Il nome segreto di Roma

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Il nome segreto di Roma

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COLLANA DI STUDI PAGANI A cura di RENATO DEL PONTE

GIANDOMENICO CASALINO

Il

nome

segreto di Roma

secondo i Simboli e la Dottrina dell 'Arte Regale

Saggio sulla Metafisica della Romanità

IN GENOVA PRESSO IL BASILISCO MCMLXXXVI I

Tutti i diritti riservati

11 Ba'silisco Libreria Editrice

Vico dei Garibaldi, 41/43r 16123 Genova - Tel. (010) 298336

Giulio Cesare, mio figlio, quod bonum faustumque sit

A

« O - ma qual nome ora, dei tuoi tre nomi , dirà l'Italia ? Il nome arcano è tempo che si riveli, poi ch'è il tempo sacro. Risuoni il nome che nessun profano sapea qual fosse, e solo nei misteri segretamente s 'innalzò tra gl'inni: mentre sull'ombra attonita una strana alba appariva, un miro sole, e i cavi cembali intorno si scotean bombendo Amor ! oh ! l 'invincibile in battaglia ! . .. » G. PASCOLI « Inno a Roma » (redazione lunga)

« Urbe AMOR - più non sia sacrilegio rivelare l'arcano nome chi per te la vita gettò col sangue, primo ? FLORA - te chiama il cielo con sacro nome Flora cosl balzavi, lucente di rugiada, dal duro solco . Era primavera: e perciò godi della rigogliosa primavera sempre . in alto la tua des tra leva l 'eterna lampada che illumina il mondo ,

o

ROMA ! »

G. PASCOLI « Inno a Roma » (redazione breve)

P R E F AZI O N E

Questa trattazione , come anche la precedente C ) , non è assolu­ tamente effettuale ad un « discorso » di natura dialettico-speculativa, cioè di ricerca razionale e/o analitico-descrittiva fine a se stesso, cor­ redato da congrua « base » bibliografica , né assolutamente parto di una « mistica » accensione fideistica , con un relativo oscuramento delle capacità intellettive dell'Autore ; bensl , consiste nel tentativo di esporre , nei limiti costituzionali allo scrivere medesimo, ciò che per noi è vive re naturaliter una realtà . Ci troviamo , quindi , al di là sia della ragione cerebrale quanto della fede, con i loro corollari , dialetticamente e quindi umanamente contrapposti ; per la prima : l'astrattismo idealistico sia l'agnostico­ laico che quello teologico o lo « scientifico » riduzionismo del tutto al guscetto di noce che non va oltre i cinque sensi , per altro oggi oltremodo depauperati ; per la seconda : quell'insieme « psichico » di sentimenti , convinzioni morali e credenze epidermiche o « lace­ ranti » ed umane passioni a cui , tutto sommato, sono ridotti il signifi­ cato ed il valore del Sacro dalla incultura dominante. Tertium datur? Certamente ! e nel solco della Tradizione Occidentale ! Nella quale non si congettura né si analizza , tantomeno si crede , posizioni lontane dalla realtà (fenomenica e noumenica) , ma si sa perché si vive, si conosce la realtà, mediante una intuitio intellectualis , poiché, viven­ dola , la si vede : la Realtà è evidente ! e). Colui il quale vive l'« esperienza » , operando un attivo « opus remotionis » (trasformazione interiore) , lucidamente restando pre­ sente a se stesso, vede i Simboli , gli Enti ed i Miti quali Realtà viventi , ritualizzando cosl la propria vita. Non è, allora, questione di « capire » , ma solo di entrare in « sinfonia » con alcuni suoni ed in « sinergia » con alcuni segni: evocatori entrambi del cosmos dei Numi che una natura , per un arcano disegno del suo demone, sia già « aperta » a ricordare ed a riconoscere con estrema serenità e fanciullesca semplicità . 9

A tale natura è rivolto questo libro : a chi pur apparendo di questo mondo non è di questo mondo ; a chi, nel suo essere profondo, non si riconosce nel caos che lo circonda e che sembra avvolgerlo ma sa che, dietro quel caos visibile, a suo fondamento, vi è quello Invisibile, nella cui dimensione è necessario AGIRE. A chi è co­ sciente, infine , della terribile verità: gli Dei non esistono . . . a priori, se non si conoscono e non si conoscono se non si esperimentano !

NOTE ALLA PREFAZIONE

1

G. CASALINO, « Aeternitas Romae. La Via Eroica al Sacro dell'Occidente secondo la Tradizione Ermetica », Genova 1 982. Nella radice che serve ad individuare la cosa di cui si parla, ma la cosa stessa, 21

evocata ed espressa attraverso il nome che le appartiene, il nome che la fa essere quella che è, il nome che la fa « esistere » ed afferma la sua esistenza . Essa stessa « è » il suo nomen , si manifesta e si immedesima nel suo nomen, sicché il nomen come « indicatore » e quanto da esso indicato finiscono per apparire un tutt 'uno. Ancora una volta siamo in presenza d 'un atteggiamento mentale primitivo, mitico e· materialistico [ rectius : realistico ! ] a un tempo, nel quale le cose appaiono intrecciate indissolubilmente col loro nome . . . che talvolta è parte integrante della denominazione sino al punto che questo realismo nominale di cui è permeat o il pensiero antico implica da un lato che il dar nome alle cose significhi crearle, e dall'altro che all'esistenza del nome si ritenga connesso l 'esistere in concreto della cosa nominata . . . »n. Infatti il Re (nella Tradizione) con la sua parola « realizza tutto » (Eschilo, « Supplici », 3 75) ; ed il verbo usato è xpat\IEL\1 (dall'indoeuropeo KER) che indica , per l'appunto, la forza creatrice della parola . Questo è il motivo per cui , in campo giuridico (che è anche e soprattutto religioso ( 6 ) , come in ogni vera Tradizione) pronunciare il « nomen » di una res significa riconoscere apertamente l'esistenza stessa di quest 'ultima ; è sufficiente al riguardo riflettere sui termini che si accompagnano al verbo dicere : sententiam, legem, jus , vindi­ cias, vadimonium n, sul significato t �cnico-giuridico (rituale) del ter­ mine fari ( 8 ) , sulla « nominatio » nelle formule di Devotio (MACRO­ BIO in « Saturnali » I I I , 9, 1 0 ss . : « Dis Pater, Veipis , Manes , sive quo alio nomine fas. est nominare » ) , sulla realtà storico-religiosa che per il Flamen Dialis nominare una res equivale a toccarla (Fabio Pit­ tore apud Gellio , 1 0 , 1 5: « Capram et carnem incoctam et hederam et fabam neque tangere mos est neque nominare » . La presenza di tale forma mentis è attestata anche nei giuristi del Principato (Gai . , 8 ad ed . prov . , D. 45. 1 .74 : « Certum est, quod est ipsa pronuntiatione apparet quid quale quantumque sit . . . » ; Paul . , 28 a d ed . , D . 1 2 . 1 .6; « Certum est , cuius species vel quantitas . . . aut nomine suo aut ea demonstratione quae nominis vice fungitur qualis quantaque si t ostenditur . . . » ) . È d'uopo premettere che per comprendere tutto ciò, è neces­ sario superare le « divisioni » analitiche tipiche della ignoranza mo­ derna, tra diritto romano pubblico e privato da un lato e religione romana dall'altro (superamento presente, in modo sorprendente, nel passo da noi sopra citato di un insigne Autore come l 'Orestano che, pur appartenendo al mondo accademico, è riuscito a giungere a con22

