Sulla nozione di “reddito” sottesa alla disciplina IRPEF e IRES (ex IRPEG), la letteratura è sterminata e risalente. Sia consentito in tal sede osservare solo come, pur in assenza di una “norma di chiusura” (alla stregua dell’abrogato art. 80 D.P.R. n. 597/1973), sia comunque necessario identificare una nozione generale di “reddito”, non solo al fine di riempire di contenuto quelle fattispecie, contenute nelle singole discipline di categoria, di “ampio respiro”, insuscettibili cioè di 53

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Ed allora, emerge in tutta evidenza come il “duplice rilievo” della quota di rendita eccedente il valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda (come plusvalenza e come reddito di lavoro) appaia non coerente con il fine (ratio) dell’imposta sui redditi: per effetto di ciò il valore dell’imponibile verrebbe infatti determinato computando in esso due volte il medesimo importo numerario (i.e. dando rilievo due volte alla medesima situazione giuridica soggettiva attiva di matrice civilistica), così esprimendo un incremento di patrimonio per definizione fittizio, in quanto sovrastimato 55. Da qui la problematicità della ricostruzione in termini essere comprese in assenza di una (pur implicita) idea di cosa debba considerarsi “reddito” (cfr. art. 6, comma 2, art. 41, comma 1, lett. h), art. 51, comma 1, art. 67, comma 1, lett. l) TUIR), ma anche – e, per quanto qui di interesse, soprattutto – perché essa funge da elemento distintivo della ratio del tributo, come noto, enucleabile innanzitutto a partire dal suo presupposto (in tal senso, su tutti, cfr. FEDELE, Il presupposto del tributo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1967, p. 977 ss.). Sul punto, si veda, in special modo e per ogni riferimento bibliografico, FALSITTA, I caratteri essenziali dei redditi tassabili con Irpef e Ires, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale8, Padova, 2012, spec. p. 4 ss.; FRANSONI, Il sistema dell’imposta sul reddito, in RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte speciale8, Milano, 2009, spec. p. 57 ss.; LUPI, Diritto tributario. Parte speciale. La determinazione giuridica della capacità economica, Milano, 2007, p. 27 ss.; FICARI-PAPARELLA, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, p. 776 ss., spec. p. 778. Ovviamente, se da un lato il riferimento al “patrimonio” (il cui incremento dà luogo a “reddito”) va certamente inteso in senso civilistico (complesso di situazioni giuridiche soggettive attive e passive di natura economica riferibili alla medesima persona: in tal senso, FALSITTA, op. ult. cit., p. 7; sulla nozione civilistica di patrimonio, TRIMARCHI, (voce) Patrimonio (nozione), in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 271 ss.), dall’altro, come osservato (cfr. retro, par. 4), non rileva qualsivoglia incremento patrimoniale, ma solo quegli incrementi espressamente “selezionati” dal legislatore fiscale e nella misura da quest’ultimo prevista (in questa prospettiva, si ascrive generalmente il “reddito” tassato ai fini IRPEF e IRES nel novero dei redditi c.d. “prodotti”, non avendo in linea di principio il legislatore attribuito rilievo – i.e. “selezionato” – quegli incrementi accidentali, fortuiti, non collegati ad una qualche attività del contribuente). 55 Vero è che il medesimo elemento patrimoniale qui coinvolge due fattispecie e discipline formalmente e strutturalmente distinte ed autonome (reddito d’impresa e reddito di lavoro dipendete), ma esse sono comunque “frammenti” di un unico presupposto, qual è il “reddito complessivo”, in seno al quale i relativi elementi costitutivi sono destinati a ricongiungersi, sommandosi aritmeticamente e – si osservi – in obbedienza alla medesima ratio. Ovviamente, a tale considerazione potrebbe obiettarsi che la “somma aritmetica” della plusvalenza con le rate di rendita vitalizia percepite in realtà formalmente non si verifica, trattandosi di elementi del reddito complessivo riferibili a differenti periodi d’imposta e stante l’autonomia giuridica tra questi (almeno per le rate percepite a partire dal periodo successivo a quello di realizzo della plusvalenza). L’obiezione sembra tuttavia solo apparentemente fondata, dovendosi ridimensionare, sul piano concettuale. Non si deve infatti dimenticare il carattere prettamente convenzionale della segmentazione in periodi d’imposta della “vita reddituale” del contribuente; talché, così come per le perdite si afferma la necessità, in rispondenza alla ratio dell’imposizione reddituale, di un loro riporto a nuovo, in compensazione “orizzontale” o “verticale” con redditi futuri o diversi e senza limiti quantitativi o temporali (in tal senso, si veda ZIZZO, La determinazione del reddito delle socie-

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“duali” propugnata da dottrina e giurisprudenza dominanti: essa sembra “non collidere” con la ratio dell’imposizione reddituale, in quanto destinata a risolversi in una modalità di calcolo per definizione “sovradimensionante” l’entità del reddito 56.

6. La maggior adeguatezza della lettura “unitaria” della fattispecie, ma l’inevitabile connotazione lato sensu “valoriale” delle scelte che essa impone all’interprete Quanto sin qui detto, induce a ritenere che delle due, l’una: o si permane in una lettura “duale” dell’operazione, ma in tal caso – come si è cercato di mostrare 57 – esigenze di coerenza sia “interna” che “esterna” impongono di determinare la plusvalenza in ragione del “valore normale” dell’azienda e non della rendita attualizzata (cosa che, peraltro, risolverebbe il problema degli eventuali “scarti” tra rendita attualizzata e effettivamente percepita, ma solleverebbe una serie di altre problematiche afferenti alla valorizzazione contabile e fiscale, da parte del cessionario, dell’azienda ricevuta e della deducibilità della rendita erogata suscettibili di incrinare tale lettura) 58, ovvero – e, ad avviso di chi scrive, preferibilmente – se ne tà e degli enti commerciali, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, cit., p. 317; ID., Considerazioni sistematiche in tema di utilizzo delle perdite fiscali, in Rass. trib., 2008, p. 929 ss.), altrettanto dovrebbe escludersi – sempre concettualmente – la doppia o plurima rilevanza della stessa concreta situazione giuridica soggettiva patrimoniale ai fini della determinazione del “reddito”, sia in relazione al medesimo periodo d’imposta che a periodi differenti. 56 Reddito che, va ricordato, è realtà non materiale, ma ideale, “pensata” e puramente convenzionale: cfr. LUPI, Diritto tributario. Parte speciale, cit., p. 31. In questa prospettiva il richiamo al “divieto di doppia imposizione” ex art. 163 TUIR – se proprio lo si vuol compiere – può anche apparire pertinente, ma non in quanto tale (come divieto), bensì in quanto espressione della ratio ispiratrice (e conformatrice) del prelievo sui redditi, cui discende logicamente, ed in linea di principio, l’esigenza di non computare più di una volta il medesimo valore nella quantificazione dell’unico imponibile fiscale. Esigenza che sembra stare a cuore anche a chi collega l’art. 163 TUIR ad un inespresso principio di “simmetria di prelievo”: cfr. PORCARO, Il divieto di doppia imposizione, cit., p. 486 ss.; STEVANATO, Divieto di doppia imposizione, cit., pp. 79-80. 57 Cfr. retro, parr. 4, 5. 58 Se limitiamo il discorso al piano civilistico-contabile, il più ragionevole criterio di iscrizione in bilancio dell’azienda ricevuta sembra essere il valore della rendita attualizzata (ovviamente da ripartire tra i diversi beni aziendali, con eventuale iscrizione di “avviamento” derivativo), a cui – dato il suo carattere approssimativo ed in aderenza al principio di “prudenza” – affiancare la costituzione di un apposito “fondo per oneri”, attesa l’eventualità che l’entità complessiva della rendita (debito certo nell’an, ma non nel quantum complessivo) possa rivelarsi, per la “longevità” del vitaliziato, eccedente il valore suddetto (fondo da ridurre parallelamente alla “cassa”, via via che la rendita viene erogata, da integrare in caso di futura incapienza con successivi accantonamenti, non fiscalmente deducibili). Sul piano tributario, invece, se apprezziamo in termini “duali” l’operazione di cessione di azienda verso costituzione di rendita vitalizia e ne sviluppiamo coerentemen-

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prospetta una lettura “unitaria”, la quale tuttavia solleva ben altro problema: quello della “scelta” in ordine a quale dei due prelievi (sulla plusvalenza o sulla rendita) far prevalere, attesa l’incompatibilità con la ratio dell’IRPEF del concomitante operare di entrambe le fattispecie impositive 59 (incompatibilità oggi meno “tollerabile” sul piano sistematico alla luce della tassazione integrale della rendita). Un problema, questo, che – come in altra sede osservato 60 – l’art. 163 TUIR non è in grado di risolvere e che, quindi, va affrontato da ben altra prospettiva, legata alla configurazione strutturale e funzionale dell’IRPEF. Di tale tributo occorre considerare la struttura “schedulare”, ossia la suddivisione del “reddito complessivo” – sul quale, pur al netto degli oneri deducibili, grava in sostanza il prelievo 61 – in autonome discipline “di categoria” (art. 6 TUIR), idonee altresì a definire il contenuto specifico del concetto di “reddite le implicazioni, il “costo di acquisto” dell’azienda fiscalmente rilevante (anch’esso da ripartire tra i diversi beni aziendali: cfr. ZIZZO, La determinazione del reddito delle società, cit., p. 370) dovrebbe identificarsi con il suo “valore normale”, con evidente disallineamento, però, tra valori contabili e valori fiscali. Dubbia appare invece la deducibilità, per il cessionario-vitaliziante, delle quote annuali di rendita da egli erogate al cedente. Per affermarla, si dovrebbe infatti, più o meno esplicitamente, ammettere l’“inerenza” delle rate erogate all’attività dell’impresa, la quale – si osservi – non potrebbe che argomentarsi che in relazione all’acquisto dell’azienda (in tal senso, cfr. GIRELLI, La cessione dell’azienda, cit., spec. p. 1846-1847). Ma, così facendo, si finirebbe di fatto per abbandonare la lettura “duale” dell’operazione e per recuperarne (incoerentemente) il carattere funzionalmente unitario, anche ai fini fiscali e dal lato del cessionario. Ma non solo. Ove si intenda assicurare tale deduzione, al fine di non incappare in una (discutibile) “doppia deduzione” del medesimo elemento di costo (quale costo di acquisto, pur attualizzato, dell’azienda e quale rendita erogata), occorrerebbe computare nel reddito d’impresa del cessionario – come provento imponibile – il “valore normale” dell’azienda ricevuta. In fondo, se (idealmente) consideriamo l’azienda come ceduta verso un prezzo, poi re-impiegato nella costituzione della rendita, il medesimo prezzo non potrà che (sempre idealmente) considerarsi come conseguito dal cessionario e, dunque, suscettibile di concorrere in termini positivi alla formazione del suo reddito. Ciò però, intuitivamente, ripropone il problema di come questa operazione possa considerarsi “inerente” all’attività d’impresa del cessionario, atteso che il collegarla alla cessione di azienda, si è detto, ne farebbe riaffiorare una lettura “unitaria”. Non sembra, sotto questo profilo, quindi convincente la tesi di GIRELLI, op. ult. cit., p. 1845, laddove giustifica la deducibilità per il cessionario della rendita erogata al cedente-vitaliziato in forza di un’esigenza di “simmetria” inter-soggettiva tra le due parti. Da un lato, infatti, un problema di “simmetria” inter-soggettiva dovrebbe per definizione escludersi se si apprezzano la tassazione di plusvalenza e la tassazione della rendita vitalizia come due forme di prelievo autonome e distinte; dall’altro, tale impostazione finirebbe – paradossalmente – per generare un’altra “a-simmetria”, ma interna al regime fiscale del cessionario, che potrebbe dedurre la rendita vitalizia per ben due volte, sotto forma di costo di acquisto dei beni aziendali e di rate annualmente versate al vitaliziato. 59 Cfr. retro, par. 5. 60 Sia consentito il rinvio a PEPE, Spunti, cit., p. 1403 ss. 61 Cfr. retro, nota 54.

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to” 62. Questa suddivisione risponde, come noto, ad una esigenza tecnica, di adeguamento delle regole di imposizione (misurazione, imputazione a periodo, deduzione dei costi di produzione, ecc.) alle specifiche caratteristiche delle “fonti” di produzione dell’unico reddito complessivo imponibile e, dunque, di razionalità e coerenza “interna” del prelievo 63. Si tratta allora dunque di comprendere quale disciplina di categoria sia “più adeguata” al fine di meglio determinare la capacità economica reddituale espressa dal cedente. In questa prospettiva, il problema assume però contorni ben più ampi, implicando una inevitabile – per quanto implicita e/o inconsapevole – scelta di “valore” tra “equità” e “certezza/semplicità” del prelievo. Certamente la ratio di un tributo assume una valenza ermeneutica fondamentale 64, ma essa va comunque bilanciata – nel procedere logico dell’interpretazione e, ovviamente, entro i margini consentiti dalla lettera della legge – con gli altri interessi e “valori” sottesi alla funzione impositiva, spesso confliggenti con una lettura della disciplina “perfettamente coerente” con la sua ratio 65. Ebbene, se ci poniamo nella prospettiva della (sola) tassazione della plusvalenza, il prelievo appare maggiormente conforme alla ratio dell’IRPEF, per lo meno ove si apprezzi quest’ultima nel senso di fondare il riparto delle spese pubbliche in ragione del (quanto più effettivo) incremento “netto” di patrimonio nell’anno solare (reddito, appunto) 66. Ed infatti, lo scomputo del “valore fiscalmente riconosciuto” dal corrispettivo di cessione riesce a dar rilievo ai costi sostenuti per l’acquisto dell’azienda e, quindi, di “produzione” del reddito, assegnando alla plusvalenza una effettiva configurazione in termini di “valore netto”; configura62

FRANSONI, Il sistema dell’imposta sul reddito, cit., p. 58. La frammentazione in discipline “di categoria” è cioè servente ad una migliore determinazione dell’incremento patrimoniale complessivo conseguente alle varie e poliformi attività di produzione economica, tenuto conto ovviamente delle esigenze tipiche di ogni prelievo fiscale, quali la certezza, la semplicità, la cautela fiscale, l’esistenza di fini extra-fiscali, nonché la capacità di “amministrare” concretamente il prelievo (valori “neutri” che possono giustificare “deviazioni” dall’ideale obiettivo di perfetta determinazione dell’incremento patrimoniale). Sulle esigenze “tecniche” alla base della tassazione “schedulare” del reddito, si veda ex multis FRANSONI, op. ult. cit., pp. 44-45, ove per riferimenti storici in ordine all’origine di tale sistema di prelievo. 64 Sulla rilevanza dei principi e della ratio dei singoli tributi quali criteri interpretativi della loro disciplina, si rinvia, in special modo, a FEDELE, (voce) Diritto tributario (principi), in Enc. dir., Annali II, t. 2, Milano, 2008, pp. 464-465; ID., Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, p. 110. 65 Sui diversi interessi e valori coinvolti nella funzione fiscale, ed emergenti anche nell’ambito attività interpretativa, si veda, in special modo, LUPI, Presupposto del tributo, in Diz. dir. pubbl. diretto da S. Cassese, vol. V, Milano, 2006, spec. p. 4476 ss.; ID., Diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2007, p. 7 ss., ove per ampie osservazioni in merito alla “discrezionalità” dell’interprete. 66 Su cui, ampiamente, LUPI, Diritto tributario. Parte speciale, cit., p. 29. 63

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zione – si badi – più conforme alla naturale nozione di “reddito”, esclusa invece dalla disciplina dei redditi di lavoro dipendente 67. Tale opzione interpretativa appare probabilmente più fondata sul piano letterale e sistematico. Il fatto che l’art. 50, comma 1, lett. h) TUIR espressamente sottoponga al regime dei redditi di lavoro dipendente assimilati le rendite vitalizie “a titolo oneroso”, senza testualmente operare alcuna distinzione in ragione dell’origine o del titolo della rendita (e certamente essendo tale la rendita vitalizia costituita a fronte della cessione di una azienda) non appare infatti un limite testuale insuperabile. Ben potrebbe propugnarsene un’interpretazione “restrittiva”, circoscrivendone l’ambito di applicazione ai soli casi in cui la costituzione di rendita vitalizia, pur realizzandosi in un assetto funzionalmente “oneroso”, avvenga al di fuori della sfera imprenditoriale. Una lettura del genere sembra peraltro “incastrarsi” perfettamente sia con la comune affermazione secondo cui la “rendita vitalizia” non sarebbe una figura strutturalmente omogenea (un “tipo contrattuale”), ma rappresenterebbe solo un rapporto giuridico suscettibile di scaturire da una pluralità eterogenea di fonti 68 (negoziali e non negoziali, onerose o gratuite, liberali o meno) 69 – affermazione che non priverebbe di rilevanza l’art. 50 cit., rendendolo applicabile alle “rendite vitalizie onerose” costituite in situazioni di67 BORIA, Le categorie di reddito, in RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, cit., p. 136-137. 68 Si veda, anche per ampi riferimenti, A. MARINI, La rendita perpetua e vitalizia, cit., spec. p. 159 ss.; in senso contrario, tuttavia, cfr. PARADISO, Giuoco, Scommessa, Rendite, cit., p. 317 ss., che propone una acuta ed argomentata critica nei confronti dell’idea – pur dominante – della “rendita vitalizia” quale rapporto giuridico unitario scaturente da fonti eterogenee, ritenendo il contenuto di tale rapporto non uniforme e dipendente sia dalla tipologia di fonte considerata, che dagli elementi che concretamente concorrono a definirla (ossia dallo specifico contenuto che contraddistingue, in concreto, le singole clausole volte a regolare i vari aspetti del rapporto di rendita). Tale critica non appare tuttavia incompatibile con la soluzione interpretativa proposta nel testo, rispondendo essa (critica) ad esigenze proprie del solo settore civile (essenzialità o meno dell’“alea” ai fini della verifica della validità dei contratti di rendita vitalizia ove privi di tale requisito). 69 Tra le fonti non negoziali della rendita vitalizia si ravvisano la legge o atti giurisdizionali. In particolare, sono considerate fonti “legali”: l’attribuzione al coniuge cui è stata addebitata la separazione del diritto, in sede successoria, all’assegno vitalizio se all’apertura della successione godeva degli alimenti a carico dell’altro coniuge (art. 548 c.c.), l’attribuzione ai figli naturali del diritto ad un assegno vitalizio pari all’ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbero avuto diritto se la filiazione fosse stata riconosciuta (art. 580 c.c.); sono considerate fonti “giurisprudenziali”: la rendita costituita discrezionalmente dal giudice quale forma di liquidazione del danno alla persona permanente (art. 2057 c.c.). Quali fonti negoziali sono solitamente menzionate: il contratto oneroso di rendita, la donazione ed il testamento (art. 1872 c.c.), il contratto a favore di terzo (art. 1875 c.c.), il contratto di assicurazione (art. 1882 c.c.), la promessa al pubblico, la transazione, la divisione, i contratti misti, nonché – seppur non con unanimità di pareri – la rendita a titolo di conguaglio nella divisione e la promessa unilaterale. Sulle fonti del rapporto di rendita vitalizia, si vedano, da ultimi, A. MARINI, op. cit., p. 141 ss., spec. p. 157 ss.; RICCIO, op. cit., p. 321 ss.

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verse da quella in esame – sia con la generale vis actractiva (o “specialità”) 70 del reddito d’impresa nell’ambito del sistema di imposizione reddituale. Pur ritenendo l’assoggettamento dell’operazione al solo regime delle plusvalenze d’impresa preferibile, non si può tuttavia tacere dei problemi operativi che una simile soluzione comporta; problemi in particolar modo connessi alla misurazione approssimativa del “corrispettivo” di cessione ed agli “scarti” che esso comporta, tali dunque da aumentare i margini di incertezza e di complessità (se non complicazione…) del prelievo 71. La tassazione della (sola) rendita percepita quale reddito di lavoro dipendente assimilato garantirebbe al contrario una maggiore certezza, oltre che semplicità, dell’imposizione, sebbene una minore “equità”, attesa l’impossibilità di dar conto dei costi di acquisto dell’azienda da parte del cedente (quanto meno di quelli non già ammortizzati) 72. Come accennato, la scelta dell’uno o dell’altro inquadramento sarà tuttavia influenzata dal “valore” (equità vs. certezza/semplicità del prelievo) che – in modo più o meno esplicito o consapevole – starà maggiormente a cuore all’interprete.

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In tal senso, STEVANATO, Cessione di azienda, cit., p. 212; PORCARO-STEVANATO, La cessione di azienda, cit., p. 175. 71 Sulle difficoltà di coniugare la tassazione della plusvalenza con l’esigenza di certezza ed oggettiva determinabilità del corrispettivo di cessione, si veda PORCARO-STEVANATO, op. ult. cit., pp. 176-177, ove nel senso di escludere detta tassazione all’atto della cessione dell’azienda, ipotizzandone il frazionamento in parallelo all’erogazione della rendita. 72 Seguendo l’idea della tassazione della rendita vitalizia percepita quale reddito di lavoro dipendente (e non anche della plusvalenza, quale reddito d’impresa), la parziale esenzione del 40% poteva rappresentare un accettabile correttivo, sebbene imperfetto. In questa prospettiva, la sua abrogazione ha certamente ridotto i margini di razionalità di tale opzione interpretativa.

CESSIONE D’AZIENDA, TRASFERIMENTO DEL MARCHIO E VALORI IMPONIBILI NEL “SISTEMA” IVA-REGISTRO

di Giuseppe Scanu SOMMARIO: 1. La distinzione tra cessione d’azienda e trasferimento dei beni nel sistema IVA-Registro. – 2. La disciplina civilistica e settoriale della circolazione del marchio. – 3. La diacronica prospettiva degli artt. 2 e 3 del D.P.R. n. 633/1972 tra esclusioni e assimilazioni. – 4. La (ri)qualificazione degli atti e la ricerca della causa reale. – 5. L’apprezzamento del marchio quale autonomo valore di scambio. – 6. Considerazioni conclusive.

1. La distinzione tra cessione d’azienda e trasferimento dei beni nel sistema IVA-Registro L’attenzione con la quale l’Amministrazione finanziaria guarda alla circolazione dell’azienda si spiega con la preoccupazione di far emergere materia imponibile surrettiziamente sottratta ad imposizione, ciò in quanto la considerazione unitaria e il collegamento funzionale dei beni aziendali fa sì che (tendenzialmente) il fenomeno sia fiscalmente neutrale 1 o comunque meno oneroso rispetto al trasferimento frazionato dei singoli assets. 1

Nell’ambito delle imposte dirette, l’art. 86 del TUIR precisa che nel caso in cui l’oggetto della cessione sia costituito «esclusivamente da beni ammortizzabili, anche se costituenti un complesso o un ramo aziendale» (…), non vi sarà plusvalenza se i beni «vengono complessivamente iscritti in bilancio allo stesso valore al quale erano iscritti i beni ceduti» e non via sia pattuizione di conguagli. La neutralità fiscale è altresì riconosciuta per i conferimenti di partecipazioni di controllo e collegamento per i conferimenti di azienda ex artt. 175 e 176 del TUIR anche quando la partecipazione ricevuta venga, successivamente, trasferita ed è ancora rintracciabile nella disciplina delle operazioni societarie straordinarie di trasformazione, fusione e scissione di cui agli artt. 170-172 del TUIR. Si segnala che l’art. 12, comma 1, lett. e) della L. 11 marzo 2014, n. 23 (Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita), prevede «l’armonizzazione del regime di tassazione degli incrementi di valore emergenti in sede di trasferimento d’azienda a titolo oneroso, allineandolo, ove possibile, a quello previsto per i conferimenti».

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Per quel che concerne il sistema impositivo IVA-Registro, imperniato sul principio di alternatività di cui all’art. 40 del TUR, la qualificazione dell’operazione in termini di cessione d’azienda piuttosto che di mero trasferimento di beni dell’impresa condiziona il regime fiscale applicabile. Nel primo caso, l’atto di cessione è escluso dal campo di applicazione IVA ex art. 2, comma 3, lett. b) del D.P.R. n. 633/1972 e sconta l’imposta di registro in misura proporzionale 2; diversamente, si applicherà l’IVA ed eventualmente l’imposta di registro, ma solo in misura fissa 3. Le conseguenze, sia in termini di prelievo che di determinazione della base imponibile, sono assai rilevanti; da un lato, l’imposta di registro rappresenta un “costo puro”, non essendo basata sugli istituti della rivalsa e della detrazione e, dall’altro, consente di assoggettare a tassazione quel particolare componente del valore dell’azienda costituito dall’avviamento 4. Il fatto che la normativa fiscale non detta una propria definizione d’azienda rende problematico stabilire in che termini un compendio di beni, materiali e immateriali, possa costituire azienda 5-6. 2 Con l’applicazione di un’aliquota variabile (nella misura stabilita dalla tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986) a seconda che nel compendio aziendale siano ricompresi o meno beni o diritti immobiliari. 3 Ai fini IVA, la neutralità dell’imposizione è assicurata dall’interazione degli istituti della rivalsa e della detrazione di cui agli artt. 18 e 19 del D.P.R. n. 633/1972. 4 Così l’art. 51, comma 4 del TUR secondo cui occorre far riferimento «al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso l’avviamento (...) al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili od atti aventi data certa a norma del codice civile, tranne quelle che l’alienante si sia espressamente impegnato ad estinguere (...)». L’avviamento è una qualità (non essenziale, potendo anche essere inesistente o negativo) dell’azienda, tanto che non può circolare se non con essa, ha un proprio valore patrimoniale (indicato nell’attivo patrimoniale ex art. 2424 c.c.) e rappresenta la capacità di sovrareddito espressa dall’azienda rispetto ai singoli beni che la compongono; sul punto, si rinvia ai contributi di FICARI, Azienda e avviamento tra accertamento, “prezzi” e “autonomia” del contribuente, in Riv. dir. trib., 2012, p. 205; DELLA VALLE, Spunti in tema di avviamento nell’ordinamento tributario, in Rass. trib., 298, p. 212; CIPOLLA, La valutazione delle aziende nel sistema delle imposte sui redditi, in MONTAGNANI (a cura di), I bilanci straordinari, in Quaderni di giur. comm., Milano, 2013, p. 81 ss.; CARINCI, Profili di rilevanza fiscale dell’avviamento (definizione, natura circolazione, quantificazione), in Riv. dir. trib., 1996, I, p. 465. 5 Danno per presupposto che la nozione d’azienda sia quella accolta dal diritto comune TREMONTI, Conferimenti ed ammortamenti di beni aziendali, in Boll. trib., 1991, p. 262; CARINCI, Il trasferimento di azienda ai fini IVA e registro: il problema della nozione ai fini fiscali, in Riv. dir. trib., 1996, p. 1167. Per un diverso approccio, LA ROSA, Cessione d’azienda e cessione di beni tra imposta di registro ed IVA, in Rass. trib., 1990, II, p. 305 il quale rinviene nella disciplina dell’imposta di registro, in specie negli art. 15 e 51 del TUR, la chiave metodologica per risolvere la questione della configurabilità della cessione d’azienda su basi extratestuali che coinvolgono “la sovrastante convenzione verbale presunta (…) anche al di fuori delle (o contro) le risultanze degli atti scritti”, valorizzando «la prospettabilità di un trasferimento essenzialmente universale, invece che eminentemente settoriale, dei beni e rapporti dell’impresa».

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Tra le prospettive interpretative 7 la giurisprudenza tributaria propende per una concezione “statica” che valorizza l’esistenza di un complesso di beni funzionalmente organizzato in guisa da farne emergere l’attitudine, anche solo potenziale, all’esercizio d’impresa 8. Ciò consente di apprezzare la via della continuità della destinazione imprenditoriale dei beni tracciata dall’art. 5 della VI Direttiva 9 e dalla Corte di Giustizia UE nel riconoscere che la facoltà per ciascun Stato membro di escludere dal campo di imposizione IVA il trasferimento totale o parziale di un’universalità di beni «è diretta a consentire agli Stati membri di agevolare i trasferimenti di imprese o di parti di imprese, semplificandoli» 10. 6

Sulla definizione di azienda e sul regime fiscale applicabile in caso di sua circolazione, si rinvia ai contributi di FEDELE, Struttura dell’impresa e vicende dell’azienda nell’IVA e nell’Imposta di registro, in UCKMAR (a cura di), La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale, Padova 1981, p. 150 ed, ivi, p. 163 ss. e, dello stesso Autore, Il trasferimento dell’azienda. Profili di rilevanza fiscale, in AA.VV., Problematiche giuridiche e fiscali in tema di trasferimenti d’azienda, Milano, 2010, p. 102 ss.; FICARI, Azienda e avviamento tra accertamento, “prezzi” e “autonomia” del contribuente, cit., p. 205; CARINCI, Il trasferimento di azienda ai fini IVA e registro: il problema della nozione ai fini fiscali, cit., p. 1167; PAPPA MONTEFORTE, Il trasferimento d’azienda tra principi civilistici e norme tributarie: la base imponibile, il “passaggio” delle agevolazioni fiscali e l’accertamento del valore, in AA.VV., Problematiche giuridiche e fiscali in tema di trasferimenti d’azienda, Milano, 2010, p. 146 ss.; LA ROSA, Cessione d’azienda e cessione di beni tra imposta di registro ed IVA, cit., p. 305; BASILAVECCHIA-NASTRI- PAPPA MONTEFORTE, I trasferimenti aziendali: questioni aperte, in www.notariato.it/it/primo-piano/studi-materiali/studimateriali/diritto-tributario-ingenere/81T; DI DIO, La cessione e la permuta d’azienda, in DELLA VALLE-FICARI-MARINI (a cura di), Il regime fiscale delle operazioni straordinarie, Torino, 2009, p. 58 ss.; PORCARO-STEVANATO, La cessione di azienda, in LUPI-STEVANATO (a cura di), La fiscalità, delle operazioni straordinarie d’impresa, Milano, 2002, p. 161 ss.; STEVANATO, Cessione frazionata d’azienda e imposta di registro: simulazione o riqualificazione del contratto?, in GT-Riv. giur. trib., 1999, p. 758 ss.; TINELLI, Azienda nel diritto tributario, in Dig. disc. priv. IV, sez. comm., II, Torino 1988, p. 99. 7 Come noto, l’art. 2555 c.c., individua l’azienda nel «complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa». La concezione statica d’azienda apprezza l’elemento patrimoniale a condizione che i beni risultino adeguatamente organizzati e funzionalmente collegati per consentire l’esercizio di un’attività produttiva; l’accezione dinamica d’azienda valorizza, invece, anche tutti i rapporti giuridici afferenti al complesso organizzato. 8 Ciò a prescindere dalla sussistenza dell’avviamento o della identità di produzione da parte del cessionario ed anche se l’attività d’impresa non sia stata ancora iniziata o sia stata sospesa ovvero ancora manchino le autorizzazioni necessarie al funzionamento oppure non risultino ceduti i rapporti finanziari, commerciali e personali; per un excursus giurisprudenziale e sulla prassi amministrativa si rinvia CIPOLLA, op. cit., pp. 85-87 e BASILAVECCHIA-NASTRI-PAPPA MONTEFORTE, op. cit. 9 L’art. 5, n. 8 della direttiva n. 77/388/CEE del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri relative alle imposte sulla cifra di affari, dispone che «in caso di trasferimento a titolo oneroso o gratuito o sotto forma di conferimento a una società di una universalità totale o parziale di beni, gli Stati membri possono considerare l’operazione come non avvenuta e che il beneficiario continua la persona del cedente». 10 Cfr. Corte di Giustizia UE del 27 novembre 2003, causa C-497-01, in Dir. prat. trib., 2004, II, 923 con nota di FICARI, Cessione di azienda e continuità d’impresa nel presupposto oggettivo

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Al di fuori del descritto nesso funzionale, la nozione d’azienda perde di consistenza e, semmai, si avrà una vendita frazionata di singoli beni che dissimula la cessione di un compendio aziendale. Su questa scia si pone la vicenda della cessione d’azienda nel cui patrimonio siano ricompresi beni immateriali e, tra questi, il marchio, di per sé apprezzabile quale autonomo valore di scambio imponibile ai fini IVA ex art. 3, comma 2, n. 2 del D.P.R. n. 633/1972. Prima di addentrarsi nelle questioni inerenti all’interpretazione della fattispecie ed alla valutazione della base imponibile, val la pena tratteggiare il quadro normativo di riferimento.

2. La disciplina civilistica e settoriale della circolazione del marchio Nell’originaria previsione, la disciplina civilistica 11 e di settore 12 vincolava la circolazione del marchio a quella dell’azienda o di un ramo di essa, in una prospettiva di salvaguardia degli interessi dei consumatori volta ad impedire che dall’immissione sul mercato di un determinato brand potesse derivare inganno per il pubblico circa la provenienza del prodotto 13. Il marchio è infatti un segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa, assolve alla funzione di differenziarli sul mercato da quelli similari di altre impredell’iva, p. 933 ss. Osserva la Corte (punto 39 della motivazione) che così si evita di «gravare la tesoreria del beneficiario di un onere fiscale smisurato, che sarebbe, in ogni caso, recuperato ulteriormente mediante detrazione dell’IVA versata a monte» (…) e – prosegue al punto 41 – «in quanto l’ammontare dell’IVA da anticipare in relazione al trasferimento può essere particolarmente ingente rispetto alle risorse dell’azienda interessata». 11 L’art. 2573 cod. civ., nella vecchia foggia, stabiliva che «il diritto esclusivo all’uso del marchio registrato può essere trasferito soltanto con l’azienda o con un ramo particolare di questa». 12 L’art. 15 del R.D. 21 giugno 1942, n. 929 (c.d. “legge marchi”) disponeva che «il marchio non può essere trasferito se non in dipendenza del trasferimento dell’azienda, o di un ramo particolare di questa, a condizione, inoltre, che il trasferimento del marchio stesso avvenga per l’uso di esso a titolo esclusivo. In ogni caso, dal trasferimento del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o merci che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico». La pattuizione che prevedesse il trasferimento del marchio separato dall’azienda era colpita da nullità per violazione di norme imperative (nullità irrilevante ai fini fiscali, stante l’inopponibilità all’Erario ex art. 20 del D.P.R. n. 131/1986); cfr., sul punto, Trib. Cagliari, 20 maggio 2003, in Riv. giur. sarda, 2004, p. 119; Trib. Milano, 17 gennaio 1983, in Giur. ann. dir. ind., 1990, p. 83. 13 Si veda la Direttiva n. 2008/95/CE del 22 ottobre 2008 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, in http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2008:299:0025:0033:it:PDF. Per un puntuale excursus storico della disciplina della circolazione del marchio, cfr. ZORZI, Il marchio come valore di scambio, 1995, Padova e dello stesso Autore, La circolazione dei segni distintivi, Padova, 1994.

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CESSIONE D’AZIENDA, TRASFERIMENTO DEL MARCHIO E VALORI IMPONIBILI

se concorrenti e costituisce garanzia di qualità del prodotto cui è associato 14. Peraltro, già prima della riforma, un’interpretazione funzionale dello statuto di circolazione vincolata del marchio ne ammetteva il trasferimento separato se abbinato alla concessione del diritto di fabbricare e vendere in esclusiva i prodotti contrassegnati dal marchio ceduto e del relativo know-how 15. In questo contesto si inserisce la libera circolazione del marchio introdotta dall’art. 83 del D.Lgs. n. 480/1992 16, con il limite del non inganno per i consu14

Ai sensi del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (“Codice della proprietà industriale”), il marchio deve soddisfare i requisiti di novità (art. 12), capacità distintiva (art. 13), liceità (art. 14) e gode di una particolare tutela giuridica (marchio registrato, art. 15). Per una panoramica sul marchio d’impresa si rinvia, senza pretesa di esaustività, ai contributi di UBERTAZZI (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, 2007; MANGINI, Il marchio e gli altri segni distintivi, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, (a cura di) GALGANO, Padova, 1982; LECCE, Il marchio nella giurisprudenza, Milano, 2009; BOTTERO-TRAVOSTINO, Il diritto dei marchi nell’impresa, Torino, 2009; MARASA’, La circolazione del marchio, in Commento tematico della legge marchi, Torino, 1998; AA.VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2012; VANZETTI-DI CATALADO, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009; SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 2007; ZORZI, Il marchio come valore di scambio, cit. 15 L’interpretazione “adeguatrice” è condivisa sia nella giurisprudenza (si veda, ex multis, Cass. 6 marzo 1995, n. 2578 – e, in termini, Cass. 13 marzo 1993, n. 3034; Cass. 4 giugno 1983, n. 3807 consultabili in banca dati DeJure – secondo cui alla ratio di evitare frodi in danno del pubblico «si ottempera anche con il trasferimento del diritto di fabbricare il prodotto cui il marchio si riferisce, secondo le modalità tecniche protette dal brevetto, e con il trasferimento dei particolari elementi necessari eventualmente alla realizzazione del prodotto stesso») che in dottrina, cfr., RUSSO-PADOVANI, La cessione dell’azienda e del marchio: riflessioni a margine del recente orientamento della Corte di Cassazione, in Rass. trib., 2004, p. 264 ad avviso dei quali il trasferimento isolato del marchio è riconducibile a due fattispecie: la prima attiene al marchio depositato da un soggetto non imprenditore, intenzionato ad avviare un’attività commerciale che però non aveva poi avuto inizio; la seconda riguarda il caso del marchio depositato da un’impresa già esistente che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto contraddistinguere un prodotto di cui non sia mai stata avviata la produzione (in tal senso, v. Cass. 17 dicembre 1987, n. 9404). In entrambe quest’ultime ipotesi non è ravvisabile alcun ramo d’azienda attinente al marchio poiché «il cedente dispone solo della mera titolarità della pratica amministrativa di registrazione»”. Si veda anche SCALINCI, “Mercato del marchio”, cessione d’azienda e primato della ratio legis comunitaria nell’IVA, in Riv. dir. trib., 2003, p. 961 il quale evidenzia nel merchandising (inteso quale licenza di marchio per contraddistinguere prodotti merceologicamente diversi da quelli fabbricati dal titolare dello stesso) la “prima genitura del più ampio «mercato del marchio”, da circa dieci anni aperto anche alle cessioni separate per la produzione identica o similare (rispetto a quella di origine o di prima adozione) ed alle cessioni omologhe, ma di oggetto “parziale” (coesistenza di marchi identici, per frazionamento)». Sul tema del “marchio senza impresa”, v. GREGGI, Profili fiscali della proprietà intellettuale nelle imposte sui redditi, Ferrara, 2009, 73 e ss. Si veda, inoltre, MOSTARDINI, La circolazione del marchio: cessione e licenza, in BOTTEROTRAVOSTINO, Il diritto dei marchi nell’impresa, Torino, 2009, p. 557 ss. 16 Cfr. l’art. 83 del D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480 in attuazione della Direttiva n. 89/104/CEE del 21 dicembre 1988 (oggi Direttiva n. 2008/95/CEE recante disposizioni sul riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchio d’impresa), la cui disciplina non è appli-

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matori in relazione ai tratti tipizzanti dei prodotti o servizi essenziali nell'apprezzamento del pubblico 17, in ciò cogliendosi un punto di equilibrio tra le esigenze di tutela dei consumatori e gli interessi del mercato 18. L’unico collegamento “necessario” tra azienda e marchio si riduce oggi alla presunzione di trasferimento del marchio rappresentato «da un segno figurativo, da una denominazione di fantasia o da una ditta derivata» 19.

3. La diacronica prospettiva degli artt. 2 e 3 del D.P.R. n. 633/1972 tra esclusioni e assimilazioni Come si diceva, alla libera cedibilità del marchio non ha fatto seguito alcun mutamento della disciplina fiscale ricavabile dal combinato disposto di cui agli artt. 2, comma 3, lett. b) 20 e 3, comma 2, n. 2 del D.P.R. n. 633/1972 21. cabile ai contratti conclusi prima del 31.12.1992, data di entrata in vigore della novella; in tal senso, si veda Cass. civ., Sez. I, 10 novembre 2008, n. 2691 consultabile in banca dati DeJure. 17 L’attuale formulazione dell’art. 2573, comma 1, cod. civ. è la seguente: «il marchio può essere trasferito o concesso in licenza per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato, purché in ogni caso dal trasferimento o dalla licenza non derivi inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico». Conformemente l’art. 23 del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 – c.d. “Codice della proprietà industriale” che riforma la legge marchi – dispone che «il marchio può essere trasferito per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato» (comma 1) e «in ogni caso, dal trasferimento e dalla licenza del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico» (comma 4). 18 VERCELLONE, La ditta, l’insegna e il marchio in Tratt. dir. priv., diretto da RESCIGNO, Torino, 1983, p. 71 ss.; MOSTARDINI, op. cit., p. 557 ss.; ZORZI, Il marchio come valore di scambio, cit., p. 107 ss. la quale rileva che se può apparire preferibile un modello di controllo di tipo normativo che imponga la circolazione vincolata del marchio, d’altra parte la regola della libera cedibilità si regge su un modello di controllo giudiziale a posteriori che meglio valorizza la specificità della singola fattispecie. 19 Dispone infatti l’art. 2573, comma 2, cod. civ. che «quando il marchio è costituito da un segno figurativo, da una denominazione di fantasia o da una ditta derivata, si presume che il diritto all’uso esclusivo di esso sia trasferito insieme con l’azienda»; tale divieto (ribadito dall’art. 2565 cod. civ.) é «coerente con la natura della ditta (…) di mera indicazione di origine o meglio di identità del centro di imputazione di un’attività imprenditoriale (…)»; così VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., p. 279. Di diverso avviso è SENA, op. cit., p. 231, il quale rileva che l’intervento del legislatore del 1992 avrebbe implicitamente abrogato l’art. 2565 c.c. secondo cui «la ditta non può essere trasferita separatamente dall’azienda». 20 Ove disposto che «non sono considerate cessioni di beni: le cessioni e i conferimenti in società o altri enti, compresi i consorzi e le associazioni o altre organizzazioni, che hanno per oggetto aziende o rami di azienda». Per una panoramica sulle operazioni escluse dal novero della cessione di beni, si rinvia alle riflessioni di FILIPPI, Le cessioni di beni nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 1984, p. 158 ss. 21 A mente del quale «costituiscono inoltre prestazioni di servizi, se effettuate verso corrispettivo:

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Sulla scorta della rilevata qualificazione della cessione d’azienda quale atto di organizzazione piuttosto che di gestione d’impresa 22, l’art. 2 prevede una fattispecie di esclusione espungendo dal novero delle cessioni di beni quelle riguardanti aziende o rami di esse che ben rispecchia l’accezione latu sensu agevolativa 23 volta a favorire i processi di riorganizzazione aziendale, pure ribadita, come detto, dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza del 27 novembre 2003, causa C-497-01, Zita Modes Sàrl. La Corte stabilisce così un canone interpretativo della norma interna 24 che premia la scelta imprenditoriale di prosecuzione dell’azienda e giustifica la neutralità fiscale dell’operazione in chiave riorganizzativa 25. Seguendo questa linea interpretativa la Corte di Giustizia annovera anche i c.d. intangibles tra i cespiti che possono essere trasferiti unitamente agli altri beni costituenti l’azienda o un ramo di essa 26, mentre il regime di esclusione cessa nel caso di “mera cessione dei beni” 27, fattispecie riconducibile all’ordinario regime d’imponibilità IVA. L’assimilazione alle prestazioni di servizi delle cessioni a titolo oneroso riguardanti il marchio sancita dall’art. 3 impedisce manovre elusive di delocalizzazione, considerata la differente individuazione del requisito della territorialità 28 le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a diritti d’autore, quelle relative ad invenzioni industriali, modelli, disegni, processi, formule e simili e quelle relative a marchi e insegne, nonché le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a diritti o beni similari ai precedenti». 22 Cfr. FEDELE, Struttura dell’impresa e vicende dell’azienda nell’IVA e nell’Imposta di registro, cit., p. 163 ss. Con le operazioni escluse il legislatore ha così inteso riconoscere la non applicabilità del tributo in determinate ipotesi da considerarsi «sotto questo profilo neutrali, costituendo una semplice conseguenza della esatta definizione del tributo», così ancora FEDELE, Esclusioni ed esenzioni nella disciplina dell’I.V.A, in Riv. dir. fin., 1973, I, p. 147. 23 Osserva FICARI, Azienda e avviamento tra accertamento, “prezzi” e “autonomia” del contribuente, cit., che la ratio della neutralità fiscale risiede non tanto nella prospettiva dell’agevolazione, quanto nella scelta di politica fiscale di «far discendere il prelievo da scelte esclusivamente o principalmente traslative e realizzative e/o dell’abbandono dell’oggettiva destinazione imprenditoriale dei beni trasferiti». 24 Lo rileva SCALINCI, op. cit., 970 considerata anche la natura comunitaria del tributo e l’applicazione self executing della direttiva CE. 25 Al punto 40 della motivazione, la Corte osserva che «la nozione di «trasferimento a titolo oneroso o gratuito o sotto forma di conferimento a una società di una universalità totale o parziale di beni deve essere interpretata nel senso che in essa rientra il trasferimento di un’azienda o di una parte autonoma di un’impresa (…)». 26 Nella nozione di cessione d’azienda o di parte di essa, la Corte (punto 40 della parte motiva) ricomprende anche «gli elementi materiali e, eventualmente, immateriali che, complessivamente, costituiscono un’impresa o una parte di impresa idonea a svolgere un’attività economica autonoma». 27 Sul punto la Corte conclude rilevando che nella nozione di cessione d’azienda «non vi rientra la mera cessione di beni, quale la vendita di uno stock di prodotti». 28 La disciplina della territorialità era regolamentata dall’originario art. 7 del D.P.R. n. 633/1972

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in relazione alle operazioni di cessione dei beni e alle prestazioni di servizi 29; la finalità antielusiva veniva così assolta ancorandosi il requisito della territorialità alla residenza della società cedente 30. Tirando le fila della disciplina così tratteggiata, pare di poter concludere che l’ipotesi di esclusione della cessione d’azienda dal campo di applicazione IVA costituisca la regola e abbia carattere assorbente rispetto all’assimilazione della cessione del marchio al regime d’imponibilità delle prestazioni di servizi. Così, da un lato, l’art. 2, comma 3, lett. b) delimita, per esclusione, l’ambito del presupposto impositivo e, dall’altro, l’art. 3, comma 2, n. 2 rappresenta invece una norma di chiusura, applicabile nel caso di autonoma cessione del marchio al di fuori della rilevanza unitaria dell’azienda 31. Tale ricostruzione è coerente col favor mostrato dal legislatore comunitario verso le esigenze di ristrutturazione e di riorganizzazione dell’impresa assicurandosi la continuità dei valori contabili; di qui la scelta di esclusione del legislatore nazionale proprio in considerazione della descritta natura dell’operazione. La questione è quindi prettamente interpretativa e, soltanto nel caso in cui la fattispecie non sia sussumibile nell’ipotesi di cessione d’azienda o di un ramo di essa, i singoli beni saranno autonomamente assoggettabili ad IVA e il marchio ricadrà nell’assimilazione alle prestazioni di servizi ex art. 3 32.

secondo cui «le cessioni di beni si considerano effettuate nel territorio dello Stato se hanno per oggetto beni immobili ovvero beni mobili nazionali, comunitari o vincolati al regime della temporanea importazione, esistenti nel territorio dello Stato (…). Le prestazioni di servizi si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese da soggetti che hanno il domicilio nel territorio dello stesso o da soggetti ivi residenti che non abbiano stabilito il domicilio all’estero, nonché quando sono rese da stabili organizzazioni in Italia di soggetti domiciliati e residenti all’estero. (...). Agli effetti della valutazione del requisito della territorialità, per i soggetti diversi dalle persone fisiche si considera domicilio il luogo in cui si trova la sede legale e residenza quello in cui si trova la sede effettiva». 29 L’art. 1, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 11 febbraio 2010, n. 18, in vigore dal 20 febbraio 2010, ha innovato il regime della territorialità delle prestazioni di servizi a seguito dell’adozione della direttiva n. 2008/8/CE che modifica la direttiva n. 2006/112/CE per quanto riguarda l’individuazione del luogo di effettuazione di dette prestazioni. In breve, per i soggetti privati, il criterio di collegamento è costituito dal luogo del prestatore del servizio (B2C) e, per i soggetti passivi di imposta, dal luogo di residenza del committente (B2B); gli artt. da 7-quater a 7-septies prevedono una serie di deroghe in favore della tassazione nel luogo di utilizzo del servizio. Sul punto, si rinvia a FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2013, p. 783 ss. 30 Osservano RUSSO-PADOVANI, op. cit., p. 677 come l’immaterialità dei diritti sul marchio mal si concilia con una tassazione ancorata al luogo in cui il bene si trova, piuttosto che alla residenza di una delle parti del rapporto. Concordemente sul punto, SCALINCI, op. cit., p. 961. 31 Si vedano sul punto, RUSSO-PADOVANI, op. cit., p. 676 e SCALINCI, op. cit., p. 963. 32 Così RUSSO-PADOVANI, op. cit., p. 678, i quali osservano come le norme citate «afferiscono a momenti ed operazioni ermeneutiche tra loro diacroniche» e che «il legislatore tributario guarda alla cessione d’azienda come ad un passaggio (intermedio) neutrale ai fini IVA».

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4. La (ri)qualificazione degli atti e la ricerca della causa reale Occorre dunque valutare se, nell’ambito di una vendita frazionata dei cespiti aziendali 33, il marchio sia stato specificamente considerato e oggetto di autonoma negoziazione o, al contrario, rilevi alla pari degli altri beni, materiali e immateriali, unitariamente considerabili quali universitas rerum. La questione non è di agevole soluzione poiché nell’ambito dell’autonomia negoziale il marchio può rappresentare il target dell’intera operazione, anche in considerazione della forza attrattiva di cui certi marchi godono tra i consumatori e del valore competitivo, oltreché economico che rappresentano. Il sindacato sulle scelte imprenditoriali richiede un esame caso per caso e, sin dalle prime pronunce, la Cassazione ha orientato l’indagine utilizzando quale referente normativo l’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 nella prospettiva della (ri)qualificazione dell’atto e/o degli atti 34, dandosi preminenza, nel ricostruire l’intenzione effettiva dei contraenti, alla causa reale piuttosto che all’assetto cartolare 35 33

In realtà, non occorre che tutti i beni aziendali siano oggetto di trasferimento ma, come detto, è sufficiente che il compendio aziendale trasferito sia idoneo a consentire anche potenzialmente l’esercizio di un’attività d’impresa. 34 Il medesimo approccio che, a fronte di una pluralità di atti, valorizza un’unica fattispecie a formazione progressiva si registra frequentemente in relazione ad un conferimento in società di un’azienda oppure di immobili (eventualmente gravati da finanziamenti ipotecari accollati dalla società conferitaria), poi seguito a breve intervallo di tempo dalla cessione delle partecipazioni sociali a terzi; al riguardo, la Cassazione ha (ri)qualificato l’intera operazione in termini di cessione dell’azienda (o dell’immobile) ai terzi, pur formalmente acquirenti delle quote sociali; cfr., da ultimo, Cass., sez. trib., 19 giugno 2013, n. 15319, in banca dati Fisconline e Cass., sez. trib., 28 giugno 2013, n. 16345 in Corr. trib. 2013, p. 3358 con nota di MARTINELLI-STANCATI, Conferimento d’azienda e cessione di partecipazione nel registro: spunti di originalità dalla giurisprudenza di legittimità ed, ivi, p. 3351 ss. In senso critico, FICARI, Imposta di registro, riqualificazione delle operazioni realizzate da un fondo complementare e abuso del diritto, in Boll. trib., 2010, p. 1645; MAZZAGRECO, In tema di elusività del conferimento di ramo d’azienda seguito dalla cessione delle quote al soggetto conferente, in Rass. trib., 2012, p. 1196; ZIZZO, Sull’elusività del conferimento di azienda seguito dalla cessione della partecipazione, in Giust. trib., 2008, p. 3 ss. 35 L’art. 20 del TUR (il quale riproduce sostanzialmente la formulazione dell’art. 19 del D.P.R. 634/1972) stabilisce che «l’imposta si applica secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente». Esso rappresenta una svolta rispetto all’approccio interpretativo funzionale dell’art. 8 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269 proposto dalla scuola pavese, valorizzando più gli effetti economici che quelli giuridici dell’operazione; v. sul punto, GRIZIOTTI, Il principio della realtà economica negli artt. 8 e 68 della legge di registro, in Riv. dir. sc. fin., 1939, II, p. 102 ss. Peraltro, come ben osserva FEDELE, Assetti negoziali e “forme d’impresa tra opponibilità simulazione e riqualificazione, cit., pp. 1114-115, l’interpretazione funzionale praticata dalla Cassazione in materia di imposta di registro (v., da ultimo, Cass. Sez. VI, 19 marzo 2013, n. 6835 in banca dati Fisconline), costituisce un ritorno al passato dandosi prevalenza alla sostanza economica piuttosto che alla forma giuridica.

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e, al contempo, attribuendo all’art. 20 una discutibile valenza di principio generale antiabuso volto ad evitare “risparmi d’imposta” 36-37. Semmai, come ora si vedrà, l’art. 20 può legittimare un diverso sindacato sui reali effetti giuridici che le parti negoziali avrebbero avuto in mente in termini di simulazione e dissimulazione 38, a conferma che lo sforzo interpretativo debba essere rivolto alla ricerca della reale intenzione delle parti «a prescindere dalla sussi-

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Sul punto, cfr., ex multis, Cass. Sez. trib., 28 giugno 2013, n. 16345; Cass. Sez. trib., 21 giugno 2013, n. 15743; Cass. Sez. V, 17 gennaio 2013, n. 1102; Cass. Sez. trib., 20 dicembre 2012, n. 23584; Cass. Sez. trib., 16 aprile 2010, n. 9163; Cass. Sez. trib., 23 febbraio 2010, n. 4269 in banca dati Fisconline. Come noto, detto orientamento si pone sulla scia dell’arresto delle Sezioni Unite della Cassazione che, con le sentenze nn. 30055, 30056 e 30057, depositate il 23 dicembre 2008, ha individuato nell’art. 53 della Costituzione la fonte interna del principio generale antielusivo, così superando le condivisibili obiezioni di chi ne riconosceva l’operatività limitatamente al settore dei tributi armonizzati; cfr., BEGHIN, L’abuso del diritto tra capacità contributiva e certezza dei rapporti fisco-contribuente, in Corr. trib., 2009, p. 823; MASTROIACOVO, L’economicità delle valide ragioni (note minime a margine della recente evoluzione del principio dell’abuso del diritto), in Riv. dir. trib., I, p. 449; MARONGIU, Abuso del diritto, poteri di accertamento e principio di legalità, in Corr. trib., 2009, p. 3631; FALSITTA, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Corr. giur., 2009, p. 293; CORASANITI, Sul generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario. Dir. prat. trib., 2009, II, p. 232; MANZON, Elusione. L’«Abuso del diritto» in ambito fiscale, in Il libro dell’anno del Diritto, Treccani, Milano, 2012, p. 563. 37 In senso critico, si rileva come non esista, nel sistema dell’imposta di registro (e analogamente a quanto previsto nell’ambito dell’imposizione diretta dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973), una norma generale antielusiva ma, al contrario, configurandosi quale tributo che colpisce l’atto e non il trasferimento di ricchezza, è precluso il ricorso a elementi interpretativi extratestuali, come si evince dalla tassatività delle ipotesi che consentono la tassazione degli atti senza tener conto della loro esatta qualificazione ed efficacia giuridica (v. artt. 26 TUR) e che ammettono il collegamento tra più atti (v. artt. 21, 22 e 24, comma 2 del TUR). Sul punto, si rinvia ai contributi di FEDELE, Assetti negoziali e “forme di impresa” tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, cit., p. 1094 ss.; FALSITTA, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in Riv. dir. trib., 2010, II, p. 349 ss.; FRANSONI, Appunti su abuso del diritto e “valide ragioni economiche”, in Rass. trib., 2010, p. 952 ss.; DELLA VALLE L’elusione nella circolazione indiretta del complesso aziendale, in AA.VV., Il regime fiscale delle operazioni straordinarie (a cura di) DELLA VALLE-FICARI-MARINI, Torino, 2009, p. 567 ss.; MASTROIACOVO, op. cit., p. 449; PETRELLI, Imposta di registro, elusione fiscale, interpretazione e riqualificazione degli atti, in http://www.notariato.it/it/primo-piano/studi-materiali/studi-materiali/dirittotributario-in-genere/95-03 il quale rileva che una lettura dell’art. 20 che disconosca gli effetti giuridici a vantaggio della “sostanza economica” si pone in contrasto con i principi costituzionali della riserva di legge nell’individuazione del presupposto impositivo (art. 23 Cost.), della tutela dell’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), e con la corretta interpretazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.). 38 Così FICARI, Azienda e avviamento tra accertamento, “prezzi” e “autonomia” del contribuente, cit., p. 207; FEDELE, Assetti negoziali e “forme di impresa” tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, cit., p. 1112; FALSITTA, op. ult. cit., p. 294.

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stenza o insussistenza di un intento elusivo» 39, affatto scontato e tutto da dimostrare da parte dell’Ufficio ben oltre il mero richiamo allo stereotipo dell’abuso 40. Venendo alla cessione del brand “in uno” con altri cespiti aziendali 41, la giurisprudenza ha diversamente risolto il processo di (ri)qualificazione della fattispecie. Secondo un primo orientamento, la soluzione è stata quella di “scorporare” il marchio dal compendio dei cespiti dell’azienda ceduta (o di un suo ramo) applicando a detta cessione l’imposta di registro in misura proporzionale, a margine della concorrente e separata imposizione IVA del marchio d’impresa 42. In tal caso, s’è privilegiato l’argomento secondo cui anche a fronte della cedibilità del marchio separatamente dall’azienda introdotta dal riformato art. 2573 c.c., la disciplina fiscale è invece rimasta immutata; di qui, l’assoggettabilità del trasferimento del marchio all’IVA, indipendentemente dalla contestualità o meno delle due operazioni e fermo restando l’applicazione dell’imposta di registro sul residuo compendio aziendale trasferito. Già s’è detto delle ragioni che inducono a non condividere tale percorso motivazionale 43, occorre aggiungere che risulta non compiutamente affrontata la 39

Pare invece fuorviante il richiamo alla finalità antielusiva, ricorrente anche nella fattispecie de qua, atteso che il paventato risparmio d’imposta è opinabile considerato che l’IVA assolta a monte può essere recuperata in detrazione e che l’avviamento può essere riflesso in larga misura nel marchio, v., Cass. Sez. trib., 16 aprile 2010, n. 9163 cit. 40 Per l’affermazione di un stringente onere motivazionale in capo all’Amministrazione in ordine all’asserito risparmio fiscale da parte del contribuente, v., da ultimo, Cass. Sez. trib., 3 luglio 2013, n. 16684 e, nella giurisprudenza di merito, CTP Milano, sez. 36, 14 giugno 2013, 188 (consultabile in Cassazione.net) la quale (in relazione ad un conferimento di ramo d’azienda esercente l’attività di ricerca e di sviluppo in un nuovo soggetto giuridico al fine di separare il ramo destinato ad occuparsi della ricerca da quello commerciale e di concentrare l’attività di ricerca e sviluppo esclusivamente in capo alla nuova società) ha rilevato che «il carattere elusivo di una operazione va escluso quando sia individuabile una compresenza non marginale di ragioni extrafiscali che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell’operazione medesima ma possono rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell’attività aziendale». 41 Invero, come rileva FEDELE, Assetti negoziali e “forme di impresa” tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, cit., pp. 1111-1112, «la «riqualificazione» presuppone una precedente «qualificazione», che viene superata ed i cui effetti sono sostituiti dalla nuova (…) e i privati, nell’esercizio della loro autonomia, dispongono, non qualificano». Spetta dunque agli uffici, e poi al giudice tributario il potere di qualificare (e non riqualificare) gli atti e i contratti soggetti a registrazione. 42 Si vedano Cass. sez. trib., 26 marzo 2003, n. 4452 e Cass. sez. trib., 1° aprile 2003, n. 4974, in Riv. dir. trib., 2003, II, 855 in banca dati Fisconline. 43 La stessa Amministrazione finanziaria ha chiarito che «l’art. 2, comma 3, del D.P.R. n. 633 del 1972, in quanto norma speciale, trova applicazione in tutti i casi in cui si realizza il trasferimento di un’azienda o di un ramo della stessa, a prescindere dai beni che la compongono. Al contrario, in base alla disposizione di cui all’art. 3, comma 2, n. 2), del D.P.R. n. 633/1972 si configura un’autonoma prestazione di servizi rilevante ai fini IVA nei soli casi in cui la cessione di opere dell’ingegno avvenga al di fuori della cessione (o conferimento) di un’azienda o di un ramo di azienda»; v. Ris. n. 48/E del 3

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questione pregiudiziale relativa alla riconducibilità o meno dei beni ceduti alla nozione d’azienda 44. Neppure è dato risalire al valore del marchio (e, quindi, alla base imponibile da assoggettarsi ad autonoma imposizione) poiché i giudici di legittimità non si preoccupano di verificare se la parti abbiano pattuito un corrispettivo né ritengono opportuno un rinvio al giudice del merito per un riesame sul punto 45. D’altra parte, si perviene ad un risultato opposto alle aspettative erariali di colpire un indebito risparmio d’imposta, atteso che riducendosi la base imponibile dell’imposta proporzionale di registro a vantaggio di quella IVA, il contribuente potrebbe scontare una tassazione più favorevole in ragione della detraibilità dell’iva assolta sull’acquisto (scorporato) del marchio 46 Più di recente, decidendo un caso di cessione (simulata) di azienda e dissimulata del marchio, la Cassazione ha abbandonato lo “sdoppiamento” dell’imposizione e, riconosciuta la volontà delle parti di cedere unicamente il marchio, senza alcun trasferimento di azienda o di un ramo di essa, ha concluso per l’imponibilità dell’operazione ai soli fini IVA 47-48. aprile 2006 (consultabile in banca dati Fisconline) con la quale l’Agenzia delle entrate ha affermato l’assoggettamento alla sola imposta di registro di una cessione di ramo d’azienda dedicato alla produzione, distribuzione e commercializzazione di olio di semi ad uso alimentare, identificato con un noto marchio. In senso conforme, v. la Norma di comportamento n. 158/2004 dell’Associazione italiana dottori commercialisti, in banca dati Fisconline. 44 Le due sentenze sopra citate hanno riguardato, pare di capire, specularmente la medesima fattispecie avendo deciso, rigettandoli entrambi, i ricorsi della società cedente e di quella cessionaria avverso i rispettivi avvisi d’accertamento con cui l’ufficio aveva assoggettato ad IVA la cessione di un marchio e altri beni (tra cui i macchinari, telai e cilindri di stampa) necessari per la produzione di articoli di “jeanseria” in precedenza acquisiti nell’ambito di una procedura di concordato preventivo in forza di un atto di cessione espressamente qualificato come “cessione di ramo d’azienda” da parte del Giudice delegato. 45 Così anche GASTALDO, La cessione di azienda e il trasferimento del marchio tra IVA e imposta di registro, in Dir. prat. trib., 2003, II, p. 995 ss.; DOMINICI, Le cessione dei marchi costituiscono prestazione di servizi soggette ad IVA, in Corr. trib. 2003, p. 1814, entrambi in nota a Cass. sez. trib., 1° aprile 2003, n. 4974. 46 Cfr., SCALINCI, op. cit., nota n. 72. 47 Si vedano Cass. Sez. V, 8 maggio 2013, n. 10740; Cass. sez. trib., 17 gennaio 2013, n. 1102; Cass. sez. trib., 16 febbraio 2010, n. 3571, in banca dati Fisconline. 48 Come è stato osservato in riferimento alla sent. 3571/2010, la singolarità del caso si rinviene nella pretesa dell’Ufficio di «tassare una realtà di pura apparenza (una cessione di beni aziendali diversi dal marchio)” e, in tal modo, “si voleva tassare il fumo di una cessione di beni aziendali diversi dal marchio quando era assodato che solo il marchio era stato ceduto», v. FALSITTA, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, cit. In tal caso, con scrittura privata intitolata “cessione di ramo di azienda” del 24 ottobre 1986, una società per azioni concedeva ad una s.r.l. il diritto d’uso esclusivo del marchio registrato su prodotti elettrici, unitamente alla cessione di disegni, progetti e modelli dei prodotti elettrici ed elettronici di cui al marchio per un prezzo complessivo riportato in atto di L. 110.000.000.

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In un caso, la Suprema Corte ha escluso la configurabilità di una cessione di ramo d’azienda comprendente la testata giornalistica – equiparabile al marchio quale segno distintivo dell’iniziativa editoriale 49 – oltre che arredi d’ufficio e un’ingente esposizione debitoria verso le banche; al contempo, la cedente rilevava in locazione dalla cessionaria la testata giornalistica ed i beni strumentali. In altra occasione, la Cassazione ha disconosciuto la prospettazione in termini di cessione d’azienda offerta dalle parti rilevandosi che il compendio ceduto si risolvesse nel solo marchio vinicolo, trasferito unitamente a macchinari di modesta entità e valore 50. Dette conclusioni appaiono condivisibili stante inidoneità degli assets ceduti ad integrare le potenzialità produttive dell’impresa; nel primo caso, la cessione della testata giornalistica (peraltro retrocessa in locazione alla cedente) rientrava piuttosto in un complesso congegno negoziale volto a consentire l’accollo da parte della cessionaria di parte dei debiti della cedente verso le banche, né pare che la cessione della testata possa integrare di per sé un trasferimento d’azienda o di un suo ramo 51. Le medesime conclusioni si impongono anche nel caso di macchinari di esiguo valore ceduti unitamente al brand identificativo di un prodotto vinicolo avente una certa diffusione geografica. Sul presupposto che fosse intervenuta una cessione di ramo di azienda, l’Ufficio ha rettificato il valore da L. 110.000.000 a L. 4.226.000.000, comprendendo nella valutazione l’avviamento commerciale, le merci, gli arredi e gli stigli. 49 Così la citata sentenza n. 1102 del 17 gennaio 2013, la quale rileva che «la testata, come segno distintivo della pubblicazione periodica, costituisce solo un elemento dell’azienda giornalistica (C. 4600/1987) quale segno distintivo di tale iniziativa editoriale (C. 2995/1976)». Più precisamente, la fattispecie ha riguardato la cessione della testata giornalistica l’Unione Sarda, stimata in L. 39.500.000.000, e di alcuni modesti arredi d’ufficio, stimati in L. 11.915.840, nonché cospicui debiti vari per L. 36.408.448.566 verso gli istituti di credito, in favore di una s.r.l. neo-costituita. Contestualmente la S.p.A. cedente ha rilevato in locazione dalla cessionaria la testata giornalistica e i beni strumentali per il corrispettivo annuo di L. 7.050.000.000 oltre IVA. Ritenendo che detta cessione dissimulasse un’ordinaria cessione di beni, l’Agenzia delle entrate ha recuperato ha tassazione IVA evasa pari a L. 7.902.383.000. 50 Si veda Cass. Sez. V, 8 maggio 2013, n. 10740, in Riv. giur. trib., 2013, 965 con nota di DAMI, La possibile (ri)qualificazione del contratto di cessione d’azienda con cessione di singoli beni, ed, ivi, p. 967. 51 In tal senso si esprime la citata sentenza n. 1102 del 17 gennaio 2013, ove si rileva che la testata giornalistica «essendo un bene immateriale, non può dare luogo di per sé stessa a un trasferimento d’azienda (C. 5062/1999). Quindi, l’alienazione di una testata non comporta il trasferimento dell’azienda giornalistica o di parte di essa. La testata, essendo segno distintivo dell’iniziativa editoriale, può essere equiparata al marchio, la cui cessione (art. 3 iva) costituisce prestazione di servizi assoggettata a IVA». In senso conforme, Cass. 19 maggio 1987, n. 4600; Cass. civ., sez. lav., 24 novembre 1989, n. 5062 la quale ha disconosciuto che la cessione di una testata giornalistica fosse riconducibile al fenomeno di cui all’art. 2112 c.c. (recante la disciplina di tutela dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda) in quanto «costituisce un solo elemento dell’azienda e mai l’intera azienda oggetto del trasferimento» di cui alla norma giuslavoristica. Sul punto, si veda anche DAML, op. cit., p. 969.

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Ecco che, a ben vedere, a fronte di fattispecie così congegnate è il marchio il target dell’operazione che, dunque, sconterà la sola applicazione dell’IVA.

5. L’apprezzamento del marchio quale autonomo valore di scambio Non meno complesso è il processo di valutazione del marchio (brand equity) il cui esito rappresenta la base imponibile ai fini IVA o contribuisce a definire il valore complessivo dei beni che compongono l’azienda ai fini dell’imposta di registro 52. La valutazione degli assets riconducibili alla proprietà industriale assume crescente rilievo in un’economia globale come quella attuale nella quale una parte significativa del valore aziendale è spesso insita nei beni intangibili 53. In particolare, il marchio è in grado di influenzare la redditività dell’impresa a seconda del grado di notorietà e di accreditamento sul mercato, creando così un vantaggio competitivo 54. Le indicazioni ricavabili dalle disposizioni del codice civile e dai principi contabili italiani 55 consentono di annoverare i marchi tra le immobilizzazioni immateriali, iscrivibili in bilancio nell’attivo dello stato patrimoniale 56. 52

L’art. 51 comma 2 del testo unico 26 aprile 1986 n. 131 individua come valore imponibile nel trasferimento di azienda assoggettato all’imposta di registro il relativo «valore venale in comune commercio», puntualizzando, al successivo comma 4, che «l’ufficio può tenere conto anche degli accertamenti compiuti ai fini di altre imposte». 53 Il principio OIC 24 definisce le immobilizzazioni immateriali come caratterizzate dalla mancanza di tangibilità e per essere costituite da costi che non esauriscono la loro utilità in un solo periodo, ma manifestano i benefici economici in arco temporale di più esercizi. Inoltre, devono avere una propria identificabilità ed individualità ed essere rappresentati da diritti giuridicamente tutelati. Rientrano tra le immobilizzazioni immateriali: 1) Costi di impianto e di ampliamento 2) Costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità 3) Diritti di brevetto industriale e diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno 4) Concessioni, licenze, marchi e diritti simili; 5) Avviamento 6) Immobilizzazioni in corso e acconti 7) Altre. 54 Sul ruolo del marchio nel processo di creazione del valore aziendale, cfr., DI CAGNOD’AGOSTINIS, Il marchio d’impresa. Rappresentazione contabile e valore economico, Bari, 2010, p. 25 ss. i quali osservano che «il marchio rientra tra le risorse immateriali di mercato e assume valore economico in quanto facente parte del capitale “relazionale” dell’azienda (…) e «diventa un volano di crescita del risultato economico dell’azienda, non solo perché può portarla ad occupare una posizione competitiva vantaggiosa a seguito dell’ottenimento di fiducia da parte del mercato, ma anche perché consente l’incremento di componenti positive di reddito a seguito della possibilità concessa ad altre aziende di utilizzarlo». 55 Il riferimento è al principio contabile n. 24 (immobilizzazioni immateriali) dell’OIC (Organismo italiano di contabilità). 56 In particolare, l’art. 2424 c.c. che al punto B.I.4. contempla il marchio unitamente alle concessioni, licenze e diritti simili e l’art. 2426, nn. 1, 2 e 3 ove indicati i criteri valutazione delle immobilizzazioni.

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A tal fine è necessario che il marchio sia autonomamente identificabile, risulti scindibile dall’azienda che lo utilizza 57 e rivesta un’utilità pluriennale 58. La valutazione del marchio richiama esigenze e criteri di stima differenti a seconda che si faccia riferimento all’iscrizione iniziale 59 o alla successiva circolazione tramite cessione – autonoma o nell’ambito del coacervo dei beni aziendali – ovvero in occasione di un’operazione di aggregazione aziendale (conferimento d’azienda e altre operazioni straordinarie di fusione o scissione) 60. Nell’ipotesi di produzione interna, i costi iscrivibili seguono un’indicazione prudenziale a tutela dei terzi e vanno intesi in senso restrittivo in considerazione del fatto che, appena registrato, il marchio deve ancora dimostrare la capacità di penetrazione nel mercato 61; è per tale ragione che il criterio del costo apprezza gli oneri sostenuti per la realizzazione del marchio 62 e, secondo altra impostazione, può anche ricomprendere gli ulteriori oneri necessari per la riproduzione 63. 57 Il principio contabile OIC 24, al punto A.III, stabilisce che i beni immateriali «sono suscettibili di valutazione e qualificazione autonome ed indipendenti dal complesso dei beni dell’impresa». 58 Così il punto A.II del principio contabile n. 24 dell’OIC secondo cui «l’iscrivibilità di un costo pluriennale o di un bene immateriale é innanzitutto subordinata all’accertamento dell’utilità futura»; è quindi necessario che il relativo costo non esaurisca la propria utilità nell’esercizio di sostenimento. 59 I criteri di valutazione comuni a tutte le immobilizzazioni stabiliti dall’art. 2426 c.c. sono riconducibili al costo d’acquisto o di produzione, comprensivi di tutti i costi direttamente imputabili al prodotto (n. 1) ed alla previsione di ammortamento in ogni esercizio in relazione alla residua possibilità di utilizzazione (n. 2), salva la rettifica dell’indicazione del minor valore che eventualmente risulti alla chiusura dell’esercizio (n. 3). L’art. 2427, n. 3 c.c. prevede altresì che la nota integrativa si evidenzi «la misura e le motivazioni delle riduzioni di valore applicate alle immobilizzazioni materiali e immateriali, facendo a tal fine esplicito riferimento al loro concorso alla futura produzioni di risultati economici, alla loro prevedibile durata utile e, per quanto, rilevante, al loro valore di mercato (…)». 60 Non è invece iscrivibile il marchio (così come ogni altra immobilizzazione immateriale) acquisito a titolo gratuito, ciò in quanto, in assenza di una transazione monetaria, non è possibile reperire elementi attendibili ed oggettivi sui quali basare la stima. Di diverso avviso, DI CAGNOD’AGOSTINIS, op. cit., p. 79 i quali propendono per l’iscrizione esponendo in bilancio il suo valore economico secondo le metodologie di valutazione che si vedranno in appresso. 61 In tal caso, dispone l’OIC 24, i costi iscrivibili non devono essere confusi con quelli sostenuti per la ricerca e sviluppo del prodotto né con quelli sostenuti per l’avviamento della produzione, né con quelli sostenuti per l’eventuale campagna promozionale; ciò in quanto il marchio è finalizzato alla mera distinzione commerciale del proprio prodotto (di più prodotti o dell’impresa) rispetto a quello della concorrenza. 62 Ai sensi dell’art. 2426, n. 1 del c.c., il costo storico è un valore circoscritto alle spese sostenute nel processo di creazione e registrazione del marchio. Osserva FERRAGINA, La valutazione del marchio, in Contabilità finanza e controllo, 2006, p. 976 che i criteri basati sul costo storico o di riproduzione non sono in grado di evidenziare la forza attrattiva e la presenza del marchio sul mercato né di valorizzare i benefici futuri attesi dall’utilizzo del marchio. 63 In particolare, il c.d. “costo di riproduzione” rappresenta il costo che l’imprenditore dovrebbe sostenere per realizzare ex novo un marchio con caratteristiche analoghe e valuta le spese

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Nella prospettiva della successiva circolazione, i criteri basati sul costo risultano non soddisfacenti a rappresentare le prospettive di business e, dunque, il valore effettivo 64. Nell’ottica della società cedente, si tratterà di far emergere un plusvalore latente rispetto a quello di libro che la cessionaria dovrà riportare in bilancio con separata iscrizione in base al suo valore corrente 65. I metodi estimativi del valore di mercato del marchio si basano essenzialmente sull’apprezzamento dei flussi differenziali e sulle royalties 66. La valutazione dei flussi di reddito differenziali analizza quello che sarebbe il beneficio riconducibile allo sfruttamento commerciale del marchio misurabile in termini di maggior volume delle vendite 67 o di prezzi più alti praticabili rispetto ad altre aziende concorrenti che producano beni similari privi di marchio (c.d. unbranded) o comunque contraddistinti da marchi dotati di debole vis attractiva 68. di pubblicità sostenute per assicurare al marchio un certo grado di notorietà; in entrambi i casi la stima è al netto degli oneri fiscali sostenuti. 64 Peraltro, ai sensi dell’art. 15, commi 10-12 del D.L. n. 185/2008 (c.d. “Decreto anticrisi”), è consentito riallineare i maggiori valori iscritti in bilancio derivanti da operazioni di aggregazione aziendale (fusione, scissione e conferimento d’azienda) – ed in deroga alle disposizioni del comma 2-ter dell’art. 176 del TUIR – è possibile procedere ad una rivalutazione del marchio (oltreché dell’avviamento e delle altre attività immateriali) con assoggettamento, in tutto o in parte, dei maggiori valori attribuiti in bilancio ad un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi e dell’Irap del 16%; in tal caso, il periodo di ammortamento si riduce a dieci anni. Oggetto dell’affrancamento è la differenza tra il valore di iscrizione in bilancio ed il valore fiscalmente riconosciuto che gli intangibles avevano in capo alla società dante causa. Si veda, più diffusamente sul punto, la Circolare dell’Agenzia delle entrate del 11 giugno 2009, n. 28/E e il documento interpretativo OIC n. 3/2009 in banca dati Fisconline. 65 Così l’OIC 24, pag. 32. Occorre dunque far emergere quel plusvalore non rappresentato dal valore netto contabile (dato dal costo storico al netto degli ammortamenti); a tal fine, una perizia di valutazione può essere un efficace strumento dimostrativo che il prezzo dichiarato in sede di cessione corrisponde al valore intrinseco del marchio. 66 Per una panoramica sui criteri di valutazione della proprietà industriale rintracciabili nell’ambito delle scienze aziendali ed economiche, si vedano DI CAGNO-D’AGOSTINIS, op. cit.; POTITO, Le operazioni straordinarie nell’economia delle imprese, Torino, 2009; SANCETTA, Gli intangibles e le performance dell’impresa, Padova, 2007; VICARI (a cura di), Brand equity. Il potenziale generativo della fiducia, Milano, 1995; ZARA (a cura di), La valutazione della marca. Il contributo del brand alla creazione del valore d’impresa, Milano, 1997; RUTIGLIANO, Valutazione della proprietà industriale, costo del capitale e merito del credito, in Riv. dott. comm., 2010, p. 545 ss. il quale evidenzia la spendibilità del marchio come oggetto di garanzia per il credito bancario e, nell’esperienza americana, DAMODARAN, Valutazione delle aziende, Milano, 2010, p. 417 ss.; DE CICCO, Le condizioni produttive immateriali nei bilanci d’impresa, Torino, 1996; FRANZOSI, Valutazione della proprietà intellettuale, in Riv. dir. ind. 2003, p. 17 ss. il quale rileva che per le aziende tecnologiche più avanzate (come Microsoft e Yahoo) il valore degli intangibles rappresenta quasi la totalità del valore dell’impresa. 67 Il c.d. “effetto di traslazione” che determina lo spostamento verso destra della curva di domanda a parità di prezzo. 68 Il c.d. “effetto d’irrigidimento” misura il differenziale di prezzo (o premium price). L’attendibilità della stima può variare a seconda delle componenti del flusso differenziale

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Il royalty method consente, invece, di risalire al valore economico del marchio sulla scorta delle royalties che l’azienda sarebbe stata altrimenti costretta a pagare al titolare del marchio per la concessione del diritto di utilizzazione in un determinato arco temporale 69. L’attendibilità dell’approccio reddituale dipende dalla rintracciabilità sul mercato di transazioni che riguardino beni merceologicamente simili e sufficientemente omogenei, il che può rendere la valutazione opinabile 70; per questa ragione si preferisce determinare le royalties in modo empirico applicando una percentuale di redditività al fatturato che la società licenziataria ritiene di poter realizzare in un determinato arco temporale 71. Il valore del marchio è oggetto di ammortamento in ragione della sua residua considerate quali, ad esempio, il prezzo, le quote di mercato o i piani d’investimento; il risultato ottenuto è poi attualizzato in rapporto al periodo di utilizzazione del marchio e rettificato da un fattore di ponderazione che quantifica l’incidenza del marchio sull’utile realizzato in ciascuno degli esercizi considerati. Sul punto, si rinvia a RUTIGLIANO, op. cit., p. 550. 69 In sostanza, il valore economico del marchio è stimato sulla base dell’attualizzazione dell’ammontare delle royalties che si valuta il mercato sia disposto a corrispondere al proprietario del marchio per ottenere la concessione in licenza del bene stesso. E’ questo il metodo utilizzato per (ri)determinare il valore di cessione del marchio “Dolce & Gabbana” ceduto ad una società residente in Lussemburgo. Per effetto di tale operazione le royalties diventavano imponibili in Lussemburgo con aliquote inferiori rispetto alla tassazione domestica e gli stilisti scontavano soltanto la più favorevole imposizione sui dividendi percepiti. Sul punto, cfr. CTP Milano, gennaio 2012, n. 1 in Riv. giur. trib., 2012, p. 225 con nota di MARCHESELLI, Abuso del diritto, libertà economiche e garanzie procedimentali: un episodio da rivedere e anche in Riv. dir. trib., 2012, II, p. 479 ss. con nota di LAROMA JEZZI, Transfer pricing come abuso del diritto: tanto rumore per nulla? e CTR Lombardia, 20 marzo 2013, n. 43 in Corr. trib. 2013, p. 2152 con nota di TOMASSINI, Abuso del diritto o “Leviatano”?. 70 Il Sistema Internazionale di Classificazione dei Marchi (c.d. sistema di Nizza) comprende 45 classi, di cui 34 riguardanti prodotti ed 11 diverse tipologie di servizi. 71 Consapevole di ciò, con la Circolare n. 32 del 22 settembre 1980, in riferimento a royalty legate al diritto di brevetto industriale, l’Amministrazione finanziaria ha chiarito di poter ritenuti congrui, in quanto “normali”, canoni oscillanti tra il 2% ed il limite del 5% del fatturato della società licenziataria. Come riportano BERTOLI-BUSACCA-GRAZIANO, La determinazione del “Royalty Rate” negli accordi di licenza”, in http://www.unibs.it/sites/default/files/ricerca/allegati/Paper101.pdf., cui si rinvia per ulteriori approfondimenti, i royalty rates oscillano tipicamente fra il 4 e il 12%, con l’intervallo a maggior frequenza compreso fra il 5 e l’8% (i tassi più elevati si registrano relativamente agli occhiali, agli orologi e alle borse e una riduzione nell’ordine mediamente dell’1-1,5% in categorie quali abbigliamento, calzature, profumi e prodotti sportivi). Al riguardo, si propone una valutazione ponderata attribuendosi un diverso moltiplicatore in ragione dei fattori ritenuti maggiormente espressivi dell’attrattività del brand quali, ad esempio, la percezione sul mercato, il potenziale di sviluppo, l’incidenza sugli investimenti pubblicitari, l’internazionalità, la tutela giuridica, etc. Cfr., GUATRI- BINI, Nuovo trattato sulla valutazione delle aziende, Milano, 2005 e BALDUCCI, La valutazione dell’azienda, Milano, 2006, p. 346 ss., nel settore alimentare le royalties oscillano tra l’1% e il 7% del fatturato annuo; negli altri settori possono oscillare tra l’1% e il 10 % e possono giungere a punte del 15%-18%.

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possibilità di utilizzazione 72 e, ai sensi dell’art. 103 del TUIR, è deducibile in misura non superiore ad un diciottesimo del costo, analogamente a quanto previsto per l’avviamento 73 74. Uno sguardo alla disciplina delle risorse immateriali dettata dai principi contabili internazionali 75 mostra delle analogie 76 ed alcune differenze rispetto a quella nazionale. Così è, ad esempio, per le spese sostenute per la creazione del marchio da imputarsi al conto economico, con deduzione del costo nell’esercizio di sostenimento 77 e, dunque, non rilevabili tra le attività immateriali. 72 Come prevede il principio contabile OIC 24, il costo da sottoporre ad ammortamento è pari al valore originario del marchio decurtato del valore residuo stesso e il periodo di ammortamento è collegato al periodo di produzione e commercializzazione in esclusiva dei prodotti cui il marchio si riferisce e, se non prevedibile, entro un periodo che non può eccedere 20 anni. 73 Sulla specifica tematica dell’ammortamento dei canoni stabiliti per la cessione in leasing del marchio, v. CIMINO, Profilo fiscale della cessione del marchio d’impresa tramite il contratto di leasing, in Riv. trim. dir. trib., 2013, p. 523 ss. 74 Ai fini dell’imposizione diretta, la cessione del marchio può riverberarsi sul reddito d’impresa con la rilevazione di una plusvalenza o di una minusvalenza il cui ammontare è pari alla differenza tra il corrispettivo conseguito e il costo non ammortizzato. Nel caso in cui risulti maggiore quest’ultimo, la minusvalenza è interamente deducibile nell’esercizio nel quale si realizza mentre, nel caso contrario, la plusvalenza concorre a formare il reddito per l’intero ammontare nell’esercizio in cui viene realizzata o, a scelta del contribuente, in quote costanti nell’esercizio stesso e nei successivi, ma non oltre il quarto. 75 Si veda il principio IAS 38 (attività immateriali), in banca dati Fisconline. Si badi che, ai sensi dell’art. 83 del TUIR, i criteri di qualificazione e classificazione in bilancio dettati dai principi contabili internazionali prevalgono rispetto alle norme del TUIR. Per un’analisi dei criteri di contabilizzazione e dell’informativa di bilancio relativi alle attività immateriali che rientrano nell’ambito dello IAS 38, cfr. CARDILLO, La disciplina fiscale dei beni immateriali a seguito dell’adozione dei principi contabili internazionali, in Riv. dir. trib., 2009, p. 979 ss.; STEVANATO, Profili tributari delle classificazioni di bilancio, in Corr. trib., 2008, p. 3155; LUPI, Profili tributari della valutazione degli elementi dell’attivo e del passivo, in Corr. trib., 2008, p. 3168; VICINI RONCHETTI, Legge finanziaria 2008 e principi IAS/IFRS: le modifiche all’art. 83 del Tuir, una possibile soluzione ai dubbi interpretativi, in Rass. trib., 2008, p. 680; SANCETTA, op. cit., p. 142 ss. 76 Analogamente al principio OIC 24, il principio contabile internazionale IAS 38, stabilisce che affinché una risorsa possa definirsi immateriale occorre che sia i) identificabile (cioè, potenzialmente scindibile dalle altre componenti aziendali, v. par. 11); ii) controllabile (assicurando il potere di utilizzo dei benefici economici futuri ricavabili, anche tutelando i propri diritti in ambito giudiziale, v. par. 13); iii) foriera di benefici futuri (par. 17). 77 Sul punto, il principio IAS 38, par. 10 stabilisce che «la spesa per acquisire o generare la stessa (i.e., l’attività immateriale) internamente è rilevata come un costo nell’esercizio in cui è stata sostenuta. Tuttavia, se l’elemento è acquisito tramite un’aggregazione aziendale, esso costituisce parte integrante dell’avviamento rilevato alla data dell’acquisizione». Coerentemente il successivo par. 64 stabilisce che le spese generate internamente all’azienda per la creazione del marchio non sono annoverabili tra le attività immateriali (poiché non possono essere distinte dal costo sostenuto per sviluppare l’attività aziendale nel suo complesso). Infine il par. 66, stabilisce che i costi imputabili sono tutti quelli «direttamente attribuibili necessari per creare, produrre e preparare l’attività affinché questa sia in grado di operare nel modo inteso dalla direzione aziendale» e, tra questi, le spe-

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Anche il principio IAS n. 38 prescrive l’iscrizione iniziale in ragione del criterio del costo 78 così come, in caso di trasferimento, il valore degli intangibles dovrà essere rilevato secondo il fair value alla data di acquisizione ed in riferimento a un mercato attivo 79. Peraltro, proprio in riferimento al marchio, lo IAS 38 esclude espressamente il ricorso al criterio del valore equo stante l’originalità propria di ogni brand, il ché li rende “unici” impedendo la rintracciabilità di mercati attivi utilmente comparabili 80. Con ciò si conferma il limite dei criteri di valutazione dei marchi, già segnalato anche in relazione ai modelli di bilancio nazionali, nell’esprimere un valore contabile spesso distante dal reale valore economico 81. se per materiali e servizi utilizzati o consumati nel generare l’attività immateriale o gli oneri fiscali sostenuti per la registrazione. 78 Nel caso di risorsa generata internamente all’azienda, la rilevazione iniziale comprende tutti gli elementi di costo sostenuti per l’acquisizione nonché qualunque costo diretto collegato all’inizio del normale impiego di tali risorse e, tra questi, i) i costi dei benefici per i dipendenti sostenuti direttamente per portare l’attività in condizioni normali di funzionamento; ii) gli onorari professionali sostenuti direttamente per portare l’attività in condizioni normali di funzionamento e iii) i costi per verificare se l’attività sta funzionando adeguatamente (v. IAS 38, par. 28). Per gli esercizi successivi alla prima rilevazione è stabilito che «dopo la rilevazione iniziale, un’attività immateriale deve essere iscritta in bilancio al costo al netto degli ammontari complessivi degli ammortamenti e delle perdite per riduzione durevole di valore accumulati» (v. IAS 38, par. 74). Il valore storico-contabile può essere soggetto a variazioni, ma – per via del principio di prudenza che connota la legislazione in materia di bilancio – queste possono evidenziarsi solo se di segno negativo attraverso il c.d. test of impairment, disciplinato dallo IAS 26. Esso consiste in un meccanismo di verifica della recuperabilità del valore di iscrizione di un bene in bilancio attraverso un periodico raffronto tra valore di iscrizione ed il maggior valore tra il valore di mercato e il valore d’uso (cioè il valore che può essere recuperato in termini di ricavi negli esercizi in cui il bene sarà utilizzato, attraverso le sue quote di ammortamento. L’impairment test ha, dunque, l’obiettivo di verificare che le attività siano iscritte in bilancio a un valore non superiore a quello recuperabile e ad individuare eventuali perdite di valore. Dunque, una rivalutazione del marchio è possibile soltanto in occasione della successiva circolazione al fine di evidenziare il suo plusvalore latente; cfr., sul punto, DI CAGNO-D’AGOSTINIS, op. cit., p. 74 ss. 79 Le risorse immateriali acquisite nell’ambito di un’aggregazione aziendale possono essere iscritte al loro fair value alla data di acquisizione; se esiste un mercato attivo, detto valore coincide col valore di mercato (v. IAS 38, par. 39); altrimenti, il valore equo corrisponde all’importo pagato per l’attività alla data dell’acquisizione in una transazione normale tra parti consapevoli e disponibili, sulla base delle migliori informazioni disponibili e tenendo conto di operazioni recenti per attività similari. (v. IAS 38, par. 40). 80 Così il paragrafo 78 ove si riconosce che «non possono esistere mercati attivi per marchi, giornali, testate giornalistiche, diritti editoriali di musica e film, brevetti o marchi di fabbrica, perché ognuna di queste attività è unica nel suo genere» (…) e «i prezzi sono spesso non disponibili al pubblico». Secondo i principi internazionali, un mercato può definirsi “attivo” alle seguenti condizioni: i) i beni commercializzati risultino omogenei; ii) i prezzi siano accessibili al pubblico e iii) esistenza di una potenziale platea di venditori e acquirenti. 81 Cfr., sul punto, DI CAGNO-D’AGOSTINIS, op. cit., pp. 87-88 ove ulteriori riferimenti all’esperienza americana sulle regole di contabilizzazione del marchio le quali prevedono l’iscrizione al

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6. Considerazioni conclusive Il valore intrinseco del marchio, non coincidente con quello contabile, unitamente al regime di libera circolazione ed alle prospettive di business che si offrono una volta affermatosi sul mercato, fan sì che un determinato brand possa risultare assai appetibile per accrescere la competitività dell’impresa 82. Ciò spiega perché, pur rappresentando sovente il target dell’operazione, si assiste ad una sua circolazione insieme ad altri cespiti aziendali ciò, nella prospettazione delle parti, al fine di scontare l’imposta di registro in luogo dell’imposizione IVA per ogni autonoma cessione 83 ed evitare l’anticipazione di un esborso che può essere particolarmente ingente rispetto alle risorse dell'azienda interessata 84. In quest’ottica, la modesta entità e lo scarso valore degli altri beni, nonché l’inidoneità del complesso trasferito ad assicurare la potenzialità produttiva tipica dell’azienda o di un suo ramo, costituiscono utili indici per la (ri)qualificazione dell’operazione riconoscendo la prevalenza della sostanza degli effetti giuridici rispetto all’apparenza formale o al nomen iuris convenuto tra le parti. Così l’approccio ermeneutico di cui all’art. 20 del TUR può consentire di pervenire ad una qualificazione giuridica diversa da quella elaborata dalle parti e, quindi, di far emergere la causa reale in termini di (in)opponibilità e di simulazione/dissimulazione, più frequentemente apprezzabile in termini di cessione simulata di azienda e dissimulata del marchio. In tale evenienza, contrariamente alla sua vocazione attrattiva, l’art. 20 del TUR opera quale criterio interpretativo che porta all’esclusione dell’imposizione di registro in favore del regime IVA 85. Nel caso di vendite frazionate di cespiti aziendali (ri)qualificate unitariamente quale cessione d’azienda 86 si pone, invece, il problema della sorte delfair value alla data di acquisizione (v. FAS 142 “Goodwill and other intangible assets”), anche se a titolo gratuito. 82 L’acquisizione di un marchio noto e affermato può consentire l’ingresso in un mercato reputato strategico o di incrementare il potere di controllo di quel determinato mercato ovvero ancora risponde all’esigenza di realizzare processi di diversificazione settoriale e/o geografica; sulle diverse motivazioni all’acquisto del marchio, si rinvia più diffusamente a BERTOLI, Relazioni interaziendali e acquisizione di capacità per lo sviluppo della marca in VICARI, op. cit., p. 129 ss. 83 Così nelle vicende decise dalle sentenze della sezione tributaria della Cassazione citate alle note 42 e 47. 84 Come rilevato dalla Corte di Giustizia UE del 27 novembre 2003, causa C-497-01, cit. v. i considerando nn. 39 e 41. 85 Si pensi ad, esempio, all’impresa che disponga di un unico marchio di notevole rilevanza ovvero all’ipotesi nella quale il marchio rappresenti l’unico asset di valore nel patrimonio di un’azienda in crisi. Sul punto, v. UBERTAZZI, Spunti sulla valutazione dei marchi. Riv. dir. ind., 2006, p. 116. 86 È l’ipotesi, meno frequente, decisa dalla Cass., sez. trib., 20 dicembre 2012, n. 23584, cit., la

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l’IVA versata dal cedente e portata in detrazione dall’acquirente 87. Come detto, il valore contabile del marchio iscritto in bilancio è scarsamente rappresentativo del suo reale valore economico una volta che il brand, affermatosi sul mercato, sia oggetto di trasferimento. Invero, la determinazione del valore del marchio in sede di circolazione deve misurarsi con l’unicità che ogni brand ha in sé; e se in ciò risiede il suo precipuo valore, risalire al valore di mercato – al fine di pervenire ad un giudizio di congruità accettabile anche da parte dell’ufficio – può essere non agevole per la necessità di rintracciare transazioni tipologicamente omogenee e, in definitiva, un “mercato del marchio” di riferimento confrontabile al quale attingere per ricavare un valore corrente sufficientemente attendibile ed al riparo da eventuali rettifiche da parte dell’ufficio. E, proprio per tale ragione, lo IAS 38 impedisce il ricorso al fair value alle società tenute all’osservanza dei principi contabili internazionali 88. Ciò non è senza significato anche in una prospettiva interna di possibile rettifica del brand equity dichiarato dalle parti, tenuto conto che con l'art. 24, comma 4 della L. 7 luglio 2009, n. 88, di adeguamento alla Comunitaria 2008, il legislatore nazionale ha riscritto l’art. del 14 D.P.R. n. 633/1972 sancendo la preminenza del corrispettivo dichiarato «qualora non siano accertabili cessioni di beni o prestazioni di servizi analoghe». In definitiva, non pare poter consentirsi all’Ufficio, in difetto di ulteriori riscontri probatori 89, di risalire attraverso meccanismi di “normalizzazione” ad un quale ha ricondotto le singole operazioni frazionate (tra le quali anche la cessione di un marchio) ad una cessione di ramo aziendale, unitariamente considerata e assoggettata a imposta di registro e non ad IVA. 87 Per la detraibilità da parte del cessionario dell’IVA addebitata in rivalsa nonostante l’erroneo assoggettamento ad imposizione da parte del cedente si veda Cass. Sez. I, 5 novembre 1998, n. 1348, con nota adesiva di BARDI, Cessione frazionata e detraibilità dell’iva non dovuta, in Dir. prat. trib., 2000, II, p. 347; LA ROSA, L’erronea applicazione dell’IVA tra le norme e il dogma della condictio indebiti, in Riv. dir. trib. 1999, II, p. 191 e ss.; di diverso avviso, FRANSONI, L’esercizio del c.d. diritto alla detrazione dell’iva in carenza di presupposto, in Riv. dir. fin. sc. fin. 1994, II, p. 42 e ss.; SCALINCI, op. cit. il quale afferma il diritto del cedente al rimborso dell’IVA non dovuta (in ragione dell’accertamento della debenza del imposta di registro e del principio di alternatività ex art. 40 TUR), con contestazione al cessionario dell’indebita detrazione dell’IVA e, in giurisprudenza, Cass. 10 giugno 1998, n. 5733; Cass. Sez. trib., 15 ottobre 2001, n. 12547 e Cass. Sez. trib., 21 ottobre 2001, n. 13222, in banca dati Fisconline. 88 Si rinvia al Regolamento CE del 19 luglio 2002, n. 1606/2002. 89 Anche di segno presuntivo e purché si tratti di elementi «gravi, precisi e concordanti» come richiesto ex art. 54, comma 2 del D.P.R. n. 633/1972; in tal caso, il criterio del valore normale può semmai costituisce una presunzione semplice non in grado, di per sé, a soddisfare l’onere probatorio gravante sull’Ufficio in ordine alla realizzazione di un maggior corrispettivo. Si badi che l’attendibilità dell’approccio “market based” dipende grandemente dal livello di trasparenza offerto da quel determinato mercato sui prezzi e le condizioni praticate per transazioni similari; sul punto si rinvia a SANCETTA, L’esercizio del c.d. diritto alla detrazione dell’iva in carenza di presupposto, in Riv. dir. fin. sc. fin, op. cit., p. 119 ss.

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maggior prezzo rispetto a quanto dichiarato dalle parti, ciò anche in considerazione dei limiti che i criteri di valutazione del marchio comunemente adoperati nella prassi hanno mostrato nel valorizzare quel plusvalore latente che ogni brand ha in sé, apprezzabile in occasione della sua circolazione. Ecco allora che il valore attribuito al marchio è pur sempre il risultato di un accordo negoziale e non può prescindere dalle specificità che hanno indotto le parti a definire pattiziamente un certo prezzo, il quale può variare a seconda delle peculiari ragioni economiche che risultino sottese all’operazione 90.

90 Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di un’azienda costretta a “svendere” un dato marchio per ottenere liquidità e far fronte ad una grave crisi finanziaria o alla cessione di un marchio confluito nell’attivo fallimentare d’una impresa decotta e, infine, al caso d’un brand operante in un mercato in costante evoluzione come quello dei prodotti tecnologici, la cui forza attrattiva sia ormai scemata perché superato da prodotti o servizi più innovativi. Sul punto, è apprezzabile un recente orientamento della giurisprudenza di merito (cfr., CTP Milano, sez. 8, 10 gennaio 2013, n. 11 consultabile in Cassazione.net), la quale ha rilevato che «il valore di un marchio è difficile da determinare in base a criteri stereotipati e/o frutto di teorizzazioni» – e, prosegue la Corte meneghina – «il valore materiale di un bene immateriale può essere solo il frutto di trattative fra le parti che non possono non tener conto delle eventuali finalità di riassetto industriale o finanziario».

L’IMPOSIZIONE INDIRETTA DEL PASSAGGIO GENERAZIONALE DELL’AZIENDA TRA REGIMI AGEVOLATI E CRITICITÀ DI SISTEMA*

di Valeria Mastroiacovo SOMMARIO: 1. Il passaggio generazionale “dell’impresa”. – 2. L’evoluzione normativa dell’imposizione indiretta. – 2.1. (segue) e i confini sistematici dell’oggetto della donazione di azienda. – 3. L’interpretazione della disciplina di favore sul passaggio generazionale secondo la prassi dell’Agenzia delle entrate. – 4. Una scelta differente ai fini delle imposte sui redditi: l’irrilevanza della prossimità parentale.

1. Il passaggio generazionale “dell’impresa” La successione nell’impresa, al fine di consentire la continuazione dell’esercizio della stessa, è argomento assai delicato da svariati punti di osservazione. In termini meramente sociologici, il tema interessa la gran parte del panorama imprenditoriale italiano che per oltre il novanta per cento è costituito da piccole medie imprese a conduzione pressoché familiare, per le quali risulta determinante assicurare in termini di certezza e stabilità la continuazione nell’attività. Evidentemente qualora la successione avvenga mortis causa essa può costituire un “momento critico” per la sopravvivenza dell’impresa stessa, in quanto il passaggio di consegne a livello generazionale, laddove non strategicamente preordinato, potrebbe comportare delle conseguenze, sia in termini economici, che organizzativi, tali da decretare la fine dell’impresa1. * Contributo modificato rispetto a quello già pubblicato nel volume L’avviamento nel diritto tributario, a cura di Della Valle, Ficari, Marini, Torino, 2012, p. 325 ss. 1 Si leggano le considerazioni di LUPI, Successione generazionale nelle attività produttive e tributi, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 196. L’Autore, stante il precedente quadro normativo di riferimento, sottolineava l’opportunità socio economica di mitigare l’imposizione sul passaggio generazionale da un lato per non determinare “un ulteriore elemento di disturbo in un momento spesso delicato, in cui occorre decidere se ac-

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Pertanto, tra le funzioni gestionali di competenza specifica dell’imprenditore viene generalmente riconosciuta la programmazione strategica del passaggio generazionale “dell’impresa”2, proprio al fine di predisporre le condizioni adatte a far continuare l’esercizio dell’attività d’impresa al di là della propria persona. Dal punto di vista giuridico, allora, si comprende bene che l’espressione “passaggio generazionale dell’impresa” è di per sé atecnica (al più valida in termini aziendalistici), in quanto essa è solo una evenienza (o meglio una valutazione ex post), esito di una corretta strategia dell’imprenditore “dato che l’impresa è attività economica in cui non si succede ma che si esercita diventando in tal modo imprenditori e visto che chi si assicura la disponibilità dell’azienda potrebbe, al limite, non servirsene per compiere attività imprenditoriali bensì trasferirla a sua volta ad altri”3. Tra l’altro, il risultato strategico della prosecuzione dell’impresa potrebbe avvenire mediante una serie di differenti operazioni, inter vivos o mortis causa accomunate dall’essere tutte idonee a garantire, in modo diretto o indiretto, l’esercizio dell’attività. Ed infatti, in luogo della circolazione dell’azienda si potrebbe disporre la cessione della nuda proprietà e la costituzione di un usufrutto sulla stessa, o, ancora, si potrebbe stabilire di operare una circolazione delle partecipazioni societarie, eventualmente in relazione ad un conferimento d’azienda4. Evidentemente, proprio l’eterogeneità delle scelte percorribili per la “sistemazione patrimoniale contrattuale con funzione successoria”5 e le diverse conseguenze fiscali ad esse riconducibili ponevano problemi in ordine alla valutazione, non solo meramente civilistica, della congruità degli strumenti giuridici adottati per il raggiungimento del fine. Talvolta infatti si ricorreva all’istituto della donazione, ma più di frequente si operava secondo schemi negoziali meno definiti riconducibili, sinteticamente, alla categoria delle liberalità indirette6 (ad esempio quisire il timone dell’azienda e come condividerlo con altri”, dall’altro evidenziava alcune difficoltà sul piano “tecnico-tributario”, prospettando anche un problema di doppia imposizione (in quanto una quota parte dell’avviamento e delle plusvalenze latenti erano comunque destinate – in questa prospettiva – ad essere assoggettate ad imposta sul reddito). 2 Cfr. AULETTA, Azienda, in Enc. giur., IV, Roma, 1988, p. 2; CORBETTA, La gestione strategica del passaggio generazionale, in Riv. dott. comm., 1996, p. 779; GENOVESE, Il passaggio generazionale dell’impresa: la donazione di azienda e di partecipazioni sociali, in Riv. dir. comm., 2002, p. 705. 3 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, I, Padova, 2001, 632. Sul tema della titolarità dell’impresa, che tuttavia esorbita dal presente contributo, si rinvia a Nicolò, Riflessioni sul tema dell’impresa e su talune esigenze di una moderna dottrina del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1956, I, p. 186 ss. 4 Anche il conferimento di azienda può infatti costituire un momento prodromico all’attuazione del passaggio generazionale, nel caso in cui l’imprenditore vuole terminare l’esercizio diretto dell’attività e mantenere un controllo indiretto sull’azienda conferita, mediante le partecipazioni societarie e il corrispondente diritto di voto. 5 PALAZZO, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983. 6 Si legga MARONGIU, La sterilizzazione dell’avviamento e la donazione d’azienda, in AA.VV.,

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contratti a favore di terzi; accollo del debito altrui; negozi misti), con tutte le problematiche di diritto comune che ne derivavano agli effetti della successione mortis causa nell’ambito familiare, anche in considerazione del divieto dei patti successori di cui all’art. 458 del codice civile. D’altro canto, sotto il profilo strettamente fiscale, riguardo a determinati assetti particolarmente (e volutamente) complessi non era chiaramente individuabile la causa negoziale, con gravi ripercussioni in termini di incertezza, quanto alla tassazione e con particolare riguardo all’imposizione indiretta7. Nella prospettiva di risolvere in parte le problematiche di cui sopra e di accogliere le istanze provenienti da più fronti, il legislatore, con la L. n. 55/2006, ha introdotto, nell’ambito della disciplina sulle successioni del codice civile, l’istituto giuridico del patto di famiglia (art. 768 bis e seguenti) ovverosia un contratto “con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”8. La previsione di questo strumento ulteriore all’autonomia negoziale, parzialmente in deroga al divieto dei patti successori ed esperibile inter vivos, ha mutato in sostanza lo scenario di riferimento, consentendo ora all’imprenditore di assicurare il trasferimento del bene produttivo, salvaguardando al tempo stesso “l’unità familiare”9.

2. L’evoluzione normativa dell’imposizione indiretta In questo quadro evolutivo della disciplina civilistica occorre allora collocare le modificazioni che si sono susseguite in materia fiscale proprio con riferimento all’imposizione indiretta e in particolare alla rilevanza degli negozi inter vivos e mortis causa idonei a determinare il passaggio generazionale dell’azienda. Tralasciando le modifiche precedenti, nel 200010 il legislatore aveva finalmenL’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 199, il quale, commentando la riforma del 2000, di cui meglio infra, osserva che “nessuno si è mai sognato prima d’ora, salvo che per patrimoni aziendali di minima consistenza, di procedere mediante donazione”. 7 Cfr. PURI, I trasferimenti liberali di partecipazioni ed aziende. Profili dell’imposizione indiretta, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 151. 8 In tema di patto di famiglia la letteratura appare oramai sterminata; tralasciando i riferimenti ai commentari, si vedano PALERMO (a cura di), Il patto di famiglia, Torino, 2009; CASU, Il patto di famiglia: rassegna ordinata di dottrina nella sua prima interpretazione, in Studi e materiali del Cnn, 2006, n. 2; VOLPE, Il patto di famiglia, Napoli, 2011. 9 ATTANZIO, L’impresa di generazione in generazione, in Quaderni della fondazione italiana per il notariato, Patti di famiglia per l’impresa, Milano, 2006, p. 16. 10 La riforma è stata introdotta con i diversi commi dell’art. 69 della L. 21 novembre 2000, n.

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te predisposto una grande riforma dell’imposta sulle successioni e donazioni (D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346) che superava la difficile “tollerabilità del tributo” sia in termini economici che strutturali; la riforma infatti disponeva l’abrogazione dell’aliquota sull’asse ereditario globale netto11, mantenendo una tassazione unitaria solo al fine della determinazione degli imponibili e non più della disciplina del presupposto rispetto alla quale appariva decisiva la singola attribuzione devoluta a ciascun beneficiario. A ben vedere, però, la grande novità era costituita proprio da una riflessione in termini generali sul tema della tassazione delle liberalità indirette non risultanti da atti soggetti a registrazione in termine fisso, cercando di individuare soluzioni che tenessero conto delle ripercussioni degli spostamenti patrimoniali anche nell’ambito dell’accertamento delle imposte sui redditi12 e che fossero “allettanti” 342, per una valutazione sistematica della riforma si rinvia a FEDELE, Riforma dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni come esito dell’evoluzione storica del tributo, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 39; MASTROIACOVO, Considerazioni relative all’entrata in vigore della riforma dell’imposta sulle successioni e donazioni, ibidem, p. 125. 11 Si ricorda che il R.D.L. 4 maggio 1942, n. 434, in vigore dal 12 maggio 1942, istituì un’imposta sull’asse ereditario con carattere autonomo rispetto al tributo successorio, la c.d. «Globale sull’asse ereditario netto»; questa imposta si andava a sovrapporre al tributo sull’ammontare oggetto della delazione e fu, all’origine, giustificata dall’emergenza del periodo bellico. Solo con l’art. 69, L. n. 342/2000 si è disposta la sua abrogazione. L’imposta globale fu definita da Luigi Einaudi “l’imposta sul morto” in quanto, per la struttura del tributo, l’indice di capacità contributiva sembrava collegato unicamente ad un soggetto la cui morte determinava il concorso alla pubbliche spese per gli eredi (effettivi soggetti passivi). La dottrina criticò apertamente questa duplicazione di prelievo in occasione della successione in un patrimonio, tuttavia, la Corte costituzionale investita più volte della questione, affermò sempre l’autonomia dei due tributi e la natura “reale” dell’imposta globale, che evidenziava un indice di capacità contributiva “oggettivamente” rilevante e non coincidente con l’arricchimento patrimoniale degli eredi (Corte cost. n. 147/1975 e n. 68/1985; e successive ordinanze fino alla più recente n. 453/2005). Sull’evoluzione della disciplina del tributo successorio si rinvia, in termini generali a SERRANO, Le imposte sulle successioni, Torino, 1968; ID., Successioni, donazioni e valore globale dell’asse ereditario (imposta sulle), in Nov.mo D.I., Torino, XVIII, 1971, p. 893; DE BONO, L’imposta sulle successioni e l’imposta sull’asse globale ereditario netto, Milano, 1973; GAFFURI, Successioni e donazioni (imposta sulle), in Nov.mo D.I., Appendice, 1987, VII, p. 643; ID., Successioni e donazioni (imposta sulle), in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1998, XV, p. 302; ID., L’imposta sulle successioni e donazioni: trust e patti di famiglia, Padova, 2008; ALTANA-SILVESTRI, L’imposta sulle successioni e donazioni nel testo unico, Milano, 1991; CARDARELLI, Tributi successori, in Enc. dir., Milano, XLV, 1992, p. 154; GALLO ORSI G. e M., L’imposta sulle successioni, Torino, 1993; BOSELLO, L’imposta sulle successioni e donazioni, in Trattato di diritto tributario (diretto da A. Amatucci), Padova, 1994, IV, p. 191; GHINASSI, Imposte di registro e di successione. Profili soggettivi ed implicazioni costituzionali, Milano, 1996; FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da Rescigno, coordinato da Ieva, II, Padova, 2010, p. 601. 12 LUPI, I trasferimenti non formali: dalle scelte rinunciatarie del legislatore del 1973 all’imbarazzo di quello del 2000, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 289.

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dal punto di vista economico in ragione della drastica diminuzione delle aliquote. In particolare riguardo ai trasferimenti di aziende e di partecipazioni erano state introdotte importanti novità quanto all’eliminazione, dall’art. 15 relativo alla determinazione della base imponibile, del riferimento all’avviamento nella valutazione dei beni (superando così l’interpretazione che pretendeva l’esposizione del valore corrente dei beni e diritti costituenti l’azienda)13 e all’abbattimento della base imponibile per le cessioni gratuite di beni, aziende e quote di società di persone situate in territori montani, subordinando l’agevolazione alla sussistenza di alcuni requisiti tra cui la prosecuzione effettiva dell’attività imprenditoriale. Invece, pur essendo presente nel disegno di legge governativo, in sede di approvazione finale della legge, era stato espunto il comma relativo all’esclusione dall’attivo ereditario delle aziende, fino ad un certo ammontare e in presenza di determinate condizioni (tra cui la prossimità parentale con il disponente e la continuità dell’attività per almeno sei anni). Inoltre, in funzione chiaramente antielusiva, si era intervenuti sull’art. 26 del testo unico dell’imposta di registro, che dispone una presunzione relativa14 di liberalità per i trasferimenti immobiliari tra coniugi e parenti in linea retta, aggiungendo l’ipotesi dei trasferimenti di partecipazioni sociali quando il valore della partecipazione o la differenza tra valore e prezzo “siano superiori all’importo di trecento cinquanta milioni di lire”. Tuttavia, proprio la collocazione della previsione al di fuori del relativo testo dell’imposta sulle successioni e donazioni e nell’ambito del registro, poneva una serie di problemi interpretativi, primo tra tutti quello della scelta dei criteri per la determinazione del valore della partecipazione15. Per le medesime finalità, e in particolare a corollario della disciplina di cui all’art. 56 bis, sull’accertamento delle liberalità indirette (anche in relazione dell’accertamento sintetico ai fini delle imposte sui redditi), la legge del 2000 aveva previsto che le disposizioni antielusive di cui all’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 si applicano anche con riferimento all’imposta sulle successioni e donazioni16. L’ope13 Cfr. PURI, I trasferimenti liberali, cit., p. 164, il quale ricorda un orientamento giurisprudenziale per cui la valutazione dell’avviamento era da escludersi già in via interpretativa nelle ipotesi in cui l’azienda veniva a cessare a causa del decesso dell’imprenditore operandosi appunto una “sterilizzazione” naturale dell’avviamento. 14 La “relatività” della presunzione è stata affermata dalla Corte costituzionale nella sentenza n.41 del 25 febbraio 1999. In argomento si rinvia a MASTROIACOVO, La presunzione di liberalità tra principio di eguaglianza e principio di capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 1999, II, p. 634. 15 Cfr. ancora PURI, I trasferimenti liberali …, cit., p. 173; si veda inoltre STEVANATO, Donazioni e liberalità indirette nel tributo successorio, Padova, 2000. 16 Comma 7 dell’art. 69 della L. n. 342/2000 aveva previsto che “le disposizioni antielusive di cui all’art. 37 bis del decreto del Presidente della Repubblica29 settembre 1973, n. 600, si applicano, ad esclusione delle condizioni contenute nel comma 3 del medesimo articolo, anche con riferimento all’imposta sulle successioni e donazioni. Le disposizioni del presente comma e quelle del comma 1, let-

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ratività della disciplina antielusiva, con tutto quello che conseguentemente concerne gli effetti della tassazione, poteva allora comportare con riferimento alle “vicende successorie e liberali” una diversa ricostruzione degli assetti negoziali prescelti dal disponente, anche al fine del passaggio generazionale dell’impresa, sotto il profilo della causa e a prescindere dal collegamento negoziale più o meno rilevabile nella sequenza degli atti. D’altro canto, all’art. 1 del testo unico sulle successioni e donazioni veniva inserito un ultimo comma ai sensi del quale “ferma restando l’applicazione dell’imposta anche alle liberalità indirette risultanti da atti soggetti a registrazione, l’imposta non si applica nel caso di donazioni o di altre liberalità collegate ad atti concernenti il trasferimento o la costituzione di diritti immobiliari ovvero il trasferimento di aziende, qualora per l’atto sia prevista l’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale o dell’imposta sul valore aggiunto”. Questa disposizione da un lato sembrava avvalorare (in quanto deroga ad un principio generale) l’interpretazione per cui ai fini della corretta tassazione era necessaria l’esplicitazione in atto dell’intento liberale perseguito anche al fine di evitare una sovrapposizione con il tributo di registro17, dall’altro era utilizzata per evidenziare le criticità di questa stessa interpretazione18. In ogni caso appare evidente che tra la finalità della previsione vi era anche quella di trovare una soluzione alle problematiche relative al collegamento negoziale in vicende complesse quali appunto i passaggi generazionali delle aziende in relazioni ai quali poteva porsi, se non in termini giuridicamente rigorosi, quanto meno in termini economici, l’ulteriore criticità dell’alternatività o meno dei tributi nell’ambito della imposizione indiretta19. Se infatti l’alternatività tra il tributo di registro e l’iva è espressamente sancita (seppur con eccezioni) all’art. 40 del D.P.R. n. 131/1986, nulla era disposto con riguardo alle interrelazioni tra le imposte sulle successioni e donazioni e gli altri tere m) e n), si applicano ai fatti accaduti e agli atti comunque formati successivamente alla data del 1° luglio 2000”. 17 Così FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., 601; nello stesso senso già Idem, Le innovazioni nella legge n.342 del 2000. Le definizioni della ratio del tributo. I rapporti con l’imposta di registro, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 63. 18 Così STEVANATO, Le liberalità tra vivi nella riforma del tributo successorio, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 246, secondo il quale il comma 4 bis “parrebbe colorarsi in termini oggettivi: saranno cioè le circostanze di fatto del caso concreto, le modalità dell’attribuzione, i rapporti tra le parti contraenti od i terzi beneficiari di prestazioni dedotte nell’atto, a dover dire se si è in presenza di una liberalità indiretta risultante da un atto soggetto a registrazione”. 19 Resta fermo che la donazione di azienda non si considera operazione entro campo IVA ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b) del D.P.R. n. 633/1972; questa precisazione appare opportuna se si considera che in mancanza di una puntuale previsione, la donazione di azienda da parte di un imprenditore dovrebbe rilevare quale destinazione a finalità estranee (art. 2, comma 2, n. 5 del medesimo D.P.R.).

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tributi indiretti. Pertanto, il comma 4 bis, ha introdotto all’art. 1 un’esenzione che alleggerisce l’imposizione complessiva in occasione di negozi collegati (generalmente con scopo di provvista quanto alla messa a disposizione delle somme), disposizione della cui sistematicità in linea generale la dottrina ancora oggi discute20. Come è noto, questa articolata riforma dell’imposta sulle successioni e donazioni non ebbe concreta applicazione in quanto con la L. n. 383/2001 il tributo fu “soppresso”, restando nel sistema unicamente un’imposizione dei trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi, compresa la rinuncia pura e semplice agli stessi, fatti a favore di soggetti diversi dal coniuge o dai familiari. Questi trasferimenti venivano assoggettati alle imposte sui trasferimenti “ordinariamente applicabili per le operazioni a titolo oneroso”, se eccedenti una determinata franchigia21. Alla soppressione del tributo non è seguita però l’abrogazione del testo unico sull’imposta sulle successioni e donazioni, in parte richiamato dalla stessa legge del 2001 quanto all’individuazione delle agevolazioni e esenzioni di imposta. La non linearità dell’intervento normativo ha posto più di un dubbio quanto alla sopravvivenza delle norme, a prescindere dal tributo: incerta, ad esempio, pareva l’applicazione della disposizione da ultimo ricordata con riferimento al collegamento negoziale22. Con il medesimo intervento normativo veniva sancito, fermo restando il tenore dell’art. 58 del TUIR, che in caso di trasferimento a titolo di successione per causa di morte o di donazione dell’azienda o di ramo di azienda, con prosecuzio20

FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., 601; si veda anche PURI, I trasferimenti liberali, cit., p. 159; MONTELEONE, Il nodo delle liberalità indirette, in AA.VV., L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme, Milano, 2001, p. 331. Per completezza si segnala che da ultimo, nella circolare n. 44/E del 2011 l’agenzia delle entrate, seppur ai fini del riconoscimento della non debenza dell’imposta in misura fissa nel caso di donazioni entro franchigia, ha affermato la sussistenza in termini sistematici di un’alternatività tra imposta di registro e imposta sulle successioni e donazioni. 21 Si veda ad esempio il caso trattato nella ris. n. 237/E del 2002 ove il titolare di un’impresa voleva donare, attraverso più atti, l’azienda ai figli, a tal fine questi costituivano una srl che avrebbe beneficiato del ramo di azienda. Osserva l’Agenzia delle entrate che trattandosi di donazione a soggetto diverso dai familiari si applica l’imposta prevista per il corrispondente atto per l’importo eccedente la franchigia a nulla rilevando la circostanza addotta dall’istante per cui la donazione che avvenga in favore di un soggetto diverso dai familiari (la società di capitali) non osta all’applicazione della disposizione agevolativa visto che, con la circolare n. 137/E del 1997, è stato affermato che l’azienda originariamente donata a familiari pro indiviso che ha generato una società di fatto tra familiari stessi può, successivamente, essere trasformata in una forma societaria prevista dal codice civile. 22 In argomento FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in Riv. dir. trib., 2003, I, p. 816; a diverse soluzioni giunge GHINASSI, Primi appunti sulla nuova imposta sulle donazioni, in Rass. trib., 2003, p. 60; ID., L’abolizione dell’imposta sulle successioni e donazioni, in Riv. dir. trib., 2005, I, p. 315.

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ne dell’attività di impresa, i beni e le attività ceduti fossero assunti ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa23. D’altro canto veniva ribadita l’operatività delle disposizioni antielusive di cui al citato 37 bis “con riferimento alle imposte dovute in conseguenza dei trasferimenti a titolo di donazione o liberalità”24. Sembra tuttavia potersi affermare con sufficiente certezza che continuavano a rimanere escluse dai comportamenti potenzialmente elusivi anche quelle operazioni contabili che, pur nel rispetto della continuità del valore complessivamente attribuito all’azienda, potessero far assumere ai singoli beni o diritti trasferiti valori diversi da quelli di origine25. Con la soppressione del tributo le problematiche fiscali relative al passaggio generazionale sono andate pressoché dissolvendosi e le questioni di fondo legate alle liberalità indirette residuavano nei medesimi termini di cui sopra solo relativamente agli ambiti non chiaramente riconducibili ad assetti liberali. D’altro canto, proprio per superare difficoltà civilistiche in precedenza richiamate, per assicurare il “passaggio generazionale dell’impresa” dal 2001, in assenza di imposizione sulle liberalità, si è proceduto ad una serie di atti di trasferimento in ambito familiare, che tuttavia, oggi, stante la successiva evoluzione della disciplina del tributo successorio, non possiamo – quantomeno secondo l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria26 – considerare irrilevanti. Da ultimo, l’art. 2, commi 47-54, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, introdotto in sede di approvazione della legge di conversione 24 novembre 2006, n. 286, ha nuovamente istituito nel nostro ordinamento l’imposta sulle successioni e donazioni, abrogando espressamente l’art. 13 della legge del 2001 che aveva disposto la soppressione dell’imposta. Ai sensi del predetto comma 47 risultano pertanto 23

Per alcune specifiche considerazioni sul rapporto tra questa disposizione e quelle già presenti nel TUIR si rinvia all’ultimo paragrafo infra. 24 Al riguardo si osserva che la citata disposizione, a differenza della previgente, non menziona più il trasferimento mortis causa certamente perché il tributo risulta ormai soppresso, ma anche per ragioni sistematiche dovendosi ritenere abnorme una valutazione antileusiva o abusiva in relazione all’evento morte, soprattutto nel caso in cui a questo siano ricondotti dallo stesso legislatore dei regimi esclusivamente “fiscali” oggetto di opzione da parte del beneficiario. Per alcuni spunti sul tema si rinvia a MASTROIACOVO, L’economicità delle valide ragioni (note minime a margine della recente evoluzione del principio dell’abuso del diritto), in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 449. 25 Si veda BEGHIN, Il trasferimento d’azienda “mortis causa” o per atto gratuito tra vecchie e nuove disposizioni, in Corr. trib., 2002, p. 2217. 26 Nelle circolari successive alla reintroduzione del tributo l’Agenzia ha sostenuto la necessità di computare ai soli fini del calcolo dell’erosione della franchigia anche le donazioni eseguite nel periodo in cui il tributo era stato soppresso. Cfr. Circ. n. 3/E del 22 gennaio 2008 Agenzia delle Entrate e Circ. n. 48/E del 6 agosto 2007 Agenzia delle Entrate. Per un approccio critico a questa ricostruzione si rinvia a MASTROIACOVO, Il cumulo di donatum e relictum nella nuova imposta successoria, in Corr. trib., 2007, p. 1720; a conclusioni diverse giunge GHINASSI, L’istituto del coacervo nella nuova imposta sulle successioni e donazioni, in Rass. trib., 2007, p. 737.

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assoggettati ad imposizione “i trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione”27. Questa scelta legislativa, in controtendenza anche rispetto alle sollecitazioni che erano pervenute dall’Unione europea28 aveva comportato evidentemente un aggravio in termini di contribuzione fiscale anche in occasione dei passaggi generazionali delle aziende, il che appariva del tutto irragionevole proprio in considerazione della recente approvazione della disciplina sul patto di famiglia nell’ambito del codice civile. Del resto, considerato il rinvio espressamente disposto, dal comma 50 del medesimo art. 2, al testo unico dell’imposta sulle successioni e donazioni n. 346/1990 per quanto non diversamente disciplinato, con riferimento al passaggio generazionale dell’impresa restavano in vigore solo le agevolazioni, sopra evidenziate, circoscritte ai territori montani. In particolare la base imponibile dell’azienda doveva ordinariamente essere valutata ai sensi dell’art. 15, eventualmente al netto delle franchigie e tenuto conto delle relative aliquote proporzionali. Inoltre, ai fini delle imposte ipotecarie e catastali, nel caso in cui l’azienda fosse comprensiva di immobili trovavano applicazione le aliquote ordinarie nella misura del 2 e dell’1 per cento in ragione del valore degli stessi. Pertanto, appena un mese dopo l’approvazione della legge di conversione n. 286/2006, in occasione della legge Finanziaria 200729, è stato introdotto un nuovo comma all’art. 3 del citato testo unico, recante i “trasferimenti non soggetti ad imposta”, proprio al fine di agevolare il passaggio generazionale dell’azienda. La scelta di collocare l’agevolazione prevista ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni al predetto art. 3 comporta conseguentemente che, in forza del rinvio di cui agli artt. 1, comma 2, e 10, comma 3, del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347 relativo alle imposte ipotecaria e catastale, la non soggezione ad imposta operi, alle stesse condizioni, anche con riferimento a questi tributi. 27 In ordine alla portata non innovativa della disciplina del presupposto a seguito della reintroduzione del tributo si veda FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, cit., 601; si rinvia inoltre alle considerazioni di GAFFURI, sub art. 5 (D.lgs. n. 346/1990), in Commentario del codice civile, diretto da Gabrielli, a cura di Cuffaro-Delfini, Torino, ***, 2010, p. 634. 28 Si ricorda che la stessa Unione europea con la raccomandazione dell’Unione europea del 7 dicembre 1994 e la comunicazione n. 98/C 93/02 del 28 marzo 1998, ha avuto modo di sollecitare interventi normativi a livello nazionale volti ad alleggerire il carico fiscale in occasione del passaggio generazionale dell’azienda, esprimendosi criticamente, in particolare, con riferimento all’imposta sulle successioni e donazioni. 29 Art. 1, comma 78. Si ricorda che per espressa previsione di detto comma, tali disposizioni si applicano alle successioni apertesi a decorrere dal 3 ottobre 2006, nonché agli atti pubblici formati, agli atti a titolo gratuito fatti, alle scritture private autenticate e alle scritture private non autenticate presentate per la registrazione a decorrere dalla data di entrata in vigore della citata finanziaria. Pertanto mentre per i trasferimenti a causa di morte le disposizioni “correttive” sono state fatte retroagire fin alla data di presentazione del decreto-legge, per i trasferimenti per donazione o a titolo gratuito dette disposizioni hanno trovato applicazione solo de futuro.

