Controstoria di Roma
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I RARI Collana diretta da Luca Canali

LUCA CANALI

CONTROSTORIA DI ROMA

La politica imperialistica e le guerre civili a Roma nella testimonianza dei più grandi scrittori latini e greci

Collaborazione al testo} note e appendice di Emanuele Lelli e Donatella Trombetta

PoNTE ALLE GRAZIE

Prima edizione: marzo 1997 Seconda edizione: ottobre 2004

©

2004 Ponte alle Grazie srl - Milano ISBN 88-7928-727-3

Indice

Introduzione Avvertenza

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CoNTROSTORIA DI RoMA

l. Il. III IV.

..

Inizi criminali «Fanno il deserto, e lo chiamano pace» Alleati, anzi servi Gioielli insanguinati.

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v. VI. VII. Congiura e repressione VIII. Si può dar credito ai moralisti?

75 95 139 157 183

Note e suggerimenti bibliografici Indice delle traduzioni citate

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Una spietata lotta di classe Un secolo maledetto Gli stiumenti parlanti della terra

APPENDICE Cronologia essenziale Cenni sulle istituzioni civili e militari del mondo romano Brevi profili degli autori antichi Indici

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Introduzione

«Tu ricorda, o Romano, di dominare le genti; l queste saranno le tue arti, stabilite norme alla pace, l risparmiare i sottomessi e debellare i riottosi» (Eneide , VI, 851-853). Sono le parole di Anchise, rivolte in Elisio al figlio Enea: mai con tanta energia ed arroganza è stato asseverato il compito di un popolo domi­ natore. Questo libro è volutamente tendenzioso, a partire dal titolo: Cont ro sto ria di Roma dovrebbe essere una reale storia (quindi diacronica) dell'espansione imperialistica dell'antica Urbe e del progressivo deterioramento del suo costume, dell'ammini­ strazione pubblica e privata, da un punto di vista antropologi­ co, economico, sociale, politico. Niente di tutto ciò si troverà nelle pagine che seguono: si è invece voluto offrire un saggio o, se si preferisce, un campiona­ rio di aspetti negativi e talvolta di atrocità e brutture, che costituiscono il rovescio della medaglia trionfale della grandeu r antico-romana, servendoci non già di deduzioni o fantasiose ricostruzioni, bensì di testimonianze dirette di autori latini e greci che si siano mostrati particolarmente attenti alle vicende romane (quali ad esempio Plutarco e Cassio Dione), o di qualcuno dei papiri trovati a Ossirinco nel delta del Nilo ancora non tutti pubblicati -, alcuni dei quali documentano il malgoverno romano in quel territorio. Del resto, questa serie di documenti letterari e poetici sulla Roma noir non fa altro che

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INTRODUZIONE

confermare il prodigio di una piccola città di pastori - e forse di vagabondi e di fuorilegge - che in pochi secoli divenne la dominatrice e la «civilizzatrice» (con tutto ciò che di distruttivo nei confronti delle culture autoctone v'è in questa ambigua parola che è appunto «civilizzazione>>) di gran parte dell'Occi­ dente, del Medio Oriente, dell'Mrica. È infatti inevitabile chiedersi: come fu possibile che l'inar­ restabile marcia conquistatrice di Roma abbia potuto verificar­ si malgrado le feroci contese interne, le sanguinose guerre civili, le innumerevoli congiure e le spietate repressioni di esse, che travagliarono la vita interna dello Stato romano? Non è qui il caso di tentare una spiegazione, che peraltro sarebbe difficile e forse impossibile anche in sedi più severe; certo è che malgrado le convulsioni interne e alcuni tremendi rovesci militari (Canne, Teutoburgo etc.), e nonostante il progressivo indebolimento della fibra quiritaria di stampo catoniano e la implacabile lotta per il potere tra consorterie e dinastie rivali, resta davvero misteriosa la solidità di una com­ pagine statuale tanto estesa, nata dalla soppressione violenta di indipendenze tribali o nazionali che non ebbero maz; fino alle invasioni barbariche, la forza di infrangere tale dominio. Quello che nelle pagine seguenti ci si è proposto è docu­ mentare quanto di negativo, violento, corrotto e talora perver­ so e crudele abbia accompagnato il processo storico che ha portato alla costituzione non tanto di una impossibile unità etnica (del resto contestata dalla stessa suddivisione dell'impe­ ro in p rovinciae), quanto di quella vasta area linguistica e culturale che comunemente si indica con l'espressione «civiltà romana>> o «romanza>>. Si è spesa una gran quantità di parole per magnificare tale processo e forse troppo poche per rilevare di che lacrime e di che sangue» abbia grondato lo scettro (ueglio sarebbe dire il fascio) dei dominatori romani, spesso in lotta fra loro, ma mai significativamente sconfitti dai popoli avversi o alleati in rivolta per ottenere, come compenso al loro spesso decisivo aiuto, almeno il diritto di cittadinanza a lungo negato e quindi richiesto, infine, con la rivolta annata (come accadde nella tremenda guerra sociale del91-88 a.C.). Ci si è anche chiesti se sia stato più grande Alessandro il Macedone o Giulio Cesare. Credo che non vi possano essere ·

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INTRODUZIONE

dubbi: Aless�dro fu una splendida, leggendaria figura di combattente e di utopista, ma il suo impero si sbriciolò dopo la sua morte, per la discordia dei suoi «colonnelli» (i diadochi); Cesare fu un genio della politica e della guerra e gettò le basi di un impero che sarebbe durato quattro secoli. E tuttavia, visto dai suoi nemici, Cesare, più che un eccezio­ nale war lord e statista, fu comprensibilmente giudicato un predone e un criminale di guerra. Del resto ancora oggi una parte della critica storica d'oltralpe ha un atteggiamento forte­ mente ostile a colui che ha dato poi il nome a molti autocrati moderni: Kaiser, Czar, Scià. Ad esempio, in un solido e punti­ glioso studio, un eccellente studioso francese, M. Rambaud, smonta pezzo per pezzo i Commentar ti de bel logalli co , dimo­ strandone la falsità o almeno la tendenziosità; il titolo stesso di tale opera ne dichiara gli intenti: L'art de la d é/ormation

hi sto rique dan s!e s Commentaire sde C ésa r .

Fino alle guerre contro Cartagine le continue attività belli­ che di Roma possono con qualche ragione essere considerate «semidifensive». Dalle campagne contro Veio e Alba e poi contro i popoli dell'Italia centrale e della Magna Grecia, a Pirro, fino al sanguinoso duello con Cartagine; tali guerre possono essere in effetti state necessarie alla sopravvivenza, e anche alla sicurezza e alla prosperità della piccola città sorta sul Tevere fra i monti Albani e il mar Tirreno. Con Cartagine la lotta fu per la supremazia nei traffici e il controllo del Mediter­ raneo: un duello mortale che infine vide l'Urbe vittoriosa. A seguito di ciò, senza dubbio Roma si configura sempre più come un'aggressiva e vorace potenza imperialistica che, dopo la brutale conquista militare, si avvale di due espedienti politici fondamentali: stringere rapporti amkhevoli con i ceti privile­ giati dei paesi soggiogati, e disseminare i territori conquistati di co lo n iae costituite soprattutto da stanziamenti di ex legionari, che garantissero una serie di «teste di ponte» e di organismi di controllo in terra straniera. Fu questo, probabilmente, il segreto di una {:OSÌ estesa romanizzazione (non solo linguistica ma anche logistica, archi­ tettonica, stradale etc.) del sempre più esteso ambito dell'im­ pero. All'interno - cioè, a dir meglio, a Roma e in Italia - le contese e le guerre civili (la sanguinosa repressione dell'agitazione dei

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INTRODUZIONE

Gracchi, il conflitto tra Mario e Silla, lo schiacciamento della congiura catilinaria, la guerra fra Cesare e Pompeo) segnarono in sostanza l'ascesa costante - anche se duramente contestata - della borghesia degli equite s contro il privilegio politico dell'oligarchia senatoria. Contemporaneamente vi fu la lotta per la composizione dei tribunali, per la concessione di appalti delle esazioni tributarie in terra italica e provinciale, e per la possibilità di carriere politiche sempre più influenti. Alleato oscillante ma infine decisivo di questa lunga rivoluzione «bor­ ghese» (borghesia dd danaro e dei traffici) fu il proletariato armato, cioè l'esercito «professionale» voluto dal capo dei popu /are sMario. La feroce guerra sociale, con le stragi compiute dai soldati di Silla, paladino dd partito oligarchico senatorio, altro non fu che il tentativo solo momentaneamente riuscito di bloccare l'accesso degli alleati (soci:) italici ai non pochi privilegi della cittadinanza romana, fra i quali, essenziale, la possibilità di affiancare le fiorenti ma conculcate borghesie provinciali alla borghesia della capitale. L'impero, sotto Augusto, sancì appunto la vittoria della borghesia e del proletariato militare, con qualche concessione soprattutto ideologica all'aristocrazia deci.r.lata, ma aggiunse un nuovo definitivo coefficiente dd potere: una potente buro­ crazia ramificata ma ferreamente centralizzata, estesa all'intero territorio dell'impero. Con il trascorrere dd tempo, la sostan­ ziale dittatura borghese-militare dei Cesari degenerò sempre più verso una dittatura militare-burocratica, che finì per inde­ bolire e infine rovinare l'intera compagine statuale, accompa­ gnata da una crisi agraria generalizzata, con il riafferrnarsi dd latifondo mal lavorato da moltitudini di schiavi semi-liberi o di coloni semi-schiavi. La ferrea riorganizzazione militare-burocratica dell'impero imposta in seguito da Diocleziano con la tetrarchia (due Augusti e due Cesari in quattro città capitali diverse) fu l'estremo tentativo di evitare la crisi finale dell'impero, minato anche idealmente dal diffondersi sempre più esteso e profondo dd Cristianesimo. La brutalità di tali lotte e i radicali mutamenti dd costume sono alla base di tante opere latine e di alcune opere greche che documentano le vicende di questo lungo processo; vicende

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INTRODUZIONE

spesso atroci, a volte macabramente grottesche. Di queste insospettabili testimonianze (dalle satire di Lucilio, agli epi­ grammi di Catullo, alle invettive oratorie di Cicerone, alla requisitoria antiromana di Pompeo Trogo e via via fmo alla cupa e nevrotica storiografìa di Tacito, alle satire di Giovenale e a quel macabro museo delle cere che sono le Vite di Cesari di Svetonio, oltre alle preziose testimonianze di Plutarco, Appia­ no, Dionigi di Alicarnasso), in questo volume si intende offrire una esauriente e forse non inutile «antologia negativa», cioè non tanto il fiore, quanto il veleno della storia e della letteratura latina. LucA CANALI

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Avvertenza

La scelta dei passi proposti in questo volume non ha pretese di completezza; si è preferito un taglio trasversale il più possibile ampio e originale, piuttosto che un'analisi in profondità di specifici aspetti o problemi. Le dimensioni del volume hanno imposto la dolorosa esclusione del testo originale latino e greco. Si è coscienti che ogni accostamento di brani estrapolati dal loro originario contesto costituisce di per sé un'inevitabile forzatura. Si è cercato comunque di rispettare, di volta in volta, le intenzioni dell'autore antico, talora anche intervenendo, nel testo, con chiarimenti e integrazioni, funzionali ad una più adeguata comprensione di ogni singolo passo. Tali interventi sono evidenziati tramite l'uso del corsivo. Le note si presentano non tanto come approfondimenti filologici, quanto piuttosto come spunti di riflessione il più possibile inediti. Nei su gge rimenti bibliog rafici si è resa neces­ saria l'esclusione di una bibliografia, peraltro sterminata, in lingua straniera. Sono presenti, d'altra parte, essenziali riman­ di a testi specialistici per eventuali approfondimenti su singole questioni. I testi sono citati secondo l'ordine di presentazione degli argomenti nei rispettivi capitoli. I cenni su lle i stituzioni civili e m ilitari del mondo romano forniscono una panoramica sulla vita politica e sull'ordina­ mento militare a Roma, nell'intento di chiarire alcuni termini o concetti presenti nel volume.

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A VVE.RTENZA

Con i bre vi profili degli autori antichi, disposti in ordine alfabetico, si è cercato di fornire un sintetico profilo biografico e letterario degli autori greci e latini da cui sono stati tratti i brani presenti nel volume. La brevità e l'incompletezza nasco­ no dall'esigenza di fornire, di ogni singolo autore, quei dati funzionali, per lo più, ai passi citati. In alcuni casi, però, non si è potuto - o voluto?- fare a meno di soffermarsi anche su aspetti più generali di quegli autori che, per la loro statura, rivestono un ruolo particolare nella civiltà classica.

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CONTROSTORIA DI ROMA

I. Inizi criminali

È forse possibile ipotizzare una doppiezza permanente radica­ ta nell'animo di tutti gli scrittori latini, un amore-odio (e spesso più odio che amore) per Roma, sentimento contraddittorio che li ha indotti - magari in nome di una pretesa obiettività - a cogliere quanto di negativo sottendesse la «marcia trionfale» di quello che, senza timore di attualizzare troppo, si può definire l'imperialismo romano. Non è da escludere che quegli autori, pressoché tutti nati e cresciuti in località diverse e talora molto lontane da Roma (e i cui antenati erano entrati nell'orbita romana a seguito di sanguinose sconfitte militari), nutrissero, accanto a una sincera ammirazione per la metropoli dominatrice dell'Occidente, all'orgoglio di esserne venuti in quàlche modo a fame parte, il timore dl essere considerati inquilini urbi sRomae , come accad­ de a Cicerone, aggredito verbalmente proprio con quest'ap­ pellativo da Catilina, come attesta Sallustio. Tutti orgogliosi di pronunciare a voce alta Civi s romanu s sum , anche a protezione della propria incolumità: ma quanto sangue e quante lacrime era costato agli alleati (soci t) italici l'ottenere quella sospirata cittadinanza romana? Si prova talvolta stupore nd leggere brani di storici quali Sallustio e Livio, che nel co rpu s della loro opera inseriscono episodi e dettagli «al nero» contro Roma e i Romani di così 17

LUCA CANALI

agghiacciante atrocità da far pensare piuttosto ad una storia­ grafia «straniera» e antiromana. Non si dice che tale storiogra­ fia avrebbe dovuto essere tutta inneggiante alla «civilizzazio­ ne» e alla saggezza del diritto romano, ma si sarebbe potuto ritenere che una visione obiettivamente critica e non apologe­ tica della storia romana dovesse fondarsi non tanto su singoli dettagli orripilanti o su atrocità commesse dalle legioni, quanto su un approfondimento delle contraddizioni interne della gestione del potere politico e militare da parte dei magistrati e dei .generali. E vero che la storiografia latina, considerata quasi un genere letterario sui gene ris piuttosto che attività scientifica e di ricerca (qual è ritenuta oggi), inevitabilmente tendeva a con­ centrarsi su particolari «ad effetto»; d'altra parte l' ho"or e il macabro sono sempre stati e sono ancora oggi espedienti di sicura presa . Non poteva però sfuggire agli storici, ma anche ai poeti, il fatto che la sequela di efferate crudeltà perpetrate sistematicamente dai conquistatori romani- e di cui essi danno doviziose testimonianze- costituiva il rovescio negativo del­ l' avanzata romana in Europa. T al e tragica e cruenta contraddizione sembra quasi prose­ guire l'esordio «nefando» della città cui tutti, magari temendo­ la e disprezzandola, finivano per inchinarsi. n fatto poi che le numerose requisitorie contro Roma contenute in opere latine fossero di solito attribuite a capi militari o a monarchi nemici di Roma, ha un'importanza marginale: in parte esse si ricolle­ gavano ai canoni retorici della contrapposizione dialettica dei discorsi e dei personaggi, tipica di molta storiografia greca (Tucidide, Polibio), ma in misura forse maggiore ciò poteva costituire anche un espediente per mettere l'autore al riparo dall'accusa di essere lui per sonalmente a pensare in termini antiromani. Le origini leggendarie di Rom� hanno probabilmente un fondo di verità. E sembrano essere il suggello «criminale» che accompagnò la crescita di quella piccola città fondata dal figlio bastardo - e uccisore del fratello gemello bastardo - di una Vestale sacrilega che aveva perduto la propria verginità istitu­ zionale concedendosi a qualcuno degli avventurieri e banditi che infestavano la piana del Tevere fra il mare e i colli Albani (fingendo poi la solita responsabilità di un dio, in questo caso

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I. INIZI CRIMINALI

Marte), e che era stata perciò esecrata, gettata in catene e­ secondo un ramo ancora più atroce della tradizione leggenda­ ria - condannata a essere sepolta viva. Gli esordi «delittuosi>> dell'Urbs trovano ulteriore confer­ ma nel modo con cui gli abitanti (quasi tutti maschi) di quel nuovo piccolo centro si procurarono delle «mogli», o per meglio dire delle femmine, per soddisfare la loro fisiologica fame di sesso e magari anche per incrementare il tasso di sviluppo demografico in vista delle future campagne di espan­ sione o di difesa dai centri urbani circostanti. Null'altro che questo episodio brutale fu quel «ratto delle Sabine» di cui di solito si parla con un sorriso di furbesca connivenza. n carattere piratesco di quel ratto è del resto confermato da Livio stesso, quando ricorda che fra le donne sabine rapite vennero scelte «le più belle», consegnate dalla plebe romana ai «maggiorenti» della città. E dunque violenza e servilismo dd popolo nei confronti dei potenti. E vero che ogni «nobiltà del sangue» ha sempre origini volgari e ignobili. Ma la nobiltà di un'Urbe che diventerà centro motore dell'intera civiltà occi­ dentale sembra quasi permanentemente inficiata da questa origine omicida, spietata e violenta, e quasi condannata a restame prigioniera nella secolare vicenda della sua grandezza.

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Molte voci si sono levate nel corso della sto ria per cantare la so rt e di Roma, dominatrice del mondo. Ma i bagliori di quella civil tà sono o ffuscati dall' ombra di una colpa ancestrale c he a ffior a di tanto in tanto nella coscienza de ll'uomo romano ed è radic ata nella nascita stessa del popolo dei Qu iriti : Rom o /o, fondatore d i Roma, è il /rutto di uno stupro comp iu to su una Vesta le dau no sconosciuto /a tto passare per il dio Marte ( Livio, Stor ia di Ro ma, I, 3, 9-4, 3). Il regno dei LAtini, discendenti da Enea [ . . ] , passò di mano in .

mano fino ad Aventino. Costui, essendo stato sepolto sul colle che ora fa parte dell'Urbe romana, diede a quel colle il suo nome. Indi regna Proca. Costui genera Numitore ed Amulio, e a N umitore, che era il primogenito, lascia in eredità l'antico regno della gente Silvia. Tuttavia valse di più la violenza che il volere del padre o il rispetto dovuto all ' età: cacciato il fratello, Amulio regna in sua vece. Egli aggiunge misfatto a misfatto: sopprime i nipoti maschi, e alla nipote Rea Silvia, nominatala Vestale sotto pretesto di onoraria, toglie con la perpetua verginità la speranza di generare dei figli. Ma era destinato dai fati, io credo, che dovesse sorgere sl grande città e che avesse così inizio l'impero più potente subito dopo quello degli dèi. La Vestale, essendole stata fatta violenza e avendo dato alla luce due gemelli, sia che ne fosse realmente convinta, sia perché meno disonorevole apparisse una colpa di cui era responsabile un dio, attribuisce a Marte la paternità della sua illegittima prole. Ma né gli dèi né gli uomini sottraggono lei e la sua prole alla crudeltà del re: la sacerdotessa, in catene, viene imprigionata; quanto ai bimbi, egli ordina che siano gettati nella corrente del fiume. I geme lli R amo /o e Remo riescono a salvarsi e, dopo diverse vicende, a scoprire le loro vere origini . Ucciso Amulio, ristabili­ scono Numitore sul trono . Dopo qualc he tempo, però . (Dionigi di Alicamasso, Storia di Roma arcaica, I, 85, 5-6): . .

I giovani stessi non erano più concordi e non nutrivano più sentimenti fraterni, ma, puntando entrambi a comandare sull'altro, respinsero la condizione di uguaglianza e puntaro· no alla supremazia. Per un po' la loro ambizione fu tenuta nascosta, ma poi esplose[ . ] quando Numitore decise di dar . .

vita a una nuova città: uno solo doveva esserne ilfondatore. A 20

l. INIZI CRIMINALI

questo punto [ . . ] ebbe occasione di manifestarsi la loro brama .

di potere, che non tollerava spartizioni con altri. Infatti, chi avesse ceduto allora, avrebbe sempre subito la volontà dd vincitore.

Si decide di a /fidare alla sorte di vina la scelta di chi a vrebbe designato col propr io nome la colonia e a vrebbe re gnato su essa (Livio, cit ., I, 7, 1-3). Si dice che a Remo per primo apparvero come segno augurale sei awoltoi; e poiché, quando ormai l'augurio era stato annun­ ziato, se n'erano offerti alla vista di Romolo il doppio, le rispettive schiere li avevano acclamati re entrambi: gli uni pretendevano d'aver diritto al regno per la priorità nel tempo, gli altri invece per il numero degli uccelli. Venuti quindi a parole, dalla foga della discussione furono spinti alla strage; fu allora che Remo cadde colpito nella mischia. È più diffusa la tradizione che Remo, in atto di scherno verso il fratello, abbia varcato con un salto le nuove mura; che per questo egli sia stato ucciso da Romolo infuriato, il quale, inveendo anche con le parole, avrebbe aggiunto: «Così d'ora in poi perisca chiun­ que altro varcherà le mie mura!». Pertanto Romolo ebbe da solo il potere; fondata la città, essa ebbe nome dal suo fonda­ tore.

