La gestione immobiliare urbana tra la tarda repubblica e l'età dei Severi. Profili giuridici 9788892130807, 9788892186811

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda repubblica e l'età dei Severi. Profili giuridici
 9788892130807, 9788892186811

Table of contents :
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Dedica
Indice
Prefazione
Premessa
Introduzione
I. Il management della gestione immobiliare urbana
II. La locatio-conductio rei nel contesto della gestione immobiliare urbana
III. Una forma anomala di gestione immobiliare urbana: la speculazione sui materiali da costruzione
Conclusioni
Bibliografia
Indice delle fonti
Volumi pubblicati

Citation preview

Indice ­­­­I

COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA DELL’UNIVERSITÀ DI PISA

Nuova serie – Monografie

25

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

Indice ­­­­III

Alessandro Grillone

LA GESTIONE IMMOBILIARE URBANA TRA LA TARDA REPUBBLICA E L’ETÀ DEI SEVERI Profili giuridici con prefazione di

Luigi Capogrossi Colognesi

G. Giappichelli Editore

­­­­IV

La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

© Copyright 2019 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-3080-7

ISBN/EAN 9788892186811 (ebook - pdf)

Comitato scientifico: A.M. Calamia, E. Catelani, R. Faucci, F. Giardina, E. Malfatti, E. Marzaduri, O. Mazzotta, S. Menchini, E. Navarretta, A. Petrucci, R. Tarchi, R. Teti Responsabile scientifico: E. Navarretta La pubblicazione di volumi nella Collana del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa è disciplinata da apposito Regolamento disponibile sul sito dell’Editore (www.giappichelli.it) e sul sito del Dipartimento (web.jus.unipi.it). Fondi di Ateneo 2018 prof. Aldo Petrucci.

Composizione: Media Print s.r.l. - Livorno Stampa: Media Print s.r.l. - Livorno

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Indice ­­­­V

Alla memoria di mio padre Gianfranco, a tutti coloro che la vita ci ha dato e, poi, in ogni modo sottratto.

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

Indice ­­­­VII

INDICE

PREFAZIONE IX PREMESSA XV INTRODUZIONE 1 1. Lo stato della dottrina romanistica 1 2. Quadro storico e contesto socio-economico 7 3. L’interesse dei Romani per il mercato immobiliare: l’attestazione delle fonti 25 Capitolo I

IL MANAGEMENT DELLA GESTIONE IMMOBILIARE URBANA 1. Proprietari e amministratori di casamenti: coincidenza e alterità soggettiva  2. L’amministrazione immobiliare per mezzo di preposti. Il vertice manageriale dell’impresa complessa: per un’interpretazione giuridicamente orientata del procurator insulae di Satyricon 96 3. Sulle tracce della negotiatio peculiaris nel contesto della gestione di immobili urbani

35 35 48 74

Capitolo II

LA LOCATIO-CONDUCTIO REI NEL CONTESTO DELLA GESTIONE IMMOBILIARE URBANA 1. Il fondamento contrattuale dello sfruttamento immobiliare urbano: la locatio rei. Il paradigma delle obbligazioni corrispettive delle parti 1.1. Obblighi e responsabilità del locatore: frui licere praestare 1.2. Vis cui resisti non potest, vitia ex ipsa re e altri criteri di attribuzione del rischio contrattuale, una terra di confine in materia di sopportazione del danno 1.3. Obblighi e responsabilità del conduttore: l’obbligazione di rem reddere

87 87 91 102 117

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi



pag.

1.4. Obblighi e responsabilità del conduttore: l’obbligo di pagare la mercede 133 2. I contratti di locazione con gli horrearii: profili di divergenza dal regime generale della locatio rei 156 3. La particolare responsabilità ex recepto dell’albergatore 167 Capitolo III

UNA FORMA ANOMALA DI GESTIONE IMMOBILIARE URBANA: LA SPECULAZIONE SUI MATERIALI DA COSTRUZIONE 1. Il divieto di scoperchiare l’edificio, demolirlo e privarlo di sue parti negli statuti delle comunità locali 2. La regolamentazione delle demolizioni immobiliari a Roma. La repressione imperiale della speculazione sui materiali fittili: i senatoconsulti Hosidianum e Volusianum 3. Sulle tracce delle negotiationes aventi ad oggetto la compravendita dei materiali di recupero. Attività economica e loro organizzazione in chiave imprenditoriale

173 173 183 202

CONCLUSIONI

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BIBLIOGRAFIA

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INDICE DELLE FONTI

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Prefazione ­­­­IX

PREFAZIONE

È con grande piacere che ho accolto l’invito a scrivere alcune parole d’introduzione per il libro di Alessandro Grillone dedicato alla gestione degli edifici urbani ed alle complesse problematiche giuridiche ad essa connesse. Già scorrendo rapidamente il testo sottopostomi, quando ancora l’autore attendeva agli ultimi suoi perfezionamenti e integrazioni, esso s’è imposto alla mia attenzione per lo spessore d’una ricerca condotta con metodo e ricca di risultati significativi. Ma sono stato soprattutto colpito, approfondendo poi la mia lettura del libro, dal particolare vigore e dall’ampiezza di visuale con cui essa è stata condotta, e che gli ha permesso di misurarsi a fondo con un tema complesso e di grande portata. Attraverso l’analisi delle molteplici forme d’utilizzazione del fondamentale rapporto negoziale costituito dalla locatio, egli ci ha infatti offerto un quadro quanto più approfondito e comprensivo delle logiche giuridiche e dei criteri che hanno disciplinato ed orientato i processi di gestione e di sfruttamento degli immobili urbani. Il risultato è eccellente e ricco d’interesse, travalicando su più punti gli orizzonti entro cui si colloca la precedente tradizione di studi, aprendo nuovi interrogativi e, su molti punti, riuscendo a cogliere aspetti nuovi di problemi già discussi da altri autori. Non credo tuttavia che il mio compito sia quello d’inoltrarmi in una discussione sistematica dei tanti risultati della ricerca, anche se alcuni di essi mi sollecitano direttamente per il loro stretto rapporto con alcune delle problematiche su cui ebbi ad impegnarmi in altri tempi. Non è infatti questo ciò che ci s’attende da chi ha la mera funzione di presentare un libro, affidato alla lettura critica di ciascun lettore. Sarà invece più utile, spero, cercare d’evidenziare quelli che a me appaiono gli aspetti più significativi di questa ricerca, sottolineandone i passaggi più innovativi, ma anche le linee di continuità con un’importante linea tematica maturata nella storiografia novecentesca. All’uopo dobbiamo partire dalle peculiari caratteristiche della problematica al centro di questo libro, tenendo conto dei non pochi aspetti metodologici da essa sollevati, anche per il suo aspetto interdisciplinare. Perché appare immediatamente evidente che questa ricerca concerne un complesso di situazioni e relazioni di particolare rilievo della storia economica e sociale

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

del mondo romano: la gestione ed il funzionamento concreto del patrimonio edilizio sono infatti elementi costitutivi di quell’ordinamento cittadino che è la struttura portante della società romana, non solo come colossale macchina economica, ma anche, se non soprattutto, nella sua strutturazione in termini politici, come un ‘impero di città’. Né possiamo dimenticare come questa stessa problematica afferisca direttamente al regime della proprietà immobiliare: il fondamento stesso delle istituzioni cittadine, ma determinante anche nel plasmare l’intera fisionomia economica della società romana. Perché, è vero che, sin dalla tarda repubblica, e vieppiù nell’età d’oro del principato, il grande flusso dei traffici marittimi, il forte sviluppo dei sistemi finanziari e bancari, insieme al progressivo modificarsi degli equilibri commerciali tra Italia e provincie s’impongano al centro di ogni ricostruzione della storia economica di Roma tardo-repubblicana ed altoimperiale. E tuttavia gli assetti patrimoniali destinati a connotare la complessiva fisionomia, almeno della società romano-italica, hanno avuto quasi sempre il loro baricentro, non già nella venturosa vicenda dei grandi traffici o dei prestiti marittimi, ma nella proprietà. Quelli infatti sono i fattori di circolazione e di produzione della ricchezza, ma l’uso sociale di questa come struttura portante dell’edificio politico ed istituzionale si sostanzia nella proprietà, agraria anzitutto, ed urbana. La connessione tra queste due prospettive ci permette appunto di cogliere il ruolo determinante svolto dalla distribuzione e dalla gestione economica della grande proprietà immobiliare nell’architettura dei rapporti sociali interni all’ordinamento cittadino e nella connessa stratificazione delle classi sociali. È anche doveroso rilevare che l’ambito tematico di questo libro sia restato singolarmente trascurato nei moderni studi di storia giuridica, come di storia economica. Perché, rispetto all’accresciuta attenzione che, sia i romanisti che gli storici dell’economia sono venuti rivolgendo alle vicende della proprietà agraria romana, riuscendo talora a integrare utilmente le proprie specifiche competenze, la proprietà urbana ed il suo pur rilevantissimo significato economico-sociale, risultano pressoché totalmente trascurati. Addirittura impressionante è il disinteresse, che sembra tuttora persistere, sull’organizzazione e lo sfruttamento della proprietà urbana. Dove l’importante libro di Frier, agli inizi degli anni ’80, pur così ricco di risultati, non fa che confermare, nel suo isolamento, questa percezione 1. 1  Restano isolate, seppure di notevole rilievo, le ricerche a suo tempo condotte da Frier, ampiamente citate da Grillone, mentre una problematica come quella affrontata da C. Saliou, Les lois des bâtiments, Beyrouth, 1994, mi sembra abbia esercitato un impatto minimo nei nostri studi. Ma soprattutto è quanto mai significativo come l’ampio dibattito negli autori moderni intorno ai rischi della locatio immobiliare si sia soprattutto concentrato sulle vicende della locazione agraria.

Prefazione ­­­­XI

Sebbene vari motivi possano aver contribuito a tale risultato, è indubbio che, allo stato, ciò abbia finito col rappresentare una seria lacuna nei nostri studi, che ora in buona misura appare superata da questa ricerca. Come già accennavo, una delle difficoltà che pone un simile campo d’indagine è la sua stessa duplice fisionomia: da un lato, strettamente connessa agli aspetti tecnici ed alle logiche proprie dei sistemi di regole e delle istituzioni legali, ma dall’altro, con un forte significato fattuale, per la sua diretta incidenza su un vasto intreccio di relazioni economico-sociali. E, in effetti, Grillone si misura ripetutamente, nel corso di questo libro, con questioni direttamente attinenti alla storia economica: occuparsi solo dei singoli istituti giuridici e della loro varia applicazione negoziale, con le soluzioni di volta in volta divisate dalla giurisprudenza e recepite dal pretore, avrebbe infatti significato, per lui, ricadere nella torpida tradizione di studi di matrice pandettistica, da cui pur la scuola di cui egli è uno degli ultimi esponenti s’era felicemente allontanata già molti decenni or sono. Ciò, tuttavia, ha portato la sua ricerca ad articolarsi in una pluralità di direzioni per seguire le molteplici ricadute economiche indotte dalle forme giuridiche e organizzative della gestione immobiliare. L’esser riuscito a tener solidamente in mano questi sparsi fili dà pertanto la misura dell’ampiezza d’orizzonti e della sicurezza del metodo dispiegato dall’autore. Tuttavia, in nessun modo, la sua, può esser considerata solo una buona ricerca di storia economica e sociale che si sia avvalsa in modo particolare delle fonti giuridiche (mi vengono in mente, a tal proposito, due opere ormai ‘classiche’ come la fondamentale monografia di De Neeve sulla locazione agraria o il libro sui Business Managers di Aubert, oltre che, nel nuovo secolo, il lavoro di Maiuro). Il libro di Grillone, infatti, riguarda anzitutto e soprattutto la storia giuridica, come storia delle forme del diritto e della loro applicazione: capace tuttavia d’abbracciarne il loro significato pratico. Che non s’esaurisce, come qualche volta i giuristi ‘puri’ tendono a pensare, nella mera soluzione razionale di problemi derivanti dall’interpretazione di regole e dall’ermeneutica del loro possibile diverso combinarsi di significati, ma si sostanzia negli interessi soddisfatti, nel variare degli equilibri tra i vantaggi ed i costi ripartiti tra le parti in gioco, nella ricaduta diretta o indiretta che la singola soluzione del caso ha rispetto ai più generali assetti di un dato corpo sociale. Talché, questo percorso specifico, realizza sì l’antico auspicio di Momigliano, nel suo tante volte ricordato intervento al Primo Congresso internazionale della Società italiana di storia del diritto, ma non nel senso di ‘sciogliere’ la specificità della storiografia giuridica nella storia generale, ma di farne una componente essenziale di questa – come già fu nell’età d’oro dei nostri studi, che io continuo a identificare con i Culti del XVI secolo. Una componente, tuttavia, carica di una sua propria tecnicità ed il cui oggetto primario continua ad essere l’identificazione dei percorsi

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

argomentativi e delle logiche peculiari su cui si sono strutturati i procedimenti e le costruzioni dei giuristi romani e della pratica processuale. È, in effetti, una prospettiva non nuova, certo, se penso ad esempio ad autori ottocenteschi come Pernice (o alle enunciazioni di Jhering), ma meno praticata, poi, di quanto non sia auspicabile. Il fatto poi che l’orizzonte del nostro autore s’estenda ad abbracciare tutto l’arco della fase più creativa e innovativa del diritto romano e della sua scienza, dalla metà del terzo secolo a.C. alla fine dei Severi, nell’avanzato terzo secolo d.C., lo impegna a misurarsi con il momento in cui furono forgiati e successivamente applicati, nella forma più inventiva e dinamica, due tra i più incisivi meccanismi giuridici che hanno contribuito alla modernizzazione ed al potenziamento dell’organizzazione sociale romana tra fine repubblica e principato. Mi riferisco, da un lato, ai sistemi di rappresentanza degli interessi e dei diritti patrimoniali costituiti dal loro titolare in capo a soggetti appositamente individuati, quasi sempre personalmente a lui subordinati. Sono gli strumenti principali introdotti nella gestione dei grandi e medi patrimoni di pertinenza dei ceti nobiliari e commerciali romani. Dall’altro, come già accennavo, abbiamo a che fare con la disciplina giuridica di quel duttile e poliforme strumento di gestione economica della proprietà immobiliare romana che è la locatio-conductio. E qui, come il lettore avrà modo di constatare, il tecnicismo delle analisi di Grillone ci permette d’apprezzare il pieno dominio di quella tradizione esegetica che, sin dalla loro rinascita medievale, ha costituito una singolare e specifica qualità del metodo di lavoro degli studiosi del diritto romano ed il loro specifico apporto alla formazione di una cultura giuridica dell’Europa continentale. Nel corso della lettura di questo libro, sono tornato a riflettere su quanto avevo scritto, relativamente di recente, a proposito della storia dei rapporti intercorrenti tra i nostri studi e la storiografia economica di Roma antica. Il bilancio che avevo ricavato in proposito s’arrestava alla fine degli anni ’70 ed all’inizio del decennio successivo del Novecento, e m’era apparso sorprendentemente negativo 2. Anche se, a ben vedere, esso non era in contrasto con il prolungato ristagno degli stessi studi di storia economica e in particolare di storia agraria – il nucleo portante dell’economia antica – durato, in quello stesso lasso di tempo 3. Ma proprio la parallela parabola di queste due diverse linee di ricerca contribuisce ad evidenziare il netto mutamento d’indirizzi sopravvenuto nella romanistica verso la fine del secolo scorso (anche qui in significativo parallelo al forte rinnovamento L. Capogrossi Colognesi, Diritto, società ed economia in Roma antica e i romanisti del Novecento, in E. Lo Cascio-D. Mantovani, Diritto romano ed economia. Due modi di pensare e organizzare il mondo, Pavia, 2018, 173-208. 3  L. Capogrossi Colognesi, Padroni a contadini nell’Italia romana, Roma, 2012, Cap. II. 2 

Prefazione ­­­­XIII

degli stessi studi di storia economica 4), con una nuova attenzione per gli aspetti istituzionali del diritto romano più direttamente rilevanti anche per la nostra comprensione dei processi economici da essi presupposti e governati. Questa fioritura di studi, in Francia, come nel mondo anglosassone, in Austria come in Germania, ha largamente compensato la precedente carestia, appalesandosi ancor più nel nostro paese. Dove io credo ha pesato notevolmente anche quella particolare attenzione per un’interpretazione d’ispirazione marxista della storia antica che aveva trovato soprattutto in De Martino e Serrao – oltre che nell’esperienza del Gramsci – un importante punto di riferimento e che, del resto, s’era poi già appalesata nella ricca e stimolante problematica portata avanti dalla scuola dello stesso Serrao: da Di Porto a Petrucci 5. In effetti, è proprio in quest’ultimo filone che, attraverso la mediazione del suo maestro, s’inserisce il lavoro di Grillone, confermandone appieno tutte le potenzialità. Seppure io resto abbastanza distante dalla tendenza ad una lettura modernizzante dei fenomeni economici, oltre che di certi aspetti istituzionali, che ha sempre caratterizzato l’approccio scientifico di questa stessa tradizione, e che si riflette del resto in vari passaggi di questo stesso libro, la sua lettura m’ha fatto riflettere più a fondo su alcuni problemi di fondo che si pongono in linea generale all’interprete dei fenomeni sociali del mondo antico. Perché – e la produzione scientifica che fa capo a Serrao ed ai suoi ha rappresentato per me un riferimento importante, insieme ad altri fondamentali contributi che hanno visto la luce in questi anni, dalle indagini di Aubert e di De Ligt ad alcune pagine di Kehoe – è fuor di dubbio che sia ormai emersa alla consapevolezza storiografica l’esistenza di una dimensione ‘imprenditoriale’ dell’economia romana sin dall’età repubblicana, del tutto trascurata dalle precedenti generazioni di studiosi. La mia idea, in particolare, è che questa dimensione sia restata quasi sempre ‘embedded’, diciamo così, all’interno di una morfologia sociale plasmata dalla dominanza delle strutture proprie di una società aristocratica e di tipo ‘patriarcale’: ma non per questo sia stata poco efficace o troppo circoscritta. Ciò ha solo contribuito – anzitutto sul piano ideologico – ad accentuare e, forse, a isolare eccessivamente la preminenza del dominus come vir bonus colendi peritus, responsabile e gestore diretto della sua stessa proprietà. E proprio gli autori che ho ora citato mi hanno indotto a sospettare che si debba ancora scavare molto, sotto questa costruzione prodotta dal modo di autorappresentarsi di una società gerarchica ed aristocratiL. Capogrossi Colognesi, loc. ult. cit. Sui seminari antichistici del ‘Gramsci’, e più in generale sui filoni marxisti nella romanistica italiana degli anni ’70 ed ’80 del secolo scorso, si v. L. Capogrossi Colognesi, Nota di lettura, in L. Labruna, Vim fieri veto, (rist.) Napoli, 2017, XXI-XLI. 4  5 

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

ca, per ritrovare il nudo gioco degli interessi reali, dei fatti e dei rapporti di forza (tenendo anche conto di come un sistema di deleghe, realizzato attraverso gli strumenti legali disponibili, forzati in tutti i modi possibili 6, venisse variamente articolando lo sfruttamento dei complessi sistemi d’investimento dell’oligarchia romana). Ecco: il libro che qui si presenta offre un esempio interessantissimo di queste ricerche da fare in controluce, per ritrovare la filigrana dei rapporti reali. Ed è qui, dunque, che il mio pervicace ‘primitivismo’ e il modernismo di tanti studiosi moderni s’incontra. Perché gli elementi di modernità sono effettivamente presenti e sono valutabili con i nostri schemi, ma si compongono poi, io credo, in un quadro condizionato dalla presenza di fattori irrazionali inerenti al carattere aristocratico della società romana. L’interesse di questo libro mi spingerebbe a portare ancora più avanti questo discorso: ma vi sono limiti invalicabili che s’oppongono, non potendo sommergere, nella noia di preliminari troppo lunghi, il lettore che, finalmente, questo libro, vorrebbe iniziare a leggere. Nel prendere dunque congedo da chi s’è sobbarcato alla lettura di queste mie pagine, vorrei solo aggiungere come, per il vecchio contadino ormai in disarmo, non vi possa esser piacere più grande che vedere il fondo di terra, cui egli ha dedicato tanta parte delle sue forze, dia nuovi e più abbondanti e ricchi frutti sotto le mani energiche dei giovani che sono subentrati nella sua cura. In effetti sono convinto che, per lo spessore e la capacità di penetrazione esegetica dei tanti testi presi in esame, per il dominio critico di una tradizione di studi che pur aveva proposto già importanti modelli interpretativi, e per l’originalità delle connessioni di volta in volta individuate, per la ricchezza, insomma, dei risultati conseguiti, questo libro assumerà un posto di rilievo nelle nostre biblioteche. Roma, 5 settembre 2019

Luigi Capogrossi Colognesi

Sino, appunto, a realizzare talora quelle burocrazie anche molto complesse di cui trovo ora interessante e importante conferma, per quanto concerne la proprietà urbana, nel lavoro di Grillone. A tali apparati burocratici ebbi modo d’accennare in alcune mie ricerche dedicate all’organizzazione della proprietà agraria: cfr. L. Capogrossi Colognesi, in Itinera. 6 

Premessa ­­­­XV

PREMESSA

Lo studio che queste modeste parole introducono è il frutto ultimo di un lavoro ormai quasi decennale, le cui prime fatiche risalgono alla composizione della mia tesi di laurea presso l’Università di Pisa, che mi ha accompagnato negli anni romani del dottorato a “La Sapienza” e che ha condotto già alla pubblicazione di alcuni brevi contributi satellite, i cui argomenti, in buona parte con un taglio visuale nuovo, secante, saranno qui ripresi e approfonditi. L’idea che guida questo lavoro è quella di fare luce su un settore dell’economia cittadina romana, quello della gestione immobiliare, che, per una serie di ragioni, ha goduto fino ad ora di scarsa considerazione nel contesto di studi giuridici, mentre è di grande richiamo e riscuote notevole attenzione presso la comunità degli storici e degli archeologi. In parte per tentare di colmare il vuoto esistente su alcuni aspetti della materia, in particolare, quelli relativi ai profili organizzativi di questo sfruttamento, in parte per provare a riordinare e a reindirizzare i risultati già ottenuti dalla dottrina romanistica, spesso, per altro, a margine di lavori aventi oggetti eterogenei o soltanto confinanti rispetto a quello centrale nella presente trattazione, ho prestato preminente riguardo a svolgere indagini, il più possibile, interdisciplinari e aperte ai risultati di studi come quelli storici ed archeologici più avanti di quelli giuridici nella ricerca in questo campo. In tale ottica, cercando di non trascurare le pregnanti indicazioni delle fonti letterarie, documentali e materiali in tema, mi sono cimentato nel ricostruire il sistema romano della gestione immobiliare urbana, evidenziandone la comune struttura manageriale e le peculiarità dei suoi molteplici indirizzi speculativi. Nell’eleggere questo specifico settore di mercato quale mio argomento di indagine, mi accorgo immediatamente della necessità di una duplice precisazione. “Urbana” è, anzitutto, nell’intitolazione di questo lavoro, l’amministrazione di aedificia quae sunt in oppidis, e non quella degli urbana praedia di cui narra Ulpiano in 2 de omn. trib. D. 50.16.198, che prescinde dalla loro collocazione spaziale, quia urbanum praedium non locus facit, sed materia. La motivazione scientifica alla base di questa opzione è che, come si apprezzerà, si sono volute qui valorizzare, a scopo interpretativo, le ragioni

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

socio-economiche profonde sottese all’affermazione degli istituti giuridici analizzati ed esse hanno le loro radici in città, nel progressivo inurbamento tardorepubblicano della popolazione e nei rapporti di forza contrattuale da questo fenomeno generati e venutisi a stabilizzare nel contesto del mercato cittadino degli alloggi. La circostanza, poi, che, come si avrà occasione di precisare nel seguito dell’opera, la definizione ulpianea sia con buona probabilità acquisizione tarda della scientia iuris, come testimoniano le incertezze neraziane riguardo alla possibilità di ricondurre, indipendentemente dalla loro ubicazione, i segni deversoria, stabula e horreum alla species “fondi urbani” (in D. 20.2.3 e in D. 20.2.4.1), viene semplicemente a legittimare ex post questa mia personale scelta. In secondo luogo, “gestione immobiliare” descrive qui un ampio novero di attività, tutte orbitanti attorno alla messa a frutto della struttura architettonica: dei suoi locali, quando si persegua un lucro tramite il contratto di locatio-conductio, o dei materiali di cui è composta, mercé una speculazione sull’incremento di valore degli edifici in rovina venduti come insieme di componenti fittili riciclabili. Non si ignora che nelle nostre fonti il più compiuto riferimento ad una forma di amministrazione di patrimoni immobiliari urbani sia, forse, quella che scaturisce dai divieti di alienazione imposti ai tutori da una costituzione del 326 d.C. dell’imperatore Costantino, contenuta in C. Th. 3.30.3 = C. 5.37.22, ove sono citati sullo stesso piano domus, balnea, horrea e ogni altro edificio all’interno delle città ed è giustapposta la loro messa a frutto con, appunto, le prospettive di lucro legate alla loro liquidazione; qui, nondimeno, con uno sguardo volto alla contemporaneità e alla faticosa elaborazione del concetto di società di gestione immobiliare, si è voluta porre al centro dell’attenzione la capacità peculiare di ogni immobile di produrre reddito, si potrebbe dire, per la sua essenza strutturale, durante l’intero arco della propria esistenza. Un immobile nasce, vive e muore e in ognuna di queste fasi può produrre, se oculatamente gestito, un utile, già in quanto nella sua nuda sostanza architettonica interessa al mercato. Così, in quest’ottica, si giustificherà la scelta di osservare con scrupolo il rapporto che lega cliente e albergatore e quella, di segno opposto, di riferirsi solo fugacemente alla gestione dei balnea, quando il cenno sia non tanto all’organizzazione dei servizi che al loro interno si offrivano, ma alla loro appetibilità in quanto oggetti di possibile intermediazione speculativa: nel primo caso, infatti, il corrispettivo che l’utente è disposto a versare è volto primariamente ad assicurarsi il bene, nell’altro, invece, ciò che realmente lo interessa è il servizio. L’opera è composta in tre parti. La prima osserva analiticamente, sotto il profilo organizzativo, questo scorcio di economia romana, tentando di delineare l’assetto manageriale dell’amministrazione di una struttura immobiliare urbana: di un’insula, come casamento abitativo in affitto o albergo,

Premessa ­­­­XVII

e, indifferentemente, di un magazzino (horreum) urbano. Il secondo capitolo esamina la comune base negoziale delle variegate forme di manifestazione della gestione immobiliare urbana, affrontando, in relazione al contratto di locatio-conductio, i principali nodi problematici attinenti alla portata delle corrispettive obbligazioni delle parti, l’estensione del loro rischio/ responsabilità negoziale, nonché le peculiari divergenze di regime che, su questo schema, le specificità dell’attività economica organizzata, condotta dal locatore, albergatore o amministratore di magazzini, possono introdurre. L’ultimo tratto della presente indagine cerca d’intuire, per quanto possibile dalle fonti a nostra disposizione, i tratti negoziali e organizzativi essenziali di una “forma anomala” di speculazione immobiliare, diffusasi a Roma e nelle provincie tra II e I secolo a.C., quella orbitante attorno alla commercializzazione e al reimpiego dei materiali fittili ricavati dalla demolizione di edifici urbani. Obbiettivo che, non essendo perseguibile in via diretta, data la totale assenza di fonti giuridiche e l’incompletezza di quelle letterarie che facciano riferimento a simili attività economiche, deve essere raggiunto tramite l’osservazione speculare dei divieti che, nel corso dei secoli a cavallo della nascita di Cristo, hanno cercato di porre un freno o di vietare in toto queste articolate manovre speculative. *** Mi si consentano, a tal punto, alcune sentite parole di ringraziamento a tutti coloro che hanno permesso a queste pagine di vedere la luce. C’è, anzitutto, una gratitudine che per essere dettagliata eguaglierebbe, per dimensioni, la mole stessa di questo libro: è quella che devo al Prof. Aldo Petrucci, il quale, dopo essere stato relatore della mia tesi di laurea, mi ha accolto nel proprio gruppo di ricerca, incentivato nella vocazione, guidato e consigliato, per otto lunghi anni, nella stesura di queste pagine; lo ringrazio, allora, solo di una cosa, che spero possa racchiuderle tutte: di essere stato e di essere il mio Maestro. Compito altrettanto arduo è trovare poche parole da tributare al Prof. Luigi Capogrossi Colognesi, che ha accolto con entusiasmo la proposta di leggere questo mio primo lavoro monografico e mi ha fatto il dono, insperato onore, di una sua presentazione. Infinitamente lo ringrazio per questo incoraggiamento, del quale, anche, percepisco il gradito carico di responsabilità. Allo stesso modo sono debitore a Marco Maiuro, che, dopo la lettura del dattiloscritto, ha assolto all’ingrato compito di istruirmi nell’utilizzo di strumenti di ricerca di uso comune per lo storico romano, ma meno consueti per il giurista in formazione, nonchè di guidarmi verso una più attenta

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

selezione bibliografica della dottrina pertinente alla propria area scientifica. Ringrazio, poi, gli altri docenti dell’area romanistica del Dipartimento di Giurisprudenza di Pisa, Federico Procchi e Claudia Terreni, per il costante supporto: umano, scientifico, didattico; per avermi formato, in un rapporto di costante collaborazione, in questi miei primi anni di assistenza alla cattedra. Un particolare ringraziamento va ad Alessandro Cassarino, che spesso è stato vittima delle mie più contorte elucubrazioni interpretative, all’ostinata ricerca di risposte, che anche, per certo, ha contribuito a plasmare nella loro forma definitiva. Ringrazio il Prof. Massimo Brutti, che, in una fase intermedia di questo studio, è stato tutor della mia tesi dottorale e mi ha dato il privilegio di assisterlo, negli anni splendidi del percorso formativo a “La Sapienza”, nella conduzione di alcune sessioni degli esami di profitto. A mia madre, Maria Gabriella, e alla mia compagna, Francesca, per avermi supportato e sopportato in ogni fase della mia nevrotica scrittura, per aver vissuto con me ogni singola pagina di questa trattazione, un abbraccio e le scuse di chi è consapevole d’un carattere non facile. A mia zia, Matilde, e all’Avv. Claudio Scopsi, che anni fa mi accolsero come un figlio nella loro équipe, grazie, per avermi capito e perdonato di seguire la mia reale inclinazione. Pisa, 9 settembre 2019

Alessandro Grillone

Introduzione ­­­­1

INTRODUZIONE Sommario: 1. Lo stato della dottrina romanistica. – 2. Quadro storico e contesto socioeconomico. – 3. L’interesse dei Romani per il mercato immobiliare: l’attestazione delle fonti.

1. Lo stato della dottrina romanistica Pagine, per altro verso memorabili, di storiografia hanno a loro tempo contribuito a cancellare dalle fonti di reddito della classe possidente romana l’amministrazione immobiliare urbana, penso qui alla Storia economica di Roma di Tenney Frank 1, che, al fianco dell’agricoltura, cita il commercio, gli investimenti finanziari, il prestito di denaro, la manifattura e l’industria, e a quella del De Martino 2, il cui elenco è in buona misura analogo, ma che, per lo meno, in una pagina 3 del capitolo dedicato al commercio sotto l’Impero, menziona la fiorente attività degli horrearii, sia pubblici che privati, richiamando sull’argomento le coeve opere del Rickman 4 e dell’Alzon 5. Anche di recente, la lacuna non è colmata nelle opere, pur molto accorte nel rappresentare la poliedricità degli interessi economici romani, di Jean Andreau 6, Elio Lo Cascio 7, nonché nel recentissimo volume, a cura di Walter Scheidel, The Cambridge Companion to the Roman Economy 8, che 1  T. Frank, Storia economica di Roma. Dalle origini alla fine della repubblica, trad. it. Firenze, 1924, 87 ss. 2  F. De Martino, Storia economica di Roma antica, I-II, Firenze, 1979-1980, 87 ss. e 227 ss. 3  F. De Martino, Storia, II, cit., 336 s. 4  G.E. Rickman, Roman Granaries and Store Buildings, Cambridge, 1971. 5  C. Alzon, Problèmes relatifs à la location des entrepôts, Paris, 1967. 6  J. Andreau, L’économie du monde romain, Paris, 2010. 7  E. Lo Cascio, Crescita e Declino. Studi di Storia dell’economia romana, Roma, 2009. 8  AA.VV., The Cambridge Companion to the Roman Economy, Cambridge, 2012, 1 ss. e 257 ss.; l’impostazione complessiva dell’opera è chiara: circa metà del corpo riguarda la food production economy, seguono due sezioni dedicate, rispettivamente, alla manifattura

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significativamente definisce quello romano come «an agrarian world empire». Come già metteva in luce Peter Garnsey 9 negli anni Ottanta del secolo scorso, anche la storiografia più attenta alla descrizione generale dell’economia romana come realtà dinamica, tra cui per primo Rostovtzeff 10, individuava le tipologie di investimento predilette dai Romani del I secolo a.C. in quello agricolo, nel bancario, nella produzione artigianale ed industriale, menzionando in tutta l’opera solo una manciata di volte l’investimento in casamenti urbani dati a fitto e il lucro derivante ai proprietari privati dallo sfruttamento degli horrea. Caso isolato tra gli Autori illustrissimi di opere generali sull’economia di Roma antica ad aver dedicato alcune dense pagine della propria Storia all’investimento immobiliare urbano è Giuseppe Salvioli; nel suo Il capitalismo antico, oltre a riportare e commentare le fonti che testimoniano l’interesse di Gellio, Cicerone e Attico per il mercato degli affitti dei grandi casamenti popolari, menzionava l’articolata e avvolgente attività speculativa, che Crasso, secondo il racconto di Plutarco, avrebbe svolto nel settore, attraverso un ciclo complesso di acquisto, ripristino-demolizione di edifici compromessi e locazione delle strutture superstiti a canoni maggiorati in conseguenza del depauperamento del patrimonio abitativo urbano 11. Anche il panorama appena descritto ha contribuito a che lo studio delle forme di sfruttamento della proprietà immobiliare urbana sia rimasto nella romanistica in posizione di secondo piano rispetto alla trattazione dei profili di rilevanza giuridica sottesi al godimento ed all’impiego economico dei fondi rustici 12. e ai traffici commerciali; nel dodicesimo capitolo (di P. Erdkamp), e ciò mi sembra particolarmente significativo per il discorso che qui occupa, nel paragrafo intitolato: Urban Prosperity and Rural Property, il finanziamento di ogni attività economica urbana viene fatto derivare da una variegata compagine di ricchezze provenienti dal contesto rurale, senza che sia contenuto neppure un fugace riferimento al mercato immobiliare cittadino. 9  P. Garnsey, L’investimento immobiliare urbano, in M.I. Finley, La proprietà a Roma, trad. it. Roma-Bari, 1980, 149. 10  M. Rostovtzeff, Storia economica e sociale dell’Impero romano. Nuova edizione accresciuta di testi inediti, trad. it. Milano, 2003, 19, 38 e 417. 11  G. Salvioli, Il capitalismo antico. Storia dell’economia romana, ed. a cura di A. Giardina, Roma-Bari, 1985, 57-59. 12  Di questo argomento non si occupa la presente opera; basti pertanto il richiamo, volutamente non esaustivo, ad alcuni dei principali contributi sugli innumerevoli snodi problematici della materia: per l’inquadramento storico-critico della tematica, J. Kolendo, L’agricoltura nell’Italia romana. Tecniche agrarie e progresso economico dalla tarda repubblica al principato, Roma, 1980 e L. Capogrossi Colognesi, L’agricoltura romana. Guida storica e critica, Roma-Bari, 1982; circa la tendenza ad ottenere profitto dalla commercializzazione dei prodotti del fondo, Id., Proprietà agraria e lavoro subordinato nei giuristi e negli agronomi latini tra Repubblica e Principato, in Società romana e produzione schiavistica

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Le ricerche sull’oggetto che qui interessa, ad oggi, soffrono di un’attenzione frammentaria. L’opera giuridica più completa è senza dubbio il lavoro monografico di Bruce Woodward Frier, Landlords and Tenants in Imperial Rome 13, preceduto da due contributi preparatori di pari rilevanza e di taglio più ridotto, che comunque risalgono, ormai, nel loro complesso, ad una quarantina di anni fa 14. Di estremo interesse risulta, ancora, la seconda parte dell’opera per l’accorta selezione nella trattazione delle problematiche negoziali sottese alla locazione dei casamenti urbani, illuminanti molti degli iniziali riferimenti sociologici ed archeologici; ciò che, semmai, a modesto avviso di chi scrive, sconta il peso del tempo è il capitolo secondo, dedicato alla tematica che si è soliti dire organizzativa. Di lì ad una decina di anni, infatti, i grandi studi generali sul fenomeno imprenditoriale nel mondo romano avrebbero rivoluzionato il modo di guardare ai concetti di negotiatio, di taberna instructa, di institor e di peculium 15, rendendo l’intuizione dell’Autore circa la possibilità di gestire locande, alberghi e casamenti in affitto, mediante rappresentanti del titolare, insularii e/o procuratori, insufficiente 16. Egli riteneva in qualche modo alternativo a tale sistema di conduzione quello fondato su di un contractual middleman, che avrebbe corrisposto al dominus una rendita fissa gestendo poi, in proprio, con fina(Atti del seminario su «Forma di produzione schiavistica e tendenza della società romana: II sec. a.C. – II sec. d.C. Un caso di sviluppo precapitalistico. Pisa. Gennaio 1979), a cura di A. Giardina-A. Schiavone, Roma-Bari, 1981, 446 ss.; su questo tema, il suo legame con la nascita del concetto di villa e l’evoluzione della nozione di colonus, E. Lo Cascio, La proprietà della terra, i percettori dei prodotti e della rendita, in Crescita, cit., 19 ss., sulla possibile ricostruzione dell’organizzazione imprenditoriale della villa rustica, A. Di Porto, L’impresa agricola nel periodo imprenditoriale, in P. Cerami-A. Di Porto-A. Petrucci, Diritto commerciale romano. Profilo storico2, Torino, 2004, 303 ss., infine, sui profili più tipicamente negoziali dell’affitto agrario, L. Capogrossi Colognesi, Il regime degli affitti agrari, in Scienze dell’antichità, 6-7, 1992-1993, 163 ss. 13  B.W. Frier, Landlords and Tenants in Imperial Rome, New Jersey, 1980. 14  B.W. Frier, The Rental Market in Early Imperial Rome, in JRS, 67, 1977, 27 ss.; Id., Cicero’s Management of his Urban Properties, in CIJ, 74, 1978, 1 ss. 15  Cfr. i lavori monografici: A. Di Porto, Impresa collettiva e schiavo manager in Roma antica, Milano, 1984; F. Serrao, Impresa e Responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa, 1989; A. Petrucci, ‘Mensam exercere’. Studi sull’impresa finanziaria romana (II secolo a.C. – metà del III secolo d.C.), Napoli, 1991 e J.J. Aubert, Business Managers in Ancient Rome: a Social and Economic Study of ‘Institores’, 200 B.C. – A.D. 250, Köln-Leiden-New York, 1994 e, ancora, il nuovo indirizzo della riflessione storico giuridica era oggetto d’intenso dibattito al convegno organizzato dalla Società italiana di storia del diritto, da cui gli atti Imprenditorialità e diritto nell’esperienza storica (Atti del Convegno di Erice, 1988), a cura di M. Marrone, Palermo, 1992. 16  B.W. Frier, Landlords, cit., 23 ss.

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lità speculativa, il casamento 17. I due differenti modi di godimento della proprietà immobiliare urbana (dinamico e statico) non escludono, come vedremo 18, che le soluzioni giuridiche adottate dal conduttore intermedio per l’offerta al pubblico del servizio siano le medesime scelte dal dominus. Significa, in altri termini, come è ovvio, che anche l’amministratore non proprietario può giovarsi di dipendenti per esercitare al meglio la propria attività negoziale verso gli utenti 19. Precipuo interesse hanno suscitato in dottrina le allusioni del Frier al settore alberghiero: dapprima, infatti, delle differenze socio-economiche tra caupona e stabulum e della loro gestio per mezzo di institori o exercitores cum peculio, si è occupato András Földi 20, poi, a distanza di un decennio, sui profili organizzativi sottesi alla conduzione di queste attività è tornato anche Pietro Cerami 21, con un saggio, straordinariamente esaustivo, che riprende pure il tema, già trattato con dovizia di particolari da Petrucci nel IV capitolo della sua storia della protezione dei contraenti con gli imprenditori 22, del particolare regime responsabilistico cui i gestori di queste attività erano sottoposti ex recepto. In relazione ai modi di organizzare la gestione immobiliare urbana, recentemente, in alcune pagine di una trattazione più generale, Maria Antonietta Ligios ha giustamente messo in luce, attraverso l’analisi di una preziosa epigrafe pompeiana (CIL IV 138), come la complessiva conduzione di un edificio potesse, mediante atto di preposizione, essere affidata a un institor, che nelle fonti giuridiche (Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.1) va sotto il nome di insularius 23; la circostanza costituirà il perno centrale nello sviluppo del primo B.W. Frier, Landlords, cit., 30 ss. Cfr. infra Cap. I, §§. 1-3. 19  Mi si conceda fin da subito il rinvio al mio recente contributo in tema, A. Grillone, Punti cardinali dell’amministrazione immobiliare urbana nella tarda repubblica e nei primi due secoli dell’impero, in TSDP, 10, 2017, http://www.teoriaestoriadeldirittoprivato.com/ media/rivista/2017/contributi/2017_Contributi_Grillone.pdf, 16 ss. 20  A. Földi, Caupones e stabularii nelle fonti del diritto romano, in Mélanges Fritz Sturm 1, Liège, 1999. 21  P. Cerami, Tabernae Deversoriae. Settore economico e regime giuridico nel periodo imprenditoriale, in Studi in Onore di Antonino Metro, 1, Milano, 2009. 22  A. Petrucci, Per una storia della protezione dei contraenti con gli imprenditori, I, Torino, 2007, 119-154. 23  Cfr. più diffusamente infra Cap. I, §. 2 e si veda M.A. Ligios, ‘Nomen Negotiationis’. Profili di continuità e di autonomia della negotiatio nell’esperienza giuridica romana, Torino, 2013, 45-49; alcuni altri scritti di storici, come M. Beard, Prima del fuoco. Pompei, storie di ogni giorno, trad. it. Roma-Bari, 2011, 127 ss. e, in precedenza, di archeologi, quali E. De Albentiis, Indagini sull’‘Insula Arriana Polliana’ di Pompei, in DialA, 1989, 46, 43-84, hanno contribuito a mettere in luce la rilevanza giuridica dell’epigrafe. 17  18 

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capitolo e darà l’impulso per progredire oltre nella comprensione dell’articolata struttura organizzativa imprenditoriale del settore immobiliare. Vi è poi un altro aspetto da sottolineare. Ad oggi, fenotipi differenti di architetture hanno spesso portato a trattazioni separate. Con riguardo, in particolare, allo sfruttamento economico degli immobili deputati allo stoccaggio, gli horrea, l’unica opera organica in materia è quella, datata 1971, del Rickman, Roman Granaries and Store Buildings, che, nonostante la formazione non giuridica del suo Autore, illumina ancora, in molte sue parti, sugli aspetti manageriali, oltreché negoziali di questa attività. Molti studiosi di diritto si sono occupati, dagli anni Sessanta ad oggi, di uno specifico profilo di interesse giuridico di questa attività: quello inerente la definizione perimetrale della singolare responsabilità ex custodia dell’horrearius, gestore del magazzino; fondamentali in argomento, lo studio del Cannata 24, quello del Wacke e, più recentemente, quelli di Petrucci, Marini e Cassarino 25, questi ultimi Autori, inoltre, nel trattare il tema negoziale, hanno contribuito ad evidenziare, anche in questo speciale ambito della gestione immobiliare, la frequente scissione tra la figura del dominus totorum horreorum e quella dell’amministratore del casamento 26. Oltre ad un’analisi organica e bibliograficamente aggiornata dei punti già proficuamente trattati in dottrina, ciò che si impone alla presente trattazione nelle pagine che seguono è di avventurarsi alla ricerca delle indicazioni, sfumate nelle fonti, della possibilità di gestire un magazzino in forma di negotiatio peculiaris o tramite preposto 27, interrogandosi, pure, di conseguenza, sull’intimo rapporto tra lex horreorum e praepositionis proscriptio, quali forme, per molti aspetti sovrapponibili, di predisposizione unilaterale di clausole integrative dei contratti con l’utenza 28. 
Se la ricostruzione “di sistema” è uno degli obbiettivi che, fin dalle premesse, qui ci si prefigge, 24  C.A. Cannata, Su alcuni problemi relativi alla ‘Locatio Horrei’ nel diritto romano classico, in SDHI, 30, 1964, 237 ss. 25  A. Wacke, Rechtsfragen der römischen Lagerhausvermietung, in Labeo, 26, 1980, 307 ss.; A. Petrucci, Per una storia, cit., 239 ss.; R. Marini, La custodia di merci dell’‘horrearius’: a proposito di CIL VI 33747, in ZSS, 132, 2015, 166 ss. e A. Cassarino, Ricerche sulle clausole predisposte da un contraente nel diritto romano fra tarda repubblica e principato. Il caso dei negotiatores terrestri e degli exercitores navis, Torino, 2018, 15 ss. 26  Su quest’ultimo specifico aspetto, recentemente è tornato A. Petrucci, Note sui ‘marchi di produzione’ e dati nelle fonti giurisprudenziali. A proposito di una recente iniziativa, in BIDR, 111, 2017, 29 s. 27  Indagine le cui fondamenta ho tentato già di porre in A. Grillone, Punti, cit., 24 ss. 28  Elementi per l’apertura di un’ampia riflessione in tal senso sono offerti dai due recentissimi contributi di A. Petrucci, Poteri e limiti per i negotiatores di predisporre le condizioni contrattuali fra tarda repubblica e principato, in SDHI, 83, 2017, 11 ss. e di A. Cassarino, Ricerche, cit., 1 ss.

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nello sforzo di mettere in luce le affinità negoziali e organizzative delle menzionate forme di impiego economico della proprietà immobiliare urbana, il recente lavoro di Paul J. du Plessis, Letting and Hiring in Roman Legal Thought: 27 BCE – 284 CE, nonostante la sistematica fuorviante del paragrafo dedicato alla immovable property in an urban setting, nel quale sono trattate in sotto-paragrafi separati le diverse tipologie di strutture immobiliari allocabili, dà importanti indicazioni, soffermandosi, sia in relazione alla locazione dell’insula, che a quella dell’horreum, sul legame tra dominus aedis e contractual middleman, che, nel secondo caso, anche accende speciali regole nel rapporto obbligatorio sottostante, e sulla frequente circostanza per cui «the running – di entrambe queste categorie immobiliari – was assigned to a slave» 29. Quest’ultima opinione oggi è ribadita e puntualizzata dall’Autore, attraverso l’esplicito riferimento, a dire il vero non compiutamente argomentato, all’institor e alla conduzione nei limiti di un peculium, in un breve, ancor più prossimo contributo: Urban landlords and tenants 30. Avanti di addentrarsi nello studio delle fonti che, testimoniando il fervente interesse del “capitale” romano per questo settore, per prime mi hanno sollecitato a scrivere, ancora una componente tematica della trattazione che segue è priva degli opportuni cenni all’opera di coloro i quali mi hanno preceduto. L’analisi sistematica dei profili di rilevanza giuridica sottesi ad un mercato, che le fonti ci mostreranno, al di là di ogni pregiudizio ideologico, come oltremodo rilevante nei secoli che vanno dall’apertura dei commerci internazionali all’apogeo dell’impero, è il cuore nevralgico di questo studio, conseguentemente, proprio in ragione della sua pretesa organicità, ho ritenuto di non poter fare a meno di includere tra le molteplici forme dello sfruttamento immobiliare quelle attività economiche, fiorenti, che si nutrivano della demolizione dei casamenti, piuttosto che della loro amministrazione. Vi era, infatti, chi, in considerazione della difficoltà oggettiva di reperirli e dei costi elevati della loro importazione, speculava sui materiali fittili di recupero, ottenuti dalla distruzione di immobili urbani. La circostanza è testimoniata da svariate allusioni nelle fonti letterarie e si può senza dubbio desumere, come già è stato acutamente sostenuto da Manlio Sargenti e, in seguito, da Federico Procchi, dalla disciplina dei SCC Hosidianum e Volusianum 31, rispettivamente, dell’epoca dell’imperatore Claudio P.J. Du Plessis, Letting and Hiring in Roman Legal Thought: 27 BCE – 284 CE, Leiden-Boston, 2012, 150-189. 30  P.J. Du Plessis, Urban landlords and tenants, in The Oxford Handbook of Roman Law and Society, a cura di P.J. Du Plessis-C. Ando-K. Tuori, Oxford, 2016, 637. 31  M. Sargenti, La disciplina urbanistica a Roma nella normativa di età tardo-repubblicana e imperiale, in “La città antica come fatto di cultura”, Como, 1983, 273 ss. e F. Procchi, 29 

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e di Nerone. Pur nell’eterogeneità dei fini di queste discipline, il medesimo scopo repressivo doveva essere assolto da alcuni paragrafi della lex Municipii Tarentini, di quella Ursonensis, dallo statuto municipale di Malaga e dalla lex Irnitana, come credeva già Laura Solidoro in un suo studio del 1989 32. L’analisi di simili normative fornirà, in questa sede, l’appiglio per andare oltre nel congetturare la struttura economico-organizzativa di queste forme di speculazione, chiudendo il cerchio dell’analisi del mercato immobiliare romano con lo studio di un caso anomalo di sfruttamento della proprietà, non come i precedenti incentrato sul godimento dei beni, ma propriamente commerciale.

2. Quadro storico e contesto socio-economico Lo studio che qui ci si propone di affrontare abbraccia, nella sostanza, un settore di storia romana che, pur piuttosto ampio, è facilmente individuabile 33 e va dal 242-241 a.C., dalla vittoria romana nella prima guerra punica, alla fine della dinastia dei Severi nel 235 d.C., che, di fatto, chiude la stagione del principato, segnando il passaggio al mondo tardoantico e al modello costituzionale del dominato 34. Solo saltuariamente, infatti, si accennerà a sviluppi successivi della materia quando ciò risulti funzionale a porre in luce la struttura giuridica e i caratteri distintivi degli istituti classici e preclassici trattati. ‘Si quis negotiandi causa emisset quod aedificium..’. Prime considerazioni su intenti negoziali e ‘speculazione edilizia’ nel principato, in Labeo, 47, 2001, 411 ss.; che un tal genere di manovre speculative esistesse a Roma nei secoli a cavallo della nascita di Cristo, pure non è negato da coloro che, in dissenso con questi Autori, vedono nella tutela del decoro pubblico (A. Bottiglieri, La tutela dei beni artistici e del decoro urbano, in TSDP, 3, 2010 http://www.teoriaestoriadeldirittoprivato.com/index.php?com=statics&option=index&Cid= 154 ) o, addirittura, nella tutela degli edifici privati di alto valore artistico la ratio di queste disposizioni (L. Franchini, La tutela dei beni immobili privati di interesse storico-artistico nell’esperienza romana, in I beni di interesse pubblico nell’esperienza giuridica romana, II, a cura di L. Garofalo, Napoli, 2016, 693 ss.). 32  L. Solidoro Maruotti, Studi sull’abbandono degli immobili nel diritto romano, Napoli, 1989, 341 ss., nt. 6; in questo senso si espresse, del resto, pure, E. Gabba, Considerazioni politiche ed economiche sullo sviluppo urbano in Italia nei secoli II e I a.C., in Italia Romana, Como, 1994, 105 ss. e Id., Urbanizzazione e rinnovamenti urbanistici nell’Italia centro-meridionale del I sec. a.C., in Ibidem, 66 ss. 33  Per la collocazione temporale degli eventi si è fatto riferimento a C. Giachi-A. Baroni, Cronologia della storia romana dall’età protostorica al 476 d.C., in Storia di Roma, a cura di A. Giardina-A. Schiavone, Torino, 1999, 897 ss.; per i profili di rilevanza pubblicistica e costituzionale dei fatti narrati A. Petrucci, Corso di Diritto Pubblico Romano, Torino, 2017. 34  A. Petrucci, Corso, cit., 155.

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La nostra indagine, pertanto, prende le mosse dal cuore del terzo secolo a.C.; è dalla vittoria su Cartagine, del resto, che Roma, scampata allo spettro della distruzione, si rivela per la prima volta come potenza economica, oltreché militare, sul palcoscenico mediterraneo, rilevando il ruolo cardine del nemico sconfitto nel commercio transmarino 35. Sorge in quel contesto un’inedita vocazione mercantile dell’economia romana 36, propensione, questa, che le conquiste di fine secolo non potranno che confermare con il conseguente afflusso nei porti della penisola, e in particolare in quelli di Roma, Portus Ostia, in continua espansione, ed Emporium sotto l’Aventino, di una notevole quantità di materie prime e preziose manifatture, che fecero dell’Urbe e delle principali città portuali della penisola il centro nevralgico di una vasta rete di commerci che percorreva tutto il Mediterraneo 37. Il fiorire dei commerci produsse un considerevole indotto; prosperarono le imprese di navigazione e quelle dei fabri navales, i fondi che si affacciavano sulle vie cittadine si affollarono di botteghe, le strade e i mercati ben presto brulicarono di venditori ambulanti, si svilupparono la produzione artigianale, le officinae e le figlinae dei manipolatori di metalli (fabri aerarii e ferrarii), dei carpentieri (fabri tignarii), dei falegnami (fabri citrarii), ed il commercio del lusso: quello dei preziosi, dei libri, degli arredi, dei profumi e, in particolare, dei capi di sartoria 38. Questo crogiolo di attività che si dipanava per tutta Roma mutò in breBasti qui il richiamo ai grandi classici, si vedano sul punto, P. Bonfante, Storia del commercio. Lezioni tenute all’Università commerciale Bocconi, I, Torino, 1946, 116 ss.; F. De Martino, Storia, I, cit., 125 s. ed E. Gabba, Allora i romani conobbero per la prima volta la ricchezza, in Del buon uso della ricchezza. Saggi di storia economica e sociale del mondo antico, Milano, 1988, 20. 36  Sulle origini di Roma come civiltà agricolo-pastorale si rimanda a F. De Martino, Storia, I, cit., 7 ss. e L. Capogrossi Colognesi, La città e la sua terra, in Storia di Roma. Roma in Italia, I, a cura di A. Schiavone, Torino, 1988, 263 ss.; sulla risalente vocazione rurale dell’economia romana anche cfr. F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma. Dalla società gentilizia alle origini dell’economia schiavistica, I, Napoli, 2006, 109 ss. ed E. Lo Cascio, La proprietà, cit., 19 ss., sul brusco cambio di mentalità intervenuto nel III secolo a.C., E. Gabba, Ricchezza e classe dirigente romana fra III e I sec. a.C., in Del buon uso, cit., 27 ss., per uno sguardo complessivo sul mutamento prospettico delle abitudini economiche romane, cfr. L. Capogrossi Colognesi, Storia di Roma tra diritto e potere, Bologna, 2009, 23 ss. e 211 ss. 37  Cfr. F. De Martino, Storia, I, cit., 127 ss., sulle esigenze di approvvigionamento che spinsero all’abbandono del portus Tiberinus e alla costruzione nell’Urbs di una vasta rete di edifici deputati allo stoccaggio e all’industria artigiana, S. Keay, Rome, Portus and the Mediterranean, London, 2012, 36 s.; A. Carapellucci, Gli Horrea. Struttura, organizzazione e funzioni dei magazzini nella Roma antica, in FUrb, febbraio 2011, 20 e C. Virlouvet, L’approvvigionamento di Roma imperiale: una sfida quotidiana, in Roma imperiale. Una metropoli antica, a cura di E. Lo Cascio, Roma, 2000, 120. 38  J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero, trad. it. Roma-Bari, 1941 (rist. 2007), 204 ss. 35 

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ve il severo costume dei Romani, con esso le loro aspettative e l’inerzia quotidiana della vita. Sotto il profilo urbanistico le città si trasformarono per accogliere un sempre crescente numero di abitanti e viatores in transito: il settore edilizio si mosse in tutta la repubblica per rispondere alle incrementate esigenze abitative urbane 39, oltreché per rimediare, tra II e I secolo a.C., ai danni 40 causati dalle scorribande dei Cimbri e dei Teutoni nella Gallia Cisalpina, prima, dalla Guerra Sociale e dallo scontro in due riprese tra fazione mariana e sillana, poi 41. Molti quartieri dell’Urbe si affollarono di insulae, casamenti abitativi a più piani, addossati gli uni agli altri, dove si accalcava la più umile popolazione: solo i più ricchi, infatti, e solo in alcune regioni, alloggiavano in comode domus, la cui diffusione irrisoria, saranno meno di 2000 nei Cataloghi Regionari, dà ulteriore prova della loro natura di bene di lusso 42. L’insula, le cui partizioni interne, dette caenacula, raramente erano di proprietà degli habitatores, era la casa popolare per eccellenza 43. Sulla febbrile attività edilizia iniziata nel corso del III secolo a.C. e poi ulteriormente intensificatasi nel I a.C., cfr. E. Gabba, Riflessioni antiche e moderne sulle attività commerciali a Roma nei secoli II e I a.C., in Del buon uso, cit., 98 s. 40  E. Gabba, Considerazioni, cit., 105 ss. e Id., Urbanizzazione, cit., 66 ss. 41  A. Petrucci, Corso, cit., 72 e 81 s. 42  Il numero esatto di domus secondo i Cataloghi Regionari, Notitia e Curiosum, cfr. A. Nordh, Libellus (Libellus de regionibus urbis Romae), 105, l. 4, è di 1790. Circa il rapido prevalere nel contesto urbano dei casamenti a più piani rispetto alle domus, cfr. E. De Albentiis, La casa dei Romani, Milano, 1990, 78 ss. e 114 ss.; O. Robinson, Ancient Rome. City planning and administration, London, 1992, 33 ss.; A. Zaccaria Ruggiu, Spazio privato e spazio pubblico nella città romana, Roma, 1995, 343 ss. e A. Wallace-Hadrill, Case e Abitanti a Roma, in Roma imperiale, cit., 182; in senso parzialmente difforme si veda L. Homo, Roma imperiale e l’urbanesimo nell’antichità, Milano, 1976, 427 ss.: per costui infatti l’insula avrebbe rappresentato una presenza sporadica all’interno del patrimonio immobiliare romano almeno fino agli ultimi decenni della repubblica. L’opinione, senza dubbio datata, non deve tuttavia più di tanto sorprendere: dopotutto, per lungo tempo, in base ai risultati degli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano, si era immaginata Roma antica disseminata di domus, ovvero di abitazioni terranee dedicate ciascuna ad un determinato nucleo familiare, a pianta quadrata o rettangolare, illuminate dall’apertura interna su cortili ed ampi giardini, prive di qualsivoglia finestra o luce sulla pubblica via. Si tratta di un’immagine assolutamente erronea dell’Urbe, che si affollava, in realtà almeno dal III secolo a.C. in poi, di modeste e spesso pericolanti insulae. Per altro, sull’idea diffusa di ‘casa pompeiana’ quale edificio necessariamente costruito attorno ad atrium e peristilio con giardino, alcuni interessanti rilievi sono contenuti in M. Beard, Prima del fuoco, cit., 127 ss., dove si è recentemente posto in luce come anche in queste realtà si sia riscontrata la presenza di plurimi casamenti abitativi a più piani; pur se esistenti, in ogni caso, le insulae pompeiane erano, rispetto alle romane e alle ostiensi, di assai più ridotte dimensioni. 43  Sulla tipicità dell’insula come alloggio popolare a più piani, destinato, non al godi39 

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Struttura architettonica semplice, disadorna, parallelepipeda, che Livio (21.62), già in riferimento al III secolo a.C., descrive composta di tre o più piani, illuminata da finestre aperte sia sulla pubblica via che su una corte interna 44, l’insula era economica, di agile costruzione e facilmente adattabile mento diretto, ma alla locazione dei suoi esigui spazi interni, cfr., recentemente, A.L. Boozer, voce Apartment buildings, in The Encyclopedia of Ancient History, II, a cura di R.S. Bagnall-K. Brodersen-C.B. Champion-A. Erskine-S.R. Huebner, Oxford, 2013, 515 e già E. Forcellini, voce Insula, in LTL (Lexicon Totius Latinitatis), III, 553, ma anche voce Insula, in TLL (Thesaurus Linguae Latinae), VII, 2038 s. Tale accezione, che è quella con cui il termine sarà adoperato nel seguito di questa indagine, è senza dubbio quella che più intuitivamente emerge dalle fonti; l’unica, inoltre, come si vedrà, che dà senso ai passi del Digesto in cui compare (sulle strutture riconducibili allo schema architettonico dell’insula, che è stato possibile individuare sul territorio urbano, cfr. le voci correlate ad uno specifico nomen in LTUR [Lexicon topographicum urbis Romae], III, 97-99 e 101 ss.). Studi storici, tuttavia, hanno suggerito che il lemma sia venuto ad indicare, nei Cataloghi Regionari, un concetto più ampio, seppur non necessariamente alternativo a quello architettonico (cfr. G.R. Storey, Regionaries-Type Insulae 1: Architectural/Residential Units at Ostia, in AJA, 105, 3, 2001, 389 ss.): cioè l’unità catastale minima di proprietà fondiaria urbana; e che, solo come conseguenza ineludibile dell’applicazione del principio di accessione, abbia continuato ad essere utilizzato per appellare anche quanto sopra vi fosse edificato (J.M. Rainer, Zur insula im Römischen Recht, in Iurisprudentia universalis. Festschrift für T. Mayer-Maly, Köln-Weimar-Wien, 2002, 609 s. e 612 s.). Il termine insula, in altre parole, avrebbe indicato l’unità proprietaria minima di suolo urbano e, solo nel caso in cui su di essa insistesse un casamento a più piani, la porzione sovrastante dello stesso (cfr. E. Lo Cascio, La popolazione, in Roma imperiale, cit., 23 ss.; Id., Le procedure di recensus dalla tarda Repubblica al tardoantico ed il calcolo della popolazione di Roma, in Le Rome impériale: démographie et logistique, Roma, 1997, 58 ss. e A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 199, questo è quanto risulterebbe, secondo questi studi, dall’attenta analisi quantitativa delle insulae censite in alcune regioni, come l’VIII, quella del foro, dove il dato: 3480 insulae, in quanto zona per lo più sgombra da edifici privati, può essere veritiero solo se il termine indichi unità catastali terranee suscettibili di edificazione e non casamenti abitativi, cfr. A. Nordh, Libellus, 86, l. 5). Se, da un lato, tuttavia, questa nuova consapevolezza ha reso indubbiamente più complicata la corretta quantificazione numerica dei casamenti popolari romani e l’individuazione di una sicura proporzione tra la diffusione del modello della domus e quello dell’insula (per quanto ci interessa, in ogni caso, le circa 46.000 unità proprietarie minime censite nell’Urbs, a fronte del numero esiguo di 2.000 domus, danno, per grandi linee, l’idea di questo rapporto fortemente sbilanciato a vantaggio della forma del caseggiato multi-piano), dall’altro non incide significativamente sul proseguo di questa indagine, e basterà ai nostri fini convenire con questi Autori, che l’insula non sia, o almeno non prevalentemente nei primi secoli dell’impero, un caseggiato circondato da viabilità pubblica, ma quella parte di casamento multipiano che insiste, anche in adiacenza con altre, sulla porzione minima di proprietà individuata dai Regionari. Sugli altri significati spaziali del termine insula, rimando al recente contributo di F. Procchi, ‘Insulae’ e ‘loca publico usui destinata’. Considerazioni a margine dell’interdetto ‘ne quid in loco publico fiat’, in I beni, II, cit., 538 ss. 44  Tra gli altri, basti il rimando a J. Carcopino, La vita, cit., 33; L. Homo, Roma, cit., 429 ss.; O. Robinson, Ancient Rome, cit., 33 ss. e A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 182 s.

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alle esigenze e alla classe sociale dei suoi abitanti 45. I piani più bassi erano quelli più accoglienti: in particolare, quando non occupato da esercizi commerciali 46, poteva essere considerevolmente lussuoso il piano terra, più si saliva, invece, più le componenti fittili dovevano essere leggere, di conseguenza, deperibili 47 e via via più esigui gli spazi riservati ai singoli appartamenti 48. Sulla rapidità di costruzione e la scarsa qualità dei materiali adoperati, cfr. P. Garnsey, L’investimento, cit., 149 ss. e L. Homo, Roma, cit., 440-442; già G. Salvioli, Il capitalismo, cit., 58, metteva in evidenza come le insulae recassero al loro interno alloggi per tutte le tasche, sul punto si soffermava anche J. Carcopino, La vita, cit., 36 s. e, da ultima, ancora si veda A.L. Boozer, voce Apartment, cit., 515 s. 46  Cfr. sul punto P.J. Du Plessis, Urban landlords, cit., 637; A.L. Boozer, voce Apartment, cit., 515 e B.W. Frier, The Rental Market, cit., 30, il quale, con riguardo alla possibilità di trarre lucro dall’affitto di tabernae connesse al casamento abitativo, evidenzia la ricorrenza e la tipicità di quello che definisce un «commercial leases associated with shop-dwellings». In prima persona già mi sono intrattenuto sul fenomeno in un recente contributo, A. Grillone, La gestione privata dei balnea al tramonto dell’era repubblicana e nei primi secoli dell’impero, in BIDR, 112, 2018, 177 ss., dove, dopo aver osservato l’interessante testimonianza senecana di Ad Luc. 56, 1-2: …Peream, si est tam necessarium quam videtur silentium in studia seposito. Ecce undique me varius clamor circumsonat: supra ipsum balneum habito. Propone nunc tibi omnia genera vocum, quae in odium possunt aures adducere: cum fortiores exercentur et manus plumbo graves iactant, cum aut laborant aut laborantem imitantur, gemitus audio, quotiens retentum spiritum remiserunt, sibilos et acerbissimas respirationes; cum in aliquem inertem et hac plebeia unctione contentum incidi, audio crepitum illisae manus umeris, quae prout plana pervenit aut concava, ita sonum mutat… Praeter istos, quorum, si nihil aliud, rectae voces sunt, alipilum cogita tenuem et stridulam vocem quo sit notabilior subinde exprimentem nec umquam tacentem, nisi dum vellit alas et alium pro se clamare cogit; iam biberari varias exclamationes et botularium et crustularium et omnes popinarum institores mercem sua quadam et insignita modulatione vendentis, in cui il filosofo illustrava i disagi dell’abitare in un casamento al cui pianterreno fosse situato un balneum con locande e spacci commerciali annessi, ho diffusamente analizzato la struttura dei Praedia di Iulia Felix, che, per mezzo dell’avviso di locazione contenuto in CIL IV 1136 [In praedi(i)s Iuliae Sp(uri) f(iliae) Felicis / locantur / balneum Venerium et nongentum tabernae pergulae / cenacula ex Idibus Aug(ustis) primis in Aug(ustas) sextas annos continuos quinque / S() Q() D() L() E() N() C()], la proprietaria offriva in conduzione, i quali si caratterizzavano per la coesistenza al loro interno di locali funzionali allo scopo abitativo e spazi destinati all’esercizio di attività commerciali, entrambi menzionati nell’annuncio. Pure conferma questa tendenza la straordinaria testimonianza dell’epigrafe CIL IV 138, su cui cfr. infra Cap. I, §. 2 e M. Beard, Prima del fuoco, cit., 132, dove anche vengono offerti al pubblico alcuni locali commerciali terranei. Questi casamenti al piano terra si aprivano sulla strada in una varietà di botteghe, aggettanti, coperte da pergolato e poveramente ammobiliate, sovente fornite di un piccolo ambiente interno, un mezzanino o un retrobottega, in cui la famiglia e gli inservienti della taberna instructa si riparavano nelle ore notturne (in base all’opinione di P. Gros-M. Torelli, Storia dell’urbanistica. Il mondo romano3, Roma-Bari, 1994, 205, era il caso di molte strutture immobiliari di epoca imperiale nell’area del portico di Livia sull’Esquilino). 47  L. Homo, Roma, cit., 440-442; E. De Albentiis, La casa, cit., 117 ss. e A. WallaceHadrill, Case, cit., 182. 48  Non era infrequente che il pianterreno accogliesse la comoda dimora del proprietario, 45 

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Roghi e cedimenti erano all’ordine del giorno 49. E tuttavia, la necessità di far fronte a una sempre più imponente domanda di abitazioni incentivò la costruzione di edifici che si sviluppassero in senso verticale; già la Roma di Cicerone è definita polemicamente da questo Autore come “sospesa in aria” (Romam cenaculis sublatam atque suspensam), quella di Augusto, sotto il quale i cittadini romani erano diventati più di 600.000 e si presume che altrettanti fossero legionari, forestieri e servi, si dovette innalzare ancor più 50, tanto che il principe, preoccupato dai continui crolli, dovette porre un limite di 70 piedi (21 metri ca.) all’altezza degli edifici 51. Le insulae sotto il principato arrivarono a superare, non solo a Roma, ma anche in provincia, i venti metri e i quattro piani 52 e, se, da un lato, certamente, i nuovi casamenti ostiensi e quelli della Roma di Nerone potevano contare su materiali da costruzione più resistenti e meno infiammabili rispetto al passato 53, dall’altro, il problema dei crolli e degli incendi non doveva essere una sorta di domus incassata nell’insula, più si saliva, più i caenacula diventavano umili, anche quelli maggiormente gradevoli, divisi in vari ambienti, in ogni caso, non presentavano, differentemente dalle domus, alcuna distinzione funzionale dei locali interni. Gli appartamenti degli ultimi piani, addirittura, nella quasi totalità dei casi, consistevano di un unico spazio. Nonostante ciò, non era infrequente che all’interno della medesima unità abitativa convivessero più nuclei familiari in virtù di un complesso intreccio di rapporti di locazione, utile a dividere il peso di canoni di affitto spesso insostenibili per inquilini appartenenti al ceto proletario (J. Carcopino, La vita, cit., 34 ss.). 49  G. Salvioli, Il capitalismo, cit., 58; L. Homo, Roma, cit., 441 s.; P. Garnsey, L’investimento, cit., 155 ss. e, da ultimo, P. Zanker, La città Romana, Roma-Bari, 2013, 42. 50  J. Carcopino, La vita, cit., 27 ss., ma più dettagliatamente sulle corrette modalità di calcolo, si veda E. Lo Cascio, La popolazione, cit., 38 ss. 51  Strabo., De geogr. 5.3.7; per una visione più dettagliata sulla disciplina vincolistica: J. Carcopino, La vita, cit., 34; L. Homo, Roma, cit., 439; O. Robinson, Ancient Rome, cit., 35; G. Antonelli, Crasso. Il banchiere di Roma, Milano, 2000, 77; A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 202 e G. Kron, The population of northern Italy and the debate over the augustan census figures: weighing the documentary, literary and archaeological evidence, in Popolazione e risorse nell’Italia del nord dalla romanizzazione ai Longobardi, a cura di E. Lo Cascio-M. Maiuro, Santo Spirito, 2017, 79 nt. 165. 52  Philostr., Imag. 1.1; App., VIII, 128.610; Diod. Sic. 14.51.1; su cui G. Kron, The population, cit., 79 s. 53  Si era trattato, per lo più, cfr. Vitr., 2.8.17, fino agli albori dell’età imperiale, di edifici composti di mattoni essicati, calcestruzzo, travi lignee e canniccio; in proposito si vedano: P. Garnsey, L’investimento, cit., 156; B.W. Frier, Landlords, cit., 22 e A. WallaceHadrill, Case, cit., 180 ss.; sulle caratteristiche che rendevano le insulae ostiensi un tipo d’investimento, da questo punto di vista, profittevole e relativamente sicuro: J.E. Packer, The ‘Insulae’ of Imperial Ostia, London, 1971, passim; in età imperiale, in ogni caso, anche a Roma, a seguito dei massicci interventi regolativi di Nerone e i suoi successori, nei piani più bassi le insulae venivano erette alternando rocce, mattoni e brecciame, mentre in quelli più alti pietre da taglio, sassi leggeri ed intelaiature in legno (L. Homo, Roma, cit., 440 s.).

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risolto, se la legislazione senatoria e imperiale, per lo più vanamente, continuò a prescrivere nuovi e più stringenti limiti all’altezza degli edifici 54. Come ancora diremo in seguito 55, proprio questa stessa precarietà, oltreché la necessità di rispondere alle accresciute esigenze allocative derivanti dal costante inurbamento, nonché i limiti di una società dalle pur sempre ridotte abilità tecniche, che facevano lievitare i costi di rifornimento, trasporto e prima lavorazione dei materiali da costruzione, attirò l’attenzione di molti di coloro che, disponendo di ingenti capitali, potevano profittare delle altrui sciagure, comprare a basso prezzo edifici in rovina e utilizzarli come vere e proprie cave di componenti fittili. Speculazione selvaggia, questa, grandemente favorita dalla politica imperiale di Augusto e dei suoi successori, che, assorbendo ingenti quantità di risorse nell’edificazione pubblica, ne avevano reso drasticamente carente il settore privato 56. L’incredibile fermento della vita cittadina attirava genti da ogni parte del Mediterraneo; il Romano, del resto, viaggiava per lavoro, per stringere In particolare, il senato di Nerone si vide costretto a ribadire i divieti pochi decenni prima enunciati da Augusto e l’imperatore Traiano rese addirittura più stringente il precedente limite, portando l’altezza massima degli edifici a 18 metri (cfr. J. Carcopino, La vita, cit., 34; L. Homo, Roma, cit., 439; P. Gros-M. Torelli, Storia, cit., 202 s.; O. Robinson, Ancient Rome, cit., 35 s. e G. Kron, The population, cit., 79 nt. 165, a proposito di Tac., Ann. 15.43 e Ps. Aur. Vict. 13.13). Si può pensare tuttavia che questi divieti non fossero realmente applicati, che fossero rimasti lettera morta o che scontassero il peso di ampie deroghe, dal momento che, in età severiana, abbiamo testimonianza (Tertull., Adv. Val. 7) dell’esistenza di una sorta di grattacielo di 7-8 piani e di più di 22 metri, l’insula Felicles, esempio mostruoso di un’edilizia sempre più ardita, che, privilegiando grandiosità e profitto, non teneva in alcun conto i pericoli a cui sottoponeva gli habitatores di simili sproporzionate costruzioni (e anche su questo edificio, cfr. voce Insula Felicles, in LTUR, III, 97). Già nei primi secoli dell’impero, il coordinamento dei Cataloghi Regionari con altre fonti imporrebbe di credere, anche se per le ragioni sovraesposte (cfr. supra nt. 43) il dato è oggi discusso in dottrina (A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 199), che la maggior parte delle insulae romane raggiungessero i cinque piani, gravanti su di una superficie di base piuttosto esigua, variabile tra i 200 e i 400 m2, strutture, che, inoltre, da Augusto in poi dovettero reggersi su muri spessi al massimo mezzo metro (J. Carcopino, Ibidem, 41).. 55  Si veda infra §. 3 e Cap. III, §§. 1 e 3. 56  Cfr. recentemente, P. Zanker, La città, cit., 42; ma anche A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 202 e E. Gabba, Considerazioni, cit., 111, secondo i quali sia Crasso (Plut., Crass. 2.5-6), sia Cicerone (De off. 2.23.83) erano, in misure diverse, dediti a questo genere di speculazioni. Identiche le considerazioni di L. Homo, Roma, cit., 455, che trae questa convinzione da un passo di Strabone (De geogr. 5.3.7): «alcuni capitalisti» comperavano edifici, talvolta bruciati, altre volte anche parzialmente crollati, li ricostruivano a modo loro, come più gli dava lucro, oppure, quando ne fosse troppo compromessa la statica, vendevano separatamente il suolo e il materiale fittile di recupero. Sulle esigenze contingenti del mercato edile romano tra I secolo a.C. e I d.C., cfr. M. Sargenti, Due senatoconsulti. Politica edilizia nel primo secolo dell’impero e tecnica normativa, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, 5, Milano, 1984, 644 s. 54 

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relazioni commerciali o semplicemente sociali, talvolta intessere rapporti politici, non disdegnava la cultura e i viaggi di piacere; questa fitta rete di scambi e di legami interpersonali, che da Roma portavano al mondo ellenico, alle provincie d’Africa e d’Asia e in direzione opposta, fu linfa vitale per lo sviluppo del settore alberghiero 57. Assai variegata divenne ben presto la domanda del pubblico: v’era chi, soprattutto nelle località costiere o nelle amene piane rurali, nutriva il desiderio di riposare lontano dagli affanni della vita politica cittadina, chi voleva pernottare in prossimità delle grandi vie commerciali per poi proseguire il viaggio il mattino seguente, chi si intratteneva in città per ragioni commerciali o politiche. L’offerta di strutture ricettive provvide a soddisfare queste esigenze. Limitandoci al panorama degli alloggi urbani, si diffusero le seguenti tipologie 58 di tabernae deversoriae 59: 57  Rimando qui a F. Guidi, Vacanze romane. Tempo libero e vita quotidiana nell’antica Roma, Milano, 2015, passim, per un vivace affresco delle abitudini di viaggio e di vita lontano da casa dei Romani. 58  La classificazione riprende, incentrandola sulle forme di ricezione tipicamente urbane, quella contenuta in P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 460 s. Deversoria devono intendersi anche gli stabula, essendo essi una categoria trasversale rispetto alle diverse species di strutture ricettive. Si denominano stabula, infatti, gli alberghi che possano prestare un servizio di cambio dei cavalli o, anche più semplicemente, che siano dotati di una stalla: sul punto, più ampiamente cfr. l’opinione di A. Földi, Caupones, cit., 127 ss. e quella di F. Serrao, Impresa, cit., 148 ss. 59  Il termine deversorium (Petr., Sat. 95 e 81 s.; Cic., Ad fam. 6.19 e 7.23; Hor., Epist. 1.15.10; Liv. 45.22.2 e Apul., Met. VIII, 29), equivalente, del resto, alla locuzione taberna deversoria (Pl., Men. 436 e Truc. 696; Varr., De re rust. 1.2.23 e Svet., De vita Caes. (Nero), 27.3), in latino indica un locus in quem non habitandi, sed ad tempus commorandi devertimus (cfr. E. Forcellini, voce Deversorium, in LTL, II, 682, ma pure la stessa voce in TLL, V, 851 s.), gestito a scopo di lucro, come risulta da Seneca, De benef. 1.14.1: …nemo se stabularii aut cauponis hospitem iudicat…, ove si pone in luce come nessuno si sia mai ritenuto ospite di uno stabularius o di un albergatore (sul punto, P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 453 nt. 5), ed attrezzato per la prestazione professionale di servizi ai viaggiatori (cfr. Ibidem, 453 s.). È quanto, dopotutto, mi pare risulti anche da Paul. 4 ad Sab. D. 33.7.13 pr., da cui emerge come l’instrumentum aziendale dell’albergo sia necessariamente da annoverare tra le dotazioni per loro natura rivolte all’esercizio di un’attività economica organizzata a scopo di lucro, c.d. negotiatio (si vedano, sul punto, le opinioni recentemente espresse da M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 1 ss. e da A.M. Giomaro, Dall’instruere all’instrumentum e viceversa nell’economia della Roma antica, in Studi urbinati di scienze giuridiche, politiche ed economiche. Nuova serie A, 62, 1-2, 2011, 107 s., nt. 8). Numerose le variazioni lessicali atte ad indicare le strutture alberghiere: nelle fonti letterarie ha una certa ricorrenza, a partire dal II secolo a.C., taberna meritoria nel designare un ostello per viaggiatori (Val. Max. I, 7 ext. 10), per lo più, di umili costumi (cfr. Hor., Carm. 1.4.13). Meritoria, anche come parola a sé stante, indica uno sfruttamento economico dell’immobile alternativo a quello rappresentato dalla locazione “stabile” dei cenacoli: la gestione di una pensione in Ulp. 18 ad Sab. D. 7.1.13.8 e in Ulp. 31 ad ed. D. 17.2.52.15 la locazione di stanze d’albergo. Il

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– deversoria attrezzati per pernottamento e ristorazione: su cui Cic., De inv. 2.4.14-15 (cum in eandem tabernam devertissent, simul cenare et in eodem loco somnum capere voluerunt), che fa esplicito riferimento a due viaggiatori i quali decidono di fermarsi in una taberna al fine di cenare e pernottarvi, e, dal tenore complessivo del brano, anche Petr., Sat. 81 (veritus ne Meleanus… solum me in deversorio inveniret) – 82 (retro ad deversorium tendo) – 95 (su cui diffusamente infra Cap. I, §. 2) 60; – deversoria diurni, dove passare qualche ora della giornata (cfr. Cic., Ad Att. 11.5.2 61); termine hospitium in Sat. 91, da un punto di vista architettonico, allude alla singola stanza e non all’intero edificio, tuttavia, in Plinio e Apuleio (Ep. 6.19.4 e Met. I, 7) la parola è usata per indicare l’albergo, mentre in Giovenale, Sat. III, 166 (magno hospitium miserabile) e Sat. VII, 70 (nam si Vergilio puer et tolerabile desset hospitium), designa un singolo povero alloggio. Nei passi giurisprudenziali il termine sembra divergere nettamente dal concetto di deversorium, designando quest’ultimo, al pari di meritoria, un locale gestito a fini di lucro e l’altro uno spazio dato a titolo gratuito (D. 3.2.4.2.; D. 7.1.13.8; D. 17.2.52.15): sul punto è pure illuminante Val. Max. I, 7 ext. 10, allorquando distingue il destino di due compagni di viaggio che, arrivati a Megara, trovano alloggio, l’uno a casa di un ospite (alter se ad hospitem contulit), l’altro in albergo (alter in tabernam meritoriam devertit); cfr. P. Cerami, Ibidem, 453. Il termine edittale per individuare gli alberghi, le pensioni e gli ostelli è cauponae, in ogni caso, comunque, ancora Paul. Sent. 2.31.16 li equipara a meritoria, stabula e deversoria per quanto concerne la comune spettanza ai loro clienti dell’actio furti in factum avverso gli esercenti; equiparazione che, nondimeno, si deve considerare riferita alla totalità degli appellativi di cui sopra si è detto e a tutti gli altri ambiti della relativa disciplina: «quaecumque in caupona vel in meritorio stabulo deversorioque perierint, in exercitores eorum furti actio competit». 60  Un mirabile esempio di una tale tipologia di edifici è quello dell’Insula delle Volte Dipinte ad Ostia. Le molte peculiarità di questo casamento hanno portato gli archeologi a ritenere che si trattasse di una caupona. La distribuzione dei vani, di dimensioni piuttosto ridotte, il fatto che tutte le soglie dei caenaculi, oggi aperti sul corridoio principale, rechino il segno del cardine della porta e, pertanto, dovessero essere individualmente chiuse, l’esistenza di una cucina, di una mescita e di un lavatoio, il verosimile legame con la stalla della vicina Insula Trapezoidale, fanno pensare all’esercizio di un’attività ricettiva piuttosto articolata, con alloggi e servizi differenziati e destinati ad utenti di varia consistenza economica; cfr. C. Pavolini, La vita quotidiana a Ostia, Roma-Bari, 2006, 233-236. 61  Quod scribis placere ut propius accedam iterque per oppida noctu faciam, non sane video quem ad modum id fieri possit. Neque enim ita apta habeo deversoria ut tota tempora diurna in iis possim consumere neque ad id quod quaeris multum interest utrum me homines in oppido videant an in via. Sed tamen hoc ipsum sicut alia considerabo quem ad modum commodissime fieri posse videatur; in cui Cicerone lamenta l’impraticabilità della soluzione proposta dall’amico Attico: spostarsi di notte verso la Città, prevede comunque la necessità di nascondersi in alberghi lungo il cammino durante le ore diurne. Ciò comporta in ogni caso un rischio, dato che non farebbe alcuna differenza, in rapporto alla sua posizione di reietto, l’essere riconosciuto, nell’atto di questo periglioso viaggio, in tali luoghi, oppure sulla pubblica via. Sull’interpretazione di questa lettera, qui rinvio a P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 461.

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– deversoria ricavati nell’interno di una domus o di un casamento con cortile per garantire una ricezione di tipo familiare, rivolta a clienti benestanti: cui si riferisce un testo giuridico, Ulp. 18 ad Sab. D. 7.1.13.8 62, ed a cui sembrerebbero potersi ricondurre l’Hospitium Sittii di Pompei 63, una porzione della Casa di Diana e la Caupona del Pavone ad Ostia 64; – deversoria connessi ad attività alberghiere, ma specificamente rivolti allo sfruttamento della prostituzione 65; 62  Item si domus usus fructus legatus sit, meritoria illic facere fructuarius non debet nec per cenacula dividere domum: atquin locare potest, sed oportebit quasi domum locare. Nec balineum ibi faciendum est. Quod autem dicit meritoria non facturum, ita accipe quae volgo deversoria vel fullonica appellant. Ego quidem, et si balineum sit in domo usibus dominicis solitum vacare in intima parte domus vel inter diaetas amoenas, non recte nec ex boni viri arbitratu facturum, si id locare coeperit, ut publice lavet, non magis quam si domum ad stationem iumentorum locaverit, aut si stabulum quod erat domus iumentis et carruchis vacans, pistrino locaverit. Se sia legato l’usufrutto di una casa, l’usufruttuario non deve predisporre locali da affittare, né dividere la casa in appartamenti separati; può però darla in locazione, ma dovrà locare la casa come tale. Non potrà esservi allestito un bagno termale, pensioni o lavanderie. Neppure potrà dirsi che l’usufruttuario si sia comportato correttamente e alla stregua del giudizio di un uomo onesto, se comincerà a locare il bagno termale preesistente, deputato all’uso del padrone di casa, affinché venga usato pubblicamente per lavarsi, non più, almeno, che se darà in locazione la casa come stazione di cambio degli animali o se locherà a un mulino una stalla che era vuota dagli animali e carrozze della casa. Per quanto maggiormente ci interessa, quindi, quando di una domus venga legato l’usufrutto, essa non potrà essere adibita a scopi lucrativi, ma solo utilizzata per il godimento personale; non potrà essere adibita a pensione con servizio di stalla e cambio cavalli e neppure, se dotata di apparato termale, a bagno pubblico. 63  È sicuramente una struttura alberghiera ricavata in una porzione di una domus l’hospitium sito nel Vico del lupanare di Pompei, da cui proviene l’iscrizione CIL I 807; cfr. T. Kleberg, Hotels, restaurants et cabarets dans l’Antiquité romaine, Uppsala, 1957, 31 ss. 64  B.W. Frier, The Rental Market, cit., 31, ipotizza, sulla base della descrizione fattane da R. Meiggs, Roman Ostia2, Oxford, 1973, 249, una ripartizione funzionale delle stanze della Casa di Diana, di cui alcune sarebbero state adibite all’attività di ricezione alberghiera di un pubblico di utenti di condizione umile ed altre date più o meno stabilmente in locazione a nuclei familiari benestanti. Nel sito ostiense il Caseggiato di Diana e quello del Pavone sono ritenute pensioni, certamente in età tardoantica destinate ad un pubblico di livello sociale ed economico piuttosto elevato, cfr. in tema C. Pavolini, La vita, cit., 177 e 236. 65  Che, del resto, le attività fossero intimamente legate, tanto da non distinguersi gli esercenti dell’una e dell’altra, emerge da una serie considerevole di passi del Digesto, il più significativo dei quali è senza dubbio Ulp. 1 ad leg. Iul. et Pap. D. 23.2.43 pr.: Palam quaestum facere dicemus non tantum eam, quae in lupanario se prostituit, verum etiam si qua (ut adsolet) in taberna cauponia vel qua alia pudori suo non parcit. …9. Si qua cauponam exercens in ea corpora quaestuaria habeat (ut multae adsolent sub praetextu instrumenti cauponii prostitutas mulieres habere), dicendum hanc quoque lenae appellatione contineri. In questi due paragrafi, escerpiti dal primo libro del commento ulpianeo alla lex Iulia et Papia Poppaea, il giurista esordisce definendo, ai fini dell’applicazione della suddetta legge, la prostituta come colei che vende il proprio corpo in una casa di tolleranza o, indifferentemente (come solitamente accade!), in un albergo o in un luogo diverso, inoltre, sottolinea

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– deversoria ibridi, che potevano contemporaneamente assolvere a più di una delle sopra enumerate funzioni. Nel corso del I secolo a.C., si può con buona approssimazione affermare che il centro degli interessi economici romani si fosse spostato dalla campagna, unica fonte di ricchezza per la società agricolo-patriarcale dei primi decenni repubblicani, agli opulenti mercati dei principali nuclei urbani e portuali della penisola 66. Di conseguenza, il crescente quantitativo di merci affluente a Roma e nei più floridi approdi dello Stivale impose la costruzione di numerose strutture immobiliari deputate allo stoccaggio 67. Dopotutto, ogni civiltà, giunta all’apice del proprio sviluppo economico, abbisogna di vasti complessi di immagazzinamento ove le merci possano essere conservate tra una tappa e l’altra del ciclo: produzione, trasporto, commercializzazione e consumo 68. il giurista, sarà mezzana la donna che gestisce l’albergo nel quale si trovino delle prostitute, perché troppe volte si assiste alla circostanza che i gestori tengano delle prostitute nelle locande e negli alberghi con la scusa che queste facciano parte dell’instrumentum cauponium. Gli stessi argomenti sono riprodotti in Ulp. 6 ad ed. D. 3.2.4.2: Ait praetor: “qui lenocinium fecerit”. Lenocinium facit qui quaestuaria mancipia habuerit: sed et qui in liberis hunc quaestum exercet, in eadem causa est. Sive autem principaliter hoc negotium gerat sive alterius negotiationis accessione utatur (ut puta si caupo fuit vel stabularius et mancipia talia habuit ministrantia et occasione ministerii quaestum facientia: sive balneator fuerit, velut in quibusdam provinciis fit, in balineis ad custodienda vestimenta conducta habens mancipia hoc genus observatia in officina), lenocinii poena tenebitur. Lenone è colui che organizza ed esercita l’attività di sfruttamento dei corpi come oggetto unico ed esclusivo del proprio profitto o in connessione con forme varie di gestione immobiliare: la conduzione di un albergo, di una locanda oppure quella di una stazione termale. Più in generale, sul tema si rimanda a R. Flemming, Quae Corpore Quaestum Facit: The Sexual Economy of Female Prostitution in the Roman Empire, in JRS, 89, 1999, 38-61; T.A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality, and the Law in Ancient Rome, Michigan University, 1998, 53 ss. e 127 s.; Id., The Economy of Prostitution in the Roman World: A Study of Social History and the Brothel, Michigan University, 2004; P.G. Guzzo-V. Scarano Ussani, Ex corpore lucrum facere. La prostituzione nell’antica Pompei, Roma, 2009, 9-23 e, da ultima, a M.F. Merotto, Il corpo mercificato. Per una rilettura del meretricium nel diritto romano, in Il corpo in Roma antica. Ricerche giuridiche, II, a cura di L. Garofalo, Pisa, 2017, 254 ss. 66  Cfr. P. Bonfante, Storia, cit., 116 ss.; F. De Martino, Storia, I, cit., 59 ss. e 125 ss. ed E. Gabba, Ricchezza, cit., 27 ss. 67  M. Bianchini, Attività commerciali fra privato e pubblico in età imperiale, in Fides Humanitas Ius. Studii in onore di Luigi Labruna, a cura di C. Cascione-C. Masi Doria, Napoli, 2007, I, 428 ss. e, più in dettaglio, C. Virlouvet, Introduzione, in “Ricerche in corso sui Magazzini Romani. Roma – Ostia – Portus” (Atti del convegno Roma, 13-15 aprile 2011), http://www.entrepots-anr.efa.gr/sitefiles/files/Virlouvet%20-%20Introduction%20 -%20Texte.pdf. e Ead., Bâtiments de stockage et circuits économiques du monde romain, in Entrepôts et circuits de distribution en Méditerranée antique, a cura di V. Chankowski-X. Lafon-C. Virlouvet, Athènes, 2018, 44 ss. 68  Grandi magazzini sorsero nell’antica Mesopotamia: essi associavano alla funzione di

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Nel mondo economico romano il magazzino, horreum, è presenza costante e risalente; fino alla lex Sempronia frumentaria è tuttavia diffusa l’opinione 69 che dovesse trattarsi precipuamente di edifici di proprietà privata �� . Potecustodia di beni privati, quella pubblica di approvvigionamento delle città che li ospitavano (cfr. in tema M. Liverani, Antico Oriente: storia, società, economia, Roma-Bari, 2009, 71 s., 97 e 108 ss.; le prime notizie di simili strutture sono databili intorno al 6300 a.C. – datazione relativa – e, ancora, tra il 3500 e il 3200 a.C., negli agglomerati urbani della bassa Mesopotamia i magazzini ricoprivano una funzione in senso lato pubblicistica; solo con la più spiccata privatizzazione dell’economia sotto gli Assiri, e sul punto rimando qui a M. Cian, Le antiche leggi del commercio. Produzione, scambi, regole, Bologna, 2016, 39 ss. e 60, si assistette alla progressiva diffusione in tutta la regione di un’edilizia privata deputata allo stoccaggio). Di simili strutture conservano, poi, il ricordo fonti letterarie greche, che li designano col termine ϑησαυροί; un’idea di queste strutture la possiamo avere dalle forme dei magazzini rinvenuti nei palazzi minoici di Creta: a Cnosso, a Festo, ad Hagia Triáda. L’architettura era, nelle sue linee essenziali, quella che sarà tipica dei magazzini romani, l’uso mutevole in relazione alla collocazione geografica e all’estensione: poteva essere legato all’approvvigionamento dei più vicini agglomerati urbani o all’accantonamento delle riserve alimentari degli immensi palazzi reali, ma pure, in posizioni strategiche vicino alla costa e nel cuore delle rotte commerciali, di conservazione delle merci private provenienti dai traffici transmarini (cfr. M. Perna, Scrittura ed amministrazione dei beni palazziali a Creta in epoca minoica, in Bollettino dell’Associazione archeologica ticinese, VII, 1995, 23 ss.; per quest’epoca, l’intimo legame tra le capacità dei complessi di stoccaggio palazziali e le esigenze di approvvigionamento privato, sono messe in evidenza, tra gli altri, da E. Borgna, La civiltà minoica, in Storia d’Europa e del Mediterraneo. Il mondo antico, I, a cura di S. De Martino, Roma, 2006, 132 ss.). La loro funzione di deposito delle scorte di grano da distrubuire a cura di commissari specializzati tra i cittadini sarà centrale in ogni fase dell’esperienza greca e, addirittura, si rafforzerà in epoca ellenistica. Ma oggi, alcune iscrizioni provenienti dal sito di Délos consentono di rivalutare l’ipotesi che, in località particolarmente favorevoli per il commercio, la gestione dei magazzini fosse divenuta un’attività esercitata professionalmente, se è vero che questa categoria professionale è menzionata al fianco degli armatori e dei commercianti, con i quali risultava essersi associata per la costruzione degli edifici utili al funzionamento del complesso circuito mercantile che le tre attività condividevano (e in tema cfr. il recentissimo contributo di V. Chankowski, Stockage et distribution: un enjeu dans les circuits économiques du monde grec, in Entrepôts, cit., 17 ss. e 29 ss.). 69  Cfr. voce Horrea Sempronia, in LTUR, III, 47 e, da ultima, C. Virlouvet, Bâtiments, cit., 46. In proposito, la definizione di Fest., 370 L: Sempronia horrea, qui locus dicitur, in eo fuerunt lege Gracchi ad custodiam frumenti publici, associata all’iscrizione, conservata in CIL XIV 4190, che menziona gli horrea Sempronia del nemus di Diana a Nemi e all’impossibilità archeologica di collocare topograficamente, nella pianta dell’Urbe, un magazzino così denominato, ha suffragato l’ipotesi che horrea Sempronia debbano essere intese tutte le strutture di stoccaggio pubbliche deputate all’immagazzinamento del grano destinato all’elargizione popolare (J. Scheid, Les horrea Sempronia du Nemus Aricinum, in CRAI, s.n., 1980, 287 ss.). La circostanza, poi, che non siano rinvenibili testimonianze certe di horrea publica edificati precedentemente all’epoca graccana (si potrebbe forse risalire al 193 a.C., con la costruzione del Porticus Aemilia da parte degli edili M. Emilio Lepido e L. Emilio Paolo, secondo l’opinione di A. Carapellucci, Gli Horrea, cit., 20 e 22), è pacificamente interpretata dalla dottrina nel senso di ritenere gli horrea Sempronia il primo esempio di horrea publica nella storia repubblicana (cfr. A. Aguilera Martín, El monte Testaccio y la llanura subaventina.

