Contributi critici sul testo di Eschilo. Ecdotica ed esegesi
 9783823366867, 3823366866

Table of contents :
INTRODUZIONE
APPROCCIO TESTUALE E DIMENSIONE FILOLOGICA OGGI
LA PARODO DEI PERSIANI:FORME ESPRESSIVE E STRUTTURE INTERPRETATIVE
NOTA AD AESCH. PERS. 481
AESCH. PERS. 549 = 559: PROBLEMI TESTUALI, METRICI ED ESEGETICI
ESCHILO, PERS. 834 E 850
SUR LA POÈTIQUE DE LA SCÈNE FINALE DES SEPT CONTRE THÈBES
AESCH. SUPPL. 354 SS.
CONSIDERAZIONI SULLA FUNZIONE DELL’EFIMNIO RITMICO-METRICOIN AESCH. SUPPL. 630-709.
IL FINALE DELLE SUPPLICI DI ESCHILO
(...) PERSUASIONE E RETICENZA IN AESCH. AG. 276
AESCHYLUS CORRECTUS? METRICA E TESTO IN DUE VERSI DELL’AGAMENNONE
(...) IN ESCHILO(AESCH. PERS. 787, SUPPL. 442, AG. 956, EUM. 490)
SU (...) NELL’ORESTEA: UNA PROPOSTA DI LETTURA
DUE NOTE PROMETEICHE
UNA RILETTURA DEI CODICI DEL PROMETEO
I FRAMMENTI DEL FINEO E DEL GLAUCO DI POTNIE DI ESCHILO
GLI ‘OGGETTI MISTERIOSI’ DEI (...)
TESTO ED ESEGESI DI ALCUNI SCOLÎ ESCHILEI
SIGLA DEI CODICI ESCHILEI CITATI
INDICE DEI LUOGHI NOTEVOLI
INDICE DEI NOMI MODERNI
INDICE GENERALE

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Matteo Taufer (ed.)

Contributi critici sul testo di Eschilo Ecdotica ed esegesi

Contributi critici sul testo di Eschilo

DRAMA

Neue Serie · Band 8

Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption Herausgegeben von Bernhard Zimmermann in Zusammenarbeit mit Juan Antonio López Férez (Madrid), Giuseppe Mastromarco (Bari), Bernd Seidensticker (Berlin), N.W. Slater (Atlanta), Alan H. Sommerstein (Nottingham), Pascal Thiercy (Brest).

Matteo Taufer (ed.)

Contributi critici sul testo di Eschilo Ecdotica ed esegesi

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Gedruckt mit Unterstützung der PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO.

© 2011 · Narr Francke Attempto Verlag GmbH + Co. KG Dischingerweg 5 · D-72070 Tübingen Das Werk einschließlich aller seiner Teile ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist ohne Zustimmung des Verlages unzulässig und strafbar. Das gilt insbesondere für Vervielfältigungen, Übersetzungen, Mikroverfilmungen und die Einspeicherung und Verarbeitung in elektronischen Systemen. Gedruckt auf säurefreiem und alterungsbeständigem Werkdruckpapier. Internet: www.narr.de E-Mail: [email protected] Druck und Bindung: Laupp & Göbel, Nehren Printed in Germany ISSN 1862-7005 ISBN 978-3-8233-6686-7

INTRODUZIONE Il presente volume raccoglie, rielaborati e ampliati, pressoché tutti i contributi esposti durante il convegno internazionale di studio Eschilo, il creatore della tragedia, organizzato nei giorni 26-28 maggio 2011 presso il Liceo ‘G. Prati’ di Trento dalla Delegazione trentina dell’Associazione Italiana di Cultura Classica con il sostegno finanziario della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol (Ufficio per l’Integrazione Europea), della Provincia Autonoma di Trento (Assessorato alla Cultura e Presidenza del Consiglio), del Comune di Trento (Assessorato alla Cultura) e della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto. Tale incontro ha visto nuovamente coinvolti, per una messa a punto e un confronto delle indagini in corso d’opera, l’équipe internazionale di studiosi impegnata nel progetto, che gode del patrocinio dall’Accademia dei Lincei1, di revisione critica e riedizione delle tragedie di Eschilo, compresi i frammenti dei drammi perduti e le testimonianze scoliastiche2. Questo gruppo di ricerca, le cui basi sono state poste, più di dieci anni fa, da Vittorio Citti presso l’Università di Trento, è andato definendosi e progressivamente ampliandosi, in vista dell’impresa ecdotica lincea, nell’ultimo quinquennio, offrendo al dibattito scientifico una consistente e variegata serie di studî, tra monografie e numerosi saggi su questioni puntuali. Pur movendo da prospettive diverse nell’approccio alla tradizione manoscritta e a stampa del poeta, l’équipe si dimostra solidale nell’intento di delineare un metodo globalmente storico nella rilettura del testo eschileo. In particolare, si rivela elemento di forza, ben condiviso nelle premesse metodologiche, la necessità di restituire alla ǮǠDZǬǵdel tragediografo le molteplici anomalie o asimmetrie – in specie di lessico e sintassi – in cui consente la paradosi: Eschilo è poeta scabro, che trae il suo vigore espressivo dall’uso di termini e costrutti inconsueti o stranianti, come gli riconosceva già Aristofane nelle Rane. Una rinnovata edizione dei drammi superstiti dovrà tenere nel debito conto quei tratti distintivi, su cui fece peraltro leva la sensibilità critica antica, troppo spesso oscurati da una certa tendenza normativa in voga, da almeno due secoli, principalmente nella scuola anglosassone. Lo spirito di geometria forse troppo riverito da illustri – e per varî aspetti benemeriti – editori moderni andrebbe ridiscusso alla luce dei frequenti casi in cui la tradizione manoscritta, più o meno vistosamente ‘ritoccata’ da congetture, potrebbe esser difesa con solidi argomenti. Aprono la serie dei contributi qui ospitati le riflessioni di Bernhard Zimmermann dal titolo Approccio testuale e dimensione filologica oggi. Conservato volutamente nella forma in cui è stato pronunciato, l’Eröffnungsvortrag di Zimmer1

Il progetto è stato approvato in data 30 marzo 2007 dal Comitato dell’Accademia dei Lincei per la Preparazione dell’Edizione Nazionale dei Classici Greci e Latini, sotto la presidenza del Prof. Bruno Gentili. 2 Per un quadro orientativo sull’iniziativa si veda V. Citti, Introduzione ai lavori del Convegno internazionale di studio Per Eschilo (Rovereto, Accademia degli Agiati, 22-24 maggio 2007), QUCC 90 (2008) 11-6.

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mann, invitato al convegno trentino non solo in veste di esperto di teatro greco, ma anche come presidente federale del Deutscher Altphilologenverband, illustra in una prima parte gli scopi istituzionali del DAV e il livello d’interesse/vitalità delle lingue classiche in Germania, per poi proporre alcune urgenti considerazioni, calibrate sull’iniziativa eschilea per i Lincei, sul «dovere culturale» spettante a ogni generazione di filologi classici di cimentarsi in edizioni – o più spesso riedizioni – critiche, le quali, oltre a fornire nuovi e desiderati apporti per una miglior conoscenza della storia di un testo, «sono pure e soprattutto testimoni della Geistesgeschichte dell’epoca in cui sono sorte». Seguono diciassette lavori di specifica pertinenza eschilea: quattordici son dedicati alle sette tragedie, disposte secondo la sequenza adottata nelle più recenti edizioni, due ai frammenti e uno agli scolî. I Persiani sono rappresentati da quattro densi contributi: la parodo è studiata da Riccardo Di Donato, che focalizza l’attenzione sui nessi tra forme espressive (lessico, morfologia/sintassi, metrica) e strutture interpretative, scostandosi, nel privilegiare la «visione esistenziale», da una certa linea d’esegesi che enfatizza piuttosto il dato politico-ideologico o il conflitto etnico; disamine su problemi puntuali sono invece proposte nei tre saggi rispettivamente di Stefano Amendola, che dà fondato credito alla congettura di Elmsley ǤͺǴDzǰǷǤǬal v. 481 (benché il tràdito ǤͷǴDzАǰǷǤǬnon manchi di ragioni a suo favore), di Giovanna Pace, che reputa sano il testo dei codici al v. 549 = 559, mostrandone con dovizia di prove la conformità all’uso eschileo per metrica, lingua e sintassi, e di Paola Volpe Cacciatore, cui si deve un’indagine approfondita – che verte a più riprese sul dibattuto problema dello iota eliso in tragedia – dei vv. 834 e 850. I Sette sono oggetto dell’attento studio di Pierre Judet de La Combe, che riapre la discussione sulla presunta inautenticità del finale evidenziando, a favore della paternità eschilea dei vv. 1005-78, la coerenza tematica di questi ultimi con il resto della tragedia e segnatamente col prologo. Seguono tre contributi sulle Supplici: Vittorio Citti affronta gli spinosi problemi dei vv. 355, 359-64 e 402-3, additando, là dove possibile, vie d’uscita ispirate da criteri prudenziali; Liana Lomiento indaga la funzione del cosiddetto efimnio ritmico-metrico nel secondo stasimo (vv. 630-709), vedendovi, grazie ad un’analisi comparativa con Aesch. Ag. 355-487 ed Eur. HF 348-450, «l’ossatura di un canto storicamente esistito»; Carles Miralles, infine, s’interroga sui varî problemi posti dal controverso finale della tragedia, inclinando a riconoscere la voce dei soldati argivi nei vv. 1034-51. L’Orestea è rappresentata da quattro diversi studî: Antonella Candio, sulla base di un confronto omerico, interpreta la discussa formula ͎dzǷǨǴDzǵǹǟǷǬǵ in Ag. 276 nel senso di ‘messaggio non ancora rivelato’; Enrico Medda affronta problemi testuali e metrici in Ag. 1117/1128 e 1143/1153, versi notevolmente alterati da interventi ope ingenii di noti editori del XIX secolo, giungendo alla conclusione che non sussistono, in realtà, argomenti stringenti per rifiutare i dati della paradosi; Carles Garriga (‘collocato’ entro l’Orestea per il suo attuale impegno ecdotico sulle Eumenidi, ancorché il presente lavoro investa l’intero corpus eschileo) passa in rassegna le occorrenze di ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǼ/ ǭǤǷǤ ǶǷǴDzǹǡ in Pers. 787, Ag. 956, Suppl. 442 ed Eum. 490, ricordandone il valore 6

base di ‘overthrow’ (Dover); Ivan Sodini pone a confronto le diverse valenze di ͚ǮdzǢǵnell’Orestea, mettendo in luce come la parola compaia per quindici volte tra Agamennone e Coefore, ma non emerga più nelle Eumenidi, «regno di Dike». Al Prometeo, infine, si dedicano sia Maria Pia Pattoni, che con ricca documentazione a supporto si pronuncia, contro i moderni, a favore di ͎ǥǤǷDzǰ(tradizione diretta) del v. 2 e al v. 803 interpreta lo hapax ͊ǭǴǤǦǨЃǵ ‘che altamente stridono’ (ipotizzando alpha intensivum), sia il sottoscritto, che invita a riflettere sull’opportunità di un’integrale collazione dei testimoni al fine di rettificare inesattezze o colmare lacune degli attuali apparati, ma anche per meglio illustrare la Textgeschichte del Prometeo. Ai frammenti si volgono le ricerche puntuali di Piero Totaro, che dà un penetrante commento dei frr. 258-60 R. (Fineo), 36-8 (Glauco di Potnie) e 25a-b (‘incerti Glauci’), e di Paolo Cipolla, che sottopone a serrata analisi il fr. 78a R. dai njǨǼǴDzαͨ;ǶǫǯǬǤǶǷǤǢ, identificando gli ͊ǫȀǴǯǤǷǤ del v. 50 con ceppi anziché, come voleva Snell, con giavellotti. Conclude il volume il denso saggio di Renzo Tosi, che muove dall’incontestabile presupposto che i recenziori non trasmettono necessariamente scolî recenti, donde l’opportunità di collazioni sistematiche ai fini di un’edizione integrale – tuttora attesa – della scoliografia eschilea; di sicura utilità euristica, nell’indagine di Tosi, è peraltro la nozione di ‘glossa tradizionale’ (Thomson), più consona ad una recensione aperta rispetto all’univoca formula di ‘scolî lessicografici’. Nell’auspicio che i materiali di studio qui offerti alla comunità scientifica possano stimolare (ri-avviare, problematizzare) il dibattito non solo su questioni di filologia eschilea, ma pure su aspetti metodologici d’interesse più ampio (si pensi al normativismo – morfologico, lessicale, metrico – i cui eccessi hanno modificato sensibilmente il testo di varî poeti antichi), si coglie l’occasione per esprimere un ringraziamento particolare, a nome di tutti gli autori dei saggi qui raccolti, alla Provincia Autonoma di Trento, grazie al cui supporto finanziario si è resa possibile la pubblicazione di questo volume, nonché a Bernhard Zimmermann, che segue i lavori dell’équipe eschilea fin dai primi anni della sua genesi trentina e ha voluto accogliere i nostri contributi nella prestigiosa serie «Drama» del Narr Verlag, e infine, per il loro instancabile supporto scientifico e organizzativo, a Lia de Finis, fondatrice dell’AICC trentina e indefessa studiosa d’impronta ‘mitteleuropea’, e a Vittorio Citti, spiritus rector del gruppo eschileo di cui abbiamo l’onore di esser parte. Freiburg im Breisgau, 17 ottobre 2011

Matteo Taufer

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APPROCCIO TESTUALE E DIMENSIONE FILOLOGICA OGGI È per me una gran gioia e un ancor più grande onore poter aprire, oggi, i lavori di questo Convegno con una relazione inaugurale. Gioia grande, poiché m’è ridata l’occasione di trascorrere, come negli anni scorsi, stimolanti giornate insieme all’attivo gruppo di studiosi e cultori di Eschilo. Mi siano concessi, anzi tutto, alcuni cenni personali. Allo spiritus rector del gruppo di ricerca, l’amico Vittorio Citti, sono legato da quasi un quarto di secolo. Il nostro primo incontro personale avvenne nel 1987, a Siracusa, in occasione di un convegno sulla commedia greca che m’aprì, per così dire, le porte della filologia classica italiana. Ci rivedemmo a cadenza regolare, sia nelle sedi accademiche in cui fu attivo Vittorio – Venezia, Cagliari e in particolare Trento –, sia nella sua città natale, Bologna, e in convegni tenutisi altrove. A Venezia, ricordo, parlammo – rinchiusi in albergo per l’acqua alta – dell’opportunità di fondare una nuova rivista, che, col nome di «Lexis», avrebbe veduto la luce nel 1988 in un volume, ancor esile, di appena centoventi pagine. Ma il ‘pàrgolo’, nel frattempo, crebbe: da allora al 2010 ventotto sono i numeri apparsi, e di livello tale che la rivista appartiene oggi – possiamo dirlo a voce alta – agli strumenti scientifici, nel nostro settore, più quotati sul piano internazionale. Non ultimo dei fattori di successo, per «Lexis», è certo l’instancabile impegno di Vittorio per il ‘figlio prediletto’. Un secondo punto che vorrei toccare è l’impresa scientifica internazionale, cui Vittorio ha sempre tenuto particolarmente e di cui l’attuale come i precedenti convegni sono viva espressione. Allorché io – che al tempo dominavo poco o nulla la lingua italiana – presi parte per la prima volta, nel 1985, a un convegno italiano, ad Urbino, sulla musica nell’antichità greca, i contatti scientifici tra filologia tedesca e italiana erano limitati a pochi casi individuali. Che oggi siano divenuti la regola, lo dobbiamo anche a precursori come Vittorio, i quali hanno attivato con energica convinzione i primi programmi Erasmus di scambio per studenti e docenti. Se pure, infatti, miriamo tutti a un medesimo obiettivo, cioè allo studio dei testi dell’antichità greco-romana, esistono nondimeno in Europa – e per fortuna! – diverse culture scientifiche, diverse modalità d’approccio ai testi, diversi curricoli didattici e, com’è naturale, predilezioni diverse. Perciò, alle nuove leve della scienza non potremmo proporre nulla di più proficuo che staccarsi, per un periodo più o meno lungo, dal proprio alveo scientifico d’origine, trascorrendo altrove quelli che Goethe chiamava Lehr- e Wanderjahre. Tale aspetto, che riteniamo inerente alla politica della formazione, mi porta al secondo prolegomenon, e all’onore che m’è riconosciuto per questa relazione introduttiva. È un grande onore, per me, potermi rivolgere ai presenti in qualità di presidente federale del Deutscher Altphilologenverband, il fratello, diciamo, della vostra AICC. Il DAV sostiene gli interessi, per così dire, delle lingue classiche presso scuole e università, e conta al momento, all’incirca, settemila membri. In conformità con la ripartizione federale del territorio tedesco, esso consta di quin9

dici realtà federate, una per ciascun Land (Berlino e Brandeburgo figurano accorpati). Le associazioni dei rispettivi Länder organizzano corsi d’aggiornamento per i docenti ginnasiali, stages informativi per le scuole ecc., e possono altresì svolgere, all’occorrenza, funzioni politiche all’interno dei Länder. Invece, cómpito prioritario del DAV a livello federale è programmare e organizzare, ogni due anni, un grande congresso che mira a fornire contributi didattici e scientifici. L’ultimo ha avuto luogo nel 2010 nella stessa Friburgo e il prossimo, cui desidero, già da ora, estendere l’invito ai presenti, si terrà ad Erfurt dal 10 al 14 aprile 2012. Di norma, affluiscono ai congressi dagli ottocento ai mille interessati. Durante il mio mandato di presidente, tenterò di dar visibilità al DAV anche a livello internazionale e oltre i confini dell’area germanofona: oggi m’è già data una prima opportunità di attuare tale intento. Del resto, è solo a vantaggio e nell’interesse di noi classicisti – non importa se attivi nel mondo scolastico o a livello universitario – essere bene informati sul livello di conoscenza e d’insegnamento delle lingue antiche anche in altri Paesi. Da dieci anni a questa parte, la Germania sta conoscendo una straordinaria fioritura d’interesse per le lingue classiche, e in modo spiccato per il latino; parlare, tuttavia, di un nuovo Rinascimento è a mio avviso prematuro. È sì vero che più del 30% degli alunni ginnasiali sceglie il latino in una certa fase della formazione scolastica; ma per il greco, si noti, i numeri sono nettamente inferiori: solo l’1% degli iscritti al Gymnasium studia greco. Questo rinnovato interesse coglie sorpresi pure noi classicisti, tanto più che fino agli anni Ottanta e Novanta si poteva avere la costante impressione che la vitalità delle lingue antiche, a livello di Gymnasien nonché – sia pure con fisiologico ritardo – universitario, sarebbe andata intuibilmente diminuendo. Tale ‘rinascita’ imprevista, che data a un dipresso dal 2000, ha però dovuto constatare un’elevata carenza di personale docente, soprattutto di latino ma in parte anche di greco. Nondimeno, benché col consueto ritardo di tre-cinque anni, si doveva registrare come positiva conseguenza che l’insegnamento accademico delle lingue classiche, quanto al numero di studenti iscritti ai corsi, dovesse sbocciare di una nuova fioritura. Sui motivi dell’inatteso successo delle lingue antiche nei Gymnasien possiamo solo tentare qualche ipotesi. Vi sono in primo luogo – suppongo – ragioni didattiche: dagli anni Novanta, infatti, viene applicato con notevole successo un modello pedagogico in base a cui, nel primo ciclo di formazione ginnasiale, scolari tra i dieci e i dodici anni studiano una lingua straniera moderna (per lo più inglese, talora anche francese) e al contempo il latino. La combinazione di competenze linguistiche attive e – in misura variabile – passive ha riscosso significativi successi: il latino ha conseguito l’indiscusso rango di materia di prim’ordine, che fornisce competenze linguistico-grammaticali d’impatto positivo non solo sullo studio delle lingue straniere ma anche, e soprattutto, nell’approfondimento della propria lingua madre. Ciò non viene però riconosciuto al greco, che occupa il terzo o quarto posto, in svantaggiata concorrenza con più attrattive lingue moderne, nelle scelte linguistiche degli alunni ginnasiali. Ne consegue che i corsi di greco al Gymnasium, ora, sono più orientati a trasmettere competenze culturali 10

lato sensu anziché propriamente linguistiche. Pertanto, benché il greco rimanga ancora – per il momento – entro il canone delle materie ginnasiali, non vi è, purtroppo, così fortemente radicato quanto lo è il latino. Fatali, a mio avviso, gli effetti sullo studio universitario del greco: in Germania sono sempre più modeste, rispetto a solo quindici anni fa, le competenze linguistiche – e qui non mi riferisco all’abilità nel tradurre semplici testi in prosa, bensì ai rudimenti morfosintattici del greco – che riscontriamo negli studenti iscritti al primo semestre accademico. I docenti universitari, negli ultimi anni, debbono così supplire a ciò che un tempo spettava agli insegnanti ginnasiali. Prevedibili se non già in atto le conseguenze: la cosiddetta strumentazione filologica – storia della lingua, metrica, paleografia e critica testuale, per limitarsi alle discipline maggiori – sono possedute ormai in misura modesta quando non del tutto insufficiente. Si tende a ripiegare nel dominio del generico, specie occupandosi di ricezione dei classici entro le letterature moderne. I presupposti teorici, o meglio ideologici, furono creati – tale è la mia impressione retrospettiva – già negli anni Settanta del secolo scorso: per garantire un aggancio della filologia classica alle scienze letterarie moderne e collocarla a un pari livello di dialogo, s’è tentato a tutti i costi – e in maniera estremamente controversa e polemica – di rimuovere il forte, incontestabile deficit teorico della filologia classica. (Ciò, ben inteso, valga per il versante tedesco; un discorso a parte, in altra prospettiva, andrebbe riservato al mondo italiano). Deficit che oggi è certo superato; anzi, si può persino dire che negli ultimi anni la filologia greca rivesta, a livello di formazione teorica, un ruolo guida tra le scienze letterarie moderne e sia divenuta interlocutrice gradita agli esponenti della nuova filologia. Tuttavia, conseguenze di tale linea evolutiva sono, da un lato, che la filologia classica minaccia di smarrire (se non l’ha già, sovente, smarrita) la sua àncora, cioè il suo statuto di Altertumswissenschaft, e dall’altro, che la vocazione principe della filologia – editare e commentare testi – sta cadendo sempre più in oblìo. Se esaminassimo quante nuove edizioni critiche di autori antichi abbiano prodotto negli ultimi anni le università tedesche, i risultati ci lascerebbero attoniti. La necessità e il dovere scientifico di rendere accessibili, in nuove edizioni, testi finora inediti sono difficilmente contestati; più dubbiosa e discussa, invece, la questione se sia necessario un nuovo impegno ecdotico su testi già da tempo e, non di rado, più volte criticamente editi, com’è il caso dei tragici del V secolo. Ricordo, in merito, il pensiero d’uno dei miei maestri – peraltro filologo tra i più in vista della seconda metà del Novecento –, che soleva definire discipline come la critica del testo, l’arte congetturale e la metrica nient’altro che «lavori di traforo»: eleganti passatempi, ma inopportuni per le persone adulte tra cui egli si annoverava. Posizione estrema, pur nella sua ironia, eppure spesso – e par divenirlo sempre di più – condivisa. Che potremmo obiettare a chi, con scetticismo, ponga in dubbio il valore di nuove edizioni di autori classici? Anzi tutto un argomento pratico. Oggi, ben più di ieri, grazie all’ausilio delle nuove tecnologie, possiamo dominare in modo e11

saustivo la tradizione (manoscritta e a stampa) di un autore come Eschilo e soppesarne i testimoni nella maniera più accurata possibile. Ciò consente numerose rettifiche di luoghi comuni vulgati dagli apparati critici; da Matteo Taufer, durante i nostri colloqui friburghesi, ho imparato molto sotto questo profilo. Correggere, tuttavia, gli apparati di Page e West può esser ritenuto, in fondo, un vanitoso gioco di perle di vetro (nel senso voluto dal romanzo di Hermann Hesse); è la rivalutazione di uno o più manoscritti, invece, che può gettar nuova luce sulla storia della tradizione di un autore. I codici, in certo qual modo, hanno una loro biografia. Nascono in determinati luoghi, in un determinato tempo, entro un determinato ambiente culturale: ri-valorizzare un codice consente di posare una nuova pietra nella Geistesgeschichte di un’epoca e di una città. Lo stesso vale, in pari misura, quando ripercorriamo le edizioni prodotte tra XV e XIX secolo. I filologi d’allora non erano certo eruditi da tavolino, che s’isolavano dalla vita culturale del loro tempo rimanendo assorti, a porte chiuse, in esoteriche speculazioni. Mi si permetta un fulgido esempio tratto dalla letteratura e, in più ampia prospettiva, della cultura tedesca: Johann Wolfgang von Goethe. Nessuno, più di lui, prese così attivamente parte ai dibattiti filologici tra fine XVIII e inizio XIX secolo. I diari, le lettere, i colloqui con Eckermann documentano un vivo interesse per l’opera di Johann Gottfried Hermann. I trattati hermanniani sui frammenti eschilei, De Aeschyli Niobe dissertatio (Lipsiae 1823) e De Aeschyli Philocteta dissertatio (ibid. 1826) affascinarono così intensamente Goethe, che, ad un certo punto, dovette persino staccarsene. In particolare, non lo abbandonava mai il pensiero che il frammentario Filottete eschileo potesse esser ricostruito (lettera a Zelter del 20 marzo 1826: «Anche in questo caso [sc. riflettendo sulla ricostruzione del Filottete] non riesco a procedere perché vengo sùbito sedotto; non posso infatti astenermi dal pensare sopra ogni cosa e in ogni dettaglio a una questione per me così importante, giacché vi vedo accadere i fatti più strani. Pure un remoto autore latino scrisse un Filottete, e dopo Eschilo: ce ne rimangono ancora frammenti, grazie a cui l’antico poeta greco potrebbe, in certa misura, essere apprezzabilmente restaurato. Vedi, però, che ci sarebbe un mare da bersi interamente: non facile, per la nostra vecchia gola, inghiottirlo tutto»1. E sebbene nel marzo 1826 avesse deciso d’interrompere la frequentazione dell’Eschilo di Hermann, egli vi tornava sopra quattro mesi dopo (diario del 27 luglio 1826: «Ho messo mano di nuovo alla dissertazione di Hermann sui tre Filotteti»2). Il bilancio del suo porsi a confronto con la tragedia attica è di rassegnata ammirazione: «Credo d’aver creato anch’io qualcosa, ma dinanzi a uno dei gran1 «Auch hier (sc. im Nachdenken über die Rekonstruktion) darf ich nicht weiter gehen, weil ich gleich verführt werde; denn ich konnte mich doch nicht enthalten diese für mich so wichtige Angelegenheit vor allen Dingen durch und durch zu denken; denn hier kommen die wunderlichsten Dinge vor. Sogar hat ein uralter Lateiner einen Philoktet geschrieben, und zwar nach dem Äschylus, wovon denn auch noch Fragmente übrig sind und woraus sich der alte Grieche begreifbar einigermaßen restaurieren ließe. Du siehst aber, daß das ein Meer auszutrinken sey, für unsere alte Kehle nicht wohl hinab zu schlucken» (cit. in Grumach 1949 I 252). 2 «Die Hermannische Dissertation über die drey Philoctete wieder vorgenommen» (cit. ibid. 253).

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di poeti attici come Eschilo e Sofocle mi sento davvero una nullità» (Dialoghi, 7 settembre 1827)3. Grande influsso su Schiller e Goethe esercitò il trattato hermanniano De metris poetarum Graecorum et Latinorum, del 1796 (si veda la lettera a Goethe del 27 settembre 1800, in cui Schiller richiedeva l’opera di Hermann nonché informazioni sulla miglior grammatica greca per principanti che allora fosse disponibile4). La struttura metrica della schilleriana Sposa di Messina (1803), che ambisce a un diretto confronto coi tre tragici attici, dipende essenzialmente dal trattato di Hermann, così come ne risentono la suddivisione del coro in due semicori e la sua risoluzione in voci singole5. In un breve ǭDzǯǯǿǵ dell’Ifigenia in Tauride euripidea, ai vv. 643-56, Hermann effettua una bipartizione in semicori; Schiller, da parte sua, presuppone che Euripide, nella medesima tragedia, abbia fatto uscir di scena il coro dopo il canto di lamento degli stessi vv. 643-56.6 Pochi esempi, ampliabili a piacere: bastino a dimostrare in che misura i poeti del cosiddetto classicismo di Weimar prendessero parte al dibattito filologico contemporaneo e vivamente s’interessassero, in prima persona, a questioni che oggi diremmo tecniche. L’attività ecdotica – possiamo ben affermarlo sulla base dei documenti citati – è operazione di alta cultura che deve sì mirare a preservarci le opere letterarie, non però a isolarle in un museo come ǭǷǡǯǤǷǤ͚ǵǤͶǨǢ. Le edizioni sono sempre – ciò va costantemente tenuto in conto – il prodotto di una determinata epoca, e sorgono sempre da un preciso retroterra storico di cui recano il segno, siano essi saggi teorici o precise concezioni di un’epoca, di un poeta o in generale della funzione della letteratura nella società. Ciò che s’intende per ‘eschileo’ o ‘sofocleo’ soggiace alla costante possibilità di esser altrimenti definito, diversamente valutato e veduto. Ciò non significa, ben inteso, che le concezioni di una precedente generazione siano false; piuttosto, sono i testi di valore a disporre di un potenziale di tale livello – diremmo con Gadamer e Jauß – che in ogni epoca possono dispiegare nuovi sensi agli occhi dei lettori. Ciò che una generazione considera dominante potrà risultare secondario per la successiva. Le edizioni dei classici della letteratura antica sono pure e soprattutto testimoni della Geistesgeschichte dell’epoca in cui sono sorte. Esse non solo mirano a offrire testi più affidabili e illuminano di nuova luce le vie della tradizione manoscritta e a stampa; esse riflettono altresì i princìpi metodici ed ermeneutici di chi volle rieditare un certo testo, risultando, così, preziosi testimoni dell’immagine dell’antichità formatasi in una certa epoca. Se noi dunque rinunciassimo al no3

«Ich glaube auch etwa geleistet zu haben, aber gegen einen der großen attischen Dichter wie Aeschylos und Sophokles bin ich doch gar nichts» (cit. ibid. 253). 4 Cf. Schiller 1982 II 229. 5 Cf. Platnauer 1938, 115. 6 Così nella recensione dell’Iphigenie di Goethe: cf. Schiller 1968 V 654; si veda anche Schwinge 2006, 212-8.

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stro impegno ecdotico, impediremmo alle future generazioni di cogliere il nostro modo di rappresentarci l’antichità, a prescindere dal fatto ch’esso sia o meno condivisibile. L’attività ecdotica – e con ciò intendo concludere – è un dovere culturale della filologia classica. Freiburg im Breisgau

Bernhard Zimmermann (traduzione di Matteo Taufer)

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Grumach 1949 E. Grumach, Goethe und die Antike, I-II, Berlin 1949. Platnauer 1938 M. Platnauer, Euripides. Iphigenie, Oxford 1938. Schiller 1968 F. Schiller, Sämtliche Werke, I-V, München 1968. Schiller 1982 F. Schiller, Briefe, I-II, ausgewählt und erläutert von K.-H. Hahn, Berlin-Weimar 1982. Schwinge 2006 E.-R. Schwinge, Schiller und die griechische Tragödie, in H. Feger (Hg.), Friedrich Schiller. Die Idealität des Idealisten, Heidelberg 2006, 203-47.

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LA PARODO DEI PERSIANI: ∗ FORME ESPRESSIVE E STRUTTURE INTERPRETATIVE Una corretta impostazione dei problemi posti dalla parodo dei Persiani, o almeno quella che io sento di dover proporre come tale, non può che partire da una mera accettazione di una breve serie di dati di fatto ad un livello elementarmente teatrale. Il primo ed essenziale – a mio giudizio, nella sostanza bene espresso poco più di trent’anni fa da Oliver Taplin – è quello costituito da alcuni truismi che non debbono dar luogo a discussione1. Che in questa tragedia sia il coro a prologizein è un primo dato di fatto, qualunque sia il senso che attribuiamo al verbo, ‘agire da prologo’/‘agire il prologo’. Che questo accada secondo la forma tecnica di una parodo, di un canto corale d’ingresso (con enfasi sul sostantivo canto), è il secondo, essendo chiaro che è la realtà a determinare la definizione e non il contrario. Che in questo canto, una prima sezione anapestica non sia in alcun modo separabile (sul piano del contenuto) da quella lirica che la segue e che essa si giustifichi teatralmente con la mera esigenza di far entrare il coro, in quanto tale, fino a raggiungere l’orchestra dove agirà secondo la sua vocazione drammatica (nel senso anche spettacolare), attraverso cioè la danza e il canto, è il terzo. Ripeto una affermazione già pronunciata: io trovo, a riguardo, immortale la frase di Taplin: «the chorus enters because it is the chorus»2. Mettere in questione questa sequenza di dati secondo le diverse visioni – antiche e moderne – della formalizzazione del dramma (a partire cioè da una astratta nozione di prologo o anche di parodo) appare a me totalmente inutile, almeno da un punto di vista esegetico3. Può corrispondere a un interesse – oggi assai sviluppato – di considerazione dell’autonomia delle forme letterarie rispetto alla loro sostanza storica, e quindi umana e reale, ma non illumina per quanto attiene alla comprensione del testo che è il primo compito dell’interprete, il quale non può che considerare questo come factum, oggettivo anche se parzialmente modificabile, in quanto prodotto di una attività umana, suscettibile di motivazioni molteplici. Discorrere quindi della arcaicità di questo modo di prologizein, rispetto a quello diverso, di un prologo recitato o dialogato, risulta in ogni modo vano, se si considera la parvità assoluta (e ancor più quella proporzionale rispetto alla totalità – non documentata – del fenomeno) della materia esaminabile per il ∗

Intendo qui riprendere, sviluppare e – in qualche misura – concludere i pensieri proposti in forma assai sommaria a Sestri Levante nel febbraio del 2010, soprattutto alla luce del progresso che nel frattempo si è verificato nel lavoro in corso. Si tratta ancora, nelle mie intenzioni, di un contributo interno alla sezione dell’opera di edizione, traduzione e commento, che è affidata ai colleghi dell’Università di Salerno coordinati da P. Volpe Cacciatore. Il mio contributo presuppone quindi gli studi pubblicati o presentati per la pubblicazione da G. Pace e ne dipende per quanto attiene allo stabilimento del testo. Agli amici salernitani il lavoro è affettuosamente dedicato.

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Taplin 1977, 61 ss. Ibid. 68. 3 Cf. le posizioni in Garvie 2009, 43 ss. 2

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periodo successivo al 472 e l’assenza di elementi certi e dirimenti per i circa sessant’anni di vita del dramma che precedono composizione e rappresentazione dei Persiani (venticinque dei quali vedono Eschilo attivo). Può forse essere utile per decidere dell’autorità di Temistio e della qualità della sua dipendenza da Aristotele ma non serve a noi a capire meglio i Persiani4. Tragedia senza prologo attoriale, i Persiani si caratterizzano immediatamente per il ruolo drammatico affidato al coro, la cui presenza e la cui funzione costituiscono peraltro l’elemento di maggiore continuità nello svolgimento dell’azione dell’intera tragedia da questo inizio fino all’epodo che conclude, con gli ultimi gemiti e lamenti, il kommòs finale. La coincidenza con il dato fornito dalle Supplici non si estende a questo secondo livello di osservazione: in ciò i Persiani sono un unicum. Il precedente delle Fenicie di Frinico, che lo stesso autore della hypothesis riporta riferendolo come indicato da Glauco di Reggio, e quindi da un autore di età pre-aristotelica – appare valido per l’aspetto della conclamata imitazione della forma della espressione verbale, ma certo sottolinea per noi la diversità eschilea – che pare francamente assurdo voler connotare di arcaicità o di arcaismo quasi che Eschilo possa aver volontariamente deciso di tornare indietro rispetto al suo predecessore: l’autore ha semplicemente scelto una delle possibilità a sua disposizione e l’indagine sulle sue intenzioni appare aporetica come ogni altra della stessa natura. La risonanza sonora tra i versi dei due tragediografi appare, tra l’altro, semanticamente ingannevole: nel passaggio dai trimetri pronunciati dall’eunuco di Frinico, agli anapesti dei vecchi Persiani, il deittico iniziale definisce entità diverse. Assai probabilmente nel primo caso ǷǟǧǨ si riferisce al luogo, alla sede dei Persiani («la dimora» traduce addirittura Belloni5) mentre nel secondo esso indica le persone immediatamente loquenti, gli anziani Fedeli rimasti là donde gli uomini in armi sono partiti, quelli cioè che sono in grado di agire il dramma e lo faranno nella diretta interlocuzione con i protagonisti. Nell’introdurre la questione della struttura del dramma, l’ultimo commentatore mette facilmente da parte la vecchia teoria del Wilamowitz, che leggeva i Persiani come una tragedia in tre parti, sostanzialmente autonome e pesantemente giustapposte senza vera integrazione e richiama le più recenti e meno condizionate posizioni a riguardo6. Nella valutazione puntuale della parodo tuttavia, Garvie pare ancora subalterno della logica classificatoria che fu conclusivamente definita da Aristotele e arriva a domandarsi – in modo francamente paradossale – se la seconda sezione anapestica, quella che segue la seconda parte della sezione lirica, ne faccia o meno parte7. Quasi che la parodo (ma meglio: una parodo) esista nel senso di costituire una entità meritevole di giustificazione in termini di totale autonomia.

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Contra: Garvie 2009, 43. Belloni 1994² 3. 6 Wilamowitz 1914, 42. 7 Garvie 2009, 93. 5

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Una modalità di approccio alla parodo, che si voglia allora rispettosa delle forme in cui questa ci è pervenuta, non può che limitarsi a considerare semplicemente la sequenza delle forme espressive, ciascuna secondo le proprie specificità, rispetto alle esigenze teatrali cui singolarmente corrispondono, prima ancora di entrare nel merito degli elementi di contenuto che il testo nella sua forma metrica contiene e veicola. In assenza del dato essenziale della musica, la metrica guida l’interprete nel primo compito che è quello di stabilire nessi tra forme e contenuti o se si preferisce di dare un significato a tutti i significanti, verbali e non verbali, che l’azione tragica mette in atto. Gli anapesti iniziali sono significativi, a un primo elementare livello, di un movimento del coro che va inteso come di marcia, a parer mio, senza le valenze connotative che questo termine comporta nella nostra lingua ove il sostantivo marcia appare spesso qualificato dall’associazione con l’attributo militare. Per entrare dalle eisodoi nella orchestra i coreuti camminano, cioè non corrono né danzano. Tanto non basta inoltre a caratterizzare l’espressione verbale come necessariamente recitata e non cantata. Indefinibile oggettivamente, il problema – se recitativo o canto – resta affidato alla sensibilità degli interpreti che – in modo comprensibile – si dividono a riguardo. Per mia sensibilità, trovo meno assurdo che il coro entri cantando, o meglio cantilenando, sul ritmo dei dimetri anapestici – per farsi ben sentire e capire – e poi, cominciando a danzare, articoli melodicamente il canto nella parte che diciamo lirica, per quanto lo consentono ovviamente le due diverse forme ritmiche utilizzate. Nel canto lirico, le diverse forme, a partire da quella ionica, che vale nel contesto a rafforzare quella che in prima approssimazione diremo caratterizzazione etnica, contribuiranno a fornire elementi di senso paralleli a quelli della comunicazione verbale: i lecizi varranno, per parte loro, a compiere la funzione che è propria delle sequenze trocaiche, massimamente comunicative. Nella sezione anapestica l’esigenza espressiva incipitaria appare, sul dato essenziale, teatralmente ovvia e quasi banale. Che poi sia il solo corifeo oppure tutti i coreuti (come a me pare certo) a far sentire la propria voce, il fine della comunicazione appare comunque immediatamente informativo sotto la specie della denominazione. Il pubblico deve innanzi tutto apprendere che i vecchi componenti del coro – che la maschera, significante scenografico essenziale, può già forse aiutare a identificare come tali – sono i Pistá, i Fedeli del gran Re, cui è affidata la custodia del palazzo di Susa in assenza del sovrano. La funzione drammatica del coro, nel senso più ristretto ed iniziale del termine, sarà in seguito asseverata dai quattordici anapesti che concludono la parodo con la definizione dello spazio scenico (lo ǶǷǠǦDzǵ͊ǴǺǤЃDzǰdi v. 141) l’autoconvocazione in consiglio da parte degli anziani, la duplice domanda riassuntiva dei dubbi angosciosi nella dimensione personale, connessa alla sorte del re, e in quella collettiva, sul prevalere della forma asiatica o di quella greca del contendere e – infine – con l’annuncio (teatrale) dell’arrivo della Regina. Il finale passaggio al principale ritmo trocaico indicherà quindi l’ulteriore svolta drammatica rappresentata dalla interlocuzione con la Regina. 17

La coincidenza tra i due momenti espressivi uniti dal metro si limita al rapporto tra gli anapesti e lo spostamento spaziale a ritmo di marcia o comunque senza altra particolare accentuazione. I dati di contenuto dei due distinti messaggi sono non solo distinti ma rispondenti a due funzioni drammatiche profondamente diverse: i primi anapesti definiscono l’identità del coro e lanciano il suo messaggio, i secondi (140-54) verbalizzano la lenta azione drammatica ed esprimono in forma di esplicita domanda le questioni che saranno al centro del successivo dialogo con la Regina. Prima di lasciare questa prima questione si potrebbe approfondire l’analisi dei tre movimenti del Coro: l’ingresso, la danza e lo spostamento verso la Regina. In termini di comprensione, il problema si può, a questo punto, ulteriormente limitare alla sezione centrale, quella danzata: i due spostamenti non hanno bisogno di altra spiegazione dopo quella funzionale. Il coro deve entrare nell’orchestra se vuole svolgere la sua funzione e, se vuole interloquire con la Regina, deve raggiungerla nel proscenio. Incorniciata in modo, asimmetrico ma funzionale, dagli anapesti, la sezione lirica costituisce naturalmente il corpo del canto corale la cui irregolarità ha turbato e continua a turbare gli interpreti. Lo sforzo di tutti consiste nel tentativo di stabilire precise corrispondenze tra le forme tutte della espressione e quelle del contenuto (metriche, linguistiche e reali). Domina in questo campo un bisogno, più o meno consapevole, di simmetria che estende, io credo, al di fuori dei canoni la dominante cogenza della responsione strofica. Come questione preliminare ad ogni intervento esegetico va considerata quella della posposizione della cosiddetta mesodo (o epodo posta in mezzo, come dice Triclinio) che costituisce il dono avvelenato di K.O. Müller alla comprensione dei Persiani8. Se ce la vogliamo cavare con una affermazione metodologica possiamo limitarci a ripetere che resistere alla tentazione dell’intervento migliorativo – quando non indispensabile all’intelligenza del testo – pare essere virtù necessaria al filologo9. Il punto debole della posposizione – tale da escluderne la praticabilità – sta nella debolezza (per non dire: vanità) di ogni tentativo di spiegazione del fenomeno reale che potrebbe averla determinata nel corso della tradizione manoscritta. Illuminante a riguardo è il salto dell’occhio del copista con due diversi successivi eventi negativi (annotazione a margine e poi inserimento fuori luogo) che il recentissimo Garvie appare costretto a immaginare a chiusa della sua discussione a riguardo10. Le 8

Müller 1837, 369 n. 11. Il rispetto di una ragione metodologica generale pare a me soprattutto necessario in questo specifico caso: discutere un testo che appaia generato da una interpretazione non aprirebbe alcuna prospettiva interessante alla riflessione critica: l’alternativa si ridurrebbe alla considerazione critica della ipotesi, se cioè accettare o respingere l’interpretazione e con questa il testo. Trovo significativa e per certi versi conclusiva a riguardo la discussione che proprio su questa scelta testuale si svolse a Cagliari nel maggio del 1998 e che fu pubblicata in Lexis 17/1999. Ovvio ricordare come in quel caso base di partenza del discutere fu l’opposta scelta operata da Garvie, poi confermata nella sua edizione: la posizione con cui soprattutto concordo è quella espressa in quella circostanza da Pierre Judet de La Combe (pp. 36-8). 10 Garvie 2009, 49. 9

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argomentazioni relative al senso e al suo miglioramento non hanno alcun valore o almeno ne hanno uno inferiore a quelle, ad esempio di Di Benedetto11, che trovano una logica nel testo tradito, pur con minimi aggiustamenti. Di questo vale prioritariamente la pena di occuparsi. Assunto empiricamente il testo tradito come iniziale oggetto di una analisi dei messaggi verbali possiamo proporci di finalizzare quest’ultima alla verifica della generale tendenza degli interpreti a considerare la parodo come determinante il carattere generale della tragedia dei Persiani – in questa direzione resta importante il contributo di Guido Paduano che data ad oltre trent’anni fa – ma soprattutto possiamo contribuire a precisare questo carattere12. Non ripeto qui integralmente il tentativo già svolto di semplificazione del ragionamento in termini di strutture interpretative. Ricordo la possibilità di lemmatizzare l’analisi secondo un criterio di interesse, soggettivo come qualunque altro. Si può, in quel caso, partire dai lemmi relativi a uomini, aggregazioni umane e luoghi che sono gli ovvi elementi determinativi di qualunque caratterizzazione umana, a partire da quella etnica. Abbiamo quattro insiemi che intersecano caratterizzazione umana, plurale o singolare, e radicamento territoriale. I Persiani compaiono tre volte nello stesso caso e numero plurale (1, 15, 23) e una specificazione spaziale (59 ͎ǰǫDzǵǔǨǴǶǢǧDzǵǤͺǤǵ). Abbiamo solo altri due etnici plurali connotati (41 ͋ǥǴDzǧǬǤǢǷǼǰ ǏǸǧЛǰ; 52 ͊ǭDzǰǷǬǶǷǤα ǐǸǶDzǢ) ben bilanciati da 9 indicazioni locative la cui funzione è quella ovvia di indicare la vastità dell’impero persiano e la distinta qualificazione dei luoghi che esso occupa (tralascio qui l’elenco a tutti noto). Sottolineo come minima appaia la caratterizzazione iniziale dell’insieme antagonistico indicato due volte come meta e come oggetto della invasione (2 ͡ǮǮǟǧϰ͚ǵǤͼǤǰ; 50 ǩǸǦβǰ͊ǯǹǬǥǤǮǨЃǰǧDzȀǮǬDzǰ͡ǮǮǟǧǬ). La massima estensione appare nell’insieme bipartito della umanità singolarmente intesa. Questa contrappone il sovrano, definito con abbondanza (5-6; 8; 24; 58), al catalogo dei capi militari che costituisce, con il suono stesso dei suoi 17 nomi, non tanto una ripresa quanto una esplicita trasformazione di una delle forme peculiari della poesia epica. Di un certo interesse appare anche l’insieme di undici attestazioni che potremmo indicare come relativo a gruppi, numeri e categorie. Per questa parte si può concludere provvisoriamente per punti: a. forte indicazione sui Persiani in quanto tali b. molteplicità e varietà etnica c. varietà, ampiezza, ricchezza, sacralità di luoghi d. totalità della sola Asia e. distinzione qualitativa tra sovranità e regalità f. varietà onomastica orientaleggiante con epiteti caratterizzanti g. varietà militari e istituzionali. 11 12

Di Benedetto 1978, 9. Paduano 1978, 31-49.

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L’ultimo lemma indicato è quello che contiene indicazioni in cui l’elemento umano si articola in una dimensione che possiamo dire culturale. I modi della aggregazione umana, civili-istituzionali e bellici-militari, sono uno dei possibili elementi descrittivi caratterizzanti da un punto di vista etno-antropologico. Sempre restando nella stessa analisi, limitata ai messaggi verbali della sezione anapestica, potremmo riaggregare i nostri dati entro diversi lemmi ordinatori finalizzati ad approfondire quei tratti collettivi che abbiamo detto culturali. Avremmo allora: a. ricchezza b. armi c. fertilità, nutrimento d. esercizio del potere (sovrano e subalterno). La parte lirica arricchisce questo quadro e lo modifica in qualche elemento, in particolare riguardo alla figura del sovrano la cui identità è essenziale nello svolgimento del dramma nel passaggio dalla fortuna alla sventura. Per questa parte l’analisi formale vacilla per scarsezza di dati: il passaggio dagli anapesti ai metri ionici comporta una modificazione sensibile del linguaggio. Non c’è più accumulazione come nel lungo catalogo ma selezione. Si può tentare con assai limitato successo una lettura che faccia coincidere ogni singola unità metrica con una unità tematica. Se invece procediamo ad una analisi analoga a quella realizzata per la sezione anapestica troviamo sostanziali conferme ma restano vuoti i due insiemi della pluralità etnica e della pluralità onomastica: il canto di angoscia si restringe ai due destinatari, il singolo, Serse, per la sventura, e, per la morte, il collettivo dei Persiani. Si deve ora tentare il passaggio dalla morfologia alla sintassi interpretativa. In quale modo le diverse immagini espressive si succedono e soprattutto secondo quale ordine si organizzano nel testo? Che ruolo svolge il livello di organizzazione formale che è rappresentato per noi dalla struttura metrica? Si può certo affermare che l’intera sequenza anapestica serva essenzialmente per descrivere, secondo distinte modalità e con ricorso ad un’arte che va definita, nel senso più stretto, letteraria, varietà e vastità della potenza espressa dall’esercito persiano, comunità di popolo e di popoli, guidata da un sovrano e comandata, per quanto attiene all’azione bellica, da capi prestigiosi. Ma certo i versi conclusivi della stessa sezione anapestica ruotano intorno ad un sostantivo,dzǿǫDzǵ e a due verbi, ǶǷǠǰǨǷǤǬe ǷǴDzǯǠRǰǷǤǬ che non lasciano dubbi all’interprete: il rimpianto per chi se n’è andato suscita acuta espressione di dolore e timore in una attesa paurosa: è bella la traduzione di Belloni del verso 64, che descrive i sentimenti di genitori e spose: «paventano un tempo che si allunga»13.

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Belloni 19942 7.

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A una lettura ravvicinata, le immagini della sezione lirica si mostrano come maggiormente articolate. La segmentazione ritmica non pare tuttavia fornire un vero aiuto al processo di comprensione e neanche il livello semantico della responsione strofica che si definisce con una certa difficoltà. Forse, e non paradossalmente, il solo contenuto che appare sottolineato a livello della strutturazione poetica è quello isolato dalla forma autonoma dell’epodo. Proprio il carattere sentenzioso del messaggio è messo in rilievo dai versi liberati dal vincolo responsoriale. L’inganno del dio, la presenza minacciosa di Ate entrano nel dramma per quella via che spezza – se pure in forma interrogativa e quindi ambigua – il quadro generale definito dalla luce della forza e della potenza e dal buio del rimpianto e del dolore. Una lettura per accumulazione di temi, o come meglio potrebbe dirsi, per sequenza di immagini poetiche appare soltanto preliminare ad una valutazione dell’insieme: in questa consiste l’interpretazione. Seguo allora volentieri il senso che l’editrice ritiene dover ricavare dal testo che ha costituito e che così riassume, nell’interlocuzione a me indirizzata: «Credo – scrive Giovanna Pace – che la successione del pensiero possa essere questa: dopo aver descritto lo spiegamento dell’esercito persiano per terra e per mare e avere affermato che nessun uomo sarebbe in grado di sconfiggerlo, il coro nell’epodo (che, con la sua insolita posizione, introduce il dubbio all’interno della celebrazione) esprime il timore che la divinità, attraverso l’inganno, potrebbe invece (ǧǠ) causarne la rovina. Nella terza coppia strofica il coro indica il motivo del suo timore, collocando la spedizione di Serse in una più ampia prospettiva: poiché proprio gli dei (ǫǨǿǫǨǰǦǟǴ) hanno voluto finora il successo dei Persiani sia per terra che per mare (il ǧǠ del v. 109 ha probabilmente valore connettivo – come sostiene Garvie –, non avversativo), tale successo (giunto con Serse al culmine) potrebbe essere nient’altro che un’͊dzǟǷǪǫǨDzАe mutarsi nel suo contrario: per questo (ǷǤАǷǤ, v. 114) il coro è preoccupato»14. Si può essere naturalmente d’accordo e insieme osservare come queste considerazioni confermino una sorta di ritorno alla visione esistenziale della propositio thematis del dramma e all’abbandono delle linee interpretative che hanno nel tempo privilegiato la visione politico-ideologica o più immediatamente quella del conflitto etnico. Definita e compresa la parodo resta da comprendere il dramma. Pisa

Riccardo Di Donato

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Belloni 19942 L. Belloni, Eschilo. I Persiani, a c. di L. Belloni, Milano 1994².

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Comunicazione relativa al commento in corso d’opera: 19.07.2011.

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Di Benedetto 1978 V. Di Benedetto, L’ideologia del potere e la tragedia greca: Ricerche su Eschilo, Torino 1978. Garvie 2009 A.F. Garvie, Aeschylus. Persae, with Introduction and Commentary, Oxford 2009. Müller 1837 K.O. Müller, Scholien zu den in diesem Museum Jahrg. IV H. III S. 393 ff. von Herrn Dr. Dübner herausgegebnen Versen des Tzetzes über die verschiedenen Dichtungsgattungen, RhM 5 (1837) 333-80. Pace 2010 a G. Pace, Aesch. ‘Pers.’ 97-99, Lexis 28 (2010) 3-19. Pace 2010 b G. Pace, La colometria della sezione lirica della parodo dei ‘Persiani’ (vv. 65-139), BICS 31 (2010) 35-51. Paduano 1978 G. Paduano, Sui ‘Persiani’ di Eschilo. Problemi di focalizzazione drammatica, Roma 1978. Taplin 1977 O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus. The dramatic Use of Exits and Entrances in Greek Tragedy, Oxford 1977. Wilamowitz 1914 U. von Wilamowitz-Moellendorff, Aischylos: Interpretationen, Berlin 1914.

ABSTRACT This exegetical note aims at accompanying the critical text, edited with a preliminary commentary by University’s of Salerno équipe, directed by Paola Volpe Cacciatore. The study focuses the possibility of establishing connexions between forms of the expression (namely metrical and linguistic) and exegetical structures. The Parodos of Persae shows, in its lyrical section, the meaningful strength of Aeschylus’ metrical choices. Both the themes emerging, the characters of oriental ethnicity and the mourning for the leaved army, found their own clear expression. That confirms the general value of the initial song of the Chorus for the interpretation of the full drama. KEYWORDS: Aeschylus - Persae - Parodos

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NOTA AD AESCH. PERS. 481 Atossa, appena informata dal messaggero sulla disperata reazione del figlio Serse dinanzi alla disfatta di Salamina e al massacro della migliore gioventù persiana nell’isolotto di Psittalea1, domanda al nunzio notizie precise sulla sorte delle navi scampate al disastro (Pers. 478-81): ^%Ǥ`Ƕγ ǧХ ǨͶdzǠ ǰǤЛǰ Ǥ͹ dzǨǹǨȀǦǤǶǬǰ ǯǿǴDzǰ dzDzА ǷǟǶǧХ ͞ǮǨǬdzǨǵ DzͼǶǫǤ ǶǪǯϸǰǤǬ ǷDzǴЛǵ ^DžǦ`ǰǤЛǰ ǧί ǷǤǦDzα ǷЛǰ ǮǨǮǨǬǯǯǠǰǼǰ ǶȀǧǪǰ   ǭǤǷХ DzΘǴDzǰ DzΒǭ ǨΖǭDzǶǯDzǰ ǤͺǴDzǰǷǤǬ ǹǸǦǡǰx

Al v. 481 la quasi totalità dei manoscritti3 offre ǤͷǴDzАǰǷǤǬ (solo M presenta uno spirito dolce sul dittongo ǤǬ, ma ciò non può essere considerato elemento ascrivibile alla tradizione): la lezione dei manoscritti viene stampata concordemente da tutti gli editori eschilei fino agli inizi del XIX secolo ed il sintagma ǤͷǴDzАǰǷǤǬ ǹǸǦǡǰ è interpretato nelle prime traduzioni latine come «eligunt fugam» o «fu1 Vv. 465-70: ǒǠǴDZǪǵǧХ͊ǰКǯǼDZǨǰǭǤǭЛǰ·ǴЛǰǥǟǫDzǵƽ[…]ЏǡDZǤǵǧίdzǠdzǮDzǸǵǭ͊ǰǤǭǼǭȀǶǤǵ ǮǬǦȀ dzǨǩМ dzǤǴǤǦǦǨǢǮǤǵ ͎ǹǤǴ ǶǷǴǤǷǨȀǯǤǷǬ / ͻǪǶХ ͊ǭǿǶǯЙ DZγǰ ǹǸǦϹ (‘Serse, scorgendo un baratro dei mali, scoppiò in singhiozzi […].Lacerata la veste e prorompendo in un acuto grido di dolore, dato immediatamente un ordine all’esercito di terra, si abbandona a una fuga disordinata’). 2 Riproduco il testo di West 1998: al v. 480 l’editore teubneriano stampa ǧǠ della maggioranza dei manoscritti e non ǦǨ di F G, giustificando la sua scelta sulla base di Denniston 1954, 171, che spiega «in dialogue, when one question has been answered, and a second question asked (introduced by ǧǠ or some other connecting particle), the second answer is sometimes introduced by ǧǠ» e, sul passo dei Persiani, aggiunge «ǧǠ marks the continuation of the Messenger’s speech». A Denniston rinvia recentemente anche Garvie 2009, 219, che evidenzia però come tra gli esempi di un simile uso di ǧǠregistrati da quest’ultimo (Il. 3.229, Aristoph. Nub. 192, Pl. Cra. 398 C e 409 A) non vi sia alcun luogo tragico. A tal proposito si potrebbe segnalare come possibile parallelo in tragedia Eur. Hipp. 341: ^ǙǤ`ΤǷǮϸǯDzǰDzͽDzǰǯϸǷǨǴͦǴǟǶǫǪǵ͞ǴDzǰ ^ǗǴ`Ήǰ͞ǶǺǨǗǤȀǴDzǸǷǠǭǰDzǰͨǷǢǹϵǵǷǿǧǨ ^ǙǤ`ǶȀǷХΤǷǟǮǤǬǰХ΋ǯǤǬǯǨLjǬDzǰȀǶDzǸǧǟǯǤǴ ^ǗǴ`ǷǠǭǰDzǰǷǢdzǟǶǺǨǬǵǶǸǦǦǿǰDzǸǵǭǤǭDzǴǴDzǫǨЃǵ(340) ^ǙǤ`ǷǴǢǷǪǧХ͚ǦδǧȀǶǷǪǰDzǵΟǵ͊dzǿǮǮǸǯǤǬ Al v. 341 il Ǡ sembrerebbe segnalare la continuità esistente tra i tre interventi di Fedra (337, 339 e 341): ella pone se stessa come terza dopo la madre Pasife e la sorella Arianna a chiusura di un catalogo di donne rovinate da Eros. Come Aesch. Pers. 480, anche Eur. Hipp. 341 è preceduto da una doppia domanda, sebbene la seconda interrogativa non presenti nessuna particella introduttiva richiesta da Denniston. Diversamente dal passo dei Persiani, dove il messaggero risponde alla richiesta di Atossa, nella sticomitia dell’Ippolito (almeno per la prima risposta al v. 339) la regina sembra davvero ignorare le domande della nutrice e dunque proseguire il proprio discorso senza curarsi delle interruzioni della serva. 3 Dalla collazione di Dawe 1964, 318, si apprende che H presenta ǤͷǴDzАǰǷǤǬcon -ǷDzsovrascritto in fine di parola, V͋ǴDzǸǰǷǤǬNacǤͷǴDzАǰǷǬ.

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gam instituunt»4. È Blomfield5 il primo a stampare ǤͺǴDzǰǷǤǬal posto del tràdito ǤͷǴDzАǰǷǤǬ, accogliendo la proposta avanzata alcuni anni prima da Elmsley in nota al v. 505 degli Eraclidi di Euripide (= v. 504 Diggle: [...] ǨͶdzǿǮǬǵǯίǰ͊DZǬDzЃ / ǭǢǰǧǸǰDzǰͧǯЛǰDzΗǰǨǭХǤͺǴǨǶǫǤǬǯǠǦǤǰ), dove lo studioso congettura ǤͺǴǨǶǫǤǬ per il tràdito ǤͷǴǨЃǶǫǤǬ: «Quoties permutentur ǤͺǴǨǶǫǤǬ et ǤͷǴǨЃǶǫǤǬ, vix quisquam harum literarum ita expers est ut nesciat. Quo magis miror apud Aesch. Pers. 481 in omnibus edd. reperiri ǤͷǴDzАǰ ǷǤǬǹǸǦǡǰ, cum veram scripturam ǤͺǴDzǰǷǤǬ e Rhes. 54. 126 reponere potuerint editores [...]».6

Lo studioso basa dunque il suo intervento sul confronto con due passi del Reso, il cui testo riporto di seguito secondo l’edizione Diggle 1994: [Eur.] Rh. 53-5  ͏ǰǧǴǨǵǦήǴ͚ǭǦϸǵǷϸǶǧǨǰǸǭǷǠǴЙdzǮǟǷ϶ ǮǤǫǿǰǷǨǵΊǯǯǤǷDzΒǯβǰ͊ǴǨЃǶǫǤǬǹǸǦΰǰ ǯǠǮǮDzǸǶǬx[...] ͊ǴǨЃǶǫǤǬ:HFNOHLQǤǬǴǨǬǶǫǤǬǔǤͺǴǨǶǫǤǬǜǤͻǴǨǶǫǤǬǓǹǸǦǡǰ6WHSKDQXVǹǸǦϸ Ǭ  2/4ǹ ǸǦϸ9 UDV ǹǸǦǪ[ǔ

[Eur.] Rh. 126-7  >@ǭ͌ǰǯίǰǤͺǴǼǰǷǤǬǹǸǦǡǰ ǶǷǨǢǺDzǰǷǨǵ͚ǯdzǠǶǼǯǨǰ͒ǴǦǨǢǼǰǶǷǴǤǷМx  ͎ǴǼǰǷǤǬ:HFNOHLQǹǸǦǡǰ6WHSKDQXVϸ Ǭ ǜ

 La sostituzione di ǤͷǴDzАǰǷǤǬ con ǤͺǴDzǰǷǤǬ, suggerita come detto da Elmsley e accolta nella prima edizione di Blomfield, viene stampata da quasi tutti i successivi editori eschilei7; e nelle rare e brevi note di commento dedicate alla questione gli studiosi si limitano per lo più a richiamare alcuni dei loci similes già se-

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Così traducono rispettivamente Sanravius 1555, 106 e Stanley 1663, 259. Blomfield 1814, 43. 6 Elmsley 1813, 87 (Annotationes). Nella stessa nota Elmsley suggerisce ancora di sostituire Ǥͷ ǴDzАǰǷǤǬ con ǤͺǴDzǰǷǤǬ in Eur. fr. 50 K. (ǧDzȀǮǼǰ ΋ǶDzǬ ǹǬǮDzАǶǬ ǧǨǶdzDzǷЛǰ ǦǠǰDzǵ / dzǴβǵ ǷЛǰ ·ǯDzǢǼǰ dzǿǮǨǯDzǰ ǤͺǴDzǰǷǤǬ ǯǠǦǤǰ; intervento accolto sia da Nauck 1889, 376, sia da Kannicht 1994, 187) sulla base di Aesch. Suppl. 342 (ǥǤǴǠǤǶȀǦХǨͼdzǤǵdzǿǮǨǯDzǰ͎ǴǤǶǫǤǬǰǠDzǰ) e 439 (ͨǷDzЃǶǬǰͨǷDzЃǵdzǿǮǨǯDzǰǤͺǴǨǶǫǤǬǯǠǦǤǰ dzϪǶХ͞ǶǷХ͊ǰǟǦǭǪ), luoghi menzionati anche nei commenti a Aesch. Pers. 481 (cf. infra la nota di Garvie 2009 ad l.). 7 Tra le eccezioni segnalo Butler 1816, 22; Lange-Pinzger 1825, 45; Bothe 1831, 309; Schneider 1837, 132; Haupt 1830, 22 (ma in nota «f. ǤͺǴDzǰǷǤǬ»). 5

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gnalati da Elmsley8, in particolare i due passi del Reso pseudo-euripideo. Più estesa è la recente osservazione ad l. di Garvie, che così scrive: «Elmsley’s ǤͺǴDzǰ ǷǤǬ (‘undertake’) is preferable to ǤͷǴDzАǰǷǤǬ, ‘choose’».  has preserved the correct breathing. Cf. [E.] Rhes. 54 ͊ǴǨЃǶǫǤǬ(ǤͺǴǨǶǫǤǬ codd., ǤǬǴǨǬǶǫǤǬ pap.) ǹǸ Ǧǡǰ, and such expressions as ͊ǴDzАǯǨǰǶǷǿǮDzǰ 795, Supp. 342, 439»9. L’editore, a differenza dei suoi predecessori, segnala come un papiro – per l’esattezza l’Achmîn 4, siglato P. Paris. Suppl. gr. 1099, 2 (Pack2 427), olim Codex Panopolitanus – presenti a Rh. 54 (unico dei due passi del dramma pseudoeuripideo citato da Garvie) ǤǬǴǨǬǶǫǤǬ, riproponendo anche in questo caso l’incertezza tra i verbi ǤͺǴDzǯǤǬ e ǤͷǴǠRǯǤǬ. Sebbene la confusione ǤͺǴǨǶǫǤǬ / ǤͷǴǨЃǶǫǤǬsia certamente plausibile, il tentativo, avviato da Elmsley, di ‘uniformare’ il verso dei Persiani ai due esempi del Reso meriterebbe una maggiore riflessione. In particolare, è da notare come in entrambi i passi citati del dramma pseudo-euripideo (vv. 54 e 126) l’accusativo ǹǸǦǡǰ sia congettura dell’umanista H. Estienne: tale dato, evidenziato negli apparati critici delle moderne edizioni del Reso, appare sistematicamente omesso nei commenti dedicati ad Aesch. Pers. 481. Nelle sue Annotationes Estienne scrive così a proposito dei due versi del Reso10: ad Rh. 56: «Pro ǹǸǦǨЃǰ11 reponendum est ǹǸǦǡǰ (assentientibus etiam vet. cod.) non autem Ϲ, ut quidam putarunt, decepti his verbis quae leguntur pag. 5 ǭ͌ǰǯίǰǤͺ ǴǼǰǷǤǬǹǸǦϹ [...]». ad Rh. 126: «Dicunt Graeci ǤͺǴǨǶǫǤǬǹǸǦǡǰ non ǹǸǦϹ: qua dixit forma Sophocles in Aiace, dzDzǧDzЃǰǭǮDzdzήǰ͊ǴǠǶǫǤǬ. ideoque ut pag. II vetus codex habet ǤͺǴǨǶǫǤǬǹǸ Ǧǡǰ, ita hic quoque ǤͺǴǼǰǷǤǬǹǸǦǡǰ repono».

Appaiono opportune almeno due osservazioni sulle note dell’umanista francese: 1) Il parallelo con Soph. Ai. 247, richiamato da Estienne a sostegno delle sue congetture al Reso e ripreso tra l’altro da alcuni editori eschilei a proposito di Pers. 48112, non può considerarsi valido, dato che nell’Aiace ͊ǴǠǶǫǤǬ è infinito aoristo di ͎ǴǰǸǯǤǬ

8 Cf. e.g. Wellauer 1824, 335; Rose 1957, 126-7; Groeneboom 1960, 110; Roussel 1960, 196. Cf. inoltre Ritchie 1964, 199. 9 Garvie 2009, 219-20. 10 Stephanus 1568, 115-66. 11 Estienne adopera come testo di riferimento per le sue Annotationes quello dell’Aldina del 1503, dove si legge: ͏ǰǧǴǨǵ ǦήǴ ͚ǭ Ǧϸǵ ǷϸǶǧǨ ǰǸǭǷǠǴЙ dzǮǟǷ϶ ǮǤǫǿǰǷǨǵ ΊǯǯǤ ǷDzΒǯβǰ ͊ǴǨЃ ǶǫǤǬǹǸǦǨЃǰǯǠǮǮDzǸǶǬ Si noti che ǹǸǦǨЃǰè variante attestata da alcuni codici del XIII/XIV sec. in Aesch. Pers. 481, tra i quali Y Asscr. W D L Lb P.. 12 Blomfield 1814, 43; Groeneboom 1960, 110, Roussel 1960, 196. Tra gli editori sofoclei l’errato parallelismo è riproposto ad esempio da Jebb 1902, 49: non così Kamerbeek 1953, 68 («in spite of Aesch. Pers. 481, ǤͺǴǼǰǷǤǬ ǹǸǦǡǰ, and Eur. Rh. 54, 126, the form is from ͎ǴǰǸǯǤǬ

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2) Non possedendo alcuna certezza sulla reale esistenza degli anonimi veteres codices menzionati da Estienne13, dagli apparati critici moderni (in particolare da quelli di Zanetto e del già citato Diggle14) si apprende che la lezione tràdita dalla maggioranza dei codici è ǹǸǦϸ, da intendersi come dativo senza iota ascritto. Recentemente G. Pace15 ha difeso il sintagma ǤͺǴǼǰǷǤǬǹǸǦϹ, dando al verbo il significato di partire/salpare e considerando quindi ǹǸǦϹ dativo avverbiale (‘in fuga’). A sostegno della sua ipotesi la studiosa segnala: a) il ricorrere nel solo Reso di altri due esempi di ǹǸǦϹ con valore avverbiale (v. 98: ͊ǮǮХ ͚ǭǭǠǤǰǷǨǵ dzȀǴǶХ ͚dzХ ǨΒǶǠǮǯǼǰ ǰǨЛǰ / ǹǸǦϹ dzǴβǵ DzͺǭDzǸǵ ǷϸǶǧХ ͊ǹDzǴǯǡǶǨǬǰ ǺǫDzǰǿǵ; e v. 798: Dz͹ ǧХ ΊǺǪǯǤ dzǼǮǬǭβǰ / ǮǤǥǿǰǷǨǵ ͻdzdzǼǰ ͻǨǶǤǰ ǹǸǦϹdzǿǧǤ). A tal proposito si noti che nei Persiani, oltre a ǹǸǦǡǰ di v. 481, le altre tre attestazioni del sostantivo ǹǸǦǡ sono tutte al dativo: 1. Pers. 392 DzΒǦήǴ ΟǵǹǸǦϹ/dzǤǬϪǰХ͚ǹȀǯǰDzǸǰǶǨǯǰβǰͥǮǮǪǰǨǵǷǿǷǨ[...];2. Pers. 422 ǹǸǦϹǧХ ͊ǭǿǶǯǼǵdzϪǶǤǰǤАǵͦǴǠǶǶǨǷDz[…]; 3. Pers. 470 [...]ͻǪǶХ͊ǭǿǶǯЙDZγǰǹǸǦϹ In due casi (testi 1 e 2) si tratta di dativo avverbiale, ed in entrambi l’avverbio è riferito al movimento di navi; nel restante (testo 3) si ha invece un dativo modale-strumentale (DZȀǰ + dat.), riferito alla fuga disordinata di Serse (͊ǭǿǶǯЙ DZγǰ ǹǸǦϹ); b) il parallelo offerto da Eur. Med. 938 (ͧǯǨЃǵǯίǰ͚ǭǦϸǵǷϸǶǧХ͊dzǤǢǴDzǯǨǰ ǹǸǦϹ), dove il composto ͊dzǤǢǴǼ,in diatesi attiva, è accompagnato dall’avverbiale ǹǸǦϹ. I due più stretti paralleli indicati da Elmsley a sostegno della correzione in Aesch. Pers. 481 di ǤͷǴDzАǰǷǤǬ con ǤͺǴDzǰǷǤǬ sono dunque frutto di fortunati emendamenti umanistici: nei tragici non vi è alcuna occorrenza certa del costrutto ǤͺǴDzǯǤǬ più accusativo ǹǸǦǡǰ, un elemento che, pur non inficiando la validità [...]»); Garvie 1998, 150 («from ͎ǴǰǸǯǤǬ [...] and contrast Aesch. Pers. 481, [Eur.] Rhes. 54 [...] from ǤͺǴDzǯǤǬ»). 13 Le note di Estienne ad Euripide sono presentate come Henrici Stephani annotationes in posteriores Euripidis tragoedias (id est, eas quae a librariis e typographis posteriore loco sunt collocatae) quibus in annotationibus de multorum locorum emendationibus agitur, quorum aliquae ex coniectura, longe plures ex duobus vetustissimis exemplaribus petitae sunt. Nell’introduzione [pp. 98-9] alle Annotationes euripidee l’umanista fa riferimento ad un suo viaggio presso alcune biblioteche italiane «non solum publicas, sed etiam ex privatis eas quae locupletiores putabantur», dove lo studioso potrebbe essersi imbattuto in quei vetusti exemplares grazie ai quali avrebbe potuto correggere alcuni luoghi euripidei altrimenti «insanabiles». Ma di questi exemplares lo studioso non fornisce alcuna informazione. A tal proposito così scrive Dindorf 1840 xxx: «Eodem fere tempore (a. 1568.) H. Stephani prodierunt annotationes in Sophoclem et Euripidem, cum variis lectionibus ad Rhesum et reliquas postremas fabulas e duobus codicibus Italicis enotatis, quas Stephanus cum suis ipsius aliorumve conjecturis ita commiscuit, ut MSS. suis plurima tribueret, quae nullo unquam in codice exstitisse sit certissimum. Ex quo sequitur ea tantum quae aliorum librorum auctoritate postmodum sint stabilita, codicibus Stephani tuto tribui posse, reliqua autem conjecturae esse imputanda, donec probetur contrarium». 14 Zanetto 1993, 11 e 15, registra al v. 54 ǹǸǦǡǰSteph. ǹǸǦϸ(vel ǹǸǦϹ) VOLPQ ǹǸǦǪ[ 1 e al v. 126 ǹǸǦǡǰSteph. ǹǸǦϸ(-ϹQ) codd.; per l'apparato di Diggle 1994 cf. supra. 15 Pace 2002, 453-5.

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della correzione di Elmsley, potrebbe consigliare maggiore prudenza nel condannare il tràdito ǤͷǴDzАǰǷǤǬ. A quanto finora detto si potrebbe aggiungere un’ultima considerazione di carattere più propriamente esegetico, evidenziando una differenza a mio avviso significativa che intercorre tra il passo dei Persiani e i proposti paralleli del Reso e che potrebbe giustificare il mantenimento del tràdito ǤͷǴDzАǰǷǤǬ. Nei passi del Reso soggetto di ǤͺǴǨǶǫǤǬ/ ǤͺǴǼǰǷǤǬǹǸǦǡǰ sono i guerrieri greci, indicati genericamente come ͎ǰǧǴǨǵ dei quali i Troiani (in particolare Ettore) sospettano una possibile fuga notturna; nei Persiani, invece, soggetto di ǤͷǴDzАǰǷǤǬ / ǤͺǴDzǰ ǷǤǬ sono ǰǤЛǰ [...] ǷǤǦDzǢ, ossia comandanti di vascello. Se nel dramma pseudoeuripideo sono uomini anonimi, guerrieri senza distinzione di grado o di ruolo, a poter darsi alla fuga, nei Persiani i ǷǤǦDzǢ sono investiti di una responsabilità collettiva: essi possono certamente fuggire (prendere la fuga) con le navi ma possono altresì ‘scegliere una fuga’ (ǤͷǴDzАǰǷǤǬǹǸǦǡǰ) disordinata, optare per essa, preferendola ad altre alternative (quali restare a combattere, morire, fuggire con ordine) non esplicitate nel testo eschileo16. In conclusione, la congettura di Elmsley, nata dal confronto con due loci paralleli, il cui testo, come visto, è stato emendato in età umanistica, ha grandi possibilità di successo in quanto 1) è facilmente spiegabile la genesi dell’errore con la frequente e documentata confusione tra le forme simili; 2) il sintagma, non attestato, come detto, con sicurezza nei tragici, può trovare sostegno in espressioni eschilee quali ǤͺǴǨǶǫǤǬ dzǿǮǨǯDzǰ. Tuttavia la stessa lezione dei codici offre un senso accettabile, e potrebbe alludere alla responsabilità dei comandanti persiani nel decidere, dinanzi alla sconfitta oramai imminente, una fuga disordinata e poco onorevole delle navi superstiti. Di ciò si mostra consapevole già Wellauer, il quale, pur accogliendo l’emendamento di Elmsley, aggiunge nel commento ad l.: «Non nego quidem ǤͷǴDzАǰǷǤǬǹǸǦǡǰ quoque dici posse, sed hoc non erit fugam capere sed fugam eligere»17. Salerno

Stefano Amendola

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Blomfield 1814 Aeschyli Persae, ad fidem manuscriptorum emendavit, notas at glossarium adjecit C.J. Blomfield, Cantabrigiae 1814.

Sul significato del verbo ǤͷǴǨЃǶǫǤǬcf. Fraenkel 1950, 178 ad Aesch. Ag. 350. Così Wellauer 1824, 335. Netta invece la preferenza espressa per il tràdito ǤͷǴDzАǰǷǤǬ GD Schneider 1837, 133: «ǤͷǴDzАǰǷǤǬhat man wegen Eur. Rh. 54, 186, Soph. Aias 247 in ǤͺǴDzǰǷǤǬ verwandelt, d. i. sie nehmen auf sich, unterziehen sich (...) doch ist an ǤͷǴDzАǰǷǤǬnichts auszusetzen: sie wählen sich, ziehen vor, vergl. Sieb. 996, Eur. Med. 852 ǹǿǰDzǰ, Aisch. Hik. 919 und Eur. Alex. Br. IX dzǿǮǨǯDzǰ, Herakl. 505 ǭǢǰǧǸǰDzǰ, Aisch. Ag. 1643 vielleicht ǷΰǰǷȀǺǪǰ». 16 17

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Bothe 1831 Aeschyli Tragoediae, edidit F.H. Bothe, I, Lipsiae 1831. Butler 1816 Aeschyli tragoediae quae supersunt, deperditarum fragmenta et scholia graeca ex editione Th. Stanleii [...]. Accedunt variae lectiones et notae criticae ac philologicae quibus suas passim intertextuit S. Butler, VII, Cantabrigiae 1816. Dawe 1964 R.D. Dawe, The Collation and Investigation of Manuscripts of Aeschylus, Cambridge 1964. Denniston 1954 J.D. Denniston, The Greek Particles, Oxford 19542 (1934). Diggle 1981 Euripidis Fabulae, ed. J. Diggle, I, Oxonii 1981. Diggle 1994 Euripidis Fabulae, ed. J. Diggle, III, Oxonii 1994. Dindorf 1840 Euripidis tragoediae superstites et deperditarum fragmenta ex recensione G. Dindorfii, III, Oxonii 1840. Elmsley 1813 Euripidis Heraclidae. Ex recensione P. Elmsley, qui annotationes suas et aliorum selectas adjecit, Oxonii 1813. Fraenkel 1950 Aeschylus, Agamemnon, edited with a commentary by E. Fraenkel, II, Oxford 1950. Garvie 1998 Sophocles, Ajax. Edited with introduction, translation and commentary by A.F. Garvie, Warminster 1998. Garvie 2009 Aeschylus, Persae. With Introduction and Commentary by A.F. Garvie, Oxford 2009. Groeneboom 1960 Aischylos’ Perser, I (Einleitung Text Kritischer Apparat) – II (Kommentar), hrsg. von P. Groeneboom, Göttingen 1960 [ed. olandese originale Groningen 1930]. Haupt 1830 C.G. Haupt, Aeschyli Persae. Quaestionum Aeschylearum specimen IV, Lipsiae 1830. Jebb 1907 C. Jebb, Sophocles: The Plays and Fragments, with Critical Notes, Commentary and Translation, VII: The Ajax, Cambridge 1907. Kamerbeek 1953 J.C. Kamerbeek, The Plays of Sophocles. Commentaries, Part. I: The Ajax, Leiden 1953. Kannicht 2004 R. Kannicht, Tragicorum Graecorum Fragmenta, vol. 5.1: Euripides, Göttingen 2004.

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Lange-Pinzger 1825 Aeschyli Persae, ad fidem librorum manuscriptorum et editionum antiquarum emendarunt, integram lectionis varietatem textui subjecerunt, et commentario critico atque exegetico instruxerunt E.R. Langeus et G. Pinzgerus, Berolini 1825. Nauck 1889 A. Nauck, Tragicorum Graecorum Fragmenta, Lipsiae 1889². Pace 2002 G. Pace, Note critico-testuali al ‘Reso’, in L. Torraca (ed.), Scritti in onore di Italo Gallo, Napoli 2002, 453-61. Ritchie 1964 W. Ritchie, The Authenticity of the ‘Rhesus’ of Euripides, Cambridge 1964. Rose 1957 H.J. Rose, A Commentary on the Surviving Plays of Aeschylus, I, Amsterdam 1957. Roussel 1960 Eschyle, Les Perses. Texte, traduction, commentaire [par] L. Roussel, Montpellier 1960. Sanravius 1555 Aeschyli poetae vetustissimi Tragoediae sex, quot quidem extant, summa fide ac diligentia e Graeco in Latinum sermonem [...] ad verbum conversae, per I. Sanravium, Basileae 1555. Schneider 1837 Aischylos, Tragoedien, Griechisch, mit Anmerkungen von G.C.W. Schneider, III: Die Perser, Leipzig 1837. Stanley 1663 DžͶǶǺȀǮDzǸǷǴǤǦЙǧǢǤǬ͛dzǷǟ, Aeschyli tragoediae septem, cum scholiis Graecis omnibus, deperditorum dramatum fragmentis, versione et commentario Th. Stanleii, Londini 1663. Stephanus 1568 H. Stephanus, Annotationes in Sophoclem et Euripidem. Quibus variae lectiones examinantur et pro mendosis emendatae substituuntur, [Genevae] 1568. Wellauer 1824 Aeschyli tragoediae, ad optimorum librorum fidem recensuit, integram lectionis varietatem notasque adjecit A. Wellauer, II, Lipsiae 1824. West 1998 Aeschyli tragoediae cum incerti poetae Prometheo, edidit M.L. West, Stutgardiae et Lipsiae 1998² (1990). ABSTRACT At Aesch. Pers. 481 Elmsley conjectures ǤͺǴDzǰǷǤǬ for the manuscripts’ reading ǤͷǴDzАǰ ǷǤǬ, and the emendation is accepted by almost all the recent editors. In this paper are examined 1) the evidence used to support Elmsley’s conjecture, and in particular the loci similes [Eur.] Rh. 54 and 126; 2) the meaning and eventual function of the manuscripts’ reading ǤͷǴDzАǰǷǤǬ. KEYWORDS: Aeschylus - Persae - textual criticism

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AESCH. PERS. 549 = 559: PROBLEMI TESTUALI, METRICI ED ESEGETICI

                            

ǰАǰǦήǴǧΰdzǴǿdzǤǶǤǯίǰǶǷǠǰǨǬ ǦǤЃХХDžǶαǵ͚ǭǭǨǰDzǸǯǠǰǤ ǒǠǴDZǪǵǯίǰ͎ǦǤǦǨǰ dzDzdzDzЃ ǒǠǴDZǪǵǧХ͊dzȁǮǨǶǨǰ ǷDzǷDzЃ ǒǠǴDZǪǵǧίdzǟǰǷХ͚dzǠǶdzǨǧǸǶǹǴǿǰǼǵ ǥǤǴǢǧǨǶǶǬdzDzǰǷǢǤǬǵ ǷǢdzǷǨLjǤǴǨЃDzǵǯίǰDzΗǷǼǷǿǷХ͊ǥǮǤǥΰǵ͚dzϸǰ ǷǿDZǤǴǺDzǵdzDzǮǬǡǷǤǬǵ ǖDzǸǶǢǧDzǵǹǢǮDzǵ͎ǭǷǼǴ dzǨǩDzȀǵ ЬǷǨǦήǴЬ ǭǤαǫǤǮǤǶǶǢDzǸǵ ЬǤͷǧХ·ǯǿdzǷǨǴDzǬЬǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵ ǰϪǨǵǯίǰ͎ǦǤǦDzǰ dzDzdzDzЃ ǰϪǨǵǧХ͊dzȁǮǨǶǤǰ ǷDzǷDzЃ ǰϪǨǵdzǤǰǼǮǠǫǴDzǬǶǬǰ͚ǯǥDzǮǤЃǵ ǧǬήǧХХǍǤǿǰǼǰǺǠǴǤǵ ǷǸǷǫήǧХ͚ǭǹǸǦǨЃǰ͎ǰǤǭǷХǤΒǷǿǰΟǵ͊ǭDzȀDzǯǨǰ njǴǡǬǭǪǵ͌ǯdzǨǧǬǡǴǨǬǵ ǧǸǶǺǢǯDzǸǵǷǨǭǨǮǨȀǫDzǸǵ

 549ХDžǶαǵBlomfield: ͊ǶǬǟǵ Lc, con. Stephanus | ͚ǭǭǨǭǨǰǼǯǠǰǤ Hermann 559 ǤͷǧХ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ fere codd. (͊ǰ ǧХ ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ Nd: Ǥͷ ǧХ ΟǯǿdzǷǨǴDzǬ Dac N2 C:): Ǥͷ ǧХ del. Brunck: ǮǬǰǿdzǷǨǴDzǬ Schütz1 

Il v. 549 = 559 dei Persiani appartiene alla prima coppia strofica del primo stasimo (548-57 = 558-67), nella quale il coro, dopo aver descritto nel preludio anapestico (532-47) il lutto delle donne persiane per la sconfitta e la distruzione dell’esercito, indica rispettivamente in Serse, nella strofe, e nelle navi, nell’antistrofe, i responsabili della catastrofe. La prima coppia strofica, come accade frequentemente nei Persiani, presenta uno stretto parallelismo sul piano semantico e sintattico2, evidente soprattutto nei vv. 550-2 = 560-2, scanditi dalla triplice anafora rispettivamente di ǒǠǴDZǪǵ e di ǰϪǨǵ e, per i primi due, dalla ripresa del verbo (͎ǦǤǦǨǰ / ͎ǦǤǦDzǰ; ͊dzȁǮǨǶǨǰ / ͊dzȁǮǨǶǤǰ) e delle esclamazioni finali (dzDzdzDzЃ ǷDzǷDzЃ). Il metro dei vv. 548-56 = 558-66 è giambico-trocaico3, con la clausola (557-8 = 567-8) formata da due ferecratei. 1 Cito il testo dei Persiani secondo l’edizione di West 1998. In apparato riporto solo le varianti e le congetture relative ai passi di cui discuto. 2 Garvie 2009, 233 ad 532-97. 3 Schroeder 1916, 19 e Dale 1983, 156-7 interpretano i vv. 548-56 = 558-66 come integralmente giambici, Wilamowitz 1914 a 154 ad l. invece come integralmente trocaici, in entrambi i casi con presenza di metri sincopati. (Wilamowitz 1914 b 54; Wilamowitz 1921, 292 accoglie per i vv. 548-58 = 549-59 la colometria tràdita – riprodotta in West 1998 – in maniera da ottenere al v. 549 = 559 un dimetro giambico).

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Il v. 549 = 559 è un dimetro giambico. La maggioranza degli editori al fine di ristabilire la responsione nel primo metro accoglie nella strofe ХDžǶǢǵ di Blomfield4 (il cui Ǥ è lungo) e nell’antistrofe segue Brunck5 nell’espungere ǤͷǧХ o accetta la congettura ǮǬǰǿdzǷǨǴDzǬ di Sch½tz, basata sul confronto con PV 468 ǮǬǰǿ dzǷǨǴХǪΙǴǨǰǤǸǷǢǮǼǰΆǺǡǯǤǷǤ6: si ottiene così il metro ᤳᗂᤱᗂ, privo di soluzioni. L’espunzione di ǤͷǧХ è stata giustificata da Murray7 ipotizzando che tale lezione rappresentasse la forma corrotta di un ǮǬǰ scritto sopra Dzǯmentre secondo Dawe Ǥͷ potrebbe essere una glossa penetrata nel testo e ǧХ un’aggiunta successiva rivolta ad evitare lo iato8. La congettura ǮǬǰǿdzǷǨǴDzǬ al posto di Ǥͷ ǧХ ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ si basa invece sull’ipotesi di una dittografia ǏǍǑǓǔǓǔǗljǕǓǍ e di una successiva corruzione dell’onciale ǏǍǑ in $,Lj9. Nella strofe è possibile conservare la lezione tràdita, adottando l’accentazione ХDžǶǬǟǵ di Lc, congetturata già dallo Stephanus10. Con ХDžǶǬǟǵ, il cui primo Ǥ è breve, si ottiene il metro giambico ᗂᤱᤱᤱᗂ, con sostituzione dattilica in prima sede. Esso è attestato in Pers. 638 dzǟǰǷǤǮǤǰХ͎ǺǪǧǬǤǥDzǟǶǼ = 645 dzǠǯdzǨǷǨǧХ ͎ǰǼDzͽDzǰDzΖdzǼᗂᤱᤱᤱᗂᤴᤱᗂᗂ11 (cf. inoltre il pentemimere giambico a 635 ǥǟǴǥǤǴǤǶǤǹǪǰϸ= 642 ǧǤǢǯDzǰǤǯǨǦǤǸǺϸᗂᤱᤱᤱᗂᗂ): sembra quindi opportuno accoglierlo anche in questo passo. Sul piano linguistico, come ha riconosciuto da ultimo Sommerstein12, non esistono elementi cogenti a favore di ХDžǶǢǵ. La forma ХDžǶǢǵ, molto meno comune in età arcaica e classica di ХDžǶǬǟǵ13, è attestata per la prima volta in Hes. fr. 165.1114 e ritorna in Simon. epigr. 45.7 Page15. In tragedia è garantita dalla metrica in Aesch. Pers. 270 (= 276) ǦϪǵ ͊dzХ ХDžǶǢǧDzǵ ͬǮǫХ ͚dzХ ǤͼǤǰ ᗂ ᤱ ᗂ ᤱ ᤱ ᗂ ᤱ ᗂ ᗂ 4

Blomfield 1823, che accoglie nell’antistrofe l’espunzione proposta da Brunck, per la quale cf. n. 5. 5 Brunck 1779. 6 Schütz 1783, 78-9 ad l. congetturava ǤͷǮǬǰǿdzǷǨǴDzǬ, interpretando l’aggettivo come «velivolae» e alludeva genericamente al passo del Prometeo: «ǮǬǰǿdzǷǨǴDzǬ, quod alibi de navibus usurpatur»; nel testo Schütz 1784 conservava ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ, accogliendo l’espunzione di Brunck. L’espunzione di ǤͷǧХ contestuale all’adozione di ǮǬǰǿdzǷǨǴDzǬ è in Schütz 1800. 7 Murray 1955, in apparato. 8 Dawe 1963, 145. 9 Cf. Sidgwick 1903, 33 ad 559; D.L. Page in Broadhead 1960, 149 n. 2. 10 H. Stephanus in Victorius 1557, 375. 11 Così nella colometria dei manoscritti, che comporta iato all’interno del colon nell’antistrofe; sull’interpretazione di questa sequenza cf. Pace 2008, 60 n. 9. Per il v. 573 = 581, dove gli editori isolano generalmente un monometro giambico ᗂᤱᤱᤱᗂ, i manoscritti presentano una differente colometria; cf. Fleming 2007, 12. 12 Sommerstein 2010, 7 n. 12, alla luce delle attestazioni di ХDžǶǬǟǵ e di ХDžǶǢǵ in tragedia, pur accogliendo la congettura ХDžǶǢǵdi Blomfield, la giudica «not strictly necessary». 13 Per le attestazioni più tarde di ХDžǶǢǵ e per la quantità lunga dell’Ǥ in questa forma cf. Friis Johansen-Whittle 1980 II 429-30 ad 547. 14 P. Oxy. 1359 fr. 1 ХDžǶ>Ǣ]ǧǬ (Grenfell-Hunt). 15 L’epigramma attribuito a Simonide, in cui ХDžǶǢǵ compare nell’espressione ǯǠǦǤ ǧХ ͞ǶǷǨǰǨǰ ХDžǶαǵΓdzХǤΒǷЛǰ, secondo Zuntz 1983, 294 costituirebbe un elemento a favore della congettura ХDžǶǢǵ in Aesch. Pers. 549.

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hipp, Suppl. 547 ͶǟdzǷǨǬ ǧХ ХDžǶǢǧDzǵ ǧǬХ ǤͺǤǵ: nel primo caso è attestata però anche la varia lectio ХDžǶǬǟǧDzǵ (ǥ O N D Ya Q1 Ǯ)16, mentre nel secondo ǧХ ХDžǶǢǧDzǵ è congettura di Turnebus per ǥǤǶǢǧDzǵ di M. La forma ХDžǶǬǟǵ è invece garantita dalla metrica in Eur. Ba. 1168 ХDžǶǬǟǧǨǵǥǟǭǺǤǬᤱᤱᤱᗂᗂᗂdo, Cycl. 443ǮǠǦХΟǵХDžǶǬǟǧDzǵDzΒǭ͌ǰͫǧǬDzǰǻǿǴDzǰ, dove in entrambi i casi rappresenta la lezione tràdita. Altrove in tragedia la metrica tollera nei trimetri giambici sia la forma ХDžǶǬǟǵ sia la forma ХDžǶǢǵ: in Aesch. Pers. 249 ΤǦϸǵ͋dzǟǶǪǵ ХDžǶǬǟǧDzǵ dzDzǮǢǶǯǤǷǤ (͊ǶǢǧDzǵ Ǯ: ͊ǶǬǟǷǬǧDzǵ I W V Ya PǦǴ), 763 ͟ǰХ ͎ǰǧǴХ ͋dzǟǶǪǵ ХDžǶǬǟǧDzǵǯǪǮDzǷǴǿǹDzǸ(͊ǶǢǧDzǵM I ǧ V Nc X PǦǴ Ha: ͊ǶǢǤǵ ǥ), dove i codici sono divisi tra ХDžǶǬǟǧDzǵ e ХDžǶǢǧDzǵ17; in PV 735 ͪdzǨǬǴDzǰ ͫDZǨǬǵ  ơDžǶǬǟǧХ ͐ǴХ ΓǯЃǰ ǧDzǭǨЃ ƆDžǶǢǧХ Elmsley), Eur. Tro. 748 ͊ǮǮХ Οǵ ǷȀǴǤǰǰDzǰ ХDžǶǬǟǧDzǵ dzDzǮǸǶdzǿǴDzǸ ХDžǶǬǟǷǬǧDzǵ V), Ion 74 ƆǍǼǰǤǭǷǢǶǷDzǴХ ХDžǶǬǟǧDzǵǺǫDzǰǿǵ, 1586 dzǨǧǢǤǭǤǷDzǬǭǡǶDzǸǶǬǰХDžǶǬǟǧDzǵǷǨǦϸǵ, dove la lezione tràdita è ХDžǶǬǟǧХ Ǥ o ХDžǶǬǟǧDzǵ; in El. 315 ǫǴǿǰЙ ǭǟǫǪǷǤǬ dzǴβǵ ǧХ ͞ǧǴǤǬǶǬǰ ХDžǶǢǧǨǵ ХDžǶǢǧǨǵ Hermann: ͊ǶǬǡǷǬǧǨǵ L P: ХDžǶǬǟǧǨǵ Zuntz18), Ion 1356 dzϪǶǟǰ ǦХ ͚dzǨǮǫδǰ ХDžǶǬǟǧХ ljΒǴȁdzǪǵ ǫХ ΋ǴDzǸǵ ХDžǶǬǟǧХ Scaligero: ХDžǶǢǧХ Nauck: ХDžǶǢǤǰ L P), dove la forma ХDžǶǬǟǵ o ХDžǶǢǵ è restituita congetturalmente. In Eur. Or. 1397 (astrophon) ХDžǶǬǟǧǬǹǼǰϫǥǤǶǬǮǠǼǰ19(ХDžǶǢǧǬ West)ᤱᤱᤱᤱᗂᗂᤱᤱᤱᗂl’interpretazione metrica è incerta20. In Aristoph. Thesm. 120 (astrophon) ǏǤǷȁǷǨ ǭǴDzȀǯǤǷǤǷХ ХDžǶǬǟǧDzǵᗂᗂᤱᗂᤱᤱᤱᤱᤱᗂil tràdito ХDžǶǬǟǧDzǵ restituisce un enneasillabo coriambico con un’insolita soluzione della seconda lunga del coriambo (forse come parodia della metrica di Agatone?)21. La forma ХDžǶǬǟǵ è attestata inoltre in Aesch. fr. 451e (dub.), tràdito da un papiro frammentario22. Non esistono dunque elementi per affermare che Eschilo preferisse ХDžǶǢǵ: sembra verosimile che conoscesse entrambe le forme e potesse scegliere di volta in volta quale di esse usare, eventualmente anche in maniera arbitraria quando la

16 La lezione ХDžǶǬǟǧDzǵ, meno ampiamente attestata di ХDžǶǢǧDzǵ, restituirebbe nella strofe un ipponatteo con soluzione della prima lunga del coriambo (ᗂᤱᤱᤱᤱᤱᗂᤱᗂᗂ), in responsione con un’ipponatteo non soluto. L’unico parallelo eschileo sarebbe rappresentato dal gliconeo di Aesch. Ch. 317 ǷȀǺDzǬǯХ͌ǰ͞ǭǤǫǨǰ (͌ǰ͞ǭǤǫǨǰ Ms: ͌ǰǭǟǫǨǰ M: ͎ǦǭǤǫǨǰ Hermann) DzΒǴǢǶǤǵ ᤱᗂᤱᤱᤱ ᤱᗂᤱᗂ = 334 ǧǢdzǤǬǵǷDzǢǷХ͚dzǬǷȀǯǥǬDzǵ ǷDzǢǶХ Schütz, ͚dzǬǷȀǯǥǬDzǵ Hermann: ǷDzЃǵ͚dzǬǷǸǯǥǬǧǢDzǬǵ M) ᤱᗂᗂᤱᤱᗂᤱᗂ, dove la responsione non è ritenuta tollerabile da varî studiosi; cf. Dale 1981, 10, 15 e, per un panorama delle diverse posizioni sul problema, Garvie 1986, 128-9 ad 315-8. 17 Non si capisce per quale motivo Zuntz 1983, 293 giudichi ХDžǶǢǧDzǵ l’unica forma metricamente possibile in Aesch. Pers. 763. Dawe 1964, 74 considera la lezione ͊ǶǬǟǧDzǵ deliberata emendazione del poco comune ͊ǶǢǧDzǵ. 18 Zuntz 1983, 294-5 ad ХDžǶǢǧǨǵ di Hermannpreferisce ХDžǶǬǟǧǨǵ (che comporta la soluzione del terzo longum) poiché in Euripide è attestata solo la forma ХDžǶǬǟǵ. 19 Così nella colometria della maggior parte dei manoscritti; cf. Diggle 1991, 142-3. 20 Per un’analisi delle possibilità cf. Willink 1986, 313 ad 1397, 366 (Addendis addenda). 21 Cf. Parker 1997, 74-5, 402. 22 P. Oxy. 2248 (II sec. d.C.) ХDžǶǬǤǧ[

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metrica glielo consentiva23. È inoltre significativo che nei trimetri eschilei (Pers. 249, 763; PV 735) e in Eur. Ion 1356 la forma ХDžǶǬǟǧDzǵ o ХDžǶǬǟǧХ Ǥ comporti, come in Pers. 549, la sostituzione dattilica nelle sedi dispari del metro giambico. Gli editori che al v. 549 accolgono ХDžǶǬǟǵ, al v. 559 adottano la congettura di Brunck24 o quella di Schütz25, ammettendo una responsione libera ᤳ ᤴ ᤱ ᗂ senz’altro tollerabile. Una responsione perfetta nel primo metro potrebbe invece ottenersi se si conservasse nell’antistrofe il testo dei manoscritti ǤͷǧХ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ, ammettendo, secondo la proposta di Korzeniewski26, il trattamento del nesso -dzǷ come monoconsonantico. Esso è attestato in due esametri anonimi tramandati rispettivamente da Pl. Phdr. 252 B ͊ǫǟǰǤǷDzǬ ǧί ǔǷǠǴǼǷǤ ǧǬή dzǷǨǴDzǹȀǷDzǴХ ͊ǰǟǦǭǪǰ, dove si verifica in ǔǷǠǴǼǷǤ, ma non in dzǷǨǴDzǹȀǷDzǴХ (Platone, che attribuisce il verso agli Omeridi, lo giudica però DzΒǶǹǿǧǴǤǷǬ͞ǯǯǨǷǴDzǰ) e da Suda Ƕ 1293 A. s.v. ǐDzАǶǤǬ ǭǤǮǤǢƽ Ǥͷ ǐDzАǶǤǬ ǧί dzǷǨǴМ ǖǨǬǴǡǰǼǰ ͚ǶǷǨǹǤǰDzАǰǷDz27. Sia nei due esametri sia in Eschilo il fenomeno si verifica in dzǷǨǴǿǰ o in termini da esso derivati; nei due esametri esso ha luogo ad inizio di parola, in Eschilo all’inizio del secondo termine di un composto, quindi in posizione analoga. Benché questi esametri, la cui origine (a parte il generico riferimento di Platone agli Omeridi) è ignota, non siano forse sufficienti a garantire che il nesso dzǷ potesse essere trattato da Eschilo come monoconsonantico, la proposta di Korzeniewski presenta il vantaggio di conservare sia nella strofe sia nell’antistrofe il metro giambico con sostituzione dattilica, attestato (come si è visto) anche altrove nei Persiani, invece di adottare congetture miranti a ricondurre sia il primo metro del v. 549 sia quello del v. 559 a una forma priva di soluzioni. È qui mia intenzione verificare se la conservazione di ǤͷǧХ·ǯǿdzǷǨǴDzǬsia accettabile, oltre che sul piano metrico, anche su quello linguistico e semantico. Un problema esegetico è posto dall’aggettivo ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ. Il secondo termine del composto si riferisce ai remi (come sembra più probabile, in quanto tipici delle navi da guerra28) o alle vele, secondo due metafore entrambe ben attestate nella poesia greca29. Sul valore da attribuire al primo termine le interpretazioni divergono. Ad avere incontrato finora maggiore favore è quella di Hermann, 23

Cf. Garvie 2009, 146 ad 249. Zuntz 1983 ritiene che ХDžǶǢǵ sia la forma tipicamente eschilea, da accogliere o restituire in tutti i passi, e che le oscillazioni nella tradizione manoscritta si debbano alla circostanza che ХDžǶǢǵ è molto meno comune di ХDžǶǬǟǵ. 24 Così Wellauer 1824; Murray 1955; Untersteiner 1946; Italie 1953; Groeneboom 1960. 25 Wilamowitz 1914 a; Weir Smyth 1922. 26 Korzeniewski 1967, 46; Korzeniewski 1968, 33 n. 44, seguito da Fleming 2007, 8-9. 27 Per il trattamento di dzǷ come nesso monoconsonantico in questi due passi cf. Maas 1962, 106; West 1982, 17; Martinelli 1997, 56; Gentili-Lomiento 2003, 25. 28 Cf. Friis Johansen-Whittle 1980 III 93 ad 734. 29 Sull’ambiguità del secondo termine del composto cf. van Nes 1963, 109-10, che prende in esame i passi che testimoniano l’uso metaforico di dzǷǨǴǿǰ e di parole affini per indicare i remi o le vele (cf. anche Friis Johansen-Whittle 1980 III 93 ad 734), evidenziando come un’ambiguità possa riscontrarsi anche in altri casi. La metafora ‘remi = ali’ sembra essere più antica e compare per la prima volta in Od. 11.125 = 23.272 ͚ǴǨǷǯǟǷǟǷǨdzǷǨǴήǰǪǸǶαdzǠǮDzǰǷǤǬ; l’immagine è rovesciata in Aesch. Ag. 52 dzǷǨǴȀǦǼǰ͚ǴǨǷǯDzЃǶǬǰ͚ǴǨǶǶǿǯǨǰDzǬ.

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secondo il quale ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ potrebbe si riferisce alle navi «ab utraque parte pariter remis, tamquam alis, movendis cursum suum peragentes»30. Paley, pur non escludendo questa possibilità, pensa piuttosto che l’aggettivo possa riferirsi alle vele e indicare che le navi sotto questo aspetto sono uniformi, uguali tra loro in quanto orientali (in opposizione a quelle greche)31. Sul valore di ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ in questo passo può gettare luce un esame delle altre occorrenze dell’aggettivo, non numerose e in massima parte appartenenti alla poesia drammatica. ·ǯǿdzǷǨǴDzǵ in Aesch. Suppl. 224 si riferisce all’identica natura di colombe e falchi, entrambi alati e quindi entrambi uccelli32; in Aristoph. Av. 229 è detto degli uccelli come ‘compagni alati’; in Pl. Phdr. 256 E indica la condizione di coloro che, essendosi amati durante la vita, dopo la morte diventano alati insieme; in Aesch. Ch. 174 riguarda la somiglianza tra il ricciolo lasciato da Oreste sulla tomba di Agamennone e i capelli di Elettra (l’espressione eschilea è ripresa inEur. El. 530). In questi passi ·ǯǿdzǷǨǴDzǵ si riferisce quindi a due individui o gruppi che sono ugualmente dotati di ali oppure, nel caso del ricciolo di Oreste, hanno (metaforicamente) ali simili. Leggermente diverso è l’uso dell’aggettivo in Eur. Pho. 329, dove ͊dzǡǰǤǵ ·ǯDzdzǷǠǴDzǸ indica metaforicamente la coppia dei fratelli Eteocle e Polinice: è possibile che l’immagine sia quella di un carro con due ali simili o uguali, che simboleggiano gli animali che lo trainano, ovvero i due fratelli, ma anche, come osserva Mastronarde33, che la metafora si sia sbiadita e quindi l’aggettivo esprima genericamente la comune origine o la somiglianza dei due fratelli. Che l’aggettivo nei passi eschilei ed euripidei indichi metaforicamente identità di genere o consanguineità è rilevato anche dagli scolii34. L’idea generica di somiglianza o di uguaglianza sembra essere alla base dell’uso di ·ǯǿdzǷǨǴDzǵ in Stratt. fr. 88 K.-A., dove, secondo la testimonianza di Poll. 6.156, designerebbe i coetanei35. L’uso dell’aggettivo nell’accezione generica di ‘simile’ è rilevato anche da Hsch. Dz782 L.,che lo glossa in primo luogo

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Hermann 1852 II 221 (come alternativa a una prima proposta, per la quale cf. infra), seguito da Korzeniewski 1968, 47; Belloni 1994, 198 ad 558-63; Sommerstein 2008, che traduce «equalwinged» e a p. 75 n. 87 spiega «the ships’ wings are her banks of oars […] which are, of course, equal on each side»; l’interpretazione di Hermann è inoltre ritenuta possibile da Groeneboom 1960 II 122-3 ad 558-63. 31 Paley 1879, 220 ad l. 32 Aesch. Suppl. 223-5 ͚ǰ͋ǦǰМǧХ͛ǶǯβǵΡǵdzǨǮǨǬǟǧǼǰ / ͻǩǨǶǫǨǭǢǴǭǼǰǷЛǰ·ǯDzdzǷǠǴǼǰǹǿǥЙ / ͚ǺǫǴЛǰ·ǯǤǢǯǼǰǭǤαǯǬǤǬǰǿǰǷǼǰǦǠǰDzǵ; cf. Friis Johansen-Whittle 1980 II 179 ad 224: «who are also birds». 33 Mastronarde 1994, 243 ad l. 34 Cf. schol. Aesch. Suppl. 224 ǷЛǰǶǸǦǦǨǰЛǰΓǯЃǰ; Ch. 174b ǶǸǦǦǨǰǡǵ; Eur. Pho. 328 ǷϸǵǶǸǦ ǦǨǰDzАǵǭǤǷǤǺǴǪǶǷǬǭЛǵ͊dzβǷDzАΆǴǰǠǼǰ 35 ·ǯDzdzǷǠǴDzǸǵǧίǷDzγǵ·ǯǿǷǴǬǺǤǵǨͶdzǿǰǷDzǵljΒǴǬdzǢǧDzǸ (El. 530)ǖǷǴǟǷǷǬǵǷDzγǵ·ǯǡǮǬǭǤǵǨͺǴǪ ǭǨǰ·ǯDzdzǷǠǴDzǸǵ. Valckenaer 1802, 233-4 ad l. pensava che nel passo delle Fenicie ·ǯǿdzǷǨǴDzǵ si riferisse a una somiglianza di aspetto o di età dei due fratelli e riteneva quindi che Strattis si fosse ispirato a questo passo per il suo uso dell’aggettivo, giudicando probabile un’attribuzione del frammento alle Fenicie.