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Più precisamente è stato previsto che non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni “i trasferimenti, effettuati anche tramite i patti di famiglia di cui agli articoli 768-bis e seguenti del codice civile a favore dei discendenti, di aziende o rami di aziende, di quote sociali e di azioni” (…) “Il beneficio si applica a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività di impresa o detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso”30. Pertanto, i beneficiari della donazione d’azienda, non sono tenuti a corrispondere l’imposta sulle successioni e donazioni, a condizione che rendano apposita dichiarazione nell’atto di donazione circa la volontà di proseguire l’attività di impresa e che, per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, proseguano effettivamente l’esercizio dell’impresa. Conformemente all’ultimo periodo del disposto normativo, si ribadisce inoltre che il mancato rispetto delle condizioni comporta la decadenza dall’esenzione e conseguentemente la debenza dell’imposta in misura ordinaria oltre al pagamento della sanzione amministrativa di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997 e i relativi interessi di mora. Ovviamente, nel caso in cui la donazione di azienda o del ramo di azienda non possa usufruire del regime di favore, per mancanza dei presupposti o per sopravvenuta decadenza o per mancata dichiarazione degli aventi diritto di volere usufruire del regime agevolato31, troveranno applicazione le disposizioni ordinarie 30 L’Agenzia, nella circ. n. 3/E del 2008 ha precisato che il patto di famiglia è riconducibile nell’ambito degli atti a titolo gratuito, in quanto da una parte, è caratterizzato dall’intento – non prettamente donativo – di prevenire liti ereditarie e lo smembramento di aziende o partecipazioni societarie ovvero l’assegnazione di tali beni a soggetti inidonei ad assicurare la continuità gestionale degli stessi; dall’altra parte, non comporta il pagamento di un corrispettivo da parte dell’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali, ma solo l’onere in capo a quest’ultimo di liquidare gli altri partecipanti al contratto, in denaro o in natura. Occorre tuttavia evidenziare che l’Agenzia ritiene che solo gli atti attributivi e non quelli “liquidativi” che compongono il patto di famiglia siano da considerarsi all’interno dell’ambito di operatività della disciplina di favore. In altri termini l’Agenzia afferma che le attribuzioni in funzione di liquidazione sono assoggettate all’imposta ordinaria sulle successioni e donazioni, riconoscendo però che le eventuali rinunzie all’attribuzione in denaro o in natura sono soggette ad imposta in misura fissa essendo non traslative e prive di contenuto patrimoniale ex art. 11 della tariffa parte prima allegata al testo unico dell’imposta di registro. 31 Ciò potrebbe verificarsi nel caso in cui al passaggio generazionale dell’azienda, così come predisposto strategicamente dall’imprenditore (inter vivos o mortis causa), non segua in effetti il passaggio generazionale “nell’impresa” in quanto i beneficiari non abbiano intenzione – fin dall’attribuzione – di voler proseguire nell’attività e preferiscano quindi accedere alla tassazione ordinaria, tenuto anche conto delle eventuali franchigie. In altri termini, nel caso in cui sussista capienza nelle franchigie (si pensi a quella ordinaria di un milione di euro in linea retta o a quella speciale di un milione e cinquecentomila euro per il soggetto portatore di handicap riconosciuto

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del testo unico dell’imposta sulle successioni e donazioni (così come rinviate dal citato comma 50). La formulazione originaria del comma 4 ter poteva prestarsi a due letture del dato normativo che portavano a risultati notevolmente diversi in ordine al novero dei soggetti beneficiari dell’agevolazione. Ed infatti, trovandosi l’espressione “a favore dei discendenti” collocata in una posizione sintatticamente non univoca (e soprattutto non autonomamente fra due virgole, ma tra due virgole relative ad un inciso) si poteva prospettare una esegesi in forza della quale riferire detta espressione ai soli trasferimenti attuati mediante patti di famiglia di cui all’art. 768 bis c.c., lasciando invece indeterminata (e dunque indifferente) la qualità del beneficiario nel caso di trasferimenti di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni posti in essere in ragione di assetti diversi da questi. Tuttavia, la successiva modifica apportata al citato comma 4-ter ad opera dell’art. 1, comma 31 della L. 24 dicembre 2007, n. 244 (legge Finanziaria 2008) ha fatto definitivamente propendere per la tesi più ampia: quella cioè che considerava genericamente esclusi da imposta i trasferimenti a favore dei discendenti. Detto comma ha infatti introdotto, dopo la parola “discendenti” quelle “e del coniuge” estendendo anche a questi il regime di favore ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. La disposizione del comma 4 ter prevede che in caso di quote sociali e azioni di soggetti di cui alle lett. a) e b) del comma 1, dell’art. 73 del TUIR (società di capitali e enti commerciali residenti nel territorio dello Stato italiano) il beneficio spetta limitatamente alle partecipazioni mediante le quali è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1, c.c. Rispetto a questa formulazione ci si è domandato, senza allo stato raggiungere una soluzione dirimente, se il riferimento alle sole società ed enti commerciali residenti dovesse essere “corretto” in via interpretativa, anche in ragione dei principi di non discriminazione che emergono dalla giurisprudenza della Corte europea, al fine di comprendere nell’esenzione anche i soggetti non residenti o se invece il dato testuale, così preciso, fosse di per sé insuperabile32.

2.1. (segue) e i confini sistematici dell’oggetto della donazione di azienda Per completezza si segnala che in occasione dell’intervento correttivo inserito nella legge finanziaria 2007, tra le altre modifiche è stato esplicitamente previsto grave ai sensi della L. n. 104/1992) i beneficiari potrebbero comunque prediligere l’applicazione della disciplina ordinaria senza rendere la prescritta dichiarazione e poter quindi poi liberamente scegliere i tempi e i modi di disporre dell’azienda pervenuta. 32 Per argomentazioni a sostegno dell’interpretazione estensiva, supportata da ragioni sistematiche tratte proprio dal diritto e dalla giurisprudenza comunitaria, si rinvia da ultimo MARZOLOCONTE, Esenti da imposta di successione i trasferimenti di partecipazioni societarie in società non residenti, in Corr. trib., 2011, p. 3002.

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che “resta comunque ferma l’esclusione dell’avviamento nella determinazione della base imponibile delle aziende, delle azioni, delle quote sociali”33. La disposizione è stata collocata in modo piuttosto asistematico dopo il comma 1 dell’art. 8 del testo unico sulle successioni e donazioni relativo alla base imponibile, mentre doveva più propriamente – a nostro avviso – essere introdotta al successivo art. 12, relativo ai beni non compresi nell’attivo ereditario o, eventualmente, all’art. 15 concernente la valorizzazione delle aziende. Si ricorda, tra l’altro, che all’irrilevanza dell’avviamento si era pervenuti con la modifica legislativa del 2000, che era stata in tal senso conformemente interpretata dalla stessa Amministrazione finanziaria34. La disposizione assume particolare interesse per tutte quelle imprese di servizi o della new economy, in cui non sussistono magazzino o impianti di notevole rilievo35. Come è noto, l’avviamento costituisce una qualità dell’azienda36, intesa ai sensi dell’art. 2555 c.c., e in occasione di una donazione potrebbe essere opportuno, pur nell’irrilevanza ai fini fiscali, accertare la volontà del disponente di trasferire, unitamente agli altri beni anche un valore di avviamento, probabilmente inteso in senso oggettivo37. Questa affermazione non sembra comunque essere posta in dubbio della recente interpretazione dell’Agenzia delle entrate38 circa 33

Cfr. MASTROIACOVO, Art. 8 (D.lgs. n. 346/1990), in Commentario del codice civile, diretto da Gabrielli, a cura di Cuffaro-Delfini, Torino, ***, 2010, p. 677. 34 In effetti, come già rilevato, l’esclusione dell’avviamento dalla determinazione dei beni e dei diritti che compongono l’azienda era stata prevista dalla L. n. 342/2000 mediante l’abrogazione dell’inciso “compreso l’avviamento” appunto dall’art. 15. Cfr. circ. 22 gennaio 2008, n. 3/E ove l’Agenzia ha precisato che questa soluzione era già desumibile a seguito delle predette modifiche. 35 Anche nella prospettiva sempre più attuale dell’impresa senza azienda sembra doversi escludere che si possa assistere ad una cessione di azienda (o anche di ramo di azienda) costituita dal solo avviamento. Cfr. Trib. Cagliari, 20 maggio 2003, in Riv. giur. sarda, 2004, p. 119. 36 Osserva LUPI, L’avviamento è proprio un bene come tutti gli altri?, in Dialoghi trib., n. 4/2011, che “si tratta però di una qualità dell’azienda rilevata in occasione di un comportamento dell’impresa o della società che la acquisisce. Dove l’iscrizione dell’avviamento in bilancio spiega ai soci della società acquirente per quale motivo è stata riconosciuta all’alienante una contropartita, in azioni o in denaro, maggiore del valore reale dei beni facenti parte dell’azienda. L’iscrizione dell’avviamento serve proprio a far capire ai soci perché si è «pagata» un’organizzazione aziendale più di quanto valgano i singoli elementi che la compongono”. 37 Osserva AULETTA, Avviamento commerciale, in Enc. giur., IV, 1988, p. 2, che l’avviamento oggettivo, a differenza di quello soggettivo non è legato alla persona dell’imprenditore. In una prospettiva tutta fiscale STEVANATO, Le liberalità tra vivi nella riforma, cit., aveva osservato, già in occasione della riforma del 2000, che “il valore dell’avviamento delle aziende donate o cadute in successione non rileva più ai fini del tributo successorio, per una scelta di politica tributaria probabilmente da ricondurre all’idea che, essendo l’avviamento una qualità dell’azienda piuttosto evanescente, in quanto fortemente collegata alle capacità dell’imprenditore, si sarebbe altrimenti esercitato un prelievo su un arricchimento soltanto potenziale; inoltre non è raro che alla formazione dell’avviamento abbiano contribuito gli eredi stessi”. 38 Circ. n.8/E del 2010. In particolare l’Agenzia precisa che “considerato che il valore dell’“asset”

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l’intrasmissibilità dell’avviamento in occasione delle operazioni di conferimento “neutrale” a prescindere dalla scelta negoziale formulata dal dante causa; non sembra, a nostro avviso, che tale conclusione, probabilmente dettata da esigenze antielusive, possa ritenersi applicabile anche ad assetti “realizzativi”, quali la cessione e la donazione di azienda. Se, infatti, è vero che l’avviamento non si trasferisce in senso tecnico, ma concorre al valore dell’organizzazione aziendale nella sua attualità (ovverosia una volta trasferita) esso costituisce certamente una componente determinante sia ai fini dell’imposizione diretta39, che indiretta40 nella successione dell’azienda. Questa precisazione in ordine all’avviamento apre la strada ad una riflessione di carattere generale su cosa costituisca o possa costituire oggetto della donazione di azienda secondo le regole del diritto comune e quali siano le relative implicazioni dal punto di vista fiscale. Prescindendo in questa sede dall’affrontare il tema, quanto mai classico in letteratura giuridica, della nozione di azienda, nell’alternativa possibile tra concezione unitaria e concezione atomistica, dal dettato dell’art. 2555 del codice civile si deve constatare che il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa costituisce l’azienda e quindi, per quanto qui interessa, l’oggetto della donazione sarà costituito da beni e diritti41 strumentalmente organizzati per l’esercizio dell’attività di impresa42 e comporta la successione anche avviamento non è soggetto di trasferimento (ma viene stornato dalla contabilità del soggetto conferente in conseguenza della perdita di valore scaturente dalla “dismissione” del compendi aziendale di riferimento), si ritiene che tale posta contabile debba essere esclusa da concetto di azienda conferita, così come definita dal citato art. 176, comma 1, del TUIR. Ciò anche nella ipotesi in cui, sotto il profilo contabile, il valore dell’avviamento sia incluso nel valore delle attività dismesse ai fini della quantificazione dell’utile o della perdita da conferimento. Pertanto, sotto il profilo fiscale, il valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita equivale alla somma algebrica dei valori fiscali di tutti gli elementi patrimoniali trasferiti, escluso il valore fiscale (che resta in capo al soggetto conferente) dell’asset avviamento riferibile al compendio aziendale trasferito”. 39 L’art. 86 del TUIR, ad esempio, prevede espressamente che l’avviamento concorra alla determinazione della plusvalenza imponibile. 40 Si ricorda infatti che il riferimento al valore dell’avviamento è invece ancora presente nell’imposta di registro per ciò che concerne i trasferimenti di aziende a titolo oneroso (art. 51, comma 4 del D.P.R. n. 131/1986). 41 Evidentemente il riferimento è all’art. 810 c.c., ferma restando la diversa rilevanza del richiamo, in forza delle diverse concezioni dell’azienda sopra richiamate. 42 La dottrina ha precisato che per esservi azienda è necessario l’elemento dell’organizzazione dei beni, non invece quello della proprietà degli stessi, essendo sufficiente un titolo giuridico in base al quale l’imprenditore ne possa disporre; anzi, a ben vedere, l’azienda può concretarsi anche in beni dei quali l’imprenditore dispone senza un valido titolo (ad es. res furtivae o beni illegittimamente sfruttati), salva comunque l’applicazione della disciplina di diritto comune sull’acquisto dei beni a titolo derivativo. Cfr. in termini generali SPADA, Lezioni sull’azienda, in AA.VV., L’impresa, Milano, 1985, p. 51. In particolare ci si potrebbe interrogare su rapporto tra la disciplina della cessione di azienda

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dei rapporti sui quali si fonda il diritto di sfruttamento dei beni aziendali. Non pare in dubbio, in effetti, quanto meno nella dottrina di diritto commerciale, che alla donazione di azienda si applichino le disposizioni previste per la cessione di azienda agli artt. 2558 e seguenti del codice civile relative alla successione nei contratti, nei crediti e nei debiti dell’azienda ceduta. Tuttavia, una recente giurisprudenza di legittimità43 in tema di cessione onerosa dell’azienda e circolazione di beni e di contratti ad essa relativi ha escluso, seppur con riferimento ad una ipotesi per certi versi peculiare, l’inscindibilità dell’oggetto della cessione evidenziando come sia nella disponibilità dei contraenti stabilire ciò che venga o meno trasferito in occasione di un negozio giuridico, seppur concernente l’azienda. In altri termini la Suprema corte ha concluso per la tassazione distinta dei singoli oggetti negoziali (in particolare i contratti) disconoscendo una tassazione unitaria del negozio agli effetti dell’imposizione del registro. Queste argomentazioni risentono probabilmente di ragioni antielusive, ma, appare evidente che in una prospettiva diversa, volta ad avvalorare il nesso funzionale tra il singolo elemento aziendale e l’impresa, esse appaiono eccessivamente rigide, incapaci di cogliere che ragionevolmente solo il contratto non funzionale all’esercizio dell’impresa dovrebbe essere considerato autonoe la previsione dell’art. 771 del codice civile sulla donazione di beni futuri (ovvero non presenti nel patrimonio del donante), ciò al fine di individuare, in questa ipotesi, non tanto una nullità del negozio, quanto un effetto da verificare in concreto (o reale o obbligatorio) che incide sull’entità dell’arricchimento esito della donazione (rilevante anche agli effetti fiscali). Si rinvia a D’AURIA, La donazione di beni altrui. Sul concetto di titolo astrattamente idoneo e di liberalità, in Giur. it., 2001, p. 1596. 43 Il riferimento è alla Cass. n. 10180/2009 che, anche sulla scorta di precedente giurisprudenza “ha escluso che, sulla qualificazione del nesso di necessaria derivazione della cessione delle locazioni dalla cessione di azienda, potessero influire la L. n. 19 del 1963 e l’art. 2558 c.c. sia perché entrambe si limitano a svincolare il transito del contratto di locazione dei locali aziendali dal consenso del locatore ceduto, sia perché, quanto all’art. 2558 c.c., l’effetto naturale del negozio di trasferimento d’azienda, consistente ella successione ex lege nei contratti, non è “necessario”, potendo essere escluso dalla diversa pattuizione delle parti”. Pertanto, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro la suprema corte ha ribadito che l’art. 21 del testo unico contiene al comma 1 una regola generale, secondo la quale quando in un solo documento è racchiusa una pluralità di disposizioni, l’imposta di registro si applica distintamente a ciascuna di esse; e al secondo comma un’eccezione per il caso in cui le diverse disposizioni derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre. “Tale eccezione, necessariamente di stretta interpretazione, ricorre solo allorquando è la volontà della legge o l’intrinseca natura delle diverse disposizioni a determinare tra esse un rapporto di connessione oggettiva, necessaria e inscindibile, e non anche quando quel rapporto trovi origine nella volontà delle parti. Un rapporto di connessione di quel genere non può cogliersi nella relazione pur esistente tra più “disposizioni” aventi diversa funzione, e collegate soltanto per volontà delle parti, come nel caso di atto di cessione di azienda e di contestuale clausola espressa di cessione dei contratti di locazione degli immobili in cui si svolge l’attività d’impresa”. Per un esame critico di questa giurisprudenza si rinvia a TASSANI, Cessione onerosa di beni e contratti d’impresa nell’imposizione indiretta, in Rass. trib., 2009, p. 1673.

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mamente agli effetti della valutazione della capacità contributiva espressa dalla fattispecie cessione di azienda (se e in quanto essa assume rilievo proprio in ragione del predetto nesso)44. Quanto sopra evidenziato con riferimento ad assetti onerosi sollecita una riflessione con riferimento alla donazione di azienda. Più precisamente, se dovessimo ritenere fondata l’argomentazione della Cassazione in ordine alla non inscindibilità dell’oggetto della cessione di azienda in forza della volontà negoziale, a maggior ragione questo dovrebbe avere conseguenze agli effetti della verifica dello spirito di liberalità. Tuttavia questa interpretazione comporterebbe l’irragionevole conseguenza di determinare ambiti oggettivi – comunque funzionali all’azienda – al di fuori dell’operatività della disciplina agevolativa prevista al fine di assicurare il passaggio generazionale dell’azienda. Più precisamente se la donazione di azienda non determinasse, agli effetti fiscali, la successione in alcuni contratti aziendali, ciò significherebbe che per trasferire anche queste posizioni giuridiche sarebbe necessario prevedere autonome pattuizioni che, seppure a titolo di liberalità saranno al di fuori del perimetro di cui all’art. 3, comma 4 ter, in quanto non integranti in sé la cessione dell’azienda o del ramo di azienda. L’irragionevolezza di questa interpretazione starebbe proprio, a nostro avviso, nel fatto di “disinnescare” una disciplina di favore finalizzata appunto a premiare il passaggio generazionale dell’azienda, intesa quale realtà individuata in ragione del nesso funzionale tra beni/contratti e organizzazione di impresa.

3. L’interpretazione della disciplina di favore sul passaggio generazionale secondo la prassi dell’Agenzia delle entrate Il disposto dell’art. 3, comma 4 ter è stato oggetto di diverse richieste di interpello da parte dei contribuenti soprattutto con riferimento a quelle operazioni complesse finalizzate ad una sistemazione aziendale con ripercussioni anche ai fini delle imposte sui redditi45. 44 “La imposizione non potrà essere frazionata e la fattispecie negoziale sarà considerata fiscalmente quale cessione di azienda, indipendentemente dal fatto che la cessione del contratto sia stata, nel negozio giuridico, espressamente oppure solo implicitamente prevista”, così TASSANI, ult. op. cit., p. 1675. Ancora nel contesto della cessione onerosa dell’azienda, è inoltre diversa l’ipotesi in cui un contratto d’impresa preveda espressamente l’incedibilità dello stesso senza il conseno del contraente ceduto derogando all’art. 2558 c.c. (si pensi al caso del leasing immobiliare); in queste ipotesi la cessione d’azienda non produrrà effetti relativamente a questa “componente aziendale” fino a che non intervenga il predetto consenso con relative ripercussioni in termini fiscali (cfr. Nota Ag. Entrate 17 aprile 2014 in risposta a quesito Assilea). 45 Per alcuni cenni in ordine alla diversa “filosofia” alla base della disciplina dell’imposta sui redditi quanto al passaggio generazionale si rinvia all’ultimo paragrafo infra.

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Innanzitutto con la risposta ad interpello ris. 341/E del 2007 l’Agenzia46, ha precisato che alla donazione di azienda a favore dei figli con contestuale regolarizzazione della società di fatto instauratasi tra i donatari si applica il regime di esenzione dalla disciplina dell’imposta sulle successioni e donazioni disposto dal citato art. 3, comma 4 ter47. Con la stessa risposta ad interpello si è chiarito che non si ha decadenza dall’agevolazione in esame qualora il beneficiario conferisca l’azienda o la partecipazione in un’altra società. Ciò in quanto il conferimento, ai fini del mantenimento dell’agevolazione in parola, è assimilabile al proseguimento dell’esercizio dell’attività di impresa. In altri termini, il conferimento di azienda operato prima del decorso dei cinque anni dalla donazione o successione, fa sì che la condizione della prosecuzione dell’attività di impresa sia da considerarsi assolta48. Tuttavia, occorre distinguere a seconda che l’azienda sia conferita in società di persone o in società di capitali. Nel primo caso il conferimento non determina decadenza “indipendentemente dal valore della partecipazione ricevuta”, nel secondo caso invece occorre verificare che “le azioni o quote assegnategli (al beneficiario) a fronte del conferimento consentano di conseguire o integrare il controllo ai sensi dell’art. 2359, primo comma, n. 1), del codice civile (maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria)”. Ed infatti nell’ipotesi di conferimento in società di capitali in cui la quota o le azioni ricevute non consentano di ottenere il suddetto controllo, “si decade dal beneficio e torna quindi applicabile l’imposta sulle successioni e donazioni con i relativi interessi e sanzioni”49. Que46 Si rinvia a MASTROIACOVO, Non è soggetto ad imposizione il passaggio generazionale dell’azienda, in Corr. trib., 2008, p. 326. 47 Per effetto del rinvio espresso contenuto nell’art. 1, comma 2, per l’imposta ipotecaria e nell’art. 10, comma 3, per l’imposta catastale, le formalità e le volture ai trasferimenti relativi all’art. 3 del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 non sono soggette ad imposta. Trattandosi infatti di un rinvio generico ai trasferimenti di cui al menzionato articolo (ad eccezione della verifica delle peculiari condizioni previste nel comma 3 per i trasferimenti a favore di determinati enti pubblici, fondazioni o associazioni riconosciute) non vi è ragione di dubitare dell’applicabilità del beneficio anche alle fattispecie disciplinate dal nuovo comma 4 ter. 48 Parimenti, deve intendersi assolto il requisito della prosecuzione dell’attività d’impresa nell’ipotesi di trasformazione, fusione o scissione che diano origine a società di persone ovvero incidano sulle stesse, a prescindere dal valore della quota di partecipazione assegnata al socio o ancora di trasformazione, fusione o scissione che diano origine o incidano su società di capitali, purché il socio mantenga o integri, nella società di capitali, una partecipazione di controllo ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1), del codice civile (cfr. in questo senso circ. n. 3/E del 2008). 49 In questi termini, consequenziali alla condivisibile posizione dell’Agenzia delle entrate nella citata ris. n. 341/E del 2007, la circolare Assonime n. 77 del 6 dicembre 2007. Al riguardo l’Assonime ricorda anche le risposte al Telefisco del 29 gennaio 2007, parzialmente recepite nella circolare dell’Agenzia delle entrate 16 febbraio 2007, n. 11/E, in cui l’amministrazione aveva precisato che la verifica del controllo va effettuata con riferimento alla proprietà della quota o delle azioni acquistata pro indiviso.

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ste considerazioni però hanno risolto alcuni dubbi, aprendo anzi strade prima ritenute più incerte. In particolare, all’interrogativo se il beneficio debba intendersi riservato “limitatamente”50 alla parte delle quote o azioni con cui si acquista o integra il controllo o invece all’intero trasferimento in occasione del quale si acquista o integra il controllo, proprio argomentando dalla risposta ad interpello sembra desumibile qualche argomentazione a sostegno della seconda e più favorevole ipotesi. Inoltre, pur apparendo compatibile la riserva di usufrutto con la funzione del patto di famiglia così come disciplinato dal codice civile51, sembra doversi escludere che l’agevolazione possa trovare applicazione con riferimento ad assetti che non implichino il presupposto dell’acquisizione del controllo. Ed infatti, ad esempio, è evidente che il trasferimento di una partecipazione di una spa con riserva di usufrutto vitalizio, con diritto di voto a favore del disponente usufruttuario, non è suscettibile in sé di far acquisire o integrare il controllo ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1 c.c. (ovverosia mediante la maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria) al beneficiario e pertanto non integra il presupposto dell’agevolazione di cui al comma 4 ter. Successivamente, in occasione della circ. n. 3/E del 2008 l’Agenzia ha precisato che l’agevolazione essendo finalizzata appunto a favorire il passaggio generazionale delle aziende di famiglia, non può considerarsi applicabile al trasferimento di quei titoli che, per loro natura, non permettono di attuare tale passaggio quali, ad esempio, i titoli obbligazionari. Per analoghi motivi, l’esenzione non può trovare applicazione nei casi in cui beneficiario sia un soggetto societario o una persona fisica che non sia “discendente” o “coniuge” del dante causa. Ancora in relazione al tema della decadenza, nella stessa circolare è stata ammessa la decadenza parziale nel caso in cui nel quinquennio si proceda alla cessione solo di un ramo di azienda, proseguendo l’attività d’impresa relativamente alla restante parte dell’azienda. Quanto al profilo del computo della percentuale di controllo societario utile ai fini dell’applicabilità dell’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni nel caso di trasferimento di azioni o quote, nella ris. 75/E del 2010 l’Agenzia delle entrate52 ha chiarito che assumono rilievo, in aggiunta ai diritti di voto eserci50 Art. 3, comma 4 ter, secondo periodo; cfr. ZIZZO, I trasferimenti di azienda e di partecipazioni sociali per successione e donazione, in Corr. trib., 2007, p. 1351. 51 La compatibilità della riserva di usufrutto con la funzione del patto di famiglia è avvalorata dalla considerazione che “il trapasso generazionale dell’impresa viene garantito dal fatto che il beneficiario, ricevendo la nuda proprietà, acquista un diritto reale idoneo a riespandersi nella piena proprietà al momento dell’estinzione dell’usufrutto”, così PETRELLI, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. not., 2006, p. 420. 52 Per un commento alla risoluzione si rinvia MASTROIACOVO, La partecipazione indiretta di quote societarie integra il “controllo utile” per l’esenzione, in Corr. trib., 2010, p. 2889.

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tabili direttamente dal soggetto beneficiario che detiene le partecipazioni, anche quelli che tale soggetto è in grado di esercitare per tramite di società controllate. L’Agenzia puntualizza che, relativamente alle partecipazioni detenute in via indiretta, rilevano, ai fini dell’applicazione del predetto beneficio, esclusivamente quelle detenute per il tramite di società che il soggetto beneficiario controlla ai sensi della citata disposizione del codice civile. Senza dubbio, un’interpretazione sistematica della nozione di controllo richiamata nel comma 4 ter dell’art. 3 del D.Lgs. n. 346/1990, al di là dei rinvii testuali al solo art. 2359, comma 1, n. 1, c.c., non può prescindere dalla previsione del secondo comma della medesima disposizione, ai sensi del quale, ai fini del controllo, sono computati anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta. Una diversa soluzione sul piano esegetico porterebbe a contraddire la ratio del beneficio, in sé essenzialmente finalizzata a rendere non gravosa (quanto all’imposizione indiretta) la successione, in termini di continuità, nella gestione di aziende di famiglia nel momento del passaggio generazionale delle stesse. La dichiarazione di impegno deve comunque essere resa esclusivamente dal soggetto avente causa del trasferimento – anche nell’ipotesi in cui il controllo di diritto di cui al citato art. 2359, comma 1, n. 1, c.c., venga integrato indirettamente – in quanto solo tale soggetto risulta tenuto al pagamento dell’imposta e deve rispondere dell’eventuale decadenza dall’agevolazione fruita. In questa occasione l’Agenzia delle entrate ha ribadito quanto già, innovativamente, affermato nella circolare 16 febbraio 2007, n. 11/E53, in merito all’applicabilità del predetto beneficio al trasferimento della partecipazione di controllo nel caso di comunione ereditaria. Più precisamente era stato affermato, in via interpretativa, che, nell’ipotesi in cui la partecipazione di controllo posseduta dal dante causa sia frazionata tra più discendenti, l’agevolazione spetta esclusivamente per l’attribuzione che consenta l’acquisizione o integrazione del controllo, mentre essa “spetta sempre (…) per il trasferimento della partecipazione di controllo a favore di più discendenti in comproprietà (art. 2347 c.c.)”. La medesima posizione era stata successivamente ribadita, nella circolare 22 gennaio 2008, n. 3/E54, argomentando ancora sulla base dell’art. 2347 c.c. dal quale si desume che 53

Par. 12.1. Nella circolare l’Agenzia riportava tra l’altro, in via esemplificativa, alcune fattispecie: “1) Tizio possiede una partecipazione pari al 60% del capitale sociale di Alfa s.p.a., che intende donare separatamente ed in parti uguali a ciascuno dei suoi tre figli. In tal caso non si applica l’agevolazione di cui all’art. 3, comma 4-ter, del T.U.S., in quanto nessun donatario potrebbe esercitare il controllo di cui all’art. 2359, comma 1, n. 1, c.c.; 2) l’agevolazione in parola si applica, invece, qualora, nell’esempio di cui sopra, Tizio doni l’intero pacchetto azionario posseduto ai suoi tre figli in comproprietà tra loro. In tal caso, in base all’art. 2347 c.c., i diritti dei comproprietari sono esercitati da un rappresentante comune, il quale disporrà della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria; 54

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i diritti dei comproprietari sono esercitati da un rappresentante comune, che disporrà della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria. In altri termini, i beneficiari del trasferimento pro indiviso delle partecipazioni saranno in grado di esercitare il controllo della società “per il tramite del rappresentante comune”55. Questa interpretazione, apparentemente favorevole ai contribuenti che succedono in comunione al trasferimento della partecipazione, non appare del tutto convincente sia in punto di diritto, sia per le conseguenze pregiudizievoli che viene a determinare con riferimento – ad esempio – al soggetto che direttamente o indirettamente sia titolare di un pacchetto azionario di maggioranza seppur la relativa legittimazione all’assemblea, quanto all’esercizio del diritto di voto, sia esercitata da un rappresentante. In primo luogo appare opportuno precisare che, se si accetta di verificare il controllo societario in ragione della consistenza della partecipazione pro indiviso in capo alla comunione – senza che abbia rilievo la titolarità (e la consistenza) delle quote ideali dei singoli –, la sussistenza o meno della comunione nel quinquennio successivo diviene elemento determinante per il mantenimento del beneficio. Ragionevolmente, infatti, si dovrebbe considerare lo scioglimento della comunione causa di decadenza dal beneficio. Sorge però una serie di dubbi sulla rispondenza alla ratio dell’agevolazione di un’interpretazione che consideri inscindibilmente le posizioni di più soggetti in ragione della volontà espressa tramite un rappresentante comune, soprattutto laddove all’interno della comunione le posizioni dei singoli non siano tra loro omogenee (ipotesi piuttosto frequente nel diritto successorio nel caso di coniuge che succeda insieme a più discendenti o ad altri soggetti)56. Innanzitutto, posto che il sistema dell’imposta sulle successioni è incentrato sulla coobbligazione solidale dei soggetti passivi del tributo e che la dichiarazione può essere presentata anche da un solo erede, potrebbe sorgere l’interrogativo su chi sia tenuto a rendere la c.d. dichiarazione di impegno. La disposizione di cui all’art. 3, comma 4 ter, del D.Lgs. n. 346/1990 espressamente si riferisce agli “aventi causa” il che potrebbe condurre ad un’interpretazione per cui detta dichiarazione deve essere resa da tutti i comunisti, al fine di vincolarli nel quinquennio successivo al mantenimento della comunione e, pertanto, eventualmente imputare a ciascuno la sanzione conseguente alla decadenza per il mancato rispetto dell’impegno assunto57. 3) Tizio detiene una partecipazione pari al 10% del capitale sociale di Alfa s.n.c. che dona, in parti uguali e separate, ai suoi tre figli. In tal caso, i trasferimenti non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni”. 55 Così, testualmente, nella risoluzione n. 75/E del 2010, cit. 56 Sorge ad esempio l’interrogativo se comporti o meno decadenza lo scioglimento della comunione nel caso in cui uno dei comunisti (sommando una partecipazione indiretta) continui a mantenere il controllo della società. 57 D’altro canto, l’agevolazione in parola opera solo in presenza di detta dichiarazione, più

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Inoltre, se la comunione ereditaria diviene parametro su cui commisurare i requisiti per l’applicabilità del beneficio si dovrebbe sempre escludere la possibilità di accesso allo stesso in tutte le ipotesi in cui tra i comunisti vi sia un soggetto diverso da quelli contemplati dal comma 4 ter dell’art. 3 del D.Lgs. n. 346/1990 ovverosia dal coniuge e dai discendenti, come nell’ipotesi disciplinata dall’art. 582 c.c., in cui tra l’altro il coniuge si trova in una posizione maggioritaria rispetto agli altri quanto al profilo della titolarità delle quote58. La comunione potrà – come brevemente accennato in nota – risultare più o meno articolata al suo interno, ma ben potrebbero manifestarsi posizioni di maggioranza del soggetto cui l’agevolazione astrattamente spetta, sia in relazione a soggetti menzionati dal comma 4 ter dell’art. 3 del D.Lgs. n. 346/1990 (ad esempio coniuge e più discendenti), sia in relazione a soggetti esclusi (ad esempio coniuge e fratelli o ascendenti). Proprio perché è ragionevole e conforme alla ratio della norma che la nozione di controllo sia ancorata all’esercizio di voto nell’assemblea ordinaria sembra opportuno non prescindere dalla titolarità delle azioni o quote dei singoli comunisti e dai riflessi che essa può determinare anche ai fini dell’esercizio del diritto di voto da parte del rappresentante comune59-60. precisamente, il beneficiario che non è intenzionato a mantenere la partecipazione ben può invocare l’applicazione del regime ordinario, avvalendosi, ad esempio, dell’eventuale franchigia prevista dalla legge, con l’effetto analogo all’applicazione del regime agevolativo di non dover corrispondere il tributo, ma con il vantaggio di non essere soggetto a limitazioni di sorta quanto all’autonomia dispositiva sui medesimi beni. 58 Sorge allora il dubbio, proprio alla luce della risoluzione in esame e all’apertura che correttamente l’Agenzia ha operato con riferimento all’ipotesi del controllo indiretto della società, sulla possibile ratio di un’esclusione dal regime agevolativo di cui al comma 4 ter del coniuge che, in mancanza di testamento, si trovi a succedere insieme ad altri (ad esempio non discendenti) nella proprietà di una partecipazione (di cui detiene una quota predominante rispetto agli altri comunisti) nel caso in cui questa posizione si vada ad aggiungere ad una partecipazione indiretta già di sua proprietà, determinandone così una posizione di oggettivo controllo societario. Evidentemente, nell’ambito della comproprietà il coniuge in possesso di una partecipazione di maggioranza avrà il potere di determinare la volontà del rappresentante comune ex 2347 c.c. (ovviamente nei limiti dei diritti dei consociati e dell’interesse comune). Difficilmente si potrebbe negare, in questo caso, che il controllo societario sia stato comunque raggiunto dal coniuge beneficiario in occasione della successione a causa di morte e che esso si esprima effettivamente anche nelle deliberazioni assunte nell’assemblea ordinaria. Tuttavia sembra che, sulla scorta delle affermazioni contenute nella risoluzione in commento, si debba escludere, nell’ipotesi prospettata, la possibilità di applicare il beneficio in ragione della divaricazione tra titolarità dell’azione e legittimazione al voto in assemblea ordinaria. 59 In effetti, l’art. 2347 c.c., al comma 1, dispone che le azioni sono indivisibili e che, nel caso di comproprietà, i diritti devono essere esercitati da un rappresentante comune, limitandosi così a sancire una scissione tra la legittimazione in assemblea (del rappresentante comune) e la titolarità (dei comunisti) relativamente al titolo. Il controllo, o meglio il diritto di voto relativo alla partecipazione di controllo, viene esercitato tramite un rappresentante che però non ha autonomia gestionale (né, evidentemente, è soggetto passivo dell’imposta), ma è un esecutore della volontà,

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Da ultimo si segnala che nella ris. n. 110/E del 2009 ha ribadito la posizione già incidentalmente sostenuta nella circ. n. 48/E del 2007 secondo la quale anche nel caso di trasferimento dell’azienda in trust la costituzione del vincolo di destinazione, qualora sia strumentale alla finalità liberale del passaggio generazionale ai discendenti o al coniuge del disponente, potrà godere dell’esenzione purché siano soddisfatte le condizioni di cui al comma 4 ter. Pertanto il trust dovrà avere una durata non inferiore a cinque anni a decorrere dalla stipula dell’atto che comporta la separazione patrimoniale quanto alla partecipazione di controllo o all’azienda; inoltre il trust non dovrà essere discrezionale o revocabile, non potendosi considerare soddisfatte le condizioni di legge se i beneficiari finali dell’azienda o delle partecipazioni trasferite in trust possono essere modificati, già nel quinquennio, dal disponente o dal trustee. In verità la dottrina ha commentato criticamente quest’ultima precisazione dell’Agenzia apparsa eccessivamente rigida rispetto alle finalità del trust soprattutto quando, proprio per assicurare l’efficienza della segregazione, siano previste clausole volte a valutare l’idoneità del beneficiario61. È stato inoltre correttamente osservato che se nell’interpretazione dell’Agenzia il trust è concepito fin dalla sua costituzione come dinamico e “trasparente”, tale da essere giustificare immediatamente un’imposizione proporzionale senza rinviare questa valutazione allo sviluppo della vicenda nell’eventuale effettiva devoluzione, tale trasparenza dovrebbe parimenti trovare un riscontro anche quanto all’applicabilità delle agevolazioni62.

concorde o prevalente, dei comunisti, titolari delle azioni secondo le relative quote ideali. Non sussistendo infatti ragioni per ritenere derogato il principio della votazione sulla base delle rispettive quote di proprietà (art. 1105 c.c.) il rappresentante sarà tenuto a esprimere in assemblea la determinazione della maggioranza dei comunisti, salvo il limite implicito del rispetto dei diritti dei singoli e dell’interesse comune. Per completezza si ricorda che il comma 5 dell’art. 2478 c.c. analogamente dispone che, nel caso di comproprietà di una partecipazione, i diritti dei comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante comune nominato secondo le modalità previste dagli artt. 1105 e 1106 c.c. 60 Queste brevi riflessioni critiche, se ritenute fondate, andrebbero poi ulteriormente sviluppate quanto all’imposizione diretta, nel cui ambito la riferibilità della partecipazione di controllo alla comunione ereditaria sembra trovare numerosi ostacoli, a livello sistematico, in considerazione della natura personale del tributo. Cfr., seppur in tema di comunione legale, risoluzione 30 aprile 2002, n. 131/E. 61 POLI, Come si inserisce il trust nelle agevolazioni per le successioni d’azienda?, in Dialoghi trib., n. 5, 2009. 62 LUPI-STEVANATO, “Trasparenza” del trust ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni: due pesi e due misure?, in Dialoghi trib., n. 5, 2009.

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4. Una scelta differente ai fini delle imposte sui redditi: l’irrilevanza della prossimità parentale Nell’evoluzione ai fini delle imposte dirette si riscontra invece un’evoluzione legislativa in senso inverso: da una rilevanza del rapporto di parentela all’irrilevanza dello stesso a fronte della mera continuazione dell’attività. Al riguardo è bene ricordare sinteticamente le modifiche al dato normativo. Ed infatti per effetto dell’art. 3, comma 25, della L. 23 dicembre 1996, n. 662 venne introdotta all’art. 54, comma 5 (a seguito dell’introduzione dell’IRES divenuto appunto l’art. 58, comma 1) la previsione per cui il trasferimento dell’azienda per causa di morte o per atto gratuito “ai familiari” non costituisce realizzo di plusvalenze dell’azienda stessa. Successivamente, con il secondo comma dell’art. 16 della L. 18 ottobre 2001, n. 383 la neutralità fiscale venne estesa anche ai casi in cui il passaggio generazionale dell’azienda coinvolgesse soggetti diversi dai familiari dell’imprenditore, fermo restando che veniva esplicitamente prevista la prosecuzione dell’attività di impresa. Il legislatore spostava progressivamente l’attenzione (e conseguentemente ampliava la fattispecie cui riferire il regime di neutralità) dal passaggio generazionale all’interno del nucleo familiare alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale in ragione di un assetto non oneroso. La parziale sovrapponibilità delle due disposizioni, aveva portato, in prima interpretazione, a concludere per un’abrogazione tacita del disposto dell’art. 54 ad opera dell’art. 16 in virtù degli ordinari criteri di successione delle norme nel tempo, in quanto, quest’ultimo, più puntuale e specifico su determinati aspetti. Tuttavia diversi Autori avevano evidenziato l’opportunità di attribuire una valenza positiva alla compresenza delle due disposizioni, ponendo l’accento proprio sul tenore casistico dell’art. 16. La dottrina prevalente sottolineava che la condizione – prevista dall’art. 54 – del trasferimento ai familiari dovesse intendersi riferita solo all’ipotesi della donazione e non anche delle successioni per causa di morte e che la condizione – prevista dall’art. 16 – della prosecuzione dell’attività avesse di per sé una funzione limitativa (non già ampliativa) della neutralità delle fattispecie di trasferimento dell’azienda e dunque dovesse intendersi riferita solo alle ipotesi della donazione ad estranei63. Al medesimo risultato interpretativo era pervenuta l’Agenzia delle entrate nella circolare 18 ottobre 2001, n. 91/E64 che, al par. 5, aveva precisato “con il comma 2 dell’art. 16 si amplia la previsione normativa già contenuta nell’art. 54, comma 5, del TUIR, al fine di stabilire il regime agevolato delle plusvalenze patrimoniali in caso di trasferimento a titolo di suc63 In questo senso SORGATO, Incondizionata irrilevanza reddituale delle donazioni di azienda e simmetrie “donante – donatario”, in Dialoghi trib., 2005, p. 1072; contra BEGHIN, Il trasferimento d’azienda “mortis causa” o per atto gratuito tra vecchie e nuove disposizioni, cit., p. 2217. 64 In Corr. trib., 2001, p. 3338, con commento di L. Alemanno e F. Ricca.

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cessione per causa di morte o di donazione dell’azienda nell’ipotesi di prosecuzione dell’attività di impresa. In tale evenienza, indipendentemente dal grado di parentela con il beneficiario, è stabilito che il trasferimento, ancorché riferibile ad un atto di liberalità, non ha effetti realizzativi ed i beni si trasferiscono al beneficiario che prosegue l’attività in regime di neutralità fiscale ai fini delle imposte sui redditi, senza quindi emersione di plusvalenze o minusvalenze fiscalmente rilevanti”. Successivamente, come accennato, a seguito del D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, introduttivo dell’IRES, il contenuto dell’art. 54 è stato riprodotto con modificazioni nel nuovo art. 58 del TUIR eliminando il riferimento ai familiari. La dottrina65 aveva ritenuto che proprio questa modifica avesse fatto venir meno la possibilità di attribuire valenza positiva alla compresenza delle due disposizioni, deducendone conseguentemente che l’art. 58 avesse implicitamente abrogato l’art. 16 in virtù della successione delle norme nel tempo. Taluno aveva addirittura affermato l’inutilità di siffatte disposizioni nella disciplina delle imposte si redditi ribadendo che la neutralità dei trasferimenti di aziende per successione mortis causa o per donazione è fisiologica. In quest’ottica il regime dell’art. 58 non è da intendersi in chiave agevolativa, ma di mera specificazione del concetto di reddito e di neutralità fiscale, senza alcuna interferenza determinata da tentativi di disciplina antielusiva da parte del legislatore tributario66. Successivamente, con l’art. 18, comma 4, del D.Lgs. 18 novembre 2005, n. 247 è stata disposta l’abrogazione dell’art. 16, risultando così sancito che l’unica norma di riferimento sul trasferimento di azienda in occasione di successione mortis causa o donazione resta quella desumibile dall’art. 58, comma 1 del TUIR. Dunque ex art. 58 il passaggio dell’azienda non dà luogo ad una plusvalenza imponibile, fermo restando che l’assunzione del bene al costo fiscalmente riconosciuto per il donante, fa sì che la plusvalenza potrà emergere, ai fini della tassazione del reddito del donatario, al momento della cessione dell’azienda nel suo complesso o dei singoli beni67. Questo sistema impositivo, riconosciuta la peculiarità del momento del passaggio generazionale dell’azienda, è volto, come noto, a rinviare la tassazione ad un tempo successivo e dunque senza che si determinino salti di imposta.

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SORGATO, op. loc. cit., p. 1071. In questi termini LUPI, Incondizionata irrilevanza reddituale delle donazioni di aziende e simmetrie “donante – donatario”, in Dialoghi trib., 2005, p. 1077. 67 Si ricorda che ai sensi dell’ultimo comma del citato art. 58 “le plusvalenze dei beni relativi all’impresa concorrono a formare il reddito anche se i beni vengono destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore o a finalità estranee all’esercizio dell’impresa”. 66

IL PATTO DI FAMIGLIA E IL PASSAGGIO GENERAZIONALE DELL’IMPRESA

di Viviana Capozzi SOMMARIO: 1. La disciplina civilistica di riferimento e la natura del contratto. – 2. Modelli impositivi applicabili al patto di famiglia, ai fini delle imposte dirette. – 2.1. Il trasferimento dell’azienda. – 2.2. Il trasferimento delle partecipazioni. – 2.3. La disciplina antielusiva. - 3. Le imposte indirette applicabili al patto di famiglia. – 3.1. Il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni. – 3.2. La liquidazione della quota spettante ai legittimari non assegnatari. – 3.3. La liquidazione dei legittimari sopravvenuti.

1. La disciplina civilistica di riferimento e la natura del contratto La L. 14 febbraio 2006, n. 55 ha introdotto, in deroga al divieto di patti successori di cui all’art. 458 c.c., un nuovo contratto tipico il patto di famiglia, caratterizzato da una normativa non priva di diverse zone d’ombra che rende difficile individuare sia l’esatta natura dell’istituto, sia alcuni elementi peculiari della fattispecie 1. Il patto di famiglia è un negozio inter vivos al quale partecipano un imprenditore (ovvero un titolare di partecipazioni societarie), uno o più dei suoi discendenti, il coniuge dell’imprenditore medesimo e «tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore». A mezzo del cennato negozio, l’imprenditore trasferisce la pro1 Cfr., fra gli altri: BUSANI, Con il nuovo istituto del patto di famiglia compensazione anche da parte di chi dona, in Guida norm., 2006, n. 13; FIETTA, Patto di famiglia in atti del convegno di studi Patti di famiglia per l’impresa tenutosi a Milano il 31 marzo, a Napoli il 12 maggio e a Palermo il 16 giugno 2006; LUPETTI, Patti di famiglia: note a prima lettura in atti del convegno di studi Patti di famiglia per l’impresa cit.; MANES, Prime considerazioni sul patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare, in Contr. e impresa, 2006, p. 550; MERLO, Il patto di famiglia in atti del convegno di studi Patti di famiglia per l’impresa cit.; MOGOROVICH, Prime riflessioni sul così detto “patto di famiglia”, in Impresa c.i., 2006, p. 221; VILLANI, Il nuovo patto di famiglia, in Prat. fisc. prof., 2006, p. 23. Ci si consenta, altresì, di rinviare anche a BAUCO – CAPOZZI, Il patto di famiglia – Profili civilistici e fiscali, Milano, 2007.

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pria azienda (o le partecipazioni di cui è titolare) ad uno o più dei suoi discendenti, i quali devono liquidare (in denaro o natura) gli altri partecipanti per un importo corrispondente alle quote di legittima che spetterebbero loro, sulla base degli artt. 536 ss. del c.c., salvo che i medesimi non vi rinuncino. Ai sensi del comma tre dell’art. 768 quater c.c., «i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti; l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li hanno sostituiti». Per l’individuazione dell’esatta portata di tale ultima disposizione, che ha suscitato un ampio dibattito dottrinale 2, è necessario rifarsi ai lavori preparatori della medesima. In particolare, la presentazione della proposta di legge n. 3870, in commento all’allora comma 4 dell’art. 734 bis (corrispondente all’attuale comma 3, art. 768 quater), così recita: «il quarto comma disciplina l’ipotesi in cui l’imprenditore effettui altre assegnazioni ai propri legittimari, nel qual caso i beni assegnati saranno imputati alle loro quote di legittima; tale imputazione si determina non solo nel caso di assegnazioni contenute nello stesso contratto, ma anche in un contratto successivo; in quest’ultimo caso, però, sono richiesti il collegamento espressamente dichiarato di tale contratto con il primo e l’intervento nel medesimo di tutti i soggetti che hanno partecipato al primo o di coloro che li sostituiscono (legittimari nel frattempo subentrati)». In sede di discussione della proposta di legge n. 3870-A, nel corso della seduta n. 661 del 25 luglio 2005, il relatore Buemi ha ribadito il medesimo concetto chiarendo che la menzionata disposizione «disciplina l’ipotesi che l’imprenditore, mediante il patto di famiglia o con successivo contratto ad esso collegato, assegni beni ad altri figli non assegnatari dell’azienda». Alla luce di quanto precede è possibile supporre che con la disposizione in esame il legislatore abbia inteso riferirsi all’ipotesi in cui, in occasione della stipula del patto di famiglia ma con apposito negozio distinto dal primo, il disponente effettui altre donazioni ai propri discendenti (con finalità incentivanti alla conclusione del patto) con vincolo per questi ultimi di imputare quanto ricevuto alla 2

Secondo MERLO (Il patto di famiglia, cit., p. 8) qui il legislatore sta qui facendo riferimento esclusivamente a quei beni che, in luogo di un pagamento in denaro, sono stati trasferiti ai legittimari dal discendente assegnatario del patto di famiglia, a titolo di liquidazione della corrispondente quota di legittima. Altra parte della dottrina, attribuendo particolare rilevanza alla necessaria imputazione a quote di legittima di questi trasferimenti, ha tratto la diversa conclusione che con il patto di famiglia sia possibile che il disponente, oltre a trasferire l’azienda o le partecipazioni ad uno o più discendenti, trasferisca altri beni ai legittimari che non hanno beneficiato del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni (BUSANI, Il Sole 24 ore del 1° febbraio 2006, p. 23; LUPETTI, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., pp. 6-7; RUSSO-DE ROSA-BIANCO, La successione d’azienda dopo le riforme, Gli speciali del sistema Frizzera n. 2 aprile 2006, cit., p. 35); orientamento che, tuttavia, comporterebbe un eccessivo ampliamento del divieto di patti successori.

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rispettiva quota di legittima. Ovviamente, tale attribuzione non sarà esclusa da eventuale collazione o azione di riduzione, esclusione che compete solo al trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni) e alla liquidazione delle quote di legittima spettanti agli altri beneficiari, effettuati mediante il patto di famiglia. Si è dell’avviso, infatti, che i beni trasferiti mediante il patto di famiglia siano definitivamente “estromessi” dall’asse ereditario e, quindi, quando il legislatore fa riferimento alla necessità di imputare alla propria quota di legittima «i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda» (comma 3, dell’art. 768 quater c.c.), intende necessariamente riferirsi alle ulteriori donazioni che il disponente voglia effettuare nei confronti degli altri legittimari, con funzione incentivante alla conclusione del patto di famiglia. Del resto, diversamente opinando, sarebbe difficile giustificare il fatto che detta “imputazione a legittima” debba essere effettuata esclusivamente dai legittimari non assegnatari e non anche dall’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni. L’art. 768 sexies c.c., al primo comma, prevede che all’apertura della successione del disponente, il coniuge e gli altri legittimari che non hanno partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del medesimo il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’art. 768 quater c.c. La dottrina civilistica, che ha offerto una prima interpretazione della normativa in commento, ha manifestato alcune perplessità in merito al significato da attribuire alla locuzione «il coniuge e gli altri legittimari che non hanno partecipato al contratto». In particolare non appare chiaro se il legislatore intenda riferirsi sia a quei soggetti che, per diverse ragioni, non sono intervenuti al patto di famiglia, sia agli eventuali legittimari sopravvenuti alla stipula del contratto; ovvero solamente a questi ultimi. A sostegno della prima interpretazione, e quindi del fatto che non tutti coloro che sono legittimari al momento della stipula del patto devono partecipare al medesimo, è stato evidenziato in dottrina che non sempre nel codice civile il termine “dovere” è utilizzato dal legislatore ad indicare la “necessità di una partecipazione volitiva”. Secondo questi interpreti, infatti, solo qualora si ritenesse il patto di famiglia qualificabile come una divisione, si potrebbe configurare siffatta doverosità, derivante non già dalle norme disciplinanti detto negozio, quanto dalle norme contenute nel codice di procedura civile in tema di litisconsorzio necessario. Ma deve escludersi siffatta ipotesi, dal momento che le norme sul patto di famiglia rinviano alla collazione e siffatto rinvio avrebbe senso solo se si trattasse di quelle divisioni che prevedono una precedente comunione, comunione che nel patto di famiglia evidentemente non c’è 3. Quanti sostengono, invece, la necessaria partecipazione di tutti i legittimari presenti al momento della stipula del patto, attribuendo particolare rilevanza ad una interpretazione letterale della 3 LA PORTA, La posizione dei legittimari sopravvenuti, cit. Similmente CACCAVALE, Divieto di patti successori, cit.

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norma in oggetto, hanno sottolineato che detto obbligo di partecipazione è di fatto inderogabile e che, quindi, il comma 1 dell’art. 768 sexies c.c. deve essere letto nel senso di fare esclusivo riferimento ai legittimari sopravvenuti alla conclusione del patto di famiglia 4. L’obbligazione di liquidare i legittimari così individuati, inoltre, ricade non solo sul discendente assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni, ma, in quanto obbligazione solidale, anche su tutti gli altri legittimari che hanno “beneficiato” del patto di famiglia ottenendo dall’assegnatario la liquidazione di un valore corrispondente alla propria quota di legittima. Tale interpretazione viene, peraltro, confermata da quanto esposto, a tal proposito, nella presentazione del disegno di legge n. 3870, secondo la quale la cennata disposizione «riconosce comunque al coniuge ed agli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto il diritto di chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal terzo comma, aumentata degli interessi legali; naturalmente tale diritto potrà essere esercitato nei confronti del solo assegnatario dell’azienda nel caso in cui non vi sia stata liquidazione in favore degli altri legittimari partecipanti al contratto, ovvero nei confronti dei (o anche dei) legittimari partecipanti che abbiano ricevuto la liquidazione di cui ai commi terzo e quarto». Nelle diverse opinioni espresse in merito alla natura e alla causa del patto di famiglia, l’unico elemento che non sembra controverso è la natura liberale del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni dal disponente all’assegnatario la quale, tuttavia, non necessariamente implica anche il titolo gratuito del trasferimento medesimo 5. Appare, viceversa, più discussa l’individuazione della causa sottesa all’atto di liquidazione delle quote di legittima spettanti ai legittimari non beneficiari dell’azienda o delle partecipazioni. In proposito sono state effettuate diverse ricostruzioni della fattispecie, i sostenitori delle c.d. “teorie unitarie” hanno sottolineato sia la funzione di anticipazione successoria ascrivibile all’istituto in esame, sia l’esistenza di un’unica causa di liberalità caratterizzante tutti i trasferimenti patrimoniali realizzati con il patto di famiglia. In linea con siffatto orien4

MERLO (Il patto di famiglia, cit., pp. 2-3 e 10-11), il quale sostiene che «Tale patto, qualora venga concluso in assenza anche di uno solo dei soggetti che sarebbero legittimari, se si aprisse la successione il giorno della stipula, si deve ritenere nullo per violazione di norma imperativa (art. 768 quater C.c.), in quanto sottratta alla disponibilità delle parti. La sanzione sopra evocata non è espressamente prevista, tuttavia, in ossequio dell’orientamento dominante, la c.d. nullità virtuale, come prevista dall’art. 1418 C.c., è sicuramente operante nel caso prospettato.» Similmente FRIEDMANN, Prime osservazioni, cit., p. 63. In senso analogo: DE MAGISTRIS-LA MANNA, I patti di famiglia: aspetti generali e disciplina fiscale, in Il Fisco, 2012, 1, p. 1930. 5 Come noto, infatti, liberalità e gratuità sono due fenomeni fra loro ben distinti: mentre, infatti, la liberalità è disposizione che mira esclusivamente a raggiungere il risultato di incrementare il patrimonio del beneficiario, la gratuità inerisce il titolo del trasferimento. Può, quindi, accadere che un negozio pur essendo a titolo gratuito, non abbia natura liberale; così è, per esempio, nel comodato gratuito.

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tamento, anche la liquidazione delle quote di legittima effettuata dal beneficiario dell’azienda agli altri legittimari che hanno partecipato al patto, integrerebbe una liberalità indiretta, posto che trova la propria causa nel trasferimento dell’azienda realizzato dal disponente 6. Sempre caratterizzata dall’individuazione di una causa unitaria, è l’interpretazione manifestata da quanti ritengono che il nuovo contratto debba semplicemente essere considerato un patto successorio dispositivo. In particolare, questi autori, facendo riferimento alla disciplina dei patti successori individuata dal diritto internazionale privato, suggeriscono di assoggettare il contratto alla lex successionis e, quindi, alle norme fiscali dettate in materia di successioni mortis causa 7. Differenti opinioni sono state manifestate da quanti non hanno avvertito la necessità di individuare una causa unitaria all’istituto in rassegna e, nella qualificazione del negozio in esame, hanno preferito valutare i singoli trasferimenti che possono realizzarsi attraverso il patto di famiglia, alla luce delle disposizioni che li caratterizzano. Seguendo questo secondo orientamento, il patto di famiglia è stato ricostruito come un negozio a causa mista: una causa di liberalità inerente il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni dal dante causa all’assegnatario e una causa solutoria che caratterizzerebbe la liquidazione delle quote di legittima effettuata dall’assegnatario nei confronti degli altri legittimari 8. A nostro avviso, al fine di individuare la natura del patto di famiglia, si deve tener conto dal carattere di liberalità del trasferimento effettuato dall’imprenditore, o dal possessore di partecipazioni, al proprio discendente. A siffatta liberalità, tuttavia, viene ricollegato l’obbligo per l’assegnatario di liquidare, in denaro o in natura, la corrispondente quota di legittima ai legittimari del disponente, ove questi non decidano di rinunziarvi in tutto o in parte. A tal proposito, è opportuno evidenziare che il diritto soggettivo del legittimario alla liquidazione della quota di legittima nasce con la conclusione del patto di famiglia, posto che, in mancanza di detto contratto, non vi sarebbe ancora nessun diritto alla legittima, dal momento che il capostipite imprenditore è ancora in vita 9; si tratta, pertanto, di un effetto legale del negozio concluso. 6

BASILAVECCHIA, Profili fiscali del Patto di famiglia, relazione al convegno Patti di famiglia per l’impresa cit.; secondo il quale, quindi, sul piano fiscale l’istituto dovrebbe essere assimilato a quello, già noto, della donazione modale. 7 MANENTE, I patti di famiglia. Profili fiscali del nuovo passaggio generazionale d’azienda, in Il Fisco, 2006, 1, p. 2951 ss. 8 MANES, Prime considerazioni sul patto di famiglia, cit., p. 550 ss.; PETRELLI, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. not., 2006, p. 455 ss. 9 Di diverso avviso quanti, come DE ROSA (Il patto di famiglia: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti formali intervento al convegno di studi I patti di famiglia per l’impresa cit.), ritengono che il patto realizzi una successione anticipata e, quindi, il diritto alla liquidazione della propria quota di legittima nascerebbe in relazione a questa successione anticipata.

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Questa prima considerazione ci consente, altresì, di anticipare una fondamentale differenza ravvisabile fra il patto di famiglia e la donazione modale: mentre il modus donativo è un elemento puramente accidentale, l’obbligazione di liquidare i discendenti non assegnatari, in quanto effetto legale del negozio concluso, è un elemento necessario della fattispecie 10. Il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni dal disponente all’assegnatario, inoltre, se dal punto di vista del disponente integra una liberalità effettuata ad uno o più dei suoi discendenti, avviene, con riferimento invece alla posizione dell’assegnatario, con un’attribuzione in parte a titolo gratuito e in parte a titolo oneroso. Nel valutare, infatti, la posizione del discendente assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni, si deve altresì tener conto del fatto che questi, a seguito del trasferimento del bene, deve corrispondere agli altri legittimari non assegnatari un valore pari alla rispettiva quota di legittima. Pertanto il trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni) per l’assegnatario è solo in parte a titolo gratuito, dovendosi riconoscere il titolo oneroso di quella quota di attribuzione corrispondente al valore liquidato dall’assegnatario dell’azienda agli altri legittimari 11. In conclusione siamo dell’avviso che, sebbene nel patto di famiglia sia ravvisabile un’unica causa negoziale di tipo liberale, sostanziandosi, dal punto di vista del disponente in una liberalità diretta nei confronti di uno o più dei suoi discendenti ed in una liberalità indiretta nei confronti degli altri legittimari liquidati dall’assegnatario, non tutte le attribuzioni con il medesimo realizzate avvengono a titolo gratuito. Per procedere alla individuazione dei profili fiscali del patto di famiglia, sarà quindi necessario valutare le singole attribuzioni, tenendo conto delle diverse posizioni soggettive coinvolte.

2. Modelli impositivi applicabili al patto di famiglia, ai fini delle imposte dirette 2.1. Il trasferimento dell’azienda Come già accennato, il trasferimento dell’azienda, da parte del disponente nei confronti dei propri discendenti, concretizza una liberalità, di conseguenza, sul piano dell’imposizione diretta, detto trasferimento va ricondotto alla disciplina di 10

PETRELLI, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. not., 2006, p. 455 ss. In via incidentale, sembra opportuno sottolineare che se per la quota di attribuzione a titolo gratuito risulta applicabile l’art. 179 lett. b) del c.c. (ai sensi del quale sono beni personali, esclusi dal regime di comunione legale tra i coniugi, anche i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione), altrettanto non avviene per quella parte di trasferimento che si è detto essere a titolo oneroso. Conseguentemente, sarà opportuno che al patto di famiglia partecipi anche il coniuge del discendente assegnatario, qualora i due siano coniugati in regime di comunione legale patrimoniale. 11

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cui all’art. 58 del TUIR, ai sensi del cui comma 1, il trasferimento di azienda, per causa di morte o per atto gratuito, non costituisce realizzo di plusvalenze e il beneficiario deve assumere detta azienda ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa. Il legislatore, infatti, per far sì che i plusvalori maturati in capo all’imprenditore emergano fiscalmente al momento del successivo trasferimento della medesima azienda, da un lato, ha previsto, per l’assegnatario, l’assunzione dei valori fiscali esistenti in capo al dante causa e, dall’altro, ha introdotto, con riferimento all’ipotesi in cui l’assegnatario non prosegua l’attività d’impresa del disponente, una nuova fattispecie di redditi diversi: quelli derivanti da cessioni poste in essere da eredi o donatari di un trasferimento gratuito d’azienda (lett. h bis, dell’art. 67 del TUIR). Con specifico riferimento a tale ultima ipotesi è stato sostenuto 12 che sul piano sistematico sarebbe risultato più razionale tassare anche queste plusvalenze in regime d’impresa «vista la loro origine imprenditoriale e la necessità di non chiudere il ciclo fiscale dei beni d’impresa senza una imposizione sui plusvalori maturati». L’inclusione di dette plusvalenze nei redditi diversi, invece, seppure apparentemente idonea a raggiungere gli stessi obbiettivi, solleva una serie di problematiche di cui il legislatore fiscale non sembra essersi fatto carico. Basti pensare al caso in cui i beni aziendali, anziché essere venduti a terzi, vengano ceduti a titolo gratuito, ovvero destinati all’autoconsumo. In tale ipotesi, in base alla normativa attualmente vigente, viene meno la possibilità di ricondurre a tassazione la fattispecie: manca una cessione a titolo oneroso (presupposto necessario per la riconduzione fra i redditi diversi) e, non essendo operante il regime d’impresa, non si applica la regola sull’autoconsumo di cui all’art. 58, comma 3, del TUIR. Inoltre, la non operatività del regime d’impresa, con riferimento alle plusvalenze in oggetto, fa sì che non si applichi alle medesime la regola delle rateizzazioni delle plusvalenze, di cui all’art. 86, comma 4, del TUIR. Le medesime, quindi, risultano soggette ad un regime impositivo penalizzante, rispetto a quello operante all’interno del regime d’impresa. La descritta neutralità fiscale, del trasferimento gratuito, tanto dell’azienda quanto delle partecipazioni, viene meno nell’ipotesi in cui il discendente rivesta la qualifica di imprenditore già prima del trasferimento. In tal caso, infatti, trova applicazione l’art. 88, comma 3, del TUIR, secondo il quale costituiscono sopravvenienze attive «i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità», salvo che il trasferimento non riguardi espressamente la sfera personale, e non l’attività imprenditoriale, del discendente. Va da sé che l’eventuale sopravvenienza attiva realizzata dal discendente assegnatario, esercente l’attività d’impresa, sarà data dall’incremento patrimoniale, determinato in 12 STEVANATO, Il nuovo regime fiscale dei trasferimenti d’azienda a titolo gratuito, in Riv. dir. trib., 1997, I, p. 374 ss.

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base al valore normale, a prescindere dai valori fiscalmente riconosciuti in capo al disponente. Come anticipato, si ritiene che mentre dal lato del disponente i trasferimenti realizzati con il patto di famiglia integrano una liberalità diretta nei confronti del discendente assegnatario e indiretta nei confronti degli altri legittimari, dal punto di vista del discendente assegnatario l’acquisto dell’azienda avviene mediante un trasferimento solo in parte a titolo gratuito. Egli, infatti, in corrispondenza all’attribuzione ricevuta è tenuto a liquidare la quota di legittima spettante agli altri legittimari non assegnatari e siffatta liquidazione rappresenterebbe un costo d’acquisto 13. In adesione a questo orientamento interpretativo, nella contabilità del discendente assegnatario, all’acquisto della quota di azienda trasferita a titolo oneroso (vale a dire quella quota corrispondente al valore liquidato ai legittimari non assegnatari) corrisponderebbe il costo sostenuto per l’acquisto della medesima (la liquidazione delle quote dei legittimari non assegnatari); costo che risulterà deducibile ai fini della determinazione della plusvalenza maturanda al momento della ulteriore cessione a terzi dell’azienda ricevuta 14. Solo incidentalmente si sottolinea che, in base alla medesima logica, quanto eventualmente liquidato ai legittimari sopravvenuti rappresenterà per il discendente assegnatario dell’azienda una sopravvenienza passiva.

2.2. Il trasferimento delle partecipazioni La cessione a titolo gratuito di partecipazioni non costituisce fattispecie imponibile in capo al disponente né configura reddito imponibile per l’assegnatario, salvo il caso in cui le partecipazioni siano detenute dal disponente in regime di impresa venendosi, in tal caso, ad integrare un’ipotesi di destinazione a finalità estranee. Gli eventuali plusvalori insiti nelle partecipazioni trasferite emergeranno fiscalmente solo al momento della successiva cessione a titolo oneroso, secondo le disposizioni di cui alle lett. c) e c-bis) dell’art. 67 del TUIR. Tale plusvalenza, inoltre, ai sensi di quanto disposto dal comma 6 dell’art. 68 del TUIR, sarà data dalla differenza tra il corrispettivo percepito all’atto della vendita ed il costo di acquisto della medesima che corrisponde al “costo del donante”. A tal proposito, è utile evidenziare che, anche per il trasferimento di parteci13 In senso contrario: BEGHIN, Il patto di famiglia tra profili strutturali e aspetti problematici, in Corr. trib., 2006, p. 3543. In particolare, secondo l’Autore, detta liquidazione non rappresenta il prezzo di acquisto dell’azienda, «in quanto l’effetto traslativo è garantito dalla stipulazione del patto, non già dal versamento della somma pagata a titolo di liquidazione.» Si tratterebbe, viceversa, di un onere pluriennale, in quanto collegato ad un programma di conservazione dell’integrità aziendale, deducibile in ragione della quota imputabile a ciascun esercizio (art. 108, comma 3, del TUIR). 14 In senso analogo: ZIZZO, I trasferimenti di azienda e partecipazioni sociali per successione o donazione, in Corr. trib., 2007, p. 1351.

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pazioni, vale quanto detto in tema di trasferimento d’azienda. Pertanto, posto che il trasferimento delle partecipazioni dal disponente al discendente assegnatario avviene con un negozio che, per questo ultimo, è solo in parte a titolo gratuito, ne discende che nel calcolo della plusvalenza derivante dalla successiva cessione a terzi a titolo oneroso delle partecipazioni ricevute si possa tener conto del valore liquidato dall’assegnatario agli altri legittimari, in quanto detto valore rappresenterebbe per il discendente assegnatario il costo di acquisto di quella parte di partecipazioni ricevute a titolo oneroso.

2.3. La disciplina antielusiva Come evidenziato da parte della dottrina, la menzione dei negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende nell’ambito dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 è, probabilmente, finalizzata a scoraggiare eventuali arbitraggi fiscali sui trasferimenti di azienda a titolo gratuito 15. In altri termini, il legislatore avrebbe inteso colpire quelle operazioni in cui il trasferimento gratuito d’azienda è finalizzato alla canalizzazione della plusvalenza su un familiare a più bassa aliquota marginale, il quale potrebbe vendere l’azienda al terzo acquirente retrocedendo il prezzo all’imprenditore disponente. Tale operazione, infatti, produrrebbe dei benefici fiscali ogni qual volta l’aggravio finanziario che sconta la plusvalenza realizzata sulla cessione a terzi, a causa della mancata possibilità di rateizzare la medesima (in quanto plusvalenza realizzata al di fuori del regime d’impresa), sia più che compensato dal differenziale negativo di aliquota esistente fra l’imprenditore disponente ed il discendente assegnatario. Viceversa, appare più incerta la possibilità di applicare la norma antielusiva per colmare la lacuna determinata dal possibile spostamento, dai redditi d’impresa ai redditi diversi, delle plusvalenze generande, posto che nell’ambito dei redditi diversi non è imponibile né l’autoconsumo dei beni aziendali né la loro cessione gratuita a terzi. Infine, vale la pena sottolineare che se, da un canto, nella stipula di un patto di famiglia è possibile ravvisare le “valide ragioni economiche” proprio nell’intento di effettuare un determinato passaggio generazionale dell’impresa, dall’altro, qualora venissero poste in essere altre operazioni straordinarie prodromiche alla stipula del patto (quale, ad esempio, la scissione dell’azienda oggetto di trasferimento), anche queste ultime si troverebbero a fare i conti con la norma antielusiva.

15 STEVANATO, Il regime fiscale dei trasferimenti gratuiti di aziende: profili problematici, in La fiscalità delle operazioni straordinarie d’impresa, a cura di Lupi-Stevanato, Milano 2002, p. 216.

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3. Le imposte indirette applicabili al patto di famiglia Sotto il profilo dell’imposizione indiretta, la prevalente dottrina tributaria è dell’avviso che il patto di famiglia possa essere assimilato alla donazione modale. Conseguentemente il trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni) da parte del disponente ad uno o più dei suoi discendenti viene, per lo più, ricondotto alle disposizioni contenute negli artt. 58, comma 1, e 56 del D.Lgs. n. 346/1990 16. Tuttavia, pur condividendo la natura liberale di detto trasferimento, ci sembra che il medesimo sia difficilmente assimilabile alla donazione modale, posto che il modus nel caso di specie non è un elemento accidentale della fattispecie, bensì necessario. Come brevemente anticipato, il cennato trasferimento d’azienda (con necessaria liquidazione degli altri legittimari a carico dell’assegnatario) sembra piuttosto integrare, dal punto di vista del disponente, una liberalità diretta nei confronti del discendente assegnatario e indiretta nei confronti degli altri legittimari non assegnatari. Ebbene, postulato il principio, immanente nel nostro ordinamento, secondo il quale nelle liberalità ciò che viene tassato è il risultato netto 17, in questa prima attribuzione sarà proprio il risultato netto della medesima (vale a dire il valore dell’azienda trasferita meno il valore delle liquidazioni effettuate a favore dei legittimari non assegnatari) a ricadere nell’ambito di applicazione dell’imposta sulle donazioni. Rilevato che, ai fini delle imposte indirette, il patto di famiglia deve essere assoggettato all’imposta sulle donazioni e successioni, appare di tutta evidenza come la corretta individuazione dei modelli impositivi applicabili sia stata complicata non solo dai descritti dubbi interpretativi in ordine alla natura e alla causa 16 Siffatta interpretazione, viene ulteriormente suffragata dai suoi sostenitori dal fatto che lo stesso disegno di legge del 2 ottobre 1997, proposto su iniziativa del senatore Pastore ed altri, anziché definire il patto di famiglia un contratto tipico, lo qualificava espressamente come un atto di donazione; l’art. 734 bis, che secondo quel disegno di legge doveva essere aggiunto al codice civile, al comma 1 prevedeva che «l’imprenditore può assegnare, con atto di donazione, l’azienda a uno o più discendenti.» In tal senso, fra gli altri: BEGHIN, Il patto di famiglia tra profili strutturali e aspetti problematici, cit., p. 3543; LUPETTI, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 3. Similmente MERLO (Il patto di famiglia, cit., p. 3) che, peraltro, non esclude che al patto di famiglia possa essere riconosciuta anche natura di atto divisionale (ivi, 3-4); parzialmente difforme dall’interpretazione offerta da Merlo, quella di FRIEDMANN (Le implicazioni fiscali delle attribuzioni tra familiari intervento al convegno di studi Patti di famiglia per l’impresa cit.) il quale, pur assimilando la fattispecie in esame alla donazione modale, sottolinea che «il fatto che il legislatore non preveda la presenza dei testimoni pare legittimare una ricostruzione del contratto di patto di famiglia non come donazione, ma semmai come liberalità non donativa» (IDEM, Prime osservazioni, cit., p. 62). 17 Principio di unicità della tassazione ricavabile dalla disciplina dettata dal legislatore dagli artt. 8, comma 3, e 56, comma 1, del D.Lgs. n. 346/1990, nonché dal comma 4 bis dell’art. 1 del medesimo decreto. Sul punto: FEDELE, Il regime fiscale di successioni e liberalità, in Riv. dir. trib., 2003, I, pp. 799-872.

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negoziale, ma anche dal travagliato iter normativo che ha interessato la disciplina dell’imposta di successione e donazione. Come noto, infatti, negli anni compresi fra il 2001 e il 2007, detta imposta è stata caratterizzata da alterne vicende che hanno generato quello che potrebbe definirsi un “labirinto” di norme intertemporali. Basti ricordare, con specifico riferimento alla tipologia di trasferimenti che qui ci occupano: dapprima (L. n. 383/2001), la nota “soppressione” del tributo con contestuale creazione di vaste aree di non applicazione di alcuna imposta; quindi (art. 6 del D.L. n. 262/2006), l’assoggettamento di tali trasferimenti all’imposta di registro; poi (L. n. 286/2006, di conversione del D.L. n. 262/2006), la “reintroduzione” dell’imposta sulle donazioni e, infine (art. 1, commi 78 e 79, della L. n. 296/2006, la c.d. “finanziaria per il 2007”), la riconduzione dei trasferimenti effettuati con i patti di famiglia fra quelli non soggetti all’imposta, di cui all’art. 3 del D.Lgs. n. 346/1990, in sussistenza di determinati presupposti normativamente fissati.

3.1. Il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni Come anticipato, il comma 78 dell’art. 1 della legge finanziaria per il 2007 ha aggiunto all’art. 3 del D.Lgs. n. 346/1990 il comma 4 ter, così ampliando il novero dei trasferimenti «non soggetti all’imposta sulle donazioni e successioni». In particolare, in base alla richiamata disposizione, i trasferimenti a favore dei discendenti effettuati «anche tramite i patti di famiglia», di aziende o partecipazioni non sono soggetti all’imposta di donazione e successione a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’impresa o detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento e che sia resa un’apposita dichiarazione in tal senso contestualmente all’atto di trasferimento. Qualora la suddetta condizione non venga rispettata, la norma prevede la decadenza dal beneficio, il pagamento dell’imposta in misura ordinaria, della sanzione amministrativa di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997 e dei relativi interessi di mora. Nell’ipotesi di trasferimento di quote sociali o azioni di società di capitali, inoltre, affinché trovi applicazione la disposizione richiamata, è necessario anche che venga trasferita una quota di partecipazione mediante la quale è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1, c.c. Con riferimento al computo della percentuale di controllo societario utile ai fini dell’applicabilità dell’esenzione dall’imposta di successione e donazione, la risoluzione 26 luglio 2010, n. 75/E ha chiarito che assumono rilievo, in aggiunta ai diritti di voto esercitabili direttamente dal soggetto beneficiario che detiene le partecipazioni, anche quelli che tale soggetto è in grado di esercitare per il tramite di società controllate 18. 18 Per un commento alla risoluzione: MASTROIACOVO, La partecipazione indiretta di quote societarie integra il “controllo utile” per l’esenzione, in Corr. trib., 2010, p. 2889.

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L’ambito soggettivo di applicazione dell’esenzione brevemente richiamato è stato successivamente ampliato dall’art. 1, comma 31 della L. 24 dicembre 2007, n. 244 (la c.d. “finanziaria per il 2008”), la quale ne ha esteso gli effetti anche al trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni) effettuato a favore del coniuge dell’imprenditore (o possessore delle partecipazioni). A tal uopo, è utile evidenziare che, ai sensi della disciplina codicistica del patto di famiglia, il trasferimento gratuito al proprio coniuge dell’azienda o delle partecipazioni possedute non può essere effettuato mediante la stipula di un patto di famiglia. L’art. 768 bis del c.c., infatti, nell’offrire la definizione di tale contratto, riserva l’utilizzo del medesimo unicamente ai discendenti dell’imprenditore (o del possessore di partecipazioni) 19. Il regime di esenzione introdotto in occasione della finanziaria per il 2007, va senz’altro accolto con caloroso consenso, posto che il medesimo si pone il linea con la ratio sottesa all’introduzione di questa nuova tipologia contrattuale, sostanzialmente escludendo da imposizione il passaggio generazionale dell’impresa. Tuttavia, il legislatore fiscale sembra aver perso una buona occasione per dissipare i dubbi sorti in merito alla natura di tale trasferimento e, quindi, all’individuazione del suo naturale regime impositivo. L’aver, infatti, ricondotto il passaggio generazionale dell’impresa fra i trasferimenti di cui all’art. 3 del D.Lgs. n. 346/1990, non offre alcuna indicazione in merito a quale sia il regime impositivo operante nel caso in cui manchino i presupposti, individuati ex lege, per il non assoggettamento ad alcun tributo. Ciò posto, è possibile ricavarne qualche indicazione in merito alla natura del patto di famiglia, analizzando le considerazioni svolte dalla circolare 22 gennaio 2008, n. 3/E con riferimento all’ambito di applicazione dell’esenzione di cui al comma 4 ter dell’art. 3 del D.Lgs. n. 346/1990. L’Agenzia delle Entrate riconduce il patto di famiglia nell’ambito degli atti a titolo gratuito in base alle seguenti considerazioni: «è caratterizzato dall’intento – 19 In proposito, osserva MASTROIACOVO (L’imposizione indiretta del passaggio generazionale dell’azienda tra regimi agevolati e criticità di sistema, in Rass. trib., 2012, p. 621) che «La formulazione originaria del comma 4-ter poteva prestarsi a due letture del dato normativo che portavano a risultati notevolmente diversi in ordine al novero dei soggetti beneficiari dell’agevolazione. Ed infatti, trovandosi l’espressione “a favore dei discendenti” collocata in una posizione sintatticamente non univoca (e soprattutto non autonomamente fra due virgole, ma tra due virgole relative ad un inciso) si poteva prospettare una esegesi in forza della quale riferire detta espressione ai soli trasferimenti attuati mediante i patti di famiglia di cui all’art. 768-bis c.c., lasciando invece indeterminata (e dunque indifferente) la qualità del beneficiario nel caso di trasferimenti di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni posti in essere in ragione di assetti diversi da questi. Tuttavia la successiva modifica apportata al citato comma 4-ter ad opera dell’art. 1, comma 31 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008) ha fatto definitivamente propendere per la tesi più ampia: quella cioè che considerava genericamente esclusi da imposta i trasferimenti a favore dei discendenti.» Sul precedente dibattito dottrinale, tra gli altri: ZIZZO, I trasferimenti di azienda e partecipazioni sociali per successione e donazione, in Corr. trib., 2007, 17, p. 1351; SARACENO, Il passaggio generazionale: l’imposizione indiretta, in Il Fisco, 2012, 1, p. 5790.

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non prettamente donativo – di prevenire liti ereditarie e lo smembramento di aziende o partecipazioni societarie ovvero l’assegnazione di tali beni a soggetti inidonei ad assicurare la continuità gestionale degli stessi» e «non comporta il pagamento di un corrispettivo da parte dell’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali, ma solo l’onere in capo a quest’ultimo di liquidare gli altri partecipanti al contratto, in denaro o natura». Tali affermazioni confermano la correttezza della qualificazione del patto di famiglia come una liberalità e non, viceversa, come una donazione modale dal momento che l’intento del disponente non appare prettamente donativo, e il conseguente assoggettamento del contratto all’imposta sulle donazioni e successioni. Con specifico riferimento poi ai presupposti necessari per usufruire dell’esenzione di cui al comma 4 ter dell’art. 3 del D.Lgs. n. 346/1990 la medesima circolare ha evidenziato che detta agevolazione è volta a favorire il passaggio generazionale delle aziende di famiglia e non è, quindi, applicabile né al trasferimento di quei titoli che, per natura, non consentono di attuare detto passaggio (quali, per esempio, i titoli obbligazionari), né al trasferimento effettuato a favore di un soggetto che non sia discendente o coniuge del dante causa, ovvero di una persona giuridica. Inoltre, con riferimento al requisito del controllo acquisito mediante le partecipazioni ricevute con il patto di famiglia, la circolare n. 3/E del 2008 ha chiarito che, in base al tenore letterale della disposizione, il medesimo deve essere integrato unicamente nel caso in cui oggetto di trasferimento siano delle quote sociali o azioni emesse da società di capitali e non, viceversa, quando oggetto di cessione siano quote di partecipazione in società di persone. La medesima circolare ha altresì esaminato alcune fattispecie in cui potrebbe verificarsi (anche solo parzialmente) la decadenza dal beneficio dell’esenzione d’imposta, per mancato rispetto del requisito della continuità quinquennale. Una prima ipotesi è quella in cui il legittimario assegnatario, prima che siano decorsi cinque anni dal trasferimento dell’azienda, decide di cederne un ramo: in questo caso, la decadenza dal beneficio si verifica limitatamente al ramo d’azienda ceduto, sempre ché, relativamente alla parte d’azienda non trasferita, venga proseguito l’esercizio dell’attività d’impresa. Un ulteriore chiarimento è stato operato in relazione all’ipotesi di conferimento d’azienda antecedente il decorso del termine quinquennale. A tal proposito, riprendendo le considerazioni già svolte nella risoluzione 23 novembre 2007, n. 341/E 20, l’Agenzia delle Entrate ha ribadito che il conferimento dell’azienda ricevuta mediante il patto di famiglia non comporta automaticamente la decadenza dal beneficio dell’esenzione, dal momento che, a determinate condizioni, 20

Per un approfondimento della fattispecie esaminata dalla risoluzione 23 novembre 2007, n. 341, si rinvia a: ZANETTI E., L’esclusione dall’imposta sulle donazioni per i trasferimenti di aziende e partecipazioni, in Il Fisco, 2007, 1, p. 6915.

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detto conferimento può essere assimilato alla prosecuzione dell’attività d’impresa. La prosecuzione dell’attività d’impresa, per esempio, è sicuramente ravvisabile tutte le volte che l’azienda viene conferita in una società di persone, a prescindere dal valore della partecipazione ricevuta in cambio dal conferente. Il requisito del controllo, infatti, si applica esclusivamente ai trasferimenti aventi ad oggetto quote di partecipazione in società di capitali, pertanto sarà necessario verificarne la sussistenza in capo al conferente, nel caso in cui la conferitaria sia una società di persone. Viceversa, nel caso in cui il conferimento sia effettuato nei confronti di una società di capitali, prima che siano decorsi cinque anni dalla stipula del patto di famiglia, la decadenza dal beneficio dell’esenzione si verifica ogni qual volta le azioni o quote assegnate al conferente non gli consentano di conseguire o integrare il controllo della società conferitaria, ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1), c.c. Se, infatti, le quote ricevute a fronte del conferimento non consentono di integrare il controllo della conferitaria, non può ritenersi che il legittimario assegnatario prosegua l’esercizio dell’attività d’impresa anche successivamente al conferimento e, l’interruzione dell’esercizio dell’attività d’impresa prima che siano decorsi cinque anni dal trasferimento dell’azienda, comporta la decadenza dal beneficio dell’esenzione. Infine, la circolare n. 3/E del 2008, ha evidenziato come analoghe considerazioni possano essere svolte anche con riferimento alle ipotesi di trasformazione, fusione o scissione della medesima azienda, realizzate prima che sia maturato il requisito della prosecuzione quinquennale dell’attività d’impresa. In sostanza, il requisito della prosecuzione quinquennale dell’attività d’impresa può intendersi assolto solo nelle seguenti ipotesi di trasformazione, fusione o scissione: (a) operazioni che diano origine a società di persone, ovvero incidano sulle stesse, a prescindere dal valore della quota assegnata al socio; (b) operazioni che diano origine, ovvero incidano su, società di capitali, purché il socio mantenga o integri una partecipazione di controllo, ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1), c.c.

3.2. La liquidazione della quota spettante ai legittimari non assegnatari La determinazione del regime impositivo applicabile alla liquidazione, operata dal discendente assegnatario nei confronti degli altri legittimari, della quota di legittima corrispondente al valore dell’azienda o delle partecipazioni ricevute non può prescindere dall’orientamento interpretativo seguito con riferimento all’individuazione della natura e della causa negoziale del patto di famiglia. Pertanto, nel prosieguo, le modalità di assoggettamento alle imposte indirette della liquidazione della quota spettante ai legittimari non assegnatari, saranno individuate coerentemente con l’idea che il patto di famiglia, dal punto di vista del disponente, si sostanzi in una liberalità diretta nei confronti del discendente assegnatario dell’azienda ed indiretta da parte del medesimo disponente nei confron-

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ti degli altri legittimari non assegnatari. Immediata conseguenza di siffatta qualificazione è che la liquidazione della quota spettante ai legittimari non assegnatari sconti l’imposta sulle successioni e donazioni tenendo presente, ai fini dell’applicazione della aliquota e delle eventuali franchigie, del rapporto di parentela esistente fra il dante causa e i legittimari non assegnatari; non acquisendo, viceversa, alcuna rilevanza il legame di parentela intercorrente fra il legittimario assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni e gli altri legittimario non assegnatari. Con riferimento alla liquidazione in rassegna, la circolare n. 3/E del 2008 afferma che l’esenzione, di cui al comma 4 ter dell’art. 3 del D.Lgs. n. 346/1990, «non riguarda anche l’attribuzione di somme di denaro o di beni eventualmente posta in essere dall’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali in favore degli altri partecipanti al contratto». Siffatta affermazione, tuttavia, non dovrebbe essere intesa nel senso di escludere a priori la possibilità di effettuare in regime di esenzione anche la liquidazione dei legittimari non assegnatari. Questo secondo trasferimento, infatti, rientrando anch’esso nell’ambito di applicazione dell’imposta di donazione e successione, qualora venga effettuato in natura (vale a dire mediante trasferimento di beni anziché di denaro), e nel rispetto di tutti i requisiti posti dall’art. 3, comma 4 ter del D.Lgs. n. 346/1990, dovrebbe poter autonomamente fruire del regime di esenzione sin qui descritto. L’inciso richiamato potrebbe, piuttosto, rispondere alla volontà di escludere che la liquidazione dei legittimari non assegnatari – in quanto negozio strettamente collegato al trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni) – fosse automaticamente considerato esente per il semplice fatto che il trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni) beneficiasse di tale regime di esenzione. L’art. 768 quater, comma 2, c.c. prevede che l’obbligo di liquidare i legittimari non assegnatari viene meno nell’ipotesi in cui questi ultimi rinunzino, in tutto o in parte, al conseguimento di quanto loro spettante in base al valore delle quote previste dagli artt. 536 e ss. del c.c. Un’attenta lettura della norma richiamata mette in evidenza che il diritto cui è dato rinunciare ai legittimari non assegnatari dell’azienda (o delle partecipazioni) è quello attribuito, non già dalle norme sulla successione, ma dallo stesso comma 2 dell’art. 768 quater c.c., vale a dire il diritto al «pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti». Una volta ricostruito il patto di famiglia come lo strumento attraverso il quale il disponente effettua una liberalità diretta nei confronti dell’assegnatario ed una indiretta nei confronti degli altri legittimari, l’eventuale rinuncia alla propria liquidazione da parte di questi ultimi non dovrebbe costituire un’autonoma attribuzione, ma esclusivamente determinare l’accrescimento della liberalità a favore del discendente assegnatario. In senso ostativo a siffatta ricostruzione della fattispecie, tuttavia, si pone la prassi amministrativa (circolare n. 3/E del 2008), la quale ha affermato che detta rinuncia «non ha effetti traslativi ed è, quindi, soggetta alla sola imposta di registro in

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misura fissa, dovuta per gli atti privi di contenuto patrimoniale (art. 11 della Tariffa, parte prima, allegata al TUR)». Ebbene, l’escludere che la rinuncia in questione abbia effetti traslativi mette potenzialmente in crisi entrambe le principali qualificazioni giuridiche del patto di famiglia effettuate dagli interpreti. Infatti, sia che le attribuzioni realizzate mediante il patto di famiglia vengono qualificate come due liberalità del disponente (una diretta a favore dell’assegnatario ed una indiretta a favore degli altri legittimari), ovvero come una donazione modale, la rinuncia dei legittimari alla liquidazione non sarebbe in ogni caso priva di effetti traslativi, comportando sempre un accrescimento della liberalità (o della donazione modale) effettuata dal disponente nei confronti dell’assegnatario. La rinuncia alla liquidazione da parte dei legittimari non assegnatari potrebbe risultare priva di effetti traslativi solo nell’ipotesi in cui detta liquidazione fosse qualificabile come una liberalità (o donazione) autonomamente effettuata dal legittimario assegnatario 21, con conseguenti effetti sia ai fini della determinazione delle aliquote che della base imponibile. Infatti, per quanto concerne le prime, se la liquidazione dei legittimari non assegnatari è una autonoma liberalità (o donazione) dell’assegnatario nei confronti dei non assegnatari ciò che rileva sarebbe il legame eventualmente esistente fra questi due soggetti; se, invece, detta liquidazione rappresenta una liberalità indiretta da parte del disponente nei confronti dei legittimari non assegnatari, ciò che rileva è il legame eventualmente esistente tra il disponente ed i legittimari liquidati. Similmente, se l’assegnazione dell’azienda (o delle partecipazioni) e la liquidazione dei legittimari non assegnatari rappresentano due negozi completamente autonomi e distinti, la base imponibile del trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni) dovrebbe essere calcolata sempre al lordo e non al netto del valore delle liquidazioni effettuate a favore dei legittimari non assegnatari. Proprio per la rilevante portata delle incertezze interpretative suscitate da alcune delle affermazioni contenute nella circolare n. 3/E del 2008, sembra quanto mai opportuno un ulteriore intervento normativo o interpretativo in suddetta materia, idoneo a fare chiarezza in modo definitivo in ordine sia alla corretta qualificazione giuridica delle attribuzioni effettuate mediante il patto di famiglia, sia al conseguente trattamento impositivo agli effetti (anche, ma non solo) dell’imposta di successione e donazione.

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Peraltro, è opportuno sottolineare come un’interpretazione di questo tipo contrasterebbe con la normativa civilistica di riferimento: il legittimario assegnatario dell’azienda, infatti, provvede alla liquidazione delle quote spettanti agli altri legittimari non assegnatari, non perché spinto da animo liberale, ma in quanto costretto dal doveroso adempimento di un obbligo che nasce ex lege al momento della stipula del patto di famiglia.

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3.3. La liquidazione dei legittimari sopravvenuti Sotto il profilo dell’imposizione indiretta, qualora la liquidazione dei legittimari sopravvenuti avvenga mediante stipula di apposito accordo, tale atto probabilmente configurerebbe un accordo per la reintegra dei diritti dei legittimari. Il negozio qui brevemente richiamato, infatti, interviene dopo l’apertura della successione e l’applicazione dell’art. 43 del D.Lgs. n. 346/1990 potrebbe essere funzionale ad evitare un’eventuale duplicazione di imposta, rispetto a quella assolta dai coobbligati solidali con riferimento ai trasferimenti effettuati al momento della conclusione del patto di famiglia. La liquidazione in esame, quindi, rientrerebbe nell’ambito di applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, così come reintrodotta nel nostro ordinamento e successivamente modificata.

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SEZIONE III ATTRIBUZIONE, DESTINAZIONE E SCAMBIO NEI GRUPPI DI SOCIETÀ

IL VALORE DEL GRUPPO E IL VALORE NEL GRUPPO. DISCIPLINA CIVILISTICA E FISCALE DEGLI SCAMBI INFRAGRUPPO A VALORE DIVERSO DA QUELLO DI MERCATO

di Emiliano Marchisio SOMMARIO: 1. Sanzione della antieconomicità delle operazioni intragruppo e modelli giurisprudenziali di tassazione del reddito “normale”. – 1.1. La rilevanza fiscale della accertata “antieconomicità” dello scambio. – 2. Il valore del gruppo e il valore nel gruppo nel diritto civile. – 2.1. La produzione dei “vantaggi da gruppo” mediante operazioni a valori differenti da quelli di mercato. – 3. Il favor normativo per la produzione dei “vantaggi da gruppo”. – 3.1. Conseguenze del favor normativo sul piano societario. – 3.1.1. In particolare: i confini della liceità delle direttive di gruppo dannose. Rischio d’impresa, integrale eliminazione del danno e vantaggi compensativi. – 3.1.2. Accentramento di funzioni in società di gruppo “specializzate” (cenni). – 3.1.3. Gli interessi in conflitto con l’effettuazione di operazioni infragruppo a valori diversi da quelli di mercato. La eterogestione della società interamente partecipata. – 3.2. Conseguenze del favor normativo sul piano degli atti intragruppo. – 3.3. Conseguenze del favor normativo nelle procedure concorsuali. – 3.3.1. Regole espressamente destinate al gruppo. – 3.3.2. Regole interpretativamente estese al gruppo. – 3.3.3. Proposte di valorizzazione del gruppo nella “gestione” della crisi. – 4. Il problema di coordinamento normativo ed il rischio di disincentivo, di origine fiscale, a condotte imprenditorialmente efficienti e civilisticamente lecite o doverose. – 4.1. Le ragioni del dissenso rispetto all’orientamento interpretativo in esame. – 4.2. Una proposta di coordinamento tra disciplina fiscale e disciplina civilistica.

1. Sanzione della antieconomicità delle operazioni intragruppo e modelli giurisprudenziali di tassazione del reddito “normale” È principio dell’ordinamento tributario quello per il quale non è consento al contribuente di determinare una riduzione del carico fiscale rispetto a quello che l’ordinamento prevede, tipicamente, in relazione ad una data operazione 1. 1

Cfr. l’art. 37-bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accer-

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IL VALORE DEL GRUPPO E IL VALORE NEL GRUPPO

Conseguentemente, l’ordinamento non esita a riqualificare l’operazione e a sanzionare i casi in cui, in assenza di “valide giustificazioni economiche”, l’operazione di scambio sia effettuata ad un valore diverso (per quanto ora più interessa: inferiore) rispetto a quello “normale”. In materia di transfer pricing, in particolare, l’obiettivo della disciplina antielusiva consiste nell’evitare che all’interno del gruppo si selezioni una giurisdizione a minor impatto fiscale mediante il trasferimento di utili in favore di società di gruppo estera, all’esito di operazioni effettuate a prezzi inferiori al valore “normale” 2 – anche se, in realtà, la relativa disciplina è stata ritenuta applicabile indipendentemente dall’esistenza di una più elevata fiscalità nazionale rispetto a quella estera 3. La disciplina in materia è dettata, in Italia, dall’art. 110, comma 7, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (c.d. “testo unico delle imposte sui redditi” o TUIR), a mente del quale «I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito» 4. tamento delle imposte sui redditi), laddove sancisce l’inopponibilità all’Amministrazione fiscale degli atti ivi previsti laddove, privi di “valide ragioni economiche”, siano idonei ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi altrimenti indebiti e la conseguente riqualificazione ai fini fiscali. 2 Corte di Cassazione, sez. Trib., 20 aprile 2012, n. 6221. In tema di transfer pricing si vedano i documenti OECD alla pagina http://www.oecd.org/ctp/transfer-pricing. In materia cfr., tra i molti, P. LAROMA JEZZI, Transfer pricing come abuso del diritto: tanto rumore per nulla?, nota a Comm. trib. prov.le Milano, 4 gennaio 2012, n. 1, in Riv. dir. trib., 2012, 78, p. 491; F. PEDROTTI, Il non condivisibile utilizzo dell’art. 37 bis del DPR 29 settembre 1973 n. 600 e del principio giurisprudenziale di divieto di abuso del diritto al fine di contrastare una presunta violazione in materia di “prezzi di trasferimento”, nota a Cassazione civile, 16 febbraio 2012, n. 2193, sez. Tributaria, Riv. dir. trib., 2012, 5, p. 24; L.R. CORRADO, Esistenza e inerenza dei costi infragruppo: su chi grava l’onere della prova?, nota a Cassazione civile, 13 luglio 2012, n. 11949, sez. Tributaria, Diritto e Giustizia, 2012, 0, p. 654; M. D’AVOSSA, Contenuti obbligatori della documentazione nel transfer pricing, Fiscalità comm. int., 2011, 2, p. 5; S. BIANCHI MARTINI et al., I prezzi di trasferimento: Determinanti e metodologie di calcolo, 4a ed., Milano, 2002; R. CORDEIRO GUERRA, La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib., I, 2000, p. 421; E. DELLA VALLE, Il transfer price nel sistema di imposizione sul reddito, in Riv. dir. trib., 2009, I, p. 133; G. MAISTO, Il progetto di rapporto OCSE sui prezzi di trasferimento, in Riv. dir. trib., 1995, I, p. 357. 3 Così Cass. 8 maggio 2013, n. 10742, che ragiona, al proposito, di «una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva dell’elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare. E questo, appunto, perché la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sé», al dichiarato scopo di preservare la esatta pretesa impositiva di ciascuno Stato indipendentemente dagli eventuali, e dunque non necessari, vantaggi fiscali. 4 Prosegue la disposizione: «la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri

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Il menzionato art. 110, comma 2, TUIR rinvia, per la determinazione del “valore normale” dei beni e servizi, all’art. 9, il quale, al terzo comma prevede che «Per valore normale, salvo quanto stabilito nel comma 4 per i beni ivi considerati, si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi» 5. Il successivo quarto comma prevede le modalità di determinazione del “valore normale” in relazione ad azioni, obbligazioni ed altri titoli mentre il quinto, ed ultimo, comma stabilisce la non irrilevante precisazione per la quale «ai fini delle imposte sui redditi le disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso valgono anche per gli atti a titolo oneroso che importano costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento e per i conferimenti in società». Non vale a recuperare il requisito della “normalità” l’applicazione di sconti in favore di società appartenenti al medesimo gruppo, laddove essi non sono considerati “sconti d’uso” ai sensi dell’art. 9, comma 3, TUIR laddove non siano praticati nel listino o sulle tariffe per le operazioni concluse in regime di libera concorrenza – il che vale a dire: con soggetti estranei al proprio gruppo 6. Si noti che, nonostante l’espressa limitazione dell’art. 110, comma 7, TUIR allo scambio con società non residenti, l’Amministrazione fiscale e la giurisprudenza non esitano ad applicare lo stesso regime anche alle operazioni intragruppo nazionali 7 ritenendo che esso abbia portata generale, trovando origine non solo nei principi comunitari in tema di abuso del diritto ma anche «immanenza in settori del diritto tributario nazionale» come avviene nella previsione dell’art. 10 della L. 29 dicembre 1990, n. 408 8. a seguito delle speciali «procedure amichevoli» previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti». 5 Fermo restando che, come prosegue la disposizione in esame – per vero con un linguaggio espressione di una visione arcaica dei mercati: «per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore». 6 Cass., sez. trib., 31 marzo 2011, n. 7343; Cass., sez. trib., 19 ottobre 2012, n. 17953. 7 Da ultimo cfr. Cass., sez. trib., 24 luglio 2013, n. 17955, inedita. 8 A mente del quale «è consentito all’amministrazione finanziaria disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, cessione di azienda, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessione di crediti o cessione o valutazione di valori mobiliari poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta». Cfr., sul tema, A. TERLIZZI, Il transfer price può essere conside-

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Insomma: ogni qualvolta all’interno di un “gruppo” avvenga una operazione di scambio a valori diversi da quelli di mercato, sia tra giurisdizioni differenti che all’interno dei confini italiani, l’Amministrazione fiscale è legittimata a rideterminare, ai fini fiscali, il valore dell’operazione in base al “valore normale” dei beni ceduti o ricevuti e dei servizi prestati.

1.1. La rilevanza fiscale della accertata “antieconomicità” dello scambio Il legislatore, in effetti, mostra un atteggiamento tendenzialmente diffidente nei confronti del gruppo, considerato come una forma di esercizio dell’impresa fiscalmente pericolosa. Nonostante tale atteggiamento sia occasionalmente contrastato dalla giurisprudenza tributaria 9, le decisioni giudiziarie sono di regola concordi nel ritenere che l’esistenza di legami di gruppo debba aggravare la valutazione di elusività dell’operazione soggetta a scrutinio 10. Da tale contrasto sui principî discende una varietà di interpretazioni della accertata “antieconomicità” di una operazione infragruppo (cioè la sua mancata corrispondenza al valore “normale” di mercato) 11. Secondo un primo orientamento, sostanzialmente condivisibile, l’antieconomicità rappresenta un elemento a sostegno della contestazione di incoerenze nel comportamento del contribuente idonee a rappresentare indici di una capacità economica non dichiarata 12 ovvero potenzialmente sintomatiche di un illecito rato operazione commerciale elusiva, Nota a Cass., sez. Trib., 19 ottobre 2012, n. 17953, in Diritto e Giustizia 2012, 0, p. 914. 9 Cfr. Cass., sez. trib., 21 gennaio 2011, n. 1372. 10 Cass., sez. trib., 8 aprile 2009, n. 8481; Cass., sez. trib., 8 aprile 2009, n. 8487. 11 In tema di antieconomicità cfr., tra le ormai infinite: Cass. 30 novembre 2001 n. 13478, Cass. 27 settembre 2000, n. 12813; Cass. 29 gennaio 2008, n. 1915 (sindacabilità dei compensi degli amministratori; contra cfr. Cass. 10 dicembre 2010, n. 24957); Cass. 25 settembre 2006, n. 20748 (sindacabilità dei compensi agli associati in partecipazione); Cass. 3 maggio 2002, n. 6337 (spropositata valutazione di macchinari usati); Cass. 14 gennaio 2003, n. 398; Cass. 25 maggio 2002, n. 7680 (antieconomicità di canoni di locazione di immobili); Cass. 24 luglio 2002, n. 10802 (antieconomicità riferita ai costi per il noleggio di imbarcazioni e automezzi tra consociate); Cass. 7 maggio 2010, n. 11154 (antieconomicità per mancato addebito nei confronti di società appartenenti al medesimo gruppo di interesse moratori); Comm. trib. prov. Reggio Emilia, 5 marzo 2008, n. 23 (antieconomicità e spese di pubblicità); Cass. 26 ottobre 2005, n. 20832, Cass. 7 novembre 2005, n. 21575, Cass. 16 novembre 2005, n. 23183, Cass. 24 gennaio 2007, n. 1546, Cass. 26 luglio 2011, n. 16642; Cass. 22 febbraio 2012, n. 2613 (antieconomicità delle percentuali di ricarico); Cass. 2 ottobre 2008, n. 24436, Cass. 15 ottobre 2007, n. 21536, Cass. 6 dicembre 2011, n. 26167 (antieconomicità di una gestione in perdita per più anni di seguito); Cass. 21 aprile 2008, nn. 10278 e 10277 (antieconomicità di spese abnormi rispetto ai ricavi). 12 Si pensi, in proposito, che Cass. 9 febbraio 2001, n. 1821 ha desunto dall’antieconomicità dei trasporti effettuati l’alterazione a posteriori delle bolle di accompagnamento ovvero a Cass. 2 ottobre 2008, n. 24436, che ha desunto l’inesistenza di perdite dall’apertura di nuovi punti vendita.

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arbitraggio fiscale 13. In altri termini, l’antieconomicità può rappresentare uno degli elementi di prova che, insieme ad altri fattori, possono condurre alla riqualificazione fiscale dell’operazione intragruppo ed alla irrogazione di una sanzione. In altre ipotesi, invece, l’antieconomicità è censurata in sé, nel senso che essa consente di «disconoscere gli effetti fiscali di comportamenti che, seppur devianti dalle convenienze commerciali e gestionali, appaiono legittimi» 14 sia nell’ipotesi in cui manchi la prova dell’asserita evasione o del presunto disegno elusivo 15 sia nell’ipotesi in cui, addirittura, «elementi di fatto escludono fenomeni evasivi o elusivi» 16 tout court. Si consideri, al proposito, l’argomento sostenuto dalla Corte di Cassazione, sezione tributaria, nella sentenza 6 ottobre 2011, n. 20451 17. Si trattava dell’acquisto intragruppo di titoli a prezzo superiore a quello di mercato. La Corte ha ritenuto che «il sovraprezzo non aveva funzione di corrispettivo ma di finanziamento presumibilmente gratuito». La Corte della legittimità ha ritenuto, in quel caso, che il principio di non sindacabilità del prezzo dichiarato dalle parti fosse infondato: «allorquando il prezzo sia in tutto o in parte fittizio come tale trattandosi di una maggiorazione del prezzo non giustificata sul piano della corrispettività è indiscutibile la sua non inerenza e comunque la mancanza di prova in ordine a tale requisito». Si noti che, in tal caso, la “giustificazione” sul piano della corrispettività è stata verificata solo rispetto alla corrispondenza del prezzo dei titoli al loro valore “normale” di mercato, senza valutare se l’appartenenza al gruppo potesse legittimare, in qualche modo, lo scostamento accertato. Da un punto di vista fiscale, le decisioni appartenenti a questo secondo orientamento determinano un allontanamento giurisprudenziale dal principio di determinazione del reddito effettivo secondo criteri di tipo analitico-contabile 18 e, inve13 In Cass. 24 luglio 2002, n. 10802 il corrispettivo del noleggio di natanti dalla controllante alla controllata, sproporzionato rispetto al prezzo di mercato, faceva desumere un illecito arbitraggio fiscale, volto a ridurre il reddito imponibile della controllata, assoggettata a tassazione nella misura ordinaria, aumentando, per contro, quello della controllante destinataria di un regime fiscale agevolato di cui alla L. 29 gennaio 1986, n. 26 (c.d. legge per Trieste). 14 A. BALLANCIN, L’antieconomicità tra occultamento di capacità contributiva, elusione fiscale ed il “dover essere” tributario, nota a Cass., sez. trib., 6.10.2011, n. 20451, in Riv. dir. trib., 2012, 3, p. 199. 15 Cfr., ad esempio, Cass., sez. trib., 11 aprile 2008, n. 9467 sul c.d. transfer pricing interno in presenza di regimi fiscali coincidenti tra le società contraenti. 16 A. BALLANCIN, L’antieconomicità tra occultamento di capacità contributiva, elusione fiscale ed il “dover essere” tributario, nota a Cass., sez. trib., 6.10.2011, n. 20451, in Riv. dir. trib., 2012, 3, p. 199. 17 Che si legge in Riv. dir. trib., 2012, 3, II, p. 197. 18 Sul tema cfr. L. TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfetarie, Milano, 1999, p. 10 ss.

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ce, l’adesione a modelli di tassazione del reddito “normale” o “medio ordinario”. Tale orientamento interpretativo consente all’Amministrazione fiscale di tracciare i confini della ragionevolezza sul solco del valore “normale” di mercato, ritenendo che una operazione “antieconomica” determini senz’altro la «conseguenza che l’Ufficio può presumere maggiori ricavi o minori costi e l’onere della prova si sposta sulla parte privata» 19. In termini processualistici, la stessa affermazione viene formulata come segue: «poiché trattasi di provare una deduzione, spetta al contribuente ex art. 2697 c.c., dimostrare, quando l’Ufficio abbia dato conto di taluni elementi di irrealtà del valore dedotto, l’ammontare delle spese per beni o servizi da dedursi» 20. Si dia pure per non contestato che una operazione di scambio, tra imprese autonome, a prezzi difformi in maniera rilevante rispetto a quelli di mercato possa presumersi avvenuta in frode alla legge e che, pertanto, sia giuspoliticamente condivisibile imporre alle parti medesime l’onere di provare che la difformità non sussista o sia altrimenti giustificata. Deve chiedersi, tuttavia, se questo principio, in ipotesi condivisibile ove applicato agli scambi tra imprese autonome, sia applicabile e, soprattutto, giuspoliticamente razionale quando applicato agli scambi intragruppo. Insomma: deve chiedersi quale sia la disciplina civilistica degli scambi infragruppo a valore non di mercato.

2. Il valore del gruppo e il valore nel gruppo nel diritto civile Si premetta che la dottrina, riteniamo appropriatamente, ragiona di “nozioni”, al plurale, di gruppo, di “gruppo” come «figura a geometria variabile» 21, il cui contenuto precettivo non è costante ed assiomaticamente definito, bensì relazio19

Cass., sez. trib., 3 maggio 2002, n. 6337, in Corr. trib., 2002, p. 3737, nota di NOCERA; Cass., sez. trib., 27 settembre 2000, n. 12813, in Dir. e prat. trib., 2001, II, p. 487; nota di MENTI; Cass. sez. trib., 17 settembre 2001, n. 11645, in Giust. civ., 2001, I, p. 2932. 20 Cass., sez. trib., 13 settembre 2010, n 19489, in Dir. e giust., 2010; Cass., sez. trib., 16 aprile 2008, n. 9917, in Giust. civ. Mass., 2008, 4, p. 580. 21 A. NIUTTA, Il finanziamento intragruppo, cit., p. 20 ss., che al tema del “gruppo” come nozione polisemica ha dedicato un intera sezione della sua monografia; nonché già B. LIBONATI, Holding e investment trust, Milano, 1959, p. 151 ss. e, poi, N. RONDINONE, I gruppi di imprese fra diritto comune e diritto speciale, Milano, 1999, p. 827. Anche oltre si spingono quegli Autori che non solo riconoscono l’assenza di un “sistema generale dei gruppi”, ma ne contestano anche la desiderabilità: cfr. P.G. JAEGER, I ‘gruppi’ fra diritto interno e prospettive comunitarie, Giur. comm., 1980, I, p. 918. Per utilizzare una espressione particolarmente felice di M. LAMANDINI, Nuove applicazioni giurisprudenziali in tema di gruppi di società, in Banca borsa tit cred, 1993, II, p. 528, la disciplina avente ad oggetto il “gruppo” in quanto fenomeno economico non può essere considerata come un «“pacchetto” di regole che o si applica integralmente o non si applica».

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nale alla classe di interessi tutelati e, pertanto, alla disciplina applicabile 22. Parallelamente, anche nelle discipline economiche ed aziendalistiche si è affermata l’idea per la quale la fenomenologia dei gruppi presenti notevole variabilità e complessità e che, pertanto, «the conventional picture of hierarchical organization, with higher levels controlling lower levels and policies directing action is overly simplistic» 23. Tanto doverosamente precisato, sia consentito, per ragioni di economia e chiarezza espositiva, limitare stipulativamente il campo di indagine, salvo che non sia diversamente specificato, alla sola ipotesi dei gruppi cc.dd. verticali gerarchici, ad elevata integrazione di tipo industriale 24. Ad una analisi in prima approssimazione un gruppo siffatto può essere definito come una tecnica di esercizio dell’impresa «caratterizzata dalla sua articolazione in una pluralità di centri giuridicamente autonomi» 25 – come qualcuno pure ritiene, «un’impresa le cui unità economiche relative sono dotate di indipendenza giuridica» 26. Il raggruppamento di imprese, e più in generale l’aggregazione tra enti (che come tale include consorzi, ATI etc.), è, almeno in teoria e nel tipo socio-economico tenuto presente dal legislatore 27, motivato da incrementi di efficienza in 22

Così B. LIBONATI, Holding e investment trust, cit., p. 151. Cfr., in particolare, G. FIGÀ TALAMANCA, Direzione e «proprietà transitiva» del controllo di società, in Riv. dir. civ., 1993, II, p. 359, per il quale «se le norme si avvalgono nella maggior parte dei casi del concetto di controllo come strumento per l’imputazione transitiva di una disciplina sostanziale dal soggetto che ne è diretto destinatario ad altri, le regole di tale propagazione dovranno allora essere ricostruite volta per volta in funzione della disciplina da applicare e delle sue finalità». Sia consentito il rinvio anche ad E. MARCHISIO, Usi alternativi del gruppo di società, Napoli, 2009, p. 1 ss. 23 Così F. FITSROY, The Corporation in an Uncertain World: Competition, Efficiency, and Governance, in D. SUGARMAN-G. TEUBNER (a cura di), Regulating Corporate Groups in Europe, Nomos, Baden-Baden, 1990, p. 163, in riferimento alla riflessione di J.G. MARCH-Z. SHAPIRA, Behavioral Decision Theory and Organizational Decision Theory, in G.K. UNGSON-O.N. BRAUNSTEIN (a cura di), Decision Making: An Interdisciplinary Inquiry, Boston, Kent Publishing, 1982, p. 101. 24 Sia consentito, in questa sede, omettere ogni considerazione circa l’adattabilità delle riflessioni svolte nel testo a diversi tipi di gruppo come quello orizzontale. 25 Così C. ANGELICI, La riforma delle società di capitali. Lezioni di diritto commerciale, Padova, 2003, p. 136. 26 L. AZZINI, I gruppi aziendali, Milano, 1975, p. 26. 27 Non è contestabile l’esistenza di “gruppi” il cui utilizzo difficilmente potrebbe essere ricondotto alle finalità di natura economica descritte nel testo: cfr. P.G. JAEGER, “I «gruppi»”, cit., p. 923. Diversamente, almeno per quanto riguarda il gruppo “conglomerato” (cioè il gruppo all’interno del quale siano esercitate attività appartenenti a settori tra loro diversi e non necessariamente correlati, come la produzione di automobili e l’editoria quotidiana), F. GALGANO sembra sostenere il ricorrere, in ogni caso, di una correlazione tra “gruppo” e “unica impresa”; ciò sulla base della convinzione per la quale le attività “finanziarie” esercitate in gruppi siffatti sono complementari e non aggiuntive rispetto alle attività industriali [F. GALGANO, I gruppi di società, in ID. (diretto da), Le società – Trattato, Torino, 2001, p. 18 ss.].

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ragione di sinergie derivanti dall’accorpamento di attività simili o complementari ovvero di risparmi di spesa derivanti dalla messa in comune di funzioni altrimenti gestite separatamente. Quelle che i cultori delle scienze economiche definiscono economie di scala, di ambito, di coordinamento 28. Ciò che, specificamente, caratterizza il “gruppo” rispetto alle altre forme di gestione congiunta di attività d’impresa (inclusa la gestione da parte di un medesimo soggetto societario organizzato secondo il modello multidivisionale) è evidentemente l’interesse ad approfittare, in misura tendenzialmente stabile, degli incrementi di efficienza derivanti dall’articolazione in differenti figure soggettive 29. Tali incrementi comprendono, in primo luogo, la frammentazione della responsabilità patrimoniale per l’esercizio delle diverse attività 30. Da siffatta articolazione consegue pure un più efficiente accesso al credito: la frammentazione dell’unica attività “di gruppo” in numerosi segmenti, delimitati dall’oggetto sociale delle singole società appartenenti al gruppo, consente infatti una migliore misurazione del rischio da parte del finanziatore e l’esercizio di un controllo più preciso sull’utilizzo delle somme prestate. Un ulteriore beneficio attinente il “finanziamento” dell’iniziativa deriva, per i gruppi a controllo non totale, dalla caratteristica di «demandare al mercato, e non esclusivamente al vertice strategico, l’allocazione dei capitali» 31. Tale aspetto, che nella dottrina aziendalistica si definisce pure “effetto leva azionario”, si riferisce alla possibilità di acquistare il controllo azionario di più società con l’utilizzazione di capitale di rischio proporzionalmente ridotto, in ragione dell’investimento diretto da parte della holding solo nella prima (o in un numero ridotto di) società appartenente (-i) alla “catena del controllo” e della utilizzabilità “a cascata” dei patrimonî delle società controllate per il controllo l’una delle altre 32. 28

Per una trattazione del tema cfr., uno per tutti: F. GOBBO, Il mercato e la tutela della concorrenza, Bologna, 1997, p. 73 ss. 29 Sono altresì isolabili, a giustificazione dell’articolazione dell’iniziativa economica in gruppo, cause legate alle caratteristiche contingenti del sistema economico – delle quali, tuttavia, non interesserà occuparsi nel seguito della presente ricerca. Possono farsi gli esempî della scarsità di risorse finanziarie e dei mercati finanziarî imperfetti, che possono giustificare l’adozione della forma “gruppo” in ragione degli effetti leva azionaria e finanziaria citati nel testo; delle barriere transnazionali protezionistiche e/o giuridiche, che spesso rendono più semplice l’ingresso in un nuovo mercato mediante la costituzione di una società controllata locale anziché mediante la prestazione transfrontaliera di beni e servizi; della necessità di incremento dimensionale o tecnologico in mercati oligopolistici o a rapida evoluzione, nei quali sono coinvolte le leve tecnico-produttiva e tecnologica; delle convenienze fiscali di vario genere. 30 F. GALGANO, Lex mercatoria, Bologna, 2001, p. 165 ss. 31 G. SCOGNAMIGLIO, Prospettive di tutela dei soci esterni, in EAD., Autonomia e coordinamento nella disciplina dei gruppi di società, Torino, 1996, p. 172 ove nota 14. 32 È quello che Galgano definisce “effetto telescopio” in ID., I gruppi di società, cit., pp. 27 ss., anche in F. GALGANO e R. GENGHINI, Il nuovo diritto societario, II ed., in F. GALGANO (diretto

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Infine, ed in un senso più propriamente “organizzativo” (attingendo al lessico dell’economista, non a quello del giurista 33), ulteriore elemento che consente di giustificare l’adozione di un’articolazione in “gruppo” rispetto a tecniche di articolazione unisoggettive è rappresentato dalla possibilità di bilanciare la produzione delle economie di scala, scopo e coordinamento sopra descritte con le diseconomie derivanti dalla crescita dimensionale (quelle che, nel comune gergo angloamericano, sono dette le X-inefficiencies). Siffatto incremento di efficienza è stato tradotto, nel linguaggio dei giuristi, come la sostituzione, nell’impresa complessa, del principio gerarchico (cfr. l’art. 2086 c.c.) con i principî della (almeno tendenziale) dialettica, del reciproco convincimento, della concertazione 34 – evoluzione ritenuta maggiormente idonea ad uno scambio con l’“esterno” più rapido e decentrato rispetto a modalità organizzative accentrate 35.

2.1. La produzione dei “vantaggi da gruppo” mediante operazioni a valori differenti da quelli di mercato I “vantaggi da gruppo” sopra riassunti sono prodotti in conseguenza della permeabilità 36 delle società raggruppate all’influenza decisionale di soggetti esterni rispetto alla loro dotazione organica, in ragione di rapporti idonei a determinare la eterodirezione delle une alla volontà (anche) delle altre – rapporti di controllo interno, in modo particolare, ma non solo 37. Le tecniche di produzione dei “vantaggi da gruppo” sopra evidenziati possono essere accomunate, nella prospettiva coasiana 38, osservando come tanto il mercada), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, vol. XXIX, t. I, Padova, 2004, p. 148. 33 Ci sembra, infatti, doversi aderire alla precisazione terminologica di P. SPADA, L’alienazione del governo, cit., p. 2188, che sottolinea la «necessità conoscitiva di riservare al termine “organizzazione” il significato forte di “norma sulla produzione giuridica”». 34 F. GALGANO, Il regolamento di gruppo nei gruppi bancari, in Banca borsa tit. cred., 2005, p. 88. 35 Così, in un’analisi sistemica dei gruppi di imprese G. TEUBNER, Unitas Multiplex: Corporate Governance in Group Enterprises, in D. SUGARMAN-G. TEUBNER (a cura di), Regulating Corporate Groups in Europe, Baden-Baden, Nomos, 1990, p. 67 ss., passim. 36 La metafora della “permeabilità”, già utilizzata in E. MARCHISIO, Usi alternativi del gruppo di società, cit., è presa in prestito, evidentemente, da P. SPADA, Della permeabilità differenziata, cit. Quell’Autore, tuttavia, nel commentare la nota sentenza della Cassazione (Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439), ragiona di “permeabilità” con riguardo al coinvolgimento dell’interponente nel regime della crisi della persona o dell’ente interposti. 37 Sul tema delle tecniche di eterodirezione cfr. E. MARCHISIO, Usi alternativi del gruppo di società. cit., nonché ID., Contratti ed “eterodirezione” della società, NDS – Il Nuovo Diritto delle Società, 18/2012, p. 99 ss. 38 R. COASE, The nature of the firm, University of Chicago Press, 1960, tr. it. “La natura dell’impresa”, Trieste, 2001, p. 7.

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to che l’“impresa” (notando sin d’ora come la nozione di “impresa” evocata sia da intendere, in questa sede, nel senso economico aziendale, e non certo nel senso tecnico giuridico di cui all’art. 2082 c.c.) siano «metodi alternativi di coordinamento dell’attività produttiva» 39. Nel primo sistema, tale coordinamento avviene, come si dice, spontaneamen40 te , mediante l’aggiustamento dei prezzi derivante, momento per momento, da una serie indefinita di operazioni (da preferire a “transazioni”, cattiva traduzione del vocabolo inglese transaction 41) sul mercato. Nel secondo, invece, il coordinamento viene operato mediante la direzione delle attività medesime da parte di un medesimo “imprenditore”: carattere distintivo dell’impresa, nella ricostruzione di cui si discute, è «la sostituzione del meccanismo dei prezzi con un altro meccanismo di coordinamento» 42 – quello, appunto, gerarchico (in senso pieno nel caso della impresa-atomo, in senso attenuato nel caso della impresa-molecola, cioè del gruppo). La tecnica di coordinamento “impresa” si distingue da quella “mercato” in quanto essa consente di ridurre i costi di negoziazione (per evitare il perpetuarsi della cattiva traduzione dalla lingua inglese del termine transaction 43) mediante la creazione di un vincolo di durata con i prestatori di ciascun fattore della produzione, nella pre-definizione della remunerazione del fattore della produzione (fissa o variabile), nella sottoposizione del fattore al potere di allocazione e di direzione dell’imprenditore. Di più: l’utilizzo dell’impresa invece che del mercato consente all’imprenditore di remunerare i fattori della produzione internalizzati nell’impresa medesima secondo una regola fissa e indipendente dal risultato dell’attività 44, così 39

R. COASE, The nature of the firm, cit., p. 11. Sul meccanismo di adeguamento del mercato sulla base delle variazioni di prezzo, uno per tutti, sono sempre attuali le osservazioni di F.A. VON HAYEK, che già nel 1946 (Stafford Little Lecture, tenuta alla università di Princeton il 20 maggio 1946, oggi in ID., Individualism and Economic Order, Univ. of Chicago Press, Chicago 1948, ed. 1980, p. 94) lamentava «the modern theory of competition deals almost exclusively with a state of what is called “competitive equilibrium” in which it is assumed that the data for the different individuals are fully adjusted to each other, while the problem which requires explanation is the nature of the process by which the data are thus adjusted». Con ciò alludendo al prezzo proprio come tecnica di trasmissione di informazioni economicamente rilevanti in ragione della sua variabilità al variare della scarsità relativa del prodotto o servizio cui si riferisce. 41 Che, infatti, nella lingua italiana – specialmente nel linguaggio tecnico dei giuristi – dovrebbe più propriamente tradursi come “operazione” o “negozio”, essendo la “transazione” piuttosto il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già iniziata ovvero prevengono una lite che può insorgere tra loro (art. 1965, comma 1, c.c.). 42 R. COASE, The nature of the firm, cit., p. 10 ss., spec. p. 12. 43 Cfr. supra, nota n. 41. 44 R. COASE, The nature of the firm, cit., p. 23 ss., ispirata (expressis verbis) agli studî di F.H. Knight, in modo particolare a Risk, Uncertainty and Profit, LSE, London, 1933. 40

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rendendo tale costo tendenzialmente insensibile alle oscillazioni di prezzo sul mercato. Il gruppo, in questa ricostruzione, rappresenta una «variante organizzativa della grande impresa» 45 che consente di coordinare i fattori della produzione secondo un modello, per dir così, “misto”: operante per mezzo di operazioni intersoggettive, ma nel contesto non di un mercato composto di operatori autonomi, bensì tra operatori a loro volta diretti e coordinati unitariamente. Il centro decisionale dal quale promanano le direttive di gruppo (società capogruppo o meccanismo di coordinamento paritario), in altri termini, svolge nei confronti delle altre società del gruppo una funzione analoga a quella svolta dall’“imprenditore” (sempre nel senso coasiano) nei confronti dei fattori della produzione. La tecnica di produzione di vantaggi da gruppo è, dunque, principalmente rappresentata dalla definizione coordinata delle condizioni relative alle operazioni intragruppo 46, tale da incrementare il risultato totale relativo all’intera iniziativa economica articolata. Evidentemente, allora, la produzione del plusvalore derivante dalla direzione unitaria delle società raggruppate dipende dalla possibilità di applicare, nelle operazioni infragruppo, condizioni differenti rispetto a quelle di mercato. Ove lo scambio avvenisse alle stesse condizioni praticate all’esterno dell’impresa articolata, infatti, non si giustificherebbe la preferenza per l’articolazione in gruppo 47 ed i vantaggi da gruppo non si realizzerebbero 48. 45 P.M. FERRANDO, Gruppo e teoria dell’impresa. Ipotesi interpretative a confronto, in L. CASELLIP.M. FERRANDO-A. GOZZI, Il gruppo nell’evoluzione del sistema aziendale, Milano, 1990, p. 36 ss. 46 Che rappresenta, insieme con l’autonomia formale delle società articolate in un gruppo, un «moment[o] qualificant[e] del fenomeno» di cui si discute Così Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439, tra le molte in Foro it., 1990, I, c. 1174; Giur. it., 1990, I, 1, p. 713 con nota di R. WEIGMANN; Dir. fall., 1990, II, p. 1005, con nota di I. STRAMIGNONI. 47 A. NIUTTA, Il finanziamento intragruppo, cit., p. 18 ss. M. MIOLA, Le garanzie intragruppo, Torino, 1993, p. 106, ha assai efficacemente notato che «la disciplina del gruppo [è] in gran parte ipotizzabile, in via diretta o indiretta, come disciplina degli scambi e più in generale dei rapporti negoziali intercorrenti all’interno del gruppo». 48 Cass. n. 1439/1990, cit., che espressamente ragiona della corrispondenza del gruppo «alle più moderne esigenze organizzative e funzionali delle imprese di grandi dimensioni in un’economia di mercato in fase avanzata», nonché della meritevolezza «di tutela giuridica [del]la sussistenza di quelle aggregazioni imprenditoriali che allo schema indicato si uniformino». Analogamente Cass. 21 gennaio 1999, n. 521 (in Corr. giur., 1999, nota di G. ROSSI) fa riferimento alle «precise esigenze economico – finanziarie» sottostanti lo sviluppo del fenomeno aggregativo; Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439 (tra le molte in Giur. it., 1990, I, 1, p. 713, nota di R. WEIGMANN) rileva come «dal punto di vista della scienza dell’economica, lo scopo dell’attività direttiva e di coordinamento del gruppo deve individuarsi nella più efficiente operatività del gruppo nel suo insieme e, pertanto, nell’attitudine alla realizzazione di vantaggi economici del gruppo nel suo insieme e nelle sue componenti»; Cass. 8 maggio 1991, n. 5123 (tra le altre in Società, 1991, p. 1349, nota di L. ROVELLI), infine, definisce

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Le diverse ragioni della diversità di condizioni praticate all’interno del gruppo sono, infatti, tutte accomunate dall’intento di allocare costi, ricavi o altre variabili rilevanti dell’iniziativa alle imprese presso le quali ciò sia comparativamente più conveniente, così incrementando il saldo complessivo conteggiato all’iniziativa complessiva articolata plurisoggettivamente. Come notato, «il gruppo di società comporta … che si presentino quali rapporti contrattuali fra soggetti giuridici distinti quelli che altro non sono, nella sostanza, che spostamenti di risorse fra diversi settori di una medesima unità economica» 49, donde le peculiarità funzionali della società appartenente ad un gruppo vengono tradizionalmente rappresentate, a confronto con il funzionamento delle società “autonome”, mediante la metafora di molecola ed atomo 50. il gruppo come «vicenda societaria diffusa, poiché, consente di utilizzare il potenziale economico di varie imprese senza ricorrere allo strumento della fusione». La dottrina è sostanzialmente concorde nel riconoscere al fenomeno economico “gruppo” un giudizio positivo, in ragione della sua idoneità a produrre incrementi di efficienza o risparmî di spesa. Cfr., tra gli altri, G. SCOGNAMIGLIO, I gruppi e la riforma del diritto societario: prime riflessioni, in Riv. Dir. Impr., 2002, p. 593; F. GALGANO, Il regolamento di gruppo nei gruppi bancari, in Banca borsa tit. cred., 2005, spec. p. 87 ss.; F. D’ALESSANDRO, Il diritto delle società da i «battelli del Reno» alle «navi vichinghe», in Foro it., 1988, V, c. 51; nonché i numerosi interventi raccolti in AA.VV., La disciplina dei gruppi di imprese: il problema oggi – Atti del convegno della Fondazione centro internazionale su diritto società ed economia Courmayeur, Milano, 1997; AA.VV., Responsabilità limitata e gruppi di società, Milano, 1987; BALZARINI P.-CARCANO G.-MUCCIARELLI G. (a cura di), I gruppi di società. Atti del convegno internazionale di studi tenuto a Venezia il 16-1718 novembre 1995, 3 voll., Milano, 1996. Siffatta ottica, sia consentito sottolinearlo, non era (né è) modificata dalla possibilità che del gruppo si faccia un uso elusivo di discipline imperative; un uso che definiremmo “patologico”, in quanto rivolto non alla creazione di vantaggi “da gruppo” ma all’elusione di regole di disciplina della società autonoma il cui fondamento, tuttavia, non viene meno in ragione dell’articolazione in gruppo dell’iniziativa economica. Nelle parole della già ricordata Cass. n. 1439/1990, «le possibilità elusive, da valutare e sanzionare caso per caso, [non] possono annullare l’utile funzione, nell’evoluzione di una economia avanzata, del modello strutturale ed operativo» di gruppo (Cass. 1439/1990, cit. Così anche F. GALGANO, Lex mercatoria, cit., p. 164). Allora è chiaro che, in tale contesto paradigmatico, l’astratta idoneità dell’organizzazione in gruppo al perseguimento di fini disapprovati dall’ordinamento non legittima un divieto a priori di tale forma di articolazione dell’iniziativa imprenditoriale, divieto che rappresenterebbe una indebita limitazione della libertà organizzativa nell’esercizio dell’impresa (cfr. l’art. 41 Cost.) – laddove è da ritenere che il precetto costituzionale a garanzia della libertà di iniziativa economica comprenda anche la libertà di organizzazione dell’impresa: cfr., tra i molti, F.S. MARINI, Il «privato» e la costituzione, Milano, 2000, p. 47 ss.; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, III ed., tomo I, Milano, 1999, p. 230; G. OPPO, L’iniziativa economica, in Riv. dir. civ., 1988, I, p. 320. 49 P. SPADA, L’amministrazione della società per azioni tra interesse sociale e interesse di gruppo, in Riv. dir. civ., 1989, I, p. 238, citando F. GALGANO, Circolazione delle partecipazioni azionarie all’interno dei gruppi di società, in Contr. e impr., 1986, p. 363. 50 La suggestiva e ben nota metafora è in R. RODIÈRE, La protection des minorités dans les groupes des sociétés, in Rev. soc., 1970, p. 243 ss.