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vano distinguersene, in buona sostanza, due categorie: horreum rusticum, per riporvi prodotti della terra e strumenti agricoli, esclusi dalla nostra indagine, e horrea, per lo più siti in territorio cittadino o presso porti, scali e vie commerciali, che venivano presi in conduzione dai privati per il deposito delle proprie merci 70. Dalla legislazione graccana in poi, anche se rari sono gli esempi di epoca repubblicana 71, cominciarono ad essere costruiti horrea publica vel fiscalia per l’approvvigionamento cittadino; di proprietà statale e poi, in seguito, imperiale, potevano conservare ingenti quantità di frumento e altre derrate funzionali al sopperimento delle esigenze alimentari degli eserciti e tali da costituire riserva pressochè inesauribile per le sempre più frequenti elargizioni di grano al popolo 72. In ogni caso, recenti studi storici ed archeologici hanno messo in luce come non esista, in base alla loro appartenenza, una netta contrapposizione tra i due tipi di horrea; i magazzini pubblici sono identici, per dimensione, struttura e gestione, a quelli privati 73. Molti di essi, costruiti in epoca Topografía extra portam Trigeminam, Roma, 2002, 85). In altri termini, quello che Plutarco, C. Grac. 6.2, riferisce al minore dei Gracchi sarebbe il primo provvedimento, attestato dalle fonti, volto alla costruzione a spese pubbliche di horrea (sulla sua riferibilità al complesso normativo della lex frumentaria, si veda G. Rotondi, Leges publicae populi Romani. Elenco cronologico con un’introduzione sull’attività legislativa dei comizi romani, Milano, 1912, 311 s.). 70  Dalla comparazione contenuta in Cic., De fin. 2.84 emerge come questa attività fosse presa ad exemplum tra le più profittevoli nel panorama economico romano. Sulla distinzione funzionale tra horrea rustica e urbani, forse di epoca ulpianea, forse frutto, invece, di un dibattito più risalente, qui mi si consenta il rinvio a quanto ho sostenuto in A. Grillone, Le guarentigie reali del locatore di ‘praedia urbana’ nei primi secoli dell’impero, in Arch. giur., 3, 2018, 567 nt. 30; in questa sede, infatti, essa diviene per lo più irrilevante nella misura in cui risulta superata dalla pregnanza del dato spaziale, che esclude dal nostro campo di indagine ogni immobile sito su terreno agreste. 71  Cfr. C. Virlouvet, Bâtiments, cit., 46 e A. Aguilera Martín, El monte, cit., 85 ss.; per la datazione e la paternità dei singoli edifici, cfr. le voci correlate ai singoli complessi in LTUR, III, 37 ss., ma anche S. Ball Platner-T. Ashby, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford, 1929, 260 ss. 72  Riguardo alla progressiva edificazione di strutture pubbliche rivolte allo stoccaggio di beni, cfr. J. France, Les personnels et la gestion des entrepôts impériaux, in REA, 2, 2008, 492 e A. Carapellucci, Gli Horrea, cit., 21 s., sull’origine dei grandi complessi horrearii pubblici in connessione alle nuove esigenze dell’approvigionamento cittadino e della distribuzione di grano al popolo, cfr. C. Soraci, Dalle ‘frumentationes’ alle distribuzioni di pane. Riflessioni su una riforma di Aureliano, in Quaderni catanesi di studi antichi e medievali, 2006, 345 ss., e, in precedenza, G.E. Rickman, The Corn Supply of ancient Rome, Oxford, 1980, 139-141, 185 s. e 192, per il quale, del resto, proprio negli stessi horrea si sarebbe materialmente compiuta l’elargizione; per l’epoca tardo-antica, che solo marginalmente interessa questo studio, D. Vera, Gli horrea frumentari dell’Italia tardoantica: tipi, funzione, personale, in MEFRA, 120, 2, 2008, 323 ss. 73  Così C. Virlouvet, Bâtiments, cit., 49 s. ed Ead., Introduzione, cit., 4; contra la pre-

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repubblicana e nei primi due secoli dell’impero da privati 74, passano in mano imperiale tra II e III secolo d.C., quando comincia a ristagnare la, prima fiorente, economia cittadina 75. L’annona, tuttavia, non ne acquisterà mai il completo monopolio e, anche durante l’impero, gestori privati continueranno a colmare, mercè la locazione di proprie strutture, le esigenze dei grandi mercanti siccome quelle del fisco stesso. Prescindendo dalla loro specifica destinazione, alcuni tratti architettonici comuni caratterizzavano i diversi fenotipi di immobili deputati allo stoccaggio. L’horreum si presentava infatti come un’imponente struttura cementizia, cedente impostazione di P. Erdkamp, The Grain Market in the Roman Empire. A social, political and economic study, Cambridge, 2005, il quale teorizzava una rigida ripartizione su base dimensionale: la costruzione e la gestione dei più grandi complessi di stoccaggio, infatti, secondo questo Autore non sarebbe stata sostenibile dai privati in termini di costi. L’affermazione, che la Virlouvet apertamente contesta, sottovaluta, all’evidenza, gli enormi guadagni, che, già in epoca repubblicana e poi ancora sotto l’impero, l’amministrazione di questi immobili comportava. Sulle modalità di gestione dei magazzini annonari si veda pure J. France, Les personnels, cit., 491; pur dubbioso sulla esatta corrispondenza tra i modelli organizzativi e manageriali adottati dai privati e quelli adoperati dall’annona, l’Autore ammette che i due sistemi abbiano come tratti caratteristici comuni: l’uso di dipendentipreposti e un’intelaiatura giuridica fondata sul dipanarsi di un complesso reticolo di contratti di locazione e sublocazione. 74  Per quanto riguarda l’Urbe erano gestiti originariamente da privati di certo i Seiana, i vicini horrea Galbana, gli Ummidiana sull’Aventino, quelli di Q. Tineio Sacerdote, di cui l’avviso di locazione fu rinvenuto presso la chiesa di S. Martino ai Monti, CIL VI 33860, molto probabilmente gli Aniciana, i Lolliana, presso il Tevere, e i Germaniciana et Agrippiana (quantomeno in una forma architettonica più risalente di quella così nomenclata), nell’VIII regione, sotto le pendici settentrionali del Palatino, fra questo e il vicus Tuscus (vedi le voci correlate alle singole denominazioni, in LTUR, III, 37 ss.). Tra quelli di Ostia: forse, gli horrea di Ortensio, sicuramente quelli a sud del decumano massimo di fronte al teatro, quelli, poi, che affacciano sul Cardine degli Aurighi, di varia datazione e incerto utilizzo, nonché i lussuosi horrea Epagathiana et Epaphroditiana. Di molti di essi è ormai comprovato il passaggio, in età imperiale, nelle mani del fisco. Sull’argomento si veda G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 15-76 (Ostia) e 87-122 (Roma); più di recente, relativamente ai magazzini dell’Urbe, R. Sebastiani, Inserimento topografico dei magazzini nell’ area urbana di Roma, in “Ricerche”, cit., http://www.entrepots-anr.efa.gr/sitefiles/files/ roma_042011/2.%20inserimento%20topografico%20dei%20magazzini/Sebastiani%20 -%20inserimento%20topografico%20Roma%20-%20Texte.pdf., 8, e C. Virlouvet, Bâtiments, cit., 48, tab. I, mentre per un riscontro in negativo sul sito ostiense, enumera quelli sicuramente annonari, P. Olivanti, Magazzini, forni, mansio e termopolium, in L’alimentazione dell’Italia antica, consultabile on-line all’indirizzo: http://www.beniculturali.it/mibac/ multimedia/Mibac/minisiti/alimentazione/sezioni/etastorica/roma/articoli/magazzini.html. 75  Processo, questo, a dir il vero, già in corso nel I sec. d.C., sul punto, cfr. J. France, Les personnels, cit., 485 e C. Virlouvet, Introduzione, cit., 3; esemplare, tra gli altri, il caso degli horrea Galbana, costruiti dalla famiglia dei Sulpicii intorno al 108 a.C., diventeranno prima una res privata dell’imperatore Galba e poi, sotto i Flavi, a tutti gli effetti, magazzino pubblico (G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 5 e 166 ss.).

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più tardi con paramento laterizio, e angoli in blocchi di pietra squadrata, di dimensione variabile 76, su uno oppure due piani e recante una divisione interna in cellae, talvolta aperte, ma più di frequente singolarmente chiuse 77. Sovente la pianta prevedeva un camminamento centrale su cui affacciavano le singole stanze, un vano comune per la movimentazione delle merci e strutture varie di contenimento di più esigue dimensioni, armadi, forzieri o spazi di deposito aperti, detti intercolumnia 78; l’ingresso al corridoio, in ogni caso, era difeso da un massiccio portone, di cui il gestore dei magazzini conservava l’unica chiave, mentre quelle delle singole celle, in doppia copia, spettavano l’una all’utente, l’altra all’horrearius 79. In base alle più recenti ricerche archeologiche (cfr. C. Virlouvet, Introduzione, cit., 2 ed Ead., Bâtiments, cit., 47 s., sul sito di Hergla; E. Bukowiecki, I Magazzini Traianei a Portus: composizione architettonica delle celle di stoccaggio, in “Ricerche”, cit., http://www. entrepots-anr.efa.gr/sitefiles/files/roma_042011/3.%20architettura%20dello%20stoccaggio/Bukowiecki%20-%20Poster%20-%20Texte.pdf., sul sito di Testaccio, ma si veda poi anche G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 44, sui granai ostiensi) la pianta basale di un horreum privato frequentemente superava i 600 m2, ma poteva pure arrivare ai 4200 dell’horreum di Hergla in Tunisia; tra i complessi annonari, si annoverano strutture che raggiungono i 7200 m2 su due piani, come i “Grandi Horrea” di Ostia, e, tuttavia, durante il principato, con ogni probabilità, dovevano esistere edifici ancora più vasti, se si pensa che lo studio dei “Magazzini Traianei” di Portus sta portando alla luce l’esistenza di un complesso di stoccaggio di cui la sola superficie terranea raggiungerebbe i 12000 m2. 77  La cella era uno spazio di dimensione variabile. Influenzavano la sua grandezza: la proporzione complessiva con la struttura, ma anche il tipo di merci che era designata ad accogliere. L’archeologia è giunta ad identificare come cellae locali fino ad un’ampiezza massima di 14 m × 6-7 m e 5-6 m in altezza; cfr. E. Bukowiecki, I Magazzini, cit., 1 s. 78  L’incredibile varietà delle merci affluenti sul mercato del consumo romano, che necessitavano di essere custodite tra una tappa e l’altra del ciclo economico, imponeva il diversificarsi delle strutture deputate all’immagazzinamento, in proposito, C. Virlouvet, Les entrepôts dans le monde romain antique, formes et fonctions. Premières pistes pour un essai de typologie, in ‘Horrea’ d’Hispanie et de la Méditerranée romaine, a cura di J. ArceB. Goffaux, Madrid, 2011, 7 ss. Riguardo alle specifiche tipologie di contenitori volti alla custodia delle merci all’interno degli horrea si tratta delle cellae, armaria vel arcae di D. 1.15.3.2 o dell’elenco con ogni probabilità diverso, ma in ogni caso affine, con cui si apre la lex horreorum, riportata in CIL VI 33860: horrea apothecae compendiaria armaria intercolumnia et loca armaris, su cui già si profondeva C.A. Cannata, Su alcuni problemi, cit., 251 e, di recente, sono tornati J.J. Aubert, Law, business venture and trade, in The Oxford, cit., 624 s. e A. Petrucci, Poteri, cit., 26. 79  All’horrearius, infatti, era preclusa la facoltà di accedere allo spazio locato durante la fisiologica esecuzione del contratto, cfr. C.A. Cannata, Su alcuni problemi, cit., 251. Sul significato tecnico del segno horrearius si veda la corrispondente voce in TLL, VI, 2975 ss.; in particolare, nel quadro delle fonti giuridiche il segno assumeva il significato di administrator o curator horreorum, inoltre, recentemente, la dottrina ne ha parlato come di un imprenditore, gestore dei magazzini, cfr. A. Petrucci, Per una storia, cit., 239 s. e Id., Poteri, cit., 26, in precedenza, del resto, già G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 194 ss. e 203, era pervenuto a questa conclusione: nel Digesto e in CIL VI 33747, affermava, il 76 

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Non tutti i magazzini erano volti a custodire le medesime merci, in relazione a ciò ne variava la struttura architettonica e la specifica funzione economica, che poteva associare allo scopo conservativo la prestazione di ulteriori servizi. Sarebbe, da tale punto di vista, un grave errore e un’imperdonabile approssimazione pensare che gli horrea servissero esclusivamente come cassetta di sicurezza, come luogo ove riporre le proprie merci sotto la custodia di terzi 80. La multiforme realtà architettonica di questi immobili, del resto, è stata di recente oggetto di un fervente cimento interpretativo nel dibattito storico e archeologico, dei cui risultati mi pare proficuo qui brevemente dare conto 81. Queste le species distinguibili: – Grandi complessi di stoccaggio promiscui: sia privati 82 che pubblici, destinati alla custodia delle merci in attesa di collocazione sul mercato del consumo romano o di intraprendere vie commerciali centrifughe oltre i confini di Roma. Ampi spazi, nel cui seno potevano essere allocate, in ambienti separati e sorvegliati 83, le più svariate mercanzie: generi alimentari, ma anche marmo, piombo, rame, materiale fittile, incenso, termine indica un ‘contractor’, cioè un imprenditore nel ramo dell’intermediazione di beni e servizi, inoltre, se pure in talune fonti epigrafiche questa corrispondenza non è rispettata e il termine viene a contrassegnare meri lavoranti, ciò testimonia la sua intrinseca polisemia nel linguaggio comune, che nulla toglie alla tecnicità dello stesso quando ricorre nella giurisprudenza ed in ogni documento avente una qualche valenza giuridica, sul punto, già mi sono intrattenuto in A. Grillone, Punti, cit., 15 ss. e si tornerà infra Cap. I, §§. 1-3. Da ultimo, conformemente, A. Cassarino, Ricerche, cit., 16. 80  Vi erano sicuramente, sia in mano privata che imperiale, horrea deputati alla custodia di valori e beni di lusso, come evidenziava già G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 195, ammettendo l’esistenza di safe-deposit horrea di proprietà anche privata, ma essi erano soltanto una tra le tante tipologie rinvenibili nel panorama architettonico romano. Ad esempio, beni di notevole valore dovevano essere custoditi nelle celle più interne degli Horrea Epagathiana a Ostia, come gli archeologi hanno dedotto dalla costruzione di un secondo portone a protezione del cortile interno (cfr. la guida di C. Pavolini, Ostia, Roma-Bari, 2006, 114). 81  Lo schema classificatorio qui proposto è debitore di quello offerto da R. Sebastiani, Inserimento, cit., 5 s., che risulta emendato solo parzialmente al fine di porre in risalto alcuni dati architettonici utili alla successiva descrizione economica e giuridica del settore. 82  G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 171, anche i più grandi magazzini alimentari sono stati, almeno parte della loro vita commerciale, in proprietà di privati: gli horrea Galbana, fino al I secolo d.C., e pure privati dovevano essere in origine i gestori dei Lolliana. 83  C. Virlouvet, Introduzione, cit., 2 s., ricorda come in numerose piante basali di edifici adibiti a magazzino siano state individuate stanze e locali addetti in parte all’amministrazione, in parte all’alloggio dei sorveglianti della struttura, talvolta, poi, si è creduto, «anche se in maniera un po’ artificiale», di poter distinguere i piccoli uffici di “portineria” dove questo personale trascorreva le proprie ore di sorveglianza.

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seta e stoffe, avorio e coralli; a questa tipologia possono essere ricondotti gli horrea Galbana 84 e i grandi horrea recentemente portati alla luce a Testaccio 85. – Magazzini specializzati: l’imponente complesso dei “Grandi Horrea” di Ostia, ad esempio, è parso ad archeologi e storici specializzato nella custodia e conservazione del grano. La sua struttura è rivelatrice: al pianterreno erano presenti tavolati in legno sopraelevati 86 atti a separare il cereale dall’umidità del suolo, dominava poi la struttura uno spazio centrale disposto a ferro di cavallo attorno alle celle, ove è verosimile ritenere che il grano dovesse, per la sua conservazione, essere periodicamente rimestato da una squadra di lavoranti a ciò precipuamente deputati. Il non distante complesso di horrea a dolia doveva, invece, essere rivolto allo stipaggio del vino come dimostrano i contenitori seminterrati che qui si sono rinvenuti, nonché la possibile connessione con i vicini spazi di commercializzazione delle bevande 87. Nel novero dei magazzini specializzati sono poi menzionati da fonti letterarie ed epigrafiche due complessi di horrea candelaria e quello degli horrea chartaria sull’Esquilino 88, i primi, deputati alla conservazione di torce e candele, l’altro, alla conservazione di papiri e pergamene; infine, da studi archeologici, è confermata l’esistenza di alcuni horrea piperataria, riservati alla custodia delle spezie 89. Cfr. voce Horrea Galbana, in LTUR, III, 40 s. e G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 97 ss. e 171 ss. 85  R. Sebastiani, Inserimento, cit., 5 e Id., Lo scavo del nuovo mercato di Testaccio fasi antiche: prime considerazioni, in “Ricerche”, cit., http://www.entrepots-anr.efa.gr/sitefiles/ files/roma_042011/Sebastiani%20-%20conclusions%20Testaccio%20-%20Texte.pdf, 5 ss. 86  L’esistenza delle suspensurae è testimoniata dai pilastrini di età commodiana, ancora oggi visibili in loco, sui quali gli spazi rialzati si reggevano. L’edificio, in effetti, fu quasi per intero ricostruito sotto questo imperatore e oggi si mostra a noi in quella veste con successive variazioni di epoca tardoantica; tuttavia, per quanto qui interessa, anche i più recenti studi archeologici hanno ribadito l’idea che nello stesso luogo dovesse sorgere un magazzino repubblicano con analoga funzione (cfr. C. Pavolini, Ostia, cit., 79 ss.). 87  Non solo il termopolio all’angolo tra la Via dei Dipinti e quella di Diana, ma pure le supposte tabernae commerciali e gli esercizi ricettivi, siti nei casamenti tra il primo vico e quello dei Balconi (cfr. C. Pavolini, Ostia, cit., 86 ss. e poi infra Cap. I, §. 3). Indirettamente, le peculiari strutture dei magazzini specializzati nello stipaggio delle granaglie e nella conservazione dei liquidi hanno fornito conferma agli archeologi della multifunzionalità degli edifici facenti parte del complesso degli horrea Galbana, poiché proprio in questo sito, nelle sue varie parti, è possibile riscontrare tutte le suddette tipologie strutturali (evidente, in particolare, l’esistenza di piani rialzati dal suolo per la migliore conservazione del grano, cfr. G. Lugli, I monumenti antichi di Roma e suburbio, III, Roma, 1938, 608). 88  Cfr. voci Horrea Candelaria e Horrea Chartaria, in LTUR, III, 39 e R. Sebastiani, Inserimento, cit., 5 e Id., Lo scavo, cit., 7 s. 89  Questi spazi di stoccaggio erano inseriti all’interno di un complesso immobiliare di 84 

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– Piccoli magazzini promiscui e non: di proprietà privata e funzionalità immediatamente precedente le tappe finali del ciclo economico, distribuzione al dettaglio e consumo. Casi, questi, in cui del resto è molto difficoltoso, se non meramente congetturale, distinguere tra edifici suscettibili di locazione a terzi e strutture adibite a deposito personale (horrea in Piazza della Consolazione, S.S. Rufina e Seconda e Via Volturno). – Infrastrutture di stoccaggio unite ad aree di sbarco o produttive: si tratta di magazzini compresi in istallazioni portuali o affini, come nell’emblematico caso degli horrea Traianei di Portus, e discariche di merci collegate ad attività produttive. In quest’ultimo senso e, solo a livello di suggestione, si può teorizzare, in diversi siti archeologici, una connessione tra spazi di stoccaggio ed aree produttive: avvalora, per esempio, questa ipotesi la presenza di fornaci per la produzione di ceramica invetriata, i cui resti sono stati ritrovati negli scavi del Testaccio e sul Gianicolo 90. – Magazzini legati ad esercizi commerciali o botteghe con annesso magazzino: questione di complessa soluzione è quella che pongono alcune strutture di stoccaggio; in particolare, ci si è chiesti se la conduzione delle tabernae costruite sul lato ovest dei “Grandi Magazzini” ostiensi fosse in qualche modo intimamente legata alla lavorazione del grano che in essi si custodiva oppure, prendendo in considerazione la struttura degli horrea Agrippiana, quale fosse la tipicità di questo edificio che al pianterreno risultava suddiviso in una pluralità di tabernae e deve la sua denominazione allo spazio di stoccaggio sito al piano superiore. Pur nell’incertezza di questi riscontri, si deve oggi ritenere che la commercializzazione in loco dei prodotti custoditi negli horrea fosse praticata, ma non particolarmente frequente 91. età Flavia che si ergeva al limitare del Foro, in buona sostanza, sulla pianta basale della posteriore Basilica di Massenzio; cfr. voce Horrea Piperataria, in LTUR, III, 45 s., e in precedenza R. Lanciani, Le escavazioni del Foro, II: I magazzini delle droghe orientali, BCom, 28, 1900, 8-13; per una prima plausibile collocazione storica, nel I secolo d.C., si veda E. Van Deman, The Neronian Sacra Via, in AJA, 27, 1923, 400, che li reputava di età neroniana, oggi, nondimeno, la loro datazione è stata spostata a Domiziano: per primo sul punto, M. Barosso, Le costruzioni sottostanti la Basilica Massenziana e la Velia, in Atti V Congresso di Studi Romani, II, 1940, 58-62. 90  Sulla connessione con attività di scarico portuale: E. Bukowiecki, I Magazzini, cit.; S. Keay, Rome, Portus, cit., 41 ss. e G. Rickman, Roma, Ostia and Portus the problema of storage, in MEFRA, 114, 1, 2002, 356 ss.; sul rapporto con attività artigianali e protoindustriali: R. Sebastiani, Inserimento, cit., 5 s. e Id., Lo scavo, cit., 1 ss. 91  In senso dubitativo voce Horrea Agrippiana, in LTUR, III, 37. Sulla peculiare struttura di questo edificio cfr. C. Virlouvet, Introduzione, cit., 2; si tratta, comunque, secondo l’Autrice, di un esempio abbastanza isolato nel panorama dei magazzini romani, infatti, la corretta conservazione dei prodotti alimentari, nonché la necessità di proteggere le merci dai ladri, suggeriscono a tale scopo lo sfruttamento di strutture con poche aperture sulla

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Già il panorama urbano fin qui delineato mi pare suggerisca un’attenzione del mondo romano per tutto quanto ruotava attorno all’attrazione gravitazionale di uomini e merci verso il mercato cittadino; le città, molte, che si valorizzavano nel commercio, nel fiorire delle più disparate attività economiche e, dunque, in ultima analisi, nel richiamo di capitali, dovevano offrire a questo brulicare di iniziative private il terreno minimo sul quale attecchire: come si è mostrato, tabernae, magazzini, alberghi e vari livelli di casamenti abitativi proliferarono nell’intero arco storico che interessa questa indagine; ma non solo l’archeologia e l’interpretazione storiografica dell’urbanistica romana contribuiscono a palesare la centralità dello sfruttamento economico degli immobili urbani nello spettro delle fonti di reddito del ceto abbiente italico; sono anche, come si potrà apprezzare nel successivo paragrafo, le opere pubbliche e gli scritti privati dei più grandi Auctores di quei secoli a dire quanto questo mercato stuzzicasse gli appetiti di chiunque avesse la disponibilità economica per entrarvi.

3. L’interesse dei Romani per il mercato immobiliare: l’attestazione delle fonti La trascurabile rilevanza economica dell’investimento a fini speculativi nella proprietà immobiliare urbana è un’idea che, pur se derivata dalle fonti, è mutuata, in buona misura, dal modo di presentarsi degli appartenenti alla classe possidente romana 92, più che al loro reale modo di operare sul mercato. Questa divergenza tra la rappresentazione esteriore degli interessi economici romani e le reali forme di investimento diffuse nella società mi pare possa essere apprezzata al meglio mediante un raffronto tra la produzione ciceroniana pubblica ed i suoi epistolari privati. via e accessibili ad un limitato numero di utenti, assecondando, pertanto, esigenze in totale antitesi con l’attività di commercializzazione dei prodotti. 92  La scelta di parlare di classe possidente romana è determinata dalla necessità di mettere in luce come le speculazioni immobiliari coinvolgessero chiunque avesse una significativa disponibilità economica: in primo luogo, gli appartenenti al ceto senatorio, ma anche equites, liberti arricchiti e ricchi investitori provinciali, da Crasso (Plut., Crass. 2.5-6) a Cicerone, passando per Attico e Tongilianus (Mart. 3.52), fino al misterioso e ricchissimo Afro, di cui narra lo stesso Marziale (4.37). Nella propria corrispondenza privata, come di seguito vedremo, Cicerone è esplicito circa la convenienza di questo genere di investimenti. In particolare, le strutture ricettive alberghiere sono al centro della sua attenzione in Cic., Ad Fam. 7.23 e Ad Att. 10.5.3; ma più in generale è tutto il mercato immobiliare ad attirarlo, cfr., in proposito, Ad Att. 15.15.4; 15.17.1 e 16.1.5; cfr. P. Garnsey, L’investimento, cit., 149 ss., ma anche, da ultima, sul punto è tornata M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 9.

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Di quella pubblica, anzitutto, più che le parole, rileva il “vuoto”, la non menzione in De off. 1.42.150-151. Nel passo la locazione di casamenti urbani non compare, infatti, né nel novero delle occupazioni nobili, né tra le ignobili. Anche mi sembra oltremodo significativo che, in De off. 2.25.88-89, il quesito circa la scelta tra le rendite dei possedimenti urbani e rustici sia fatto seguire dall’opinione di Catone il Vecchio, secondo il quale l’allevamento e la cura dei campi sono le uniche attività che avrebbero dovuto giovare al patrimonio di un uomo onesto 93. Isolato resta, invece, il riferimento in De fin. 2.83-84, dove, seppur con finalità retoriche, prima l’Arpinate giustappone l’investimento nella proprietà agreste a quello nelle insulae urbane, poi menziona, quale fonte di elevata utilità economica, la titolarità di granai a Pozzuoli 94. Nondimeno la relazione epistolare con l’amico Attico ci rivela tutta un’altra realtà, in cui la centralità delle rendite urbane nell’alimentare le sostanze ciceroniane non può essere posta in discussione 95. Verso la fine di marzo del 45 a.C. Cicerone scrive ad Attico in ordine a quelle che reputava potessero essere le somme destinate al mantenimento del figlio Marco ad Atene: Ad Att. 12.32.2: Ciceroni velim hoc proponas (…) ut sumptus huius peregrinationis (…) accommodet ad mercedes Argileti et Aventini, et cum ei proposueris, 93  Nella medesima direzione devono leggersi Cat., De agr. cult. Praef. 1-4 e Plaut., Merc. 60ss.-195ss. Su cui cfr. J.A. Arias Bonet, Capitalismo y suelo urbano: su reflejo en las fuentes jurídicas romanas, in “La città”, cit., 290; E. Gabba, Arricchimento e ascesa sociale in Plauto e in Terenzio, in Del buon uso, cit., 74 ss. e Id., Ricchezza, cit., 42-44; sugli orientamenti ideologici-intellettuali diffusi tra II e I secolo a.C. in tema di giusto profitto e occupazioni onorevoli per l’aristocratico “modello”, ci si sofferma pure in P. Cerami-A. Petrucci, Diritto commerciale romano. Profilo storico3, Torino, 2010, 28 ss. 94  … an vero, si fructibus et emolumentis et utilitatibus amicitias colemus, si nulla caritas erit, quae faciat amicitiam ipsam sua sponte, vi sua, ex se et propter se expetendam, dubium est, quin fundos et insulas amicis anteponamus? e nel secondo testo: …‘Utilitas causa amicitia est quaesita’. Num igitur utiliorem tibi hunc Triarium putas esse posse, quam si tua sint Puteolis granaria? Sul punto, cfr. G. Camodeca, Puteoli porto annonario e il commercio del grano in età imperiale, in Le ravitaillement en blé de Rome et des centres urbains des débuts de la République jusqu’au Haut-Empire, Roma, 1994, 105, il quale mette in evidenza la particolare rilevanza dell’ironica comparazione ciceroniana tra l’utilitas dei legami di amicizia e quella dei magazzini deputati alla conservazione del grano. Riguardo all’attività di amministrazione degli horrea la sua proficuità è, all’evidenza, in quest’epoca, consapevolezza largamente diffusa a livello sociale, tanto da divenire un exemplum evocativo nella retorica ciceroniana. Il dato, dopottutto, è ormai recepito diffusamente, dalle più recenti trattazioni in tema, cfr. A. Petrucci, Poteri, cit., 26 e A. Cassarino, Ricerche, cit., 15. 95  J.A. Arias Bonet, Capitalismo, cit., 287; B.W. Frier, The Rental Market, cit., 27 ss. e Id., Cicero’s, cit., 1 ss.; su questa linea espositiva della tematica in oggetto già mi sono mosso in A. Grillone, Punti, cit., 3 ss., qui è, tuttavia, indispensabile, ai fini della più articolata trattazione che segue, riportare almeno in parte il tenore delle annotazioni in quella sede formulate.

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ipse velim reliqua moderere, quem ad modum ex iis mercedibus suppeditemus ei quod opus sit… Itaque velim videas primum conductores qui sint et quanti, deinde ut sint qui ad diem solvant, et quid viatici, quid instrumenti satis sit.

Nella lettera l’Oratore chiedeva al proprio fidato amico e corrispondente di scrivere a suo figlio, raccomandandogli di non superare per le spese di viaggio e il soggiorno ad Atene le somme che potessero derivare dalla riscossione dei canoni delle proprietà immobiliari paterne sull’Aventino e sull’Argileto. Al fine di dare al suo monito effettiva attuazione, domandava ad Attico di informarsi circa il numero dei conduttori di questi casamenti e su chi tra questi fosse puntuale nei pagamenti, stimando se il profitto di tali proprietà potesse essere idoneo a rispondere alle spese di viaggio del figlio, nonché ai costi di allestimento del relativo corredo. Ancora, un anno dopo, in data 15 giugno, si intratteneva sui destini di queste somme, le quali avrebbero dovuto orientativamente ammontare a 100.000 sesterzi (Ad Att. 15.17.1 96), denaro, che, nel frattempo, Attico aveva fatto avere a Marco, attraverso un suo corrispondente ad Atene. Pare, in ogni caso, che il padre proprio non avesse intenzione di finanziare di tasca propria il figlio e, pertanto, chiedeva all’amico di rivolgersi ad un suo liberto, Eros 97, in qualche modo informato delle rendite ciceroniane, per sapere quale fine avessero fatto i canoni di quei casamenti. L’8 luglio si lamentava, infine, di aver concesso troppo al figlio; tale eccedenza si sarebbe, di certo, dovuta imputare alle spese di viaggio occorse in quell’anno; per la nuova annata, tuttavia, Marco avrebbe dovuto attenersi strettamente alla somma di 80.000 HS, corrispondente a quanto nei fatti rendevano le insulae contenute nella dote della ex moglie Terenzia, che al suo mantenimento il padre aveva deputato 98: – …quod scribis tibi deesse HS C quae Ciceroni curata sint, velim ab Erote quaeras ubi sit merces insularum. 97  Si intende, infatti, da una lettera di qualche giorno precedente (Ad Att. 15.15.4), che era stato Attico a mettere a disposizione ad Atene le somme reclamate dal figlio di Cicerone (cfr. A. Petrucci, ‘Mensam’, cit., 117 s.) e da una di poco posteriore (Ad Att. 15.20.4) che quest’ultimo era pressato da molteplici spese e sperava di fare fronte ai bisogni del figlio senza dar fondo a proprie personali risorse economiche, attraverso il recupero delle somme de mercedibus dotalium praediorum (cfr. B.W. Frier, Cicero’s, cit., 1 s.). Per quanto concerne il ruolo di Eros, che Frier ritiene un freedman, è stato sottolineato come, schiavo o liberto che fosse, si trattasse di un ratiocinator specializzato, succeduto, dopo la fine del matrimonio di Cicerone con Terenzia, a Terentius Philotimus, forse in cooperazione con il liberto Tirone, nella tenuta dei conti del celebre oratore (Ad. Att. 12.18.3; 12.21.4; 13.2.1; 13.12.4; 13.30.2; 13.50.5 e 15.15.1; cfr. S. Treggiari, Roman freedman during the late Republic, Oxford, 1969, 150). 98  Non coincidono l’annata a cui Cicerone riferisce le occorrenze del figlio, che decorre dalle calende di aprile con quella degli affitti, che iniziava il 1° luglio (Cic., Ad fam. 13.2 96 

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Ad Att. 16.1.5: Quo plus permutasti 99 quam ad fructum insularum, id ille annus e Mart. 12.32) e, per questo motivo, l’Arpinate deve chiedere ad Attico di anticipare al figlio il versamento degli introiti attesi dai casamenti in oggetto. La data del primo luglio è, effettivamente, uno spartiacque fondamentale del mercato degli affitti urbani: se, infatti, vi fosse stato un conduttore dell’intero immobile, costui avrebbe pagato il canone al proprietario alla data iniziale dei contratti (cfr. Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.19.6: Si quis, cum in annum habitationem conduxisset, pensionem totius anni dederit, deinde insula post sex menses ruerit vel incendio consumpta sit, pensionem residui temporis rectissime Mela scripsit ex conducto actione repetiturum, non quasi indebitum condicturum…), i conduttori dei singoli caenacula, invece, lo avrebbero pagato in soluzione unica entro il termine annuale dei contratti, oppure ratealmente, mese per mese, ma talvolta pure con cadenze più ridotte; sul punto, ancora si tornerà infra Cap. I, §. 1 e cfr. P.J. Du Plessis, Letting, cit., 159, nt. 163 e Id., A new argument for ‘deductio ex mercede’, in E.H. Pool-R. Van Den Bergh-G. Van Niekerk, ‘Ex Iusta Causa Traditum’. Essay in honour of Eric H. Pool, I, Pretoria, 2005, 73, nt. 17: «Only wealthy tenants paid annual rent instalments. Low-class tenants paid rent daily, weekly or monthly». Sul significato di Ad Att. 16.1.5 e sulla relazione con i precedenti passi dell’epistolario, B.W. Frier, Cicero’s, cit., 1-4 e Id., Landlords, cit., 36, il quale ne desume la circostanza per cui Cicerone avrebbe sempre goduto dei propri immobili locandoli nel loro complesso ad un contractual middleman. Personalmente, nutro alcuni dubbi circa questa ricostruzione. Se, infatti, così fosse, sarebbero irrilevanti i quesiti posti dall’Oratore in Ad Att. 12.32.2 (qui sint et quanti, deinde ut sint qui ad diem solvant), circa i conductores delle sue proprietà, costoro, dopotutto, avrebbero dovuto pagare il 1° luglio 45 per la stagione 45-44 a.C., dandogli la certezza, con vari mesi di anticipo, della disponibilità di somme sufficienti alla remunerazione del viaggio del figlio in Grecia, inoltre, mi pare che, in tal caso, non si comprenderebbe di quali canoni egli lamentasse il mancato pagamento in data 15 giugno 44 (Ad Att. 15.17.1), essendogli dovuto il versamento, per il nuovo anno, solo a partire dal 1° luglio. Ritengo, sul punto voglio qui essere esplicito, che la condizione dell’Arpinate sia quella di colui che attende, nel corso dell’anno o alla data del 30 giugno, i versamenti dei conduttori, i quali, in concreto, non gli sono pervenuti e, in ragione di ciò, si interroghi se tale circostanza derivi piuttosto dall’inerzia di qualche addetto alla riscossione, che dalla riottosità degli habitatores al pagare (cfr. ancora infra Cap. I, §. 1 nt. 30). In ogni caso, infine, egli sconta l’alea di questa sua condizione, percependo, al termine dell’annata, la notizia è datata all’8 luglio, i quattro quinti di quanto si attendeva, non tanto perché, come recentemente P.J. Du Plessis, Urban landlords, cit., 637, ha sostenuto, alcune parti dell’edificio fossero prossime al collasso, ma perché alcune riscossioni non erano andate a buon fine. 99  Sull’operazione finanziaria (permutatio), indicata da Cicerone mediante l’uso del verbo permutare, si è discusso in dottrina e per essa rimando ad A. Petrucci, ‘Mensam’, cit., 118 s.; essa consta di alcuni elementi essenziali: la commissione del cliente al banchiere di accordare una certa somma ad un beneficiario presso un suo corrispondente, la comunicazione del banchiere al suo corrispondente, il pagamento dal corrispondente al beneficiario designato (cfr. già sul punto, G. Carnazza, Il diritto commerciale dei romani, Harvard, 1891, 94); mi limito qui ad osservare, come reputo emerga dal raffronto tra Ad Att. 15.15.4: … Qua re velim cures… ut permutetur Athenas quod sit in annum sumptum ei. Scilicet Eros numerabit… e il tenore letterale del sopracitato Ad Att. 15.17.1 (si veda supra nt. 96), che, se nella prima epistola Cicerone prometteva ad Attico il pagamento in contanti da parte di Erote e nella seconda questo non è ancora avvenuto, ciò implica, di necessità, che la permutatio non dovesse necessariamente trovare fondamento in un deposito preliminare di somme corrispondenti a quelle permutate su altra piazza e, pertanto, che essa potesse

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——— habeat in quem itineris sumptus accessit. Hic ex Kal. Apr. ad HS L X X X accommodetur. Nunc enim insulae tantum.

Passando da Cicerone ad Attico, Cornelio Nepote testimonia l’attenzione di quest’ultimo verso gli investimenti immobiliari urbani 100: Atticus 14.3: Nullos habuit hortos, nullam suburbanam aut maritimam sumptuosam villam, neque in Italia, praeter Arretinum et Nomentanum, rusticum praedium, omnisque eius pecuniae reditus constabat in Epiroticis et urbanis possessionibus.

Ciò che di certo non interessava ad Attico era l’utilizzo non economico della proprietà fondiaria: non possedeva ville per l’intrinseco prestigio che l’immobile garantiva, giardini per gli ozii e residenze marittime lussuose, ma, oltre ai casamenti urbani, alcuni fondi rustici italici e possedimenti nella regione dell’Epiro, che gli davano una cospicua rendita. In ogni caso, non c’è ragione di dubitare che, come rende noto Nepote, le proprietà immobiliari urbane dessero ad Attico buona parte delle sue entrate 101. Per diverse ragioni, comunque, l’investimento nella proprietà immobiliare urbana non era un cimento per tutti, essendo sottoposto ad una rilevantissima alea: abbiamo già detto dell’elevata deperibilità degli edifici, incendi e vizi strutturali ne mettevano quotidianamente a rischio la statica 102; qui è Aulo Gellio a intrattenersi sulla frequenza con la quale Roma arde di notte: Noct. Att. 15.1.3: “…Si quid autem posset remedii fore, ut ne tam adsidue domus Romae arderent, venum hercle dedissem res rusticas et urbicas emissem”.

Attraverso le parole messe in bocca al retore Giuliano, Gellio testimoinserirsi, come nel caso di specie, in un’operazione complessa di finanziamento e cambio valuta a distanza (per il dibattito circa la sua assimilabilità ad istituti contemporanei, cfr. S. Moshenskyi, History of the Weksel: Bill of Exchange and Promissory Note, Bloomington, 2008, 43 ss.). 100  P. Garnsey, L’investimento, cit., 151 e B.W. Frier, Landlords, cit., 24. 101  B.W. Frier, Cicero’s, cit., 1 e J.A. Arias Bonet, Capitalismo, cit., 286. 102  Cfr. supra §. 2; L. Homo, Roma, cit., 439 ss. e A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 200 s. Si vedano le molteplici testimonianze letterarie sul punto: Vitr., De arch. 2.8.17; Sen., Ad Luc. 90; De benef. 6.15 e Gell., Noct. Att. 15.1.3. Sull’incendio del 192 d.C., per esempio, l’opera di Galeno, che ne fu personalmente colpito, è una vera miniera di riferimenti, e mi limito sul punto ad alcuni: De comp. med., 1.1 [Kühn 13.362]; De ant., 1.13 [Kühn 14.66], De ind., 2; 8 e 18; in questo rogo, che coinvolse la Via Sacra e il Tempio della pace, bruciarono presso gli horrea piperataria i suoi libri, unguenti medicamentosi e preziose spezie che in quel luogo aveva riposto, per tutti, cfr. P.L. Tucci, Galen’s storeroom, Rome’s libraries and the fire of A. D. 192, in JRA, 21, 2008, 133 ss. e G.W. Houston, Galen, His Books, and the Horrea Piperataria at Rome, in MAAR, 48, 2003, 45 ss.

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nia un sentimento diffuso nella società del suo tempo: lo sfruttamento di immobili urbani è la fonte più elevata di rendita nel panorama economico romano, di conseguenza, la più agognata, ciò che tuttavia dissuade i più dall’investirvi, è l’elevato rischio, nel caso di specie, di ardere, cui soggiace. Anche quando non sono le fiamme a minacciare gli immobili romani, purtroppo, la superficialità con cui vengono costruiti e le loro deficienze sotto il profilo tecnico, associate alla vetustà e alla mancanza di manutenzione, risultano spesso fatali. Se ne lamenta Cicerone, i cui inquilini, impediti nel godimento o spaventati dalle vistose crepe, hanno abbandonato le tabernae: Ad Att. 14.9.1: …Sed quod quaeris quid arcessierim Chrysippum, tabernae mihi duae corruerunt reliquaeque rimas agunt; itaque non solum inquilini sed mures etiam migraverunt.

Ancor più frequente era il caso che l’amministratore del casamento dovesse sopportare il rischio della protratta inadempienza dei conduttori. La circostanza che gli habitatores non fossero in grado di pagare era divenuta ormai una consuetudine per effetto dell’aumento insostenibile dei canoni, soltanto parzialmente giustificato dall’elevata domanda, ma determinato, in buona misura, dalla stessa cupidigia degli affaristi del settore 103. È quanto lo stesso Cicerone pone in luce in: Cael. 17: …Sumptus unius generis obiectus est, habitationis; triginta milibus dixistis eum habitare. Nunc demum intellego P. Clodi insulam esse venalem, cuius hic in aediculis habitat decem, ut opinor, milibus. Vos autem dum illi placere voltis, ad tempus eius mendacium vestrum accommodavistis.

A riguardo dell’accusa di eccessivo lusso mossa a Celio, confutati gli altri argomenti, l’Oratore si intrattiene sulla voce per cui costui avrebbe corrisposto a Clodio un affitto annuale di 30.000 sesterzi per godere di una porzione di insula sul Palatino, irridendo questa diceria. Un canone di questa entità, infatti, avrebbe finito per coincidere, semmai, con il prezzo stimabile di acquisto di un immobile di tal fatta, mentre, pur considerevole, la mercede corrisposta dall’accusato doveva attestarsi al valore di 10.000 sesterzi 104. 103  Sul punto già mi sono intrattenuto altrove, A. Grillone, Le guarentigie, cit., 556 ss., nt. 5, e, in ogni caso, cfr. L. Homo, Roma, cit., 456 e J. Carcopino, La vita, cit., 36 ss.; l’impennata della domanda era stata certo generata dal progressivo e inarrestabile fenomeno dell’inurbamento (su cui già supra §. 2 e poi ancora si tornerà infra Cap. III, §. 1): per le ragioni di questo consistente fenomeno di spostamento massivo della popolazione dalle campagne in città si veda poi E. Gabba, Considerazioni, cit., 105 ss.; Id., Urbanizzazione, cit., 66 ss. e Id., Riflessioni, cit., 98 s. 104  Sulla fonte, recentemente, F. Coarelli, Palatium: il Palatino dalle origini all’impero, Roma, 2012, 320 s. e F. Procchi, ‘Insulae’, cit., 542.

Introduzione ­­­­31

L’enormità dei canoni e di conseguenza dei guadagni cui ambivano i locatori viene irrisa anche da Giovenale: Sat. III, 223-225: Si potes avelli circensibus, optima Sorae | aut Fabrateriae domus aut Frusinone paratur | quanti nunc tenebras unum conducis in annum.

Quanto si pagherebbe a Roma per l’affitto di una buia stamberga è sufficiente per acquistare una graziosa villetta con orticello a Sora, Fabrateria o Frosinone. La speranza del lucro attirava sempre più investitori nel settore, eppure la smodatezza delle pretese dell’offerta era alla base delle sempre crescenti difficoltà di riscossione. È, per esempio, Marziale a descrivere il mesto cammino di un conduttore costretto ad abbandonare l’immobile per un’inadempienza protrattasi per un intero biennio: Mart. 12.32: O Iuliarum dedecus Kalendarum, | vidi, Vacerra, sarcinas tuas, vidi; | quas non retentas pensione pro bima portabat uxor rufa crinibus septem | et cum sorore cana mater ingenti… Quid quaeris aedes vilicosque derides, | habitare gratis, o Vacerra, cum possis? | Haec sarcinarum pompa convenit ponti.

Sul passo torneremo più oltre ampiamente 105. Per quanto qui interessa, l’epigramma descrive un inquilino, Vacerra, che il primo luglio, alla scadenza del contratto di locazione, dopo essere stato lungamente inadempiente, rilascia il suo alloggio, portando con sé poche povere cose, che il locatore insoddisfatto neppure ha ritenuto utile trattenere a compensazione del mancato pagamento della pigione. Non solo la radicale impossibilità di adempiere degli habitatores minacciava il profitto dei gestori di immobili, talvolta, esso veniva impedito da provvedimenti di natura pubblicistica, che, in ogni caso, contribuiscono a evidenziare quanto diffusa socialmente fosse l’incapacità di far fronte al pagamento della mercede concordata. Svet., De vita Caesarum (Div. Iulius), 38: … Annuam etiam habitationem Romae usque ad bina milia nummum, in Italia non ultra quingenos sestertios remisit.

Svetonio tramanda che Cesare nel 46 a.C. rimise il debito di un anno agli inquilini che avevano servito sotto di lui nelle legioni: fino a duemila nummi a Roma e fino a cinquecento sesterzi nel resto d’Italia. Dunque, l’inadempimento protratto oltre l’anno era una circostanza normale del mercato immobiliare urbano e non solo presso il popolo nullatenente, ma

105 

Cfr. infra Cap. II, §. 1.4.

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pure tra i legionari 106. Inoltre, il passo contribuisce ad evidenziare quanto più costoso fosse godere di un appartamento nella capitale, piuttosto che nel resto della penisola, anche se, all’evidenza, dal tenore letterale del condono cesariano, apprendiamo che pure altrove dovevano accumularsi le rate non pagate. In ogni caso, si trattasse di calamità naturali, incendi, difetti strutturali, della fisiologica difficoltà di adempiere da parte dei conduttori oppure di sciagurati provvedimenti populisti di cancellazione dei debiti, il profitto degli amministratori di immobili urbani era minacciato da ogni parte, eppure l’aspettativa di lucro era talmente elevata da ingolosire tutti coloro che potessero permettersi di svolgere una tale attività 107. Sul punto, in apertura del passo poc’anzi riportato, Aulo Gellio sentenziava: Noct. Att. 15.1.3: …magni reditus urbanorum praediorum, sed pericula sunt longe maxima.

Chi non si preoccupava di tutto ciò era certamente Crasso. Costui da tempo si era dotato di una sorta di esercito di architetti e muratori, composto in totale di cinquecento uomini, per riparare o demolire rapidamente tutti quegli edifici che riusciva a strappare a prezzi di favore al proprietario, preoccupato dall’imminente crollo. Della caducità delle costruzioni di Roma aveva fatto la sua fortuna e, possedendo interi quartieri, non aveva difficoltà ad ammortizzare le perdite dovute all’eventuale inadempienza di alcuni degli habitatores. È quanto Plutarco racconta in uno scorcio pittoresco delle sue Vitae: Cfr. A. Grillone, Le guarentigie, cit., 557 nt. 5 e recentemente anche S. AntoliNuovo frammento dei Fasti consolari di Cupra Maritima con menzione di munera, in Epigrafia e Archeologia romana nel territorio marchigiano. In memoria di Lidio Gasperini. Atti del Convegno (Macerata, 22-23 aprile 2013), a cura di G. Paci, Tivoli, 2013, 22 ss.; coeve e analoghe iniziative sono la rogatio del pretore M. Celio Rufo, databile al 48 a.C., attestata da Caes., De bello civ. 3.21.1: …ad hominum excitanda studia sublata priore lege duas promulgavit, unam, qua mercedes habitationum annuas conductoribus donavit, aliam tabularum novarum (per la collocazione temporale della quale, G. Rotondi, Leges, cit., 417; sul portato del passo, prima di me, in relazione alla tematica che qui occupa, si veda S. Sciortino, Il termine dell’expulsio del conduttore per mancato pagamento del canone nella locatio di aedes e di fundi, in AUPA, 51, 2006, http://www1.unipa.it/~dipstdir/pub/ annali/2006/expulsio.doc., 6, nt. 19), e quella dell’anno seguente del tribuno P. Cornelio Dolabella, inserita in una più generale manovra di cancellazione del debito cittadino; tracce di questo provvedimento si trovano in Cic., Ad Att. 11.23.3, che ne indica anche la datazione, e Dio. Cass. 42.32.2. 107  Cfr. B.W. Frier, The Rental Market, cit., 27, più diffusamente, Id., Landlords, cit., 21 ss.; ma anche, J.A. Arias Bonet, Capitalismo, cit., 285 ss.; più di recente, P.J. Du Plessis, Letting, cit., 151, infine, da ultima, M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 9. 106 

ni,

Introduzione ­­­­33

Crassus, 2.5-6: [5] Πρὸς δὲ τούτοις ὁρῶν τὰς συγγενεῖς καὶ συνοίκους τῆς Ῥώμης κῆρας ἐμπρησμοὺς καὶ συνιζήσεις διὰ βάρος καὶ πλῆθος οἰκοδομημάτων, ἐωνεῖτο δούλους ἀρχιτέκτονας καὶ οἰκοδόμους. Ɛἶτ᾽ ἔχων τούτους ὑπὲρ πεντακοσίους ὄντας, ἐξηγόραζε τὰ καιόμενα καὶ γειτνιῶντα τοῖς καιομένοις, διὰ φόβον καὶ ἀδηλότητα τῶν δεσποτῶν ἀπ᾽ ὀλίγης τιμῆς προιεμένων, ὥστε τῆς Ῥώμης τὸ πλεῖστον μέρος ὑπ᾽ αὐτῷ γενέσθαι. [6] Τοσούτους δὲ κεκτημένος τεχνίτας οὐδὲν ᾠκοδόμησεν αὐτὸς ἢ τὴν ἰδίαν οἰκίαν, ἀλλ᾽ ἔλεγε τοὺς φιλοικοδόμους αὐτοὺς ὑφ᾽ ἑαυτῶν καταλύεσθαι χωρὶς ἀνταγωνιστῶν.

L’acquisto e la demolizione di edifici, mediante il recupero dei materiali fittili, davano a Roma la linfa necessaria per alimentare il mercato edilizio, al quale scopo non erano bastanti gli scarsi e costosi rifornimenti di materie prime via Tevere. Strabone narra di questo fermento nella sua Geografia: De geo. 5.3.7: … δι᾽ ἣν ἐπὶ τοσοῦτον αὐξηθεῖσα ἡ πόλις ἀντέχει τοῦτο μὲν τροφῇ τοῦτο δὲ ξύλοις καὶ λίθοις πρὸς τὰς οἰκοδομίας, ἃς ἀδιαλείπτους ποιοῦσιν αἱ συμπτώσεις καὶ ἐμπρήσεις καὶ μεταπράσεις, ἀδιάλειπτοι καὶ αὗται οὖσαι: καὶ γὰρ αἱ μεταπράσεις ἑκούσιοί τινες συμπτώσεις εἰσί, καταβαλλόντων καὶ ἀνοικοδομούντων πρὸς τὰς ἐπιθυμίας ἕτερα ἐξ ἑτέρων.

La città cresceva, incendi e altre fatalità depauperavano il patrimonio abitativo, spesso però i costruttori per poter riedificare conformemente alle nuove esigenze abitative dovevano prima demolire, utilizzando, almeno in parte, componenti riciclate dai precedenti immobili 108. La testimonianza delle fonti mi pare, nel suo complesso, mostri con chiarezza quanto fosse diffusa nella Roma tardorepubblicana ed imperiale la speculazione immobiliare. Essa si orientava in due direzioni: quella di trascendere la rendita conseguibile attraverso il mero godimento dei propri beni per mezzo di un’organizzazione, più o meno complessa, volta a massimizzare i proventi della locazione di casamenti anche mediante l’amministrazione di strutture alberghiere, nonché quella di ottenere dalla vendita dei materiali fittili o dell’edificio riedificato più delle somme versate per l’acquisto e le spese vive dell’operazione.

108 

L. Homo, Roma, cit., 455 ss. e A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 202.

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Capitolo I

IL MANAGEMENT DELLA GESTIONE IMMOBILIARE URBANA Sommario: 1. Proprietari e amministratori di casamenti: coincidenza e alterità soggettiva. – 2. L’amministrazione immobiliare per mezzo di preposti. Il vertice manageriale dell’impresa complessa: per un’interpretazione giuridicamente orientata del procurator insulae di Satyricon 96. – 3. Sulle tracce della negotiatio peculiaris nel contesto della gestione di immobili urbani.

1. Proprietari e amministratori di casamenti: coincidenza e alterità soggettiva Come si potrà apprezzare nelle pagine che seguono, la struttura organizzativa volta a trarre lucro da qualsiasi complesso architettonico, facente parte del proprio o dell’altrui patrimonio, è comune, in buona sostanza, a ogni archetipo di proprietà immobiliare urbana e reca punti di contatto anche con le forme di amministrazione dei fondi rustici 1. Al fine di impostare correttamente ogni ulteriore riflessione in tema, mi pare opportuno tenere ben distinti due piani: quello del rapporto tra proprietà dell’edificio e titolarità del diritto al suo sfruttamento e quello della componente umana mediante la quale l’amministrazione dei casamenti veniva esercitata presso il pubblico 2. Cfr. infra §. 2 e qui rinvio alle mie precedenti note sul tema, in A. Grillone, Punti, cit., 16 ss. e Id., La gestione, cit., 179 ss. 2  Già in A. Grillone, Punti, cit., 16, nt. 31, ho cercato di mettere in luce la, per la sua ambiguità, non pienamente considivisibile recente impostazione in tema di P.J. Du Plessis, Urban landlords, cit., 637 s. e Id., Letting, cit., 151, ove l’Autore afferma che le forme di management più diffuse nel settore o sfruttavano il sistema della preposizione di schiavi o si appoggiavano ad un contractual middleman. Come cercheremo di dimostrare più diffusamente nel corso della presente indagine, i piani mi paiono confusi e di conseguenza il lettore rischierà di equivocare: non esiste un’alternativa tra la presenza di un conduttore intermedio e la gestione dell’immobile a mezzo di preposti; ben potrà aversi, infatti, un conductor aedis, che nell’organizzazione della propria attività di sublocatore professionale 1 

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In primo luogo, pertanto, sarà opportuno domandarsi se sia sempre il proprietario della struttura a rivestire la qualifica di gestore o se pure tra la proprietà dell’immobile e l’offerta al pubblico dei suoi spazi interni si possa inserire un terzo soggetto che, avendo preso in conduzione nel suo complesso l’edificio dal dominus, lo metta a frutto, lucrando i canoni di affitto corrisposti dagli utilizzatori finali. Nei seguenti paragrafi, invece, attraverso un’attenta analisi delle fonti a disposizione, si dovrà tracciare un quadro il più possibile esaustivo delle forme giuridiche di conduzione della gestione immobiliare urbana, mediante sottoposti e/o dipendenti liberi del titolare. Sotto il primo profilo è, anzitutto, illuminante l’incipit di un passo di Alfeno: Alf. 3 dig. a Paul. epit. D. 19.2.30 pr.: Qui insulam triginta conduxerat, singula caenacula ita locavit , ut quadraginta ex omnibus colligerentur…

Questa parte del frammento è per noi rivelatrice nella misura in cui descrive la posizione economica di un soggetto “intermediario”, il quale prende in conduzione un’insula dal dominus all’unico scopo di speculare sulla differenza tra quanto corrisposto a costui a titolo di mercede e la somma riscossa dai conduttori dei singoli caenacula. E, in tal senso, chiarificatrice mi pare la contrapposizione tra la locuzione conducere insulam e locare singula caenacula, da cui emerge un doppio ordine di rapporti locativi, quello tra dominus e conductor dell’insula e quello tra quest’ultimo e i conduttori dei singoli spazi interni dell’edificio 3. Molti titolari di immobili urbani, in effetti, non erano affatto interessati a massimizzare gli introiti dei propri casamenti, ciò che desideravano era poterne trarre una congrua rendita, senza far fronte ai numerosi imbarazzi si avvalga della collaborazione di preposti ai rapporti negoziali con il pubblico. In tema di gestione di stabilimenti termali si veda l’analoga struttura organizzativa di recente suggerita da R. Scevola, Statuto e profili giuridici delle terme pubbliche in Roma antica, in I beni, II, cit., 35 s. e 60 s. e la mia seguente argomentazione sulla bontà di queste intuizioni in A. Grillone, La gestione, cit., 182 s. e 191 ss. Non può convincere, per altro, l’idea sostenuta da E. Santamato, Deversorium, meritorium, cellae: pratiche affittuarie nella Roma antica e gestione amministrativa dell’habitare in età imperiale, in Palamedes, 5, 2010, http://lockwoodonlinejournals.com/index.php/pala/article/view/142, 15, per cui i liberti e gli schiavi utilizzati dal conductor per esercitare l’attività di gestione immobiliare sarebbero dipendenti, institores del dominus e non suoi propri. Si tratterebbe, infatti, di un caso unico nel panorama delle negotiationes romane, che, all’evidenza, isolerebbe il primo conduttore da qualsiasi forma di responsabilità negoziale per effetto della legittimazione passiva del proprietario nei confronti dell’eventuale actio institoria esercitata dall’habitator. 3  Cfr. B.W. Frier, The Rental Market, cit., 28, nt. 8; Id., Landlords, cit., 30 s.; P.J. Du Plessis, Letting, cit., 166 s. e A. Grillone, Punti, cit., 17.

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di una gestione spesso per nulla tranquilla 4; per questo si affidavano a dei professionisti a cui garantivano il pieno godimento dell’immobile in cambio dell’anticipazione di un determinato canone complessivo. È quanto, del resto, risulta anche da: Lab. 4 post. a Iav. epit. D. 19.2.58: Insulam uno pretio totam locasti et eam vendidisti ita, ut emptori mercedes inquilinorum accederent. Quamvis eam conductor maiore pretio locaret, tamen id emptori accedit, quod tibi conductor debeat.

Un proprietario, dopo aver locato ad un unico conduttore l’insula, la vende. Mercé quest’ultimo contratto le parti si accordano a che il canone corrisposto dagli inquilini spetti al compratore. L’acquirente si sostituisce all’originario proprietario nel rapporto contrattuale in essere tra costui e il conductor dell’edificio, pertanto da quest’ultimo avrà diritto di ottenere la stessa somma promessa all’alienante, sebbene il conduttore dell’intero edificio sia solito riscuotere un corrispettivo complessivamente maggiore dagli habitatores. Dal frammento emerge una realtà incontestabile: a fronte del pagamento di una determinata rata annuale i domini 5, persuasi dai gravosi oneri della conduzione in proprio, locavano (insulam uno pretio totam locasti) per un arco temporale piuttosto lungo 6 l’intero stabile ad un unico conduttore, Come in sede di introduzione è stato ampiamente rammentato, §§. 2-3, cfr. J. CarLa vita, cit., 55 s. e G. Salvioli, Il capitalismo, cit., 59, incendi, vizi strutturali, il collocamento e la sorveglianza degli habitatores, così come il mantenimento della pace all’interno dei condomini e la faticosa riscossione delle pigioni, erano problematiche che richiedevano la predisposizione di un’articolata organizzazione e l’impiego di un ingente numero di servi incaricati a vario livello e alle più diverse mansioni nel contesto della gestione, e, tuttavia, nonostante ciò, il mercato non perdeva la sua attrattiva, poiché quello che si attendeva da questa attività era un consistentissimo profitto. Per l’idea che si trattasse di un’occupazione dove anche l’uso delle “maniere forti” non potesse restare escluso, è diffusa l’opinione per cui lo speculatore dovesse essere frequentemente di estrazione libertina o comunque un soggetto di bassa condizione sociale; sul punto, cfr. B.W. Frier, The Rental Market, cit., 28 s.; Id., Cicero’s, cit., 2-5; Id., Landlords, cit., 30 s.; D. Johnston, Roman law in context, Cambridge, 1999, 63 e P.J. Du Plessis, Letting, cit., 156 s. e 162 ss. 5  B.W. Frier, The Rental Market, cit., 28 s. e Id., Landlords, cit., 36, più recentemente, sul tema cfr. P.J. Du Plessis, A new argument, cit., 72 s. e Id., Letting, cit., 162 s. 6  La durata naturale dei contratti di locazione, come detto (cfr. supra Intr., §. 3), era di un anno; era però possibile concludere un pactum mediante il quale il locatore assicurava la stabilità almeno quinquennale del contratto. Una straordinaria testimonianza della ricorrenza di queste conventiones ci è offerta da CIL IV 1136 = FIRA III 143b, un avviso di locazione, rinvenuto nel 1756 a Pompei presso l’ingresso della stazione termale facente parte dei Praedia di Iulia Felix. Costei con questa pittura parietale prometteva la durata quinquennale dei contratti relativi alla locazione dei cenacula, dei locali commerciali, delle edicole e del balneum, il cui godimento, mediante l’annuncio, offriva al pubblico: In 4 

copino,

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cioè l’inquilinus, il quale lucrava sui canoni percepiti per la locazione dei singoli caenacula (come emerge dal sopracitato passo di Alfeno 7), sopportando, nondimeno, il rischio della loro insolvenza 8. In presenza di una stabile sublocazione dell’insula, il gestore non proprietario compare nelle fonti con il nome di inquilinus: si tratta di un conduttore affatto o solo marginalmente interessato al godimento diretto dell’immobile 9; sul punto è illuminante Ulpiano, 23 ad ed. D. 9.3.5.8, in commento all’editto ‘ne quis in suggrunda’ 10: praedi(i)s Iuliae Sp(uri) f(iliae) Felicis / locantur / balneum Venerium et nongentum tabernae pergulae / cenacula ex Idibus Aug(ustis) primis in Aug(ustas) sextas annos continuos quinque (cfr. A. Grillone, La gestione, cit., 184 ss.). A fronte dell’esistenza del generale principio dell’ordinamento romano per cui emptio tollit locatum questo genere di pattuizioni tutelava (in verità solo sul piano risarcitorio, cfr. infra Cap. II, §. 1.4 e si veda T. J. Chiusi, Diritti soggettivi e diritti della persona umana: sulla funzione del diritto privato per la definizione dei soggetti del diritto nell’ordinamento giuridico romano, in Pluralismo delle fonti e metamorfosi del diritto soggettivo nella storia della cultura giuridica I- La prospettiva storica, a cura di A. Landi-A. Petrucci, Torino, 2016, 90) l’interesse economico del conductor da improvvisi cambiamenti di proprietà dello stabile, conferendo all’amministrazione una almeno tendenziale stabilità; sul punto, P.J. Du Plessis, Letting, cit., 159 ss. 7  Sulla non inconsueta divergenza tra esercente e dominus, si vedano anche le annotazioni di M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 47 nt. 65. Doveva, in ogni caso, trattarsi di uno schema ricorrente nel mondo romano in rapporto ad una pluralità di attività economiche; nel Digesto compare in relazione alla gestione di un caseificio, nel contesto dell’exercitio navis, ma pure in rapporto all’amministrazione di horrea, come si sottolinea in A. Petrucci, Note, cit., 28 ss., ma anche infra nel seguito di questo paragrafo. Inoltre, proprio Petrucci in questo recentissimo contributo ne ha ipotizzato l’impiego nella conduzione delle officinae e figlinae, sulla base delle interpretazioni dei signa date dagli archeologi, nei quali l’officinator talvolta viene qualificato conductor. 8  Al tema della consueta insolvenza dei conduttori si è già fatto cenno supra Intr., §. 3 e su di esso si tornerà infra Cap. II, §. 1.4. Giuridicamente infondata l’impostazione di recente proposta da E. Santamato, Deversorium, cit., 16, per il quale il conductor, quando presente, sarebbe stato un collaboratore del dominus, avente diritto ad una partecipazione finanziaria nei proventi e nelle perdite della gestione. Non v’è qui nessuna compartecipazione, il canone, dovuto dal locatore intermedio al proprietario, non è convenuto in garanzia dell’eventuale inadempimento dell’habitator, ma è stabilito in un ammontare fisso e del tutto indipendente da quello preteso dai singoli utilizzatori finali del bene, cfr. A. Grillone, Punti, cit., 17, nt. 32 e bibliografia ivi citata. 9  Sovente i conduttori-sublocatori riservavano per il proprio uso personale una dimora signorile al pianterreno e alcuni locali, che oggi si potrebbero definire amministrativi, ove far alloggiare il personale addetto all’intrattenimento dei rapporti con gli utenti, come per esempio l’insularius, cfr. J. Carcopino, La vita, cit., 35 s. e L. Homo, Roma, cit., 432 ss. 10  Sull’editto e la correlata tutela in via di azione, cfr. A. Watson, Liability in the actio de positis ac suspensis, in Mélanges Meylan, I, Lausanne, 1963, 379 ss.; W. Wolodkiewicz, “Deiectum vel effusum” e “positum aut suspensum” nel diritto romano, in RISG, 95, 1968, 365 ss.; E. Lozano Y Corbi, La actio de positis et suspensis y su régimen de legitimación, in Apollinaris, 54, 1981, 255 ss.; W.M. Gordon, The ‘actio de posito’ Reconsidered, in

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Ait praetor: “ne quis in suggrunda protectove”. Haec verba “ne quis” ad omnes pertinent vel inquilinos vel dominos aedium, sive inhabitent sive non, habent tamen aliquid expositum his locis.

In questa clausola il pretore affermava che, in base alla tutela de posito vel suspenso, nessuno, neppure l’inquilinus o il dominus non abitanti, avrebbe potuto appoggiare impunemente sopra una gronda o una parte aggettante del tetto qualcosa che, cadendo sulla pubblica via, potesse recare danno ai passanti. Quel sive inhabitent sive non è rivelatore: l’inquilinus, così come il dominus, non per forza vive nell’immobile. Altre ragioni lo inducono a prendere in locazione il casamento. Habitatores, di certo, si può essere a vario titolo e anche il proprietario o il conduttore del casamento potrebbero essere correttamente detti tali, come risulta da: Ulp. 23 ad ed. D. 9.3.1.9: Habitare autem dicimus vel in suo vel in conducto vel gratuito.

Si può infatti abitare in casa propria o come ospiti oppure, ancora, in forza di un contratto di locazione. Significativamente, comunque, Ulpiano, trattando dell’actio de effusis vel deiectis  11, individuava il legittimato passivo di questa azione tramite la locuzione qui inhabitat, mettendone di seguito in evidenza la possibile alterità soggettiva rispetto al dominus: Studies in memory of J.A.C Thomas, London, 1983, 45 ss.; F. Serrao, Impresa, cit., 120 ss.; T. Gimenez Candela, Los llamados cuasidelitos, Madrid, 1990, 61 ss.; S. Schipani, Il contributo dell’‘edictum de his qui effunderint vel deiecerint’ e dell’‘edictum ne quis in suggrunda’ ai principi della responsabilità civile dal Corpus Iuris ai codici civili europei e latino-americani, in Scintillae Iuris. Studi in memoria di G. Gorla, II, Milano, 1994, 11031135; T. Palmirski, Some remarks on Ne quis in suggrunda protectove id positum habeat, cuius casus nocere possit praetor’s edict, in RIDA, 50, 2003, 287 ss. e F. Mattioli, Ricerche sulla formazione della categoria dei cosidetti quasi delitti, Bologna, 2010, 153 ss. 11  A riguardo dell’editto ‘De his, qui effuderint vel deiecerint’ e della relativa azione, cfr. P. Stein, The actio de effusis vel deiectis and the concept of quasi-delict in Scots law, in ICQL, 4, 1955, 356 ss.; G. Provera, voce Actio de effusis et deiectis, in NNDI, 1, Torino, 1957, 260 ss.; W. Wolodkiewicz, “Deiectum vel effusum”, cit., 365 ss.; L. Rodriguez Ennes, El edicto  de effusis vel  deiectis y  la problemática  urbanística romana, in Homenaje  A. Otero, Santiago de Compostela, 1981, 301 ss.; Id., Notas sobre el elemento subjetivo del edictum de effusis  vel deiectis, in IURA, 35, 1984, 91 ss.; E. Lozano Y Corbi, Popularidad y régimen de la legitimación en la actio de effusis et deiectis, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, V, Milano, 1984, 311 ss.; S. Schipani, Il contributo, cit., 103 ss.; H. Ankum, L’édit du préteur ‘De his qui deiecerint vel effuderint’, in Studia Juridica, 41, 2003, 1 ss.; R. Fercia, Il mistero delle ‘formulae in dominium habitatoris’, in Studi per Giovanni Nicosia, I, Milano, 2007, 317 ss. e F. Mattioli, Ricerche, cit., 86 ss.

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

Ulp. 23 ad ed. D. 9.3.1.4: Haec in factum actio in eum datur, qui inhabitat, cum quid deiceretur vel effunderetur, non in dominum aedium: culpa enim penes eum est.

L’azione in factum sarà concessa dal pretore contro colui che abiti l’immobile da cui è stato gettato o versato qualcosa, non contro il dominus aedium; infatti, quando egli non viva nel casamento, deve presuntivamente escludersi che sia responsabile della caduta. La distinzione, riferita nel passo in esame al dominus, in base al dettato di Ulp. 23 ad ed. D. 9.3.5.8, può valere anche per l’inquilinus. Dunque la non coincidenza tra la nozione di inquilino e quella di habitator emerge al meglio se si vadano a confrontare i regimi di legittimazione passiva delle due azioni, la cui divergenza il discorso del giurista è teso a porre in luce 12: – rispetto all’actio de deiectis vel effusis, domini aedium ed inquilini sono considerati responsabili solo se abitino l’immobile da cui proviene il versamento o la caduta; – nell’actio de posito et suspenso, dominus et inquilinus sono tenuti anche se non abitino l’immobile, sempre che vi sia aliquid expositum. Habitator, del resto, è il termine che nel Digesto indica colui che gode in prima persona del caenaculum, come risulta palesato da Alf. 2 dig. a Paul. epit. D. 19.2.27 pr.: Habitatores non, si paulo minus commode aliqua parte caenaculi uterentur, statim deductionem ex mercede facere oportet: ea enim condicione habitatorem esse, ut, si quid transversarium incidisset, quamobrem dominum aliquid demoliri oporteret, aliquam partem parvulam incommodi sustineret: non ita tamen, ut eam partem caenaculi dominus aperuisset, in quam magnam partem usus habitator haberet.

Il testo mette chiaramente in luce come, nel caso in cui il godimento di un immobile urbano fosse risultato per lo meno parzialmente limitato da un accidente, quale la caduta di una trave del tetto, che ne imponesse il ripristino, non sempre gli habitatores avrebbero potuto pretendere la deductio ex mercede, dovendo sopportare taluni lievi incomodi nell’esecuzione del rapporto contrattuale. Come si deduce anche dalla parte finale del testo, costoro non avrebbero avuto diritto alla riduzione della prestazione per ogni sorta di contrazione dell’uti frui, ma soltanto quando questa fosse consistente e derivasse da interventi sulla cosa di carattere eccezionale. Il tenore letterale del passo non lascia adito a dubbi: il casus della riduzione d’utilità che giustifica la decurtazione o l’adeguamento del canone, sia 12  Cfr. R. Fercia, La Responsabilità per fatto di ausiliari nel diritto romano, Torino, 2008, 132, nt. 54, ma anche, precedentemente, F. Serrao, Impresa, cit., 124 ss.

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esso la rovina di una parte del tetto o la sua completa distruzione, implica una compressione del godimento diretto del bene, che, dunque, per questa via, diventa elemento tipico e caratterizzante il soggetto habitator 13. Dal complesso dei passi citati mi pare risulti con chiarezza che, allorquando le fonti intendono riferirsi al conduttore ultimo di una porzione del casamento, in genere detta caenaculum, impieghino il termine habitator e che, invece, il vocabolo inquilinus indichi un conduttore non sempre interessato a risiedere nell’edificio. Il ruolo economico di questo soggetto, in ogni caso, risalta, a mio modesto avviso, dal significativo raffronto che le fonti intessono con la figura del colonus; si consideri, in proposito, Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.27.11: Proculus ait, cum coloni servi villam exussissent, colonum vel ex locato vel lege Aquilia teneri, ita ut colonus possit servos noxae dedere, et si uno iudicio res esset iudicata, altero amplius non agendum. Sed haec ita, si culpa colonus careret: ceterum si noxios servos habuit, damni eum iniuria teneri, cur tales habuit. Idem servandum et circa inquilinorum insulae personas scribit: quae sententia habet rationem.

Una villa perisce tra le fiamme per fatto dei servi ausiliari del colono; quest’ultimo, in qualità di conduttore del fondo, potrà essere chiamato a rispondere per non aver adempiuto all’obbligo di restituzione della villa incorrupta con l’actio ex locato o ex lege Aquilia, in entrambi i giudizi, tuttavia, secondo l’opinione di Proculo, il colonus potrà giovarsi della dazione nossale, in considerazione della mancanza di una sua specifica colpa. Sul passo si tornerà più ampiamente in seguito a riguardo della responsabilità contrattuale del conduttore e a quella sede rimando per il prolungato dibattito che ha occupato la dottrina romanistica sulla sua genuinità totale o parziale, qualora si ritenga sed haec – habuit un glossema 14. L’ultima parte del frammento, che a noi qui più direttamente interessa, nell’addossare al conduttore dell’insula la medesima responsabilità gravanSul passo, per una più approfondita analisi si rimanda infra Cap. II, §. 1.2 e, tra gli altri, si veda R. Fiori, La definizione della ‘Locatio-Conductio’. Giurisprudenza romana e tradizione romanistica, Napoli, 1999, 99 s. L’habitator è, del resto, un soggetto che risiede nell’immobile, godendone in prima persona, anche alla luce di D. 6.1.59; D. 9.3.1.8; D. 9.3.6.2; D. 19.1.53.2, non in commento nelle pagine che seguono. Non lo stesso può dirsi per l’inquilinus, termine su cui i riscontri sono senza dubbio più incostanti per la sua naturale polisemia. In D. 9.2.27.8, per esempio, l’incendio di cui si discute potrebbe aver ben dato alle fiamme l’instrumentum predisposto da costui a vantaggio dei propri subconduttori; in D. 19.1.13.30 e D. 19.2.25.1, invece, il suo diritto di abitare l’immobile è giustapposto alla più generale facoltà di frui del colono, attestando come lo stesso potesse risolversi anche in un godimento mediato. 14  Cfr., infra Cap. II, §. 1.3. 13 

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te, secondo la prima, sul colonus, finisce per suggerire l’equiparazione tra la posizione negoziale di colui il quale prenda in affitto la villa dal dominus per trarre profitto dal lavoro dei campi e quella delle inquilinorum insulae personae 15. Questa vicinanza si riflette evidentemente sul piano economico: se il colonus sfrutta l’altrui proprietà rustica, con la collaborazione di un’équipe ����������������������������������������������������������������� di propri servi, per trarne un lucro superiore rispetto alla rendita che è nelle sue possibilità di assicurare al titolare, l’inquilinus farà lo stesso della proprietà urbana di cui è conduttore. Il segno inquilinus, pertanto, in molti casi indicherà nelle fonti uno speculatore di professione 16, il cui unico scopo è quello di ottenere dalla locazione dell’immobile più di quanto corrisposto al locatore, sia esso stato il dominus o un altro conduttore intermedio. La speculazione sugli affitti urbani, infatti, doveva essere tanto profittevole da nutrire catene plurime di sublocatori, così un conduttore avrebbe anche potuto trarre lucro da un casamento, il cui godimento si era assicurato dal dominus, subaffittandolo nel complesso ad un secondo inquilino, che, poi, a sua volta, ne avrebbe locati ai singoli habitatores i caenacula. La circostanza mi pare avallata da: Paul. 32 ad ed. D. 19.2.7: Si tibi alienam insulam locavero quinquaginta tuque eandem sexaginta Titio locaveris et Titius a domino prohibitus fuerit habitare, agentem te ex conducto sexaginta consequi debere placet, quia ipse Titio tenearis in sexaginta. Sulla figura del colono e sull’affitto agrario nell’economia della villa romana si veda J.J. Aubert, Business Managers, cit., 125 e 129-131; di recente, anche, cfr. E. Lo Cascio, La proprietà, cit., 44 ss., il quale, dopo aver constatato che i proprietari terrieri «in molti casi avranno conservato la proprietà» – dei loro fondi – «ma non li avranno lavorati personalmente, come coltivatori diretti, né mediante squadre di schiavi e un vilicus, ma appunto dandoli in affitto», rileva come, pur nella sua sfuggente polimorfia e benchè «il significato primario del termine colonus» – sia – «quello di “coltivatore”», – il lessema progressivamente – «si specializza nel significato di “affittuario di un fondo”». Di seguito, poi, l’Autore chiude il percorso evolutivo del segno colonus: «la testimonianza offerta, per un periodo successivo, dall’epistolario pliniano sembrerebbe attestare» – la possibità per il proprietario – «di affidare ad un grosso affittuario-imprenditore (…) la gestione economica di un’intera proprietà» (sul tema ancora, da ultimo, cfr. P.J. Du Plessis, Letting, cit., 136 ss.). Sull’identificazione, invece, tra la figura dell’inquilinus, gestore dell’immobile, e le inquilinorum insulae personae, cfr. R. Fercia, La Responsabilità, cit., 74, nt. 106 e 132. L’Autore, in questa sede, metteva in luce come, anche se sottovalutata dalla più risalente dottrina, la distinzione «(cfr. Alf. 3 dig. a Paul. epit. D. 19.2.30 pr.) tra conduttore dell’intera insula (come nel passo in esame) e conduttore del singolo cenacolo (habitator: cfr. Alf. 2 dig. D. 19.2.27 pr.)», è di palese evidenza e di pregnante rilevanza giuridica, indicando un ruolo e una posizione economica completamente distinta dei due soggetti. 16  A riguardo, cfr. B.W. Frier, Landlords, cit., 36, 176 s. e 183 e recentemente P.J. Du Plessis, Urban landlords, cit., 638, che ha parlato di questo soggetto in termini di venture capitalist. 15 

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Se un locatore abbia locato “in blocco” un casamento altrui per una certa somma (50) e il conduttore a sua volta lo abbia ricollocato presso Tizio per una mercede complessivamente più alta (60) e a quest’ultimo sia poi stato impedito dal proprietario di abitarci, il conduttore, agendo ex conducto, dovrà conseguire per intero questo corrispettivo (60), poiché Tizio, cioè l’habitator, potrà chiamarlo a rispondere di ciò: ovvero di tutto quanto avrà pagato per assicurarsi il godimento di quell’edificio. Per quanto qui interessa, nel passo paolino si intrecciano, in sequenza, ben tre ordini di rapporti locativi: uno, tra dominus e primo conduttore, il secondo, tra costui e un sublocatore, il terzo, che lega quest’ultimo all’habitator 17. Naturalmente, non è detto, ed anzi nella maggior parte dei casi non doveva essere, che vi fosse corrispondenza tra le porzioni immobiliari prese in conduzione e quelle locate: il primo conduttore si assicurava il godimento complessivo dell’immobile, che veniva locato per piani o per caenacula ad un altro speculatore, il quale sublocava poi le porzioni minime ai singoli fruitori in proprio. Ogni conduttore intermedio, se era abile nel suo intento, ricavava una parte del profitto, addossando, in ultima analisi, tutto il peso delle proprie fortune sugli utilizzatori finali. Si tratta di una situazione compiutamente descritta nelle fonti, in particolare da Ulp. 23 ad ed. D. 9.3.5: pr. Si vero plures diviso inter se cenaculo habitent, actio in eum solum datur, qui inhabitabat eam partem, unde effusum est. 1. Si quis gratuitas habitationes dederit libertis et clientibus vel suis vel uxoris, ipsum eorum nomine teneri Trebatius ait: quod verum est. Idem erit dicendum et si quis amicis suis modica hospitiola distribuerit. Nam et si quis cenaculariam exercens ipse maximam partem cenaculi habeat, solus tenebitur: sed si quis cenaculariam exercens modicum sibi hospitium retinuerit, residuum locaverit pluribus, omnes tenebuntur quasi in hoc cenaculo habitantes, unde deiectum effusumve est.

Del lungo frammento ciò che a noi precipuamente interessa è la seconda parte del §. 1; eppure, per ricostruire compiutamente il quadro economico sotteso al casus, è necessario partire dall’incipit. Ancora una volta il Non si ignora che il testo nulla espliciti circa la relazione giuridica intercorrente tra il dominus e il primo locatore. La lettura qui accolta, tuttavia, perfettamente congruente al tenore letterale del testo, e di recente proposta anche da P.J. Du Plessis, Urban landlords, cit., 641, è, ad avviso di chi scrive, pure obbligata, sul punto, rimando infra Cap. II, §. 1.2. Infatti, mi pare che le motivazioni di questa interpretazione si possano a pieno comprendere soltanto nel raffronto complessivo dell’intera disciplina riguardante la responsbilità del locatore. 17 

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giurista si occupa della legittimazione passiva connessa all’azione de effusis vel deiectis: se più persone abitino un appartamento 18, l’azione è data solo contro chi dimora nella parte da cui è stato gettato o versato qualcosa. Si tratta, evidentemente, di un caenaculum diviso in più stanze separatamente subaffittabili; del resto, in caso contrario, se ne fosse comune il godimento, non si intenderebbe come poter individuare il “responsabile” della parte da cui si è prodotta la caduta. E questo mi pare sia chiarito dall’apertura del §. 1: infatti, nel caso in cui gli habitatores godessero del bene a titolo di ospitalità, Trebazio Testa riteneva che per loro dovesse rispondere l’ospite, quando, dopotutto, si riceve un amico o un cliente non ne si può limitare il godimento ad una parte soltanto dell’immobile. Segue la parte che a noi più preme: se taluno esercendo (exercens) la locazione dell’appartamento (cenaculariam) in cui vive, ne abbia riservata al proprio personale uso la porzione più grande, egli solo sarà tenuto, se, invece, di un appartamento suddiviso in più stanze abbia goduto solo di un modicum hospitium, tutti risponderanno della deiectio, a meno che, a memoria dell’incipit del passo, non sia esattamente individuabile la camera da cui è stato gettato o versato qualcosa 19. A modesto avviso di chi scrive, in questo testo, con la locuzione quis cenaculariam exercens Ulpiano intende riferirsi al gestore di un immobile, o meglio, di una sua porzione, che si fosse riservato, come era frequente 20, una o più stanze di un più ampio appartamento, per vivere e organizzare la propria attività economica. Non vedo altre ragioni per cui il giurista avrebbe dovuto adottare una terminologia tecnica, il verbo exercere 21, che rimanda alla conduzione di un’attività economica in forma di negotiatio 22, Qui l’uso del termine caenaculum è rivelatore della sua natura di portio dell’insula (cfr. voce cenaculum, in TLL, III, 780 s.), non, invece, della sua dimensione: molteplici sono infatti le testimonianze del considerevole prestigio ed ampiezza, che, talvolta, potevano caratterizzare queste strutture immobiliari. Dei vari livelli di appartamenti urbani accennava già G. Salvioli, Il capitalismo, cit., 58, più diffusamente, ne trattavano L. Homo, Roma, cit., 456 e A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 205 s., da ultima, sul punto A.L. Boozer, voce Apartment, cit., 515 s. 19  F. Serrao, Impresa, cit., 125 s. 20  R. Fercia, La Responsabilità, cit., 130 s., nt. 50. Sulla frequenza con cui ricorreva questo tipo di sistemazione, J. Carcopino, La vita, cit., 54; M. Beard, Prima del fuoco, cit., 88 e 131 ss. e si veda anche supra Intr., §. 2. 21  Cfr. R. Fercia, La Responsabilità, cit., 131 nt. 50. Sulla ricorrenza nelle fonti dell’utilizzo del verbo exercere in relazione all’exercitio di attività economiche organizzate, P. Cerami-A. Petrucci, Diritto3, cit., 16 ss., 38 nt. 4 e 56 ss. 22  Cfr. A.M. Giomaro, Dall’instruere all’instrumentum, cit., 107, nt. 8; dove l’Autrice palesa il suo punto di vista sul passo: «va rimarcato innanzi tutto l’uso del verbo exercere, che è terminologia tecnica adottata per indicare altrove l’attività dinamica di imprendito18 

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se si fosse trattato di un soggetto, che, al solo scopo di dividere con altri habitatores l’elevata pigione, si fosse risolto a spartire con costoro il proprio spazio vitale. In altri termini, quel quis è, se correttamente intendo, nel suo piccolo, un soggetto intenzionato a trarre profitto dalla sublocazione di una parte del caenaculum e, pertanto, in definitiva, uno speculatore 23. Della realtà attestata da Ulp. 23 ad ed. D. 9.3.5 pr.-.1 si trova conferma anche nello scorcio di un altro frammento estremamente interessante ai nostri fini, cioè Ulp. 28 ad ed. D. 13.7.11.5: …Plane in eam dumtaxat summam invecta mea et illata tenebuntur, in quam cenaculum conduxi: non enim credibile est hoc convenisse, ut ad universam pensionem insulae frivola mea tenebuntur. Videtur autem tacite et cum domino aedium hoc convenisse, ut non pactio cenacularii proficiat domino, sed sua propria.

Si discuteva, nel segmento di testo che precede, di quali circostanze potessero indurre a considerare adempiuta correttamente l’obbligazione di pagare il canone, pertanto, di quando potesse esperirsi l’azione pignoratizia per il recupero delle cose date in garanzia 24. Qui, invece, Ulpiano si intrattiene nel chiarire come l’adempimento dell’habitator sia del tutto indipendente da quello del conduttore intermedio nei confronti del dominus, con il quale, del resto, costui non ha alcun rapporto. Le cose convenute in garanzia per la corresponsione della mercede al conduttore intermedio non possono, all’evidenza, essere trattenute dal dominus a garanzia del pagamento del canone a lui dovuto per l’intero casamento, poiché è come se fosse stato tacitamente convenuto che costui non potesse avvantaggiarsi dell’intesa sul pegno tra il cenacularius e gli habitatores, ma solo di quella sua propria. Dunque, per quanto qui interessa, il cenacularius è un conduttore intermedio al pari dell’inquilinus e, se, come a me pare, deve identificarsi con il quis cenaculariam exercens di Ulp. 23 ad ed. D. 9.3.5.1 25, l’unico elemento ria … in rapporto alla taberna … in D 9,3,5,1: si quis cenaculariam exercens»; negli stessi termini, R. Fercia, La Responsabilità, cit., 130 s. 23  B.W. Frier, The Rental Market, cit., 28 e R. Fercia, La Responsabilità, cit., 131 nt. 50. 24  Solutam autem pecuniam accipiendum non solum, si ipsi, cui obligata res est, sed et si alii sit soluta voluntate eius, vel ei cui heres exstitit, vel procuratori eius, vel servo pecuniis exigendis praeposito. Unde si domum conduxeris et eius partem mihi locaveris egoque locatori tuo pensionem solvero, pigneraticia adversus te potero experiri (nam Iulianus scribit solvi ei posse): et si partem tibi, partem ei solvero, tantundem erit dicendum. 25  Il cenacularius di Ulp. 28 ad ed. D. 13.7.11.5 è, per altro, senza necessità di spiegazione alcuna, un imprenditore in base all’opinione di B.W. Frier, The Rental Market, cit., 28 nt. 8. Sull’identificazione tra i protagonisti dei due passi già cfr. F. Serrao, Impresa, cit., 125 s., nt. 18, il quale tuttavia metteva in luce come nel primo nessun elemento consentisse

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che da costui lo distingue, in considerazione del riferimento lessicale esplicito al caenaculum, è probabilmente quello della dimensione della propria attività speculativa, proporzionale, se così si può dire, alla porzione di immobile della cui locazione presso il pubblico degli utenti intende farsi carico. La divergenza tra dominus dell’edificio e suo gestore, che fino a qui abbiamo visto essere attestata dalle fonti in rapporto all’insula, ricorre parimenti nell’alveo dell’amministrazione degli horrea 26: Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 19.2.60.9: Rerum custodiam, quam horrearius conductoribus praestare deberet, locatorem totorum horreorum horreario praestare non debere puto, nisi si in locando aliter convenerit.

La scissione tra la persona dell’horrearius e quella del dominus è qui evidente: solo il primo intratteneva rapporti negoziali con i conduttori delle cellae, assumendo l’obbligo di custodire le res da costoro inductae; il locator totorum horreorum, in quanto mero proprietario delle strutture, al contrario, avrebbe potuto essere chiamato a rispondere dal gestore per la custodia delle cose allocate nel magazzino solo se lo avesse espressamente promesso 27. Quest’ultimo, infatti, dal canto suo, si obbligava esclusivamente a garantire a terzi il godimento dell’intero complesso immobiliare contro il pagamento di un determinato canone, sgravandosi di quegli imponenti oneri di gestione di cui, invece, per contro si sarebbe fatto carico l’horrearius, ovvero il conduttore “intermedio” 28. di escludere che il soggetto esercente la locazione di camere fosse anche il proprietario dell’appartamento. 26  In tal senso, si vedano recentemente, A. Petrucci, Note, cit., 29; C. Virlouvet, Bâtiments, cit., 49, ma anche me stesso in A. Grillone, Punti, cit., 22. 27  Sul passo si vedano i recenti contributi di A. Cassarino, Ricerche, cit., 16 s. e A. Petrucci, Note, cit., 30. Sulla natura del contratto di locatio horrei, nonché sul suo inquadramento nella pedagogica tripartizione delle species della locatio-conductio rimando infra Cap. II, §. 2 e ntt. 205 s.; ad esso, in ogni caso, si associava una responsabilità molto stringente per il perimento o danneggiamento delle merci immagazzinate (custodiam praestare), dalla quale il gestore dell’edificio poteva esonerarsi solo per caso fortuito o per lo scasso del magazzino (cfr. infra Cap. II, §§. 1-2 e qui basti il rinvio ad A. Petrucci, Per una storia, cit., 240 s.). 28  Cfr. A. Petrucci, Per una storia, cit., 239 s.; P.J. Du Plessis, Letting, cit., 173 ss.; R. Marini, La custodia, cit., 166 ss. e precedentemente G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 202, il quale, già, così magistralmente sintetizzava il significato del passo: «Labeo (Digest XIX. 2. 60. 9) seems to settle the matter by his clear distinction between “locator totorum horreorum”, “horrearius” and “conductores”. The “conductores” were cleary the depositors, the “horrearius” the contractor, with whom they dealt, and “locator totorum horreorum” presumably the owner who let the whole warehouse to the contractor». Conferme sulla diffusione di questo assetto gestionale derivano anche dallo studio epigrafico di alcuni complessi immobiliari; in tema, si rimanda a M. Serlorenzi, La costruzione di un complesso horreario

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In caso di scissione tra dominus e horrearius era il secondo che predisponeva tutto quanto necessario per la ricezione e la sorveglianza delle merci introdotte dai clienti; se falliva, inoltre, su di lui soltanto gravava il rischio del perimento, del danneggiamento o del furto delle cose dei clienti, per questo ben poteva pretendere di essere compensato più di quanto aveva speso per assicurarsi la fruizione del magazzino. Come il conduttore intermedio dell’insula, egli era in senso tecnico uno speculatore, in quanto lucrava la differenza tra ciò che aveva corrisposto al titolare dell’edificio e ciò che avrebbe riscosso dai singoli conduttori delle cellae, e, tuttavia, rispetto a costui si assumeva un rischio ancora maggiore, essendo potenzialmente tenuto a garantire per l’intero valore delle merci introdotte dagli utenti. Con quanto detto non contrasta la circostanza che, talvolta, la conduzione di immobili urbani facesse capo direttamente ai loro proprietari; ne sia prova Paul. sing. de off. praef. vig. D. 19.2.56: Cum domini horreorum insularumque desiderant diu non apparentibus nec eius temporis pensiones exsolventibus conductoribus aperire et ea quae ibi sunt describere, a publicis personis quorum interest audiendi sunt.

Il frammento paolino descrive una peculiare situazione in cui il conductor, inadempiente all’obbligazione di pagare il canone, risulti pure assente: consolidata la posizione di insolvenza, il proprietario del locale avrebbe potuto ottenere, sotto la sorveglianza del prefetto dei vigili o di funzionari da costui delegati, di aprirlo, stilare un elenco delle cose ivi lasciate dal cliente, provvedendo, di seguito, alla loro vendita e alla propria conseguente, almeno parziale, soddisfazione 29. Fermo restando, pare finanche superfluo l’appunto, che sotto l’aspetto procedurale nulla sarebbe mutato se a rivolgersi al praefectus vigilum fosse stato il conductor totorum horreorum, il passo è in ogni caso ai nostri fini

a Testaccio. Primi indizi per delineare l’organizzazione del cantiere edilizio, in Arqueología de la construcción II. Los procesos constructivos en el mundo romano: Italia y provincias orientales, Madrid, 2011, 105 ss. Nel testo l’Autrice deduce che gli horrea Seiana fossero gestiti secondo le predette modalità organizzative da un insieme di fonti epigrafiche rinvenute nei pressi delle loro fondamenta: CIL VI 238, 9471, 36778, 36783, 36786, 36819, 36837, che riportano, tra l’altro, dediche al conductor dei magazzini, testimoniandone l’alterità rispetto alla figura del dominus (cfr. sul punto anche voce Horrea Seiana, in LTUR, III, 46 s.); più oltre, al modello riconduce gli horrea Galbana, la cui proprietà è da attribuire a Servio Sulpicio Galba (come risulta dalla tomba all’interno dell’area di stoccaggio), il quale, propretore in Hispania Ulterior nel 111 a.C. e poi console a Roma nel 108 a.C., uomo politico di spicco, non pare credibile avesse interesse ad impegnarsi nella gestione diretta del complesso di stoccaggio. In questo senso, si veda pure E. Zappata, ‘Piperarii’, in Actes de la VII rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du monde romain, Roma, 1994, 734-736. 29  Sul punto, rimando infra Cap. II, §. 1.4.

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doppiamente utile. In primo luogo, intanto, contiene un esplicito parallelo tra il regime previsto per l’obbligazione di pagare il canone nel contesto della locazione di horrea e in quello diverso della locazione di casamenti abitativi; è significativo, inoltre, in quanto nell’identificare il gestore dei magazzini utilizza la locuzione dominus horreum insularumque, la cui semplice versione suggerisce che si tratti, in tal caso, di un amministratore anche proprietario delle strutture 30.