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con ·ǯDzЃDzǬ, e poi con ·ǯǿǷǴǬǺDzǬ e ·ǯǿǺǴDzǰDzǬ, con probabile riferimento, come già in Polluce, all’Elettra e a Strattis36. In tutte le attestazioni l’aggettivo, che sia usato con valore proprio, metaforico o generico, indica quindi identità di natura, omogeneità o somiglianza tra due individui o gruppi37. Nel passo dei Persiani in questione sembra perciò verosimile che ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ caratterizzi le navi che hanno portato i fanti (dzǨǩDzȀǵ) e quelle che hanno portato i marinai (ǫǤǮǤǶǶǢDzǸǵ) come ‘dalle ali (ossia dai remi) simili’ e quindi più in generale ‘simili’ tra loro o anche ‘compagne’ nel viaggio38: come osservano Gondicas e Judet de La Combe39, esse costituiscono un gruppo unico, che riunisce le due differenti componenti dell’esercito di Serse (tema che costituisce un Leitmotiv dei Persiani). ·ǯǿdzǷǨǴDzǬevidenzia quindi come fanti e marinai siano stati entrambi trasportati per via di mare e sul mare abbiano trovato la morte. In questa direzione sembrerebbe andare anche la prima interpretazione dello schol. Aesch. Pers. 558a Zabrowski ǤͷǷDzЃǵǤΒǷDzЃǵdzǷǨǴDzЃǵǭDzǸǹǬǩǿǯǨǰǤǬ cheinterpreta l’aggettivo come indicante un’identità delle ‘ali’ attraverso cui si muovono le navi40. L’ipotesi che ·ǯǿdzǷǨǴDzǬalluda alla comune sorte di fanti e marinai era stata avanzata già da Hermann, che, prima dell’interpretazione di ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ come ‘fornite di remi da entrambi i lati’, proponeva, con una leggera forzatura, di intendere il testo greco come se fosse dzǨǩDzȀǵǷǨ·ǯDzǢǼǵǭǤαǫǤǮǤǶ ǶǢDzǸǵ«pedites atque nautas pariter nigrae naves et vexerunt et perdiderunt»41. Nell’interpretazione proposta ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ ha quindi in questo contesto valore pregnante. Al contrario ǮǬǰǿdzǷǨǴDzǬ, in cui il primo elemento può essere interpretato come ‘lino’ o come ‘vela’ (secondo un uso metonimico attestato ad es. in Aristoph. Ran. 364) e che quindi può valere ‘dalle ali (ossia dalle vele) di lino’ o ‘avente come ali le vele’, sarebbe un epiteto meramente esornativo42. Valore esornativo non ha invece il successivo ǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵ. La prima attestazione dell’aggettivo è in Od. 12.60, dove caratterizza lo sguardo di Amfitrite43; qui e in ·ǯǿdzǷǨǴDzǬƽ ΋ǯDzǬDzǬ ·ǯǿǷǴǬǺDzǬ ·ǯǿǺǴDzǰDzǬ ͊ǧǨǮǹDzα ͫǮǬǭǨǵ ·ǯDzА ǪΒDZǪǯǠǰDzǬ. Secondo Abresch 1832, 217 (= Id., Animadversionum ad Aeschylum libri duo, Medioburgi 1743, 418) in Esichio ·ǯDzЃDzǬ si riferirebbe al passo dei Persiani in questione, mentre ·ǯǿǷǴǬǺDzǬ e ·ǯǿǺǴDzǰDzǬ, come già in Polluce, si riferiscono probabilmente, all’Elettra euripidea e al frammento di Strattis. Per queste glosse cf. Aristoph. Byz. fr. 310 Slater. 37 Cf. Gondicas-Judet de La Combe 2000, 66 ad 559: ·ǯDz indica «une identité partagée». 38 Così LSJ s.v. ·ǯǿdzǷǨǴDzǵ  «consort-ships»; cf. anche Rose 1957, 131 ad l., che interpreta «they ‘flew’ on their way together» e pensa che il secondo membro dell’epiteto sia ridondante. 39 Gondicas-Judet de La Combe 2000, 66 ad 559. 40 La seconda interpretazione dello scolio Ǥͷ·ǯDzǢǼǵdzǷǨǴDzЃǵǫǠDzǸǶǤǬ potrebbe riferirsi tanto a una somiglianza nel percorso delle navi, quanto alla circostanza che entrambe si muovono per mezzo delle ‘ali’. 41 Hermann 1852 II 221 ad l. Paley 1879, 220 ad l. considera l’interpretazione di Hermann «too refined and subtle for the straightforward style of Aeschylus». 42 Roussel 1960, 224 ad 559, che congettura ǮǨǸǭǿdzǷǨǴDzǬ, osserva giustamente che quest’aggettivo unito a ǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵ costituirebbe «un tableau pittoresque qui n’est pas beaucoup dans la manière d’Eschyle». 43 Per le altre attestazioni dell’aggettivo in riferimento a donne, ninfe e dee cf. Friis JohansenWhittle 1980 III 100 ad 743. 36

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Suppl. 743 Eschilo lo utilizza invece per le navi (come Bacch. 13.160), avendo probabilmente come termine di riferimento l’omerico ǭǸǤǰǿdzǴЙǴDzǵ, che indica il colore scuro della prua della nave, ma alludendo forse anche agli occhi dipinti sui due fianchi delle navi44. La scelta di ǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵ in Pers. 559 non è casuale: l’aggettivo rimanda evidentemente alla definizione dello sguardo di Serse come ǭǸǟǰǨDzǰ[…]ǧǠǴǦǯǤ (vv. 81-2), mettendo così in risalto il rovesciamento della situazione rispetto alla parodo. In entrambi i casi ǭǸǟǰǨDzǵ sembra avere una connotazione sinistra45, ma di segno opposto: Serse e (conseguentemente) le sue navi, che con lo sguardo fosco minacciavano di fare stragi di nemici, sono diventati causa della sconfitta e della morte dei Persiani stessi46. L’articolo in Ǥͷǧϲ·ǯǿdzǷǨǴDzǬǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵǰϪǨǵ può avere valore anaforico (le navi di Serse sono già state nominate al v. 554 con l’espressione ǥǤǴǢǧǨǶǶǬdzDzǰ ǷǢǤǬǵ e inoltre è fatto noto che la spedizione si è svolta per mezzo delle navi)47 o più probabilmente la funzione di collocare ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ eǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵ in posizione attributiva, indicando che il trasporto parallelo di fanti e marinai e lo sguardo fosco caratterizzano le navi utilizzate da Serse. La conservazione di Ǥͷ nel testo permette di ottenere un efficace parallelismo fonico con ǦǤЃХ, in identica posizione metrica al corrispondente v. 54948. ǧХ Ǡ) al v. 559 può essere difeso se messo in correlazione con ǯǠǰ del v. 54849: Denniston dubitava giustamente che tale ǯǠǰ potesse essere isolato, con valore

44 Cf. Schuursma 1932, 17; ved. anche Sidgwick 1903, 33 ad 559; Broadhead 1960, 149-50 ad 558-63; van Nes 1963, 98; Sideras 1971, 181; Belloni 1994, 198-9 ad 558-63; Sommerstein 2008, 75 n. 86; Garvie 2009, 241 ad 558-9. Schuursma esclude la possibilità di un riferimento agli occhi della nave, in quanto normalmente erano dipinti di colore chiaro; contra cf. soprattutto Friis Johansen-Whittle 1980 III 100 ad 734; si vedano anche Broadhead, Sideras, Belloni e Sommerstein. 45 Per l’uso metaforico di ǭǸǟǰǨDzǵ in riferimento alla morte cf. ad es. Hes. Sc. 249 (ǎϸǴǨǵ); Bacch. 13.20 ǫǤǰǟǷDzǬDz/ ǭǸǟǰǨDzǰǰǠǹDzǵ(che riprende l’immagine ǭǸǟǰǨDzǰǗǴȁǼǰǰǠǹDzǵ di Il. 16.66). 46 Cf. Garvie 2009, 241 ad 558-9 «Xerxes is no longer a danger and neither are his ships»; l’uso dell’aggettivo secondo Saïd 2007, 78 favorisce l’identificazione di Serse con le sue navi. 47 Cf. Korzeniewski 1968, 46; per quest’uso dell’articolo in Eschilo cf. Matino 1998, 104. 48 Devo questa osservazione a Carles Miralles. 49 Al v. 548 ritengo che il testo tràdito ǰАǰǦήǴǧΰdzǴǿdzǤǶǤǯίǰǶǷǠǰǨǬ possa essere conservato: ǦǟǴ, espunto da Porson 1795, stabilisce una relazione tra il lamento dell’intera Asia e quello del coro (vv. 546-7) (cf. ad es. Wilamowitz 1914 b 54; Garvie 2009, 238 ad 548-9) o forse anche quello delle donne persiane (vv. 537-45); Sommerstein 2010, 8 pensa invece che ǦǟǴ possa riferirsi a ǧDzǭǢǯǼǵdzDzǮǸdzǨǰǫϸ (v. 547) e sposta ǧǡ al posto di ǯǠǰ, ritenendo «suspect» quest’ultima particella (le difficoltà legate al valore di ǯǠǰ vengono meno se si conserva ǧХ al v. 559). Sul piano metrico la sequenza ᗂᗂᗂᤱᗂᤱᗂᤱᗂsp lecyth offerta dal testo tràdito è ben attestata in Eschilo e in generale in tragedia (cf. ad es. Aesch. Pers. 1077, Ag. 179, Soph. Ai. 867, OT 1207, OC 1057 nonché Eur. Cycl. 356). Inoltre l’attacco spondaico richiama il v. 552 = 562 e, nel caso in cui si considerino le esclamazioni extra metrum, i vv. 550-1= 560-1; i lecizi ritornano ai vv. 553-5 = 563-5. Dei problemi testuali del v. 558 (da considerare sicuramente corrotto per motivi metrici) e dei vari interventi degli studiosi volti a ristabilire la responsione col v. 548 mi riservo di discutere in altra sede.

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enfatico50, e riteneva quindi probabile al v. 558 la congettura ǦήǴǧǠ di Paley per il tràdito e ametrico ǷǨǦǟǴ51. Se al v. 559 si conserva il testo tràdito, esso stesso offre invece il ǧǠ di cui Denniston sentiva l’esigenza. La correlazione tra ǯǠǰ del v. 548 e ǧǠ del v. 559 evidenzierebbe non una vera e propria opposizione, ma piuttosto una simmetria tra la strofe (dove come responsabile del disastro persiano è indicato Serse) e l’antistrofe (dove sono invece indicate le navi): si tratterebbe di uno di quei non rari casi in cui il valore antitetico di ǯǠǰ e ǧǠ è così debole da coincidere quasi con quello copulativo52.  A ǧǠdel v. 559fanno seguito le particelle ǯǠǰ...ǧǠ (vv. 560-1), la cui correlazione mette in risalto, come nei corrispondenti vv. 550-1, la contrapposizione tra ͎ǦǤǦDzǰ e ͊dzȁǮǨǶǤǰ. Per strutture analoghe in Eschilo, nelle quali a un iniziale ǧǠ fanno seguito, nell’ambito dello stesso periodo, ǯǠǰ...ǧǠ si vedano ad es. Pers. 341-3, Ag. 396-8, Ch. 435-7 (con analoga anafora), Eum. 169. Il problema principale è rappresentato dalla posposizione di ǧǠ. Essa è frequente in Eschilo, più che negli altri tragici, ma nella maggior parte dei casi si verifica subito dopo un gruppo di parole strettamente connesse tra loro53. Quando ǧǠ è collocato dopo un gruppo di parole che non costituiscono un’unità, si trova in Eschilo al massimo in quarta posizione54; cf. ad es. Pers. 749 ǫǰǪǷβǵΠǰ ǫǨЛǰǧί ǷǨ Nc Q2 K T: ǧίǫǨЛǰǷǨDoederlein); Ag. 653 ͚ǰǰǸǭǷα ǰǸǭǷǢƽ Hermann) ǧǸǶǭȀǯǤǰǷǤ ǧХ55. In Pers. 559 la posposizione di ǧǠ può essere difesa sulla base di due ordini di considerazioni. Le parole dzǨǩDzγǵǦǟǴǷǨǭǤαǫǤǮǤǶ ǶǢDzǸǵ costituiscono un gruppo unico: sul piano linguistico dzǨǩDzȀǵ e ǫǤǮǤǶǶǢDzǸǵ sono fortemente legati da ǷǨǭǤǢ e, nel contesto dello stasimo, fanti e marinai, le due componenti dell’esercito di Serse, sono accomunati da un unico destino di morte. Questo stretto legame rende indubbiamente meno sensibile la posposizione di ǧǠ56. Un caso simile di posposizione di ǧǠ è in Pers. 719 (ǦǨǭǮP: om. N

Denniston 1959, 364. Valore enfatico è attribuito a ǯǠǰdel v. 548 da Rose 1957 I 130 ad 548 (che parla impropriamente di ǯǠǰsolitarium); Garvie 2009, 238 ad 548-9. 51 Paley 1879, 220 ad l. metteva peròǧǠ in relazione con ǯǠǰdel v. 555, considerato invece giustamente da Denniston 1959, 364, 380 un ǯǠǰ solitarium, che sottintende un’opposizione tra l’operato di Dario e quello di Serse (così anche Teuffel-Wecklein 1886, 74 ad 555; Rose 1957, 131 ad 554; Bordaux 1992-93, 75). 52 Per i vari livelli della forza dell’antitesi espressa da ǯǠǰ e ǧǠ e in particolare per i casi in cui si avvicina alla relazione espressa da ǷǨ... ǭǤǢcf. Denniston 1959, 370. 53 Denniston 1959, 187-8; Garvie 2009, 208 ad 445-6. 54 Casi di ǧǠ collocati in Eschilo dopo due parole non strettamente collegate tra loro sono segnalati da Denniston 1959, 187; Fraenkel 1962² 323 ad Ag. 651; Friis Johansen-Whittle 1980 II 146 ad 181: Sept. 41, 199; Ag. 606, 745, 1320; Ch. 761 (ǧΰ Paley); Eum. 531, 620; in Suppl. 791 l’espunzione di ǧХ proposta da Portus è accolta, tra gli editori più recenti, da Friis JohansenWhittle 1980 (cf. III 139 ad 791), ma non da West 1998, Sommerstein 2008. 55 Per una difesa della posizione di ǧǠ in questi passi cf. rispettivamente Garvie 2009, 297 ad 749-50; Fraenkel 1962² 323 ad 653; un altro caso di collocazione di ǧǠ in quarta posizione si ha in Aesch. Suppl. 181 ǶȀǴǬǦǦǨǵDzΒǶǬǦЛǶǬǧХ se si accoglie la congettura ǶǬǦЛǶǬǧХ di Enger per il tràdito ǶǬǦЛǶǬǰ; cf. Friis Johansen-Whittle 1980 II 146-7 ad 181. 56 Cf. le analoghe osservazioni di Fraenkel 1962² 323 ad 653 su Aesch. Pers. 749 e Ag. 653. 50

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Nd ǧί) dzǨǩβǵͨǰǤȀǷǪǵǧǠ57: l’analogia concettuale e lessicale col v. 559 è evidente, anche se in quest’ultimo ǧǠ è posto non subito dopo l’espressione che costituisce un’unità, ma dopo il successivo Ǥͷ. La posizione avanzata di ǧǠ può inoltre essere giustificata dal forte iperbato di dzǨǩDzγǵ ǦǟǴ ǷǨ ǭǤα ǫǤǮǤǶǶǢDzǸǵ rispetto ai verbi dai quali dipendono (͎ǦǤǦDzǰ v. 560, ͊dzȁǮǨǶǤǰ v. 561) e dal rilievo così ottenuto dai due sostantivi: dzǨǩDzγǵǦǟǴǷǨǭǤαǫǤǮǤǶǶǢDzǸǵ potrebbe costituire una sorta di espressione a sé stante, dopo la quale vi sarebbe una lieve pausa. L’ipotesi di un leggero stacco tra il v. 559 e il seguito dell’antistrofe trova sostegno nel confronto con la strofe, dove ǒǠǴDZǪǵǯίǰ͎ǦǤǦǨǰ...ǒǠǴDZǪǵǧХ͊dz ȁǮǨǶǨǰ (vv. 550-1) non hanno un oggetto espresso; per le espressioni corrispondenti ǰϪǨǵ ǯίǰ ͎ǦǤǦDzǰ ... ǰϪǨǵ ǧХ ͊dzȁǮǨǶǤǰ l’esplicitazione dell’oggetto dzǨ ǩDzγǵ...ǷǨǭǤαǫǤǮǤǶǶǢDzǸǵappare un ampliamento non strettamente necessario per l’intelligibilità del discorso58. Non si può inoltre escludere che i due aggettivi non rappresentino (con valore sostantivato) l’oggetto dei due verbi, ma abbiano piuttosto valore predicativo rispetto a un oggetto sottinteso, che potrebbe essere ad esempio ‘uomini’ (cf. ͊ǰǧǴЛǰ 541)59 o ‘cittadini’ (cf. dzDzǮǬǡǷǤǬǵ v. 556) o forse meglio ‘Persiani’ (cf. ǔǨǴǶЛǰ v. 532). Con l’ammissione di una pausa dopo il v. 558 il ǧǠ si collocherebbe dopo la prima parola del sintagma (Ǥͷ).  Qualcosa di simile avviene al v. 563, dove sembra verosimile che ǧǬήǧХХǍǤǿ ǰǼǰǺǠǴǤǵ si riferisca a ciò che precede, sia per il parallelismo con la struttura sintattica della strofe, dove a ǧǬήǧХХǍǤǿǰǼǰǺǠǴǤǵcorrispondela determinazione strumentale ǥǤǴǢǧǨǶǶǬ dzDzǰǷǢǤǬǵ (v. 553)60 dopo la quale cade la pausa di senso, sia perché per motivi linguistici sarebbe difficile che ǧǬήǧХХǍǤǿǰǼǰǺǠ ǴǤǵ potesse riferirsi a ͚ǭǹǸǦǨЃǰ (v. 564)61. Gli editori che riferiscono ǧǬήǧХХǍǤ ǿǰǼǰ ǺǠǴǤǵ a ciò che precede pongono generalmente una virgola dopo ͚ǯǥDz ǮǤЃǵ, a segnalare una leggera pausa, che isola la determinazione ǧǬήǧХХǍǤǿǰǼǰ ǺǠǴǤǵ e grazie alla quale ǧǠ risulta la prima parola del sintagma. Sia al v. 559 sia al v. 563 ǧǠ potrebbe avere quindi anche la funzione di indicare un leggero stac-

Cf. Garvie 2009, 286 ad 719-20 «here dzǨǩβǵͨǰǤȀǷǪǵ cohere closely as a single phrase». Sembra eccessivo invece affermare con Korzeniewski 1967, 45 che ǒǠǴDZǪǵ ǯίǰ ͎ǦǤǦǨǰ dzDzdzDzЃ/ ǒǠǴDZǪǵǧХ͊dzȁǮǨǶǨǰǷDzǷDzЃ e ǰϪǨǵǯίǰ͎ǦǤǦDzǰdzDzdzDzЃ/ǰϪǨǵǧХ͊dzȁǮǨǶǤǰǷDzǷDzЃ abbiano valore parentetico: ciò non potrebbe in ogni caso essere valido per l’antistrofe, dove senza di esse l’intera proposizione sarebbe priva di un verbo. 59 Cf. la traduzione di Rose 1957, 131 ad 560-3 «The ships took our men, landsmen and seamen alike». 60 Cf. Belloni 1994, 198 ad 558-63. 61 Cf. Broadhead 1960, 151 ad 558-63; Garvie 2009, 242 ad 560-3. Che ǧǬήǧХХǍǤǿǰǼǰǺǠǴǤǵ sia da riferire a ciò che segue è sostenuto dagli schol. Aesch. Pers. 563a ǯǿǦǬǵ ǭǤα ǯǬǭǴǿǰ ǷǬ ǷDzАǷDz ǦήǴ ǧǪǮDzЃ Ƿβ ǷǸǷǫǟ  ͊ǭDzȀDzǯǨǰ ǤΒǷβǰ Ƿβǰ ͎ǰǤǭǷǤ ǭǤα Ƿβǰ ǥǤǶǬǮǠǤ ǧǬǨǭǹǸǦǨЃǰ Ƿήǵ ǺǨЃǴǤǵǷЛǰХǍǤǿǰǼǰǭǤαǷЛǰ ХDžǫǪǰǤǢǼǰǭǷǮ; 563b Zabrowski ǯǿǦǬǵǧίǧǬǤǹǸǦǨЃǰ͊ǭDzȀDzǯǨǰ ǷήǵǺǨЃǴǤǵ ХǍǤǿǰǼǰǷβǰ͎ǰǤǭǷǤChi, come da ultimo Page 1972, segue l’interpretazione degli scolii è costretto ad accogliere al v. 564 la congettura ǧΰХǭǹǸǦǨЃǰ di Bothe 1831, 315 ad l., per evitare la successione di due ǧǠ nella stessa proposizione ai vv. 563-4già sentiti superflui dagli scolii stessi: 563a-b Zabrowski dzǨǴǬǶǶDzαDzͷǧȀDzǧǠǶȀǰǧǨǶǯDzǬ(ǶȀǰǧǨǶǯDzǬ om. 563b) ǭǤαǷβΟǵ. 57 58

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co rispetto a quanto detto subito prima, pur nell’ambito di una stessa proposizione e senza una forte pausa di senso. Al v. 559 il tràdito ǤͷǧХ·ǯǿdzǷǨǴDzǬ può quindi essere difeso sia sul piano metrico sia su quello linguistico e semantico. Nel secondo metro del v. 549 = 559 gli editori ottengono una responsione perfetta o conservando ͚ǭǭǨǰDzǸǯǠǰǤ nella strofe e ammettendo la consonantizzazione di Ǹ in ǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵ nell’antistrofe, realizzando così un metro giambico privo di soluzioni, o accogliendo la congettura ͚ǭǭǨǭǨǰǼǯǠǰǤ di Hermann62 e attribuendo a Ǹ in ǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵ valore sillabico, dando così origine a un metro giambico di forma ᤱᤱᗂᤱᗂ. Nella strofe il tràdito ͚ǭǭǨǰDzǸǯǠǰǤ può essere conservato. Esso è sostenuto dal parallelo con Aesch. Sept. 329-30 ǥDzϫ /ǧХ͚ǭǭǨǰDzǸǯǠǰǤdzǿǮǬǵ63. Nei Sette la situazione è indubbiamente diversa, perché il coro immagina e descrive l’attacco e lo svuotamento della città di Tebe come fatti presenti, in via di svolgimento64. Tuttavia si può ipotizzare che in Pers. 549 il participio presente indichi che la terra d’Asia, nella descrizione del coro, percepisce il suo svuotamento come un fatto che si sta svolgendo nel momento attuale o, quanto meno, del quale solo ora, dopo che il messaggero ha portato la notizia della morte della maggior parte dei soldati, sta prendendo consapevolezza65 . La consonantizzazione di Ǹ in ǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵ (proposta da Wellauer66) è senza dubbio possibile sul piano teorico (in tragedia la consonantizzazione di Ǹ è da ammettere in Soph. OT 640 ǧǸDzЃǰ; Eur. IT 931, 970, 1456 ХljǴǬǰȀǼǰ)67 e garantisce una responsione perfetta con la strofe. C’è tuttavia da chiedersi se Eschilo, utilizzando una parola che intende richiamarsi esplicitamente al lessico omerico, non avrebbe mirato a riprodurne anche la misurazione prosodica: in Omero e in generale nella poesia epica arcaica sia in ǭǸǤǰЛdzǬǵ sia in ǭǸǤǰǿdzǴЙǴDzǵ la scansione di ǭǸǤ come una successione di due sillabe brevi è richiesta per l’inserimento della parola nell’esametro68. Anche in Aesch. Suppl. 743-4 e in Bacch. 62

Hermann 1852 II 220. Per l’affinità tra i due passi cf. Novelli 2005, 187 n. 777. Valore analogo ha l’indicativo presente di ǭǨǰǿǼ in Soph. OT 29 ǮDzǬǯβǵ[…] ΓǹХDzΙǭǨǰDzАǷǤǬǧЛǯǤǎǤǧǯǨЃDzǰ, citato da Roussel 1960, 222 ad 549. 64 Cf. Korzeniewski 1967, 47 n. 187. 65 Cf. le traduzioni di Mazon 1931 «gémit de se sentir vider» e di Belloni 1994 «sentendosi vuota». Broadhead 1960, 146 ad 548-9 pensa che qui il verbo possa essere usato nell’accezione di ‘lasciare vuoto’, analogamente a ͚ǴǪǯǿǼ in Aesch. Pers. 298; Suppl. 516. Garvie 2009, 238 ad 548-9 ritiene che il perfetto dia «slightly better sense» (il corsivo è mio). 66 Wellauer 1824, 319 ad Aesch. Pers. 81 (che parlava di sinizesi), seguito da Broadhead 1960, 282 n. 1; Dale 1983, 303, 305; Zuntz 1983, 294; West 1998. 67 Cf. ad es. West 1982, 15; Martinelli 1997, 50; Gentili-Lomiento 2003, 25. 68 ǭǸǤǰǿdzǴЙǴDzǬDz: Il. 15.693, 23.852, 878; Od. 9.482, 539, 10.127, 11.6, 12.100, 148, 354, 14.311, 22.465; h. Ap. 406; ǭǸǤǰDzdzǴЙǴǨǢDzǸǵ Od. 3.299; ǭǸǤǰȁdzǬǧDzǵ Od. ; ǭǸǤǰЛdzǬǰ Hes. Sc. 356, fr. 23a 14; ǭǸǤǰЛdzǬǵ fr. 23a 27, 25.14, 169*.1; Titan. fr. 12.1. In ǭǸǟǰǨDzǵ e in altre parole composte con questo aggettivo lo Ǹ negli esametri, nei distici elegiaci e nei ǭǤǷХ͚ǰǿdzǮǬ Dzǰ-epitriti è invece generalmente misurato come lungo, tranne in quei casi in cui la struttura della 63

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13.160, dove è presente l’identico nesso ǭǸǤǰȁdzǬǧǤǵǰϸǤǵ (ǰǠǤǵ in Bacchilide), lo Ǹ di ǭǸǤǰȁdzǬǧǤǵ non è consonantizzato, ma costituisce una sillaba breve. Se non si ammette la consonantizzazione di Ǹ al v. 559, va presa in considerazione la possibilità di una responsione ᤱᗂᤱᗂ ᤱᤱᗂᤱᗂdifesa da Wilamowitz69. La soluzione dell’alogos (ovvero la sostituzione anapestica nelle sedi dispari) nel metro giambico è attestata in tragedia in varî passi, dove talvolta è stata eliminata per via congetturale: Aesch. Suppl. 166 ǺǤǮǨdzDzАǦήǴ͚ǭᤱᤱᗂᤱᗂ ia, 837 -ǴǬǰ ΋dzǼǵdzDzǧЛǰᤱᤱᗂᤱᗂ ia (secondo la colometria dei manoscritti)70; Soph. Phil. 142 Ƕί ǧХ Υ ǷǠǭǰDzǰ ǷǿǧХ ͚ǮǡǮǸǫǨǰ ᤱ ᗂ ᤱ ᗂ ᤱ ᤱ ᗂ ᤱ ᗂ 2ia71; Eur. Tro. 1236 dzǬǷȀǮDzǸǵǧǬǧDzАǶǤǺǨǬǴǿǵᤱᤱᗂᤱᗂᤱᗂᗂ2ia^; in particolare Soph. OC 207 Τ DZǠǰDzǬ͊dzǿdzǷDzǮǬǵ(͊dzǿdzDzǮǬǵ Ebeling)ƽ͊ǮǮήǯΰᗂᤱᤱᤱᗂᤱᤱᗂᤱᗂ2ia (vel cr do) offre una sequenza identica a Pers. 559. La responsione tra metro giambico con alogos soluta e metro giambico che non presenta tale soluzione risulta anch’essa attestata in alcuni passi tragici (dove ugualmente è stata rimossa attraverso congetture) quali Eur. Alc. 572 ͞ǷǮǤǧίǶDzЃǶǬǯǪǮDzǰǿǯǤǵᤱᗂᤱᗂᤱᗂᤱᤱᗂ = 582 ͚ǺǿǴǨǸǶǨ(ǺǿǴǨǸǶǨ Monk)ǧХ͊ǯǹαǶήǰǭǬǫǟǴǤǰᤱᤱᗂᤱᗂᤱᗂᤱᤱᗂ; Andr. 483 ͛ǰβǵ ͋ (͛ǰβǵ Ή P: ͛ǰα ǧί Wilamowitz) ǧȀǰǤǶǬǵ (Ή ǧȀǰǤǷǤǬ Blaydes: ͎ǴХ ͎ǰǸǶǬǵ Diggle)͊ǰǟǷǨǯǠǮǤǫǴǤ ᤱᤱᗂᤱᤱᤱᤱᤱᤱᤱᤱᤱ= ͎ǫǨDzǵ͎ǰDzǯDzǵ͎ǺǤǴǬǵ ·ǹǿǰDzǵᤱᤱᤱᤱᤱᤱᤱᤱᤱᤱᤱᤱ2ia72. La consonantizzazione di Ǹ viene ipotizzata non solo in Pers. 559, ma anche nel passo parallelo Pers. 81 ǭǸǟǰǨDzǰ(ǭǸǤǰDzАǰ Blomfield) ǧХΊǯǯǤǶǬǮǨȀǶǶǼǰ parola ne richieda la misurazione come breve (ǭǸǟǰDzǬDz Od. 7.87, 11.24, 35; ǭǸǟǰDzǸ Hes. Sc. 143; ǭǸǤǰǿdzǷǨǴDzǵ Hes. Sc. 393; Pind. fr. 29.3 ǭǸǤǰǟǯdzǸǭǤ). 69 Wilamowitz 1914 b 54; Wilamowitz 1921, 292-3. 70 Sull’interpretazione di questi cola e in generale sulla soluzione dell’alogos nei giambi lirici e la responsione con giambi privi di tale soluzione cf. Lomiento 2008, 49 e n. 15, 68 n. 59. 71 Il v. 142 è in responsione con il v. 156 ǯΰdzǴDzǶdzǨǶȁǰǯǨǮǟǫ϶(dzǴDzǶdzǨǶȁǰǯǨǮǟǫ϶Anon. 1810, Hermann:ǯǨǮǟǫǪdzDzǶdzǨǶδǰ codd.) dzDzǫǠǰᗂᗂᤱᗂᤱᤱᗂᤱᗂ 72 Sulla soluzione dell’alogos nei giambi lirici della tragedia cf. Wilamowitz 1921, 291-3; Denniston 1936, 138; Prato 1961, 107 per Pindaro cf. Lomiento 1992. La responsione tra giambo e anapesto è attestata in tragedia anche nelle sedi pari dei giambi, dove è generalmente eliminata attraverso congetture; cf. Aesch. Suppl. 59 ͞ǦǦǤǬDzǵ DzͼǭǷDzǰ ^DzͶǭǷǴβǰ` ͊DŽǼǰ ᗂ ᗂ ᤱ ᗂ ᤱ ᗂ ᤱ ᗂ  (DzͶǭǷǴβǰ del. Bothe) = 64 dzǨǰǫǨЃǰǠDzǰ ǯίǰHaecker)DzͼǭǷDzǰͦǫǠǼǰᗂᗂᤱᤱᗂᤱᗂᤱᗂ2ia (per una discussione delle varie possibilità interpretative cf. Lomiento 2008, 56 n. 37); Soph. Tr. 637 ǺǴǸǶǤǮǤǭǟǷDzǸǷХ͊ǭǷήǰǭǿǴǤǵᗂᗂᤱᤱᗂᗂᗂᤱᗂ= ·ǦήǴLjǬβǵ ХDžǮǭǯǡǰǤǵǷǨ(ǷǨ del. t) ǭǿǴDzǵ ᤱᗂᤱᤱᗂᗂᗂᤱᤱᗂ2ia; Soph. OC 1451 ǯǟǷǤǰǦήǴDzΒǧίǰ͊DZǬȁᤱᗂᤱᗂᤱᗂᤱᗂ= 1466 ͞dzǷǤDZǤ ǫǸǯDzАƽDzΒǴǤǰǢǤ(DzΒǴǟǰǬǤ Hermann: DzΒǴǢǤ Elmsley: DzΒǴǤǰβǰ Meineke) ᗂᗂᤱᗂᗂᗂᤱᤱᗂ2ia (dove può essere eliminata anche conservando DzΒǴǤǰǢǤ e ammettendo consonantizzazione di iota). In Pers. ǧǢǤǬǰǨǧǢǤǬǰǨdzϸǯǤƽdzǴβǵǧǿǯDzǸǵǧХͺǫǬᤱᗂᤱᤱᗂᤱᗂᤱᗂᤱᗂᤱᤱ = 1048 ͞ǴǨǶǶХ͞ǴǨǶǶǨǭǤαǶǷǠǰǤǩХ͚ǯΰǰǺǟǴǬǰᤱᗂᤱᗂᤱᗂᤱᗂᤱᗂᤱᗂ3ia viene eliminata postulando consonantizzazione di iota nel secondo ǧǢǤǬǰǨ cf. Schroeder 1916, 27 s.; Rose 1957, 160 ad 1038-53; Broadhead 1960, 240 ad 1038-9; Dale 1983, 61; Belloni 1994, 285 ad 1038-45; West 1998 XXXIV; Garvie 2009, 364 ad 1038-45): anche in questo caso si tratta di un fenomeno possibile, ma che attenuerebbe probabilmente a livello prosodico l’efficacia della reduplicazione di ǧǢǤǬǰǨ (sulla ripetizione in questo passo come elemento che può giustificare la sostituzione anapestica in sede pari cf. Wilamowitz 1921, 292; Schroeder 1916, 28 considera invece espressiva la variazione prosodica). L’anapesto in Pers. 559 e 1038 è difeso da Prato 1961, 118.

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ᤱᤱᗂᗂᤱᤱᗂᗂ2ionmin, dove il metro ionico richiede la misurazione di ǭǸǟǰǨDzǰ come ᤱ ᤱ ᗂ. In alternativa alla consonantizzazione è però possibile ammettere in ǭǸǟǰǨDzǰ la sinizesi di ǨDz. Tale sinizesi è rara in tragedia73, ma non inesemplata in lyricis (cf. Soph. El. 179, Eur. Her. 907 ǫǨǿǵ, Ion 211, Ba. 100 ǫǨǿǰ), mentre è comune nell’epica e ricorre probabilmente anche in Pers. 96 -ǯǤǷDzǵǨΒdzǨǷǠDzǵ (ǨΒdzǨǷDzАǵ Porson) ͊ǰǟǶǶǼǰ ᤱ ᤱ ᗂ ᤱ ᗂ ᤱ ᗂ ᗂ anacl in ǨΒdzǨǷǠDzǵ, benché in quest’ultimo passo non sia da escludere la possibilità che il secondo longum dell’anaclomeno sia soluto74. È quindi possibile che nella prima parte della sezione lirica della parodo (vv. 65-113), dove il metro esclusivamente ionico corrisponde al tema della grandezza e dell’invincibilità dei Persiani e sono presenti alcuni ionismi-epicismi linguistici (dzǨǴǶǠdzǷDzǮǬǵ v. 65 ǧDzǸǴǬǭǮǸǷDzЃǵ v. 85), garantiti dalla metrica, Eschilo abbia usato la sinizesi di -ǨDz come una sorta di ionismo-epicismo prosodico per enfatizzare ulteriormente il colorito ‘orientale’75. Alla luce del confronto con la prosodia omerica e con il trattamento prosodico di ǭǸǟǰǨDzǵ in Pers. 81 e di ǭǸǤǰЛdzǬǵ in Aesch. Suppl. 743 e sulla base delle attestazioni di soluzione dell’alogos nei giambi lirici della tragedia (anche in responsione con forme non solute), la possibilità di una misurazione di ǭǸǤ come ᤱᤱ in Pers. 559 e quindi di una responsione libera con la strofe va considerata un’alternativa forse preferibile alla consonantizzazione di Ǹ. Per Pers. 549 = 559 si potrebbe quindi proporre il seguente assetto testuale e metrico: 549 ǦǤЃХ ХDžǶǬήǵ͚ǭǭǨǰDzǸǯǠǰǤ ᗂᤱᤱᤱᗂᤱᗂᤱᗂ 559ǤͷǧХ·ǯǿdzǷǨǴDzǬǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵ ᗂᤱᤱᤱᗂᤱᤱᗂᤱᗂ

 Salerno

2ia

Giovanna Pace

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Cf. Broadhead 1960, 52 ad 81; Garvie 2009, 77 ad 81-6. Così interpretano Hall 1996; West 1998; Garvie 2009. 75 Cf. Garzya 1997, 240. La struttura metrica della sezione lirica della parodo dei Persiani è oggetto di un mio studio di prossima pubblicazione in BollClass 31 (2010). 74

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ABSTRACT The transmitted text at Aesch. Pers. 549 ǦǤЃХ ХDžǶǬήǵ͚ǭǭǨǰDzǸǯǠǰǤᗂᤱᤱᤱᗂᤱᗂᤱᗂ= 559ǤͷǧХ·ǯǿdzǷǨǴDzǬǭǸǤǰȁdzǬǧǨǵᗂᤱᤱᤱᗂᤱᤱᗂᤱᗂ 2ia could be defended both on metrical and syntactic-semantic grounds. At 549 ХDžǶǬǟǵis not incoherent with Aeschylean and tragic use. At 559 -dzǷnexus in·ǯǿdzǷǨǴDzǬcould be treated as monoconsonantic·ǯǿdzǷǨǴDzǬmeans that the ships carrying dzǨǩDzȀǵand the ones carryingǫǤǮǤǶǶǢDzǸǵ KDYHVLPLODUZLQJV RDUV), that is they are similar between them or consort.ǧǠis in correlation with ǯǠǰDWWKHSRVWSRQHPHQWRIǧǠis justified by the hyperbaton and the unity formed by the words dzǨǩDzȀǵ … ǭǤα ǫǤǮǤǶǶǢDzǸǵ. The resolution of the alogos and the responsionᤱᗂᤱᗂ ᤱᤱᗂᤱᗂare both attested in lyric iambics.  KEYWORDS: Aeschylus - Persae - textual criticism

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ESCHILO, PERS. 834 E 850 ǶγǧХΤǦǨǴǤǬήǯϸǷǨǴͧǒǠǴDZDzǸǹǢǮǪ ͚ǮǫDzАǶХ͚ǵDzͺǭDzǸǵǭǿǶǯDzǰ΋ǶǷǬǵǨΒdzǴǨdzΰǵ ǮǤǥDzАǶХΓdzǤǰǷǢǤǩǨdzǤǬǧǢ·dzǤǰǷǢǦήǴ ǭǤǭЛǰΓdzХ͎ǮǦDzǸǵǮǤǭǢǧǨǵ͊ǯǹαǶȁǯǤǷǬ   ǶǷǪǯDzǴǴǤǦDzАǶǬdzDzǬǭǢǮǼǰ͚ǶǫǪǯǟǷǼǰ  dzǤǬǧǢxdzǟǰǷǤOdzǟǰǷǼǰQ1:dzǟǰǷǤͨdzǟǰǷǼǰPǦǴdzǤǬǧǢxdzǤǰǷǢ&DQWHUdzǤЃǧǤxdzǤǰǷǢ/REHFN dzǤǬǧǢxǭǟǴǷǤ:HLO

͊ǮǮХǨͼǯǬǭǤαǮǤǥDzАǶǤǭǿǶǯDzǰ͚ǭǧǿǯǼǰ ΓdzǤǰǷǬǟǩǨǬǰdzǤǢǧХ ͚ǯМdzǨǬǴǟǶDzǯǤǬ·   DzΒǦήǴǷήǹǢǮǷǤǷХ͚ǰǭǤǭDzЃǵdzǴDzǧȁǶDzǯǨǰ ͚ǯМdzǤǬǧαM I W V Nd C dzǤǬǧα͚ǯМBLj+D$'ǦǮdzǤЃǧХ͚ǯМǭdzǤЃǧХ͚ǯǿǰRbdzǤǬǧα ǦХ͚ǯМ3/K*)7dzǤǬǧǢǯDzǸ%XUJHV

Se ai vv. 832-6 è Dario a rivolgersi ad Atossa, ai vv. 849-51 è la donna che, accogliendo il precedente invito del marito, ne ripete alla lettera le parole, quasi a voler ancora una volta riconoscere l’innegabile autorità del vecchio sovrano e suo compagno. L’eco delle parole del re in quelle della regina doveva, evidentemente, impressionare il pubblico, ma proprio questa ripresa lessicale pone alcuni problemi testuali, che qui esaminerò in base ai contributi ricavabili da edizioni e commentari a stampa. 1. v. 834 [...] ΓdzǤǰǷǢǤǩǨdzǤǬǧǢ·dzǟǰǷǤ[...] L’Aldina presentava ΓdzǤǰǷǢǤǩǨ dzǤǬǧǢ, dzǟǰǷǤ mentre Robortellus scriveva Γdz ǤǰǷǢǤǩǨdzǤǬǧǢ·dzǟǰǷǤ e Turnebus suggeriva di modificare dzǟǰǷǤin dzǟǰǷǪ; proponeva ΓdzǤǰǷǢǤǩǨ dzǤǬǧǢ·dzǟǰǷǤVettori e ugualmente stampavano Canter, Stanley e Pauw: lo stesso Canter però in nota manifestava la sua preferenza per dzǤǰ ǷǢ1. Heath dava a dzǟǰǷǤil significato di «ǭǤǷǤdzǤǰǷǤdzǤǰǷǤǺǪ»; dzǟǰǷǤ accoglieva ancora Porson, che riproponeva la traduzione di Stanley: «tu vero [...] obviam ito filio plane enim prae dolore malorum laciniae circa corpus variegatarum vestium staminibus ruptis diffluunt»2. Bothe offriva dzǤǰǷǢ di Canter e, riferendolo aǶȁǯǤǷǬ traduceva «circum totum enim corpus»; Schütz scriveva ΓdzǤǰǷǢ ǤǩǨ dzǤǬǧǢ· dzǟǰǷǤ e in nota affermava «quorsum hoc dzǟǰǷǤ pertineat, quoque jure Stanlejus verterit plane, equidem non dixerim. Durum etiam videtur, cum Heathio interpretari ǭǤǷήdzǟǰǷǤseudzǤǰǷǤǺϹ. Quocirca mihi quidem legendum

1

Aldina 1518, 55v; Robortellus 1552, 124; Turnebus 1552, 101; Vettori 1557, 166; Canter 1580, 141 (testo) e 345 n. 7; Stanley 1663, 284; Pauw 1745, 284. 2 Heath 1762; 50 Porson 1806, 161-2.

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esse videtur: [...] dzǤǰǷǢ ǦήǴ / ǭǤǭЛǰ ΓdzХ ͎ǮǦDzǸǵ ǮǤǭǢǧǨǵ ͊ǯǹα ǶȁǯǤǷǬ unde hic sensus existit: circum totum enim corpus prae dolore his ex malis concepto laciniae variegatarum vestium laceratae pendent»3. Era Blomfield il primo a sostituire il tràditodzǤǬǧǢcon l’accusativo dzǤЃǧǤ,basandosi su quanto affermato da Lobeck a proposito di Aesch. Pers. 850 e dell’elisione di iota e richiamando Hdt. 4.121, dove il verbo ΓdzǤǰǷǢǤǩǨǬǰ è appunto costruito con l’accusativo (DzͷǖǭȀǫǤǬ[...]ΓdzǪǰǷǢǤǩDzǰǷΰǰLjǤǴǨǢDzǸǶǷǴǤǷǬǡǰ); conservavano il testo tràdito(ΓdzǤǰǷǢǤǩǨdzǤǬǧǢ.dzǟǰǷǤ Wellauer, Boissonade e Scholefield. Nella sua nuova edizione Bothe, accogliendo dzǤǬǧǢ·dzǟǰǷǤ spiegava in nota «dzǟǰǷǤǭǿǶǯDzǰΉǰ͞ǺǨǬeum ornatum fissurae discindere seu lacerare dicuntur»; dzǤǬǧǢ.dzǟǰǷǤ stampava inizialmente Dindorf, che nelle successive Annotationes, però, evidenziava che quel dzǟǰǷǤ non poteva essere neutro e che andava dunque accolto il dzǤǰǷǢ di Canter riferito a ǶȁǯǤǷǬ4. Paley, scrivendo ΓdzǤǰǷǢǤǩǨ dzǤǬǧǢ· dzǟǰǷǤ, commentava «dzǟǰǷǤ ǶǷǪǦDzǴǴǤ ǦDzАǶǬ, prodzǟǰǷǤǶǷǡǯDzǰǤЏǡǦǰǸǰǷǤǬ paull audacius positum videtur» e Hermann spiegava dzǟǰǷǤ«ac si dixisset poeta dzǟǰǷǤǦήǴǮǤǭǢǧǨǵΊǰǷǤǶǷǪǯDzǴǴǤ ǦǨЃ» Hartungaccoglieva ildzǤǰǷǢdi Canter, mentre dzǤǬǧǢ.dzǟǰǷǤ (o dzǤǬǧǢ·dzǟǰ ǷǤ scrivevano Schiller e Oberdick5. Lo stesso Paley, nella sua edizione commentata di tutte le tragedie eschilee, stampava ancora dzǤǬǧǢ·dzǟǰǷǤ e così annotava: «The construction is harsh,dzǟǰǷǤǮǤǭǢǧǨǵǶǷǪǯDzǴǴǤǦDzАǶǬ. Like ǮǤǭǢǧǨǵ ͞ǹǮǤǧDzǰ dzǴǿǶǷǨǴǰDzǬ ǶǷDzǮǯDzα dzǠdzǮǼǰ Ch. 29, i.e. ΣǶǷǨ ǮǤǭǢǧǤǵ ǦǢǦǰǨǶǫǤǬ The Schol. explains the construction dzǟǰǷǤ͊ǯǹαǶȁǯǤǷǬǶǷǪǯDzǴǴǤǦDzАǶǬǮǤǭǢ ǧǨǵDzͽDzǰǧǬǤǴǴǠDzǸǶǬǰ. Thus dzǟǰǷǤ͚ǶǫǪǯǟǷǼǰǶǷǪǯDzǴǴǤǦDzАǶǬǮǤǭǢǧǨǵLVIRU dzǟǰǷǨǵǶǷǡǯDzǰǨǵ͚ǶǫǪǯǟǷǼǰЏǡǦǰǸǰǷǤǬ͚ǵǮǤǭǢǧǤǵ ‘all the threads are torn so as to produce tatters’»6. Accoglievano dzǤǰǷǢ Kirchhoff, Wecklein, Wecklein-Zomaridis, Jurenka, Weil e Roussel, mentre mantenevanodzǟǰǷǤWilamowitz, Rabehl, Murray, Untersteiner, Italie – che traduceva dzǟǰǷǤcon «aan alle Kanten» – Korzeniewski, De Romilly – che attribuiva a dzǟǰǷǤvalore avverbiale traducendo «partout»7. Diversa è la posizione di Broadhead, che, accogliendo sia le correzioni di Lobeck sia – «with some hesitation» – quella di Canter, stampava ΓdzǤǰǷǢǤǩǨ dzǤЃ ǧǤ·dzǤǰǷǢ, ritenendo del tutto inaccettabile il valore avverbiale dato a dzǟǰǷǤ; anche Page accoglieva dzǤЃǧǤ e dzǤǰǷǢ, mentre West e Hall mantenevano dzǤǬǧǢ e dzǟǰǷǤseguitida Sommerstein8. Recentemente Garvie ha evidenziato che «dzǟǰ ǷǤ neuter plural cannot be the subject of the plural verb ǶǷǪǯDzǴǴǤǦDzАǶǬ. As an 3

Bothe 1805, 209; Schütz 18112 70 (testo) e 111-22 (commento). Blomfield 1823, 78; Wellauer 1824, 389; Boissonade 1825, 176; Scholefield 1828, 90; Bothe 1831, 335; Dindorf 1832, 97; Dindorf 1841, 301: in Dindorf 18695 35 si legge dzǤǬǧǢ. dzǤǰǷǢ 5 Paley 1847, 64; Hermann 1852, 245; Hartung 1853, 82; Schiller 1869, 89; Oberdick 1876, 40. 6 Paley 1879, 238. 7 Kirchhoff 1880, 39; Wecklein 1885 I 105; Wecklein-Zomaridis 1891, 223; Jurenka 1902, 31; Weil 1907, 120 (con Roussel 1960, 355); Wilamowitz 1914, 166; Rabehl 1927, 34; Murray 1937, 19552; Untersteiner 1947, 208; Italie 1953, 113; Korzeniewski 1966, 28; De Romilly 1974, 91. 8 Broadhead 1960, 27; Page 1972, 32; West 1990, 45; Hall 1996, 88; Sommerstein 2008, 108. 4

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adverb it means ‘in all respects’, so here ‘completely’ (ǭǤǷήdzǟǰǷǤ, as Triclinius [...] explains)»9. 2. v. 850 La scelta tra dzǤǬǧǢH dzǤЃǧǤdi v. 835 è strettamente connessa al v. 850 (cf. la posizione di Blomfield supra), dove la regina ripete le stesse parole del sovrano. In entrambi i versi ricorre infatti il verbo ΓdzǤǰǷǬǟǩǼche ammette duplice reggenza (dativo e accusativo: cf. LSJ s.v.); di qui sono possibili entrambe le soluzioni adottate dagli editori eschilei per v. 834 (dzǤǬǧǢodzǤЃǧǤ), come appena visto nell’esame della tradizione a stampa. Ancor più problematico appare però il v. 850: i codici, per la maggior parte, tramandano o ͚ǯМdzǤǬǧǢ o dzǤǬǧα͚ǯМ e solo la famiglia  (composta da Q e K) offre dzǤЃǧХ͚ǯМ, mentre Rb hadzǤЃǧХ͚ǯǿǰda ͚ǯβǰdzǤЃǧХ, la famiglia  (composta dai cosiddetti ‘tricliniani’) presenta invece dzǤǬǧǢǦ’͚ǯМ. L’Aldina e Robortellus stampavano͚ǯМdzǤǬǧǢma Turnebus, seguito poi dagli editori fino a Schütz, accoglieva la lezione dzǤЃǧ’͚ǯМcon l’elisione delloǬ10. Già Blomfield evidenziava l’impossibilità di elidere la desinenza del dativo singolare: a sostegno di tale tesi, come già anticipato) l’editore richiamava Lobeck, il quale, nel commento a Soph. Ai. 801, affermava che « in fine dativi singularis apud Atticos umquam elidi»11. Scrivevano ancora dzǤǢǧХ ͚ǯМBoissonade e, tre anni dopo, Scholefield, il quale, ricordando come già in alcuni codici si leggesse appunto dzǤЃǧ’͚ǯМ, riteneva che «de elisione in dzǤǬǧǢ, quamquam paullo rarior est, non timendum»12. Scholefield riecheggiava qui le parole di R. Porson, che, in Eur. IA 809, stampato ǷϸǶǧǨǶǷǴǤǷǨǢǤǵ͡ǮǮǟǧǬǦ’ DzΒǭ͎ǰǨǸǫǨЛǰ dagli editori che lo precedevano, proponeva invece di eliminare Ǧ’, affermando appunto «neque de elisione in͡ǮǮǟǧǬ, quamquam paullo rarior est, timendum»13 e elencando anche diversi altri casi in cui si potrebbe ipotizzare un’elisione di Ǭ. Dindorf, accogliendo dzǤǢǧ’ ͚ǯМ, ricordava nelle successive Annotationes quanto egli aveva detto su iota elisum nel commento a Soph. OC 143514 (Dindorf 1836, 1223: «Peccatum librarii qui ǫǤǰǿǰǷХaccusativum esse putavit. Est vero dativus, eliso iota ut in Trach. 677 […], apud Eurip. Alcest. 1118 [...] aliisque in locis poetarum inde ab Homero […], de quo argutati sunt grammatici veteres». Nel 1847 Paley commentava «Certum videretur ex hoc exemplo, modo genuinus esset locus, interdum elidi dativum in brevi, ut in Oed. Col. 1435 et Trach. 675 […] dzǤЃǧХ͚ǯǿǰmale dedit Blomf. […]» e richiamava ancora Pers. 898 (= vv. 913-4) «ubi ͚ǶǬǧǿǰǷХ pro accusativo accipit Scholefeldius, etsi hoc loco de elisione litera non timendum esse docet» e Eur. frag. Ael. II Ion. 434, aggiungendo infine

9

Garvie 2009, 319. Asulanus 1518, 56; Robortellus 1552, 125; Turnebus 1552, 101. 11 Blomfield 1823, 79; Lobeck 18352 349. 12 Boissonade 1825, 177; Scholefield 1828, 91. 13 Porson 1807, xxiv. 14 Dindorf 1832, 98; Dindorf 1841, 302. 10

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«Nimirum haec licentia ex Epicorum usu Tragicis etiam parcius admissa est. Sic Il. X 277»15. Eliminava l’aggettivo possessivo Hermann, scrivendo quindi ΓdzǤǰǷǬǟǩǨǬǰ dzǤǬǧαdzǨǬǴǤǶȁǯǨǫǤ16: lo stesso Hermann scriveva già negli Elementa doctrinae metricae del 1816 «Synizesin tamen quare ex Atticis expelli velimus, nullam causam video. Quare, nisi lectio non satis certa aliquam dubitationem iniiceret, in re ipsa nihil est, cur negemus Aeschylum in isto Persarum loco, v. 852 scripsisse: ΓdzǤǰǷǬǟǩǨǬǰ dzǤǬǧα ͚ǯМ dzǨǬǴǟǶDzǯǤǬ»17. Ipotizzava una sinizesi tra dzǤǬǧα ͚ǯМ anche Hartung; Dindorf proponeva il pronome  al posto dell’aggettivo possessivo, accogliendo la correzione di Burges, mentre Oberdick riprendeva la lezione di ǭ H Kirchhoff proponeva l’͚ǯМ dzǤǬǧǢ della maggioranza dei manoscritti, stampato anche da Wecklein18: quest’ultimo, però nell’edizione con Zomaridis, optava per dzǤǬǧǢ ǧΰ19. Congetturavano ǨΒǹǴǿǰǼǵ Schiller-Conradt, mentre Jurenka accettava dzǤǬǧǢ ǯDzǸ e ugualmente si comportava Weil20. Wilamowitz scriveva dzǤǬǧǢ dzǼǵ così come Rabehl, Murray poneva tra cruces ͚ǯМ dzǤǬǧα dzǨǬǴǟǶDzǯǤǬ; Untersteiner, dal canto suo, scriveva dzǤǬǧǢ ǯDzǸ così come Groeneboom, Italie e Korzeniewski invece optavano per l’accusativo dzǤЃǧ’ ͚ǯǿǰ21. Broadhead ‘asteriscava’ dzǤЃǧ’ ͚ǯǿǰ così come di dzǤЃǧǤ v. 834, considerandoli quindi luoghi incerti; Page, De Romilly e Hall scrivevano dzǤǬǧǢ ǯDzǸ. West poneva le cruces e così si sono comportati recentemente anche Sommerstein e Garvie22. Appare opportuno riepilogare brevemente e schematizzare i dati emersi dalla tradizione a stampa: - v. 834. Accoglie le lezioni dzǤǬǧǢedzǟǰǷǤla maggior parte degli editori, ad eccezione di Blomfield, che opta per dzǤЃǧǤ ΓdzǤǰǷǢǤǩǼDFF HdzǟǰǷǤ, Broadhead e Page, che stampano dzǤЃǧǤedzǤǰǷǢ; i due dativi dzǤǬǧǢHdzǤǰǷǢsono, invece, proposti da Dindorf, Hartung, Kirchhoff, Wecklein-Zomaridis, Jurenka, Weil. - v. 850. Accoglie dzǤЃǧ’͚ǯМla maggior parte degli studiosi tranne:  Robortellus, Kirchhoff, Wecklein:͚ǯМdzǤǬǧǢ; Blomfield, Italie, Broadhead, Murray, Korzeniewski: dzǤЃǧ’ ͚ǯǿǰ; Wecklein-Zomaridis:dzǤǬǧαǧǡ; Hartung:dzǤǬǧα͚ǯМ(con sinizesi); 15

Paley 1847, 65. Hermann 1852 I 116. 17 Hermann 1816, 35. 18 Hartung 1853, 84; Dindorf 1869, 36; Oberdick 1876, 41; Kirchhoff 1880, 40; Wecklein 1885 I 106. 19 Wecklein-Zomaridis 189, 225. 20 Schiller-Conradt 1888, 93; Jurenka 1902, 31; Weil 1907, 120. 21 Wilamowitz 1914, 166; Rabehl 1927, 34; Murray 1937Untersteiner 1947, 210; Groeneboom 1960, 62; Italie 1953, 114; Korzeniewski 1966, 28. 22 Broadhead 1960, 28; Page 1972, 33; de Romilly 1974, 92; Hall 1996, 88; West 1990, 46; Sommerstein 2008, 108; Garvie 2009, 34. 16

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Hermann: dzǤǬǧǢdzǨǬǴǤǶȁǯǨǫǤ; Schiller-Conradt:ǨΒǹǴǿǰǼǵ; Wilamowitz, Rabehl:dzǤǬǧǢdzǼǵ; Dindorf, Jurenka, Weil, Murray, Untersteiner, Groeneboom, Roussel, Hall, West: dzǤǬǧǢǯDzǸ;  Sommerstein, Garvie: Ь͚ǯМdzǤǬǧǢЬ

È evidente che il v. 850, come tramandato dalla maggior parte dei codici, sia che si consideri lezione ͚ǯМ dzǤǬǧǢ sia dzǤǬǧα ͚ǯМ, ha carattere ametrico. La lezione della famiglia ǭ risolve invece il problema metrico, ma pone quello dello Ǭ eliso, del quale però non si preoccupavano, come si è visto, numerosi editori. In realtà, l’elisione dello iota nella terminazione del dativo singolare di terza declinazione è ben attestata sia nei poemi omerici (20 casi di cui 4 in espressioni formulari: Lj 259, lj5 [= ǔ385], ǎ277, Ǐ544, Ǐ589, ǐ88, Ǒ289, ǔ854, Ǜ64, Ǜ693, ǜ 26 nell’Iliade; ǥ250, Ǩ62, Ǩ398 [= ǰ35], Ǭ302 [= Ƿ480], ǭ106 [= Dz364] per l’Odissea), sia, come è stato messo in luce soprattutto negli ultimi anni, nella poesia ellenistica (diverse attestazioni sono segnalate W. Lapini in Posidippo23, tra le quali segnalo Posidipp. 21.1 AB24 e 140.8 AB = AP 12.168 = HE 3093), mentre la sua ammissibilità in tragedia è oggetto di dibattito. Gli studi di Müller e, più di recente, di Deforge (che muove dai vv. 842-3 delle Baccanti) e di Guilleux25 hanno mostrato come in tragedia vi sia un certo numero di casi (non numerosi, ma percentualmente non meno frequenti di quelli omerici) in cui lo iota eliso è stato eliminato per via congetturale oppure la forma elisa è stata interpretata come accusativo singolare o come duale (quindi con elisione non di iota, ma rispettivamente di alfa e di epsilon), a costo tuttavia di forzature del senso o della sintassi. Elenco di seguito le possibili occorrenze nei tragici: 1) Aesch. Suppl. 4-6   LjǢǤǰǧίǮǬdzDzАǶǤǬ ǺǫǿǰǤǶȀǦǺDzǴǷDzǰǖǸǴǢϨǹǨȀǦDzǯǨǰ DzΖǷǬǰХ͚ǹХǤͻǯǤǷǬǧǪǯǪǮǤǶǢϨ  ǧǪǯǪǮǤǶǢϨMǖ:ǧǪǯǪǮǤǶǢǤǰAuratus

2) Aesch. Pers. 913-4  ǮǠǮǸǷǤǬǦήǴ͚ǯDzαǦǸǢǼǰЏȁǯǪ 23

Si tratta di Lapini 2007: cf. a tal proposito Citti 2007, 12. In Posidipp. 21.1 AB, Sider 2005, 164-82, in particolare 166-7, legge dzǮǠDzǰХ come dzǮǠDzǰǬ, mentre in 140.8 AB = AP 12.168 = HE 3093, il tràditoǰǡǹDzǰǷХDzͶǰǼǫǠǰǷХè stato interpretato comeǰǡǹDzǰǷǬDzͶǰǼǫǠǰǷǤda Buffière 1977, 95-107, in part. 107, e comeǰǡǹDzǰǷǬDzͶǰǼǫǠǰǷǬda Palumbo Stracca 2006, 163-79, in part. 168. 25 Müller 1966, 257-66; Deforge 2000, 611-5; Guilleux 2001, 65, 82. 24

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ǷǡǰǧХͧǮǬǭǢǤǰ͚ǶǬǧǿǰǷХ͊ǶǷЛǰ  ͚ǯDzαFcgl, Sch½tz: ͚ǯЛǰ rell.

3) Soph. Tr. 674-6  ϜǦήǴǷβǰ͚ǰǧǸǷϸǴǤdzǠdzǮDzǰ͊ǴǷǢǼǵ ͞ǺǴǬDzǰ͊ǴǦϸǷХDzͶβǵǨΒǨǢǴЙdzǿǭЙ ǷDzАǷХͦǹǟǰǬǶǷǤǬ  ͊ǴǦϸǵ Bergk | ǨΒǨǢǴDzǸ Valckenaer: ǨΒǠǴDzǸ Lobeck | ͊ǴǦΰǵ […] dzǿǭDzǵ Lobeck | dzǿǭDzǰ Erfurdt

4) Soph. OC 1435-6  ǶǹδǧХǨΘǧǬǧDzǢǪNJǨȀǵǷǟǧХǨͶǷǨǮǨЃǷǠǯDzǬ ǫǤǰǿǰǷХ͚dzǨαDzΒǧίǩЛǰǷǟǯХǤΘǫǬǵ͟DZǨǷDzǰ v. 1436 del. Dindorf | ǫǤǰǿǰǷǬǷǨǮǨЃǷǨ Lobeck

5) Eur. Alc. 1118  ǭǤαǧΰdzǴDzǷǨǢǰǼLJDzǴǦǿǰХΟǵǭǤǴǤǷǿǯЙ  ǭǤǴǤǷDzǯЛǰLobeck, ǭǤǴǤǧDzǭЛ Garzya

6) Eur. IA 808-9  DzΗǷǼǧǨǬǰβǵ͚ǯdzǠdzǷǼǭХ͞ǴǼǵ ǷϸǶǧǨǶǷǴǤǷǨǢǤǵ ljǮǮǟǧХDzΒǭ͎ǰǨǸǫǨЛǰ  ͚ǶdzǠdzǷǼǭХ Murray, ͚dzǷǠǴǼǭХ Jackson

7) Eur. Ba. 842-3  dzϪǰǭǴǨЃǶǶDzǰΣǶǷǨǯΰХǦǦǨǮϪǰǥǟǭǺǤǵ͚ǯDzǢ ͚ǮǫǿǰǷХ͚ǵDzͺǭDzǸǵ͍ǰǧDzǭϹǥDzǸǮǨȀǶDzǯǤǬ post DzͺǭDzǸǵ lacunam indic. Jackson | versum 843 del. Daehn, post 846 trai. Wecklein

8) Eur. fr. 21.5-7 K:  ͍ǯΰǦǟǴ͚ǶǷǬǷМdzǠǰǪǫХ·dzǮDzȀǶǬDzǵ ǧǢǧǼǶХ͍ǧХDzͷdzǮDzǸǷDzАǰǷǨǵDzΒǭǨǭǷǡǯǨǫǤ ǷDzЃǶǬǰdzǠǰǪǶǬǺǴȁǯǨǰDzǬ ЬdzǨǬǫȁǯǨǫǤЬ  ǷМdzǠǰǪǫХ·:ǷМdzǠǰǪǷǬ Erfurdt

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Nicole Guilleux ha inoltre osservato che sia nei passi omerici sia in tragedia l’elisione dello iota del dativo è concomitante con la ‘servitù grammaticale’ e/o con la ‘flessione di gruppo’, ossia si verifica quando la parola elisa dipende da un verbo o da una preposizione che reggono il dativo e/o quando concorda con una o più parole anche esse in dativo: tale concomitanza, a parere della studiosa, avrebbe la funzione di rendere inequivocabile il caso della parola elisa26. Entrambi i fenomeni si verificano in Pers. 850, con un effetto che la Guilleux definisce di ‘ridondanza’ e che, secondo i risultati del suo studio, è frequente in tragedia più che nei poemi omerici27. dzǤЃǧХ è infatti unito ad ͚ǯМ e dipende da ΓdzǤǰǷǬǟǩǨǬǰ: benché, come si è detto, ΓdzǤǰǷǬǟǩǼ possa reggere sia il dativo sia l’accusativo, la ripresa da parte della regina dell’ordine formulato da Dario al v. 834, dove Γdz ǤǰǷǬǟǩǼ secondo il testo tràdito regge il dativo, rende altamente probabile che anche in questo passo il verbo debba essere costruito col dativo. Come anticipato, Eschilo offre due ulteriori possibili occorrenze di elisione di iota: Suppl. 6 e Pers. 914. Riguardo al verso delle Supplici, Vittorio Citti, partendo dalla considerazione che anche allo scoliaste «non disturbava per nulla l’elisione dello iota» (cf. Smith 1976, 66.7 s: DzΖǷǬǰХ͚ǹХǤͻǯǤǷǬxDzΒǭ͚ǹХǤͻǯǤǷǢǷǬǰǬǭǤǷǤǦǰǼǶǫǨЃǶǤǬǻǡǹЙdzǿ ǮǨǼǵǧǪǯDzǶǢϨͧǯϪǵ͊dzǨǮǤǸǰDzȀǶ϶ǵ), intende il verso «non condannate da alcun bando popolare in seguito a un voto della città ǻǡǹЙ dzǿǮǨǼǵ  per motivi di sangue», riferendo quindi il dativoDzΖǷǬǰ Ǭ DǧǪǯǪǮǤǶǢϨ(da alcun bando popolare): in tal modo sono salvaguardati sia un possibile omerismo (l’elisione di iota) sia una caratteristica propria della lexis echilea, ossia la variatio synonymica, data dall’accostamento di due concetti simili quali ǧǪǯǪǮǤǶǢϨ e ǻǡǹЙ dzǿǮǨ Ǽǵ28. Relativamente a Pers. 914, se si accoglie al v. 913 ͚ǯDzǢ della glossa di Fc, congetturato già da Schütz (come tra gli editori più recenti fanno e.g. Belloni, Sommerstein e Garvie), è certamente possibile interpretare ͚ǶǬǧǿǰǷХ come un accusativo maschile singolare, pensando (con Garvie) a un mutamento di costruzione con un passaggio dal dativo all’accusativo, per il quale esistono alcuni esempi in tragedia (cfr. ad es. Aesch. Ch. 410 s.; Soph. El. 479-81)29: l’espressione ǮǠǮǸǷǤǬǦήǴ͚ǯDzαǦǸǢǼǰЏȁǯǪ equivarrebbe in questo caso a ‘le forze mi hanno abbandonato’ e quindi potrebbe reggere l’accusativo ͚ǶǬǧǿǰǷ Ǥ . Sembra però che l’unico motivo per interpretare ͚ǶǬǧǿǰǷХ come un accusativo e non come un dativo concordato con ͚ǯDzǢ sia appunto la riluttanza ad ammettere l’elisione di iota nella terminazione del dativo30.

26

Guilleux 2001, 68-9. Ibid. 80. 28 Citti 2007, 12. 29 Cf. Garvie 2009 , 343 ad l. 30 Belloni 1994, 268 ad l. considera ͚ǶǬǧǿǰǷ’ dativo con elisione di iota e giudica invece aspra la costruzione in caso di interpretazione come accusativo. 27

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Oltre a quanto appena detto sulla possibile elisione di iota, è opportuno sottolineare, come fatto da Broadhead ricordando il dzǤЃǧǤdi Lobeck a v. 834, che una variazione di caso (accusativo a v. 834 e dativo a v. 850entrambi retti da Γdz ǤǰǷǢǤǩǼ) appare poco plausibile. Sempre Broadhead, inoltre, dubitava della fortunata congettura di Burges dzǤǬǧǢǯDzǸ, evidenziando a ragione come nei Persiani Eschilo impieghi sempre espressioni quali dzǤЃǵ͚ǯǿǵo ͚ǯβǵdzǤЃǵo semplicemente dzǤЃǵe concludendo «On the whole I think dzǤЃǧ’͚ǯǿǰ, though non convincing, the most satisfactory of the remedies proposed. If it is accepted I should read dzǤЃǧǤin 834 followed by Canter’s dzǤǰǷǢ». Nella sua edizione, come visto, West crocifiggeva ͚ǯМdzǤǬǧǢe negli Studies (1990, 89) riteneva il ǧǡdi Wecklein «though hardly convincing, the best of a poor lot here» e, considerando ancora ͚ǯМuna glossa frequente nei testi tragici, poneva una lacuna tra ΓdzǤǰǷǢǤ ǩǨǬǰ dzǤǬǧǢ e dzǨǬǴǟǶDzǯǤǬ integrandovi ǭǤα ǮDzǦDzǬǶǢ ǰǬǰ dzǤǴǪǦDzǴϸǶǤǬ dzǴDzǶǹǬ ǮЛǵ.  Ripartendo proprio dalla menzionata osservazione di Broadhead, ovvero che nei Persiani non ricorre mai il pronome ma sempre l’aggettivo possessivo e da quanto detto sulla possibilità di elidere Ǭin tragedia, vorrei proporre – almeno per ora – di leggere a v. 850dzǤЃǧ’͚ǯМconservando il dativo dzǤǬǧǢ anche a v. 834, seguito da dzǤǰǷǢ riferito ad ͊ǯǹαǶȁǯǤǷǬ. Un’ultima riflessione va fatta infine sul verbo dzǨǬǴǟǶDzǯǤǬ, accolto dalla maggior parte degli editori: Hermann, invece, scriveva – metri causa – dzǨǬǴǤǶȁǯǨ ǫǤ recuperando così la sillaba persa, eliminando l’aggettivo ͚ǯМ (cfr. supra); più recentemente Broadhead ha ipotizzato dzDzǴǨȀǶDzǯǤǬ che forse «priva il testo di una spia semantica che il tràdito dzǨǬǴǟǶDzǯǤǬ, di per se stesso, è in grado di esprimere. L’idea che il testo sia sano viene rafforzata da un confronto con Ag. 1638-9 ͚ǭ ǷЛǰ ǧί ǷDzАǧǨ ǺǴǪǯǟǷǼǰ dzǨǬǴǟǶDzǯǤǬ / ͎ǴǺǨǬǰ dzDzǮǬǷЛǰ, dove è espressa l’intenzione di prendere il potere, ma non già la sua ascesa ad esso»33. ǔǨǬǴǟǶDzǯǤǬ pone ad alcuni problemi di natura esegetica: la regina, quella regina, davanti alla quale s’inchinano rispettosamente i vecchi del Coro, può avere dubbi e provare il sentimento della paura? Atossa, la regina potente (cf. Hdt. 3.134; 8.8), appare qui una donna addolorata e il suo dolore prende concretezza nei ǮǤǭǢǧǨǵ, che avvolgono il corpo di Serse. Il verbo dzǨǬǴǟǶDzǯǤǬ, perciò, se da un lato può anticipare il dubbio della donna di non poter giungere in tempo ad accogliere il figlio sventurato (Atossa, infatti, non apparirà più sulla scena), dall’altro getta una luce di umanità sulla madre-regina, che, all’inizio della tragedia, Una integrazione avevano già proposto Meineke, che suggeriva dzǤǴǪǦDzǴϸǶǤǬ dzǤЃǧ’ ͚ǯǿǰ o ΓdzǤǰǷǢǤǶǼ dzǤǬǧα ǭǤα dzǨǴǟǶDzǯǤǬ ǮǨǢDzǬǶǬ ǧǸǶǹDzǴDzАǰǷǤ dzǴǤǾǰǤǬ ǮǿǦDzǬǵ e Wiel, che postulò una lacuna tra dzǤǬǧα ed ͚ǯМdzǨǬǴǟǶDzǯǤǬcf. Wecklein 1885 II 37. 32 In alternativa si potrebbe accogliere dzǤǬǧα͚ǯМ e ipotizzare, con Kapsomenos, 1990, 321-30, in part. 326, la consonantizzazione dello iota (già Hermann, come si è detto, pensava alla possibilità di una sinizesi): l’ipotesi è suggestiva, ma Kapsomenos non porta paralleli per tale fenomeno in fine di parola. Il caso di Soph. El. 867, citato a p. 327, ǧǬХǤͶǫǠǴǤǷǨǭǰǼǫǠǰǷǨǵ è differente, in quanto la consonantizzazione si verifica in una parola elisa. 33 Belloni 1994, 257. 31

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aveva più volte manifestato la sua ansia (cf. vv. 161-5), facendo eco a quella del Coro (v. 116). Salerno

Paola Volpe Cacciatore

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SUR LA POÈTIQUE DE LA SCÈNE FINALE DES SEPT CONTRE THÈBES à Didier Pralon, philologue des Sept

Le jugement philologique d’inauthenticité repose souvent sur un jugement de qualité : les ajouts dénoncés sont déclarés moins dignes que les parties authentiques d’un texte. Or il n’y a là pas seulement le risque évident d’une emprise de la subjectivité de l’interprète sur sa démarche, ou un risque d’anachronisme dans le choix des critères, mais, plus fondamentalement, le risque que ne soit pas reconnue la présence, dans les parties condamnées, d’une perspective discursive cohérente et originale. Un ajout n’est historiquement pas anodin ou simplement inauthentique. Il demande à être interprété pour lui-même tout autant que ce que l’on conserve, et une histoire critique du texte n’est possible que si l’on reconstitue la logique propre des interventions dont il a été l’objet. La fin des Sept contre Thèbes est en ce sens exemplaire, puisque l’interpolation est massive et que par sa taille même elle donne la possibilité de reconnaître un mode particulier de composition, une poétique. La question n’est dès lors pas seulement de savoir en quoi ce texte montre qu’il n’est pas d’Eschyle (si c’est la thèse critique que l’on choisit1), mais plutôt : étant entendu qu’il n’appartenait sans doute pas au texte de la représentation originaire, que signifie-t-il ? C’est-à-dire : que prétend-il faire, en tant que tel, d’un point de vue poétique et théâtral ? et, en second lieu : que signifie historiquement sa présence dans le corpus eschyléen ? Il ne s’agit pas seulement de distinguer le tardif de l’original, mais aussi de s’interroger sur l’originalité du tardif, et pour cela de reconnaître le type de poétique auquel il se réfère. Le Nachdichter est un Dichter. Le situer historiquement ne consiste pas seulement à repérer des influences (de la langue de la fin du Ve siècle, ou du début de IVe, de la technique dramatique de cette époque, des pièces antérieures qu’ont été l’Antigone de Sophocle et Les Phéniciennes d’Euripide, ou de la Sophistique, sans parler des révolutions politiques qu’a connues Athènes), même si cette opération est nécessaire et conduit, je crois, à une conclusion plutôt ferme sur l’‘inauthenticité’ de cette fin, et au constat que l’œuvre d’Eschyle s’achève sans cette scène finale. La situation historique de ce texte est aussi le type de poétique qu’il emploie (on le verra, une poétique du discontinu, de l’intensité), en tant que ce type dialogue avec ceux que déploient Eschyle et les deux autres auteurs tragiques que nous connaissons. La différence avec Eschyle apparaîtra ainsi plus clai-

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Il reste à écrire une histoire intellectuelle de l’athétèse : des doutes sur la qualité esthétique de la fin, parfois dénoncée comme ‘postiche’, sont devenus des hypothèses historiques à partir du moment où la didascalie du manuscrit M donnant la composition de la trilogie a été publiée (par J. Franz en 1848) : les Sept ne pouvaient plus être considérés comme une pièce intermédiaire. La même année, A. Schöll proposait la suppression de 1005-78 ; mais la querelle n’a commencé qu’au début du XXe siècle.

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rement, comme discussion, proposée ex post, entre des formes dramaturgiques différentes.2 Pour le dire en un mot, et anticiper la conclusion : contrairement à l’opinion de plusieurs critiques, cette fin rajoutée ne change en rien la perspective de la pièce sur le mythe, sur le droit (et le bien fondé des prétentions juridiques de Polynice), ni, et c’est plus fondamental, sur la relation entre la famille d’Œdipe et l’espace politique qu’elle dominait. Elle reprend plutôt le matériau de la pièce dans une relation critique avec les œuvres de Sophocle et d’Euripide.3 On a plutôt affaire à une réactualisation de l’œuvre originaire, dans un ajout qui se signale comme tel, ne serait-ce que parce que, de manière abrupte, il emploie un autre mode de composition. Ainsi, les philologues qui condamnent la scène s’étonnent que l’interdiction annoncée par le héraut n’ait aucun effet, et qu’on ne sache pas ce qu’il advient de la contrevenante, Antigone ; ce serait une preuve de faiblesse, et donc d’inauthenticité. Mais peut-être que la perspective du poète de la fin n’était tout simplement pas celle-là. Il connaissait les fins de l’Antigone et des Phéniciennes (aussi problématique soit celle de cette dernière pièce), et ne prétendait pas donner sa propre version. Pour cela, il renvoyait les spectateurs à ce qu’ils connaissaient déjà. Ce n’était pas son objet. Son but semble plutôt avoir été de substituer au partage lyrique des voix dans le thrène de la fin authentique, un partage dramatique, avec deux cortèges, de manière à revenir, dans une construction circulaire, au prologue, où le malheur éventuel du roi régnant et la malédiction d’Œdipe avaient été traités selon une logique politique. Il crée une scène après une autre (le thrène), un tableau après un autre, et demande qu’on perçoive les deux dans leur différence, sans prétendre poursuivre une intrigue, qui ne l’intéresse visiblement pas. Par là, il introduit dans la pièce d’Eschyle une donnée dramatique postérieure (l’interdiction d’enterrer Polynice et la révolte d’Antigone) et la réinterprète du point de vue de la pièce d’Eschyle. Euripide, dans Les Phéniciennes, avait déjà fait quelque chose de semblable : il réécrit l’Antigone de son rival en l’insérant dans sa propre perspective, en confrontant la rebelle, héritière chez Sophocle des malheurs d’Œdipe dont elle se croit dépositaire légitime, à un Œdipe vivant. Sa décision est dès lors plus chancelante. Je ne reviendrai pas ici sur les raisons qu’il y a de douter que la fin et les anapestes des vers 861-4 aient fait partie du texte d’origine ; les arguments portant sur la dictio, sur la métrique, sur la dramaturgie (la question du nombre d’acteurs), l’évidence des références aux pièces de Sophocle et d’Euripide, et, c’est ce que j’ajouterai ici, la différence de poétique sont des indices suffisants. Il y a 2

Un travail parallèle à celui-ci sur la fin problématique des Phéniciennes d’Euripide aiderait à définir cette situation historique de la tragédie. 3 Je me bornerai ici à reprendre quelques éléments de l’Antigone. Pour la relation à la fin des Phéniciennes (dont l’appréciation philologique et historique est grevée par l’incertitude où nous mettent les vers finaux de cette pièce), voir Petersmann 1972. Sier 1991 ajoute une référence précise à l’Ajax, en notant la correspondance entre les vers 1055-65 de cette pièce et les vers 101324 des Sept. Le caractère fermé, sans concession, du dialogue entre Ménélas et Teucros se retrouve, mais sans propos dramaturgique, dans le différend entre le héraut et Antigone.

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bien des acquis dans la critique textuelle, qui est cumulative, et le résultat, quand il est issu d’une insistance sur le détail, est sans doute établi. Je serai beaucoup plus sceptique sur les arguments de contenu (voir la dernière partie de cette étude). L’hypothèse sera que cette fin est authentiquement eschyléenne, en ce qu’elle reprend les options majeures de la pièce et son matériau linguistique, mais qu’elle appartient à un moment plus tardif (avant la recension critique commanditée par Lycurgue ?4) de cette tradition propre à Eschyle et à son école (et sans doute à sa famille)5. L’objet sera ici surtout d’analyser la manière de ce poète second, qui, selon moi, se revendique comme second, par rapport à l’autorité qu’est pour lui Eschyle, et par rapport aux successeurs de son maître, dont il a pris l’œuvre en charge pour une nouvelle représentation, et donc, si c’est le cas, pour la faire gagner. Il propose, dans la mise en avant de ces dépendances et de ces écarts, un regard rétrospectif et nouveau sur ce qui a été vu et entendu dans cette reprise des Sept (pièce à laquelle il n’a visiblement, jusque là, pas touché), ainsi que dans l’histoire de la tragédie. Il fait du théâtre à partir d’une analyse des spectacles antérieurs, selon la perspective d’un déplacement de ce qui a déjà été dit, selon une manière que l’on voit pleinement à l’œuvre chez Euripide. Pour esquisser les orientations de cette poétique nouvelle par rapport à Eschyle, je traiterai d’abord de plusieurs questions critiques qui pèsent fortement sur l’interprétation. La première est de savoir si le vers 1004, qui, dans la tradition, clôt l’échange lyrique autour des corps des deux frères6, juste avant l’interpolation, peut constituer une fin (partielle ou totale). C. Prien (en 1854) a supposé une lacune après ce vers. Wilamowitz-Moellendorff (1914, 85) pensait que l’auteur de la fin a supprimé la conclusion originelle de la partie lyrique, qui devait s’achever sur un morceau impressionnant chanté par l’ensemble du chœur. De manière plus précise, Sommerstein (2008) tente de démontrer que le vers 1004 ne peut pas être conclusif, puisque la question qu’ouvre le chœur en 1002 (‘Iô, où nous mettrons4

Sans doute. Il faut bien expliquer pourquoi cette fin a été acceptée dans l’Antiquité. Sur la question des reprises des pièces d’Eschyle dès le Ve siècle, et du sens à donner à l’expression correctas eius fabulas de Quintilien (inst. 10.1.66 = TrGF III T 77), voir Zimmermann 2006. Lech 2008 conclut de l’imprécision de la référence aux Sept en Lysistrata, 188-9 (à propos d’un serment juré par des femmes : ‘Sur un bouclier, comme on dit [ǹǟǶϲ(Ǭ)] qu’Eschyle autrefois, / En égorgeant un mouton [ǯǪǮDzǶǹǤǦDzȀǶǤǵ]’, alors que le texte des Sept parle d’un égorgement de taureau, ǷǤǸǴDzǶǹǤǦDzАǰǷǨǵ, v. 44) qu’Aristophane se référait alors, en 411 av. J.-C., par ouïdire (cf. ǹǟǶϲ[Ǭ]), à une pièce mal connue, non reprise (mais le passage du taureau au mouton est sans doute plus ironique que fautif). En Grenouilles, 1021, mention est faite du titre, ce qui pourrait correspondre à une reprise après la visite de Gorgias à Athènes, dont Aristophane cite vraisemblablement le jugement sur la pièce. Les Sept auraient donc été repris avant 405, peut-être avec la fin ajoutée. 6 Je laisse ici de côté le problème de la présence ou non des deux sœurs dans le thrène final ; il devrait, je crois, être dissocié de la question de l’authenticité de la dernière scène. Pötscher 1958 garde les deux sœurs tout en supprimant la fin. 5

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vous dans la terre ?’) reste selon lui sans réponse. Au demi-chœur qui propose, en 1003, d’enterrer les frères ‘là où il y a le plus d’honneur’, ͞ǰǫǤǷǬǯǬȁǷǤǷDzǰ, l’autre objecterait que ce serait infliger une douleur à Œdipe (dzϸǯǤdzǤǷǴαdzǟǴ ǨǸǰDzǰ)7, et donc que c’est exclu. La question n’est pas réglée, et les vers suivants (supprimés par l’auteur de la fin) devaient apporter une solution8. Cela présuppose (et on peut l’accepter) que la ‘place d’honneur’ envisagée en 1003, est le lieu destiné à recevoir les dépouilles de la famille royale et qu’il devrait donc être partagé par le père et ses fils (cf. Hutchinson 1985)9. Mais sans doute faut-il comprendre le vers 1004 autrement, non comme une objection, mais comme un commentaire, comme le suggère la syntaxe, avec le décalage entre la relative du vers 1003 et le syntagme nominal du vers 1004. Si le vers avait une fonction argumentative d’opposition, cela serait marqué. Il s’agit d’une apposition. La progression entre les répliques semble avoir été clairement analysée par Schütz (1809, 361): «Antigone, quoniam nescit, quo alio loco honorificentius, quam in patris sepulcro condantur fratrum cadavera, statim exclamat (suppressa hac sententia: Ergo in patris sepulcro ponemus!) ͶδdzϸǯǤdzǤǷǴαdzǟǴǨǸǰDzǰ, Heu malum juxta patrem accubiturum!»10. Pour le vers 1004 lui-même, Schütz opte pour une construction de dzǤǷǴǢ qui semble la plus plausible : il relie (avec les scholies) le datif à dzǟǴǨǸǰDzǰ, plutôt qu’à dzϸǯǤ (‘souffrance pour un père’), ce qui correspond mieux à l’ordre des mots et évite de laisser le dzǤǴǤ- de dzǟǴǨǸǰDzǰ sans référence. Quant à la syntaxe de cette apposition, deux possibilités peuvent être envisagées : ou bien il s’agit d’une Satzapposition, l’enterrement, en ce lieu royal, des deux frères serait ‘une souffrance couchée auprès d’un père’, ou bien, comme le pensait Schütz, dzϸǯǤ reprend directement ǶǹǨ. L’épithète dzǟǴǨǸǰDzǰ n’est dès lors pas métaphorique ; c’est dzϸǯǤ qui le devient ; les frères sont une souffrance : «dzϸǯǤ sing. pro plurali, de ipsis fratribus dicitur» (Schütz ibid.)’. Un argument pour cette solution est le fait que dzǟǴǨǸǰDzǰ est en fin de vers, dans une position emphatique : coucher là les deux frères revient à coucher une souffrance près d’un père. La présence de dzǤǷǴǢ ne peut par elle-même être prise comme le signe d’une intervention d’Antigone dans l’échange (cf. Kohl 1920, qui garde Antigone, mais supprime Ismène). L’emploi du mot est lié à celui de dzǟǴǨǸǰDzǰ, qui indique un lien familier ; le chant se concentre sur la famille. 8 West 1990 suppose la lacune d’un vers. 9 Brown 1976, qui tient à ce qu’une sépulture commune des deux frères ne soit pas envisagée (il maintient le discours du héraut et les anapestes de la fin, avec la séparation des deux cortèges funèbres), s’appuie sur des travaux mettant en doute la pratique de tombes communes après l’Âge de Bronze (mais cf. Hutchinson 1985 ad l.). Cela l’amène à méconnaître la valeur de ǷǟǹǼǰdzǤ ǷǴȁǬǼǰǮǤǺǤǢ au vers 914 (où ǮǤǺǤǢ a plutôt le sens de ‘creusements’ que de ‘parts’, même si ce second sens s’entend en surimpression) : il n’est pas dit que les fils auront leur propre part (individuelle) de ‘tombes ancestrales’ (dzǤǷǴȁǬǼǰ est alors obscur), mais qu’ils seront ensevelis au sein des tombes familiales, non loin des autres. Par ailleurs, il donne une valeur seulement métaphorique à dzǟǴǨǸǰDzǰ en 1004, alors que ‘couche’ est directement induit par le thème de la sépulture. 10 Il est intéressant pour l’histoire de notre discipline qu’à une interprétation publiée en 2008 puisse être opposée une analyse de 1809. 7

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Le rapprochement physique d’Œdipe et de ses fils, qui est attendu en raison de leur rang royal commun (v. 1003), n’est pas une injure faite à Œdipe, mais crée une communauté de souffrance (cf. Pralon 200811). La famille est réunie, dans le mal12 : ‘Iô, iô, souffrance couchée avec un père’. Tout est parti d’Œdipe, et après la mention de la peine (dzǿǰDzǵ) imposée de son fait à la maison et au pays (v. 995), puis, plus spécifiquement, de la peine faite aux deux personnes qui chantent les vers 996 et 997, et, enfin, aux deux fils eux-mêmes (v. 1000), la souffrance finit par retourner à son origine (v. 1004). Il y a donc bien là une fin possible13. La pièce d’Eschyle pouvait certes continuer. Comme nous avons affaire à un texte mouvant, il sera impossible de le savoir, mais l’analyse interne de l’échange, tel qu’il est transmis, ne permet pas de conclure à son incomplétude. Cette section de l’échange (et peut-être l’échange lui-même et la pièce) finit sur une dissonance, non résolue, qui réunit les trois rois. Elle pose une harmonie (dzǤǷǴαdzǟǴǨǸǰDzǰ) dans un mal perpétuel (dzϸǯǤ). Le Nachdichter s’appuie directement sur cette fin (définitive ou non). Il redéploye, analytiquement, l’unité dissonante posée par les vers 1003-4, en transposant la contradiction, qui était l’objet d’un chant rituel de plainte, sur un plan politique, avec l’introduction d’une norme séparant les deux frères. On passe de l’expressif à l’argumentatif au sein d’un espace politique qui remet en question l’unité tendue atteinte par le lyrisme. Une ligne de lecture se laisse ainsi définir, mais avant de la suivre, il convient de revenir sur quelques points critiques de cette fin, non pour tester seulement des solutions, mais pour caractériser le style de cette poésie seconde, dont la nature apparaît d’abord dans les détails. J’ai choisi plusieurs passages qui demandent une décision éditoriale. – v. 1009. La raison que l’on a de ne pas reprendre la leçon de la quasi-totalité des manuscrits ǶǷǸǦЛǰ est moins qu’elle serait sans objet (selon Hutchinson; Verrall 1887, qui la défend, y retrouve un principe de la morale politique ancienne, ‘haïr ses ennemis’14), que la présence de la variante ǨͺǴǦǼǰ, donnée par des recentiores, et qui apparaît le plus souvent comme glose. Dans M, elle est accompagnée de ǧǪǮDzǰǿǷǬ, ce qui indique bien que l’on n’a pas là une leçon, mais une interprétation (cf. Sidgwick 1903)15, qui ne peut s’appliquer au texte transmis ; ǶǷǸǦЛǰ, qui semble avoir été commandée sémantiquement par la proximité de ͚ǺǫǴDzȀǵ, résulte soit d’une mélecture, soit d’une perplexité devant un mot 11

Mazon 1920 traduit par «leur misère». Le long développement que consacre Welcker (1826, 153-4) à ce vers est l’exemple même d’une lecture ancienne dont le résultat final ne peut être repris, mais qui par ses arguments aide à comprendre. Welcker, contre Schütz, tente de montrer que l’expression ne suppose pas qu’Œdipe soit mort avant ses fils, puisque selon sa reconstruction de la trilogie (une Thébaïde, avec Némée, Sept, Phéniciennes), démentie depuis la publication de la didascalie de M qui en donne la composition, Œdipe devait être vivant comme dans Les Phéniciennes d’Euripide ; il insiste dès lors sur le caractère interprétatif et non factuel du vers. 13 Cf. Fraenkel 1961, qui compare des thrènes tragiques en chant alterné. 14 De même Mazon 1920, Groeneboom 1938 et Nikolaus 1967, 61, qui renvoie à Prométhée 978. 15 Malgré cela, Hutchinson la met dans son texte. 12

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qui, de toutes manières, avait à être commenté. Le ǶǷǨǦЛǰ de G. Wakefield (proposé en 1789, cf. West) explique à la fois la glose ǨͺǴǦǼǰ et la leçon ǶǷǸǦЛǰ. L’argument qu’on lui oppose, à savoir que ǶǷǠǦǨǬǰ, ‘mettre à l’abri de’, n’a normalement pas pour objet des humains (pour ce dont on se protège ; ici : ͚ǺǫǴDzȀǵ; d’habitude il s’agit de l’eau), se retourne. Non seulement l’auteur reprend une métaphore maritime qui traverse la pièce et réemploie un mot utilisé par Étéocle en 216 avec une construction normale (‘Priez pour que nos tours arrêtent la lance ennemie’ ; voir aussi 234 et 797 ; cf. Brown 1976, 216), mais, en utilisant de manière inattendue un mot thématique dans la pièce, il fait un ‘coup’, et construit une métaphore condensée : Étéocle, pour le héraut, est l’équivalent du rempart. On a donc affaire, si c’est le bon texte, à une expression référentielle, qui suppose les autres emplois dans la pièce et qui, dans une image synthétique, redéfinit, d’un seul mot, le rôle d’Étéocle dans l’action. Cela permet sans doute de comprendre le ͚ǰdzǿǮǨǬ qui conclut le vers et qui a choqué (au point de faire préférer le ͚ǰdzȀǮǤǬǵ, platement descriptif16, de Francken (cf. Hutchinson, Sommerstein). Étéocle, certes, est mort aux portes, mais il est d’abord mort chez lui, dans la ville qu’il a, seul, protégée, contrairement à Polynice qui est venu mourir avec une ‘armée d’importation’ (ǶǷǴǟǷǨǸǯХ͚dzǤǭǷǿǰ, v. 1019), pour attaquer sa ville (dzǿǮǬǰ, également en fin de vers). Il est vrai que ͚ǰdzǿǮǨǬ est formulaire pour dire ‘sur l’Acropole’ (Thuc. 5.23.5, Aristoph. Lys. 245, 758 : cf. LSJ s.v. I.1), mais outre que dzǿǮǬǵ désigne aussi le territoire régi par une cité, la reprise de la formule souligne, avec une métonymie implicite (l’acropole pour Thèbes), le lieu où Étéocle a exercé son pouvoir jusqu’au bout. Il est mort en roi, conformément à sa fonction. L’emploi de l’expression bizarre ǦϸǵǹǢǮǤǬǵǭǤǷǤǶǭǤǹǤЃǵ, au vers précédent, pour dire, apparemment, la tombe d’Étéocle, trouve sa raison d’être. Fraenkel (1964) y voit une maladresse et la preuve d’une dépendance du texte vis-à-vis de l’Antigone de Sophocle. Le mot est eschyléen (cf. Sept 46, Choéphores 50, et, pour le verbe ǭǤǷǤǶǭǟdzǷǨǬǰ, Agamemnon 525), mais toujours avec le sens négatif de ‘destruction par creusement de la terre’, ‘dévastation’ ou ‘décombres’, et non de ‘tombe’. L’interpolateur, ‘hâtif et rapace’ selon Fraenkel, aurait utilisé un mot d’Eschyle, mais selon la mauvaise interprétation qu’il avait d’Antigone 920, où il a cru que le terme signifiait la tombe, alors qu’il s’agit de la grotte où Antigone est destinée à mourir. Il récidive en 1037 (voir infra). Il était mauvais philologue. L’authenticité d’une poésie se mesurerait donc à son degré d’acuité philologique, l’interprète moderne projetant ainsi ses critères professionnels sur son objet. Mais l’analyse ne tient pas compte de la présence de ǹǢǮǤǬǵ, qui étonne17 et qui fait directement contraste avec le ͚ǺǫǴDzȀǵ du vers suivant. L’épithète signale une réinterprétation du substantif. Les ennemis de Thèbes avaient promis ‘de mettre la ville en décombres’ (dzǿǮǨǬ ǭǤǷǤǶǭǤǹήǵ / ǫǠǰǷǨǵ, vv. 46-7). Mais, finalement, ce creusement sera non pas hostile, mais ‘ami’. La terre, qu’Étéocle a 16 17

«conjectura frigidiuscula», selon Weil 1862, 108. Et que O ante correctionem banalise en écrivant ǹǢǮǪǵ, dépendant de Ǧϸǵ.

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sauvée, pour laquelle il a montré sa bienveillance (v. 1007), l’accueillera dans ce qui la caractérise en propre, sa profondeur, inversant ainsi la menace des ennemis (qui avaient juré ou de dévaster la ville, ou de nourrir la terre par leur sang, v. 48). La traduction de Sommerstein, «in the loving recesses of the earth» est donc justifiée ; le mot, comme dans le passage de l’Antigone, ne vaut précisément pas pour ‘tombe’. Le verbe ǫǟdzǷǨǬǰ, en début de vers, suffisait pour donner ce sens attendu18 ; ‘creusements’ ajoute une analyse : la terre sera bien ouverte, disloquée, mais non pas pour la ruine. Étéocle, citadelle visible (cf. ǶǷǨǦЛǰ), sera logé au sein intime de ce qu’il a protégé, dans un renversement (cf. ǹǢǮǤǬǵ) de la valeur habituelle, eschyléenne, du mot. - vv. 1035-6. Les éditeurs récents (Hutchinson, West, Sommerstein) reprennent l’hypothèse de C. Prien d’une lacune entre ǶǟǴǭǤǵ et DzΒǧǠ (Page 1972 garde le texte transmis) : il manquerait un premier terme négatif justifiant le DzΒǧǠ, qui, en tragédie, est toujours conjonctif, et non emphatique. On aurait, avant les loups, quelque chose voulant dire «neither birds nor dogs» (Hutchinson). Mais le point est qu’Antigone ne mentionne précisément pas le cliché, employé par le héraut (v. 1020), d’un cadavre livré aux oiseaux.19 S’appuyant sur la phrase de son interlocuteur, qu’elle présuppose, elle renchérit tout de suite : ‘pas même la panse des loups […]’. Elle dit par là la monstruosité de l’acte prévu par la ville, et la résistance qu’elle est prête à lui opposer. L’abandon du corps de Polynice, décidé par la cité, ne relève pas de ce qu’on dit d’habitude (un corps livré aux oiseaux), mais déchaînerait des forces sauvages, les loups, qui sont connues, selon le bestiaire traditionnel, pour être a-civiques, contraires aux règles de la cité ; la cité se mettrait du côté de ce qui devrait lui être étranger. Antigone se donne cet adversaire, qui rappelle les Myrmidons sanguinaires de l’Iliade, et le combattra par ses forces de femme. Sa phrase n’est pas à prendre pour elle-même, mais sur la base de celle du héraut. - vv. 1037-40. Deux difficultés ont été discutées : la valeur (ou la possibilité) du redoublement ǤΒǷЛǬ puis ǷЛǬǧǨ, les deux pronoms étant à la fois trop disjoints et redondants s’ils ont le même référent, Polynice ; le complément sous-entendu de ǹǠǴDzǸǶǤ (la terre ou Polynice ?). La première a été levée de deux manières, ou par la correction de ǤΒǷЛǬ en ǤΒǷǡ (avec J. Pierson, en 1752, et A. Askew, cf. West, conjecture reprise par 18

Le fait que peu après, en 1037 (ǷǟǹDzǰǦήǴǤΒǷЛǬǭǤαǭǤǷǤǶǭǤǹήǵ͚Ǧȁ), Antigone reprenne l’ordre des éléments sémantiques de 1008 (ǫǟdzǷǨǬǰ […] ǭǤǷǤǶǭǤǹǟǵ) en les dissociant par un ǭǤǢ, confirme que les deux termes ne s’équivalent pas. 19 Encore que ce cliché, dans son discours, trouve une présentation inattendue, dans un oxymore : ‘inhumé par les oiseaux volatiles’, c’est-à-dire non inhumé. Nikolaus voit une influence de Gorgias dans cette expression (cf. fr. 5a D.-K., où les vautours sont des ‘tombes vivantes’). Erbse 1974, 177, qui tente de minimiser les arguments des tenants de l’inauthenticité, lui réplique qu’Eschyle n’avait pas besoin de modèle et pouvait trouver dans Homère de nombreux passages où les corps étaient mangés par les oiseaux. Mais c’est bien l’antithèse qui fait effet ici.

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Hutchinson et Sommerstein), ou en rapportant ǷЛǬǧǨ non pas à Polynice mais à ǭǿǮdzǼǬ du vers suivant (de Pauw). Avec la première solution, on obtient un redoublement ǤΒǷǡ […] ͚Ǧȁ, qu’il faudrait justifier (͚Ǧȁ est déjà en position emphatique, en fin de vers), ainsi qu’une répétition ǤΒǷǡ … ǭǤΒǷǡ (v. 1040) qui affaiblit la force du second pronom (cf. Dawe 1978, 98), et on perd la polarité ‘lui’ / ‘moi’, qui est frappante (cf. Nikolaus 1967, 77). Avec la seconde, on va contre l’ordre des mots. La double référence à Polynice peut s’interpréter si on ne fait pas de ǷǟǹDzǰet ǭǤǷǤǶǭǤǹǟǵun hendiadyn, comme le fait Sidgwick («the digging of a grave for him I will myself devise»), mais si, en respectant la différence de niveau sémantique des deux termes, comme au vers 1008, on pose qu’Antigone reprend l’analyse qui est implicite dans la phrase du héraut et la dépasse. Sa phrase commence par un groupe synthétique qui désigne l’enjeu de sa décision : ‘des funérailles, pour lui’ (ǷǟǹDzǰ, en début de vers, comme le ǫǟdzǷǨǬǰ du héraut). Il s’agit bien, globalement, d’inhumer Polynice, contre l’interdiction de la cité. La phrase repart (avec ǭǤǢ) de manière à fournir l’exact contre-point de celle du héraut : ‘et, pour ces creusements (que tu dis), moi, bien qu’étant femme, j’en trouverai le moyen’ (le mot ǭǤǷǤǶǭǤǹǤǢ prend plutôt ici sa valeur de nom d’action). Le héraut parlait d’une action extraordinaire (puisque ǭǤǷǤǶǭǤǹǤЃǵ, on l’a vu, note une certaine violence, corrigée par ǹǢǮǤǬǵ), à la mesure de la force propre à Étéocle. Elle se dit à même de l’accomplir pour l’autre, bien qu’étant femme. Le déictique ǷЛǬǧǨ désigne Polynice présent sur scène, en tant qu’il s’oppose à Étéocle, et n’a donc pas la même valeur que ǤΒǷЛǬ, qui est plus neutre, non contrastif. La construction langagière complexe qu’a proposée le héraut pour parler avec emphase des funérailles politiques d’Étéocle, elle la reprend, de son point de vue de femme. Et de fait, c’est une solution féminine qu’elle annonce dans le vers suivant : ǭǿǮdzǼǬǹǠǴDzǸǶǤǥǸǶǶǢǰDzǸdzǨdzǮȁǯǤǷDzǵ. Identifier l’objet implicite du participe ǹǠǴDzǸǶǤ est loin d’être facile. La vraisemblance (Antigone a-t-elle la force de porter Polynice et de l’enterrer20, ou doit-elle se contenter d’un rite symbolique, comme dans la pièce de Sophocle, en répandant un peu de terre sur le corps ?) ne peut servir de critère, puisque le personnage insiste (v. 1041 après 1038) sur la nature inouïe, inattendue de son modus operandi, dont la découverte lui sera dictée par son audace. La logique interne du passage ne peut donc être reconstruite qu’à partir des mots et de leur agencement. Aucune représentation normale n’est présupposée. Un élément de la réponse est déjà le fait que l’ellipse, comme figure, n’est pas isolée, mais se répète au vers suivant : ǭǤΒǷΰǭǤǮȀǻǼ (avec Polynice comme objet) ; le fait ne semble pas avoir été vraiment pris en considération par la critique. L’ellipse est donc ici une forme choisie, un mode d’expression (et non pas seulement un problème philologique) : la scholie 1039b (cf. Smith 1982, 414.1) parle d’‘énigme’ (ǤͶǰǢǷǷǨ

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Voir les doutes émis, indépendamment, par Nikolaus 1967 et de Dawe 1967, en contraste avec l’option prise par Lloyd-Jones 1959, 99. L’article de Lloyd-Jones est une vigoureuse défense de l’authenticité. Il n’a pas été repris dans le recueil de 1990. Lors d’une invitation à Lille, par Claude Meillier en 1977, il m’a dit ne pas se reconnaître dans l’auteur de ce texte.

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ǷǤǬ). Antigone s’exprime abstraitement, ne retenant que les éléments pertinents, avec un accent mis sur elle, puisque par deux fois, c’est l’objet qui manque. Polynice est clairement le complément sous-entendu au vers 1040. Cela n’implique pas qu’il le soit déjà au vers précédent : le texte doit se lire dans son déroulement temporel. La présence de ǷЛǬǧǨ au vers 1038 n’implique pas non plus que l’objet soit nécessairement le frère21. Antigone vient de parler d’un moyen de réaliser les funérailles et le creusement nécessaire de la terre ; le groupe intercalé ‘bien qu’étant femme’, annonce que cela sera accompli sur un mode particulier. Il me semble alors, finalement, que le vers 1039 donne la condition de l’assertion prononcée en 1040 : ‘et moi, seule, je le cacherai’ (ǭǤǢconclusif), et que l’ellipse reprend ce qu’elle a posé comme thème important de son discours en début de phrase : ǷǟǹDzǰ […] ǭǤα ǭǤǷǤǶǭǤǹǟǵ, dans une interlocution stricte avec le héraut : ‘ces funérailles et ces creusements dont tu parles je les réaliserai en les portant au creux de ma robe’ (cf. Blomfield 1823)22. Le référent réel est bien la terre qu’elle portera, comme l’entendaient les scholies (terme impliqué par ǭǤǷǤǶǭǤǹǟǵ, cf. Ǧϸǵ[…] ǭǤǷǤǶǭǤǹǤЃǵ en 1008), mais cela est dit indirectement, avec un propos dans cette ‘énigme’ : les funérailles spectaculaires et officielles dont à parlé le héraut pour Étéocle auront lieu également pour Polynice, mais telles qu’une femme peut les réaliser, en transposant le rite. Femme, elle accomplira le geste féminin habituel de tenir un objet précieux sur son sein. Le datif ǭǿǮdzǼǬ, dans le formulaire homérique, note le lieu où la mère tient un enfant ; une fois, c’est le lieu d’une dissimulation, quand Héra y dépose, de manière à le cacher, le ruban brodé que lui donne d’Aphrodite pour séduire et tromper Zeus, Iliade 14.219, 223, avec la même idée de ruse. Ici, le creux de la terre devient celui de la robe dissimulant la terre du rite. Si cette lecture est juste, il n’est pas besoin de supposer que l’auteur était contraint par le précédent sophocléen d’une Antigone condamnée à ne pas enterrer véritablement Polynice, mais à le saupoudrer de terre. C’est le contraire.23 L’Antigone de notre texte dit que ce geste, repris de la pièce de Sophocle, est un rite funèbre complet, qu’il demande bien une excavation de la terre, différente de celle que prévoit le héraut pour l’autre frère, mais qui en sera l’équivalent. Antigone enterre vraiment. Polynice sera traité comme Étéocle, alors que pour le héraut, la violence faite à la terre, violence « amie », devait distinguer les deux frères, Polynice n’étant enterré que par les oiseaux.

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Pour Lloyd-Jones et pour Sommerstein (qui retient pourtant l’autre possibilité), ce serait la construction grammaticalement la plus facile. 22 Blomfield retient ǭǤǷǤǶǭǤǹǟǵ comme objet, sans ǷǟǹDzǰ. Mazon construit le verbe avec les deux substantifs («dussé-je les lui apporter dans un pli de ma robe»). 23 Voir Weil 1862. Pour lui ǭǤǷǤǶǭǤǹǟǵ […] ǯǪǺǤǰǡǶDzǯǤǬ indique clairement qu’Antigone n’envisage pas une sépulture symbolique, mais bien l’équivalent de ce qui est prévu pour Étéocle. Comme ǭǤǷǤǶǭǤǹǟǵ ne peut être, selon lui, l’objet de ǹǠǴDzǸǶǤ, il suppose une lacune avant 1039.

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Ces quelques remarques font apparaître une poétique spécifique, qui n’est pas celle d’Eschyle. Il est, tout d’abord, à souligner qu’aucun passage d’Eschyle ne met les philologues dans ce genre de perplexité. Certes, l’usage eschyléen de l’énigme arrête souvent, mais pour d’autres raisons. Il rend opaque la représentation qui est sous-jacente aux mots, selon le mode de l’obscuritas ; ici, la difficulté tient non à la situation décrite, mais au décalage entre cette situation et le vocabulaire et la syntaxe. C’est ce décalage qui est à interpréter. Il s’agit plutôt d’une poétique du concetto, du paradoxe d’une expression élaborée et déviée, dans une succession de trouvailles, alors même que la référence concrète peut être simple. Cette poésie est savante, dans ses références à Eschyle et à la tradition, non pas pour dire quelque chose de neuf, comme chez Eschyle, mais pour donner à des formes connues une portée inattendue, alors même que l’on sait de quoi l’on parle. Et elle est précise, dans une succession d’événements langagiers clairement contrastés, d’un locuteur à l’autre.24 Ce mode d’expression ǮǿǦDzǸ ǺǟǴǬǰ, ‘pour le plaisir du discours’, de ses trouvailles, de ses références poétiques affichées et de ses surprises, porte la marque d’une esthétique initiée par Euripide. Si l’on se tourne maintenant vers le contenu de la scène dans son ensemble, vers son enjeu, on voit apparaître la même poétique de l’intensité, poétique du discontinu, qui n’est pas aristotélicienne en ce qu’elle ne pose pas les éléments d’une intrigue reliant des actes orientés vers un dénouement (il n’y en a pas), mais crée des effets, des situations qui valent par elles-mêmes, sans lien dramatique direct avec ce qui précède et sans prolongement. Sans que l’on puisse dire que le texte ‘authentique’ des Sept obéisse aux principes d’une poétique visant au développement linéaire et progressif d’un muthos25, il y a là une forte différence avec le reste de la pièce, où les parties contribuent à la construction progressive d’un tout, débouchant sur le tableau final d’un désastre, dans un rite funèbre. Ce n’est pas le cas ici : un tableau, dans l’antagonisme non abouti des personnages, puis dans la scission du chœur, vient se substituer à la fin lyrique du drame ancien. L’indignation d’E. Fraenkel, qui dénonçait le caractère ‘inorganique’, non fonctionnel de la scène par rapport au reste26, et faisait de cette critique négative la base de son jugement d’inauthenticité, manque tout simplement son objet, puisqu’elle n’avait pas reconnu la poétique propre à la scène, mais situe bien l’enjeu de la discussion. Un mode de composition suit un autre, dans un double déplacement, avec une réinterprétation politique de la question des funérailles qui con-

24 La thèse de Brown, qui retient le héraut et non Antigone, ne rend pas compte de cette continuité sémiotique. 25 Je renvoie à mon livre Les tragédies grecques sont-elles tragiques ? (= Judet de La Combe 2010), qui développe un travail mené sur Eschyle (= Id. 2009). 26 «Où subsiste l’autorité dont le Héraut se présentait comme le porte-parole, que résulte-t-il de l’interdit qui a été formulé d’une manière si inflexible ? Interdit ? Il n’en résulte rien, strictement rien ; rien ne se passe, rien ne va ou ne peut se passer. Nous n’avons entendu qu’une déclamation, c’est tout» (Fraenkel 1964, 46 ; je traduis).