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Tale principio comporta conseguenze rilevantissime tanto sul piano interno della società (in relazione allo scrutinio di congruità dell’atto all’oggetto e all’interesse sociale) che sul piano esterno alla società (in relazione alla qualificazione dell’atto privo di corrispettivo ed all’intervento, in caso di insolvenza di una società del gruppo, delle altre società al medesimo gruppo appartenenti).

3. Il favor normativo per la produzione dei “vantaggi da gruppo” Si noti che il trasferimento di ricchezza mediante l’esecuzione di operazioni a valori differenti da quelli di mercato è considerato, dall’ordinamento, compatibile con la “corretta gestione delle società etero dirette”, quando tale trasferimento sia coerente con il modello (il tipo socio economico, potremmo dire) di gruppo che l’ordinamento considera giuspoliticamente “virtuoso” (idoneo, cioè, alla produzione di utilità imprenditoriali ulteriori rispetto a quelle disponibili per le, e fruibili dalle, società autonomamente considerate ed atomisticamente amministrate 51) 52. Potrebbe dirsi, anzi, che tali trasferimenti di ricchezza siano incentivati dalla legge, laddove la disciplina di diritto “comune” della società autonoma è soggetta ad importanti deroghe quando la società è soggetta all’attività di direzione e coordinamento “virtuosa” – deroghe funzionali proprio a valorizzare la circostanza che l’operazione, formalmente intercorrente tra distinti soggetti giuridici, può essere in realtà apprezzata come svolta all’interno della medesima unità economica. Sia consentito evidenziare tale paradigma legislativo di incentivo mediante alcuni riferimenti il cui obiettivo, lungi dal fornire una rassegna completa, vuole limitarsi ad una antologia meramente esemplificativa del favor del legislatore per la considerazione del gruppo e del suo funzionamento (incluse, pertanto, le operazioni a valori diversi da quelli di mercato).

3.1. Conseguenze del favor normativo sul piano societario In primo luogo, per quanto ora interessa 53, l’appartenenza di una società ad un gruppo di imprese determina una deroga alla disciplina a tutela della congruità dell’agire della società all’oggetto sociale. 51 Ciò non significa che non si diano, nella realtà, ipotesi di “gruppi” il cui utilizzo difficilmente potrebbe essere ricondotto alle finalità di natura economica descritte nel testo: cfr. P.G. JAEGER, I ‘gruppi’ fra diritto interno e prospettive comunitarie, in Giur. comm., 1980, I, p. 923. 52 E. MARCHISIO, La “corretta gestione” della società eterodiretta ed il recepimento di direttive (programmaticamente o solo accidentalmente) dannose, in Giur. comm., 2011, I, p. 923 ss. 53 Sia consentito, in questa sede, prescindere dalle conseguenze che l’appartenenza ad un gruppo di società determina in relazione alla regola di tutela della segretezza dei dati e delle informazioni di pertinenza della società, sul quale sia consentito nuovamente rinviare a E. MARCHISIO, La “corretta gestione” della società eterodiretta, cit., p. 934 ss.

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L’amministrazione della società autonoma è, in linea generale, vincolata dalla legge all’interno delle attività indicate come oggetto sociale, oggetto che delimita il perimetro entro il quale si svolge la gestione della società (art. 2380 bis c.c.) e la cui violazione può rappresentare giusta causa di revoca dell’amministratore, fonte di responsabilità sociale di questo ultimo nonché, ove espressione di una gestione gravemente irregolare, legittimare il ricorso ai rimedî di cui agli artt. 2408 e 2409 c.c. (non potendo, l’estraneità di un atto all’oggetto sociale, in principio, essere opposta ai terzi 54). Lo scrutinio di congruità con l’oggetto sociale dell’operato degli amministratori è, invece, attenuato quando l’atto altrimenti estraneo all’oggetto sociale si pone in termini di strumentalità con l’esercizio della eterodirezione “virtuosa” – e cioè l’atto sia destinato alla produzione di un “plusvalore” da etero direzione e possa, dunque, recuperare coerenza in relazione e nella prospettiva del gruppo nel suo complesso. Ed allora la giurisprudenza ha riconosciuto che la fidejussione (ma lo stesso può osservarsi per la concessione di altre forme di garanzia) rilasciata da una società del “gruppo” a favore di altra società al medesimo appartenente debba essere considerata «preordinat[a] ad un interesse sia pure mediato e indiretto della società, ma giuridicamente rilevante, e non p[ossa] pertanto, a causa della semplice mancanza di controprestazioni contrattualmente esigibili, essere considerat[a] contrari[a] e estrane[a] al conseguimento dell’oggetto sociale della società che l[a] ha compiut[a]» 55. Più in generale, è stato osservato che l’accertamento della congruità di un atto con l’oggetto sociale deve essere condotto «tenendo conto non dei soli effetti strettamente giuridici, ma anche di quelli pratici ed economici» dell’atto stesso 56 e che, pertanto, l’operazione deve qualificarsi intra vires ogni qualvolta nel compimento della stessa sussista un interesse economico della società, ancorché mediato ed indiretto, «attestato da vantaggi, anche solo fondatamente prevedibili, che la società può obiettivamente trarre dal medesimo atto» 57. Una simile deroga alla disciplina della società atomo si osserva in materia di vincolo di congruità dell’agire all’interesse sociale. In riferimento alla disciplina (generale) delle società autonome, lo scrutinio di liceità dell’operato degli amministratori ha come referente solo ed esclusivamente l’interesse della società da questi amministrata. La gestione non può perseguire in54 Salvo che si provi che questi avviano intenzionalmente agito a danno della società, beninteso: art. 2384, comma 2, c.c. 55 Cass. 14 settembre 1976, n. 3150, in Riv. dir. comm., 1978, II, p. 220, nota G. FERRI. 56 Ibidem. 57 R. SANTAGATA, Oggetto sociale ed articolazioni dell’attività imprenditoriale, in Riv. Soc., 2007, p. 126; cfr. altresì M. DE LUCA DI ROSETO, Operazioni rientranti nell’oggetto sociale, interessi di gruppo e vantaggi compensativi, in Giur. comm., 2008, p. 811 ss.

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teressi estranei, tanto più se dal perseguimento di tali interessi derivi un detrimento per la stessa società. In ogni caso, l’assunzione di una decisione nell’interesse di un terzo rispetto alla società viene percepita, e valutata, come patologica e, in quanto tale, meritevole di sospetto, come chiaramente emerge dalla disciplina che regolamenta la decisione e l’azione in presenza di interessi degli amministratori 58. Nell’ambito dell’attività di direzione e coordinamento, al contrario, il perseguimento di interessi (imprenditoriali, beninteso 59) esterni a quello sociale si pone come fisiologico, posto che la produzione dei vantaggi da eterodirezione avviene proprio per mezzo di operazioni intragruppo destinate al perseguimento di un interesse ulteriore, e più ampio, rispetto a quello delle singole società eterodirette, fino al caso degli scambî intragruppo a condizioni non di mercato nel contesto delle quali il perseguimento di un obiettivo vantaggioso a livello aggregato ben può determinare lo svantaggio (in riferimento a quella data operazione) di una delle società appartenenti al gruppo. Si tratta, all’evidenza, di una vera e propria alterazione delle regole di applicazione del vincolo dell’interesse sociale 60 della società eterodiretta 61 in favore di una logica “molecolare”. 58

Come noto, infatti, quando in una determinata operazione l’amministratore sia portatore di un interesse estraneo (proprio o di terzi) a quello della società, deve darne notizia agli altri amministratori ed all’organo di controllo della società; se amministratore delegato deve astenersi dalla decisione ed investire della stessa il consiglio, al quale la legge impone l’obbligo di motivare ragioni e convenienza dell’operazione; se amministratore unico deve darne notizia anche alla prima assemblea (art. 2391, commi 1 e 2, c.c.). Il mancato rispetto della disciplina di disclosure ovvero la l’adozione della deliberazione con il voto determinante dell’amministratore portatore dell’interesse estraneo possono essere causa di impugnazione della deliberazione stessa, ove potenzialmente produttive di danno, ai sensi dell’art. 2391, comma 3, c.c. 59 Ché se si trattasse di interessi non imprenditoriali l’attività di eterodirezione sarebbe da considerare giuspoliticamente “non virtuosa” e si applicherebbe alla vicenda solo la disciplina sfavorevole dettata dagli artt. 2497 ss. c.c., come quella che detta la responsabilità di chi esercita l’attività di direzione e coordinamento, ma non quella favorevole, qual è quella che consente l’elisione del danno mediante vantaggi compensativi. Sul tema cfr. E. MARCHISIO, La “corretta gestione” della società eterodiretta, cit., p. 932 ss. 60 Così riteniamo di leggere C. ANGELICI, La riforma delle società di capitali, cit., p. 139. Cfr. anche G. FERRI, Concetto di controllo e di gruppo, in Scritti giuridici, vol. III, t. 2, Napoli, 1990, p. 72 ss. 61 G. SCOGNAMIGLIO, La responsabilità della capogruppo, in Autonomia e coordinamento, cit., nota 33 a p. 135. Considerazioni analoghe si trovano anche in A. NIUTTA, Il finanziamento intragruppo, cit., p. 14 ss., ove riconosce l’idoneità dell’appartenenza ad un gruppo a «garantire una meritevolezza sul piano economico sociale ... a quei negozi che, fuori dal contesto delle relazioni intragruppo, forse ne sarebbero privi». In giurisprudenza, cfr. tra le altre Cass. 26 agosto 1998, n. 8472 (in Foro it., 2000, I, c. 2938, con nota di G. LA ROCCA; Notariato, 1999, 1, p. 7, con nota di F. TASSINARI): in cui si riconosce espressamente che il perseguimento di «progetti imprenditoriali di tipo unitario o quantomeno coordinato», derivante da partecipazioni «complessivamente tal[i] da garantir[e] il controllo», sia fatto idoneo a determinare una situazione di «conciliabilità (non conflitto) d’interessi» nella prestazione di una fidejussione da parte di una s.a.s. a favore di una diversa società “di gruppo”.

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In tale materia la giurisprudenza ha chiaramente riconosciuto che il perseguimento di «progetti imprenditoriali di tipo unitario o quantomeno coordinato» può determinare una situazione di «conciliabilità (non conflitto) d’interessi» nell’ambito di operazioni tra società unidirette, anche nell’ipotesi in cui la singola operazione non sia, in sé e per sé, giustificata dall’”interesse sociale” della società eterodiretta che lo pone in essere 62. Insomma: se il gruppo di società (o almeno alcuni gruppi di società: quelli “virtuosi”) implica che le operazioni tra soggetti formalmente diversi debbano essere apprezzate come «spostamenti di risorse fra diversi settori di una medesima unità economica», è allora perfettamente razionale che l’esercizio della eterodirezione (“virtuosa”) sia idoneo a «garantire una meritevolezza sul piano economico sociale ... a quei negozi che, fuori dal contesto delle relazioni intragruppo, forse ne sarebbero privi» 63. In questa prospettiva, deve osservarsi come la deroga alla disciplina della società atomo in materia di vincolo di congruità dell’agire all’oggetto ed all’interesse sociale non solo consente ma, anzi, incentiva la produzione di vantaggi da eterodirezione “virtuosa” mediante operazioni infragruppo, anche a condizioni differenti da quelle di mercato – contraddittoriamente disincentivata, invece, dalla disciplina fiscale sopra esaminata. 3.1.1. In particolare: i confini della liceità delle direttive di gruppo dannose. Rischio d’impresa, integrale eliminazione del danno e vantaggi compensativi La contraddizione tra la disciplina civilistica e quella fiscale delle operazioni infragruppo a valori diversi da quelli di mercato si aggrava quando si esamini la disciplina dei cc.dd. “vantaggi compensativi”. Ci sia consentito presentare la materia in gran parte reiterando, in questa sede, un ragionamento già sostenuto altrove 64. L’art. 2497 c.c., come noto, prevede che la società o l’ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento di società sia tenuto al risarcimento del danno quando tale attività sia esercitata “in violazione dei principî di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime”. Ciò legittima l’inferenza per la quale nessun risarcimento è dovuto quando l’attività, seppure fonte di danno per la società eterodiretta, sia esercitata nel rispetto di tali 62

Nella prestazione di una fidejussione da parte di una s.a.s. a favore di una diversa società “di gruppo”, cfr. tra le altre Cass. 26 agosto 1998, n. 8472 (in Foro it., 2000, I, c. 2938, con nota di G. LA ROCCA; Notariato, 1999, 1, p. 7, con nota di F. TASSINARI). 63 A. NIUTTA, Il finanziamento intragruppo, cit., p. 14 ss. Esempio tipico è quello del c.d. “finanziamento intragruppo”. 64 E. MARCHISIO, La “corretta gestione” della società eterodiretta, cit., p. 941 ss.

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principi – e ciò, parrebbe, indipendentemente dal fatto che il danno sia stato oggetto di compensazione o meno. Pertanto, il recepimento di direttive rivelatesi “dannose” ex post (e, dunque, solo accidentalmente) non pone, sotto il profilo dell’atto, problemi diversi da quelli posti dalla analoga fattispecie nella disciplina delle società autonome. Ne consegue che la verificazione del danno non è incompatibile con la qualificazione come “corretta” della gestione (e, dunque, con la sua liceità) se ed in quanto la produzione del danno sia da considerare non imputabile alla capogruppo in ragione dell’applicazione di principî analoghi a quelli che disciplinano i limiti della discrezionalità nell’esercizio della gestione (c.d. business judgment rule). In altri termini: se la direttiva è stata emanata (e recepita) nel rispetto dei principî di corretta (etero)gestione, il danno che ne è derivato non è imputabile alla società (o ente) che esercita la direzione unitaria, non necessita di “compensazione”, non legittima l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno ex art. 2497 c.c. e la direttiva di gruppo che ha determinato il danno non cessa, per ciò solo, di qualificarsi come lecita. D’altra parte, lo stesso art. 2497 c.c. prevede che la capogruppo possa elidere la responsabilità (nonché, come si dirà subito oltre, l’illiceità) derivante dalla attività di etero direzione esercitata “in violazione dei principî di corretta gestione societaria e imprenditoriale” compensando lo svantaggio causato alla società eterodiretta dall’attività di direzione e coordinamento. Ciò legittima, per quanto ora interessa, l’ulteriore inferenza per la quale la compensazione del danno possa, entro certi limiti di cui si dirà oltre, “restituire” la liceità a direttive che, invece, sarebbero da qualificare come illecite sulla base dello scrutinio di congruità con i “principî di corretta gestione societaria e imprenditoriale” 65 (come accade per la direttiva programmaticamente dannosa e, pertanto, lesiva dei principî di corretta gestione per il mancato rispetto, sotto il profilo dell’atto, della causa e dell’interesse sociale). Il che significa che, seppure il recepimento di una direttiva programmaticamente dannosa sia, in principio, in contrasto con le regole di corretta eterogestione (condizionata al rispetto della causa, lucrativa/cooperativa/consortile, della società eterodiretta), la “correttezza” del recepimento della direttiva programmaticamente dannosa – e, dunque, la sua liceità – può essere “recuperata” a condi65

A parte le altre considerazioni, se così non fosse non vi sarebbe ragione di provvedere alla misura compensativa: se l’atto è coerente con i “principî di corretta gestione societaria e imprenditoriale”, non sorge responsabilità risarcitoria tout court. D’altra parte, ipotizzata la violazione dei “principî di corretta gestione societaria e imprenditoriale”, se la compensazione non consentisse di recuperare alla eterodirezione la liceità, tale misura servirebbe solo a far venire meno (da un punto di vista civilistico) il danno e (da un punto di vista processualcivilistico) l’interesse all’azione – ed entrambe le conseguenze sarebbero state desumibili dai principî generali, senza richiedere una previsione ad hoc nell’art. 2497 c.c.

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zione che il danno causato alla società eterodiretta da tale recepimento sia altrettanto programmaticamente compensato (e dunque risulti “mancante”) dal risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento, ovvero sia integralmente eliminato a seguito di operazioni a ciò dirette 66. Si noti che, in tal caso, l’avvenuta o programmata compensazione o eliminazione del danno consente di qualificare come lecito il compimento di atti pur programmaticamente dannosi per la società eterodiretta 67-68, ciò che previene il ricorso all’azione di risarcimento del danno, esclude la giusta causa di revoca degli amministratori e, infine, non consente il ricorso alle azioni previste dagli artt. 2408 e 2409 c.c. Ovviamente non è necessario che tale compensazione o eliminazione del dan66 Il problema che si pone è come, ed a quali condizioni, tali compensazioni valgano ad esimere da responsabilità i legittimati passivi dell’azione ex art. 2497 c.c. Al proposito si osserva che quando l’eterodirezione è “virtuosa” la legge consente di valutare l’idoneità della misura compensativa ad esimere la capogruppo e gli altri legittimati passivi da responsabilità mediante una valutazione di natura sistemica e non “ragionieristica”. Come notato in dottrina, «qui vengono dichiaratamente in gioco le strategie imprenditoriali, le economie di scala, l’interesse di gruppo, quale componente della rilevanza attribuita dal legislatore all’impresa articolata su più soggetti giuridici»: G. SBISÀ, Commento all’art. 2497, commi 1-2, in ID. (a cura di), Direzione e coordinamento di società, in P.G. MARCHETTI-L.A. BIANCHI-F. GHEZZI-M. NOTARI (diretto da), Commentario alla riforma delle società, Milano, 2012, p. 65, ove pure ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza. Al contrario, quando l’eterodirezione non è “virtuosa” ai sensi dell’art. 2497 c.c. (ad esempio: perché l’interesse extrasociale al cui perseguimento è piegata l’attività della società eterodiretta è di natura non imprenditoriale etc.), la “compensazione” richiesta per l’esenzione dall’azione di responsabilità dovrebbe limitarsi ad un confronto ragionieristico tra partite di segno opposto a ciò espressamente dedicate. In ogni caso, lo si nota per inciso, in quest’ultima ipotesi la compensazione non parrebbe impedire la revoca per giusta causa degli amministratori o l’esperimento dei rimedi previsti dagli artt. 2408 e 2409 c.c. qualora l’evento dannoso fosse espressivo di gravi irregolarità di gestione. 67 È da ritenere che la compensazione del danno causato da una direttiva di gruppo debba, almeno in principio, determinare la liceità del recepimento della direttiva medesima. In caso contrario si verificherebbero conseguenze giuspoliticamente indesiderabili quali, ad esempio, la costante esposizione degli amministratori della società eterodiretta al rischio di essere revocati per giusta causa (ipotesi non teorica, ad esempio in caso di trasferimento del controllo) e di assoggettamento ai procedimenti ex artt. 2408 e 2409 c.c. nonostante che il recepimento delle direttive dannose sia espressione del (in ipotesi) “normale” funzionamento del gruppo (mediante trasferimenti di profitti, perdite e rischî). 68 Viceversa, come notato, al di fuori della disciplina in commento l’illiceità sembrerebbe esclusa solo nel caso di prevenzione del danno ché, in caso di sua eliminazione ex post, tale “compensazione” varrebbe bensì a far venire meno l’interesse al risarcimento del danno ma non farebbe venir meno l’illiceità della condotta dell’amministratore che avesse recepito la direttiva pregiudizievole. Rimarrebbero, pertanto, disponibili gli altri rimedi previsti dall’ordinamento in reazione contro atti di mala gestio, quali la revoca per giusta causa degli amministratori e, in caso di fatto dannoso espressivo di gravi irregolarità, la soggezione ai procedimenti disciplinati dagli artt. 2408 e 2409 c.c.

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no sia contestuale all’evento produttivo del danno medesimo: la tutela della società eterodiretta (il che è a dire: dei suoi soci e creditori esterni), nella forma del riequilibrio «dei vantaggi e degli svantaggi tra gli azionisti della società», ben può avvenire – e fisiologicamente avviene – «nell’arco del tempo» 69. La verifica della compensazione o eliminazione del danno, tuttavia, non può essere procrastinata sine die. Sembra soluzione equilibrata quella di imporne l’effettuazione, almeno in linea di principio, al più tardi nell’ambito dell’esercizio sociale, in sede di approvazione del bilancio (posto che è in sede di approvazione del bilancio che vengono resi disponibili ai soci le informazioni rilevanti ai fini del relativo scrutinio) 70. L’alternativa presentata supra tra direttiva accidentalmente dannosa (in principio lecita) e direttiva programmaticamente dannosa (senz’altro illecita, salva la eliminazione del danno), se posta nella prospettiva di analisi del singolo atto di recepimento di una direttiva, non si discosta poi molto dalla disciplina comune applicabile alla società atomo, per la quale non c’è responsabilità se il danno deriva da esercizio corretto della discrezionalità amministrativa ovvero se non c’è danno in presenza di compensazione integrale – salvo, ovviamente, che nella disciplina comune della società atomo la compensazione del danno cagionato da una operazione programmaticamente dannosa elide la responsabilità degli amministratori ma non l’illiceità della loro condotta. È, tuttavia, necessario integrare lo scrutinio di liceità del recepimento della direttiva dannosa (cioè: del singolo atto) con una indagine complessiva sulla attività di eterodirezione nel suo complesso. È sul piano dell’attività, infatti, che meglio si apprezza la peculiarità della disciplina del gruppo, laddove la legge prevede che non vi sia responsabilità della capogruppo (e pertanto l’operazione sia da 69 Commissione CE, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo – Modernizzare il diritto delle società e rafforzare il governo societario nell’Unione europea – Un piano per progredire, COM (2003) 284 def., p. 21. 70 Cfr., in tal senso, CODAZZI, Vantaggi compensativi e infedeltà patrimoniale (dalla compensazione “virtuale” alla compensazione “reale”): alcune riflessioni alla luce della riforma del diritto societario (a commento di Cass., 7 ottobre 2003 n. 38110), in Giur. comm., 2004, II, p. 611. In dottrina sono attestate posizioni discordanti, come quella per la quale il limite temporale per la produzione del vantaggio compensativo dovrebbe essere quello dell’“uscita” dal gruppo (SBISÀ, Responsabilità della capogruppo e vantaggi compensativi, in Contr. impr., 2003, p. 604) ovvero l’instaurazione del giudizio (CARIELLO, Direzione e coordinamento di società e responsabilità: spunti interpretativi iniziali per una riflessione generale, in Riv. soc., 2003, p. 1248). In realtà il problema sembra poter essere affrontato in una duplice prospettiva. Al fine del far venir meno l’interesse dell’attore all’azione di risarcimento, è ovviamente sufficiente che la compensazione avvenga, pur se in corso di causa (RORDORF, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, in Società, 2004, p. 543). Il problema è, tuttavia, se tali compensazioni possano essere considerate “corrette” o non (ai fini, ad esempio, della revoca per giusta causa dell’amministratore) – e certamente non sarebbero tali misure compensative poste in essere solo in seguito alla instaurazione del giudizio di risarcimento del danno.

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qualificare come lecita) quando, anche in presenza di una direttiva programmaticamente dannosa, il danno risulti mancante «alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento». La peculiarità di tale fattispecie è immediatamente percepibile. Nella prospettiva della “eliminazione del danno”, il danno risulta “mancante” in conseguenza di operazioni di ripianamento integrale del danno medesimo – il che vale a dire: la gestione del gruppo ha prodotto un “danno” e per eliderne l’illiceità è necessario che tale danno sia eliminato mediante una operazione di eguale valore e segno contrario. Nella prospettiva dei vantaggi compensativi, invece, il danno derivante dal singolo atto viene considerato mancante in conseguenza del risultato complessivo dell’attività complessiva del gruppo e nel gruppo, nel senso che i benefici tratti dalla società eterodiretta dall’appartenenza al gruppo sono idonei a compensare il danno causato dal recepimento della singola direttiva dannosa. Si noti: non in ragione di una operazione ad hoc di “eliminazione” del danno ma in conseguenza del saldo complessivo dei risultati derivanti dall’appartenenza al gruppo, all’esito di una valutazione di natura sistemica e non “ragionieristica” 71. La disciplina dei vantaggi compensativi consente di pervenire a due conseguenze ben rilevanti nell’ambito della presente riflessione. In primo luogo, nell’ambito dei gruppi “virtuosi” la liceità delle singole operazioni programmaticamente dannose (e conseguentemente lo scrutinio di congruità con l’interesse sociale dell’azione degli amministratori che le abbiano recepite) può essere valutata nell’ambito del più ampio scrutinio degli effetti che si producono, in capo alla società eterodiretta, in conseguenza della sua appartenenza al gruppo, indipendentemente dal fatto che il danno prodotto sia oggetto di compensazione ad hoc. Il che rappresenta una ulteriore forma di incentivo alla produzione di vantaggi da eterodirezione “virtuosa” mediante operazioni infragruppo, anche a condizioni differenti da quelle di mercato – contraddittoriamente disincentivata dalla disciplina fiscale sopra esaminata. Di più. In presenza di direttive programmaticamente dannose, la legge civile impone, al fine di elidere la responsabilità della capogruppo (e degli altri soggetti legittimati passivi dell’azione di risarcimento del danno) e recuperare la liceità dell’atto, la compensazione del danno, tipicamente effettuata mediante operazioni a valori diversi da quelli di mercato. Il che palesa la grave contraddizione cui conduce la disciplina fiscale oggetto di esame, laddove considera presuntivamente (talvolta senza ammettere neanche la prova contraria) illecita una attività che invece il diritto civile impone come doverosa a pena di esposizione all’azione di risarcimento del danno ed alle altre conseguenze 71 C. ANGELICI, La riforma delle società di capitali. Lezioni di diritto commerciale, Padova, 2003, p. 143; A. NIUTTA, I gruppi, cit., p. 361 ss.

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previste dalla legge – come l’integrazione di una giusta causa di revoca dell’amministratore nonché, ove espressione di una gestione gravemente irregolare, l’esposizione al ricorso ai rimedî di cui agli artt. 2408 e 2409 c.c. 3.1.2. Accentramento di funzioni in società di gruppo “specializzate” (cenni) Si noti come la produzione di vantaggi “da gruppo” possa essere propiziata non solo da operazioni di scambio tra le imprese eterodirette e coordinate, ma anche da modificazioni “strutturali” (in senso economico-industrialistico) delle imprese medesime, modificazioni con le quali si procede all’accorpamento ed alla allocazione “specializzata”, all’interno del gruppo, di funzioni altrimenti esercitate da ciascuna delle società raggruppate. La pratica offre numerosi esempî al proposito (con o senza l’attribuzione alla società fornitrice dell’incarico di svolgere le attività oggetto dei contratti di servizio “in nome e per conto” della società esternalizzante, tema che non rientra nell’oggetto della presente riflessione), che vanno dall’accentramento della funzione di tesoreria a quella di centralizzazione delle funzioni di finanziamento e allocazione del credito (allora tipicamente esercitata dall’ente capogruppo), alla prestazione di garanzie, alla consulenza ed assistenza per l’investimento estero, dalla funzione di approvvigionamento a quella della gestione degli ordini etc 72. Le esternalizzazioni di cui trattasi sono volte, all’evidenza, al perseguimento di un più elevato grado di specializzazione nello svolgimento di determinate attività, al risparmio di risorse ed alla riduzione dei costi. Appare evidente che il perseguimento di tali obiettivi presuppone che la funzione economica accentrata venga esercitata, infragruppo, a condizioni differenti da quelle di mercato sia quanto al corrispettivo del servizio che quanto alla stessa corrispettività tra i servizi prestati e la loro provvista e remunerazione, come avviene in termini particolarmente evidenti come nella ipotesi, ad esempio, di cash pooling c.d. “zero asset” 73. In questa prospettiva, ad una indagine funzionale, ci si avvede che la gestione accentrata di funzioni rappresenta variabile organizzativa che consente il governo accentrato delle operazioni infragruppo a valori differenti da quelli di mercato. 72

Cfr., tra i molti: A. DACCÒ, L’accentramento della tesoreria nei gruppi di società, Milano, 2002; M. MIOLA, Le garanzie intragruppo, Torino, 1993. 73 In tale modello, le singole società di gruppo intrattengono conti correnti presso la società titolare della tesoreria di gruppo. A scadenze fisse, di regola giornaliere, le società del gruppo trasferiscono effettivamente le eccedenze attive dei loro conti su un conto corrente c.d. “accentratore”, tenuto dalla stessa società titolare della tesoreria di gruppo. Tale liquidità viene utilizzata da questa ultima società in favore delle singole società del gruppo in ragione delle loro esigenze di pagamento o della loro crisi di liquidità. Cfr., tra gli altri: A. DACCÒ, L’accentramento della tesoreria nei gruppi di società, Milano, 2002; M. MIOLA, Le garanzie intragruppo, Torino, 1993.

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In altri termini, anziché disciplinare, secondo un modello “reticolare”, gli scambi infragruppo tra le diverse società che ne fanno parte, in tale modello si attribuiscono le competenze inerenti un tipo di scambi ad una società specializzata che, nel ruolo di “nodo” di rete, opera poi come controparte specializzata con tutte le altre società del gruppo (a raggiera). Ci sembra utile, nella presente indagine, richiamare quella ricostruzione che intravede in tale ipotesi talune caratteristiche del contratto normativo – laddove l’accentramento di funzioni infragruppo ed il conseguente regolamento di gruppo che impone di valersi della società “specializzata” per determinate operazioni avrebbero, «come ogni contratto normativo la funzione di regolare rapporti giuridici futuri» 74. La ricostruzione dell’accentramento di funzioni infragruppo come un accordo normativo regolante gli scambi oggetto di accentramento consente di rinviare, per la relativa analisi, alle osservazioni già formulate in relazione alle singole operazioni infragruppo al precedente § 3.1 – trattandosi, a ben vedere, della istituzionalizzazione, in termini organizzativi, degli scambi infragruppo anche a valori diversi da quelli di mercato. 3.1.3. Gli interessi in conflitto con l’effettuazione di operazioni infragruppo a valori diversi da quelli di mercato. La eterogestione della società interamente partecipata Il cambio di prospettiva dall’esame del singolo atto all’esame del risultato complessivo della attività di direzione e coordinamento del gruppo sollecita l’interprete ad interrogarsi sui limiti entro i quali può spingersi l’eterogestione programmaticamente dannosa della società eterodiretta. In altri termini: se l’ordinamento consente di recuperare la liceità di una direttiva programmaticamente dannosa mediante la compensazione del danno, deve chiedersi se sia possibile dirigere una società di gruppo imponendole una gestione programmaticamente in perdita e limitandosi, a fine esercizio, al semplice ripianamento delle perdite accumulate. Il che equivale ad interrogarsi su quali siano gli interessi in contrasto con il compimento di operazioni intragruppo a valori diversi da quelli di mercato. La risposta a tale quesito dipende dalla partecipazione o meno nella società etero diretta di soci “esterni” rispetto al socio di comando. La presenza di soci esterni nella società eterodiretta impone il rispetto della destinazione causale della società stessa e, pertanto, in caso di società lucrativa, il mantenimento di una sufficiente autonoma capacità di produrre utili/utilità per i suoi soci. 74

157.

F. GALGANO, I gruppi di società, in ID. (diretto da), Le società – Trattato, Torino, 2001, p.

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Ciò non consente di sostenere che la società che esercita l’attività di direzione e coordinamento sia vincolata a rendere le società eterodirette partecipi in misura paritaria (o “equa”, ovvero altra formula analoga) dei vantaggi prodotti dall’articolazione in gruppo. Al contrario, significa che la riallocazione di rischî, profitti e perdite tra le società unidirette non è libera ma deve sottostare ad un vaglio di “correttezza, consistente nella verifica del rispetto della causa lucrativa della società eterodiretta, a tutela della redditività e del valore della partecipazione sociale dei soci esterni 75. Tali considerazioni valgono solo, ovviamente, se ed in quanto la società eterodiretta sia partecipata anche da soci esterni al socio di controllo. In assenza di soci esterni, infatti, la società eterodiretta potrebbe essere “correttamente” gestita anche “a saldo zero”, cioè mediante una attività esclusivamente in perdita, in favore di altre società del gruppo, ed oggetto di mera compensazione a fine esercizio. Ciò con l’unico limite della tutela dell’interesse dei creditori alla integrità del patrimonio della società. Il che, peraltro, potrebbe essere un limite ben facilmente oltrepassabile, quando i creditori fossero assistiti da idonee e solide garanzie emesse in loro favore da parte della capogruppo o di altra società del gruppo 76. Il che rappresenta l’ennesimo punto di emersione del favor normativo per la produzione di vantaggi da gruppo, laddove, in assenza di soci esterni (il che vale a dire: rispetto alle società controllate, direttamente o indirettamente, in via totalitaria dalla capogruppo), la legge consente di effettuare operazioni a valori diversi da quelli di mercato oltre il limite della violazione sistematica della causa lucrativa della società eterodiretta, purché tale attività non leda l’interesse dei creditori, da accertare tuttavia non limitatamente alla sola società eterodiretta ma nella più ampia prospettiva delle eventuali garanzie prestate da altre società appartenenti al gruppo.

3.2. Conseguenze del favor normativo sul piano degli atti intragruppo L’appartenenza ad un gruppo è, poi, idonea a determinare la variazione della “giustificazione causale” degli spostamenti di ricchezza, effettuati o promessi, in75

Pertanto, la società eterodiretta non può essere programmaticamente destinata a trasferire l’utile della propria gestione in favore di altre società del gruppo. Il che significa che il compimento sistematico di operazioni in danno della società eterodiretta può essere contrastato dai soci esterni, nel perseguimento del loro interesse alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, pur in presenza di “compensazione” del danno, quando esso deprivi la società eterodiretta della sua idoneità ad operare come “centro di profitto”. Anche su tale tema, per ragioni di economia espositiva, si rinvia a E. MARCHISIO, La “corretta gestione” della società eterodiretta, cit., p. 941 ss. 76 Laddove l’esistenza della garanzia “intragruppo”, ove sufficiente a soddisfare il credito e facilmente eseguibile, farebbe venir meno l’interesse del creditore a dolersi giudizialmente della ridotta capacità patrimoniale della società debitrice principale garantita.

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terni al gruppo o a favore d’una società che al medesimo appartenga. Il primo ambito di disciplina cui può farsi riferimento è quello della nullità del trasferimento per mancanza di causa ovvero della qualificazione come “atto di liberalità” del trasferimento di ricchezza sprovvisto di prestazione corrispondente o corrispettiva, e della conseguente necessità del rispetto dei requisiti formali richiesti dall’art. 782 c.c., a pena di nullità, per la stipulazione delle donazioni. La dottrina che più specificamente si è occupata del tema ha sottolineato come l’appartenenza ad un gruppo di società sia elemento sufficiente, di regola, a provvedere di giustificazione causale l’attribuzione patrimoniale gratuita. Riteniamo che tale giustificazione ricorra indipendentemente dal rapporto sussistente tra la società avvantaggiata e quella svantaggiata dall’operazione (operazioni cc.dd. upstream, downstream e cross-stream) 77. La Corte di cassazione ha ritenuto che in una ipotesi di attribuzione patrimoniale formalmente priva di corrispettivo (nel caso di specie: la cessione di un credito verso terzi) la qualificazione come donazione fosse da escludere qualora espressione di «una logica di gruppo … espressione di una politica imprenditoriale volta al perseguimento di obiettivi che trascendono quelli delle singole società partecipanti» 78. 77

Nei rapporti con società “a valle”, il rapporto di controllo interno sembra rappresentare una ipotesi particolarmente forte di giustificazione, proprio perché determinante la partecipazione alla gestione ed ai risultati della controllata da parte della controllante. Tuttavia non sembra ingiustificato estendere la giustificazione su un più ampio criterio dell’interesse del finanziatore all’attività del finanziato – che, dunque, può ben ricostruirsi tanto upstream che downstream che, infine, cross-stream, in ragione del disegno concreto delle relazioni e dei meccanismi di produzione del relativo “vantaggio da gruppo”. Sul tema cfr. M. MIOLA, Le garanzie intragruppo, cit., p. 96 ss. 78 Cass. 11 marzo 1996, n. 2001, Foro it., 1996, I, c. 1222. Nell’itinerario logico seguito la Corte ha preso le mosse dalla considerazione, pacifica, per la quale l’assenza di corrispettivo è sufficiente a definire un negozio “a titolo gratuito”, che rappresenta categoria alternativa all’altra dei negozî “a titolo oneroso”, ma non ad individuare i caratteri della donazione. L’atto gratuito, infatti, si caratterizza bensì per l’assenza di corrispettivo immediato e diretto, ma non esclude che il “motivo” dell’atto sia comunque economico, ed è solo quando il “motivo” non sia tale, e dunque consista in una attribuzione patrimoniale determinata da «puro spirito di liberalità» (cfr. la Relazione al c.c., par. 372), che l’ordinamento richiede a tutela del donante le formalità anzidette. La giustificazione del maggior rigore formale imposto per la donazione si giustifica, in altri termini, proprio in ragione della “esilità” della sua giustificazione causale. Orbene: ciò premesso, la Corte ha correttamente notato come la società eterodiretta (che per una attestata tendenza giudiziaria alla sineddoche viene definita “controllata”) «per il fatto di essere inserita in un’aggregazione più vasta creata per esigenze obbiettive di coordinamento e di razionalizzazione dell’attività imprenditrice, viene non di rado a conseguire dei vantaggi che la compensano dei pregiudizi eventualmente subiti per effetto di altre operazioni. Se, pertanto, l’atto obbedisce ad una “logica di gruppo” (ed è quindi espressione di una politica imprenditoriale volta al perseguimento di obbiettivi che trascendono quelli delle singole società partecipanti) appare ben difficile ravvisare gli elementi che, dal punto di vista soggettivo e da quello oggettivo, sono necessari per la sussistenza di una donazione». Prosegue, Cass. 2001/1996, cit., portando a sostegno della ricostruzione due argomenti. A

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In tal caso, ha notato la Corte della legittimità, l’attribuzione patrimoniale rappresenta un «atto preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto e, quindi, ben diverso da quello preso in considerazione dall’art. 769 c.c.» 79. L’appartenenza ad un gruppo di società, pertanto (e questo è il punto), rappresenta un fatto che, in quanto tale, consente di considerare l’attribuzione patrimoniale pur se negozialmente priva di corrispettivo alcuno come operazione causalmente “solida” – proprio perché il riferimento che consente di provvedere giustificazione causale all’atto non si limita alla società atomisticamente considerata ma si estende, invece, al contesto più ampio del gruppo cui la medesima appartiene. A considerazioni simili deve pervenirsi quando si abbia riguardo all’applicazione dell’art. 64 L. fall., vòlto – come noto – a rendere non opponibili ai creditori dell’impresa dichiarata fallita gli atti a titolo gratuito compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento. In relazione a tale vicenda la Corte di cassazione si è spinta oltre la qualificazione dell’atto intragruppo privo di corrispettivo come “gratuito” ma comunque assistito da motivo economico, per pervenire, evidentemente anche in relazione ai fatti di causa, al principio della non corrispondenza tout court tra l’assenza di corrispettivo e la qualificazione come “gratuito” di un atto. Essa ha affermato il principio per il quale «gli interventi gratuiti compiuti da una società a favore di un’altra società giuridicamente autonoma dalla prima, ma ad essa collegata, debbono presumersi – qualora ricorrano particolari circostanze che rivelino unitarietà di finalità e di amministrazione non già come espressione di spirito di condiscendenza e di liberalità, bensì come atti preordinati al soddisfacimento di un proprio interesse economico, sia pure mediato e indiretto, ma giuridicamente rilevante» 80. Il concetto stesso di sinallagma, normalmente coessenziale al negozio cui si riferisce, si configura in modo peculiare quando se ne verifichi la ricorrenza nel mente del primo, nella sentenza si rileva che se l’operazione è stata determinata dall’attività di eterodirezione non può essere qualificata come compiuta “per spirito di liberalità” (e, sul punto, cita a sostegno Cass. 3 giugno 1980, n. 3261, nonché Cass. 9 aprile 1980, n. 2273). Con il secondo argomento, inoltre, la Suprema Corte sottolinea che la valutazione del depauperamento della società asseritamente donante richiede che si tenga conto della complessiva situazione di gruppo e degli eventuali vantaggi derivanti alla medesima nell’ambito del gruppo. 79 Ibidem, citando a sostegno Cass. 14 settembre 1976, n. 3150. Si noti, per inciso, come anche in materia fiscale la remissione del debito da parte della società holding a favore di una sua controllata non è considerato, ai fini dell’imposta di registro, “atto di liberalità”, ché l’atto risponde ad un interesse patrimoniale, pur se mediato ed indiretto, della holding medesima a ridurre il passivo della società beneficiaria ed a evitarne l’insolvenza, con potenziale ripercussione sul funzionamento del gruppo: Cass. 20 marzo 1968, n. 2215, in Riv. legisl. fisc., 1969, p. 263; Cass. 2 aprile 1969, n. 1693, ivi, 1969, p. 1948; Cass. 20 ottobre 1969, n. 907, ivi, 1970, p. 1853. 80 Cass. 29 settembre 1997, n. 9532, in Fallimento, 1998, p. 1041, che sul punto cita, tra i precedenti conformi, la già esaminata Cass. 2001/1996.

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contesto d’una operazione intragruppo; in tal caso, «dovendosi tener conto, per un verso, della logica di gruppo (che si riflette nell’attività delle singole società controllate) e, per altro verso, dell’interesse economico che, sia pure in via mediata, viene a realizzare la società che assume l’obbligazione» 81. Interesse economico che, tuttavia, deve pur sempre sussistere, non bastando la mera appartenenza al gruppo, di per sé, a giustificare l’attribuzione patrimoniale 82. Insomma: anche sotto tale profilo si coglie il favor normativo per il compimento di atti infragruppo a valori diversi da quelli di mercato, laddove l’appartenenza al gruppo è idonea, in principio, ad integrare il requisito di “controprestazione” sufficiente ad escludere che l’atto intragruppo privo di corrispettivo possa qualificarsi come “atto di liberalità” ai sensi dell’art. 782 c.c. o che possa essere inefficace nei confronti della massa dei creditori ex art. 64 L. fall. 83.

3.3. Conseguenze del favor normativo nelle procedure concorsuali In materia di procedure concorsuali, l’indagine di cui trattasi può essere utilmente svolta in tre diverse prospettive. 3.3.1. Regole espressamente destinate al gruppo In primo luogo, devono esaminarsi le disposizioni che, in relazione alla disciplina dell’insolvenza, espressamente prevedono una disciplina del “gruppo” – chiarendo sin da subito che in nessun caso esse fanno riferimento alla insolvenza del gruppo, rimanendo i patrimoni delle singole società separati ed autonomi, ma piuttosto considerano l’insolvenza nel gruppo. Il primo riferimento deve essere fatto al D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (c.d. “legge Prodi bis”) 84, il cui titolo IV è proprio denominato «Gruppo di imprese» – significativamente definito non solo in ragione del rapporto di controllo ma este81

Cass. 5 dicembre 1998, n. 12325, in Giur. it., 1999, p. 2317, con nota di P. MONTALENTI. Cass. 20 giugno 1958, n. 2149, ripresa, fra le altre, da Cass. 14 settembre 1976, n. 3150, in Riv. dir. comm., 1978, II, p. 221, nota G. FERRI; Cass. 4 giugno 1985, n. 3360, in Banca borsa tit. cred., 1986, II, 381, nota G. SCOGNAMIGLIO. 83 Ne consegue, come abbiamo avuto occasione di osservare altrove (E. MARCHISIO, Usi alternativi del gruppo di società, cit., p. 138 ss.), che la provenienza di un “prestito” da parte di una società del medesimo gruppo possa essere considerata circostanza di per sé idonea, eventualmente con il concorso di ulteriori elementi, a costituire un elemento di prova della causa societatis dell’operazione e, pertanto, ad assoggettare il finanziamento al regime degli apporti a patrimonio netto anziché a quello del debito. 84 Procedura concorsuale, come noto, «con finalità conservative del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali» (art. 1), la cui ammissione è condizionata a che le imprese «presentino concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali» (art. 27, comma 1) mediante un programma di cessione dei complessi aziendali ovvero di ristrutturazione (art. 27, comma 2). 82

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so anche alle «imprese che, per la composizione degli organi amministrativi o sulla base di altri concordanti elementi, risultano soggette ad una direzione comune a quella dell’impresa sottoposta alla procedura madre», proprio in ragione della esigenza funzionale di definire il gruppo in ragione della sua idoneità ad una gestione unitaria della pluralità di società che ne fanno parte 85. Il favor per la produzione del plusvalore di gruppo si percepisce alla lettura dell’art. 81 del D.Lgs. n. 270/1999, laddove, a seguito dell’apertura della procedura di amministrazione straordinaria “madre”, consente alle altre imprese del gruppo insolventi di essere ammesse alla medesima procedura anche qualora esse non presentino, individualmente, i requisiti richiesti per l’ammissione alla procedura (art. 81, comma 1) 86. In particolare, tale estensione è consentita sia quando la società insolvente serve al gruppo 87 che quando invece il gruppo serve alla società insolvente 88. Le due disposizioni sono accomunate dall’essere fondate sulla idoneità della direzione unitaria delle società del gruppo alla produzione di plusvalore da etero gestione – come testimoniato dal fatto che il ricorso per la dichiarazione dello stato di insolvenza dell’impresa del gruppo «può essere proposto anche dal commissario straordinario della procedura madre» (art. 82, comma 2). 85

Tale estensione, infatti, «riposa sull’esigenza di consentire, nella logica dei rapporti all’interno del gruppo, la gestione unitaria delle imprese a questo appartenenti …» (TAR Lazio, sez. III, 16 luglio 2004, n. 6998). 86 E ciò anche quando il decreto che dichiara aperta la procedura madre è emesso dopo la sentenza di fallimento di una impresa del gruppo, nel qual caso il tribunale che ha dichiarato il fallimento dell’impresa facente parte del gruppo ne dispone la conversione in amministrazione straordinaria, qualora sussistano i presupposti stabiliti dall’articolo 81 e sempre che non sia già esaurita la liquidazione dell’attivo (art. 84, comma 1). Corrispondentemente, la conversione in fallimento e la chiusura della procedura madre determinano la conversione in fallimento della procedura di amministrazione straordinaria delle imprese del gruppo in rapporto alle quali non sussistono le condizioni previste dall’articolo 27 (art. 87, comma 1). 87 Cioè «quando risulti comunque opportuna la gestione unitaria dell’insolvenza nell’ambito del gruppo, in quanto idonea ad agevolare, per i collegamenti di natura economica o produttiva esistenti tra le singole imprese, il raggiungimento degli obiettivi della procedura» (art. 81, comma 2). Ciò anche quando l’impresa non presenti le concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali richieste dall’art. 27, comma 1 – nel qual caso, in considerazione della opportunità della gestione unitaria dell’insolvenza nell’ambito del gruppo, il commissario straordinario predispone un programma integrativo di quello approvato a norma dell’articolo 57 nell’ambito della procedura madre o in relazione ad altra impresa del gruppo ammessa alla procedura (art. 86, comma 2). 88 Cioè qualora tali società «presentino concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali», evidentemente valorizzate nell’ambito di una gestione unitaria più ampia (art. 81, comma 2). In tal caso, ai sensi dell’art. 86, comma 1, il commissario straordinario predispone un programma secondo uno degli indirizzi alternativi previsti dall’art. 27, comma 2 (art. 86, comma 1).

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La direzione unitaria è garantita dalla preposizione, per ogni impresa appartenente al gruppo, degli stessi organi nominati per la procedura madre (art.85, comma 1), salva l’eventuale integrazione del comitato di sorveglianza 89, fermo restando che, stante la perdurante autonomia dei patrimoni sociali, le spese generali della procedura sono imputate alle singole imprese del gruppo in proporzione delle rispettive masse attive (art. 85, comma 2). L’esistenza dei rapporti di gruppo, poi, è considerata come presupposto per l’alterazione delle regole dettate per le imprese autonome in materia di denunzia al tribunale (art. 89) ed azioni revocatorie (art. 91), oltre che per la previsione di uno “speciale” caso di responsabilità nei casi di direzione unitaria (art. 90) 90. Un simile riconoscimento del gruppo si rinviene nel D.L. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, in L. 18 febbraio 2004, n. 39 (c.d. “decreto Marzano”) 91, che non a caso all’art. 8 prevede un rinvio generale al D.Lgs. 270/1999 per tutto quanto non disposto diversamente. Il D.L. n. 347/2003, tuttavia, lascia trasparire una evoluzione normativa nella direzione di una maggiore attenzione del legislatore nei confronti del gruppo, in particolare come forma di aggregazione di una pluralità di imprese accomunate (potenzialmente) dall’esercizio di una attività economica unitaria. In primo luogo, secondo un percorso estensivo rispetto al D.Lgs. n. 270/1999, i requisiti per l’ammissione alla procedura possono essere verificati non solo rispetto ad una singola impresa ma anche «come gruppo di imprese costituito da almeno un anno» (art. 1). Anche in tale procedura il commissario straordinario può richiedere al Ministro delle attività produttive l’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria di altre imprese del gruppo (art. 3, comma 3) 92, al fine di consentire alla procedura la produzione del plusvalore “da gruppo”. Nel programma di ristrutturazione il commissario straordinario può prevede89

E ciò anche in eccedenza rispetto al numero massimo dei componenti stabilito dal comma 1 dell’art. 45, al fine di assicurare il rispetto della disposizione prevista dal secondo periodo dello stesso comma 1 del medesimo art. 45. 90 Testualmente: «Nei casi di direzione unitaria delle imprese del gruppo, gli amministratori delle società che hanno abusato di tale direzione rispondono in solido con gli amministratori della società dichiarata insolvente dei danni da questi cagionati alla società stessa in conseguenza delle direttive impartite». Tale disposizione è da ritenere assorbita dal disposto dell’art. 2497 c.c. 91 Parimenti volta alla ristrutturazione economica e finanziaria di cui all’art. 27, comma 2, D.Lgs. n. 270/1999. 92 Peraltro definito come inclusivo anche delle imprese partecipate che intrattengono, in via sostanzialmente esclusiva, rapporti contrattuali con l’impresa sottoposta alle procedure previste dal presente decreto, per la fornitura di servizi necessari allo svolgimento dell’attività. Il successivo comma 3 bis sancisce il principio per il quale l’appartenenza al medesimo gruppo giustifica, ma non impone, un programma unitario, laddove consente che la procedura dell’impresa di gruppo possa attuarsi unitariamente a quella relativa alla capogruppo ovvero in via autonoma.

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re la soddisfazione dei creditori attraverso un vero e proprio concordato di gruppo, i cui contenuti sono previsti in termini assolutamente flessibili, la cui proposta «può essere unica per più società del gruppo sottoposte alla procedura di amministrazione straordinaria, ferma restando l’autonomia delle rispettive masse attive e passive» (art. 4 bis, comma 2) 93. Significativo è l’art. 5, eloquentemente rubricato «Operazioni necessarie per la salvaguardia del gruppo» che, per quanto ora maggiormente interessa, consente l’autorizzazione di «operazioni di cessione e di utilizzo di beni, di aziende o di rami di aziende» qualora finalizzate alla ristrutturazione dell’impresa o alla salvaguardia del valore economico e produttivo totale o parziale «del gruppo» (art. 5, comma 1). Il dato è di particolare rilievo, laddove il gruppo cessa di essere considerato come mero “contesto” operativo delle imprese che ne fanno parte ma diviene, per dir così, oggetto di tutela. 3.3.2. Regole interpretativamente estese al gruppo La disciplina del fallimento non prevede una espressa disciplina del gruppo – ciò in ragione del fatto che il R.D. 16 marzo 1942, n. 267, nonostante le numerose modificazioni, ancora oggi è disegnato paradigmaticamente sull’imprenditore persona fisica – tanto è vero che dedica un capo, il decimo, alle disposizioni applicabili quando a fallire sia una società. Nondimeno, in diverse vicende la giurisprudenza ha mostrato di riconoscere come rilevante l’appartenenza ad un gruppo quando ciò poteva consentire un migliore esito della procedura concorsuale. Ciò è avvenuto, in particolare, quando l’appartenenza al gruppo e la possibilità della produzione del relativo plusvalore è parso elemento cruciale ai fini del risultato positivo della procedura 94 anche mediante il coinvolgimento negoziale nella stessa delle altre imprese di gruppo non in crisi e, pertanto, nelle procedure di risanamento (concordato preventivo e amministrazione controllata, questa ultima abrogata dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) piuttosto che nel fallimento. Tale riconoscimento ha determinato, in passato, ad esempio, la riunione di 93

Da tale autonomia possono conseguire trattamenti differenziati, pur all’interno della stessa classe di creditori, a seconda delle condizioni patrimoniali di ogni singola società cui la proposta di concordato si riferisce. Tale disposizione rappresenta un ulteriore elemento da cui desumere il favor del legislatore per i gruppi. Il raggruppamento dei creditori anche di diverse società del gruppo in una unica classe, accompagnato alla regola che consente il loro trattamento differenziato pur se all’interno della medesima classe, appare chiaramente destinato all’obiettivo di accelerare la procedura, facilitarne l’approvazione e ridimensionare la portata del rimedio attribuito dalla disposizione di cui all’ultima parte dell’art. 4 bis, comma 9. 94 Per una soluzione originale mediante la costituzione, tra le società del gruppo, di una s.n.c. nell’ambito della procedura cfr. Trib. La Spezia, 27 aprile 2011, www.ilcaso.it.

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procedure formalmente differenti ma facenti capo a società appartenenti al medesimo gruppo 95, l’ammissione alla procedura di amministrazione controllata subordinatamente a che la «possibilità di risanamento riguard[asse] tutte o alcune delle società in rapporto alla evoluzione della gestione del gruppo» 96, la valutazione della adeguatezza delle garanzie offerte per l’adempimento del concordato cumulativamente in capo a tutte le società appartenenti al medesimo gruppo 97 nonché lo svolgimento delle operazioni di ristrutturazione o liquidazione in relazione al gruppo unitariamente considerato 98. Oggi il contesto normativo sembra ancor più favorevole al riconoscimento del gruppo nelle procedure straordinarie in ragione della avvenuta promulgazione degli artt. 2497 ss. c.c., disciplina, peraltro di favore, dell’attività di direzione e coordinamento e della sempre maggiore propensione mostrata dal legislatore nei confronti delle procedure concorsuali di “salvataggio” dell’impresa in crisi – procedure che meglio consentono di apprezzare e valorizzare il plusvalore “da gruppo” rispetto alle procedure di natura liquidatoria come il fallimento 99. Può menzionarsi, al proposito, l’art. 160, comma 1, lett. a), L. fall. laddove prevede che l’imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano che può prevedere, tra le altre, operazioni straordinarie – per quanto ora interessa, tra società dello stesso gruppo, al fine di coinvolgere le società in bonis appartenenti al gruppo al “salvataggio” di quelle in stato di crisi 100. Il gruppo può essere valorizzato anche mediante la «attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore» di cui alla successiva lett. b, nonché il «conferimento dell’azienda 95

Trib. Roma, 25 giugno 1993, in Giur. comm., 1994, II, p. 100, che ha riconosciuto la «particolare singolarità del sistema economico-finanziario del gruppo che influenza direttamente le sorti delle controllate e della stessa capogruppo» ed ha, di conseguenza, riunito le procedure in un’unica procedura unitaria al fine di propiziare «una visione unitaria delle funzioni e della situazione finanziaria» delle società coinvolte, tuttavia lasciando distinte le procedure da un punto di vista contabile. 96 Trib. Perugia, 19 aprile 1985, Fallimento, 1986, p. 311, rispetto ad un piano che prevedeva la sospensione dell’attività di una delle società di gruppo e la destinazione di nuovi finanziamenti a favore delle altre società al medesimo gruppo appartenenti. 97 Trib. Terni, 19 maggio 1997, Fallimento, 1998, p. 290, che ha sottolineato come tale soluzione integrava il requisito della «convenienza economica del concordato per i creditori, in relazione alle attività esistenti e all’efficienza dell’impresa» (art. 181, comma 1, n. 1, L. fall. previgente) posto che la procedura fallimentare non avrebbe portato ad un risultato migliorativo per i creditori. 98 Trib. Ivrea, 22 febbraio 1995, in Fallimento, 1995, p. 969. 99 Nonostante in taluni casi la gestione dell’impresa possa rilevare, nel fallimento, al fine di una migliore realizzazione del patrimonio aziendale, ad esempio quando funzionale al trasferimento dell’azienda come complesso produttivo, da preferirsi, ex art. 105 L. fall., alla liquidazione dei singoli elementi che la compongono. 100 Sul tema cfr., tra i molti, F. GUERRERA-M. MALTONI, Concordati giudiziali e operazioni societarie di “riorganizzazione”, in Riv. soc., 2008, p. 17 ss.

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in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione» nell’ambito del c.d. concordato con continuità aziendale (art. 186 bis L. fall.) 101. Correttamente, riteniamo, in letteratura si ritiene che tali riferimenti debbano interpretarsi come espressione della volontà del legislatore «di lasciare ampio spazio alle soluzioni degli operatori purché basate su dati veritieri che si traducano in soluzioni fattibili (art. 161, comma 3) nonché, naturalmente, giudicate convenienti dai creditori» 102. Particolarmente rilevante è, al proposito, la disciplina dettata dall’art. 182 quater L. fall., alla luce del quale il finanziamento intragruppo alla impresa in crisi, il cui rimborso è di regola postergato rispetto al rimborso di tutti gli altri crediti, si avvantaggia invece del beneficio della prededuzione quando esso sia effettuato in esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato – proprio al fine di incentivare i finanziamenti di salvataggio all’interno del gruppo 103. 3.3.3. Proposte di valorizzazione del gruppo nella “gestione” della crisi Le regole sinora esaminate attengono alla possibilità, nel caso di insolvenza, di gestione unitaria della procedura ovvero di intervento anche di altre società del gruppo in bonis per il recupero della redditività della società in crisi. Deve riflettersi, seppure nei limiti di spazio imposti dalla natura del presente contributo, anche sulla possibilità a che la capogruppo (o altra società del gruppo) siano invece obbligate ad intervenire per risolvere la crisi dell’impresa di gruppo ed evitarne l’insolvenza. L’idea che la capogruppo debba, in un certo senso, farsi carico della crisi delle società appartenenti al gruppo non è nuova ed è stata promossa, tra le altre, nel Rapporto Finale del c.d. High Level Group of Company Law Experts 104, che ha suggerito agli Stati Membri il principio per il quale in caso di insolvenza della società eterodiretta, la capogruppo dovrebbe essere «obbligata a provvedere senza indugio a risanare in modo energico la controllata o a disporre la sua liquidazione in forma ordinata». Come abbiamo già notato altrove 105, non riteniamo di condividere la tesi per 101

Per una ipotesi di applicazione della disciplina concorsuale orientata al riconoscimento del contesto del gruppo cfr. Trib. Milano, 10 novembre 2009 (decr.), Dir. fall., 2010, II, 205 ss. nota di G.M. PERUGINI, Accordi di ristrutturazione dei debiti: omologazione richiesta da gruppi societari e condizioni di attuabilità (il caso Risanamento). Prime considerazioni. 102 M. GARCEA, La rilevanza del gruppo nelle gestioni negoziate della crisi di impresa, in Riv. soc., 2012, nota n. 31 e testo cui si riferisce. 103 Sul tema cfr. E. MARCHISIO, I “finanziamenti anomali” tra postergazione e prededuzione, in Riv. notariato, 6/2012, p. 1295 ss. 104 Si legge in http://ec.europa.eu/internal_market/company/modern/index_en.htm. 105 E. MARCHISIO, Contratti ed “eterodirezione” della società, cit., nota 56 e testo cui si riferisce.

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la quale i principi di “corretta gestione societaria e imprenditoriale” di cui all’art. 2497 c.c. rappresenterebbero «“criteri di decisione” del potere di c.d. direzione unitaria» idonei a dare «“origine a “regole di condotta” per la società capogruppo e per l’organo amministrativo di quest’ultima» 106. I detti principi, infatti, sono da intendere non come obbligo positivo dell’esercizio dei poteri di ingerenza nella gestione della società eterodiretta ma, al contrario, come mero limite negativo all’azione della capogruppo nell’esercizio della eterodirezione 107. Ne consegue che, in caso di eterodirezione di fatto, alla capogruppo non può imputarsi alcun obbligo di “salvataggio” in conseguenza delle difficoltà economiche della società eterodiretta. Il favor del legislatore nei confronti della operatività del gruppo sarebbe percepibile nella circostanza per la quale il rapporto di eterodirezione legittimerebbe tali interventi di salvataggio, in quanto consentirebbe di considerarli coerenti con l’oggetto e l’interesse sociale adeguato alla realtà di gruppo nei termini sopra evidenziati 108. Li legittimerebbe, riteniamo, ma certo non li imporrebbe. In caso di eterodirezione di fonte contrattuale, invece, la capogruppo potrebbe essere chiamata a fornire assistenza economica e finanziaria o ad intervenire in altro modo, qualora ciò sia previsto dal contratto di eterodirezione, e comunque la situazione di crisi può valere come fatto rilevante nell’ambito della esecuzione del contratto di eterodirezione 109.

4. Il problema di coordinamento normativo ed il rischio di disincentivo, di origine fiscale, a condotte imprenditorialmente efficienti e civilisticamente lecite o doverose Risulta ormai chiara la contraddizione tra la disciplina giuscommercialistica, che consente, incentiva e talvolta addirittura pretende la produzione di vantaggi da eterodirezione mediante operazioni infragruppo a condizioni differenti da quelle di mercato, e la disciplina fiscale, che invece tali operazioni disincentiva e, anzi, in principio sanziona. A ben vedere, la ricostruzione del reddito di impresa in base a valori medi sta106

U. TOMBARI, Crisi di impresa e doveri di “corretta gestione societaria e imprenditoriale” della società capogruppo. Prime considerazioni, in Riv. dir. comm., 2011, p. 631 ss. spec. p. 637. 107 E. MARCHISIO, La “corretta gestione” della società eterodiretta, cit., passim. 108 Cfr. supra, § 3.1. 109 Ma, allora, anche ai fini della risoluzione del contratto per inadempimento (artt. 1453 ss. c.c., evidentemente, in caso di contratto plurilaterale anziché fascio di contratti, in relazione alla sola società in difficoltà e non all’intero “gruppo”: cfr. art. 1459 c.c.), se del caso mediante apposita clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.), e della sospensione della prestazione ex art. 1461 c.c.

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tisticamente riferiti al settore economico di appartenenza e non al valore effettivamente praticato negli scambi appare idoneo a far sì che il valore “normale” ricostruito dall’Autorità fiscale divenga «esso stesso presupposto sostanziale in un processo di “normalizzazione atecnica del reddito”, esprimendo di fatto un “dover essere” fiscale» 110 idoneo a definire, a cascata, anche un (totalmente irrazionale ed antieconomico) “dover essere” commerciale. Ciò tanto più quando tale riferimento non sia utilizzato negli speciali e limitati casi di contrasto a fenomeni patologici ma come attitudine interpretativa generale, ed a fortiori «in assenza di una effettiva possibilità per il contribuente di fornire la giustificazione dello scostamento ai canoni ordinari di logica economica» 111. Riteniamo che l’interpretazione delle, ed il coordinamento tra le, due discipline debba avvenire prendendo le mosse dal significato normativo che deve essere attribuito al gruppo nella materia di cui trattasi; in altri termini, dal quesito se ed in che misura l’assoggettamento delle medesime società alla direzione unitaria possa, e debba, trovare riconoscimento da parte del diritto tributario. Appare evidente, da un lato, che in taluni casi l’assoggettamento a direzione unitaria di una pluralità di società non meriti considerazione nel diritto tributario, come avviene in relazione all’obbligo di fatturazione (anche) per le operazioni intragruppo, trattandosi di scambi tra soggetti distinti e dotati di propria personalità giuridica, violandosi, in caso contrario, il disposto di cui all’art. 21, D.P.R. n. 633/1972 112 – problema peraltro correntemente oggetto di proposte normative che vorrebbero, al contrario, considerare il gruppo unitariamente ai fini IVA. Dall’altro lato, appare altrettanto evidente che la qualificazione, ai fini fiscali, di una operazione non può prescindere dalla sua “realtà economica” e dalla disciplina civilistica che ne regola il funzionamento 113. Ciò tanto più quando la di110

A. BALLANCIN, L’antieconomicità tra occultamento di capacità contributiva, elusione fiscale ed il “dover essere” tributario, nota a Cass. 6 ottobre 2011, n. 20451, sez. Tributaria, in Riv. dir. trib., 2012, 3, 199. 111 Ibidem. 112 Cass. 30 marzo 2007, n. 7964. 113 Esemplare, al proposito, seppure in un ambito ben diverso, la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Milano 26 marzo 2012, n. 55/18. In tale decisione la Commissione Tributaria doveva valutare se ricorressero elementi di prova sufficienti per superare la presunzione di onerosità del mutuo (art. 1815 c.c.) – precisando che la prova della mancata percezione non incombe sul Fisco, stante la menzionata presunzione civilistica della spettanza degli interessi (Cass., sez. trib., 7 maggio 2010, n. 11154, in Riv. dir. trib., 2010, 9, II, p. 469, nota di BEGHIN; Cass., sez. trib., 11 aprile 2008, n. 9498, in Giust. civ. Mass., 2008, 4, p. 564). Il problema consiste nella previsione, nella disciplina fiscale, della presunzione per la quale, in assenza di prova scritta, i prestiti si considerano produttivi di interesse. Bene: la Commissione Tributaria ha osservato che «a mente dell’art. 1350 cod. civ. fatta eccezione per alcuni contratti tipizzati e indicati nella norma stessa, tutti gli altri, purché non siano contrari a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume (art. 1343

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sciplina tributaria sia motivata dal richiamo ai principi di “correttezza” e “razionalità” della gestione di impresa – principi che, come osservato supra, subiscono rilevanti modificazioni quando applicati nel contesto del gruppo. Sul punto occorre fare una precisazione. Non si contesta l’ammissibilità di una disciplina tributaria che imponga una condotta che invece nel diritto civile è prevista come alternativa ad una o più altre, quando tale alternativa sia prevista come neutrale nell’ordinamento civile e, soprattutto, quando essa sia espressamente disciplinata dall’ordinamento tributario, come ad esempio avviene in materia di nominatività obbligatoria dei titoli azionari 114. Ci sembra, invece, inaccettabile che la disciplina tributaria consideri con disfavore o comunque disincentivi attività che sono, invece, incentivate ed addirittura imposte dal diritto civile – ed a maggior ragione quando tale disfavore non sia oggetto di espressa ed univoca disposizione di legge ma sia, al contrario, frutto di complesse architetture interpretative.

4.1. Le ragioni del dissenso rispetto all’orientamento interpretativo in esame Chi condivida tali affermazioni non potrà non condividere anche quella, ulteriore, per la quale la sanzione dello scostamento del valore dell’operazione intragruppo rispetto ai valori “normali”, in mancanza della prova dell’evasione o del presunto disegno elusivo, sia una opzione interpretativa inaccettabile. Non interessa, in questa sede, soffermarsi sulle censure di marca prettamente fiscale – che, innanzitutto, evidenziano come l’orientamento criticato consenta all’ordinamento di tassare non la ricchezza realmente prodotta e misurata secondo canoni oggettivi ma, al contrario, una capacità economica astratta e putativa, peraltro in patente contrasto al modello di determinazione analitica del reddito ispiratore della riforma tributaria del 1971 115. cod. civ.), possono assumere la forma che le parti dovessero ritenere più opportuna, nel libero esercizio dell’attività di impresa, costituzionalmente protetto, anche semplicemente in forma verbale». 114 Laddove nonostante l’art. 2354 c.c. consenta la scelta tra l’emissione del titolo come al portatore o nominativo, la nominatività è di fatto imposta per la quasi totalità dei casi dalla disciplina fiscale dettata con D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. 115 È a tutti noto come, con il testo unico del 1958 e poi, soprattutto, con la riforma del sistema tributario del 1971, si sia abbandonata la tendenza ad assoggettare ad imposizione un reddito forfetariamente determinato, a favore della tassazione del reddito effettivo, inteso come il risultato differenziale di componenti di segno positivo e negativo, quale emerge delle risultanze delle scritture contabili obbligatorie. Sulla nozione di reddito effettivo e reddito normale e sulla scelta del primo quale miglior criterio per la determinazione del reddito nella riforma dell’ordinamento tributario, cfr., per tutti, F. GALLO, Il dilemma reddito normale o reddito effettivo: il ruolo dell’accertamento induttivo, in AA.VV., Per un’imposta sul reddito normale, Bologna, 1990, 309-329; L. TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale – Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfetarie, Milano, 1999, p. 6 ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici.

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Interessa, invece, esaminare lo stesso principio ispiratore di un tale orientamento, laddove esso consente di sanzionare tutte le operazioni non corrispondenti ad un astratto criterio di “corretta” gestione riqualificandole, invece, secondo i valori conformi ai canoni della “logica economica” nella gestione dell’impresa. Non coglie, la giurisprudenza tributaria citata, che il criterio di “corretta gestione” abbia un contenuto profondamente differente quando riferito ad una società indipendente ovvero ad una società appartenente ad un gruppo. E ciò non solo sul piano delle mere utilità ritraibili sul piano economico, ma, espressamente, sul piano delle norme disciplinanti le attività intragruppo, che come sopra chiarito alterano le regole “comuni” di disciplina della società proprio per consentire di recuperare la qualificazione come leciti, con riferimento all’attività del gruppo, agli atti intragruppo a valori diversi rispetto a quelli di mercato. Riteniamo, infatti, giuspoliticamente indesiderabile l’interpretazione che vorrebbe lo scostamento dal “valore normale” come sufficiente a dar luogo all’accertamento nei confronti del contribuente, pur mantenendo in capo a quest’ultimo il diritto di resistere alle contestazioni di antieconomicità mediante la prova delle ragioni a fondamento dello “scostamento” del valore dell’operazione contestata rispetto al parametro “medio-ordinario” 116. Ed infatti, in primo luogo, è stato osservato come tale possibilità di fornire la prova contraria appaia più teorica che concreta 117. Si nota, poi, che la disciplina che regolamenta l’onere probatorio del contribuente idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati richiede adempimenti complessi e costosi 118. Si noti, peraltro, che la mancata predisposizione di tale documentazione «rende applicabile 116

A. TERLIZZI, Transfer pricing contestabile anche senza la prova dell’elusione fiscale, nota a Cass., sez. trib., 8 maggio 2013, n. 10739, in Diritto e Giustizia, 2013, 0, p. 566. 117 A. BALLANCIN, L’antieconomicità tra occultamento di capacità contributiva, elusione fiscale ed il “dover essere” tributario, nota a Cass., sez. trib., 6 ottobre 2011, n. 20451, in Riv. dir. trib., 2012, 3, p. 199 ss. 118 L’art. 1, comma 2 ter, D.L. 18 dicembre 1997, n. 471 – comma inserito dall’art. 26, comma 1, D.L. 31 maggio 2010, n. 78 – prevede che: «In caso di rettifica del valore normale dei prezzi di trasferimento praticati nell’ambito delle operazioni di cui all’ articolo 110, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 , da cui derivi una maggiore imposta o una differenza del credito, la sanzione di cui al comma 2 non si applica qualora, nel corso dell’accesso, ispezione o verifica o di altra attività istruttoria, il contribuente consegni all’Amministrazione finanziaria la documentazione indicata in apposito provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati. Il contribuente che detiene la documentazione prevista dal provvedimento di cui al periodo precedente, deve darne apposita comunicazione all’Amministrazione finanziaria secondo le modalità e i termini ivi indicati. In assenza di detta comunicazione si rende applicabile il comma 2». Il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate disciplinante il c.d. master file è del 29 settembre 2010, Prot. 2010/137654, reperibile sul sito www.agenziaentrate.it.

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il comma 2» – espressione laconica che vale a dire: l’applicazione di «sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della maggior imposta o della differenza del credito». In ogni caso, anche ammesso che fosse teoricamente sempre possibile dare prova delle ragioni a fondamento dello scostamento del valore dell’operazione contestata rispetto al parametro “medio-ordinario”, tale approccio determina un notevole ed ingiustificato aumento dei costi in capo alle imprese laddove la somministrazione della prova di cui trattasi richiede, evidentemente, costi di consulenza e, al limite, assistenza legale. Ciò, peraltro, in un contesto processuale che vede gli organi giudicanti molto restii a condannare l’Amministrazione soccombente alle spese in favore del contribuente. Infine, non deve tacersi come la stessa soggezione al giudizio è, in sé, una “pena” (la “pena del processo”), sia in ragione della sua durata che della soggezione a quella che, assai eloquentemente, si è definita la “gogna mediatica” sui mezzi di informazione.

4.2. Una proposta di coordinamento tra disciplina fiscale e disciplina civilistica Ne consegue che una interpretazione della legge fiscale conforme alla realtà economica dei gruppi e coerente con la relativa disciplina civilistica pretende che il parametro del “valore normale” sia interpretato, nell’ambito delle operazioni intragruppo, coerentemente con le logiche di funzionamento dei gruppi (e dunque anche alla luce dei “vantaggi compensativi” che possono derivare in favore della società apparentemente svantaggiata dall’operazione a valori diversi di mercato dall’appartenenza al gruppo). Eventuali operazioni di riqualificazione e di irrogazione di sanzioni, poi, non dovrebbero mai basarsi sul mero scarto dell’operazione intragruppo rispetto al valore “normale” (di mercato o, più correttamente, di gruppo) ma dovrebbero essere basati su ulteriori elementi idonei a dare prova che tale scarto non sia conseguenza della normale operatività del gruppo ma, al contrario, di un intento evasivo. Infine, totalmente illegittima ci sembra essere qualsiasi interpretazione volta a limitare la possibilità di difesa del contribuente, in particolare quando tale limitazione avvenga restringendo il novero delle prove che questi può far valere in giudizio.

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di Loredana Carpentieri SOMMARIO: 1. Il lento riconoscimento del “gruppo di imprese” ai fini fiscali. – 2. La svolta operata con la riforma fiscale del 2003: il passaggio dall’IRPEG all’IRES e alla participation exemption. – 3. Dal riconoscimento fiscale della svalutazione delle partecipazioni ai nuovi meccanismi opzionali di consolidamento degli imponibili. – 4. Il progressivo riconoscimento dei collegamenti (non solo partecipativi, ma anche funzionali) tra le imprese: le prospettive evolutive del nostro sistema fiscale. – 5. Le problematiche fiscali suscettibili di emergere all’interno del gruppo nazionale: il caso del transfer pricing “interno”. – 6. Il tentativo della giurisprudenza di legittimità di superare l’impasse normativa. – 7. Il ruolo del valore normale: osservazioni conclusive.

1. Il lento riconoscimento del “gruppo di imprese” ai fini fiscali Ai fini fiscali, l’idea di una considerazione unitaria del gruppo di imprese – concepito come modello organizzativo dell’attività d’impresa caratterizzato da una sostanziale unità economica combinata con una pluralità giuridica – è nata e si è sviluppata nel nostro ordinamento in tempi relativamente recenti, sostanzialmente nell’ultimo decennio. Se ai fini civilistici già da tempo ci si avvaleva del consolidamento dei bilanci e, anche ai fini delle imposte indirette (e, in particolare, dell’IVA), il fenomeno della liquidazione di gruppo 1 lasciava intravedere un primo riconoscimento, pur non del tutto soddisfacente, dei profili fiscali delle aggregazioni di imprese, ai fini delle imposte sui redditi il sistema fiscale italiano è rimasto per lungo tempo indifferente alle scelte di aggregazione delle imprese 2. 1 Sul quale v. DAMI, I rapporti di gruppo nel diritto tributario, Milano, 2011, p. 67 ss.; FICARI, Liquidazione congiunta dell’IVA di gruppo ex art. 73 d.P.R. n. 633 e rilevanza del gruppo di società, in Riv. dir. trib., 1992, I, p. 154 ss. 2 In LA ROSA, I gruppi di società nel diritto tributario, in AA.VV., I gruppi di società, Ricerche per uno studio critico, a cura di Pavone La Rosa, Bologna, 1982, p. 202 ss., si ritrova una significativa valutazione comparativa con gli altri ordinamenti dei Paesi occidentali. Sul tema, successivamente, LOVISOLO, Gruppo d’imprese e imposizione tributaria, Padova, 1985; GALLO, I gruppi di imprese e il fisco, in AA.VV., Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, p. 580 ss.

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Prima dell’entrata in vigore dell’attuale Testo unico delle imposte sui redditi 3, l’unico istituto meritevole di attenzione in questa prospettiva era rappresentato dall’art. 43 ter del D.P.R. n. 602, il quale prevedeva la possibilità di trasferire ad altre società appartenenti al gruppo le sole eccedenze IRPEG, indicandolo in dichiarazione; una forma di primo consolidamento finanziario che anticipava il vero e proprio consolidamento fiscale. Al di fuori di questi punti di emersione, i moduli organizzativi dell’impresa erano oggetto di attenzione fiscale solo con riguardo ai gruppi multinazionali o alle partnership imprenditoriali stabili con soggetti esteri; ed era un’attenzione collegata ai dubbi di elusività che potevano nascere, per effetto dello sfruttamento delle asimmetrie tra ordinamenti fiscali, quando gli assetti organizzativi coinvolgevano soggetti esteri. È da questi dubbi di elusività che sono nate discipline come quella del transfer pricing 4 o quella c.d. di CFC (la tassazione per trasparenza delle imprese controllate localizzate in giurisdizioni estere a fiscalità privilegiata 5); volte a controllare proprio lo “sfruttamento” delle asimmetrie tra l’ordinamento italiano e gli ordinamenti esteri.

2. La svolta operata con la riforma fiscale del 2003: il passaggio dall’IRPEG all’IRES e alla participation exemption Fino al 2003 il TUIR appariva dunque ancorato a schemi impositivi sostanzialmente focalizzati sulla singola impresa; la svolta del sistema verso un riconoscimento unitario del gruppo, ai fini fiscali, si è avuta solo con la riforma fiscale del 2003 6 che, al fine dichiarato di “incrementare la competitività del sistema produttivo, adottando un modello fiscale omogeneo a quelli più efficienti in essere nei Paesi membri dell’Unione europea”, ha introdotto una serie di opzioni per accedere alla tassazione di gruppo, a livello nazionale e mondiale 7, e alla tassazione per trasparenza dei gruppi societari caratterizzati da determinati requisiti 8. 3

D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917. Cfr.: art. 110, commi 7 e ss., del TUIR. 5 Cfr. art. 167 del TUIR. 6 V. legge delega n. 80 del 7 aprile 2003. 7 Sulla questione INGRAO, In tema di tassazione dei gruppi di imprese ex D. Lgs.vo 12 dicembre 2003, n. 244, istitutivo dell’IRES, in Rass. trib., 2004, p. 537 ss. 8 Sul regime di trasparenza per le società di capitali si rinvia a: FANTOZZI, Il regime della trasparenza per le società di capitali, in AA.VV., La riforma del regime fiscale delle imprese: lo stato di attuazione e le prime esperienze concrete (a cura di Paparella), Milano, 2006, p. 17 ss.; FICARI, L’imposizione “per trasparenza” delle “piccole” società di capitali, in AA.VV., L’IRES due anni dopo: considerazioni critiche e proposte, Milano, 2005, p. 117 ss.; MARELLO, Il regime di trasparenza, in AA.VV., Imposta sul reddito delle società (diretta da Tesauro F.), Bologna, 2007, p. 517 ss.; RASI, 4

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La funzione impositiva si è così finalmente adattata ai nuovi assetti organizzativi delle imprese e alle avvenute trasformazioni del sistema economico. Sono nati schemi impositivi nuovi, volti ad apprezzare, anche ai fini fiscali, il risultato economico complessivo delle aggregazioni imprenditoriali, neutralizzando le vicende infragruppo 9. Il contesto nel quale sono nati i nuovi schemi impositivi era indubbiamente particolare. Con il passaggio dall’IRPEG all’IRES e alla participation exemption era stato eliminato non solo il credito d’imposta sui dividendi, ma anche quell’ulteriore meccanismo di osmosi tra partecipante e partecipato che era rappresentato dalla possibilità di procedere ad una svalutazione fiscale delle partecipazioni. I vecchi cordoni ombelicali tra fiscalità del soggetto partecipante e fiscalità del soggetto partecipato vengono meno e diventa necessario sostituirli con meccanismi nuovi; è questo il quadro nel quale nasce il consolidato. Come noto, la riforma fiscale del 2003, destinata a trasformare l’imposizione dei redditi societari, nasceva da una procedura di infrazione della Commissione europea volta a condannare il sistema del credito d’imposta sugli utili societari. Pur se perfezionato dal meccanismo del credito d’imposta “virtuale”, tale sistema continuava, in effetti, a mostrare un germe di debolezza strutturale, destinato a diventare via via più evidente con la globalizzazione dei mercati e l’internazionalizzazione delle ricchezze: operava solo per i dividendi di fonte nazionale percepiti da soci residenti e non anche per quelli di fonte estera. Per i dividendi di fonte estera, riconoscere all’azionista un credito per le imposte assolte all’estero dalla società partecipata avrebbe costituito una soluzione dispendiosa per l’erario che, per di più, non trovava riscontro nella realtà degli altri ordinamenti statuali. E si capisce anche perché: in presenza di un reddito complessivo dell’azionista inferiore al dividendo – ad esempio per la presenza di oneri deducibili – la coerente applicazione di questo principio avrebbe comportato, per lo Stato di residenza del socio, non solo la necessità di rinunciare al prelievo, ma anche quella di procedere al rimborso delle imposte estere della società partecipata. Sui dividendi di fonte estera la doppia imposizione economica era dunque scongiurata attraverso la loro parziale esclusione dal reddito del percettore residente, così da tener conto, pur se in modo forfettario, dell’imposta assolta all’estero dalla società partecipata. Ma, anche con questo correttivo, si trattava pur sempre di un regime di detassazione incompleto, poiché operava solo per le soLa tassazione per trasparenza delle società di capitali a ristretta base proprietaria. Profili ricostruttivi di un modello impositivo, Padova, 2012. 9 Per maggiori approfondimenti sia consentito rinviare a: CARPENTIERI, L’eliminazione della doppia imposizione economica: dal credito d’imposta alla riforma IRES, in Crocevia tra imprese e istituzioni: 100 anni di Assonime, Imposte e sviluppo economico, vol. 3, Roma-Bari, 2010.

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cietà e gli enti soggetti ad IRPEG, lasciando invece permanere una doppia imposizione economica sui dividendi di fonte estera percepiti da persone fisiche residenti. Con la globalizzazione dei mercati – che non consentiva più di considerare l’investimento azionario come una vicenda principalmente domestica – e alla luce degli orientamenti sviluppatisi in sede comunitaria sull’eliminazione degli ostacoli fiscali al funzionamento del mercato comune, la discriminazione che il sistema del credito d’imposta lasciava permanere nel trattamento fiscale dei dividendi di fonte estera è parsa sempre più inaccettabile. A livello comunitario, si sottolineava l’esigenza di trovare uno strumento impositivo che non discriminasse i soggetti residenti all’estero e realizzasse il principio dell’integrazione dell’imposta societaria con quella personale del socio attraverso un meccanismo in grado di operare omogeneamente sia sui dividendi di fonte nazionale che su quelli di fonte estera. Proprio questa esigenza ha condotto nel 2003 il legislatore nazionale ad abbandonare il sistema del credito d’imposta sui dividendi e a sostituirlo con un meccanismo di esclusione dei dividendi stessi dal reddito imponibile dei soci. Il sistema dell’imputazione, che contemplava la tassazione definitiva dell’utile societario in capo ai soci in base alle loro aliquote progressive, ha lasciato così spazio al sistema dell’esenzione; un’esenzione, peraltro, parziale e imperfetta, in cui il regime fiscale dei dividendi viene a dipendere dalle caratteristiche della partecipazione sociale (se qualificata o non) e dalle caratteristiche del suo titolare (se imprenditore o no). Ma soprattutto, con il doppio passaggio dall’IRPEG all’IRES e dal credito d’imposta alla participation exemption è venuta meno la possibilità di svalutare le partecipazioni societarie e, dunque, di utilizzare anche a fini fiscali le perdite della partecipata.

3. Dal riconoscimento fiscale della svalutazione delle partecipazioni ai nuovi meccanismi opzionali di consolidamento degli imponibili Fino alla riforma Tremonti, il riconoscimento fiscale delle svalutazioni delle partecipazioni costituiva, al pari del regime del credito d’imposta sui dividendi, un importante strumento di raccordo tra la fiscalità della società e quella del socio, soprattutto perché consentiva di “trasferire” sul socio le perdite prodotte dalla società. Con la riforma, la diffusa rete di compensazioni delle basi imponibili legata all’operatività agli istituti del credito d’imposta e della svalutazione delle partecipazioni viene meno ed è sostituita con il consolidato fiscale 10 – articolato nelle 10

È chiarissima, sul punto, la Circolare n. 25/E del 17 giugno 2004, nella quale l’Agenzia delle

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due diverse modalità del consolidato nazionale e mondiale – cioè con uno strumento di consolidamento forse più efficace ma indubbiamente più circoscritto della svalutazione delle partecipazioni, essendo destinato ad operare solo in favore delle imprese integrate in un gruppo economicamente unitario e, in quanto tali, ritenute meritevoli di una considerazione “unificata” ai fini delle imposte sui redditi. Questo regime opzionale di consolidamento (cfr.: artt. 117 e seguenti del TUIR) consente di “compattare” utili e perdite delle società del gruppo senza dover ricorrere ad altre operazioni complesse e spesso a rischio elusività (fusioni, scissioni e transazioni fittizie). L’adesione al consolidato nazionale consente, infatti, di calcolare l’IRES in modo unitario, con riferimento al gruppo di appartenenza, sommando algebricamente i redditi complessivi netti dei soggetti aderenti. Il consolidato si traduce in una determinazione unitaria del reddito, senza però creare un nuovo soggetto e conservando, dunque, l’assetto plurisoggettivo dell’impresa. Tecnicamente, il consolidato nazionale 11 è un regime che si caratterizza per un doppio profilo di facoltatività: a) in primis, la scelta per la tassazione consolidata (attivabile solo su opzione congiunta e irrevocabile della società controllante e di ciascuna controllata); b) in secundis, la scelta delle società da includere nel perimetro di consolidamento, non essendo obbligatorio farvi rientrare tutte le società del gruppo in possesso dei relativi requisiti (c.d. cherry picking). Il consolidato nazionale – così come, a maggior ragione, quello mondiale 12nasce, quindi, come istituto opzionale, ma diventa da subito una scelta obbligata per il gruppo di imprese che intenda ottenere, su nuove basi, la stessa osmosi precedentemente garantita dal credito d’imposta e dalla svalutazione delle partecipazioni 13. La differenza dei meccanismi di consolidamento rispetto ai precedenti e diffusi meccanismi di osmosi tra fiscalità del partecipante e fiscalità del partecipato resta peraltro del tutto evidente: i consolidati sono fiscali regimi disponibili solo a certe condizioni (posto che diventa anzitutto necessario il requientrate afferma che “la disciplina è servita a controbilanciare la sopravvenuta impossibilità: a) di compensare l’utile della partecipata con la perdita della partecipante (mediante l’utilizzo del credito d’imposta sui dividendi) e b) di conferire rilevanza fiscale alle perdite della partecipata (tramite la svalutazione delle partecipazioni)”. 11 Per un’analisi dell’istituto si rinvia a: STEVANATO, Il consolidato fiscale nella delega per la riforma tributaria: profili problematici e prospettive di attuazione, in Rass. trib., 2002, p. 1187 ss.; BEGHIN, Il consolidato nazionale, Padova, 2005. 12 Sul quale cfr.: MICCINESI-DAMI, Il consolidato mondiale nella riforma del sistema fiscale statale, in AA.VV., La nuova imposta sul reddito delle società (a cura di Esposito e Paparella), Napoli, 2003, p. 49 ss.. 13 In tal senso LUPI, (Deleghe fiscali, redditi finanziari e redditi d’impresa: un’imposizione reale onerosa per i redditi elevati?, in Rass. trib., 2003, p. 113) osserva che “il consolidato non può considerarsi come una concessione della riforma, bensì come l’unico strumento, dopo aver tolto rilevanza alle minusvalenze su partecipazioni, per dedurre in capo alla partecipante le perdite della partecipata”.

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sito del controllo di una società sull’altra) mentre la svalutazione delle partecipazioni non incontrava limitazioni particolari ed era suscettibile di applicazione generalizzata. Ma la differenza non è solo questa: oltre alle limitazioni di accesso, i consolidati presentano un profilo di rischiosità, assai più accentuato nel consolidato mondiale, nel quale, se l’impresa consolidante sbaglia le proprie valutazioni, rischia di attrarre a tassazione in Italia redditi che nel loro ordinamento della fonte sarebbero stati assoggettati a una tassazione meno onerosa e che sarebbero poi potuti rientrare in Italia, nella generalità delle ipotesi, beneficiando della participation exemption.

4. Il progressivo riconoscimento dei collegamenti (non solo partecipativi, ma anche funzionali) tra le imprese: le prospettive evolutive del nostro sistema fiscale Pur con i limiti che si sono segnalati, i consolidati – e in particolare, per quel che qui interessa, il consolidato nazionale – rappresentano la prima espressione del riconoscimento di una rilevanza del gruppo di imprese nazionali in materia di imposte dirette. Ed oggi il sistema fiscale sembra guardare anche oltre il gruppo, apprezzando collegamenti tra le imprese di tipo non solo partecipativo, ma anche funzionale: è questo il caso dei distretti (con la prospettazione di un modello impositivo unitario per aziende che operano all’interno di uno stesso distretto industriale) 14 e delle reti di impresa (fenomeno nel quale addirittura manca un vincolo territoriale comune) 15. 14

Sul tema dei distretti rinvio a BEGHIN, Prime considerazioni intorno alla disciplina fiscale dei “distretti produttivi”, in Riv. dir. trib., 2006, I, p. 157 ss.; ID., I distretti produttivi: verso un modello di quantificazione del carico fiscale IRES predeterminato e intangibile?, in Boll. trib., 2006, p. 1356 ss.; ROSSI, Prime considerazioni sulle disposizioni fiscali, amministrative e finanziarie riservate ai distretti produttivi, in Riv. dir. trib., 2007, I, p. 319 ss. 15 Sul tema si rinvia a NUZZO, M., Il contratto di rete nel sistema dei modelli di collaborazione tra imprese, in Scritti in onore di Marcello Foschini, Milano, 2011, pp. 145-155; DI SAPIO, I contratti di rete tra imprese, in Riv. not., 2011, p. 203 ss.; CAFAGGI-IAMICELI-MOSCO (a cura di), Il contratto di rete per la crescita delle imprese, Milano, 2012; ZANELLI, Reti e contratto di rete, Padova, 2012; AA.VV., Il contratto di rete. Nuovi strumenti contrattuali per la crescita d’impresa, in Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, Milano, 2012; ROMANO, Contratto di rete e processo di modernizzazione dell’economia italiana, in Not., 2012, p. 74; VILLA, Il contratto di rete, in GITTIMAUGERI NOTARI (a cura di), I contratti per l’impresa, Bologna, 2012, pp. 491-504. Per i profili più specificamente fiscali si rinvia a TASSANI-GIOVANARDI-LUPI, Agevolazioni ai partecipanti alle reti di imprese e simmetrie del sistema fiscale, in Dialoghi trib., 2011, p. 602 ss.; MELIS, Le agevolazioni tributarie finalizzate all’aggregazione delle imprese e il contratto di rete: alcune considerazioni, in AA.VV., Il contratto di rete per la crescita delle imprese, cit., p. 395 ss.; URICCHIO-SELICATO, Aggre-

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Sono fattispecie ed esperienze normative di estremo interesse, sulle quali non mi è possibile soffermarmi in questa sede, posto che l’oggetto della mia relazione mi impone di tornare al gruppo nazionale. Quel che, comunque, queste nuove fattispecie inducono a rilevare è che la ragion fiscale sembra aver contribuito a far evolvere le forme della soggettività oltre gli istituti di diritto comune, nella prospettiva di una maggiore specializzazione o efficienza degli strumenti legislativi apprestati, e ha concorso a motivare scelte normative sulla soggettività passiva come imputazioni “a misura fiscale”. Del resto, se il tributo è lo strumento con il quale le «economie singole» concorrono a fornire i mezzi finanziari necessari all’adempimento delle funzioni pubbliche”, la disciplina tributaria, pur se tuttora costruita intorno ai soggetti e ai loro rapporti giuridico-economici, non può che essere frutto di scelte “distributive” in base a situazioni giuridico-economiche espressive di capacità contributiva, non semplicemente un sistema di riparto per soggetti giuridici. Sotto questo profilo, si è sostenuto 16 che le fattispecie impositive individuano non i soggetti al tributo, ma le situazioni espressive di autonoma capacità contributiva e, in quest’ottica, anche il gruppo – così come i distretti, le reti di impresa e le stesse famiglie – è esemplare di una dinamica che muove dalla necessità di individuare la capacità di contribuire prima ancora del quid che possa possederla. Anche se nel nostro sistema fiscale il soggetto passivo del tributo continua ad essere, ordinariamente, un soggetto giuridico, la realtà e la normativa che su di essa si evolve sembrano via via superare questo clichè. Basti pensare che l’art. 73 del TUIR, tra i soggetti passivi dell’imposta sui redditi societari riconduce sia “le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifichi in modo unitario e autonomo” sia il trust, un “non soggetto” che però costituisce centro di imputazione materiale della capacità contributiva sub specie reddituale (mentre resta fuori dal novero dei soggetti passivi IRES quell’altro centro di imputazione materiale della capacità contributiva, anch’esso privo di soggettività giuridica 17, che è rappresentato dal consolidato). È proprio questa evoluzione normativa che ha recentemente portato a ipotizzare l’esistenza di fattispecie impositive “senza soggetto”: ossia di “scelte di capacità contributiva” basate su strutture giuridico-economiche prive di rilievo giuridico propriamente soggettivo 18. Si tratta di una ricostruzione suggestiva: del resto, sia fattispecie da tempo nogazioni imprenditoriali e reti di imprese nella prospettiva del fisco, www.ibattellidelreno.uniba.it; TASSANI, Profili fiscali del contratto di rete tra soggettività giuridica e separazione patrimoniale, in Riv. dir. trib., 2013, I, p. 569 ss. 16 SCALINCI, Il tributo senza soggetto. Ordinamento e fattispecie, Padova, 2011, p. 228 ss. 17 Per la piena soggettività v. invece VERSIGLIONI, Indeterminazione e “determinabilità” della soggettività passiva nel consolidato nazionale, in Riv. dir. trib., 2005, I, p. 427 ss. 18 Il riferimento è ancora a SCALINCI, Il tributo senza soggetto, cit.

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te al diritto tributario, come la stabile organizzazione (una “porzione” della casamadre resa destinataria di norme per la ragione fiscale e “soggetto passivo d’imposta” nel territorio dello Stato nel quale agisce), sia fattispecie di più recente elaborazione, come i gruppi di imprese, testimoniano come anche “non soggetti” possano essere normativamente considerati quali centri di imputazione di una capacità contributiva non più necessariamente soggettiva 19. Sotto questo profilo, il consolidato nazionale potrebbe essere considerato il punto di emersione di un new deal del sistema fiscale, che ha avuto poi una progressione con la disciplina dei distretti e delle reti di impresa 20. A dire il vero, l’evoluzione legislativa della disciplina del consolidato nazionale ha poi tradito l’iniziale impostazione normativa: sono stati infatti eliminati quegli istituti – il regime di completa detassazione dei dividendi infra-gruppo, la rideterminazione del pro-rata patrimoniale e la neutralità fiscale dei trasferimenti di beni infra-gruppo – che costituivano le principali espressioni fiscali dell’unitaria dinamica economica interna del gruppo di imprese 21. Tuttavia, proprio con riferimento alla partecipazione al consolidato nazionale, l’art. 96, comma 7, del TUIR riconosce la possibilità di dedurre, dal reddito complessivo del gruppo, l’eventuale eccedenza di interessi passivi e oneri assimilati indeducibili generatasi in capo alle consolidate. Quindi, nonostante si siano perse, nell’evoluzione normativa, le c.d. variazioni da consolidamento, il consolidato nazionale resta presupposto e contesto per un beneficio, ai fini della deduzione degli interessi passivi, ulteriore rispetto a quello ottenibile dalla mera somma algebrica dei redditi di partenza. Dunque il consolidato consente attualmente, oltre alla tassazione sulla somma algebrica di redditi e perdite di gruppo, di utilizzare, a livello di consolidamento, l’eventuale capienza di deduzione non sfruttata da una società del 19

Per una diversa impostazione v. FICARI, Holding, impresa di gruppo e consolidato: profili procedimentali, in Rass. trib., 2012, p. 1413 ss. Ad avviso di tale Autore, “il rapporto di controllo che caratterizza il legame tra la holding e le altre società di un gruppo sembra costituire la giustificazione della disciplina positiva che regola non solo gli obblighi di versamento e di dichiarazione ma anche di adempimento in via principale dell’obbligazione tributaria post consolidamento in ragione della titolarità della relativa capacità contributiva. Di qui l’impressione che il legislatore, attraverso un regime sostanziale opzionale e non obbligatorio, abbia inteso non individuare una capacità contributiva a livello di gruppo di imprese ma, invece, apprezzare il legame di controllo quale giustificazione per l’imputazione alla controllante di tutta la ricchezza derivante dall’impresa svolta dalle società del gruppo appartenenti al perimetro di consolidamento”. 20 Del consolidato come paradigma normativo del “tributo senza soggetto”, cioè come prima occasione di evidenza normativa di un’imposizione personale sul «reddito senza soggetto», parla SCALINCI, op. cit. 21 Ricordo che l’art. 122 del TUIR nella sua formulazione originaria prevedeva che, entro il perimetro del consolidamento, i dividendi ricevuti dalle società partecipate dovessero essere oggetto di una rettifica in diminuzione volta a detassare anche la percentuale residua del 5 per cento del dividendo stesso. Il sistema delle rettifiche di consolidamento è stato modificato per effetto delle modifiche apportate all’art. 122 del TUIR dalla L. n. 244/2007.

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gruppo a favore di altra società del gruppo; circostanza che sembra confermare la particolare propensione del legislatore fiscale a ravvisare, nel consolidamento, il presupposto per consentire una sorta di migrazione del diritto di deduzione degli oneri generatisi in capo alle singole società del gruppo. Dunque, alle imprese che si organizzano in un gruppo il legislatore fiscale riconosce dei benefici. E il gruppo è un modello organizzativo che sempre più caratterizza gli assetti proprietari delle imprese italiane, passate dall’originario modello della società familiare a una finanziaria capogruppo che gestisce e controlla gli enti produttivi o le sole partecipazioni. Il gruppo è, in definitiva, un unico soggetto economico, un unico centro di interessi, cui fa da contraltare la pluralità giuridica dei soggetti che lo compongono. Anche nel diritto del lavoro 22 il gruppo non ha soggettività giuridica, ma già nella giurisprudenza degli anni ‘70 ha cominciato ad affermarsi la convinzione che in esso si potesse ravvisare, al solo fine di contrastare comportamenti e intenti fraudolenti o elusivi, un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro 23 e, sotto questo profilo, il vero datore di lavoro. Ferma restando la titolarità delle obbligazioni contrattuali e legislative in capo alla società datrice di lavoro, la Riforma Biagi (art. 31, D.Lgs. n. 276/2003) ha poi riconosciuto alle società controllate e collegate la possibilità di esternalizzare infragruppo – e cioè delegare alla capogruppo – gli adempimenti amministrativi connessi alla gestione del personale. Anche in ambito lavoristico, dunque, il legislatore ha inteso individuare nella capogruppo, il mero prestatore che può svolgere determinate funzioni nell’interesse del gruppo; anche in questo settore, dunque, il gruppo di imprese ha trovato indiretto riconoscimento quale centro di imputazione di interessi eccedenti quelli del singolo soggetto 24. Tornando ai profili fiscali, in modo diverso sembra invece atteggiarsi il nuovissimo gruppo IVA, già previsto nella delega Monti e nuovamente oggetto della delega attualmente pendente in Parlamento (cfr.: disegno di legge S1058). Tale delega intenderebbe esercitare la facoltà prevista dall’art. 11 della direttiva 2006/112 del 28 novembre 2006, che consente agli Stati membri di considerare come un unico soggetto passivo i soggetti stabiliti nel territorio dello stesso Stato membro che, pur essendo giuridicamente indipendenti, siano strettamente vincolati fra 22 Cfr.: BIASI, I dubbi sull’attuale rilevanza dei gruppi di imprese nel diritto del lavoro. Le oscillazioni della giurisprudenza e la necessità di un intervento organico del legislatore in materia, in Argomenti di diritto del lavoro, 2011, p. 990 ss. 23 Per un excursus storico su questa giurisprudenza cfr.: RAZZOLINI, Contitolarità del rapporto di lavoro nel gruppo caratterizzato da unicità di impresa, in Dir. rel. ind., 2009, p. 263 ss. 24 Anche il diritto degli appalti pubblici, con la disciplina dell’avvalimento, mostra la rilevanza dei raggruppamenti di imprese nel soddisfare i requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e organizzativo, ai fini della partecipazione ad una gara e in vista della sua esecuzione, avvalendosi appunto dei requisiti di altro soggetto del gruppo.

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loro da rapporti finanziari, economici e organizzativi. In questo caso, per effetto dell’opzione, i singoli soggetti perderebbero l’autonoma soggettività ai fini IVA e nascerebbe un nuovo soggetto d’imposta – il gruppo IVA, appunto – che dovrebbe agire come un qualsiasi soggetto passivo IVA, con la conseguenza che ad esso dovrebbero applicarsi, in linea generale, tutte le disposizioni in materia IVA che disciplinano i soggetti passivi e gli adempimenti ai medesimi facenti carico. La prima conseguenza che si determinerebbe, per i soggetti partecipanti al gruppo IVA, dovrebbe essere rappresentata dall’irrilevanza ai fini IVA delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi intercorrenti tra i soggetti partecipanti al Gruppo fermo restando però il diritto alla detrazione. Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi tra due soggetti partecipanti allo stesso gruppo IVA dovrebbero infatti considerarsi tra quelle operazioni non soggette a IVA che – in base all’art. 19, comma 3, del D.P.R. n. 633 – non influenzano negativamente l’esercizio del diritto alla detrazione. Altro effetto della partecipazione al gruppo è che, quando un soggetto passivo stabilito in Italia cede beni o presta servizi a una propria stabile organizzazione all’estero o riceve da questa beni o servizi, tali rapporti – in deroga ai criteri ordinari per cui i rapporti tra stabile organizzazione e sede principale non assumono rilevanza ai fini IVA (cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 23 marzo 2006, C-210/04, FCE Bank) – dovrebbero assumere rilevanza ai fini IVA. Con la partecipazione al gruppo IVA, infatti, il soggetto stabilito in Italia perderebbe la propria soggettività individuale, che andrebbe a confluire in quella, più ampia, del gruppo IVA, con la conseguenza che questi rapporti assumerebbero rilevanza come rapporti tra due soggetti distinti: da una parte il gruppo IVA, di cui farebbe parte il soggetto passivo avente la sede in Italia; dall’altra la stabile organizzazione all’estero, che non potrebbe fare parte di tale gruppo. Qui il fenomeno si atteggerebbe, dunque, in maniera diversa dal consolidato IRES, perché nascerebbe un nuovo soggetto IVA. La normativa è in fase di sviluppo; vedremo come si delineerà.

5. Le problematiche fiscali suscettibili di emergere all’interno del gruppo nazionale: il caso del transfer pricing “interno” Tornando al sistema delle imposte sui redditi, e anticipando un tema che sarà meglio ripreso e sviluppato nella successiva relazione, intendo fare qualche cenno ad alcune delle problematiche fiscali che possono emergere all’interno di questo gruppo nazionale che – come abbiamo visto – è un’entità economica unica, un’unica impresa che si ripartisce in più divisioni, un unico soggetto economico costituito da una pluralità di soggetti giuridici. Posto che il gruppo è formato da soggetti giuridici nazionali, tutti sottoposti alla medesima potestà impositiva, in linea di principio tra tali soggetti non do-

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vrebbero verificarsi asimmetrie di trattamento fiscale e dunque non dovrebbero sorgere neanche particolari ragioni di cautela nel controllare le transazioni che avvengono tra i diversi soggetti appartenenti al gruppo. Quando le transazioni intercompany riguardano un gruppo nazionale, in cui le parti contraenti sono soggette alla medesima potestà impositiva ed hanno ordinariamente la medesima disciplina fiscale, generalmente non si presenta la possibilità di beneficiare di asimmetrie di trattamento fiscale, allocando opportunamente costi e ricavi. Nel caso di transazioni infragruppo nazionali, quel che è costo per una parte contrattuale è, infatti, ricavo per l’altro, e a parità di regimi fiscali la base imponibile non “sparisce” dal Paese, ma si sposta solo da una parte contrattuale all’altra, mantenendo la stessa aliquota impositiva di riferimento. Se si parte dall’idea secondo cui sono meritevoli di attenzione, da parte del legislatore e degli uffici verificatori, le sole operazioni commerciali che si prestano a ridurre il carico fiscale gravante sul gruppo, le politiche dei prezzi infragruppo dovrebbero risultare neutrali ove collocate in situazioni connotate da forme di simmetria fiscale, posto che, in linea di principio, l’assoggettamento alla medesima sfera impositiva per entrambe le parti del rapporto contrattuale esclude particolari ragioni di cautela nel guardare alle transazioni intercompany domestiche. In realtà, però, basta riflettere un momento per capire che anche all’interno del gruppo nazionale può determinarsi, in alcune ipotesi – come in quella oggetto della pronuncia in esame – lo stesso tipo di comportamento suscettibile di esser posto in essere all’interno di un gruppo multinazionale: anche all’interno del gruppo nazionale, tra società tutte residenti nel territorio del nostro Stato, possono infatti determinarsi, in alcune circostanze, asimmetrie di regimi fiscali delle quali approfittare. Ovviamente, le asimmetrie nasceranno in questo caso non dalla diversità degli ordinamenti fiscali, ma dalla possibile diversità di regime fiscale tra i due soggetti coinvolti nella transazione, l’uno dei quali potrà godere di una particolare agevolazione o avere particolari posizioni di vantaggio che, se non opportunamente sfruttate, rischierebbero di andare perdute o di essere posticipate 25. Pensiamo al caso – analogo a quello di specie – in cui, agendo opportunamente sui corrispettivi della transazione intercompany, si vada ad aumentare il reddito della società che fruisce di agevolazioni territoriali e a ridurre, corrispondentemente, il reddito della società dello stesso gruppo che determina le imposte con l’aliquota ordinaria 26. Pensiamo anche al caso della società del gruppo che sia ti25

Sul c.d. transfer pricing interno v. STEVANATO, Rettifiche dei corrispettivi infragruppo e transfer pricing interno, in Rass. trib., 1998, I, p. 235 ss..; GARCEA-LUPI, Trasferimenti infragruppo in neutralità e “transfer price” interno, in Dialoghi trib., 2005, p. 195 ss.; BEGHIN, La disciplina del transfer pricing tra profili sostanziali, profili procedimentali, fattispecie di evasione e abuso del diritto, in www.corsomagistratitributari.unimi.it. 26 Nella circolare del Ministero delle finanze 26 febbraio 1999, n. 53, si osserva che “lo stru-

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tolare di perdite fiscali pregresse e che, per utilizzarle velocemente, effettui operazioni commerciali dirette a “spostare” presso di sé il reddito imponibile. Si tratta, certo, di casi diversi da quelli a cui si rivolge l’art. 110, comma 7, TUIR, cioè la disciplina del transfer pricing: nelle operazioni infragruppo nazionali, il fenomeno da contrastare non è più il trasferimento di materia imponibile da un Paese ad “alta fiscalità” ad un Paese a “bassa fiscalità”, ma l’effettuazione di transazioni commerciali a corrispettivi (effettivi) tali da consentire lo spostamento del reddito in capo al soggetto della transazione che gode di un regime agevolativo o è comunque in grado di assorbire perdite pregresse. Ferma restando la diversità del contesto, le due situazioni presentano però certamente un minimo comune denominatore: in entrambi i casi, la transazione avviene a prezzi, effettivamente fissati tra le parti, che appaiono disallineati rispetto al valore normale dell’oggetto della transazione stessa, proprio come avviene nelle operazioni internazionali contrastate dall’art. 110, comma 7, TUIR. Per contrastare le politiche sui prezzi attuate in ambito domestico, già molti anni fa si è pensato di utilizzare il valore normale di cui all’art. 9, comma 3, del TUIR. L’idea di usare il valore normale come generale criterio di rettifica del prezzo di trasferimento di beni e servizi anche nelle transazioni tra società nazionali collegate era presente anche al momento della costruzione del TUIR, come risulta dall’iter dello schema di Testo unico; ma in sede di stesura del testo definitivo, la prevista estensione del valore normale alle transazioni infragruppo fu eliminata, accogliendo la proposta formulata dalla Commissione parlamentare dei Trenta, che invitava il Governo ad “evitare l’introduzione nel sistema di incontrollabili poteri discrezionali prevedendo la possibilità di ricorrere a presunzioni iuris tantum”. Nonostante questa scelta normativa 27, in passato l’Amministrazione finanziaria ha comunque tentato di sostenere l’utilizzabilità della norma sul transfer pricing anche con riferimento alle operazioni intercompany nazionali: nella risoluzione 10 marzo 1982, n. 9/198, in particolare, l’Amministrazione sostenne: “non può escludersi, in linea di principio, che gli Uffici possano far ricorso, in sede di accertamento, al criterio del “valore normale” anche in ipotesi diverse” da quelle normativamente previste, anche se in tali casi “la presunzione assume soltanto valore di presunzione relativa”. mento può essere utilizzato da società controllanti o collegate, con sede nei territori del Centro Nord, che cedono merci o beni immateriali alle controllate o consociate aventi sede nel Mezzogiorno ad un prezzo inferiore al valore normale … tale manovra consente di realizzare una contrazione dell’utile per l’impresa settentrionale con reddito assoggettato alle aliquote ordinarie e di gonfiare l’utile dell’impresa meridionale che gode delle agevolazioni fiscali stabilite dall’art. 26 del d.P.R. 601/73”. 27 Sottolineata anche dal Centre for Tax Policy and Administration dell’OCSE, nel Rapporto Multicountry analysis of existing transfer pricing simplificaton measures, laddove invece si osserva che la maggior parte degli Stati d’Europa e degli Stati Uniti prevede la possibilità di utilizzare il criterio del valore normale anche con riferimento alle transazioni interne.

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Dunque l’Amministrazione ha sostenuto, in passato, l’utilizzabilità del valore normale anche negli scambi del gruppo nazionale, sia pure in sede di accertamento e non già in sede di determinazione sostanziale dell’imponibile. Al riguardo, dobbiamo tuttavia osservare che sostenere l’operatività del valore normale, negli scambi infragruppo nazionali, come “presunzione relativa” è una contraddizione in termini, perché introduce una tematica probatoria (quella della presunzione relativa, appunto) in una materia in cui non c’è alcun occultamento da dimostrare e in cui tutto (anche la pattuizione di corrispettivi diversi da quelli di mercato) avviene alla luce del sole. L’affermazione dell’Amministrazione finanziaria secondo la quale gli uffici potrebbero fare comunque ricorso, in sede di accertamento, al valore normale come presunzione relativa si traduce di fatto nel confermare l’inutilizzabilità del valore normale in tutti i casi in cui non vi sia da provare un occultamento di corrispettivo, ma si intenda solo contrastare l’utilizzo di prezzi di trasferimento effettivi, ma svincolati dal valore di mercato in ragione del rapporto sussistente tra le parti oggetto dell’operazione. Nella successiva circolare n. 53/E del 26 febbraio 1999, l’Amministrazione finanziaria ha specificato con chiarezza l’impossibilità giuridica di procedere, “allo stato della legislazione”, a contestazioni basate sulla disciplina dei prezzi di trasferimento qualora le società siano residenti in Italia, ed ha escluso l’applicabilità, alle transazioni intercompany nazionali, della norma antielusiva generale contenuta nell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 (a causa dell’elevato contenuto di specialità di tale norma, per la cui applicazione si richiede la concorrenza di specifici elementi: la realizzazione di specifiche operazioni caratterizzate da un’elevata potenzialità elusiva; l’assenza di valide ragioni economiche; lo scopo di aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti). La stessa Amministrazione ha prospettato però la possibilità di ricorrere, nei casi di specie, all’accertamento analitico-induttivo di cui all’art. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. n. 600; all’interposizione soggettiva fittizia di cui all’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600; alla disposizione in materia di destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa; alla riqualificazione del contratto, costruendo la fattispecie come negozio misto di vendita e donazione. Lo sforzo dell’Amministrazione finanziaria di estrapolare, dal contesto normativo di riferimento, dei principi che potessero essere applicati per evidenziare delle anomalie nella gestione dell’impresa dirette non a conseguire un maggior utile, bensì a ridurre la pressione fiscale del gruppo, è stato notevole. Ma alcuni dei suggerimenti proposti per combattere il transfer pricing interno erano francamente fantasiosi: parlare di interposizione fittizia, ad esempio, non ha senso, posto che nel caso di specie le operazioni avvengono effettivamente tra le società del gruppo. Anche il ricorso al metodo di accertamento analitico induttivo appare assai discutibile: nel caso in esame, non c’è infatti alcun occultamento di corri-

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spettivo; tra le parti, anche ai fini fiscali, vale il corrispettivo pattuito, e non c’è alcun occultamento o simulazione. La stessa Amministrazione, peraltro, sembrava ben consapevole dei limiti del suo tentativo, se nella conclusione della stessa circolare n. 53/E precisava: “se il ricorso alle suddette norme risultasse di difficile praticabilità, occorrerà valutare la possibilità di suggerire proposte normative” finalizzate a prevedere l’estensione dell’applicazione della norma sul transfer pricing esterno anche alle società residenti. Nonostante i tentativi fatti in sede interpretativa, era ed è dunque indiscutibile che l’art. 110, comma 7, TUIR non possa essere esteso, per il suo carattere di specialità, a fattispecie diverse rispetto a quelle testualmente contemplate: la norma parla letteralmente di rapporti infragruppo transnazionali e, a conferma della vocazione internazionale della fattispecie, contiene anche un rinvio testuale agli “accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali procedure amichevoli”. Alla luce della lettera della disposizione, non ne sembra dunque proponibile un’interpretazione estensiva a contesti di scambi infragruppo nazionali o, più in generale, a fattispecie diverse da quella dei rapporti infragruppo transnazionali. A conferma di ciò, basti pensare che laddove il legislatore ha voluto estendere a fattispecie diverse da quella originaria l’applicazione del valore normale in sostituzione dei corrispettivi contrattuali dichiarati dalle parti, lo ha fatto espressamente: si pensi all’art. 160 del TUIR, che ai fini della c.d. tonnage tax, estende la disciplina del transfer pricing di cui all’art. 110, comma 7, ai rapporti tra società facenti parte dello stesso gruppo ed entrambe residenti in Italia. Con questo intervento, il legislatore ha evidentemente voluto contrastare le operazioni volte a veicolare i redditi sui soggetti in regime di determinazione forfettaria del reddito, lasciando i corrispondenti costi in capo ai soggetti legati alle ordinarie modalità di tassazione del reddito.

6. Il tentativo della giurisprudenza di legittimità di superare l’impasse normativa Di fronte alla difficoltà derivante dall’assenza di una espressa disciplina delle ipotesi di transfer pricing interno, il grimaldello del valore normale riemerge però, nella recente giurisprudenza della Cassazione 28, nella inedita veste di “clausola antielusiva generale”, che troverebbe fondamento, ad avviso dei giudici di legittimità, non solo nei principi comunitari in tema di abuso del diritto, ma sarebbe altresì immanente in non meglio determinati settori del diritto tributario interno. Ma non finisce qui. La Cassazione ha ritenuto che l’allineamento a valore normale dei corrispettivi pattuiti dalle parti della transazione intercompany na28

Cfr.: sentenza n. 17955 del 2013.

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zionale possa avvenire anche in base all’abuso di diritto e all’antieconomicità delle scelte compiute dalle imprese del gruppo. Riguardo all’abuso del diritto, ho già in altre occasioni 29 sottolineato la pericolosa deriva giurisprudenziale che ha trasformato un istituto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria in una sorta di passepartout per sindacare ex post tutte le operazioni d’impresa. Richiamare l’abuso del diritto per contrastare le ipotesi di transfer pricing interno è come sparare a un passero con una granata; è troppo ed è inutile. E mi sembra del tutto evidente la distanza tra le sentenze della Corte di Giustizia che trattano dell’abuso di diritto e la posizione della nostra Cassazione, che quelle sentenze spesso e volentieri richiama a sproposito. La Corte di Giustizia sottolinea l’inopponibilità, all’Amministrazione finanziaria, dei vantaggi che il contribuente si sia procurato in contrasto con la ratio dalle disposizioni tributarie; dunque, quel che la Corte di Giustizia contrasta non è il vantaggio fiscale consistente nella semplice riduzione dell’imposta dovuta (posto che il risparmio di imposta, nell’ottica della Corte di Giustizia, non è certo di per sé illegittimo), ma il vantaggio fiscale ottenuto in contrasto con la ratio delle disposizioni tributarie sostanziali. Alla nostra Cassazione, invece, troppo spesso sembra sfuggire la differenza tra vantaggi fiscali del tutto compatibili con il sistema tributario (si pensi agli arbitraggi che lo stesso legislatore fiscale consente, prevedendo fattispecie aventi la medesima finalità alle quali corrisponde però un trattamento fiscale differenziato) e vantaggi fiscali indebitamente fruiti dal contribuente, perché in contrasto con il sistema stesso. Il nostro ordinamento fiscale è costellato di fattispecie negoziali a cui corrispondono effetti fiscali diversi, ma tutti ugualmente consentiti dal legislatore e dunque legittimi: pensiamo alla scelta se riorganizzare un gruppo societario utilizzando alternativamente lo strumento della liquidazione ovvero quello della fusione societaria; o alla decisione di esercitare l’attività d’impresa all’estero attraverso una stabile organizzazione o una società controllata. Sindacare ex post la scelta operata dall’impresa solo perché non è stata quella fiscalmente più onerosa mina la certezza del diritto e l’affidamento dei contribuenti. Ma anche la presunta antieconomicità delle scelte d’impresa sembra essere una china pericolosa. La possibilità di sindacare gli atti antieconomici dell’imprenditore ha trovato progressiva affermazione nella giurisprudenza di legittimità nell’ultimo decennio: la rispondenza dell’operazione d’impresa a criteri di economicità è diventato un criterio per valutarne la ragionevolezza. Il principio di ragionevolezza è stato così traslato dal diritto amministrativo al diritto tributario, ma con un significativo ribaltamento di prospettiva. 29 Cfr.: CARPENTIERI, L’ordinamento tributario tra abuso ed incertezza del diritto, in Riv. dir. trib., 2008, I, p. 1053 ss.

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In diritto amministrativo, il principio di ragionevolezza è da tempo affermato come modello di controllo dell’eccesso di potere, e dunque è finalizzato a controllare le scelte operate dal legislatore e, più in generale, dai pubblici poteri. In diritto amministrativo, dunque, il principio di ragionevolezza dell’azione dei pubblici poteri risponde a una funzione garantista nei confronti dei cittadini; serve cioè a evitare che atti idonei a incidere unilateralmente nella sfera giuridica dei singoli possano essere frutto di una cattiva gestione dei margini di elasticità che sussistono nella trasformazione del potere in atto. In diritto tributario, la prospettiva è del tutto diversa: la tutela degli interessi erariali non può giustificare il controllo dell’attività imprenditoriale attraverso il principio di ragionevolezza. In un contesto che è (o almeno dovrebbe) essere caratterizzato dalla paritarietà dei rapporti non nascono quelle esigenze di garanzia che impongono, in ambito pubblicistico, la verifica delle modalità di esercizio della discrezionalità amministrativa: e, se così è, in diritto tributario l’antieconomicità non può che essere solo un indizio che impone al contribuente di fornire una giustificazione razionale delle proprie scelte. I problemi nascono quando, con un doppio salto mortale, si usa il criterio del valore normale come norma sostanziale per controllare la congruità dei corrispettivi: qui si fa una deviazione dalle norme del TUIR, che assumono generalmente fidefacenti i corrispettivi dichiarati dalle parti, e questa deviazione non può che avvenire in presenza di una norma derogatoria, quale appunto quella prevista in tema di transfer pricing. Troppe volte, invece, la giurisprudenza di Cassazione ha ritenuto che l’antieconomicità legittimerebbe, anche in assenza di una specifica disposizione, non solo la contestazione dell’inerenza di costi irragionevoli (perché superiori al valore corrente dei beni o dei servizi acquisiti) ma addirittura la rideterminazione induttiva del reddito d’impresa. E abbiamo visto che nel transfer pricing interno non vi sono le premesse per un’applicazione del metodo induttivo, perché nel caso di specie non c’è evasione. La correzione dei corrispettivi a valore normale si giustifica non perché i corrispettivi dichiarati siano falsi, ma perché il valore normale dell’oggetto della transazione si rivela più affidabile, e più rispondente alla sostanza delle cose, dell’espressione monetaria che le parti gli hanno dato. Inoltre, le valide ragioni economiche extrafiscali sulla base delle quali le scelte d’impresa dovrebbero essere sempre giustificate non sono normativamente codificate; quindi, il rischio è che il giudizio degli uffici accertatori diventi discrezionale, e privo di fondamento in disposizioni di diritto positivo. Infine, troppe volte la giurisprudenza di Cassazione ha ritenuto che tale antieconomicità legittimerebbe, anche in assenza di una specifica disposizione, non solo la contestazione dell’inerenza di costi irragionevoli (perché superiori al valore corrente dei beni o dei servizi acquisiti) ma addirittura la rideterminazione induttiva del reddito d’impresa. E abbiamo visto che nel transfer pricing interno non vi sono le premesse per un’applicazione del metodo induttivo, perché nel caso di specie non c’è evasione.

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Addirittura, nella sentenza richiamata, la Cassazione arriva a sostenere che “Per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il c.d. “transfer pricing domestico”, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del d.p.r. n. 917 del 1986, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente”.

7. Il ruolo del valore normale: osservazioni conclusive Ma davvero il valore normale ha la valenza generale che la Cassazione sembra decisa a riconoscergli? Avendo dedicato a questo tema un lavoro monografico 30, seppure ormai molti anni fa, mi permetto sommessamente di dissentire. Il valore normale svolge, nel nostro sistema fiscale, due funzioni: è in primis generale criterio di traduzione in termini monetari per le componenti reddituali non espresse in denaro, ed è anche, ma in casi tassativamente predeterminati dal legislatore, strumento di controllo di elementi reddituali già espressi in denaro, agendo in sovrapposizione del corrispettivo contrattuale. Questo suo secondo ruolo può teoricamente riguardare tanto la fase di determinazione dell’imponibile – come avviene nel transfer pricing – quanto la fase dell’accertamento, ove il valore normale rileva quale parametro con cui raffrontare i corrispettivi dichiarati dalle parti per valutarne la congruità; ma dovrebbe, in ogni caso, trattarsi di un ruolo che il valore normale ricopre in casi residuali, posto che l’attuale sistema fiscale considera generalmente fidefacenti i corrispettivi contrattuali dichiarati dalle parti 31. Le ipotesi in cui il valore normale opera in sostituzione del corrispettivo già in sede di determinazione sostanziale della base imponibile sono certo tassativamente predeterminate dal legislatore e devono considerarsi di stretta interpretazione: si tratta di fattispecie mirate nelle quali il valore normale opera in sostitu30

Cfr. CARPENTIERI, Redditi in natura e valore normale nel sistema delle imposte sui redditi, Milano, 1996. 31 Anche STEVANATO, Una conferma delle insufficienti riflessioni sulla derivazione contrattuale del concetto di reddito, in Dialoghi trib. n. 6/2008, p. 87 osserva che “il nostro sistema di determinazione del reddito d’impresa è ancora saldamente imperniato sui corrispettivi pattuiti”. In giurisprudenza si veda Comm. Trib. Prov. di Milano, sez. I, del 28 ottobre 1997, secondo la quale “La valutazione a valore normale di cessioni di beni tra soggetti residenti postula, normalmente, l’assenza di corrispettivi. Il presupposto per l’insorgenza dell’obbligazione tributaria ai fini delle imposte sui redditi è infatti costituito dal prezzo pattuito fra le parti e non dai valori di mercato. Conseguentemente è illegittimo l’accertamento che ipotizzi un transfer pricing interno e rettifichi il prezzo di operazioni effettuate tra società consociate residenti ove l’amministrazione non sia in grado di provare che i corrispettivi dichiarati sono inferiori a quelli effettivamente conseguiti”.

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zione del corrispettivo non perché se ne presuma l’inattendibilità (e dunque la fittizietà), ma perché, trattandosi di operazioni intercorrenti tra soggetti non indipendenti, il corrispettivo pure effettivamente pattuito tra le parti può risultare influenzato in modo determinante dal rapporto che le lega, fino a risultare falsato rispetto al corrispettivo di mercato. Questa è, appunto, la logica del transfer pricing disciplinato dall’art. 110, comma 7, del TUIR. Affermare, come fa la Cassazione, che il valore normale rappresenti una sorta di principio generale, che consentirebbe sempre, anche in ambito nazionale, la rideterminazione dei corrispettivi pattuiti dalle parti, sembra già una palese forzatura 32. Ma anche affermare che la disciplina del transfer pricing costituisca una “clausola antielusiva” non sembra del tutto corretto, posto che la norma sul transfer pricing contrasta non tanto l’elusione, quanto la non inerenza quantitativa. Sia nel caso del transfer pricing vero e proprio, quanto nel caso del transfer pricing “interno”, il valore normale si presta ad essere utilizzato per contrastare fenomeni di “canalizzazione” dei corrispettivi; la rettifica a valore normale serve cioè non a fare emergere “corrispettivi in nero” (intesi come parziali occultamenti del corrispettivo) o aggiramenti di norme, ma a correggere e limitare gli spostamenti di componenti reddituali da un soggetto all’altro attuati mediante manovre sul corrispettivo palese. In questi casi non si può parlare di occultamenti di corrispettivi e, dunque, di fenomeni di evasione di imposta: non ci sono corrispettivi o quote di corrispettivi che transitino, per così dire, “in nero” da un soggetto all’altro. Al contrario, i corrispettivi dichiarati sono esattamente quelli voluti dalle parti e se non rispondono alla logica e ai valori di mercato non è perché parte dell’operazione sia stata occultata agli occhi del fisco, ma perché il rapporto che lega i soggetti tra i quali viene posta in essere l’operazione è tale da aver influenzato in modo decisivo la determinazione dei corrispettivi realmente praticati, sottraendoli alle regole del mercato 33. Non si tratta, dunque, di evasione o di elusione, ma semmai della ricerca di “arbitraggi fiscali interni”; arbitraggi che – nel caso dei rapporti infragruppo nazionali – essendo abbastanza contenuti potrebbero anche essere concepiti come strutturali al sistema e, come tali, accettati. In ogni caso, laddove si voglia sostenere l’applicabilità del valore normale anche alle operazioni intercompany nazionali, in sede di accertamento, ai fini del controllo di “congruità” dei corrispettivi, sembra indispensabile che l’eventuale 32

In senso critico su questa posizione della Cassazione anche FERRANTI, Il “transfer pricing interno” secondo la Corte di Cassazione tra elusione ed inerenza, in Corr. trib., 2013, p. 2609. 33 Sul punto anche STEVANATO, Rettifiche dei corrispettivi infragruppo e transfer pricing interno, in Giur. trib., n. 1/1999, osserva che “ove le transazioni, avvenute a valori diversi da quelli di mercato, non siano intercorse tra imprese indipendenti … la stessa natura dei rapporti tra le parti esclude l’ipotesi dell’occultamento o della simulazione del corrispettivo”.