2. L’amministrazione immobiliare per mezzo di preposti. Il vertice manageriale dell’impresa complessa: per un’interpretazione giuridicamente orientata del procurator insulae di Satyricon 96 L’amministrazione diretta, da parte del dominus, per ovvie ragioni economiche, doveva essere particolarmente proficua nei complessi immobiliari di più piccole dimensioni, nei quali, dato il ristretto numero di spazi locabili, era più difficile rendere profittevole una manovra speculativa e il proprietario restava, pertanto, il soggetto più idoneo a trarne un lucro. È il caso, Cfr. A. Grillone, Punti, cit., 24, sulla scorta della precedente e consolidata lettura di C.A. Cannata, Su alcuni problemi, cit., 250 s. Come detto (cfr. supra Intr., §. 3, ntt. 97 s.), in base alla mia opinione, le proprietà sull’Argileto e sull’Aventino venivano gestite da Cicerone, seppure con l’aiuto di Attico e dei suoi liberti, non mediante il conferimento ad un conduttore intermedio, ma in via diretta, forse, tramite preposti. Non è infatti risolutiva, a mio avviso, per sposare la prima interpretazione (sostenuta in dottrina da B.W. Frier, Cicero’s, cit., 1-4) la circostanza che Cicerone aspetti un versamento unificato dei canoni; egli, infatti, non lo attende dagli inquilini, ma dal liberto Eros (cfr. Ad Att. 15.17.1), che, evidentemente, ne organizzava la riscossione. Ben più significativo è, invece, il dato che egli ne reclami la corresponsione fin da marzo (Ad Att. 12.32.2) e con maggior veemenza in giugno inoltrato (come sempre da Ad Att. 15.17.1 risulta). E dunque, a meno di non voler credere che Cicerone chiedesse, ancora nel giugno 45, un pagamento che gli si doveva da quasi un anno, si deve ritenere che il termine ultimo della riscossione decorresse in quei giorni e che, non avendo ricevuto alcuna somma periodica, egli fosse oltremodo preoccupato dal suo buon esito. Il fatto che, dopo lunga attesa, il celebre Oratore riceva le somme l’8 luglio 45 (Ad Att. 16.1.5) testimonia che il versamento, riferito all’anno 46-45, non era atteso da un conduttore intermedio, che, se vi fosse stato, in quei giorni avrebbe visto sorgere la propria obbligazione di pagare il canone per l’annata 45-44, ma dai conduttori in proprio, che avevano visto decorrere il dies ultimo per l’adempimento in data 30 giugno 45. Incontreremo, per altro, a breve (cfr. infra §. 2) altri due casamenti urbani gestiti da institori, ma facenti capo al dominus: uno reale, l’insula pompeiana di ridotte dimensioni di cui ci informa CIL IV 138, l’altro partorito dalla fantasia di Petronio (in Sat. 95), in cui viene esercitata un’attività di ricezione alberghiera, che pure, in ogni caso, anche se luogo immaginario, all’evidenza ricalca e testimonia una realtà diffusa nella società romana del tempo. 30 

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questo, dell’Insula Arriana Polliana di Pompei, da cui proviene l’epigrafe contenuta in CIL IV 138 (= FIRA III 143a): Insula Arriana | Polliana Cn. Allei Nigidi Mai. | Locantur ex k(…) Iulis primis tabernae | cum pergulis suis et c[e]nacula | equestria et domus. Conductor | convenito Primum Cn. Allei Nigidi Mai ser (…).

Tra il 50 e il 60 d.C., all’angolo di una strada trafficata a 300 metri dal Foro, si poteva leggere una sorta di annuncio commerciale: il proprietario dell’edificio invitava gli interessati a contattare un proprio schiavo agente al fine di prendere in conduzione, a partire dalla data del primo luglio, vari tipi di alloggi. Studi archeologici hanno aiutato ad individuarli con precisione: alcune domus seppur di ridotte dimensioni, site al piano terra dell’edificio, tabernae commerciali a più vani, alcuni caenacula signorili con accessi separati al piano superiore, nonché varie altre unità abitative minime 31. La rilevanza dell’iscrizione, lo si comprende agevolmente, va ben oltre la menzione al genitivo del proprietario dell’insula. Il documento, proveniente da una colonna dell’edificio pompeiano ed oggi svanito, ha suscitato, probabilmente per la difficoltà di chiarirne la natura e la funzione, una certa indifferenza in dottrina, restando per lo più completamente ignorato. Solo recentemente è stato rivalutato e indicato quale unico esemplare (o uno dei pochi) di proscriptio giunto sino a noi. Si tratterebbe, secondo questi studi, di un esempio tangibile degli strumenti pubblicitari utilizzati nella prassi commerciale romana al fine di rendere conoscibili ai terzi contraenti i poteri conferiti ai preposti nell’esercizio di una determinata attività economica organizzata 32. Non vedo personalCfr. E. De Albentiis, Indagini, cit., 46 e 77 ss. e M. Beard, Prima del fuoco, cit., 88 e 131 ss.; sulla possibilità che l’attività di amministrazione dei casamenti coinvolgesse anche immobili ad uso commerciale, abbiamo già avuto modo di analizzare Cic., Ad Att. 14.9.1 (cfr. supra Intr., §. 3), inoltre, l’Autrice menziona il caso dei Praedia di Iulia Felix; la vasta proprietà pompeiana ricomprendeva alcuni locali gestiti privatamente, di cui facevano parte varie tipologie di strutture in affitto: una stazione termale, appartamenti, spacci commerciali, botteghe artigiane ed osterie (sulle possibili forme di conduzione di tale struttura già mi sono intrattenuto in A. Grillone, La gestione, cit., 179 ss.). Sul tema si veda pure P.J. Du Plessis, Letting, cit., 157 e Id., Urban landlords, cit., 637, per un riscontro delle medesime strutture sul sito ostiense, cfr. J. Delaine, The ‘insula’ of the Paintings at Ostia i.4.2-4: Paradigm for a city in flux, in Urban Society in Roman Italy, Cambridge, 2003, 79 ss. 32  Di recente, l’attenzione è stata portata sulla fonte epigrafica, prima inutilizzata, da M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 45 s., nt. 63 e Ead., Le banche fallivano anche a Roma: il crack di Callisto all’epoca di Commodo, in I Quaderni di Res 1. Regolare l’economia: il difficile equilibrio fra diritto e mercato dall’antica Roma alle odierne piazze finanziarie, Novara, 2014, 25 nt. 40: l’Autrice, secondo un’impostazione da me stesso già condivisa in A. Grillone, Punti, cit., 25 s., ha posto in luce come la stessa presenti tutti gli elementi integranti la proscriptio di un institor. Già l’archeologia aveva tentato di interpretare la 31 

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mente per quali ragioni non possa essere condivisa l’idea che CIL IV 138 attesti la praepositio generale, conferita dal dominus dell’edificio, Cnaius Alleius Nigidus Maius, al suo servo, Primus, tramite la quale quest’ultimo sarebbe stato incaricato dell’amministrazione dell’intera insula. Dopotutto, l’unica plausibile valenza alternativa dell’iscrizione potrebbe essere quella di “autorizzazione a contrarre”, che si trattasse cioè di uno iussum; e, tuttavia, l’ipotesi non regge all’argomentazione critica: in primo luogo, infatti, l’affissione tocca impersonalmente tutti i contraenti, non rivolgendo alcuno specifico comando al servus; non contiene, inoltre, nessun riferimento alla volontà del dominus di estendere oltre la massa peculiare la propria responsabilità limitata o di assumerne una in solidum, qualcosa di paragonabile cioè al quod voles cum Sticho servo meo negotium gerere periculo meo di Ulp. 29 ad ed. D. 15.4.1.1; infine, non emerge dalle fonti che l’affissione fosse mezzo di pubblicità comunemente praticato per lo iussum 33. Oltreché per l’indubbia rilevanza dettata dall’unicità del riferimento, il dato epigrafico fornisce una conferma tangibile del fatto che l’amministrazione di casamenti urbani venisse sovente esercitata per mezzo di preposti; la circostanza, del resto, è pacifica nel commentario ulpianeo all’editto, che la fa risalire a Servio Sulpicio Rufo: Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.1: …Servius libro primo ad Brutum ait, si quid cum insulario gestum sit vel eo, quem quis aedificio praeposuit vel frumento coemendo, in solidum eum teneri. fonte a livello socio-economico: per primo D. Romanelli, Viaggio a Pompei, a Pesto e di ritorno ad Ercolano ed a Pozzuoli dell’ab. Domenico Romanelli, Napoli, 1817, 88, aveva parlato, seppur con terminologia impropria, di locationis proscriptio, descrivendo e trascrivendo fedelmente l’iscrizione; ancora, E. De Albentiis, Indagini, cit., 76 ss., aveva ripreso la qualifica di pubblico bando di locazione e, nondimeno, ponendo in evidenza la menzione del servo Primus (del tutto erroneamente identificato con un vilicus da E. Santamato, Deversorium, cit., 14, nt. 53), accennava almeno fuggevolmente al suo ruolo di rappresentante negoziale del dominus. La recente rivalutazione dottrinaria della fonte si palesa pure da un raffronto interno alla personale opera dell’Aubert, il quale nel suo J.J. Aubert, Business Managers, cit., 12, aveva screditato la possibilità di individuare, con sufficiente grado di certezza, un documento assimilabile alla nozione di proscriptio, ma in un recente breve contributo Id., Law, cit., 627, ha indicato Primus, quale institor, gestore dell’insula Arriana Polliana. 33  Iussum autem accipiendum est, sive testato quis sive per epistulam sive verbis aut per nuntium, sive specialiter in uno contractu iusserit sive generaliter: et ideo et si sic contestatus sit: “quod voles cum Sticho servo meo negotium gere periculo meo”, videtur ad omnia iussisse, nisi certa lex aliquid prohibet. Sui presupposti della tutela quod iussu, qui basti il rinvio a M. Miceli, Sulla struttura formulare delle ‘actiones adiecticiae qualitatis’, Torino, 2001, 309 ss.; G. Coppola Bisazza, Lo iussum domini e la sostituzione negoziale nell’esperienza romana, 1, Milano, 2003, 152 ss. e A. Petrucci, Per una storia, cit., 96 s.

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D. 14.3.5.1-10, nel suo insieme, racchiude un lungo elenco esemplificativo di negotiationes esercitabili attraverso preposti e modellate su questo comune schema organizzativo: la gestione di edifici urbani è tra queste 34. Secondo questo modello manageriale, i proprietari o, nel caso in cui questi si fossero liberati dagli oneri di amministrazione, i conduttori intermedi 35, non intrattenevano rapporti negoziali diretti con i clienti, non concludevano in prima persona i contratti di locazione, ma, attraverso l’atto di preposizione, affidavano la conduzione dell’insula ad un proprio dipendente, per lo più un sottoposto, come il servus Primus di CIL IV 138, che per loro conto avrebbe avuto il compito di gestire l’immobile. Nella porzione di paragrafo in esame, il giurista fa riferimento a questo soggetto tramite la locuzione insularius 36 vel eo, quem quis aedificio praeposuit; la ragione della complessa formulazione serviana è, a mio modesto avviso, duplice: da un lato, infatti, essa è legata all’uso promiscuo che le fonti, talvolta anche giuridiche, fanno del termine insularius, che non sempre viene ad indicare un soggetto avente ruolo manageriale 37, dall’altra, lascia la possibilità di intenA. Petrucci, Per una storia, cit., 15 s.; J.J. Aubert, Business Managers, cit., 7; Id., Law, cit., 627 e M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 23 ss. 35  Cfr. supra §. 1. 36  E, sul punto, mi lascia perplesso l’opinione di P.J. Du Plessis, Letting, cit., 151 e 155, per il quale l’insularius doveva essere una figura subordinata nel contesto della gestione, sottoposta ad altro schiavo-manager, forse, ad un vilicus, se questo soggetto viene espressamente menzionato da Servio nel novero degli institori e lo stesso Ulpiano nel libro ventottesimo all’editto affermava con lapalissiana nettezza: institor appellatus est ex eo, quod negotio gerendo instet (D. 14.3.3); questi, in altri termini, mi pare sia, senza possibilità di equivoco, colui che gestisce l’impresa. In un più recente contributo, del resto, pure P.J. Du Plessis, Urban landlords, cit., 638, ha seguito questa impostazione, mettendo in evidenza come nelle fonti: «the comparison between vilicus and insularius …suggests a management role»; sull’annotazione, pienamente condivisibile, tornerò a breve con maggiore attenzione, poichè, in effetti, la polisemia nell’uso volgare del termine comporta, nelle fonti, significative oscillazioni di significato, cfr. voce insularius, in TLL, VII, 2039 s. 37  È il caso, forse, dei coctores insulariique (su cui si tornerà, ancora, all’interno di questo paragrafo) che mulcant exclusum in Petr., Sat. 95, come pure evidenziava B.W. Frier, The Rental Market, cit., 31 e più recentemente E. Santamato, Deversorium, cit., 4 s., nt. 16 e 14 s. e quello degli addetti che Tacito nei suoi Annales, 15.43, ricordando il notevole impegno dimostrato da Nerone nel miglioramento dell’urbanistica cittadina, rammentava essere stati oggetto di una serie di provvedimenti adottati da questo imperatore al fine di migliorare la sicurezza degli edifici urbani, con i quali impose ai proprietari di immobili di predisporre e mantenere squadre di custodi (insularii) precipuamente rivolte al tempestivo intervento sugli incendi; infine, pure un testo giuridico, tratto dal Digesto, Pomp. 5 ad Sab. D. 7.8.16.1: Dominus proprietatis etiam invito usufructuario vel usuario fundum vel aedes per saltuarium vel insularium custodire potest…, giustapponendo l’insularius al guardaboschi, e in considerazione della sua posizione di dipendente del nudo proprietario, piuttosto che dell’usufruttuario, lo esclude dal novero dei soggetti impiegati a livello direttivo nella messa a frutto di immobili urbani. 34 

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dere che i preposti potessero amministrare qualsiasi tipologia di edificio e non soltanto un’insula 38. Quest’ultima circostanza è evidente, lo vedremo tra poco, pure dal seguito del lungo frammento ulpianeo, quando al §. 6 vengono menzionati gli stabularii, i quali indifferentemente operano in strutture riconducibili architettonicamente al modello dell’insula o della domus, che possono anche essere site fuori del contesto urbano 39. Come, dunque, si avrà occasione di apprezzare, la species di edificio offerto in locazione al pubblico risulta ininfluente sotto il profilo delle modalità organizzative dell’attività dinamica di imprenditoria che entro le sue mura si svolge, nella ricezione alberghiera, come in ogni altra forma di gestione immobiliare. Quale sia il ruolo economico-giuridico ricoperto dall’insularius preposto alla gestione lo si comprende dalla giustapposizione, ricorrente nelle fonti, tra questa figura e il vilicus, parallela anche a quella, sopra osservata 40, tra colonus ed inquilinus, quali soggetti amministratori di beni altrui a scopo di profitto. Pomp. 6 ad Sab. D. 50.16.166 41 afferma: non multum abest a Sul punto cfr., da ultimo, J.J. Aubert, Law, cit., 627 s. e si considerino le mie annotazioni circa l’uso del termine balneator in rapporto a persone di condizione servile in A. Grillone, La gestione, cit., 192 s., le quali cercano di avvalorare quell’intuizione già diffusa in dottrina per cui le stazioni termali (di cui anche A. Petrucci, Per una storia, cit., 16, parlava in termini di negotiatio balnearia) potessero essere gestite attraverso lo schema offerto dalla preposizione institoria. Ha condiviso in un recente contributo l’idea di Petrucci, R. Scevola, Statuto, cit., 60 s.; di questo soggetto in termini di gestore ha poi parlato anche M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 119. Lo stesso, come tra poco dirò (si vedano, infra le annotazioni, scaturenti da Paul. 1 decret. D. 14.5.8, Scaev. 27 dig. D. 20.4.21.1 e Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5 pr. e cfr. A. Grillone, Punti, cit., 30 ss.), può dirsi circa la possibilità di preporre institori all’amministrazione di magazzini (in base ad un implicito ragionamento analogico, prima di me, di questa opinione pure M.A. Ligios, Ibidem, 51). 39  È quanto emerge, già lo si è detto (cfr. supra Intr., §. 2, nt. 62 e si veda E. Santamato, Deversorium, cit., 2), da Ulp. 18 ad Sab. D. 7.1.13.8 e dall’esistenza, testimoniata apertamente nelle fonti, di strutture alberghiere gestite a latere della villa rustica, su cui Varr., De re rust. 1.2.23: Sed ut neque lapidicinae neque harenariae ad agri culturam pertinent, sic figlinae. Neque ideo non in quo agro idoneae possunt esse non exercendae, atque ex iis capiendi fructus: ut etiam, si ager secundum viam et opportunus viatoribus locus, aedificandae tabernae devorsoriae, quae tamen, quamvis sint fructuosae, nihilo magis sunt agri culturae partes. Non enim, siquid propter agrum aut etiam in agro profectus domino, agri culturae acceptum referre debet, sed id modo quod ex satione terra sit natum ad fruendum. 40  Cfr. supra §. 1, su D. 9.2.27.11 e si veda l’opinione di R. Fercia, La Responsabilità, cit., 74, nt. 106: entrambe le figure indicano produttori di nuova ricchezza dallo sfruttamento economico, sovente in forma imprenditoriale, di beni immobili di prorietà altrui. 41  “Urbana familia” et “rustica” non loco, sed genere distinguitur. Potest enim aliquis dispensator non esse servorum urbanorum numero: veluti is, qui rusticarum rerum rationes dispenset ibique habitet. Non multum abest a vilico insularius: autem urbanorum numero est. Videndum tamen est, ipse dominus quorum loco quemque habuerit: quod ex numero familiae et vicariis apparebit. Sul testo e sulla giustapposizione tra vilicus e insularius, cfr. J. Dubouloz, La propriété immobilière à Rome et en Italie, Roma, 2010, 126 ss. 38 

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vilico insularius. Di conseguenza, se il vilicus è un preposto alla conduzione dell’attività di colere nella villa rustica e, tuttavia, può rivestire anche un ruolo essenziale nella commercializzazione dei prodotti del fondo 42, analoghe mansioni negoziali possono pensarsi ricoperte, all’interno del proprio ambito economico, dall’insularius. Da quanto detto, mi pare evidente che, nel contesto di un’attività finalizzata alla produzione di ricchezza dallo sfruttamento di beni immobili, vilicus et insularius sono dipendenti, preposti, del dominus o di coloni vel inquilini, anche incaricati di interrelazionarsi con la clientela, rispettivamente, nella conduzione di una proprietà rustica e nell’ambito della gestione di quella urbana 43. Continua poi Ulpiano: Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.6: …Stabularii quoque loco institorum habendi sunt.

Sono da intedersi institori anche i gestori delle stazioni di cambio dei cavalli con locanda. Pertanto, anche coloro che amministravano l’immobile prestando un servizio di ricezione alberghiera avevano la facoltà di non exercere l’attività in prima persona, demandandola ad un agente dalle cui scelte negoziali sarebbero rimasti vincolati in solidum 44. Pertanto, così come nell’ambito della locazione di insulae ad habitatores stabili, anche nell’ambito dell’amministrazione di un albergo il preponente avrebbe potuto vincolarsi a rispondere illimitatamente delle obbligazioni contratte dai propri dipendenti, per lo più sottoposti 45, in forza dell’actio institoria concessa dal pretore ai contraenti 46. Nello stesso senso mi pare vada: 42  Cfr. D. 14.3.16 e si vedano F. Serrao, voce Institore (Premessa storica), in Enc. dir., 21, Milano, 1971, 831 e Id., Impresa, mercato, diritto. Riflessioni minime, in Mercati permanenti e mercati periodici nel mondo romano, Bari, 2000, 35 ss.; J.J. Aubert, Business Managers, cit., 117 ss.; A. Di Porto, L’impresa, cit., 306 ss. e A. Petrucci, Per una storia, cit., 16. 43  M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 47 s., nt. 65 e P.J. Du Plessis, Urban landlords, cit., 638. 44  Gai. Inst. 4.71: …Cum enim ea quoque res ex voluntate patris dominive contrahi videatur, aequissimum esse visum est in solidum actionem dari… Sul passo la letteratura è vastissima, basti qui la menzione dei più recenti contributi, A. Cassarino, Ricerche, cit., 1 e 12 s. e A. Petrucci, Fondamenti romanistici del diritto europeo. I. La disciplina generale del contratto, Torino, 2018, 243 ss., nonché Id., Manuale di diritto privato romano, Torino, 2019, 142 ss. 45  In relazione alla circostanza che l’esercente potesse restare vincolato, attraverso la praepositio institoria, anche dall’attività negoziale intrattenuta da “non sottoposti”, si veda A. Petrucci, Per una storia, cit., 49 ss. e, più recentemente, Id., Manuale, cit., 144 ss. 46  Così, ancora, si esprime il giurista Gaio, Inst. 4.71: Institoria vero formula tum locum habet, cum quis tabernae aut cuilibet negotiationi filium servumve aut quemlibet extraneum, sive servum sive liberum, praeposuerit, et quid cum eo eius rei gratia cui praepositus est contractum fuerit, su cui da ultimi rinvio, ad A. Cassarino, Ricerche, cit., 1 s. e A. Petrucci,

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Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1.5: Caupones autem et stabularios aeque eos accipiemus, qui cauponam vel stabulum exercent, institoresve eorum.

Il paragrafo chiude un lungo frammento, sul quale in seguito si dovrà tornare più volte, in tema di receptum nautarum, cauponum et stabulariorum, nel quale vengono precisati i soggetti, ausiliari dell’imprenditore, ritenuti capaci di concludere il patto di salvaguardia delle cose inductae dai clienti 47. I termini caupones e stabularii, ma lo stesso varrebbe per deversitor 48, identificano, in base alla notizia tramandataci da Ulpiano, sia gli esercenti della negotiatio alberghiera (qui exercent), non importa se proprietari o conduttori del casamento 49, sia i loro institori 50. Il passo è illuminante sulla struttura organizzativa di una caupona o di uno stabulum e conferma come l’attività alberghiera potesse essere esercitata, mediante preposizione di institor o, alternativamente, tramite forme di conduzione diretta 51. A seconda dell’opzione scelta, nel primo caso, deversitor sarebbe stato l’institore, nel secondo il titolare 52. Quanto fin qui si è osservato trova un’ulteriore importante conferma nella testimonianza paolina tratta dal commentario a Sabino: Paul. 4 ad Sab. D. 33.7.13 pr.: Tabernae cauponiae instrumento legato etiam institores contineri Neratius existimat: sed videndum, ne inter instrumentum Poteri, cit., 12 s. Questa enunciazione è il risultato finale di un’evoluzione (cfr. P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 463) che, A. Földi, Caupones, cit., 135 s., in relazione al settore della ricezione alberghiera, ha provato a ricostruire, suggerendo l’idea che la categoria degli albergatori possa essere trasmigrata dall’ambito di applicazione dell’actio exercitoria a quello dell’institoria. 47  Cfr. infra Cap. II, §. 3. 48  Cfr. E. Santamato, Deversorium, cit., 3, nt. 14; l’appellativo indica il gestore di una taberna deversoria, tra gli altri, in Petr., Sat. 95 (sul passo ci si soffermerà ampiamente più avanti in questo stesso paragrafo), come risulta dalla voce deversitor, in TLL, V, 851; sull’equiparabilità, da un punto di vista giuridico, della terminologia socialmente diffusa per riferirsi alle diverse forme di manifestazione economica della ricezione alberghiera, nonché, di conseguenza, ai loro titolari, si pronunciava già lo stesso Thesaurus, equiparando il lemma a caupo; e, in ogni caso, cfr. anche supra Intr., §. 2 nt. 59. 49  P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 465 e A. Földi, Caupones, cit., 134. 50  E. Santamato, Deversorium, cit., 3 nt. 14; P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 465 s.; A. Petrucci, Per una storia, cit., 124 e A. Földi, Caupones, cit., 134 ss. 51  Cfr. M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 2 s., nt. 3 e 10 e P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 465. 52  E. Santamato, Deversorium, cit., 3, nt. 14; il sistema fondato sulla praepositio institoria doveva essere così diffuso, che, secondo l’opinone di A. Földi, Caupones, cit., 135, tra il II e il III secolo d.C., i termini caupo, stabularius e deversitor indicavano ormai esclusivamente gli institori e non venivano più usati per i titolari, a cui si sarebbe più spesso fatto riferimento mediante l’appellativo di exercitores cauponae/stabuli.

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tabernae cauponiae et instrumentum cauponae sit discrimen, ut tabernae non nisi loci instrumenta sint, ut dolia vasa ancones calices trullae, quae circa cenam solent traici, item urnae aereae et congiaria sextaria et similia: cauponae autem, cum negotiationis nomen sit, etiam institores.

Nell’incipit Paolo riporta il parere del giurista Nerazio, secondo il quale nel legato delle cose strumentali (instrumentum) 53 dell’albergo erano compresi anche i servi institori; nondimeno, l’affermazione neraziana non lo soddisfa appieno: a suo dire, infatti, si sarebbe dovuto più correttamente distinguere quando il legato avesse per oggetto l’instrumentum della taberna, cioè del locale ove l’attività ricettiva veniva esercitata, dal caso in cui il de cuius avesse inteso riferirsi alla dotazione della negotiatio alberghiera, con la conseguenza che nel primo caso gli institores sarebbero risultati esclusi, nel secondo, invece, compresi 54. Al di là della constatazione di estremo interesse per cui nell’instrumentum di un’attività imprenditoriale, per entrambi i giuristi, siano da ricomprendersi non soltanto le componenti materiali, ma anche quelle umane 55, quello che a noi preme qui è di mettere in luce come, pacificamente, una caupona o un derversorium potessero essere gestiti tramite preposti. Appurati tali profili, nella direzione di una più attenta analisi della complessa struttura organizzativa funzionale all’amministrazione dei casamenti urbani, saltuariamente è capitato alla dottrina romanistica di imbattersi, come vedremo purtroppo senza grande fortuna, in un vivace affresco tratto dal Satyricon di Petronio, dove compaiono una serie di personaggi, che sono meritevoli, a mio avviso, almeno di un tentativo di qualificazione giuridica. Anzitutto, si consideri una prima scena: [95.] Dum haec fabula inter amantes luditur, deversitor cum parte cenulae intervenit, contemplatusque foedissimam volutationem iacentium: “Rogo”, inquit, “ebrii estis, an fugitivi, an utrumque? Quis autem grabatum illum erexit, aut quid sibi vult tam furtiva molitio? Vos mehercules ne mercedem

53  In relazione alla definizione perimetrale del concetto di instrumentum e al suo rapporto con la nozione di negotiatio rimando qui a M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 1-19 e 103 ss. e A.M. Giomaro, Dall’instruere all’instrumentum, cit., 105 ss. 54  P. Cerami, Tabernae librariae. Profili terminologici, economici e giuridici del commercio librario e dell’attività editoriale nel mondo romano, in AUPA, 58, 2015, 18; M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 2 s. e A.M. Giomaro, Dall’instruere all’instrumentum, cit., 159 s. 55  In P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 463 e 466 s., afferma l’Autore: D. 33.7.13 pr.-.1 è incentrato sull’individuazione di «singoli complessi di res et homines organizzati dal negotiator per l’esercizio e il funzionamento delle diverse tabernae instructae, cauponae comprese». Più in generale, sul raffronto tra le due nozioni d’azienda, l’antica e la moderna, Id., Impresa e societas nei primi due secoli dell’impero, in AUPA, 52, 2007-2008, 99 ss.; P. Cerami-A. Petrucci, Diritto3, cit., 51 ss. e, da ultimo, A. Petrucci, Manuale, cit., 139 s.

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cellae daretis, fugere nocte in publicum voluistis. Sed non impune. Iam enim faxo sciatis non viduae hanc insulam esse sed M. Mannicii” […] Fit concursus familiae hospitumque ebriorum frequentia […] Interim coctores insulariique mulcant exclusum …

L’amorosa tenzone fra i tre protagonisti del racconto infuria nella stanza d’albergo che hanno affittato per la notte, proprio in quel mentre il deversitor entra per servirgli la cena, la confusione della stanza, quel concitato avvilupparsi di corpi, nonché la personale ebbrezza lo inducono a interpretare il tutto per quanto più teme: non ha dubbi, si tratta evidentemente di attività preparatorie ad un tentativo di fuga insolvente. E così li incalza con le parole e, solo dopo, con i fatti: costoro non fuggiranno impunemente; questa è l’insula di Marco Mannicio, non di una povera vedova, grida! Segue una zuffa, priva di qualsiasi interesse ai nostri fini, dopodiché sul luogo, per dare manforte al deversitor, accorrono, prima, la familia servorum, poi, coctores et insularii, i quali aggrediscono quello dei tre compari sciaguratamente rimasto fuori dalla stanza. Nel passo successivo entra in scena un nuovo personaggio: [96.] …cum procurator insulae Bargates a cena excitatus a duobus lecticariis mediam rixam perfertur…

Disturbato dalle grida durante la propria cena e sorretto da una lettiga giunge, nel pieno della rissa, Bargate, che Petronio presenta come procurator insulae. Rammentando qui la necessaria cautela che si deve avere quando si affronta un brano letterario per trarne suggestioni giuridiche, pare da principio opportuno considerare la figura del deversitor, menzionata nel primo dei due segmenti di testo citati: come abbiamo avuto modo di chiarire, da un punto di vista economico, si tratta di un albergatore o di un pensionante con funzioni gestorie 56; anche se il Carcopino supponeva si trattasse di un bettoliere, un oste, esercente al pianterreno dell’insula 57. Questo soggetto, a mio modo di vedere, si distingue, in primo luogo, dal dominus dell’insula (iam enim faxo sciatis non viduae hanc insulam esse sed Marci Mannicii), dai coctores e insularii, contrapponendosi anche a quel misterioso procurator insulae 58, di cui al passo seguente. Cfr. supra nel testo e in nt. 48. J. Carcopino, La vita, cit., 56. 58  Da questo punto di vista, non convince quanto sostenuto da P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 465 nt. 36: il deversitor, che minaccia i protagonisti del racconto nel primo passo, è soggetto all’evidenza distinto dal procurator insulae, che viene scortato sulla scena solo più tardi, dai propri servitori, mollemente adagiato in lettiga (Sat. 96); sul punto, E. Santamato, Deversorium, cit., 3 e 14 s. 56  57 

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Il primo dato che mi sento di scorporare dalle restanti ricostruzioni congetturali è che l’insula, ove tra l’altro viene esercitata l’attività ricettiva di cui sono clienti i tre protagonisti del romanzo petroniano, sia di proprietà di un soggetto non presente sulla scena, quel Marco Mannicio evocato contro i fuggitivi dal deversitor dell’albergo 59. Lo suggerisce, in assenza di qualsivoglia riscontro di segno opposto, l’affermazione di appartenenza che per conto suo compie il gestore. Quest’ultimo, pertanto, sarebbe invece l’institor, da costui preposto alla gestione dell’albergo, e non il titolare dei profitti, circostanza, che, comunque, non deve sorprenderci per quanto più sopra osservato in relazione ad Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1.5, circa la frequente sovrapponibilità terminologica tra exercitor e suoi managers. Sul punto, comunque, torneremo tra breve. Per quanto concerne il procurator insulae, stante la traduzione del termine, che nella sua resa in lingua italiana oscilla tra amministratore, direttore, sovraintendente dell’insula 60, si danno tre ordini di ipotesi interpretative: a) questi potrebbe essere un preposto alla gestione dell’insula, quello che più sopra abbiamo visto essere denominato insularius in Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.1; b) oppure potrebbe essere il titolare dell’amministrazione dello stabile; al tempo di Petronio, del resto, non erano infrequenti soggetti di condizione libertina che accumulavano enormi fortune attraverso l’esercizio Non mi persuade, infatti, l’interpretazione del brano data da P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 465 nt. 36, sulla base della precedente ricostruzione di T. Kleberg, Hotels, cit., 78, che considera la povera vedova del passo, personaggio reale, nella specie, la proprietaria dell’insula, “relegando”, di conseguenza, Marco Mannicio al ruolo di conductor. La narrazione petroniana si caratterizza, del resto, come è noto, per un andamento barocco, ridondante, che ricerca l’effetto comico attraverso un’irriverente caricatura del dramma: qui, quindi, l’altisonante minaccia del deversitor assolve, a mio avviso, a questa funzione, inserendosi in un contesto di rissa farsesca, che viene semplicemente colorato da quel iam enim faxo sciatis non viduae hanc insulam esse. La locuzione, da questo punto di vista, ha lo scopo di esaltare la fermezza delle intenzioni del deversitor, che, pur in qualità di suo dipendente, condivide con il dominus, titolare assente dell’amministrazione dell’edificio, la medesima risoluzione. Il significato da attribuire alle grida irose del gestore è, di conseguenza, il seguente: Marco Mannicio è uomo potente (e non una povera vedova), la sua insula è amministrata da personale “di polso”, capace di mantenere l’ordine, pertanto, non fuggirete impunemente! 60  Nella traduzione Petronio Arbitro, Satyricon, a cura di N. Marziano, Milano, 1967, 127, è l’amministratore del caseggiato; l’amministratore dello stabile, in Petronio, Satyricon, a cura di L. Canali, Milano, 1990, 162, mentre nella versione a cura di V. Ciaffi, Torino, 1967, 244 s., nt. 255, si precisava, con nota, trattarsi di un “amministratore della casa” di condizione servile, sovraintendente alla riscossione dei fitti e al mantenimento della disciplina tra i clienti. Contra la traduzione omonima, a cura di L. Lombardi, Trento, 2008, che parla di “poliziotto di quartiere”, appellandolo poi, tuttavia, nel seguito, “l’amministratore Bargate”. 59 

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di attività imprenditoriali; saremmo, allora, in tal caso, di fronte all’inquilinus, sublocatore professionale; c) infine, il termine procurator potrebbe essere usato da Petronio nella sua accezione giuridica più rigorosa ed indicare una figura dirigenziale di sovraintendente all’organizzazione delle attività tutte ruotanti attorno allo sfruttamento della proprietà immobiliare urbana 61. Non pare, anzitutto, persuasiva l’ipotesi sub b); c’è, infatti, un ostacolo di natura logica che impedisce di ritenere Bargate “imprenditore reale” nel contesto dell’attività di gestione immobiliare che fa da sfondo alla narrazione petroniana: se questa fosse la realtà dei fatti, non si comprenderebbe per quale ragione il deversitor, fiutato il pericolo di una fuga dei tre protagonisti del racconto, spenda il nome del dominus dell’insula, fornendo più di un elemento per intendere che proprio su Marcus Mannicius, altrimenti del tutto disinteressato alla vicenda, si sarebbero riversate le conseguenze patrimoniali di quella fuga 62. Seppur in relazione alla gestione di proprietà rustiche, sulla definizione perimetrale della figura si veda l’opera di A. Burdese, Sul ‘procurator’ (a proposito del volume di Piero Angelini), in SDHI, 37, 1971, 309 ss., e, più recentemente, quella di M. Miceli, Studi sulla “Rappresentanza” nel diritto romano, 1, Torino, 2008, 105 ss., nonché l’illuminate contributo di A. Di Porto, L’impresa, cit., 333 s., ntt. 85 s. Questa terza ipotesi ricostruttiva ruota attorno alla nozione tecnica di procurator, figura di non facile inquadramento sistematico, che spesso muta poteri e prerogative in ragione del contesto economico in cui è inserita. Di tale individualità, in ogni caso, abbiamo notizia in una pluralità di settori di mercato: la sua collocazione tipica e maggiormente accreditata dalle fonti è quella nel management dell’impresa agricola, dove ricopriva un ruolo sovraordinato al vilicus (Col., r. r. I, 6, 7), sostitutivo, in buona misura, della persona del titolare, per cui addirittura si è optato per identificarlo con la locuzione procurator quasi dominus, ma doveva avere pure una certa diffusione nell’ambito delle attività bancarie e finanziarie (cfr. D. 14.3.19 pr., ove questo ruolo viene ad associarsi a quello di preposto; sul punto, rimando ad A. Petrucci, ‘Mensam’, cit., 309; Id., De los representantes en el derecho romano a la nocíon unitaria de representacíon negocial: etapas de la formacíon de una categoría general, in Revista de Investigaciones Jurídicas, 42, 2018, 335 e M. Miceli, Institor e procurator nelle fonti romane dell’età preclassica e classica, in IURA, 53, 2002, 147 ss.), nonché nel contesto delle negotiationes esercenti servizi al pubblico (cfr. D. 14.3.5.10, da cui, con riguardo alle imprese dei fullones e dei sarcitores, risulta ricoprire incarichi di supervisione industriale, senza capacità di rappresentanza negoziale). È bene precisare, tuttavia, che, da un punto di vista sociale, la figura del procurator si sviluppa per tutta l’età preclassica nel solo contesto rurale, ove per lo più libero da compiti meramente esecutivi e negoziali si qualifica come un direttore della produzione agricola e delle altre attività orbitanti attorno alla villa rustica, avente una posizione tecnica di supervisore (in proposito, già P. Angelini, Il procurator, Milano, 1971, 59). Solo in età classica tale soggetto viene ad assumere un ruolo nell’alveo delle principali negotiationes urbane. 62  Sulla necessaria correlazione fra il titolo di negotiator vel exercitor (c.d. imprenditore reale), la percezione dei proventi e la sopportazione delle perdite della negotiatio, cfr. Ulp. 28 ad ed. D. 14.1.1.15 e D. 14.3.1; si vedano, poi, in tema P. Cerami-A. Petrucci, Diritto3, cit., 56 ss. e A. Petrucci, Manuale, cit., 139 s. 61 

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Le letture proposte sub a) e sub c) sono al contrario entrambe parimenti accettabili. Il procurator insulae di Sat. 96 potrebbe certamente essere un preposto alla gestione dell’insula, un dipendente del dominus qualificabile come institore 63 e, tuttavia, a me pare ancor più aderente al tenore complessivo del testo l’idea che questo soggetto fosse effettivamente un procurator. A farmi propendere per questa lettura è, anzitutto, una considerazione logica di mera coerenza testuale, c’è, infatti, un significativo iato tra gli onori tributati a questo soggetto, che giunge in lettiga scortato da una scia di servitori e il profilo assai più umile, ma allo stesso tempo attivo, assunto dal deversitor del passo precedente. Se, pertanto, il deversitor, qui lo ribadisco, deve, a parer mio, identificarsi con l’institor esercente la pensione, il procurator insulae appare un soggetto in posizione socio-economica e dunque manageriale più elevata 64. Si tratta qui, forse, in altri termini, del vertice organizzativo dell’attività di gestione, con compiti tecnici di supervisione per conto del dominus dell’intero suo patrimonio abitativo urbano, di Analogamente al Primus Servus di CIL IV 138, di cui più sopra si è detto e sulle cui prerogative più avanti si tornerà ancora in questo paragrafo e cfr. A. Grillone, Punti, cit., 26. 64  In tal senso, E. Santamato, Deversorium, cit., 14 s.; a dir il vero, non è nemmeno la qualifica di institor a circoscrivere le prerogative di un soggetto preposto e a suggerire che, in presenza di più institori, questi dovessero ricoprire un analogo livello manageriale nella conduzione di una negotiatio: ben sarebbe potuto esistere, infatti, un preposto (tra i più impiegati nell’esercizio) dotato di competenze dirigenziali, figura di vertice, plasmata, in base alle proprie peculiari esigenze dal titolare dell’impresa, in conformità ad Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.11.5: Condicio autem praepositionis servanda est… Aequissimum erit id servari, in quo praepositus est. Item si plures habuit institores vel cum omnibus simul contrahi voluit vel cum uno solo. Sed et si denuntiavit cui, ne cum eo contraheret, non debet institoria teneri: nam et certam personam possumus prohibere contrahere vel certum genus hominum vel negotiatorum, vel certis hominibus permittere e ad Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.11: Non tamen omne, quod cum institore geritur, obligat eum qui praeposuit, sed ita, si eius rei gratia, cui praepositus fuerit, contractum est, id est dumtaxat ad id quod eum praeposuit. Nel contesto dell’esercizio di una medesima negotiatio un institor avrebbe potuto compiere tutte le attività negoziali ad essa inerenti, altri solo alcune (cfr., in tema, M. Miceli, Studi, cit., 70 ss.; M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 29; A. Petrucci, Per una storia, cit., 21 ss. e, di nuovo, in Id., Poteri, cit., 13 ss., infine, ancora A. Cassarino, Ricerche, cit., 2 e 6 ss.). Dalle maggiori prerogative contrattuali attribuite a uno dei più preposti sarebbe potuta discendere una singolare collocazione funzionale all’interno dell’organizzazione economica: infatti, se, da un lato, in quanto institor, costui avrebbe potuto operare negozialmente nell’ambito delle attività oggetto di praepositio, intrattendendo rapporti con gli utenti e compiendo personalmente gli atti necessari alla conduzione dell’impresa, dall’altro, in ragione anche della sua più estesa competenza, avrebbe potuto ricevere dal negotiator la facoltà di sovraintendere al complessivo esercizio della stessa, sostituendolo nelle sue funzioni direttive. Su questa opportunità offerta dallo schema prepositivo nel contesto dell’impresa agricola, già si era intrattenuto A. Di Porto, L’impresa, cit., 327-330 e 338, teorizzando l’esistenza di “superpreposti”, che riteneva funzionali a rappresentare le inclinazioni direttive del titolare nel contesto della gestione delle più vaste proprietà rustiche. 63 

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alcuni immobili limitrofi, il che spiegherebbe anche perché non si trovasse immediatamente in loco, o di quel solo edificio, sovraordinato, comunque, ad eventuali altri managers impiegati nella conduzione dell’insula 65. Raccogliendo, poi, le indicazioni delle fonti (cfr. D. 14.3.5.10 66 e D. 14.3.19 pr. 67), che suggeriscono una progressiva estensione d’uso della figura del procurator al di fuori della conduzione della villa, propenderei per intendere che il procuratore dell’insula ricopra, nel contesto della gestione di casamenti urbani, un ruolo in buona misura analogo a quello che illuminata dottrina gli ha attribuito nell’ambito dell’amministrazione della proprietà agreste 68. Sebbene non del tutto inesistenti, non si ignora che le indicazioni delle fonti giuridiche in merito sono le più incerte. Nondimeno, mi pare che una conferma di quanto si è ipotizzato si possa trarre dall’incipit, in quella sede omesso, di un passo già in precedenza analizzato: 65  Coglieva già nel segno sulla collocazione funzionale di tale soggetto, B.W. Frier, Landlords, cit., 28 s., con il solo appunto per cui, come detto, ritengo che la figura manageriale non fosse di necessità sostitutiva dell’insularius, potendo esse coesistere nell’ambito della medesima negotiatio, sul punto, si veda E. Santamato, Deversorium, cit., 15, seppur con una complessiva fuorviante sovrapposizione tra la figura dell’insularius e quella del vilicus, soggetto, è bene precisarlo, mai associato in una fonte giuridica al ruolo di amministratore di immobili urbani. 66  Sed et cum fullo peregre proficiscens rogasset, ut discipulis suis, quibus tabernam instructam tradiderat, imperaret, post cuius profectionem vestimenta discipulus accepisset et fugisset, fullonem non teneri, si quasi procurator fuit relictus: sin vero quasi institor, teneri eum. Plane si adfirmaverit mihi recte me credere operariis suis, non institoria, sed ex locato tenebitur. 67  Pap. 3 resp. D. 14.3.19 pr.: In eum, qui mutuis accipiendis pecuniis procuratorem praeposuit, utilis ad exemplum institoriae dabitur actio: quod aeque faciendum erit et si procurator solvendo sit, qui stipulanti pecuniam promisit; il testo mi pare particolarmente significativo, in quanto testimonia l’affermarsi della prassi, che tuttavia sarebbe mera congettura collocare esattamente nel tempo, di preporre, in forme via via più libere, a determinate attività negoziali il procurator, cumulando in lui le due qualifiche, nonché le rispettive competenze; su questa evoluzione, si vedano M. Miceli, Institor, cit., 135 ss.; A. Petrucci, Profili giuridici delle attività e dell’organizzazione delle banche romane, Torino, 2002, 195 s. e, da ultimo, ancora in Id., Fondamenti, cit., 248 s. 68  Si veda M. Miceli, Studi, cit., 108 e cfr. Col. I, 6, 7; Cic., Ad Att. 14.16.1 e Pro Tullio 17: un procurator, quale vertice organizzativo della villa, soggetto sovraordinato al vilicus, ad eventuali altri institori e a tutti i lavoranti del fondo. Alcuni dubbi avevano sollecitato le fonti a F. Serrao, Il procurator, Milano, 1947, 5 ss., secondo il quale in alcuni casi, come in Ad Att. 14.16.1, l’impiego del termine procurator potrebbe essere avvenuto in senso atecnico, al fine di indicare una sorta di preposto alla conduzione del fondo. Pare probabile, comunque, che il procurator impiegato nell’ambito della villa rustica, a fronte di un generale potere di supervisione dei lavori agricoli sul fondo, ricevesse sovente anche una preposizione dal dominus per la conduzione e l’esercizio delle altre attività commerciali intorno ad essa orbitanti; analogamente a quanto, di solito, avveniva per il vilicus; cfr. A. Di Porto, L’impresa, cit., 330 ss., ntt. 85 s.

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Ulp. 28 ad ed. D. 13.7.11.5: Solutam autem pecuniam accipiendum non solum, si ipsi, cui obligata res est, sed et si alii sit soluta voluntate eius, vel ei cui heres exstitit, vel procuratori eius, vel servo pecuniis exigendis praeposito. Unde si domum conduxeris et eius partem mihi locaveris egoque locatori tuo pensionem solvero, pigneraticia adversus te potero experiri (nam Iulianus scribit solvi ei posse): et si partem tibi, partem ei solvero, tantundem erit dicendum. Plane in eam dumtaxat summam invecta mea et illata tenebuntur, in quam cenaculum conduxi: non enim credibile est hoc convenisse, ut ad universam pensionem insulae frivola mea tenebuntur. Videtur autem tacite et cum domino aedium hoc convenisse, ut non pactio cenacularii proficiat domino, sed sua propria.

Nel paragrafo in esame, Ulpiano esordisce con un elenco di soggetti a cui il debitore può, con valenza satisfattiva, pagare quanto dovuto al creditore: a un qualsiasi terzo che sia stato esplicitamente autorizzato a riscuotere o che al debitore sia stato espressamente indicato come soggetto idoneo a ricevere il pagamento 69, all’erede del creditore, al suo procurator, al servo da costui preposto alla riscossione. Nel seguito, riprende il parere di Giuliano, per cui, se un soggetto debba il canone per la fruizione di una pars aedis al conduttore dell’intero, può anche adempiere al suo locatore o parzialmente a entrambi e, conseguentemente, agire contro il suo dante causa con l’actio pigneraticia per il recupero di quanto dato in garanzia 70. La parte finale invece enuncia il criterio per cui il pegno del conductor intermedio sulle cose dell’habitator di un appartamento urbano non si estende a vantaggio del dominus, ma è convenuto a sola garanzia di quanto a lui dovuto. La giustapposizione dei tre principi dà consistenti elementi Non si ignora che anche recentemente si è evidenziata una divergenza dottrinaria sulla giusta lettura del passo: se un’espressa autorizzazione sia necessaria a ricevere il pagamento alle seguenti enumerate categorie di soggetti tenenti luogo del titolare del credito o meno, secondo l’opinione qui di seguito accolta, in senso negativo si sono pronunciati, F. Briguglio, Studi sul procurator. L’acquisto del possesso e della proprietà, I, Milano, 2007, 290 s., nt. 57; ma anche precedentemente F. Serrao, Il procurator, cit., 32 ss.; P. Angelini, Il procurator, cit., 131 ss. e 246 ss.; B.W. Frier, Landlords, cit., 125 (il quale considera il procurator e il servus autorizzati in via genaerale a ricevere) e nello stesso senso va la complessiva recentissima trattazione dell’argomento in A. Petrucci, Fondamenti, cit., 246-252; contra si veda G. Coppola Bisazza, In tema di sostituzione volontaria e procurator, in Studi per Giovanni Nicosia, I, cit., 533 s., nt. 101. 70  Sul punto, la lettera del passo è di certo oscura e, come è stato messo in luce in dottrina, lascia aperto un duplice ordine di problemi: sia derivanti dall’eventuale pagamento anticipato fatto dal primo conduttore al titolare, sia dalla circostanza per cui verosimilmente la somma complessiva pretesa dal locatore intermedio nei confronti dei suoi conduttori sarebbe risultata, se corrisposta interamente al dominus, superiore a quella a costui realmente dovuta dal primo. P.J. Du Plessis, Letting, cit., 165, in proposito, conseguentemente, ha ipotizzato che tale porzione di testo dovesse riferirsi ad un caso concreto, poi espunto, di sublocazione non speculativa dell’edificio, in cui il primary tenant avesse diviso con altri il peso dell’affitto, diversamente dal seguito, a riguardo del quale già si è detto, supra §. 1. 69 

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per ritenere che le modalità di adempimento palesate in apertura valgano anche in relazione al rapporto negoziale preso ad exemplum nel proseguo e che, dunque, nell’ambito della locazione di immobili urbani, sovente, il conduttore dovesse interagire con il procurator del titolare, fosse esso il dominus o, come nella fattispecie sopraesposta, il conductor dell’insula 71. Il passo, che, al di là della possibile contrazione, nella parte qui riportata sembra scevro da dubbi interpolazionistici 72, pone consistenti interrogativi sulla natura e le esatte prerogative del procurator nell’ambito della gestione immobiliare; merita approfondimento, infatti, secondo la mia personale opinione, la circostanza che questo soggetto venga accostato al terzo ricevente lo iussum dal creditore e al servus pecuniis exigendis praepositus. Non è possibile, è chiaro, da questo solo testo, evincere esattamente a quale tipologia di procurator il passo ulpianeo faccia riferimento, certamente, la presenza di quell’eius dovrebbe far propendere per identificarlo con un procurator quasi dominus o omnium bonorum 73, e, tuttavia, allo stesso modo, anche un procurator incaricato della custodia dell’immobile e del comando sulla familia servorum avrebbe potuto ricevere proficuamente il pagamento, se in relazione a ciò fosse stato preposto dal titolare della gestione, come si evince dal sovramenzionato Pap. 3 resp. D. 14.3.19 pr. 74. La struttura manageriale complessiva che emerge dai capitoli 95 e 96 E. Santamato, Deversorium, cit., 14, nt. 51 e B.W. Frier, Landlords, cit., 29. B.W. Frier, Landlords, cit., 124-132 e P.J. Du Plessis, Letting, cit., 165, a cui si rimanda per le difficoltà di lettura che questa riduzione può aver comportato, cfr. supra nt. 70. 73  L’ultima lettura è quella preferita dalla dottrina, cfr. M. Miceli, Studi, cit., 190 ss., tuttavia, in base alle indicazioni della stessa Autrice, mi pare che il tenore letterale del testo sia coerente anche con l’ipotesi che Ulpiano potesse riferirsi al procurator quasi dominus, cfr. Ibidem, 130, nt. 1; se questo procurator aveva la facoltà di esporre più di ogni altro il dominus attraverso la facoltà di preporre a sua volta institori, come risulterebbe da D. 14.3.5.18, non si vede per quale ragione non avrebbe potuto ricevere il semplice pagamento di un canone. L’eius, d’altro canto, non contribuisce a risolvere in via definitiva la questione associandosi spesso pronomi possessivi sia all’una che all’altra figura. 74  Per un incarico direttivo su uno o più edifici in vece del titolare propende E. Santamato, Deversorium, cit., 14 s., a cui si sarebbe dovuta associare una preposizione, qualora questo stesso soggetto fosse pure incaricato di compiti di amministrazione negoziale, si veda supra nt. 67. Si tratterebbe in tal caso di un procurator praepositus, su cui già S. Solazzi, Procurator e Institor in D. 14.3.5.10, in SDHI, 9, 1943, 108, secondo la cui opinione, condivisa più di recente da M. Miceli, Institor, cit., 138: indipendentemente dalla precisa collocazione temporale del quesito, se un soggetto, denominato come procurator da un negotiator, fosse stato da costui preposto al compimento di una qualsivoglia attività negoziale, per essa sarebbe stato anche institore; su questa figura, poi, cfr. A. Petrucci, ‘Mensam’, cit., 309; Id., Fondamenti, cit., 248 s.; M. Miceli, Studi, cit., 333 ss. e, indirettamente, A. Di Porto, L’impresa, cit., 340 ss. Come poco più sopra si è avuto occasione di mettere in luce, fonti giuridiche suggeriscono la ricorrenza di questa figura procuratoria nel contesto della gestione della villa rustica, nell’esercizio di una mensa argentaria e nell’impresa del fullo. 71  72 

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del Satyricon di Petronio è, pertanto, assai articolata: l’attività di gestione immobiliare sembra, in questo caso, far capo al proprietario dell’edificio, Marcus Mannicius 75, e, nondimeno, è il suo procurator, Bargate, ad amministrare per suo conto lo stabile 76. Il deversitor, come detto, pare essere l’institore preposto alla conduzione dell’albergo nel quale i protagonisti del racconto hanno affittato una stanza. Seppur sottoposto al controllo e alla direzione manageriale del procurator Bargate, egli si occupa degli aspetti negoziali dell’attività ricettiva. Potrebbe, da questo punto di vista, ipotizzarsi che fosse preposto ad uno specifico ramo della gestione, se l’insula avesse scontato una divisione in più parti, di cui alcune adibite a pensione, altre, invece, assegnate stabilmente in godimento. Induce a formulare una simile ipotesi ricostruttiva, tra l’altro, la presenza in loco di un certo numero di non meglio definiti insularii, che, nelle fasi più concitate della rissa, accorrono a dargli manforte. Sul punto convergono alcuni dati contenuti nelle fonti giuridiche, nonché i risultati di svariati studi archeologici. I primi, precipuamente, testimoniano che la ripartizione di competenze manageriali per settori di attività era attuabile nell’alveo di qualsiasi esercizio imprenditoriale modellato sullo schema offerto dalla praepositio institoria. L’azione institoria, infatti, consentiva ai terzi, che avessero contrattato con i preposti, di far valere la responsabilità del preponente per l’intero, ma solo quando avessero intrattenuto con l’institor un’attività negoziale rientrante tra i poteri gestori a costui effettivamente attribuiti 77: Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.11: Non tamen omne, quod cum institore geritur, obligat eum qui praeposuit, sed ita, si eius rei gratia, cui praepositus fuerit, contractum est, id est dumtaxat ad id quod eum praeposuit.

La preposizione institoria si sostanziava in un atto di conferimento di poteri negoziali che poteva abilitare al compimento di tutta l’attività d’impresa 78 o porre delle limitazioni alle prerogative dell’institor 79; nel caso in cui più fossero i preposti, era pure idonea a individuare una vera e propria ripartizione mansionale all’interno dell’impresa 80: Cfr. supra nt. 59 ed anche si veda B.W. Frier, The Rental Market, cit., 31. B.W. Frier, The Rental Market, cit., 31 e Id., Landlords, cit., 29. 77  Sul punto, tra gli altri, si vedano A. Petrucci, Per una storia, cit., 13; F. Serrao, Impresa, cit., 24; J.J. Aubert, Business Managers, cit., 9 ss. e 52 ss.; M. Miceli, Studi, cit., 67 ss. e, da ultima, M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 23 ss. e 49 ss. 78  Cfr. supra quanto detto a proposito della praepositio del servus di CIL IV 138. 79  Cfr. supra nt. 64. 80  A. Petrucci, Poteri, cit., 16; Id., Per una storia, cit., 21 ss.; M. Miceli, Studi, cit., 70 ss. e M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 29. 75  76 

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.11.5: …Aequissimum erit id servari, in quo praepositus est. Item si plures habuit institores vel cum omnibus simul contrahi voluit vel cum uno solo…

La possibilità di compiere una simile distribuzione di incarichi ben si adatta alla descrizione petroniana dell’esercizio ricettivo animato nei passi 95 e 96 del suo Satyricon: deversitor, insularii e procurator insulae, secondo questa ipotesi ricostruttiva, avrebbero avuto all’interno dell’attività compiti manageriali e negoziali distinti. Con il termine deversitor, infatti, Petronio avrebbe inteso alludere al preposto alla gestione dell’albergo, mentre il nomen di insularius, come poc’anzi è stato messo in luce da Ulpiano in D. 14.3.5.1, si associava, dobbiamo dedurlo in via implicita, a chi fosse deputato a locare con carattere di maggiore stabilità i caenacula dell’insula. Il procurator ricopriva, invece, una posizione gerarchica superiore rispetto a costoro e, tuttavia, poteva anche coadiuvarli nella conduzione negoziale dell’attività, se per questo avesse ricevuto apposita praepositio. Ricalcando quella struttura manageriale che autorevole dottrina ha ritenuto caratterizzasse lo sfruttamento della proprietà rustica 81, ruotante attorno ad un quis praepositus, sovraordinato al vilicus e dotato di funzioni eminentemente dirigenziali, sarei per ritenere che pure in questo diverso contesto economico il procurator insulae, associando alla propria funzione tecnica ampi poteri negoziali, espressamente conferitigli mediante l’atto di preposizione, tenesse, ad ogni effetto, luogo del dominus o del conduttore intermedio, quando fosse costui il titolare dell’attività di gestione 82. TraA. Di Porto, L’impresa, cit., 330 ss., ntt. 85 s. e M. Miceli, Studi, cit., 107 ss. Secondo quel modello di preposizione ad un intero fascio di attività economiche, che ad A. Di Porto, L’impresa, cit., 337 ss., era parso attestato in Paul. Sent. 2.8.2; intuitivamente, da ultimo sul punto, E. Santamato, Deversorium, cit., 15. Consistente e dibattuto in dottrina è il problema se questo soggetto, gerarchicamente sovraordinato, fosse legittimato a provvedere personalmente alla preposizione di institori a lui sottoposti e addetti ai singoli rami di attività negoziale o fosse in ogni caso l’esercente a mantenere il monopolio sulla scelta. Pare anzitutto certo che il titolare dell’attività conservasse un simile potere, tuttavia, per quanto concerne la disponibilità della medesima prerogativa in capo al vertice manageriale della negotiatio si devono operare alcune precise distinzioni. Se si fosse trattato, e qui, come detto, non è possibile sciogliere il nodo, di un procurator quasi dominus, pacificamente, Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.18: Sed et si procurator meus, tutor, curator institorem praeposuerit, dicendum erit veluti a me praeposito dandam institoriam actionem, attesta la titolarità della prerogativa prepositiva in capo a costui (cfr. M. Miceli, Studi, cit., 314 ss.), ma, quando ciò non fosse e si trattasse di un procuratore mandatario o le medesime funzioni direzionali fossero rivestite da un institore, i suoi poteri giuridici, a seguito della praepositio, sarebbero stati regolati dal noto e discusso passo: Ulp. 28 ad ed. D. 14.1.1.5: Magistrum autem accipimus non solum, quem exercitor praeposuit, sed et eum, quem magister: et hoc consultus Iulianus in ignorante exercitore respondit: ceterum si scit et 81  82 

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slando questi risultati all’ambito della nostra indagine, anche in virtù di quel Pomponio (6 ad Sab. D. 50.16.166) che ci autorizzava ad avvicinare i regimi organizzativi delle due attività con riguardo alle figure parallele del vilicus-insularius e del colonus-inquilinus, si potrebbe ipotizzare che al procurator fossero state affidate dal dominus la direzione e il coordinamento dello sfruttamento economico dell’insula o dell’intero suo patrimonio immobiliare urbano 83, mentre il deversitor fosse preposto esclusivamente passus est eum in nave magisterio fungi, ipse eum imposuisse videtur. Quae sententia mihi videtur probabilis: omnia enim facta magistri debeo praestare qui eum praeposui, alioquin contrahentes decipientur: et facilius hoc in magistro quam institore admittendum propter utilitatem. Il testo ha ad oggetto la preposizione da parte di un magister navis di un suo sostituto (c.d. promagister); il suo contenuto è stato spesso letto nel senso di escludere ogni possibilità di sub-preposizione nel contesto dell’esercizio di negotiationes terrestri gestite tramite institor, ritenendo, invece, per contro, che nell’ambito dell’impresa di navigazione un tale atto, anche quando del tutto ignoto al titolare, assumesse per costui piena efficacia vincolante (cfr. C.F. Glück, Commentario alle Pandette, XIV, trad. it. Milano, 1891, 63 ss.; nello stesso senso, F. Serrao, voce Institore, cit., 829 nt. 7). Il tenore letterale del frammento, tuttavia, mi pare smentisca almeno in parte detta impostazione, introducendo una più sfumata divergenza disciplinare tra le suddette tipologie d’impresa, sul punto, è, a mio avviso, equilibrata e condivisibile l’interpretazione di A. Di Porto, L’impresa, cit., 341 nt. 104: in primo luogo, anzitutto, il responso di Giuliano non incide sul libero esplicarsi della volontà del preponente, pertanto egli di certo avrebbe avuto la facoltà di trasferire espressamente questa prerogativa ai propri institori (aspetto, questo, condiviso pure dal Serrao), secondariamente il brano non è idoneo ad escludere che, nei casi in cui questo potere non risultasse formalmente conferito dal titolare, ma dallo stesso ne venisse tollerato l’esercizio, l’attività contrattuale posta in essere dai sub-preposti restasse sotto l’egida della responsabilità imprenditoriale (sul punto, cfr. già il risalente lavoro di E. Costa, Le azioni exercitoria e institoria nel diritto romano, Parma, 1891, 70 ss.). Ciò che invece certamente il brano esclude (et facilius hoc in magistro quam institore admittendum propter utilitatem) è che anche l’imprenditore terrestre potesse risultare obbligato dal dipendente preposto da altro suo institore, quando di tale sostituzione fosse completamente all’oscuro. Il passo, in altri termini, ha lo scopo di fissare la differenza tra il regime previsto per l’exercitio navis e quello relativo alle negotiationes terrestri: nella prima anche quando la sub-praepositio avvenga nell’ignoranza dell’exercitor egli ne risulta vincolato (in ragione delle notevoli difficoltà di comunicazione, dovute alla natura stessa dell’attività, tra magister e dominus); al contrario nell’altra, per le opposte ragioni, il titolare della negotiatio per risultare vincolato da un simile atto dovrà averne avuto per lo meno conoscenza. 83  Pur con le difficoltà di lettura del suo contributo derivanti dall’uso del termine vilicus laddove, secondo la presente trattazione, dovrebbe leggersi insularius, cfr. E. Santamato, Deversorium, cit., 15. Non si può dire, comunque, se il procurator gestisse per intero le proprietà immobiliari del dominus o solo una parte: le soluzioni astrattamente sono entrambe possibili. Nel passo, per altro, la specificazione espressa dal genitivo singolare insulae non è in alcun modo indicativa: nella tarda repubblica, infatti, si era progressivamente affermata, anche nel linguaggio comune, un’ulteriore nozione di insula (rispetto a quelle, coeve o di poco posteriori, di cui ho discusso già supra Intr., § 2, nt. 43 e per cui qui anche rimando a A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 199; E. Lo Cascio, La popolazione, cit., 24 e A.L. Boozer, voce Apartment, cit., 515), nel senso di una pluralità di edifici il cui perimetro

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alla conduzione materiale e negoziale della locanda, con funzioni e poteri contrattuali a questa attività limitati; e lo stesso mi pare, da questo punto di vista, a maggior ragione, potersi dire per l’insularius con riguardo alle proprie specifiche competenze. Come si accennava, alcuni studi archeologici rilevano, dando elementi di conferma alla nostra ipotesi, l’esistenza di edifici la cui struttura fa propendere per l’idea che, in essi, taluni caenacula fossero destinati all’alloggio di nuclei familiari a carattere stabile, mentre altre piccole cellae ai viatores, clienti di una struttura di tipo alberghiero. È il caso della discussa Casa di Diana di Ostia 84: in estrema sintesi, l’ambiente interno di questo edificio presenta un doppio genere di alloggi, alcuni a composizione più complessa, si articolano in due o tre stanze, altri, per lo più siti ai piani superiori, sono costituiti da un unico spazio di assai modeste dimensioni. L’edificio, inoltre, presenta tre ingressi al piano superiore, due dei quali connessi, per mezzo di stretti e bui corridoi, a locali aperti sulla strada: due, modestissimi, sull’entrata nord-est e uno ben più spazioso sulla facciata ovest, con buona approssimazione assimilabili alle tabernae degli insularii o alle guardiole del personale sorvegliante 85; l’ampia latrina, il luminoso cortile e un vano terraneo compatibile con la dimensione di una stalla fanno pensare a servizi comuni predisposti a vantaggio della clientela dell’albergo, infine, il caenaculum all’angolo tra Via di Diana e Via dei Balconi, per il posizionamento e le dimensioni, potrebbe esser stato una mescita o, comunque, un luogo di ristoro in qualche modo connesso all’attività ricettiva 86. In ogni caso, i molti quesiti, non tutti risolvibili, se non in via ipotetica, confinava con la viabilità pubblica o privata (si veda, F. Procchi, ‘Insulae’, cit., 539 s.); pertanto, il procurator potrebbe qui intendersi come amministratore di un intero quartiere, se esso fosse appartenuto ad un unico dominus. 84  Sulla struttura dell’edificio si veda il più risalente vademecum G. Calza-G. Becatti, Ostia. Itinerari dei musei, gallerie e monumenti d’Italia, Roma, 1964, 27 s. e C. Pavolini, Ostia, cit., 84 s. In proposito, già B.W. Frier, The Rental Market, cit., 30 s. e Id., Landlords, cit., 29 s., conciliava i rilievi archeologici di R. Meiggs, Roman Ostia, cit., 249 (su cui cfr. supra Intr., §. 2 nt. 64), circa la problematica ed evidente distinzione su base dimensionale degli alloggi di questo casamento, con le suggestioni provenienti dalla narrazione petroniana del Satyricon 95-96, ritenendo che, di certo, una parte dell’immobile, qui, come anche nell’edificio ostiense, dovesse ospitare una pensione, mentre l’altra, sotto la supervisione non più del deversitor, ma bensì forse di un insularius, dovesse accogliere conduttori stabili. 85  I primi due locali per aspetto e dimensioni rimandano ad un impiego più umile: forse, come riparo di un portiere dell’albergo o come ufficio amministrativo del deversitor; quello su Via dei Balconi, invece, ampio e luminoso, fa pensare alla stanza del gestore dell’intero edificio. 86  Locali, i due ultimi, che a noi sono pervenuti nella loro veste tardo-antica e di cui per questo è in buona misura impossibile intuire la precedente destinazione (cfr. C. Pavolini, Ostia, cit., 86).

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posti da questo testo letterario comunque preziosissimo nel tentativo almeno di sondare la complessità giuridica dell’organizzazione amministrativa ruotante attorno allo sfruttamento di proprietà immobiliari urbane, ne aprono, ad un attento sguardo, di ulteriori. La genericità del termine insularii ed il suo numero plurale nel paragrafo 95, per esempio, impongono, a mio avviso, di spendere qualche ulteriore parola di commento. L’insularius è, dal punto di vista giuridico, un institore, in base all’opinione di Ulpiano espressa nel più volte menzionato D. 14.3.5.1; se come si è ipotizzato, allora, un institore era stato preposto dallo stesso Mannicio all’amministrazione della parte di insula non adibita ad albergo, è altrettanto evidente che egli, come in precedenza ho sostenuto, sarebbe intervenuto nella rissa per cercare di aiutare il deversitor in difficoltà nella propria attività di riscossione. E, tuttavia, rimane il dubbio sull’utilizzo del numero multiplo. Deve necessariamente intendersi che, pure, vi fossero una pluralità di institori addetti all’amministrazione del casamento? La polisemia del termine insularius induce a ritenere il contrario, che Petronio intendesse riferirsi più genericamente a tutti i lavoranti impiegati nella custodia e manutenzione del bene insula, non sempre anche preposti all’intrattenimento di rapporti negoziali con i clienti 87. Le funzioni che un insularius può ricoprire, al di là dell’eventuale praepositio ricevuta, emergono qua e là nelle fonti. Anzitutto, come recentemente è stato messo in luce in dottrina 88, preposto o meno al loro sfruttamento economico, un insularius poteva essere incaricato dal dominus di vegliare sulle sue proprietà immobiliari, supervisionandone lo stato di conservazione, anche presso l’usufruttuario: Pomp. 5 ad Sab. D. 7.8.16.1: Dominus proprietatis etiam invito ususfructuario vel usuario fundum vel aedes per saltuarium vel insularium custodire potest…

Se, dunque, da un lato, egli poteva partecipare, insieme ad altri soggetti, come sopra si è dimostrato, alla direzione e all’alta amministrazione del caseggiato, dall’altro, egli aveva anche, per sua natura, compiti più umili e statici di sorveglianza 89. In secondo luogo, Tacito colloca la vita di Petronio, di cui per molti versi sono ignoti alla letteratura i confini, presso la corte di Nerone (Tac., In tal senso si veda B.W. Frier, The Rental Market, cit., 31 e, da ultimo, E. SantaDeversorium, cit., 3 ss. 88  M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 47 nt. 65. 89  In tal senso si veda, da ultimo, E. Santamato, Deversorium, cit., 14 s. e, in precedenza, B.W. Frier, The Rental Market, cit., 31, per il quale, ad esempio, la donna di Sat. 90 (Mando aedicularum custodi cenulae officium) altri non sarebbe se non la custode notturna della locanda, con funzioni di sorveglianza sulle stanze e sul desinare dei clienti. 87 

mato,

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Annales 18-19). In altro passo, Annales 15.43, lo stesso storico, ricordando il notevole impegno dimostrato da Nerone nel miglioramento dell’urbanistica cittadina, rammenta una serie di provvedimenti volti ad incrementare la sicurezza degli edifici: tra essi quello tramite il quale impose ai titolari di immobili urbani di predisporre e mantenere squadre di custodi, detti appunto insularii, deputati al tempestivo intervento sugli incendi 90. La lettura congiunta dei due brani dà l’idea che con il termine insularii, al tempo in cui Petronio opera, si indichino anche soggetti incaricati di mansioni che non sono quelle di conduzione negoziale dell’attività di gestione immobiliare, ma compiti più umili, assimilabili, in qualche modo, ad un servizio di sicurezza 91. E, del resto, è evidente dal contesto narrativo dei paragrafi 95-96 del Satyricon che non sono solo gli incaricati della riscossione ad intervenire per risolvere la rissa a favore del deversitor, se anche i cuochi e i cucinieri danno il loro contributo nell’aggressione del malcapitato Eumolpo. Significativo infine, da un punto di vista giuridico, mi pare anche quanto affermato in Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1.2-5 92, dove si pone un analogo problema di definizione terminologica in relazione all’utilizzo, nell’editto pretorio, del generico termine nautae per indicare i soggetti capaci di vincolare il titolare dell’impresa di navigazione attraverso un patto di assunzione della responsabilità ex recepto. È da intendersi, forse, che tutti i marinai possano svolgere attività negoziale e vincolare l’imprenditore ex recepto? Sorveglianza sui fuochi che in un passo del Digesto emerge tra i compiti tipici dell’insularius, Ulp. sing. de off. praef. urb. D. 1.15.4: Imperatores Severus et Antoninus Iunio Rufino praefecto vigilum ita rescripserunt: “insularios et eos, qui neglegenter ignes apud se habuerint, potes fustibus vel flagellis caedi iubere: eos autem, qui dolo fecisse incendium convincentur, ad Fabium Cilonem praefectum urbi amicum nostrum remittes: fugitivos conquirere eosque dominis reddere debes”, sul quale cfr. E. Santamato, Deversorium, cit., 4. 91  Cfr. ora E. Santamato, Deversorium, cit., 4 s. e 14 s.; la nozione di insularii nell’accezione atecnica e onnicomprensiva proposta è tale da ricomprendere nel novero di questi servitori di umili mansioni anche gli ostiarii, cioè i portieri, e gli spazzini (c.d. zetarii) di Paul. Sent. 3.6.58 e di D. 33.7.12.42. 92  Qui sunt igitur, qui teneantur, videndum est. Ait praetor «nautae». Nautam accipere debemus eum qui navem exercet: quamvis nautae appellantur omnes, qui navis navigandae causa in nave sint: sed de exercitore solummodo praetor sentit. Nec enim debet, inquit Pomponius, per remigem aut mesonautam obligari, sed per se vel per navis magistrum: quamquam si ipse alicui e nautis committi iussit, sine dubio debeat obligari. Et sunt quidam in navibus, qui custodiae gratia navibus praeponuntur, ut ναυφύλακες et diaetarii. Si quis igitur ex his receperit, puto in exercitorem dandam actionem, quia is, qui eos huiusmodi officio praeponit, committi eis permittit… De exercitoribus ratium, item lyntrariis nihil cavetur: sed idem constitui oportere Labeo scribit, et hoc iure utimur. Caupones autem et stabularios aeque eos accipiemus, qui cauponam vel stabulum exercent, institoresve eorum. Ceterum si qui opera mediastini fungitur, non continetur, ut puta atriarii et focarii et his similes. 90 

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Ulpiano risponde che con il termine nautae, nel linguaggio comune, si è soliti indicare una pluralità di soggetti aventi i più diversi ruoli nel contesto dell’exercitio navis: il comandante della nave, il quale può svolgere attività contrattuale in qualità di preposto, vincolando l’armatore, ma anche i rematori e i nocchieri, che, al contrario, non possono assumere obbligazioni per l’exercitor. Nell’ambito della componente umana dell’instrumentum di un’attività ricettiva alberghiera, la medesima incapacità di vincolare il titolare valeva per i servi di umili mansioni, portinai e cucinieri 93. Per quanto a noi interessa, il passo attesta in ogni caso che in tutte le attività economiche organizzate in forma di impresa vi erano soggetti, che, pur non sempre nettamente distinguibili a livello terminologico da esercenti e preposti, partecipavano alla conduzione della negotiatio, ma non erano autorizzati ad intrattenere rapporti contrattuali vincolanti per l’imprenditore, non avendo ricevuto, a tal fine, idonea preposizione institoria 94. Insularii, pertanto, in un’accezione del termine diffusa a livello sociale, si intendevano un nutrito novero di lavoranti nel contesto dell’amministrazione immobiliare urbana, con funzioni di custodia, di sorveglianza, di intervento sugli incendi, di portineria, nonché di polizia interna, che potevano o meno aver ricevuto preposizione da parte del gestore: solo in quest’ultimo caso essi coincidevano con il quem quis aedificio praeposuit di D. 14.3.5.1. Di conseguenza, l’uso del termine insularii nel romanzo di Petronio è idoneo a riferirsi, a mio avviso, ad una categoria più ampia di soggetti rispetto a quella che abbiamo visto delineata in Ulpiano, indicando una schiera multiforme di lavoranti che coadiuvavano il titolare esercente in ogni aspetto dello sfruttamento dell’insula, alcuni tra loro pure institori 95, ma non tutti accomunati da questo dato. Passando ora a dire delle forme di conduzione dei magazzini romani non disponiamo, a onor del vero, di documenti espliciti attestanti la possibilità di esercitare quest’attività a mezzo di preposti; non compare nell’elenco (comunque non tassativo) di Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.1-10 e non troviamo frammenti nel Digesto o in altre opere di taglio giuridico, che menzionino 93 

466.

Cfr. A. Petrucci, Per una storia, cit., 123 ss. e P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit.,

E. Santamato, Deversorium, cit., 4 ss. e P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 465 ss.; si tratta del «personale normalmente assunto ed impiegato (exercendae causa: Ulp. D. 47.5.1.6), al pari delle res, dall’exercitor per la fornitura, a scopo di lucro…, di una variegata gamma di servizi alla clientela». 95  E questo mi sembra anche il senso che si deve attribuire al praepositus insulariorum della lapide riprodotta in CIL VI 8856: tra i più insularii, Dafno era il preposto alla gestione del fondo urbano. 94 

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l’institor preposto a questa forma di gestione immobiliare. Eppure, nessuna di queste due circostanze mi pare dirimente: entrambe, anzitutto, sono legate a ragioni di tipo economico, che spinsero la mano dei compilatori nell’opera di selezione dei materiali giurisprudenziali classici; la prima, per altro, non esclude che proprio l’ovvietà di questa facoltà abbia favorito l’omissione ulpianea; la seconda si giustifica, d’altra parte, a mio modo di vedere, in base all’uso promiscuo che, nelle fonti epigrafiche, sappiamo essere fatto del termine horrearius, in alcune esso, infatti, indica l’imprenditore, in altre il manager e, talvolta, pure i custodi dell’edificio, circostanza, questa, che, senza dubbio, poteva creare qualche complicazione nel prendere ad exemplum fattispecie afferenti a tale ambito economico 96. Se dal silenzio, comunque, non si possono trarre argomenti decisivi, in senso positivo mi pare si debbano considerare, come già ho evidenziato in altro luogo 97, alcuni indizi circa la diffusione della praepositio institoria nel contesto della gestione dei magazzini. 1. Una prima importante indicazione mi pare desumibile dal passo: Paul. 1 decret. D. 14.5.8: Titianus Primus praeposuerat servum mutuis pecuniis dandis et pignoribus accipiendis: is servus etiam negotiatoribus hordei solebat pro emptore suscipere debitum et solvere. Cum fugisset servus et is, cui delegatus fuerat dare pretium hordei, conveniret dominum nomine institoris, negabat eo nomine se conveniri posse, quia non in eam rem praepositus fuisset. Cum autem et alia quaedam gessisse et horrea conduxisse et multis solvisse idem servus probaretur, praefectus annonae contra dominum dederat sententiam. Dicebamus quasi fideiussionem esse videri, cum pro alio solveret debitum, non pro aliis suscipit debitum: non solere autem ex ea causa in dominum dari actionem nec videtur hoc dominum mandasse. Sed quia videbatur in omnibus eum suo nomine substituisse, sententiam conservavit imperator.

Tiziano Primo aveva preposto un servo a dare denaro a mutuo e a ricevere pegni. Nei confronti dei commercianti di orzo, quest’ultimo era anche solito assumere il debito in luogo del compratore e pagare. Il servo era fuggito e colui al quale era stato delegato a dare il prezzo dell’orzo aveva convenuto in giudizio il padrone quale preponente dell’institore; Cfr. voce horrearius, in TLL, VI, 2975 s.; C. Alzon, Problèmes, cit., 8 ss. e G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 177 s., nt. 2; le difficoltà derivanti dall’identità dei termini con cui, nella lingua parlata, si era soliti appellare sia i titolari, sia i preposti ad una data attività, non erano proprie, lo abbiamo poco fa rilevato, nel contesto della gestione di immobili, dei soli horrearii, si pensi al corrispondente esplicito testo giuridico in materia di esercizio della taberna deversoria; Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1.5: Caupones autem et stabularios aeque eos accipiemus, qui cauponam vel stabulum exercent, institoresve eorum. 97  A. Grillone, Punti, cit., 30 ss. 96 

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nondimeno, costui negava di poter essere convenuto a tale titolo, perché il servo non era stato preposto per tale attività. Ma, essendo stato provato che il servo aveva sia concluso altri affari, sia preso in conduzione magazzini, sia pagato a molti, il prefetto dell’annona si era pronunciato contro il padrone. Paolo aveva sostenuto che il servo avesse prestato una fideiussione e che non si era soliti dare l’azione institoria contro il padrone in base a tale causa se non risultava che il padrone gli avesse dato incarico di fare ciò. Ma, poiché era risultato che il padrone si facesse sostituire a suo nome in tutto, l’imperatore confermò la sentenza. Un negotiator nel settore dell’intermediazione finanziaria aveva preposto un servo a concedere prestiti garantiti da pegni, ma oltre ad adempiere a questa funzione l’institor forniva abitualmente credito agli acquirenti dei mercanti d’orzo e prendeva in conduzione magazzini; anche per i debiti derivanti da queste due ultime incombenze, estranee alla preposizione, in base alle sentenze della giurisdizione imperiale il padrone era tenuto a rispondere per l’intero nei confronti dei terzi contraenti con l’institore, come se lo avesse preposto per esse, poiché, tollerando che quest’ultimo le esercitasse in suo nome, aveva radicato negli utenti la convinzione che facessero parte dei compiti affidati al proprio dipendente 98. Quello che ai nostri fini è grandemente significativo è che la conduzione dei magazzini rientri nel “tutto”, cioè nel complesso delle attività negoziali inerenti l’esercizio d’impresa (sed quia videbatur in omnibus eum suo nomine substituisse), in cui il padrone risultava avere sostituito lo schiavo a sé e per cui, di fronte alla giurisdizione imperiale, veniva condannato a rispondere 99, come se, anche per questo, lo avesse realmente preposto. È significativo, in primo luogo, perché quello scorcio cum autem et alia quaedam gessisse et horrea conduxisse et multis solvisse idem servus probaretur giustappone a quella di conduzione degli horrea altre attività, commerciali e finanziarie, che, pacificamente, possono essere oggetto di preposizione; già questo, come si è poc’anzi accennato, di per sé è indice che anche al suo esercizio fosse lecito e comunemente diffuso preporre sottoposti in potestà. In secondo luogo, poi, se è vero che l’imprenditore Da questo punto di vista, si è recentemente osservato come il contenuto della preposizione non dipendesse esclusivamente dal tenore letterale della proscriptio e, dunque, dalla volontà di chi preponeva, ma che fosse suscettibile di espansione sotto il profilo oggettivo in ragione delle attività effettivamente e abitualmente condotte dall’institore, da ultimi, cfr. A. Cassarino, Ricerche, cit., 7 nt. 12 e 51 nt. 29 e A. Petrucci, Poteri, cit., 24, nt. 35, in precedenza, M. Miceli, Sulla struttura, cit., 194 ss. ed Ead., Studi, cit., 67 ss. e 78 ss. 99  Sul passo, con riguardo alle motivazioni che spinsero la giuriprudenza imperiale ad andare oltre la stretta osservanza dei limiti della praepositio individuati in sede di proscriptio, rimando alle esaurienti trattazioni di A. Petrucci, Poteri, cit., 24 nt. 35; Id., Per una storia, cit., 33 ss. e M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 69. 98 

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aveva preposto, in ossequio alle prescritte forme di pubblicità edittali, il proprio servo solamente a dare a mutuo e a ricevere pegni, è pure vero che l’effetto sostanziale della sentenza, prima prefettizia e poi imperiale, era quello di estendere la portata della preposizione institoria a tutte le attività (tra le quali, anche quella di conduzione dei magazzini) di cui risultasse provato in giudizio l’esercizio abituale da parte del servo institore fuggitivo. 2. In Scaev. 27 dig. D. 20.4.21.1 100 mi pare valga la pena, per il discorso che qui preme, soffermarsi sui caratteri giuridici e sul ruolo economico ricoperto nella conduzione degli horrea Caesaris dal procurator Caesaris exactioni praepositus menzionato nel passo. Qui, anzitutto, occorre premettere che la titolarità fiscale del magazzino non deve più del dovuto influenzare il nostro giudizio: non ci sono ragioni plausibili, infatti, per ritenere che, nel contesto dell’amministrazione di magazzini, la rappresentanza organica, palesata nel passo dall’impiego della locuzione procurator praepositus, si sia diffusa a seguito del passaggio delle strutture di stoccaggio dalla conduzione privata a quella pubblica e, anzi, argomenti logici, suggeriscono di reputare che lo strumento della praepositio sia stato modulato dal precedente sistema di gestione privata. È dopotutto noto come nell’alto impero il termine procurator designi altresì soggetti incaricati della gestione del patrimonium imperiale, attraverso gli strumenti giuridici con i quali ogni titolare privato, per il tramite di propri servi, liberti o sodali liberi, era solito governare i suoi beni 101. La connessione tra questo testo, il dettato di Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5 pr.: cuicumque igitur negotio praepositus sit, institor recte appellabitur e il suo seguito nel §. 1: si quid cum insulario gestum sit vel eo, quem quis aedi100 

Negotiatori marmorum creditur sub pignore lapidum, quorum praetia venditores ex pecunia creditoris acceperant; idem debitor conductor horreorum Caesaris fuit, ob quorum pensiones aliquot annis non solutas procurator exactioni praepositus ad lapidum venditionem officium suum extendit… 101  Cfr. D. Faoro, ‘Praefectus’, ‘procurator’, ‘praeses’. Genesi delle cariche presidiali equestri nell’Alto Impero Romano, Milano, 2011, 120 s. e 157 s. Per altro, non potrebbe essere altrimenti, se la natura giuridica del patrimonium Caesaris è la stessa del patrimonium fisci. Ed, anzi, da più parti oggi si tende a negare ogni distinzione tra le due entità. È perfettamente coerente che la loro ammistrazione debba seguire schemi conformi a quelli utilizzati da qualsiasi homo privatus tardorepubblicano titolare di un ingente patrimonio (cfr., sul punto, E. Lo Cascio, ‘Patrimonium’, ‘ratio privata’, ‘res privata’, in Il ‘princeps’ e il suo impero. Studi di storia amministrativa e finanziaria romana, Bari, 2000, 97 ss.). Già G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 195 s., dopotutto, si era spinto ad ipotizzare che il procurator exactioni, menzionato in D. 20.4.21.1, fosse un preposto, gerarchicamente subordinato al procurator patrimonii, il cui campo di azione fosse precisamente limitato alla riscossione dei canoni di quel magazzino.

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ficio praeposuit…, in solidum eum teneri, mediante la catena semantica dei riferimenti espliciti alla praepositio institoria, dà consistenti elementi per inferire che anche gli horrea, così come le insulae, potessero essere amministrati tramite institori. 3. In CIL VI 30901 e CIL VI 30855 compaiono rispettivamente la figura dell’horrearius e del vilicus horreorum degli horrea Galbana, che Rickman 102 e, in tempi recenti, Zappata 103 e Holleran 104 hanno ritenuto essere schiavi o liberti dell’imperatore sovraintendenti alla gestione del magazzino. Nelle nostre fonti, il termine vilicus individua un sovraintendente della familia servorum nel contesto della villa rustica oppure, prevalentemente in quelle non giuridiche, il curatore/ amministratore di un altro qualsiasi bene immobile: nell’ambito di tale governo, pertanto, è verosimile ritenere che costui potesse rivestire, anche dal punto di vista negoziale, un ruolo manageriale 105; che fosse, in altri termini, il soggetto più idoneo a ricevere un’apposita praepositio volta all’intrattenimento di rapporti commerciali con i clienti. Sul piano terminologico, in ogni caso, l’utilizzo del lemma vilicus è, a mio modo di vedere, illuminante sotto il profilo funzionale e lo colloca con precisione all’interno della dipendenza dell’horrearius-esercente, in quanto, di per sé, comunemente, il

G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 177 ss. e 194 ss. E. Zappata, ‘Piperarii’, cit., 736. 104  C. Holleran, Shopping in Ancient Rome. The Rentail Trade in the Late Republic and the Principate, Oxford, 2012, 85 s.; l’Autrice nella sostanza concorda con Rickman, in particolare con riguardo alla figura del vilicus horreorum, che viene definito un sovraintendente alla gestione dei magazzini, con identiche funzioni negli horrea pubblici come in quelli di proprietà privata, tra le quali, sono da annoverare, per lo meno: la conclusione dei contratti di locazione, compiti contabili di esazione dei canoni, di custodia e sorveglianza dell’edificio. 105  Una posizione manageriale è accordata pacificamente al vilicus horreorum, termine ricorrente nelle fonti epigrafiche, ma di natura atecnica, da C. Virlouvet, Bâtiments, cit., 49 e J.J. Aubert, Law, cit., 627, il quale ultimo, in particolare, ha recentemente ritenuto sia identificarsi con il quis qui aedificio praepositus di Ulp. 28 ad ed. 14.3.5.1. Pur con una certa confusione di ruoli, in particolare, tra questi, gli eventuali insularii e l’ipotetico contractual middleman, è anche la funzione che P.J. Du Plessis, Letting, cit., 151, attribuisce ai vilici nel contesto della gestione di fondi urbani. Nello stesso senso impiega il termine vilicus, E. Santamato, Deversorium, cit., 14 s., in rapporto alla gestione di qualsivoglia edificio urbano; con l’appunto, da rivolgere a questi ultimi due autori, per cui, da un punto di vista giuridico, anche il vilicus, così come il procurator, avrebbe dovuto necessariamente ricevere un incarico corrispondente, in buona sostanza, ad una praepositio institoria, al fine di poter intrattenere rapporti contrattuali con l’utenza (cfr. supra ntt. 68 e 74). Sulla pluralità di significati che il termine assume nelle fonti, si veda E. Forcellini, voce Villicus, in LTL, IV, 992. 102  103 

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segno indica, nelle fonti giuridiche, una figura sottoposta e dipendente dal dominus fundi o dal colonus, che, come abbiamo poc’anzi già osservato, pur con non identiche mansioni, condivide numerose funzioni con particolari figure institorie: come già, del resto, suggeriva Pomp. 6 ad Sab. D. 50.16.166, palesando la tangenza tra questa figura e l’insularius, il quale, pacificamente, rientra, in base al parere di Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.1-10, nel novero dei preposti all’esercizio di attività economiche organizzate 106. Per quanto concerne invece l’uso epigrafico del termine horrearius, per esso possono valere le considerazioni già svolte in relazione al settore alberghiero, dove non sempre gli esercenti in proprio e i loro institori sono distinguibili a livello terminologico. Quando poi, allora, in CIL VI 30901 gli horrearii sono nominati al fianco degli operarii Galbenses, l’impressione che ne deriva è che essi siano dei soggetti a questi ultimi sovraordinati, che essendo distinti dai proprietari e dai conduttori, dovevano assolvere alla funzione di preposti alla gestione 107.

3. Sulle tracce della negotiatio peculiaris nel contesto della gestione di immobili urbani Nel nostro viaggio tra le forme organizzative della gestione immobiliare urbana non si possono trascurare le attestazioni, benché non frequenti, dell’esercizio nomine proprio di queste attività da parte di soggetti in potestà nei limiti di un peculium. Un primo brano da tenere in conto è: Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.3.2: Eodem modo tenentur caupones et stabularii, quo exercentes negotium suum recipiunt… 3. Si filius familias aut servus receperit et voluntas patris aut domini intervenit, in solidum erit conveniendus… Sin vero sine voluntate exerceant, de peculio dabitur. 106  Cfr. A. Petrucci, Per una storia, cit., 16 e J. Dubouloz, La propriété, cit., 126 ss. Analoghe e condivisibili riflessioni sono poi svolte da G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 178, sul vilicus ex horreis Lollianis di CIL VI 4226, servo dell’imperatore Claudio e sovraintendente alla conduzione degli horrea Lolliana. 107  Per la polisemia del termine cfr. già supra nt. 96, sulla funzione institoria degli schiavi indicati dalle fonti epigrafiche con il termine horrearii con me concorda, di recente, J.J. Aubert, Law, cit., 629; inoltre, quello attestato in CIL VI 30901, sarebbe, secondo G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 177, nt. 2, anche il caso dell’horrearius di CIL VI 588, che egli ritiene pure essere schiavo dell’imperatore preposto alla gestione, forse, di parte soltanto degli horrea Galbana, o altro impiegato nell’attività gestoria e per C. Holleran, Shopping, cit., 85 nt. 110, quello di CIL VI 9467, relativa agli Horrea Lolliana. Per la contestualizzione delle epigrafi menzionate, rimando qui a voce Horrea Lolliana, in LTUR, III, 43 e voce Horrea Galbana, in Ibidem, 40 s.

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Gli albergatori e i titolari di una stazione di cambio sono tenuti per le cose ricevute dai clienti, in solido, quando il figlio o lo schiavo esercente abbiano ricevuto sulla base di un atto di volontà del padre o del dominus, nei limiti del peculium negli altri casi. Nel libro 14 ad edictum Ulpiano indugia nel commento alla formula dell’actio de recepto nautaurum, cauponum, stabulariorum. Rinviando oltre 108 le problematiche sottese a questo particolare tipo di responsabilità degli albergatori per la mancata restituzione e/o per il furto o il danneggiamento di cose dei clienti, qui, ciò che importa mettere in luce è come quel filius familias aut servus… exerceant, si contrapponga all’exercentes negotium suum del §. 2. Quest’ultima locuzione, infatti, è connessa a una forma di conduzione diretta, personale o per mezzo di preposti, da parte del titolare dei profitti 109, integrata, semmai, da casi ulteriori di recepta fondati sulla volontà del pater o del dominus, a cui mi pare alluda l’incipit del §. 3 110e a cui si lega inscindibilmente una responsabilità di costoro per l’intero, mentre la prima proposizione, riferita direttamente alla persona del figlio o del servus  111, indica una forma, da parte loro autonoma, di esercizio della negotiatio nei limiti di un patrimonio separato, come anche risulta evidente dalla tutela processuale offerta al terzo contraente nelle ultime parole del testo, ovvero, appunto, l’actio de peculio. Si tratta, in questo caso, di due indicazioni convergenti, insufficienti da sé sole, ma nella loro giustapposizione capaci di mettere in luce la struttura manageriale della negotiatio in questione. Qualsiasi servo, del resto, che avesse concluso un contratto con un terzo in assenza di preposizione, di iussum o di un’altra espressione di volontà autorizzativa dell’esercente, avrebbe comunque vincolato il dominus a rispondere dell’eventuale inadempimento nei limiti del valore del peculio, se ne avesse avuto uno, o di quanto riversato nel patrimonio dominicale, pure Cfr. infra Cap. II, §. 3. P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 468 e A.M. Giomaro, Dall’instruere all’instrumentum, cit., 107 nt. 8. 110  Il consenso poteva indifferentemente essere rivolto a quel solo atto oppure all’intera attività d’impresa; a riguardo, si veda A. Petrucci, Per una storia, cit., 136 e Id., Idee ‘vecchie’ e ‘nuove’ sulle attività imprenditoriali gestite all’interno di un peculio, in BIDR, 106, 2012, 318. 111  A.M. Giomaro, Dall’instruere all’instrumentum, cit., 108; in questo luogo, l’Autrice chiarisce come, a suo avviso, ogniqualvolta il verbo exercere compaia in fonti dove si allude all’esercizio di attività economiche in forma di impresa, esso inequivocabilmente venga riferito al soggetto che organizza e conduce a livello dinamico la negotiatio di cui assume il rischio imprenditoriale (si noti, infatti, da tale punto di vista, come nel contesto di un exercitio peculiaris, all’evidenza, l’aggressione del patrimonio separato da parte dei terzi, comportasse un contemporaneo depauperamento delle sostanze del dominus, così come delle capacità economiche del negotiator). 108  109 

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indipendentemente dalla circostanza che lo stesso esercitasse stabilmente una determinata attività commerciale 112. Pertanto, di per sé, la possibilità concessa dal pretore al contraente di esperire l’actio de peculio potrebbe non dimostrarsi risolutiva, e, tuttavia, essa si associa ad un exercere, che è per di più certamente autonomo, essendo sciolto da qualsiasi assenso del titolare ultimo degli incrementi patrimoniali, portandoci all’ovvia conclusione che Ulpiano intendesse riferirsi ad un caso di esercizio abituale della negotiatio alberghiera da parte del sottoposto a potestà, mercé l’impiego stabile del proprio peculio 113. Il verbo in questione, dunque, ogniqualvolta nelle fonti sia riferito al servo o al figlio finirebbe per alludere ad un esercizio autonomo e non in stato di dipendenza della negotiatio. L’univocità di questa indicazione, dopotutto, risulta a mio avviso confermata anche da altro testo: Ulp. 18 ad ed. D. 4.9.7.6: Sed cum voluntate patris vel domini servus vel filus exercent navem vel cauponam vel stabulum, puto etiam hanc actionem in solidum eos pati debere, quasi omnia, quae ibi contingunt, in solidum receperint.