elusioni vtctmsstme a quelle della dottrina tradizionale) cercando di trasferirsi, in idea, nella realtà spirituale di una cultura tradizionale come quella romana, in cui la parola oltre ad essere creatrice e/o ordinatrice del mondo, è essa stessa una realtà, anzi la Realtà , cioè la Sostanza ultima della cosa stessa , la sua « ragione» , la sua «causa» . Ciò è dimostrato , tra l'altro, dal fatto che tutta la giurispru­ denza romana ( 9 ) , anche quella classica , usa il vocabolo « nomen » per riferirsi a « tipo di realtà » o « ragione » (causa) di quel « tipo di realtà » , richiamandosi , così, all'antica identità tra il « nomen » e la « res » ch'esso indica (Geli . , 1 0 .4 . 1 . , « Nomina verbaque non posita fortuito, sed quadam vi et ratione naturae facta esse, P . Nigi­ dius in grammaticis commentariis docet . . . » ) . Inoltre, la natura religiosa del nome nella Tradizione Romana è provata , tra le tante fonti sulle quali qui non ci possiamo diffon­ dere, da due significativi frammenti di Accia, dai quali risulta chia­ rissimo che i Romani sapevano essere il « nomen » , la « sostanza » del « numen » (Trag. 646, apud Non , 1 7 3,27 : « alia hic sanctitudo , est, aliud nomen et numen lavis ; trag. 691 , apud Varr . , De Lingua latina, VII , 85: « multis nomen vestrum numenque ciendo » ) . È sin­ tomatico che l'allitterazione nomen-numen, nei passi riportati, assume la funzione di una endiadi eo) . A tal proposito, il Cassirer ( 11 ) afferma : « . . . che il nome e l'essenza siano tra loro in una connessione intrinsecamente necessaria, e che il nome non soltanto designi l'essenza , ma che esso sia l'essenza medesima , e che la forza dell'essenza medesima sia racchiusa in esso, tutto ciò rientra nei presupposti fondamentali de1la stessa intuizione mitica . . . » e che, quindi , il nomen è « un genuino essere sostanziale » , con la sua Vita propria, alla cui « immagine » la res corrispondente tende ad uniformarsi, come il mondo delle cose si avvicina a quello delle Idee, secondo l'insegnamento del Divino Platone e2 ). E W. Otto precisa che « . . . il valore del "nome " fu ben capito da Holderlin: è col e nel nome che la Divinità si rivela come figura , facendosi visibile all'occhio dello spirito . . . » ( 13 ) . A ciò è da aggiungere che nella religione romana , a livello stret­ tamente rituale, « nello stadio più antico la preghiera si confondeva con la formula magica per cui gli uomini, recitate certe parole, crede­ vano di poter costringere gli dei a concedere le cose desiderate. San quelle formule che hanno il potere di « provocare i fulmini, chiamar Giove di cielo in terra, mutare il destino dichiarato con parole e con segni» ( Plinio, Nat . Hist . , XXVII I , 1 3- 1 4 ) . 23

La differenza tra preghiera e formula magica sta, appunto, in ciò che, con quest'ultima, l'efficacia del gesto o della parola ha potere costrittivo sulla divinità, mentre la prima è solo una supplica alle potenze supreme affinché, ascoltato con benevolenza l'arante lo esau­ discano. Caratteristica delle preghiere primitive era la necessità, da parte dell'arante, di individuare con precisione il dio al quale doveva rivolgersi , per poterlo invocare col suo nome esatto, anche in questo caso con un sottofondo magico . Chi sa il nome del dio ha, in un certo senso, il dio stesso in suo potere. Sono anche di questo periodo speciali formule con le quali si cerca di placare l 'ira della divinità, dalla quale si desiderano i favori , o che si vuoi costringere, suo mal­ grado, ad obbedire . Altre volte, invece, accade il contrario e la richje­ sta è formulata in maniera imperiosa e, quasi , addirittura minac­ ciosa . Il sottofondo magico, in casi come questi , consiste nel credere che gli dei, per la forza insita nelle parole che si pronunciano nella preghiera, sian costretti a sottomettersi, a venire , per così dire, in potere dell 'arante » C4). La stessa qualità, il carattere necessitante e la metamoralità, distinguono, nelle civiltà tradizionali , il Rito tanto quello giuridico quanto quello religioso. « Agrippa, citando Porfirio, parla del potere necessitante dei riti , onde le divinità sono trascinate dalle preghiere , sono vinte ed obbligate a discendere ; aggiunge che le formule magiche costringono ad intervenire le energie occulte delle entità astrali, le quali non intendono la preghiera ed agiscono solo in virtù di un legame naturale di necessità .. » (J. EVOLA , « La Trad. Ermetica », pp . 24-5; C. AGRIPPA , « De occulta philosophia », I I , 60 ; I I I , 3 2) . Platino non dice altro quando esplicitamente dichiara che tra la pre­ ghiera ed il risultato che se ne consegue vi è un rapporto determini­ stico di natura strettamente eziologica : di causa ed effetto, e non perché la divinità abbia prestato attenzione alla preghiera stessa né, tanto meno, perché la divinità abbia « deciso » di agire in quel modo (PLOTINO , « Enneadi », IV, IV, 42 ,26) . Siamo, quindi , giunti all'aspetto centrale della nostra argomen­ tazione sin qui condotta , con intenti introduttivi ed esplicativi , in termini linguistici , storici e giuridico e/ o religiosi . Nell'intimo della Romanità, tutto il discorso sin qui portato avanti secondo tali separazioni, lo ritroviamo essenzializzato quindi unificato nella Realtà della Parola e del Nome nonché nella natura del Rito, sarebbe a dire nella Tradizione stessa di Roma. Infatti, con la vis ac potestas della parola che vincola di per sé, . . .