Il tema del fratricidio o riginario perco"erà come ossessi vo Leitmotiv la storia della ci viltà romana . A questo archetipo viene

n'condotto ogni episodio di violenza tra consan guine z; lotte intestine, gue"e ci vili . Un 'altra sce l e rata violenza si a ggiun ge al nefas o rigina rio . Roma, a ppena fondata, ha pochi abitanti. Romo loal lora (Livio, cit ., I, 8, 5-6;9, 10-1 1), [ .. ] allo scopo di accrescere la popolazione secondo l'antico accorgimento dei fondatori di città, i quali attiravano a sé gente oscura ed umile facendola passare per autoctona, offrì come asilo il luogo che ora, a chi vi sale, appare circondato da una siepe tra due boschi sulle pendici del Campidoglio. lvi si rifugiò dai popoli vicini, avida di novità, una folla di gente d'ogni sorta, senza distinzione alcuna tra liberi e servi, e quello fu il primo nerbo dell'incipiente grandezza. In seguito si .

organizza uno spettacolo perché affluiscano le popolazioni vici21

LUCA CANALI

Quando fu giunto il momento dello spettacolo, e ad esso erano intenti gli animi e gli sguardi, ecco scoppiare, secondo quanto era stato predisposto, un tumulto, e al segnale conve­ nuto i giovani romani si lanciarono da ogni parte a rapire le fanciulle. Molte furono rapite a caso dai primi in cui s'erano imbattute; alcune, particolarmente belle, destinate ai più insigni tra i patrizi, venivano portate nelle loro case da uomini della plebe cui era stato dato quest'incarico. ne.

Quando , nel 239 a. C. circa, i capi degli Etoli - fiero po po lo della Grecia - risponderanno al le minacciose richieste di resa d ei Roma m; ripercorreranno la serie dei «peccati originali » c he inevitabilmente hanno segnato la stor ia di Roma (Pompeo Trogo, Storiefilippiche in Giustino, Epitome di stor ia romana , XXVIII, 2, 8-10): Ma che uomini sono i Romani? Certamente pastori che occupano un suolo tolto con la p repotenza ai legittimi pro· prietari; che, non trovando mogli a causa della loro origine disonorata, le hanno rapite con pubblica violenza; che, infine, h anno fondato la loro stessa città col fratricidio e hanno contaminato di sangue fraterno le fondamenta delle mura.

Il sangue di Remo peserà per sempre . Nata sulla scia di un 'empietà, Roma è destinata a soccombere sotto ilpeso di quella colpa pri migenia. Una dura guerra si trascina da anni contro Alba Longa. Me zzio Fu /ezio, capo degli Alba m; propone che le sorti del conflitto vengano de cise in un due llo fra tre geme lli albani, i Curiazz; e tre gemel li roma m; gli Grazi . Le loro madri sono sorel le. Il re Tullo Ostilio, non appena udita la proposta, si rivolge dubitante a Mezzio (Dionigi, cit ., III, 15 , 2): La madre dei nostri Orazi è infatti sorella della madre degli albani Curiazi e i giovani nutriti al seno delle due donne si vogliono bene e si amano come fratelli. Bada che non sia un'empietà dare in mano a costoro le anni e chiamarli a uccidersi a vicenda, dato che sono cugini e sono cresciuti insieme. Perché l'espiazione del sangue dei congiunti, quando siano stati costretti a macchiarsene a vicenda, ricadrà su di noi che li abbiamo costretti. 22

l. INIZI CRIMINALI

Le sue parole cadono nel vuoto. I sei giovani si a ffrontano e termine de llo scontro l'Orazio super stite entra a Roma da trionfatore (Dionigi, cit. , III, 2 1 , 2-8).

al

Come fu vicino alle porte, vide molta folla di gente di ogni condizione che si riversava dalla città e, in mezzo, la sorella che gli correva incontro. Nel vederla, rimase sconvolto che una fanciull a da marito avesse lasciato la protezione materna e si fosse unita ad una folla di sconosciuti. E, facendo pensieri assurdi, alla fine considerò invece quelli che erano ragionevoli e generosi; pensò che, desiderando abbracciare per prima il fratello superstite e conoscere da lui le imprese eroiche di quelli morti, si fosse dimenticata, spinta come da un impulso femminile, delle convenienze. Ma la fanciulla aveva avuto il coraggio di intraprendere quella insolita strada non per desi­ derio dei fratelli, ma perché sopraff atta dall ' amore per uno dei cugini, al quale il padre l'aveva promessa in sposa. Nascon­ dendo il sentimento segreto, quando udì un tale che veniva dal campo raccontare i particolari della battaglia, non si trattenne più e, lasciata la casa, come una menade, corse alle porte della città, senza prestare ascolto all a nutrice che la inseguiva e la chiamava. Quando giunse fuori dalla città, come vide il fratello esultante con le corone della vittoria con cui il re lo aveva cinto, e i suoi compagni che portavano le spoglie degli uccisi, tra le quali c'era il peplo variopinto che lei con la madre aveva in tessuto e mandato, come pegno per le future nozze, al pretendente (poiché è consuetudine dei Latini che stanno per sposarsi indossare tuniche variopinte), come vide dunque questo peplo macchiato di sangue, si strappò la veste e, battendosi con le mani il petto, cominciò a piangere e a chiamare il cugino, cosicché un grande stupore si impadronì di tutti i presenti. Dopo aver pianto la morte del futuro sposo, guardò con sguardo fisso il fratello e gli disse: «Maledettissimo uomo, dunque tu esulti per aver ucciso i cugini e aver privato me, infelicissima sorella, delle nozze, sciagurato! Non hai pietà dei parenti morti che tu chiamavi fratelli, ma, come se avessi compiuto una buona azione, sei fuori di te dall a gioia e porti le corone di tali malvagità; di quale belva hai tu il cuore?». E quello le rispose: «Di un cittadino che ama la patria e che punisce coloro che le vogliono del male, sia che essi le siano stranieri o appartengano al suo popolo. Tra costoro pongo anche te che, pur sapendo che i più grandi beni e i più grandi mali ci sono capitati nello stesso tempo, cioè la vittoria 23

LUCA CANALI

della patria, che io tuo fratello vengo a portare, e la morte dei fratelli, non provi gioia, scellerata, per i beni comuni della patria, né dolore per le disgrazie della nostra casa, ma, senza curarti dei tuoi fratelli, piangi la sorte del tuo promesso; e non di nascosto, da sola, ti affli ggi, ma davanti a tutti e mi rinfacci l'eroismo e le corone, tu, falsa vergine, nemica dei tuoi fratelli, rovina degli antenati ! Poiché tu non piangi i fratelli, ma i cugini e sei viva fisicamente, ma il tuo cuore è con il morto, vattene da colui che tu invochi e non disonorare il padre e i fratelli!». Dicendo queste cose non fu capace nel suo odio per la malvagità di controllarsi, ma con tutta l'ira che aveva le affondò la spada nei fianchi e, uccisala, si presentò dal padre. Il comportamento e il cuore dei Romani di allora era così nemico della malvagità e così rigido e, se uno lo volesse confrontare con le nostre azioni e con il nostro modo di vivere, così crudele e duro e non molto diverso dalla natura delle bestie feroci, che il padre, sentendo di questa terribile disgra­ zia, non solo non se ne addolorò, ma giudicò l'azione bella e conveniente. Egli non permise che il cadavere della figlia fosse portato nella casa e non volle che fosse sepolto nella tomba di famiglia, né che avesse un funerale, né ornamenti, né altri onori funebri; ma i passanti, gettando su di lei, abbandonata là dove era stata uccisa, sassi e terra, la seppellirono come se fosse un cadavere abbandonato senza esequie.

Prima de llo scontro dec isivo in cui Roma, la nuova poten za nata sulla riva sin istra del Tevere, annienterà Veio, il suo p rimo scomodo nemico ne lle lotte per ilpredominio sul Lazio , i capi dei Veient i lanciano un monito sulla fine di Roma (Livio, cit ., ll, 44, 8-9): Nelle adunanze di tutti i popoli dell'Etruria i capi gridavano sdegnati che la potenza di Rt>ma sarebbe durata in eterno, se i suoi cittadini non si sbranavano da sé con le lotte interne; questo era il solo veleno, questo era il flagello escogitato per le nazioni fiorenti, perché i grandi imperi fossero caduchi.1

Sallustio (I• Ep istola a Cesare , 5, 2) ne /fornire indicazioni su come evitare discordie c ivili, aggiun gerà: La mia opinione è questa: poiché tutto ciò che nasce deve morire, nel periodo in cui sopraggiungerà la fine per Roma, i 24

I. INIZI CRIMINALI

cittadini lotteranno con i cittadini e così, stremati ed estenuati, diverranno preda di re o di barbari. In nessun altro modo potrebbero abbattere questo impero il mondo intero e tutti i popoli coalizzati. Debbono perciò essere rafforzati soprattut­ to i vantaggi della pace ed eliminati i mali della discordia.

Ecco le gn"da di Anc hise , ne gli In /e n; n·volto a Cesare e Pompeo , prota gonisti della pi ù san guinosa tra le guerre civili vissute da Roma (Virgilio, Eneide , VI, 826-835): E quelle anime che vedi rifulgere concordi in uguali anni, ora e finché saranno premute dalla notte, ahi, che terribili guerre tra loro, se attingeranno il lume della vita, che grandi schiere e stragi susciteranno!, il suocero discendendo dai contrafforti alpini e dalla rocca di Moneco, il genero schierato coi contrapposti orientali. O figli, non rendete consuete all'animo tali guerre, non rivolgete al corpo della patria le valide forze; e tu, per primo, perdona, tu che derivi la stirpe dall'Olimpo, getta le armi di mano, o sangue mio!2

Dopo l 'assassinio di Cesare a lle Idi di Ma rzo de i 44 a .C . si sc atena la cacc ia ai con giu rati .I i giovane Orazio sente l 'incom­ bere di una male dizione c he ha il sapore di un lontano passato (Ep odi , 16, 1-20; 7). Una seconda epoca s'estingue nella guerra civile. Roma rovina sulla sua potenza. Quella che non poterono distruggere i Marsi sui confini, la schiera torva di Porsenna etrusco, il valore di Capua la rivale, Spartaco in lotta e l'infedele allòbrogo nell'insidia civile, la Germania dalla selvaggia giovinezza azzurra, Annibale che i padri maledirono, perderà l'età nostra, la colpevole, sangue sacrificale. n nostro suolo sarà ancora occupato dalle belve. Sulle ceneri un barbaro sosterà vittorioso, il suo cavallo

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LUCA CANALI

picchierà con lo zoccolo sonoro la Città, le ossa di Quirino, che ignorarono sempre il vento e il sole, saranno con disprezzo profanate. Dove precipitate nel delitto? Perché impugnate spade ringuainate? Forse il sangue latino non bastò, sparso per tante terre e tanti mari e non perché il Romano ardesse rocche superbe di Cartagine nemica o Britanni mai raggiunti discendessero incatenati lungo la Via Sacra, ma perché, come sperano i Persiani, perisse la Città di propria mano? Ciò non fu mai tra lupi e tra leoni, solo tra belve di diversa razza. Vi porta una follia cieca, o una forza più profonda, o una colpa? Rivelatemi questo. Ma stanno muti. Sono bianchi, hanno mente stordita, senza ascolto. È la necessità, feroce, intendo, che agita questo popolo di Roma, il delitto, la morte d'un fratello. È quel sangue innocente di Remo che colò su questa terra a maledire i figli e i loro figli.

Nel corpus de gli epi grammi tramandati s ott o il n ome di Seneca osse roiamo un c upo a ffresc o di R o ma, nuov amen t e sconvolta da una lacerante guerra intestina : quella tra Ant oni o e Ottaviano (Epi grammi, 69, 1-23, 32-36; 70, 19-20). Era venuto Antonio sconvolgendo il mondo orientale e portando, unite alle sue, le insegne dei Parti, e da Canopo era venuta Cleopatra chiedendo in dote Roma. Da una parte i sistri minacciavano Giove Capitolino, dall ' altra l'invitta Roma confidava nel divo Cesare, Roma che allora quasi rovinò sotto il suo stesso peso. La terra è abbandonata, le navi ricoprirono il mare, e tutto era pervaso di confuso furore.

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I. INIZI CRIMINALI

Ahimè le empie sorti della guerra e i crudeli fati ingiungono ai fratelli di cozzare con i fratelli, e i figli con i [padri. ' Questi assale il genero o il suocero e chi fu meno insanguinato era cosparso del sangue di un concittadino. Mevio, soldato dell'esercito migliore, osò piombare con un salto su una nav� nemica, Mevio, felice a suo danno e vincitore per divenire empio, orgoglioso per aver ucciso - e non lo sapeva - il fratello. Mentre raccoglie le spoglie e strappa le anni al nemico ravvisa il volto fraterno e gli occhi ancora mesti. Ciò che prima era valore, è divenuto delitto: esita il soldato contro il nemico, e teme di lasciar partire dalla sua mano il [dardo. Poi con ferocia: «Perché la mano esita? Dovrei dunque fermarmi ora? Eccoti uno che muore più giustamente di un [nemico. Nessuna cosa può assolverti per l'uccisione di un [fratello [ . .. ] ». Così disse ed è in dubbio su quale delle due spade gettarsi. «Morirò sulla mia spada, macchiata da una morte nefanda? Quello per cui muori, ti darà il ferro per morire». Disse e cadde sul fratello, trafitto dalla fraterna spada. Una sola mano abbatté vincitore e vinto. Così, o Fortuna, tu possa sempre governare le guerre civili, che il vincitore non voglia sopravvivere al vinto.'

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II. «Fanno il deserto,

e

lo chiamano pace»

L'imperialismo romano era aggressivo e spietato. Di ciò abbia­ mo innumerevoli testimonianze. Ma esso- come del resto ogni altro imperialismo (o colonialismo) storico - era anche per certi versi «illuminato»: massacrava cioè moltitudini di «nemi­ ci>> e distruggeva la civiltà, la cultura e in parte la lingua dei popoli soggiogati, ma indubbiamente esportava una civiltà manifestamente «superiore» nella tecnica e nelle consuetudini di vita, anche se tale «civilizzazione» investiva soltanto i ceti superiori dei paesi conquistati, che finivano per diventare delle vere e proprie teste di ponte «collaborazioniste» all'interno del loro popolo. Solo con il passare del tempo, e con la lenta romanizzazione di sterminati territori, anche i ceti inferiori finivano assogget­ tati a un modo di vivere, e forse anche di sentire, influenzato dalla potenza di Roma. Non tanto a difesa di questo imperialismo, quanto per non offrire il fianco a un'accusa di prevenzione antiromana, è forse possibile affermare che la cosiddetta Storia, da molti conside­ rata finalisticamente protesa verso esiti di riscatto generale, a ben guardare altro non è che un succedersi ininterrotto di guerre (e di massacri) di tipo imperialistico, cioè provocato da giganteschi interessi economici contrapposti, di solito celati, in cattiva o in buona fede, dal paludamento degli ideali o delle

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LUCA CANALI

religioni. Così le Crociate, così la conquista prima araba, poi turca dell'Occidente, così gli interminabili conflitti tra cattolici e protestanti, così la conquista delle Americhe, così il genocidio dei «pellerossa» dopo le scoperte di Colombo e Vespucci, così le guerre napoleoniche, e così anche, in un certo senso, l'offen­ siva piemontese dei Savoia, di Cavour e di Garibaldi per l'unificazione italiana. Naturalmente, su un terreno così mosso e accidentato e in un teatro di operazioni così sterminato, occorre fare opportune distinzioni. Ma sembra di poter considerare, come unico comune denominatore di tali incessanti conflitti, l'intento elementare e belluino della sopravvivenza nelle condizioni migliori possibili, ovviamente a danno e spesso a distruzione degli «altri». Ancora oggi, se consideriamo tutte le «guerre dimenticate» e quelle ben presenti e spaventose che sono sotto gli occhi di tutti, sotto le ancestrali ostilità etniche, religiose, tribali, opera­ no prepotenti spinte di natura essenzialmente economico­ sociale. Anche nell'antica Roma funzionava a pieno regime questo brutale meccanismo socioeconomico, in definitiva crudamen­ te «classista»: i patrizi contro i plebei; i tribuni da una parte, i consoli dall'altra; la borghesia capitalista, ora alleata con gli oligarchi, ora sostenuta dalla plebe e dal proletariato armato (le legioni); la necessità di difendersi da improvvise invasioni galliche e germaniche, ma anche di saziare la propria fame di terre e di materie prime reperibili in regioni straniere da conquistare; da una parte il delirio di potenza - dopo le guerre annibaliche - che faceva sentire ai Romani una sorta di prede­ stinazione al dominio del mondo, dall'altra la straordinaria perizia nella tecnologia pacifica e bellica; la necessità per alcuni grandi leader s (soprattutto per Cesare) di conquistarsi un carisma militare che rafforzasse quello - già in loro preesistente - di validi e riconosciuti capi politici; infine, un'atavica inclina­ zione alla soluzione violenta e feroce di ogni conflitto di interessi all'interno (le spaventose guerre civili) e all'estero (la ferrea organizzazione militare e burocratico-fiscale). n «timore del nemico» (metu s ho sti li s) fu indubbiamente un potente collante interno, ma anche una molla nelle fulminee azioni militari di contenimento (ad esempio, Mario contro i

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II.

«FANNO IL DESERTO, E LO CHIAMANO PACE»

Cimbri e i Teutoni) e una comoda e pretestuosa giustificazione di grandi campagne spietatamente imperialiste, come quella decennale di Cesare nelle Gallie. Dopo tanta esaltazione delle glorie romane non è forse arbitrario, né dovuto a malanimo, fornire al lettore una serie di testimonianze di insospettabili autori latini e greci sulle atroci­ tà - degne di veri criminali di guerra - compiute in terra straniera dalle legioni, avanguardia della penetrazione capita­ listica e mercantile, oltre che politica e militare, nelle innume­ revoli nazioni che costituirono le depredatissime provinciae dell'impero.

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Chi si arrende ai Romani, consegna prima di tutto il territorio che è in suo possesso e le città che in esso si trovano, inoltre gli uomini e le donne che vivono nelle campagne e nelle città, i fiumi, i porti, i templi, le tombe, insomma i Romani divengono padroni di ogni cosa, mentre chi si arrende non rimane padrone assolutamente di nulla.

Queste considerazioni de llo stor ico greco Polibio (Sto rie,

XXXVI, 4), pe rsonaggio di rili evo ne ll'a mbi to del ci rcolo degli

Scipioni -il cenaco loattorno a cui si racco glievano poet z; poli tici e pensato n· i lluminati nel II sec. a . C . -,suonano come lap ida ria e pi gr afe de lle dec in e dipopoli, genti, nazioni che Roma, nel co rso della sua sto na, ha a ffrontato, sconfitto, assoggettato . Ogni tappa de ll'ascesa d i Roma da picco lacittà del LAzio a do minat n"ce del Medite"aneo è se gnata da scene di devastazio­ ne, massac ri, violenze pe rpetrate da eserciti s /renat z; ma an che veri e propn· genoc id i ordinati dai loro comandanti . Virgilio (Eneide, I, 33) commentava con un verso il ca mmi no crudele c he avrebbe portato Enea a da rvita al lasti rpe roma na: Tantae molis erat Romanam condere gentem («Ta nto co sta va fondare la gente ro mana »); de gna premessa, questa, de ll'ina "e­ stabile e san guinoso consolidarsi del la potenza di Roma . Di fronte a lle sue spade e a lle mac chine da gue"a cadono uno do po l'altro modesti popoli del LAzio, be llicosi eserciti italici, seco lan· civiltà del Medite"aneo, imperi ai confini del mondo a llo ra conosc iuto. Ecco tracc iata la stor ia di Roma attraverso il san gue de lle sue vitto n"e. Nel VI sec. a. C . i Roman i cercano uno s bocco sul Ti"e no . Dopo un lun go assedio, Pomez a z , co lonia latina c he si· eJ'a successivamente sc hierata dal la parte de gli Au runci, cap ito la (Livio, Sto nadi Roma, II, 17, 5-7). Quando con nuove vigne e altre macchine di guerra i soldati erano ormai sul punto di dar la scalata alle mura, avvenne la resa. Ma gli Aurunci subirono con la resa una sorte non meno atroce di quella che avrebbero sublto se la città fosse stata conquistata; i maggiorenti furono decapitati, gli altri coloni venduti come schiavi; la città fu distrutta; if territorio fu venduto. I consoli, più per le aspre vendette compiute che per l'importanza della guerra conclusa, riportarono il trionfo. 32

Il. «FANNO IL DESERTO, E LO CHIAMANO PACE»

Nel 495 a.C. il con sole S ervi/io sconfigge i Vol sci c he, muo ­ vendo gue"a, viola vano gl iaccord id ipace con iRoman ia iqu al i ave vano in precedenza con segnato come gara nz ia alcun io stagg i. Dopo che i Volsci vennero schiacciati dai Romani, l'altro console, Appio Claudio, fece condurre n d foro i loro ostaggi, in tutto trecento uomini, perché chiunque aveva consegnato ai Romani degli ostaggi come pegno di feddtà si guardasse dal violare gli accordi, e ordinò che fossero frustati davanti agli occhi di tutti e che si tagliasse loro la testa. Il /a tto, co st' r p i ortato dal pol igr a/o greco Dionigi d' Alicar­ nasso (cit ., VI, 30, 1), non è rz/e rito da Livio (cit ., II, 22), c he anzi, rigua rdo alla med es ima circostan za, na"a come Roma, con atto d in·cono scenza, rest ituisca ad altr ial leat ir imast ifede li tutt i gl iostagg iad essa dat i in pegno . Chiesclude tenden ziosam ente un /a tto c he getterebbe d iscre­ dit o sulla potente gens claudia: L ivtò o g ià l'autore degl iant ic hi an na li dacu iegl iatt inge ? Alla lu c ed iun alt ro pas so livia no (cit ., IX, 24, 13-15), l 'esecuz io ne in pubbl ico descn·tta da D io n ig inon sipresenta come un ca so isolato . Into rno a l314 a. C, in /a tt ,i gl iab itant id iSo ra, st rappata da i Roman ia iVals a; uccidono icolon i in via t ida Roma e si sc hiera­ no dalla parte de iSann it i.Repent ina è la vendetta de iRoman i. . .

Già Sora era stata presa, quando sul far del giorno sopraggiun­ sero i consoli e ricevettero la resa a discrezione di coloro che la fortuna aveva fatto scampare dall a strage notturna e dalla fuga. Di questi, duecentoventicinque che per unanime con­ senso erano ritenuti gli istigatori della nefanda strage dei coloni e della ribellione, li conducono a Roma in catene; il resto dell a moltitudine lo lasciano sano e salvo a Sora, ponen­ dovi un presidio. Tutti quelli ch'erano stati condotti a Roma, vennero sferzati e decapitati nel Foro, con sommo piacere della plebe, alla quale importava soprattutto che fosse ovun­ que sicura la gente che si inviava qua e là nelle colonie.