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cluait l’échange lyrique27, et avec le choix d’une autre forme théâtrale, où les énoncés ne valent que pour le moment où ils sont prononcés, sans suite. Cette discontinuité thématique et formelle ne gagne pas à être interprétée, et jugée, en termes d’infidélité avec la perspective et le contenu de la pièce ; ce serait encore supposer, dans une optique aristotélisante, que le but de la scène est de prolonger ou d’infléchir l’action du drame et le mythe qui lui est sous-jacent, quitte à produire de l’incohérence. Thalmann (1978, 137-41) consacre la plus grande partie de sa section sur la scène à montrer qu’elle contredit l’histoire telle qu’elle a été racontée avant, avec deux critiques principales : 1) Alors que la pièce insiste sur la destruction totale de la race d’Œdipe, le surgissement des deux sœurs et le rôle actif que se donne Antigone contrediraient ce constat. Mais Antigone n’ajoute aucune nouvelle donnée fondamentale ; elle ne parle que du rite funèbre auquel son frère avait droit, sans donc que sa révolte change quoi que ce soit à la disparition de la famille d’Œdipe comme famille régnante. Elle ne revendique aucune légitimité royale, mais seulement la légitimité de son refus du nouveau pouvoir (͊ǰǤǴǺǢǤ, v. 1030). Le régime politique a radicalement changé.28 2) Alors que la pièce se conclut sur le salut de la ville29, on ne verrait pas pourquoi, selon Thalmann, une rébellion viendrait introduire de nouveaux troubles menaçants pour Thèbes, puisque Eschyle a pris soin d’écarter dans cette pièce l’épisode des Épigones et de la destruction de la ville.30 Mais rien n’est dit ici d’une catastrophe à venir, ni ne la préfigure ; et la fin de Thèbes du fait des fils des sept guerriers morts n’a pas de lien avec des troubles internes de la ville. On peut simplement dire que la fin de Thèbes est inscrite dans le mythe de base, et donc dans le nom même de la ville, comme pour Troie. En écartant les Épigones (qui sont le sujet d’une autre tragédie), Eschyle fait un coup : la ville (de toutes manières vouée à la ruine) est sauve, mais ce salut (momentané) est à entendre sur fond de désastre, comme le suggère indirectement la conclusion contenue dans le vers 1004, qui sans ouvrir la pièce sur un prolongement mythique désastreux, laisse entendre que le salut a eu lieu au prix d’un désastre. La scène finale politise cette tension et opère un retour au début de la pièce : elle réexpose 27

Le thème des funérailles des deux frères n’est pas étranger à la pièce, comme certains l’ont pensé. Non seulement il est attendu et renvoie au lien traditionnel entre tragédie et culte des héros, mais il est présent dans les mots qui rappellent la malédiction. De plus, la tombe paradoxale de Polynice (les oiseaux) renvoie de manière ironique au serment qu’il a fait, avec les sept chefs, de vaincre ou d’inonder la terre de son sang (v. 48) ; on le condamne à ne nourrir que les vautours, hors sol. 28 Il est donc un peu vain de se demander si les institutions nommées dans la fin correspondent ou non à l’organisation du pouvoir dans le reste de la pièce. Il est clair que non ; le contraste se veut spectaculaire. 29 Mais do Céu Fialho (2008), sans évoquer la fin, rappelle à juste titre que l’unité de la cité est menacée, puisque la menace est venue de l’un de ses membres ; elle met les Sept, dans leur version d’origine, en rapport avec les tensions internes aux cités et entre cités grecques au moment de la représentation (467). 30 Il prend pour cible l’article de Lloyd-Jones, qui tendait à minimiser cette occultation du mythe traditionnel dans la pièce.

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les données du prologue et prolonge la réflexion politique qui leur est sousjacente, et qui concerne la relation entre le gouvernant, comme individu, et sa cité. Dans la première scène, Étéocle mentionne les conditions d’une dissociation possible entre lui et la ville. Il est devant deux éventualités : s’il est vainqueur, le ville attribuera le succès au dieu, et non à lui (v. 4) ; si la ville est prise, Thèbes lui attribuera la responsabilité du désastre (vv. 5-9). Sa stratégie, dans le prologue, consiste à réduire l’écart possible entre lui et la cité, et à montrer que quoi qu’il en soit, il y a communauté de destin. L’issue dépend en fait bien des dieux, mais ces dieux ne sont pas arbitraires ; ils défendent un objet qu’il leur est propre. Étéocle prend soin de montrer que ce qu’on leur demande de sauver n’est pas n’importe quelle ville, ni lui-même, mais une construction idéale, à savoir une cité qui correspond au concept fondamental de cité libre, comme alliance de l’autochtonie et du panhellénisme (voir sa prière des vers 69-77)31 ; sauver une telle ville est de leur intérêt, puisque c’est le lieu de leur cultes (vv. 76-7). Dans sa présentation des divinités qui peuvent décider du sort de Thèbes, il associe tout d’abord les dieux universels qui veillent sur la cité, selon trois ordres de réalité réunis en une totalité où s’allient les ordres olympien, chthonien et politique : ‘Ô Zeus et Terre, et vous dieux qui tenez la ville’ (v. 69) ; Thèbes a donc bien sa place dans un monde ordonné. À ces forces divines permanentes, il ajoute la force violente et potentiellement destructrice de ‘la Malédiction, la grande force de l’Érinye de mon père’ (v. 70). Il s’agit bien de la respecter, en la nommant, et par là de la conjurer : le père, est-il supposé, ne peut étendre sa colère, qui a déjà produit la guerre, à la destruction totale de sa propre ville, qui est ellemême composée de ‘foyers’ (v. 73). Cette force est, comme les autres, légitime et normative. L’Érinye représente toujours un droit fondé, une cause non encore satisfaite, issue d’une injustice réelle (sinon, elle ne serait pas efficace). Cette injustice est liée ici, d’une manière ou d’une autre, à Œdipe, à ce qu’il a subi.32 Le droit, représenté par la Malédiction, remonte à une lésion subie par un individu ; attaché au destin singulier de cet individu, il introduit une violence qui est une menace pour le tout que forme la cité. Étéocle essaie de surmonter cet écart entre droit et politique, de se situer audelà de leur opposition par sa rhétorique. Avec son histoire, aussi sombre soitelle, il prétend faire corps avec la cité, et c’est bien une entité politiquement normée et englobante, et non sa propre cause, que les citoyens et les dieux sont appelés à défendre. Cette norme est même le critère absolu, puisque les Thébains sont sommés de combattre quel que soit leur âge, c’est-à-dire indépendamment de leur nature (vv. 10-20). La nécessité de défendre la ville et l’occasion transformeront leurs corps.33 Ces citoyens fonctionnels n’existent que par leur devoir 31

Je renvoie à mon étude de 1988. Quelle que soit la lecture que l’on ait des vers 784-7 (une malédiction lancée contre les fils au moment de la découverte par Œdipe de ses crimes, ou une réponse à une injure qui lui est faite plus tard par ses fils. 33 Sur les vers, difficiles, 10-3, voir Novelli 2005, 12-7. 32

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politique.34 On le voit, l’un des enjeux intellectuels de la pièce est de creuser la relation entre droit (lié aux individus) et cohérence du corps politique, avec ce paradoxe que seul un individu peut définir et encourager cette cohérence, et que, en tant qu’individu, il a une histoire singulière qui le sépare de la communauté (ici, par la malédiction paternelle). L’union du roi et de sa cité, construite par le discours d’Étéocle, est démentie dans les faits. Comme on le sait, il ne sauve la ville que parce qu’il s’en dissocie, en affrontant son frère dans un crime présenté comme résistant à toute purification (v. 680). La scène finale reprend cette dissociation, mais en change la portée. L’acte d’Étéocle n’est plus vu comme une souillure, mais comme la cause du salut. Mais l’hommage révèle la distance, ainsi que l’échec de l’entreprise d’Étéocle dans le prologue. Le roi mort est honoré par un corps politique anonyme, sans roi, qui présente sous un autre jour la Thèbes avec laquelle il voulait se fondre (les ‘citoyens de Cadmos’ du v. 1)35, sans y parvenir ; elle redéfinit ses normes de manière autonome. On comprend dès lors que le Nachdichter ait substitué un héraut au Créon de Sophocle ; non seulement il n’avait pas besoin d’une nouvelle figure individuelle, qui aurait fait contraste avec Étéocle, mais surtout il montrait par là que l’action de l’Antigone pouvait être reprise avec les éléments des Sept.36 Un Créon aurait, d’une certaine manière fait revivre la famille royale, alors que c’est son élimination qui est la situation créée par la pièce. À l’opposé de l’Étéocle du prologue, le héraut, représentant de la norme sauvée et indépendante de tout chef individuel, banalise. Étéocle devient simplement méritant ; il est mort, dit-il, ‘là où il est beau que meurent les jeunes gens’ (v. 1011), alors que le roi avait pris soin de brouiller les catégories traditionnelles (jeunes/vieux) en fonction de l’impératif d’agir. La ville sauvée n’est pas celle invoquée par le roi pour son salut. Elle est même oublieuse des conditions de sa genèse, en faisant comme s’il n’y avait pas eu la malédiction et la nécessité du double fratricide, et en séparant les deux frères. De manière symétrique, l’Antigone des Sept, contrairement à celle de Sophocle, ne se réclamera pas des ‘malheurs d’Œdipe’ et de l’histoire particulière de sa famille (mentionnée seulement au v. 1032) ; elle parlera au nom de normes éternelles, celles liées au ventre de la mère. Son discours ne prendra une portée plus générale et politique que lorsqu’elle défendra le droit de son frère Polynice (‘Maltraité, il répondait en traitant mal’, v. 1049)37, et qu’au héraut qui dissocie nettement cause juridique et action poli34

Eschyle, comme souvent, anticipe ainsi sur la pensée sophistique. L’expression, étonnante, pose l’union de la ville et d’un roi, qui est à l’origine de la famille de Laïos. Cela est en accord avec la stratégie d’Étéocle (cf. Novelli 2005, 3). 36 Pour Wundt 1906, défenseur de l’authenticité, l’absence de Créon signalerait l’indépendance du texte vis-à-vis de l’Antigone ; il s’agit plutôt d’un rapport ironique d’appropriation. 37 Cette justification de Polynice ne contredit pas ce qui est dit de son action dans le reste de la pièce. Le fait même qu’il ait choisi de faire figurer Justice sur son emblème (en contraste avec l’ensemble des autres images), montre qu’il revendiquait un droit, en accord avec son nom, puisque le ǰǨЃǭDzǵest d’abord une prétention que l’on élève quand on s’estime lésé. 35

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tique, puisque, selon lui, le tort de Polynice n’est pas d’avoir défendu sa cause, mais de s’en être pris à tous les Thébains au lieu de ne viser qu’Étéocle (v. 1050), elle opposera le pouvoir absolu de ‘Querelle’ (Éris, ‘la dernière des dieux à achever son propos’, v. 1051), fondant ainsi implicitement sa propre dissidence sur le pouvoir de cette divinité. La cité n’a pas su résorber la querelle juridique qui l’a mise en danger et qui, finalement, l’a sauvée. La fin reste aporétique, comme le vers 1004, mais cette fois en réponse à la scène politique du prologue. La tension qui parcourt l’ensemble de l’œuvre entre droit (fondé sur l’expérience douloureuse des individus, et qui s’exprime à travers le mythe familial) et normativité politique est ainsi respectée et développée. Le chœur, seule voix de la fin qui fasse référence à l’Érinye (vv. 1054-5)38, théorise, visiblement selon le goût de son époque, dans une double aporie. La partie qui s’apprête à accompagner le corps de Polynice relève qu’en matière de justice la cité a des opinions contraires (vv. 1070-1), et que seule la famille, dans son malheur commun représente une unité (vv. 1069-70) ; mais il renonce par là même à désigner un droit qui puisse valoir pour la communauté. Celle qui se rallie à la ville et va suivre le corps d’Étéocle, associe au contraire fortement droit et cité, en disant obéir aux deux simultanément ; mais ce droit est celui de la survie et de la liberté de Thèbes, sans donc que l’histoire familiale qui a produit cet état ne soit prise en compte. Les deux normativités sont bancales, comme dans le reste de la pièce, et ne se fondent que sur des réalités données (le malheur commun de la famille, la victoire), sans qu’un principe politique complet ne soit dégagé. La scène ne fait qu’expliciter l’orientation du drame, à partir de matériaux mythiques et dramaturgiques nouveaux. Paris EHESS, CNRS

Pierre Judet de La Combe

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Dans une citation décalée de la prière d’Étéocle : 1056~72.

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ABSTRACT Granted that the final scene of the Seven against Thebes did not belong to the original text of the play, the question of its own originality, of its historical meaning in the probable context of a revival at the end of the 5th or at the beginning of the 4th century remains open. The analysis of some discussed passages (1004 as a possible end of the original play or of a section of it, 1009, 1035, 1037-40) and the examination of the main topics of the text (Polynices’ right and burial, the new political norms, the antinomy between individual right and political relevance as the basis of the splitting of the chorus) shows, on the one hand, the displaying of a new poetics of discontinuity and effect, and, on the other one, the continuation of the major themes of the play, notably in a close relationship to the prologue. The thesis would be that this new coherent ending is a piece of an authentically Aeschylean tradition, which was supposed to provide the old play with a critical response to the thematic and formal novelties Sophocles’ Antigone and Euripides’ Phoenissae meanwhile proposed. KEYWORDS: Tragedy - authenticity - textual criticism - right - politics - poetics of discontinuity - intertextuality

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AESCH. SUPPL. 354 SS.* Da qualche tempo alcuni grecisti italiani, fra cui il sottoscritto, stanno proponendo all’attenzione dei filologi classici, per il testo di Eschilo, delle scelte ecdotiche che si differenziano un po’ da quelle che sono state avanzate nel corso del XX secolo, per il fatto che conservano dove possibile il testo della tradizione manoscritta. Noi sappiamo bene che esistono casi in cui la tradizione concorda in un testo inaccettabile, e ancora casi in cui tutta la tradizione diretta concorda in errore contro quella indiretta (è il caso di PV 2 ͎ǥǤǷDzǰ vs ͎ǥǴDzǷDzǰ), come ancora casi in cui la lezione del Laur. 32.9 è dimostrata erronea dal confronto con altri manoscritti di Eschilo, quando questi esistono, e pur con questa riserva cerchiamo di sostenere la lezione del Mediceus per le tragedie in cui questo è unico testimone, contro altri studiosi che propongono di correggerla. Con tutto questo ci chiediamo se le ragioni di lessico, di sintassi e di metrica con cui il testo manoscritto è stato criticato, proponendo alternative che si fondano sulla norma della lingua del poeta, o di quella del secolo V, o su quella della lexis tragica, debbano sempre prevalere sul testo dei codici (o del codice, quando ne abbiamo uno solo). La lingua di Eschilo è complessa e difficile da capire, come afferma Aristofane nelle Rane, ed anche Quintiliano, che lo qualificava sublimis et grauis et grandilocus saepe usque ad uitium, sed rudis in plerisque et incompositus1: proprio in relazione a questa dizione carica di anacoluti e di forme anomale vorremmo provare a dimostrare che il senso dei testi trasmessi dalla tradizione manoscritta può essere migliore, perché più pertinente alla poetica dello scrittore, e spesso più espressivo, anche se talvolta oscuro, rispetto a quello più lineare proposto da Page, da West o da Sommerstein2. Non sono per nulla certo che tutte le proposte * Questo lavoro fa parte di una serie di interventi destinati ad una edizione delle Supplici compresa in un progetto approvato dal Comitato per l’Edizione Nazionale dei Classici greci e latini dell’Accademia dei Lincei, su cui cf. V. Citti, Introduzione ai lavori del Convegno internazionale di studio Per Eschilo (Rovereto, Accademia degli Agiati, 22-24 maggio 2007), QUCC 90 (2008) 11-6; per il metodo di lavoro, cf. Id., Studi sul testo delle ‘Coefore’, Amsterdam 2006, pp. 276; l’autore ha finora pubblicato, a proposito del testo delle Supplici, Aesch. ‘Suppl.’ 1-39, BollClass. III 28 (2007) [re vera 2009] 3-28; Aesch. ‘Suppl.’ 40 ss., Ítaca 23 (2007) 143-73; Eschilo, ‘Supplici’ 86-111, BollClass III 29 (2008) [re vera 2010] 17-33; Aeschylus, ‘Suppliants’ 112-150, in Allusion, Authority, and Truth. Critical Perspectives on Greek Poetic and Rhetorical Praxis, by Ph. Mitsis and Chr. Tsagalis, De Gruyter, Berlin-New York 2010, 203-18; Aesch. ‘Suppl.’ 15475, in Officina humanitatis. Studi in onore di Lia de Finis, Trento 2010, 55-62; Danao e le figlie (Aesch. ‘Suppl.’ 176-220), in corso di pubblicazione in ǐǸǫDzǮDzǦǨЂǰ, Mito e forme di discorso nel mondo antico. Studi in onore di Giovanni Cerri, Pisa-Roma 2012; Aesch. ‘Suppl.’ 234 ss. in corso di pubblicazione su BollClass, e Aesch. ‘Suppl’. 409 ss., in corso di pubblicazione su Vestigia materiai. Studi in onore di Michelangelo Giusta, in corso di pubblicazione, nonché C. Miralles, Gli anapesti della parodo delle ‘Supplici’di Eschilo: una lettura, BollClass III 28 (2007) 2951, e Miralles 2012. 1 Aristoph. Ran. 816 ss., 924 ss., Quint. inst. 10.1.66. 2 Questo indirizzo è certo esposto a forzature, e non ho difficoltà ad ammettere che alcuni dei rilievi che Kurt Sier (AAHG 59 [2006] 184-9) ha fatto ai miei Studi sul testo delle Coefore (Am-

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di restituzione avanzate da noi (e ormai sono molte) risolvano nel modo migliore i problemi testuali di Eschilo: il campione di passi che presento in questo articolo indica più di un pentimento di fronte a scelte che ho in precedenza sostenuto; ma sarei lieto se almeno in qualche caso l’esegesi sperimentale che propongo potrà contribuire a restituire espressioni oscure a prima vista ma drammaticamente più efficaci di quelle che sono state proposte per offrire alla lettura un testo più facile e prevedibile. Penso ad esempio agli anacoluti, che del resto fino al III sec. d.C. la dottrina grammaticale ha considerato come espressioni anomale piuttosto che come figure di ornatus, mentre la loro importanza per l’espressività dizione eschilea è illustrata in un libro di Stefano Novelli che ho potuto leggere in bozze per sua cortesia3. Nel ǭDzǯǯǿǵ che segue al primo episodio delle Supplici, le Danaidi pregano il re di Argo perché accolga la loro richiesta di asilo, e questi risponde manifestando la sua inquietudine per le conseguenze cui la città potrebbe andare incontro se accettasse la loro richiesta. Il secondo verso di questa replica è stato oggetto di varie discussioni: ·ǴЛǭǮǟǧDzǬǶǬǰǨDzǧǴǿdzDzǬǵǭǤǷǟǶǭǬDzǰ ǰǠDzǰǫХ΋ǯǬǮDzǰǷЛǰǧХ͊ǦǼǰǢǼǰǫǨЛǰƽ (vv. 354-5).

Così il manoscritto; lo scolio spiega: ·ǴЛ΋ǯǬǮDzǰǫǨЛǰ͚ǶǷǨǯǯǠǰǼǰͷǭǨǷǪǴǢǤǬǵ4. Il testo fu letto in quella forma dagli editori fino a Hermann, né furono sollevati problemi5, se non da Musgrave che in un margine dell’edizione glasguense del 1746 introdusse ǰǤǢDzǰǫХal posto di ǰǠDzǰǫХ, che riteneneva evidentemente oscuro; quindi Bamberger proposeǰǨȀDzǰǫХe Wecklein ǰǤȀDzǰǫХ (sulla base di Hsch. ǰ 116 L. ǰǤȀǨǬǰƽͷǭǨǷǨȀǨǬǰdzǤǴήǷβ͚dzαǷΰǰ͛ǶǷǢǤǰǭǤǷǤǹǨȀǦǨǬǰǷDzγǵͷǭǠǷǤǵ, ǰ 165 L. ǰǤȀǼǮǢǶǶDzǯǤǬͷǭǨǷǨȀǼ); per ΋ǯǬǮDzǰ ci si è chiesto se si riferisse alle Danaidi o agli dèi le cui statue sono collocate nel luogo dove quelle sono giunte; infine ǷЛǰǧХ è stato corretto in ǷǿǰǧХ da Hermann (che recepì da Bamberger ǰǨȀ DzǰǫХ6) e in ǷǿǰǷХ da Harberton7. Tra gli editori del Novecento, Wilamowitz legsterdam 2006) non sono privi di fondamento. Gli sono grato per il tono cortese con cui esprime il suo dissenso, ma credo che il metodo che egli bolla di «Ultrakonservativismus» abbia pur qualche motivo di esistere, pur con i rischi cui si espone, se riuscirà a dimostrare di non essere troppo ‘ultra’. 3 Novelli 2012, in corso di pubblicazione. 4 Cf. Smith 1976, 72.27; Friis Johansen-Whittle 1980 II 283 informano che Whittle corregge in ͚ǶǷǨǯǯǠǰDzǰ. 5 Stanley 1663, 581 traduce: «Cerno ramis recens-decerptis umbrosum / Novumque coetum Deorum horum qui certaminibus praesunt»; ancora in seguito nessuna discussione troviamo in Pauw o Heath; Schütz 1808, 273 riferisce ΋ǯǬǮDzǰ alle Danaidi: «novum hoc sodalitium, quod ad deos certaminum praesides confluxit». 6 E riferiva ǰǨȀDzǰǫХalle statue degli dèi: «non sunt autem rami nutantes intelligendi, sed dii, ut qui ramis ornati nefas esse ostendunt repudiare supplices». 7 Musgrave ap. West 1998; Bamberger 1856 (1839) 111; Wecklein 1872, 83; Hermann 1852 II 20; Harberton 1903, 14.

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ge tutto il verso ǰǨȀDzǰǫХ ΋ǯǬǮDzǰ ǷǿǰǧХ ͊ǦǼǰǢǼǰ ǫǨЛǰ, come Hermann, e così Murray 1937 e 1955, e Page. Il problema fu riproposto analiticamente da Friis Johansen-Whittle: essi stampano ǰǠDzǰǫХ΋ǯǬǮDzǰǷǿǰǷХ͊ǦǼǰǢǼǰǫǨЛǰ e osservano che «the main problem is the impossible coordination of two disparate expressions in ǭǮǟǧDzǬǶǬ ǰǨDzǧǴǿdzDzǬǶǬ ǭǤǷǟǶǭǬDzǰ ǰǠDzǰ ǫХ8. In addition, the reference of ΋ǯǬǮDzǰ is debatable», e distinguono due possibilità, a. che sia riferito alle immagini divine, e in tal caso sarebbe necessario accogliere ǷǿǰǧХ di Hermann e accettare che esse sono in qualche modo ombreggiate dai rami, circostanza non indicata altrove nel testo9, oppure b. che sia riferito alle Danaidi, e bisogna per questo affrontare il problema del gen. ǫǨЛǰ che non può essere inteso, come vorrebbe Paley, nel senso di ‘sotto la protezione di’10. Il problema principale, secondo loro, è risolto con la correzione di ǷЛǰǧХ in Ƿǿǰ ǷХ di Harberton: essa indica in modo salomonico un doppio riferimento, alle Danaidi e agli dèi, risponde al v. 350 ͺǧǨǯǨǷήǰͷǭǠǷǬǰ e conferma il 346 ǮǨȀǶǶǼǰǷǟǶǧХ͟ǧǴǤǵǭǤǷǤǶǭǢ DzǸǵ; resta il problema di intendere in questo contesto ǰǠDzǰǫХ e superare la difficoltà costituita dall’idea delle Danaidi e delle immagini degli dèi, le une e/o le altre ombreggiate dai rami colti dalle fanciulle; ma queste obiezioni sono certo meno gravi di quelle suscitate dalle congetture alternative, ǰǤȀDzǰǫХ di Wecklein e ǰǨȀDzǰǫХdi Bamberger. Friis Johansen-Whittle contestano che il verbo ǰǤȀǼ, di forma eolica, potesse esser noto ad Eschilo, che usa eolismi solo nei prefissi; quanto a ǰǨȀDzǰǫХ osservano che «it is impossible to believe that the ‘nodding’ seen by Pelasgus, who is not a frivolous or fanciful man, would not be interpreted by him as a genuine omen; but if it is taken by him as a divine answer, it is incredible that he should pay so little attention to it (cf. 365 ff.)»11. Per West, invece, ΋ǯǬǮDzǰ deve essere riferito alle Danaidi: «there are strong grounds for taking    to be the company of suppliants, not a company of divine images», per due motivi: a. «this is indicated by Aeschylus’ use of ΋ǯǬǮDzǵ and ·ǯǬǮǢǤelsewhere, viz. 234 (the Danaids), 993 (any group of emigrants), Sept. 35 (the invading army), Eum. 57, 406, 711, 1030 (the adventitious company of Erinyes). Even in Pers. 192 ǦǸǰǤǬǭDzdzǮǪǫΰǵ΋ǯǬǮDzǵ, 1028 ǰǤȀǹǤǴǭǷDzǰ΋ǯǬǮDzǰ, it is a mobile throng», b. «it is the suppliants, not statues, that are ‘shaded’ by boughts; cf. 346 dzǠǹǴǬǭǤǮǨȀǶǶǼǰǷǟǶǧХ͟ǧǴǤǵǭǤǷǤǶǭǢDzǸǵ, where, despite the previous line, ǷǟǶǧХ͟ǧǴǤǵ seems to mean ‘this supplication’ (as in Soph. O. T. 2-3 ǷǢǰǤǵdzDzǫХ͟ǧǴǤǵǷǟǶǧǨǯDzǬǫDzǟǩǨǷǨ, / ͷǭǷǪǴǢDzǬǵǭǮǟǧDzǬǶǬǰ͚DZǨǶǷǨǯǯǠǰDzǬ) and 656 ΓdzDzǶǭǢǼǰ͚ǭǶǷDzǯǟǷǼǰ», c. «Pelasgus is responding to 350 ‘Take note of me, the suppliant calling for help from a place of refuge’». La conclusione è quindi che «the only conjecture that does justice to these considerations is Weck8

Cioè l’associazione di determinazioni attributive come ‘adombrato da rami ombrosi’ e ‘nuovo’ sarebbe incongrua per l’΋ǯǬǮDzǰ. 9 Questo non sarebbe di per sé un elemento per rifiutare la proposta. 10 Cf. Paley 1870, 36. Espressioni come ͷǭǷϸǴǤǵǫǨЛǰ (Eur. Her. 70), ͷǭǠǷǤǵLjǬǿǵ (Suppl. 641) traggono il significato del genitivo dalla dipendenza possessiva da ͷǭǷǡǴ. Lo stesso vale per ͚ǯβǰ ͷǭǠǷǪǰ(Eum. 92), ͷǭǠǷǤǵǶǠǫǨǰ (Suppl. 814). 11 Friis Johansen-Whittle 1980 II 283.

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lein’s ǰǤȀDzǰǫХ […]. This verb is recorded in Hesychius s.vv. ǰǤȀǨǬǰ and ǰǤȀǼ […], Phot. s.v. ǰǤȀǨǬǰ, and explained as ͷǭǨǷǨȀǨǬǰǭǮǟǧDzǬǶǬǰǨDzǧǴǿdzDzǬǶǬǭǤǷǟ ǶǭǬDzǰ / ǰǤȀDzǰǫХ΋ǯǬǮDzǰǷЛǰǧХ͊ǦǼǰǢǼǰǫǨЛǰ will correspond closely to 333 f. ǷǢ ǹϸǵ ͷǭǰǨЃǶǫǤǬ ǷЛǰǧХ ͊ǦǼǰǢǼǰ ǫǨЛǰ / ǮǨǸǭDzǶǷǨǹǨЃǵ ͞ǺDzǸǶǤ ǰǨDzǧǴǠdzǷDzǸǵ ǭǮǟǧDzǸǵ»: come in questo passo il genitivo ǷЛǰǧХ͊ǦǼǰǢǼǰǫǨЛǰ dipende da ͷǭǰǨЃǶǫǤǬ, così qui dipenderà da ǰǤȀDzǰǫХ12. Sandin ridiscute tutto il passo, dall’interpretazione di Friis Johansen-Whittle a quella di West, e ne rovescia le conclusioni: «it seems almost inevitable to take the congregation (΋ǯǬǮDzǰ) as that of the gods (pace W.SA), as the scholium does. FJ-W argue that the notion that the gods are shaded by the suppliant’s boughs is not indicated elsewhere in the text, but this may well be the implication of 346 and 241-42 […]. In any case, the gods are the most important issue here: it is on them that Pelasgus’ gaze lingers, and it is before them that he shudders (probably) in 346». Gli dèi, e non le Danaidi, hanno il potere di punire la città se commettesse empietà non accogliendo la richiesta di chi la supplica, e quanto alla corrispondenza indicata da Friis Johansen-Whittle e da West con 350 ͺǧǨǯǨ ǷήǰͷǭǠǷǬǰ, egli replica che «whereas a confirmation from Pelasgus that he sees the Danaids sitting down is a banality, the grim statement about the gods is expressive and to the point»13. Quanto al senso proprio di ΋ǯǬǮDzǰ, Sandin contesta che il termine possa indicare le Danaidi, come vuole West, perché il rilievo che altrove il termine si riferisce a gruppi mobili, è irrilevante, mentre contro il parallelo con Soph. OT 2-3 da quello addotto per riferire alle Supplici ͟ǧǴǤǵdel v. 345, egli elenca Suppl. 413, 423, 493-4 e 501 dove il termine indica i seggi degli dèi; riguardo poi alle congetture avanzate per sostituire ǰǠDzǰǫХ, secondo Sandin ǰǨȀDzǰǫХ di Bamberger è soggetto alle critiche di Friis Johansen-Whittle (cf. supra), mentre ǰǤǢDzǰǫХ di Musgrave è strano; sarebbe possibile forse ǯǠǰDzǰǫХ (‘che attende’, cioè le decisioni di Pelasgo) o forse ͞ǰDzǰǫХ(‘che è presente’, suggerito da Fogelmark e riferito da Sandin). In ogni caso è singolare che per riferire ΋ǯǬǮDzǰ alle Danaidi West deve prescindere di proposito («despite the previous line») dal v. 353, che precede immediatamente questiǤͶǧDzАǶγdzǴȀǯǰǤǰdzǿǮǨ ǼǵΥǧХ͚ǶǷǨǯǯǠǰǪǰ: come è possibile che dzǴȀǯǰǤdzǿǮǨǼǵ siano le straniere Danaidi? Occorre anche riflettere al valore di ǰǠDzǵ. In greco, questo aggettivo ha spesso un significato inquietante, rispetto a una prospettiva ideologica tendenzialmente tradizionalista e inquieta di fronte alle novità14, ma in alcuni passi di Eschilo 12

West 1990, 143-4; ancora West osserva, a proposito dell’obiezione che Friis Johansen-Whittle rivolgevano a ǰǤȀDzǰǫХ, che difficilmente la norma che essi invocano si può adattare nel caso di un termine raro che Eschilo potrebbe aver assunto dalla lirica arcaica, e aggiunge che probabilmente ǰǤȀǼ non è eolico, ma dorico. Il testo di West è stato accolto da Sommerstein, che traduce: «I see this company, shaded by fresh-plucked boughs, supplicating in the name of these Assembled Gods» (Sommerstein 2008, 337). 13 Sandin 2005, 186-7. 14 Cf. Citti 1979, 55 ss. Nel conflitto tra le parti sociali degli anni Sessanta del V secolo, Eschilo non era probabilmente dalla parte dei conservatori, ma il linguaggio con cui comunicava era inevitabilmente marcato dal segno di una tradizione aristocratica e gerontocratica.

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questa connotazione sembra particolarmente evidente. Nelle Supplici, penso a 342 dzǿǮǨǯDzǰ ͎ǴǤǶǫǤǬ ǰǠDzǰ, dove Pelasgo riflette sul rischio di affrontare una guerra di esito incerto per proteggere le Danaidi, 463 ǰǠDzǬǵdzǢǰǤDZǬǰǥǴǠǷǨǤǭDz ǶǯϸǶǤǬǷǟǧǨ, in cui le stesse formulano in tono enigmatico ma in realtà indubitabile la minaccia di impiccarsi alle statue degli dèi, e   vale certo ‘inattesi’, ma in senso nettamente negativo, come appare anche dai vv. 357-8, ǯǪǧХ͚DZ͊ǠǮ dzǷǼǰǭ͊dzǴDzǯǪǫǡǷǼǰdzǿǮǨǬ/ ǰǨЃǭDzǵǦǠǰǪǷǤǬƽǷЛǰǦήǴDzΒǧǨЃǷǤǬdzǿǮǬǵ: gli eventi che si profilano all’orizzonte sono decisamente inquietanti, e giustificano l’uso di ǰǠDzǰper la schiera che si presenta davanti agli dèi per chiedere il loro intervento. Si veda ancora il v. 950 ͞DzǬǦǯǨǰͪǧǪdzǿǮǨǯDzǰ͊ǴǨЃǶǫǤǬǰǠDzǰ, pronunciato dall’araldo degli Egizi di fronte alla necessità di intraprendere una guerra, che egli dichiara con qualche enfasi ‘inattesa’, per far valere i diritti che vantano sulle cugine, e 1016 ǫǨDzЃǵ [...] ǨͺǷǬǯΰǥǨǥDzȀǮǨǸǷǤǬǰǠDzǰ, dove le Danaidi si augurano che lo scontro si concluda a loro favore, se gli dèi non hanno deciso qualcosa di imprevedibile (e comunque sfavorevole, dal punto di vista di chi parla). Potrebbe benissimo darsi anche, come mi suggerisce Bruno Gentili, che ǰǠDzǰ indicasse semplicemente l’aspetto inconsueto delle immagini degli dèi così adorne dei rami appoggiati ad essi dalle Supplici: in tal caso la ripetizione di ǰǠDzǰ avrebbe un effetto intensificante e per questo anche inquietante. D’altronde la posizione del genitivo ǷЛǰǧХ͊ǦǼǰǢǼǰǫǨЛǰ suggerisce di farlo dipendere più facilmente da    che dal congetturato ǰǤȀDzǰǫХ; questo stilema poi ricorre in questa tragedia al v. 189 e in forma variata al v. 222 dzǟǰǷǼǰ ǧХ ͊ǰǟǭǷǼǰǷЛǰǧǨǭDzǬǰDzǥǼǯǢǤǰ (ǶǠǥǨǶǫǨ), sempre per indicare la comunità degli dèi ͊ǦȁǰǬDzǬ, mentre i rami sono accostati agli dèi ancora ai vv. 261-2, con una variante dello stilema precedente15, ǭǮǟǧDzǬ / ǭǨЃǰǷǤǬdzǤǴХΓǯЛǰǷDzЃǵǫǨDzЃǵ͊ǦǼ ǰǢDzǬǵ: così il gen. ǷЛǰǧХ͊ǦǼǰǢǼǰǫǨЛǰ dipenderà da΋ǯǬǮDzǵ, come in 222 la variante presso che formulare dzǟǰǷǼǰǧХ͊ǰǟǭǷǼǰǷЛǰǧǨ dipende da ǭDzǬǰDzǥǼǯǢ Ǥǰ16, mentre la formularità dello stilema milita contro ǷǿǰǷХ di Harberton; d’altra parte già Sandin ha rilevato che l’argomento di West secondo il quale ΋ǯǬǮDzǵ è una massa mobile non è per nulla cogente. Se si vuole, infine, si potrebbe pensare che il dimostrativo ǷЛǰǧǨsuggerisse un atto performativo da parte dell’attore, che mostrava al pubblico le statue degli dèi ‘ombreggiate’ dai rami delle supplici. In questo ǭDzǯǯǿǵgli echi verbali interni sono continui: così si ha ͷǭǠǷǬǰ 350, ͷǭǨǶǢǤ 360, ǹǸǦǟǧǤ 350, ǹǸǦǟǰ359, ͊ǶǷDzDZǠǰǼǰ 356, ͊ǶǷDzЃǵ 369, dzǿǮǨǬ 357, dzǿǮǬǵ 358 e 366, ͎ǰǤǷDzǰ 356 e 359; così a ǰǨDzǧǴǿdzDzǬǵ del v. 354 fa eco ǰǠ Dzǰ al 355, con un effetto ricercato perché al valore proprio di ǰǨDzǧǴǿdzDzǬǵ farebbe riscontro il valore traslato in ǰǠDzǰ17. 15

La critica omerica ci ha insegnato a conoscere simili modi impiegati dagli aedi per ricreare una formula, modificandone il caso. 16 Questa tendenza a creare nella sua dizione strutture nominali che ritornano, con variazioni, in modo da far pensare alle formule dell’epos è stata illustrata per Eschilo in Bordigoni 2005 e 2006, cf. anche Citti 2012. 17 Cf. le connessioni di echi tematici e motivi verbali indicate per la parodos da Gruber 2009, 224-5 e soprattutto da Miralles 2007 e 2012.

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Se l’΋ǯǬǮDzǵ ombreggiato dai rami supplichevoli appoggiati ad esso dalle Danaidi è la collettività degli dèi ͊ǦȁǰǬDzǬ, e questi non sono soltanto gli dèi ͊ǦDzǴǤЃDzǬ, ma anche quelli che presiedono alle contese18, si capisce meglio perché Pelasgo al v. 346 rabbrividisca vedendo quelle immagini adombrate (dzǠǹǴǬ ǭǤǮǨȀǶǶǼǰǷǟǶǧХ͟ǧǴǤǵǭǤǷǤǶǭǢDzǸǵ: qui ǭǤǷǟǶǭǬDzǬ sono le sedi degli dèi, in cui si sono installate le Danaidi, cf. 413 ͚ǰ ǫǨЛǰ ͟ǧǴǤǬǶǬǰ [...] ͷǧǴǸǯǠǰǤǵ19): giustamente Sandin ha osservato che il re di Argo deve temere assai di più il coinvolgimento degli dèi che quello delle Danaidi. Il verso dunque dovrà essere edito nella forma in cui è stato tramandato nel manoscritto, e tradotto, distinguendo la doppia valenza dell’appellativo ͊ǦȁǰǬDzǬ: ‘io vedo il gruppo di questi dèi che, riuniti insieme, sovraintendono alle competizioni, adorno di rami colti di recente, e con un aspetto inconsueto’. Se mai, si dovrà aggiungere che dei due attributi di ΋ǯǬǮDzǵ, ǭǤǷǟǶǭǬDzǰ e ǰǠDzǰ, il secondo appare dotato di un valore consequenziale rispetto al primo. L’antistrofe suona così nel manoscritto: ͺǧDzǬǷDzǧϸǷǤǷήǰ͎ǰǤǷDzǰǹǸǦήǰ ͷǭǨǶǢǤnjǠǯǬǵLjǬβǵǎǮǤǴǢDzǸ ǶγǧίdzǤǴХΆǻǬǦǿǰDzǸǯǟǫǨǦǨǴǤǹǴǿǰǼǰƽ dzDzǷǬǷǴǿdzǤǬDzǰǤͶǧǿǯǨǰDzǵDzΘǰdzǨǴ ͷǨǴDzǧǿǭǤǫǨЛǰǮǡǯǤǷХ͊dzХ͊ǰǧǴβǵ͋ǦǰDzА(vv. 359-64). Lo scolio ha dzǤǴХ͚ǯDzАǷϸǵǰǨǼǷǠǴǤǵ·ǦǨǴǤǬǿǵ (E: ǦǠǴǼǰ M).

Già Pauw 1745, 1076 notò al v. 359 la mancata responsione con il corrispondente della strofe e propose: «scribe, ut versus versui respondeat, ͶǧDzǬǷDzǧǪǷХ͊ǰǤ ǷDzǰ ǹǸǦǤǰ: articulus perperam accessit»; ǧϸ(ǷǤǷή)ǰ è evidente errore di dittografia, come al v. 361 la vox nihili ǦǨǴǤǹǴǿǰǼǰ è, per il fenomeno inverso, probabile aplografia per ǦǨǴǤǴήǹǴDzǰЛǰ congetturato da Marckscheffel. Ma qui la soluzione è controversa. Friis Johansen-Whittle confrontano le soluzioni di Burges (ǦǨǴǤǬǿǹǴǼǰ), Marckscheffel (appunto ǦǨǴǤǴή ǹǴDzǰЛǰ) e Harberton (ǦǨǴǤǬήǹǴDzǰЛǰ)20. Essi ritengono che la prima debba essere preferita, anche se ǦǨǴǤǴή ǹǴDzǰЛǰ «is simpler palaeographically, gives exact responsion to 350 and makes good sense, ‘venerable in wit though you are’ […] and the epithet will connote ‘old’ as in Ag. 721-2 ǨΒǹǬǮǿdzǤǬǧǤ ǭǤα ǦǨǴǤǴDzЃǵ ͚dzǢǺǤǴǷDzǰ, cf. Hsch. Ǧ 405 ǦǨǴǤǴȁǷǨǴDzǵƽ ͚ǰǷǬǯǿǷǨǴDzǵ, dzǴǨǶǥȀǷǨǴDzǵ, Suda Ǧ 185 ǦǨǴǤǴǿǰƽ ͞ǰǷǬǯDzǰͨdzǴǨǶǥȀǷǨǴDzǰ. But the restoration cannot be concilied with ǖ […]. The natural inference from the ǖ is that the text it explained contained a form of, or a Cf. Citti 2012, a proposito di Suppl. 189 dzǟǦDzǰdzǴDzǶǢǩǨǬǰǷЛǰǧХ͊ǦǼǰǢǼǰǫǨЛǰ. Alla fine le Danaidi sono installate nelle sedi degli dèi (413), e queste sono ombreggiate dai rami delle stesse (346): la domanda se sia ombreggiato l’΋ǯǬǮDzǵdelle Supplici o quello degli dèi potrebbe incorrere in una petitio principii. 20 Friis Johansen-Whittle 1980 II 288 ss.; Burges 1811, 187; Marckscheffel 1847, 170; Harberton non inveni. 18 19

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formation from, ǦǨǴǤǬǿǵ». Segue quindi la discussione della proposta ǦǨǴǤǬή ǹǴDzǰЛǰ, che a loro sembra superiore dal punto di vista del senso, ma comporta che ǦǨǴǤǬǟ sia scandito come tribraco, considerando -ǤǬ- antevocalico come breve, un fenomeno scarsamente documentato in Eschilo; inoltre, sia ǦǨǴǤǴήǹǴDz ǰЛǰ che ǦǨǴǤǬήǹǴDzǰЛǰ implicano la combinazione di ǯǤǰǫǟǰǨǬǰ assoluto con un participio congiunto, che è attestata solo due volte nella letteratura greca fino al 400 a.C. Tutte queste difficoltà sono evitate da ǦǨǴǤǬǿǹǴǼǰ, forma inattestata ma formalmente accettabile, giacché è strutturalmente analoga a dzǤǮǤǬǿǹǴǼǰ (v. 593, Eum. 838 = 871): «its restoration here presupposes a more damaged tradition, but the corruption is at least partly explicable by the tendency to gloss unfamiliar form in -ǹǴǼǰ by ǹǴDzǰЛǰ»21. Questo argomento sarebbe più forte se non si appoggiasse specificamente sulla lezione ǦǨǴǤǬǿǵ del descriptus E, che Friis Johansen-Whittle considerano erroneamente indipendente da M22, piuttosto che su ǦǠǴǼǰ di questo manoscritto23. West accoglie ǦǨǴǤǬǿǹǴǼǰ, Sandin pensa a ǯǟǫǨ ǦǨǴǤǹǴǿǰǼǰ, insieme a ǦǨǴǤǴήǹǴDzǰЛǰ, «who is also rather attractive», aggiungendo in risposta all’obiezione di Friis Johansen-Whittle che «ǹǴDzǰǠǼ with the neuter plural is common», e adducendo a questo proposito vari esempi da Omero ad Aristofane; Sommerstein riprende qui il testo di West24. In questo dibattito il punto fondamentale per preferire ǦǨǴǤǬǿǹǴǼǰ a ǦǨǴǤǴήǹǴDzǰЛǰ sembra che sia la testimonianza dello scolio addotta da Friis Johansen-Whittle: ma è credibile che lo scolio abbia parafrasato la lezione del testo con il termine più corrente, secondo la prassi della scoliografia; ǦǨǴǤǴήǹǴDzǰЛǰ mi sembra forma più rara di ǦǨǴǤǬǿ ǹǴǼǰ e quindi preferibile; metricamente dà luogo a una responsione perfetta, come sottolinea Lomiento25. Al v. seguente, Heath ha indicato lacuna sul fondamento evidente della mancata responsione: Headlam ha ricavato dall’inintelligibile DzΘǰdzǨǴ e dallo scolio corrispondente DzΒdzǷǼǺǨȀǶǨǬǵ26 l’ipotesi che DzΘǰdzǨǴ derivi da errore di lettura del maiuscolo ǓǘǏǍǔljǕ, che potrebbe essere diviso DzΒǮǬdzǨǴ; combinando questo mozzicone di parola con quanto si ricava dallo scolio e confrontandolo con EM 566.50 G. ǮǬdzǨǴǰϸǷǬǵƽ ǫǪǮǸǭǿǰƽ Ƿβ ͊ǴǶǨǰǬǭβǰ ǮǬdzǨǴǰǡǷǪǵ ǶǪǯǤǢǰǨǬ Ƿβǰ ͚ǰǧǨϸǭǤαdzǷǼǺǿǰ, Suda Ǯ 588 A. ǮǬdzǨǴǰϸǷǬǵƽͧdzǷǼǺǡ, Zon. 1309 T. ǮǬdzǨǴǰǡ ǷǪǵƽ͚ǰǧǨǡǵdzǷǼǺǿǵ, ha supposto per il v. 362 ǮǬdzǨǴ seguito da una lacuna della misura ᤱᤱᗆᤱᗆche Headlam tentava in vari modi di integrare, con espressioni comeDzΒǮǬdzǨǴǰΰǵdzDzǷХ͞ǶǨǬDzΒǮǬdzǨǴǰǨЃǵ, in relazione al futuro atte-

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Friis Johansen-Whittle 1980 II 288 ss. Cf. ultimamente Lomiento 2008 b 47-8 (pur contro le osservazioni di Dawe 1982). Ha ragione Smith 1976, 73.3 a ignorare la variante di E. 23 Anche se si potrebbe sempre pensare a un fenomeno di contaminazione orizzontale che avesse portato in un manoscritto, derivato da un esemplare esistente, lezioni di diversa provenienza. 24 West 1998, 146; Sandin 2005, 189; Sommerstein 2008, 338. 25 Lomiento 2008 a 45. 26 Smith 1976, 73.4. 22

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stato dallo scolio27: il senso approssimativamente dovrebbe essere: ‘se tu avrai riguardo per il supplice, non ti troverai in miseria’, e si combinerebbe bene con quello che si può ricavare dai vv. 363-4, anche in relazione allo scolio che li parafrasa DzͷǫǨDzαǧǠǺDzǰǷǤǬǷή͊dzβ͊ǰǧǴβǵ͋ǦǰDzАͷǨǴǟ28, ma non è facile congetturare quali termini possono colmare la lacuna. Page accoglie a testo ǮǬdzǨǴ e in apparato suggerisce e.g. DzΒǮǬdzǨǴ; Friis Johansen-Whittle osservano che in tragedia non sono attestate forme di ǮǬdzǨǴǰ-, e in particolare ǮǬdzǨǴǰǨЃǵ implicherebbe un verbo attestato solo in Suda  589 A.29, e infine che in ogni caso è difficile misurare esattamente la lacuna, anche in relazione all’ambiguità metrica di un’espressione come ͷǨǴDzǧǿǭǤǫǨЛǰ: alla fine appongono cruces tra ǤͶǧǿǯǨǰDzǵ e ǮǡǯǤǷХ. West accetta ǮǬdzǨǴ, che «not only accounts excellently for the letters DzΘǰdzǨǴ but suits the syllabic division: the line following ǰǪ- has fallen out entirely»: questa osservazione potrebbe essere decisiva. Quanto a ͷǨǴDzǧǿǭǤ, esso deve essere riferito alle parole che seguono, come mostra lo scolio, ma deve essere integrato di una sillaba o due per raggiungere la misura dell’aristofaneo costituita dal corrispondente v. 362 ǭϫdzǢǶǸǰDzǵǯǠǯǸǭǨǹǴǟ; segna dunque un’ulteriore lacuna prima di ͷǨǴDzǧǿǭǤ che crocifigge30. Anche Sandin accoglie ǮǬdzǨǴ, «a conjecture palaeographically impeccable […] and almost certainly correct, despite the misgivings of FJ-W», considera la possibilità di DzΒǮǬdzǨǴǰΰǵdzDzǷХ͞ǶǨǬ (cf. Page), e quindi suggerisce di integrare ͷǨǴDzǧǿǭǤǫǨЛǰ ǮǡǯǤǷХ, «or, better, ǮǡǯǯǤǷХ (Tournebus), in the sense ‘receivings’, ‘receipts’ […]. The apparent redundance of the expression ͷǨǴDzǧǿǭǤ ǫǨЛǰ ǮǡǯǯǤǷХ appears to be Aeschylean». Quanto al metro e al problema posto dalla responsione del tràdito ͷǨǴDzǧǿǭǤcon l’elemento antistrofico -DzǵǯǠǯǸǭǨ, Sandin osserva che si può accettare l’allungamento epico dello iota, oppure leggere ͷǨǴDzǧǿǭǤ e contare ǫǨЛǰcome monosillabo: così esclude la necessità di un’ulteriore lacuna prima o dopo ǫǨЛǰ31. Sommerstein (2008, 338) preferisce risolvere il problema della responsione accogliendo la congettura ͷǨǴǤǧDzǭǨЃ che West aveva prospettata ma poi scartata ritenendola «stylistically odd»; Lomiento rilegge tutta la strofa nell’ipotesi che la colometria del manoscritto sia antica e osserva che «la genesi e le dimensioni dell’ampia lacuna sono ricostruibili piuttosto chiaramente se ci si attiene alla paradosi colometrica documentata da M E, che conferma la caduta di un intero colon, già diagnosticata da Canter»32: partendo così da un’ipotesi radicalmente diversa sulla tradizione della colometria giunge a confermare la ricostruzione te27

Headlam 1893, 75-6. Smith 1976, 73.5. 29 Cf. tuttavia l’aggettivo da cui si formerebbe il denominativo in Hsch.  1096 L. ǮǬdzǠǴǰǪǵƽ·͚ǭ dzǮDzǸǶǢDzǸdzǠǰǪǵ; il termine ricorre in Archil. 109.1 W. ( ǮǬdzǨǴǰϸǷǨǵdzDzǮЃǷǤǬ). 30 West 1990, 144-5. Questa soluzione non può essere del tutto scartata per il fatto indiscutibile che ͷǨǴDzǧǿǭDzǵ non ha altre attestazioni note. 31 Sandin 2005, 189 s. 32 Sommerstein 2008, Lomiento 2008 a 45. 28

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stuale di West. Su queste conclusioni si può procedere a ricostruire l’antistrofe con la congettura di Headlam, lasciando aperta la lacuna ma ricavando il senso complessivo ‘la volontà degli dèi (ǫǨЛǰǮǡǯǤǷХ) è disposta ad accogliere (ͷǨǴDz ǧǿǭǤ) i sacrifici che vengono da un uomo puro (͊dzХ͊ǰǧǴβǵ͋ǦǰDzА)’ dallo scolio 363-4 S.; il termine ͷǨǴDzǧǿǭǤ, allo stato delle nostre conoscenze, deve essere conservato, e così ǮǡǯǤǷ(Ǥ): contro la congettura di Tournebus ripresentata da Sandin sta, più che l’obiezione di Friis Johansen-Whittle, che la definiscono «a quasi-commercial term»33, un sano criterio di prudenza. Proporrei quindi il seguente testo: ͺǧDzǬǷDzǧϸǷǤǷήǰ͎ǰǤǷDzǰǹǸǦήǰ ͷǭǨǶǢǤnjǠǯǬǵLjǬβǵǎǮǤǴǢDzǸ ǶγǧίdzǤǴХΆǻǬǦǿǰDzǸǯǟǫǨǦǨǴǤǴήǹǴDzǰЛǰƽ dzDzǷǬǷǴǿdzǤǬDzǰǤͶǧǿǯǨǰDzǵDzΒǮǬdzǨǴ ͷǨǴDzǧǿǭǤǫǨЛǰǮǡǯǤǷХ͊dzХ͊ǰǧǴβǵ͋ǦǰDzА34.

e tradurrei: ‘Themis che protegge i supplici, figlia di Zeus Clario, possa rivolgere il suo sguardo su questa gente innocente in fuga, e tu, vecchio e saggio come sei, apprendi da uno nato più tardi; se hai riguardo per chi si rivolge a te non in bisogno: la volontà degli dèi è disposta ad accogliere i sacrifici di un uomo puro’.

Nel resto di questo ǭDzǯǯǿǵnon sono molti i luoghi controversi; generalmente il testo manoscritto ha ricevuto ben presto correzioni palmari, come 367 ͚dzǬǰDzǨЃǰ M, ͚ǭdzDzǰǨЃǰ Tournebus, 368 dzǟǴǤǭǴDzǵM, dzǟǴDzǵSophianus, Tournebus, 369 ͊ǶǷЛǰ [...] ǷDzЃǶǧǨM, ͊ǶǷDzЃǵǷЛǰǧǨBourdelot (e ǷЛǰǧǨ già Porto e Scaligero). La lettura dell’apparato di West è in questo caso rassicurante. Così nel caso di 373 ǯDzǰDzǶǭǡdzǷǴDzǬǶǬ ǧХ ͚ǰ ǺǴǿǰDzǬǶǬ era già stato corretto in ǫǴǿǰDzǬǶǬ da Sophianus e l’intervento conseguente di Pauw (ǫǴǿǰDzǬǵ) è tranquillamente accolto da oltre 250 anni. Tuttavia ai vv. 381 ss. il Coro si rivolge al re, invitandolo a considerare colui che dall’alto guarda, il protettore dei mortali afflitti, i quali, sebbene si siano rivolti ai vicini, non ottengono giustizia, e ricorda che l’ira di Zeus protettore dei supplici attende (ǯǠǰǨǬ), secondo M, ЛǧǸǶdzǤǴǤǫǠǮǭǷDzǬǵdzǤǫǿǰǷDzǵDzͺǭǷDzǬǵ (v. 386), lezione certamente guasta e difficile da sanare. Lo stesso manoscritto ha una variante marginale ǧǸǶdzǤǴǫǨǰǡǷDzǬǵ che nessuno dopo Stanley ha preso in considerazione, e uno scolio che commenta: ǷDzЃǵǫǴǡǰDzǬǵǷЛǰdzǤǶǺǿǰǷǼǰǶǸǯ ǯǤǺǨЃ·ǷDzАLjǬβǵǺǿǮDzǵ35. L’incipit del verso è stato corretto variamente nel Cin-

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Friis Johansen-Whittle 1980 II 292. Lomiento 2008 a 45-6; cf. peraltro supra n. 30. 35 Smith 1976, 73.16-7. 34

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quecento36, Stanley leggeva in Canter ͚ǰǧǸǶdzǤǴǤǫǠǮǭǷDzǬǵ e traduceva «permanet quidem Iovis supplicum praesidis ira in difficulter demulcendis patientis aerumnis», suggerendo nelle annotazioni ǧǸǶdzǤǴǤǯǸǫǡǷDzǬǵ, attinto da quello che a Vettori era parso uno scolio e che potrebbe esserne se non altro il residuo37; quindi Schütz sul fondamento dello scolio correggeva in ǧǸǶdzǤǴǟǫǨǮǭǷDzǵe osservava «qui h.l. dicitur ǭǿǷDzǵ ǧǸǶdzǤǴǟǫǨǮǭǷDzǵ, idem v. 348 [= 347] ǥǤǴγǵ ǭǿǷDzǵ vocabatur»38. In seguito Burges propose ǧǸǶdzǤǴǤǫǠǮǭǷDzǸǵ; Wecklein accolse la proposta, traducendo: «Der Groll des Zeus erwartet solche, die gefühllos bleiben bei dem Wehklagen eines Gekränkten»39; così Murray, con Mazon e Weir Smyth, mentre Wilamowitz, Page, Friis Johansen-Whittle e West preferiscono la correzione di Schütz40. In particolare Friis Johansen-Whittle dedicano alcune riflessioni al problema: «ǧǸǶdzǤǴǟǫǨǮǭǷDzǵis indoubtely correct: it incorporates a traditional idea, amplifies ǥǤǴȀǵ in 347, and corresponds closely in prosody and sense to the concluding epithet in 646-8 LjЃDzǰ͚dzǬǧǿǯǨǰDzǬdzǴǟǭǷDz ǴǤ ǶǭDzdzβǰ ǧǸǶdzDzǮǠǯǪǷDzǰ [...]. The alternative restoration ǧǸǶdzǤǴǤǫǠǮǭǷDzǸǵ […], which produces an expression akin to S. Tr. 1239-40 ͊ǮǮǟǷDzǬǫǨЛǰ͊Ǵή ǯǨǰǨЃǶХ͊dzǬǶǷǡǶǤǰǷǤǷDzЃǵ͚ǯDzЃǵǮǿǦDzǬǵ, would refer to Pelasgus and sum up the content of 383-4, while dzǤǫǿǰǷDzǵwould refer to the Chorus […] and DzͺǭǷDzǬǵallude to their pleas for pity», ma in ogni caso sarebbe inferiore a ǧǸǶdzǤǴǟǫǨǮ ǭǷDzǵperché «it breaks all connection between the passage and the parallels given above» e perché «it causes great difficulty in interpreting dzǤǫǿǰǷDzǵ, which, if alluding to the Chorus, ought to be a present partc.»41. Sandin protesta vivacemente rifiutandosi di accettare quella che egli chiama «the present vulgate»: «in fact there is nothing wrong with the traditional dative - : cf. 433-36 below and also Pers. 807-8 ǶǹǬǰ ǭǤǭЛǰ ΗǻǬǶǷХ ͚dzǤǯǯǠǰǨǬ dzǤǫǨЃǰ, both instances of bad consequences that await (ǯǠǰǨǬ) ill-doers or their children, who take the dative case. ǯǠǰǨǬwith the dative is also found in, e.g., Th. 902-3, S. Ant. 563-64, E. fr. 733 Nauck [= 733 K.)». Continua osservando che l’ambiguità dei due dativi plurali, DzͺǭǷDzǬǵ e ǧǸǶdzǤǴǤǫǠǮǭǷDzǬǵ, può essere risolta dal contesto, forse anche dalla pronuncia, e che in altri casi Eschilo non evita la possibile ambiguità, cf.

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L’Aldina riproduce il manoscritto (1518, 103), Tournebus (1552, 192), seguito da Vettori (1557, 321), stampa ͚ǰe Robortello ǷDzЃǵ (1552, 140). 37 Stanley 1663, 582; cf. 848: «Scholiastes ǧǸǶdzǤǴǫǨǰǡǷDzǬǵ, lege ǧǸǶdzǤǴǤǯǸǫǡǷDzǬǵ». 38 Schütz 1794, 281. 39 Burges 1811, 187; Wecklein 1902, 61. 40 Paley, considerando l’Л con cui inizia il v. 386 pensò che «some one who perceived that the words ought not to agree wrote Й in the margin for ǧǸǶdzǤǴǤǫǠǮǭǷЙ, instead of which the next transcriber gave ΤǧǸǶdzǤǴǤǫǠǮǭǷDzǬǵ» (Paley 1870, 38). 41 Friis Johansen-Whittle 1980 II 304. A proposito della congettura di Paley essi osservano che «such a person would surely have preferred the acc. sing. or acc. plur.; the mysterious Л is better explained as deriving from misinterpretation of the true reading ǧǸǶdzǤǴǟǫǨǮǭǷDzǵ as a vocatival nom.». Ultimamente Sandin ha mostrato l’inconsistenza dell’asserzione secondo la quale qualcuno si sarebbe potuto trovare in difficoltà davanti a un dativo, ma il misterioso Л resta un relitto indecifrabile.

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qui ai vv. 60-2 e 27642. Quanto allo scolio, è certo che esso considera Zeus alleato di chi soffre, non colui che infligge la sofferenza, e che l’aoristo dzǤǫǿǰǷDzǵ non fa problema, perché l’espressione dell’azione assoluta è propria di una frase gnomica come questa43. Sommerstein stampa ǧǸǶdzǤǴǟǫǨǮǭǷDzǵ ignorando ancora una volta Sandin44. Un punto deve essere ritenuto fermo in questa discussione: non è credibile che le Danaidi, disperate, e che tra poco minacceranno apertamente l’intenzione di suicidarsi se dovessero essere abbandonate alla violenza dei maschi, si diano pensiero del possibile dzǟǶǺǨǬǰ di altri piuttosto che di loro stesse, quindi ǧǸǶ dzǤǴǟǫǨǮǭǷDzǵ è inaccettabile45. Sandin lo ha dimostrato chiaramente contro le argomentazioni di Friis Johansen-Whittle che West aveva implicitamente condiviso: se ancora Sommerstein non fosse tornato a quella correzione, riaprendo così la discussione, non varrebbe la pena di ritornarvi sopra. Si potrebbe forse ancora esitare tra ǧǸǶdzǤǴǤǫǠǮǭǷDzǸǵ e ǧǸǶdzǤǴǤǫǠǮǭǷDzǬǵ: anche se Sandin ha portato esempi di ǯǠǰǨǬǰcon il dativo, l’argomento della possibile confusione dei due dativi plurali potrebbe ancora essere invocato, e si potrebbe perfino pensare che il copista di M, avendo davanti agli occhi un esemplare in minuscola con DzǸǵ, e non comprendendo bene il senso, avesse letto -DzǬǵ concordandolo inconsapevolmente con il prossimo DzͺǭǷDzǬǵ. Ma in mancanza di argomenti cogenti la testimonianza del manoscritto accusato, per quello che essa può valere46 dovrebbe essere tenuta buona e che a questo punto del dibattito si dovrebbe stampare ǧǸǶ dzǤǴǤǫǠǮǭǷDzǬǵ, intendendo ‘l’ira di Zeus protettore dei supplici attende quelli che non saranno commossi dai gemiti di chi soffre’47. Ai vv. 387 ss. Pelasgo chiede chi potrebbe opporsi agli Egizi, ǷǢǵ͌ǰǷDzЃǶǧХ ͊ǰǷǬǼǫϸǰǤǬǫǠǮDzǬ (389), nel caso in cui essi avessero un diritto legale sopra le cugine. Al v. 389 la prima mano di M ha in realtà ǷDzЃǵ, cui una seconda ha aggiunto -ǧХ, apparentemente con l’intenzione di correggere un errore della prima. Wecklein, Wilamowitz, Mazon, Murray, Page e Friis Johansen-Whittle hanno ǷDzЃǶǧХ, West e Sommerstein ǷDzЃǵ, con l’assenso di Sandin. Friis JohansenWhittle intendono il pronome al neutro, «oppose this claim», osservando che «interpretation of ǷDzЃǶǧХ as masc. (‘s’opposer à eux’, Mazon), is implausible, since after 387 dzǤЃǧǨǵDžͶǦȀdzǷDzǸ the strongly deictic ǷDzЃǶǧХwould give a false emphasis; it would fit ǷDzЃǵ better, but there is no reason to suppose that ǷDzЃǶǧХ is 42 D’altra parte tutte le forme, sia quella attestata dal Mediceus sia quelle congetturate, risalgono a Ljǘ&ǔDžǕDžnjljǏǎǗǓ&nell’antico alfabeto attico. 43 Si potrebbe anche rispondere, volendo, che la vendetta di Zeus si manifesterà nel futuro quando le sofferenze delle Danaidi saranno finite, e in ogni caso non costituirà più un problema per Pelasgo; cf. Sandin 2005, 192-3. 44 Sommerstein 2008, 340. 45 Per quel che può valere, questo è anche il punto di vista dello scolio sopra ricordato. 46 Cf. supra la n. 42. 47 L’osservazione di Friis Johansen-Whittle, cheǥǤǴȀǵ al v. 347 amplifica ǧǸǶdzǤǴǟǫǨǮǭǷDzǵ, si riferirà invece a ǭǿǷDzǵ. L’intensificazione concettuale attraverso l’accumulazione di espressioni di senso affine resta una caratteristica dello stile eschileo.

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incorrectly transmitted»48. Sandin trova difficoltà con il neutro, e per questo preferisce ǷDzЃǵ: «West prints Mac ǷDzЃǵ (‘oppose them’), which seems better and more idiomatic than ǷDzЃǶǧХ (Mpc: ‘oppose this’)». Infine Sommerstein stampa ǷDzЃǵ e lo interpreta come un neutro, «to oppose that claim», riecheggiando Friis Johansen-Whittle49. È forse più semplice scegliere ǷDzЃǶǧХmaschile, rovesciando l’argomento addotto da Friis Johansen-Whittle per escluderlo, e pensare che ci si trovi di fronte a una formulazione marcatamente enfatica di Pelasgo, che di fronte all’ipotesi che i cugini potessero avere un diritto di prelazione sulle scelte nuziali delle Danaidi, secondo il diritto ateniese50, obiettava alla richiesta di aiuto delle ragazze contro le pretese di quelli: ‘proprio a costoro chi potrebbe opporsi?’. Ai vv. 402 ss. le Danaidi, di fronte alla persistente esitazione di Pelasgo (DzΒǭ ǨΖǭǴǬǷDzǰǷβǭǴЃǯǤ .) gli ricordano che Zeus consanguineo sorveglia gli eventi che riguardano gli uni e gli altri, attribuendo male ai malvagi e bene ai pii. Perché dunque, concludono, giacché i termini sono equilibrati, egli esita a compiere ciò che è giusto? Queste ultime parole sono espresse come segue nel manoscritto: ǷǢǷЛǰǧǨ͚DZͻǶDzǸЏǨdzDzǯǠǰǼǰǯǨǷǤǮ-/ ǦǨЃǵǷβǧǢǭǤǬDzǰ͞ǴDZǤǬ (vv. 405-6) e commentate dallo scolio: ǷǢ͊dzDzǴǨЃǵǶǸǯǯǤǺϸǶǤǬǷМLjǬǢ

Il problema è enunciato con tutta chiarezza da Friis Johansen-Whittle: «†ǯǨǷǤǮ ǦǨЃǵ … ͞ǴDZǤǬ†: at least one of these two words is corrupt, for ͊ǮǦǨЃǰ and its compounds are never constructed with inf.; the transmitted termination of either word may reflect assimilation to the paraphrase in ǖ 405 ǷǢ͊dzDzǴǨЃǵǶǸǯǯǤǺϸǶǤǬ …». Questo problema ha dato origine alle proposte ǯǨǦǤǢǴǨǬǵdi Stadtmüller, ͞ǷХ ͊ǴǦǨЃǵ di Musgrave, ǦǨǯǠǮǮǨǬǵ di Italie, ǯǨǷǤǮǦǠǵ di Sidgwick, elencate nell’apparato di West, oltre a ͞ǴDZǤǵdi Headlam, che fu accolto da Wilamowitz. Il testo di M fu conservato da Wecklein, che annotava: «in ǯǨǷǤǮǦǨЃǰ bezeichnet ǯǨǷǟ wie in ǯǨǷǤǦǬǦǰȁǶǭǨǬǰǯǨǷǤǯǤǰǫǟǰǨǬǰǯǨǷǤǯǨǮǠǶǫǤǬǯǨǷǤǶǷǠǰǨǬǰ den Wechsel des Sinns. Vgl. auch Hom.  232 ΆǮDzǹȀǴǨǤǬ ͎ǮǭǬǯDzǵ ǨͼǰǤǬ. Das von W. Headlam vermutete ͞ǴDZǤǵ entspricht dem Sinne weniger, da das Tun erst erwartet wird»51. Tra gli editori successivi stamparono ǯǨǷǤǮǦίǵ[…] ͞ǴDZǤǬMurray e Page, †ǯǨǷǤǮǦǨЃǵ […] ͞ǴDZǤǬ† Friis Johansen-Whittle e Sommerstein 2008, †ǯǨǷǤǮǦǨЃǵ† […] ͞ǴDZǤǬWest, nessuno riprese senza riserve il testo del Mediceus salvo Mazon e Untersteiner, e ultimamente Lomiento52.

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Friis Johansen-Whittle 1980  307. Sandin 2005, 193, Sommerstein 2008, 336-7. 50 Cf. ancora Friis Johansen-Whittle l.c. 51 Friis Johansen-Whittle 1980  323; Wecklein 1902, 63. 52 Essi traducevano rispettivamente: «Comment avoir scrupule à faire ce que la Justice veut?» e «hai il dolore del pentimento per un’azione giusta»: credo che ritenessero il problema risolto dal 49

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Friis Johansen-Whittle continuano le loro argomentazioni, che oggi costituiscono il necessario punto di riferimento del dibattito, osservando che è facile ipotizzare che ͞ǴDZǤǬ derivi da erronea lettura di un ͞ǴDZǤǵ in minuscola; quindi chi vuole mantenere ǯǨǷǤǮǦǨЃǵdeve considerarlo un praesens pro futuro, combinato con un participio come in Pers. 212-4, Cho. 508-9, PV 512-3 e 524-5 e altri53, ma è dubbio che questi esempi possano giustificare ǯǨǷǤǮǦǨЃǵ […] ͞ǴDZǤǵ: nella maggior parte dei casi il praesens pro futuro esprime una rappresentazione immediata, contrapposta al durativo espresso di regola dal presente, come in Ag. 126 ͊ǦǴǨЃ(e molti altri casi che essi elencano); d’altra parte non è facile emendare soddisfacentemente ǯǨǷǤǮǦǨЃǵ, giacché ǯǨǦǤǢǴǨǬǵ «does not seem to be used in contexts conveying a negative reaction to a general law», ǯǨǷǤǮǦǠǵ «is an unattested word without better analogy than the late-attested ǯǨǷǤdzDzǢǰǬDzǵ of Sud. dz 3092», mentre ͞ǷХ͎ǮǦDzǵ, suggerito nella prima edizione del solo Friis Johansen, con ͚ǶǷǢǰ sottinteso, darebbe luogo ad un’espressione idiomatica con un senso accettabile, e si adatterebbe bene al discorso di Pelasgo ai vv. 407-17, che replica all’impaziente ͞ǷХ delle Danaidi insistendo sulla necessità di una riflessione più profonda. Seguono complesse riflessioni sul modo in cui potrebbe essersi prodotto l’errore54. Infine considerano la loro proposta di combinare ͞ǴDZǤǵ di Headlam con un’ulteriore correzione ǯǨǷǤǮǦDzЃǵ, obiettando anche a questa la difficoltà di introdurre un ottativo potenziale senza ͎ǰ, peraltro non senza paralleli55: concludono che nessuno dei due ultimi tentativi risulta convincente, per difficoltà paleografiche nel primo dei casi e linguistiche nel secondo, e che le cruces sono inevitabili. Questa conclusione è condivisa da West e da Sommerstein 2008, incerti solo sul punto esatto della corruzione. In apparato peraltro Sommerstein considera la possibilità di combinare la proposta di Friis Johansen ǯǨǷǤǮǦDzЃǵcon ǷήǧǢǭǤǬХ͌ǰ͞ǴDZǤǵ, una soluzione che egli illustra nell’ultimo suo intervento56. Sandin infine ha riaperto la discussione proponendo di conservare il testo tramandato: «it is possible that ǯǨǷǤǮǦǨЃǵ is sound, the verb here meaning ‘hesitate’, ‘agonize’ (ΆǭǰǨЃǰ), with ǯǨǷ- signifying the conjunction of the simultaneity of the sensation with the action, instead of, as in E. Andr. 814, the posteriority». In nota aggiunge che «Seeing, however, that the focus of the present scene lies on Pelasgus’ agonising and uncertainty, the concrete stress on him that the verb in the 2nd person present conveys is attractive». Credo che il problema sia così valore particolare di ǯǨǷǤǮǦǨЃǰ, secondo il suggerimento di Wecklein. Cf. ultimamente Lomiento 2008 a 41, che in n. 15 fornisce una discussione critica della bibliografia. 53 Quindi se ne dovrebbe ricavare, se intendo, qualcosa come ‘perché ti pentirai se avrai fatto il bene’, una traduzione il cui senso mi sfugge totalmente. 54 La corruzione di ͎ǮǦDzǵ in ͊ǮǦǨЃǵpotrebbe essere dovuta al fastidio di una espressione senza verbo espresso, combinato con l’assimilazione con ͊dzDzǴǨЃǵ dello scolio; più difficile spiegare la corruzione di ͞ǷХin ǯǨǷ-, per cui Friis Johansen-Whittle indicano dubitativamente PV 13, dove a ͚ǯdzDzǧδǰ͞ǷǬ si oppone in alcuni mss. la variante marginale ͚ǯdzDzǧδǰǯǟǷǪǰ. 55 Parrebbe che, avanzando questa proposta, Friis Johansen-Whittle avessero in mente la struttura sopra citata di Pers. 212-3, dzǴǟDZǤǵ ǯίǰ ǨΘ ǫǤǸǯǤǶǷβǵ ͌ǰ ǦǠǰDzǬǷХ ͊ǰǡǴ / ǭǤǭЛǵ ǧί dzǴǟDZǤǵ [...]. 56 Sommerstein 2010, 15-6.

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risolto, nonostante che Sommerstein manifesti il suo scetticismo su questa soluzione57, comunque qualche osservazione si può forse aggiungere, per ribadire la soluzione conservativa. Normalmente, come Friis Johansen-Whittle osservano, ͊ǮǦǨЃǰ e composti si costruiscono con il participio, come molti verba affectuum: è il costrutto indicato in K.-G. II 53-4, per questo verbo e per altri; ma alcuni verbi di questa categoria ammettono con valori diversi la costruzione dell’infinito accanto a quella del participio: così ad es. ǤͶǶǺȀǰDzǯǤǬ e ǤͶǧǠDzǯǤǬsi costruiscono con il part. nel senso di ‘vergognarsi a fare o ad aver fatto una cosa’ (una cosa che dunque si fa o si ha fatto), con l’inf. nel senso di ‘vergognarsi all’idea di fare una cosa’ (e quindi evitare di farla): K.-G. II 73.21 e Anm. 3. Lo stesso, pur in assenza di testimonianze, potrebbe valere per ͊ǮǦǠǼ, ǯǨǷǤǮǦǠǼ. Questi verbi non sono propriamente verba affectuum, nel senso di ‘provare pentimento’, e per questo di norma non ammettono il costrutto con l’infinito, ma sembra non irragionevole supporre che in questo luogo, acquisendo per traslato un senso affine a quelli, ne assumano la costruzione, anche a marcare il traslato. Così ǷǢ[...] ǯǨǷǤǮǦǨЃǵǷβǧǢǭǤǬDzǰ ͞ǴDZǤǵ dovrebbe significare: ‘perché provi rammarico per aver fatto il giusto’58, mentre ǷǢ[...] ǯǨǷǤǮǦǨЃǵǷβǧǢǭǤǬDzǰ͞ǴDZǤǬ significa: ‘perché provi rammarico all’idea di fare il giusto’59, ed è questa la frase che ci si attende dalle Danaidi, ma soprattutto che rappresenta bene la riflessione inquieta e sospesa di Pelasgo: la costruzione, indubbiamente inconsueta, di ǯǨǷǤǮǦǨЃǵcon l’infinito, dà alla frase un sapore prezioso e fortemente espressivo, che andrebbe perduto con la normalizzazione sintattica che suggerisce un ottativo ǯǨǷǤǮǦDzЃǵ con ͎ǰ e un participio che ne dipenderebbe: questa normalizzazione non sarebbe solo inutile, ma disperderebbe una peculiarità espressiva che mi pare abbia una sua ragione di essere. I ragionamenti poi che sono stati fatti a proposito del praesens pro futuro non sono applicabili a questo luogo. Il primo degli esempi che Friis JohansenWhittle adducono, Aesch. Ag. 126, sono le parole di Calcante ai capi dell’esercito greco: ǺǴǿǰЙǯίǰ͊ǦǴǨЃǔǴǬǟǯDzǸdzǿǮǬǰ͏ǧǨǭǠǮǨǸǫDzǵ, e qui è ben chiaro che cosa si intende con praesens pro futuro: l’indovino ha sotto gli occhi gli avvenimenti che si realizzeranno in futuro. Ma che cosa potrebbe voler dire ǷǢ [...] ǯǨǷ ǤǮǦǨЃǵǷβǧǢǭǤǬDzǰ͞ǴDZǤǬ / ͞ǴDZǤǵcon una simile interpretazione del presente ǯǨǷ ǤǮǦǨЃǵ, nessuno potrebbe immaginare60. Qui ǯǨǷǤǮǦǨЃǵ è un presente durativo, per esprimere il tormento di Pelasgo che si prolunga (e prolunga l’attesa angosciata delle Danaidi), mentre ͞ǴDZǤǬesprime il valore assoluto dell’aoristo, senza nessuna determinazione cronica. Infine l’idea di un infinito ͞ǴDZǤǬinserito nel testo per influsso della forma dello scolio ǷǢ͊dzDzǴǨЃǵǶǸǯǯǤǺϸǶǤǬ è decisamente da respingere: normalmente un 57

Sandin 2005, 196; Sommerstein 2010, 16 n. 29: «but he comes nowhere showing that a person hesitating over a decision can be said ͊ǮǦǨЃǰ». 58 Il participio predicativo aoristo in dipendenza dai verba affectuum ha valore cronico, perché essi assumono valore di verba sentiendi. 59 Questa potrebbe essere la risposta al dubbio espresso ultimamente da Sommerstein 2010. 60 Liberman 1998, 245-6 non intende il senso né del verbo né del tempo.

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copista trascriveva il testo e un altro provvedeva alla correzione e inseriva gli scoli nei margini: è molto più facile il procedimento inverso. L’unica cosa che, senza certezza, ma con un certo margine di probabilità si può dire è che il fatto che lo scolio ha la stessa struttura sintattica del testo che egli commenta non dice nulla di assoluto, ma potrebbe pur essere un indizio, sia pur certo di per sé assai debole, a favore della consistenza del testo chiosato. Le cruces, tuttavia, potrebbero essere una soluzione non irragionevole. Pur con le perplessità che dichiaro, mi pare che i luoghi che ho qui discusso rendano sufficiente ragione dell’opportunità di una nuova edizione di Eschilo. Spero che le discussioni con i colleghi che vorranno dedicarmi la loro attenzione e con gli altri membri del gruppo che collaborano a questa iniziativa, in particolare con coloro che condividono con me, e che hanno già cominciato a discutere con me questi passi, riescano a migliorare la qualità del lavoro che presento, in modo da arrivare a una edizione della tragedia più credibile in confronto a quelle correnti. Bologna

Vittorio Citti

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Bamberger 1856 (1839) F. Bamberger, Coniectaneorum in Aeschyli Supplices pars prior, Zeitschrift für die Alterthumswissenschaft 6 (1839) 878-85 (= Opuscula philologica, Lipsiae 1856, 107-13). Bordigoni 2005 C. Bordigoni, Localizzazione in ‘explicit’, paradigmi morfologici e ‘patterns’ formali nel trimetro eschileo, Lexis 25 (2005) 31-62. Bordigoni 2006 C. Bordigoni, Per un’analisi della versificazione eschilea: automatismi compositivi e rielaborazione formale, Diss. Trento 2006. Burges 1811 G. Burges, Emendationes in Aeschyli Supplices, CJ 3, 1811, 183-93. Citti 1979 V. Citti, Tragedia e lotta di classe in Grecia, Napoli 19791, 1986². Citti 2012 V. Citti, Danao e le sue figlie (Aesch. ‘Suppl.’ 176-220), in corso di pubblicazione in ǐǸǫDzǮDzǦǨЂǰ. Mito e forme di discorso nel mondo antico. Studi in onore di Giovanni Cerri, Pisa-Roma 2012. Friis Johansen-Whittle 1980 Aeschylus, The Suppliants, edited by H. Friis Johansen and E.W. Whittle, I-III, Copenhagen 1980. Gruber 2009 M.A. Gruber, Der Chor in den Tragödien des Aischylos. Affekt und Reaktion, Tübingen 2009.

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ABSTRACT On the text of Aeschylus, Suppliant Women 355, ǰǠDzǰǫХ must be kept as in Mediceus, ΋ǯǬǮDzǰcannot be the company of the suppliant, but the one of the images of the gods; for 359-64 the author suggests to print ͺǧDzǬǷDzǧϸǷǤǷήǰ͎ǰǤǷDzǰǹǸǦήǰ/ ͷǭǨǶǢǤnjǠǯǬǵ LjǬβǵǎǮǤǴǢDzǸ, / ǶγǧίdzǤǴХΆǻǬǦǿǰDzǸǯǟǫǨǦǨǴǤǴήǹǴDzǰЛǰƽ/ dzDzǷǬǷǴǿdzǤǬDzǰǤͶǧǿǯǨ ǰDzǵDzΒǮǬdzǨǴ / ͷǨǴDzǧǿǭǤǫǨЛǰǮǡǯǤǷХ͊dzХ͊ǰǧǴβǵ͋Ǧ ǰDzА; for 386 the best is to print ǧǸǶdzǤǴǤǫǠǮǭǷDzǬǵand for 405-6 there are arguments for accepting ǯǨǷǤǮǦǨЃǵ with the infinitive ͞ǴDZǤǬ, but the cruces may be a raisonable solution. KEYWORDS: Greek tragedy - Aeschylus - Suppliant Women

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CONSIDERAZIONI SULLA FUNZIONE DELL’EFIMNIO RITMICO-METRICO IN AESCH. SUPPL. 630-709. Il secondo stasimo delle Supplici di Eschilo (vv. 625-709) ha una struttura formale rara nel panorama dei cantica drammatici del V secolo a.C. È introdotto da una breve sezione in dimetri anapestici (A, vv. 625-9), chiusi dal paremiaco (2an^), probabilmente resi in recitativo dal corifeo1, che esorta il coro a dire preghiere per Argo e a invocare l’aiuto di Zeus Protettore-degli-ospiti (Xenios). Dopo tale succinta introduzione, che è immediatamente classificabile come proodo2, i successivi vv. 630-709 si configurano come una lunga sezione lirica ǭǤǷήǶǺǠǶǬǰovvero obbediente a una responsione strofica. Si tratta, in particolare, di 4 coppie antistrofiche, l’ultima (EE’, vv. 698-709) interamente in giambi lirici3, le prime tre (BB’, vv. 630-55; CC’, vv. 656-77; DD’, vv. 676-97) articolate in misure prevalentemente coriambiche, alle quali nella prima e nella terza coppia si mescolano misure docmiache. Nelle prime tre coppie, ma non nell’ultima, è presente una sorta di ‘coda’ metrica di 4 cola tipici della tradizione eolica nella sequenza 2 ferecratei gliconeo ferecrateo. Tale ‘coda’ segue a ciascuna strofe, ed è dunque iterata per 6 volte, sostanzialmente invariata nello schema prosodico4, ma con un testo verbale ogni volta diverso. Il medesimo elemento formale della ‘coda’ metrica che, con identica sequenza di 4 cola eolici (2 ferecratei gliconeo ferecrateo) è aggiunta al termine di ciascuna strofe ricorre, ancora in Eschilo, nell’Agamennone, composto pochi anni dopo le Supplici5. Il primo stasimo di questa tragedia, anch’esso di considerevole lunghezza (vv. 355-487), esibisce in effetti una struttura formale quasi sovrapponibile a quella, ora descritta, del secondo stasimo delle Supplici. Essa si apre con una strofe proodica (A, vv. 355-66) in dimetri anapestici chiusi dal paremiaco (2an^), probabilmente resi in recitativo dal corifeo6. Questi rivolge un’apostrofe iniziale a Zeus Re, e aggiunge una breve considerazione sulla potenza del Padre degli dèi. La sezione lirica che segue obbedisce, al pari del secondo stasimo delle Supplici, a una articolazione ǭǤǷή ǶǺǠǶǬǰ. Anch’essa è – come nel caso delle Supplici – suddivisa in tre coppie antistrofiche (BB’, vv. 367-402; CC’, vv. 403-36; DD’, vv. 437-74) di schema metrico prevalentemente giambico, con presenza di docmi nella seconda coppia. E anche qui, come nelle Supplici, ciascuna delle strofe è, sul piano della forma musicale, completata dalla ‘coda’ in misure eoliche, di cui s’è detto. Il corale è conchiuso da una singola strofe epodica (E, vv. 475-87), in giambi lirici e docmi che, nel confronto con la struttura complessiva documentata 1

Cerbo 1994, 44. Ibid. 44. 3 Caratterizzati dalla mescolanza di giambi puri e cretici e bacchei esasemi: cf. Gentili-Lomiento 2008, 151-3; 216-25. 4 Cf. infra Appendice I. 5 Al 463 a.C. si datano le Supplici, al 458 a.C. l’Agamennone. 6 Cerbo 1994, 47-8. 2

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nel secondo stasimo delle Supplici, si configura come variazione, sul piano della composizione formale, dell’ultima coppia antistrofica (priva di ‘coda’ metrica). Il medesimo elemento formale della ‘coda’ metrica in clausola di strofe in una struttura ǭǤǷήǶǺǠǶǬǰ ricorre ancora, ed è l’ultimo caso a noi noto, nel I stasimo dell’Eracle di Euripide (del 416 o 414 a.C.). Il canto, di lunghezza straordinaria nell’insieme della produzione euripidea (vv. 348-450),7 non presenta il proodo in anapesti con funzione introduttiva adottato da Eschilo, ma si apre direttamente con la sezione lirica. Questa si articola, come già nei casi precedentemente esaminati, in tre coppie antistrofiche, di metri molto vari, eolici e coriambici nella prima coppia (AA’, vv. 348-79), dattilici, giambici e trocaici nella seconda (BB’, vv. 380-407), puri giambi nella terza (CC’, vv. 408-41). Ciascuna delle strofe è, sul piano della forma musicale, completata da una ‘coda’ metrica sostanzialmente identica a quella esibita da Eschilo, ma aumentata di un colon ferecrateo (nello schema 3pher glyc pher) e di due cola ferecratei (nello schema 4pher glyc pher) in chiusura, rispettivamente, delle prime quattro strofe (coppie AA’, BB’) e delle ultime due (coppia CC’). La conclusione della lunga sezione lirica è affidata all’ultima ‘coda’, che chiude la terza coppia, e ciò costituisce una variazione palese rispetto al modello di Eschilo nel quale invece la funzione clausolare è affidata ora a una coppia strofica priva di ‘coda’, ora invece a una singola strofe epodica. Il corale è seguito da una breve strofe in dimetri anapestici (D, vv. 442-50), probabilmente pronunciati dal corifeo e tematicamente legati all’episodio seguente, che contribuiscono a introdurre, con l’annuncio dell’ingresso in scena dei familiari di Eracle. Il fenomeno che ho provvisoriamente indicato come ‘coda’ metrica è di fatto ampiamente rilevato negli studi specifici dove, a partire da Wilamowitz nel suo celebre commento all’Eracle, è noto come ‘efimnio ritmico’8. La denominazione, sconosciuta alla teoria metrica antica, attinge il nome al greco ͚ǹȀǯǰǬDzǰ, che nella letteratura poetica ed erudita giunge a noi dalla antichità, e designa – già nelle sue prime attestazioni – un nesso verbale, solitamente breve, atto a esprimere una invocazione rituale, ad esempio ͶΰͶΰǔǤǬǟǰ ͶΰͶΰǔǤǬȁǰͶǡǬǪo ǤͺǮǬǰDzǰ, oppure anche una esclamazione, solitamente in contesto rituale, come ad esempio ǷǡǰǨǮ ǮǤ, ma anche in circostanze differenti, come nel caso dei celebri ǥǴǨǭǨǭίDZǭDzήDZ ǭDzǟDZnel primo canto corale delle Rane o, ancora nelle Rane, il grido Ͷǡ nel verso ͶǡǭDzdzDzǰDzΒdzǨǮǟǫǨǬǵ͚dzХ͊ǴǼǦǟǰ9. Nella poesia di tipo innico, legata al rituale, 7

Bond 1981, 146. Wilamowitz 1895, 80-7 (81; 84), e ancora Id. 1914, 359 adn. Cf. Rode 1965, 49-56; Jens 1971, 99; Garvie 2006, 42-5; Sandin 2005, 103-4; Friis Johansen-Whittle 1980 III 4; Cerbo 1994, 23-4; Grimaldi 2000, 187 e n. 30. 9 ƴljǹȀǯǰǬDzǰ nel senso di ‘invocazione’ o ‘esclamazione’: Call. fr. 384.39 Pf.; Hymn. Ap. 98; A. R. 2.713; Clearch. fr. 64.3 W. = Ath. 15.701 A-B; Ath. Epit. 2.2, p. 162.6 P.; Hsch. s.vv. ͚dzǢǴǴǪǯǤ; ͚ǹȀǯǰǬǤ; ǷǡǰǪǥǮDzǵǷǡǰǪǥǮǤ; cf. schol. Aristoph. Av. 1764; schol. Pind. Ol. 9.1; 5; 1k; 31.2; Suda s.vv. ǥǴǨǭǨǭίDZǭDzήDZǭDzǟDZ; ͚ǹȀǯǰǬDzǰ;Ͷǡ; cf. schol. Aristoph. Ra. 1275; EM s.vv. ǤͺǮǬǰDzǰͷǡǬǪ ͚ǹȀǯǰǬDzǰ nel senso di ‘canto aggiunto’: Hsch. s.vv.͚dzǢǴǴǪǯǤ; schol. Aesch. Eum. 341; 490b 5; 975; Sept. 975-7d 1; Sept. 986-8 (= 975-7); Ag. 104b 7; 121a; nel senso, semplicemente, di ‘canto’: Hsch. s.v. ͚ǹȀǯǰǬǤ; Et.Gud. s.v. ͚ǹȀǯǰǬǤ; Phot. s.v. ͚ǹȀǯǰǬDzǰ Efestione (70.10-7 C.) defini8

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tale invocazione o ‘efimnio’, denominato dagli antichi anche ‘epiftegma’, che nelle fonti sembra funzionare – con qualche rara eccezione – sostanzialmente come variante sinonimica, era spesso ripetuto, con identica sequenza verbale, al termine delle diverse sezioni strofiche che articolavano il canto10. Di qui, è da presumere, l’altra accezione, documentata in fonti più tarde, di ‘canto aggiunto’, quasi un sinonimo di ‘epodo’ (con la valorizzazione del prefisso ͚dzǬ-), con il riferimento, in questo caso, a più lunghe sequenze di cola, a brevi canti ripetuti, in forma identica anche sul piano verbale, in coda alle sezioni strofiche.11 A riconsiderare l’insieme delle testimonianze, in effetti, si ricava l’impressione che più che l’idea di ‘ripetizione’, prevalesse nella nozione antica di ‘efimnio’ (come anche di ‘epiftegma’) l’idea della ‘appendice’, della ‘coda’ aggiunta a una struttura formale in sé percepita come già completa sul piano del disegno musicale12, e che l’aspetto della ‘iterazione’, tipico invece della nozione moderna di ‘ritornello’ o, alla francese, refrain, fosse un aspetto secondario, derivato dalla osservazione di singoli e specifici casi. In ogni caso, l’efimnio, inteso come breve canto ripetuto nel medesimo schema, verbale e metrico, dopo ciascuna sezione strofica13, è un elemento formale ben documentato, soprattutto nella produzione lirica di Eschilo (che fu per questo sbeffeggiato da Aristofane) e, più raramente, in quella di Euripide14. Sono noti, per fare solo qualche esempio, il ǥǟǶǭǨdzǟǷǨǴ͎ǭǤǭǨLjǤǴǢǤǰRͻnei Persiani (663 = 671), lo ǤͺǮǬǰDzǰǤͺǮǬǰDzǰǨͶdzǠǷβǧ’ ǨΘǰǬǭǟǷǼ nell’Agamennone (vv. 121 = 139 = 159), lo ΆǮDzǮȀDZǤǷǨǰАǰǨƴdzαǯDzǮdzǤЃǵ nelle Eumenidi (vv. 1043 = 1047) come pure, in Euripide, l’invocazione delfica ΤǔǤǬήǰΤǔǤǬήǰǨǸƴǤǢǼǰ ǨǸƴǤǢǼǰǨͺǪǵΤǏǤǷDzАǵdzǤЃ nello Ione (vv. 125-7 = 141-3)15. sce ‘efimnio’ il singolo colon (o porzione di colon) intercalare corrispondente a una breve esclamazione; cf. Gentili-Lomiento 2008, 83. 10 ƴljdzǢǹǫǨǦǯǤ nel senso di ‘invocazione’: Hermipp. Gramm. fr. 48.39 W.; 48.42; Polemon. Perieg. fr. 76.3 M.; Gorgon fr. 1.3 M.; Ath. 696 F-697 A, 15, p. 52.19 K.; Trypho fr. 1.7.7 v.V.; A. D. Adv. 1.159.18; Synt. 2.73.8; Apion frr. de gloss. Hom. 108.1 N. = Hsch. s.v. dzǿdzDzǬ; cf. Hsch. s.v. DzͺǯDzǬ; schol. PV 877 a; Harp. 141.7 D.; cf. Paus. 4.31.4.9; Hsch. s.v. ǨΖǶǤǯǤ; Suda s.vv. ͚ǮǨǮǨА; ǨΒDzЃǶǤǥDzЃ; ƠNjǴǟǭǮǨǬǵƴ,ǡǬDzǰ; ΂ǶǶǤ; Φǿdz; ΦDzdzǿdzΦǿǻ; ЏǸdzdzǤdzǤǢ; cf. schol. Aesch. Pers. 1057; Suppl. 827 c 1; schol. Aristoph. Ach. 1231; ͚dzǢǹǫǨǦǯǤnel senso di ‘canto aggiunto’: schol. Aesch. Sept. 822-31b 3; 871-4c 3; Ag. 355a; 355b; 782a 1; 140b 1; 244a 3; cf. anche schol. Aesch. Pers. 155; 532. Secondo Efestione l’‘efimnio’ solitamente non avrebbe alcun rapporto semantico con il contenuto particolare dell’ode, come ad esempio il caso del grido rituale ͶΰǔǤǬǟǰ nei canti peanici, o ΓǯǡǰǤDzǰnei canti epitalamici. In Saffo, fr. 111 V., il particolare, il grido rituale ΓǯǡǰǤDzǰ assume propriamente la forma del ‘mesimnio’, perché è intercalare tra un verso e l’altro dell’ode (Heph. 70.18 ss. C.). Il verso ‘epiftegmatico’, al contrario, comporterebbe un diretto legame semantico con il contesto del canto. Ma nella maggior parte delle fonti tale distinzione non appare operante. 11 Cf. Hsch. s.v. ǨƴdzǢǴǴǪǯǤ, e cf. nn. 8, 9. 12 Per una recente messa a punto del concetto di ‘efimnio’ nelle fonti antiche cf. Sandin 2002-3, 103 n. 280. 13 Sandin 2005, 103-4; già Rode 1965, 49-56. 14 Sulle parodie di Aristofane cf. Ra. 1265-95; in Sofocle l’efimnio non è documentato. 15 Cf. ancora, in Eschilo: Suppl. 141-3 = 151-3; 889-92 = 899-902; Sept. 975-7 = 986-8; Ag. 148996 = 1513-20; Eum. 328-33 = 341-6; 1035 = 1039; 1043 = 1047; fr. 204b 6-8 R. = 15-7; in Euripide: Ion 125-7 = 141-3; Ba. 877-81 = 897-901; 992-6 = 1011-6; El. 112 ss. = 127 ss.

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Le cose stanno diversamente per ciò che concerne il cosiddetto da Wilamowitz ‘efimnio ritmico’ documentato, come si è veduto, solamente da Eschilo, in Supplici e Agamennone, e da Euripide, nell’Eracle, dove l’iterazione non riguarda il testo verbale, come ci si dovrebbe attendere, ma esclusivamente la sottesa struttura metrico-ritmica. Di fatto, prima di Wilamowitz, nessun editore di Eschilo sembra avere identificato o almeno rilevato in qualche modo questo elemento, pur così evidente e caratteristico, presente nei cantica sopra elencati. Dopo di lui, la situazione appare, ovviamente, mutata, sia pure all’insegna di una certa varietà di punti di vista. C’è chi, col Wilamowitz, ha inteso senz’altro questa ‘coda’ metrica come una variazione, sul piano del puro metro-ritmo, dell’efimnio propriamente detto16; chi, d’altra parte, si è servito di denominazioni alternative e già note alla antica tradizione teorica, come ‘mesodo’ e ‘epodo’ a designare, rispettivamente, la ‘coda’ intercalata dopo la strofe e dopo l’antistrofe17; c’è infine chi si è limitato a evidenziare l’elemento separandolo con uno spazio rispetto alla strofe precedente, ma senza dargli un nome18. Comunque lo si voglia definire, l’elemento formale consistente nell’iterazione di una serie invariata di cola eolici (4 in Eschilo, 5 o 6 in Euripide) al termine di ciascuna strofe di una serie antistrofica data è ben presente e – considerando il fatto che ricorre identica in tre tragedie appartenenti a due diversi autori – difficilmente il frutto di una pura casualità. Per designarlo, converrà adottare la terminologia suggerita dal Wilamowitz (avendo in mente che si tratta di un neologismo concettuale) oppure, se si preferisce, attingere alla nomenclatura musicale moderna, chiamandolo ‘ritornello’ o refrain. Quest’ultima nozione, in effetti, prevede la possibilità – ben documentata nella tradizione musicale – della ripetizione della pura struttura ritmico-melodica, di volta in volta ‘riempita’ con parole diverse19.

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Cf. supra n. 7. Cf. Bond 1981, 16-20 per Euripide, e vedi quanto osservato in Gostoli 2007, 191. 18 Ad esempio Murray 1955, 28-31; 222-6; West 1990, 160-3; 210-5. Tace del tutto il fenomeno Page 1972, che nella sua edizione accorpa la ‘coda’ metrico-ritmica alle rispettive strofe, senza interporre alcuno spazio (pp. 116-7; 152-5). 19 Il ritornello è assai comune nella produzione musicale di Trovatori e Trovieri, dove molti canti ne sono provvisti. Qui il ritornello può trovarsi all’inizio, a metà o alla fine di stanze successive, o entro una singola stanza, e può consistere di una sola parola, di una serie di sillabe convenzionali e virtualmente senza significato, o anche di una frase completa. Esso ha stretti rapporti con la danza e, verisimilmente, un’origine primitiva, ma non può dirsi esclusivo delle melodie di danza: noti esempi di canti di danza con ritornello sono la ballade provenzale A l’entrade del tens clar; l’aube (il canto del primo mattino) della Francia settentrionale Gaite la tor, dove nel corso del canto le parole mutano; una modalità simile ricorre anche in un certo numero di chansons de toile, nelle quali è rappresentata una donna intenta al suo lavoro ad ago mentre il suo cuore sospira d’amore. Nel rondeau le strutture poetica e musicale sono strettamente connesse: qui il ritornello ‘ritorna’ entro una singola stanza e consiste in un tema ricorrente sul quale si basa tutta quanta la composizione. Una forma assai curiosa di canto con ritornello è quella in cui ogni stanza è seguita da un ritornello completamente diverso sotto il profilo sia musicale che verbale. Ad esempio, il canto Ier main pensis chevauchai di Baudes de la Kakerie ha otto stanze per le quali ci sono otto distinti ritornelli che differiscono nel testo, nel ritmo e nella melodia. Il ritornello (‘ripresa’) è comune an17

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Il fatto che in tutti e tre i casi menzionati, delle Supplici, dell’Agamennone e dell’Eracle, si tratti di canti di tipo sacrale e religioso, e – rispettivamente – di una lunga preghiera beneaugurante per la città di Argo, di una preghiera di ringraziamento a Zeus che ha consentito il buon esito dell’assedio a Ilio, infine di una solenne commemorazione di Eracle, immaginato morto, del quale sono ricordate le fatiche, unitamente alla considerazione che la struttura con efimnio propriamente detto è tipica della tradizione innica e liturgica20, indussero lo stesso Wilamowitz a ipotizzare, alle spalle delle composite strutture liriche con efimnio ritmico, un comune modello, extra-drammatico, tradizionale e antico, nel quale fossero, in qualche modo, fissati il numero delle tre coppie antistrofiche, come pure le misure eoliche dei cola degli efimni aggiunti ad ogni strofe e – presumibilmente – la loro melodia. Lo studioso escludeva la presenza, in questo ipotetico modello attinto alla tradizione rituale, di un efimnio in senso proprio, a schema che nelle laudi spirituali italiane, nella struttura ‘ritornello / stanza / ritornello’; documentazione in Wetsrup 1963, 274-81; 303-4. 20 Sotto il profilo strettamente funzionale, l’efimnio ha – si è ritenuto con ragionamento plausibile – origine antichissima, legata al rito e al culto, e alla capacità magica e incantatoria della poesia (Alexiou 1974, 135 ss., pensa che nelle grida rituali di invocazione solitamente caratterizzanti l’efimnio fosse operante una sorta di incanto, conforme al senso di ǨƴdzЙǧǡ). Questo sembra piuttosto intuitivo nei casi dell’invocazione ΓǯǡǰǤDzǰ nel canti epitalamici, e del grido rituale ǬƴΰǔǤǬǟǰo anche del brevissimo ǬƴΰǬƴǡtutti di schema giambico (ᤱᗂᤱᗂ), tipici dei canti di culto in onore di Apollo, documentati, ad esempio, da Pindaro, Pae. I ep. 1 M. e Pae. II ep. 9-10 M. Quest’ultimo esibisce un efimnio di estensione pari a 2 cola,ǬƴΰǬƴǠǔǤǬǟǰǬƴΰǬƴǠƌǔǤǬǟǰǧίǯǡdzDzǷǨǮǨǢdzDzǬ di schema metrico ᤱᗂᤱᤱᗂᗂᤱᗂᤱᤱᗂᗂ / ᤱᗂᤱᤱᗂᗂᾫ, una sequenza che – comunque interpretata – appartiene al genere ritmico doppio (o ‘giambico’; Maelher intende 3 ^pher, ma l’interpretazione metrica è, al solito, oggetto di dibattito). Ancora l’efimnio si ritrova in Pae. IV ep. 9 M., dove, nel medesimo ritmo doppio, è il semplice grido ǬƴΰǬƴǡΠǬƴǠǔǤǬǟǰᤱᗂᤱᗂᗂᤱᤱ ᗂ ᗂᾫ. Un tipo particolare di ‘efimnio’, ripetuto identico in incipit di strofe, alla maniera di un moderno ‘ritornello’, o piuttosto ‘ripresa’, è dato, ancora in Pind. Pae. V, str. 1, dall’invocazione ad Apollo ;ǡǬǨLjǟǮǬХ ͖dzDzǮǮDzǰ, ᗂᗂᤱᤱᗂᤱᤱᗂᤱ, un prosodiaco, di genere ritmico pari, bene inserito nel contesto di kat’enoplion-epitriti (o dattilo-epitriti; anche qui Maehler intende ᤱᗂ pher, con interpretazione evidentemente discutibile. È in ogni caso notevole che sia in questo, sia nel caso del Pae. II M., la tessitura metrica generale del canto sia riconducibile alla cosiddetta terza epiploce, ovvero ai tipi ionici e coriambici). In Pind. Pae. XXI M., un’ode cultuale in dimetri polischematici, strutturata in sezioni strofiche caratterizzate da grande libertà di responsione, l’efimnio coincide, al termine di ciascuna sezione, con l’invocazione alla ‘regina degli Olimpii, la sposa del più forte’, di estensione pari a 2 cola, e schema ᤱᗂᤱᤳចᤱᤱᗂᤱᤱᗂᤱᗂ/ᗂᗂᤱᗂ ᤱᤱᗂᾫ(Maehler intende ia || ^glyc / ^wilam). Gli antichi definiscono ‘efimnio’ anche il grido gioioso ǷǡǰǨǮǮǤ con il quale era consuetudine salutare il vincitore, onomatopeico, stando alle fonti erudite, del suono dello strumento a corda che accompagnava il canto (Hsch. s.v. ǷǡǰǨǥǮǤe lessici antichi (Etimologici, Suda s.v., cf. supra nn. 8 e 9). Sin da tempi remoti, il refrain doveva essere presente nel cosiddetto ‘Lino’, documentato da Omero (Il. 18.570), con la ripetizione rituale del nome del mitico personaggio eroico nel grido ǤͺǮǬǰDzǰintercalato al canto: propriamente un compianto funebre, tuttavia adattabile anche a contesti di intrattenimento gioioso, con l’accompagnamento della danza. Analogamente, il refrain doveva caratterizzare l’evocazione degli spiriti dei defunti, se Calipso raccomanda a Odisseo di invocare molte volte i loro nomi, nel corso del rituale (Od. 10.521; cf. Moritz 1979, 188 e n. 4), o anche il canto di esultanza con il rituale DzƴǮDzǮǸǦǯǿǵ (cf. Moritz ibid.).

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verbale fisso, giacché in tal caso, a suo avviso, Eschilo ed Euripide non avrebbero potuto evitarlo del tutto. D’altro canto, non è mancato chi, convenendo che Eschilo avesse potuto rifarsi alla tradizione religiosa extra-teatrale dei canti di culto strofici con efimnio, ha però ritenuto che Euripide, nell’Eracle, avesse in mente piuttosto il modello poetico esibito da Eschilo nelle Supplici e nell’Agamennone21. Nella direzione metodologica indicata dal Wilamowitz, credo che un confronto più analitico dei tre lunghi corali, che si concentri sul modo in cui ciascuno utilizza la medesima struttura musicale delle tre coppie antistrofiche con efimnio ritmico in rapporto alla sintassi narrativa, ovvero alla complessiva articolazione del materiale tematico, possa costituire un buon punto di partenza per ulteriori considerazioni. Iniziando da Eschilo, esaminiamo come il poeta armonizza la relazione tra forma musicale e sintassi del racconto nelle Supplici e poi, più sinteticamente in questa sede, nell’Agamennone e nell’Eracle. Nelle Supplici, le tre coppie antistrofiche con efimnio ritmico, comprese nei vv. 630-97, costituiscono una serie di 12 complessive strofe che, seppure tra loro molto legate sul piano strettamente sintattico22, sotto il profilo della articolazione narrativa sono suddivisibili in tre gruppi di 4 elementi, o tetradi, tra loro ben distinti. Nel primo gruppo, la strofe di apertura (str. B, vv. 630-8) si concentra sulla richiesta che mai Ares, definito achoros (v. 635), ‘senza danza’ o ‘privo di cori’23, distrugga con la guerra il territorio di Argo. I successivi tre componenti la tetrade svolgono tutti, in maniera piuttosto unitaria e coerente, la considerazione che gli Argivi meritano il favore degli dèi perché hanno onorato le Supplici (eph2, vv. 652-5) esprimendo un voto favorevole ad esse (eph1, vv. 639-42) e non invece ai maschi, nel rispetto di Zeus che punisce (ant. B’, vv. 643-51). Nella seconda tetrade, la strofe di apertura (str. C, vv. 656-62) ripropone, in forma più complessa, l’augurio già formulato nella strofe B: che mai la guerra, e neanche la pestilenza (ǮDzǬǯǿǵ,v. 659), si abbattano su Argo24. I tre successivi elementi articolano allora le conseguenze di un siffatto augurio: che i giovani maschi non muoiano combattendo (eph3, vv. 663-6), che la terra sia fertile e le donne partoriscano (eph4, vv. 674-7), che gli anziani garantiscano una buona amministrazione della città nel rispetto della antica legge di Zeus (ant. C’, vv. 667-773). Quest’ultimo è il pensiero che sembra potersi evincere dal testo, purtroppo assai malcerto, dei vv. 667-9 nella seconda antistrofe (C’). L’auspicio espresso in questa tetrade a me pare essere quello che l’intero ciclo 21

Bond 1981, 148 («They are an Aeschylean feature which Euripides revived»). Cf. infra Appendice II, dove, in relazione a tutti e tre gli esempi qui considerati, sono sottolineati (nella traduzione italiana) i connettori sintattici tra una strofe e la successiva. 23 Una lunga, complessa e assai analitica riflessione sulla opportunità di conservare la lezione tramandata può leggersi in Friis Johansen-Whittle 1980 III 10. Con diverso atteggiamento metodologico, West (1990 b 149) adotta «tacitly» numerose congetture moderne sul testo tradizionale e, nella fattispecie, predilige, senza darne giustificazione, ͎ǭDzǴDzǰ, ‘insaziabile’ (F.I. Schwerdt, Aeschylus. Supplices, Berlin 1858). Ma contro quest’ultima congettura valgano le obiezioni poste da Friis Johansen-Whittle 1980 III 10. Cf. anche infra, ad v. 681. 24 Secondo le congetture, entrambe plausibili, di Heath ap. Bamberger 1856, 125 e Bamberger ibid. (cf. infra Appendice I, apparato critico). 22

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vitale sia assicurato, dal parto all’età senile. In tale quadro tematico dovrebbe dunque potersi valorizzare il concetto di vecchiaia implicito nelle lezioni, purtroppo mal conservate, ǦǨǴǤǴDzЃǶǬ (v. 667) e dzǴǨǶǥǸǷDzǧǿǭDzǬ (v. 668)25. Nella terza e ultima tetrade, la strofe D (vv. 678-83) che apre la sezione ribadisce, in forma molto simile, il medesimo augurio già formulato nella strofe C e – in forma semplificata – già nella strofe B, quello cioè che né la peste (ǮDzǬǦǿǵ, v. 679) né Ares, nuovamente evocato come ͎ǺDzǴDzǵ e, inoltre, ǤƴǭǢǫǤǴǬǵ (v. 681), sconvolgano la città. Come nel caso delle due tetradi che precedono, anche in questa le tre successive sezioni strofiche componenti sviluppano, con una certa coerenza, i corollari di questo desiderio: che le malattie siano tenute lontane, e che Apollo sia propizio (eph5, vv. 684-7), che la terra e le greggi siano fertili e produttive (antistrofe D’, vv. 688-93), infine – con scarto tematico solo apparente – che gli altari siano onorati dagli aedi con canti beneauguranti, ‘amici della cetra’ (eph6, vv. 694-7). Di fatto, i canti propizi accompagnati dalla cetra connotano qui, evidentemente, canti di pace e di ringraziamento per il buono stato di salute della città e del popolo, con un evidente richiamo al tema espresso nell’efimnio e5, interno a questa stessa tetrade, che fa riferimento ad Apollo: il dio non solo della buona salute civica, ma anche il dio cui è gradita la phorminx. Ma la rete dei richiami interni si evidenzia anche in rapporto agli efimni costituenti le due restanti tetradi: nel primo efimnio (eph1), all’idea del voto argivo favorevole alle Danaidi risponde, nel secondo efimnio (eph2) quella dell’onore reso alle supplici dal popolo di Argo. Nel terzo efimnio (eph3), all’auspicio che il fiore dei giovani non sia reciso da Ares in una guerra risponde l’altro, in eph4, che la terra dia frutti e che le donne diano alla luce prole. È, infine, da notare che l’ultimo efimnio, che auspica la pace celebrata dai canti propizi degli aedi, riprenda ǭǤǷХǤƴǰǷǢǹǴǤǶǬǰ, ma in maniera accurata, il tema, espresso non solo nella strofe che apre la tetrade (str. D), ma anche nella strofe iniziale (str. B), che Ares mai invada la regione. Nella strofe che apre la tetrade il dio della guerra è definito ͎ǺDzǴDzǵ, ǤƴǭǢȃǤǴǬǵ (v. 681). Questi attributi stabiliscono un nesso evidente e puntuale con i motivi della ǨΖ ǹǪǯDzǵǐDzАǶǤ e della ǹϸǯǤǹǬǮDzǹǿǴǯǬǦDZ, e inducono a ritenere che anche nella strofe B, iniziale dell’intero canto, ͎ǺDzǴDzǵ al v. 635, sia lezione da conservare a testo26. L’ultima coppia strofica (EE’, vv. 698-708), che è priva di efimnio, e dunque va considerata a parte sul piano della forma musicale, appare anche differenziata sul piano tematico. Nella strofe E (vv. 698-703) le supplici auspicano che il 25 Tale dovrebbe essere l’andamento generale del pensiero in questo passo (vv. 667-9), assai mal conservato, nella sezione che riguarda gli anziani; cf. Friis Johansen-Whittle 1980 III 34: «Ƿȁǵ in 670 points to a close correspondence between the prayer voiced in 667-9 and the prayer that the city may be well administered by people who worship Zeus, particularly in his function as DZǠǰǬDzǵ (670-3). This again means that 667-9 have something to do either with the administration of the city or with the worship of Zeus, or with both». LJǨǴǤǴDzЃǶǬ (v. 667) e dzǴǨǶǥǸǷDzǧǿǭDzǬ(vv. 667-8), se pur tramandati in forma non corretta, tuttavia esibiscono le tracce di un riferimento alla dignità degli anziani, forse nel loro ruolo di consiglieri cittadini (cf. ancora Friis Johansen-Whittle 1980 III 36). 26 La lezione, come già ricordato, è ampiamente discussa da Friis Johansen-Whittle 1980 III 10-1: cf. supra n. 23.