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con i concepta verba , i carmina , le nuncupationes che « producono meccanicamente , per la virtù intrinseca che deriva dal ritmo (e per­ ciò carmina) , dalla loro forma oscura e dai termini fatidici che vi si adoper ano, un determinato risultato ... )) C5) infine , con una proce­ dura precisa padrona di vere Parole di Potenza , i Romani sono I FACITORI DEL METAFISICO CHE REGG E IL FISICO . Il di­ scorso semantico tra fas e jus è quello che intercorre tra la « parola divina » che « pone » , fonda e « crea » e la realtà visibile (che è rtà , ordine che proviene dal rito ) . Evola inoltre afferma , in un passo fondamentale , che il Rito : « . . attua il dio dalla sostanza delle influenze convenute . . . qui si ha qualcosa , COME UNO SCIOGLIERE ED UN RISUGGELLARE . Viene cioè rinnovato evocativamente il contatto con le for ze infere che fanno da substrato ad una divinifi­ cazione primordiale , ma altresì la violenza che le strappò a se stesse e le liberò in una forma superiore . . . » C6 ). Pietro De Francisci , insigne maestro e raro studioso organico della Romanità , osserva : « . . . Per i giuristi mi preme aggiungere che , anche quando i miti si avvolgono nella nebbia , le norme che reg­ gono il rito ( anche se prevalentemente religiose) sono regole rigorose accompagnate da numerose sanzioni sacrali e sociali talora gravis­ sime . Il rito è dunque una fonte di normatività, anche se le sue forme , col decorso del tempo possono apparire oscure ; ma il senso della normatività è anche quello che regge gli atti giuridici solenni. E qui, mi sembra, può trovarsi un contatto palese tra la religione e il diritto primitivo : la prima ha dato lo stimolo ad alcuni aspetti del secondo » ( « Variazioni su temi di Preistoria Romana » , Roma '74, p. 83 n. 283 ) . Pertanto il romano , con l 'atto del rito , aveva la coscienza di realizzare il fas (nell 'Invisibile) , mutando antologicamente l'informe nella forma, l'adharma in dharma ; azione sull 'Invisibile che , secondo la Scienza Tradizionale, producendo i suoi effetti su quest'ultimo , li riverbera e li « manifesta » nel visibile medesimo che appare , al­ lora, « conforme alla Parola divina » , la quale lo ha così « fondato » , « posto » e giustificato : si ha così il dh arman del rtà , come più volte è detto nel Rg .-Veda , il fas dello jus , sarebbe a dire l'ordine (rtà) della formula (jus ) , cioè della legge secondo il diritto divino . In questa sapienza, la Parola è Parola di Potenza , in essa immanente , conoscenza e possesso della stessa essendo la medesima verità . « Ogni parola pronunciata con autorità determina un cambiamento nel mon­ do, crea qualche cosa ; questa qualità misteriosa è quello che augeo .

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esprime , il potere che fa nascere le piante, che dà esistenza ad una legge » C7). Quindi « . . . l'imperium si esprime attraverso il cenno e la pa­ rola che ordina ed è essenzialmente potenza creatrice che si mani­ festa nel rito, nella legge , nella guerra ... ». « . . . La pace è vittoria sacrificale ottenuta mediante il trionfo dello jus romano (e quindi dell'universo religioso dal quale lo jus discende [ cioè il fas ... ] ) ; tale trionfo può attenersi soltanto mediante il bellum justum , che realizza l'imperium e il mandato sacro di Roma . Augusto poté realizzare vittoriosamente l'aspirazione di tutta la romanità . . . » C8). Georges Dumezil conferma tutto ciò quando esplicita : « . . . d'al­ tra parte, raggiungendo e confermando una credenza senza dubbio antichissima ed universale , la pratica del tribunale ha dato prova al romano della potenza della parola : potenza non solo di definizione o di affermazione, ma di creazione . I tre celebri verbi pronunciati dal giudice, do, dico, addico , creano davvero una situazione, concludono un dibattito, legittimano una pretesa . . . Ho prima ricordato la parte avuta dalla precauzione , dalla prudenza, nella pratica giuridica ed i riflessi di quella parte nelle relazioni dei romani con il divino . L'opposto , cioè il sentimento di sovranità che spesso è senza appello conferito dall 'enunciazione delle parole decisive al testatore , al ven­ ditore, a chi affranca uno schiavo o a chi sposa, ebbe egualmente eco nell'altro diritto , in cui la controparte è invisibile : perché un'af­ fermazione dell 'interessato non avrebbe creato anche in quell'ambito una situazione legittima? Perfino la menzogna è ammessa [ ecco la metamoralità del rito e del diritto ! ] , anzi richiesta in alcuni atti del diritto umano : in uno dei più antichi modi di trasferimento di pro­ prietà, la « in jure cessio », la determinante non è forse la indif­ ferenza simulata , il silenzio dell 'alienatore quando , dinanzi al magi­ strato, l 'acquirente rivendica falsamente il bene come se fosse suo ? . . . Questa considerazione va estesa al complesso della religione, ben oltre la teoria dei segni. Una storia lusinghiera e senza dubbio in­ ventata, illumina questo stato d'animo in un ambito diverso, a pro­ posito dello jus fetiale . Dopo la umiliante capitolazione delle Forche Caudine, uno dei consoli vinti, Spurio Postumio, ritornato a Roma, consigliò egli stesso al Senato di rimandarlo solennemente ai Sanniti con gli altri responsabili della capitolazione, come colpevoli d'aver impegnato la parola del popolo romano senza averne il diritto. I Feziali quindi li ricondussero al campo dei Sanniti. E allora mentre un feziale, sacerdote inviolabile , li consegnava , « Postumio gli diede 26