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rettifica dei costi in capo ad un soggetto trovi corrispondenza nella contestuale rettifica dei ricavi in capo all’altra parte contraente: non è, quindi, pensabile disconoscere il costo in capo a una delle società del gruppo, mantenendo ferma la tassabilità del ricavo in capo all’altra società del medesimo gruppo. Ad oggi, questi “aggiustamenti corrispondenti” sul reddito della controparte sembrano essersi affermati, in giurisprudenza, per le questioni legate all’imputazione per competenza delle diverse componenti reddituali, ma non sembra abbiano trovano affermazione espressa in casi come quello in esame: il rischio è dunque quello che si disconosca, in capo al cessionario del bene o al committente del servizio, quella parte di costo che si incorpora in un prezzo eccedente il parametro rappresentato dal valore normale del bene o del servizio; ma una volta disconosciuta questa quota di costo, non si proceda a rivedere corrispondentemente la tassazione del ricavo per l’altro soggetto. È invece necessario evitare che la rettifica dei corrispettivi delle transazioni intercompany nazionali provochi duplicazioni d’imposta 34; tanto più che in questi casi, a differenza che nelle ipotesi di transfer pricing estero, non è possibile ricorrere agli strumenti delle procedure amichevoli previste dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni e dalla Convenzione arbitrale UE, e degli APA (cioè gli Advance Price Agreements con l’Amministrazione finanziaria) 35.

34 In tal senso già CROVATO, Il controllo a valore normale nei rapporti commerciali tra mancanza di un “transfer pricing interno” ed esigenze di simmetria impositiva, in Dialoghi trib., n. 6/2008, p. 82. 35 In tal senso FERRANTI, op. cit., p. 2610.

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di Concetta Ricci SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il regime fiscale dei compensi infragruppo nelle imposte sui redditi – 3. I compensi infragruppo nell’IVA – 4. I compensi infragruppo nell’IRAP – 5. Le altre ipotesi di riequilibrio dei rapporti infragruppo – 5.1. Interruzione della tassazione di gruppo e mancato rinnovo dell’opzione – 5.2. Il trasferimento delle eccedenze del Risultato operativo lordo (Rol) e degli interessi passivi indeducibili – 5.3. Il trasferimento delle eccedenze d’imposta e dei crediti d’imposta – 6. I compensi infragruppo fiscalmente rilevanti – 7. I compensi infragruppo nella proposta di direttiva sulla CCCTB e profili comparati – 8. Conclusioni.

1. Premessa Particolari forme di attribuzione e scambio infragruppo sono quelle in cui oggetto di negoziazione tra le società consolidate non sono beni o servizi, ma posizioni soggettive, legate al calcolo dell’imponibile o alla liquidazione dell’imposta, remunerate attraverso attribuzioni patrimoniali compensative oggetto di negoziazione negli accordi di consolidamento. Comune alle erogazioni in discorso è, appunto, la funzione compensativa del vantaggio tributario, in termini di risparmio d’imposta, conseguito da una società del gruppo, cui normalmente, ma non necessariamente, corrisponde un aggravio per altra società del gruppo: si pensi, innanzitutto, ai vantaggi/svantaggi derivanti dalla compensazione delle perdite subite da alcune società del gruppo con gli imponibili conseguiti da altre; ma anche a quelli connessi all’utilizzo di eccedenze di interessi passivi indeducibili o di Rol attribuite al consolidato, alla cessione delle eccedenze di imposta e dei crediti d’imposta, all’interruzione anticipata della tassazione di gruppo e/o al mancato rinnovo dell’opzione. Nella tassazione di gruppo, la scelta di un consolidamento globale degli imponibili, infatti, se pur apprezzabile sotto il profilo della semplicità operativa, pone una serie di problematiche connesse alla commisurazione e alla eventuale remunerazione degli svantaggi fiscali subiti dagli azionisti di minoranza.

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Infatti, la conseguenza più rilevante del consolidamento integrale degli imponibili è quella del possibile effetto espropriativo delle perdite fiscali subito dalle società controllate aderenti al consolidato 1. In particolare, da un lato, la società controllante realizza, in via immediata, il risparmio fiscale derivante dall’utilizzo delle perdite eventualmente provenienti dall’area di consolidamento; dall’altro, la controllata si priva dell’eventuale futuro vantaggio connesso alla possibilità di compensare le perdite con redditi imponibili conseguiti in esercizi successivi, ex art. 84 del TUIR. Da questo scaturisce, in primo luogo, un problema di natura economico – temporale: un vantaggio fiscale attuale può non corrispondere ad un vantaggio fiscale eventuale e futuro. In altri termini, una perdita fruita immediatamente può non corrispondere, in termini economici, ad una perdita fruibile in futuro, subordinatamente, peraltro, al conseguimento di imponibili positivi. Ma il problema principale è quello che riguarda le relazioni intercorrenti, nell’ambito della compagine societaria della controllata, fra i soci di maggioranza e quelli di minoranza. È evidente, infatti, che se la controllata trasferisse, sic et simpliciter, la perdita alla controllante, ai fini del consolidamento integrale degli imponibili, gli azionisti di minoranza risulterebbero irrimediabilmente privati della loro quota di perdita, senza possibilità di utilizzarla in futuro in compensazione degli utili eventualmente conseguiti. Inoltre, ad alterare i rapporti infragruppo, per via della metodologia del consolidamento integrale, potrebbero essere anche altre situazioni: si pensi ai vantaggi/svantaggi che possono generarsi per l’interruzione del rapporto di consolidamento a causa della fuoriuscita di una società del gruppo, ovvero per il mancato rinnovo dell’opzione. Più in generale, l’adesione al consolidato consente al gruppo, nel suo complesso, di ottenere risparmi d’imposta che le singole società partecipanti non avrebbero potuto conseguire. A fronte di un vantaggio complessivo di gruppo, alcune delle società consolidate usufruiscono di un risparmio d’imposta, mentre altre si troveranno nella situazione di dover rinunciare a determinati benefici. I vantaggi/svantaggi derivanti dalla tassazione su base consolidata possono essere sia di natura finanziaria (si pensi, come detto, al differimento temporale del carico fiscale per effetto del trasferimento di perdite utilizzabili solo in futuro 1 Il problema della remunerazione dei soci di minoranza delle società consolidate è uno dei temi maggiormente dibattuti in dottrina, per i suoi notevoli riflessi applicativi. V., sul punto, STEVANATO, Il consolidato fiscale nella delega per la riforma tributaria: profili problematici e prospettive di attuazione, in Rass. trib., n. 4, 2002, p. 1187 ss.; LUPI, Prime osservazioni sulla proposta di consolidato fiscale, in Giur. imp., 2002, p. 497 ss.; BEGHIN, La tassazione dei gruppi nel disegno di legge delega di riforma tributaria, in Riv. dir. trib., I, 2002, p. 857 ss.; PACITTO, I patti di consolidamento, in AA.VV., Imposta sul reddito delle società (IRES), a cura di Tesauro F., Bologna, 2007, p. 673 ss.; BURELLI, Consolidato nazionale e frammenti di autonomia privata nella determinazione della fattispecie imponibile, in Riv. dir. trib., n. 2, 2009, p. 265 ss.

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dalla società controllata che le ha prodotte), sia di natura economica (si pensi, ad esempio, al minor carico fiscale, a livello di gruppo, conseguente all’utilizzo di eccedenze di interessi passivi indeducibili attribuite alla fiscal unit, ovvero all’utilizzo di perdite trasferite da una società che, in futuro, non avrebbe potuto utilizzarle in proprio, in mancanza di futuri redditi imponibili) 2. In questo contesto, per evitare che si realizzi un indebito arricchimento da parte di alcune società che ricevono un beneficio fiscale a discapito di altre che rinunciano ad un vantaggio, pare opportuno prevedere, già a livello di accordi di consolidamento, un trasferimento finanziario infragruppo a titolo compensativo 3. Detti trasferimenti, al di là dell’ipotesi in cui si configuri, in capo alla controllante, una responsabilità ex art. 2497 c.c. 4, sono rimessi all’autonomia negoziale delle parti, libere di definirne sia l’an che il quantum 5, con la conseguenza che, nella predisposizione degli accordi di consolidamento 6, particolare rilievo deve essere attribuito ai riflessi fiscali delle scelte operate al riguardo.

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V. circ. Ag. Entr., 20 dicembre 2004, n. 53/E, cit., pp. 73-74. Sulla necessità di un accordo che preveda la reintegrazione della consistenza patrimoniale della controllata, partecipata da soci di minoranza, v. ZIZZO, Osservazioni in tema di consolidato nazionale, in Riv. dir. trib., n. 4, 2004, p. 635 ss. 4 Ipotesi, quest’ultima, in cui è obbligatorio che l’accordo di consolidamento preveda un compenso a titolo risarcitorio dello svantaggio subito dalla consolidata. 5 Sottolinea la libertà contrattuale delle parti FICARI, La soggettività tributaria delle s.r.l. e l’imposizione del reddito delle società di capitali, in AA.VV., Trattato delle società a responsabilità limitata, diretto da Ibba e Marasà, Padova, 2012, p. 147 ss.; ID., Gruppo di imprese e consolidato fiscale all’indomani della riforma tributaria, in Rass. Trib., n. 5, 2005, p. 1587 ss., il quale rileva come, al di là dell’ipotesi prevista dall’art. 2497, comma 1, c.c., che ipotizza l’eliminazione dei danni da illegittima direzione e coordinamento di società mediante erogazioni indennitarie, i suddetti trasferimenti non siano necessari ma solo eventuali e dovrebbero essere esclusi laddove l’esclusività del vantaggio per la cessionaria non sia certa. In tal senso, v. anche STEVANATO, Nessun automatismo per i flussi compensativi in presenza di perdite, in Dial dir. trib., 2004, p. 1347 ss. Contra FAZZINI, Consolidato civile e compensazione fiscale tra redditi positivi e negativi, in Dial. dir. trib., 2004, p. 1081 il quale sostiene, invece, la tesi della necessità e non mera eventualità delle erogazioni in discorso. 6 Per una puntuale disamina di alcuni possibili “modelli” di accordo di consolidamento, v. ZOPPINI-BARBONE, Effetti civilistici dell’opzione per il consolidamento fiscale, in Dialoghi trib., n. 4, 2004, i quali distinguono tra modelli “mutualistici” e modelli “sinallagmatici”. I primi si sostanziano in un contratto di tipo associativo tra le società del gruppo, in cui non vi sia alcuna distinzione tra i soggetti coinvolti, diretto a stabilire le regole di ripartizione dei vantaggi fiscali tra i membri del gruppo. I secondi, invece, consistono in accordi bilaterali, stipulati tra ciascuna consolidata e la società capogruppo, diretti a regolare con la stessa gli effetti del trasferimento degli utili o delle perdite. 3

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2. Il regime fiscale dei compensi infragruppo nelle imposte sui redditi Il trattamento tributario dei compensi infragruppo è funzione della loro natura, “risarcitoria” ovvero “remunerativa”, nonché del loro ammontare. Sulla scia delle previsioni legislative in merito, e in particolare dell’art. 118, comma 4 del TUIR, si potrebbero distinguere i suddetti compensi in due categorie. Nella prima rientrano le somme che rappresentano la ripartizione del risparmio d’imposta, ovvero il risarcimento dello svantaggio fiscale, ascrivibili alla tassazione consolidata. Si tratta, in sostanza, dei compensi relativi all’attribuzione e alla ripartizione nel gruppo dei benefici fiscali della procedura di tassazione consolidata, ovvero alla compensazione degli svantaggi. Nella seconda categoria, invece, possono essere ricomprese quelle erogazioni di denaro che, pur essendo, in qualche modo, riconducibili alla tassazione di gruppo, non rappresentano né ripartizione del predetto risparmio d’imposta, né riequilibrio di uno svantaggio tributario derivante dall’adesione al consolidato. Si tratta di quei compensi corrisposti per incentivare la partecipazione alla tassazione di gruppo di talune società (ad esempio, le società in perdita o con eccedenze d’imposta trasferibili), per disincentivare l’adesione di altre (ad esempio, società con redditi imponibili elevati) o per dettare le condizioni cui è subordinato l’accesso al consolidato (ad esempio, la società che esercita l’opzione è tenuta, in virtù dell’accordo, a trasferire nel gruppo l’intera eccedenza detraibile maturata prima dell’ingresso nel consolidato). Soltanto per i primi può trovare applicazione il regime di neutralità previsto dall’art. 118, comma 4, che espressamente dispone l’“esclusione” dal reddito imponibile, delle somme percepite o versate tra le società del gruppo “in contropartita dei vantaggi fiscali ricevuti o attribuiti”. Al contrario, il regime di esclusione, ex art. 118 del TUIR, non si applica nei casi in cui il compenso sia erogato alla società per il solo fatto che accetti di aderire alla tassazione di gruppo, o al contrario di non parteciparvi. Dette somme, infatti, rappresentano il corrispettivo per una prestazione di “fare”, “non fare” o “permettere” e per questo restano pienamente soggette ad IRES. Sotto il profilo dell’imposizione diretta, quindi, la ripartizione dei vantaggi fiscali genera (purché l’ammontare dei compensi erogati corrisponda ai vantaggi trasferiti infragruppo) operazioni neutre (costi non deducibili e proventi non imponibili), mentre i compensi che non rappresentano un’attribuzione compensativa di vantaggi fiscali, determinano sempre proventi imponibili per chi li realizza e costi deducibili per chi li sostiene. L’obiettivo della norma, come chiarito dall’Agenzia delle Entrate 7, è quello di “rendere del tutto neutrali, ai fini IRES, gli effetti degli accordi intervenuti tra le 7

Ris. Ag. Entr., n. 166/E del 12 luglio 2007.

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società che aderiscono al consolidato con riferimento alle somme versate e percepite in contropartita dei vantaggi e degli svantaggi conseguenti all’operatività del regime di tassazione consolidata (…)”. Il problema diventa, a questo punto, stabilire in quali casi si concretizza un “vantaggio fiscale” e in che misura debba essere compensato, perché possa trovare applicazione il regime di esclusione di cui all’art. 118, comma 4 del TUIR. L’ipotesi più ricorrente è quella in cui oggetto di negoziazione tra le parti siano i criteri e le modalità di riconoscimento e valutazione delle perdite trasferite alla controllante 8. D’altronde, già il legislatore della delega aveva individuato quest’ultimo come l’esempio più evidente di vantaggi fiscali trasmissibili all’interno del gruppo ed a fronte dei quali è ipotizzabile il pagamento di somme compensative 9. In questo caso, il pregiudizio nei confronti dei soci di minoranza si configura laddove la società preveda di realizzare redditi imponibili capienti nei cinque esercizi successivi. In tal caso, infatti, per gli azionisti di minoranza della controllata viene meno la possibilità di beneficiare del riporto in avanti della perdita, giacché la stessa, “nella sua interezza”, viene trasferita al consolidato. Dall’altro lato, il “vantaggio fiscale” per il gruppo consiste nella possibilità di spendere, in abbattimento del reddito di una o più società consolidate, le perdite generate da altra società inclusa nel perimetro di consolidamento. Cosa accade se tale possibilità non si concretizza? In altri termini, ci si chiede se per configurare il “vantaggio fiscale”, di cui all’art. 118, comma 4 del TUIR, sia 8

Le altre potenziali pattuizioni negoziali collegate alla tassazione consolidata sono gli accordi che regolano: la determinazione dell’onere a carico di ogni società consolidata che trasferisce imponibili IRES positivi alla consolidante; l’eventuale compensazione di mancati vantaggi potenziali conseguibili dalla singola società in assenza dell’adesione al consolidato nazionale; le conseguenze, gli obblighi e le responsabilità derivanti dalla cessazione del regime a seguito della fuoriuscita di una società dal consolidato o di mancato rinnovo dell’opzione; la valutazione dei vantaggi trasferiti al gruppo attraverso la cessione delle eccedenze di Rol o di interessi passivi indeducibili; il compenso da erogare a fronte del risparmio d’imposta conseguito per effetto della cessione alla consolidante delle eccedenze d’imposta, dei crediti o delle ritenute, maturate in capo alla controllata. 9 Infatti, l’art. 4, lett. a), della L. n. 80/2003 disponeva l’«esclusione dal concorso alla formazione del reddito dei compensi corrisposti alle e ricevuti dalle società con imponibili negativi». La diversa formulazione della legge delega, che parla di “imponibili negativi”, rispetto all’art. 118, comma 4, del TUIR, che si riferisce genericamente ai “vantaggi fiscali”, ha fatto ipotizzare una violazione dell’art. 76 Cost. per eccesso di delega (v., in tal senso, PORPORA, Vantaggi fiscali e flussi compensativi nel consolidato nazionale, in Dial. Dir. trib., n. 5, 2004, p. 717 ss.). Ad escludere l’eccesso di delega è LUPI, Sull’ampiezza del concetto di trasferimento di “vantaggi fiscali” intragruppo, in Dial. Dir. trib., n. 5, 2004, p. 724 ss., secondo il quale “la maggiore ampiezza del decreto delegato, rispetto alla legge delega, appare pienamente giustificata dal maggior livello di dettaglio che il decreto delegato deve assumere. (…) Il decreto legislativo, riprendendo lo spirito della delega, l’ha quindi ampliato e generalizzato, per tener conto di vantaggi fiscali diversi da quello, più eclatante, relativo al trasferimento delle perdite di esercizio”.

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sufficiente trasferire la perdita alla controllante, per farla concorrere alla formazione dell’imponibile consolidato, ovvero sia necessario che detta perdita sia concretamente utilizzata in abbattimento del carico fiscale complessivo del gruppo. Si ipotizzi il caso in cui il perimetro di consolidamento includa solo società in perdita, ovvero l’ipotesi in cui le perdite di una o più controllate superino gli imponibili delle altre società del gruppo. Ci si interroga se, in questi casi, in cui il vantaggio fiscale è del tutto teorico e potenziale, trovi comunque applicazione l’art. 118, comma 4 del TUIR. La questione potrebbe essere risolta in senso positivo sulla scorta di un’interpretazione estensiva dell’art. 4, lett. a) della legge delega che, nel far riferimento alle società con «imponibili negativi», sembrerebbe apprezzare il profilo della mera “potenzialità del vantaggio” 10. Tuttavia, a deporre in senso contrario è la formulazione letterale della norma, che parla espressamente di vantaggi «ricevuti e attribuiti» e non «ricevibili e attribuibili». Inoltre, una simile interpretazione sarebbe funzionale a restringere i margini di manovra del contribuente, scongiurando il rischio di operazioni elusive: è, infatti, quantomeno anomalo che la controllante eroghi somme nei confronti di una propria controllata allorquando non ne tragga alcun vantaggio. In realtà, secondo i principi che informano la contabilizzazione della fiscalità corrente e differita, a rilevare non è soltanto l’“effettivo” risparmio d’imposta conseguente alla compensazione della perdita, ma anche quello presumibile “con ragionevole certezza” (p.c. n. 25). Ne consegue che, al di là dell’ipotesi in cui l’utilizzo della perdita, in abbattimento dell’imponibile consolidato, avvenga nell’esercizio in cui la stessa è prodotta e trasferita al gruppo, le variabili da considerare per un giudizio circa la sua recuperabilità concernono, innanzitutto, una serie di valutazioni sulla redditività propria e delle altre società del gruppo, per prevedere se la perdita, non immediatamente compensata, possa essere utilizzata in futuro; inoltre, particolare rilevanza assumono quelle pattuizioni negoziali concernenti la sorte delle perdite non utilizzate in caso di interruzione, per qualsiasi ragione, del regime di tassazione consolidata. Al riguardo, tra i possibili criteri adottabili, quello della remu10 In questo senso, BEGHIN, Il consolidato nazionale, in AA.VV., Imposta sul reddito delle società (IRES), a cura di Tesauro, Bologna, 2007, pp. 605-606, secondo cui “l’art. 4, lett. a), cit., nel porre esclusivo (e tuttavia, come rilevato, soltanto esemplificativo) riferimento alle società con «imponibili negativi», sembra individuare il principio direttivo in base al quale non è richiesto, ai fini dell’irrilevanza fiscale delle “attribuzioni compensative”, che la perdita sia immediatamente impiegata nella fase di determinazione dell’imponibile della fiscal unit”. Secondo MORATTI, Il consolidato fiscale nazionale, Torino, 2013, pp. 162-163, la norma dovrebbe essere interpretata secondo un criterio di ragionevole probabilità, per cui, in sostanza, la disciplina della neutralità troverebbe applicazione a fronte di un vantaggio «ragionevolmente prevedibile» per il gruppo.

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nerazione delle perdite a forfait (con attribuzione, in via definitiva, alla consolidante delle perdite inutilizzate all’atto della cessazione del regime di tassazione consolidata) e quello della remunerazione proporzionale (con attribuzione delle perdite residue alla cessazione del regime con analogo criterio proporzionale alle società che le hanno prodotte). In definitiva, quindi, i compensi erogati a fronte del trasferimento di perdite nel consolidato, sono “esclusi” da IRES, ex art. 118 del TUIR, purché proporzionati al risparmio d’imposta, effettivo o anche solo ragionevolmente prevedibile, conseguito dal gruppo. Il problema, quindi, si sposta sul quantum del compenso erogato, che deve essere commisurato al suddetto risparmio d’imposta. Altra ipotesi controversa è quella in cui il pregiudizio derivante dal trasferimento della perdita al gruppo, per i soci di minoranza, sia soltanto teorico e non si concretizzi effettivamente. Si pensi al caso di società con perdite in “scadenza” o, più in generale, non suscettibili di essere compensate con imponibili positivi. È legittimo chiedersi per quale motivo una controllata che trasferisce le proprie perdite alla controllante debba essere remunerata per la perdita di un’opportunità fiscale laddove sia assolutamente certo che non avrebbe mai potuto sfruttarla. In questo caso, appare configurabile uno schema negoziale secondo cui, il vantaggio connesso con l’utilizzazione delle perdite sia riconosciuto alla società che vi dà origine, a condizione che la stessa società dimostri che avrebbe potuto utilizzare le perdite in proprio. Tuttavia, una clausola siffatta, introducendo un principio di rilevanza virtuale e «a posteriori» della posizione individuale della predetta società, finisce con il negare l’effetto virtuoso dell’opzione per la tassazione consolidata, che è quello di unificare immediatamente imponibili positivi e negativi eterogenei 11. Inoltre, al di là dell’ipotesi in cui si configuri un profilo di responsabilità degli amministratori nei confronti dei soci di minoranza della consolidata in rapporto alla disciplina della direzione e coordinamento di società, di cui agli artt. 2497 e segg. c.c., il compenso potrebbe essere giustificato anche dal solo vantaggio fiscale ricevuto da una o più società del gruppo, pur in assenza di un corrispondente svantaggio nei confronti della controllata che ha prodotto la perdita. In questo senso, si potrebbe addirittura arrivare a sostenere che i versamenti compensativi di cui trattasi possano essere erogati anche nel caso in cui la società 11

In tal senso PACITTO, I patti di consolidamento, in AA.VV., Imposta sul reddito delle società (IRES), cit., p. 683, nota 21, il quale rileva come sebbene si debba dar conto di tutte le possibili alternative contrattuali, tuttavia, la regolamentazione concernente l’impiego delle perdite debba riflettere in sé le utilità recate dall’opzione per la tassazione consolidata e basarsi, perciò, sul principio della liquidazione dei compensi in funzione degli impieghi.

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espropriata delle proprie perdite sia controllata in maniera totalitaria dalla capogruppo 12. In realtà, sulla natura delle erogazioni infragruppo, l’art. 118 non lascia dubbi: deve trattarsi di somme pagate in contropartita dei vantaggi fiscali ricevuti o attribuiti. Il concetto di contropartita evoca l’idea della corrispondenza tra prestazione e controprestazione: a fronte del vantaggio fiscale ricevuto, la società beneficiaria deve corrispondere un compenso alla società trasferente, eventualmente, ma non esclusivamente, a titolo risarcitorio del danno/svantaggio, subito dalla controllata. Per converso, la regola dell’irrilevanza fiscale non opera in tutti quei casi in cui il compenso infragruppo non deriva dalla necessità di un riequilibrio delle posizioni fiscali delle società consolidate, alterato per via della tassazione di gruppo. Pertanto, gli accordi di consolidamento dovranno, in primis, regolare, “le condizioni per il riconoscimento del corrispettivo alla società che ha prodotto la perdita” 13, e cioè, in sostanza, dovranno stabilire se, ed eventualmente quando, il compenso debba essere riconosciuto, avendo riguardo alle numerose variabili di cui si è detto. Non meno importante è, però, stabilire i criteri di determinazione del “prezzo di trasferimento” dei vantaggi fiscali attribuiti o ricevuti. Se l’operatività dell’art. 118 è subordinata, al conseguimento, per alcune società del gruppo, di un vantaggio fiscale e alla rinuncia, per altre, di un potenziale beneficio, rinuncia che si potrebbe tradurre, addirittura, in un pregiudizio per i soci di minoranza della controllata, il problema della quantificazione del compenso trova facile soluzione. Il principio di fondo è il seguente: la somma erogata dovrà essere commisurata al beneficio che la società avrebbe potuto conseguire se non avesse partecipato al consolidato fiscale e/o al risparmio d’imposta realizzato dalla società sul cui imponibile ha inciso la perdita. In sostanza, la quantificazione, in termini economici, delle posizioni di vantaggio e di mancato beneficio che danno origine al trasferimento delle somme in esame tra le società partecipanti al consolidato deve avvenire in termini commisurati all‘imposta teorica riferibile al predetto vantaggio o mancato beneficio. Ne consegue che il regime di esclusione, ex art. 118 del TUIR, trova applicazione nel limite massimo dei compensi commisurati all’imposta teorica calcolata sul vantaggio/mancato beneficio trasferito. 12

Tale possibilità sembra connessa all’assetto paranegoziale che il legislatore delegato ha voluto attribuire alla materia in argomento; inoltre, nell’art. 118, comma 4, nulla è detto in merito ai requisiti soggettivi del soggetto erogante e di quello percipiente, il che non consente di escludere, dalla sfera di applicabilità della norma in oggetto, il caso di controllo totale. 13 V. Commissione per i Principi contabili – Consigli Nazionali dei Dottori Commercialisti e Ragionieri, documento del 20 febbraio 2006, in il fisco, n. 12, 2006, fasc. n. 2, p. 1741 ss., in cui viene approfondito il tema del trattamento contabile e fiscale dei flussi compensativi infragruppo.

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Si ritiene, quindi, che l’irrilevanza reddituale debba riferirsi alle somme corrisposte o ricevute in contropartita, nel limite massimo dell’imposta teorica cui le stesse somme siano commisurate (calcolata, ad esempio, sugli imponibili negativi o positivi trasferiti, risultanti dalla dichiarazione di ciascuna società partecipante) 14. Pertanto, nel caso in cui il compenso sia erogato a fronte del trasferimento al gruppo di una perdita maturata in capo ad una delle società partecipanti, la società destinataria del beneficio non dovrebbe fruire di un vantaggio superiore a quello massimo derivante dalla perdita, costituito dall’aliquota IRES vigente applicata alla perdita stessa. Più precisamente, nel caso il vantaggio fiscale derivi dal trasferimento di imponibili negativi, il quantum in parola dovrebbe essere determinato moltiplicando l’aliquota IRES vigente per il valore della perdita trasferita al gruppo; in sostanza, una sorta di attualizzazione dell’imposta teorica che la società avrebbe “risparmiato” se non avesse optato per l’imposizione consolidata. Infatti, se la perdita trasferita nell’anno di riferimento potesse essere compensata con redditi imponibili degli anni successivi, sarebbe opportuno riconoscere alla controllata una somma pari a tale beneficio, ancorché il vantaggio effettivamente fruito dalla controllante possa essere stato superiore (ad esempio per la vigenza di un’aliquota d’imposizione maggiore nell’anno in cui è stata consolidata la perdita) 15. Tale conclusione pare in linea anche con i principi di redazione del bilancio e in particolare con la clausola civilistica della “rappresentazione veritiera e corretta” (art. 2423, comma 2, c.c.) e con il principio contabile n. 25 che prevede, al ricorrere di presupposti di ragionevole certezza circa la recuperabilità delle perdite fiscali negli esercizi successivi, la possibilità per le società di iscrivere nel proprio bilancio dei crediti per “imposte anticipate”. 14

Questa è la posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate nella circ. n. 53/E, cit. e successivamente ripresa dalla Commissione per i Principi contabili – Consigli Nazionali dei Dottori Commercialisti e Ragionieri, nel documento del 20 febbraio 2006, cit. 15 In questo senso, v. COMMITTERI-SCIFONI, Dal consolidato nazionale possibili effetti sul bilancio 2003, in Corr. trib., n. 13, 2003, p. 986, i quali delineano un meccanismo di quantificazione che porta all’individuazione di una somma soltanto teorica, non potendosi escludere che le società del gruppo giungano ad accordi differenti (nell’ipotesi in cui, ad esempio, in assenza del consolidato, la perdita non sia compensabile per l’assenza di imponibili positivi nel quinquennio), fermo restando un principio di fondo: le società controllate che trasferiscono imponibili negativi non potranno risultare penalizzate. Nello stesso senso, v. PORPORA, Vantaggi fiscali e flussi compensativi nel consolidato nazionale, cit., p. 719, secondo cui le parti, in virtù della loro autonomia contrattuale, sono libere di decidere «una remunerazione delle perdite fiscali inferiore rispetto a quella teorica (commisurata all’aliquota nominale IRES)», giustificata da circostanze che determinano un apprezzamento delle perdite, in termini economici, differente dal relativo valore teorico (si pensi al caso di perdite “in scadenza”). Sul tema delle perdite e della loro utilizzabilità nel consolidato fiscale, v. CARDELLA, La perdita di periodo nel sistema di imposizione sul reddito: studi preliminari, Torino, 2012.

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In altri termini, le somme erogate infragruppo, in contropartita dei vantaggi fiscali ricevuti o attribuiti, devono soggiacere, nella determinazione del loro ammontare teorico, ai principi che presiedono alla rilevazione in bilancio delle imposte anticipate 16. I criteri di redazione del bilancio impongono di contabilizzare le imposte in base al principio di competenza economica. Ne deriva che in presenza di una perdita, occorre valutare la possibilità di conseguire, negli esercizi successivi, redditi imponibili sufficienti per assorbire la perdita stessa. Il risparmio fiscale dei successivi periodi d’imposta, conseguito per effetto della compensazione delle perdite di anni precedenti, deve essere contabilizzato come imposta anticipata (solo ai fini IRES, in quanto ai fini IRAP le perdite non possono essere recuperate) nel periodo in cui si è formata la perdita stessa. L’ammontare del credito per imposte anticipate deve essere quantificato applicando l’aliquota in vigore nell’anno in cui si realizza il risparmio fiscale. Nella contabilità della controllata, pertanto, dovrà essere rilevato un credito per imposte anticipate (voce C.II 4-ter – S.P. Attivo) che ha come contropartita il conto, di natura economica, “imposte anticipate” (voce 22 C.E. sottovoce “imposte anticipate e differite”). Nell’ipotesi di adesione al consolidato e quindi di trasferimento delle perdite alla capogruppo, dovrà essere rilevato, tra i conti patrimoniali, un credito nei confronti della controllante, pari alla somma pattuita nell’accordo di consolidamento e, nel conto economico, tra le componenti positive, il provento per il trasferimento alla consolidante delle perdite IRES prodotte in costanza di consolidato fiscale, determinato nell’an e nel quantum in accordo alle pattuizioni contenute nell’accordo di consolidamento 17. Poiché tale somma deve essere commisurata, come detto, all’imposta teorica sull’imponibile negativo trasferito, i valori delle poste “proventi da consolidamento” e “imposte anticipate” coincidono 18. Pertanto, in considerazione del fatto che le imposte anticipate derivanti dalla compensazione delle perdite potranno essere iscritte in bilancio a condizione che esista una ragionevole certezza di utilizzarle, negli esercizi successivi, per ridurre imponibili positivi, e che, per ef16

PORPORA, op. ult. cit., p. 721, secondo cui soltanto commisurando l’ammontare delle somme da versare (o da ricevere) all’ammontare delle imposte anticipate calcolabili sui benefici fiscali connessi al riporto delle perdite di ogni singola società, si determinerebbe correttamente la remunerazione delle perdite fiscali conferite al gruppo. 17 Sulle modalità di contabilizzazione delle attribuzioni compensative di cui trattasi, nelle scritture della società consolidante e consolidata, v. il documento del 20 febbraio 2006, della Commissione per i Principi contabili – Consigli Nazionali dei Dottori Commercialisti e Ragionieri, cit. 18 Ovviamente si ragiona in un’ottica estremamente semplificata, ipotizzando che non ci siano altre variazioni fiscali che impongono la rilevazione di imposte anticipate o differite.

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fetto dell’adesione al consolidato, tale possibilità viene meno, occorre iscrivere nel conto economico della controllata solo i proventi da consolidamento e non procedere, nell’ambito delle scritture di assestamento, alle rilevazione delle imposte anticipate 19. L’Amministrazione finanziaria 20, nel chiarire che l’irrilevanza reddituale delle somme corrisposte o ricevute in contropartita, vada considerata nel limite massimo dell’imposta teorica relativa agli imponibili/minori imponibili cui le stesse somme siano commisurate, precisa che nella determinazione del prezzo di scambio dei vantaggi tributari trasferiti, assumono piena rilevanza gli accordi privati tra le parti. Ne consegue, per esempio, che il prezzo di trasferimento di una perdita nell’ambito del consolidato risulterà imponibile per la parte eccedente il connesso beneficio fiscale massimo, pari alla perdita stessa moltiplicata per l’aliquota IRES. Sulla scorta di questo assunto di fondo, nelle ipotesi in cui il vantaggio/svantaggio fiscale è soltanto potenziale, gli accordi di consolidamento potrebbero prevedere una remunerazione diversa rispetto al valore massimo fiscalmente neutro. Nel caso, ad esempio, di perdite IRES remunerate a forfait, con attribuzione alla consolidante al momento della cessazione del regime di gruppo, potrebbe essere riconosciuto, alla società che le ha prodotte, un corrispettivo quantificato applicando un’aliquota ridotta per tenere conto di vari fattori, quali: la fondata incertezza da parte della società in perdita di recuperare in futuro il potenziale risparmio d’imposta, il vantaggio finanziario dell’anticipato pagamento del corrispettivo rispetto a recuperi futuri a medio-lungo termine, il fatto che nel perimetro di consolidamento vi sono delle società che si prevede producano redditi imponibili con continuità e atti a compensare in tutto o in buona parte le perdite nell’arco del periodo di tassazione di gruppo. Quando, invece, opera un criterio di remunerazione delle perdite di tipo proporzionale, è più probabile che sia previsto il riconoscimento di un prezzo pari all’aliquota piena, applicata alla parte di perdita utilizzata nell’esercizio, non valendo le considerazioni sopra esposte, per il caso delle perdite remunerate a forfait, in merito ai vantaggi di tipo economico-finanziario che potrebbero spingere la singola società ad accettare remunerazioni inferiori a quelle calcolate ad aliquota piena 21. 19 Questo nell’ipotesi in cui si tratti di perdite maturate in costanza di consolidato; viceversa, nell’ipotesi di perdite pregresse, occorre provvedere alla rettifica della fiscalità anticipata nell’esercizio in cui sono venute meno le condizioni per l’iscrizione in bilancio delle imposte anticipate, che è quello di ingresso nel consolidato. 20 V. circ. Ag. Entr. n. 53/E cit. 21 Tali casi limite sono stati esaminati nel documento del 20 febbraio 2006, cit., ai §§. 5.3.2.3 e 5.3.2.4.

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Al di là di questi casi singolari, sta di fatto che le pattuizioni infragruppo possono liberamente prevedere aliquote di remunerazione minori, eventualmente influenzate da situazioni di direzione e coordinamento ex art. 2497 c.c., o maggiori, con l’unico limite, al fine di evitare un risparmio d’imposta indebito, che il pagamento infragruppo non configuri una fattispecie elusiva, ipotizzabile allorquando la somma erogata alla controllata non trovi giustificazione nel vantaggio fiscale trasferito o nel mancato beneficio 22. La norma fiscale oggetto di strumentalizzazione sarebbe lo stesso art. 118, comma 4 del TUIR, che, infatti, dispone il regime della neutralità fiscale solo per i compensi erogati “in contropartita dei vantaggi fiscali ricevuti o attribuiti”, individuando, in modo però facilmente eludibile, nel valore monetizzato del vantaggio fiscale, il limite massimo entro cui il trasferimento infragruppo sarebbe considerato fiscalmente neutro. In definitiva, nonostante il fatto che la quantificazione dei compensi erogati infragruppo sia rimessa all’autonomia negoziale è possibile rintracciare limiti, sia in ambito civilistico che fiscale, entro cui tale libertà può essere legittimamente esercitata; il limite è quello dell’imposta teorica cui le stesse somme sono commisurate, sempre che la scelta dei criteri di remunerazione non si scontri con il generale divieto di abuso del diritto o non configuri un’ipotesi di elusione fiscale ex art. 37 bis.

3. I compensi infragruppo nell’IVA Nella normativa IVA, non è disciplinato il trattamento tributario delle somme erogate in contropartita dei vantaggi e svantaggi attribuiti o ricevuti dalle società del gruppo. Né potrebbe trovare applicazione, in via analogica, l’art. 118, comma 4, del TUIR, trattandosi di norma che prevede un regime di esclusione e non di esenzione. Occorre, pertanto, rifarsi alla disciplina generale e alle norme che individuano le operazioni rientranti nel campo di applicazione dell’IVA. A tal fine, particolarmente utile appare la distinzione tra somme erogate in compensazione dei vantaggi/svantaggi fiscali trasferiti infragruppo e somme pagate per la partecipazione o la non adesione al consolidato fiscale. I pagamenti rientranti in quest’ultimo gruppo, in quanto configurano prestazioni di «fare», «non fare» o «permettere», generano sempre corrispettivi soggetti all’imposta sul valore aggiunto o, comunque, rientranti nel campo di applicazione dell’IVA, ricorrendo gli altri presupposti. 22

Si pensi all’ipotesi di compensi eccedenti il vantaggio fiscale trasferito al gruppo o di somme erogate in assenza di uno svantaggio subito per via del consolidamento, come nel caso di società con perdite croniche in scadenza.

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Viceversa, i compensi per la ripartizione, tra le società del gruppo, di benefici fiscali, generano mere cessioni di denaro e, in quanto tali, sono esclusi dal campo di applicazione dell’IVA, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a) del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Infatti, non trattandosi di corrispettivi derivanti da un rapporto sinallagmatico, in base al quale la società che ha ricevuto la somma si obbliga a cedere un bene o ad effettuare una prestazione a favore dell’erogante, manca il presupposto oggettivo di imponibilità IVA. In tal senso, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che “non rilevano, ai fini IVA, le somme di denaro trasferite a favore di una società a fronte del trasferimento di imponibile negativo, nei limiti dell’imposta teorica calcolata sullo stesso” 23. Diversamente, qualora, negli accordi di consolidamento, sia prevista una remunerazione eccedente i limiti dell’imposta teorica, calcolata sull’imponibile negativo trasferito, si configurerà l’ipotesi di un’operazione assoggettabile ad IVA, in quanto si tratterebbe di una somma corrisposta per una prestazione di servizi. Con riguardo, infine, alla disciplina dell’imposta di registro, gli accordi di consolidamento possono senza dubbio essere ricondotti alla categoria degli “Atti e documenti formati per l’applicazione, riduzione, liquidazione, riscossione, rateazione e rimborso delle imposte e tasse a chiunque dovute, comprese le relative sentenze, e gli atti relativi alla concessione o all’appalto per la loro riscossione”, e, in quanto tali, non sono soggetti all’obbligo della registrazione (art. 5 del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131) 24. Qualora, invece, gli accordi di consolidamento prevedano una remunerazione eccedente l’importo considerato fiscalmente neutro, con conseguente configurazione di un’operazione assoggettabile ad IVA, gli accordi predetti sono soggetti all’obbligo di registrazione in caso d’uso, previsto per le scritture private non autenticate “se tutte le disposizioni in esse contemplate sono relative ad operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto” (art. 5 del D.P.R. n. 131/1986).

4. I compensi infragruppo nell’IRAP Il trattamento, ai fini IRAP, dei trasferimenti di denaro tra le società del gruppo seguiva, fino alle modifiche introdotte dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, le regole applicabili in materia di imposte sui redditi. Infatti, considerata la rilevanza, nella determinazione dell’imponibile IRAP, delle variazioni in aumento e in diminuzione operate ai fini IRES, si poteva pacificamente affermare che le somme corrisposte in contropartita dei vantaggi fiscali attribuiti e ricevuti dalle socie23 24

Ris. Ag. Entr. n. 166/E del 12 luglio 2007, cit. V. in tal senso, Ris. Ag. Entr. n. 166/E del 12 luglio 2007, cit.

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tà del gruppo non concorressero a formare il valore della produzione netta 25. Questa conclusione può ritenersi ancora valida, nonostante l’allontanamento delle regole di determinazione dell’imponibile IRAP da quelle IRES. Infatti, i nuovi criteri di quantificazione del valore della produzione netta prevedono la diretta derivazione della base imponibile IRAP dalla risultanze del bilancio d’esercizio. In particolare, i proventi e gli oneri derivanti dall’adesione al consolidato fiscale, devono essere contabilizzati dalle società aderenti, secondo i corretti principi contabili, alla voce n. 22) del conto economico (imposte sul reddito dell’esercizio, correnti, differite e anticipate), la quale non assume alcuna rilevanza ai fini della determinazione del valore della produzione, posto che, per effetto delle modifiche introdotte dalla Finanziaria 2008 (L. 24 dicembre 2007, n. 244), la base imponibile IRAP deve essere determinata come “differenza tra il valore ed i costi della produzione di cui alle lett. A) e B) dell’art. 2425 c.c., con esclusione delle voci di cui ai numeri 9), 10), lett. c) e d), 12) e 13)”, quali risultano dal conto economico dell’esercizio redatto secondo i “criteri di corretta qualificazione previsti dai principi contabili” (art. 5, D.Lgs. n. 446/1997). Se ne desume, quindi, l’irrilevanza, anche ai fini IRAP, delle somme in oggetto, purché, ovviamente siano identificabili tra quelle previste dall’art. 118, comma 4, del TUIR e rientrino nei suddetti limiti quantitativi.

5. Le altre ipotesi di riequilibrio dei rapporti infragruppo Il fenomeno delle attribuzioni compensative può estrinsecarsi non solo nelle ipotesi sopra delineate, ma in tutti i casi in cui la partecipazione al consolidato sia legata a trasferimenti di posizioni soggettive che procurano ad una società del gruppo un risparmio d’imposta, cui normalmente, ma non necessariamente, corrisponde un aggravio per altra società del gruppo. Gli accordi di consolidamento possono prevedere trasferimenti di denaro infragruppo per il pagamento di imposte correlate al reddito trasferito, per la cessione di eccedenze d’imposta, per compensare gli svantaggi che derivano dall’interruzione della tassazione di gruppo, per remunerare le eccedenze di interessi passivi o di Rol attribuite al consolidato. In tutti questi casi, dunque, trova applicazione il regime di esclusione da IRES 25

La stessa Agenzia delle Entrate, nella circ. n. 53/E cit., con riferimento alla previgente versione del comma 1 dell’articolo 11-bis del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, ha chiarito che poiché le variazioni in aumento e in diminuzione operate ai fini IRES ai sensi dell’articolo 118, comma 4, del TUIR devono riproporsi anche ai fini IRAP, le somme percepite e versate in contropartita dei vantaggi fiscali possono essere escluse anche dalla determinazione del valore della produzione.

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e da IVA, purché il compenso non ecceda l’ammontare dell’imposta teorica calcolata sull’imponibile o minor imponibile trasferito. Pare opportuna, quindi, una breve disamina delle disposizioni fiscali che regolano i principali trasferimenti in questione.

5.1. Interruzione della tassazione di gruppo e mancato rinnovo dell’opzione Il regime di esclusione si applica, per espressa disposizione di legge, a tutte le somme trasferite per compensare gli svantaggi fiscali che derivano dall’interruzione della tassazione di gruppo, sia in caso di interruzione anticipata (art. 124, comma 6, del TUIR), sia di mancato rinnovo dell’opzione (art. 125, comma 3, del TUIR) 26. Il consolidato fiscale cessa la sua efficacia sia qualora alla scadenza del triennio di validità dell’opzione questa non venga rinnovata (art. 125 TUIR), sia qualora si verifichino le circostanze di legge che portano all’interruzione anticipata dello stesso (art. 124 del TUIR). In entrambi i casi è possibile che residuino delle perdite trasferite nell’ambito del gruppo ma non ancora compensate. Per queste ultime, il legislatore ha stabilito, come regola generale, l’imputazione in capo alla sola società controllante (art. 124, comma 4, del TUIR), pur prevedendo la possibilità che la normativa secondaria individui appositi criteri di riattribuzione delle perdite alle società che le abbiano prodotte e che fuoriescono dal consolidato. E così il decreto attuativo del giugno 2004, all’art. 13, comma 8, ha previsto la possibilità di optare per l’imputazione delle perdite alle società in capo alle quali sono maturate, secondo un criterio che dovrà essere comunicato preventivamente all’Agenzia delle Entrate e che potrà essere diverso da controllata a controllata. In definitiva, le società che fuoriescono dal perimetro di consolidamento godono di una duplice opportunità: la permanenza delle perdite residue in capo alla società controllante ovvero l’imputazione delle stesse alle società che le hanno prodotte. Nel caso le perdite restino definitivamente nella disponibilità della controllante, si pone un problema di compensazione dei vantaggi fiscali trasferiti, problema che il legislatore tributario si preoccupa di disciplinare, prevedendo l’estensione del regime di neutralità, ex art. 118, comma 4, alle somme percepite o versate dalle società tra cui si interrompe il rapporto di controllo, per compensare gli oneri 26 Infatti, l’art. 124, comma 6, estende il regime di neutralità, ex art. 118, comma 4, “alle somme percepite o versate tra le società del comma 1 per compensare gli oneri connessi con l’interruzione della tassazione di gruppo relativi all’imposta sulle società”; l’art. 125, comma 3, sancisce l’applicabilità dell’art. 118 anche “alle somme percepite o versate tra le società di cui al comma 1 per compensare gli oneri connessi con il mancato rinnovo della tassazione di gruppo relativi all’imposta sulle società”.

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connessi con l’interruzione della tassazione consolidata (art. 124, comma 6, del TUIR). Tali oneri sono tipicamente le imposte che la società uscente deve pagare sui propri redditi futuri, non potendo compensare le perdite pregresse perché non più nella sua disponibilità ma in quella della capogruppo. Potrebbero verificarsi diverse situazioni: al momento dello scioglimento del consolidato, la controllata che ha trasferito le perdite nell’ambito del gruppo è già stata remunerata per i vantaggi fiscali trasferiti, stante la sussistenza di ragionevoli condizioni di certezza circa il conseguimento di futuri imponibili positivi. In questo caso, se si applicasse la regola generale, non si configurerebbe in capo alla controllante alcun obbligo di risarcimento nei confronti della società uscente, già compensata per la perdita del vantaggio fiscale e quindi non ci sarebbe alcun trasferimento infragruppo per cui disporre la neutralità. Se, invece, il sopraggiungere di nuove e diverse circostanze, rendesse più conveniente, per gli azionisti di minoranza della controllata, riappropriarsi delle perdite trasferite, in vista della possibilità di compensarle con futuri redditi imponibili, sarebbe necessario restituire alla capogruppo le somme percepite all’atto del trasferimento delle perdite. Anche quest’ultimo pagamento infragruppo, dalla controllata alla controllante, può essere considerato fiscalmente neutro, in quanto l’art. 126, comma 4, estende il regime di neutralità alle somme non solo percepite ma anche “versate” dalle società uscenti. L’altra ipotesi è quella in cui la controllata non ha percepito alcun compenso all’atto del trasferimento delle perdite nell’ambito del consolidato, in quanto lo stesso non avrebbe arrecato alcun beneficio al gruppo né alcun “danno” alla società trasferente. In questo caso, se si decidesse di lasciare la perdita nella disponibilità della controllante, ex art. 124, comma 4, non dovrebbe comunque prevedersi alcun versamento compensativo nei confronti della controllata, a meno che venissero a cambiare le condizioni che avevano portato a prevedere la non compensabilità delle perdite; in questo caso, la scelta di privarsene definitivamente, comporterebbe la necessità di effettuare pagamenti in favore del controllata, fiscalmente neutri.

5.2. Il trasferimento delle eccedenze del Risultato operativo lordo (Rol) e degli interessi passivi indeducibili La possibilità di compensare, nell’ambito del consolidato, le eccedenze di interessi passivi di alcune società con le eventuali eccedenze di plafond di deducibilità (Rol) di altre, rappresenta una di quelle situazioni soggettive suscettibili di procurare vantaggi fiscali al gruppo 27. 27

In via generale, l’art. 96 del TUIR, al comma 1, prevede la deducibilità degli interessi passi-

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L’opzione per il consolidato fiscale si presenta particolarmente conveniente per le holding di partecipazione, nelle quali il “risultato operativo lordo” risulta normalmente basso o addirittura negativo (rimanendo fuori dal calcolo i proventi tipici, cioè i dividendi) e per le quali, pertanto, si potrebbe verificare la totale indeducibilità degli interessi passivi. In questi casi, l’eccedenza indeducibile di interessi passivi, maturata in capo ad una consolidata, può essere portata in abbattimento del reddito complessivo di gruppo se e nei limiti in cui altri soggetti partecipanti al consolidato presentino, per lo stesso periodo d’imposta, un Rol non integralmente sfruttato per la deduzione (art. 96, comma 7, del TUIR). Ad una prima lettura della norma, sembrerebbe che l’agevolazione de qua sia del tutto paragonabile a quella consistente nella possibilità di compensare le perdite infragruppo. Al contrario, esiste una differenza sostanziale tra le eccedenze in questione e le perdite trasferite al consolidato ma non utilizzate. Infatti, il trasferimento delle eccedenze, ai sensi del comma 7 dell’art. 96 del TUIR, non è un obbligo ma una mera “facoltà”. Pertanto, mentre la disponibilità delle perdite è trasferita alla consolidante che provvede al riporto in avanti di quelle rimaste inutilizzate e solo eventualmente alla riattribuzione totale o parziale per effetto dell’interruzione o del mancato rinnovo dell’opzione per la tassazione di gruppo, le eccedenze di interessi passivi e di Rol non trasferite restano nell’esclusiva disponibilità delle società che le hanno generate e possono essere riportate negli esercizi successivi. Onde evitare facili arbitraggi, è precluso, alle società che non abbiano attribuito il proprio Rol capiente al consolidato, di conferirlo in un successivo momento. In questo modo, il legislatore ha inteso evitare che la scelta circa l’utilizzo delle predette eccedenze sia funzione della presenza o meno di perdite 28. vi, al netto di quelli attivi, nei limiti del 30% del risultato operativo lordo, come definito dal comma 2 dello stesso articolo. Per effetto del successivo comma 4, la parte indeducibile degli interessi passivi netti può essere dedotta dal reddito dei successivi periodi d’imposta, senza limiti di tempo, se e nei limiti in cui in tali periodi l’importo degli interessi passivi netti sia inferiore al 30% del Rol di competenza. In caso di adesione al consolidato nazionale, il comma 7, prevede che l’eventuale eccedenza di interessi passivi e oneri assimilati indeducibili, generatasi in capo ad un soggetto, può essere portata in riduzione del reddito complessivo di gruppo se, e nei limiti in cui, uno o più soggetti partecipanti al consolidato nazionale presentano, per lo stesso periodo d’imposta, un Rol capiente, non integralmente sfruttato per la deduzione. 28 Nel caso in cui la società consolidata che registra un’eccedenza di interessi passivi netti indeducibili abbia anche delle perdite pregresse, tale eccedenza può essere portata in abbattimento del reddito complessivo del consolidato soltanto se, e nella misura in cui, la stessa società abbia evidenziato un risultato imponibile almeno pari alla predetta eccedenza di interessi passivi netti indeducibili. In tal modo si intende evitare che indirettamente venga aggirato il divieto di trasferimento al consolidato delle perdite realizzate prima dell’adesione alla tassazione di gruppo. V., in tal senso, circ. Ag. Entr., n. 19/E del 21 aprile 2009.

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Ne consegue che le società consolidate dovranno effettuare un’attenta valutazione, volta a massimizzare i vantaggi collegati alle diverse opzioni di trasferimento al consolidato e riporto “in proprio” delle eccedenze. In sostanza, quindi, ciascuna società partecipante al consolidato, che abbia un’eccedenza di interessi passivi indeducibili, può alternativamente scegliere se riportare a nuovo, a livello individuale, la propria eccedenza, ai fini di un successivo utilizzo negli esercizi in cui la stessa presenti un Rol capiente, oppure trasferirla al consolidato, ai fini di un’immediata deduzione in sede di determinazione del reddito complessivo del gruppo 29. È evidente che, con riguardo all’ipotesi di attribuzione dell’eccedenza di interessi passivi indeducibili a favore del consolidato fiscale, gli accordi di consolidamento dovranno prevedere una contropartita per il beneficio attribuito al gruppo. Proprio il profilo dei vantaggi trasferiti al gruppo e dell’eventuale compenso erogato alla società che ha prodotto l’eccedenza di Rol utilizzabile in compensazione nel consolidato, pone una serie di problematiche. In primo luogo, occorre interrogarsi sulla natura di tale compenso e, quindi, sulla sua causa giustificatrice. Se una società del gruppo utilizza l’eccedenza di Rol di un altro soggetto consolidato, quest’ultimo, ove preveda di mantenere, nei successivi periodi d’imposta, un livello di indebitamento inferiore al risultato operativo lordo, non subisce alcuno svantaggio, perché per esso tale eccedenza non comporta un risparmio d’imposta né immediato né futuro. Tuttavia, la società che utilizza tale eccedenza consegue, grazie alla possibilità riconosciuta dall’art. 96, comma 7, un beneficio fiscale immediato. Ci si chiede se, in questo caso, si configuri, in capo alla società cedente, il diritto ad essere remunerata per il vantaggio fiscale trasferito, pur in assenza di un corrispondente svantaggio. Se, poi, oltre a non subire alcun “danno”, la consolidata, trasferendo l’eccedenza di Rol al gruppo, conseguisse un vantaggio fiscale (se la società è in utile, l’abbattimento del reddito complessivo di gruppo, si ripercuote sull’imponibile delle singole consociate), sarebbe legittimo un simile pagamento? La logica di fondo è sempre la stessa: il consolidamento non deve comportare modificazioni della capacità contributiva dei partecipanti; la tassazione consolidata svolge la funzione di offrire, alle società aderenti, la possibilità di ottimizzare l’onere fiscale complessivo della fiscal unit 30. 29

L’Agenzia delle Entrate, nella circ. n. 19/E del 2009, precisa che deve, in ogni caso, verificarsi una corrispondenza tra gli interessi passivi indeducibili su base individuale trasferiti al consolidato e le eccedenze di Rol trasferite al gruppo in compensazione dei primi. In tal modo, gli importi di Rol individuale eccedenti non possono formare oggetto di trasferimento al consolidato e possono essere riportati in avanti solo dai soggetti che li hanno generati. 30 Sul punto, v. GIOVANNINI, Gruppo di società e capacità contributiva, in AA.VV., Diritto tribu-

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Ne consegue che la remunerazione dei vantaggi fiscali attribuiti al consolidato, derivanti dalla deduzione degli interessi passivi eccedenti, è giustificata, dal punto di vista causale, nella generazione di un beneficio fiscale attribuito al consolidato ed intercorre tra la consolidante e le consolidate che hanno reso possibile il conseguimento del beneficio stesso 31. Nei casi in cui, allora, il risparmio fiscale derivante dalla maggiore deduzione degli interessi passivi, per effetto delle norme di favore del consolidato, generi flussi di denaro verso le società che apportano i benefici 32, è lecito chiedersi se anche per questi compensi trovi applicazione il regime di neutralità fiscale previsto dal comma 4 dell’art. 118 del TUIR. Sul punto, pur in mancanza di una espressa previsione normativa, non sembra debbano esservi dubbi. Trattandosi di somme erogate in contropartita di vantaggi fiscali, la risposta dovrebbe essere positiva. In tal senso si è espressa anche l’Agenzia delle Entrate 33, precisando che la remunerazione riconosciuta al soggetto che trasferisce eccedenze di Rol può essere considerata fiscalmente neutrale in applicazione dell’art. 118, comma 4 del TUIR. Benché l’Agenzia faccia riferimento soltanto alla “remunerazione del vantaggio fiscale apportato alla fiscal unit dal soggetto partecipante al regime titolare del Rol capiente” deve ritenersi, per le ragioni innanzi esposte, che la neutralità fiscale possa operare anche nel caso in cui l’accordo di consolidamento preveda una remunerazione a favore del soggetto che apporta le eccedenze di interessi passivi indeducibili, ovvero equamente ripartita tra i soggetti che trasferiscono eccedenze di Rol e società che apportano eccedenze di interessi passivi. Quanto, poi, alla misura del compenso erogato, l’Amministrazione finanziaria, rifacendosi a quanto già chiarito nella circolare n. 53/E del 2004 34, ha precisato che “l’esclusione delle somme in questione dal concorso alla formazione tario e Corte Costituzionale, Cinquanta anni della Corte Costituzionale della Repubblica italiana, a cura di Perrone e C. Berliri, Napoli, 2006, p. 213 ss., secondo cui “la capacità contributiva che il legislatore ha inteso assumere a fondamento dell’imposta non è «altra» da quella che risulta dalla valutazione delle posizioni contributive dei partecipanti. La capacità così dire del gruppo è la stessa capacità contributiva dei singoli sebbene, in ragione del consolidamento, la sua quantificazione subisca o possa subire modificazioni”. 31 MICHELUTTI, Modifiche alla disciplina del consolidato fiscale nazionale, in Corr. trib., n. 4, 2008, p. 277 ss. 32 Gli accordi di consolidamento possono disporre sia forme di remunerazione a favore del soggetto che apporta le eccedenze di interessi passivi indeducibili (rinunciando, pertanto, al riporto in avanti delle stesse), sia forme di ripartizione del risparmio d’imposta tra i soggetti che trasferiscono eccedenze di Rol e di interessi passivi. 33 V. circ. Ag. Entr., 19 febbraio 2008, n. 12/E. Per un primo commento sull’argomento, v. FERRANTI, Primi chiarimenti del Fisco sulle nuove regole di deducibilità degli interessi passivi, in Corr. trib., n 7, 2008, p. 511 ss. 34 Circ. Ag. Entr., n. 53/E, cit.

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dell’imponibile individuale del soggetto che ha trasferito il proprio Rol capiente (individualmente inutilizzato) opererà fino a concorrenza dell’IRES teorica cui le stesse somme sono commisurate”. Il problema si complica se l’eccedenza di Rol proviene da una controllata estera, non rientrante nel perimetro di consolidamento. Infatti, allo scopo di non discriminare imprese estere potenzialmente consolidabili, rispetto all’acquisizione di imprese italiane, il comma 8 dell’art. 96 del TUIR, prevede, ai soli fini del calcolo del Rol di gruppo, di estendere virtualmente il perimetro di consolidamento anche alle partecipate estere per le quali “ricorrerebbero i requisiti e le condizioni previsti dagli articoli 117, comma 1, 120 e 132, comma 2, lettere b) e c)”. Si tratta, in sostanza, di quelle società che non possono aderire al consolidato nazionale solo perché residenti all’estero, ricorrendo, invece, tutti gli altri requisiti per esercitare l’opzione. La ratio della norma è evidentemente quella di evitare un trattamento fiscale discriminatorio a danno delle holding italiane in funzione della localizzazione delle società partecipate e per questo l’art. 96, al comma 8, consente alla società controllante di un consolidato nazionale di abbattere l’imponibile di gruppo utilizzando l’eccedenza di Rol apportata dalla società controllata estera 35. Se, quindi, gli interessi passivi netti maturati in capo alla controllata non residente non superano il risultato operativo lordo della medesima, la differenza può essere utilizzata in compensazione con la quota di interessi passivi indeducibili maturata in capo ai soggetti italiani partecipanti al consolidato. Ne deriva un evidente beneficio fiscale a favore delle controllate italiane, che potrebbe comportare una remunerazione a vantaggio della partecipata estera. Si pone, dunque, un problema di trattamento fiscale del predetto compenso; in altri termini, la somma erogata dalla capogruppo alla controllata non residente, a titolo compensativo del vantaggio fiscale trasferito al gruppo, potrà godere del regime di neutralità previsto per le stesse somme erogate a soggetti residenti in Italia? Da una lettura attenta del combinato disposto degli artt. 118, comma 4 e 96, comma 8 del TUIR dovrebbe concludersi in senso negativo. Infatti, l’art. 118 citato riserva il beneficio della neutralità fiscale alle sole somme erogate tra soggetti aderenti al consolidato, mentre l’art. 96, comma 8, limita la finzione del consolidamento nazionale della società estera “ai soli fini dell’applicazione del comma 7” e quindi limitatamente alla deducibilità degli interessi passivi. 35

L’estensione virtuale del perimetro di consolidamento alle controllate estere trova applicazione esclusivamente per l’eventuale capienza di Rol che emerge in capo al soggetto non residente e non anche per l’eccedenza di interessi passivi netti indeducibili. In effetti, ove si consentisse la trasferibilità al consolidato, da parte dell’impresa estera, della quota di interessi passivi netti eccedenti, si permetterebbe la deduzione di un componente negativo che ha già concorso alla determinazione del reddito di un soggetto residente all’estero, violando, pertanto, il principio di tassazione su base territoriale dei soggetti non residenti.

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Ne dovrebbe conseguire la piena rilevanza fiscale di detti compensi, che saranno deducibili in capo alla consolidata italiana e imponibili per la società estera. Questa conclusione potrebbe portare a conseguenze non volute dal legislatore, ossia allo spostamento di materia imponibile dall’Italia verso lo Stato di residenza della partecipata, esclusi quei casi in cui il trasferimento in oggetto configuri un’operazione elusiva, ex art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973. In conclusione, la disciplina sulla deducibilità degli interessi passivi nel consolidato pare offrire alle società aderenti numerose opportunità di tax planning e per questo appare perfettamente in linea con le caratteristiche di favore che contraddistinguono il regime del consolidato nazionale.

5.3. Il trasferimento delle eccedenze d’imposta e dei crediti d’imposta Il trasferimento delle eccedenze d’imposta infragruppo può essere all’origine di pagamenti compensativi a favore della società trasferente, a fronte del risparmio d’imposta conseguito dal gruppo. Detti compensi dovrebbero essere commisurati al credito d’imposta trasferito, in quanto il vantaggio conseguente e consistente nella riduzione dell’imposta dovuta dalla società cessionaria è esattamente pari alla misura del credito compensato. Se l’eccedenza viene trasferita nell’ambito del consolidato fiscale, allora ai suddetti compensi troverà applicazione il regime di neutralità previsto dall’art. 118, comma 4 del TUIR, ben potendo essere assimilati alle somme erogate in contropartita dei vantaggi fiscali ricevuti o attribuiti tra le società del gruppo. Diverso è invece il caso in cui l’eccedenza d’imposta venga compensata tra società facenti parte dello stesso gruppo ma non aderenti al consolidato fiscale. Ricorrendo i requisiti soggettivi previsti dall’art. 43 ter del D.P.R. n. 600/1973, infatti, una società facente parte di un “gruppo” può procedere alla compensazione delle eccedenze d’imposta risultanti dalla propria dichiarazione, con l’IRES dovuta da altra società dello stesso gruppo, come se si trattasse di una compensazione “interna”. In questa ipotesi, dubbi sorgono in merito al trattamento fiscale dei compensi erogati tra la società cedente e la società cessionaria. Infatti, il regime di esclusione, di cui all’art. 118, comma 4, non può trovare applicazione al di fuori del consolidato fiscale, ancorché le società siano legate da rapporti di controllo particolarmente qualificati. Né, trattandosi di norma di “esclusione” e non di “esenzione”, se ne potrebbe prevedere l’applicazione in via analogica anche alla fattispecie in oggetto. Se ne deve desumere che la stessa operazione (compensazione delle eccedenze d’imposta) è soggetta ad un regime fiscale diverso a seconda che le società coinvolte abbiano o meno esercitato l’opzione per il consolidato: regime di neutralità in un caso, regime di imponibilità nell’altro.

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Risulta, così, avvalorata la tesi circa il carattere agevolativo del consolidato fiscale, l’adesione al quale consentirebbe alle società del gruppo di beneficiare di un regime di tassazione meno oneroso. Alle stesse conclusioni si perviene anche avendo riguardo alle regole di compensazione dei crediti per le imposte versate all’estero dalle società aderenti al consolidato. Infatti, detto credito deve essere determinato dalla società controllante in relazione al reddito prodotto dalle singole consolidate, in quanto l’art. 118, comma 1 bis, dispone che “la quota di imposta italiana, fino a concorrenza della quale è accreditabile l’imposta estera è calcolata separatamente per ciascuno dei soggetti partecipanti al consolidato”. La controllante, in sostanza, è chiamata a determinare tanti crediti d’imposta quante sono le società consolidate, in base alle informazioni da ciascuna comunicate, procedendo, poi, alla detrazione dall’imposta di gruppo del credito complessivo che risulta dalla somma dei singoli foreigntaxcredits.

6. I compensi infragruppo fiscalmente rilevanti Accanto alle pattuizioni relative alla ripartizione dei benefici fiscali all’interno del gruppo, gli accordi di consolidamento possono prevedere compensi la cui erogazione, pur trovando fonte nel regime di tassazione consolidata, non è preordinata alla compensazione dei vantaggi/svantaggi derivanti dalla partecipazione al consolidato fiscale. Si tratta di somme pagate in contropartita di prestazioni di «fare», «non fare» o «permettere» che, in genere, riguardano la formazione dell’area di consolidamento: l’inclusione di una o più controllate in grado di apportare benefici fiscali al gruppo, ovvero l’uscita di una controllata al completo conseguimento dei vantaggi fiscali da questa consentiti. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui oggetto di negoziazione sia l’adesione al consolidato di una società con rilevanti perdite o, a seconda dei casi, con eccedenze di Rol o di interessi passivi indeducibili, trasferibili al gruppo. Riguardo, invece, alle ipotesi di interruzione della tassazione consolidata, le parti potrebbero pattuire, dietro compenso, la destinazione da imprimere alle perdite ancora non assorbite nell’imponibile di gruppo: le minoranze dei soci della società uscente potrebbero, infatti, essere indotte a preferire l’una o l’altra alternativa (lasciare le perdite della controllata uscente a disposizione della ex capogruppo, o riattribuirle alla società uscente). Un esempio classico, inoltre, è quello della società controllata di primo livello (sub holding) che potrebbe esercitare l’opzione sia in qualità di consolidante (con le proprie controllate) sia di consolidata (con la propria controllante). In tale ul-

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tima ipotesi, la capogruppo potrebbe remunerare l’impegno assunto dalla sub holding a non esercitare in proprio, come consolidante, l’opzione per la tassazione di gruppo. È chiaro, infatti, che la controllante potrebbe avere tutto l’interesse a consolidare i risultati fiscali della controllata di primo livello, nonché, ricorrendo i presupposti, delle altre società da questa controllate. In tutti questi casi, il compenso infragruppo assume la natura di “corrispettivo” pagato in un’operazione transattiva e per questo rappresenta un provento imponibile per la società che lo percepisce e un costo deducibile per il soggetto che lo eroga; parimenti, le operazioni di cui trattasi rientrerebbero nel campo di applicazione dell’IVA e sarebbero, quindi, generalmente imponibili. Muovendo in questa direzione, un parallelo può essere effettuato tra il regime del consolidato nazionale e quello della trasparenza fiscale. In quest’ultimo, l’erogazione di compensi per favorire l’adesione al regime è tanto più probabile se solo si considera che, per l’efficacia dell’opzione, è richiesto che la stessa venga esercitata da tutte le società partecipanti. Le somme pagate per assicurarsi che tutti i soci, compresi quelli di minoranza, prestino il proprio assenso, anche in previsione dell’imposizione di utili non distribuiti, rappresentano evidentemente il corrispettivo per una prestazione di «permettere» e, considerata la loro natura sinallagmatica, sono fiscalmente imponibili.

7. I compensi infragruppo nella proposta di direttiva sulla CCCTB e profili comparati La proposta di Direttiva sulla CCCTB 36 non prevede una disciplina ad hoc per i trasferimenti infragruppo finalizzati a riequilibrare le posizioni soggettive dei membri dello stesso. L’approccio seguito dal legislatore comunitario nel delineare le regole di quantificazione della CCCTB, si basa sulla individuazione di taluni criteri generali e sulla previsione di regole più dettagliate che disciplinano la valorizzazione di alcune componenti reddituali: partendo dalla definizione della base imponibile comune come differenza tra i ricavi, esclusi quelli esenti, e le spese deducibili (v. art. 10 della proposta di direttiva), la proposta di direttiva si limita a definire in termini generali gli elementi componenti l’imponibile, i criteri di valutazione applicabili e le regole di imputazione a periodo, prevedendo norme specifiche solo per talune componenti reddituali (accantonamenti (art. 25); deduzioni per crediti irrecuperabili (art. 27), rimanenze e prodotti in corso di la36

COM (2011) 121/3 del 16 marzo 2011, in G.U.C.E. n. 140/11, consultabile sul sito internet http://ec.europa.eu/taxation_customs/resources/documents/taxation/company_tax/common _tax_base/com_2011_121_it.pdf .

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vorazione (art. 29); ammortamenti (artt. 33-41)). Nella CCCTB, dunque, concorrono alla determinazione della base imponibile comune tutti i “ricavi” fiscalmente imponibili e tutte le “spese” fiscalmente deducibili, ove per “ricavi”, si intendono tutte le componenti positive di reddito (art. 4, lett. 8) della proposta di direttiva), derivanti dalla ordinaria attività d’impresa, nonché le componenti di carattere straordinario e finanziario, eccetto quelle esplicitamente esenti (dividendi, capital gains su cessioni di azioni e reddito di S.O. stabilite in Paesi terzi) (art. 12); mentre le “spese deducibili” includono tutti i costi delle vendite nonché il costo del capitale, da investire nell’attività d’impresa (art. 12), mentre sono indeducibili le spese tassativamente elencate nell’art. 14 della proposta di direttiva (le distribuzioni di dividendi e i rimborsi di capitale o di debito, il 50% delle spese di rappresentanza, l’imposta sul reddito delle società, ecc.). Tra i ricavi esenti e le spese indeducibili non figurano le somme corrisposte o ricevute in contropartita dei vantaggi e degli svantaggi fiscali derivanti dall’adesione alla CCCTB. Potrebbe, tuttavia, ritenersi applicabile a siffatte attribuzioni compensative, la disciplina relativa alla neutralità fiscale delle transazioni infragruppo prevista dall’art. 59 della proposta di direttiva, secondo cui “nel calcolo della base imponibile consolidata, sono ignorati i profitti e le perdite derivanti da operazioni svolte direttamente tra i membri del gruppo”. Ne deriva, quindi, l’irrilevanza fiscale di tutte le transazioni infragruppo, a prescindere dall’oggetto della cessione o della prestazione, mancando, nella proposta di direttiva, una specifica distinzione al riguardo 37. Il regime di neutralità delle operazioni infragruppo non è nuovo, per la verità, agli ordinamenti tributari nazionali che prevedono forme di tassazione unitaria dei gruppi. In Italia, ad esempio, prima delle modifiche introdotte dalla L. 24 dicembre 2007, n. 344, era previsto un regime opzionale di neutralità fiscale applicabile alla distribuzione di dividendi infragruppo e alla cessione di beni plusvalenti tra società consolidate 38. Lo stesso regime di neutralità trova ancor oggi applicazione nella Fiscal Unity olandese, nel Group Relief britannico e nei sistemi di Integration Fiscal e Bénéfice Fiscal Consolidé francesi; al contrario, non è disposta la neutralità delle operazioni infragruppo né nell’Organschaft tedesco né nel regime di consolidato danese. Nell’ordinamento tributario tedesco è prevista una specifica disciplina in tema di accordi di consolidamento e trattamento fiscale dei flussi compensativi in37

Con specifico riferimento alle possibili manovre sui prezzi di trasferimento interni relativi alle attribuzioni alle società aderenti al consolidato fiscale di somme in contropartita dei vantaggi fiscali ricevuti o attribuiti (art. 118, comma 4, del TUIR n. 917/86), v. SELICATO, Le somme compensative dei vantaggi fiscali ricevuti o attribuiti, in AA.VV., L’attività di controllo sul consolidato nazionale, Milano, 2006, pp. 206-208. 38 V. art. 122 e 123 TUIR previgenti.

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fragruppo 39. In particolare, l’adesione all’Organschaft non è subordinata all’esercizio di un’opzione, da comunicare all’Amministrazione finanziaria, ma alla stipulazione di un contratto di trasferimento di utili e perdite, e ciò spiega anche la ragione dell’obbligatoria indicazione nel contratto, prevista a pena di nullità dal punto di vista civilistico, della remunerazione eventualmente spettante ai soci di minoranza delle società del gruppo per l’eventuale pregiudizio subito per effetto del trasferimento delle perdite. Infatti, il legislatore tedesco, attento a non ledere gli interessi dei soci di minoranza, ha dettato una serie di norme di tutela (§§ 304-307 Aktg), prevedendo che agli stessi venga garantito un adeguato compenso, che può consistere anche nel diritto ad un dividendo minimo. In quanto detto corrispettivo assume la natura di dividendo, lo stesso non è deducibile in capo al soggetto che lo eroga, mentre è imponibile in capo alla società “dominata” che lo percepisce, mentre, la doppia imposizione viene eliminata prevedendone l’esenzione in capo al socio.

8. Conclusioni La previsione di un sistema extra-tributario di compensazioni infragruppo sembrerebbe confermare una ricostruzione sistematica dell’istituto in chiave agevolativa, in quanto strumento di semplificazione dei meccanismi impositivi del gruppo. Se, infatti, il legislatore avesse voluto commisurare il prelievo ad una nuova grandezza economica, la capacità contributiva di gruppo, non avrebbe avuto senso una previsione che consentisse alle società del gruppo di azzerare gli eventuali benefici o pregiudizi derivanti dal consolidamento integrale del reddito dei partecipanti. Al contrario, la previsione di una siffatta possibilità assume il significato di riequilibrare le posizioni soggettive dei membri del gruppo, a conferma del fatto che ciascuno conserva piena autonomia impositiva e piena disponibilità del suo reddito. In sostanza, il legislatore, preso atto dei possibili fenomeni distorsivi cui può condurre il consolidamento integrale degli imponibili, ha agito in una duplice direzione: da un lato, riconoscendo legittimità giuridica ai pagamenti compensativi eventualmente previsti nell’ambito degli accordi di consolidamento, pur lasciando all’autonomia privata la concreta quantificazione degli stessi; dall’altro, sancendo l’assoluta irrilevanza reddituale di siffatte somme. 39

Sul punto, v. G. MARONGIU, L’istituto del consolidato fiscale nell’esperienza tedesca dell’Organischaft, in Riv. dir. trib., 2004, IV, p. 193 ss.; PETRICCIONE, (voce) Gruppi di società, in Dig. Disc. priv. sez. comm., VI, Torino, 1991, p. 429 ss.

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Sembra profilarsi, così, un duplice piano d’indagine: da una parte, la congiunta manifestazione di volontà idonea ad assicurare gli effetti individuati ex lege attraverso gli artt. 117 e ss. del TUIR; dall’altra, l’eventuale accordo interno, con il quale si evita che il prodursi degli effetti fiscali possa danneggiare alcune tra le società partecipanti, avvantaggiandone altre. Si tratta, in sostanza, di pagamenti volti al “riequilibrio” di posizioni soggettive a seguito degli effetti generati dalla tassazione consolidata. La funzione compensativa dei suddetti pagamenti conferma, quindi, l’autonoma capacità contributiva delle società partecipanti al consolidato e nel contempo sottolinea la possibilità che dall’esercizio dell’opzione possano derivare vantaggi complessivi per il gruppo.

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SEZIONE IV LA RILEVANZA DEGLI SCAMBI TRA MERCATO E TERZO SETTORE. LE COOPERATIVE, GLI ENTI NON COMMERCIALI E GLI ENTI NON LUCRATIVI

DIREZIONE E CONDIZIONI DELLO SCAMBIO NELLE COOPERATIVE E NELLE ORGANIZZAZIONI NON PROFIT TRA REGOLE CIVILISTICHE E REGOLE TRIBUTARIE

di Giorgio Marasà SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Direzione degli scambi e tipologia delle cooperative. – 2.1. Rilevanza meramente fiscale della categoria delle cooperative a mutualità prevalente. – 2.2. Rapporto tra operatività prevalente con i soci e attribuzione della qualifica di C.M.P. – 2.3. C.M.P. e agevolazioni fiscali. – 2.4. Conclusioni. – 3. Cooperative e condizioni degli scambi. – 3.1. Realizzazione dello scopo mutualistico e condizioni degli scambi con i soci. – 3.2. Parità di trattamento tra i soci e condizioni di scambio con i terzi. – 4. Connotati e rilevanza della categoria delle O.N.L.U.S. – 4.1. La direzione degli scambi nelle O.N.L.U.S. – 4.2. Le condizioni degli scambi nelle O.N.L.U.S. – 4.3. O.N.L.U.S. e cooperative: l’intreccio tra categorie privatistiche e categorie tributarie. – 4.4. O.N.L.U.S. e cooperative sociali. – 4.5. Conclusioni sull’intreccio tra regole privatistiche e regole tributarie. – 5. Connotati e rilevanza della categoria delle imprese sociali. – 5.1. Direzione e condizioni degli scambi nelle imprese sociali. – 6. Direzione e condizioni degli scambi nelle associazioni del Libro I del codice civile. – 6.1. Direzione e condizioni degli scambi e qualifica tributaria di ente non commerciale. – 6.2. Direzione e condizioni degli scambi e qualifica d’impresa ex art. 2082, c.c.

1. Premessa Quando cooperative, ONLUS, imprese sociali e associazioni svolgono attività d’impresa, instaurano operazioni di scambio, riconducibili a vari schemi giuridici, attraverso cui i soci, gli associati ed eventualmente i terzi fruiscono dei beni o servizi prodotti da tali imprese. Quali regole giuridiche governano la direzione e le condizioni di questi scambi? Al riguardo ci si propone di verificare, in particolare: con chi possano essere effettuate le operazioni di scambio; se e quali regole governino le relative condizioni economiche; se la disciplina in materia sia affidata solo alle disposizioni di legge o siano concessi spazi e in che misura anche all’autonomia privata; quali problemi si determinano a causa dell’intrecciarsi delle regole civilistiche con quelle tributarie.

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2. Direzione degli scambi e tipologia delle cooperative Per quanto attiene alla direzione degli scambi nelle cooperative, è problema tradizionale il rapporto tra scambi con i soci e scambi con i terzi. In base al quadro normativo attuale si legittimano quattro alternative. a) La prima eventualità è quella della cooperativa a mutualità pura, cioè operante esclusivamente con i propri soci. È questo il regime ricavabile dalla regola dispositiva di legge che consente lo svolgimento di attività, e, quindi, l’instaurazione di scambi con i terzi solo in presenza di una specifica autorizzazione statutaria (cfr. art. 2521, comma 2, c.c.), senza la quale si ritiene che l’attività con i terzi non sia consentita. La derogabilità per via statutaria della mutualità pura o esclusiva apre la strada ad altre tre possibilità. b) Al riguardo il codice civile prevede, anzitutto, la categoria delle cooperative a mutualità prevalente (C.M.P). Per potersi collocare in questa categoria alla cooperativa sono richiesti due requisiti, uno statutario, l’altro fattuale. Il primo è che nello statuto siano inserite le specifiche clausole limitative dello scopo di lucro, dettate dall’art. 2514, comma 1, c.c., con riferimento a tutte e tre le fasi del rapporto sociale in cui tale scopo può realizzarsi, cioè, la distribuzione periodica degli utili sotto forma di dividendi (cfr. comma 1, lett. a e lett. b), lo scioglimento del singolo rapporto sociale (cfr. comma 1, lett. c), lo scioglimento dell’intero rapporto sociale (cfr. comma 1, lett. d). Il secondo impone che la cooperativa svolga la sua attività economica in direzione dei soci con carattere di prevalenza (cfr. art. 2512), cioè nei termini quantitativi indicati dall’art. 2513, comma 1 e da misurarsi con criteri contabili ancorati a voci di bilancio, i quali sono differenti a seconda che la cooperativa ceda beni o servizi ai soci (come le cooperative lato sensu di consumo di cui al comma 1, lett. a), utilizzi prestazioni lavorative dei soci (come le cooperative di lavoro di cui al comma 1, lett. b), riceva beni o servizi dai soci (come le cooperative di produzione, trasformazione o distribuzione di cui al comma 1, lett. c). Dai criteri indicati in quest’ultima disposizione di legge si desume che la prevalenza non riguarda il numero degli scambi con i soci rispetto a quelli con i terzi ma il loro valore economico complessivo. Ne consegue che una cooperativa che effettui con i propri soci operazioni di rilevante valore economico integra il requisito dell’operatività prevalente anche se le operazioni effettuate con i terzi siano numericamente superiori e viceversa. c) La mancanza di uno dei due requisiti che qualificano la cooperativa come C.M.P. provoca la sua attrazione nella categoria residuale delle cooperative non a mutualità prevalente o, se si preferisce, diverse (da quelle a mutualità prevalente). Questa conclusione vale, però, solo in linea di principio e con salvezza di quanto si osserverà più avanti in ordine alla svalutazione del requisito dell’operatività prevalente con i soci (così come delineato negli artt. 2512 e 2513, c.c.) ai fini

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dell’attribuzione della qualifica di C.M.P., svalutazione che si ricava dalle regole relative a parecchie cooperative di settore. d) Quanto, infine, all’ipotesi che la cooperativa operi esclusivamente con i terzi, si tratta di un’eventualità che, stando al sistema delineato nel codice civile, assume carattere eccezionale e può ritenersi legittimata – secondo quanto emerge dall’interpretazione dell’art. 2520, comma 2, c.c. – solo in presenza di apposite previsioni di legge in deroga alle disposizioni codicistiche, quali devono ritenersi, ad esempio, quelle della L. n. 381/1991 sulle cooperative sociali, del D.Lgs. n. 460/1997 sulle ONLUS e del D.Lgs. n. 155/2006 sulle imprese sociali, tutte discipline su cui si tornerà più avanti.

2.1. Rilevanza meramente fiscale della categoria delle cooperative a mutualità prevalente La bipartizione tra C.M.P. e cooperative diverse, benché prospettata nel codice civile, non ha rilevanza ai fini civilistici ma solo a fini tributari, essendo stabilito dall’art. 223 duodecies, comma 6, disp. att. c.c., che: «le disposizioni fiscali di carattere agevolativo si applicano soltanto alle cooperative a mutualità prevalente». Peraltro, come si vedrà tra poco, quest’ultima asserzione del legislatore riceve numerose smentite. Sul piano civilistico, invece, la disciplina è sostanzialmente unitaria e prescinde da tale bipartizione 1.

2.2. Rapporto tra operatività prevalente con i soci e attribuzione della qualifica di C.M.P. Come si è già accennato, per l’attribuzione della qualifica di C.M.P. non basta l’operatività prevalente con i soci se ad essa non si accompagna in sede statutaria la compressione dello scopo di lucro entro i limiti segnati dall’art. 2514, comma 1, c.c. Può, anzi, osservarsi come quest’ultimo requisito assuma un ruolo predominante ed assorbente nella fase della costituzione della cooperativa poiché l’inserimento nell’atto costitutivo della società delle clausole previste dall’art. 2514, comma 1, c.c., è condizione necessaria e sufficiente per il conseguimento della qualifica di C.M.P.: necessaria, perché senza quelle clausole nessuna cooperativa, neanche se a mutualità esclusiva, potrebbe ascriversi alla categoria; sufficiente, perché la presenza di tali clausole garantisce l’ingresso e la permanenza nella categoria per almeno due anni (cfr. art. 2545 octies, c.c.). Inoltre, l’importanza del requisito dell’operatività prevalente con i soci risulta 1 Cfr. MARASÀ, Problemi della legislazione cooperative e soluzioni della riforma, in La riforma di società, cooperative, associazioni e fondazioni, Padova, 2005, p. 143 ss.

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sensibilmente svalutata 2 perché in molti casi l’attribuzione della qualifica di C.M.P. avviene prescindendo da una verifica sulla sussistenza in fatto della prevalenza dell’operatività con i soci nei termini di cui agli artt. 2512 e 2513. Così è, ad esempio, per le cooperative sociali ex L. n. 381/1991 (cfr. art. 111 septies, disp. att. c.c.), per le cooperative agricole (cfr. artt. 2513, comma 3, c.c. e 111septies, disp. att. c.c.) e per le banche di credito cooperativo (cfr. artt. 28, co. 2 bis e 150 bis, comma 4, del T.U.B., D.Lgs. n. 385/1993). Negli ultimi due casi l’operatività prevalente con i soci è misurata con criteri diversi da quelli generali degli artt. 2512 e 2513 mentre nelle cooperative sociali si prescinde da ogni valutazione sul punto, con la conseguenza che ricevono tale qualifica anche quella sottospecie di cooperative sociali, previste dall’art. 1, comma 1, lett. a, L. n. 381/1991, le quali non svolgono alcuna attività di gestione di servizio in favore dei soci ma producono servizi socio-sanitari ed educativi destinati a soggetti diversi dai cooperatori, al fine di realizzare «l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione dei cittadini» (cfr. art. 1, comma 1, L. cit., e v. pure oltre, sub 4.4). Si tratta, dunque, di cooperative a cui è eccezionalmente consentito di operare esclusivamente con i terzi (retro sub 2, lett. d) ma a cui viene assegnata per legge la qualifica di C.M.P. Un’ulteriore eccezione è stata successivamente introdotta dalla L. n. 99/2009 per i consorzi agrari che, al di là della loro denominazione, sono società cooperative regolate dagli artt. 2511 ss., c.c. Ad essi, infatti, l’art. 9, L. n. 99/2009 conferisce la qualifica di C.M.P. indipendentemente dal requisito della gestione in favore dei soci ed esclusivamente sulla base della presenza nello statuto delle clausole limitative dei diritti patrimoniali dei soci di cui all’art. 2514, comma 1, c.c. È stato poi lo stesso riformatore del codice civile a programmare in termini generali la derogabilità, per via ministeriale, dei criteri di prevalenza enunciati dall’art. 2513, c.c. Si è previsto, infatti, che un decreto del Ministero delle attività produttive, di concerto con il Ministero dell’Economia, possa stabilire regimi derogatori al requisito delle prevalenza «in relazione alla struttura dell’impresa e del mercato in cui le cooperative operano, a specifiche disposizioni normative cui le cooperative devono uniformarsi e alla circostanza che la realizzazione del bene destinato allo scambio mutualistico richieda il decorso di un periodo di tempo superiore all’anno di esercizio»(cfr. art. 111 undecies, disp. att., c.c.). Questi regimi derogatori hanno trovato ampio spazio riducendo ulteriormente l’ambito di applicazione dei criteri generali di prevalenza ex artt. 2512 e 2513, c.c. Infatti, il d.m. 30 dicembre 2005 elenca un vasto campionario di eccezioni, che – cosi come quelle previste direttamente dalla legge – consistono, in taluni casi, nell’adozione di cri2

Cfr. MARASÀ, L’odierno significato della mutualità prevalente nelle cooperative, in Organizzazione, finanziamento e crisi dell’impresa. Scritti per Pietro Abbadessa, in corso di stampa e in Giur. Comm., 2013, I, p. 847 ss.

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teri di misurazione della prevalente operatività con i soci, diversi e molto meno rigorosi di quelli previsti dalle regole generali degli artt. 2512 e 2513 c.c., (ciò, nelle cooperative di lavoro, nelle cooperative per la produzione e distribuzione di energia elettrica, nelle cooperative agricole di allevamento e di conduzione, nelle cooperative di formazione, nelle cooperative giornalistiche), in altri casi, nell’attribuzione della qualifica di cooperativa a mutualità prevalente a prescindere da qualsiasi indagine sulla sussistenza del requisito dell’operatività con i soci (ciò, nelle cooperative finanziarie, nelle cooperative di consumo operanti nei territori montani, nelle cooperative di editori che gestiscono agenzie giornalistiche). Il risultato di tutto ciò è che uno degli obiettivi qualificanti della riforma del 2003, cioè restringere l’ambito di applicazione delle agevolazioni fiscali – subordinandole non più, come in passato, alla presenza delle sole clausole statutarie “antilucrative” (clausole già previste dal d.l.C.p.S. 14 dicembre 1947, n. 1577 ed ora perpetuate nell’art. 2514, comma 1) ma anche ad una verifica in punto di fatto di un adeguato livello di mutualità, inteso come gestione dell’impresa prevalentemente in direzione dei soci – è stato parzialmente “sabotato”, cioè privato di significato nello stesso momento in cui è stato introdotto e ciò a causa delle numerose eccezioni alle regole generali di misurazione dell’operatività prevalente ex artt. 2512 e 2513, c.c. che il legislatore ha talvolta dettato direttamente, talaltra ipotizzato e demandato alla determinazione ministeriale, con gli esiti che sono stati dianzi riassunti.

2.3. C.M.P. e agevolazioni fiscali Infine, va sottolineato che la rilevanza dell’attribuzione della qualifica di C.M.P. come conditio sine qua non per l’accesso alle agevolazioni fiscali (art. 223 duodecies, comma 6, disp. att. c.c.) è contraddetta dalla constatazione che, anche successivamente alla riforma del diritto societario del 2003, la più importante delle agevolazioni, cioè la detassazione degli utili accantonati a riserva indivisibile (cfr. art. 2545 ter, c.c.) è accessibile a tutte le cooperative, anche a quelle non a mutualità prevalente 3. Al riguardo si può osservare che la tendenza generale della normativa tributaria è verso una graduale riduzione di tale agevolazione mentre la percentuale di detassazione viene graduata a seconda del settore in cui opera la cooperativa e della sua qualifica di C.M.P. o meno 4. 3 Peraltro, non è pacifico che quella segnalata nel testo si configuri come “agevolazione”. Per ampia trattazione del tema v. PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto dei carichi pubblici e scopo mutualistico, Milano, 2011, 10 ss.; 203 ss.; 209 ss.; passim. 4 Per un quadro aggiornato sulla base dei più recenti interventi normativi di cui al testo v. RAPONI, Profili di interesse notarile di fiscalità diretta e indiretta in materia di cooperative: assegnazione di beni ai soci di cooperative edilizie, in Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, 2012, n. 176; cfr. pure PEPE, La fiscalità delle cooperative, Milano, 2009.

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Nel quadro della segnalata linea di tendenza occorre, però, rimarcare che il divario nel trattamento tra cooperative a mutualità prevalente e cooperative diverse si va restringendo, dal momento che i più recenti interventi di inasprimento fiscale colpiscono più pesantemente le prime delle seconde, come è avvenuto con il D.L. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in L. 14 settembre 2011, n. 141. Quest’ultimo, infatti, da un lato, con l’art. 2, comma 36 ter, ha previsto che in tutte le cooperative sia assoggettato a tassazione come reddito imponibile IRES il 10% degli utili accantonati a riserva legale minima (riserva che, secondo la previsione generale dell’art. 2545 quater, comma 1, c.c., non deve essere inferiore al 30% degli utili netti annuali), d’altro lato, con l’art. 2, comma 36 bis, ha incrementato, per le sole C.M.P., la quota degli utili netti annuali soggetti ad imposizione, innalzandola di dieci punti percentuali. La conseguenza è che, per le cooperative diverse, la quota di reddito tassabile è aumentata solo del 3%, ex art. 2, comma 36 ter, cioè del 10% della riserva legale minima, pari al 30% degli utili netti annuali, mentre, per le C.M.P., l’aumento della quota di reddito tassabile ex art. 2, commi 36 bis e 36 ter, è stato del 13% 5.

2.4. Conclusioni Quanto sopra esposto consente di concludere che la categoria delle C.M.P., sebbene sia stata enfatizzata dal legislatore codicistico, si rivela, per un verso, “insincera” sul piano della fattispecie, in quanto non sempre richiede la sussistenza dell’operatività prevalente con i soci accertata secondo i criteri degli artt. 2512 e 2513, c.c., per altro verso, di nessun significato sul piano della disciplina civilistica e di rilevanza sempre più ridotta sul piano della disciplina fiscale.

3. Cooperative e condizioni degli scambi In merito alle condizioni degli scambi le principali questioni riguardano: se e quali regole governino il rapporto tra le condizioni praticate sul mercato e quelle applicate dalla cooperativa ai propri soci; se le condizioni praticate dalla coopera5

Attualmente, pertanto, la percentuale di reddito imponibile ai fini IRES per le cooperative diverse è passata dal 70% al 73% (fermo restando che l’esenzione del residuo 27%, cioè del 90% delle riserva legale minima, è subordinata alla destinazione di tale quota a riserva indivisibile, in base a quanto ricavabile dal combinato disposto dell’art. 1, comma 464, l. 30 dicembre 2004, n. 311 e dell’art. 2, comma 36 ter, D.L. 13 agosto 2011, n. 138) mentre, per le cooperative a mutualità prevalente – in base al combinato disposto dell’art. 1, comma 460, L. n. 311/2004, così come modificato dall’art. 2, comma 36 bis, D.L. n. 138/2011 e dell’art. 2, comma 36 ter, D.L. n. 138/2011 – la percentuale di reddito imponibile è aumentata: in generale, dal 30% al 43% (art. 1, comma 460, lett. b, L. n. 311/2004); per le cooperative di consumo dal 55% al 68% (art. 1, comma 460, lett. b bis, L. n. 311/2004); per le cooperative agricole e della piccola pesca (che non sono state colpite dall’aggravio dell’art. 2, comma 36 bis, D.L. n. 138/2011) dal 20% al 23%.

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tiva debbano essere identiche per tutti i soci; se e quali regole disciplinino il rapporto tra le condizioni applicate ai soci e quelle applicate ai terzi.

3.1. Realizzazione dello scopo mutualistico e condizioni degli scambi con i soci Per affrontare i suddetti quesiti occorre muovere dalla premessa che non vi è alcuna disposizione di legge che regoli direttamente le condizioni economiche che la cooperativa deve applicare nei rapporti di scambio sia con i soci sia con i terzi; in particolare, nessuna disposizione stabilisce come deve essere determinata la misura del corrispettivo che il socio dovrà ricevere (nelle cooperative di produzione e di lavoro) o versare (nelle cooperative di consumo) quando instaura i rapporti mutualistici di scambio con la cooperativa. Occorre, però, considerare che le cooperative sono funzionalmente caratterizzate dal perseguimento dello scopo mutualistico e che esso, almeno secondo la configurazione tradizionale 6, si atteggia come un beneficio economico che consiste nella fruizione dei beni o servizi prodotti dalla cooperativa a condizioni più vantaggiose di quelle praticate sul mercato e che, per essere apprezzato, implica una comparazione con le diverse e deteriori condizioni di scambio a cui i cooperatori dovrebbero sottostare ove si procurassero quegli stessi beni o servizi sul mercato. Come è noto, poi, tale beneficio assume connotati differenti a seconda del settore in cui opera la cooperativa e, perciò, si traduce in un risparmio di spesa o di costo nelle cooperative in cui i soci sono consumatori o utenti dei beni o servizi prodotti dalla società, in una maggiore retribuzione nelle cooperative che utilizzano le prestazioni lavorative dei soci, in un maggior ricavo nelle cooperative che si avvalgono degli apporti di beni o servizi dei soci, secondo i tre schemi basilari a cui si richiamano gli artt. 2512 e 2513, c.c. Da ciò consegue che è la causa, cioè lo scopo comune dei soci cooperatori, ad orientare l’operatività della cooperativa, suggerendo la fissazione di condizioni di scambio coerenti con la realizzazione dello scopo mutualistico da parte dei soci, condizioni da verificare, però, con riferimento non tanto alle singole operazioni di scambio quanto alla gestione sociale nel suo insieme. Un significativo dato testuale in tal senso si ricava dall’art. 2545, c.c., là dove pretende che gli organi sociali riferiscano «sul carattere mutualistico della cooperativa» nelle relazioni annuali, nelle quali devono «indicare specificamente i criteri seguiti nella gestione sociale per il conseguimento dello scopo mutualistico». Tenuto conto di tutto ciò, in ordine alle modalità di realizzazione del benefi6

Per la configurazione tradizionale della mutualità come gestione di servizio, strumentale al conseguimento di un beneficio economico dei soci, nei termini indicati nel testo v., da ultimo (sulla scia di Buonocore, Bassi, Racugno, Casale e molti altri) BONFANTE, L’“altra”mutualità, in Giur. Comm., 2013, I, p. 714 ss., ove un panorama sulle molteplici accezioni della mutualità.

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cio mutualistico possono darsi due eventualità: che esso venga ottenuto immediatamente – e ciò qualora la cooperativa, all’atto dello scambio con il socio, applichi direttamente condizioni economiche più favorevoli di quelle del mercato – oppure mediatamente e ciò nell’ipotesi in cui , essendosi le condizioni praticate dalla cooperativa avvicinate o allineate a quelle di mercato, la società abbia conseguito un surplus gestionale a carico dei propri soci e successivamente lo restituisca. A questa seconda eventualità allude il legislatore quando prevede che l’atto costitutivo della cooperativa determini «i criteri di ripartizione dei ristorni ai soci proporzionalmente alla quantità e qualità degli scambi mutualistici» (cfr. art. 2545 sexies, comma 1, c.c.). Tale disposizione se, per un verso, conferma che, per legge, il cooperatore non ha un diritto soggettivo a vedersi applicare – direttamente all’atto dello scambio o successivamente tramite i ristorni – condizioni più vantaggiose di quelle di mercato, per altro verso, affida all’autonomia statutaria la regolamentazione sul punto, come è, poi, ribadito in termini più generali dall’art. 2521, comma 2, c.c., che affida all’atto costitutivo di stabilire le regole per lo svolgimento dell’attività mutualistica. La disciplina sul punto può essere, altresì, demandata a regolamenti che, secondo l’art. 2521, comma 5: «determinano i criteri e le regole inerenti allo svolgimento dell’attività mutualistica tra la società e i soci». È, dunque, in sede di atto costitutivo o di regolamento che debbono essere disciplinati gli aspetti essenziali del rapporto mutualistico di scambio tra cooperativa e socio ; stabilendo, ad esempio, quali siano le reciproche situazioni soggettive dei soci e della cooperativa in relazione a tale rapporto – cioè se i soci siano obbligati all’instaurazione degli scambi o ne siano solo facoltizzati o, addirittura, abbiano diritto di instaurarli e quale sia , per converso, la situazione soggettiva della cooperativa – oppure, o anche, disciplinando, con regole più o meno dettagliate, le condizioni economiche a cui devono avvenire gli scambi 7.

3.2. Parità di trattamento tra i soci e condizioni di scambio con i terzi Un limite legale all’autonomia statutaria nella disciplina del rapporto mutualistico impone di non dettare regole discriminatorie tra i soci, poiché ciò comporterebbe necessariamente la violazione della regola secondo cui «nella costituzione e nell’esecuzione dei rapporti mutualistici deve essere rispettato il principio di parità di trattamento» (cfr. art. 2516, c.c.) 8. Perciò, lo statuto non potrebbe, ad esempio, 7 Sulla portata normativa dell’atto costitutivo e del regolamento cfr. CASALE, Scambio e mutualità nelle società cooperativa, Milano, 2005, p. 48 ss., p. 115, p. 140 ss., p. 144 ss.; DI RIENZO, I regolamenti sullo svolgimento dell’attività mutualistica, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, vol. 4, Torino, 2006, p. 619 ss., ivi, p. 638 ss., p. 646 ss. 8 Sulla portata del principio di parità di trattamento nelle cooperative cfr. BUONOCORE, Rapporto mutualistico e parità di trattamento, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Fran-

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attribuire ad alcuni cooperatori un diritto soggettivo allo scambio mutualistico ma negarlo ad altri oppure prevedere per taluni soci condizioni di scambio più vantaggiose che per altri né, anche in assenza di previsioni statutarie, tali discriminazioni potrebbero essere legittimamente praticate dagli organi sociali Parità di trattamento non è, invece, imposta tra soci e terzi 9, almeno in linea di principio. Tuttavia, la parità potrebbe di fatto realizzarsi, anche sotto il profilo che qui interessa, in quanto lo scopo mutualistico non esige che ai soci siano praticate condizioni più vantaggiose di quelle applicate ai terzi. La regola della parità di trattamento tra soci e terzi è, invece, pretesa come si verificherà tra poco, dalla normativa sulle O.N.L.U.S. e deve, perciò, esser osservata dalle cooperative che aspirino a tale ulteriore qualifica.

4. Connotati e rilevanza della categoria delle O.N.L.U.S. Per quanto riguarda le organizzazioni non-profit, l’attenzione si focalizza, anzitutto, sulle O.N.L.U.S. Si tratta di una categoria giuridica che comprende svariate forme organizzative civilistiche, utilizzabili per lo svolgimento di attività produttive di beni o servizi e anche di vere e proprie attività imprenditoriali ex art. 2082, c.c. 10 Infatti, possono ricevere la qualifica di O.N.L.U.S. ex art. 10, comma 1, D.Lgs. n. 460/1997 sia figure del Libro I del codice civile – come associazioni, riconosciute e non, comitati e fondazioni – sia cooperative. Le O.N.L.U.S. sono certamente una categoria di rilevanza solo tributaria e in relazione alla quale il trattamento fiscale privilegiato discende dalla coesistenza, in una delle forme organizzative di cui si è detto, di molteplici requisiti sia organizzativi (cfr. art. 10, comma 1, lett. h) sia funzionali. Tra questi ultimi interessano particolarmente: a) l’operatività in uno dei settori indicati dalla legge (art. 10, comma 1, lett. a); b) la presenza di finalità di solidarietà sociale, termine che nella legge è sinonimo di utilità sociale (art. 10, commi da 1 a 4); c) l’assenza del fine di lucro e, più in generale, di qualsiasi vantaggio economico dei partecipanti (art. 10, comma 1, lett. d, e, f). co Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, vol. 4, Torino, 2006, p. 580 ss.; BASSI, nel Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari, Società cooperative, a cura di G. Presti, Milano, 2006, sub art. 2516, p. 81 ss.; CASALE, Scambio e mutualità, cit., p. 110 ss.; da ultimo, per un approfondimento dei profili applicativi del principio, CUOMO, Gestione mutualistica e parità di trattamento nelle cooperative, in Riv. soc., 2013, p. 905 ss., ivi, p. 918 ss. 9 In tal senso cfr. BUONOCORE, op. cit., p. 589; BASSI, op. cit., p. 83; RACUGNO, La società cooperativa, in Tratt. dir. comm., diretto da V. Buonocore, vol. 9, Torino, 2006, pp. 30-31; diversamente CUOMO, op. cit., p. 911 ss. 10 Cfr. MARASÀ, Disciplina degli enti «non profit»: profili commercialistici, in La riforma di società, cooperative, associazioni e fondazioni, cit., p. 201 ss.

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Ciò premesso, occorre chiedersi se vi siano regole sulla direzione e sulle condizioni degli scambi che condizionano l’accesso a tale categoria e ai relativi benefici fiscali, previsti dagli artt. 15 ss., D.Lgs. n. 460/1997 e dall’art. 150, TUIR

4.1. La direzione degli scambi nelle O.N.L.U.S. Per quanto riguarda la direzione degli scambi, occorre considerare la distinzione che il D.Lgs. n. 460/1997 prospetta tra le diverse attività che possono essere svolte dalle O.N.L.U.S. Infatti, alcune – come la beneficenza, la valorizzazione dei beni artistici e le altre attività elencate nell’art. 10, comma 4 – non sono rese nei confronti di specifici utenti e, pertanto, in relazione ad esse, essendo la fruizione esclusivamente di natura collettiva, non avrebbe senso distinguere tra scambi con gli stessi partecipanti e scambi con i terzi: la finalità di solidarietà sociale non dipende da tale circostanza ma è in re ipsa (cfr. l’incipit dell’art. 10, comma 4). Invece, in relazione alle attività di assistenza sanitaria, istruzione, formazione, sport dilettantistico e alle altre elencate nell’art. 10, comma 2, nelle quali i destinatari dei servizi, resi dalla O.N.L.U.S., sono identificabili, la legge subordina il riconoscimento di finalità di solidarietà sociale alla circostanza che le prestazioni siano rese, almeno in linea di principio, a soggetti diversi dai membri della O.N.L.U.S., cioè che i fruitori siano o persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari (art. 10, comma 2, lett. a) oppure componenti collettività estere, limitatamente agli aiuti umanitari (art. 10, comma 2, lett. b). Tuttavia, non si esclude che le prestazioni possano essere effettuate anche nei confronti degli stessi membri della O.N.L.U.S. ma soltanto se essi si trovano nelle medesime condizioni di svantaggio (art. 10, comma 4) oppure se l’attività svolta nei loro confronti può considerarsi direttamente connessa all’attività istituzionale; ciò si verifica – secondo l’art. 10, comma 5 – se l’attività verso di essi non è prevalente su quella istituzionale e non genera proventi superiori al 66% delle spese complessive.

4.2. Le condizioni degli scambi nelle O.N.L.U.S. Nei limiti anzidetti, cioè nei limiti in cui la cessione dei servizi è consentita anche verso i membri della O.N.L.U.S., essa non deve essere effettuata «a condizioni più favorevoli in ragione della loro qualità» (art. 10, comma 6, lett. a) perché altrimenti si considera realizzata ex lege quella ripartizione indiretta di utili o di avanzi di gestione che è incompatibile con la qualifica di O.N.L.U.S., stante il divieto di distribuzione, imposto dall’art. 10, comma 1, lett. d. La parità di trattamento tra membri e terzi è la sola regola legale, dettata in punto di condizioni di scambio nelle O.N.L.U.S. Per il resto nessun vincolo è previsto in ordine allo svolgimento dell’attività: la

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cessione dei servizi a terzi e, nei limiti consentiti, a componenti della O.N.L.U.S., può, infatti, avvenire sia in modo erogativo – cioè gratuitamente o, comunque, con modalità tali da non assicurare, ex ante, nemmeno il pareggio tra ricavi e costi – sia in modo remunerativo, cioè programmando o l’equilibrio o il conseguimento di un utile e facendo così assumere alla O.N.L.U.S la qualifica di vera e propria impresa ex art. 2082, c.c. Infatti, che le O.N.L.U.S. possano praticare anche condizioni remunerative alla stregua di qualsiasi altra impresa, lo si desume proprio dalle disposizioni che, per sottolineare l’esigenza di escludere ogni finalità economica in capo agli associati, vietano qualsiasi forma di distribuzione di utili o di avanzi di gestione e qualsiasi restituzione del patrimonio in caso di scioglimento (cfr. art. 10, comma 1, lett. d, e, f). Tali divieti, specialmente il primo, non avrebbero senso se il legislatore non partisse dal presupposto che la cessione dei servizi possa avvenire anche adottando un metodo remunerativo e, quindi, capace di determinare la produzione di utili e/o di avanzi di gestione.

4.3. O.N.L.U.S. e cooperative: l’intreccio tra categorie privatistiche e categorie tributarie Prima della riforma del diritto societario del 2003 l’inclusione delle cooperative fra le O.N.L.U.S. aveva suscitato problemi 11 in quanto la precedente normativa codicistica sulle cooperative e quella del D.Lgs. n. 460/1997 mostravano taluni profili di incompatibilità tra l’istituto civilistico delle cooperative e l’istituto tributario delle O.N.L.U.S.; ciò a causa delle divergenze che si riscontrano tra i connotati funzionali che qualificano queste ultime, secondo il D.Lgs. n. 460/1997 e quelli che identificano le prime in base alla disciplina del codice civile. Riesaminando la questione alla luce della novellata disciplina del codice emerge che il profilo di incompatibilità scaturente dalla essenzialità, nelle O.N.L.U.S., della clausola di non distribuzione sarebbe superabile se la cooperativa rinunziasse a qualsiasi forma di ripartizione sia sotto forma di dividendi sia anche sotto forma di ristorni. Ciò potrebbe avvenire senza compromettere la realizzazione dello scopo mutualistico ex art. 2511, qualora la cooperativa praticasse ai soci condizioni più vantaggiose di quelle di mercato direttamente all’atto dello scambio mutualistico (v. retro, sub 3.1). Sotto altro profilo, però, l’incompatibilità non sembra superabile: l’art. 10, comma 1, lett. f, D.Lgs. n. 460/1997 impone di devolvere altruisticamente l’intero patrimonio in caso di scioglimento della O.N.L.U.S. mentre la disciplina del codice sulle cooperative non contempla un analogo vincolo né la sua introduzione per via statutaria sarebbe coerente con lo scopo mutualistico dei soci; infatti, 11

Cfr. MARASÀ, Cooperative e ONLUS, in Studi in onore di L. Buttaro, vol. II, Milano, 2002, p. 1 ss.

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se quest’ultimo è scopo economico (risparmio di spesa, sovraremunerazione delle prestazioni lavorative o dei beni o servizi conferiti), non sembra con esso coerente una clausola che vieti qualsiasi restituzione ai soci in caso di scioglimento del rapporto sociale. Possono, quindi, esservi limiti statutari alla restituzione – come è imposto dall’art. 2514, comma 1, lett. c e lett. d, ai fini della qualifica della cooperativa come C.M.P. – ma non la si può escludere del tutto, prevedendo nello statuto la rinunzia dei cooperatori anche alla mera restituzione delle risorse conferite a capitale sociale 12. Se si condivide l’anzidetta conclusione, come si può risolvere il conflitto tra regole civilistiche delle cooperative e regole tributarie delle O.N.L.U.S.? Al riguardo può soccorrere l’art. 2520, comma 2, c.c., che – come abbiamo già visto (retro, sub 2, lett. d) – autorizza la legge a prevedere, in via di eccezione rispetto alla normativa codicistica, «la costituzione di cooperative destinate a procurare beni o servizi a soggetti appartenenti a particolari categorie anche di non soci». Infatti, la legge a cui allude tale disposizione può ben essere anche una legge tributaria, come appunto, il D.Lgs. n. 460/1997, là dove stabilisce che la cessione dei beni o servizi prodotti dalla O.N.L.U.S. si indirizzi «a persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari o a componenti collettività estere, limitatamente agli aiuti umanitari» (art. 10, comma 2, lett. a e lett. b), a prescindere dalla circostanza che si tratti di componenti della O.N.L.U.S. stessa o meno. In tal caso, cioè in caso di cooperativa non mutualistica, come quella prefigurata dall’art. 2520, comma 2, c.c., si legittima, a mio parere, anche la deroga alla regola civilistica che impone di restituire ai cooperatori quantomeno il capitale conferito. In altre parole, nel momento in cui la stessa disciplina civilistica del codice consente la costituzione, sia pure in via eccezionale, di cooperative prive di scopo mutualistico, purché ciò avvenga sulla base di una specifica autorizzazione di legge – come nel caso delle cooperative-O.N.L.U.S. ex D.Lgs. n. 460/1997 – si deve ritenere che la medesima legge possa sottoporre tali cooperative a regole che, pur non essendo coerenti con lo scopo mutualistico, lo sono con lo scopo solidaristico a cui la cooperativa viene indirizzata ; tale è, appunto, la regola che vieta qualsiasi forma di restituzione ai cooperatori in caso di scioglimento della cooperativa-O.N.L.U.S. ( art. 10, comma 1, lett. f, D.Lgs. n. 460/1997) 13. 12

Nello stesso senso cfr. GALLETTI, in Il nuovo diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, vol. IV, Padova, 2005, sub art. 2535, p. 2775; antecedentemente alla riforma, MARASÀ, Cooperative e ONLUS, cit., p. 9, ove riferimenti alle note 10 ss. sulla configurazione della cooperativa come contratto di restituzione. La questione di quali siano i confini dell’autonomia statutaria nell’introduzione di limiti al diritto del cooperatore alla restituzione del capitale sociale e, più in generale, ai suoi diritti patrimoniali in caso di scioglimento individuale o integrale del rapporto sociale si è riproposta anche dopo la riforma (cfr. MARASÀ, Riflessi dei caratteri funzionali delle nuove cooperative sulla redazione dell’atto costitutivo, in La riforma di società, cooperative, cit.,165 ss., ivi, pp. 171-172). 13 Risulta, invece, meno chiaro dalla lettura dell’art. 10, comma 1, lett. d, D.Lgs. n. 460/1997

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4.4. O.N.L.U.S. e cooperative sociali Il D.Lgs. n. 460/1997 non è la sola legge che autorizza la costituzione di cooperative prive di attività mutualistica. Oltre al D.Lgs. n. 155/2006 sulle imprese sociali, di cui diremo tra poco, viene in considerazione anche la L. n. 381/1991. Quest’ultima prevede due sottospecie di cooperative sociali: da una parte – come si è già visto (v. retro, sub 2.2) – quelle per la gestione di servizi sociosanitari ed educativi, destinati a soggetti diversi dai cooperatori, al fine di realizzare «l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione dei cittadini» (art. 1, comma 1, lett. a); d’altra parte, quelle che svolgono attività economiche agricole, industriali, commerciali o di servizi, finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate (art. 1, comma 1, lett. b). Le prime, cioè le cooperative sociali in senso stretto, condividono con le O.N.L.U.S (e le imprese sociali) le finalità di solidarietà sociale e sono, quindi, cooperative non mutualistiche, al contrario delle seconde, che sono cooperative di lavoro, caratterizzate soltanto dalla presenza fra i soci di persone svantaggiate 14. L’art. 3 della L. n. 381/1991 – attraverso il richiamo all’art. 26, d.l.C.p.S. 1577/1947 – autorizza una limitata distribuzione degli utili, sebbene si debba ritenere che tale disposizione valga solo per le cooperative sociali di lavoro (art. 1, co. lett. b) e non anche per le cooperative sociali in senso stretto (art. 1, comma 1, lett. a), in quanto confliggente con gli scopi di solidarietà sociale propri di queste ultime 15. Il D.Lgs. n. 460/1997, a sua volta, attribuisce la qualifica di O.N.L.U.S. a tutte se la deroga alla regola civilistica – secondo cui il cooperatore non può essere privato del diritto alla restituzione del capitale versato – riguarda anche il caso di scioglimento del singolo rapporto. Infatti, la suddetta disposizione tributaria vieta, tra l’altro, la distribuzione di fondi, riserve o capitale ai partecipanti durante la vita dell’organizzazione. Si potrebbe osservare, però, che nella nostra ipotesi non si tratta di una vera e propria distribuzione del capitale, come quella che avviene, invece, quando riserve disponibili vengono imputate a capitale sociale e parti di quest’ultimo (azioni o quote) vengono, poi, assegnate gratuitamente ai soci. Tuttavia, valorizzare questo dato e, quindi, accreditare l’idea che il partecipante ad una O.N.L.U.S. (perciò, anche il socio di una cooperativa-Onlus) possa pretendere il diritto alla restituzione del capitale in caso di scioglimento del singolo rapporto sociale mal si concilierebbe con la successiva disposizione dell’art. 10, comma 1, lett. f, che inequivocabilmente impone la devoluzione altruistica dell’intero patrimonio in caso di scioglimento di qualsiasi Onlus, anche se in forma di cooperativa. 14 Le due soluzioni sono conformi ad un’opinione prevalente (Buonocore, Lucarini Ortolani, Riccardelli, Miola, Marasà) ma non unanime. Per la riconduzione anche della prima sottospecie di cooperative sociali (cooperative sociali in senso stretto ex art. 1, comma 1 lett. a) all’alveo codicistico dello scopo mutualistico v., ad esempio, SALAMONE, Cooperative sociali e impresa mutualistica, in Riv. soc., 2007, p. 500 ss., ivi, p. 514 ss.; al contrario, nel senso che anche la seconda sottospecie di cooperative sociali (cooperative di lavoro ex art. 1, comma 1, lett. b) potrebbe non svolgere attività mutualistica, in quanto la legge 381 non pretenderebbe che i lavoratori svantaggiati siano necessariamente soci della cooperativa cfr. PEPE, La fiscalità delle cooperative, cit., p. 256. 15 V., anche per i riferimenti dottrinali, MARASÀ, Cooperative e Onlus, cit., pp. 11-12, e note 18 ss.

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le cooperative sociali ex L. n. 381/1991 senza distinguere tra le due sottospecie e il riconoscimento di tale qualifica, diversamente da quanto previsto per tutte le altre cooperative, avviene automaticamente (cfr. art. 10, comma 8, D.Lgs. n. 460/1997), cioè, senza alcuna verifica in ordine alla sussistenza nella concreta fattispecie di cooperativa sociale dei requisiti caratterizzanti le O.N.L.U.S., fra cui, prima di tutto il divieto di qualsiasi forma di distribuzione tra i soci. Ora, se vale quanto sopra osservato in merito alla portata dell’art. 3, L. n. 381/1991, l’attribuzione ope legis della qualifica di O.N.L.U.S. alle cooperative sociali non solleva problemi particolari ove si tratti di cooperative sociali in senso stretto mentre permette alle cooperative di lavoro tra persone svantaggiate di accedere alla qualifica tributaria di favore anche quando esse effettuino distribuzioni ai soci, come abbiamo constatato essere consentito dalla disciplina civilistica dell’art. 3, L. n. 381/1991, sia pure indirettamente, cioè attraverso il richiamo all’art. 26, d.l.C.p.S. 1577/1947 16.

4.5. Conclusioni sull’intreccio tra regole privatistiche e regole tributarie Quali osservazioni si possono trarre dal coordinamento tra la disciplina privatistica delle cooperative e quella tributaria delle O.N.L.U.S.? Nel primo dei due casi esaminati (retro sub 4.3), la disposizione dell’art. 2520, comma 2, c.c., apre una breccia nella configurazione civilistica delle cooperative ex art. 2511, c.c.: una legge – anche tributaria, come è il D.Lgs. n. 460/1997 – può autorizzare la costituzione di cooperative non mutualistiche. Questa breccia può portare alla deroga della regola civilistica secondo cui il cooperatore non può essere privato della possibilità di recuperare almeno il capitale versato (retro sub 4.3), in quanto tale deroga, nelle cooperative-O.N.L.U.S., è imposta dalla regola della legge tributaria che vuole la devoluzione altruistica di tutto il patrimonio in caso di scioglimento dell’organizzazione (art. 10, comma 1, lett. f) 17. Nel secondo caso, invece, (retro sub 4.4.) è la disposizione tributaria dell’art. 16

Lo stesso vale ai fine dell’attribuzione a tutte le cooperative sociali della qualifica di imprese sociali e ciò in base a quanto dispone l’art. 17, comma 3, D.Lgs. n. 155/2006 su cui v. oltre sub 5. È dubbio, però, se l’attribuzione automatica della qualifica di Onlus a tutte le cooperative sociali consenta loro di accedere anche al regime tributario dell’art. 150, TUIR («Per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, ad eccezione delle società cooperative, non costituisce esercizio di attività commerciale lo svolgimento delle attività istituzionali nel perseguimento di esclusive finalità di solidarietà sociale»). Nel senso che anche le cooperative sociali rientrerebbero nell’eccezione di cui alla suddetta disposizione e, quindi, non potrebbero avvalersi del beneficio tributario della decommercializzazione v. Agenzia delle Entrate nota n. 954 del 15 novembre 2011; REALE, Le Onlus nell’ordinamento tributario italiano, Napoli, 2002, p. 146; PEPE, op. cit., p. 258; diversamente FICARI, Onlus (dir. trib.) , in Enc. Giur. Treccani, vol. XXI, Roma, 2000, p. 2. 17 Tale deroga non sembra imposta alle cooperative- imprese sociali in base a quanto dispone l’art. 13, comma 3, D.Lgs. n. 155/2006, su cui v. oltre nota 19.

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10, comma 8, che – conferendo automaticamente la qualifica di O.N.L.U.S. a tutte le cooperative sociali, anche a quelle di lavoro tra persone svantaggiate in cui è permessa la distribuzione di utili a termini dell’art. 3, L. n. 381/1991 – consente una deroga alle caratteristiche dell’istituto tributario delle O.N.L.U.S. relativamente all’essenzialità del divieto assoluto di distribuzione. Dunque, nella prima vicenda è la regola civilistica della cooperativa come contratto di “restituzione” che soccombe alla regola tributaria del divieto di restituzione, valevole per tutte le O.N.L.U.S., mentre nella seconda è la regola tributaria del divieto di distribuzione che retrocede di fronte alla regola civilistica che autorizza una parziale distribuzione.

5. Connotati e rilevanza della categoria delle imprese sociali La disciplina delle imprese sociali segue la stessa impostazione di quella delle O.N.L.U.S.: anche la qualifica di impresa sociale, infatti, è acquisibile da molteplici forme organizzative d’impresa. Rispetto alle O.N.L.U.S. i confini della categoria delle imprese sociali si allargano perché includono, oltre agli enti del Libro I del codice e alle cooperative – come già prevedeva il D.Lgs. n. 460/1997 sulle O.N.L.U.S. – tutti gli enti del Libro V e, quindi, anche le società ordinarie di ogni tipo nonché gli enti ecclesiastici (cfr. art. 1, D.Lgs. n. 155/2006). Tuttavia, mentre la rilevanza delle O.N.L.U.S. come categoria tributaria è chiara, non altrettanto può dirsi leggendo l’articolato normativo sulle imprese sociali dal quale non emerge quali benefici fiscali o di altra natura discendano dall’attribuzione delle qualifica legale. Perciò, rimane senza risposta l’interrogativo sulle ragioni che dovrebbero spingere i partecipanti a sottoporsi, attraverso la creazione di una fattispecie qualificabile come impresa sociale, a quell’insieme di particolari regole di diritto privato e fallimentare che conseguono alla qualifica stessa 18. Sul piano della fattispecie le imprese sociali mutuano, almeno per gli aspetti principali, le caratteristiche delle O.N.L.U.S.; infatti, le prime condividono con le seconde sia l’operatività in settori di utilità sociale (art. 2, D.Lgs. n. 155/2006) sia l’assenza di qualsiasi scopo di lucro soggettivo (art. 3, D.Lgs. n. 155/2006) 19. 18 La qualifica di impresa sociale implica la sottoposizione a regole speciali in punto di responsabilità patrimoniale verso i terzi (art. 6, D.Lgs. n. 155/2006), di denominazione sociale (art. 7), di iscrizione nel registro delle imprese (art. 5, comma 2), di redazione e pubblicazione di un bilancio sociale (art. 10, comma 2), di controlli sulle operazioni straordinarie e sulla devoluzione del patrimonio (art. 13), di sottoposizione alla procedura di liquidazione coatta amministrativa (art. 15). 19 Anche con riferimento alle imprese sociali si pone il problema – già segnalato con riguardo alle Onlus (retro nota 17) – se il divieto di distribuzione ai partecipanti impedisca di restituire ad

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5.1. Direzione e condizioni degli scambi nelle imprese sociali Sul piano delle disciplina, invece, non si rinvengono quei particolari e più stringenti limiti alla direzione e alle condizioni di scambio che, come si è visto, caratterizzano la normativa sulle O.N.L.U.S. Infatti, l’unico vincolo è posto dall’art. 1, comma 2, là dove si esclude che possano ricevere la qualifica di imprese sociali le organizzazioni «i cui atti costitutivi limitino, anche indirettamente, l’erogazione dei beni o servizi in favore dei soli soci, associati o partecipi». In altri termini, non è compatibile con la qualifica di impresa sociale la cosiddetta mutualità pura (retro par. 2, sub lett. a), cioè una previsione statutaria che imponga all’impresa di scambiare i beni o i servizi solo con i propri soci, associati o partecipi 20. Una volta osservata questa prescrizione, è, però, possibile che i destinatari siano, anche in misura prevalente, i soci, gli associati o i partecipi e, soprattutto che essi possano fruire dei beni o servizi forniti dall’impresa sociale a condizioni migliori sia di quelle praticate sul mercato – sempre che ciò avvenga direttamente all’atto dello scambio e non attraverso la restituzione di avanzi di gestione con il metodo dei ristorni, essendo tale ultima modalità confliggente con il divieto di distribuzione ex art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 155/2006 – sia, forse, di quelle praticate ai terzi; queste conclusioni si ricavano dall’art. 1, comma 2, che, da un lato, vieta la mutualità pura, d’altro lato, non impone, almeno in modo esplicito, la parità di trattamento tra i membri dell’impresa sociale e i terzi 21. Naturalmente, qualora si vogliano cumulare le qualifiche di impresa sociale e di O.N.L.U.S. – il che è possibile per le imprese sociali costituite secondo forme organizzative consentite anche dalla disciplina delle O.N.L.U.S. (art. 17, comma 1, D.Lgs. n. 155/2006) – dovranno essere rispettate le più severe regole, in punto di direzione e condizioni degli scambi, previste dal D.Lgs. n. 460/1997. essi il conferimento in caso di scioglimento individuale del rapporto. Nel senso che la restituzione sia consentita – ma con riferimento alle sole imprese sociali in forma di società ordinarie del Titolo V, Libro V, c.c. – v. COSTI, L’impresa sociale: prime annotazioni esegetiche, in Giur comm., 2006, I, p. 860 ss., ivi, p. 864, il quale estende tale conclusione anche al caso di scioglimento della societàimpresa sociale, nonostante che l’art. 13, comma 3, D.Lgs. n. 155/2006 sembri imporre la devoluzione altruistica dell’intero patrimonio residuo di liquidazione a tutte le imprese sociali, tranne a quelle in forma di cooperativa, circostanza, quest’ultima, sottolineata da BUONOCORE, Può esistere un’impresa sociale?, in Giur comm., 2006, I, p. 833 ss., ivi, p. 846. 20 Nello stesso senso COSTI, op. cit., p. 862; CALANDRA BUONAURA, Impresa sociale e responsabilità limitata, in Giur. comm., 2006, I, 849 ss., ivi, p. 852. 21 Sul punto diversamente orientati sembrano COSTI, op. cit., p. 864, dove l’affermazione che soci e non soci stanno sullo stesso piano ai fini della fruizione dei beni e servizi prodotti dall’impresa sociale ; G. FERRI Sr., Manuale di diritto commerciale, XIII Ed., a cura di C. Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2010, p. 51, secondo cui le società cooperative «per essere “imprese sociali”, non possono prevedere a favore dei soci un “vantaggio mutualistico”, un trattamento preferenziale cioè, ma devono trattarli in maniera uguale agli altri acquirenti dei beni o servizi prodotti».

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6. Direzione e condizioni degli scambi nelle associazioni del Libro I del codice civile Secondo l’interpretazione più diffusa della normativa civilistica del Libro I, c.c., le associazioni riconosciute e non, debbono considerarsi enti “non profit” ma occorre preliminarmente verificare se, ed eventualmente in che senso, tale affermazione sia da condividere. Come è noto, nessuna disposizione del codice civile in materia di associazioni, riconosciute e non, circoscrive le attività che possono essere svolte né fissa regole su direzione e condizioni degli scambi né identifica in positivo gli scopi perseguibili dagli associati. Ne consegue che, secondo un’opinione diffusa e consolidata, le associazioni possono produrre e scambiare beni o servizi nell’ambito dello svolgimento di attività sia erogative sia economiche sia propriamente imprenditoriali, assumendole come oggetto principale o come attività strumentali e possono indirizzare tali attività sia verso i propri associati sia verso i terzi, ricavandone avanzi di gestione nel primo caso, utili nel secondo 22. È soltanto con riferimento agli scopi perseguibili dagli associati che, attraverso un’interpretazione complessiva del nostro sistema in materia di confini delle singole figure associative, sono stati individuati taluni vincoli funzionali, nel senso che, qualora gli obbiettivi degli associati siano economici, non è consentito realizzarli tramite modalità che comportino ripartizione dei risultati, come , invece, è fisiologico per gli enti del Libro V, cioè per le società lucrative – attraverso la distribuzione di dividendi proporzionali alle quote di capitale di ciascun socio – e per le cooperative, attraverso la distribuzione di ristorni, proporzionali alla quantità o qualità degli scambi mutualistici (retro, sub 3.1). Pertanto, qualora gli associati mirino alla realizzazione di uno scopo economico di tipo mutualistico, potranno conseguirlo solo direttamente, cioè, usufruendo, al momento dello scambio con l’associazione, di condizioni più vantaggiose di quelle praticate sul mercato. Le associazioni sono, dunque, enti “non profit” nello stesso significato che questa qualificazione assume nella disciplina delle O.N.L.U.S. e delle imprese sociali; nel senso che ad esse è precluso non lo svolgimento di attività economica produttiva di utili o di avanzi di gestione (il cosiddetto lucro oggettivo) ma la loro ripartizione in qualsiasi forma, dividendi o ristorni, tra gli associati (il cosiddetto lucro soggettivo) 23. 22 Per i riferimenti cfr. MARASÀ, Forme organizzative dell’attività d’impresa e destinazione dei risultati, in Contratti associativi e impresa, Padova, 1995, p. 157 ss., ivi, p. 177 ss.; Riflessioni su oggetto e scopi delle associazioni del Libro I, cod. civ., nelle prospettive di riforma, in La riforma di società, cooperative, cit., p. 219 ss. 23 In sintesi, la ripartizione: deve essere esclusa del tutto nelle associazioni del Libro I, c.c., nelle Onlus e nelle imprese sociali; deve essere compressa, entro i limiti fissati dall’art. 2514, comma 1, nelle cooperative a mutualità prevalente; entro limiti che non sono fissati dalla legge ma demandati allo statuto (ex art. 2545 quinquies, comma 1, c.c.) nelle altre cooperative.