Nel 386 a .C . gl i ab itant i d i Sutr i ch iedono a i Roman i d i dt/e nder lidagl iEtru sc hic he hanno occupato la loro àttà. Inte r­ v engo no le t rupp e al comando d i Fur io Cam illo e Valer ia Publ icola (Livio, àt ., VI, 9, 10-1 1). 33

LUCA CANALI

[ . . ]gli Etruschi, stretti da un duplice terrore, appena videro che le mura erano investite con estrema violenza e che il nemico si trovava anche entro le mura, in preda allo sgomento si precipitarono fuori in un'unica schiera attraverso la sola porta che per caso non era assediata. Una grande strage fu fatta tra coloro che fuggivano, dentro la città e per i campi: un maggior numero ne uccisero i soldati di Furio entro le mura, mentre i soldati di Valerio furono più lesti ad inseguirli, né posero fine alla carneficina prima che la notte togliesse la visibilità. .

La battagl ia d iAqu ilon ia (293 a .C .) pone fin e al seco lare e lacerante scontro tra Roman i e Sann it i (Livio, cit ., X, 41, 1-4). Si cominciò a combattere con accanimento, ma in ben diverse condizioni d'animo: i Romani, avidi del sangue nemico, sono trascinati all a battaglia dall'ira, dall a speranza, dall'entusia­ smo della lotta; i Sanniti, in gran parte, sono costretti loro malgrado dalla necessità e dal timore superstizioso più a resistere che ad attaccare; e non avrebbero retto al primo grido e ali' assalto dei Romani, abituati com'erano ormai da parecchi anni ad essere sconfitti, se un'altra paura più forte, insita nel loro animo, non li avesse trattenuti dall a fuga. Avevario infatti davanti agli occhi tutto quell'apparato della cerimonia occulta

in cui avevano giurato di combattere contro Roma fino al sacrificio della vita: i sacerdoti armati, la strage mista d'uomini

e bestie, le are bagnate di sangue pio ed empio, l'orribile maledizione e la tremenda formula, fatta ad esecrazione della propria famiglia e della propria stirpe, se sifossero sottratti alla battaglia; stretti da tali legami, ch'erano un freno alla fuga, rimanevano al proprio posto, temendo più i concittadini che i nemici. I Romani incalzavano ad entrambe le ali ed al centro, e facevano a pezzi quegli uomini sbigottiti dall a paura degli dèi e degli uomini; fiacca era la resistenza ch'essi opponevano, com'era naturale dato che solo il timore impediva loro di fuggire.

Durante la secondaguerra pun ica 1 Scip io ne e sp ugna Cartag e­ na (209 a. C .), ult imo baluardo cartag in e se inSpagna (Polibio, cit. , X , 15): Infine le mura furono conquistate e gli uomini, entrati attra­ verso la porta, avendone cacciati i difensori si impossessarono 34

Il. «FANNO IL DESERTO, E LO CHIAMANO PACE»

del colle rivolto ad oriente. Scipione, quando credette che un numero sufficiente dei suoi fosse entrato nella città, come è costume dei Romani, ne mandò la maggior parte contro i cittadini, con l'ordine di uccidere chiunque incontrassero senza risparmiare alcuno e di non iniziare il bottino prima che egli ne avesse dato il comando. I Romani ricorrono a questa tattica per atterrire gli awersari: quando essi conquistano una città si vedono non solo uomini uccisi ma cani squartati ed altri animali fatti a pezzi. In quell'occasione gravissima fu la strage, dato il gran numero degli uomini sorpresi nella città. Scip ione con un migliaio di uomini mosse verso la rocca; in un primo tempo il comandante cartaginese Magone cercò di difendersi ma quando si accorse che i nemici tenevano ormai saldamente la città, mandò a trattare per la sua incolumità personale e consegnò la rocca. In seguito a ciò, a un segnale dato, i Romani cessarono dalla strage e si accinsero alla rapina.2 La campagna d iScip io ne in Spagna siconclude con la feroce distruz io ne d ialtre due città. Roma in tende d imo strare a Carta ­ gin e tutto il suo r itro vato vigore be llico (Appiano, Le gue"e di Spagna, 32, pa ssim ; 33):

Scipione si imbatté nella città di llurgia, che era stata alleata di

Roma al tempo del primo Scipione ma che poi, morto lui, era segretamente passata dall a parte dei Cartaginesi, ai quali aveva addirittura consegnato un contingente romano che aveva accolto quando era ancora alleata. In conseguenza di ciò Scipione, irato, in sole quattro ore la rase al suolo e, pur con una ferita al collo, non smise di combattere fino a quando non riportò vittoria. I soldati, visto ciò che era accaduto al loro comandante, senza che nessuno lo avesse ordinato, non si curarono di far bottino, ma uccisero indiscriminatamente donne e bambini. I loro corpi furono sepolti dalle macerie della città. [ . . ] Astap a era una città rimasta sempre fedele a Cartagine. I suoi abitanti, stretti in assedio da Marcio, luogotenente di Scipione, considerando che i Romani, se li avessero catturati, li avrebbe­ ro resi schiavi, ammassarono le loro ricchezze nel foro e, alzata su queste una pira, vi condussero i figli e le mogli. Quindi fecero giurare i cinquanta più valorosi tra loro che, qualora la città fosse stata presa, avrebbero ucciso le donne e i bambini, avrebbero appiccato il fuoco e si sarebbero dati la morte. Poi, chiamando a testimoni gli dèi, si lanciarono inaspettati su .

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LUCA CANALI

Marcio: la sua fanteria e la cavalle ria furono messe in fuga. Gli Astapi combattevano con più vigore delle legioni regolamen­ tari romane, spinti dalla disperazione; ciò nonostante i Roma­ ni riuscirono a vincerli in forza del numero: quanto al valore infatti, gli Astapi non erano certo da meno. Caddero tutti e quei cinquanta uccisero le donne e i bambini e acceso il fuoco vi si gettarono lasciando ai nemici una vittoria inutile, perché senza guadagno.

Profondo stupore provoc herà in Polibio (cit ., XIV, 5 ) la d ist ruz ione degl iaccampament i cartag in e si ne ipre ssi d i Utica, me ssia /erro e a fuoco daScip io ne, qualc he anno dopo. l [ . . . ] migliaia di uomini, di cavalli, di bestie da soma trovarono miserevole morte nelle fiamme e alcuni degli uomini, dopo essere scampati alle fiamme, perirono vergognosamente per mano dei nemici, sorpresi non solo inermi, ma addirittura ignudi. Il luogo risonava di urla e di grida disordinate, domi­ navano ovunque il terrore, uno strepito immenso, fiamme altissime e distruttrici: una sola di queste cose, nonché tutte insieme e inaspettate, sarebbe stata sufficiente a termrizzare qualsiasi natura umana. Tale avvenimento fu così straordina­ rio da non poter essere confrontato ad alcun altro, di tanto superò in orrore tutte le vicende delle quali si è parlato. Delle molte e nobili imprese compiute da Scipione, mi pare che questa sia la più grande e meravigliosa . . .

È il 146 a . C : Cartag in e finalmente cade, a vvolta dalle f ia m­ me c he d ivorano i luog hi o ve un tempo erano sorte le mura, i pa lazz ,i i temp li di que lla che era stata la formidab ile nemica di Roma (Appiano, Le guerre pun ic he, 128-129 ). Scipione• concentrava la sua attenzione su Birsa, il punto più fortificato di Cartagine; n si era rifugiata la maggior parte dei cittadini. Lungo le tre vie che dalla piazza centrale salivano a Birsa si trovavano molti edifici - di sei piani - costruiti l'uno a ridosso dell'altro. I Romani, bersagliati dall' alto dei tetti, abbatterono la resistenza delle prime abitazioni e di n mette­ vano in fuga chi si trovava nelle case vicine. Impadronitisi di quelle, gettando pali e tavole da un tetto all'altro attraversava­ no gli angusti spazi delle vie come su ponti. Due battaglie si combattevano: in alto, sui tetti, e in basso, nei vicoli. Ovunque 36

Il. «FANNO IL DESERTO, E LO CHIAMANO PACE»

pianto, lamento, grida; ovunque rimbombo di mali diversi; alcuni morivano nella mischia; altri, ancora vivi, scaraventati giù dall'alto dei tetti venivano infilzati su lance, aste e spade. Nessuno appiccò il fuoco per via di quelli che ancora combat­ tevano sui tetti, finché non giunse Scipione: allora fece appic­ care il fuoco contemporaneamente in tutte le tre vie e ordinò di farsi strada attraverso la zona incendiata affinché i soldati vi potessero passare agevolmente per darsi il cambio. Ma ecco una nuova scena di mali : il fuoco divampava e divorava ogni cosa; le case non venivano abbattute a poco a poco, ma rovinavano violentemente al suolo, tutte insieme. Per questo il fragore risultava più vasto. Mescolati alle macerie, cadevano a terra mucchi di cadaveri, e altri ancora vivi, soprattutto vecchi, donne e bambini e chi si era nascosto negli angoli più remoti delle abitazioni, feriti, mezzi bruciati, lanciando suoni strazianti. Altri, come catapultati da tanta altezza insieme a pietre, legna e fuoco, finivano fatti a pezzi in molti miserevoli modi, squarciati e trafitti. Né ciò poneva fine ai loro mali: gli addetti a rimuovere le macerie infatti, che con asce, mazze e pali spianavano la strada ai soldati, con quelle stesse asce e mazze e con le punte dei pali sping evano sia i cadaveri sia quelli che ancora erano vivi nelle buche, come se stessero trascinando e rastrellando legna o pietre. Uomini erano riem­ pitura di fosse. Alcuni erano capovolti a testa in giù e le loro gambe spuntavano addirittura dal terreno. Altri piombavano giù in piedi e rimanevano con la sola testa fuori dal suolo. I cavalli , lanciati al galoppo, calpestavano le teste e il cervello.'

Persino Velleio Patercolo, storico romano giustificazionista per eccellenza, commenterà (Storie, I, 1 2 , 7 ) : Roma, vittoriosa ormai s u tutto il mondo, riteneva d i non poter vivere tranquilla se rimanevano in qualche luogo le tracce dell'esistenza di Cartagine: tanto è persistente, anche al di là del timore, l'odio che nasce nei conflitti, e che non dilegua neppure davanti al nemico vinto. L'oggetto dell'odio non cessa di essere tale finché non cessa di esistere.

Nel corso della seconda guerra p unica Roma aveva dovuto far fronte anche ad un 'incursione di Boz; popolo di stirpe celtica. Livio (cit. , XXXI II, 3 7 , 8), riportata la vittoria dei Romanz; commenta: 37

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Là apparve evidente quanto grande forza abbia l'ira nello spronare gli uomini: i Romani infatti combatterono con tale avidità di strage più che di vittoria, da lasciare a stento al nemico un uomo che annunziasse la sconfitta.

Nel l 50 a. C. i Lusitani tentano di ribellarsi al pretore romano Galba (Appiano, Le guerre di Spagna, 59, 249-60, 253). Quando i Lusitani inviarono a Gaiba ambasciatori per neon­ fermare i patti che - stipulati con il precedente comandante Atilio - avevano violato, li accettò, rinsaldò gli accordi e finse addirittura di commiserarli come se commettessero scorrerie, muovessero guerra o violassero i patti spinti dall a povertà. «È la vostra terra sterile e povera - disse - che vi costringe a ciò. Ma io vi concederò terra buona, o indigenti amici, e vi condurrò ad abitare su terreni floridi, dividendovi in tre gruppi». I Lusitani, fiduciosi nelle promesse di Gaiba, abban ­ donarono le proprie sedi e i propri beni e si raccolsero dove aveva ordinato Gaiba. Questi allora li divideva in tre gruppi e a ciascuno mostrava la pianura in cui ordinava di rimanere fintanto che non fosse arrivato egli stesso a fondare le loro città. Come giunse dal primo gruppo, ordinò loro di deporre le armi - come amici - e, una volta che quelli le ebbero deposte, li recinse con un fossato; quindi lanciò contro di loro alcuni soldati armati di spada e li sterminò tutti, mentre levavano grida disperate e invocavano i giuramenti presi nel nome degli dèi. Allo stesso modo piombò sul secondo e sul terzo gruppo e li sterminò, ignari ancora delle sofferenze dei primi.

I Romani stroncano definitivamente la resistenza spagnola con la distruzione di Numanzia (133 a. C.), compiuta da Publio Cornelio Scipione Emiliano, che stringe la città in un durissimo assedio (Appiano, cit. , 96; 97 , 422-98, 424): Non molto tempo dopo, venendo loro a mancare ormai tutti i mezzi di sostentamento, noR avendo più né frutti, né bestia­ me, né erba, dapprima - come già altri, stretti dalla guerra, avevano fatto - succhiavano pelli dopo averle bollite; venendo a mancare anche quelle, cominciarono a cibarsi di carne umana, dapprima quelle dei morti, fatte a pezzi nelle cucine, ma poi, avendo disgusto delle carni dei malati, i più forti 38

II. «FANNO IL DESERTO, E LO CHIAMANO PACE»

divoravano i più deboli. Non si astennero da alcuna aberrazio­ ne: selvagg i nell'animo per via di quel cibo, belve nel corpo per via della fame, della peste, dell'aspetto disumano, dell'attesa straziante. Finalmente, in tali condizioni, si arresero a Scipio­ ne. Costui ordinò loro di consegnare le armi, in quello stesso giorno, lì dove aveva stabilito, e ingiunse di presentarsi, il giorno seguente, in un altro luogo. Quelli però differirono la data adducendo come pretesto che molti volevano porre fme ad una vita libera dandosi da se stessi la morte. Quel giorno chiedevano dunque per compiere quel progetto di morte [ . . . ] . Quelli che vollero si diedero dunque la morte, ognuno in modo diverso. Gli altri si raccolsero, il terzo giorno, nel luogo p restabilito, orribili e spaventevoli a vedersi: impuri i loro corpi, sconvolti, lacerati, sordidi; emanavano un odore nause­ abondo, non meno dell e loro logore vesti. Tale aspetto susci­ tava pietà, ma il loro sguardo incuteva ancora timore: i Nu­ mantini infatti fissavano i Romani con rabbia e dolore, provati e straziati dall ' essersi cibati dei loro simili. Scipione, scelti cinquanta tra loro da far sfilare nel suo trionfo, vendette gli altri e distrusse Numanzia dalle fondamenta.6

Durante la gue"a contro Giugurta7 (1 07- 1 05 a. C.) Mario rade al suolo Capsa, importante città dell'Africa (Sallustio, La gue"a di Giugurta, 9 1 , 5 -7): Quando i cittadini si resero conto dell'attacco, l'agitazione, il terrore grande, la sciagura improvvisa, il fatto che una parte degli uomini si trovassero fuori dall e mura in balìa dei nemici, li costrinsero ad arrendersi. Ciò nonostante la città fu data alle fiamme, i N umidi adulti uccisi, tutti gli altri venduti, il bottino diviso tra i soldati. Questo gesto, contrario al diritto di guerra, fu commesso non per cupidigia o per scelleratezza del conso­ le, ma perché quella località era favorevole a Giugurta e a noi di difficile accesso : e l'abitava una razza di uomini incostante, infida, che sino a quel tempo non si era piegata né alla benevolenza né al terrore.

Al termine delle campagne di Gallia - condotte da Giulio Cesare per ben otto anni a partire da/58 a. C Plutarco, sçrittore greco dell'età degli imperatori per adozione, annoterà lapidario ( Vita di Cesare, 1 5 , 5): -

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Pur non avendo combattuto in Gallia nemmeno dieci anni, Cesare conquistò a forza più di ottocento città, assoggettò trecento popoli, si schierò in tempi diversi contro tre milioni di uomini, ne uccise un milione e altrettanti ne fece prigionieri.

Tutte le fonti antiche njJOrtano gli innumerevoli quadn· della spietata condotta di guerra con cui Roma schiaccia la Gallia e la riduce a provincia. Durante la seconda guerra contro i Germant� Cesare (Piutarco, cit. , 19-20, passim), [ . . . ] muovendo all'assalto dei ripari e delle colline sull e quali stavano accampati, li stuzzicò, e li spinse a scendere e a combattere furiosamente. Ne derivò una loro famosa fuga: egli li inseguì per quattrocento stadi sino al Reno e riempì tutta la pianura di cadaveri e di spoglie. Ariovisto con pochi riuscì a passare il Reno: dicono ci siano stati ottantamila morti. Compiuta questa impresa lasciò l'esercito a svernare nel paese dei Sequani [ ] e venne nella Cisalpina. [ . . ] Quando però sentl che i Belgi, che erano i più potenti dei Gall i e abitavano la terza parte della intera regione, si erano ribellati e avevano raccolto molte migliaia di uomini armati, subito si volse ad accorrere colà in gran fretta; piombò sui nemici che stavano mettendo a sacco le terre degli alleati Galli e volse in fuga e fece a pezzi i più compatti e numerosi che avevano combattuto male, tanto che p aludi e fiumi profondi divennero transitabili per i Romani per via del gran numero di cadaveri. Tutti i ribelli che abitavano lungo la riva dell'Oceano gli si arresero senza combattere. [ . . ] . . .

.

.

Solo i Neroiz� popolazione belgica, osarono opporre resistenza:

volsero in fuga i cavalieri e circondarono la settima e la dodicesima legione, e uccisero tutti i centurioni. Se Cesare, afferrato lo scudo e fattosi largo tra quelli che combattevano dinnanzi a lui, non si fosse scagliato contro i barbari e la decima legione, dalle colline, vistolo in pericolo, non fosse corsa giù e non avesse fatto a pezzi le file dei nemici, nessuno, a quanto sembra, si sarebbe salvato; ora invece per l'audacia di Cesare, combattendo, come si dice, al di là delle proprie forze, neppur così volsero in fuga i Nervii, ma li massacrarono mentre essi resistevano: si dice che se ne siano salvati cinque­ cento da sessantamila, e di quattrocento anziani soltanto tre.

40

11 . .cFANNO

IL DESERTO, E LO CHIAMANO PACE»

Nel successivo confronto con i Germani (Cesare, La gue"a gallica, IV, 14, l , 3 - 15 , 3 ) ,

[ . . . ] l'esercito, schierato s u tre ordini, coperte rapidamente le otto miglia di distanza, raggiunse il campo nemico prima che i Germani potessero accorgersi di quanto stesse accadendo. [ . . ] Mentre i confusi rumori che si levavano dal campo manifestavano il loro terrore, i nostri soldati, inaspriti dal tradimento del giorno precedente, fecero irruzione nell'ac­ campamento dove chi poté rapidamente afferrare le armi organizzò un minimo di resistenza, combattendo tra i carri e i bagagli, ma il resto, una moltitudine di donne e bambini avevano infatti abbandonato le loro terre e attraversato il Reno con tutte le famiglie - si dette a una fuga disordinata. Cesare mandò la cavalleria ad inseguirli. I Germani, udite le grida alle loro spalle e vedendo massacrati i loro, gettarono le armi, abbandonarono le insegne e si precipitarono fuori dal campo. Giunti alla confluenza della Mosa con il Reno, disperando di poter continuare la fuga dopo che gran parte di loro era stata m assacrata, i superstiti si gettarono nel fiume dove, stanchi e p resi dal panico, morirono trascinati dall a corrente. I nostri, senza aver subito perdite, con pochissimi feriti rientrarono al campo. .

L'ira feroce dei soldatt� esacerbati dalle stremanti e continue azioni di gue"a, è motivo che torna ancora nella presa diAvarico (Cassio Dione, Storia romana, XL, 34, 4): Conquistata subito una torre, prima che i barbari si accorges­ sero della loro presenza, e impadronitisi poi facilmente del resto, saccheggi arono tutta la città, e per l'ira accumulatasi durante le sofferenze dell'assedio uccisero tutti gli uomini.

Ne/ 52 a. C., Cesare annienta la linea dzfensiva di Gergovia, potente e strategico baluardo dei Galli (Cesare, cit. , VII, 47 , 16): Raggiunto lo scopo, Cesare fece suonare la ritirata, e subito la

X legione, con la quale si trovava, arrestò le insegne. I soldati

delle altre legioni, sebbene non avessero udito il suono della tromba, perché si trovavano al di là di una valla ta piuttosto ampia, venivano tuttavia trattenuti, secondo gli ordini di 41

LUCA CANALI

Cesare, dai tribuni dei soldati e dai legati. Ma i soldati, esaltati dalla speranza di una rapida vittoria, dalla vista dei nemici in fuga, dal ricordo delle precedenti vittorie, pensavano che nessuna impresa fosse per loro tanto ardua da non poterla compiere con il loro coraggio, e non si fermarono prima di aver raggiunto le mura e le porte della città. Allora si levarono grida da ogni parte della città, tanto che chi si trovava più lontano, atterrito dall'improvviso tumulto, pensando che i nemici avessero varcato le porte, si precipitò fu ori dalla città. Le madri di famiglia gettavano dalle mura stoffe e argento e, scoprendosi il petto e protendendo le mani aperte, supplica­ vano i Romani di risparmiarle e di non fare come ad Avarico, dove avevano ucciso anche le donne e i bambini; alcune, calandosi dal muro con l'aiuto delle mani, si consegnavano ai soldati.•

Nel 9 d. C. Arminio, principe dei Cherusct� aveva spinto i Germani alla ribellione e inflitto a Roma un 'indelebile sconfitta massacrando tre intere legioni di Augusto, al comando del generale Varo. Cinque anni dopo Germanico, nipote di Tiberio, intraprende la spedizione punitiva. L'esercito romano piomba all'improvviso sui villaggi dei Marst� stanziati sulla riva destra del Reno (Tacito, Annali, I, 5 1 , 1 ) . Germanico, perché l a devastazione fosse più estesa, divide le legioni, impazienti, su quattro colonne e mette così a ferro e fuoco un territorio di cinquanta miglia. Né il sesso né l'età poterono indurre a misericordia alcuna. Distruggono il profa­ no e il sacro indiscriminatamente, radono al suolo il tempio più famoso per quei popoli, chiamato di Tanfana. Illesi i nostri soldati, che avevano massacrato gente assopita, inerme o dispersa.