una violenta ginocch iata in una coscia, dichiarando ad alta voce che egli stesso era di nazionalità sannita e che il feziale era un ambascia­ tore; che egli stesso aveva violato lo « jus gentium» nella persona del feziale ; che, di conseguenza, i Romani da quel momento avreb­ bero intrapreso una guerra più legittima « justius bellum» (Livio IX, 1 0, 1 0) . Il capo sannita protestò, invocò gli dei , ma gli Dei evidente­ mente avevano giudicato regolare quel modo d'agire, giacché poco dopo i Sanniti furono costretti a loro volta a passare sotto il giogo»e 9 ). Di conseguenza, il Romano con la PRONUNCIA della PAROLA, durante l 'esecuzione del Rito (giuridico e/o religioso) , FA la realtà fenomenica, per effetto della sua AZIONE su quella noumenica come attesta infatti il Dumezil nel passo su citato in ordine alla virtus dei verbi dico, do , addico del pretore e della stessa sua decisione, sententia, la quale è il fine del rito-processo, cioè fare e fissare, direm­ mo « coagulare» la realtà in quel modo : « res iudicata (cioè la , cosa fatta secondo la "formula-jus, detta, pronunciata, « dicere» in base al « fas »: ecco lo jus dicere e la giurisdizione ! ) pro veritate habetur, facit de albo nigrum , originem creat, aequat quadrata rotun­ dis , naturalia sanguinis vincula et falsum in verum muta!» e0). Il fenomenico è allora realizzato nel Metafisica con la pro­ nuncia del suo Nome (l'Essenza) . A tal proposito, è da dire che « . . . la più antica forma di religione romana si lega agli Indigitamenta . Indigitare significa invocare . Gli Indigitamenta erano un trattato ove venivano fissati i nomi dei vari Dei e le occasioni nelle quali essi potevano venire evocati efficacemente, secondo la loro propria natura e le occasioni nelle quali potevano intervenire . Questi nomi erano dunque NOMINA AGENTIS , cioè non avevano origine mitologica , ma pratica. Essi racchiudevano anche connessioni misteriose, ripredenti l 'antica con­ cezione secondo la quale il nome in una certa misura contiene la potenza, l'anima della cosa nominata o evocata. Caratteristica è la formula romana che sempre accomp.f:lgnava il rito : « io sento che sto nominando ». Essa racchiude tutta la coscienza profonda del­ l'atto, la sua responsabilità , la partecipazione al suo momento fati­ dico, che sarà comando per l'invisibile...» e1). In sostanza , nel momento SOLENNE = rituale in cui si pro­ nuncia il Nome-Parola (Essenza metafisica della res) la res stessa È nel Metafisica e quindi nel fisico, reale ed invisibile nel primo, reale e visibile nel secondo . Infatti, i Numina ed i loro Nomina sono tanto veri e reali quanto (non più ! Per il prisco romano, infatti, quello 27

che noi chiamiamo « spirituale » non è « superiore » a quello che , sempre noi , chiamiamo « materiale » ; è solo DIFFERENTE e nel contempo simile : il mondo invisibile è simile a quello visibile , si tratta di aspetti diversi, gradati, dello stesso mondo, cioè il Numen è la Forza , la Potenza 22 del e/ o nel mondo stesso) le pietre del tempio, le vie , le case, gli uomini vivi , i cives , insomma la Res Pu­ blica ; da ciò deriva l 'assenza , nella mentalità giuridica romana , della così detta « persona giuridica » (centro di imputazione astratta di rapporti giuridici . . . così come la stessa « scienza » giuridica moderna si pregia di definirla ! ) , sorta di fantasma frutto delle astrazioni hege­ liane, nonché strumento operativo di ben note ideologie (liberale e marxista) aventi per unico fine la dominazione dei popoli . . e3). Giunti a questo punto , ci pare necessario accennare , se pur brevemente, alla dottrina profonda , esoterica , che si trova a fon­ damento di tale conoscenza del Nome . Lo stesso Evola e4), tra l 'altro, così si esprime : « Per comprendere che cosa sia un mantra bisogna rifarsi ad una concezione , che considera tutte le cose in termini di suono o di movimento. Tutto , nell 'universo , è vibra­ zione, e questa vibrazione ha il senso vivente di un parlare, di un esprimere il mondo invisibile : è moto come parola sonora e Verbo rivelatore . . . Nel mondo sensibile , l'uomo (moderno) è come se si trovasse dinanzi ad un alfabeto , ad un sistema di segni di cui per una oscura amnesia , egli ignori sia la pronuncia che il senso , per cui il suo stesso valore simbolico gli sfugge . Nel mondo sottile, è lo « stato di pronuncia » che si sveglia nella coscienza : dal segno scaturisce il ricordo della parola, del suono - non si percepiscono più forme e corpi materiali , ma ritmi, figure di gesti . Infine il mondo causante (Karana - è il « mondo intellettuale » , x6o-IJ.oc; vo,-.6c; del neoplatonismo, il Sophar della Kabbalah) è lo stato del suono che trascende se stesso ed è colto come « senso » . I tre mondi sono un solo mondo : sono « percepibilità » diverse di una identità, gradi di illuminazione di uno stesso paesaggio . L'Io conosce l'uno , ovvero l 'altro, a seconda del grado di luce e di risveglio interiore che sa suscitare in sé . Chi giunge ad impadronirsi del « senso » delle cose, ha la chiave dell 'alta magia . Tutto sta nel conseguire uno stato di intelligenza , di significato, dinanzi alle cose . Chi abbia compreso una cosa , quegli potrà altresì parlarla. Questo parlarla , è « risolverla » [ si rifletta su questo « risolverla » , che viene da « risolvere » analogo al sol vere, cioè al sol ve alchemico] quale cosa, e stabilire virtualmente un rapporto magico con essa . La parola .