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popolo mantenga i suoi diritti e che rispetti l’ospite; nella antistrofe E’ (vv. 7048), l’auspicio è che il popolo sia sempre rispettoso degli dèi del luogo e offra loro i sacrifici dovuti. A differenza della lunga preghiera precedente, che chiede agli dèi la salute per il territorio e la popolazione, qui l’attenzione è eminentemente politica, e il discorso prende i toni del mònito rivolto agli uomini, che amministrino la città nei valori democratici e nella considerazione degli stranieri e degli dèi locali. Di qui, possiamo ipotizzare, anche la forma poematica non più ‘liturgica’, con ‘efimnio’, ma laica, priva del ritornello. Una articolazione molto simile si osserva nel primo stasimo dell’Agamennone che, come già ricordato, esibisce la medesima forma delle tre coppie antistrofiche con ‘efimnio ritmico’ (vv. 367-474). Anche in questo caso il poeta, pur nell’evidente continuità sintattica che collega ciascuna strofe alla seguente27, sembra aver suddiviso la materia per gruppi di 4 elementi, e in maniera assai netta. La prima tetrade (str. B, eph1, ant. B’, eph2, vv. 367-402) s’incentra sul tema della giustizia di Zeus, a cui è dovuto l’esito vittorioso della guerra e che punisce i tracotanti e coloro che calpestano le norme di Dike, come di fatto accadde a Paride, che rapì Elena. E proprio alla figura di Elena è essenzialmente dedicata la seconda tetrade (str. C, eph3, ant. C’, eph4, vv. 403-36), e al dolore che ella inflisse a Menelao e, quindi, alle afflizioni che da Menelao ricaddero sui combattenti greci, il cui ritorno in patria troppe volte avvenne nella forma di cenere nell’urna. La terza, e ultima, tetrade (str. D, eph5, ant. D’, eph6, vv. 437-74) è focalizzata sul tema del rancore dei Greci verso gli Atridi, che furono causa del conflitto e della morte di molti soldati per la donna altrui. Nell’efimnio conclusivo (eph6), il coro considera come sia meglio non vivere fuori della giusta misura, meglio non essere distruttori di città. È notevole come, nella pur nitida divisione delle tetradi, dove agli efimni è affidata la funzione di espandere il tema di volta in volta affrontato, secondo la medesima tecnica narrativa osservata nelle Supplici, accurati richiami interni colleghino tra loro questi stessi efimni nell’ambito di ciascuna tetrade e qui, inoltre, inanellino l’efimnio conclusivo di ogni tetrade con il tema complessivo della tetrade seguente (Elena, la morte dei soldati). Come nelle Supplici, anche nell’Agamennone è presente la struttura circolare che pone l’ultimo efimnio, contenente l’esortazione a vivere una vita moderata, in relazione diretta con la strofe iniziale, dove si afferma che Zeus punisce i tracotanti e ogni eccesso. Estraneo a questa struttura musicale, l’epodo conclusivo (E, vv. 475-87) esibisce, proprio come accade nell’ultima coppia antistrofica delle Supplici, una estraneità anche tematica: in esso, il coro, cessando la rievocazione del conflitto troiano, delle sue cause e dei suoi dolorosi corollari, torna a riflettere sul presente, e a dubitare della notizia di vittoria di recente diffusa dalla regina. A fronte della tecnica adottata da Eschilo, e in modo molto simile nelle due tragedie, per contemperare il discorso poetico con la struttura formale selezionata, la scelta stilistica di Euripide nell’Eracle si mostra del tutto differente. Nella me27

Cf. infra Appendice II, dove sono sottolineati (nella traduzione italiana) i connettori sintattici tra una strofe e la successiva.

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desima suddivisione in tre coppie antistrofiche con efimnio ritmico già osservata in Eschilo, Euripide dispone, come il predecessore, di dodici sezioni metriche complessive. L’introduzione al canto occupa la prima delle dodici sezioni (str. A, vv. 348-58), e in essa il coro, con atteggiamento autoreferenziale, esprime la volontà di intonare un inno in onore dell’eroe. La conclusione del canto, con il ritorno all’autoreferenzialità, è affidata all’efimnio conclusivo (eph6, vv. 436-41), nel quale il coro dei vecchi rimpiange la perduta giovinezza. Le restanti dieci sezioni metriche sono, rispettivamente, utilizzate da Euripide a contenere il racconto delle dodici fatiche, una fatica per ogni sezione, con le eccezioni della seconda antistrofe (ant. B’, vv. 394-402) e del quinto efimnio (eph5, vv. 419-24) che espongono, ciascuna, il racconto di due fatiche. In questa articolazione, le diverse sezioni strofiche, non più organizzate ipotatticamente nell’ambito di tetradi, assumono la continuità di una serie, nella quale ogni elemento ha valore, per così dire, equipollente agli altri28. Che Eschilo attingesse a uno specifico e ben differenziato modello formale extra-drammatico, e segnatamente liturgico, sembra in effetti un’ipotesi ragionevole. La suggeriscono, da una parte, il fatto che la forma compositiva si ripeta identica nei due casi esaminati, con le tre coppie strofiche scandite dall’efimnio ritmico29, dall’altra, il fatto che i corali eschilei che presentano tale struttura siano ‘preghiere’30. Si potrebbe osservare che la più comune struttura corale con refrain rituale31 sarebbe stata sufficiente a richiamare il modello della liturgia reale. È quindi verisimile assumere che Eschilo, introducendo una così singolare variazione dei tradizionali canti con efimnio rituale, abbia importato nelle due tragedie, adattandolo alle esigenze dell’azione scenica, uno schema peculiare di canto, capace di rinviare alla liturgia e al rito con qualche valore aggiunto. Per quanto attiene agli effetti teatrali, l’adozione di una forma poematica così particolare, tradizionale ma forse non banale, avrebbe evocato nel pubblico l’atmosfera di culto già nota dalla esperienza extra-teatrale, probabilmente arricchita di significati che noi oggi non siamo più in grado di discernere. Al livello della narrazione, l’efimnio ritmico sembra essere stato caricato della funzione aggiuntiva di ‘espansione’, rispetto alla misura della strofe. S’intende che, con la medesima funzione, Eschilo avrebbe potuto selezionare una diversa forma: triadica, come la proodica (ABB), la epodica (AAB), la mesodica (ABA), o anche altre forme tetradiche, a noi note dalla tradizione teorica e dalla prassi poetica.32 La scelta è tuttavia caduta, nel caso specifico, su quella che doveva essere una forma peculiare e significativa della liturgia della preghiera.

28

Trovo in tal senso molto suggestiva l’idea delle ‘metope’ metriche introdotta, a proposito di questo stasimo, da Gostoli 2007. 29 Il canto è, in entrambi i casi, bene incastonato entro una cornice che include una strofe introduttiva in anapesti e un canto lirico conclusivo e tematicamente estraneo. 30 Cf. Suppl. 626; 710; Ag. 352-3. 31 Per cui cf. supra p. 99. 32 Gentili-Lomiento 2008, 58 ss.

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A fronte della tecnica, così caratteristica, di Eschilo, la scelta di Euripide, è visibilmente diversa. Egli utilizza, in relazione a un canto pur esso rituale e solenne, il medesimo schema formale, da una parte trattando in maniera indifferenziata gli elementi strofici disponibili, e dall’altra, e perciò stesso, integrandoli maggiormente alla forma drammatica dello stasimo, che non comporta, in questo caso, elementi aggiunti, introduttivi e conclusivi, ma è tutto contenuto nella forma delle tre coppie strofiche con efimnio. Tale disegno musicale avvalora, a mio avviso, l’ipotesi non di una ripresa diretta dell’ipotesto eschileo ma piuttosto – e sia pure sulla scia dell’antecedente costituito da Eschilo – di una autonoma ripresa e reinterpretazione del medesimo, e assai forte, modello extra-drammatico33. Il grosso limite alla nostra comprensione è, come accade, la mancanza di documenti che, in aggiunta al materiale offerto dai testi poetici ed eruditi, contribuiscano a chiarire la consistenza specifica di quel modello. Nel caso particolare, tuttavia, una attenta comparazione fra tre distinte realizzazioni poetiche di un’identica struttura musicale consente forse di far emergere almeno in parte, dietro alle scelte d’autore, l’ossatura di un canto storicamente esistito e vitale34. Urbino

Liana Lomiento

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33

La variazione del modello investe anche la composizione metrico-ritmica, giacché Euripide introduce misure dattiliche tra metri appartenenti al genere ‘giambico’ (vedi supra), e la forma stessa dell’efimnio ritmico, che appare ampliata rispetto alla tipologia, di schema costante, adottata da Eschilo. 34 Ulteriori considerazioni sulla possibilità della importazione di generi poetici ‘altri’ nel genere drammatico, con una particolare attenzione alla commedia, in Lomiento 2007. In una direzione similare si muove ora, ma studiando in particolare il teatro tragico di età classica, anche Swift 2010. Stupisce tuttavia che non un cenno sia fatto mai, in questo pur pregevole studio, agli aspetti formali (metrici, ritmici, di struttura compositiva) del canto.

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APPENDICE I. Aesch. Suppl. 625-709: testo e analisi metrica ͎ǦǨǧǡǮǠDZǼǯǨǰ͚dzХ͒ǴǦǨǢDzǬǵdzǴDzЙǧ ǨΒǺήǵ͊ǦǤǫǟǵ͊ǦǤǫЛǰdzDzǬǰǟǵƽ626 3 NJǨγǵǧХ͚ǹDzǴǨȀDzǬDZǠǰǬDzǵDZǨǰǢDzǸ ǶǷǿǯǤǷDzǵǷǬǯήǵ͚dzХ͊ǮǪǫǨǢϨ ǷǠǴǯDzǰХ͎ǯǨǯdzǷDzǰdzǴβǵ͏dzǤǰǷǤ  ǰАǰЬ΋ǷǨǭǤαЬǫǨDzα ǶǷǴǥ  LjǬDzǦǨǰǨЃǵǭǮȀDzǬǷХǨΒ 631 3  ǭǷǤǢǤǦǠǰǨǬǺǨDzȀǶǤǵ ǯǡdzDzǷǨdzǸǴǢǹǤǷDzǰ ǷήǰǔǨǮǤǶǦǢǤǰ 6 Ƿβǰ͎ǺDzǴDzǰǥDzϪǰ 635 ǭǷǢǶǤǬǯǟǺǮDzǰ͖ǴǪ Ƿβǰ͊ǴǿǷDzǬǵ 9 ǫǨǴǢǩDzǰǷǤǥǴDzǷDzγǵ͚ǰ͎ǮǮDzǬǵ  DzΗǰǨǭХϙǭǷǬǶǤǰͧǯϪǵ ǻϸǹDzǰǧХǨΖǹǴDzǰХ͞ǫǨǰǷDz 640 3 ǤͶǧDzАǰǷǤǬǧХͷǭǠǷǤǵLjǬǿǵ dzDzǢǯǰǤǰǷǟǰǧХ͊ǯǠǦǤǴǷDzǰ  DzΒǧίǯǨǷХ͊ǴǶǠǰǼǰ  ͊ǰǷǥ ǻϸǹDzǰ͞ǫǨǰǷХ͊ǷǬǯȁ 3ǶǤǰǷǨǵ͞ǴǬǰǦǸǰǤǬǭЛǰ  645 LjЃDzǰ͚dzǬǧǿǯǨǰDzǬ dzǴǟǭǷDzǴХ͏ǷǨǶǭDzdzβǰ 6 ǧǸǶdzDzǮǠǯǪǷDzǰΉǰ ǷǢǵ͌ǰǧǿǯDzǵ͞ǺDzǬ ͚dzХΆǴǿǹǼǰ   650 9 ǯǬǤǢǰDzǰǷǤƽǥǤǴγǵǧХ͚ǹǢǩǨǬ  ͏ǩDzǰǷǤǬǦήǴ·ǯǤǢǯDzǸǵ NJǪǰβǵͻǭǷDzǴǤǵ͋ǦǰDzАƽ 3 ǷDzǬǦǟǴǷDzǬǭǤǫǤǴDzЃǶǬǥǼ ǯDzЃǵǫǨDzγǵ͊ǴǠǶDzǰǷǤǬ 655  ǷDzǬǦήǴΓdzDzǶǭǢǼǰ͚ǭ  ǶǷǴǦ ǶǷDzǯǟǷǼǰdzDzǷǟǶǫǼ 3 ǹǬǮǿǷǬǯDzǵǨΒǺǟƽ ǯǡdzDzǷǨǮDzǬǯβǵ͊ǰǧǴЛǰ ǷǟǰǧǨdzǿǮǬǰǭǨǰȁǶǤǬƽ  660 6 ǯǪǧХ͚dzǬǺǼǴǢDzǬǵ dzǷǼǯǤǶǬǰǤͷǯǤǷǢǶǤǬdzǠǧDzǰǦϪǵ  ͫǥǤǵǧХ͎ǰǫDzǵ͎ǧǴǨdzǷDzǰ ͞ǶǷǼǯǪǧХ͒ǹǴDzǧǢǷǤǵ ǨΒǰǟǷǼǴǥǴDzǷDzǮDzǬǦβǵ͖ 665 ǴǪǵǭǠǴǶǨǬǨǰ͎ǼǷDzǰ

35

Apparato critico35 634 ǔǨǮǤǶǦǢǤǰ dzǿǮǬǰ M: dzǿǮǬǰ del. Klausen, acc. edd. 647 dzǴǟǭǷDzǴǤ ǷǨ ǶǭDzdzβǰ M, ǷǨ del. Bergk, dzǴǟǭǷDzǴǤ dzǟǰǶǭDzdzDzǰ Hermann, dzǴǟǭǷDzǴХ ͊ǨǢ ǶǭDzdzβǰ Martin (praeeunte Kruse, ͊ǨǢǶǭDzdzβǰ):dzǴǟǭǷDzǴХ͚dzǢǶǭDzdzDzǰ Paley: dzǴǟǭǷDzǴХ͏ǷǨǶǭDzdzβǰBothe, acc. Murray 648 ǧǸǶdzDzǮǠǯDzǰ Butler, acc. West: ǧǸǶdzDzǮǠǯǪǷDzǰ M 648-9 Ήǰ DzΖǷǬǵ ͌ǰ ǧǿǯDzǵ͞ǺDzǬM, ǷβǰDzΖǷǬǵButler, acc. West: ΉǰǷǢǵ͌ǰǧǿǯDzǵ ͞ǺDzǬdel. Burges, acc. plerique edd. 661 coni. Heath, Bamberger, cf. Pers. 701 691 ǥǴǿǷǤǷDzǵ M, ǥDzǷХ ͊ǦǴDzЃǵ Tucker, acc. plerique edd.: ǥDzǷή ǷDzЃǵ Tournebus (ǥDzǷή) et Wecklein (ǷDzЃǵ), acc. West 698 alii alia coniecerunt 704 ǤͶǨαM: Pauw

Apparato colometrico [cod. M, Canter, Dale, Hermann, Murray, Page, Schroeder (1907, 1916), Wecklein, Weil (1866, 1884), West, Wilamowitz] str./ant. bb’ 631+632 Hermann, Weil, Wilamowitz, Page, Dale 633+634 Hermann Weil, Schroeder, Wilamowitz, Page, Dale, West 635+636 Hermann, Weil, Schroeder, Wilamowitz, Page, Dale, West 637 Ƿβǰ ͊ǴǿǷDzǬǵ ǫǨǴǢ- / Schroeder, Murray 637+638 Hermann, Weil, Wilamowitz, Page, Dale, West 638 -ǩDzǰǷǤ ǥǴDzǷDzγǵ ͚ǰ ͎ǮǮDzǬǵ/ Schroeder, Murray 644+645 Hermann, Weil, Wilamowitz, Page 646+647 Hermann, Weil, Schroeder, Wilamowitz, Page, West 648+649 Hermann, Weil, Schroeder, Wilamowitz, Page, West 650 ͚dzХ ΆǴǿǹǼǰ ǯǬǤǢ- / Murray 650+651 Hermann, Weil, Wilamowitz, Page, West 651 -ǰDzǰǷǤƽ ǥǤǴγǵǧХ͚ǹǢǩǨǬ/ Murray str./ant. cc’ 656 ΓdzDzǶǭǢǼǰ/ Weil, Murray, Wilamowitz, Page, Dale, West 656+657 dzDzǷǟ-/ Hermann, Schroeder 657 ͚ǭ ǶǷDzǯǟǷǼǰ dzDzǷǟǶǫǼ/ Murray, West 657+658 ͚ǭ --- ǨΒǺǟ/ Weil, Wilamowitz, Page, Dale, ǫǼ ǹǬǮǿǷǬǯDzǵ ǨΒǺǟ/ Hermann, Schroeder, Murray, West 667 dzǴǨǶ- / Weil, Murray, Wilamowitz, Page, West 667+668 ǦǠǯDzǸ- / Hermann (dzǴDzǥDzȀ-), Schroeder 668 ǥDzǸǷDzǧǿǭDzǬ ǦǠǯDzǸ - / Murray, West 668+669 - ǶǥDzǸǷDzǧǿǭDzǬ --- ǹǮǨǦǿǰǷǼǰ/ Weil, Wilamowitz, Page 669 –ǶǤǬ ǫǸǯǠǮǤǬ ǹǮǨǦǿǰǷǼǰ / Hermann, Schroeder (-ǮDzǬ ǫǸǯǠǮǤǬǹǮǨǦǿǰǷǼǰ), Murray, West str./ant. dd’ 678+679 Hermann, Page 679+680 Weil, Wilamowitz, Dale 681+682 Weil, Hermann, Schroeder, Wilamowitz, Page, Dale West 688+689 Hermann, Page 689+690 Weil, Wilamowitz 691+692 Weil, Schroeder, Wilamowitz, Page, West

Analisi della colometria prood. (a) ᤱᤱᗂᗂᗂᤱᤱᗂᗂᗂ 626 ᗂᗂᤱᤱᗂᤱᤱᗂᗂᗂ ᗂᤱᤱᗂᗂᤱᤱᗂᤱᤱᗂ

2an

Il testo critico è quello scaturito da una discussione assai analitica con Vittorio Citti. Il breve apparato si limita a registrare i punti del testo problematici anche sotto il profilo metrico.

108

 ǭǤαǦǨǴǤǴDzЃǶǬdzǴǨǶǥǸ  ͊ǰǷǦ ǷDzǧǿǭDzǬǦǨǯǿǰǷǼǰ 3 ǫǸǯǠǮǤǬǹǮǨǦǿǰǷǼǰ ǫХ,ΟǵdzǿǮǬǵǨΘǰǠǯDzǬǷDz 670 NJϸǰǤǯǠǦǤǰǶǨǥǿǰǷǼǰ 6 ǷβǰDZǠǰǬDzǰǧХΓdzǠǴǷǤǷDzǰ ΉǵdzDzǮǬМǰǿǯЙǤͼǶǤǰΆǴǫDzЃ  ǷǢǭǷǨǶǫǤǬǧίǹǿǴDzǸǵǦϪǵ ͎ǮǮDzǸǵǨΒǺǿǯǨǫХǤͶǨǢ 675 3 ͖ǴǷǨǯǬǰǧХ͛ǭǟǷǤǰǦǸǰǤǬ ǭЛǰǮǿǺDzǸǵ͚ǹDzǴǨȀǨǬǰ  ǯǪǧǠǷǬǵ͊ǰǧǴDzǭǯΰǵǶǷǴǧ ǮDzǬǦβǵ͚dzǨǮǫǠǷǼ 3 ǷǟǰǧǨdzǿǮǬǰǧǤDŽǩǼǰ  680 ͎ǺDzǴDzǰ͊ǭǢǫǤǴǬǰ 6 ǧǤǭǴǸDzǦǿǰDzǰ͖ǴǪ ǥDzǟǰǷХ͞ǰǧǪǯDzǰ͚DZDzdzǮǢǩǼǰ  ǰDzȀǶǼǰǧХ͛Ƕǯβǵ͊dzХ͊ǶǷЛǰ ͻǩDzǬǭǴǤǷβǵ͊ǷǨǴdzǡǵƽ 685  ǨΒǯǨǰΰǵǧХ·ǏȀǭǨǬDzǵ͞Ƕ ǷǼdzǟǶϨǰǨDzǮǤǢϨ  ǭǤǴdzDzǷǨǮϸǧǠǷDzǬ ͊ǰǷǧ NJǨγǵ͚dzǬǭǴǤǬǰǠǷǼ  ǹǠǴǯǤǷǬǦϪǰdzǤǰȁǴЙ  690 dzǴǿǰDzǯǤǧίǥDzǷήǷDzЃǵ dzDzǮȀǦDzǰǤǷǨǮǠǫDzǬƽ 6 ǷβdzϪǰǷХ͚ǭǧǤǬǯǿǰǼǰǫǟǮDzǬǨǰ  ǨΖǹǪǯDzǰǧХ͚dzαǥǼǯDzЃǵ ǯDzАǶǤǰǫǨǢǤǷХ͊DzǬǧDzǢƽ  695  ͋ǦǰЛǰǷХ͚ǭǶǷDzǯǟǷǼǰǹǨǴǠ ǶǫǼǹǡǯǤǹǬǮDzǹǿǴǯǬǦDZ  ǹǸǮǟǶǶDzǬ†ǷХ͊ǷǬǯǢǤǵǷǬǯήǵ†ǶǷǴǨ ǷβǧǡǯǬDzǰǷβdzǷǿǮǬǰǭǴǤǷȀǰǨǬ 3 dzǴDzǯǤǫΰǵǨΒǭDzǬǰǿǯǪǷǬǵ͊ǴǺǟƽ 700 DZǠǰDzǬǵǷХǨΒDZǸǯǥDzȀǮDzǸǵ dzǴαǰ͚DZDzdzǮǢǩǨǬǰ͖ǴǪ 6 ǧǢǭǤǵ͎ǷǨǴdzǪǯǟǷǼǰǧǬǧDzЃǨǰ  ǫǨDzγǵǧХDz͹ǦϪǰ͞ǺDzǸǶǬǰǤͶǨα͊ǰǷǨ ǷǢDzǬǨǰ͚ǦǺǼǴǢDzǸǵdzǤǷǴКǤǬǵ705 3 ǧǤǹǰǪǹǿǴDzǬǵǥDzǸǫȀǷDzǬǶǬǷǬǯǤЃǵƽ ǷβǦήǴǷǨǭǿǰǷǼǰǶǠǥǤǵ ǷǴǢǷDzǰǷǿǧХ͚ǰǫǨǶǯǢDzǬǵ 6 LjǢǭǤǵǦǠǦǴǤdzǷǤǬǯǨǦǬǶǷDzǷǢǯDzǸ 

ᤱᤱᗂᗂᗂᤱᤱᗂᗂᗂ ᗂᤱᤱᗂᗂᤱᤱᗂᤱច

2an^

str./ant. bb’ ᗂᤱᤱᗂᤱᗂ 2cho^^ vel do  ᗂᤱᤱᗂᤱᗂᗂ 2cho^ 3 ᗂᤱᤱᗂᤱᗂᗂ2cho^  ᗂᤱᤱᤱᤱᤱᗂ 2 cho^^ vel do  ᗂᤱᗂᤱᗂ do a do  ᗂᤱᤱᗂᤱᗂ  6 ᤱᤱᤱᗂᤱᗂ do  a  ᗂᤱᤱᗂᤱᗂ do  ᤱᗂᤱᤱᤱᗂចጯ do  ᤱᤱᤱᗂ  cr 9 ᤱᗂᗂᤱᤱᗂᤱᗂᗂច hipp eph1/2

 3

 str./ant. cc’

 3

  6  eph3/4

 3  

ᗂᤱᗂᤱᤱᗂᗂ  pher ᗂᗂᗂᤱᤱᗂᤱចጯ pher ᗂᗂᗂᤱᤱᗂᤱᗂ glyc ᗂᤳᗂᤱᤱᗂᗂᾫpher ᗂᤱᤱᗂᤱᗂᗂ2cho^ ᤱᤱᗂᤱᗂᗂpenth ia (vel ^2cho^) ᤱᤱᗂᤱᗂᗂpenth ia (vel ^2cho^) ᗂᤱᤱᗂᤱᗂᗂ 2cho^ ᗂᤱᤱᗂᤱᗂᗂ 2cho^ ᗂᤱᤱᗂᤱᗂᤱᤳ!ចᤳ2cho ᗂᤱᤱᗂᤱᤱᗂᤱᗂᗂចdecasyll alc ᗂᗂᗂᤱᤱᗂᗂ pher ᗂᗂᗂᤱᤱᗂᗂ pher ᗂᤳᗂᤱᤱᗂᤱᗂglyc ᗂᤳᗂᤱᤱᗂᗂᾫpher

str./ant. dd’ ᗂᤱᤱᗂᤱᗂ

 3   6  eph5/6

 3 

2cho^^ ᗂᤱᤱᗂᤱᗂ 2cho^^ ᗂᤱᤱᗂᤱᗂᗂ 2cho^ ᤱᤱᤱᤱᤱᤱᗂ do ᤱᤱᤱᤱᤱᤱᗂ do ᤱᗂᗂᗂᤱᗂᤱᗂᗂច3ia lyr (ba cr ba)



ᗂᗂᗂᤱᤱᗂᗂ  pher ᗂᗂᗂᤱᤱᗂᗂចጯ pher ᗂᤲᗂᤱᤱᗂᤱᗂ glyc ᗂᤲᗂᤱᤱᗂᗂᾫpher

109

 3

ᤱᗂᗂᗂᤱᗂᤱᗂᗂ3ia lyr (ba cr ba) ᤱᗂᤱᗂᗂᤱᗂᤱᗂᗂ3ia lyr (ia cr ba) ᤱᗂᗂᗂᗂᤱᗂᤱᗂᗂ3 ia lyr (ba ia ba ~

    6

a ᤱᗂᤱᗂᗂᤱᗂᤱᗂᗂ ᤱᗂᤱᗂᗂᤱᗂ  ᤱᗂᤱᗂᗂᤱᗂ  ᤱᗂᤱᗂᗂᤱᗂᤱᗂᗂᾫ

str./ant. ee’

ia cr ba)

2ia lyr (ia cr) 2ia lyr (ia cr) 3ialyr (ia cr ba)

APPENDICE II. L’interazione tra sintassi narrativa e forma poematica. Un confronto

Aesch. Suppl. 625-9 vv. 625-9 (A): 2an; introduzione al canto (‘diciamo preghiere propizie per gli Argivi’); vv. 630-8 (str. B): chor, do, claus. hipp.; che mai Ares achoros distrugga con il fuoco questa terra; vv. 639-42 (eph.1): 2pher, glyc, pher; giacché gli Argivi ci compatirono e hanno votato a nostro favore; vv. 643-51 (ant. B’): chor, do, claus. hipp.; e non a favore dei maschi, nel rispetto di Zeus che punisce; vv. 652-5 (eph.2): 2 pher, glyc, pher; ci onorano e dunque avranno propizi gli dèi; vv. 656-62 (str. C): cho, ia, claus. decasyll. alc.; pertanto intono preghiere benedicenti: che non ci sia la peste, né la guerra; vv. 663-6 (eph.3): 2pher, glyc, pher; e non muoia il fiore della gioventù; vv. 667-73 (ant. C’): cho, ia, claus. decasull. alc.; e che gli anziani amministrino bene la città; vv. 674-7 (eph.4): 2pher, glyc, pher; e che la terra e le donne siano fertili; vv. 678-83 (str. D): cho, do, claus. 3ia lyr.; e che non giungano la peste né Ares achoros che ama la guerra; vv. 684-7 (eph.5): 2pher, glyc, pher; e siano lontani i mali, e Apollo sia propizio; vv. 688-93 (ant. D’): cho, do, claus. 3ia. lyr.; e che la terra sia feconda e feconde le greggi; vv. 694-7 (eph.6): e che gli altari siano onorati dal canto degli aedi, propizio, amico della cetra; vv. 698-703 (str. E): ia lyr; il popolo preservi intatti i suoi diritti e abbia rispetto dell’ospite; vv. 704-8 (ant. E’): ia lyr.; e sempre onori gli dèi del luogo, offrendo sacrifici. Rispettare chi ci ha generato.

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Aesch. Ag. 355-487 vv. 355-66 (A): 2an; introduzione al canto; invocazione a Zeus Xenios, che ha determinato la presa di Ilio; vv. 367-80 (str. B): ia lyr., claus. aristoph; la presa di Ilio è opera di Zeus; empio è chi pensi che gli dèi non si diano cura dei mortali tracotanti. Bando a ciò che è eccessivo. Ci sia soltanto quel che non reca danno, e quanto basta a chi ha senno; vv. 381-4 (eph1): 2pher, glyc, pher; infatti non esiste difesa per l’uomo tracotante che calpesta Giustizia; vv. 385-98 (ant. B’): ia lyr., claus. aristoph.; ma lo travolge Persuasione che è figlia di Ate, e il dio poi lo abbatte; vv. 399-402 (eph2): 2pher, glyc, pher; così accadde anche a Paride, che rapì Elena; vv. 403-15 (str. C): ia lyr., 2do; e Elena ha tradito lo sposo, ha osato l’inosabile; Menelao la rimpiange; vv. 416-9 (eph3): 2pher, glyc, pher; e Menelao è molto afflitto; vv. 420-32 (ant. C’): ia lyr., 2 do; e Menelao soffre, gli appaiono visioni dolorose in sogno; nelle case di ogni Greco partito per Ilio c’è sofferenza e sopportazione; vv. 433-6 (eph4): 2pher, glyc, pher; giacché ogni Greco sa di esser partito per scortare gli Atridi, ma ora molti rientrano in patria sotto forma di cenere nell’urna; vv. 437-51 (str. D): ia lyr., chor; e Ares restituisce da Ilio alle famiglie uomini sotto forma di cenere, suscitando lacrime. I parenti piangono e hanno in odio gli Atridi: per loro causa i propri cari ritornano in patria da morti; vv. 452-5 (eph5): 2pher, glyc, pher; e altri invece restano sepolti a Ilio, in terra nemica; vv. 456-70 (ant. D’): ia lyr, chor; e i cittadini hanno rancore verso gli Atridi, e verso chi causa la morte di molti. Gli dèi vegliano e inviano le Erinni. Guai ad avere fama oltre misura; vv. 471-4 (eph6): 2pher, glyc, pher; ma è meglio avere una buona sorte, tale che non susciti invidia; meglio non essere distruttori di città, né essere presi prigionieri; vv. 475-87 (ep. E): ia lyr, do; il coro dubita delle veridicità della notizia appena diffusa da Clitemestra. Riflessione sulla situazione presente.

Eur. HF 348-451 vv. 348-58 (str. A): glyc pher dimp chor; introduzione al canto, autoreferenziale: ‘voglio intonare un inno’; vv. 359-63 (eph1): 3pher glyc pher; leone nemeo; vv. 364-74 (ant. A’): glyc pher dimp chor; centauromachia; vv. 375-9 (eph2): 3pher glyc pher; cerva dalle corna d’oro; vv. 380-8 (str. B): da ia tr; cavalle di Diomede; vv. 389-93 (eph.3): 3pher glyc pher; Cicno; vv. 394-402 (str. B’): da ia tr; i pomi delle Esperidi; liberazione del mare dai mostri; vv. 403-7 (eph4): 3pher glyc pher; Atlante;

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vv. 408-18 (str. C): ia lyr; il cinto della Amazzone; vv. 419-24 (eph.5): 4pher glyc pher; Idra di Lerna; Gerione; vv. 425-35 (str. C’): ia lyr; discesa nell’Ade; vv. 435-40 (eph6): 4pher glyc pher; conclusione del canto, autoreferenziale: il coro rimpiange la propria giovinezza vv. 441-51 (D): 2an, che introducono all’episodio seguente.

ABSTRACT The essay is focused on the particular formal structure of the II stasimon of Aeschylus’ Supplices, which involves a so called (from Wilamowitz) ‘rhythmical ephymnion’. The same structure is found in the I stasimon of Aeschylus’ Agamemnon, and also in Euripides’ Heracles II stasimon, where some very light variations are added. The idea is explored, that the source of these three choral sections be an extra-dramatic ritual song. Some reflections on the ancient and modern concepts of ‘ephymnion’ are also made. KEYWORDS: ephymnion - literary genre - ritual

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IL FINALE DELLE SUPPLICI DI ESCHILO La questione fondamentale per mettere in ordine il finale delle Supplici è capire chi ne canta i vv. 1034-51, in risposta (strofe e antistrofe II) ai precedenti vv. 1018-33 (strofe e antistrofe I), cantati dal coro delle Danaidi; e se chi canta i vv. 1034-51 fa parte di un coro secondario e se si alterna nel canto con il coro principale delle fanciulle (1052-73). Una questione, però, che non è semplice risolvere. Possiamo fissare il finale delle Supplici a partire dal v. 953, in cui Pelasgo si sbarazza degli Egizi rispondendo con fermezza all’arroganza del loro araldo e rivolgendosi alle Danaidi. Così comincerebbe l’ultimo atto della tragedia1. Tuttavia, la questione dei due cori del finale ci costringe alla considerazione dell’intero movimento dell’opera e della situazione, tale come risulta dallo stasimo anteriore (vv. 776-901), così come alla riconsiderazione di un tema dibattuto che potrebbe considerarsi in parallelo: se gli Egizi che accompagnano l’araldo partecipino nella rappresentazione come coro o soltanto, diciamo, come ‘presenza scenica’. Così, la questione dei cori del finale ci costringe a uno sguardo retrospettivo, specialmente riguardo al movimento scenico della seconda metà della tragedia. La seconda parte delle Supplici inizia dal momento in cui le fanciulle rimangono sole (v. 524), dopo la partenza verso Argo sia di Danao (v. 503) che di Pelasgo (v. 523) e, dopo una scena di transito tra il re e il coro (vv. 504-23), arriva sino all’irruzione degli egizi e dell’araldo (v. 836) e il ritorno di Pelasgo (v. 911) e, più tardi, di Danao (v. 980): nel frattempo Danao è ritornato per la prima volta (v. 600) con la buona notizia dell’accoglienza votata dagli Argivi; egli stesso ha visto, però, da lontano, l’arrivo della nave egizia che insegue lui e le sue figlie (v. 710), e dunque è corso verso la città per domandare aiuto (v. 774-5). Esse, di nuovo sole, ricominciano il canto (v. 776) che si protrarrà per il tempo in cui tarderanno ad arrivare gli Egizi, con cui, credo, compartiranno la scena fino al ritorno di Pelasgo (v. 911). Bisognerebbe stabilire almeno un aspetto di queste entrate e uscite. Pelasgo è arrivato (v. 234) con una sorta di armata, una scorta o esercito di Argivi, alcuni dei quali forse hanno abbandonato la scena durante la prima uscita di Danao (vv. 500-3), mentre gli altri sono tornati ad Argo con Pelasgo (v. 523). Pelasgo ritorna con degli armati, verosimilmente gli stessi, quando, avvisato da Danao, arriva per proteggere le Danaidi dall’irruzione degli Egizi. Quando Pelasgo torna ad Argo, dopo i secondi anapesti (vv. 966-79), allora entra Danao. Pare verosimile che, come prima durante l’uscita di Danao (vv. 500-3), gli armati si dividano in due parti, una delle quali va adesso con Pelasgo e l’altra rimane in scena con Danao e le figlie per uscire con esse al finale. Notiamo di passaggio che ciò presuppone che Danao esca al finale con tre gruppi: le figlie, le serve e i soldati argivi.

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Cf. Taplin 1977, 225.

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Ma, soprattutto, dal v. 235 sino al v. 524 e dal 911 sino al finale, questi soldati argivi sono in scena. Il coro, le figlie di Danao, sono in scena per tutta la tragedia. I soldati argivi per le due parti che abbiamo considerato. Ossia, sono il gruppo con più presenza dopo le fanciulle, perché rappresentano, insieme a Pelasgo, la città che le difende e che le accoglie. Un altro gruppo è sicuro: gli armati egizi che accompagnano l’araldo e che, certamente, interagiscono con le Danaidi; o a livello verbale, alternandosi a loro nel canto, e dal punto di vista della posizione e del movimento, o solo da quest’ultimo punto di vista, rispondendo con un movimento di inseguimento, avvicinamento e appropriazione in modo complementare al movimento delle fanciulle, di fuga, allontanamento e rifiuto. Questi armati egizi costituiscono, con l’araldo, l’antitesi al gruppo degli armati argivi e di Pelasgo, perché rappresentano esattamente il contrario. E rimane il gruppo delle ancelle. Ed è questo quello veramente problematico. Dal punto di vista del testo, la sorte di tale gruppo è in relazione con gli anapesti 966-79. Prima, il sintagma ǶγǰǹǢǮDzǬǵΆdzǟDzǶǬǰ(v. 954) non costituisce nessuna evidenza che si tratti di loro: il re può comandare alle Danaidi che si rechino alla città scortate dagli armati argivi che sono giunti con esse; mentre la menzione delle ǹǢǮǤǬ ǧǯǼǢǧǨǵ (v. 977) così come quella della ǫǨǴǤdzDzǰǷǢǧǤ ǹǨǴǰǡǰ degli anapesti (v. 979), implica necessariamente una serva per ognuna delle figlie di Danao. Ossia, esiste ancora un altro gruppo. L’unica maniera tassativa di risolvere la difficoltà sarebbe di considerare gli anapesti interpolati, in modo da fare scomparire dal testo questo gruppo. Altrimenti, il problema è capire quale funzione queste serve, presentate all’improvviso come dote di matrimonio di Danao alle figlie, abbiano adesso in scena, da quanto tempo vi si trovino o come vi siano arrivate. I versi che rendono evidente la loro presenza fanno l’effetto di un’introduzione,2 ma buona parte degli studiosi congettura che le ancelle siano in scena dalla parodo. Certamente, risulta difficile ‘vedere’ una tragedia nell’agorà o nel teatro, e ancor di più è certo che quando noi moderni riusciamo a ‘vederla’, ne abbiamo tutto il diritto ed è condizione per rappresentarla, ma né possiamo realmente vederla né la maniera in cui la vediamo ha alcuna garanzia al di fuori di ciò che il testo ci offre. Ricordarci di ciò non è inopportuno adesso. Perché, nonostante non sappiamo con esattezza da quante persone ciascuno di questi gruppi fosse costituito, nel momento in cui il testo introduce le ancelle, ci sono già, oltre Danao, altri due gruppi, quello degli armati argivi e quello formato dal coro delle Danaidi. Così da una parte. Dall’altra, se dovessimo credere che le ancelle siano in scena dalla parodo, dovremmo poter vedere, ma non ci è possibile, che funzione abbiano, e non solamente nei momenti in cui il coro canta a solo o in cui dialoga con la corifea, ma anche nella scena di terrore e violenza tra il coro e gli Egizi e l’araldo; e, in generale, oltre che congetturare che rimangano silenti, resta da chiarire se formavano parte del coro o se rimanevano in disparte o quando inter2

Cf. Lloyd-Jones 1964, 365 (= Id. 1990, 270).

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venissero e come. Infine, risulta molto più economico supporre, cosa cui il testo fa propendere, che siano introdotte proprio negli anapesti che marcano il momento in cui gli altri gruppi e Danao si dispongono ad uscire. Un’altra questione, però, è l’interpolazione degli anapesti. Non credo che sia necessario difenderla, nel senso che abitualmente si conferisce al termine interpolazione, ma, d’altra parte, non mi sembra impossibile che il finale delle Supplici sia stato modificato, ritoccato e ricostruito, chiaramente alla maniera di Eschilo, e magistralmente legato all’intera tragedia, riprendedone fili che provengono soprattutto dalla parodo e, in via congetturale, adattato allo sviluppo posteriore della trilogia. In ogni caso, l’idea è che questo finale appare piuttosto un inizio, e che gli anapesti vi contribuiscono, considerati in parallelo con sezioni anapestiche analoghe per funzione di altre tragedie. D’altra parte, bisogna ormai ammettere che nella poesia eschilea rimangono alcune tracce di tali manipolazioni e revisioni. Riguardo all’insieme dei tragici, Taplin ammonisce che nella critica del testo spesso gli studiosi ammettono «that the transmited texts are […] close to the author’s own except for detailed verbal corruption», ma che tale assunto ha un’alternativa, la congettura che «our texts may have been tempered with on a larger scale than we like, however credulously, to believe».3 Nel caso concreto di Eschilo, ho esposto alcune ragioni per le quali credo che il testo che abbiamo sia il risultato di un processo di riprese e interventi, iniziato dal poeta stesso e continuato più tardi nel suo stesso stile, la cui traccia è diversamente percepibile nelle sue tragedie.4 Nel caso delle Supplici, tanto i dubbi sulla cronologia, come la diversa percezione dello stile, dalla considerazione di arcaico fino a quella di sperimentale,5 potrebbero suscitare il sospetto che la versione che ci è arrivata presenti un finale rielaborato. Ora, conviene segnalare che, privi della tragedia successiva della trilogia, l’unica maniera di procedere è spiegare il finale che abbiamo nell’unico testo che abbiamo. Ciò non vuol dire, però, che l’osservazione e la considerazione di alcune caratteristiche di questo finale – che d’altra parte inequivocabilmente presenta i tratti dello stile eschileo – non possano indurre i critici al sospetto che si tratti di un finale rielaborato. Conviene pure tenere presente che i finali sono le parti più esposte agli interventi con finalità drammatiche concrete. Segnalata questa possibilità, torniamo al testo che abbiamo e ai problemi che propone così come lo abbiamo. In primo luogo, gli anapesti (vv. 966-79) rispondono in qualche modo a quelli iniziali dell’opera, di cui riprendono alcuni elementi, così come altri fili che ricorrono altrove: non sarebbe un buon metodo eliminarli con la finalità di cancellare dall’opera un gruppo o il coro delle ancelle. Nel finale che abbiamo è sicuro che queste ancelle, dote di Danao alle sue figlie – tuttavia, non ancora sposate né promesse; è proprio ciò a cui si negano –, erano in scena sin dagli anapesti, ed è sicuro che uscivano di scena insieme al coro 3

Cf. Taplin 1977, 228-9. Cf. Miralles 1999. 5 Cf. Garvie 1969. 4

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delle Danaidi, con gli armati argivi e verosimilmente con Danao. Ciò che non è sicuro è se cantassero i vv. 1034-51 e se fino alla fine cantassero alternativamente con il coro delle Danaidi (vv. 1052-61). Forse non siamo andati avanti di molto, ma abbiamo posto in discussione il tema dell’organizzazione scenica del finale – e del corso del dramma – dal punto di vista dei movimenti dei personaggi. E forse si è anche profilata come più probabile una situazione finale in cui il gruppo che troviamo nel finale con le Danaidi è costituito da armati che le scortano, che rappresentano la città che le accoglie, e che si alternano nel canto con esse. Una situazione che, da un lato, si apre – in modo chiaro ma strano, proprio alla fine – a un nuovo conflitto drammatico6 e che, da un altro, si presenta simmetrica e antitetica all’alternanza del canto delle fanciulle con i soldati egizi nella messa in scena della violenza, che l’araldo dirige. Facciamo iniziare l’ultimo atto o finale al v. 953, in cui Pelasgo si libera delle pretese degli armati e dell’araldo egizi. Ma dal punto di vista della situazione, nel corso del dramma, è di nuovo necessario tornare indietro. L’azione delle Supplici, dalla parodo che segue lo sbarco delle fanciulle, va crescendo nella tensione drammatica: la pretesa delle supplici si trova davanti alla ponderazione e all’esitazione del re d’Argo, un’attitudine che dilata nel tempo ciò cui esse aspirano come salvezza, cioè essere accolte dagli Argivi. Mentre si mostrano eccessive nel lamento, con la minaccia di impiccarsi, l’azione, o meglio, il procedere dell’informazione sino alla decisione di Pelasgo di portare la questione alla città, non fa che crescere. La speranza si concentra, malgrado l’incertezza, nello stasimo dei vv. 524-99, che le Danaidi intonano sole, abbandonate dal padre e dal re, che sono andati ad Argo, prima l’uno e poi l’altro, per presentare ai cittadini argivi la questione della supplica e dell’accoglienza. Questo stasimo va da Zeus a Zeus ed è pieno di Io, un’altra volta. Le fanciulle rimangono immobili e in più sono sole. Può essere interpretato come un canto di speranza per il momento in cui si produce, ma è evidente che c’è un contrasto, che è stato finemente rilevato7 tra parole di speranza e ritmo – che rivela inquietudine –: un contrasto che fa cupa la speranza. E in fondo esse si appigliano alla vecchia storia, al racconto delle origini familiari e al potere di Zeus. Si chiudono in se stesse, sole e immobili. La speranza, quando si compie, sfocia nel ringraziamento alla città che ha votato di accoglierle. È come una sorta di pausa. Fino a che Danao, però, vede arrivare la nave degli Egizi (v. 710). La paura, il terrore, allora si fanno reali, nell’imminenza dell’arrivo degli inseguitori (vv. 734-8). Quando Danao andrà a cercare aiuto ad Argo, le Danaidi si ritroveranno di nuovo sole, ed intoneranno, sole, un canto che è, per collocazione e situazione, il rovescio dell’inno anteriore di Zeus ed Io, che corrispondeva alla speranza. A partire dal v. 776, invece, lo stasimo è il canto della paura, dell’incertezza e dell’angoscia, cantato da esse sole, fino ad essere violentemente interrotto, anche metricamente, dall’irruzione de6 7

Cf. Schmid-Stählin 1946-59 II 288 n. 2. Cf. Lomiento 2008, 53.

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gli Egizi e dell’araldo (v. 825). A partire da qui, è messa in scena, mimeticamente, con parole che conserviamo e con una musica e una danza che per noi è solo oscuramente metrica, la violenza che esse temevano. La presenza degli armati e dell’araldo egizi concretizza la paura, rende visibile l’angoscia che il loro canto esprimeva. Si colloca agli antipodi del canto di benedizione, di gioia, pace e salvezza a favore degli Argivi (vv. 625-709). La presenza degli uomini che vogliono portarle via è il contrario del compimento che esse volevano e che il voto di Argo pareva avere loro assicurato. E, ciò nonostante, gli Egizi, la violenza; che è resa corporea dalla presenza in scena degli Egizi dal v. 825 al v. 953. Quando Pelasgo si libera di essi, la situazione rimane carica della tensione messa in scena, rappresentata agli occhi degli spettatori. Comincia il cammino verso la città: è ripresa la speranza, l’ambigua esultazione anteriore delle fanciulle nel ricevere dal padre la notizia che Argo le avrebbe accolte. Danao, oltre che raccomandare prudenza e senno, cosa che non ha smesso di fare, vede ora il pericolo nelle sue stesse figlie: perché sono giovani e hanno l’età che attrae gli uomini, l’avvenenza della giovinezza (v. 997). La città si converte in una città reale, quasi ridotta, in bocca a Pelasgo, alla questione su dove le fanciulle e il padre si stabiliranno. Il re sembra parlare nella prospettiva della nuova condizione di meteci che acquisiranno (vv. 954-65): avere una casa, un luogo dentro la città, le porrà in una situazione nuova, differente; stare dentro non si configura solo come protezione e sicurezza perché in una città ci sono dei costumi, una maniera di vivere in comunità: per esempio, Afrodite vi ha un peso. Vi è esitazione, incertezza e inquietudine in ciò che Danao dice sulla dea, ma inequivocabilmente riconosce che nella città il costume, le relazioni, implicano Cipride (vv. 1001-2); ed è Afrodite che il coro degli Argivi invoca, mentre si reca alla città, in un contesto di esaltazione evidente del matrimonio (vv. 1034-42) e di lucido rifiuto di guerre e mali (vv. 1044-52). La situazione è cambiata, ma le fanciulle no. Rimangono imperturbabili; il loro canto (vv. 1018-33), che provoca la risposta degli armati argivi, si lega in modo chiaro al ringraziamento agli dèi di Argo, ai quali effettivamente si riferisce, e rimanda in modo evidente anche alla città, focalizzandone il territorio: la fertilità che le fanciulle invocano, per mezzo dell’evocazione dei fiumi, è contrapposta in modo esplicito alla protezione di Artemide, mentre Afrodite è esclusa. Il rifiuto del Nilo, contrapposto all’Erasino, è parallelo al rifiuto di Afrodite, contrapposta ad Artemide. All’accoglienza della città sono assimilate l’acqua, il fiume e altre correnti, la terra dolce, la placidità e la tranquillità. Negli anapesti iniziali trovavamo da un lato la sabbia delle bocche del Nilo (vv. 3-4), da cui provenivano e, dall’altro, l’acqua chiara della terra in cui arrivavano (v. 24: ǮǨǸǭβǰΗǧǼǴ). Ora, tale insistenza nel correre, nel fluire dell’acqua (vv. 1028-9: ǺǠDzǸǶǬǰ/ […]ǺǨȀǯǤǶǬ[…]), porta alla placidità e alla tranquillità dei luoghi, all’acqua che il fiume e i suoi figli (vv. 1028-9) proporzionano (v. 1028: ǫǨǮǨǯβǰ dzЛǯǤ), per arrivare alla fertilità (v. 1029: ǮǬdzǤǴDzЃǵ

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ǺǨȀǯǤǶǬ), che corrisponde a questa abbondanza.8 Il canto, che le Danaidi invitano i soldati argivi ad accettare (vv. 1023-4), sembra portare, in questo contesto, ad Afrodite; ma già sappiamo che esse la escludono espressamente e che, invece, vi vincolano Artemide, un’altra volta chiamandola ͋Ǧǰǟ(v. 1031), ossia presentando tale qualità della dea9 in relazione alle correnti tranquille e alla ricchezza che apportano, alla fertilità della terra d’Argo. La risposta dei soldati argivi rivendicherà in modo palese la necessità di Afrodite. Ma è stato Danao stesso, ora che la città accoglie i supplici e che il re ha appena espulso gli Egizi violenti, a dichiarare la forza dell’attrazione prodotta dall’avvenenza della giovinezza, indissolubile da Afrodite (vv. 998-1005). E già prima, i secondi anapesti mostravano in scena delle ancelle che si situavano ognuna affianco ad ogni Danaide; ed esse stesse dicevano che queste schiave facevano parte della dote. Prima che gli Argivi ne parlino apertamente, dunque, diversi indizi portano ad Afrodite e al matrimonio. Propongo di considerare il sintagma ǫǨǴǤdzDzǰǷǢǧǤǹǨǴǰǡǰ(v. 979) e l’introduzione delle ancelle come uno di tali indizi, per la semplice ragione che, se le schiave sono parte della dote, ciò implica che le fanciulle che ne sono padrone si dovranno sposare. Non implica né quando né con chi, ma le fanciulle sono in età da matrimonio e forse in qualche modo si arriva a ciò che gli Argivi alla fine della loro prima risposta rimarcano, cioè che il matrimonio è la finalità delle giovani fanciulle (vv. 1050-1), e appartiene al tipo di cose che regolano il mondo reale in virtù della parte che tocca ad ogni donna (΋ǷǢǷDzǬ ǯǿǴǶǬǯǿǰ͚ǶǷǬǰ e pertanto si compirà (v. 1047). Il servo che parla con Agamennone all’inizio dell’Ifigenia in Aulide di Euripide si presenta come schiavo di dote (v. 47: ǹǠǴǰǪ), assegnato da Tindaro a sua figlia Clitemestra, la sposa di Agamennone, e ricorda che, come tale, aveva fatto parte della processione nuziale (v. 48: ǶǸǰǰǸǯǹDzǭǿǯDzǰ) della sua padrona. Nelle Supplici, quando appaiono queste serve, si sta formando una processione; se era o era stato costume che gli schiavi di questo tipo facessero parte delle processioni nuziali, tanto l’apparizione delle ancelle come la specificazione che fanno parte della dote delle Danaidi, proprio nel momento in cui si forma la processione che le porterà alla città, dovevano introdurre, per lo spettatore, la prospettiva delle nozze. Tema che poco prima era, come segnalato, la preoccupazione di Danao. E tema che risulta esplicitamente proposto dal coro secondario di armati argivi. È certo che la processione non è nuziale, quanto piuttosto un cammino verso la città, e che non si tratta di una vera e propria processione, ma di una formazione o disposizione con cui le fanciulle entreranno a far parte della città. Tuttavia, nell’insieme, potrebbe evocare una processione nuziale. Gernet notò e dimostrò che «admission dans la cité et mariage sont des idées qui s’attirent l’une l’autre»10; dunque, il matrimonio non può restare al margine, separato, dall’ammissione nella città del 8 Tutto il quadro, confrontato con il sintagma ǮǨǸǭβǰΗǧǼǴ, permette di ricordare, come fanno Friis Johansen-Whittle 1980 II 314, lo scolio al v. 139a del Prometeo: ǷǠǶǶǤǴǤǧίΓǧǟǷǼǰ͚Ǧ ǭȁǯǬǤǷβǻǸǺǴǿǰǷβǮǨǸǭǿǰǷβͧǧȀǷβͦǴǨǯǤЃDzǰǷϸǵЏǨȀǶǨǼǵ 9 E di suo fratello Apollo: il tema proviene dalla parodo (vv. 144-5); cf. Miralles 2007, 5 e 14 ss. 10 Cf. Gernet 1968, 51.

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padre e delle figlie meteci – la città può accoglierle ma non preservarle da ciò cui sono destinate in quanto giovani fanciulle –, e a quest’idea introduce il finale delle Supplici. Aprendo chiaramente un nuovo conflitto che ben è dimostrato dal coro dei cittadini argivi. Sulla risposta di questo coro, ancora, bisognerebbe segnalare che vi si trovano echi della parodo, che evocano l’intensità del rifiuto, dell’angoscia che ha reso fuggitive le Danaidi. Già da principio, l’associazione di guerre e mali dolorosi con la fuga le presenta di nuovo, ora che sono meteci, come fuggitive – come al principio –, così come mostra il dativo ǹǸǦǟǧǨǶǶǬǰevidenziato nell’incipit dell’antistrofe II (v. 1043). A continuazione, la paura che esse hanno sentito durante tutta l’opera, gira: ora sono i cittadini che hanno paura delle guerre e dei mali, del dolore e del sangue (vv. 1043-4). Ed è ricordata la buona navigazione che gli Egizi hanno avuto come possibile segnale dell’aiuto degli dèi; l’incalzare dei pretendenti si presenta ora proprio come il contrario di come le Danaidi lo presentavano nella parodo, come indignazione di Artemide (v. 148: ǧǬǼǦǯDzЃǵcf. v. 1046). Gli Argivi suggeriscono che se gli Egizi, inseguendole, hanno avuto una buona traversata può essere indizio del favore di Zeus; e non è inopportuno tenere presente come esse, alla fine dei primi anapesti (specialmente vv. 34-7), domandavano a Zeus che gli inseguitori morissero in una tempesta in alto mare. Ed è anche il caso di ricordare lo sforzo che le fanciulle hanno prodigato nel mostrare Zeus a loro favore; e dunque, risulta ancora più significativo che adesso gli Argivi ricordino che il pensiero di Zeus è imperscrutabile (vv. 1048-9), in chiara ripresa di un momento di dubbio, di paura, delle Danaidi in relazione al disegno del dio (vv. 93-5). Il discorso degli Argivi incornicia, tra il tema della buona navigazione degli Egizi e quello dell’imperscrutabilità di Zeus, ciò che essi ritengono evidente ed immutabile: che le ragazze si devono sposare, che si sono sempre sposate (v. 1048; vv. 1051-2). E ciò è in relazione, diciamo, con l’accoglienza delle fanciulle nella città, con la loro ammissione ad Argo come residenti sotto la protezione di tutta la comunità, del re e dei cittadini (vv. 963-4). Bisogna prestare attenzione anche al seguito del canto, in cui il coro insiste nel suo punto di vista, ma, per ogni verso o due che canta, ottiene la risposta degli Argivi, producendo uno scambio nervoso di battutte che questi ultimi chiudono causticamente (v. 1061), ma lasciando l’ultima parola alle fanciulle. Potrebbe avvertirsi una certa contraddizione tra ciò che le fanciulle dicono nel primo intervento di due versi (vv. 1052-3) e nel secondo (vv. 1057-8), interventi che sono in responsione, all’inizio, rispettivamente, della strofe e antistrofe III (vv. 10523; vv. 1057-8). Nel primo le Danaidi domandano con forza che Zeus allontani da loro il matrimonio con gli Egizi; nel secondo esprimono che non si può cercare di conoscere il pensiero di Zeus, in termini che sembrano ricollegarsi al dubbio che esse manifestavano nella parodo (vv. 93-5) e che, come abbiamo visto, anche gli Argivi condividevano (vv. 1048-9). Il futuro che esse auspicano è che Zeus allontani il matrimonio, ma, d’altro canto, esse stesse confermano, in risposta all’osservazione degli Argivi che nessuno conosce il futuro, che il disegno di Zeus non si può raggiungere con la vista. Il canto degli Argivi, che adesso le fanciulle 119

interrompono, deve sembrare loro, per le espressioni di tipo gnomico (v. 1054; cf. vv. 1056, 1059, 1061), una sorta di canto con influenze magiche, di tono insistente, al quale, però, esse rimangono insensibili (v. 1055). Gli Argivi dicono (v. 1059) che vi è una misura nel pregare e che il detto ǯǪǧίǰ͎ǦǤǰvale anche riguardo alla relazione con gli dèi (v. 1061). Così, con tali elocuzioni gnomiche, i soldati culminano l’intervento che, proprio alla fine dell’opera, ha aperto un nuovo fronte drammatico, confermando nello spettatore l’idea che pregare come le Danaidi hanno fatto oltrepassa la misura e che parlare in maniera inflessibile, come se il disegno di Zeus potesse essere compreso dai mortali, è andare oltre. Ora, il poeta che ha integrato nell’economia dell’opera questo finale ha messo in evidenza che l’ammissione delle Danaidi nella città non può non essere legato al fatto che nella città le fanciulle sono spose – un fatto che già inquietava Danao –; questo poeta, Eschilo o un altro della sua scuola, ha riservato le ultime parole del dramma, la coppia strofica IV, a queste fanciulle che sono state la voce cantante dell’intera tragedia, al fine di rimarcarne l’inflessibilità, l’immobilità. E così esse riprendono il canto con Zeus, domandandogli che allontani le nozze (vv. 1062-4; cf. vv. 1052-3), e nuovamente con Io, come hanno fatto sin dall’inizio, per tutto il tempo: ritornano la mano guaritrice, il tocco di Zeus e la sua forza che fonda la stirpe (vv. 1064-7). Tutto ciò nella strofe. Nell’antistrofe domandano il ǭǴǟǷDzǵper le donne (vv. 1068-9); qui non specificano se si tratti di loro e degli Egizi: il ǦǟǯDzǰ che pregavano che Zeus allontanasse da loro era ǧǸǶǟǰDzǴDzǰ (v. 1063). Ci sono altri luoghi in cui l’opposizione che sottolineano è in termini generali, tra femmine e maschi della specie umana ma, poco prima (cf. v. 1053), specificavano che si trattava degli Egizi. Durante il corso del dramma, donne e uomini sono termini collettivi ora concreti, perché sono le Danaidi stesse che li menzionano e per la situazione in cui precisamente si trovano, ora generali, perché la rivendicazione della giustizia che pretendono fa in modo che esse ne assumano l’universalità. La correlazione tra la giustizia e le loro preghiere, che gli armati argivi finiscono per considerare eccessive (v. 1060), esse la considerano sicura: per queste preghiere Zeus le libererà come liberò Io (vv. 1071-3); e così concludono l’antistrofe IV e la tragedia, riprendendo i termini (Zeus, Io) dell’inizio della strofe IV. Dopo aver domandato il potere per le donne, si devono riferire, indirettamente, alla paura degli Argivi che alla fine non arrivino guerra e mali (1043-4); se sappiamo leggere, aiutati dallo scolio11, i vv. 1069-70, le Danaidi farebbero dei mali tre parti non specificate, e di queste, due parti, che si realizzereranno – forse la guerra che porterebbe mali a tutte e due le parti, Egizi e Argivi –, e che rappresenterebbero ‘la miglior parte del male’, nel senso che le libererebbe dai mali delle nozze, che per esse sarebbe, dunque, il peggiore dei mali. Ciò, allora, non sarebbe non solo un cattivo presagio, ma le mostrerebbe del tutto insensibili al male che causarebbero se potessero salvarsi dal male che per esse sono le nozze – una salvezza che di nuovo, ancora, attribuiscono a Zeus, parallela a quella che il dio operò nei confronti di Io. Chiusura, dunque: immo11

Cf. Smith 1976, 83. Lo scolio cita a confronto Pind. Pyth. 3.81.

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bilità e insensibilità. Una posizione che, come ricordano i cittadini armati che le scortano, non si lega con l’accoglienza che hanno trovato nella città. E così termina la tragedia, così come è iniziata, aprendo palesemente un nuovo conflitto drammatico. Ancora un’osservazione, sinteticamente. Forse questo finale d’opera, ora che le fanciulle sono state ammesse nella città, è la parte in cui risulta più evidente un fatto che è chiaro sin dall’inizio, ma che forse non è stato sottolineato perché costituisce parte, diciamo, dell’argomento, del tema mitico. Il fatto è che le Danaidi sono un gruppo, rappresentano cinquanta fanciulle, le figlie di Danao, e che, nella città, in cui il matrimonio è un’istituzione fondamentale, le fanciulle si sposano una ad una e hanno ciascuna un nome. Nella tragedia si parla in termini individuali di una di loro, solamente quando, esse stesse, comandano che ogni schiava dotale si collochi al lato di ciascuna (975-9). L’attitudine degli Egizi corrisponde agli antichi matrimoni collettivi, nell’immaginario che i Greci avevano delle origini; la violenza che mostrano gli Egizi e l’araldo nella loro irruzione – una violenza delegata ad essi dagli Egiziadi – implica, se l’arrivo di Pelasgo non lo impedisse, il trascinare per i capelli (v. 884, v. 909), accompagnato, almeno nella minaccia, da marchi a fuoco e sanguinosa morte (vv. 839-42). Gli Egizi rappresentano un gruppo di uomini che tratta un gruppo di donne con una violenza che arriva sino al ratto. Non si tratta, è chiaro, di postulare la storicità o meno di un rapimento di tale sorta, ma di tener presente che, nella città storica, una storia di questo tipo implica, per opposizione all’ordine del matrimonio, la pretesa confusione delle origini, il disordine prima della città, che l’ordine civile, costituendosi, lascia al margine. Nella città, non solo il matrimonio è un ruolo sociale, la parte che corrisponde alla donna, ma solo attraverso il matrimonio – ossia, attraverso il marito – la donna realizza la propria esistenza, come dicevano gli armati argivi. Nella città e una per una, individualmente. Nella Pitica IV di Pindaro, Danao decide di risolvere il problema di sposare le figlie; forse un po’ tardi, quando già le ragazze hanno ucciso gli Egizi, ma ora ciò che ci interessa è il procedimento che si inventa per risolvere la situazione. Una corsa di pretendenti e, per ordine di arrivo, ognuno dei vincitori sceglie – separandola dal gruppo, dunque – una delle figlie. E ancora: sono quarantotto e non cinquanta; perché due hanno già un nome, esse stesse si sono separate dal gruppo: Ipermestra, che ha risparmiato il suo uomo, Linceo, e Atalanta, cui l’unione con Poseidone ha donato un’individualità, un nome. Il finale delle Supplici forse si comprende meglio se si tiene presente che l’essere un gruppo, all’antica, entra in contraddizione con l’accoglimento della città, in cui ci sono persone, individualmente considerate, e dove le donne hanno un ruolo sociale, sancito dal matrimonio, in virtù del marito. Le Danaidi, invece, continuano ad essere un gruppo, il coro che sono state durante tutta l’opera, ma ora, nella processione che le integra nella città, ognuna con una schiava datale che significa che il destino della donna nella città è il matrimonio, un altro gruppo le circonda, formato da cittadini che ricordano loro la necessità, nella società 121

civile dei Greci, dell’istituzione matrimoniale. Si apre così un conflitto che prosegue, sino allo sviluppo drammatico di una storia che verosimilmente permetteva ad Eschilo di affrontarlo forse in modo parallelo a quello dell’Orestea. Barcelona

Carles Miralles

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Friis Johansen-Whittle 1980 H. Friis Johansen-E.W. Whittle, Aeschylus. The Suppliants, Copenhagen 1980. Garvie 1969 A.F. Garvie, Aeschylus’ Supplices. Play and Trilogy, Cambridge 1969. Gernet 1968 L. Gernet, Anthropologie de la Grèce antique, Paris 1968. Lloyd-Jones 1964 (= Lloyd-Jones 1990) H. Lloyd Jones, The ‘Supplices’ of Aeschylus: the New Date and Old Problems, L’Antiquité classique 33 (1964) 365-74 = H. Hommel (ed.), Wege zu Aischylos = Wege der Forschung 87, Darmstadt 1974, 101-24 = E. Segal (ed.), Oxford Readings in Greek Tragedy, Oxford 1983, 42-56 = H. Lloyd-Jones, Greek Epic, Lyric and Tragedy, Oxford 1990, 262-77. Lomiento 2008 L. Lomiento, Il canto di ingresso del coro nelle ‘Supplici’ di Eschilo (vv. 40-175). Colometria antica e considerazioni sul rapporto tra composizione ritmico-metrica e nuclei tematici, Lexis 26 (2008) 48-77. Miralles 1999 C. Miralles, Il testo di Eschilo?, Lexis 17 (1999) 5-19. Miralles 2009 C. Miralles, Gli anapesti della parodo delle ‘Supplici’ di Eschilo: una lettura, BollClass 28 (2007) 29-51. Schmid-Stählin 1946-59 W. Schmid-O. Stählin, Geschichte der griechischen Literatur, I-V, München 1929-34 (Nachdr. ibid. 1946-59). Smith 1976 O.L. Smith, Scholia Graeca in Aeschylum, Leipzig 1976. Taplin 1977 O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus, Oxford 1977.

ABSTRACT The final part of The Supplices, that would be considered a ‘rielaborated final’ in Aeschylean style, involves a lot of problems. There is on the scene a group of maidservants as it is evident from the v. 977 and 979, but are these servants that sing the vv. 1034-51? And if it so, they are on the scene from the beginnig? and what about its role in the play? The whole section of vv. 966-79 is an anapestic song that sounds like a ‘second begin122

ning’ of the last part of the play, that can be connected (for thematical and linguistics echoes) with the real beginning of this one. From the evidences that can be drawn from the role of this anapestic section, from the analysis of the entrances and exits in the drama and from the sense of the text, we can reasonably suggest that who sings with the Danaids in this final were the Argive soldiers. If so, this final would open a new dramatic conflict between the Supplices’ ostinate attitude and the new reality in wich they are involved: the Argive soldiers represent the city in wich the Danaids and his father will be received as metoikoi (vv. 954-65) and the new istances that the girls should respect being a part of this one, like, for example, accept the Aphrodite’s rules: the marriage is the maiden’s aim in a city (vv. 1050-1), tell the soldiers. The Danaids, instead, are completely closed to this arguments, they still pray Zeus, like in the beginning, in an excessive way. KEYWORDS: final of The Supplices - Suppl. 1034-51 - Argive soldiers’ semichorus

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͖dzǷǨǴDzǵǹǟǷǬǵ: PERSUASIONE E RETICENZA IN AESCH. AG. 276 Il v. 276 dell’Agamennone non presenta problemi di carattere testuale: a conclusione della lunga sezione lirica iniziale, il Coro dialoga con Clitemestra, e chiede informazioni circa i sacrifici previsti in città. La regina annuncia la notizia della presa di Troia: si innesta un serrato scambio di battute, in cui alla reticenza iniziale di Clitemestra corrisponde un certo scetticismo del Coro, le cui domande si fanno sempre più pressanti, giungendo quasi allo scherno. È a questo punto che si pone il v. 276: ͊ǮǮϲͬǶϲ͚dzǢǤǰǠǰǷǬǵ͎dzǷǨǴDzǵǹǟǷǬǵ; ‘ti ingrassò forse una voce ͎dzǷǨǴDzǵ?’. La domanda picca l’orgoglio della regina (già risentita per il v. 274), la quale risponde con sprezzo, dichiarando di sentirsi offesa (v. 277 dzǤǬǧβǵǰǠǤǵ ΡǵǭǟǴǷϲ͚ǯǼǯǡǶǼǹǴǠǰǤǵ), ma le domande del Coro, preso dal desiderio di avere prove evidenti della notizia, si fanno stringenti, e solo a seguito di tre ulteriori battute Clitemestra espone il complesso sistema di segnalazioni luminose da lei architettato. Il punto di maggiore problematicità del passo risiede nell’interpretazione del nesso ͎dzǷǨǴDzǵ ǹǟǷǬǵ e nel significato da attribuire all’aggettivo ͎dzǷǨǴDzǵ. Gli scolii forniscono un primo dato: uno scolio vetus di M spiega l’attributo con ͶǶǿ dzǷǨǴDzǵ, ǭDzȀǹǪ, (sch. M 276a) e interpreta l’͊- come prefisso intensivo, introducendo l’idea che all’aggettivo corrisponda la caratteristica della velocità (ma anche della leggerezza/vacuità). Un secondo scolio antico ribadisce il dato della velocità, ma l’͊- è interpretato come prefisso negativo: la spiegazione fornita risulta più elaborata, e comunque in linea con il significato di ‘veloce’ (sch. vet. 276c ͎dzǷǨǴDzǵȄǟǷǬǵ]͎ͧǰǨǸdzǷǨǴЛǰǷǤǺǨЃǤǹǡǯǪ). Il problematico passo eschileo è stato letto, già presso le fonti lessicografiche1, alla luce di quattro occorrenze omeriche (Od. 17.57; 19.29; 21.386; 22.398), dove una parola molto vicina alla ǹǟǷǬǵeschilea (ǯАǫDzǵ) è accostata all’aggettivo ͎dzǷǨǴDzǵ. In questi passi, di fronte ad un ordine impartito da un personaggio di sesso maschile, Penelope (nel primo caso) e Euriclea (nei restanti tre) obbediscono puntualemente, senza replica. La formula, sempre identica, che suggella la conclusione del dialogo tra i due interlocutori, è Ρǵ͎ǴХ͚ǹȁǰǪǶǨǰ ǷϹǧϲ͎dzǷǨǴDzǵ͞dzǮǨǷDzǯАǫDzǵ. È interessante leggere lo scolio a Od. 17.57 D.: ͪ ǷDzǬͶǶǿdzǷǨǴDzǵǷǤǺȀǵV.ǷǤǺγǵdzǴβǵǷβdzǨǬǶǫϸǰǤǬǭǤαͶǶǿdzǷǨǴDzǵQ.ͨDzΒǭ͊ dzǠdzǷǪ·ǮǿǦDzǵ͊ǮǮƆ͚dzǠǯǨǬǰǨǯΰ͞ǺǼǰdzǷǨǴǿǰǮǠǦǨǬǧί΋ǷǬǷǤǺǠǼǵdzǴDzǶǡǭǤ ǷDzǷβǰǮǿǦDzǰǷǤǺǠǼǵͪǭDzǸǶǨǰ. Vi si rimarca in prima battuta il dato della velocità connesso all’aggettivo (lemma quasi identico allo scolio al v. 276 dell’Agamennone); essa sarebbe da mettere in relazione ad una capacità di persuasione del discorso (impiego di dzǨǢǫǼ nella diatesi passiva); viene poi aggiunta una ulteriore spiegazione, che definisce ancor di più il contesto dell’immagine: il discorso non volò, ma si posò restando senza ali. L’attributo viene interpretato Cf. Hsch.  6866 L. ͏dzǷǨǴǤͶǶǿdzǷǨǴǤǗǤǺǠǤͧǧǠǤ, cui segue  6867 L. ͎dzǷǨǴDzǵƽǤͶǹǰǢǧǬDzǵƽ dzǤǴή΍ǯǡǴЙ·dzǴDzǶǪǰǡǵͨǷǤǺȀǵ(Џ57)DžͶǶǺȀǮDzǵ͒ǦǤǯǠǯǰDzǰǬ(276)ǤͶǹǰǢǧǬDzǰ.  1

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anche sotto il profilo grammaticale, e si fornisce una spiegazione capace di conciliare il dato della velocità con quello dell’assenza di ali, elementi a prima vista stridenti tra loro. La serietà del messaggio fa sì che esso si posi e perduri, non sia volatile, destinato cioè a mancata ricezione. Nell’analisi delle quattro occorrenze omeriche, la critica ha inevitabilmente posto in relazione ͎dzǷǨǴDzǵ ǯАǫDzǵ con un’altra espressione, in questo caso bene attestata in entrambi i poemi, e in quantità ben maggiore, e che, seppur con formulazione non del tutto identica, ne rappresenta la versione di segno positivo: ͞dzǨǤdzǷǨǴǿǨǰǷǤdzǴDzǶǪȀǧǤ. La formula ricorre prima di un discorso diretto e serve ad introdurre parole immediatamente pronunciate2: che ad esse si obbedisca, più o meno rapidamente, o che esse colgano o meno nel segno (ciò avviene sempre) non sembra però il dato essenziale. L’opposizione di ͞dzǨǤ dzǷǨǴǿǨǰǷǤ e di ͎dzǷǨǴDzǵ ǯАǫDzǵ potrebbe spiegarsi in questo modo: mentre nel primo caso le parole sono esplicitamente affermate, nel secondo caso la parola resta inespressa, non detta (͎dzǷǨǴDzǵ)3. Vedere in ͎dzǷǨǴDzǵ un sinonimo di velocità non sembra però pertinente nei passi omerici, dal momento che essa è conseguenza dell’ordine impartito, è un dato che si evince dai versi successivi, ma non rappresenta l’elemento di maggiore spicco, che risiede invece nell’interruzione del dialogo da parte dei due inter2

La formula è abbondantemente attestata in entrambi i poemi, e il suo uso ricorre in situazioni identiche. Da sottolineare due casi (Od. 13.253 e 17.591), in cui prima dell’effettiva menzione delle parole si frappongono alcuni versi. Non si tratta di una infrazione, ma della necessaria aggiunta di un particolare rilevante. Nel primo caso, Odisseo, al suo arrivo a Itaca, mente ad Athena, apparsagli in sembianza di giovane, circa la sua vera identità: i due versi rivelano che il discorso sarà menzognero; nel secondo caso, Eumeo parla sottovoce a Telemaco, in modo da non farsi sentire dai pretendenti, e ciò viene rimarcato. 3 Stanford 1936, 136-8 ha ben messo a fuoco come le due espressioni possano essere comprese all’interno di un’identica immagine metaforica, quella della parola come uccello che, se pronunciata, ‘si libera e vola’, mentre resta ingabbiata e ferma, nel caso in cui sia ͎dzǷǨǴDzǵ («͞dzǨǤ dzǷǨǴǿǨǰǷǤare freed, spoken words, ͎dzǷǨǴDzǵǯАǫDzǵ is evidently the anthesis, unspoken repressed speech»). Si pone sulla stessa linea interpretativa van der Valk 1955, il quale ha ampiamente mostrato come scolii e fonti lessicografiche abbiano interpretato il nesso secondo schemi distanti dalla mentalità arcaica. Lo studioso, enfatizzando il valore dell’͊- privativo, interpreta gli ͞dzǨǤ come entità tangibili e concrete, che resterebbero ‘unwinged’ se non pronunciate («Her words remained unwinged i. e. she does not give voice to her thoughts, she makes no comment», p. 61). In linea con tale orientamento, ma maggiormente rivolto ad una lettura che privilegi il dato della reazione emotiva dell’interlocutore all’ordine impartito, è Onians 1951, 469-70, secondo cui il discorso non volò poiché rimase chiuso nell’animo della donna. Di questo avviso anche Latacz 1968, che legge i quattro passi omerici come esempi di Schweigeformeln e in essi individua la tacita, ed emotivamente partecipata, reazione dell’interlocutore femminile all’ordine maschile. Trattandosi di un nodo interpretativo controverso, la critica non è stata ovviamente concorde nella sua lettura, che ha contemporaneamente investito l’interpretazione della formula ͞dzǨǤ dzǷǨǴǿǨǰǷǤ, i quattro passi dell’Odissea e in più di un caso anche il verso 276 dell’Agamennone. Per Thomson 1936 b, che ha messo in risalto la derivazione dell’immagine delle ali dall’arte del tiro con l’arco (ripreso da Durante 1958), ͎dzǷǨǴDzǵǯАǫDzǵ è un discorso che non viene percepito correttamente dall’interlocutore, ignaro delle reali motivazioni dell’ordine impartito. Puntano invece sull’interpretazione degli scolii e traducono l’attributo come ‘veloce’ anche Yorke 1936, Thomson 1936 a, Mazon 1950, Hainsworth 1960.

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locutori, e nel tacito assenso (da parte del personaggio di sesso femminile) all’ordine ricevuto4. Nell’espressione di segno positivo alle ali viene associata l’idea dell’espressione del pensiero; ad ͎dzǷǨǴDzǵǯАǫDzǵ, di contro, è possibile connettere un’assenza di espressione, un pensiero non detto, qualunque esso sia, e un attenersi alla volontà dell’altro5. Se interpretato in questo modo, il nesso omerico può fornire valido supporto per la decifrazione dell’espressione eschilea, che con tutta probabilità ne è influenzata, e rendere omogeneo il quadro delle occorrenze di ͎dzǷǨǴDzǵin tragedia. L’aggettivo ricorre in un piccolo numero di casi in Eschilo, sempre nel significato proprio di ‘senza ali’: in Eum. 51-2, in opposizione all’aspetto fisico delle Arpie, le Erinni vengono definite ͎dzǷǨǴDzǢǦǨǯΰǰͶǧǨЃǰ / ǤΙǷǤǬ; al v. 250 le stesse Erinni affermano di aver inseguito Oreste in maniera serrata e convulsa in ogni angolo di mondo, anche con ‘voli privi d’ali’ (249-51 ǺǫDzǰβǵ ǦήǴ dzϪǵ dzǨdzDzǢ ǯǤǰǷǤǬǷǿdzDzǵ / ΓdzǠǴǷǨdzǿǰǷDzǰ͊dzǷǠǴDzǬǵdzDzǷǡǯǤǶǬǰ / ͬǮǫDzǰǧǬȁǭDzǸǶϲDzΒǧίǰ ΓǶǷǠǴǤǰǨȁǵ)6. A questi due passi si aggiungono il fr. 312 R., dove è possibile individuare un uso dell’aggettivo con l’identica accezione di ‘sprovvisto di ali’ (Ǥͷǧϲ͟dzǷϲ͖ǷǮǤǰǷDzǵdzǤЃǧǨǵΞǰDzǯǤǶǯǠǰǤǬ/ dzǤǷǴβǵǯǠǦǬǶǷDzǰ͐ǫǮDzǰDzΒǴǤǰDz ǶǷǨǦϸ / ǭǮǤǢǨǶǭDzǰ ͞ǰǫǤ ǰǸǭǷǠǴǼǰ ȄǤǰǷǤǶǯǟǷǼǰ / ͞ǺDzǸǶǬ ǯDzǴȄήǵ ͎dzǷǨǴDzǬ dzǨǮǨǬǟǧǨǵ) e il fr. inc. 451p 59 R., dove, seppur in contesto fortemente danneggiato, si riesce a individuare la menzione ad una belva-mostro senza ali (v. 17 ͊ dzǷǠǴDzǸǧǟǭDzǸǵ). 4

Nei primi due casi omerici, la volontà di Telemaco è di segno diverso rispetto a quella di Penelope e di Euriclea. Ciononostante, di fronte alla volontà maschile entrambi i personaggi si attengono ad essa, senza aggiungere nulla. 5 A sostegno dell’interpretazione del nesso ͎dzǷǨǴDzǵǯАǫDzǵcome ‘veloce’ alcuni critici hanno osservato che esistono nei poemi omerici altri casi in cui alla esplicita espressione di una volontà da parte del parlante viene aggiunto il plauso dell’interlocutore. L’impiego di ǯАǫDzǵ in queste occorrenze allude non al pensiero di chi plaude, ma a quello di chi esprime la propria volontà (Il. 5.493, 12.80, 13.748; Od. 13.16, 16.406, 18.50, 18.290, 20.247, 21.143 e 269). C’è però da notare che i casi in questione, seppur simili, differiscono per alcuni aspetti dai passi omerici in esame: il verbo impiegato non è mai ǹǼǰǠǼ, ma ǹǪǯǢ; il dialogo si svolge tra personaggi di sesso maschile; vi è esplicita menzione dei loro nomi; si dichiara apertamente che il discorso ricevette il consenso dell’interlocutore, che obbedì (nel caso delle quattro occorrenze dell’Odissea, invece, non si fa accenno all’approvazione del discorso, ma se ne registra esclusivamente l’immediata esecuzione). Facendo una rapida analisi delle occorrenze di ǹǼǰǠǼ così come esso viene impiegato nel primo emistichio dei quattro passi in cui figura ͎dzǷǨǴDzǵ, è invece possibile trovare dei casi in cui alla volontà manifestata dal parlante segua l’assenso degli interlocutori, espresso nello stesso verso, con l’impiego, per di più, del pronome in posizione enfatica, così come accade per il ǷϹ delle occorrenze in esame. L’espressione ricorre identica in Il. 12.251, 13.833, Od. 2.413, 8.104 (Ρǵ͎ǴǤǹǼǰǡǶǤǵͧǦǡǶǤǷDzǷDzαǧϲ͏ǯϲ͟dzDzǰǷDz $GHVVDVLSX³DJJLXQJHUHDQFKHLOFDVR di Il. 18.65-66 (Ρǵ ͎ǴǤ ǹǼǰǡǶǤǶǤ ǮǢdzǨ ǶdzǠDzǵƽ Ǥ͹ ǧί Ƕγǰ ǤΒǷϹ / ǧǤǭǴǸǿǨǶǶǤǬ ͺǶǤǰ) e Od. 10.229 (Ρǵ ͎ǴƆ ͚ǹȁǰǪǶǨǰ ǷDzα ǧϲ ͚ǹǫǠǦǦDzǰǷDz ǭǤǮǨАǰǷǨǵ). Bisogna inoltre sottolineare che il verbo che con maggiore frequenza ricorre in associazione alla formula ͞dzǨǤdzǷǨǴǿǨǰǷǤè proprio ǹǼǰǠǼ. 6 In questo caso la spiegazione dello scolio è inequivocabile. Cf. schol. M 250 ]΋ǷǬ ǯΰdzǷǨǴǼǷήǵǨͶǶǡǦǤǦǨǰǤΒǷǟǵ

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In Euripide il termine ricorre in contesti ancor più netti: in HF 1039-41, il vecchio Anfitrione incede verso i figlioletti di Eracle, definiti ‘covata senza ali’ (·ǧϲ ΣǵΊǴǰǬǵ͎dzǷǨǴDzǰǭǤǷǤǶǷǠǰǼǰ / ΞǧЃǰǤ ǷǠǭǰǼǰdzǴǠǶǥǸǵΓǶǷǠǴЙ dzDzǧα/ dzǬǭǴήǰǧǬȁǭǼǰͪǮǸǶǬǰdzǟǴǨǶǫϲ΋ǧǨ); in IT 1094-5 il coro paragona la propria condizione disperata a quella dell’alcione, dicendo ͚ǦȁǶDzǬdzǤǴǤǥǟǮǮDzǯǤǬǫǴǡ ǰDzǸǵ͎dzǷǨǴDzǵΊǴǰǬǵ Le sei occorrenze tragiche delineano un quadro d’uso coerente, al cui interno resterebbe isolato solo il v. 276 dell’Agamennone, per il quale, stando agli scolii e a buona parte della critica, bisognerebbe ipotizzare una differente interpretazione grammaticale (non ͊- privativo, ma intensivo) e un differente significato7. Esistono altri casi di composti di dzǷǨǴ in Eschilo, e nella loro decifrazione è sempre possibile rintracciare l’immagine delle ali, che, invece, appare appannata nell’interpretazione figurata fornita dalle fonti scoliastiche8. La critica, in ragione anche della complessa filiazione dell’espressione dalla formula omerica, ha oscillato tra posizioni tendenti a ricostruire la cornice metaforica, più che a sciogliere in forma risolutiva il difficile nesso9 e tentativi di interpretazione che hanno puntato, e enfatizzato, l’idea della velocità10, della vacuità del messaggio11o della stessa percezione della notizia da parte della regina12. Più che risolvere, tali tentativi lasciano però aperti molti punti problematici

Dall’analisi dell’uso eschileo dei composti con ͊- privativo non emerge, però, nessun altro caso di oscillazione di impiego: le variazioni di significato possono dipendere dalla somiglianza della radice verbale, cui l’alfa si lega (è il caso di ͎dzǨǬǴDzǵ, ad esempio). 8 All’interno di questo quadro, è interessante citare il caso di Ch. 603 (ͺǶǷǼǧϲ΋ǶǷǬǵDzΒǺΓdzǿ dzǷǨǴDzǵǹǴDzǰǷǢǶǬǰ), e lo scolio al passo (sch. M 602b DzΒǺΓdzǿdzǷǨǴDzǵ]·ǯΰǭDzАǹDzǵ͊ǮǮϲ͊ǮǪ ǫЛǵǯǤǫǨЃǰǫǠǮǼǰ); anche qui la radice - è chiosata con un aggettivo indicante leggerezza, e l’attributo assume un significato figurato. 9 Di questo avviso Fraenkel 1962 II 152-3, il quale dedica un’ampia nota al verso. Pur privilegiando l’ipotesi della velocità («swift-sped rumour»), egli afferma anche che «it is probably impossible to say with certainty what the poet here meant». Sollevano dubbi sulla possibilità di sciogliere il nodo interpretativo anche Denniston-Page 1957, 94. 10 Su questa linea Ahrens 1860, 481-4 e Headlam-Thomson 1966, 28-9. 11 Hermann 1859 II 390 punta sulla somiglianza del messaggio con l’immagine di un uccello ancora implume; si tratta di una notizia priva di spessore, dunque poco credibile («Nam ͎dzǷǨǴDzǵ ǹǟǷǬǵ est rumor immaturus, cui nondum fides habenda, comparatione ab avibus petita, quibus nondum ad volatum pennis firmatae sunt alae»). 12 Alla linea che attribuisce alla ricezione della notizia una reazione di piacere e contentezza, sulla scorta della testimonianza presente in EM 133.26-30 G. (ǗǤǺγǵdzǴβǵǷβdzǨǬǶǫϸǰǤǬǭǤαͶǶǿ dzǷǨǴDzǵРNjǦήǴǤǶǷǠǴǪǶǬǵǧǪǮDzЃǭǤαǷβ΋ǯDzǬDzǰǭǤαǷβͼǶDzǰƽDzͽDzǰ͊ǷǟǮǤǰǷDzǵ͎ǮDzǺDzǵϾljǰǬDzǬ ǧǠDzΒdzǤǴǤdzǷǟǵ͊ǮǮƆ͞ǯǯDzǰDzǵϾljǰǬDzǬǧǠ͎dzǷǨǴDzǰǷβͧǧȀ͎ǶǯǨǰDzǰΆǴǫǿǰ , e che ha incontrato i favori di Wilamowitz 1886, 112 n. 6 e Schuursma 1932, 106, si affiancano le posizioni di quanti, sotto l’influsso dei passi omerici, vedono nell’espressione o la manifestazione del possibile errore di ricezione cui si espone Clitemestra nella decifrazione del messaggio, poiché persuasa da una diceria senza fondamento (Thomson 1936 b; Sideras 1971, 174-5) o una ostentazione della parola, sfrontata, se messa a confronto con la tacita obbedienza delle donne omeriche, da parte di Clitemestra, la quale invece avrebbe dovuto riflettere maggiormente sulle sue esternazioni (Judet de La Combe 2001, 108-16). 7

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e forzature, primo fra tutti quello di conciliare il compatto numero di occorrenze dell’attributo con questo uso figurato e assolutamente singolare. È pur vero che l’impiego di ͎dzǷǨǴDzǵin accezione figurata è rintracciabile sia in Omero sia in Eschilo, ma tale uso non sembra oscurare del tutto il significato della radice presente nell’attributo. La spiegazione offerta dagli scolii, seppur indirizzata a semplificare la difficoltà del testo, mostra che il dato dell’assenza di ali era presente anche nelle coscienze degli antichi commentatori (cf. schol. Od. 17.57 D. e schol. vet. T in Ag. 276). C’è da registrare un dato ulteriore: nella letteratura successiva ͎dzǷǨǴDzǵ continua ad essere usato con una certa frequenza e nel significato, reale, di ‘senza ali’13, ma, parallelamente, ad esso si ricorre sempre più spesso e lo si impiega con il significato di ‘veloce’. Quest’ultima accezione si fissa a tal punto che, in età tarda, si giunge alla creazione di un nesso stabile, ͊dzǷǠǴЙ ǷǟǺǨǬ, usato per indicare grande velocità, anche in relazione alla diffusione di una notizia o al diffondersi della fama14. L’impiego dell’attributo presso gli autori tardi getta luce sulle modalità secondo cui il v. 276 dell’Agamennone è stato tradizionalmente spiegato, ma non risolve il problema del suo significato. A mio avviso, nel passo non è la velocità che Eschilo vuole mettere in evidenza, ma le condizioni di ricezione del messaggio e la credibilità del parlante. Il Coro chiederà informazioni esplicite circa la velocità di arrivo della notizia solo a partire dal v. 280 (ǭǤαǷǢǵǷβǧϲ͚DZǢǭDzǬǷϲ͌ǰ ͊ǦǦǠǮǼǰǷǟǺDzǵ); al v. 276, ad essere messo in discussione è il messaggio stesso, che, stando alle parole dei vecchi Argivi, potrebbe rappresentare anche solo un semplice abbaglio (e Clitemestra si è espressa in termini molto ondivaghi). Data l’incredibilità della notizia, il Coro desidera delle prove, vuole essere persuaso attraverso segni o parole credibili (dzǬǶǷǿǰeǷǠǭǯǤǴ,Y272), ma Clitemestra si sottrae, e parlerà apertamente solo a partire dal v. 281. Tuttavia, i due lunghi discorsi placano solo provvisoriamente gli animi del Coro15, che, al rientro in casa della regina, viene assalito nuovamente dal dubbio circa la credibilità di quanto udito. Nei vv. 476 ss., a conclusione dello stasimo, si ritorna sulle note di diffidenza con cui si era aperto il primo scambio di battute; anzi, è possibile rintracciare una fitta serie di rimandi, nella dizione e nei contenuti, alle accuse con cui i Tra le tante occorrenze, si vedano Pl. Phdr. 256 D ͚ǰǧίǷϹǷǨǮǨǸǷϹ͎dzǷǨǴDzǬǯίǰΟǴǯǪǭǿǷǨǵ ǧί dzǷǨǴDzАǶǫǤǬ ͚ǭǥǤǢǰDzǸǶǬ ǷDzА ǶȁǯǤǷDzǵ oppure Arist. HA 523 b 19-21 ǭǤα ǷǤΒǷβ ǧί ǦǠǰDzǵ ǤΒǷЛǰ͚ǶǷǬǭǤαdzǷǨǴǼǷβǰǭǤα͎dzǷǨǴDzǰDzͽDzǰǯȀǴǯǪǭǠǵǨͶǶǬǭǤαdzǷǨǴǼǷDzαǭǤα͎dzǷǨǴDzǬǭǤαǤͷ ǭǤǮDzȀǯǨǰǤǬdzǸǦDzǮǤǯdzǢǧǨǵ 14 Cf. Poll. 188.5-6 (152) BetheǷǤǺǠǼǵǧǬǟǷǤǺǠǼǰ΋ǷǬǷǟǺǬǶǷǤΟǵǷǟǺǬǶǷǤΟǵǨͼǺǨǷǟǺDzǸǵ ͚ǰǷǟǺǨǬ͊dzǷǠǴЙǷǟǺǨǬ; in relazione alla velocità della fama, cf. Leo Diac. PG 117.733 A Ƿϸǵ DzΘǰǹǡǯǪǵ͊dzǷǠǴЙǷǟǺǨǬǨͶǵǷήǵ͊ǭDzήǵǷDzАͷǨǴǤǴǺDzАǰǷDzǵǔDzǮǸǨȀǭǷDzǸ͚ǰǪǺǪǫǨǢǶǪǵHGeorg. Pach. Hist. 6.32.18-20 Failler ͧ ǷDzȀǷǼǰ ǦDzАǰ ǹǡǯǪ ͊dzǷǠǴЙ ǷǟǺǨǬ ǯǠǺǴǬ ǧΰ ǭǤα ǥǤǶǬǮǬǭЛǰ ͊ǭDzЛǰǹǫǟǰǨǬNella sua edizione dei frammenti di Eschilo, Nauck inseriva tra gli incerti il fr. 429 (= TrGF 2, fr. Adesp. 429 K.-S.) ͎dzǷǠǴЙǷǟǺǨǬLQGLFDQGRFKHLOQHVVR©LPSLHJDWRHGLIIXVR SURSULRSUHVVRJOLDXWRULWDUGL 15 Il secondo discorso di Clitemestra sembra infatti aver convinto il Coro, che si dichiara persuaso dalle parole della regina (vv. 351-3 ǦȀǰǤǬ ǭǤǷϲ ͎ǰǧǴǤ ǶȁǹǴDzǰϲ ǨΒǹǴǿǰǼǵ ǮǠǦǨǬǵ / ͚Ǧδ ǧϲ ͊ǭDzȀǶǤǵdzǬǶǷǟǶDzǸǷǨǭǯǡǴǬǤ/ǫǨDzγǵdzǴDzǶǨǬdzǨЃǰǨΘdzǤǴǤǶǭǨǸǟǩDzǯǤǬ). 13

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vecchi Argivi avevano provocato la reazione di stizza di Clitemestra, spingendola a portare prove certe16. L’intero episodio si avvia, e ruota, attorno alla ricerca di fonti credibili, che la regina non offre, e che anzi sul principio stenta a fornire. All’interno di questo quadro, quello che a mio avviso va enfatizzato, anche per Ag. 276, è la vicinanza con i passi dell’Odissea, dove il discorso, qualunque esso sia, non è detto, non viene espresso. Nel caso dell’Agamennone, la situazione è per di più rovesciata: mentre nel testo omerico un personaggio maschile impartisce l’ordine, e quello femminile tace e obbedisce, nell’Agamennone Clitemestra ha impartito un ordine (fare sacrifici) e, di fronte alle pressanti domande del Coro (maschile) sembra quasi sottrarsi, mostrandosi reticente. L’espressione ǹǟǷǬǵ͎dzǷǨǴDzǵè per di più fortemente ossimorica: in Eschilo, l’impiego di ǹǟǷǬǵ ricorre in contesti in cui la voce o la notizia sono diffuse e conosciute, anzi, caratteristica peculiare è quella di essere aperte e/o già note17. Clitemestra, invece, si vanta di una notizia di cui sta centellinando i particolari, una ǹǟǷǬǵ che, seppur nei suoi contorni di massima, è, all’altezza del v. 276, ancora senza ali perché ‘non detta/taciuta’. La risposta piccata del v. 277 risponde alla curiosità del Coro, che si lamenta, appunto, di essere stato lusingato con un annuncio che dzǠǹǨǸǦǨ […] ͚DZ ͊dzǬǶǷǢǤǵ (v. 268) ma di non possederne ancora particolari certi. Solo a partire da domande più stringenti la ǹǟǷǬǵ diventerà aperta ed espressa: prima, Clitemestra ha alzato la posta, ha concentrato su di sé l’attenzione del coro, accrescendone la curiosità. È forse eccessivo leggere nell’espressione (come fa Latacz 1968, 45 ss.) un ironico (e ancora inconsapevole) riferimento al fatto che la ǹǟǷǬǵ sia effettivamente giunta senza ali ad Argo, poiché trasmessa in forma di segnale luminoso. L’osservazione è però molto acuta18, e si concilia con l’idea di una notizia non

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Il dato della notizia FKH non vola ma corre e si diffonde per la città (vv. dzǿǮǬǰǧǬǡǭǨǬ ǫDzǟ ǥǟDZǬǵ) diventa un nodo problematico data la possibilità che si tratti semplicemente di un inganno del dio (v. 478 ǫǨЃDzǰ[…]ǻȀǫDzǵ) o sia il frutto di una capacità di giudizio immatura o addirittura dello sconvolgimento delle ǹǴǠǰǨǵ (v. 479 dzǤǬǧǰβǵͨǹǴǨǰЛǰǭǨǭDzǯǯǠǰDzǵ). Il Coro torna sui suoi passi: benché Clitemestra sia stata apprezzata in quanto dotata di pensiero maschile e assennato, è pur sempre una donna, e la fama diffusa dalle donne è tanto rapida quanto caduca, nonché eccessivamente propensa alla persuasione (vv. 485-7 dzǬǫǤǰβǵ͎ǦǤǰ·ǫϸǮǸǵ΋ǴDzǵ͚dzǬǰǠ ǯǨǷǤǬǷǤǺȀdzDzǴDzǵƽ͊ǮǮήǷǤǺȀǯDzǴDzǰǦǸǰǤǬǭDzǦǡǴǸǷDzǰΊǮǮǸǷǤǬǭǮǠDzǵ). 17 Cf. Suppl. 293, Ag. 9, 631, 866-8 e 1132-3, Ch. 736, e 839. Tra questi, il più interessante è sicuramente il caso di Ag. 631: il Coro chiede notizia (ǹǟǷǬǵ) all’araldo circa la sorte di Menelao (vv. 630-1 dzǿǷǨǴǤǦήǴǤΒǷDzАǩЛǰǷDzǵͨǷǨǫǰǪǭǿǷDzǵ/ǹǟǷǬǵdzǴβǵ͎ǮǮǼǰǰǤǸǷǢǮǼǰ͚ǭǮϷǩǨǷDz), ma il messaggero si sottrae, affermando che nessuno è in grado di darne chiaro annuncio (ǷDz ǴЛǵ), fatta eccezione per il Sole, che tutto vede (vv. 632-3 DzΒǭDzͼǧǨǰDzΒǧǨαǵΣǶǷϲ͊dzǤǦǦǨЃǮǤǬ ǷDzǴЛǵ/dzǮΰǰǷDzАǷǴǠǹDzǰǷDzǵͯǮǢDzǸǺǫDzǰβǵǹȀǶǬǰ). 18 Anche per Latacz il prefisso di ͎dzǷǨǴDzǵ è da intendersi come privativo. L’interpretazione dello studioso, suggestiva e corredata da un ricco apparato di fonti, mette bene a fuoco lo sfondo psicologico della schermaglia che si innesta tra Clitemestra e il Coro. Uno dei punti di maggiore frizione, verbale ed emotiva, del dialogo coincide appunto con il v. 276, dove Clitemestra viene rimproverata di dar credito ad un messaggio ‘muto’ («Ah! So hat dich eine stumme Botschaft wohl so aufgebläht?», p. 43).

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ancora chiaramente rivelata da Clitemestra, dunque ben lontana dall’aver rassicurato i vecchi Argivi. Prima dell’ingresso dell’araldo, il Coro auspica di conoscere presto se le segnalazioni luminose siano autentiche (v. 491 ͊ǮǪǫǨЃǵ) o se esse corrispondano semplicemente a visioni ingannevoli (vv. 491-2, ΆǰǨǬǴǟǷǼǰǧǢǭǪǰ/ǷǨǴdzǰβǰǷǿ ǧϲ͚ǮǫβǰǹЛǵ͚ǹǡǮǼǶǨǰǹǴǠǰǤǵ). Al suo arrivo, i vecchi esultano, perché l’uomo potrà finalmente rivelare la realtà con discorsi (v. 498 ǮǠǦǼǰ), non con segni privi di voce (v. 496 ͎ǰǤǸǧDzǵ). Il riferimento ad una ricezione del messaggio muto si riallaccia all’annuncio reticente di Clitemestra (͎ǰǤǸǧDzǵ/͎dzǷǨǴDzǵ): in entrambi i casi, il Coro vuole enfatizzare la mancanza di dati credibili: solo un discorso aperto, espresso e supportato da fatti potrà rassicurarli e convincerli19. Pisa

Antonella Candio

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Ahrens 1860 H.L. Ahrens, Studien zum Agamemnon des Aeschylus, Philologus Supp. Bd. I (1860) 213-304, 477-534, 535-640. Denniston-Page 1957 J.D. Denniston - D.L. Page, Aeschylus. Agamemnon, Oxford 1957. Durante 1958 M. Durante, EPEA PTEROENTA. La parola come «cammino» in immagini greche e vediche, RAL s. 8, 13 (1958) 3-14. Fraenkel 1962 E. Fraenkel, Aeschylus. Agamemnon, I-III, repr. with corrections, Oxford 19622 (1950). Hainsworth 1960 J.B. Hainsworth, ͖dzǷǨǴDzǵǯАǫDzǵ: a concealed false division?, Glotta 38 (1960) 263-8.

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A conclusione del discorso dell’Araldo, sarà Clitemestra a fare nuovo riferimento alla notizia, esultandone, ma ricordando anche come la rivelazione del messaggio le abbia attirato biasimo e critiche presso i cittadini. Nel riferire tali accuse, è interessante notare la ripresa di alcuni particolari precedentemente espressi (vv. 590-3), quali la tendenza, tutta femminile (v. 592 ͬ ǭǟǴǷǤ dzǴβǵ ǦǸǰǤǬǭβǵ ǤͺǴǨǶǫǤǬ ǭǠǤǴ), a lasciarsi persuadere (591 dzǨǬǶǫǨЃǶǤ con troppa facilità. In relazione al tema della fama intesa come fonte di eccessiva vanagloria, soprattutto se associata ad un animo volubile e tendente a lasciarsi persuadere con velocità, è interessante segnalare una originale convergenza tra il passo dell’Agamennone e una breve sezione dei Sacra Parallela di Giovanni Damasceno, dedicata, per l’appunto, alla fama (ǔǨǴα ǹǡǯǪǵƽ ǭǤα ΋ǷǬ DzΒ ǧǨЃ ͛ǭǟǶǷЙ dzǬ ǶǷǨȀǨǬǰ). Pur trattandosi di un’opera a carattere antologico, improntata alla raccolta di detti e sentenze celebri tratti dalle Sacre Scritture, la stretta vicinanza, anche lessicale, con il testo eschileo appare molto significativa (PG 96.400 B: «ǙǡǯǪ͊ǦǤǫΰdzǬǤǢǰǨǬΆǶǷϪ» / «΍ǷǤǺγ͚ǯdzǬǶǷǨȀǼǰ ǭDzАǹDzǵ ǭǤǴǧǢǤǵ» / «͒ǦǤdzǪǷDzǢ ǯΰ dzǤǰǷα dzǰǨȀǯǤǷǬ dzǬǶǷǨȀǨǷǨ» / «ǓͼǧǨǰ dzDzǮǮǟǭǬǵ ǭǤα ǹǡǯǪ ǭǤǫǨǮǨЃǰǭǤα͊ǰǤǶǷϸǶǤǬǻǸǺǡǰǭǤαǷΰǰDzΒǭDzΘǶǤǰǭǤǷǤǮȀǶǤǬ» / «ǓΒdzϪǶǬǰ͊ǰǠǧǪǰǷDzЃǵǮǠ ǦDzǸǶǢǷǨǭǤαǦǴǟǹDzǸǶǬǰ͞ǭǧDzǷǤdzǤǴǠǺǨǬǰǷήΤǷǤ» / «ǙǡǯǪǵDzΒǧίǰΞǭȀǷǨǴDzǰ»).