Due anni dopo, nei pressi di Idistaviso, si compie finalmente la vendetta dei Romani. È la sera prima della battaglia. I due eserciti sono schierati l'uno difronte all'altro; ad un tratto uno dei nemiet� che parla latino, si avvicina al fossato dell'accampa­ mento romano (Tacito, cit. , II, 1 3 , 2 ·3 ) : [ ] a nome d i Arminio, prometteva ai disertori donne, terre e una paga di cento sesterzi al giorno per la durata della guerra. Quell'affronto esacerbò l'ira delle legioni: sarebbe pur venuto . . .

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Il. «FANNO IL DESERTO, E LO CHIAMANO PACE»

giorno, ci sarebbe stata battaglia, i soldati romani avrebbero preso i campi dei Germani e trascinato via le donne; accetta­ vano l'augurio e consideravano le donne e il denaro dei nemici come il bottino loro destinato.

Il giorno seguente, lo scontro. Dei feroci combattimenti l ; 2 1 ) mette in risalto un particolare raccapricciante:

Tacito (cit. , II, 1 7 , 6- 1 8 ,

Molti, nel tentativo di passare a nuoto il Visurgi, s'inabissaro­ no sotto il lancio dei dardi o per la violenza della corrente, oppure ancora nella calca degli uomini in fuga e sotto il franare delle sponde del fiume. Alcuni, arrampicatisi in turpe fuga sulle cime degli alberi e nascosti fra i rami, divennero, tra lo scherno, il bersaglio di arcieri richiamati a tale scopo; per gli altri fu la fine nen o schianto degli alberi abbattuti. Quella vittoria fu grande e non ci costò molto sangue. Dalla quinta ora del giorno fino a notte, i nemici trucidati ingombra­ rono con cadaveri e armi un tratto di dieci miglia. I Germani tentano comunque un 'ultima resistenza. Si lanciano contro il nemico ma [ . . ] i Romani, con lo scudo aderente al .

petto e la mano ben salda sull'impugnatura della spada, squarciavano le membra gigantesche dei barbari e i loro volti scoperti, e si aprivano il passaggio facendo strage dei nemici, mentre si appannava la fiera prontezza di Arminio, logorato da continui pericoli o forse stremato dall ' ultima ferita subita. [ . ] Per essere meglio riconosciuto, Germanico s'era tolto l'elmo dal capo e li incitava a insistere nel massacro; non servivano prigionieri, solo lo sterminio di quel popolo avrebbe posto fine all a guerra. Era giorno avanzato, quando ritirò una legione dal terreno di battaglia, per costruire l'accampamen­ to: le altre si saziarono di sangue nemico fino a notte. .

.

Durante il principato di Claudio (4 1 -54 d. C.), Mitridate, re del Bosforo, osa opporsi alle ingerenze di Roma negli a/fari interni del suo regno. Le truppe romane sbaragliano però la sua resistenza e stringono d'assedio Uspe, un caposaldo siriaco (Ta­ cito, cit. , XII, 1 7 , 1 -2 ) . n giorno seguente, gli assediati mandarono emissari a chiede­

re salva la vita per gli uomini liberi: offrivano in cambio schiavi. I vincitori rifiutarono di trattare, perché

diecimila

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LUCA CANALI

parve atto di ferocia trucidare chi si fosse arreso e d'altra parte era un problema custodire una massa cosl grande di uomini: meglio se cadevano per diritto di guerra. Ai soldati già saliti sulle scale, venne dato il segnale della strage. Il massacro di Uspe seminò terrore in tutti gli altri, convinti dell'impossibi­ lità di una difesa, dacché ogni ostacolo cadeva, armi, fortifica­ zioni, luoghi di difficile accesso o elevati, fiumi e città.

L'impero romano lambiva i confini de/ leggendario regno dei Parti, di cui cominciava ad intaccare la secolare salde:aa . Sotto le insegne imperiali di Traiano, solo un secolo più tard:; avverrà il crollo anche dell'ultimo, remoto, nemico di Roma. ***

La storiogra/ia «ufficiale» di Roma disapprova la crudeltà e la violenza dei soldati, ma non mette mai in discussione l'idea della «missione civiliv.atrice» che anima l'imperialismo romano. Ad una più attenta lettura, però, si scopre come gli autori muovano la loro critica al sistema attraverso un vero e proprio espediente letterario: quello dei discorsi pronunciati dai capi dei popoli di volta in volta schiacciati dalla potenza di Roma. 9 Ecco la contro­ storia scritta dai vint:;· le ragioni degli «altri». 10 Quelle che già Tucidide, padre della storiogra/ia laica occidentale, aveva indivi­ duato come «amorali» leggi della storia, sono chiaramente enun­ ciate nel primo dei «discorsi dei vinti» che si incontrano nella letteratura latina: Mev.io, capo albano, si trova difronte a Tullo Osti/io, secondo re di Roma, prima della battaglia per la supre­ mazia sul Lazio centrale11 (Livio, cit. , I, 23 , 7-8): «[ . ] se dobbiamo dire la verità anziché ricorrere a degli speciosi pretesti, è la brama di supremazia che spinge alla guerra due popoli consanguinei e confinanti. Né voglio giudi­ care se a ragione o a torto>>. 12 . .

A seguito della violazione di un patto da p arte dei Sanniti, i Romani infliggono loro una terribile sconfitta (322 a. C.). Al termine della battaglia Gaio Ponzio, capo dei Sannit:; davanti alle durissime condizioni di resa imposte da Roma, non soddi­ sfatta della restituzione del bottino e degli ostaggi, prorompe (Livio, cit. , IX, l , 7 - 1 1 ) : 44

Il. «FANNO IL DESERTO, E LO CHIAMANO PACE»

«Che cosa devo di più a te, o Romano, che cosa al patto, che cosa agli dèi testimoni del patto? Quale giudice della tua ira dovrei proporti, quale della mia punizione? lo non ne ricuso alcuno, sia esso tutto un popolo, sia un privato cittadino. E se contro il più forte non rimane al debole alcun diritto umano, ricorrerò agli dèi vendicatori dell'intollerabile superbia e li pregherò di rivolgere la loro ira contro quelli ai quali non basta la restituzione della propria roba e l'aggiunta dell'altrui; a saziare la cui crudeltà non è sufficiente la morte dei colpevoli, né la consegna dei loro cadaveri, né la cessione dei beni seguita immediatamente alla consegna del loro padrone; che non saranno contenti fino a quando non avremo dato loro a bere il nostro sangue e a strappare le nostre viscere. Giusta è la guerra, o Sanniti, per coloro per i quali è necessaria, e sacre sono le armi per coloro ai quali non rimane alcuna speranza se non quella riposta nelle armi. Perciò, poiché è della massima importanza sapere quale delle cose umane si faccia col favore, quale con l'ostilità degli dèi, abbiate per certo che, mentre le guerre precedenti voi le avete condotte più contro gli dèi che contro gli uomini, questa, che è imminente, la condurrete sotto la guida stessa degli dèi». n

Nel 200 a. C. i Greci chiamano in aiuto i Romani perfronteg ­ g iare l'avanzata di Filippo il Macedone. In un 'assemblea de lla lega panetolica, però, gli ambasciatori macedoni ricordano la sorte di chi si affida alla protezione di Roma (Livio, cit. , XXXI , 29, 1 1-12): «Capua, tomba e sepolcro del popolo campano, è vero, sopravvive, ma i suoi abitanti sono stati deportati e banditi: città mutilata, senza senato, senza plebe, senza magistrati, una mostruosità, lasciata in piedi, perché fosse abitata, con una crudeltà maggiore che se fosse stata abbattuta. È pazzia sperare che, se codesti uomini di razza diversa, separati da noi più dalla lingua, dai costumi e dalle leggi che dalla estensione del mare e delle terre, si impadroniranno di questo territorio, qualcosa resti nella condizione attuale».

Nel l 96 a . C. Tito Quinzio Flaminino, nello stadio di Corinto a/follato per i giochi panellenici, proclamerà la Grecia «libera». Ma, di H a poco, proprio per i Greci le parole dei legati macedoni non tarderanno a divenire realtà . 45

LUCA CANALI

Queste le parole che Annibale, prima della battaglia del Ticino (2 1 8 a. C), rivolge ai suoi soldati (Livio, cit. , XXI, 44 , 4 -

5):

questo modo gli altri all a ribellione. [ . . . ] Avendo tali esempi davanti a voi, non disonorate le imprese dei padri e non permettete che vada in rovina un impero che è ormai tanto grande. Nelle nostre deliberazioni noi non possiamo imitare quei popoli che non possiedono un impero come il nostro. A costoro basta vivere in pace e stare sottomessi nella sicurezza agli ordini di altri; per noi invece è necessario faticare, guer­ reggiare e mantenere, sfidando i pericoli, il benessere che abbiamo. Molti ce lo insidiano: chiunque s'innalza sugli altri è oggetto di gelosia e d'invidia, e per questo tutti coloro che si trovano in bisogno sono in perpetuo contrasto con coloro che in qualche modo stanno meglio di loro. Per prima cosa noi non avremmo dovuto innalzarci tanto al di sopra degli altri popoli; ora, siccome siamo diventati così potenti e abbiamo conqui­ stato un impero così vasto, è destino che o teniamo saldamente in pugno il comando o andiamo interamente in rovina. Per uomini giunti a tanta gloria e padroni di un impero così grande è impossibile vivere da privati e senza pericoli. [ . . . ] Siccome è inevitabile che coloro che fanno delle conquiste siano insidiati da molti nemici, per cui hanno interesse a prevenire gli attacchi, e coloro che stanno fermi a godersi i propri beni mettono a repentaglio anche questi beni, mentre coloro che fanno la guerra senza esitare per impadronirsi dei beni altrui conservano anche i propri beni (nessuno infatti, quand'è timoroso per le proprie cose, desidera quelle altrui, perché il timore che ha per ciò che possiede lo distoglie dall'interessarsi di cose che non lo riguardano) , come si può affe rmare che noi non dobbiamo fare sempre nuove conqui­ ste? [ . . . ] Stando così le cose, se uno dicesse che noi non dobbiamo guerreggiare, sarebbe come se dicesse che noi non dobbiamo arricchirci, non dobbiamo avere un impero, non dobbiamo essere liberi, non dobbiamo essere Romani. [ . . . ] Se qualcuno di voi mi obiettasse: "E che torto così grande ci ha fatto Ariovisto, il capo dei Galli, per essere giudicato un nostro nemico anziché un amico e un alle ato ? " , rifletta un momento su ciò che ora dirò. È nostro dovere difenderci da coloro che tentano di offenderei, non solo per quello che fanno, ma anche per quello che hanno intenzione di fare, impedendo l'accrescimento della loro potenza, prima che ci arrechino dei danni, e non aspettare di punirli quando ci hanno già danneggiato».

55

LUCA CANALI ***

Ossirinco è un piccolo villaggio sul medio corso del Nilo. Qui, ne/ secolo scorso, furono rinvenute innumerevoli testimonianze scritte su papiro:16 copie di atti ufficiali, documenti privati. Senza filtro letterario possiamo cosi osservare uno spaccato della vita reale in una regione dell'impero . È una sintesi dei tanti motivi che attraversano la controstoria di Roma. Attraverso i documenti ufficiali promulgati dall'autorità ro­ mana in Egitto, si riescono a comprendere più da vicino i compitz; le prerogative e l'effettivo potere dei prefetti egiziani mandati direttamente da Roma. Il prefetto, che risiedeva ad Alessandna, ricopriva una posizione di enorme rilievo e poteva esercitare un reale strapotere su ogni/orma della vita assoctata e dell'economta egzzzane. Con un editto del 1 76, il prefetto si arroga il diritto di giudicare ogni controversia privata che nasca nella regione, e impone limiti di tempo per presentarsi in appello (P.O. 3 0 1 7 , Editto del prefetto) . Tito Pactumeio Magno, prefetto d'Egitto, dichiara: se alcuni, nel presentare petizioni, avessero ricevuto sottoscrizioni o lettere sotto questa forma (vale a dire) «sottoponi il caso a me prima che al tribunale», o le ricevessero dopo questo editto, sappiano che se non mi sottoporranno il caso entro dieci giorni dal ricevimento della sottoscrizione o lettera non otter­ ranno alcun beneficio per quel che riguarda riappropriazione di beni, procedura legale, esecuzione di sentenze, esazione di debiti.

Ci sono pervenute numerosissime testimomanze di richieste e petizioni inoltrate al prefetto, intorno a faccende e guestioni _ private tra loro diversissime. L 'auton"tà romana, che ufficialmen­ te si propone come garante digiustizta ma che non tarda ad essere avvertita nel mondo egiziano come necessarta e oppn·mente presenza, è chiamata in causa in inimmaginabiliprobl�mi . di vita quotidiana, e in ogni pur minima controversta da din mere. Qual è il confine tra volontanò appello dei dominati ai dominatorz; e ingerenza dello stato romano centralista nella società provinciale? 56

I I . «FANNO IL DESERTO, E LO CHIAMANO PACE>>

Un documento di particolare interesse ci/ornisce un esempio di come Roma annienta i suoi nemici. A un personaggio di nome Paolo, probabilmente un cristiano (siamo nell'epoca delle ultime persecuziont), vengono confiscati i benz; le terre, la casa. Il suo nome è cancellato dai documenti ufficiali di tutti gli archivi. Cosi Roma ha decretato: di lui si deve perdere anche la memoria. Questa è la spietata condanna dei vincitori che un /rammento di papiro gettato in una discarica ha invece, paradossalmente, tramandato ai posteri (P.O. 2 665 , 3 05 -3 06 d .C . , Comunicazione tra due magistratz) . Sotto il consolato dei nostri potenti imperatori Costanzo e Massimiano, Augusti. Ad Aurelio leracione e Dionisio, ginna­ siarca" e senatore e pritano dell'illustre e ill u strissima città di Ossirinco e al ginnasiarca e a Sarapione, cittadini onorevoli della medesima città, Aurelio Eracliano, arcierateta e Aga tino esegeta, entrambi senatori della medesima città, addetti agli uffi ci contabili della medesima circoscrizione, mandano feli­ cissimi saluti. Ci avete informato che Aurelio Atanasio, procurator rei priva­ tae in Egitto, con una lettera scritta in accordo con il solenne editto dei nostri Imperatori Augusti e dei Cesari, [ . . ] ha ordinato che le proprietà di Paolo del nomo di Ossirinco, condannato dall a sentenza del più venerabile dei generali della Tebaide, Satrio Arriano, siano incamerati nelle casse dell o stato. Quindi siano cercati tutti i documenti depositati negli archivi: sia dichiarato che Paolo non possiede alcunché; lo stesso Paolo sia cancellato da tutti i documenti depositati negli archivi; risulti che non sia mai esistita una moglie; risulti che il suddetto Paolo non sia mai stato iscritto nei registri pubblici. .

Da un potere già istituzionalmente oppressivo a metodi personali di sfruttamento e vessazione delle popolazioni soggette da parte dei prefetti il passo sembra breve. Testimonianze dirette ci descrivono lefigure diprefetti accusatipubblicamente, davanti all'imperatore, di malcostume e vessazione, e di funzionari con cussi e corrotti. Si tratta di casi isolati o solo della punta di un iceberg ? Attraverso un papiro del II secolo leggiamo l'arringa finale di un colto e acutissimo avvocato che parla a nome dei cittadini della 57

LUCA CANALI

provincia nel processo in cui imputato è l'ex prefetto Massimo, accusato di malgoverno, di aver intascato tangenti e di condurre una vita moralmente dissoluta. ti una potentissima requisitoria contro q uello che potremmo definire «il Ve"e d'Egitto» (P.O. 47 1 , II secolo d . C . , Discorso di un avvocato contro un ex prefetto) . Signor presidente, aggiungerò un fatto che la stupirà - credo - e che stenterà a credere finché non avremo letto i documenti. Condannò persone a pagare interessi, prima ancora che que­ ste avessero ricevuto un prestito ! Non è vero? E voi: eravate assenti, non conoscevate le lettere che vi scriveva? Ecco le carte: mostreranno loro, senz'ombra di dubbio, la sua scrupolosa attenzione, la amorevole cura di Massimo per questa faccenda ! L'ultimo documento conferma proprio la questione della schiava e della relazione di costui con quel giovincello. [L'avvocato ricorda un reato che il prefetto non ha punito, forse in cambio di un «regalo» un po ' particolare.]

Che hai da dire? Che sei stato raggirato o che hai intascato dei soldi? Certo, ti conviene ammettere solo la colpa minore. No, il punto è questo: il compenso non lo hai chiesto tu, ma loro ! Perché mai infatti un giovane di 1 7 anni pranzava con te ogni giorno? Ciascuno di loro, ogni volta che lo hai degnato di prender parte a un banchetto - perché, certo, dopo esser stato elevato all a condizione regale non era facile che tu concedessi tali favori, neanche una sola volta - ciascuno di loro, dicevo, ha visto il giovane, in quel banchettare. Lo ha visto: col padre e persino da solo. E li ha visti anche lanciarsi sguardi lascivi e intese lascive da amanti. Perché ogni giorno abbracci ed effusioni ? Signor presidente, giurano sulla vostra sacra perso­ na che mentre lo aspettavano per salutarlo e stavano là sulla porta hanno visto il giovane uscire, da solo, dalla camera da letto: portava i segni di un incontro proibito. Una volta assunti abiti lascivi il giovincello, ricco e di bella presenza, cominciò a darsi arie fino a raggiungere il massimo della sfrontatezza: davanti a tutti «scherzava>> con Eutiche, il cubiculario, e rideva a lungo di un riso sfrontato in mezzo ai clienti. Non era sciocco il giovane: e ostentava la sua prodiga­ lità soprattutto con chi gli prestava denaro. E dunque perché tu, con la tua compostezza, con la tua austera severità non glielo impedivi ? Se un pover'uomo, con indosso vesti di poco conto, si presenta dinanzi a te, tu ordini che siano confiscati i suoi beni, quelli 58

I I . «FANNO IL DESERTO, E LO CHIAMANO PACE»

della moglie e degli amici. Un tale [ . . . ] lo hai persino con d an­ nato a morte. E invece ti trascinavi dietro, nel pretorio, per tutta la giornata, quell'imberbe giovincello di bella presenza, invece di mandarlo a scuola ad occuparsi delle faccende che si addicono a ragazzi della sua età. [ . . ] Te lo sei portato dietro per tutto l'Egitto. E come mai non è venuto qui, dinanzi a questo consesso giudicante, il fanciullo diciassettenne? Ma a Menfi forse non era con te? A Pelusio non era con te? Dovunque tu fossi non era con te? ! .

Un tale Diogene, sovrintendente alle dighe pubbliche, è accusato di aver preso tangenti per lavori/atiscenti o mai realiz­ wti. Ma il documento è singolare: gli accusatori dichiarano di non poter (o non voler più ?) /are i nomi dei corrotti. Quali i ven· motivi della n"trattazione? (P.O. 3264, 80-8 1 d.C., Petizione) . A Ermofilo . . . da Orsenuphi, figlio di Dioscoro e Prosneo, [ . . ] tra i più anziani, con altri, del villaggio di Peenno nella toparchia centrale. Oltre alla petizione presentata allo stratega Claudio Eracleio da noi e dai nostri compagni più anziani contro Diogene il soprintendente alle dighe, sospettato di aver intascato da 51 uomini 4 dracme ciascuno anziché far loro eseguire i cinque naubi sulle dighe pubbliche, e di aver persino coperto altre nove persone anziché far loro ultimare i lavori intrapresi, in risposta alla tua richiesta dei nomi di quelli sopramenzionati presentammo i nomi di trenta uomini tra quelli che anche per iscritto riferivano allo stratega di non aver dato nulla né a Diogene né ai suoi agenti né a nessun altro per non eseguire il lavoro sulle dighe; ma in risposta alla tua richiesta dei nomi degli altri noi dichiariamo, giurando sulla buona sorte dell'Imperatore Tito Cesare Vespasiano Augu­ sto, di non poter produrre nessuno dei nomi indicati nella petizione sopra menzionata. Bene per noi se giuriamo il vero, ma il contrario se giuriamo il falso. .

Il malcostume e la pratica dei favoritismi non sembrano coinvolgere soltanto la classe dingente romana: i ricchi egiziani elleniZZtlti si adeguano rapidamente agli usi dei dominatori. Cosi un facoltoso alessandrino, dopo pressioni e raccomandazioni in/luentz; n"esce a far iscn·v ere suo figlio nella guarnzgione di stanza a Copto. Scrive a suo fratello per metter/o al corrente dell'accaduto (P.O. 1 666 , III secolo d.C., Lettera privata) . 59

LUCA CANALI

Pausania saluta suo fratello Eraclide. C redo che mio fratello Sarapammone vi abbia detto la ragione per cui sono sceso ad Alessandria, e del resto anch'io ti ho già scritto del piccolo Pausania: è stato arruolato nell'esercito. Il suo desiderio però era entrare in un reggimento, non in una legione: così, pur non volendo, sono stato costretto a scendere da lui. Dopo molte preghiere della madre e della sorella per farlo trasferire a Copto, sono andato ad Alessandria: qui ho fatto molte pres · sioni, finché è stato trasferito nel reggimento di Copto. Desi­ deravo dunque venire a visitarvi nel viaggio di ritorno, ma siamo stati limitati dalla licenza donata al ragazzo dall ' influen­ te prefetto, e perciò sono impossibilitato a farvi visita [ . . ] . .

Il ruolo di Roma in Egitto è quello di una potenza occupante che domina il paese sottomesso e mantiene un esercito in loco con funzione di controllo e dzfesa del tem·torio. Dopo la crisi del III secolo la pressione fiscale dello Stato centrale sulle province si fa sempre più pesante; gli incaricati della riscossione delle imposte si seroono di soldati per far valere la loro autorità. Lo deduciamo da una lettera tra due magistrati; qui l'uso dei militari si configura come mezzo intimidatorio. Un esercito stanziato in una provincia ricca come l'Egitto doveva esser/onte di non pochi problemi per la gente de/ luogo. Un contadino scrive a un centurione romano perché tenga a bada un soldato che approfitta dei suoi beni e compie ripetute scom·­ bande nelle sue proprietà, forte della sua posizione di apparte­ nenza all'esercito dei vincitori (P.O. 2234 , 3 1 d . C . , Petizione a un centurione) . A Quinto Gaio Passero, centurione, da Ermone, figlio di Demetrio. Nei pressi del vill aggio di Teis, nella toparchia Tmoisefo di Ossirinco, possiedo un lotto avuto in eredità da mio nonno paterno, chiamato «lotto del bosco», in cui c'è una diga pubblica e un serbatoio d'acqua, situato nel mezzo della mia proprietà [ . . ] . Per tutto questo verso gli adeguati tributi; ma subisco ripetute violenze e vengo derubato dai pescatori Pausis, Papsio e suo fratello, e da Cales, Melas, Attinos, Pasois e dai loro com pagni, che non sono pochi. Hanno portato anche un soldato, Tizio; si sono avvicinati con reti e coltelli al mio serbatoio, e hanno portato via una quantità di pesce per un totale di un talento di argento. E quando ho protestato si sono avvicinati minacciosamente, come se volessero farmi del .