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umana risorge allora come Verbo , come parola vivente . La parola allora è virtù , verità » . L'aderenza di tali principii a tutto quello che abbiamo preceden­ temente riferito è evidente . Si tratta infatti della dottrina tradi­ zionale, esoterica , del Nome e della Parola, dottrina conosciuta e praticata, come sin qui crediamo di avere dimostrato , dal Romano . Anzi , poiché la Tradizione in Roma è attuata mediante il Rito ed essendo quest'ultimo costituito oltre che dalla gestualità immutabile (il mimo come arte poetica, cioè creatrice) , anche e soprattutto dalla PRONUNCIA di Parole immutabili , di formulari stabiliti e con­ servati dal Collegio dei Pontefici , possiamo concludere che tutto in Roma è Parola , che Roma è « creata » dal Rito e dalle sue Parole (si veda quanto più in là riferiremo a proposito della PRONUNCIA del Nome , compiuta da Romolo , all 'atto della fondazione dell 'Urbe) e che dal Rito , dalle sue Sacre Parole , cioè dalla Tradizione, pro­ viene Roma stessa es). Solo osservando e praticando i Riti SONO i Numina , pronun­ ciando (a voce bassa affinché il popolo non ascolti e non sveli . . . ) i loro Nomina . Allora , se la Tradizione Romana è il Rito e le sue Parole-Nomi di Potenza , Roma È il suo Nome , che è la Parola prima , il Àoyoc; 0"1tEp!J.ct'tLx6c; (PAROLA CAUSALE) che contiene l 'Essenza dell 'Urbe e la sua significazione, il suo &. px-i), principio primo : suono magico, Nomen Arcanum, nome inintelleggibile ed oscuro , ignoto e scono­ sciuto al profano , Nome , forse , senza segno, « il cui suono profondo non può essere detto o percepito che in una folgorazione dello spirito libero da ogni legame corporeo » (26) . 2 . - Nell'ambito di questo contesto e di tale spiritualità , è da collo­ care il « problema » del Nome di Roma. Era necessario introdurre alle discussioni degli Antichi al riguardo , cercando di penetrare e di comprendere il complesso di idee e di certezze che stanno a fon­ damento di quelle argomentazioni che ci accingiamo a riferire . Infatti , mentre per un Macrobio , un Servio, un Verrio Fiacco , non solo è scontato tutto il discorso sul « nomen » e la « res » di cui abbiamo detto ( si tratta , in sostanza, non di qualcosa di sepa­ rato tra diritto da un Iato e religione dall 'altro, e non è visto come « oggetto di studio » , tale , purtroppo, può esserlo solo per i moder­ ni . . . ) ma costituisce il carattere, nel significato tradizionale da attri� buire a tale termine : forma interna , modo d'essere , innati nel Ro29

mano, da « coltivare » (da ciò il significato di cultura = « coltiva­ zione » dell 'animo) , con gli strumenti che solo la Tradizione Classica e Romana, nella quale vivevano, offriva loro , strumenti di cui usu­ fruivano con una spontaneità e naturalezza che a volte ci sconcerta , quando non si tenti di calare la nostra riflessione nella loro realtà sacrale-rituale e7) , restandoci e cercando di VEDERE il mondo con i loro occhi. Per i moderni, infatti, leggere quanto riferiscono gli Antichi sulla questione del Nome di Roma , prescindendo da quelle argo­ mentazioni qui da noi prima dedotte, vuoi dire trovarsi psichica­ mente nelle medesime condizioni di chi, navigando in acque a lui ignote, incontri un iceberg del quale vede solo la parte emergente , nascondendosi ai suoi occhi l 'intera massa sommersa che questi , per poter conoscere , dovrebbe , . al limite e restando nella simili tu­ dine, TUFFARSI in quelle acque per lui gelide (cioè difficili , come può essere « entrare » in un mondo come quello Romano , che non è il moderno . . . ) tentando di visualizzare almeno i « contorni » di quella realtà a lui nascosta . Entriamo , pertanto , nell 'argomento ed iniziamo considerando, poiché quella dell 'Urbe è una Tradizione eroico-guerriera , il Rito che i Romani eseguivano davanti alle mura di una città assediata . Essi effettuavano una « evocatio » , cioè EVOCAVANO (che signi­ fica chiamare da un luogo) la divinità tutelare di quella città, chia­ mandola , per l 'appunto, con il suo Nome che era poi quello esoterico della stessa città . Ciò poteva avvenire solo quando , conoscendo quel Nome e possedendo/o, possedevano di conseguenza la « res » corrispondente , sarebbe a dire la città medesima . D'altronde , « vocare » esprime l'idea della « voce » e della Parola, del chiamare con autorità, dell 'atto magico per eccellenza che è l 'ORDINARE alla Forza , la quale non può non obbedire a chi possiede la sua essenza , il suo Nome , essendovi COSTRETTA dalla virtus necessitante del Rito stesso , effettuato secondo la Tradizione , cioè secondo rituali arcaici conservati e tutelati con giusto orgoglio e venerati con pietas religiosa . La divinità così evocata , era accolta a Roma con tutti gli onori, le si dedicavano templi ed il Senato assol­ veva al compito di ordinare il culto che le si doveva . E qui ci sentia­ mo di dover aprire una parentesi, invitando a riflettere su questo aspetto della visione romana del Sacro , così libera da ogni paura , serena e pulita e pertanto disposta ad accogliere nel suo seno le divinità dei popoli dell 'Impero ( anche perché il Romano sapeva che 30

prima doveva fare proprio il Dio protettore di quel popolo perché poi quel popolo, privato della protezione divina, fosse disposto ad entrare nell'orbis romanus) costituendo quel « feudalismo religioso » come lucidamente lo definisce Evola. In sostanza, il Romano sapeva che tutti gli Dei di tutti i popoli sono Realtà da rispettare, da conquistare per privare l 'hostis della stessa capacità bellica (da ciò la causa metafisica della schiavitù : la perdita dei propri Dei e quindi della legittimazione all'essere liberi , cioè perdere i propri Dei significa perdere la propria libertà ( 28 ) ) nonché da ordinare, secondo la Loro natura e luogo cosmici, in una gerarchia del divino che in Roma come in ogni sana Tradizione riflet­ teva quella socio-politica . In altre parole , nulla togliendo a Giano , Bellona, i Lari e Vesta , grandi Dei Romani , ed alla Triade (Jupiter , Mars , Quirinus quella Arcaica , Giove , Giunone e Minerva quella post-Arcaica) ed a tutti i Numi lndigètes ( 29 ) , gli Dei più antichi della razza romana e mai sovrapponendosi ad essi , gl i Dei accolti erano gerarchicamente collocati tra i culti della città . Venivano , per­ tanto, « romanizzati » ed era un motivo di sano e giusto orgoglio quello che faceva affermare al Romano che la sua Città ed il suo Mondo (il suo Impero come cosmos ) erano talmente ricchi di Dei e quindi di protezione divina che nessun popolo poteva raggiungere simile ricchezza e pertanto simile FAVORE divino , realizzando di conseguenza un tale Impero , fondato e voluto dagli Dei , dal momento che le Forze del Sacro seguono chi ha la virtus atta a chiamarle, a farle « proprie » , divenendo Esse la Causa prima della Fortuna del Popolo Romano. Ciò si è verificato, per esempio, financo con il culto bacchico­ dionisiaco che , pur essendo agli antipodi della mentalità romana , mai subì un divieto inerente l'osservazione dei suoi riti , proprio per non offendere la Divinità a cui quei complessi rituali si riferivano . Infatti , il Senatus Consultum del 1 8 6 a.C. si limitò a tutelare l 'ordine politico e/ o religioso con la proibizione delle adunate segrete di più persone e delle loro scorribande notturne che , evidentemente, costituivano un pericolo per la salute spirituale del popolo, essendo contrarie allo stile austero e sereno della religiosità romana . È da notare, qui, la prudenza dei Senatori, della classe dirigente romana , dovuta alla convinzione , in sé giusta e tradizionalmente orto­ dossa , che si affrontava un argomento inerente il Sacro che , pertanto , non doveva essere oltraggiato sì da porlo contro lo stesso Popolo 31