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Conseguentemente le associazioni possono ricevere – come si è già constatato – la qualifica di O.N.L.U.S. o di imprese sociali senza alcun problema di compatibilità di tipo funzionale con le caratteristiche di tali categorie di imprese, anche se a tal fine dovranno rispettare tutti gli altri requisiti prescritti rispettivamente dal D.Lgs. n. 460/1997 e dal D.Lgs. n. 155/2006, fra cui anche talune regole democratiche di governo (cfr. art. 10, comma 1, lett. h, D.Lgs. n. 460/1997 e art. 8, D.Lgs. n. 155/2006) che non sono imposte, invece, dalla disciplina civilistica del codice, quantomeno in materia di associazioni non riconosciute (cfr. art. 36, comma 1, c.c.) 24. Coerentemente con quanto constatato in punto di ammissibilità dello svolgimento di attività economiche nelle associazioni, nessuna disposizione civilistica impone, con riferimento alle singole operazioni di scambio, la fissazione di condizioni non remunerative, cioè di corrispettivi inidonei a determinare la realizzazione di un utile o di un avanzo di gestione. Le condizioni dello scambio possono, quindi, essere remunerative per l’associazione sempre che questa scelta sia compatibile con il rispetto dell’oggetto e delle finalità istituzionali dell’associazione stessa.

6.1. Direzione e condizioni degli scambi e qualifica tributaria di ente non commerciale Un’ulteriore interferenza tra categorie privatistiche e categorie tributarie si determina in quanto alle associazioni del Libro I del codice civile può essere attribuita la qualifica tributaria di ente non commerciale. A tal fine sono rilevanti sia la direzione sia le condizioni degli scambi. In proposito occorre muovere dalla premessa che la qualifica tributaria di ente non commerciale pretende che l’oggetto esclusivo o principale dell’ente non sia l’esercizio di un’attività commerciale (art. 73, comma 1, lett. c, TUIR). Per la verifica della sussistenza di tale requisito , si deve tener conto che, in base ad altre disposizioni del TUIR, la cessione di beni e la prestazione di servizi, se indirizzata a terzi, si considera sempre attività commerciale, mentre, se destinata agli stessi associati, può essere considerata tale solo se effettuata «verso pagamento di corrispettivi specifici, compresi i contributi e le quote supplementari determinati in funzione delle maggiori e diverse prestazioni alle quali danno diritto» (art. 148, comma 2, TUIR). Invece, non concorrono alla formazione del reddito comples24 Secondo tale disposizione, infatti: «l’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute come persone giuridiche sono regolati dagli accordi degli associati». Per una diversa lettura notoriamente GALGANO, (Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, nel Commentario del cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 36 ss., p. 41 ss.) secondo cui le associazioni non riconosciute sarebbero qualificate da un’organizzazione corporativa sostanzialmente identica a quella delle associazioni riconosciute.

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sivo dell’ente «le somme versate dagli associati o partecipanti a titolo di quote o contributi associativi» (art. 148, comma 1, TUIR). Tuttavia, per talune categorie di associazioni la commercialità può essere esclusa, a determinate condizioni, nonostante la richiesta di specifici corrispettivi agli associati o a terzi. Infatti, «per le associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extrascolastica della persona non si considerano commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti, di altre associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento, atto costitutivo o statuto fanno parte di un’unica organizzazione locale o nazionale, dei rispettivi associati o partecipanti e dei tesserati delle rispettive organizzazioni nazionali, nonché le cessioni anche a terzi di proprie pubblicazioni cedute prevalentemente agli associati» (art. 148, comma 3, TUIR). Il trattamento più vantaggioso, riservato a queste ultime associazioni e, però, condizionato alla presenza nello statuto di talune clausole che lo giustifichino tra cui, sul piano patrimoniale, l’esclusione di qualsiasi forma di distribuzione tra i partecipanti durante la vita dell’ente e la devoluzione altruistica del patrimonio di liquidazione (art. 148, comma 8, lett. a e lett. b, TUIR), l’intrasmissibilità inter vivos della quota e la non rivalutabilità della stessa (art. 148, comma 8, lett. f) e, sul piano organizzativo, l’adozione di regole volte ad assicurare il carattere democratico dell’associazione, come la libera eleggibilità degli amministratori, il voto capitario e la sovranità assembleare (cfr. art. 148, comma 8, lett. c e lett. e). Una volta stabilito, sulla base delle regole suesposte, quali scambi configurano attività fiscalmente commerciale e quali no, si potrà accertare se effettivamente l’ente è qualificabile come non commerciale ai sensi dell’art. 73, comma 1, lett. c, TUIR, cioè se il suo oggetto esclusivo o principale non è l’esercizio di un’attività commerciale. Al riguardo rilevano, evidentemente, non solo le disposizioni statutarie che disciplinano l’operatività con gli associati e/o con i terzi ma anche la valutazione del comportamento concretamente tenuto dall’associazione (art. 149, comma 1, TUIR). Tale valutazione dovrà portare ad escludere che vi sia stato esercizio prevalente di un’attività commerciale per un intero periodo d’imposta e ciò anche attraverso l’utilizzazione dei parametri di misurazione della prevalenza fissati dall’art. 149, comma 2, TUIR: «a) prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale, al netto degli ammortamenti, rispetto alle restanti attività; b) prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali; c) prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associative; d) prevalenza delle componenti negative inerenti all’attività commerciale rispetto alle restanti spese». In conclusione, la direzione e le condizioni dello scambio rilevano sicuramente sul piano tributario ai fini dell’applicazione della disciplina del TUIR. Infatti, da un lato,

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gli scambi con i terzi comportano la qualifica dell’attività come commerciale, d’altro lato, le condizioni degli scambi con gli associati, cioè la circostanza che agli stessi non vengano richiesti “specifici corrispettivi”, gioca – almeno per talune categorie di associazioni, cioè le associazioni diverse da quelle agevolate ex art. 148, comma 3, TUIR – al fine di delimitare l’area dell’attività considerata, ai fini tributari, come attività non commerciale e, conseguentemente, al fine di determinare quella prevalenza della stessa (da misurare anche con i parametri fissati dall’art. 149, comma 2, TUIR) che è necessaria per la qualifica di ente non commerciale in capo all’associazione.

6.2. Direzione e condizioni degli scambi e qualifica d’impresa ex art. 2082, c.c. Le condizioni dello scambio con gli associati – per esempio, la presenza o meno di “specifici corrispettivi” negli scambi – possono svolgere un ruolo importante anche sul piano privatistico, in particolare, ai fini dell’attribuzione o no della qualifica d’impresa, ex art. 2082, c.c., all’associazione. Infatti, tale qualifica richiede, tra gli altri, il requisito dell’economicità, che viene comunemente inteso come metodo di gestione idoneo a garantire quantomeno il pareggio, cioè l’equilibrio tra i costi e i ricavi, in modo da assicurare l’autosufficienza dell’attività produttiva e, quindi, la sua capacità di durare nel tempo 25. In questa prospettiva è pacifica l’esclusione dal novero delle attività imprenditoriali delle cosiddette “aziende erogative”, cioè di quelle organizzazioni esercenti attività che, pur rivolte alla produzione di beni o servizi, vengono gestite adottando un metodo non idoneo ad assicurare l’equilibrio. Anche tali attività sono manifestazione di iniziativa economica ex art. 41, Cost. 26 ma la loro possibilità di durare nel tempo è subordinata alla disponibilità di un soggetto – o dello stesso produttore dei beni o servizi o di altri enti pubblici o privati – ad intervenire per ripianare il disavanzo, fornendo altri capitali e assicurando così la prosecuzione dell’attività produttiva. Queste ulteriori risorse possono essere aleatorie – si pensi, ad esempio, alle donazioni che chiunque può liberamente effettuare in favore di O.N.L.U.S., di imprese sociali o di associazioni in genere – oppure possono scaturire da precisi obblighi giuridici e ciò, a mio parere, è rilevante al fine di stabilire se l’attività produttiva sia svolta con metodo economico oppure con metodo erogativo. Il giudizio al riguardo è particolarmente difficile, specialmente quando deve 25

V. per tutti OPPO, voce Impresa e imprenditore, ora in Scritti giuridici, vol. I, Diritto dell’impresa, Padova, 1992, 263 ss., ivi, p. 275 ss.; LOFFREDO, Economicità e impresa, Torino, 1999, p. 46 ss., passim; nelle manualistica, CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 1, Diritto dell’impresa, VII Ed. Torino, 2013, p. 31 ss., p. 33 ss. ed ivi riferimenti. 26 OPPO, L’iniziativa economica, ora in Scritti giuridici, vol. I, cit., 1 ss., ivi, pp. 24-25.

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essere svolto ex post, per esempio, per accertare se l’esercente tale attività, il quale si trovi in stato di insolvenza, sia suscettibile di sottoposizione alle procedure concorsuali proprie delle imprese commerciali. Il giudice, infatti, deve porsi in una prospettiva ex ante per stabilire se quella su cui deve pronunziarsi sia un’impresa commerciale, sfortunata o mal gestita, oppure non sia un’impresa perché organizzata con metodo erogativo e, quindi, inidoneo ex ante ad assicurare il pareggio. La complessità e la delicatezza di questa problematica è attestata da una nutrita casistica giurisprudenziale 27. Il giudizio in proposito si complica ancor di più quando gli introiti dell’attività non derivano esclusivamente da ricavi provenienti da specifici corrispettivi richiesti a terzi o agli stessi associati a fronte dei beni o servizi forniti ma affluiscono anche tramite contribuzioni da parte di terzi (contributi “esterni”) o degli stessi associati (contributi “interni”). Si tratta, quindi, di accertare in che modo rileva la circostanza che le entrate dell’associazione non derivino, o non derivino soltanto, da specifici corrispettivi pretesi a carico degli associati o dei terzi al momento dello scambio ma provengano, in tutto o in parte, da contributi esterni o interni. Al riguardo è importante accertare se tali contributi siano dovuti e, se sì, a che titolo, perché ciò consente di stabilire se e in che misura il titolare dell’attività ne può tenere conto nel programmare il metodo di produzione. Infatti, la programmazione dell’equilibrio – che, come detto, integra l’economicità necessaria per far assumere al soggetto la qualifica di imprenditore – richiede che il titolare possa valutare ex ante l’entità degli introiti; dunque, qualora essi non provengano solo da specifici corrispettivi, fissati dal titolare e pretesi a fronte della fornitura dei beni o servizi, ma anche da contributi integrativi o sostitutivi dei corrispettivi stessi, egli deve poter valutare se essi siano certi nell’an e nel quantum, e ciò potrà dirsi solo se essi siano dovuti. Solo in tal caso, infatti, possono ritenersi certi ed è, quindi, possibile tenerne conto al fine di programmare un livello di entrate capace di garantire quantomeno il raggiungimento dell’equilibrio. In questa prospettiva, purché i contributi siano dovuti in forza di una disposizione legale, amministrativa o pattizia, non rileva che essi siano previsti in relazione alle singole operazioni di scambio – ed in tal caso determinati o no in base ai corrispettivi percepiti nello scambio dal titolare dell’attività – oppure siano stabiliti forfettariamente. a) Per quanto riguarda, in particolare, i contributi interni il discorso si fa più articolato e richiede ulteriori precisazioni, dovendosi stabilire, anzitutto, a che titolo essi possono essere pretesi nei confronti degli associati. 27

Cfr. Cass. 1138/1980; 3353/1994; 5766/1994; 10636/1995; 8374/2000; 97/2001; 16435/2003; 7725/2004; 20815/2006; 16612/2008; Trib. Paola, 3 dicembre 2009, in Fallimento, 2010, p. 980; Trib. Roma, 30 maggio 2013, in Fallimento, 2014, p. 201.

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I contributi che i componenti dell’associazione sono tenuti a corrispondere a titolo associativo, cioè le somme che, per previsione statutaria, sono dovute, anche con cadenza periodica, per mantenere lo status di associato non dovrebbero, a mio parere, essere considerate, almeno in linea di principio, nella valutazione dell’economicità del metodo adottato, non avendo alcuna correlazione diretta con i beni o servizi che eventualmente siano forniti dall’associazione ai propri associati. Infatti, quand’anche la veste di associato sia presupposto necessario per la fruizione di detti beni o servizi, tali contributi, proprio perché a titolo associativo, sarebbero dovuti indipendentemente da qualsiasi effettiva fruizione e, al tempo stesso, tale fruizione avverrebbe senza necessità di esborso di qualsiasi ulteriore somma da parte degli associati (cfr. art. 148, comma 1, secondo periodo, TUIR). b) Al contrario, vanno considerati, ai fini dell’accertamento dell’economicità, tutti quegli esborsi che sono in qualche modo sinallagmaticamente collegati alla percezione dei beni o servizi prodotti dall’associazione e, quindi – come ben chiarisce in materia tributaria l’art. 148, comma 2, TUIR – non solo i corrispettivi specifici ma anche i «contributi e quote supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto». c) Lo stesso deve dirsi, ma solo a determinate condizioni, per quei contributi che possono essere richiesti ai partecipanti per ripristinare ex post l’equilibrio. Mi riferisco, ad esempio, ai cosiddetti contributi a ripianamento delle perdite, talora dovuti per legge, talaltra per previsione statutaria, specialmente nelle formazioni associative mutualistiche, come i G.E.I.E., i consorzi, le società consortili ed anche le associazioni del Libro I, c.c. Al riguardo il discorso va svolto, a mio parere, in termini analoghi al caso, precedentemente esaminato, della contribuzione proveniente dai terzi, nel senso che tali contributi possono essere considerati nel giudizio di economicità del metodo, qualora siano dovuti o per legge – come nel caso del G.E.I.E. (cfr. art. 21, comma 2, Reg. C.E., 25 luglio 1985, n. 2137) 28 – oppure in forza di uno specifico obbligo, posto dallo statuto a carico dei partecipanti, come è espressamente previsto, ad esempio, per i consorzi (cfr. art. 2603, n. 3, c.c.) e per le società consortili (art. 2615 ter, comma 2, c.c.) e come può essere previsto anche per i componenti di un’associazione del Libro I, c.c. Solo in tal caso, infatti, la formazione associativa che fornisce i beni o servizi ai propri membri può contare su un introito certo e, quindi, utilizzabile nella programmazione del pareggio ; non così, invece, quando l’incasso di tali ulteriori contributi, non essendo oggetto di un obbligo di legge né di statuto, è aleatorio, in quanto necessita di una successiva delibera dei

28 «I membri del gruppo contribuiscono al saldo dell’eccedenza delle uscite rispetto alle entrate nella proporzione prevista nel contratto di gruppo o, in mancanza di questo, in parti uguali».

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partecipanti in tal senso, cioè la loro disponibilità a farsi carico del deficit, manifestata successivamente al suo accertamento in sede contabile 29. Se si condividono queste affermazioni, ne consegue che non può escludersi la qualifica imprenditoriale in capo a G.E.I.E., consorzi, società consortili o associazioni, solo perché la cessione di beni o servizi ai partecipanti avviene richiedendo programmaticamente corrispettivi non adeguati, cioè insufficienti ad assicurare l’equilibrio, sempreché sussista un obbligo, di fonte legale o statutaria, in capo ai partecipanti stessi, di integrare ex post tali corrispettivi sotto forma di contributi “ a pareggio” 30.

29

È controverso se, in assenza di un obbligo di legge o di statuto, il ripianamento o, comunque, il rifinanziamento possa essere imposto da una delibera adottata a maggioranza. In senso negativo, con riferimento alle società cooperative, Cass. 22 gennaio 1994, 654, in Giur comm., 1995, II, 184, con nota di BUONOCORE, Obblighi del socio cooperatore e tutela della qualità di socio; Cass. 22 agosto 2006, n. 18218, in Società, 2007, p. 39. 30 Nello stesso senso CETRA, L’impresa collettiva non societaria, Torino, 2003, pp. 46-47, in nota 22; diversamente VOLPE PUTZOLU, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in Trattato di dir. comm., diretto da Galgano, vol. IV, Padova, 1981, pp. 317 ss., ivi, p. 339; SPADA, Funzione e organizzazione consortile tra legge e prassi contrattuale, in Riv. dir. impr., 1990, p. 247 ss., ivi, p. 252.

CONSIDERAZIONI A MARGINE DI UN CONVEGNO FOGGIANO

di Cinzia Motti SOMMARIO: 1. La “non commercialità” degli enti del terzo settore. – 2. La nozione di impresa nel diritto comunitario. – 3. (segue) La destinazione al mercato. – 4. Terzo settore e servizi di interesse generale. – 5. Il problema delle fonti di finanziamento.

1. La “non commercialità” degli enti del terzo settore Ringrazio gli amici Guglielmo Fransoni e Valeria Mastroiacovo per avermi offerto l’opportunità di svolgere qualche consierazione a margine dell’incontro odierno, così denso di spunti di riflessione grazie all’approccio interdisciplinare che caratterizza l’intero progetto di ricerca. Non me ne vorranno, mi auguro, gli autorevoli relatori, se non mi cimento in una vera e propria relazione di sintesi, per la quale sarebbe necessaria pari competenza nella materia tributaria e in quella giuscommercialistica. Mi limiterò ad alcune notazioni sul tema che a me pare costituisca il fil rouge dei diversi interventi, vale a dire la dimensione di mercato degli scambi del c. d. terzo settore, nella prospettiva del diritto comunitario. Il problema da cui vorrei prendere le mosse nasce dalla eterogeneità dei criteri di selezione degli enti e delle attività sottratte al regime impositivo comune alla generalità delle imprese, riassumibili sotto l’etichetta della «non commercialità»: da intendere nel senso di non economicità della gestione, dal che dovrebbe coerentemente derivare l’estraneità alle logiche proprie del mercato concorrenziale. Invariabilmente destinati a restare fuori dal perimetro della commercialità sono, ha ricordato Francesco Pepe, gli enti che si muovono all’interno dell’endiadi scopo non lucrativo/non commutatività degli assetti negoziali, e ciò sia ai fini dell’imposta sui redditi, che rispetto all’IVA e all’IRAP. Assai frastagliato – come ha posto in luce la prof.ssa Castaldi – risulta tuttavia il panorama delle tecniche utilizzate per disegnare regimi fiscali speciali in favore del c.d. terzo settore. La «non commercialità», infatti, viene riferita ora all’ente in quanto tale, ora alle at-

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tività esercitate (in quanto dirette a concorrere nella realizzazione di compiti di benessere di pertinenza delle pubbliche amministrazioni, in attuazione del principio di sussidiarietà) e/o alle modalità di esercizio. A quest’ultimo proposito, viene in rilievo a volte l’assenza di corrispettivo, o almeno la sua manifesta inidoneità a garantire l’autosufficienza finanziaria, e dunque la sostenibilità nel tempo dell’attività senza ricorso a fondi esterni; a volte la destinazione delle prestazioni ai soli associati, o a categorie svantaggiate. Per ciascuna di tali tecniche, o per meglio dire per ciascuno dei criteri o delle combinazioni di criteri sui quali esse si fondano, si potrebbero individuare punti di potenziale frizione con i criteri accolti dall’ordinamento comunitario al fine di delimitare il campo di applicazione del divieto di aiuti di Stato (e in generale delle regole in materia di libertà di circolazione e di tutela della concorrenza), in cui possono ricadere – nota giustamente la prof.ssa Castaldi – i regimi fiscali di favore, tanto più se idonei ad interferire direttamente con il gioco della concorrenza, come nel caso dell’IVA. Per evidenti esigenze di semplificazione, oltre che di sintesi, mi limiterò a ricapitolare l’acquis communitaire sul concetto di attività economica indipendente, segnalando i profili di incompatibilità con taluni criteri adottati per disegnare lo statuto fiscale del settore non profit.

2. La nozione di impresa nel diritto comunitario Il tassello fondamentale per la costruzione del concetto comunitario di attività economica indipendente, come è noto, è rappresentato dalla norma in tema di libera circolazione dei setvizi, in cui sono definite tali le prestazioni fornite normalmente verso retribuzione (ora, art. 57 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea – in breve, TFUE), nel mentre sono del tutto indifferenti sia la natura del prestatore, sia le modalità di finanziamento (v. per tutte la sentenza 23 aprile 1991 della Corte di giustizia nella causa C-41/90, Höfner ed Elser). Nell’estendere al campo dell’attività una definizione coniata in funzione delle caratteristiche dell’atto, al fine di individuare il campo di applicazione del diritto comunitario della concorrenza, la Corte di giustizia ha avuto modo di precisare che la retribuzione non si identifica necessariamente con la percezione di un corrispettivo a carico degli effettivi destinatari della prestazione, poiché include tutte le forme di finanziamento dell’attività, quali ad esempio i proventi delle inserzioni pubblicitarie, dei contratti di sponsorizzazione o di merchandising, e simili (v. sentenza della Corte 1° luglio 2008 – Grande sezione nella causa C-49/07, Motosykletistiki Omospondia Ellados NPID – MOTOE). Il che permette pur sempre l’autosufficienza finanziaria, e dunque la sostenibilità economica, di attività senza dubbio destinate alla qualificazione in termini imprenditoriali tanto nell’ordinamento comunitario, quanto nell’ordinamento nazionale, quali l’organizza-

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zione di eventi sportivi o di pubblici spettacoli accessibili gratuitamente agli spettatori, le televisioni commerciali, o l’offerta gratuita di servizi della società dell’informazione (ad es. la connessione ad Internet, la gestione di social network o di motori di ricerca, ecc.). Ragionando in tale prospettiva, è evidente che la mancanza di corrispettivi (e a maggior ragione la percezione di prezzi «politici», o non eccedenti i costi direttamente imputabili) non è sufficiente ad escludere la natura economica dell’attività: soluzione non diversa, a ben vedere, da quella accolta dalla giurisprudenza nazionale, allorché riconosce natura imprenditoriale ad associazioni o fondazioni che offrono servizi gratuitamente o a fronte di una semplice partecipazione alla spesa, laddove l’economicità di gestione sia comunque raggiunta grazie a sovvenzioni pubbliche, e non possa dunque ipotizzarsi una attività di mera erogazione. Il che dovrebbe indurre ad interrogarsi sulla possibilità di giustificare esclusivamente sotto il profilo causale (lo scopo dell’ente, la causa dei rapporti con i singoli destinatari delle prestazioni) uno statuto fiscale speciale per il settore non profit, suggerendo per contro di estendere la visuale al regime complessivo dell’attività, da cui dipende il modo di porsi degli operatori sul mercato (anzi, l’esistenza stessa di un mercato) e – come acutamente ha rilevato il prof. Marasà – la possibilità di «ricolorare» lo scopo dell’ente. Ma su tale aspetto tornerò in chiusura del discorso.

3. (segue) La destinazione al mercato Nella giurisprudenza comunitaria in tema di tutela della concorrenza, il rapporto fra regime dell’attività ed esistenza di un mercato si presenta in termini invertiti rispetto a quelli consueti per il giurista nazionale: nel senso che è l’esistenza, almeno potenziale, di un mercato per una determinata specie di servizi, a fondare il riconoscimento della natura economica dell’attività (cfr. Corte di giustizia, cause riunite C-180-184/98, Pavel Pavlov), e dunque a creare i presupposti per l’applicazione delle regole valide per la generalità delle imprese (dal regime della libertà di circolazione, al diritto antitrust). Ciò non deve sorprendere, in considerazione dell’approccio tipicamente funzionale, libero da schermi dogmatici, che caratterizza l’attività delle istituzioni comunitarie, in cui riveste un ruolo essenziale il bisogno di protezione di chi aspira ad entrare in un determinato settore di attività. Anche a tale proposito, l’elaborazione del concetto di attività economica si fonda sull’interpretazione dell’art. 57 TFUE, nella parte in cui riconosce la libertà di prestazione per tutti i servizi resi normalmente verso corrispettivo: il che comporta la soggezione alla disciplina propria delle imprese da parte di coloro che operano in un settore in cui (da altri) la medesima prestazione viene resa, o po-

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trebbe essere resa, a fronte di una retribuzione (nell’accezione ampia che si è già avuto modo di precisare). Di conseguenza, non è decisiva l’autodestinazione del risultato produttivo ai membri del gruppo (ciò che la prof.ssa Castaldi h efficacemente indicato come autoreferenzialità dell’ente), al fine di escludere la natura economica dell’attività (e l’esistenza di un mercato, attuale o potenziale, per l’offerta dello stesso tipo di prestazione): quel che conta, è che non possa concepirsi neppure astrattamente lo svolgimento di analoga attività, basata sulla percezione di corrispettivi. Così, in un caso relativo alle prestazioni di carattere assicurativo-previdenziale rese da una Cassa di mutualità francese ai propri associati, la Corte di giustizia ha escluso l’applicabilità del regime di libera circolazione poiché nel caso di specie il criterio di contribuzione ai costi del servizio era basato su un principio di carattere solidaristico e non commutativo, tale cioè da non poter essere da altri replicato mediante l’offerta degli stessi servizi verso retribuzione (si veda la sentenza 17 febbraio 1995 della Corte di giustizia nelle cause riunite C-159/91 e C-160/91, Poucet e Pistre). Logica dello scambio – e destinazione al mercato – non sono dunque esclusi dalla unicità del centro di interessi tipica della c.d. gestione di servizio (quale può essere resa da una cooperativa o da una associazione che operino nell’esclusivo vantaggio dei membri del gruppo), nella prospettiva della compatibilità di regimi fiscali di favore con il diritto comunitario, a meno che non si traduca nell’adozione di modalità operative ontologicamente non di mercato. Lo stesso è a dirsi, in via di principio, per il caso di destinazione delle prestazioni a categorie sociali svantaggiate, il cui peculiare bisogno di protezione può giustificare una articolazione interna del mercato (e l’assunzione, a carico di chi intenda operarvi, di peculiari obblighi di servizio pubblico), ma non incide di per sé sulla natura economica dell’attività, come avviene ad es. nei mercati dell’energia elettrica o del ga. Se per questi ultimi, tuttavia, la presenza di operatori impegnati a garantire il soddisfacimento di una domanda che presumibilmente resterebbe priva di un’offerta adeguata, nell’ambito di un mercato libero (ed è pertanto diretta a rimediare alle c. d. market failure), di regola le prestazioni del settore non profit a favore di categorie deboli assolvono ad un ruolo di supplenza rispetto all’attività delle pubbliche amministrazioni: di qui un ulteriore potenziale fattore di esclusione dal novero delle comuni attività economiche, come si dirà subito appresso.

4. Terzo settore e servizi di interesse generale Altra possibile giustificazione della qualità di ente «non commerciale», di particolare rilievo per le attività del c. d. terzo settore, è ravvisabile – come si è accennato in precedenza – nel peculiare valore sociale di determinate prestazioni,

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dirette a soddisfare bisogni essenziali con particolare riguardo a categorie svantaggiate, iniziative che pertanto assolverebbero ad un ruolo complementare o addirittura sostitutivo rispetto ad attività gestite direttamente da pubbliche amministrazioni (tipicamente rese in forma di gestione burocratica e finanziate a carico essenzialmente della fiscalità generale). La strumentalità rispetto alle politiche di welfare – è stato rilevato dalla prof.ssa Castaldi – si esprime in un embrione di statuto fiscale a sé, le cui caratteristiche replicano il trattamento al quale la stessa attività sarebbe sottoposta, qualora fosse svolta direttamente dalla mano pubblica. Nell’ordinamento comunitario, la questione si pone in termini assai più complessi: il discrimine non è rappresentato, infatti, dalla inerenza dell’attività agli scopi istituzionali dello Stato (la quale dipende in larga misura da fattori storici, politici e sociali legati alle specificità nazionali, e dunque non uniformi nei vari paesi membri), fatta eccezione per quelle attività che comportano l’esercizio di pubblici poteri (cfr. art. 51 TFUE) e che di regola hanno ad oggetto public good, ossia la produzione di beni e servizi non appropriabili su base individuale (si pensi alla giustizia, alla sicurezza, ecc.). Per gli altri servizi diretti a soddisfare bisogni fondamentali della collettività, detti servizi di interesse generale, la distinzione si fonda sulla natura economica o non economica dell’attività (nel senso già precisato): soltanto i servizi di interesse economico generale, cioè le prestazioni che formano o possono formare oggetto di un’attività economica, sono soggette alle disposizioni del Trattato in materia di imprese, salva la deroga accordata dall’art. 106, § 2, TFUE, al fine di non ostacolare l’adempimento della specifica missione affidata. Per i servizi di interesse generale non economici, non disciplinati dal Trattato, secondo il protocollo allegato al Trattato di Lisbona le Alte parti contraenti riconoscono la piena libertà delle autorità nazionali, regionali e locali di decidere come organizzare, commissionare e fornire il servizio; purtuttavia, in considerazione dell’incidenza sulla coesione sociale e territoriale nell’ambito dell’Unione, Commissione e Parlamento europeo si sono impegnati a promuovere un’azione comune, in particolare al fine di stabilire elevati standard qualitativi. Il punto è che il confine fra servizi economici e non è mobile, per effetto di mutamenti del contesto socio-economico e dell’evoluzione tecnologica, e risente delle scelte – legate sia ad istanze politiche, che alle esigenze della finanza pubblica – in ordine al ruolo dello Stato sociale (si veda, anche per i riferimenti agli interventi precedenti, la comunicazione “I servizi di interesse generale, compresi i servizi sociali di interesse generale. Un nuovo impegno europeo”, COM(2007) 725 def., che accompagna la comunicazione “Un mercato unico per l’Europa del XXI secolo”). Tali dinamiche evolutive coinvolgono gli stessi settori dei servizi sociali (ad es. edilizia popolare, assistenza ai minori e alle persone o alle famiglie in stato di bisogno) e dei servizi sanitari, pur se tuttora esclusi dalla disciplina dei c.d. servi-

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zi del mercato interno (direttiva 2006/123/CE, D.Lgs. n. 59/2010). Anche a tale riguardo, è la possibilità di creare un mercato in cui i medesimi servizi siano resi normalmente dietro retribuzione (e in tale concetto, come si è visto, possono rientrare le stesse sovvenzioni pubbliche) a determinare il passaggio dal campo dei servizi non economici a quello dei servizi economici.

5. Il problema delle fonti di finanziamento Un limite della legislazione nazionale in tema di regime fiscale del c. d. terzo settore. a me pare, è rappresentato dalla scarsa attenzione verso le forme di finanziamento dell’attività, diverse dalla percezione di corrispettivi a carico degli effettivi destinatari della prestazione. Un esempio particolarmente illuminante è rappresentato dalla disciplina relativa alla tassazione sugli immobili (Ici-Imu), in cui tale aspetto non è stato preso in considerazione al fine di individuare le modalità di esercizio dell’attività. Anche sotto tale profilo, la «non commercialità» viene accertata secondo criteri divergenti rispetto agli indirizzi formulati dalla Corte di giustizia al fine di individuare la natura economica dell’attività secondo l’accezione comunitaria. In un caso non recente, relativo alla pretesa del Fisco olandese di applicare l’IVA agli incassi di un musicista di strada (si suppone che fosse bravo e in grado di raccogliere offerte cospicue, tanto da attirare l’attenzione dell’amministrazione finanziaria), ciò che è stato considerato decisivo al fine di escludere la soggezione al tributo non è stata l’assenza di sinallagmaticità tra offerta e prestazione, quanto la circostanza che le offerte dei passanti fossero assolutamente libere e volontarie: la mancanza, in altri termini, di un vincolo giuridico (Sentenza 3 marzo 1994 della Corte di giustizia nella causa C-16/93, Tolsma). Fatte le debite distinzioni, il medesimo criterio potrebbe essere utilizzato per differenziare ciò che invece, nell’ordinamento nazionale, sembra restare sul piano dell’irrilevanza: vale a dire, se gli introiti che consentono all’ente non lucrativo di svolgere la propria attività in condizioni di sostenibilità finanziaria derivino da donazioni spontanee, o da sovvenzioni (pubbliche o private) regolate da apposite convenzioni. Il concetto ampio di retribuzione, accolto dai giudici comunitari, potrebbe indurre infatti a considerare le attività svolte dall’ente quali attività economiche, anche indipendentemente dalla presenza attuale sul mercato di altri operatori in grado di garantirsi da sé l’autosufficienza finanziaria. Naturalmente, non intendo qui sollevare questioni di compatibilità comunitaria di un particolare regime fiscale del terzo settore: semplicemente, vorrei sottolineare l’opportunità di riflettere se non sia il caso di spostare l’enfasi dal profilo della «non commercialità» a quello della ricerca sulla effettiva esistenza di «materia imponibile».

LA RILEVANZA DEGLI SCAMBI TRA MERCATO E TERZO SETTORE: CON RIFERIMENTO AGLI ENTI NON COMMERCIALI ED ENTI NON PROFIT

di Laura Castaldi SOMMARIO: 1. Premessa. Alcune precisazioni terminologiche. – 2. La rilevanza normativa del fenomeno. – 3. Si precisa il piano dell’indagine. – 3.1. La valenza delle disposizioni di cui all’art. 148 TUIR. – 3.2. La maggiore problematicità del disposto di cui all’art. 150 comma 1 TUIR.

1. Premessa. Alcune precisazioni terminologiche Nell’affrontare il tema mi sovvengono alcune precisazioni terminologiche che consentono di delimitare l’ambito della mia riflessione. La prima consiste nel prendere atto della permanente incertezza che regna quanto ai connotati ontologici da assegnare alla categoria dell’ente non profit. Per parte mia direi che, ai fini dell’indagine che ci proponiamo di condurre, qualche utile indicazione in chiave fiscale si possa ottenere concentrando la nostra attenzione su quegli enti che si caratterizzano non solo per la carenza di scopo di lucro soggettivo a connotare causalmente il vincolo partecipativo ma, altresì e in positivo, per il fatto di operare in settori ad elevata rilevanza o sensibilità sociale quando non addirittura tradizionalmente di appannaggio pubblico, così assumendo un ruolo suppletivo/sussidiario rispetto alle istituzioni pubbliche nell’erogazione dei servizi essenziali alla collettività in chiave attuativa dell’art. 118, comma 4 Cost. Con riguardo a tali enti – così circoscritti – infatti, sembra ci si possa spingere a ipotizzare l’esistenza di un embrionale Statuto fiscale: se non altro rappresentato dal fatto che siffatti soggetti, seppur attraverso tecniche normative diverse 1, risultano 1

In alcuni casi incidenti sulla commercialità dell’attività istituzionale dell’ente, in altri casi operanti direttamente sulla classificazione dell’ente (definito ex lege come non commerciale) ai fini IRES. V. ad es. l’art. 148 comma 3 TUIR (che espressamente considera non commerciali le attività di-

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comunque sottratti alla disciplina di unitaria rilevazione dell’imponibile secondo il regime del reddito d’impresa propria degli enti commerciali pur quando ammessi a esercitare le proprie attività istituzionali attraverso moduli imprenditoriali-commerciali e, dunque, secondo assetti fondamentalmente oneroso-corrispettivi. Con una siffatta accezione pertanto andremo a discorrere nel presente contributo di enti non profit. La seconda precisazione attiene al concetto di scambio: termine che ai fini della nostre considerazioni adotteremo nel senso in cui si sostiene da una parte della dottrina che titolo giustificativo dei tributi paracommutativi sia uno scambio di utilità: presupponendo pertanto il ricorrere di operazioni di prestazioni di servizi o cessioni di beni effettuate da o rivolte a enti non commerciali o enti non profit, cui si contrappone una controprestazione economicamente rilevante, anche se non necessariamente corrispettiva in senso proprio, da parte di chi ne risulti destinatario.

2. La rilevanza normativa del fenomeno Detto ciò, possiamo partire da questa banale considerazione. Degli scambi soggettivamente caratterizzati dall’interessare enti non commerciali ed enti non profit non vi è traccia di rilievo normativo nel primigenio impianto della riforma degli anni ’70: se noi esaminiamo la legislazione originariamente recata dal D.P.R. n. 598/1973 e dal D.P.R. n. 633/1972 non troviamo traccia di specifica considerazione di siffatto fenomeno da parte del legislatore tributario: né dal lato attivo né da quello passivo della prestazione. L’unico dato normativo scaturente dall’articolato legislativo partorito dalla riforma in cui si fa riferimento ad enti non profit è l’art. 6 D.P.R. n. 601/1973 2 che, peraltro, ben poco rileva ai nostri fini. La norma avendo sì come referente soggettivo una tipologia predeterminata di enti alcuni dei quali descritti in ragione del loro mancato perseguimento di fini di lucro, ma al limitato fine di preservare loro una specifica (e ridotta rispetto all’ordinaria) aliquota IRPEG (ora IRES): talché rettamente attuative delle finalità istituzionali dell’ente associativo – se culturale, sportivo-dilettantistico, religioso ecc. – quando rivolte nei confronti degli associati seppur dietro pagamento di corrispettivi specifici), l’art. 150 comma 1 TUIR (secondo cui non costituisce esercizio di attività commerciale lo svolgimento delle attività istituzionali nel perseguimento di esclusive finalità di solidarietà sociale da parte delle ONLUS) nonché l’art. 12 D.Lgs. n. 153/1999 alla cui stregua le Fondazioni che hanno adeguato gli statuti alle disposizioni del Titolo I si considerano enti non commerciali anche se perseguono le loro finalità mediante esercizio di imprese strumentali ai loro fini statutari. 2 Va ricordato infatti che solo successivamente, e per diritto vivente, la norma verrà intesa come facente (esclusivo) riferimento ad enti non solo non lucrativi ma preliminarmente classificabili come enti non commerciali (cfr. per il consolidarsi di siffatto orientamento interpretativo Cass. 2573/1990; Cass. 1633/1995; indirizzo giurisprudenziale dipoi e da ultimo, ripreso dall’Agenzia delle entrate con Risoluzione n. 91/2005).

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essa disposizione è destinata ad incidere, a valle, sulla quantificazione dell’imposta dovuta, piuttosto che, a monte, sulla determinazione dell’imponibile. Con uno sporadico intervento nel 1982 3 e, dipoi, con un crescendo esponenziale dal 1997 ad oggi, per contro, il legislatore si occupa ripetutamente del fenomeno e, se andiamo ad esaminare i dati normativi, ci si accorge che porsi il problema della loro eventuale rilevanza sistematica non è peregrino. Invero: a) per un verso, esistono una molteplicità di norme che si occupano – in genere sotto il versante della qualificazione in termini di commercialità/non commercialità fiscale dell’attività ovvero, ma più raramente, ai fini della imponibilità/non imponibilità dei relativi proventi con riferimento al settore delle imposte sui redditi (e in parte dell’IVA) – delle operazioni di scambio quando queste interessino dal lato attivo della prestazione uno dei sopramenzionati soggetti. È quanto può dirsi: con riferimento alle prime, alle disposizioni di cui all’art. 74 comma 2, all’art. 143 comma 1 ultimo periodo, all’art. 150 comma 1 TUIR, nonché all’insieme delle disposizioni di cui all’art. 148 TUIR; quanto alle seconde, alle disposizioni di cui all’art. 8 L. n. 266/1991 e all’art. 25 comma 5 L. n. 367/1996 nonché a quelle contemplate dall’art. 150 comma 2 TUIR; b) per l’altro verso, e ampliando l’orizzonte al sistema tributario in generale, si riscontrano una serie di disposizioni fiscali la cui operatività è subordinata ad un certo modo di configurazione degli scambi nella dinamica operativa dell’ente e che, di nuovo, qui interessano perché specificamente concernenti enti non commerciali e/o enti non profit. Significativo, a quest’ultimo riguardo, il caso delle organizzazioni di volontariato rispetto alle quali inizialmente si pone come requisito tipologico proprio (e, dal 2009, come mera condizione di accesso dell’ente alla qualifica di ONLUS di diritto 4) l’esercizio di attività commerciali e produttive marginali 5 come dipoi specificate al D.M. 25 maggio 1995 6. 3 È infatti con gli artt. 2 e 9 D.P.R. 28 dicembre 1982 n. 954 che trovano per la prima volta inserimento nel corpo dell’art. 20 D.P.R. n. 598/1973 nonché nell’art. 4 D.P.R. n. 633/1972 una serie di disposizioni concernenti il regime fiscale delle operazioni di cessioni di beni e prestazioni di servizi quando intercorrenti tra ente associativo e associati. 4 Invero l’art. 30 comma 5 D.L. n. 185/2008 (conv. in L. 2/2009) ha disposto che siano qualificabili come ONLUS di diritto ex art. 10 comma 8 D.Lgs. n. 460/1997 «le associazioni di volontariato di cui alla lg. 11 agosto 1991 n. 266 che non svolgono attività commerciali diverse da quelle marginali individuate con decreto del Ministero delle finanze 25 maggio 1995». Se dunque – stante l’originario impianto normativo recato dalla legge quadro sul volontariato di cui alla L. n. 266/1991 l’esercizio di attività commerciali marginali era da intendersi come requisito tipologico proprio della categoria soggettiva, con la novella normativa di cui alla L. n. 2/2009 sembra potersi dire che l’esercizio di attività commerciali marginali degrada a requisito per l’accessibilità dell’organizzazione di volontariato alla qualifica di ONLUS di diritto. 5 E i cui proventi sono fra l’altro non imponibili ex art. 8 L. n. 266/1992 laddove reimpiegati nelle attività istituzionali dell’organizzazione stessa. 6 Laddove il carattere marginale dell’attività viene curiosamente ricollegato all’occasionalità del

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Ma analoghe considerazioni possono formularsi con riguardo alla vicenda, di stringente attualità, relativa all’art. 7 lett. i) D.Lgs. n. 504/1992 laddove l’esenzione ICI – IMU risulta da ultimo 7 accordata con riferimento agli immobili posseduti da enti non commerciali a condizione che da costoro – ovvero da altri enti non commerciali in ragione di rapporti di comodato 8 – detti beni siano destinati allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive ecc. «secondo modalità non commerciali». 9 Probabilmente a sé stanti, nel quadro normativo che stiamo descrivendo, sono poi le disposizioni recate dall’art. 143 lett. a) e b) TUIR le quali, malgrado formalmente paiano proporsi come clausole di non imponibilità di talune tipologie di proventi se e nella misura in cui conseguiti da enti non commerciali in ragione di rapporti di scambio con il mercato, ad una più attenta ricognizione potrebbero addirittura ritenersi rivestire natura di norme di esclusione in senso proprio quanto alla delimitazione dei confini della nozione di entrata redditualmente rilevante: – sia per quanto attiene alla raccolta di fondi (laddove la valutazione di non imponibilità del provento conseguito dall’ente pare riposare sull’esatto apprezzamento della connotazione causale che lo sorregge: solo formalmente corrispettiva ma in realtà a carattere sovvenzionatorio-contributivo) 10; – sia per quanto concerne i contributi pubblici per attività aventi finalità sociali svolte in regime di convenzione o accreditamento con le amministrazioni pubbliche dove, come già abbiamo avuto modo di osservare altrove 11, di nuovo la non imponibilità del contributo erogato dall’ente pubblico territoriale in capo suo esercizio, al suo caratterizzarsi per strutture anomale di costo (beni conseguiti gratuitamente, o prodotti dagli assistiti/volontari) o a limitazioni in ordine ai margini di profitto applicati (corrispettivi non eccedenti del 50% i costi di diretta imputazione). 7 Alla stregua delle modifiche apportate all’art. 7 lett. i) dall’art. 91 bis comma 1 del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (conv. in L. 24 marzo 2012 n. 27). 8 Così da ultimo Risoluzione 4 marzo 2013 n. 3/DF e n. 4/DF. 9 Modalità non commerciali rispetto ai cui confini descrittivi sovviene, da ultimo, il regolamento di cui al D.M. 19 novembre 2012 n. 200: disciplina, quest’ultima, tanto più rilevante e significativa quanto più si abbia presente che la stessa è stata dettata sotto la pressione degli organi comunitari (in particolare la Commissione europea) ed in ossequio alla rigorosa disciplina in materia di divieto di aiuti di stato con riferimento alla quale – com’è noto – la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE ha delineato una concezione assai lata di impresa e di commercialità stante la tutela delle libertà economiche e della concorrenza alla cui salvaguardia essa normativa è deputata. 10 Formalmente l’entrata è acquisita per effetto di un atto di scambio ma in realtà l’«offerta di beni di modico valore» sembra apprezzata dal legislatore come mero veicolo di sollecitazione all’erogazione di una sovvenzione a titolo di liberalità: come denota del resto il lessico utilizzato nel corpo della disposizione dove si parla di «fondi» pervenuti «a seguito di raccolte» mediante «offerta» di beni di modico valore o servizi «ai sovventori». 11 Rinvio a CASTALDI, Considerazioni intorno alla disciplina fiscale delle erogazioni liberali al c.d. terzo settore, in Riv. dir. trib. 2011, I, p. 941 ss.

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all’ente percettore sembra dipendere dall’apprezzamento della connotazione ontologicamente tributaria che l’erogazione finanziaria conserva in ragione del rapporto (delegatorio/concessorio) che sta a fondamento causale della sua attribuzione 12.

3. Si precisa il piano dell’indagine Orbene, le problematiche sottese ad una simile trama di dati normativi sono molteplici. In questa sede, e dovendo focalizzare l’attenzione su uno specifico aspetto, intendiamo intrattenerci a riflettere sul primo blocco di norme richiamate – e in particolare sulle disposizioni che avendo riguardo ad attività svolte da enti non commerciali o enti non profit dispongono in ordine alla loro non commercialità. Segnatamente: l’art. 143 comma 1 ultimo periodo; l’insieme delle disposizioni di cui all’art. 148; l’art. 150 comma 1 TUIR. Ci chiederemo così se norme siffatte abbiano portata meramente ricognitiva di principio ovvero dispongano la dequalificazione ex lege di attività che, in loro assenza e alla stregua delle norme generali, andrebbero fiscalmente qualificate come commerciali; soffermandoci altresì ad individuarne l’intrinseca ratio giustificativa anche in un’ottica di: a) legittimità costituzionale interna, alla stregua del principio di eguaglianza tributaria ex artt. 53 e 3 Cost.; b) e comunitaria esterna, in particolare in punto di applicazione della normativa in materia di divieto di aiuti di Stato. Con qualche titubanza e consapevoli che la trama normativa con cui si è chiamati a confrontarci non è delle più semplici, giacché perturbata da istanze di politica legislativa di matrice diversa (antielusive, sovvenzionatorio-agevolative, quando non addirittura a carattere sistematico 13), ci verrebbe da dire che, seppur 12 In queste ipotesi, invero, il soggetto privato agisce per conto e quale longa manus di quello pubblico nell’erogazione di un servizio essenziale alla collettività: servizio che – laddove fosse rimasto appannaggio di quest’ultimo e da questo direttamente assicurato – sarebbe stato espletato attingendo alle entrate tributarie e in totale esclusione da imposizione reddituale (o ex art. 74 comma 1 ovvero ex art. 74 comma 2 TUIR). Talché la scelta di garantire servizi sociali essenziali per i consociati anche per il tramite di forme di delegazione/concessione a soggetti privati, con conseguente impiego indiretto del gettito tributario attraverso il ricorso a regimi di accreditamento, impone la necessità di ricorrere a soluzioni normative che omogeneizzino il regime fiscale dei due diversi schemi operativi prescelti. 13 Stante il già rilevato obiettivo – che pare emergere dalla trama normativa – di realizzare una sorta di principio di alternatività ente non societario non lucrativo e disciplina di rilevazione unitaria dell’imponibile propria degli enti commerciali che emerge chiaramente in alcune tipologie di soluzioni come, ad esempio, nel D.P.R. n. 153/1999 in merito alla già ricordata qualificazione ex lege delle fondazioni bancarie come enti non commerciali anche laddove perseguano i propri fini istituzionali per il tramite di imprese strumentali.

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facendo leva su assetti di principio diversi, quasi tutte le disposizioni che, occupandosi e preoccupandosi di prestazioni di servizi o cessioni di beni esercitate da parte di enti non commerciali e/o enti non profit, dispongono in ordine alla loro non commercialità (in particolare stabilendo che «non costituiscono» o «non si considerano» attività commerciali), potrebbero intendersi rivestire carattere ricognitivo di principio. Fa probabilmente eccezione solo la disposizione di cui all’art. 143 comma 1 ultimo periodo TUIR secondo la quale non si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 c.c. quando rese dall’ente non commerciale in conformità alle proprie finalità istituzionali, senza specifica organizzazione, e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione: laddove, peraltro, l’espressa esclusione della commercialità – non a caso disposta ai soli fini delle imposte sui redditi (mancando analoga previsione nella normativa IVA 14) – pare ispirarsi a logiche più semplificatorie che propriamente agevolativo/sovvenzionatorie. E ciò nella misura in cui la richiesta assenza di specifica organizzazione solleva a buon ragione il legislatore dall’affrontare delicate problematiche di salvaguardia del regime dei beni d’impresa e la prevista non eccedenza dei corrispettivi rispetto ai costi di diretta imputazione rende dubbia addirittura la sussistenza stessa di materia imponibile da attrarre a tassazione: tant’è che la norma, anche a voler prescindere dalla sua limitatissima sfera di operatività, potrebbe non presentare problemi di compatibilità con la normativa europea in materia di divieto di aiuti di Stato stante il disposto di cui al § 25 della Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese del 10 dicembre 1998 n. 98/C 384/03 15. Ciò precisato, veniamo al cuore della questione.

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Il che rafforza il convincimento che ci si trovi davanti ad una previsione normativa di decommercializzazione “forzata” iure imperii di un’attività che – in difetto – andrebbe a tutti gli effetti considerata commerciale: ed invero la creazione di isole artificiali di non commercialità è tecnica normativa che trova difficilmente accesso nel settore IVA dove la sottrazione dall’ambito di operatività della normativa IVA di attività a tutti gli effetti inserite nel circuito produttivo e redistributivo di beni e servizi può causare distorsioni inaccettabili nel meccanismo applicativo del tributo, alterandone la neutralità con conseguenti ripercussioni sulle dinamiche concorrenziali e di mercato. 15 La Commissione europea osserva infatti: «È ovviamente impossibile riscuotere un’imposta sugli utili qualora questi non esistano. La natura del sistema fiscale può pertanto giustificare il fatto che le imprese senza scopo di lucro (…) siano specificamente esentate dall’imposta sugli utili se effettivamente non possono conseguire profitti».

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3.1. La valenza delle disposizioni di cui all’art. 148 TUIR In primo luogo sovvengono le disposizioni di cui all’art. 148 commi 1, 2 e 3 TUIR. La regola generale che sembra potersi desumere dai primi due commi della norma è che la relazione – se di terzietà o partecipativa – che intercorre tra il destinatario della prestazione e l’ente associativo che la eroga è una variabile fiscalmente indifferente ai fini della valutazione di commercialità/non commercialità dell’attività prestata dall’ente medesimo: decisiva risultando piuttosto la connotazione (oneroso-corrispettiva o meno) del rapporto sottostante. Insomma, lo scambio col mercato è dato dall’onerosità della prestazione: sussistendo questa, il fatto che destinatario della prestazione sia un soggetto che vanta un rapporto partecipativo con il soggetto che la eroga è circostanza che non muta la valutazione e il regime fiscale dell’operazione. Rispetto a una simile architettura normativa, si pone – in chiave derogatoria e, almeno apparentemente, agevolativa – il disposto dell’art. 148 comma 3 TUIR laddove con riferimento ad alcune tipologie di enti associativi che si contrassegnano oltre che per le finalità sociali costituzionalmente protette (religiose, culturali, sindacali, sportive ecc.) perseguite, altresì per la connotazione partecipativa non solo non lucrativa ma anche particolarmente stringente che ne contrassegna il vincolo associativo, la norma esclude la commercialità delle attività svolte in diretta attuazione delle finalità istituzionali nei confronti degli associati quand’anche svolte a fronte del pagamento di corrispettivi specifici. Senonché, sembrerebbe potersi dire che, nel caso di specie, la commercialità dell’attività – la quale attività, in quanto richiesta come direttamente attuativa degli scopi istituzionali, 16 si pone come funzionale al soddisfacimento degli interessi perseguiti dagli associati nel costituire o nell’aderire all’ente associativo – sia esclusa non già in un’ottica agevolativa bensì in ragione della autoreferenzialità soggettiva dell’attività medesima: per il suo rivolgersi cioè alla compagine interna dell’ente associativo medesimo in una dimensione di circolarità chiusa, per giunta in settori socialmente meritevoli anche alla luce dei valori espressi dalla nostra Costituzione. L’idea che aleggia nella trama normativa – insomma – è che ci si trovi davanti ad un fenomeno involgente una dimensione di autorganizzazione interna dell’ente e che, quindi, la pur formale corrispettività che impronta il rapporto ente/as16 E qui l’intervento spiegato nel 1997 muta radicalmente l’ottica di collocazione dell’attività nella dinamica gestionale dell’ente: da intendersi non più quella secondaria ma quella istituzionale dell’ente associativo; quella cioè direttamente funzionale al perseguimento degli obiettivi e al soddisfacimento degli interessi per cui il vincolo associativo si è creato. La norma parla infatti di «attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali» laddove la precedente formulazione richiedeva ben più genericamente che le attività fossero effettuate «in conformità alle finalità istituzionali».

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sociato 17, in ragione di una serie di requisiti strutturali e funzionali convergenti che attengono alla dinamica operativa dell’ente medesimo e ne denotano la circolarità chiusa dei flussi di scambio 18, sottenda in realtà e nella sostanza un criterio di mero riparto interno del costo comune sopportato dalla compagine associativa in chiave aggregata per il soddisfacimento di un interesse del pari comune 19. L’ente è, dunque, percepito come collettivo in senso proprio: ovverosia come ente esponenziale della collettività degli associati e, come tale, anche il gradino ultimo di interesse del legislatore tributario; tutto quanto oltrepassa siffatto confine ultimo diventa fiscalmente irrilevante. Sovviene, a indiretta ma decisiva conferma di siffatta percezione normativa, la disciplina riservata ai gruppi di acquisto solidale recata dall’art. 1 commi 266-267 L. n. 244/2007 20; ma analoghi spunti di riflessione potrebbero probabilmente formularsi anche avuto riguardo alla disciplina fiscale delle cooperative: le connotazioni pseudo-agevolative della quale sono state infatti, di recente, fortemente ridimensionate dalla Corte di Giustizia a tutto vantaggio di una lettura strutturale e di sistema di siffatta disciplina 21. Del resto il principio è di tale pregnanza che non solo trova perfetta rispondenza anche ai fini IVA nell’art. 4 D.P.R. n. 633/1972, ma in tale contesto impositivo finisce per propagare i suoi effetti anche e addirittura in ambito societario rinvenendosene traccia nella disciplina delle società di mero godimento: laddo17 E che in via di principio – stante il disposto di cui all’art. 148 comma 2 TUIR – comporterebbe, come già detto, un omogeneo trattamento fiscale delle prestazioni rese dall’ente associativo indipendentemente dalla qualifica di associato/non associato di colui che ne è il destinatario. 18 Sono i requisiti richiesti dall’art. 148 comma 8 TUIR – concernenti la democraticità della struttura, l’assenza di fini di lucro soggettivo sotto qualsivoglia forma espressi, l’effettività e durevolezza nel tempo del vincolo associativo, la non circolabilità della partecipazione associativa – solo ricorrendo i quali persiste la valutazione di non commercialità dell’attività recata dall’art. 148 comma 3 TUIR. 19 In questi termini vd. già LUPI, Spunti sulla tassazione delle associazioni e sulla compatibilità tra loro carattere religioso ed effettuazione di prestazioni a pagamento agli associati in Riv. dir. trib. 2002, II, p. 144 ss.: riflessioni poi riprese e sviluppate dall’A. anche di recente (cfr. LUPI, Consumo collettivo e correlazione tra quota associativa e costi, in Dialoghi trib., 2012, p. 198, nonché CORRADO, L’associazione come consumo collettivo e l’irrilevanza della proprietà degli impianti, in Dialoghi trib., 2012, p. 85 ss.). 20 Art. 1 commi 266 e 267 L. n. 244/2007: «Sono definiti “gruppi di acquisto solidale” i soggetti associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere attività di acquisto collettivo di beni e distribuzione dei medesimi senza applicazione di alcun ricarico, esclusivamente agli aderenti, con finalità etiche, di solidarietà sociale e di sostenibilità ambientale, in diretta attuazione degli scopi istituzionali e con esclusione di attività di somministrazione e di vendita. Le attività svolte dai soggetti di cui al comma 266, limitatamente a quelle rivolte agli aderenti, non si considerano commerciali ai fini [IVA e delle imposte sui redditi]». 21 Vd. Corte di Giustizia UE 8 settembre 2011 cause riunite C-78/08 Paint Graphos, C-79/08 Adige Carni, C– 80/08 Franchetto.

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ve, per effetto di quanto disposto dall’art. 4 comma 5 ultimo periodo, la fuoriuscita del bene dal circuito produttivo redistributivo societario è ricollegata alla sua destinazione al consumo personale o familiare dei soci, seppur in questo diverso contesto registrato dalla totale o parziale gratuità di suo utilizzo: ed è solo il caso di accennare, in questa sede, che il parzialmente diverso assetto emergente ai fini delle imposte dirette relativamente alla destinazione dei beni al godimento dei soci e familiari (comportante il mero congelamento della rilevanza fiscale del bene ai fini dell’inerenza/deducibilità dei costi) nasca, di nuovo, dalla necessità di salvaguardare il regime tributario dei beni d’impresa. Insomma, qui, la valutazione di non commercialità del rapporto associazione/associato discende dalla percepita assenza di mercato che si riconnette alla carenza di un assetto di scambio in termini di alterità e terzietà associato/associazione: l’attività, proprio perché direttamente attuativa degli scopi istituzionali, si concepisce come autodestinata. Come tale, investendo una dimensione che oltrepassa il confine del soggetto collettivo, perde di un proprio spessore autonomo per il legislatore tributario: diventa fiscalmente irrilevante sia ai fini delle imposte sui redditi che dell’IVA. Forse con qualche azzardo, potremmo sostenere che lo schema di ragionamento, seppur rovesciato, è in buona misura omologo e non si allontana di molto da quello che si riscontra in ambito societario con riferimento alla diversa problematica della produzione-imputazione del reddito ai fini impositivi: laddove l’adozione di regimi di tassazione per trasparenza (e, più in generale, il criterio d’imposizione secondo il principio dell’imputazione) è riservata a quelle realtà societarie nelle quali – a motivo della disciplina sostanziale che ne impronta la governance – può ragionevolmente sostenersi che soci e società sono due facce di una stessa medaglia 22. D’altronde, proprio perché l’attività è percepita come non rivolta al mercato neppure si pongono problematiche di concorrenza comunitaria perché, appunto, l’attività per definizione non è destinata ad una platea indifferenziata di potenziali utenti bensì si spiega nel chiuso dell’apparato organizzativo associativo. Tant’è che qui il problema fiscale – se c’è e quando c’è – si sposta esclusivamente sul piano, diverso, dell’adeguata individuazione normativa di idonee misure atte a garantire l’effettività e durevolezza nel tempo del rapporto associativo 23.

22 In argomento rinviamo alle riflessioni di FEDELE, La nuova disciplina Ires: i rapporti tra soci e società, in Riv. dir. trib., 2004, I, p. 465 ss. (in specie p. 485 ss.). 23 Di qui appunto l’introduzione dei requisiti normativi di cui all’art. 148 comma 8 TUIR come condizione di accesso alla disciplina prevista dall’art. 148 commi 3 ss. TUIR. Ma nella stessa ottica cautelativa va altresì letta la disciplina di monitoraggio degli enti associativi legata alla comunicazione EAS di cui all’art. 30 D.L. n. 185/2008 (la cui omissione non a caso preclude di nuovo l’accesso alla disciplina recata dall’art. 148 commi 3 ss. TUIR).

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3.2. La maggiore problematicità del disposto di cui all’art. 150 comma 1 TUIR Più complesso si rivela il discorso quando si passino a considerare i casi in cui (e qui mi riferisco, in particolare, alla disposizione recata dall’art. 150 comma 1 TUIR) la norma fiscale, avendo riguardo ad enti non profit istituzionalmente operanti in settori ad elevata rilevanza sociale – quando non addirittura deputati all’erogazione di servizi essenziali alla collettività in ruolo di completamento o persino suppletivo dell’intervento pubblico – esclude la commercialità dell’attività di prestazione di servizi o cessioni di beni da questi espletata: a) malgrado la sua (fra l’altro imposta) esternalità e, dunque, eterodestinazione rispetto alla compagine interna dell’ente, a favore di una platea di potenziali utenti (almeno apparentemente) indifferenziati; b) e, secondo i più, pur in presenza di assetti oneroso-corrispettivi di suo svolgimento. Dicevamo: qui ravvisare la logica sottesa all’intervento normativo in un’ottica ricognitiva di principio è operazione più complessa. E ciò nella misura in cui l’esclusione della commercialità parrebbe giustificata non tanto dalla modalità di svolgimento dell’attività (che potrebbe anche essere del tutto omologa a quella di un qualsivoglia altro operatore economico) ma da una serie convergente di valutazioni che in gradazioni diverse sovvengono a seconda del settore di attività considerato. Fra cui in particolare: – l’assenza di un mercato in senso proprio in ragione del genere di attività svolta. Stanti i settori di operatività elencati all’art. 10 D.Lgs. n. 460/1997, molte sono attività pubbliche nell’accezione oggettiva del termine perché strumentali alla realizzazione dei compiti assegnati dalla Carta Costituzionale alla Repubblica nelle sue articolazioni non solo istituzionali territoriali ma anche sociali per effetto della costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà: talché i costi sopportati per erogarle sono a tutti gli effetti spese pubbliche e dunque le valutazioni fiscali che le concernono finiscono per involgere profili di ponderazione quanto alle diverse modalità di chiamata alla concorsualità fiscale. La norma, in buona sostanza, non farebbe che tradurre e riproporre, mutatis mutandis, le valutazioni di non commercialità recate dall’art. 74 comma 2 TUIR con riferimento agli enti pubblici in senso soggettivo debole 24; – i soggetti a beneficio dei quali le prestazioni sono rivolte e che la legge richiede espressamente versino in situazioni di svantaggio: mettendo così di nuovo 24 Per più diffuse considerazioni in argomento mi permetto di rinviare a CASTALDI, Per una disciplina fiscale IRES degli enti non profit, in Riv. dir. trib. internaz., 2013, p. 75 ss. Del resto non è peregrino osservare che la simmetria tra le due disposizioni è anche testuale: entrambe escludono la commercialità delle attività in esse contemplate con l’espressione “non costituiscono”: sicuramente più pregnante rispetto a quella “non si considerano” rinvenibile in altre disposizioni di decommercializzazione.

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LA RILEVANZA DEGLI SCAMBI TRA MERCATO E TERZO SETTORE

in discussione la ricorrenza del mercato sia quanto all’assenza di un bacino di utenza potenzialmente indifferenziata sia quanto alla potenziale limitazione degli schemi economico-gestionali adottabili per l’esercizio dell’attività medesima. Più in generale, e malgrado si sia lungi dal ravvisare nella trama normativa un quadro sistematico compiuto e consapevole, resta il fatto che la disciplina ONLUS si contrassegna per una serie di elementi che inducono a ravvisare profili di confine (o se vogliamo di parallelismo) nell’operare delle ONLUS rispetto all’intervento pubblico coperto in tutto o in parte dalla fiscalità impositiva e paracommutativa: non è un caso che il fine altruistico di solidarietà sociale al cui esclusivo perseguimento l’attività istituzionale della ONLUS deve essere rivolta per ciò che essa «non costituisc[a] esercizio di attività commerciale» riecheggia quella solidarietà di cui all’art. 2 Cost. della quale il dovere contributivo e, più in generale, la chiamata alla concorsualità fiscale è strumento di realizzazione in chiave attuativa dell’uguaglianza sostanziale e della crescita della società nel suo complesso. Il che non può non comportare ripercussioni quanto all’apprezzamento fiscale delle attività per il cui tramite si dispiega un siffatto intervento e, per riflesso, delle entrate che se ne percepiscono 25. Con ciò condividendo riserve altrui espresse in argomento 26, va peraltro riflettuto se – anche alla luce della normativa comunitaria in materia di divieto di aiuti di Stato – con riferimento a settori di attività di rilevanza sociale ma più aperti all’intervento di operatori del mercato, le differenziazioni tipologiche che distinguono peculiarmente i soggetti ONLUS (e in particolare il fine non solo non lucrativo ma altresì, positivamente, solidaristico-solidaristico che le connota) siano di per sé sole sufficienti a giustificare il diverso apprezzamento fiscale della medesima attività in ragione del soggetto di suo espletamento: ovvero non si imponga piuttosto una differenziazione delle modalità di svolgimento dell’attività nei limiti dell’autosufficienza economico-finanziaria ovvero attraverso moduli di formale corrispettività ma sostanziale omologia rispetto alla mera compartecipazione alla spesa, tipica dell’intervento pubblico. 27 25

Con quest’ulteriore implicazione: che un simile disegno – nella misura in cui recupera una qualche forma di evidenza al criterio del beneficio nel concorso agli oneri di approntamento dei servizi essenziali secondo una logica nella quale le prestazioni richieste ai consociati e sottratte a imposizione in capo all’ente percettore verrebbero a partecipare della natura dei tributi paracommutativi – potrebbe rivelarsi in parte utile nell’affrontare le problematiche fiscali correlate alla globalizzazione laddove questa “ha reso incerto il presupposto su cui sono stati fino ad oggi elaborati gli ordinamenti fiscali e cioè il presupposto della coincidenza tra chi fruisce della spesa pubblica e il contribuente” e ciò nella misura in cui “la globalizzazione ha capovolto la regola generale secondo cui il cittadino deve pagare i tributi che i rappresentanti popolari da lui eletti impongono per finanziare la spesa di cui egli si avvantaggia” (così GALLO, Diseguaglianze, giustizia distributiva e progressività, in Rass. trib., 2012, p. 287 ss.). 26 V. ZIZZO, Ragionando sulla fiscalità del Terzo Settore, in Rass. trib. 2010, p. 974 ss. 27 È interessante osservare a questo proposito come il D.M. 19 novembre 2012 n. 200 in tema

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Non possiamo infine esimerci dal sottolineare come una simile chiave di ricostruzione giustificativa di un siffatto regime fiscale e che si impernia sull’esaltazione della (eventuale) natura oggettivamente pubblica dell’attività svolta dalle ONLUS e ravvisa una sorta di parallelismo – alternatività tra la copertura dei suoi costi a mezzo di risorse reperite attraverso il gettito tributario e le eventuali controprestazioni dei beneficiari (anche in ragione della loro destinazione vincolata di reimpiego): – se per un verso potrebbe notevolmente attenuarne le problematiche di compatibilità rispetto alla normativa europea in materia di divieto di aiuti di stato (non c’è concorrenza/ mercato: l’attività non è rivolta ad un pubblico indifferenziato ma a categorie socialmente meritevoli o in stato di bisogno; non c’è comparabilità/omogeneità; la misura trova fondamento nei principi propri dell’ordinamento tributario nazionale in chiave attuativo evolutiva dell’art. 53 Cost. e dell’art. 118 Cost.); – potrebbe aprire nuovi scenari di criticità comunitaria nella misura in cui, coerentemente con la logica che ne sembra sottesa, le misure fiscali in commento sono riconosciute agli enti del terzo settore sul presupposto della loro localizzazione sul territorio dello Stato italiano e del dispiegamento della loro attività in radicamento con siffatto territorio 28.

di IMU ricolleghi la modalità non commerciale di svolgimento dell’attività non solo alla gratuità della prestazione ma altresì ad una sua corrispettività svincolata rispetto costo effettivo del servizio reso: con il che ci si avvicina – e di molto – alla logica dei tributi paracommutativi. 28 Vengono così in considerazione la sent. 14 settembre 2006, C-386/04 (Stauffer), la sent. 27 gennaio 2009, C-318/07 (Persche) nonché, in ultimo la sent. 10 febbraio 2011, C-25/10 (Missionswerk) e sent. 16 giugno 2011, C-10/10 (Commissione/Austria) della Corte di Giustizia che – seppur avendo riguardo a profili dell’imposizione diretta e indiretta qui solo incidentalmente rilevanti (donazioni, gratuità legati ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni e ai fini della deducibilità/detraibilità dalle imposte sul reddito) – paiono piuttosto descrivere una dimensione europea della fiscalità alla cui stregua «ciascuno Stato membro resta libero di individuare i fini di interesse collettivo che l’apparato pubblico intende realizzare e, perciò, favorire mediante il riconoscimento di agevolazioni fiscali per i soggetti che contribuiscano a perseguirli. Tuttavia se i medesimi interessi sono perseguiti in altri Stati membri, allora lo specifico trattamento tributario privilegiato non può non estendersi anche ad essi in una sorta di effetto espansivo della normativa fiscale nazionale nel contesto della costruzione comune europea. Nell’ottica della Corte la fiscalità, che pure continua ad essere strumento nella disponibilità del singolo Stato membro, cessa però di essere esclusivamente proiettata sul piano interno, dovendosi viceversa necessariamente coordinare con il sistema comune e con le sue peculiari esigenze. Da mezzo per finanziare e perseguire le funzioni tipiche dello Stato, essa diventa – in aggiunta e non in alternativa ad esso – strumento per l’affermazione di obiettivi comuni a tutti gli Stati membri». Così sul punto, da ultimo, SACCHETTO-DORIGO, Contrasta con il diritto della UE l’indeducibilità delle donazioni ad enti di ricerca non residenti in Corr. trib. 2012, p. 188 ss.

ASSETTI NEGOZIALI, SCAMBI MUTUALISTICI E “STATUTO FISCALE” DELLA SOCIETÀ COOPERATIVA: I RIFLESSI TRIBUTARI DELLE MODALITÀ DI ATTRIBUZIONE DEL “VANTAGGIO MUTUALISTICO”

di Francesco Pepe SOMMARIO: 1. Premessa: oggetto e limiti dell’indagine. – 2. Assetti negoziali e “statuto fiscale” dell’impresa cooperativa: i termini del problema. – 3. (segue) I requisiti di “mutualità prevalente”. La loro “sensibilità” agli assetti negoziali impiegati nell’esercizio dell’attività “mutualistica”. – 4. L’incidenza degli assetti negoziali sull’attività mutualistica delle cooperative: a) le cooperative di consumo in senso stretto. – 5. (segue) b) le cooperative di credito. – 6. (segue) c) le cooperative di produzione e lavoro. – 7. Il problema della evidenziazione contabile dei “ristorni” e l’incidenza sul rapporto tra assetti negoziali e soglia di “prevalenza”. – 8. Brevi considerazioni conclusive.

1. Premessa: oggetto e limiti dell’indagine Il presente scritto tratterà de “la rilevanza degli scambi tra mercato e terzo settore” da una duplice e particolare prospettiva: (i) in primo luogo, il discorso sarà svolto essenzialmente nell’ottica del tributarista (e della fiscalità d’impresa): si tenterà di verificare, cioè, se ed in che termini gli assetti negoziali utilizzati nell’esercizio di una attività economica possano incidere sullo “statuto fiscale” del soggetto che la esercita; (ii) in secondo luogo, si limiterà l’indagine ad una particolare forma di impresa collettiva, la società cooperativa, o meglio: le società cooperative, dovendosi inevitabilmente articolare il discorso in ragione delle varie forme di cooperazione che la legislazione e, ancor prima, la prassi conoscono (come noto, classificabili nei due macro-settori della cooperazione di consumo in senso lato e della cooperazione di produzione e lavoro) 1. 

Contributo modificato rispetto a quello già pubblicato in Riv. dir. trib., 2013, I, p. 1083 ss. L’idea cooperativa si fonda sul passaggio da una “gestione di resa” del capitale ad una “gestione di servizio” nei confronti dei soci; sul rendere cioè l’organizzazione aziendale servente non 1

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Va da subito osservato come un’analisi del genere non possa che risultare comalla massima remunerazione del capitale, ma alla soddisfazione dei bisogni dei soci, realizzando così quella funzione “anti-intermediaria” che, sul piano politico, ha storicamente rappresentato il nucleo fondante l’idea cooperativa, sul piano socio-economico, è sorgente dei benefici ad essa collegati e, sul piano giuridico, ne giustifica da sempre l’autonomo statuto legale (su questo passaggio, si veda FAUQUET, Il settore cooperativo, Milano, 1948, ed. orig. 1935, p. 72, Autore a cui si deve la paternità delle espressioni gestione “di resa” e “di servizio”). Questo obiettivo viene realizzato attraverso la gestione in senso “mutualistico” dell’attività imprenditoriale, ossia l’esercizio istituzionale della propria attività per i soci, con i soci e nell’interesse dei soci, mediante il sistematico scambio di prestazioni con essi (c.d. “scambi mutualistici”) (sul punto, si veda in particolare, BASSI, Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici. Artt. 2511 – 2548, in Comm. Cod. civ. diretto da P. Schlesinger, Milano, 1988, p. 3 ss.; BONFANTE, La legislazione cooperativa. Evoluzione e problemi, Milano, 1984, p. 9 ss.; BUONOCORE, Diritto della cooperazione, Bologna, 1997, p. 29; CECCHERINI, Le società cooperative, in Tratt. dir. priv. diretto da M. Bessone, vol. XVIII, Torino, 1999, pp. 14-15; GALGANO-GENGHINI, Il nuovo diritto societario, tomo 1, Le nuove società di capitali e cooperative, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. ec. diretto da F. Galgano, vol. XXIX, Padova, 2006, p. 923 ss.; MARASÀ, Le “società” senza scopo di lucro, Milano, 1984, p. 267 ss.; PAOLUCCI, Le società cooperative, Milano, 1999; TATARANO, L’impresa cooperativa, in Tratt. dir. civ. dir. comm. diretto da A. Cicu e F. Messineo, XXX, t. 3, Milano, 2002; VERRUCOLI, Cooperative (imprese), in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 557; ID., La società cooperativa, Milano, 1958. Sulle differenti modalità attraverso cui la funzione “anti-intermediaria” si realizza (differenti a seconda del bisogno da soddisfare, oggetto del rapporto mutualistico tra società e socio), si veda, su tutti, BASSI, Cooperazione e mutualità: contributo allo studio della cooperativa di consumo, Napoli, 1976, pp. 9, 14, 16 e 18; ID., Le società cooperative, Torino, 1995, p. 27, il quale tal fine distingue tra cooperazione di consumo, da un lato, e cooperazione di produzione-lavoro, dall’altro. Nel primo caso, essendo il bisogno rappresentato dalla fruizione di determinati beni o servizi, il socio assume la veste di consumatore ed utente della società, e lo scambio si attua attraverso contratti di vendita tra società e socio; l’attività sociale (produttiva di beni e servizi) è – per lo meno in via di principio – rivolta dunque non al mercato, ma ai soli soci; l’organizzazione aziendale ed il processo produttivo non differiscono invece da un’impresa ordinaria, servendosi di fattori di produzione reperiti sul “comune” mercato del lavoro, dei capitali, dei beni, ecc...; la “mutualità” si attua pertanto “a valle” e fuori dal processo produttivo. Nel secondo caso, essendo il bisogno rappresentato dalle esigenze imprenditoriali o occupazionali dei soci, la società indirizza la sua attività di produzione di beni o servizi (oggetto sociale) verso il comune mercato dei consumatori, mentre la mutualità si realizza in seno al processo produttivo, grazie all’apporto dei soci (quali fornitori o lavoratori alle dipendenze della società): la “mutualità” si realizza quindi “a monte” ed all’interno del processo produttivo. La proiezione dell’agire mutualistico si riflette poi sulla sfera soggettiva soci grazie alla loro duplice veste di utenti o fornitori-lavoratori della società e proprietari della stessa; duplicità di ruoli che consente loro di acquisire quel “plusvalore” (il profitto) solitamente di spettanza dell’imprenditore, così eliminando l’intermediazione nel consumo o nel lavoro e rendendo i soci, come spesso enfaticamente si dice, “imprenditori di sé stessi” (cfr. BUONOCORE, op. ult. cit., p. 31). Questo “plusvalore” può essere ripartito tra i soci in proporzione agli scambi mutualistici intercorsi con la società, realizzando nelle cooperative di consumo un risparmio di spesa e nelle cooperative di produzione e lavoro una sovra-remunerazione dell’attività svolta o dei beni conferiti all’impresa. Ciò integra il c.d. “vantaggio mutualistico”, la cui concreta acquisizione può avvenire o in via immediata (diretta applicazione di prezzi inferiori o di remunerazioni superiori a quelle di mercato) o successivamente, con l’erogazione a fine esercizio di somme a parziale rimborso del prezzo dei beni acquistati o ad incremento del salario o dei compensi percepiti (c.d. ristorni, sui quali si veda, ampiamente, BASSI, Dividendi e ristorni nelle società cooperative, Milano, 1979; CUSA, I ristorni nelle società cooperative, Milano, 2000).

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plessa (per la complessità, di per sé, del fenomeno “cooperazione” in quanto tale) 2 e, soprattutto, complicata. Chiedersi quale sia l’impatto – sul piano tributario – delle diverse e possibili (talvolta innumerevoli) forme negoziali che ogni “tipo” di cooperativa può adottare nello svolgimento della propria attività e nel perseguimento dello “scopo mutualistico” richiede infatti una competenza ed un approccio metodologico “multi-disciplinare”, giuridico e non solo 3. Oltre ad impli2 La fortuna e, oggi, la “complessità” dell’istituto cooperativo dipendono dalla sua duttilità funzionale, dalla sua intrinseca capacità – cioè – di assicurare non solo vantaggi di diversa natura, sia economici (“vantaggi mutualistici”) che sociali (vantaggi “di partecipazione”), di fungere da efficace strumento “anti-crisi”, finanche di essere utilizzabile altresì – e paradossalmente – secondo una logica propriamente “capitalistica” (è il caso dei consorzi e delle società consortili, ma anche, in un certo senso, delle cooperative di produzione in senso stretto, istituti a carattere “mutualistico”, ma tesi a garantire un maggior profitto dei propri soci-imprenditori: sul tema, si veda GALGANO, Il nuovo diritto societario, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ. diretto da F. Galgano, XXIX, Padova, 2003, pp. 489-490); “paradossalmente” perché un simile utilizzo della forma cooperativa si rivela del tutto antitetica rispetto alla sua originare matrice “ideologica” socialista, protesa alla emancipazione del proletariato dal gioco dell’impresa capitalistica (sul retroterra ideologico della cooperazione, si veda in special modo RUINI, L’impresa cooperativa, Roma, 1949, p. 11 ss.; TAMAGNINI, Principi teorici della cooperazione, in Riv. coop., 1955, p. 283 ss., nonché, per riferimenti, PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto dei carichi pubblici e scopo mutualistico, Milano, 2009, p. 109 ss.). Questa duttilità funzionale ha determinato la nascita e lo sviluppo di una ampia ed eterogenea tipologia (sociale e, in molti casi, anche giuridica) di “società cooperative”, non sempre assimilabili sul piano funzionale nella loro concreta operatività. Da qui l’esigenza di una analisi articolata del tema oggetto della presente indagine. 3 Nel senso che lo studio del diritto della cooperazione implichi un approccio “integrato”, ossia che parta da una lettura sincronica della disciplina civilistica, fiscale ed amministrativa, al fine di individuare non una rigida e predeterminata definizione tipologica della cooperativa, quale “fattispecie normativa” (sulla definizione tipologica delle società quale processo di descrizione di fattispecie normative, si veda su tutti SPADA, La tipicità delle società, cit., p. 39 ss.), bensì – nella “fluidità” delle sue potenziali configurazioni astratte – il “modello” di cooperazione verso cui il sistema normativo nel suo complesso operare “spinge”, si veda PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto, cit., p. 168 ss., ove si osserva come infatti la logica del diritto della cooperazione possa assimilarsi, metaforicamente, ad un “treppiede”. L’effettiva realizzazione dello “scopo mutualistico” (art. 2511 c.c.) dipenderebbe infatti dal combinato operare di tre discipline che – pur convenzionalmente chiamate a svolgere una loro funzione specifica – in realtà si sostengono a vicenda, contribuendo a definire, secondo una logica di “sistema”, il senso e l’identità della cooperativa: la disciplina civilistica “plasmerebbe” lo strumento cooperativo, quella fiscale ne adeguerebbe il prelievo alle peculiarità della gestione “mutualistica”, orientandone altresì la gestione in tal senso, quella amministrativa vigilerebbe sul corretto uso dell’istituto. Ove concretamente anche una sola di esse dovesse non “funzionare” correttamente, l’istituto sarebbe infatti destinato alla “caduta” (come un treppiede “monco”), ossia ad una “deriva lucrativa”, da sempre contrastata dall’ordinamento giuridico e che ha recentemente rappresentato l’idea fondante della riforma societaria delle cooperative del 2003. Sul punto, sia consentito altresì rinviare a PEPE, Il problema della “giusta” mutualità cooperativa: osservazioni a margine della sentenza Paint Graphos della Corte di Giustizia delle Comunità europee, in Dir. prat. trib., 2012, II, p. 413 ss., ove si evidenzia come questa – seppur latentemente – sembra essere l’idea che ha animato l’approccio della Corte di Giustizia dinanzi al caso della

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care – ovviamente – cognizioni di matrice tributaria, si impone altresì – ed ancor prima – una approfondita analisi dei profili gius-commercialistici della cooperazione, di principi e di questioni di stretto diritto contrattuale (si pensi, sin d’ora, ai problemi che emergono in relazione ai contratti utilizzati nel settore della cooperazione di credito e di assicurazione), ma anche considerazione di natura aziendalistica (connesse alla peculiare “gestione di servizio” dell’impresa cooperativa, contrapposta alla “gestione di resa” delle società lucrative) e contabile (il metodo di contabilizzazione dei “ristorni”, ad esempio, si vedrà avere una significativa incidenza anche sul piano fiscale) 4. Questo non può che rendere la successiva analisi, sotto alcuni aspetti, inevitabilmente insufficiente: ci sono problemi la cui soluzione imporrebbe delle “invasioni di campo” in altri settori della scienza giuridica che chi scrive non è ovviamente in grado di compiere. Pertanto, alcuni interrogativi saranno in un certo senso lasciati “in sospeso”, il che – tuttavia – non necessariamente è un male. Anzi, l’auspicio è che le ipotesi di conclusione cui si cercherà di pervenire in questa sede diventino terreno fertile per un fruttuoso dibattito con studiosi di altre materie, nonché uno stimolo ad uno studio “integrato” della cooperazione, forse l’unico veramente possibile.

2. Assetti negoziali e “statuto fiscale” dell’impresa cooperativa: i termini del problema Ciò premesso, vanno preliminarmente spese alcune parole per spiegare in che termini la questione dell’incidenza fiscale degli assetti negoziali si pone in relazione all’impresa cooperativa. Normalmente, questa problematica emerge in tutta la sua nitidezza in relazione agli enti non societari: è il caso – ben noto – dell’associazione o della fondazione che, pur assumendo quale attività “principale” un’attività oggettivamente compatibilità con il regime degli “aiuti di stato” della disciplina fiscale italiana sulle cooperative di produzione e lavoro, atteso il rilievo a tal fine da essa attribuito alla (in)efficacia dei controlli sul rispetto dello scopo mutualistico; nonché, in termini critici dinanzi ad una simile affermazione, ID., Fiscalità cooperativa ed “aiuti di stato”: questioni metodologiche e problemi reali, in Rass. trib., 2008, p. 1705 ss. 4 Nel senso che il tema della cooperazione – per la sua complessità, per l’ambiguità della disciplina, per le peculiari logiche operative, per i diversi risvolti sociali – imponga anche al giurista una metodologia di analisi “integrata” ed “inter-disciplinare”, che tenga conto cioè della dimensione sia sociale, che economica e giuridica del fenomeno, si veda BUONOCORE, Introduzione, in BUONOCORE-JOSSA (a cura di), Organizzazioni economiche non capitalistiche. Economia e diritto, Bologna, 2003, p. 15; CAPO, Spunti di riflessione da una teoria economica della cooperazione, ibidem, pp. 57-58; M.C. TATARANO, L’impresa cooperativa, cit., 33; SAPELLI, La cooperazione: impresa e movimento sociale, Roma, 1998, pp. 66-67.

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“commerciale” (rientrante, ad esempio, nella fattispecie di art. 2195 c.c., ancorché non organizzata in forma di impresa), la svolga secondo modalità “non economiche”; si avvalga cioè sistematicamente di negozi di cessione o di prestazione d’opera caratterizzati da un corrispettivo – per così dire – “politico”, ossia determinato (per volontà stessa degli associati) in misura inferiore al “costo unitario” del bene; un corrispettivo tale quindi da allargare certamente la platea dei potenziali fruitori (questo ne è normalmente il fine), ma anche da rendere l’attività dell’ente finanziariamente non auto-sufficiente, tale da renderla cioè istituzionalmente dipendente da apporti e contribuzioni “esterne” (donazioni, contribuzioni e finanziamenti privati o pubblici, ecc.). Come noto, questa situazione comporta, sul piano tributario, la qualificazione ex se dell’ente nel senso di “non commerciale”, con conseguente assoggettamento, ai fini reddituali, IVA e IRAP, ad una disciplina particolare e diversa rispetto a quella dei soggetti c.d. “commerciali” (siano essi società o enti non societari) 5. È di tutta evidenza come, in tal caso, la misura del corrispettivo – ossia un profilo specifico, sul piano quantitativo, degli assetti negoziali adottati in vista dell’attuazione dell’oggetto sociale – incida sulla natura dell’attività e sulla conseguente qualifica fiscale dell’ente, ossia sul profilo qualitativo del regime fiscale cui l’ente sarà assoggettato. È palese, in tale circostanza, l’inter-relazione tra contenuto dei negozi impiegati e lo statuto fiscale dell’ente (commerciale/non commerciale). Da questa inter-relazione sembrerebbe, almeno ad un primo sguardo, del tut5 Cfr. nel senso che la “commercialità” presupponga l’“economicità” di gestione, FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, p. 336 ss.; CASTALDI, Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999, p. 260 ss.; ID., Enti non commerciali (diritto tributario), in Enc. dir., Annali I, Milano, 2008, p. 547 ss.; GALLO, I soggetti del libro primo del codice civile e l’Irpeg: problematiche e possibili evoluzioni, in Riv. dir. trib., 1993, I, p. 349; ID., La natura ai fini fiscali dell’ente che ha conferito ad una s.p.a. la propria azienda creditizia, in Riv. dir. trib., 1991, I, p. 537; NUZZO, Questioni in tema di tassazione degli enti non economici, in Rass. trib., 1985, I, p. 124; nonché, in giurisprudenza, Cass., sez. trib., 7 febbraio 2008, n. 2809, in Rass. trib., 2008, p. 1675, con nota di GIOVANNINI, Lucro e impresa individuale. Nel senso, invece, della necessità non di mera “economicità” di gestione (copertura di costi), ma della “lucratività” (gestione finalizzata all’accrescimento del capitale, attraverso una politica dei prezzi incentrata sulla realizzazione di un “avanzo di gestione”), si veda PROTO, La fiscalità degli enti non societari, Torino, 2001; ID., Classificazione degli enti diversi dalle società e natura delle attività esercitate, in Rass. trib., 1995, p. 554; E. ANTONINI, Considerazioni sull’imposizione degli enti pubblici non economici, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1978, I, p. 588 ss.; in giurisprudenza, cfr. Cass., sez. III pen., 13 gennaio 1999, n. 310; Comm. trib. centr., sez. IV, 22 gennaio 1992, n. 415; Comm. trib. centr., sez. XXI, 24 gennaio 1986, n. 695; Comm. trib. centr., sez. XI, 27 gennaio 1990, n. 600. Va osservato peraltro come la questione specifica circa la sufficienza di una gestione “economica” ai fini della qualifica di un ente come “commerciale” ovvero la necessità, a tal fine, del perseguimento di “lucro” (oggettivo) non muti i termini della questione generale qui affrontata, essa riguardando l’incidenza degli assetti negoziali (tra cui anche le politiche di prezzo) sullo statuto fiscale degli enti.

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to immune l’area dell’impresa societaria 6. In particolare, l’imprinting conferito alla “società” dall’art. 2247 c.c. (l’essere ente istituzionalmente rivolto al “lucro”, oggettivo e soggettivo) e, sul fronte tributario, l’assoggettamento ex lege di tali enti allo statuto fiscale dell’impresa 7, sembrano neutralizzare – di fatto – la questione. Qualunque siano gli assetti negoziali impiegati dalla società – siano essi improntati, sul fronte del corrispettivo, alla lucratività o all’economicità o addirittura all’anti-economicità di gestione ovvero siano essi assunti in una o altra forma conosciuta dalla legge e dalla prassi contrattuale – tutto ciò non importa: la società – fiscalmente – sarà sempre e solo assoggettata al regime dell’impresa in virtù del criterio meramente formale di qualificazione scelto dal legislatore 8. Ebbene, questo discorso non sembra valere per le società cooperative. Certamente, anch’esse ricadono nella sfera di qualificazione ex lege di “impresa” ai fini fiscali: per il legislatore anche la cooperativa – in quanto società lato sensu “commerciale” – è sempre e solo “impresa” ai fini tributari. Tuttavia, e pur in questo quadro, il suo “statuto fiscale” non può dirsi, esattamente, “unitario”. Le cooperative, da sempre, sono destinatarie infatti di una duplice disciplina tributaria: da un lato, della disciplina – per così dire – “ordinaria”, comune a tutte imprese “fiscali” (che è quella, essenzialmente, del reddito d’impresa, dell’IVA e dell’IRAP); dall’altro, altresì di una disciplina “di favore” – ma qui le virgolette sono d’obbligo 9 – rivolta esclusivamente alle cooperative e soltanto a quelle cooperative che, 6

L’elemento dell’economicità sembra, almeno astrattamente, rilevare invece per la qualifica delle persone fisiche quali “imprenditori fiscali”, si ritiene non potendosi “configurare una impresa commerciale ai fini tributari in presenza di una remunerazione prevalentemente contributiva e liberale” (così, FICARI, sub art. 55 t.u.i.r., in AA.VV., Commentario breve alle leggi tributarie, tomo III, TUIR e leggi complementari, a cura di Fantozzi, Padova, 2010, p. 293). Nel senso, invece, della irrilevanza della modalità “lucrativa” di gestione dell’impresa, per la configurazione sul piano giuridico di una impresa fiscale, cfr. GIOVANNINI, Impresa commerciale e lucro nelle imposte dirette e nell’IVA, in Riv. dir. trib., 2012, I, p. 467 ss., secondo cui l’eventuale “gratuità” di singole cessioni o prestazioni d’opera non incida ai fini fiscali non sulla qualifica imprenditoriale del soggetto, ma solo sul regime tributario del singolo atto. Sia consentito tuttavia osservare come il problema, con riferimento alle imprese individuali, assuma uno spessore prevalentemente teorico, nella pratica risultando inverosimile la cosciente programmazione, da parte di una persona fisica, di una attività imprenditoriale “in perdita”. 7 Cfr. artt. 6, comma 3 e 73, comma 1, lett. a) TUIR, art. 4, comma 2, n. 1) D.P.R. n. 633/1972, artt. 2, secondo periodo e 3, comma 1, lett. a) D.Lgs. n. 446/1997. 8 Sul tema, si veda ampiamente FICARI, Tipo societario e qualificazione dell’attività economica nell’imposizione sul reddito e sul valore aggiunto, in Rass. trib., 2004, 1240 ss., ove per ulteriori riferimenti; sull’incidenza, tuttavia, dell’antieconomicità degli atti d’impresa sul piano dell’accertamento, si veda MASTROIACOVO, L’economicità delle valide ragioni (note minime a margine della recente evoluzione del principio dell’abuso del diritto), in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 449 ss.; ID., La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2012, p. 151 ss. 9 Sulla necessità di valutare il carattere “agevolativo” della singola misura “sottrattiva” in favore delle cooperative in ragione della sua “derogatorietà” funzionale rispetto alla ratio del tributo cui essa afferisce, sia consentito il rinvio a PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto, cit., p. 9 ss.

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nella loro concreta gestione, operano secondo i “principi della mutualità” 10. Quali siano, per il legislatore fiscale, questi “principi della mutualità” è presto detto: mentre fino a poco tempo fa essi erano espressi dall’art. 26 della “legge Basevi” 11, sotto forma di una mera “compressione del lucro soggettivo” d’impresa 12, oggi emergono dai requisiti di c.d. “mutualità prevalente”. È noto come la “riforma Vietti” del diritto societario (D.Lgs. n. 6/2003) abbia operato la distinzione tra “cooperative a mutualità prevalente” (CMP) e “cooperative diverse” (CMNP) 13, distinzione delineata dagli artt. 2512, 2513 e 2514 c.c. 10

Per una panoramica dell’attuale disciplina fiscale delle cooperative, si veda PEPE, La fiscalità delle cooperative. Rassegna di giurisprudenza, in Dir. prat. trib., 2011, II, p. 174 ss., ove si rileva altresì come sia tutt’altro che agevole definirne i contorni esatti. Trattasi infatti di una disciplina dalla “topografia” decisamente frammentata, in quanto (i) non integra un corpus normativo distinto, ma è la risultante dell’“innesto”, sul tronco di “ordinarie” discipline tributarie (IRPEF, IRES, IVA, Irap, ecc…), di una serie di disposizioni specifiche; (ii) tali “disposizioni specifiche”, oltre ad essere sparse in molteplici provvedimenti legislativi, presentano una struttura complessa ed articolata. Sono cioè, di volta in volta, diversificate per tipologia di cooperativa e/o settore economico (consumo, produzione, lavoro, credito, agricoltura, edilizia, sociale, ecc.), per destinatario (socio-cooperatore, società cooperativa), per “funzione specifica” (istituzione di regimi fiscali particolari, fissazione dei presupposti applicativi), per oggetto (utili, ristorni, ecc.); tutti criteri suscettibili di combinarsi tra loro. Sul regime tributario delle cooperativa, si veda altresì MENTI, L’imposizione degli utili da partecipazione societaria, Padova, 2007, p. 183 ss.; TRAVAGLIONE, La disciplina tributaria delle società cooperative, Napoli, 2009; INGROSSO, Le cooperative e le nuove agevolazioni fiscali. Profili civilistici contabili comunitari, Torino, 2013. 11 Art. 26 D.lgs. C.p.S. n. 1577/1944, cui rinvia(va) l’art. 14 D.P.R. n. 601/1973. 12 Storicamente, gli indici di mutualità fiscalmente rilevanti hanno riguardato quattro aspetti dell’agire imprenditoriale: l’attività sociale (la gestione mutualistica); la destinazione dei risultati (distribuzione di lucro); le dimensioni dell’impresa (capitale sociale, patrimonio e/o reddito); l’adempimento di talune formalità (contabili e/o amministrative). Il “peso specifico” di ciascun elemento si è diversamente sviluppato nel corso degli anni. In tale evoluzione è tuttavia possibile scorgere tre diverse tendenze: a) la stabilità di alcuni elementi, quali la compressione del lucro soggettivo, l’ottemperanza a specifiche formalità (iscrizione in determinati registri o albi pubblici, regolare tenuta delle scritture contabili, ecc.); b) l’involuzione degli indici dimensionali, inizialmente diffusi, poi quasi del tutto spariti (a conferma della diversa “percezione” sociale del movimento cooperativo: da fenomeno ab origine “di nicchia”, e per ciò inizialmente agevolato, a realtà di primario rilievo socio-economico); c) lo sviluppo e l’implementazione giuridica dell’indice gestionale (ossia il diretto riferimento alla gestione mutualistica intesa in senso oggettivo), da prima identificato in termini vaghi e/o settorialmente circoscritti, poi sempre più puntuali ed estesi (sfociata negli attuali artt. 2512, 2513 c.c.). Sul tema, sia consentito il rinvio a PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto, cit., p. 149 ss., ove per riferimenti normativi. 13 Sulla riforma delle società cooperative, si veda in generale: AA.VV., Il nuovo diritto societario. Commentario diretto da G. Cottino-G. Bonfante-O. Cagnasso-P. Montalenti, Bologna, 2004, vol. ***, p. 2374 ss.; BASSI, Principi generali della riforma delle società cooperative, Milano, 2004; BONFANTE, La nuova società cooperativa, Bologna, 2010; ID., Società cooperative, in Enc. dir., Annali II, tomo 2, Milano, 2008, 1087; BUONOCORE (a cura di), La riforma del diritto societario, Torino, 2003, p. 223 ss.; GRAZIANO (a cura di), La riforma del diritto cooperativo. Atti del convegno di Genova del 8 marzo 2002, Padova, 2002; MARASÀ (a cura di), Le cooperative prima e dopo la riforma

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a fini esclusivamente tributari (art. 223-duodecies, comma 6 disp. att. trans. c.c.), con l’intento di riservare solo alla prima tipologia di cooperative le “agevolazioni fiscali” previste da leggi speciali, in attuazione dell’art. 45 Cost. 14. Ma se così è, allora, ove una cooperativa possieda la qualifica di CMP, sarà assoggettata ad uno statuto fiscale “differenziato”, ossia “arricchito” delle “agevolazioni fiscali” per la cooperazione propriamente dette, nonché – si può ritenere – di quei regimi “strutturali” che, pur non essendo propriamente “agevolativi”, tuttavia debbono considerarsi funzionalmente collegati ai (e quindi dipendenti dai) caratteri delle CMP, rappresentandone la naturale e logica conseguenza 15.

3. (segue) I requisiti di “mutualità prevalente”. La loro “sensibilità” agli assetti negoziali impiegati nell’esercizio dell’attività “mutualistica” Ferma quindi la “duplicità” di regime tributario delle cooperative, se analizziamo i requisiti richiesti per acquisire la qualifica di CMP possiamo facilmente osservare come essi si rivelino particolarmente “sensibili” agli assetti negoziali adottati dalla società nell’esercizio della propria attività, in particolare, dell’attività “mutualistica”. Due sono i requisiti richiesti per fruire della qualifica di CMP: (a) la compressione del lucro soggettivo (art. 2514 c.c.) 16; (b) la “prevalenza” degli scambi mutualidel diritto societario, Padova, 2004; MAFFEI ALBERTI (a cura di), Il nuovo diritto delle società, Padova, 2005, vol. IV, p. 2617 ss.; PAOLUCCI, Imprese cooperative e mutue assicuratrici, in Tratt. dir. priv. diretto da P. Rescigno, vol. 17, t. III, Torino, 2010, p. 321 ss.; ID., Codice delle cooperative, Torino, 2005; ID., Le società cooperative dopo la riforma, Padova, 2004; PRESTI (a cura di), Società cooperative, in Commentario della riforma societaria diretto da P. Marchetti-L.A. Bianchi-F. Ghezzi-M. Notari, Milano, 2006; RACUGNO, La società cooperativa, in Tratt. dir. comm. diretto da V. Buonocore, sez. IV, tomo, 9, Torino, 2006; SANDULLI-SANTORO (a cura di), La riforma delle società. Società cooperative, Torino, 2003; SANDULLI-VALENSISE (a cura di), Le cooperative dopo la riforma del diritto societario, Milano, 2005; UCKMAR-GRAZIANO (a cura di), La disciplina civilistica e fiscale della “nuova” società cooperativa, Padova, 2005; M.C. TATARANO, La nuova impresa cooperativa, in Tratt. dir civ. comm. già diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni e continuato da P. Schlesinger, Milano, 2011. 14 Sul tema cfr. PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto, cit., p. 157 ss.; ID., La fiscalità delle cooperative. Rassegna, cit., p. 174 ss.; INGROSSO, Le cooperative e le nuove agevolazioni fiscali, cit., p. 22 ss. 15 Quei regimi che, pur dipendendo dalla compressione del lucro soggettivo e/o dalla prevalenza degli scambi mutualistici, tuttavia non implicano una “deroga funzionale” ed in senso promozionale alla ratio del prelievo fiscale, rappresentando soltanto l’applicazione dei principi e delle logiche di quest’ultimo alle diverse caratteristiche delle CMP: sul punto, si veda da ultimo PEPE, La fiscalità delle cooperative. Rassegna, cit., p. 180 ss., ove si evidenzia come in molte occasioni il differente trattamento fiscale della cooperativa dipenda non da una volontà “agevolativa” del legislatore, ma solo dalla diversità di situazioni regolate dalle due discipline. 16 Ossia: (i) il divieto di distribuzione di dividendi ai soci cooperatori in misura superiore

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stici (artt. 2512, 2513 c.c.). In particolare, qui rileva il secondo requisito che, come noto, presenta una configurazione singolare. Esso si risolve in una peculiare opzione gestionale, consistente nel “prevalente” svolgimento di “attività mutualistica”. Per “attività mutualistica” devono intendersi gli scambi intercorrenti tra socio e cooperativa, la cui configurazione varia a seconda del settore cui la cooperativa appartiene: vendita di beni ai soci-consumatori nelle cooperative di consumo, conferimento di beni alla società-acquirente da parte dei soci-fornitori nelle cooperative di produzione, assunzione dei soci in veste di lavoratori (subordinati, occasionali, ecc.) nelle cooperative di lavoro (art. 2512 c.c.) 17. Siffatti scambi devono risultare “prevalenti” rispetto agli scambi effettuati con terzi (siano terzi acquirenti, fornitori, lavoratori), condizione – questa – che viene valutata (si osservi bene): (i) su base meramente monetaria e contabile: la “prevalenza” è fatta dipendere solo dal rapporto tra il volume degli affari con soci e il volume degli affari con i terzi, calcolati in termini prettamente monetari ed in base alle risultanze del conto economico (ricavi da vendite a soci nelle cooperative di consumo, costi per acquisti dai soci o salari ad essi dovuti nelle cooperative di produzione e lavoro) 18; (ii) indipendentemente dall’eventuale attribuzione ai soci del c.d. “vantaggio mutualistico” e dalle modalità di assegnazione: nella definizione delle soglie di “prevalenza”, la disciplina codicistica non attribuisce infatti alcun rilievo al se i soci abbiano beneficiato di un “vantaggio mutualistico” e al come ciò sia avvenuto, ossia direttamente (in sede di definizione del corrispettivo) o indiall’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di 2,5 punti rispetto al capitale effettivamente versato; (ii) il divieto di remunerare gli strumenti finanziari in misura superiore a 2 punti rispetto al limite massimo previsto per i dividendi; (iii) il divieto di distribuire le riserve fra i soci cooperatori; (iv) l’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale, dedotto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati, a “Fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione” ex L. n. 59/1992. La disposizione in esame riprende sostanzialmente quanto previsto dal precedente art. 26 legge Basevi, aggiornandolo ad una serie di innovazioni introdotte dalla “riforma Vietti” del diritto societario: sul punto, per una analisi di tale requisito, sia consentito rinviare, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, a PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto, cit., p. 176 ss.; ID., La fiscalità delle cooperative. Rassegna, cit., pp. 175-176; INGROSSO, Le cooperative e le nuove agevolazioni fiscali, cit., pp. 25-28. 17 Sulla “mutualità” oggi intesa nel senso di scambio “interno” tra socio e società, espellendo dalla nozione di cui all’art. 2511 c.c. le vecchie forme di “mutualità esterna” o “sociale”, si veda MARASÀ, Problemi della legislazione cooperativa e soluzioni della riforma, in MARASÀ (a cura di), op. cit., pp. 5, 12 ss.; BONFANTE, Art. 2511, in AA.VV., Il nuovo diritto societario, cit., p. 2379; ID., Art. 2512, ibidem, p. 2389; ID., Società cooperativa, cit., pp. 1091-1092; TONELLI, Art. 2511, G. Presti (a cura di), op. cit., p. 13; ROCCHI, Artt. 2512-2514 e 2545 octies, in G. Presti (a cura di), op. cit., p. 30; BUONOCORE, La società cooperativa riformata: i profili della mutualità, in Riv. dir. civ., 2003, I, pp. 519-520; ID, La nuova disciplina della cooperativa, in V. UCKMAR-F. GRAZIANO (a cura di), op. cit., p. 11; A. ROSSI, Mutualità e ristorni nella nuova disciplina delle cooperative, in Riv. dir. civ., 2004, II, p. 765; CASALE, Scambio e mutualità nella società cooperativa, Milano, 2005. 18 ROCCHI, Artt. 2512-2514 e 2545 octies, cit., pp. 42-43; PEPE, La fiscalità delle cooperative. Rassegna, cit., p. 176 ss.

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rettamente (mediante erogazione “a consuntivo” di ristorni) 19. Il che non senza fondamento a portato alcuni Autori a ritenere non più sovrapponibili “scopo mutualistico” e “vantaggio mutualistico”, a determinare un allontanamento dell’istituto cooperativo dalla sua originaria matrice ideologica, espressa nel noto passo della Relazione al c.c. del 1942 (n. 1025), ed anzi a ritenere fulcro del fenomeno altre forme di “vantaggio” che la cooperazione naturalmente garantirebbe, non necessariamente economiche, ma – lato sensu – “sociali” 20. Al di là di queste considerazioni generali, ciò su cui occorre focalizzare l’attenzione è che i criteri di “prevalenza” concretamente adottati dal legislatore implicano (nella prospettiva del tema qui trattato) una serie di conseguenze, tra le quali – appunto – una “singolare” inter-relazione tra gli assetti negoziali adottati dalla cooperativa negli scambi mutualistici e l’assunzione della qualifica di CMP. Come si tenterà di mostrare, la soglia di “prevalenza” richiesta dagli artt. 2512 e 19 Cfr. BELVISO, Le cooperative a mutualità prevalente, in Banca borsa, 2007, I, p. 1 ss., spec. p. 44, il quale esattamente rileva come il “vantaggio mutualistico”, nella logica dei criteri di CMP, non sia addirittura fiscalmente incentivato; nonché CAVANNA, Fusione e scissione della società cooperativa, Milano, 2010, p. 31. Sul punto, si veda altresì PEPE, op. ult. cit., p. 177, nonché infra, par. 7, sull’incidenza del metodo di contabilizzazione dei “ristorni” sui parametri di calcolo della soglia di “prevalenza”. 20 Chi scrive ritiene che la vera novità della riforma delle cooperative stia soprattutto nell’apprezzamento dei benefici “psicologici-sociali” che scaturirebbero dalla loro struttura e funzione. La valorizzazione, causale ed operativa, della “mutualità” (scambio soci-società) e la de-mitizzazione del “vantaggio mutualistico” (meramente eventuale) devono infatti leggersi alla luce della accentuazione degli strumenti di garanzia di partecipazione attiva dei soci alla vita della società; partecipazione oggetto di più ampia tutela sia “all’interno” dell’organizzazione sociale (ristrutturazione dei processi decisionali, ampliamento dei poteri sociali di informazione e controllo, maggior incidenza dei soci sulla gestione “mutualistica”: cfr. per riferimenti, PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto, cit., spec. p. 189 ss.), che “dall’esterno”, attraverso una nuova vigilanza amministrativa orientata anche – e soprattutto – a sanzionare quelle cooperative prive di una reale ed effettiva democrazia interna (art. 4 D.Lgs. n. 220/2002). Ed allora, il sistema sembra spingere verso un “modello” di cooperativa nel quale assumono rilevanza (non tanto i benefici economici: il “vantaggio mutualistico”, meramente eventuale e non rilevante ai fini della qualifica di CMP, ma) i benefici che si è inteso definite “di partecipazione”: le minori asimmetrie informative tra sociconsumatori ed impresa, la maggiore capacità di adeguamento dell’impresa alla realtà ed alle circostanze locali, la possibilità di ingresso dei soci-imprenditori in mercati altrimenti non accessibili, la maggior “solidità” del posto di lavoro anche in periodi di crisi occupazionale ed economica, la più equa distribuzione delle responsabilità sociali, la maggiore autonomia personale di cui i soci-lavoratori certamente godono, ecc. (su tali vantaggi, si veda ZAMAGNI, Su talune condizioni di persistenza dell’impresa cooperativa in un’economia di mercato, in Riv. coop., 1994, p. 27 ss., spec. pp. 37-46; BORZAGA-TORTIA, Dalla cooperazione mutualistica alla cooperazione per la produzione di beni di interesse collettivo, in E. MAZZOLI-S. ZAMAGNI (a cura di), Verso una nuova teoria economica della cooperazione, Bologna, 2005, spec. p. 261; per più ampie considerazioni al riguardo, sia consentito il rinvio a F. PEPE, op. ult. cit., spec. pp. 191-196). Nel senso di valorizzare ulteriormente l’effettiva partecipazione dei soci alla vita dell’impresa cooperativa anche nelle società di grandi dimensione, si veda da ultimo art. 17-bis, commi 5-8 D.L. n. 91/2014, conv. con mod. dalla L. n. 116/2014.

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2513 c.c. finisce per “oscillare” e dipendere dalla configurazione che, concretamente, la cooperativa imprime ai negozi di scambio con i soci, dunque a seconda: (a) della tipologia di cooperativa (consumo, produzione-lavoro, nonché cooperative settoriali: credito, assicurazione, agricole, ecc.); (b) della scelta in ordine al “se” ed al “come” attribuire il “vantaggio mutualistico” (scelta che innanzitutto incide sul corrispettivo praticato ai soci, con diretta influenza, quindi, sui valori contabili assunti a parametro di “prevalenza”); (c) nonché, ed infine, del metodo di contabilizzazione dei “ristorni”, atteso che – come si avrà modo di osservare 21 – la scelta di evidenziare tali somme in conto economico alla stregua di “costi deducibili” (rectius: rettifica di voci contabili), di fatto neutralizza l’impatto dei diversi assetti negoziali – adottati in ragione della scelta di erogazione immediata o successiva del “vantaggio mutualistico” – sulla soglia di “prevalenza” richiesta ex artt. 2512 e 2513 c.c. e, quindi, sullo statuto fiscale dell’impresa 22.

4. L’incidenza degli assetti negoziali sull’attività mutualistica delle cooperative: a) le cooperative di consumo in senso stretto Innanzitutto, partendo dalle “cooperative di consumo” (in senso stretto) 23, l’attribuzione immediata del vantaggio mutualistico è chiaramente frustrata dal parametro di cui all’art. 2513, comma 1, lett. a) c.c.: il minor prezzo di vendita 21

Cfr. infra, par. 7. Per un cenno a questi profili di inter-relazione tra assetti negoziali e soglia di “prevalenza”, si veda CAVANNA, op. ult. cit., p. 31. 23 Nell’ambito dell’espressione “cooperativa di consumo” (in senso lato) si è soliti distinguere – convenzionalmente – tra (generiche) “cooperative di consumo” (in senso stretto) ed altre cooperative che, pur seguendo la medesima logica operativa, appaiono contraddistinte per la peculiarità del loro oggetto e per la soggezione ad una disciplina legislativa “speciale” (cooperative di credito, di assicurazione, finanziarie, di abitazione, ecc.: sul punto, G. TATARANO, L’impresa cooperativa, cit., p. 115). In entrambi i casi, la finalità di questa tipologia di cooperativa viene comunemente individuata, sulla scia della celebre Relazione al cod. civ., n. 1025, nel fornire ai propri soci beni o servizi a condizioni migliori di quelle presenti sul mercato e, in particolare, nel garantire loro un risparmio sulla spesa per l’acquisto di detti beni e servizi (BUONOCORE, Diritto della cooperazione, cit., p. 31; MARASÀ, Le “società” senza scopo di lucro, cit., p. 271; BASSI, Le società cooperative, cit., p. 30; BONFANTE, Delle imprese cooperative, cit., p. 70; CECCHERINI, Le società cooperative, cit., p. 60). In realtà, come altrove si è tentato di evidenziare, sembrerebbe – oggi – più corretto riferire il “risparmio di spesa” non allo scopo (mutualistico) della cooperativa, quanto al vantaggio (mutualistico) che da essa possono trarre i partecipanti. Finalità dell’impresa ben potrebbe consistere, infatti, non tanto (o almeno non prevalentemente) in un “risparmio di spesa” per i soci, bensì – ad esempio – nella garanzia di qualità e/o di origine del prodotto, nella possibilità di acquisto (altrimenti difficoltoso), ecc… e, più in generale, in tutti quei benefici non economici, ma sociali “di partecipazione” intimamente connessi all’autogestione dell’impresa (si veda al riguardo, PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto, cit., p. 189 ss.). 22

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(risparmio di spesa immediato) abbatte infatti l’ammontare dei ricavi conseguiti dalle vendite effettuate nei confronti dei soci, rendendo così relativamente più difficile (a parità di valore dell’attività con terzi) raggiungere la soglia di “prevalenza” del 50% richiesta dalla normativa codicistica 24. In questa prospettiva, certamente la cooperativa sarà incentivata ad attribuire il vantaggio mutualistico attraverso l’erogazione a consuntivo di ristorni, piuttosto che ad adottare una politica di prezzi di favore per i soci e, quindi, a differenziare gli assetti negoziali tra questi ultimi e i terzi acquirenti. Il che – almeno in astratto – appare abbastanza discutibile, dipendendo il tasso di “mutualità” dalla semplice modalità di attribuzione del “vantaggio mutualistico” (immediata o successiva) e ciò – si osservi – a parità di numero di scambi mutualistici e, soprattutto, di entità del “vantaggio mutualistico” complessivamente erogato. Si può tuttavia ritenere che, in concreto e all’atto pratico, questo “effetto collaterale” del requisito di “prevalenza” incida meno di quanto sembri sulla scelta, da parte della cooperativa, in ordine al metodo di assegnazione del “vantaggio mutualistico”. Come noto, infatti, l’opzione per la distribuzione dei ristorni o per l’assegnazione immediata di quest’ultimo è legata soprattutto a esigenze di efficienza ed economicità nella gestione dell’impresa. Altrimenti detto, nel definire il “se” ed il “come” attribuire il “risparmio di spesa”, gli amministratori devono valutare – tentando di operarne una sintesi ragionevole – da un lato, l’interesse del socio al “vantaggio mutualistico” tout court (interesse che, si osservi, non sempre sussiste, come quando la cooperativa è utilizzata non per un “risparmio di spesa”, ma come via di accesso all’approvvigionamento di beni altrimenti difficilmente reperibili sul mercato, ovvero come strumento di garanzia di altri aspetti connessi al consumo: della provenienza, della genuinità, della qualità dei prodotti, ecc.); dall’altro, l’interesse della società ad una gestione efficiente, in vista della continuazione della vita d’impresa (dipendente da fattori sia interni che esterni, quali le condizioni economiche-patrimoniali della cooperativa, le condizioni di mercato in un dato momento storico e/o in una prospettiva di più ampio periodo, ecc.) 25. 24

BONFANTE, Art. 2513, in AA.VV., Il nuovo diritto societario, cit., p. 2393; ROCCHI, Artt. 2512-2514 e 2545 octies, cit., pp. 48-49. 25 In questa prospettiva, si è sempre negata l’esistenza di un diritto soggettivo al “ristorno”: da sempre giurisprudenza e dottrina hanno concordato nell’affermare la prevalenza dell’interesse della società a rendersi più efficiente (accantonando le somme conseguite nell’esercizio della propria attività) rispetto all’interesse del socio a conseguire il vantaggio mutualistico (interesse ritenuto tutelabile solo indirettamente: mediante il controllo sociale sull’azione degli amministratori, la tutela contrattuale per violazione del principio di buona fede, ovvero l’attivazione degli strumenti di vigilanza amministrativa). Sul punto, si veda, con riferimento alla disciplina antecedente la riforma Vietti, BASSI, Le società cooperative, cit., p. 32 ss.; ID., Delle imprese cooperative, cit., p. 77, 81 ss., nonché, in relazione all’attuale disciplina, si veda, innanzitutto, la Relazione governativa al D.Lgs. n. 6/2003, in Riv. soc., 2003, p. 34 ss.; nonché, in dottrina, BONFANTE, Art. 2545 sexies, in AA.VV., Il nuovo diritto societario, cit., p. 2628; SCHIRÒ, Lo scopo mutualistico, in

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In quest’ottica, il fattore fiscale (l’incentivo all’erogazione di ristorni nelle cooperative di consumo) probabilmente finisce per assumere un ruolo recessivo o quanto meno secondario, talché l’irrazionalità del criterio di prevalenza – e la sua “sensibilità” alla determinazione del corrispettivo nei negozi di scambio – potrebbe ritenersi “tollerabile”. Ma, su questo punto, sarebbe opportuna una indagine “aziendalistica” o – per così dire – “sociologica”, tesa verificare quanto nella prassi effettivamente ciò abbia rilevanza sulle scelte gestionali dell’impresa cooperativa.

5. (segue) b) le cooperative di credito Quanto evidenziato nel paragrafo precedente incontra tuttavia una “macroeccezione” emergente in relazione ad una peculiare tipologia di cooperativa di consumo, ossia alle cooperative di credito. Senza eccedere nella ricostruzione storica dell’istituto 26, può qui rammentarsi come questa forma di cooperazione trovi oggi la sua espressione in due differenti tipologie di cooperativa: le banche popolari (BP) e le banche di credito cooperativo (BCC), così come regolate dagli attuali artt. 28 ss. t.u.b. (D.Lgs. n. 385/1993). In esse, lo “scopo mutualistico” si realizza attraverso l’erogazione di credito ai soci o a tassi d’interesse più favorevoli rispetto a quelli praticati sul mercato (vantaggio mutualistico) o, semplicemente, rendendo l’accesso al credito più agevole, eventualmente con obbligo di motivare rigorosamente in ordine all’eventuale diniego di finanziamento 27. Se comune appare lo scopo, nettamente diversa è la sua capacità di imporsi giuridicamente sull’operatività della banca. Mentre delle BCC nessuno dubita della caratterizzazione in senso “mutualistico” (dovendo esse esercitare il credito “prevalentemente” con i soci ed essendo operativamente legate al territorio, c.d. “localismo”) 28, nel caso delle BP – stante una disciplina fortemente ambigua – ciò appare quanto mai dubbio; non a caso esse sono considerate in dottrina ora “mera forma” (e non sostanza) di cooperativa, ora società funzionalmente “neutre” o “polifunzionali” 29. G. MARASÀ (a cura di), op. cit., p. 54-55; TONELLI, Art. 2516, in M. SANDULLI-V. SANTORO (a cura di), op. cit., p. 49 ss.; CASALE, Scambio e mutualità, cit., p. 115; contra tuttavia A. ROSSI, Mutualità e ristorni, cit., spec. p. 770 ss. 26 Sull’evoluzione storica delle cooperative di credito, sia consentito il rinvio a PEPE, Le banche cooperative tra riforma societaria ed imposizione sui redditi, in Rass. trib., 2007, p. 383 ss.; ID., La fiscalità delle cooperative. Riparto, cit., p. 226 ss.; ID., La fiscalità delle cooperative. Rassegna, cit., p. 208 ss., ove per ampi riferimenti bibliografici. 27 PEPE, La fiscalità delle cooperative. Rassegna, cit., p. 209. 28 Cfr. artt. 34, comma 2 e 35, comma 1 t.u.b. 29 Per riferimenti, cfr. PEPE, op. ult. cit., pp. 209-210.

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A questa differenziazione funzionale tra BP e BCC ha sempre corrisposto una differenziazione sul piano normativo, fiscale ed extra-fiscale. Le BP sono sempre state escluse, infatti, sia dai provvedimenti di carattere generale rivolti alle cooperative 30, sia dalle discipline fiscali “agevolative”. Anche l’attuale rapporto tra riforma societaria e banche cooperative manifesta questa tendenza di fondo, rapporto regolato dal combinato operare di tre disposizioni: (i) l’art. 223 terdecies disp. att. trans. c.c., che estende alle BP e alle BCC l’art. 223 duodecies disp. att. trans. c.c., ossia subordina, anche per le banche cooperative, la fruizione delle “agevolazioni fiscali” al possesso dei requisiti di CMP; (ii) l’art. 28, comma 2-bis t.u.b., il quale assegna la qualifica di CMP alle sole BCC (non anche alle BP) che possiedano i requisiti di cui all’art. 2514 c.c. ed all’art. 35, comma 1 t.u.b.; (iii) l’art. 150-bis t.u.b., che esclude l’applicazione alle BP degli artt. 2512, 2513, 2514, 2545-octies c.c., ossia le disposizioni che attengono alle CMP 31. Da queste disposizioni emerge una disciplina fiscale della cooperazione di credito nettamente differenziata, tale che: le BP risultano sempre escluse dal comparto delle “agevolazioni fiscali” (non potendo mai acquisire la qualifica di CMP, necessaria anche per le banche cooperative ai fini della fruizione di trattamenti fiscali “di favore”); le BCC sono sempre fiscalmente “agevolate”, possedendo per definizione la qualifica di CMP (la “prevalenza” di cui all’art. 35, comma 1 t.u.b. è infatti necessaria, ancor prima che per l’acquisto della qualifica di CMP, per poter assumere la veste di BCC) 32. Ora, dato questo contesto, l’interrogativo circa l’incidenza sullo statuto fiscale delle banche cooperative degli assetti negoziali da esse adottati nell’erogazione del credito ai soci, da un lato, appare circoscritta alle sole BCC – ad esse solo essendo richiesta una “prevalente” attività nei confronti dei soci – dall’altro, mostra di dipendere dalla concreta morfologia del criterio di “prevalenza” sotteso all’art. 35, comma 1 t.u.b. Ebbene, diversamente dalle comuni cooperative di consumo, lo statuto fiscale delle BCC appare “insensibile” alla tipologia di negozi giuridici adottati dalle banche nell’esercizio dell’attività mutualistica, nonché dalla scelta in ordine al “se” ed al “come” erogare l’eventuale “vantaggio mutualistico”. Ed infatti, se prendiamo il considerazione le Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia (circolare Banca d’Italia, n. 229 del 21 aprile 1999, aggiornamento del 10 aprile 2007), la “prevalenza” in oggetto si ritiene sussistente se più del 50% delle attività di rischio (prestiti, finanziamenti, azioni, obbligazioni, ecc.) è destinato ai soci o ad attività 30 Cfr. art. 1 D.Lgs. n. 509/1948, che escludeva alle BP l’applicazione delle norme della “legge Basevi”; art. 21, comma 8 l. n. 59/1992, che esclude le BP dal perimetro applicativo della legge n. 59 stessa. 31 Per riferimenti, cfr. PEPE, op. ult. cit., pp. 209-210. 32 PEPE, op. ult. cit., pp. 210-212.

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a ponderazione zero, ossia “non rischiose” 33. Questo significa che a rilevare ai fini della “prevalenza” è solo l’entità del prestito, non anche degli interessi passivi richiesti ai soci a titolo di corrispettivo, la cui determinazione (ad esempio, in misura inferiore ai tassi di mercato, onde garantire ai soci un “risparmio di spesa” immediato) appare dunque ininfluente. Gli assetti negoziali, anche se diversamente modulati in base alla scelta in ordine alla attribuzione (immediata o meno) del “vantaggio mutualistico”, non appaiono incidere – se non per la determinazione della somma data a mutuo – sulla “prevalenza” e, dunque, sullo statuto fiscale (nonché sulla stessa qualifica tipologica) di BCC.

6. (segue) c) le cooperative di produzione e lavoro Nelle cooperative di produzione e lavoro, invece, accade esattamente l’opposto rispetto alle cooperative di consumo 34: l’immediata sovra-remunerazione dell’attività lavorativa o produttiva dei soci è incoraggiata dal parametro di cui alle lettere b) e c) dell’art. 2513 c.c., incrementando l’entità complessiva – rispettivamente – del costo del lavoro dei soci e del costo della produzione per servizi ricevuti dai soci e per beni conferiti dai soci rispetto a quella dei terzi. Il che presenta sia dei pregi che dei difetti. Quanto ai pregi, la disciplina – oltre ad incidere positivamente sulla determinazione contrattuale dei compensi a soci (che verranno immediatamente, e con certezza, sovra-remunerati) – non sembra sottostare ai limiti quantitativi di erogazione indiretta, sub specie del “ristorno”, del “vantaggio mutualistico” previsti dall’art. 3, comma 2, lett. b) L. n. 142/2001 e, fiscalmente, al tetto di deducibilità dal reddito imponibile della cooperativa fissato, forfetariamente, dall’art. 11, comma 1 D.P.R. n. 601/1973 nella misura dell’ammontare delle spese per retribuzioni incrementate del 20% (o, ma ciò è discusso, del 30%) 35. In tale ottica, 33

PEPE, op. ult. cit., p. 211, nota 224. Questa considerazione pare da ultimo rafforzata dall’art. 17-bis, comma 3 D.L. n. 91/2014, conv. con mod. dalla L. n. 116/2014, che espressamente qualifica le BCC eccezionalmente autorizzate dalla Banca d’Italia ad esercitare il credito prevalentemente nei confronti di terzi-non soci ai sensi dell’art. 35, comma 1, secondo periodo t.u.b., come CMNP. 34 Sulla cooperazione di lavoro, si veda BUONOCORE, Società cooperative. II) Cooperative speciali, in Enc. giur. Treccani, XXIX, Roma, 1993, pp. 2-5; ID., Diritto della cooperazione, cit., 31; MARIANI, Cooperative di lavoro, in Enc. dir., Agg. I, Milano, 1997, p. 453; D’AMARO, Le diverse categorie di cooperative, cit., p. 27 ss., MARASÀ, Le “società” senza scopo di lucro, cit., p. 271; BASSI, Le società cooperative, cit., p. 30; BONFANTE, Delle imprese cooperative, cit., p. 70; CECCHERINI, Le società cooperative, cit., pp. 60, 64-66). Sulle cooperative di produzione, si veda altresì JOSSA, Le cooperative di produzione secondo la teoria economica, in Riv. coop., 2004, n. 2, p. 93. 35 Va per inciso osservato come l’amministrazione finanziaria abbia offerto una lettura articolata – e non del tutto chiara – dei vincoli sopra indicati. Se, da un lato, ha affermato che, per effet-

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certamente la posizione ed il bisogno del socio appaiono valorizzati. Emergono però, per converso ed inevitabilmente, anche dei “difetti”. L’immediata sovra-remunerazione del socio espone infatti l’organizzazione sociale ad un maggior rischio di “sbilancio” finanziario; la sostenibilità del “vantaggio mutualistico” immediato (che si risolve in un debito della società verso il socio) dipende infatti dalla redditività “a consuntivo” dell’impresa, dalla sua capacità di generare introiti sufficienti a coprire i maggiori costi per le prestazioni di lavoro ricevute dai soci; circostanza questa chiaramente aleatoria, dipendendo dalle concrete condizioni – in un dato momento storico – del mercato presso cui opera l’impresa e dalla capacità di attrarre clienti. Aumenta quindi il rischio d’impresa, attesa la minor probabilità che – a parità di tutto il resto – vi sia un volume di affari con i to dell’estensione (ad opera dell’art. 6 L. n. 388/2002) del regime di deducibilità di cui all’art. 12 D.P.R. n. 601/1973 anche al “maggior compenso per i conferimenti effettuati” dai soci, i ristorni erogati sotto forma di integrazione delle retribuzioni delle cooperative di lavoro sarebbero deducibili nei limiti del loro ammontare incrementato del 30% (sulla falsariga del limite alla erogazione dei ristorni fissato dall’art. 3, comma 2, lett. b) L. n. 142/2001) e non del solo 20% (in tal senso, si veda la circ. n. 53/E del 18 giugno 2002; nonché MENTI, L’imposizione degli utili da partecipazione societaria, cit., p. 208); dall’altro, ha sottoposto l’entità dei ristorni deducibili ad un ulteriore limite, ossia all’avanzo della gestione “mutualistica”, quale quota di profitto ascrivibile all’attività lavorativa dei soci, identificata attraverso un meccanismo di pro-rata (cfr. circ. n. 53/E del 18 giugno 2002; ris. n. 212/E del 2 luglio 2002; circ. n. 37/E del 9 luglio 2003; circ. n. 35/E del 9 aprile 2008). Invero, seppur sia auspicabile un coordinamento legislativo tra i due limiti sopraindicati, appare discutibile – de iure condito – sia l’applicazione del solo limite del 30% (cfr. BONFANTE, La nuova società cooperativa, cit., p. 38, nota 23, il quale, dinanzi al conflitto tra art. 11, comma 3 D.P.R. n. 601/1973 ed art. 3, comma 2 cit., esprime dubbi sulla rilevanza del solo tetto del 30%, osservando il differente impatto delle due disposizioni sul piano contributivo: “mentre il 20% è soggetto a trattamento contributivo, il 30% è esente il che è valso a far ritenere ammissibile l’ipotesi di cumulo [ed autonomia, n.d.a.] fra le due percentuali”), sia, e soprattutto, l’ulteriore tetto massimo della quota “mutualistica” dell’avanzo di gestione. Il limite forfetario del 20% (o 30%) ha senso proprio a causa dell’estrema difficoltà di determinare con esattezza la quota di profitto (rectius: di proventi) specificamente ascrivibile all’attività lavorativa dei soci. Di essi ne è evidente sia la ratio antielusiva (evitare che la cooperativa distribuisca utili “mascherati” sotto forma di ristorni) che la logica squisitamente presuntiva (la corresponsione di ristorni troppo elevati è considerata indice di un uso “lucrativo” della cooperativa: cfr., in tal senso, FILIPPI, Requisiti mutualistici e regime tributario, in G. SCHIANO DI PEPE-F. GRAZIANO (a cura di), op. cit., p. 185; FANTOZZI, Riflessioni critiche sul regime fiscale delle cooperative, in Riv. dir. trib., 1999, I, p. 428; SALVINI, I ristorni nelle società cooperative: note sulla natura civilistica e sul regime fiscale, in Rass. trib., 2002, pp. 1922-1923; URICCHIO, Riflessi tributari della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperative, in Boll. trib., 2002, p. 1447). Ove tale determinazione fosse possibile, non avrebbe senso porre un limite alla deduzione fiscale dei ristorni da essa attinti, trattandosi in tutto e per tutto di “costi” sostenuti per la produzione del reddito della società (rectius: dei ristorni erogati) e certamente non di impiego e di distribuzione di quest’ultimo (BONFANTE, op. ult. cit., p. 41). Tutto ciò inoltre conferma la natura “ibrida” dei ristorni erogati ai soci-lavoratori. Se ne fosse certa infatti la natura di “costo”, allora simili vincoli (almeno sul piano fiscale) non avrebbero alcun senso, dovendosene garantire la incondizionata deducibilità per la cooperativa. Sul punto, si veda PEPE, La fiscalità delle cooperative. Rassegna, cit., p. 221.