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n. «FANN O IL DESERTO, E LO C H IAMANO PACE»

male. Dal momento che subisco da loro continue violenze mi rivolgo a te e chiedo che, se ti sembra opportuno, gli accusati siano condotti davanti a te perché mi ripaghino del prezzo del pesce, come ho detto prima, e perché in futuro si tengano lontani dalla mia proprietà, così che io possa beneficiarne. Stammi bene. Qual era l'immagine che i Romani avevano degli Egiziani? Da alcune testimonianze emerge un atteggiamento nei con­ fronti della gente de/ luog o piuttosto brutale e discriminatorio. Non si può parlare certo di razzismo, ma gli autori e i destinatari di queste lettere private - che hanno nomi grecz� ma non sembrano inquadrarsi nella tradizione ellenistica del cosmopoli­ tismo etnico - guardano agli Egiziani con la distanza di chi si ritiene superiore non solo politicamente, ma moralmente. «Egiziano» sembra sinonimo di «inumano». Un tale scrive ai suoi due/ratellipregandoli di scusar/o per la sua lunga assenza (P.O. 1 68 1 , III secolo d.C., Lettera privata). . . .

Ammonio saluta affettuosamente i fratelli Giulio e Ilaro. Forse mi considererete ormai un barbaro o uno di questi selvaggi egiziani. Vi prego di non pensarla così. In parte avete avuto già prova dei miei sentimenti; ma molti fatti mi hanno costretto a restare qui, tra i miei, in primo luogo il fatto di rivederli dopo un anno, e poi il desiderio di lasciare l'Egitto prima dell'inverno. Spero di essere con voi tra tre giorni, per potervi raccontare tutto di persona.

Un padre scrive al figlio privata ) .

. . .

(P.O.

3 06 1 , I secolo d . C . ,

Lettera

Eracles saluta suo figlio Archelao. [ . ] Farai bene a d inviarmi una guardia del deserto con un ordine di arresto per Lastas figlio di Thonis del villaggio di Teis, per i suoi violenti affronti contro di me. Bada di non trascurare la faccenda. Sai che tipi sono questi Egiziani. Se hai bisogno di qualcos'altro, scrivi. . .

Ilpotere romano è dunque opprimente: ip re/etti e i/unzionari che manda lo Stato sono spesso corrotti e corruttori; Roma non ha portato con sé solo la civiltà, ma anche la sua degenerazione; la pressione /iscale è sempre più pesante, e l'esercito dei vincitori 61

LUCA CANALI

sempre più invadente. Insomma, la vita quotidiana in una provincia dell'impero di Roma non è facile, e i Romani non sembrano essere quei bene/attori quali si sono presentati. La lettera di un tale Aria, indirizzata alla famiglia, ci ha conservato il grido straziante di un oppresso. Non sappiamo a quale città si rt/eriscano le barbarie da lui narrate, né sappiamo chi/asse lo stesso Anò e quali le circostanze cui si rz/ensce: forse le guerre civili dell'anarchia militare, forse le sanguinose perse­ cuztòni contro i Cristiani. La sua voce, comunque, sembra il paradigma di un rapporto davvero difficile tra vinti e vinciton; dominati e dominatorz; che offusca non poco l'immagine ufficiale dipinta con i tratti della «pax romana» (P.O. 3 065 , III secolo d . C . , Lettera privata). Aria saluta affettuosamente i suoi genitori Agrippina e Corne­ lio. Prima di tutto prego che Dio protegga voi e mio fratello Stefano. Vi ho già scritto più volte che intendo lasciare al più presto la città, e trovare un modo per salvarmi [ . . . ] da tutto ciò che sta succedendo qui. Sono accaduti fatti che mai prima di questi tempi accaddero: ora non è più una guerra, ma un massacro tra fratelli. [ . . ] Madre mia, prega per me, [ . . ] e sii lieta del fatto che lascio la città. Da tempo desideravo fortemente tornare da te, ma la crudeltà degli uomini della città non me lo ha permesso. Se saremo ancora vivi [ . ] dài un abbraccio a mio fratello Stefano da parte mia [ . . ] e saluta a nome mio i vostri cari. Prego perché voi stiate bene e perché a lungo siate felici e rimaniate uniti. .

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III . Alle ati , anzi servi

Essere cittadino romano era un privilegio non facile da ottene­ re, per chi romano non fosse. La cittadinanza romana permetteva a chi ne fosse investito non si dice giustizia e uguaglianza, bensì possibilità di essere considerato pari agli altri cittadini di fronte alla legge, progre­ dire in una eventuale carriera politica e militare ed essere protetto dalle leggi romane se si fosse in terra straniera. Vi erano poi altri «privilegi», di cui non godevano neanche le persone investite della cittadinanza latina, la quale dava sì la possibilità di avere rapporti commerciali-finanziari con l'Urbe e di contrarre matrimoni con cittadini romani, ma non altro. Roma - e, si badi bene, non solo la nobiltà, ma anche la «borghesia» degli equites e persino la plebe e il proletariato romani - era assai cauta nel concedere la cittadinanza. Si potrebbe dire che era gelosa di essa, in parte per quella strana e spesso deprecabile categoria etico-politica che va sotto il nome di «orgoglio nazionale», ma soprattutto per il timore che l'estensione della cittadinanza avrebbe costretto i Romani a dividere con altri il privilegio dei vincitori. Giacché i popoli latini, e più in generale italici , erano pur sempre dei «popoli vinti». In ciò Roma mostrava uno dei suoi volti peggiori. Nella serie pressoché ininterrotta delle campagne militari che avevano 63

LUCA CANALI

imposto la sua supremazia a tutta la penisola o quasi, ai soli popoli del Lazio era stata accordata - come già detto - la cittadinanza latina. Agli altri popoli (Marsi, Peligni, Ves tini, Piceni, S anniti, Lucani e altri ) , che pure avevano quasi in ogni guerra affiancato validamente l'esercito romano in qualità di socii («all e ati») , non era stato accordato altro che la guardinga «amicizia» del popolo romano, secondo una regola costante dell 'imperialismo dell'Urbe: quella di stabilire rapporti prefe­ renziali, spesso personali, con le classi dirigenti dei popoli battuti e poi soggiogati . Attraverso la concessione di benefici vari a tali classi dirigenti indigene da parte della classe dirigente romana, Roma tendeva ad assicurarsi il controllo di quelle «nazioni» teoricamente indipendenti e utili a fornire reparti m ilitari agguerriti (come quelli , divenuti proverbiali, dei Mar­ si) nelle guerre di espansione non più soltanto in Italia, ma nel Mediterraneo , e, di ll a poco, nei territori transalpini e medio­ rientali. Del resto la brutalità romana nei confronti delle popolazio­ ni italiche si era già manifestata durante la guerra contro Pirro e le successive guerre puniche: tutte le città che non si erano schierate con Roma, oltre, ovviamente, a quelle che si erano schierate con Annibale, erano state sanguinosamente punite. L 'aspirazione ad ottenere la cittadinanza romana era moti­ vata dal fatto che il civis romanus era sotto la protezione dello ius («diritto») romano, poteva accedere agli honores (le «cari­ che» istituzionali) e godere dello ius su/lragii («diritto di voto» nei comizi elettorali ) , godere cioè di quello che noi chiamiamo elettorato attivo e passivo ; inoltre, si sottoponeva ai munera (gli «obblighi» civili e militari ) . Essere esclusi da tali diritti significava vivere in un continuo stato di sudditanza e di grave malcontento. Tale situazione non poteva durare. Sia i Gracchi, sia l' ambiguo Druso, inserirono nei loro programmi la concessione del diritto di cittadinanza romana ai popoli italici. Ma sia i Gracchi che Druso furono brutalmente soppressi. Nel 91 a.C. esplose così un terribile conflitto, la cosiddetta guerra sociale, che, dopo alterne vicende durante le quali fu messa a repentaglio l'incolumità della stessa Roma, fu definiti­ vamente conclusa dieci anni dopo - dopo un intreccio di essa con la guerra civile tra Mario e Silla - da Silla in persona, il quale 64

I I I . ALLEATI,

ANZI SERVI

giunse a far massacrare diecimila prigionieri italici ammassati nel Circo. Tuttavia, furono fatte concessioni. Fu conferita la cittadi­ nanza a tutti gli ltalici che non fossero insorti in armi contro Roma, e anche a quanti avessero smesso di combattere dopo due mesi dall 'inizio delle operazioni (secondo un ultimatum d ei generali romani) . Ma i tempi erano ormai maturi per la concessione della cittadinanza a sempre nuove popolazioni, e, in prosieguo di tempo, anche a popolazioni o classi dirigenti delle provinciae. In tal modo Roma cessava di essere città-stato e diveniva communis patria del nuovo e sempre più vasto aggregato di popoli e nazioni .

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Nel 493 a. C., Roma stipula con g li alleati latini il «patto cassiano» (dal nome del console che lo concluse, Spurio Cassio); l'accordo prevedeva un 'alternanza nel comando militare e un 'equa ripartizione dei proventi di gue"a. Centocinquanta anni dopo, però, i Latim; dinanzi al crescente espansionismo di Roma e alla sua presenza sempre più ingombrante all'interno dell'alleanza, cercano di n·consolidare il proprio ruolo. È la pn·ma «gu�a sociale» combattuta dai Romani (340 a. C) (Livio, cit. , VII I , 3 , 8-5 , 6 ) . [ . . ] I Romani, benché non vi fossero dubbi sulla ribellione degli alleati e del popolo latino, tuttavia [ . ] fecero venire a Roma dieci capi dei Latini, per imporre loro la propria volontà. In quel tempo il Lazio aveva due pretori, Lucio Anni o di Sezia e Lucio Numisio di Circei. [ . ] Si decise di convocarli espressamente. Nessuno nutriva dubbi sul motivo per cui li si faceva chiamare; pertanto i pretori, tenuta un'adunanza prima di partire per Roma, fanno sapere di essere stati convocati dal Senato romano, e aprono la discussione. [ ] Poiché i pareri erano diversi, allora Annio: «[ . . ] Se adesso sotto la parvenza di un trattato a parità di diritti ci adattiamo a sopportare la schiavitù, cosa manca che noi si debba obbedire non soltanto agli ordini dei Romani, ma anche a quelli dei Sanniti, da poco a lleati con i Romanr; e rispondere ai Romani che a un loro cenno deporremo le armi? Ma se invece finalmente ci sentia­ mo pungere l'animo dal desiderio della libertà, se il trattato, se l'alle anza significa uguaglianza di diritti, se oggi possiamo gloriarci di essere consanguinei dei Romani, cosa di cui un tempo ci vergognavamo, se per loro l'esercito degli alle ati h a tale importanza che unendolo al proprio raddoppiano le loro forze, e non vogliono ch'esso formuli piani diversi dai loro nell 'atto d'interrompere e d'intraprendere le proprie guerre, perché non si stabilisce una parità assoluta? Perché uno dei due consoli non vien dato dai Latini? Dove è una parte delle forze, ivi è anche una parte del potere. In verità la nostra non è di per se stessa una condizione troppo onorevole, giacché consentiamo che Roma sia la capitale del Lazio; ma abbiamo fatto in modo che potesse sembrarci onorevole con una lunga sopportazione. Orbene, se mai qualche volta avete sognato il momento di accomunare il potere, di rivendicare la libertà, ecco, questo momento è giunto, e vi è stato concesso per il vostro valore e per la benevolenza degli dèi. [ ] Rivendicate .

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III.

A LLEATI, ANZI SERVI

ora, pretendendoli, quei diritti che i Romani tacitamente vi concedono. Se ad alcuno la paura impedisce di dir questo, ecco, m'im pegno io stesso a dirlo, in presenza non soltanto del popolo romano e del Senato, ma di Giove stesso, che risiede sul Campidoglio: se vogliono che si sia uniti da un patto d ' alleanza, ricevano da noi uno dei consoli e una parte del Senato». A lui che non solo dava fieramente questo consiglio, ma prendeva questo impegno, tutti con unanime grido d'ap­ provazione diedero l'incarico di fare e dire ciò che in coscienza gli sembrasse conforme all'interesse del pop olo latino. Giunto a Roma, Annio r-innova le sue richieste difronte al Senato e al console Tito Ma n/io: «Era tempo», disse «o Tito Manlio, e voi, o padri coscritti, che finalmente non trattaste più con noi da padroni, vedendo il Lazio per bontà degli dèi floridissimo d 'armi e di uomini. [. . ] Ma poiché voi non vi decidete a porre un limite al vostro sconfinato dispotismo, noi, pur essendo in grado di rivendica­ re con le armi la libertà per il Lazio, tuttavia faremo una concessione per la nostra consanguineità, quella di offrire delle condizioni di pace eque per entrambi, dal momento che è piaciuto agli dèi immortali che anche le forze fossero eguali. Bisogna che un console sia nominato da Roma, l'altro dal Lazio, che il Senato sia composto in parti eguali dell'una e dell'altra gente, che si crei un solo popolo, una sola Repubbli­ ca; e, affinché identica sia la sede del potere, identico per tutti il nome, dal momento che è necessaria la rinunzia di una delle due parti - abbia tale decisione buon esito per entrambi -, sia pure questa la patria da preferire, e chiamiamoci tutti Roma­ ni». ' .

Il Senato respingerà duramente le rivendicazioni dei Latini e gli eserciti romani ridurranno al silenzio la resistenza armata degli «alleati». La conclusione del conflitto vedrà lo scioglimento della «lega latina» e la n"duzione di parte del territorio latino a possedimento di Roma (338 a. C.). Dal IV al I secolo a. C l'assetto di Roma e dei territon· z"talici via via assoggettati aveva assunto la /orma di un sistema confe­ derativo con diritti e doven· diversi da popolo a popolo, da città a città. L 'elemento discn"m inante tra Roma e i sodi n·m aneva fondamentalmente il diritto di voto nelle assemblee repubblica­ ne e l'accesso alle can"che pubbliche. Dopo il penòdo delle grandi

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LUCA CANALI

conquiste nel Mediterra neo, gli Italici cominciano a rivendicare una maggiore compartecipazione al potere. Roma, però, non sembra disposta a cedere i tanto ostentati e agognati diritti di cittadinanza. Scoppia la gue"a sociale (9 1 -88 a . C.). Due auton· greci, Diodord e Appiano, ci conservano una testimonianza sulle cause, lo svolgimento e la conclusione del conflitto che Diodoro stesso definiva «la più grande gue"a a noi nota», paragonando/a addirittura a quella di Troia (Floro, Epitome di storia romana, II, VI , 1-5 , 7 [A] ; Appiano, Le guerre civili, I, 3 5 , 155 [B] ) . A . Chiamiamola pure guerra sociale, se vogliamo allontanarne l'odiosità: ma se si vuoi dire il vero, quella fu una � uerra civile.' Infatti, avendo il popolo romano unito a sé gli Etruschi, i Latini, i Sabini per fare di tutte una sola stirpe, di tante membra fece un corpo solo e di tutti ora rimane un solo popolo. Quindi con non minor vergogna si ribellavano gli all e ati entro l'Italia che i cittadini entro la città. Pertanto mentre i socii assai giustamente chiedevano il diritto di citta­ dinanza a Roma che avevano accresciuta con le loro forze (e avevano sperato di ottenerla, indotti dal tribuna Livio Druso [ . . . ] ) , dopo che egli fu ucciso in casa sua, la stessa fiaccola che lo aveva bruciato accese gli alleati che si indussero a prender le armi e a tentar l'espugnazione di Roma. Che cosa poteva esserci di più triste di questa sciagurata guerra? Che cosa di più dannoso? Infatti tutto il Lazio, e il Piceno, tutta l'Etruria e la Campania, infine tutta l'Italia, si sollevava contro la città sua madre e genitrice: [. . ] il popolo dominatore di re e di genti non sapeva regger se stesso e Roma vincitrice dell'Asia e dell'Europa, veniva assalita da Corfinio, la piccola città italica .

che i socii avevano scelto come loro capitale.

B. [ . . ] Il tribuno Livi o Druso, di stirpe nobilissima, promise agli alleati Italici, che insistevano nella loro richiesta, di pro­ porre una legge per la concessione della cittadinanza. Infatti, quelli la desideravano innanzi tutto per portarsi, con questo solo atto, da sudditi che erano alla direzione dell'impero. .

Druso, però, /in t' per scontentare gli alleati quando propose un disegno di legge sulle colonie, che prevedeva confische nei loro tem"tori a favore della plebe di Roma (Appiano, cit. , I, 3 6 , 164 -3 7 , 1 66 ; 3 8, 169 [A] ; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, XXXVI I, 2 , passim [B) ; Appiano, cit. , I, 40-43 ; 46-52 , 227 [ C) ; 68

I I I . ALLEA TI, ANZI SERVI

Diodoro Siculo, cit. , XXXVI I, 2, passim [D] ; Appiano, cit. , I ,

52 [E] ) .

A. Druso che aveva avuto sentore d i ciò, raramente usciva in pubblico e dava sempre udienza nell'atrio della sua casa scarsamente illuminato: una sera, mentre congedava la folla, g ridò improvvisamente di essere stato trafitto e mentre così diceva cadde. Fu trovato infisso nel suo fianco un coltello di calzolaio. Così Druso morì durante il tribunato. Ed i cavalieri, facendo della sua azione politica un mezzo per attaccare calunniosa­ mente i loro avversari, convinsero il tribuno Quinto Vario a proporre una legge, per la quale si processassero coloro che, apertamente o di nascosto, aiutavano gli alleati ltalici ai danni dello stato; essi speravano di trascinare senz'altro tutti gli oligarchici sotto un 'odiosa accusa, e di essere loro a giudicarli: così , dopo l'eliminazione degli avversari avrebbero dominato ancor più completamente lo stato. E poiché gli altri tribuni intercedevano contro la proposta di legge, i cavalieri minac­ ciando con le spade nude la fecero approvare; ed approvata che fu, subito si presentarono degli accusatori contro i sena­ tori più in vista. [ . . ] A questo punto gli alleati italici, [ . ] non scorgendo nessun altro mezzo per realizzare le loro speranze di ottenere la cittadinanza, decisero di staccarsi senz'altro dai Romani e di combatterli con tutte le forze. .

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B. La guerra scoppiò nell'anno in cui erano consoli Lucio Filippo e Sesto Giulio (9 1 a. C.). Durante il conflitto [ . ] vi furono .