Romano e la sua Fortuna . (Livio , XXXIX, 1 8 , 8 ; A . Pastorino , « La religione rom ana » , cit. , p . 1 5 4 ) . Infine , proprio i l fatto che tutto quanto d i cui sopra non sia avvenuto con la setta dei Galilei, deve far riflettere sulla TOTALE ESTRANEIT A di questa semitica infatuazione nei confronti del mondo Greco-Romano ed in genere Antico , del quale il Dionisismo ed i suoi riti , anche se non congeniale ai Romani , pur sempre faceva parte ( 30 ) , insieme ad altri culti ancora più lontani dalla spiritualità romana od addirittura da quella greca classica , trattandosi di frutti di quell'amalgama spirituale e religioso che fu l'ambiente ellenistico­ orientale ( sia la corrente siriaca e poi quella parthica , sia quella isiaco-egizia) . Tornando al nostro argomento principale , risulta chiaro il mo­ tivo per cui era tenuto celato il Nome della Divinità tutelare di Roma , cioè il Nome stesso dell 'Urbe . Si voleva in sostanza evitare che il nemico , impossessandosene , potesse appropriarsi del Fato medesimo di Roma e che accadesse alla Città quello che accadeva ai suoi nemici . Nell 'anno 1 46 a . C . , Scipione Africano minore effettuò davanti a Cartagine il Rito della evocazione degli Dei della città e quello di « consecratio » della stessa agli Dei Inferi . Il testo fu tratto dai modelli arcaici forniti dai Pontefici , trascritto da Lucio Furio Filo in una sua opera sullo « jus pontificium » , fu quindi riportato nel quinto libro del « Rerum conditarum » di Sereno Sammonico agli inizi del I I I secolo d.C. e ci è consegnato da Macrobio nei seguenti termini : « . . . ed ecco la formula usata per evocare gli Dei quando si cinge d 'assedio una ci ttà : " se v 'è un dio od una dea sotto la cui protezione si trova il popolo e lo stato cartaginese e te soprattutto che accogliesti sotto la tua protezione questa città e questo popolo , io prego e venero , e v i chiedo questa grazia : abbandonate i l popolo e lo stato cartaginese , lasciate i loro luoghi , templi , riti e città , allon­ tanatevi da essi ed incutete al popolo ed allo stato timore , paura ed oblio , e venite propizi a Roma da me e dai miei , ed i nostri templi, luoghi , riti e città siano a voi più graditi e cari , e siate propizi a me , al popolo romano ed ai miei soldati . Se farete (ciò) in modo che sappiamo e comprendiamo , vi prometto in voto templi e giochi . . . " » e1 ) . I n questo passo (come in quello che nel testo segue : sulla con­ secratio) è evidente la presenza culturale e fondamentale dell'intera dottrina della Parola ( « come io intendo dire » nella formula della consecratio) e del Nome (la chiamata , la evocazione diretta, attra-

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verso il suo Nome che nel testo non è menzionato, della Forza tute­ lare di Cart:tgine : « e te soprattutto che accogliesti sotto la tua pro­ tezione questa città . . . ») oltre alla prudenza e2) nei confronti del­ l'Invisibile ( « se vi è un dio o una dea . . . » ) , atteggiamento spirituale tipico di un popolo come quello romano per il quale il Rito ( azione nella quale le Parole sono Realtà e quindi devono essere prudente­ mente misurate) è la base della sua Tradizione. A questo punto , è d'uopo fare alcune considerazioni sul Rito e sulla « natura » ATTIVA del Romano; considerazioni che hanno il fine di chiarire alcuni aspetti , ancora oggi « problematici » , della spiritualità romana. È necessario premettere che il Rito nella Romanità, come pro­ cessione di atti , è l'azione che fa la realtà, come in precedenza abbiamo detto, ma è, principalmente, l 'anima della spiritualità occidentale, la sua vera « filosofia » . Il Rito, e quindi il Diritto, che sono Romani , di conseguenza sono l 'essenza medesima dell'Occidente. Tali conclu­ sioni ci paiono più che lecite anche perché, se si riflette , questo è tutto, tutto dipende da ciò ; il Rito è la prima azione che l'uomo compie mutando antologicamente il caos che lo circonda in cosmos e, tale azione, precede ogni altro aspetto della cosiddetta « cultura )) , la quale (politica , arte , scienza . . . ) è fondata dal Rito . Il Romano che agisce in tal modo , non lo fa in assenza di una apriorica idea della realtà che egli invece possiede , se è vero come è vero che il Rito religioso e/ o giuridico muta la realtà more ferarum , che abbiamo detto essere per Ulpiano riconducibile allo jus naturale, in un ordine specifico, tipicamente romano. Allora, la filosofia , cioè il discorso intorno alla realtà, il suo logos , non è occi­ dentale quando mette in dubbio la ESISTENZA di tale realtà (la Res Publica) ; rientra invece (la filosofia) nella nostra cultura quando svolge la funzione, ovvia per il Romano e quindi per il vero occi­ dentale, di individuare , « ricordare )) e vedere cioè riconoscere quella sofia, quella conoscenza , quell 'idea della realtà, quel fas che sta dietro al Rito e che nella romanità arcaica è silenzio del carattere , della secca natura del Romano . Tale natura noi la vediamo, fisionomicamente, nella scabra ed incisiva fermezza (gravitas) impressa nel ritratto bronzeo del co­ siddetto « Bmto Capitolino )) : nei suoi occhi espressivi ed evoca­ tori, nella forza arcaica dell'intero suo viso terribile e/ o semplice, ma principalmente nell'eloquente silenzio di quelle labbra . Quella sofia, infatti, non è espressa in libri e discussioni scritte 33