Qui con riferimento agli esiti connessi all’esperimento dell’actio damni in factum, quando il servo o il figlio avessero esercitato l’impresa di navigazione, gestito un albergo o una stazione di cambio per volontà del padre o del padrone, Ulpiano reputava che tutti costoro dovessero essere tenuti per l’intero nei confronti dei clienti come se per tutto quanto accadesse in quei luoghi (e non solo per le obbligazioni derivanti da attività di tipo contrattuale) essi avessero assunto una responsabilità solidale. Pur in assenza di un esplicito richiamo all’esercizio dell’impresa all’interno del peculio, l’utilizzo del verbo exercere in rapporto alla persona del sottoposto, anziché del padrone, nonché l’altrimenti ingiustificato riferimento alla voluntas del titolare della potestà danno prova inequivoca del sottostante modello di organizzazione imprenditoriale. Si tratta, evidentemente, dello schema della negotiatio peculiaris, su cui il pater/dominus abbia inciso con un avallo esplicito all’attività imprenditoriale del sottoposto, estendendo la propria responsabilità, prima limitata, all’intero 114. Si vedano anzitutto in proposito le puntuali notazioni sistematiche di recente esposte in A. Cassarino, Il vocare in tributum nelle fonti classiche e bizantine, Torino, 2018, 23 ss., in ogni caso, è pure quanto inequivocabilmente emerge da Ulp. 29 ad ed. D. 15.3.1 pr.: Si hi qui in potestate aliena sunt nihil in peculio habent, vel habeant, non in solidum tamen, tenentur qui eos habent in potestate, si in rem eorum quod acceptum est conversum sit, quasi cum ipsis potius contractum videatur, su cui rimando ad A. Petrucci, Per una storia, cit., 83 s. 113  Cfr. A. Petrucci, Per una storia, cit., 86 e 136 e, da ultimo, A. Cassarino, Ricerche, cit., 64 nt. 64. 114  Cfr. P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 467 s. ma anche, più recentemente, si veda G.F. Rosso Elorriaga, Los límites de la responsabilidad objetiva. Análisis en el ámbito de 112 

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Un’esplicita attestazione pure ci è giunta riguardo all’impiego dello strumento peculiare nel contesto della conduzione di un magazzino; si tratta di una delle Tabulae Pompeianae Sulpiciorum, quella datata 2 luglio 37, di cui qui riporto il testo pubblicato da Camodeca 115: TPSulp. 45. – [=TP 7 dell’edizione del Bove]. Tab. I, pag. 2. (scriptura interior) C(aio) Caesare Germanico Augusto | Ti(berio) Claudio Nerone Germanico co(n)s(ulibus), | VI non(as) Iulias. | Diognetus C(aii) Novi Cupaeri ser(vus) | scripsi ìusu Cupaeri domini | meì cora ipsum me locasse | Hesico Ti(berii) Iuliì Augustì libert(i) | Aeueni ser(vo) horreum XII | in ‘horreis’ Bassianis publicis Putiolano- | rum medis, in quo repositu | est triticum Alexandrini, | quod pignori accepit. | Tab. II, pag. 3. hodie ab C(aio) Novio Euno, | ìtem in isdem horreis | ìmìs intercolumnia, ube | repositos habet saccos legu- | menum ducentos, quos | pignori accepit ab aeodem | Eunum. | Ex K(alendis) Iulis in menses singulos | sestertis singulis nummis. | Act(um) Putiolis. | Tab. II, pag. 4. (signatores) […] Tab. III, pag. 5. (scriptura exterior) C(aio) Caesare Germanico Augusto | Tì(berio) Claudio Nerone Germanico co(n)s(ulibus), | sextum non(as) Ìulias. Dìognetus C(aii) Novì | Cypaerì servus scripsi ìussu Cypaerì dominì | meì coram ipso me locasse Hesycho | Tì(berii) Ìulì Augustì l(iberti) Euenì ser(vo) horreum | duodecimum ìn horreìs Bassianìs publicis | Puteolanorum mediìs, ìn quo repositum | est triticum Alexandrinum, quod pignorì | accepit hac dìe a C(aio) Novio Euno, ìtem | in iìsdem horreìs {horreìs} ìmìs ìnter- | columnia, ubì repositos habet saccos | legumìnum ducentos, quos pignorì accepit ab | eodem Euno. Ex kal(endis) Ìuliìs ìn menses | singulos sestertiìs singulis n[u]m(mis). Act(um) P[u]t(eolis).

TPSulp. 45 non è che un chirografo proveniente dalla mano del gestore degli horrea Bassiana di Pozzuoli, Diognetus. Il documento attesta che su ordine (iussum) del padrone, Novius Cypaerus, il servo Diognetus aveva la responsabilidad extracontractual desde el derecho romano hasta el derecho civil latinoamericano moderno, Ciudad de México, 2016, 234 ss. 115  Si tratta di TPSulp. 45, come ricostruita da G. Camodeca, ‘Tabulae Pompeianae Sulpiciorum’ (TPSulp.): Edizione Critica dell’Archivio Puteolano dei ‘Sulpicii’, I, Roma, 1999, 121 ss., che è corrispondente a TP 7, in L. Bove, Documenti di operazioni finanziarie dall’archivio dei Sulpici, Napoli, 1984, 24 ss.

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locato ad un altro schiavo, Hesicus, appartenente a Euenus, liberto dell’imperatore Tiberio, per un canone simbolico, l’horreum XII e alcuni spazi intercolonnari, per custodire pegni in grano e legumi, dati a costui da Novius Eunus, liberto di Cypaerus, in garanzia di mutui per un complessivo ammontare di 13.000 sesterzi 116. Per quanto qui interessa, Novius Cypaerus, padrone di Diognetus, è colui che, avendo preso in locazione l’intero complesso di stoccaggio dal proprietario, ha diritto di lucrare sui canoni corrisposti dagli utenti per il godimento dei singoli spazi di deposito. Novius Cypaerus è, in altri termini, colui che nelle fonti giuridiche è appellato con il termine horrearius 117. Per rispondere, invece, al quesito riguardo al ruolo manageriale di Diognetus, si deve risolvere il dubbio circa il significato della doppia signatura (del servo e del padrone) impressa in TPSulp. 45, nonché comprendere quale sia il fine dello iussum di Novius Cypaerus. L’unica soluzione soddisfacente a questi quesiti può aversi ipotizzando che Diognetus sia organo permanente di Cypaerus nella conduzione dell’attività di gestione dei magazzini e che eserciti la stessa, non come preposto, ma autonomamente, nei limiti di un peculio 118. Nel contesto di attività economiche esercitate in forma di negotiatio peculiaris, del resto, l’avente potestà conservava, nonostante il rilevante grado di autonomia con cui di norma questi esercizi erano condotti, la facoltà di intervenire, prestando lo iussum, nelle transazioni negoziali più rilevanti intraprese dal sottoposto. Questa espressa autorizzazione, da Cfr. TPSulp. 51-52; sul punto G. Camodeca, ‘Tabulae’, cit., 123 e, da ultimo, A. Cassarino, Ricerche, cit., 21 nt. 39. Recentemente, una diversa lettura della fonte era stata data da R. Marini, La custodia, cit., 162 nt. 19, la quale aveva sostenuto che il pegno su grano e legumi sarebbe servito a garantire il canone dovuto all’horrearius. Ma, se, certo, era prassi diffusa, testimoniata anche da CIL VI 33747 (per la cui complessiva analisi qui rimando infra Cap. II, §. 2): …quae in his horreis invecta inlata / [erunt, pignori erunt horreario, si quis pro pensionib]us satis ei [non fece]rit…, associare al contratto di locatio horrei una convenzione di pegno sulle cose introdotte dai clienti, questo all’evidenza non è il caso; sul punto mi limito a condividere l’esatto giudizio di Cassarino: «questa interpretazione, però, appare difficilmente condivisibile, in quanto nella tavoletta è espressamente specificato che la locazione dell’horreum – e questo, come tra poco vedremo, sarà uno dei motivi giustificanti lo iussum dominicale – era al canone simbolico di un sesterzio al mese». 117  Esplicito recentemente sulla qualifica A. Cassarino, Ricerche, cit., 16, nt. 27 e, in precedenza, già P.J. Du Plessis, Between theory and practice: new perspective on the roman law of letting and hiring, in CLJ, 65, 2006, 429 s., entrambi richiamando le considerazioni di G. Camodeca, ‘Tabulae’, cit., 123. 118  Sull’incompatibilità dello strumento dello iussum domini con il sistema organizzativo fondato sulla praepositio già F. Serrao, Impresa, cit., 53 ss., richiamato in senso adesivo da tutta la dottrina successiva. Incomprensibile, in tal senso, la posizione dubitativa recentemente assunta da J.J. Aubert, Law, cit., 628, per il quale, indifferentemente, Diogneto potrebbe essere servus cum peculio o praepositus dell’horrearius, Caius Novius Cypaerus. 116 

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un lato, perseguiva la finalità economica di trasferire, attraverso una forma di rappresentanza negoziale per singoli atti, la responsabilità manageriale delle scelte imprenditoriali più gravose (come quella di contrarre una locazione per il corrispettivo di un sesterzio al mese) in capo al titolare ultimo dei profitti e delle perdite, ovvero il dominus  119, dall’altro, estendeva, in favore di clienti determinati, la sua garanzia patrimoniale oltre i limiti del peculio 120. L’atto in questione, dopotutto, stante la contestuale presenza di Cypaerus al momento della redazione, non si spiegherebbe se non avesse come sfondo la gestione degli horrea Bassiana in forma di negotiatio peculiaris, se così non fosse, infatti, l’horrearius avrebbe potuto concludere in prima persona il contratto senza l’intervento del proprio servo, la cui partecipazione si giustifica, pertanto, solo alla luce del suo ruolo di esercente abituale della negotiatio 121. 119  Scelta gestionale che qui si giustifica in base alla volontà del dominus, Novius Cypaerus, di favorire la concessione di denaro a mutuo al liberto, Novius Eunus, da parte dello schiavo Hesychus, tramite l’offerta ad un prezzo simbolico dello spazio di stoccaggio delle derrate date in pegno e la propria correlata illimitata assunzione di responsabilità patrimoniale: senza la quale, del resto, l’intreccio di legami personali e potestativi tra lui, Diognetus ed Eunus, avrebbe sottoposto il conduttore ad un considerevole rischio di essere truffato. È questo uno di quei casi in cui la signatura e lo iussum domini servirebbero, secondo l’impostazione di G. Coppola Bisazza, Dallo ‘iussum domini’ alla ‘contemplatio domini’. Contributo allo studio della rappresentanza, I, Milano, 2008, 135 ss., a palesare che un determinato contratto, nel flusso di attività negoziali sottese all’esercizio di una negotiatio, è posto in essere dallo schiavo-manager nello specifico interesse del dominus, quindi con sua corrispettiva estensione di responsabilità all’intero, come se al sottoposto fosse conferito un mandato con rappresentanza diretta. 120  F. Serrao, Impresa, cit., 55 ss., il documento, del resto, è perfettamente coerente con il regime dell’actio quod iussu delineato dai noti testi di Gaio (4.70) e Ulpiano (D. 15.4.1 pr.-.1): nella manualistica si veda P. Cerami-A. Petrucci, Diritto3, cit., 45. Aveva prudentemente aderito a tale impostazione pure G. Camodeca, Puteoli, cit., 105 ss., nt. 11, il quale, tuttavia, in Id., ‘Tabulae’, cit., 124, torna a dubitare, seppur in termini non troppo rigorosi dal punto di vista giuridico, che Diogneto sia «schiavo-manager preposto» (le due terminologie di norma non si associano, sono usate dalla romanistica in contrapposizione: la prima per indicare esercizi nei limiti di un peculio, la seconda negotiationes gestite da institores) «alla gestione nomine proprio degli horrea Bassiana», sulla base del solo rilievo, a parer mio non dirimente, che il me locasse (cfr. Tab. I, pag. 2) sia errore dovuto alla meccanica riproduzione del formulario di locazione, da correggersi pertanto in eum locasse (la correzione, per altro, è osteggiata dalla più recente dottrina, perfino da quella che implicitamente non accoglie la ricostruzione serraiana, cfr. J.J. Aubert, Law, cit., 628, nt. 16), ignorando, però il vero problema: cioè quale funzione possa assolvere, decostruendo l’ipotesi di Serrao, la firma apposta da Diognetus a TPSulp. 45. 121  Non ci sono ragioni plausibili per contestare la coerente ricostruzione giuridica dell’organizzazione imprenditoriale sottostante all’assetto di interessi negoziale palesato in TPSulp. 45 proposta a suo tempo da F. Serrao, Impresa, cit., 53 ss., che qui, come anche in P. Cerami, Dal ‘contrahere’ al ‘negotiari’, in Gli effetti del contratto nei confronti dei terzi

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nella prospettiva storico-comparatistica (IV Convegno internazionale Aristec), Roma, 1999, 173 ss. e M. Miceli, Sulla struttura, cit., 318, nt. 198, si accoglie. Chi ci ha provato, come D. Monteverdi, Tab. Pomp. 7 e la funzione dello “iussum domini”, in Labeo, 42, 1996, 355-360 (per cui lo iussum altro non realizza se non una fideiussio del dominus nell’interesse del servo), è caduto, del resto, in aprioristiche affermazioni di principio. Singolare la disinvoltura con cui l’Autrice bolla la tesi del Serrao: «a mio avviso» – scrive – «non ha molto senso concepire un modello organizzativo in cui la limitazione di responsabilità funzioni esclusivamente per i negozi di normale» (…e cioè ordinaria?) «amministrazione, e non, come sembrerebbe più conforme all’interesse del dominus, per quelli che lo espongono in maniera più consistente». Dove stia questa annotazione nella riflessione del grande romanista è difficile a dirsi, non certo nel commento del testo in esame, dove l’estensione della garanzia patrimoniale è giustificata dal Serrao in base alla natura soggettiva di clienti “di riguardo” dei due conduttori e non in forza dell’elevato rischio patrimoniale connesso all’operazione commerciale. Se poi l’argomento fosse stato non circostanziato rispetto a TPSulp. 45 [= TP 7], ma di carattere generale, mi limito ad evidenziare come sia perfettamente aderente a logiche di mercato la possibilità per il dominus (titolare ultimo, non dimentichiamolo, dei profitti) di estendere all’intero la propria garanzia patrimoniale, quando dalle circostanze concrete emerga che da un’attività negoziale intrapresa da un suo servo, sia pure nell’ambito di una negotiatio peculiaris, possa derivare una responsabilità ultra-peculium: in caso contrario, del resto, solo il cliente più sprovveduto si sarebbe determinato a contrarre. Ma proprio questo aspetto sollecita nuove perplessità all’Autrice, secondo cui, concessa questa facoltà al dominus, non vi sarebbe più stato limite all’ardire dei clienti. Se fosse vera la ricostruzione di Serrao, afferma: «i creditori avrebbero potuto chiedere lo iussus del dominus … in ogni caso in cui lo avessero voluto», sfugge, tuttavia, in questo frangente, in che modo ella ritenga il negotiator vincolato a concedere un simile privilegio. Infine peccherebbe pure l’impostazione del Maestro, poiché «se la locazione degli horrea avviene nell’interesse di Cypaerus non si comprende perchè non sia lui a concludere direttamente l’affare .. non resta che la possibilità che» – il servo – «agisca nel suo solo interesse, per sua autonoma volontà» – e che lo scopo del dominus – «sia solo quello di apprestargli garanzia», inoltre, prosegue in nota, «le circostanze in cui si è svolta la locazione ostano a considerare il peculium come strumento per negotiationes che avessero il loro riferimento economico nella persona del dominus». A riguardo di quest’ultima affermazione, anzitutto, mi pare che, in un’epoca in cui il servo certo non gode di capacità giuridica, in tutte le imprese esercitate, anche in veste di negotiatores cum peculio, da schiavi, non si possa non considerare il dominus vertice economico dell’attività (quantomeno materiale, se non anche direttivo; cfr., tra gli altri, D. 14.4.1 pr.), si correrrebbe a mio avviso altrimenti il rischio di sopravvalutare la complessiva portata dell’autonomia concessa al servo negotiator nell’ambito di questi esercizi, in quanto proprio al titolare della potestà e all’esercizio da parte sua della facoltà di revoca del patrimonio separato (pur con le eventuali note limitazioni precauzionali; cfr. D. 15.1.9.4; D. 15.1.11.6; D. 15.2.1 pr. e D. 14.4.1 pr.), in ultima analisi, è rimessa la permanenza in vita della negotiatio. Su quanto precede, inoltre, la prospettiva dell’Autrice risulta completamente ribaltata: infatti, come a suo tempo messo in luce dal Serrao, l’unico presupposto che può giustificare la partecipazione di Diogneto alla conclusione del contratto, pure in presenza del dominus, è per l’appunto la sua qualità di esercente abituale e nomine proprio della negotiatio; è questo, del resto, il senso di ‘quodammodo’ in Ulp. 29 ad ed. D. 15.4.1 pr. (…nam quodammodo cum eo contrahitur qui iubet): in certo qual modo è come se si contraesse con il padrone, ma in realtà, nell’ambito di qualsiasi negotiatio, si contrae con l’esercente, cioè, qui, il sottoposto a potestà. Da questo punto di vista, dopotutto, se le perplessità dell’Autrice fossero portate alle estreme conseguenze lo iussum sarebbe uno strumento inutile sul piano giuridico, nessun dominus

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Il documento epigrafico, dunque, per quanto ci interessa, è idoneo a confermare l’idea che anche tale modello organizzativo dovesse avere un certo impiego nel contesto dell’amministrazione di casamenti finalizzata allo stoccaggio. Gli esigui riscontri testuali espliciti trovano, in ogni caso, a mio modesto avviso, conferma in una ben più rilevante notazione sistematica, che, allo stato della presente ricerca, è idonea a suggerire, con buona approssimazione al vero, la generale applicabilità di questa modalità di esercizio all’intero settore della gestione immobiliare urbana. Anzitutto, con riguardo alla diffusione del modello manageriale della negotiatio peculiaris nel contesto globale del fenomeno imprenditoriale romano, ritengo si debba tenere conto della mancanza di un’indicazione paragonabile a quella contenuta in Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.1-10, ove si elencano, seppure a titolo esemplificativo, una serie di genera negotiationum esercitabili mediante institores, oltreché di un regime parallelo alternativo, quale quello dell’actio exercitoria, limitante l’onnicomprensività del cuicumque igitur negotio praepositus sit, scandito in Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5 pr. Ciò premesso, all’interno del precedente paragrafo, nel dipanarsi argomentativo di un considerevole novero di fonti, si è potuto apprezzare come tutte le forme di manifestazione economica dell’amministrazione di immobili urbani siano caratterizzate dalla possibilità di essere esercitate dal dominus o dal conductor, mediante la preposizione di propri dipendenti. La circostanza deve essere qui posta in relazione con un testo, che, certo, per la sua collocazione temporale, desumibile dalla paternità gaiana, deve essere considerato un punto di arrivo nella regolamentazione pretoria dell’exercitio negotiationum, ma che, per la parte che a noi interessa, è portatore di un principio che nulla osta a ritenere genetico della stessa. Si tratta di un passo del commentario all’editto provinciale, da cui mi sembra, senza dubbio, affiori la rivelatrice posizione suppletiva dell’actio de peculio nell’articolato quadro della responsabilità adiettizia: Gai. 9 ad ed. prov. D. 14.5.1: Omnia proconsul agit, ut qui contraxit cum eo, qui in aliena potestate sit, etiamsi deficient superiores actiones, id est exercitoria institoria tributoriave, nihilo minus tamen in quantum ex bono et aequo res patitur suum consequatur. Sive ��������������������������������������������������� enim iussu eius, cuius in potestate sit, negotium gestum fuerit, in solidum eo nomine iudicium pollicetur: sive non iussu, sed tamen in rem eius versum fuerit, eatenus introducit actionem, quatenus in rem eius versum fuerit: sive neutrum eorum sit, de peculio actionem constituit.

Colui il quale abbia contratto cum eo, qui in aliena potestate sit, quando vi ricorrerebbe, preferendo sempre perfezionare in proprio i contratti per i quali volesse estendere la propria garanzia patrimoniale.

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non possa essere tutelato dall’azione avverso l’armatore di una nave o contro il preponente di un institor, quindi nell’ambito dei rimedi processuali tipici offerti dal pretore ai terzi nei confronti degli esercenti di negotiationes terrestri o imprese di trasporto navale, non ricorrano i presupposti per l’esercizio dell’actio tributoria e neppure possa invocare uno iussum dell’avente potestà, sarà comunque legittimato a rifarsi sul peculio servile 122. Se, quindi, come pare evidente dal commentario gaiano, l’actio de peculio aveva tra i suoi scopi quello cardine di tutelare gli utenti di tutte le negotiationes non sorrette da un manifesto atto volitivo del dominus  123, sarà sufficiente desumere dalle fonti, come in questa sede si è cercato di fare in relazione alle variegate forme di manifestazione economica della gestione immobiliare, che un determinato genus negotiationis potesse esser condotto tramite institores per poter concludere che, in assenza dell’atto dominicale di praepositio, il suo esercizio abituale da parte di un soggetto in potestà si inquadrasse nello schema della negotiatio peculiaris. In altri termini, pur non disponendo di attestazioni esplicite nelle fonti che tramandino di un servus esercente nomine proprio la locazione di un A. Petrucci, Per una storia, cit., 81 s. e, più recentemente ancora, J.J. Aubert, Dumtaxat de peculio: What’s in a Peculium, or Establishing the Extent of the Principal’s Liability, in New Frontiers. Law and Society in the Roman World, Edimburgh, 2013, 193 s. 123  Non solo quelle per le quali il dominus non si fosse esplicitamente assunto la responsabilità per l’intero, ma perfino quelle in relazione alle quali avesse affisso di non contrarre con un certo servo, sia se non fosse stato a conoscenza dello svolgimento dell’attività, sia se lo avesse tollerato, cfr. Paul. 4 ad Plaut. D. 15.1.47 pr.: Quotiens in taberna ita scriptum fuisset ‘cum Ianuario servo meo geri negotium veto’, hoc solum consecutum esse dominium constat, ne institoria teneatur, non etiam de peculio; su cui da ultimo rimando ad A. Petrucci, Idee, cit., 308 s., per il quale, se anche fosse intervenuta una ripartizione di compiti manageriali per settori tra Ianuario e degli eventuali institori, per cui il primo fosse stato escluso dalla conduzione negoziale di un certo ramo di impresa, qualora questi, tuttavia, avesse continuato ad intrattenere in quell’ambito economico rapporti contrattuali con i clienti, il dominus ne avrebbe risposto comunque nei limiti del peculio. Tutela, per altro, questa, che J.J. Aubert, Dumtaxat de peculio, cit., 195 ss. e 203 s., non ha esitato a definire scadente per l’evidente difficoltà dei terzi di conoscere l’esatta consistenza patrimoniale della controparte, non essendo previsto nell’ordinamento romano alcun obbligo legale di tenuta e pubblicizzazione della contabilità relativa al peculium. Per questo, secondo tale recente impostazione, l’adozione del modello della negotiatio peculiaris non sarebbe tanto limitata ad alcuni particolari settori economici di operatività o preclusa dalla necessità di ingenti capitali, ma certo confinata, pressoché soltanto, a situazioni di mercato locali o regionali, caratterizzate da una relativa prossimità sociale tra gli attori economici, che permettesse l’effettiva conoscenza e stima delle sostanze a disposizione del servus – filius negotiator. Sull’evidente erroneità di tale impostazione sia sufficiente qui il rinvio alle pagine che, recentemente, A. Cassarino, Il vocare in tributum, cit., 160 ss., ha dedicato alla pratica della tenuta di documentazioni contabili da parte dei servi dotati di peculio, che, al di là della, direi quasi evidente, imperatività ai fini dell’esercizio di attività d’impresa, erano pure, per gli stessi, condizione necessaria alla liberazione. 122 

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casamento urbano non adibito a deversorium, sappiamo, tuttavia, dal ventottesimo libro di Ulpiano ad edictum (D. 14.3.5 pr.-.1), che questa attività rientrava pacificamente nel novero dei genera negotiationum esercitabili tramite institori, al pari di quella ricettiva 124 e della gestione di magazzini 125; afferma dapprima il giurista: Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5 pr.: Cuicumque igitur negotio praepositus sit, institor recte appellabitur.

In base all’opinione di Ulpiano, un soggetto preposto a qualsiasi tipologia di negotiatio correttamente sarà chiamato institore 126. L’esemplificazione successiva, a tal punto, scioglie i residui dubbi; difficile, infatti, credere, che il giurista, dopo aver esordito legando intimamente negotiatio ed institor, mercé il riferimento esplicito alla praepositio, avrebbe iniziato l’enumerazione casistica con una species estranea al novero di attività qualificabili come negotiationes: §. 1: Nam et Servius libro primo ad Brutum ait, si quid cum insulario gestum sit vel eo, quem quis aedificio praeposuit vel frumento coemendo, in solidum eum teneri.

Se, lo abbiamo già potuto osservare nel precedente paragrafo 127, sia stato concluso qualcosa con il preposto all’amministrazione di un’insula, l’esercente sarà, per ciò che si è contratto 128, tenuto per l’intero. Pertanto, l’attività di gestione dei casamenti urbani può essere esercitata tramite institore ed è, in forza del tenore letterale del principium, una negotiatio al pari di qualsiasi altra impresa commerciale 129, di conseguenza, nei casi in P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 452 ss. e M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 1 ss. L’horrearius è, del resto, un negotiator-imprenditore alla luce del concetto romano di negotiatio, secondo l’incontestata opinione espressa in dottrina da A. Petrucci, Per una storia, cit., 239 s. e, in precedenza, da G.E. Rickman, Roman Granaries, cit., 194 ss. e 203 e oggi ancora seguita, da ultimo, da A. Cassarino, Ricerche, cit., 15 ss. 126  Sulla disambiguazione nel testo del termine negotium in negotiatio, da ultima rimando a M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 152. 127  Cfr. supra §. 2. 128  Nei limiti della praepositio (cfr. supra §. 2) in base ad Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.11. 129  Lo è in maniera del tutto conforme alla definizione di negotiatio, che autorevole dottrina ha, da tempo, contribuito a consolidare, come esercizio a scopo di lucro di attività economiche espletate mediante organizzazione di uomini e beni da parte del negotiator: cfr. P. Cerami-A. Petrucci, Diritto3, cit., 53 s.; F. Serrao, Impresa, cit., 21 ss.; A. Di Porto, Impresa, cit., 442 ss.; M.A. Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum instrumento” e “taberna instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica, in «Antecessori oblata». Cinque studi dedicati ad Aldo Dell’Oro, Padova, 2001, 23 ss. e 107 nt. 244 e A. Campanella, Brevi riflessioni su D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.). Profili terminologico-concettuali della definizione 124  125 

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ulpianea di taberna instructa e locuzioni sostanzialmente equivalenti nella riflessione giurisprudenziale romana tra il I sec. a.C. e il III d.C., in Diritto@Storia, 8, 2009, http://www. dirittoestoria.it/8/Tradizione-Romana/Campanella-D-50-16-185-taberna-instructa-Ulpiano. htm. Dello scopo di lucro, anzitutto, alla luce di quanto già s’è detto in sede di introduzione (cfr. supra Intr., §. 3), mi parrebbe perfino superfluo discutere; in questa sede, sia sufficiente richiamare le testimonianze più significative: Cic., Ad Att. 16.1.5 e Marziale (4.37), sugli introiti annuali del ricchissimo Afro, e lo stesso De off. 2.25.88-89, in cui la scelta tra lucro prodotto dai fondi rustici ed urbani è equiparata a quella tra gloria e divitiae, tra vires e celeritas. Dell’esercizio professionale in senso dinamico dell’attività, invece, la dottrina ha ritenuto rivelatore l’utilizzo del verbo exercere nel sopra commentato Ulp. 23 ad ed. D. 9.3.5.1: …Nam et si quis cenaculariam exercens ipse maximam partem cenaculi habeat, solus tenebitur: sed si quis cenaculariam exercens modicum sibi hospitium retinuerit, residuum locaverit pluribus, omnes tenebuntur quasi in hoc cenaculo habitantes, unde deiectum effusumve est…, per la cui esegesi a quella sede rimando, cfr. supra §. 1 e A.M. Giomaro, Dall’instruere all’instrumentum, cit., 107 s., nt. 8. Per quanto a noi qui più direttamente interessa, nel brano in questione l’uso di quell’espressione verbale è significativo, nella misura in cui è utilizzata per distinguere un certo inquilino, anche esercente, da tutti gli altri (residuum locaverit pluribus): mi pare si tratti senza dubbio, come già più sopra ho accennato, di uno dei casi in cui la terminologia è utilizzata in senso tecnico per alludere a modalità professionali di conduzione dell’attività di locazione dell’insula e, dunque, in altri termini, a una forma di esercizio in chiave imprenditoriale della gestione immobiliare urbana da parte di uno speculatore edilizio (in tal senso, già si era pronunciato R. Fercia, La Responsabilità, cit., 131 nt. 50). Dal canto suo, in proposito, A.M. Giomaro, Ibidem, aveva messo chiaramente in luce la sintomaticità dell’uso del verbo exercere – impiegato diffusamente dalle fonti, soprattutto in relazione all’exercitio navis, per indicare l’attività dinamica d’imprenditoria – per distinguere una struttura imprenditoriale finalizzata al profitto e legata all’assunzione del rischio imprenditoriale. L’exercitor e il negotiator, dopotutto, mettevano in gioco quanto speso per assicurarsi le navi o quanto destinato all’acquisto dei beni oggetto di commercializzazione al dettaglio e delle materie prime. L’amministratore di casamenti urbani, allo stesso modo, aveva lo scopo di remunerare ciò che aveva investito per prendere in conduzione o acquistare gli immobili da lui gestiti, le somme impiegate per conservare idonei all’uso gli edifici, nonché quanto speso per il mantenimento dei servi e, eventualmente, per retribuire le operae dei lavoratori liberi coinvolti nell’attività di gestione. La possibilità di non essere pagato dai clienti (cfr., tra gli altri, Sat. 95; Mart., 12.32; Ad Att. 12.32.2; Caes., De bello civ. 3.21.1; su cui si veda supra Intr., §. 3), l’incertezza circa il proficuo inserimento sul mercato ed il pericolo concreto del materiale perimento dei mezzi indispensabili per la conduzione della negotiatio (abbiamo già commentato la notevole frequenza dei roghi e dei crolli degli edifici nella Roma tardorepubblicana ed imperiale: Gell., Noct. Att. 15.1.3 e Giov., Sat. III, 197; cfr. supra Intr., §. 3) erano tutte componenti di quel “rischio”, che caratterizzava, pur in un’economia schiavistica, l’intero sistema delle negotiationes romane. Infine, dell’esistenza di un’organizzazione di uomini e beni funzionale alla conduzione dell’attività d’impresa la dottrina ritiene sia indicatore l’uso del verbo instruere, cfr. Ibidem, 105 ss. Nessuna fonte, tuttavia, lo connette esplicitamente all’attività di collocamento di habitatores stabili in casamenti urbani e la lacuna non può essere colmata dai significativi – ma non satisfattivi – riferimenti all’instrumentum aedificii di D. 33.7.20.2 e alla domus instructa di D. 33.7.12.42, né il sostantivo, né l’aggettivo, infatti, paiono essere termini indissolubilmente legati all’esercizio di negotiationes; solo talvolta, cfr. G. Gilberti, Servus quasi colonus. Forme non tradizionali di organizzazione del lavoro nella società romana2, Napoli, 1988, 98 e A.M. Giomaro, Ibidem, 112 ss., alludono ad un’utilizzabilità economica del bene (sul punto, pure R. Astolfi, Studi sull’oggetto dei

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cui venga condotta da un servus negotiator, non preposto all’intrattenimento dei rapporti contrattuali con gli utenti, si sarebbe dovuta qualificare come negotiatio peculiaris, residuando a costoro, a tutela delle proprie ragioni, la sola possibilità d’aggredire, come poc’anzi suggeriva il sopracitato celebre passo di Gaio, il peculio servile, quale autonomo centro di imputazione di legami giuridici patrimoniali 130. Se questo è vero, ritengo assolutamente condivisibile, per ognuna di legati in diritto romano, II, Padova, 1969, 2), indifferentemente, anche di mero godimento. Tuttavia, se il significato letterale del termine instruere è quello di attrezzare od organizzare, riferito ad edifici, significa renderli abitabili oppure tenerli in condizioni tali da poter essere abitati (cfr. A.M. Giomaro, Ibidem, 159 ss.). Come si coglie, del resto, anche dal senso di instructa in Ulp. 28 ad ed. D. 50.16.185 (riferito a taberna): quae et rebus et hominibus ad negotiationem paratis constat, in un contesto imprenditoriale, al verbo instruere non può che attribuirsi il significato di approntare e mantenere l’organizzazione di homines et res necessaria alla realizzazione dell’oggetto principale di una determinata negotiatio. All’evidenza, dallo studio fin qui svolto, emerge come questo insieme di attività preparatorie faccia senza dubbio parte di quelli che sono gli oneri assolti dal gestore immobiliare al fine di porsi in condizione di garantire l’uti frui ai conduttori. Inoltre, in senso contrario, non mi pare possa essere addotta la circostanza che il gestore dell’insula non è imprenditore perché non predispone servizi accessori rispetto al semplice conferimento dell’uti frui: costui, infatti, appresta un’articolata struttura organizzativa, comprensiva di servi custodi, spazzini, squadre antincendio, vigilanti privati e addetti alla riscossione, che, a vari livelli e con distinte mansioni, cooperano per la conservazione dell’idoneità strutturale dell’insula, favorendo la fruizione della stessa da parte dei suoi abitanti. Pulizia, fornitura di acqua, tutela della sicurezza e della pace degli habitatores mi pare debbano, a ragione, essere considerati servizi accessori e racchiusi, pertanto, nell’alveo di quell’instruere che contrassegna, sotto il profilo statico, la nozione romana di negotiatio (sul punto, R. Fercia, Ibidem, già sottolineava come fossero assolutamente trascurabili, da questo punto di vista, le divergenze tra questa attività e quella condotta dall’albergatore). 130  A. Petrucci, Idee, cit., 307 ss., per il quale, del resto, almeno a partire dal I secolo a.C., l’actio de peculio è, pacificamente, nella visione dei giuristi, il rimedio processuale unico volto a tutelare il contraente con il sottoposto nei casi frequenti di sconfinamento dai poteri conferitigli mediante praepositio o allorquando questi avesse sua sponte intrapreso, all’insaputa del dominus, una qualche attività economica imprenditoriale. Afferma l’Autore con lapalissiana chiarezza: «in tal modo l’azione nei limiti del peculio trovava applicazione… in tutte le negotiationes, per le quali valeva l’azione institoria». Nello specifico contesto dell’amministrazione immobiliare urbana, questa è, per altro, l’opinione, fondata, pare, sulla mera constatazione della libertà di iniziativa economica del dominus (ma, perchè no, anche del servus) e non meglio giustificata attraverso le fonti, recentemente espressa da P.J. Du Plessis, Urban landlords, cit., 637 s., il quale ha ritenuto che, se è attestata la ricorrenza, nell’ambito dell’attività di gestione dei casamenti urbani, dell’utilizzo dello schema manageriale fondato sulla preposizione institoria, allora, lo schema organizzativo alternativo a questo debba di necessità essere quello della negotiatio peculiaris, come risulterebbe, a suo dire, da TPSulp. 45, documento che, anche se afferente all’amministrazione di horrea, è certo comprovante che ogni immobile possa essere condotto tramite servus cum peculio, in quanto nessuna difformità economica giustificherebbe questo diverso trattamento; della stessa opinione, nella medesima opera collettanea, si è dimostrato J.J. Aubert, Law, cit., 627 ss.

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queste attività, l’ipotesi a suo tempo formulata dal Földi 131 a riguardo del management delle imprese afferenti al settore alberghiero: se un servus poteva esercitare, nomine proprio, come organo del peculium, una certa negotiatio, nello svolgimento di questa attività avrebbe potuto avvalersi della collaborazione di servi vicarii preposti come institores o esercenti, a loro volta, nei limiti di un proprio patrimonio separato uno specifico ramo di impresa. Nel primo caso il dominus del servus negotiator, in genere denominato ordinario, avrebbe risposto per la gestione dei singoli rami d’impresa nei limiti del peculio del servo ordinario, a men che non fosse intervenuto ad acta con autonome manifestazioni di volontà per estendere all’intero la propria responsabilità o che si dovesse intendere dal tenore letterale della proscriptio da lui preposto il servus vicarius, circostanza, questa, che, di fatto, avrebbe trasformato irrimediabilmente il modello organizzativo, ponendolo al di fuori dell’exercitio peculiaris. Nella seconda ipotesi, invece, salvo il caso di iussum del dominus all’attività del servo vicario, implicante l’assunzione da parte sua di una responsabilità in solidum, nonché la circostanza che il servo ordiario fosse iubente di atti del vicario, con corrispettiva contrazione del rischio del dominus alla perdita del peculio dello schiavo ordinario, gli ammanchi relativi al ramo d’impresa condotto dal servus vicarius sarebbero stati limitati al suo proprio peculio 132. Tutto quanto detto, di conseguenza, rendeva possibile, come già si è potuto osservare in relazione al modello fondato sulla praepositio institoria e in linea con il dato tratto dal Satyricon di Petronio (§§. 95-96), l’esercizio congiunto, in forma d’impresa complessa, di più rami di attività legate alla gestione immobiliare. Che significa, in altri termini, che lo schiavo ordinarius, amministratore di un intero isolato urbano, per esempio, avrebbe potuto spartire tra più servi vicari la gestione di deversoria, locande, botteghe, spazi di stoccaggio, nonché dei singoli caenacula afferenti a quel determinato complesso architettonico, conservandone, in ogni caso, la direzione e la sorveglianza complessiva.

131  A. Földi, Caupones, cit., 134; la verosimiglianza di questa ipotesi congetturale, che persuade chi scrive, in dottrina, non è stata avallata da P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 468 s., per la, a suo dire, troppo ridotta dimensione delle attività imprenditoriali che dovevano ruotare attorno alla gestione delle strutture alberghiere, che, soprattutto nei siti archeologici di Pompei e Ostia, sono state copiosamente rinvenute. 132  Cfr. A. Di Porto, Filius, servus e libertus strumenti dell’imprenditore romano, in Imprenditorialità e diritto, cit., 246-248, dal quale emerge con chiarezza la portata generale del modello della negotiatio peculiaris, anche a più piani, nel fenomeno imprenditoriale romano.

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Capitolo II

LA LOCATIO-CONDUCTIO REI NEL CONTESTO DELLA GESTIONE IMMOBILIARE URBANA Sommario: 1. Il fondamento contrattuale dello sfruttamento immobiliare urbano: la locatio rei. Il paradigma delle obbligazioni corrispettive delle parti. – 1.1. Obblighi e responsabilità del locatore: frui licere praestare. – 1.2. Vis cui resisti non potest, vitia ex ipsa re e altri criteri di attribuzione del rischio contrattuale, una terra di confine in materia di sopportazione del danno. – 1.3. Obblighi e responsabilità del conduttore: l’obbligazione di rem reddere. – 1.4. Obblighi e responsabilità del conduttore: l’obbligo di pagare la mercede. – 2. I contratti di locazione con gli horrearii: profili di divergenza dal regime generale della locatio rei. – 3. La particolare responsabilità ex recepto dell’albergatore.

1. Il fondamento contrattuale dello sfruttamento immobiliare urbano: la locatio rei. Il paradigma delle obbligazioni corrispettive delle parti Terminata la trattazione dei profili organizzativi, lo studio delle modalità di amministrazione dei casamenti urbani impone ineludibilmente di dire dell’attività negoziale intrattenuta in tali contesti economici. Nel loro complesso, infatti, queste negotiationes si caratterizzavano per avere ad oggetto lo sfruttamento economico di un edificio urbano, attraverso la locazione dei suoi interni ad una pluralità di utenti: il titolare della gestione assicurava i caenacula ai conduttori, garantendogli l’uti frui 1, l’albergatore metteva a disposizione la cella od hospitium e, analogamente, l’attività dell’horrearius gravitava attorno alla locatio di cellae, armaria vel arca  2. Abbiamo avuto occasione di osservare, per altro, come tutte queste forme di sfruttamento degli immobili in chiave imprenditoriale potessero essere esercitate, non solo dal dominus dello stabile 3, ma anche da altri soggetti, l’inquilinus Cfr. supra Intr., §. 2, ntt. 43 e 45; Cap. I, §. 1. Cfr. sia con riguardo all’albergatore, sia con riguardo all’attività condotta dall’horrearius, supra Intr., §. 2, ntt. 59 e 79 e Cap. I, §§. 1-2. 3  A. Grillone, Punti, cit., 17 ss.; supra Cap. I, §. 1 e infra §§. 1.1 e 2. 1  2 

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o l’horrearius, non domini aedium, che avessero preso in conduzione da costui l’intero casamento, al fine di speculare sulla differenza tra il canone complessivo corrisposto al proprietario delle strutture e la somma totale ricavata dalle sublocazioni delle singole parti 4, manifestandosi, in questo caso, un doppio ordine di rapporti locativi: tra il dominus e l’inquilinus (o l’horrearius) e tra costoro e gli habitatores o i conductores horreorum. In ciascuno di tali casi, il rapporto giuridico che lega le due parti e realizza compiutamente lo scopo di lucro di questi esercizi è, come si è già avuto modo di apprezzare nelle pagine che precedono, il contratto di locatio-conductio, nella species rei  5. Anche questa pedagogica identificazione, Cfr. A. Grillone, Punti, cit., 17 ss.; A. Petrucci, Note, cit., 29 s. e supra Cap. I, §. 1. Ancora oggi la dottrina è divisa sulla natura unitaria o tripartita della locatio-conductio. In altri termini, stante la denominazione comune del contratto, si discute circa la concreta percezione da parte dei giuristi classici della distinzione nelle tre tradizionali species: rei, operarum ed operis. In estrema sintesi, possiamo dire che alla tesi dell’unitarietà, che fa leva sull’omogeneità della tutela processuale e sulla comune obbligazione a dare e reddere una res (V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto Romano14, Napoli, 1960, 345 ss.; L. Amirante, Ricerche in tema di locazione, in BIDR, 62, 1959, 9 ss.; U. Brasiello, L’unitarietà del concetto di locazione in diritto romano, in RISG, 2, 1927, 529 ss. e in RISG, 3, 1928, 3 ss., ove, a suffragare la tesi dell’unitarietà, si aggiunge l’idea che la locatio operarum potrebbe ipotizzarsi nata da una costola della locazione di animali o di schiavi; R. Vigneron, La conception originaire de la ‘locatio conductio’ romaine, in Mélanges F. B. J. Wubbe, Fribourg, 1993, 509 ss., il quale mette anche in luce una ragione economica comune alle tre species, infatti, tutte le ipotesi sarebbero funzionali ad un disegno di valorizzazione di un bene mediante lavoro altrui), si contrappone quella della tripartizione (H. Niedermeyer, rec. a S. Von Bolla, Untersuchungen zur Tiermiete und Viehpacht im Altertum, München, 1940, 113 nt. 1 e T. Mayer-Maly, Tipicità e unità della ‘locatio conductio’, in Labeo, 5, 1959, 390 ss.), la quale contesta ai suoi detrattori che la divergenza degli scopi alla base delle tre species, avendone comportato una diversa regolamentazione in tema di sopportazione del periculum e pagamento della mercede, non poteva essere sfuggita alla coscienza giuridica romana che tali distinzioni aveva elaborato. La più recente dottrina, in ogni caso, ha in parte ridimensionato la portata del problema adottando una posizione intermedia: ferma l’unitaria percezione del contratto, non si può escludere che i giuristi romani, data l’evidente divergenza delle tre species sotto il profilo della funzione economica, le distinguessero, pur senza alcun intento di classificazione dogmatica, al fine di individuare, di volta in volta, il corretto quadro disciplinare di riferimento (cfr. A. Guarino, Diritto Privato Romano12, Napoli, 2001, 901 ss.; M. Kaser, Das römische Privatrecht, I2, München, 1971, 563 s. e B.W. Frier, Landlords, cit., 57 nt. 4, per il quale, pur nell’evidente unitarietà del contratto, il regime delle singole ipotesi diverge in alcuni punti «on the basis of economic sense», circostanza, questa, che, anche se disinteressati all’aspetto classificatorio, i giuristi romani dovevano di certo aver percepito). Questo prolungato dibattito non ha, per altro, influenzato in modo pregnante la manualistica, che non rinuncia alla trattazione separata delle tre species, in quanto maggiormente funzionale a stroncare all’origine altrimenti facili confusioni, nonché ad eludere la necessità di inutili precisazioni (tra gli altri, cfr. E. Volterra, Istituzioni di diritto romano, Roma, 1985, 513 ss.; C. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, Torino, 1990, 567 s.; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 4  5 

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mi pare necessario qui premetterlo, non conduce tuttavia a circoscrivere, se non per grandi linee, un corrispondente, univoco, quadro disciplinare. Come vedremo, infatti, le divergenze sottese allo specifico contesto economico di riferimento, la circostanza che la locatio rei fosse relativa a stanze di albergo, horrea o immobili rurali 6, piuttosto che la natura urbana o rustica del fondo oggetto del contratto, sono portatrici di non irrilevanti implicazioni sul piano dell’atteggiarsi del sinallagma contrattuale, nonché della reciproca responsabilità delle parti. Così, per esempio, non si può tacere della particolare responsabilità dell’horrearius, contrattualmente tenuto per il perimento delle merci depositate nel magazzino, quando, in tutti gli altri casi di locazione di una res, il locatore risponde soltanto per vizi inerenti l’integrità e l’efficienza allo scopo del bene locato 7. Nella medesima direzione va la fissazione legale di una durata minima dell’affitto agrario, che non poteva mai essere inferiore all’annata dei raccolti, vincolo questo per ovvie ragioni inesistente nella locazione di abitazioni, dove il contratto poteva avere durata giornaliera o anche solo di poche ore 8. Se pure è 593 ss., sotto il profilo scientifico mi pare significativo che l’Autore fosse, come traspare da queste pagine, pregiudizialmente contrario a detta impostazione, così come A. Torrent, Manual de derecho privado romano, Madrid, 1993, 461 ss., in base a quanto risulta dal suo recente contributo, Id., The controversy on the trichotomy “res, operae, opus” and the origin of the “locatio-conductio”, in RIDR, 2012, 378 ss.; pure nella manualistica più recente M. Brutti, Il Diritto privato nell’antica Roma2, Torino, 2011, 498 s., nt. 264 e A. Petrucci, Manuale, cit., 281 ss., conservano la tripartizione a scopo didattico-descrittivo). Questo punto di approdo del dibattito consentirà anche a noi di precisare fin da subito l’ambito della nostra indagine, individuando allo stesso tempo una precisa base disciplinare di riferimento. 6  Si veda Cap. I, §. 1; e da ultima, L. Vacca, Garanzia e Responsabilità. Concetti romani e dogmatiche attuali. Nuova edizione ampliata, a cura di B. Cortese, Torino, 2015, 153 ss.; B.W. Frier, Landlords, cit., 57 nt. 4; un’opposta visione, oggi minoritaria, era proposta, tra gli altri, da C. Alzon, Les risques dans la ‘locatio conductio’, in Labeo, 12, 1966, 314 ss. e in tema si consideri anche la posizione di A. Guarino, La multiforme “locatio conductio”, in IURA, 50, 1999, 5. 7  Sia sufficiente qui rammentare la testimonianza contenuta in Lab 5 post. a Iav. epit. D. 19.2.60.9: Rerum custodiam, quam horrearius conductoribus praestare deberet, locatorem totorum horreorum horreario praestare non debere puto, nisi si in locando aliter convenerit, su cui cfr. supra Cap. I, §. 1 e nt. 27 e, più diffusamente, infra §. 2. 8  Come si può desumere dalla ratio sottesa al passo, Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.13.11: …Quod autem diximus taciturnitate utriusque partis colonum reconduxisse videri, ita accipiendum est, ut in ipso anno, quo tacuerunt, videantur eandem locationem renovasse, non etiam in sequentibus annis, etsi lustrum forte ab initio fuerat conductioni praestitutum. Sed et si secundo quoque anno post finitum lustrum nihil fuerit contrarium actum, eandem videri locationem in illo anno permansisse: hoc enim ipso, quo tacuerunt, consensisse videntur. Et hoc deinceps in unoquoque anno observandum est. In urbanis autem praediis alio iure utimur, ut, prout quisque habitaverit, ita et obligetur, nisi in scriptis certum tempus conductioni comprehensum est. E su cui cfr. già C. F. Glück, Commentario, XIX, cit., 60 ss.; F. Gallo, Sulla presunta

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innegabile la presenza di profili di discordanza tra gli apparati disciplinari connessi a contratti di locatio-conductio rei afferenti a settori diversi di mercato, tali distinzioni si manifestano quali eccezioni, per lo più giustificate in base ai particolari scopi economici perseguiti, rispetto ad una base regolativa comune 9. In tal senso, comunque, direi che i più recenti scritti in materia 10 si sono fatti portatori della necessità di percepire come condivisi quadri regolamentari che, anche se calati in un preciso contesto socio-economico, almeno nei loro principi di fondo, risultano suscettibili di applicazione analogica a qualsiasi rapporto di locatio rei. Tenendo presenti tali constatazioni, e ferma la necessità di prestare la massima attenzione nel non cadere in troppo facili generalizzazioni, sarà spesso opportuno, nel corso di questo studio, trarre spunti di riflessione e adeguare regole che, dettate in relazione all’ambito degli affitti rurali, possono ritenersi valide anche per la locazione degli immobili urbani. In quell’arco di storia giuridica romana che fa da sfondo alla nostra trattazione, consensualità e sinallagmaticità caratterizzavano, come noto, il contratto di locatio-conductio e con esso la sottocategoria negoziale della locatio rei. Almeno a partire dal II secolo a.C., infatti, attraverso il semplice scambio dei consensi, le parti, nei negozi locativi, assumevano reciproche obbligazioni di dare ed avere. estinzione del rapporto di locazione per iniziativa unilaterale, in Synteleia Arangio Ruiz, II, Napoli, 1964, 1202 ss.; A. Cenderelli, Durata del contratto e necessità del locatore. Sulle origini della legislazione vincolistica in tema di locazione abitativa, in Studi per Giovanni Nicosia, II, Milano, 2007, 343 ss.; P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 460 s.; B.W. Frier, The Rental Market, cit., 35 e P.J. Du Plessis, Letting, cit., 158 s. 9  È il caso, per esempio, della disciplina relativa alla tacita conventio pignoris di inducta et importata nel contesto della locatio di aedes urbane e dell’interdictum de migrando, accordato al conduttore per difendersi dall’esercizio abusivo da parte del locatore del diritto di trattenere in via di autotutela i suoi beni, su cui cfr. di recente, P.J. Du Plessis, Theory and Practice in the Roman Law of Contracts, in T.A.J. McGinn, Obligations in Roman Law: Past, Present, and Future, Ann Arbor, 2012, 131 ss., ma anche, da ultimo, mi si permetta il rinvio ad A. Grillone, Le guarentigie, cit., 555 ss. 10  Si vedano R. Fiori, La definizione, cit., 80 ss. e 180 s., nt. 181; L. Capogrossi Colognesi, Remissio mercedis. Una storia tra logiche di sistema e autorità della norma, Napoli, 2005, 13 ss. e 54 ss. e L. Vacca, Garanzia, cit., 153 ss., inoltre si veda, nella manualistica, l’impostazione unitaria che è data al tema della responsabilità e della sopportazione del rischio contrattuale nel contesto della locatio rei da M. Talamanca, Istituzioni, cit., 594 s. e L. Solidoro, Obligationes contractae, in A. Lovato-S. Puliatti-L. Solidoro Maruotti, Diritto Privato Romano, Torino, 2014, 527, che, da ultima, pone in chiaro l’identità tra il criterio base di ripartizione del rischio contrattuale adottato nella locazione di fondi rustici e urbani: in entrambi i casi il conduttore sopporta il rischio della mancata fruibilità del fondo, restando obbligato al pagamento della mercede solo in quei casi in cui l’impossibilità di godimento fosse dipesa da un qualche difetto dell’attività che su di esso intendeva svolgere.

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Esigenze di chiarezza espositiva impongono, qui, di richiamare, prima di addentrarci nell’analisi del dibattito prudenziale in materia, il quadro completo dei vincoli giuridici che legano locatore e conduttore nelle locationes di aedes: mediante la semplice manifestazione del consensus, il primo si obbligava a mettere l’edificio, il cenacolo o la cella a disposizione del conduttore, trasferendone a costui la naturalis possessio e garantendogliene lo stabile e pacifico godimento; il conduttore, dal canto suo, assumeva l’obbligo corrispettivo di pagare il canone alle scadenze stabilite nel contratto, quello di conservare la res e di restituirla alla cessazione del vincolo 11.

1.1. Obblighi e responsabilità del locatore: frui licere praestare Al fine di apprezzare il contenuto complessivo dell’obbligazione assunta dal locatore, sarà utile anzitutto prendere in considerazione un passo del commentario all’editto di Ulpiano, ovvero: Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.15 pr.: Ex conducto actio conductori datur. 1. Competit autem ex his causis fere: ut puta si re quam conduxit frui ei non liceat … vel si quid in lege conductionis convenit, si hoc non praestatur, ex conducto agetur.

Il paragrafo qui considerato individua con chiarezza l’obbligazione tipica del locatore, che consiste nel conferimento al conduttore del frui licere praestare, a cui si associavano eventuali altri obblighi convenuti pattiziamente dai contraenti 12. Data la natura convenzionale di questi ultimi, in seguito, la nostra attenzione, come quella del giurista, dovrà di necessità concentrarsi sull’esatta portata dell’obbligo di conferire ed assicurare l’uti frui al conduttore. Qui si è scelto, tra le tante, di parafrasare la definizione manualistica di M. MarroIstituzioni di Diritto Romano, Palermo, 1994, 491 ss., precisandola alla luce della più ampia trattazione introduttiva desunta da L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 14 e 19. Non vi è, in ogni caso, trattazione istituzionale che, dal punto di vista sostanziale, se ne discosti: E. Volterra, Istituzioni, cit., 513 ss.; C. Pugliese, Istituzioni, cit., 568 s.; A. Guarino, Diritto, cit., 907 e M. Talamanca, Istituzioni, cit., 594, solo per fare riferimento ad alcuni classici della manualistica italiana. 12  Come di norma in tutti i contratti di buona fede, anche nel contesto della locatioconductio le obbligazioni corrispettive delle parti possono avere natura legale o convenzionale, scaturire direttamente dallo ius civile o da una pattuizione dei contraenti, detta lex locationis. Cfr., tra gli altri, L. Vacca, Garanzia, cit., 156 ss.; P.J. Du Plessis, Letting, cit., 138; A. Cenderelli, Durata, 337 ss. e 353, nt. 32; R. Fiori, La definizione, cit., 83 e N. Palazzolo, Problemi di Responsabilità e di Rischio Contrattuale, in Saggi in Materia di Locazione, Catania, 1995, 78 ss., dove quest’ultimo Autore, sintetizzando il pensiero del Betti, nell’ambito dei rapporti di buona fede ripartisce la responsabilità in: da inadempimento alle obbligazioni contrattuali tipiche, da sopportazione del rischio contrattuale, da assunzione pattizia di ulteriori obblighi e rischi. 11 

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In termini generali, il frui licere si caratterizzava per articolarsi in un ampio spettro di poteri esercitabili dal conductor e legati al diritto personale di godimento di cui, con la perfezione del contratto, egli diveniva titolare. Allo scopo di fargli acquisire tali prerogative, la controparte doveva adoperarsi adempiendo ad una serie di obblighi funzionali 13. Il primo di questi oneri era quello, preliminare, di consegnare al conduttore la res oggetto del contratto, come risulta, con lapalissiana chiarezza, da alcuni significativi passaggi di un lungo frammento di Africano, in cui il giurista riporta il pensiero del maestro Giuliano, specificandone al meglio la soluzione del caso: Afr. 8 quaest. D. 19.2.33: Si fundus quem mihi locaveris publicatus sit, teneri te actione ex conducto, ut mihi frui liceat, quamvis per te non stet… ut mercedem quam praestiterim restituas, eius scilicet temporis, quo fruitus non fuerim… nam… si colonus tuus fundo frui a te aut ab eo prohibetur, quem tu prohibere ne id faciat possis, tantum ei praestabis, quanti eius interfuerit frui, in quo etiam lucrum eius continebitur: sin vero ab eo interpellabitur, quem tu prohibere propter vim maiorem aut potentiam eius non poteris, nihil amplius ei quam mercedem remittere aut reddere debebis…

Se il fondo che taluno abbia locato sia stato confiscato, costui sarà tenuto nei confronti del conductor, in forza dell’azione da conduzione, a restituire il canone versato per quel tempo in cui quest’ultimo non avesse goduto della res, sebbene la mancata prestazione del fondo non fosse da lui dipesa. Infatti, se il locatore o qualcuno a cui egli può impedire di farlo proibisca al colono di godere del fondo, a quest’ultimo si dovrà risarcire quanto sia stato il suo reale interesse a fruirne, ma, se sarà intimato a lasciare il fondo da colui al quale il locatore, per forza maggiore o per il suo potere, non potrà vietarlo, non sarà dovuto al colono null’altro che la remissione o la restituzione del canone. Qualora sia stato dato in locazione un fondo (indifferentemente, urbano o rustico), il conduttore, mediante l’actio conducti, potrà aggredire il locatore che si sia rifiutato di consegnarlo o che incolpevolmente non sia stato in grado di conferirne l’uti frui. Nell’ultimo caso, otterrà la restituzione della mercede pagata, nel primo, invece, come si intende dall’esemplificazione che segue, quando per dolo o per sua negligenza il locator non abbia trasferito il fondo, avrà diritto ad essere indennizzato in misura corrispondente alla stima pecuniaria del proprio interesse a goderne, ivi incluso il lucro, che dall’utilizzo del bene eventualmente attendesse. Così N. Palazzolo, Problemi, cit., 89. In senso difforme, A. Guarino, La multiforme, cit., 4, reputava pericoloso l’utilizzo della categoria dell’uti frui, oltreché quanto meno inverosimile l’idea che i giuristi dell’età classica potessero definire il locator quale suo concedente, cioè come soggetto obbligato a tollerare l’esercizio di poteri sulla cosa da parte del conductor. 13 

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Il vincolo giuridico di trasferire la fruizione dell’immobile, lo si apprezza già dall’ultimo tratto del passo di Africano qui riportato, si declina, in senso estensivo, perpetuandosi nell’obbligo di garantirgliene un godimento stabile e conforme alla naturale destinazione economica del bene 14. Se lo stesso fosse stato precluso dal locatore (per dolo o per colpa) o da terzi sulle azioni dei quali costui avesse avuto controllo, egli ne sarebbe stato responsabile e per questo obbligato a risarcire l’id quod interest al conduttore, quando, invece, quell’inadempimento non gli fosse imputabile, ne avrebbe sopportato il semplice rischio, dovendo per esso soltanto rimettere la mercede o restituirla 15. Inoltre, non ogni trasferimento del godimento della res oggetto del contratto avrebbe liberato il locator dalla propria obbligazione. Il bene doveva infatti risultare idoneo all’uso convenuto ed esente da vizi occulti che lo potessero rendere incapace di assolvere allo scopo per il quale era stato preso in conduzione. Quando, pertanto, un vizio preesistente e significativo avrebbe dovuto essere conosciuto dal locatore in conformità a diligenza, non importa che egli lo abbia ignorato, dovrà, in ogni caso, riparare per intero – nei limiti dell’id quod interest – il danno patito dal conduttore in conseguenza del proprio non soddisfacente adempimento, come nel caso, contemplato in Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.19.1, in cui taluno abbia locato delle giare venate, senza saperlo, e il vino ne sia fuoriuscito (Si quis dolia vitiosa ignarus locaverit, deinde vinum effluxerit, tenebitur in id quod interest nec ignorantia eius erit excusata: et ita Cassius scripsit…). E, tuttavia, come risulta dal seguito del passo ulpianeo, non sempre l’ossequio all’opportuna Cfr. B.W. Frier, Landlords, cit., 81 s. e L. Vacca, Garanzia, cit., 163 ss; è il senso, del resto, anche del seguito del ragionamento di Africano, in 8 quaest. D. 19.2.35 pr.: Et haec distinctio convenit illi, quae a Servio introducta et ab omnibus fere probata est, ut, si aversione insulam locatam dominus reficiendo, ne ea conductor frui possit, effecerit, animadvertatur, necessario necne id opus demolitus est: quid enim interest, utrum locator insulae propter vetustatem cogatur eam reficere an locator fundi cogatur ferre iniuriam eius, quem prohibere non possit? La stessa distinctio che si pone in tema di fatti impeditivi della consegna, e sul punto si tornerà ancora diffusamente nel seguito di questo paragrafo, si può apprezzare anche allorquando il godimento del conduttore venga impedito in costanza di esecuzione del contratto: se il locatore debba riedificare l’edificio o se la possessio naturalis del conduttore venga turbata dalle molestie di terzi, si dovrà indagare se l’evento poteva essere scongiurato dal dante causa; in tal caso, egli sarà vincolato al risarcimento dell’id quod interest, mentre, in caso contrario, alla semplice remissione della mercede (cfr. L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 26 s. e L. Vacca, Ibidem, 165). 15  Cfr., tra gli altri, L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 26 e A. Petrucci, Il principio ‘pacta sunt servanda’ ed il mutamento successivo delle circostanze contrattuali: breve quadro dell’esperienza del diritto romano, in ‘Pacta sunt servanda’ y ‘rebus sic stantibus’. Desarrollos actuales y perspectivas históricas. Atti Città del Messico 29-30 gennaio 2014, a cura di C. Soriano Cienfuegos, México D.F., 2014, 26. 14 

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diligenza avrebbe reso possibile la conoscenza dei vizi più reconditi delle proprie cose. Per esempio, il locatore di un saltus non può essere tenuto a conoscere tutte le erbe che crescono nel proprio fondo e, quando talune abbiano nuociuto agli animali del conductor, o egli sapeva della loro presenza, dovendo, in questo caso, rispondere dell’intero id quod interest, o se l’avesse ignorata, ciò non avrebbe potuto ascriversi a sua colpa e, per questo motivo, sarebbe stato tenuto semplicemente a sollevare il conductor dall’obbligo di pagare la mercede (…si saltum pascuum locasti, in quo herba mala nascebatur: hic enim si pecora vel demortua sunt vel etiam deteriora facta, quod interest praestabitur, si scisti, si ignorasti, pensionem non petes, et ita Servio Labeoni Sabino placuit) 16. In entrambi i casi, la possibilità di esperire l’actio conducti si giustifica in forza del mancato adempimento, da parte del locatore, all’obbligazione di trasferire la res idonea all’uso convenuto; e, tuttavia, nella prima fattispecie, quest’ultimo risulterà in senso tecnico responsabile della propria ignoranza, mentre nell’altra ne assumerà il semplice rischio 17. Dai passi citati non emerge, dunque, un criterio rigido per la definizione del confine tra rischio e responsabilità del locatore: sarà, pertanto, di volta in volta, la sensibilità del giudicante a dirimere, nei limiti del proprio potere discrezionale, la conoscenza di quali vizi rientri nell’alveo della diligenza a costui richiesta. Ogni inadempimento all’obbligazione di frui licere praestare espone il locatore all’actio conducti, onerandolo di ristorare il pregiudizio patito dal conductor. E, tuttavia, la mancanza risulta nelle fonti diversamente sanzionata in ragione dell’imputabilità o meno del danno a costui. In proposito è fondamentale un testo in cui si descrive un casus in cui il pacifico godimento degli habitatores è interrotto dalle operazioni di demolizione dell’insula in cui risiedevano:

Già sul passo, G. Nicosia, La Responsabilità del locatore per i vizi della cosa locata nel diritto romano, in N. Palazzolo, Saggi, cit., 104 ss.; L. Vacca, Garanzia, cit., 168; M. Rizzi, “Si quis mensuras conduxerit”: note su d. 19,2,13,8, in ZP, 12, 2, 2012, 189 s. e, da ultimi, I. Fargnoli-M. De Bernardi, Percorsi di diritto romano: tra personae, res e actiones, Torino, 2017, 100 s. 17  Mi pare, in proposito, tra gli altri, pienamente condivisibile il giudizio di R. Cardilli, L’obbligazione di “praestare” e la responsabilità contrattuale in diritto romano, Milano, 1995, 229 ss., per cui si tratterebbe di un caso d’inadempimento del locator valutabile alla stregua di un significato oggettivo e non soggettivo dell’intentio di buona fede, non di un rimedio volto ad evitare, in seno alla struttura sinallagmatica del rapporto, il suo possibile arricchimento senza causa, in quanto l’obligatio è sorta, è sorretta da una causa, eppure è rimasta inadempiuta (contra, pur in senso dubitativo, cfr. la più risalente impostazione di F.M. De Robertis, La responsabilità contrattuale nel sistema della Grande Compilazione, II, Bari, 1982, 918-921, ntt. 165 ss.). 16 

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D. 19.2.30 pr. (Alf. 3 digest. a Paul. epit): Qui insulam triginta conduxerat, singula caenacula ita locavit , ut quadraginta ex omnibus colligerentur: dominus insulae, quia aedificia vitium facere diceret, demolierat eam: quaesitum est, quanti lis aestimari deberet, si is qui totam conduxerat ex conducto ageret. Respondit, si vitiatum aedificium necessario demolitus esset, pro portione, quanti dominus praediorum locasset, quod eius temporis habitatores habitare non potuissent, rationem duci et tanti litem aestimari: sin autem non fuisset necesse demoliri, sed quia melius aedificare vellet, id fecisset, quanti conductoris interesset, habitatores ne migrarent, tanti condemnari oportere.

Come si ricorderà 18, l’assetto economico sotteso al passo è il seguente: il dominus del casamento lo ha locato per intero ad un inquilinus, il quale ha provveduto a ricollocare i caenacula presso un certo numero di habitatores, da cui, nel complesso, è riuscito a spuntare una somma più elevata, realizzando un profitto del 33% 19. Nel passo il giurista afferma che si debbano trattare diversamente il caso in cui l’edificio sia demolito per necessità, perché in procinto di crollare, e pertanto la decisione del locatore di abbatterlo sia risultata in concreto determinata dalle circostanze, dal caso in cui si tratti di una scelta di mera opportunità. Nella prima ipotesi, il risarcimento spettante al conduttore, a seguito dell’esperimento dell’actio conducti, è proporzionato alla mercede dovuta per il tempo in cui la casa è rimasta inabitabile, nel secondo, invece, si estenderà all’intero id quod interest 20. La ratio delle due soluzioni è facilmente intuibile: lo smantellamento dell’edificio per evitarne il crollo non è imputabile al dominus, che nella decisione è pungolato dal pericolo che esso possa rovinare sugli habitatores. In altri termini, una simile contingenza, al pari di una vis maior, di un provvedimento della pubblica autorità o di un inarrestabile fatto dei terzi, muta la libera facoltà del locatore di demolire in un adempimento necessario, rispondente all’esigenza di garantire ai conduttori abitabilità e sicurezza dell’immobile: pertanto, in tal caso, ragioni equitative impongono al proprietario, esclusivamente, di restituire la mercede indebitamente percepita 21. Nella seconda ipotesi,

Cfr. supra Cap. I, §. 1. Si vedano in proposito B.W. Frier, Cicero’s, cit., 4; Id., Landlords, cit., 31 e P.J. Du Plessis, A new argument, cit., 73 s. 20  Cfr. R. Fiori, La definizione, cit., 103-105 e P.J. Du Plessis, Letting, cit., 166 s. 21  Cfr. F.M. De Robertis, La responsabilità, cit., 915, nt. 157; P.J. Du Plessis, Letting, cit., 167 e L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 22 s.; quest’ultimo Autore magistralmente sintetizza: «è la presenza di questa ‘necessità’, della vis maior che esclude – che si configuri un vero e proprio – inadempimento dell’obbligazione da parte del locatore, dando luogo così – ad un meccanismo – di semplice commisurazione della mercede al tempo di effettiva fruizione della res locata». 18  19 

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al contrario, a fronte di un inadempimento pienamente imputabile al locator, il quale deliberatamente privi la controparte del proprio giusto lucro senza essere sospinto da alcuna impellenza, egli sarà tenuto a rispondere per la totalità dei danni patiti dal conduttore 22: del danno emergente – corrispondente alle spese che costui ha sopportato in conseguenza dell’esecuzione del contratto – per una somma non superiore, comunque, alla mercede prestata; del lucro cessante – commisurato alla quantificazione pecuniaria dell’interesse economico del conduttore al godimento – per la maggior somma che questi avrebbe ottenuto dalla sublocazione delle singole porzioni dell’edificio 23. Questa distinctio e quella più sopra osservata in Afr. 8 quaest. D. 19.2.33, a cui il testo che qui sotto riporto si relaziona, si applicano anche a quanto già Servio, approvato da tutti i giuristi successivi, aveva affermato a proposito del caso in cui il proprietario, rifacendo per intero un casamento locato, avesse interrotto il pacifico godimento del conduttore, dovendosi distinguere, per stabilire l’entità della condanna, se tale opera fosse stata demolita per urgenze legate alla sua vetustà oppure no 24. È quanto emerge dall’incipit di: Afr. 8 quaest. D. 19.2.35 pr.: Et haec distinctio convenit illi, quae a Servio introducta et ab omnibus fere probata est, ut, si aversione insulam locatam dominus reficiendo, ne ea conductor frui possit, effecerit, animadvertatur, necessario necne id opus demolitus est: quid enim interest, utrum locator insulae propter vetustatem cogatur eam reficere an locator fundi cogatur ferre iniuriam eius, quem prohibere non possit? Intellegendum est autem nos hac distinctione uti de eo, qui et suum praedium fruendum locaverit et bona fide negotium contraxerit, non de eo, qui alienum praedium per fraudem locaverit nec resistere domino possit, quominus is colonum frui prohibeat.

P.J. Du Plessis, Letting, cit., 167 e F. M. De Robertis, La responsabilità, cit., 913-915. N. Palazzolo, Problemi, cit., 92 s.; il procedimento di stima dell’id quod interest rimase legato al libero apprezzamento del giudice fino a tutta l’età classica (nell’ambito dei giudizi di buona fede), solo in epoca giustinianea, si stabilì che il risarcimento dovuto dal locatore non potesse mai eccedere il doppio della mercede pattuita. Tale mutamento d’impostazione risulta da C. 7.47.1 (Iust. A. Ioanni P.P.): Cum pro eo quod interest dubitationes antiquae in infinitum productae sunt, melius nobis visum est huiusmodi prolixitatem prout possibile est in angustum coartare. 1: Sancimus itaque in omnibus casibus, qui certam habent quantitatem vel naturam, veluti in venditionibus et locationibus et omnibus contractibus, quod hoc interest dupli quantitatem minime excedere, su cui cfr. S. Tafaro, La limitazione dei debiti, in Diritto@Storia, 6, 2007, http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/TafaroLimitazione-dei-debiti.htm. e P. Pichonnaz, Prévisibilité du dommage et damnum extra rem, in Fundamina, 20.2, 2014, http://www.scielo.org.za/pdf/funda/v20n2/20.pdf, 707 ss. 24  Sull’identità tra i principi emergenti da D. 19.2.30 pr. e il testo in esame, L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 27 e P.J. Du Plessis, Letting, cit., 168. 22  23 

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Il seguito è per noi parimenti interessante. Allo stesso modo, prosegue con formulazione retorica il testo, si dovrà stabilire se il locatore del fondo sia costretto a tollerare atti ingiusti contro la persona del conduttore da parte di colui al quale non può vietare di fare ciò o se l’interruzione del godimento provocata da tali molestie fosse in qualche modo da costui scongiurabile. In quest’ultimo caso, per l’applicazione dei principi desumibili da D. 19.2.33, che precede, il locatore sarà condannato alla corresponsione dell’id quod interest al conduttore, mentre, nel primo, vedrà circoscritta la sua condanna ad una remissio mercedis proporzionale al periodo di mancata fruizione del bene 25. E, tuttavia, precisa la coda del testo, sarà opportuno limitare la condanna del locator a tale minore ammontare solo se costui abbia locato il fondo in buona fede e non se scientemente, con frode, abbia consegnato l’altrui. Alla luce dello stesso principio credo debba essere letto: Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.9 pr.: Si quis domum bona fide emptam vel fundum locaverit mihi isque sit evictus sine dolo malo culpaque eius, Pomponius ait nihilo minus eum teneri ex conducto ei qui conduxit, ut ei praestetur frui quod conduxit licere. Plane si dominus non patitur et locator paratus sit aliam habitationem non minus commodam praestare, aequissimum esse ait absolvi locatorem.

Se qualcuno abbia locato la casa o il fondo, comprati in buona fede, e questi siano stati evitti senza suo dolo o colpa, Pomponio afferma che nondimeno egli è tenuto nei confronti del conduttore, affinché gli consenta di godere di ciò che prese in conduzione. Se il proprietario non lo abbia permesso: o il locatore è pronto a porre a disposizione un’altra abitazione non meno comoda o sarà condannato ex conducto. Quello che volutamente rimane in sospeso nel testo è l’entità di questa condanna, la quale potrà essere determinata, a mio avviso, soltanto alla luce della conoscenza o ignoranza, da parte del locatore – al momento della perfezione del contratto – di una qualche irregolarità nella propria posizione giuridica 26. 25  Sul punto, rimando alla consolidata opinione di L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 26 e L. Vacca, Garanzia, cit., 165. 26  Sul passo cfr. E. Stolfi, Studi sui «Libri ad edictum» di Pomponio», II. Contesti e Pensiero, Milano, 2001, 182 s., per un dettagliato riepilogo sulle interpretazioni, molte, succedutesi in dottrina. La lettura del brano che personalmente prediligo è, tuttavia, quella che emerge da N. Palazzolo, La responsabilità per evizione e per molestie, in Saggi, cit., 118: «nel nostro testo …il giurista si limita ad affermare che il locatore è tenuto ex conducto a permettere al conduttore di godere della cosa oggetto del contratto… è perciò del tutto arbitario desumere una responsabilità del locatore» con conseguente commisurazione dell’obbligo di risarcire i danni all’id quod interest; e pure nello stesso senso, dubitativamente, cfr. L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 42 nt. 15, per il quale siamo in una situazione di confine tra rischio e responsabilità, in cui il locatore potrebbe vedersi imputare l’irregolarità della propria posizione legale, quando non fosse

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Le turbative della naturalis possessio provenienti dall’azione materiale o processuale dei terzi sono trattate, pertanto, alla stregua di ogni altro tipo di evento impeditivo del godimento, poichè ciò che rileva per la giurisprudenza è esclusivamente la compressione del diritto al frui del conduttore. Se l’evento non sia stato impedito per colpa del locatore, che poteva opporsi all’azione dei terzi, egli risponde nei limiti dell’id quod interest, altrimenti nei limiti della mercede pattuita. In base a ragioni di equità intrinseche ad un rapporto di buona fede il locatore non può essere tenuto verso il conductor, se non a riequilibrare il sinallagma contrattuale, in tutti quei casi in cui non poteva in alcun modo evitare la perturbazione del suo godimento, come, evidentemente, nelle fattispecie in cui la stessa derivi dall’esercizio di una facoltà legittima del vicino: Gai. 10 ad ed prov. D. 19.2.25.2: Si vicino aedificante obscurentur lumina cenaculi, teneri locatorem inquilino: certe quin liceat colono vel inquilino relinquere conductionem, nulla dubitatio est. De mercedibus quoque si cum eo agatur, repudiationis ratio habenda est.

Infatti, la riduzione della qualità del godimento, quando significativa, come nel caso in cui le luci dell’appartamento siano state completamente oscurate dalla costruzione fatta dal proprietario del fondo confinante, legittima il conduttore ad abbandonare lo stabile, potendo egli, tuttavia, pretendere giudizialmente dal locator, in qualità di indennizzo, la sola detrazione della mercede per il periodo di mancata fruizione dell’immobile 27. Nel variegato contesto dello sfruttamento economico di strutture abitative urbane abbiamo potuto constatare la diffusione sociale di situazioni di godimento multi-livello. In relazione a questa circostanza, vale la pena prendere in esame due altri frammenti che, seppur in applicazione dei medesimi criteri responsabilistici, offrono nuovi spunti di riflessione alla nostra indagine. Essi introducono, come vedremo, un interessante correttivo ai principi esaminati nel caso in cui all’uti frui dell’immobile venga ad agganciarsi una catena plurima di locazioni e sublocazioni. rispettato il presupposto della sua completa e perdurante buona fede, ai sensi della chiusa di D. 19.2.35 pr. 27  Cfr. B.W. Frier, Landlords, cit., 101, a cui si rimanda per ulteriore bibliografia in tema, aveva ritenuto non improbabile l’alterazione dell’intero periodo certe… est: «may have replaced a… sentence that allowed either deduction or abandonment, depending on the severity of the case», oggi, tuttavia, si è negato che tale idea interpolazionistica sia in qualche modo fondata, pertanto, è da ritenersi che il conductor, in un caso simile, potesse realmente scegliere se tutelarsi giudizialmente mediante l’actio ex conducto e/o, in via di autotutela, abbandonare l’insula, come recentemente ha sostenuto P.J. Du Plessis, A new argument, cit., 78.

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Un primo è: Paul. 32 ad ed. D. 19.2.7: Si tibi alienam insulam locavero quinquaginta tuque eandem sexaginta Titio locaveris et Titius a domino prohibitus fuerit habitare, agentem te ex conducto sexaginta consequi debere placet, quia ipse Titio tenearis in sexaginta.

Il tenore letterale del passo paolino è il seguente: se un tale abbia locato un casamento altrui per 50 e il conduttore avrà locato lo stesso ad un terzo per 60 e a costui sia stato proibito dal proprietario di abitarlo, pare bene che il primo conduttore, agendo contro il locatore con l’azione da conduzione, debba conseguire 60, poiché a sua volta sarà tenuto verso il terzo per tale somma. A questo si associ quanto afferma: Tryph. 9 disp. D. 19.2.8: Nos videamus, ne non sexaginta praestanda nec quinquaginta sint, sed quanti interest perfrui conductione, tantundemque consequatur medius, quantum praestare debeat ei, qui a se conduxit, quoniam emolumentum conductionis ad comparationem uberioris mercedis computatum maiorem efficit condemnationem. Et tamen primus locator reputationem habebit quinquaginta, quae ab illo perciperet, si dominus insulae habitare novissimum conductorem non vetuisset: quo iure utimur.

Consideriamo che non si debbano prestare né 60, né 50, ma quanto corrisponde all’interesse del conduttore di avere la piena fruizione dell’immobile, di conseguenza, afferma il giurista, il conduttore intermedio consegue tutto quanto deve prestare alla propria controparte contrattuale, in quanto il suo interesse al godimento del bene ammonta alla più elevata mercede dovuta dai subconduttori, poiché a quel valore dovrà attestarsi la sua condanna. E, tuttavia, il primo locatore – se non li abbia ancora ricevuti – detrarrà 50, che avrebbe dovuto percepire dal suo conduttore, se il proprietario del casamento non avesse vietato all’habitator di goderne. È Trifonino, in questo secondo frammento, a ricavare il principio generale in tema: poichè il conduttore intermedio deve poter conseguire dall’esperimento dell’actio ex conducto avverso il proprio locatore tutto quanto a sua volta dovrà alla propria controparte contrattuale, ciò implica necessariamente la quantificazione della condanna in quanto corrisponde al suo interesse (remissio mercedis + lucro) ad avere la piena fruizione dell’immobile. Con la conseguenza che se il locatore avesse già percepito la mercede sarebbe stato obbligato alla corresponsione dell’intero id quod interest del conduttore, mentre, in caso contrario, la sua condanna si sarebbe limitata alla differenza tra tale somma e il canone con quest’ultimo pattuito. I due passi, di cui è necessario dare lettura congiunta, prendono in esame un caso complesso nel quale su un primo contratto di locazione, a mio

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avviso concluso tra dominus e conduttore dell’intera struttura, si innestino successive, anche plurime, sublocazioni degli spazi interni dell’immobile. Da più parti in dottrina, si è messa in luce la non felice formulazione del secondo testo, che confonde più che chiarire l’esatto atteggiarsi della fattispecie nell’altro descritta. Si deve, per questo, ancor più essere rigorosi nella loro disamina per comprenderne correttamente il significato. Prima di addentrarci nell’analisi del regime responsabilistico ad essi sotteso, si impone di premettere che, in Tryph. 9 disp. D. 19.2.8, dominus e primus locator sono due soggetti distinti, come il proprietario e il locatore sono pure distinti in Paul. 32 ad ed. D. 19.2.7. Ciò è evidente dalla chiusa di Trifonino: et tamen primus locator (cioè colui che ha locato la res al conduttore intermedio) reputationem habebit quinquaginta, quae ab illo (cioè dal conduttore intermedio) perciperet, si dominus (cioè il proprietario da cui il primus locator ha ricevuto l’uti frui) insulae habitare novissimum conductorem (cioè all’habitator) non vetuisset: quo iure utimur. Non è qui rinvenibile, infatti, alcun legame sintattico che suggerisca di identificare il locatore con il proprietario dell’insula  28. Inoltre, l’impiego nel testo dell’aggettivo primus, che talvolta ha indotto la dottrina a propendere per questa sovrapposizione, a mio avviso, contrassegna il locatore principale, distinguendolo dal medius e dal novissimus, ma, pur letto come “primo”, non muterebbe il quadro economico sotteso alla fattispecie, restando coerente alla complessiva struttura del testo, in cui il rapporto tra dominus e suo conduttore non risulta mai menzionato. La prima circostanza da tenersi in conto, che emerge dal tenore letterale di Paul. 32 ad ed. D. 19.2.7, è quella per cui il conduttore del locatore principale, che abbia a sua volta sublocato il bene per una somma maggiore agli habitatores e li abbia visti spogliati da un atto irresistibile del dominus  29 (cfr. D. 19.2.33: …sin vero ab eo interpellabitur, quem tu prohibere propter vim maiorem aut potentiam eius non poteris, nihil amplius ei quam mercedem remittere aut reddere debebis…), rimane costretto a Contra L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 28, aveva parlato del titolare dell’insula con la locuzione dominus- primo locatore; seguono, invece, l’impostazione che prediligo B.W. Frier, Landlords, cit., 78 ss.; P.J. Du Plessis, Letting, cit., 169 e Id., Urban landlords, cit., 641, tuttavia, quest’ultimo, in adesione alla precedente trattazione di G.  Cardascia, Sur une fonction de la  sous-location en droit romain, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, II, Milano, 1982, 377 ss., intende il primus locator come procurator del dominus, il che, a mio avviso, oltre a rimanere immotivatamente tra le righe, renderebbe ancora più oscura la collocazione compilatoria del testo che si risolverebbe in una duplicazione, con elementi di specialità, dei successivi: D. 19.2.30 pr. e D. 19.2.33. 29  Irresistibile a fronte della totale, nota, mancanza di tutele possessorie a favore del conduttore; sul punto della intrinseca debolezza della posizione di questi rispetto al dominus, pone l’accento, in relazione al passo, P.J. Du Plessis, Urban landlords, cit., 641. 28 

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rimetter loro la mercede 30. In applicazione dei principi fin qui emersi, costui potrebbe chiedere al proprio locatore, incolpevole per la mancata fruizione del bene 31, la remissione della mercede minore tra loro pattuita. Ma egli ha subito una lesione ulteriore del proprio interesse allo sfruttamento economico della res dal comportamento di un terzo, il dominus, con cui non ha rapporti, ma il cui spoglio è ingiustificato e perciò a lui stesso imputabile; pertanto, in considerazione del fatto che, ed è questa, a mio modo di vedere, la circostanza implicita nei testi, che ne chiarisce il significato, il locatore principale, in quanto conductor del dominus, potrà rivolgersi nei suoi confronti nella misura di quanto sia tenuto a praestare al proprio conduttore (tantundemque consequatur medius, quantum praestare debeat ei, qui a se conduxit), egli sarà poi obbligato a tenere indenne quest’ultimo per l’intera somma da lui dovuta agli habitatores se costoro gli avessero già versato il canone, per la differenza tra questo e quella, in caso contrario (sul punto, D. 19.2.8) 32. Il principio che emerge da D. 19.2.7-.8 è, dunque, chiaro: quando il dominus dell’insula abbia locato lo stabile ad un soggetto, che, non interessato al godimento diretto dei locali, lo abbia trasferito a terzi, sublocando i singoli spazi abitativi, se per qualsiasi ragione non contingente gli habitatores siano stati impediti dal dominus a godere dell’alloggio, quest’ultimo dovrà risarcire la propria controparte negoziale tenendo conto, non solo dell’id quod interest della stessa, di quanto, cioè, avrebbe ottenuto dalla O la somma diversa, ma affine, indicata da Labeone nella seconda parte di D. 19.2.28.2: …Sed si locator conductori potestatem conducendae domus non fecisset et is in qua habitaret conduxisset, tantum ei praestandum putat, quantum sine dolo malo praestitisset. Ceterum si gratuitam habitationem habuisset, pro portione temporis ex locatione domus deducendum esse. 31  Non mi convince l’idea che aliena insula sottointenda una locazione abusiva del bene e che per questo gravi sul locatore principale il peso finale dell’atto di spossessamento (così già, B.W. Frier, Landlords, cit., 80 nt. 62) portato a compimento dal dominus, come è stato sostenuto da F.M. De Robertis, La responsabilità, cit., 916, nt. 161 e N. Palazzolo, La responsabilità per evizione e per molestie, in Saggi, cit., 129 ss. Mi pare che ciò, in considerazione della natura di buona fede del contratto di locatio-conductio, sia incongruente con la soluzione conclusiva offerta in Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.9.6: Si alienam domum mihi locaveris eaque mihi legata vel donata sit, non teneri me tibi ex locato ob pensionem: sed de tempore praeterito videamus, si quid ante legati diem pensionis debetur: et puto solvendum…, dove parimenti la locuzione ricorre e, inoltre, con Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.15.8, ove il locatore abusivo di cosa altrui, tenuto al risarcimento dell’id quod interest, viene indicato usando la perifrasi: cum alius alienum ..locasset.. quasi suum. 32  Cfr. B.W. Frier, Landlords, cit., 82, il quale esemplifica la fattispecie: se il proprietario dello stabile lo venda a un terzo e il nuovo dominus voglia liberarlo dai precedenti habitatores, il conductor del vecchio proprietario, non potendosi opporre a questa volontà, potrà solamente chiedere di essere da costui risarcito nei limiti del proprio id quod interest, secondo quanto emerge, anche, con chiarezza da D. 19.2.33 e D. 19.2.35 pr. 30 

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sublocazione dell’immobile, ma pure di quello dei subconduttori, che, a loro volta, avessero locato i singoli caenacula per una più elevata mercede, la cui mancata corresponsione, anche, all’evidenza, sarebbe dovuta gravare, non sul conductor medius, bensì sul dominus, quale unico responsabile dell’inadempimento 33.

1.2. Vis cui resisti non potest, vitia ex ipsa re e altri criteri di attribuzione del rischio contrattuale, una terra di confine in materia di sopportazione del danno A seguito dell’individuazione, in D. 19.2.15 pr.-.1, del principale, multiforme obbligo del locatore, nonché delle tutele preordinate a renderlo cogente, all’interno del commentario ulpianeo alla formula edittale dell’actio ex conducto, viene riportato un parere di Servio, nel quale venivano elencati una serie di casi in cui il godimento della cosa locata risultava impedito al conductor dall’intervento di una vis tempestatis calamitosae. Il parere ha ad oggetto l’affitto di una villa rustica, eppure, nella loro valenza astratta, i medesimi criteri di allocazione del rischio negoziale dovevano trovare applicazione nel legame tra dominus dell’insula ed inquilinus 34. L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 28 s. Quanto affermato è coerente anche con l’impostazione evidenziatasi nei più recenti contributi in materia, che seguono un filone a suo tempo inaugurato in dottrina da G. Nicosia, La Responsabilità, cit., 94 ss., ove non si metteva in luce alcuna distinzione di regime sulla base della constatazione, meramente epifenomenica, relativa alla natura della res locata. Si tratta degli studi di R. Fiori, La definizione, cit., 85 ss.; L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 37 ss. e, da ultimi, di A. Petrucci, Il principio, cit., 25 s. e L. Vacca, Garanzia, cit., 153 ss. Si discosta da questa visione R. Cardilli, ‘Bona fides’ tra storia e sistema, Torino, 2014, 229 ss., per il quale dai pareri di Servio emergerebbe chiaramente come il frui praestare si atteggi, all’epoca in cui questo giurista scrive, in modo differente nella locazione dei fondi rustici e in quella degli urbani, la stessa posizione sarebbe condivisa ancora da Giuliano e solo con Africano e, forse, Ulpiano si sarebbe giunti ad un progressivo imbarbarimento dei due regimi (cfr. nt. seguente). All’epoca di Servio, secondo Cardilli, nella locazione di fondi rustici, anche quando il mancato frui licere del conduttore non fosse imputabile al locatore, su quest’ultimo sarebbe gravato l’onere di risarcire l’id quod interest; differentemente, in ambito urbano, la sua condanna sarebbe stata commisurata alla remissione/ restituzione della mercede; soluzione, quest’ultima, che poi, invece, giuristi successivi come Africano (in D. 19.2.33) e Ulpiano avrebbero ritenuto comune ai due regimi. Il tenore letterale dei testi serviani è, a dir del vero, neutro e, anche qui, nella prima parte del passo, non è contenuto alcun riferimento di carattere generale alla quantificazione del risarcimento del danno patito dal colono; come si dira infra nt. 60, molto dipende dall’interpretazione che questo Autore dà dello scorcio: sed et si labes… praestare cogatur, che egli vede come una deroga radicale al complessivo regime responsabilistico enunciato dall’incipit del passo. 33  34 

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Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.15.2: Si vis tempestatis calamitosae contigerit, an locator conductori aliquid praestare debeat, videamus. Servius omnem vim, cui resisti non potest, dominum colono praestare debere ait, ut puta fluminum graculorum sturnorum et si quid simile acciderit, aut si incursus hostium fiat: si qua tamen vitia ex ipsa re oriantur, haec damno coloni esse, veluti si vinum coacuerit, si raucis aut herbis segetes corruptae sint. Sed et si labes facta sit omnemque fructum tulerit, damnum coloni non esse, ne supra damnum seminis amissi mercedes agri praestare cogatur. Sed et si uredo fructum oleae corruperit aut solis fervore non adsueto id acciderit, damnum domini futurum: si vero nihil extra consuetudinem acciderit, damnum coloni esse. Idemque dicendum, si exercitus praeteriens per lasciviam aliquid abstulit. Sed et si ager terrae motu ita corruerit, ut nusquam sit, damno domini esse: oportere enim agrum praestari conductori, ut frui possit.

Il frammento si sostanzia nella risposta del grande giurista ad un puntuale quesito: se il locatore sia tenuto verso la sua controparte negoziale nel caso in cui il godimento del bene immobile le sia stato in concreto precluso dalla violenza di una vis tempestatis calamitosae. Segue pertanto la distinzione: se il pieno godimento del colonus sia stato impedito da una vis maior, il locatore dovrà tenerlo indenne, se, invece, l’uti frui, seppure pregiudicato da una causa esterna, sia stato compromesso da vizi che derivano dalla cosa oggetto del contratto, il conductor dovrà sopportare il correlato danno 35. Il criterio generale di ripartizione del rischio negoziale dettato da Servio, Cfr. R. Cardilli, ‘Bona fides’, cit., 229 ss. e A. Petrucci, Il principio, cit., 25, su questo solo punto, per altro, convergono le visioni dei due Autori, laddove il primo nega esplicitamente che si possa utilizzare, come al contrario suggerisce Petrucci, D. 19.2.33 per colmare i silenzi del testo in analisi, poiché, secondo Cardilli, il teneri ut mercedem del testo di Africano (cfr. nt. precedente), sarebbe frutto dell’incomprensione, da parte dello stesso giurista, del pensiero del maestro Giuliano, che doveva, a suo dire, avere di certo risolto non in modo omogeneo il caso di publicatio di fundus locatus e venditus, vincolando, nella prima fattispecie, il locatore al risarcimento dell’intero id quod interest. In base all’opinione dell’Autore, pertanto, l’annotazione circa la non riconducibilità alla sfera economica del colono dei rischi inerenti l’avvenuta frana del fondo (…ne supra damnum seminis amissi mercedes agri praestare cogatur…), nella misura in cui la fattispecie gli pare doversi ricondurre naturalmente ad un’ipotesi di vitium quod ipsa re oriuntur (e, sul punto, rimando qui ai miei personali dubbi espressi, alla luce di R. Fiori, La definizione, cit., 95, nt. 113, infra in nt. 60), deve intendersi, quale eccezione serviana, giustificata da ragioni equitative, alla regola generale sopra esposta, in ossequio alla quale, a suo dire, ma la circostanza non risulta espressamente dalle parole del testo, ogniqualvolta il colono fosse autorizzato ad agire contro il locatore per il danno patito avrebbe potuto pretendere nei suoi confronti l’id quod interest. Personalmente, non trovo riscontri testuali incontrovertibili di tale ricostruzione; e, a fronte di porzioni di testo non esplicite riconducibili a Servio, qui, e a Giuliano in D. 19.2.33, propenderei per ritenere, come fa del resto Petrucci, che Africano, così come Ulpiano in D. 19.2.15.2, abbiano semplicemente provveduto a palesare ciò che nella riflessione di coloro i quali li aveno preceduti era rimasto implicito, ovvero la concreta entità del risarcimento che il conductor era legittimato a perseguire mediante l’actio. 35 

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dunque, non può essere in alcun modo equivocato: il locatore ne sopporta il peso in tutti i casi in cui la patologia sinallagmatica si sia prodotta a seguito dell’intervento di una vis cui resisti non potest (della quale, per il contesto agreste cui il brano si riferisce, è data la seguente esemplificazione: la forza dei fiumi, dei volatili, oppure l’incursione di un esercito ostile), mentre graverà sul conduttore quando scaturisca da vitia ex ipsa re (come nei casi in cui il vino si sia inacidito o le messi siano state infestate da erbacce). Circa la suddetta distinzione la dottrina ha molto discusso; bisogna infatti chiarire il significato delle due locuzioni latine: vis cui resisti non potest e vitia ex ipsa re, che di per sé possono condurre a facili confusioni e, ad uno sguardo superficiale, non paiono neppure porsi in chiave antitetica, come, invece, l’impostazione del brano suggerirebbe. Nell’ordine: sul significato di vis cui resisti non potest si dovrà, anzitutto, concordare con Fiori 36, che intende la suddetta “forza” come necessariamente extraria, non riconducibile ad una delle parti, incontrastabile, non prevedibile, oltreché non prevenibile dal conduttore sul piano degli effetti 37. Una calamità nel senso stretto del termine: accidentale, imprevedibile, non arginabile da alcuna delle parti, il cui peso gravava, nei limiti della mercede pattuita, sul locatore incolpevole, al solo scopo di ripristinare l’equilibrio negoziale 38. Più complessa diventa, invece, l’indagine quando si R. Fiori, La definizione, cit., 86. Nella sostanza analoga è l’interpretazione che della locuzione emerge in L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 49 ss.; quest’ultimo Autore oculatamente introduce (come già proponeva B.W. Frier, Landlords, cit., 97 s.) l’ulteriore parametro valutativo della ‘normalità’ dell’accadimento modificativo delle circostanze. In proposito non si dovrà equivocare: a nulla, intanto, rileva, nell’apprezzamento della ‘normalità/ eccezionalità’ dell’accadimento, la capacità del colono di prevenire il danno; la non imputabilità dell’evento dannoso al colono caratterizza, infatti, evidentemente, anche fattispecie inerenti alla categoria dei vitia ex ipsa re (su questo punto l’Autore è invero esplicito e non si intende, in quest’ottica, il rimprovero che alla sua impostazione è mosso da L. Vacca, Garanzia, cit., 159 nt. 12, dalla quale gli viene addebitato di aver snaturato la species dei vitia con eventi dannosi dipendenti dalla mancata diligenza del conductor). Ciò che, invece, è esclusivamente dirimente per quanto concerne la più precisa delimitazione perimetrale della categoria della vis cui resisti non potest è la considerazione per cui tutti gli eventi ad essa riconducibili sono accomunati dal comportare variazioni imprevedibili, cioè eccezionali, delle circostanze e conseguentemente del sinallagma. 38  Bisogna in tema fugare ogni possibile dubbio, l’affermazione serviana si colloca, comunque, al di fuori della sfera di responsabilità del locator; questi, infatti, risponde, in senso stretto, solo quando il fatto implicante l’inadempimento gli sia imputabile (cfr. supra §. 1.1) e solamente in quei casi dovrà risarcire in toto i danni patiti dal colonus o dall’inquilinus; qui siamo, invece, in presenza di una vis estranea, non resistibile da parte del locator, a cui il danno non può essere imputato: si tratta, dunque, semplicemente di stabilire se per ricondurre alla naturale equità il sinallagma egli debba rifondere una parte della mercede pagata al conduttore oppure quest’ultimo possa da lui pretendere la riduzione del canone 36  37 

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concentri l’attenzione sul significato della locuzione vitia ex ipsa re: in primo luogo, bisogna escludere che possa essere accolta la pur diffusa lettura in termini di “vizi intrinseci della cosa locata”, cioè, nel caso di specie, “vizi del fondo” 39. Sul punto, infatti, mi pare opportuno seguire l’impostazione critica del Nicosia 40 e del Fiori 41, i quali, nelle rispettive opere, mettono in luce alcune distorte conseguenze cui conduce l’adozione di una simile prospettiva 42: – anzitutto, due degli esempi di vitia ex ipsa re riportati nel passo, l’inacidimento del vino e la circostanza che erbe infestanti abbiano aggredito le messi (…veluti si vinum coacuerit, si raucis aut herbis segetes corruptae sint) sono, di per sé, totalmente estranei alla categoria dei vizi della res locata 43; – la criticata lettura cade poi in fallo anche da un punto di vista logico, per due ordini di ragioni; in primo luogo, infatti, verrebbero a gravare sul conduttore danni derivanti da una cosa che il locatore gli ha locato già viziata e, dunque, più o meno inidonea, inadatta, ad assolvere al proprio scopo; in secondo luogo, il testo è costruito in modo che alle fattispecie di vis cui resisti non potest siano contrapposti i vitia ex ipsa re, come fattispecie antitetiche 44; tuttavia, se questi ultimi fossero realmente vizi intrinseci della res locata, non sarebbero in alcun modo complementari ancora dovuto, cfr. M. Kaser, Periculum locatoris, in ZSS, 74, 1957, 167-186; G. Nicosia, La Responsabilità, cit., 95 ss.; R. Fiori, La definizione, cit., 108 s.; L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 38 ss.; P.J. Du Plessis, Letting, cit., 141 e A. Petrucci, Il principio, cit., 25, in senso parzialmente difforme L. Vacca, Garanzia, cit., 153 ss., ha sostenuto che in questo caso, come in altri, il locatore possa essere non imputabile e, tuttavia, allo stesso tempo, processualmente responsabile dell’avvenuto inadempimento. Come già si è sottolineato (cfr. supra nt. 35), di diversa opinione è R. Cardilli, ‘Bona fides’, cit., 228 s., per il quale il teneri ex conducto Serviano, come quello di Giuliano in D. 19.2.33, sottendono entrambi una responsabilità piena del locator nei limiti dell’id quod interest; questa era nelle sue linee di fondo l’impostazione già seguita da E. Costa, La locazione di cose nel diritto romano, Torino, 1915, 34 ss., il quale sosteneva che per il mancato godimento della cosa locata da parte del conduttore, nel diritto classico, il locatore avrebbe sempre dovuto rispondere dell’id quod interest, e che questo principio fosse poi stato sostituito, forse addirittura ad opera dei compilatori, da quello che imponeva a costui la sola liberazione del conduttore dall’obbligo di pagare la mercede. 39  M. Kaser, Periculum, cit., 172 e 176 ed E. Costa, La locazione, cit., 50 s. 40  G. Nicosia, La Responsabilità, cit., 97 ss. 41  R. Fiori, La definizione, cit., 92. 42  Cfr. anche R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 246. 43  Priva di qualsivoglia appiglio scientifico è, infatti, la spiegazione data in proposito dal Costa (E. Costa, La locazione, cit., 50), secondo il quale, nel passo, il sopraggiunto inacidimento del vino sarebbe derivante dalla particolare composizione chimica del terreno, nel quale l’uva che lo aveva prodotto fu coltivata. 44  Cfr. L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 48.