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numerose e svariate sciagure e prese di città da una parte e dall'altra dei contendenti, perché la Vittoria, come per un disegno prestabilito, inclinava ora da una parte, ora dall'altra; e non rimaneva stabile per nessuno. Solo dopo molto tempo, e innumerevoli incidenti da entrambe le parti, i Romani riuscirono a prevalere e a rafforzare il loro dominio. Contro i Romani combattevano infatti Sanniti, Ascolani, Lucani, Pi­ centini, Nolani, e altre città e nazioni. C . Comandavano gli eserciti romani i consoli Sesto (Lucio) Giulio Cesare e Pub lio Rutilio Rufo. Infatti ambedue andaro­ no a fronteggiare questa grande guerra civile, mentre altri custodivano le porte e le mura, essendo la guerra interna e vicinissima. Poiché ci si rendeva conto che la guerra era complessa e con vari fronti, furono attribuiti ai consoli come 69

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legati i migliori generali del tempo: a Rutilio, Gneo Pompeo, il padre di quello che poi fu detto Magno, Quinto Cepione, Gaio Perperna, Gaio Mario e Valerio Messalla; a Sesto (Lu­ cio) Cesare, Publio Lentulo, il fratello dello stesso Cesare, Tito Didio, Licinio Crasso, Cornelio Sill a e Marcello. Tutti costo­ ro, divisosi il fronte della guerra, comandavano in sottordine ai consoli, mentre questi ultimi percorrevano tutte le varie zone. I Romani continuavano a mandare loro altre forze, trattandosi di una grande guerra. Gli alle ati ltalici, mentre avevano altri comandanti anche per singole città, avevano come generali in capo, comuni all'intiero esercito, Tito Lafre­ nio, Gaio Pontilio, Mario Egnazio, Quinto Poppedio, Gaio Papio, Marco Lamponio, Gaio Vidacilio, Eri o Asinio, e Vezio Scatone. Essi, divisosi l'esercito in parti uguali, presero posi­ zione contro i generali romani e molte imprese compirono, molte sconfitte subirono: delle une e delle altre, per restringer­ si ai sommi capi, queste furono le più degne di ricordo. Vezio Scatone, dopo aver volto in fuga Sesto (Lucio) Giulio ed aver ucciso seimila soldati, si diresse su Esernia che parteggia­ va per Roma: Lucio Scipione e Lucio Acilio, che ne avevano organizzata la difesa, fuggirono indossando abiti servili ed i nemici, dopo qualche tempo, se ne impadronirono per farne. Mario Egnazio, presa Venafro per tradimento, vi uccise due coorti romane. Publio Presenteio sconfisse Perperna con diecimila uomini, ne uccise circa quattromila e prese le armi alla maggior parte dei rimanenti. In seguito a questa sconfitta il console Rutilio privò Perperna del comando ed affidò a G aio Mario quella parte dell'esercito. Marco Lamponio uccise circa ottocento dei militi di Licinio Crasso ed inseguì i rima­ nenti fino a Grumento. Gaio Papio, presa Nola per tradimento, invitò con un bando i duemila Romani che erano nella città a combattere con lui, se avessero defezionato. E difatti Papio li arruolò, dopo la defezione; ma i loro comandanti, che non avevano prestato ascolto al bando, furono presi prigionieri e fatti morire per fame da Papio. Papio conquistò anche Stabia, Minervio e Salerno, che era colonia romana, ed arruolò quelli che aveva fatto qui prigionieri e gli schiavi. Come si mise a devastare tutto il paese intorno a Nuceria, le città vicine prese dal timore passarono a lui e, all a sua richiesta di armati, fornirono diecimila fanti e mille cavalieri. [ . . . ] In Apulia defezionarono, a Vidacilio, Canusio e Venosa e molte altre città. Alcune che resistevano egli prese per assedio e dei Romani che vi erano 70

III. ALLEA TI, ANZI SERVI

uccise quelli più in vista ed arruolò quelli delle classi inferiori e gli schiavi. li console Rutilio e Gaio Mario costruivano sul fiume Liri dei ponti per superarlo, a non molta distanza l'uno dall'altro. V ezio Scatone, che aveva il campo a loro di fronte, più vicino al ponte di Mario, nottetempo, di nascosto mise delle truppe imboscate presso il ponte di Rutilio, fra dei dirupi. Dopo aver lasciato che Rutilio all'alba passasse il fiume, fece uscire i militi imboscati ed uccise molti avversari all'asciutto e molti preci­ pitò nel fiume. Lo stesso Rutilio in questo scontro fu colpito al capo da un'arma da getto e poco dopo morì. Mario, che stava presso l'altro ponte, immaginatosi l'accaduto dai cada­ veri trascinati dalla corrente, ributtò i nemici che aveva din­ nanzi, attraversò il fiume e si impadronì del campo di Scatone custodito da pochi uomini, cosicché quegli fu costretto a passare la notte dove aveva vinto e, per m ancanza di vettova­ glie, a ritirarsi la mattina dopo. Essendo stati inviati a Roma per la sepoltura i cadaveri di Rutilio e di molti altri nobili, lo spettacolo del console e di altri illustri personaggi morti fu molto triste e per vari giorni ne durò il lutto. In seguito a ciò il Senato decretò che i morti in battaglia venissero sepolti ove erano caduti, perché gli altri non fossero distolti dal servizio militare per causa di un tale spettacolo. La stessa decisione presero gli avversari, quando la conobbero. [ . . ] Cornelio Sill a e Gaio Mario inseguirono con tenacia i Marsi che li avevano assaliti, finché li ributtarono su dei vigneti posti in collina. Mentre i Marsi con gravi fatiche li superavano, a Mario e Sill a non parve opportuno inseguirli anche al di là dei vigneti. Cornelio Sill a , che aveva l'accampamento dall'altra parte della zona a vigneti, accortosi dell'accaduto, si fece incontro ai Marsi fuggiaschi ed anch'egli ne uccise molti, cosicché la strage di quel giorno fu di più di seimila uomini, mentre i Romani si impadronirono di un numero ancor superiore di armi. I Marsi, alla guisa delle fiere, furono resi più feroci dalla sconfitta e, armato un altro esercito, si preparava­ no a marciare ancora contro i nemici, che non osavano attaccare per primi né iniziare battaglia. Questa popolazione è, infatti, bellicosissima e si dice che su di essa si sia avuto un trionfo soltanto per questa sconfitta, mentre prima era un luogo comune che né contro i Marsi, né senza i Marsi si era mai avuto un trionfo. [ . ] Sesto Cesare, scadutogli il tempo del comando, ricevette dal Senato il potere di proconsole. Egli assalì ventimila uomini nel .

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momento in cui stavano cambiando accampamento, ne uccise ottomila e catturò un numero maggiore di armi. Mentre andava per le lunghe l'assedio di Ascoli da lui diretto, morì di malattia, avendo indicato a tenere il comando Gaio Bebio. Questi erano gli avvenimenti del versante adriatico dell'Italia. Quando ne ebbero conoscenza, le popolazioni che stanno dall'altro lato di Roma, Etruschi, Umbri e popoli loro vicini, tutte furono spinte a defezionare. il Senato, allora, timoroso che la guerra circondando i Romani da ogni parte fosse incontrollabile, da un lato fece custodire le coste da Cuma alla città da libertini (per la prima volta arruolati per scarsità di uomini) , dall'altro decretò che divenissero cittadini, cosa che sopra ogni altra tutti desideravano, gli alleati ltalici rimasti fedeli. Divulgato questo provvedimento fra gli Etruschi, co­ storo accolsero la cittadinanza con gioia. Con questa conces­ sione il Senato rese gli alleati già ben disposti ancor più favorevoli, raffo rzò gli esitanti, attenuò l'ostilità di quelli che erano in armi per la speranza di simili provvedimenti. Tuttavia i Romani non iscrissero q uesti nuovi cittadini nell e 35 t ribù allora esistenti nel loro ordinamento statale, affinché, superio­ ri com 'erano per numero ai vecchi cittadini, non avessero il sopravvento nelle votazioni; ma divisili in dieci parti, crearono altrettante nuove tribù, nelle quali, per ultimi, votavano. Spesse volte, così, il loro voto era inutile, dal momento che le 35 tribù, chiamate prima al voto, formavano più della metà. Questo fatto, o che sia passato allora inosservato o che gli alleati siano stati contenti lo stesso, rilevato in seguito fu causa di altri contrasti. Gli insorti lungo il mare Adriatico, non ancora informati della mutata opinione degli Etruschi, inviarono in aiuto in Etruria quindicirnila armati attraverso un percorso diffi cile e lungo. Li assalì Gneo Pompeo , di già console, e ne uccise cinquemila: dei sopravvissuti, che ritornarono alle loro case attraverso un paese impervio ed un rigido inverno, una metà, costretta a sfamarsi di ghiande, perì. Quell'inverno Porci o Catone, colle­ ga di Pompeo, morì combattendo contro i Marsi. Lucio Cluenzio, mentre Silla era accampato presso i monti di Pom­ pei, pose il campo molto insolentemente a tre soli stadi. Sill a , non sopportando l'insulto e senza attendere i propri foraggia­ tori, assalì Cluenzio, ma, per allora sconfitto, dovette ritirarsi; raccolti i foraggiatori, volse in fuga l'avversario. Questi portò sì l'accampamento più in là, ma ricevuti rinforzi gallici di nuovo si avvicinò a Sill a . Mentre gli eserciti scendevano a 72

III. ALLEA TI, ANZI SERVI

battaglia, un Gallo di grande statura correndo innanzi sfidava qualcuno dei Romani a duello. Come un Mauritano di piccola statura, accolta la sfida, lo ebbe ucciso, terrorizzati i Galli subito fugg irono. Scompigliato lo schieramento neppure le rimanenti forze di Cluenzio rimasero al loro posto, ma fuggi­ rono in disordine verso Nola. Sill a , pastosi al loro inseguimen­ to, ne uccise durante la fuga tremila e, poiché i Nolani, timorosi che anche il nemico non penetrasse nella città, non accoglievano i fuggiaschi che per una sola porta, quasi venti­ mila altri caddero presso le mura e fra costoro Cluenzio, combattendo strenuamente. Silla mosse l'esercito verso un' altra popolazione, gli lrpini, ed ass alì Eclano. Gli abitanti, che attendevano quel giorno stesso l'arrivo dei Lucani in loro aiuto, chiesero tempo a Sill a per decidersi. Egli comprendendo il tranello concedette loro un'ora di tempo ed intanto pose intorno alle mura, che erano in legno, delle fascine e trascorsa l'ora diede loro fuoco. Quelli di Eclano, terrorizzati, consegnarono la città, che Sill a pose a sacco per essersi arresa non di spontanea volontà, ma perché costretta. Verso altre città che si consegnavano fu clemente, finché soggiogò l'intiera pop olazione irpina: di poi si diresse verso il Sannio, non per quella via della quale Mutilo, capo dei Sanniti, custodiva gli in g ressi, ma per un'altra, che imponeva un lungo giro, ma per la quale non era atteso. Piombando all 'improvviso, uccise molti nemici e mentre gli altri fuggivano da ogni parte, Mutilo, ferito, si rifugiò con pochi in Esernia. Sill a , catturato il suo accampamento, si diresse su Boviano, ove era il concilio degli insorti. Poiché la città aveva tre rocche e quelli di Boviano tenevano a bada Silla specialmente da una di esse, Sill a comandò ad un certo numero di soldati che andassero ad impadronirsi di quella delle altre due rocche che fosse possibile e comunicassero la conquista con fumate. Avvenuta la fumata, Silla assalì quelli che aveva di fronte e dopo aver combattuto aspramente per tre ore prese la città. Queste furono le favorevoli imprese di Silla durante questa estate: avvicinandosi l'inverno egli si diresse a Roma, per portarsi candidato al consolato. Gneo Pompeo ricevette la resa dei Marsi, Marrucini e Vestini [ ] . . . .

D . Poiché i Romani prevalevano sempre più, gli ltalici manda­

rono dei legati a Mit ridate, re dd Ponto, la cui potenza militare era all o ra al suo apice, chiedendogli di portare il suo esercito in Italia contro i Romani: se avessero unito le loro forze, infatti, 73

LUCA CANALI

la potenza dei Romani sarebbe stata facilmente rovesciata. Mitridate rispose che avrebbe condotto il suo esercito in Italia dopo che avesse reso sicuro il suo dominio in Asia: stava occupandosi allora proprio di questo. Perciò i ribelli caddero nell'afflizione e nello sconforto totale.' E. [ . . ] Gaio Cosconio, altro pretore romano, assalita Sala pia la incendiò, e si impadronì di Canne e pose l'assedio a Canusio. Ali' arrivo di un 'armata sannita, Cosconio la fronteg­ giò con vigore, finché, dopo una grande strage d'ambo le parti, sconfitto, si ritirò a Canne. Trebazio, il duce dei Sanniti, poiché un fiume li divideva, lo invitò o ad attraversare il fiume per venire verso di lui a battaglia, o a ritirarsi perché potesse attraversarlo lui. Cosconio si ritirò, ma quando Trebazio traghettò lo assalì e lo vinse; e mentre quello si ritirava in disordine verso il fiume gli uccise quindicimila soldati. I resti con Trebazio si rifugiarono in Canusio. Cosconio, percorsi i territori dei Larinati, dei Venusini e degli Ascolani, assalì i Pedicoli ed in due giorni ricevette la loro resa. Il suo succes­ sore nel comando, Cecilia Metello, entrato in Apulia vinse anch 'egli in battaglia gli Iapigi. Poppedio, altro capo degli insorti, cadde in questo scontro; gli scampati si arresero, a gruppi, a Cecilia. Questi furono gli avvenimenti in Italia durante la Guerra Sociale, che infuriò con asprezza finché tutta l'Italia entrò nella cittadinanza romana, eccetto, per allo ra, i Lucani e i Sanniti.l Anche costoro, tuttavia, mi sembra che abbiano ottenuto dopo quello che desideravano. Ciascu­ no fu iscritto nelle tribù nella stessa maniera dei precedenti , perché, non avessero, mescolati ai vecchi cittadini, la maggio­ rànza nei comizi, essendo superiori di numero. .

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IV. Gioielli insanguinati. Una spietata lotta di classe

Quando alla nobile Cornelia fu chiesto perché si abbigliasse con tanta semplicità, è storia (o leggenda ? ) che lei, indicando i suoi due figlioletti, abbia risposto: «Questi sono i miei gioielli». A quei due gioielli gli storici antichi attribuirono l'origine di tutte le sventure che funestarono Roma nd I secolo a.C. e portarono alla fine della repubblica aristocratica e all'inizio del «principato repubblicano», come fu chiamata eufemistica­ mente la dittatura militare e burocratica (nell'interesse della «borghesia» finanziaria e imprenditoriale) che fu in realtà l 'impero di Augusto e di quasi tutti i suoi successori. In realtà Tiberio e Gaio Gracco ,.... in seguito oggetto di una vera e propria damnatio memoriae («condanna della memo­ ria>>) e divenuti addirittura nomi impronunciabili - non furono altro che precursori della rivoluzione cesariana. Essi non di­ sponevano tuttavia della gloria militare e dd carisma, né delle impavide legioni che fecero la fortuna , ma infme la sventura, dd geniale «dittatore perpetuo». Ciò che ispirava i Gracchi era una visione globale e anticor­ porativa dei problemi dello Stato romano. Essi erano politici illuminati che vedevano con chiarezza l'essenza . Disse, e turbò gli animi e riaccese l'ardore del delitto. Cosl le belve rinchiuse nelle gabbie, disavvezze alle selve, s'ammansiscono, perdono l 'aspetto minaccioso ed apprendono a tollerare il dominio dell'uomo: ma se un poco di sangue raggiunge le gole ardenti, ritornano la rabbia e il furore, e le loro fauci si gonfiano al richiamo del gusto cruento; l'ira ribolle e a stento risparmia il domatore intimorito. Si giunge ad ogni misfatto, e le mostruosità che la Fortuna, per ira degli dèi, avrebbe commesso nelle tenebre della guerra, le commise la fedeltà alla parola: tra mense e giacigli . .

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V. UN SECOLO MALEDETTO

squarciano i petti che poc'anzi avevano stretto in abbracci. Dapprima brandiscono con gemiti il ferro, ma, appena impugnano le spade nemiche del giusto, mentre colpiscono, odiano i loro prossimi ed ai colpi rinfrancano gli animi che esitavano. Già l'accampamento [tumultua, e, come se un delitto nascosto perdesse valore, ostentano le atrocità agli occhi dei capi; si compiacciono della [ferocia.

Il 9 agosto del 48 a . C avviene lo scontro finale: a Farsàlo, in Tessaglia, si affrontano Cesare e Pompeo (Lucano, cit. , VII , 3 1 83 2 9 [A] ; Cassio Dione, Storia romana, XLI, 55 -59; 6 1 -62 , passim [B] ) .

A . Cesare incita i suoi veterani alla battaglia:

si è canonizzata in un topos che torna con poche varianti a prescindere dalla città di volta in volta in questione. Una canonizzazione, per essere tale, presuppone un fatto storico più che frequente: quante città, allora, sono state distrutte da Roma? • Floro, autore di una Epitome di storia di Roma attraverso settece n to anni di guerre, propone un 'interessante periodizzazione in cui indi­ vidua alcune fasi della storia romana. La > (Sall ustio, Storie, lettera di Mitridate, 9; 1 7 ; Pompeo T rogo, Storiefilippiche, XXXVITI , 7 , 8; Tacito, Agricola, 3 0 , 4 ) , dell'«arroganza>> dei Romani (Livio, àt. , IX, l , 4 ; l , 8 ; XXI , 44 , 5 ; Tacito, àt. , 30, 3 ) , della loro «brama di possesso» (Sallustio, àt. , 5 ; Cesare, La guerra gallica, VII, 7 7 , 1 5 ; Pompeo Trogo, àt. , XXXVI I I , 6, 8 ; Tacito, àt. , 30, 3 ) , dell'impero sentito come «latrocinio» (Sall u ­ stio, àt. , 22 ; Pompeo T rogo, àt. , XXXVII I, 4, 2), tema che sarà, più tardi, di grande centralità in S. Agostino. 1 1 Per informazioni più dettagliate sulla cornice storica in cui si collocano i «discorsi dei vinti», si rimanda alle indicazioni sopra fomite. 12 Un'indicazione demitizzante sui veri motivi che spingono Roma a intraprendere le sue guerre leggiamo anche, a proposito dei Sanniti, in Dionigi di Alicamasso, Storia di Roma arcaica, XVII, 3 . 11 Cfr. Appiano, Le gue"e contro i Sanniti, fr. IV, 1 -6. 1 4 Nelle Storie di Cassio Dione (LXII, 1 - 12 ) , in cui si ritrova lo stesso episodio della rivolta dei Britanni, Boudicca pronuncia un discorso (3 -6) costruito secondo i canoni della «requisitoria>> contro Roma. 1' Per tutto il discorso di Cesare, interpretato come enunciazione della «teoria dell'imperialismo difensivo», in cui confluiscono matri­ ci sofistiche (la «legge del più forte») e stoiche (giustificazione provvidenzialistica del dominio dei «migliori») , si veda E. Gabba, Gli aspetti culturali dell'imperialismo romano, pp. 1 6.5 - 178. .

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LUCA CANALI ' 6 Il papiro - ricavato dall'omonima pianta che cresce sulle rive del N ilo - era il materiale scrittorio più in uso nell'antichità. Molti papiri sono giunti fino a noi perché sepolti sotto le aride sabbie del deserto, che ne hanno impedito il deterioramento. Punto di partenza indi­ spensabile su ogni aspetto della papirologia rimane Turner, Papiri greci, Firenze, La Nuova Italia Scientifica, 1 984. 17 Per le cariche amministrative presenti nei papiri di Ossirinco qui proposti, è forse utile fornire alcune indicazioni. Arciera/eta : era il sommo sacerdote del culto imperiale in ogni provincia. Cubiculario: schiavo o liberto addetto ai servizi del «cubicolo», la «camera da letto» dell'antica casa signorile romana. Esegeta: era un impiegato municipale incaricato, fra le altre mansioni, di fare da guida ai forestieri . Ginnasiarca: era il «direttore» di un ginnasio, centro culturale e sportivo nel mondo greco e romano. Pritano: consigliere con funzioni particolari nell'assemblea amministrativa della città. Procurator reiprivatae: era il rappresentante d eli' imperatore n eli' am­ ministrazione del patrimonio e delle province imperiali. Stratega: comandante militare del contingente romano di stanza nelle provin­ ce. Per toparchia s'intende, infine, il distretto territoriale in cui era suddivisa la provincia d'Egitto.

Suggerimenti bibliografici

Opere di carattere generale: AA. VV . , Storia di Roma , diretta da A. Schiavone, Torino, Einaudi, 1 990, vol. 2, tomo I, pp. 1 89-4 14; 67 1 -794. AA. VV. , Storia antica dell' Università di Cambridge, voli. VIII-XI, Milano, Il Saggiatore, 1 967 -73 . A. Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano, Il Saggiatore, 1 97 1 . T . Mommsen, Storzà di Roma , Milano, Dall ' Oglio ( rist . ) , 1 983 . E. Gabba, Aspetti culturali dell'imperialismo romano, Firenze, San­ soni, 1 993 . M. Rostovzev, Storia economica e soczàle, Firenze, La Nuova Italia, 1 97 6. P. Veyne, «Humanitas»: romani e no, in L 'uomo romano, a cura di A. Giardina, Roma-Bari, Laterza, 1 989. In particolare: D. Musti, Polibio e l'imperz.a lismo romano, Napoli, Liguori, 197 8. P. Desideri , L 'interpretazione dell'impero romano i n Posidonio , in «Rendiconti dell'Istituto Lombardo. Classe di Lettere», CVI, 1 972 , pp. 481-93 . A. Momigliano, Polibio, Posidonio e l'imperialismo romano, in «Atti deli' Accademia di Torino. Classe di Scienze Morali)), CVII, 1 97 2 -7 3 , pp. 693 -707 . 246

NOTE E SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI

E. G a b b a , Storiogra/ia greca e impenalismo romano (III-I sec. a. C.), in «Rivista di Studi Italiani», LXXXVI , 1 974, pp. 625 -642 . E. Salomone Gaggero, La propaganda antiromana di Mitridate VI

Eupatore in Asia minore e in Grecia, in Contn'buti di storia antica in onore di A. Garzetti, Genova, 1 976, pp. 89- 123 . F.P. Rizzo, Mitn.date contro Roma tra messianismo e messaggio di liberazione, in Tra Grecza e Roma. Temi antichi e metodologie moder­ ne, Roma, 1 980, pp. 1 85 - 1 96. R Syrne, Sallustio, Brescia, Paideia, 1 968, pp. 1 58-23 8. I. Calevo, Il problema della tendenziosità di Sallustio, Udine, Istituto delle Edizioni Accademiche, 1 940, pp. 93 - 1 88. C . Questa, Sallustio, Tacito e l'impen'alismo romano, in «Atti e Memorie dell'Arcadia», serie III, 6, 1 975 -76, pp. 1 -43 . M. Mazza, Stona e ideologia in Livio, Catania, Bonanno Editore, 1 966 . C. Marchesi, Livio e la verità storica, in Voci di antichi, Roma, Leonardo, 1 946. C. Marchesi, Tacito, Milano, Principato, 1 942 , pp. 129- 170. CAPITOLO Ili:

ALLEATI, ANZI

SERVI

Note 1 Il discorso di Annio Latino, non riportato in nessun 'altra fonte antica, presenta verosimilmente anacronismi per quel che riguarda i rapporti fra Roma e la Lega Latina nel IV secolo a.C. Le rivendica­ zioni del pretore di Sezia sembrerebbero ricondursi piuttosto al successivo periodo delle guerre sociali (l secolo a.C . ) . 2 I n Diodoro, a diffe renza di Floro e Appiano, l e cause dell a guerra sono descritte in chiave moraleggiante. 1 La guerra sociale è considerata in Floro, come più tardi in Appiano (vedi più avanti) , una vera e propria «guerra civile». Evidentemente gli autori antichi sentivano il conflitto come uno scontro tra genti idealmente e culturalmente pressoché unite dall'ormai secolare processo di integrazione dell'Italia. Proprio tale elemento di «con­ sanguineit à» contribuisce a creare la tradizionale immagine del bellum sociale come della guerra condotta per eccellenza nel modo più feroce e spietato da entrambi i contendenti. • .:L'idea di un p atteggiamento con Mitridate, che pur vi fu, non poté nascere che dalla disperazione p e r il fall i mento della rivolta)) (E. Gabba) . Occorre comunque tenere presente che dal passo citato di Diodoro Siculo - l'unico da cui si possa dedurre che la richiesta di

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LUCA CANALI

aiuto a Mitridate sia stata inoltrata in una fase conclusiva del conflitto - non sembra potersi ricavare un quadro cronologico rigoroso. ' La tenace resistenza dei Sanniti verrà stroncata solamente nell'82 a.C. , nel tragicamente famoso scontro di Porta Collina (vedi oltre, p . 1 03 ) . Suggen.menti bibliogra/ià

Opere di carattere generale: G. De Sanctis, La gue"a soàale, Firenze, La Nuova Italia, 1 97 6 . AA.VV. , Storia di Roma, diretta d a A . Schiavone, Torino, Einaudi, 1 990, vol. 2, tomo I , pp. 697 -7 1 1 . P .A. Brunt, Classi e conf/ittisoàali in Roma repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 1 1 3 - 1 63 . In particolare: E. Gabba, Appiano e la storia delle gu�e àvili, Firenze, La Nuova Italia, 1 956, p. 27 sgg. (sulla rivolta latina del 340 a.C. ) , pp. 1 3 -3 3 (sulla guerra sociale del 9 1 -88 a.C. ) . U. Laffi, Roma e l'Italia prima della gue"a soàale, in >. Floro

Non si hanno dati sicuri sull a collocazione storica, l'origine e persino il nome completo di Floro, autore di un 'Epitome di storia romana in settecento anni di gue"e. Nella sua opera la storia di Roma si presenta come un susseguirsi di guerre e di battaglie, il cui unico filo condut­ tore sembra essere il carattere militaristico dell'ascesa della città egemone. Alla vicenda della storia di Roma è applicato lo schema metaforico del susseguirsi delle età dell'uomo; così il popolo romano ha una sua infanzia, adolescenza e vecchiaia, e ogni stagione della sua vita ha un proprio tratto caratteriale dominante: l'incapacità di governarsi da solo (età dei re) , la turbolenza nello slancio vitale (prima età repubblicana) , la pienezza delle proprie forze (seconda età repubblicana) , l'affievolirsi del vigore fisico e intellettuale (età imperiale).