ma è implicita nella effettualità dello stesso Rito , in ciò che deter­ minano i suoi atti, sarebbe a dire che è individuabile nel cosmos romano, nella Res Publica, nell 'idea e nella Realtà dell'Imperium ( 33 ) . Ecco perché quando si indebolì il carattere , il genio , la razza , nessuno sapeva più a « che cosa » servissero i Riti, lo jus civile, i « cavilli » del Diritto e trovò spazio la filosofia greca , come dialet­ tica, discussione intorno ad una realtà che , non essendo « creata » da nessun Rito ( tale « ideologia » si era già perduta in Grecia) non ESISTEVA , o meglio esistevano varie opinioni che si contrastavano della stessa realtà, la quale rimaneva inevitabilmente caos (34) , dal momento che nessuno AGIVA più , nessuno FISSAVA alcuna For­ za ; in sostanza , ciò che aveva affascinato Polibio era stata proprio l 'Azione Romana ! Era nata la filosofia , nel significato moderno del termine : allon­ tanamento dalla realtà e concettualizzazione razionalistica , se non contemplazione del caos , della Forza O (quindi sacerdotalità fino alla degenerazione mistica) . Questa fu la crisi che investì la romanità , ed emblematicamente quella dell 'epoca degli Scipioni es) . C'è da dire , comunque, che di tutte le correnti di pensiero greche quella più congeniale al romano si rivelò lo Stoicismo il quale , e proprio per questo , non mette in discussione ciò che l 'uomo si trova davanti (e quindi nemmeno il cosmos , il Fas dello Jus dei Romani) ma anzi, nell'essenza della sua dottrina (il Romano) riconobbe la stessa visione che sta dietro a tutto il Rito . Di quest'ultimo , pertanto , lo stoicismo di Panezio appariva a quegli spiriti sensibili dell 'età degli Scipioni, come la sua enunciazione sistematica , la sua legittimazione a livello di logos , di parola, di discorso , dal momento che il silenzio dei padri non era più sufficiente . Infatti, « . . . I Romani non sapevano controbattere la cavillosa dialettica del pensatore greco e un aiuto potevano atten­ derlo . . . da una filosofia che fosse congeniale alla loro natura e, con una coerente visione del mondo , potesse fornire una salda base alle concezioni etiche tradizionali. Questa filosofia fu la filosofia Stoica >> (36) . Quanto sopra vale anche per il Platonismo il quale , insieme allo Stoicismo , considerando anche l 'Epicureismo nella recezione lu­ creziana e/o romana , come sana e serena visione della realtà (ma­ gari fin troppo quantificata) , senza paure dell'oggi, del domani e di un « al di là >> ; costituiscono la « filosofia » romana che ben si 34

fonde con il Diritto , forse realizzando (già con Cicerone) ciò che modernamente si suole definire . . . « filosofia del diritto » . Ma, e ciò è di una fondamentale importanza , se la forma mentis giuridica romana rimase invariata , anche a contatto con tali correnti filosofiche, si deve concludere che quando gli effetti non mutano , evidentemente nemmeno le cause hanno subito variazioni . Sarebbe a dire che tali filosofie divennero la parola parlata di quell'antica sapienza esoterica che era a fondamento del Rito giuridico e/ o reli­ gioso . Anzi , si sovrapposero a quella sapienza come l 'essoterismo si sovrappone, « cela » l'esoterismo . Guardando alla contemporaneità , inoltre, si può dire che solo cosl, prendendo atto di quanto detto ed in un contesto di restaura­ zione dei valori tradizionali dell'Occidente ( tra i quali , ed innanzi­ tutto, la rinnovata coscienza della necessaria legittimazione dall'Alto del Diritto, cioè il ritorno alla realtà del Diritto Sacro) si può « sal­ vare » la filosofia . Oggi come, in un certo senso, la salvarono i Ro­ mani dalla modernizzazione putrescente tipica del periodo ellenistico ; operando con il sano e superiore realismo della Tradizione Classica dove, per il Romano , la filosofia stoica , platonico-aristotelica ed an­ che neo-platonica (con una maggiore accentuazione in quest 'ultima dell'aspetto metafisico) in ultima analisi sono una unica visione della stessa realtà, sia di quella che è, sia di quella che deve essere, cioè la funzione deontologica del Diritto, e non interpretazioni ( opi­ nioni) di essa ; per giungere quindi mediante quella visione alla voT)CTL> , Torino '55 , pp. 58 ss. 55 L'attribuzione a Cesare di una qualità regale non fa, necessariamente, riferi­ mento all 'evidenza di superficie storica, dove sappiamo che il Dictator Perpetuus mai fu Re de jure ed esplicitamente anzi, rifiutò pubblicamente ai Lupercali tale proclamazione ; anche se nel profondo del suo Demone era presente la spinta verso la soluzione monarchica, di tipo orientale, della crisi della Repubblica, noi quindi , vedendolo come Re, ci richiamiamo proprio a quella dimensione profonda, epperò autentica, della natura spirituale di Cesare e della stessa sua presenza come Simbolo. 56 Sul carattere cosmico della regalità di Giove dr. P. PH ILI PP SON , « Origini e forme del Mito greco >> , Torino '83 , pp. 45 ss . : dove, comunque, alla definizione di pre-cosmico, in relazione a ciò che « precede >> Giove, preferiamo il termine iper­ cosmico, cioè Primordiale, sarebbe a dire il regno di Saturno, l'Età dell'Oro e/o dell'Essere. " ]. EvoLA, « Rivolta . . . >> , cit . , p. 279. Cfr . anche ATENAGO RA, XX , 292. 58 E si O DO , « Teogonia >> in « I Poeti greci >> trad . di E. Romagnoli, Bologna '69, pp. 125 ss. 59 Per la conquista della regalità cosmica e sulla uccisione del padre Crono, dr. ]. EvoLA , « Rivolta . . . >>, cit ., pp. 30 ss . ; G. FRAZER, « Il ramo d'oro, studio della magia e della religione >>, 3 voli. , Torino '65 , vol . I ; D. SABBATUCCI, >, Roma '78 , pp. 249 ss. 60 N . ABBAGNANO, « Storia della Filosofia >> , vol . I, Torino '63 , pp. 163 ss. 61 G. DuMEZIL, « ]upiter, Mars, Quirinus » , cit . , pp . 58 ss. 62 ]. EvoLA , « Metafisica del Sesso >>, cit . , pp. 1 97-8 ; sui rapporti tra Augusto e il culto di Apollo, dr. J. BAYET, « La religione romana. . . >> , cit . pp. 185 ss . ; M. A . LEVI, « Il tempo d i Augusto >> , Firenze 1 95 1 , p p . 248 ss . 63 K. KERENIY, « Prolegomeni . . . >>, cit . , pp. 40- 1 . . 64 Ibidem, pp . 2 0 ss. 65 G. D. CASALINO, « Aeternitas Romae. . . >> , cit ., p . 42 . 66 J. EvoLA, « Rivolta . . . >>, cit . , p. 26. 67 A. MoRET, « Du caractére religieux de la Royautè pharaonique >>, Paris 1902 , pp. 232-33 in cui l 'Autore riferisce la seguente invocazione, tipica del carattere solare e magico della regalità egizia : « O dèi voi siete salvi se io sono salvo ; i vostri doppi sono salvi se il mio doppio è alla testa di tutti i doppi viventi : tutti vivono se io vivo ! >> . Ci esimiamo dal commentare la rilevanza iniziatica di quanto riferito. 68 GIULIANO IM P . , « Helios » , 1 3 1 b, 134 a-b, 158 b-e : « Soli invicto >> era infatti inciso sui labari dell'Imperatore Giuliano , ed altro non volle l'Augusto che far tornare Roma e l'Impero alla sua Tradizione Solare ! ffl A. GRAF., « Roma nelle memorie e nelle immaginazioni del Medioevo >> , Torino '23 , pp. 762 ss . ; sull'idea che l'Impero Romano, finché si fosse mantenuto ,