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ai primi, non appartenendo alla categoria degli accidenti, né tantomeno a quella dei fatti estranei resistibili e presagibili; – infine, sotto il profilo sistematico, il parere di Servio sembra avere ad oggetto soltanto eventi calamitosi e, in ogni caso, sopravvenuti, che siano tali da poter incidere, scompensandolo, sull’assetto contrattuale di interessi convenuto dalle parti 45; non si tratta, in altri termini, di due categorie contrapposte in quanto operanti su piani temporali differenti, ciò, di conseguenza, preclude alla radice la possibilità di intendere la locuzione come “vizi inerenti alla cosa locata”, cioè difetti preesistenti alla nascita del rapporto negoziale, in buona misura, attributi, seppur negativi, della res. In parte criticabile mi pare, tuttavia, anche la soluzione offerta dal Nicosia 46 e, di recente, riproposta da Letizia Vacca 47, per lo più, in quanto troppo restrittiva nel circoscrivere i vitia ex ipsa re ai soli vitia fructuum, cioè a quei difetti intrinseci al prodotto stesso 48. Anche accogliendo questa ricostruzione, dopotutto, verrebbe a mancare quel rapporto di contrapposizione antitetica tra i danni derivati dai vitia e quelli scaturiti da una vis cui resisti non potest che, come poc’anzi s’è detto, la formulazione del parere serviano suggerisce. In particolare, quale collocazione assumerebbero i danni cagionati, non ai prodotti, ma alla intrinseca produttività del fondo da forze esterne resistibili? È evidente che, interpretando i vitia ex ipsa re come vizi intrinseci dei prodotti del fondo, tali danni non potrebbero che rimanere esclusi da entrambe le categorie distinte nel passo 49. Parimenti contestabile, infine, è, ad avviso di chi scrive, la posizione di quanti hanno sostenuto che i vitia ex ipsa re possano identificarsi soltanto con i “vizi provocati da mancanze del colono nella conduzione dell’attività agricola” 50. La prospettiva, ancora una volta, pecca per difetto: infatti, Straordinariamente esplicita in proposito mi pare anche la recente impostazione del lavoro di A. Petrucci, Il principio, cit., 24 s., che pone il passo all’incipit di un paragrafo intitolato: «Circostanza sopravvenuta e distribuzione dei rischi fra contraenti in base al tipo di contratto». 46  G. Nicosia, La Responsabilità, cit., 99 ss. 47  L. Vacca, Garanzia, cit., 159. 48  Cfr. anche F. Sitzia, Considerazioni in tema di “periculum locatoris” e di “remissio mercedis”, in Studi in memoria di G. D’Amelio, 1, Milano, 1978, 331 ss. 49  Sul punto si può concordare con R. Fiori, La definizione, cit., 92; l’ipotesi di Nicosia ben si accosta al primo degli esempi serviani (quello del vino che si sia inacidito), ma non al secondo, quello delle erbe cattive, il cui danno principale non è certamente ai prodotti (cioè quello di essere, le erbe, raccolte insieme alle messi), ma quello al fondo, in quanto diminuiscono il rendimento dello stesso. 50  P. Pinna Parpaglia, Vitia ex ipsa re. Aspetti della locazione in diritto romano, Milano, 1983, 18 ss. e 26 s. 45 

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seppur coglie nel segno nell’addossare sul conduttore i danni cagionati al fondo da eventi resistibili e quelli derivati alle colture dal proliferare di vermi o piante dannose, che, certo, possono conseguire o essere aggravati da sue, più o meno marcate, negligenze, non c’è nessun elemento, nel passo, che suggerisca di legare inscindibilmente il periculum conductoris alla sua condizione soggettiva colposa 51. Ma quale deve essere, allora, il significato da attribuire all’espressione vitia ex ipsa re e quali gli eventi che esulano dal periculum locatoris gravando interamente sul conduttore? La lettura più ragionevole da un punto di vista logico, che risolve molti dei problemi delle altre ipotesi interpretative, avendo il merito di porsi in rapporto di perfetta antitesi con i danni cagionati da una vis (extraria) cui resisti non potest, è quella che vede nei vitia ex ipsa re tutti quei pregiudizi che possono normalmente occorrere al colonus nello svolgimento di un’attività produttiva sul fondo 52. Il conduttore, in questa prospettiva, sarebbe chiamato a sopportare solamente i danni scaturenti dal fondo stesso (ex ipsa re oriantur), per il semplice fatto di avere intrapreso l’attività di colere su di esso e che, in altri termini, fanno parte dei rischi connaturati all’esercizio dell’agricoltura 53. Da questo punto di vista, certamente, graverebbero sul In base a quanto già detto, del resto, se le due categorie sono in un rapporto di contrapposizione antitetica, seguire questa ipotesi, di fatto, vorrebbe dire affermare che, in assenza di una specifica culpa del conduttore nell’attività di colere, l’intero periculum legato ad eventi sopravvenuti gravi sul locatore. Rilevato, in primo luogo, il gigantismo, da cui la sfera del periculum locatoris, mi pare, in questo caso, verrebbe ad essere afflitta, il vero problema dell’interpretazione si porrebbe sul piano lessicale, ignorando la contrapposizione tra la locuzione vis e vitia, si valorizzerebbe solo il profilo della resistibilità o meno dell’evento sopravvenuto (cfr., sul punto, R. Fiori, La definizione, cit., 91 s.). Mi limito ad aggiungere, sul punto, che l’impostazione è per altro in insanabile contraddizione con l’ultima parte del testo dove il danno viene posto a carico del conduttore: si vero nihil extra consuetudinem acciderit… Idemque dicendum, si exercitus praeteriens per lasciviam aliquid abstulit e nella quale è completamente assente qualsivoglia riferimento alla sfera di controllo del colonus, che certo non potrebbe opporsi o prevenire le ruberie dell’esercito di passaggio sul campo. 52  R. Fiori, La definizione, cit., 93; L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 49; Id., Ai margini della proprietà fondiaria, Roma, 1998, 217 ss.; P.J. Du Plessis, ‘Liability’, ‘Risk’ and Locatio Conductio, in Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato, 4, Napoli, 2011, 93; Id., Letting, cit., 141, nt. 85 e da ultimo A. Petrucci, Il principio, cit., 25. 53  In senso conforme legge la locuzione anche F. Sitzia, Considerazioni, cit., 331 ss., per il quale l’espressione indicherebbe un danno o una perdita dei frutti del fondo scaturente ed intimamente connessa all’ambito dei lavori agricoli. Semmai l’Autore, con la proposta interpretazione, difetta in prospettiva nel precludere a tali vitia di indicare pregiudizi scaturenti da qualsiasi attività economica esercitata sul fondo. Migliore, da questo punto di vista, mi pare la definizione perimetrale della categoria adottata in R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 249, il quale, pur parlando di «“pericoli” immanenti alla coltura agricola», chiarisce, poi, 51 

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conductor i danni derivanti da vis cui, normalmente, un agricoltore deve saper far fronte (si raucis aut herbis segetes corruptae sint) e quelli prodottisi sui frutti, dovuti a negligenza od imperizia dello stesso (veluti si vinum coacuerit), ma anche, come in seguito meglio vedremo, pregiudizi del tutto indipendenti da sue mancanze, che rientrino, tuttavia, nel normale periculum di chi investa sulla cura agrorum (è il caso, per esempio, del passaggio sul campo dell’esercito, che comporti la sottrazione di alcuni frutti o la 54 perdita di qualche coltura calpestata) �� . Come suggerisce d’altronde anche l’esplicito parallelo, quid enim interest utrum locator insulae… an locator fundi cogatur…, di Afr. 8 quaest. D. 19.2.35 pr. 55, la dottrina prevalente ritiene, oggi, che i medesimi criteri siano applicabili analogicamente ed adeguabili al contesto della locazione urbana 56. Nulla muta, infatti, con riguardo alla delimitazione del periculum locatoris. La medesima vis irresistibile può colpire un fondo rustico o un’insula urbana: le calamità naturali, anzitutto – lo straripamento di un come la locuzione, più in generale, debba riferirsi a qualsiasi evento dannoso connaturato all’attività che il colono «liberamente ha scelto di svolgere nel proprio interesse» sul fondo. 54  Pienamente condivisibile l’intera argomentazione di L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 49 s., nt. 29 s., che, sul punto, mostra di discostarsi da F. Sitzia, Considerazioni, cit., 333 ss., il quale fermamente negava che il vitium potesse mai derivare dalla vis maior, sostenendo che questo segno dovesse indicare necessariamente un pregiudizio che si sarebbe potuto evitare in presenza di un diverso comportamento del colonus (mi pare in questo senso si esprima anche F.M. De Robertis, La responsabilità, cit., 925 s., nt. 202); il rischio di queste letture è all’evidenza quello di ricondurre la sfera del periculum conductoris a soli casi di negligenza di costui, soggettivizzando inopportunamente il discorso serviano sull’attribuzione della sopportazione dei rischi negoziali. Ancora, recentemente, in senso dubitativo sulla necessaria “resistibilità” dei vitia ex ipsa re si esprime R. Fiori, La definizione, cit., 93; a me pare tuttavia che, se l’attributo della irresistibilità, così come quello dell’eccezionalità, immanente al caso del passaggio dell’esercito in armi, delimita il campo della vis, il cui peso grava sul locatore, il contrario non valga per la più ampia categoria dei vitia. Infatti, di certo, le vis, cioè gli eventi estranei all’attività di colere, resistibili rientrano nel periculum conductoris, in quanto soggetto avente una funzione di controllo diretto sul bene, ma di questa sfera certamente faranno parte pure eventi interni, ovvero afferenti all’ambito dell’attività di colere, a cui il colonus è completamente impossibilitato a resistere. Ciò, del resto, mi pare già chiaro dalla prima esemplificazione contenuta nel testo: infatti, chissà quanti parassiti le ridotte competenze del tempo in materia non erano in grado di estirpare dalle colture. Dunque, ancora nuove notazioni si aggiungono a suffragare la tesi di Capogrossi Colognesi, e il significato della formula vitia ex ipsa re, inevitabilmente, deve essere esteso fino a comprendere anche taluni pregiudizi che, pure in buona sostanza irresistibili e non prevenibili da parte del colono, sono però fisiologicamente connessi alla coltivazione di qualsiasi fondo e non eccezionali rispetto ad essa. 55  L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 24 ss., ma, sulla giustapponibilità dei due regimi anche L. Vacca, Garanzia, cit., 165. 56  Da ultima, cfr. l’impostazione di A. Petrucci, Il principio, cit., 24 ss.; poi, L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 21 e 23.

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fiume o un terremoto – ma anche le incursioni di eserciti nemici, possono recare indifferentemente pregiudizio a qualsiasi tipologia di immobile, così, anche quelle ipotesi tipicamente agricole, come l’invasione del campo da parte di uno stormo di famelici volatili, possono essere facilmente adattate e sostituite con analoghi casi di scuola, per esempio, l’infestazione dell’insula da parte di una colonia di ratti. Allo stesso modo, ogni accadimento dannoso per sua natura connesso allo sfruttamento economico del fondo, rustico od urbano che fosse, sarebbe rientrato nel periculum conductoris. Mi pare ciò risulti, per altro, anche dal …si vitiatum aedificium necessario demolitus esset… di Alf. 3 dig. a Paulo epit. D. 19.2.30 pr., del quale, all’evidenza, antecedente temporale implicito doveva essere proprio l’azione di una vis dannosa: se non per forza accidentale e imprevedile, almeno inesorabile, come il tempo. Si trattava coerentemente, anche in questo caso, di una fattispecie in cui il locatore avrebbe dovuto tenere indenne il conduttore dall’obbligo di pagare la mercede, ricadendo il rischio di tale deterioramento nell’ambito del suo periculum. In altri termini, la sopracitata locuzione assume, in D. 19.2.30 pr., la medesima funzione di quella diversa ma corrispondente di D. 19.2.15.2: vis cui resisti non potest  57. Non si vedrebbe pertanto la ragione, e, anzi, parrebbe a tal punto contraddittorio, stante l’antiteticità dei due criteri, escludere che, anche nell’ambito urbano, nel delineare il rischio contrattuale sopportato dal conduttore, soccorresse l’altro criterio, quello dei vitia ex ipsa re. Individuato il criterio generale di ripartizione del rischio negoziale, il passo prosegue con l’analisi ragionata di un articolato complesso di situazioni nelle quali il peso del danno è addossato, talvolta all’una, talvolta all’altra parte. In proposito, sarei per ritenere, concordando con la ricostruzione proposta da Sitzia 58, che si tratti di ipotesi esemplificative ove ricorrono i medesimi criteri enunciati nell’incipit, o, al più, come sostiene Fiori, di fattispecie a riguardo delle quali sono opportune piccole precisazioni circa la loro riconduzione alla regola generale, e non, invece, come è stato argomentato da Cardilli, di eccezioni alla regola generale, applicazione di principi eterogenei rispetto a quelli fissati nella prima parte del brano 59. In primo luogo, a mio giudizio, quanto sostengo risulta già, limpidamente, dal primo dei casi considerati da Servio: la frana del terreno è, dopotutto, un tipico esempio di vis irresistibile 60, al pari dello straripamento dei fiumi o Cfr. sul punto R. Fiori, La definizione, cit., 105. F. Sitzia, Considerazioni, cit., 331 ss. 59  R. Fiori, La definizione, cit., 95 e R. Cardilli, ‘Bona fides’, cit., 229 ss. 60  A questo riguardo mi pare in buona misura condivisibile l’analisi di R. Fiori, La definizione, cit., 95 s., nt. 113; l’inclusione della frana all’interno della casistica che secondo Servio necessitava di qualche ulteriore precisazione a riguardo della sua assimilabilità nella 57  58 

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dei terremoti presi ad esempio in chiusura del passo, in relazione ai quali è pacificamente il locatore a sopportare il rischio contrattuale 61. In secondo luogo, ci si deve porre problematicamente di fronte al caso in cui sia l’esercito di passaggio a recare un qualche danno al conductor: anzitutto, a mio avviso, in via preliminare, l’ipotesi deve essere distinta nettamente da quella, apparentemente affine, dell’incursus hostium, là, infatti, l’esercito è quello nemico, nell’atto di invadere i territori di Roma, qui, invece, con ogni probabilità, si tratta delle legioni romane, è il dato letterale a dirlo, nella contrapposizione, pur se a distanza, tra le due terminologie e l’assenza di qualsivoglia aggettivazione della seconda (exercitus). Non mi sento, categoria delle vis cui resisti non potest è dovuta al fatto, come lo stesso Autore precisa, che non sempre essa sarebbe stata vis extraria. La frana, infatti, sarebbe potuta derivare da uno smottamento interno al fondo, ma anche da un collasso a monte capace per la sua forza dirompente di recare danno ai terreni a valle. In entrambi i casi, nondimeno, indipendentemente dalla causa ultima del pregiudizio, senza quindi rilevare l’opportunità di indagare eventuali connessioni dell’evento con l’attività agricola che nel fondo il colono conduceva, Servio avrebbe propeso per ricondurre ogni tipo di frana alla categoria della forza maggiore irresistibile, addossandone il rischio in capo al locatore. In senso difforme, R. Cardilli, ‘Bona fides’, cit., 229 ss, ha recentemente sostenuto che in tal caso il danno sia rimesso in capo al locator in base ad un criterio meramente equitativo, dal momento che la frana, essendo un vizio del terreno, cioè del fondo, quindi “interno”, in applicazione dei summenzionati principi generali di ripartizione del rischio, dovrebbe in realtà gravare sul conduttore. Come già si anticipava, per altro, lo snodo argomentativo è d’uso all’Autore al fine di sostenere che la quantificazione della condanna del locatore in rapporto al canone dovuto per il periodo in cui il colono non ha potuto godere dell’immobile non valga, in epoca serviana, se non in relazione a questa eccezionale casistica (cfr. supra nt. 35). 61  La seconda ipotesi esemplificativa, che esula dall’ambito della nostra indagine, in quanto in alcun modo adattabile a ipotesi di locazione urbana, va nella stessa direzione. I danni sono qui provocati dall’uredo, malattia delle piante che i Romani riconducevano erroneamente all’eccessivo freddo o all’eccessiva siccità/calore del sole. In entrambi i casi mi sembra si possa affermare con relativa tranquillità che la temperatura stagionale, specie quando eccezionalmente bassa o eccezionalmente elevata, debba configurarsi come un evento esterno ed estraneo all’attività agricola, spesso anche fuori dalle possibilità di controllo del colono (una vis naturale, appunto, come lo straripamento di un fiume); un evento, per altro, che, stante le conoscenze tecnologiche dei Romani in materia agricola, mi pare anche nella sua sostanza irresistibile. Conseguentemente, in maniera rispondente alla regola generale, anche in questo caso, il danno è posto in capo al dominus. La bontà dell’argomentazione ritengo possa trovare conforto anche nella chiusa dell’esempio, che mi sembra puntualizzi, per il caso in esame, che se il freddo o il caldo non superino quanto ci si può normalmente attendere nell’esercizio stagionale dell’agricoltura l’eventuale danno da essi provocato rimane in capo al colono. Cfr. anche l’affine ragionamento di F. Sitzia, Considerazioni, cit., 337, ma pure in buona sostanza di R. Fiori, La definizione, cit., 96 s., il quale ritiene che pure Servio dovesse trovare l’esempio conforme al criterio generale enunciato, salva la necessità di alcuni chiarimenti circa le potenzialità semantiche del concetto di vis, che qui, rispetto ad altri luoghi del testo, trova una più intima relazione con l’eccezionalità dell’evento metereologico.

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per altro, di accogliere la lettura 62 che ha riferito l’idemque dicendum, che introduce l’esempio, alla sola ultima parte del periodo precedente (damnum coloni esse), traendone la conseguenza che, sempre, il passaggio dell’esercito sia considerato un danno che, in ragione della sua esiguità, può essere lasciato in capo al conduttore. Quell’idemque dicendum, infatti, è, a parer mio, da riferirsi all’intero criterio di attribuzione del rischio contrattuale emergente dal brano e, dunque, il significato che concretamente deve essergli attribuito ritengo si avvicini a: “e lo stesso criterio si applica se un esercito…”. Il passo, pertanto, dovrà leggersi nel senso che i danni cagionati dall’esercito gravino sul conductor se rientrino nella normalità, quando cioè, al negativo, non siano danni di ricorrenza ed entità eccezionali, devastazioni inaspettate e sproporzionate rispetto al normale rischio che ci si potesse prefigurare per il passaggio della milizia sul fondo 63. Solo a queste condizioni, tali danni sarebbero posti in conto al conduttore come estrinsecazione del periculum fisiologicamente legato allo sfruttamento del fondo 64, mentre gli altri rientrerebbero nel novero di quelli prodotti da una vis cui resisti non potest e dunque, coerentemente, verrebbero addossati al locatore. Mi pare a tal punto valga la pena prendere in considerazione una serie di altri pareri serviani, afferenti all’amministrazione di immobili urbani, da cui risulta l’applicazione del medesimo criterio di ripartizione del rischio o criteri in buona misura analoghi. Si comprenderà ora al meglio, anzitutto, la portata universale del principio sotteso ad Alf. 3 dig. a Paul. epit. D. 19.2.30.1: Aedilis in municipio balneas conduxerat, ut eo anno municipes gratis lavarentur: post tres menses incendio facto respondit posse agi cum balneatore ex conducto, ut pro portione temporis, quo lavationem non praestitisset, pecuniae contributio fieret.

Allo scopo di far godere gratuitamente gli abitanti di un municipio dei bagni termali, un edile aveva preso in locazione l’immobile dal suo gestore; l’edificio era presto divenuto inservibile a causa di un incendio e, a seguito di questo evento, il magistrato interrogava il giurista circa le proprie possibilità di tutela giudiziale 65. Cfr. R. Fiori, La definizione, cit., 97 s.; attribuiscono in questo caso il danno sempre al colono anche C.A. Cannata, Sul problema, cit., 88 e B.W. Frier, Landlords, cit., 97, nt. 102. Per la configurazione di una responsabilità del dominus, sulla base della possibile interpolazione del passo, è, invece, H. Ankum, Remissio mercedis, in RIDA, 19, 1972, 224. 63  E. Betti, Istituzioni di diritto romano, II, Padova, 1960, 426 s. 64  Deriverebbero, in altri termini, dall’alea sottesa al contratto, quando esso abbia per oggetto un bene produttivo o, in ogni caso, suscettibile di utilizzazione economica. 65  Talvolta i gestori degli stabilimenti balneari avrebbero potuto ritenere conveniente 62 

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

Astraendo dal contenuto specifico del brano – che, infatti, qui si tratti di un complesso termale e non di un’insula è ai nostri fini perfettamente indifferente – ci troviamo di fronte ad una fattispecie, in cui il conductor, immesso nel godimento di un immobile, dopo un certo tempo lo ha perso, a seguito di un evento calamitoso, in relazione al quale, dal tenore letterale del testo, non risulta alcuna specifica colpa, ascrivibile alle parti del rapporto. L’accadimento, all’evidenza, rappresenta una di quelle vis cui resisti non potest, le cui conseguenze patrimoniali gravano sul locator e in rapporto alle quali al conductor è data l’azione ex conducto, attraverso cui ripetere, da quanto già versato, o detrarre, da quanto ancora dovuto, la parte di canone relativa al periodo di mancata utilizzazione del bene 66. L’obbligo in capo al conduttore di corrispondere la mercede, dunque, viene meno ogniqualvolta, per l’intervento di una vis irresistibile, svanisca la possibilità di un effettivo godimento del bene. E, tuttavia, l’uti frui è facoltà che, per sua natura, ha la caratteristica di comprimersi gradatamente, pertanto, anche l’intensità di tale compressione è rilevante ai fini della valutazione dell’inadempimento. Da questo punto di vista, cosa i giuristi del I secolo a.C. intendessero per sopravvenuta impossibilità di godimento viene a palesarsi in un passo di Alfeno, che, con buona probabilità, racchiude, come i precedenti, il pensiero serviano: Alf. 2 dig. D. 19.2.27 pr.: Habitatores non, si paulo minus commode aliqua parte caenaculi uterentur, statim deductionem ex mercede facere oportet: ea enim condicione habitatorem esse, ut, si quid transversarium incidisset, quamobrem dominum aliquid demoliri oporteret, aliquam partem parvulam incommodi sustineret: non ita tamen, ut eam partem caenaculi dominus aperuisset, in quam magnam partem usus habitator haberet.

Il testo mette in luce come, quando il godimento degli habitatores dei singoli caenacula risulti in qualche misura parzialmente limitato da un accidente, quale la caduta di una trave del tetto, non sempre costoro siano legittimati a pretendere la restituzione della mercede, dovendo gli stessi sopportare taluni incomodi di lieve entità nell’esecuzione del rapporto contrattuale. In altri termini, gli inquilini, siano essi utilizzatori finali o conduttori intermedi, non avranno diritto alla deductio ex mercede per ogni sorta accettare un compenso forfettario, in forma di mercede, da un imbonitore del popolo, anziché cimentarsi nella riscossione al dettaglio dei molteplici proventi di queste strutture; sul portato del passo in analisi, in questa direzione, mi si permetta il rinvio ad A. Grillone, La gestione, cit., 191 s. 66  Sul passo, L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 30, nt. 44; Id., Ai margini, cit., 204; R. Fiori, La definizione, cit., 100 s.; Id., Bona fides. Formazione, esecuzione e interpretazione del contratto nella tradizione civilistica (Parte seconda), in Modelli, cit., 151 s., nt. 162 e P.J. Du Plessis, Letting, cit., 172, nt. 206.

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di riduzione dell’uti frui, ma solo quando questa sia consistente e derivi da interventi sulla cosa di carattere eccezionale 67. Se si osserva attentamente il brano, che a prima vista sembra discostarsi dal criterio di ripartizione del rischio negoziale in precedenza individuato 68, vediamo come, al contrario, ne sia espressione. Rilevando, infatti, in via preliminare, come, nel caso di specie, i conduttori, indicati con il termine habitatores, abbiano preso in locazione l’abitazione non per svolgervi attività economica ma per goderne come alloggio 69, la mia impressione è che qui, in coerenza con la regola enunciata da D. 19.2.15.2, il conductor sia chiamato a sopportare i rischi fisiologicamente connessi al godimento dell’alloggio (vitia ex ipsa re). Con terminologia moderna potremmo dire che costui è chiamato a sopportare gli incomodi relativi alla compressione dell’uti frui ogniqualvolta derivino dalla necessità di interventi di ordinaria amministrazione sulla res oggetto del contratto (si quid transversarium indicisset), ma non una riduzione dell’utilità che esuli dalla normalità e imponga interventi di natura straordinaria (non ita tamen, ut eam partem caenaculi dominus aperuisset). La fisionomia del sinallagma viene conservata nel primo caso, ma non nel secondo, dove, per ricondurre il rapporto ad equità, è necessario che il locatore provveda a rimettere al conductor, in misura corrispondente al tempo in cui il godimento è stato a lui precluso, la mercede pattuita, oltreché, è implicito nel testo, a ripristinare l’idoneità della res al suo scopo economico, se non voglia sciogliere definitivamente il conduttore dai propri obblighi contrattuali 70. Lo stesso criterio di allocazione del periculum e di ricalibrazione del rapporto di corrispettività contrattuale è accolto da Labeone 71 in: Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 19.2.60 pr.: Cum in plures annos domus locata est, praestare locator debet, ut non solum habitare conductor ex calendis illis cuiusque anni, sed etiam locare habitatori si velit suo tempore possit. Itaque si ea domus ex kalendis Ianuariis fulta in kalendis Iuniis permansisset, ita ut nec habitare quisquam nec ostendere alicui posset, nihil locatori conductorem praestaturum, adeo ut nec cogi quidem posset ex kalendis Iuliis refecta domu habitare, nisi si paratus fuisset locator commodam domum ei ad habitandum dare. R. Fiori, La definizione, cit., 99 s.; Id., Bona fides, cit., 151; P.J. Du Plessis, A new argument, cit., 74 s. e Id., Urban landlords, cit., 639. 68  Si ricordi, come F.M. De Robertis, La responsabilità, cit., 900, avesse in proposito parlato di variazione autoritativa imposta dal legislatore giustinianeo contro ogni logica giuridica. 69  Cfr. supra Cap. I, §. 1. 70  R. Fiori, Bona fides, cit., 151 s., ntt. 161 s. e L. Vacca, Garanzia, cit., 234. 71  Basti qui il rinvio a R. Fiori, Bona fides, cit., 157, nt. 181 e A. Saccoccio, Aliud pro alio consentiente creditore in solutum dare, Milano, 2008, 297 s. 67 

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Il dato letterale è il seguente: quando una casa fosse locata per più anni consecutivi, il locatore avrebbe dovuto garantire, non solo che il conduttore vi potesse abitare dalle calende di ciascun anno, ma anche che per l’intera durata del contratto gli fosse possibile subaffitarla. Pertanto, se quella casa fosse rimasta puntellata dalle calende del mese di gennaio fino a quelle di giugno, in modo che nessuno la potesse abitare o farla vedere a qualcuno, il conduttore non dovrà pagare nulla al locatore e nemmeno potrà essere costretto ad abitarla una volta restaurata, a meno che non gli fosse stata offerta, nel frattempo, una casa più comoda. Dunque, mercé il perfezionamento consensuale di un contratto di locazione relativo ad un immobile ad uso abitativo, il locatore, trasferito puntualmente il godimento del bene alle calende di luglio, assumeva l’obbligo di garantire che per tutta la durata del contratto di locazione il conduttore potesse fruire del bene e, se la domus fosse rimasta puntellata per alcuni mesi a causa di un cedimento strutturale, per l’intero tempo in cui il bene fosse risultato in condizioni tali da non poter essere abitato, né dal conductor, né da altri habitatores a cui quest’ultimo l’avesse sublocato, il locator non avrebbe potuto pretendere alcunché (nihil locatori conductorem praestaturum) come corrispettivo 72. Quel fulta …permansisset è rivelatore: all’evidenza, se un casamento deve essere “sostenuto”, è inidoneo allo scopo abitativo che era sotteso al contratto; così colui che ne ha garantito il godimento sarà vincolato a non chiedere nulla per esso, potendo, al più, offrirsi di sostituire il bene con altro analogo per l’intero periodo d’indisponibilità. Il caso sotteso al responso labeoniano è di macroscopica ovvietà e tuttavia, sotto questo profilo, la giurisprudenza doveva aver lungamente dibattuto il tema; il deterioramento che renda inservibile il casamento al suo scopo, sia esso dovuto all’inclemente trascorrere del tempo o ad altra irresistibile vis, è, lo dicono esplicitamente D. 19.2.35 pr., D. 19.2.30 pr. e quest’ultimo passaggio, da porsi a carico del locatore, non perchè a lui imputabile, ma per esigenze legate al semplice riequilibrio del sinallagma, che gli impongono di risarcire il conduttore del canone già corrisposto o di manlevarlo da quello dovuto per il periodo complessivo d’indisponibilità del bene. E, in proposito, pure mi sembra significativa la testimonianza della seconda parte di Gai. 10 ad ed prov. D. 19.2.25.2 73: …de mercedibus… si cum eo agatur, repudiationis ratio habenda est… si ostia fenestrasve nimium corruptas locator non restituat. Anche il mancato funzionamento di porte Cfr. C.A. Cannata, Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano, Catania, 1996, 125 s., nt. 93; L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 57, nt. 47 e S. Sciortino, Il termine, cit., 13. 73  Cfr. supra §. 1.1, a cui rimando per il commento della prima parte del passo. 72 

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e finestre, elementi indispensabili in qualsiasi casamento per assolvere alla propria funzione di rifugio, si traduce in una compressione inaccettabile del suo godimento, che legittima il conduttore a chiedere la riduzione proporzionale della mercede 74. Non anche una minima riduzione dell’uti frui avrebbe legittimato il conductor a richiedere tale decurtazione: si trattava di operare di volta in volta una valutazione attenta del grado di disagio occorso a costui; dopotutto, non vi era attività alcuna, avente ad oggetto lo sfruttamento di un fondo, rurale o urbano che fosse, nella quale il conduttore non dovesse sopportare la perdita di taluni frutti o benefici, a causa dell’azione di forze qualificabili come vis maior. Infatti, soltanto quando questa forza e l’evento dannoso conseguente potessero dirsi eccezionali ed irresistibili, comportando una significativa compressione del godimento, il periculum sarebbe gravato sul locatore, vincolandolo alla restituzione della mercede, in ogni altro caso, il rischio e la relativa sopportazione del danno avrebbero pesato sul conduttore; il principio è pacifico nel II secolo d.C., come emerge anche da Gai. 10 ad ed. prov. D. 19.2.25.6: Vis maior, quam Graeci θέoυ βίαν appellant, non debet conductori damnosa esse, si plus, quam tolerabile est, laesi fuerint fructus: alioquin modicum damnum aequo animo ferre debet colonus, cui immodicum lucrum non aufertur…

La gravità del danno si lega alla sussistenza di una forza “divina” irresistibile, segnando, nel passo in esame, il limite di tollerabilità del pregiudizio patrimoniale a carico del colono: quando questo ecceda quel minimo disagio che deve mettersi in conto nella conduzione di qualsiasi attività, comprimendone ingiustificatamente il lucro, il suo peso, anche in base all’opinione di Gaio, dovrà gravare sul locatore 75. Si prenda, infine, in considerazione Alf. 2 dig. D. 19.2.27.1: Iterum interrogatus est, si quis timoris causa emigrasset, deberet mercedem necne. Respondit, si causa fuisset, cur periculum timeret, quamvis periculum vere non fuisset, tamen non debere mercedem: sed si causa timoris iusta non fuisset, nihilo minus debere.

Qui si affronta il caso in cui il conduttore abbia cessato volontariamente di godere della cosa oggetto del contratto per timore di un non meglio precisato pregiudizio. Ad Alfeno veniva chiesto di esprimersi circa la sorte dell’obbligazione corrispettiva di costui: il giurista rispondeva che, se vi P.J. Du Plessis, A new argument, cit., 77 s. e L. Vacca, Garanzia, cit., 234, nt. 69. Sul passo, P.J. Du Plessis, ‘Liability’, cit., 88 s.; D.P. Kehoe, Investment, Profit, and Tenancy: The Jurists and the Roman Agrarian Economy, Ann Arbor, 1997, 232, nt. 110 e R. Cardilli, ‘Bona fides’, cit., 232, nt. 65. 74  75 

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fosse stata una giusta causa per cui temere il verificarsi di un danno, il conduttore sarebbe stato esentato dalla corresponsione del canone, ancorché il timore non si fosse rivelato, in concreto, fondato, in caso contrario, avrebbe sopportato le conseguenze patrimoniali della propria immotivata paura. Sul passo paiono pienamente condivisibili le puntuali notazioni di Fiori 76 e di Capogrossi 77. Il primo Autore, pur ponendo in luce la natura psicologica ed immateriale del timor, quale vis maior, rileva come, anche in questo responso, sia il medesimo criterio di ripartizione del rischio, quello fondato sull’esistenza o meno di una vis (extraria) cui resisti non potest, a determinare, in caso di mancata esecuzione del contratto, lo spostamento del rischio negoziale dall’una all’altra parte. Infatti, il conduttore, che abbia abbandonato l’edificio per il timore incombente di un evento dannoso, in base alle parole di Servio, sarà esonerato dal pagamento della mercede, purché tale timor paia, almeno in astratto, giustificabile. In questi casi, dunque, il comportamento di emigratio si considera necessitato, non dall’azione di una forza di tipo fisico, ma da una forza immateriale, e, tuttavia, pur sempre irresistibile e tale da esercitare una coazione a livello psicologico sulle scelte del conduttore. Ma, ancora, mi pare, in questa sede, trovi luogo un importante chiarimento: come già messo in evidenza da Capogrossi, la giustificabilità del timor non dipende dal successivo verificarsi del temuto evento dannoso; ciò, pertanto, suggerisce che la vis, anche se oggettivamente non esistente, quando soggettivamente percepita in modo ragionevole, legittima in ogni caso la deductio ex mercede. Di conseguenza, alla luce dei criteri di ripartizione del rischio desumibili da D. 19.2.15.2, lo spontaneo abbandono dell’immobile da parte del conduttore è giustificabile e lo esonera dal pagamento delle rate restanti di canone, in presenza di forme non resistibili di pressione psicologica, con l’eccezione dei casi in cui: a) il verificarsi dell’evento temuto risulti a priori impossibile; b) l’evento debba essere qualificato come “resistibile” e sia pertanto possibile al conduttore opporvi una qualche forma di contrasto; c) l’evento, pur non prevenibile, né arginabile, rientri nel novero di quelli che sono fisiologicamente connessi al naturale utilizzo del bene, il cui peso, come già si è avuto modo di chiarire, resta sempre addossato al fruitore attuale della res 78.

76  R. Fiori, La definizione, cit., 101 ss.; Id., Bona fides, cit., 150 ss. e, nello stesso senso, si veda la precedente trattazione di B.W. Frier, Landlords, cit., 94 ss. 77  L. Capogrossi Colognesi, Ai margini, cit., 193 ss. 78  L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 19 nt. 29 e 20 s.

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1.3. Obblighi e responsabilità del conduttore: l’obbligazione di rem reddere L’obbligazione principale che sorgeva, a seguito della conclusione di una locatio-conductio rei, in capo al conductor, era quella di restituire, alla scadenza pattuita, la cosa oggetto del contratto. Nel nostro caso, l’immobile doveva essere rilasciato al locator in uno stato non deteriore rispetto a quello in cui era stato trasferito al conduttore. Il rem reddere, dunque, si sostanziava in un’obbligazione di praestare, al termine del rapporto, l’insula o la villa incorrupta 79. Conformemente a quanto più sopra si è osservato in relazione all’estensione della sfera di responsabilità del locatore, il perimento o il danneggiamento della res era imputabile al conductor a titolo di colpa o di dolo 80. Sul punto, è chiaro, in particolare, il Pomponio tramandato da Marciano in: Marc. sing. ad form. hyp. D. 20.2.2: Pomponius libro quadragesimo variarum lectionum scribit: non solum pro pensionibus, sed et si deteriorem habitationem fecerit culpa sua inquilinus, quo nomine ex locato cum eo erit actio, invecta et illata pignori erunt obligata.

Nel frammento si intersecano inscindibilmente due importanti questioni: da un lato, il giurista affermava che le res introdotte nei casamenti fossero vincolate tacitamente in pegno, non solo a garanzia della corresponsione della mercede, ma pure per gli eventuali danni che il conduttore avesse arrecato allo stabile, dall’altro, individuando queste alterazioni negative del bene attraverso l’esplicito riferimento alla culpa dell’inquilinus, ne metteva in luce la condizione soggettiva di imputabilità, ai fini dell’esperimento nei suoi confronti dell’actio locati. In relazione al primo aspetto, sulla garanzia tacita inerente ad invecta et illata, ci intratterremo più oltre, all’interno del successivo paragrafo 81, ciò che qui invece interessa è, piuttosto, l’emersione del principio per cui il deterioramento del bene comporta un inadempimento all’obbligazione dell’inquilinus di rem reddere, a costui imputabile ogniqualvolta il danno sia determinato da sua negligenza 82. C.A. Cannata, Sul problema, cit., 130 ss. e R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 257 ss. e 277 ss. 80  Per tutti, da ultimo, P.J. Du Plessis, Urban landlords, cit., 640, secondo quanto risulta con chiarezza dalla trattazione di Ulpiano in D. 19.2.11 pr., su cui ci soffermeremo infra. 81  Pertanto, qui, rinvio infra §. 1.4, per un’analisi più dettagliata del passo, in ogni caso, segnalo R. Mentxaka, La pigneración de colectividades en el derecho romano clásico, Bilbao, 1986, 150 ss. 82  Si vedano, sul punto, B.W. Frier, Landlords, cit., 135 s.; R. Mentxaka, La pignera79 

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Per poter tracciare le linee essenziali della responsabilità del conduttore in relazione all’obbligazione di rem reddere, il frammento sopra riportato, per la propria genericità circa la definizione del comportamento colposo del conductor, deve essere associato all’assonante indicazione offertaci da Ulpiano: Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.11.2: Item prospicere debet conductor, ne aliquo vel ius rei vel corpus deterius faciat vel fieri patiatur.

Con il perfezionamento del contratto di locazione di una res, ed in funzione della sua restituzione, il conductor assumeva l’obbligo generale di predersi cura della cosa oggetto del contratto 83 nei limiti delle proprie abilità, anche tecniche, sottese all’afferenza economica dell’accordo 84. In base all’opinione del giurista di Tiro, in particolare, egli avrebbe acquisito l’onere di non rendere deteriore, e di evitare che altri rendessero deteriore, il bene, sia dal punto di vista materiale, che sotto il profilo della sua fruibilità giuridica. Il passo è significativo in due direzioni: in tanto, in quanto è idoneo a palesare che la condotta negligente del conductor possa consistere anche in un’acquiescenza al comportamento di terzi oppure in un’omissione 85, secondariamente, perché pone in luce l’equiparabilità del deterioramento di condizione giuridica del bene a quello della sua corporalità. L’obbligo di reddere la res incorrupta si arricchisce così a livello contenutistico di un’ulteriore specificità, potendo la “corruzione”, non solo consistere nel totale perimento della res o nella sua rovina parziale, ma pure in un decadimento della sua natura giuridica, come se, per esempio, il fondo non fosse più dominante su quello vicino a causa del mancato sfruttamento di una servitù da parte del conductor 86. ción, cit., 152; R. Zimmermann, The Law of Obligations. Roman Fundations of the Civilian Tradition, Oxford, 1996, 375, nt. 234 e M. Serrano Vicente, Custodiam praestare. La prestación de custodia en el derecho romano, Madrid, 2006, 167 s. 83  R. Zimmermann, Ibidem; R. Mentxaka, La pigneración, cit., 151 e B.W. Frier, Tenant’s liability for damage to landlord’s propriety in Classical Roman Law, in ZSS, 95, 1978, 233. 84  Qui mi pare, infatti, debba essere intesa in senso espansivo l’elaborazione celsina del concetto di imperizia e, nelle linee di fondo, modulabili dal contesto della locatio operis i criteri di valutazione della condotta del conduttore emergenti da Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.9.5: Celsus etiam imperitiam culpae adnumerandam libro octavo digestorum scripsit: si quis vitulos pascendos vel sarciendum quid poliendumve conduxit, culpam eum praestare debere et quod imperitia peccavit, culpam esse: quippe ut artifex, inquit, conduxit. Sul punto, rimando all’opinione espressa da autorevole dottrina: C.A. Cannata, Sul problema, cit., 63. 85  Cfr. R. Mentxaka, La pigneración, cit., 151 s., il principio è comune a numerosi altri passi, si veda, sul punto, R. Fiori, La definizione, cit., 89, a proposito, tra gli altri, di D. 19.2.29. 86  B.W. Frier, Landlords, cit., 136, nt. 185.

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Il conduttore, dunque, ha, per certo, un onere di sorveglianza sull’immobile; questo vincolo si esplica, come vedremo in seguito, in relazione ai soggetti che egli ha introdotto nel fondo, ma, in forma attenuata, pure nei confronti di terzi estranei; la circostanza è delineata in dettaglio da Ulpiano, nel medesimo libro di commento ad edictum, sulla base della precedente opinione di Labeone: Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.13.7: Exercitu veniente migravit conductor, dein de hospitio milites fenestras et cetera sustulerunt. Si domino non denuntiavit et migravit, ex locato tenebitur: Labeo autem, si resistere potuit et non resistit, teneri ait, quae sententia vera est. Sed et si denuntiare non potuit, non puto eum teneri.

All’evidenza, davanti all’incedere minaccioso dell’esercito 87 il conduttore di un fondo si trovava di fronte ad una pluralità di alternative: a) la resistenza; b) la fuga, previo avviso del locatore; c) la fuga, senza avvisare il locatore. Alcune di esse, talvolta, sarebbero state precluse: la resistenza 88, in primo luogo, se l’esercito non avesse l’aspetto di voler desistere o di farsi ammansire dalle parole e il conductor non fosse dotato, in proporzione al numero dei soldati, di un congruo numero di servi capaci di opporsi alla violenza, l’avviso al proprietario, pure, se egli fosse stato sorpreso senza sua colpa da quell’avvento. Ad impossibilia nemo tenetur e, pertanto, non sarebbe stato imputato a negligenza del conductor ciò che umanamente non era in grado di impedire; tuttavia, se dalla venuta dell’exercitus il fondo avesse patito dei danni, come la rimozione di porte e finestre dall’edificio, egli sarebbe stato tenuto ad indennizzare il locatore del pregiudizio patito dalla res, se poteva resistere e non ha resistito, se poteva avvisare e non ha provveduto 89. Pur trattandosi, qui, di danni recati alla corporalità della cosa, implicanti una sua intrinseca diminuzione di valore e non, invece, come sopra, derivanti dalla contrazione della possibilità di godimento della stessa, affinché il testo possa essere conciliato con il criterio di individuazione del periculum locatoris emerso in D. 19.2.15.2, si deve intendere che l’esercito in questione siano le legioni romane; cfr. supra §. 1.2. 88  Come messo in evidenza da L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 19 ss., la ponderazione a posteriori del comportamento del conductor, di fatto, anche in questo caso, come in D. 19.2.27.1, avrebbe dovuto vertere sulla ragionevolezza della valutazione ex ante fatta da costui e sarebbe stata pertanto anche inerente alla giustificabilità del timore che gli abbia eventualmente impedito di attendere le truppe per resistervi. 89  Cfr., recentemente, L.C.S. Martín Neira, Sobre la naturaleza jurídica de la ‘cooperación’ del acreedor al cumplimiento de la obligación. La posición dinámica del acreedor en la relación obligatoria, como sujeto no sólo de derechos, sino también de cargas y deberes, in RDP, 21, 2011, 281 s.; ma anche nello stesso senso R. Zimmermann, The Law, cit., 376 e R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 350 ss. 87 

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La lettura congiunta di questo testo e del già commentato scorcio di Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.15.2: idemque dicendum, si exercitus praeteriens per lasciviam aliquid abstulit, secondo l’interpretazione di chi scrive, impone poi un’ulteriore spigolatura. Infatti, e da tale punto di vista mi pare oltremodo significativa l’esemplificazione contenuta nel passo da ultimo analizzato, dein de hospitio milites fenestras et cetera sustulerunt, se la lascivia delle legioni fosse andata troppo oltre quella che ci si doveva attendere e le stesse avessero assalito l’edificio devastandolo, si sarebbe dovuto qualificare questo evento come una vis cui resisti non potest e, pertanto, concordemente ai criteri fissati in tema di sopportazione del rischio per il pagamento della mercede, liberare il conduttore 90. Quanto affermo, per vero, collima perfettamente con il tenore della prima parte del testo, ove l’opinione di Ulpiano si sovrappone al responso di Labeone, rimane il dubbio, invece, a mio avviso, sull’integrabilità in questo schema del parere di Ulpiano circa l’onere di avviso del conduttore, ponendosi esso in un frangente temporale diverso e anteriore, rispetto all’attuabilità della valutazione sul carattere eccezionale ed irresistibile della vis. La mia impressione, da questo punto di vista, è, infatti, che il conductor, avendone la possibilità, avrebbe dovuto sempre e comunque dare avviso al proprietario del pericolo di danno imminente alla res per esser scevro da responsabilità, non potendosi trincerare a posteriori dietro la natura irresistibile ed eccezionale del flagello. Un altro passo, pur riferendosi ad un ambito fenomenologico molto distante da quello della nostra indagine, chiarisce come il conduttore possa essere chiamato a rispondere mediante l’actio ex locato in tutti i casi in cui abbia recato danno alla res locata con la propria condotta negligente: Alf. 3 dig. a Paul. epit. D. 19.2.30.2: Qui mulas ad certum pondus oneris locaret, cum maiore onere conductor eas rupisset, consulebat de actione. Respondit vel lege Aquilia vel ex locato recte eum agere, sed lege Aquilia tantum cum eo agi posse, qui tum mulas agitasset, ex locato etiam si alius eas rupisset, cum conductore recte agi.

Il comportamento del conduttore deve essere parametrato a quelle che Il dialogo tra la vis cui resisti non potest di D. 19.2.15.2 e il si resisti potuit di D. 19.2.13.7 è messo in evidenza pure da R. Fiori, La definizione, cit., 86 nt. 76 e 96-98, nt. 124, correttamente l’Autore, criticando la precedente impostazione di B.W. Frier, Tenant’s, cit., 237, che analizzava i testi in base al criterio della mera resistibilità, poneva in luce la circostanza per cui in entrambe le fattispecie dovesse ricorrere una duplice valutazione, una improntata sulla resistibilità della condotta dannnosa e una sulla sostenibilità del pregiudizio. Del resto, mi pare di non riuscire ad intravvedere la ragione per cui, a fronte di una sua condotta vandalica, l’esercito non debba essere equiparato agli storni e alle cornacchie o alle incursioni dei nemici. 90 

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sono le caratteristiche palesi o dichiarate della cosa: se le mule, come nel passo qui citato, siano idonee, in base alle indicazioni del locatore 91, a sopportare un certo peso e il conductor le abbia caricate in eccesso, risponderà per questo con l’actio ex locato o ex lege Aquilia 92. Come, del resto, se un immobile sia stato idoneo a dare alloggio a un numero massimo di habitatores oppure se il dominus horreorum abbia dichiarato che la struttura di stoccaggio era capace di ospitare talune merci e non altre, il conduttore che abbia agito in violazione di queste indicazioni precauzionali, sarebbe tenuto a risarcire l’id quod interest al locatore, mediante l’actio locati, ogniqualvolta la res oggetto della contratto sia perita o danneggiata per sua colpa 93. La seconda parte del frammento estende la responsabilità del conduttore ai comportamenti di terzi, inossequiosi al tenore della lex locationis, che abbiano recato pregiudizio all’integrità della res, che questi non abbia, pur potendo, impedito 94. Il conduttore, in questo caso, potrà essere chia91  Si tratta in pratica di una lex locationis volta esclusivamente a chiarire le qualità intrinseche della cosa per evitare, tra l’altro, che, nella prospettiva del conduttore, gli eventuali limiti della stessa possano essere addebitati al locator quali vizi della cosa prestata (si veda, sul punto, R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 278, con lui concorda nella sostanza pure R. Fiori, La definizione, cit., 90). Da questo punto di vista, dunque, la lex locationis in questione, lo si intende facilmente, non mira ad estendere la responsabilità del conduttore per il rem reddere oltre la sua sfera naturale, ma solamente a precludere all’origine la possibilità di contestazioni, anche in ordine ai limiti della diligenza esigibile in sede di accertamento del comportamento eccessivo di costui (cfr. sul passo le annotazioni di C.A. Cannata, Sul problema, cit., 25). 92  R. Fiori, Ibidem e P.J. Du Plessis, Letting, cit., 135. In particolare, sulla portata alternativa delle due azioni, cfr. J.A.C. Thomas, ‘Actiones ex locato/conducto’ and Aquilian Liability, in Acta Juridica (Essay in honour of B. Beinart), III, 1978, 127 ss. e G. Rossetti, ‘Poena’ e ‘Rei Persecutio’ nell’actio ex Lege Aquilia, Napoli, 2013, 112 s., ntt. 12 s. 93  Per tutti si veda C.A. Cannata, Sul problema, cit., 63 s., sulla commisurazione del quantum del risarcimento all’id quod interest si veda R. Fiori, Bona fides, cit., 150 s., nt. 159. 94  R. Fiori, La definizione, cit., 108, nt. 164. Le mule del passo sono state, all’evidenza, prese in conduzione per essere impiegate come mezzo di trasporto: faceva pertanto parte della sfera di responsabilità del conductor lo sfruttarle in modo conforme alle loro caratteristiche intrinseche; da questo punto di vista, che le merci siano state caricate da costui o da altri che egli abbia incaricato, mi pare indifferente sotto il profilo dell’imputazione della responsabilità contrattuale. A proposito di altro passo, ma il principio applicato qui mi pare identico, afferma C.A. Cannata, Una casistica della colpa contrattuale, in Scritti scelti di diritto romano, II, Torino, 2012, 56 s.: «del fatto di un incaricato ad eseguire un’attività che interessa un terzo, può dirsi che risponde chi ha dato l’incarico…». Difficile dire, poi, nel caso di specie, se sia più corretta l’impostazione di chi questa responsabilità gliela voglia attribuire per colpa, come, tra gli altri, fa Id., Sul problema, cit., 63 s. e, prima di lui, B.W. Frier, Tenant’s, cit., 267, per non aver impedito al “conducente” di utilizzare il bene in modo scorretto, o quella di chi preferisca configurare la situazione del conduttore come una posizione di garanzia nei confronti del bene, come fa, invece, R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 282. Tramontata, al contrario, credo si debba ritenere, e sul punto rimando

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mato a rispondere solo con l’actio locati, mentre con l’actio ex lege Aquilia si potrà agire contro colui che, materialmente, abbia arrecato il danno 95. Due paragrafi dopo il discorso relativo alla responsabilità del conduttore per il mancato adempimento all’obbligazione di rem reddere riprende. Il passo, con ogni probabilità da ricondursi al pensiero serviano 96, da un punto di vista sostanziale, va nello stesso senso: Alf. 3 dig. a Paul. epit. D. 19.2.30.4: Colonus villam hac lege acceperat, ut incorruptam redderet praeter vim et vetustatem: coloni servus villam incendit non fortuito casu. Non videri eam vim exceptam respondit nec id pactum esse, ut, si aliquis domesticus eam incendisset, ne praestaret, sed extrariam vim utrosque excipere voluisse.

Il conduttore di un fondo rustico si era espressamente obbligato con il dominus alla restituzione della villa incorrupta, praeter vim et vetustatem, tuttavia, un servo di costui, non per caso fortuito, ne aveva provocato il rogo. Il giurista, interrogato circa la responsabilità del colono, la confermava, argomentando che, certo, i danni cagionati da un domesticus non si sarebbero potuti inquadrare tra quelli scaturenti da vis extraria e, pertanto, escludere dalla sfera soggettiva di controllo del conductor 97. A lungo la dottrina si è interrogata sul reale valore della lex contractus limitante la responsabilità del conductor; per quanto qui interessa, mi pare sufficiente rilevare come tutti i più recenti scritti in materia siano concordi alla critica di tale impostazione condotta da quest’ultimo Autore, la più risalente lettura in termini di responsabilità ex custodia: V. Arangio-Ruiz, Responsabilità contrattuale in diritto romano, Napoli, 1958, 135 e 163 e W. Hoffmann-Riem, Die custodia-Haftung des Sachmieters untersucht an Alf. /Paul. D. 19, 2, 30, 2, in ZSS, 86, 1969, 397 ss. Interessante, infine, mi è parsa l’impostazione di J. Daza Martínez, El problema de los límites de la responsabilidad contractual en el derecho romano clásico, in La responsabilidad civil de Roma al derecho moderno, a cura di A. Murillo Villar, Burgos, 2001, 245 s., che ha parlato, in proposito, di responsabilità per ‘colpa contrattuale pura’, derivante dalla mera violazione di una clausola esplicita nel contratto; da questo punto di vista, in ogni convenzione fondata sulla buona fede, se ad essa vengano associate delle pattuizioni espresse, ognuna delle parti sarà chiamata ad adoperarsi per un’esecuzione conforme alle stesse, pertanto, nel caso di specie, il conduttore assumerà l’onere di vegliare sul rispetto delle prescrizioni del locator in ordine all’utilizzo della res anche quando ciò implichi un dovere di sorveglianza sui comportamenti di terzi, che vengano a contatto con la stessa nel corso del fisiologico svolgimento del rapporto negoziale. 95  Cfr., tra gli altri, R. Fiori, La definizione, cit., 90 e P.J. Du Plessis, Letting, cit., 135. 96  In relazione all’attribuzione a Servio dei responsi contenuti in D. 19.2.30, basti qui il rinvio a R. Fiori, La definizione, cit., 87 nt. 81 e 99 ss., nt. 128, ove si dà conto in breve del più risalente dibattito romanistico in tema. 97  Cfr. R. Fiori, La definizione, cit., 86 ss.; R. Zimmermann, The Law, cit., 370 nt. 193 e R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 258.

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nel decretarne la sostanziale rispondenza ai principi tipizzati 98 e, di conseguenza, la pressoché sola rilevanza al fine di esonerare il locator dalla prova della culpa del conduttore riguardo al verificarsi dell’evento dannoso 99. Tuttavia, anche se così non fosse 100, e la clausola indicasse forme di vis eterogenee rispetto a quella vis maior che solleva, di norma, il conduttore dai propri obblighi, a nulla rileverebbe, ai fini del discorso che qui preme svolgere; quello che importa, infatti, è che il peso della condotta dannosa del servus, estranea al concetto di vis, grava sul colono, in congruenza con la volontà esplicita delle parti racchiusa nella lex contractus – ma non per effetto di essa – quale evento intimamente connesso alla conduzione di una determinata attività economica sul fondo 101. Il passo, dunque, palesa una circostanza cardine per il nostro discorso: la condotta pregiudizievole dei servi, addetti a vario ordine di mansioni Cfr. R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 258 ss. e 311, secondo il quale il colono, in definitiva, verrebbe a rispondere dell’incendio, in qualità di evento dannoso collegato all’esercizio di una specifica attività economica e alla propria funzione economico-sociale; e, in proposito, mi pare oltremodo significativa l’annotazione, in senso dubitativo, contenuta in L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 31 s.: «ove non fosse stata introdotta la lex… sarebbero forse stati diversi i vincoli stabiliti alla gestione di quest’ultimo? … secondo quanto risulta… dalle – altre – testimonianze serviane, l’obbligo – del colono – di restituzione della villa avrebbe trovato comunque un limite nell’intervento di una vis». L’Autore, per altro, sollecitato dall’ininfluenza, che egli tende comunque a radicalizzare, di una simile pattuizione, suggeriva che la clausola potesse essere retaggio di un momento storico precedente all’affermarsi della regola dell’esonero del conduttore dal pagamento della mercede in casi di vis maior. 99  R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 260; R. Fiori, La definizione, cit., 87 nt. 82 e C.A. Cannata, Una casistica, cit., 53; meno chiara, sul punto, è invece la posizione di R. Fercia, La Responsabilità, cit., 109 s. e 137, il quale, parimenti, sembrerebbe ritenere che la presenza della lex contractus valga ad escludere, ai fini dell’imputabilità dell’evento dannoso, la necessità di individuare una precisa culpa in capo al conduttore, salvo, tuttavia, aver in precedenza affermato che la responsabilità del colono anche in D. 19.2.30.4 si giustifica in base all’implicita individuazione «di una qualche pecca del debitore correlata ad una condotta latu sensu di instruere», che condiziona l’adempimento all’obbligazione di praestare. Contra I. De Falco, ‘Diligentiam praestare’. Ricerche sull’emersione dell’inadempimento colposo delle ‘obligationes’, Napoli, 1991, 73, la quale riteneva, ai fini dell’individuazione della responsabilità del conductor, anche nel caso di specie, necessario accertarne la culpa in eligendo. 100  Potrebbe, infatti, congetturarsi che la clausola sia tale da escludere qualsiasi tipo di vis extraria dalla sfera di imputabilità dell’inadempimento al conduttore: se, dopotutto, come si è osservato, i danni derivanti da vis extraria irresistibile, in base alla complessiva disciplina classica della locatio rei, gravano già di per sé sul locatore, tale lex potrebbe, invece, esser stata rivolta ad esonerare da responsabilità il conduttore in casi di vis extraria dannosa, ma resistibile. 101  Cfr. L. Capogrossi Colognesi, Remissio, cit., 31 e R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 259. 98 

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all’interno dell’attività esercitata nel contesto dello sfruttamento economico di una villa rustica o di un’insula, non potendo in ogni caso essere riallacciata alla nozione di vis extraria, grava sempre sul conductor. E, sul punto, reputo condivisibile il seguente rilievo di Fercia 102: la fattispecie in esame sottende l’idea che, di fronte alla condotta dannosa dei propri sottoposti, il conduttore, il quale abbia organizzato attorno all’immobile oggetto del contratto un’attività economico-speculativa, non possa andare esente da responsabilità, non tanto per l’inopportuna scelta dei suoi collaboratori, ma in quanto l’evento pregiudizievole si porrebbe in un rapporto di incompatibilità e reciproca esclusione con il rispetto di un più generale dovere di oculatezza nello svolgimento della preliminare attività di instruere. Significativa mi pare, dunque, da questo punto di vista, la ratio sullo sfondo del responso serviano: la condotta di un qualsiasi servus, del vilicus, ma varrebbe lo stesso per un insularius, si inserisce nel contesto di una specifica attività economica organizzata e, pertanto, gli effetti del comportamento riprovevole del “personale ausiliario” sono addebitabili al conduttore esercente, in quanto l’evento dannoso si lega, in ogni caso, a sue scelte organizzative, inerenti la conduzione del fondo. Tace, invece, il testo, per effetto della menzionata lex contractus, sull’individuazione della culpa del colonus, attraverso di essa, infatti, egli si è assunto la piena responsabilità per ogni condotta diversa da quella volta all’integrale e conforme restituzione del bene. Il perimento o il danneggiamento della res locata imputabili a culpa servorum si configurano quali forme di inadempimento del conduttore all’obbligo contrattuale di praestare la villa o l’insula incorrupta, in relazione alle quali può essere chiamato a rispondere in via contrattuale per l’intero pregiudizio patito dal locatore, in maniera del tutto indipendente dall’accertamento, nel caso concreto, di una specifica culpa, per la mera e oggettiva violazione di un’esplicita promessa negoziale 103. La responsabilità del conduttore per gli inadempimenti all’obbligazione di rem reddere cagionati dalla condotta dannosa dei servi ausiliari risulta da due ulteriori frammenti: D. 9.2.27.9 e D. 9.2.27.11. Andando con ordine, si veda: Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.27.9: Si fornicarius servus coloni ad fornacem obdormisset et villa fuerit exusta, Neratius scribit ex locato conventum praestare debere, si neglegens in eligendis ministeriis fuit…

Il passo, tratto dal libro diciottesimo del commento all’editto di Ulpiano, ha diviso la dottrina su un punto fondamentale al fine della sua interpreta-

102  103 

R. Fercia, La Responsabilità, cit., 109 s. nt. 11. Cfr. supra ntt. 98 s. e J. Daza Martínez, El problema, cit., 245.

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zione, cioè l’autenticità della locuzione si neglegens in eligendis ministeriis fuit. In proposito, mi pare condivisibile l’idea di coloro che, come Frier 104 e, più recentemente, Knütel 105, ne asseriscono la genuinità e ribalterei, pertanto, l’impostazione di Fercia 106 che, al contrario, la reputa un glossema, pur confessando non irrisorie difficoltà nel ritenerla modifica congiuntamente apportata al passo, sia nella versione del Digesto, che in quella della Collatio, ove parimenti ricorre 107. Ciò premesso, nel caso in esame, la villa era stata distrutta dalle fiamme di una fornace mal governata, alla cui sorveglianza era stato lasciato appositamente un servo ausiliario del colono. Il servitore, a seguito di un colpo di sonno, aveva perso il controllo del fuoco che si era diffuso all’intera villa. Nerazio, al cui parere nella prima parte del passo Ulpiano si richiama, riteneva che, avverso il colono, si potesse esperire l’actio ex locato per la negligenza dimostrata nella scelta del servo cui affidare una simile mansione. In altri termini, secondo il giurista, nella fattispecie considerata al comportamento negligente e dunque colposo del servo si assocerebbe una culpa, sia pure in eligendo, del colonus, non essendo costui stato in grado, 104  Cfr. B.W. Frier, Tenant’s, cit., 256 ss.; Id., Landlords, cit., 148 e G. MacCormack, ‘Culpa in eligendo’, in RIDA, 18, 1971, 539, le cui opinioni più di recente sono state avvallate in P. Ziliotto, L’imputazione del danno aquiliano. Tra iniuria e damnum corpore datum, Padova, 2000, 176, nt. 23. 105  R. Knütel, Die Haftung für Hilfspersonen im römischen Recht, in ZSS, 100, 1983, 399 ss.; sulla stessa posizione si attesta, poi, A. Földi, A másért való felelősség a római jogban, jogelméleti és összehasonlító polgári jogi kitekintéssel, Rejtjel Kiadó, Budapest, 2004, 431 ss. (riassunto finale in lingua tedesca). 106  R. Fercia, La Responsabilità, cit., 150 s., l’argomentazione dell’Autore si fonda sul confronto tra questa opinione e quella espressa immediatamente dopo da Proculo, in D. 9.2.27.11: il parere di Nerazio, infatti, avrebbe preteso di ricondurre forzosamente il problema della responsabilità contrattuale per fatto di ausiliari all’alveo della categoria concettuale della culpa, contro le idee della sua stessa scuola. A mio modo di vedere, l’annotazione non è risolutiva. Tale ragionamento, dopotutto, è dirimente solo prendendo a presupposto l’idea che la situazione fattuale sottesa ai due brani sia identica: in realtà, però, nella fattispecie oggetto dell’attenzione neraziana emerge come il colonus avesse espressamente compiuto un’attribuzione funzionale di competenze al servo addetto alla sorveglianza della fornace e come, proprio in conseguenza di questa errata scelta, si fosse prodotto l’evento dannoso; nell’altro caso, invece, l’incendio, pur appiccato per imperizia dai servi del colono, era del tutto indipendente dall’esistenza di una specifica loro mancanza nell’esercizio delle mansioni cui erano stati precipuamente adibiti. Mi pare, inoltre, che, al di là delle contrapposizioni di principio, i due responsi si discostino quanto alle conseguenze connesse all’esperimento dell’actio ex locato, poiché, in essi, effettivamente, si differenzia, da un punto di vista soggettivo, la posizione del colonus, che nel primo versa in una situazione di culpa, seppur in eligendo, nell’altro invece no. 107  Ulp. 18 ad ed. Coll. 12.7.7: Si forte servus, … coloni ad fornacem obdormisset et villa fuerit exusta, Neratius scribit ex locato conventum praestare debere, si neglegens in elegendis ministeriis fuit.

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nel contesto dell’attività preliminare di instruere, di individuare il servo più idoneo alla sorveglianza della fornace 108. È l’esistenza di questa culpa che, a mio avviso, secondo un’interpretazione aderente al testo tramandatoci dal Digesto, giustifica la soggezione del colonus all’actio locati (in concorso con la tutela aquiliana), nonché la commisurazione del risarcimento da questi dovuto all’id quod interest del dominus 109. Indispensabile, a questo punto, è confrontare l’altro brano sovracitato: un fondamentale parere di Proculo in tema, nella versione tramandataci dal Digesto e contenuta nel commentario ulpianeo 110. Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.27.11: Proculus ait, cum coloni servi villam exussissent, colonum vel ex locato vel lege Aquilia teneri, ita ut colonus possit servos noxae dedere, et si uno iudicio res esset iudicata, altero amplius non agendum. Sed haec ita, si culpa colonus careret: ceterum si noxios servos habuit, damni eum iniuria teneri, cur tales habuit. Idem servandum et circa inquilinorum insulae personas scribit: quae sententia habet rationem.

A prescindere dal prolungato dibattito dottrinario sulla genuinità totale o parziale (qualora si ritenga sed haec – habuit un glossema 111) del passo, In tal senso, cfr. R. Zimmermann, The Law, cit., 377; P. Ziliotto, L’imputazione, cit., 175; E. Stolfi, Studi, cit., 186, nt. 210 e S. Schipani, Contributi romanistici al sistema della responsabilità extracontrattuale, Torino, 2009, 54; del resto, nella fattispecie esaminata la sussistenza in capo al conduttore di questo stato soggettivo risulta evidente, non necessitando di alcuna ulteriore spendita di argomenti; in particolare, in considerazione del fatto che uno dei pochi requisiti richiesti per lo svolgimento delle attività di guardia è quello di non essere soggetti ad addormentarsi sul lavoro (sul punto, cfr. anche C.A. Cannata, Sul problema, cit., 95). 109  Recentemente, cfr. P.J. Du Plessis, ‘Liability’, cit., 75 s. e, in precedenza, S. Schipani, Contributi, cit., 54. Il concorso con la tutela aquiliana emerge, invece, all’evidenza dal contesto in cui il passo è inserito e dal proseguo dello stesso; D. 9.2.27.9: ..ceterum si alius ignem subiecerit fornaci, alius neglegenter custodierit, an tenebitur qui subiecerit? Nam qui custodit, nihil fecit, qui recte ignem subiecit, non peccavit: quid ergo est? Puto utilem competere actionem tam in eum qui ad fornacem obdormivit quam in eum qui neglegenter custodit, nec quisquam dixerit in eo qui obdormivit rem eum humanam et naturalem passum, cum deberet vel ignem extinguere vel ita munire, ne evagetur. L’actio ex lege Aquilia (in via utile) o ad exemplum legis Aquiliae (cfr. A. Corbino, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Padova, 2005, 156; P. Ziliotto, L’imputazione, cit., 176 ss. e R. Fercia, La Responsabilità, cit., 154 ss., a cui rimando per una più ampia rassegna bibliografica sul dibattito dottrinario relativo alla corretta qualifica da attribuire all’azione) spetterà al dominus nei confronti degli ausiliari quando, come nell’ultima parte del frammento, il danno sia stato cagionato da soggetti liberi; nei confronti, invece, del conductor nel caso in cui il danno, come nella prima parte, sia stato cagionato dai servi di costui. 110  Per l’esegesi del passo e sul significato del lessema inquilinorum insulae personae, rimando supra Cap. I, §. 1. 111  Cfr., tra gli altri, R. Fercia, La Responsabilità, cit., 111 e S. Schipani, Contributi, cit., 54. 108 

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il principio responsabilistico che da questo affiora è senz’altro classico ed assonante con quello emerso in D. 19.2.30.4, sopra analizzato. La situazione fattuale sottesa al responso è, anche in questo paragrafo, relativa al perimento di una villa, quale conseguenza dell’incendio appiccato colposamente dai servi del colonus. Quest’ultimo, alternativamente, potrà essere chiamato dal locator a rispondere in base all’actio locati o a quella ex lege Aquilia. E, tuttavia, ciò che qui maggiormente importa mettere in luce è come, in questo caso, al pari che in Alf. 3 dig. a Paul. epit. D. 19.2.30.4, i servi, a differenza del fornicarius di D. 9.2.27.9, non siano specificamente addetti a mansioni che involvono la cura dei fuochi o la prevenzione degli incendi, ma siano, più genericamente, membri di quella familia servorum, che, tipicamente, rappresenta l’elemento umano dell’instrumentum fundi. Da ciò, in assenza di una clausola di assunzione incondizionata dell’obbligo di reddere la villa incorrupta, praeter vim et vetustatem, scaturisce un trattamento significativamente più mite del conduttore inadempiente. L’interesse principale del passo, in effetti, deriva dal significato di quel ita ut colonus possit servos noxae dedere: ferma restando la possibilità del locatore di agire, in caso di perimento o di danneggiamento dell’immobile per fatto dei servi ausiliari, alternativamente, con l’azione aquiliana o con quella contrattuale 112, in entrambi i iudicia, Proculo riteneva esperibile la noxae deditio degli autori del fatto 113. La ratio di questa facoltà concessa al conductor è duplice e correlata, in primo luogo, all’assenza di una specifica culpa in eligendo dello stesso nella ripartizione mansionale interna all’attività produttiva organizzata 114, in secondo luogo, coerentemente, all’idea che il servus non possa mai, in ragione della sua condotta illecita, rovinare il dominus 115. Tra gli altri, S. Schipani, Contributi, cit., 54 e G. Rossetti, ‘Poena’, cit., 133. R. Knütel, Die Haftung, cit., 393 ss.; R. Fercia, La Responsabilità, cit., 113 ss.; B.W. Frier, Tenant’s, cit., 261 ss.; Id., Landlords, cit., 147 ed E. Costa, La locazione, cit., 54 ss.; contra il risalente G. Rotondi, Dalla ‘Lex Aquilia’ all’art. 1151 Cod. Civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Scritti giuridici, II, Studi sul diritto romano delle obbligazioni, a cura di E. Albertario, Milano, 1922, 465 ss. e, più recentemente, S. Schipani, Responsabilità ex lege Aquilia: criteri di imputazione e problema della colpa, Torino, 1968, 430, nt. 39. 114  C.A. Cannata, Sul problema, cit., 95, nt. 86 e S. Schipani, Contributi, cit., 54. 115  Pienamente condivisibile sul punto la riflessione di R. Fercia, La Responsabilità, cit., 116. Mi pare significativa la corrispondenza palesata da questo Autore: infatti, così come l’avente potestà è soggetto alle pretese dei terzi derivanti dall’attività negoziale intrattenuta dai propri sottoposti nei limiti di quanto previsto dalla preposizione institoria o, alternativamente, nei limiti del capitale peculiare, così, allo stesso modo, può essere chiamato a rispondere dei danni derivanti dall’illecito di costoro, entro i confini delle mansioni a loro precipuamente assegnate e, fuori da questi, solo in considerazione della possibilità di procedere all’abbandono nossale. 112 

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E, tuttavia, nonostante la significativa coerenza sistematica della suddetta ratio, difficoltà permangono nel comprendere come concretamente l’alternativa nossale potesse porsi all’interno del giudizio ex locato. Sulla base dell’ovvia constatazione per cui la formula dell’actio ex locato è priva, diversamente da quella ex lege Aquilia, di clausola nossale, si potrebbe essere tentati di concludere che quell’ita ut – noxae dedere si riferisca esclusivamente a quest’ultima azione e non a quella ex locato. Nondimeno, l’erroneità di una tale deduzione emerge con evidenza sul piano logico: se così fosse, infatti, qualsiasi locatore, trovandosi di fronte all’alternativa tra azione ex lege Aquilia, nossale, ed azione ex locato, da cui certamente ottenere l’id quod interest, avrebbe optato per quest’ultima 116. E ciò probabilmente aveva indotto Sabino a prestare, in proposito, un parere di segno contrario, come è a noi noto dal divergente testo della Collatio: Coll. 12.7.9: Sed et si qui servi inquilini insulam exusserint, libro X Urseius refert Sabinum respondisse lege Aquilia servorum nomine dominum noxali iudicio conveniendum: ex locato autem dominum teneri negat.

A riguardo di un’analoga fattispecie afferente alla locazione di un casamento urbano, il giurista aveva infatti affermato che l’inquilinus potesse essere chiamato a rispondere dal dominus solo per mezzo dell’azione aquiliana nossale e non mediante quella ex locato. In ogni caso, se la lettera del Digesto è idonea per lo meno a contrassegnare l’opinione prevalsa nell’ambito dell’elaborazione prudenziale della scientia iuris, non si può non concordare con la ricostruzione di Knütel, il quale osserva come, in un simile caso, nell’ambito del giudizio ex locato, la nossalità non avrebbe inciso sulla struttura formulare, mediante l’inserimento nella formula di un’apposita clausola che configurasse per essa una condemnatio alternativa sul modello di quella connotante l’azione aquiliana noxaliter data. In altri termini, l’abbandono nossale, anche su invito del giudice, in un simile contesto, in ragione della natura di buona fede di questi giudizi 117, doveva rilevare esclusivamente a fini assolutori. In proposito, è stato ipotizzato che, in ragione dell’ampiezza dei poteri del suo ufficio, il giudice avesse la facoltà, in questi casi, di invitare il convenuto, ritenuto incolpevole del fatto dell’ausiliare, a dare a nossa il servo prima della sentenza per ottenere una pronuncia assolutoria 118. In particolare, poi, se quella R. Fercia, La Responsabilità, cit., 117. R. Knütel, Die Haftung, cit., 396 e R. Fercia, La Responsabilità, cit., 118. 118  R. Fercia, La Responsabilità, cit., 118 nt. 27; la cui riflessione prende spunto dalle parole di M. Talamanca, Istituzioni, cit., 619, sul giudizio ex lege Aquilia: «a seguito di un’evoluzione di cui ci sfuggono i particolari, alla fine dell’epoca repubblicana il diritto 116  117 

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noxae deditio fosse avvenuta prima della litis contestatio avrebbe implicato la perdita, da parte del locatore, della legittimazione attiva all’azione penale e l’immediata absolutio del conductor nel giudizio pendente ex locato; se invece, diversamente, l’abbandono nossale fosse avvenuto post litem contestatam avrebbe potuto, in ogni caso, essere apprezzato dal giudice come evento con valenza satisfattiva. Pertanto, in assenza di sua culpa, sia pur in eligendo, la condanna del conductor nella misura dell’id quod interest del locatore potrebbe ricorrere, per fatto degli ausiliari, solo nell’eventualità in cui egli rifiutasse di procedere alla noxae deditio degli autori del danno. Se la prima parte del passo, dunque, configura una sorta di responsabilità attenuata del conduttore incolpevole per fatti dannosi dei propri servi, la seconda, al contrario, allude a tutte le situazioni in cui ricorra una qualche culpa dello stesso. Come si accennava in precedenza, per altro, a lungo la dottrina ha discusso dell’originalità del sintagma sed haec – habuit, risultando prevalentemente orientata nel senso di ritenere questa locuzione un intervento di epoca postclassica 119. La questione non dovrebbe in ogni caso troppo polarizzare la nostra attenzione, poichè essa si configura, di fatto, come una precisazione, espressa in forma, a dire il vero, anche piuttosto goffa, già implicita nel precedente corpo del testo, nonché in altri passi da cui emerge il medesimo principio responsabilistico 120. In ultima analisi, è infatti evidente che, anche a voler prescindere da questa specificazione, dell’offeso non è più rivolto alla persona del colpevole bensì alla poena, che il pater familias è obbligato a pagare, ma dalla quale si può liberare offrendo la noxae deditio: si configura, così, sostanzialmente, un’obbligazione facoltativa, in cui la poena è in obbligatione, la noxae deditio, invece, in facultate solutionis», modellandovi in perfetta simmetria il possibile svolgimento dell’alternativo giudizio civile ex locato; sostiene Fercia: «il giudice in base all’ampiezza del suo officium – poteva – invitare –, anche se – non in base ad una pronuntiatio de iure in senso tecnico, dato che non v’era clausola arbitraria, il convenuto… incolpevole…, a fare la noxae deditio» onde evitare la condanna. 119  Tra gli altri, R. Fercia, La Responsabilità, cit., 129, che fa leva, oltre che su una formulazione generica e imprecisa della frase e, in particolare, dell’indicazione del tipo di culpa presupposto di tale responsabilità, sul confronto con il medesimo passo come confluito all’interno della Collatio, che non reca tale inciso. Si veda Ulp. 18 ad ed. Coll. 12.7.9: …Proculus autem respondit, cum coloni servi villam exusserint, colonum vel ex locato vel lege Aquilia teneri, ita ut colonus servos posse noxae dedere et si uno iudicio res esset iudicata, altero amplius non agendum. Ritengono non genuino l’intero sed haec – rationem, G. Rotondi, Dalla ‘Lex Aquilia’, cit., 490 e S. Schipani, Responsabilità, cit., 426 nt. 32. 120  Pare chiaro il principio di fondo emergente dal passo attraverso il confronto con D. 9.2.27.9: ciò che giustifica la differente soluzione delle quaestiones proposte sta tutto in quella specificazione mansionale, presente nel primo, si fornicarius, ed assente nel secondo, cum coloni servi, più ancora che nella precisazione, di cui si è sopra confutata l’inattendibilità (e su cui anche, in tal senso, cfr. S. Schipani, Responsabilità, cit., 432) si neglegens in eligendis ministeriis fuit, non associabile alla fattispecie descritta da D. 9.2.27.11.

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quando la culpa del colono fosse, nel caso concreto, compresente a quella degli ausiliari, ciò avrebbe giustificato l’esperibilità, da parte del locatore, sia dell’actio ex lege Aquilia, sine noxae deditione, sia dell’actio ex locato, finalizzata al risarcimento dell’id quod interest 121. Nell’ultimo scorcio del passo 122, per noi particolarmente significativo (… idem servandum et circa inquilinorum insulae personas scribit: quae sententia habet rationem), Proculo, approvato da Ulpiano, afferma che lo stesso criterio di attribuzione dei danni cagionati dagli ausiliari del colonus, operante nei rapporti tra costui e il dominus fundi, vale anche per le inquilinorum insulae personae, nel contesto della conduzione di edifici urbani. In altri termini, mi pare si possa concludere che, per i due giuristi, la responsabilità delle inquilinorum insulae personae per l’obbligazione di rem incorruptam reddere 123, si atteggi in maniera del tutto analoga a quella del colonus, in ragione della sovrapponibilità funzionale tra le due figure di conduttori 124. Entrambi, pertanto, saranno tenuti a farsi carico del fatto dei lavoranti del fondo, rustico od urbano che sia, conservando, al più, la facoltà, alternativa al risarcimento dell’id quod interest, di consegnare al dominus aedis, che agisca ex locato 125 o, egualmente, ex lege Aquilia, i servi ausiliari autori 121  Come si è osservato circa la culpa in eligendo in D. 9.2.27.9, indipendentemente dalla species di culpa configurata, al ricorrere nella fattispecie concreta di tale elemento soggettivo, si riconnette indissolubilmente la piena responsabilità del conductor, con il conseguente suo obbligo di risarcire l’id quod interest al locatore e senza la possibilità di esonerarsene, attraverso l’abbandono nossale. 122  E mi pare, in proposito, di dover concordare ancora con R. Fercia, La responsabilità, cit., 116 nt. 22: l’estensione della soluzione, enunciata in riferimento al colonus, all’inquilinus è da ritenersi, nel principio di fondo, classica: «il tratto finale – del passo –, quantunque non conservato nella Collatio… deve considerarsi… al limite, mera compressione di un discorso più ampio di Ulpiano che probabilmente è stato – dato per scontato e – interamente tagliato dal compilatore della Collatio». In altri termini, seppure la chiusa è senza dubbio il risultato di una qualche forma di intervento compilatorio ed in negativo influenzata, per lo meno in parte, dal divergente parere sabiniano di Coll. 12.7.9, non ritengo ne sia arbitraria rettifica, surrettiziamente attribuita a Proculo dai commissari giustinianei. E, d’altronde, il parallelismo va nella stessa direzione di quello contenuto in Afr. 8 quaest. D. 19.2.35, dando un ulteriore elemento per sostenere quanto già più volte ribadito, ovvero che non vi sia divergenza, se non per taluni eccezionali profili, tra il regime responsabilistico connesso alla stipula di un contratto di locatio rei di un fondo rustico o di un casamento urbano (cfr. supra §§. 1.1-1.2). 123  Poco importa, qui, se si tratti dell’inquilinus, conduttore intermedio dell’immobile con finalità speculativa, come sopra si è sostenuto (si veda supra Cap. I, §. 1), o di un conduttore con finalità di godimento personale dello stabile, anche egli, infatti, potrà, in senso lato, avere un instrumentum domus, in cui, anche, siano compresi servi ausiliari (cfr. supra Cap. I, §. 3, nt. 129). 124  Si veda supra Cap. I, §§. 1-2. 125  Anche post litem contestatam, sebbene prima della pronuncia del giudice formulare.

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del fatto dannoso. Infatti, soltanto quando alla negligenza dei suoi servi il conductor insulae associ una qualche sua propria culpa, potrà essere tenuto in base ad un agere, contrattuale o extracontrattuale, sine noxae deditione. Vale la pena, infine, considerare un passo, contenente la personale opinione di Ulpiano, che sembra porsi come sunto delle posizioni prudenziali in precedenza illustrate: Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.11 pr.: Videamus, an et servorum culpam et quoscumque induxerit praestare conductor debeat? Et quatenus praestat, utrum ut servos noxae dedat an vero suo nomine teneatur? Et adversus eos quos induxerit utrum praestabit tantum actiones an quasi ob propriam culpam tenebitur? Mihi ita placet, ut culpam etiam eorum quos induxit praestet suo nomine, etsi nihil convenit, si tamen culpam in inducendis admittit, quod tales habuerit vel suos vel hospites: et ita Pomponius libro sexagesimo tertio ad edictum probat.

La prima parte del frammento esplicita i termini della questione giuridica sottoposta all’attenzione del giurista: ci si interroga sulla responsabilità del conductor per fatto dei componenti la familia servorum e degli altri soggetti da costui inducti; se, in rapporto alle persone dei servi, la stessa si estenda fino al punto di darli a nossa oppure se il conduttore sia tenuto in nome proprio e, nei confronti di coloro che avrà introdotto, se cederà soltanto le azioni oppure sarà tenuto per colpa. Si noti, anzitutto, la portata universale del passo, che opta per un generico riferimento al fondo e alla persona del conductor, nuovamente confermando, se ve ne fosse ancora la necessità, la perfetta sovrapponibilità tra la disciplina dell’affitto agrario e quella relativa alla locazione di aedes urbane 126. Nel seguito Ulpiano offre la propria personale soluzione al quesito: quando i servi ausiliari o gli ospiti del conductor abbiano recato pregiudizio con un proprio comportamento colposo alla res locata, fosse essa una tenuta o un edificio urbano, questi ne risponderà in proprio, mediante l’actio locati, non potendo, se sia stato in culpa nell’introdurli, né noxae dedere servos, né liberarsi cedendo le azioni adversus inductos. Il giurista, dunque, dopo essersi già occupato nel libro XVIII ad edictum della responsabilità del conductor per il perimento, conseguente ad un incendio imputabile a culpa servorum, dell’immobile locato, ed avere, sul punto, prospettato le soluzioni di Nerazio e Proculo, vi ritorna nel libro XXXII, realizzando, in certo modo, a mio avviso, una personale sintesi, suffragata dal riferimento al pensiero di Pomponio, delle suddette opinioni. Intanto, implicitamente, Ulpiano, così come Proculo prima di lui, reputava che, quando l’inadempimento all’obbligo di rem reddere non fos126 

R. Fercia, La Responsabilità, cit., 162.

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se imputabile a colpa del conduttore, costui, a seguito dell’esperimento dell’actio ex locato, potesse limitarsi a fare la noxae deditio dei servi autori del fatto illecito in ragione dell’intentio di buona fede contenuta in questa azione. Tuttavia, e questo è il contributo più innovativo alla consolidata e ben più risalente elaborazione giurisprudenziale in materia, nel passare a dire degli inadempimenti attribuiti in proprio al conductor, poneva in luce come questi rispondesse dei danni arrecati alla res locata, non soltanto dal proprio personale di condizione servile, ma, pure, da quicumque inducti. Ciò che qui maggiormente preme, pertanto, è di individuare, delimitandola, questa seconda categoria. Reputo, anzitutto, che nessuna delle espressioni riportate dal testo, né il quicumque inducti dell’incipit, né quell’hospites della chiusa, si presti a una traduzione letterale: la prima rimanderebbe, del resto, ad una nozione troppo estesa 127, mentre la seconda avrebbe una portata troppo esigua 128. In buona misura, allora, coglie ancora nel segno lo studio di Fercia: da un lato, infatti, con il termine inducti si designano tutti gli «ausiliari – non servi – necessari al conduttore, …soggetti, cioè, la cui presenza nel fondo rustico od urbano, quale che sia la funzione pratica del contratto di locazione, è resa indefettibile da una specifica ragione organizzativa della gestione della cosa altrui», dall’altro, gli ospiti, a qualsiasi titolo inducti, dell’inquilinus o del colonus 129 ed ancora, a mio avviso, gli habitatores, subconduttori dell’immobile urbano. Chiarito il significato ontologico assunto nel paragrafo in esame dal termine inducti, pure, mi pare necessario spendere qualche ulteriore parola sull’esatta portata di quella culpa in inducendis implicante la responsabilità in proprio del conduttore per fatto altrui. A mio avviso 130, infatti, essa si configura, in buona sostanza, quale variante terminologica della culpa in eligendo. E, conseguentemente, per questa culpa il conduttore risponderà nei limiti dell’id quod interest del locatore, senza potersi in alcun modo esonerare, in tutti quei casi in cui si sia evidenziata, da parte sua, una violazione dei doveri di diligenza nella scelta degli utenti 131, indipendentemente dal titolo gratuito od oneroso 127  Cfr. R. Fercia, La Responsabilità, cit., 162; in caso contrario, infatti, secondo una versione letterale, la locuzione risulterebbe erroneamente sovrapponibile al quilibet extraneus di Herm. 2 iuris epit. D. 19.2.12: Sed et si quilibet extraneus ignem iniecerit, damni locati iudicio habebitur ratio. 128  F. Serrao, Impresa, cit., 125; l’ospite è infatti soltanto colui che è accolto temporaneamente nell’abitazione dell’avente titolo, sia essa domus o caenaculum. 129  R. Fercia, La Responsabilità, cit., 163 e, in precedenza, già R. Zimmermann, The Law, cit., 1121 ed E. Stolfi, Studi, cit., 186. 130  Sembrerebbe questa, in sintesi, anche l’opinione di C.A. Cannata, Una casistica, cit., 56 s. e Id., Sul problema, cit., 95. 131  Cfr. R. Zimmermann, The Law, cit., 1121 ed E. Stolfi, Studi, cit., 185 s.

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da cui tragga origine il loro godimento, e, ancora, qui conformandosi perfettamente alla più risalente opinione neraziana, allorquando si sia dimostrato imperito nella selezione e ripartizione mansionale 132 del personale ausiliario, in questo caso anche libero, addetto alla cura dell’immobile. Dopotutto, mi pare perfettamente coerente, nonché fondato su solide basi empiriche, il ragionamento sotteso alla soluzione ulpianea: infatti, come il conductor provvede in prima persona all’organizzazione della componente umana dell’instrumentum fundi, della stessa rispondendo in proprio, così, allo stesso modo, senza potersi giovare né del beneficio di cessione delle azioni, né della noxae deditio, sopporterà in pieno le conseguenze economiche delle proprie scelte gestionali, sia di quelle relative alle controparti contrattuali, sia di quelle attinenti ad utenti ospitati a titolo gratuito. Quando, nel nostro caso, l’inquilinus decide di concedere a terzi il godimento del bene, assume una piena responsabilità circa il legame che viene ad instaurare tra la cosa e tali soggetti, che ne diventeranno gli habitatores, del resto, tramite il contratto, sia esso a titolo gratuito od oneroso, egli li colloca in una posizione determinata nel quadro dello sfruttamento economico del fondo, non potendo, di questa scelta, non esser chiamato a rispondere in proprio. Riassumendo, se, da un lato, Ulpiano sottoscriveva in pieno la soluzione proculiana, contenuta in D. 9.2.27.11, solo specificando meglio le forme di quella culpa che implicava la responsabilità in proprio del conductor per fatto dei sottoposti, dall’altro, pure concordava con Nerazio e ne portava la riflessione alla massima estensione, generalizzando l’elemento soggettivo della culpa in eligendis, che, mutato in culpa in inducendis, si prestava a regolare, non solo le conseguenze patrimoniali del danno cagionato alla res conducta dagli ausiliari del conduttore, ma anche quelle connesse al comportamento colposo dei soggiornanti venuti a qualsiasi titolo a contatto con l’immobile 133.

1.4. Obblighi e responsabilità del conduttore: l’obbligo di pagare la mercede Come è noto, nel contratto di locatio-conductio, quando nella sua manualistica definizione possa ricondursi nell’alveo della species rei, l’obbligo di pagare la mercede grava sul conduttore; già ci si è imbattuti, nel trattare del corrispettivo vincolo del locatore a praestare l’uti frui, in quella ampia casistica che implica l’esonero del conduttore dall’obbligo di pagare il cano-

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R. Zimmermann, The Law, cit., 376 s. e C.A. Cannata, Una casistica, cit., 57. E. Stolfi, Studi, cit., 186, nt. 210.