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clienti (terzi) idoneo alla integrale copertura dei più elevati (in quanto già comprensivi del vantaggio mutualistico) costi. Anche qui, tuttavia, sarebbe opportuna una indagine “aziendalistica”, sulle effettive scelte emergenti nella prassi dei cooperatori, onde verificare se ed in che misura il fattore fiscale effettivamente abbia incidenza su di esse.

7. Il problema della evidenziazione contabile dei “ristorni” e l’incidenza sul rapporto tra assetti negoziali e soglia di “prevalenza” Come noto, intorno al tema dei “ristorni” in passato – e, in qualche misura, anche oggi – sono emersi due ordini di problemi: (i) il problema della loro identificazione concettuale, ossia la questione circa la loro origine (se possano essere attinti da somme tratte esclusivamente dall’attività mutualistica con i soci, ovvero anche dall’attività con terzi) 36; (ii) il problema della loro evidenziazione contabile, 36

Nel senso della necessaria origine sociale del ristorno, si veda, da ultimo, CUSA, Diritto e prassi nei bilanci delle cooperative, in Riv. dir. comm., 2009, I, p. 109; analogamente la prassi dell’amministrazione finanziaria, laddove ritiene sia ristornabile solo la quota di avanzo di gestione riferibile all’attività con i soci. A fronte, tuttavia, delle difficoltà di determinare oggettivamente tale quota (che implicherebbe infatti una esatta correlazione tra proventi acquisiti dai soci e costi sostenuti in relazione ad essi, nelle cooperative di consumo, da un lato, e tra costi sostenuti per i servizi e i beni prestati dai soci e i proventi acquisiti sul mercato in relazione al loro specifico apporto, dall’altro: sulla impossibilità tecnica di determinare la quota di gestione mutualistica, si veda MENTI, L’imposizione degli utili da partecipazione societaria, cit., p. 196 ss.; PEPE, Il problema della “giusta” mutualità cooperativa, cit., p. 435 ss., spec. nota 80), l’amministrazione ritiene di affidarsi ad un – abbastanza semplice – criterio pro-rata di quantificazione (in tal senso, si veda circ. Ag. entr. n. 37/E del 9 luglio 2003; circ. Ag. entr. n. 35/E del 9 aprile 2008, per un commento alle quali, cfr. SETTI–BRESCIANI, I ristorni ai soci delle società cooperative nel recente orientamento dell’Agenzia delle Entrate, in Il fisco, 2003, p. 5499; POLETTO–COLOMBO, Circolare n. 35/E del 9 aprile 2008: i ristorni assegnati ai soci di società cooperative, in Il fisco, 2008, p. 2960). Per osservazioni critiche in merito a tale approccio dell’amministrazione finanziaria, sia consentito rinviare, da ultimo, a F. PEPE, op. ult. cit., p. 436, laddove si evidenzia come – nella prospettiva strettamente fiscale e dell’imposizione reddituale – l’origine del ristorno sia del tutto irrilevante: ciò che interessa al legislatore tributario è, da un lato, infatti evitare la corresponsione ai soci di somme non eccedenti quanto da loro in precedenza versato per l’acquisto dei beni o dei servizi dalla cooperativa di consumo (così, permanendo la natura restitutoria della somme e giustificandosi il regime di deducibilità in capo alla società ex art. 12 D.P.R. n. 601/1973: sulla natura “restitutoria”, dunque non reddituale, delle somme in questione, si veda per ampie considerazioni PEPE, La fiscalità delle cooperative. Riparto, cit., p. 220 ss.; nonché già CASTALDI, Utili e ristorni: disciplina fiscale, in M. SANDULLI-V. SANTORO (a cura di), op. cit., pp. 21-22); dall’altro, di non superare il tetto del 20% delle erogazioni ex post di somme ad integrazione dei salari o compensi ai soci delle cooperative di lavoro e produzione di cui all’art. 11 D.P.R. n. 601/1973; tetto forfetario, determinato per esigenze di certezza e semplicità, alla luce della natura “ibrida” delle somme così corrisposte (ossia della loro impossibilità, sul piano concettuale, di darne collocazione tra “costi per prestazioni di lavoro” o “dividendi”).

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ossia se indicarli in bilancio come quote dell’avanzo di gestione ovvero come “costi deducibili” (o meglio: rettifica, a posteriori, di voci contabili) 37. Tralasciando la prima questione – rispetto alla quale il dato normativo vigente, risultante dalla riforma societaria, sembra identificare il “ristorno” esclusivamente in virtù del criterio di ripartizione (proporzionalità agli scambi mutualistici) e non anche in ragione dell’origine sociale (art. 2545 sexies c.c.) 38 – la seconda mostra di avere qualche riflesso sulle inter-relazioni tra assetti negoziali adottati dalle cooperative e loro statuto fiscale (inter-relazioni scaturenti, si è visto, dal reNel senso invece che il ristorno non debba avere necessariamente origine sociale, BONFANTE, La nuova società cooperativa, cit., pp. 40-41, 341-342; M.C. TATARANO, La nuova impresa cooperativa, cit., pp. 532-533; CASALE, Scambio e mutualità, cit., p. 115; BASSI, Le cooperative tra dimensioni dell’impresa e guadagni dei soci: il problema dei ristorni nel pensiero degli economisti moderni, in Riv. dir. impr., 2002, spec. p. 528; PEPE, Il problema della “giusta” mutualità cooperativa, cit., p. 430 ss. 37 Nel senso di trattare i ristorni alla stregua di “costi deducibili”, si veda CNDC, Raccomandazione in tema di ristorni per le società cooperative (Giugno 2003); PUPO, Art. 2545 sexies, in A. Maffei Alberti (a cura di), op. cit., p. 2838 ss.; circ. Min. att. prod., 13 gennaio 2006. Ovviamente, la contabilizzazione dei ristorni come “costi deducibili” va intesa non in senso stretto. Anche chi opta per tale modalità di evidenziazione dei ristorni sa che essi possono (debbono) essere attinti da un avanzo di gestione distribuibile. Una volta verificata la sussistenza di tale avanzo e deliberata la quota da distribuire ai soci a titolo di “ristorno” (in aderenza a quanto disposto dall’art. 2545 sexies c.c. e dai regolamenti approvati dall’assemblea), tale quota implicherà una rettifica della voce “ricavi dai soci” nelle cooperative di consumo e della voce “costi per conferimenti o prestazioni di lavoro dei soci” nelle cooperative di produzione e lavoro. Nel senso di giustificare la deducibilità dei ristorni dal reddito della cooperativa in ragione della loro natura di “costo”, cfr. SALVINI, I ristorni nelle società cooperative, cit., p. 1924; FANTOZZI, Riflessioni critiche, cit., p. 432; PISTOLESI, Le agevolazioni fiscali per le cooperative, in Tributimpresa, n. 3/2004, p. 71; nonché la circ. Ag. entr. n. 1/E del 3 gennaio 2001. Nel senso di trattare i ristorni come una “quota dell’avanzo di gestione”, senza con ciò incidere in alcun modo sulle voci di conto economico, si veda BONFANTE, op. ult. cit., p. 341; nonché CUSA, op. ult. cit., p. 108, il quale tuttavia ammette, in presenza di clausola parziaria, la possibilità di considerare il ristorno anche quale “costo” per la società. In effetti, tale opinione, è solo apparentemente contraddittoria, in quanto parte da una più corretta re-impostazione del problema della qualificazione civilistica e contabile dei ristorni: non stabilire sei sia “costo” o “utile”, ma se “costituisce o meno una parte dell’utile di esercizio risultante da un bilancio regolarmente approvato” (cosi, CUSA, op. ult. cit., p. 111, nota 45); MENTI, L’imposizione degli utili da partecipazione societaria, cit., p. 219; in una posizione “intermedia” sembra porsi STEVANATO, «Abuso» delle forme giuridiche ed elusione tributaria nelle società cooperative, in Dir. prat. trib., 2011, I, pp. 768-769, laddove, dal punto di vista della società cooperativa erogante, considera i ristorni come una “quota dell’avanzo di gestione” destinata tuttavia a “tramutarsi” in “costi deducibili” (analogamente a quanto avviene per i compensi degli amministratori, dei lavoratori dipendenti e degli associati in partecipazione). Nel senso della non incidenza del metodo contabile sulla imponibilità dei ristorni (ma non sulla quantificazione della soglia di “gestione mutualistica” ex artt. 2512 e 2513 c.c.), sia consentito il rinvio a PEPE, Il problema della “giusta” mutualità cooperativa, cit., p. 436 ss.; nonché INGROSSO, Le cooperative e le nuove agevolazioni fiscali, cit., p. 259 ss., per il quale in generale sarebbe indifferente l’adozione dell’uno o dell’altro metodo di contabilizzazione. 38 PEPE, op. ult. cit., 433.

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quisito di mutualità “prevalente” richiesto per l’assunzione della qualifica di CMP). Nelle cooperative di consumo, contabilizzare i “ristorni” nel senso di rettificare ex post la voce “ricavi” dai soci (dunque evidenziare “a consuntivo” dei minori ricavi) inevitabilmente impatta in termini negativi sul tasso di mutualità così come determinato dagli artt. 2512 e 2513 c.c. 39, sotto questo profilo “parificando” l’attribuzione immediata e successiva del “vantaggio mutualistico” (neutralizzando cioè qualunque rilievo degli assetti negoziali, sotto il profilo del corrispettivo praticato ai soci, sullo statuto fiscale della cooperativa). Detto altrimenti, la scelta in sede negoziale in ordine all’entità del corrispettivo di vendita da applicare ai soci (se immediatamente inferiore ovvero se pari a quello praticato a terzi, con la successiva erogazione di ristorni) e, dunque, della modalità di attribuzione del “vantaggio mutualistico”, si rivela, ai fini del calcolo della “mutualità prevalente” di cui agli artt. 2512 e 2513 c.c., del tutto ininfluente. Cosa che invece non avviene se si considerano, ai fini contabili, i “ristorni” solo come una quota dell’avanzo di gestione, senza incidenza sulla voce “ricavi” e, dunque, sul parametro di “prevalenza” 40. Analogamente, ma in termini speculari, nelle cooperative di produzione e lavoro, contabilizzare il ristorno come “costo deducibile” determinerebbe una accentuazione del “tasso di mutualità” richiesto ai fini della qualifica di CMP: la sovraremunerazione ex post del lavoro o dei beni conferiti dai soci non potrebbe infatti che cumularsi contabilmente con le corrispondenti voci di bilancio (spese per prestazioni di lavoro e costi per materie prime) 41, anche qui neutralizzando – ai fini della “prevalenza” e quindi dello statuto fiscale della cooperativa – la scelta circa l’attribuzione immediata (sovra-remunerazione) o successiva (ristorno) del “vantaggio mutualistico”. Viceversa, limitarsi a trattare il ristorno – ed a contabilizzarlo – come quota dell’avanzo di gestione, senza incidenza sulle voci di conto economico, lascerebbe permanere le divergenze derivanti dalla scelta in sede negoziale tra sovra-remunerazione immediata e “ristorni” (in termini di diverso impatto sulla soglia di “prevalenza” e di statuto fiscale della cooperativa). Il problema del metodo di contabilizzazione dei “ristorni” richiederebbe, ovviamente, approfondite riflessioni non tanto da parte di un tributarista, quanto da parte di uno studioso di diritto commerciale e contabile. Sia consentito tuttavia formulare alcune osservazioni (o, forse, suggerimenti) di stampo essenzialmente metodologico. Come in altra sede osservato 42, ciò che – a sommesso avviso di chi scrive – occorre tenere bene a mente è la diversa funzione svolta, in genere ed anche nell’ambito del diritto delle cooperative, dalla disciplina civilistica, contabile e fiscale 39

INGROSSO, op. ult. cit., 260. INGROSSO, op. ult. cit., 260. 41 INGROSSO, op. ult. cit., 261. 42 PEPE, Il problema della “giusta” mutualità cooperativa, cit., p. 430 ss. 40

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dell’impresa. Occorre cioè partire pur sempre dalla considerazione che compito del legislatore civilistico è definire i contorni e la disciplina operativa del “ristorno” (cosa è ristorno ed a che condizioni e secondo quale procedura attribuirlo ai soci); compito della disciplina contabile è fornire una “rappresentazione veritiera e corretta” della situazione economica e patrimoniale dell’impresa, comprensiva anche della gestione mutualistica; compito del legislatore tributario è, invece, valutarne la specifica potenzialità economica (capacità contributiva) e stabilire se ed in che termini attribuirvi rilievo fiscale, anche in considerazione di altre esigenze (certezza, cautela fiscale, incentivazione, ecc…). Benché tutte queste discipline concorrano a delineare, secondo una logica “di sistema”, l’identità funzionale delle cooperative, ciascuna opera pur sempre secondo il suo specifico ruolo 43. Dinanzi alla domanda “quale metodo di contabilizzazione del ristorno adottare?” (e di fronte alle due alternative “quota di avanzo di gestione”/“rettifica voci contabili”) ad orientare la risposta dovrebbero essere solo i principi e le esigenze del diritto contabile, senza commistioni con principi ed esigenze di matrice civilistica e/o tributaria. Ci si deve cioè domandare quale dei due metodi appaia, in concreto, il più idoneo a fornire – tenendo conto anche della “nota integrativa” e della “relazione sulla gestione” degli amministratori 44 – quella “rappresentazione veritiera e corretta del risultato economico d’esercizio e della situazione patrimoniale e finanziaria” dell’impresa cooperativa, fine ultimo e, come autorevolmente evidenziato 45, “principio dei principi” (Führer Prinzip) nella redazione del bilancio 46.

8. Brevi considerazioni conclusive Volendo tirare le fila del discorso, si è qui voluto evidenziare come alcuni aspetti del diritto delle cooperative siano suscettibili di rendere lo “statuto fiscale” di tali società variabile, pur in presenza di situazioni identiche sul piano “economico”. 43

PEPE, op. ult. cit., p. 432. Documenti che, nel caso dell’impresa cooperativa, assumono un ruolo centrale, soprattutto in quanto sede formale ove mettere in evidenza l’impatto della gestione “mutualistica” dell’impresa (quest’ultima espressa, in particolare, dalla “relazione annuale sul carattere mutualistico dell’ente”, prescritta dall’art. 2545 c.c.). Sul tema, da ultimo, INGROSSO, op. ult. cit., p. 270 ss. 45 In tal senso, si veda, ex multis nonché anche per ampi riferimenti, BOCCHINI, Diritto della contabilità delle imprese 2. Il bilancio di esercizio, Torino, 2010, spec. pp. 89-92. 46 Su come la tesi della contabilizzazione del “ristorno” quale “costo deducibile”, sostenuta soprattutto nel contesto normativo previgente la riforma societaria, derivi da una erronea commistione tra esigenze civilistiche, contabili e fiscali causate dall’originario “agnosticismo” codicistico sul tema “ristorni”, nonché su come ciò abbia determinato una sorta di “dipendenza rovesciata” della disciplina civilistica e contabile dalla (pur scarna) disciplina fiscale (nella specie, gli artt. 11 e 12 D.P.R. n. 601/1973), sia consentito il rinvio, anche per riferimenti, a F. PEPE, op. ult. cit., 430 ss., ove si evidenzia altresì come il regime tributario dei “ristorni”, sia nelle cooperative di consumo che in quelle di produzione e lavoro, risponda a logiche tutte interne al diritto tributario. 44

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In particolare, la scelta di erogare il “vantaggio mutualistico” direttamente (agendo sul corrispettivo negoziale), piuttosto che indirettamente (erogando a consuntivo “ristorni”) può – a seconda del tipo di cooperativa – facilitare (cooperative di consumo) 47 o frustrare (cooperative di produzione e lavoro) 48 il raggiungimento della soglia di “prevalenza” necessaria per acquisirla qualifica di CMP. Altrimenti detto, un’opzione “gestionale” – espressa attraverso uno specifico assetto dei negozi attuativi dello “scambio mutualistico” (in specie, la misura del corrispettivo) – a parità di risultato per società e soci, può avere, a seconda delle circostanze concrete, un impatto determinante sulla soglia di “prevalenza” di cui agli artt. 2512 e 2513 c.c. e, dunque, sulla possibilità per la cooperativa di fruire delle “agevolazioni fiscali” ad esse riservate 49. Ad incidere su tale aspetto vi è poi anche un altro fattore, ossia la modalità di contabilizzazione dei “ristorni”, che – se incentrata sulla diretta imputazione a conto economico di tali elementi (quali rettifiche ex post dei “ricavi” per le cooperative di consumo e dei “costi” per quelle di produzione e lavoro), piuttosto che di un loro apprezzamento come “quota di avanzo di gestione” – potrebbe infatti neutralizzare il differente impatto fiscale delle modalità di erogazione del “vantaggio mutualistico” e degli assetti negoziali ad esse connessi. Ma anche qui la situazione appare quanto mai incerta. Benché, anche ad avviso dell’amministrazione finanziaria, le due opzioni contabili possano ritenersi fungibili, nella scelta dovrebbe in realtà prescindersi del tutto da considerazioni di carattere tributario (inerenti l’impatto sulla soglia di “prevalenza”) e verificare esclusivamente quale di esse riesca meglio a rappresentare, in concreto, la situazione economica dell’impresa in modo “veritiero e corretto”. Va dato atto, comunque, di come probabilmente questi “effetti collaterali” della disciplina delle cooperative possano non avere particolare incidenza sulla vita concreta di tali società, atteso il significativo ridimensionamento della legislazione fiscale “di favore” loro rivolta 50. Tuttavia, se una considerazione può essere fatta, è che essi (o meglio: l’incertezza che generano) siano elementi ulteriori a sostegno di un ritorno verso “indici di mutualità” di tipo dimensionale, forse più approssimativi e “rozzi”, ma certamente meno problematici e più “gestibili” sia da parte della società che sul fronte dei controlli amministrativi. Soluzione – questa – più o meno velatamente auspicata anche dalle istituzioni europee 51. 47

Cfr. retro, par. 4. Cfr. retro, par. 6. 49 Cfr. retro, par. 3. 50 Per una sintesi della quale, si veda, da ultimo, INGROSSO, op. ult. cit., p. 141 ss. 51 Sul punto, sia consentito il rinvio a PEPE, Il problema della “giusta” mutualità cooperativa, cit., p. 437 ss. Cfr., da ultimo, l’art. 17-bis, comma 1 D.L. n. 91/2014, conv. con mod. dalla L. n. 116/2014. 48

ASPETTI FISCALI DEGLI ENTI NON COMMERCIALI: BREVI CONSIDERAZIONI IN TEMA DI ECONOMICITÀ E ONEROSITÀ

di Cesare Simone SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’evoluzione e le attuali problematiche del settore non profit. – 3. L’economicità come modello di gestione dell’attività. – 4. Il concetto di onerosità sul piano civilistico e fiscale. – 5. L’onerosità non è indice di economicità delle attività esercitate dalle strutture associative.

1. Premessa La crescente attenzione verso gli enti non profit deriva dal sensibile intervento nel welfare italiano di soggetti che sono espressione della società civile e si collocano al di fuori della logica statalista 1. Le basi giuridiche dell’attuale sistema nazionale dei servizi sociali fruibili da tutti i consociati si collocano tra il XIX e XX secolo, periodo storico che segna il processo di trasformazione dallo Stato di diritto – caratterizzato dal principio della certezza del diritto – verso il modello dello Stato sociale diretto a realizzare una giustizia di tipo sostanziale 2. Con l’entrata in vigore della Costituzione e, in particolare, con l’introduzione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, comma 2, si tende a realizzare un intervento pubblico ai fini sociali. Inoltre, l’art. 2 della Cost. riconosce, da un lato, i diritti inviolabili della persona, dall’altro richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. 1

ANTONINI PIN, Gli aspetti costituzionali, amministrativi GNI (a cura di), Libro bianco sul terzo settore, Bologna, 2011. 2

e tributari del terzo settore, in ZAMA-

In particolare, sul rapporto tra funzione fiscale e diritti sociali nello Stato di diritto e l’esame della trasformazione del valore di “garanzia” delle carte costituzionali FRANSONI, Stato di diritto; diritti sociali, libertà economica e principio di capacità contributiva (anche alla luce del vincolo del pareggio di bilancio), in Riv. dir. trib., 2013, I, p. 1049 ss.

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Il principio di eguaglianza sostanziale promuove l’intervento pubblico anche nella sfera economica, in segno di discontinuità rispetto al modello dello Stato liberale classico; infatti, lo Stato di diritto restringeva il proprio intervento in tutti i settori, negando, soprattutto, un ruolo statale anche nel sistema economico. Il processo storico esaminato evidenzia che le scelte politiche e giuridiche realizzano un rapporto di stretta dipendenza con le forme di intervento pubblico in campo economico. Le vigenti norme costituzionali sull’economia sono state definite “norme in bianco”, in quanto si prestano ad interpretazioni differenziate a seconda delle condizioni sociali e politiche del momento. La necessità – ai sensi dell’art. 53 Cost. – di concorrere alle pubbliche spese in favore dello Stato – inteso come collettività – prescrive il dovere dei consociati di contribuire in ragione della propria capacità contributiva ai carichi pubblici; pertanto, il dovere tributario dei consociati rientra fra quelli previsti dell’art. 2 Cost. ed è espressione del dovere di solidarietà. L’attuale crisi del welfare state determina un alleggerimento dell’intervento pubblico nell’erogazione di servizi essenziali in favore della collettività, sostenendo attraverso diversi strumenti – tra cui quello fiscale – soggetti intermedi 3 chiamati ad erogare servizi diretti a soddisfare interessi di carattere generale.

2. L’evoluzione e le attuali problematiche del settore non profit La progressiva evoluzione del ruolo degli enti associativi nella società – attraverso l’impegno e la partecipazione sempre più incisiva di questi soggetti in settori caratterizzati dalla realizzazione di interessi generali – è stata avvertita, nonché promossa 4 dal legislatore con interventi “agevolativi” 5 in materia tributaria. 3 FICARI, Strumentalità dell’attività commerciale e fine non lucrativo, in FEDELE (a cura di), Il regime fiscale delle associazioni, Padova, 1998, p. 2 ss., richiama il ruolo delle associazioni che si inseriscono nella tradizionale bipartizione tra strutture statali e imprese lucrative: «le associazioni, quindi, quali enti che possono esercitare un’attività commerciale in via principale o non principale e che possono assumere forma soggettivamente lucrativa, si collocano sul mercato svolgendo un ruolo intermedio fra gli enti privati lucrativi ed il soggetto pubblico nell’offerta qualificata di beni e servizi della collettività». In questo senso CASSESE, Le persone giuridiche e lo Stato, in Contr. impr., 1993, p. 9, che riconosce: «la compatibilità dell’organizzazione non di profitto con attività di impresa, come attività strumentale al fine principale, purché la persona non miri a distribuire utili (lucro soggettivo): l’associazione può svolgere attività di natura economica e non avere fine economico (o di lucro, o di realizzare e distribuire un utile)». 4 BARILE, Associazione (diritto di), in Enc. dir., III, Milano, 1958, p. 873 ss.; GEMMA, Costituzione ed associazioni: dalla libertà alla promozione, Milano, 1993, p. 56 ss.; RIGANO, La libertà assistita. Associazionismo privato a sostegno del pubblico nel sistema costituzionale, Padova, 1995, p. 294 ss.; ID., Le sovvenzioni statali all’associazionismo, in Queste istituzioni, 1991, p. 137 ss. 5 Come osservato da GIOVANNINI, Enti del terzo settore: linee sistematiche di riforma, in Rass.

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La fiscalità del cosiddetto terzo settore – soprattutto a partire dagli anni ’90 – è stata più volte al centro di interventi legislativi finalizzati alla soluzione delle problematiche sollevate dal comparto; tuttavia, il legislatore non ha raccolto la necessità di intervenire, da un lato, sulla disciplina civilistica dell’ente non profit 6 e, dall’altro, di identificare tali enti come soggetti autonomi di diritto 7. La presente analisi non è finalizzata ad esaminare le linee di intervento che possono guidare il legislatore né, tanto meno, indicare possibili modifiche della vigente normativa, bensì è diretta ad una riflessione sulla nozione di economicità e onerosità rispetto al fenomeno dell’associazionismo. Come osservato dalla dottrina 8, il codice civile non definisce l’attività e lo scopo delle persone giuridiche del titolo II del primo libro, ciononostante si ricava in “negativo” 9 l’elemento di qualificazione di tali enti, che viene identificato nell’assenza del lucro soggettivo 10. L’associazione 11 consiste nell’unione stabile di più persone che si organizzano e collaborano per la realizzazione di uno scopo comune ai propri membri; inoltre, sotto il profilo civilistico lo scopo perseguito dall’ente non deve essere altruistico o rivolto al sociale, in quanto la disciplina dettata dagli artt. 11 – 42 c.c. non trib., 1, 2009, in nota 1): «non tutte le differenziazioni fiscali costituiscono agevolazioni in quanto la disciplina costituzionale, quella civilistica e quella fiscale talvolta radicano un sistema generale di settore, caratterizzato da regole peculiari ma pur sempre generali e quindi per l’appunto non derogatorie. E potrebbe essere il caso della disciplina fiscale degli enti del terzo settore». 6 In tal senso ANTONINI-PIN, Gli aspetti costituzionali, amministrativi e tributari del terzo settore, in ZAMAGNI (a cura di), Libro bianco sul terzo settore, Bologna, 2011 sottolineando che: «La normativa civilistica ferma sostanzialmente ai pochi articoli del Codice civile, insufficienti a regolare la vita di organizzazioni non profit che hanno assunto le forme tipiche del settore ormai maturo. La nuova disciplina codicistica dovrà affrontare i nodi fondamentali dello sviluppo del settore: 1) definizione di ente senza scopo di lucro: 2) il ruolo dello statuto nella normazione dell’ente; 3) la regola da applicare nel caso di esercizio di attività economica; 4) le garanzie e le tutele dei terzi». 7 Sull’esigenza di una riforma della disciplina tributaria degli enti del terzo settore GIOVANNINI, Enti del terzo settore: linee sistematiche di riforma, in Rass. trib., I, 2009, p. 137 ss. L’autore sostiene che: «tentativo convincente potrebbe essere quello di rivedere alcune categorie tradizionali, compresa quella relativa alla soggettività, per immaginare la possibilità di elaborare normativamente, per la prima volta, un’autonoma categoria di enti del terzo settore o enti non lucrativi, con ampliamento del ventaglio dei soggetti passivi dell’IRES e conseguente elaborazione di nuove regole di determinazione della base imponibile e di applicazione delle agevolazioni». 8 Così GALGANO, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1976, p. 61 ss.; DE GIORGI, Le persone giuridiche, in Tratt. Rescigno, II, 1, Torino, 1984, p. 221 ss.; BIANCA, Diritto civile, I, Milano, 1987, p. 333; PONZANELLI, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino, 1996, p. 5 ss. 9 In tal senso VITA DE GIORGI, ONLUS (Organizzazioni non lucrative di utilità sociale), in Digesto disc. priv., sez. civ. (aggiornamento), Torino, 588. 10 BIGLIAZZI GERI-BRECCIA-BUSNELLI-NATOLI, Diritto civile, vol. I, Torino, 1986, p. 190; CAMPOBASSO, Diritto Commerciale 2. Diritto delle società, Torino, 2004, p. 29. 11 RUBINO, Le associazioni non riconosciute, Milano, 1952, p. 33; FERRARA, Diritto delle Persone e di Famiglia, Napoli, 1941, p. 144; VITALE, in Riv. dir. comm., 1965, I, p. 392 ss.

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indica nessuna valutazione 12 sulla meritevolezza o utilità sociale delle attività perseguite dai propri membri. La “tendenza” 13 a ridimensionare il ruolo dello scopo emerge in materia tributaria rispetto a specifiche figure soggettive; tuttavia, è opportuno sottolineare che la qualificazione dell’ente rispetto alle diverse tipologie individuate dall’art. 73 del TUIR avviene – in primo luogo – attraverso la determinazione dell’oggetto principale, operazione che evidenzia un rapporto di strumentalità 14 dell’oggetto rispetto allo scopo; pertanto, ai fini fiscali lo scopo 15 è determinante in ordine all’individuazione dell’attività principale dell’ente. L’esigenza di identificare l’oggetto principale o esclusivo dell’ente rappresenta un passaggio necessario in ordine alla qualificazione (commerciale o non commerciale) dell’ente. Un elemento decisivo nella discussione del riconoscimento del carattere commerciale dell’attività è il criterio dell’economicità. Secondo la dottrina prevalente per qualificare commerciale l’attività svolta dall’ente non è sufficiente l’individuazione di quest’ultima fra le tipologie indicate dall’art. 55 TUIR, poiché si deve verificare – in tutte le ipotesi – che il modello di gestione dell’attività sia contraddistinto dal requisito dell’economicità. Il riferimento all’economicità non emerge direttamente dall’art. 55 del TUIR ma si evince dal richiamo espresso all’art. 2195 c.c. che “presuppone” 16 i requisiti di cui all’art. 2082 c.c. 12

Sul punto VITA DE GIORGI, ONLUS (Organizzazioni non lucrative di utilità sociale), in Digesto disc. priv., sez. civ. (aggiornamento), Torino, p. 588, osservando che: «conviene ricordare che la disciplina del codice non muta in relazione al grado di meritevolezza. Alla normativa civilistica è estranea ogni valutazione relativa all’utilità sociale dell’attività e degli obiettivi propostisi». 13 Così FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, p. 333. 14 FRANSONI, Il sistema dell’imposta sul reddito, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2004, p. 75. Sul punto l’autore osserva che: «il criterio fondamentale, al fine della distinzione fra gli enti soggetti ad IRES, è incentrato sull’oggetto (esclusivo o principale) dell’ente. (….) si deve ricordare che l’oggetto è costituito dalle attività che l’ente svolge al fine del raggiungimento degli scopi (intesi, questi ultimi, come i risultati o gli interessi perseguiti) assegnati programmaticamente all’ente medesimo. Fra oggetto e scopi si pone necessariamente, quindi, un rapporto di strumentalità, costituendo il primo il mezzo preordinato al raggiungimento dei secondi». 15 Sul punto, FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, 335 ss.: «Quali che siano le scelte in concreto effettuate dal legislatore in ordine alla rilevanza da attribuire agli “scopi” nella definizione delle diverse categorie di associazione soggette a particolari trattamenti agevolativi, l’interesse perseguito ed il risultato che l’organizzazione si propone di realizzare costituiscono un elemento necessario dell’organizzazione medesima, sempre rilevante, sia pure indirettamente, anche quando non espressamente richiamato. In relazione allo scopo (od agli scopi) dell’associazione deve esserne, in particolare, apprezzata l’attività, soprattutto al fine di individuare l’oggetto esclusivo o principale dell’ente». 16 In tal senso GALLO, La natura ai fini fiscali dell’ente che ha conferito ad una spa la propria azienda creditizia, in Riv. dir. trib., 1991, I, p. 541 che collega la nozione di economicità all’art. 55 TUIR in base alla seguente considerazione: «il rinvio recettizia all’art. 2195 (che presuppone

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3. L’economicità come modello di gestione dell’attività Il contenuto dell’espressione “modello di gestione economica” è tuttora dibattuto in ambito fiscale, poiché parte della dottrina 17 considera rilevante ai fini del riconoscimento di un esercizio economico dell’attività svolta dall’ente la remunerazione dei fattori produttivi impiegati; mentre, alcuni autori 18 riconoscono il carattere economico dell’attività in presenza di una gestione che sia in grado di realizzare una nuova ricchezza o utilità. La seconda impostazione è ancorata al precetto dell’art. 108 (attuale 143) TUIR che non considera attività commerciali le prestazioni di servizi diverse da quelle dell’art. 2195 c.c. se i corrispettivi ricevuti non superano i costi di diretta imputazione 19. La ricostruzione della tesi sopra indicata è criticata dalla dottrina poiché la disciplina dell’art. 108 (attuale 143) non rappresenta una norma di sistema 20, in considerazione della collocazione riservata all’interno dell’impianto l’art. 2082) non esclude, infatti, che l’attività debba avere l’ulteriore connotato dell’economicità»; FRANSONI, Il sistema dell’imposta sul reddito, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2004, p. 77. L’autore sottolinea la connessione tra le attività indicate dall’art. 2195 c.c. e il concetto di impresa commerciale osservando che: «nell’art. 55 TUIR le attività di cui all’art. 2195 sono richiamate in connessione alla (e nel contesto della) definizione di “impresa commerciale” (sia pure ai fini fiscali) ed è quindi ovvio che tale richiamo implichi anche un rinvio alla nozione di economicità di cui all’art. 2082 c.c., nozione che, inoltre, deve considerarsi sempre presupposta dalla definizione di impresa commerciale di cui all’art. 2195 c.c.». 17 Sul punto GALLO, La natura ai fini fiscali dell’ente che ha conferito ad una spa la propria azienda creditizia, in Riv. dir. trib., 1991, I, p. 347; FICARI, Attività commerciale non principale ed agevolazioni irpeg ad enti associativi con fine di lucro, in Riv. dir. trib., 1996, p. 137 ss.; ID., Strumentalità dell’attività commerciale e fine non lucrativo nella tassazione delle associazioni, in Rass. trib., 1997, p. 808; FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I; INTERDONATO, Il reddito complessivo degli enti non commerciali, in Giur. sit. Dir. trib., Imposta sul reddito delle persone giuridiche – Imposta locale sul reddito, a cura di Tesauro, Torino, 1996, p. 295. 18 Così PROTO, Brevi considerazioni sulla natura di attività commerciale, in Riv. dir. trib., 1992, I, 794 ss.; SACCHETTO, L’imposta sul reddito delle persone giuridiche, in AMATUCCI, Trattato di diritto tributario, Padova, 1996, p. 120; GRANELLI, Profili fiscali delle associazioni non riconosciute e delle società semplici, in Boll. trib., 1998, 85. 19 In particolare, PROTO, Brevi considerazioni sulla natura di attività commerciale, in Riv. dir. trib., 1992, I, p. 889, l’impostazione seguita dall’autore evidenzia che: «È chiaro quindi che la economicità nel sistema tributario è evidenziata solo dalla gestione in cui il corrispettivo eccede i costi di diretta imputazione, e cioè l’attività è gestita secondo criteri e modalità idonei a produrre un vantaggio economico. Il legislatore esclude quindi dall’ambito della commercialità non solo i servizi prestati senza corrispettivo, ma anche quelli il cu corrispettivo si limita a remunerare i fattori produttivi, richiedendo invece una per la commercialità che l’autosufficienza della gestione sia positivamente stimata (e non soltanto “non esclusa”)». 20 CASTALDI, Enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999. In particolare, l’autore sostiene la non corretta impostazione di riconoscere all’art. 108 il ruolo di norma di sistema sulla base delle seguenti considerazioni: «a) natura estremamente circostanziata della fattispecie contemplata dell’art. 108 (143); b) sua collocazione non tra le disposizioni preliminari di

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del TUIR, nonché dalla limitata fattispecie relativa alla determinazione del reddito degli enti non commerciali. Tuttavia, in tal senso si orientava un risalente indirizzo giurisprudenziale della Commissione tributaria centrale 21 che riconosceva il carattere economico della gestione al verificarsi di ricavi superiori ai costi, in quanto, secondo la ricostruzione sostenuta dalla commissione, le attività commerciali dovevano soddisfare i requisiti di professionalità, abitualità, assunzione del rischio e profitto. Il dibattito sulla nozione di economicità è stato affrontato anche dalla dottrina commercialistica e, in particolare, si richiama il caso relativo alla possibilità di assoggettare a fallimento l’associazione esercente attività commerciale. Anche in questa ipotesi tra i presupposti oggetto di valutazione per riconoscere all’ente associativo la qualifica di impresa emergevano i requisiti di cui all’art. 2082 c.c. (economicità e professionalità). La dottrina prevalente ha riconosciuto la sussistenza del requisito dell’economicità accogliendo il principio della copertura dei costi con i ricavi 22. La ricerca di una definizione della nozione di economicità – da considerarsi come criterio generale di analisi e qualificazione del carattere commerciale delle attività – registra sotto il profilo tributario una battuta di arresto di fronte a specifiche figure soggettive. Le risorse impiegate per sostenere l’attività dell’ente non commerciale sono riconducibili a diverse fonti: autofinanziamento dell’organizzazione attraverso proventi di natura corrispettiva/remuneratoria 23, sovvenzioni statali, contributi associativi e liberalità. I diversi strumenti diretti a reperire le risorse economiche per il funzionamento dell’ente non commerciale contribuiscono alla determinazione del reddito complessivo secondo le regole dettate dell’art. 143 TUIR. Per quanto attiene gli enti a struttura associativa l’art. 148 TUIR introduce – principio dell’imposizione sui redditi ma all’interno delle norme che regolano la determinazione del reddito imponibile per gli enti non commerciali; c) infine, l’asserita natura sistematica dell’art. 108 non trova supporto nel dato contenuto nell’art. 111 (148)». L’impossibilità di considerare l’art. 108 TUIR come norma di sistema trova ulteriore conferma di fronte alle diversificate ipotesi di attività commerciali esercitate in settori di utilità sociale. In particolare, le ONLUS ricevono un trattamento fiscale di favore per attività erogate verso soggetti qualificati (soggetti svantaggiati per condizioni fisiche, economiche, sociali) o per l’intrinseca natura delle attività svolte (ad esempio assistenza sociale e socio-sanitaria). Cfr. FICARI, ONLUS (diritto tributario), in Enc. giur., Roma, 1998, Aggiornamento, 2000, p. 2. 21 Ex pluris Comm. Trib. centr., sez. XVII, 5 febbraio 1987, n. 988. 22 Sul punto CASANOVA, Impresa e azienda, in Tratt. dir. civ. diretto da Vassalli, vol. X, I, Torino, 1974; CORSI, Lezioni di diritto dell’impresa, Milano, 1992; FERRARA-CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 1999. 23 Così FICARI, Strumentalità dell’attività commerciale e fine non lucrativo nella tassazione delle associazioni, in Rass. trib., 1997, p. 812.

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rispetto alle regole generali dell’art. 143 TUIR – la non commercialità dell’attività svolta in conformità delle finalità istituzionali a favore dei propri associati e l’esclusione dal reddito complessivo delle somme versate a titolo di quota o contributo associativo. Tuttavia, il pagamento di corrispettivi specifici per la cessione di beni o prestazione di servizi effettuati in favore degli aderenti o partecipanti all’associazione – ai sensi del comma 2 – concorrono alla formazione del reddito complessivo. La disciplina dell’art. 148 opera una distinzione tra le prestazioni che l’ente presta ai propri membri in ragione del solo vincolo associativo ed i servizi supplementari erogati rispetto alla richiesta dei singoli associati 24. Nelle strutture associative si può verificare la combinazione di diversi mezzi di finanziamento (quote associative, liberalità, sovvenzioni pubbliche, entrate di natura corrispettiva), pertanto – secondo autorevole dottrina 25 – la nozione di economicità della gestione non può corrispondere alla formula generale della “totale remunerazione dei fattori della produzione”, in quanto le diverse fonti di entrata devono essere tra loro ponderate al fine di accertare l’entità della partecipazione di meri contributi rispetto al versamento di corrispettivi per servizi o prestazioni. 4. Il concetto di onerosità sul piano civilistico e fiscale Il contributo economico dei diversi strumenti di finanziamento 26 dell’associa24

Sui diversi moduli dei rapporti tra associazione e associato FRANSONI, Il sistema dell’imposta sul reddito, in RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2004. L’autore prevede che: «L’assetto dei rapporti fra associazione ed associati può, in concreto, atteggiarsi secondo moduli notevolmente diversificati. Al livello più semplice, l’associato può beneficiare delle attività svolte dall’associazione in ragione del solo vincolo associativo. In questa ipotesi, ovviamente, le quote ed i contributi versati dagli associati sono casualmente connesse all’acquisto ed al mantenimento della qualità di associato (omissis). Siamo quindi, evidentemente, al di fuori dell’area della commercialità, e l’art. 148, comma 1 (…) Ad un più articolato livello l’associazione può rendere a tutti gli associati, in ragione del mero vincolo associativo, una medesima prestazione di “base” e, su specifica richiesta dei soli associati interessati, prestazioni aggiuntive o complementari». 25 FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, 336 ss. Il paragrafo 8) esamina la nozione di economicità con particolare critica dell’applicazione del concetto di remunerazione dei fattori produttivi in presenza di soggetti a struttura associativa concludendo che: «per gli enti non profits, il requisito dell’economicità non può risolversi nella sola formula “totale remunerazione dei fattori della produzione”, in sé di scarsa utilità pratica, giacché ben poche attività sono scientemente “programmate in perdita”, ma richiede un ulteriore criterio distintivo per le attività in cui i moduli del contributo dei soci e della sovvenzione gratuita concorrono con quello del corrispettivo». In tale senso FICARI, Strumentalità dell’attività commerciale e fine non lucrativo nella tassazione delle associazioni, in Rass. trib., 1997, p. 812. 26 Sul punto FICARI, Strumentalità dell’attività commerciale e fine non lucrativo, in Il regime fiscale delle associazioni, (a cura di) Fedele, Padova, 1998, p. 5 ss. in merito all’autofinanziamento dell’ente: «l’associazione può autofinanziarsi beneficiando di entrate di natura corrispettiva/re-

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zione rileva nell’operazione di bilanciamento tra entrate non imponibili (quote associative, liberalità, sovvenzioni pubbliche) e corrispettivi assoggettati a tassazione. La diversa individuazione fiscale dei corrispettivi imputabili a specifiche prestazioni erogate dall’ente – art. 148, comma 2, TUIR – solleva una riflessione sul carattere oneroso (sotto il profilo civilistico e tributario) delle prestazioni rese ai partecipanti dell’associazione verso il pagamento di un corrispettivo. Le attuali 27 norme del codice civile non riportano una definizione di onerosità e gratuità. Alcuni autori consideravano oneroso un atto in base alla concorrenza delle seguenti condizioni: i) attribuzioni patrimoniali reciproche o corrispettive; ii) rapporto di casualità tra le attribuzioni (rapporto di equivalenza soggettiva). Tale impostazione suggeriva una ricostruzione della nozione di onerosità (dell’atto o del contratto) in tutti i rapporti di “stretta causalità” 28 tra il sacrifico affrontato ed il vantaggio da conseguire. Secondo altra parte della dottrina, la distinzione tra atti a titolo oneroso o gratuito non è riconducibile 29 al “concetto di reciprocità delle prestazioni” 30, in quanto il contratto è oneroso quando ciascuna delle parti contraenti sopporta un sacrificio al fine di realizzare l’assetto di interessi del negozio giuridico concluso; mentre, il sacrificio sostenuto da un solo soggetto per realizzare risultati fruibili da altri caratterizza la gratuità dell’atto. Pertanto, l’onerosità e la corrispettività sono due concetti distinti 31 e non somuneratoria e/o eterofinanziarsi attraverso entrate di genere diverso (contributi associativi, sovvenzioni pubbliche, liberalità) si deve precisare come l’equilibrio con i costi debba essere verificato con esclusivo riguardo alle entrate corrispettive relative all’attività cui si riferiscono i costi e non alle entrate di natura diversa». 27 ANGELONI, Liberalità e solidarietà, Padova, 1994, p. 17 ss.; MOSCO, Onerosità e gratuità degli atti giuridici, Milano, 1942, p. 81. L’autore richiama le definizioni del codice civile del 1865, in particolare, l’art. 1101 c.c. che definiva contratti a titolo oneroso “quel contratto nel quale ciascuno dei contraenti intende, mediante equivalente, procurarsi un vantaggio”. 28 Così MOSCO, Onerosità e gratuità degli atti giuridici, con particolare riguardo ai contratti, Milano, 1942, p. 81 che sul punto prevede che: «in generale si ha atto oneroso tutte le volte che una persona mira a procurarsi un vantaggio, affrontando un sacrificio che sia in rapporto di stretta causalità col vantaggio che si vuol ricavare». 29 Parte della dottrina considera la nozione di onerosità distinta da quella di corrispettività, in questo BIANCA, Diritto Civile, 3, Il contratto, Milano, 1984; BISCONTINI, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti, Napoli, 1984, p. 29 ss.; DE RUGGERO-MAROI, Istituzioni di diritto privato, Vol. II, Milano, 1957, p. 155 ss.; MESSINEO, Il contratto in genere, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da Cicu e Messineo, Vol. XXIII, Milano, 1973; SACCO, Il contratto, in Trat. dir. civ., t 2, Torino, 1993, p. 640; SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1976, p. 224 ss. 30 In tal senso ANGELONI, Liberalità e solidarietà, Padova, 1994, p. 29 e ss; SCALFI, Corrispettività e alea nei contratti, Milano, 1960. 31 In particolare SCALFI, Corrispettività e alea nei contratti, Milano, 1960, p. 104, che osserva:

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no sinonimi – così come può apparire al sentire comune – dello stesso fenomeno giuridico; infatti, tutti i contratti a prestazioni corrispettive sono onerosi, ma non tutti i contratti onerosi sono corrispettivi. Il contratto associativo 32 non è un contratto a prestazioni corrispettive, poiché – come tutti i contratti con comunione di scopo 33 – la prestazione di ciascun associato è diretta al raggiungimento di uno scopo comune a tutte le parti 34; tuttavia, è un contratto oneroso 35 in considerazione del sacrificio sostenuto dai propri aderenti per l’assenza di una prestazione diretta ed esclusiva a proprio vantaggio. Nella discussione relativa al rapporto tra corrispettività e onerosità si inserisce – sempre nell’ambito dei cosiddetti contratti associativi – una breve considerazione sul trattamento tributario (con riguardo all’imposizione diretta) dei corrispettivi percepiti dai consorzi attraverso il pagamento dei contributi da parte dalle imprese associate. I contributi versati dai consorziati sono diretti a sostenere le spese di gestione e di funzionamento del consorzio; tuttavia, rispetto al sacrificio economico richiesto ai singoli associati corrisponde un vantaggio 36 che può consistere – ad esempio – nella riduzione dei costi di produzione o nell’aumento del prezzo di vendita. Sul piano fiscale i contributi 37 versati a favore dei consorzi (in«non si può fissare una relazione di genere a specie tra onerosità e corrispettività poiché si tratta di concetti che operano su piani diversi». 32 I sostenitori della teoria del contratto associativo RUBINO, Le associazioni non riconosciute, Milano, 1952, p. 57 ss.; AURICCHIO, (voce) Associazioni riconosciute, in Enc. dir., III, Milano, 1958, p. 898; GALGANO, Delle persone giuridiche, Libro Primo. Delle persone e della famiglia, in Comm. del cod. civ. a cura di Scialoja-Branca, Roma Bologna, 1969, p. 177 ss.; TAMBURRINO, Persone giuridiche e associazioni non riconosciute. Comitati, in Giur. Sist. Civ. e Comm. fondata da W. Bigiavi, Torino, 1980; DE GIORGI, Le persone giuridiche, associazioni e fondazioni, cit. 33 In senso contrario alla possibilità di enucleare una disciplina unitaria dei contratti con comunione di scopo rispetto alla disciplina dei contratti di scambio, GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, t. 1, p. 262 ss. 34 Così GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, T. 1, p. 261. 35 Sul punto SCALFI, Corrispettività e alea nei contratti, Milano, 1960, p. 81 ss.; ANGELONI, Liberalità e solidarietà, Padova, 1994, p. 36 ss. 36 In tal senso, VOLPE PUTZOLU, Consorzio tra imprenditori, I, in Enc. giur., IX, Roma, 1988, p. 2; Id., I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in Tratt. dir. comm. Galgano, IV, Padova, 1981. 37 INTERDONATO, Il regime fiscale dei consorzi tra imprenditori, Milano, 2004, p. 283 ss. L’autore evidenzia un medesimo trattamento fiscale dei contributi consortili per i consorzi “enti commerciali o non commerciali” e, in particolare, ai fini delle imposte dirette individua – per i consorzi non commerciali – nell’art. 148 del TUIR una precisa disposizione normativa osservando che: «Come è facile arguire, il legislatore ha, da un lato, decretato la non commercialità dell’attività istituzionale interna resa dai consorzi non commerciali, e, dall’altro, considerato fiscalmente irrilevante i versamenti contributivi degli associati al consorzio. È da ritenere, tuttavia, che il versamento contributivo sia escluso dal reddito complessivo, non tanto perché è non commerciale l’attività generale istituzionale interna dell’ente, quanto perché il versamento è connesso al godimento e al mantenimento di uno status di associato che dà diritto al singolo di fruire delle prestazioni rese dall’ente in conformità alle finalità istituzionali».

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terni o esterni) – non concorrono alla formazione della base imponibile dell’imposta sul reddito in quanto, ai fini della tassazione non è rilevante il carattere commerciale dell’attività esercitata ma lo scopo mutualistico perseguito dall’impresa consortile. Il tema dell’onerosità è stato affrontato – sotto il profilo IVA – in risalenti pronunce della Corte di giustizia nell’ambito di controversie relative all’individuazione delle condizioni che devono sussistere, affinché la prestazione si possa considerare “effettuata a titolo oneroso”. Il punto centrale della riflessione attiene la relazione tra la prestazione eseguita ed il corrispettivo versato e, soprattutto, se il pagamento di una somma di denaro da parte del beneficiario sia indice di onerosità della prestazione. Secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza comunitaria, la prestazione è onerosa quando si realizza un rapporto diretto tra il servizio prestato e la riscossione del suo controvalore. Dall’indirizzo delineato dalla giurisprudenza si possono individuare tre condizioni 38che devono sussistere per qualificare una prestazione a titolo oneroso: i) relazione diretta tra prestazione e corrispettivo; ii) indicazione del valore in danaro della prestazione; iii) valore soggettivo 39. A seguito del consolidarsi di questo orientamento giurisprudenziale, la prassi amministrativa vi si conformava a partire dalla risoluzione del Ministero delle Finanze n. 430091/1990: «circostanza che, al contrario, rende ancor più evidente la mancanza di un nesso sinallagmatico tra l’erogazione dei fondi e l’attività di ricerca». Le disposizioni tributarie dedicate alle imposte sui redditi non definiscono il concetto di onerosità e, più in particolare, le norme relative alle strutture associative non riportano nel testo l’aggettivo “oneroso”. Per contro, il legislatore utilizza l’espressione “contributi, donazioni” o “erogazioni liberali” per indicare alcune ipotesi di deducibilità dal reddito delle persone fisiche – art. 10 TUIR, lett. g), i), l); mentre, le persone giuridiche possono beneficiare della deducibilità degli atti liberali in applicazione della disciplina dettata dall’art. 100 del TUIR. Nelle ipotesi descritte non si rinviene una indicazione del contenuto di liberalità ma si ricavano i due limiti al trattamento fiscale delle erogazioni liberali: i) qualificazione giuridica dei soggetti beneficiari e delle fina38

COMELLI, Il requisito dell’onerosità in relazione alle prestazioni di servizi, in Dir. prat. trib., 1995, 228 ss. 39 COMELLI, Il requisito dell’onerosità in relazione alle prestazioni di servizi, in Dir. prat. trib., 1995, 230. Dall’esame delle sentenze della Corte di Giustizia 5 febbraio 1981, causa 154/80, Coöperatieve Aardappelenbewaarplaats e 23 novembre 1988, causa 230/87, Naturally Yours Cosmetics Ltd, l’Autore evidenzia che ai fini dell’imponibilità della prestazione deve sussistere: «un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni, nel quale il compenso ricevuto dal prestatore costituisca il controvalore effettivo del servizio prestato all’utente».

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lità istituzionali perseguite; ii) parametri di riferimento per determinare il massimo del reddito da destinare alle erogazioni.

5. L’onerosità non è indice di economicità delle attività esercitate dalle strutture associative Le argomentazioni, esaminate nei precedenti paragrafi, evidenziano – ai fini dell’imposizione fiscale sul reddito delle associazioni – l’irrilevanza della nozione civilistica di onerosità, in quanto lo stesso legislatore con l’espressione “corrispettivo specifico” riconosce come elemento qualificante della fattispecie di cui al 2 comma dell’art. 150 TUIR la reciprocità delle prestazioni tra l’ente e il soggetto beneficiario. La distinzione civilistica tra il concetto di onerosità e corrispettività non trova accoglimento nell’ipotesi delle prestazioni “aggiuntive e complementari” dei servizi erogati agli associati, in quanto la fattispecie dettata dal 2 comma sembra aderire all’impostazione 40 che identifica i contratti a prestazioni corrispettive con quelli a titolo oneroso. Secondo alcuni autori 41, la formula della specificità del corrispettivo 42 rappresenta la sintesi di due requisiti che devono sussistere per sottoporre a tassazione gli esborsi dei beneficiari delle prestazioni: i) esistenza di un rapporto sinallagmatico tra le parti; ii) relazione diretta tra corrispettivo versato e prestazione erogata. Le disposizioni del comma 1 e 2 dell’art. 148 TUIR sono indicative della distinzione che il legislatore opera tra le somme versate (a titolo di quote o contributi) dai soggetti che partecipano al contratto associativo per “l’acquisto e il 40

In tal senso CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.d., p. 211; DE SIMONE, Il contratto con prestazioni corrispettive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, p. 48 ss. 41 BENAZZI, La fiscalità del terzo settore, in ZIZZO (a cura di), La fiscalità del terzo settore, Milano, 2011, p. 442. Nell’esaminare l’espressione “corrispettivo specifico” l’autore riporta l’orientamento della dottrina che individua due elementi con le seguenti osservazioni: «il primo (…) allude alla presenza di un nesso sinallagmatico tra ente che effettua la prestazione di servizi o cede il bene e associato che ne beneficia. Il secondo elemento, che caratterizza più del primo la fattispecie consiste nella specificità del corrispettivo, che deve essere direttamente correlato con l’operazione effettuata». In tal senso TOSI, Gli enti di tipo associativo, in TESAURO (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 1996; BARASSI, La imposizione sul reddito degli enti non commerciali, in Quaderni del dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Bergamo, 2, 1995. 42 TOSI, Gli enti di tipo associativo, in TESAURO (a cura di), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 1996, p. 261 ss. l’irrilevanza reddituale delle quote o contributi associativi è strettamente collegata all’assenza di controprestazioni specifiche rese ai soci uti singuli. In altre parole, dietro la corresponsione delle stesse non deve essere possibile scorgere l’esistenza di un rapporto sinallagmatico. È la corrispettività l’elemento discriminante tra prestazioni interne di tipo commerciale e non commerciale.

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mantenimento della qualità di associato” 43 ed i contributi aggiuntivi e straordinari corrisposti dagli associati per ricevere prestazioni dall’ente. In quest’ultima ipotesi si costituiscono – attraverso la struttura associativa – rapporti a prestazioni corrispettive, in quanto l’ente eroga prestazioni destinate a soddisfare le richieste dei singoli soci verso il pagamento di importi differenziati a seconda della tipologia e della quantità del servizio 44. Sul piano del diritto civile, l’effetto economico degli atti giuridici è individuato dal concetto di onerosità o gratuità 45. Ai fini dell’imposizione diretta delle associazioni si può osservare una corrispondenza del contenuto civilistico della nozione di gratuità, nonché una continuità degli effetti economici, considerato che le erogazioni liberali determinano l’arricchimento dell’ente in assenza di controprestazione e non contribuiscono alla formazione del reddito complessivo del beneficiario. La conclusione di rapporti a titolo oneroso tra l’ente e gli associati non rappresenta un criterio (o indice economico) per qualificare commerciale o non commerciale l’attività esercitata dall’associazione, in quanto è l’economicità della gestione (elemento implicito alla nozione di commercialità 46) a definire il tipo di attività 47. In questo senso si può richiamare il comma 3, dell’art. 148 TUIR che decommercializza (per le associazioni politiche, sindacali, religiose, assistenziali, 43

Così RUSSO, Manuale di diritto tributario, 2004, che sul punto prevede: «le quote ed i contributi versati dagli associati sono casualmente connesse all’acquisto ed al mantenimento della qualità di associato, ma non incidono sull’an e sul quantum delle attività di cui essi potranno beneficiare». 44 Sul punto FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, p. 350: «specifiche prestazioni di servizi a favore dei soci stessi uti singuli; tali “contribuzioni” dei soci sono quindi differenziate e commisurate alla natura ed alla quantità delle prestazioni di servizi di cui ciascun socio gode. In tal caso, sul rapporto associativo si innescano puntuali e specifici assetti corrispettivi e l’attività economica dell’ente risulta, almeno in parte rivolta a soddisfare interessi individuali dei soci». 45 Così, BISCONTINI, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti, Napoli, 1984, p. 29 ss. L’autore sostiene la distinzione del concetto di onerosità da quello di corrispettività sottolineando che: «se la corrispettività esprime un collegamento giuridico tra gli effetti del contratto, l’onerosità e la gratuità esprimono valutazioni prevalentemente economiche che l’ordinamento prende in considerazione al fine di determinare la disciplina da applicare». 46 Così, FICARI, Strumentalità dell’attività commerciale e fine non lucrativo nella tassazione delle associazioni, in Rass. trib., 1997, p. 811. 47 In particolare FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, p. 349. L’autore osserva che: «l’“economicità” in quanto requisito della commercialità dell’impresa, non dipende dai risultati in concreto raggiunti, ma dall’indirizzo impresso all’attività, quindi dal modo della sua organizzazione” di modo che la valutazione del rapporto fra costi e corrispettivi dovrà ”essere desunto essenzialmente dalle previsioni dei bilanci preventivi, dalle delibere degli organi dell’ente o da altre forme di programmazione dell’attività e dal loro rapporto con i corrispettivi praticati».

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culturali e sportive) le prestazioni di servizi e le cessioni di beni erogati – in conformità alle finalità istituzionali – dall’ente verso il pagamento di corrispettivi specifici; inoltre, il comma 3 riconosce la meritevolezza (sociale) dello scopo perseguito dall’ente che prevale rispetto al criterio della corrispettività 48.

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In questo senso TOSI, Gli enti di tipo associativo, in TESAURO (diretto da), Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 1996, p. 267 ss. In senso conforme Cass. 20 febbraio 2013, n. 4152 che prevede: «l’esclusione della qualifica di attività commerciale per gli enti associativi, in generale, presupponeva il rispetto di precise condizioni (che si trattasse di attività interna, rivolta ai soli soci, e che detta attività non venisse retribuita con corrispettivi specifici), per le associazioni sportive dilettantistiche, perché potessero essere considerate non commerciali anche le attività da esse svolte dietro corrispettivo e perché l’ente potesse essere ritenuto meritevole dell’applicazione di tale normativa di agevolazione, occorreva che le stesse fossero svolte in attuazione diretta degli scopi istituzionali nei confronti degli associati e dei partecipanti». La specialità della norma è sottolineata da FEDELE, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, 327 ss.: «agli effetti della applicazione della disciplina fiscale dell’impresa commerciale non si è presa in alcuna considerazione il fine ultimo cui si rivolge l’attività dell’ente. Eppure è proprio alla natura dei fini istituzionali che tuttora si connette, secondo giurisprudenza e dottrina dominante, la distinzione tra enti del libro I e enti del libro V del c.c.».

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di Nicola Tacente SOMMARIO: 1. Neutralità causale nei contratti associativi. – 2. Scopo lucrativo e scopo mutualistico. – 3. Conclusioni.

1. Neutralità causale nei contratti associativi È noto che nell’ambito della categoria dei contratti con comunione di scopo, i contratti associativi si caratterizzano in quanto lo scopo comune cui mirano le parti non si realizza solo con la stipulazione del contratto ma richiede lo svolgimento in comune di un’attività con i terzi. Pertanto, in ogni contratto associativo si evidenzia una componente causale ed una organizzativa: la causa esprime il perché ci si associa, l’organizzazione il come si produrrà l’attività di realizzazione della causa 1. Molte sono le norme del codice civile che disciplinano l’organizzazione, ma sembra che il legislatore abbia voluto distinguere i singoli contratti associativi sulla base del tipo di risultato perseguito dalle parti, cioè abbia voluto utilizzare, come criterio di qualificazione la funzione 2. L’art. 2247 c.c., infatti, è una definizione in cui il legislatore fa emergere la causa del contratto; l’accento cade sul c.d. scopo di lucro, scomponibile nei due momenti del lucro oggettivo ( produzione dell’utile ) e del lucro soggettivo (della divisione tra i soci). Tale scelta è stata dettata principalmente per ragioni di certezza giuridica: infatti è sufficiente riscontrare la conformità tra lo scopo perseguito concretamente e lo scopo 1

SPADA, La tipicità delle società, Padova, 1974. ASCARELLI, Il contratto plurilaterale, in Saggi giuridici, Milano, 1949; GALGANO, Delle Associazioni non riconosciute e dei comitati, Commentario del cod. civ. a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1976; FERRO-LUZZI, I contratti associativi, Milano, 1971; MARASÀ, Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984; MARASÀ, Le società. Società in generale, nel Trattato di Diritto Privato, a cura di Giovanni Iudica e Paolo Zatti, Milano, 2000. 2

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astratto previsto nella norma per attestare la meritevolezza dell’interesse perseguito e quindi la liceità della causa. La dottrina, da diverso tempo, ha sollevato alcuni dubbi: infatti è divenuto sempre più difficile una qualificazione basata sul dato funzionale della causa. Si pensi al fenomeno della realizzazione di più scopi attraverso un’unica struttura organizzativa (ad esempio le cooperative che possono conseguire anche scopo di lucro; oppure i consorzi con attività esterna che possono realizzare sia uno scopo mutualistico che uno scopo anticoncorrenziale ed anche uno scopo di lucro); ancor più radicale è, poi, la prassi dell’utilizzazione delle strutture organizzative per uno scopo diverso da quello previsto dal legislatore. Questi fenomeni sono resi possibili dalla c.d. neutralità causale della componente organizzativa che qualifica i singoli tipi di società. In poche parole la componente organizzativa si sgancia dalla funzione ad essa assegnata dal legislatore e va ad “occupare” gli spazi causali propri di altri contratti associativi. La tesi più datata volta a negare la rilevanza dello scopo di lucro nelle società, e che ha suscitato maggiore attenzione, è quella avanzata dal Santini 3, che faceva leva, tra gli altri argomenti, anche sul vecchio art. 2332 c.c. L’art. 2332 enumerava tassativamente i casi di nullità in cui non era inclusa la mancanza di causa, per cui legittimava la costituzione di una società senza scopo di lucro. L’art. 2332 c.c. avrebbe compiuto un processo di astrazione causale, cosicché avrebbe legittimato la utilizzazione della Spa per qualsiasi scopo comune. L’unica valutazione che l’ordinamento richiedeva, atterrebbe quindi alla presenza dello scopo mezzo. Potrebbe quindi a ragione parlarsi di neutralità funzionale. Le società di capitali sarebbero pura struttura destinata di volta in volta a servire scopi diversi. Tale tesi è stata sottoposta a critica successivamente affermando, tra le altre argomentazioni, che l’art. 2332 attiene al piano della validità e non a quello della qualificazione.

2. Scopo lucrativo e scopo mutualistico Ma cosa si intende per causa societaria? La tesi più seguita ed accreditata, subito dopo la stesura del codice del 1942, riduceva la causa della società al solo esercizio collettivo dell’impresa 4 mentre la menzione della divisione degli utili fra i soci sarebbe solo uno “scopo ulteriore tipico” che potrebbe essere oltre che lu3 SANTINI, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1973; successivamente CARRABBA, Scopo di lucro e autonomia privata. La funzione nelle strutture organizzative, Napoli, 1994. 4 VERRUCOLI, La società cooperativa, Milano, 1958, p. 140; ID., (voce) Cooperative, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 543; CASANOVA, Le imprese commerciali, Torino, 1955; ID., Impresa ed azienda, nel Trattato di dir. civ. it., a cura di Vassalli, Torino, 1974, p. 33; GIORDANO, Impresa sociale e scopo di lucro, in Studi in onore di E. Betti, Milano, 1962, p. 175; ZANELLI, La nozione di oggetto sociale, in Saggi di diritto commerciale, 1962.

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crativo anche mutualistico o consortile: lo scopo lucrativo non fa parte della causa del contratto ma è un semplice motivo, normalmente presente ma non indispensabile per l’identificazione del tipo contrattuale. La svalutazione dello scopo di lucro sul piano causale si basa su di una distinzione tra scopo della società e scopo dei soci: lo scopo della società è quello di realizzare il compito assegnatogli, cioè compiere l’attività economica che produrrà beni o servizi. Dallo scambio di beni o servizi prodotti scaturirà un utile: ma lo scopo di conseguire l’utile è proprio dei soci, non della società, rispetto alla quale l’utile rappresenta un mero risultato economico dell’attività. Seguendo tale orientamento, una società costituita per finalità non lucrativa sarebbe fenomeno del tutto conforme al sistema codicistico purché sia configurabile un esercizio di impresa collettiva. Tale tesi è stata criticata da coloro che sostengono che l’esercizio in comune di attività economica è solo uno scopomezzo, un momento strumentale della causa societaria; lo scopo mezzo indica un carattere dell’azione sociale che, se considerato isolatamente, avulso dalla destinazione del risultato, non può costituire da solo la causa del contratto perché non esprime compiutamente il tipo di interesse, egoistico o altruistico, che i contraenti intendono soddisfare attraverso il contratto. Dunque, è possibile differenziare le varie fattispecie associative solo identificando il tipo di risultato che si intende conseguire attraverso l’esercizio in comune dell’attività. Altre tesi son state riproposte in tema di società cooperativa: Paolucci 5 ha sostenuto che la causa della cooperativa consiste nell’esercizio di una impresa ad un fine che può essere indifferentemente di lucro o di gestione di servizio (cioè scambi con i soci) nel rispetto del limite della distribuzione del lucro; il Simonetto 6 ha sostenuto che la causa della cooperativa non consisterebbe in altro che nell’esercizio dell’impresa in una forma associata di tipo democratico, cioè la cooperativa sarebbe un modo democratico di produrre a differenza della società capitalistica; più ricca di spunti, benché non accettabile, appare invece la tesi sostenuta dal Carboni 7, cui va il merito di avere maggiormente insistito sulla necessità di distinguere cooperazione da mutualità: in tale prospettiva la mutualità sarebbe un accordo con il quale più soggetti si obbligano reciprocamente tra loro ad avvalersi, per la realizzazione di determinati comuni bisogni, di un’attività di impresa. Il rapporto mutualistico, quindi, non intercorrerebbe tra società e soci ma si instaurerebbe prima della costituzione della società: il rapporto mutualistico sarebbe autonomo rispetto al collegato contratto di società.

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PAOLUCCI, La mutualità nelle cooperative, Milano, 1974, p. 84. SIMONETTO, La cooperative e lo scopo mutualistico, in Riv. soc., 1971, p. 279. 7 CARBONI, Le imprese cooperative e le mutue assicuratrici, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, 1983, p. 419. 6

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Secondo la tesi più attuale 8 anche il socio di una cooperativa mira a realizzare un risultato economico ed un proprio vantaggio patrimoniale, attraverso lo svolgimento di attività d’impresa. Il risultato economico perseguito non è (o, almeno, non è prevalentemente) la più elevata remunerazione possibile del capitale investito. È invece quello di soddisfare un comune preesistente bisogno economico (il bisogno di lavoro, il bisogno del bene casa, il bisogno di generi di consumo, di credito e così via) e di soddisfarlo conseguendo un risparmio di spesa (per i beni o servizi acquistati o realizzati dalla propria società – cooperative di consumo), o una maggiore retribuzione (per i propri beni o servizi alla stessa ceduti – cooperative di produzione e di lavoro). Come posto in luce in dottrina, in ciò consiste l’essenza del vantaggio mutualistico. Vantaggio che, peraltro, non deriva direttamente dal rapporto di società, ma è conseguito attraverso distinti e diversi rapporti economici instaurati con la cooperativa. Ciò posto, va rilevato che lo scopo mutualistico proprio delle cooperative può avere gradazioni diverse, che vanno dalla cosiddetta mutualità pura, caratterizzata dall’assenza di qualsiasi scopo di lucro, alla cosiddetta mutualità spuria che, con l’attenuazione del fine mutualistico, consente una maggiore dinamicità operativa anche nei confronti di terzi non soci, conciliando così il fine mutualistico con un’attività commerciale e con la conseguente possibilità per la cooperativa di cedere beni o servizi a terzi a fini di lucro. La nostra indagine si spinge, allora, a verificare la conciliabilità del risultato lucrativo con quello mutualistico. Se e sino a che punto lucro e mutualità siano tra loro compatibili è un interrogativo che, per essere affrontato, presuppone la spiegazione dei contenuti sottesi da queste qualificazioni. Lucro e mutualità sono qualificazioni che si riferiscono sia all’attività (l’art. 2082, infatti, non richiede come elemento essenziale lo scopo di lucro, ma lo svolgimento dell’attività con metodo economico per cui l’attività economica può essere alternativa8 GRAZIANI A., Società cooperative e scopo mutualistico, in Riv. dir. comm., 1950, I; VERRUCOLI P., La società cooperativa, Milano 1958; OPPO, Finalità mutualistiche e carattere lucrativo nelle società cooperative, in Riv. dir. civ., 1992, Il; ID., L’essenza della società cooperativa negli studi recenti, in Riv. dir. civ., 1959, I; CESQUI S.M., Gli sviluppi della cooperazione e lo scopo mutualistico, in Jus, 1977; BASSI A., Le società cooperative, Torino, 1995; ID., Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici, in Il codice civile-Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1988; ID., Cooperazione e mutualità, Napoli, 1976; BUONOCORE V., Diritto della cooperazione, Bologna, 1997; PACIELLO A., Il sistema informativo di bilancio e la mutualità cooperativa, in Riv. coop., 1998; BONFANTE G., Imprese cooperative, Bologna 1999; ID., Costituzione della cooperativa e concetto di mutualità, in Le Società, 1993; DI RIENZO M., I criteri di gestione nelle società cooperative, Milano, 2000; SARNO M., La costituzione, in A. BASSI (a cura di), Società cooperative e mutue assicuratrici, in Giur. sistematica di dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, Torino, 1992; BUONOCORE V., Diritto della cooperazione, Bologna, 1997; PAPPA MONTEFORTE, Cooperativa e “prevalenza” dello scopo mutualistico, in Le Società, 1997, 1; TURANO R.M.-GENTILI F., Società Cooperative, Milano, 2002; GALGANO F., Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Padova, 2003; OLIVERI G.-PRESTI G.-VELLA F. (a cura di); Associazione Disiano Preite, Società di capitali e cooperative – Il nuovo diritto delle società, Bologna, 2003.

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mente lucrativa o mutualistica) sia agli obiettivi che può prefiggersi chi quell’attività svolge con la conseguenza che si può avere una attività lucrativa con scopo mutualistico e viceversa. Lucro e mutualità, quindi, possono coesistere sia sul piano dell’attività che dello scopo 9. La dottrina più risalente, per tracciare una differenza tra lucro e mutualità, si concentrava sulla particella “ne” che accompagna nel testo dell’art. 2247 c.c. il verbo “dividere” affermando che essa andrebbe riferita alla società. Per questa norma sarebbero utili solo quelli che si formano nel “patrimonio comune” della società e solo successivamente sono ripartiti tra i soci e in essi non rientrerebbero i guadagni mutualistici. Secondo altra tesi, la medesima particella andrebbe riferita all’attività comune cosicché gli utili dovrebbero essere solo il risultato dell’attività comune stessa, ma non necessariamente appartenere prima alla società e soltanto dopo, e cioè in conseguenza della ripartizione, ai soci. Il problema fu mal posto: in realtà la differenza tra lucro e mutualità diviene evidente se il lucro è inteso come remunerazione capitalistica dell’investimento mentre diviene più sfumata se lo si ritiene inclusivo di qualsiasi utilità patrimoniale, compresi quei risparmi di costi o quelle sovraremunerazioni di prestazioni lavorative. Il lucro, quindi, in una accezione più ampia ricomprende un certo tipo di mutualità che si traduce nell’intento di ottenere, attraverso lo scambio mutualistico, beni o servizi a condizioni più vantaggiose di quelle praticate sul mercato. Tali premesse ci permettono di ragionare su un ulteriore problema: se la definizione dell’art. 2247 c.c. comporti il vincolo della lucratività, nel senso di consentire all’autonomia privata l’uso dei tipi societari ordinari del Titolo V solo quando la causa perseguita sia quella di ripartire tra i soci gli utili realizzati. Molti Autori 10 sostengono che l’organizzazione capitalistica può essere utilizzata non solo per la realizzazione di uno scopo di lucro, ma anche per altri eventuali interessi che, possono, quindi, “penetrare” nella causa societaria. E’ necessario, però, che tale interesse non travolga quello principale: in questo senso, il fenomeno delle cooperative in cui lo scopo lucrativo dei soci sovventori non può prevalere su quello mutualistico dei cooperatori. Numerosi interventi legislativi hanno modificato l’originario quadro codicistico incidendo sul limite costituito dal rispetto dello scopo di lucro: il più significativo – in quanto effettuato sulla disciplina codicistica e, quindi, di portata generale – è dovuto all’introduzione nel codice civile (ex art. 4, L. 10 maggio 1976, n. 377) dell’art. 2615 ter che ha autorizzato l’utilizzazione dei tipi di società (tranne la società semplice) per la realizzazione degli scopi consortili di cui all’art. 2602. Una prima conclusione è, dunque, che la S.p.A. può essere utilizzata per il raggiungimento non solo di scopi lucrativi ex art. 2247 ma anche di scopi 9 MARASÀ, Lucro, mutualità e solidarietà nelle imprese. (Riflessioni sul pensiero di Giorgio Oppo), Giur. comm., I, 2012, p. 198. 10 OPPO, Mutualità e lucratività nella legislazione recente, in Scritti giuridici, VI, 2000, p. 407.

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consortili ex art. 2602. Successivamente a tale novità, numerose sono state le disposizioni di leggi speciali che hanno autorizzato o addirittura imposto, con riguardo a particolari fattispecie di società di capitali, l’esclusione dello scopo di lucro e, più in generale, di qualsiasi scopo economico da parte dei soci (ad esempio, l’esclusione dello scopo di lucro è imposta nelle società per azioni per la gestione dei fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione «artt. 11, 1° comma e 12, 4° comma, l. 31 gennaio 1992, n. 59» mentre è autorizzata nelle società per azioni per l’organizzazione e la gestione dei mercati regolamentati di strumenti finanziari «art. 61, 1° comma, D.Lgs. 58/1998» e in quelle per la gestione accentrata di strumenti finanziari «art. 80, 1° comma, D.Lgs. 58/1998», dal momento che il legislatore rimette la scelta dello scopo all’autonomia delle parti). Merita segnalare che la casistica delle società autorizzate da leggi speciali a perseguire scopi non lucrativi sembra essersi recentemente arricchita in forza del D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 155, che ha disciplinato la cosiddetta impresa sociale 11. Infatti, tale qualifica – che richiede, tra l’altro, l’assenza dello scopo di lucro in senso soggettivo, cioè il divieto di distribuire anche indirettamente gli utili (cfr. art. 3) – può essere assunta da tutte le organizzazioni private, compresi gli enti di cui al Libro V del Codice Civile, che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale (art. 1, 1° comma) 12.

3. Conclusioni Dalle fattispecie sopra citate di società senza scopi economici, previste al di fuori del codice civile, parte della dottrina aveva desunto il venir meno di ogni limite all’autonomia privata nell’uso dei tipi di società. D’altra parte, con la riforma delle società del 2003, può evidenziarsi, anzitutto, che dall’unica disposizione definitoria oggetto di modifica da parte del legislatore, cioè quella dell’art. 2511, c.c., si ricava una riconsiderazione della causa come criterio di identificazione dei singoli contratti associativi; infatti, superando la controversa formulazione del vecchio art. 2511, si chiarisce che la cooperativa si qualifica non solo per la variabilità del capitale ma anche per il perseguimento dello scopo mutualistico da parte dei soci. Quest’ultimo non è, poi, una vuota 11

RIVOLTA, Profili giuridici dell’impresa sociale, in Scritti in onore di Buonocore, Milano, 2005; GINEVRA, L’utilità sociale dell’impresa. Profili sistematici della disciplina dell’«impresa sociale», nel volume Mercato (e) non profit, a cura di P. Morrozzo Della Rocca, Pesaro, 2007; CETRA, Responsabilità patrimoniale e impresa sociale, nel volume Impresa, sistema e soggetti, Torino, 2008. 12 MARASÀ, La Spa nel quadro dei fenomeni associativi e i limiti legali alla sua utilizzazione, in Le nuove s.p.a. diretta da O. Cagnasso e L. Panzani, Bologna, 2010, vol. 1, pp. 141-156.

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formula definitoria ma trova ora espliciti riflessi a livello di disciplina. Basti pensare, ad esempio, all’introduzione della disciplina dei ristorni, che configurano tipica tecnica di realizzazione dello scopo mutualistico (art. 2545 sexies, c.c.). Nella stessa prospettiva si colloca la disposizione dell’art. 2520, c.c., secondo cui “la legge può prevedere la costituzione di cooperative destinate a procurare beni o servizi a soggetti appartenenti a particolari categorie anche di non soci”, disposizione da cui si desume che solo al legislatore e non all’autonomia privata è consentito prevedere cooperative prive di scopo mutualistico. Quanto alla disciplina delle società di capitali, le novità ritenute più rilevanti ai fini del dibattito riguardano l’allargamento dell’istituto della trasformazione. La trasformazione non è più circoscritta ai soli tipi ordinari di società, secondo la prospettazione originaria del codice civile del 1942, ma può riguardare anche enti non societari (associativi e non) ed è consentita anche quando si configuri come eterogenea, cioè quando comporti cambiamento non solo del modello organizzativo originariamente prescelto ma anche della causa. Tuttavia, la previsione legislativa delle trasformazioni eterogenee, contrariamente a quanto da taluni ritenuto, non va in direzione della neutralizzazione delle forme associative. Il riconoscimento della trasformazione eterogenea muove proprio da una premessa opposta alla neutralità: è consentito il superamento della cosiddetta “barriera causale” – che, dunque, non costituisce più un limite alla trasformabilità – solo attraverso la migrazione da una ad altra fattispecie associativa e, quindi, sul presupposto che ciascuna di queste fattispecie mantenga la propria connotazione funzionale. Infatti, qualificare eterogenea la trasformazione di una società di capitali in una società consortile o in una società cooperativa, come fa l’art. 2500 septies, c.c., significa sancire che lo scopo di lucro ha natura diversa dallo scopo consortile e dallo scopo cooperativistico 13. Secondo l’opinione preferibile, quindi, si deve escludere che l’autonomia privata possa piegare la società di capitali a scopi diversi da quelli economici – o lucrativi (ex art. 2247) o consortili (ex art. 2615 ter) – se non nei casi specificamente previsti da leggi speciali. Molti autori, in conclusione, hanno parlato di tramonto dello scopo lucrativo. Tale idea ha trovato il suo punto di maggior forza negli sviluppi della legislazione speciale. Da tali testimonianze normative è lecito trarre la conclusione che lo scopo di lucro ha perduto la dignità di elemento essenziale della fattispecie societaria o si tratta piuttosto di disposizioni eccezionali incapaci di alterare i lineamenti ordinari del sistema? La risposta a tali quesiti involge un’ulteriore questione: quello dei limiti alla autonomia statutaria.

13 SPADA, Dalla trasformazione delle società alle trasformazioni degli enti ed oltre, in Scritti in onore di Buonocore, Milano, 2005, vol. III, tomo III.

Nicola Tacente

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Accolgo e condivido la dottrina prevalente la quale afferma che altri interessi possono penetrare nella causa societaria prevista astrattamente dalla norma; ciò che è necessario, però, che tale interesse non travolga quello principale. Dunque l’autonomia contrattuale può colorare lo schema causale della società con vari interessi purché l’interesse prevalente non venga stralciato. Stesso ragionamento viene effettuato in sede civilistica quando di parla di negotium mixtum donationem: ad esempio il contratto di compravendita a prezzo vile. Esso, sfruttando la causa venditionis, persegue un fine ulteriore che è quello di effettuare una liberalità; la causa donationis, però, non può travolgere la causa della compravendita. Così è in tema di società: si può colorare la causa societatis in vario modo purché gli interessi ulteriori non siano incompatibili e non travolgano l’interesse principale previsto dalla norma astratta. Si può ancora affermare con vigore che è vietato all’autonomia statutaria della società capitalistica creare società senza scopo di lucro, fuori dei casi espressamente previsti da norme di legge.

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SEZIONE V LA DETERMINAZIONE DEI PREZZI E DEI VALORI NEL TRASFERIMENTO DELLE PARTECIPAZIONI IN SOCIETÀ

IL TRASFERIMENTO DI PARTECIPAZIONI. PROFILI ECONOMICI E DETERMINANTI DEL VALORE DI SCAMBIO

di Francesca Bernini SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Pacchetti azionari e trasferimento del controllo. – 3. Il processo per la valutazione dei pacchetti azionari in ipotesi di trasferimento. – 4. I concetti di valore e prezzo nella dottrina economico-aziendale. – 5. Quadro teorico per la classificazione dei processi valutativi dei pacchetti azionari. – 5.1. Logiche valutative. – 5.2. Approcci di valutazione: cenni ai criteri diretti e indiretti. – 5.2.1. Criteri diretti. – 5.2.2. Criteri indiretti. – 5.3. Configurazioni di valoreobiettivo maggiormente ricercate nella prassi italiana. – 6. La stima delle basi di valore: criteri indiretti. – 6.1. Stime neutrali: basi di valore coerenti con la stima del capitale economico. – 6.2. Stime di parte: basi di valore coerenti con la determinazione del valore sinergico di acquisizione. – 6.3. Stime di parte: basi di valore coerenti con la determinazione del valore sinergico di cessione. – 7. L’applicazione di premi e sconti alle basi di valore. – 7.1. Il premio di controllo: considerazioni teoriche e approcci valutativi. – 7.2. Lo sconto per mancanza di controllo: considerazioni teoriche e approcci valutativi. – 7.3. Lo sconto per mancanza di negoziabilità: considerazioni teoriche e approcci valutativi.

1. Introduzione Il processo dedicato alla stima del valore del capitale aziendale in ipotesi di trasferimento, al momento, non è disciplinato da una regolamentazione normativa specifica a livello nazionale. Per questo motivo, la dottrina aziendalistica e la prassi operativa ricoprono un ruolo centrale nella definizione delle metodologie valutative da applicare nei diversi ambiti in cui l’esperto è chiamato ad esprimere un giudizio di valore. In vari Paesi, tuttavia, già da tempo si è assistito alla nascita di Istituti che si sono dedicati all’emanazione di principi di valutazione d’azienda 1. L’attività valutativa, inoltre, è disciplinata a livello internazionale dall’Inter1 Tra i più noti Istituti, si citano, ad esempio, l’International Valuation Standards Council (IVSC), l’American Institute of Chartered Public Accountants (AICPA), il Canadian Institute of

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national Valuation Standard Council (IVSC), che ha statuito principi riguardanti sia la realizzazione delle valutazioni sia la stesura della perizia di stima, allo scopo di proteggere gli stakeholder coinvolti nei diversi ambiti valutativi nonché di armonizzare la disciplina valutativa a livello internazionale e di garantire la trasparenza dei processi. I principi di valutazione attualmente emanati, tuttavia, non presentano un grado di approfondimento analogo a quello riscontrato, ad esempio, nel caso dei principi contabili internazionali (IAS/IFRS), dedicati alla redazione del bilancio. In particolar modo, ciò risulta evidente nel caso della valutazione dei pacchetti azionari. Il tema della stima del valore dei pacchetti azionari suscita un forte interesse, nell’ambito della dottrina della valutazione d’azienda, in quanto tale valore – fondamento per la negoziazione del prezzo di scambio – può discostarsi anche sensibilmente da quello riferibile al capitale delle società partecipate, considerato in proporzione alla dimensione del pacchetto. Da ciò emergono le numerose peculiarità che caratterizzano le stime di quote non totalitarie del capitale aziendale, prime tra tutte le questioni relative al valore del controllo e della liquidità dell’investimento. La facoltà di indirizzare l’attività amministrativa, intesa come momento decisionale della dinamica aziendale, costituisce, dunque, un’evidente criticità nelle valutazioni in analisi. Il valore del capitale aziendale non rappresenta, quindi, che un punto di partenza, nell’ambito delle stime delle partecipazioni, siano esse portatrici o meno del controllo.

2. Pacchetti azionari e trasferimento del controllo Il capitale aziendale, quando non è posseduto interamente da un unico soggetto, è detenuto da diversi proprietari di quote non totalitarie. Più precisamente, nel caso delle società per azioni, le partecipazioni al capitale possono essere qualificate come pacchetti azionari. L’assenza di chiari limiti quantitativi per l’identificazione del numero di azioni necessarie affinché sia possibile parlare di partecipazione, piuttosto che di mero insieme omogeneo di azioni, complica l’individuazione delle fattispecie in analisi. Si denota, dunque, la connotazione di pacChartered Business Valuators (CICBV), l’Appraisal Foundation, l’American Society of Appraisers (ASA), il National Association of Certified Valuators and Analysts (NACVA), l’Institute of business appraisers (IBA) e The Institut der Wirtschaftsprüfer in Deutschland (IDW).Gli Istituti citati, prevalentemente, sono costituiti da esperti nella disciplina. Si legga ad esempio quanto riportato dall’organismo internazione preposto ad emanare principi di valutazione: “Membership of IVSC is open to organisations of users, providers, professional institutes, educators, and regulators of valuation services” (http://www.ivsc.org). Guardando al contesto italiano, l’Organismo Italiano di Valutazione (OIV) ha recentemente pubblicato un documento propedeutico per la statuizione dei principi italiani di valutazione (PIV) (http://www.fondazioneoiv.it).

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chetto azionario, qualora sia ravvisabile la relazione di unitarietà tra le azioni possedute. La mancanza di tale relazione, determinata in alcuni casi dallo smembramento della partecipazione in sede di trasferimento della stessa, infatti, è causa della perdita dello status di pacchetto azionario 2. Lo smembramento della partecipazione originaria avvenuto, ad esempio, in conseguenza della cessione di un pacchetto azionario ad essa appartenente, darà luogo a due o più pacchetti di dimensioni inferiori generati appunto dalla cessione in parola. Ai fini dell’analisi del pacchetto azionario, sia nel suo profilo fenomenologico sia dal punto di vista valutativo, occorre distinguere, anzitutto, le partecipazioni che consentono l’esercizio del controllo, da quelle che non attribuiscono tale diritto. All’interno della prima categoria citata, inoltre, è possibile osservare, in primo luogo, i pacchetti azionari che assicurano durevolmente 3 e stabilmente il controllo dell’azienda, a seguito dell’attribuzione al proprietario della maggioranza assoluta dei voti in assemblea ordinaria o della quantità di voti sufficiente per determinare gli esiti delle delibere demandate all’assemblea straordinaria 4. In secondo luogo, si individuano i pacchetti che, invece, consentono l’esercizio del controllo in virtù del possesso della maggioranza relativa dei voti in assemblea ordinaria. Tra le partecipazioni a cui si correla l’esercizio del potere di controllo assoluto, si hanno anzitutto quelle di dimensione totalitaria 5. In questo caso, dal punto di vista fenomenologico, oltre che valutativo, non si ravvisa l’esigenza di rilevare peculiarità tali da distinguere la situazione suddetta da quella riferibile, invece, all’azienda osservata con riferimento all’intero capitale sociale. I pacchetti azionari di maggioranza assoluta, poi, attribuiscono all’azionista una totale e durevole autonomia decisionale nell’ambito delle delibere prese nelle assemblee ordinarie o, talora, anche in quelle straordinarie. In questo caso, quindi, l’azionista è in grado di definire l’indirizzo della gestione, in quanto detiene la facoltà di determinare l’esito delle decisioni assembleari che richiedono la maggioranza assoluta dei voti. Si fa riferimento, dunque, a partecipazioni la cui dimensione risulta almeno pari al 50% del capitale sociale + 1 azione 6. Come ac2 Si veda, a tal proposito: GABROVEC MEI O., Partecipazioni o titoli azionari: il «valore» delle definizioni, in Amministrazione & Finanza, 12, 1997, p. 9. 3 PAGANELLI O., Valutazione delle aziende. Principi e procedimenti, Torino, 1990, p. 85. 4 Si veda: FRATINI A., Sulla determinazione del premio di maggioranza nella cessione di partecipazioni, in Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, 5/6, 2007, p. 329 ss. 5 ONESTI T., Sconti di minoranza e sconti di liquidità. Ridotti poteri e mancanza di mercato nella valutazione delle partecipazioni, Padova, 2002, p. 4. 6 Nei casi in cui il capitale azionario sia equamente distribuito tra gli azionisti, come accade, ad esempio, in presenza di due soci detentori del 50% del capitale o di quattro soci possessori di partecipazioni pari al 25% e così via, non è possibile individuare quale sia l’azionista detentore del potere di controllo.

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cennato, inoltre, la partecipazione in parola esclude ogni possibilità di futura perdita involontaria della posizione di azionista di controllo, in quanto eventuali scalate poste in essere da altri soggetti interessati al controllo della società non potrebbero compromettere il diritto di esercitare il controllo. La tipologia di pacchetto azionario in analisi può attribuire diritti e benefici economici scaturenti dalla possibilità di gestire l’unità operativa partecipata, non discosti da quelli conseguibili nel caso della proprietà dell’intero capitale aziendale 7, sebbene a fronte di un impegno economico minore, in termini di investimento. Vi sono, poi, partecipazioni aventi dimensione inferiore al 50% del capitale sociale, comunque in grado di attribuire il potere di controllo 8. Qualora, infatti, non vi sia una «stabile maggioranza assembleare», il diritto in parola può essere esercitato anche da un azionista di minoranza qualificata. La possibilità di controllare una data combinazione produttiva, seppure detenendo un pacchetto avente dimensione inferiore al 50%+1 del capitale, è condizionata da un altro aspetto di fondamentale importanza riferibile alle questioni inerenti la corporate governance: il grado di concentrazione delle quote azionarie tra gli stockholder 9. I pacchetti di minoranza possono essere rappresentativi di minoranze rilevanti o di minoranze marginali 10. Nel primo caso, i pacchetti, pur essendo minoritari, possono partecipare per un periodo di tempo limitato al controllo della società mediante accordi quali i patti di sindacato o alcuni accordi informali. Nel secondo caso, si hanno pacchetti di minoranza che non consentono di esercitare alcuna forma di controllo. Si consideri, ad esempio, il caso delle società in cui il controllo è saldamente detenuto da un ristretto gruppo di azionisti di riferimento. Vi sono, infine, pacchetti di peso trascurabile la cui dimensione estremamente ridotta è strettamente connessa all’estensione del capitale della partecipata. Si pensi, ad esempio, a un numero ristretto di azioni di una grande società quotata 11.

7 Si veda: ONIDA P., Economia d’azienda, ristampa della terza edizione rifatta e ampliata, Torino, 1990, p. 664; GUATRI L., Trattato sulla valutazione delle aziende, Milano, 1998, p. 395. 8 Al riguardo, si consideri quanto disposto dall’art. 2359 c.c., secondo cui sia da ritenere un pacchetto di controllo (controllo di fatto) anche una partecipazione avente dimensioni tali da garantire l’esercizio della cosiddetta influenza dominante sugli esiti delle delibere assembleari. 9 Nel presente lavoro si farà uso del termine «controllo» nell’intento di fare riferimento alle questioni che investono più in generale sia i pacchetti di maggioranza assoluta, sia quelli portatori del controllo di fatto. 10 SICA M., Considerazioni in merito al riconoscimento di un «premio» di «maggioranza» o di «rilevanza», in Banche e Banchieri, 4, 1986, p. 276. 11 GUATRI, Trattato, cit., pp. 393-394.

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3. Il processo per la valutazione dei pacchetti azionari in ipotesi di trasferimento Il processo di valutazione 12 dei pacchetti azionari presenta alcune fondamentali criticità che scaturiscono principalmente dal fatto che la cessione o l’acquisizione di una data partecipazione possano determinare o meno il trasferimento del controllo dell’azienda partecipata e dalle difficoltà che possono appalesarsi riguardo alla liquidità di un dato pacchetto. Le questioni suddette fanno sì che il valore del pacchetto azionario – entità che rappresenta una percentuale del capitale sociale – non sia rappresentato semplicemente dal valore del capitale aziendale, considerato pro-quota. Il percorso si compone, dunque, di due momenti valutativi 13: I. ottenimento di una idonea base di valore 14 determinata applicando al valore dell’intero capitale aziendale una percentuale rappresentativa della quota di partecipazione 15; II. stima di alcune rettifiche da apportare alla suddetta base di valore. In particolare, si specifica quanto segue 16: 12

Il processo di valutazione è definito come «… un insieme coordinato di decisioni e operazioni avente per oggetto la valutazione di un complesso aziendale… o i titoli rappresentativi del capitale di una società (pacchetti azionari o quote sociali)» (GONNELLA E., Logiche e metodologie di valutazione d’azienda. Valutazioni stand-alone, Pisa, 2008, p. 42). L’American Society of Appraisers definisce il processo valutativo come: «the act, manner and technique of performing the steps of an appraisal method» (ASA, International Glossary of Business Valuation Terms, in www.bvappraisers.org). 13 Riguardo alle considerazioni svolte in ordine alle problematiche valutative trattate nel presente e nei paragrafi successivi, si fa riferimento, tra gli altri, a: GUATRI L.-BINI M., Nuovo trattato sulla valutazione delle aziende, Milano, 2009; MASSARI M.-ZANETTI L., Valutazione. Fondamenti teorici e best practice nel settore industriale e finanziario, Milano, 2008; MERCER C.Z., A Brief Review of Control Premiums and Minority Interest Discount, in The Journal of Business Valuation, Toronto, 1997; ONESTI, Sconti, cit.; PRATT S.P., Business Valuation. Discounts and Premiums, second edition, Hoboken, 2009; PRATT S.P.-REILLY R.F.-SCHWEIHS R.P., Valuing a Business, quinta edizione, New York, 2007; ZANDA-LACCHINI-ONESTI, Valutazione delle aziende, cit.; ZANETTI L., Premi di controllo e di acquisizione: alcuni approfondimenti, in La Valutazione delle Aziende, 34, 2004, p. 56. 14 Gli standard valutativi dell’American Society of Appraisers (ASA) dispongono che la base a cui applicare premi e sconti debba essere specificata e definita e che, tale definizione sia fornita anche con riferimento al premio da applicare. Si rinvia a: AMERICAN SOCIETY OF APPRAISERS, Business Valuation Standard VII – Valuation Discounts and Premiums, III, in www.bvappraisers.org. 15 Salvo casi particolari, la base di valore potrà essere determinata come valore proporzionale del capitale aziendale unicamente quando il suddetto capitale non si componga di azioni di diverse tipologie. In caso contrario, infatti, si renderà necessaria una preventiva distinzione delle varie categorie di azioni costituenti il medesimo capitale. 16 A tal proposito, si vedano, tra gli altri, CATTANEO M., Prezzi di Borsa delle azioni e valore dei pacchetti di controllo nell’ipotesi di cessione e di fusione di aziende, in Finanza Marketing & Produzione, 1, 1990; COLOMBO G., La cessione dei pacchetti di controllo: considerazioni per una discussione, in Rivista delle Società, 6, 1978; DAMODARAN A., The Dark Side of Valuation. Valuing Old Tech,

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a. alla base di valore si somma una grandezza detta premio di controllo, nel caso in cui il pacchetto sia tale da consentire, appunto, l’esercizio dei poteri di governo; b. alla base si sottrae un’entità detta sconto per mancanza di controllo, quando invece il pacchetto in trasferimento non è in grado di consentire l’esercizio del controllo; c. al valore ottenuto a seguito dello svolgimento della sopra descritta fase «b» si sottrae uno sconto per mancanza di liquidità, quando le caratteristiche del pacchetto azionario sono tali da determinare l’insorgenza di possibili difficoltà in sede di smobilizzo dell’investimento da esso rappresentato. PACCHETTI DI CONTROLLO Formula sintetica

Wpc = Wbase + PC (- SMN)17

PACCHETTI NON DI CONTROLLO Wpnc = Wbase – SMC – SML

dove:  PC = premio di controllo;  SMC = sconto per mancanza di controllo;  SMN = sconto per mancanza di negoziabilità;  SML = sconto per mancanza di liquidità. Lo studio del processo valutativo dei pacchetti azionari origina la necessità di individuare i cosiddetti «driver» (o fonti) del valore aziendale – ovvero l’insieme dei fattori capaci di influenzare il valore di una data partecipazione – e di considerare gli effetti dei suddetti driver in relazione alle diverse componenti (basi, premi o sconti) del valore-obiettivo. In caso di valutazioni di pacchetti azionari, diversamente da altri tipi di stima, si distingue tra effetti che l’operazione produce sull’azienda partecipata da effetti che, invece, possono trovare concretezza unicamente nell’economia del soggetto acquirente o cedente. La dottrina, al riguardo, individua gli effetti che si manifeNew Tech and New Economy Companies, UpperSaddle River, Prentice-Hall, 2001, p. 243 ss.; GUATRI, Trattato, cit., p. 394 ss.; ONESTI, Sconti, cit., p. 1 ss.; MASSARI-ZANETTI, Valutazione, cit., p. 385 ss.; MUSAIO A., Valore «intrinseco» e valore «soggettivo» delle partecipazioni, in Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, 5/6, 1995, p. 264 ss.; PAGANELLI, Valutazione, cit., pp. 84-87; ROMANO M., Dinamica del valore e aspetti di corporate governance negli squeeze-out delle minoranza azionarie, Ristampa aggiornata, Torino, 2008; SICA, Considerazioni, cit.; ZANDA, LACCHINI, ONESTI, Valutazione delle aziende, cit., p. 447 ss. 17 La decurtazione dovuta allo sconto per mancanza di liquidità, nel caso delle partecipazioni di controllo, è rappresentata tra parentesi, in quanto non vi sono in dottrina pareri univoci riguardo all’opportunità di una sua applicazione.

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stano all’«entity level» e quelli che, invece, agiscono allo «shareholder level» 18. Si tratta, nel primo caso, di benefici o svantaggi economici che, sebbene si manifestino a seguito del trasferimento del pacchetto e, quindi, delle azioni compiute dal nuovo soggetto economico, possono incidere sugli andamenti dell’azienda partecipata. Appartengono a questa categoria, ad esempio, le variazioni riscontrate nei flussi e nel profilo di rischio dell’azienda, la perdita di persone chiave, il venir meno di alcuni rapporti con clienti o fornitori strategici e altri elementi ancora 19. La seconda fattispecie, invece, si appalesa soltanto nell’economia del soggetto che compie l’operazione di trasferimento del pacchetto azionario (l’acquirente o il cedente) e può riguardare, ad esempio, il conseguimento di benefici privati scaturenti dalla facoltà di esercitare il controllo dell’unità organizzativa 20. La distinzione illustrata non è priva di effetti sul processo di stima strumentale all’ottenimento del valore ricercato, in quanto permette di stabilire se le rettifiche apportate in sede di valutazione debbano investire i parametri utilizzati per la stima della base di valore (I momento valutativo), da considerarsi pro-quota, oppure se queste debbano essere considerate in sede di determinazione dei premi e degli sconti riferiti al potere di controllo (II momento valutativo) o al fattore liquidità del titolo 21. Si rende necessario, dunque, individuare le fonti che incidono sulla formazione del valore nelle diverse fasi di cui si compone il processo di stima dei pacchetti azionari, in modo da cogliere la relazione esistente tra i momenti valutativi che costituiscono il citato processo e le rettifiche da attuare. La stima del valore dei pacchetti azionari segue, dunque, uno schema alquanto articolato. Per questo motivo, si richiede che le varie fasi del processo valutativo – sopra sintetizzate nei due momenti valutativi riferiti alla stima delle basi e alla determinazione dei premi o degli sconti – siano coerenti tra loro e con lo scopo preposto alla valutazione che ne determina la configurazione di valoreobiettivo 22. 18 In merito alla distinzione citata, si vedano, tra gli altri: MASSARI-ZANETTI, Valutazione, cit., p. 419 ss.; PRATT, Business Valuation, cit., pp. 3-4; FISHMAN J.E.-PRATT S.P.-MORRISON W.J., Standards of Value. Theory and Application, Hoboken, 2007, p. 129 ss.; HITCHNER J.R., Financial Valuation. Applications and Models, second edition, Hoboken, 2006, p. 380. 19 HITCHNER, Financial Valuation, cit., p. 380. 20 Si veda: GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 909. 21 Con riferimento ai momenti valutativi sopra citati, si veda: GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 904. 22 Gli standard valutativi emanate dall’American Society of Appraisers (ASA) sanciscono che: «The purpose, applicable standard of value, or other circumstances of an appraisal may indicate the need to account for differences between the base value and the value of the subject interest. If so, appropriate discounts or premiums should be applied» (AMERICAN SOCIETY OF APPRAISERS, Business Valuation Standard VII – Valuation Discounts and Premiums, III: The application of Discounts and Premium, in www.bvappraisers.org, p. 16). Si veda, inoltre, ROMANO, Dinamica, cit., p. 123.

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In ragione di quanto sopra affermato, si rileva come la differenza intercorrente tra il valore di pacchetti azionari di vario tipo non possa essere ricondotta unicamente all’applicazione dei premi e degli sconti sopra indicati 23. La suddetta differenza, infatti, si manifesta già nel primo momento valutativo, cioè a livello di base di valore, in quanto anche quest’ultima deve essere determinata coerentemente con i presupposti che stanno alla base della stima 24.

4. I concetti di valore e prezzo nella dottrina economico-aziendale In un’economia in cui la moneta assume il ruolo di unità di misura nelle attività di scambio, il valore viene inteso quale giudizio espresso in termini monetari da un determinato soggetto 25. Il valore, oltre a connotarsi come giudizio soggettivo (neutrale o di parte) e, per questo, variabile in relazione alla posizione assunta dal soggetto che compie la stima, è un concetto strettamente connesso alle previsioni e alle attese formulate circa gli andamenti futuri dell’unità operativa oggetto di valutazione 26. L’accennata soggettività del valore scaturisce dal fatto che, come riferito, il suddetto concetto assume la natura di giudizio, legandosi, quindi, al soggetto da cui tale giudizio scaturisce. Pur permanendo il principio dell’unitarietà del valore del capitale aziendale, la valutazione di una combinazione produttiva – quando considerata quale oggetto di trasferimento 27 – può essere effettuata con riferimento all’intero capitale aziendale o a quote dello stesso, come accade nel caso dei pacchetti azionari. Nell’ambito della disciplina della valutazione d’azienda e, in particolare, della stima del valore dei pacchetti azionari è opportuno accennare alla relazione tra i concetti di valore e di prezzo. Pur premettendo che il valore costituisce la necessaria base ai fini della determinazione del prezzo 28, occorre precisare che il primo è un’entità che scaturisce da un giudizio di stima e, per tale motivo, astratta e teorica mentre il secondo nasce da una realtà di fatto, emergente dal necessario incontro tra domanda e offerta ai fini della negoziazione. Il valore, come noto, può assumere configurazioni diverse in relazione allo scopo della stima e alla logica 23

GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 900. GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 964; ROMANO, Dinamica, cit., p. 123. 25 AMODEO D., Ragioneria generale delle imprese, Napoli, 1965, p. 105; GIANNESSI E., Appunti di economia aziendale. Con particolare riferimento alle aziende agricole, Pisa, 1979, p. 343. 26 DONNA G., La creazione del valore nella gestione d’impresa, Roma, 1999, p. 66. 27 La stima del valore del capitale aziendale, come noto, è svolta principalmente in caso di acquisizioni o cessioni di aziende o di parti delle stesse. Oltre alle circostanze citate, può concretarsi in operazioni diverse, quali, ad esempio, le trasformazioni, l’ammissione alla quotazione in Borsa, le offerte pubbliche di acquisto, vendita o scambio o alcuni casi di aumento di capitale. 28 FERRERO G., La valutazione economica del capitale d’impresa, Milano, 1966, pp. 19-20. 24

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valutativa adottata. Con particolare riferimento al tema dei pacchetti azionari, è possibile sostenere che la tipologia del pacchetto negoziato e lo scopo della valutazione implicano l’adozione di logiche valutative distinte che necessariamente conducono all’ottenimento di configurazioni di valore diverse 29. Il prezzo dipende, in sostanza, oltre che dalle determinanti del valore 30, anche da condizioni soggettive di negoziazione 31, ravvisabili, ad esempio, nelle situazioni particolari dei contraenti, nella forza contrattuale e nella loro abilità negoziale 32. Vi sono, poi, alcuni fattori esterni che incidono sul prezzo quali, ad esempio, le caratteristiche del mercato e del settore, il grado di concentrazione dello stesso, le barriere all’entrata, il rischio o l’intensità concorrenziale 33. Il valore aziendale prescinde, quindi, dalle condizioni soggettive di negoziazione, poiché esse non si prestano a obiettive valutazioni. Tali condizioni esercitano influenze di tipo diverso sul processo di pattuizione del prezzo effettivo di scambio in relazione al peso ad esse attribuito dai soggetti contraenti e al rapporto che intercorre tra gli stessi e con l’esterno.

5. Quadro teorico per la classificazione dei processi valutativi dei pacchetti azionari La determinazione quantitativa del valore di una data entità può condurre a risultati diversi in quanto la stessa entità è suscettibile di essere valutata secondo presupposti e logiche di vario tipo. Inoltre, il valore è fortemente condizionato dalle ipotesi che si formulano in merito ai possibili andamenti futuri delle unità coinvolte da tale operazione, come sarà meglio approfondito in seguito. La logica valutativa da seguire per la determinazione del valore-obiettivo è definita seguendo gli scopi preposti alla valutazione. Coerentemente con la logica seguita, il perito valutatore sarà chiamato alla scelta dei metodi indicati in relazione al caso specifico, nonché alla determinazione dei parametri da impiegare nella valutazione, in modo da pervenire alla base di valore, ai premi o agli sconti da applicare per l’ottenimento del valore-obiettivo 34. 29

PAGANELLI, Valutazione, cit., pp. 7. Si veda: AMADUZZI A., Le gestioni comuni (gestioni societarie, associazioni in partecipazione, aziende divise – gestioni speciali), Torino, 1961, p. 383; BRUNI G., Contabilità del valore per «aree strategiche d'affari», Torino, 1999, p. 105; ONESTI T., Trasferimento di partecipazioni e sconti di minoranza, in Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, 9/10, 2000, p. 459. 31 ZANDA-LACCHINI-ONESTI, Valutazione delle aziende, cit., p. 12. 32 GALEOTTI M., La valutazione strategica nell’ipotesi di cessione dell’azienda, Milano, 1995, p. 10. 33 Per approfondire l’analisi dei fattori che influiscono sulla determinazione del prezzo, si veda: GUATRI, Trattato, cit., pp. 29-31; ZANETTI, Acquisizioni, cit., p. 230 ss. 34 GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 905 ss. 30

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5.1. Logiche valutative La logica valutativa è intesa come il percorso seguito per il compimento della stima. In altri termini, è l’approccio adottato per determinare la configurazione di valore-obiettivo 35. La scelta di logiche valutative differenti porta inevitabilmente all’ottenimento di risultati diversi pur riferiti al medesimo pacchetto azionario. Per una migliore comprensione di quanto affermato, si propone di seguito una classificazione delle principali logiche valutative riferibili alla stima del valore dei pacchetti azionari: 1. Criterio della stabilità o della modifica della formula imprenditoriale: logica valutativa “as-is” (stato stazionario) o potenziale (stato evolutivo). L’adozione di logiche di tipo “as-is” prevede la considerazione dell’ipotesi di stabilità della formula imprenditoriale dell’azienda target. Si ipotizza, cioè, che una volta avvenuto il trasferimento del pacchetto azionario sia previsto il mantenimento dell’attuale combinazione prodotti-mercati-tecnologie per l’azienda target, guardando solo alle naturali evoluzioni spontanee della suddetta combinazione. Ciò comporta, in sede di stima, la considerazione della redditività già dimostrata dall’azienda o conseguibile sulla base delle azioni già intraprese. La logica potenziale, basata sullo stato evolutivo, ipotizza, invece, che l’attuale formula imprenditoriale cambi a fronte di politiche e strategie o ipotesi di crescita e sviluppo dell’azienda in riferimento a un arco temporale medio-lungo e perviene alla stima di un valore, che è riferito alla capacità reddituale e finanziaria dell’azienda nel medio-lungo periodo a fronte dei processi di crescita o dell’esercizio di opzioni di varia natura 36. 2. Criterio della neutralità della stima: stime neutrali o di parte. I pacchetti azionari, come ogni entità suscettibile di valutazione, possono essere osservati assumendo l’ottica del perito indipendente oppure quella del perito di parte. Nel primo caso, il pacchetto azionario viene valutato prescindendo dalle influenze esercitate sul valore delle convenienze degli specifici soggetti contraenti. Si escludono, quindi, gli effetti economico-finanziari conseguenti agli interventi realizzabili da potenziali controllanti specifici. Si prescinde, inoltre, dagli effetti prodotti dall’integrazione di due o più complessi aziendali, in caso di prospettiva acquirente, o dalla separazione di due o più complessi aziendali, dovuti al trasferimento di pacchetti azionari che determinano la perdita del controllo da parte del soggetto cedente. La stima effettuata in ottica di parte, invece, prende in esame anche gli effetti prodotti dai potenziali interventi attuabili dall’investitore specifico, sia esso un potenziale acquirente o un possibile cedente. 3. Criterio della combinazione aziendale: logica stand alone o combined. Tale distinzione adotta come criterio discriminante la considerazione dell’eventuale relazione dell’entità target con altri complessi aziendali. Da quanto detto, emer35 36

Per approfondimenti, si veda: GONNELLA, Logiche, cit., pp. 42-46. GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 479.

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gono, come noto, due logiche di stima: la valutazione stand alone, che si focalizza sull’entità singolarmente considerata e prescinde dai driver di valore che scaturiscono dall’interazione tra più complessi aziendali, e quella combined, che prevede invece l’osservazione degli effetti positivi o negativi dell’appartenenza del pacchetto azionario a un complesso aziendale più ampio.

5.2. Approcci di valutazione: cenni ai criteri diretti e indiretti La dottrina valutativa distingue i criteri di stima in diretti (o assoluti) e indiretti (o relativi) 37. Tale distinzione trova conferma anche nell’ambito della valutazione dei pacchetti azionari e porta allo sviluppo di processi diversi 38. 5.2.1.Criteri diretti I criteri diretti si fondano sull’impiego dei multipli per la determinazione del valore dell’azienda. Il valore dell’azienda, in questo caso, viene determinato sulla base dei prezzi di Borsa delle azioni o ai prezzi negoziati in acquisizioni effettuate fuori dal mercato borsistico da società comparabili a quella oggetto di stima. I multipli, in particolare, sono determinate sulla base del rapporto tra i prezzi dei titoli di società comparabili (numeratore) e grandezze economiche, finanziarie e patrimoniali delle società stesse (denominatore). Il valore di un’azienda è ottenuto, dunque, come prodotto tra il moltiplicatore e la grandezza specificamente riferita alla società valutata, corrispondente a quella che costituisce il denominatore del multiplo 39. La valutazione dei pacchetti azionari, attuata mediante l’impiego di approcci basati sui multipli, può essere svolta adottando metodologie diverse. Il guideline publicly traded company method prevede l’impiego di multipli riferiti ad aziende i cui pacchetti sono scambiati sui mercati regolamentati, mentre il guideline merged and acquired company method fa riferimento a multipli adottati in negoziazioni di aziende comparabili, che siano state oggetto di fusioni o acquisizioni. L’impiego dei multipli, secondo il tipo di metodo adottato, può condurre in via diretta al valore di azioni appartenenti a pacchetti di maggioranza oppure a pacchetti esclusi dal controllo. È logico ritenere, infatti, che guideline merged and acquired company method prenda in considerazione trasferimenti che hanno ad oggetto l’intero capitale aziendale o partecipazioni di controllo, mentre guideline publicly traded company method, stimi il multiplo analizzando transazioni che, av37

Tra gli altri, si veda: GUATRI L.-BINI M., I moltiplicatori nella valutazione delle aziende. Metodi e strumenti, Milano, 2002. 38 PRATT, Business Valuation, cit., pp. 8-9; HITCHNER, Financial Valuation, cit., p. 8. 39 GONNELLA, Logiche, cit.

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venendo quotidianamente sui mercati borsistici, coinvolgano pacchetti minoritari esclusi dal controllo 40. Dalle considerazioni sopra riportate, si rileva, anzitutto, che gli approcci fondati sui multipli possono condurre direttamente al valore delle azioni che costituiscono un dato pacchetto azionario 41. In particolare, il metodo che prevede l’adozione dei multipli ottenuti da transazioni comparabili può condurre direttamente al valore di azioni appartenenti ai pacchetti di controllo. In questo caso, il valore dell’azione appartenente al pacchetto non di controllo sarà ottenuto sottraendo uno sconto per mancanza di controllo 42. La rettifica si renderebbe, dunque, necessaria solo nel caso in cui lo scopo della valutazione fosse quello di determinare il valore di un pacchetto di minoranza. Diversamente, l’utilizzo del guideline publicly traded company method conduce direttamente al valore dell’azione appartenente al pacchetto escluso dal controllo. In questo secondo caso, per ottenere il valore dell’azione riferita la pacchetto di controllo, sarà necessario aggiungere un premio al valore ottenuto 43. In altri termini, in conseguenza della metodologia adottata e del tipo di pacchetto oggetto di stima, l’applicazione di premi e sconti può risultare, secondo i casi, non necessaria 44. 5.2.2. Criteri indiretti I criteri indiretti si traducono nell’applicazione di approcci valutativi basati su grandezze flusso (metodi reddituali o finanziari), su grandezze stock (metodi patrimoniali) oppure su approcci di tipo misto patrimoniale-reddituale. Nel caso dei metodi patrimoniali 45, la stima – di tipo analitico – è effettuata mediante una rivalutazione degli elementi patrimoniali attivi e passivi a valori correnti di sostituzione 46. Le attività sono espresse al costo di riacquisto o di riproduzione, mentre le passività al valore a cui, allo stato attuale, potrebbero essere rinegoziate. Dalla differenza tra attività e passività, valutate nelle suddette mo40

PRATT, Business Valuation, cit., p. 25 ss. HITCHNER, Financial Valuation, cit., p. 8; PRATT, Business Valuation, cit., pp. 8-9. 42 Si veda: PRATT, Business Valuation, cit., p. 9; HITCHNER, Financial Valuation, cit., p. 8. Si ricorda che in quest’ottica lo sconto per mancanza di controllo è inteso come la grandezza che consente di passare dal valore di partecipazioni maggioritarie, a quello di partecipazioni di minoranza. 43 Il premio di controllo, in questo caso, è inteso come la rettifica che consente il passaggio dal valore di azioni appartenenti a pacchetti di minoranza al valore di azioni afferenti a pacchetti di controllo. 44 Si ricorda che le considerazioni esposte prescindono dalla problematiche inerenti alla liquidità dei titoli. 45 Per maggiori approfondimenti sui metodi trattati si veda, tra gli altri: GONNELLA, Logiche, cit., cap. 3. 46 Al riguardo, si veda: PAGANELLI, Valutazione, cit., p. 12. 41

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dalità, si ottiene il valore dell’azienda, denominato capitale netto rettificato. I metodi patrimoniali si dicono semplici quando non considerano nella stima le attività immateriali non contabilizzate 47, oppure complessi quando, invece, valutano anche detti asset 48. Riguardo ai metodi misti, si riferisce come essi siano fondati sia sul valore patrimoniale dell’azienda sia su quello espresso in termini di capacità di produrre redditi futuri. Tra i più diffusi metodi misti, vi è quello che prevede la stima autonoma dell’avviamento. Esso ottiene il valore dell’azienda sommando al valore del capitale netto rettificato quello dell’avviamento positivo o negativo. L’avviamento viene stimato capitalizzando il cosiddetto reddito differenziale, dato dalla differenza tra reddito prospettico e reddito equo 49: W = K + Avviamento. Tra le metodologie basate su grandezze flusso si distinguono i metodi reddituali, che si fondano sulla capacità futura dell’azienda di produrre redditi, e i metodi finanziari, che invece impostano la determinazione del valore aziendale sui flussi di cassa ipotizzati per il futuro. I flussi (reddituali 50 o di cassa) vengono determinati puntualmente per un orizzonte temporale prospettico, sulla base della formulazione di assumption circa gli andamenti prospettati per il futuro delle dinamiche aziendali e ambientali. La determinazione del valore del capitale aziendale, in questo caso, avverrà scontando i flussi prospettici, di reddito o di cassa e il valore terminale, mediante l’impiego di tassi idonei a rappresentare il profilo di rischio dell’entità stimata 51. Si riporta la formula generica: W 

n

Ft

t 1

1  i 



t



TV

1  i n

dove:  W = valore d’azienda;  Ft = flusso prospettico (di reddito o di cassa) all’anno t;  TV = terminal value è un valore espressivo della capacità reddituale/finanziaria aziendale successiva a quella del periodo delle previsioni analitiche  i = tasso di attualizzazione. 47

Con riferimento agli intangible, si rinvia a: ITAMI H., Le risorse invisibili, Torino, 1988 (ed. orig.: Mobilizing Invisible Asset, Boston, President and Fellows of Harvard College, 1987). 48 GUATRI, BINI, Nuovo trattato, cit., p. 59 ss. 49 Per approfondimenti, si veda: GUATRI, BINI, Nuovo trattato, cit., p. 602 ss.; GONNELLA, Logiche, cit., cap. 4; MASSARI M., Il metodo misto di valutazione delle imprese. Una riformulazione aderente alla moderna finanza aziendale, in Finanza, Marketing & Produzione, 3, 1995. 50 Si fa riferimento, in questo caso, ai metodi reddituali complessi. 51 Per un’analisi più approfondita delle formule da impiegare per la determinazione del valore mediante l’impiego delle metodologie in analisi, tra gli altri, si rinvia a: GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit.; GONNELLA, Logiche, cit.; LIBERATORE G., La valutazione delle PMI, Milano, 2010.

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L’adozione dei metodi accennati, nell’ambito della stima del valore dei pacchetti azionari, comporta la realizzazione di un processo valutativo a più stadi che, come sarà illustrato a breve, prevede la determinazione delle basi di valore e, successivamente, l’applicazione di premi di controllo o di sconti per mancanza di controllo e per mancanza di liquidità. Gli approcci valutativi in parola sono denominati «indiretti» in quanto le metodologie reddituali, finanziarie, patrimoniali o miste sono applicate per la determinazione delle basi di valore sopra riferite. È, infatti, solo indirettamente – ovvero applicando premi e sconti a tali basi – che si perviene al valore finale del pacchetto azionario. La valutazione dei pacchetti azionari, in questo caso, avviene mediante la realizzazione di un processo di stratificazione del valore 52. Il risultato finale può essere ottenuto, infatti, sommando algebricamente i diversi «strati» di valore che determinano il valore del pacchetto (basi di valore, premi di controllo o sconti per mancanza di controllo, sconti per mancanza di mercato). Le basi di valore – che come ormai noto rappresentano livelli intermedi nella valutazione delle partecipazioni – assumono un rilievo notevole nel processo di stima e possono considerarsi come «pietre miliari» del suddetto processo, in quanto rappresentano, al contempo, il risultato e il punto di partenza di fasi sequenziali del processo valutativo. Il metodo esposto, partendo da una base rappresentativa del valore dell’unità in trasferimento, considerata secondo una logica «as-is», prevede che vengano sommati a tale entità determinati «strati» di valore, in modo da introdurre nella stima gli effetti delle evoluzioni previste dopo il trasferimento rispetto alla situazione preesistente e della prospettiva adottata dal perito valutatore. A partire da questa prima base, opportunamente rettificata, si sommano i vari «strati» del valore, riconducibili ai driver da considerare nelle diverse ipotesi valutative 53. In questo modo, coerentemente con la logica valutativa adottata, si determina la seconda base di valore. A tale seconda base, potranno essere sommati i premi di controllo, in caso di pacchetti di controllo, o sottratti gli sconti per mancanza di controllo e per mancanza di liquidità, in caso di pacchetti minoritari non portatori del diritto in parola e investiti dalle problematiche inerenti al tempestivo smobilizzo dell’investimento. 52

Sul modello della stratificazione del valore si veda: COPELAND T.-KOLLER T.-MURRIN J., Il valore dell’impresa. Strategie di valutazione e gestione, terza edizione aggiornata, Milano, 1994, p. 460 ss.; MASSARI, Finanza aziendale, cit., p. 166 ss.; PRATT-REILLY-SCHWEIHS, Valuing a Business, cit., p. 354; ZANETTI, Acquisizioni, cit., p. 152 ss. Riguardo all’impiego della formula della stratificazione del valore nell’ambito della valutazione dei pacchetti azionari, in ottica acquirente, si veda: MASSARI-ZANETTI, Valutazione finanziaria, cit., p. 327 ss. 53 In caso di stime neutrali, orientate all’ottenimento del fair market value, è opportuno considerare i soli valori derivanti dalle evoluzioni dallo stato attuale, condivisibili da ogni generico soggetto acquirente, secondo una logica di tipo stand alone.

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Questa seconda base può essere stimata secondo le logiche che conducono all’ottenimento della configurazione di valore-obiettivo del pacchetto azionario. Gli elementi che influiscono sul valore della base – individuati in ragione della logica di stima adottata – devono essere distinti da quelli che incidono sul valore del premio o dello sconto, in modo da evitare eventuali duplicazioni nelle stime effettuate. Per tale ragione, si ritiene opportuno individuare una diretta relazione tra la specifica rettifica e la base di valore a cui viene applicata 54. Il processo di stima prevede che si proceda rettificando le diverse basi di valore (I base: valore «as-is» dell’azienda e II base: valore pro-quota del capitale aziendale, stimato nella configurazione di valore coerente con la logica valutativa adottata) 55, in modo da ottenere il valore-obiettivo del pacchetto azionario. Dalle considerazioni esposte, nonché dalla complessità delle stime in analisi nel presene lavoro, emerge l’opportunità di distinguere la base di valore che rappresenta il punto di partenza della stima dalle altre che costituiscono, invece, livelli intermedi nel processo che conduce all’ottenimento del valore finale.

5.3. Configurazioni di valore-obiettivo maggiormente ricercate nella prassi italiana Il processo valutativo è orientato all’ottenimento di una configurazione di valore-obiettivo che può essere determinata seguendo le diverse logiche valutative sopra descritte. Si riportano, di seguito, alcune delle principali configurazioni: 1. Capitale economico: il perseguimento della logica stand-alone impone la considerazione di parametri valutativi “depurati” dagli effetti dell’appartenenza del pacchetto a uno specifico potenziale cedente e dalle modifiche che il trasferimento produce per lo stesso o dai cambiamenti e dalle implicazioni che si collegano agli interventi del potenziale acquirente. Seguendo la logica “as-is”, poi, si considerano solo le naturali evoluzioni dell’attuale formula imprenditoriale e non quelle dovute all’intervento di nuove strategie. Il valore economico è, dunque, riferito alla redditività già dimostrata dall’azienda o acquisibile dalla stessa nel breve periodo, con relativa certezza. 2. Valore potenziale 56: dà rappresentazione di una situazione evolutiva del54 Si osservino, al riguardo, le parole di Mercer: «If business appraisers make adjustments to the financial statements of a subject private company that might be available only to a controlling shareholder, and then apply a “normal” control premium... there can be a double tendency to overvalue the subject private company» (MERCER, Brief Review, cit., p. 371). 55 Solitamente, nella letteratura anglosassone, si utilizza il termine «livelli di valore». L’American Society of Appraisers utilizza il termine basi piuttosto che livelli di valore in quanto nel primo caso non si richiede un processo lineare ma multivariato (PRATT S.P., Business Valuation. Discounts and Premium, Hoboken, 2001, pp. 6-7). Non è, infatti, escluso che il valore di controllo sia, in alcuni casi, inferiore a quello di minoranza. 56 Si specifica che, nell’ambito del presente lavoro, il valore potenziale viene considerato nella sua prospettiva di parte. Per dovere di completezza, è opportuno sottolineare che, nel contesto

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l’azienda ed è funzione delle opportunità di crescita e delle modifiche realizzabili, in termini di formula imprenditoriale, una volta avvenuto il trasferimento dell’entità oggetto di stima, in relazione alle possibilità di miglioramento derivanti dall’attuale situazione 57. Con riferimento alla valutazione delle partecipazioni, tale configurazione di valore può essere più frequentemente riscontrabile nei casi di valutazione di pacchetti di controllo. Diversamente, infatti, non sarebbe possibile la realizzazione di interventi volti al miglioramento della gestione aziendale o di modifiche riguardanti la formula imprenditoriale 58. Il valore potenziale – da riferirsi al caso sia delle acquisizioni, sia delle cessio59 ni – può essere inteso in senso stretto o in senso ampio 60. Quando inteso in senso stretto, viene determinato secondo logiche stand alone, mentre nel caso di un’interpretazione più ampia, la stima dovrà considerare anche l’insorgenza di effetti economici vantaggiosi o svantaggiosi conseguenti all’inserimento del complesso trasferito all’interno della realtà aziendale da cui viene acquisito o la perdita dei suddetti effetti, a causa della cessione dell’oggetto stimato da parte dell’unità operativa con cui quest’ultimo precedentemente si integrava 61. La citata interpretazione ampia del valore potenziale può accogliere, in primo luogo, il valore sinergico di acquisizione. Esso è frutto della stima effettuata dal perito di parte acquirente ed è espressione delle specifiche motivazioni e convenienze che spingono tale soggetto a realizzare l’acquisizione 62. Il valore sinergico di acquisizione è, solitamente, definito come il «limite superiore», da rispettare in sede di definizione del prezzo di trasferimento, affinché l’operazione sia conveniente per l’acquirente 63. Esso è, quindi, il limite massimo oltre il quale, nelanglosassone, è diffuso il concetto di fair market value che prevede il perseguimento di logiche neutrali ma potenziali. Si segue cioè un percorso che individua le evoluzioni strategiche rispetto a una situazione attuale ma riferibili al soggetto acquirente-cedente generico. 57 Damodaran, afferma: «If we consider the value to be the end result of the investment, financing and dividend decision made by a firm, the value of a firm will be a function of how optimal (or suboptimal) we consider a firm management to be» (DAMODARAN A., Damodaran on Valuation. Security Analysis for Investment and Corporate Finance, second edition, Hoboken, Wiley & Sons, 2006, p. 464). 58 ONESTI, Sconti, cit., p. 74. 59 FRATTINI, Valore di acquisizione, cit., p. 7. 60 Si veda: GONNELLA, Logiche, cit., p. 32 ss. 61 In senso ampio, il concetto di valore potenziale comprende, oltre alla situazione citata, anche quella descritta in precedenza che afferisce al valore potenziale stand alone. 62 Bruni, riguardo alle diverse prospettive di osservazione del valore del medesimo oggetto, scrive: «... il valore... può essere guardato da diverse angolazioni concettuali e metodologiche che secondo il diverso fine proposto conducono a valutazioni differenziate sullo stesso oggetto, ma non per questo incompatibili fra loro» (BRUNI, Contabilità del valore, cit., p. 106). 63 FRATTINI, Valore di acquisizione, cit., p. 6. PAGANELLI, Valutazione, cit., p. 8; ROMANO, Dinamica, cit., p. 115.