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avrebbe SALVATO il mondo, da intendersi come cosmos, cfr. J. E voLA, « Rivolta . . . » , cit . , pp. 46-7 . 70 W. NESTLE, « Storia della religiosità greca >> , ci t . , pp. 496 ss . 7 1 Sulla convergenza tra la visione della natura, in particolare dei cosiddetti Presocratici nonché dell'intera cultura greca e la dottrina tradizionale stessa (su questa vedi J. EvoLA, « La trad. Erm. >> , cit . , p. 3 7 ) , cfr. G . REALE, « Storia della Filosofia Antica >>, cit . , vol . I , pp. 1 1 5 , 145 , 169 ed il vol . V, pp. 209 ss . ; G . R . L LOY D , « Magia, ragione, esperienza. Nascita e forme della scienza greca » , Torino '82 , pp . 28 ss. e p. 187 note n. 53 e 54; L. GERNET, « Antropologia della Grecia antica » , Milano '83 , p p . 3 3 9 ss . ; F. CA P RA , > , Milano '82 , pp . 2 0 ss . ; O . BRUNNER, > , Bologna '72 , pp. 9 1 ss . ; K . KERENYI , « La religione antica . . . >> , cit . , pp . 95 ss . ; A . SoMIGLIANA, « Monismo indiano e moni­ smo greco nei frammenti di Eraclito >>, Padova 1 96 1 , p. 19, nota n . 48. 72 K . KERENYI, « La religione nelle sue linee fondamentali >> , cit . , p. 1 0 1 ss. 73 R. ALLEAU, « La scienza dei Simboli >> , cit . , cap. I, pp. 26 ss. 74 D. SABBATUCCI, >, cit . , pp. 63 ss. 7 5 Nella visione Tradizionale, che è Metafisica e non religioso-morale, non V I e più il livello psichico-passionale della > e dei suoi derivati ; vi sono nude forze nei confronti delle quali deve valere lo stesso atteggiamento spirituale, privo di fedi, sentimenti e credenze, che si ha nei confronti delle forze pure della materia più grezza : un realismo spirituale, scevro da illusioni di sorta e quindi soggetto al vero od al falso, all'errore e non al peccato ! 76 J. EvoLA, >, cit . , p . 182. 7 7 Ibidem, pp. 162-63 . 78 ZACCARIA, > , Bibliotheque des Philosophes Chi­ miques , II, paragr. III, p. 5 1 2 ; Dom. A. PERNETY, , ci t . , p. 150. 80 J . E voLA, , cit . , p . 5 3 . Sull'identificarsi con l'Uno, legge della vera realizzazione iniziatica , cfr. > (a cura del Gruppo di UR ) , cit . , vol . I, pp . 56 ss. 82 K . KERENIY, > , cit . , pp. 25 ss . 83 G. D. CASALINO, , Brescia, 1 982 , pp. 45 ss . 85 M. C. RuGGIERI TRICOLI, > , Palermo '79 , p. 34 . 86 P. RoMANE LLI, >, cit . , pp . 60 ss. 87 L 'identificazione del Lapis Niger con il Volcanal . . . e con il luogo della morte di Romolo e del suo « heroon >> , proposta da un attento studioso come F. CoA­ RELLI in « La Parola del Passato >> , Anno '77 , fascicolo 174, pp. 166 ss . , è la prova ulteriore e definitiva che , come a livello ermetico. così a livello storico-religioso il Lapis Ni ger è da connettere a Romolo , cioè a Marte nonché alla divinità delle armi e dei metalli : Vulcano , sposo di Venere e forgiatore di arm i ; ermeticamente Vulcano è il Fuoco che è nella terra , nelle viscere della quale forma i Metalli. È il Fuoco dei Filosofi Ermetici . Cfr . Dom . A. G. PERNF.TY, > , cit . , p p . 305-6 ; cfr. anche J . RrES, « Il sacro » , Milano '82 , p p . 1 44-5 . 88 DoM . A. G . PERNETY, > , Genova '80 , pp. 205 ss. 89 J . EvoLA, « La Trad. Erm . >> , cit . , p . 99. 90 Ibidem, p . 48.

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91 ] . P. VERNANT, > , I I I , 4 ; CATOII:E, > 5 , 3; J. BAYET, « La religione romana . . . >> , cit . , pp . 68-73 ; N. TuRCHI, , ci t . , p. 69 nota n. 47 . Sul