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APPENDICE

Giovenale Pochi dati si hanno a disposizione per ricostruire la vita di Decimo Giunio Giovenale, nato ad Aquino intorno all a metà del I secolo d . C . Visse nella Roma d i Domiziano prima e degli imperatori per adozio­ ne poi, sotto la protezione di potenti famiglie nobiliari; morì all 'età di circa ottanta anni. Le sue Satire, in tutto sedici , rappresentano la più risentita e violenta denuncia contro la degenerazione e la corruzione m orali della società rom ana. La depravazione sessuale, l' ipocrisia, le spere­ quazioni sociali , l 'invivibilità della metropoli, i vizi e gli eccessi dd tempo: un disperante e smisurato quadro cui Giovenale contrappo­ ne il mondo di valori tradizionali romano-italici, guardato con nostalgico rimpianto. Lo sdegno e l'energia con cui Giovenale si scaglia contro i mali della società si rispecchiano e si potenziano nell'irruenza di un linguaggio che assume toni sostenuti, e trovano il loro più adeguato strumento espressivo nel vigore dell ' invettiva.

Livi o Tito Livio guardò sempre con orgogliosa ammirazione alla sua patria, Padova, dove nacque nel 5 9 a.C. Poche notizie si hanno s ulla sua attività di letterato a Roma, dove si trasferì molto p resto e, probabilmente, si accostò ai circoli culturali vicini ad Augusto. L 'imperatore lo chiamava scherzosamente «pompeiana», probabil­ mente per le sue tendenze repubblicane; ciò, tuttavia, non impedì a Livio di essere scelto come pedagogo del futuro imperatore Claudio. Per ben dieci anni lavorò all a monumentale Storia di Roma dalla sua fondazione, in 142 libri, che giungevano fino al 9 a.C. (morte di Druso) . Per un giudizio su Livio storico e scrittore è forse opportuno tener conto , più che in altri casi, del fatto che della sua opera , divisa in deche, sono giunte solo alcune parti. La prima deca racconta le leggendarie vicende della Roma dei re, la nascita della libera repub­ blica e le successive lotte tra patrizi e plebei: è il Livi o più famoso, che descrive il cammino di Roma come il compiersi di un destino fatale; il Livio che colora di eventi p rodigiosi e maestosi affreschi n arrativi la storia dello Stato romano, presentata come epopea delle grandi famiglie patrizie dell 'Urbe. La terza deca narra gli avvenimenti della seconda guerra punica: è il romanzo di Annibale, dal quadro eroico del passaggio delle Alpi al drammatico confronto tra Scipione e Annibale, la notte prima dello scontro decisivo, quando i comandan ti dei due stati più potenti 278

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del mondo si abbandonano a profonde riflessioni sul destino dell'uo­ mo. N ella quarta dee a sono descritte le prime fasi dell'espansionismo romano nel Mediterraneo: sullo scenario della Storia emergono in modo sempre più preponderante le figure di grandi personaggi, dai re stranieri ai generali dell'esercito romano, i nuovi protagonisti delle vicende di Roma. Lucano

Appartenente alla famiglia degli Annei - era nipote di Seneca Marco Anneo Lucano si trasferì giovanissimo da Cordova, dove era nato nel 3 9 d.C., a Roma, e ben presto fu riconosciuto negli ambienti culturali della corte neroniana come poeta di grande talento. Coin­ volto anch'egli nella congiura dei Pisoni, vittima della sanguinosa repressione di Nerone, fu costretto a togliersi la vita all'età di soli 26 anm. Nel poema che Lucano ci ha lasciato, la Farsaglia, sono narrate le vicende della guerra civile tra Cesare e Pompeo. Già la scelta di avvenimenti storici come materia di un poema epico, unita ad un puntuale rovesciamento delle strutture narrative e degli elementi tipici del genere, costituiva di per sé un programmatico rifiuto della tradizione virgiliana. In sintonia con uno stile concettoso, a forti tinte, teatralmente amplificato da effetti retorici, emergono i motivi centrali del poema: il gusto per il macabro e l'horror; l'elemento del magico e dello sconvolgente; il fascino del mistero e dell'ignoto; il senso angoscioso della morte; la concezione fatalistica di un'esistenza dominata dal caso, in cui tutto è destinato inesorabilmente a perire. Tutto tranne, forse, l'opera del Poeta. Luciano

Luciano, nato a Samòsata in Siria, e vissuto nel II secolo d.C., fu uno degli esponenti di maggior rilievo di quel movimento intellettuale definito come «seconda sofistica», in cui si ritrovano personalità tra loro anche assai diverse, ma accomunate da usi linguistici arcaizzanti e puristi, e dalla tendenza alla rielaborazione retorica di temi e motivi propri del passato letterario greco. Dalle numerose e varie opere di Luciano, che vanno dal dialogo filosofico al racconto d'avventura, al trattato tecnico-scientifico, emerge un mondo fantastico e irreale, creazione tutta letteraria, popolato da maghi e filosofi, divinità umanizzate e colti pescatori, dove il sorriso distaccato dell'autore e 279

APPENDICE

il suo fatalismo disperante davanti al crollo di ogni valore certo, mettono a nudo vizi, debolezze, ansie e ill usioni degli uomini, inconsapevoli attori della tragicommedia della vita. Lucilio

Nato a Sessa Aurunca, Gaio Lucilio visse nel II secolo a.C . , età di forti mutamenti, a Roma, nella società e nella cultura, che vede l'in contro con altre civiltà, trasformazioni di costumi e mentalità consolidati dall a tradizione, lo sviluppo e l'ascesa di nuovi ceti con conseguenti contrasti politici. Di questo mondo multiforme sono specchio, spesso deformante e sempre mediato da filtro letterario, le dissacranti Satire del poeta campano, che fu uno dei personaggi legati all ' ambiente culturale più attivo nella Roma del tempo: il circolo degli Scipioni. Dell a sua opera, divisa in trenta libri già dagli editori antichi, ci sono pervenuti, attraverso citazioni di altri autori, circa 1 3 00 versi. Lucrezio

Null'altro di certo sappiamo su Tito Lucrezio Caro, se non che visse nella prima metà del I secolo a.C. Pochi dati, peraltro di assai discussa attendibilità, fornisce S. Girolamo: «Nasce nel 96 il poeta Tito Lucrezio: il quale poi, caduto nella follia per opera di un filtro amatorio, dopo aver scritto alcuni libri negli intervalli della pazzia, che poi Cicerone rivedette, si uccise di sua propria mano, all'età di 44 ann i ». Con la sua opera, il poema in sei libri intitolato La natura, Lucrezio, inserendosi nel solco della tradizione greca dei poemi didascalici scientifico-filosofici, mirava a diffondere le dottrine epi­ curee negli ambienti culturali di Roma, per lo più tradizionalmente ostili ad una filosofia che identificava il sommo bene dell'uomo «nella felicità e nel piacere». L'epicureismo, in Lucrezio, è la filosofia razionalistica che, attra­ verso la scienza della natura e la comprensione razionale delle cause prime che muovono l'universo, libera l'uomo dai dolori e dall e passioni, dalla superstizione e dal timore della morte. Nel linguaggio ora oscuro ed aspro nelle descrizioni scientifiche, ora grandioso e potente nelle immagini poetiche, trovano spazio, nell'opera di Lu­ crezio, la teoria deterministica della materia, la vertiginosa visione di un cosmo infinito, la rappresentazione del progressivo incivilimento dell'uomo, la forza liberatrice della luce della Ragione.

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Marziale Nato in Spagna intorno al 40 d.C., Marco V alerio Marziale si trasferì fm da giovane a Roma, dove godette della protezione dell'influente famiglia spagnola cui appartenevano anche Seneca e Lucano. Dopo il fallimento della congiura dei Pisani (65 d.C.) Marziale risentì dei drammatici eventi che coinvolsero gli Annei, e fu costretto a condur­ re un'esistenza disagiata se non , in alcuni casi, appena dignitosa. Più volte cercò di procurarsi il favore e l'appoggio degli imperatori che si succedevano al potere, dedicando loro componimenti elogiativi o addirittura singole raccolte di epigrammi. Deluso però nelle proprie aspettative, tornò defmitivamente in Spagna, dove condusse, lonta­ no ormai da ogni preoccupazione, gli ultimi anni della sua vita, fino alla morte, avvenuta intorno al 1 04 . Marziale scrisse 1 4 libri d i Epigrammi, pubblicati in momenti diversi, e un libro Sugli spettacoli composto, intorno all'BO, in occasione dell'inaugurazione dell'Anfiteatro Flavio, in cui erano descritti i violenti giochi circensi indetti dall'imperatore Tito. Nell'opera di Marziale la ripresa e la rielaborazione di motivi topi ci della produzione epigrammatica greca e latina si alternano con la rappresentazione realistica di aspetti concreti della società roma­ na, quali la durezza della condizione clientelare, l'arrivismo sociale, l'arroganza dei nuovi arricchiti, la dissolutezza e la depravazione dilaganti; è assente, però, un intento di condanna morale. A livello formale coesistono, in Marziale, l'espressività e la violen­ za di un linguaggio che spesso sconfina volutamente nella volgarità, e la delicatezza di alcuni accenti lirici, nella mediazione di una raffinata e sapiente costruzione del componimento poetico. Orazio

Quinto Orazio Fiacco, nato a Venosa nel 65 a.C., dopo aver compiu­ to gli studi di retorica a Roma e completato la sua formazione ad Atene, fu accolto da Mecenate, che aveva ben intuito le capacità letterarie del giovane poeta, nel suo circolo culturale, e divenne, a poco a poco, uno degli interpreti più emblematici del programma politico e culturale di Augusto. Fu spettatore e, in un 'occasione - a Filippi, nel 42 a.C. - anche protagonista dei drammatici eventi che segnarono il passaggio dall a repubblica al principato, e dei quali le sue opere, pur nella mediazione letteraria, conservano echi moltepli­ ci: dall a sanguinosa sconfitta dei Cesaricidi - nel 42 , appunto - per i quali il giovane Orazio parteggiava, al trionfo di Ottaviano e dell'Occidente ad Azio. 281

A PPENDICE

La sua produzione letteraria vede quattro linee di sviluppo fonda­ mentali, che costituiscono altrettanti momenti nell'evoluzione poeti­ ca oraziana: gli Epodi, la prima opera , in cui si riscontrano generi , toni e tematiche vari , dal giambo all 'elegia, dall 'invettiva alla riflessione , dalla politica a l quotidiano; i Sermoni, satira non diretta contro personaggi reali, bensì condotta con taglio universale contro i Vizi dell 'uomo; le Odi, monumento della poesia oraziana, faticosa conqui­ sta della perfezione letteraria e summa del pensiero dell ' autore; le Epistole, ultima meditazione amara sull ' inevitabile infelicità della condizione umana, che lascia spazio, forse, solo al soliloquio.

Petronio N ulla si sa di Petronio, se non le scarse notizie che ci fornisce Tacito in una famosa pagina degli Annali ( cfr. p. 1 8 1 ) , e quel che, della sua personalità, si può, forse, ricavare dai frammenti dell 'opera a lui attribuita, il Satyn.con. Storia delle mirabolanti avventure di due giovani studenti di retorica, Ascilto e Encolpio, nel Satyn.con - opera mista di prosa e versi , difficilmente classificabile per la disinvoltura con cui l' autore impiega temi e stilemi propri di generi letterari diversi - si ritrovano il superiore distacco dell 'autore nel rappresen ­ tare, in forme parodistiche e talora grottesche, il cattivo gusto imperante nella società ; il motivo del sesso onnipresente; l ' insistenza sul tema della morte, che diviene via via ossessivo ; la rapp resentazio­ ne della vita come teatro, s ullo scenario atemporale di una sorte imp revedibile. Il tutto in un 'elaborata e ricercatissima arte in cui vari registri stilistici e lessicali sono combinati in un intarsio letterario sem pre sorvegliato, comune denominatore della polifonia dell'ope­ ra. Nel mondo petroniano, popolato da personaggi che si muovono in un irreale vuoto di valori etici ed estetici, non sembra rimanere, al disilluso e disincantato autore, che un unico, ma sovrano, ideale. Quello del buon gusto e della raffinatezza.

Plauto Di origini umbre, Plauto visse a cavall o tra il III e il II secolo a . C . , e fu probabilmente capocomico di una compagnia teatrale per la quale scriveva egli stesso i testi destinati ad essere rappresentati . Le sue Commedie - ne sono pervenute venti per intero - sono il frutto della rielaborazione di testi scenici greci scritti all ' incirca un secolo p rima. Nei modelli , che Plauto utilizza compiendo u n ' opera­ zione di contaminazione, combinando cioè trame diverse, mescolan­ do ambienti e situazioni, sono inseriti alcuni elementi culturali del 2 82

APPENDICE

mondo romano e italico, quali una vivacità e una travolgente comicità e un ostile atteggiamento verso i Greci e certi aspetti della loro civiltà. Plutarco

Nato nella piccola città beota di Cheronea, che egli sentì sempre luogo privilegiato per la sua attività letteraria, Plutarco visse tra la seconda metà del I e l'inizio del II secolo d.C., e ricoprì, in patria, prestigiose cariche politiche e amministrative, che lo portarono, in qualche occasione, a Roma, dove ebbe anche modo di stringere ll:n portanti amicizie çon personaggi influenti legati alla corte impe­ nale. In una poderosa opera di sistemazione di tutto il patrimonio ideale della civiltà greca, la vastissima produzione di Plutarco spazia in ogni campo della cultura antica, abbracciando etica, filosofia, teologia, pedagogia, psicologia, politica, scienze naturali, letteratura, retorica ed erudizione. La fortuna di Plutarco, comunque, è senza dubbio legata alle Vite parallele, 22 coppie di biografie in ognuna delle quali sono accostati, e spesso confrontati tra loro, due personaggi storici, uno greco e uno romano. Pur nella drammatizzazione spesso romanzesca degli avve­ nimenti storici, cui corrisponde una sempre piacevole veste lettera­ ria, non è mai assente, nelle diverse monografie, la ricerca di un insegnamento etico-politico. Nel mondo ormai unificato e dominato da Roma Plutarco, non senza un certo orgoglio nazionalistico, sembra additare nel glorioso passato della grecità le radici non solo dell'Impero romano, ma di ogni società civile, constatando allo stesso tempo che solo una riflessione sui grandi modelli del passato (anche quelli negativi) può essere la base nella costruzione di una civiltà fondata su religiosi valori etici e moderati p rincipi politici e sociali. Polibio

Nato a Megalòpoli intorno al 200 a.C. e appartenente ad una prestigiosa famiglia greca, Poli bio ricopriva, nel 1 69 a.C., una impor­ tante carica politica nella lega degli stati della regione dell'Etolia, quando la sconfitta subita da tale confederazione ad opera dei Romani determinò la sua deportazione a Roma. Qui strinse una profonda amicizia con Scipione Emiliano e divenne una delle figure di primo piano nel circolo degli Scipioni. Le Ston·e di Polibio narravano le vicende dall'inizio della prima guerra p unica (264 a. C.) all a distruzione di Cartagine e Corinto ( 146 283

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a.C . ) , l'età, dunque, della formidabile espansione romana nel Medi­ terraneo. Proprio la straordinaria ascesa di Roma costituiva l'ele­ mento unificante e prowidenziale di una storia che assurgeva, così, a livello di paradigmatica universalità, divenendo allo stesso tempo , per il lettore, utile strumento d i conoscenza e repertorio d i casi esemplari . Quest'intento didascalico è più volte sottolineato dall ' autore, che critica duramente altri orientamenti storiografici a lui contempora­ nei o di poco anteriori - miranti a coloriti artistici o ad effetti patetici - ritenuti poco seri. Caratteristiche peculiari dell ' opera di Polibio sono la scrupolosa ricerca dell'obbiettività storica, e l'attenzione costante alla dimensione politica della storia, in particolare all e forme di governo dei diversi stati . L a costituzione romana è, i n tale ottica, il migliore sistema politico mai realizzato dall ' uomo, in quanto combina gli elementi più validi dei sistemi monarchico, oligarchico e democratico, e costitu­ isce, in ultima analisi, la ragione profonda del successo di Roma. Spesso, però, nel corso della narrazione, emerge una rassegnata consapevolezza della decadenza inevitabile di ogni organismo uma­ no, una amara riflessione sull a mutabilità della sorte. Degli originali 40 libri che costituivano le Storie di Polibio solo i primi 5 sono pervenuti integri; gli altri in modo frammentario. Pompeo Trogo

Vissuto a cavallo tra il I secolo a. C. e il I secolo d.C., Pompeo T rogo proveniva da una famiglia galli c a cui era stata concessa la cittadinan­ za romana da tre generazioni. Le Storie filippiche - opera particolarissima nel panorama storio­ grafico della letteratura latina - ci sono pervenute nella epitome di Giustino, personaggio difficilmente identificabile che riassume alcu­ ne parti del testo, in alcuni casi riportando direttamente le parole dell'autore. La narrazione di Pompeo Trogo, di taglio universalistico, ruota intorno all ' asse Macedonia-Oriente; gli eventi storici di Egitto, Siria, Persia e, con particqlare attenzione, della Macedonia, occupano la quasi totalità dei 44 libri di cui è composta l'opera. Alle vicende di Roma è riservato esclusivamente il penultimo libro e tutti quei passi in cui si descrive l'intrecciarsi della storia degli altri popoli con quell a della nascente potenza romana; qui - per lo più attraverso l'uso dell'espediente letterario dei discorsi di sovrani greci ed orientali, primi fra tutti Filippo e Mitridate, gli eroi an ti romani per eccellenza - sono presenti quei motivi appartenenti alla propaganda contro 284

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Roma che spesso sono stati sentiti come propri del tessuto generale dell'opera. Sallus tio

Nato ad Amiterno nell'86 a.C . , Gaio Sallustio Crispo compì i suoi studi a Roma, dove venne a contatto con la cerchia neoplatonica di Nigidio Fìgulo in cui, accanto al misticismo di filosofie orientaleg­ gianti, con fl uiva l'atteggiamento di opposizione e di radicale critica all'ordinamento sociopolitico del tempo. Schieratosi apertamente tra le fila del movimento cesariano, ricoprì la carica di questore prima, e di tribuno della plebe nel 52 a.C . , quando attaccò violentemente il conservatore Milone, acerrimo nemico di Clodio. Due anni dopo , però, vittima della reazione aristocratica, fu espulso dal Senato «per malcostume», su proposta dei due censori , di parte anticesariana. Ebbe parte attiva nella guerra civile tra Cesare e Pompeo, al termine della quale gli fu affidata l'amministrazione della provincia dell'Afri­ ca orientale. Accusato di malversazione, si ritirò definitivamente dalla scena politica per dedicarsi completamente all'attività letteraria, fino al momento della morte, avvenuta probabilmente nel 35 a.C. Nella produzione letteraria di Sallustio, accanto alle Storie, di cui ci sono pervenuti solo alcuni frammenti, e alle Epistole - peraltro di ancora discussa attribuzione -, emergono due opere di taglio mano­ grafico, La congiura di Catilina e La gue"a di Giugurta. Qui Sall u stio, intervenendo in prima persona e attraverso la voce dei diversi attori che si muovono sulla scena della sua storia , o, talora, anche solo nel modo in cui presenta la materia narrata, giunge ad una critica severa dell a politica, della società e dei costumi romani, che investe in particolare, nei suoi toni più accesi, il mondo nobiliare, lo «strapo­ tere dei pochi>>. L'immagine di una realtà disgregata, in preda al decadimento morale, lacerata da contrasti politici e sociali, è dipinta da Sallustio in uno stile rotto, asimmetrico, incalzante nelle sue variazioni impre­ viste, volutamente lontano dall'equilibrio e dall ' armonia del perio­ dare ciceroniano; uno stile in cui la densa concisione si accompagna al recupero di parole arcaiche e rare, cariche di una intensità patetica che permea ritratti psicologici ed erompe in grandi quadri dramma­ tici. Seneca Nella vita di Lucio Anneo Seneca (4 a.C. -65 d.C. ) , spagnolo di Cordova, si alternarono il prestigio di una giovinezza contrassegnata 2 85

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da una fervida attività oratoria e letteraria, e la desolazione di un esilio inflitto tra gli intrighi e le invidie dei potenti all a corte dell'imperatore Claudio, e di nuovo l'influente ruolo di precettore e consigliere di Nerone e l'amaro ritiro da una convulsa scena politica, nel mondo della filosofia. La sua personalità è estremamente complessa e con­ trastata, scissa tra la tensione verso un impegno attivo nella realtà e l'esigenza di una meditazione interiore. Consapevole della limitatezza e caducità delle lusinghe materiali, il cui fascino abbaglia l'uomo, che troppo spesso fonda su esse il senso del proprio vivere, Seneca cercò di indicare il diffi c ile percorso di perfezionamento etico che vede nell'autosufficienza dell'anima la sua mèta. Interprete di tale complessità esistenziale, lo stile di Seneca, denso, rotto e nervoso, che procede per immagini giustapposte e dense e concettose sentenze, caratterizza una prosa d'arte tra le più originali della latinità. Varia è la produzione letteraria di Seneca. Nei Dialoghi, in 1 2 libri, s i affrontano, quasi con taglio monografico, questioni etiche e problematiche filosofiche: il tema della provvidenza, la forza interio­ re del saggio, la natura dell 'ira, la vera felicità, la vita contemplativa, la tranquillità dell'animo, la brevità della vita. Nelle Questioni natu­ rali la trattazione di temi tipici della scienza naturalisti ca degli antichi diviene l'occasione per riflessioni filosofiche e tirate morali: la forza della ragione permette all'uomo di liberarsi da timori infondati. Le Epistole a Luci/io costituiscono la su m ma del pensiero seneca­ no. Emergono in particolare l'analisi attenta dei mali psicologici di una società confusa e alienante; la riflessione sulla fuga inesorabile del tempo, presupposto tragico al tentativo di conquistare il bene inestimabile della vita; la scoperta del divino che è in noi; la forza dell'interiorità. Di Seneca possediamo anche nove Tragedie, di diffi cile se non ­ in alcuni casi - impossibile rappresentazione, probabilmente desti­ nate ad essere «declamate» nelle sale in cui si svolgevano pubbliche letture. Dalle tragedie, al di là di alcuni elementi considerati spesso «eccessivi», quali la propensione, talora quasi ossessiva, verso effetti macabri e patetici, e un gusto per il particolare erudito, emerge una concezione del mondo in cui protagonista è l'uomo, solo davanti a se stesso, alla ricerca di un equilibrio e di un'autosufficienza interiori nel perpetuo conflitto tra bene e male, colpa e coscienza. L'elemento stilistico fortemente retorico, mai fine a se stesso, è funzionale a potenziare i contenuti profondi e i temi chiave dei drammi senecani.