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l’ottica di un particolare soggetto acquirente, l’operazione cessa di essere vantaggiosa poiché, oltre tale limite, si verificherebbe un trasferimento di ricchezza dall’acquirente al cedente 64. Il modello della stratificazione del valore 65 perviene al valore di acquisizione sommando algebricamente al valore dell’unità target, ottenuto secondo logiche “as-is” e stand alone, alcuni «strati di valore» ravvisabili principalmente nel valore dei benefici economici e delle sinergie insorgenti post acquisizione, nel valore dei differenziali di rischio conseguenti all’operazione e delle opzioni reali che potranno appalesarsi a seguito dell’acquisizione 66: Wa = Wbase + Wb – Ws + WΔrischio + Wo dove:  Wa è il valore sinergico di acquisizione;  Wbase è il valore di base stand alone;  Wb è il valore dei benefici economici realizzabili post acquisizione;  Ws è il valore degli svantaggi economici sopportati post acquisizione;  WΔrischio è il valore dei differenziali di rischio conseguenti all’operazione;  Wo è il valore delle opzioni reali 67. Guardando, ora, alle operazioni di cessione, si rileva anche in questo caso che il valore potenziale, inteso in senso ampio, può assumere la connotazione del valore sinergico di cessione che esprime il valore del complesso da cedere considerando le motivazioni e le specifiche convenienze che spingono il soggetto alienante a realizzare la cessione 68. Esso è utile per giudicare la convenienza del trasferimento di unità produttive e costituisce la base per la determinazione del prezzo effettivo di scambio 69. La stima del valore in analisi non è fondata solo sulla base della redditività potenziale del complesso stimato, ma anche dei vantaggi e degli svantaggi che insorgono nell’economia del soggetto cedente a causa del trasferimento 70. Per le ragioni anzidette, il valore sinergico di cessione assume 64

GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 500. Si veda: MASSARI-ZANETTI, Valutazione, cit., p. 375 ss.; COPELAND-KOLLER-MURRIN, Valore dell’impresa, cit., p. 460. 66 È opportuno precisare che, nella prassi valutativa, il valore risultante dal processo di stratificazione risulta maggiormente influenzato dalle componenti riferibili agli effetti sinergici o agli svantaggi economici, piuttosto che degli altri strati di valore illustrati. 67 Per approfondimenti riguardanti il tema delle opzioni, si rinvia a: BUTTIGNON F., I modelli di finanza nella valutazione delle alternative strategiche, in Finanza Imprese e Mercati, 1, 1990. 68 Riguardo al tema in analisi, si veda il concetto di «valore interno di una data unità aziendale», in REBOA M., Le dismissioni di unità aziendali nei processi di ristrutturazione, Milano, 1996, p. 84 ss. 69 GUATRI, Trattato, cit., p. 204. 70 REBOA, Dismissioni, cit., p. 87-88. 65

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carattere soggettivo. Tale valore è considerato come il limite inferiore, al di sotto del quale il prezzo di cessione non sarebbe conveniente per il cedente 71. La logica che si pone alla base del valore sinergico di cessione risulta analoga a quella descritta per il valore di acquisizione. Tale grandezza, dunque, è condizionata dagli svantaggi e/o dai vantaggi economici derivanti, ad esempio, dalla cessione di un’unità aziendale, di un pacchetto di controllo o, ancora, di un ramo d’azienda 72. Vi sono casi, tuttavia, in cui il valore sinergico di cessione si avvicina al valore potenziale inteso in senso stretto che, come noto, è legato alla logica di tipo stand alone. Tali situazioni si presentano, ad esempio, quando si trasferisce l’intero complesso posseduto e non una parte dello stesso. Guardando, poi, alla valutazione dei pacchetti azionari, può essere più appropriata l’adozione di valori potenziali, intesi in senso stretto, quando, ad esempio, i benefici derivanti dall’esercizio del controllo sono di entità trascurabile o nulla 73. L’approccio della stratificazione del valore, come nel caso dell’acquisizione, considerando dapprima il valore «as-is» del complesso trasferito, si sviluppa sommandovi algebricamente gli «strati» di valore rappresentativi degli effetti economici del trasferimento del complesso stimato. I suddetti «strati» esprimono il valore degli svantaggi e dei vantaggi economici che scaturiscono dalla separazione di due o più complessi (dispersioni), dal valore del differenziale di rischio, delle opzioni realizzabili in caso di mancata enucleazione del complesso e dal valore delle possibilità d’impiego della liquidità ottenuta dalla cessione: Wc = Wbase – Wb + Ws + WΔrischio + Wo – Wl dove:  Wc è il valore sinergico di cessione;  Wbase è il valore di base stand alone 74;  Wb è il valore dei benefici economici ritraibili a seguito del trasferimento dell’oggetto stimato;  Ws è il valore degli svantaggi economici sopportati a seguito del trasferimento;  WΔrischio è il valore dei differenziali di rischio conseguenti all’operazione;  Wo è il valore delle opzioni reali, realizzabili in caso di mancato trasferimento;  Wl è il valore delle possibilità di impiego della liquidità ottenibile come corrispettivo della cessione. Affinché si concluda la negoziazione occorre che il valore minimo stimato dal 71

Si vedano: PAGANELLI, Valutazione, cit., p. 8; MASSARI, Finanza aziendale, cit., p. 182. REBOA, Dismissioni, cit., pp. 88-89. 73 MASSARI, Finanza aziendale, cit., p. 182. 74 Si veda, inoltre: REBOA, Dismissioni, cit., pp. 87-88. 72

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venditore sia inferiore al valore massimo stimato dall’acquirente e che si crei un’area di sovrapposizione delle rispettive convenienze, all’interno della quale può cadere il prezzo effettivo. Il prezzo di scambio sarà più prossimo all’uno o all’altro valore limite in virtù della forza contrattuale esercitata dai due soggetti 75. 1. Valore di cessione < valore di acquisizione: il prezzo effettivo può collocarsi nell’intervallo tra i due valori, perciò potrà realizzarsi il trasferimento del pacchetto azionario. 2. Valore di cessione > valore di acquisizione: non si ha l’area di sovrapposizione che permette di stabilire un prezzo che si ponga tra i due valori perciò non si potrà realizzare lo scambio.

6. La stima delle basi di valore: criteri indiretti Nel presente paragrafo verranno illustrate le criticità relative alla fase della valutazione dei pacchetti azionari, dedicata alla stima delle basi di valore. In particolare, verranno approfondite le stime di basi di valore coerenti con processi valutativi volti all’ottenimento del capitale economico, del valore sinergico di acquisizione e di cessione.

6.1. Stime neutrali: basi di valore coerenti con la stima del capitale economico Qualora la configurazione di valore ricercata sia il capitale economico, il valore della base sarà ottenuto applicando al valore economico dell’azienda partecipata – definito secondo logiche «as-is» e stand alone – la percentuale di partecipazione che rappresenta la dimensione del pacchetto. In tale ottica, dunque, l’elemento che distingue le basi di valore riferite alle stime di pacchetti di controllo oppure minoritari è la dimensione della partecipazione, che incide nella stima mediante l’applicazione, al citato valore economico. Considerando, ad esempio, che il capitale aziendale sia distribuito tra due soli soci, risulta evidente la piena realizzazione del cosiddetto principio di complementarità del valore dei pacchetti azionari, secondo cui, il valore dei diversi pacchetti partecipanti al medesimo capitale è tale da far verificare la seguente relazione: W pacchetto di maggioranza + W pacchetto di minoranza = W intero capitale aziendale Supponendo che la quota di partecipazione del pacchetto di maggioranza sia pari al 70% del capitale, mentre quella del pacchetto di minoranza sia pari al 30%, il valore dei due pacchetti può essere ottenuto applicando le seguenti formule 76: 75 76

FRATTINI, Valore delle acquisizioni, cit., pp. 6-8. Si prescinde, per il momento, dalle problematiche legate alla negoziabilità del titolo.

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W pacchetto di maggioranza = 70% x capitale economico + premio di maggioranza W pacchetto di minoranza = 30% x capitale economico – sconto di minoranza

6.2. Stime di parte: basi di valore coerenti con la determinazione del valore sinergico di acquisizione Si ritiene opportuno approfondire l’analisi dalle fattispecie valutative riferite alle cosiddette acquisizioni sinergiche, in quanto si tratta di operazioni capaci di originare un maggior numero di driver di valore rispetto al caso delle operazioni a cui non fa seguito l’insorgenza di sinergie 77. Nel caso di valutazioni effettuate nell’ambito di acquisizioni sinergiche aventi ad oggetto pacchetti di controllo, la configurazione di valore ricercata è il valore sinergico di acquisizione o valore strategico nella prospettiva dell’acquirente 78. L’adozione di prospettive non neutrali fa sì che la stima sia fondata sui driver di valore osservabili nell’ottica dello specifico soggetto acquirente. Analizzando, ora, le fasi del processo che conduce all’ottenimento del valore della base 79, si considera come prima base il valore «as-is» dell’azienda partecipata nella misura della percentuale di partecipazione al capitale del pacchetto azionario in trasferimento, in modo da ottenerne il valore proporzionale (Wpq). Ai fini dell’ottenimento della seconda base di valore, alla grandezza così ottenuta si somma algebricamente il valore attuale dei flussi differenziali – positivi o negativi – ipotizzati nell’orizzonte temporale prospettico una volta avvenuto il trasferimento del pacchetto 80. Si tratta, dunque, dell’insieme degli interventi prospettati o degli effetti insorti 81 in conseguenza dell’adozione della logica valutativa potenziale, propria del valore di acquisizione. Tali interventi, come ormai noto, consistono in evoluzioni, di solito non spontanee, della formula imprenditoriale che saranno intraprese dopo il trasferimento del controllo. In particolare, tali flussi differenziali possono essere originati dagli effetti asi77

Con riferimento ai driver di valore che entrano in gioco nel caso di acquirenti operativi, aziendali o privati, si legga: FISHMAN-PRATT-MORRISON, Standards of Value, cit., p. 24. 78 Si rinvia, per approfondimenti relativi alle varie componenti del valore suddetto a: FRATTINI, Valore di acquisizione, cit., p. 6 ss.; GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 911 ss.; ROMANO, Dinamica, cit. pp. 117-124. 79 DAMODARAN, Damodaran on valuation, pp. 480-481. 80 Si veda, in merito: FRATTINI, Valore di acquisizione, cit., pp. 17-18; MASSARI, Valore, cit.; MASSARI-ZANETTI, Valutazione, cit., p. 387; MANTOVANI G., Premi di maggioranza: distorsioni di mercato o valorizzazione di competenze?, in Contabilità Finanza & Controllo, 6, 2003; PATERNÒ DI MONTECUPO M., Considerazioni sul valore di acquisto di pacchetti azionari, in Finanza Marketing & Produzione, 3, 1995. 81 GONNELLA E., I rami d’azienda. Genesi, tratti distintivi, lineamenti economici, Pisa, 2012.

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nergici e sinergici osservati in ottica di parte e dalle variazioni intervenute sul profilo di rischio operativo e finanziario. Appartengono alla categoria degli effetti asinergici positivi o negativi, ad esempio, gli esiti dei potenziali interventi attuabili dal nuovo soggetto economico. Tali interventi possono riguardare l’aspetto strutturale dell’azienda quando sono legati a una diversa definizione del modulo combinatorio (ad es.: dismissione di impianti obsoleti). Ineriscono, poi all’area operativa quando sono legati alla gestione delle risorse aziendali. Tali miglioramenti della dinamica aziendale possono, ad esempio, trovare concretezza nella eliminazione di inefficienze precedentemente riscontrate 82 o, ancora, nella costituzione di una struttura finanziaria post acquisizione caratterizzata da un diverso grado di solidità, di onerosità o generatrice di livelli di rischio finanziario differenti. Gli interventi in parola si dicono, infine, relazionali, quando sono riconnessi al rapporto dell’azienda con l’ambiente. In questo caso, si può pensare, a titolo di esempio, alla miglioramento della posizione dell’azienda sul mercato o della sua immagine percepita dai vari stakeholder. A seguito di tali interventi potenziali, può ipotizzarsi l’insorgenza di flussi differenziali che coinvolgono l’azienda target e, quindi, il valore riferibile alla totalità dei suoi azionisti. I suddetti flussi differenziali, dal momento che rappresentano effetti operanti a livello aziendale (entity level), devono essere considerati proquota in sede di stima della base di valore. Sarà, dunque, considerato quale strato di valore concorrente alla costituzione della base il valore attuale dei flussi differenziali generati dai suddetti driver di valore. Si considerano, poi, gli effetti sinergici positivi o negativi. A tali riguardo, pare opportuno fare cenno al concetto di sinergia. Si ha una sinergia positiva (o negativa) quando il risultato conseguito grazie all’integrazione dell’azienda partecipata – di cui viene trasferito il controllo – nell’economia dell’azienda acquirente è superiore (o inferiore) alla somma dei risultati delle singole unità aziendali considerate separatamente 83. Le sinergie, scaturiscono dunque dall’integrazione di più complessi e possono, ad esempio, investire diversi aspetti della vita aziendale. Le sinergie di mercato possono originarsi, ad esempio, da un aumento del potere di mercato, se positive, o ancora da effetti di cannibalismo dei prodotti proposte dalle aziende in procinto di integrarsi (se negative) raramente sono misurabili a priori con sufficiente oggettività e producono effetti soprattutto sul fatturato, mediante l’incre82

Damodaran, Damodaran on valuation, p. 460; DONNA, Creazione di valore, cit., p. 259; ONIDA P., Le dimensioni del capitale d’impresa. Concentrazioni, trasformazioni, variazioni di capitale, ristampa seconda edizione emendata, Milano, 1951, p. 165; REBOA, Dismissioni, cit., p. 46 ss. 83 ZANETTI L., La valutazione delle acquisizioni: sinergie, rischio e prezzi, Milano, 2000, pp. 5152; GONNELLA, Rami, cit., p. 224 ss.

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mento o la riduzione delle quantità prodotte e vendute e dei prezzi 84. Il valore derivante dalla manifestazione di sinergie di mercato, ad esempio, può essere ottenuto scontando i sovra/sotto-profitti ottenuti a seguito delle suddette variazioni del fatturato 85. Le sinergie operative scaturiscono da riorganizzazioni relative alla gestione delle risorse aziendali, a seguito dell’acquisizione del pacchetto di controllo dell’unità target, e producono effetti sui costi operativi (riduzioni o incrementi di costo, in caso rispettivamente di sinergie positive e negative). Si tratta, ad esempio, delle noto fenomeno delle economie di scala o, più in generale, dell’universo dei vantaggi derivanti dalla condivisione di risorse comuni. Sono valutabili anch’esse mediante lo sconto dei sovra-profitti ottenuti grazie, ad esempio, alla riduzione dei costi di produzione. Le sinergie finanziarie si producono a seguito di modifiche relative alla struttura finanziaria o alla capacità di indebitamento, nonché all’onerosità delle fonti finanziarie. Tra i motivi di tale variazione, si individuano, ad esempio, la riduzione del rischio finanziario percepito dai finanziatori esterni 86, il miglioramento dell’immagine percepita all’esterno del complesso che si costituirà a seguito del trasferimento del controllo dell’azienda partecipata 87 o, in alcuni casi, l’incremento dimensionale del complesso da finanziare. Come ormai noto, le sinergie possono connotarsi come negative, qualora producano effetti opposti a quelli sopra descritti. Le sinergie finanziarie producono effetti sul valore determinando variazioni nel costo dei capitali oppure variazioni del reddito netto a seguito di modifiche intervenute nell’area finanziaria della gestione. La stima delle basi di valore ricomprende i soli driver operanti a livello aziendale (all’entity level) il cui effetto è avvertito, dunque, nell’economia di tutti gli azionisti dell’azienda partecipata. Una riflessione più attenta si rende necessaria per gli effetti aventi natura sinergica. In particolare, si pone in evidenza l’opportunità di distinguere i flussi differenziali che impattano nell’economia dell’unità aziendale partecipata (entity level) da quella che riguarda, invece, il solo azionista di controllo (shareholder level). Tuttavia, le sinergie possono incidere sul valore dell’azienda partecipata, sul valore per il soggetto acquirente 88 o nella sfera economica delle eventuali aziende da esso controllate 89. La parte degli effetti siner84

GUATRI, MASSARI, Diffusione, cit., pp. 27-28; ZANETTI, Acquisizioni, cit., p. 174. CAPASSO, Economia e finanza, cit., p. 87; ZANETTI, Acquisizioni, cit., p. 60. 86 GALEOTTI, Valutazione strategica, cit., p. 283. 87 CORTESI A., Le acquisizioni di imprese: strutture e processi per la creazione di valore, Milano, 2000, p. 61. 88 Benché si impieghi il termine «soggetto acquirente», nell’intento di ricomprendere nell’analisi la generalità dei possibili investitori, si ritiene più logico sostenere che l’acquirente, nel caso sopra esposto, assuma natura aziendale. 89 Al riguardo, Damodaran scrive: «Who should get the benefits of this synergy? In other words, should it be stockholders in the acquiring firm or stockholders in the target firm?» (DAMODARAN, Damodaran on Valuation, cit., p. 565). 85

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gici riferibile all’azienda di cui si trasferisce il pacchetto deve essere considerata pro-quota nel valore di base, mentre quella riferibile all’acquirente, nella veste di beneficio o svantaggio economico «privato» di tale controllante, deve essere considerato per intero, quale componente del premio di controllo 90. Ai fini di una migliore comprensione di quanto esposto, si riporta il seguente schema in cui si ipotizza l’acquisizione di una pacchetto azionario pari al 55% del capitale della società target. Dallo schema emerge come i driver di valore operanti a livello aziendale (entity level) – siano essi di natura sinergica o asinergica – incideranno complessivamente sul valore della base per una quota pari al 55% dei flussi differenziali effettivamente prodotti. I flussi differenziali generati dai driver di valore operanti a livello di singolo azionista (shareholder level), incideranno per la loro intera dimensione (100%) in sede di stima del premio di controllo. Si osservano, infine, gli effetti, sinergici e/o asinergici che impattano sul profilo di rischio operativo (variabilità dei risultati prodotti) o finanziario (ad es.: onerosità del capitale, rischio di insolvenza). Si tratta, in questo caso, sia di interventi che investono la sola società target, sia modifiche che insorgono dalla combinazione della target con la bidder e che, quindi, le coinvolgono entrambe. Con riferimento al profilo operativo, le cause che portano a un mutamento del profilo di rischio possono essere ricondotte alla stabilizzazione dei ricavi di vendita, alla variazione del livello di leva operativa o finanziaria. Le acquisizioni di pacchetti di controllo possono poi impattare sul rischio finanziario, provocando variazioni del rapporto tra debt ed equity. L’operare congiunto del complesso acquirente e di quello di cui si acquisisce il controllo può permettere, ad esempio, il miglioramento delle capacità e delle condizioni di reperimento e di gestione delle risorse finanziarie 91. L’eventuale riserva di credito che viene a crearsi e la riduzione del rischio finanziario può consentire un incremento del livello di indebitamento senza aumentare il costo percentuale dei mezzi di terzi, permettendo un migliore sfruttamento della leva finanziaria 92. La logica potenziale di parte, adottata nelle stime in analisi, prevede la determinazione della struttura finanziaria che si ritie90

Cecchi, nell’analizzare i flussi incrementali che si formano a seguito delle acquisizioni di pacchetti di controllo, individua flussi che si ripercuotono nell’economia dell’azienda acquisita e in quella dell’acquirente. Riguardo alle modalità di trattazione degli stessi nella stima, l’autore sostiene che: «... la prima tipologia di benefici si trasferisce all’acquirente in relazione alla parte di capitale da lui acquistata. La seconda, invece, si trasferisce all’acquirente, a prescindere dalla dimensione della sua partecipazione, poiché dipende esclusivamente dall’“assunzione del controllo”» (CECCHI M., Economia dei gruppi e delle aggregazioni aziendali, Milano, 2005, p. 136). 91 DAMODARAN, AcquisitionValuation, cit., p. 35; GALEOTTI, Valutazione strategica, cit., p. 286. Gli effetti sulla struttura finanziaria, che sono riferibili ai suddetti processi di integrazione, sono per certi versi analoghi a quelli descritti nel contesto in cui sono state analizzate le sinergie finanziarie, a cui si rinvia. 92 Per approfondimenti sul rischio operativo e finanziario, si veda: DI LAZZARO F., La performance del valore. Per l’analisi aziendale, Torino, 2003, pp. 104-114.

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ne di attribuire all’azienda partecipata, una volta avvenuto il trasferimento del controllo, considerando anche i processi di integrazione dell’azienda partecipata con il complesso acquirente. Gli effetti sul livello di rischio dovuti a interventi gestionali attuati sull’unità partecipata, come ormai noto, intervengono sul valore della stessa e interessano tutti gli azionisti (entity level). Per questo motivo, incideranno nel valore della base in relazione alla percentuale di partecipazione del pacchetto azionario al capitale sociale. Le variazioni del profilo di rischio che, invece, scaturiscono dall’integrazione dell’attività di due o più complessi devono essere considerate distintamente in relazione all’entità su cui esse si manifestano. Gli effetti prodotti sul rischio della società acquisita incideranno nella stima della base in proporzione alla quota di partecipazione al capitale (effetti operanti all’entity level), mentre quelli che alterano il livello di rischio dell’acquirente influiranno per intero sul valore del premio di controllo (effetti operanti allo shareholder level). Le mutazioni del profilo di rischio, solitamente, impattano sui tassi di sconto che vengono impiegati quali parametri valutativi nei metodi di stima basati su grandezze flusso, mentre le modifiche intervenute nella struttura finanziaria possono impattare anche sui flussi di reddito o di cassa. Incrementi del livello di rischio, rispetto alla situazione precedente al trasferimento, produrranno riduzioni del valore del pacchetto di controllo. Diversamente, eventuali riduzioni del livello di rischio, contribuiranno ad incrementare il valore del suddetto pacchetto nell’ottica dell’acquirente. Di seguito, saranno illustrate le formule da impiegare per la stima dei diversi «strati» che concorrono alla formazione della base di valore 93: Tabella 1 – Stima della base di valore (acquirente) Interventi gestionali sulla target Wb/s = ΔFn(A)/il Sinergie entity level WSE = ΔFn(A+B)/il Differenziale di rischio entity level WΔrE = (Flussi A)/ia2 – (Flussi A)/ia1 Wbase = (W«as-is» + ∑Wb/s + ∑WSE + ∑WΔrE) x α Δ Fn (A): flusso differenziale emergente dagli interventi gestionali sulla target Δ Fn(A+B): flusso differenziale generato dalla sinergia Flussi A: flussi attribuiti alla target ia1: tasso di sconto espressivo del livello di rischio della target ante acquisizione ia2: tasso di sconto risultante dall’azione dei driver che incideranno sul rischio della società partecipata, una volta avvenuto il trasferimento del controllo α: dimensione del pacchetto 93

ZANETTI, Acquisizioni, cit., p. 179-180; MASSARI, ZANETTI, Valutazione, cit., p. 378.

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Il trasferimento di un pacchetto azionario che non attribuisce al potenziale compratore il potere di governare l’azienda partecipata determina la considerazione di un numero ridotto di driver di valore, rispetto al caso analizzato in precedenza. La valutazione della base, in questo caso, segue logiche di tipo «as-is» dal momento che gli andamenti aziendali risentono delle condizioni poste dall’attuale soggetto economico e degli effetti dell’eventuale integrazione dell’unità aziendale di riferimento con gli altri complessi governati dal medesimo controllante 94. Tale base sarà, dunque, stimata prescindendo dalla possibilità di effettuare interventi volti al miglioramento della gestione operativa, al cambiamento della struttura finanziaria 95 o del livello di rischio associabile all’attività d’azienda. Wbase = (W«as-is») x α  

W«as-is» è il valore «as-is» dell’intero capitale dell’azienda target considerato precedentemente al trasferimento; α è la percentuale di partecipazione al capitale del pacchetto stimato.

6.3. Stime di parte: basi di valore coerenti con la determinazione del valore sinergico di cessione Il processo che conduce all’ottenimento della base di valore segue, anche in ottica cedente, un percorso che prevede la considerazione di più «strati» di valore. A partire dal valore attribuibile alla prima base, si sommano algebricamente i diversi «strati» di valore per giungere alla grandezza che costituisce la base a cui potranno applicati i premi e gli sconti, espressivi del valore del potere di controllo. Si procede, dunque, alla descrizione del processo di stima dei parametri che concorrono alla determinazione delle basi idonee per le valutazioni dei pacchetti in ottica cedente. Si ritiene opportuno affrontare l’analisi dalle fattispecie valutative riferite alle 94

Si precisa che le ipotizzate condizioni di stabilità dell’attuale soggetto economico non escludono la situazione in cui le leve del potere aziendale siano detenute dallo stesso soggetto acquirente. In tal caso, il pacchetto azionario negoziato non sarebbe comunque portatore del controllo, in quanto questo diritto sarebbe già esercitato dall’acquirente. Si fa riferimento al caso riportato da Onesti in merito all’applicabilità degli sconti di minoranza, secondo cui tali rettifiche sarebbero apportabili quando: «il pacchetto azionario è trasferito a soggetti che già dispongono del controllo “di diritto” sulla società, tanto nell’assemblea ordinaria quanto in quella straordinaria» oppure quando: «il pacchetto è trasferito a soggetti che hanno il controllo “di fatto” della società, allorquando non è possibile modificare l’attuale assetto proprietario in maniera da consentire un più penetrante esercizio del controllo (ad esempio, attraverso il conseguimento del controllo di diritto)» (ONESTI, Sconti, cit., p. 60). 95 Si veda, al riguardo: GUATRI, BINI, Nuovo trattato, cit., p. 904.

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cosiddette cessioni sinergiche, in quanto si tratta di operazioni capaci di originare un maggior numero di driver di valore rispetto al caso delle cessioni di tipo asinergico 96. Le situazioni che vedono protagonisti soggetti cedenti costituiti da unità aziendali o da entità che detengono il controllo di più complessi aziendali realizzando tra questi relazioni di tipo sinergico danno luogo a scenari valutativi complessi, in quanto insorge la necessità di considerare le problematiche scaturenti dalla perdita di congiunzione tra l’operato dell’azienda, di cui si intende cedere la partecipazione, e altri complessi facenti capo al medesimo soggetto economico. È, tuttavia, fondamentale tenere presente che quanto detto può accadere principalmente quando la cessione di un pacchetto azionario determina la perdita del controllo dell’azienda di riferimento. Si trattano, dapprima, le stime aventi ad oggetto pacchetti azionari che causano la perdita del controllo dell’azienda partecipata. In tali contesti, occorre anzitutto distinguere gli effetti che derivano dall’attuazione di interventi gestionali posti in essere dal nuovo soggetto economico, da quelli che invece scaturiscono dalla separazione dei complessi aziendali facenti capo al cedente. Gli effetti del primo tipo, che possono concretizzarsi ad esempio in variazioni delle performance, del profilo di rischio o modifiche della struttura finanziaria, non potranno influire sul valore del pacchetto azionario, in quanto i flussi potenziali prodotti dall’unità aziendale, di cui si perderà il controllo a seguito del trasferimento, non saranno più fonte di valore per il cedente. Per le ragioni anzidette, si ritiene opportuno escludere dalla stima gli effetti che si prevede si manifesteranno nell’economia della sola partecipata. Con riferimento agli effetti del secondo tipo, ovvero quelli causati dalla separazione dei complessi aziendali facenti capo al cedente, si espone quanto segue. Diversamente da quanto osservato per le acquisizioni, nel caso delle cessioni di tipo sinergico non si considerano gli effetti dovuti all’insorgenza di sinergie, bensì i flussi differenziali derivanti dalla perdita dei legami sinergici precedentemente instaurati tra l’azienda cedente e quella partecipata. In altre parole, quando si tratta di cessioni cosiddette combined, subentrano driver di valore identificabili con gli effetti della disgregazione noti come dispersioni. Si pensi, ad esempio, al caso in cui, a seguito del trasferimento di una partecipazione di controllo, si assiste alla perdita di accordi commerciali precedentemente instaurati o di vantaggi di costo, dovuti alla condivisione di risorse aziendali da parte di due unità. Gli effetti delle dispersioni positive (perdita di sinergie negative) incideranno negativamente sul valore del pacchetto 97. Diversamente, il valore delle dispersioni aventi 96 Con riferimento ai driver di valore che entrano in gioco nel caso di acquirenti operativi, aziendali o privati, si legga: FISHMAN-PRATT-MORRISON, Standards of Value, cit., p. 24. 97 Alcuni considerazioni riguardanti le dispersioni in sede di stima del valore di cessione, sono esposte in Reboa, Dismissioni, cit., pp. 84 ss.

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natura negativa (perdita di sinergie positive) sarà considerato come driver di valore positivo. Gli effetti dispersivi troveranno manifestazione nell’economia del solo soggetto cedente e per questo motivo saranno considerati in sede di determinazione del premio riferito alla cessione del potere di controllo. Al riguardo, risulta esplicativa la figura 1, che ha lo scopo di schematizzare l’incidenza degli effetti della cessione del controllo in operazioni di tipo sinergico. Si rappresenta l’ipotesi del trasferimento dell’intera partecipazione posseduta (pacchetto di controllo pari al 55%). Figura 1 – Cessione del controllo: operazioni sinergiche Cessione dell’intero pacchetto posseduto (pacchetto ceduto = 55%)

Effetti dovuti a interventi sulla gestione dell’azienda di cui si trasferisce il controllo (miglioramento delle performance, Δ profilo rischio, modifiche della struttura finanziaria, ecc.)

Effetti dovuti alla separazione dell’azienda di cui si trasferisce il controllo dal complesso cedente (dispersioni, differenziale di rischio, ecc.) 100% Δ valore dell’azienda partecipata

Δ valore per le aziende facenti capo al cedente Effetti sul premio di controllo

Coerentemente con quanto esposto in precedenza, la base di valore da determinare in caso di cessioni sinergiche di pacchetti di controllo sarà costituita dal valore, pro-quota (α), del capitale della partecipata, stimata nell’ottica di parte cedente: Wbase = Wced x α La fattispecie valutativa che considera il trasferimento di pacchetti che non causano la perdita del controllo può essere osservata con riferimento a due distinte situazioni. In primo luogo, si individua il caso in cui il soggetto cedente detenga il controllo della società partecipata. Si fa riferimento, dunque, all’ipotesi in cui il trasferimento riguardi solo una parte del pacchetto originariamente posseduto. La cessione della partecipazione, considerando la dimensione e osservando la concentrazione delle quote azionarie della società tra i diversi azionisti, non è motivo di perdita di diritti associabili al controllo della società suddetta. La seconda si-

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tuazione si riferisce, invece, al caso in cui l’alienante (ante trasferimento del pacchetto) non sia detentore del controllo. L’operazione, ad esempio, si concreta nella cessione dell’intero pacchetto minoritario posseduto 98. In entrambi i casi, dal momento che l’operazione effettuata non determina trasferimenti del controllo a soggetti economici diversi da quello attuale, si ipotizza che l’attività aziendale continui a essere condotta secondo gli indirizzi gestionali in atto. Per questo motivo, si escludono dalla stima i driver di valore che scaturiscono da eventuali modifiche intervenute nell’economia di tale soggetto, a seguito dell’operazione di trasferimento. In linea generale, dunque, non si riscontrano manifestazioni di effetti economici derivanti dal venir meno di sinergie o da modifiche del livello di rischio. Il valore base, nell’ipotesi in parola, sarà rappresentato semplicemente dal valore «as-is», considerato pro-quota: Wbase = Was-is x α. Un precisazione si ritiene necessaria riguardo alla logica sottostante alla valutazione di Was-is. In particolare, se si fa riferimento alla prima fattispecie citata (mantenimento del controllo da parte del cedente), Was-is, sarà rappresentato dal valore dell’azienda in ottica cedente scaturente dalle strategie e dagli indirizzi gestionali del soggetto che cede la partecipazione. Diversamente, nel secondo caso (mancato possesso del controllo da parte del cedente), Was-is sarà rappresentato dal valore dell’azienda scaturente dalle strategie e dagli indirizzi gestionali del soggetto che attualmente detiene il controllo della target.

7. L’applicazione di premi e sconti alle basi di valore La principale peculiarità delle stime riguardanti i pacchetti azionari è l’applicazione di premi e di sconti, espressivi del potere di controllo e della liquidità di una data partecipazione. Tali grandezze svolgono un ruolo particolare nell’ambito delle stime qui studiate. L’applicazione di premi e di sconti legati al controllo consente di rappresentare il rischio che si lega all’investimento costituito da un pacchetto azionario, in quanto tale livello di rischio è diverso da quello riferibile all’intero capitale aziendale 99. Lo sconto per mancanza di negoziabilità/liquidità, diversamente, rappresenta la riduzione di valore conseguente alla difficoltà incontrate in sede di smobilizzo dell’investimento rappresentato dal pacchetto azionario, solitamente di minoranza. 98 L’ipotesi di cessione dell’intero pacchetto posseduto è stata formulata allo scopo di semplificare la trattazione. L’analisi, infatti, si dimostra già alquanto complessa in conseguenza dell’elevata varietà delle fattispecie osservabili. 99 GUATRI, BINI, Nuovo trattato, cit., p. 901; ZANETTI, Premi, cit., p. 56. Con riferimento agli azionisti di controllo si rileva come il potere di nomina e di revoca degli amministratori e, quindi, di controllo degli indirizzi gestionali da essi adottati consentono, infatti, agli azionisti di maggioranza di ridurre il rischio associato all’investimento. Al riguardo, si veda: MUSAIO, Valore, cit., pp. 265-266.

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7.1. Il premio di controllo: considerazioni teoriche e approcci valutativi Il premio di controllo è la grandezza mediante cui vengono quantificati i benefici – e talora gli svantaggi – che investono il soggetto che detiene il controllo di una data società, pur non possedendo l’intero capitale sociale 100. La determinazione di tale grandezza è, dunque, strettamente dipendente dall’entità dei cosiddetti benefici privati del controllo 101 che il pacchetto azionario oggetto di valutazione attribuisce, ovvero dei vantaggi riferiti in via esclusiva agli azionisti che detengono il controllo. I benefici privati, in prima battuta, possono essere distinti in psicologici ed economici 102. La componente di natura psicologica attribuisce un valore al beneficio del “comando”. Tale componente non monetaria si riferisce, ad esempio, alla possibilità di soddisfare, mediante l’esercizio del controllo, i bisogni di manifestazione del potere e quelli di sicurezza. In particolare, quest’ultimo si concreta nell’eliminazione del rischio di “non controllo”, ovvero della possibilità che le leve del potere aziendale siano detenute da un altro soggetto economico, portatore di interessi diversi da quelli attribuibili all’attuale azionista di controllo. Nonostante il fatto che, secondo alcuni autori, le ragioni che motivano l’esistenza del premio di controllo possano esaurirsi a tale elemento non monetario 103, vi sono driver di valore di natura economica che determinano l’esistenza di benefici privati del controllo. Si tratta, in linea generale, di benefici che scaturiscono dalla possibilità per il controllante di gestire le risorse dell’azienda target e i flussi da essa prodotti. I benefici in parola, come noto, possono ad esempio concretizzarsi nella possibilità di indirizzare i flussi prodotti dalla combinazione produttiva in parola a esclusivo vantaggio dell’acquirente, a spese degli azionisti esclusi dal controllo. Si pensi al riguardo, all’attribuzione di compensi eccessivi ai soggetti portatori di controllo o nel prelievo di beni appartenenti all’azienda, dietro pagamento di somme inferiori ai valori di mercato o, in alcuni casi, gratuitamente. Il premio di controllo, secondo l’interpretazione adottata in questa sede, rappresenta la grandezza da sommare alla base di valore, allo scopo di ottenere il valore di un pacchetto capace di attribuire il potere di governare l’azienda. In tal 100 Si veda, riguardo alla definizione del «premio puro di controllo» (GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 905. 101 Riguardo al tema dei benefici privati del controllo, si veda: BARCLAY M.J.-HOLDERNESS C.G., Private Benefits of Control of Public Corporations, in Journal of Financial Economics, 1989, pp. 371-395; DICK A.-ZINGALES L., Private Benefits of Control: An International Comparison, in Journal of Finance, 2004. 102 DICK-ZINGALES, Private Benefits of Control, cit., p. 540 ss. 103 Si fa riferimento alla tesi proposta da: HARRIS M.-RAVIV A., Corporate Governance: voting right and majority rules, in Journal of Financial Economics, 20, pp. 203-235; AGHION P.-BOLTON P., An Incomplete Contract Approach to Financial Contracting, in Review of Economic Studies, 59, 1992.

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senso, il premio corrisponde alla differenza tra la base di valore e il valore del pacchetto di controllo. Si supponga, ad esempio, di stimare il valore neutrale di un pacchetto avente dimensione pari al 60% del capitale, a cui si attribuisce un premio di controllo pari a € 30. Si ipotizzi, inoltre, che il valore dell’intero capitale sia pari a € 200. Il premio di controllo, dunque, costituisce l’elemento che distingue il valore pro-quota del capitale aziendale (nell’esempio pari a € 120) da quello più che proporzionale del pacchetto azionario di controllo (€ 150) 104. Tra le ragioni su cui si fonda la ratio dell’applicazione del premio di controllo, si individua: – la prospettiva “dell’investimento ridotto”, che rintraccia l’esistenza del plusvalore in questione nella possibilità per l’azionista di maggioranza 105 di ottenere i vantaggi conseguenti alla capacità di indirizzare la gestione dell’azienda, pur effettuando un investimento limitato rispetto all’acquisizione dell’intero capitale. – la prospettiva “del minor costo del residuo capitale”, motiva la stima del premio di controllo nella possibilità acquisire successivamente la quota minoritaria a un prezzo inferiore rispetto al valore pro-quota del capitale dell’intera combinazione produttiva. Quest’ottica introduce, sebbene in via indiretta, la problematica degli sconti per mancanza di controllo, che sarà trattata tra breve; – la riduzione del rischio associato all’investimento. Il potere di nomina e di revoca degli amministratori e, quindi, di controllo degli indirizzi gestionali da essi adottati consentono, infatti, agli azionisti di maggioranza di ridurre il rischio associato all’investimento. Dal punto di vista valutativo, si rileva un’incoerenza tra la necessità di imputare nella dimensione del premio di controllo l’insieme dei driver di valore operanti allo shareholder level – ovvero che incidono nella sola economia del soggetto che acquirente/cedente – la capacità delle più diffuse metodologie di stima attualmente presenti in dottrina e applicate nella prassi valutativa. Dal punto di vista teorico, prevalentemente nelle stime non neutrali, la necessaria coerenza che accompagna l’intero processo valutativo prevedrebbe di far concorrere alla determinazione del valore del controllo – accanto alle espressioni quantitative dei sopra descritti effetti psicologici – tutti i differenziali di valore derivanti dalle manifestazioni economico-finanziarie del trasferimento del controllo che trovano manifestazione nell’economia del solo acquirente/cedente (shareholder level), quali benefici privati del controllo specifici. Le tabelle riportate ne rappresentano una generica classificazione riferita al caso sia dell’acquirente sia del cedente. 104 Si sottolinea che la base di valore potrà essere determinata direttamente come valore proporzionale del capitale aziendale, unicamente nei casi in cui il suddetto capitale non si componga di azioni di diverse tipologie. In caso contrario, infatti, si renderà necessaria una preventiva distinzione del capitale sociale nelle varie categorie di azioni. Si rinvia a: ONESTI, Sconti, cit., p. 75. 105 Le interpretazioni sopra riportate sono state elaborate dal Prof. Guatri. Si noti che l’autore specifica che l’investimento debba riferirsi a una maggioranza assoluta.

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In caso, di valutazioni effettuate in ottica acquirente, oltre ai benefici psicologici e amministrativi che, come ormai noto, costituiscono una componente fondamentale del premio di controllo, devono essere considerati anche gli effetti riscontrabili nella prospettiva dello specifico soggetto acquirente, che influiscono nella sola economia dell’azionista di controllo.

Acquisizioni sinergiche

Tabella 2 – Determinanti del premio di controllo (acquirente) benefici psicologici non aventi carattere economico effetti economici aventi riflessi SOLO sull’acquirente sinergie (shareholderlevel) effetti economici, da integrazione, non Δ rischio (shareholderlevel) aventi riflessi negativi per gli altri azionisti Δ struttura finanziaria (shareholderlevel) (minoranze) ........

Si precisa che gli effetti del trasferimento che rappresentano benefici privati del controllo, quali, ad esempio, le sinergie positive, determinano incrementi del premio. Di contro, gli effetti che costituiscono svantaggi o costi che il conseguimento del controllo attribuisce al soggetto acquirente (es.: sinergie negative) incidono negativamente sulla misura del premio di controllo. In caso, di valutazioni effettuate in ottica cedente, oltre ai benefici psicologici e amministrativi, in sede di stima del premio riconosciuto per la perdita del controllo, devono essere considerati anche gli effetti riscontrabili nella prospettiva particolare del cedente, che influiscono nell’economia del solo azionista di controllo. Tra i principali driver di valore, di natura economica, che incidono nella valutazione del premio di controllo determinato in occasione delle cessioni di tipo sinergico, si individuano anzitutto le dispersioni.

Cessioni Sinergiche

Tabella 3 – Determinanti del premio di controllo (cedente) svantaggi psicologici non aventi carattere economico effetti economici individuati in logiche stand alone Dispersioni Δ rischio shareholder level effetti economici deriΔ struttura finanziaria shareholder level vanti dalla perdita di inimpiego della liquidità ottenuta dalla cessione del pactegrazione chetto azionario ......

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Come anticipato, gli effetti del trasferimento che originano svantaggi privati legati alla perdita del controllo (ad es.: le dispersioni negative) determinano incrementi del premio. Diversamente, gli effetti che costituiscono vantaggi conseguiti a seguito della cessione del controllo di una data unità aziendale (ad es.: le dispersioni positive) incidono negativamente sulla misura del premio per la perdita di controllo. L’assenza di processi valutativi volti alla determinazione di premi di controllo specifici implica l’impiego di dati scaturenti dall’evidenza empirica, originando stime caratterizzate da alcune semplificazioni e spesso fondate sui prezzi di Borsa. Eventuali specificità valutative riferite ai diversi ambiti sopra descritti potranno essere considerate come rettifiche (aumentative o diminutive) dei premi e degli sconti determinati secondo le suddette logiche empiriche. Si riportano di seguito i principali metodi empirici per la determinazione del premio di controllo. Il metodo di Barclay e Holderness 106 perviene al valore dei benefici privati – e, quindi, del premio di controllo che ne rappresenta la quantificazione – confrontando, per un idoneo campione di aziende, il prezzo di trasferimento di pacchetti azionari di controllo, negoziati esternamente al mercato borsistico, con il prezzo di mercato delle restanti azioni, escluse quindi dal controllo, riscontrabile successivamente all’annuncio del trasferimento del controllo. Alla base della precedente affermazione, si pone il principio secondo cui il prezzo pagato per l’acquisizione del pacchetto di controllo esprime il valore comprensivo degli effetti prodotti dal trasferimento del controllo che si manifestano sia nell’economia della società partecipata, sia nell’economia del solo azionista di controllo, mentre il prezzo di borsa, successivo all’annuncio della transazione, riflette unicamente gli effetti del primo tipo. Dalla differenza tra le due grandezze, emerge, quindi, la misura dei soli benefici privati del controllo. Quanto detto si fonda su assunzioni forti, relative alla capacità del mercato, in cui sono scambiati i pacchetti esclusi dal controllo, di incorporare la variazione di valore subita dalle azioni, una volta diffusa la notizia del trasferimento del controllo dell’azienda di riferimento. In altri termini, nel modello proposto, si ipotizza un mercato privo di imperfezioni, in cui i prezzi delle azioni sono sensibili rispetto alle previsioni dei flussi economico-finanziari, riferibili all’azienda target, che scaturiranno dal trasferimento del controllo.

106

Si veda: BARCLAY-HOLDERNESS, Private Benefits, cit.

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Tabella 4 – Sintesi dei risultati delle principali ricerche empiriche per la stima del premio di controllo: metodo di Barclay e Holderness Studio107 Caprio, Floreani, Radaelli (1994) Dick, Zingales (2004) Nicodano, Sembenelli (2004) Massari, Monge, Zanetti (2006) Hanouna, Sarin, Shapiro (2001) 108

Periodo 1982-1992 1990-2000 1987-1992 1993-2003 1986-2000

Premio (v. medio) 22,5% 37% 27% 12,2% 6,95%

In alternativa al metodo sopra proposto, vi è un modello che fa leva sull’analisi del valore del diritto di voto 109. La metodologia si fonda sulla logica che vede il voto come diritto che sta alla base dell’attribuzione del controllo. In quest’ottica, quindi, il valore del diritto di voto risulta idoneo a rappresentare il valore del controllo, legandosi alla possibilità di estrarre benefici privati. L’applicabilità del metodo in analisi dipende, tuttavia, dalla sussistenza di alcune condizioni. In primo luogo, è necessario che vi siano distinte categorie di azioni – ovvero sia dotate del diritto di voto, sia prive della possibilità di esercizio di quest’ultimo – in quanto è dalla differenza tra il valore di azioni del primo e del secondo tipo che si ottiene il valore del controllo. In secondo luogo, affinché sia possibile attribuire un valore al diritto di voto, è necessario che l’oggetto di stima sia conteso. In altri termini, risulta determinante l’esistenza di un mercato del controllo competitivo, in quanto è solo in una situazione quale quella descritta che si attribuisce un valore a tale diritto. In particolare, il valore del diritto di voto 107

Si elencano, di seguito, i riferimenti del lavori citati in tabella: MASSARI M.-MONGE V.ZANETTI L., Control Premium in Legally-Constrained Markets for Corporate Control: the Italian Case (1993-2003), in Journal of Management & Governance, 1, 2006; NICODANO G.-SEMBENELLI A., Private Benefits, Block Transaction Premiums and Ownership Structure, Zimmerman Foundation for the Study of Banking and Finance, Discussion paper 00-04, 2000; CAPRIO L.-FLOREANI A.RADAELLI L., I trasferimenti del controllo di società quotate in Italia: un’analisi empirica dei prezzi e dei risultati per gli azionisti di minoranza, in Finanza Imprese e Mercati, 3, 1994; DICK-ZINGALES, Private Benefits, cit.; HANOUNA P.-SARIN A.-SHAPIRO A. C., Value of Corporate Control: Some International Evidence, Department of Finance and Business Economics, Working paper n. 01-4, 2001. 108 Hanouna, Sarin e Shapiro hanno compiuto uno studio che ha determinato il premio di controllo come differenza tra i prezzi dei pacchetti di minoranza e di maggioranza considerando come minoranze i pacchetti di dimensione inferiore al 30%. Sono considerate, invece, transazioni di maggioranza quelle compiute da acquirenti che, precedentemente all’operazione possedevano meno del 30% e che, grazie al nuovo pacchetto raggiungono una quota superiore al 50%. HANOUNA-SARIN-SHAPIRO, Value of Corporate Control, cit., p. 13 ss. 109 ZINGALES L., The Value of the Voting Right: A Study of the Milan Stock Exchange Experience, in The Review of Financial Studies, 7(1), 1994, pp. 125-148; ZINGALES L., What Determines the Value of Corporate Votes?, in The Quarterly Journal of Economics, 110, 1995, pp. 1047-1127.

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risulta più evidente quando si tratta di stimare azioni determinanti ai fini del trasferimento del controllo, possedute da azionisti di minoranza esclusi dal controllo. Con riferimento alla realtà italiana, lo studio fondato sulla determinazione del valore del diritto di voto, quale via per la stima del valore del controllo, si avvale della differenza di prezzo riscontrabile tra azioni ordinarie e azioni di risparmio. Come noto, le azioni di risparmio si differenziano da quelle ordinarie per l’assenza del diritto di voto e per la possibilità di conseguire dividendi superiori, rispetto alle seconde. La determinazione del valore del diritto di voto dovrà essere attuata considerando i maggiori diritti patrimoniali riferiti alle azioni di risparmio, in quanto, in caso contrario, il prezzo delle azioni in parola potrebbe essere influenzato non solo dalla mancanza del diritto di voto, ma anche dalla presenza della maggiorazione dei dividendi conseguiti 110. Tabella 5 – Sintesi dei risultati delle principali ricerche empiriche per la stima del premio di controllo: metodo fondato sui voting premium Studio111 Zingales (1994) Nenova (2003) Doidge (2003) Bigelli, Sapienza (2003) Caprio, Croci (2007)

Periodo 1987-1990 1997 1994-2001 2000-2002 1974-2003

Premio (v. medio) 82% 29,36% 49,10% 52,58% 56,51%

ADATTATO DA: ROMANO, Dinamica, cit., p. 143

110

BIGELLI M., SAPIENZA E., Le azioni di risparmio e gli errori di misurazione del premio per il diritto di voto, in Banca, Impresa e Società, 1, 2003, p. 68. 111 Si elencano, di seguito, i riferimenti del lavori citati in tabella: ZINGALES, Value of the Voting Right, cit.; NENOVA T., The Value of Corporate Voting Rights and Control: A Cross-Country Analysis, in Journal of Financial Economics, 68, 2003; DOIDGE C., U.S. Cross Listing and the Private Benefits of Control: Evidence from Dual Class Firms, in Journal of Financial Economics, 3, 2004; BIGELLI, SAPIENZA, Azioni di risparmio, cit.; CAPRIO L., CROCI E., The Determinants of the Voting Premium in Italy: The Evidence from 1974 to 2003, in http://ssrn.com, 2007. Si specifica che le ricerche condotte da Zingales, Bigelli-Sapienza e Caprio-Croci sono rivolti al contesto italiano, mentre quelli di Nenova e di Doidge si riferiscono a mercati esteri. Si rileva, inoltre, che la variabilità tra i risultati proposti nelle diverse ricerche può essere ricondotta, tra l’altro, anche alle differenti ipotesi assunte dagli studiosi. Si veda: ROMANO, Dinamica, cit., p. 144.

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7.2. Lo sconto per mancanza di controllo: considerazioni teoriche e approcci valutativi Con riferimento ai pacchetti di minoranza che non attribuiscono alcun diritto di controllo, la prassi valutativa prevede l’impiego dello sconto per mancanza di controllo che rappresenta una rettifica da applicare alla base di valore permette di ottenere il valore di pacchetti azionari esclusi dai poteri del controllo. Tale sconto è motivato dal fatto che l’investimento effettuato non potrà consentire l’esercizio del controllo. Il minor valore del pacchetto di minoranza rispetto al valore del capitale considerato pro-quota, inoltre, è da ascriversi al fatto che gli azionisti in parola assumono il rischio scaturente dall’attività di gestione dell’azienda, attività che, però, viene indirizzata da altri soggetti. Il valore di pacchetti azionari esclusi dal controllo può essere ottenuto in via diretta o in via indiretta. Nel primo caso, lo sconto per mancanza di controllo può essere esplicitato in via indiretta per differenza tra il valore ottenuto applicando l’approccio in parola e il valore pro-quota del capitale aziendale. Nel secondo caso, invece, il percorso di stima prevede l’esplicita determinazione dello sconto in parola. Tra gli approcci diretti, si ritiene opportuno introdurre il metodo che fonda la stima del valore di pacchetti esclusi dal controllo, mediante lo sconto dei flussi di dividendi attesi, che trova fondamento nell’ipotesi secondo cui l’azionista escluso dal controllo vanterebbe attese, nei confronti dell’investimento realizzato, in ordine all’ottenimento di dividendi e di capital gain 112. Considerando il valore del capitale comprensivo dello sconto per mancanza di controllo pari a W = D/i dove:  W è il valore del capitale riferibile alle minoranze;  D è il dividendo medio-normale atteso (considerato in misura corrispondente alla dimensione della partecipazione posseduta);  i è il tasso di capitalizzazione. Dal momento che il dividendo rappresenta la parte del reddito che non è stata trattenuta in azienda, esso nel breve periodo assumerà logicamente una misura inferiore rispetto a quella dei redditi conseguiti. L’approccio in parola, benché condivisibile sul piano logico, trovano scarsa applicazione nella prassi, lasciando spazio a metodologie che si accompagnano a indagini empiriche. Passando, ora, alle sopra accennate logiche di stima di tipo indiretto si rileva come, tra la modalità di stima dello sconto per mancanza di controllo 113, sia pos112 Con riferimento alla metodologia esposta, si rinvia a: ZANDA-LACCHINI-ONESTI, Valutazione delle aziende, cit., p. 439 ss. 113 In dottrina si riscontrano, oltre quello descritto, approcci di stima delle partecipazioni escluse

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sibile adottare la metodologia, analizzata nel paragrafo precedente, relativa alla stima del valore del controllo mediante l’ottenimento del valore differenziale tra azioni aventi diritto di voto e titoli che, invece, non sono portatori del suddetto diritto. Il metodo esposto, infatti, consente l’ottenimento del valore del controllo che, se analizzato nell’ottica dell’azionista minoritario, risulta essere espressivo anche del valore del non controllo. Osservando il fenomeno trattato dal punto di vista quantitativo, si rileva come le ricerche compiute e le posizioni maggiormente diffuse in dottrina, evidenzino sconti per mancanza di controllo oscillanti in un intervallo compreso tra il 25% e il 35% del valore della base considerato pro-quota 114.

7.3. Lo sconto per mancanza di negoziabilità: considerazioni teoriche e approcci valutativi La dottrina suggerisce una relazione negativa tra il valore di una data partecipazione e l’ampiezza dei limiti riscontrabili in sede di smobilizzo dell’investimento da essa rappresentato 115. Secondo questa concezione, a parità di altre condizioni, gli investitori attribuiscono un valore maggiore al pacchetto azionario che non è gravato da difficoltà riferibili a una sua riconversione nel fattore generico denaro 116. Tale differenziale di valore può essere quantificato da uno sconto da applicare al valore del pacchetto cosiddetto «marketable» ovvero privo di limiti alla libera ed economica negoziabilità dello stesso. Nonostante che i termini negoziabilità e liquidità soventemente siano impiegati in maniera indifferenziata, si ritiene opportuno riferire la differenza, accordata in letteratura 117, nel significato dei suddetti termini, in quanto strumentale andal controllo che si fondano su logiche di tipo bottom-up, ovvero che affermano la possibilità di pervenire al valore dei suddetti pacchetti determinando in via specifica i singoli elementi che costituiscono tale valore. Tra gli approcci sopra citati, si individuano quello proposto da Pratt, Reilly e Schweihs (PRATT S.P.-REILLY R.F.-SHWEIHS R.P., Valuing a Business. The Analysis and Appraisal of Closely Held Companies, New York, Irving-Professional Studies, 1997, pp. 312-316), e quello proposto da Shishido (SHISHIDO Z., The Fair Value of Minority Stock in Closely Held Corporations, in Fordham Law Review, 1993, p. 78 ss.). Si rinvia, inoltre, a ONESTI, Sconti, cit., p. 68 ss. 114 ZANDA-LACCHINI-ONESTI, Valutazione, cit., p. 441. Si veda, inoltre, GUATRI L., Lo «sconto» applicabile a un pacchetto di minoranza di una società non quotata di rilevante dimensione, in La valutazione delle aziende, 13, 1999, pp. 50-51. 115 Tra gli altri, si veda: DAMODARAN A., Marketability and Value: Measuring the Illiquidity Discount, Stern School of Business, 2005, p. 17; ONESTI, Sconti, cit., p. 103. 116 BAJAJ M.-DENIS D.J.-FERRIS S.P.-SARIN A., Firm Value and Marketability Discount, in Journal of Corporation Law, 27, 2001, p. 89. 117 Tra i contributi scientifici e di tipo professionale che hanno posto in risalto la differenza nel significato dei termini liquidità e negoziabilità, si propone: ABBOTT A.A., Discount for Lack of Liquidity: Understanding and Interpreting Option Models, in Business Valuation Review, 3, 2009, p. 144-145; ALBUQUERQUE R.-SCHROTH E., Blockholder Illiquidity, Marketability Discounts, and

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che alla definizione delle cause che si pongono alla base del precedentemente illustrato differenziale di valore. Si riscontrano problematiche inerenti alla negoziabilità quando la partecipazione presenta alcune limitazioni poste al libero trasferimento della stessa, quali ad esempio i limiti legali o le clausole statutarie 118. La mancanza di liquidità, invece, si manifesta quando le caratteristiche dell’investimento sono tali da limitarne il tempestivo ed economico smobilizzo 119. Solitamente, la suddetta questione è riferita a partecipazioni escluse dal controllo, che possono presentare difficoltà riguardo a un loro trasferimento al di fuori dei mercati borsistici. Data la forte relazione che intercorre tra la mancanza del controllo e la difficoltà di liquidazione dell’investimento, non sempre è semplice separare il contributo fornito dalla stima dello sconto per mancanza di controllo da quello dovuto allo sconto per mancanza di negoziabilità nell’ambito della visione globale del valore del pacchetto azionario. Si illustrano, di seguito, le principali metodologie per la determinazione dello sconto per mancanza di negoziabilità/liquidità che seguono approcci empiricoinduttivi. I restricted share study ottengono il valore dello sconto confrontando, per un idoneo campione di aziende, il prezzo di azioni soggette a temporanee limitazioni in ordine alla negoziabilità (restricted share) con quello di azioni liberamente negoziabili (sconto medio pari al 30-35%). La metodologia proposta, prevede l’impiego della seguente formula per la determinazione dello sconto in analisi 120: Restricted Stock Discount = (1 – (Prs/Pl))% Stock Price Discounts, in www.ssrn.com, 2009, p. 2; PRATT S.P.-ABBOTT A., Defining, Measuring, and defending Discounts for Lack of Liquidity, in BVR’s Guide to Discount for Lack of Marketability, Paul Heidt, 2009, pp 5-4 ss.; PRATT S.P.-LARO D., Business Valuation and Taxes. Procedure, Law and Perspective, Hoboken, 2005, p. 282 ss.; PRATT S.P.-NICULITA A.V., Valuing a Business. The Analysis and Appraisal of Closely Held Companies, Fifth Edition, New York, 2008, p. 417; ROMANO, Dinamica, cit., p. 153. 118 La problematica della mancanza di negoziabilità, proprio perché dovuta all’esistenza di limiti imposti alla trasferibilità delle quote azionarie, può investire tanto le partecipazioni maggioritarie, quanto quelle minoritarie. Alcune considerazioni relative alla problematica della trasferibilità delle partecipazioni di controllo, si rinvia al paragrafo 8.4. del presente capitolo. 119 Riguardo al rapporto tra negoziabilità e liquidità, si precisa quanto segue: «Marketability does not automatically confer liquidity. Marketable securities display liquidity only in very small lots. Even the largest public stocks display average daily trading volumes less then a fraction of 1% of outstanding stocks. Liquidity drops rapidly for larger blocks with rapidly » (ABBOTT, Discount, cit., p. 145). Si veda, inoltre: PRATT, Business Valuation, cit., p. 6. Allo scopo di evitare le numerose ripetizioni, che potrebbero crearsi in sede di analisi di elementi comuni alle problematiche riferite alla negoziabilità e alla liquidità, i due termini saranno talora utilizzati indistintamente. 120 Si veda: ONESTI, Sconti, cit., p. 111, n. 11.

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dove:  Prs è il prezzo della restricted stock;  Pl è il prezzo dell’azione liberamente negoziabile IPre – IPO study, ideati da una banca d’affari (Baird & Co) e da una società di valutazione (Willamette Management Associates) americane, fondano l’ottenimento degli sconti sull’applicazione di alcune formule basate sul confronto dei prezzi delle azioni delle società del campione osservati immediatamente prima delle Initial Public Offering e quelli al momento delle suddette offerte (sconto medio pari al 47% per gli studi compiuti da Baird e compreso tra 40% e 46% per gli studi compiuti da Willamette). Pre-IPO Discount = (1 – (Ppre IPO/PIPO))% dove:  Ppre IPO è il prezzo a cui è avvenuto il trasferimento dell’azione prima dell’IPO;  PIPO è il prezzo dell’azione al momento dell’IPO. Gli studi di Koeplin, Sarin e Shapiro propongono un approccio, alternativo a quelli proposti, per la stima dello sconto per mancanza di negoziabilità 121. Gli autori, nel sostenere che il metodo fondato sul confronto tra azioni liberamente negoziabili sui mercati aperti e titoli soggetti a restrizioni in ordine al loro trasferimento (restricted stock) possa trascurare, in sede di determinazione del differenziale di prezzo, la presenza di elementi non inerenti esclusivamente al valore della negoziabilità di un titolo, propongono il confronto tra i multipli rilevati per gruppi di transazioni aventi ad oggetto pacchetti di controllo di società negoziate nei mercati aperti e pacchetti di controllo di società non quotate assimilabili alle prime. Dalla differenza tra i suddetti valori, scaturisce lo sconto per mancanza di negoziabilità: Private company discount = (1 – (Mpr. comp./Mpubl.comp.))% dove:  Mpr. comp. costituisce il multiplo relativo alla società non quotata;  Mpubl.comp. è il multiplo relativo alla società quotata. Gli studi in parola pervengono alla determinazione di un range di valori in cui può collocarsi lo sconto per mancanza di negoziabilità. Tale intervallo è stato considerato pari al 20%-28% per le transazioni osservate negli Stati Uniti, mentre è risultato pari al 44%-54% per le transazioni attuate in altri Paesi. 121

Si veda: SARIN A.-KOEPLIN J.-SHAPIRO A.C., The Private Company Discount, in Journal of Applied Corporate Finance, 4, 2000; BAGNA E., Lo sconto per mancanza di liquidità, in La valutazione delle aziende, 39, 2005, pp. 24-25; BAJAJ-DENIS-FERRIS-SARIN, Firm Value, cit.; ROMANO, Dinamica, cit., p. 155 ss.

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di Marco Maugeri SOMMARIO: 1. La valutazione delle azioni come problema giuridico. – 2. La specificità dogmatica del problema per le società quotate: l’azione come “partecipazione all’impresa” e come “bene”. – 3. Le conseguenze metodologiche: criteri di valutazione assoluti (o analitici) e criteri di valutazione relativi (o di mercato). – 4. Determinazione del valore e vicende dell’investimento. Le ipotesi di “liquidazione” della partecipazione: il recesso. – 5. (segue) L’offerta pubblica di acquisto. – 6. Le ipotesi di “concambio” della partecipazione: la fusione e la scissione. – 7. (segue) Valore “derivato” dell’azione, pluralismo metodologico e rilevanza delle quotazioni: la fusione/scissione tra società indipendenti. – 8. (segue) La fusione/scissione endogruppo. – 9. L’ipotesi della esclusione “semplificata” del diritto di opzione (art. 2441, comma 4, seconda parte, c.c.): gli interessi protetti dalla norma. – 9.1. (segue) La prospettiva dell’azione come “partecipazione all’impresa”. – 9.2. (segue) La prospettiva dell’azione come “bene”. – 10. Conclusioni.

1. La valutazione delle azioni come problema giuridico Malgrado l’indubbia pertinenza alla sfera delle scienze aziendalistiche, il processo di determinazione del valore delle azioni esibisce una particolare rilevanza per il giurista. La necessità di definire quel valore segnala, infatti, la presenza di un conflitto concernente ora l’assetto dei rapporti interni alla singola compagine sociale 1 ora l’equilibrio tra diverse compagini sociali 2: un conflitto che, rivelandosi astrattamente idoneo a indurre ingiustificati spostamenti di ricchezza 3, spetta all’ordinamento affrontare e comporre. 1

Come nel caso del recesso. Come nel caso delle fusioni che non si risolvano nella “mera” incorporazione di società totalitariamente posseduta; o delle scissioni che non si risolvano nella “mera” assegnazione di parti del patrimonio della scissa a una o più beneficiarie di nuova costituzione e nella conseguente attribuzione delle azioni o quote di queste ultime ai soci della prima in modo proporzionale alla quota di partecipazione da essi detenuta nella scissa. 3 Qualsiasi sottovalutazione (sopravvalutazione) delle azioni del socio recedente si traduce, 2

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Ci si potrebbe, peraltro, arrestare a tale considerazione e rimettere la soluzione del problema così individuato, appunto, ai cultori delle scienze aziendalistiche. E una siffatta soluzione si mostrerebbe adeguata anche sotto il profilo giuridico, ove fosse ragionevole predicare l’esistenza di un valore “intrinseco” della partecipazione sociale che si tratterebbe allora unicamente di accertare, in senso empirico, alla stregua di una qualità immanente alla posizione organizzativa di azionista e trasferibile unitamente ad essa 4. Non vi è bisogno, tuttavia, di soverchie riflessioni per intuire quanto una simile angolazione visuale sarebbe fuorviante 5. Qualsiasi procedimento che aspiri a tradurre in una grandezza monetaria il valore di un’azienda evidenzia, infatti, carattere non solo “relazionale”, implicando un necessario confronto con parametri di riferimento esterni all’entità valutata 6, ma anche, e soprattutto, “soggettivo”, implicando – al pari di qualsiasi comportamento giuridicamente rilevante 7 – che si chiarisca preventivamente chi valuta cosa e per la realizzazione di quale interesse individuale 8. In questa prospettiva risulterà chiaro come non sia conoscitivamente utile, né logicamente giustificato, prescindere dal dato di fondo per cui si danno tanti poinfatti, in un corrispondente immotivato beneficio (pregiudizio) per i soci destinati a rimanere in società, così come ogni sottovalutazione (sopravvalutazione) del capitale economico di una delle società partecipanti a una fusione o a una scissione si traduce in un indebito vantaggio (svantaggio) per i soci delle altre società. E v. infatti, su quest’ultimo aspetto, LIBONATI, Rapporto di cambio e fusione fra società per azioni, in Scritti giuridici, I, Milano, 2013, p. 107. 4 Si confermerebbe cioè anche per il diritto azionario quanto osservava già nel 1887, su un piano del tutto generale, un eminente sociologo tedesco che nel concetto di “valore” rintracciava, appunto, una “qualità” la cui quantità viene espressa e determinata nei termini di un metro costante: il denaro [v. TÖNNIES, Comunità e società, Bari, 2011, pp. 66 s. (trad.it., a cura di G. Giordano, di Gemeinschaft und Gesellschaft, 1887), che aveva cura anche di aggiungere come nei traffici e nel commercio «tutti i diritti e i doveri possono essere ricondotti a pure determinazioni patrimoniali e a valori» (p. 76)]. 5 Rileva puntualmente la – diffusissima – distorsione cognitiva celata nell’utilizzo di termini quali valore “intrinseco” o valore “reale” della partecipazione sociale ADOLFF, Unternehmensbewertung im Recht der börsennotierten Aktiengesellschaft, München, 2007, pp. 161 ss. e 501. 6 EMMERICH, Anmerkungen zur Bewertung von Unternehmen im Aktienrecht, in Festschrift für Schneider, Köln, 2011, p. 326 («Bewerten heißt vergleichen»). 7 In ogni qualificazione normativa di una condotta è dato riscontrare, infatti, un elemento “personale” (relativo alla individuazione di chi può, deve o non può tenere quella certa condotta) e un elemento “materiale” (relativo alla individuazione di che cosa si possa, debba o non possa fare): così D’ALESSANDRO, I titoli di partecipazione, Milano, 1968, pp. 31 e 53. 8 Cfr. MÜLLER, Anteilswert oder anteiliger Unternehmenswert? – Zur Frage der Barabfindung bei der kapitalmarktorientierten Aktiengesellschaft, in Festschrift für Röhricht, Köln, 2005, p. 1021 il quale, dopo aver sottolineato come il concetto stesso di “valore” presupponga una relazione rilevante tra un soggetto che valuta e un oggetto che viene valutato («Der Wertbegriff setzt immer ein Subjekt-Objekt-Verhältnis vor»), contesta l’esistenza di un valore “obiettivo” od “obiettivato”, cioè svincolato dagli individui che valutano e dalla particolare situazione personale in cui si trovano.

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tenziali risultati quanti sono i soggetti che effettuano la valutazione, in ragione dell’insieme delle loro preferenze personali, del complesso di informazioni di cui dispongono, dell’orizzonte temporale programmato per l’investimento nonché della composizione dei rispettivi portafogli mobiliari. Una volta constatata l’illusorietà della pretesa di rintracciare un valore “reale” della partecipazione o dell’azienda sociale 9, bisogna però evitare che si cada nell’eccesso opposto rappresentato dall’arbitrarietà di un relativismo metodologico non governato dalla legge. Di qui l’esigenza di una tipizzazione normativa degli assunti secondo cui condurre il processo di valutazione e di una ricostruzione in via ermeneutica degli scopi per i quali esso viene prescritto 10. Di qui, inoltre, la spiegazione del significato giuridico del problema estimativo, nel senso che la misura di valore scaturita da quel processo potrà definirsi “corretta” non in quanto “esatta”, cioè espressiva di una (preesistente) qualità intrinseca delle azioni, bensì soltanto ove risponda allo scopo perseguito dall’enunciato normativo che ne prevede l’individuazione 11. Una misura di valore, dunque, alla quale può riconoscersi carattere “oggettivo” solo in quanto la sua individuazione viene prescritta dall’ordinamento per la soluzione di un conflitto di interessi sottostante e che, proprio per ciò, assume portata normativa in quanto necessariamente vincolante per tutti gli azionisti 12. 9 E v. BUSSE VON COLBE, Der Vernunft eine Gasse: Abfindung von Minderheitsaktionären nicht unter dem Börsenkurs ihrer Aktien, in Festschrift für Lutter, Köln, 2000, p. 1056 («Die Frage nach einem wahren Unternehmens- oder Aktienwert ist also klar mit nein zu beantworten. Es gibt ihn nicht»); nonché MÜLLER, Unternehmenswert und börsennotierte Aktie, in Festschrift für Roth, München, 2011, p. 526 («Einen „inneren Wert“ als Datum gibt es nicht »). Ciò non vuol dire che l’ordinamento non possa, in altro contesto e ad altri specifici fini, metter capo al concetto di “valore reale” di una cosa: e si consideri il disposto dell’art. 1909 c.c. in tema di soprassicurazione. Ma ciò il legislatore fa non in quanto ragioni del valore come “predicato oggettivamente immanente” al bene assicurato bensì sempre e solo in chiave funzionale, di coerenza con lo scopo per il quale si rende necessaria una attribuzione di valore a quel bene (e cioè, nel caso di specie, di salvaguardia della causa indennitaria che pervade l’intera disciplina del contratto di assicurazione contro i danni). E ci si potrebbe pure interrogare sulla relazione dialettica instaurabile tra la categoria civilistica della res e la speciale connotazione che il concetto di “valore” assume nel diritto dell’impresa (dalla disciplina del bilancio a quella della formazione del capitale nelle società con personalità giuridica): v, per alcuni primi cenni sul tema, HIRTE, Gegenstand vs. Wert. Von den Schwierigkeiten des Unternehmensrechts mit der zivilrechtlichen Dogmatik, in Festschrift für Hoffmann-Becking, München, 2013, p. 531 ss. 10 Cfr. per tale impostazione, ampiamente, ADOLFF, Unternehmensbewertung, cit., p. 171 ss. e 500 s. 11 Non manca di cogliere questo decisivo aspetto, con riguardo alla fusione, C.SANTAGATA, Le fusioni, nel Tratt. Colombo-Portale, vol. 7**, t. 1, Torino, 2004, p. 356 («è la finalità perseguita [dalla stima] a dover orientare il ‘criterio’ di valutazione»); e v. anche MASTURZI, Bilanci straordinari e valore del capitale economico, in I bilanci straordinari a cura di Montagnani, Milano, 2013, p. 106 ad avviso della quale «la selezione dei criteri valutativi deve essere operata in funzione dello scopo della stima e della natura giuridica della vicenda che ne origina l’esigenza». 12 Così, in relazione al significato di “objektiver Wert” nell’ambito del § 243, Abs. 2, AktG,

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Questa riflessione – nel mostrarsi coerente con il tradizionale insegnamento in materia di bilanci secondo cui la “verità” di una rappresentazione valoristica del patrimonio sociale dipende esclusivamente dalla conformità agli obiettivi per i quali essa viene richiesta 13 – consente di comprendere anche perché la determinazione del valore delle azioni o dei capitali economici d’impresa da parte degli amministratori, lungi dal caratterizzarsi come una mera quaestio facti, sia invece suscettibile di sindacato giudiziale 14 e destinata, dunque, a fondarne la responsabilità ai sensi dell’art. 2392 c.c. In vero, fermo il rispetto da riservare al potere dell’organo amministrativo di prescegliere il metodo valutativo più adeguato al caso concreto, dovrà affermarsi una violazione degli obblighi di diligenza professionale gravanti sui componenti di quell’organo ogni qualvolta il criterio selezionato non si riveli coerente con la composizione di interessi perseguita dalla disciplina della singola vicenda valutativa e il suo risultato si traduca, allora, nella indebita penalizzazione di una classe di soci rispetto all’altra 15. Si comprende, al tempo stesso, la netta specificità che il problema della valutazione delle azioni assume nell’ipotesi in cui queste siano negoziate in borsa. Ciò non solo – e in realtà non tanto – perché si acuisce, in tal caso, l’esigenza per gli organi sociali di risolvere il confronto tra criteri “assoluti” e criteri di “mercato” 16 e di adeguatamente motivare poi la «importanza relativa attribuita a ciascuno di essi nella determinazione del valore adottato» 17, quanto piuttosto perMÜLBERT, Aktiengesellschaft, Unternehmensgruppe und Kapitalmarkt2, München, 1996, pp. 350 s. («valore normativo perché mira, sulla scorta di parametri determinati in senso normativo, a un equo contemperamento degli interessi contrapposti di diversi soggetti valutanti»). 13 Ricorda tale profilo, di recente, DE ANGELIS, I bilanci da redigere per la liquidazione della quota del socio recedente e per la determinazione del sovrapprezzo e del rapporto di conversione, in I bilanci straordinari a cura di Montagnani, cit., pp. 39 s. 14 Vale la pena precisare, anzi, che il problema della determinazione del valore delle azioni non solo non è semplicemente una questione di fatto, ma è addirittura prevalentemente una questione di diritto: e v., in questi termini, HÜTTEMANN, Die angemessene Barabfindung, in Festschrift für HoffmannBecking, München, 2013, p. 603 («nicht nur eine Tatfrage, sondern vorrangig eine Rechtsfrage».) 15 E v., infatti, BIANCHI, Appunti sul controllo del giudice in sede contenziosa sulle valutazioni d’azienda, in Scritti giuridici per Piergaetano Marchetti. Liber discipulorum, Milano, 2011, p. 71 il quale riporta il fondamento del controllo giudiziale «di qualsiasi operazione estimativa relativa a operazioni di finanza straordinaria» alla necessità dell’«applicazione di un corpus comune di principi e regole che, in quanto di matrice giuridica, devono ritenersi di carattere generale e sovraordinato rispetto a quelle ‘tecniche’». E con particolare riguardo alla “sindacabilità” del rapporto di cambio nelle operazioni di fusione e scissione – che del problema menzionato nel testo costituisce forse l’aspetto praticamente più rilevante – cfr., per tutti, C. SANTAGATA, Le fusioni, cit., pp. 323 ss.; STANGHELLINI, Osservazioni in materia di sindacabilità del rapporto di cambio nella fusione dopo la riforma del 1991, in Giur. comm., 1995, II, p. 134 ss., spec. 136 ss. 16 Sul senso di tali locuzioni cfr. il successivo par. 3. 17 La regola enunciata nell’art. 2501-sexies, comma 2, c.c. in materia di fusione (e diretta agli organi amministrativi chiamati a giustificare il concambio proposto, prima ancora che all’esperto

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ché, dinanzi al fenomeno della ammissione a trattazione su un mercato regolamentato, diviene ancor meno plausibile allegare l’esistenza di una omogeneità nelle preferenze dei singoli azionisti in ordine al valore monetario individualmente ascritto al proprio investimento 18 e imprescindibile, allora, specificare il “tipo” di (oggetto di) valutazione richiesto dalla norma nonché l’esigenza di precisarne implicazioni concettuali ed esiti applicativi.

2. La specificità dogmatica del problema per le società quotate: l’azione come “partecipazione all’impresa” e come “bene” L’affermazione appena formulata può esser meglio intesa muovendo dalla considerazione secondo cui la singola unità azionaria negoziata in borsa si presenta, dal punto di vista del suo titolare (cioè del soggetto alla cui tutela si volge il processo estimativo), intrinsecamente “ancipite”: essa si caratterizza infatti, per un verso, come “partecipazione all’impresa” organizzata in forma societaria e agli incrementi di ricchezza generati dal suo esercizio 19, per altro verso però anche incaricato di attestarne la congruità: e v., per tutti, MARCHETTI, Appunti sulla nuova disciplina delle fusioni, in Riv. not., I, 1991, p. 33) deve infatti considerarsi espressione di un principio generale, sempre che la legge non “elida” la discrezionalità valutativa degli amministratori: come è a dirsi per il terzo comma dell’art. 2437-ter c.c., in relazione al quale la libertà determinativa dell’organo amministrativo ha modo di esplicarsi tutt’al più nelle ipotesi in cui il titolo azionario, nell’arco di un numero significativo di sedute di borsa, non abbia fatto registrare alcun prezzo “di chiusura” e si ponga, dunque, il tema di stabilire se il valore di recesso debba essere stabilito attingendo unicamente ai prezzi disponibili o se, come pare in vero preferibile ove una trattazione del titolo in quelle giornate vi sia stata, non si debba piuttosto colmare quella lacuna attingendo ai prezzi di riferimento o, in loro mancanza, ai prezzi ufficiali comunque formatisi. 18 Sui mercati mobiliari reali, infatti, operano investitori con aspettative eterogenee, le cui funzioni soggettive di utilità divergono (nel senso che ciascuno attribuirà alle azioni del singolo emittente valori tra loro diversi e poi più, o rispettivamente meno, elevati di quello ad esse ascritto dagli organi sociali) e i cui portafogli si presentano insufficientemente diversificati (nel senso che solo in parte riproducono la composizione del portafoglio di mercato nel quale investono): la conseguenza è che ogni operazione societaria tale da produrre, in via diretta o indiretta, una redistribuzione delle partecipazioni (e quindi l’esigenza di una loro valutazione) sarà destinata a incidere diversamente su quelle funzioni di utilità e su quei portafogli e a porre le premesse per una divergenza di interessi che, come osservato nel testo, spetta alla legge comporre e neutralizzare. E v., sulle assunzioni sottostanti al “Capital Asset Pricing Model” e sulle implicazioni normative di tale modello, STOUT, How Efficient Markets Undervalue Stocks: CAPM and ECMH Under Conditions of Uncertainty and Disagreement, in 19 Cardozo L. Rev. (1997-1998), p. 475 ss.; EAD., Are Stock Markets Costly Casinos? Disagreement, Market Failure, and Securities Regulation, in 81 Va. L. Rev. (1995), p. 611 ss.; MITCHELL-CUNNINGHAM-SOLOMON, Corporate Finance and Governance2, North Carolina, 1996, pp. 245 ss.; nonché, sulla sua rilevanza in ordine alla ricostruzione della posizione di azionista in società quotate, diffusamente MÜLBERT, Aktiengesellschaft, cit., p. 125 ss. 19 E v. FERRO-LUZZI, Riflessioni sulla riforma; I: la società per azioni come organizzazione del fi-

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come un “prodotto” dal contenuto eminentemente “finanziario” perché strutturalmente destinato ad esser negoziato secondo prezzi oggettivamente espressi dalle quotazioni di borsa 20. È appena il caso di osservare che, menzionando siffatta alternativa, non si vuole in questa sede predicare tanto la natura doppia della partecipazione sociale 21, quanto piuttosto sottolineare come l’ordinamento possa attribuire maggiore rilievo, dinanzi alla singola esigenza valutativa, ora all’aspetto “interno” (cioè al contenuto organizzativo), ora a quello “esterno” (cioè alla fungibilità circolatoria) della partecipazione e così imporre soluzioni divergenti al problema che si intende esaminare. La duplicità dimensionale appena menzionata, infatti, incide sugli equilibri interni all’organizzazione sociale e impone di articolare l’interprenanziamento di impresa, in Riv. dir. comm., 2005, I, p. 673 ss. il quale discorre di «partecipazione all’impresa rappresentata da azioni». Per il tentativo di collocarsi in questa angolazione visuale v. MAUGERI, Partecipazione sociale e attività di impresa, Milano, 2010, pp. 61 ss. 20 E v. dunque, con chiarezza, FERRI, Manuale di diritto commerciale12 a cura di Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2008, p. 430 per il rilievo secondo cui, nelle società quotate, «la partecipazione azionaria, oltre che rappresentare un mezzo per partecipare ad una iniziativa imprenditoriale, può rappresentare un mezzo di investimento del risparmio» che consente di «monetizzare in qualsiasi momento l’investimento attraverso la vendita delle azioni sul mercato». Nella dottrina germanica v., per tutti, SCHÖN, Der Aktionär im Verfassungsrecht, in Festschrift für Ulmer, Berlin, 2003, p. 1381 ove la caratterizzazione dell’azione come «Miteigentum am Gesellschaftsunternehmen» e come «eigenständiges Objekt der Investition und Deinvestition»; e MÜLLER, Unternehmenswert und börsennotierte Aktie, cit., p. 519 («Vielleicht kommt man der Problematik näher, wenn man die Aktie in ihrer börsennotierten Erscheinungsform weniger als ein Instrument des Gesellschaftsrechts und mehr als ein Instrument des Kapitalmarktrechts, als ein Finanzinstrument sieht»). Che l’utilizzo del predicato «finanziario» per le unità azionarie, ove inteso in senso tecnico-giuridico, debba riportarsi anzitutto al profilo della (agevole) «negoziabilità nel mercato dei capitali» lo si desume direttamente dalla legge: e v., in un giuoco di cerchi concentrici che rende le azioni, attraverso quel predicato, prima «valori mobiliari», poi «strumenti finanziari» e quindi «prodotti finanziari», il comma 1-bis, lett. a, il comma 2, lett. a, e infine il comma 1, lett. u) dell’art. 1, TUF. E v. COSTI-ENRIQUES, Il mercato mobiliare, in Tratt. dir. comm. diretto da Cottino, vol. VIII, Padova, 2004, p. 163 (liquidità come «attributo essenziale degli strumenti finanziari quotati»). 21 Per una critica cfr., ad es., D’ALESSANDRO, op. cit., pp. 104 ss.; nella dottrina tedesca, e proprio con riguardo al problema della valutazione delle azioni, HÜFFER, Bewertungsgegenstand und Bewertungsmethode – Überlegungen zur Berücksichtigung von Börsenkursen bei der Ermittlung von Abfindung und Ausgleich, in Festschrift für Hadding, Berlin, 2004, p. 461 ss. Ma che la disciplina della partecipazione azionaria ne consenta per molti versi l’accostamento anche alla categoria dei «beni in senso giuridico» pare difficile da contestare: v., per un cenno, MAUGERI, Partecipazione sociale e attività di impresa, cit., p. 9, nt. 23; nonché FERRI jr., Struttura finanziaria dell’impresa e funzioni del capitale sociale, in Riv. not., 2008, I, p. 741 ss., 789, ad avviso del quale l’«autentico tratto distintivo dell’impresa organizzata in forma di società di capitali» andrebbe ravvisato nella natura della partecipazione sociale quale «bene in via di principio autonomo» tanto dall’organizzazione sociale che dai restanti beni del patrimonio personale del socio. È del resto la stessa struttura della tecnica azionaria che induce a «pensare all’azione come ad una ‘cosa’»: in questo senso ANGELICI, La società per azioni, I, Principi e problemi, in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da Cicu-Messineo-Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, 2012, p. 36.

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tazione delle norme rilevanti in considerazione dell’interesse sottostante all’investimento, del suo connotarsi in senso “imprenditoriale” o invece, appunto, puramente “finanziario” 22. In particolare, assumendo il punto di vista dell’azionista “imprenditore” l’accento del procedimento valutativo cadrà sul significato dell’investimento azionario come partecipazione a una attività di impresa e lo scopo di quel procedimento consisterà precipuamente nello stabilire il “valore fondamentale” dell’azione, cioè delle (di tutte le) sue utilità economiche future da essa ritraibili in termini di flussi monetari provenienti dell’impresa 23. Il compito del soggetto chiamato a valutare risulterà, allora, quello di ricostruire il “prezzo” che in una ipotetica contrattazione un terzo indipendente avrebbe versato per l’acquisto dell’intera azienda e di suddividere poi tale valore per il numero di azioni in circolazione 24. Ove, per contro, il modello tipologico di valutazione si incentri sulla figura dell’azionista “risparmiatore” perfettamente diversificato, il baricentro logico si sposterà sul significato dell’azione come bene negoziabile su un mercato regolamentato indipendentemente dall’azienda o dai suoi singoli rami e, proprio in ragione di ciò, munito di un “valore di scambio”, cioè di una componente valoristica ulteriore rispetto a quella identificabile nella (mera) compartecipazione ai risultati reddituali o agli incrementi patrimoniali dell’impresa: in tal caso, lo scopo della determinazione valutativa risiedendo, piuttosto, nel “ricostruire” il prezzo che quell’azionista avrebbe realizzato collocando sul mercato la partecipazione o singole situazioni soggettive isolabili dalla stessa (ad es., con la vendita dei diritti di opzione in caso di aumento del capitale a pagamento). Si vedrà fra un attimo come l’alternativa appena enunciata in ordine al concetto di partecipazione quotata si rifletta sul problema delle metodologie da applicare 25. Qui preme sottolinearne subito un peculiare aspetto sistematico, ossia la circostanza, apparentemente sorprendente 26, secondo cui, in sede di valutazione, è 22 E v. di nuovo FERRI, Manuale, cit., p. 430; nonché JAEGER, Gli azionisti: spunti per una discussione, in Giur. comm., 1993, I, p. 23 ss., spec. 38 ss. 23 V. il cenno in ANGELICI, Principi e problemi, cit., p. 526. 24 E v., in ordine ai criteri da applicare in sede di determinazione del concambio da fusione, il Documento OIC n. 4 del 24 gennaio 2007, p. 13 (evocando, per la stima del valore effettivo delle società partecipanti alla fusione, «i criteri propri della determinazione del “capitale economico” in ipotesi di cessione di azienda in funzionamento»). 25 Ma è bene sottolineare come quella alternativa rilevi ai fini della corretta impostazione anche di altri problemi e confermi la specificità che assume, nella ricerca di una loro soluzione, il dato della negoziazione delle azioni su un mercato regolamentato: v., sottolineando l’incidenza in ordine al tema della responsabilità degli amministratori della «emersione accanto ad una nozione di valore reale delle azioni di quella di un loro valore di mercato», ANGELICI, Su mercato finanziario, amministratori e responsabilità, in Riv. dir. comm., 2010, I, p. 12. 26 Visto che è proprio in sede di circolazione che più intensa si avverte la tendenza a costruire la partecipazione sociale come una entità compatta e omogenea: cfr., ancora, D’ALESSANDRO, I titoli di partecipazione, cit., p. 104.

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proprio la adozione della prospettiva dell’azione come res, non invece quella che rintraccia in essa una posizione organizzativa, a consentire al socio di monetizzare il valore di scambio di singoli diritti amministrativi 27. E, in vero, mentre ai fini della stima del complesso aziendale il cui controllo è assicurato da un investimento di maggioranza, il voto non presenta alcun valore indipendente dai diritti economico-patrimoniali, atteso che quella stima sarà unicamente conseguenza dei profitti operativi futuri che l’esercizio dell’impresa è idoneo ad assicurare al potenziale acquirente 28, diversa, e per così dire rovesciata, si presenta la situazione qualora oggetto di negoziazione (e prima ancora di stima) sia la frazione minima in cui è suddiviso il capitale nominale. In tal caso, infatti, le posizioni di potere ad essa inerenti finiscono con il manifestare un peso (ed un valore) autonomo rispetto alla componente patrimoniale, come dimostra non solo un superficiale sguardo all’esperienza empirica 29 ma anche il dato strettamente normativo e, segnatamente, quello riguardante la materia delle offerte pubbliche di acquisto. Nell’ambito di tale plesso disciplinare almeno due sono, infatti, le indicazioni utili ai fini del discorso che si sta svolgendo. Da un lato, la constatazione del fatto che in tanto il socio della target vanta una pretesa giuridicamente tutelata, se non una opzione in senso tecnico 30, alla monetizzazione dell’investimento ai sensi dell’art. 106, comma 1, TUF in quanto detenga «titoli», cioè strumenti muniti del diritto di voto in assemblea (art. 101 bis, comma 2, TUF), e vi sia stato un evento traslativo concernente azioni legittimate a concorrere alla nomina o alla revoca degli amministratori o del consiglio di sorveglianza (art. 105, comma 2, TUF), a contribuire cioè alla vicenda delibe27

Cfr. MÜLLER, Anteilswert oder anteiliger Unternehmenswert?, cit., p. 1024 per il rilievo secondo cui solo la considerazione come bene negoziabile in borsa consente di porre in adeguato risalto «die mitgliedschaftsrechliche Seite der Aktie». 28 Così MÜLBERT, Grundsatz und Praxisprobleme der Einwirkungen des Art. 14 GG auf das Aktienrecht, in Festschrift für Hopt, I, Berlin-New York, 2010, p. 1073. Si può anche esprimere il medesimo concetto affermando che il valore dell’azione come “partecipazione all’impresa” è l’importo monetario che ad essa spetterebbe a titolo di quota di liquidazione ove fosse ceduto l’intero complesso aziendale e poi immediatamente sciolta la società alienante: un importo rispetto al quale, evidentemente, il corredo di diritti amministrativi di cui l’azione è dotata si rivela del tutto ininfluente. 29 Si pensi al normale disallineamento tra l’andamento delle quotazioni delle azioni ordinarie e quello delle azioni di risparmio. 30 Il riferimento è naturalmente alla sentenza della Cass. 10 agosto 2012, n. 14400, in Giur. comm., 2013, II, p. 201 con nota di F.M.MUCCIARELLI, Il risarcimento del danno per mancata proposizione dell’opa obbligatoria: l’epilogo del caso SAI/Fondiaria?, che quella pretesa considera alla stregua di «un’entità patrimoniale a sé stante suscettibile di autonoma valutazione economica» in ragione dell’andamento registrato dalle quotazioni nel periodo anche successivo al momento in cui l’offerta avrebbe dovuto essere promossa.

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rativa in cui meglio si esprime il contenuto “potestativo” della partecipazione sociale 31. Dall’altro, l’esistenza di una regola quale quella contenuta nell’art. 104 bis, comma 5, TUF che contempla addirittura un indennizzo per l’ipotesi in cui l’esito favorevole dell’offerta (ossia il raggiungimento di una soglia di adesioni pari almeno al settantacinque per cento del capitale con diritto di voto nelle deliberazioni riguardanti, appunto, la nomina e la revoca delle cariche sociali) abbia comportato la neutralizzazione di poteri speciali di interdizione alla scalata derivanti dalla partecipazione. Una disposizione, quest’ultima, la quale risulta, anzi, particolarmente significativa perché, nel tentare di isolare un criterio per individuare la consistenza patrimoniale del diritto sacrificato e quindi l’onere compensativo da porre a carico dell’offerente, prescrive al giudice 32 di tener conto, tra l’altro, del «raffronto tra la media dei prezzi di mercato del titolo nei dodici mesi antecedenti la prima diffusione della notizia dell’offerta e l’andamento dei prezzi successivamente all’esito positivo dell’offerta»: così mostrando, in definitiva, di riconoscere all’andamento delle quotazioni di borsa, e specificamente alla differenza tra prezzi registrati dall’azione cum e prezzi registrati dall’azione ex, la capacità di esprimere compiutamente, ancora una volta, il valore di mercato della singola figura di potere inerente all’azione 33.

3. Le conseguenze metodologiche: criteri di valutazione assoluti (o analitici) e criteri di valutazione relativi (o di mercato) Se, dunque, si ammette che il richiamo alle quotazioni di borsa per la determinazione del valore dell’investimento sottintende una concezione analitica dell’azione, la necessità cioè di ricostruire quest’ultima alla stregua di un autonomo “pezzo” dell’organizzazione 34 costituito da un complesso di diritti (unitariamente trasferibili ma) distintamente valorizzabili 35, diviene inevitabile sottolineare l’in31

E v. LENER, Le offerte obbligatorie, in Le offerte pubbliche di acquisto a cura di Stella Richter jr, Torino, 2011, p. 168 il quale sottolinea come la disciplina delle o.p.a. obbligatorie ponga al centro l’investimento in uno strumento destinato a essere scambiato in un mercato ufficiale e «il cui valore – che l’ordinamento intende proteggere – dipende (anche) dalla porzione di poteri amministrativi che esso incorpora»; nonché GUACCERO-CIOCCA, Commento all’art. 105, in Il Testo Unico della Finanza a cura di Fratini e Gasparri, Torino, 2012, p. 1385 ss. 32 Qualora le parti (offerente e titolari dei diritti neutralizzati) non abbiano raggiunto un accordo sul “prezzo” dei diritti neutralizzati dal successo dell’offerta. 33 Su portata, natura e caratteristiche dell’indennizzo in questione sia consentito il rinvio a MAUGERI, Commento all’art. 104-bis, in Il Testo Unico della Finanza a cura di Fratini e Gasparri, Torino, 2012, p. 1357 ss. 34 Cfr. FERRO-LUZZI, Riflessioni sulla riforma, cit., p. 693. 35 E v. il cenno in MÜLBERT, Grundsatz und Praxisprobleme, cit., p. 1073, nt. 158 («Rekonsti-

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cidenza di questo approccio sulla selezione delle metodologie da osservare ai fini della stima del valore della partecipazione quotata. Alla dialettica instaurabile, sul piano giuridico, con riguardo all’oggetto della valutazione può riportarsi, infatti, a ben vedere quella, tradizionalmente radicata negli studi di finanza aziendale, tra criteri c.d. “assoluti” e criteri c.d. “relativi”: i primi fondati su formule tendenti a definire il valore dell’azienda mediante attualizzazione dei flussi reddituali o finanziari futuri 36 e quindi più adeguati a realizzare uno scopo normativo che si orienti al concetto di “partecipazione all’attività di impresa”; i secondi indirizzati, invece, a offrire un prezzo, cioè il corrispettivo monetario ricavabile dalla dismissione dell’investimento in base ai dati espressi dal mercato 37 e, proprio perciò, gli unici adeguati in un contesto normativo che guardi all’azione nella sua portata di “bene” agevolmente monetizzabile 38. Diverso si presenta nei due casi il processo logico richiesto per formulare il giudizio finale di valore. Mentre, infatti, i metodi reddituali/finanziari si propongono di esprimere il valore dell’intera impresa e solo indirettamente quello della singola partecipazione, conseguibile per “divisione” del valore del capitale economico della società per il numero di azioni in circolazione, il criterio delle quotazioni tende piuttosto a esprimere il valore immediato della partecipazione (quello ricavabile dalla sua vendita in borsa) e solo “mediatamente” una stima del valore dell’intera impresa, conseguibile per “moltiplicazione” del valore di mercato della singola azione per il numero complessivo di unità ammesse a quotazione (c.d. “capitalizzazione” di borsa). Diverse risultano, per conseguenza, anche le determinanti valoristiche sottese a ciascun processo, atteso che decisioni gestorie od organizzative rilevanti nella prospettiva della generazione di flussi di cassa (cioè dell’azionista imprenditore) finiscono con il perdere ampiamente di significato ove si adotti l’angolazione visuale delle quotazioni di borsa (cioè dell’azionista risparmiatore) e viceversa 39. tuierung des einen Bewertungsobjekts Aktie im Sinne eines verkehrsfähigen Bündels mitgliedschaftlicher Rechte und Pflichten»). 36 È il caso del metodo c.d. reddituale e di quello finanziario. 37 È il caso del metodo, appunto, delle quotazioni di borsa e del metodo dei multipli di mercato. 38 In realtà, dovrebbe correttamente dirsi che anche i metodi assoluti tendono a ricostruire un prezzo, cioè un valore di scambio: quello, come già osservato, relativo all’intero complesso aziendale (STILZ, Unternehmensbewertung und angemessene Abfindung – Zur vorrangigen Maßgeblichkeit des Börsenkurses –, in Festschrift für Goette, München, 2011, pp. 537 ss.). Tuttavia, a fini stipulativi, può conservarsi la dicotomia evidenziata nel testo, anche in ragione della sua diffusione nella letteratura aziendalistica: cfr., per tutti, GUATRI-BINI, Nuovo trattato sulla valutazione delle aziende, Milano, 2005, p. 1 ss. [«i prezzi sono dati espressi dai mercati; i valori sono grandezze stimate a mezzo della previsione dei flussi attesi e dell’apprezzamento dei rischi (e quindi dei tassi)»]. 39 Si consideri, ad esempio, che dal punto di vista di chi acquista il controllo di una società azionaria e guarda, quindi, alla partecipazione in chiave imprenditoriale non assume alcuna importanza la politica di remunerazione del capitale seguita dai soci sino a quel momento poiché

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Se tutto ciò è vero, non mette conto prender posizione in questa sede sulla (asserita) superiorità di una tipologia di metodi rispetto all’altra nell’esprimere compiutamente il valore “intrinseco” dell’azienda e/o della partecipazione 40. Tale giudizio, se condotto in modo astratto, prescindendo cioè, ancora una volta, dal tipo di modello valutativo implicato dalla norma, rischierebbe in vero di rivelarsi non solo discutibile ma, a ben vedere, anche del tutto sterile nella prospettiva della soluzione del problema giuridico indagato 41. Da un lato, infatti, qualsiasi tentativo di istituire gerarchie trascurerebbe la banale, ma inoppugnabile, constatazione dell’esistenza di profonde interferenze tra le diverse metodologie impiegabili. È sufficiente al riguardo osservare che, mentre nessuna seria stima della capacità reddituale o finanziaria di un’azienda può effettuarsi senza attingere a dati desunti dal mercato – in particolar modo ai fini dell’individuazione del tasso di interesse in base al quale attualizzare i flussi futuri dell’impresa 42 –, a sua volta la formazione del prezzo di borsa di un’azione egli, appunto in quanto controllante, è in grado di influenzarla a suo piacimento (fermo il limite della correttezza e buona fede e della difficoltà di reperimento di nuovo capitale sul mercato ove per più esercizi non fossero distribuiti dividendi). Assumerà invece rilievo centrale il rischio specifico (non diversificabile) immanente all’attività esercitata da quella società. Nell’ottica dell’investitore istituzionale l’importanza relativa delle due determinanti (politica dei dividendi e rischio dell’impresa) si presenta esattamente rovesciata, trattandosi di soggetto che, da un lato, dispone di un portafoglio titoli tendenzialmente diversificato (e perciò insensibile al rischio proprio della singola società target) ma che, dall’altro, non fruisce, e proprio in ragione del principio di diversificazione degli investimenti, di alcuna posizione di influenza sulla gestione e sul finanziamento dell’impresa e risulta quindi esposto (e particolarmente interessato) alle scelte formulate dal gruppo di controllo in ordine ad entità e cadenze della distribuzione di dividendi. Per queste considerazioni, del resto largamente intuitive, v. ancora ADOLFF, Unternehmensbewertung, cit., p. 349 ss. 40 Superiorità poi regolarmente riconosciuta ai criteri assoluti dalla prevalente dottrina aziendalistica: v., in termini particolarmente netti, ZANDA-LACCHINI-ONESTI, La valutazione delle aziende6, Torino, 2013, p. 45 («[i]n conclusione, ci sembra di poter affermare, in accordo con la dominante dottrina, che i metodi diretti, ed in particolare il valore di Borsa delle azioni, non possano essere assunti a valido fondamento per la stima del capitale economico di un’azienda»). Ma cfr. sul punto, promuovendo la necessità di un giudizio “integrato” di valutazione che componga in un unitario quadro logico sia l’una che l’altra serie di modelli valutativi, GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 28 ss. E sulle difficoltà incontrate dai giudici nel governo della complessità dei diversi metodi valutativi v. EMMERICH, Kapitulation vor der Komplexität – Zur Praxis der Unternehmensbewertung in der aktuellen Rechtsprechung, in Festschrift für E.Stilz, München, 2014, p. 135 ss. 41 E v., infatti, EMMERICH-HABERSACK, Aktien- und Konzernrecht7, München, 2013, § 305, Rn. 51 (secondo i quali la scelta tra i diversi metodi valutativi «è una questione di diritto, cosicché nessuno dei metodi elaborati dalla scienza aziendalistica può rivendicare ipso iure una posizione di preminenza»); contro il “monopolio” metodologico del criterio reddituale anche HÜTTEMANN, Die angemessene Barabfindung, cit., p. 614 («kein „Methodenmonopol“ der Ertragswertmethode»). 42 Si pensi al criterio, ampiamente diffuso, del Discounted Cash Flow Method (“DCF”) volto a scontare i flussi di cassa che la società sarà in grado di generare in futuro ricorrendo a un tasso di attualizzazione indicativo del costo medio ponderato del capitale (Weighted Average Cost of Capi-

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risente inevitabilmente (e principalmente) dei giudizi prognostici compiuti da analisti e investitori istituzionali sulla presumibile entità e cadenza delle utilità monetarie distribuibili nel tempo dall’emittente 43. D’altro canto, la dottrina che sostiene la maggiore “espressività” dei metodi analitici muove dal convincimento circa il ridotto grado di razionalità degli operatori di mercato e dall’assunto della sostanziale inattendibilità delle quotazioni, in quanto esposte al rischio di manipolazioni e soggette comunque all’influenza di fattori estranei al profilo economico-reddituale della società 44: così obliterando, però, non solo l’eventualità che il mercato nella sua globalità sia in condizione di assicurare esiti “razionali” pur dinanzi a decisioni individuali (presuntivamente) irrazionali dei singoli operatori 45 ma altresì, e soprattutto, che le stime incentrate sulla previsione di flussi di cassa futuri presentano altrettanti margini di “opinabilità” dei comportamenti di mercato 46 e non minori pericoli di alteratal). Questo tasso, a sua volta, altro non esprime se non il “costo opportunità” che sosterrebbe chi volesse investire (o mantenere l’investimento originario) in azioni della società oggetto di valutazione: tale costo dovendo commisurarsi al rendimento che potrebbe invece conseguirsi ove non si acquistassero (o si vendessero) le azioni di quella società e si (re)investisse la somma in titoli muniti dello stesso livello di rischio. Ed è chiaro, allora, come la composizione di un siffatto tasso da parte degli amministratori chiamati a esprimersi sul valore del capitale economico della società finisca con il dipendere intensamente dai dati e dalle indicazioni provenienti dal mercato, visto che quel tasso si comporrà di un saggio “base”, cioè idoneo a riflettere la remunerazione di un investimento privo di rischio (normalmente identificato dalla prassi – ma, dovrebbe aggiungersi: prima della crisi finanziaria – nel rendimento dei titoli del debito pubblico), più un “premio” per il rischio legato all’investimento azionario, che a sua volta viene espresso dalla relazione tra la variazione del prezzo delle azioni e la variazione del mercato azionario di riferimento (c.d. coefficiente Beta) e senza tener conto del rischio “specifico” immanente a quel determinato investimento (perché reputato neutralizzabile mediante una adeguata diversificazione del portafoglio. Cfr. BREALEY-MYERS-ALLEN, Principles of Corporate Finance9, New York, 2008, pp. 13 ss., 35 ss. e 115 ss.; CHOPER-COFFEE jr.-GILSON, Cases and Materials on Corporations7, New York, 2008, pp. 179 ss.; MITCHELL-CUNNINGHAM-SOLOMON, Corporate Finance and Governance, cit., pp. 184 ss.; GROßFELD, Unternehmensbewertung5, Köln, 2009, pp. 283 ss., Rn. 966 ss. Nella letteratura aziendalistica italiana GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., pp. 538 ss.; ZANDA-LACCHINI-ONESTI, La valutazione delle aziende, cit., pp. 97 ss.; POTITO, Le operazioni straordinarie nell’economia delle imprese4, Torino, p. 15 ss.; CEROLI-RUGGIERI-SPRECA-ZEI, Valutazione d’azienda e operazioni straordinarie, Milano, 2012, p. 81 ss. 43 STILZ, Unternehmensbewertung und angemessene Abfindung, cit., p. 538. 44 V., in termini, ADOLFF, Unternehmensbewertung, cit., p. 153 ss. 45 Per questa osservazione v. ANGELICI, Principi e problemi, cit., p. 528. 46 E v. infatti BUSSE VON COLBE, Der Vernunft eine Gasse, cit., p. 1056 s.; HÜTTEMANN, Die angemessene Barabfindung, cit., p. 615. Si consideri del resto, ancora una volta, il metodo DCF e la aleatorietà delle assunzioni “soggettive” sulle quali esso riposa: dalla stima dei flussi di cassa o reddituali attesi in un orizzonte normalmente eccedente quello considerato nei piani industriali e finanziari predisposti dagli organi amministrativi della società alla individuazione del c.d. “valore terminale”, cioè del valore residuo dell’impresa al termine del periodo di stima considerato. Assunzioni che hanno indotto a discorrere di una “pseudo-razionalità” dei metodi reddituali e finanziari: così STILZ, op. cit., p. 534 («Scheinrationalität des Ertragswerts»).

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zioni “interessate”, se si considera che tali stime sono effettuate per lo più da insiders (amministratori) in occasione di operazioni idonee a incidere in misura rilevante sulla posizione partecipativa dei soci estranei al gruppo di controllo. Anche la più ampia base informativa su cui può contare l’applicazione dei criteri finanziari o reddituali rispetto ai moltiplicatori e ai prezzi di mercato, attesa la normale disponibilità da parte degli organi sociali di elementi e fattori rilevanti ai fini della valutazione di cui non è invece edotto il mercato 47, non pare sia circostanza da sopravvalutare. Ciò, almeno in presenza di uno stringente quadro normativo che impone agli emittenti quotati (e ai soggetti che li controllano) di offrire senza indugio al mercato comunicazione di ogni informazione “privilegiata”, idonea cioè a influire in modo sensibile sul prezzo degli strumenti finanziari dell’emittente (cfr. artt. 114 e 181 ss. TUF): una disciplina presidiata da sanzioni penali ed amministrative la quale tende, appunto, a rimuovere quella asimmetria informativa e a fare delle quotazioni un parametro affidabile (anche) in ordine alla quantificazione delle prospettive di redditività dell’investimento in prodotti finanziari negoziati sul mercato 48. Ma, soprattutto, preme rilevare che la pretesa di stabilire una siffatta superiorità metodologica andrebbe incontro a insanabili contraddizioni ove con essa si tentasse di spiegare i dati normativi riguardanti il problema della valutazione delle azioni. È sufficiente, al riguardo, porre a raffronto la disposizione dell’art. 2437 ter, comma 3, c.c. con quella dell’art. 2441, comma 6, c.c. per rendersi conto di come l’una regola sia stata interpretata nel senso di sottendere la piena abilità delle quotazioni a esprimere il valore “reale” della partecipazione 49, l’altra, invece,

47 Rileva questo aspetto ADOLFF, Unternehmensbewertung, cit., p. 92 ss. e 263 s., allegando, a riprova, la diffusa prassi di condurre, nel contesto di operazioni di M&A, un’accurata due diligence sull’entità oggetto di potenziale acquisizione. 48 Si tratta, cioè, di osservare come la scelta giuspolitica di fondo sottostante alla disciplina dell’informazione del mercato, nel promuovere una corretta formazione del prezzo dei titoli, non muova dal presupposto di una sua piena efficienza quanto piuttosto intenda realizzarla: e v. ANGELICI, Su mercato finanziario, amministratori e responsabilità, cit., p. 16 ss. 49 Nella letteratura giuridica v. ANGELICI, La riforma delle società di capitali2, Padova, 2006, p. 87; GALLETTI, Il nuovo diritto della società, a cura di Maffei Alberti, vol. II, Padova, 2005, sub art. 2437-ter c.c., p. 1582 s.; nella dottrina aziendalistica REBOA, Criteri di stima delle azioni in caso di recesso del socio: alcune riflessioni sull’articolo 2437-ter cod. civ., in Dialoghi tra aziendalisti e giuristi, a cura di Notari, Milano, 2009, p. 416, nt. 25. Si v. anche ADOLFF, Unternehmensbewertung, cit., p. 347 secondo cui «una liquidazione dell’investimento unicamente a valori di borsa si può giustificare sul piano giuridico solo se il modello di un mercato dei capitali informativamente ed allocativamente efficiente descrive esattamente, per lo meno in principio, il processo di formazione dei prezzi sui mercati reali, sui quali l’azione viene negoziata» (ma tale affermazione si spiega in un sistema normativo che non conosce la coesistenza di disposizioni quali l’art. 2437-ter, comma 3, c.c., da un lato, e l’art. 2441, comma 6, c.c., dall’altro: ed è, per quanto osservato nel testo, aspetto decisivo).

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nel senso, diametralmente opposto, di attestare l’inadeguatezza dei prezzi di borsa a realizzare sistematicamente quello stesso risultato 50. Per evitare la aporia appena evidenziata 51 non vi è, a ben vedere, che un unico modo e cioè quello di ammettere che la legge, nell’individuare lo scopo normativo ultimo della valutazione cui sono chiamati gli amministratori, abbia tenuto conto della duplicità dimensionale intrinsecamente propria del titolo negoziato su un mercato regolamentato e abbia adottato quindi, in ragione della occasione estimativa di volta in volta considerata, ora la prospettiva dell’azione come “prodotto finanziario”, ora quella dell’azione come (unità di) partecipazione al complesso di valori gestiti in forma societaria, riconoscendo un peso decisivo o, rispettivamente, “solo” concorrente all’andamento delle quotazioni di borsa.

4. Determinazione del valore e vicende dell’investimento. Le ipotesi di “liquidazione” della partecipazione: il recesso Una tale proposta interpretativa, al fine di essere coerentemente sviluppata, impone di distinguere le vicende in cui è richiesta dall’ordinamento una determinazione del prezzo o del valore delle azioni a seconda che le stesse abbiano a oggetto la “liquidazione” dell’investimento o un suo “concambio” in altra partecipazione. In vero, come si osserverà anche in seguito, mentre nella prima serie di 50 Cfr. già MIGNOLI, Determinazione dell’entità del sopraprezzo, in Riv. soc., 1982, p. 526 ss. (ricorso al criterio delle quotazioni «semplicemente come criterio correttivo del criterio primo e fondamentale» costituito dal valore patrimoniale netto); e poi ampiamente G. MUCCIARELLI, Il sopraprezzo delle azioni, Milano, 1997, p. 183 ss., spec. a 188 («elemento estrinseco al ‘valore patrimoniale’ dell’azione, quale è l’andamento delle quotazioni, appunto contrapposto al parametro ‘primo e fondamentale’»); nonché, di recente, MASTURZI, op. loc. citt., secondo la quale, a proposito del criterio valutativo prescritto dall’art. 2441, comma 6, c.c. l’andamento delle quotazioni dell’ultimo semestre «non è in grado di esprimere il valore economico del netto e quindi delle partecipazioni sociali», presentando un «rilievo informativo incompleto». 51 Aporia puntualmente colta in dottrina, ad es., da PREITE, Sovraprezzo, aste competitive e mercato mobiliare, in Giur. comm., 1987, I, p. 895 ss. e non priva, del resto, di conseguenze pratiche. Si pensi al caso di una fusione tra società quotate che comporti un cambiamento significativo dell’oggetto per una delle società partecipanti e quindi il diritto di recesso ai sensi dell’art. 2437, comma 1, lett. a), c.c. per gli azionisti non consenzienti alla fusione. In un simile scenario, l’assunto della piena efficienza dei mercati dovrebbe inevitabilmente imporre la conclusione di stimare il capitale economico di quella società – e quindi di determinare il concambio – utilizzando in via esclusiva il parametro costituito dall’andamento delle quotazioni di borsa (poi dell’ultimo semestre), mentre l’ipotesi opposta secondo cui il mercato non sarebbe strutturalmente in grado di apprezzare in modo corretto le prospettive reddituali dell’emittente dovrebbe sospingere verso l’attribuzione a quel parametro di un ruolo del tutto secondario sul piano valutativo: conclusioni, entrambe, che ovviamente, nella loro assolutezza, non trovano alcun riscontro normativo né supporto nella prassi operativa.

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ipotesi il singolo azionista è libero di sottrarsi alle conseguenze di una operazione che non condivide e il suo interesse si dirige, quindi, al conseguimento di una somma non influenzata dagli effetti economici e giuridici di quell’operazione, nelle ipotesi di “concambio” della partecipazione egli subisce tali effetti senza possibilità di scelta e ha interesse, pertanto, a mantenere intatto il valore della quota di propria pertinenza dei redditi futuri ritraibili dall’investimento 52. In questa cornice esplicativa si inseriva agevolmente la soluzione adottata dal legislatore italiano che, prima della emanazione del recente D.L. 24 giugno 2014, n. 91 (c.d. “Decreto Competitività”, convertito dalla legge dell’11 agosto 2014, n. 116, pubblicata nella G.U. del 20 agosto 2014), imponeva di far capo, per l’individuazione del valore di rimborso delle azioni del socio recedente da una società quotata, esclusivamente alla «media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la ricezione ovvero la pubblicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso» (cfr. l’art. 2437 ter, comma 3, c.c.). Si è già sottolineato in altra sede 53 come nell’interpretazione di una simile disposizione non assumesse specifico rilievo la questione dell’efficienza allocativa o informativa del mercato regolamentato, ossia l’idoneità dei prezzi che ivi si formano a rispecchiare il valore “intrinseco” dell’investimento 54. Il senso dell’enunciato normativo si spiegava, piuttosto, nella prospettiva dell’azione come “prodotto finanziario”, non in quella “organizzativa” della partecipazione 55. Poiché infatti l’esercizio del recesso si traduce nella monetizzazio52 E v., separando appunto i «Barabfindungsfälle» dagli «Umtauschfälle» e argomentando come i canoni per la soluzione del sottostante conflitto di interessi non possano essere i medesimi, ADOLFF, Unternehmensbewertung, cit., pp. 443 ss. Cfr. anche, per la differenziazione tra le due ipotesi e caratterizzando la prima come situazione di “Konzernkonflikt”, HÜTTEMANN, Börsenkurs und Unternehmensbewertung, in ZGR, 2001, p. 464 s. 53 MAUGERI-FLEISCHER, Problemi giuridici in tema di valutazione delle azioni del socio recedente: un confronto tra diritto tedesco e diritto italiano, in Riv. soc., 2013, p. 94 ss. 54 La prescrizione di una media sembrerebbe, anzi, deporre in senso opposto alla possibilità di postulare quella efficienza. In un mondo ideale di mercati perfettamente funzionanti, infatti, la quotazione di borsa è idonea a riflettere in ogni momento il c.d. “prezzo di equilibrio” tra domanda e offerta, incorporando tutte le informazioni disponibili sul valore effettivo dell’azione (inteso come sommatoria del valore attuale dei flussi di pagamento attesi dall’investitore, indipendentemente dalla veste assunta: dividendi, distribuzioni straordinarie, liquidazione da recesso o quota di liquidazione) ed esprimendo le aspettative medie degli investitori, con la conseguenza che, ove il prezzo di borsa si trovasse a divergere casualmente da quel valore effettivo, gli operatori interverrebbero con arbitraggi acquistando (vendendo) l’azione sottovalutata (sopravvalutata) e riportando, appunto, in “equilibrio” il prezzo: in un contesto siffatto, pertanto, non vi è alcun bisogno di ricorrere a una media di prezzi formatisi nel passato. V., per queste osservazioni, WEBER, Börsenkursbestimmung aus ökonomischer Perspektive, in ZGR, 2004, p. 281 ss. e 290; nella letteratura giuridica HÜFFER, Bewertungsgegenstand und Bewertungsmethode, cit., p. 472. 55 Va, dunque, generalizzata a tutte le ipotesi di recesso da società con azioni quotate la consi-

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ne delle azioni, cioè in un risultato funzionalmente equivalente a quello di una loro vendita sul mercato regolamentato, del tutto logica risultava la scelta del legislatore di proteggere unicamente l’interesse del recedente a conseguire il valore di scambio della partecipazione a condizioni non incise dall’operazione 56: un valore ben diverso da quello che l’ordinamento societario vuole invece sia determinato ove l’uscita riguardi una società “chiusa” e la posizione del socio rilevi, dunque, essenzialmente nel suo significato di “partecipazione” agli incrementi produttivi e patrimoniali dell’impresa 57. L’assetto appena descritto è parzialmente mutato a seguito dell’entrata in vigore del già menzionato Decreto Competitività il cui art. 20, al comma 3, ha introdotto la possibilità per lo statuto di una società quotata di prevedere che il valore di liquidazione delle azioni dei soci recedenti sia computato in ossequio ai criteri previsti dal secondo e dal quarto comma dell’art. 2437 ter c.c. per le società non quotate, conseguentemente disponendo la soppressione del riferimento al carattere «esclusivo» del paradigma offerto dall’andamento delle quotazioni di borsa. Il medesimo enunciato precettivo ha però, nel contempo, stabilito chiaramente che «in ogni caso» l’importo da liquidare al socio recedente «non può essere inferiore al valore che sarebbe dovuto in applicazione del criterio indicato dal primo periodo del presente comma»: così confermando la (rilevanza normativa della) netta distinzione concettuale tra il valore «fondamentale» dell’azione e il suo valore di «disinvestimento». Quest’ultimo costituisce, beninteso, una grandezza frutto di un processo di tipizzazione normativa in quanto riflette non la concreta utilità soggettiva annessa dal singolo azionista al proprio investimento bensì una grandezza astratta volta a individuare il prezzo marginale di equilibrio per l’uscita di quell’azionista dalla derazione espressa con riguardo all’ipotesi di “esclusione dalla quotazione” da NOTARI, Il recesso per esclusione dalla quotazione nel nuovo art. 2437-quinquies c.c., in Riv. dir. comm., 2004, I, p. 537 e cioè il collocarsi delle stesse «anzitutto sul piano delle caratteristiche della partecipazione azionaria, più che su quello del modello organizzativo adottato dalla società». 56 Laddove la adozione della prospettiva della partecipazione all’attività di impresa pone inevitabilmente il problema opposto di stabilire se, nella determinazione del valore di liquidazione, debba o meno tenersi conto degli effetti economici della deliberazione che è alla base del recesso e, in particolar modo, della sua incidenza sul potenziale reddituale dell’impresa: per una apertura a tale eventualità cfr. MAUGERI-FLEISCHER, Problemi giuridici in tema di valutazione delle azioni del socio recedente, cit., p. 101 s. E per un preciso riscontro comparatistico si v. la § 13.01(4) del Model Business Corporation Act (nella versione revised through December 2010, American Bar Association, Chicago, 2011, 13-7) la quale definisce il concetto di “fair value” ai fini della disciplina dell’appraisal right come il valore delle azioni determinato immediatamente prima del compimento dell’operazione dalla quale l’azionista dissente, e proprio al fine di considerare, ove rilevanti, eventuali cambiamenti nel prezzo di mercato delle azioni conseguenti all’annuncio dell’operazione. 57 Di qui la centralità applicativa riservata dall’art. 2437-ter, comma 2, c.c. ai parametri estimativi «della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali». E si v. quanto osservato subito nel testo a proposito del dettato dell’art. 2473 c.c.

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società 58. Si tratta, in altri termini, di un “modello” di corrispettivo ritenuto idoneo dal legislatore a lasciare inalterata la posizione sia dell’alienante (il recedente) che dell’acquirente (i soci non recedenti o la società) perché accettato, e quindi voluto, appunto in una logica di scambio, da entrambe le parti 59; un modello che, dunque, si presta a fungere da strumento di composizione del conflitto “endogeno” normalmente ricorrente in situazioni di recesso tra l’interesse al disinvestimento degli azionisti dissenzienti e l’interesse sociale della maggioranza alla continuazione dell’attività d’impresa organizzata su diverse basi. Questi argomenti consentono probabilmente non solo di intuire la ragione del ricorso al criterio della media delle quotazioni, anziché a un prezzo di borsa puntuale (quello del momento di annuncio al mercato dell’operazione) 60, ma 58

Per la definizione di “prezzo marginale del venditore” in termini di controprestazione minima che egli deve conseguire per non peggiorare la sua posizione economica, e di “prezzo marginale del compratore” in termini di corrispettivo massimo che costui è disposto a pagare per non ridurre la propria ricchezza, cfr. DRUKARCZYK, Zum Problem der angemessenen Barabfindung bei zwangsweise ausscheidenden Anteilseignern, in AG, 1973, p. 358. 59 Nel caso di società quotate in borsa, infatti, il valore di liquidazione delle azioni del socio recedente può dirsi “riconosciuto” non solo dall’azionista recedente (che è libero di esercitare il diritto di recesso) e dalla società emittente (che è libera di revocare la delibera legittimante il recesso) ma anche dall’azionista di riferimento che può “dettare” agli amministratori i tempi dell’operazione facendo cadere l’avvio in un periodo tale per cui il computo a ritroso della media prevista dall’art. 2437-ter, comma 3, c.c. non dia luogo a un valore eccessivamente elevato (per uno spunto in questa direzione v. ancora DRUKARCZYK, Zum Problem der angemessenen Barabfindung, cit., p. 363). 60 Il richiamo a una media dei prezzi risponde, infatti, all’esigenza di prendere in considerazione solo quotazioni non influenzate dall’evento che ha causato il recesso (v. NOTARI, Il recesso per esclusione dalla quotazione, cit., p. 532, nt. 5). Ciò non toglie che la formulazione tecnica della norma presti il fianco a osservazioni critiche poiché lo scopo appena enunciato avrebbe imposto a rigore di considerare (i) da un lato, solo le quotazioni antecedenti alla data di diffusione dei primi rumors sul mercato e (ii) dall’altro, una media “ponderata” per i volumi negoziati durante la giornata, anziché semplicemente “aritmetica”, perché solo così si attribuisce il giusto peso al grado di liquidità del titolo azionario e quindi alla sua capacità di esprimere in modo significativo il valore che l’azionista avrebbe effettivamente potuto realizzare cedendo l’azione sul mercato. E tale ultima lacuna risulta vieppiù accentuata dal contestuale riferimento della norma ai prezzi di chiusura, anziché a quelli ufficiali: la mancata considerazione dei volumi comporta, infatti, che nel calcolo della media confluiscano valori, come appunto quelli di chiusura, che risultano di regola più agevolmente “manipolabili” (ad es., attraverso l’immissione artificiosa di un ordine dimensionalmente rilevante): e v. WEBER, Börsenkursbestimmung aus ökonomischer Perspektive, cit., p. 298, il quale sottolinea altresì come il richiamo all’andamento medio delle quotazioni sia incompleto ove non consideri eventuali dividendi straordinari di cui sia stata deliberata la distribuzione nel periodo di tempo considerato (cfr. p. 294). Del resto, è ben vero che in un orizzonte temporale lungo (quale quello semestrale), «la distinzione tra prezzo di chiusura e prezzo ufficiale tende a sfumare in quanto il prezzo di chiusura del giorno ‘x’ incide sulla determinazione del prezzo ufficiale del giorno ‘x+1’» (BALP-VENTORUZZO, Esclusione del diritto d’opzione nelle società con azioni quotate nei limiti del dieci per cento del capitale e determinazione del prezzo di emissione, in Riv. soc., 2004, p. 822, nt. 47), ma possono darsi (e si danno anzi frequentemente) casi nei quali il titolo per più se-

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anche di giustificare l’impossibilità per gli amministratori di sostituirlo unilateralmente, cioè al di fuori di una apposita autorizzazione statutaria, con i parametri indicati dal secondo comma dell’art. 2437 ter c.c. ove “reputassero” l’andamento delle quotazioni inespressivo del valore “effettivo” del capitale economico dell’emittente: ciò che, oltre a collidere frontalmente con il dettato letterale della disposizione – la quale, come appena visto, individua in quell’andamento comunque una soglia minima al di sotto della quale non è possibile scendere 61– finirebbe addirittura con il sovvertire il giudizio di valore ad essa sottostante, attribuendo inopinatamente agli amministratori il potere di surrogarsi al mercato nel definire le condizioni di uscita del socio dalla società 62. Ed è appena il caso di addurre infine, a conferma della prospettiva qui instaurata per le società quotate, la (tutt’altro che casuale o impropria) formulazione dell’art. 2473 c.c. la quale, con riguardo alla determinazione del valore di liquidazione della quota del socio recedente dalla forma tipica d’impresa capitalistica a base ristretta, impone di tener conto del valore di mercato del patrimonio sociale alla data della dichiarazione di recesso, non invece di quello riferibile alla singola quota. In vero, nella dimensione tipologica della s.r.l., la posizione di socio assume il significato di partecipazione a una attività di impresa, non invece quello di strumento finanziario negoziabile in un mercato all’uopo organizzato (art. 2468, comma 1, c.c.), ed il recesso diviene propriamente lo strumento per reagire a operazioni che immutino sensibilmente le condizioni di rischio e le modalità di dute non avrà beneficiato di alcuno scambio in asta di chiusura pur essendo stato negoziato nel corso della giornata: casi, dunque, nei quali l’impossibilità di metter capo a un “prezzo di chiusura” in quelle sedute rischia di alterare in modo sensibile il risultato della media (e legittima probabilmente, come già osservato, la scelta degli amministratori di colmare la lacuna ricorrendo al prezzo ufficiale della giornata che non abbia fatto registrare, appunto, alcun prezzo di chiusura). 61 Cfr. ancora MAUGERI-FLEISCHER, Problemi giuridici in tema di valutazione delle azioni del socio recedente, cit., p. 117, ove si avanzava la proposta di identificare nel «prezzo di borsa» il valore minimo da riconoscere al socio in ipotesi di operazioni straordinarie e proprio in considerazione della circostanza che quel prezzo, si osservava, «rappresenta pur sempre per l’azionista di società quotata, appunto, il valore “minimo” della partecipazione, ossia quello immediatamente ricavabile in sede di disinvestimento sul mercato». Su questo principio, elaborato anche nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità tedesca, v. ora HAPP-BEDNARZ, Aktienrechtliche Abfindungsund Ausgleichsansprüche – Zu offenen Fragestellungen nach den höchstrichterlichen Entscheidungen in Sachen Ytong, DAT/Altana und Stollwerck, in Festschrift für E.Stilz, München, 2014, p. 219 ss.; e RIEGGER-WASMANN, Ausnahmen von der Berücksichtigung des Börsenkurses bei der Ermittlung gesetzlich geschuldeter Kompensationen im Rahmen von Strukturmaßnahmen, ivi, p. 509 ss. 62 Ne consegue inoltre, anche a seguito della modifica apportata dal Decreto Competitività e della già segnalata necessità di una clausola dello statuto per discostarsi dal responso del mercato, che, in assenza di tale clausola, un ricorso ai metodi reddituali, finanziari e patrimoniali per la determinazione del valore di rimborso delle azioni potrà ammettersi per le società quotate solo in situazioni del tutto eccezionali, quando cioè non siano ricavabili i dati per il computo della media reclamata dalla legge (essenzialmente, dunque, nell’ipotesi di sospensione della quotazione del titolo durante il semestre considerato).

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esercizio di quell’attività, non invece il mezzo per conseguire un risultato equivalente a quello di uno “scambio”. La natura “imprenditoriale” dell’interesse perseguito con la partecipazione a una società “chiusa” dà conto, pertanto, dell’esigenza di fissarne la consistenza monetaria muovendo dal prezzo marginale che un terzo avrebbe corrisposto per l’acquisizione dell’intero complesso aziendale – appunto, il “valore di mercato” del patrimonio sociale 63 – e quindi imputando proporzionalmente al socio recedente la porzione di sua pertinenza di quel prezzo 64.

5. (segue) L’offerta pubblica di acquisto Nel novero delle ipotesi di “liquidazione” della partecipazione quotata può farsi rientrare anche l’adesione a un’offerta pubblica di acquisto promossa ai sensi degli artt. 102 ss. TUF. Questa vicenda, almeno nella sua configurazione “obbligatoria” 65, si presta ad essere accostata anche funzionalmente al recesso e in par63 V. anche MASTURZI, op. cit., p. 113 secondo la quale l’art. 2473 c.c. tende «a misurare il valore effettivo, meglio di realizzo, ritraibile dalla cessione del complesso aziendale». Una impostazione non dissimile era prevista, del resto, per le s.p.a. (non quotate) dallo schema di riforma elaborato dalla Commissione de Gregorio nel 1965 (il cui art. 24, comma 1, imponeva di determinare l’entità del rimborso spettante al socio recedente «in base al valore netto effettivo del patrimonio sociale») e si rintraccia anche nell’orientamento della giurisprudenza di legittimità tedesca, pur nel silenzio in quell’ordinamento del dato normativo sul punto: v., con riguardo alla GmbH, Bundesgerichtshof, 16 dicembre 1991, in BGHZ, 116, 359 ss., 370 ss. (mettendo capo all’esigenza di determinare il valore di rimborso della quota sulla base del valore dell’azienda in funzionamento, comprensivo di eventuali riserve tacite e dell’avviamento); e per una applicazione di questa regola alla geschlossene AG, Bundesgerichtshof, 20 marzo 1995, in BGHZ, 129, p. 136 ss., 165. 64 Evidentemente senza imporre sconti di minoranza o applicare premi di maggioranza (che non siano ammessi e disciplinati dall’atto costitutivo, almeno per le cause di recesso convenzionali): cfr. JOVENITTI, Il nuovo diritto di recesso: aspetti valutativi, in Riv. soc., 2005, p. 485 per l’osservazione secondo cui l’utilizzo della locuzione «in proporzione» del patrimonio sociale contenuta nell’art. 2473 «risolve – eliminandolo – il problema del calcolo di eventuali premi/sconti». È bene precisare come anche per la quota di s.r.l. sia ipotizzabile un “valore di mercato”, attesa la considerazione riservata comunque dalla legge all’interesse del socio al disinvestimento (v. la disposizione dell’art. 2469 per l’ipotesi di vincoli al trasferimento della quota che impediscano di fatto quel disinvestimento). Ciò induce a non escludere, in linea di principio, la possibilità di utilizzare anche per tale tipo societario, e seppure in via residuale, gli elementi informativi desumibili dal prezzo che un terzo pagherebbe per l’acquisto della quota: cfr., per analoga osservazione, HÜFFER/SCHMIDT-ASSMANN/(WEBER), Anteilseigentum, Unternehmenswert und Börsenkurs, München, 2005, p. 24. 65 Nel caso di o.p.a. volontaria promossa da chi detiene una partecipazione inferiore alla soglia del trenta per cento, infatti, il mutamento del centro di imputazione della situazione di controllo è piuttosto lo scopo, anziché la conseguenza, dell’offerta: tant’è che, salvi i noti problemi di azione collettiva (sui quali v., nella nostra dottrina, POMELLI, Delisting di società quotata tra interesse dell’azionista di controllo e tutela degli azionisti di minoranza, in Riv. soc., 2009, pp. 407 ss., spec.