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ne 134. In questa sede, invece, si tratterà di porre in luce la peculiare natura di tale obbligazione, nonché l’articolato panorama di tutele, processuali ed extragiudiziali, approntate dall’ordinamento per proteggere il locatore dal suo possibile inadempimento. Terreno di un protratto conflitto giurisprudenziale tra la scuola sabiniana e quella proculiana fu, anzitutto, la reale natura di questo corrispettivo 135: i Sabiniani, da un canto, volevano si potesse contrarre locazione mercé lo scambio di res utendae fruendae 136, i Proculiani, invece, lo negavano, sostenendo che si potesse adoperare questo nomen contractus solo quando le parti avessero concordato una mercede 137. In Ulpiano il conflitto appare risolto in conformità all’opinione proculiana 138. Ben più tardo, invece, risulterà l’affermarsi del requisito della nummarietà della merces; ancor assente Cfr. supra §§. 1.1-1.2; più in generale, sul rapporto di corrispettività tra merces e uti frui si veda L. Amirante, Ricerche, cit., 102 ss. 135  R. Fiori, La definizione, cit., 228 ss.; Id., The Roman Conception of Contract, in T.A.J. McGinn, Obligations, cit., 49 e P.J. Du Plessis, Letting, cit., 179. 136  Traccia di questa posizione è conservata in un passo del giurista sabiniano Africano; del lungo frammento ciò che a noi interessa in questa sede è, in particolare, l’ultima parte, la quale è idonea a testimoniare come egli ritenesse tutelato dalle azioni di locazione anche quel negozio in cui le parti si fossero accordate ut fructus mercedis nomine pensaretur. Afr. 8 quaest. D. 19.2.35.1: Cum fundum communem habuimus et inter nos convenit, ut alternis annis certo pretio eum conductum haberemus, tu, cum tuus annus exiturus esset, consulto fructum insequentis anni corrupisti. Agam tecum duabus actionibus, una ex conducto, altera ex locato: locati enim iudicio mea pars propria, conducti autem actio tua dumtaxat propria in iudicium venient. Deinde ita notat: nonne quod ad meam partem attinebit, communi dividundo praestabitur a te mihi damnum? Recte quidem notat, sed tamen etiam Servi sententiam veram esse puto, cum eo scilicet, ut, cum alterutra actione rem servaverim, altera perematur. Quod ipsum simplicius ita quaeremus, si proponatur inter duos, qui singulos proprios fundos haberent, convenisse, ut alter alterius ita conductum haberent, ut fructus mercedis nomine pensaretur. 137  Pur non avendo conferme dirette di tale posizione, la stessa pare testimoniata sia da alcuni passi di Gaio, che la accolgono, mostrando tracce di un precedente dibattito sul tema (Gai. 2 Cott. D. 19.2.2 pr.: Locatio et conductio proxima est emptioni et venditioni isdemque iuris regulis constitit: nam ut emptio et venditio ita contrahitur, si de pretio convenerit, sic et locatio et conductio contrahi intellegitur, si de mercede convenerit e Gai. 3.144: item si rem tibi utendam dederim et invicem aliam rem utendam acceperim, quaeritur, an locatio et conductio contrahatur), sia da alcuni echi nel passo di Ulp. 32 ad ed. D. 10.3.23: Si convenerit inter te et socium tuum, ut alternis annis fructum perciperetis, et non patiatur te socius tui anni fructum percipere, videndum, utrum ex conducto sit actio an vero communi dividundo. Eadem quaestio est et si socius, qui convenerat, ut alternis annis frueretur, pecus immisit et effecit, ut futuri anni fructus, quos socium percipere oportuit, corrumperentur. Et puto magis communi dividundo iudicium quam ex conducto locum habere (quae enim locatio est, cum merces non intercesserit?) aut certe actionem incerti civilem reddendam; sul punto, cfr. R. Fiori, La definizione, cit., 236 e P.J. Du Plessis, Letting, cit., 179 s., nt. 236. 138  Ulp. 32 ad ed. D. 10.3.23. 134 

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in quest’epoca, diventerà imprescindibile solo nel diritto Giustinianeo 139. Altro motivo di scontro, talvolta pure trasversale, fra le divergenti visioni dei giuristi appartenenti alle due sectae fu la necessità di determinare, su accordo dei contraenti ed al momento della conclusione del contratto, l’ammontare esatto del canone dovuto dal conduttore. Da questo punto di vista, il primo problema che la giurisprudenza si trovò ad affrontare fu se fosse consentito alle parti di rimettere la determinazione della mercede ad un terzo. Sul punto non è, anzitutto, possibile trarre notizie univoche da Gai. 10 ad ed. prov. D. 19.2.25 pr., stante che il testo è ritenuto oggi di pressoché integrale matrice compilatoria 140. L’intuizione del Fiori, il quale propone di ricostruire i termini della dissensio facendo riferimento al parallelo ius controversum sulla determinazio-

P.J. Du Plessis, Letting, cit., 179 e R. Fiori, La definizione, cit., 238 s. Gai. 10 ad ed. prov. D. 19.2.25 pr.: Si merces promissa sit generaliter alieno arbitrio, locatio et conductio contrahi non videtur: sin autem quanti Titius aestimaverit, sub hac condicione stare locationem, ut, si quidem ipse qui nominatus est mercedem definierit, omnimodo secundum eius aestimationem et mercedem persolvi oporteat et conductionem ad effectum pervenire: sin autem ille vel noluerit vel non potuerit mercedem definire, tunc pro nihilo esse conductionem quasi nulla mercede statuta. Il testo, nella versione compilata, enuclea due differenti ipotesi, le quali ricevono opposta qualificazione giuridica: se il canone sia promesso nella misura che sarà stimata da un generico terzo, non si deve ritenere che sia stata contratta locazione; se, invece, il soggetto, onerato della stima, venga individuato nominalmente, il contratto nascerà sotto la condizione che costui provveda in concreto alla determinazione. In quest’ultima circostanza, fatta la stima, il contratto produrrà automaticamente effetto, al contrario, quando il terzo non abbia voluto o potuto determinare il canone, nessuna obbligazione vincolerà reciprocamente i contraenti. Pare che, in merito al lungo frammento, soltanto della prima frase possa darsi per certa la paternità gaiana e, pertanto, la ricostruzione della disciplina classica può trovare in essa, semmai, un punto di approdo, ma nessuna più precisa indicazione, circa il dibattito in corso tra le due scuole. E, in effetti, che il frammento non possa ritenersi per intero espressione dell’opinione di questo giurista emerge, a mio avviso (così, nella sostanza, anche R. Fiori, La definizione, cit., 242), con sufficiente chiarezza dall’onnicomprensiva ipotesi di alieno arbitrio contenuta in Gai. 3.143: Unde si alieno arbitrio merces permissa sit, velut quanti Titius aestimaverit, quaeritur, an locatio et conductio contrahatur. In altri termini, se nel suo manuale il giurista si limitava a registrare l’esistenza di un dibattito in corso, non prendendo posizione sul punto, in sede di commento all’editto esplicitava la sua adesione alla tesi negativa: se la determinazione del canone di locazione fosse stata rimessa al mero arbitrio di un terzo, doveva negarsi che le parti avessero voluto tra loro perfezionare un contratto di locazione. Il parametro dell’individuazione nominale del soggetto incaricato della stima, pertanto, doveva essere del tutto assente nella trattazione gaiana, così come la conseguente distinctio, assolutamente irrilevante per l’epoca classica (cfr. F. Gallo, Giusto corrispettivo e corrispettivo presunto nella vendita e nella locazione, in SDHI, 32, 1966, 249, nt. 43 e G. Grosso, Obbligazioni. Contenuto e requisiti della prestazione, obbligazioni alternative e generiche3, Torino, 1947, 102-104; contra, di recente, A. Plisecka, ‘Tabula Picta’. Aspetti giuridici del lavoro pittorico in Roma antica, Padova, 2011, 165, che non ha dubitato della genuità integrale del passo). 139  140 

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ne del pretium in materia di vendita 141, mi pare assai proficua. Pertanto, avendo Labeone sostenuto, con Cassio, che non si avesse compravendita se la determinazione del prezzo fosse stata rimessa dalle parti a un terzo, allo stesso modo, deve ritenersi che i due giuristi non reputassero contratta locazione, se i contraenti avessero demandato ad altri la quantificazione della merces. A costoro, pur spostando il dibattito dall’emptio-venditio alla locatio-conductio, dovevano essersi contrapposti Ofilio e Proculo, convinti che la libertà delle parti di determinare le prestazioni corrispettive dovesse arrivare fino a rimetterne ad un terzo la stima 142. Gaio nella sua opera di commento all’editto provinciale (si merces promissa sit generaliter alieno arbitrio, locatio et conductio contrahi non videtur.. 143) confermava, del resto, in adesione all’opinione dominante al suo tempo o, forse, in ossequio al pensiero del capostipite della sua scuola, Cassio, l’impossibilità di qualificare come contratti di locazione le pattuizioni negoziali nell’ambito delle quali le parti avessero rimesso la determinazione della merces ad un terzo. Dalle succinte parole di questa scelta di campo era nato lo spunto dei compilatori che, pur lasciando quasi immutata, se si eccettua, forse, l’inserimento di quel generaliter, la sententia gaiana, se ne erano nella sostanza radicalmente discostati, costruendovi attorno la distinctio tra qui nominatus e ogni altra generica ipotesi di rimessione all’alienum arbitrium, che portava seco, per effetto, la salvezza di tutti i rapporti locativi in cui le parti avessero rimesso ad un terzo esattamente individuato la stima della mercede. Per ciò che riguarda, invece, la possibilità di determinazione successiva della mercede 144, nel suo commentario 145, Gaio, ancora una volta, aveva 141  Cfr. R. Fiori, La definizione, cit., 244; Gai. 3.140: Pretium autem certum esse debet. Nam alioquin si ita inter nos convenerit, ut quanti Titius rem aestimaverit, tanti sit empta, Labeo negavit ullam vim hoc negotium habere; cuius opinionem Cassius probat. Ofilius et eam emptionem et venditionem esse putavit; cuius opinionem Proculus secutus est. 142  Qui mi sembra, infatti, di dover condividere il prudente calco delle opinioni espresse da questi giuristi in materia di emptio-venditio proposto da A. Plisecka, ‘Tabula’, cit., 166; altra strada è seguita da R. Fiori, La definizione, cit., 245, secondo il quale, invece, si tratterebbe ancora una volta, almeno nel suo sviluppo maturo, di una contrapposizione tra la scuola di Cassio e Sabino e quella di Proculo. Dal punto di vista di questo Autore, infatti, la divergenza di vedute in tema di vendita tra i giuristi Labeone e Ofilio, che evidentemente non percepisce come rigorosamente allineati, avrebbe acceso, poi, un successivo, indipendente e più ampio dibattito tra le due scuole contrapposte, questo sì, involgente anche la merces del contratto di locazione. 143  Cfr. supra nt. 140. 144  Che in epoca classica la questione fosse stata lungamente dibattuta, del resto, è reso a noi noto dalle stesse Institutiones di Gaio in 3.143: Qua de causa si fulloni polienda curandave, sarcinatori sarcienda vestimenta dederim, nulla statim mercede constituta, postea tantum daturus, quanti inter nos convenerit, quaeritur, an locatio et conductio contrahatur. 145  Gai. 10 ad ed. prov. D. 19.5.22: …si vero mercede data aut constituta, locationis con-

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posto un rigido limite alla libertà contrattuale delle parti: il giurista, infatti, reputava dovesse parlarsi compiutamente di locatio-conductio solo se la mercede fosse determinata al momento della perfezione del vincolo e che, in caso contrario, le opposte ragioni dovessero essere tutelate mediante azioni modellate sul fatto 146. Per la sua nota vicinanza alla scuola di Sabino, nonché per il fatto che Proculo, esprimendosi in tema di emptio-venditio, avesse sostenuto l’idea della natura contrattuale tipica del negozio in cui le parti avessero rimesso all’arbitrium boni viri di un terzo la stima del prezzo, non può non dedursi che la scuola proculiana, opponendosi alla tesi sabiniana, fosse orientata nel senso di riconoscere ai contraenti la possibilità di determinare successivamente alla conclusione del contratto di locazione il relativo canone 147. Esaurita la trattazione dei profili naturalistici caratterizzanti l’obbligazione del conduttore di corrispondere la mercede al locatore, mi pare proficuo spendere qualche ulteriore parola riguardo ai suoi eventuali sviluppi in senso patologico. In particolare, bisognerà dire delle conseguenze negative poste in capo al conduttore inadempiente all’obbligo di pagare il canone convenuto: il locator poteva, in questi casi, per mezzo dell’actio locati, chiedere di essere risarcito; ove convenuto tra le parti, attraverso il medesimo strumento processuale, ottenere la risoluzione del contratto 148; in via di autotutela, poteva, inoltre, prendere possesso dei beni del conductor introdotti nell’immobile, anche tacitamente convenuti in pegno non solum pro pensionibus, sed et si deteriorem habitationem fecerit culpa sua inquilinus 149. Con questo atto, detto perclusio, il locator, impedendo all’inquilino l’accesso ai propri beni di uso quotidiano, oltre ad assicurarsi l’almeno parziale soddisfacimento della propria pretesa, esercitava una consistente forma di pressione sul debitore, che, avendone la possibilità, si sarebbe, certo, risolto a pagare 150; in ultimo, gli era consentito di espellere il conduttore dallo ductionisque negotium geritur. Quod si neque gratis hanc operam susceperis neque protinus aut data aut constituta sit merces, sed eo animo negotium gestum fuerit, ut postea tantum mercedis nomine daretur, quantum inter nos statutum sit, placet quasi de novo negotio in factum dandum esse iudicium, id est praescriptis verbis. Su cui rimando a R. Fiori, La definizione, cit., 247 nt. 213. 146  A. Burdese, Sul riconoscimento civile dei c.d. contratti innominati, in IURA, 36, 1985, 40; ai nostri fini, in ogni caso, non interessa se ci si trovi di fronte alla labeoniana estensione della tutela dei contratti tipici, come sembra più plausibile a questo Autore, o al riconoscimento di una figura nuova di contratto innominato (R. Fiori, La definizione, cit., 248, nt. 214). 147  R. Fiori, La definizione, cit., 247 s. 148  Cfr. P. Cerami, voce Risoluzione del contratto, in Enc. dir., 40, Milano, 1989, 1278 ss. 149  Cfr. supra Cap. II, §. 1.3. 150  È oggi pacifica l’opinione che vuole che, pur nata verso la fine del III secolo a.C.

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stabile o dall’appartamento locato, mediante un atto stragiudiziale di tutela privata: forma di reazione, questa, variamente definita dalle fonti come expulsio, eiectio o prohibitio, a seconda dei connotati empirici assunti 151. Circa questi due ultimi rimedi la dottrina si è trovata ad affrontare consistenti problemi ricostruttivi, in rapporto ai quali spesso è giunta a soluzioni contrastanti. Lo stato frammentario ed in parte contraddittorio delle fonti ha reso, infatti, singolarmente faticosa la ricostruzione del regime classico di questi peculiari strumenti di autotutela. In particolare, anche recentemente, l’attenzione è stata polarizzata dall’aspetto relativo alla tempistica entro cui l’ordinamento consentiva al locatore di muoversi in autotutela; da questo punto di vista, si è notato che, in relazione ai passi riguardanti la locazione di fondi, a fronte di testimonianze che, secondo l’interpretazione accolta dalla in rapporto al pignus datum (cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 480), la possibilità di associare la lex commissoria o il pactum distrahendi alla convenzione di pegno, non più fonte di mero ostaggio delle res del conduttore, si sia diffusa progressivamente, in un arco temporale non più prossimo del II-I secolo a.C., quando venne completato il quadro delle tutele processuali di tale guarentigia, per poi diventare clausola naturale del contratto solo nella tarda età classica (su questo aspetto, nonché per una trattazione complessiva dell’istituto, E. Palmieri, voce Invecta et illata, in NNDI, 9, Torino, 1963, 1; A. Burdese, Lex commissoria e ius vendendi nella fiducia e nel pignus, Torino, 1949, 131 ss.; Id., voce Pegno (dir. rom.), in Enc. dir., 32, Milano, 1982, 665; M. Cenini, Iura ad rem ed aspettative reali, in A. Gambaro-U. Morello, Trattato dei diritti reali. II. Diritti reali parziari, Milano, 2011, 427 nt. 9; P.J. Du Plessis, Theory, cit., 134 ss. e 145 s.). Nonostante vi sia nelle fonti una sola isolata attestazione, in D. 20.2.9, dell’uso del verbo percludere, da tempo risalente in dottrina la locuzione perclusio locatoris è venuta ad indicare questa particolare forma di autotutela, E. Dernburg, Das Pfandrecht, II, Leipzig, 1864, 332 ss., per primo optava per questa nomenclatura, alterando sotto il profilo terminologico la precedente trattazione dell’istituto di L.F.O. Von Schwarze-R.T. Heyne, Beitrag zu der Lehre von dem Rechte des Locators an den inserirten Sachen seines Miethsmannes, in ‘Untersuchung praktisch wichtiger Materien aus dem Gebiete des im Königreiche Sachsen geltenden Rechts: Nebst einem Anh. interessanter Erkenntnisse sächsischer Spruchbehörden’, Dresden, 1841, 124-157, i quali impiegavano per l’atto sostantivi derivanti dal verbo retinere. Nella romanistica italiana sul tema della perclusio locatoris si veda A. Ascoli, Le origini dell’ipoteca e l’interdetto Salviano, Livorno, 1887, 122 ss. La terminologia percludere ricorre poi senza esitazioni nella divulgazione carcopiniana, J. Carcopino, La vita, cit., 36 s. e, più recentemente, si ritrova nelle titolazioni delle opere di J.L. Murga, La perclusio locatoris como vis privata legítima, in RIDA, 34, 1987, 229 ss.; Id., La perclusio locatoris, una forma extra litigiosa de ejecución, in Revista de la Facultad de Derecho Universidad Complutense, 75, 1990. 151  Nonostante la modesta frequenza d’uso del verbo expello (D. 19.2.54.1 e D. 39.4.10.1, in rapporto al colonus, e C. 4.65.3, in relazione agli inquilini) nelle fonti giuridiche a nostra disposizione, sono invece frequentissimi i riferimenti non nomenclati a questo atto, come metteva in evidenza già B.W. Frier, Landlords, cit., 70, nt. 36; l’istituto, del resto, con andamento carsico emerge solo talvolta in maniera esplicita, proprio perchè naturale nell’ottica di un ordinamento dove il conduttore-habitator non è mai possessore autonomo, S. Sciortino, Il termine, cit., 2 nt. 4 e cfr. M. Marrone, La legittimazione passiva alla ‘rei vindicatio’. Corso di diritto romano, Palermo, 1970, 127.

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dottrina maggioritaria, impongono al locator di attendere il decorso di un biennium oltre la scadenza del termine fissato per il pagamento del canone prima di poter espellere il conduttore (cfr. D. 19.2.54.1 e D. 19.2.56), ne esistono altre da cui sembra che a costui sia concesso di espellere immediatamente l’inquilino (cfr. D. 19.2.24.4 e D. 19.2.61 pr.) 152. E, tuttavia, la mia modesta impressione è che la non sempre evidente separazione dei due istituti, della expulsio/prohibitio, da un lato, e della perclusio/retentio, dall’altro, abbia indotto la romanistica ad errare circa l’impostazione dello studio di questi atti di spoliazione del conduttore, soggetto, è bene ricordarlo, non possessore, bensì mero detentore dell’immobile locato (Gaio, Inst. 4.153 e I. 4.15.5). Una parte della dottrina, peritandosi nel rinvenire segni di interpolazione in tutti i riferimenti al biennium presenti nei passi del Digesto, è giunta, solo per questa via, ad affermare che il locatore avesse la facoltà di cacciare immediatamente l’inquilino inadempiente 153. La parte contrapposta ha ritenuto, viceversa, sempre genuino il riferimento al biennium, ma, non prestando particolare attenzione alla distinzione tra expulsio e perclusio, ha finito in vario modo per accorparle 154, costruendo due istituti piatti, non in linea con gli scopi sociali ad essi sottesi ed incoerenti con la situazione possessoria del locatario. Entrambe le impostazioni, in ogni caso, non soddisfano pienamente, né sotto il profilo della lettura esegetica, né da un punto di vista empirico. Da un lato, infatti, nell’analisi congiunta dei due istituti, con riguardo all’istituto del “blocco forzoso” dei beni del conduttore, si è finito per confondere impropriamente il momento della retentio e quello della successiva e, solo eventuale, vendita degli inducta et importata, dall’altro, ad esso si è sovrapposto disinvoltamente il sorgere della legittimazione del locatore all’expulsio del conduttore 155. Cfr. S. Sciortino, Il termine, cit., 3 e 17 ss. Per l’analisi dettagliata dei passi menzionati rinvio infra, nel seguito di questo paragrafo. 153  G. Longo, Sul regime delle obbligazioni corrispettive nella «locatio conductio rei», in Studi in onore di V. Arangio Ruiz, 2, Napoli, 1953, 396; T. Mayer-Maly, Das biennium von C. 3.10.3.18, in ZSS, 72, 1955, 412 ss.; F. Gallo, Sulla presunta estinzione, cit., 1210 ss., nt. 40; contra, con lettura a mio avviso preferibile, B.W. Frier, Landlords, cit., 70 e 74 nt. 49: «There was perhaps a custom of allowing a maximum of two years’ rent in arrears (Mart. 12.32; D. 19.2.56; D. 19.2.54.1 on farm lease); but no clear legal rule can be made out». 154  E. Costa, La locazione, cit., 100 ss., ma pure, in tal senso, non convince l’impostazione di P. Cerami, Risoluzione, cit., 1290, il quale ritiene che D. 19.2.54.1 e D. 19.2.56, integrino due esempi di impiego dell’actio locati a scopo risolutorio, assimilando a uno strumento processuale formulare un caso esplicito di expulsio in via di autotutela e una fattispecie di esecuzione forzosa sugli invecta et illata del conduttore, per altro, di dubbia riconducibilità allo schema di giudizio repubblicano. 155  Sulla corretta scansione del procedimento esecutivo su invecta et illata, in relazione al momento iniziale della perclusio, già ho posto le basi in A. Grillone, Le guarentigie, cit., 560 ss. 152 

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Nel panorama delle locationes di aedes la perfezione del contratto comportava, come più sopra si è accennato 156, che le parti si accordassero sul termine, per lo più mensile o settimanale, entro cui la mercede doveva essere corrisposta al locatore; se nulla fosse stabilito, il conductor avrebbe pagato annualmente, alla scadenza del contratto. Indirettamente, la pattuizione di scadenze rateali per la corresponsione dei canoni incideva sui regimi paralleli dell’expulsio/ prohibitio e della perclusio/ retentio, in quanto dal mancato rispetto di questi termini, una volta posti, derivava la legittimazione del locatore all’autotutela. Mi pare opportuno prendere avvio dall’istituto della perclusio e dalla peculiare sua essenza giuridica, quale atto preliminare all’esecuzione di una singolare forma di garanzia reale, anzitutto, in ragione del cospicuo novero di fonti che, seppur non dandone mai una descrizione organica, vi fanno riferimento, secondariamente, in quanto alcuni suoi tratti caratteristici dicono qualcosa anche dei presupposti fattuali che consentivano al locator di sfrattare impunemente gli inquilini morosi dall’immobile locato. Tanto premesso, una pluralità di dati fanno riferimento alla circostanza per cui con la conclusione di un contratto di locatio-rei relativo a porzioni di immobili urbani, anche tacitamente, il locatore acquistava una speciale garanzia reale sui beni mobili portati dal conductor all’interno dello spazio locato. È quanto, in particolare, si evince da due passi: il primo, è la mera trasposizione dell’editto nella parte in cui concedeva l’interdictum de migrando ai conduttori al fine di consentirgli di recuperare i propri beni in opposizione ad atti di illegittima retentio del locatore, il secondo, un parere di Nerazio circa, l’ormai al suo tempo pacifico, pegno tacito sulle res illatae degli utenti. Nel primo si afferma: Ulp. 73 ad ed. D. 43.32.1 pr.: Praetor ait: “Si is homo, quo de agitur, non est ex his rebus, de quibus inter te et actorem convenit, ut, quae in eam habitationem qua de agitur introducta importata ibi nata factave essent, ea pignori tibi pro mercede eius habitationis essent, sive ex his rebus est et ea merces tibi soluta eove nomine satisfactum est aut per te stat, quo minus solvatur: ita, quo minus ei, qui eum pignoris nomine induxit, inde abducere liceat, vim fieri veto”.

Il paragrafo contiene l’elencazione di tutti i casi di esercizio abusivo da parte del locatore del blocco forzoso sui beni del conduttore. Ad ognuno di essi il pretore prometteva di opporre il proprio vim fieri veto: qualora la perclusio avesse riguardato res estranee al novero di quelle convenute in pegno 157, quando il canone fosse già stato adempiuto o il locatore diversa156  157 

Cfr., sul punto, Cap. I, §. 1. O convenibili in base a D. 43.32.1.5 (Ulp. 73 ad ed.): Illud notandum est praetorem

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mente soddisfatto, oppure, ancora, se l’inadempimento fosse dipeso dalla sua condotta non collaborativa, in ciascuna di queste circostanze il magistrato avrebbe accordato l’interdictum de migrando al conduttore, consentendogli di portar via dall’immobile le proprie cose 158. Senza dubbio, se, come la formula interdittale attesta, il locator incorreva in un abuso di tutela privata ogniqualvolta la retentio si fosse esplicata impropriamente su inducta et illata non convenuti in pegno, il passo (con le parole: de quibus inter te et actorem convenit) suggerisce che, ancora per lo meno al tempo in cui Ulpiano scrive, l’accordo espresso rappresentasse una forma consueta di costituzione dell’ipoteca sui beni del conduttore. Una convenzione, cui evidentemente doveva far seguito la preliminare registrazione e descrizione dei beni costituiti in pegno, se è vero, come il testo in esame sembra attestare, che sovente sorgevano controversie riguardo all’identità di quelli vincolati a garanzia del canone 159 e che il conduttore ne avrebbe potuto ottenere la restituzione adducendo che ab origine non erano stati contemplati 160. hic non exegisse, ut in bonis fuerit conductoris, nec ut esset pignori res illata, sed si pignoris nomine inducta sit. Proinde et si aliena sint et si talia, quae pignoris nomine teneri non potuerint, pignoris tamen nomine introducta sint, interdicto hoc locus erit: quod si nec pignoris nomine inducta sint, nec retineri poterunt a locatore; sul passo rimando a C. Giachi, L’interdictum de migrando e l’origine della tutela del pegno, in Studi in Onore di Remo Martini, II, Milano, 2006, 278 ss. e alla precedente dottrina ivi discussa. 158  B.W. Frier, Landlords, cit., 106; C. Giachi, L’interdictum, cit., 268, nt. 3 e P.J. Du Plessis, Theory, cit., 132 s. 159  Cfr. P.J. Du Plessis, Theory, cit., 133 ss.; accordo che, tuttavia, in concreto, poteva consistere nell’accettazione da parte del conductor di una specifica lex locationis imposta dal locatore, come suggerisce questo stesso Autore: Id., The Interdictum de Migrando Revisited, in RIDA, 54, 2007, 233 ss., e come sembrano testimoniare alcune clausole delle leges horreorum, CIL VI 33747: …quae in his horreis invecta inlata / [erunt, pignori erunt horreario, si quis pro pensionib]us satis ei [non fece]rit (su cui anche cfr. R. Marini, La custodia, cit., 159, 163) e CIL VI 37795: …[quae in his horreis i]nvecta inla[ta importata] / [erunt horreario pig] nori erunt d[onec satis ei factum non sit…]. Ciò che invece non convince della trattazione dell’Autore anglossassone è il suo tentativo di assimilare il consensus adesivo, prestato dal conductor alla clausola unilateralmente predisposta dall’horrearius, ad un caso di conventio tacita. Qui, infatti, siamo di fronte ad una clausola, benché unilateralmente predisposta, scritta e pubblicizzata allo scopo precipuo di renderla nota agli utenti, i quali, se avessero accettato il contenuto del contratto plasmato dalla controparte, avrebbero prestato un consensus, per nulla tacito, ad un complesso di disposizioni specialiter conventum; si veda, in tal senso, la recente impostazione di A. Petrucci, Poteri, cit., 29 s. 160  L’ordine del pretore, che l’interdetto de migrando era volto a sollecitare, era teso ad impedire il compimento di un atto abusivo del locatore con il quale egli impediva, con ogni mezzo (anche vietando materialmente l’accesso o il disimpegno del bene; cfr., sul punto, C. Carcopino, La vita, cit., 37 ss. e A. Grillone, Le guarentigie, cit., 560-562), che l’inquilino moroso potesse lasciare il fondo urbano con i beni che in esso aveva introdotto (si vedano,

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La diffusione della forma tacita di convenzione è, tuttavia, palesata, tra gli altri, in: Ner. 1 memb. D. 20.2.4 pr.: Eo iure utimur, ut quae in praedia urbana inducta illata sunt pignori esse credantur, quasi id tacite convenerit…

L’opinione di Nerazio in tema di conventio tacita di pegno sulle res inductae nei fondi urbani presi in conduzione è ulteriormente specificata, con riguardo a quelle introdotte nell’albergo e nell’horreum, in un passaggio del commentario all’editto di Ulpiano: Ulp. 73 ad ed. D. 20.2.3: Si horreum fuit conductum vel devorsorium vel area, tacitam conventionem de invectis illatis etiam in his locum habere putat Neratius: quod verius est.

Rivelatore è l’eo iure utimur dell’incipit del frammento neraziano, che segnala un dato normativo ormai consolidato, uno ius pacifico e recepito consapevolmente a livello sociale: se anche nulla fosse convenuto tra le parti, in tutti i contratti di locazione relativi a fondi urbani 161, si doveva tra gli altri, M. Marrone, Istituzioni, cit., 395 e A. Petrucci, Manuale, cit., 378). L’atto di perclusione, il cui esercizio antigiuridico l’interdetto mirava a reprimere, trovava, per certo, fondamento in un accordo contestuale alla conclusione del contratto, con il quale si individuavano, elencandoli (più o meno specificamente, anche con l’utilizzo di riferimenti a categorie generali), tra i beni indotti, quelli vincolati in garanzia e quelli, invece, esclusi, cfr. C. Giachi, L’interdictum, cit., 268, nt. 3; contra P.J. Du Plessis, The Interdictum, cit., 225 s. e Id., Theory, cit., 138 s., il quale, in senso diametralmente opposto, ritiene sempre generale la convenzione, pur se esplicita, circa il pegno su invecta et illata, quali beni di necessità individuati genericamente. Il seguito della trattazione contribuirà a mettere in evidenza la non conciliabilità di questa idea con alcune chiare attestazioni di divergenze tra i regimi dell’una e dell’altra forma di garanzia. 161  Il punto di arrivo dell’elaborazione di una categoria generale per l’identificazione dei praedia urbana deve essere quello palesato da D. 50.16.198 (Ulp. 2 de omn. trib.): “Urbana praedia” omnia aedificia accipimus, non solum ea quae sunt in oppidis, sed et si forte stabula sunt vel alia meritoria in villis et in vicis, vel si praetoria voluptati tantum deservientia: quia urbanum praedium non locus facit, sed materia. Proinde hortos quoque, si qui sunt in aedificiis constituti, dicendum est urbanorum appellatione contineri. Plane si plurimum horti in reditu sunt, vinearii forte vel etiam holitorii, magis haec non sunt urbana. Eppure, proprio in relazione alla tematica qui analizzata il frammento ulpianeo, D. 20.2.3, testimonia, senza possibilità di equivoco, un dibattito in corso in epoca neraziana: non si intenderebbe altrimenti la specificazione, ivi contenuta, relativa a horrea e deversoria; cfr. R. Mentxaka, La pigneración, cit., 137 ss.; P.J. Du Plessis, Theory, cit., 144 s. e B.W. Frier, Landlords, cit., 106 s. Non v’era dubbio, infatti, che alberghi e magazzini fossero aedes; e, per questo, con ogni probabilità, la controversia sull’applicabilità della disciplina in esame a tali strutture doveva recare l’eco di una fase storica in cui rilevava ancora la collocazione spaziale degli edifici, in campagna o all’interno delle mura cittadine, rispetto alla loro qualifica come praedia urbana (sul punto, cfr. G. Grosso, Corso di Diritto Romano. Le cose, in RDR, 1, 2001, https://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano0102grosso.pdf,

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intendere che tutti i beni introdotti dal conduttore 162 nel fondo fossero costituiti a garanzia tacita del pagamento del canone 163. Da questo punto di vista, tuttavia, mi pare assolutamente condivisibile l’idea, da più parti sostenuta, che i due passi in commento rappresentino un’acquisizione della scienza giuridica romana senz’altro non databile anteriormente al I secolo d.C. 164; che, in altri termini, l’insorgenza del pegno sugli inducta et illata anche per via tacita debba ritenersi uno sviluppo più tardo rispetto alla diffusione dell’istituto nella prassi negoziale e che soltanto da questa fase storica le parti abbiano acquisito la facoltà di scegliere se individuare specificamente i beni oggetto di garanzia al perfezionarsi della conventio oppure destinarli tutti tacitamente a salvaguardia delle ragioni creditorie 165. 73); ciò, all’evidenza, avrebbe imposto per queste due tipologie immobiliari di interrogarsi di volta in volta, in base alla loro concreta ubicazione, sulla possibilità di ricondurle al regime della conventio tacita. La funzione della precisazione ulpianea in ogni caso è quella di stroncare all’origine possibili perduranti dubbi: gli horrea, così come deversoria e stabula, nei limiti in cui producessero un reddito tramite locazione a terzi dei propri spazi interni, erano da ritenersi afferenti al genus “fondi urbani”. Al contrario, il terzo termine, che è giustapposto ad alberghi e magazzini, area, indica nella quasi totalità dei luoghi del Digesto uno spazio edificabile, momentaneamente sgombro da edifici. Tuttavia, ragioni analogiche legate alla conforme possibilità di utilizzazione economica dovevano, pur nella sua non riconducibilità alla categoria dei praedia urbana, aver suggerito di sottoporre questo genere di spazi al medesimo regime degli horrea, cfr. la mia precedente opinione argomentata in A. Grillone, Le guarentigie, cit., 567 ss. e, in senso assonante, R. Mentxaka, Ibidem, 139, nt. 264; nonché gli interessanti profili di riscontro offerti da alcuni recenti studi archeologici, cfr. R. Sebastiani, Inserimento, cit. e Id., Lo scavo, cit., passim, dove, per esempio, in relazione alla promiscua struttura della discarica di merci all’aperto, connessa a vicine strutture di immagazzinamento, rinvenuta nella recente campagna di scavi al Testaccio, l’Autore si poneva il dubbio fin dove correttamente si potesse parlare di magazzino e ove, invece, si dovesse preferire la più generica dicitura: luoghi di stoccaggio, ammiccando ad una diversità di ambienti, alcuni chiusi, altri anche in parte aperti, ma deputati alle medesime finalità. 162  Quelli, per lo meno, mobili e suscettibili di valutazione economica, secondo F. La Rosa, La protezione interdittale del pignus e l’actio serviana, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, 7, Milano, 1987, 290 s. e P.J. Du Plessis, Theory, cit., 140, non, invece, quelli introdotti casualmente all’interno dell’immobile o tenuti dal conductor in forza di un contratto (cfr. Pomp. 13 Var. lect. D. 20.2.7.1 e Ulp. 73 ad ed. D. 43.32.2). 163  Cfr. R. Mentxaka, La pigneración, cit., 100 ss.; P.J. Du Plessis, Theory, cit., 137 e 143 s.; R. Marini, La custodia, cit., 163 e F. De Iuliis, Studi sul pignus conventum. Le origini. L’interdictum Salvianum, Torino, 2017, 128 s. 164  Cfr. P.J. Du Plessis, The Interdictum, cit., 226; Id., Theory, cit., 139 e C. Giachi, L’interdictum, cit., 291 s., nt. 49, ma si veda anche B.W. Frier, Landlords, cit., 107, il quale anticipa la nascita dell’ipoteca tacita sugli invecta et illata alla fine del I secolo a.C. 165  Cfr. Paul. 3 ad ed. D. 2.14.4 pr.: Item quia conventiones etiam tacite valent, placet in urbanis habitationibus locandis invecta illata pignori esse locatori, etiamsi nihil nominatim convenerit. In ogni caso, anche qualora non vi fosse stata convenzione espressa, non tutti

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Una duplice opzione, di cui, con nettezza, Paul. sing. de off. praef. vig. D. 20.2.9 palesa le pregnanti implicazioni giuridiche: Est differentia obligatorum propter pensionem et eorum, quae ex conventione manifesta 166 pignoris nomine tenentur, quod manumittere mancipia obligata pignori non possumus, inhabitantes autem manumittimus, scilicet antequam pensionis nomine percludamur: tunc enim pignoris nomine retenta mancipia non liberabimus…

Il passo, anzitutto, pone in luce il differente regime giuridico connesso alle due ipotesi di pegno, in particolare: se le cose vincolate esplicitamente non possono in alcun modo essere distolte dalla loro funzione di garanzia per tutta la durata del rapporto, non potendo essere manomesse (se si tratti di servi) 167, alienate, donate, o, ancora, in altro modo trasferite altrove, le altre, convenute in pegno tacitamente, possono al contrario essere oggetto di atti dispositivi del dominus fino a che ciò non venga materialmente impedito dal locatore a seguito dell’avvenuto, effettivo inadempimento del conduttore 168. Tuttavia, più che la suddetta distinctio, ciò che qui interessa mettere in evidenza è come l’effettivo verificarsi dell’inadempimento e la conseguente situazione di esposizione debitoria del conduttore riconducano i divergenti regimi ad unità, legittimando il locator ad esercitare la propria facoltà di retentio e privando pertanto il debitore di ogni facoltà dispositiva sui beni perclusi 169. i beni che fossero transitati all’interno dello stabile in costanza d’esecuzione del contratto sarebbero rimasti vincolati all’immobile: il locatore, infatti, aveva su di essi un diritto di pegno soltanto potenziale, che si concretava, specificandosi, al momento della perclusio, su tutti e solo quei beni che, in quel momento, si fossero lì trovati, cfr. in proposito P.J. Du Plessis, Theory, cit., 141. Nondimeno, come anticipato, Ibidem, 138 s. (cfr. supra nt. 160), l’Autore crede questo schema applicabile anche alla convenzione espressa relativa agli invecta et illata, mentre, a parere di chi scrive, la regola in questione segna uno dei fondamentali profili di divergenza tra i due regimi, tacito ed espresso; si tornerà a breve sul punto. 166  Così l’edizione di P. Bonfante, Digesta Iustiniani Augusti, Milano, 1931, sostituiva il manifestari della Florentina; la lettura è ampiamente condivisa in dottrina, si vedano, tra gli altri, C. Giachi, L’interdictum, cit., 295, nt. 57; B.W. Frier, Landlords, cit., 119, nt. 146; J. De Churruca, La pignoración tácita de los invecta et illata, in RIDA, 24, 1977, 213. 167  H.L.E. Verhagen, Ius Honorarium, Equity and Real Security: parallel lines of legal development, in Law and Equity. Approaches in Roman Law and Common Law, a cura di E. Koops-W.J. Zwalve, Leiden-Boston, 2014, 138; C. Giachi, L’interdictum, cit., 295; P.J. Du Plessis, Theory, cit., 141 s.; R. Mentxaka, La pigneración, cit., 117 e J. De Churruca, La pignoración, cit., 214 s. 168  Cfr. P.J. Du Plessis, Theory, cit., 141 s.; Id., The Interdictum, cit., 229 s. e A. Grillone, Le guarentigie, cit., 580 s. 169  Cfr. C. Giachi, L’interdictum, cit., 295; mi pare da questo punto di vista condivisibile

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La differenza di regime si giustifica, a mio avviso, con estrema naturalezza, se si pone mente al fatto che la convenzione espressa dovesse individuare i beni oggetto della garanzia attraverso una preliminare elencazione degli stessi, mentre quella tacita gravava gli inducta et illata solo in potenza, specificandosi, al momento della retentio, su quelli soltanto che in quel tempo si trovassero nell’immobile. E il portato non contestabile di questa difformità è che non possa essere indisponibile al dominus ciò che, tra le cose genericamente convenute, non si è ancora specificato come oggetto di garanzia. Qualsiasi inadempienza relativa all’obbligo di pensionem exolvere, per altro, avrebbe giustificato la reazione in via di autotutela del locator: a nulla, infatti, avrebbe giovato al conduttore la richiesta di tutela interdittale se questi non avesse potuto allegare che il pagamento di una parte soltanto dei canoni dovuti; è quanto, del resto, risulta con chiarezza dal commento ulpianeo seguente all’esposizione della formula interdittale 170: Ulp. 73 ad ed. D. 43.32.1.4: Si pensio nondum debeatur, ait Labeo interdictum hoc cessare, nisi paratus sit eam pensionem solvere. Proinde si semenstrem solvit, sexmenstris debeatur, inutiliter interdicet, nisi solverit et sequentis sexmenstris, ita tamen, si conventio specialis facta est in conductione domus, ut non liceat ante finitum annum vel certum tempus migrare. Idem est et si quis in plures annos conduxerit et nondum praeterierit tempus. Nam cum in universam conductionem pignora sunt obligata, consequens erit dicere interdicto locum non fore, nisi liberata fuerint.

Quello che in questo passo preme al giurista è di circoscrivere con esatl’idea, proposta dall’Autrice, che i due tipi di vincolo, quello nascente da convenzione espressa e quello sorto tacitamente, dovessero distinguersi solamente in una fase anteriore al retinere esercitato dal locatore e che, nel secondo caso, pertanto, l’inadempimento avrebbe avuto, in certo senso, la funzione di rendere effettivo il diritto reale di garanzia, prima soltanto potenziale, vincolando i beni in quel momento presenti nell’immobile e quelli eventualmente di seguito introdotti. 170  Cfr., in proposito, P.J. Du Plessis, The Interdictum, cit., 237 ss.; in altri termini, il pagamento legittimante il conductor all’interdetto doveva essere in pieno satisfattivo delle ragioni creditorie e rispondente ai principi esplicitati dal già analizzato passo D. 13.7.11.5 (Ulp. 28 ad ed.): Solutam autem pecuniam accipiendum non solum, si ipsi, cui obligata res est, sed et si alii sit soluta voluntate eius, vel ei cui heres exstitit, vel procuratori eius, vel servo pecuniis exigendis praeposito. Unde si domum conduxeris et eius partem mihi locaveris egoque locatori tuo pensionem solvero, pigneraticia adversus te potero experiri (nam Iulianus scribit solvi ei posse): et si partem tibi, partem ei solvero, tantundem erit dicendum. Plane in eam dumtaxat summam invecta mea et illata tenebuntur, in quam cenaculum conduxi: non enim credibile est hoc convenisse, ut ad universam pensionem insulae frivola mea tenebuntur. Videtur autem tacite et cum domino aedium hoc convenisse, ut non pactio cenacularii proficiat domino, sed sua propria; sul quale già mi sono diffusamente intrattenuto, supra Cap. I, §. 2 e ntt. 69 s.

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tezza la tutela della posizione del conductor fornita dallo strumento interdittale e di sciogliere qualsiasi dubbio derivante da una possibile superficiale lettura delle parole edittali: quando anche alcune delle rate dovute siano state adempiute dal conduttore, fintanto che egli debba ancora una parte del corrispettivo, l’interdictum de migrando non potrà valere in suo favore, poiché qualsiasi inadempimento, anche di una sola quota, legittimerebbe il locatore a trattenere in garanzia i beni convenuti in pegno. Secondo Labeone, inoltre, la garanzia avrebbe coperto l’intera mercede pattuita annualmente, non solo, pertanto, le rate scadute, ma anche quelle non ancora dovute, con la conseguenza che, se il conduttore avesse voluto abbandonare anzitempo l’immobile, liberando i propri beni dal vincolo, avrebbe dovuto, in ogni caso, corrispondere al locatore l’intero canone annuale convenuto, anche quello relativo alla restante durata del rapporto. In base al parere di Ulpiano, invece, ciò sarebbe valso per qualsiasi rata futura, pur non ancora esigibile, solo se, tuttavia, le parti avessero convenuto esplicitamente l’impossibilità per il conductor di recedere anticipatamente dal vincolo contrattuale. Tramite la retentio dei suoi beni, il locatore esercitava in questa fase una forma pregnante di pressione materiale e psicologica sul conductor 171, il quale, certamente, avendone la possibilità, al fine di recuperare la piena disponibilità degli stessi, si sarebbe risolto a saldare i suoi debiti. Se ciò, tuttavia, per qualche ragione non fosse avvenuto, con il decorso di due anni dall’inadempimento il locator avrebbe acquisito un’altra importante facoltà, quella di vendere tali beni e soddisfarsi sul ricavato 172. Si veda, in proposito, C. Giachi, L’interdictum, cit., 271 ss., nt. 17, dove l’Autrice disegna, opportunamente, l’attività di percludere come una forma di vis che, in quanto legittimata dal pegno, tacitamente o espressamente convenuto, sugli importata, esce dal dettato di quella lex Iulia de vi, che induceva J.L. Murga, La perclusio locatoris, una forma, cit., 614, ad interrogarsi sul rapporto, a suo avviso, di palese conflitto endo-ordinamentale tra questo dato normativo ed il peculiare istituto della perclusio-retentio. Stessi dubbi in P. Frezza, Le garanzie delle obbligazioni. II. Le garanzie reali, Padova, 1963, 355 nt. 1, il quale, tuttavia, considerava l’atto di perclusio una condotta solo socialmente autorizzata; perplessità che, a mio avviso, in ogni caso, si dissolvono ammettendo quanto, per altro, all’evidenza, sembra risultare dalle fonti (cfr. D. 48.7.8: Si creditor sine auctoritate iudicis res debitoris occupet, hac lege tenetur et tertia parte bonorum multatur et infamis fit e D. 20.2.4 pr.; D. 20.2.9), ovvero che la lex non fosse diretta a reprimere gli atti autorizzati da un’apposita conventio, come quella inerente alla perclusio, la cui legittimità riposava sul consenso, per lo meno tacito e presunto, delle parti. 172  Confondere l’articolato istituto della perclusio con il solo suo momento finale, ovvero l’accesso all’immobile, immediatamente precedente la venditio, del locator insieme a un funzionario pubblico, al fine di stimare i beni oggetto di esecuzione, significa certamente ridurlo ad una forma di mera compensazione del pregiudizio patrimoniale subito; una compensazione, per altro, assai magra, il più delle volte, considerando il pressoché nullo 171 

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In proposito, mi pare opportuno preliminarmente considerare l’illuminante e lungamente discusso Paul. sing. de off. praef. vig. D. 19.2.56, delle cui implicazioni organizzative in tema di gestione dei magazzini già si è detto all’interno del primo capitolo di questo studio 173: Cum domini horreorum insularumque desiderant diu non apparentibus nec eius temporis pensiones exsolventibus conductoribus aperire et ea quae ibi sunt describere, a publicis personis quorum interest audiendi sunt. Tempus autem in huiusmodi re biennii debet observari.

In letteratura si è sovente preteso il frammento interpolato in più punti, d’altronde è l’intera opera De officio praefecti vigilum che in passato ha sollevato sospetti di ampie manipolazioni postclassiche 174. E, da tale punto di vista, se certamente non si può non concordare sulla, per altro ai nostri fini innocua, frequente sostituzione dell’originario riferimento ai praefecti vigilum con l’espressione compilatoria a publicis personis, sospenderei il giudizio sulla non classicità della chiusa, ritenendo, in ogni caso, il passo nelle restanti parti genuino 175. Una parte della dottrina, che ha favorito l’idea dell’intervento postclassico, ha argomentato nel senso di ritenere che un’indicazione temporale come quella della chiusa, così precisa: bienni debet observari, e in evidente contrasto con la tempistica generica individuata nell’incipit del passo, non potesse che dimostrare l’avvenuta manipovalore di mercato dello scarno mobilio che la maggior parte degli inquilini urbani erano soliti recare con sé; in tal senso, cfr. S. Sciortino, Il termine, cit., 7 ss. L’Autore, d’altronde, è portato a tale fraintendimento dalla fuorviante idea che entrambi questi strumenti di autodifesa, la perclusio così come l’expulsio, siano attuabili dal locatore soltanto a seguito di un prolungato inadempimento. Da quanto fin qui detto (e, in particolare, da D. 43.32.1.4) è emerso come, al contrario, la reazione difensiva del locator a mezzo della retentio di inducta et importata possa essere immediata e conseguente anche all’inadempimento di una sola rata del canone di locazione pattuito dalle parti. 173  Si veda supra Cap. I, §. 1. 174  C. Alzon, Problèmes, cit., 118 nt. 592; B.W. Frier, Landlords, cit., 133 e J.L. Murga, La perclusio locatoris como vis, cit., 246 nt. 25. In difesa della genuinità si pongono, al contrario, A. Dell’Oro, I libri de officio nella giurisprudenza romana, Milano, 1960, 254; D.A. Musca, Lis fullonum de pensione non solvenda, in Labeo, 16, 1970, 307 ss. e E. Costa, La locazione, cit., 100 ss. 175  Mi trovo qui a concordare, almeno nelle conclusioni, con S. Sciortino, Il termine, cit., 9, ma non tanto perché nel contestarne la genuinità, sia T. Mayer-Maly, Das biennium, cit., 413, che C. Alzon, Problèmes, cit., 118 nt. 592, abbiano confrontato, con quello in analisi, passi relativi alle locazioni rustiche, ché sul punto i due regimi potrebbero anche non discostarsi, quanto perché entrambi richiamano passi estranei al tema della perclusio e relativi, invece, all’intimamente connesso, ma distinto (vedremo meglio infra, in quali termini), profilo dell’expulsio del conduttore, il primo, addirittura, fondando la sua critica su D. 39.4.10.1, riguardante il mancato pagamento del canone vettigale.

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lazione. L’annotazione, tuttavia, non mi pare risolutiva, infatti, il giurista, a fronte di un esordio generico, avrebbe poi potuto avvertire, in sede di congedo, l’esigenza di fissare un termine più specifico; nondimeno, questo rilievo, associato alla posizione isolata assunta nel frammento da quel tempus autem in huiusmodi re biennii debet observari, induce, nei modi, a sospettare della sua genuinità 176. Per quanto qui interessa, in ogni caso, l’esattezza e la classicità della determinazione temporale in questione non influiscono sugli scopi del nostro studio; sarà, pertanto, in tal senso, sufficiente prendere atto di non poter ricostruire con certezza la tempistica classica dell’istituto, nella specie, del suo momento finale, cioè la vendita degli inducta et importata da parte del locatore. Il passo paolino è per noi, infatti, essenziale nell’attestare una ben più rilevante circostanza, ovvero che i locatori, in questo caso anche domini horreorum et insularum, in ipotesi di prolungata assenza dei conduttori inadempienti all’obbligazione di pagare la mercede (diu non apparentibus nec eius temporis pensiones exsolventibus) potevano, in presenza di pubblici funzionari (praefecti vigilum), aprire gli spazi conferiti in godimento, prendendo nota del contenuto 177. È quanto, per altro, ci conferma anche: Scaev. 27 dig. D. 20.4.21.1: Negotiatori marmorum creditur sub pignore lapidum, quorum praetia venditores ex pecunia creditoris acceperant; idem debitor conductor horreorum Caesaris fuit, ob quorum pensiones aliquot annis non solutas procurator exactioni praepositus ad lapidum venditionem officium suum extendit: quaesitum est, an iure pignoris eos creditor retinere possit. Respondit secundum ea quae proponerentur posse.

Un commerciante di marmi, al fine di finanziare l’acquisto di una partita del prezioso minerale, aveva convenuto in pegno le pietre a garanzia della restituzione del prezzo, che il suo mutuante aveva pagato ai precedenti proprietari delle stesse. In attesa di rivenderle e di saldare il suo debito, il mercante le aveva stipate in una cella degli horrea Caesaris. In seguito, per la prolungata inadempienza al pagamento dei canoni di locazione di questi spazi, contro di lui, il procurator Caesaris exactioni praepositus aveva intrapreso il procedimento di vendita dei beni depositati: era stata posta 176  Sull’interpolazione del verbo observo, G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, in ZSS, 66, 1948, 335; è certamente possibile ritenere, per lo meno a livello congetturale, che sotto il principato e in età repubblicana non fosse esattamente determinato il lasso di tempo che il locatore avrebbe dovuto attendere prima di essere autorizzato ad inventariare e vendere i beni oggetto di perclusio e che la sua determinazione derivasse dal potere di imperium del pretore, successivamente, poi, dall’apprezzamento discrezionale del prefetto dei vigili, cfr. in tema J. De Churruca, La pignoración, cit., 216 ss. 177  Cfr. P.J. Du Plessis, Theory, cit., 148 s., ma pure me stesso in A. Grillone, Punti, cit., 24.

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la questione se il mutuante potesse interdire questa procedura, trattenendo a garanzia del suo credito i marmi convenuti in pegno. E la risposta di Scevola era stata in senso affermativo 178. Il passo, scevro da dubbi di interpolazione 179, merita la nostra attenzione, in quanto comprova che, anche nella locatio di horrea (publica), il locatore avrebbe dovuto attendere, pur in assenza di riferimenti temporali precisi, il decorso di alcuni anni dal primo inadempimento legittimante la perclusio per poter essere autorizzato a procedere alla vendita dei beni del debitore. Scevola, infatti, nell’antefatto al proprio responso 180, attesta come solo dopo aliquot anni di ritardo nel pagamento delle pensiones da parte del negotiator marmorum, conduttore di celle degli horrea Caesaris, il procurator exactionis praepositus si sarebbe potuto attivare per la vendita dei lapides tacitamente convenuti in garanzia. Di conseguenza, a mio avviso, i frammenti considerati convergono nel descrivere, diversamente da quanto anche recentemente sostenuto in dottrina 181, un momento successivo ai contestuali atti di prohibitio 182 e perclusio dei beni. Il locator, pertanto, sulla base della ricostruzione proposta, avrebbe potuto immediatamente interdire l’accesso all’immobile al debitore o in ogni altro modo sottrargliene il godimento, vietandogli, pure, congiuntamente o alternativamente, di portar via dal fondo gli inducta. E, tuttavia, solo con il protrarsi dell’inadempimento, per un tempo che le fonti concordemente sembrano indicare superiore all’anno, avrebbe maturato la facoltà di vendere i beni perclusi al fine di soddisfarsi sul ricavato 183. Cfr. supra Cap. I, §. 2 e A. Grillone, Punti, cit., 31 s., circa il portato del passo in rapporto ai modelli di organizzazione imprenditoriale in uso presso gli horrearii. 179  Rimando qui, sul punto, a S. Sciortino, Il termine, cit., 16, nt. 50; J. De Churruca, La pignoración, cit., 209 e R. Mentxaka, La pigneración, cit., 110. 180  Inerente al rapporto e al grado delle rispettive garanzie concesse dal negotiator marmorum al suo finanziatore e al locatore dello spazio di deposito degli stessi: sui cui in questa sede rinvio ad A. Grillone, Le guarentigie, cit., 587 s. 181  S. Sciortino, Il termine, cit., 8 ss., nt. 26. 182  Atto impeditivo del godimento, con finalità analoghe a quelle dell’expulsio, con il quale si vieti l’accesso del conduttore inadempiente all’immobile. 183  Rimando qui supra nt. 150, per l’evoluzione storica che portò alla naturalizzazione del pactum vendendi in ogni forma di conventio pignoris e cfr., in relazione alla scansione temporale dell’istituto da me prediletta, P.J. Du Plessis, The Interdictum, cit., 236; del resto, se il locatore, già in età repubblicana, non fosse stato vincolato ad attendere un certo tempo prima di poter essere autorizzato a procedere alla vendita e soddisfarsi sul ricavato, non si spiegherebbero numerosi provvedimenti normativi e proposte di legge relative alla remissione agli inquilini delle pigioni non pagate per un anno: in particolare, si ha notizia certa di una rogatio del pretore M. Celio Rufo, cui già si è accennato (si veda supra Intr., §. 3 nt. 106), con cui si chiedeva di acconsentire alla rimessione dei canoni di affitto non pagati per un anno (come attestato in Caes., De bello civ. 3.21.1), e di quella 178 

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Giunti a queste conclusioni, inoltre, mi paiono pure potersi affrontare e risolvere le condivisibili perplessità dell’Alzon 184, il quale già lamentava le distorte conseguenze d’intendere il biennio quale termine necessario sia alla perclusio degli inducta et importata che all’espulsione del conduttore inadempiente, ponendo in luce l’assurdità di un sistema in cui il locatore fosse obbligato a sopportare inerme un inadempimento protrattosi per un così lungo lasso temporale, con la conseguenza di non poter, nel mentre, né ricollocare quell’immobile, né soddisfare sugli illata il proprio credito. In una logica del resto perfettamente coerente con un ordinamento, come quello romano, dove a coloni e inquilini è negata la possessio ad interdicta, e con essa ogni forma di detezione autonoma ed esclusiva del bene, nel quale, non di rado, la posizione giuridica di costoro è accostata a quella propria dei servi, degli amici e degli ospiti e in cui, per le più svariate ragioni, il locatore aveva diritto di accedere all’immobile in costanza di rapporto 185, con il verificarsi dell’inadempimento, costui avrebbe acquistato una vasta gamma di facoltà: poteva trattenere gli inducta et illata del conduttore, adottando in sua assenza rimedi proibitori volti ad impedirgli di accedere nuovamente all’immobile, spogliarlo del possesso, anche vi, quando fosse ancora nel godimento, oppure conservarlo nella detenzione, percludendone le res indotte ed adottando misure volte a scongiuraranaloga, dell’anno successivo, del tribuno P. Cornelio Dolabella, su cui Cic., Ad Att. 11.23.3. Come già visto (ancora supra Intr., §. 3), poi, Svetonio, in De vita Caesarum (Div. Iulius), 38, tramanda che Cesare, nel corso del 46 a.C., rimise il debito di un anno agli inquilini che avevano servito sotto di lui come legionari, un’identica politica fu portata avanti da Ottaviano (Dio. Cass. 48.9.4). 184  C. Alzon, Problèmes, cit., 119 nt. 593. 185  M. Marrone, Per una funzione “strumentale” del diritto romano in materia di possesso, in Studi in memoria di Giambattista Impallomeni, Milano, 1999, 299 ss.; ove l’Autore rilevava come, anche in caso di espulsione ingiustificata, il conduttore avrebbe potuto tutelarsi solo in via contrattuale, dunque, in funzione risarcitoria, mediante l’esperimento dell’actio conducti; forse, ma la cosa è dubbia, anche con l’interdictum de vi armata (tuttavia, D. 43.16.1.9, che lo accorderebbe, è ritenuto di matrice non classica; tra gli altri, cfr. G. Nicosia, Studi sulla ‘deiectio’, I, Milano, 1965, 14 ss.), nel caso in cui fosse stato espulso con l’uso delle armi dal locatore (o dall’eventuale emptor del fondo locato o, in ogni caso, da qualunque terzo); mai, invece, avrebbe potuto accedere alla reintegra connessa all’unde vi. Si veda anche, sul punto, E. Costa, La locazione, cit., 71 ss., che in relazione alla possibilità di esercitare il de vi armata richiamava D. 43.16.12 e D. 43.16.18: i passi, pur riferiti ad un contesto prettamente agricolo, possono essere applicati anche al conduttore di aedes urbane, e non solo ai casi di espulsione forzosa da parte di un terzo o dell’emptor, ma, a maggior ragione, a tutti quelli in cui il conduttore sia ingiustificatamente deiectus armis da colui che gli ha promesso in godimento il bene. Un possesso quello del conductor, in ogni caso, non autonomo, che emerge dalle fonti come funzionalmente legato a quello del dominus, equiparabile a quello di servi e ospiti, e tutelato per lo più al solo scopo di reprimere l’uso privato della forza armata, cfr. D. 41.2.25.1; D. 2.44.2; D.43.19.3.4 e D. 43.19.1.17.

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ne l’asporto. Non abbiamo, per altro, difficoltà ad immaginare le ragioni di opportunità che indirizzavano, di volta in volta, il locatore in un senso o nell’altro; non sempre, difatti, la scelta migliore sarebbe stata quella di sfrattare il conduttore, trattenendone in garanzia il povero mobilio; quale ristoro, del resto, tali beni avrebbero offerto in caso di vendita? In questa prospettiva, dunque, talvolta poteva sembrare consigliabile, allo scopo di evitare la fuga e la conseguente irreperibilità del conductor, mantenere il rapporto, attendendo che costui potesse pagare. Allo stesso tempo, tale sopportazione, come scelta di comodo, non era esente da rischi: di natura pubblicistica, in primo luogo, come abbiamo visto, non erano infatti rare le leggi volte alla rimessione dei canoni non pagati dagli inquilini e, più in generale, manovre populiste di cancellazione del debito cittadino 186. Inoltre, non era infrequente che la situazione di insolvenza del conductor, anziché svanire, finisse per consolidarsi, esponendo il locatore alla perdita dell’intera mercede pattuita per quell’anno 187. Un caso limite è rappresentato, qui di seguito, nel vivace dipinto di Marziale: Mart. 12.32 (ll. 1-5): O Iuliarum dedecus Kalendarum, | vidi, Vacerra, sarcinas tuas, vidi; | quas non retentas pensione pro bima | portabat uxor rufa crinibus septem | et cum sorore cana mater ingenti… (ll. 11-25): | Ibat tripes grabatus et bipes mensa| et cum lucerna corneoque cratere | matella curto rupta latere meiebat; | foco virenti suberat amphorae cervix; | fuisse gerres aut inutiles maenas | odor inpudicus urcei fatebatur, | qualis marinae vix sit aura piscinae. | Nec quadra deerat casei Tolosatis, | quadrima nigri nec corona pulei | calvaeque restes alioque cepisque, | nec plena turpi matris olla resina, | Summemmianae qua pilantur uxores. | Quid quaeris aedes vilicosque derides, | habitare gratis, o Vacerra, cum possis? | Haec sarcinarum pompa convenit ponti.

Il protagonista dell’epigramma è Vacerra, un inquilino sfrattato alle calende di luglio in conseguenza di un inadempimento protrattosi per un intero biennio 188. Questi è raffigurato dal poeta nell’atto di portare via il Cfr. supra Intr., §. 3 e, nel presente capitolo, nt. 183. E su tali problematiche già mi sono soffermato ampiamente supra Intr., §. 3. 188  Il passo, recentemente, è stato chiamato da S. Sciortino, Il termine, cit., 13 ss., nt. 46, per l’essere fonte letteraria, dunque esente da dubbi di manipolazione, a confermare l’idea che il locator dovesse attendere il termine di due anni dal momento dell’inadempimento prima di procedere all’expulsio del conduttore (in precedenza, cfr. anche E. Costa, La locazione, cit., 102 nt. 1). E tuttavia, a mio modesto avviso, il passo, in primo luogo, si riferisce ad un caso di scaduto contratto di locazione (lo stesso Autore, del resto, ammette: «…a partire dalle calende di luglio operava la relocatio tacita delle locazioni non disdettate…», quando lo fossero, pertanto, il rapporto era destinato a sciogliersi in questa data), di conseguenza, non per forza descrive una fattispecie di abbandono dell’immobile conseguente ad expulsio: quest’ultima, infatti, in quanto forma di autotutela diretta ad 186  187 

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suo poco decoroso mobilio dall’appartamento: una branda con tre piedi, un tavolo con due, una lucerna, un cratere, un vaso da notte fessurato, il collo di un’anfora rotta, un braciere, un orcio putrido per la conserva delle sardine, una fetta di formaggio e un barattolo di resina depilatoria di pessima qualità. La narrazione, che indugia lungamente sulla povertà degli arredi e delle suppellettili che il miserabile conduttore trascina con sé 189, mette in luce una situazione contingente in cui il locatore rinuncia a vantare qualsivoglia diritto sui beni dell’inquilino, non tanto perché si tratti di effetti personali esclusi dalla facoltà di perclusio, ma piuttosto in quanto, a causa del loro irrisorio valore, la vendita all’incanto sarebbe risultata per il locaimpedire l’acuirsi del pregiudizio economico derivante dal mancato pagamento dei canoni (C. Giachi, L’interdictum, cit., 274 nt. 14), era inscindibilmente connessa all’interruzione anticipata dell’esecuzione del rapporto contrattuale, ma ben poteva risultare superflua, se, al suo termine naturale, il conductor avesse fatto seguito alle richieste del locator, liberando puntualmente il bene. Secondariamente, mi pare che il riferimento al biennium sia legato, semmai, alla possibilità di trattenere i beni dell’inquilino a soddisfazione dei canoni non pagati, e anche in questo caso, però, trattandosi di un testo non giuridico, è possibile solo congetturare cosa Marziale intendesse con quas non retentas pensione pro bima; non ritengo provi, comunque, che la facoltà del locatore di percludere gli inducta et importata del conduttore dovesse attendere, prima di esplicarsi, il consolidarsi dell’inadempimento per un arco temporale di due anni. 189  Qui mi trova concorde l’interpretazione proposta da S. Sciortino, Il termine, cit., 15 nt. 48: l’indugiare di Marziale nella descrizione dei poveri inducta et importata di Vacerra si giustifica nel tentativo di spiegare la decisione del locatore di non esercitare sugli stessi il maturato diritto di vendita; pertanto, non mi pare doversi seguire l’opposta impostazione di T. Mayer-Maly, Das biennium, cit., 413 nt. 7, secondo cui da ciò si dovrebbe desumere che non potessero formare oggetto di perclusio le tipologie di beni elencati nel passo. In altri termini, non mi trova concorde l’opinione di H. Kreller, Pfandrechtliche Interdikte und Formula Serviana, in  ZSS, 64, 1944, 319 s.; B.W. Frier, Landlords, cit., 114 s. e F. La Rosa, La protezione, cit., 295 ss., che ritenevano Ulp. 73 ad ed. D. 20.1.6: Obligatione generali rerum, quas quis habuit habiturusve sit, ea non continebuntur, quae verisimile est quemquam specialiter obligaturum non fuisse. Ut puta supellex, item vestis relinquenda est debitori, et ex mancipiis quae in eo usu habebit, ut certum sit eum pignori daturum non fuisse. Proinde de ministeriis eius perquam ei necessariis vel quae ad affectionem eius pertineant, applicabile al caso in esame. La suddetta limitazione oggettiva, che esclude fra le altre la suppellettile dal novero delle res pignorabili, riguarda precipuamente i casi di conventio pignoris generalis (cfr., tra gli altri, P. Frezza, Le garanzie, cit., 171), la quale, nata in epoca classica per disciplinare vincoli imposti sull’intero patrimonio del debitore e diffusasi poi come ipoteca legale a favore del pupillo sui beni del tutore e a favore della moglie sui beni del marito, in garanzia della restituzione dei beni dotali, dei parapherna o del donato propter nuptias (cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 481), non può essere con leggerezza assimilata, sotto il profilo disciplinare, alla costituzione di pegno su invecta et illata e, del resto, inoltre, anche da un punto di vista di logica economica, bisognerebbe domandarsi quale garanzia rimarrebbe al locator di un caenaculum se lo si privasse della possibilità di aggredire la suppellettile del conduttore (in tal senso, si legga pure R. Mentxaka, La pigneración, cit., 99 ss.).

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tore operazione vana ed inutilmente penosa. La perclusio, dunque, se anche fosse avvenuta, era rimasta, nel caso di specie, confinata in un momento anteriore, quale forma di mera pressione sul conduttore, non venendo, di seguito, tradotta in retentio e vendita forzata dei beni. Come il passo poc’anzi analizzato suggerisce, molte volte, concedere fiducia diveniva per i locatori fonte di una maggior perdita, pertanto, frequentemente, si giovavano dello strumento dell’expulsio, al fine di liberare l’immobile e sciogliersi in via di fatto dal rapporto. Atto di forza, questo, che, in ogni caso, come detto, non andava ad incidere su una situazione possessoria, quella del conductor, difesa in via interdittale, di conseguenza, pur esercitato in forma arbitraria, avrebbe per lo meno ottenuto il risutato di sgomberare l’immobile, vincolando, al più, il locatore al risarcimento del danno 190. Nel Digesto le testimonianze certe di expulsio per mancato pagamento della mercede sono tutte relative al contesto della locazione di fondi rustici, eppure nulla vieta di ritenere operante la medesima disciplina nel settore dell’affitto urbano 191. Per questo, anzitutto, mi pare proficuo considerare: Scaev. 7 dig. D. 19.2.61 pr.: Colonus, cum lege locationis non esset comprehensum, ut vineas poneret, nihilo minus in fundo vineas instituit et propter earum fructum denis amplius aureis annuis ager locari coeperat. Quaesitum est, si dominus istum colonum fundi eiectum pensionum debitarum nomine conveniat, an sumptus utiliter factos in vineis instituendis reputare possit opposita doli mali exceptione. Respondit vel expensas consecuturum vel nihil amplius praestaturum.

Il passo, che ai nostri fini pare doversi ritenere genuino 192, riguarda il 190  Cfr. M. Marrone, Per una funzione, cit., 306 e Id. La legittimazione, cit., 121 s.; afferma, infatti, l’Autore che il locator avrebbe potuto deicere il colonus/inquilinus senza nulla temere sul piano della tutela possessoria (in quanto, tali soggetti non sono da ritenersi possessori, se non naturali), oltreché sul piano sociale: «va da sé, così stando le cose, che gli inquilini erano persone economicamente modestissime praticamente in balìa del locator per quanto riguarda la permanenza nei caenacula». Loro unica tutela sarebbe stata l’actio conducti, mediante cui ottenere il risarcimento dei danni (F. Gallo, Sulla presunta estinzione, cit., 1210 s.). 191  Cfr. M. Marrone, La legittimazione, cit., 129 e F. Gallo, Sulla presunta estinzione, cit., 1210; per i quali, non ponendosi alcuna distinzione sul piano possessorio tra il colonus e l’inquilinus, non si giustificherebbe in nessun modo l’applicazione di una diversa disciplina in tema di expulsio. Impostazione che pure era già adottata nella trattazione del suo manuale da C. Ferrini, Manuale di Pandette, Milano, 1904, 702 s. 192  Ora cfr. S. Sciortino, Il termine, cit., 18, nt. 56 e, in tempi più risalenti, B. Biondi, ‘Iudicia bonae fidei’. I. La inerenza delle ‘exceptiones’ nei ‘iudicia bonae fidei’, in AUPA, 7, 1918, 11 s.; il tratto opposita… exceptione non può essere per questi Autori originale: nel

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casus di un conduttore che, avendo apportato al fondo modifiche utili ma non previste (la piantagione di una vigna), in ragione del maggior valore acquistato dall’immobile, si era visto aumentare il canone, risultando poi per lo stesso inadempiente. Espulso dal locatore per la mancata corresponsione del canone, era stato, pure, da costui convenuto in giudizio per la soddisfazione del proprio diritto corrispettivo. Il successivo responso del giurista, che, in ogni caso, non riguarda direttamente il tema della nostra indagine, è inerente al quesito, cui Scevola affermativamente rispondeva, se il colono potesse dedurre dal dovuto le spese utilmente compiute, forse, ma il principio come detto non pare doversi ritenere classico, mercé l’eccezione di dolo 193. Per quanto qui interessa, in ogni caso, il locatore aveva facoltà di espellere il conduttore in qualsiasi momento; con tale atto, tuttavia, all’evidenza si sarebbe reso nei confronti di quest’ultimo inadempiente. Da un lato, però, costui non avrebbe mai potuto ottenere in via interdittale di essere riammesso nel possesso del fondo, dall’altro, di più, quando fosse stato a sua volta inadempiente all’obbligo di pagare la merces, non avrebbe neppure potuto agire con l’actio conducti, potendo al massimo compensare, come nel caso di specie, la pretesa creditoria ex locato con le spese utili e necessarie sostenute 194. Quanto qui primariamente conta sottolineare è come il mancato pagamento del canone legittimasse il locator all’expulsio in assenza di qualsivoglia riferimento al decorso di un termine di tolleranza 195. Maggiore attenzione imporrà il confronto con una fonte, la cui genuinità a lungo è stata discussa in dottrina. In relazione ad essa, infatti, l’adozione della lettura conservativa piuttosto che di quella correttiva è determinante, poiché, seguendo la prima, la stessa potrà citarsi, conformemente alla lettera del Digesto, a riprova dell’esistenza del termine biennale di tolleranza, diritto classico, infatti, all’interno dei iudicia bonae fidei la tipologia di spese in questione poteva venire in compensazione ‘officio iudicis’, senza bisogno di alcuna exceptio (cfr. Gai. 4.61-63) e, in ogni caso, l’alterazione non tocca minimamente gli aspetti del passo che qui interessano. 193  Cfr. supra nt. precedente. 194  Cfr. F. Gallo, Sulla presunta estinzione, cit., 1210 nt. 39, in letteratura identico giudizio esprime S. Sciortino, Il termine, cit., 18; come già si è accennato, tuttavia, l’Autore mantiene separati e non comunicanti i due bacini di applicazione del contratto di locazione, quello urbano e quello rustico, al fine di dimostrare la vigenza nel primo dei due della regola per cui il locatore avrebbe dovuto attendere il decorso di un biennio di tolleranza prima di sfrattare il conduttore moroso. 195  Già in tal senso sul passo: B.W. Frier, Landlords, cit., 74 nt. 49, per il quale la regola della tollerabilità biennale dell’inadempimento non emerge neppure, con chiarezza, a riguardo del contesto degli affitti urbani in Mart. 12.32 e D. 19.2.56.

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in ossequio all’altra, liberata da ogni riferimento al biennio, sarà utile ai sostenitori della tesi opposta 196. Paul. 5 resp. D. 19.2.54.1: Inter locatorem fundi et conductorem convenit, ne intra tempora locationis Seius conductor de fundo invitus repelletur et, si pulsatus esset, poenam decem praestet Titius locator Seio conductori: vel Seius conductor Titio, si intra tempora locationis discedere vellet, aeque decem Titio locatori praestare vellet, quod invicem de se stipulati sunt. Quaero, cum Seius conductor biennii continui pensionem non solveret, an sine metu poenae expelli possit? Paulus respondit, quamvis nihil expressum sit in stipulatione poenali de solutione pensionum, tamen verisimile esse, ita convenisse de non expellendo colono intra tempora praefinita, si pensionibus paruerit, et, ut oportet, coleret; et ideo si poenam petere coeperit is, qui pensionibus satis non fecit, profuturam locatori doli exceptionem.

Le parti, al fine di assicurare maggior stabilità al proprio rapporto, avevano stabilito che, se il conduttore avesse abbandonato anzitempo l’immobile, dovesse al locatore una somma fissa, a titolo di liquidazione convenzionale del danno, e che, allo stesso modo, se quest’ultimo in costanza di rapporto avesse voluto allontanare l’altro dal fondo, avrebbe dovuto tenerlo indenne, pagando la medesima penale. In relazione a questa doppia stipulazione, veniva sottoposto al giurista il seguente quesito: se, quando per un intero biennio il conduttore non avesse pagato la mercede pattuita, potesse essere impunemente espulso dal locatore. Paolo approvava tale giudizio. Una volta espulso, infatti, il conduttore, che non avesse adempiuto all’obbligazione di pagare il canone, non avrebbe disposto di alcuno strumento processuale idoneo ad assicurargli ristoro dal pregiudizio patito, in quanto all’actio ex stipulatu il locatore avrebbe potuto validamente opporre un’eccezione di dolo 197. A lungo la romanistica si è interrogata circa la possibile interpolazione della locuzione bienni continui e, poc’anzi, in relazione a D. 19.2.56, in prima persona, ho espresso dubbi sulla classicità dei riferimenti temporali troppo precisi tesi a limitare l’apprezzamento di buona fede del giudice 198. Ma, a dir il vero, non mi pare che, se anche manipolazione compilatoria vi sia stata, abbia, nella specie, sortito l’effetto voluto, infatti, in via interpretativa, nel trarre la regula iuris dalla fattispecie concreta, ogni riferimento al biennium scompare, restituendoci, con ogni probabilità, l’esatto regime classico dell’exNel primo senso, cfr. P. Cerami, voce Risoluzione, cit., 1290; C. Alzon, Problèmes, cit., 261 nt. 1202 ed E. Costa, La locazione, cit., 102; nel secondo, F. Gallo, Sulla presunta estinzione, cit., 1210 nt. 41 e T. Mayer-Maly, Das biennium, cit., 413. 197  M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, II, Milano, 1973, 685 s. 198  L’interpolazione non è idonea ad alterare il brano sotto il profilo sostanziale, secondo F. Gallo, Sulla presunta estinzione, cit., 1210 nt. 41. 196 

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pulsio (identico, per altro, a quello palesato in Scaev. 7 dig. D. 19.2.61 pr.). Si deve osservare, del resto, come la menzione del biennio ricorra soltanto in occasione della formulazione del quesito, al contrario, nella soluzione qualsiasi riferimento al termine di tolleranza viene meno. Pertanto, in proposito, mi sembra pienamente condivisibile l’analisi di Sciortino, il quale a ragione reputa risolutiva l’espressione ‘intra tempora praefinita, si pensionibus non paruerit’, con cui il giurista Paolo, omettendo qualsiasi cadenza temporale, risolve la questione giuridica proposta: se il conductor nei termini rateali stabiliti non abbia pagato le pensiones, il locatore potrà impunemente cacciarlo dall’immobile 199. In altri termini, se anche il riferimento al biennio fosse stato genuino, nella soluzione del casus, esso avrebbe assolto esclusivamente la funzione di esempio paradigmatico di grave inadempimento e per questo sarebbe rimasto estraneo al tenore letterale della chiusa 200.

2. I contratti di locazione con gli horrearii: profili di divergenza dal regime generale della locatio rei Lo stoccaggio delle risorse, come fin dal principio di questo studio si è tentato di mettere in luce 201, era, già nella Roma tardo repubblicana, al centro delle preoccupazioni di un ampio novero di operatori commerciali; ciò, di conseguenza, rese profittevole l’investimento in proprietà immobiliari a questo scopo destinate. A prescindere dal fatto che venissero messe a profitto dal dominus horreorum o da un conductor medius, sovente tali attività vennero ad assumere dimensioni considerevoli, quando non addirittura eccezionali. Questa loro prosperità imponeva all’horrearius di deputarvi una numerosa e variegata componente umana e di apprestare una complessa Sul punto, cfr. S. Sciortino, Il termine, cit., 24 s.; il quale ritiene, di certo, non interpolato il riferimento al biennium. A me pare, tuttavia, che la divergenza tra il tenore letterale della chiusa e l’elemento intruso del biennio, nella posizione del casus, potrebbe essere interpretata a suffragio della tesi dell’intervento compilatorio, nondimeno, come s’è detto, per una via o per l’altra, il passo è tale da confermare l’idea che lo strumento, expulsio, dovesse essere nella legittima disponibilità del locatore fin dal primo inadempimento del conduttore. Nello stesso senso, cfr. già C. Ferrini, Manuale, cit., 703 nt. 1. Mi pare, inoltre, che l’irrilevanza dell’indicazione del biennium emerga, per lo meno, dal corrispondente testo dei Basilici, in cui non ve n’è menzione alcuna, si veda B. 20.1.53.1 (=D. 19.2.54.1) – [Heimbach, II, 363]: Si locator promiserit, se poenam praestaturum conductori, si eum expelleret ante completum quinquennium, impune eum expellit, si mercedem statuto tempore non solvat, vel fundum non utiliter colat, vel omnino non colat. 200  S. Sciortino, Il termine, cit., 25. 201  Si vedano supra Intr., §. 2 e Cap. I, §§. 1-3. 199 

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organizzazione per far fronte alle molteplici incombenze che la custodia delle res dei clienti portava seco 202. Di questa struttura già si è discusso ampiamente nel capitolo che precede. Qui invece interessa approcciare più da vicino l’oggetto dell’attività condotta dagli horrearii ed i suoi peculiari tratti sotto il profilo negoziale. Come per le altre attività imprenditoriali protagoniste del presente studio, lo sfruttamento economico degli horrea non poteva che realizzarsi attraverso la conclusione di contratti di locazione relativi ai loro spazi interni, che nelle fonti, in base al loro diverso impiego e alla maggiore o minore ampiezza, sono variamente denominati: cellae, armaria, apothecae, arca, dolia o intercolumnia 203. Al centro di un prolungato confronto dottrinario è stata la natura di questi contratti: non facile è risultato il loro inquadramento nella pedagogica tripartizione del negozio locativo, a causa del riferimento esplicito nelle fonti all’obbligazione di custodiam praestare che l’horrearius, mediante la conclusione della locatio horrei, assumerebbe nei confronti del conductor, suo cliente. Afferma a riguardo Labeone: Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 19.2.60.9: Rerum custodiam, quam horrearius conductoribus praestare deberet, locatorem totorum horreorum horreario praestare non debere puto, nisi si in locando aliter convenerit.

Come si è rilevato 204, il passo testimonia la frequente scissione tra la persona del gestore dei magazzini e quella del dominus: solo il primo intratteneva rapporti con gli utenti, obbligandosi a conferire il godimento dell’immobile idoneo all’uso convenuto e solo costui, in base al parere di Labeone, in assenza di una specifica pattuizione con il proprietario, avrebbe dovuto rispondere ai clienti per la custodia delle cose stipate. La dottrina più risalente si era attestata, per lo più, sull’idea di ricondurre il rapporto nell’alveo della locatio operis 205, in ragione del peculiare aggravamento della responsabilità dell’horrearius, non giustificabile nel quadro delle obbligazioni sottese al contratto di locatio rei. Oggi, al contrario,

Cfr. supra Cap. I, §§. 2-3. D. 1.15.3.2 e CIL VI 33860; cfr., recentemente, J.J. Aubert, Law, cit., 624 s.; A. Cassarino, Ricerche, cit., 15 s. e A. Petrucci, Poteri, cit., 26. 204  Cfr. supra Cap. I, §. 1 e si vedano A. Petrucci, Note, cit., 30 e A. Grillone, Punti, cit., 22 s. 205  V. Arangio-Ruiz, Responsabilità, cit., 118, nt. 26; F. Haymann, Textkritische Studien zum römischen Obligationenrecht, I. Über Haftung für «custodia», in ZSS, 40, 1919, 209 e F.B.J. Wubbe, Zur Haftung des Horrearius, in ZSS, 76, 1959, 508 ss., il quale tuttavia metteva in risalto il difficile, se non impossibile, inquadramento della locatio horrei nel non romano schema tripartito e la corrispondenza pacifica tra horrearius e locatore nella terminologia adottata dalle fonti. 202  203 

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pare consolidata l’opinione che, pur con diversi tratti di atipia, la locatio horrei possa essere ricondotta proprio a quest’ultima species  206. Anche adottando tale prospettiva pare innegabile, tuttavia, la specialità di questo rapporto, che altera profondamente la struttura del sinallagma contrattuale tipico della species, vincolando il locator a rispondere, verso i clienti, del perimento e del danneggiamento delle cose da costoro inductae 207. E, tuttavia, ritengo che questa alterazione possa trovare una sua coerenza sistematica nello schema negoziale della locatio rei. Un’attenta ponderazione delle corrispettive obbligazioni delle parti, lo abbiamo potuto apprezzare nei paragrafi che precedono del presente capitolo 208, suggerisce, infatti, che nell’obbligazione del locatore di mettere a disposizione del conductor la cosa convenuta sia implicita l’idoneità della stessa all’uso al quale è stata destinata: se un immobile deputato ad essere goduto come privata abitazione non possa essere abitato, il conduttore o non dovrà il canone, o, se questa circostanza si associ alla culpa del locator, potrà pretendere di essere da costui risarcito; secondo una corrispondente impostazione con riguardo a edifici destinati a custodire merci l’idoneità all’uso dovrà essere valutata anche in base alla loro capacità di preservarle integre 209 ed il risarcimento delle ragioni del conduttore coprire anche il valore delle res che siano andate perdute. L’horrearius, da questo punto di vista, avrebbe dovuto rispondere delle cose dei clienti, in primo luogo, in quanto il verificarsi dell’evento pregiudizievole, di per sé, denotava la non efficienza dell’immobile al suo scopo, secondariamente, per aver disatteso a una propria funzione economica socialmente riconosciuta 210. 206  Già il risalente J. Vàzny, ‘Custodia’, in AUPA, 12, 1926, 132 nt. 36, si esprimeva in tal senso; C. Alzon, Problèmes, cit., 297 ss., riconosceva in essa lo schema negoziale tipico della locatio rei, ma optava per la definizione di “contratto misto”; più sicure, sul punto, le vedute di A. Wacke, Rechtsfragen, cit., 307 ss. e C.A. Cannata, Su alcuni problemi, cit., 237 ss., ove l’Autore si spinge a definire la locatio horrei sub-species della categoria generale della locatio rei; cfr., ancora, di recente, E. Domínguez López-B. Malavé Osuna, La responsabilidad del horrearius por la mercancías depositadas en los almacenes, in La responsabilidad civil, cit., 307 ss.; A. Petrucci, Per una storia, cit., 239 ss.; P.J. Du Plessis, Letting, cit., 150-153 e 173 ss.; R. Marini, La custodia, cit., 168 ss. e, da ultimo, A. Cassarino, Ricerche, cit., 16. 207  Cfr. J.J. Aubert, Law, cit., 624 s.; A. Petrucci, Per una storia, cit., 240; E. Domínguez López-B. Malavé Osuna, La responsabilidad, cit., 310 ss., per la peculiarità di questo vincolo nel contesto di una locazione di aedes, già, J. Vàzny, ‘Custodia’, cit., 132 nt. 36 e C.A. Cannata, Su alcuni problemi, cit., 239 s., da utima, R. Marini, La custodia, cit., 170 s. 208  Si veda supra §§. 1-2. 209  C.A. Cannata, Su alcuni problemi, cit., 240 e R. Marini, La custodia, cit., 171. 210  Cfr. R. Marini, La custodia, cit., 157 e 171; A. Petrucci, Per una storia, cit., 240 ed E. Domínguez López-B. Malavé Osuna, La responsabilidad, cit., 309; l’intima relazione tra le peculiari caratteristiche dell’obbligazione assunta dal gestore dei magazzini e la posizione

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Questa peculiare forma di responsabilità, dai più considerata oggettiva , incontrava come unico limite la forza maggiore e il furto con scasso, in tal senso si esprime un rescritto di età severiana 212:  211

C. 4.65.1: Dominus horreorum periculum vis maioris vel effracturam latronum conductori praestare non cogitur. His �������������������������������������������� cessantibus si quid extrinsecus ex depositis rebus inlaesis horreis perierit, damnum depositarum rerum sarciri debet.

Il dettato della costituzione di Caracalla conferma l’idea che il proprietario dei magazzini, qui pure amministratore dell’immobile, non debba rispondere, in base all’obbligo assunto di custodiam praestare, dei pregiudizi connessi alla lesione dei magazzini provocata da una causa esterna non resistibile o da un’attività di scasso. Positivizzando il contenuto della disposizione, anzittutto, l’horrearius sarebbe stato responsabile, oltreché per gli ammanchi causati agli utenti dall’inadeguatezza dei locali o delle cose strumentali approntate, per tutti i furti commessi nel magazzino e per i danni arrecati alle cose dei clienti dal personale dipendente, da altri utenti o da chiunque fosse stato, in ogni altro modo, dall’imprenditore o dai suoi preposti autorizzato ad accedere all’immobile, infine, poi, degli effetti di ogni vis estranea al concetto di vis maior 213. Gli agenti dannosi del primo gruppo, infatti, sarebbero stati di per sé antitetici alla nozione di causa esterna (quid extrinsecus) entro cui venivano ricondotte le ipotesi di esonero palesate nell’incipit e, pertanto, neppure contemplati dalla normativa imperiale, in quanto evidentemente gravanti sul gestore, in ragione socio-economica da costui rivestita è messa in luce da R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 374. Questo Autore magistralmente chiarisce: «la posizione dei due locatori – (gestore e proprietario) è distinta in base – alla funzione economica e sociale tipica di fornire custodia e sorveglianza per le cose altrui in spazi attrezzati», che solo l’horrearius ricopre; da ultimo, in tema cfr. J.J. Aubert, Law, cit., 625. 211  Per questo filone interpretativo rinvio alla rassegna di opinioni contenuta in A. Cassarino, Ricerche, cit., 17 nt. 32; contra C. Alzon, Problemès, cit., 41 ss., seguito da R. Robaye, L’obligation de garde: essai sur la responsabilité contractuelle en droit romain, Bruxelles, 1987, 125 ss. 212  Recentissimamente, A. Cassarino, Ricerche, cit., 18 e J.J. Aubert, Law, cit., 631, il quale ultimo, in rapporto al testo, ha posto in evidenza come le regole della responsabilità e della manleva del gestore non sarebbero minimamente mutate se egli avesse deciso di utilizzare uno schiavo-manager per l’esercizio della sua attività. 213  F.B.J. Wubbe, Zur Haftung, cit., 513; già questo Autore osservava come il verbo perire fosse idoneo ad indicare sia la sottrazione che ogni forma di danneggiamento o distruzione. Per quanto concerne la messa a fuoco del perimetro di circostanze che, in base alla menzionata costituzione, paiono implicare l’esclusione della responsabilità dell’horrearius, cfr. C.A. Cannata, Su alcuni problemi, cit., 255; E. Domínguez López-B. Malavé Osuna, La responsabilidad, cit., 310 ss.; A. Petrucci, Per una storia, cit., 241; R. Marini, La custodia, cit., 167 nt. 29 e, da ultimo, A. Cassarino, Ricerche, cit., 18, nt. 35.

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della loro riferibilità alla condotta di servi facenti parte dell’instrumentum aziendale o degli inducti sciente domino; il secondo nucleo, invece, doveva comprendere ogni vis non esonerante, perché fronteggiabile dall’imprenditore in ossequio alla propria funzione socialmente tipizzata di fornitore di spazi di deposito 214. Anche rispetto ai casi di effractio, per cui le fonti esonerano l’horrearius dalla responsabilità per custodia, si prevedeva, tuttavia, che i servi di lui potessero, per la loro conoscenza di ciò che avveniva nell’edificio, essere interrogati e, se del caso, sottoposti a tortura (cfr. Paul. 2 sent. D. 19.2.55 pr.: servi… eius cum quo contractum est propter aedificiorum notitiam in quaestionem peti possunt). La medesima regola è contenuta in un rescritto del 222 d.C. dell’imperatore Alessandro Severo (C. 4.65.4), del quale qui interessa la parte iniziale 215: Et divi Pii et Antonini litteris certa forma est, ut domini horreorum effractorum eiusmodi querellas deferentibus custodes exhibere necesse habeant nec ultra periculo subiecti sint…

Da un lato, lo stesso conferma implicitamente l’esonero dell’horrearius dalla responsabilità per custodia in casi di effrazione, dall’altro, lo obbliga all’esibizione dei custodes, al fine di sottoporli ad interrogatorio e rivelarne eventuali complicità 216. L’autonomia contrattuale consentiva, in ogni caso, alle parti di modellare a loro piacimento questo peculiare regime responsabilistico. In un primo senso, dalla costituzione severiana apprendiamo che l’horrearius avrebbe potuto estendere la propria garanzia anche ai casi di effrazione e ai danni cagionati ai clienti da cause di forza maggiore 217, come si apprezza dal seguito, che qui riporto:

Esempi di vis maior potrebbero essere: l’incendio, il crollo degli horrea a causa di un terremoto, ma anche fatti di terzi irresistibili; alla stessa nozione, pertanto, dovrebbero ricondursi, come si può intuire dall’apertura del passo, i furti con scasso, in quanto eventi non prevenibili dal dominus (cfr. sul punto, E. Domínguez López-B. Malavé Osuna, La responsabilidad, cit., 316 ss.; P.J. Du Plessis, Letting, cit., 41 e 44): non però quelli compiuti da soggetti che lui stesso ha posto al servizio dell’attività o ha indotto volontariamente nei locali d’impresa, perché non assimilabili al concetto di causa esterna ed anzi intimamente connessi a sue sciagurate scelte imprenditoriali (si veda C.A. Cannata, Su alcuni problemi, cit., 256 ss. e F.B.J. Wubbe, Zur Haftung, cit., 513 ss.). 215  A. Petrucci, Per una storia, cit., 241 e A. Cassarino, Ricerche, cit., 18 nt. 35. 216  Da ultimo, sul passo si veda A. Cassarino, Ricerche, cit., 18 nt. 35 e recentemente anche J.J. Aubert, Law, cit., 631. 217  Cfr. A. Petrucci, Per una storia, cit., 241; R. Marini, La custodia, cit., 167 nt. 29, nonché A. Cassarino, Ricerche, cit., 18 nt. 35. 214 

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…2. Sed qui domini horreorum nominatim etiam custodiam repromiserunt, fidem exhibere debent.

In una direzione contraria, invece, l’esercente avrebbe potuto definire in senso restrittivo, limitare o escludere la propria responsabilità per custodia. È quanto, anzitutto, emerge da alcune clausole riportate nella lex horreorum di CIL VI 33747, probabilmente, relativa ai grandi horrea imperiali siti vicino al Tevere, a metà strada tra le pendici dell’Aventino e del Testaccio 218: …Lex horreorum 1.[quisquis in annum futurum retinere volet horreum armarium aliu]dve quid, ante Idus Dec(embres) pensione soluta renuntiet. 2.qui non / [renuntiaverit, si volet retinere et cum horreario aliter pro i]nsequente anno non transegerit, tanti habebit, quanti eius gener(is) / [horreum armariumve eo anno ibi locari solebit, si modo ali locatum n]on erit. 3.quisquis in his horreis conductum habet, elocandi et / [substituendi ius non habebit. 4. --- cu]stodia non praestabitur. 5.quae in his horreis invecta inlata / [erunt, pignori erunt horreario, si quis pro pensionib]us satis ei [non fece]rit. 6.quisquis in his horreis conduct(um) habet et sua / [---] fuer(it) venia. 7.[qui]squis in his horreis conduct(um) habet, pensione soluta chirogr(apho) / [liberabitur ---. 8.quisquis habens conductu]m horreum su[a ibi] reliquer(it) et custodi non adsignaver(it), horrearius sine culpa erit 219 .

Dopo due clausole dirette a regolare il diritto del conductor di conservare negli anni gli spazi locati ad immutate o nuove condizioni 220, la terza, la quarta e l’ultima lex sono tese a circoscrivere il perimetro della responsabilità del gestore del magazzino per le cose in esso introdotte dai clienti. A me sembra, intanto, che il divieto di sublocazione e sostituzione enunciato dalla terza clausola trovi specificazione nell’ultima, rientrando nel suo Cfr. voci Horrea Caesaris e Horrea Galbana, in LTUR, III, 39 ss., nonché S. Ball Platner-T. Ashby, A Topographical Dictionary, cit., 260 s. 219  Qui da CIL VI 33747 = FIRA III 145a; per cui, invece, cfr. V. Arangio-Ruiz, Negotia, in FIRA, III2, Firenze, 1968, 455 s. 220  E su di esse basti qui il rinvio alla più recente bibliografia: A. Petrucci, Poteri, cit., 27 s.; A. Cassarino, Ricerche, cit., 20 e, da ultimo, me stesso in A. Grillone, La gestione, cit., 187 ss. 218 

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disposto ed esonerando l’horrearius da ogni responsabilità per le res degli illegittimi sublocatori, le quali, pur parte del novero di quelle introdotte nell’horreum, non erano tuttavia state formalmente prese in carico dai servi custodi dello stabile 221. Il custodia non praestabitur della quarta, poi, mi pare debba, sulla scorta della ricostruzione a suo tempo proposta dal Mitteis 222 e in ossequio all’argomentazione del Cannata 223, esser integrato da un riferimento a cose determinate, che l’horrearius, esplicitamente, avesse eccettuate dall’alveo della propria custodia 224. L’horrearius, pertanto, avrebbe potuto dichiarare di non ricevere sotto custodia beni provenienti da determinate persone o condotti nell’horreum senza il rispetto di determinate formalità, oppure sollevarsi da responsabilità per determinate merci, che, per il loro valore o la peculiare natura, mal si conciliavano con le caratteristiche tecniche della struttura di stoccaggio messa a disposizione degli utenti 225. È quanto del resto vale a confermare anche: Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 19.2.60.6: Locator horrei propositum habuit se aurum argentum margaritam non recipere suo periculo: deinde cum sciret has res inferri, passus est. Proinde eum futurum tibi obligatum dixi, ac si propositum fuit, remissum videtur. Sul contenuto di queste clausole e sul loro legame, da ultimi, cfr. J.J. Aubert, Law, cit., 624 s. e, più diffusamente, R. Marini, La custodia, cit., 177 s. e A. Cassarino, Ricerche, cit., 27. 222  Cfr. L. Mitteis, Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde, II.1, Leipzig-Berlin, 1912, 259 nt. 3. 223  C.A. Cannata, Su alcuni problemi, cit., 246 s., seguita più di recente da A. Petrucci, Per una storia, cit., 243 s.; Id., Poteri, cit., 28 s. e da E. Chevreau, La pratique du gage dans les Tabulae Pompeianae Sulpiciorum, in Festschrift für Rolf Knütel, Heidelberg, 2009, 191. 224  Recentemente, si è anche argomentato nel senso di una lettura congiunta di tutte le tre clausole di esonero (R. Marini, La custodia, cit., 172 ss.), accogliendo Mommsen (invectorum in haec horrea custodia non praestabitur), come se quel haec dovesse essere riferito agli horrea sublocati della linea precedente. La tesi, tuttavia, non mi persuade. In questo caso, infatti, la quarta e l’ultima clausola avrebbero un effetto in buona sostanza identico, l’ultima anticipando la quarta, poiché, all’evidenza, in caso di sublocazione illegittima il custode non avrebbe mai potuto prendere in consegna i beni del subconduttore (cfr., sul punto la recentissima lettura data da A. Cassarino, Ricerche, cit., 27, ntt. 54 s.) e, pertanto, in base al più assorbente dettato della disposizione finale, non avrebbe potuto giammai vincolare l’imprenditore, che, di conseguenza, inutilmente si sarebbe esonerato esplicitamente dalla custodia di questi beni con la quarta lex. 225  All’evidenza, l’horrearius avrebbe pure potuto dichiarare di ricevere ed assumere sotto custodia solo determinate tipologie di beni; si ricordino, in proposito, le riflessioni fatte (supra Intr., §. 3) sull’esistenza e la diffusione di horrea specializzati nella custodia di un unico tipo di merci. 226  T. Mommsen, Digesta Iustiniani Augusti, E. M., I, 1868, 573 nt. 3. 221 

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Il locatore di un magazzino aveva affisso fuori dal locale un avviso con la clausola che non avrebbe accettato oro, argento, perle a suo rischio, e che, pertanto, non avrebbe risposto del loro furto o perimento, tuttavia, a conoscenza del fatto che taluni fra i clienti li avevano introdotti lo aveva tollerato. Labeone aveva dato il responso che anche per queste cose il locator dovesse restare vincolato verso i clienti, poiché il suo comportamento concreto faceva presumere che avesse inteso revocare la lex affissa. Per quanto qui interessa il passo conferma che la responsabilità per custodia potesse essere per determinati beni esclusa dall’horrearius o dallo stesso limitata ad alcune categorie di res con l’apposizione di una specifica clausola alla lex horreorum 227. L’utilizzo dell’espressione locator horrei propositum habuit, nel passo da ultimo citato, che ha la funzione di palesare come la forza vincolante di questi complessi di clausole contrattuali si reggesse sulla loro immediata conoscibilità da parte dei clienti mercé l’affissione degli stessi nei pressi della sede d’impresa, nonché l’attento raffronto con i contenuti delle leges horreorum a noi pervenute, impone di porsi problematicamente di fronte al rapporto, che doveva in concreto sussistere tra questa forma di manifestazione della volontà negoziale e le intenzioni che, anche, potevano essere esplicitate mediante praepositio 228. Constatato che le affissioni, oltre l’analoCfr. A. Petrucci, Per una storia, cit., 244 s.; Id., Poteri, cit., 29 e A. Cassarino, Ricerche, cit., 23 ss. Non mi pare, invece, si possa concordare con la lettura suggerita di recente da R. Marini, La custodia, cit., 174 s., la quale propone di interpretare il passo nel senso di una resistenza del contenuto del contratto tipico e, quindi, della connessa obbligazione di custodiam praestare all’autonomia negoziale. Per questa Autrice, Labeone avrebbe tentato di togliere cogenza a siffatte clausole di esonero: quando non avessero voluto essere vincolati per i beni dei clienti, gli horrearii avrebbero dovuto non recipere; infatti, una volta presi in consegna nulla li avrebbe potuti esentare. L’argomento è chiaro e, tuttavia, ha come presupposto un assunto indimostrabile, ovvero che tutti i beni indotti negli horrea fossero presentati, per essere registrati, all’horrearius o ai suoi institori, ma, se, come parrebbe anche dal tenore di CIL VI 33747, era certo molto frequente che venissero formalmente presi in consegna dai custodi, non è detto che di questa decisione fosse sempre informato il dominus e, se, in assenza di tale esplicita clausola di esonero, egli sarebbe comunque rimasto vincolato per le res accettate da costoro (sul modello di quanto risulta in tema di receptum nautarum da Ulp. 14. ad ed. D. 4.9.1.3), una volta espressa e pubblicizzata nelle forme debite, essa sarebbe senz’altro valsa a tenerlo esente (conduce a questa soluzione, del resto, pure il raffronto con quanto stabilito in materia di praepositio, cfr. Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.11.5), salva la propria conoscenza diretta del fatto (e, qui, si consideri, in proposito, l’analoga regola in tema praepositio, espressa in Paul. 1 decret. D. 14.5.8, su cui supra Cap. I, §. 2). 228  Infatti, anche quelle più scarne e meno complete, come CIL VI 33860 (In his horreis privatis [---] / Q(uinti) [T]ine[i] Sacerdotis CLM[---] / [---] loc[antur] / [h]orrea apothecae compendiaria armaria / intercolumnia et loca armaris ex hac / die et ex K(alendis) Iulii[s) e CIL VI 37795 (In his horr]eis Umm[idianis] / [singulis an]nis locant[ur horrea] / [apothecae 227 

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ga forma pubblicitaria 229, condividevano un nucleo contenutistico comune, consistente in clausole negoziali immediatamente integrative dei contratti posti in essere nell’alveo della gestione immobiliare, si sarebbe tentati di concludere, che, nella gestione di spazi di stoccaggio, le leges horreorum fossero strumento pienamente sostitutivo della praepositio. E tuttavia, allo stato attuale delle nostre conoscenze, per non cadere in facili mistificazioni, mi pare che si possano fare tre ordini di ipotesi sul concreto atteggiarsi di questo peculiare rapporto: a) la prima, che il complesso reticolo di condizioni generali del contratto stabilite unilateralmente, mediante l’affissione di apposite leges horreorum, fosse imposto ai clienti nel contesto della conduzione di magazzini pubblici annonari, ma non presso gli esercenti privati, restando per questi la praepositionis proscriptio l’unica forma di affissione in grado di vincolare i contraenti ed esonerare l’imprenditore da quanto contratto dai propri sottoposti al di fuori dei confini da essa tracciati o contro le clausole nella stessa esplicitate. Una simile ipotesi potrebbe essere suffragata dal fatto che due delle leges horreorum a noi pervenute sono relative a magazzini pubblici (CIL VI 33747 e CIL VI 37795), mentre la terza (CIL VI 33860), relativa ad un magazzino privato 230, ha conservato un

comp]endiaria ar[maria inter]/[columnia et loc]a ex hac d[ie et ex K(alendis) Iul(iis)]. / [Quae in his horreis i]nvecta inla[ta importata] / [erunt horreario pig]nori erunt d[onec satis ei] / [factum non sit aut pensi]o solvatur. S[i quid in his] / [horreis conductor in]aedificaverit [tollendi ius] / [non habebit nisi dat]a ei refigendi po[testas fuerit]), trovano una significativa convergenza contenutistica in CIL IV 138 (Insula Arriana | Polliana Cn. Allei Nigidi Mai. | Locantur ex k[---] Iulis primis tabernae | cum pergulis suis et c[e]nacula | equestria et domus. Conductor | convenito Primum Cn. Allei Nigidi Mai ser[---]). Ciò spinge senza dubbio ad interrogarsi sul legame e il rapporto tra i due strumenti; si noti, in particolare, l’estrema vicinanza dell’incipit dei tre testi, che, in via preliminare, si perita nel descrivere gli spazi offerti in conduzione al pubblico degli utenti. 229  L’evidente analogia tra i due istituti emerge tra le righe anche in A. Petrucci, Per una storia, cit., 245, l’Autore, senza difficoltà, ammette che l’utilizzo in D. 19.2.60.6 del termine propositum deve far presupporre adempiuti i requisiti di pubblicità cui Ulpiano fa riferimento in D. 14.3.11.2-4; contra, con un’impostazione che, qualora fosse accolta, vanificherebbe in toto la seconda parte del passo e la rilevanza della condotta contra factum proprium dalla stessa descritta, F.M. De Robertis, La responsabilità, cit., 903 nt. 109, il quale ritiene che il passo esemplifichi (e lo dimostrerebbe il termine propositum, per l’Autore indicante una volizione rimasta a livello di mero proponimento e non tradotta in misure concrete atte ad escludere la responsabilità del gestore della struttura) un caso di mancata osservanza delle formalità pubblicitarie idonee a rendere efficace la clausola di esonero verso i terzi. 230  Cfr. voce Horrea Q. Tinei Sacerdotis Clementis, in LTUR, III, 48; C. Holleran, Shopping, cit., 84; R. Robaye, L’obligation, cit., 107 ntt. 33 s. e C.A. Cannata, Su alcuni problemi, cit., 237 nt. 5.