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Headlam-Thomson 1966 G. Thomson, The Oresteia of Aeschylus, with an introduction and commentary, in which is included the work of the late W. Headlam, new edition revised and enlarged, Amsterdam-Prague 19662 (1938). Hermann 1859 (1852) G. Hermann, Aeschyli Tragoediae, I-II, Lipsiae 18592 (1852). Judet de La Combe 2001 P. Judet de La Combe, L’Agamemnon d’Eschyle. Commentaire des dialogues, I-II, Villeneuve-d’Ascq 2001. Latacz 1968 J. Latacz, ͎dzǷǨǴDzǵǯАǫDzǵ͎dzǷǨǴDzǵǹǟǷǬǵ: ungeflügelte Worte?, Glotta 46 (1968) 2747. Mazon 1950 P. Mazon, Sur deux passages d’Eschyle et sur une formule d’Homère, REG 63 (1950) 1119. Onians 1951 R.B. Onians, The origins of european thought about the body, the mind, the soul, the world time, and fate. New Interpretations of Greek, Roman and kindred evidence also on some basic Jewish and Christian beliefs, Cambridge 1951. Schuursma 1932 I.A. Schuursma, De poetica vocabulorum abusione apud Aeschylum, Amstelodami 1932. Sideras 1971 A. Sideras, Aeschylus Homericus. Untersuchungen zu den Homerismen der aeschyleischen Sprache, Göttingen 1971. Stanford 1936 W.B. Stanford, Greek Metaphor. Studies in Theory and Practise, Oxford 1936. Thomson 1936 a G. Thomson, Notes on the ‘Oresteia’, CQ 30 (1936) 105-15. Thomson 1936 b J.A.K. Thomson, Winged Words, CQ 30 (1936) 1-3. van der Valk 1966 M.H.A.L.H. van der Valk, The formulaic character of homeric poetry and the relation between the ‘Iliad’ and the ‘Odyssey’, AC 35 (1966) 5-70. Wilamowitz 1886 U. von Wilamowitz-Moellendorff, Isyllos von Epidauros, Berlin 1886. Yorke 1936 E.C. Yorke, The meaning of ͎dzǷǨǴDzǵ, CQ 30 (1936) 151-2. ABSTRACT This paper re-examines the traditional and modern interpretations of the difficult expression ͎dzǷǨǴDzǵǹǟǷǬǵ at Aesch. Ag. 276 and proposes a new reading based on the comparison with the Homeric phrase Ρǵ͎ǴХ͚ǹȁǰǪǶǨǰǷϹǧϲ͎dzǷǨǴDzǵ͞dzǮǨǷDzǯАǫDzǵ. The request of the Chorypheus for a proof of the fall of Troy and the initial reticence of 132

Clytemnestra suggest the interpretation of ǹǟǷǬǵ͎dzǷǨǴDzǵ as ‘message unspoken, not yet revealed’. KEYWORDS: first stasimon - ‘unwinged words’ - message unspoken

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AESCHYLUS CORRECTUS? METRICA E TESTO IN DUE VERSI DELL’AGAMENNONE

(1117/1128, 1143/1153)

I decenni tra la fine del diciottesimo e la metà del diciannovesimo secolo rappresentano una fase decisiva nella storia editoriale dei testi tragici. La nascita di una nuova scienza metrica, che prende forma negli studi di personaggi del calibro di R. Porson, G. Hermann, A. Seidler, A. Boeckh, pone nelle mani degli editori un potentissimo strumento diagnostico che permette di individuare corruzioni fino ad allora inavvertite e di formulare congetture capaci in molti casi di recuperare il testo originale perduto. La serrata analisi statistica dei fenomeni metrici comincia a portare alla luce tendenze e norme rispettate con regolarità dai tragici, evidenziando anomalie più o meno marcate, cui si cerca di porre rimedio con un serrato lavorio di restaturo congetturale. Negli stessi anni, il poderoso approfondimento delle conoscenze sulla lingua tragica sviluppato, oltre che da Porson e Hermann, da P. Elmsley permette il riconoscimento di importanti canoni grammaticali e sintattici e si traduce nella formulazione di molti emendamenti che migliorano largamente i testi anche da questo punto di vista. I meriti di questi studiosi e di coloro che nei duecento anni seguenti ne hanno sviluppato la linea critica sono sotto gli occhi di chiunque scorra gli apparati critici delle tragedie conservate. Tuttavia, il processo di restauro da loro avviato non è stato immune da risvolti negativi legati a un eccesso di fiducia nelle possibilità euristiche del metodo statistico-induttivo, con conseguenze che hanno largamente condizionato l’assetto dei testi nelle edizioni dei nostri giorni, alterando in molti casi la percezione di aspetti più e meno rilevanti della dizione poetica originale. Il procedimento di progressiva regolarizzazione della lingua e della metrica tragica ha infatti portato nel tempo a modificare passo dopo passo la paradosi smussando, dettaglio dopo dettaglio, tutte le spigolosità del complesso edificio tragico e facendo perdere di vista il fatto che almeno alcune di queste potrebbero risalire all’autore. In altre parole, i testi sono stati costretti ad adeguarsi a criteri che andavano facendosi sempre più esigenti man mano che le presunte anomalie scomparivano e il materiale di confronto per i fenomeni dissonanti si faceva sempre più ristretto. È accaduto così che in alcuni passi si sia creato un testo vulgato basato su emendamenti regolarizzanti tutt’altro che sicuri che ha pervaso le edizioni diventando base certa per altri emendamenti della stessa natura e obliterando la reale consistenza del fenomeno raro presente nei manoscritti. Questo risulta particolarmente dannoso nei casi in cui la regolarizzazione si fonda su norme ricavate dall’esame statistico di un campione molto ristretto di passi, circostanza che dovrebbe suggerire una linea critica di grande prudenza. D’altro canto, la ricerca di una maggiore regolarità metrica si è spesso tradotta, soprattutto nel caso di Eschilo, in emendamenti che introducono nel testo forme linguistiche rarissime e talora mai attestate, creando una discrasia fra la libertà che si attribuisce al poe-

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ta sul piano della lingua e il rigore cui invece si sarebbe ispirata la sua sensibilità ritmica e musicale. In casi come questi, l’editore deve porsi l’obiettivo di liberare per quanto possibile possibile il testo dalla patina opaca di emendamenti superflui che lo ricopre, restituendo al lettore la percezione della ricchezza e della varietà della dizione poetica dell’autore, pur senza nasconderne gli aspetti problematici. Questo non significa assumere un atteggiamento pregiudizialmente conservativo, né attribuire al dato tramandato un’intrinseca superiorità rispetto ad altre soluzioni possibili: si tratta solo di assicurare uno spazio maggiore all’esame di possibilità espressive che i nostri testi largamente regolarizzati hanno troppo spesso cancellato senza appello. A questo argomento vorrei dedicare una breve riflessione, prendendo spunto da un passo che nelle edizioni moderne ha da molto tempo assunto una forma stabile a seguito di interventi congetturali risalenti alla fine del diciottesimo secolo la cui necessità non è non più stata messa in discussione. Si tratta di due coppie di versi dall’amebeo fra Cassandra e il Coro nell’Agamennone (vv. 1117/1128 e 1143/1153). Così suona concordemente il testo di Ag. 1117/1128 nei manoscritti M F G T1:  1117 ȄǿǰDzǸǶǷǟǶǬǵǧХ͊ǭǿǴǨǶǷDzǵǦǠǰǨǬia do

1128 ǷȀdzǷǨǬƽdzǢǷǰǨǬǧХ͚ǰȀǧǴЙǷǨȀǺǨǬ



 1117 ͊ǭǿǴǨǷDzǵ Hermann (1796) 1128 ǫǠǰǨǬpro ǷȀdzǷǨǬHermann (1852) dzǢǷǰǨǬMadzǢdzǨǬM dzǬǷǰǨЃF G T͚ǰ͚ǰȀǧǴЙBothe (1805) : ͚ǰΓǦǴМ Legrand (1778) ǭȀǷǨǬ%ORPILHOG  

 Le difficoltà individuate in questi versi sono: (a) la presenza di un docmio con la cosiddetta soluzione ‘irrazionale’ del primo anceps (il cosiddetto docmio ad attacco anapestico) a 1117b; (b) la responsione di questo raro docmio con il docmio di 1128 il cui primo anceps è invece più normalmente realizzato come breve; (c) la necessità di scandire a 1128 ͚ǰǧǴЙ; (d) la differente realizzazione del secondo anceps del docmio, breve a 1117, lungo a 11282. I due fenomeni (a) e (b) ricorrono identici nella coppia 1143a/1153a3: La giusta accentazione dzǢǷǰǨǬ a 1128 si trova in un apografo di M, il Laur. S. Marco 222, saec. XIV (Ma), che corregge la vox nihili presente in M. 2 Ometto qui di discutere l’ulteriore difficoltà sollevata da Hermann 1859 a proposito della diversa realizzazione dell’anceps del giambo, che lo aveva portato alla correzione ǫǠǰǨǬ. Gli editori hanno da tempo riconosciuto l’infondatezza di questo sospetto: rimando in proposito alla discussione del passo in Medda 2006, 180-1. 1

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1143 ͊ǭǿǴǨǶǷDzǵǥDzϪǵ do  1153 ǯǨǮDzǷǸdzǨЃǵ·ǯDzА

 Esaminiamo in sequenza i diversi aspetti del problema. Nel 1796 il giovane Gottfried Hermann, nel suo trattato d’esordio De metris poetarum Graecorum et Romanorum propose, con la concisione tipica dei suoi interventi testuali, una correzione che faceva scomparire la responsione anomala: «v. 1125 (= 1117)͊ǭǿǴǨ ǷDzǵscribendum […]. v. 1153 (= 1143) scribe ͊ǭǿǴǨǷDzǵ»4.La forma͊ǭǿǴǨǷDzǵ al v. 1143 è presente in realtà già nell’Aldina del 1518, ma è certo impossibile pensare che Francesco da Asola avesse competenze metriche tali da giustificare un intervento cosciente di questo tipo (tanto più sui docmî, dei quali all’epoca si sapeva pochissimo). La lezione è dunque concordemente e giustamente ritenuta un mero errore di stampa, non significativo dal punto di vista della definizione della paradosi5. La regolarizzazione responsiva introdotta da Hermann postula l’esistenza di una forma ͊ǭǿǴǨǷDzǵ,hapax non altrimenti documentato, che per due volte sarebbe stata banalizzata nel più comune ͊ǭǿǴǨǶǷDzǵ, causando il problema metrico. Il doppio emendamento fu accolto con favore, anche perché corroborato dal dubbio sistematico espresso pochi anni dopo da August Seidler circa l’esistenza di docmî di forma ˜6, e si trasformò presto in testo vulgato7. L’influsso dell’au3

Non prendo in considerazione il problema della seconda parte di 1143, dove i manoscritti presentano la sequenza ǹǬǮDzǢǭǷDzǬǵǷǤǮǤǢǰǤǬǵ che non corrisponde all’antistrofe. È probabile che si debba espungere ǷǤǮǤǢǰǤǬǵ, cf. Fraenkel ad l. 4 Hermann 1796, 434. È bene precisare che Hermann non considerava sospetto in sé il docmio ad ‘anacrusi bisillabica’ ( ), ma solo la responsione impura (cf. Medda 2006, 28-30). Nell’edizione postuma del 1852 Hermann attribuisce a F.H. Bothe il merito della correzione a 1117, forse lasciandosi influenzare dall’affermazione di Bothe 1831 II 103 «hoc primus edidi». Bothe però aveva fatto quella proposta nella sua edizione del 1805 (p. 726), nove anni dopo il De metris. 5 Cf. Mund-Dopchie 1984, 8-9. Non a caso nell’Aldina a 1117 ͊ǭǿǴǨǶǷDzǵ resta intatto, e così anche in Porson 1795, 192 che accoglie a 1143 ͊ǭǿǴǨǷDzǵ. 6 Cf. Seidler 1811-12, 103-8. Da allora il dibattito sull’esistenza di docmî di questa forma si è sviluppato a più riprese: rimando per questo al quadro che ne tracciavo in Medda 1993, 132 n. 75, aggiungendo, nel campo degli studiosi che li ammettono, Martinelli 1997, 269, Gentili-Lomiento 2003, 237-9 e Fileni 2004, 89-92. Ho espresso in quel lavoro le ragioni per cui ritengo che l’eliminazione sistematica per via congetturale di tutti i casi attestati, ritenuta necessaria da Barrett 1978, 434, Conomis 1964, 35-8 e Diggle 1984, 68 (cf. «ICS» 2 [1977] 123 e Diggle 1981, 54), rappresenti un procedimento troppo invasivo che si traduce in un danno per il testo dei passi. 7 Gli editori che non seguirono Hermann si contano sulla punta delle dita: Butler 1811, 66 (che suggerisce un inaccettable abbreviamento della penultima sillaba di ͊ǭǿǴǨǶǷDzǵ), Boissonade 1825, Schneider 1839, Verrall 1904. Nel Novecento poi nessuno ha difeso la paradosi, e anche i commentatori più attenti non hanno più speso parole per spiegare la ragione della congettura (Fraenkel 1962 si limita all’affermazione che ͊ǭǿǴǨǷDzǵ «is required by the metre»). La sola voce di dissenso è quella di Young 1964, 17, che tuttavia non discute in dettaglio la questione.

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torità di Hermann è stato tale che l’assetto metrico attestato nella tradizione manoscritta per questi due versi è stato sostanzialmente ‘dimenticato’ e il passo non è più stato preso in considerazione neppure negli studi più accurati che si sono occupati specificamente delle forme anomale e delle responsioni rare nei docmi8. Eppure, è legittimo nutrire più di un dubbio sull’effettiva necessità dell’intervento. La presenza del docmio ad attacco non può essere di per sé considerata un argomento contro il testo tràdito. Nonostante le voci contrarie, l’esistenza di questa sequenza è difficilmente negabile, e in Eschilo essa è documentata da Suppl. 840 dzDzǮǸǤǢǯǼǰǹǿǰǬDzǵ͊dzDzǭDzdzήǭǴǤǷǿǵ, dove l’interpretazione docmiaca è accolta sia da Friis Johansen-Whittle sia da West (l’analisi alternativa come sequenza ionica proposta da O. Schroeder appare assai meno coerente col contesto)9. Più incerte sono altre possibili attestazioni eschilee, per la presenza di corruzioni o per la possibilità di analisi alternative: Sept. 108a, 142-3, Ch. 157 e 16010. Il testo tràdito in Ag. 1117 e 1143 ne offre due nitidi esempi in un contesto affatto privo di difficoltà linguistiche. Più delicata è la questione della responsione, effettivamente molto rara (circostanza che per altro non dovrebbe stupire più di tanto a fronte di un numero di occorrenze così ridotto di docmî ad attacco ).Per essa un parallelo preciso è offerto da Soph. Ai. 350a ǯǿǰDzǬǷХ͚ǯǯǠǰDzǰ ǷǨǵ / 358a ͋ǮǢǤǰΉǵ͚dzǠǥǤǵ, che tuttavia scompare in molte delle edizioni moderne a seguito dell’intervento regolarizzante ancora di Hermann, che nello stesso trattato del 1796 eliminò la scomoda responsione scrivendo ͏ǮǬDzǰ e ipotizzando che Sofocle avesse utilizzato qui la forma a due uscite dell’aggettivo invece di quella a tre11. Per questo epiteto la forma a due uscite è documentata una volta in Eur. Her. 82 ͋ǮǢǼǬ dzǮǟǷǤǬ a fronte di sei attestazioni del femminile in -Ǥ Soph. OC 816, fr. 324 R., Eur. Hipp. 228, Andr. 108, 537, Tro. 827. Pur riconoscendo che si tratta di una corruzione possibile da una forma rara a una più comune, resta il fatto che si tratta di un intervento operato esclusivamente metri causa in un passo che non presenta difficoltà di altro genere. Hermann cancella in un sol colpo tre esempi di un fe8

Di Ag. 1117/1128 e 1143/53 non si trova menzione in Conomis 1964, 35-8, Tessier 1993, Fileni 2004. È significativo che West 1982, 111, che pure non è pregiudizialmente contrario a questo tipo di responsioni e accetta anche la corrispondenza fra  e  nel secondo anceps del docmio in Sept. 126-7/147-8 (cf. West 1998, 468: contra Hutchinson 1985, 63-4 che ritiene il passo astrofico) e in Eur. Med. 1259/1269, non fa parola in questo contesto del possibile esempio dell’Agamennone e nell’edizione corregge con Hermann senza soffermarsi sulla questione. 9 Cf. Johansen-Whittle 1980 ad l., West 1998, 481, Schroeder 1916, 12. Per l’interpretazione docmiaca del verso si veda anche Gentili-Lomiento 2003, 239. 10 Su questi difficili passi rimando alla discussione di Fileni 2004, 89. 11 Hermann 1796, 440. L’emendamento è accolto a testo da Jebb 1896, Stanford 1963, Dain 1958, Dawe 1984, Lloyd-Jones – Wilson 1990, Garvie 1998. 12 Cf. Wilkins 1993 ad l. Kastner 1967, 72 rileva che anche per il composto ǨͶǰǟǮǬDzǵ il femminile in -Dzǵ compare solo quando l’epiteto è associato al sostantivo ǭȁdzǪ. In generale sugli aggettivi che si presentano con flessione sia a due sia a tre uscite si vedano, oltre a Kastner, Kühner-Blass I 535-7, Wackernagel 1928, 49-50.

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nomeno che potrebbero sostenersi a vicenda, solo sulla base dell’idea da lui coltivata di responsione esatta nei docmî13. Un qualche disagio per l’arbitrarietà dell’emendamento fu avvertito da Seidler, che considerò la possibilità di difendere la paradosi ipotizzando la pronuncia consonantica di Ǭin ͋ǮǢǤǰ(l’idea è stata ripresa in anni più recenti daBarrett e Kapsomenos)14. Anche in questo caso si tratta di un fenomeno che trova certamente riscontro nei testi tragici, soprattutto quando si richiede di adattare al metro alcuni nomi propri (i passi relativi sono raccolti da Kapsomenos). Al di fuori di questa tipologia esso è attestato assai più di rado, e i soli esempi realmente sicuri riguardano la pronuncia del nesso ǧǬ (per Eschilo cf. Pers. 1007, 1038, Sept. 289, Suppl. 72, 799) che potrebbe essere connessa con l’uso da parte dei tragici della forma epico-elica ǩǤ per ǧǬǤ 0olto incerta è la possibilità di una pronuncia bisillabica in Aesch. Ag. 115͊ǴǦǢǤǵ(corretto da Blomfield in͊ǴǦϪǵrimando in proposito alla prudente valutazione espressa da West negli Studies in Aeschylus)16. Piuttosto malsicuri appaiono anche i paralleli per la consonantizzazione di Ǭpreceduto da Ǯ che si avrebbe in Soph.Ai. . I casi di Aesch. Sept. 176 ǹǬǮDz dzǿǮǬǨǵ, fr. 68 R. ͯǮǢDzǸ e fr. 300 R. ͫǮǬDzǵ sono tutti molto incerti dal punto di vista testuale (nei Sette la congettura di Wunderlich ǹǬǮDzdzǿǮǨǬǵè molto probabilmente giusta); quanto a Eur. IT 861 l’interpretazione metrica della sequenza ǧDzǮǢ Ǥǰ΋ǷХ͊ǦǿǯǤǰè controversa (con ǧDzǮǢǤǰbisillabico si avrebbe un docmio kaibeliano). Si tratta dunque di una soluzione che se pure non può essere esclusa, in ultima analisi sostituisce alla rarità metrica un altrettanto raro fenomeno prosodico, non meglio documentato di quello che si vuole eliminare. Per la responsione docmiaca irregolare, infatti, è possibile rintracciare almeno altri due possibili esempi nella lirica euripidea. Si tratta di El.1152a/1160aǶǺǨǷǮǢǤǷǢǯǨǦȀǰǤǬ/dzǠǮǨǭǸǰ͚ǰǺǨǴDzЃǰe Ba. 978b/998b ǫǢǤǶDzǰ͞ǰǫХ͞ǺDzǸ ǶǬǎǟǧǯDzǸǭǿǴǤǬa dzǨǴαǥǟǭǺǬХΊǴ ǦǬǤǯǤǷǴǿǵ ǷǨǶϪǵ. Anche per il passo delle Baccanti si è cercata una via d’uscita ricorrendo alla perdita di autonomia sillabica di iota (cf. supra n. 17)17; nell’ElettraLQYHFHla responsione sgradita è cancellata da un ennesimo intervento congetturale metri causa. Le soluzioni possibili non sono particolarmente attraenti. ǶǺǠǷǮǬǤGL6HLG 13

Sui limiti del trattamento hermanniano di Ai. 350 cf. Andreatta 1999, 122-4 e Medda 2006, 29. Cf. Seidler 1811-12, 15; Barrett 1978, 434; Kapsomenos 1990, 325. Cf. anche SchneidewinNauck-Radermacher 1913 e Stanford 1963 ad l. 15 Cf. l’articolata discussione di Friis Johansen-Whittle 1981, 69 (ad Suppl. 72). Per un trattamento generale del fenomeno nella poesia greca di età arcaica e classica cf. Radermacher 1912, 31-3 e 1928, 259, che rileva la molto maggior rarità della consonantizzazione quando iota è preceduto da ǰ e Ǯ. 16 West 1990, 176; cf. Blomfield 1839 ad l. In Eur. Ba. 998 (dzǨǴαǥǟǭǺǬХΊǴǦǬǤǯǤǷǴǿǵǷǨǶϪǵ) ΊǴǦǬǤ è scandito come bisillabo da Hermann 1816, 253 (così anche Barrett e Kapsomenos), ma anche in quel caso la proposta è motivata solo dalla petizione di principio contraria al docmio ad attacco anapestico in responsione con un docmio normale. Questo costituisce un punto debole della pur pregevole analisi di Kapsomenos, che dà per scontata, sulla scia di Conomis, la necessità di eliminare l’anomalia metrica preferendo quella prosodica. 17 Contro tale possibilità si esprimono Dodds 1960, 202-3 e Conomis 1964, 37 n. 1. 14

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OHU introduce un accusativo neutro duro e inopportuno18, per cui l’unica strada percorribile sembra il ricorso a ǶǺǠǷǮǬǨ di Diggle, che ripropone la possibilità di una declinazione a due uscite dell’aggettivo, banalizzatasi nella tradizione19. Ma l’idea che anche in questo caso la presenza del docmio anomalo dipenda dallo stesso tipo di corruzione che Hermann ipotizzava in Soph. Ai. 358 presuppone una coincidenza davvero strana; inoltre, in tragedia (Τ  ǶǺǨǷǮǢǤ  Τ  ǶǺǠǷǮǬǨ quando è indirizzato a persone costituisce di solito un’allocuzione in sé conclusa20, e anche in El. 1152 è probabile che ǶǺǨǷǮǢǤ debba essere considerato autonomo rispetto a ǦȀǰǤǬ ,Q TXHVWR FDVR OD IRUPD GHO YRFDWLYR LQ Ǩ risulterebbe ambigua e inopportuna. Preso atto di questa situazione, è giusto chiedersi se sia realmente un vantaggio far scomparire un fenomeno metrico raro sì, ma attestato da un minimo di tre a un massimo di cinque volte nel corpus dei tragici21, sostituendolo con congetture che, per quanto intelligenti, hanno come unico fine quello di sorreggersi l’una con l’altra. Nel caso di Eschilo il gioco potrebbe valere la candela se il testo ottenuto fosse evidentemente superiore a quello tràdito, ma anche in questa direzione restano ampi spazi di dubbio. La forma ͊ǭǿǴǨǷDzǵ postulata da Hermann in Ag. 1117 e 1143, benché etimologicamente possibile (il verbo alterna infatti il radicale ǭDzǴǨa quello in consonante ǭDzǴǨǶ-), nel caso dell’aggettivo verbale risulta del tutto isolata a fronte dell’abbondante e compatta documentazione di ͊ǭǿǴǨǶǷDzǵche in tragedia ha altre dieci attestazioni, sei delle quali eschilee: Ag. 756, 1002, 1331, 1484, Pe. 545, 999, Soph. El. 123, OC 120, Eur. Med. 638, Her. 92722. Negli autori fino al IV secolo d. C. si possono poi rintracciare una novantina di attestazioni di ͊ǭǿǴǨǶǷDzǵe ǭǤǷǤǭDzǴǡǵ, con prevalenza assoluta del tema in consonante. Il 18

Seidler 1811-12, 108: si vedano in proposito Conomis 1964, 36 e Medda 1993, 132 n. 75. Cf. Diggle 1986 (1981) 107 (e «ICS» 2 [1977] 123), che fa leva su Eur. IT 651 Τ ǶǺǠǷǮǬDzǬ dzDzǯdzǤǢ. Su questa proposta si vedano le riserve espresse da G. Basta Donzelli in «Eikasmós» 3 (1992) 115 n. 31 (che successivamente, nell’edizione dell’Elettra, Stutgardiae et Lipsiae 1995, si è però espressa in modo più favorevole all’emendamento). 20 Cf. al femminile Soph. Ant. 47, Eur. Alc. 741, Med. 873, Tro. 595; al maschile Soph. Phil. 369, 930, Eur. Alc. 824, Ba. 358. 21 Cui forse potrebbe aggiungersi la responsione analoga fra singola breve e doppia breve nel secondo anceps del docmio presente in Eur. Med. 1259b (͞DZ)ǨǮХ DzͺǭǼǰ ǹDzǰǢǤǰ ~ 1269b ǤΒ ǷDz ǹǿǰǷǤǬǵDZǸǰЙ ǧǟ (cf. sopra n. 8) eliminata di regola dagli editori con la trasposizione ǷǤǮǤǢ ǰǤǰǹDzǰǢǤǰ di Seidler 1811-12, 290-1 (Seidler considera anche qui la possibilità scandire ǹDzǰǢǤǰ come bisillabo). Quanto a Sept. 126-7/147-8, il restauro della responsione è troppo dubbio per permettere di considerare l’esempio attendibile (la questione è ridiscussa da ultimo in Lomiento 2004). 22 In Soph. El. 123 il codice A ha la variante ͊ǭǿǴǨǷDzǰ, ma si tratta certamente di un errore isolato rispetto ad ͊ǭǿǴǨǶǷDzǰ degli altri manoscritti che gli editori concordemente preferiscono (LSJ9 s.v. ͊ǭǿǴǨǷDzǵ è fuorviante da questo punto di vista: più prudente il trattamento della stessa voce nel Supplementum, dove il passo dell’Elettra scompare e viene registrata la lezione tràdita in Ag. 1117 e 1143). Non discuto qui altri arbitrari tentativi di restaurare ͊ǭǿǴǨǷDzǵ per congettura, come quello di Hermann 1796, 433 in Ag. 756 (proposta lasciata cadere in Hermann 1859) e quello di Weil 1858, 79 in Ag. 1002, recentemente ripreso in considerazione da West 1990, 208. 19

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tema in vocale risulta produttivo solo nell’epico ͊ǭǿǴǪǷDzǵ(5x Omero, 4x Esiodo, hymn. in Ven. 71, Choeril. fr. 20.4 Bernabé, A.R. 1.616) che secondo Blomfield sarebbe stata preso a modello da Eschilo per l’innovativa forma a vocale breve23. Tuttavia ͊ǭǿǴǪǷDzǵè rigorosamente limitato alla poesia esametrica e appare significativo il fatto che in Pers. 999, dove il poeta riprende direttamente il nesso formulare omerico ǯǟǺǪǵ͊ǭǿǴǪǷDzǰ/-DzǬ/-Ǽ Il. 13.639, 20.2, 12.335) e avrebbe dunque avuto l’occasione di imitare più da vicino la forma epica, la sua scelta è di scrivere ǤͶǺǯϪǵ͊ǭǿǴǨǶǷDzǰ. Qual è dunque il vantaggio di attribuire a Eschilo l’invenzione di una forma inusitata e assai poco sostenuta dalla documentazione in nostro possesso solo per non ammettere che egli potesse introdurre occasionalmente una responsione rara (sottolineata per altro dal raddoppio a breve distanza)? Quel che sappiamo dei docmî tragici è troppo poco per permetterci di valutare come una tale soluzione ritmico-musicale potesse suonare all’orecchio del poeta e dei suoi ascoltatori (per non dire del fatto che se proprio la legge metrica fosse stata così stringente Eschilo avrebbe potuto liberarsi del problema semplicemente con una diversa collocazione della parola all’interno del verso). È difficile vedere una ragione per cui un autore cui tanto si concede dal punto di vista della libertà e della sperimentazione linguistica dovrebbe invece essere costretto entro vincoli così rigorosi sul terreno della metrica che, coinvolgendo l’esecuzione musicale, era naturalmente soggetto a piccole forzature e soluzioni particolari. La mia impressione è che in un caso come questo tornare all’assetto testuale pre-hermanniano non costituisca un regresso ma un prudente riconoscimento del fatto che le nostre limitate conoscenze non ci autorizzano a ricondurre fil testo a una regolarità che forse non era affatto ricercata dall’autore. Veniamo ora alla questione relativa al fenomeno prosodico presente a 1128, che nella forma tràdita richiede la scansione ͚ǰǧǴЙ. L’assenza di correptio attica all’interno di parola è fenomeno certamente attestato nei docmî tragici: cf. Soph. Ai. 931, 955-6, Ant. 1296, Eur. HF 673, 1045, 1194, 121124. In Eschilo una possibile occorrenza si incontra in Sept. 205b ǭǮǟǦDZǤǰ͛ǮǢǷǴDzǺDzǬdove alcuni editori preferiscono ͛ǮǬǭǿǷǴDzǺDzǬ di owiski (non molto soddisfacente come senso), mentre altri, come Hutchinson e West, preferiscono un’analisi non docmiaca che rende l’allungamento ͛ǮЁǷǴ non problematic 25. Tuttavia non si vede perché un fenomeno presente negli altri due tragici e ammesso dallo stesso Eschilo per altri metri dovrebbe essere stato da lui evitato solo nei docmî; inoltre, PV 593dzǿǫǨǰ ͚ǯDzАǶγdzϦǷǴǿǵΊǰDzǯХ͊dzȀǨǬǵoffre un esempio certo che non dovrebbe essere ignorato neppure da chi consideri spurio il Prometeo, vista la vicinanza dell’opera

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Blomfield 1839, ad l. L’ipotesi è ripresa da Fraenkel 1962 ad l. Cf. Conomis 1964, 38-9, che aggiunge altri esempi meno sicuri. 25 Cf. Hutchinson 1985, ad l. (cr ibyc) e West 1998, 468 (cr dodrd). Hutchinson apporta buoni argomenti a difesa di ͛ǮǢǷǴDzǺDzǬ contro la congettura di owiski. 24

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allo stile eschileo26. In presenza di questa costellazione di dati, rispetto alla quale una regolarizzazione congetturale sistematica è evidentemente impensabile, la correzione ͚ǰȀǧǴЙǷǨȀǺǨǬdi F.H. Bothe27, benché paleograficamente plausibile, non può essere definita ‘necessaria’ dal punto di vista prosodico28. La congettura è stata tuttavia sostenuta con l’argomento che essa rimedia a una impropria costruzione del verbo dzǢdzǷǼ con il dativo, motivo che già nel 1778 aveva indotto L. Legrand alla correzione ͚ǰΓǦǴМ29. Che tale costruzione sia impossibile, però, è tutt’altro che dimostrato. Oltre a essere attestata regolarmente con sostantivi indicanti il terreno (Il. 5.82 dzǨǧǢЙdzǠǶǨ, Aesch. Ch. 48 dzǨǶǿǰǷDzǵ ǤͻǯǤǷDzǵdzǠǧЙ30, Soph. El. 747 ǷDzАǧίdzǢdzǷDzǰǷDzǵdzǠǧЙ, A.R. 2.827 DzΖǧǨǬdzǠǶǨǰ, Nonn. Dion. 1.512, 28.136, 47.125 ǺǫDzǰαdzЃdzǷǨ), infatti, essa compare anche in casi come Eum. 68 ΗdzǰЙdzǨǶDzАǶǤǬ,Soph. Ai. 759 dzǢdzǷǨǬǰǥǤǴǨǢǤǬǵdzǴβǵǫǨЛǰ ǧǸǶdzǴǤDZǢǤǬǵ, Tr. 597 ǤͶǶǺȀǰ϶dzǨǶϹ. A questi paralleli si potrebbe obiettare che si tratta di espressioni metaforiche; l’obiezione non vale però per Eur. Or. 88dzǿ ǶDzǰǺǴǿǰDzǰǧίǧǨǯǰǢDzǬǵdzǠdzǷǼǺХ΋ǧǨ(ben difeso da Di Benedetto ad l. contro ǧХ ͚ǰǧǨǯǰǢDzǬǵ di Musgrave)31, e cf. anche Aristarch. apud Ariston. Gramm. De signis Odyss. 22.84.2 Carnuth ͞dzǨǶǨǷϹǷǴǤdzǠǩ϶ (che parafrasa l’omerico ǭǟdzdzǨ ǶǨ costruito col dativo in Od. 22.84-5 dzǨǴǬǴǴǪǧΰǵǧί ǷǴǤdzǠǩ϶ |ǭǟdzdzǨǶǨ, cf. Od. 5.374 ͋Ǯα ǭǟdzdzǨǶǨ) e Nonn. Dion. 44.239 dzЃdzǷǨ ЏǨǠǫǴЙ. In generale il dativo con   esprime l’idea di ‘movimento verso’ e al tempo stesso il risultato finale dell’azione che è il giacere nel luogo indicato (il letto nel caso di Eur. Or. 88, la vasca in Ag. 1128, dove Cassandra non a caso descrive con il presente la sua visione di Agamennone che cade e resta disteso nell’acqua dopo il colpo mortale (per l’uso del presente cf. Soph. El. 747). Neppure da questo punto di vista, dunque, si può affermare che l’intervento congetturale risulti strettamente necessario. Il solo argomento su cui si può far leva è quello relativo alla facilità dell’eventuale corruzione e della relativa correzione. Ma quante frasi corrette di ogni lingua potrebbero essere ‘migliorate’ grazie a ‘facili’ emendamenti? Sulla diversa realizzazione del secondo anceps del docmio fra strofe e antistrofe (1117b ͊ǭǿǴǨǶǷDzǵ ǦǠǰǨǬ, 1128b ͚ǰȀǧǴЙ ǷǨȀǺǨǬ  che indusse Blomfield alla congetturaǭȀǷǨǬSHUǷǨȀǺǨǬ(accolta da Headlam-Thomson e registrata nell’appa26

Su questo passo si veda l’eccellente trattazione di Pattoni 1997, 60-1, che raccoglie numerosi esempi eschilei di allungamento di fronte a muta cum liquida in altri metri, osservando che «non esistono ragioni plausibili per cui Eschilo se ne dovesse astenere all’interno di docmi». 27 Bothe 1805, 374. La preposizione era già stata recuperata da Schütz 1784, 151, che tuttavia scriveva ͚ǰΓǦǴМ, lasciando intatto il problema prosodico. 28 Come giustamente rilevava Klausen 1833 ad l. (ma la correzione fu poi introdotta nella revisione del commento a cura di R. Enger, Lipsiae 1863); cf. anche Schneider 1839 ad l. Per altro, correggendo e scandendo ugualmente ͚ǰ͚ǰǧǴЙ si otterrebbe anche nell’antistrofe un docmio ad attacco  , con responsione perfetta rispetto a 1117. Ma il fatto che a 1143/1153 si ripeta il termine ͊ǭǿǴǨǶǷDzǵ con responsione   ~   induce a ritenere che lo stesso accadesse anche a 1128. 29 Legrand 1778, Schütz 1784, 151 (cf. supra n. 26). 30 La paradosi è ben difesa da Citti 2006, 32-3 contro l’inutile regolarizzazione dzǠǧDzǬ di Dindorf. 31 Di Benedetto 1965 ad l., cf. anche Willink 1989 ad l.

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rato di West)32, non c’è molto da aggiungere a quanto osservò a suo tempo K.O. Müller difendendo il testo tràdito di Eum. 157/164 ǯǨǶDzǮǤǥǨЃǭǠǰǷǴЙ/ ǹDzǰDzǮǬ ǥϸ ǫǴǿǰDzǰ contro la congettura ǫǴǿǯǥDzǰ di Wakefield ritenuta necessaria da Hermann33. Il passo delle Eumenidi e quello dell’Agamennone si difendono l’un l’altro, e Fraenkel ad l. ha aggiunto una serie di altri altri probabili esempi eschilei: Ag. 1448 ǹǨАǷǢǵ͌ǰ͚ǰǷǟǺǨǬ~ 1468 ǧǤЃǯDzǰΉǵ͚ǯdzǢdzǷǨǬǵ(͚ǯdzǢǷǰǨǬǵCanter); Eum. 171 dzǤǴή ǰǿǯǼǰ ǫǨЛǰ ~ 176 dzDzǷǬǷǴǿdzǤǬDzǵ ǧơΠǰ (Πǰ ǧơ Porson); Sept. 698b ǭǤǭβǵDzΒǭǨǭǮǡ Ƕ϶ ~ 705b dzǤǴǠ ǶǷǤǭǨǰ͚dzǨαǧǤǢǯǼǰ(è improbabile nella strofe la scansione ǭǨƖǭǮǡǶ϶). Benché alcuni di questi siano facilmente emendabili, intervenire su tutti risponde a una mera petizione di principio: il fenomeno si inquadra entro i margini di libertà responsiva ammessa dai metricisti per gli ancipitia del docmio34Ǥ  Una breve conclusione. Pur riconoscendo l’utilità della discussione che consegue alla messa in discussione della paradosi, non si può negare che gli argomenti addotti per condannarla in Ag. 1117/1128 e 1143/1153 sono lontani dall’essere stringenti. In casi come questo ritengo che l’editore debba seguire una linea prudente, evitando di inseguire il fantasma della regolarità assoluta. Il procedimento più corretto è dunque quello di stampare il testo tràdito riservando all’apparato la funzione di evidenziarne i possibili punti deboli tramite la registrazione delle congetture, accompagnate, ove lo si ritenga opportuno, da un fortasse recte che ne marchi la plausibilità. Pisa

Enrico Medda

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Blomfield 1839 ad l. (la proposta è accolta anche da Whittle 1971, 115). La paternità dell’emendamento fu rivendicata da Hermann 1839 (1835) 12 («lange vor Blomfield hatte ich ǭȀǷǨǬ corrigirt»: cf. Hermann 1859 II 458). 33 Cf. Müller 1835, 8 («wenn in Agamemnon V. 1088. 1099. ͊ǭǿǴǨǶǷDzǵ ǦǠǰǨǬ und ͚ǰ ͚ǰȀǧǴЙ ǷǨȀǺǨǬ entsprechen, so hat allerdings Blomfield für ǷǨȀǺǨǬǭȀǷǨǬin Bereitschaft, aber mit wie viel Wahrscheinlichkeit?»), in risposta a Hermann 1835 (1833) 39-40; per la congettura ǫǴǿǯǥDzǰ cf. Wakefield 1794 II 316. 34 Cf. Dale 1968, 112, West 1982, 109-10, Tessier 1993, 670-4, Martinelli 1997, 270, Gentili-Lomiento 2003, 240.

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ABSTRACT The text of Aesch. Ag. 1117/1128 and 1143/1153 printed in modern editions is the result of multiple emendations proposed two centuries ago by G. Hermann, F.H. Bothe and C.J. Blomfield in order to cancel some apparent metrical ‘anomalies’ of the transmitted text (the rare responsion between a dochmiac with ‘irrational’ first anceps   ×  and a ‘normal’ one; internal lengthening before muta cum liquida in a dochmiac; the correspondence between a short and a long in the second anceps of a dochmiac). By challenging the necessity of altering the text, the author develops a methodic reflection on the risks of systematic alteration of metrical anomalies relying on parallels based on largely regularized texts of the tragedians. KEYWORDS: Aeschylus’ Agamemnon - responsion in dochmiacs - correptio attica.



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ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǼE ǭǤǷǤǶǷǴRǹǡIN ESCHILO (AESCH. PERS. 787, SUPPL. 442, AG. 956, EUM. 490) Nell’opera di Eschilo il verbo ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǼ ricorre in Pers. 787 e in Ag. 956; il sostantivo ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ in Suppl. 442 e in Eum. 490. Le definizioni più comuni le possiamo leggere nell’Index di Italie-Radt 1964, 150: «ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǼvertere, dirigere: Pe 787 dzDzЃǭǹǨǬǵǮǿǦǼǰǷǨǮǨǸǷǡǰ – pass. subici, cogi: Ag 956 ͊ǭDzȀǨǬǰǶDzАǭǤǷǠǶǷǴǤǯǯǤǬ (ǭǤǷǠǶǷǤǯǤǬ Tr) ǷǟǧǨ. ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡeffugium: Su 442 ͎ǰǨǸǧίǮȀdzǪǵDzΒǧǤǯDzАǭ. – eversio: Eu 490 ǰАǰ ǭǤα(ǯǨǷǤǶǷǴ. Mein.) ǰǠǼǰǫǨǶǯǢǼǰ (novae leges antiquas evertunt)».

La differenza di significati sembra eccessiva, anche se si accetta che la singolarità specifica dell’uso medio-passivo in Ag. 956 renda ragionevole tradurre con ‘subici, cogi’. Ma non si vede come nel resto delle traduzioni (‘vertere, dirigere’, ‘effugium’, ‘eversio’) si possa trovare un comune denominatore semantico. In sé, le differenti interpretazioni non dovrebbero rapppresentare alcun problema a condizione che si conservi in qualche maniera il significato più normale per il verbo ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǨǬǰ: ‘cambiare, rivolgere’. Così in h. Ap. 73 dzDzǶǶαǭǤǷǤǶǷǴǠ ǻǤǵ΢ǶǨǬ͋Ǯβǵ͚ǰdzǨǮǟǦǨǶǶǬǰ, in cui Delo manifesta il suo timore che Apollo, rivolgendola con i piedi, la faccia affondare nel mare. L’idea è o che l’isola è un oggetto galleggiante che può essere girato e pertanto affondato1, o che semplicemente, per un’isola, come per qualsiasi altro oggetto che si trova nel mare, il grande pericolo è affondare; Apollo procurerebbe il naufragio di Delo e pertanto la sua ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ nella misura in cui ciò rappresenterebbe un rivolgimento del suo stato naturale2, e anche, naturalmente, la sua distruzione e la sua fine. È comprensibile, dunque, che tra i significati di ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǼ o ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǨǬǰ ci sia anche quello di ‘conclusione’. Un giro radicale in una determinata situazione è interpretabile come la fine dello stato anteriore delle cose, come un finale o conclusione che implica che ciò che vi era prima ora non esista più. Una vita che finisce, una città conquistata, un esercito sconfitto, si possono descrivere in termini di ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ, tenendo presente che si è prodotto un cambio o un rivolgimento delle cose. Ci sono anche usi tecnici. La ǮǠDZǬǵǭǤǷǨǶǷǴǤǯǯǠǰǪ (Arist. Rh. 1409a 26) è la dictio organizzata in periodi, con connessioni prevedibili tra l’inizio e la fine; è 1

Così Gemoll 1886, 118, che istituisce una relazione con Pind. fr. 33d (contra Allen-Sikes 1904, 79). 2 Gemoll 1886, 133 pensava che il senso originario di ǭǤǷǤǶǷǴǠǻǤǵ si trovasse nella pratica agricola di rivoltare la terra: «ǭǤǷǤǶǷǴǠǻǤǵ wohl ursprünglich vom Umstürzen des Ackers beim Pflügen gebraucht. Xen. Oec. 17.10». Si tratta di una spiegazione molto discutibile e indimostrabile, ma nel contesto del timore espresso da Delo – e supponendo che non sia un’isola galleggiante ma che sia radicata nel fondo del mare – risulta interessante che l’idea espressa da ǭǤǷǤ ǶǷǴǠǻǤǵ sarebbe quella di Apollo che sradica l’isola dal fondo e la fa girare, analogamente all’operazione agricola citata da Senofonte.

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opposta alla ǮǠDZǬǵǨͶǴDzǯǠǰǪ, una dictio continuata, lineare e tendenzialmente paratattica. Non è sicuro che Aristotele pensasse in modo specifico al verbo ǭǤǷǤ ǶǷǴǠǹǨǬǰ; mi sembra più probabile una relazione con ǶǷǴDzǹǡ, a partire dall’immagine delle evoluzioni circolari e ordinate dei cori. Tuttavia, anche in questo caso si mantiene il concetto del giro e, dunque, della tensione tra due estremi, in cui uno di questi passa ad occupare il luogo dell’altro3. Troviamo, inoltre, un secondo uso tecnico in una testimonianza di Antifane, che nella sua ǔDzǢǪǶǬǵ usa la parola ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ per riferirsi al finale di una commedia: ͧǯЃǰǧίǷǤАǷХDzΒǭ͞ǶǷǬǰ͊ǮǮήdzǟǰǷǤǧǨЃ/ǨΓǴǨЃǰΆǰǿǯǤǷǤǭǤǬǰǟ ǷήǧǬЙǭǪǯǠǰǤ/dzǴǿǷǨǴDzǰǷήǰАǰdzǤǴǿǰǷǤǷΰǰǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡǰ/ǷΰǰǨͶǶǥDzǮǡǰ (fr. 189 [191] 17-20 K.-A.). La definizione del finale di una commedia come ǭǤ ǷǤǶǷǴDzǹǡ si intende se supponiamo che Antifane credesse che una commedia dovesse avere nel finale un fattore sorpresa, con l’intervento sempre più importante della ǷȀǺǪ; si veda Dinarch. 1.32 DzΗǷǼǭǤǷǠǶǷǴǨǻǨǰͧǷȀǺǪǷǤАǷǤΣǶǷХ ͚ǰǤǰǷǢǤǦǨǰǠǶǫǤǬǷDzЃǵdzǴDzǶǧDzǭǼǯǠǰDzǬǵ. I quattro passi di Eschilo che sottoporremo ad analisi si possono intendere anche nel senso di ‘rivolgimento’, tanto per ciò che riguarda l’aspetto lessicale, che per la situazione alla quale si riferiscono. 1. Pers. 787 Nei versi precendenti (759-86) l’ombra di Dario ha pronunciato un catalogo dei re persiani, narrando come fecero crescere l’impero e come Serse, per cattivo consiglio, l’abbia perso. Gli ultimi due versi sono un lamento sull’antico potere perduto, in mezzo al disastro del presente (vv. 785-6): ͏dzǤǰǷǨǵͧǯǨЃǵDz͹ǭǴǟǷǪ ǷǟǧХ͞ǶǺDzǯǨǰ/DzΒǭ͌ǰǹǤǰǨЃǯǨǰdzǡǯǤǷХ͞ǴDZǤǰǷǨǵǷǿǶǤ. In questo momento, interviene il coro (vv. 787-8): ǷǢDzΘǰ͎ǰǤDZLjǤǴǨЃǨdzDzЃǭǤǷǤǶǷǴǠǹǨǬǵ/ ǮǿǦǼǰ ǷǨǮǨǸǷǡǰ dzЛǵ ͌ǰ ͚ǭ ǷDzȀǷǼǰ ͞ǷǬ / dzǴǟǶǶDzǬǯǨǰ Οǵ ͎ǴǬǶǷǤ ǔǨǴǶǬǭβǵ ǮǨȁǵ Broadhead 1960, 198 vedeva nella domanda del coro un segno di insofferenza, per il fatto di aver ascoltato storie passate quando le urgenze del presente reclamavano parole più concrete: «the Chorus speak as if they were somewhat bored by the King’s excursion into Persian history, and with their vivacious questions (ǷǢ... dzDzЃ... dzЛǵ) bring him back to the realities of the moment». Naturalmente, questa è un’interpretazione che non si può prendere in senso letterale: il sentimento non è tanto di noia o insofferenza quanto di impazienza4. La domanda del coro, iniziata con un ǷǢ Θǰ («an urgent or excited question»: Collard 2005, 373) 3

In Graevius 1684, 86, forse ispiratosi a Casaubon (nella Praefatio ad lectorem leggiamo: «in libri primi prioribus septendecim epistolis videbis non paucas annotationes magni Isaaci Causaboni [sic], nunquam antehac in publico visas»), la metafora è messa in relazione alle corse nello stadio: «estque ea appellatio sumpta a stadio, in cujus extremo altero est meta, quam ǭǤǯdzǷϸǴǤ vocat Philosophus: quo postquam est perventum cursores anhelant & cursum convertunt». L’interpretazione ebbe fortuna: Ernesti 1795, 95 la cita con approvazione attribuendola a Casaubon. 4 Come indica poco dopo lo stesso Broadhead 1960, 198, che, nonostante, lo interpreta come incompatibile con il trattamento di rispetto che il coro regolarmente mostra nei confronti di Dario: «ǷǢDzΘǰseems to me to savour somewhat of impatience, which is hardly in accordance with the deferential attitude of the Chorus toward Darius».

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è comprensibile dopo che Dario ha descritto lo stato dell’esercito persiano e dell’intero impero come giustamente disperato. A questo punto il coro domanda se, dopo ciò che è successo, ancora (cf. v. 788 ͚ǭ ǷDzȀǷǼǰ ͞ǷǬ) vi sia una qualche maniera di rimediare alla situazione (cf. vv. 788-9 dzЛǵ͌ǰ͚ǭǷDzȀǷǼǰ͞ǷǬ / dzǴǟǶ ǶDzǬǯǨǰ Οǵ ͎ǴǬǶǷǤ ǔǨǴǶǬǭβǵ ǮǨȁǵ)5, alla qual cosa il re risponde affermativamente, a condizione che si ritirino dalla Grecia (vv. 790-2). Cioè, l’opposizione non è tra una storia irrilevante o inopportuna e la realtà del presente, ma tra una situazione attuale disastrosa e la possibilità di salvezza. Pertanto, è normale che il coro faccia la sua domanda mosso da sentimenti d’ansietà e urgenza: come cambiare la situazione presente? Spera, dunque, che anche il discorso di Dario sia differente6. Qui è dove si deve trovare il senso della forma verbale ǭǤǷǤǶǷǴǠ ǹǨǬǵ: allo stesso modo in cui il suo desiderio è che i mali attuali lascino il posto alla speranza, le parole di Dario cambiano direzione e passano dalla descrizione delle pene e delle loro cause all’augurio di salvezza. La maggior parte dei traduttori ed interpreti danno al verbo il significato ‘vertere, dirigere’7. Garvie 2009, 307 traduce «where are you directing the conclusion of your words?» e aggiunge che si tratta di una forma elaborata di dire «what conclusion do you draw from all this?». Il parallelo citato, Aeschin. 2.39 ǭǤǷǠǶǷǴǨǻǨǰǨͶǵǹǬǮǤǰǫǴDzdzǢǤǰǷDzγǵǮǿǦDzǸǵ, si trova nel contesto di un’ambasciata degli ateniesi, in cui, dopo un momento di tensione, Filippo pronuncia parole di amicizia. Si può intendere che le parole d’amicizia che Filippo rivolge agli ambasciatori siano la conclusione della delicata situazione anteriore, ma il senso di base è quello della rappresentazione di una situazione che è stata sostituita da un’altra totalmente differente. 5

Oppure ‘qualche modo di trovarsi in condizioni migliori’. Garvie 2009, 307 indica prudentemente: «one may wonder whether the original audience was any better equipped than we are to distinguish between the two»; Schuursma 1932, 128-9 si mostra tentato dalla prima possibilità, nonostante sia la meno regolare e pertanto sarebbe un caso di abutio, seguendo l’interpretazione di Mazon 1920, 89: «comment, après cela, pourrons-nous, nous Perses, agir le mieux?». 6 Broadhead 1960, 198 interpreta diversamente: «ǷǨǮǨǸǷǡǰ is not the conclusion of Darius’ speech, but a conclusion or issue yet to be reached». Ma una cosa non esclude l’altra, perché il compimento di ciò che Dario propone di fare è verbalizzato nel discorso stesso; e in qualsiasi caso, il discorso deve avere una conclusione. Al v. 735 ricorre un fenomeno comparabile. Nel corso della sticomitia tra Dario ed Atossa, questa dice (v. 734): ǯDzǰǟǧǤ ǧί ǒǠǴDZǪǰ ͞ǴǪǯǿǰ ǹǤǶǬǰDzΒdzDzǮǮЛǰǯǠǷǤ –, e Dario interrompe (v. 735): dzЛǵǷǨǧΰǭǤαdzDzЃǷǨǮǨǸǷϪǰ͞ǶǷǬǷǬǵ ǶǼǷǪǴǢǤ Garvie 2009, 291 interpreta che dzDzЃǷǨǮǨǸǷϪǰ si riferisce a Serse («where do they say he ended up?») e non, come intendeva Triclinio (Ƿβǰ dzǨǴα ͚ǭǨǢǰDzǸ ǮǿǦDzǰ), alla storia narrata. Naturalmente, Garvie ha ragione, ma forse non dobbiamo pensare che Triclinio non fosse in grado di capire che ǷǨǮǨǸǷϪǰ dipende da ǹǤǶǬǰ perché non teneva in considerazione le regole della sticomitia, dal momento che conserva ǷǨǮǨǸǷϪǰ nel testo quando la maggior parte dei mss., che chiaramente non hanno visto tale dipendenza, scrivono ǷǨǮǨǸǷϪ(Ǭ). L’interpretazione di Triclinio, dunque, sembra voler lasciare aperta la possibilità che la narrazione dei fatti e i fatti stessi coincidano. 7 Cf. Stanley 1663, 281: «quid igitur, rex Darie, quonam dirigis / sermonum finem?». Prima, però, Sanravius 1555, 116 aveva tradotto: «quid igitur, rex Darie, quonam facis / sermonum finem?». È chiaro che Stanley vi si inspirò e che non era soddisfatto del triviale «facis».

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Dal punto di vista della struttura della frase, però, il parallelo più interessante è Soph. OC 1720-1 ΆǮǥǢǼǵǦХ͞ǮǸǶǨǰǷβǷǠǮDzǵΤǹǢǮǤǬǥǢDzǸ(ΆǮǥǢǼǵ͞ǮǸǶǨǰ ǷǠǮDzǵΤǹǢǮǤǬǥǢDzǸLloyd-Jones & Wilson), in cui pure vi è una forma elaborata con l’inserimento non imprescindibile di ǷǠǮDzǵ. Apparentemente, potremmo leggere senza danno per il senso ΆǮǥǢǼǵǦХ͞ǮǸǶǨǰΤǹǢǮǤǬǥǢDzǰ8, e il passo eschileo si intenderebbe bene anche in questa forma: dzDzЃǭǤǷǤǶǷǴǠǹǨǬǵǮǿǦDzǸǵ (come nel luogo di Eschine citato sopra), ma sarebbe infelice limitarci strettamente alla logica e ignorare che l’inserimento della nozione di ǷǠǮDzǵrinforza l’idea di conclusione o di finalizzazione inclusa nel concetto di un cambio radicale. Perciò ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǨǬǰe ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡsi riferiscono tanto a un processo come al suo risultato. 2. Suppl. 442 Il re Pelasgo ha un problema9. Le Danaidi gli domandano accoglienza ma se la concede, ne nascerà una guerra contro i cugini. Esse l’hanno avvertito: v. 437 ǷǟǧǨ ǹǴǟǶǤǬƽ ǧǢǭǤǬǤ LjǬǿǫǨǰ ǭǴǟǷǪ10. A continuazione Pelasgo risponde con un’allegoria nautica:  ǭǤαǧΰdzǠǹǴǤǶǯǤǬƽǧǨАǴDzǧХ͚DZDzǭǠǮǮǨǷǤǬƽ ͨǷDzЃǶǬǰͨǷDzЃǵdzǿǮǨǯDzǰǤͺǴǨǶǫǤǬǯǠǦǤǰ dzϪǶХ͞ǶǷХ͊ǰǟǦǭǪǭǤαǦǨǦǿǯǹǼǷǤǬǶǭǟǹDzǵ ǶǷǴǠǥǮǤǬǶǬǰǤǸǷǬǭǤЃǶǬǰ11 ΟǵdzǴDzǶǪǦǯǠǰDzǰ ͎ǰǨǸǧίǮȀdzǪǵDzΒǧǤǯDzАǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ

Nell’Index di Italie-Radt, come abbiamo visto, ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ si traduce come «effugium»; nell’importante edizione di Friis Johansen-Whittle 1980 la traduzione è «direction» (II 348), determinata in parte dall’interpretazione dei versi precedenti e molto simile a quella di Rose 1957 I 45, il quale, commentando i vv. 440-1, dice che apparentemente si riferiscono al fatto che la questione è così fermamente decisa (dzǴDzǶǪǦǯǠǰDzǰ, accostato al legno seguente, collocato fermamente al suo posto) come il fasciame di una barca è fermamente unito per mezzo di una macchina che opera con pulegge, ǶǷǴǠǥǮǤǬ, per assicurarsi che non si muova mentre si va fissando con chiodi (ǦǿǯǹDzǬ). Dai luoghi in cui Friis Johansen-Whittle 1980 II 343-8 danno una traduzione o una parafrasi, si può dedurre 8 Come Eur. IT 691-2 ǷβǯίǰǦήǴǨͶǵ͞ǯХDzΒǭǤǭЛǵ͞ǺǨǬ, / dzǴǟǶǶDzǰǫХ͍dzǴǟǶǶǼdzǴβǵǫǨЛǰ ǮАǶǤǬǥǢDzǰ; Suppl. 1004-5 ͞ǯǯDzǺǫDzǰǭǤǷǤǮȀǶDzǸǶХ / ͚ǵ͗ǬǧǤǰ / ǥǢDzǷDzǰǤͶЛǰǿǵǷǨdzǿǰDzǸǵ (anche Xen. Apol. 30); Bacch. 1.153 ǤͶЛǰХ͞ǮǸǶǨǰ; IG XII 5.310.7-8 ǭǤǢǯ[Ǩ] dzǬǭǴήǰǰǨǤǴDzЃDzǥǴǠ ǹDzǸǵ ͊ǹȀǮǤǭǷDzǵ ͠ǴǨǬǰγǵ / ǤͷǯDzǴȀǷDzǬDz ǰǿǶЙ ǷǨǴdzǰβǰ ͞ǮǸǶǨ ǥǢDzǰ. In modo corrispondente, ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǨǬǰ Ƿβǰ ǥǢDzǰ R ǭǤǷǤǶǷǴDzǹΰ ǷDzА ǥǢDzǸ significano ‘morire’ e ‘morte’, specialmente nel greco tardo: cf. LSJ s. vv. 9 La mia opinione sul problema di Pelasgo si è formata a partire da uno scambio di impressioni con C. Angioni, V. Citti (che ringrazio per le note che gentilmente mi ha offerto di consultare) e C. Miralles. 10 ǭǴǟǷǪ M : ǭǴǤǷǨЃWhittle. 11 West 1998, 150 scrive ǶǷǴǠǥǮǪǶǬǰǤǸǷǬǭϸǶǬǰ: cf. p. XXXVI.

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che ͚DZDzǭǠǮǮǨǷǤǬ vuol dire ‘incagliarsi, toccare terra’: «͚DZDzǭǠǮǮǨǬǰ denotes enforced ‘running aground’ as opposed to voluntary ‘landing’ (ǭǠǮǮǨǬǰ)» (così a p. 343; Rose, invece, interpreta «I am decided»); i chiodi sono stati fissati allo scafo («the treenails have been driven into the hull», p. 345) a indicare che la costruzione della barca è già quasi del tutto terminata («the building of the ship is nearly or completely finished», p. 345), come se fosse stata tirata per mezzo di cavi (cf. p. 346 «as if hauled by ship-cables to »). Il senso generale della frase consisterebbe nella descrizione delle ultime due fasi della costruzione di una barca prima che venga varata e l’immagine suggerirebbe che Pelasgo si troverebbe nel momento immediatamente precedente alla sua decisione. Riconoscono che a questa interpretazione si possono fare due obiezioni: 1. dzǴDzǶǟǦǨǬǰ non è testimoniato con il senso di trascinare una barca verso il mare, per il cui senso ci aspetteremmo un verbo come ǭǤǷǟǦǨǬǰ o ͊ǰǟǦǨǬǰ, e 2. dzǴDzǶ ǪǦǯǠǰDzǰ, dal momento che è subordinato a ǦǨǦǿǯǹǼǷǤǬ, designa un’azione che si produce prima di varare a mare la barca, mentre con questa interpretazione l’azione si dovrebbe produrre dopo. La soluzione che propongono è correggere dzǴβǵǦϹǯǠǰǼǰ. Ma tale correzione non risolve i problemi: a) se ͚DZDzǭǠǮǮǨǷǤǬ significa che le mie riflessioni12 si sono incagliate e che si prevede una guerra, il ǭǤǢ del v. 440 dovrebbe avere un valore concessivo difficile13; b) se Pelasgo ha già preso la decisione di accogliere le Danaidi, perché insiste a dire che nessuna direzione che prenda sarà senza danno se ora ve n’è soltanto una? E perché le Danaidi continuano a supplicare?14 Inoltre, l’articolazione delle idee risulta difficile, come si può vedere, per esempio, nella traduzione di Sommerstein (che rimanda per l’interpretazione a Friis Johansen-Whittle e stampa dzǴβǵǦϹǯǠǰǼǰ)15. Se leggia12 Sandin 2005, 200 ritiene che il soggetto ‘pensieri’ sia troppo introspettivo, e propone che sia ‘la situazione attuale’. Ma Pelasgo sta parlando del suo problema, e ciò non ha nulla a che vedere con l’introspezione. 13 Probabilmente per evitare questo problema Rose interpreta «I am decided». Solo negli scolii al v. 183b-c del Prometeo si legge che ͚DZDzǭǠǮǮǨǬǰ significa ‘uscire in mare’: sch. 183b. CP*W: «ǎǠǮǶǤǬ» ǭǸǴǢǼǵ Ƿβ Ƿΰǰ ǰǤАǰ dzǴDzǶDzǴǯǢǶǤǬ ǷǬǰα ǨΒǦǤǮǡǰЙ ǭǤα ǨΒǮǬǯǠǰЙ ǷǿdzЙƽ «͚DZDzǭǨЃǮǤǬ» ǧί Ƿβ Ƿΰǰ ǰǤАǰ ͚ǭǥǮǪǫϸǰǤǬ ΓdzХ ͊ǰǠǯDzǸ ͞DZǼ ǷDzА ǮǬǯǠǰDzǵ. sch. 183c. X: Ǔͷ ǯίǰ dzDzǬǪǷǤα «ǭǠǮǮǨǬǰ» Ƿβ͚ǮǮǬǯǨǰǢǩǨǬǰǨͼdzDzǰƽ͚DZDzΙǭǤα «ǭǿǮdzDzǵ»ǨͶǵΉǰǤͷǰϸǨǵǭǠǮǮDzǸǶǬǰƽͧǯǨЃǵǧίǯǨǷή ǷDzА ǹǤǯǠǰ «ΆǭǠǮǮǨǬǰ» ǭǤα «dzǴDzǶǭǠǮǮǨǬǰ» Ƿβ ͚ǰǷβǵ ǮǬǯǠǰDzǵ ǦǢǰǨǶǫǤǬ «͚DZDzǭǠǮǮǨǬǰ» ǧί Ƿβ͚DZDzǴǬǟǩǨǶǫǤǬ (Herington 1972, 101), ma in ogni caso si indica che è per incidente e dunque porta a una situazione pericolosa; pertanto, questa interpretazione non apporta alcun supporto al senso «I am decided». 14 La persistenza delle Danaidi nella loro supplica si potrebbe intendere se supponessimo, come Vürtheim 1928, 188, che il discorso di Pelasgo sia fatto a voce bassa. La terza persona al v. 439 ǷDzЃǶǬǰ[…] ǷDzЃǵpotrebbe esserne un indizio, ma l’inizio del suo discorso con ǭǤαǧΰdzǠǹǴǤǶǯǤǬ, che riprende il ǹǴǟǶǤǬ anteriore delle Danaidi, fa pensare che le fanciulle stiano ascoltando le sue parole. 15 Sommerstein 2008, 347: «I have pondered, and this is where my thoughts have run aground. There is absolutely no way to avoid provoking a great war, either against these or against those. The ship has been bolted together, and only restraining cables, one might say, are keeping it at the shore; nowhere is there an outcome free from pain». L’interpretazione che fornisce in nota è:

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mo questi versi in termini di costruzione nautica e interpretiamo che la barca costruita rappresenta la decisione di Pelasgo, ci vediamo obbligati a separare questa immagine da quella precedente, quella dell’incagliamento (è ciò che fanno Sandin 2005, 201: «the issue at 438 is not identical to the present ship» e Friis Johansen-Whittle 1980 II 345: «it is clear for ǦǨǦǿǯǹǼǷǤǬ […] that the image contained here describes controlled operation, and so cannot develop the image in ͚DZDzǭǠǮǮǨǷǤǬ […] which describes involuntary action») o a leggere ͚DZDzǭǠǮǮǨǷǤǬ metaforicamente (come sembra fare Sommerstein). E, cosa ancora più difficile, nel v. 442 ͎ǰǨǸǧίǮȀdzǪǵDzΒǧǤǯDzАǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ bisogna dare alla parola ǭǤǷǤ ǶǷǴDzǹǡ il senso di «direction» (‘in nessuna parte vi è una direzione’?) o di «outcome» (‘in nessuna parte vi è una conclusione’). Una maniera di superare parte di queste difficoltà è la proposta di Mazon 1920, 29: «mes réflexions sont faites: ma barque a touché – ou contre ceux-ci ou contre ceux-là soulever une rude guerre, c’est à quoi je suis contraint – et, sur cet écueil, la voilà clouée tout comme si on l’y eût hisée à grand renfort de cabestans marins. Point d’issue exempte de douleur!»16. Qui ͚DZDzǭǠǮǮǨǷǤǬ si unisce all’immagine successiva, che non è quella della costruzione di una barca, ma quella dell’incagliarsi: la barca è immobilizzata come lo è la decisione di Pelasgo, che considera che, si faccia quel che si faccia, ci sarà un dolore (come una barca incagliata che, per un istante, si trova immobile ma il disastro è imminente). Questa interpretazione ha il vantaggio di unire in un unico insieme le diverse metafore e di fornire una corrispondenza adeguata con la descrizione che Pelasgo fa del suo stato di blocco e dei timori a proposito del futuro; inoltre, l’immagine di ͚DZDzǭǠǮǮǨǷǤǬ risulta coerente con Ag. 666 ͚DZDzǭǨЃǮǤǬdzǴβǵǭǴǤǷǤǢǮǨǼǰǺǫǿǰǤ e permette di conservare dzǴDzǶǪǦǯǠǰDzǰ. Vürtheim 1928, 188-9 riconosceva che l’idea di Mazon era ingegnosa, ma vi obiettava che il senso che dava a dzǴDzǶǪǦǯǠ ǰDzǰ «hisser» non era corretto (ma dzǴDzǶǟǦǨǬǰ può almeno significare ‘trascinare verso’), e che ǦDzǯǹǿǼ è un termine tecnico della costruzione di imbarcazioni (ma non è un termine tecnico, semmai vuol dire ‘inchiodare’; e inoltre si può usare metaforicamente: cf. Arch. fr. 328.5 dub. West ǦDzǯǹDzȀǯǨǰDzǢ ǷǨ ǭǤα ǧǬǤ ǶǹǪǰȁǯǨǰDzǬ, in senso osceno, e soprattutto Emped. fr. 33.4 D.-K. Οǵ ǧХ ΋ǷХ Άdzβǵ ǦǟǮǤ ǮǨǸǭβǰ ͚ǦǿǯǹǼǶǨǰ ǭǤα ͞ǧǪǶǨ, a proposito del latte che quaglia – cioè, si fa immobile – con il succo del fico; in altri testi appare spesso usato più o meno metaforicamente, soprattutto in contesti di odontologia). Sussiste, però, la difficoltà di comprendere adeguatamente il senso di ǭǤǷǤ ǶǷǴDzǹǡ. Nelle interpretazioni viste fin ora, ǶǭǟǹDzǵ rappresenta o la decisione imminente (Friis Johansen-Whittle, Sommerstein) o le riflessioni (Mazon) di Pelasgo. Se si traduce ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ con ‘marcia indietro’, ‘rivolgimento della si«the ship represents Pelasgus’ decision, and its launching, now imminent, represents the moment when that decision will become irrevocable and its consequences unavoidable. The construction of the hull is now complete, but the vessel is still attached by cables to a windlass on shore; once the cables are let go, the ship will be waterborne». 16 La proposta è stata poco considerata; cf., però, van Nes 1963, 89-92, che la difende con qualche sfumatura.

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tuazione attuale’, che è il significato più difendibile, risulta che Pelasgo direbbe, assurdamente, che non vi è nessuna direzione o possibilità di ritornare allo stato d’indecisione senza che ciò sia doloroso, quando sarebbe logico dire, come ha detto prima, che le alternative all’indecisione sono tutte dolorose. Proviamo, dunque, a mantenere il significato normale di ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ e mettiamolo in relazione con ͚DZDzǭǠǮǮǨǷǤǬ (come pare logico: una situazione di blocco cambia in una di sblocco). Pelasgo direbbe, dunque, che il suo pensiero si trova bloccato (contro la sua volontà, non solo perché incagliarsi è un’azione involontaria come dicono Friis Johansen-Whittle, ma anche per la forma mediopassiva); non sa che fare perché vede come inevitabile la guerra, faccia ciò che faccia. Eschilo, continuando l’immagine nautica, dice che la barca è già costruita (ǦǨǦǿǯǹǼǷǤǬ ǶǭǟǹDzǵ). Quale barca? La decisione di Pelasgo? No, perché ancora non l’ha presa: dire che è imminente non aiuta a intendere l’espressione. E nemmeno le sue riflessioni: ha già detto prima che sono incagliate; pertanto sarebbe stupido che ora dicesse che le ha già concluse. La barca, dunque, è il problema di Pelasgo: ‘infatti (ǭǤǢ) la barca (cioè il problema) è compiuta e salda con ǶǷǴǠǥǮǪǶǬǰǤǸǷǬǭϸǶǬǰ (il che indica che il problema è grave e non si può risolvere facilmente)’. Il problema, che, inteso in modo letterale, è l’imbarcazione con cui le Danaidi sono arrivate17, dal punto di vista di Pelasgo è un oggetto che gli hanno fatto arrivare (dzǴDzǶǪǦǯǠǰDzǰ): ‘la barca è compiuta e salda in quanto mi è stata portata qui (contro la mia volontà)’18, direbbe Pelasgo. E ora, in tale situazione di blocco, l’unica maniera di cambiare le cose è sbloccarle, che equivale a prendere una decisione19; ma la decisione non è possibile senza che ne risulti un danno (͎ǰǨǸǧίǮȀdzǪǵDzΒǧǤǯDzАǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ)20. Dunque, vi è una prima metafora nautica al v. 438 con ͚DZDzǭǠǮǮǨǷǤǬ, che si può riferire alle riflessioni di Pelasgo (cf. v. 438 dzǠǹǴǤǶǯǤǬ) ma che non ha un soggetto chiaramente definito; perciò è possibile passare all’immagine di una barca incagliata (se si legge ǦǨ ǦǿǯǹǼǷǤǬ metaforicamente) o costruita in modo compatto, solido. In ognuno dei casi la barca sarebbe il problema; e la soluzione, cioè la soppressione dello stato attuale di blocco, sarebbe la ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ.

Cf. v. 15 ǭǠǮǶǤǬǧХ͖ǴǦDzǸǵǦǤЃǤǰ. Soph. Phil. 236 ǗǢǵǶХΤǷǠǭǰDzǰdzǴDzǶǠǶǺǨǷǢǵdzǴDzǶǡǦǤǦǨǰ /ǺǴǨǢǤǷǢǵ·ǴǯǡǷǢǵ͊ǰǠǯǼǰ· ǹǢǮǷǤǷDzǵ 19 Da notare il gioco etimologico tra ǶǷǴǠǥǮǪǶǬ e (ǭǤǷǤ)ǶǷǴDzǹǡ. 20 L’interpretazione di V. Citti (per litteras) è questa: «l’immagine sarebbe diversa: non quella di una nave ormai pronta per il varo, ma quella di una nave ferma come se per mezzo di argani fosse stata accostata all’arena, ed esprimerebbe l’indecisione di Pelasgo di fronte alla scelta se aiutare le ragazze o consegnarle ai loro pretendenti; in questo modo sarebbe risolta la contraddizione che Friis Johansen e Whittle hanno segnalato tra dzǴDzǶǪǦǯǠǰDzǰ ed ͚DZDzǭǠǮǮǨǷǤǬ «which describes involontary action», e non hanno però risolto. Pelasgo si è reso perfettamente conto che senza dolore non è possibile il movimento risolutivo, ͎ǰǨǸǧίǮȀdzǪǵDzΒǧǤǯDzАǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ (v. 442), e quindi riflette sulla scelta che gli si prospetta innanzi inevitabile e comunque dolorosa (vv. 443 ss.)». 17 18

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3. Ag. 956 Le ultime parole di Agamennone in scena sono queste: ͚dzǨα ǧХ ͊ǭDzȀǨǬǰ ǶDzА ǭǤǷǠǶǷǴǤǯǯǤǬǷǟǧǨ / ǨͼǯХ͚ǵǧǿǯǼǰǯǠǮǤǫǴǤdzDzǴǹȀǴǤǵdzǤǷЛǰ (Medda 1995, 305: «e poichè sono stato sottomesso e ti ho dato ascolto in questo, ecco che entro in casa calpestando i drappi di porpora»). Poco prima il re aveva manifestato ciò che non avrebbe fatto: vv. 923-4 ͚ǰ dzDzǬǭǢǮDzǬǵ ǧί ǫǰǪǷβǰ ΊǰǷǤ ǭǟǮǮǨǶǬǰ / ǥǤǢǰǨǬǰ ͚ǯDzα ǯίǰ DzΒǧǤǯЛǵ ͎ǰǨǸ ǹǿǥDzǸ (Medda 1995, 303: «per me che sono mortale camminare su stoffe variopinte è cosa che non posso fare senza paura»); la sua dichiarazione che tali onori spettano agli dèi e non a un mortale si conclude con una considerazione del tutto logica: v. 930 ǨͶdzǟǰǷǤǧХΡǵdzǴǟǶǶDzǬǯХ͎ǰ ǨΒǫǤǴǶΰǵ ͚Ǧȁ (Medda 1995, 303: «se in ogni circostanza io mi comportassi così, non avrei timori»)21. A continuazione si produce la breve sticomitia tra Clitemestra e Agamennone (vv. 931-3), dopo la quale Agamennone pronuncia il suo ultimo e breve discorso (vv. 944-57)22. Clitemestra comincia dicendo: v. 931 ǭǤαǯΰǰǷǿǧХǨͶdzίǯΰdzǤǴή ǦǰȁǯǪǰ͚ǯDzǢ (Medda 1995, 303: «e tuttavia rispondi con sincerità a questa domanda»)23 e Agamennone risponde: v. 932 ǦǰȁǯǪǰ ǯίǰ ͺǶǫǬ ǯΰ ǧǬǤǹǫǨǴDzАǰǷХ ͚ǯǠ (Medda 1995, 303: «sappi che non traviserò in alcun modo il mio pensiero»). A questo punto si dividono gli studiosi. Fraenkel interpreta che Agamennone dichiara la sua disposizione a rispondere con sincerità, ma non fornisce alcuna prova che il verbo ǧǬǤǹǫǨǢǴǨǬǰ possa avere un significato così debole24; altri, invece, vedono nelle parole di Agamennone l’espressione della sua intenzione di non rinunciare ai suoi principi. Mi permetto di non entrare nella discussione sulle differenti vie intepretative di questi versi e dell’intero passo, una discussione i cui dettagli sono stati seguiti in modo esaustivo da Judet de La Combe 2001, 340-64.

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Così il testo dei mss. La nota di West 1998, 235 «si semper tali fortuna uti potero quali nunc, tum demum sine metu (924) agam» è una difesa dell’uso del verbo dzǴǟǶǶǨǬǰ nel senso di ‘trovarsi in uno stato determinato’. Sulle possibilità di differenti significati del verbo, cf. Barrett 1964, 228; anche Garvie 2009, 307 (cf. supra n. 5). 22 Questi due gruppi di versi, e specialmente il primo, sono stati oggetto di infinite interpretazioni, soprattutto per ciò che riguarda la risposta alle due evidenti domande che suscitano: 1. perché Agamennone finisce per fare il contrario di ciò che aveva detto? 2. quale giudizio morale dobbiamo trarre a proposito della sua decisione? Per il nostro intento, fortunatamente, non è necessario rispondere a nessuno degli interrogativi; dobbiamo solo localizzare i momenti in cui si produce il cambio o, semplicemente, vi si allude. 23 Per il senso dell’espressione ǨͶdzǨЃǰ dzǤǴή ǦǰȁǯǪǰ e per la collocazione di ͚ǯDzǢ cf. Fraenkel 1962 II 423-4, che considera erronea la traduzione di Schütz «noli ea adversus sententiam meam dicere». 24 Fraenkel si limita a dire che il linguaggio di Agamennone è quello di un «true gentleman» e che è normale che un’epoca come la nostra, sorda alle note di un’autentica nobiltà, consideri le parole del re come autoritarie, litigiose e sprezzanti come quelle di un plebeo: «the gentilezza of the utterances of King and queen should make the seriousness of their conflict all the more perceptible; but it is not surprising that an age age deaf to the notes of true nobility read into their words assertiveness, contention, and the scorn of the plebeian» (Fraenkel 1962 II 425).

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D’altra parte, ci possiamo domandare se vi sia una grande differenza tra le due interpretazioni. Con la prima, Agamennone assicurerebbe che le sue parole corrispondono alle sue covinzioni morali, con la seconda, il re dichiarerebbe che le sue convinzioni si mantengono intatte25. In entrambi i casi, però, la sua accettazione delle richieste di Clitemestra a camminare sulla porpora è un’azione dzǤ ǴήǦǰȁǯǪǰ. Agamennone si è disposto a camminare sopra i drappi di porpora e non smette di esprimere la propria inquietudine (vv. 948-9): dzDzǮǮΰ ǦήǴ ǤͶǧδǵ ǧǼǯǤǷDzǹǫDzǴǨЃǰdzDzǶαǰ / ǹǫǨǢǴDzǰǷǤdzǮDzАǷDzǰ͊ǴǦǸǴǼǰǡǷDzǸǵǫХΓǹǟǵ (Medda 1995, 305: «provo grande ritegno a rovinare con i piedi i beni della mia casa, sciupando ricchezze e tessuti comprati a caro prezzo»). Di fatto, egli, che prima aveva affermato che le sue convinzioni non sarebbero state corrotte, ora considera il rischio di causare una corruzione nei drappi. Senza necessità di produrre interpretazioni troppo rischiose, si può dire almeno che anche il linguaggio di Agamennone gira intorno ai pericoli della corruzione, di cui egli stesso teme di risultare oggetto. La sezione dell’Ippolito di Euripide (vv. 373-481)26, che gli studiosi hanno spesso comparato con il passo dell’Agamennone, si può leggere in un senso simile. Fedra spiega come si corrompe la vita degli uomini (ǧǬǠǴǹǫǤǴǷǤǬǥǢDzǵ). Comincia con l’assicurare che, se la maggioranza delle persone è assennata, non si può attribuire a un difetto della sua ǦǰȁǯǪ il fatto che si comporti peggio di come dovrebbe; la gente, aggiunge, nonostante conosca ciò che è bene, non vi si sforza. Fedra, pertanto, si riferisce anche ad azioni scorrette commesse da una persona che, allo stesso tempo, ha una ǦǰȁǯǪ assennata, e ne segnala come cause due difetti: la pigrizia e l’inclinazione ai piaceri. Questa convinzione, dice Fedra, non si potrà corrompere (v. 389 ǧǬǤǹǫǨǴǨЃǰ), nemmeno con l’uso di qualche filtro che la faccia cambiare. Nel finale la nutrice le dice che deve sottomettere il suo mal d’amore nella maniera migliore possibile (v. 477 ǰDzǶDzАǶǤ ǧХ ǨΘ dzǼǵ Ƿΰǰ ǰǿǶDzǰ ǭǤǷǤǶǷǴǠǹDzǸ), con magie e incantesimi. In modo ironico, il consiglio della nutrice significa che, nel caso di Fedra, la maniera di superare i sintomi del male d’amore è accettare di essere innamorata e soddisfare il suo amore con quello di Ippolito. Fedra aveva detto che resisteva all’amore: prima nascondendo la propria passione; poi provando a frenarla con la saggezza; infine, considerando la possibilità del suicidio. Il rimedio della nutrice è semplice: cedendo all’amore la malattia cesserà di essere una malattia: Il caso non è come quello di Agamennone, ma vi è un dettaglio comune: davanti a un problema morale la deci25

Judet de La Combe 2001, 346 e 360 riflette in queste termini: «“parler contre son avis” reviendrait, pour le roi, à nier la réalité même de cet avis, et donc la capacité de s’en former un, puisqu’une ǦǰȁǯǪ ne vaut que si elle transforme, à travers la persuasion ou le commandement, la réalité [...]. Le roi revendique seulement l’autonomie de sa pensée: quoi qu’on lui demande, ce sera en fonction de son jugement propre qu’il tranchera; “jugement” est ici encore abstrait: non pas un propos défini, mais la faculté de décider»; «s’il agit comme il a dit qu’il ne le ferait pas, ce n’est pas qu’il ait perdu ou changé son jugement, qui reste intact [...] il peut dire en quoi il réprouve cet acte, tout en l’accomplissant». 26 Con il commento di Barrett 1964, 227-48.

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sione di Agamennone e il consiglio della nutrice consistono in cedere e lasciare in sospeso le convinzioni morali che prima si erano difese. Le similitudini tra il passo di Eschilo e quello di Euripide non dimostrano che quest’ultimo avesse in mente la scena dell’Agamennone. Tuttavia, il vocabolario e l’articolazione del pensiero sono proprio quelli adatti a descrivere lo strano fenomeno dell’͊ǭǴǤǶǢǤ. Se consideriamo, dunque, che Agamennone, nonostante cammini sopra la porpora, non abbia rinunciato alla propria ǦǰȁǯǪ, ci vedremmo portati a supporre che in lui si sia prodotta, a causa della persuasione, una sorta di ͊ǭǴǤǶǢǤ. Agamennone, nonostante continui ad affermare che i suoi principi morali non sono cambiati, si comporta in modo contrario e, se intendiamo il v. 932 ǦǰȁǯǪǰ ǯίǰ ͺǶǫǬ ǯΰ ǧǬǤǹǫǨǴDzАǰǷХ ͚ǯǠ tanto nel senso che Agamennone dichiarava che non avrebbe nascosto il suo pensiero, quanto se supponiamo che manifestava la propria intenzione di mantenersi fermo nelle sue convinzioni, il fatto decisivo è che in conclusione finisce per fare ciò che credeva di non dover fare. In tutti e due i casi si produce una strana distorsione del linguaggio: nel primo perché affermare che non si nasconderanno le proprie convinzioni e allo stesso tempo comportarsi in maniera contraria sfida un principio basilare del linguaggio della moralità, cioè, la necessità di associare logicamente le parole e i valori che fondano le azioni; nel secondo caso perché comportarsi effettivamente contro le proprie convinzioni appare assurdo anche a chi si comporta così27. Blomfield 1818, 84 citava come parallelo di Ag. 932 ǦǰȁǯǪǰǯίǰͺǶǫǬǯΰǧǬǤ ǹǫǨǴDzАǰǷХ͚ǯǠun luogo di Senofonte in cui si legge che colui che usa la persuasione è più odioso di colui che fa uso della coercizione, dal momento che questo mostra apertamente la sua malvagità, mentre chi usa la persuasione corrompe l’anima di colui che è stato persuaso28. A parte ciò che si dice a proposito della moralità di chi induce, risulta interessante che in questo giudizio non vi sia nulla che implichi che chi è stato persuaso abbia cambiato di ǦǰȁǯǪ; in effetti, qualcuno può essere indotto, in maniera non forzata, a comportarsi contro le proprie convinzioni senza che ciò le debba necessariamente cambiare. Ciò che cambia, però, è la sua anima, che rimane corrotta. Pertanto, le parole di Agamennone, ͊ǭDzȀǨǬǰ ǶDzА ǭǤǷǠǶǷǴǤǯǯǤǬ ǷǟǧǨ, forse non indicano alcun cambio di ǦǰȁǯǪ ma la conferma di un rivolgimento della sua anima, che ha voluto lasciarsi cambiare fino al punto di non rispettare i suoi principi, nonostante li conoscesse. Per questo motivo risultano espressione della sua degradazione come persona e riconoscimento della sottomissione della sua volontà a quella di Clitemestra. Eschilo, pare evidente, ha voluto presentare Clitemestra in maniera negativa per rendere accettabili gli avvenimenti che si pro27

Cf. Davidson 1980, 42, che termina con questa considerazione: «in the case of incontinence, the attempt to read reason into behaviour is necessarily subject to a degree of frustration. What is special in incontinence is that the actor cannot understand himself: he recognizes, in his own intentional behaviour, something essentially surd». 28 Xen. Smp. 8.20 ǭǤαǯΰǰ΋ǷǬǦǨDzΒǥǬǟǩǨǷǤǬ͊ǮǮήdzǨǢǫǨǬǧǬήǷDzАǷDzǯϪǮǮDzǰǯǬǶǪǷǠDzǵ·ǯίǰ ǦήǴ ǥǬǤǩǿǯǨǰDzǵ ͛ǤǸǷβǰ dzDzǰǪǴβǰ ͊dzDzǧǨǬǭǰȀǨǬ · ǧί dzǨǢǫǼǰ Ƿΰǰ ǷDzА ͊ǰǤdzǨǬǫDzǯǠǰDzǸ ǻǸǺΰǰ ǧǬǤǹǫǨǢǴǨǬ.

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durranno nelle Coefore e che si dovranno giudicare nelle Eumenidi; prima, nella parodo, il coro aveva narrato le circostanze del sacrificio di Ifigenia in modo che la presentazione negativa ricadesse su Agamennone. 4. Eum. 490 Nel momento in cui sta per iniziare il giudizio contro Oreste, le Erinni esclamano (vv. 490-3): ǰАǰǭǤǷǤǶǷǴDzǹǤαǰǠǼǰ ǫǨǶǯǢǼǰǨͶǭǴǤǷǡ ǶǨǬǧǢǭǤ ǭǤαǥǮǟǥǤ ǷDzАǧǨǯǪǷǴDzǭǷǿǰDzǸ

In questo caso quasi tutti sono d’accordo sul significato di ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǤǢ: ‘eversione, rivolta, overthrow’29. Ma sono le nuove istituzioni che cambiano o, al contrario, vi è un cambio causato dalle nuove istituzioni o che consiste in queste stesse istituzioni? West 1990, 284 interpreta: «now we have an overturning consisting of new ǫǠǶǯǬǤ», nonostante riconosca che Dover 1957, 230-1 ha ragione quando difende che il senso «new institutions will be overthrown if Orestes is acquitted» è congruo con l’uso linguistico greco30. Però tale interpretazione, che non presenta problemi grammaticali e che si può giustificare con ciò che leggiamo nel testo, non è la maggioritaria31.

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Non manca, tuttavia, l’interpretazione con il senso secondario di ‘finale, conclusione’. In ogni caso, il problema di fondo sul senso del passo si mantiene. 30 Cf. Dover 1957, 230: «elsewhere in Greek ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ with a genitive means ‘overthrow of’ or ‘end of’, not ‘overthrow by’ or ‘end in’». Lo stesso Dover, ibid. n. 2, riconosce che la sua interpretazione «now new ordinances are ovethrown, if the cause pleaded, and the injury done, by this matricide are going to prevail» è minoritaria: a parte alcune traduzioni minori, può citare solo quella di Stanley 1663, 519 «nunc eversio novarum legum» (avrebbe potuto aggiungere Sanravius 1555, 194 «nunc euersiones nouarum legum»). La nota manoscritta di Stanley «nunc eversio novarum legum, sc. Apollinis et Minervae juniorum Deorum, si accusatio et punitio hujus parricidae obtinebit» (cf. Butler 1812, 80) non chiarisce il senso della traduzione, ma le novae leges non possono consistere nelle regole del processo; Apollo, in effetti, non ne introduce nessuna. L’osservazione di Dover 1957, 230 n. 2 nel senso che la traduzione di Stanley «requires us to understand ‘for otherwise...’ with dzǟǰǷǤǵͪǧǪǭǷǮ.», si può comprendere se intendiamo ‘ora, se Oreste, è assolto, le nuove leggi dovranno cambiare, dal momento che, se così non fosse, etc.’ (un’idea che, con qualche variazione, si legge anche in Blass 1907, 130: «wenn die ersten Worte den Sinn haben, dass alles gut ist, wenn Orestes verurteilt wird, so schliesst sich dzǟǰǷǤǵ ͪǧǪ usw. schlecht an, da ein ‘andernfalls’ nicht ohne Härte ergänzt wird»). Tuttavia, rimane dubbio che questa fosse l’idea di Stanley e di Sanravius. 31 Dopo Dover, cf. per esempio Lloyd-Jones 1970 «now is the ruin of the new covenant» (riferendosi all’istituzione dell’Areopago); Id. 1971, 92 «now is the end of the new ordinance»; Lebeck 1971, 212, che accetta l’interpretazione tradizionale ma che cita la nuova (attribuendola a B.M.W. Knox); Podlecki 1989, 171, che considera la possibilità della nuova interpretazione: «Athena’s new ordinances will be overthrown (i.e. undermined) if they result in a victory for Orestes», nonostante alla p. 93 traduca «now will Athena’s new ordinances cause a revolution»;

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Dover 1957, 230 riassume le opzioni correnti: emendazione, interpretazione di ǰǠǼǰ ǫǨǶǯǢǼǰ come genitivo soggettivo con il senso di «‘overthrow (sc. of old ordinances) by new ordinances’», o accettazione di ǰǠǼǰǫǨǶǯǢǼǰ come genitivo oggettivo, ma con il senso di «‘overthrow or ordinances, making them new’ or ‘end in new ordinances’». Si tratta di una sintesi sufficiente per i propositi della sua esposizione, ma che non rende giustizia delle sfumature e delle variazioni con cui generazioni di studiosi hanno affrontato il testo; e nemmeno riproduce in maniera esatta il testo delle versioni proposte. In particolare, scrive «ordinances» quando la maggior parte degli interpreti parla di ‘leggi’. Qui, credo, è dove si origina il problema. Se si considera che ǰǠǼǰǫǨǶǯǢǼǰ si riferisce al procedimento che si seguirà per celebrare il processo, tutto funziona; ma se supponiamo che il riferimento è a delle nuove leggi che prevedano non punibile il matricidio, sarebbe assurdo far dire alle Erinni che queste nuove leggi sperimenteranno un rivolgimento32. Di conseguenza, ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǤǢ si traduce in modo che non presenti tale difficoltà. Heath 1762, 129 annotava: «verte, nunc patefient exitus novarum legum. Non enim eversio, sed introductio, novarum legum, id erat quod adversabantur Eumenides». Oppure si traduce ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǤǢ correttamente, ma dando al genitivo un valore soggettivo; così Abresch 1763, 76: «agendi significatione intelligi debet, pro ǰАǰ Ƿή ǰǠǤ ǫǠǶǯǬǤ ǭǤǷǤǶǷǴǠǻǨǬ dzǟǰǷǤ, omnia subvertent». Troviamo, dunque, per la prima volta, le due interpretazioni di ǰǠǼǰ ǫǨǶǯǢǼǰ, la oggettiva e la soggettiva, destinate a godere di un’enorme fortuna. L’argomento di West è che fino ad ora Atena a malapena ha insinuato quale sarebbe la natura del nuovo tribunale (ma ciò non è del tutto esatto: cf. v. 484 ǫǨ ǶǯǿǰǷβǰǨͶǵ͏dzǤǰǷХ͚ǦδǫǡǶǼǺǴǿǰDzǰ) e che non si comprende perché, se Oreste è assolto, ciò dovrà significare il collasso del nuovo procedimento33; aggiunge che, se Eschilo avesse voluto che le Erinni avessero commentato la proposta di Atena, avrebbero dovuto dire qualche cosa come ‘questi nuovi ǫǠǶǯǬǤ sono ben poco affidabili se questo matricida deve essere ascoltato in termini uBraun 1998, 152 n. 580, che, dopo aver passato in rassegna le differenti interpretazioni, si dimostra più favorevole a quella di Dover. 32 Le testimonianze dell’aggettivo sostantivato ǫǠǶǯǬDzǰ, ǫǠǶǯǬǤ sono troppo scarse per poterne determinare esattamente il senso, ma tutti sono d’accordo nell’accettare la possibilità che possa designare un insieme di atti rituali (cf. Soph. Ai. 712 dzǟǰǫǸǷǤǫǠǶǯǬ[Ǥ@). È interessante constatare che molti studiosi, tra i quali anche gli stessi Dover, West e Sommerstein, iniziano alcune argomentazioni parlando di ‘riti’ e, in modo quasi impercettibile, finiscano per parlare di ‘leggi’; tuttavia, anche quando i due sensi non si confondono, possiamo leggere traduzioni molto discutibili, come per esempio in Ahrens 1842, 142: «nunc antiquae justitiae eversio per nova instituta eveniet», che, in accordo alla sua pratica abituale, scrive in corsivo le glosse interpretative. 33 West 1990, 283: «nor is it evident why, if Orestes is acquitted under the new procedure, this will signify the collapse of the procedure, however much it may seem to threaten the fabric of society». Ma un procedimento giudiziario collassa quando la sua funzione è pervertita, quando le sue risoluzioni non corrispondono con ciò che ci si aspetta da esso in accordo con le leggi. Le Erinni affermano semplicemente che il nuovo procedimento deve garantire lo stesso risultato dell’antico, cioè, la condanna di Oreste; se così non è, dicono, il tribunale avrà attuato in modo contrario a quella che deve essere la sua funzione.

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guali a noi’. Ma le Erinni hanno già accettato le regole del tribunale e non possono tornare a discuterle; al massimo, possono dire che, se Oreste è assolto, questo tribunale si dimostrerà ben poco affidabile. Sommerstein 1989, 172-3, va oltre. Dice che le due possibilità «the overthrow of new institutions» e «an outcome involving new laws» sono inaccettabili34. Contro la seconda, dice che l’introduzione di nuovi ǫǠǶǯǬǤ non è contingente con la vittoria di Oreste, ma che ne è precondizione necessaria35; contro la prima osserva che avvertire sul possibile collasso di una nuova istituzione non si addice all’attitudine delle Erinni in relazione con il vecchio e il nuovo, né con il contenuto del resto del canto. Ma qui ciò che dice Sommerstein è discutibile: il seguito del canto è un avvertimento nel senso che, se Oreste non è dichiarato colpevole, si creerà un precedente secondo cui nessuno potrà reclamare giustizia. Le Erinni mantengono la loro attitudine favorevole alle leggi antiche e il collasso di una nuova istituzione è loro indifferente, o al limite lo desiderano e lo pronosticano se questa istituzione non è rispettosa delle vecchie leggi. Apparentemente, le Erinni dicono una cosa facile da capire: ci siamo viste forzate ad accettare questo giudizio36, ma vogliamo avvisare che se Oreste sarà assolto, la funzione del tribunale, che ci è stato detto era quella di garantire la giustizia (vv. 485-8), si girerà in un senso contrario, perché tutti penseranno da adesso in poi che potranno restare impuniti per i propri crimini e nessuno avrà un referente di giustizia che lo fermi; e nemmeno noi potremmo perseguire i criminali, dal momento che questo tribunale considera che gli assassini non sono punibili. Ci sarà, dunque, un rivolgimento – ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǤǢ– delle nuove istituzioni, una deviazione radicale rispetto alla funzione che dovevano avere. Le Erinni, dunque, non esprimono un timore, ma ammoniscono37; per loro, i matricidi devono essere condannati e un tribunale che non lo faccia perde la sua ragion d’essere. L’espressione ǰǠǼǰǫǨǶǯǢǼǰ è quasi un ossimoro, se si considera che all’epoca di Eschilo ǫǨǶǯǿǵ e le altre parole della stessa famiglia hanno risonanze poetiche e arcaiche; associarle con le novità è una forma irrispettosa di riferirvisi, che anticipa il futuro poco brillante che le Erinni augurano al tribunale di Atena. Barcelona

Carles Garriga (traduzione di Cecilia Angioni)

34 Perciò stampa nell’edizione la congettura di Ahrens 1845, 296-7 ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǤαǰǿǯǼǰǫǨǶǯǢ Ǽǰ. 35 Ma si potrebbe interpretare che l’assoluzione di Oreste genererà a sua volta l’introduzione di nuovi thésmia. 36 Cf. v. 433 ͊ǮǮХ͚DZǠǮǨǦǺǨƽǭǴЃǰǨ ǧХǨΒǫǨЃǤǰǧǢǭǪǰ (cf. anche v. 435). Le Erinni si sottomettono alla autorità e al procedimento di Atena dopo che non hanno potuto contraddirla quando questa le censurava con l’argomento secondo cui attraverso il sistema che esse usano per stabilire la colpevolezza o l’innocenza (cioè il giuramento) si ottiene soltanto un’apparenza di giustizia (vv. 42932). 37 Cf. Matino 1998, 200, che attribuisce alla frase condizionale il senso di «messa in guardia», se pure non si può affermare con sicurezza che condivida questa interpretazione.

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ABSTRACT Following the usual interpretations, in the Index Aeschyleus the meanings ‘vertere, dirigere’ (Pers. 787) or ‘subici, cogi’ (Ag. 956) are given to the verb ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǼ, and ‘effugium’ (Suppl. 442) or ‘eversio’ (Eum. 490) to the noun ǭǤǷǤǶǷǴDzǹǡ. But all the passages can be better understood if keeping the basic meaning ‘overthrow, overturning’. In Eum. 490-3 Dover’s interpretation is accepted. KEYWORDS: Aeschylus - katastrophé - Pers. 787, Ag. 956, Suppl. 442, Eum. 490

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SU ͚ǮdzǢǵ NELL’ORESTEA: UNA PROPOSTA DI LETTURA I termini ͚ǮdzǢǵ ed ͚ǮdzǢǩǼ rimandano alla radice indoeuropea *wel, e risultano quindi legati al concetto di volere, volontà (si pensi anche al latino velle, voluptas)1. In greco il nome ͚ǮdzǢǵ è carico di significati: può intendere una generica aspettativa, una previsione – la parola in questo senso è senz’altro una vox media –, ma può anche indicare la speranza, la fiducia, quella che per i latini era spes2; infine, assume talora valenza negativa, dovendo esser intesa come timore, ansia, presagio infausto.3 Anche il verbo ͚ǮdzǢǩǼ (forma ionico-attica, di derivazione nominale, che potrebbe essere pure un ampliamento di ͞ǮdzDzǯǤǬ4) presenta la medesima polisemia, venendo a significare di volta in volta ‘credere’, ‘aspettarsi’, ‘sperare’, ‘temere’.5 Come ͚ǮdzǢǵ ed ͚ǮdzǢǩǼ, poi, tutti i lemmi (aggettivi, avverbi e verbi che siano) che appartengono alla stessa famiglia oscillano fra questi valori, quando non specificatamente marcati da affissi che ne suggeriscano l’inclinazione semantica.6 Testimonianza di che cosa i Greci potessero intendere con ͚ǮdzǢǵci viene dal I libro delle Leggi di Platone (644 C-D). Nell’ambito di una serie di considerazioni sul tema dell’ubriachezza, il cretese Clinia e un anonimo ateniese – maschera di 1

Cf. GEW I 502 e DELG I 342 s.vv. Anche il termine latino spes presenta una certa ampiezza semantica, anche se decisamente meno marcata rispetto ad ͚ǮdzǢǵ. Su spes/sperare cf. Woschitz 1979, 186 ss. 3 Cf. tra gli altri Schrijen 1965, 92 ss. 4 In Eschilo è presente il composto mediale ͚dzǠǮdzDzǯǤǬ, che ricorre peraltro soltanto una volta (Ag. 1031); ͞ǮdzǼ, attivo fattitivo (vale ‘fare sperare’), è sicuramente forma secondaria. Si è ipotizzato anche che possa essere il sostantivo ͚ǮdzǢǵ a derivare dal verbo ͚ǮdzǢǩǼ. «Se ͚ǮdzǢǩǨǬǰ vada considerato come denominativo da ͚ǮdzǢǵ, o non piuttosto deverbale da ͞ǮdzDzǯǤǬ, con ͚ǮdzǢǵcome nome ‘postverbale’, è dubbio: attendibile è invece il ricondurre l’intero sistema ad ͞ǮdzDzǯǤǬ, già omerico, e del quale sopravviveranno in seguito (nello ionico, o nei poeti) sporadiche vestigia» (così Perilli 1994, 67). 5 Per Eschilo si vedano le possibilità interpretative «sperare» e «arbitrari, confidere» in ItalieRadt 1964, 95. 6 Per Lachnit ͚ǮdzǢǵnon è semplicemente una parola, bensì un concetto complesso e articolato, e di conseguenza lemma di non facile traduzione. Il termine nella sua polisemia ha a che fare con la razionalità, ma contemporaneamente con la soggettività dell’individuo: ͚ǮdzǢǵ è una forma di attesa di ciò che sta per accadere, non una vera e propria speranza. Secondo Lachnit, infatti, solo a partire da Sofocle (OR 834-6) la parola può talora essere tradotta con Hoffnung, ‘speranza’ appunto. Le stesse considerazioni valgono anche per la voce verbale ͚ǮdzǢǩǼ, che si presenta in alternativa al mediale ͞ǮdzDzǯǤǬ per la prima volta proprio in Eschilo (cf. Lachnit 1965, 61 ss.). Secondo van Menxel nel V sec. ͚ǮdzǢǵ indica, sulla base della lezione degli autori precedenti, da Omero ai lirici, un pensiero razionale, un calcolo, una previsione sul futuro; ͚ǮdzǢǵ può condurre alla perversione, alla dismisura, può provocare la vendetta degli dei quando si vuole dettare loro il futuro (cf. van Menxel 1983, 94). Perilli 1994, 67 ss., seguendo Myres, afferma che ͚ǮdzǢǵindica un’«aspettativa razionale, in cui il soggetto è componente attiva, e non semplicemente passivo spettatore di casuali eventi», e che questo valore è già in Omero. Aggiunge altresì che «con ͚ǮdzǢ ǩǨǬǰ, e già con ͞ǮdzǨǶǫǤǬ, si designa l’attingere ciò che non sia direttamente percepibile, sia esso il futuro, ma anche il passato ricostruibile indiziariamente, lo stesso presente». 2

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Platone stesso – riflettono a proposito del fatto che si ha legge se e quando nello Stato la ragione domina sui sentimenti. L’ateniese dunque chiede a Clinia se condivida l’idea secondo cui ognuno ha nella sua interiorità due consiglieri di carattere opposto, ambedue privi di ragione, il piacere e il dolore. Ricevuta conferma, aggiunge: ǔǴβǵ ǧί ǷDzȀǷDzǬǰ ͊ǯǹDzЃǰ ǤΘ ǧǿDZǤǵ ǯǨǮǮǿǰǷǼǰ Dzͽǰ ǭDzǬǰβǰ ǯίǰ ΊǰDzǯǤ ͚ǮdzǢǵ ͺǧǬDzǰǧǠǹǿǥDzǵǯίǰͧdzǴβǮȀdzǪǵ͚ǮdzǢǵǫǟǴǴDzǵǧίͧdzǴβǷDzА͚ǰǤǰǷǢDzǸx͚dzαǧίdzϪǶǬ ǷDzȀǷDzǬǵǮDzǦǬǶǯβǵ΋ǷǬdzDzǷƆǤΒǷЛǰ͎ǯǨǬǰDzǰͨǺǨЃǴDzǰ […]. «Però a questi due sentimenti vanno aggiunti i giudizi opinabili su ciò che sarà, i quali, in senso lato, possono chiamarsi ‘aspettativa’, e in senso specifico sono detti ‘paura’, quando l’aspettativa è rivolta ad un male, e ‘speranza’, quando si rivolge al suo contrario. Al di sopra di tutti questi sentimenti c’è la ragione, che stabilisce ciò che in essi è bene o è male»7.

Dal passo di Platone si evince chiaramente l’ampio spettro semantico che viene ad assumere ͚ǮdzǢǵ.8 Se poi ci accostiamo alla tragedia, in Sofocle troviamo ancora esempio di come la speranza sia un concetto ambivalente. Infatti, «sebbene […] il dio in tutta chiarezza, attraverso oracoli o profezie di indovini, renda nota agli uomini la sua volontà, è proprio della natura umana che l’uomo, spinto nel suo pensiero dal ‘Principio speranza’ (Prinzip Hoffnung9), venga a conoscenza della verità soltanto parzialmente, ascolti e comprenda soltanto ciò che vuole e che può ascoltare e comprendere, senza andare per questo in rovina. La conseguenza di questa costante antropologica è che l’uomo tende a interpretare o addirittura a piegare il volere divino e il destino che gli viene predetto secondo le proprie speranze – nella convinzione e nella speranza che egli possa con il proprio agire e il proprio pensiero evitare il destino inesorabile. La parola centrale in questa concezione sofoclea è ‘speranza’, elpis»10. La speranza può tenere in vita gli uomini ma, come canta il coro nel II stasimo dell’Antigone (vv. 615-9), «la vagante speranza per molti è giovamento, ma 7

Trad. Radice in Reale 1991, 1477. Si è sostenuto che «͚ǮdzǢǵ è ǭDzǬǰβǰΊǰDzǯǤ delle ǧǿDZǤǬǯǨǮǮǿǰǷǼǰ: l’elaborazione della ǧǿDZǤrichiede un intervento attivo del soggetto, potenzialmente fallace, in quanto congetturale» (così Perilli 1994, 68). In ambito filosofico possiamo ricordare anche la contrapposizione democritea (176 D.-K.) fra physis ed elpis: «La sorte è prodiga di doni, ma è incerta; la natura, invece, è autosufficiente. Perciò, col suo poco ma certo, la natura trionfa sul molto promesso dalla speranza» (trad. Fusaro). Ath. 10.432 D riferisce che dzǴDzdzǿǶǨǬǵǧίǷήǵǦǬǰDzǯǠǰǤǵ͚ǰǷDzЃǵǶǸǯdzDzǶǢDzǬǵ ǏǤǭǨǧǤǬǯDzǰǢDzǬǵDzΒǭͬǰ͞ǫDzǵdzDzǬǨЃǰDzΒǧίǹǬǮDzǷǪǶǢǤǵǧǬήǷDzȀǷǼǰdzǴβǵ ͊ǮǮǡǮDzǸǵdzDzǬǨЃǶǫǤǬ LjǪǮDzЃǧίǷǤАǷǤǎǴǬǷǢǤǵ(fr. 4.15 ss. D.-K.) ͚ǰǷDzЃǵ͚ǮǨǦǨǢDzǬǵx[…] DzͷǏǤǭǨǧǤǬǯDzǰǢǼǰǧίǭǿǴDzǬ dzǢǰDzǸǶǬ ǷDzǶDzАǷDzǰ ΣǶǷǨ ǹǴǠǰƆ ǨͶǵ ͷǮǤǴήǰ ͚ǮdzǢǧǤ dzǟǰǷǤǵ ͎ǦǨǬǰ. Su ͚ǮdzǢǵ nei frammenti di Democrito, cf. Lachnit 1965, 59-60. 9 Prinzip Hoffnung è formula di Ernst Bloch (Das Prinzip Hoffnung, Berlin 1959; cf. Woschitz 1979, 39-40). 10 Zimmermann 2006, 209. 8

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per molti è inganno di vane brame; e s’insinua nell’uomo, che nulla comprende prima che al fuoco ardente si sia scottato il piede»11. L’interesse di una pur veloce disamina della presenza dei termini ͚ǮdzǢǵ/͚ǮdzǢǩǼ nell’Orestea nasce dall’averne percepito la significatività, in particolar modo in Agamennone12. In generale va premesso che nelle tragedie eschilee la parola ͚ǮdzǢǵ non ha propriamente il senso del tutto positivo di ‘speranza’: il poeta in questo sembra restare fedele al valore che al termine danno gli autori arcaici; semmai l’uso di ͚ǮdzǢǵ da parte di Eschilo in contesti drammatici positivi viene a costituire il punto di partenza per l’ampiamento semantico del lemma negli autori successivi.13 Sul piano testuale occorre sottolineare che la presenza dei termini ͚ǮdzǢǵ ed ͚Ǯ dzǢǩǼ nei passi in analisi trova la tradizione manoscritta sostanzialmente concorde, senza oscillazioni di particolare rilievo.14 Incontriamo il verbo ͚ǮdzǢǩǼper la prima volta nell’Orestea già al v. 11 in Agamennone. Siamo nel prologo e parla la sentinella che sta attendendo da Troia segnali della caduta della città e del conseguente ritorno degli Achei. ǭǤαǰАǰǹǸǮǟǶǶǼǮǤǯdzǟǧDzǵǷβǶȀǯǥDzǮDzǰ ǤΒǦΰǰdzǸǴβǵǹǠǴDzǸǶǤǰ͚ǭǗǴDzǢǤǵǹǟǷǬǰ ͋ǮȁǶǬǯǿǰǷǨǥǟDZǬǰxΥǧǨǦήǴǭǴǤǷǨЃ ǦǸǰǤǬǭβǵ͊ǰǧǴǿǥDzǸǮDzǰ͚ǮdzǢǩDzǰǭǠǤǴ vv. 8-11  «E adesso vigilo in attesa del segnale di una fiaccola, il luminoso raggio di un fuoco che porti da Troia una notizia, una voce di conquista: così infatti impone il cuore di una donna capace di maschi pensieri, pieno di speranze»15.

Il participio ͚ǮdzǢǩDzǰè riferito al cuore di Clitemestra, donna che pensa come un uomo, ed è piuttosto rilevante la pregnanza che il termine assume fin da questa prima occorrenza. Nell’ottica del personaggio che parla, la sentinella, il verbo ha con tutta evidenza valenza positiva: Clitemestra aspetta il ritorno del marito e per 11

Trad. Cantarella in Del Corno 1991, 299. Il testo greco di tutti i passi eschilei citati è quello di Page 1972. 13 van Menxel 1983, 63 ss.; Woschitz 1979, 131 ss. 14 Costituisce eccezione il v. 262 (ǨΒǤǦǦǠǮDzǬǶǬǰ ͚ǮdzǢǶǬǰǫǸǪdzDzǮǨЃǵ), dove M legge ͚ǮdzǢǶǨǬǰ; V ha invece ͚ǮdzǢǶǬ, accolto dagli editori con l’aggiunta di ǰ. Segnaliamo poi Ag. 1058, verso che per motivi differenti gli editori tendono a espungere (cf. infra n. 38). Per quanto riguarda ͚ǮdzǢǩǼ, ad Ag. 11 Io. Siceliota annotò Οǵ ǭ͊ǰ ǷМ ͒ǦǤǯǠǯǰDzǰǬ ǦǸǰǤǬǭβǵ ͊ǰǧǴǿǥǼǮDzǰ ͚ǮdzǢǩǼǰ ǭǠǤǴ (sch. ad Hermog. dzͶǧ VI 225.22 Walz); la v.l. ͚ǮdzǢǩDzǰè in F T: ͚ǮdzǢǩǼǰ M V («sed in utroque libro super Ǽ scr. »: così Fraenkel 1950 I 90). Per un’accurata disamina della questione relativa al v. 11, cf. Fraenkel 1950 II 11, che peraltro difende ͚ǮdzǢǩDzǰ. Accenniamo infine di sfuggita al caso problematico di Ch. 415 ss., dove M pare fortemente corrotto; tra le diverse proposte, all’inizio del v. 416 Grotefend e Ahrens integrarono congetturando ͚ǮdzǢǵ; ma trattandosi di luogo controverso, lo escludiamo volutamente dal presente studio. 15 Trad. Medda in Di Benedetto 1995, 230. 12

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chi osserva i gesti della regina, da spettatore esterno ed ‘ingenuo’, essi non possono che tradire trepida speranza. Tuttavia, Clitemestra non spera affatto il ritorno di Agamennone, piuttosto attende che esso si compia, che il marito varchi la soglia di casa, così da poter finalmente attuare la sua vendetta. Il prologo connota dunque la sposa di Agamennone di una forza di volontà e di modi di agire tipicamente maschili, e il participio ͚ǮdzǢǩDzǰ, senza oggetto, lascia a bella posta in dubbio il fatto che le attese della regina riguardino la caduta di Troia o piuttosto la vendetta che ella sta pregustando. Avremo modo in seguito, e più approfonditamente, di vedere come, ogni qual volta nel testo i termini ͚ǮdzǢǵ/͚ǮdzǢǩǼ hanno in qualche misura a che fare con il personaggio di Clitemestra, essi vengano ad assumere valenza quanto meno ambigua, quando non decisamente negativa. È però indubbio che il senso tragico che permea l’Agamennone non solo traspaia fin da subito dalla falsità di Clitemestra, ma sia veicolato pure attraverso la polisemia della terminologia eschilea, anche attraverso ͚ǮdzǢǵ.16 La presenza del sostantivo ͚ǮdzǢǵ è riscontrabile invece per la prima volta al v. 102: nella parodo il coro dei vecchi di Argo si rivolge a Clitemestra, sebbene essa non sia fisicamente in scena17. ǷDzǷίǧƆ͚ǭǫǸǶǬЛǰ͍ǵ͊ǰǤǹǤǢǰǨǬǵ ͚Ǯdzαǵ͊ǯȀǰǨǬǹǴDzǰǷǢǧƆ͎dzǮǪǶǷDzǰ vv. 101-2). ‘talora invece, provenendo dai sacrifici che tu disponi,18 una speranza tiene lontana un’angoscia insaziabile’

La speranza alla quale si riferisce il coro proviene dalla fiducia negli dei, cui Clitemestra è detta offrire sacrifici. La speranza difende, tiene lontane angosce che non si possono riempire, saziare (͊ privativo + dzǢǯǮǪǯǬ), quindi inestinguibili. La speranza protegge da pensieri nefasti, dall’angoscia di una sventura paventata. All’inizio del I episodio è ancora il coro ad essere ‘testimone di speranza’. ǶγǧƆǨͺǷǬǭǨǧǰβǰǨͺǷǨǯΰdzǨdzǸǶǯǠǰǪ ǨΒǤǦǦǠǮDzǬǶǬǰ͚ǮdzǢǶǬǰǫǸǪdzDzǮǨЃǵ ǭǮȀDzǬǯƆ͌ǰǨΖǹǴǼǰx(vv. 261-3) «E ora, che tu prepari sacrifici perché hai avuto buone notizie o che invece, senza averne avute, tu lo faccia solo per la speranza che giungano, ti ascolterò in tutta lealtà»19. Cf. Woschitz 1979, 131. Per Fraenkel 1950 II 10 l’ossimoro ǦǸǰǤǬǭβǵ ͊ǰǧǴǿǥDzǸǮDzǰ ǭǠǤǴ, pieno di forza nel suono come nel senso, comunica fin dall’inizio dell’Agamennone uno dei principali tratti del carattere di Clitemestra, almeno per come il personaggio si mostra nella prima tragedia della trilogia. 17 Di Benedetto 1995, 237 n. 15. 18 Cf. LSJ s.v. ͊ǰǤǹǤǢǰǼ: «to display». 16

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E poco oltre è Clitemestra che, entrando in scena, usa a sua volta il termine ͚Ǯ dzǢǵ: ǨΒǟǦǦǨǮDzǵǯǠǰΣǶdzǨǴͧdzǤǴDzǬǯǢǤ ͟ǼǵǦǠǰDzǬǷDzǯǪǷǴβǵǨΒǹǴǿǰǪǵdzǟǴǤx dzǨȀǶ϶ǧίǺǟǴǯǤǯǨЃǩDzǰ͚ǮdzǢǧDzǵǭǮȀǨǬǰx ǔǴǬǟǯDzǸǦήǴφǴǡǭǤǶǬǰϲDžǴǦǨЃDzǬdzǿǮǬǰ(vv. 264-7). «L’alba che nasce dalla madre notte possa essere messaggera di buone nuove, come nel proverbio20. Stai per apprendere una gioia che a udirsi va oltre ogni speranza: gli Argivi hanno conquistato la città di Priamo»21.