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Svetonio

Molto poco sappiamo di Gaio Svetonio Tranquill o , letterato e sovrintendente agli archivi di Stato, attivo nella Roma di Traiano e Adriano. Della sua vasta p roduzione erudita, in cui erano presenti opere sui più disparati argomenti, da curiosi saggi sull'abbigliamento a vere e prop rie enciclopedie di cultura generale, rimangono le Vite di Cesari, dodici biografie aneddotiche degli imperatori rom ani, da Cesare a Domiziano. Ogni biografia non è condotta secondo un criterio cronologico ma è ordinata per sezioni, in uno schema che rim ane p ressoché Io stesso in tutte le vite, e che comprende notizie , esclusivamente in forma aneddotica, senza u n ' analisi critica e storica, sull a famiglia e la nascita dell' imperatore, sulla sua giovinezza, sull ' assunzione del potere, s ulle imprese militari e la legislazione civile, s ul suo aspetto fisico e sulla sua personalità morale, infine sulla morte. In m ancanza di qualsiasi riflessione su fatti politici, sociali o culturali, unica protagonista della storia di Svetonio è la figura dell 'imperatore, colto nella quotidianità delle sue debolezze e nei suoi difetti. Tacito

Publio Cornelio Tacito, discendente da un ' antica nobile famiglia, p robabilmente di origini galliche, percorse tutti i gradini della carriera politica fino al consolato del 9 8 , conobbe gli anni bui del principato domizianeo e salutò con animo fiducioso il sorgere della nuova e felice età degli imperatori per adozione. Lo splen dore del periodo aureo dell ' impero rom ano non affiora, però, nella sua produzione letteraria: nell'Agricola , biografia in toni elogiativi del genero Giulio Agricola, il «civilizzatore» della Britannia, esempio di virtù e integrità morale ; nella Germania, monografia etnografica sulle fiere popolazioni delle foreste e dei grandi fiumi del nord Europa; non affi ora, infine, nelle opere m aggiori di Tacito, le Storie e gli Annali. Nelle Storie, che abb racciavano gli anni dal 69 al 96 d . C . , in 1 2 libri ( n e rimangono solo i primi 4 ) , troviamo descritta, in toni d i cupa monotonia, la sanguinosa lotta per il potere che, dopo la morte di Nerone, si scatenò tra Gaiba, Otone, Vitellio e Vespasiano. Sullo sfondo, vasti quadri di campi di battaglia desolati e masse mutevoli in p reda all ' entusiasmo, all 'odio, alla disperazione. Nel p roemio delle sue Storie ,Tacito aveva dichiarato l'intenzione di voler narrare , in seguito, i tempi felici dei principati di Nerva, Traiano, Adriano. 2 87

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Gli Annali, invece, rappresentano uno sconfortato ripiegamento su un universo storico ancor più cupo , quello degli anni drammatici della dinastia giwio-claudia. Eventi e personaggi si muovono sulla scena della storia, quasi in un'atmosfera senza tempo, tra i fili invisibili dei Fati, all'insegna di un pessimismo tragico. Gli intrighi e la corruzione della casa imperiale; gli immensi ritratti di personaggi storici che attraverso un sottile scavo psicologi­ co divengono figure letterarie; le crudeltà di Tiberio, gli eccessi di Messalina, le follie di Nerone; le grandi immagini poetiche: le notti stellate, i silenzi . . . Pagine tacitiane che si fissano nella memoria del lettore, e con esse l'arte tutta personale di un autore che unisce la pregnanza poetica della parola ad una studiata asimmetria della frase, specchio di una complessa personalità. Terenzio Di origini africane, Terenzio, vissuto intorno all a metà del II secolo a.C. , giunse a Roma come schiavo di un importante uomo politico che lo liberò e lo fece istruire, consentendogli così di inserirsi nel fertile ambiente ctÙturale gravitante intorno al circolo degli Scipioni, che mirava ad un profondo rinnovamento, anche politico, della società. In sintonia con il fervido clima ctÙturale del tempo appaiono i temi principali dei suoi Drammi, in tutto sei: il sorgere di nuove problematiche sociali - quali la posizione della donna nel mondo romano, l'emergere di conflitti generazionali, la crisi dei sistemi educativi tradizionali - e la tendenza ad una introspezione psicolo­ gica dei personaggi. V alerio Massimo Poco o nulla si può affermare con certezza sulla figura storica di Valerio Massimo, se non il fatto che sia vissuto durante l'età della dinastia giulio-claudia, e più precisamente sotto il principato di Tiberio. I suoi Detti e fatti memorabili costituiscono un ampio repertorio di aneddoti di taglio moraleggiante, ordinati secondo vizi e virtù, e relativi a fatti storici e leggendari, il cui criterio unificante riswta essere, in wtima analisi, quasi esclusivamente quella patina fortemente retorica con cui l'autore colora la materia trattata. VeUeio Patercolo Proveniente da una famiglia profondamente legata all a dinastia imperiale dei Giwio-Claudi, Velleio Patercolo ricoprì, durante il 288

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principato di Augusto e quello di Tiberio, importanti cariche militari e politiche. La sua opera storica, dedicata ad un import ante uomo politico del tempo e concepita con l'intento di narrare le vicende dell'umanità dall'origine del mondo fino all'età a lui contemporanea, si presenta come un compendio, non troppo sistematico, in cui l'attenzione e l'interesse dell'autore sono concentrati fondamental­ mente sul periodo di Augusto e, soprattutto, su quello di Tiberio, da lui ammirato e proposto come modello di moderazione. Virgilio Il poeta più famoso di Roma nacque in un piccolo borgo delle campagne mantovane, intorno al 70 a.C. Giunto a Roma per intra­ prendere gli studi e, quindi, la carriera forense, si volse ben presto, anche attratto dalle dottrine epicuree e affascinato dalla vibrante vena poetica di Lucrezio, a quella che sentiva l'attività a lui più congeniale: la poesia. Tra il 42 a.C. e i primissimi anni '30 compose le Bucoliche, in cui il mondo agreste - ora simbolo di vicende reali, spesso autobiogra­ fiche, ora metafora di una dimensione rasserenante è descritto e vissuto con un sentimento della natura intenso e malinconico. Accolto nel cenacolo culturale più attivo in Roma, il circolo di Mecenate, gravitante intorno al futuro imperatore Augusto, Virgilio scrisse, intorno agli anni '30, le Georgiche, un'opera didascalica sull ' arte dell'agricoltura in cui riusciva a conciliare l'esigenza di un recupero delle tradizioni rurali italiche, propria della politica augu­ stea, con la pensosa riflessione sulla necessità per l'uomo della fatica e della sofferenza come condizioni ineliminabili del vivere. Virgilio si dedicò quindi, fino al termine della sua vita - morì nel 19 a.C. - alla composizione dell'Eneide, il poema nazionale della romanità, l'epico canto delle gesta mitiche del fondatore di Roma; Enea, nell'adempimento devoto dell'inappellabile volontà dei Fati, abbandona la sua patria in fiamme per una terra ignota; rinuncia a una donna che, pure, ama; varca i confini dell'umano, giungendo nell 'aldilà, da dove nessuno prima era mai tornato; sopporta con sofferto coraggio scontri feroci e battaglie cruente; vede la morte di amici; piange la sorte dei vinti; il tutto nella consapevolezza di partecipare alla realizzazione c}i un disegno spesso inspiegabile, comunque provvidenziale: il destino di Roma. -

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Indice delle cose notevoli

Le appendia; di per sé monogra/iche, non sono comprese. Il trattino indica una «sezione» sull'argomento.

Avidità (avarizia): 1 85 , 1 89, 190, 1 93 , 1 94 , 2 1 8, 245 n. 10. Battaglia navale: - di Marsiglia 1 1 6, 25 1 n. 3 ; - di Azio 97 , 1 3 4 ; nauma­ chie 1 95 , 25 1 n. 3 . Brogli dettorali: 96, 158, 1 92 . Cancellazione dei debiti: 7 7 , 93 , 94 . Cavalieri (equites, equestri , «borghesia» ) : 30, 63 , 69, 70, 7 5 , 76, 78, 84 , 85 , 95 , 97 , 1 0 1 , 1 1 2 , 1 2 1 , 1 3 0, 140, 142, 1 5 7 , 158, 170, 1 75 , 23 1 , 24 8 n . 5. Cinedi: 1 96, 1 97 , 1 98, 202-205 , 239. Circolo degli Scipioni: 32 (v. anche la voce «Scipioni>• nell'indice dei per­ sonaggi antichi). Cittadinanza: - romana 17, 63 , 64 , 68 , 6� 74, 76, 1 5 7 , 225 , 22 � 2 2 7 ; latina 63 , 76, 1 5 7 ; concessione del­ la - romana agli italici 64, 72, 76, 98. Civilizzazione: 17, 29, 44 , 6 1 ; - alla rovescia 204. Clemenza di Cesare: 1 14 , 1 1 8, 244 n . 8. Congiura: 156- 160, 1 66 ; - contro l'isti­ tuzione della repubblica 1 6 1 - 1 62 ; - di Catilina %, 108- 1 12 , 1 5 8 ; contro Cesare 25 , %, 126, 1 5 9 , 1 63 - 1 66; - contro Ottaviano 159; ­ di Seiano 159, 166- 1 67 , 2 ' H n. 2 ; dei Pisoni 166, 1 69- 1 74 ; - contro Domiziano 1 60 (v. anche la voce «Repress i one delle congiure») .

Conquiste d i città: Sora 3 3 ; Cattagena 3 4 ; Avarico 4 1 ; Uspe 4 3 ; Capua 45 ; i n Apulia 70; Boviano 7 3 ; Eclano 73 ; da patte di Cesare nella guerra civile 1 15 ; Smime 127; Tapso 123 . Corruzione: 1 83 , 1 85 , 1 88, 1 89, 190, 1 94 , 2 1 6, 2 1 8, 222 ; - agli inizi della repubblica 1 6 1 ; - dei catilinari 1 1 1 , 1 12 ; - ai tempi di Nerone 170, 1 7 1 ; - della nobiltà 88, 1 08, 1 84 , 1 9 1 , 1 92 , 200, 22 1 ; - della giustizia 142, 143 , 1 93 , 2 1 7 , 253 n. 3 (v. anche le voci «Verre», «Cl odia», «Nerone», «Tiberio» nell'in dice dei nomi). Corruzione politica: 90, 157, 1 92 ; nella guerra contro Giugurta 88, 1 9 1 ; - nella vicenda di T olomeo Aulete 255 n. l ; - nelle province 84 , 1 5 7 , 158, 1 93 ; - nella provincia d'Egitto 57 -59 (v. anche le voci «Clodio», «Verre»). Costume d egli a vi (mos maiorum): 84 , 97 , 188, 189, 1 90 , 204 , 2 1 7 , 2 1 8, 228. Crocifissione di schiavi ribelli: 14 1 , 142, 1 5 4 . Decemviri: 78, 8 1 , 82 . Discorso di Cesare sull'imperialismo difensivo: 54, 245 n. 1 5 . Distruzioni d i città: Pomezia 3 2 ; Ilur­ gia 3 5 ; Astapa 35; (accampamenti presso) Utica 36, 244 n. 3, n. 5 ; Canagine 36, 1 88, 244 n . 5 , n . 6, 90; Numanzia 38, 244 n . 6; Capsa 3 9 ; Corinto 244 n. 6 . Fine di Roma, moniti sulla: 24, 26, 7 9 . Gladiatore: 94 , 1 4 0 , 1 5 1 - 1 54 , 1 64 , 1 84 , 1 95 , 20 1 , 209, 2 1 0, 2 1 1 . Graeculi («Grechetti»): 1 84 , 2 12 .

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G uerra civile: 24, 25, 30, 48, 87 , 94 , 95 - 1 3 7 , ! 5 8 ; - tra Mario e Silla 95 , 98- 1 0 1 , 1 05 - 1 06; - tra Silla e i ma­ riani 1 0 1 - 1 05 , 1 06 - 1 07 ; - tra Cesa­ re e Pompeo 2 5 , 95 , 1 1 4 - 1 2 1 , 243 n . 2, 250 n . 2; - tra Cesare e i pompeiani 1 2 1 - 1 26; - tra Antonio, Ottaviano e i cesaricidi 1 26- 1 3 0 , 1 3 6 ; - tra Antonio e Ottaviano 2 6 , 97 , 1 34 - 1 3 6; de fi ni zi o ne di guerra sociale come - 68 , 69, 247 n . 3 . G uerra sociale (340 a . C . ) : 66 , 67 , 247 n. l . G uerra sociale ( 9 1 -88 a.C. ) : 48, 63 -65 , 68-74 , 247 n. 3 , n. 4; ultimi b agl iori della - 1 03 - 1 04 , 1 06 , 248 n . 5, 250 n. l . Imperialismo: 1 7 , 1 8 , 29-62 , 64 , 1 3 9 ; ­ difensivo: discorso di Cesare 5 4 , 2 4 5 n . 1 5 ; - e antimpe rialismo: le requisitorie contro Roma 1 8 , 445 4 , 245 nn. 9- 1 1 ; - di Mezzio Fufe­ zio 44 ; - di G aio Ponzio Sannita 44; - degli ambasciatori macedoni 4 5 ; - di Annibale 46; - di Mitridate 46, 48; - di Critognate 49; - di A rm inio 50; - di Boudicca 50, 245 n . 1 4 ; - di Calgaco 5 1 ; - di Boiocalo 53. lnvivibilità della metropoli: 1 84 , 1 86, 2 1 9 -22 1 . Lotte fratricide: 2 1 , 2 4 , 243 n . l , n . 3 , n . 4 ; - tra Mario e S illa 1 06 ; - tra Cesare e Pompeo 2 5 , 1 1 5 , 1 1 9 , 1 2 0, 243 n . l ; - tra Anronio e Otta­ viano contro Bruto e Cassio 25 ; ­ tra Antonio e Ottaviano 2 7 . Lotte t r a patrizi e plebei: 30, 7 7 , 7882 , 248 n . l . Lusso: 1 94 , 20 1 , 2 1 6, 2 1 8; - agli inizi della repubblica 1 6 1 ; - dei soldati sillani 1 89 ; - di ex sillan i nelle mi­ lizie di Catilina I l O; - d ell a nobiltà 1 08, 1 84 , 1 8 5 , 1 86 , 200; - delle mense 1 85 , 1 86, 1 87 , 205-208, 2 1 8, 222 , 230 (v. anche le voci «Tibe­ rio», «Nerone» ) . Lussuria : 1 84 , 1 8 5 , 1 90 , 1 94 ; - delle donne 1 84 , 1 94 -202 , 255 n. 2; degli uomini 1 96, 1 97 , 202 ; - dei

Graeculi 2 1 2 , 2 1 3 (v. anche le voci «Ciodia>>, «Messalina», « Tiberim•, «Nerone>> ) . Macchine belliche: 3 2 , 1 1 9, 1 2 3 , 1 2 5 , 135. M isoginia: 2 1 3 -2 1 6, 255 n . 2 . Ne/as ori ginario: 18, 20-27 ; stupro di Rea S ilvia 1 8 , 20; fratricidio 18, 2 1 , 22 (v. anche la voce «lotte fratrici­ de» ) ; ratto delle Sabine 18, 2 1 , 22 , 47; Orazi e Curiazi 22, 2 3 . Nobiltà (patrizi, optimates, aristocra ­ tici, senatori ) : 1 9 , 22 , 30, 63 , 7 5 , 76, 7 7 , 7 8 , 80, 82 , 83 , 84 , 85 , 88, 90, 9 1 , 95 , 1 0 1 , 1 0 5 , 1 07 , 1 08 , 1 1 2 , 1 1 4 , 12 1 , 130, 1 3 1 , 140, 157, 158, 1 6 1 , 1 62 , 1 70, 1 7 5 , 208, 2 1 7 . Occidente: 1 9 , 2 9 , 4 7 , 5 2 . Oriente: 2 6 , 4 6 , 47 , 4 8 , 5 2 , 99, 1 1 4 , 1 88. Papiri: 5 6-62 , 246 nn . 1 6 - 1 7 Patto cassiano: 66 . Pederastia: 140. Plebe (populares, «proletariato», po­ polo) : 1 9 , 22, 3 0 , 3 3 , 63 , 68, 76, 7 7 , 78, 79, 80, 82 , 84 , 88, 90, 9 1 , 95 , 96, 1 05 , 1 08, 1 3 7 , 140, 1 5 8 , 1 6 1 , 1 62 , 1 68 , 1 69 , 208, 2 1 4 , 2 1 7 , 2 2 6 , 248 nn. 1 -5 . Prodigi e segni premonitori: - positivi 2 1 ; - negativi, causati dall ' impurità di una vestale 1 94 ; - intorno alla morte di Cesare 1 3 6 , 1 64 - 1 65 ; intorno alla morte di Cicerone 1 3 2 ; - in tomo alla morte d i Nerone 2 3 9 , 24 1 . Proscrizioni : 95 , 1 1 0, 1 5 8 ; - d i Mario 95 , 1 00 ; - di Silla 95 , 1 05 , 1 06 , 1 07 , 1 4 1 ; - d i Antonio e Ottaviano 97 , 1 2 7 , 1 3 0- 1 3 3 . Punizione capitale: - di ostaggi 3 3 ; ­ di soldati romani disertori 8 1 ; - di italici e mariani 1 03 ; - di pompeia­ ni 1 2 1 , 1 25 ; - di schiavi 1 4 1 , 1 5 4 ; ­ di congiurati 1 1 2 , 1 5 8 , 1 62 ; - di sacrileghi 1 95 ; - di un cittadino romano 226. Raccomandazioni e favoritismi: - a Roma 84 , 1 92 ; - nella provincia d'Egitto 5 9 .

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Razz is mo: - verso i Graeculi 2 1 2 ; verso Egiziani 6 1 . Repressione della congiura: 159; - con­ tro l'istituzione della repubblica 1 62 - 1 63 ; - di Catilina 1 1 2 - 1 1 4 ; - di Seiano L '5 9 , 1 67 - 1 69 ; - dei Pisoni 1 74 - 1 8 1 . Rivolte servili: v . l a voce ..schiavi». Romanizzazione: 29, 2 04 . Schiavi: 1 3 9- 1 4 1 , 253 n . l ; loro condi­ zioni 1 3 9 - 140, 1 42 , 1 5 4 - 1 5 6 ; rivol­ te servili: in Roma 1 4 2 ; - in Sicilia 1 4 1 , 142 - 1 '5 1 ; - di Spartaco 1 4 1 , 1 5 1 - 1 '5 4 . Socii (all ea ti italici) : 1 7 , 63 , 66, 67 , 68, 69, 70, 72, 73 , 76, 98, 1 '5 7 . Soldati romani: - veterani 1 1 3 , 1 1 9 , 1 24 , 25 1 n. 2 ; - pretoriani 1 67 , 1 68 , 1 69 , 1 7 0 , 1 7 1 , 1 7 3 , 1 7 6 , 1 7 7 ; ferocia 1 7 , 3 0 , 3 2 , 44, ( contro i Galli ) 4 1 , ( contro i Germani) 4 2 , 4 3 ; - nelle guerre civili 1 1 9, 1 2 4 , 126, 1 2 7 , 129; - e guerre civili 98; ­ ardore in bartaglia 4 2 , 123 , 129; malcontento e rivolte dei - 80, 8 1 , 249 n . 3 ; decimazione di - 8 1 , 1 5 2 ; ruberie d e i - 60.

Spettacoli (negli anfiteatri; scenici) 140, 172, 1 84 , 1 86 , 208-2 1 1 , 2'5 1 n. 3. Strage di nemici: Etruschi 3 4 ; Sanniti 3 4 ; Cartaginesi 3 5 ; Boi 38; Lusitani 3 8 ; Galli 40; Belgi, Nervi, Germani 40; Marsi (germani) 42; Germani 4 3 ; Britanni '5 1 ; Marsi ( italici ) 7 1 ; nel Sannio 7 3 . Strage di Romani: 7 7 , 8 1 ; - nelle rivol­ te servili 144 , 1 4 5 , 1 '5 2 ; - nelle guerre civili 87 , 1 02 , 1 03 , 1 04 , 1 0'5 , 1 1 7 , 1 2 4 , 1 5 8. Tribuni della plebe ( tribunato ) : 30, 76, 78, 80, 8 1 , 89, 92 , 97 , 1 3 1 , 1 3 7 , 1 '5 7 , 1 94 , 2 1 3 , 2 1 4 , 226, 249 n . 2 (v. anche le voci «Ciodio», «Druso», «Gaio G racco», « Tiberio G racco», «Memmio», «Satumino», «Sulpi­ cio», «Vario»,