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frammento troppo ridotto dell’intestazione per arguirne dal contenuto l’esatto ruolo ed il reale valore nel contesto dell’esercizio dell’impresa presso la quale era affissa. E, nonostante ciò, mi pare questa sia, tra tutte, la ricostruzione meno verosimile, poiché, come abbiamo a tempo messo in luce, il graduale passaggio delle attività di stoccaggio dall’esercizio privato al pubblico ne aveva lasciata in buona sostanza immutata l’articolazione organizzativa, rendendo quanto meno ardito ritenere che, se leges horreorum erano affisse per dettare condizioni negoziali ai contraenti nel contesto della gestione di magazzini pubblici, non lo fossero, invece, presso gli operatori privati del settore 231. b) La seconda ipotesi si sostanzia nella possibilità che nell’ambito delle imprese esercitate tramite institor uno dei due atti abbia finito per assorbire il contenuto dell’altro: che, cioè, di fronte ad una proscriptio contenente sia condizioni generali del contratto, sia limiti alle prerogative negoziali dell’institor, non si dovesse dare luogo ad alcuna ulteriore affissione; in quest’ottica, potrebbe ipotizzarsi anche l’inverso, che la lex affissa al magazzino potesse contenere anche disposizioni relative ai poteri negoziali degli institori, salvo il rilievo di segno contrario, ma non per questo dirimente, che nessun esemplare di leges horreorum rechi traccia di disposizioni relative agli institori. c) Terza, ultima e forse più stimolante ipotesi è che potesse ricorrere un doppio ordine di affissioni, di contenuto distinto; una parte dei contenuti normali della proscriptio, secondo questa impostazione, sarebbe confluita all’interno del testo dell’avviso di locazione dei magazzini. In tal caso, allora, una prima indicazione, la proscriptio, avrebbe dovuto fissare le mansioni dell’institore, gli specifici suoi poteri negoziali e/o le limitazioni alla sua capacità di contrarre vincolando il titolare della potestà; una seconda, la lex horreorum, invece, avrebbe avuto lo scopo di pubblicizzare le condizioni generali dei contratti di locazione delle cellae del magazzino, ovvero una serie di clausole immediatamente integrative dei contratti stipulati con l’horrearius attraverso suoi preposti. Ad un ulteriore profilo di divergenza della disciplina relativa alla locatio horrei da quella comune della species rei ci introduce la quinta lex di CIL VI 33747, della cui ricostruzione non si è dubitato in dottrina 232. La clausola prevede la costituzione in pegno, a garanzia della soddisfazione del canone, delle cose introdotte dagli utenti nell’horreum 233. La prassi, come si è det231  Ancora cfr. voce Horrea Q. Tinei Sacerdotis Clementis, in LTUR, III, 48 e si veda J.J. Aubert, Law, cit., 626. 232  Si veda, sul punto, R. Marini, La custodia, cit., 164, nt. 19. 233  Da ultimi, si vedano A. Petrucci, Poteri, cit., 28; A. Cassarino, Ricerche, cit., 20

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to nel corso del precedente paragrafo, è attestata in rapporto alla locazione di qualsiasi tipologia di immobile urbano; e, tuttavia, nell’ambito della locazione dei magazzini si deve tener conto di una fonte che testimonia il particolare grado della garanzia reale del locator sugli invecta et illata convenuti in pegno dai clienti. Si consideri, infatti, Ulp. 73 ad ed. D. 20.4.6.2: Tantundem dicetur, et si merces horreorum vel areae vel vecturae iumentorum debetur: nam et hic potior erit.

Nel frammento che precede nell’ordine espositivo dei Digesta, Ulp. 3 disp. D. 20.4.5 234, il pegno successivo veniva preferito al precedente, quando la somma, la cui restituzione era volto a garantire, fosse stata spesa in rem ipsam conservandam, cioè per conservare, attrezzare o riparare le cose oggetto di garanzia, poiché solo grazie a quel denaro si era potuta assicurare la salvezza delle stesse 235. Lo stesso privilegio, in base al §. 2 del seguente D. 20.4.6, si osservava, quando fosse dovuta la mercede per i magazzini o per un’area (su cui conservare delle merci) o per il trasporto con giumenti 236. Il criterio di equità sotteso ai due testi è analogo, ma qui il denaro che è speso per la salvezza delle merci è quello convenuto come canone di locazione. Il passo ulpianeo ad edictum, pertanto, come anticipato, attesta un’ulteriore specificità dell’attività negoziale intrattenuta dagli horrearii, palesando la posizione preferenziale dell’horrearius nella soddisfazione del proprio credito alle mercedi in sede di esecuzione della garanzia pignoratizia. La ratio sottesa al privilegio è chiara: l’utilità che è data in corrispettivo al conduttore, cioè il godimento dell’immobile, assume la medesima finalità delle somme mutuate in rem ipsam conservandam, è cioè funzionale alla conservazione della cosa, pertanto, la convenzione di pegno su tali res inductae meriterà un identico titolo di preferenza. Nel §. 2, infatti, si legge: si… debetur, scompare ogni riferimento all’avvenuto prestito, indicato nella porzione di testo che precede dall’uso del verbo credere, e a quod impensum est, vi si sostituisce, con immutato valore, la funzione del locus offerto s.; J.J. Aubert, Law, cit., 624 e 626; poi, P.J. Du Plessis, Letting, cit., 177, ma pure cfr., in precedenza, M. Serrano Vicente, Custodiam, cit., 129; R. Mentxaka, La pigneración, cit., 104 e B.W. Frier, Landlords, cit., 107, nt. 119. 234  Interdum posterior potior est priori, ut puta si in rem ipsam conservandam impensum est quod sequens credidit: veluti si navis fuit obligata et ad armandam eam vel reficiendam ego credidero. 235  Cfr. L. Bernad Segarra, La pluralidad hipotecaria. Excepciones al principio de prioridad temporal en Derecho Romano y en el Derecho Civil español, Madrid, 2011, 73. 236  Sul significato del termine area, rinvio supra §. 1.4, nt. 161 e pure si veda l’opinione recentissima di A. Cassarino, Ricerche, cit., 21 nt. 39.

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dal creditore per lo stoccaggio, che è precipuamente quella di garantire la salvezza delle res 237.

3. La particolare responsabilità ex recepto dell’albergatore Gli utenti delle strutture ricettive alberghiere, in base ad un editto del pretore del II secolo a.C. 238, potevano chiedere ai gestori di assumere un particolare tipo di responsabilità per la restituzione delle res introdotte all’interno dei locali d’impresa e ricevute dal titolare della negotiatio, dai suoi institori o dal personale addetto alla sorveglianza dei caenacula. Oggetto, da tempo risalente, di un consistente lavoro di studio da parte della romanistica, essa va sotto il nome di responsabilità ex recepto 239. L’elaborazione dottrinaria sul tema è oggi amplissima e consolidata; per questo, più ancora che per la natura, almeno per l’arco temporale che riguarda questo studio, convenzionale dell’obbligazione 240, sarà sufficiente, in questa sede, sempli237  Non condivisibile, mi pare, la lettura alternativa del passo suggerita da R. Mentxaka, La pigneración, cit., 140 s., che, nel tentativo di conciliare l’indicazione dell’incipit, dove è presente il riferimento ad una pecunia impiegata per la salvezza della res pignorata, con la fattispecie di cui al §. 2, finiva per introdurre nel casus, del tutto arbitrariamente, un terzo, finanziatore del denaro dovuto come canone, il cui credito sarebbe stato privilegiato (nello stesso senso, S. Tondo, Convalida del pegno e concorso di pegni successivi, Milano, 1959, 31 nt. 20 e P. Frezza, Le garanzie, cit., 262). Che senso avrebbe, mi domando, privilegiare il mutuante della mercede, se non fosse stato privilegiato colui che, in attesa di una corrispettiva remunarazione della propria prestazione, in luogo di tali somme, avesse messo direttamente a disposizione i locali deputati alla conservazione delle merci. Inoltre, ancora, mi pare, il valore del paragrafo in commento si perderebbe, riducendosi ad una mera ulteriore esemplificazione delle fattispecie di cui al precedente segmento, a fronte della palese, perfetta sovrapponibilità giuridica tra le somme prestate per il trasporto con giumenti e via mare, di quelle mutuate per far salve le cose o per il loro deposito all’interno di magazzini, §. 1: Item si quis in merces sibi obligatas crediderit, vel ut salvae fiant vel ut naulum exsolvatur. 238  Editto che, secondo la più recente dottrina, prima aveva preso in considerazione i soli armatori, poi, anche gli esercenti di una caupona o di uno stabulum, cfr. A. Petrucci, Per una storia, cit., 120 e, per un riepilogo delle principali precendenti opinioni in campo, cfr. S. Kordasiewicz, Receptum nautarum and «Custodiam praestare» revisited, in RIDA, 58, 2011, 194-197. 239  Cfr. i magistrali studi di V. Arangio-Ruiz, Responsabilità, cit., 103 ss.; C.A. Cannata, Ricerche sulla responsabilità contrattuale in diritto romano, 1, Milano, 1966, 72 ss. e 108 ss.; A. Földi, Caupones, cit., 124 ss.; A. Petrucci, Per una storia, cit., 119 ss., ora anche in Id., Manuale, cit., 301, poi ancora, si veda S. Kordasiewicz, Receptum, cit., 103 ss. 240  Per tutti, A. Petrucci, Per una storia, cit., 141 s.; è probabile che da un’originaria convenzione espressa e formale, accompagnata da un preciso rituale, del quale è traccia il gesto,

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cemente ripercorrere le linee essenziali del suo regime giuridico. Quando il gestore dell’albergo o, per suo conto, gli institori e gli ausiliari con funzioni manageriali 241 si fossero impegnati a salvaguardare le cose 242 dei clienti, il pretore avrebbe difeso questi ultimi, mediante la concessione di un’actio in factum (actio de recepto) 243, che avrebbe integrato la tutela contrattuale già prevista dallo ius civile. Si trattava di una disciplina, per ‘cheirémbolon’, di cui si rammenta ancora Ulpiano in D. 4.9.1.3: Et sunt quidam in navibus, qui custodiae gratia navibus praeponuntur, ut ναυφύλακες et diaetarii. Si quis igitur ex his receperit, puto in exercitorem dandam actionem, quia is, qui eos huiusmodi officio praeponit, committi eis permittit, quamquam ipse navicularius vel magister id faciat, quod χειρέμβολον appellant. Sed et si hoc non exercet, tamen de recepto navicularius tenebitur; si fosse passati a forme di assunzione tacita della garanzia, mediante comportamenti concludenti, come il carico delle merci sulla nave o la consegna dei bagagli al custode dell’albergo, e, tuttavia, pure in questa fase storica, il titolare avrebbe potuto rifiutarne l’assunzione (M. Salazar Revuelta, Responsables “sine culpa” en el contrato de transporte y alojamiento en la Roma de la época comercial, in RIDA, 55, 2008, 449 ss.), come risulta dalla laudatio contenuta in D. 4.9.1.1: …neque quisquam putet graviter hoc adversus eos constitutum: nam est in ipsorum arbitrio, ne quem recipiant, et nisi hoc esset statutum, materia daretur cum furibus adversus eos quos recipiunt coeundi, cum ne nunc quidem abstineant huiusmodi fraudibus. Il testo palesa che, in ogni caso, la scelta di assumere questa speciale responsabilità per le cose dei clienti, anche se non più vincolata ad una necessaria ed esplicita procedura formale, fosse ancora, tra II e III secolo d.C., rimessa all’arbitrio dell’esercente, che poteva liberamente comunicare al cliente di non volerle ricevere, lasciando a costui l’unica alternativa di non stipulare il contratto di locazione (S. Kordasiewicz, Receptum, cit., 203). Su questi aspetti, legati alla natura convenzionale del sorgere dell’obbligazione ex recepto, da ultimo, anche A. Cassarino, Ricerche, cit., 53 ss. e 65 ss. 241  La responsabilità ex recepto, infatti, come già accennato, non può mai essere assunta da ausiliari di umili mansioni: cucinieri, spazzini e portinai, secondo quanto mette in luce Ulpiano in D. 4.9.1.2-5 (cfr. supra Cap. I, §. 2, nt. 92), con l’unica eccezione, pare doversi intendere, degli addetti al facchinaggio o degli incaricati alla sorveglianza dei caenacula, a somiglianza di qui custodiae gratia navibus praeponuntur nell’impresa di navigazione (cfr. R. Zimmermann, The Law, cit., 517, nt. 54 e M. Salazar Revuelta, Responsables, cit., 460 ss.). 242  Per quanto nello specifico riguarda l’attività alberghiera, l’obbligo di salvaguardia e la connessa responsabilità accessoria si estendono ai bagagli, agli effetti personali dei viaggiatori, nonché alle eventuali merci trasportate; indicazioni abbastanza precise possono trarsi da un testo relativo al contesto del trasporto marittimo, cfr. Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1.6: Ait praetor: “Quod cuiusque cuius salvum fore receperint”: hoc est quamcumque rem sive mercem receperint. Inde apud Vivianum relatum est, ad eas quoque res hoc edictum pertinere, quae mercibus accederent, veluti vestimenta quibus in navibus uterentur et cetera quae ad cottidianum usum habemus, su cui rimando ad A. Petrucci, Per una storia, cit., 125 s. e, da ultimo, A. Cassarino, Ricerche, cit., 59 nt. 53. 243  Come risulta da Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1 pr.: Ait praetor: “Nautae caupones stabularii quod cuiusque salvum fore receperint nisi restituent, in eos iudicium dabo” e dalla prima parte di Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.3.1: Ait praetor: “Nisi restituent, in eos iudicium dabo”. Ex hoc edicto in factum actio proficiscitur. Cfr. M. Salazar Revuelta, Responsables, cit., 445 ss. e S. Kordasiewicz, Receptum, cit., 205.

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quanto almeno originariamente rimessa alla volontà delle parti, di grande favore verso i clienti di questi prestatori di servizi, che comportava un significativo aggravio della responsabilità nascente dal sottostante rapporto contrattuale, vincolando l’esercente al risarcimento dell’intero valore della res sulla base del fatto obbiettivo della mancata restituzione. Criterio di imputazione del danno, questo, di cui, a lungo, si è discussa la riducibilità alla moderna categoria della responsabilità oggettiva 244; e, pur nel dubbio circa l’utilità pratica di applicare categorie moderne nell’esplicazione del diritto privato romano, preme qui di porre in luce come siano proprio le parole adoperate dall’editto, e a noi tramandate da Ulpiano, a delineare i peculiari contorni di questa responsabilità senza riferimento alcuno alla categoria della culpa: Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1 pr.: Ait praetor: “Nautae caupones stabularii quod cuiusque salvum fore receperint nisi restituent, in eos iudicium dabo”.

L’idea che quella ex recepto si configurasse come una responsabilità sine culpa (o, comunque, sine culpa diretta 245), ancorata ad un parametro oggettivo e superabile solo in ipotesi di vis maior e damnum fatale 246, risulta J. Vàzny, ‘Custodia’, cit., 126; M. Salazar Revuelta, Responsables, cit., 447; P. CeraTabernae Deversoriae, cit., 470 ss.; S. Kordasiewicz, Receptum, cit., 205; A. Petrucci, Manuale, cit., 301 e A. Cassarino, Ricerche, cit., 61 s., recentemente, di responsabilità oggettiva assoluta ha parlato C. Pelloso, Il deterioramento e il perimento ‘ante traditionem’ del bene compravenduto. Rimedi consumeristici e di diritto comune, in Tutele rimediali in tema di rapporti obbligatori, a cura di L. Garofalo, Padova, 2015, 89 ss., di utilizzo atecnico della locuzione, invece, parlava R. Fercia, Criteri di responsabilità dell’exercitor. Modelli culturali dell’attribuzione di rischio e regime della nossalità nelle azioni penali in factum contra nautas, caupones et stabularios, Torino, 2002, 1 s. nt. 1, 173 e 186 ss., indicando il termine, a suo avviso, per lo più ipotesi di responsabilità indiretta per fatto altrui; decisamente contrario all’utilizzo di tale terminologia pare F.M. De Robertis, La responsabilità, cit., 1006 ss.; nonostante l’enunciazione ulpianea, in D. 4.9.3.1, qui receperit tenetur, etiam si sine culpa eius res periit vel damnum datum est, secondo l’Autore si dovrebbe intendere la responsabilità ex recepto “per colpa presunta”, infatti, le varie ipotesi di esonero contemplate dal passo, riassumono ogni possibile casus di danno imprevedibile, irresistibile, quindi non prevenibile né fronteggiabile dall’albergatore, descrivendo uno spettro di ipotesi avvicinate le une alle altre proprio per l’essere casi in cui è esclusa ogni forma di colpa diretta o indiretta dell’imprenditore: pertanto, sarebbe contraddittorio pensare che la disciplina in questione potesse esser incentrata su un criterio di responsabilità oggettiva, quando la stessa consenta al debitore di liberarsi allegando la propria assenza di colpa. 245  R. Fercia, Criteri, cit., 198. 246  Cfr., da ultimo, cfr. A. Cassarino, Ricerche, cit., 62; poi, C.A. Cannata, Ricerche, cit., 106 ss.; R. Fercia, Criteri, cit., 192 s.; M. Salazar Revuelta, Responsables, cit., 446 s.; P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 472; P.I. Carvajal, La persistencia de “recipere” en su acepcíon de “prometer” y la desvinculación entre vis maior y la exceptio labeonis en época postclasica “salvum recipere obligare” y “suscipere in fidem suam”, in Studi in Onore 244 

mi,

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con maggiore chiarezza anche da un altro passo del commentario ulpianeo all’editto del pretore: Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.3.1: Ait praetor: “Nisi restituent, in eos iudicium dabo”. Ex hoc edicto in factum actio proficiscitur. Sed an sit necessaria, videndum, quia agi civili actione ex hac causa poterit: si quidem merces intervenerit, ex locato vel conducto (…) Pomponius (…) Miratur igitur, cur honoraria actio sit inducta, cum sint civiles (…) et quia in locato conducto culpa, in deposito dolus dumtaxat praestatur, at hoc edicto omnimodo qui receperit tenetur, etiamsi sine culpa eius res periit vel damnum datum est, nisi si quid damno fatali contingit. Inde Labeo scribit, si quid naufragio aut per vim piratarum perierit, non esse iniquum exceptionem ei dari. Idem erit dicendum et si in stabulo aut in caupona vis maior contigerit.

Il testo ulpianeo qui riportato, anzitutto, ci consente di apprezzare al meglio la ratio sottostante alla concessione della tutela pretoria dell’actio de recepto: se, infatti, per la perdita o il danneggiamento delle proprie res durante il soggiorno, gli utenti potevano senza dubbio agire avverso il caupo con l’azione contrattuale, in tal caso, nondimeno, sarebbero stati onerati della prova dell’elemento soggettivo, almeno colposo, della controparte negoziale 247; la tutela ex recepto, invece, ponendo in capo all’albergatore una responsabilità fondata sulla sola circostanza obbiettiva della mancata restituzione, era idonea a perseguire un disegno di sicuro rafforzamento complessivo della posizione dei clienti nei rapporti con tali peculiari categorie di imprenditori. L’azione pretoria, dunque, in un certo senso, stringeva le maglie della tutela, estendendo la responsabilità del caupo a tutti i danni occorsi alle res introdotte dai clienti nell’albergo e ai furti delle stesse 248. Non solo, infatti, lo chiamava a rispondere per fatto proprio o dei suoi sottoposti, che non sarebbe valso a liberarlo il darli a nossa 249, ma anche per fatto di altri inducti, clienti stabili o viandanti di passaggio, tenendolo esente, invece, nei soli casi di pregiudizi scaturenti dalla condotta di bande di Antonino Metro, 1, Milano, 2009, 419 s., si veda poi anche l’impostazione in tema di F.M. De Robertis, La responsabilità, cit., 1005 ss. 247  Cfr. M. Salazar Revuelta, Responsables, cit., 447 e P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 460 s. 248  Perimento, come furto o totale distruzione della res, cui si associa il semplice danneggiamento, secondo quanto risulta da Gai. 5 ad ed. prov. D. 4.9.5.1: Quaecumque de furto diximus, eadem et de damno debent intellegi: non enim dubitari oportet, quin is, qui salvum fore recipit, non solum a furto, sed etiam a damno recipere videatur. 249  Si vedano, sul punto, A. Petrucci, Per una storia, cit., 138 e P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 479; e, ora anche, A. Cassarino, Ricerche, cit., 64; è quanto, infatti, può esser desunto sulla base di D. 4.9.3.3: Item si servus exercitoris subripuit vel damnum dedit, noxalis actio cessabit, quia ob receptum suo nomine dominus convenitur.

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di malfattori, in qualche modo equiparabili ad atti di pirateria o brigantaggio, dal caso fortuito o dalla forza maggiore 250. Che il caupo fosse tenuto per il fatto di qualsiasi suo inserviente si deduce da quanto è detto circa l’onnicomprensività del termine nauta usato in Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1.8: et factum …nautarum praestare debet; qui, infatti, deve intendersi: nautae appellantur omnes, qui navis navigandae causa in nave sint e non quella più ristretta nozione utile ad identificare coloro i quali possono vincolare ex recepto l’imprenditore, per cui nautam accipere debemus eum qui navem exercet, secondo il dettato di Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1.2; così, all’evidenza, nel mutato contesto economico, deve interpretarsi il brano nel senso che il gestore della struttura resti obbligato dalle condotte riprovevoli dell’intera componente umana dell’azienda alberghiera. E, del resto, il passo non potrebbe leggersi diversamente a fronte dell’addenda contenuta in Gai. 5 ad ed. prov. D. 4.9.2: sicut et caupo viatorum, che estende la responsabilità dell’albergatore all’illecito degli altri ospiti della struttura, confermando, a maggior ragione, l’idea che egli dovesse essere tenuto per ogni soggetto parte dell’instrumentum aziendale 251. In conclusione, la suddetta guarentigia rappresenta una di quelle fughe dal regime generale della locatio rei, giustificata dall’esigenza di realizzare al meglio, in particolari ambiti economici, gli scopi negoziali sottesi al contratto, rafforzando la posizione del contraente con l’imprenditore e tutelandone le contingenti esigenze di viaggiatore 252, come risulta dal corrispondente esplicito paragrafo della laudatio edicti di Ulpiano, D. 4.9.1.1: Maxima utilitas est huius edicti, quia necesse est plerumque eorum fidem sequi et res custodiae eorum committere (…) et nisi hoc esset statutum, materia

Cfr. M.F. Cursi, ‘Actio de recepto’ e ‘actio furti [damni] in factum adversus nautas, caupones, stabularios’. Logiche differenziali di un sistema composito, in Studi per Giovanni Nicosia, I, cit., 130 ss., in coerenza alla sua definizione di resposabilità ex recepto come “per colpa presunta”, F.M. De Robertis, La responsabilità, cit., 1007, nt. 24, suggerisce che dovessero essere idonei a mandare esente da responsabilità l’albergatore tutti e soli quegli eventi dannosi insensibili alle sue capacità di organizzazione, prevenzione, controllo e reazione. Sul piano processuale il caupo che avesse voluto far valere l’evento “estintivo” della responsabilità, la forza maggiore o damnum fatale, avrebbe potuto avvalersi di un’apposita eccezione in factum; cfr. R. Cardilli, L’obbligazione, cit., 342 s. e A. Petrucci, Per una storia, cit., 135. 251  P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 477 e A. Cassarino, Ricerche, cit., 64 s. 252  Ad essere tutelata dall’editto è precipuamente la posizione di esposizione di colui che si trovi in viaggio e per questo debba essere ospitato in una delle suddette strutture ricettive; perfino se, per avventura, questi svolgesse, in altra sede, la medesima attività, giacchè, appunto, in ogni caso, all’atto di affrontare uno spostamento, sarebbe entrato in quella sfera di debolezza negoziale che l’editto mirava a compensare (cfr. sul punto P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 473 e Paul. 13 ad ed. D. 4.9.4.1: Si nauta nautae, stabularius stabularii, caupo cauponis receperit, aeque tenebitur). 250 

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daretur cum furibus adversus eos quos recipiunt coeundi, cum ne nunc quidem abstineant huiusmodi fraudibus.

I clienti di una struttura alberghiera, proprio per l’essere in viaggio, versano, in certo senso, in una situazione di disagio: sono, da un lato, costretti a portare seco parte dei propri beni, dall’altro, esigenze di percorso gli impongono di affidarsi agli albergatori, senza troppo potersi soffermare sulle loro qualità morali. Proprio la rinomata disonestà di questi imprenditori, associata alle note difficoltà probatorie in materia di furto, nonché la loro posizione di intrinseca supremazia negoziale nei confronti dei clienti, avevano indotto il pretore a tutelare con un’actio un particolare patto, di cui la prassi negoziale aveva evidenziato la grande utilità, vincolando il titolare esercente a rispondere in base ad un parametro di valutazione puramente oggettivo: la possibilità o meno di res restituere 253.

253  Cfr., tra gli altri, P. Cerami, Tabernae Deversoriae, cit., 470 ss. Su diffusione e utilità economico-sociale della convenzione recettizia cfr. R. Zimmermann, The Law, cit., 514 ss.

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Capitolo III

UNA FORMA ANOMALA DI GESTIONE IMMOBILIARE URBANA: LA SPECULAZIONE SUI MATERIALI DA COSTRUZIONE Sommario: 1. Il divieto di scoperchiare l’edificio, demolirlo e privarlo di sue parti negli statuti delle comunità locali. – 2. La regolamentazione delle demolizioni immobiliari a Roma. La repressione imperiale della speculazione sui materiali fittili: i senatoconsulti Hosidianum e Volusianum. – 3. Sulle tracce delle negotiationes aventi ad oggetto la compravendita dei materiali di recupero. Attività economica e loro organizzazione in chiave imprenditoriale.

1. Il divieto di scoperchiare l’edificio, demolirlo e privarlo di sue parti negli statuti delle comunità locali L’inurbamento nei territori sottoposti al dominio romano deve ritenersi, con buona approssimazione, tendenza ascrivibile al I secolo a.C., l’urbanizzazione, che già aveva contraddistinto Roma e alcuni porti e realtà commerciali particolarmente floride, come Ostia e Puteoli, Capua e Pompei, si era compiuta, fino a tale epoca, in maniera del tutto frammentaria sul territorio italico e ancor più in provincia, una pluralità di fattori di tipo storico, politico ed economico, collocabili nel secolo precedente, ne favorirono l’esplosione. Il II secolo a.C., infatti, fu prima di tutto caratterizzato da una chiara svolta in senso espansionistico della politica estera romana nel bacino mediterraneo, dalle campagne in Spagna, in Oriente, nella Gallia Cisalpina e Narbonense, che estesero i confini di Roma 1, ponendo la necessità di provvedere, in tempi il più possibile circoscritti, alla romanizzazione dei territori conquistati 2. E. Gabba, L’imperialismo romano, in Storia, cit., 210 ss., ma anche, tra gli altri, qui rimando a M. Cary-H.H. Scullard, Storia di Roma I. Dai primi insediamenti alla crisi della costituzione repubblicana, trad. it. Bologna, 1981, 307 ss.; Id., Storia di Roma II. La fine della repubblica e l’instaurazione del principato, trad. it. Bologna, 1981, 34 ss. 2  E. Gabba, Urbanizzazione, cit., 70 e Id., Il processo di integrazione dell’Italia nel II secolo, in Storia, cit., 281 ss. 1 

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L’arco temporale in questione, tuttavia, si distinse anche per il progressivo spopolamento dell’ager centro-meridionale e per il sorgere di un consistente flusso migratorio interno verso l’Urbe e le campagne della Gallia Cisalpina, legato, da un lato, alle devastazioni della guerra annibalica e all’abbandono dei campi da parte dei contadini-legionari, dall’altro, all’avvento di innovative tecniche di sfruttamento dei terreni, oltreché ai nuovi più variegati indirizzi assunti dall’economia romana 3. Dalle vaste campagne italiche del meridione, la popolazione cominciò a spostarsi verso nord, poi, in tutte le provincie occidentali, dirigendosi prevalentemente verso i crocevia commerciali ed i nuclei urbani dotati di strategici approdi costieri, dove, solo, il ceto contadino proletarizzato poteva sperare di trovare una qualche fonte di sostentamento nelle pieghe di quell’economia mercantile che, in simili contesti, nell’ultimo secolo era prosperata. Unica alternativa, del resto, era di riversarsi nella capitale, trovando occupazione nel settore dell’edilizia pubblica o, più tardi, con le difficoltà sociali ed economiche di fine secolo, nella prospettiva di godere delle frequenti elargizioni statali di frumento a basso prezzo, che la stagione dei Gracchi aveva inaugurato 4. L’inurbamento e l’urbanizzazione della penisola italica, oltreché le esigenze della ricostruzione dei nuclei urbani danneggiati dalla guerra annibalica, prima, dal bellum Italicum e dagli scontri tra Mario e Silla 5, poi, spiegano, associati al processo di municipalizzazione seguente all’immissione degli alleati italici nella cittadinanza, il marcato interesse che, nel I secolo a.C., le legislazioni decentrate mostrano per la disciplina urbanistica. Ad un’urbanizzazione omologante di tipo pubblico, tesa a tracciare con strade, templi, acquedotti e mercati il nuovo impianto delle città, si associò uno sforzo economico privato diretto a far fronte alle mutate esigenze di queste civitates: all’incrementata domanda di alloggi, di locali di stipaggio e di spazi commerciali attrezzati 6. È questo lo scenario che fa da sfondo al proliferare di statuti municipali

3  Cfr. supra Intr., §. 2; A.J. Toynbee, L’eredità di Annibale II. Roma e il Mediterraneo dopo Annibale, trad. it. Torino, 1983, 102 ss. e 193 ss.; E. Gabba, Le strutture agrarie dell’Italia romana (III-I a.C.), in L’agricoltura romana, cit., 122 ss. e Id., Il processo, cit., 290 s. 4  Cfr. supra Intr., §. 2 e M.H. Crawford, Roma nell’età repubblicana, trad. it. Bologna, 1984, 114 ss.; M. Cary-H.H. Scullard, Storia di Roma I, cit., 444 ed E. Gabba, Considerazioni, cit., 106. 5  Sui principali snodi bellici del conflitto rimando qui a M. Cary-H.H. Scullard, Storia di Roma II, cit., 64 ss. Per un resoconto dettagliato delle conseguenze dannose di questa guerra sulle varie città cfr. E. Gabba, Urbanizzazione, cit., 83 ss. e Id., Il processo, cit., 290 s. 6  E. Gabba, Considerazioni, cit., 105 ss. e, da ultima, L. Cappelletti, Norme per la tutela degli edifici negli statuti locali (secoli I a.C. – I d.C.), in BIDR, 111, 2017, 58 ss.

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che dedicavano una significativa attenzione all’urbanistica. Per quanto qui in particolare interessa, notevole rilevanza assumono le discipline che fissavano limiti alle facoltà dispositive dei proprietari di edifici privati: per l’epoca più risalente, si trattava dello statuto di Taranto e della lex coloniae Genetivae Iuliae, durante il principato, della lex municipii Malacitani e dell’Irnitana 7. In ossequio alle sopra esposte esigenze, le suddette normative dovevano in primo luogo prodigarsi con la finalità di garantire la rispondenza del patrimonio immobiliare cittadino alle incrementate necessità abitative di queste comunità 8. In una simile congiuntura, senza dubbio, si imponeva al legislatore di scoraggiare quanto più possibile eventuali speculatori intenzionati ad acquistare immobili non in buono stato, per le ingiurie del tempo o le ferite inferte da eventi bellici, al solo fine di demolirli 9 e deportarne altrove le componenti fittili, condotta, questa, che, sventrando le città, le privava, oltreché del decoro e di un’organica conformazione, anche di edifici che, restaurati o riedificati in loco, avrebbero potuto soddisfarne il fisiologico fabbisogno abitativo 10. Le leges sopracitate, accomunate dalle finalità, nei profili procedurali oltreché sanzionatori, corrispondenti nei contenuti e, le betiche, pure Le prerogative del proprietario sono qui anzitutto compresse in nome dell’interesse pubblico: quello alla tutela del decoro urbano, in base all’opinione di A. Bottiglieri, La tutela, cit., 4 s., quello alla conservazione del patrimonio abitativo, secondo L. Franchini, La tutela, cit., 701, in funzione di contrasto a forme di speculazione sulla demolizione di edifici, secondo A. Calzada, La demolición de edificios en la legislación municipal (siglos I A. C. – I D. C.), in SDHI, 76, 2010, 116 ss. e, da ultima, L. Cappelletti, Norme, cit., 56 e 64. 8  Cfr. E. Gabba, Considerazioni, cit., 112; Id., Urbanizzazione, cit., 76 e A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 187 ss. e 200 ss. 9  Cfr. supra Intr., §. 3. Sarei per concordare sul punto con quanto complessivamente emerge dall’analisi storica, sociale ed economica di E. Gabba, Considerazioni, cit., passim e Id., Urbanizzazione, cit., 70: il generico divieto di demolire casamenti, salva ricostruzione non deteriore, è misura che, pur nell’eterogeneità dei suoi fini, mirava ad impedire ogni tipo di operazione immobiliare implicante il depauperamento delle potenzialità allocative di aree urbane già danneggiate da eventi bellici o soggette a sensibili aumenti di popolazione (cfr. A. Calzada, La demolición, cit., 116 s.), a maggior ragione quelle connotate da intenti speculativi (sul punto, cfr. pure L. Solidoro Maruotti, Studi, cit., 342 s., nt. 6 e, più recentemente, L. Cappelletti, Norme, cit., 64); in senso almeno parzialmente difforme cfr. il contributo di F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 419 nt. 25: diverge, sotto questo profilo, secondo l’Autore, la finalità della disciplina decentrata, volta alla conservazione del decoro urbano, da quella introdotta per la città di Roma dai senatoconsulti Osidiano e Volusiano, destinata più propriamente alla persecuzione di tali manovre speculative. 10  Sulle variegate finalità di questi provvedimenti: P. Garnsey, La demolizione di case e la legge, in M.I. Finley, La proprietà, cit., 161 ss.; A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 187 ss. e 200 ss.; A. Bottiglieri, La tutela, cit., 4 ss. e, da ultimo, L. Franchini, La tutela, cit., 701 s., ntt. 33 e 35. 7 

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per articolazione, spesso sono state reputate in dottrina frutto di un’unica matrice. Qui, tuttavia, in coerenza con gli obbiettivi che questo studio si prefigge, non interessa prendere parte al consistente dibattito circa l’esistenza, a monte di queste, di una comune “legge modello” (lex Iulia municipalis… ?), che avrebbe giustificato questa evidente omogeneità di disciplina 11; infatti, nell’analisi dei capitoli riguardanti il divieto di demolizione di immobili urbani sarà per noi sufficiente prendere atto di questa affinità, evidenziandone semmai le deroghe, nonchè la differente impostazione del problema urbanistico che emerge dal confronto con la più tarda normazione senatoria per la città di Roma 12. La soluzione proposta nel contesto municipale a queste preoccupazioni è, di certo, oltremodo invasiva delle prerogative dominicali e, come avrò occasione di chiarire appresso, non perfettamente rispondente agli scopi perseguiti. Considerando qui di seguito i divieti di demolizione imposti dalle disposizioni statutarie, il più risalente è quello contenuto nella lex Municipii Tarentini (databile tra l’89 e il 62 a.C.) 13, che così ordinava:

11  L’ipotesi è accolta da A. D’Ors, Nuevos datos de la ley Irnitana sobre jurisdicción municipal, in SDHI, 49, 1983, 18 ss.; F. González, Los «municipia civium romanorum» y la «lex Irnitana», in Habis, 17, 1986, 237 ss.; T. Spagnuolo Vigorita-V. Marotta, La legislazione imperiale. Forme e orientamenti, in Storia di Roma II. L’impero mediterraneo, a cura di A. Momigliano-A. Schiavone, Torino, 1991, 92; da ultimo, così L. Franchini, La tutela, cit., 700 nt. 32 e, nella manualistica, si veda M. Talamanca, Lineamenti di storia del diritto romano, Milano, 1989, 504; contra H. Galsterer, La loi municipale des Romains: chimère ou réalité?, in RHD, 65, 1987, 181 ss. e 190 nt. 3; G. Luraschi, Sulle «leges de civitate (Iulia, Calpurnia, Papiria)», in SDHI, 44, 1978, 325 ss.; Id., Sulla lex Irnitana, in SDHI, 55, 1989, 354 ss., tale posizione coincide con quanto, di recente, nella manualistica si è messo in luce in A. Petrucci, Corso, cit., 438. In una posizione terza rispetto al dibattito in corso si colloca A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 201, nt. 86, per la quale le troppe analogie tra queste discipline decentrate indicano in modo inconfutabile che esista una norma alla quale tutte le disposizioni locali si ispirano, una norma che, tuttavia, ella ritiene probabile dovesse rintracciarsi nel mos, nella consuetudo o scaturire da una prassi di governo consolidata (cfr. circa quest’ultima possibilità anche A. Calzada, La demolición, cit., 127). 12  Pare oggi assolutamente minoritaria quell’idea, in passato molto diffusa in letteratura, che voleva un’analoga regolamentazione vigente in epoca tardo-repubblicana anche per la città di Roma: si vedano L. Homo, Roma, cit., 463; E.J. Phillips, The Roman Law on the Demolition of Buildings, in Latomus, 32, 1973, 86 ss., nt. 5; P. Garnsey, La demolizione, cit., 162 ed anche, in senso possibilista, L. Solidoro Maruotti, Studi, cit., 343 (sulle motivazioni logiche che recano discredito a questa ipotesi ricostruttiva sarà utile tornare in seguito infra §. 2); contra Z. Yavetz, The living conditions of the urban plebs, in Latomus, 17, 1958, 523; M. Sargenti, La disciplina, cit., 271, nt. 14 ed E. Gabba, Considerazioni, cit., 110 ss. 13  Si vedano tra gli altri A. Torrent, La “iurisdictio” de los magistratos municipales, Salamanca, 1970, 167; M. Sargenti, La disciplina, cit., 269 nt. 6; A. Calzada, La demolición, cit., 118, nt. 12 e, da ultimo, L. Franchini, La tutela, cit., 698 nt. 25; contra A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 200, nt. 80, che data tra il 90 e il 63 a.C.

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Lex Tar. VIIII. 4. ll. 33-41  14 : Nei quis in oppido quod eius municipi e[r]it aedificium detegito neive dem[olito] | neive disturbato, nisei quod non deterius restiturus erit, nisei d[e] s(enatus) s(ententia). | Sei quis adversus ea faxit, quant[i] id aedificium f[u]erit, tantam pequni[a]m | municipio dare damnas esto, eiusque pequniae [que]i volet petiti[o] esto. | Magi(stratus) quei exegerit dimidium in [p]ublicum referto, dimidium in l[u]deis, quos | publice in eo magistratu facie[t] consumito, seive ad monumentum suom | in publicum consumere volet, l[icet]o idque ei s(ine) f(raude) s(ua) facere liceto.

La lex, anzitutto, limitava le facoltà del titolare dell’immobile, imponendogli di non scoperchiare, demolire o, in altro modo, deturpare l’edificio, salvo il caso in cui l’operazione fosse preliminare a un restauro o a una ricostruzione non deteriore dello stesso. Di volta in volta, inoltre, il senato municipale avrebbe potuto autorizzare a demolire i proprietari che ne avessero fatto richiesta 15. Al di fuori di questi casi, chi avesse abusivamente demolito o spogliato di sue parti l’edificio sarebbe incorso in una sanzione di carattere privatistico (dare damnas esto) parametrata al valore dell’immobile distrutto o deturpato (quanti id aedificium fuerit) 16, per la cui irrogazione poteva agire (petitio esto) 17 un qualsiasi membro della comunità (quei volet) 18. L’intera somma, la cui esazione competeva ad un magistrato 19, sarebbe stata devoluta a favore della comunità stessa 20: in F.I.R.A. I, 18. Da ultimi, ma il dato è pacifico, si veda L. Franchini, La tutela, cit., 699, nt. 29 e L. Cappelletti, Norme, cit., 62. 16  Corrispondendo all’intero valore dell’edificio distrutto in casi di completa demolizione (M. Sargenti, La disciplina, cit., 269), alla perdita di valore nelle ipotesi di graduale smembramento (cfr. A. Calzada, La demolición, cit., 122 e 132): in entrambi i casi considerando la sua stima prima che la pratica distruttiva fosse posta in essere (cfr. L. Cappelletti, Norme, cit., 68). 17  Sul significato di questa locuzione, che rimanda ad un giudizio instaurato mediante actio popularis, cfr. già diffusamente C. Fadda, L’azione popolare, I, Torino, 1894, 7 ss., 66 s., 219 ss., 333 e 357; F.P. Casavola, Actio petitio persecutio, Napoli, 1965, 83 e, più recentemente, A. Calzada, La demolición, cit., 122 e L. Franchini, La tutela, cit., 702, nt. 36. 18  Cfr. L. Cappelletti, Norme, cit., 72; M. Sargenti, La disciplina, cit., 268 ss.; V. Scarano Ussani, Le forme del privilegio. ‘Beneficia’ e ‘Privilegia’ tra Cesare e gli Antonini, Napoli, 1992, 139 nt. 3 ed E. Gabba, Considerazioni, cit., 110 ss. 19  Cfr., da ultima, L. Cappelletti, Norme, cit., 63; in precedenza si veda F.P. Casavola, Actio, cit., 83, ove l’Autore chiarisce come il termine exactio denoti un procedimento amministrativo di esecuzione riservato alla competenza di un magistrato, in seguito mettendo l’accento sulle peculiarità della normativa rispetto alla ripartizione della facoltà di impulso processuale: privato quello cognitorio, pubblico quello esecutivo. 20  Il cittadino procedente si attiverebbe, da questo punto di vista, a tutela del precipuo interesse della comunità a cui appartiene, in ossequio a finalità pubbliche, U. Laffi, Colonie e Municipi nello Stato Romano, Roma, 2007, 119 e L. Franchini, La tutela, cit., 702. 14  15 

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parte incamerata nella cassa pubblica, in parte destinata ai giochi o alla elevazione di un monumento in suo onore 21. Nel 44 a.C. 22 si è soliti collocare la lex coloniae Genetivae Iuliae sive Ursonensis, che sul punto dispone: Lex Col. Gen. LXXV  23 : Ne quis in oppido colon(iae) Iul(iae) aedificium detegito | neve demolito neve disturbato, nisi si praedes | IIvir(um) arbitratu dederit se redaedificaturum, aut | nisi decuriones decreverint, | dum ne minus L ad|-sint, cum e(a) r(es) consulatur. Si quis adversus ea fecerit, | q(uanti) e(a) r(es) e(rit), t(antam) p(ecuniam) c(olonis) c(oloniae) G(enetivae) Iu(liae) d(are) d(amnas) e(sto), eiusq(ue) pecuniae qui volet pe|-titio persecutioq(ue) ex h(ac) l(ege) esto.

Rispetto allo statuto di Taranto è identica la compressione del potere del proprietario dell’edificio: a costui, infatti, la legge colonica vietava, salva specifica autorizzazione decurionale 24 – per la cui approvazione la lex richiedeva il numero minimo di cinquanta partecipanti alla seduta – o previa presentazione ai duumviri di garanti del proprio impegno a ricostruire non deterius 25, di demolire l’immobile (demolito), di privarlo del tetto 21  Si vedano, F.P. Casavola, Actio, cit., 84; M. Sargenti, La disciplina, cit., 270; E. Gabba, Considerazioni, cit., 114; F. Lamberti, “Tabulae Irnitanae”. Municipalità e “Ius Romanorum”, Napoli, 1993, 87; A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 201; A. Calzada, La demolición, cit., 132 e L. Cappelletti, Norme, cit., 70. 22  Datazione che recentemente è ribadita da A.R. Jurewicz, La lex Coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis – rassegna della materia. Gli organi della colonia, in RIDA, 54, 2007, 296; A. Calzada, La demolición, cit., 118; L. Franchini, La tutela, cit., 698 nt. 26 e in passato, per tutti, basti L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien, 1953, 396 s.; si rammentino, in ogni caso, le osservazioni complessive di E. Gabba, Riflessioni sulla lex coloniae Genitivae Iuliae, in Estudios sobre la Tabula Siarensis, a cura di J. GonzálezJ. Arce, Madrid, 1988, 157 s., circa una tale collocazione storica, che, evidentemente, è distante di più di un secolo da quella delle tavole bronzee a noi giunte. Solo in parte, di conseguenza, il testo a nostra disposizione rispecchierebbe la regolamentazione originaria. 23  CIL I 594 = F.I.R.A. I, 21. 24  Cfr. E. Gabba, Considerazioni, cit., 112; V. Scarano Ussani, Le forme, cit., 139 nt. 3; A. Bottiglieri, La tutela, cit., 4 e L. Franchini, La tutela, cit., 699 nt. 29. 25  Pur non esplicitamente enunciato, il vincolo alla ricostruzione non deterius doveva di necessità valere anche per questa legge (cfr. E. Gabba, Considerazioni, cit., 112 e L. Solidoro Maruotti, Studi, cit., 343, che interpreta l’onere di redaedificatio come obbligo alla «perfetta ricostruzione dell’edificio»); e, del resto, che senso avrebbe avuto imporre al demolente la prestazione di garanti della promessa di riedificare (perplessità a cui, del resto, sembra da ultimo non trovare soluzione L. Franchini, La tutela, cit., 701), se costui avesse potuto demolire, ricostruendo qualsiasi struttura in luogo dell’edificio andato perduto, quale utilità pratica avrebbe avuto, più in generale, il divieto di demolire, cui significativamente è affiancato nel testo quello di disturbare, se potesse eludersi mediante la distruzione e successiva costruzione di una qualsiasi “catapecchia” al posto del bene

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(detegito), nonché di apportarvi modifiche in senso deteriore (disturbato). Rimettendo per intero l’impulso repressivo, sia nella fase di accertamento che di esecuzione, all’iniziativa privata (eiusque pecuniae qui volet petitio persecutioque ex hac lege esto) 26, quest’ultima legge legittimava qualsiasi membro della comunità ad esercitare contro il proprietario un’actio poenalis popolare per ottenerne la condanna ad un’ammenda commisurata alla stima “attuale” del valore dal bene (quanti ea res erit) 27, che, a me pare, in base al tenore letterale del testo, avrebbe dovuto spettare per intero alla comunità ed essere devoluta a favore dei coloni 28. Non mi persuade, in tal senso, quanto pure sostenuto da autorevole dottrina, ovvero che la pena venisse in tutto o in parte 29 lucrata all’attore 30, come anche, allo stesso andato divelto. In questo senso mi sembra, anzi, che la lex coloniae Genetivae sia più rigorosa rispetto alla precedente normativa tarentina, non richiedendo la semplice prova della volontà di ricostruire, ma pure la prestazione di garanzie personali; cfr. L. Homo, Roma, cit., 463; M. Sargenti, La disciplina, cit., 268; A. Bottiglieri, La tutela, cit., 4, ntt. 5 s. e F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 88. 26  Cfr. F.P. Casavola, Actio, cit., 77 ss.; M. Sargenti, La disciplina, cit., 271 e F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 88. 27  M. Sargenti, La disciplina, cit., 269, il quale ritiene che più precisamente la stima del pregiudizio avrebbe dovuto passare attraverso la quantificazione dell’interesse della comunità alla conservazione in buono stato dell’immobile; differentemente, H. Wolff, Rc. a T. Spitzl, “Lex Municipii Malacitani”, in ZSS, 104, 1987, 728 ss., riteneva che si dovesse commisurare l’ammontare della condanna a quanto al momento della sentenza sarebbe stato necessario per ricostruire l’edificio, conformemente del resto alla propria opinione, frutto di evidente forzatura secondo F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 90, per cui, in questa legge, la somma dovesse essere a tale scopo di necessità reimpiegata. Nell’incertezza delle attestazioni a noi pervenute, mi pare scelta di mera opportunità intendere, secondo l’impostazione di A. Calzada, La demolición, cit., 130, la multa da commisurarsi alla stima del valore che, al momento della sentenza, avrebbe avuto l’immobile riedificato e, conseguentemente, aggiungo, in casi di smantellamento soltanto parziale, alla sua diminuzione di valore, oppure, come recentissimamente L. Cappelletti, Norme, cit., 68, da rapportarsi al valore complessivo dei materiali edili, ottenuti dalla demolizione, e del residuante terreno. 28  Cfr. M. Sargenti, La disciplina, cit., 270 s. e J.L. Murga, Las acciones populares en el municipio de Irni, in BIDR, 88, 1985, 225 ss.; la sanzione doveva essere lucrata dalla comunità per intero, perché proprio questa nel suo insieme scontava il pregiudizio del comportamento abusivo del privato; non era percepita, per altro, secondo questo Autore, l’esigenza di incentivare i privati all’azione mediante la promessa di un lucro individuale, spinti come erano da un più suadente «profundo sentido de civismo urbano». 29  Propende per questa idea, sulla base di constatazioni analogiche relative ad altri processi per multa di età repubblicana, F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 91: delle quattro discipline statutarie solo per quella di Taranto può escludersi, secondo l’Autrice, la ricompensa pecuniaria dell’attore. 30  L’attore avrebbe incamerato per intero la condanna per F.P. Casavola, Actio, cit., 87; è quanto risulterebbe inderogabilmente, secondo questo Autore, dall’uso e dall’accostamento del segno persecutio a petitio, il primo dei due termini, infatti, indicherebbe

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modo, giudicherei congetturale, in assenza di qualsivoglia esplicito riscontro testuale, l’ipotesi che la somma dovesse essere impiegata nella refectio dell’edificio 31. A distanza di circa un secolo dalla disciplina tarentina si collocano le disposizioni dei paragrafi 62 delle leggi Irnitana e Malacitana  32, tra loro esattamente corrispondenti. Proprio in considerazione di questa perfetta identità basti qui riportare il testo dello statuto municipale di Irni: Lex Irn. 62 (=Lex Malac. 62): Ne quis aedificia, quae restituturus non erit, destruat. Ne quis in oppido municipi(i) Flavi Irnitani quaeque ei oppido continentia aedificia erunt aedificium detegito destruito demoliundumve curato nisi decurionum conscriptorumve sententia{m} cum maior pars eorum adfuerit quod restituturus intra proximum annum non erit. Qui adversus ea fecerit is quanti ea res erit t(antam) p(ecuniam) municipibus municipi(i) Flavi Irnitani dare damnas esto eiusque pecuniae deque ea pecunia municipi eius municipi(i) qui volet cuique per h(anc) l(egem) licebit actio petitio persecutio esto.

La norma stabilisce che chiunque abbia distrutto, scoperchiato o demolito un edificio urbano, senza autorizzazione decurionale – cui doveva presenziare la maggioranza dell’assemblea – e senza l’intenzione di ricostruire entro l’anno, sia condannato ad una poena pari al controvalore del pregiudizio pecuniariamente stimato al momento della sentenza. Come nella lex Genetivae, il controllo sugli abusi, demandato interamente all’iniziativa privata, era garantito da un’actio popularis di natura penale esperibile nei confronti del demolitore abusivo da uno qualsiasi dei municeps (qui volet… actio petitio persecutio esto) 33. Anche qui l’indicazione testuale è nel senso che la multa debba essere versata a vantaggio dei municipes, restando a mio avviso non solo la facoltà del privato di pretendere in giudizio l’esecuzione della condanna, ma anche l’esistenza di un interesse patrimoniale dell’attore, come palesato da Gai 4.6-9, in cui persequi risulta null’altro che una variazione lessicale di consequi (cfr. sul punto anche Id., Studi sulle azioni popolari romane. Le “actiones populares”, Napoli, 1985, 16 ss.). 31  Si veda H. Wolff, Rc. a T. Spitzl, cit., 728 ss.; contra, da ultima, L. Cappelletti, Norme, cit., 69; in precedenza, F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 90; A. Calzada, La demolición, cit., 131 s.; U. Laffi, Colonie, cit., 222, nt. 74, dove, riferendosi all’idea che le somme lucrate dalla comunità a titolo di multa dovessero necessariamente essere devolute dal magistrato alla refectio dell’edificio, afferma: «…è un’ipotesi suggestiva… è testimoniato per la prima età imperiale che la comunità in alcuni casi poteva imporre al proprietario il ripristino (o il rimborso delle spese di ripristino)… peccato però che negli statuti che stiamo esaminando non troviamo alcun accenno a questa prassi». 32  Di cui per la prima si rimanda a F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 318 e per la seconda si veda F.I.R.A. I, 24. 33  Cfr. M. Sargenti, La disciplina, cit., 270; V. Scarano Ussani, Le forme, cit., 139 nt. 3; F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 86 e, da ultimo, ancora L. Franchini, La tutela, cit., 702, nt. 36.

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quanto mai incerto se spettasse una qualche ricompensa al proponente 34. Triplice era l’obbiettivo alla base di questa normativa: da un lato, quello di salvaguardare la rispondenza del patrimonio immobiliare cittadino alle esigenze abitative della moltitudine 35, dall’altro, un embrionale interesse per la tutela del decoro civico 36, cui doveva associarsi, senza dubbio, a mio avviso, anche se il punto è controverso in dottrina 37, l’intento di ostacolare la diffusione di lucrosi commerci aventi ad oggetto le componenti fittili dei casamenti urbani 38. 34  Ne è al contrario fermamente persuasa F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 91 s. e 121, la quale riscontra un’analogia, che a me non pare così scontata, tra il praemium dovuto all’actor municipium nei procedimenti de pecunia communi di cui in Irn. 69-70 e la pretesa ricompensa lucrata dall’attore, legittimato popolare, nei processi civili per l’abbattimento abusivo di aedes. Mi limito a rilevare, in merito, come là si instaurasse un vincolo di rappresentanza processuale effettivo tra attore e comunità d’appartenenza che ben poteva essere meritevole di una qualche ricompensa, mentre qui l’iniziativa processuale era rimessa alla libera disponibilità del cittadino che tutelava se medesimo nel difendere la comunità e, di conseguenza, mi pare il suo “guadagno” non dovesse consistere in altro se non nel vedere indennizzata la realtà municipale stessa di cui faceva parte. 35  Cfr. L. Homo, Roma, cit., 463; P. Garnsey, La demolizione, cit., 162, nt. 26; L. Solidoro Maruotti, Studi, cit., 343 nt. 6; E. Gabba, Considerazioni, cit., 107 ss.; F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 419 nt. 25; A. Calzada, La demolición, cit., 116 e, riallaciandosi all’opinione di quest’ultimo, L. Franchini, La tutela, cit., 701 nt. 35. 36  Cfr. P. Garnsey, La demolizione, cit., 162; A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 202 s. e A. Bottiglieri, La tutela, cit., 5; in senso troppo restrittivo quest’ultima Autrice tende a circoscrivere a questo solo aspetto l’utilità pratica delle menzionate disposizioni. Più scettico sull’utilità a questi fini delle discipline in esame pare L. Franchini, La tutela, cit., 701, nt. 33 e 35: da un lato, a ragione, poiché esse colpivano anche le demolizioni di edifici fatiscenti, osteggiandole, dall’altro, secondo l’impostazione prediletta da chi scrive (cfr. supra nt. 25), a torto, per l’interpretazione rigida che lo stesso Autore dà a riguardo dell’onere ricostruttivo da esse previsto, che solo la prima testualmente vincola alla non deteriorità, ma che, tuttavia, a mio avviso, di necessità – implicitamente – deve integrarsi nel dettato delle altre. 37  Da ultima, L. Cappelletti, Norme, cit., 63 s.; in precedenza, L. Solidoro Maruotti, Studi, cit., 343 nt. 6; A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 202 e A. Calzada, La demolición, cit., 116 ss.; contra A. Bottiglieri, La tutela, cit., 5 e F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 419 nt. 25, il quale afferma: «certo non emerge in alcun modo il timore di un lucroso commercio dei materiali fittili». Non è tuttavia da stigmatizzare questa prudente annotazione; in effetti, molto poco si può dire circa l’effettiva diffusione di simili attività speculative in ambito provinciale ed in ogni caso l’Autore intuiva: «il fine – di tali norme – sembra quello di garantire la continuità della presenza di un edificio nel luogo già deputato all’edificazione», l’affermazione mi pare si possa comunque ricollegare al filo logico seguito dall’impostazione di E. Gabba, Considerazioni, cit., 112, che io pure prediligo: «è probabile che la disposizione – di Taranto e di Urso – volesse evitare speculazioni nelle aree urbane danneggiate da eventi bellici – o soggette a progressivo inurbamento – il ricupero dei materiali e il reimpiego dei medesimi in luogo diverso e più conveniente». 38  Sulla compravendita di casamenti come agglomerato di materiali di risulta e sulle

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Proprio in relazione alla suddetta molteplicità di funzioni la disciplina in esame manifesta un’inettitudine figlia della sua primogenità: non tutelava oculatamente il decoro urbano, né rispondeva in maniera adeguata alle occorrenze abitative dei cives, in quanto nessuna delle leges sopracitate poneva distinzioni legate allo stato materiale degli edifici, scoraggiandone l’abbattimento a prescindere dalla loro fatiscenza e pure quando fossero ormai del tutto inservibili ad uso abitativo 39. L’obbligo del proprietario demolente di ricostruire non deterius, inoltre, avrà avuto, di certo, l’effetto di favorire un’edilizia di lusso, non necessariamente adeguata alle nuove esigenze abitative del ceto contadino inurbato. Del resto, anche se non mi sembra condivisibile quella lettura 40 che intende la locuzione tarentina nel senso per cui il dominus avrebbe potuto modificare una struttura immobiliare solo apportandovi migliorie, non si può negare che la disposizione gli avrebbe precluso di rimpiazzare una domus con un casamento popolare a più piani, nonostante la conservazione dell’esistente, andasse, in questo caso, a scapito di un auspicabile potenziamento delle sue capacità ricettive 41. Disarmonicamente perseguita la finalità di preservare il decus urbis, messa da parte la soddisfazione delle necessità abitative dei municipes, avrebbe trascurato poi, ove presenti, anche le urgenze della ricostruzione. Una simile contingenza, infatti, mal si sarebbe conciliata con l’obbligo di garantire la riedificazione in loco ed entro l’anno delle leggi di Malaca e di Irni e con il requisito, spesso non così intuitivo, della non deteriorità. Nel primo caso, infatti, l’attuazione di un piano organico di ricostruzione non sempre avrebbe consentito l’immediata refectio in loco degli edifici in rovina, da cui pure dovevano trarsi i materiali costruttivi, nel secondo, come già si accennava, l’onere di costruire non deterius avrebbe comportato l’impossibilità di adeguare prontamente, alle mutate condizioni sociali ed economiche del luogo, le strutture immobiliari in costruzione. Unico tra gli scopi presupposti, certo, con notevole incomodo dei titolari, compiutamente perseguito era quello di impedire qualsiasi forma di speculazione sul materiale fittile. E, tuttavia, anche in relazione a questa finalità, le analizzate disposizioni statutarie contenevano soluzioni ancora da affinare, manifestando un certo qual eccessivo zelo nella preclusione delle prerogative dominicali. Vietando al proprietario attuale di demolire, da un lato, scoraggiavano qualsiasi acquirente “di scopo”, che avesse intenzione di acquisire l’immobile al solo

altre forme di speculazione sulle componenti fittili, L. Homo, Roma, cit., 463; E. Gabba, Considerazioni, cit., 112 e A. Calzada, La demolición, cit., 127 ss. 39  F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 92 e L. Franchini, La tutela, cit., 702, nt. 35. 40  E. Gabba, Considerazioni, cit., 112. 41  A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 203 e 209 ss.

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fine di demolirlo o spogliarlo dei più preziosi materiali, dall’altro, impedivano di speculare sui suoli, di optare per la sostituzione di un casamento popolare a più piani, ben più fruttifero, a una dimora signorile terranea, più elegante e decorativa, ma priva della stessa eccezionale capacità allocativa, eppure andavano troppo oltre, per lo più per effetto della vaghezza di quell’obbligo di ricostruzione, che, alternativamente, o imponeva un’edilizia migliorativa od obbligava a rivolgersi, per essere certi di andare esenti da sanzione, all’arbitraggio del senato locale. A onor del vero, proprio l’ampia possibilità di temperamento del sistema di divieti mediante risoluzione decurionale 42 rendeva plastica e non incoerente con le molteplici finalità suesposte la legislazione decentrata di settore, ma, allo stesso tempo, un eccessivo coinvolgimento di questo organo, chiamarlo a deliberare sulla liceità di demolizioni che il rigoroso ossequio alle finalità perseguite avrebbe suggerito di escludere dal divieto, rivela l’incertezza, l’embrionalità di una legislazione, in buona misura, inutilmente oppressiva dello statuto proprietario 43.

2. La regolamentazione delle demolizioni immobiliari a Roma. La repressione imperiale della speculazione sui materiali fittili: i senatoconsulti Hosidianum e Volusianum Come abbiamo visto, la compressione della facoltà dominicale di demolire i propri immobili, nonché mediatamente il problema della speculazione sui materiali fittili, erano aspetti della materia urbanistica su cui già le leges municipali e coloniche repubblicane in più occasioni si erano intrattenute. Queste preoccupazioni di certo non dovettero essere estranee all’Urbe e, tuttavia, forse per la pressione di gruppi dominanti fortemente interessati al mercato, pare oggi verosimile ai più che non vi sia stata una contemporanea regolamentazione di settore avente vigore nella città di Roma 44. Nonostante E. Gabba, Considerazioni, cit., 112. Si può immaginare l’aggravio dei lavori decurionali, oltreché il disagio dei proprietari, che per sopraelevare, riedificare un’ala dello stabile, rifare la facciata o compiere qualsiasi altra modifica dei loro immobili si sarebbero dovuti rivolgere al senato locale illustrando uno specifico progetto al fine di ottenere approvazione. A rendere ancora più lento e farraginoso un simile meccanismo di controllo mi pare contribuisse anche la circostanza che tutte queste delibere prevedano un quorum minimo di decurioni presenti alla discussione: la maggioranza di questi nella lex Irnitana, non meno di cinquanta in base al disposto della lex coloniae Genetivae. 44  Cfr. supra §. 1 e, in particolare, si vedano le preziose annotazioni di E. Gabba, Considerazioni, cit., 111, secondo il quale sia Crasso, sia Cicerone erano, in misure diver42  43 

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ciò, nel primo secolo dell’impero il senato non potè più esimersi dall’intervenire. Preoccupava in primo luogo la pratica della distractio che deturpava l’aspetto esteriore della città, privava gli edifici di marmi ed ornamenti in ossequio alla più sprezzante logica di profitto, talvolta, perfino, mettendone a rischio la statica. Pure la demolizione, d’altro canto, celava plurimi e selvaggi intenti speculativi: dalla rivendita dei materiali fittili, infatti, per la loro scarsità, si potevano trarre guadagni molto più ingenti che dall’alienazione di un immobile in precario stato di conservazione e, anche nel caso in cui lo stabile fosse stato ancora servibile a uso abitativo, i proprietari, raramente titolari di un unico casamento, avrebbero dovuto computare a vantaggio dell’opzione demolitoria altresì il profitto indiretto derivante dal generale aumento dei canoni di locazione seguente alla complessiva contrazione del patrimonio abitativo urbano 45. Due sono i provvedimenti senatori che qui debbono essere considerati: il Senatusconsultum Hosidianum e quello Volusianum. Vale la pena, anzitutto, considerare il prologo dell’Hosidianum 46; l’incise, dediti a questo genere di speculazioni. Era uso di larga parte di coloro che potevano disporre di vasti capitali quello di assicurarsi edifici in precario stato di conservazione a prezzi molto contenuti, riedificarne una parte soltanto per lucrarne gli affitti, utilizzando i restanti come materiali da costruzione o commercializzandoli come suoli liberi. Identiche le considerazioni di M. Sargenti, La disciplina, cit., 271 s.; Id., Due senatoconsulti, cit., 641, nt. 11 e L. Homo, Roma, cit., 455, che trae questa convinzione da un passo di Strabone (De geo. 5.3.7): «alcuni capitalisti» comperavano edifici, talvolta bruciati, altre volte anche parzialmente crollati, demolendoli immediatamente ed in maniera del tutto volontaria; li ricostruivano, poi, in seguito, a modo loro, come più gli dava lucro, oppure, quando la situazione statica degli stessi fosse troppo compromessa, vendevano separatamente il suolo ed il materiale fittile di recupero (da ultima, in tema cfr. L. Cappelletti, Norme, cit., 64 s.). Ritengono al contrario che nell’Urbe dovessero essere già in vigore i medesimi divieti imposti nei contesti urbani più decentrati, tra gli altri, O. Robinson, Ancient Rome, cit., 42 ss. e A. Maffi, Dal SC Hosidianum al SC Volusianum: un caso di interpretazione creativa in materia di regolamenti edilizi, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al prof. Filippo Gallo, 1, Napoli, 1997, 566 s. 45  Cfr. P. Garnsey, La demolizione, cit., 162; A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 207 s. e, più recentemente, A. Calzada, La demolición, cit., 116 ss. 46  Per la collocazione storica della delibera senatoria cfr. E. Volterra, voce ‘Senatus consulta’, in NNDI, 16, Torino, 1969, 1066 nt. 91, che la datava nel 48 d.C., indicazione tuttavia superata dagli studi di M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 641 nt. 8, che la sposta al 44-46 d.C., così come L. Homo, Roma, cit., 463; il primo dei due Autori, in ogni caso, riteneva più plausibile, sulla base di consolidate notizie storiografiche che vorrebbero Osidio Geta consul suffectus del 46, la collocazione del provvedimento in quest’anno; F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 412 nt. 2, più di recente, è tornato all’antica proposta mommseniana del 44-45 d.C. e P. Buongiorno, CIL X 1401 e il senatus consultum ‘Osidiano’, in IURA, 58, 2010, 238 nt. 12, ha invece ricostruito un’ipotesi più precisa di dazione al giorno 22 settembre del 47 d.C.; a quest’ultima ricostruzione ha, da ultima, prestato ossequio F. Nasti, Mutare,

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pit è profondamente segnato dalle preoccupazioni di cui fin qui si è detto: …Cum prouidentia optumi principis tectis quoque urbis nostrae et totius Italiae aeternitati prospexerit, quibus ipse non solum praecepto augustissimo set etiam exsemplo suo prodesset, conueniretq(ue) felicitati saeculi instantis pro portione publicorum operum etiam priuatorum custodi[a], deberentque apstinere se omnes cruentissimo genere negotiationis, ne[que] inimicissimam pace faciem inducere ruinis domum uillarumque, placere… 47

Non deve trarre in inganno la sua formulazione, che pone in primo piano la conservazione dello splendore del patrimonio immobiliare di Roma e di tutta la penisola italica 48. Il vero obbiettivo è, del resto, immediatamente rivelato dal seguito, ove viene evocato uno scenario di distruzione e degrado che soltanto tale intervento normativo avrebbe potuto arginare, impedendo il protrarsi antisociale di quel cruentissimum genus negotiationis 49. detrahere, transferre: considerazioni sui senatusconsulta Osidiano, Aciliano e l’Ad Sabinum di Ulpiano, in SDHI, 83, 2017, 591. 47  F.I.R.A. I, 45, I. 48  Si tratta del principale obbiettivo della normativa senatoria secondo la recente impostazione di L. Franchini, La tutela, cit., 708 ss., ntt. 53-55, il quale fa dei SCC Hosidianum e Volusianum, arbitrariamente legati alla porzione di C. 8.10.2 (cfr. infra questo paragrafo e nt. 86) relativa al divieto di marmora detrahere – che sarebbe in base all’opinione dell’Autore specificazione limitativa della preclusione di non demolire o spogliare negotiandi causa gli edifici di loro parti – norme a tutela dell’integrità degli edifici di pregio, di valore artistico, ai quali fossero incorporati marmi ed altri materiali preziosi. Con singolare disinvoltura, del resto, egli afferma: se la violazione per il dettato di queste discipline consiste in una vendita realizzata negotiandi causa è evidente che i materiali in questione sono «per lo più quelli con cui erano edificate le dimore di lusso (marmi e ornamenti vari)»; come si sarebbe altrimenti potuta realizzare la manovra speculativa su povere componenti fittili di risulta? Sul punto, con dovizia di particolari, si tornerà più avanti, qui basti dire che la risposta a questa domanda è stata da tempo canonizzata in dottrina: cfr. M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 644 s., Autore che, tuttavia, non ignorava, come neppure chi scrive, che talvolta il movente della repressione della speculazione edile potesse portare a perseguire il fine della valorizzazione estetica della città; sulla stessa lunghezza d’onda, da ultima, L. Cappelletti, Norme, cit., 63 ss. e, in precedenza, A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 207 ss. 49  A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 207, la locuzione viene spiegata dall’Autrice nel senso di un fiorente commercio di materiali e terreni vuoti (più recentemente, cfr. anche L. Cappelletti, Norme, cit., 64 s.), che si associava ad una pericolosa politica di rarefazione del patrimonio immobiliare urbano, utile a mantenere costante il potenziale allocativo della città, generando un incremento complessivo dei canoni di locazione in coerenza con il costante aumento della popolazione inurbata (e cfr. anche, A. Calzada, La demolición, cit., 116 ss.). Quello che convince meno dell’analisi di questa Autrice è l’aver voluto inserire in un simile contesto la presunta preoccupazione claudiana per la frequente sostituzione

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La repressione di simili prassi speculative, dopotutto, non deve intendersi come semplice mezzo per la conservazione di una decorosa composizione urbana, essa rappresenta, infatti, il fine ultimo della disciplina in esame. Da questo punto di vista, la ruina domum villarumque era invero solo una delle possibili conseguenze nefaste della demolizione e dello smembramento di edifici a fini di lucro e la sua menzione serviva, in certo modo, anche a celare il vero obbiettivo politico della disposizione 50. Il taglio urbanistico del provvedimento ed il retorico obbiettivo dell’aeternitas totius Italiae non devono distogliere dalle ansie del senato claudiano per il malessere sociale che serpeggiava negli strati più umili della plebe, impossibilitati ad accedere ad un alloggio stabile per la congenita esiguità del patrimonio immobiliare urbano, nonché per l’elevato canone corrispettivo preteso dai gestori dei casamenti 51, e dal malcelato intento conservatore di tener a freno l’ascesa economica della compagine sociale libertina e, più in generale, del ceto degli arricchiti, che, primariamente, di questi commerci si erano giovati 52. È noto, infatti, alla storiografia come proprio il principato di Claudio avesse visto il punto più alto di avanzamento di tale componente sociale, il cui strapotere economico e intraprendenza spregiudicata erano visti con

di insulae a domus demolite per il recupero dei materiali, il che metterebbe in luce una situazione contingente completamente opposta rispetto a quella sopra esposta: ovvero una volontà imprenditoriale di settore complessivamente rivolta all’aumento degli alloggi disponibili. Secondo M. Sargenti, La disciplina, cit., 274 e Id., Due senatoconsulti, cit., 644 ss., l’estrema redditività del commercio dei materiali fittili di risulta è da porsi senza dubbio anche in relazione con il consistente piano di edilizia pubblica promosso da Augusto, prima, e poi, in seguito, da Caligola: «…è abbastanza ovvio che, quando il settore pubblico assorbe molte risorse, ne diviene carente il settore privato dell’economia… per la – naturale, limitata – disponibilità dei materiali – in particolare, di quelli – che presentano maggiori difficoltà di rifornimento, di trasporto». 50  È ipotizzabile che il senato avesse voluto nascondere i propri intenti nel varare una normativa non gradita al principe, ma anche che proprio costui, nell’approvarla, volesse mascherarne le finalità per non rendersi inviso ad un ceto di operatori economici certo molto influente sul piano politico (cfr. M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 646). 51  L’aumento della popolazione urbana si associava a sempre più selvagge speculazioni, l’uno e l’altro fattore contribuivano a incrementare il potere contrattuale dei locatori affievolendo quello degli affittuari (cfr. A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 207). Su questi rilevanti flussi migratori e sulla conseguente proletarizzazione della popolazione contadina inurbata cfr. supra §. 1 ed E. Gabba, Considerazioni, cit., 105 s. Sulla prassi speculativa diffusa a Roma nel settore nel corso del I secolo a.C., cfr. supra nt. 44 e L. Homo, Roma, cit., 455 ss., sulle conseguenti motivazioni degli interventi senatori e, poi, successivamente, imperiali, si rimanda a J.A. Arias Bonet, Capitalismo, cit., 290 ss. e P. Garnsey, La demolizione, cit., 164. 52  Cfr. M. Sargenti, La disciplina, cit., 275 e Id., Due senatoconsulti, cit., 646.

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grande preoccupazione dai rappresentanti della nobilitas 53. Da una simile prospettiva è possibile che il provvedimento fosse, come è stato sostenuto 54, di diretta ispirazione imperiale e, pertanto, misura volta ad allontanare le accuse di sudditanza nei confronti dei propri collaboratori di condizione libertina oppure, parimenti, che rappresentasse l’aperta sfida, di impronta conservatrice, lanciata dall’ordine senatorio 55 allo spirito affaristico ed al predominio economico assunto da un nuovo gruppo sociale; quello che è certo, invece, è che il provvedimento avesse come movente, non un generico interesse alla conservazione del decoroso aspetto degli edifici siti in suolo italico 56, ma la necessità di fissare precisi limiti entro i quali i proprietari Che pure in certa misura ne era a sua volta stata attratta, cfr. A. Calzada, La demolición, cit., 123 s. 54  Anche tra chi ha sostenuto la tesi dell’iniziativa imperiale si possono distinguere due filoni: chi come E.J. Phillips, The Roman Law, cit., 91, la ritiene comprovata dal riferimento iniziale alla providentia optumi principis e chi, invece, come da ultima F. Nasti, Mutare, cit., 591 s., e, in precedenza, P. Garnsey, La demolizione, cit., 162-164, dà prevalenza all’indicazione contenuta nel successivo Volusiano, che fa riferimento ad un precedente senatoconsulto auctore divo Claudio. In ogni caso, in base all’opinione di quest’ultimo Autore, pur non potendosi precisare le forme giuridiche di questa intromissione imperiale nei lavori senatori, il provvedimento si inserisce organicamente nella politica urbanistica condotta da questo princeps, che «a differenza di molti imperatori, non sacrificò aree residenziali per imponenti e grandiosi progetti edilizi; …non aggravò, in definitiva, la perenne scarsità di alloggi… ebbe lo scopo di migliorare le condizioni di vita, a Roma…». Per la sostanziale paternità claudiana del provvedimento propende, pure, di recente, P. Buongiorno, CIL X 1401, cit., 242 nt. 24 e Id., Senatus consulta: struttura, formulazioni linguistiche, tecniche (189 a.C.-138 d.C.), in AUPA, 59, 2016, 32 nt. 50, il quale approva l’argomentazione del Garnsey, considerando il dibattito chiuso e superato nella migliore dottrina (sul punto identica l’opinione, altrettanto prossima, di L. Franchini, La tutela, cit., 703, nt. 42). 55  Pur interrogandosi sull’assenza della consueta formula quod… consules verba fecerunt e sul significato da attribuire alle parole del successivo intervento senatorio, sembra propendere per questa idea M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 646. 56  Mi pare quindi da ribaltare l’impostazione complessiva del problema suggerita da A. Bottiglieri, La tutela, cit., 10 ss., che oggi è seguita ed ulteriormente specificata da L. Franchini, La tutela, cit., 708 e 711, sulle cui annotazioni, di cui si è detto supra nt. 48, si tornerà più diffusamente in seguito. La Bottiglieri sostiene che al centro delle preoccupazioni del legislatore sarebbe stato il problema dell’aspetto fisico della città e della conservazione della sua integrità architettonica e che, solo di riflesso, tale normativa sarebbe rivolta a colpire la speculazione edile: «si limita il diritto reale assoluto del proprietario in nome di esigenze di pubblica utilità… verso il mantenimento dello splendore degli edifici di Roma e di tutta l’Italia». Il cruentissimum genus negotiationis è, a mio avviso, l’obbiettivo focale della repressione senatoria; molteplici saranno gli effetti positivi della sua messa al bando e, tra questi, di certo, sono anche da annoverare: il contenimento del degrado urbano e il temperamento della conflittualità sociale (così ora, L. Cappelletti, Norme, cit., 64 ss.). Dopotutto, mi pare, se fosse più che collaterale ed accessoria l’attenzione alla conservazione dello splendore degli edifici di Roma e d’Italia, non si spiegherebbe, per esempio, una deroga come quella contenuta in un parere di Marcello, riportato da Ulpiano 53 

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avrebbero potuto trarre lucro dallo smembramento dei propri immobili. Mi sembra, in altri termini, di poter condividere l’opinione di Procchi, il quale interpreta tali disposizioni come la reazione senatoria ad un nuovo genere di speculazioni 57 e, se non mi sento di escludere radicalmente che il senatoconsulto potesse avere una qualche applicazione anche in ambito extraurbano 58, ritengo per lo più mirasse a sanzionare tutti coloro che nel e contenuto in D. 24.1.45 (Ulp. 17 ad ed.): Marcellus libro septimo digestorum scribit etiam eum detrahere sine mulieris damno et citra metum senatus consulti, quod detrahentibus negotiationis causa occurrit. Nel passo, infatti, si legittima il marito ad asportare materiali dall’edificio sito sul fondo dotale – e si noti che nulla si dice circa il pregiudizio estetico o statico recatogli – senza preoccuparsi del senatoconsulto, dimostrando come quest’ultimo sia rivolto a colpire, non la distractio in sé, non le pratiche rivolte a danno del decoro estetico dei casamenti, né tantomeno quelle volte alla spoliazione dai materiali di pregio, ma la speculazione sulle componenti di risulta. Da questo punto di vista, erra due volte A. Maffi, Dal SC Hosidianum, cit., 569, confondendo la motivazione pubblicistica ufficiale dei SCC de aedificiis non diruendis con il loro movente socio-economico e desumendo dal comune obbiettivo di proteggere l’aspetto esteriore delle città che tali norme dovessero essere precedute da un più generale divieto di demolizione, che, al contrario, a mio avviso, ne azzererebbe l’utilità pratica. 57  Si veda F. Procchi, La tutela urbanistica: un problema non nuovo. Considerazioni a margine del SC ‘Hosidianum’, in Scritti in onore di A. Cristiani, Torino, 2001, 651 ss., ora poi anche A. Calzada, La demolición, cit., 116 ss., il quale, come s’è detto, anticipa all’intera legislazione municipale la persecuzione di questo obbiettivo, e M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 646 s., nella misura in cui individua la «matrice politica» del provvedimento nell’opportunità di allontanare dal mercato immobiliare l’intraprendenza affaristica delle nuove classi economicamente emergenti. 58  Sul punto sarei per concordare con il prudente giudizio di V. Scarano Ussani, Le forme, cit., 141 nt. 4, il quale sostiene che, nonostante la disposizione fosse rivolta a reprimere lo sfruttamento abusivo delle componenti materiali di strutture abitative urbane, essa, nella sua portata precettiva, si estendesse anche ad edifici di campagna; nella stessa direzione, argomenta L. Solidoro Maruotti, Studi, cit., 343 s., nt. 11. Mi pare deponga in tal senso (cfr. da ultimo anche L. Franchini, La tutela, cit., 708, nt. 52) la ricorrenza del binomio casa-villa (ruina domum villarumque) presente sia nel testo senatorio che nel successivo commento del giurista Paolo, contenuto in D. 18.1.52: Senatus censuit, ne quis domum villamve dirueret, quo plus sibi adquireretur neve quis negotiandi causa eorum quid emeret venderetve…; contra A. Bottiglieri, La tutela, cit., 9, nt. 14, la quale, ignorando un simile indizio, che pure ella stessa mette in luce nella versione del testo paolino «vi è un senatoconsulto che vieta di demolire un edificio, sia in città che in campagna», sembra escludere in modo netto che il provvedimento potesse trovare applicazione in un contesto rustico con il fine d’impedire la demolizione delle ville ed il conseguente abbandono degli agri: «il tenore letterale del testo… parla inequivocabilmente di immobili urbani… – infatti, prosegue in nota l’Autrice – …parla di tectis quoque urbis nostrae et totius Italiae aeternitati» e tuttavia a me pare che, in base al generale riferimento alla perpetua integrità dell’Italia, oltreché per le sopra esposte ragioni, l’interpretazione del passo non sia così univoca. Definitivamente tramontata oggi, invece, deve ritenersi quella lettura che considerava l’Osidiano rivolto precipuamente a proteggere i piccoli agricoltori dagli speculatori e da chi volesse trasformare i loro appezzamenti in pascoli

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perseguire interessi privati non si fossero curati di esigenze sociali diffuse, depauperando egoisticamente il patrimonio abitativo urbano, in nome del proprio esclusivo profitto. In continuità con queste finalità dovette collocarsi un successivo intervento del senato di Nerone, che, con il SC Volusianum (56 d.C. 59), apportò alla norma, originariamente incompleta ed esposta a pratiche elusive, significative migliorie, in conformità alla prassi applicativa consolidatasi negli anni seguenti all’emanazione dell’Hosidianum 60. Sarà utile, a tal punto, considerare i disposti di entrambi i senatoconsulti, inziando dal primo in ordine cronologico: Senatus Consultum Hosidianum: Cn. Hosidio Geta, L. Vagellio cos. X k. Octobr. SC. (…) ..si quis negotiandi causa emisset quod aedificium, ut diruendo plus adquireret quam quanti emisset, tum duplam pecuniam, qua mercatus eam rem

esset, in aerarium inferri, utiq(ue) de eo nihilo minus ad senatum

referretur. Cumque aeque non oportere[t] malo exsemplo uendere quam emer[e, u]t uenditores quoque coercerentur, qui scientes dolo malo [co]ntra hanc senatus uoluntatem uendidissent, placere: tales venditiones inritas fieri. Ceterum testari senatum, domini[s nihil] constitui, qui rerum suarum possessores futuri aliquas [partes] earum mutauerint, dum non negotiationis causa id factum [sit]. Censuere. In senatu fuerunt CCCLXXXIII… 61

Dal testo, già ad una prima lettura, emerge con chiarezza l’assetto negoziale di interessi economici su cui il SC Hosidianum si proponeva di incidere: un soggetto decideva di comprare un edificio, demolirlo, lucrando sulla rivendita dei materiali fittili e sul terreno. Venduti singolarmente o nel complesso, infatti, tali materiali, in aggiunta al compenso ottenuto per a scapito dell’attività agricola che in essi si esercitava, per questa impostazione, si veda il risalente studio di F.G. De Pachtère, Les Campi Macri et le sénatus-consulte Hosidien, in Mélanges Cagnat, Paris, 1912, 169 ss. 59  F.I.R.A. I, 45, II. Il provvedimento è coevo ad altro senatoconsulto, proposto dal medesimo console, con cui non deve essere confuso, riferendosi, l’altro, ad un caso di applicazione estensiva della lex Iulia de vi privata. 60  M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 651 ss. e L. Cappelletti, Norme, cit., 65-67. 61  F.I.R.A. I, 45, I.

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l’alienazione o la concessione a terzi del terreno, fruttavano più di quanto si sarebbe potuto guadagnare dalla vendita dell’immobile nello stato in cui versava o dopo aver fatto fronte ai costi di restauro. Con questo primo intervento, pertanto, il senato vietava di compravendere un bene immobile a scopo di demolizione, sanzionando in ogni caso l’acquirente, che avrebbe dovuto corrispondere all’aerarium una pena pari al doppio del prezzo pattuito, nonché il venditore, allorquando fosse stato a conoscenza dell’intenzione di demolire del compratore, attraverso la nullità parziale del contratto, in base alla quale avrebbe perso il bene senza poter pretendere nulla in cambio 62. L’occasione del nuovo intervento fu data al senato dalla risoluzione di un caso concreto; i parenti più stretti di una certa Alliatoria Celsilla, vedova di Atilio Lupercio – ornatissimus vir – chiedevano al collegio dei patres di esprimersi circa la legittimità della demolizione di alcuni edifici in precario stato di conservazione, siti nella zona di Modena, in un’area, un tempo sede di un grande mercato, che portava il nome di Campi Macri: …et necessari Alliatoriae Celsil[l]ae, uxoris Atilii Luperci ornatissimi uiri, exposuis -sent huic ordini, patrem eius Alliatorium Celsum emisse fundos cum aedificis in regione Mutinensi, qui uocarentur campi Macri, in quibus locis mercatus a[g]i supe -rioribus solitus esset temporibus, iam per aliquod annos desisset haberi, eaque aedificia longa uetustate dilaberentur neque refecta usui essent futura, quia neque habitaret in iis quisquam nec uellet in deserta [a]c ruentia commigrare: ne quid Cfr. F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 413 s., che sulla scorta della precedente opinione di M. Talamanca, Pubblicazioni giunte alla Direzione (rec. a J.M. Rainer, Zum Senatusconsultum Hosidianum), in BIDR, 30, 1988, 908 e in ossequio alla lettera di Paul. 50 ad ed. D. 18.1.52: Senatus censuit… si mihi pretium solveris, cum tu duplum aerario debeas, repetes a me: quod a mea parte irrita facta est venditio, ha interpretato la sanzione come un’invalidità a latere venditoris, costitutiva di un “negozio claudicante”: sono, senza dubbio, la formulazione più chiara del successivo SC Volusiano: …[ut] qui quid emisset duplum eius quanti emisset in aerarium inferre cogeretur et eius qui uendidisset inrita fieret uenditio, nonché l’a mea parte paolino a suggerirlo, ma pure la necessità economica di censurare severamente la condotta del venditore sciens del dolo altrui e pertanto coinvolto a tutti gli effetti nella manovra speculativa sanzionata. Da questo punto di vista, come meglio vedremo tra poco, è ai nostri fini irrilevante la constatazione per cui in età severiana Paolo disponeva probabilmente della sola versione del Volusiano (cfr. M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 654, nt. 27 e P. Buongiorno, Senatus consulta, cit., 33), con il risultato, ovviamente, di aver fuso i due distinti apparati regolamentari, su questo aspetto in ogni caso perfettamente corrispondenti, in un unico testo di commento. In passato opinione diversa è stata espressa da J.L. Murga, El senadoconsulto Aciliano: ea quae sunt iuncta aedibus legari non possunt, in BIDR, 79, 1976, 166 s., che riteneva la venditio semplicemente nulla, cioè inefficace ipso iure, recentemente anche L. Franchini, La tutela, cit., 705 s., nt. 48, ha parlato di semplice nullità, salvo mettere poi in evidenza in nota una strana mollezza nel colpire il venditor consapevole della natura speculativa dello scambio commerciale. 62 

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fraudi multae poenaq(ue) esset Celsil[l]ae, si ea aedificia, de quibus in hoc ordine actum esset, aut demolita fuissent, aut ea condi[c]ione siue per se siue cum agris uendi -disset, aut emptori sine fraude sua ea destruere tollereque liceret… 63

Il testo indugia nella descrizione di due circostanze di fatto fondamentali per la decisione: anzitutto, lo stato degli edifici, che, a causa della loro vetustà, sono in procinto di rovinare e che non avrebbe alcun senso restaurare o riedificare, perché, e questo è il secondo dato dirimente, nessuno vuole più abitare in quel luogo ormai da tempo deserto e in completo abbandono. Come conseguenza di questo stato di fatto, il senato, nell’ultima parte dello scorcio di epigrafe qui riportato, certificava la liceità delle intenzioni della donna, autorizzandola, indifferentemente, a demolire o a vendere, a qualsiasi condizione, i propri immobili in rovina 64. L’esenzione accordata al caso concreto non comportava, tuttavia, nessuna più generale deroga al regime dell’Hosidianum, che, anzi, veniva rafforzato dal nuovo senatoconsulto 65: (…) Cum SC. (…) (…) cautum esset, ne quis domum uillamve dirueret, qu[o plus] sibi adquireret, neue quis negotiandi causa eorum quid emeret uenderetue, poenaq(ue) in emptorem, qui aduersus id SC. fecisset, constituta esset, [ut] qui quid emisset duplum eius quanti emisset in aerarium inferre cogere -tur et eius qui uendidisset inrita fieret uenditio, de iis autem, qui rerum suarum possessores futuri aliquas partes earum mutassent, dummodo non negotiationis causa mutassent, nihil esset nouatum… 66

Affinchè nessuno demolisca un edificio allo scopo di ricavarne un guadagno maggiore e che nessuno compri o venda, a scopo di profitto, F.I.R.A. I, 45, II. M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 653. 65  Difficile è dire se, come sostenuto da F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 424 e, più di recente, da P. Buongiorno, CIL X 1401, cit., 239, il senato abbia voluto, con la delibera in esame, statuire un’eccezione costante al regime generale dell’Osidiano e, pertanto, il fine speculativo dovesse sempre venire escluso in presenza di immobili gravemente compromessi e non più recuperabili a scopo abitativo, oppure, come a me pare più probabile, alla luce della precisazione che segue il sopra riportato segmento testuale: in futurum autem admonendos ceteros esse, ut apstinerent se a tam foedo genere negotiationis… (si veda, sul punto, anche l’opinione di M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 652 s.), se in simili casi perdurasse quella riserva di potere di controllo, esplicitata già nel SC Hosidianum, che accordava solo all’assemblea dei patres il diritto di esentare (in presenza di particolari circostanze di fatto) i singoli richiedenti dal rispetto del divieto. 66  F.I.R.A. I, 45, II. 63  64 

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qualcosa di quanto è stato abbattuto, è stabilito, nei confronti di colui il quale avesse tenuto un comportamento contrario al senatoconsulto, che il compratore debba versare, a titolo di pena, all’erario il doppio del prezzo pagato e, nei confronti del venditore, che la vendita divenga invalida. Nondimeno, a riguardo di quelle cose di cui i titolari vorranno mutare alcune parti in futuro, purchè non le trasformino a scopo di profitto, nulla sarà innovato. In altri termini, con il Volusianum si intaccavano in via diretta le prerogative del dominus, precludendogli di demolire immobili di sua proprietà al fine di trarre lucro dalla commercializzazione dei materiali scorporati e se ne sanzionava l’eventuale acquisto da parte di terzi con il medesimo rigore riservato all’acquirente abusivo dell’Hosidianum 67. Duplice era lo scopo alla base di questo secondo intervento del senato. Da un lato, quello di recepire un emendamento di natura integrativa, introdotto già in via interpretativa negli anni intercorsi dall’Hosidianum 68, colmando un’importante lacuna del sistema regolamentare delineato da questo provvedimento mediante l’estensione del suo contenuto precettivo a qualsiasi demolizione compiuta dal proprietario a scopo speculativo. È, da questo punto di vista, la stessa petizione rivolta al senato dai parenti di Celsilla a palesare la situazione di incertezza in cui ci si era venuti a trovare e che il Volusiano aveva lo scopo di sanare: se, infatti, il dettato dell’Hosidianum non fosse già, nella sua concreta prassi applicativa, stato esteso al divieto poi esplicitato dalla nuova normativa, sarebbe andata esente qualsiasi demolizione non preceduta da vendita di scopo, pertanto, i necessarii della donna nulla avrebbero potuto temere dal demolire in proprio gli immobili dell’ereditanda, restando quindi oscure le motivazioni della richiesta di esenzione da costoro avanzata al collegio dei patres 69. Dall’altro, la norma del Volusiano perfezionava l’impalcatura sanzionatoria dell’Hosidianum, interagendo più opportunamente con le meccaniche della ormai consolidata prassi speculativa. L’Hosidianum, infatti, stabiliva 67  F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 419 ss.; M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 653 s., nt. 27 e cfr. quanto risulta da Paul. 50 ad ed. D. 18.1.52: Senatus censuit, ne quis domum villamve dirueret, quo plus sibi adquireretur neve quis negotiandi causa eorum quid emeret venderetve: poena in eum, qui adversus senatus consultum fecisset, constituta est, ut duplum eius quanti emisset in aerarium inferre cogeretur, in eum vero, qui vendidisset, ut irrita fieret venditio. Plane si mihi pretium solveris, cum tu duplum aerario debeas, repetes a me: quod a mea parte irrita facta est venditio. Nec solum huic senatus consulto locus erit, si quis suam villam vel domum, sed et si alienam vendiderit; contra A. Maffi, Dal SC Hosidianum, cit., 561 ss., il quale propende, tuttavia, per una differente ricostruzione del testo del Volusiano (quam o quod.. sibi adquireret) che finisce per omologare il contenuto dei due precetti. 68  Cfr. M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 654 e F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 418. 69  M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 654 s. e Id., La disciplina, cit., 280.