Il valore di ͚ǮdzǢǵ in questo passo è da intendersi positivamente: dal coro Clitemestra è detta compiere sacrifici o perché sa di un esito felice della spedizione achea, o perché spera in un esito felice. La regina risponde che ben presto il coro verrà a conoscenza di una gioia che va oltre ogni speranza. Vi è dunque un’alternanza fra sapere e sperare. La regina riprende la categorie del coro, ma ne rovescia il senso. Il coro si chiede quale sia il motivo dei sacrifici di Clitemestra, se derivino da una certezza o piuttosto da una speranza; Clitemestra parte con l’esprimere un augurio (‘che l’alba possa essere portatrice di buone notizie’), per poi annunciare direttamente lei stessa la novella che porterà una gioia più grande di ogni ragionevole speranza. La distinzione fra sperare e sapere non vale dunque per Clitemestra come invece per il coro: le azioni sono legate e complementari, non in opposizione.22 I due passi in analisi evidentemente si richiamano a livello lessicale (non compare infatti nelle parti del coro e della regina solo il termine ͚ǮdzǢǵ, ma anche ǨΒǟǦǦǨǮDzǵdzǸǰǫǟǰDzǯǤǬǭǮȀǨǬǰ e la coppia ǨΖǹǴǼǰ/ǨΒǹǴǿǰǪ) secondo un preciso schema retorico di corresponsione: la speranza annunciata dal coro si concretizza nelle parole di Clitemestra in un’alba portatrice di buone notizie e lascia il campo a una gioia ‘più grande’ e inattesa. Degno di nota risulta il fatto che il termine ͚ǮdzǢǵin qualche misura apre e sigilla il II episodio. Al suo ingresso, ai vv. 503 ss., l’araldo parla dell’unica speranza che è riuscito a realizzare: quella di ritornare in patria. ͶδdzǤǷǴМDzǰDzΘǧǤǵϲDžǴǦǨǢǤǵǺǫDzǰǿǵ 19

Trad. Medda in Di Benedetto 1995, 251. A quale proverbio si faccia riferimento non è dato sapere. La notte è la madre dell’alba, del giorno, e, siccome essa è detta ‘portatrice di buone notizie’ (ǨΒǟǦǦǨǮDzǵ), ci si augura che tale possa rivelarsi anche il giorno, di lei figlio. Il proverbio cui si allude dovrebbe allora in qualche maniera riferirsi alla somiglianza fra figli e genitori. 21 Trad. Medda in Di Benedetto 1995, 253. 22 Judet de La Combe 2001 I 100-1. 20

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ǧǨǭǟǷDzǸǶǨǹǠǦǦǨǬǷМǧƆ͊ǹǬǭǿǯǪǰ͞ǷDzǸǵ dzDzǮǮЛǰЏǤǦǨǬǶЛǰ͚ǮdzǢǧǼǰǯǬϪǵǷǸǺȁǰ(vv. 503-5). «O suolo patrio della terra argiva, finalmente sono tornato a te in questa decima luce dell’anno, realizzando una sola di tante speranze che si sono infrante»23.

L’araldo, inviato dall’esercito che sta tornando, manifesta tutta la sua emozione allorché ritrova la terra d’Argolide, dopo dieci anni di assenza. Il contesto è dunque quello della gioia del ritorno, della speranza nel futuro: l’araldo ha sperato il ritorno, che alla fine si è realizzato, mentre altre speranze ‘sono andate in frantumi’. L’uso in questo contesto di ͚ǮdzǢǵ avvicina decisamente il termine all’accezione vera e propria di speranza.24 Sorvolando sui problemi testuali relativi al v. 50425, possiamo in questo caso notare l’uso del plurale di ͚ǮdzǢǵ (come sopra al v. 262 e in seguito al v. 1668): la vita degli uomini è segnata da molte speranze, ben poche delle quali, però, destinate a realizzarsi.26 Più oltre ancora l’araldo, riferendosi a Menelao, utilizza nuovamente il termine ͚ǮdzǢǵ: sulla speranza del ritorno dell’eroe l’episodio si chiude. ǨͶǧƆDzΘǰǷǬǵ͊ǭǷαǵͧǮǢDzǸǰǬǰͷǶǷDzǴǨЃ ǭǤαǩЛǰǷǤǭǤαǥǮǠdzDzǰǷǤǯǪǺǤǰǤЃǵLjǬβǵ DzΖdzǼǫǠǮDzǰǷDzǵ͚DZǤǰǤǮЛǶǤǬǦǠǰDzǵ ͚ǮdzǢǵǷǬǵǤΒǷβǰdzǴβǵǧǿǯDzǸǵͫDZǨǬǰdzǟǮǬǰ(vv. 676-9). «Se qualche raggio del sole lo cerca e lo trova vivo e vegeto, per i disegni di Zeus che ancora non vuol distruggere completamente la sua stirpe, c’è qualche speranza che egli ritorni a casa»27.

23

Trad. Medda in Di Benedetto 1995, 271. Per van Menxel la speranza di cui parla l’araldo è troppo concreta nella sua possibilità di realizzazione (il ritorno in patria, che effettivamente gli Achei contavano di riuscire a compiere) per poter essere definita propriamente ‘speranza’, se con tale termine si vuole alludere a qualcosa che si desidera profondamente, ma di cui non si è affatto certi. Quella dell’araldo e di tutto l’esercito è allora una ‘speranza fondata’, piuttosto dunque l’attesa di qualche cosa che verosimilmente si compirà. 25 Il problema fondamentale consiste nella presenza nei manoscritti della lezione ǧǨǭǟǷЙ, corretta in ǧǨǭǟǷDzǸ da Jakob, congettura che ha sempre trovato il sostegno degli studiosi. Secondo Fraenkel 1950 II 257-8, dal punto di vista della sintassi e dello stile, l’espressione è abbastanza normale: si tratterebbe di una forma di enallage. Per Judet de La Combe 2001 I 170-1, che riflette a lungo sul valore simbolico e metaforico del passo, il momento in cui l’araldo, dopo dieci anni, tocca di nuovo il suolo patrio rappresenta un punto di svolta, il passaggio da un ciclo vitale ad un altro, in analogia all’alternanza notte-giorno e al turnarsi delle stagioni. 26 Stobeo, nella sezione dedicata all’͊ǴǨǷǡ III 1.104 Hense riporta un significativo frammento di Socrate: DzΖǷǨǰǤАǰ͚DZ͚ǰβǵ͊ǦǭǸǴǢDzǸDzΖǷǨǥǢDzǵ͚ǭǯǬϪǵ͚ǮdzǢǧDzǵ·ǴǯǬǶǷǠDzǰ. Esso compare anche oltre (IV 46.22 Hense), ricondotto però a Epitteto. 27 Trad. Medda in Di Benedetto 1995, 285. 24

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La speranza dell’araldo è in questo caso decisamente ben riposta: Menelao in effetti tornerà. La speranza del ritorno di Menelao, che si realizza, potrebbe nelle parole dell’araldo prefigurare la speranza dell’avvento di Oreste. La parola ͚ǮdzǢǵ è nuovamente sulle labbra di Agamennone al suo ingresso in scena, all’inizio del III episodio: ǧǢǭǤǵǦήǴDzΒǭ͊dzβǦǮȁǶǶǪǵǫǨDzα ǭǮǸǿǰǷǨǵ͊ǰǧǴDzǫǰϸǷǤǵϲǍǮǬDzǹǫǿǴDzǸǵ ǨͶǵǤͷǯǤǷǪǴβǰǷǨАǺDzǵDzΒǧǬǺDzǴǴǿdzǼǵ ǻǡǹDzǸǵ͞ǫǨǰǷDzxǷМǧƆ͚ǰǤǰǷǢЙǭȀǷǨǬ ͚ǮdzαǵdzǴDzǶϷǨǬǺǨǬǴβǵDzΒdzǮǪǴDzǸǯǠǰЙ (vv. 813-7)28. «Gli dei infatti, ascoltate le istanze delle parti, che non erano espresse con parole, hanno posto senza incertezza nell’urna sanguinosa i voti che decretavano la morte di molti uomini e la distruzione di Ilio: e nell’urna opposta, che non si riempiva, entrava soltanto l’attesa della mano»29.

Agamennone parla della sconfitta inflitta ai Troiani: gli dei, visti qui come giudici di uno spietato processo, che mette in palio la sopravvivenza di una città e la vita di molti uomini valorosi, dopo aver ascoltato la parti in causa, hanno decretato la caduta di Troia. L’urna all’interno della quale avrebbero dovuto cadere i voti di chi voleva la salvezza per Ilio è vuota: la riempie solo l’illusoria speranza che un dio possa votare per salvare la città, ma ciò non accade. La speranza di chi attendeva una manifestazione della benevolenza divina in questo caso è rimasta delusa. Il verso 817 diviene, se possibile, ancora più pregnante se ǺǨǬǴǿǵ non viene collegato ad ͚ǮdzǢǵ (‘speranza di una mano’), ma a dzǮǪǴDzǸǯǠǰЙ: la speranza si avvicina, ma l’urna non viene riempita dalla mano che entra a depositare il suo voto.30 Nel passo Agamennone ringrazia gli dei protettori della città che, assistendolo, hanno votato per la fine di Ilio: il re manifesta dunque la rovinosa convinzione di essere nel giusto, di aver agito secondo la volontà degli dei. A sottolineare il momento decisivo dell’azione drammatica, com’è sua abitudine, Eschilo introduce nel testo un sintagma costituito da due interessanti neoformazioni (͊ǰǧǴDz ǫǰϸǷǤǵϲǍǮǬDzǹǫǿǴDzǸǵ), che conferiscono maggiore tensione emotiva al brano31. Sempre nel III episodio, ai vv. 895 ss., Clitemestra usa una serie di immagini che descrivono che cosa rappresenti per lei il marito Agamennone, ritornato ‘finalmente’ salvo dopo la lunga ed estenuante campagna troiana. In particolare il so28

Al v. 817 West preferisce la personificazione della Speranza (͠ǮdzǢǵ). Trad. Medda in Di Benedetto 1995, 295. 30 Judet de La Combe 2001 I 277. 31 Citti 1994, 70-1; 84-5. 29

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vrano è, nelle parole della moglie, ‘terra apparsa ai naviganti contro la loro speranza’ (ǦϸǰǹǤǰǨЃǶǤǰǰǤǸǷǢǮDzǬǵdzǤǴƆ͚ǮdzǢǧǤ, v. 90032). I naviganti sperano di toccare terra e proprio quando la speranza sembra farsi vana, ecco che si realizza. Agamennone è la speranza realizzata di Clitemestra, che però, come ben sappiamo, è proiettata in una direzione spiazzante rispetto alle più ovvie attese: sta infatti fingendo commozione e gioia al cospetto del marito, per meglio realizzare il suo piano omicida. Il passo richiama senza dubbio Od. 23.233 ss.: ΟǵǧƆ΋ǷƆ͌ǰ͊ǶdzǟǶǬDzǵǦϸǰǪǺDzǯǠǰDzǬǶǬǹǤǰǡ϶ ΥǰǷǨǔDzǶǨǬǧǟǼǰǨΒǨǴǦǠǤǰϸƆ͚ǰαdzǿǰǷЙ ЏǤǢǶ϶͚dzǨǬǦDzǯǠǰǪǰ͊ǰǠǯЙǭǤαǭȀǯǤǷǬdzǪǦМx […] Ρǵ͎ǴǤǷϹ͊ǶdzǤǶǷβǵ͞ǪǰdzǿǶǬǵǨͶǶDzǴDzȁǶ϶ ǧǨǬǴϸǵǧƆDzΖdzǼdzǟǯdzǤǰ͊ǹǢǨǷDzdzǡǺǨǨǮǨǸǭȁ

Eschilo riusa la similitudine omerica ribaltandone completamente la funzione e il valore: Clitemestra, come Penelope, guarda il marito alla maniera di quei marinai che guardano a quella terra che, dopo tanto sperare, finalmente si manifesta loro; tuttavia, mentre Penelope ha veramente nello sguardo amore e nostalgia per il marito Odisseo, appena tornato dalle sue lunghe peregrinazioni, Clitemestra maschera dietro la similitudine i suoi reali sentimenti e i progetti di morte. Clitemestra e Penelope, dunque, come spesso accade nella letteratura greca, sono figure paradigmaticamente antitetiche, esempi diametralmente opposti di femminilità. L’inganno di Clitemestra sarà ben presto svelato al pubblico: ma nel III stasimo, per due volte, il coro già lo percepisce, riconoscendo la vanità di ogni speranza. ǷβǰǧƆ͎ǰǨǸǮȀǴǤǵ΋ǯǼǵΓǯǰЙǧǨЃ ǫǴϸǰDzǰϲljǴǬǰȀDzǵǤΒǷDzǧǢǧǤǭǷDzǵ͞ǶǼǫǨǰ ǫǸǯǿǵDzΒǷβdzϪǰ͞ǺǼǰ ͚ǮdzǢǧDzǵǹǢǮDzǰǫǴǟǶDzǵ YY  «E tuttavia l’animo intona dentro di me il funebre canto senza lira dell’Erinni che da solo ha appreso, per nulla provando 32

«Il testo dei vv. 899-902 presenta serie difficoltà. La principale è la palese inadeguatezza al contesto del v. 902, espunto dalla maggior parte degli editori, che seguono il suggerimento del Blomfield. Inoltre, la connessione dei vv. 899, 900 e 901, per come si presentano nei manoscritti, appare insoddisfacente: quindi Page accoglie la trasposizione del v. 901 dopo il v. 898 (proposta dal Bothe) e salva così sia la costruzione nominale del periodo, sia il v. 900, cha altri invece preferiscono espungere» (così Medda, in Di Benedetto 1995, 300 n. 91). Al v. 900 al posto di dzǤǴХ ͚ǮdzǢǧǤ T ha dzǤǴǨǮdzǢǧǤ.

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la dolce fiducia della speranza»33.

Il coro ha appena udito le ingannevoli parole rivolte da Clitemestra ad Agamennone. Il destino del sovrano è ormai segnato e il coro lo presagisce e abbandona ‘il caro ardire della speranza’: l’animo ormai è consapevole, ‘ha imparato’; risuona solo ‘il canto dell’Erinni’, il canto della tremenda vendetta. Qui ͚ǮdzǢǵindica qualcosa che si desidera, ma che non si compirà; quello della speranza è un ǹǢǮDzǰǫǴǟǶDzǵ, un ‘caro ardire’: è da ardimentosi sperare, ma è dolce farlo. Il testo così prosegue: ǶdzǮǟǦǺǰǤǧƆDzΖǷDzǬǯǤǷϩ ǩǨǬdzǴβǵ͚ǰǧǢǭDzǬǵǹǴǨǶαǰ ǷǨǮǨǶǹǿǴDzǬǵǧǢǰǤǬǵǭǸǭǮDzȀǯǨǰDzǰǭǠǤǴx ǨΖǺDzǯǤǬǧƆ͚DZ͚ǯϪǵ ͚ǮdzǢǧDzǵǻȀǫǪdzǨǶǨЃǰ ͚ǵǷβǯΰǷǨǮǨǶǹǿǴDzǰ vv. 995-1000). «Le viscere non parlano a vuoto, il cuore che vicino alla mente consapevole di giustizia si volge in vortici che avranno compimento. Io prego che dalla mia attesa possa cadere giù come mendacio in modo da non trovare compimento».34

Nel III stasimo abbiamo dunque quella che si potrebbe definire «la manifestazione più profonda e più articolata di uno stato d’animo caratterizzato dall’ansia e dalla paura»35. Il coro subito dopo canta che Agamennone è entrato con Clitemestra nella casa dove troverà la morte. Lo snodo fondamentale del brano è dato dal ǧǠ del v. 990: il re è tornato e questo fatto dovrebbe permeare la situazione di gioia, ma «c’è un livello più profondo di realtà, che ha come termine di riferimento il cuore, la mente, le viscere: Agamennone sarà ucciso»36 (‘le viscere non parlano a vuoto’). Il sentimento della paura è dunque tangibile, concreto e la preghiera finale con cui il coro si augura che la sua attesa non trovi compimento appare una sorta di chiosa obbligata, quasi tipica, espressa senza vera convinzione. Nel brano ͚ǮdzǢǵscivola in tal modo verso un’accezione più sbiadita, comunque negativa: più che ‘aspettativa’ o ‘previsione’, vale infatti ‘timore’, ‘presagio nefasto’. Oltre alla manifestazione della paura e di un’angosciosa attesa di compimento, c’è tuttavia anche un accenno, pur vago, alla giustizia (dzǴβǵ͚ǰǧǢǭDzǬǵǹǴǨǶǢǰ

33

Trad. Medda in Di Benedetto 1995, 309. Trad. Medda ibid. 35 Così Di Benedetto 1995, 89. 36 Così ibid. 90. 34

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‘vicino alla mente consapevole di giustizia’, v. 996): negli eventi temuti dal coro in ultima analisi la giustizia si affermerà. Nel IV episodio Clitemestra, rivolgendosi a Cassandra, la invita a scendere dal carro e ad entrare in casa, ricordandole che anche Eracle un tempo dovette sopportare la condizione di servo. La regina afferma che «se il peso di questa sorte [vale a dire la schiavitù] ricade su qualcuno, c’è da rallegrarsi molto che i padroni siano ricchi di vecchia data»37. E aggiunge (vv. 1044-5): Dz͹ǧƆDzΖdzDzǷƆ͚ǮdzǢǶǤǰǷǨǵͪǯǪǶǤǰǭǤǮЛǵ ΞǯDzǢǷǨǧDzȀǮDzǬǵdzǟǰǷǤ ‘Quelli che, non aspettandoselo, hanno raccolto bene, sono duri coi servi…’

Il verbo ͚ǮdzǢǩǼ in questo caso oscilla nel suo significato fra un generico ‘aspettare’ e un più positivo ‘sperare’: seguendo la similitudine di Clitemestra, infatti, si può intendere che coloro che hanno ben raccolto lo hanno fatto non aspettandoselo, ma anche non sperandoci. Gli uomini cui Clitemestra si riferisce sono uomini che non si attendono nulla, che non sperano nulla, o più semplicemente uomini che hanno ricevuto un bene senza aspettarselo: pare di poter dedurre che in bocca alla regina, anche quando ella non parla prettamente di sé, i termini͚Ǯ dzǢǵ ed ͚ǮdzǢǩǼ abbiano connotati tendenzialmente negativi, o almeno ambigui.38 Vale la pena sottolineare il fatto che fino a questo punto del testo abbiamo contato nove occorrenze di ͚ǮdzǢǵ e tre di ͚ǮdzǢǩǼ, mentre in tutta la seconda parte della tragedia ne seguono solo altre due del sostantivo (e nessuna del verbo): si dirada dunque significativamente l’idea dell’attesa, della speranza, abbia essa inclinazione positiva o altro. Molto più avanti, nel V episodio, Clitemestra torna in scena dopo la morte di Agamennone. ǭǤαǷǡǰǧƆ͊ǭDzȀǨǬǵ·ǴǭǢǼǰ͚ǯЛǰǫǠǯǬǰx ǯήǷΰǰǷǠǮǨǬDzǰǷϸǵ͚ǯϸǵdzǤǬǧβǵLjǢǭǪǰ ϾDžǷǪǰϲljǴǬǰȀǰǫƆǤͽǶǬǷǿǰǧƆ͞ǶǹǤDZƆ͚Ǧȁ 37

Trad. Medda in Di Benedetto 1995, 311. Poco oltre, al v. 1058, abbiamo un’ulteriore attestazione di ͚ǮdzǢǩǼ: ǷήǯίǰǦήǴ͛ǶǷǢǤǵǯǨǶDzǯ ǹǟǮDzǸ / ͟ǶǷǪǭǨǰͪǧǪǯϸǮǤ†dzǴβǵǶǹǤǦήǵ† dzǸǴǿǵ. / [ΟǵDzΖdzDzǷХ͚ǮdzǢǶǤǶǬǷǡǰǧХ͟DZǨǬǰǺǟǴǬǰ]. In proposito Medda (in Di Benedetto 1995, 312 n. 105) scrive: «Il testo dei vv. 1057-58 suscita gravi difficoltà, sia per la forzatura del nesso ͟ǶǷǪǭǨǰ[…] dzǴβǵǶǹǤǦήǵdzǸǴǿǵ, che non può significare ‘stanno pronte per il sacrificio’, sia per l’apparente incoerenza del v. 1058 col contesto, tanto che numerosi editori preferiscono espungerlo, considerandolo un’interpolazione. La traduzione può essere dunque solo indicativa: Già davanti al focolare, al centro della casa, stanno le vittime pronte per il sacrificio, ché mai ci saremmo aspettati di ricevere un simile favore». Prima del v. 1058 Maas ipotizzò una lacuna. 38

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DzΖǯDzǬǹǿǥDzǸǯǠǮǤǫǴDzǰ͚Ǯdzαǵ͚ǯdzǤǷǨЃ39, ͟Ǽǵ͌ǰǤͺǫ϶dzАǴ͚ǹƆ͛ǶǷǢǤǵ͚ǯϸǵ DžͺǦǬǶǫDzǵΟǵǷβdzǴǿǶǫǨǰǨΘǹǴDzǰЛǰ͚ǯDzǢx(vv. 1431-6). «E adesso tu ascolti anche il mio solenne e giusto giuramento. Per la Giustizia di mia figlia che trova compimento, per Ate e per l’Erinni, alle quali ho sgozzato quest’uomo, mai attesa di paura entrerà nella mia casa fino a quando Egisto accenderà il fuoco nel mio focolare, fedele come in passato»40.

Clitemestra non è donna di ͚ǮdzǢǵ: al v. 266 parla di una gioia ‘più grande della speranza’; al v. 900 nelle sue parole Agamennone è ‘terra apparsa ai naviganti al di là della speranza’; ed in quest’ultimo passaggio ella dice che, finché Egisto sarà al suo fianco, mai ‘attesa di paura’ varcherà la sua soglia. Ogni qualvolta Clitemestra parla di ‘speranza’ è per allontanarla da sé, negarla. La regina ha ucciso Agamennone e di fronte al coro, che preannuncia la sua punizione, proclama tutta la propria sicurezza, la legittima fierezza ch’ella prova per il gesto compiuto. Clitemestra ritiene d’avere agito secondo giustizia ed è convinta che l’avvenire non potrà che confermare la correttezza delle sue azioni: dal discorso della regina è assolutamente esclusa la possibilità che l’attesa possa per lei divenire angoscia. Egisto è il faro di speranza di Clitemestra, fedele ‘scudo d’audacia’ (͊ǶdzαǵǫǴǟǶDzǸǵGHOv. 1437). Fra Egisto e Clitemestra vige un vero e proprio patto di ferro, un’alleanza senza incrinature.41 L’ultima occorrenza di͚ǮdzǢǵ in Agamennone si trova nell’esodo: siamo alle battute finali del dramma. Egisto è appena entrato in scena, dichiarando la convinzione che, morto Agamennone, giustizia sia stata fatta. Il coro lo disprezza perché non ha avuto il coraggio di compiere da solo il terribile gesto di uccidere il sovrano, ma ha agito con Clitemestra, e invoca quindi l’intervento di Oreste. DžǬ ǚDz DžǬ. ǚDz

͊ǮǮƆ͚ǦȁǶƆ͚ǰΓǶǷǠǴǤǬǶǬǰͧǯǠǴǤǬǵǯǠǷǨǬǯƆ͞ǷǬ DzΖǭ͚ήǰǧǤǢǯǼǰϲǓǴǠǶǷǪǰǧǨАǴƆ͊dzǨǸǫȀǰ϶ǯDzǮǨЃǰ DzͼǧƆ͚ǦδǹǨȀǦDzǰǷǤǵ͎ǰǧǴǤǵ͚ǮdzǢǧǤǵǶǬǷDzǸǯǠǰDzǸǵ dzǴϪǶǶǨdzǬǤǢǰDzǸǯǬǤǢǰǼǰǷΰǰǧǢǭǪǰ͚dzǨαdzǟǴǤ(vv. 1666-9).

Eg.: Coro: Eg.: C.:

‘Ma io nei prossimi giorni ti seguirò ancora. No, se un dio spinge Oreste a venire qui. Io so che gli esuli si nutrono di speranze. Fa’ pure. Saziati, insozzando la giustizia, visto che puoi’.

La parola speranza è da Eschilo messa qui in bocca a Egisto, che la irride. La speranza è cosa da esuli, ciò che li nutre, li tiene in vita; la speranza ha «una sor-

Qui Fraenkel preferisce ͠ǮdzǢǵ personificata. Trad. Medda in Di Benedetto 1995, 345. 41 Judet de La Combe 2001 II 646-7. 39 40

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ta di fascino che attrae inesorabilmente l’esule verso i suoi mali»42. L’immagine peraltro ritorna simile in Euripide (Pho. 396 ǤͷǧƆ͚ǮdzǢǧǨǵǥǿǶǭDzǸǶǬǹǸǦǟǧǤǵ ‘le speranze nutrono gli esuli’), nel dialogo fra Polinice, esule, appena tornato a Tebe per strappare il potere al fratello Eteocle, e la madre Giocasta, che, appunto, pronuncia le parole citate.43 Egisto dice di sapere che ‘gli esuli si nutrono di speranze’: egli afferma infatti perentoriamente DzͼǧƆ͚Ǧȁ, ‘io so’ (v. 1668), lasciando intendere che chi lo ascolta non è consapevole della fondatezza di questa sua affermazione. In realtà la speranza legata al ritorno di Oreste, a suo dire illusoria, si realizzerà: Egisto afferma di sapere, ma in effetti non sa. Degno di nota è anche l’imperativo dzǬǤǢǰDzǸ, ‘ingrassa!’, ‘saziati!’ Invitando Egisto a mangiare a sazietà, almeno fino a quando gli è possibile, il coro sembra introdurre un gioco verbale che riprende il precedente ǶǬǷDzǸǯǠǰDzǸǵ: Egisto ha appena affermato che gli esuli si nutrono di speranze e di rimando il coro, ironicamente, lo spinge a sfamarsi della convinzione di aver finalmente fatto giustizia e a godere la sua effimera e labile condizione (‘Fa’ pure. Saziati, […] visto che puoi’)44. Alla secca sentenza di Egisto, il coro ribatte affermando anche che egli sta ‘insozzando la giustizia’. È da notare che al suo ingresso in scena Egisto aveva dichiarato che, con la morte di Agamennone, era stata fatta giustizia: finalmente gli dei avevano concesso la legittima vendetta alla triste vicenda di suo padre Tieste. Il coro, come è naturale, legge il gesto di Egisto in modo opposto: Egisto svillaneggia la speranza degli esuli e si fa beffe della giustizia. Egli viene delineato in modo totalmente negativo, opposto a Oreste, che nutrirà giuste speranze e sarà portatore di una vera giustizia. In questo caso pare plausibile interpretare ǧǢ ǭǪ come una sorta di concretizzazione di ͚ǮdzǢǵ, e ͚ǮdzǢǵ, per converso, come una prefigurazione di ǧǢǭǪ. Del resto le parole del coro non fanno altro che riprendere ciò che già Cassandra in precedenza, nel IV episodio, aveva profetizzato: il ritorno di Oreste e la sua vendetta. Le parole pronunciate da Oreste all’inizio delle Coefore, quando l’eroe invoca l’aiuto di Ermes perché combatta al suo fianco (1 ss.), richiamano proprio quanto detto nell’Agamennone da Cassandra (1279 ss., 1318 ss.)45. Esaminati dunque i passi dell’Agamennone in cui ricorrono ͚ǮdzǢǵ͚ǮdzǢǩǼ, vale la pena di aggiungere che nessun’altra tragedia di Eschilo conta un numero così e42

Così Medda 2006, 161 n. 81. In proposito, degno di considerazione è Soph. fr. 948 R. (= 862 N.²) che suona come una massima: ͚ǮdzαǵǦήǴͧǥǿǶǭDzǸǶǤǷDzγǵdzDzǮǮDzγǵǥǴDzǷЛǰ. 44 Judet de La Combe 2001 II 767-8. 45 «Le Coefore sono in gran parte preparazione all’azione, mentre l’Agamennone era tale, se mai, solo per Clitemestra; qui è attesa, da parte di Elettra e del Coro, che Oreste venga a vendicare il padre; preparazione alla vendetta da parte di Oreste, nella preghiera a Zeus giusto e nell’invocazione di aiuto da parte dell’ombra del padre. E la preparazione all’azione risveglia la speranza, e nella speranza la preghiera risorge, pur nel male presente, nel desiderio di sollevarsene» (così Citti 1962, 74-5). 43

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levato di occorrenze dei lemmi, undici in totale per ͚ǮdzǢǵ, tre (di cui però una in dubbio, come si è visto) per ͚ǮdzǢǩǼ. L’Agamennone dunque si connota anche, se non come tragedia della speranza, di certo almeno come dramma dell’attesa. Minori nel numero sono le occorrenze di ͚ǮdzǢǵ ed ͚ǮdzǢǩǼnel secondo dramma dell’Orestea, le Coefore46, rispettivamente soltanto quattro e due.47 Nel I episodio Elettra, che ha trovato un ricciolo sulla tomba del padre Agamennone, spera che esso appartenga a Oreste e dice (vv. 187-8): dzЛǵǦήǴ ͚ǮdzǢ ǶǼ / ͊ǶǷЛǰ ǷǬǰƆ ͎ǮǮDzǰ ǷϸǶǧǨ ǧǨǶdzǿǩǨǬǰ ǹǿǥǪǵ (‘Come posso credere che a qualcun altro fra i cittadini appartenga questa chioma?’). E poco oltre, vv. 192-4, ͚ǦδǧƆ΋dzǼǵǯίǰ͎ǰǷǬǭǴǸǵǷǟǧƆǤͶǰǠǶǼ ǨͼǰǤǬǷǿǧƆ͊ǦǮǟǬǶǯǟǯDzǬǷDzАǹǬǮǷǟǷDzǸ ǥǴDzǷЛǰϲǓǴǠǶǷDzǸxǶǤǢǰDzǯǤǬǧƆΓdzƆ͚ǮdzǢǧDzǵ «Ma io, per affermarlo apertamente, che per me questo ornamento appartenga al più caro dei mortali, ad Oreste: mi seduce la speranza»48

Mentre nel primo passaggio ͚ǮdzǢǶǼ49 indica semplicemente che Elettra non può credere che il ricciolo trovato appartenga ad altri che ad Oreste50, nel secondo brano ͚ǮdzǢǵ, per estensione e intensificazione di significato (non sembra azzardato considerare l’immediato rincorrersi dei due termini come una sorta di climax ascendente), viene ad indicare la speranza che Oreste davvero torni, una speranza che, anche se Elettra non lo sa, sta effettivamente per realizzarsi. In queste prime occorrenze di Coefore, dunque, ͚ǮdzǢǵ ed ͚ǮdzǢǩǼ sono legati ad Oreste, esattamente come nell’ultimo passo di Agamennone in cui il lemma ͚ǮdzǢǵ compare, proprio alla fine della tragedia, in una sorta di voluto trait d’union. La speranza solo vagheggiata in Agamennone, quando Egisto connota spregiativamente Oreste come esule e la sua speranza di ritorno come vana, in Coefore si concretizzerà: Oreste sta per tornare. Fraenkel sottolinea, a proposito dei versi suddetti, che si tratta forse della più bella reticenza che si trova in Eschilo51. Il sostantivo ͊ǦǮǟǽǶǯǤ è di norma usato ad indicare qualcosa che dà gioia, esattamente come in questo caso il ricciolo di Oreste che accende le speranze di Elettra. Il verbo ǶǤǢǰǼ, occorre evidenziarlo, propriamente è termine che rimanda all’immagine del cane che scodinzola: in 46

Per la discussione dei passi delle Coefore, punto di riferimento costante sarà Garvie 1986. Si consideri anche il fatto che le Coefore sono decisamente più brevi dell’Agamennone. 48 Trad. Battezzato in Di Benedetto 1995, 387. 49 «Deliberative subjunctive; ‘suppose’, not ‘hope’» (così Garvie 1986, 93). Il congiuntivo aoristo introdotto da dzЛǵ è particolarmente frequente nell’Orestea (cf. Fraenkel 1950 II 358 ad Ag. 785): il costrutto sintattico diviene una sorta di ricorrenza formulare, che in questo caso potrebbe voler sottolineare l’importanza del momento. 50 Si è osservato che Ch. 187 è «tra i casi in cui più palese è l’assenza del valore di irrazionale speranza»; tuttavia, «altrove in Eschilo meno indubbia sembra l’assenza di un elemento emozionale, cfr. Ag. 505, nonché 1044» (così Perilli 1994, 70). 51 Fraenkel 1950 III 819. 47

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senso figurato vale poi ‘accogliere’, ‘salutare festosamente’ e, per estensione semantica, ‘adulare’, ‘blandire’, ‘ingannare’, ‘sedurre’; qui sta dunque a significare che Elettra è blandita, accarezzata, quasi come un fedele segugio in balìa completa dell’affetto del suo padrone. Elettra effettivamente non è ancora certa del fatto che Oreste sia tornato: semplicemente, lo spera. L’uso di Γdzǿ, inoltre, accentua la dipendenza di Elettra dalla speranza, che risulta così quasi personificata. Emerge dunque ancora una volta la natura ambivalente di ͚ǮdzǢǵ. L’intera Orestea risulta piena di speranze che restano incompiute: solo la speranza di Elettra è destinata a realizzarsi, anche se le conseguenze non saranno certo né liete né indolori. Poco oltre Oreste ed Elettra si incontrano presso la tomba del padre e si riconoscono. È ancora Elettra che parla di speranza. ΤǹǢǮǷǤǷDzǰǯǠǮǪǯǤǧȁǯǤǶǬǰdzǤǷǴǿǵ ǧǤǭǴǸǷβǵ͚ǮdzαǵǶdzǠǴǯǤǷDzǵǶǼǷǪǴǢDzǸ ͊ǮǭϹdzǨdzDzǬǫδǵǧЛǯƆ͊ǰǤǭǷǡǶ϶dzǤǷǴǿǵ YY  «O carissimo amore della casa paterna, lacrimata speranza di un seme di salvezza, fidando nel tuo valore riotterrai la casa di tuo padre»52.

La speranza di Elettra è Oreste: non solo la speranza della fanciulla si è realizzata, ma ha finito con l’identificarsi con Oreste, ‘seme di salvezza’, figlio che porta la salvezza ed artefice stesso della salvezza. In questo passo Oreste è detto da Elettra ‘carissimo amore’ (ǹǢǮǷǤǷDzǰ ǯǠǮǪǯǤ). L’aggettivo ǹǢǮǷǤǷDzǰ richiama i vv. 192-3 (ǷDzАǹǬǮǷǟǷDzǸǥǴDzǷЛǰϲǓǴǠǶǷDzǸ), dove è attribuito direttamente a Oreste, così come ai vv. 131 (ǹǢǮDzǰϲǓǴǠǶǷǪǰ) e 219 (ǯΰǯǟǷǨǸƆ͚ǯDzАǯϪǮǮDzǰǹǢ ǮDzǰ), pur ridotto al grado positivo. Oreste dunque è l’amata speranza che la casa di Agamennone venga preservata, ma allo stesso tempo è seme di rinascita, di un nuovo inizio. La metafora recupera i vv. 203-4 (ǨͶǧίǺǴΰǷǸǺǨЃǰǶǼǷǪǴǢǤǵǶǯǬǭǴDzАǦǠǰDzǬǷƆ͌ǰǶdzǠǴǯǤǷDzǵ ǯǠǦǤǵdzǸǫǯǡǰ ‘se è destino ottenere la salvezza, un grande ceppo potrebbe venire da un piccolo seme’53), laddove il seme è rappresentato dai capelli di Oreste, segno della sua presenza. Il linguaggio di Elettra richiama le parole di Clitemestra ad Agamennone, nel momento del ritorno del sovrano e del ricongiungimento dei due, cui può essere paragonato il ritrovarsi fraterno di Elettra e Oreste. La profonda differenza sta nell’atteggiamento e nei sentimenti provati dalle due donne: l’una, Elettra, è sinceramente felice, l’altra, Clitemestra, finge solo di esserlo.

52 53

Trad. Battezzato in Di Benedetto 1995, 389. Trad. Battezzato ibid. 387.

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Nel II episodio (vv. 536 ss.) il coro racconta ad Oreste il terribile incubo che aveva fatto presagire a Clitemestra quanto le sarebbe accaduto: la donna infatti aveva sognato di partorire un serpente e di averlo sistemato in fasce, come si fa con i bambini; l’animale poi era stato nutrito dalla regina, che spontaneamente le aveva offerto il proprio seno: il bambino-serpente, assieme al latte, aveva succhiato allora anche un grumo di sangue. Clitemestra infine – riferisce ancora il coro – aveva gridato nel sonno, sconvolta54. La narrazione del sogno è richiesta al coro da parte di Oreste, che vuole sapere il motivo per cui la regina abbia inviato a proprio beneficio la figlia a compiere un rito sulla tomba di Agamennone, che pure lei stessa aveva ucciso. ǔDzǮǮDzαǧƆ͊ǰϹǫDzǰ͚ǭǷǸǹǮǼǫǠǰǷǨǵǶǭǿǷЙ ǮǤǯdzǷϸǴǨǵ͚ǰǧǿǯDzǬǶǬǧǨǶdzDzǢǰǪǵǺǟǴǬǰx dzǠǯdzǨǬǧƆ͞dzǨǬǷǤǷǟǶǧǨǭǪǧǨǢDzǸǵǺDzǟǵ ͎ǭDzǵǷDzǯǤЃDzǰ͚ǮdzǢǶǤǶǤdzǪǯǟǷǼǰ (vv. 536-9). «Molti bracieri accecati dal buio venivano accesi per la padrona nel palazzo. Mandò poi queste libagioni sepolcrali, sperando di curare con un taglio i dolori»55.

Clitemestra, compiendo il sacro rituale, spera di poter allontanare da sé la sventura presagita in sogno; spera, vanamente, che il sogno che ha fatto non si avveri. Il coro quindi, parlando di lei, ne esprime a chiare lettere il timore, l’ansia che si realizzi un presagio funesto, come poi in effetti accadrà. Il verbo ͚ǮdzǢǩǼ nella fattispecie è fortemente ambivalente: il coro descrive i gesti della regina lasciandone trapelare la vanità; la speranza di Clitemestra cela in realtà tutta la sua paura: certamente, almeno in parte, Clitemestra sa che i suoi timori sono destinati a concretizzarsi. Di seguito entra in scena la stessa Clitemestra: uno straniero le annuncia la morte del figlio Oreste. Ma lo straniero è Oreste stesso, sotto mentite spoglie. Alla terribile notizia Clitemestra si dispera. ǭǤαǰАǰϲǓǴǠǶǷǪǵͬǰǦήǴǨΒǥDzȀǮǼǵ͞ǺǼǰ ͞DZǼǭDzǯǢǩǼǰΆǮǨǫǴǢDzǸdzǪǮDzАdzǿǧǤ < >56 54

Si è rilevato che Eschilo qui riprende l’Orestea di Stesicoro (PMG fr. 219), pur innovando: accade peraltro spesso che vi siano parallelismi testuali fra il poeta lirico e i tragici. L’immagine di Oreste-serpente, però, in questo contesto assume una valenza particolarmente significativa: la regina Clitemestra, infatti, in Agamennone e Coefore, è di frequente paragonata ad un rettile e così nel passo finisce coll’esservi un’associazione diretta, una sovrapposizione, fra Oreste e la madre, di più, un vero e proprio scambio di ruoli. La violenza, che fino ad ora aveva contraddistinto il personaggio di Clitemestra, si trasferisce su Oreste, diventando suo connotato precipuo. Oreste oltretutto scatena questa violenza proprio sulla madre. (Cf. Di Benedetto 1995, 72 ss. e 414 n. 89) 55 Trad. Battezzato in Di Benedetto 1995, 415. 56 Lacuna ipotizzata da Blaydes (traggo il dato da Page 1972, 229). Tutto il passo, così come tràdito, è piuttosto problematico.

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ǰАǰǧƆͫdzǨǴ͚ǰǧǿǯDzǬǶǬǥǤǭǺǨǢǤǵǭǤǭϸǵ ͶǤǷǴβǵ͚ǮdzαǵͬǰdzǴDzǧDzАǶǤǰ͞ǦǦǴǤǹǨ(vv. 696-9). «Ed ora Oreste – era infatti prudente e teneva fuori il suo piede dal fango della morte – ed ora proprio lui, la speranza che stava nella casa a medicare un cattivo baccanale, tu puoi scrivere che ha tradito»57.

Anche dalla madre Clitemestra Oreste è detto essere speranza (e in questo la donna riprende quanto espresso in precedenza da Elettra), ma una speranza che tradisce, perché, almeno così crede Clitemestra ingannata dall’Oreste-straniero, non si compirà: Oreste è morto e non può tornare. Ancora una volta, come in Agamennone, la regina si dimostra personaggio incompatibile con͚ǮdzǢǵ. Di seguito, nel II episodio, è Kilissa, la nutrice di Oreste, che parla del principe come di ‘speranza della casa’ (v. 776: ϲǓǴǠǶǷǪǵ͚ǮdzαǵDzͺǺǨǷǤǬǧǿǯǼǰ, ‘Oreste, speranza della casa, se n’è andato’). Kilissa ha creduto alla morte di Oreste, ma il coro subito allude a un esito diverso: per la nutrice la speranza-Oreste si è spenta, è svanita; il coro, invece, tiene viva la fiamma. Nel passaggio Kilissa dice in modo più semplice e immediato ciò che, come si è visto, in precedenza ha detto Clitemestra, e così possiamo nuovamente paragonare l’atteggiamento di due donne, che questa volta si trovano di fronte alla medesima notizia. Le parole della nutrice, infatti, richiamano quelle della sua regina: a distinguerle, anche in questo caso, sono gli opposti sentimenti provati. Torna dunque in scena l’opposizione verità-menzogna: Kilissa manifesta sentimenti sinceri; Clitemestra finge di provarli. Nelle parole dei tre personaggi citati (Elettra, Clitemestra, Kilissa) ͚ǮdzǢǵ ed ͚ǮdzǢǩǼ assumono dunque valenze differenti: come si scontrano mondi e modi femminili diversi, così si alternano sfumature semantiche e i discorsi delle tre donne divengono esemplari della variabilità di significato dei lemmi in questione. L’occorrenza di Ch. 776 è l’ultima della tragedia. Sarebbe a questo punto interessante, anzi opportuno, verificare le occorrenze di ͚ǮdzǢǵ ed ͚ǮdzǢǩǼ anche nell’ultimo dramma della trilogia eschilea, le Eumenidi. In realtà, però, Eschilo in Eumenidi non ricorre mai a ͚ǮdzǢǵ, né si riscontrano occorrenze di lemmi afferenti alla medesima famiglia. Se infatti di parole quali i verbi ͚ǮdzǢǩǼ e il meno frequente ͚dzǠǮdzDzǯǤǬ, o gli aggettivi (con relativi avverbi) ͎ǨǮdzǷDzǵ, ͊ǰǠǮdzǬǶǷDzǵ, ǧȀǶǨǮdzǬǵ, ǨΖǨǮdzǬǵabbiamo traccia, anche se non molto rilevante, nelle tragedie di Eschilo, e non solo nell’Orestea, Eumenidi è l’unico dramma in cui non vi è cenno alcuno, almeno dal punto di vista lessicale, alla famiglia di ͚ǮdzǢǵ.58 57

Trad. Battezzato in Di Benedetto 1995, 431. Queste le occorrenze di ͚ǮdzǢǵnelle tragedie di Eschilo (in ordine crescente di presenza): 11 in Ag., 4 in Ch., 3 in PV, 1 in Suppl., 1 in Pers., 1 in Sept., 2 nei frammenti, per un totale di 23. Per ͚ǮdzǢǩǼ: 2 in Ag., 2 in Ch., 2 in Sept., 1 in Pers. e 2 nei frammenti, per un totale di 9. Resta dubbio il v. 1058 di Agamennone (cf. supra n. 38 e Rigo 1999 ad l.). Il verbo ͚dzǠǮdzDzǯǤǬricorre solo una volta in Eschilo, cioè in Ag. 1031 (cf. supra n. 3); per gli aggettivi legati al tema di ͚ǮdzǢǵ questo è il bilancio: 8 occorrenze ͎ǨǮdzǷDzǵ (Ag. 911; Suppl. 55, 357, 987 [avverbio]; Pers. 261 58

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E forse ciò non stupisce. Nelle Eumenidi viene narrata la persecuzione di Oreste da parte delle Erinni, che culmina nella celebrazione di un processo presso il tribunale dell’Areopago. Il procedimento vede le Erinni stesse accusatrici, Apollo nel ruolo del difensore di Oreste e Atena a presiedere la giuria: Oreste, che ha ucciso la madre vendicando la morte del padre, alla fine viene assolto proprio grazie al voto di Atena. Nelle Eumenidi non sembra esservi spazio per alcun tipo di ͚ǮdzǢǵ: i protagonisti non sperimentano aspettative di alcun genere, non nutrono speranze di riuscita e di salvezza, non vivono timori di sconfitta e di dolore. La fine delle vicende è prossima, annunciata, obbligata. Se in Agamennone e Coefore la vicenda di Oreste è in corso di svolgimento e si percepisce palpabile l’attesa per ciò che deve accadere, per un destino che deve compiersi, nelle Eumenidi il tempo dell’attesa è finito: la dimensione di ͚ǮdzǢǵ è superata. Le Eumenidi sono il regno della certezza, la certezza che viene dall’insindacabile definitivo giudizio di riscatto per Oreste, la certezza che viene dalla giustizia. Le Eumenidi sono il regno di LjǢǭǪ. Trento

Ivan Sodini

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[avverbio], 265, 1006, 1027), 1 di ͊ǰǠǮdzǬǶǷDzǵ (Suppl. 330), 1 di ǧȀǶǨǮdzǬǵ (Ch. 412), 1 di ǨΖǨǮ dzǬǵ (PV 509).

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DUE NOTE PROMETEICHE I. PV 2: a proposito delle varianti ͎ǥǤǷDzǰH͎ǥǴDzǷDzǰ I.1. Uno dei loci tragici più volte citati a proposito dell’apporto decisivo della tradizione scoliastica nella constitutio textus è offerto dal v. 2 del Prometeo1:  [ǎǕ]     

ǚǫDzǰβǵǯίǰ͚ǵǷǪǮDzǸǴβǰͫǭDzǯǨǰdzǠǧDzǰ ǖǭȀǫǪǰ͚ǵDzͽǯDzǰ͎ǥǴDzǷDzǰǨͶǵ͚ǴǪǯǢǤǰ  ͳǹǤǬǶǷǨǶDzαǧίǺǴΰǯǠǮǨǬǰ͚dzǬǶǷDzǮήǵ ͏ǵǶDzǬdzǤǷΰǴ͚ǹǨЃǷDzǷǿǰǧǨdzǴβǵdzǠǷǴǤǬǵ ΓǻǪǮDzǭǴǡǯǰDzǬǵǷβǰǮǨǼǴǦβǰΆǺǯǟǶǤǬ ͊ǧǤǯǤǰǷǢǰǼǰǧǨǶǯЛǰ͚ǰ͊ǴǴǡǭǷDzǬǵdzǠǧǤǬǵ (PV 1-6).

«We have reached the land at the furthest bounds of earth, the Scythian marches, a wilderness where no mortals live. Hephaestus, you must attend to the instructions the Father has laid upon you, to bind this criminal to the high rocky cliffs in the unbreakable fetters of adamantine bonds»2. 2͎ǥǴDzǷDzǰ schol. Hom. Il. 14.78 (ǥǴDzǷβǵǦήǴ·ǹȁǵǭǤαDžͶǶǺȀǮDzǵx͎ǥǴDzǷDzǰǨͶǵ͚ǴǪǯǢǤǰ͚ǰό ǹδǵ DzΒ ǦǢǰǨǷǤǬ), schol. Ven. Aristoph. Ran. 814 (sed ibi ͎ǧǴDzǷDzǰ): ͎ǥǤǷDzǰ ǜ, ǖ (2 et 15) et schol. Rav. Aristoph. l.c.

Di contro ad ͎ǥǤǷDzǰ, che ha il consenso dell’intera tradizione manoscritta e dei relativi scoli, la pressoché totalità degli editori di quest’ultimo secolo3 accetta a testo la variante ͎ǥǴDzǷDzǰ, la cui fonte primaria è rappresentata dagli scholia vetera a Hom. Il. 14.784. Concettualmente non c’è un sostanziale divario semantico tra i due epiteti, essendo ͎ǥǴDzǷDzǰ una diretta conseguenza di ͎ǥǤǷDzǰ: il luogo è privo di uomini proprio perché inaccessibile. Non a caso nei lessici viene puntualmente registrato, tra i significati di͎ǥǤǷDzǰ, quello di ͞ǴǪǯDzǰ: 1

Un ringraziamento particolare va a tutti i colleghi intervenuti in sede di discussione per i loro utili suggerimenti, in part. i Proff. V. Citti, C. Garriga, P. Judet de La Combe, E. Medda, C. Miralles, R. Tosi, M. Taufer, P. Totaro, P. Volpe Cacciatore. 2 Trad. Sommerstein 2008, 445. 3 Tra gli editori che hanno preferito ͎ǥǤǷDzǰ vi sono Schütz 1809, 11 (e cf. anche, del medesimo, In Aeschyli Tragoediarum vol. I: Commentarius, 16: «inaccessam in solitudinem, quam pluribus deinde verbis Vulcanus describit v. 20»); Wellauer 1823, 7 e Id. 1930, 1; Bothe 1831, 21-2; Schoemann 1844, 67; Paley 1879, 97; Valgimigli 1904, 158 e 389; Groeneboom 1928, 25; Rose 1957, 247; per ulteriore bibliografia critica cf. Tosi 1988, 45-6 e 63-4, che si pronuncia a favore di ͎ǥǴDzǷDzǰ. 4 Cf. infra § I.5. Divisi sono al riguardo gli scholia vetera aristofanei, la maggior parte dei quali riporta ͎ǥǤǷDzǰ (cf. infra § VI). Gli altri testimoni (la Suda, Eustazio, Favorino e probabilmente Esichio: cf. Hsch. Ǥ 211 L. ͎ǥǴDzǷDzǰƽ͊dzǟǰǫǴǼdzDzǰ) dipendono con ogni probabilità dagli scholia vetera omerici.

185

 ǷDzǵ5.

Suda Ǥ 23 A.: ͎ǥǤǷDzǰƽͷǨǴβǰ͊dzǴǿǶǬǷDzǰ͞ǴǪǯDzǰƽǭǤα·ǧβǵ͎ǥǤǷDzǵͧ͊dzǿǴǨǸ

Forse anche a causa di questa sovrapponibilità di senso, il passo ha riscosso un decrescente interesse da parte dei critici più recenti, i quali, in ossequio al principio della lectio difficilior, si sono limitati, dall’una all’altra edizione, a riconfermare ͎ǥǴDzǷDzǰ senza dedicarvi particolare attenzione. Ne è conferma la recente edizione di Podlecki, che ritenendo evidentemente la questione come risolta in via definitiva a favore di ͎ǥǴDzǷDzǰ ne elimina ogni accenno dal suo commento6. Appare dunque utile un riesame dei dati in nostro possesso, che ponga in più chiara luce i termini del problema e renda la scelta dell’editore, quale che essa sia, più consapevole e motivata. I.2. Delle due varianti, ͎ǥǤǷDzǰ, oltre ad essere più regolare dal punto di vista prosodico-metrico7, è anche quella che meglio s’armonizza a questa situazione incipitaria. Si tratta infatti di un contesto di descrizione geofisica, com’è ulteriormente chiarito dal sintagma dzǠǷǴǤǬǵ / ΓǻǪǮDzǭǴǡǯǰDzǬǵ (vv. 4-5), e all’inizio di descrizioni di luoghi isolati o deserti è frequente trovare un riferimento alla loro inaccessibilità: come ad es. Agatharch. De mari rubro 59.2-3 (ap. Phot. Bibl. cod. 250, 453b 20) ͞ǴǪǯDzǵ ǧίǷǨǮǠǼǵǭǤαdzϪǶǬǷDzЃǵdzǨǴǬDzǢǭDzǬǵ͎ǥǤǷDzǵ, D. S. 3.30.1 ͞ǴǪǯDzǵǧХ͚ǶǷαǭǤαdzǤǰǷǨǮЛǵ͎ǥǤǷDzǵ,Str. 1.1.17 ͚ǰ͟ǮǨǶǬǭǤαǧǴǸǯDzЃǵ ͊ǥǟǷDzǬǵ͚ǴǪǯǢǤǬǵ e 17.1.21 (͒ǴǤǥǢǤ) ͞ǴǪǯDzǵ͏dzǤǶǟ͚ǶǷǬǭǤα͎ǥǤǷDzǵǶǷǴǤǷDz dzǠǧЙ, Plu. comp. Cim. Luc. 3.2 ǫǪǴǢǼǰǨͶǵ͚ǴǪǯǢǤǵǭǤαΗǮǤǵ͊ǶǷǬǥǨЃǵǭǤα͊ǥǟ ǷDzǸǵ ͊dzDzǧǬǧǴǤǶǭǿǰǷǼǰ nei quali l’aggettivo ͎ǥǤǷDzǵ ricorre in associazione con i termini ͞ǴǪǯDzǵ/͚ǴǪǯǢǤ8. Diversamente, all’interno del discorso di Efesto in PV 20, il contesto giustifica il ricorso all’epiteto ͊dzǟǰǫǴǼdzDzǵ, in quanto prolettico rispetto all’osservazione geoantropica immediatamente successiva. Proprio perché si tratta di un ͊dzǟǰ ǫǴǼdzDzǵdzǟǦDzǵPrometeo non sentirà nessuna voce né vedrà forma umana:  dzǴDzǶdzǤǶǶǤǮǨȀǶǼǷМǧХ͊dzǤǰǫǴȁdzЙdzǟǦЙ ͻǰХDzΖǷǨǹǼǰΰǰDzΖǷǨǷDzǸǯDzǴǹΰǰǥǴDzǷЛǰ

E cf. anche Phot. Ǥ31.1 Th. (͎ǥǤǷDzǰƽͷǨǴǿǰ͊dzǴǿǶǬǷDzǰ͞ǴǪǯDzǰ), nonché Et.Gud. Ǥ 4.12 de S. Cf. Podlecki 2005. 7 Le sillabe in soluzione (si tratta di un tribraco terzo) raramente ammettono positio debilis (come avviene per la sillaba iniziale di ͎ǥǴDzǷDzǰ); cf. in proposito Griffith 1983, 81-2, che come deroga a questa tendenza riporta il caso di ǭǨǰDzǹǴǿǰǼǰ al v. 762. 8 In simili contesti, un altro diffuso sinonimo è ǧȀǶǥǤǷDzǵ: cf. ad es. Str. 9.1.4 dzDzǮǮǤǺDzА ǭǤα dzǤǴǟǭǴǪǯǰǿǵ͚ǶǷǬǧǬήǷβΓdzǨǴǭǨǢǯǨǰDzǰΊǴDzǵǧȀǶǥǤǷǿǰǷǨǭǤαΓǻǪǮβǰΊǰ, Xen. Hell. 7.1.25 ΊǴǪǧȀǶǥǤǷǤ, Plb. 3.52.8ǹǟǴǤǦǦǟǷǬǰǤǧȀǶǥǤǷDzǰǭǤαǭǴǪǯǰȁǧǪ (e cf. anche 2.78.11 ǭǴǪǯǰȁ ǧǪǭǤαǧȀǶǥǤǷDzǰ 5.22.3ǭǤǷήǺǨǬǯǨǴǬǰήǵ͊ǰǤǷDzǮǟǵΊǰǷǤǵǷǴǤǺǨЃǵǭǤαǧǸǶǥǟǷDzǸǵǭǤαǧǬǤ ǹǨǴǿǰǷǼǵ ΓǻǪǮDzȀǵ; 12.17.5 ͊dzDzǷǿǯDzǸǵ ͞ǺDzǰǷǤ ǭǤα ǧǸǶǥǟǷDzǸǵ ǮǿǹDzǸǵ, D. S. 19.19.7 ǭǴǪ ǯǰȁǧDzǸǵǧХDzΖǶǪǵǭǤαǧǸǶǥǟǷDzǸǷϸǵ·ǧDzА, App. Hann. 59.4dzǟǰǷǤͬǰ͊dzǿǭǴǪǯǰǤǭǤαǧȀǶ ǥǤǷǤ 5 6

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Ίǻ϶[...] (PV 20-2).

Sulla stessa linea di ͊dzǤǰǫǴȁdzЙ dzǟǦЙ si pone l’espressione ǷǸǺǿǰǷХ ͚ǴǡǯDzǸ ǷDzАǧХ͊ǦǨǢǷDzǰDzǵdzǟǦDzǸal v. 270: è naturale che il Titano, subito dopo aver ricordato la sua philantropia (ǫǰǪǷDzЃǵ ͊ǴǡǦǼǰ ǤΒǷβǵ ǪΓǴǿǯǪǰ dzǿǰDzǸǵ, v. 267) metta in rilievo la modalità della sua punizione, secondo la legge del contrappasso: la relegazione su un monte solitario e ‘privo di vicini’. In considerazione delle specificità dei contesti (diversi personaggi parlanti e soprattutto differenti intenti comunicativi), i vv. 20 e 267 non possono costituire una conferma della lezione ͎ǥǴDzǷDzǰ al v. 29. Tanto più che si tratta delle parole pronunciate da Kratos al suo primo ingresso, ed è frequente nella letteratura teatrale, nelle autopresentazioni dei personaggi che entrano in scena, un riferimento alle caratteristiche del percorso. Facendo seguire al verbo ͫǭDzǯǨǰ l’epiteto ͎ǥǤ ǷDzǰ, Kratos crea infatti un nesso implicitamente ossimorico (il quartetto ‘è giunto’ in un luogo ‘inaccessibile’), al quale conferisce ulteriore rilievo il termine Dzͽ ǯDzǵ, il cui primo significato è per l’appunto quello di ‘strada’, ‘cammino’. La ‘via’ da loro percorsa è dunque ‘impervia’ («Scythicam viam, aviam in solitudinem» traduceva Porson, esplicitando l’ossimoro)10: ne risulta opportunamente sottolineata la difficoltà del viaggio, in linea con l’insolita ambientazione del dramma agli estremi dell’oikoumene. Nel primo episodio Oceano, sopraggiungendo su un’alata cavalcatura, conserverà il riferimento alla lunghezza del viaggio, sia nella sua iniziale autopresentazione (ͫǭǼ ǧDzǮǬǺϸǵ ǷǠǴǯǤ ǭǨǮǨȀǫDzǸ, v. 284, dove l’aggettivo ǧDzǮǬǺϸǵ si richiama al tema della marginalità della terra scitica, alla stregua diǷǪǮDzǸǴǿǰ al v. 1)11, sia al momento d’uscire di scena (con l’accenno alla stanchezza della sua cavalcatura, desiderosa di riposare le spossate membra nelle stalle)12, ma naturalmente abbandonerà il motivo dell’impervietà del percorso: l’DzͼǯDzǵ del vecchio dio è infatti ‘ampio’ e ‘aperto’, avendo come teatro i liberi spazi dell’aria (ǮǨǸǴβǰǦήǴDzͽǯDzǰǤͶǫǠǴDzǵ,v. 394)13. 9

Cf. ad es. West 1990, 403 in apparato (ma si tratta di un argomento largamente diffuso). Porson 1806, 3. 11 A proposito delle valenze semantiche dell’epiteto ǷǪǮDzǸǴǿǰ cf. Groeneboom 1927, 89. Sulla lontananza della Scizia si soffermerà anche il Coro ai vv. 417-9: ǖǭȀǫǪǵ΋ǯǬǮDzǵDz͹ǦϪǵ͞ǶǺǤǷDzǰ ǷǿdzDzǰ͊ǯǹαǐǤǬЛǷǬǰ͞ǺDzǸǶǬǮǢǯǰǤǰ. 12 Cf. PV 395-6: ͎ǶǯǨǰDzǵǧǠǷ͌ǰǶǷǤǫǯDzЃǵ͚ǰDzͶǭǨǢDzǬǶǬǭǟǯǻǨǬǨǰǦǿǰǸ 13 Al v. 2 la formulazione ossimorica, che oppone ͎ǥǤǷDzǰ sia a ͫǭDzǯǨǰche aDzͽǯDzǰ, è accentuata dal fatto che nel linguaggio poetico era diffuso il nesso ͶǠǰǤǬ (e sinonimi) dzǠǧDzǰ nel significato di arrivare in un qualsivoglia posto, per cui cf. ad es. Hom. Il. 13.796 ǨͼǶǬdzǠǧDzǰǧǨ; Soph. OC 415 DzͷǯDzǮǿǰǷǨǵǨͶǵnjǡǥǪǵdzǠǧDzǰ, 467, 736; Eur. Andr. 1085 ͪǮǫDzǯǨǰǙDzǢǥDzǸdzǠǧDzǰ, HF 620, Pho. 836 s., Rh. 962, etc.; per una negazione del nesso, sempre all’incipit di dramma, cf. Eur. Ba. 10 ͎ǥǤǷDzǰ >…] dzǠǧDzǰ ǷǿǧǨ). Accanto a suddette formulazioni è pure diffuso, anche nella poesia tragica, il nesso DzͶǭǨЃǰ dzǠǧDzǰ (cf. ad es. Eur. Andr. 58 Ƿβ ǗǴDzǢǤǵ […] ΞǬǭDzАǯǨǰ dzǠǧDzǰ, Med. 666 e 1359, Hel. 57, fr. 819.4 K., etc). Qui Kratos inizia con il topico nesso tragico al v. 1 (ͫǭDz ǯǨǰdzǠǧDzǰ), ma poi al v. 2 corregge con ͎ǥǤǷDzǰ la precedente formulazione e implicitamente nega pure il nesso DzͶǭǨЃǰdzǠǧDzǰ: in questo scitico   non si abita (͚ǴǪǯǢǤ). Rispetto alla descrizione del prativo altopiano scitico quale è riportata, ad es., in Hp. Aër. 18 (ͧǧίǖǭǸǫǠǼǰ͚ǴǪǯǢǪ ǭǤǮǨǸǯǠǰǪdzǨǧǬǟǵ͚ǶǷǬǭǤαǮǨǬǯǤǭȁǧǪǵǭǤαΓǻǪǮǡ) viene qui accentuato l’elemento della ripi10

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Per contro, l’͎ǥǤǷDzǰ di Kratos sembra suggerire che il quartetto sia entrato a piedi dall’eisodos, e che si sia inerpicato sul dzǟǦDzǵ per raggiungere il punto in cui il Titano verrà incatenato: rispetto ad ͎ǥǴDzǷDzǰ ci fornisce dunque un’indicazione di regia implicita, una sorta di didascalia inglobata nel testo (vedremo più avanti che conseguenze ha ricavato Luciano da questo spunto)14. Per di più, ͎ǥǤǷDzǰ appare ben appropriato a sottolineare l’insolita scenografia che gli spettatori ateniesi si trovano di fronte. È infatti ben documentato, anche nella letteratura drammatica, il nesso che associa termini come ΊǴDzǵ, ǭDzǴǸǹǡ e simili all’aggettivo ͎ǥǤǷDzǵ: si vedano, tra i vari, i casi di Soph. OR 719 ǨͶǵ͎ ǥǤǷDzǰΊǴDzǵ, Eur. Ion 86 ǔǤǴǰǤǶǬǟǧǨǵǧХ͎ǥǤǷDzǬǭDzǴǸǹǤǢ Pho. 1751-2 ǶǪǭβǵ ͎ǥǤǷDzǵΊǴǨǶǬǯǤǬǰǟǧǼǰ,fr. 740, 4-5 K.ǭǤǷХ͞ǰǤǸǮХΆǴǠǼǰ͊ǥǟǷDzǸǵ͚dzǬδǰ / ǮǨǬǯЛǰǤǵ e, in contestoparatragico, Aristoph. Lys. 482 ǯǨǦǤǮǿdzǨǷǴDzǰ, ͎ǥǤǷDzǰ ͊ǭǴǿdzDzǮǬǰ15. Spesso, soprattutto nelle descrizioni geografiche, il termine che contrassegna il monte è ulteriormente caratterizzato da epiteti che ne sottolineano l’altezza o l’aspetto dirupato e roccioso, sulla linea dell’epiteto ΓǻǪǮDzǭǴǡǯǰDzǬǵ in PV 5 (così, ad es., in Hdt. 4.25.3 ΊǴǨǤ ǦήǴ ΓǻǪǮή ͊dzDzǷǟǯǰǨǬ ͎ǥǤǷǤ ǭǤα DzΒǧǨǢǵǶǹǨǤΓdzǨǴǥǤǢǰǨǬ, 7.176.13 ΊǴDzǵ͎ǥǤǷǿǰǷǨǭǤα͊dzǿǭǴǪǯǰDzǰΓǻǪǮǿǰ 7.198.6 dzǨǴα ǧί Ƿβǰ ǺЛǴDzǰ ΊǴǨǤ ΓǻǪǮή ǭǤα ͎ǥǤǷǤ, Strab. 12.6.5 ͞ǶǷǬ ǧί ͚ǰ ΓǻǪǮDzЃǵǷDzАǗǤȀǴDzǸǯǠǴǨǶǬǭǴǪǯǰDzЃǵ͊dzDzǷǿǯDzǬǵǶǹǿǧǴǤǭǤαǷβdzǮǠDzǰ͊ǥǟ ǷDzǬǵ). Di tutto questo c’è traccia nelle parole di Kratos, che fondono insieme descrizione della scenografia e indicazioni di regia. Quanto ad Eschilo, se nei suoi drammi superstiti non presenta attestazioni dell’aggettivo ͎ǥǤǷDzǵ, utilizza tuttavia profusamente composti dello stesso aggettivo verbale, in svariate formazioni, come ͋ǥǴDzǥǟǷǪǵ (Pers. 1073), ǧȀǶǥǤǷDzǵ (Pers. 1070 e 1074),͛ǮǨǬDzǥǟǷǪǵ (Pers. 39),͚dzǤǯǥǤǷǡǴ (Ch. 280),ǨΖǥǤǷDzǵ(PV 718), ͦǮǢǥǤǷDzǵ (Suppl. 352),ͷdzdzDzǥǟǷǪǵ (Pers. 26),ǭǤǷǤǬǥǟǷǪǵ(PV 359), ǰǤǸ ǥǟǷǪǵ (Pers. 375, 1011; Ag. 405, 987; Eum. 456), DzΒdzǤǴǥǤǷǿǵ(Suppl. 1048), ΓdzǨǴǥǤǷǿǵ(Ag. 428). I.3. Un utile parallelo per le parole di Kratos è fornito dalla descrizione che Odisseo fa di Lemno nell’incipit del Filottete:  ͒ǭǷΰǯίǰͫǧǨǷϸǵdzǨǴǬǴǴȀǷDzǸǺǫDzǰβǵ ǏǡǯǰDzǸǥǴDzǷDzЃǵ͎ǶǷǬdzǷDzǵDzΒǧХDzͶǭDzǸǯǠǰǪ(Soph. Phil. 1-2).

dezza e impervietà, dato tipico dei monti frequentati dagli dèi. La formulazione ossimorica di Kratos presuppone naturalmente l’opposizione polare pedon/oros su cui cf. ad es. Buxton 1992, 2. 14 Cf. infra § I.4. 15 Proprio per il suo carattere descrittivo, il nesso abatos + oros è diffuso negli storici: cf. Hdt. 8.138.14 ΊǴDzǵ […] ͎ǥǤǷDzǰ Γdzβ ǺǨǬǯЛǰDzǵ, Xen. 4.1.20 ǥǮǠǻDzǰ […] dzǴβǵ Ƿή ΊǴǪ ǭǤα Ͷǧί Οǵ ͎ǥǤǷǤdzǟǰǷǤ͚ǶǷǢ, 4.6.17 DzΒǭ͎ǥǤǷǿǰ͚ǶǷǬǷβΊǴDzǵ[…] ǥǤǷήǭǤαǷDzЃǵΓdzDzǩǸǦǢDzǬǵ͞ǶǷǤǬ, 5.6.9 ΟǵǧХǤΖǷǼǵǭǤα·ǔǤǴǫǠǰǬDzǵ͎ǥǤǷDzǵ. Nel linguaggio tragico il termine si trova più volte connesso con descrizioni di luoghi divini (cf. ad es. Soph. OC 167 ͊ǥǟǷǼǰ͊dzDzǥǟǵ675Ƿήǰ͎ǥǤ ǷDzǰ ǫǨDzА ǹǸǮǮǟǧǤ), il che lo rende comunque appropriato a questo contesto in cui entrano in scena delle divinità.

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La formulazione è duplice, come nel Prometeo: il primo epiteto, ͎ǶǷǬdzǷDzǵ, che contrassegna un luogo non calpestato e dunque non percorso dagli esseri umani, si pone sulla stessa linea di ͎ǥǤǷDzǵ (un’isola ai confini del mondo, quale Lemno è immaginata da Sofocle, è un luogo difficilmente raggiungibile, proprio come la periferica Scizia), e per l’appunto con ͎ǥǤǷDzǵ l’epiteto ͎ǶǷǬdzǷDzǵè glossato dai commentatori antichi con specifico riferimento a questo passo:  Suda Ǥ 4242 A.͎ǶǷǬdzǷDzǵƽ͎ǥǤǷDzǵ͊ǧǬǿǧǨǸǷDzǵǖDzǹDzǭǮϸǵx͊ǭǷΰǯίǰͫǧǨǷϸǵ dzǨǴǬǴǴȀǷDzǸǺǫDzǰβǵǏǡǯǰDzǸǥǴDzǷDzЃǵ͎ǶǷǬdzǷDzǵDzΒǧХDzͶǭDzǸǯǠǰǪ

 E si veda anche, in riferimento a Soph. Ai. 657 (ǯDzǮȁǰǷǨǺЛǴDzǰ͞ǰǫХ͌ǰ͊ǶǷǬǥϸ ǭǢǺǼ):  Suda Ǥ 4240 A.: ǨΓǴǡǶǼǹǪǶαǷǿdzDzǰDzΙDzΒǧǨαǵ͚dzǬǥǡǶǨǷǤǬ·DžͺǤǵǹǪǶαǰͻǰǤ ǯǡǷǬǵǤΒǷМ͊ǭDzǮDzǸǫǡǶ϶ǭǤαФDžǶǷǬǥϸ͎ǥǤǷDzǰdzDzǶǢǭǤαФDžǶǷǬǥǡǵ·͎ǥǤǷDzǵͨ ͊ǶǹǤǮǡǵ Hsch. Ǥ 7859 L. ͊ǶǷǬǥϸ· ͎ǥǤǷDzǰ

Nonché, sempre a proposito dell’aggettivo ͊ǶǷǬǥǡǵ, in un altro passo sofocleo16: schol. Soph. OC 126:͊ǶǷǬǥǠǵƽ͎ǥǤǷDzǰ

A sua volta, il secondo epiteto, DzΒǧ’DzͶǭDzǸǯǠǰǪ, che costituisce la logica conseguenza di ͎ǶǷǬdzǷDzǵ, si pone sulla stessa linea del prometeico ͚ǴǪǯǢǤǰ (e come questo in posizione clausolare). Peraltro, l’analogia di queste due formule incipitarie, percepibile anche nella costruzione sintattica nonchè nella dislocazione dei termini all’interno dei trimetri17, era ben presente ai commentatori antichi, che come parallelo per l’incipit del Prometeo citavano per l’appunto i due trimetri del Filottete: 

schol. PV 2a 1-3 (p. 68 Herington): ǖǭȀǫǪǰ ͚ǵ DzͼǯDzǰ: Ǘΰǰ ǖǭǸǫǬǭΰǰ ·ǧǿǰx ͻǰǤ ǦήǴ ͊dzǤǴǤǯȀǫǪǷDzǵ ǨͺǪ · ǔǴDzǯǪǫǨȀǵ ǧǬή ǷDzАǷDz ǤΒǷβǰ ͚ǭǨЃǶǨ ͎ǦDzǸǶǬǰ ǭǤα ǖDzǹDz ǭǮϸǵǷβǤΒǷβdzǨǴαǙǬǮDzǭǷǡǷDzǸǮǠǦǨǬ

I.4. Qualche ulteriore indicazione può inoltre provenire dalla testimonianza del Prometeo di Luciano, un dialogo in cui vengono liberamente riutilizzati elementi lessicali eschilei in un contesto consapevolmente rovesciato18: Efesto, irritato per il furto del fuoco che ritiene sua esclusiva prerogativa, da compartecipe si tra16

E cf. anche, nell’unica ricorrenza dell’aggettivo in Eschilo: schol. Aesch. Sept. 859 (Dindorf) ͊ǶǷǬǥϸƽ͊ǧǬǿǧǨǸǷDzǰ. O. ͊dzǿǴǨǸǷDzǰ. B. 17 Si noti la posizione di rilievo di ǺǫDzǰǿǵ, rispettivamente all’inizio e alla fine del primo trimetro, nonchè la dislocazione del nome proprio geografico all’attacco del secondo verso. 18 Per una valida lettura dell’ancora poco studiata operetta lucianea cf. Gargiulo 1993, 189-214.

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sforma qui in sdegnato accusatore, facendo dunque proprio l’atteggiamento che nel Prometeo Kratos lo aveva sollecitato ad assumere; e Prometeo, che nel dramma non ribatteva ai suoi carnefici, diviene ora particolarmente loquace e dialettico, facendo dunque propria la caratteristica di ǶDzǹǬǶǷǡǵ che Kratos gli attribuiva al v. 62. Ebbene, proprio all’inizio del dialogo, che ha una palese struttura ‘scenica’ con l’ingresso dei due carnefici dialoganti, l’Hermes lucianeo, nel ruolo che nel dramma era proprio di Kratos (dare ordini a Efesto per l’incatenamento del Titano), così descrive lo scenario rupestre in cui il gruppo è appena giunto: Luc. Prom. 1:͊dzǿDZǸǴDzǢǷǨǦήǴǤͷdzǠǷǴǤǬǭǤα͊dzǴǿǶǥǤǷDzǬdzǤǰǷǤǺǿǫǨǰͦǴǠǯǤ ͚dzǬǰǨǰǨǸǭǸЃǤǬ ǭǤα ǷМ dzDzǧα ǶǷǨǰΰǰ ǷǤȀǷǪǰ · ǭǴǪǯǰβǵ ͞ǺǨǬ Ƿΰǰ ͚dzǢǥǤǶǬǰ Οǵ ͊ǭǴDzdzDzǧǪǷαǯǿǮǬǵ͛ǶǷǟǰǤǬ

 Se le ͊dzǿDZǸǴDzǢdzǠǷǴǤǬ e il sostantivo ǭǴǪǯǰǿǵ rimandano all’eschileo dzǠǷǴǤǬǵ / ΓǻǪǮDzǭǴǡǯǰDzǬǵ, l’epiteto ͊dzǴǿǶǥǤǷDzǬ si pone evidentemente sulla linea di ͎ ǥǤǷDzǵ. E alla difficoltà nell’incedere si richiama anche, subito dopo, il riferimento all’angusta via d’accesso (ǶǷǨǰΰǰǷǤȀǷǪǰ[…]Ƿΰǰ͚dzǢǥǤǶǬǰ), con la riproposizione del radicale di ǥǤǢǰǼ L’osservazione di Hermes che il sentiero fra le rocce a picco è così stretto che ci si passa a malapena in punta di piedi appare come uno sviluppo, nel senso di un’ironica accentuazione, dell’͎ǥǤǷDzǰ eschileo, secondo modalità tipiche della letteratura ellenistico-imperiale. La mia impressione è che Luciano, oltre a leggere ͎ǥǤǷDzǰ in PV 2, dovesse trovarlo particolarmente efficace sul piano della drammatizzazione, associandolo ai movimenti scenici del gruppo di personaggi. I.5. Se l’epiteto ͎ǥǤǷDzǰ appare a suo posto in questo incipit, la variante ͎ǥǴDzǷDzǰ presenta un elemento di difficoltà che i più recenti editori hanno tralasciato di evidenziare nei loro commenti: il significato qui presupposto dall’aggettivo contrasta sia con le altre attestazioni di questo termine sia con il consolidato e omogeneo usus linguistico della famiglia semantica a cui il termine appartiene19. La prima attestazione dell’aggettivo è all’interno del nesso ǰγDZ ͊ǥǴǿǷǪ in Hom. Il. 14.78:  ǰϸǨǵ΋ǶǤǬdzǴЛǷǤǬǨͶǴȀǤǷǤǬ͎ǦǺǬǫǤǮǟǶǶǪǵ ͟ǮǭǼǯǨǰdzǟǶǤǵǧί͚ǴȀǶǶDzǯǨǰǨͶǵ͏ǮǤǧЃǤǰ ΗǻǬǧХ͚dzХǨΒǰǟǼǰ·ǴǯǢǶǶDzǯǨǰǨͶǵ΋ǭǨǰ͞Ǯǫ϶ ǰγDZ͊ǥǴǿǷǪͨǰǭǤαǷϹ͊dzǿǶǺǼǰǷǤǬdzDzǮǠǯDzǬDz ǗǴЛǨǵƽ͞dzǨǬǷǤǧǠǭǨǰ͚ǴǸǶǤǢǯǨǫǤǰϸǤǵ͋dzǟǶǤǵ(Il. 14.75-9).

19 La più dettagliata esposizione rimane quella di Buttmann 1824 I 131-9 (cf. § 34 «͊ǯǥǴǿǶǬDzǵ ͎ǯǥǴDzǷDzǵ͊ǥǴǿǷǪ͊ǥǴDzǷǟǩǨǬǰͪǯǥǴDzǷDzǰ»), il quale ha rilevato come già in Omero il significato originario di ‘immortale’ (cf. anche ͻdzdzDzǬ͎ǯǥǴDzǷDzǬ Il. 16.381 e 867 e ǤͽǯǤ͎ǯǥǴDzǷDzǰ Il. 5.339 e 870) si estenda a quello di ‘divino’, in riferimento a tutto ciò che è di pertinenza della divinità.

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Il significato di ͊ǥǴǿǷǪ è qui equivalente a quello di ͊ǫǟǰǤǷDzǵ20, ‘immortale’ e dunque ‘sacra’, ‘divina’, così come poco sopra era stato definito il mare (ǨͶǵ͏ǮǤ ǧЃǤǰ, v. 75). Più precisamente, si tratta di una variante metrica del diffuso epiteto ͎ǯǥǴDzǷDzǵ21, che presenta venti attestazioni in Omero22, di cui quattro in connessione con il sostantivoǫǨǿǵ (Il. 20.358 [Ares]; 22.9 [Apollo]23; 24.460 [Hermes]; Od. 24.445)24 e una in riferimento, per l’appunto, alla notte: Od. 21.330 dzǴαǰǦǟǴǭǨǰǭǤαǰγDZǹǫЃǷХ͎ǯǥǴDzǷDzǵ

Allo stesso campo semantico appartiene anche l’aggettivo omerico ͊ǯǥǴǿǶǬDzǵ, il più diffuso della famiglia, e in connessione con svariati sostantivi, tra i quali per l’appunto ǰȀDZ. Sulla stessa linea di Il 14.78 e Od. 11.330 si pone infatti la formula ͊ǯǥǴDzǶǢǪ ǰȀDZ (Od. 4.429 e 574, 7.283) con le sue varianti: ͊ǯǥǴDzǶǢǪǰ ǧǬή ǰȀǭǷǤ (Il. 2.57) e ǰȀǭǷǤǧǬХ͊ǯǥǴDzǶǢǪǰ (10.41 e 142, 24.363; Od. 9.404, 15.8), nonché, con dislocazione dell’epiteto al verso successivo, in Il. 18.268: ǰАǰǯίǰ ǰγDZ ͊dzǠdzǤǸǶǨ dzDzǧȁǭǨǤ ǔǪǮǨDŽǼǰǤ / ͊ǯǥǴDzǶǢǪ. Complessivamente, sono tre varianti lessicali e metriche del sintagma ‘notte immortale’, per un totale di dodici attestazioni, di cui una con ͊ǥǴǿǷǪ, una con ͎ǯǥǴDzǷDzǵ e dieci con ͊ǯǥǴDz ǶǢǪ25. Si tratta naturalmente di epiteti formulari, che in quanto tali sono sganciati dall’immediatezza del contesto. Di parere diverso erano invece gli antichi commentatori, che a proposito del nesso ǰγDZ͊ǥǴǿǷǪ di Il. 14.78 erano incerti fra il senso (corretto) di sacralità e quello di ‘non frequentata dai mortali’, con un’estensione generalizzante della successiva osservazione di Agamennone (ͨǰ ǭǤα ǷϹ͊dzǿǶǺǼǰǷǤǬdzDzǮǠǯDzǬDz /ǗǴЛǨǵ), che a loro parere attraverso il riferimento ai Troiani avrebbe coinvolto tutti quanti gli uomini: poiché nessun essere umano combatte e nemmeno si muove di notte, se ne è dedotto che con ͊ǥǴǿǷǪ Omero abbia voluto indicare che la notte è ‘priva di uomini’. È per l’appunto nell’ambito di questo errato interpretamentum che ci viene documentata la variante ͎ǥǴDzǷDzǰ a PV 2: Cf. Leumann 1950, 125: «͎ǯǥǴDzǷDzǵ (auch ͎ǥǴDzǷDzǵ), das Gegenstück zu ǥǴDzǷǿǵ ‘Sterblicher’, ist Synonymum zu͊ǫǟǰǤǷDzǵ». 21 Cf. Hsch. Ǥ 208 L.: ͊ǥǴǿǷǪƽ͊ǯǥǴǿǷǪǫǨǢǤ (ǒ 78). 22 A quelle dei poemi omerici si aggiungono altre otto attestazioni del termine negli Inni omerici. 23 Come risulta chiaro dalla formulazione di questo passo (ǷǢdzǷǠǯǨǔǪǮǠDzǵǸͷίdzDzǶαǰǷǤǺǠǨǶǶǬ ǧǬȁǭǨǬǵ / ǤΒǷβǵǫǰǪǷβǵ͚δǰǫǨβǰ͎ǯǥǴDzǷDzǰDzΒǧǠǰȀdzȁǯǨ /͞ǦǰǼǵΟǵǫǨǿǵǨͶǯǬ, Il. 22.8-10), l’aggettivo ͎ǯǥǴDzǷDzǵ è collocato in opposizione polare con ǫǰǪǷǿǵ 24 A differenza di ͊ǫǟǰǤǷDzǵ, usato sia al plurale in riferimento a ǫǨDzǢ, che al singolare (cf. ad es. ͊ǫǟǰǤǷDzǵǷǠǭǨǷDzNJǨȀǵ Il. 24.693 e ͊ǫǤǰǟǷǪdzǿǴǨǎǢǴǭǪOd. 12.302), ͎ǯǥǴDzǷDzǵ si trova concordato con ǫǨǿǵ soltanto nel singolare (cf. Leumann 1950, 125 n. 95). Sul valore sinonimico di ͊ǫǟǰǤǷDzǵ e di ͎ ǯ ǥǴDzǷDzǵ si veda ad es. Od. 24.44 ss., dove compare al v. 444 il nesso ͊ǫǤǰǟ ǷǼǰ […] ǫǨЛǰ (ma cf. anche ͊ǫǟǰǤǷDzǵǧίǫǨǿǵ v. 447) e al v. 445ǫǨβǰ͎ǯǥǴDzǷDzǰ 25 La fortuna della formula va ben oltre Omero, spaziando per tutto l’arco della classicità: da Alcm. fr. 1, 62 Davies (ǰȀǭǷǤǧǬХ͊ǯǥǴDzǶǢǤǰ) a AP 9.381.7 (ǰȀǭǷǤǧǬХ͊ǯǥǴDzǶǢǪǰ) a Q. S. 2.265 e 9.432 (͊ǯǥǴDzǶǢǪǰȀDZ). Sulla fortuna di questi nessi omerici cf. anche Luc. Gall. 8 e Somn. 5. 20

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schol. Hom. Il. 14.78a-b (578.37-42 Erbse): Ariston.{ǰγDZ}͊ǥǴǿǷǪ:΋ǷǬͪǷDzǬǭǤǷήdzǤǴǟǮǨǬǻǬǰǷDzАǯ͊ǰǷαǷDzА͊ǯǥǴǿǷǪDzͽDzǰ ͊ǫǟǰǤǷDzǵͨ͊ǥǴǿǷǪǭǤǫХͩǰǥǴDzǷDzαDzΒǹDzǬǷЛǶǬǰA ex.͊ǥǴǿǷǪ:͚ǰόǹǿǰDzǬDzΒǦǢǰDzǰǷǤǬƽ͞ǮǸDzǰǦήǴǰǸǭǷβǵǷήǵǷǟDZǨǬǵͨǯǨǷǤǮǪdzǷǬ ǭЛǵͧ†ǹЛǵ†ǯΰ͞ǺDzǸǶǤƽǥǴDzǷβǵǦήǴ·ǹȁǵǭǤαDžͶǶǺȀǮDzǵ(PV 2)ƽФ͎ǥǴDzǷDzǰǨͶǵ͚ǴǪ ǯǢǤǰХ͚ǰόǹδǵDzΒǦǢǰǨǷǤǬb (BCE3E4)T.

Di questo filone interpretativo c’è traccia anche in Apollonio Sofista, dove l’accezione di ͚ǴǡǯǪǥǴDzǷЛǰ è addirittura preferita a quella di ͊ǫǟǰǤǷDzǵ:  Apollon. 2.29 B.:͊ǥǴǿǷǪ͚dzαǷDzАФǰγDZ͊ǥǴǿǷǪͨǰǭǤαǷϹ͊dzǿǶǺǼǰǷǤǬdzDzǮǠǯDzǬDz ǗǴЛǨǵХǭǤαDzͷǯίǰ͚ǴǡǯǪǰǥǴDzǷЛǰǹǤǶǢǰDzͷǧίǷΰǰ͊ǫǟǰǤǷDzǰ͚DZDzΙͧǫǨǢǤǰDzǨЃǷǤǬƽ ͚ǰǧί͎ǮǮDzǬǵФ͊ǯǥǴDzǶǢǪǰǧǬήǰȀǭǷǤХǥǠǮǷǬDzǰǧίǷβdzǴǿǷǨǴDzǰ

 Tale dilemma interpretativo si è trasmesso fino a quel gigantesco serbatoio collectaneo che è il commento di Eustazio, dove pure viene riportata (attraverso l’inciso ǹǤǶǢǰ, a documentare il dibattito che nell’antichità s’era acceso in merito) la variante prometeica ͎ǥǴDzǷDzǰ: Eust. ad Hom. l.c. (968.45 ss. = 3.581.16-18 v.d.V.)ǗβǧίФǰγDZ͊ǥǴǿǷǪХ͚ǰǷǨǮЛǵ ͚ǴǴǠǫǪ΋ǷǨǦήǴ͊ǥǴǿǷǪǯǿǰDzǰЏǪǫǨǢǪǮǨǢdzǨǬǷβǰȀDZ͞ǶǷǬǧί͊ǥǴǿǷǪǭǤǷήǯίǰǷβǰ ǭDzǬǰǿǰ͚ǰόǥǴDzǷβǵDzΒdzǴǿǨǬǶǬǰ΋ǫǨǰǭǤα͎ǥǴDzǷǿǵǹǤǶǢǰ͚ǴǪǯǢǤdzǤǴХDžͶǶǺȀǮЙ26.

Quest’interpretazione si trova attribuita negli scholia vetera anche all’epiteto ͊ǯ ǥǴDzǶǢǪ: schol. Il. 10.41 Erbse: ͊ǯǥǴDzǶǢǪǰ_ǫǨǢǤǰ͚ǰόǥǴDzǷDzαDzΒЬdzǨǴǢǤǶǬǰǧǬήǷDzАǷDzͧ ǰγDZ͊ǯǥǴǿǷǪ schol. Od. 7.283 Dind.: ͊ǯǥǴDzǶǢǪǰȀDZ@͚ǰόDzΒdzǨǴǬdzǤǷDzАǶǬǥǴDzǷDzǢ

In realtà, al di fuori delle testimonianze scoliastiche e lessicografiche, per nessun termine di questa famiglia, che pure ha un’importante diffusione per tutto l’arco della letteratura greca, è documentato il significato di ͞ǴǪǯDzǵǥǴDzǷЛǰ: l’accezione semantica di questi aggettivi nei loro impieghi letterari rimane costantemente quella di ‘immortale’, ‘divino’. È questo anche il caso di quella che costituisce probabilmente l’unica altra occorrenza tragica di ͎ǥǴDzǷDzǵ, in Soph. fr. 265c 20 R., un frammento papiraceo concordemente attribuito all’Inaco satiresco, finora sfuggito all’attenzione dei commentatori del Prometeo:

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dzDzǮγdzDzǮǸǬǧǴǢǧǤǵ ΋ǷǬǵ΋ǧǨdzǴDzǷǠǴǼǰ ΊǰDzǯХǨΘǶХ͚ǫǴǿǨǬ

E cf. anche Suda  92 A: ơDžǥǴǿǷǪƽͧǰȀDZdzǤǴήǷβ͚ǶǷǨǴϸǶǫǤǬǥǴDzǷЛǰ

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ǷβǰơDžǽǧDzǭǸǰǠǤǵ ǶǭǿǷDzǰ͎ǴDzǷDzǰΓdzǤǢ27. 

Il dio Hermes si presenta in scena con l’elmo di Ade che rende invisibili: il motivo magico compariva era già in Il. 5.844-5 (ǤΒǷήǴХDžǫǡǰǪ / ǧАǰХ͖ǽǧDzǵǭǸǰǠ ǪǰǯǡǯǬǰͺǧDzǬΊǥǴǬǯDzǵ͖ǴǪǵ), dove era Atena ad indossare l’elmo di Ade, e dove era già adombrata, nella formulazione (͖ǽǧDzǵǯǡ[…]ͺǧDzǬ), la paraetimologia che interpretava per l’appunto Ade come il ‘non visibile’28. Al v. 20 ͎ǥǴDzǷDzǰ è ottima lettura – proposta indipendentemente da Fritsch29 e Pfeiffer30, e da tutti accettata, fino alla recente edizione di Diggle31 – per la stringa lessicale ǤǴDzǷDzǰ del papiro di Tebtunis32. Si tratta dunque di un epiteto di ǶǭǿǷDzǰ, qui inteso nella consueta accezione semantica di ͊ǫǟǰǤǷDzǵ («immortale» traduce Paduano33, «divina» Pavese34). L’epiteto, che in Omero era riferito alla notte, passa qui a contrassegnare la tenebra, che è sacra in quanto il Coro sta parlando di un dio e dunque, come di norma dall’epos omerico in poi, l’accezione di ‘immortale’ si estende a tutto ciò che appartiene al dio o che con lui è venuto in contatto: ͎ǯǥǴDzǷǤ sono, ad es., le armi di Achille in Il. 17.194 e 202, le vesti che Calipso dona a Odisseo in Od. 7.260 e 265 (e con cui gli dèi rivestono i cadaveri di Sarpedone e di Achille in Il. 16.670 e Od. 24.59), l’olio con cui le Cariti ungono Afrodite in Od. 8.365, il velo di Ino Leucotea in Od. 5.347, la tela di Circe in Od. 10.222, la voce delle Cariti in Hes. Th. 43 etc. Analogamente, con l’espressione ͊ǫǟǰǤǷDzǵ ǰǠǹDzǵ gli antichi usavano designare l’elmo di Ade, come ci documentano le testimonianze scoliastiche e lessicografiche:

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CORO: «Fu di stirpe sapiente, sapientissimo l’uomo tra gli antichi che ti trovò il nome adatto – tu che stai sotto il buio immortale dell’elmo di Ade!» (Paduano 1982, 891). 28 Cf. anche [Hes.] Sc. 227 (in riferimento a Perseo) ǧǨǬǰΰǧίdzǨǴαǭǴDzǷǟǹDzǬǶǬ͎ǰǤǭǷDzǵǭǨЃǷХ ͖ǬǧDzǵǭǸǰǠǪǰǸǭǷβǵǩǿǹDzǰǤͶǰβǰ͞ǺDzǸǶǤ; Aristoph. Ach. 389-90 ǮǤǥίǧХ͚ǯDzАǦХ͟ǰǨǭǤdzǤǴХ ФǍǨǴǼǰȀǯDzǸ/ ǶǭDzǷDzǧǤǶǸdzǸǭǰǿǷǴǬǺǟǷǬǰХ͖ǬǧDzǵǭǸǰϸǰ(che Pfeiffer 1938, 34 ha ritenuto una parodia del passo dell’Inaco); Pl. Rp. 682 B. Un suo utilizzo da parte di Hermes è documentato nella Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro a proposito della Gigantomachia:ФljǴǯϸǵǧίǷΰǰρǧDzǵ ǭǸǰϸǰ ͞ǺǼǰ ǭǤǷή Ƿΰǰ ǯǟǺǪǰ ФǍdzdzǿǮǸǷDzǰ ͊dzǠǭǷǨǬǰǨǰ (1.38.4). Non è chiaro il contesto della scena: ha avuto fortuna presso i critici l’interpretazione di Lloyd-Jones (1965, 241-3), secondo cui ai vv. 18-20 il Coro immaginerebbe che sotto l’elmo ci sia Ade stesso, salvo subito dopo, al v. 21, apprendere che si tratta di Hermes, e non di Ade. L’ipotesi sembra plausibile (cf. in proposito Carden 1974, 83-5); resta tuttavia il fatto che nelle altre attestazioni del motivo a noi note suddetto elmo non viene mai indossato da Ade ma da altre divinità o eroi, ed è comunque evento rarissimo, sia nel mito che in letteratura, che Ade faccia la sua comparsa sulla terra. 29 Fritsch 1938, 37. 30 Pfeiffer 1938, 23 ss. 31 Diggle 1998, 43. 32 P. Tebt. 692, col. II (ed. pr. in Hunt-Smyly 1933, 3 ss.). 33 Cf. supra n. 25. 34 Pavese 1967, 35: «tu (che sei) sotto il divino buio del cappello di Ade».

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schol. Pl. Rp. 612b 2 (Greene): ͖ǬǧDzǵ ǭǸǰϸǰ ǰǠǹDzǵ Ƿΰǰ ͎ǽǧDzǵ ǭǸǰǠǪǰ ǹǤǶαǰ ͊ǫǟǰǤǷDzǰ ǭǤα ͊ǹǤǰǠǵ ͪǷDzǬ ͊DzǴǤǶǢǤǰ Ή dzǨǴǬǥǟǮǮDzǰǷǤǬ Dzͷ ǫǨDzα ΋ǷХ ͌ǰ ͚ǫǠǮǼǶǬǰ ͊ǮǮǡǮDzǬǵǯΰǦǬǦǰȁǶǭǨǶǫǤǬǨͺǮǪdzǷǤǬǧίǨͶǵdzǤǴDzǬǯǢǤǰ͚dzαǷЛǰ͊ǹǤǰЛǵǷǬdzDzǬDzȀǰǷǼǰ Hsch. Ǥ1756 L. ͖ǽǧDzǵǭǸǰǠǪƽ͊ǫǟǰǤǷǿǰǷǬǰǠǹDzǵΉdzǨǴǬǥǟǮǮDzǰǷǤǬDzͷǫǨDzǢ΋ǷǤǰ ǫǠǮǼǶǬǰ ͊ơǮǮǡǮDzǬǵ ǯΰ ǦǬǰȁǶǭǨǶǫǤǬ ǰǨǹǠǮǪ ͊ǹǤǰǡǵ ͩǰ ΓdzDzǧǸǶǟǯǨǰDzǬ Dzͷ ͊ǫǨȁǴǪǷDzǬǦǢǰDzǰǷǤǬ͊ǮǮǡǮDzǬǵ.35

E con il nesso ǩǿǹDzǵ͊ǫǟǰǤǷDzǵ viene ancora definita l’oscurità di Ade in un epigramma di Gregorio Nazianzeno, all’interno di un elenco di motivi topici che contrassegnano il regno dell’oltretomba:  ǭǤαdzǸǴǿǨǬǵdzDzǷǤǯβǵǭǤαǩǿǹDzǵ͊ǫǟǰǤǷDzǵ ǷǤǴǷǟǴǨDzǢǷǨǯǸǺDzαǭǤαǧǤǢǯDzǰǨǵ͊ǦǴǬǿǫǸǯDzǬ ͎ǮǮǤǬǷǨǹǫǬǯǠǰǼǰǷǢǶǬǨǵǨͶǰ͊ǢǧǬ(AP 8.104.4-6).

Per quanto riguarda il frammento sofocleo dell’Inaco, in vista della componente magica sottesa al motivo folklorico dell’oggetto che rende invisibili, nella sua traduzione Lloyd-Jones ha preferito optare per l’aggettivo ‘uncanny’ nel senso di ‘prodigioso’, ‘soprannaturale’36. Si tratterebbe dunque di una rielaborazione del motivo omerico dell’ ͊ǺǮγǵ / ǫǨǶdzǨǶǢǪ, il velo o la nebbia che le divinità versano sugli occhi dei mortali per rendere loro invisibili persone o cose (oppure che disperdono per restituire la vista), motivo di stupore da parte dei diretti interessati: Il. 20.342 ǤͼǻǤ ǧХ ͞dzǨǬǷХ ХDžǺǬǮϸDzǵ ͊dzХ ΆǹǫǤǮǯЛǰ ǶǭǠǧǤǶХ ͊ǺǮγǰ / ǫǨǶdzǨǶǢǪǰƽ […] Π dzǿdzDzǬ ͬ ǯǠǦǤ ǫǤАǯǤ ǷǿǧХ ΆǹǫǤǮǯDzЃǶǬǰ ·ǴЛǯǤǬ; Od. 5.42 ХDžǫǡǰǪ[…] Dzͷ͊ǺǮγǰ/ǫǨǶdzǨǶǢǪǰǭǤǷǠǺǨǸǨǹǢǮǤǹǴDzǰǠDzǸǶХ͚ǰαǫǸǯМǫǤȀ ǯǤǩǨǰǧХХǓǧǸǶǨȀǵ37.In ogni caso, qualunque sia la sfumatura semantica che si preferisce privilegiare in sede di resa traduttiva, non c’è dubbio che l’epiteto intende esprimere (come già a partire da Omero) l’essenza divina dell’oggetto o del fenomeno in questione, mentre l’accezione ‘privo di uomini’ / ‘deserto’ presupposta dall’͎ǥǴDzǷDzǰ prometeico qui si pone del tutto fuori campo. Come ͎ǥǴDzǷDzǵ anche ͎ǯǥǴDzǷDzǵ conserva nelle sue successive ricorrenze il significato omerico del termine. È questo il caso di Aesch. Eum. 259 dzǨǴαǥǴǠǷǨǬ dzǮǨǺǫǨαǵǫǨϪǵ͊ǯǥǴǿǷDzǸ, in riferimento ad Atena. La duplice ricorrenza dell’epiteto in Soph. OR 155 ͎ǯǥǴDzǷǨǙǟǯǤ e 157͎ǯǥǴDzǷХХDžǫǟǰǤ, in un contesto palesemente innodico (e cf. anche Ant. 1134 ͊ǯǥǴǿǷǼǰ͚dzǠǼǰǨΒǤǩǿǰǷǼǰ)38, è una spia evidente dell’impiego rituale del termine, secondo un uso che ebbe a protrarsi nei secoli successivi, com’è confermato dalla frequente ricorrenza di E cf. anche Phot. Ǥ 548 Th. Cf. Lloyd-Jones 1996, 121. 37 E cf. anche Q. S. 2.582 ͊ǺǮȀǬǫǨǶdzǨǶǢ϶ǭǨǭǤǮǸǯǯǠǰDzǬХDžǯǹαǧίǗǴЛǨǵ /ǭǤαLjǤǰǤDzαǫǟǯ ǥǪǶǤǰǭǷǮ., 7.74 ͊ǺǮȀǬǫǨǶdzǨǶǢ϶ǭǨǭǤǮǸǯǯǠǰǤ 38 L’impiego dell’epiteto sembra qui presupporre nessi tipici della lirica corale, quali ad es. Pind. Pyth. 4, 299dzǤǦήǰ͊ǯǥǴDzǶǢǼǰ͚dzǠǼǰ eBacch. Dith. 5.3 ǭǠǮǨǸǫDzǵ͊ǯǥǴDzǶǢǼǰǯǨǮǠǼǰ(cf. anche infra Aristoph. Av. 749). 35 36

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questo epiteto nel linguaggio oracolare e negli inni orfici, fino agli autori cristiani, nei quali ancora riaffiora, accanto al più diffuso ͎ǯǥǴDzǷDzǵ, la variante metrica ͎ǥǴDzǷDzǵ39. Stesso discorso è applicabile alle frequenti ricorrenze di ͊ǯǥǴǿǶǬ Dzǵ, che continua a conservare fino alla tarda grecità l’accezione omerica40: si vedano, limitatamente al dramma attico, Eur. Med. 983 ͊ǯǥǴǿǶǬǿǵǷХǤΒǦǟ (il divino fulgore dei doni magici di Medea), Hipp. 748 ǭǴϸǰǤǢǷХ ͊ǯǥǴǿǶǬǤǬ (le sacre sorgenti che scorrono nel luogo della prima unione di Zeus con Era), nonché vari casi in Aristofane, tra cui Av. 749 ͊ǯǥǴDzǶǢǼǰ ǯǨǮǠǼǰ e 1320 ͊ǯǥǴǿǶǬǤǬ ǚǟǴǬǷǨǵ. I.6 A fronte di tanta compattezza della tradizione letteraria, non può non sorprendere l’accezione semantica ‘privo di uomini’ dell’epiteto ͎ǥǴDzǷDzǵ in PV 2, soprattutto se si considera che i tragici (ed Eschilo, nella fattispecie, come dimostra il sopraccitato caso di Eum. 259 ǫǨϪǵ͊ǯǥǴǿǷDzǸ) continuano ad usare la sua variante metrica ͎ǯǥǴDzǷDzǵ nel significato di ‘immortale’. Hermann41, che accettava a testo ͎ǥǴDzǷDzǰ pensava a un «Missvertständnis» da parte di Eschilo, che avrebbe frainteso il nesso omerico di Il. 14.78: «Aeschylo ͊ǥǴǿǷǪǰǰȀǭǷǤHomeri visam esse in qua nomine non exirent»; in altre parole, faceva risalire al tragediografo stesso l’errorata interpretazione dei glossografi alessandrini. E poiché appare poco credibile l’idea che un qualsivoglia poeta possa essersi spinto a questo di sua iniziativa, Hermann ne attribuiva l’origine alle pedanti spiegazioni dei maestri di scuola di Eschilo42: «Vix enim quisquam ausus esset hoc significatu hoc vocabulum usurpare, nisi id Homerum fecisse ab ludi magistris fuisset acceptum». Insomma, si riconosce l’origine ‘scolastica’ della svista, che ha in effetti tutta l’aria di essere nata o per lo meno di essere attecchita in un contesto in cui si chiosa e commenta il testo omerico, ma la si retrodata al V secolo. La spiegazione di Hermann, al di là della sua attendibilità, dimostra tuttavia che i critici dell’Ottocento, a differenza dei moderni, avevano chiara consapevolezza delle difficoltà semantiche poste dall’aggettivo. Difficoltà che non possono essere risolte nemmeno invocando, con Wecklein, il parallelo di ͎ǰǤǰǧǴDzǵ («unmännlich» e «menschenleer»)43: anzi tutto perché ͎ǰǤǰǧǴDzǵ non è vox Homerica, e dunque non è andato soggetto a quel processo di cristallizzazione che per effetto del valore normativo dei poemi omerici ha pesantemente agito nella fa-

Gr. Naz. carm. mor. 758.6 MPG ͤǰǫǨǰ͞dzǨǬǷǤǭǴǠǤǵ/͖ǭǴǬǷDzǰ͎ǥǴDzǷDzǰ; Athanas. Comm. de templo Athenarum (cod. Bodleianus Roe 5) [Sp.], 156.4 von Premerstein ͎ǯǹǼǦήǴǥǴDzǷβǵ ·ǯЛǵǭǤα͎ǥǴDzǷDzǵ·ǤΒǷβǵǫǨǿǵ. 40 Quinto Smirneo, ad es., sulla scorta di Omero utilizza con grande profusione l’epiteto: cf. ad es. 2.455 ΓdzХ͊ǯǥǴDzǶǢ϶ǭǟǯǨǷǠǺǰǪ (la techne di Efesto), 4.135 ǺǨǴǶαǰΓdzХ͊ǯǥǴDzǶǢ϶ǶǬ (le mani delle Ore), 7.621-2 ͪǰǸǷDzǧХͦδǵ/͊ǯǥǴDzǶǢǪ(Aurora). 41 Hermann 1852, 56-7. 42 Così anche Schmidt 1863, 732, che vede in ͎ǥǴDzǷDzǰ «eine Spur verkehrter schulmeisterlicher Weisheit». 43 Wecklein 18782 29. 39

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miglia semantica ͊-privans + ǥǴDzǷ-44 (ne è prova la vasta gamma di sfumature semantiche di ͎ǰǤǰǧǴDzǵ puntualmente registrate nel LSJ, che ne confermano l’uso assai più duttile); in secondo luogo perché i significati con cui Eschilo ha usato ͎ǰǤǰǧǴDzǵ («viris carens» per Pers. 298 e «marito carens» per Pers. 289 e Suppl. 28745) sono assolutamente tradizionali, confermati da Sofocle, Euripide e dall’usus linguistico successivo sia poetico che prosastico, mentre l’͎ǥǴDzǷDzǰ prometeico rimane di fatto l’unica testimonianza (non solo letteraria, ma anche scolastica e lessicografica) di un’accezione semantica «menschenleer». Gli editori che optano per la variante ͎ǥǴDzǷDzǰ dovrebbero sentirsi tenuti a fornire una plausibile giustificazione linguistica di questo peculiare significato, o quanto meno segnalare al lettore in sede di commento l’evidente anomalia. Se ai critici che sostengono come lezione originaria ͎ǥǴDzǷDzǰ compete il non facile compito di spiegare l’anomalia sematica dell’aggettivo, nel caso inverso che si ipotizzi ͎ǥǤǷDzǰ come lezione originaria, rimane da spiegare la genesi di ͎ǥǴDzǷDzǰ. Paley (1879, 97) a questo proposito si richiamava alla frequenza con cui nella nostra tradizione eschilea si trova la lettera Ǵ erroneamente inserita tra beta e vocale, citando e.g. casi come Suppl. 287 (ǭǴǨDzǥǿǷDzǸǵ Scal.: ǭǴǨDzǥǴǿ ǷDzǸǵ M), 617 (dzǴDzǹǼǰЛǰ Canter: dzǴǿǹǴǼǰ Πǰ M), 691 (ǥDzǷή [Turn.] ǷDzЃǵ [Wecklein]: ǥǴǿǷǤǷDzǵ M). Che si accolga o meno questa spiegazione genetica, non c’è dubbio che si tratti di un errore molto antico, che, in una fase della tradizione a noi poco nota, si produsse in una o comunque in poche copie del testo, favorito probabilmente dalla stessa presenza del sostantivo ͚ǴǪǯǢǤ, che già di per sé indica un luogo deserto e privo di uomini, talvolta in associazione a un genitivo come ͊ǰǫǴȁdzǼǰ ǥǴDzǷЛǰ o ͊ǰǧǴЛǰ46. Una copia contenente questo errore sarebbe circolata in età alessandrina, se è vero che ͎ǥǴDzǷDzǰ è citato a proposito di una disputa filologica su un passo omerico, dove viene introdotta a sostegno dell’interpretazione linguisticamente più ricercata: l’analogia semantica ǥǴDzǷǿǵ / ǹȁǵ, il doppio significato di ǹЛǵ ‘luce’ e ǹȁǵ ‘uomo’, per cui il nesso ǰγDZ͊ ǥǴǿǷǪ equivarrebbe al tempo stesso a ‘senza luce’ e ‘senza uomini’47. Si tratta eTanto più che, come ha evidenziato Leumann 1950, 125 n. 95, ͎ǯǥǴDzǷDzǵ, con il suo tipico vocalismo eolicoera percepita come una voce arcaica: «Offensichtlich ist ͎ǯǥǴDzǷDzǵ, zu idg. mer ‘sterben’ gerhörig und durch ǴDz für ǴǤ als aeolisch bestimmt, das uralte epische Wort, das dann durch ͊ǫǟǰǤǷDzǵ abgelöst wurde, als für ‘sterben’ der Euphemismus ͊dzDzǫǰǡǶǭǨǬǰ ‘erlöschen’ aufgekommen war». 45 Cf. Italie-Radt 1964, 21 s.v. 46 Cf. ad es. Eur. Ba. 875 ͧǧDzǯǠǰǤ ǥǴDzǷЛǰ ͚ǴǪǯǢǤǬǵ Hec. 811 ͞ǴǪǯDzǵ ͊ǫǮǬǼǷǟǷǪ ǥǴDzǷЛǰ, 1017 ǭ͊ǴǶǠǰǼǰ͚ǴǪǯǢǤ, Cycl. 116 ͞ǴǪǯDzǬdzǴЛǰǨǵ͊ǰǫǴȁdzǼǰ; Hdt. 4.17.11͞ǴǪǯDzǵ͊ǰǫǴȁdzǼǰ, 4.20.11 ͞ǴǪǯǿǵ ͚ǶǷǬ ͊ǰǫǴȁdzǼǰ, 6.49.4 ǷDzЃǵ ͚ǴǡǯDzǬǵ ǷЛǰ ͊ǰǫǴȁdzǼǰ; Thuc. 6.102.2 ͚ǴǪǯǢϨ ͊ǰǧǴЛǰ Pl. Lg. 694 E ͚ǰ ͊ǰǧǴЛǰ ͚ǴǪǯǢϨ Xen. Cyr. 4.4.5 ͚ǴǡǯǪ ǧХ ͊ǰǫǴȁdzǼǰ, Ios. Fl. Ant. 1.204.4ΓdzǿǷǨ͊ǰǫǴȁdzǼǰ͚ǴǪǯǢǤǵPlu. Brut. 33.3 ǧǬХ͚ǴǪǯǢǤǰ͊ǰǧǴЛǰ (nella stessa direzione va anche il dativo ǥǴDzǷDzЃǵ nel già menzionato caso di Soph. Phil. 2: ǥǴDzǷDzЃǵ ͎ǶǷǬdzǷDzǵ DzΒǧХ DzͶǭDzǸǯǠǰǪ). L’errore potrebbe dunque essere stato determinato dalla persistenza, nella mente di chi trascrisse il testo, di questi topici nessi (del resto, con ͚ǴǡǯǪ ǥǴDzǷЛǰ è per l’appunto glossato ͊ǥǴǿǷǪ da Apollonio Sofista: cf. supra § I.5). 47 La spiegazione esposta in forma sintetizzata dallo scolio (per la citazione completa di suddetto scolio, cf. supra § I.5) è stata esposta in forma più dettagliata da Eust. ad Il. 14.78 (3.582.1-5 44

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videntemente di un’attitudine critica tipica di ambienti dotti e comunque scolastici, influenzati dall’esegesi all’omerica, ma che con il significato originario del termine ͎(ǯ)ǥǴDzǷDzǵ (in Omero e in Eschilo nella fattispecie, ma pure in Sofocle, come s’è detto) sembra aver ben poco a che vedere. Non è un caso che la variante risulti precipuamente collegata all’esegesi omerica e che al di fuori di essa abbia avuto scarsissima fortuna. Per di più, per quanto riguarda gli scholia vetera ad Aristoph. Ran. 814, di norma citati accanto allo scolio omerico di Il. 14.78, la tradizione è divisa: la maggior parte dei testimoni, ovvero il Ravennate, l’Estense (fonte principale dell’edizione Aldina) e il Veneto Marciano 475 (un apografo del Veneto 474) riportano ͎ǥǤǷDzǰ, mentre il Veneto Marciano 474 ha propriamente non ͎ǥǴDzǷDzǰ bensì ͎ǧǴDzǷDzǰ, dai più ritenuto corruzione del precedente, benché non sia mancata qualche isolata alternativa (Murray, ad es., ne suggeriva una derivazione da ͎ǧǴDzǶDzǰ «roris espertem»)48. Se la scoliografia aristofanea è divisa, e comunque in gran parte a favore di ͎ ǥǤǷDzǰ, la tradizione del Prometeo è invece compatta riguardo a questa variante. È notevole il fatto che di ͎ǥǴDzǷDzǰ non resti traccia alcuna negli scoli eschilei: come se la critica alessandrina sul testo di Eschilo fosse rimasta del tutto estranea alla disputa che ha animato la filologia omerica in merito a Il. 14.78 e al suo parallelo eschileo. La parafrasi con cui i versi iniziali del dramma sono riassunti nello scolio qui sotto riportato riusa espressamente l’aggettivo ͎ǥǤǷDzǰ, concordato con il sostantivo DzͽǯDzǰ: schol. PV 1h 1-4 (pp. 67-8 Herington): ǰDzАǵǷDzǬDzАǷDzǵƽlХǍǧDzγͪǮǫDzǯǨǰͧdžǢǤǭǤα ǷβǎǴǟǷDzǵǨͶǵǷβǰDzͼǯDzǰǷβǰ͎ǥǤǷDzǰΤͳǹǤǬǶǷǨdzǨǴǟǶǤǰǷǨǵǷΰǰǦϸǰǷΰǰǯǤǭǴήǰ ǷϸǵǎǤǸǭǟǶDzǸΊǴDzǸǵǺǫDzǰβǵǨͶǵǷΰǰDzͼǯDzǰǷΰǰǖǭǸǫǬǭǡǰ|(BBbWZf).