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ticolar modo alla peculiare figura contemplata dall’art. 2497 quater, comma 1, lett. c), c.c. per il caso di sottoposizione all’altrui direzione e coordinamento. In entrambe le ipotesi, infatti, l’ordinamento consente al socio dissenziente dal mutamento del centro di imputazione del potere di influire in modo decisivo sulle scelte degli organi sociali di sottrarsi a tale conseguenza chiedendo il rimborso o l’acquisto di tutta (o parte del) la propria partecipazione a condizioni predefinite: ciò che spiega la scelta del legislatore di escludere dall’ambito di applicazione della fattispecie codicistica di exit proprio l’ipotesi in cui la società prossima all’ingresso nel gruppo abbia azioni negoziate su un mercato regolamentato 66. Ma soprattutto convince della plausibilità, in ordine alle società quotate 67, di un accostamento tra l’istituto dell’o.p.a. obbligatoria e quello del recesso la considerazione secondo cui, nell’ambito di tali complessi disciplinari, ai fini della determinazione dell’importo da corrispondere al socio “uscente” non vi è alcuno spazio per il concetto di valore «reale» o «fondamentale» della partecipazione e allora neppure l’esigenza di accertarlo in base ai consueti metodi analitico-valutativi di stima dei flussi finanziari e reddituali 68. 451 ss.), i singoli oblati potrebbero anche impedire quel mutamento optando di non accogliere la proposta formulata dall’offerente (e v. ADOLFF, Unternehmensbewertung, cit., p. 283, testo e nt. 1473). Tale considerazione vale a maggior ragione per l’ipotesi di o.p.a. preventiva parziale prevista dall’art. 107 TUF in relazione alla quale il potere di interdizione dei destinatari dell’offerta ha modo di esplicarsi non solo in sede di (mancata) adesione ma anche negando l’approvazione richiesta ai fini dell’efficacia dell’offerta: e l’indipendenza tra i due profili – segnalata dal riconoscimento della facoltà di esprimere il proprio giudizio anche al socio che non intenda accettare l’offerta (art. 107, comma 2, TUF) – accresce, va da sé, la portata di quel potere di interdizione. 66 Cfr., in luogo di molti, CARUSO, Inizio e cessazione della direzione e coordinamento e recesso del socio, Torino, 2012, pp. 161 ss., spec. 168, il quale ravvisa il fondamento della predetta esclusione nell’esigenza di evitare possibili interferenze tra la disciplina di diritto comune del recesso e quella di carattere “speciale” prevista per le offerte pubbliche di acquisto obbligatorie dagli artt. 104 ss. TUF. 67 Diverso, invece, pare dover essere il discorso per le società prive di azioni negoziate su mercati regolamentati, se non altro in quanto l’esercizio del diritto di recesso ai sensi dell’art. 2497quater, comma 1, lett. c), c.c. è subordinato al ricorrere dell’ulteriore requisito costituito dalla «alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento». Ciò induce ad allocare la portata della norma sul piano della disciplina dell’impresa e a ritenere che la posizione di azionista sia considerata nel suo significato di “partecipazione all’attività”, in considerazione anche della circostanza che la modifica del profilo di rischio proprio dell’investimento altro non è se non una diretta conseguenza della soggezione all’altrui direzione e coordinamento, cioè di una variazione nei modi di esercizio di quella attività. Per una analisi del punto sia consentito il rinvio a MAUGERI, Formazione del gruppo e diritti dei soci, in Riv. dir. comm., 2007, I, p. 301 ss.; ID., Riflessioni minime sul recesso dal gruppo, in Riv. dir. comm., 2009, I, p. 893 ss. 68 V., per la disciplina tedesca contenuta nel § 31 del WpÜG, e nonostante essa identifichi solo “in linea di principio” (“grundsätzlich”) il concetto di congruità (Angemessenheit) del corrispettivo dell’offerta con il prezzo medio di borsa e/o con quello più elevato pagato dall’offerente, TONNER, Die Maßgeblichkeit des Börsenkurses bei der Bewertung des Anteilseigentums – Konsquenzen aus

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In materia di o.p.a. obbligatoria successiva assume, infatti, rilievo decisivo il prezzo più elevato pagato dall’offerente (o da persone che agiscono di concerto con lui) per l’acquisto delle azioni oggetto dell’offerta 69, nel presupposto che quel prezzo, esprimendo in modo compiuto le utilità ricavabili dall’offerente in seguito all’acquisto del controllo sulla target 70, costituisca un indice affidabile in ordine al “valore di scambio” della partecipazione 71. In questo modo, la legge risolve, al pari di quanto è a dirsi per il caso di recesso, un conflitto interno alla compagine della società i cui titoli sono oggetto dell’offerta e ciò fa in considerazione della potenziale carica lesiva che quel conflitto ha per l’interesse del singolo azionista a conservare integro, appunto, il valore di scambio del suo investimento 72. La attribuzione agli azionisti esterni del diritto di dismettere le loro azioni der Rechtsprechung des Bundesverfassungsgerichts, in Festschrift für Schmidt, Köln, 2009, p. 1597; KRAUSE, in ASSMANN- PÖTZSCH-SCHNEIDER, WpÜ2, Köln, 2013, § 31, Rz. 35; v. anche KARRER, Die Angemessenheit der Leistung im Konzern-, Übernahme- und Ausschlussrecht, Baden-Baden, 2003, p. 182 ss., propugnando una applicazione in via analogica ai casi di Abfindung del regime del corrispettivo minimo previsto in tema di o.p.a. È significativo sottolineare, inoltre, come la compatibilità con il principio costituzionale di tutela della proprietà dell’esclusivo riferimento ai corsi di borsa contenuto nel § 39a WpÜG in materia di squeeze-out sia stata espressamente riconosciuta dal Bundesverfassungsgericht sulla base dell’assunto che quella disciplina, esigendo come requisito che vi sia stata un’elevata adesione all’offerta iniziale (presupposto anche in Germania per l’esercizio del potere di squeeze-out), assicurerebbe all’azionista estromesso una somma corrispondente, appunto, al “valore di scambio” delle sue azioni: cfr. BVerfG, 16 maggio 2012, in NZG, 2012, p. 907 ss. 69 Si confronti infatti: (aa) per l’obbligo di o.p.a. nascente dall’acquisto di una partecipazione superiore alla soglia del trenta per cento o ad acquisti superiori al cinque per cento nel corso dell’anno da parte di chi, detenendo una siffatta partecipazione, non disponga della maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria (c.d. “o.p.a. da consolidamento”) la norma dell’art. 106, comma 2, TUF, e (bb) per l’obbligo di procedere all’acquisto delle azioni dei soci che ne facciano richiesta in caso di superamento della soglia del novanta per cento, le norme contenute nell’art. 108 TUF e nell’art. 50 del Regolamento Emittenti (richiamate, per l’ipotesi di squeeze out, dall’art. 111 TUF e dall’art. 50 quater del Regolamento Emittenti). 70 Si tratti poi di utilità consistenti nella creazione di sinergie assicurate dalla aggregazione tra l’impresa dell’offerente e quella della società bersaglio o di “benefici privati” estraibili mediante una politica imprenditoriale unilateralmente orientata all’interesse del nuovo azionista di controllo. Per la qualificazione del c.d. “premio di controllo” in termini di «valore capitalizzato dei vantaggi che l’acquirente delle azioni si ripromette dalla acquisizione di un potere di influenza e in particolar modo dal conseguimento del controllo sulla società in questione», cfr. EMMERICHHABERSACK, op. cit., § 305, Rn. 49. 71 E v. A. TUCCI, Il Tribunale di Milano e la violazione dell’obbligo di offerta pubblica di acquisto: un passo avanti e due indietro?, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, p. 600. 72 Cfr., sia pure con diversità di accenti ma insistendo comunque sulla centralità della tutela del valore di scambio della partecipazione quale fondamento dell’obbligo di o.p.a. successiva, GUIZZI, Noterelle in tema di OPA obbligatoria, violazione dell’obbligo di offerta e interessi protetti, in Riv. dir. comm., 2005, II, p. 257 ss.; A. TUCCI, op. cit., p. 601; DENTAMARO, L’inadempimento dell’obbligo di offerta pubblica totalitaria successiva, in Riv. dir. comm., 2013, II, p. 112.

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alle stesse condizioni riservate al (vecchio) gruppo di comando, infatti, contribuendo a selezionare le offerte pubbliche efficienti da quelle potenzialmente distruttive di ricchezza 73, tende a ridurre il rischio che il nuovo azionista dominante, mediante condotte dissipative del patrimonio sociale capaci di ridurre i corsi di borsa delle azioni, pregiudichi l’interesse della minoranza a liquidare successivamente il proprio investimento a prezzi vantaggiosi o comunque non incisi negativamente dall’evento del mutamento del controllo 74. A tale tecnica di composizione dei diversi interessi in gioco ci si potrà dunque continuare a riferire descrittivamente in termini di “parità di trattamento” degli oblati purché ciò avvenga nella consapevolezza critica che il richiamo a tale principio serve prioritariamente a segnalare l’esigenza di risolvere quel conflitto, ancora una volta, mediante il riferimento alla prospettiva di mercato della partecipazione quotata come “bene” agevolmente negoziabile 75. Del resto, che la dimensione nella quale ci si muove sia quella “interindividuale” della liquidazione dell’investimento e non quella organizzativa incentrata sul suo valore “intrinseco”, è confermato, oltre che dalla diversa portata assunta dal 73

È chiaro infatti che, in presenza di una regola (come quella dell’art. 106 TUF) la quale imponga all’offerente di corrispondere a tutti gli azionisti della società i cui titoli sono oggetto di offerta il medesimo corrispettivo versato al vecchio azionista dominante, in tanto l’offerente si indurrà a riconoscere a quell’azionista un premio rispetto ai prezzi di borsa per l’acquisto di una partecipazione superiore alla soglia del 30% in quanto ritenga che il valore monetario attualizzato dei vantaggi e delle economie di scala ritraibili dalla aggregazione con la società target ecceda il costo dell’offerta. E v. lo spunto di ENRIQUES, Mercato del controllo societario e tutela degli investitori. La disciplina dell’opa obbligatoria, Bologna, 2002, p. 46. Cfr. però anche le perplessità di F.M.MUCCIARELLI, nel Commentario al T.U.F. a cura di Vella, Torino, 2012, sub art. 106, pp. 1063 e 1065. 74 E v. GUIZZI, op. cit., p. 258 il quale sottolinea l’esigenza di tenere indenne l’azionista dal rischio che il superamento della soglia rilevante comporti una modificazione peggiorativa «delle condizioni di realizzabilità del valore di scambio della partecipazione sociale». Per la accentuazione del profilo concernente il rischio di trasferimenti del controllo distruttivi di ricchezza cfr. anche ENRIQUES, Mercato del controllo societario e tutela degli investitori, cit., p. 15 ss. e 28 ss. 75 E v. infatti ANGELICI, La società per azioni, cit., p. 548, nt. 85 (ove la precisazione per cui la tecnica dell’offerta pubblica vale a verificare se la valutazione della società target in essa contenuta sia condivisa o meno dal mercato). A ben poco servirebbe dunque, se si condivide la prospettiva indicata nel testo, obiettare che il corrispettivo versato per l’acquisto di una partecipazione di controllo in società quotata, e quindi il prezzo più elevato al quale promuovere la successiva o.p.a. obbligatoria, non è grandezza idonea a riflettere il concreto valore di scambio della partecipazione detenuta nella società target dai piccoli azionisti poiché questi ultimi, in mancanza di una regola che imponga all’offerente di corrispondere quel prezzo, non avrebbero mai potuto realizzarlo alienando le proprie azioni in borsa (per questa notazione v. però PILTZ, Unternehmensbewertung und Börsenkurs im aktienrechtlichen Spruchstellenverfahren, in ZGR, 2001, pp. 198 s. e 213). Anche nel caso dell’o.p.a., come in quello del recesso da società quotata, l’intendimento normativo è infatti quello di ricostruire un “modello” di valore incentrato sui prezzi negoziati sul mercato, non invece su valutazioni analitiche delle prospettive reddituali o finanziarie dell’impresa.

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principio di eguaglianza in materia di o.p.a. e nel campo del diritto societario 76, dalla fisionomia impressa dalla legge al regime del corrispettivo minimo dell’offerta. E in vero, tale regime non solo prevede di metter capo al prezzo «più elevato» pagato dall’offerente anche ai fini dell’adempimento dell’obbligo di acquisto contemplato dall’art. 108 TUF, nonché dell’esercizio del potere di squeeze out di cui all’art. 111 TUF, ogni qualvolta quel prezzo si mostri adeguatamente (cioè, appunto, tipicamente) rappresentativo delle preferenze soggettive coltivate dai destinatari dell’offerta in ordine al valore delle rispettive partecipazioni nella società target 77, ma impone comunque di tener fermo il ricorso prioritario a parametri di mercato (e, segnatamente, alla media ponderata delle quotazioni di borsa) ove il «prezzo più elevato» non sia disponibile 78 o non esprima compiuta-

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Infatti, la regola di Gleichbehandlung: (i) ove riguardata nella sua colorazione kapitalmarktrechtlich, si volge, sul piano soggettivo, a vincolare unicamente il comportamento dell’offerente e, sul piano assiologico, ad assicurare pari opportunità di uscita dalla target ai soci di quest’ultima, mentre invece (ii) se intesa sul versante gesellschaftsrechtlich, si orienta esclusivamente alla società emittente (art. 92 TUF) e al fine di assicurare ai suoi azionisti pari opportunità nell’esercizio dei diritti inerenti alla partecipazione, cioè, se si vuole, pari occasioni di soddisfare il loro interesse uti socii. Sul punto v., in luogo di molti, MONTANARI, Il principio di parità di trattamento fra disciplina del mercato mobiliare e diritto delle società, in Giur. comm., 1996, I, pp. 899 ss.; F.M. MUCCIARELLI, Sulla parità di trattamento nelle società quotate, in Riv. soc., 2004, pp. 180 ss.; nella dottrina tedesca, STEPHAN, in ASSMANN-PÖTZSCH-SCHNEIDER, WpÜ2, Köln, 2013, § 3, Rz. 8; REUL, Die Pflicht zur Gleichbehandlung der Aktionäre bei privaten Kontrolltransaktionen, Tübingen, 1991, p. 270 s.; nonché le sempre attuali considerazioni di LUTTER-ZÖLLNER, in Kölner Kommentar zum AktG2, Köln-Berlin-Bonn-München, § 53a, Rn. 47 («nel caso della parità di trattamento in materia societaria si tratta del comportamento della s.p.a. e dei suoi organi, mentre il problema menzionato [i.e.: quello relativo alla parità di trattamento nelle offerte pubbliche di acquisto] esiste tra azionista di maggioranza e azionisti di minoranza »); più di recente DRYGALA, in Kölner Kommentar zum AktG3, Köln, 2011, § 53a, Rn. 18. 77 Si considerino le ipotesi di cui ai primi due commi dell’art. 108 TUF (su cui v. il cenno in DENTAMARO, Offerta pubblica di acquisto e scambio, in Riv. dir. comm., 2010, I, p. 1113; e in F.M.MUCCIARELLI, Le modifiche al Reg. Emittenti in materia di offerte pubbliche di acquisto e scambio, in Nuove leggi civ. comm., 2012, p. 264 s.; più diffusamente IACOBELLIS, Commento all’art. 108, in Il Testo Unico della Finanza a cura di Fratini e Gasparri, Torino, 2012, p. 1428 ss.), nonché quella regolata dall’art. 50, comma 4, del Regolamento Emittenti: ipotesi nelle quali la misura del corrispettivo da versare è una immediata e diretta conseguenza del livello di “gradimento” manifestato dalla maggioranza degli oblati (non correlati), e quindi della “qualità del prezzo”, dell’o.p.a. precedente (così l’All. 1 al Primo Documento di Consultazione della Consob del 6 ottobre 2010 relativo al recepimento della Direttiva 2004/25/CE, nel commento della modifica proposta all’art. 50 del Regolamento). 78 Nell’ipotesi di o.p.a. obbligatoria ai sensi dell’art. 106 TUF, ove non siano stati effettuati acquisti a titolo oneroso di azioni della medesima categoria nel periodo di dodici mesi antecedenti alla data della comunicazione ex art. 102 TUF, l’offerta deve essere promossa a «un prezzo non inferiore a quello medio ponderato di mercato degli ultimi dodici mesi o del minor periodo disponibile».

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mente quelle preferenze 79: una scelta che conferma, dunque, la “marginalità” del ruolo riservato, nella occasione valutativa in esame, ai metodi analitici e la coerenza della prospettiva ricostruttiva che pone al centro della disciplina dell’offerta pubblica di acquisto il “valore di disinvestimento” della partecipazione sociale 80.

6. Le ipotesi di “concambio” della partecipazione: la fusione e la scissione Su un versante diverso rispetto a quello proprio dei casi di “liquidazione” dell’investimento (mediante recesso o adesione a un’offerta pubblica di acquisto) vanno allocate, ai fini del discorso che si va svolgendo, le operazioni caratterizzate da uno “scambio” di partecipazioni, in ordine alle quali non si tratta di assegnare un controvalore “equo” al socio uscente, bensì di salvaguardare l’integrità valoristica di un investimento rinnovato nelle sue basi organizzative e patrimoniali. Questa diversità di vertice comporta precise conseguenze ai fini della qualificazione della posizione di interesse giuridicamente rilevante dell’azionista dinan79

Si cfr. l’art. 50, comma 5, del Regolamento Emittenti a mente del quale, «negli altri casi in cui l’obbligo di acquisto sia sorto a seguito di un’offerta pubblica» (ossia nei casi diversi da quelli in cui l’offerta abbia incontrato un elevato gradimento da parte dei destinatari), la Consob determina il corrispettivo tenendo conto del prezzo dell’offerta precedente, del prezzo medio ponderato di mercato dell’ultimo semestre, del valore attribuito ai titoli o all’emittente da rapporti valutativi predisposti, non oltre sei mesi prima dell’insorgenza dell’obbligo di acquisto, da esperti indipendenti secondo criteri generalmente utilizzati nell’analisi finanziaria nonché, infine, di eventuali acquisti di titoli della medesima categoria effettuati nel corso degli ultimi 12 mesi dal soggetto tenuto all’obbligo di acquisto o da soggetti che operano di concerto con lui. 80 La “marginalità” segnalata nel testo dei metodi patrimoniale e reddituale emerge ancor più evidente se si considera che, nel vigore della disciplina antecedente alla attuazione della direttiva 2004/25/CE, la Consob aveva mostrato di annettere importanza preminente a tali metodi in sede di determinazione del prezzo dell’o.p.a. residuale (e v. IACOBELLIS, op. cit., p. 1431 ove anche richiami di dottrina). In costanza del quadro normativo attuale, per contro, il riferimento alla considerazione delle prospettive reddituali e patrimoniali dell’emittente è previsto, oltre che nell’ipotesi di cui alla nt. che precede (attraverso il richiamo alla valutazione operata da esperti indipendenti secondo «criteri generalmente utilizzati nell’analisi finanziaria»), in sostanza unicamente nel caso – per molti versi “estremo” – contemplato dall’art. 50, comma 8, del Regolamento Emittenti della Consob, in forza del quale, se l’obbligo di acquisto ai sensi dell’art. 108 TUF non è sorto a seguito di un’offerta pubblica e non sia disponibile né un prezzo versato, nel corso degli ultimi 12 mesi, dal soggetto tenuto all’obbligo di acquisto (o da soggetti operanti di concerto con lui) né un prezzo medio ponderato di mercato degli ultimi sei mesi antecedenti al sorgere dell’obbligo di acquisto, il corrispettivo dell’offerta è determinato dalla Consob «anche sulla base del patrimonio netto rettificato a valore corrente e dell’andamento e prospettive reddituali dell’emittente»: laddove l’uso della congiunzione «anche» denota come il riferimento ai metodi analitici conservi, pure in questa ipotesi, un ruolo concorrente e non assorbente rispetto alle indicazioni desumibili dai dati di mercato.

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zi al processo valutativo, nonché, e conseguentemente, ai fini della ricostruzione del concetto di partecipazione sociale che ne costituisce oggetto. È, infatti, osservazione frequente che nelle occasioni estimative originate dall’esigenza di procedere a una commutazione tra azioni o quote di società diverse, la aspettativa normativamente protetta degli azionisti delle società coinvolte si appunti sulla conservazione della consistenza valoristica della partecipazione 81 e, come suo presupposto logico, sulla necessità di una “congrua”, perché corretta e non arbitraria 82, determinazione del rapporto di cambio. Noto è anche come tale situazione di interesse dell’azionista al concambio congruo non si presti a essere compresa, sul piano formale, nella prospettiva individualistica del “diritto soggettivo” e quindi nel senso di fondare un obbligo in senso tecnico per gli organi delle società coinvolte di rispettare l’identità della partecipazione in termini di corredo di prerogative a essa inerenti 83. Ciò se non altro in quanto appare esito legittimo di quella operazione non solo una variazione nella fisionomia “numerica” della partecipazione 84, ma anche l’assegnazione di unità provviste di diritti differenti rispetto a quelli attribuiti dalla partecipazione nella società ante-fusione 85: purché, beninteso, ciò avvenga secondo un rapporto di cambio che tenga conto della diversità di contenuto partecipativo 86 e sia 81

Per l’identificazione del termine di riferimento della posizione soggettiva dell’azionista meritevole di protezione nell’interesse alla «conservazione del valore economico della partecipazione», poi ricondotto al «valore intrinseco della stessa (c.d. equal value)» cfr. VICARI, Gli azionisti nella fusione di società, Milano, 2004, p. 1 ss., spec. 36 ss. e 134 ss. e 139 («la fusione comporta tecnicamente un “cambio” di azioni e non una “cessione” delle stesse»). 82 Cfr. MARCHETTI, Appunti, cit., p. 34 ss. 83 Sicché, se proprio si vuole discorrere di una “perpetuazione” della partecipazione come elemento essenziale della fusione [in questo senso SIMON, in Kölner Kommentar zum UmwG, Köln, 2009, § 2, Rn. 78 (Mitgliedschaftsperpetuierung)], ciò può farsi solo per indicare l’esigenza di rispettare la continuità di valori nel senso esplicitato nel testo. 84 E ciò sia in termini assoluti (aumento o riduzione del numero delle azioni detenute dopo la fusione) che relativi (aumento o riduzione della frazione di capitale sociale e quindi del peso partecipativo) del singolo azionista. 85 Si tratta del c.d. concambio “disomogeneo”: v., per tutti, BIANCHI, La congruità del rapporto di cambio nella fusione, Milano, 2002, p. 99 ss. e 120 ss.; VICARI, op. cit., p. 45; MAGLIULO, La fusione delle società2, pp. 204 s. e 358 s. Nella dottrina tedesca v. ancora SIMON, op. cit., § 5, Rn. 80 e 85 il quale sottolinea come la disciplina della fusione non esiga alcuna «Art- und Funktionsgleichheit» tra le vecchie e le nuove partecipazioni sociali. 86 La presenza di azioni “speciali” dal lato della società incorporanda pone delicati problemi in sede di definizione del concambio i quali in linea di principio, ove la società incorporante/risultante dalla fusione non emetta azioni munite dei medesimi diritti, andrebbero risolti procedendo alla individuazione di due rapporti di cambio distinti, previa “traduzione” delle azioni speciali dell’incorporanda in azioni ordinarie “equivalenti” al fine di enucleare il c.d. rapporto di “parità interna”: e v. BIANCHI, La congruità, cit., p. 130 il quale definisce il numero di “azioni ordinarie equivalenti” come espressione «del numero di azioni ordinarie che l’incorporata avrebbe emesso se non avesse fatto ricorso alle azioni di risparmio» (o ad altra categoria di azioni specia-

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fatto salvo, per i soci dissenzienti dalla deliberazione di assegnazione di azioni di categoria diversa, il diritto di recedere dalla società ai sensi dell’art. 2437, comma 1, lett. g), c.c., nonché, prima ancora, quello di approvarne i termini in sede di assemblea speciale ai sensi dell’art. 2376 c.c. (ove si tratti di azioni non quotate) o dell’art. 146, comma 1, lett. b), TUF (ove si tratti di azioni quotate) 87. Né a diversa conclusione induce la considerazione del dettato dell’art. 2502 c.c. il quale, volgendosi a disciplinare «la posizione ‘sostanziale’ dei soci in ordine al valore della partecipazione» 88, circoscrive il potere di intervento di questi ultimi in sede assembleare alle sole modifiche del progetto che non incidano sui loro diritti ed esclude, dunque, che in quella sede possa darsi una alterazione del concambio senza il consenso dell’intero capitale 89: una disposizione, questa, il cui scopo può anche rintracciarsi nell’erigere una situazione soggettiva indisponibile dalla maggioranza purché si abbia cura di precisare che il referente materiale di quella situazione non è la determinazione di un concambio “congruo” 90, bensì l’esigenza del socio di disporre di un adeguato spatium deliberandi al fine di pronunciarsi consapevolmente sui termini economici della fusione 91. li). Ma in senso contrario sulla possibilità di tener conto, nella determinazione del rapporto di cambio, di elementi attinenti al contenuto “qualitativo” della partecipazione sociale LUTTERDRYGALA, in LUTTER, UmwG4, I (§§ 1-134), Köln, 2009, § 5, Rn. 37. In ogni caso, la selezione di concambi distinti non costituisce affatto una necessità logica nelle operazioni di fusione o di scissione, ben potendo attribuirsi alle azioni speciali, ai fini del concambio, il medesimo peso delle azioni ordinarie e addivenirsi dunque al medesimo rapporto di assegnazione (ad es., ove i rispettivi prezzi di borsa mostrino un andamento sostanzialmente allineato o nelle ipotesi in cui le azioni speciali rappresentino una frazione trascurabile del capitale sociale della società incorporanda/scissa). 87 Cfr. COSTA, Le assemblee speciali, nel Tratt. Colombo-Portale, vol. 3**, Torino, 1993, pp. 550 s.; BIANCHI, La congruità, cit., p. 123. 88 FERRI jr-GUIZZI, Il progetto di fusione e i documenti preparatori. Decisione di fusione e tutela dei creditori, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, vol. 2, Torino, 2007, p. 257. 89 Pare infatti difficile contestare che i soci rappresentanti l’intero capitale sociale con diritto di voto siano abilitati in sede assembleare non solo a modificare il rapporto di cambio, ma anche a modificarlo in senso per essi deteriore: v. dunque, per la legittimità di un concambio che, pur irrispettoso della parità di trattamento tra soci, ne riporti l’unanime approvazione, BIANCHI, op. cit., p. 55; nonché LUTTER-DRYGALA, op. cit., § 5, Rn. 20, testo e nt. 7. 90 Ciò che proverebbe troppo perché, in questo modo, al gruppo di controllo verrebbe preclusa non solo la possibilità di modificare in senso deteriore per la minoranza un rapporto originariamente congruo ma anche quella, opposta, di rettificare in senso per essa migliorativo un rapporto originariamente viziato a suo sfavore. 91 E v. SPOLIDORO, Modifiche e variazioni del rapporto di cambio nei casi in cui tra la redazione del progetto di fusione e la decisione di fusione decorra un rilevante lasso di tempo, in La struttura finanziaria e i bilanci delle società di capitali. Studi in onore di Giovanni E. Colombo, Torino, 2011, p. 332 ss. Può estendersi, dunque, alla situazione dell’art. 2502 c.c. quanto osservato dalla dottrina in ordine alla congruità del prezzo di emissione delle nuove azioni in caso di esclusione del diritto

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Il principio normativo della “congruità” del concambio vale, in realtà, a condensare la necessità non solo – e non tanto 92 – che rimanga inalterato in termini assoluti il valore della partecipazione, quanto piuttosto la circostanza che ciascuna compagine consegua un peso nella entità risultante dalla fusione commisurato al contributo causale che ogni società è in grado di recare al risultato futuro globale di tale entità. Poiché tuttavia l’accertamento di un simile contributo andrebbe incontro a notevoli difficoltà pratiche e al rischio di giudizi non verificabili (soprattutto dinanzi a strutture complesse), l’orientamento affatto prevalente nella prassi consiste nell’ipotizzarlo proporzionale al capitale economico della società che dovrebbe apportarlo e nel determinare allora il concambio su base c.d. “stand alone”, cioè in ragione della sola relazione tra i valori, autonomamente considerati, delle società che si fondono 93. di opzione e cioè che la “congruità” del rapporto è certamente disponibile dai soci (all’unanimità) ma a condizione che ciò avvenga «con piena consapevolezza dell’entità del sacrificio, l’informazione sul valore oggettivo, cioè sul congruo prezzo di emissione, delle azioni attribuite a fronte del conferimento» (MARCHETTI, Spunti sulle relazioni tra valore contabile, valore economico, valore di mercato dell’azienda nelle operazioni societarie di finanza straordinaria, in Giur. comm., 1993, I, p. 209 ss.). 92 È ben vero, infatti, che si tende talvolta a reputare la fusione «una vicenda che, pur producendo una modificazione della struttura organizzativa in funzione della razionalizzazione dell’esercizio collettivo dell’impresa», l’operazione si porrebbe per il socio «come sostanzialmente neutrale rispetto alla valorizzazione (sul piano economico e giuridico) della sua partecipazione» (Trib. Milano, 27 novembre 2008, in Foro it., 2009, I, p. 2554). In questo modo, però, si trascura di considerare che le fusioni e le scissioni si presentano astrattamente idonee a modificare la consistenza prospettica del capitale economico delle società che vi partecipano (ad es., rendendo possibile la realizzazione di sinergie produttive o il conseguimento di risparmi di imposta inaccessibili alle società partecipanti isolatamente considerate) e, quindi, a incrementare il valore della singola partecipazione nella società risultante dalla operazione. Vi è anzi da osservare che tale valore potrebbe accrescersi anche in mancanza di un corrispondente aumento della capacità reddituale della entità combinata: come è a dirsi, in particolar modo, per le azioni della società incorporante ove la fusione produca un “accorciamento” della catena di controllo e i flussi di dividendi provenienti dalla società operativa a valle di quella catena non siano più “diluiti” dalla presenza di una controllante intermedia (e dei suoi soci esterni). 93 E v. GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 781 ss. Spunti in giurisprudenza si leggono in App. Milano, 23 maggio 2003, in Giur. it., 2003, p. 1645 ss. e in Trib. Milano, 16 luglio 2008, cit. secondo cui «la strutturale continuità della posizione di azionista che essa [l’operazione di fusione] implica, impone una corretta determinazione del valore della partecipazione nella società risultante dalla fusione», sicché «l’obiettivo che la stima deve perseguire – e con il quale la discrezionalità tecnica deve conciliarsi – è quello della individuazione del valore delle azioni o delle quote delle società che si fondono (concetto diverso dal “prezzo di acquisto” delle azioni stesse) e poi del rapporto in cui si trovano i valori individuati, parametro funzionale a realizzare la continuità sostanziale della partecipazione dei soci alla società risultante dalla fusione». Per fare un banale esempio di quanto osservato nel testo si ipotizzi: che la società incorporante α abbia un valore economico di 50 unità di conto, con un capitale sociale suddiviso in 10 azioni (del valore effettivo, pertanto, pari a 5 unità di conto cadauna); che la società incorporanda β ab-

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La conseguenza di questa caratterizzazione dello scopo valutativo nelle ipotesi di concambio è, allora, che l’“oggetto” immediato della stima deve identificarsi nel complesso aziendale impiegato nell’esercizio dell’attività organizzata in forma societaria mentre il valore della singola partecipazione assume essenzialmente il senso di una grandezza derivata, in quanto ricostruibile solo a partire da quello dell’insieme di beni produttivi dinamicamente vincolati nell’impresa 94.

7. (segue) Valore “derivato” dell’azione, pluralismo metodologico e rilevanza delle quotazioni: la fusione/scissione tra società indipendenti Merita probabilmente soffermarsi sulle implicazioni di carattere tecnico discendenti da tale ultima precisazione. Essa spiega, infatti, la necessità di selezionare criteri estimativi coerenti con l’obiettivo di determinare quel valore “derivato” e quindi di considerare tutti i metodi normalmente utilizzati dalla prassi allo scopo di procedere alla misurazione della consistenza patrimoniale e della capacità reddituale delle società coinvolte nell’operazione. In questa prospettiva, riesce evidente la ragione per la quale – nelle ipotesi di “concambio” della partecipazione e a differenza di quanto è a dirsi per i casi di sua “liquidazione” – i criteri di mercato, e anzitutto quello offerto dalla analisi bia un valore economico pari a 100 unità di conto, con un capitale sociale suddiviso in 10 azioni (del valore effettivo, pertanto, di 10 unità di conto cadauna); e che l’esito economico della integrazione debba apprezzarsi nella prospettiva di un azionista della società β munito di una azione della stessa. Orbene, dovendo il rapporto di cambio stabilirsi nella misura di 2 nuove azioni α per ogni vecchia azione β e trovandosi la società incorporante o risultante dalla fusione α+β, a fattispecie perfezionata, a esibire un valore economico di 150 con 30 azioni complessivamente in circolazione (ciascuna delle quali dal valore effettivo di 5 unità di conto), appare evidente come la posizione patrimoniale dell’(ex) azionista β rimanga immutata dopo la fusione: in termini assoluti, poiché egli avrà ricevuto in concambio due azioni della società α+β, disponendo dunque di un valore economico complessivo di 10, e altresì in termini relativi perché la sua partecipazione, che prima della fusione totalizzava il 10% del valore complessivo di β, si stimerà eguale, dopo la fusione, al 6,667% del valore economico complessivo della società α+β (pari, si è detto, a 150), cioè al 10% della quota di tale valore “di pertinenza” dei vecchi soci di β (quota identificabile, appunto, nei ⅔ di 150). 94 E v. GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 785 secondo cui il rapporto di cambio (e quindi la relazione valoristica tra le unità azionarie delle società partecipanti alla fusione o alla scissione) «deriva dal confronto tra i valori dei capitali delle aziende che si fondono e più precisamente dai valori unitari delle loro azioni calcolate come rapporto tra valore del capitale e numero delle azioni» (enfasi aggiunta). Il riferimento alla natura “derivata” del valore dell’azione oggetto di determinazione in ipotesi di fusione o di scissione non muta ove siano state emesse azioni speciali, implicando semmai un arricchimento del giudizio estimativo e la necessità di tener conto, al momento dell’allocazione tra le diverse categorie di azioni del valore attribuito alla società, delle distinte prerogative di cui ciascuna di esse sia appunto fornita.

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dell’andamento dei prezzi di borsa, non solo perda ogni pretesa di esclusività ma possa, a seconda delle circostanze del caso concreto, addirittura degradare al rango di un semplice strumento di verifica della congruità del concambio definito in via principale secondo altri criteri (quelli basati sui flussi) 95. Tale risultato può in vero ricondursi, ancora una volta, alla circostanza per cui nella fusione non ha luogo alcun fenomeno di monetizzazione dell’investimento bensì una modificazione della struttura organizzativa originaria della società 96: logico appare, allora, abbandonare la prospettiva del valore di scambio per orientarsi invece al valore “fondamentale” dell’azione, cioè al significato della stessa quale “partecipazione all’attività” che si vuole riorganizzare, ampliando corrispondentemente il ventaglio delle formule e delle metodologie necessarie alla definizione di quel valore. Del resto, come già sottolineato in precedenza, diversa è per il socio la posizione di interesse sottostante alle ipotesi di liquidazione e di concambio della partecipazione poiché nelle prime egli resta libero di esercitare o meno il suo diritto di uscita dalla società, mentre nelle seconde subisce la alterazione organizzativa deliberata dalla maggioranza 97; di questa diversità la legge tiene conto nel momento in cui, attraverso il canone della “congruità”, prescrive la necessità di non limitare l’analisi alle quotazioni di borsa ma di fare ricorso anche (e in primo luogo) a criteri volti a stimare la situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società 98. 95

Per una conferma comparatistica del ruolo della quotazione come strumento di controllo (“lediglich eine Kontrollüberlegung”) cfr. le decisioni OLG Stuttgart, 26 ottobre 2006, in AG, 2007, p. 136; e OLG Stuttgart, 19 gennaio 2011, in AG, 2011, p. 210 ss. Sussiste, ovviamente, il pericolo (denunciato, tra gli altri, in termini generali da GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 784) di un uso “deviato” del metodo delle quotazioni; che, in altri termini, la sua significatività sia affermata dagli amministratori ove il metodo delle quotazioni “confermi” le risultanze scaturite dall’impiego di una valutazione orientata alle prospettive reddituali della società e negata invece nel caso opposto. Ma, in quest’ultimo caso, graverà sull’organo amministrativo l’onere di motivare analiticamente le ragioni e i fondamenti di quella carenza di significatività, così restando in ogni caso assicurata la funzione del valore di mercato consistente nel ridurre «almeno in parte la discrezionalità delle valutazioni di fusione» (BIANCHI, La congruità del rapporto di cambio, cit., p. 266). 96 Aspetto, questo, sin dall’inizio messo in luce da FERRI, La fusione delle società commerciali, Roma, 1936, p. 82 ss. con la sua proposta di inquadrare la fusione nell’ambito dei “negozi giuridici corporativi”. 97 E v. Trib. Milano, 16 luglio 2008 nel Rep. Foro it., 2009, Merito extra, n. 2009.590 ove si sottolinea come «nella fusione il socio si trovi in una posizione diversa rispetto a quella in cui versa in un caso di acquisizione societaria, dovendo sottostare ad una commutazione sostanzialmente coattiva della propria partecipazione sociale». 98 La considerazione del diverso assetto di interessi è, in definitiva, la premessa da cui muove anche quella parte della dottrina tedesca (LUTTER-DRYGALA, op. cit., § 5, Rn. 28; ADOLFF, Unternehmensbewertung, cit., p. 478) che nega la possibilità di estendere alle operazioni straordinarie implicanti un concambio la regola della “methodenbezogene Meistbegünstigung” elaborata dalla giurisprudenza costituzionale tedesca, in forza della quale le quotazioni di borsa devono in ogni

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Quanto appena osservato non esclude, beninteso, che la valutazione comparativa delle aziende destinate alla combinazione sia condotta utilizzando in via congiunta metodi patrimoniali o reddituali/finanziari e approcci di mercato 99, né che questi ultimi, e segnatamente i prezzi di borsa, possano assurgere a metodo estimativo principale e finanche esclusivo 100. Ciò accadrà, però, nel presupposto che tali prezzi esprimano il valore “fondamentale” della partecipazione sociale in maniera più attendibile dei metodi analitici e richiederà una adeguata giustificazione nelle relazioni illustrative del progetto di fusione predisposte dai rispettivi organi amministrativi. A questi ultimi andrà, dunque, riconosciuto il potere di apprezzare il grado di significatività delle quotazioni, di delimitare corrispondentemente il periodo della loro rilevazione (mensile, trimestrale, semestrale, annuale) e di selezionare infine il tipo di media (aritmetica, geometrica, ponderata) cui metter capo per determinare i valori di fusione 101: un potere che invece, si è visto, non vi è modo e spazio di costruire ove si tratti di accertare unicamente il valore di disinvestimento della partecipazione 102. A conferma di quanto si viene osservando può addursi, inoltre, anche la tecnica “binaria” praticata dall’art. 2441, comma 6, c.c. il quale, aspirando a neutralizzare il rischio diluitivo cui sono esposti gli azionisti della società emittente nuove partecipazioni destinate a terzi, mostra di esprimere, almeno nell’ipotesi in cui caso assumersi come soglia minima di definizione del valore di liquidazione delle azioni del socio di minoranza della Untergesellschaft in caso di stipulazione di un contratto di dominazione o di Eingliederung (su tale giurisprudenza in materia di Abfindung v. i cenni in MAUGERI-FLEISCHER, Problemi giuridici in tema di valutazione delle azioni del socio recedente, cit., p. 93 ss.; e diffusamente BUNGERT-WETTICH, Die zunehmende Bedeutung des Börsenkurses bei Strukturmaßnahmen im Wandel der Rechtsprechung, in Festschrift für Hoffmann-Becking, München, 2013, pp. 157 ss.; e KRAUSE, Die Entdeckung des Marktes durch die Rechtsprechung bei der Ermittlung der angemessenen Abfindung im Rahmen aktienrechtlicher Strukturmaßnahmen, in Festschrift für Hopt, Berlin-New York, 2010, 1005 ss.). Le perplessità avanzate dalla dottrina a fronte dell’eventualità di estendere alla fusione la predetta regola metodologica, la quale si risolve nel riservare un trattamento più favorevole sul piano valutativo agli azionisti di minoranza dell’impresa dominata, si possono comprendere sottolineando come, nell’ordinamento tedesco, le ipotesi che danno luogo a una liquidazione monetaria della partecipazione di quegli azionisti (cioè, appunto, all’Abfindung) si connotano effettivamente in termini di «vendita forzosa» delle azioni, mancando quella facoltà di scelta del socio che si pone invece al centro dell’istituto del recesso nel sistema disciplinare italiano delle s.p.a. 99 Dandosi luogo, in tale evenienza, al c.d. “concambio complesso”: e v. nuovamente GUATRIBINI, Nuovo trattato, cit., p. 783 ss. 100 E v. infatti BIANCHI, La congruità, cit., p. 268. Non sembra possibile, del resto, contestare tale assunto facendo leva sul presupposto della inefficienza dei mercati perché una simile argomentazione andrebbe incontro alle medesime obiezioni di carattere generale formulate nel testo alla tesi che propugna una superiorità dei metodi analitici sui prezzi di borsa (cfr. il par. 3). 101 E v. già MARCHETTI, nel Commento all’art. 22 del d.P.R. 10 febbraio 1986, n. 30, in Le nuove leggi civili commentate, Padova, 1988, p. 185. 102 Cfr., di nuovo, l’art. 2437 ter, comma 3, c.c. e gli artt. 106, 108 e 111 TUF.

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oggetto del conferimento sia un complesso aziendale, una regola paradigmatica invocabile anche in materia di fusione e di scissione 103. L’enunciato normativo in questione infatti, nel limitarsi a imporre all’organo assembleare chiamato a determinare il prezzo di emissione delle nuove azioni l’obbligo di «tener conto» dell’andamento delle quotazioni nell’ultimo semestre – così escludendo la necessità non solo di una perfetta equivalenza tra premio di emissione e prezzo medio di borsa 104, ma anche solo di una loro «corrispondenza» 105 – registra l’impossibilità, anzitutto logica, di identificare in quell’andamento una manifestazione incontrovertibile del valore “effettivo” della partecipazione, appunto in quanto esso tende a considerare l’azione nel suo significato di “bene” fungibile 106, e l’esigenza di trattarlo invece alla stregua di materiale informativo cui attingere per determinare il prezzo di emissione delle nuove azioni 107. Se si condivide quanto appena affermato in ordine alla natura di principio generale che l’art. 2441, comma 6, c.c. ricopre per la disciplina delle vicende implicanti un concambio di azioni quotate – natura, del resto, confermata dal rilievo 103 E v. infatti, in modo del tutto condivisibile, MARCHETTI, Spunti sulle relazioni tra valore contabile, valore economico, valore di mercato dell’azienda nelle operazioni societarie di finanza straordinaria, cit., pp. 214 s. (ad avviso del quale la omogeneità delle problematiche valutative indotte dal conferimento d’azienda e dalla fusione o dalla scissione legittimerebbe la «circolazione dei criteri legislativi» che emergono dall’art. 2441, comma 6, c.c.); GINEVRA, La determinazione del prezzo e del sovrapprezzo negli aumenti di capitale sociale a pagamento, in Dialoghi tra giuristi e aziendalisti in tema di operazioni straordinarie a cura di Notari, Milano, 2008, p. 110 e in Riv. soc., 2008, p. 512 (da cui si cita); per analoga osservazione nella dottrina tedesca HÜFFER, Ausgleichsanspruch und Spruchverfahren statt Anfechtungsklage beim Verschmelzungs- oderKapitalerhöhungsbeschluss des erwerbenden Rechtsträgers, in ZHR 172 (2008), p. 15 (il quale definisce il conferimento di un bene in natura in società preesistente e la fusione per incorporazione come “funkionsäquivalent”). Se si vuole, potrebbe addirittura scorgersi nella menzione cumulativa del criterio del «valore patrimoniale netto» e dell’«andamento delle quotazioni» una sorta di “sineddoche” metodologica e leggersi, dunque, nel riferimento al primo un rinvio all’intera famiglia dei canoni estimativi analitici e nel richiamo al secondo una più estesa evocazione dell’intero catalogo dei valori di mercato: a conferma, così, di quella portata generale del precetto in esame di cui si discorre nel testo. 104 Rilievo diffuso sin dalla introduzione della norma nel 1974 [cfr., per tutti, PORTALE, Opzione e sopraprezzo nella novella azionaria, in Giur. comm., 1975, I, p. 220] e poi rinnovato anche in occasione della novella del 1986 [MARCHETTI, Commento all’art. 22, cit., p. 185 ma sottolineando l’obbligo per gli amministratori di motivare la scelta di attribuire “peso zero” all’andamento delle quotazioni]. 105 A differenza di quanto prescritto invece dall’art. 2441, comma 4, seconda parte, c.c. e proprio in ragione della diversa angolazione nella quale viene riguardata in quel caso dalla legge la partecipazione sociale: cfr. oltre nei par. 9 ss. 106 V.HÜFFER, Unternehmenszusammenschlüsse: Bewertungsfragen, Anfechtungsprobleme und Integrationsschranken, in ZHR 172 (2008), pp. 577 e 580 ss. 107 E v. PREITE, Sovraprezzo, aste competitive e mercato mobiliare, cit., pp. 896 s. ove anche il rilievo secondo cui la legge impone di considerare insieme e non alternativamente il riferimento al valore patrimoniale e all’andamento delle quotazioni, «prescrizione che sarebbe assurda se uno di essi fosse considerato corrispondente al valore reale».

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attribuito anche in tale norma alla presenza di una attestazione indipendente della congruità dei valori definiti dagli organi sociali 108 –, può forse sottolinearsi un ulteriore profilo applicativo idoneo ad acquisire rilevanza anche in tema di fusione e di scissione: quello concernente l’“elasticità” discendente dalla possibilità di orientare l’impiego dei metodi valutativi in ragione della realizzazione dell’interesse sociale sottostante all’intera operazione. È, infatti, annotazione frequente in dottrina che, per le società quotate, la norma dell’art. 2441, comma 6, c.c., in ragione tra l’altro del suo dettato letterale, tolleri una certa divergenza tra il prezzo di emissione delle nuove azioni e il loro valore patrimoniale e che il primo possa essere fissato anche in misura inferiore al secondo ove ciò sia funzionale alla riuscita dell’operazione di collocamento dei nuovi titoli sul mercato (ad es., e soprattutto, quando le quotazioni dell’ultimo semestre si sono mantenute stabilmente al di sotto del valore calcolabile secondo metodi analitici) 109: purché ciò, deve aggiungersi, non si traduca nel venir meno di qualsiasi nesso tra le due grandezze 110. 108 Ai sensi dell’art. 158 TUF, nelle società quotate, «in caso di aumento di capitale con esclusione o limitazione del diritto di opzione, il parere sulla congruità del prezzo di emissione è rilasciato da un revisore legale o da una società di revisione legale» e costituisce, in forza del secondo comma, condizione per la iscrizione della delibera di aumento nel registro delle imprese. 109 Si tratta di constatazione diffusa, anche se poi le opinioni in letteratura divergono in ordine alla misura dello scostamento consentito: v., con varietà di accenti, PORTALE, op. cit., 220 s.; RIVOLTA, Profili della nuova disciplina del diritto di opzione nelle società per azioni, in Riv. dir. civ., 1975, I, p. 538; ROSAPEPE, L’esclusione del diritto di opzione degli azionisti, Milano, 1988, p. 156 ss.; G.MUCCIARELLI, Il soprapprezzo delle azioni, cit., p. 183 ss., spec. 199 ss. (facendo leva, tra l’altro, sulla distinzione tra “criteri” di determinazione del prezzo di emissione da parte degli amministratori e “parametri” dettati dalla legge per la fissazione definitiva di quel prezzo da parte dell’assemblea); GINEVRA, La determinazione del prezzo e del sovrapprezzo, cit., pp. 515 s. Nel senso della centralità (e della sostanziale indisponibilità) dell’interesse del socio a non veder intaccato il valore della partecipazione v. invece SPOLIDORO-G. MUCCIARELLI, Diffusione delle azioni fra il pubblico, ammissione alla quotazione e determinazione del sopraprezzo, in Riv. soc., 1986, pp. 47 ss.; GIANNELLI, L’aumento di capitale a pagamento, in Liber amicorum Gian Franco Campobasso, vol. 3, Torino, 2007, p. 279 ad avviso del quale, dovendosi evitare la diminuzione nel valore patrimoniale netto delle azioni dei vecchi soci, la correzione del valore del patrimonio netto mediante riferimento all’andamento delle quotazioni potrà avvenire «tendenzialmente verso l’alto, cioè nel senso di derogare fissando un prezzo di emissione più alto di quello patrimoniale, ma non verso il basso». Istruttiva si dimostra anche la analisi della dottrina tedesca la quale, con riguardo al dettato del § 255, Abs. 2, AktG, pur affermando l’esigenza che il prezzo di emissione delle nuove azioni sia commisurato al loro pieno valore (c.d. “Prinzip des vollen Werts”) e che uno sconto sia legittimo solo se «obiettivamente tollerabile dagli azionisti» della società emittente (“objektiv hinnehmbar”), finisce poi con il ritenere che tale ultima condizione si realizzi in presenza dell’interesse della società a collocare le nuove azioni sul mercato (ove l’aumento debba sottoscriversi in denaro) o ad acquisire un determinato complesso aziendale (ove l’aumento debba sottoscriversi mediante conferimento in natura): e v. HÜFFER, in Münchner Kommentar zum AktG3, München, 2011, § 255, Anm. 19 e 23. 110 Ad es., nell’ipotesi in cui l’andamento delle quotazioni non rifletta manifestamente la con-

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La constatazione appena formulata, ove trasferita nell’ambiente disciplinare delle operazioni di fusione e scissione, comporta per lo meno un duplice ordine di considerazioni. (i) Da un lato, la necessità di muovere per le operazioni di concambio dall’assunto di un “pluralismo” metodologico connotato dall’inesistenza di un rapporto valoristicamente “esatto” 111. La scelta di ricorrere a un concetto giuridico indeterminato come quello della “congruità” denota, in vero, la volontà del legislatore di mantenere “aperto” il novero delle soluzioni estimative ipotizzabili (anche in dipendenza della evoluzione futura delle scienze aziendalistiche e della tecnica finanziaria) e di ammettere, quindi, non solo l’impiego congiunto di più metodi con pari dignità o calibrandone diversamente il peso specifico 112, ma anche la possibilità di metter capo a un solo criterio valutativo 113 e quindi anche quella di utilizzare per le società partecipanti alla fusione/scissione criteri tra loro non omogenei 114: a condizione, però, che gli amministratori, in tutte queste iposistenza reddituale attuale e prospettica della società per vicende manipolative legate al corso dei titoli o accadimenti contingenti di carattere macroeconomico o politico. Non sembra, in particolare, che la realizzazione dell’interesse sociale imponga un sacrificio “ad ogni costo” dell’interesse dell’azionista escluso dal diritto di opzione e che, pertanto, il prezzo di emissione possa discostarsi «anche notevolmente» dal valore patrimoniale delle nuove azioni (così, invece, RIVOLTA, Profili della nuova disciplina del diritto di opzione nelle società per azioni, cit., p. 538): ciò soprattutto alla luce di quanto previsto dal secondo inciso del quarto comma dell’art. 2441 c.c. e della necessità di realizzare un coordinamento tra le due disposizioni (v. i successivi par. 9.1 e 9.2). 111 Cfr., per tutti, LUTTER-DRYGALA, op. cit., § 5, Rn. 20 (“ein solches [exaktes Umtauschverhältnis] gibt es nicht”). E non può sorprendere tale affermazione se si tiene a mente quanto osservato nel primo paragrafo di questo lavoro sulla inanità di ogni sforzo volto alla individuazione di un valore reale, e quindi oggettivamente esatto, della partecipazione azionaria. 112 Sulla mancanza, in tema di fusioni, di una prescrizione normativa che imponga uno specifico criterio valutativo cfr. MARCHETTI, Appunti, cit., pp. 34 s.; C. SANTAGATA, Le fusioni, cit., p. 323 ss. 113 Possibilità, del resto, prevista espressamente (e quindi consentita) dall’art. 2501-sexies, comma 1, lett. a), e comma 2, c.c. che chiama l’esperto a pronunciarsi sulla adeguatezza «del metodo» seguito nella determinazione del rapporto di cambio: nell’implicito assunto, allora, che anche in tale ipotesi possa darsi congruità di quel rapporto. 114 Come noto, la prassi professionale del tutto prevalente è nel senso di muovere dalla necessità di riferirsi a criteri valutativi omogenei, al fine di garantire la raffrontabilità dei valori così ottenuti (v., per tutti, GUATRI-BINI, Nuovo trattato, cit., p. 785). E in tal senso si pronuncia, ad es., la dottrina tedesca largamente maggioritaria: cfr., tra gli altri, EMMERICH-HABERSACK, Aktien- und GmbH-Konzernrecht, cit., § 305, Rn. 48a; KIEM, Die Ermittlung der Verschmelzungswertrelation bei der grenzüberschreitenden Verschmelzung, in ZGR, 2007, p. 552 s.; MÜLLER, Anteilswert oder anteiliger Unternehmenswert?, cit., p. 1029 ss.; PILZ, Unternehmensbewertung und Börsenkurs im aktienrechtlichen Spruchstellenverfahren, in ZGR, 2001, pp. 209 e 210 ss. Alla base di questo approccio vi è la condivisibile preoccupazione di evitare disparità nel trattamento (dei soci) delle società partecipanti alla fusione, poiché eventuali errori prognostici o valutativi si rifletterebbero allo stesso modo sui rispettivi capitali economici. Tuttavia esso non merita di essere assolutizzato: sia per il pericolo che un tale atteggiamento conduca a seri abusi (e

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tesi, motivino tali scelte corroborandole con una puntuale rappresentazione delle caratteristiche delle società partecipanti e dei settori in cui esse operano. (ii) Dall’altro, dovrà ammettersi l’eventualità che il concambio “finale” si discosti da quello “teorico” o “puro”, cioè dalla relazione valoristica che scaturirebbe da un’aritmetica applicazione del metodo prescelto, ove gli azionisti di una delle società (poi, solitamente, di quella incorporante per fusione o della beneficiaria preesistente nella scissione) reputino conforme al proprio interesse la adesione ad un concambio meno vantaggioso, ossia, se si vuole, il pagamento di un “premio di controllo” ai soci dell’altra società 115: ciò, evidentemente, nel presupv. il rilievo in questo senso degli stessi GUATRI-BINI, op. loc. ultt. citt.), sia perché possono darsi situazioni nelle quali l’applicazione del medesimo criterio si rivelerebbe assai penalizzante per l’una o l’altra società (e v. al riguardo l’esempio di MARCHETTI, Appunti, cit., p. 36; seguito da C.SANTAGATA, Le fusioni, cit., pp. 332 e 338 s.), ossia, nella sostanza, per i rispettivi azionisti di minoranza. Ed è inutile aggiungere che l’eventualità di una disomogeneità dei metodi valutativi dovrà ammettersi con maggiore larghezza in presenza del rischio che il processo valutativo sia inquinato da una situazione di interessi potenzialmente non allineati: come è a dirsi per il caso della fusione endogruppo (su cui v. il paragrafo seguente nel testo). 115 La legittimità della corresponsione di un premio di controllo è stata contestata in dottrina sulla base dell’assunto secondo cui la fusione non sarebbe equiparabile a una vicenda acquisitiva e altresì invocando l’esigenza di rispettare la parità di trattamento tra le diverse compagini sociali (BIANCHI, La congruità, cit., p. 62 ss.). In realtà, né l’uno né l’altro argomento appaiono decisivi. Non il primo, in quanto una considerazione orientata ad anteporre la sostanza sulla forma consente di rintracciare anche nella fusione (ovviamente tra parti indipendenti) un fenomeno traslativo del controllo sui valori collettivi di pertinenza (sino a quel momento esclusiva) dei soci della società incorporata (e v., infatti, quanto dispone il par. 17 dell’Ifrs n. 3 a mente del quale «per tutte le aggregazioni aziendali deve essere individuato un acquirente», cioè «l’entità aggregante che ottiene il controllo delle altre entità o attività aziendali aggregate»). Non il secondo in quanto, di là dalla considerazione che il principio della parità di trattamento ha modo di operare solo all’interno della singola compagine sociale, non ovviamente tra compagini sociali, ben può esistere, come osservato nel testo, un interesse dei soci della società incorporante al perfezionamento dell’operazione a condizioni non immediatamente favorevoli, qualora la fusione sia idonea a determinare sinergie derivanti da un miglior posizionamento strategico sul mercato tali da incrementare nel medio periodo il valore di tutte le azioni della società risultante dalla combinazione. La corresponsione di un premio sul valore di borsa delle azioni dell’incorporanda può essere, del resto, giustificata (e anzi imposta) sul piano metodologico dalla applicazione del metodo dei multipli o dalla analisi dei prezzi corrisposti in precedenti operazioni comparabili (e v. DECHER, Bedeutung und Grenzen des Börsenkurses bei Zusammenschlüssen zwischen unabhängigen Unternehmen, in Festschrift für Wiedemann, München, 2002, p. 795). Tale considerazione introduce, piuttosto, al delicato problema della rilevanza, ai fini valutativi, del contributo recato da ogni singola società al valore complessivo della combined entity risultante dalla aggregazione, nel presupposto di una sua, almeno potenziale, eccedenza rispetto alla mera sommatoria dei valori (del capitale economico) delle società partecipanti all’operazione: e v., per una adesione di principio al criterio della “redditività differenziale”, cioè alla esigenza di tener conto «delle possibili sinergie fra le imprese partecipanti alla fusione e, dunque, valutando il diverso grado di concorso di ciascuna impresa coinvolta nella fusione alla ‘ipotetica maggiore redditività della nuova combinazione societaria’», pur sottolineando la mancanza di casi applica-

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posto che il perfezionamento dell’operazione sia idoneo a promuovere un incremento prospettico del valore e della redditività delle loro partecipazioni tale da compensare (e sopravanzare) la riduzione indotta, nel breve periodo, dalla approvazione di quel concambio 116.

8. (segue) La fusione/scissione endogruppo I rilievi appena svolti inducono a coltivare la sensazione che il problema della valutazione di azioni quotate nelle vicende caratterizzate da un concambio della partecipazione assuma una colorazione peculiare, e meriti un trattamento differenziato, ove tra la società incorporante/beneficiaria e la società incorporanda/scissa intercorra una relazione diretta di controllo o di soggezione alle direttive di una comune capogruppo. Infatti, mentre nel caso di fusione tra entità non correlate gli interessi dei soci in seno a ciascuna compagine azionaria si presentano tra loro convergenti, volgendosi fisiologicamente alla determinazione del concambio per essi più vantaggioso, in costanza di una operazione endogruppo sussiste il ben noto rischio che la controllante orienti il processo valutativo in senso sfavorevole per i soci esterni della controllata 117. Al di là dei profili concernenti le condizioni di applicazione, alla fattispecie da tivi in ragione della “estrema opinabilità” della determinazione di quel concorso, Trib. Milano, 6 novembre 2000, in Giur. it., 2001, p. 771; in dottrina, per una marcata sottolineatura della necessità di tener conto del contributo di ciascuna società all’organizzazione risultante dalla integrazione aziendale, v. C. SANTAGATA, Le fusioni, cit., pp. 336, 340 s. e 356 s. Per un riscontro comparatistico si v., per l’ordinamento tedesco, OLG Stuttgart, 8 marzo 2006, in AG, 2006, pp. 426 s. (ove si dà atto dell’esigenza che tutti i soci partecipino adeguatamente ai vantaggi derivanti dalla fusione, ma si rileva nel contempo l’inesistenza di regole “fisse” per la suddivisione di quei vantaggi e la difficoltà di stabilire a quali delle società partecipanti, e in quale misura, quei vantaggi siano riconducibili), nonché OLG Stuttgart, 6 luglio 2007, in AG, 2007, p. 707 («la questione non è se in sede di valutazione il vantaggio derivante dalla aggregazione vada suddiviso tra le società partecipanti alla fusione, bensì quale criterio sia all’uopo il più adeguato»); per quello nordamericano, la § 7.22(c) degli ALI Principles of Corporate Governance, secondo cui «In determining what such a buyer would pay, the court may include a proportionate share of any gain reasonably to be expected to result from the combination, unless special circumstances would make such an allocation unreasonable». 116 E v. infatti VICARI, Gli azionisti nella fusione di società, cit., p. 76. 117 O, nell’ipotesi di fusione tra società sorelle, che il concambio sia determinato in senso sfavorevole per i soci di minoranza della società nella quale la comune controllante detiene la partecipazione con “peso effettivo” inferiore. E per la rilevanza di quest’ultimo aspetto nella individuazione dell’ambito applicativo della esenzione di cui al secondo comma dell’art. 14 del Regolamento Consob n. 17221/2010 in materia di operazioni endogruppo con parti correlate, v. il par. 21 della Comunicazione interpretativa Consob n. DEM/10078683 del 24 settembre 2010.

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ultimo indicata, delle disposizioni in materia di conflitto di interessi in sede assembleare e consiliare 118, nonché delle cautele istituite al riguardo dalla disciplina del Regolamento Consob n. 17221/2010 al fine di assicurare la correttezza sostanziale e procedimentale della fusione o scissione di una società quotata con parte correlata 119, ci si deve chiedere se un vincolo alla discrezionalità degli organi sociali non sia rintracciabile proprio sul piano della scelta dei metodi estimativi, del rango da assegnare agli stessi e del criterio in forza del quale operare la selezione e il coordinamento dei risultati cui conduce la loro applicazione. L’interrogativo, giova subito osservare, non può essere inteso nel senso di imporre in ogni caso l’utilizzazione del metodo che conduce ad attribuire il valore più elevato alla società controllata e quindi all’esito più favorevole per i soci della stessa. Ciò se non altro in quanto un simile risultato comporterebbe il rischio di una sistematica sottovalutazione del capitale economico della controllante e di un corrispondente impoverimento dei soci di minoranza di quest’ultima, il cui investimento si presenta del pari meritevole di protezione 120. Piuttosto si tratta di verificare la plausibilità di una soluzione che articoli diversamente il sindacato giudiziale sulla congruità del concambio in ragione, ancora una volta, della natura del conflitto da comporre e dello scopo anteposto dall’ordinamento al procedimento di valutazione. Così, con riguardo al caso di fusione tra entità indipendenti, la normale dialettica tra centri di interesse contrapposti potrebbe legittimare il riferimento a una regola che lasci presumere la “correttezza” delle trattative e degli approdi valutativi cui queste pervengono. In un simile modello di scrutinio giudiziale – il quale trova sensibili riscontri nell’esperienza comparatistica 121 – la determinazione di 118

Su cui v., rispettivamente, GAMBINO, Nuove prospettive del conflitto di interessi assembleare nella società per azioni, in Riv. dir. comm., 2011, I, p. 379 ss. e FERRO-LUZZI, Dal conflitto di interessi agli interessi degli amministratori – Profili di sistema, in Riv. dir. comm., 2006, I, p. 661 ss. 119 Su cui v., con specifico riferimento al tema delle operazioni infragruppo, MAUGERI, Le operazioni con parti correlate nei gruppi societari, in Riv. dir. comm., 2010, I, p. 887 ss.; GILOTTA, Interesse di gruppo e nuove regole sulle operazioni con parti correlate: una convivenza difficile, in Giur. comm., 2011, I, p. 254 ss. 120 Per questa considerazione, e traendone la conclusione circa l’impossibilità di estendere alla fusione quel principio di Meistbegünstigung menzionato nella precedente nt. 98, HÜFFER/SCHMIDT-ASSMANN/(WEBER), op. cit., p. 34 ss. e 106 ss. In effetti, la traslazione di un simile principio alle operazioni di fusioni avrebbe come conseguenza l’inserimento di un analogo vincolo valutativo anche a livello di società incorporante: se si tiene a mente la regola tradizionalmente osservata della omogeneità dei criteri valutativi, il metodo prescelto nella valutazione del capitale economico della controllata dovrebbe seguirsi anche per la stima del valore della controllante anche qualora esso dia un risultato inferiore a quello conseguibile con l’applicazione di altra metodologia. 121 È ben noto, infatti, come la giurisprudenza del Delaware tenda a distinguere l’intensità del controllo sul “prezzo” praticato in operazioni di acquisizione a seconda del grado di indipendenza esistente tra le parti e i rispettivi amministratori: v., al riguardo, la fondamentale decisione Wein-

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un rapporto di cambio “negoziato”, pur continuando a soggiacere al precetto normativo della «congruità» e quindi a un controllo di correttezza del risultato valutativo 122, andrebbe reputata censurabile solo ove collidente con le regole della perizia tecnica consolidate nella prassi professionale: ad es., in quanto il giudizio prognostico sulle future prospettive reddituali della società sia radicato su informazioni manifestamente incomplete oppure l’individuazione e l’applicazione del singolo metodo valutativo sia conseguenza di assunti e premesse palesemente erronee o contraddittorie 123. Una prospettiva, questa, nella quale, dovendosi accertare il rispetto degli obblighi di diligenza professionale gravanti sugli amministratori delle società partecipanti alla fusione/scissione – se si vuole, quindi, berger v. UOP, Inc., 457 A.2d 701 (Del. 1983); e poi anche Kahn v. Lynch Communications System, Inc., 638 A.2d, 1110 (Del. 1994); per un esame del punto v. BAINBRIDGE, Mergers and acquisitions3, New York, 2012, pp. 60 ss. e 134 ss. Anche nell’ordinamento tedesco non mancano pronunce orientate ad applicare, nel caso di fusione tra società indipendenti, un «Vertrags- oder Verhandlungsmodell» e a manifestare il convincimento di una accresciuta garanzia di congruità [«erhöhte Richtigkeits- (besser: Angemessenheits-)gewähr»] del concambio in ragione della omogeneità di interessi esistente tra piccoli e grandi azionisti e della necessità che la fusione sia approvata dall’assemblea a maggioranza qualificata: v. OLG Stuttgart, 8 marzo 2006, cit., p. 423 ss.; nello stesso senso, in dottrina, tra i molti LUTTER-DRYGALA, op. cit., § 5, Rn. 27; SIMON, op. cit., § 5, Rn. 37; BUNGERT-WETTICH, op. cit., pp. 182 ss. Sulla conformità di tale impostazione al principio costituzionale di tutela della proprietà azionaria di cui all’art. 14 del Grundgesetz si è peraltro espresso in senso critico il Bundesverfassungsgericht, ma reputando al tempo stesso costituzionalmente conforme un controllo giudiziale circoscritto alla (sola) verifica di ragionevolezza del giudizio prognostico svolto dagli amministratori sul futuro andamento reddituale della società [cfr. BverfG, 24 maggio 2012, in AG, 2012, pp. 674 ss. (“Daimler/Chrysler”)]: su tale decisione si v. la disamina critica di KLÖHNVERSE, Ist das „Verhandlungsmodell“ zur Bestimmung der Verschmelzungswertrelation verfassungswidrig?, in AG, 2013, p. 2 ss.; per una valutazione sostanzialmente adesiva all’orientamento del BVerfG v. FLEISCHER-BONG, Unternehmensbewertung bei konzernfreien Verschmelzungen zwischen Geschäftsleiterermessen und Gerichtskontrolle, in NZG, 2013, pp. 881 ss. E v. ora, sull’intera problematica, la riflessione di KLÖHN, Das Verhandlungsmodell bei konzerninternen Verschmelzungen. Rechtsvergleichende Erfahrungen aus Delaware und ihre Implikationen für das deutsche Recht, in Festschrift für E.Stilz, München, 2014, p. 365 ss.; e di REICHERT, Eigentumsschutz und Unternehmensbewertung in der Rechtsprechung des Bundesverfassungsgerichts, ivi, p. 479 ss. 122 Nel senso che, dinanzi a una censura di illegittimità del concambio che si fondi sul mancato rispetto delle norme consolidate nella esperienza professionale, la società convenuta non potrebbe limitarsi ad eccepire il formale rispetto delle norme che governano il procedimento di fusione (e cioè che si è predisposta tutta la documentazione prevista dalla legge e che il progetto è stato approvato dall’organo assembleare). E v. VICARI, Gli azionisti nella fusione di società, cit., p. 76 per la necessità che anche il concambio negoziato sia comunque superiore a una soglia “minima” di congruità; e ampiamente FLEISCHER-BONG, Unternehmensbewertung bei konzernfreien Verschmelzungen, cit., p. 888, propugnando un controllo limitato sul risultato delle valutazioni («eingeschränkte Ergebniskontrolle»). 123 A un siffatto modello sembra, in vero, improntato il tipo di verifica alla quale mette capo anche la nostra giurisprudenza quando reputa viziata la delibera di fusione solo in presenza di una «manifesta irragionevolezza» e di una «erronea applicazione dei criteri di valutazione del rapporto di cambio»: v., ad es., Trib. Milano, 20 gennaio 1998, in Giur. it., 1998, p. 1433 ss.

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circoscrivere la verifica giudiziale attraverso il ricorso a una sorta di business judgement rule – non risulterebbe sufficiente ad affermare una violazione di quegli obblighi la mera allegazione dell’esistenza di un metodo di valutazione diverso da quelli concretamente utilizzati, ancorché ragionevole e tecnicamente adeguato al caso di specie 124. Ciò non equivale, beninteso, a negare che anche in una fusione tra società non correlate possano darsi posizioni di interesse degli amministratori idonee a “inquinare” il rapporto di cambio. Si pensi ai problemi, noti agli studiosi di teoria dei giochi, di “final period”, all’eventualità cioè che gli amministratori della target, contando sul venir meno di ogni potere “disciplinare” degli azionisti in ragione della prossima estinzione della società, acconsentano a un rapporto di cambio meno favorevole a fronte di vantaggi “collaterali” promessi dall’acquirente e consistenti, ad es., nel pagamento di “premi” alla carriera, nella stipulazione di contratti di consulenza o nel mantenimento degli attuali privilegi e fringe benefits relativi all’uso di determinate strutture ricreative di proprietà della società acquisita. Pur essendo innegabili, questi problemi non comportano però l’esigenza di abbandonare il ricorso a un tipo di scrutinio sulla congruità del concambio di fusione tra società “eguali” centrato essenzialmente sul riscontro di adeguatezza dell’informazione utilizzata dagli amministratori, né esigono di servirsi di un modello analitico più rigido. Esistono, infatti, ulteriori meccanismi che consentono di arginare l’incidenza delle potenziali distorsioni appena segnalate sulla correttezza procedimentale e sostanziale dei termini della aggregazione: dalla disciplina dell’art. 2391 c.c. all’obbligo di dare adeguata trasparenza nel progetto di fusione o di scissione ai «vantaggi particolari» riservati agli amministratori (art. 2501 ter, comma 1, n. 8, c.c., richiamato per la scissione dall’art. 2506 bis, comma 1, c.c.), con conseguente sottoposizione al vaglio preliminare dell’intero consiglio di amministrazione e poi a quello dell’organo assembleare; dai profili reputazionali connessi alla divulgazione della notizia concernente la pattuizione di beneficî collaterali ingiustificati alla possibilità che un concambio sfavorevole per i soci della incorporanda stimoli la formulazione di offerte concorrenti da parte di terzi disposti a riconoscere una più elevata valorizzazione del capitale della società 125. 124 Per uno spunto in questa direzione v. HÜFFER, Unternehmenszusammenschlüsse, cit., p. 581. Nello stesso senso si esprime la Sec. 7.22(b) degli ALI Principles of Corporate Governance in forza della quale, in situazioni che non implicano conflitti di interesse, «the aggregate price accepted by the board of directors of the subject corporation should be presumed to represent the fair value of the corporation, or of the assets sold in the case of an asset sale, unless the plaintiff can prove otherwise by clear and convincing evidence». Cfr. però anche FLEISCHER-BONG, Unternehmensbewertung bei konzernfreien Verschmelzungen, cit., p. 890 i quali si pronunciano a favore del potere del giudice di integrare il metodo prescelto dalle parti della fusione, e finanche di sostituirlo con altro canone estimativo, «anche per considerazioni di opportunità» («auch aus Zweckmäßigkeiterwägungen»). 125 E v. infatti BAINBDRIDGE, Mergers and Acquisitions, cit., p. 63; KLÖHN-VERSE, Ist das „Verhandlungsmodell“ zur Bestimmung der Verschmelzungswertrelation verfassungswidrig?, cit., p. 7.

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Altrettanto chiara dovrebbe emergere la circostanza per cui la natura “endogruppo” dell’operazione di integrazione acuisce la portata del conflitto in cui versano gli amministratori della società eterodiretta, se non altro perché disattiva i (residui) meccanismi di controllo allestiti dal mercato, imponendo allora di inasprire anche il modello di scrutinio giudiziale nei termini più intensi di un «entire fairness test» 126 e di assegnare rilievo preminente, in sede di sua attuazione, alle indicazioni desumibili dai dati di mercato in quanto meno soggette al rischio di manipolazioni o interferenze provenienti dall’organo amministrativo della controllante 127. In questa angolazione visuale, non pare azzardato riconoscere all’azionista della controllata che contesti la stabilità del concambio l’agevolazione probatoria consistente nella possibilità di limitarsi a censurare la scelta di non utilizzare in via principale i diversi metodi di mercato, e in primo luogo i prezzi di borsa 128, e porre quindi a carico degli amministratori della società dominata – o della incorporante se, come avverrà nella maggior parte delle ipotesi, la fusione si sia già perfezionata e si tratti di accertare i danni subiti da tali azionisti ai sensi dell’art. 2504 quater c.c. – l’onere di esporre analiticamente e giustificare adeguatamente le ragioni di quella scelta 129. Una simile proposta, d’altro canto, non potrebbe ri126

Su tale test, e sui concetti di «fair dealing» e di «fair price» che ne costituiscono le componenti essenziali, cfr. nuovamente BAINBRIDGE, Mergers and acquisitions, cit., pp. 99 ss. e 136 ss. Sui diversi criteri che presiedono alla distinzione tra duty of care e duty of loyalty in punto di responsabilità degli amministratori di s.p.a. v. ANGELICI, Diligentia quam in suis e business judgement rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, p. 688 ss.; cfr. anche FLEISCHER, Die „Business Judgement Rule“ im Spiegel von Rechtsvergleichung und Rechtsökonomie, in Festschrift für Wiedemann, München, 2002, p. 844 ad avviso del quale il maggior “rigore” normalmente osservato dalle Corti nell’applicazione del dovere di fedeltà dell’organo amministrativo all’interesse sociale si spiega, tra l’altro, appunto per l’assenza dei meccanismi di controllo del mercato che spingono invece normalmente i componenti di quell’organo al rispetto del dovere di diligenza. 127 Sulla necessità che, in ipotesi di fusione endogruppo, e comunque in costanza di un potenziale conflitto di interessi di soci e amministratori, il rapporto di cambio sia determinato in termini tendenzialmente prossimi al valore “puro”, v. VICARI, op. cit., pp. 70 ss. e 270. Per l’alternativa sul piano comparatistico tra il paradigma della Verfahrenskontrolle e quello della Erfolgskontrolle v. ADOLFF, Konkurrierende Bewertungssysteme bei der grenzüberschreitenden Verschmelzung von Aktiengsellschaften, in ZHR 173 (2009), pp. 67 ss., 71 ss. Vi è, certamente, il pericolo che anche il corso delle azioni della controllata sia influenzato dalla controllante, soprattutto ove si tratti di titoli sottili e caratterizzati da un ridotto flottante: ma è altrettanto certo che i margini di manovra al riguardo sussistenti per il gruppo di comando siano meno ampi di quelli consentiti dall’applicazione dei metodi fondamentali, soprattutto in considerazione della disciplina che sanziona come illecito penale ed amministrativo le operazioni tendenti ad alterare artificiosamente l’andamento delle quotazioni (cfr. gli artt. 185 e 187 ter TUF). 128 Nell’assunto, naturalmente, che la adozione del metodo delle quotazioni o dei multipli o delle operazioni comparabili avrebbe comportato un esito valutativo più favorevole per gli azionisti “esterni” della controllata. 129 Proprio questo sembra essere, del resto, il percorso logico seguito da quella giurisprudenza

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tenersi superflua o provvista di scarsa incisività neppure se confrontata con il disposto dell’art. 2441, comma 6, c.c. Essa, infatti, non si limita a imporre agli amministratori delle società partecipanti alla fusione di «tener conto» dell’andamento delle quotazioni ma chiede loro di enucleare le considerazioni metodologiche e i riscontri fattuali che li hanno indotti a non adottare i prezzi di borsa come termine di riferimento decisivo nel processo di determinazione del valore delle società. E sempre questa angolazione visuale imporrebbe, inoltre, di discostarsi dal principio di omogeneità dei criteri di valutazione ove una sola delle società partecipanti alla fusione (segnatamente, la controllata incorporanda) abbia azioni negoziate in borsa, costituendo tale peculiare conformazione dell’operazione proprio una delle ipotesi in cui risulta giustificato (e anzi necessario) abbandonare quel principio per adottare invece criteri di mercato in linea con la effettiva posizione di interesse dei soci della controllata 130. L’esigenza di riservare al metodo delle quotazioni un ruolo applicativo centrale nelle fusioni tra parti correlate trova, del resto, il proprio radicamento logico nell’assetto di interessi sottostante a tali operazioni il quale si qualifica per l’esistenza di un conflitto non più “orizzontale” (cioè tra diverse compagini sociali), bensì “verticale” (cioè tra società madre e azionisti “esterni” della figlia, e quindi tutto interno alla compagine di quest’ultima) 131: un tipo di collisione di interessi, allora, molto vicina a quella cui si volgono le regole di determinazione del valore di “disinvestimento” della partecipazione e che merita di essere composta secondo criteri e metodologie valutative non dissimili 132. In questo senso depone, a ben vedere, lo stesso dato normativo. Infatti, dinanzi all’ipotesi in cui più intensa si fa quella collisione, cioè nel caso di incorporazione di società posseduta almeno al novanta per cento, la legge priitaliana che ha censurato la mancata utilizzazione di metodi fondati su elementi di mercato in ipotesi di fusione tra società avvinte da relazioni di controllo: cfr. Trib. Milano, 27 novembre 2008, in Foro it., 2009, I, c. 2545 ss. e in Riv. dir. comm., 2009, II, p. 203 ss. (nel caso “ItalenergiaEdison”); Trib. Milano, 10 dicembre 2007, in Società, 2008, p. 875 ss. (nel caso “British Telecom Italia-I.Net”). 130 E v., infatti, Trib. Milano, 10 dicembre 2007, cit. ove la necessità di tener conto, in sede di determinazione del concambio da fusione per incorporazione di una società quotata nella controllante non quotata, dei valori risultanti dai prezzi di borsa viene desunta non solo, in via di obiter dictum, dal «riferimento costituzionale alla tutela del risparmio», ma anche dall’accostamento alla vicenda del delisting e quindi dall’esigenza che il concambio esprima una remunerazione implicita del sacrificio sopportato dai soci di minoranza della incorporanda in ragione della perdita della quotazione. 131 E v. ADOLFF, Unternehmensbewertung, cit., p. 442 ss. 132 Nell’ottica delineata nel testo, pertanto, il rapporto di cambio potrà dirsi «congruo» essenzialmente quando l’azionista della controllata incorporanda/scindenda si veda assegnato un numero di azioni della controllante incorporante/beneficiaria prossimo a quello che, in assenza dell’operazione straordinaria, avrebbe potuto acquistare sul mercato investendo il ricavato derivante dalla alienazione delle azioni detenute nella incorporanda/scissa.

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va il socio “esterno” della tutela offerta dall’intero apparato documentale previsto dagli artt. 2501 quater ss. c.c. 133 e allora di ogni possibilità di apprezzare in sede assembleare i profili di “congruità” del concambio, riconoscendogli però il diritto di far acquistare le proprie azioni dalla società incorporante secondo gli stessi criteri previsti in caso di recesso (vale a dire, in ipotesi di azioni quotate, a valori di borsa). Orbene, in tanto il ricorso alla tecnica dell’exit può giustificare una simile compressione del diritto di voice in quanto l’ordinamento muova dal presupposto che, in presenza di un altrui controllo pressoché totalitario, la partecipazione di quei soci assuma il significato di un investimento finanziario e sia coerente, pertanto, tutelarne l’interesse richiamando criteri orientati «esclusivamente» (art. 2437 ter, comma 3, c.c.) al valore di scambio dell’azione. Una prospettiva, quest’ultima, anche applicativamente 134 contigua a quella adottata dall’art. 108 TUF in tema di obbligo di acquisto e proprio in quanto per entrambe si tratta di assicurare all’azionista “risparmiatore” la possibilità di liquidare il “bene” partecipazione a condizioni di mercato 135.

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Nella formulazione dell’art. 2505 bis, comma 1, c.c. emendata dal D.Lgs. n. 123/2012, infatti, l’originario riferimento al solo art. 2501 sexies (relazione dell’esperto) è stato esteso sino a rendere inapplicabili anche gli obblighi inerenti alla predisposizione della situazione patrimoniale di fusione/scissione (art. 2501 quater c.c.), della relazione degli amministratori illustrativa del progetto di fusione/scissione e del rapporto di cambio ivi indicato (art. 2501 quater c.c.) e al loro deposito presso la sede sociale, unitamente ai bilanci degli ultimi tre esercizi (art. 2501 septies c.c.). E tale disapplicazione opera anche per le scissioni in ragione del richiamo all’art. 2505 bis c.c. contenuto nell’art. 2506 ter, comma 5, c.c. 134 Visto che pure nell’art. 108, comma 2, TUF la soglia rilevante è quella del novanta per cento. 135 Cfr., per l’accentuazione del profilo di tutela della liquidità dell’investimento azionario nell’interpretazione del vecchio art. 108 TUF, COSTI-ENRIQUES, Il mercato mobiliare, cit., p. 162 ss. È appena il caso di precisare come la prospettiva delineata nel testo non muti ove il corrispettivo dell’offerta sia costituito in tutto o in parte da titoli quotati. Questa peculiare fattispecie di “concambio” si distingue – è vero – dall’operazione di fusione sia per ciò che attiene al regime degli effetti (visto che nel caso di o.p.sc. non vi è alcuna “compenetrazione” dei beni della società target con il patrimonio della società offerente), sia per ciò che attiene alla posizione di interesse del singolo azionista (il quale, mentre subisce la fissazione del rapporto di cambio nella fusione, è invece libero di aderire o meno ad una offerta pubblica di scambio, salva la eventuale applicazione dell’art. 111 TUF in tema di diritto di acquisto). Nel caso in cui l’offerta pubblica di scambio promani dalla controllante, tuttavia, la natura del conflitto concernente la definizione del concambio non è diversa da quella che caratterizza una operazione di fusione tra società madre e società figlia: ancora una volta emblematico è allora il fatto che l’ordinamento risolva quel conflitto mettendo capo alla rilevanza esclusiva di una prospettiva di mercato e ai prezzi di borsa che ivi si formano (cfr. l’art. 108, comma 5, TUF e gli artt. 50, comma 6, 50 bis e 50 ter del Regolamento Emittenti). E v., per la constatazione secondo cui anche all’ipotesi di offerta obbligatoria successiva con corrispettivo in titoli quotati «si applicano i criteri generali di calcolo del prezzo minimo, sulla base del valore di mercato dei titoli offerti», F.M. MUCCIARELLI, op. cit., p. 1066.

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9. L’ipotesi della esclusione “semplificata” del diritto di opzione (art. 2441, comma 4, seconda parte, c.c.): gli interessi protetti dalla norma Il senso dell’alternativa concettuale enucleata nel corso di questo lavoro in ordine al significato della partecipazione sociale si presta, infine, ad essere emblematicamente sottolineato con riguardo alla disposizione dell’art. 2441, comma 4, seconda parte, c.c. la quale, come noto, consente, in presenza di una apposita previsione statutaria, di escludere il diritto di opzione nei limiti del dieci per cento del capitale preesistente purché il prezzo di emissione delle nuove azioni “corrisponda” al valore di mercato (delle vecchie azioni) e ciò sia “confermato” dalla società incaricata della revisione contabile. La norma viene tradizionalmente interpretata quale tecnica volta a incrementare la flessibilità della struttura finanziaria dell’impresa e così ad agevolare il reperimento di nuove risorse sul mercato del capitale di rischio 136. Infatti, il riconoscimento del diritto di opzione ai soci, implicando una dilatazione dei tempi di collocamento sul mercato delle azioni di nuova emissione, finirebbe con l’esporre la società al rischio di sensibili oscillazioni nei corsi di borsa e quindi all’eventualità che gli stessi siano superiori al prezzo di emissione nel momento in cui l’aumento troverà concreta esecuzione: con l’ulteriore effetto di costringere gli organi sociali, per assicurare la riuscita dell’operazione, ad applicare a tale prezzo uno sconto più o meno marcato rispetto al valore di mercato delle azioni 137, e il conseguente nocumento per l’azionista che non possa o non voglia sottoscrivere l’aumento 138. 136 E v., in ordine all’omologa disposizione del § 186 Abs. 3, Satz 4, AktG che ha costituito l’antecedente comparatistico della disposizione dell’art. 2441, comma 4, secondo inciso, c.c. it., MARSCH-BARNER, Die Erleichterung des Bezugsrechtsausschlusses nach § 186, Abs. 3 Satz 4 AktG, in AG, 1994, p. 532 s.; nonché, con accenti critici, HÜFFER, Aktiengesetz10, München, 2012, § 186, Rn. 39b. 137 È prassi ricorrente di mercato, infatti, che il prezzo di emissione delle nuove azioni in un aumento di capitale in opzione sia determinato applicando uno sconto al prezzo teorico delle azioni ad aumento eseguito e quindi successivamente allo stacco del diritto di opzione (c.d. “TERP” o Theoretical Ex Price Right). 138 La portata dell’effetto diluitivo per l’azionista che non sottoscrive l’aumento è infatti tanto più intensa quanto maggiore risulta essere lo scarto tra il prezzo di emissione e quel valore di mercato. Su tale portata influisce però anche una serie di ulteriori elementi e fattori tra i quali primeggiano: (aa) la circostanza che l’aumento sia o meno integralmente sottoscritto, nel senso che la diluizione sarà tanto maggiore quanto più elevata sia la quota di aumento sottoscritta; (bb) l’entità dell’operazione (cioè del numero di azioni di nuova emissione) rispetto alle dimensioni del capitale preesistente dell’emittente (il che spiega la scelta normativa di limitare la agevolazione ad aumenti, appunto, dimensionalmente contenuti nei limiti del 10% del capitale preesistente); (cc) la scelta, in presenza di azioni prive della indicazione del valore nominale, di determinare un prezzo di emissione al di sotto della vecchia parità contabile, poiché in tal caso «alla diluizione derivante dalla mancata sottoscrizione si accompagna la diluizione derivante dall’abbassamento

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Queste considerazioni spiegherebbero, secondo la dottrina, la ragione per la quale la regola dell’art. 2441, comma 4, seconda parte, c.c. “semplifichi” l’esclusione del diritto di opzione elidendo l’esigenza di rispettare quei requisiti di natura procedimentale e sostanziale che sarebbero altrimenti imposti in sede di ablazione “ordinaria” del diritto di opzione 139. Non solo, infatti, la legge tipizza in tale circostanza l’interesse sociale al reperimento di nuova liquidità a condizioni favorevoli 140 ma subordina altresì il ricorso a siffatta procedura alla contiguità valoristica tra prezzo di emissione e quotazioni di borsa “attuali”, nel convincimento che per l’azionista sia allora del tutto indifferente disporre del (ed esercitare il) diritto di opzione o comprare invece sul mercato il numero di nuove azioni necessario per mantenere invariata la propria posizione partecipativa 141. È bene precisare, comunque, che neppure il ricorso alla fattispecie dell’art. 2441, comma 4, secondo inciso, c.c. fa venir meno la necessità di applicare uno “sconto” sul valore di mercato delle azioni al fine di assicurarne il collocamento presso terzi. Verso questo esito sospinge, del resto, la stessa lettera della disposizione la quale, sebbene con formula assai meno sintomatica di quella rintracciabile in altri ordinamenti 142, si “limita” ad imporre la “corrispondenza”, non invece la “coincidenza”, tra prezzo di emissione e valore di mercato: così lasciando spadel valore nominale» (GINEVRA, La determinazione del prezzo e del sovrapprezzo negli aumenti di capitale sociale a pagamento, cit., p. 513). 139 Le agevolazioni conseguibili rispetto a quanto imposto dai commi 5 e 6 dell’art. 2441 c.c. si risolvono: (i) nell’applicazione delle normali maggioranze deliberative previste per l’assemblea straordinaria dagli artt. 2368 e 2369, anziché del quorum rafforzato prescritto dall’art. 2441, comma 5, c.c.; (ii) nel venir meno dell’obbligo per gli amministratori di predisporre una relazione contenente dettagliata illustrazione delle ragioni poste a sostegno della esclusione del diritto di opzione, atteso che la norma, come si dice nel testo, postula e dà per assodata l’esistenza di un interesse sociale al collocamento presso terzi delle azioni (mentre resta fermo l’obbligo per gli amministratori di predisporre una relazione illustrativa della proposta all’assemblea ai sensi della disciplina di fonte secondaria: e v. MARCHETTI, Gli aumenti di capitale, in Il nuovo ordinamento delle società, Milano, 2003, p. 274); (iii) nella sostituzione del parere sulla «congruità» del prezzo di emissione con la relazione della società di revisione avente a oggetto la (mera) «conferma» della corrispondenza tra prezzo di emissione e valore di mercato delle azioni. 140 GUERRERA, in Società di capitali. Commentario a cura di Niccolini-Stagno d’Alcontres, vol. II, Napoli, 2004, sub art. 2441, p. 1178; G.GIANNELLI, L’aumento di capitale a pagamento, cit., p. 276; e con riguardo al § 186, Abs. 3, Satz 4, AktG, LUTTER, Das neue „Gesetz für kleine Aktiengesellschaften und zur Deregulierung des Aktienrechts“, in AG, 1994, p. 441 («ex-lege Abwägung»). 141 Cfr. MARCHETTI, Gli aumenti di capitale, cit., p. 274; KÜBLER, Sind zwingende Bezugsrechte wirtschaftlich sinnvoll?, in ZBB, 1993, p. 5; SCHWARK, Der vereinfachte Bezugsfechtsausschluß – Zur Auslegung des § 186 Abs. 3 Satz 4 AktG, in Festschrift für Claussen, Köln-Berlin-Bonn-München, 1997, p. 365 ss. 142 E il riferimento corre, ovviamente, al § 186, Abs. 3, Satz 4, AktG a mente del quale è legittima la delibera di esclusione del diritto di opzione adottata dall’assemblea di società quotate quando il prezzo di emissione non è inferiore «in misura significativa» al corso di borsa («nicht wesentlich unterschreitet»).

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zio per uno scostamento in difetto del primo rispetto al secondo, in considerazione dell’interesse sociale alla riuscita dell’aumento 143 e nell’assunto che il singolo azionista escluso dall’opzione possa pur sempre contare sull’incremento di valore delle azioni derivante dai guadagni di efficienza generati dalla maggiore facilità di accesso al capitale di rischio in virtù della esclusione del diritto di opzione 144.

9.1. (segue) La prospettiva dell’azione come “partecipazione all’impresa” In questa cornice assiologica diviene inevitabile porsi il problema del collegamento sistematico esistente tra la procedura agevolata e quella ordinaria di esclusione del diritto di opzione 145 e chiedersi se la possibilità di fruire dei beneficî rivenienti dalla prima non sia preclusa, con l’obbligo pertanto di osservare i più rigorosi vincoli imposti dalla seconda, ogni qualvolta il mercato dei capitali si dimostri “inefficiente”, sia cioè inidoneo a esprimere il valore “fondamentale” del capitale economico d’impresa 146. E diviene in particolar modo inevitabile fornire 143

E v. CERRATO, in Il nuovo diritto societario a cura di Cottino-Bonfante-Cagnasso-Montalenti, vol. II, Bologna, 2004, sub art. 2441, pp. 1531 s.; nonché ampiamente BALP-VENTORUZZO, op. cit., pp. 820 e 831 ss. Del resto appare anche tecnicamente impossibile fissare un prezzo di emissione perfettamente allineato ai valori di mercato esistenti alla data del collocamento delle nuove azioni, vista la naturale volatilità dei corsi: per questa osservazione cfr. SCHWARK, Der vereinfachte Bezugsfechtsausschluß, cit., p. 371 ss. 144 E v., per tale argomento, KÜBLER-MENDELSON-MUNDHEIM, Die Kosten des Bezugsrechts, in AG, 1990, p. 475 (ove anche l’affermazione che in realtà «l’azionista non perde nulla quando il prezzo delle nuove azioni corrisponde alla quotazione attuale»). In sostanza si può dire che la disposizione dell’art. 2441, comma 4, secondo inciso, c.c. il sistema di tutela del singolo azionista passa da una protezione ex ante, fondata su una property rule (il riconoscimento del diritto individuale di opzione ai sensi dell’art. 2441, comma 1, c.c.), a una protezione ex post, fondata su una liability rule (la possibilità di far valere la responsabilità della società e degli amministratori ai sensi degli artt. 2377 e 2395 c.c. nel caso in cui la delibera di aumento contempli il collocamento delle nuove azioni a un prezzo manifestamente inferiore al valore corrente di mercato). E v., per il senso di quella alternativa proprio con riguardo ai pre-emption rights nell’ordinamento britannico, J.VELLA-PRENTICE, Some aspects of capital maintenance law in the UK, in Perspectives in company law and financial regulation. Essays in Honour of Eddy Wymeersch a cura di Tison-De Wulf-Van der Elst-Steennot, Cambridge, 2009, p. 277. 145 Pone questo interrogativo, ad es., MARCHETTI, Gli aumenti di capitale, cit., p. 274. E v. anche BALP-VENTORUZZO, Esclusione del diritto d’opzione, cit., pp. 806 e 841. 146 E v., dunque, sempre con riferimento alla disposizione del § 186, Abs. 3, Satz 4, AktG TETTINGER, Materielle Anforderungen an den Bezugsrechtsausschluß, Baden-Baden, 2003, p. 41 (secondo il quale alla base della norma vi sarebbe l’assunto di un mercato dei capitali sufficientemente liquido e funzionante in ordine alla formazione dei prezzi). Segnala, per contro, come il pericolo di diluizione del valore delle partecipazioni di minoranza sia reso concreto dalle oscillazioni dei corsi azionari cui si ricollega il prezzo di emissione dei nuovi titoli GUERRERA, op. cit., p. 1179, testo e nt. 30 (ove l’osservazione per cui tale prezzo rappresenterebbe una «garanzia soltanto relativa per i soci il cui diritto di opzione viene ‘espropriato’ dalla maggioranza»).

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risposta diversa a tale interrogativo a seconda del modo in cui si ricostruisca la posizione giuridica dell’azionista. In vero, nella angolazione visuale della azione come “partecipazione”, una semplificazione nelle modalità di esclusione del diritto di opzione in tanto si giustifica in quanto, appunto, il prezzo di borsa registrabile al momento del collocamento dei nuovi titoli rifletta puntualmente il valore “intrinseco” delle (vecchie) azioni. Solo in questa ipotesi, infatti, la scelta di fissare il valore di emissione “nei dintorni” di quel prezzo consentirebbe di attestare la mancanza di ogni intrinseca consistenza patrimoniale del diritto di opzione e di circoscrivere, pertanto, il carattere lesivo di una sua esclusione al versante “corporativo” della partecipazione, per definizione irrilevante nella prospettiva del socio minimo e comunque neutralizzabile mediante acquisto sul mercato di ulteriori azioni 147. In tale ottica, a ben vedere, la norma in tema di esclusione agevolata del diritto di opzione finisce con il caratterizzarsi, più che quale eccezione alla regola dettata in tema di esclusione ordinaria, quale precisazione dei suoi elementi costitutivi in termini di interesse sociale e di tutela dell’azionista escluso dall’opzione. Si comprende, dunque, come se ne predichi l’inapplicabilità e si proponga un ritorno all’esigenza di assicurare la «congruità» del prezzo di emissione propria della disciplina della esclusione ordinaria del diritto di opzione, ogni qualvolta, a cagione di un funzionamento imperfetto dei mercati, il prezzo di borsa non esprima il valore “reale” della partecipazione o l’azionista non sia comunque in condizione di procedere al riacquisto dei titoli funzionali a impedire l’annacquamento della propria posizione patrimoniale 148.

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VEIL, in Aktiengesetz Kommentar2, a cura di Schmidt-Lutter, Köln, 2010, § 186, Rn. 39. 148 V., dunque, BALP-VENTORUZZO, op. cit. che, reputando l’efficienza dei mercati presupposto della disposizione in esame (p. 804), si pongono inevitabilmente il quesito se l’impossibilità di conservare all’azionista la parità patrimoniale della quota a cagione di prezzi di borsa inferiori al valore “effettivo” delle azioni non imponga il rispetto delle modalità ordinarie previste dall’art. 2441, comma 6, c.c. (p. 806 s.) per poi ritenere necessario, malgrado considerino la vicenda della esclusione semplificata del diritto di opzione del tutto autonoma (p. 806), che «il prezzo di emissione sia ‘congruo’» (p. 838). Per l’approccio segnalato nel testo si cfr. anche LUTTER, Das neue „Gesetz, cit., p. 441; nonché TETTINGER, op. cit., p. 42 il quale sottolinea come la presunzione di “prevalenza” dell’interesse sociale su quello dell’azionista minimo non abbia modo di operare quando non esiste in concreto la possibilità per quest’ultimo di procedere ad acquisti sul mercato. Ed è appena il caso di sottolineare come il requisito concernente la necessità che l’azionista escluso dall’opzione abbia concretamente modo di procedere a nuovi acquisti sul mercato si dimostrerà tanto più stringente ove lo si reputi applicabile anche al socio titolare di una partecipazione significativa (i cui acquisti sul mercato potrebbero addirittura indurre un’impennata nei corsi di borsa e quindi impedirgli di ripristinare la posizione partecipativa preesistente): v., con riguardo al trattamento del Paketaktionär, SCHWARK, Der vereinfachte Bezugsfechtsausschluß, cit., p. 373 ss.

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9.2. (segue) La prospettiva dell’azione come “bene” L’inquadramento della fattispecie di esclusione semplificata muta per contro sensibilmente, ove – secondo l’impostazione preferibile – si ponga al centro della analisi non il valore fondamentale dell’azione, bensì il suo significato di “prodotto finanziario” risultante dall’assemblaggio di un complesso di situazioni soggettive destinate alla circolazione sul mercato 149. Aderendo a tale prospettiva, infatti, passa del tutto in secondo piano la funzione del diritto di opzione consistente nell’assicurare all’azionista la persistenza della misura nella quale egli partecipa alla società e assurge invece portata decisiva l’eventualità che quel diritto sia suscettibile di essere alienato separatamente dalla partecipazione cui accede. La scelta del legislatore di “agevolarne” l’esclusione quando il prezzo di emissione risulti allineato al valore di mercato, infatti, può spiegarsi per la circostanza che, in questo caso, il valore teorico del diritto risulta privo di autonoma consistenza economica, e quindi di un mercato, atteso che nessun investitore razionale sarebbe disposto a sostenere un costo (appunto, quello connesso all’acquisto dell’opzione) per esser preferito nella sottoscrizione di titoli rinvenibili direttamente sul mercato a un prezzo sostanzialmente equivalente a quello di emissione. Ma soprattutto, nella prospettiva appena segnalata, perde completamente di rilievo – come è a dirsi per la disciplina di ogni vicenda di «liquidazione» della partecipazione 150 – la questione della efficienza dei mercati mobiliari in termini di loro idoneità a rappresentare il valore intrinseco della partecipazione e con essa anche l’esigenza di accertare, ai fini della validità della delibera, se l’azionista abbia (avuto) o meno la possibilità di conservare intatto il proprio peso partecipativo mediante ulteriori acquisti di azioni sul mercato 151. E, in vero, di là dalla banale considerazione che siffatto requisito non pare altrimenti verificabile se non al momento del collocamento delle nuove azioni sul mercato e in dipendenza dell’andamento delle quotazioni, quindi in ragione di circostanze di fatto successive alla delibera di aumento le quali, pertanto, non possono influire sulla validità e la efficacia di quest’ultima 152, vi è da rimarcare come, assumendo l’azione nel suo significato di “bene”, lo scopo di tutela dell’art. 2441, comma 4, seconda parte, c.c. risieda unicamente nel salvaguardare la capa149

Coglie questo aspetto GINEVRA, La determinazione del prezzo e del sovrapprezzo negli aumenti di capitale sociale a pagamento, cit., p. 518 il quale condivisibilmente sottolinea come la disposizione dell’art. 2441, comma 4, seconda parte, c.c. si rivolga non al mercato delle «partecipazioni sociali in senso stretto» ma a quello «degli strumenti finanziari». 150 E si ricordi quanto osservato nel par. 4 a proposito del criterio di determinazione del valore di rimborso delle azioni in caso di recesso da società quotata. 151 Cfr. con particolare chiarezza, MARSCH-BARNER, op. cit., p. 532, testo e nt. 10. 152 MÜLBERT, Aktiengesellschaft, cit., pp. 311 e 318.

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cità di finanziamento dell’impresa mantenendo intatto il valore di scambio della partecipazione 153. Logico risulta anzi sottolineare come, in tale ottica, venga meno il senso stesso della distinzione tra “azionista” e “sottoscrittore” e, conseguentemente, anche l’esigenza di imporre al secondo un sovrapprezzo a tutela del primo ove la quotazione (per ipotesi) non rifletta il valore intrinseco della partecipazione sociale 154. Insomma, l’enunciato dell’art. 2441, comma 4, seconda proposizione, c.c., lungi dal presentarsi come una eccezione al divieto generale di diluizione patrimoniale di cui al sesto comma, che sarebbe allora destinato a riprendere vigore ogni qualvolta il prezzo di mercato si riveli inespressivo del valore reale dell’emittente 155, mostra al contrario di sviluppare una portata precettiva del tutto autonoma 156: come attesta inequivocabilmente la ben diversa formulazione letterale utilizzata dalla legge per identificare, nelle due ipotesi, sia il criterio da utilizzare in sede di determinazione del prezzo di emissione delle nuove azioni 157, sia il contenuto dei doveri posti in capo agli amministratori e ai revisori della società emittente 158. Ne risulta, in definitiva, uno scenario per molti versi analogo a quello registrato in sede di ricostruzione del fondamento proprio della disciplina del recesso da società quotata 159. 153

E v. GINEVRA, La determinazione del prezzo e del sovrapprezzo negli aumenti di capitale sociale a pagamento, pp. 517 s. per l’osservazione secondo cui il pericolo della diluizione patrimoniale è considerato dalla norma in questione solo quale parte del costo del finanziamento che la società può procurarsi sul mercato. 154 Per la netta distinzione concettuale tra la posizione di “azionista” e quella di “sottoscrittore” e la precisazione secondo cui il diritto di opzione attiene alla disciplina della prima mentre l’aggio di emissione alle condizioni dell’aumento e quindi alla disciplina della seconda, v. ASCARELLI, Diritto d’opzione nell’aumento di capitale e emissione delle nuove azioni con aggio, in Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955, pp. 434 s. 155 Come ritiene, ad es., SCHWARK, Anlegerschutz in der Publikums-AG – ein Paradigmenwechsel?, in Festschrift für Lutter, Köln, 2000, p. 1549 secondo cui, nel presupposto che il mercato mobiliare sia efficiente, «ma solo allora», non vi sarebbe spazio per una impugnazione della delibera di aumento con esclusione “semplificata” del diritto di opzione mancando ogni ragione per distinguere tra corso di borsa e valore intrinseco della società. 156 Per l’indipendenza del criterio di fissazione del prezzo di emissione di cui all’art. 2441, comma 4, seconda parte, c.c. da quello previsto nel sesto comma della stessa disposizione v. MARCHETTI, op. loc. ultt. citt.; GINEVRA, La determinazione del prezzo, cit., p. 517; e soprattutto GIANNELLI, L’aumento di capitale a pagamento, cit., p. 277 ss. il quale precisa che «valore di mercato» è concetto diverso finanche da quello di «andamento delle quotazioni nell’ultimo semestre». 157 BALP-VENTORUZZO, op. cit., p. 834, nt. 57. 158 Cfr. quanto osservato sopra a nt. 128. 159 E v. anche GIANNELLI, L’aumento di capitale a pagamento, cit., p. 280 (ove l’osservazione che, nella ipotesi dell’art. 2441, comma 4, secondo inciso, c.c. la «tutela del socio di minoranza è

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L’analogia tra le due vicende appare, infatti, anzitutto suggerita dal minor grado di discrezionalità di cui godono gli amministratori nel caso in esame rispetto alla fattispecie “ordinaria” di esclusione del diritto di opzione 160 poiché il ricorso al concetto di «valore di mercato», pur legittimando una vasta gamma di soluzioni operative 161, esige comunque che la grandezza rinvenuta sia “attuale”, cioè quanto meno “recente” 162, e attinga ai dati oggettivi risultanti da negoziazioni su un mercato regolamentato: così contribuendo a comprimere quella elasticità di spazi estimativi che si è visto invece permeare il criterio articolato dal sesto comma dell’art. 2441 c.c. 163. Nel senso della possibilità di coltivare una analogia con il recesso depone, inoltre, la struttura stessa del diritto di opzione il quale si presta, in vero, ad esser ricostruito non solo nei termini di una protezione “organizzativa” contro il rischio di diluizione patrimoniale della partecipazione, ma anche, e prima ancora, quale tecnica per disinvestire parzialmente dalla società 164: come dovrebbe risultare evidente se si pensa, in particolar modo, all’ipotesi in cui, una volta assunta la delibera di aumento del capitale con offerta in opzione ai soci, taluno di essi non solo scelga di non esercitare i diritti rivenienti dall’aumento ma decida altresì di venderli sul mercato senza reinvestire il ricavato nell’acquisto di azioni della società. Un’ultima considerazione da svolgere attiene, infine, ancora al nesso sistematico con il sesto comma dell’art. 2441 c.c. Una lettura coordinata dei due enunciati precettivi consente, infatti, di sottolineare come l’introduzione della nuova fattispecie di esclusione del diritto di opzione finisca addirittura con il reagire attuata attraverso una conservazione del valore di mercato delle azioni in una logica, se si vuole, non dissimile da quella contemplata dall’art. 2473-ter c.c. in tema di liquidazione delle azioni al socio che recede sui mercati regolamentati») e p. 289 (ove l’osservazione secondo cui, nella disciplina dell’aumento di capitale di s.p.a., sarebbe rinvenibile la propensione del legislatore «più per l’obiettivo di assicurare il valore di investimento della partecipazione che la posizione organizzativa»). 160 V. ancora GIANNELLI, L’aumento di capitale a pagamento, cit., pp. 278 s. il quale sottolinea la riduzione degli spazi di discrezionalità per gli amministratori, traendo supporto per tale conclusione, tra l’altro, dalla circostanza che la norma richiede alla società di revisione una “conferma”, cioè una “asseverazione” del valore di mercato, e quindi un tipo di verifica nettamente distinta dal parere di congruità di cui al sesto comma dell’art. 2441 c.c. 161 Per una puntuale analisi delle quali può utilmente rinviarsi a BALP-VENTORUZZO, op. cit., p. 819 ss. 162 E v. ancora GINEVRA, op. cit., pp. 518 s. («prezzo che il mercato potrebbe praticare al momento dell’effettiva offerta delle nuove azioni»). 163 Cfr. quanto osservato nel precedente par. 7. 164 E v. G. MUCCIARELLI, Il soprapprezzo delle azioni, cit., p. 205 il quale correttamente nota come, in ipotesi di esclusione del diritto di opzione, ciò che il socio sicuramente perde «è la possibilità di alienare il diritto di opzione, di ‘monetizzare’ la situazione di preferenza che altrimenti gli spetterebbe».

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sull’interpretazione dell’ipotesi tradizionale, agevolando la ricostruzione del bilanciamento di interessi sottostante alla sua formulazione 165. Può dirsi, infatti, che il legislatore abbia inteso tutelare senza riserve l’interesse sociale a un rapido ed economico accesso al mercato del capitale di rischio solo nell’ipotesi in cui l’effetto diluitivo dispiegato sulla posizione dei vecchi azionisti dall’eventuale disallineamento tra “valore di mercato” e “valore fondamentale” della partecipazione si dimostri “sopportabile”, perché, appunto, quantitativamente circoscritto 166; e che la legge abbia invece inteso proteggere l’interesse dei vecchi azionisti alla conservazione del valore patrimoniale della partecipazione, e quindi escludere che il prezzo di emissione possa prescindere da una sua considerazione, ove il pericolo di effetto diluitivo si riveli assai più incisivo in ragione del superamento di quella soglia e l’interesse dell’emittente al collocamento delle nuove azioni possa comunque esser soddisfatto mediante una loro offerta in opzione ai soci 167.

10. Conclusioni Volendo sintetizzare, in chiusura del lavoro, le considerazioni che si sono in esso formulate, può osservarsi quanto segue. (aa) Le norme di diritto societario che impongono la determinazione del valore delle azioni tendono a risolvere e a comporre un conflitto tra interessi egualmente meritevoli di tutela: da un lato, quello sociale all’esecuzione di una data operazione straordinaria, dall’altro quello del singolo azionista alla “redditività e al valore della partecipazione”. In questo senso, ed entro questi limiti, il procedimento di valutazione ha sempre contenuto giuridico e richiede di essere condotto nel rispetto dello scopo perseguito dalla disciplina che ne regola lo svolgimento. (bb) Con riferimento agli emittenti titoli azionari negoziati su mercati regolamentati, l’unico modo per inquadrare correttamente tale problema – e per guidare consapevolmente l’applicazione delle singole metodologie valutative da parte degli amministratori nonché l’eventuale successivo riscontro giudiziale – con165 E v. MARCHETTI, Gli aumenti di capitale, cit., p. 274 il quale si chiede se il criterio ancorato al prezzo di mercato non possa influenzare anche il (modo di interpretare il) criterio tradizionale dell’art. 2441, comma 6, c.c. 166 Si ricordi che il beneficio delle semplificazioni procedimentali e documentali garantito dalla nuova figura di esclusione del diritto di opzione presuppone che l’aumento non ecceda il limite del dieci per cento del capitale sociale preesistente. 167 Sulla rilevanza di quest’ultimo aspetto nell’ipotesi di aumento del capitale con conferimento in denaro v. in particolar modo FERRI, Le società3, nel Trattato di dir. civ. diretto da Vassalli, vol. X, t. 3, Torino, 1989 (rist.), p. 931.

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siste nel prendere atto della duplicità dimensionale che caratterizza in questo modello di società il concetto di partecipazione, la quale viene normativamente in rilievo ora come “partecipazione all’impresa”, ora come “bene” agevolmente negoziabile: alla prima dimensione corrisponde il dominio dei criteri estimativi assoluti (patrimoniale/reddituale/finanziario), alla seconda il dominio dei criteri di mercato (quotazioni di borsa/multipli/operazioni comparabili). (cc) Nel tener conto di siffatta ambivalenza, la legge distingue a seconda che la vicenda idonea a generare l’esigenza valutativa abbia ad oggetto la “liquidazione” dell’investimento oppure il suo “concambio” in azioni di altra società. Nella prima classe di occasioni valutative, identificabili esemplarmente nel recesso e nella adesione a una offerta pubblica di acquisto, il rilievo dei criteri di mercato e delle quotazioni di borsa si manifesta decisivo (art. 2437 ter, comma 3, c.c.; artt. 106, 108 e 111 TUF) poiché l’interesse giuridicamente protetto è quello dell’azionista (risparmiatore) a realizzare il “valore di disinvestimento” della partecipazione a condizioni non influenzate dall’evento che dà causa al recesso (nelle ipotesi di cui all’art. 2437 e 2437 quinquies c.c.) o all’insorgenza dell’obbligo di acquisto (nel caso di superamento di una soglia rilevante ai sensi degli artt. 106 e 108 TUF). (dd) Nella seconda classe di occasioni valutative, identificabili esemplarmente nelle fusioni/scissioni e nelle operazioni di aumento del capitale con esclusione del diritto di opzione a fronte del conferimento di azioni o quote di altra società, la portata delle quotazioni si attesta al livello di un parametro significativo, ma non esclusivo, delle dimensioni del capitale economico d’impresa, in ragione della circostanza che, trattandosi di vicende implicanti la prosecuzione della partecipazione sociale, l’interesse giuridicamente protetto mette capo, questa volta, alla esigenza dell’azionista di conservare, anziché liquidare, il “valore fondamentale” del proprio investimento. (ee) Nell’ambito delle ipotesi di “concambio” si rende, inoltre, necessario distinguere a seconda che l’operazione intervenga tra entità indipendenti oppure tra parti correlate: mentre la prima situazione si presenta caratterizzata da un’ampia convergenza di interessi tra maggioranza e minoranza di ogni compagine sociale in ordine alla acquisizione del concambio per essa più vantaggioso (c.d. conflitto “orizzontale” o tra compagini sociali), nella seconda tipologia di ipotesi la collisione di interessi e aspettative si sposta all’interno della compagine sociale della controllata (c.d. conflitto “verticale”), sussistendo il rischio che la maggioranza orienti le scelte degli amministratori in direzione di un concambio (solo) per essa vantaggioso. (ff) Di questo diverso assetto di interessi pare legittimo tener conto ai fini della determinazione del concambio “infragruppo”, rafforzando il ruolo e la portata del metodo delle quotazioni (o comunque di altro criterio di mercato) quale parametro meno influenzabile dalla controllante, e ponendo in capo agli amministratori della controllata l’onere di allegare e dimostrare analiticamente non solo

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le ragioni per le quali quel criterio non è stato applicato, ma altresì perché non è stato utilizzato come metodo principale o comunque non gli è stato riconosciuto un peso specifico adeguato. (gg) L’alternativa dogmatica tra il polo della “partecipazione all’impresa” e quello del “bene” si riverbera, infine, anche sulla più esatta interpretazione della fattispecie di esclusione “semplificata” del diritto di opzione ai sensi dell’art. 2441, comma 4, secondo inciso, c.c. e sulla sua relazione sistematica con la vicenda di esclusione ordinaria disciplinata dal sesto comma: mentre, infatti, la adesione alla prospettiva dell’azione come posizione organizzativa indurrebbe a ravvisare nel disposto dell’art. 2441, comma 4, secondo inciso, c.c. una semplice “eccezione” alla “regola” del sesto comma, che in tanto ha senso ipotizzare in quanto il prezzo di borsa rifletta correttamente il valore fondamentale della partecipazione (con la conseguenza della sua necessaria disapplicazione, e del ritorno al principio “generale” del sesto comma, ove ciò non accada in ragione di condizioni perturbate dei mercati), la preferibile adozione della visuale dell’azione come “prodotto finanziario” spinge a sottolineare la assoluta autonomia della disposizione in esame e a riconoscere ai prezzi di borsa, in ogni caso (quindi anche in presenza di ipotetiche disfunzioni dei mercati mobiliari), il rango di criterio esclusivo di valutazione delle azioni della società emittente: con esiti applicativi non lontani, allora, da quelli normativamente prescritti dall’art. 2437 ter, comma 3, c.c. in tema di recesso, cioè per l’ipotesi tipica di disinvestimento del bene azionario quotato.

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CONCLUSIONI

di Augusto Fantozzi

1. La trattazione di un tema così delicato e affascinante, quale quello della rilevanza fiscale dei concetti di corrispettività, onerosità e valore di trasferimento nel reddito d’impresa e nella circolazione giuridica dei beni, risente del fatto di essere stata il frutto di un articolato programma di ricerca (PRIN), realizzato attraverso numerosi convegni che hanno affrontato l’argomento da diversi e spesso divergenti punti di vista per consentire ai giovani cultori della materia di portare il loro personale contributo alla luce dei propri specifici interessi di ricerca. Ne risulta una ricerca frammentata in diversi filoni che evidenziano profili distinti del tema di fondo. Il filo conduttore è da ritrovare in alcuni contributi contenenti linee di sintesi che qui cercherò brevemente di richiamare. 2. C’è infatti da domandarsi se le nozioni di corrispettività, onerosità, gratuità, liberalità, economicità ovvero di destinazione, attribuzione, trasferimento assumano nel diritto tributario la stessa connotazione che hanno nel diritto civile dove esse richiamano la causa negoziale e dunque la funzione economico-sociale del singolo atto o del complesso di atti collegati. Che cosa si può dunque conclusivamente ricavare dalla lettura di così numerosi e stimolanti contributi? In primo luogo la diversa utilizzazione dei concetti civilistici. A circa cinquanta anni di distanza, resta ancora valida la precisazione di Micheli secondo cui gli istituti di altri campi del diritto talvolta sono assunti nel diritto tributario non nel significato che hanno nei settori di origine ma con significato e portata notevolmente diversi “perché la norma tributaria ha una sua finalità da raggiungere, il soddisfacimento dell’interesse finanziario dell’ente pubblico”. Di qui deriva “l’uso di strumenti giuridici diversi, particolarmente idonei a impedire l’elusione e l’evasione di imposta”. In secondo luogo la tendenziale irrilevanza o indifferenza della causa negoziale (a seconda dei diversi tributi) a fronte della funzionalizzazione del negozio o del complesso di atti/attività in relazione alla capacità contributiva che il tributo vuole colpire (presupposto).

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CONCLUSIONI

In terzo luogo la pesante ipoteca della normativa e dell’esperienza comunitaria sull’imposizione diretta e sull’IVA. A questo profilo vanno a mio avviso ricondotti i contributi che evidenziano l’attenzione del legislatore tributario allo scambio economico sul mercato di beni e servizi per gli effetti che esso produce sulla concorrenza piuttosto che ai concetti giuridici di cessione/alienazione/trasferimento, ovvero alla nozione di attività economica piuttosto che a quelle giuridiche di attività commerciale di impresa, lucrativa con le quali si è cercato in vario modo di definire la prima con effetti che hanno condotto a non pochi inconvenienti e smagliature tra il diritto interno e quello comunitario. Lo stesso dicasi per la rilevanza nel diritto comunitario dello sbocco sul mercato o cessione al consumo rispetto alle nozioni di cessione/trasferimento/alienazione del diritto civile con cui la direttiva comunitaria è stata tradotta nel diritto interno. Dalla direttiva deriva l’introduzione dei due presupposti-base delle cessioni di beni e prestazioni di servizi la cui ampiezza il legislatore italiano ha poi dovuto calibrare attraverso le nozioni di onerosità/gratuità/corrispettività e le esenzioni/esclusioni creando ancora una volta disallineamenti con il diritto comunitario. Alla stessa conclusione insoddisfacente può pervenirsi per la nozione di attività commerciale che ha tradotto nel diritto interno la “attività economica” della direttiva IVA e ha reso necessaria l’esplicita previsione delle cessioni gratuite e delle destinazioni a finalità estranee all’esercizio dell’impresa (di cui si è giustamente rilevata la funzione di chiusura del sistema e la maggiore ampiezza rispetto alla causa negoziale) nonché l’elaborazione di uno statuto fiscale dell’impresa che comprenda i beni relativi a quest’ultima e le attività inerenti (queste intese ora nel senso più ampio del rapporto di mezzo a fine rispetto alla vecchia inerenza materiale – finalizzata alla simmetria tassabile/deducibile della precedente imposizione reale. In definitiva a fronte della nuova centralità delle cessioni di beni e prestazioni di servizi, che definiscono lo scambio economico rilevante per il mercato, la nozione di corrispettivo è posta in evidenza ai fini delle imposte sul reddito e dell’IVA e le nozioni di valore normale, onerosità e gratuità sono variamente utilizzate in modo difforme dai corrispondenti istituti civilistici con finalità di circoscrivere il presupposto e definire la base imponibile da un lato, lo statuto dell’imprenditore dall’altro. I termini onerosità e gratuità sono variamente usati per includere o escludere negozi o atti a seconda della capacità contributiva che si vuole individuare e colpire. Il tutto, come rilevava già Micheli, con la finalità di contenere elusione e evasione e tenendo conto della lunga polemica dottrinale in tema di determinazione e tassazione del reddito di impresa: basti qui pensare ai concetti di onerosità/gratuità in tema di realizzo e conseguente tassazione delle plusvalenze.

Augusto Fantozzi

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3. Un altro profilo che ben emerge dalla ricerca è costituito dal diverso utilizzo della terminologia posta dal legislatore nell’imposizione classica sui trasferimenti inter vivos e mortis causa. Qui la ricostruzione scientifica interseca l’evoluzione storica dei tributi che è passata da imposizione sulla forma degli atti, che tiene dunque conto della loro causa giuridica, a imposizione sul passaggio della ricchezza a prescindere dalla forma degli atti. Però il mantenimento delle due imposte nell’alveo della disciplina dell’imposta di registro rende necessario combinare la forma e la causa degli atti (attributiva, dispositiva, onerosa, gratuita, liberale) con i loro effetti economici in termini di arricchimento dei soggetti. Di qui una diversa rilevanza dei termini civilistici che si prestano a sottile e raffinata esegesi: basti pensare all’esistenza di una attribuzione ovvero di una destinazione dei beni in trust dal settlor al trustee su cui si basa la vivace polemica riguardante il momento della tassazione con l’imposta sui trasferimenti. In definitiva, nel diritto civile che guarda agli interessi sostanziali delle parti, i negozi di assegnazione, di destinazione, di circolazione dei beni aziendali o familiari sono disciplinati in funzione della loro causa giuridica, nel diritto tributario invece in ragione della loro funzionalizzazione alla tassazione della capacità contributiva espressa dal presupposto. Infine vi sono dei casi in cui, come è stato rilevato, la causa del negozio attributivo della titolarità è irrilevante ai fini del presupposto di tributi sul patrimonio come l’ICI o l’IMU e rileva semmai esclusivamente per individuare ipotesi di esenzione o trattamenti di favore: qui il legislatore tributario si disinteressa della funzione economico-sociale del negozio attributivo della proprietà o del possesso e là dove la richiama lo fa in stretta aderenza al negozio civilistico. 4. Si può in definitiva pervenire ad una prospettiva unitaria nel valutare l’utilizzo da parte del legislatore tributario dei concetti esaminati nella ricerca? Probabilmente no e il remoto insegnamento di Micheli resta più che mai valido. Ad esso mi permetterei di aggiungere due precisazioni. Alla divaricazione tra la accezione civilistica e quella fiscale degli istituti considerati ha concorso negli ultimi tempi l’accentuazione dell’attenzione al gettito e alla lotta all’elusione determinata anche dalla crisi economica. Basti pensare alla diversa considerazione dei vantaggi compensativi tra società di un gruppo in chiave commerciale e fiscale: qui il transfer pricing è visto in prospettiva antielusiva al fine di ristabilire la corretta allocazione del reddito tra luoghi a livelli di fiscalità diversi e l’intassabilità dei compensi da consolidamento risponde soltanto all’esigenza di non duplicare l’imposizione (dando luogo peraltro a spazi di pianificazione fiscale illecita).

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CONCLUSIONI

Per altro verso, l’esame degli istituti analizzati dalla ricerca subisce anch’esso l’influsso della crescente attenzione degli operatori ai profili economici piuttosto che giuridici della fattispecie tributaria. È un approccio che discende dalla grande riforma degli anni ’70 che introdusse l’IVA, imposta europea, e a questa legò molti profili dell’imposizione sul reddito, che si rafforza continuamente con le sentenze delle corti europee, e che si rafforzerà ulteriormente con la prevalenza dei Paesi di common law e del nord Europa nella governance comunitaria.

INDICE AUTORI

BARABINO PAOLO, Assegnista di ricerca in Diritto Tributario, Università di Sassari BARTOLAZZI MENCHETTI EDGARDO MARCO, Dottorando di ricerca in Diritto Tributario, Sapienza Università di Roma BERNINI FRANCESCA, Ricercatore di Economia Aziendale, Università degli Studi di Pisa CALVO ROBERTO, Straordinario di Diritto Privato, Università di Aosta CANNIZZARO SUSANNA, Dottore di ricerca in Diritto Tributario, Sapienza Università di Roma CAPOZZI VIVIANA, Dottore di ricerca in Diritto Tributario, Sapienza Università di Roma CARINCI ANDREA, Straordinario di Diritto Tributario, Università di Bologna CARPENTIERI LOREDANA, Associato di Diritto Tributario, Università di Napoli Parthenope CASTALDI LAURA, Associato di Diritto Tributario, Università degli Studi di Siena DENORA BARBARA, Dottore di ricerca in Diritto Tributario, Sapienza Università di Roma DI GIOVINE RAFFAELE, Dottorando di ricerca in Dottrine Generali, Università degli Studi di Foggia FANTOZZI AUGUSTO, Rettore Università telematica Giustino Fortunato FEDELE ANDREA, Emerito di Diritto Tributario, Sapienza Università di Roma FICARI VALERIO, Ordinario di Diritto Tributario, Università di Sassari FRANSONI GUGLIELMO, Ordinario di Diritto tributario, Università degli Studi di Foggia GATT LUCILLA, Ordinario di Diritto Privato, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli GIOVANNINI ALESSANDRO, Ordinario di Diritto Tributario, Università degli Studi di Siena GUIDO VALERIA, Dottore di ricerca in Diritto Tributario, Sapienza Università di Roma IBBA CARLO, Ordinario di Diritto Commerciale, Università di Sassari INTERDONATO MAURIZIO, Ricercatore di diritto tributario, Università Cà Foscari di Venezia

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INDICE AUTORI 

LOFFREDO ELISABETTA, Ordinario di Diritto Commerciale, Università di Cagliari MARASÀ GIORGIO, Ordinario di Diritto Commerciale, Università degli Studi di Roma Tor Vergata MARCHISIO EMILIANO, Associato di Diritto Commerciale, Università Telematica Giustino Fortunato MASPES PIERPAOLO, Dottore commercialista e Revisore Contabile – Studio SCGT MASTROIACOVO VALERIA, Associato di Diritto Tributario, Università degli Studi di Foggia MAUGERI MARCO, Ordinario Diritto Commerciale, Università Europea di Roma MOTTI CINZIA, Ordinario di Diritto Commerciale, Università degli Studi di Foggia PEPE FRANCESCO, Ricercatore di Diritto Tributario, Università degli Studi di Foggia PIANOFORTE DONATO, Cultore di Diritto Tributario, Università degli Studi di Foggia RICCI CONCETTA, Ricercatore di Diritto Tributario, Università Lum “Jean Monnet”, Casamassima SALANITRO GUIDO, Associato di Diritto Tributario, Università di Catania SCANU GIUSEPPE, Ricercatore a tempo determinato di Diritto Tributario, Università di Sassari SIMONE CESARE, Dottorando di Ricerca in Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Siena-Foggia TACENTE NICOLA, Dottorando di ricerca in Dottrine Generali, Università degli Studi di Foggia

INDICE CONVEGNI

Onerosità, gratuità e liberalità: categorie generali nel diritto privato e rilevanza tributaria Convegno svolto a Roma il 18 febbraio 2012 presso l’Università di Roma “La Sapienza” Attribuzione, destinazione e scambio. Determinazione della base imponibile e del valore nella circolazione dei beni fuori dal regime d’impresa Convegno svolto a Foggia il 1 giugno 2012 presso l’Università degli Studi di Foggia Onerosità, gratuità e liberalità nella prospettiva dell’impresa individuale, societaria e consortile Convegno svolto ad Alghero il 29 giugno 2012 presso il Centro Artistico Culturale “Il Chiostro” Trasferimento dei beni d’impresa. Rilevanza del corrispettivo e del valore nella base imponibile Convegno svolto a Roma il 21 dicembre 2012 presso l’Università di Roma “La Sapienza” La rilevanza degli scambi tra mercato e terzo settore. Le cooperative, gli enti non commerciali e gli enti non lucrativi Convegno svolto a Foggia il 15 marzo 2013 presso l’Università degli Studi di Foggia La determinazione dei prezzi e dei valori nel trasferimento delle partecipazioni in società Convegno svolto a Roma il 24 maggio 2013 presso l’Università di Roma “La Sapienza” Attribuzione, destinazione e scambio nei gruppi di società Convegno svolto a Roma il 12 luglio 2013 presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Finito di stampare nel mese di novembre 2014 nella L.E.G.O. S.p.A. – Via Galileo Galilei, 11 38015 Lavis (TN)

DIRITTO TRIBUTARIO ITALIANO ED EUROPEO

Volumi pubblicati Sezione Studi ed attualità 1. 2. 3.

E. DELLA VALLE, V. FICARI, G. MARINI (a cura di), L’avviamento nel diritto tributario, 2012, pp. XIV-438. F. BILANCIA, C. CALIFANO, L. DEL FEDERICO, P. PUOTI (a cura di), Convenzione europea dei diritti dell'uomo e giustizia tributaria italiana, 2014, pp. XXII-542. V. FICARI, V. MASTROIACOVO (a cura di), Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari, 2014, pp. XXXVI-972.

Sezione Monografie e ricerche 1. 2. 3. 4. 5. 6.

V. FICARI, G. SCANU (a cura di), “Tourism taxation”. Sostenibilità ambientale e turismo fra fiscalità locale e competitività, 2013, pp. XVI-328. F. MONTANARI, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, 2013, pp. XVIII-402. S. CANNIZZARO, Il fermo e l’ipoteca nella riscossione coattiva dei tributi, 2013, pp. XX-212. A. VIOTTO, Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazioni, 2013, pp. XXII410. A. GIOVANARDI, Le frodi IVA. Profili ricostruttivi, 2013, pp. XXIV-332. E.M. BAGAROTTO, La frammentazione dell’attività accertativa ed i principi di unicità e globalità dell’accertamento, 2014, pp. XXIV-360.