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che dovesse gravare sull’acquirente negotiandi causa una poena in duplum da corrispondere all’aerarium 70 e sanzionava il venditore solo quando fosse dolo malo sciens, cioè a conoscenza degli illeciti intenti dell’acquirente: rendendo la conventio improduttiva di effetti solamente nei suoi confronti, lo lasciava obbligato a tradere possessionem, privandolo per contro del corrispettivo diritto alla prestazione 71, con la conseguenza che, anche quando l’emptor avesse già corrisposto il prezzo, avrebbe comunque potuto postularne in giudizio la restituzione tramite condictio (D. 18.1.52: …Plane si mihi pretium solveris, cum tu duplum aerario debeas, repetes a me…) 72. Il SC Volusianum colpiva gli acquirenti dei materiali ricavati dalla demolizione con una multa corrispondente al doppio del prezzo pagato per il loro acquisto e sanzionava il venditore nei confronti del quale la vendita sarebbe stata irrita indipendentemente dalla sua condizione soggettiva. La sanzione dei comportamenti volti alla demolizione era, in ogni caso, per entrambe le disposizioni legata alla possibilità di dimostrare la finalità speculativa alla base dell’intera manovra (aedificium negotiandi causa emere/vendere) e, seppure ciò non costringeva ad attendere la successiva rivendita dei materiali al fine di esercitare l’actio popularis  73 (l’operazioL’ammontare predeterminato della sanzione, sottratto al libero apprezzamento del magistrato (sulla distinzione tra multa di ammontare fissato per legge e discrezionale, cfr. C. Venturini, Processo penale e società politica nella Roma repubblicana, Pisa, 1996, 44 nt. 99) ha fatto propendere la dottrina, pur in assenza di riscontri letterali espliciti, per l’idea che la disposizione contenga una norma di ordine pubblico, attivabile processualmente tramite l’esperimento di un’actio popularis; cfr. F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 415 s.; O. Robinson, Ancient Rome, cit., 45 e J.M. Rainer, Zum senatusconsultum Hosidianum, in TR, 55, 1987, 33 ss.; spinge a questa soluzione, in particolare, il confronto con le analizzate discipline urbanistiche municipali che, unanimemente, usano l’actio popularis come strumento per la persecuzione di eventuali illeciti in materia edilizia; sul punto, tra gli altri, F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 86. 71  F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 413 e M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 649. 72  Cfr. M. Talamanca, Pubblicazioni, cit., 909 e F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 414, nt. 11, per il quale in un secondo momento «il procedimento di esazione del duplum sarebbe stato modificato… si sarebbe verificata una semplificazione procedimentale tramite una sorta di surroga dell’erario nel diritto del compratore nei confronti del venditore…», ciò risulta inequivocabilmente da Marc. sing. de del. D. 39.2.48: Si quis ad demoliendum negotiandi causa vendidisse domum partemve domus fuerit convictus: ut emptor et venditor singuli pretium, quo domus distracta est, praestent, constitutum est. Ad opus autem publicum si transferat marmora vel columnas, licito iure facit; contra J.L. Murga, El senadoconsulto, cit., 167, che riconduce la riforma della componente sanzionatoria della disposizione ad una misteriosa successiva costituzione imperiale, così come M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 649 e, da ultimo, L. Franchini, La tutela, cit., 706 nt. 48. 73  Contra J.M. Rainer, Zum Senatusconsultum, cit., 32 ss., che intendeva la fattispecie integrata al momento della successiva alienazione dei materiali separati, la cui impostazione, già contestata da M. Talamanca, Pubblicazioni, cit., 908, mi pare oggi superata dal 70 

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ne avrebbe infatti potuto esser qualificata “speculativa” anche quando le componenti fittili non fossero state vendute, ma utilizzate in altre costruzioni 74), imponeva tuttavia di attendere il compimento, da parte dell’emptor, di atti preliminari alla loro alienazione o reimpiego, univocamente rivolti a scopi speculativi 75. In quale senso possa affermarsi che il SC Volusianum e, in precedenza, almeno in parte, la consolidata interpretazione estensiva dell’Hosidianum abbiano colmato le lacune di un sistema repressivo nato imperfetto e da sé solo claudicante, lo si potrà apprezzare nel confronto testuale con i dubbi sollevati a suo tempo da Maffi sul reale contenuto precettivo del primo dei due provvedimenti senatori 76: «se fosse vero che la seconda vendita resta più recente contributo di F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 430 ss., il quale, a dir il vero, mostra di non condividere a pieno neppure la ricostruzione proposta dal secondo Autore nella misura in cui costui riteneva l’actio popularis esperibile contro le parti di una compravendita immobiliare sulla base del loro mero intento speculativo e «a parte il problema della prova al riguardo». L’azione penale in questione sarebbe infatti, secondo Procchi (che segue in materia l’impostazione a suo tempo data da C. Fadda, L’azione, cit., 207 s.), come tutte le azioni popolari pretorie prescrittibile entro l’anno dal perfezionamento della fattispecie e di conseguenza: «se la fattispecie sanzionata si integrasse al momento della prima compravendita caratterizzata da meri intenti speculativi, sarebbe fin troppo facile eludere il divieto attendendo il breve termine di prescrizione dell’azione prima di dar corso ad una speculazione, – a tal punto certamente provabile, ma – di fatto non più sanzionabile». 74  M. Talamanca, Pubblicazioni, cit., 908 e F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 420 ss. 75  Si veda F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 431; contra A. Maffi, Dal SC Hosidianum, cit., 569, per il quale il divieto del senatoconsulto scatterebbe in dipendenza da una valutazione obbiettiva, a priori, degli scopi negoziali sottostanti la prima vendita. 76  A. Maffi, Dal SC Hosidianum, cit., 563, 566 e 569, proprio questa raggiunta consapevolezza avrebbe dovuto spingere l’Autore a valorizzare il dettato, pur non così limpido, del Volusiano, al contrario, invece, egli nega fermamente la possibilità che la seconda disposizione abbia emendato la prima, sostenendo che essa ne sia la replica mal formulata: invertendo l’ordine della vendita e dello smantellamento, in realtà, nulla sarebbe mutato rispetto al passato, la norma (in base alla diversa integrazione del secondo senatoconsulto, ove al posto di qu[o plus] sibi adquireret stia invece quam sibi adquireret) avrebbe finito per vietare la demolizione di ciò che era stato acquistato a quest’unico scopo e per reprimere una condotta che l’Autore riteneva già interdetta in ambito urbano per effetto di una non meglio precisata disciplina di età repubblicana. In altri termini, il Volusiano non avrebbe in alcun modo perseguito l’effetto di scoraggiare l’ulteriore successiva commercializzazione dei materiali recuperati dalla demolizione, mercé la sanzione del loro acquirente, ma sarebbe valso soltanto a ribadire il divieto già imposto dall’Hosidianum. Da questo punto di vista, tuttavia, rimarrebbe, a mio modo di vedere, del tutto incomprensibile l’errore di Paolo in D. 18.1.52, ove si legge quo plus sibi adquireret, difficile, infatti, condividere l’opinione (in proposito, si veda M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 654 nt. 27, la cui ipotesi, seguita oggi anche da P. Buongiorno, Senatus consulta, cit., 33, nt. 52, sollecita le qui espresse perplessità, cfr. supra nt. 62), non meglio argomentata dall’Autore, secondo cui il giurista avrebbe di fatto contaminato il testo del Volusianum con reminescenze della precedente disposizione senatoria.

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pienamente valida, il primo acquirente, il demolitore, conserverebbe il lucro derivante dalla seconda vendita, oltre a poter richiedere, come attesta Paolo… la restituizione del prezzo pagato all’originario proprietario quando la prima vendita sia stata dichiarata inrita. Con il risultato che per il primo acquirente, anche una volta pagata la sanzione del duplum comminata dal SC Osidiano, tutta l’operazione si concluderebbe in pari se non addirittura in attivo… ciò sicuramente non corrisponde all’intenzione del legislatore». Il nudo disposto dell’Osidiano – Maffi ha senz’altro ragione sul punto – è lacunoso e omette di disporre del destino della successiva vendita dei materiali, ma questa, con ogni probabilità, è anche la ragione ultima della nuova delibera senatoria e della riformulazione complessiva, nella stessa contenuta, del testo del precedente senatoconsulto. In altri termini, pare sommessamente a chi scrive che, pur applicabili anche disgiuntamente a operazioni speculative distinte, Volusiano ed Osidiano giochino una partita comune contro tutti quei soggetti che acquistino un immobile al solo scopo di trarre profitto dal suo smembramento. Siamo di fronte a due prescrizioni, che, pur godendo di una vita autonoma, potrebbero interagire all’interno della medesima operazione economica: il dominus di uno stabile, consapevole o meno di trasferirlo come materiale da demolizione, lo aliena ad un terzo, il quale lo distrugge rivendendone i materiali fittili. Entrambe le operazioni traslative saranno compiute in odio ai veti imposti dalle disposizioni senatorie, ogniqualvolta nel loro complesso siano idonee a realizzare, per lo meno in capo al demolente, un lucro insperato, superiore cioè a quello che sarebbe stato ragionevole attendersi dalla vendita dell’immobile ai correnti prezzi di mercato o dal suo impiego sul mercato degli alloggi 77. In questo caso, il primo emptor dovrà il duplum del pretium all’erario in virtù dell’Hosidianum e potrà ottenere la restituzione di quanto pagato al venditore soltanto se quest’ultimo ne abbia condiviso l’intento speculativo; inoltre, ai sensi del Volusianum, nei suoi confronti sarà nulla la successiva vendita dei materiali a terzi, con Cfr. F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 423 s.; contra A. Maffi, Dal SC Hosidianum, cit., 566, il quale nella valutazione dell’intento dell’operazione, confondendo profitto e speculazione, individua il termine di confronto nel prezzo di acquisto dell’immobile integro. E qui, inoltre, attraverso il diverso parametro valutativo suggerito dal primo Autore, si spiega anche l’eccezione introdotta con il secondo senatoconsulto; infatti, per immobili in condizioni tali da non essere recuperabili, situati in zone che non interessano più da un punto di vista abitativo, la fattispecie non ha ragione di applicarsi, poichè, all’evidenza, sarebbe impedita la valutazione circa la speculatività complessiva dell’operazione, risultando prossimo a zero il valore dell’edificio sul mercato immobiliare. Se la disposizione, del resto, si applicasse ad un simile casus, favorirebbe la conservazione del degrado urbano, impedendo ai proprietari di smaltire immobili non più idonei a scopo abitativo, che potrebbero esser venduti soltanto per il recupero dei materiali fittili. 77 

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conseguente suo obbligo di restituire l’indebito. Neppure i terzi acquirenti, in ogni caso, sarebbero andati esenti da pena, dovendo anch’essi versare il duplum all’erario, nondimeno, tramite il reimpiego o la commercializzazione del fittile ricevuto gratuitamente dallo speculatore avrebbero potuto, di certo, almeno in parte, attenuare le proprie perdite. In base alla proposta ricostruzione, pertanto, chi sopporta la sanzione più gravosa è il primo acquirente dell’edificio e ciò è coerente con l’ipotizzata ratio delle disposizioni: la sua posizione, infatti, nel complessivo assetto di interessi negoziali in gioco è quella che ci si attende ricoperta da uno speculatore di professione 78. E, dopotutto, mi pare evidente che proprio l’emptor del casamento nella sua integrità fosse il soggetto che dell’intera manovra era in condizione di godere a pieno. Egli, infatti, detenendo i “mezzi di demolizione”, lucrava in prima persona l’incremento di valore che la separazione donava ai materiali estratti dal complesso immobiliare e, conscio del maggior valore che l’edificio poteva assumere nella sua incoerenza, era colui che concretamente poteva organizzare intorno a questa sicura plusvalenza una vera e propria attività commerciale in forme latu sensu imprenditoriali 79. Per questo lo si colpiva due volte: mediante la poena dupli da devolvere all’erario, di cui, al più, avrebbe potuto dividere il peso con il venditore quando quest’ultimo fosse stato a conoscenza del tipo di operazione in corso 80, e poi, in seguito alla In questo senso, cfr. F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 422 s., nt. 38 e J.M. Rainer, Zum Senatusconsultum, cit., 37; di queste figure già si è detto supra Intr., §. 3, in particolare è il caso di Crasso, su cui cfr. Plut., Crassus, 2.5-6 e si tornerà a dire diffusamente infra §. 3. In tema si vedano anche, tra gli altri, J. Carcopino, La vita, cit., 43; L. Homo, Roma, cit., 427 ss. ed E. Gabba, Considerazioni, cit., 110 ss. 79  In questi esatti termini si esprime F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 422 s. 80  Nel complesso è perfettamente coerente con i sovradescritti scopi del provvedimento, che il venditor sia, solo in tale circostanza (per aver compravenduto dolo malo), privato del corrispettivo dovutogli dal demolente, poiché solo in questo caso di fatto partecipa alla speculazione: mi pare, del resto, che, quando abbia assecondato le intenzioni speculative dell’acquirente, è pur probabile che abbia preteso una parte dell’utile, rendendosi in tal modo a pieno compartecipe dell’illecito. In altri termini, diversa doveva essere la posizione di forza negoziale di chi si accingesse a vendere un immobile, per lo più in cattivo stato di conservazione, in senso atecnico in buona fede, ovvero non conoscendo gli illeciti propositi dell’altra parte, nell’erronea convinzione che dovesse investire nel ripristino dei locali, da quella di colui che, sapendo di vendere l’immobile come insieme di materiali incoerenti, dovesse solamente dar conto all’acquirente dell’incomodo e delle spese di demolizione, potendo costui ben pretendere di dividere una parte del maggior profitto ottenuto dalla speculazione. Non vedo, per altro, diversamente da A. Maffi, Dal SC Hosidianum, cit., 568, quale differenza si ponga sul piano probatorio tra il dimostrare che il proprietario originario fosse a conoscenza della volontà dell’acquirente di demolire ed il provare che il venditore abbia alienato l’immobile come insieme di materiali incoerenti; non scorgo, in altri termini, alcuna plausibile ragione per cui la prima si dovrebbe considerare una pro78 

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vendita di quanto demolito, mercé la perdita del corrispettivo. Diverso il destino delle altre parti della transazione: esse, del resto, proprio per il loro carattere non professionale, avrebbero suscitato una minore apprensione nel legislatore: l’originario proprietario, che avesse condiviso l’intento speculativo, come detto, avrebbe perso il bene a titolo gratuito, mentre i terzi acquirenti dei materiali avrebbero terminato l’operazione con una perdita contenuta, in quanto soggetti per lo più estranei all’endiadi “demolizione-speculazione”, centro focale della repressione senatoria 81. Alcune ulteriori brevi osservazioni chiariranno il rapporto di integrazione e messa a punto reciproca esistente tra le due disposizioni. Le incertezze della regolamentazione introdotta con il SC Hosidianum si manifestavano, in effetti, non solo sotto il profilo dell’identificazione del tipo di demolizioni vietate e della loro sanzione, ma anche nell’aver lasciato ambiguamente alla clausola finale l’onere di imporre al dominus quel divieto, identico in realtà per valore, a quello di non diruere, di mutare aliquas partes rerum suarum, dum negotiationis causa id factum sit, che, soltanto dal SC Volusianum, sarebbe poi stato trasposto nella prima preclusione ed a questa equiparato. Un divieto, per altro, la cui ineludibile esigenza conbatio diabolica e la seconda no; in entrambi i casi unico oggettivo dato rivelatore mi pare potesse essere il prezzo della compravendita: se questo fosse stato basso, doveva risultare impossibile dimostrare che l’emptor versasse in uno stato di dolo, se, al contrario, fosse stato significativamente più alto del valore di mercato dell’immobile, ciò, di certo, avrebbe potuto indurre lo iudex a propendere per la sua complicità (sul punto, cfr. pure F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 433, la cui opinione in pieno condivido). 81  Cfr. P. Garnsey, La demolizione, cit., 163. A me pare in tal senso coerente con una duplice finalità la scelta di punire ogni acquirente (anche quello dei materiali separati) con la poena dupli: da un lato, più l’operazione speculativa diventava complessa, più la cassa pubblica riscuoteva in termini di sanzioni, dall’altro, anche i compratori partecipavano in certa misura del disvalore dell’operazione, finanziando illeciti traffici e contribuendo a loro volta a far lievitare i costi degli affitti urbani, come complici di manovre rivolte alla rarefazione del patrimonio abitativo urbano, nonché dei materiali stessi, i cui prezzi erano rimessi sempre più all’arbitrio di questi spregiudicati operatori edili. E pure mi pare ragionevole che l’Osidiano non preveda alcuna sanzione in capo al primo venditore (dell’immobile nella sua interezza) quando non abbia partecipato degli intenti speculativi alla base dell’operazione, ben potendo costui essere totalmente estraneo al disvalore complessivo dello scambio, mentre il Volusiano, coerentemente, punisce con la perdita del corrispettivo in favore dell’emptor, colui il quale, titolare di un edificio, lo demolisca per profittare dalla distrazione di sue parti più di quanto avrebbe ottenuto dalla vendita dell’intero (per altro, in quest’ultima occasione, la valutazione del dolo non è richiesta: essa infatti risulta in re ipsa). Su questo preciso aspetto del regime sanzionatorio delle due disposizioni, diversamente da quanto è parso a M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 655 e Id., La disciplina, cit., 281, mi sembrano sufficientemente espliciti sia il testo del secondo decreto senatorio, sia Paolo in D. 18.1.52 (...poena in eum, qui adversus senatus consultum fecisset, constituta est… qui vendidisset, ut irrita fieret venditio) e, certo, da un punto di vista economico, non definirei irrilevante il peso della sanzione dell’invalidità unilaterale della conventio.

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sigliava al secondo provvedimento di ribadirne la portata in chiusura della disciplina: de iis autem, qui rerum suarum possessores futuri aliquas partes earum mutassent, dummodo non negotiationis causa mutassent, nihil esset nouatum. Mediante il Volusiano venivano palesati, in altri termini, quei divieti che il primo senatoconsulto aveva lasciato tra le righe e senza i quali, tuttavia, non poteva assolvere al suo scopo, prestando il fianco a facili tentativi di elusione: il divieto di demolizione dell’edificio da parte del titolare, infatti, impediva di aggirare la preclusione mediante la semplice inversione soggettiva del demolente (il venditore al posto dell’acquirente), così come l’interdizione dell’attività distrattiva avrebbe precluso di eludere la normativa a mezzo di pratiche di sottrazione graduale delle componenti fittili 82. Cfr. M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 654; contra A. Maffi, Dal SC Hosidianum, cit., 564 ss.; l’Autore ribadisce, anche in questa sede, la propria diversa visione, influenzata dall’idea «che il divieto di distruggere per il proprietario non derivi né dall’uno né dall’altro dei due SCC, bensì da una norma che li precede entrambi», per cui il Volusiano non avrebbe aggiunto nulla all’Osidiano, ma, semmai, soltanto esplicitato il divieto di vendita a scopo di lucro di parti dell’edificio, ancora incorporate e da estrarsi a carico dell’acquirente, che era rimasto in ombra nel primo provvedimento. Nulla avrebbe statuito, invece, con riguardo alla possibilità per il proprietario di demolire o distrarre e successivamente vendere componenti dei propri immobili. La tesi sopra illustrata non potrebbe reggersi, come detto, rimettendo la disciplina senatoria alla mercé di facili espedienti elusori dei proprietari, se non sul presupposto, non dimostrabile, dell’esistenza di un preesistente provvedimento interdittivo delle demolizioni, vigente per la città di Roma. Mi pare, quindi, di seguito, utile spendere qualche ulteriore parola sull’idea, sostenuta pure da autorevole dottrina (cfr. O. Robinson, Ancient Rome, cit., 42 ss. e P. Garnsey, La demolizione, cit., 162), che esistesse anche a Roma, già nel I secolo a.C., una norma che vietasse di demolire l’edificio senza ricostruirlo entro un determinato termine. Mi limiterei a tre argomenti a discredito della menzionata ipotesi ricostruttiva: a) la previgenza di una siffatta normativa all’entrata in vigore dei SCC de aedificiis non diruendis, anzitutto, a meno di non ipotizzare la sua completa disapplicazione, avrebbe precluso il proliferare di quel cruentissimum genus negotiationis che, con tali provvedimenti, il senato mirava a scoraggiare; b) in secondo luogo, e nella medesima ottica, perché scattassero i divieti previsti dall’Osidiano e dal Volusiano abbiamo visto come fosse necessario associare all’atto di demolizione lo scopo di speculazione; se vi fosse stata una precedente normativa che avesse vietato la semplice demolizione non seguita da ricostruzione, non avrebbe avuto alcun senso il successivo intervento del senato il quale, all’evidenza, avrebbe colpito una fattispecie con elementi di specialità rispetto alla previgente e dunque più circoscritta; c) un terzo argomento nasce, a mio avviso, dalle motivazioni stesse che hanno spinto certi Autori verso l’artificiosa creazione di una disciplina antecedente per la città di Roma: l’idea, come esplicitato dalle riportate parole di Maffi, è che non tornino i conti economici della vicenda sanzionatoria connessa al perfezionamento dell’operazione negoziale vietata dai senatoconsulti, nell’ambito della quale, in base ad una simile impostazione, rischierebbe di rimanere illeso il soggetto intermedio, perno della transazione, cioè proprio colui che rivestiva il ruolo di speculatore edilizio. In considerazione di ciò, artificialmente, si è tentato di vincolare il demolente ad un non ben precisato obbligo di ricostruzione. Come detto, però, a me pare che questa apparente inadeguatezza del regime sanzionatorio sia cagionata dal mancato 82 

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Per quanto qui interessa, in ogni caso, un tale sistema normativo giunse, all’età dei Severi 83, come testimonia una costituzione del 222 d.C. dell’imperatore Alessandro Severo, che ribadisce il divieto di demolire e scorporare parti di edifici negotiandi causa: Imp. Alexander A. Diogeni. C. 8.10.2: Negotiandi causa aedificia demoliri et marmora detrahere edicto divi Vespasiani et senatus consulto vetitum est. Ceterum de alia domo in aliam transferre quaedam licere exceptum est: sed nec dominis ita transferre licet, ut integris aedificiis depositis publicus deformetur adspectus.

La costituzione richiama, oltre ad un senatoconsulto, verosimilmente il SC Hosidianum (o la versione dello stesso tramandata dal Volusiano 84), raccordo interpretativo tra le due disposizioni senatorie. La menzionata dottrina, infatti, ha trascurato la possibilità di dare una lettura congiunta dei provvedimenti, lettura, che, come poc’anzi dimostrato, coerentemente con la loro ratio, consente di addossare la maggior parte del peso economico dell’operazione in capo al soggetto che in concreto gode, in maniera piena, dei proventi della speculazione. Non vedo, infine, quale conferma dell’esistenza di una simile legge secondo Maffi possa dare D. 19.2.30 pr. (Alf. 3 digest. a Paul. epit.): Qui insulam triginta conduxerat, singula caenacula ita locavit , ut quadraginta ex omnibus colligerentur: dominus insulae, quia aedificia vitium facere diceret, demolierat eam: quaesitum est, quanti lis aestimari deberet, si is qui totam conduxerat ex conducto ageret. Respondit, si vitiatum aedificium necessario demolitus esset, pro portione, quanti dominus praediorum locasset, quod eius temporis habitatores habitare non potuissent, rationem duci et tanti litem aestimari: sin autem non fuisset necesse demoliri, sed quia melius aedificare vellet, id fecisset, quanti conductoris interesset, habitatores ne migrarent, tanti condemnari oportere. Nel passo (cfr. supra Cap. II, §. 1.1), infatti, non si accenna né ad un divieto di demolizione di natura pubblicistica, né ad obblighi di ricostruzione gravanti sul proprietario dell’edificio locato. Nel paragrafo in questione mi pare che la diversa quantificazione economica della responsabilità dominicale si leghi proprio ad una sua libera scelta di opportunità: questi era tenuto nei limiti della mercede pattuita, quando impediva il godimento del conduttore, era tenuto di più, nella misura dell’interesse complessivo della controparte, se la ricostruzione non si fosse resa necessaria per le condizioni di degrado in cui versava l’immobile. 83  Sulla fortuna dei due provvedimenti P. Garnsey, La demolizione, cit., 162 e L. Homo, Roma, cit., 464 s. 84  Da ultimo, cfr. il recentissimo contributo di F. Nasti, Mutare, cit., 592 ss. Sotto l’influenza del riferimento di numero singolare al provvedimento senatorio e per la sua posizione in C. 8.10.2, che segue la menzione dell’edictum, è stato pure sostenuto (in particolare, cfr. F. Lucrezi, Leges super principem. La “monarchia costituzionale” di Vespasiano, Napoli, 1982, 242, nt. 45) che dovesse esistere un senatoconsulto dell’età di Vespasiano (posteriore, pertanto, agli incendi dell’Urbe del 64 e 69 d.C., cui sarebbe stata legata l’opportunità della riedizione dei divieti poco tempo prima posti dal senato di Nerone: si veda in proposito quanto sostenuto da L. Solidoro Maruotti, Studi, cit., 344) contenente la reiteratio delle disposizioni dei SCC Hosidianum e Volusianum; contra V. Scarano Ussani, Le forme, cit., 141 nt. 4 e M. Sargenti, La disciplina, cit., 281, nt. 27, il quale reputa già di per sé improbabile la circostanza che Vespasiano abbia emanato un editto sulla stessa materia poi oggetto, sotto il suo stesso governo, di un senatoconsulto, ritenendo, inoltre,

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un provvedimento intermedio, un edictum dell’imperatore Vespasiano, di cui ribadiva l’attualità e la vigenza 85. Quest’ultima disposizione, tuttavia, non si sarebbe limitata a riportare i divieti introdotti dai SCC che temporalmente l’avevano preceduta e, anzi, proprio quel nuovo e più specifico divieto di marmora detrahere, a mio modesto avviso, deve far supporre che il provvedimento imperiale fosse teso a rispondere a nuovi pressanti quesiti interpretativi, inerenti l’esatta definizione perimetrale della categoria delle aliquas partes rerum suarum, di cui al dominus era precluso il mutamento a scopo speculativo. È probabile, in altri termini, si fosse dubitato che le componenti architettoniche degli edifici dovessero esser tutte assoggettate al divieto di distractio imposto dal complesso normativo Osidiano-Volusiano e si fosse diffusa l’idea che ne dovessero restare escluse quelle meramente ornamentali: del resto, né, da un lato, la loro separazione poteva nascondere pratiche abusive di graduale demolizione delle strutture abitative, né ne metteva a rischio la sopravvivenza, non ponendo, pertanto, sul piano sociale, quegli scrupoli legati alla rarefazione degli alloggi, che avevano con ogni probabilità spinto la mano del legislatore verso la repressione delle forme più odiose di speculazione professionale sui materiali edili. L’editto di Vespasiano sarebbe stato, in tal senso, utile a precisare al meglio le condotte di distractio vietate: in questa prospettiva, allo scopo di circoscrivere il più possibile la preclusione allorquando riguardasse componenti non vitali dell’edificio, non sanzionava ogni forma di spoliazione da elementi decorativi-ornamentali, ma solamente quelle dirette alla sottrazione di marmi negotiandi causa 86. La nuova disposizione inoltre limitava in maniera più che l’ordine inverso in cui l’Osidiano ed il provvedimento imperiale si collocano nella costituzione di Alessandro Severo sia sintomo di una scelta di opportunità politica della cancelleria del III secolo d.C. (in tal senso, più recentemente cfr. F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 429 e P. Buongiorno, CIL X 1401, cit., 242 nt. 24), la quale avrebbe così voluto mettere in risalto la disposizione imperiale a scapito di quella senatoria. 85  Recentemente, F. Nasti, Mutare, cit., 592 s. e, poi, F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 428 s., nt. 69, in ossequio, sul punto, all’impostazione tradizionale della dottrina. 86  Cfr. F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 430; M. Sargenti, La disciplina, cit., 274 e 281 e in precedenza L. Homo, Roma, cit., 465; il primo Autore, in particolare, dava rilievo nell’incipit della sua trattazione sui temi dell’urbanistica alle sensibili difficoltà tecniche di approvvigionamento del marmo, che, con buona probabilità, dovevano aver suggerito un simile intervento, con cui venivano privilegiate, tra le altre decorazioni, proprio quelle marmoree: «i materiali più preziosi e più rari, come i marmi, – per le loro – maggiori difficoltà di rifornimento, di trasporto, di lavorazione – erano i primi a divenire irreperibili sul mercato, da ciò – la negativa valutazione dell’insania di principi autori di vasti programmi di edilizia, come Caligola, appunto, e più tardi Nerone». Recentemente, tale impostazione, da chi scrive pienamente condivisa, è stata ripresa per essere, tuttavia, completamente riforgiata da L. Franchini, La tutela, cit., 708 ss., il quale ha singolarmente sostenuto che la norma, a distanza di due secoli, avrebbe reso esplicito quello che già doveva, ai contemporanei,

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stringente la facoltà dei proprietari di trasferire materiali edili de alia domo in aliam, condotta, questa, vietata, ora, alla luce del nuovo provvedimento, non solo quando compiuta negotiandi causa, ma anche, più in generale, ogniqualvolta pregiudicasse la decorosa conformazione degli aedificia 87. La nuova normativa, in ogni caso, pur conservando il riferimento agli scopi speculativi dell’operazione, volgeva verso una certa qual maggiore attenzione alla conservazione del pregio del patrimonio immobiliare italico. La speculazione, in altri termini, veniva colpita come sommo esempio di aggressione al decus urbis. Nel complesso, comunque, il combinato disposto della normativa senaesser evidente dal combinato disposto dei due senatoconsulti de aedificiis non diruendis, cioè che essi si riferivano esclusivamente agli immobili di pregio artistico, in cui fossero incorporati materiali preziosi come i marmi, la tutela dei quali, di conseguenza, doveva essere il vero obbiettivo di queste disposizioni, e ciò sarebbe reso evidente, secondo questo Autore, dal fatto che, se non si fosse trattato di materiali da costruzione particolarmente preziosi, sarebbe stato in concreto molto difficile realizzare intorno ad essi una manovra speculativa. Al di là della personale adesione alla ben più ampia visione ricostruttiva delle prassi speculative del tempo offerta da Procchi e da Sargenti, non confinata al pur certo lucroso commercio dei marmi e degli ornamenti preziosi degli edifici, ma, in considerazione delle note difficoltà di approvvigionamento, alla totalità del materiale costruttivo, sul punto, va rilevata la totale assenza di tracce che suggeriscano questo rapporto di stretta integrazione tra due norme, per vero, anche estremamente distanti nel tempo. 87  Cfr. F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 430 s.; P. Buongiorno, CIL X 1401, cit., 242 nt. 24 e F. Nasti, Mutare, cit., 594 ss., la quale ultima ritiene probabile che la costituzione in esame riassumesse i contenuti di precedenti editti di Settimio Severo e Antonino Caracalla; in ogni caso, la norma era stata, forse, oggetto di anticipazione in età adrianea, SHA. vita Hadr. 18.2: Constituit inter cetera, ut in nulla civitate domus aliqua trasferendae ad aliam urbem ullius materiae causa dirueretur; dal passo non risulta la natura del provvedimento; e, tuttavia, lo stesso pare volto a stabilire che, se lo spostamento di componenti architettoniche avesse implicato il trasferimento dei materiali separati in una diversa realtà urbana, la condotta distrattiva avrebbe dovuto essere qualificata come illecita in via del tutto indipendente dall’effettiva prova del danno estetico dalla stessa cagionato. Siamo senza dubbio ad un punto di svolta: le normative in esame si collocano al tramonto della vecchia prospettiva della lotta alla speculazione, a vantaggio di un più generico interesse al mantenimento del decus urbium, aspetto, questo, del resto molto influente sulle fortune delle singole personalità imperiali (cfr., sul punto, il recenti dubbi di F. Nasti, Ibidem, 600 s., circa la possibilità di un’esatta identificazione della fonte giuridica del Biografo adrianeo). Nella stessa direzione deve dopotutto essere letto il SC Acilianum (del 122 d.C.), che non ci è giunto per via epigrafica, ma di cui abbiamo traccia in Ulp. 21 ad Sab. D. 30.41pr.-.16 e Ulp. 21 ad Sab. D. 30.43 pr.-.1 (cfr. Ibidem, 594 ss.); il precetto generale, al di là delle numerose eccezioni, è quello che a noi interessa: non si possono legare le cose che fanno parte di un edificio o gli sono congiunte stabilmente; se, nonostante questo divieto, l’erede le avesse distaccate, al fine di adempiere alla volontà del testatore, sarebbe incorso in una multa, benché (è significativamente il giurista stesso a puntualizzarlo) non le abbia smembrate per un proprio tornaconto personale (per venderle), ma piuttosto per beneficiarne un terzo (per adempiere).

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toria de aedificiis non diruendis e di quella imperiale approntavano, pur con le stesse finalità, una tutela ben più mirata e meno invasiva delle prerogative del dominus rispetto a quel distrofico vincolo alla ricostruzione, che connotava le più risalenti discipline municipali 88. Un tale emendamento si spiegava, comunque, a mio avviso, alla luce di un complessivo mutamento di prospettiva: dal rigido divieto di demolire, salva riedificazione, della normativa decentrata, alla liceità di ogni iniziativa demolitoria o distrattiva, eccetto quelle poste in essere con intento speculativo 89. Ed ancora: dal divieto, di incerta delimitazione perimetrale, di trasformare in senso deteriore l’aspetto estetico dei casamenti, con il rischio di non poter privilegiare la ben più utile edilizia abitativa popolare, alla facoltà di modificarli liberamente, purché senza intento speculativo e senza recare pregiudizio al decoro urbano 90.

3. Sulle tracce delle negotiationes aventi ad oggetto la compravendita dei materiali di recupero. Attività economica e loro organizzazione in chiave imprenditoriale I capitoli che precedono sono rivolti allo studio delle negotiationes orbitanti attorno allo sfruttamento dei beni immobili urbani durante tutto l’arco della loro esistenza, sotto il profilo organizzativo e poi, anche, dal punto di vista negoziale, qui invece si tratterà di indagare l’attività economica e congetturalmente le modalità organizzative di quelle che traevano linfa vitale dalla loro rovina: dalla demolizione, dalla ricostruzione, nonché dalla rivendita o dal riutilizzo dei materiali dagli stessi recuperati. In via preliminare, vale la pena osservare che, sotto l’aspetto economico, ciò che scoraggiava i più dall’investire nella proprietà immobiliare urbana fosse proprio la sua elevata deperibilità. Se questo è vero, è evidente che proprio questa alta precarietà delle strutture immobiliari, attenuatasi solo nella Roma di Nerone, solleticava gli appetiti di un emergente ceto di specuCfr. supra §. 1. F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 421 ss. Neppure di ogni condotta rivolta al profitto: si rammenti in questo senso l’approvazione del senato alla richiesta dei parenti di Alliatoria Celsilla, ma di quelle sole finalizzate al conseguimento di uno sconsiderato lucro a danno di interessi diffusi, quali il mantenimento di un decoroso aspetto urbano e la conservazione di un patrimonio abitativo rispondente alle esigenze della popolazione. 90  Su cui già L. Homo, Roma, cit., 465, come, più di recente, M. Sargenti, La disciplina, cit., 281; F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 430 e P. Buongiorno, CIL X 1401, cit., 242 nt. 24. 88  89 

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latori, che compravano edifici pericolanti, spuntando un prezzo vantaggioso dal proprietario e li riedificavano, se potevano ancora servire ad uso abitativo, altrimenti li demolivano, riutilizzandone altrove le componenti fittili. In ogni caso, tutti questi investitori potevano contare su una doppia fonte di introiti: quelli derivanti da compravendita, nella misura in cui fossero riusciti a spuntare, attraverso il restauro o la commercializzazione separata dei materiali di recupero, un corrispettivo superiore al prezzo pagato per il rudere, nonché quelli delle pigioni di cui potevano godere come rentier o profittare come albergatori ed in qualità di gestori di immobili in affitto 91. Le dimensioni di queste attività organizzate dovevano essere comunque davvero notevoli, se, come ricorda lo stesso Plutarco, Crasso si era dotato di una squadra di schiavi, architetti, muratori, composta di più di cinquecento unità: una circostanza, questa, che mi pare debba suggerire l’idea che simili strutture operative dovessero godere di una tendenziale stabilità organizzativa ed essere riconducibili nell’alveo della nozione di negotiatio. L’esistenza ed ancora più la notevole diffusione di questo cruentissimus genus negotiationis è testimoniata indirettamente dai divieti imposti circa un secolo più tardi dai SCC Hosidianum e Volusianum, nonché, in maniera meno limpida, dai testi delle legislazioni municipali. Fortuna che tali operazioni immobiliari dovevano in buona misura ai mutamenti sociali, economici e politici che avevano contraddistinto il I secolo a.C. e di cui già ampiamente s’è detto 92. Nulla mutò nel secolo successivo 93 e, anzi, sia la politica edilizia di Augusto che quella di Caligola 94, intensificando l’attività edificatoria pubblica 95, assorbirono enormi quantità di risorse, di cui

91  Cfr. supra Intr., §. 3; Cap. I, §§. 1-3 e in letteratura L. Homo, Roma, cit., 455; F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 420 s., nt. 34 e A. Calzada, La demolición, cit., 116 ss. Esattamente le attività che la sua indiscussa abilità affaristica avrebbe suggerito a Crasso di legare assieme, cfr. A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 202 e G. Antonelli, Crasso, cit., 80. 92  Cfr. supra §§. 1-2 e Intr., §. 2-3. 93  Cfr. Strabo., De geogr. 5.3.7; dove lo storico greco dipinge con pochi tratti essenziali il fiorente mercato edilizio dell’epoca: nella Roma del I secolo a.C. ferveva una costante attività edificatoria, non che gli spazi vuoti fossero sovrabbondanti, anzi, tutt’altro, quello che alimentava con continuità il settore era proprio la continua rovina dei casamenti. Quando ciò non bastasse, in ogni caso, non era infrequente che i nuovi proprietari di complessi immobiliari ancora servibili ad uso abitativo decidessero deliberatamente di demolire e di ricostruire a proprio modo, a volte privilegiando alcune zone e quartieri, talvolta altri, in base alla più sprezzante logica di profitto (in tema, cfr. J. A. Arias Bonet, Capitalismo, cit., 292 s.; A. Wallace-Hadrill, Case, cit., 202 e G. Antonelli, Crasso, cit., 80). 94  Sulla politica di Augusto si veda Svet., De vita Caesarum (Div. Aug.), 29: iure gloriatus marmoream se reliquere quam latericiam accepisset, e, relativamente a Caligola, Svet., De vita Caesarum (Caligula), 21. 95  Plin., Nat. hist. 36.24.111-113.

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divenne per contro carente l’imprenditoria privata di settore. Solo così, sotto il governo di Claudio, si prese atto della necessità di porre un freno agli sventurati traffici commerciali di questa odiosa pletora di speculatori professionali, che, all’unico fine di appagare la propria insaziabile sete di profitto, metteva cinicamente a frutto le congenite miserie di un nucleo urbano allargato a dismisura e in costante debito di strutture abitative. Ai fini di questa trattazione proprio l’attenta osservazione dei divieti imposti dai senatoconsulti Osidiano e Volusiano dà l’occasione di ricostruire, per l’arco di tempo antecedente la loro emanazione, uno spettro in buona misura esaustivo delle attività negoziali intrattenute da questi spregiudicati impresari. Se, infatti, come si è detto 96, la normativa senatoria deve essere considerata un intervento chirurgico e puntuale, rivolto precipuamente a colpire chi eserciti simili pratiche speculative a livello professionale, sarà allora sufficiente mettere in luce le transazioni vietate dai senatoconsulti per conoscere uno spettro significativo delle manovre speculative poste in essere da questi mercatores. In via preliminare, anzitutto, lo speculatore edile, acquistato un immobile, grazie all’aiuto di propri tecnici avrebbe potuto censire lo stato di conservazione della struttura, valutando quando potesse essere recuperata e quando, invece, fosse più proficuo demolirla. Se si fosse deciso di restaurarla con la finalità di rivenderla ad un prezzo più elevato di quello corrisposto all’alienante ovvero di attrezzarla come casamento in affitto, doveva, in ogni caso, essere rispettata la disciplina urbanistica 97. È questa, infatti, una delle operazioni che sia la disciplina decentrata che quella urbana erano volte a regolamentare; in tal senso, si adoperava, anzitutto, la L. Tar. VIIII. 4. ll. 33-36 98 (assonante, sotto questo aspetto, anche la successiva Lex coloniae Genetivae Iuliae §. 75), enucleando un divieto che andava oltre il demolito e si estendeva a ciò che era stato asportato e non in pristino stato restituto e a ciò che si era modificato in senso deteriore. In altri termini, in base a questa normativa, nessuna modifica (e quindi pure nessuna raedificatio) poteva peggiorare l’aspetto architettonico dell’edificio. La preclusione impediva, pertanto, di speculare sul restauro mediante l’impiego di materiali scadenti o celando dietro l’intenzione di trasformare l’immobile la sottrazione degli elementi architettonici più pregiati allo scopo di immetterli sul mercato delle parti di recupero. In ambito urbano la frequenza di tali operazioni di compra, restauro e successiva alienazione mista di compoCfr. supra §. 2. L. Homo, Roma, cit., 455; J.A. Arias Bonet, Capitalismo, cit., 292 e L. Cappelletti, Norme, cit., 57 ss. 98  F.I.R.A. I, 18: Nei quis in oppido quod eius municipi erit aedificium … disturbato, nisei quod non deterius restiturus erit, nisei de senatus sententia. 96  97 

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nenti fittili e casamento riedificato è parimenti testimoniata in letteratura e viene disciplinata dai senatoconsulti Osidiano e Volusiano nel senso di impedire che vi potesse prevalere l’intento speculativo. Si tratta infatti di attività che cadono, nel loro complesso, sotto quel più generale divieto di mutare aliquas partes a fine di lucro sanzionato dalla disciplina senatoria. In particolare, già il SC Hosidianum, con formulazione indiretta, affermava: Ceterum testari senatum, domini[s nihil] constitui, qui rerum suarum possessores futuri aliquas [partes] earum mutauerint, dum non negotiationis causa id factum [sit] 99 .

Per i proprietari nulla sarebbe stato precluso quando avessero desiderato trasformare parti dei propri beni, innovarle, sostituirle o ripararle, purchè mediante tali atti non mirassero ad occultare operazioni di tipo speculativo. Il successivo SC Volusiano specificava la sanzione in caso di trasformazioni attuate negotiandi causa: per le condotte confliggenti con il divieto di non diruere colpiva l’emptor dei materiali separati a danno dell’edificio con la poena dupli e stabiliva l’invalidità a latere venditoris di qualsiasi vendita di partes aedificiis, ribadendo (…nihil esset novatum…) la vigenza del divieto già implicitamente formulato nella parte conclusiva dall’Hosidianum 100. In tutti gli altri casi, quando si fosse optato per non restaurare l’edificio, lo speculatore avrebbe comunque potuto scegliere tra un ampio ventaglio di soluzioni quella per lui più redditizia: ricostruire in loco 101, rivendere i materiali e il terreno 102 o, in alternativa, riutilizzare i materiali altrove 103, impiegandoli nella ricostruzione o riparazione di altri edifici, lucrando poi, eventualmente, sull’ulteriore vendita del nudo terreno. A mio avviso emerge con chiarezza, in particolare dal disposto dei SCC de aedificiis non diruendis, la ricorrenza a livello sociale di tre generi di F.I.R.A. I, 45, I. Si vedano F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 416 ss.; M. Sargenti, La disciplina, cit., 280; Id., Due senatoconsulti, cit., 653. 101  L. Homo, Roma, cit., 455 e L. Cappelletti, Norme, cit., 62 ss., con il limite ulteriore, a mio avviso, nei contesti provinciali, della non deteriorità della raedificatio, cfr. supra §. 1. 102  Del resto, già F. Serrao, Lotte per la terra e per la casa a Roma dal 485 al 441 a.C., in Legge e società nella repubblica romana, I, Napoli, 1981, 121 ss. e 170 ss., metteva in evidenza la risalenza del problema spaziale dell’Urbe, che non solo aveva colpito la plebe più povera ma anche il ceto dei commercianti inurbati. Sul punto, in ogni caso, si vedano L. Homo, Roma, cit., 455; J.A. Arias Bonet, Capitalismo, cit., 286 ss.; A. Zaccaria Ruggiu, Spazio, cit., 205 e F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 420 ss. In senso parzialmente difforme M. Sargenti, Due senatoconsulti, cit., 645, nega la rilevanza della speculazione sui suoli. 103  F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 431 e, più recentemente, L. Cappelletti, Norme, cit., 64 ss. 99 

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speculazione: il primo, “di compra per riutilizzare”, il secondo, “di vendita per demolire”, nonché l’ultimo, “di compra per rivendere”. – 1° tipo: il riciclaggio dei materiali fittili. In questo caso lo speculatore acquista un immobile, verosimilmente in uno stato materiale (ma perché no… anche giuridico) tale da consentirgli di strappare un prezzo vantaggioso al venditore, con lo scopo di demolirlo e di reimpiegare i materiali da questo ricavati in un’altra costruzione che ha intrapreso altrove. La diversa collocazione geografica di un immobile all’interno del panorama immobiliare urbano, del resto, incide ancora oggi in maniera pregnante sul suo effettivo valore: non è in altri termini indifferente per il costruttore l’appetibilità dell’area di sedime su cui intenda edificare. Da questo punto di vista, pertanto, un operatore edile avrebbe potuto trarre un significativo lucro semplicemente spostando i materiali estratti da un edificio in un cantiere aperto in altro luogo più redditizio, riservandosi, anche, una volta ultimata la rimozione dei resti, di rivendere il terreno 104. Una simile manovra, anzitutto, cadrebbe sotto il veto generale previsto dalla disciplina municipale, essendo presupposto implicito dell’obbligo di ricostruire non deterius (cfr. L. Tar. VIIII. 4. ll. 35: …nisei quod non deterius restiturus erit…) o entro l’anno (cfr. Lex Irn. 62 = Lex Mal. 62 105: … quod restituturus intra proximum annum non erit qui adversus…) che la riedificazione avvenga in loco, ma sarebbe pure interdetta dall’Hosidianum (si quis negotiandi causa emisset quod aedificium, ut diruendo plus adquireret quam quanti emisset), il quale, colpendo l’acquirente negotiandi causa  106, lo sanzionava con una multa del doppio del prezzo corrisposto per assicurarsi l’immobile (tum duplam pecuniam, qua mercatus eam rem esset, in aerarium inferri), che, nei fatti, gli avrebbe reso impossibile percepire lo sperato lucro dal riutilizzo del materiale, costringendolo a chiudere l’operazione per lo più in perdita. – 2° tipo: la commercializzazione di edifici come insieme di materiali incoerenti. Secondo questo schema, lo speculatore accumula con acquisti immobiliari vantaggiosi un cospicuo novero di casamenti, limitandosi a rivenderli ad altri operatori del settore edile interessati esclusivamente alla loro demolizione ed al recupero delle componenti fittili. Quando costui vende F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 420 s. e 431. F. Lamberti, “Tabulae”, cit., 267 ss. e F.I.R.A. I, 24. 106  Cfr. supra §. 2. 104  105 

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uno stabile lo trasferisce come insieme di materiali incoerenti 107 e dunque ad un prezzo molto maggiore rispetto al valore dell’edificio cadente 108, ad un corrispettivo che si avvicinerà a quello della materia separata, detratti, al più, i costi di demolizione. Qui, mi pare, delle tre species siamo in presenza di quella più peculiare: non è qui, infatti, necessariamente distinguibile a livello socio-economico la persona del soggetto speculatore, quale esercente di una determinata negotiatio nel contesto del settore edile; non è detto che disponga di un’organizzazione di homines et res funzionali alla demolizione/ ricostruzione di edifici e la sua attività si fonda, in buona misura, esclusivamente su un’ingente disponibilità di capitali. All’interno della complessiva operazione speculativa costui terrà per sé una parte consistente dell’utile, attraendo, conseguentemente, il peso della sanzione prevista dal SC Hosidianum: il “compratore-demolente” sarà certamente colpito dalla multa del duplum a vantaggio dell’erario, ma la compravendita sarà inrita a latere venditoris, cosicché quest’ultimo si vedrà costretto a rifondere l’intero prezzo di vendita all’acquirente senza recuperare il bene. Di seguito il dettaglio della disciplina: Cumque aeque non oportere[t] malo exsemplo uendere quam emer[e, u]t uenditores quoque coercerentur, qui scientes dolo malo [co]ntra hanc senatus uoluntatem uendidissent, placere: tales venditiones inritas fieri 109 .

Mi pare che la disposizione tenda ad equiparare il disvalore della condotta di chi compra e di chi vende in contrasto con la volontà del senato di proteggere il patrimonio immobiliare urbano da forme di speculazione sui materiali fittili: così come ad essa si contrappone chi acquisti un casamento allo scopo di lucrare dalla sua distruzione più di quanto non avrebbe potuto ottenere dalla sua manutenzione, lo stesso ostacola i propositi senatori l’originario titolare che, facendo leva sugli illegittimi fini altrui, voglia trarre un incongruo profitto dalla vendita di un immobile non completamente inservibile ad uso abitativo 110. A. Maffi, Dal SC Hosidianum, cit., 568. F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 433; ove l’Autore chiarisce le ricadute economiche della posizione dolosa dell’alienante: «se il venditore era a conoscenza degli intenti speculativi dell’acquirente avrà cercato di spuntare un prezzo più alto rispetto al valore di mercato» dell’immobile. 109  F.I.R.A. I, 45, I. 110  Cfr. supra §. 2, nt. 65. In forza dell’eccezione introdotta dal Volusiano, infatti, se 107  108 

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– 3° tipo: la commercializzazione dei materiali di risulta. Infine, vi erano casi in cui lo speculatore acquistava un edificio, lo demoliva o lo spogliava di sue parti, rivendendo a terzi il materiale da esso ricavato. Una simile operazione, già contemplata e vietata (cfr. L. Tar. VIIII. 4. ll. 34-35 111 = L. Col. Gen. 75 112: …neive demolito neive disturbato… quod non… restituturus – redaeficaturum – erit) dalla legislazione decentrata, che colpiva il demolente con una pena pari al valore dell’immobile distrutto o deturpato, veniva pure a essere congiuntamente repressa dai SCC Hosidianum e Volusianum, quando realizzata negotiandi causa (come pure risulta, a contrario, dalla chiusa della prima delibera senatoria …domini[s nihil] constitui, qui rerum suarum possessores futuri aliquas [partes] earum mutauerint, dum non negotiationis causa id factum [sit]) e su un immobile non soggetto ad esenzione in base a quest’ultimo atto normativo. Lo speculatore era, in questo caso, termine medio della transazione e per questo veniva colpito due volte: da un canto, con la pena in duplum da pagarsi all’aerarium, dall’altro, in forza del SC Volusiano, quale proprietario demolente, mediante l’invalidità della vendita (negotiandi causa) delle componenti fittili (…qui quid emisset duplum eius quanti emisset in aerarium inferre cogeretur et eius qui uendidisset inrita fieret uenditio… 113), residuando al più la possibilità di dividere il peso complessivo delle sanzioni con il primo venditore dello stabile, allorquando costui fosse stato a conoscenza della sua intenzione di demolire 114. La sopraesposta descrizione economica dell’attività negoziale intrattenuta da questi imprenditori edili e la continua fluttuazione dei materiali fittili da un edificio all’altro dell’Urbe suscitano senza dubbio grande curiosità lo stabile si fosse trovato in una zona negletta e fosse stato in buona misura inservibile a scopo abitativo, l’operazione non avrebbe potuto essere inclusa nel novero di quelle poste in essere negotiandi causa e, pertanto, anche l’originario venditore dell’immobile sarebbe andato esente da censura (si veda, sul punto, anche il recentissimo contributo di L. Cappelletti, Norme, cit., 65 ss.). 111  F.I.R.A. I, 18. 112  F.I.R.A. I, 21. 113  Cfr. F.I.R.A. I, 45, II. Si tratta, anche ai sensi del SC Volusiano, come era stato per la disciplina introdotta dall’Osidiano, di un caso d’invalidità unilaterale, con l’unica differenza dell’irrilevanza dell’elemento soggettivo doloso del venditore dei materiali scorporati, in proposito si veda supra §. 2. 114  Cfr. F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 433; per il quale la chiave di volta dell’intera manovra è la volontà dell’acquirente; se questi non abbia intenti speculativi, non può neppure speculare il venditore dell’immobile nella sua interezza: «l’intento negoziale-speculativo dell’acquirente, – è – condicio sine qua non per l’applicazione del SC, laddove la contemporanea sussistenza del dolus malus in capo al venditore è meramente eventuale… rende irrita la venditio… il dolo del venditore, fermo restando l’intento speculativo del compratore».

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nell’interprete, riguardo, soprattutto, alla probabile rilevante estensione dimensionale della rete commerciale in questione. Di fronte a questa evidente considerevole importanza economica vale la pena domandarsi se sia possibile, almeno in via congetturale, presumere che fosse uso di un tal genere di speculatori compiere le descritte manovre negoziali con l’ausilio di una stabile articolazione imprenditoriale; in altri termini, se si possa intendere quella locuzione, genus negotiationis, presente sia nel testo dell’Osidiano, che in quello del Volusiano, al pari di altre, nomen negotiationis ed appellatio negotiationis, le quali univocamente denotano la conduzione di attività economiche organizzate a scopo di lucro 115, riferimento pregnante al ricorrente esercizio imprenditoriale di queste attività. A farmi propendere per questa idea sta anzitutto la circostanza che, altrove, in un responso di pochi decenni successivo alla disciplina in esame, Nerazio utilizzi la medesima locuzione con la finalità di indicare un tipo socialmente distinguibile di negotiatio: Ner. 2 resp. D. 33.7.23: Cum quaeratur, quod sit tabernae instrumentum, interesse, quod genus negotiationis in ea exerceri solitum sit.

Nel citato frammento il giurista mette in evidenza l’inscindibile legame tra la consistenza dell’instrumentum di una taberna instructa e la precisa natura dell’attività economica che in essa il negotiator intende esercitare: in tal senso, genus negotiationis viene a denotare in D. 33.7.23, sia sotto il profilo economico, che in un’accezione tecnico-giuridica, una categoria di negotiatores socialmente distinguibile, qualificata da uno specifico bacino di utenza e dall’utilizzo prevalente di ricorrenti strumenti negoziali 116. Quel cruentissimus genus negotiationis, menzionato dai senatusconsulta de aedificiis non diruendis, vero obbiettivo della disciplina senatoria, non si riferisce allora forse tanto alle compravendite speculative di edifici e di materiali fittili già separati, che certo rappresentavano il bersaglio giuridico dei predetti divieti, ma, mercé l’impiego di quello specifico lemma, alle attività economiche organizzate in forma di negotiatio, che tramite questi atti negoziali operavano nel settore 117. Se ciò è vero, simili attività potevano di certo essere condotte personalmente dal negotiator, ma, il più delle volte, si sarebbero giovate dello schema organizzativo offerto dalla preposizione institoria. Dopotutto, non lo si potrà negare, si trattava pur sempre di esercizi commerciali che, anche itineranti, avevano ad oggetto lo scambio

M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 1 ss. P. Cerami-A. Petrucci, Diritto3, cit., 54 e M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 3 s. 117  In questa direzione anche J.M. Rainer, Zum Senatusconsultum, cit., 37 e F. Procchi, ‘Si quis’, cit., 423 ntt. 37 s. 115  116 

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di beni mediante il contratto di emptio-venditio, di conseguenza, essi rientravano nel contesto di quella riflessione prudenziale, che aveva portato il giurista Paolo ad affermare: Paul. sing. de var. lect. D. 14.3.18: Institor est, qui tabernae locove ad emendum vendendumve praeponitur quique sine loco ad eundem actum praeponitur.

Il passo fotografa il concetto di institore per un tempo anteriore a quello in cui Paolo scrive, probabilmente quello del II-I secolo a.C., esattamente il periodo in cui, come detto 118, proliferarono le sovradescritte pratiche speculative. Due i dati fondamentali che il testo ci offre: – institore è colui che è preposto a vendere e comprare beni; – è indifferente, almeno nel corso del I secolo a.C., che costui eserciti in 119 un locale commerciale o in un luogo aperto, fisso o meno che sia ��� . Proprio in relazione a questa seconda circostanza, è evidente che negotiationes come quelle qui in esame necessitassero fisiologicamente di svolgersi senza fissa dimora. Si trattava di attività nell’alveo delle quali gli scambi commerciali dovevano per lo più compiersi in strada, sul luogo dell’incendio, del crollo o in ogni altro sito in cui vi fosse l’opportunità di acquistare un immobile a basso costo; l’eventuale rivendita successiva dei materiali fittili, inoltre, nella maggior parte dei casi, avrebbe potuto perfezionarsi, in continuità con la demolizione, presso il cantiere, evitando all’imprenditore inutili spese di trasporto e stoccaggio. Non era del resto un legame inscindibile quello tra praepositio, conduzione di una taberna e negotiatio, come palesa anche Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.3: Institor appellatus est ex eo, quod negotio gerendo instet: nec multum facit tabernae sit praepositus an cuilibet alii negotiationi.

Sia che, dunque, si considerasse l’attività di rivendita dei materiali di risulta nel novero delle negotiationes commerciali ambulanti, per avere specificamente ad oggetto lo scambio di beni mediante contratti di compravendita, sia che la si inquadrasse tra le forme di manifestazione, seppure atipica, della gestione immobiliare, essa poteva essere condotta per mezzo di institores 120. Una seconda tipologia organizzativa che abbiamo visto essere diffusa tra le negotiationes romane è quella dell’exercitio peculiaris. Come si è detto

Cfr. supra §§. 1-2. Cfr. sul passo, A. Petrucci, Per una storia, cit., 15; P. Cerami-A. Petrucci, Diritto3, cit., 56 s. e M.A. Ligios, ‘Nomen’, cit., 44. 120  E su questo punto rimando a quanto argomentato supra Cap. I, §. 1-2. 118  119 

Una forma anomala di gestione immobiliare urbana: la speculazione sui materiali da costruzione ­­­­211

in precedenza 121, in assenza di una fonte che esemplifichi il novero delle negotiationes che potevano esercitarsi attraverso l’assegnazione di una massa peculiare ad un sottoposto e di riferimenti testuali espliciti alle modalità di organizzazione socialmente diffuse delle attività speculative in questione, il nostro discorso non può che essere limitato ad alcune osservazioni di carattere generale, attraverso le quali presumere la fruibilità e non la ricorrenza pratica del modello nel settore economico di riferimento. Si è stati tentati in passato di dedurre da una serie di passi del Digesto che la forma della negotiatio peculiaris si adattasse per lo più alla conduzione di attività piccolo artigianali o afferenti al settore dei trasporti 122, che rappresentasse, in altri termini, una modalità di gestione di negotiationes che non necessitavano, per il loro esercizio, del ricorso a ingenti capitali. E, tuttavia, D. 2.13.4.3 123 ha messo in chiaro l’illusorietà di questa impressione, palesando come, nella prassi, una simile forma organizzativa potesse essere adottata anche per l’esercizio dell’attività bancaria 124. Quello in questione è senza dubbio un mercato dominato da ingenti capitali, eppure la circostanza non ci deve vincolare sotto il profilo organizzativo; ciò che, invece, conforta la nostra ricostruzione è quella posizione di residualità dell’exercitio peculiaris nel contesto delle forme organizzative dell’imprenditoria romana, che abbiamo visto essere palesata in Gai. 9 ad ed. prov. D. 14.5.1: …sive neutrum eorum sit, de peculio actionem constituit. Nel caso in cui, infatti, non ricorra alcuno specifico atto volitivo del dominus legittimante il sottoposto all’esercizio della negotiatio, l’editto provinciale accorda al contraente l’azione nei limiti del peculio 125. In altri termini, ogni attività negoziale intrattenuta da un servus nell’ambito di qualsivoglia Cfr. supra Cap. I, §. 3. Cfr. D. 14.4.5.15, relativo ai commercianti di stoffe; D. 14.4.1.1, relativo all’impresa dei venaliciarii e a quella dei fullones e sarcinatores; D. 4.9.3.3, che riguarda le attività di trasporto. In tal senso, T.J. Chiusi, Diritto commerciale romano? Alcune osservazioni critiche, in Fides Humanitas Ius. Studii in onore di Luigi Labruna, II, a cura di C. Cascione-C. Masi Doria, Napoli, 2007, 1033 ss. e, in particolare, A. Bürge, Lo schiavo (in)dipendente e il suo patrimonio, in Homo, caput, persona. La costruzione giuridica dell’identità nell’esperienza romana, a cura di A. Corbino-M. Humbert-G. Negri, Pavia, 2010, 384 ss. 123  Ulp. 4 ad ed. D. 2.13.4.3: Sed si servus argentariam faciat (potest enim), si quidem voluntate domini fecerit, compellendum dominum edere ac perinde in eum dandum est iudicium, ac si ipse fecisset. Sed si inscio domino fecit, satis esse dominum iurare eas se rationes non habere: si servus peculiarem faciat argentariam, dominus de peculio vel de in rem verso tenetur: sed si dominus habet rationes nec edit, in solidum tenetur. 124  A. Petrucci, Profili, cit., 118 ss.; Id., Per una storia, cit., 85 ss.; R. Pesaresi, Ricerche sul peculium imprenditoriale, Bari, 2008, 9 ss. e A. Cassarino, Il vocare in tributum, cit., 148 ss. 125  A. Petrucci, Per una storia, cit., 81 s. e Id., Idee, cit., 310. 121  122 

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negotiatio, vincolerà il dominus, per lo meno, a risponderne nei limiti del peculio, ché, se così non fosse, il peso della lacuna legale sarebbe tornato a gravare, come al tempo delle XII Tavole, sul contraente con l’imprenditore, lasciandolo sprovvisto di qualsivoglia tutela. Constatazione, questa, che, seppur non è in grado di darne certezza, né tanto meno di attestarne l’effettiva diffusione nel settore, almeno dà sentore, che attività come quella in oggetto, a cui era lecito e giuridicamente vincolante preporre un institore, potessero pure essere condotte da soggetti sottoposti a potestà in forma di negotiatio peculiaris.

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CONCLUSIONI

Lo studio fin qui condotto su testi giurisprudenziali, letterari ed epigrafici consente a questo punto di individuare, senza pretesa di esaustività, alcuni risultati a cui si è pervenuti. Come in premessa si è detto, il primo capitolo della presente trattazione ha avuto lo scopo di delineare sotto il profilo organizzativo il paradigma della gestione immobiliare urbana nei secoli oggetto di questa ricerca. L’obbiettivo è stato raggiunto secondo due principali direttrici d’indagine: perseguendo la prima si è individuato il vertice organizzativo dell’amministrazione di casamenti urbani, percorrendo la seconda si è svelata la complessa articolazione manageriale posta alle sue dipendenze. Riguardo alla prima direttrice (cfr. Cap. I, §. 1), le fonti giurisprudenziali hanno dimostrato che i profitti della gestione di un’insula, siccome di un horreum, potessero far capo al dominus o, indifferentemente, al suo conductor. In quest’ultimo caso, tramite un contratto di locatio-conductio avente ad oggetto l’intero immobile, il conductor assumeva, per così dire, l’onere di speculare sulla differenza tra quanto corrisposto al dominus per assicurarsene il godimento e quanto riscosso dai subconduttori dei singoli spazi in cui l’edificio fosse ripartito. Sul punto, sono le fonti stesse a parlare, con attestazioni piuttosto nette: si pensi al qui insulam triginta conduxerat, singula caenacula ita locavit, ut quadraginta ex omnibus colligerentur di Alf. 3 dig. a Paul. epit. D. 19.2.30 pr. o al rerum custodiam, quam horrearius conductoribus praestare deberet, locatorem totorum horreorum horreario praestare non debere puto, nisi si in locando aliter convenerit di Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 19.2.60.9, che esonerava il proprietario, locatore del magazzino, dalla responsabilità ex custodia per le cose nello stesso introdotte, proprio in quanto soggetto estraneo al rapporto tra horrearius (speculatore-imprenditore) e cliente (utilizzatore finale), oppure, anche, a quei D. 19.2.7-8 (di Paolo e Trifonino), che perfino attestano un caso di locazione multilivello dell’insula, secondo lo schema: dominus – conductor – conductor 2 – habitator. Non mancano, per altro, neppure testimonianze di segno opposto, in cui, non accontentandosi di una semplice rendita, è il dominus ad organizzare ed esercitare, presso il pubblico degli utenti, una qualche forma di amministrazione di casamenti urbani. E, qui, senza dubbio, i domini horreorum insularumque,

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che in Paul. sing. de off. praef. vig. D. 19.2.56 si rivolgono al praefectus vigilum per dare avvio al procedimento esecutivo sulle cose convenute in pegno dagli utenti, ne rappresentano solo uno, il più nitido, degli esempi. Circa, invece, la complessa articolazione manageriale funzionale all’esercizio della gestione immobiliare urbana, alcuni dati sono emersi incontrovertibilmente dalle fonti (cfr. Cap. I, §§. 2-3): – anzitutto, che l’attività di gestione potesse essere affidata dal suo titolare ad un preposto. Un insularius poteva ricevere in carico la gestione dell’insula e pure ad un preposto, variamente denominato, poteva assegnarsi l’amministrazione di altre tipologie di casamenti urbani. Lo dice espressamente Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.5.1 e il dato è confortato da numerose e importanti convergenze: CIL IV 138, recante la proscriptio dell’insularius dell’Insula Arriana Polliana di Pompei; Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1.5 e Paul. 4 ad Sab. D. 33.7.13 pr., circa i preposti alla gestione di esercizi ricettivi; Paul. 1 decret. D. 14.5.8 e Scaev. 27 dig. D. 20.4.21.1, i quali rappresentano tracce non trascurabili del sistema organizzativo fondato sulla praepositio nell’ambito della conduzione di magazzini; – secondariamente, che la gestione immobiliare urbana potesse essere esercitata in forma di negotiatio peculiaris. E qui, le fonti giurisprudenziali sono trasparenti in tema di attività alberghiera (cfr. Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.3.2-3 e Ulp. 18 ad ed. D. 4.9.7.6), quelle epigrafiche lo sono circa l’amministrazione di horrea, nella misura in cui lo iussum di Cypaerus al servo Diognetus, in TPSulp. 45, diventa cartina al tornasole del contesto imprenditoriale circostante, mentre non lo sono, in senso più estensivo, sulla possibilità che ogni tipologia di edificio potesse essere affidata al management di un servo peculiare; e, tuttavia, mi è parso, che il silenzio potesse essere colmato in via interpretativa, riflettendo sull’inclusione di questa attività nell’elencazione di genera negotiationum suscettibili di essere esercitati per mezzo di preposti (D. 14.3.5.1-10) e sulla portata residuale dell’azione de peculio nel complessivo panorama della tutela adiettizia (su cui cfr. Gai. 9 ad ed. prov. D. 14.5.1); – in terzo luogo, che, in negotiationes di considerevoli dimensioni, aventi ad oggetto forme economicamente variegate di gestione immobiliare, gli schemi manageriali utilizzati dal titolare potessero risultare anche più complessi, tramite l’impiego di speciali figure procuratorie, come il procurator insulae di Petronio, Sat. 96, o di super-preposti, sovraordinati agli institori impiegati nella conduzione dei singoli rami d’impresa: della locanda, dell’albergo, nonché all’intrattenimento dei rapporti con gli habitatores dell’insula, secondo quel particolare schema di ripartizione mansionale che può essere plasmato a piacere dal negotiator, in base alla lettura combinata di D. 14.3.11.5 e D. 14.3.5.11;

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– che, infine, la stessa struttura complessa potesse ricorrere nel contesto dell’exercitio peculiaris, attraverso il dualismo servus ordinarius – servi vicarii. E veniamo ora al seguito della trattazione. La messa a frutto di una struttura architettonica, che qui ci ha interessato, può, in primo luogo, realizzarsi attraverso la locazione di appartamenti, stanze e celle, in cui è internamente ripartita. Anche sotto il profilo organizzativo il contratto di locatio-conductio diventa il perno della osservata, frequente alterità tra dominus ed esercente la gestione. È per questo che il secondo capitolo è devoluto interamente all’analisi di quella parte della sua disciplina, o meglio, della disciplina della locatio rei, che tange l’ambito economico della nostra indagine. Prendendo avvio dall’obbligazione del locatore a frui licere praestare, si è in proposito constatato (cfr. Cap. II, §§. 1.1-1.2), attraverso l’analisi esegetica di una pluralità di testi giurisprudenziali, come il principio ordinatore in tema sia quello che vuole costui vincolato a risarcire l’id quod interest al conduttore ogniqualvolta l’uti frui sia stato impedito a quest’ultimo da suo dolo (come, e.g., nel caso in cui abbia demolito il casamento locato per mera scelta di opportunità, sulla base di D. 19.2.30 pr.) o negligenza (cfr. Afr. 8 quaest. D. 19.2.33 e 19.2.35 pr., quando abbia tollerato l’abuso altrui avverso il conduttore, essendo invece tra le sue prerogative l’impedirlo; Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.19.1, quando non abbia conosciuto un vizio delle proprie cose, conoscibile in base all’ordinaria diligenza). Negli altri casi, quando l’uti frui fosse precluso al conductor dall’intervento di una vis cui resisti non potest, senza che potesse individuarsi una specifica culpa in capo al locatore, su quest’ultimo sarebbe gravato un semplice rischio e non una responsabilità in senso tecnico, vincolandolo, nei confronti del primo, alla sola remissio mercedis proporzionata al tempo di mancata fruizione dell’immobile. Il sistema era chiuso, poi, secondo la concorde attestazione delle fonti, dall’ulteriore regola per cui, in ogni caso, sarebbe invece gravato per intero sul conductor il rischio sotteso fisiologicamente all’attività che egli esercitava sul fondo (Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.15.2) o che normalmente deve essere sopportato nel godimento di un determinato bene (cfr. Alf. 2 dig. D. 19.2.27 pr.). Anche in rapporto all’obbligazione fondamentale del conduttore a rem reddere (cfr. Cap. II, §. 1.3), la responsabilità di quest’ultimo ex locato, per il perimento o il danneggiamento della res oggetto del contratto, gli era imputata a titolo di colpa o dolo (cfr. Marc. sing. ad form. hyp. D. 20.2.2; Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.11.2 e Alf. dig. a Paul. epit. D. 19.2.30.2). Per certo, infatti, sul conduttore gravava un generale onere di sorveglianza sul fondo; questo vincolo si esplicava anche in relazione ai soggetti che vi aveva introdotto e, in forma attenuata, pure sugli estranei, come attesta Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.13.7.

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In rapporto ai servi inducti per lo svolgimento dell’attività economica che egli esercita sul fondo, il conduttore risponde nei limiti dell’id quod interest, quando si sia macchiato di una specifica culpa in eligendo nell’affidargli determinate mansioni, poi, rivelatesi fatali al bene stesso (è il caso del fornicarius che, per negligenza nella cura di una fornace, manda al rogo la villa in Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.27.9), potendosi invece limitare, in coerenza con l’alternativo regime aquiliano, alla noxae deditio degli autori del fatto, quando a questa colpa sia estraneo (Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.27.11). Qui, per vero, come già Knütel aveva sostenuto, non incidendo la nossalità sulla struttura formulare dell’azione ex locato, mediante l’inserimento nella formula di un’apposita clausola che configurasse una condemnatio alternativa sul modello di quella aquiliana noxaliter data, avrebbe potuto rilevare solo, in ragione della natura di buona fede del giudizio, a fini assolutori o, post litem contestatam, come evento satisfattivo. Circa, poi, l’obbligazione di pagare la mercede, avendo trattato il §. 1.2 della casistica implicante l’esonero del conductor dal corrisponderla, nel §. 1.4, accennato al problema della sua natura e determinabilità, ci si è soffermati sui suoi sviluppi in senso patologico: cioè sulle conseguenze negative poste in capo al conduttore nel caso di suo inadempimento. Il locator avrebbe, in primo luogo, potuto, per mezzo dell’actio locati, ottenere tutela risarcitoria e, ove fosse convenuto, la risoluzione del contratto; secondariamente, in via di autotutela, avrebbe immediatamente acquisito la facoltà di prendere possesso delle res inductae dal conduttore, almeno dal I secolo d.C., anche solo tacitamente convenute in pegno (Ner 1 memb. D. 20.2.4 pr. e Ulp. 73 ad ed. D. 20.2.3); da ultimo, quella di espellere il conduttore, mediante un atto stragiudiziale di tutela privata, variamente nomenclato nelle fonti: expulsio, eiectio o prohibitio (cfr. Scaev. 7 dig. D. 19.2.61 pr. e Paul. 5 resp. D. 19.2.54.1). Sul descritto regime generale della locatio rei abbiamo poi innestato, nei §§. 2 e 3, il discorso circa le peculiari divergenze che caratterizzano, in ragione della loro particolare finalità di custodia delle cose dei clienti, la locatio horrei e la locazione di stanze di albergo. Riguardo alla prima, Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 19.2.60.9 conferma, nel quadro disciplinare della locatio rei (come attesta la circostanza che la controparte del titolare della negotiatio, cioè l’horrearius, sia denominata conductor), la particolare responsabilità ex custodia, che i gestori dei magazzini, con la perfezione del contratto, assumevano nei confronti delle cose introdotte nelle celle dai propri clienti. Dai più considerata oggettiva, questa responsabilità incontrava come solo limite la forza maggiore e il furto con scasso (cfr. C. 4.65.1 e C. 4.65.4), salvo che l’esercente non decidesse di limitarla o escluderla mercé un’apposita conventio o tramite la predisposizione di clausole unilaterali, c.d. leges horreorum, le quali, una volta compiutane la proscriptio, risultavano immediatamente integrative dei

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contratti di locatio horrei conclusi con gli utenti (cfr. CIL VI 33747 e Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 19.2.60.6). In rapporto alla locazione di stanze di albergo, si è invece trattato, per lo più, di porre a profitto i risultati dei numerosi, pregevoli studi, già pubblicati, riguardanti il peculiare regime della responsabilità ex recepto, introdotta nell’editto nel corso del II secolo a.C. Per quanto almeno originariamente rimessa alla scelta convenzionale delle parti, essa si sostanziava in una disciplina di grande favore verso i clienti, che comportava un notevole aggravio di responsabilità per l’esercente, vincolandolo, esclusa la vis maior e il damnum fatale (cfr. Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.3.1), al risarcimento, in base al mero fatto obbiettivo della mancata restituzione delle proprie cose ai conduttori (cfr. Ulp. 14 ad ed. D. 4.9.1 pr.). Siamo, infine, ai risultati dell’ultimo capitolo della presente trattazione, il cui premesso obbiettivo era quello d’intuire, per quanto possibile, dall’osservazione speculare dei divieti, dalle legislazioni decentrate e dai senatoconsulti Hosidianum e Volusianum, imposti alla demolizione e allo smantellamento di parti di casamenti, le forme economiche e giuridiche delle negotiationes dedite alla commercializzazione e al reimpiego delle componenti fittili scorporate da edifici esistenti, per lo più, in precario stato di conservazione. Lo studio, come detto, si giustifica nel quadro della presente ricerca, in quanto, si potrebbe dire, queste attività rappresentano l’altra faccia dello sfruttamento di immobili nella loro essenza strutturale: una “manifestazione anomala” della gestione immobiliare urbana. In particolare, da un punto di vista economico, è stato possibile isolare tre tipi di attività speculative (cfr. Cap. III, §. 3), cui i suddetti provvedimenti miravano a porre argine. 1) Il riciclaggio: nel quale lo speculatore acquista un immobile, in uno stato materiale e/o giuridico, tale da consentirgli di strappare un prezzo vantaggioso, con lo scopo di demolirlo e reimpiegare egli stesso, in un sito più profittevole, i materiali da questo ricavati. Una simile manovra, infatti, cadrebbe sotto il veto della disciplina municipale, essendo presupposto implicito dell’obbligo di ricostruire non deterius (L. Tar. VIIII. 4. ll. 35: … nisei quod non deterius restiturus erit…) o entro l’anno (Lex Irn. 62 = Lex Mal. 62: …quod restituturus intra proximum annum non erit qui adversus…) che la riedificazione avvenga in loco, ma sarebbe anche interdetta dall’Hosidianum (si quis negotiandi causa emisset quod aedificium, ut diruendo plus adquireret quam quanti emisset), il quale sanzionava l’acquirente negotiandi causa con una multa del doppio del prezzo dell’immobile (tum duplam pecuniam, qua mercatus eam rem esset, in aerarium inferri), che gli avrebbe impedito di percepire lo sperato lucro dal riutilizzo del materiale, costringendolo a chiudere l’operazione in perdita. 2) La commercializzazione di edifici come insieme di materiali incoerenti: nella quale lo speculatore accumula con acquisti vantaggiosi un cospicuo

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novero di immobili, limitandosi a rivenderli come insieme congiunto di materiali fittili e, dunque, ad un prezzo più elevato rispetto al reale valore degli edifici cadenti, ad altri operatori del settore interessati esclusivamente alla loro demolizione. Anche in questo caso, il negotiator, ottenendo per sé, nel complesso dell’operazione, una parte consistente dell’utile, attrarrà il peso della sanzione del SC Hosidianum: infatti, il “compratore-demolente” sarà colpito dalla multa del duplum, ma la vendita sarà inrita a latere venditoris, cosicché quest’ultimo si vedrà costretto a rifondere l’intero prezzo di vendita all’acquirente senza recuperare il bene (cumque aeque non oportere[t] malo exsemplo uendere quam /emer[e, u]t uenditores quoque coercerentur, qui scientes dolo malo /[co]ntra hanc senatus uoluntatem uendidissent, placere: tales /venditiones inritas fieri). 3) La commercializzazione dei materiali di risulta: nella quale lo speculatore acquistava un edificio, lo demoliva o lo spogliava di sue parti, rivendendo a terzi il materiale da esso ricavato. Una simile operazione, già contemplata e vietata dalla legislazione decentrata (L. Tar. VIIII. 4. ll. 34-35 = L. Col. Gen. 75: …neive demolito neive disturbato… quod non… restituturus – redaeficaturum – erit), che colpiva il demolente con una pena commisurata al valore dell’immobile distrutto o deturpato, veniva pure repressa dai SCC Hosidianum e Volusianum, quando realizzata negotiandi causa e su un bene non soggetto ad esenzione in base a quest’ultimo atto normativo (come risulta dalla chiusa della prima delibera senatoria …domini[s nihil] constitui, qui rerum suarum possessores futuri aliquas [partes] earum mutauerint, dum non negotiationis causa id factum [sit]). Lo speculatore era, infatti, in questo caso, colpito due volte: con la pena in duplum e, quale demolente, mediante l’invalidità della vendita negotiandi causa delle componenti fittili (ai sensi del Volusiano: …qui quid emisset duplum eius quanti emisset in aerarium inferre cogeretur et eius qui uendidisset inrita fieret uenditio…). Sotto il profilo organizzativo, stante l’esplicito uso, nel testo dell’Osidiano, così come del Volusiano, della locuzione genus negotiationis per riferirsi a tali manovre speculative, alla luce del coevo passo neraziano, 2 resp. D. 33.7.23, è parso doversi trattare pacificamente di una categoria di negotiatores socialmente distinguibile, come tale caratterizzata dall’utilizzo prevalente di ricorrenti modelli organizzativi. E, sul punto, seppure le fonti non sono esplicite riguardo a questo particolare settore di mercato, è però vero che Paul. sing. de var. lect. D. 14.3.18, più in generale, riconosce possa preporsi sempre un institore a vendere e comprare beni, sia che egli eserciti in una taberna sia che lo faccia in luogo aperto, da che, poi, si può arguire, data la posizione di residualità dell’actio de peculio nel panorama delle tutele adiettizie, che, anche, potesse esercitarsi questa mercatura in forma di negotiatio peculiaris.

Bibliografia ­­­­219

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

14.4.1 pr.: 80 nt. 121 14.4.1.1: 211 nt. 122 14.4.5.15: 211 nt. 122 14.5.1: 81; 211; 214 14.5.8: 52 nt. 38; 70; 163 nt. 227; 214 15.1.9.4: 80 nt. 121 15.1.11.6: 80 nt. 121 15.1.47 pr.: 82 nt. 123 15.2.1 pr.: 80 nt. 121 15.3.1 pr.: 76 nt. 112 15.4.1 pr.: 79 nt. 120; 80 nt. 121 15.4.1.1: 50, nt. 33; 79 nt. 120 17.2.52.15: 15 nt. 59 18.1.52: 188 nt. 58; 190 nt. 62; 192 nt. 67; 193; 194 nt. 76; 197 nt. 81 19.1.13.30: 41 nt. 13 19.1.53.2: 41 nt. 13 19.2.2 pr.: 134 nt. 137 19.2.7: 42; 99 ss.; 213 19.2.8: 99 ss.; 213 19.2.9 pr.: 97 19.2.9.5: 118 nt. 84 19.2.9.6: 101 nt. 31 19.2.11 pr.: 117 nt. 80; 131 19.2.11.2: 118; 215 19.2.12: 132 nt. 127 19.2.13.7: 119; 120 nt. 90; 215 19.2.13.11: 89 nt. 8 19.2.15 pr.-.1: 91; 102 19.2.15.2: 103, nt. 35; 109; 113; 116; 119 nt. 87; 120, nt. 90; 215 19.2.15.8: 101 nt. 31 19.2.19.1: 93; 215 19.2.19.6: 28 nt. 98 19.2.24.4: 139 19.2.25 pr.: 135, nt. 140 19.2.25.1: 41 nt. 13 19.2.25.2: 98; 114 19.2.25.6: 115 19.2.27 pr.: 40; 42 nt. 15; 112; 215 19.2.27.1: 115; 119 nt. 88; 19.2.28.2: 101 nt. 30 19.2.29: 118 nt. 85 19.2.30 pr.: 42 nt. 15; 95; 96 nt. 24; 100 nt. 28; 109; 114; 199 nt. 82; 213; 215 19.2.30.1: 111

19.2.30.2: 120; 215 19.2.30.4: 122; 123 nt. 99; 127 19.2.33: 96 ss.; 100 nt. 28; 101 nt. 32; 102 s., ntt. 34 s.; 105 nt. 38; 215 19.2.35 pr.: 93 nt. 14; 96; 98 nt. 26; 101 nt. 32; 108; 114; 215 19.2.35.1: 134 nt. 136 19.2.54.1: 138 nt. 151; 139, ntt. 153 s.; 155; 156 nt. 199; 216 19.2.55 pr.: 160 19.2.56: 47; 139, ntt. 153 s.; 147; 154 nt. 195; 155; 214 19.2.58: 37 19.2.60 pr.: 113 19.2.60.6: 162; 164 nt. 229; 217 19.2.60.9: 46; 89 nt. 7; 157; 213; 216 19.2.61 pr.: 139; 153; 156; 216 19.5.22: 136 s. nt. 145 20.1.6: 152 nt. 189 20.2.2: 117; 215 20.2.3: XVI; 142, nt. 61; 216 20.2.4 pr.: 142; 146 nt. 171; 216 20.2.4.1: XVI 20.2.7.1: 143 nt. 162 20.2.9: 138 nt. 150; 144; 146 nt. 171 20.4.5: 166 20.4.6.1: 167 nt. 237 20.4.6.2: 166 s., nt. 237 20.4.21.1: 52 nt. 38; 72, ntt. 100 s.; 148; 214 23.2.43 pr.: 16 nt. 65 23.2.43.9: 16 nt. 65 24.1.45: 188 nt. 56 30.41 pr.-.16: 201 nt. 87 30.43 pr.-.1: 201 nt. 87 33.7.12.42: 68 nt. 91; 84 nt. 129 33.7.13 pr.: 14 nt. 59; 54 s., nt. 55; 214 33.7.13.1: 55 nt. 55 33.7.20.2: 84 nt. 129 33.7.23: 209; 218 39.2.48: 193 nt. 72 39.4.10.1: 138 nt. 151; 147 nt. 175 41.2.25.1: 150 nt. 185 43.16.1.9: 150 nt. 185 43.16.12: 150 nt. 185 43.16.18: 150 nt. 185 43.19.1.17: 150 nt. 185

Indice delle fonti ­­­­237

43.19.3.4: 150 nt. 185 43.32.1 pr.: 140 43.32.1.4: 145; 147 nt. 172 43.32.1.5: 140 nt. 157 43.32.2: 143 nt. 162 47.5.1.6: 69 nt. 94 50.16.166: 52, nt. 41; 65; 74 50.16.185: 85 nt. 129 50.16.198: XV; 142 nt. 161 Institutiones 4.15.5: 139 Gai Institutiones 3.140: 136 nt. 141 3.143: 135 nt. 140; 136 nt. 144 3.144: 134 nt. 137 4.6-9: 180 nt. 30 4.61-63: 154 nt. 192 4.70: 79 nt. 120 4.71: 53 ntt. 44, 46 4.153: 139 Pauli Sententiae 2.8.2: 64 nt. 82 2.31.16: 15 nt. 59 3.6.58: 68 nt. 91 Fonti Non Giuridiche Appiano Historia romana VIII, 128.610: 12 nt. 52 Apuleio Metamorphoseon I, 7: 15 nt. 59 VIII, 29: 14 nt. 59 Catone De agri cultura Praef. 1-4: 26 nt. 93 Cesare De bello civili 3.21.1: 32 nt. 106; 84 nt. 129; 149 nt. 183

Cicerone De finibus 2.83: 26, nt. 94 2.84: 19 nt. 70; 26, nt. 94 De inventione 2.4.14-15: 15 De officiis 1.42.150-151: 26 2.23.83: 13 nt. 56 2.25.88-89: 26; 84 nt. 129 Epistulae ad Atticum 10.5.3: 25 nt. 92 11.5.2: 15, nt. 61 11.23.3: 32 nt. 106; 150 nt. 183 12.18.3: 27 nt. 97 12.21.4: 27 nt. 97 12.32.2: 26 s.; 28 nt. 98; 48 nt. 30; 84 nt. 129 13.2.1: 27 nt. 97 13.12.4: 27 nt. 97 13.30.2: 27 nt. 97 13.50.5: 27 nt. 97 14.9.1: 30; 49 nt. 31 14.16.1: 60 nt. 68 15.15.1: 27 nt. 97 15.15.4: 25 nt. 92; 27 nt. 97; 28 nt. 99 15.17.1: 25 nt. 92; 27, nt. 96; 28 ntt. 98 s.; 48 nt. 30 15.20.4: 27 nt. 97 16.1.5: 25 nt. 92; 28 s., nt. 98; 48 nt. 30; 84 nt. 129 Epistulae ad familiares 6.19: 14 nt. 59 7.23: 14 nt. 59; 25 nt. 92 13.2: 27 nt. 98 Pro Caelio 17: 30 Pro Tullio 17: 60 nt. 68

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

Columella Rei rusticae libri I, 6, 7: 58 nt. 61; 60 nt. 68 Corpus inscriptionum latinarum (C.I.L.) I, 807: 16 nt. 63 IV, 138: 4; 11 nt. 46; 48 nt. 30; 49 ss.; 59 nt. 63; 63 nt. 78; 164 nt. 228 IV, 1136: 11 nt. 46; 37 nt. 6 VI, 238: 47 nt. 28 VI, 588: 74 nt. 107 VI, 4226: 74 nt. 106 VI, 8856: 69 nt. 95 VI, 9467: 74 nt. 107 VI, 9471: 47 nt. 28 VI, 30855: 73 VI, 30901: 73 s., nt. 107 VI, 33747: 21 nt. 79; 78 nt. 116; 141 nt. 159; 161, nt. 219; 163 nt. 227; 164 VI, 33860: 20 nt. 74; 21 nt. 78; 157 nt. 203; 163 s., nt. 228 VI, 36778: 47 nt. 28 VI, 36783: 47 nt. 28 VI, 36786: 47 nt. 28 VI, 36819: 47 nt. 28 VI, 36837: 47 nt. 28 VI, 37795: 163 s., nt. 228 XIV, 4190: 18 nt. 69 Diodoro Siculo Bibliotheca historica 14.51.1: 12 nt. 52 Dione Cassio Historia romana 42.32.2: 32 nt. 106 48.9.4: 150 nt. 183 Festo De verborum significatu (v. Lindsay) 370 L: 18 nt. 69 Filostrato Imagines 1.1: 12 nt. 52

Fontes iuris romani anteiustiniani (F.I.R.A.) I, 18: 177, nt. 14; 204, nt. 98; 208 nt. 111 I, 21: 178, nt. 23; 208, nt. 112 I, 24: 180, nt. 32; 206, nt. 105 I, 45, I: 185, nt. 47; 189, nt. 61; 205, nt. 99; 207, nt. 109 I, 45, II: 189 ss., ntt. 59, 63, 66; 210, nt. 113 Galeno De antidotis 1.13: 29 nt. 102 De compositione medicamentorum per genera 1.1: 29 nt. 102 De indolentia 2: 29 nt. 102 8: 29 nt. 102 18: 29 nt. 102 Gellio Noctes Atticae 15.1.3: 29, nt. 102; 32; 84 nt. 129 Giovenale Satirae III, 166: 15 nt. 59 III, 197: 84 nt. 129 III, 223-225: 31 VII, 70: 15 nt. 59 Livio Ab Urbe condita 21.62: 10 45.22.2: 14 nt. 59 Marziale Epigrammata 3.52: 25 nt. 92 4.37: 25 nt. 92; 84 nt. 129 12.32: 28 nt. 98; 31; 84 nt. 129; 139 nt. 153; 151; 154 nt. 195 Nepote Atticus 14.3: 29

Indice delle fonti ­­­­239

Orazio Carmina 1.4.13: 14 nt. 59 Epistulae 1.15.10: 14 nt. 59 Petronio Satyricon 81: 14 nt. 59; 15 82: 14 nt. 59; 15 90: 67 nt. 89 91: 15 nt. 59 95: 14 nt. 59; 15; 48 nt. 30; 51 nt. 37; 54 nt. 48; 55 s.; 62 s.; 66 nt. 84; 67 s.; 84 nt. 129; 86 96: 48; 59; 62; 64; 66 nt. 84; 86; 214 Plauto Menaechmi 436: 14 nt. 59 Truculentus 696: 14 nt. 59 Plinio il Giovane Epistulae 6.19.4: 15 nt. 59 Plinio il Vecchio Naturalis historia 36.24.111-113: 203 nt. 95 Plutarco Vitae parallelae Crass. 2.5-6: 13 nt. 56; 25 nt. 92; 33; 196 nt. 78 C. Grac. 6.2: 19 nt. 69 Seneca Epistulae morales ad Lucilium 56, 1-2: 11 nt. 46 90: 29 nt. 102 De beneficiis 1.14.1: 14 nt. 59

6.15: 29 nt. 102 Strabone De geographia 5.3.7: 13 nt. 56; 33; 184 nt. 44; 203 nt. 93 Svetonio De vita Caesarum Div. Iul., 38: 31; 150 nt. 183 Div. Aug., 29: 203 nt. 94 Caligula, 21: 203 nt. 94 Nero, 27.3: 14 nt. 59 Tabulae Pompeianae Sulpiciorum (TPSulp.) 45: 77 ss., ntt. 115, 120 s.; 85 nt. 130; 214 51: 78 nt. 116 52: 78 nt. 116 Tacito Annales 15.43: 13 nt. 54; 51 nt. 37; 68 18: 68 19: 68 Tertulliano Adversus Valentianos 7: 13 nt. 54 Valerio Massimo Facta et dicta memorabilia I, 7 ext. 10: 15 nt. 59 Varrone De re rustica 1.2.23: 14 nt. 59; 52 nt. 39 Vitruvio De architectura 2.8.17: 12 nt. 53; 29 nt. 102

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

Indice delle fonti ­­­­241 COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

DELL’UNIVERSITÀ DI PISA

Volumi pubblicati 1. V. Casamassima, L’opposizione in Parlamento. Le esperienze britannica e italiana a confronto, 2013, pp. XXII-546. 2. F. Biondi Dal Monte, Dai diritti sociali alla cittadinanza. La condizione giu­ ridica dello straniero tra ordinamento italiano e prospettive sovranazionali, 2013, pp. XVI-320. 3. AA.VV., Libertà dal carcere, libertà nel carcere, 2013, pp. XXVIII-452. 4. AA.VV., Internet e Costituzione, 2014, pp. X-374. 5. F. Azzarri, Res perit domino e diritto europeo. La frantumazione del dogma, 2014, pp. XVIII-446. 6. C. Murgo, Il tempo e i diritti. Criticità dell’istituto della prescrizione tra norme interne e fonti europee, 2014, pp. XII-292. 7. E. Navarretta (a cura di), La metafora delle fonti e il diritto privato europeo. Giornate di studio per Umberto Breccia, Pisa, 17-18 ottobre 2013, 2015, pp. XVI-224. 8. M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato. Contributo al dibattito sui confini della giurisdizione, 2015, pp. XIV-326. 9. AA.VV., Stupefacenti e diritto penale: un rapporto di non lieve entità, a cura di G. Morgante, 2015, pp. XII-276. 10. M. Passalacqua (a cura di), Il «disordine» dei servizi pubblici locali. Dalla promozione del mercato ai vincoli di finanza pubblica, 2015, pp. XVIII-398. 11. C. Favilli, La responsabilità adeguata alla famiglia, 2015, pp. XVI-528. 12. L. Pasquali, Multilinguismo negli atti normativi internazionali e necessità di soluzioni interpretative differenziate, 2016, pp. X-198. 13. M. Del Chicca, La pirateria marittima. Evoluzione di un crimine antico, 2016, pp. X-294. 14. G. De Francesco-E. Marzaduri (a cura di), Il reato lungo gli impervi sentieri del processo, Atti dell’Incontro di studi svoltosi a Pisa il 26 febbraio 2016, 2016, pp. X-222. 15. A. Landi-A. Petrucci (a cura di), Pluralismo delle fonti e metamorfosi del diritto soggettivo nella storia della cultura giuridica, vol. I, La prospettiva sto­ rica, 2016, pp. X-242. 16. I. Belloni-T. Greco-L. Milazzo (a cura di), Pluralismo delle fonti e metamor­ fosi del diritto soggettivo nella storia della cultura giuridica, vol. II, La pro­ spettiva filosofica: teorie dei diritti e questioni di fine vita, 2016, pp. XII-164.

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La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’età dei Severi

17. A. Fioritto (a cura di), Nuove forme e nuove discipline del partenariato pub­ blico privato, 2016, pp. XIV-490. 18. A. Landi, L’abuso del diritto, I, Il mutuo ad interesse dal tardo Diritto comune alla codificazione civile italiana del 1865, 2017, pp. VIII-160. 19. A.M. Calamia (a cura di), L’abuso del diritto. Casi scelti tra principi, regole e giurisprudenza, 2017, pp. XII-276. 20. C. Napoli, Spoyls system e Costituzione. Contributo allo studio dei rapporti tra politica ed amministrazione, 2017, pp. X-218. 21. C.J. Piernas-L. Pasquali-F.P. Vives (edited by), Solidarity and Protection of Individuals in E.U. Law. Addressing new challenges of the Union, 2017, pp. XVIII-326.

Nuova Serie Monografie 22. G. Donadio, Modelli e questioni di diritto contrattuale antidiscriminatorio, 2017, pp. X-214. 23. A. Cassarino, Il vocare in tributum nelle fonti classiche e bizantine, 2018, pp. X-214. 24. E. Bacciardi, Il recesso del consumatore nell’orizzonte delle scienze compor­ tamentali, 2019, pp. VIII-256. 25. A. Grillone, La gestione immobiliare urbana tra la tarda Repubblica e l’e­ tà dei Severi. Profili giuridici, con prefazione di Luigi Capogrossi Colognesi, 2019, pp. XVIII-246.

Saggi e ricerche 1. E. Navarretta, Costituzione, Europa e diritto privato. Effettività e Drittwirkung ripensando la complessità giuridica, 2017, pp. XVI-228. 2. E. Navarretta (a cura di), Effettività e Drittwirkung nelle discipline di settore. Diritti civili, diritti sociali, diritto al cibo e alla sicurezza alimentare, 2017, pp. VI-298.

Atti di Convegno 1. E. Navarretta (a cura di), Effettività e Drittwirkung: idee a confronto. Atti del convegno di Pisa, 24-25 febbraio 2017, 2017, pp. X-254. 2. A. Pertici-M. Trapani (a cura di), La prevenzione della corruzione. Quadro nor­ mativo e strumenti di un sistema in evoluzione. Atti del convegno di Pisa, 5 ottobre 2018, 2019, pp. XIV-266.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2019 da Media Print, Livorno

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