In un altro scolio compare la citazione diretta del sintagma ͎ǥǤǷDzǰǨͶǵ͚ǴǪǯǢǤǰ mentre per indicare l’aspetto desolato della regione montuosa, che è conseguenza della sua inaccessibilità, è correttamente utilizzato l’aggettivo ͊dzǟǰǫǴǼdzDzǵ, il quale, avendo il significato negativo (variamente declinato nelle sue sfumature semantiche) di «inhuman»49, ben si presta, a caratterizzare lo desolato squallore dell’ambientazione scenica, un paesaggio selvaggio e ostile all’uomo: schol. PV 2a 4-5 (p. 68 Herington): […] ͨ ǧǬή Ƿβ ͎ǦǴǬDzǰ ǭǤα ͊dzǟǰǫǴǼdzDzǰ ǷDzА ǷǿdzDzǸ΋ǷǬǧίǷDzǬDzАǷDzǵ·ǷǿdzDzǵ͚ǭǨЃǰDzǵǧϸǮDzǰ͊dzβǷDzА«͎ǥǤǷDzǰǨͶǵ͚ǴǪǯǢǤǰ». v.d.V.): ͎ǮǮǼǵǧǠ͊ǥǴǿǷǪǯǨǷǤǮǪdzǷǬǭЛǵΣǵdzDzǸǭǤαdzǴDzǨǴǴǠǫǪǶǤǹǠǶǷǨǴDzǰ͎ͧǹǼǵǭǤǷή ǷDzγǵ dzǤǮǤǬDzȀǵ ͚ǰ ό ǹЛǵ DzΒǭ ͞ǶǷǬ Ƿβ ǹЛǵ ǦǟǴ ǹǤǶǢǰ ·ǯǿǹǼǰǿǰ ͚ǶǷǬ ǷМ ǹȁǵ ͊ǴǶǨǰǬǭМ ΆǰǿǯǤǷǬ΋dzǨǴ͚ǶǷαǥǴDzǷǿǵ΋ǫǨǰǭǤǷήǯǨǷǟǮǪǻǬǰ͊ǥǴǿǷǪ͎ͧǹǼǵǷDzǸǷǠǶǷǬǰ͊ǹȁǷǬǶǷDzǵǎǤα ΋ǴǤdzǤǮǤǬήǰǷǿǮǯǤǰ͚ǷǸǯDzǮDzǦǢǤǵǷǤȀǷǪǵ͊ǺǴǨǬDzȀǶǪǵǷήǶdzDzǸǧǤЃǤ. Per la corretta interpretazione dell’etimologia, si veda il commento di van der Valk ad l. 48 Cf. Murray 1937 e 19552. 49 Cf. la nota di Pearson 1963 I 138 a Soph. fr. 1020 R., dove l’aggettivo ͊dzǟǰǫǴǼdzDzǵè stato restituito per congettura dal Musurus sulla base di Hsch. Ǥ5779L.͊dzǟǰǫǴǼdzDzǵƽǶǭǮǪǴǿǵ͊ǰǿ ǪǷDzǵ͎ǹǴǼǰ͊ǰǨǮǨǡǯǼǰ.ǖDzǹDzǭǮϸǵ†͊dzǤǰǢǰ†.

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E uno scolio del Mediceo al v. 15, nel commentare l’espressione ǹǟǴǤǦǦǬdzǴβǵ ǧǸǶǺǨǬǯǠǴǼ, la collega con precedenti epiteti ͎ǥǤǷDzǰ eΓǻǪǮǿǭǴǪǯǰDzǰ: schol. PV 15 (p. 71 Herington): ǧǸǶǺǨǬǯǠǴЙ] ͖ǰǼ«͎ǥǤǷDzǰ» ǭǤα «ΓǻǪǮǿǭǴǪǯǰDzǰ» ǤΒǷΰǰǨͼdzǨǰΥǧǨdzǴDzǶǤǰǨdzǮǡǴǼǶǨǷβ«ǧǸǶǺǨǬǯǠǴЙ» (Mediceus).

E Luciano, che, come si è detto, attinge a piene mani all’Incatenato, per esprimere il concetto di terra deserta e priva di uomini riprende dal suo modello drammatico gli epiteti ͞ǴǪǯDzǵ e ͊dzǟǰǫǴǼdzDzǵ, ma non ͎ǥǴDzǷDzǵ: Luc. Prom. 11: dzǨǬǴǟǶDzǯǤǬǧǨǬǭǰȀǨǬǰ[...]ΟǵǭǤαǶǸǯǹǠǴDzǰǷǤǭǤα͊ǯǨǢǰǼǷǤАǷǤ ǤΒǷDzЃǵdzǤǴήdzDzǮγͨǨͶ͚ǴǡǯǪǰǭǤα͊dzǟǰǫǴǼdzDzǰǶǸǰǠǥǤǬǰǨǷΰǰǦϸǰǯǠǰǨǬǰ.

Credo che si possa concludere che la scelta della variante da adottare a testo sia meno ovvia e scontata di quanto comunemente si creda: la lezione ͎ǥǤǷDzǰ, nell’ultimo secolo spesso trascurata per una sorta di petitio principii, meriterebbe a mio parere di essere rivalutata con maggior attenzione, mentre la granitica certezza che ad alcuni interpreti moderni proviene dalla fedele applicazione del principio della lectio difficilior andrebbe quanto meno rivista alla luce di una più ampia prospettiva critica, senza irrigidimenti preconcetti.  II. PV 803: a proposito dell’hapax ͊ǭǴǤǦǨЃǵ. II.1 Ai vv. 802 ss., nell’intento di mettere in guardia Io da pericolosi incontri, Prometeo fa la seguente descrizione dei grifi50: dzǠǮǤǵǧХ͊ǧǨǮǹǤαǷЛǰǧǨǷǴǨЃǵǭǤǷǟdzǷǨǴDzǬ ǧǴǤǭDzǰǷǿǯǤǮǮDzǬLJDzǴǦǿǰǨǵǥǴDzǷDzǶǷǸǦǨЃǵ ͍ǵǫǰǪǷβǵDzΒǧǨαǵǨͶǶǬǧδǰ͟DZǨǬdzǰDzǟǵx ǷDzǬDzАǷDzǯǠǰǶDzǬǷDzАǷDzǹǴDzȀǴǬDzǰǮǠǦǼ ͎ǮǮǪǰǧХ͎ǭDzǸǶDzǰǧǸǶǺǨǴϸǫǨǼǴǢǤǰx ΆDZǸǶǷǿǯDzǸǵǦήǴNJǪǰβǵ͊ǭǴǤǦǨЃǵǭȀǰǤǵ  ǦǴАdzǤǵǹȀǮǤDZǤǬǷǿǰǷǨǯDzǸǰЛdzǤǶǷǴǤǷβǰ ͒ǴǬǯǤǶdzβǰͷdzdzDzǥǟǯDzǰХDz͹ǺǴǸǶǿǴǴǸǷDzǰ DzͶǭDzАǶǬǰ͊ǯǹαǰϪǯǤǔǮDzȀǷǼǰDzǵdzǿǴDzǸx ǷDzȀǷDzǬǵǶγǯΰdzǠǮǤǩǨ. […]51 50

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Il testo viene qui riportato secondo l’edizione di West 19982. Ringrazio Emanuele Dettori per aver letto in anteprima questa nota, comunicandomi molti preziosi consigli. 51 ‘Vicino ad esse (sc. le Forcidi) stanno tre sorelle alate, le Gorgoni anguicrinte, orrore dei mortali, che nessun essere umano potrà guardare serbando soffio di vita: questo ti dico come avvertimento. Ascolta ora un’altra sgradevole visione: guàrdati dai (?) cani di Zeus dall’aguzzo rostro, i grifi, e dalla turba monocola degli Arimaspi a cavallo, che abitano presso la corrente rifluente d’oro del fiume Plutone: a costoro non t’accostare’.

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Ai grifi, che hanno la testa di rapaci, viene trasferita la qualifica di ‘cani di Zeus’ con cui l’aquila è più volte menzionata nei testi tragici, come in part. in PV 10212 LjǬβǵ ǧǠ ǶDzǬ / dzǷǪǰβǵ ǭȀǼǰ ǧǤȄDzǬǰβǵ ǤͶǨǷǿǵ Ag. 131 dzǷǤǰDzЃǶǬǰ ǭǸǶα dzǤ ǷǴǿǵSoph. fr. 884 R. ·ǶǭǪdzǷǴDzǥǟǯǼǰǤͶǨǷǿǵǭȀǼǰLjǬǿǵ (e cf. anche, in contesto paratragico, Aristoph. Ran. 1291 ͶǷǤǯǤЃǵǭǸǶαǰ͊ǨǴDzǹDzǢǷDzǬǵ)52. Un problema interpretativo ancora irrisolto è posto al v. 803 dall’hapax ͊ǭǴǤ ǦǨЃǵ, a cui sono state assegnate etimologie e quindi significati fra loro molto discordanti. Alcuni critici hanno preso le mosse da una glossa di Esichio, che intende l’epiteto nel significato di ‘irascibile’, ‘dall’aspro temperamento’: Hsch. ǤL. ͊ǭǴǤǦǠǵ· ǧǸǶǺǨǴǠǵ. ǶǭǮǪǴǿǰ. ΆDZȀǺDzǮDzǰ 

Tale accezione semantica, già sostenuta da Hermann53, è stata successivamente accolta, tra i vari, da Harry54, Wecklein55 e, in tempi più recenti, da Marzullo56, che ne vede un’ulteriore conferma, oltre che in An. Gr. I 369.17 Bekker ͎ǭǴǤǦ ǦǨǵ [leg. ͊ǭǴǤǦǠǵ]ƽ͊ǭǴǿǺDzǮDzǰ, già citato da Hermann, anche in Hsch. Ǥ2525 L.͊ǭǴǤǦǡǵƽ͊dzǤǺǫǡǵ, dove ͊dzǤǺǫǡǵ sarebbe secondo lo studioso corruzione di ͊dzǨǺǫǡǵ(‘odioso’). Si tratterebbe dunque, secondo questa ipotesi interpretativa, di un composto che associa a un primo elemento derivato da ͎ǭǴDzǵla radice collegabile con il verbo ͎ǦǤǯǤǬ / ͊ǦǤǢDzǯǤǬ, quest’ultima nel significato peggiorativo di ‘provare sdegno, ira, rancore, invidia’, etc. In queste accezioni semantiche il verbo è ampiamente documentato nei poemi omerici, in riferimento talora a uomini (in Od. 20.16 è il cuore di Odisseo che, paragonato a un cane, gli latra in petto, indignato per le malvagie azioni dei proci: ͞ǰǧDzǰΓǮǟǭǷǨǬ͊ǦǤǬDzǯǠǰDzǸǭǤǭή͞ǴǦǤ), ma per lo più a divinità (cf. ad es. Il. 17.71, Od. 2.67, 5.119 e 181, 8.565, 23.64 e 211). Sulla stessa linea di queste attestazioni omeriche si pone Hes. OD 333: NJǨγǵǤΒǷβǵ͊ǦǤǢǨǷǤǬ. Può a prima vista apparire strano che il motivo dello sdegno che in Esiodo è riferito allo stesso Zeus venga trasferito a degli animali; la spiegazione che si può addurre è che, essendo i grifi qui rappresentati come fedeli servitori di Zeus e dunque efficaci interpreti ed esecutori della sua ira (proprio come l’aquila che ottemperando all’indignata volontà di Zeus roderà il fegato al Titano), viene loro trasferito uno dei requisiti del dio stesso. Qualcosa di analogo si verifica, ad es., al v. 358 a proposito del fulmine a cui viene riferito l’epiteto ǭǤǷǤǬǥǟǷǪǵ caratteristico dello stes-

52

Di questo modulo espressivo c’è probabilmente una reminiscenza in A. R. 2.289, dove sono le Arpie, altri ibridi con componente di uccello rapace, ad essere definite ǯǨǦǟǮDzǬDzLjǬβǵǭȀǰǤǵ. 53 Hermann 1852 II 126. 54 Harry 1904, 270 e 340 («The epithet is used in the sense of ΆDZȀǺDzǮDzǵ͊ǭǴǿǺDzǮDzǵ»  55 Wecklein 18782 98. 56 Marzullo 1993, 275.

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so Zeus (͊ǮǮХ ͬǮǫǨǰ ǤΒǷМ NJǪǰβǵ ͎ǦǴǸdzǰDzǰ ǥǠǮDzǵ  ǭǤǷǤǬǥǟǷǪǵ ǭǨǴǤǸǰβǵ ͚ǭdzǰǠǼǰǹǮǿǦǤPV 358-9 .  Si tenga presente che in Eschilo è attestato il sostantivo ͎ǦǪ in fr. 85 R. (͎ǦǤǬǵ), dove il termine è restituito grazie ad una glossa di Esichio che ne chiarisce il significato (cf. Hsch. Ǥ 286 L. ͊ǦǤЃǵ: ǩǪǮȁǶǨǶǬǰ. DžͶǶǺȀǮDzǵ njǴϷǶǶǤǬǵ); inoltre, in Ag. 131 (ǯǡǷǬǵ͎ǦǤǫǨǿǫǨǰǭǷǮ) ͎ǦǤè correzione pressoché certa di Hermann sulla scorta soprattutto di Hdt. 6.61.1 ǹǫǿǰЙǭǤα͎ǦǪǺǴǨȁǯǨǰDzǵ(e cf. anche Hdt. 8.69.1 ͊ǦǤǬǿǯǨǰDzǢǷǨǭǤαǹǫDzǰǠDzǰǷǨǵe schol. H Od. 20.16 ͊ǦǤǬDzǯǠ ǰDzǸƽ[…] ǯǬǶDzАǰǷDzǵͨǹǫDzǰDzАǰǷDzǵ). La struttura di tale composto sarebbe analoga a quella dell’hapax omerico ͊ǭǴǤǡǵ in Od. 2.421 (da ͎ǭǴDzǵ+ la radice di ͎ǪǯǬ, ‘soffio’: dunque, ‘che fortemente soffia’), ripreso da Apollonio Rodio in 2.721 (͊ǭǴǤǨЃǩǨǹȀǴЙ) e 4.1223-4 (ͪǮǸǫǨǧ’ DzΘǴDzǵ/ ͊ǭǴǤΰǵͦЛǫǨǰΓdzǨȀǧǬDz) e da altri più tardi autori in contesti chiaramente allusivi al modello omerico, e registrato nel lessico di Esichio (cf. Ǥ 2528 L. ͊ǭǴǤϸƽ ͎ǭǴDzǵ dzǰǠDzǰǷǤ DzΖǷǨ ǶǹDzǧǴЛǵDzΖǷǨ͚ǮǮǨǢdzDzǰǷDzǵ accanto ad ͊ǭǴǤǦǠǵ. Nel caso del composto prometeico si tratterebbe dunque di un riferimento all’indole estremamente aggressiva ed irascibile (ΆDZȀǺDzǮDzǵ, appunto, come glossava Esichio) dei grifi. Una descrizione dei grifi con queste caratteristiche di ferocia e crudeltà si legge, ad es., in Solin. 15.22: alites ferocissimae et ultra omnem rabiem saevientes, quarum immanitate obsistente advenis accessus difficilis, ac rarus est; quippe viros discerpunt, velut geniti ad plectendam avaritiae temeritatem. Questa interpretazione sembra avvalorata da un confronto con i vv. 798-801 dello stesso Prometeo, dato che la menzione dei grifi apparirebbe costruita in modo simmetrico a quella, immediatamente precedente, delle Gorgoni: dzǠǮǤǵǧХ͊ǧǨǮǹǤαǷЛǰǧǨǷǴǨЃǵǭǤǷǟdzǷǨǴDzǬ ǧǴǤǭDzǰǷǿǯǤǮǮDzǬLJDzǴǦǿǰǨǵǥǴDzǷDzǶǷǸǦǨЃǵ ͍ǵǫǰǪǷβǵDzΒǧǨαǵǨͶǶǬǧδǰ͟DZǨǬdzǰDzǟǵx ǷDzǬDzАǷDzǯǠǰǶDzǬǷDzАǷDzǹǴDzȀǴǬDzǰǮǠǦǼ

800

In particolare, il v. 799 (ǧǴǤǭDzǰǷǿǯǤǮǮDzǬLJDzǴǦǿǰǨǵǥǴDzǷDzǶǷǸǦǨЃǵ) presenta una struttura simile al v. 803. Dei due ricercati composti presenti in ciascun verso, il primo (ǧǴǤǭDzǰǷǿǯǤǮǮDzǬe ΆDZǸǶǷǿǯDzǸǵrispettivamente) si riferisce a un particolare al mostruoso aspetto di Gorgoni e grifi, il secondo (ǥǴDzǷDzǶǷǸǦǨЃǵe ͊ǭǴǤ ǦǨЃǵ) più in generale al carattere di odiosità di tali esseri. Quest’ultima qualificazione, a sua volta, viene ulteriormente ‘dilatata’ in un verso in cui l’accento batte sul carattere di terribilità che la ‘vista’ di queste abnormi creature comporta: al v. 800 Prometeo osserva che nessun mortale può vedere (͚ǶǬǧȁǰ le Gorgoni impunemente, mentre al v. 802 c’è la parallela constatazione che lo spettacolo (ǫǨǼǴǢ Ǥǰ dei grifi è insostenibile. II.2 L’interpretazione di Hermann è tuttavia oggi in genere abbandonata. Gli ultimi commentatori, infatti, preferiscono vedere in questo hapax un composto formato da alpha privativum + la radice di ǭǴǟǩǼ (‘abbaio’), ricostruendo dun200

que l’immagine dei grifi come ‘cani dal muso aguzzo e non latranti’: così, sulla scorta gia’ di Schütz e Paley57, interpretano, tra i vari, Mazon58, Rose59, Griffith60 e Sommerstein61, che vedono nell’espressione un esempio di kenning, sulla linea ad es. di ͎ǴǧǬǵ͎dzǸǴDzǵai vv. 879-80 62. La cosa è teoricamente possibile. Tuttavia, a me pare che il carattere paradossale che si vorrebbe cogliere nella metafora dei ‘cani non abbaianti’ non dovesse risultare del tutto perspicuo agli spettatori antichi, se si tiene conto che ǭǴǟǩǼ non significava in greco specificamente l’abbaiare, ma era termine generico riferibile alla voce di svariati animali, fra cui, nella fattispecie, gli uccelli (è detto della cornacchia, ad es., in Pind. Nem. 3.82; Soph. fr. 208.6 R.; Thphr. Sign. 52), in modo non molto dissimile, dunque, da quanto si verifica per il verbo ǭǮǟǩǼ, anch’esso utilizzato sia per uccelli che per cani. Pertanto, se si accetta per il composto questa formazione con alpha privativum, il senso ultimo del passo sarebbe semmai che i grifi non solo non abbaiano come cani, ma nemmeno stridono come uccelli (dei quali pure hanno lo ǶǷǿǯǤ), e cioè, in sostanza, se ne stanno muti63. Un riferimento alla silenziosità, tuttavia, non appare appropriato in un contesto in cui ci si aspetterebbe, dopo quanto premesso al v. 802 circa la ǧǸǶǺǨǴϸǫǨ ǼǴǢǤǰdi tali esseri, un qualche rilievo sulla loro odiosità. In Soph. Ai. 169-71, ad esempio, la qualifica di ‘muti’ è attribuita, in un contesto esattamente rovesciato, agli uccelli più piccoli che si zittiscono impauriti all’apparire del grande avvoltoio: ǯǠǦǤǰǤͶǦǸdzǬǿǰ ΓdzDzǧǨǢǶǤǰǷǨǵ / ǷǟǺХ͎ǰ͚DZǤǢǹǰǪǵǨͶǶγǹǤǰǨǢǪǵ, / ǶǬ ǦϹdzǷǡDZǨǬǤǰ͎ǹǼǰDzǬ. E nei passi letterari in cui compaiono riferimenti ad uccelli rapaci, a cui i grifi sono evidentemente assimilabili, è ricorrente il dato del loro clangore, e non quello della silenziosità: è il caso ad esempio di Hom. Il. 16.42830Dz͹ǧХΣǵǷХǤͶǦǸdzǬDzαǦǤǯǻȁǰǸǺǨǵ͊ǦǭǸǮDzǺǨЃǮǤǬ/dzǠǷǴ϶͚ȄХΓǻǪǮϹǯǨǦǟǮǤ ǭǮǟǩDzǰǷǨǯǟǺǼǰǷǤǬ/ΡǵDz͹ǭǨǭǮǡǦDzǰǷǨǵ͚dzХ͊ǮǮǡǮDzǬǶǬǰΊǴDzǸǶǤǰ, Aesch. Ag. 48 s.ǯǠǦǤǰ͚ǭǫǸǯDzАǭǮǟǩDzǰǷǨǵϾDžǴǪǷǴǿdzDzǰǤͶǦǸdzǬЛǰe 57ǦǿDzǰΆDZǸǥǿǤǰ, Soph. Ant. 113ΆDZǠǤǭǮǟǩǼǰǤͶǨǷβǵǨͶǵǦϸǰΡǵΓdzǨǴǠdzǷǪe fr. 767.1 R.ͺǭǷǬǰDzǵ Ρǵ͞ǭǮǤǦDZǨdzǤǴǤǶȀǴǤǵǭǴǠǤǵ64.

57

Cf. Schütz 1809, 129 e Paley 18794 153 («non latrantes»). In questo caso, bisogna naturalmente ipotizzare l’allungamento dell’alpha privativum davanti al gruppo occlusiva + liquida: relativamente a questo fenomeno prosodico nel trimetro tragico cf. Martinelli 19972 54-5. 58 Cf. Mazon 1920, 189. 59 Rose 1957, 304 («they do not bark»). 60 Griffith 1983, 231 («not-barking»). 61 Sommerstein 2008, 533 («unbarking»). 62 L’ulteriore parallelo, citato da Griffith l.c., di PV 792 dzǿǰǷDzǰ[…]͎ǹǮDzǬǶǥDzǰnon è decisivo, dato che si tratta di non sicura proposta congetturale di Girard in luogo del tràdito (dzǿǰǷDzǸ  ǹǮDzЃǶǥDzǰ 63 Così in effetti, più appropriatamente, interpretavano l’epiteto Bothe 1805, 58 («mutos Iovis canes») e 1831 I 85 («͊ǭǴǤǦǨЃǵ͊ǹȁǰDzǸǵ»); Blomfield 18122 172 («͊ǭǴǤǦǡǵPXWXV»); Dindorf 1841 II 104 («͊ǭǴǤǦǨЃǵPXWRVQRQODWUDQWHV»); e cf. ora Podlecki 2005, 135: «noiseless». 64 Per l’aquila che, in quanto LjǬβǵ ͎ǦǦǨǮDzǵ fa udire il suo grido augurale, cf. in part. Theoc. 17.71-3 ·ǧХΓǻǿǫǨǰ͞ǭǮǤǦǨȄǼǰϫ͚ǵǷǴαǵ͊dzβǰǨȄǠǼǰǯǠǦǤǵǤͶǨǷǿǵǤͺǶǬDzǵΊǴǰǬǵ

201

E ai grifi che emettono acute strida, in linea con il topos letterario ben documentato per l’aquila e gli altri rapaci, pensavano qui anche i commentatori antichi, come gli scholia vetera documentano: schol. PV 801a 3-4 Herington Dzͷ ͊ǭǴǤǦǨЃǵ ǭȀǰǨǵ ͪǦDzǸǰ Dzͷ ǦǴАdzǨǵ Dzͷ ͊Ǩα ǭǴȁǩDzǰǷǨǵ ǮǢǤǰ ͨ ǭǴǟǩDzǰǷǨǵ schol. PV 803b 7-10 Herington ǷDzγǵ «͊ǭǴǤǦǦǨЃǵ», dzǤǴήǷβ͊ǨαǭǴǟǩǨǬǰ[ͪǷDzǬǥDzϪǰ]· dzDzǮǸǹǫǿǦǦDzǸǵǧίǧǬήǷβ͊ǰǤǬǧίǵǷDzАNJǪǰβǵǮǠǦǨǬ ǷDzȀǷDzǸǵǧǬήǷβǨͼǰǤǬͶǶǺǸǴDzγǵǭǤαǯǨǦǟǮDzǸǵ

Quest’accezione semantica, che oltre ad essere in linea con la rappresentazione letteraria tradizionale dei rapaci, sembra plausibile anche in rapporto a questo specifico contesto di contenuto e stile epicizzante65, è stata sostenuta da Groeneboom66, che tuttavia ha ipotizzato per ͊ǭǴǤǦǡǵun’improbabile derivazione sincopata da *͊ǭǴDz ǭǴǤǦǡǵ(‘che altamente stride’). A un significato del genere, tuttavia, si può pervenire con un’ipotesi esegetica più verosimile: si potrebbe trattare di un composto con alpha copulativum o intensivum67, del tipo di͊DzǮǮǡǵ (‘compatto’), ͊ǫǴǿDzǵ(confertus), ͎dzǨǧDzǵ(‘pianeggiante’), ͎DZǸǮDzǵ (‘ricco di legno, folto’, per il quale cf. Hom. Il. 11.155 ͚ǰ ͊DZȀǮЙ […] ΗǮ϶). Tra le varie formazioni citate a questo riguardo da Chantraine68, utili paralleli per il nostro passo sono i composti͎ǥǴDzǯDzǬǤΒDŽǤǺDzǬin Hom. Il. 13.41: ‘che insieme stridono’ (con alpha copulativum, secondo il senso attribuito all’aggettivo in schol. Hom. Od. 6.269 ǧǪǮDzЃ ǦήǴ Ƿβ Ǥ Ƿβ ·ǯDzА Οǵ ͚dzα ǷDzА͊ǭǿǮDzǸǫDzǵ΋͚ǶǷǬǰ·ǯDzǭǠǮǨǸǫDzǵǭǤα͎ǥǴDzǯDzǬ͏ǥǴDzǯDzǬǭǤα͊ǰǢǤǺDzǬ͋ǯǤ DŽǤǺDzǬ DzΗǷǼ ǧί ǭǤα ͎ǮDzǺDzǵ ǭǤα ͎ǭDzǬǷǬǵ) oppure nel significato intensivo ‘che molto rumoreggiano’69: ǗǴЛǨǵǧίǹǮDzǦαͼǶDzǬ͊DzǮǮǠǨǵͦίǫǸǠǮǮ϶ ͥǭǷDzǴǬǔǴǬǤǯǢǧ϶͎ǯDzǷDzǰǯǨǯǤЛǷǨǵ͟dzDzǰǷDz ͎ǥǴDzǯDzǬǤΒDŽǤǺDzǬx͞ǮdzDzǰǷDzǧίǰϸǤǵ͒ǺǤǬЛǰ ǤͷǴǡǶǨǬǰǭǷǨǰǠǨǬǰǧίdzǤǴХǤΒǷǿǫǬdzǟǰǷǤǵ͊ǴǢǶǷDzǸǵ(Il. 13.39-42).

Per alcune di queste formazioni nella lingua letteraria greca esiste pure la forma di opposto significato, con alpha privativo: ͎DZǸǮDzǵ nell’accezione di ‘privo di legname, senza selve’ è ad esempio documentato in Hdt. 4.61.2 e 4.185.12, e una sicura attestazione di ͎  con il valore di ‘silenzioso’ è offerta da A. R. 4.143 ǭАǯǤǯǠǮǤǰǭǼȄǿǰǷǨǭǤα͎ǥǴDzǯDzǰ Il senso esatto di questi composti va dunque di volta in volta ricostruito sulla base del contesto. Anche a proposito di ͊ǭǴǤǦǨЃǵgli scoli recenziori sono incerti tra le due ipotesi: 65

Trattandosi di uccelli che montano di guardia, ci si aspetta – per analogia con i cani, appunto – una tendenza al gridare fortemente, per spaventare chi si avvicina. 66 Groeneboom 1928, 238. 67 Questa ipotesi, enunciata accanto a quella di alpha privativum da Herington 1972, 194, non ha trovato finora adeguata attenzione presso gli studiosi. 68 Cf. in DELG I 2. 69 Cf. anche Schwyzer 1934 I 433. 

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schol. PV 803b Dindorf: ͊ǭǴǤǦǨЃǵ]ǷDzγǵ͊ǨαǭǴǟǩDzǰǷǤǵ. O.͊ȄȁǰDzǸǵ.

Questa doppia e opposta possibilità esegetica è possibile fosse presente anche al sopracitato scoliasta antico di PV 801a 3-4: nel segmento testuale Dzͷ͊ǨαǭǴȁǩDzǰ ǷǨǵǮǢǤǰͨǭǴǟǩDzǰǷǨǵ, che è con ogni probabilità corrotto, è da leggersi, secondo una convincente ipotesi ricostruttiva registrata da Herington in apparato, l’accostamento dei due opposti significati, l’uno con alpha intensivum e l’altro con alpha privativum: Dzͷ͊ǨαǭǴǟǩDzǰǷǨǵǮǢǤǰͨǭǴǟǩDzǰǷǨǵ Nello specifico, almeno per quanto riguarda il composto ͎ǥǴDzǯDzǬin Hom. Il. 13.41, il valore intensivo dell’alpha sembra certo70: il contesto del passo richiede, infatti, un riferimento al frastuono prodotto dai Troiani. Lo conferma il confronto con Il. 3.2 ss., dove l’esercito troiano che muove all’assalto è descritto come particolarmente rumoroso, e per questo paragonato a uno stormo di uccelli, e nello specifico alle gru quando attaccano i Pigmei. Nella similitudine, il tertium comparationis – qui costituito dal termine-chiave ǭǮǤǦǦǡ – ricorre per ben tre volte nello spazio di quattro esametri, una nell’illustrandum e due nell’illustrans (e cf. anche͚ǰDzdzϹal v. 2): ǗǴЛǨǵǯίǰǭǮǤǦǦϹǷХ͚ǰDzdzϹǷХͺǶǤǰΊǴǰǬǫǨǵΡǵ ͦǣǷǨdzǨǴǭǮǤǦǦΰǦǨǴǟǰǼǰdzǠǮǨǬDzΒǴǤǰǿǫǬdzǴǿx ǤͻǷХ͚dzǨαDzΘǰǺǨǬǯЛǰǤǹȀǦDzǰǭǤα͊ǫǠǶǹǤǷDzǰΊǯǥǴDzǰ ǭǮǤǦǦϹǷǤǢǦǨdzǠǷDzǰǷǤǬ͚dzХΞǭǨǤǰDzЃDzЏDzǟǼǰ ͊ǰǧǴǟǶǬǔǸǦǯǤǢDzǬǶǬǹǿǰDzǰǭǤαǭϸǴǤǹǠǴDzǸǶǤǬ ͦǠǴǬǤǬǧХ͎ǴǤǷǤǢǦǨǭǤǭΰǰ͞ǴǬǧǤdzǴDzǹǠǴDzǰǷǤǬ (Il. 3.2-7).

L’atteggiamento dei Troiani è posto in contrasto con quello degli Achei, che invece avanzano in silenzio: Dz͹ ǧХ ͎ǴХ ͺǶǤǰ ǶǬǦϹ ǯǠǰǨǤ dzǰǨǢDzǰǷǨǵ ϲDžǺǤǬDzα  ͚ǰ ǫǸǯМǯǨǯǤЛǷǨǵ͊ǮǨDZǠǯǨǰ͊ǮǮǡǮDzǬǶǬǰ(Il. 3.8-9). La stessa opposizione polare si ripropone in Il. 4.433-8, dove la similitudine utilizzata a proposito dell’esercito troiano è invece con un gregge di pecore che belano senza posa, e dove viene anche suggerita, come causa del loro rumoroso attacco, frastuono dell’esercito troiano, la diversità degli idiomi. D’altra parte, il confronto con l’incendio o la tempesta a Il. 3.39 (ǗǴЛǨǵ ǧί ȄǮDzǦα ͼǶDzǬ ͊DzǮǮǠǨǵ ͦί ǫǸǠǮǮ϶) richiede un riferimento al fragore, e le forme ǥǴǿǯDzǵ e ǥǴǠǯǼ si trovano per l’appunto utilizzate nella similitudine in Il. 14.394-401 per designare il frastuono di un incendio o del vento (dzǸǴβǵ […] ǥǴǿǯDzǵ ǤͶǫDzǯǠǰDzǬDz  DzΖǴǨDzǵ ͚ǰ ǥǡǶǶ϶ǵ vv. 396-7 e ͎ǰǨǯDzǵ […] dzǨǴα ǧǴǸǶαǰ ΓǻǬǭǿǯDzǬǶǬǯǟǮǬǶǷǤǯǠǦǤǥǴǠǯǨǷǤǬǺǤǮǨdzǤǢǰǼǰvv. 398-9), anche qui a confronto con il grido di guerra degli eserciti sul campo di battaglia; e si vedano anche i casi, sulla stessa linea, di A. R. 3.1328ǥǸǭǷǟǼǰ͊ǰǠǯǼǰǥǴǿǯDzǵe 4.787

Per ǤΒDŽǤǺDzǬ © stata anche ipotizzata una formazione – sia pure meno probabile – da ͊ǰ Ǥ  ȌǢȌǤǺDzȊcf. Chantraine, l.c. e Janko 1992, 47. 70

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dzǸǴβǵ ǧǨǬǰǤα ǥǴDzǯǠDzǸǶǬ ǫȀǨǮǮǤǬ. L’͎ǥǴDzǯDzǬ di Il. 13.41 fornisce dunque un ottimo parallelo per il prometeico ͊ǭǴǤǦǨЃǵnel senso di ‘fortemente strepitanti’. Se questo approccio interpretativo è corretto, l’aggressivo stormo di grifi verrebbe dunque equiparato agli eserciti omerici che muovono all’attacco: un’immagine subito dopo ripresa e potenziata dal riferimento a un secondo assalto di un esercito in massa, quello equestre degli Arimaspi. Benché la genericità del contesto, che ammetterebbe più di una interpretazione, unitamente alla scarsa documentazione in nostro possesso relativa alle fonti di questo passo, ci renda impossibile una scelta sicura tra queste accezioni semantiche, mi pare che il senso ‘che altamente stridono’, con alpha intensivum, per le sue suggestioni omeriche possa meglio corrispondere sia al colorito epico della narrazione di Prometeo71 sia all’immagine di aggressività che qui ci si attende nella descrizione dei grifi. Brescia

Maria Pia Pattoni

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71

Sul carattere di ‘rapsodie’ alla maniera epica, caratteristico delle rheseis di Prometeo in questo dramma, cf. Cerri 2006, 265-81.

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West 19982 M.L. West, Aeschyli tragoediae cum incerti poetae Prometheo, Stutgardiae et Lipsiae 19982. ABSTRACT I. At PV 2, where both the manuscript and the scholiastic tradition unanimously transmit the reading ͎ǥǤǷDzǰ, all the editors of the last century print the variant ͎ǥǴDzǷDzǰ, transmitted by Schol. BT ad Hom. Il. 14.78 and probably by a scholion in the Venetus Marcianus 474 to Aristoph. Ran. 814 (͎ǧǴDzǷDzǰ). In this case, however, the criterion of the lectio difficilior alone does not seem sure enough to settle the question: an analysis of the literary occurences shows that the choice between the two variants is less obvious than commonly believed. Moreover, PV 2 would be the only instance of ͎ ǯ ǥǴDzǷDzǵ in the meaning ‘without men’: outside of this case, ͎ǥǴDzǷDzǵ (cf. Soph. fr. 265c 20 R. ǶǭǿǷDzǰ͎ǥǴDzǷDzǰ) and its metrical variant ͎ǯǥǴDzǷDzǵ (rather common in greek literature and also in drama: cf. e.g. Aesch. Eum. 259 ǫǨϪǵ͊ǯǥǴǿǷDzǸ) always mean ‘immortal’. II. On the meaning of the hapax ͊ǭǴǤǦǨЃǵ (PV 803), usually translated as ‘not barking’ (with ͊-privative): this epiteth should perhaps be regarded as a compound with alpha copulativum vel intensivum (see͎ǥǴDzǯDzǬ‘shouting together’ or ‘highly noisy’, in Hom. Il. 13.41). KEYWORDS: Aeschylus - Prometheus Bound - textual criticism

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UNA RILETTURA DEI CODICI DEL PROMETEO Durante l’ultimo seminario del nostro gruppo di ricerca, ospitato a Gela due anni fa1, avevo espresso il proposito, non senza dubbî e perplessità, di affrontare in maniera almeno parziale quel settore di tradizione del Prometeo – per lo più costituito da codici recenziori – finora trascurato o assai di rado menzionato dagli editori. Spinoso, tuttavia, si poneva il problema di quali testimoni privilegiare fra i circa settanta (sui centocinque noti) di cui s’attendono ancora, ai fini di una più esatta collocazione stemmatica, descrizioni precise e meditate valutazioni in base a collazioni sistematiche. In un primo momento, dando per sostanzialmente affidabili e comprovate – il che vale, vedremo, entro certi limiti – le informazioni sui codici più volte escussi e «constanter citati»2 nei due apparati più consistenti (Page 1972 e West 1998 [1990]), e desiderando dare un contributo, pur circoscritto, ad una miglior conoscenza di manoscritti poco o per nulla esplorati, m’ero prefisso di estendere a una decina di ulteriori testimoni, che fossero risultati qualitativamente rilevanti, la documentazione di prima mano per la nostra riedizione del dramma. Per selezionarli, avrei sottoposto a verifica integrale gli apparati di Page e West nei quasi seicento punti del Prometeo dei quali son segnalate varianti manoscritte: collazionando infatti, per ciascuno di questi passi, i quasi cento testimoni (solo sette su centocinque sono ancora in via di acquisizione) di cui possediamo riproduzioni digitalizzate3, mi sarei reso conto non solo del livello d’attendibilità dei due apparati sui codici ritenuti poziori e per ciò oggetto d’attenzione costante, ma anche del diseguale grado d’interesse, in quasi seicento punti della tragedia, dei circa settanta manoscritti finora rimasti in ombra. Tra questi ultimi, poi, avrei individuato una decina di esemplari che mi fossero parsi considerevoli, ne avrei eseguito collazioni complete e, là dove opportuno, ne avrei dato notizia in apparato. Questa l’ipotesi di lavoro da cui prese le mosse il mio approccio al patrimonio manoscritto del Prometeo. Ma la lunga fase d’indagine preliminare, sui quasi seicento punti dei due apparati, ha dato esiti inattesi che mi hanno indotto a mutar vedute. Non solo ho rilevato, in varî casi, inesattezze d’informazioni sui codici più noti e meglio escussi, ma ho potuto altresì acquisire una nutrita serie di dati inediti e significativi sulla rimanente tradizione. Quest’ultima pare quasi sempre – assai rare le eccezioni – contaminata e restia ad univoche assegnazioni stemmatiche, al punto che isolare, all’interno di essa, una decina di manoscritti ritenuti poziori m’è sembrato, prima che arduo, arbitrario e passibile di fondate critiche. Sul piano metodico, la via più consequenziale da percorrere era quella, cui mi sono deciso, di collazionare per intero i testimoni: solo una disamina comple1 Giornate di studi su Eschilo (Gela, Liceo ‘Eschilo’, 21-23 maggio 2009), Atti in Lexis 28 (2010) 1-199. 2 Cf. West 1998 (1990) LXXXI. 3 Sul progetto europeo che anni fa ha permesso d’acquisire, presso l’Università di Trento, larga parte della tradizione manoscritta di Eschilo, rinvio alla n. 13 di Taufer 2011, in corso di stampa.

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ta della tradizione manoscritta potrà garantire ai nostri apparati – darò ora qualche saggio al riguardo – un ben più solido spessore documentario, nonché, in taluni casi, elementi nuovi per problematizzare e ripensare la constitutio textus. Prenderei le mosse, ora, dai più recenti apparati e dalle collazioni attualmente disponibili. Lo studioso che s’è reso più benemerito, a mio avviso, di una conoscenza puntuale della tradizione manoscritta eschilea, benché limitata a un ventaglio preciso di testimoni (in larga parte d’oggettivo rilievo), è Roger D. Dawe. Nella sua nota monografia del 1964, egli non solo mise in forte discussione, con dovizia d’argomenti, i presupposti stemmatici di Aleksander Turyn, ma fornì pure in appendice collazioni minuziose dell’intera triade in sedici manoscritti (A B C LjH I K M N Nd O P Q V Y Ya)4. Questa meritoria fatica diede ampio ma non esclusivo fondamento all’apparato di Page, che alle collazioni del suo allievo aggiunse altri dieci codici: D G Lc Lh W (esaminati dallo stesso Page), Ha Nc X (dovuti a Nigel Wilson) e F T (dovuti a Douglas Young). West infine, nella prefazione all’Eschilo teubneriano, dichiarò di avere collazionato altri quattordici testimoni (Ba E Fb Fc Fd Ga L La Lb/Nb ǒa R Rb Rc Xc)5, che tuttavia, salvo il gruppo Ǯ (L La Lb/Nb6), figurano saltuariamente in apparato (le mie considerazioni, beninteso, si ritengano limitate al solo Prometeo). Quaranta, dunque, sono i manoscritti alla base dell’ultima impresa ecdotica eschilea (da cui variamente dipendono i successivi, sommari apparati di Griffith [Cambridge 1983], Podlecki [Oxford 2005] e Sommerstein [Cambridge, Mass.-London 2008]; meno di quindici, tuttavia, compaiono sistematicamente in apparato, giacché, a parere di West, «horum quadraginta […] ne dimidium quidem constanter laudare prodest»7. Mi si permetta, da sùbito, di dissentire da tale giudizio. Posto che, nel caso di un’articolata tradizione, un apparato impone delle scelte (produrre una documentazione esaustiva e indiscriminata, specie per la triade, sarebbe impensabile), occorre, nondimeno, fissare dei criteri di massima che giustifichino la selezione. Consentiamo con West là dove egli ammette di non cogliere «qua ratione Dawe codices suos selegisset» e perché siano rimasti inesplorati varî testimoni del XIV sec.8, o quando rileva l’assenza di una differenziazione qualitativa nell’apparato di Page, ove i manoscritti risultano citati «nullo certo ordine»9; tuttavia, egli stesso non lascia bene intendere come debba esser letto il suo apparato. Se infatti confrontiamo le valutazioni (e relative attribuzioni genealogiche) dei codici proposte in prefazione con l’Index siglorum, in diversi casi non è ben chiaro perché testimoni ritenuti prima, dallo stesso West, di non secondaria importanza siano poi, nella ripartizione dei sigla, o relegati negli «ad libitum citati» o – vedi il caso di G T F E – valorizzati solo per Agamennone ed Eumenidi, ma pressoché oscurati a livello di triade. Troppi codici del Trecento, che non di rado 4

Cf. Dawe 1964, 198-344. Cf. West 1998 (1990) IV. 6 Così ibid. XII-XIII (il gruppo, in realtà, è ben più ampio e articolato). 7 Ibid. IV. 8 Ibid. IV. 9 Ibid. IV. 5

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esibiscono lezioni notevoli o riportano varianti altrimenti ignote (esemplare al riguardo P, sorta di edizione critica ante litteram, che registra anche tre o quattro vv.ll. in sede interlineare), sono esclusi, in modo ingiustificato, dalla rosa dei «constanter in Pers. Sept. Prom. citati»10. Se a ciò poi si aggiunge, come stanno dimostrando le mie indagini in corso, che i più di sessanta manoscritti recenti non ancora escussi e di rado affioranti negli apparati possono dare un contributo apprezzabile – se non altro per la contaminazione che li pervade – nel recensire la triade, abbiamo argomenti per asserire che l’apparato redatto da West offre un quadro piuttosto parziale, e talora persino fuorviante, della tradizione manoscritta del Prometeo. Se c’è, piuttosto, un merito indiscusso dell’Eschilo teubneriano, è nel ripercorrimento minuzioso della tradizione a stampa (inestimabile l’Index criticorum stilato dal filologo britannico11) con risultati preziosi a un livello non solo documentario; diversamente, per quanto attiene al materiale manoscritto, le selettive segnalazioni dei testimoni, in West, paiono sovente rispondere più a preferenze personali (notiamo una predilezione, ad es., per codici mal conservati e per ciò di faticosa lettura12) che a provata rilevanza maggiore rispetto ad altri manoscritti ‘vetusti’ non citati. Di conseguenza, oserei asserire che l’apparato di Page, benché passibile dei giusti rilievi di West per l’allineamento qualitativamente indifferenziato delle fonti, sia nondimeno più obiettivo e, spesso, più ricco d’informazioni (parliamo dei soli codici) rispetto alla teubneriana. Proporrò un paio di confronti, tra i molti possibili, che mi paiono istruttivi: PV 163 ͊ǨαLjK Y Ya F T (Page): Y K (West) Ambigua è l’impressione che lascia West se confrontato a Page: o gli altri codici menzionati da Page e omessi da West LjYa F T) rivelano, a un più attento esame, di leggere ǤͶǨǢcome i più e non ͊ǨǢ, oppure essi hanno importanza palesemente minore rispetto a Y K. Tuttavia, non terrebbe né la prima ipotesi (anche gli altri manoscritti citati da Page leggono ͊ǨǢ; anzi, detto per inciso, son quasi quarantacinque, in totale, i codici con ͊ǨǢ), né la seconda (LjF T non solo rientrano, con pari dignità, nei ‘vetusti’, ma appartengono ognuno a una diversa famiglia e sono dunque testimoni d’altri rami di tradizione; quanto a Ya, è sì vero che rientra nella famiglia di Y e n’è di un secolo più recente, ma, osservò rettamente Dawe, «while Y is the most corrupt of all our sixteen manuscripts [sc. quelli oggetto di collazione sistematica], its alleged satellite Ya is free from most of the O Y errors and presents what must be one of the most readable texts of Aeschylus to be found in any hand-written source»13).

10

Cf. ibid. LXXXI-III. Cf. ibid. LVII-LXXIX. 12 Penso soprattutto a V e ad Y, su cui spesso West dà un apprezzabile contributo di chiarificazione. 13 Dawe 1964, 32. 11

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PV 585 ͎ǧǪǰM LjG (Page): M L (West) Anche in questo caso, i dati di Page son conformi al vero (potremmo aggiungervi Ga, gemello di G, e il notevole, finora ignoto agli editori, recenziore Sn, del XVI sec.) e, se West a buon diritto allinea L (non collazionato da Page) a M, non vi è tuttavia ragione per tralasciare due non recenti testimoni, Lj e G, appartenenti a rami diversi. D’altra parte, va pure precisato che taluni errori presenti in Page non si ritrovano – quanto meno in maniera esplicita14 – in West. Si vedano, ad es., PV 219 ǯǨ ǮǤǯǥǤǫǡǵ, attribuito da Page a M Ha I Psscr (vero per il solo M: Ha legge ǯǨ ǮǨǯǥǤǹǡǵ, IǯǨǮǤǰǥǤǫǡǵPs.l. ǯǨǮǤǯǥǤǹǡǵ15) e da West solo a M (significativo, inoltre, il consenso di due minori d’altra famiglia, Bd e, a quanto parrebbe, Ld); oppure 235 ǧХ·ǷǿǮǯǪǵ, attribuito da Page anche a T (che invece legge ǧίǷǿǮ ǯǪǵ)16; o 236 Ƿǿattribuito da Page anche a Ha (che invece legge ǷDzА); o l’inattestato ǷǬa 242,visto da Page in G T (che invece leggono, come quasi tutti, ǷǨ); o, a 246, la congettura di Porson ͚ǮǨǬǰǿǵ,che Dawe17 – ripreso da Page – avrebbe riscontrato in B (dove invece troviamo, come in tutti, ͚ǮǨǨǬǰǿǵ); o 268 ǯǡǰǷǬ, attribuito da Page anche a Ha (che invece legge, isolato, ǯǡǰǷǨ); o 279 ǫЛǭDzǰ, ascritto ai plerique da Page (i più, al contrario, hanno ǫϪǭDzǰ). In altri casi, invece, letture inesatte – in testimoni prioritari – risalenti alle collazioni di Dawe si ritrovano non solo in Page ma nello stesso West: si vedano ad es. PV 141 ͚dzǢǧǨǶǫХ, che Dawe avrebbe visto in K Q18 (dove però troviamo, rispettivamente, ǨͶǶǢǧed ͚ǶǢǧ), o 772 ͚ǦǦǿǰǼǰ, visto da Dawe in I (che invece legge, fuor di dubbio, ͚ǭǦǿǰǼǰ). Diversamente, una difficoltà di lettura in I ammessa da Dawe a PV 853, ove la tradizione oscilla tra dzǨǰǷǪǭDzǰǷǿdzǤǬǵ edzǨǰǷǪ ǭDzǰǷǟdzǤǬǵ, non è indicata da Page ma affiora tacitamente in West. Dawe scrisse infatti di non poter leggere oltre dzǨǰǷǪǭDze West, attingendo verosimilmente alla sua collazione, avverte che la lezione di I è svanita; una più nitida riproduzione del codice, tuttavia, risolve il problema, restituendoci la sillaba successiva e quindi, in modo inequivocabile, la lezione dzǨǰǷǪǭDzǰǷǿ. D’altra natura, invece, un curioso duplice errore, risalente a Wilamowitz e trasmesso fino agli attuali apparati: si tratta di PV 438 dzǴDzǸǶǨǮDzȀǯǨǰDzǰ, risolutiva congettura di Anthony Askew (così fino a Sidgwick19) che Wilamowitz avrebbe Intendo dire che se in un caso come PV 235 ǧХ·ǷǿǮǯǪǵPage erra nell’attribuire tale lezione anche a T (vi leggiamo infatti ǧί ǷǿǮǯǪǵ), non è possibile appurare dall’apparato teubneriano, che ascrive ǧίǷǿǮǯǪǵa Ǚ O W V Q Ǯ eǧХ·ǷǿǮǯǪǵai ceteri, senza però nominare esplicitamente T, se West abbia ignorato o meno ǧίǷǿǮǯǪǵ del Tricliniano. 15 In questi ultimi due casi, stupisce che Page contraddica le corrette informazioni di Dawe 1964, 206. 16 Cf. supra n. 14. 17 Cf. ibid. 207. 18 Né l’uno né l’altro, va precisato, sono stati ricollazionati da West (1998 [1990] IV). 19 Cf. Sidgwick 1900, app. (pagina non precisabile per assenza di numerazione). 14

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trovato in due «viles libri» del XV sec., Sj e Ua20. I successivi editori, non avendo avuto modo d’ispezionare i due codici, citano Wilamowitz come fonte dell’informazione; West invece, limitandosi a scrivere «dzǴDzǸǶǨǮrecc. (Sj Ua)», dà chiara impressione di aver visto il codice e appurato come attendibile la lettura del grande filologo: in realtà, purtroppo, dzǴDzǸǶǨǮDzȀǯǨǰDzǰ non compare né in Sj (che legge dzǴDzǶǪǮ) né in Ua (che legge, come il gemello U – scritto dalla medesima mano – e il fedele apografo Ub, dzǴDzǶǨǮ, ed ha dzǴDzǶǪǮsupra lineam) né in alcun altro recenziore. Vi sono infine inesattezze, concernenti, talora, i manoscritti ritenuti poziori, riscontrabili nel solo West. Tolti i casi che si potrebbero giustificare come refusi (si vedano PV 90 dzǤǯǯǡǷǼǴascritto a Dª anziché a Ljª, o 187 DzͼǧХΟǵascritto a O anziché a Q, o 538 ǮǤǯdzǴǤЃǵ ascritto a L anziché a T21), lasciano perplessi, invece, segnalazioni come PV 138 ǧХǨͷǮǢǶǶDzǯǠǰDzǸL ǯ(ma tutti e tre presentano, come i più, ǫХǨͷ) o 629 ͨΟǵZi Ze (che invece leggono Οǵcome l’unanime tradizione; al momento, e fino a prova contraria, non possiamo che ripetere le parole del Wilamowitz: «ͪse in libro quodam invenisse ait Turnebus, videtur potius ipse coniecisse»22).

Un nuovo apparato del Prometeo, tuttavia, non può limitarsi a correggere sviste o incongruenze degli ultimi editori (per quanto numerose), rimanendone al contempo dipendente, in maniera pedissequa, nella scelta dei testimoni utilizzabili. Ciò non significa, in alcun modo, disconoscere valore allo straordinario lavoro ecdotico già compiuto, spesso con ammirevole acribia, dalle generazioni precedenti sul testo di Eschilo, o voler rimettere decisamente in discussione, con radicali mutamenti di vedute o presuntuose teorie stemmatiche, i risultati delle indagini genealogiche di Dawe prima e West poi. Rimane però il fatto, innegabile, che tali risultati sono sensibilmente perfettibili, sia perché testimoni ‘vetusti’ dati per escussi hanno dato luogo, in qualche punto, a errori di lettura o possono celare elementi finora sfuggiti all’attenzione23, sia perché larghissima parte della tradizione recenziore giace inesplorata. Non possiamo certo attenderci, entro quest’ultima, scoperte tali da inficiare gli apparati di Page e West nelle loro linee portanti; ma informazioni, anche di peso considerevole, ai fini di una nota critica più ricca (il che non significa ipertrofica), più solidamente documentata e più affidabile ci vengono senz’altro offerte, benché in misura diseguale, da codici del 20

Cf. Wilamowitz 1914, 41. In quest’ultimo caso, tuttavia, la possibilità che sia un refuso mi par meno evidente. 22 Wilamowitz 1914, 48. Galistu 2006, 188 segnala che Tournebus avrebbe tratto ͨΟǵda Pd: ma neppure in quest’ultimo ne ho trovato traccia. 23 Del codice I, che ho sottoposto a collazione completa con un suo probabile e finora inesplorato apografo del XV sec. (il II.F.32 della ‘Vittorio Emanuele III’ di Napoli, che proporrei di chiamare Ia), ho potuto, in ben centotrenta casi, rettificare o problematizzare le informazioni fornite in Dawe 1964 (opera in cui I figura per la prima volta in una recensione eschilea) e, talora, segnalare nuovi dati: i risultati di questa indagine sono in corso di pubblicazione in Taufer 2011. 21

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XV e pure del XVI secolo. Che recenziori non sia sinonimo di deteriori è divenuto, con Pasquali, uno dei capisaldi, ampiamente dimostrati, della critica testuale; persino apografi di edizioni rinascimentali, «of course useless» nella sbrigativa damnatio di Turyn24, possono dare, se interessati da contaminazione con manoscritti scomparsi, contributi di qualche valore, forse non sempre ai fini della constitutio textus, ma quanto meno a livello documentario (è il caso di J, copiato sì dall’Aldina, ma che, a differenza del gemello Ja, non solo corregge alcuni refusi del suo pessimo antigrafo, ma talora lo contamina annotando supra lineam varianti precedute da ǦǴǟǹǨǷǤǬ). Nessun testimone è così privo d’interesse da potersi scartare a priori o solo in séguito a sommaria consultazione: le ricerche finora condotte sul Prometeo mi dimostrano che, dei circa dieci apografi riconoscibili senz’altro come tali (su novantotto manoscritti presi in esame25), meno della metà è fedele copia dell’antigrafo. Non di rado, inattese, compaiono in provati descripti innovazioni non riducibili a meri errori di trascrizione, ma piuttosto classificabili come lezioni d’altra origine, che tradiscono o parziale contaminazione o, in determinati casi, l’ingegno dello stesso scriba che ha formulato congetture. Neppure Mb, il pedissequo apografo bolognese di M, può essere oggetto d’eliminazione tout court, sia perché si scosta talora dal modello (di cinque secoli più antico) attestando altre lezioni (e.g. PV 159 ͚dzǢǺǤǴǯǤcontro ͚dzǢǺǤǴǷǤdi M), sia perché – fatto assai più rilevante e già messo in luce dal suo scopritore, Konrad Zacher 26 – tende a conservarci la lettura originaria di M ante rasuras. Superfluo infine ricordare che nitidi apografi di codici malandati o difficili a leggersi possono offrire, in numerose occasioni, un provvido termine di confronto. Ciò premesso, ritengo ancora prematuro, allo stato attuale delle mie indagini, proporre uno specimen di apparato che dia il giusto peso all’apporto dei recenziori e restituisca importanza a codici del XIV sec. raramente richiamati dagli editori. Abbozzare una nota critica presuppone infatti escussioni e collazioni sistematiche, col conseguente tentativo – parlo di tentativo perché l’impressionante contaminazione dei testimoni mette in guardia da conclusioni perentorie – d’ascrivere a un determinato ramo di tradizione codici ancor poco o male o per nulla studiati. È sì vero che Turyn ha delineato, per buona parte dei recenziori (ben dodici, tuttavia, non gli furono accessibili27, né paiono, almeno i sei che ho potuto 24

Turyn 1943, 119. Come ho precisato all’inizio, dei centocinque manoscritti noti per il Prometeo sette sono ancora in corso d’acquisizione su microfilm. 26 Cf. Zacher 1883, 473. 27 Cf. Turyn 1943, 119-21: è la sezione dei «manuscripts not yet investigated», tutti recenti salvo I (su cui cf. supra n. 24). Dagli undici recenti non ancora investigati togliamo, perché vi è assente il Prometeo, il Phillippicus 3086, il Manners Suttonianus 1203 e il Senese I.IX.3, ma possiamo aggiungere (arrivando così a nove documenti inesplorati per il Prometeo) un ulteriore codice, assai tardo (parrebbe addirittura del Settecento) e ignoto sia a Turyn sia a Smyth 1933, del quale ho trovato menzione in Papadopoulos-Kerameus 1915, 137 n° 604 («ǗǨАǺDzǵ ǺǟǴǷǬǰDzǰ Ƿϸǵ 18-Ǫǵ ͛ǭǤǷ͚ǭǹȀǮǮǼǰ65 ǯǡǭ0,15, dzǮ0,11», contenente vita di Eschilo, catalogo dei drammi, ipotesi e testo corredato da scolî del Prometeo [ai ff. 7-39], ipotesi e testo corredato da scolî dei Sette [ai ff. 42-65]). 25

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vedere, di facile classificazione) filiazioni discretamente plausibili, ma in diversi casi le sue ipotesi risentono, purtroppo, di un’ispezione fugace e assai parziale dei testimoni (per ora mi limito a contestare – in altra sede fornirò consistenti argomenti – due presunte certezze: che Bc e Bd, pur senz’altro apparentati a Ba, ne siano patenti apografi28, e che Li, in base ad un cursorio confronto dei primi ottanta versi del dramma, possa dirsi apografo di Le, con cui peraltro condivide, pur nella sua marcata individualità, l’appartenenza a Ǯ). La questione dei recenziori va nuovamente affrontata e con la debita cura, giacché spesso vi possiamo trovar traccia di lezioni altrove inattestate o finora ritenute di un solo codice ‘vetusto’ in una precisa famiglia; né può certo valere come principio – torniamo al monito pasqualiano – che l’antichità di un manoscritto dia sempre più solide garanzie di un recentior, che talvolta, per un fortunato accidente, conserva lezioni genuine e risolutive29. Penso, ad es., a PV 1071 ͊ǮǮХDzΘǰǯǠǯǰǪǶǫХ͏(Ƿ)ǷХ͚Ǧδ dzǴDzǮǠǦǼ, dove ͏(ǷХ) è lezione predominante nei codici, cui, specie dopo Hermann, si sono giustamente preferiti30 o ͋Ǧȁcongetturato da Porson o ͏ǦХ͚Ǧȁdi un anonimo umanista del Cinquecento che corredò di note manoscritte una copia dell’Aldina eschilea31; ora, sia ͋Ǧȁ (seppur nella grafia ͋ ХǦȁ32) sia ͏ ǦХ ͚Ǧȁ emergono già in due manoscritti del XV sec., cioè rispettivamente Zi e Li, che forse ci hanno preservato (se non si tratta di congetture degli stessi copisti o di loro perduti antigrafi) il testo originario. Tocchiamo, con quest’ultimo esempio, il problema delle congetture identificabili invece come lezioni in qualche codice, non necessariamente recente. Tra le ‘scoperte’, finora perlopiù casuali, dovute alle mie ricerche, citerei anzi tutto PV 172 ǭǤǢǯХDzΖǷǨ, noto come congettura di Porson33 ma in realtà già presente nell’importante ms. atonita I e nel suo probabile apografo napoletano (il succitato II.F.32)34; segnalo poi, per il v. 242, che ǷDzǬdi Wilamowitz pare già in Ze, mentre al v. 401 Bc esibisce ǰDzǷǢǤǬǵfinora ritenuto del solo Tournebus. (A West è inoltre sfuggito che un ms. degli «ad libitum citati»35, cioè Zi del XV sec., legge ǶǷǨǴǴǟǵcongettura avanzata da lui stesso in apparato al v. 173). Si potrebbe tuttavia osservare, non senza ragione, che il complesso delle ‘novità’ ricavabili da una collazione esaustiva dei testimoni tende a configurarsi come contributo più in termini d’esattezza e chiarificazione documentarie che stret28

Cf. Turyn 1943, 65. Stupisce pertanto che West (1998 [1990] VIII), nel discutere i rapporti fra i due peraltro controversi codici del gruppo Ǧ, cioè O ed Y, scriva del primo che «ut senior, ita melior est»: di là dal caso specifico, trovo l’espressione, se assolutizzata a livello metodico, alquanto pericolosa. 30 ͏ǷǷƆè infatti ametrico e ͏ǷƆ, per il suo valore generalizzante (LSJ 1262 s.v. ΋ǶǷǨI.1.), suona qui poco opportuno. 31 Per la discussione del passo in relazione a quella che, allora, credevo esser esclusiva congettura di Porson, rinvio a Taufer 2009, 144. 32 Del resto, la stessa congettura di Porson era scritta, di suo pugno, nella forma ͍ƆǦȁ: cf. ibid. 144 n. 109. 33 Sulla quale cf. ibid. 136. 34 In proposito rinvio a Taufer 2011. 35 Cf. West 1998 (1990) LXXXIII. 29

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tamente ecdotico. Ciò, in parte, è vero – il che non significa inutile o ininfluente –, poiché pertiene al livello documentario sapere quanti e quali codici attestino una certa lezione palesemente errata e dunque trascurabile nella constitutio textus, o scoprire che un dato ms. tardomedievale tramanda quella che fino ad oggi era creduta congettura, ma di modesto valore, avanzata in via indipendente da uno o più editori dal Cinquecento al secolo scorso. Invece, andiamo oltre il fatto esclusivamente documentario quando sono in questione o congetture di pregio – e forse risolutive – reperibili in qualche codice (si ricordi il duplice istruttivo caso di PV 1071 ͋Ǧȁe ͏ǦХ͚Ǧȁ), o lezioni, se non certamente genuine, quanto meno importanti e degne di comparire in apparato. In tali casi, è dovere dell’editore segnalare quanti e quali codici (o almeno, nel caso di un numero elevato di essi, quante e quali famiglie) conservino una lezione notevole o permettano d’includere nella paradosi come variante quella che finora fu ritenuta una semplice congettura, affinché si dia adeguata documentazione di supporto a chi volesse discutere il testo tràdito in una corretta prospettiva storica. A PV 108, ad es., non è di marginale interesse sapere che larga parte delle famiglie legge ΓdzǠǩǨǸǦǯǤǬ, soluzione allettante e forse preferibile al più fortunato ͚ǰǠǩǨǸǦǯǤǬdi M e pochi altri: ora, Page cita Ha Nc Lc Lh K G, West si limita a K L, là dove ben quarantaquattro codici – che in apparato dovremo condensare in una decina di gruppi – attesta ΓdzǠǩǨǸǦǯǤǬ (F Fc Fd G Ga Ha J Ja [ex Asul.] K L Lc Ld Lh Le Lf Nc Oa [e Rob.] R Ra Rb Rc Rd S Sa Sb Sc Sd Se Sf Sg Sh Si Sj Sk Sn Z Za Zc Zd Ze Zi Zj, Ferrar. BC gr. 116 e Neap. II.F.31 bis). Oppure, a PV 269, sarà bene fondare più saldamente nei manoscritti il corretto ǭǤǷǬǶǺǰǤǰǨЃǶǫǤǬ, attribuito da West solo a H¹; Page segnalava, opportunamente, anche D²pc, e da parte nostra potremmo aggiungere Jsl Sbpc e, in textu senza correzioni, Bd Sh Si Sk (gli ultimi due vergati, si badi, dallo stesso Arsenio di Monemvasìa36). Infine, un’ispezione accurata dei testimoni può riservare sorprese di vario genere, cioè casi che, per qualche ragione, invitano a riflettere. Ci si può imbattere, ad esempio, sia in fenomeni piuttosto singolari, come Ca, codice di per sé contenente il solo PV ma che, nel mezzo del v. 576 (e non ad inizio foglio!), inserisce Sept. 35-68 per poi riprendere esattamente dal punto interrotto (nulla di tutto ciò nel – parziale, a mio parere – antigrafo C); oppure come Sk, dove Arsenio ripete senza apparente motivo i vv. 831-40 dopo il v. 840, scrivendo peraltro, al v. 838, dzDzǮǸdzǮǟǭǷDzǬǶǬprima e dzDzǮǸdzǮǟǦǭǷDzǬǶǬdopo. Ma possono anche emergere lezioni, finora sfuggite all’attenzione, in manoscritti ‘vetusti’ dati per escussi e per giunta in luoghi crocifissi da qualche editore. Mi riferisco, in particolare, a PV 549-50ǹǼǷЛǰƽdzDzǴǨȀǨǷǤǬ/ ͊ǮǤǿǰ, dove dzDzǴǨȀǷǨǤǬè lezione del solo I (e del citato probabile apografo Neap. II.F.32) in un controverso passaggio lirico: per quanto dzDzǴǨȀǨǷǤǬ, che certo dà senso, paia ametrico37 – è forse congettura dello stesso I, che percepì la difficoltà sintattica del passo e tentò in qualche modo di

36 37

Cf. Turyn 1943, 85-6. Rinvio a Taufer 2011 n. 46.

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rimediarvi –, resta il fatto che tale dato restituito da una nuova escussione dei testimoni andrà tenuto nel debito conto. Affrontare – e ri-affrontare nel caso di alcuni codici più antichi – l’intera tradizione della triade è impresa che può spaventare per i tempi e le energie che richiede: ma i risultati, ne sono persuaso, non deluderanno né saranno di portata ecdotica marginale. Freiburg im Breisgau

Matteo Taufer

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Asul. DžͶǶǺȀǮDzǸǷǴǤǦЙǧǢǤǬ͟DZǔǴDzǯǪǫǨγǵǧǨǶǯȁǷǪǵƢljdzǷή͚dzαnjǡǥǤǬǵǔǠǴǶǤǬơDžǦǤǯǠǯ ǰǼǰljΒǯǨǰǢǧǨǵƢǍǭǠǷǬǧǨǵ. Aeschyli tragoediae sex, [ed. F. Asulanus], Venetiis 1518. Dawe 1964 The Collation and Investigation of Manuscript of Aeschylus, by R.D. Dawe, Cambridge 1964. Galistu 2006 Anna Maria Galistu, L’edizione eschilea di Adrian Tournebus, Amsterdam 2006. Page 1972 Aeschyli septem quae supersunt tragoedias edidit D. Page, Oxonii 1972. Papadopoulos-Kerameus 1915 УǍǨǴDzǶDzǮǸǯǬǷǬǭΰdžǬǥǮǬDzǫǡǭǪͪǷDzǬǎǤǷǟǮDzǦDzǵǷКǰ͚ǰǷǤЂǵǥǬǥǮǬDzǫǡǭǤǬǵǷDzЏ͋ǦǬǼǷǟǷDzǸ ͊dzDzǶǷDzǮǬǭDzЏǷǨǭǤαǭǤǫDzǮǬǭDzЏΆǴǫDzǧǿDZDzǸdzǤǷǴǬǤǴǺǬǭDzЏǫǴǿǰDzǸǷКǰƢǍǨǴDzǶDzǮȀǯǼǰ ǭǤαdzǟǶǪǵǔǤǮǤǬǶǷǢǰǪǵ͊dzDzǭǨǬǯǠǰǼǰƢljǮǮǪǰǬǭКǰǭǼǧǬǭКǰǶǸǰǷǤǺǫǨЃǶǤǯίǰǭǤαǹǼ ǷDzǷǸdzǬǭDzЃǵǭDzǶǯǪǫǨЃǶǤdzǢǰǤDZǬǰΓdzβХDžǔǤdzǤǧDzdzDzȀǮDzǸǎǨǴǤǯǠǼǵ […] ǷǿǯDzǵdzǠǯ dzǷDzǵ[͚ǰǔǨǷǴDzǸdzǿǮǨǬ] 1915, impr. anastatique Bruxelles 1963. Rob. DžͶǶǺȀǮDzǸǷǴǤǦЙǧǢǤǬ͛dzǷǟ, Aeschyli tragoediae septem, a F. Robortello Utinensi nunc primum ex manuscriptis libris ab infinitis erratis expurgatae, ac suis metris restitutae, Venetiis 1552. Sidgwick 1900 Aeschyli tragoediae, cum fabularum deperditarum fragmentis, Poetae vita et operum catalogo, recensuit A. Sidgwick, Oxonii 1900. Smyth 1933 Catalogue of the Manuscripts of Aeschylus, by H.W. Smyth, HSPh 44 (1933) 1-62. Taufer 2009 M. Taufer, Congetture porsoniane al ‘Prometheus Vinctus’, in Atti del Seminario di Studi su Richard Porson (Università di Salerno, 5-6 dicembre 2008), Lexis 27, 2009, 131-53 (ora in Seminario di Studi su Richard Porson, a c. di Paola Volpe Cacciatore, Napoli 2011, 117-39). Taufer 2011 M. Taufer, Il Prometheus Vinctus nella collazione di I (Athous Iviron 209) e di un suo probabile apografo, Ia (Neap. II.F.32), Lexis 29 (2011), in corso di stampa. 217

Turyn 1943 The Manuscript Tradition of the Tragedies of Aeschylus, by A. Turyn, New York 1943, reprographischer Nachdruck Hildesheim 1967. West 1998 (1990) Aeschyli tragoediae cum incerti poetae Prometheo, edidit M.L. West. Editio correctior editionis primae [sic] (MCMXC), Stutgardiae et Lipsiae 1998. Wilamowitz 1914 Aeschyli tragoediae, edidit U. de Wilamowitz-Moellendorff, Berolini 1914. Zacher 1883 K. Zacher, Codex Bononiensis des Aeschylus, Hermes 18 (1883) 472-5.

ABSTRACT A complete collation of the whole manuscript tradition (105 codices, whose many recentiores are partially or not yet investigated) of Aeschylus’ Prometheus Bound will produce important results not only in correcting various mistakes and filling many gaps in the modern apparatus critici. It will also improve our knowledge of the manuscripts’ affiliations despite the high level of contamination in the medieval and Renaissance witnesses of Aeschylus. KEYWORDS: Aeschylus - Prometheus Bound - new collations

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I FRAMMENTI DEL FINEO E DEL GLAUCO DI POTNIE DI ESCHILO La hypóthesis premessa nella tradizione manoscritta al testo dei Persiani informa che, sotto l’arcontato di Menone (nel 473/72 a.C.), Eschilo vinse il concorso tragico alle Grandi Dionisie con una tetralogia comprendente Fineo, Persiani, Glauco di Potnie e Prometeo: ͚dzαǐǠǰǼǰDzǵǷǴǤǦЙǧЛǰDžͶǶǺȀǮDzǵ͚ǰǢǭǤǙǬǰǨЃ ǔǠǴǶǤǬǵ LJǮǤȀǭЙ ǔDzǷǰǬǨЃ ǔǴDzǯǪǫǨЃ (p. 4.21-22 West). Il dramma satiresco potrebbe essere Prometeo dzǸǴǹǿǴDzǵ ovvero Prometeo dzǸǴǭǤǨȀǵ (titoli che alcuni moderni studiosi riferiscono ad un unico e medesimo dramma)1. Il fatto che una parte dei codici (M ǭ) ometta ǔDzǷǰǬǨЃ indusse Welcker (1824, 471) a credere che la tragedia di chiusura della trilogia fosse non il LJǮǤǸƔǭDzǵ ǔDzǷǰǬǨȀǵ (titolo non elencato nel Catalogo ma ben attestato dai testimoni dei frr. 36.5-6, 37, 38, 40-42a R.) bensì il ǔǿǰǷǬDzǵ (dramma invece ricordato nel Catalogo e al quale dalle fonti sono esplicitamente attribuiti i frr. 25e, 28, 31 e 34 R.)2. Radt include tra i frammenti del Marino anche 25c, 25d, 26, 27 e 29, mentre preferisce non sbilanciarsi riguardo due frammenti, 25a-b, che i testimoni assegnano a un Glauco, senza ulteriore specificazione e senza che si possa evincere, dal testo e/o dal contesto della citazione nella fonte, un qualche affidabile riferimento a Glauco di Potnie ovvero a quello di Antedone (città entrambe della Beozia). Quest’ultimo era un pescatore che, dopo aver mangiato un’erba magica, si trasformava in divinità marina, dotata del dono della profezia (cf. Paus. 9.22.5-7)3: ma se il Glauco Marino apparteneva, come sembra ormai acclarato, al genere satiresco, esso non poteva certo essere il terzo dramma della trilogia del 4724. Più verosimilmente, dunque, si sarà trattato del Potnieo, incentrato sulla tragica vicenda di Glauco, il quale durante i giochi funebri in onore di Pelia veniva dilaniato dalle cavalle che egli stesso aveva allevato5. Il dramma d’apertura riguardava invece Fineo, il cieco indovino trace tormentato dalle Arpie (cf. Aesch. Eum. 50-1), che venivano messe in fuga (e forse uccise) dai figli di Borea al momento dell’arrivo degli Argonauti in Tracia6. A noi moderni lettori dei Persiani e dei pochi lacerti delle altre opere può sembrare anomalo che una tragedia ‘storica’ fosse incastonata tra drammi ispirati a vicende mitiche, unico caso di tetralogia ‘slegata’ in una serie costante di tetralogie ‘unitarie’ eschilee che possiamo documentare o ricostruire ipoteticamente. In genere Eschilo componeva tetralogie di questo tipo e quella del 472 costituiva 1

Cf. Radt 1985, 111 n. 1, 302, 321-30; Sommerstein 2008 b 210-20; Lucas de Dios 2008, 55984. 2 Cf. Radt 1985, 48 ad T 55a. 3 Cf. Jentel 1988, 271-3 s.v. Glaukos I; Ganz 1993, 732-3. 4 Cf. Radt 1985, 142; A. Wessels-R. Krumeich in GS 125-30; Sommerstein 2008 b 24-32; Lucas de Dios 2008, 234-42; Garvie 2009 xliii e 3-4. 5 Cf. Radt 1985, 148-9; Boardman 1988, 274-5 s.v. Glaukos III; Ganz 1993, 175; Sommerstein 2008 b 32-9, Lucas de Dios 2008, 242-51. 6 Cf. Radt 1985, 359; Ganz 1993, 349-56; Kahil 1994, 387-91 s.v. Phineus I. Sappiamo che Sofocle compose un Fineo primo e secondo (cf. Radt 1999, 484-9; Giudice Rizzo 2002, 19 ss.).

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una eccezione? Ma siamo davvero sicuri che si trattava di una prassi rara o addirittura isolata a quella occasione? E se l’anomalia fosse solo apparente? Non si può escludere che anche la tetralogia dei Persiani contenesse elementi di unità: e ne sono stati ipotizzati, sia sul piano tematico che a livello di immagini. Il presente contributo non intende inserirsi in questo vivissimo dibattito7; si limita a commentare, talora più nel dettaglio, i pochi resti delle due tragedie perdute e i due frammenti 25a-b R. incerti Glauci.

Fineo fr. 258 R. Ath. 10.421 F incastona il frammento eschileo tra due citazioni euripidee, Antiope fr. 213.4 e Stenebea fr. 670 K. Nel verso dell’Antiope (ǹǤȀǮ϶ ǧǬǤǢǷ϶ dzǴDzǶ ǥǤǮδǰ ͫǶǫǪ ǶǷǿǯǤ), commenta la fonte, ‘il piacere derivato dal cibo coinvolge in particolare la bocca’, e a proposito del piacere gustativo riguardante la bocca vengono citati anche i due versi dal Fineo di Eschilo: ǭǤαǻǨǸǧǿǧǨǬdzǰǤdzDzǮǮήǯǤǴǦȁǶǪǵǦǰǟǫDzǸ ǨǴǴǸǶǬǤǵDzͽDzǰǶǷǿǯǤǷDzǵ͚ǰdzǴǼǷǬDzǺǤǴǤǬ

Il codice A di Ateneo è evidentemente corrotto all’inizio e alla fine del v. 2. In clausola è generalmente accolta la correzione del Musuro dzǴȁǷ϶ǺǤǴϫ, all’inizio è ristabilita una forma verbale al passato, preferenzialmente ͚ǴǴǸǶǢǤǩDzǰ di Lobeck 1820, 739. Alla fine del v. 1, nonostante che qualche editore configuri un dativo strumentale (ǯǤǴǦȁǶǤǬǵ ǦǰǟǫDzǬǵ Hartung 1855, 35; ǯǤǴǦȁǶ϶ ǦǰǟǫЙ "auck 1856, 65 e 1889, 83), il genitivo di separazione ǯǤǴǦȁǶǪǵǦǰǟǫDzǸ può essere difeso, con Fraenkel 1950 II 462 (ad Ag. 1023) sulla scorta dell’interpretazione fornita da Wilamowitz 1914, 177: «eripiebant (Harpyiae nimirum) multas epulas, quibus nemo frueretur, cupidis malis (Phinei), cum eius os prima offa delectabatur»; dunque, ‘e abbondante, illusorio pasto (le Arpie) strappavano dall’avida mascella (di Fineo) al primo assaggio della bocca’, cioè mentre Fineo si apprestava a gustarlo: ǻǨǸǧǿǧǨǬdzǰǤ perché l’aspirazione di Fineo a potersi cibare era destinata a rimanere illusoria e immancabilmente frustrata a causa dell’intervento delle Arpie. fr. *258a R. L’Etymologicum Genuinum AB (ed. R. Reitzenstein, Ind. lect. Rostock 1890/91, 4) alla voce ͎ǰǪǶǷǬǵ (Ǥ 863 Lasserre-Livadaras), chiosata con · ͎ǶǬǷDzǵ, oltre che in Cratino (Dionisalessandro, fr. 47 K.-A.) attesta il termine anche in Eschilo, ͚ǰ ǙǬǰǨЃ (così Reitzenstein; il cod. A ha ǹǼǰǨЃ), έ Ȃ ͎ǰǪǶǷǬǵ ǧ’ DzΒǭ ͊dzDzǶǷǤǷǨЃ 7

Che include, tra i contributi più importanti e recenti, Broadhead 1960 lv-lx; Deichgräber 1974; Flintoff 1992; Moreau 1992-93; Hall 1996, 10-1; Perysinakis 2000; Garvie 2009 xl-xlvi; Sommerstein 2008 a 6-10 e 2010.

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ǦǿDzǵ(‘non manca lamento affamato’), che lo stesso Reitzenstein reputava fine di trimetro (cf. Aesch. fr. 301 R.). fr. 259 R. Nell’Onomastico di Polluce (2.196) si attesta che ‘Crizia [88 B 65 D.-K.; fr. 7 N.2] chiama dzDzǧǨЃǤ le fasce di feltro intorno ai piedi, che Eschilo chiama dzǠǮǮǸ ǷǴǤ’. L’informazione viene ripetuta con qualche dettaglio in più in Polluce 7.91: ‘Quelli che Crizia chiama dzDzǧǨЃǤ, sia che si intendano calzini di feltro (dzǢǮDzǸǵ) sia fasce che avvolgono i piedi, Eschilo nel Fineo li chiama dzǠǮǮǸǷǴǤ: dzǠǮǮǸǷǴ’ ͞ǺDzǸǶǬǰǨΒǫǠǷDzǬǵ͚ǰ͊ǴǥȀǮǤǬǵ’, ‘portano fasce in calzature ben fatte’. Viene il sospetto che in Polluce 10.50 ΓdzǨЃǰǤǬǧίǧǨЃ dzDzǧǨЃǤdzǢǮDzǸǵ dzǠǮǮǸǷǴǤƌDzΗǷǼ ǦήǴ Ƿή dzDzǧǨЃǤ ǖDzǹDzǭǮϸǵ ǭǤǮǨЃ il nome di Sofocle abbia sostituito per errore quello di Eschilo (cf. Radt 1999, 656 ad Soph. fr. 1152). Sorprende che Deichgräber 1974, 14 escluda il verso dal novero dei frammenti del Fineo e voglia assegnarlo ai Frigi, sulla base della correzione ǙǴǸDZαoperata da Bekker 1846, 296 sul guasto ǹǴǸǰα presente nel cod. A in Polluce 7.91: il riferimento sarebbe, in questo caso, alla «Fußbekleidung» di Priamo e dei suoi compagni frigi. Ma Bekker editava Polluce tenendo conto di due codici parigini (A B) e di un palatino (C), come è esplicitato nella sua Praefatio. L’edizione di Polluce curata da Bethe (1900-37) tiene conto anche dei codd. F S, che nel nostro passo danno la lezione corretta ǙǬǰǨЃ; ǙǬǰǨЃ, del resto, congetturava Schmidt 1862, 228, contro la lettura di Bekker e contro la vulgata ǙDzǬǰǢǶǶǤǬǵ dell’editio princeps Aldina di Polluce, che faceva di Eschilo l’autore di mai altrove attestate Fenicie. Nel Fineo, il verso era verosimilmente parte di una descrizione dei Boreadi, Zetes e Kalais, che inseguivano e cacciavano le Arpie (cf. infra fr. 260 R.). All’esegesi del vocabolo dzǠǮǮǸǷǴǤ era verosimilmente dedicata la glossa esichiana che nel codice Marciano figura sotto la voce dzǨǮǮǸǷǤǢƌ Dzͷ ǧǨǶǯDzα Dzͷ dzǨǴα Ƿή[ǵ]ǶǹǸǴήǭǤαǷDzγǵ͊ǶǷǴǤǦǟǮDzǸǵǷЛǰǧǴDzǯǠǼǰdzǨǴǬǨǮǬǶǶǿǯǨǰDzǬǨͶǵǷβǯΰ ͚ǭǷǴǤǹϸǰǤǬ, ‘le fasce (fasciature, legature) avvolte intorno alle caviglie e ai calcagni dei corridori per evitare il rischio di slogature’; in relazione con questa possono stare pure le glosse dzǨǮǮǤǶǷǤǢƌΓdzDzǧǡǯǤǷǤ͍dzǨǴǬǨǷǢǫǨǶǤǰDzͷǧǴDzǯǨЃǵ dzǨǴα Ƿή ǶǹǸǴǟ ͻǰǤ ǯΰ ͞DZǼ ǶǷǴǠǹǪǷǤǬ, nonché dzǨǮǮȀǷǤ ǭǤα dzǨǮǮȀǷǨǯǤƌ ǧǨ Ƕǯǿǵ. Nell’apparato ad Aesch. fr. 259, Radt attribuisce a Schmidt la correzione del tràdito lemma dzǨǮǮǸǷǤǢin dzǠǮǮǸǷǴǤ. Nella edizione schmidtiana di Esichio la glossa in questione, dz 1357, compare a p. 302 del III volume difatti sotto la voce dzǠǮǮǸǷǴǤ, così giustificata in apparato: «Vide Poll. II 196 VII 91 X 50 unde patet gl. 1343 pro dzǨǮǮǤǶǷǤǢ et h. l. pro dzǨǮǮǸǷǤǢ dzǨǮǮȀǷǤ et dzǨǮǮȀǷǨǯǤ legendum esse dzǠǮǮǸǷǴǤ». Per i medesimi emendamenti la nuova edizione esichiana curata da Hansen (2005) fa invece riferimento all’edizione didotiana del Thesaurus Graecae Linguae dello Stephanus (ThGL3), che nel tomo VI fasc. III col. 706c, a proposito delle glosse dzǨǮǮǸǷǤǢ, dzǨǮǮǤǶǷǤǢ e dzǨǮǮȀǷǨǯǤ (dzǨǮǮȀ ǷǨǸǯǤ leggeva Henry Estienne), raccomandava: «Quae omnia nihil aliud sunt quam unius corruptelae vocabuli dzǠǮǮǸǷǴǤ». La precedenza spetta in effetti ai curatori del rinnovato Thesaurus, il cui sesto tomo, contenente le glosse inizianti 221

per ǔǕ, apparve in 8 fascicoli tra il 1842 e il 1847, per i tipi Didot a Parigi (cf. Petitmengin 1983); il terzo volume dell’Esichio di Schimdt fu invece pubblicato a Jena nel 1861. fr. 259a R. Le due colonne conservate in P. Oxy. 1087, un commento a Hom. Il. 7.76, in buona parte forniscono una lista di dzǤǴȁǰǸǯǤ, ossia di parole ‘derivate’, appartenenti alla seconda declinazione, il cui nominativo è analogo al genitivo di forme ad esse connesse della terza declinazione. Ciò che rende particolarmente interessante la lista è che gli esempi addotti sono documentati attraverso il riferimento puntuale agli autori in cui essi ricorrono. Tra la r. 33 della prima colonna e le rr. 34-6 della seconda occorre il caso di ͏ǴdzǤǦDzǵ, usato al plurale da Eschilo nel Fineo e da Sofocle nel primo Fineo:β͏ǴdzǤǦDzǵ͞ƦǰƦǫƦǨƦǰ͚ƦdzƦ[Ǯ]ǡǫǸǰǨǰDžͶǶǺ[Ȁ]ǮƦDzǵ͚ǰǙǬǰǨǬƔ͏ƦǴƦdzƦǤǦDzǬƦ(͋ƦǴƦdzƦǟǦDzǬƦ Wilamowitz 1914, 177) ǺƦǨƦ[Ǵ]DzƦǬƔǰǭǤαǖDzǹDz ǭƦǮƦǪƔǵ͚ǰǙǬǰǨǬƔ ϦǺǨǴǶαǰ͋ǴdzƦ[ǟ]ǦDzǬǵ (Soph. fr. 706 Radt2, dove il termine è usato con funzione aggettivale, ‘con mani adunche’). Sia in Eschilo che in Sofocle l’espressione poteva riferirsi alla continua razzia del cibo di Fineo operata dalle Arpie. fr. *260 R. In un passo problematico del De pietate di Filodemo, testimoniatoci da un papiro ercolanese (P. Herc. 247 Vb 3-10, p. 18 Gomperz), pare si faccia riferimento alla storia della fine delle Arpie, trattata da vari autori; dal momento che tra questi autori, prima dei poeti lirici Ibico (PMGF 292) e Teleste (PMG 812), compare certamente il nome di Eschilo, lo spazio disponibile nella lacuna successiva al suo nome dovrà essere necessariamente riempito dalla precisazione del titolo del dramma nel quale il tema era affrontato, verosimilmente il Fineo: DžͶǶ]ǺȀǮDzǵǧ’ [͚ǰǙǬǰǨǬƔ] ǭǤαljͺǥ[ǸǭDzǵǭǤαǗǨ]ǮǠǶǷǪǵ[dzDzǬDzǸƔǶǬǰ] Ƿήǵ͓Ǵdz[ǸǢǤǵǫǰǪǶǭ]DzȀǶǤǵ Γdz[β ǷǼƔǰ džDzǴǠDzǸ dzǤǢ]ǧǼǰ. In alternativa al testo integrato da Gomperz, si è tentata anche la seguente ricostruzione: Ƿήǵ͓Ǵdz[ǸǢǤǵǫǨήǵ] DzΖǶǤǵ (Philippson 1920, 270)Γdz[βǷǼƔǰdžDzǴǨǤ]ǧǼƔǰ[ǷǨǮǨǸǷȁǶǤǵ] (Schober 1923 [1988, 79]). Cf. Pherecyd., FGrHist 3 F 165, e p. *28 dei Corrigenda. Particolarmente discusso e soggetto a diverse ricostruzioni è anche il contesto, immediatamente precedente e successivo, nel quale si situa questa testimonianza relativa a Eschilo, Ibico e Teleste (utile lo status quaestionis tracciato da Amarante 1998, 137-8 e Debiasi 2003, 99-100). Glauco di Potnie fr. 36 R. × ]ǪǵǨǮǼǰͻdzdzDzǬǶƦ[Ǭ]ǰ . . [ × ]ǼƦǦǠǰDzǬǷDzǭǤǬǶǨdzǨǸ. . [.] . [ × – ]DZǬǤǵ͟ǭǤǷǬdzǴǼǷDz . . . [.] . [

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× ]ǨǰǭǨǮǨǸǫЙDZǸǯǥDzǮƦDz[Ʀ ǨΒDzƦǧǢǤǰƦǯίǰ . . . . dzǴ#ǼƔǷDz$ǰ͊ƦdzƦβǶǷǿǯǤǷƦ‫ہ‬DzǵǺǠDzǯǨǰ ]ǴDzǰǼ[ ... 1 ǰǢǭ]Ǫǵ, in fine versus praecedentis [ǦǠǴǤǵ?] Goossens 1936, 510 | «͛Ǯδǰ ed. pr.; an ͚ǮǼƔǰ?» Radt 1985 ad l. | 4 ͚ǰǭǨǮǨȀǫЙDZȀǯǥDzǮDz[ǬKörte 1939, 97, e.g. DZȀǯǥDzǮDz[ǰǭǨǧǰβǰǮǤǥǨǬƔǰSommerstein 2008 b 34; ǯǪǧ’] ͚ǰǭǨǮǨȀǫЙDZǸǯǥDzǮǡƦ [ǷǬǵǨͺǪ Mette 1959, 160.

PSI 1210, fr. 1 (II sec. d.C.), edito da Norsa-Vitelli nel 1935; conservato al Museo del Cairo. È della stessa mano di altri frammenti papiracei eschilei (cf. Radt 1985, 10).

L’attribuzione al Glauco di Potnie è assicurata dallo scolio a Rane 1528 che segnala, in quel verso aristofaneo, una ripresa adattata dal dramma eschileo. Alla fine della commedia, il coro di Iniziati accompagna l’uscita di scena di Eschilo e Dioniso, in procinto di tornare dall’Ade sulla terra, con un canto in esametri dattilici che, nella parte iniziale (vv. 1528-30), mostra evidenti reminiscenze del Glauco di Potnie e delle Eumenidi: dzǴǼƔǷǤǯίǰǨΒDzǧǢǤǰ͊ǦǤǫΰǰ͊dzǬǿǰǷǬdzDzǬǪǷϹ / ǨͶǵ ǹǟDzǵ ΆǴǰǸǯǠǰЙ ǧǿǷǨ ǧǤǢǯDzǰǨǵ Dzͷ ǭǤǷή ǦǤǢǤǵ / ǷϹ ǧί dzǿǮǨǬ ǯǨǦǟǮǼǰ ͊ǦǤǫǼƔǰ͊ǦǤǫήǵ͚dzǬǰDzǢǤǵ. I commentatori moderni rilevano nel v. 1530 una allusione a Eum. 1012 ǨͺǪǧ’͊ǦǤǫǼƔǰ͊ǦǤǫΰǧǬǟǰDzǬǤdzDzǮǢǷǤǬǵ; lo ǖVEnj(Ald.) a Ra. 1528a Chantry, ripreso da Tzetzes (ǖ1528 Koster), annota: dzǤǴήǷή͚ǰLJǮǤȀǭЙ ǔDzǷǰǬǨǬƔ DžͶǶǺȀǮDzǸƽǨΒDzǧǢǤǰ(Ald., ǨΒǼǧǢǤǰ V E njTz.) ǯίǰdzǴǼƔǷDzǰ(V njTz., dzǴǼƔǷǤ E) ͊dzβǶǷǿǯǤǷDzǵ(ǶǷDzǯǟǷǼǰTz.) ǺǠDzǯǨǰ. Il confronto fra il papiro, il passo aristofaneo e il relativo scolio solleva alcune interessanti questioni per la costituzione del testo dei versi 5-6 del fr. 36: 1) Il papiro presenta una lacuna proprio nel punto corrispondente alla lettera tra Ǹ e ǧ: gli editori principi trascrivevanoǨǸƦ[.]ǧǬǤƘ, Radt segue in sostanza la lettura di Siegmann («Dz linker oberer Teil erhalten; ǰüber Ǥ»)8. I codici aristofanei danno, nel testo delle Rane, unanimemente ǨΒDzǧǢǤǰ; nel frammento del Glauco riportato dallo scolio l’Aldina stampa ǨΒDzǧǢǤǰ (come fanno Dübner e Chantry), mentre V E nj e Tzetzes danno ǨΒǼǧǢǤǰ, che è la lezione stampata da Radt in apparato al fr. 36 sulla base di V E e di Tzetzes. «Si lectio ǨΒǼǧǢǤǰ» – osservava Koster 1962, 1117 – «coli iambici initium faciens genuina est (de qua re hic non agam), Ar. in paratragoedia vocalem mutans sensum vocis ab Aeschylo adhibitae exitui Ranarum aptavit, sicut etiam versuum structuram mutavit; in pap. utrumque colon breve est, id quod iam in positione ͚ǰǨͶǶǫǠǶǨǬ apparet». Va tuttavia osservato che il Veneto presenta la lectio ǨΒǼǧǢǤǰ anche nel lemma dello scolio, laddove l’Estense riporta ǨΒDzǧǢǤǰ. Potrebbe quindi trattarsi di banale confusione tra Dze Ǽ. È verosimile che il coro di Eschilo versasse dalla bocca non già buon odore, cioè alito odoroso, bensì, come poi anche il coro aristofaneo, un augurio di buon viaggio, che nel Glauco era probabilmente rivolto al protagosta del 8

Radt 1985, 149 dà conto delle letture comunicate per lettera da Siegmann a Snell (23 marzo 1959) in seguito a un suo riesame del papiro.

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dramma, al momento della sua partenza per i giochi funebri in onore di Pelia. Nel papiro, inoltre, dopo i precedenti quattro versi che sarebbero trimetri giambici, i versi ͚ǰǨͶǶǫǠǶǨǬ paiono in metro dattilico (come dattilica è la chiusa delle Rane), piuttosto che anapestico come pensa Taplin 1977, 222 n. 1 (cf. Radt 1985, 149 e soprattutto Savignago 2008, 47). 2) Dopo ǨΒDzǧǢǤǰǯίǰ nel papiro compaiono tracce di almeno quattro lettere; lo scolio, dunque, omette questa parte di testo, dal momento che a ǨΒǼ(Dz)ǧǢǤǰ ǯίǰ fa seguire direttamente dzǴǼƔǷDzǰ͊dzβǶǷǿǯǤǷDzǵǺǠDzǯǨǰ. Quale era la parola scomparsa? DzƦǯƦDzƦǸƦ, una delle possibili letture proposte da Siegmann sulla base delle tracce superstiti, è ora stampata nel testo da Sommerstein: ‘innanzitutto, effondiamo tutti insieme dalla nostra bocca un augurio di buon viaggio’. 3) ‘Dalla nostra bocca’ (͊dzβǶǷǿǯǤǷDzǵ) o ‘dalle nostre bocche’ (͊dzβǶǷDzǯǟ ǷǼǰ), secondo la variante tzetziana? Il papiro non aiuta a sciogliere il dubbio, poiché prima della lacuna sul margine destro si legge solo ͊ƦdzƦβǶǷǿǯǤǷƦ. fr. **36a R. Tranne che il sostantivo ǧǰǿǹDzǵ (‘oscurità’, ‘tenebra’) e forse la preposizione ͎ǷǨǴǫǨǰ (‘senza’), costruita con genitivo, nessun’altra parola può essere individuata in questo frammento. Norsa e Vitelli lo editavano di seguito al precedente «solo per non fare un numero a parte», consapevoli della impossibilità di poterne specificare l’attribuzione a un determinato dramma, al di là della probabile paternità eschilea: esso, infatti, risulta vergato dalla stessa mano del precedente, riconoscibile pure in altri papiri eschilei. Una precisa identità nella scrittura era individuata da Lobel 1941 in particolare tra PSI 1210 e P. Oxy. 2160 (cf. infra), tanto che lo stesso editore arrivava a prendere in considerazione la possibilità di congiungere il fr. 2 di PSI 1210 col fr. 5 di P. Oxy. 2160, sebbene egli si dichiarasse incapace di suggerire «suitable supplements to bridge the gap between them» (p. 8). A ciò provvide Mette 1959, 161, pronto a dar seguito a quella intuizione, con risultati suggestivi ma inevitabilmente arbitrari. fr. **36b R. P. Oxy. 2160 (II sec. d.C.), edito da Lobel nel 1941 e conservato alla Sackler Library di Oxford. A parere dell’editore principe, è della stessa mano di PSI 1210 e contiene frammenti del Glauco Potnieo rapportabili alla vicenda della fine di Glauco nella corsa equestre:LJǮǤǸƔǭDzǰ, peraltro, è esplicitamente nominato nel fr. 36b2 II.10; e cf. i termini ͷdzƦdzƦ.Ǹǵ ‘cavaliere’ ovvero ‘cavalli’ (36b1.3), Dzǧ[.]DZ (36b2 II.2)ΆǧήDZ (36b3.3) ‘coi denti’,ǭǤǯdzǤǬǶ‘svolte’? (36b2 II.11),ǰǢǭǪǵ‘della vittoria’ (36b2 II.13),ǤǦǼǰ‘gara’? (36b2 II.15),͊ǦǼƔǰDzǵ‘della gara’ (36b3.8), ǺǤǮǬǰDz.[ ‘morso’? (36b3.4), ].ǪǮǟǷƦǪƦǰ ‘guidatore del carro’? (36b4.3, ͷdzȐdzƦǪǮǟ ǷƦǪƦǰ Siegmann 1948, 67). I frr. 36b1 e 36b2 I erano forse iscritti nel racconto di un sogno (cf. fr. 36b1.1͞ǧDzDZǨ; 36b2 I.10ǹǟǶǯǤǷǤ, ‘visioni’, se non è da leggere ΓȐǹǟǶǯǤǷǤ, ‘tessuti’, come proposto in forma dubitativa da Radt in apparato). Il fr. 36b2 II probabilmente appartiene alla rhesis di un messaggero, il quale al v. 9 si rivolge direttamente alla moglie di Glauco,ǦȀǰǤǬǷǬǷǪ[ (ǷǬǷǡ[ǰǪ? ‘regina’, se224

condo la congettura di Siegmann 1948, 70; cf. fr. 272)9. Nel fr. 36b3 la gara si mette male per Glauco; il fr. 36b4 mostrerebbe tracce dell’attacco delle cavalle al loro padrone: Siegmann 1948, 67 integraǦǰ]ǤƦǫDzǬǵǮƦǤƦ[ǥǨǬƔǰ nel fr. 36b4.2. Il fr. 36b8 presenta una sezione in trimetri giambici (vv. 1-9) seguita da una in eisthesis (vv. 10 ss.; su cui cf. Savignago 2008, 47-9), probabilmente in cola lirici e corrispondente a un canto corale, in cui veniva invocato Ermes: NJǪǰβǵ͎ǦǦǨǮǨƦ[ si legge al v. 17, ͡ƦƦ @Ɣ ’ ͎ǰǤ[DZ integrano al v. 5, nella parte in trimetri, Siegmann 1948, 68 e Cantarella 1948, 24. fr. 37 R. Lo scolio (bT) a Pl. Cra. 421 D (p. 17 Greene; pp. 44-5 Cufalo) cita il proverbio ͊Ǧδǰ dzǴǿǹǤǶǬǰ DzΒǭ ͊ǰǤǯǠǰǨǬ (‘una gara non attende pretesto’), del quale fa uso Platone in quel passo del Cratilo e nel sesto libro delle Leggi (751 D); vengono successivamente citati Eschilo, Glauco di Potnie (͊Ǧδǰ ǦήǴ ͎ǰǧǴǤǵ DzΒ ǯǠǰǨǬǮǨǮǨǬǯǯǠǰDzǸǵ, ‘una gara non aspetta uomini rimasti indietro’) e Aristofane, Tesmoforiazuse seconde: di quest’ultima opera, tuttavia, non è conservato il testo poetico (cf. Kassel-Austin 1984, 198 ad fr. 349). La gara a cui si faceva riferimento in Eschilo potrebbe essere quella corsa da Glauco in occasione dei giochi funebri per Pelia. La prima attestazione dell’espressione proverbiale commentata dallo scolio si registra in Ibyc. PMGF 344 ͊ǦδǰdzǴǿǹǤǶǬǰDzΒǭ͚dzǬǧǠǺǨǷǤǬDzΖǷǨ ǹǬǮǢǤ, stando al parere del paremiografo Milone riportato in Zenob. vulg. 2.45 = Prov. Bodl. 41 = Prov. cod. Par. suppl. 676; cf. inoltre Aristoph. Ach. 392 Οǵ ǶǭǪƔǻǬǰ͋ǦδǰDzΙǷDzǵDzΒǭǨͶǶǧǠDZǨǷǤǬ (DzΒdzǴDzǶǧ- Suda Ƕ 490 A., DzΒǺαǧ- Cobet, DzΒǭ ͚ǰǧ- Olson), Macar. 1.16 ͊Ǧδǰ ǦήǴ DzΒ ǯǠǮǮDzǰǷDzǵ ͊ǫǮǪǷDzǸƔ ǯǠǰǨǬ ͊Ǯǭǡǰ (inserito tra i frammenti tragici adespoti da Nauck 1889 ma non da KannichtSnell 1981) e la ricca tradizione paremiografica ora attentamente vagliata da García Romero 2001, 102-4. fr. 38 R. Nella famosa scena delle Rane aristofanee in cui Eschilo ed Euripide, arbitro Dioniso, pesano loro versi sui piatti di una bilancia, Eschilo sbaraglia l’avversario recitando un verso ‘pesantissimo’ di un suo perduto dramma: ͚ǹ’ ͏ǴǯǤǷDzǵ ǦήǴ͏ǴǯǤǭǤαǰǨǭǴМǰǨǭǴǿǵ. Gli scolî aristofanei avvertono che si tratta di una citazione dal Glauco di Potnie, e una conferma viene dallo scolio a Euripide, Fenicie 1194, che cita sia il verso già noto dalle Rane sia il successivo, ͻdzdzDzǬǧ’͚ǹ’ ͻ  ͬ\ ͚ǯdzǨǹǸǴǯǠǰDzǬ (congettura di Valckenaer 1755 [ad fr. 38.2 (p. 155)] generalmente accolta dagli editori in luogo di ͚ǯdzǨǹǸǦǯǠǰDzǬ, del Laur. 32.33 [Rf], e di ͚ǭdzǨǹǸǦǯǠǰDzǬ dei codd. M A B): dunque, «carro su carro, cadavere su cadavere, cavalli su cavalli erano confusamente ammucchiati». Secondo i codici che tramandano lo scolio euripideo, il distico si trova dzǤǴή ǷМ DžͶǶǺȀǮЙ ͚ǰ LJǮǤȀǭЙ ǔDzǷǰǬǨǬƔ, e così stampa Mette. Nauck 1889 e Radt, sulla scorta di 9 Accolta nel testo da Mette 1959, 162. «Donna nutrice» traduce Ramelli 2009, 459 sulla base del testo di Mette, evidentemente per confusione di ǷǬǷǡǰǪcon ǷǢǷǫǪ; correttamente «Frau und Gebieterin» traduceva Mette 1963, 9.

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Schwartz (1891, IX), emendano in dzǤǴήǷβDžͶǶǺȀǮDzǸ͚ǰLJǮǤȀǭЙǔDzǷǰǬǨǬƔ; poteva essere intenzione dello scoliaste, in effetti, segnalare la dipendenza euripidea dal locus eschileo: cf. Pho. 1193-5 ͞ǫǰ϶ǶǭDzǰ ͚DZǠdzǬdzǷDzǰ ͊ǰǷȀǦǼǰ ͎dzDz / ǷǴDzǺDzǢ Ƿ’ ͚dzǡǧǼǰ ͎DZDzǰǠǵ Ƿ’ ͚dz’ ͎DZDzǶǬǰ / ǰǨǭǴDzǢ ǷǨ ǰǨǭǴDzǬƔǵ ͚DZǨǶǼǴǨȀDzǰǫ’ ·ǯDzǸƔ. fr. *39 R. Gli scolî (a Ǒ 198a1-2 Erbse) ed Eustazio (in Il. 927.38, III 459.4 v.d.V.) commentano una similitudine omerica riguardante i due Aiaci che, paragonati a due leoni, scempiano il corpo di Imbrio e ne predano l’armatura: «come quando due leoni, sottratta una capra ai cani denti aguzzi, la portano tra fitti cespugli, tenendola alta da terra tra le mascelle» (Il. 13.198-200). Gli scolî ricordano che Eschilo (ǯǬǯǪǶǟǯǨǰDzǵ, imitando Omero, secondo il parere di Eustazio), riferiva a Glauco questi versi: ǨͽǮǭDzǰ͎ǰǼǮǸǭǪǧǿǰΣǶǷǨǧǬdzǮǿDzǬ ǮȀǭDzǬǰǨǥǴβǰǹǠǴDzǸǶǬǰ͊ǯǹαǯǤǶǺǟǮǤǬǵ ‘lo trascinavano su alla maniera dei lupi, come due lupi portano un cerbiatto per le ascelle’

Viene facile ipotizzare che, nella similitudine eschilea, Glauco rappresentasse il cerbiatto, straziato dai lupi, cioè dalle sue cavalle. L’indicazione che i versi si riferivano a Glauco, nonché l’intera citazione, sono forniti dallo ǖT a Il. 13.198a1 Erbse. Spettano a Pauw (1745, 1110) l’integrazione e la divisione dei due versi, generalmente accolte dagli editori. Naber (ap. Nauck 1892 VIII) emendavaǮǸǭǪǧǿǰ con ǮǸǶǶǪǧǿǰ, «fort. recte» a parere di Radt. L’avverbio ǮǸǶǶǪǧǿǰ (‘con rabbia, furiosamente’) è hapax legomenon in Opp. Hal. 2.573, dove ricorre nell’ambito della descrizione della lotta tra il delfino e le ͊ǯǢǤǬ, specie di tonni, verosimilmente i pelamidi (cf. Fajen 1999, 130-1 e 336 s.vv. ͊ǯǢǤ, ͊ǯǢǤǵ)10. ͳͲLessicografi e grammatici attestano varie glosse eschilee tratte dal Glauco di Potnie: ǨΒǹǡǯDzǬǵ ǦǿDzǬǵ ‘con lamenti di buon auspicio’ (fr. 40 R.), che Esichio Ǩ 7274 L. chiosa ǧǸǶǹǡǯDzǬǵǭǤǷή ͊ǰǷǢǹǴǤǶǬǰ; †DZǬǹǢǴDzǸ† ǮǬǯǡǰ (fr. 40a R. ap. Hsch. DZ 74 L.); ͊ǯǹǢǶǼdzDzǰ ‘visibile tutt’attorno’ (fr. 41 R. ap. Hsch. Ǥ 4134 L.); ǧǤǸǰǿǵ (fr. 41a R. ap. Hdn. ǔǭǤǫDzǮdzǴ cod. Vindob. Hist. gr. 10 fol. 25r 1; ed. Hunger, JÖByzG 16 [1967] fr. 10); ͺǷǪǮDzǰ‘costante’ (fr. 42 R. ap. Hsch. Ǭ 1089 L.); ǺǤǯǤǬdzǨǷǼƔǵ (fr. 42a R. ap. Cyrill. Lex. Z hm2), avverbio che probabilmente descriveva un volo rasente il suolo, come quello delle oche in Luc. Icar. 10 ΣǶdzǨǴDzͷǺǪƔǰǨǵ͞ǷǬǺǤǯǤǬdzǨǷǼƔǵ ͚dzǤǬǴǿǯǨǰDzǵ.Tra i frammenti incertae fabulae che gli studiosi moderni assegnano al Glauco di Potnie, ve n’è uno, il 372 R., che, dopo Hartung (1855, 37), continua a trovare ospitalità tra le poche reliquiae del dramma, come avviene nelle edizioni dei Morani e della Centanni: verrebbe descritto il momento in cui le cavalle di Glauco divoravano orrendamente le carni del loro padrone: ͊ǹǴβǵ/ ǥDzǴǤƔǵǥǴDzǷǨǢǤǵ͚ǴǴȀǪǭǤǷήǶǷǿǯǤ (‘schiuma di pasto umano scorreva dalla bocca’). Testimone è lo ǖRBarNeap ad Aristoph. Lys. 1257a Hangard, che commenta l’espressione dzDz Ǯγǵǧ’͊ǯǹαǷήǵǦǠǰǸǤǵ͊ǹǴǿǵ presente in quel verso aristofaneo, rimandando ad Archiloco (fr. 44 W.2 dzDzǮǮβǵ ǧ’ ͊ǹǴβǵ ͬǰ dzǨǴα ǶǷǿǯǤ), a Sofocle, del quale non viene citato il testo (Radt

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frr. 25a-b R. (da un Glauco) Il 25b incrocia i dati provenienti da scolî a Teocrito (4.62/63d-e, 153-4 Wendel) e al v. 36 del Reso (II 239 Schwartz), dai quali si ricava che Eschilo nominava due Pan, uno figlio di Zeus e l’altro figlio di Crono (trattazioni in Lehnus 1979, 55, 133, A. Wessels-R. Krumeich in GS 125 n. 2 e in Merro 2008, 167-8). Il 25a è tràdito da uno scolio alla prima Pitica, a commento dei versi in cui Pindaro menziona ‘la riva dell’Imera dalle belle acque’ (vv. 79-79adzήǴǧίǷήǰ ǨΖǸǧǴDzǰ͊ǭǷǟǰ/ ͿǯǠǴǤ), ossia il luogo, presso il fiume Imera (l’odierno Fiume Grande, non distante dalla città omonima), dove nel 480 Gelone di Siracusa riportò una importante vittoria sui Cartaginesi. Lo scolio annota: ‘il fiume Imera in Sicilia, riguardo al quale anche Eschilo dice nel Glauco 

ǭǤǮDzǬƔǶǬǮDzǸǷǴDzǬƔǵ͚ǭǮǠǮDzǸǯǤǬǧǠǯǤǵ ǨͶǵΓǻǢǭǴǪǯǰDzǰͿǯǠǴǤǰǧ’͊ǹǬǭǿǯǪǰХ

Il v. 1 è metricamente difettoso, mancando una sillaba; al v. 2 sorprende la posizione della particella ǧǠ; ed anche il senso sembra non tenersi: «vix recte haec se habent», sentenzia Radt, che poi cita l’opinione di Wagner (1852, 18): «si vere Aeschylus Himeram flumen dixit, mirum est, quod is, qui loquitur, in aquam lotus, non lavatum, ut nos solemus, ivit». Il senso potrebbe tenersi nella spiegazione offerta da West 1977, 101: «The speaker declared himself to be clean (perhaps in declining an invitation to wash), and went on to explain that his route had brought him to the Himeras and he had cleansed himself there». Nell’apparato di Radt, comunque, si possono vagliare le varie soluzioni proposte, tra le quali particolare fortuna ha avuto quella di Heyne 1798, 500, il participio ͚ǭǮǨǮDzǸǯǠǰDzǵ al v. 1 e l’espunzione della particella ǧǠ al v. 2, che è la soluzione adottata da ultimo anche da Sommerstein11: 

ǭǤǮDzǬƔǶǬǮDzǸǷǴDzǬƔǵ͚ǭǮǨǮDzǸǯǠǰDzǵǧǠǯǤǵ ǨͶǵΓǻǢǭǴǪǯǰDzǰͿǯǠǴǤǰ͊ǹǬǭǿǯǪǰ

«Having thoroughly washed myself in its fair streams [i.e. those of the river Himeras], I came to Himera on its high cliffs» 1999, 480 concorda con Tsantsanoglu che potesse trattarsi di un passo della Fedra tràdito dal Fozio zavordense: Ǥ 2288 Th. = fr. 687a R.2 ǦǮȁǶǶǪǵ͊dzǤǸǶǷαǶǷǟǩǨǯǸDZȁǧǪǵ͊ǹǴǿǵ), e infine a Eschilo; il cod. Ravennate ha ͚ǴǴǸǪǭǿǷǤ, corretto da Porson 1820, 240 nella forma che è stata poi accolta dagli editori. 11 Sommerstein (2008 a 6-10, 2008 b 22-3, e più ampiamente in un articolo del 2010) ha argomentato l’appartenenza del frammento al Glauco di Potnie, che a suo parere conteneva una profezia relativa alla vittoria ottenuta dai Greci sui ‘barbari’ d’Occidente a Imera nel 480, nello stesso anno e, secondo una certa tradizione, nello stesso giorno della vittoria conseguita dai Greci sui ‘barbari’ d’Oriente a Salamina: in tal modo si sarebbe trovato un nesso tra Persiani e Potnieo.

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In apparato Sommerstein segnala una congettura, Ǩͼǫ’ in luogo di ǨͶǵ, che comunicata oralmente da Gabriele Burzacchini a Enzo Degani fu da questi registrata nelle sue Note critico-testuali a frammenti tragici greci pubblicate in «Eikasmos» nel 1991. Anch’essa sarebbe valida se Imera qui indicasse non il fiume ma la vicina città, «come farebbe fra l’altro pensare ΓǻǢǭǴǪǯǰDzǰ(epiteto di un dzǿǮǬǶǯǤ in Aesch. Pr. 421, del promontorio di Mimante in [Hom.] Epigr. 6.5)» (Degani 1991, 91 n. 1). In aggiunta all’osservazione di Degani si può rilevare che l’epiteto è riferito a una valle (͎ǦǭDzǵ) attorniata da monti in Trag. adesp. fr. *445a Sn.-K., a una roccia (dzǠǷǴǪ) in Nonn. Dion. 2.454 (cf. Aesch. Pr. 4-5 dzǴβǵdzǠǷǴǤǬǵΓǻǪǮDzǭǴǡǯǰDzǬǵ, la rupe scoscesa a cui è incatenato Prometeo), a un antro in Pamprepio fr. 3.45 Heitsch2 = Livrea. Completerei osservando che in età bizantina il termine è attestato in Nicolao Mesarites, Seditio Joanni Comneni p. 40.28 ͊ǰǤǴǴǬǺǤƔǶǫǨ͚dzαǷήǷǼƔǰ͊ǰǤǭǷǿǴǼǰΓǻǢǭǴǪǯǰǤ, nonché in Tzetzes, ǖ ad Aristoph. Ran. 1056 a proposito delle parole magniloquenti e roboanti usate da Eschilo nelle sue tragedie, ǮǠDZǨǬǵ... ΆǴǨǶǭКDzǸǵǭǤαΓǻǬǭǴǡǯǰDzǸǵ (a ragione, credo, Koster ritiene che qui Tzetzes abbia tratto spunto dall’espressione ЏǡǯǤǫ’ ͷdzdzǿǭǴǪǯǰǤ con cui, in Rane 929, Euripide insulta la lexis eschilea; e si ricordi che in Nuvole 1367, nell’impietoso giudizio di Fidippide, Eschilo era definito ǭǴǪǯǰDzdzDzǬǿǵ, ‘creatore di parole alte come montagne’). Ma ΓǻǢǭǴǪǯǰDzǰ potrebbe lecitamente significare anche ‘dalle alte sponde’: ǭǴǪǯǰǿǵ, infatti, può indicare la sponda di un fiume (cf. Hom. Il. 21.175, 234, 244, Pind. Ol. 3.22) o di un fossato (Hom. Il. 12.54, Hdt. 7.23.2) o del mare (Pind. fr. 201.1 M.): cf. LSJ s.v. Del resto, le congetture che lo stesso Degani avanza varrebbero se l’Imera in questione fosse davvero il fiume, come asserisce il testimone: ǭ Ǯ ͚ǭǮǠǮDzǸǯ’ ͪ ǧǠǯǤǵƽ/ ǨͶǵǭǷǮ, ovvero ͚ǭǮǠǮDzǸǯ’͚ ǧǠǯǤǵ/ ǨΘǫ’ (vel Οǵ= ΋ǷǨ) ǭǷǮ, in ogni caso eliminando con Heyne la particella ǧǠal v. 2. Bari

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ABSTRACT

At the City Dionysia of 472 b.C. Aeschylus won first prize with a tetralogy including Phineus, Persians, Glaucus Potnieus, and the satyr-drama Prometheus. This contribution deals with the extant fragments from the two ‘mythological’ tragedies performed together with the ‘historical’ drama Persians; two more fragments (frr. 25a-b Radt) are considered that the ancient sources quote simply as from Aeschylus’ Glaucus, leaving it doubtful whether the Potnieus or the Pontius is meant. KEYWORDS: Aeschylean

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trilogy of 472 b.C. - fragments - commentary

GLI ‘OGGETTI MISTERIOSI’ DEI njǨǼǴDzαͨ;ǶǫǯǬǤǶǷǤǢ Uno dei motivi caratteristici del dramma satiresco è la reazione di paura, meraviglia o curiosità (o più spesso, tutt’e tre queste cose assieme) che i satiri manifestano di fronte a oggetti o situazioni di cui fanno esperienza per la prima volta1. Nel primo dei frammenti superstiti dei Theoroi (F 78a 1-22 R.)2, Eschilo mostra i satiri intenti a dedicare nel tempio di Posidone sull’Istmo delle immagini votive che li rappresentano, allo scopo di assicurarsi il favore del dio e dissuadere gli stranieri dall’entrare nel santuario. Mentre viene pronunciata la formula di dedica, i satiri commentano con espressioni di stupore il realismo di queste immagini, talmente somiglianti all’originale da ingannare persino la loro madre e meritarsi l’appellativo di ‘opera (degna) di Dedalo’3: 1

Un classico esempio in Soph. Ichn. F 314.123 ss. R., dove il suono della lira inventata da Hermes inizialmente getta nel panico i satiri; ma poi subentra la curiosità, ed essi tentano di indovinare l’origine del suono misterioso attraverso le domande che pongono alla ninfa Cillene, la quale risponde con indicazioni enigmatiche. La letteratura su questo topos satiresco è ovviamente assai ampia: a titolo puramente esemplificativo mi limito qui a citare l’ampia trattazione di Voelke 2001, 273-99. 2 I principali frammenti dei Theoroi sono contenuti in P. Oxy. 2162, frr. 1a-2b (il fr. 3 è di estensione insignificante); la loro attribuzione a Eschilo si deve a Lobel 1941, editore principe, ed è concordemente accettata dagli studiosi, al pari della natura satiresca del dramma (ancora negata da Untersteiner 1951). Il testo di riferimento è tuttora quello di S. Radt, Tragicorum Graecorum fragmenta III: Aeschylus, Göttingen 1985, qui riprodotto (eccezion fatta per F 78c 57, per cui rinvio all'apparato ad l.). L’apparato offre una sintesi dei dati offerti da Radt, con qualche aggiunta e aggiornamento; le integrazioni, ove non specificato, sono di Lobel. Si deve a Snell (1956-66, 156 ss.) la proposta di ordinare i frammenti in modo che fr. 2a, col. i (= F 78c 1-16 R.) costituisca la parte superiore di fr. 1a, col. ii (= F 78a 61-72 R.), così da ottenere un testo più o meno continuo, salvo una lacuna di circa 8 vv., disposto su tre colonne. Tale ipotesi, che già lo stesso Lobel (1941, 14) aveva prudentemente suggerito dicendo che lo stato del papiro non consente né di confermarla né di escluderla, è apparsa a molti convincente (contrario Di Marco 1969-70, 384; Radt stampa i frammenti nello stesso ordine di Lobel), ed anzi sembrerebbe avvalorata da un nuovo, attento esame delle fibre del papiro (Henry-Nunlist 2000, 14). Ai fini dell’argomento trattato nel presente contributo, comunque, la questione non ha alcuna importanza. 3 Secondo la tradizione, Dedalo sarebbe stato il primo a realizzare le statue con gli occhi aperti, le braccia staccate dal tronco e le gambe separate, innovazioni che conferivano loro un maggiore naturalismo rispetto alle pose più rigide della statuaria influenzata dai modelli egiziani, tanto che sembravano vive e capaci di muoversi (qualità comune a quelle realizzate da Efesto); cf. Eur. Hec. 838 e schol. ad l., fr. 372 K.; Cratin. fr. 75 K.-A.; Aristoph. fr. *202 K.-A.; Pl. Com. fr. 204 K.-A.; Pl. Men. 97 D; D. S. 4.76; schol. Pind. Ol. 7.52 (95a, I 221 Drachm.); Zen. Ath. 1.14, ecc. Sulla figura di Dedalo in generale cf., oltre a Morris 1992, Robert 1901 e Kearns 1997. Riguardo all’espressione Ƿβ LjǤǬǧǟǮDzǸ ǯǢǯǪǯǤ (v. 7) va detto che Lloyd-Jones 1957, 553 la intende alla lettera, nel senso che le immagini portate dai satiri sarebbero state effettivamente realizzate da Dedalo («this likeness by the Skilful One»; cf. ibid. 547); Morris 1992, 218 pensa trattarsi di «the imitation of a work by Daedalus». Ma probabilmente non è che un modo di dire proverbiale (‘opera degna di Dedalo, realizzata alla maniera di Dedalo’: cf. Setti 1952, 234 e 244; Di Marco

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·ǴЛǰǷǨFǨͶǭDzγ>F@DzΒǭǤǷϲ͊ǰǫǴȁdzDzǸF> ΋dzǪǬǧϲ͌ǰ͞Ʀ>Ǵ@ǧǪǬFdzǟǰǷǤFDzǬǷǟǧϲǨΒFǨǥƦϸ — ͬǭǟǴǷϲΆǹǨǢǮǼǷЛǰǧǠFDzǬƽdzǴǿǹǴǼǰǦήǴǨͼ ͎ǭDzǸǨǧΰdzϪFƽFЃǦǤǧƦǨǬǫƦǨƦǮƦǨǬǧƦ>@  ͎ǫƦǴƦǪƦFDz Ʀ ǰǨͶƦ>@>@    ǨͺǧǼǮDzǰǨƦͼǰǤǬƦǷƦDzƦАǷϲ͚ǯϸǬǯDzǴǹϸǬdzǮǠDzǰ ǷβLjǤǬƦǧƦǟƦǮDzǸǯ>Ǣ@ǯƦǪǯǤƽǹǼƦǰƦϸFǧǨЃǯǿǰDzǰ  ǷǤǧ>@ǨǬƦ DzǴǤ>@  Ǵ>      ǺǼǴǨǬǯǟǮǤ — ǨΒǭǷǤЃǤǭǿFǯDzǰǷǤАƦǷƦ>Ǥ@ǷЛǬǫǨЛǬǹǠǴǼ  ǭǤǮǮǢǦǴǤdzƦǷƦDzǰǨΒǺƦǟƦǰ

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  ǭǤǷϲ ͊ǰǫǴȁdzDzǸǵ >ǥǮǠdzǨǬǰ vel ͶǧǨЃǰ Görschen 1954; >ǹǸǡǰ vel DzǸ Ƕ>ǤǦǡǰ vel Ƕ>ǷDzǮǡǰ Kamerbeek 1955, DzǸǶ>ǷǟǶǬǰvel Ƕ>ǺǠǶǬǰChurmuziadis 1974, 195 n. 129|| 4 interp. Setti 1952 || 5 ǨͺdzƦ>DzǸ@ ǧƦDzƦ>ǭǨЃKamerbeek, ǨͺdzƦ>ǪǬ@ǧƦDzƦ>ǭǨЃReinhardt 1957, Ǩͺdz>DzǷϲ@͞ƦǶƦ>ǫϲ΋dzǼǵSiegmann ap. Schaefer 1957, 231 n. 39, ǨͶ dzƦ>ǴǠ@dzDz>ǰ dzǟǴǤ vel ǧDzǭǨЃ Di Marco 1969-70 (rec. Voelke 2001, 284; dzƦ>ǴǠ@dzDz>ǰ iam Görschen) || 6 ǷƦDzƦАǷϲ Pap.; ǷDzАǧǨ Fraenkel, Sommerstein 2008 || 7 interp. Fraenkel ms., Snell 1956-66 || 9 ΋ǴǤǫ>Ǩ@ȁǴǨ>ǬƽSnell, ·ǴϪǵ>Ǻ@ǼƦǴǨ>ЃGörschen, Kamerbeek, ΆǴϪǬ!ǵ >Ǻ@ǼƦƒǴǨ>Ǭ Lloyd-Jones 1957, Di Marco || 10 ǺǼǴǨЃ Lobel, Snell, Kamerbeek, ǺȁǴǨǬ Fraenkel ms., Setti, Lloyd-Jones, Di Marco || 13 sqq. paragraphum v. 13 subscriptam transp. Lobel - ǷǪǬǯǪǬPap.: Radt, ǷυǯϹLobel,ǷϹϲǯϹCantarella 1947 || 15 ǤǰǤDZǬǤǩDzǬǷDzPap.: ͌ǰ͏ǩDzǬǷǿ Lobel, Snell, ͌ǰ͊ǶdzǟǩDzǬǷǿFraenkel ap. Lobel, ͌ǰ ǤͶǟǩDzǬǷǿ Page ap. Lloyd-Jones, Di Marco, Voelke, ͊ǰǤǦǭǟǩDzǬǷǿGronewald 1975 || 18 ǨͽǤRadt: ǨͼǤLobel || 19 fin. ǷƦ>DzǴǿǰe.g. Fraenkel, ǷƦ>ȀdzDzǰSetti, Snell, ǶƦ>ǤǹϸPage ap. Lloyd-Jones || 20 ǨǯdzDzǴDzǰPap.: corr. Fraenkel, Dodds ap. 1969-70, 391; Conrad 1997, 65; Voelke 2001, 284, che peraltro non esclude l’interpretazione ‘opera della mano di D.’). Il motivo dello stupore di fronte al realismo di opere d’arte o prodotti artigianali, è frequente nella letteratura greca (celebri i casi di Theocr. 15.78 ss. ed Herod. 4.21 ss.); nella letteratura teatrale un celebre esempio è offerto dalla parodo dello Ione euripideo (vv. 184 ss.), dove le ancelle di Creusa ammirano le sculture che ornano il frontone del tempio di Apollo a Delfi (su questo passo cf. Zeitlin 1994, e ultimamente Donzelli 2009). Per il motivo che ‘manca solo la voce’ (F 78a 7 R.), cf. Herod. 4.33 s.; Erinn. (?) AP 6.352.3-4 (3.3-4 G.-P.)

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Lobel || 21 ΋>ǵ@ǦϲCantarella, Snell - ǹƦDzƦ>ǥDzǸǯǠǰDzǸǵCantarella, ǹƦǿ>ǥDzǰǥǮǠdzǼǰUntersteiner 1951, Reinhardt, Lloyd-Jones; ǹƦǿƦ>ǥDzǸdzǮǠǼǵvel ǹƦDzƦ>ǥǡǯǤǷǬvel ǹƦǿƦ>ǥǼǬǹǴǨǰЛǰKamerbeek|| 22 ͚dzǢǷǴDzdzDzƦ>ǵǶ@γƦǹƦ>ǢǮǷǤǷDzǵdub. Radt

Il problema che intendiamo affrontare in questa sede è la natura di queste immagini. Lobel pensava a due tipi diversi di oggetti: statuette (i ‘ritratti opera di Dedalo’, v. 7)4 e quadretti votivi (i ‘voti ben dipinti’, v. 12). Ma si tratta di un’ipotesi poco economica, e sembra più naturale supporre, con la maggior parte degli studiosi, che ritratti e oggetti dipinti coincidano. Lo stesso Lobel citava in nota un suggerimento di Eduard Fraenkel pervenutogli per lettera5: per lo studioso gli oggetti votivi sono maschere satiresche in terracotta, simili alle antefisse usate come elemento decorativo nei templi. Di queste ultime sono stati trovati diversi esemplari in Grecia e, soprattutto, in Magna Grecia e in Sicilia, specie a Gela; tanto che Snell, il quale condivide l’ipotesi di Fraenkel, ha anche supposto che Eschilo le abbia viste per la prima volta proprio durante il suo primo soggiorno siciliano e ne abbia tratto ispirazione per questo passo6. L’ipotesi tra l’altro consentirebbe di interpretare il passo eschileo come un aition dell’invenzione di queste antefisse come decorazione templare: Plinio il Vecchio (nat. 35.151-2) colloca infatti proprio a Corinto la loro introduzione ad opera di Butade. Nel frammento eschileo, poiché non è pensabile che i satiri inchiodassero le maschere al tetto del tempio (azione non facile da realizzare sulla scena), si deve supporre che le appendessero alla facciata7. Una seconda linea interpretativa (in verità minoritaria), valorizzando uno degli spunti già suggeriti da Lobel, ravvisa invece nelle immagini dei pinakes dipinti che rappresentano i satiri a figura intera: quest’ipotesi è stata recentemente

4

Lobel 1941, 14. Secondo Cantarella 1947, 93 si tratterebbe invece di un’unica statua, oppure (ibid. n. 1) di una serie di statue che ritraggono tutte la stessa persona. 5 Lobel 1941, 14 n. 1. Fraenkel sviluppò poi quest’idea in Aeschylus. New Texts and Old Problems, PBA 28 (1942) 237-61 (che non mi è stato possibile consultare). 6 Snell 1956-66, 169 n. 1; cf. anche Sutton 1980, 29 (con qualche cautela); Zeitlin 1994, 138; Simon 1997, 1126; Marconi 2005, 77 ss. (il quale, sulla scia della Simon, non esclude un’influenza anche in senso contrario, ossia del dramma satiresco attico sulla forma delle antefisse geloe). Immagini in LIMC VIII/2 nrr. 165-70; in part. nr. 167, terracotta proveniente da Gela (inizio V sec.) usata per coprire un gocciolatoio. 7 Setti 1952, 213-4; Di Marco 1969-70, 392; Voelke 2001, 286; Sommerstein 2008, 83 (cautamente). Secondo Stark 1959, 7 si tratterebbe delle stesse maschere indossate dai coreuti, che quindi rimarrebbero a volto nudo; essi se le toglierebbero per partecipare ai giochi istmici, per riprenderle solo al termine delle gare e affiggerle a delle erme satiresche (così anche Ussher 1977, 297). Reinhardt 1957, 4 pensava invece che i satiri portassero una seconda maschera sotto quella che si toglievano per dedicarla a Posidone, un po’ come i buffoni dell’avanspettacolo e i personaggi della commedia dell’arte che indossano due o tre capi dello stesso tipo uno sopra l’altro. Anche per lui, comunque, tale dedica si concretizzava nell’atto di appendere le maschere ad altrettante erme satiresche erette davanti al tempio. Taplin 1977, 421 giudica seducente l’ipotesi fraenkeliana; in alternativa, pensa all’invenzione di maschere satiresche di tipo teatrale, simili a quelle dei coreuti.

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riproposta da Ralf Krumeich8 con ricchezza di argomenti e documentazioni di natura archeologica. Lo studioso si richiama all’uso di appendere nei santuari tavolette lignee con dipinta l’immagine intera dell’offerente, documentato da raffigurazioni vascolari dei primi decenni del V sec. a.C.; in alcune di esse appaiono, fra l’altro, proprio dei pinakes con immagini di satiri o sileni9. Inoltre, Pausania10 testimonia l’uso degli atleti vincitori degli Heraia di Olimpia di dedicare nel santuario della dea tavolette col proprio ritratto, e gli incavi rettangolari che si vedono nel fusto delle colonne del santuario sembrerebbero destinati proprio ad accogliere questi ex voto11. Krumeich giudica improbabile che gli oggetti di cui parla Eschilo siano maschere o altri manufatti plastici per via dell’espressione ǭǤǮǮǢǦǴǤdzǷDzǵǨΒǺǟ (v. 12),che farebbe pensare piuttosto a oggetti bidimensionali come appunto le tavole dipinte. Né si potrebbe pensare a maschere dipinte, in quanto, essendo la prassi di dipingere gli oggetti plastici un fatto consueto, il poeta non avrebbe ritenuto necessario evidenziarlo con un aggettivo apposito. Inoltre, la qualifica dell’immagine come ǷϸǵǭǤǮϸǵǯDzǴǹϸǵ[...] ͎ǦǦǨǮDzǰ (vv. 19-20) implicherebbe che si tratti di una figura intera (come per l’appunto quelle che si vedono nei pinakes raffigurati sui vasi), giacché ǯDzǴǹǡindica piuttosto l’aspetto fisico complessivo e non soltanto il volto. Il riferimento a Dedalo, infine, non implicherebbe necessariamente un oggetto in rilievo: Dedalo era non solo un celebre scultore, ma l’archetipo mitico di tutti gli architetti, artigiani e inventori, sicché gli si poteva legittimamente attribuire qualsiasi prodotto artistico presentasse caratteri di genialità innovativa12. Contro questa seconda ipotesi si possono addurre a nostro avviso due considerazioni, una di ordine testuale, l’altra di natura scenica13. In primo luogo, di queste immagini vien detto (vv. 13-7) che sarebbero capaci di ingannare la madre dei satiri, causandole una reazione di turbamento14, e che devono servire da de8

Krumeich 2000, in part. 178 e 190-1, seguito ultimamente da Lucas de Dios 2008, 342. Krumeich menziona, fra i precedenti sostenitori dell’ipotesi, anche Richter 1955, 17 e n. 3; in effetti la Richter non parla esplicitamente di pinakes dipinti, ma si limita a escludere che si tratti di maschere o antefisse e propende per l’identificazione delle offerte con «a likeness in a figure or head». Morris (1992, 218-9) non si sbilancia, ritenendo che non si possa escludere nessuna delle ipotesi formulate finora (dipinti, sculture o antefisse). Secondo Stieber (1994, 86 n. 4) potrebbe trattarsi di figurine o statuette che riproducono tutto il corpo. 9 Krumeich 2000, figg. 1-4; cf. in part. fig. 3 (lekythos a f.r., 470/60 a.C., Karlsruhe, Badisches Landesmuseum 85/1), rappresentazione di un santuario di Hermes con altare, erma del dio e pinax con immagine di satiro appeso sullo sfondo. Una scena simile in fig. 4 (lekythos a f.r., 470/60 a.C., London, BM E 585): due pinakes appesi in un santuario di Hermes, uno con l’immagine di un satiro danzante. 10 Paus. 5.16.3; Krumeich 2000, 186 e n. 40. 11 Krumeich 2000, figg. 5-6; ma cf. Marconi 2005, 79 (con bibliografia). 12 A tal proposito lo studioso rinvia a Kearns 1997. In effetti, la fama di Dedalo come scultore sembra aver preso piede soprattutto nel V secolo: la cultura arcaica lo conosce solo come abile artefice (Robert 1901, 2002.11 ss.; cf. anche Morris 1992, 215 ss.) 13 Per altre obiezioni di natura archeologica rinvio a Marconi 2005, 78-9. 14 Ritengo preferibile, per il corrotto ͊ǰǤDZǬǟǩDzǬǷDzdel v. 15, la congettura di Page ͌ǰǤͶǟǩDzǬǷDz (per una lucida disamina delle varie proposte cf. Stieber 1994, 90 n. 10, che con valide argomen-

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terrente nei confronti degli stranieri che intendono entrare nel santuario (vv. 2021); ma dei pinakes contenenti figure in scala ridotta, come quelli che appaiono sui vasi addotti da Krumeich come esempio, difficilmente potrebbero produrre un effetto simile di straniamento o di paura15. Al contrario, delle maschere satiresche a grandezza naturale e con la bocca spalancata possono ben suscitare paura in chi le guarda, come conferma il loro impiego in funzione apotropaica docu-

tazioni sostiene la superiorità di ͌ǰǤͶǟǩDzǬǷDzrispetto alle altre). Per ǤͶǟǩǼusato al medio LloydJones 1957, 549 dichiara che non esistono attestazioni, ma cf. Hsch. Ǥ  / ǤͶǤǩDzǯǠǰǪƽ ǫǴǪǰDzАǶǤUǭǼǭȀDzǸǶǤ ͊ǭDzȀDzǸǶǤcod., corr. Alberti). In ogni caso, si sarà trattato di un verbo che esprime sconcerto, paura o reazioni comunque collegate a questi stati d’animo; non sembrano quindi appropriate le proposte testuali che implicano l’uso del verbo ͏ǩDzǯǤǬ, ‘rispettare’, verbo adatto piuttosto ad esprimere l’atteggiamento di un figlio verso la madre e non viceversa (come osserva ad es. Di Marco 1969-70, 394 n. 74). La comicità della frase, più che su un improbabile ribaltamento di ruoli, sarà giocata sul fatto che i satiri sono talmente brutti (e, nella loro vanagloria, non se ne rendono conto) che persino la loro madre non può sopportarne la vista. Questa reazione di angoscia, al pari della paura degli stranieri, è ricondotta invece a un’altra causa da Snell (1956-66, 169-70): una maschera dai tratti vividi e realistici e la bocca spalancata, vista da lontano, potrebbe confondersi con una testa mozzata. In particolare, lo studioso suppone che le maschere abbiano la stessa funzione deterrente delle teste degli aspiranti alla mano di Ippodamia, inchiodate da Enomao alle pareti del suo palazzo allo scopo di scoraggiare ulteriori pretendenti). Cf. a proposito anche Page 1957; Simon 1997, 1126; O’ Sullivan 2000, 361. Marconi 2005, 81 distingue fra la reazione della madre da quella degli stranieri: in quest’ultimo caso «l’effetto prodotto dalle immagini non sarà quello (‘apotropaico’) di farli fuggire terrorizzati, ma di fermarli nel loro cammino, come trafiggendoli». Nulla però nel testo greco implica un simile potere ‘magico’ delle immagini, ed è naturale pensare che gli stranieri si fermino perché hanno paura di andare avanti (fra l’altro, nella lacuna finale del v. 21 gli studiosi ritengono generalmente che si debba supplire una forma di ǹǿǥDzǵ ǹDzǥǠDzǯǤǬ e simm.). Sulle reazioni di paura associate alle maschere dei satiri nel nostro frammento cf. O’ Sullivan 2000, 360 ss. 15 Del resto, non sembra che la loro funzione fosse questa. Secondo Krumeich 2000, 183, le idee che possono avere ispirato i pittori sono due: o che i satiri, al pari degli uomini, lasciassero i propri ritratti per esprimere la propria devozione nei confronti del dio, oppure che i devoti umani volessero circondare il dio (nella fattispecie, Hermes) di immagini che raffigurano personaggi come i satiri, con i quali ama accompagnarsi. Lo studioso propende per la prima ipotesi, che consentirebbe di istituire un parallelismo tra i satiri ‘pii’ («frommige») che dedicano le tavolette nella pittura vascolare e quelli eschilei che offrirebbero un’analoga dedica a Posidone per ringraziarlo della protezione offerta. In realtà, anche se non conosciamo l’antefatto dei nostri frammenti, appare chiaro che la dedica dei satiri è mirata ad ottenere qualcosa, più che a ringraziare il dio per una grazia già ottenuta: infatti gli oggetti offerti sono definiti ǨΒǭǷǤЃǤ(F 78a 11 R.), termine che ricorre anche in Suppl. 631, dove qualifica la preghiera delle Danaidi. Tale preghiera è, sì, un atto di riconoscenza verso gli Argivi che le hanno accolte (v. 626 ǨΒǺήǵ ͊ǦǤǫǟǵ ͊ǦǤǫЛǰ dzDzǬǰǟǵ), ma il suo contenuto è una richiesta agli dei di proteggere la città di Argo dalla guerra. Ugualmente, i satiri avranno pure inteso ringraziare Posidone per l’asilo ottenuto nel suo tempio (o per qualche altro motivo), ma soprattutto si augurano che quelle maschere impauriscano gli stranieri: e l’insistenza sul loro aspetto terrificante mostra chiaramente che l’intento principale della dedica è proprio questo (sulle somiglianze tra la situazione scenica dei Theoroi e quella delle Supplici, drammi che vedono entrambi protagonista un coro che chiede protezione contro un persecutore, vd. Reinhardt 1957, 2).

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mentato dalle testimonianze archeologiche16. Mi sembra particolarmente significativo il fatto che, quando è adoperata con tale funzione, nelle arti figurative la maschera satiresca appare perfettamente interscambiabile con il gorgoneion, e non solo nel caso delle antefisse architettoniche. In alcune pitture vascolari compaiono degli scudi su cui campeggia come emblema una faccia satiresca, dipinta o a rilievo17; e ancora più interessanti sono, a mio avviso, alcune raffigurazioni di Perseo che brandisce una testa mozza di Gorgone con fattezze satiresche, o addirittura, una testa di satiro18. Dal punto di vista dell’effetto scenico, poi, solo l’uso di maschere identiche a quelle indossate dai coreuti avrebbe consentito agli spettatori di apprezzarne la somiglianza e di gustare pienamente la comicità della situazione e del testo, giocata proprio sullo ‘sdoppiamento’ dei satiri: viceversa, se essi avessero portato in mano dei pinakes a grandezza ridotta, gli spettatori delle prime file avrebbero percepito a malapena la somiglianza, gli altri non avrebbero visto proprio nulla e avrebbero dovuto fare appello a tutta la loro fantasia per cogliere il succo della scena. Quanto all’espressione ǭǤǮǮǢǦǴǤdzǷDzǵ ǨΒǺǟ una maschera destinata ad essere appesa al muro è sì un oggetto plastico, ma di fatto è come se fosse bidimensionale in quanto è concepita per una visione frontale. Il ‘disegno’ (non dimentichiamo che ǦǴǟǹǼpuò riferirsi anche a questo e non solo alla pittura19) e la decorazione pittorica acquistano quindi un rilievo maggiore rispetto a un’opera 16

A proposito della funzione apotropaica delle maschere in genere, non solo satiresche, Voelke 2001, 286 (cf. anche Marconi 2005, 78) richiama il termine ǯDzǴǯDzǮǸǭǨЃǤ ‘spauracchi’) con cui sono designate in Ar. fr. 130 K.-A. le maschere teatrali appese come ex voto nel santuario di Dioniso. 17 Cf. Bieber 1930, 2113, 28 ss.; LIMC, cit. s.v. Silenoi nrr. 187-9; in part. 187, anfora attica di Exekias, a f.n., circa 530 a.C. (Musei Vaticani n. 344 = ABV 145.13); 188, anfora attica di Euthymides, a f.r., circa 510 a.C. (München, Antikensammlungen 2307 = ARV2 26.1); 189, coppa attica di Epiktetos, a f.r., circa 510 a.C. (Tarquinia, Mus. Naz. RC 91 = ARV2 76.73). 18 Cf. Arrigoni 2003, in part. 50. 19 Cf. LSJ Suppl. s.v. ǭǤǮǮǢǦǴǤdzǷDzǵ: «beautifully drawn or painted» (corsivo mio). Sutton 1980, 29 traduce con «well-graven». Desta perplessità il raffronto con Poll. 5.102 ͚ǴǨЃǵ[…]ǷβdzǴǿ Ƕ Ǽ dz Dz ǰdzǨǴǬǺǴǢǨǬ͚dzǨǰǷǴǢǥǨǬǭ Ǥ Ǯ Ǯ Ǭ Ǧ Ǵ Ǥ ǹ Ǩ ЃǹȀǭǨǬdzǸǴǶǤǢǰǨǬǻǬǯǸǫǢЙǮǨǸǭǤǢǰǨǬǭǷǮproposto da Voelke 2001, 287 n. 22, e ripreso da Marconi 2005, 78: se infatti è vero che dzǴǿǶǼdzDzǰ può significare anche ‘maschera’, il lessicografo sta evidentemente parlando d’altro, ossia di cosmesi del volto femminile. Marconi, pur consapevole di ciò, attribuisce il valore di ‘imbellettato’ anche all’aggettivo eschileo, ipotizzando un gioco semantico fra il kosmos femminile e l’ex voto, ‘ornamento’ del tempio; ma osserverei che il belletto è un ornamento accessorio e temporaneo, mentre la decorazione pittorica della maschera è un elemento permanente e strutturale, sicché la maschera non si può definire ‘imbellettata’. È inoltre chiaro che Polluce non ha come referente il nostro frammento, perché menziona il verbo ǭǤǮǮǬǦǴǤǹǠǼ e non l'aggettivo corrispondente: e in assenza di altre indicazioni, nulla autorizza a retrodatare al V sec. a.C. il suo impiego a proposito della cosmesi femminile, e tanto meno ad estenderlo all’aggettivo eschileo. Aggiungerei che l’enfasi data dal frammento al realismo dei ritratti induce a privilegiare, nella resa dell’aggettivo, l’idea di un positivo apprezzamento della qualità artistica, che una traduzione come ‘imbellettato’ o ‘truccato’ lascerebbe in ombra (anzi, evocherebbe il concetto opposto di qualcosa di artefatto e posticcio): il fatto che i ritratti siano ‘ben dipinti’ è un fattore determinante ai fini del loro potere ‘illusionistico’.

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tridimensionale, specie se si considera che i coreuti avevano indosso le loro maschere teatrali, realizzate probabilmente in lino e gesso (o in cuoio) e poi dipinte20: sarà stata cura dei pittori utilizzare esattamente le stesse tonalità di colore anche in quelle offerte a Posidone, per far risaltare meglio la somiglianza. A tal proposito è opportuno ricordare che proprio a Eschilo le fonti antiche attribuivano importanti innovazioni tecniche nella regia e nei costumi, tra cui l’introduzione di maschere colorate e particolarmente realistiche21. Quanto al significato di ǯDzǴǹǡ non credo che si possa qui escludere un suo uso in riferimento al solo volto: sarebbe un termine generico (‘aspetto fisico’) riferito a una parte circoscritta (un esempio di sineddoche22), il volto, che peraltro si può legittimamente considerare rappresentativa dell’intero in quanto è quella che permette di identificare le persone. Infatti, la funzione di questa maschera è quella di un «messaggero» ͎ǦǦǨǮDzǵ o un «araldo» ǭϸǴǸDZ : dunque una funzione rappresentativa, in cui la cosa rappresentata può essere il volto reale ma anche, per estensione, tutta la persona. I satiri, dunque, offrono le loro immagini convinti di essersi garantiti in tal modo la salvezza e l’impunità. Senonché, a guastare la festa, arriva giusto quello ‘straniero’ che meno di tutti avrebbero desiderato vedere: Dioniso, che si è messo sulle tracce dei suoi servi fuggiaschi e li ha scovati, e adesso minaccia di punirli severamente per aver preferito l’atletica alle danze bacchiche e il pino all’edera. I satiri reagiscono barricandosi nel tempio (F 78c 39-48 R.): FγǧϲͶFǫǯǬǟǩǨǬFǭǤαdzǢǷǸDzF͚FǷ>ǨǯǯǠǰDzF ǭǮǟǧDzǬFǬǭǬFFDzАƦǧϲDzƦǸƦơǧ>Ǥ@ǯDzАǷǬǯǪ>  ǷǤАǷϲDzΘǰǧǤǭǴȀFǨǬFDzΒǭǤdzǰЛ>Ǭ dzǤǴǿǰǷǤǧϲ͚ǦǦγFDzΒǺ·ǴϪƦǬƦFǷǤ>  ͊ǮǮϲDzΖdzDzǷϲ͞DZǨǬǯϲ͚>  ǷDzАͷǨǴDzАǭǤǬǷǬǯDz>  ǷǤАǷϲ͊dzǨǬǮǨЃFǨ>     ΂FǫǯǬDzǰǤǰǷǨ>  ǔDzFǨǬǧϪǰDzFDz>  Fγǧϲ͎ǮǮDzǬFǷǤАǷ>@ǨǯdzǨ>





 40 ǭǤǮǮDzǬFǬ Pap.; Lobel - ǷǬǯΰ>ǰ ǰǠǯǨǬǵ Lobel ͞ǺǼǰ Snell, ǶǠǥǼǰ Gallo 1981, 135) || 41 DzΒ ǭǤdzǰЛ>Ǭ ǧǪǺǫǨαǵ ǯǿǰDzǰ Snell || 42 ǷǤ>ǴǟǦǯǤǷǤ Fraenkel, Ƿǟ>ǧϲ ΊǴǦǤǰǤ Barigazzi 1954, Ƿ͊>ǭǿǰǷǬǤ Snell, Ƿή >ǧǨǶǯǟ ǶDzǬ Reinhardt, Ƿή >ǧǨǬǰǟ ǶDzǬ vel dzDzǢǰǬǯǤ (Soph. El. 210) vel Ƿ͎>dzDzǬǰǟ ǶDzǸ Kamerbeek, Ƿή >ǭǮǤȀǯǤǷǤ Henry 2001 || 43 ͛>ǭȁǰ Cantarella, ͚>Ǧȁ Mette, 20

Cf. Blume 1999, 979; Bieber 1930, 2073. Suda ǤǬ  $ s.v. DžͶǶǺȀǮDzǵ: DzΙǷDzǵ dzǴЛǷDzǵ ǨΙǴǨ dzǴDzǶǼdzǨЃǤ ǧǨǬǰή ǺǴȁǯǤǶǬ ǭǨǺǴǬǶǯǠǰǤ ͞ǺǨǬǰ ǷDzγǵ ǷǴǤǦǬǭDzȀǵ Hor. ars 278; cf. Bieber 1930, 2113, 28 ss.; Stieber 1994, 93; Marconi 2005, 78. 22 Cf. la definizione di sineddoche (in latino, intellectio) in Rhet. Her. 4.33: intellectio est, cum res tota parva de parte cognoscitur aut de toto pars. Si veda inoltre Arist. Po. 21.3.1457b 10, dove un simile slittamento semantico è classificato come ǯǨǷǤǹDzǴή͊dzβǦǠǰDzǸǵ͚dzαǨͼǧDzǵ 21

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Nachtr. || 44 ǷǢǯDzǬLobel || 45͞Ǻ>ǼǰKamerbeek || 46-7 ͊ǰǷǨ>ǶǭǤǮЛvel͊ǰǷǨ>dzǟDZǼ, ͎ǰǷǨ>ǶǫǤǬ ǫǠǮǼ  ǔDzǶǨǬǧϪǰϲ Ήǵ Dz>ͶǭǷǬǴǨЃ vel Dz>Ζ ǶDzǢ ǯǨ ǧȁǶǨǬ Dz>Ζ ǯǨ dzǴDzǧȁǶǨǬ Kamerbeek ibid., ͊ǰǷǨ>ǬǶǠǴǺDzǯǤǬǔDzǶǨǬǧϪǰDzǵDz>ͼǭDzǰSnell || 48 ǷǤАǷ>Ǥdz@ǠǯdzǨ>ǧЛǴǤSnell, >ǭǮǤȀǯǤǷǤHenry 2001

Ma a questo punto vengono loro offerti dei ‘giocattoli’ appena costruiti con23 ascia e incudine ͊ǫȀǴǯǤǷǤ  ͊dzβ ǶǭǨdzǟǴǰDzǸ ǭ͎ǭǯDzǰDzǵ ǰǨǿǭǷǬǷǤ , i quali, a giudicare dalle parole con cui sono introdotti, dovrebbero assecondare la loro nuova passione per le attività sportive. Ricompare qui il motivo degli ‘oggetti misteriosi’, che però stavolta suscitano nei satiri, almeno all’inizio, perplessità e diffidenza (vv. 49 ss.): ....[]ǤƦǭǤǬǰήǷǤАǷǤǯǤ>@ǰǨǬǰǹǬǮǨЃ> ͚Ǧδ>ǹǠ@ǴǼFDzǬǰǨDzǺǯή>@͊ǫȀǴǯǤǷǤ  ͊dzβ>FǭǨ@dzǟǴǰDzǸǭ͎ǭǯ>DzǰDzFǰ@ǨǿǭǷǬǷǤ ǷDzǸǷ>αǷβ@dzǴЛǷǿǰ͚FǷǢFDzǬǷ>Лǰ@dzƦǤǬƦǦ>ǰǢǼ@ǰ — ͚ǯDzαǯίǰDzΒǺǢƽǷЛǰǹǢǮǼǰǰǨЃǯǿǰǷǬǰǬ — ǯΰ͎dzǨǬdzǨǯǪǧϲΊǴǰǬǫDzFDzΗǰǨǺϲΞǦǤǫǠ — ǷǢǧΰǦǤǰDzАFǫǤǬǷDzАǷDzǭǤαǷǢǺǴǡFDzǯǤǬ  — ͫǰdzǨǴǯǨǫǨǬǮ>Ƿΰ@ǰǷǠǺǰǪǰǷǤȀǷǪƦ>Ǭ@dzƦǴǨdz> — ǷǢǧ>Ǵ@ϪƦǰǷǢdzDzǬǨЃǰ>@dzƦǬdzǮDzǸǰǯDzǸ>@ǤǰǧǤǰ> — DZǸǰǬFǫǯǬǟǩǨǬǰ>@͚ǯǯǨǮǠFǷǤǷDzǰ









 49 ͚ƦdzƦǨƦαƦ >Ƿ@ήBarigazzi, Snell - ǯǤ>ǰǫǟ@ǰǨǬǰǹǬǮǨЃ>ǵSetti, Snell || 50 >ǷǤАǷϲ@Snell || 55 etiam ǷǢ ǧǡ ǦǤǰDzАǶǫǤǬ ǷDzАǷDz vel ǷǢ ǧϲ ͬ Ǧ Ƿ distingui posse iudicavit Lobel || 56 ǯǨǫǨЃǮ>Ǩǵ@ Lobel; tum dzǴǠdz>Ǩ vel dzǴǠdz>ǨǬǰ Id., dzǴǠdzǨǬ Kamerbeek, Page ap. Lloyd-Jones, Henry-Nunlist 2000 dub. || 57 versum ita legi iubent Henry-Nunlist, qui >ǷDzΒ@dzƦǢdzǮDzǸǰǯϲDzΒǺƦ ͋ǰǧǟǰ>ǨǬ vel ǯDzΒǹƦǤǰ ǧǟǰ>ǨǬ temptaverunt24; ǷǢ ǧϲ ͊ƦǰǷǬdzDzǬǨЃǰ >@ǷǬdzǮDzǸǰ ǯDzǸ>@ǤǰǧǤǰ> Radt cum edd. priorr. || 58 >͚ǶǷαǰ@Cantarella, >dzϪǶǬǰ@Snell, >͞ǴǦDzǰ@Lloyd-Jones,>ǷDzАǷǿǦϲ@Kamerbeek, >ǦϲDzͽDzǰ@vel >Ǧϲ Βǯαǰ@Radt (dub.), >DzͽǶǬǰ@ Henry (ap. Henry-Nunlist 2000)

Così la maggior parte degli studiosi interpreta la preposizione ͊dzǿ(cf. LSJ s.v. ͊dzǿIII.3); diversamente Kamerbeek 1955, 11, che le attribuisce un valore privativo e integra >ǫ@ǨǿǭǷǬǷǤanziché >ǰ@Ǩǿ([...] fatti da mano divina ‘senza ascia né incudine’). 24 Secondo i due studiosi ͚dzǢdzǮDzDzǰ sarebbe qui da intendere come ‘(mere) wrapping’, ‘puff’ (‘apparenza’): il sostantivo, che propriamente indica la ‘membrana del peritoneo’ (= lt. omentum), sarebbe qui un sinonimo di dhmov" (il grasso usato per coprire le ossa delle vittime offerte in sacrificio) e alluderebbe alle parole speciose («advertisement») con cui Dioniso presenta i ‘giocattoli’. Anche Sommerstein stampa ǷDzΒdzǢdzǮDzǸǰ, ma lo intende come «equipment»: ͚dzǢdzǮDzDzǰ sarebbe quindi il singolare, non altrimenti attestato, di ͞dzǬdzǮǤ(͚dzǢdzǮDzǤ in Hdt. 1.94, cf. Poll. 10.10; LSJ s.v.). 23

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Il testo poi diviene sempre più lacunoso, ma è lecito supporre che alla fine i satiri accettassero i regali e tornassero al servizio del loro signore Dioniso. Ma in che cosa consistono precisamente questi͊ǫȀǴǯǤǷǤ, e in quale rapporto stanno con la minaccia proferita dal dio a F 78c 42 dzǤǴǿǰǷǤǧϲ͚ǦǦγǵǭǷǮ? Lobel si poneva la domanda, rinunciando a rispondere. Snell riteneva trattarsi di giavellotti, che essendo costituiti di un’asta in legno e una punta metallica possono essere qualificati come prodotto dell’ascia e dell’incudine25. Inoltre, gli aggettivi ǰǨDzǺǯǟe ǰǨǿǭǷǬǷǤimplicherebbero che si tratti di attrezzi non solo appena forgiati, ma anche di nuova invenzione, e forse destinati a un nuovo genere di esercizi ginnici. Lo studioso ipotizzava però un cambio di interlocutore: a offrire questi oggetti ai satiri non sarebbe Dioniso, ma lo stesso personaggio che parla ai vv. 1-2 di F 78a26. Dioniso dunque si limiterebbe ad annunciare l’ingresso in scena di Sisifo che reca con sé i giavellotti (al v. 42 Snell integra infatti dzǤǴǿǰǷǤǧϲ ͚ǦǦγǵDzΒǺ·ǴϫǵǷ͊>ǭǿǰǷǬǤ), e a mettere i satiri in guardia contro la pericolosità di tali attrezzi; la reazione di paura dei satiri andrebbe letta alla luce della loro tipica codardia. Contro quest’ipotesi sono state sollevate fondate obiezioni27: a) il tono del v. 41 non è quello di chi mette in guardia da un pericolo, ma di chi annuncia una punizione: l’espressione ‘piangerai, e non per il fumo’, allude evidentemente a una forma di punizione fisica, e i satiri avvertono chiaramente queste parole come una minaccia (v. 45 ͊dzǨǬǮǨЃǵ). Sicché non può trattarsi di giavellotti o altri attrezzi sportivi, che per quanto pericolosi da usare non costituiscono in sé e per sé una minaccia. b) L’entrata in scena di un nuovo interlocutore sarebbe brusca e priva di un’adeguata preparazione, né si capisce perché Dioniso, proprio quando ha trovato i suoi servi fuggitivi e minaccia di punirli, dovrebbe cedere la parola a un altro e uscire di scena o rimanere a lungo senza parlare. c) Sembra improbabile che i satiri, che sono venuti all’Istmo proprio per gareggiare, mostrino paura davanti ai giavellotti: la loro tradizionale vigliaccheria appare qui una motivazio25

Snell 1956-66, 171-2. Sulla stessa linea Lloyd-Jones 1957, 545; Sutton, che pensa a giavellotti (1980, 31) o più genericamente ad attrezzi sportivi (1981, 338); Stieber 1994, 86. L’idea era stata formulata già da Görschen 1954, 6 e 8, anche se sulla base di una lettura testuale (lo studioso restituiva così il v. 50: ͚Ǧδ>ǰǨ@ǯЛǶDzǬǰǠDzǺǯϲ(sic)͊ǭ>DzǰǷǢǼǰǧǿǴǪ) che non tiene conto del frustolo papiraceo contenente le porzioni finali dei vv. 48-51, pubblicato da Lobel nel 1952. 26 L’identità di questo personaggio non può essere stabilita con certezza, sia per lo stato lacunoso dei frammenti, sia soprattutto perché questo dramma non sembra ricollegabile a nessun racconto mitico noto da altre fonti: è probabile infatti che la trama, imperniata sulla fuga dei satiri che abbandonano il loro signore Dioniso per darsi all’atletica, sia tutta un’invenzione eschilea. I possibili candidati sono S i s i f o , re di Corinto e fondatore, secondo una versione del mito, dei giochi istmici (Snell 1956-66, 171; Reinhardt 1957, 2 ss.; Wessels-Krumeich 1999, 134), D e d a l o (Stieber 1994, 87; la presenza di Dedalo fra i personaggi era stata già ipotizzata da Lobel 1952, 167), E f e s t o (Lloyd-Jones 1957, 547-9; Ussher 1977, 297), E r a c l e (Sutton 1981, 336), T e s e o (Melero 1995, 70 s.). Altri (Setti 1952, 214; Barigazzi 1954, 338 s.; Görschen 1954, 11; Kamerbeek 1955, 1; Di Marco 1969-70, 379; Ussher 1977, 23; Voelke 2001, 80-3, 285), a mio avviso giustamente, pensano che si tratti di un custode del tempio. 27 Di Marco 1969-70, 416 s.; Voelke 2001, 80-1.

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ne troppo debole per giustificare un simile atteggiamento. Per tutte queste ragioni, ci sembra da accogliere l’opinione di quanti sostengono che anche nei vv. 49 ss. l’interlocutore del coro sia Dioniso, e che gli oggetti che egli reca in dono siano catene, ceppi, gogne o altri strumenti di punizione, ma di una forma inusitata e tale da disorientare i satiri28: sembra particolarmente convincente l’ultima ipotesi formulata da Di Marco (1992), che pensa a gogne (di legno con parti metalliche, come si evince dal testo) simili a gioghi, con le quali Dioniso intende forse aggiogare i satiri al suo carro e partecipare con loro (DZǸǰǬǶǫǯǬǟǩǨǬǰv. 58) ai giochi istmici. Rimane da affrontare l’ultimo quesito, se cioè questi oggetti vengano già menzionati al v. 42 oppure no. In genere gli studiosi propendono per la prima possibilità29, sia che li intendano come giavellotti che come catene o gogne. In realtà però nulla nel testo implica questa identità; ed anzi, il modo differente in cui si esprime Dioniso nei due casi induce a credere il contrario. Lo spauracchio che il dio agita agli occhi dei satiri al v. 42 è direttamente legato alla frase precedente: deve quindi trattarsi di un’esemplificazione concreta, ‘presente’ e chiaramente identificabile come tale, della minaccia di farli piangere. I satiri ne colgono pienamente il significato e reagiscono barricandosi nel tempio. Invece ai vv. 49 ss., visto che con le cattive non riesce a ricondurli all’ordine, Dioniso cambia tattica: introduce degli oggetti appena forgiati, facendo credere di essersi rassegnato e di voler assecondare la passione atletica dei satiri ͚dzǨαǷήǭǤǬǰήǷǤАǷǤ ǯǤǰǫǟǰǨǬǰǹǬǮǨЃǵ . Questi oggetti dunque non possono avere un legame diretto con la minaccia proferita prima, rispetto alla quale le parole di Dioniso segnano chiaramente una rottura30; e devono essere tali che i satiri non possano subito identificarli come un pericolo o uno strumento di punizione, perché altrimenti essi non si domanderebbero che uso farne (v. 55). E infatti la loro reazione è diversa: dopo un iniziale rifiuto (che sarà dovuto alla diffidenza nei confronti del dio adirato piuttosto che all’aspetto inequivocabilmente minaccioso degli oggetti), a poco a poco cedono e cominciano a incuriosirsi. La spia della loro curiosità è proprio la domanda che pongono al dio su come adoperarli. Del resto, appare poco verosimile che egli prima chiami questi arnesi col loro nome reale31 e poi li presenti nuovamente come ‘giocattoli’ da lui portati in dono, ricorrendo a una perifrasi ironicamente ambigua; né questo può giustificare da solo il mutato atteggiamento dei satiri. E si potrebbe aggiungere, volendo, che le catene in sé e 28 Di quest’avviso soprattutto gli studiosi italiani, a partire da Setti 1952, 224; Barigazzi 338 e Di Marco 1969, 418 pensano a ceppi o catene di forma insolita. Secondo Voelke 2001, 81 si dovrebbe trattare piuttosto di catene, come farebbe pensare il riferimento alle ‘caviglie’ ǶǹǸǴǟ di F 78c 61. 29 Cf. Setti 1952, 241; Di Marco 1992, 94; Reinhardt integra al v. 42 DzΒǺ·ǴϫǵǷή>ǧǨǶǯǟǶDzǬ@ (1957, 10-1; così anche Taplin 1977, 422), però suppone che gli ͊ǫȀǴǯǤǷǤsiano dei piccoli carri, come quelli usati dai bambini per giocare, e che siano portati in scena da Sisifo. 30 Che poi di fatto non sia così, e che le parole siano ironiche, è cosa di cui si rende conto il pubblico e lo studioso moderno; ma non i satiri, che invece si lasciano gradualmente irretire. 31 O comunque, se integriamo qualcosa come Ƿǟ>ǧϲΊǴǦǤǰǤ(Barigazzi), con un nome generico ma privo di connotazioni ironiche.

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per sé sono una punizione umiliante, ma non tanto dolorosa da far piangere: per quanto l’umiliazione che ne deriverebbe possa anche produrre una reazione simile, il testo sembra presuppore qualcosa che per sua stessa natura provoca (o evoca) dolore e pianto. Se queste considerazioni sono corrette, la strada da seguire è quella degli studiosi (Fraenkel, Kamerbeek, Henry) che al v. 42 integrano un nome indicante non un oggetto fisicamente presente sulla scena, ma l’atto della punizione in sé o qualcosa che vi alluda, ritenendo quindi che gli ͊ǫȀǴǯǤǷǤentrino in scena solo al v. 49. Pertanto, dzǤǴǿǰǷǤed ͚ǦǦȀǵandranno intesi in senso traslato e riferiti all’imminenza della punizione, che i satiri possono ‘vedere’ incarnata dal loro padrone adirato e deciso a castigarli a dovere. Ma più che un sostantivo generico che significa ‘pena’, ‘lacrime’ o simili, io vedrei nella lacuna un riferimento a un tipo di punizione, quale è legittimo che degli schiavi fuggitivi potessero attendersi dal loro padrone. La pena consueta per questo reato era, com’è noto, la marchiatura a fuoco: una possibile integrazione sarebbe quindi, ad esempio, ǶǷǢǦǯǤ ǷǤ32.Ma forse una scena di Aristofane potrebbe offrire un suggerimento diverso: in Av. 1018 Pisetero, dopo avere avvertito l’astronomo Metone del rischio di essere bastonato, passa a vie di fatto accompagnando la bastonatura con le parole ͚dzǢǭǨǬǰǷǤǬ ǦήǴ ͚ǦǦγǵ ǤΓǷǤǬǢ (sc. Ǥͷ dzǮǪǦǤǢ). Si noti come anche qui le botte siano descritte come ‘presenti’ ͚dzǢǭǨǬǰǷǤǬ∼dzǤǴǿǰǷǤ) e ‘vicine’ (͚ǦǦȀǵ). Forse è proprio questa la punizione che Dioniso prospetta ai satiri, e che poteva essere avvertita come presente senza bisogno di altri oggetti sulla scena (il dio poteva attuarla utilizzando il tirso come bastone). Sarebbe stata una punizione abbastanza dolorosa da farli piangere, ma non tanto crudele da suscitare pietà negli spettatori. Si potrebbe allora proporre dzǮǡǦǯǤǷǤǷȀǯǯǤǷǤo qualcosa di simile33. Ma ci sarebbe un’altra possibilità, più rischiosa ma anche più allettante: ǷȀǯdzǤǰǤ. Il timpano, si sa, è uno strumento dionisiaco; ma trattandosi di uno strumento a percussione, potrebbe essere menzionato dal dio, con un gustoso doppio senso, per alludere minacciosamente alla bastonatura che attende i satiri (e un gesto della mano poteva rendere l’allusione, di per sé trasparente per l’evidente legame con il verbo ǷȀdzǷǼ ancora più chiara). La contiguità semantica fra ‘timpani’ e percosse trova fra l’altro un curioso parallelismo, oltre che nella polisemia dell’italiano ‘suonare’, anche nella favoletta esopica (173 Hausr.) dell’asino con la cui pelle i sacerdoti mendicanti di Cibele fanno appunto un timpano: agli altri sa-

Cf. Ar. Av. 760 ǧȑǤdzǠǷǪǵ͚ǶǷǬǦǯǠǰDzǵ; LSJ s.v. ǶǷǬǦǯǤǷǢǤǵ dzǮϸǦǯǤ, fondamentalmente un sinonimo di dzǮǪǦǡ(LSJ s.v.), nell’ambito tragico è attestato in Soph. Ant. 250 (dove si riferisce a un colpo di zappa) e 1283, detto del colpo di spada ǰǨDz ǷǿǯDzǬǶǬdzǮǡǦǯǤǶǬǰ con cui Euridice si è trafitta; in Id. Trach. 521 si tratta dei colpi (di fronti che cozzano, ǯǨǷȁdzǼǰ) che Eracle e Acheloo si scambiano durante la lotta per Deianira. Cf. inoltre Eur. Tro. 794 (le percosse sul capo che Ecuba si dà in segno di lutto per Astianatte); Id. IT 1366 (i pugni della rissa tra Greci e Tauri, allorché questi tentano di impedire ai primi di fuggire sulla nave). ǷȀǯǯǤ ricorre invece, fra i tragici, solo in Aesch. Ag. 1430, in una formulazione della legge del taglione: ǷȀǯǯǤǷȀǯǯǤǷǨЃǶǤǬ. 32 33

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cerdoti che li incontrano e domandano che cosa abbiano fatto dell’asino, essi rispondono che è morto, ma prende più botte ora che da vivo34. 34

Liana Lomiento mi fa notare che anche al v. 58 dello stesso frammento ricorre l’impiego traslato di un termine originariamente legato al campo semantico musicale (͚ǯǯǨǮǠǶǷǤǷDzǰ, propriamente ‘molto accordato, intonato, che ben si armonizza’). Fra l’altro, il nome ǷȀǯdzǤǰDzǰ poteva indicare anche lo strumento di un tipo di punizione corporale inflitto ai criminali (detta appunto ǷǸǯdzǤǰǬǶǯǿǵ; cf. ǷǸǯdzǤǰǢǩǼ, ͊dzDzǷǸǯdzǤǰǢǩǼ); sulla sua natura esatta non c’è accordo né tra le fonti antiche né tra gli studiosi moderni, complice il fatto che nelle sue più antiche attestazioni letterarie (Ar. Plut. 476; Lys. 13.56 e 67 s.; Dem. 8.61, 19.137, al.; Arist. Rhet. 1383a 5, 1385a 11), il contesto non è di grande aiuto per stabilirne le caratteristiche. La letteratura lessicografica e scoliastica dice qualcosa di più, ma si tratta di notizie vaghe e contraddittorie. È il caso, per esempio, degli scoli ad Ar. Plut. 476 ΤǷȀdzǤǰǤ (Bentley; ǷȀǯdz- codd. Cito secondo N. Wilson, Aristophanis fabulae, II, Oxonii 2007) ǭǤαǭȀǹǼǰǨǵDzΒǭ͊ǴǡDZǨǷǨ; i quali oscillano (al pari di esegeti e traduttori moderni) fra le due accezioni di ‘strutture di legno’ su cui i condannati subiscono il supplizio e ‘bastoni’: p. 89 Chantry 476a Ǥ ǷȀǯdzǤǰǤ] DZȀǮǤ ͚ǹϲ Dzͽǵ ͚ǷǸǯdzǟǰǬǩDzǰƽ ͚ǺǴЛǰǷDzǦήǴǷǤȀǷ϶ǷϹǷǬǯǼǴǢǤǥǥǤǶǤǰǬǶǷǡǴǬǤDZȀǮǤ͚ǶǷǢǰ͚ǰDzͽǵ͊ǰǤǥǤǢǰDzǰǷǨǵ͚ǷȀdzǷDzǰǷDz 476b Ǥ ФǥǟǭǮǤХƽ dzǤǴή Ƿβ ФǷȀdzǷǨǬǰХƽ ͪǦDzǸǰ DZȀǮǤ Dzͽǵ ǷȀdzǷDzǰǷǤǬ ͚ǰ ǷDzЃǵ ǧǬǭǤǶǷǪǴǢDzǬǵ Dzͷ ǷǬǯǼǴDzȀǯǨǰDzǬ ǥ Ƿή ǮǨǦǿǯǨǰǤ ‘ǥǟǭǮǤ’. L’uso di ǥǟǭǮǤ (= lat. bacula) tradisce un’epoca recenziore per la seconda parte dello scolio, e Chantry annota in apparato «hic sensus ab nullo auctore confirmatur; 476a autem omnibus optime convenit (Sext. Empir., Luc., LXX)». Diversi studiosi ritengono il ǷǸǯdzǤǰǬǶǯǿǵ accostabile all’impalamento o alla crocifissione; secondo Gernet 1924, il supplizio consisteva nel fissare il corpo del condannato su una tavola di legno verticale (o un palo, secondo Cantarella 1991, 42) mediante anelli di ferro passati intorno al collo e agli arti e lasciarlo morire lentamente (a questo tipo di punizione alluderebbe, per lo studioso, anche il dzǨǰǷǨǶȀǴǬǦǦDzǰDZȀǮDzǰ di Ar. Eq. 1049, e persino il supplizio di Prometeo nell’omonimo dramma eschileo sarebbe una sua trasposizione scenica). Ora, che questa pena capitale fosse effettivamente praticata ad Atene è dimostrato, oltre che dalla scena di Ar. Thesm. 930 ss. in cui il Parente di Euripide viene sottoposto a una punizione simile, dal ritrovamento al Falero di una fossa comune con scheletri che recavano ancora intorno alle ossa gli anelli di ferro con residui di legno (Gernet, ibid.); ma che sia da identificare con il ǷǸǯdzǤǰǬǶǯǿǵ rimane a mio giudizio un’ipotesi non verificata. Se infatti esso non avesse avuto mai nulla a che vedere con le bastonate, non si comprenderebbe l’origine della definizione (cf. LSJ Suppl. s.v. ͊dzDzǷǸǯdzǤǰǢǩǼ: «perh. originally cudgel to death», e si veda anche schol. Dem. 8.74a Dilts ] ЏDzdzǟǮDzǬǵ͊ǰǨǮǨЃǰ; Phot.  610 P. = Suda Ƿ 1165 A., EM 771.48 G. ǷǸǯdzǤǰǢǩǨǷǤǬƽDZȀǮЙ dzǮǡǶǶǨǷǤǬ͚ǭǧǠǴǨǷǤǬǭǤα ǭǴǠǯǤǷǤǬ; Hsch. Ƿ 1639 H. ǷǸǯdzǤǰǢǩǨǷǤǬƽ dzǮǡǶǶǨǷǤǬ ͚ǭǧǠǴǨǷǤǬ ͶǶǺǸǴЛǵ ǷȀdzǷǨǷǤǬ): difficile pensare che _   possa essere interpretato come «streching-frame» (Sommerstein 2001, 170) e che l’analogia col timpano sia data solo dalla posizione dei condannati che vi sono distesi sopra come la pelle sullo strumento musicale (oltretutto, la superficie del timpano è orizzontale, mentre secondo Gernet e i seguaci della sua teoria i condannati venivano appesi in posizione verticale). Né più convincente appare la spiegazione di ǷȀǯdzǤǰDzǰ come ‘palo di legno’ per estensione dell’accezione di ‘mazza’ (Cantarella 1991, 42), che in ogni caso dovrebbe essere più antica della prima e presupporrebbe quindi una nozione originaria che implichi l’idea del percuotere. Non è certo un caso l’esistenza di testi postclassici in cui il verbo ͊dzDzǷǸǯdzǤǰǢǩǨǬǰ è sicuramente applicato a punizioni fisiche diverse dalla pena capitale, che comportano delle percosse: in Lib. Or. 29.26 si tratta di un vecchio bastonato ed esposto a pubblico ludibrio; in Gr. Nyss. PG 46.312.3 ͌ǰ[…] ͊dzDzǷǸǯdzǤǰǬǶǫϹǷМǶǭȀǷǨǬ, di uno scolaro indisciplinato da fustigare con una sferza di cuoio, e lo scoliasta al passo sopra citato degli Uccelli adopera il verbo ͊dzDzǷǸǯdzǤǰǢǩǨǬǰ per designare la bastonatura subita da Metone (DzΒǭDzͼǧϲǨͶǹǫǤǢǪǵ͊dzǬǠǰǤǬdzǴαǰ͊dzDzǷǸǯdzǤǰǬ ǶǫϸǰǤǬ. Ma cf. già Plut. superst. 170 A). Piuttosto che supporre in simili casi uno slittamento semantico prima in un senso (mazza per percuotere - palo per i condannati) e poi in quello inverso

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A questo punto, riteniamo che si possa dire qualcosa anche sul v. 48 Ƕγ ǧϲ ͎ǮǮDzǬǵǷǤАǷ>Ǥdz@ǠǯdzǨ[...].Il significato è chiaro: i satiri, forti dell’asilo offerto loro dal tempio, si fanno beffe di Dioniso e respingono al mittente le sue minacce. Nella lacuna non si dovrà allora immaginare ǧЛǴǤ(Snell: i ‘doni’ sarebbero sempre i giavellotti), ma qualcosa che richiami le minacce proferite: Henry propone ancora una volta ǭǮǤȀǯǤǷǤIo penserei piuttosto a qualcosa come ǧǨǢǯǤǷǤ (per il nesso cf. A. R. 4.685 ǰǸǺǢǼǰ͊dzβǧǨǢǯǤǷǤdzǠǯǻǨǰΆǰǨǢǴǼǰanche se si tratta del composto ͊dzDzdzǠǯdzǼ ‘scacciare’): ‘tu manda ad altri questi spauracchi’. Possibile pure dzǡǯǤǷǤ(‘malanni, sciagure’),ǮȀǯǤǷǤ(propriamente ‘sozzure’, ma può assumere anche il senso di ‘sfregio, oltraggio’, come in PV 691, dove equivale sostanzialmente a ǮȀǯǪ), ma anche qualsiasi altro aggettivo sostantivato o sostantivo di significato equivalente: e.g. ǮDzǢǧDzǴǤ‘oltraggi, ingiurie’ (cf. Eur. Cycl. 534 ǮDzǢǧDzǴǿǰǷϲ͞ǴǬǰcontesa oltraggiosa, mista a oltraggi). Catania

Paolo Cipolla

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(condannare al supplizio del palo - percuotere con la mazza) sembra più economico pensare che tale supplizio comportasse fin dall’inizio le percosse, e che il verbo corrispondente abbia poi assunto significati più generici come ‘percuotere’ (ma anche ‘uccidere sommariamente’: cf. Plut. Galb. 8.5, dove il contesto esclude l’impiego di pali o tavole di legno; o ‘decapitare’, Anon. In Rh. 102.12 Rabe; Euph. fr. 173 van Gron., etc.). Questo sembrerebbe confermato dal citato scolio ad Aristoph. Plut. 476a ǥ, che pur intendendo i ǷȀǯdzǤǰǤ come legni su cui i condannati salivano, specifica che questi venivano percossi (͚ǰDzͽǵ͊ǰǤǥǤǢǰDzǰǷǨǵ͚ǷȀdzǷDzǰǷDz). Il fatto poi che il nome ǷȀǯdzǤǰDzǰ sia utilizzato anche per indicare un tipo di ruota o altro ingranaggio circolare (LSJ s.v.; Forcellini s.v. tympanum II 10) autorizza a supporre che anche lo strumento di punizione in origine fosse una ruota di legno, su cui i condannati venivano distesi, per poi essere fustigati o bastonati (Forcellini ibid.; vd. anche Frisk, GEW s.v., che interpreta ͊dzDzǷǸǯdzǤǰǢǩǨǬǰ come «auf dem Rade ausspannen, foltern, prügeln»); la punizione poteva, a seconda dei casi, protrarsi fino alla morte oppure no. Comunque sia, se Eschilo nel nostro passo scrisse effettivamente Ƿή [ǷȀǯdzǤǰǤ, è probabile che il pubblico abbia colto anche un riferimento allo strumento di punizione. È altresì da notare che il ǷǸǯdzǤǰǬǶǯǿǵera solitamente impiegato per punire i traditori e i kakourgoi, una categoria che comprendeva i ladri in genere e quelli «per così dire specializzati, come i lopodytai» (così Cantarella 1991, 43); i satiri hanno per l’appunto tradito Dioniso e, forse, sperperato i suoi beni, di cui si sono indebitamente appropriati, se si intende letteralmente F 78a 35 s. ǺǴǡǯǤǷǤǹǫǨǢǴǼǰ͚ǯήǭǷǨǤ[... (Sommerstein 2008 ad l. identifica invece i ‘beni’ del dio con i satiri stessi, che rovinano il proprio corpo con l’atletica; cf. anche Conrad 1997, 73 e n. 201, che però non esclude del tutto un’interpretazione letterale). Si sarebbe tentati, a questo punto, di supporre che gli oggetti portati in scena da Dioniso siano proprio dei ǷȀǯdzǤǰǤin legno con parti metalliche: i satiri non li hanno mai visti, e dunque non sanno a che cosa servano. In tal caso però, per le ragioni esposte sopra, per la lacuna del v. 42 opterei per ǮǡǦǯǤǷǤ,ǷȀǯǯǤǷǤo un altro sostantivo che alluda alle bastonate, ma senza identificare chiaramente gli strumenti di punizione che appariranno subito dopo.

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like dzǮǡǦǯǤǷǤ ǷȀǯǯǤǷǤ or even ǷȀǯdzǤǰǤ (lit. ‘drums’, i.e. beats, with a joke on the verb ǷȀdzǷǼand, perhaps, on a punishment and torture instrument with the same name) seems more probable. KEYWORDS: Theoroi - masks - cudgel

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TESTO ED ESEGESI DI ALCUNI SCOLÎ ESCHILEI 1. Le prime edizioni a stampa degli scolî sono per lo più parallele alle editiones principes dei classici: se il metodo con cui queste furono approntate non differiva da quello adottato dai copisti dei manoscritti (venivano trascritti i codici a disposizione degli editori, con eventuali interventi ope codicum o ope ingenii), lo stesso deve dirsi anche per gli scolî, che venivano copiati in modo sostanzalmente acritico. In realtà, i primi editori intendevano corredare il testo di un commento greco funzionale alla sua interpretazione: in un certo senso, si aveva la stessa mentalità che avrebbe in séguito informato le edizioni cum notis variorum, in cui cioè si voleva dar conto di tutte le interpretazioni del testo; è quindi evidente che in questa dimensione contava non tanto che lo scolio fosse antico o recente, quanto che costituisse un ausilio per l’esegesi. In questo modo si venne a formare, per molti autori, un corpus tradizionale di scolî, che fu tramandato, più o meno intatto, fino alle grandi edizioni ottocentesche, con occasionali aggiunte, dovute alla lettura di nuovi codici, senza essere mai sottoposto a un rigoroso vaglio critico. Timpanaro 1981, 3-9 ha tra l’altro evidenziato come spesso le prime edizioni a stampa si basassero su manoscritti recenti, ed è questo il motivo per cui gli scolî aldini (denominazione che troviamo in vari corpora) sono spesso essenzialmente raccolte di scolî recenziori1. Fu il metodo del Lachmann a cambiare decisamente le prospettive, anche se non sempre esso fu subito coerentemente applicato agli scolî2, tant’è vero che le ottocentesche edizioni dei fratelli Dindorf – spesso utilissime per l’ampia messe di materiali raccolta – non presuppongono tuttavia un attento vaglio critico. In effetti, da una parte la recensione sistematica dei manoscritti, propugnata dalla filologia lachmanniana, incrementò grandemente i corpora scoliastici, dall’altra l’applicazione della nuova pratica ecdotica, che prevedeva una ricostruzione della storia del testo attraverso criteri obiettivi e leggi meccaniche, portava in primo piano il problema delle origini delle annotazioni scoliastiche. Se infatti l’edizione critica aveva come fondamento l’archetipo medievale, anche per gli scolî diventava primario capire quali fossero preesistenti all’archetipo e da esso recepiti, ed era quindi necessario distinguere gli scolî antichi – frustuli della tradizione esege1

Istruttiva è la concisa storia delle edizioni degli scolî omerici messa a punto da F. Pontani (I classici greci 201-33). Per quanto riguarda l’Iliade egli individua tre fasi: nella prima, che va fino a tutto il XVII secolo, l’unica esegesi antica nota rimane essenzialmente quella degli scolî erroneamente denominati «Didymi» nel 1528; nella seconda, che comprende gran parte del XVIII secolo, si hanno i primi sostanziosi incrementi (in particolare frutto del lavoro di Valckenaer); la terza vede la scoperta del Venetus A da parte di Villoison e la prima classificazione degli scolî compiuta da Thomas Christian Tychsen nel 1789, la quale però non fu tenuta nel debito conto, fino agli studi di Erbse (1960; 1969). 2 Pontani (I classici greci 217) evidenzia giustamente i limiti della filologia ottocentesca per quanto riguarda gli scolî all’Iliade: l’edizione di Bekker del 1825 era «volta a emendare il solo testo di Villoison», poi «si tornò a produrre una serie di edizioni basate su singoli codici» (come quelle di Bachmann, Cramer, Dindorf, E. Maass, Nicole).

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tica viva dall’epoca alessandrina fino alla tarda antichità – dalle annotazioni più recenti, frutto del lavoro delle scuole tardo-bizantine. Il metodo impiegato per distinguere gli uni dagli altri era di tipo meccanico: se gli optimi codices erano quelli che permettevano la ricostruzione dell’archetipo e i recenziori andavano scartati in quanto descripti, gli scolî antichi dovevano essere quelli riportati dagli optimi codices, mentre quelli presenti solo nei recenziori venivano considerati posteriori e dunque deteriori. La filologia del Novecento ha messo in crisi questo postulato: Pasquali 1952, 78 avvertì che la contaminazione fra fonti diverse intervenne in particolare per le raccolte di scolî e che per esse i copisti operarono «contaminando le raccolte dei diversi mss., sommando il materiale […] contentandosi di eliminare doppioni inutili»; Giovan Battista Alberti (1972 I-CLXXIII e 1959) ha enucleato la possibilità che, almeno in certe tradizioni i recenziori potessero riprendere fonti di collazione extrastemmatiche; se le cose stanno così, è possibile che nei codici recenti, accanto a nuove annotazioni esplicative, ce ne fossero altre provenienti da una tradizione esegetica antica, indipendente da quella degli optimi codices. Parallelamente, un nuovo capitolo nella storia degli scolî si aprì con le sempre più massicce scoperte papiracee, che gettarono nuova luce sulla pratica ecdotica ed esegetica antica, aprendo il dibattito sulla nascita della scoliografia, particolarmente vivace da quando White pose l’archetipo di una delle tradizioni più ricche, quella aristofanea, in età tardo-antica e Zuntz lo spostò invece decisamente più avanti3. Alla luce degli studi di Pasquali e Alberti e delle acquisizioni papiracee, appare chiaro che il compito primario d’identificare l’origine delle annotazioni presenta spesso problemi insormontabili e che quella di tracciare uno stemma che dia conto di tutte le annotazioni può rivelarsi un’utopica pretesa. Connesse a questa problematica sono, inoltre, due spinose questioni: quella del confronto fra corpora scoliastici e voci lessicografiche e la valutazione della presenza delle stesse spiegazioni per vari passi di diversi autori. Per quanto concerne il primo punto, il metodo lachmanniano portava a studiare con precisione le relazioni con la lessi3

F. Montanari (I classici greci 2-15) parla dell’esistenza di edizioni commentate, distinguendole da lessici e glossari. Particolarmente importanti appaiono poi gli studi di F. Montana e Antonietta Porro: il primo (I classici greci 17-34) enucleava una serie di indizi a favore dell’origine tardoantica, ma d’altra parte avvertiva di una differenza essenziale esistente tra marginalia papiracei e scoliografia medievale: i primi deriverebbero da una sola fonte (chiaramente un ΓdzǿǯǰǪǯǤ), mentre elemento costitutivo della seconda sarebbe la ripresa di materiali desunti da fonti diverse; lo stesso Montana (2011) contesta l’idea della McNamee (2007, 79-93), che il cosiddetto ‘Teocrito di Antinoe’ rappresenti un livello germinale di scoliografia, identificando nelle annotazioni di questo papiro note scritte da destinatari di lezioni; Porro 2011 prende in esame P. Oxy. XX 2258, giungendo alla conclusione che si tratta di un contenitore atto a conservare un materiale prezioso, fornito di ampie note in margine, ma non ancora di un commento sistematico. La questione rimane aperta; occorre tuttavia constatare che l’affermazione di Montana elimina il concetto di archetipo nel senso che intendeva White (se i codici riprendessero solo i materiali di un archetipo non si protrebbe più, a rigor di termini parlare di scoliografia); il problema delle origini della scoliografia consisterà quindi nell’identificazione dell’inizio di un metodo di commento e non di un’ipotetica unica fonte dei materiali. Una bibliografia completa sulla questione è stata raccolta da G. Ucciardello (I classici greci 54, in part. n. 81).

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cografia solo per gli scolî tramandati dagli optimi codices e, più in generale, a introdurre il concetto di ‘scolio lessicografico’, cioè di scolio compilato copiando una voce lessicografica. Così venivano tout court considerati gli scolî recenziori che collimavano con voci di Esichio, Fozio, Suda o altri lessici: se però non si ammette il postulato della recenziorità degli scolî tramandati dai codici recenziori, va in crisi anche questo meccanico corollario e si deve ammettere che la situazione è più complessa e magmatica. Istruttiva è ad es. la situazione dell’enciclopedia della Suda, che per alcuni autori come Sofocle ed Aristofane riprende e trascrive un manoscritto fornito di scolî: si recuperano così spiegazioni imparentate con quelle degli scolî a noi pervenuti, ma che presentano varianti non trascurabili4, residuo di antiche redazioni, che devono essere studiate in parallelo con gli scolî diretti. La questione dei rapporti fra scolî e lessici non può essere quindi risolta con prese di posizione pregiudiziali: tale era quella che derivava da una posizione di stretta osservanza lachmanniana, che tendeva a generalizzare il concetto di scolio lessicografico; tale è a maggior ragione quella portata avanti dalla scuola ‘funzionalista’, secondo la quale la presenza di una annotazione in un dato corpus scoliastico è l’indizio del fatto che la lessicografia attingeva dall’esegesi antica di quell’autore. La complessità della questione richiede quindi un’analisi puntuale e separata per ogni singola annotazione; credo tuttavia che si possano ammettere a livello generale tre principi: a) è innegabile che ci sia stato un continuo fluire di materiali tra scolî e lessici, ad iniziare dal momento in cui i prodotti della filologia alessandrina da una parte diedero vita a diversi tipi di letteratura esegetica (ΓdzDzǯǰǡǯǤǷǤ, ǶǸǦǦǴǟǯǯǤǷǤ e successivamente scolî) e dall’altra confluirono nelle grandi opere enciclopediche dell’età d’Augusto (in particolare in quella di Panfilo), e da qui nei vari lessici, che – come quello di Diogeniano – dovevano rendere fruibili i materiali in esse contenuti5; b) sia per gli scolî sia per i lessici siamo di fronte a tradizioni ‘aperte’, cioè sempre esposte ad eventuali interventi integrativi ed epitomatori. Questo produsse anche per gli scolî, come per tutte le opere che avevano una finalità strumentale6, la possibilità di dare e ricevere sempre nuovi materiali, anche allotri rispetto agli scopi esegetici (ricordo, tra l’altro, che in età bizantina a un certo punto invalse l’uso del commento enciclopedico, il cui esempio estremo è costituito da quello di Eustazio a Omero); c) è fruttuoso dare spazio al concetto di glossa tradizionale, enucleato da Thomson 1967, 236: spesso, cioè, abbiamo a che fare con interpretamenta presenti in diversi luoghi e per diversi autori, perché fanno riferimento a una valenza denotativa del termine. Tali spiegazioni, in età sia tardoantica sia bizantina, furono per lo più desunte dai lessici, ma piuttosto che parlare di scolî lessicografici 4

Per un paio di esempi lampanti in questo senso rinvio a R. Tosi, I classici greci 173-80. Un caso esemplare a questo proposito è quello studiato con grande acribia da Ucciardello in I classici greci 54-69. Egli tra l’altro evidenzia (p. 54) come questi scambi avvengano già a livello di lessici ed ΓdzDzǯǰǡǯǤǷǤ 6 Si vedano le istruttive pagine di Garzya 1983, 35-71. 5

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(che lasciano intendere una derivazione univoca) sarà meglio adottare questa terminologia, più consona a una tradizione eminentemente aperta. 2. Un punto nodale in questa problematica, come in genere per tutta la storia della tradizione, è costituito dalla storia del testo tucidideo. L’edizione tuttora utilizzata degli scolî a Tucidide è quella di C. Hude (Lipsiae 1927), il quale ha collazionato solo gli optimi codices, e ha trascritto gli altri scolî da una precedente edizione acritica di Haase: ha quindi rispecchiato il corpus tradizionale, rivedendo solo gli scolî contenuti nei manoscritti considerati utili per la ricostruzione dell’archetipo (`). Se O. Luschnat ha dimostrato che comunque lo storico fu studiato già in Alessandria, gli scolî sono stati soprattutto analizzati da A. Kleinlogel, il quale pensa che comunque quelli a noi pervenuti siano tardi, e per lo più ‘lessicografici’: secondo lui ci fu senza dubbio un’esegesi antica a Tucidide, ma di essa nulla a noi sarebbe pervenuto7. Il problema è però tuttora aperto, tanto più che un papiro del II-III sec. con un commentario scolastico a Tucidide presenta materiali che hanno punti di contatto con Esichio e i nostri scolî. Più in generale, Kleinlogel considera gli scolî come un elemento nodale per ricostruire lachmannianamente la tradizione tucididea (dimostrerebbero ad es. l’esistenza dell’archetipo posteriore a Cherobosco). Ma le cose stanno proprio così? Anche ammettendo che sia possibile ricostruire una tradizione secondo questo sistema (una strada radicalmente diversa è stata prospettata da Luzzatto 1993) non so se sia davvero postulabile un perfetto parallelismo tra testo e scolî, tanto più che come si è visto, per i corpora scoliastici va considerata costitutiva proprio quella contaminazione che Maas considerava alla stessa stregua della morte di ogni possibilità meccanica di ricostruzione. Non è forse possibile ad es. che in Tucidide gli scholl. F che hanno varie glosse (in particolare nel secondo libro) simili a quelle di Esichio, non riprendano semplicemente questo lessico, ma derivino da un commentario antico imparentato con esso? Si vedano ad es. gli scolî a Thuc. 1.134.4: ͚ǰǷМdzǴDzǷǨǯǨǰǢǶǯǤǷǬƽ͚ǰǷМdzǴβǷDzАͷǨǴDzАdzǴDzǤǶǷǨǢЙ (F) //· dzǴβǷDzАͷǨǴDzАǭǤαǷDzАǷǨǯǠǰDzǸǵǷǿdzDzǵ (Patm.) // ͚ǰǷМdzǴDzdzǸǮǤǢЙ (rec.). La tradizione della ǖǸǰǤǦǼǦǡ (ǖ ant. dz 726 C., Phot. 464.22 Th., Suda dz 2985 A.) riporta la generica glossa dzǴDzǷǨǯǨǰǢǶǯǤǷǤƽdzǴDzdzȀǮǤǬǤͨdzǴDzǟǶǷǨǬǤ, che fornisce probabilmente il modello per scolî come il nostro; resta da chiedersi se l’esegesi filoniana rispecchiata da Hsch. dz 3976 H. dzǴDzǷǨǯǨǰǢǶǯǤǷǤƽdzǴDzdzȀǮǤǬǤǰǤ Лǰ8 prenda anch’essa spunto dal canone lessicografico o ne stia invece alle radici (si noti nei luoghi dell’Alessandrino citati nella n. 8 la contiguità fra dzǴDzdzȀǮǤǬǤ e   ǨǰǢǶǯǤ); a mio avviso, si può anche supporre che alla base di tutta la tradizione stesse una struttura complessa, in cui comparivano un lemma (dzǴDzǷǨ

7

Si veda in particolare la lettera dello studioso, pubblicata in Tosi 2009 (con le correzioni di «Eikasmós» 21, 2010, 485). 8 Cf. Philo Cher. 100 ǶǷDzήǵ ǭǤα dzǴDzdzȀǮǤǬǤ ǭǤα ͊ǰǧǴЛǰǤǵ ǭǤα dzǴDzǷǨǯǨǰǢǶǯǤǷǤ ǭǤα ǰǨδǵ ǭǤǷǤǶǭǨǸǤǩǿǰǷǼǰ͊ǰǤǮǼǫǨǢǪ, Leg. Gai. 150 ǯǤǴǷǸǴDzАǶǬǰǤDzǢdzǴDzdzȀǮǤǬǤdzǴDzǷǨǯǨǰǢǶǯǤǷǤ ǶǷDzǤǢΟǵ΋ǶǤǬǷЛǰdzǿǮǨǼǰ

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ǯǨǰǢǶǯǤǷǤ), vari interpretamenta (dzǴDzdzȀǮǤǬǤdzǴDzǟǶǷǨǬǤ) ed esemplificazioni, tucididee e filoniane, fornite di specifiche spiegazioni. 3. Per quanto riguarda Eschilo, Smith 1976-82 ha rimesso mano a una tradizione sostanzialmente immutata dai tempi di Robortello e Pier Vettori. Egli opera una suddivisione tra scholia vetera in Agamennonem (riportati da M e F), in Choephoros, in Eumenides (M E F), scholia metrica proto-tricliniana in Agamennonem, riportati da G F E e identificati da Turyn, sei recensioni di scolî ai Sette (scholia Medicea, A, Thomana, prototricliniana, Tricliniana, posttricliniana). Quanto agli scolî tricliniani merita un’attenta lettura un paragrafo di Smith (I, XIV): «commentarios Triclinianos ita edidi ut referrem quae ipse Triclinius scripsit, quam ob causam tantum correxi quae Triclinius cum attentus non esset vel in priore recensione, qua satis constat eum usum esse cum posteriorem recensionem conficeret, vel in posteriore scribenda deliquisset». Di qui notevoli differenze rispetto al testo di Turyn. Smith inoltre, è più diffidente nei confronti di una meccanica visione degli scolî tricliniani di quanto si potrebbe pensare: a p. X dopo aver segnalato il modo con cui Triclinio indicava i suoi commenti diversamente dagli scolî dzǤǮǤǬǟ, segnala che non si possono reputare tout court recenziori quelli interlineari, perché nota che molti interlineari in T sono marginali in M, anche se ritiene logico che vari tra essi siano stati frutto dell’esegesi di Triclinio, perché si ritrovano anche tra quelli esegetici tricliniani. Herington, nella sua edizione agli scolî del Prometeo, invece, distingueva con precisione fra: scolî del Mediceo, scolî A della triade bizantina (Prom. Sept. Pers.), il cui più antico mss. è del 1287 (B), scolî B della triade bizantina, composti da Thomas Magistro, commentario tricliniano alla triade bizantina, ad Agamennone ed Eumenidi. Egli discute poi l’opinione di chi, con Dindorf, pensa che gli scholl. A non siano che una rielaborazione di quelli del Mediceo9. Conscio dell’importanza di questi scoli A, Herington cerca di enucleare criteri esterni ed interni per la loro edizione, e di evidenziare quanto questi siano peculiari rispetto a M. Per quanto riguarda le altre edizioni, quella di Dindorf costituisce un amalgama sostanzialmente acritico, quella di Dähnhardt (1894) un tentativo di ricostruzione della tradizione ormai decisamente superato. 4. Auspicabile è una nuova edizione complessiva degli scolî eschilei, che preliminarmente affronti una lettura sistematica di tutti i manoscritti, e d’altra parte tenga conto delle precedenti osservazioni. Queste non sminuiscono certamente l’importanza di una ricostruzione stemmatica, che dia conto anche dei rapporti con i lessici e con le altre tradizioni scoliastiche, ma portano alla constatazione che per una tradizione come la nostra, per sua natura aperta, questa operazione si rivela spesso, impossibile. Occorre dunque accontentarsi di risultati minimali. Nei casi di stretti parallelismi con glosse lessicografiche l’analisi deve procedere pre9

Mentre per Wilamowitz, Turyn, Heimsoeth, Pasquali e lo stesso Dähnhardt gli uni e gli altri sono indipendenti, e derivano entrambi da un unico antico commentario eschileo.

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supponendo due ipotesi: a) che sia il lessico sia gli scolî derivino da un antico commento ad Eschilo; b) che lo scolio riprenda la tradizîone lessicografica. Anche nel secondo caso, tuttavia, lo scolio non può essere trascurato, perché può riprendere una versione meno corrotta di quella dei lessici a noi pervenuta. Alcuni esempi. Hsch. Ǩ 694 L. [͞ǫǴǬǶǨǰƽ͞ǹǴǬDZǨǰ] (r) sembra glossa insostenibile: non andrà invece né espunta né considerata insanabile, ma basterà emendare l’interpretamentum in ͞ǫǴǬDZǨǰ, cf. schol. (Tricl. dzǤǮǤǬǿǰ) Aesch. Ag. 536 ͞ǫǴǬǶǨǰƽ͚ǫǠǴǬǶǨǰ ͞ǭǨǬǴǨǰ ǭDzǬǰЛǵ ǧί ͞ǫǴǬDZǨǰ ΢ǹǨǬǮǨǰ ͊ǹХ DzΘ ǭǤα ͧ ǫǴǢDZ Οǵ ǭǤα ljΒǴǬdzǢǧǪǵƽ «ǨͺǧǨǷǨdzǤǴХ͎ǭǴǤǵΟǵ͊dzǠǫǴǬDZǨǷǴǢǺǤǵ» (Or. 128). Si veda questa costellazione di glosse esichiane: Hsch. Ǩ380 L. [͚ǧǟǪǰƽ͞ǯǤ ǫǨǰ], Hsch. Ǩ 381 L. ͚ǧǟǪǰƽ ͞ǯǤǫDzǰ ASn ͞ǦǰǼǰ ǶǸǰϸǭǤ ͚ǰǿǪǶǤ (LJ 208), Hsch. Ǩ 382 L. ͚ǧǟǪǵƽ͞ǯǤǫǨǵ (Gr. Naz. Ep. 10.1). Ad essa va collegata la glossa interlineare ad Aesch. Ag. 124 ͚ǧǟǪx͞ǯǤǫǨǰ͞ǦǰǼ: i due interpretamenta devono dirsi ‘tradizionali’; eppure il parallelo non è privo di interesse, perché Hsch. Ǩ 380 L., espunto come doppione di Ǩ381 L., potrebbe invece essere emendato in ͚ǧǟǪƽ ͞ǯǤǫǨǰ. ll’origine delle tre glosse con ogni probabilità c’era una struttura complessa, con tre forme diverse (͚ǧǟǪ ͚ǧǟǪǰ ͚ǧǟǪǵ) dello stesso verbo spiegate con voci di ǯǤǰǫǟǰǼ, ǦǬǦǰȁǶǭǼDZǸǰǢǪǯǬǰDzǠǼ 5. Alcune situazioni sono particolarmente complesse. In Aesch. Ag. 245-7 ͋Ǧǰϫ ǧХ͊ǷǤȀǴǼǷDzǵǤΒǧϫdzǤǷǴβǵ/ ǹǢǮDzǸǷǴǬǷǿǶdzDzǰǧDzǰǨΖdzDzǷǯDzǰ/ dzǤǬЛǰǤǹǢǮǼǵ ͚ǷǢǯǤ l’aggettivo ͊ǷǤȀǴǼǷDzǵ è funzionale alla rappresentazione della vergine Ifigenia che viene barbaramente sacrificata dal padre e dai capi achei. Lo schol. M offre semplicemente ͊ǷǤȀǴǼǷDzǵƽ ͎ǩǨǸǭǷDzǵ dzǤǴǫǨǰǬǭǡ, mentre il tricliniano, che reca ͊ǷǤȀǴǼǷDzǵƽǯΰǶǸǰǨǩǨǸǦǯǠǰǪǷǤȀǴЙͨ͊ǰǧǴǢΟǵǧǟǯǤǮǬǵΟǵǯǿǶǺDzǵ, spiega l’aggettivo come composto da Ǥ privativo + ǷǤАǴDzǵ ‘toro’; K. Latte, inoltre, considera glossa eschilea Hsch. Ǥ 8031 ͊ǷǤȀǴǼǷDzǵƽ͎ǩǸǦDzǵǭǤαdzǤǴǫǠǰDzǵ dzǤǴХ΋ǶDzǰ͚ǩǨАǺǫǤǬǦǟǯDzǬǵǤͷǦǪǯǟǯǨǰǤǬǮǠǦDzǰǷǤǬ In realtà, per avere un quadro esatto della situazione, si deve tener presente anche un luogo aristofaneo (Lys. 217: ͊ǷǤǸǴȁǷǪǧǬǟDZǼǷβǰǥǢDzǰ), in cui, come ha ben visto Totaro 1996, 416-7, è innegabile una valenza paratragica: lo schol. ad l. presenta una spiegazione etimologica, ma diversa rispetto a quella dello scolio tricliniano, perché basata sull’uso di chiamare ǷǤАǴDzǵ l’organo sessuale maschile (͊ǷǤǸǴȁǷǪǧǬǟDZǼƽDzͽDzǰ͋ ǦǰΰǭǤα͎ǯǬǭǷDzǵǷǤАǴDzǰǦήǴǷβǤͶǧDzЃDzǰǮǠǦDzǸǶǬǰ͎ǩǨǸǭǷDzǵǦǟǯDzǸǭǤα͊ǩǸ Ǧǡǵ ǭǤαǥDzЛdzǬǵͧРNjǴǤǭǤαNJǸǦǢǤ ǭǤαLJǤǯǪǮǢǤ͚dzǨαDzͷǷǤАǴDzǬ ǭǤǷǼǹǨǴǨЃǵ). Questa stessa derivazione, inserita in una puntuale descrizione anatomica, si trova in Poll. 2.173-4 ǷβǧίЏǤǹϹǯίǰdzǴDzǶǨDzǬǭǿǵΓdzβǧίǷβǰǭǤǸǮβǰǧǬήǷDzАΆǶǺǠ DzǸ ǯǠǶDzǸ Γdzβ Ƿβǰ ΆǰDzǯǤǩǿǯǨǰDzǰ ǷǤАǴDzǰ ͊ǹХ DzΙ ǭǤα ͊ǷǤȀǴǼǷDzǵ dzǤǴή ǷDzЃǵ ǷǴǤǦЙǧDzЃǵͧdzǤǴǫǠǰDzǵǨͶǵǷβǰǧǤǭǷȀǮǬDzǰǭǤǷǤǮϸǦDzǰdzǨǴǢǰǨDzǵΆǰDzǯǟǩǨǷǤǬͨ ǷǴǟǯǬǵͨΊǴǴDzǵǷЛǰǧίΊǴǺǨǼǰǷβǯίǰ͎ǰǼǭǨǹǤǮǡǷβǧίǭǟǷǼdzǸǫǯǡǰƽǷβǧί dzϪǰǷDzАǷDzǤͶǧDzЃǤΣǶdzǨǴǭǤαǷήǦǸǰǤǬǭЛǰ, dove si ha un richiamo ai poeti tragici, che probabilmente sostituisce – con una generica banalizzazione – la citazione del famoso passo eschileo. Da tutto ciò trarrei queste deduzioni: a) lo schol. M 256

ha un’indubbia parentela con la glossa esichiana, anche se non c’è una puntuale identità tra i due testi. Che in effetti la glossa esichiana rispecchi il passo eschileo è confermato dalla massiccia e costante presenza di termini difficili della parodo dell’Agamennone nei lemmi di questo lessico, circostanza che rende molto probabile che in Esichio confluiscano – attraverso Diogeniano – materiali di un commentario all’Agamennone; b) si deve supporre l’esistenza di un testo erudito che analizzava il termine, lo interpretava alla luce dell’uso di ǷǤАǴDzǵ come una metafora sessuale e citava sia il passo aristofaneo, sia quello eschileo. Questo fu recepito sia negli scolî alla Lisistrata sia nell’Onomastico di Polluce: non abbiamo tuttavia elementi per affermare né che questo primariamente commentasse il luogo aristofaneo, rilevandone l’uso paratragico, né che rientrasse nel commentario, di cui ho sopra ipotizzato l’esistenza, all’Agamennone. Il passo di Polluce farebbe piuttosto sospettare che si trattasse di un testo di tipo medico. c) lo scolio tricliniano parte dalla spiegazione-base del termine come ‘vergine’, per percorrere poi una strada che non trova paralleli. Si deve d’altro canto tener presente che spesso abbiamo anche negli scolî quell’adeguamento sinonimico di strutture complesse che è frequente nella lessicografia10. Ad Aesch. Ag. 200 ǥǴǬǫȀǷǨǴDzǰ dzǴǿǯDzǬǶǬǰ / ǯǟǰǷǬǵ ͞ǭǮǤǦDZǨǰ, ad es., lo scolio tricliniano offre dzǴǿǯDzǬǶǬǰƽǷDzЃǵdzǴDzǯǟǺDzǬǵǷDzЃǵǥǤǶǬǮǨАǶǬǰ I due interpretamenta sono tra loro radicalmente differenti, perché il primo intende il lemma come ‘coloro che combattono in prima linea’, il secondo come ‘i re’: alla base di questa duplice spiegazione sta l’esegesi omerica, come mostrano vari scolî A all’Iliade11: ad 3.44 dzǴǿǯDzǰƽ΋ǷǬǭǤǷήǶǸǦǭDzdzΰǰǷβǰdzǴǿǯǤǺDzǰǨͺǴǪǭǨǰDzΒǺΟǵ Dzͷ LJǮǼǶǶDzǦǴǟǹDzǬ Ƿβǰ ǥǤǶǬǮǠǤ, ad 7.75 ǭǤα ΋ǷǬ dzǴǿǯDzǰ Ƿβǰ dzǴǿǯǤǺDzǰ ǭǤǷή ǶǸǦǭDzdzǡǰ, ad 7.116 dzǴǿǯDzǰƽ΋ǷǬdzǴǿǯDzǰǷβǰdzǴǿǯǤǺDzǰǭDzǬǰЛǵǮǠǦǨǬ, ad 7.136 dzǴǿǯDzǵƽ΋ǷǬ͊ǰǷαǷDzАdzǴǿǯǤǺDzǵǭDzǬǰЛǵ, ad 15.293 dzǴǿǯDzǵǶǤǹЛǵ·dzǴǿǯǤǺDzǵ, ad 22.85 dzǴǿǯDzǵͻǶǷǤǶDzǷDzȀǷЙƽ΋ǷǬǶǤǹЛǵdzǴǿǯDzǵ·dzǴǿǯǤǺDzǵDzΒǺ·ǥǤǶǬ ǮǨȀǵ12. Siamo di fronte a una struttura tipica dell’esegesi aristarchea, il quale sostiene la propria interpretazione, derivata da un’analisi interna del testo omerico (secondo il metodo dell’ЉǓǯǪǴDzǰƢǓǯǡǴЙǶǤǹǪǰǢǩǨǬǰ13) contro a quella dei pre-

10

Altri esempi in Tosi 1988, 68-9. Tale adeguamento è abituale per le strutture sinonimico-differenziatrici (cf. Bossi-Tosi 15). 11 Si tratta delle annotazioni del Venetus A, in cui confluiscono elementi dei commenti di Didimo, Aristonico, Nicanore ed Erodiano (cf. Erbse 1969, XIII-XV). I nostri scolî sono senz’ombra di dubbio, di Aristonico, quindi, in ultima analisi, aristarchei. 12 Una confusione è già attestata in Apollon. 135.22 M. dzǴǿǯDzǵ·ǥǤǶǬǮǨȀǵ΋͚ǶǷǬdzǴǿǯǤǺDzǵ. Si veda inoltre Hsch. dz 3585 H. dzǴǿǯDzǬǵƽ dzǴDzǯǟǺDzǬǵ dzǴDzǤǦǼǰǬǶǷǤЃǵ dzǴDzǶǷǟǷǤǬǵ dzǴDzǪǦDzǸǯǠ ǰDzǬǵ, per il quale Hansen cita Heraclid. Lemb. FHG 3.169 fr. 5, testimoniato da Ath. 3.98 E, dove si ha il dativo plurale dzǴǿǯDzǬǵ col valore di ‘maggiorenti’. Gli Etimologici istituiscono invece una derivazione didzǴǿǯDzǵ da dzǴǿǯǤǺDzǵ (cf. EM 689.43-4 G.). 13 Questo criterio è da Timpanaro 1981, 27 n. 26 considerato giustamente la prima formulazione dell’usus scribendi; che anche l’espressione sia autenticamente aristarchea è stato dimostrato da Montanari 1997, 285-6.

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cedenti commentatori (i cosiddetti ‘glossografi’14), che si basavano o sul microtesto o su elucubrazioni pseudo-etimologiche, o estendevano ad Omero le valenze che i termini avevano assunto più tardi, soprattutto nella tragedia: nel nostro caso è evidente che i ‘glossografi’ avevano spiegato dzǴǿǯDzǵ come ǥǤǶǬǮǨȀǵ, alla luce di luoghi come il v. 200 dell’Agamennone, e che Aristarco aveva, alla luce dell’analisi interna ad Omero, affermato che in tale autore, invece, il valore era quello di dzǴǿǯǤǺDzǵ. Il nostro scolio riprende questa tradizione, ma si è persa l’originaria struttura, e quelli che erano interpretamenta posti su piani diversi sono stati trasformati in semplici sinonimi. Se tale adeguamento sia dovuto a Triclinio o alla precedente tradizione (come mi sembra probabile) non è dato sapere con certezza. 6. Un elemento di sicura importanza è il rapporto fra scolî e variae lectiones. Non si deve infatti dimenticare da una parte che non è infrequente che uno scolio attesti una varia lectio e dall’altra che le spiegazioni tendono a inserirsi nel testo come ‘intrusive glosses’. Le due possibilità vanno sempre tenute presenti: l’indagine sui manoscritti (ad es. quella recentemente condotta da Emanuela Parenza sul Neap. II F 34 di Sofocle15) evidenzia come più mani, diverse rispetto a quella del testo, intervengano per scrivere gli scolî e che alcune inseriscono come scolî termini che sono variae lectiones in altre tradizioni. In casi del genere non si può non rimanere perplessi: era primario lo scolio che ha dato origine a un intrusive gloss o lo scoliasta, vedendo la variante, l’ha indicata come se fosse un semplice interpretamentum? Astrattamente, questa seconda alternativa parrebbe macchinosa ed improbabile, ma analisi come quella che ho sopra richiamato ne avvalorano la possibilità. Non mancano poi scolî che ci tramandano varie lectiones antiquae. È il caso di Aesch. Ag. 87, nel quale la tradizione diretta offre dzǨǬǫDzЃ dzǨǴǢdzǨǯdzǷǤ ǫǸDzǶǭǬ ǰǨЃǵ, Turnebus corresse l’impossibile verbo in ǫǸDzǶǭǨЃǵ, emendamento che – a quanto mi risulta – è universalmente accolto (anche se Fraenkel 1962² II 53 avverte: «it is impossible to be absolutely certain»); lo scolio (ǨΗǴǪǷǤǬǭǤαǫǸDzǶǭDz ǨЃǵΟǵ͊dzβǷDzАǫǸDzǶǭǿDzǵ·ǧǬήǫǸǶǬЛǰǷβǯǠǮǮDzǰǭDzЛǰͪǷDzǬǰDzЛǰǫȀDzǵǦήǴ ǷβǫАǯǤ) attesta la variante antica ǫǸDzǶǭDzǨЃǵ, mentre Esichio – che, come si è visto, probabilmente rispecchia un commentario antico alla nostra tragedia – conforta l’ipotesi di Turnebus, in ǫ 917 L. ǫǸDzǶǭǨЃǰƽͷǨǴDzЃǵdzǤǴǠǩǨǶǫǤǬͨǫǨDzЃǵ (una glossa in realtà problematica16), mentre offre un’ulteriore variante in ǫ 303 L. ǫǨDzǶǭǰǨЃƽ ǫǨDzγǵ ǷǬǯϫ (sempre che ǫǨDzǶǭǰǨЃ non sia semplicemente una corruzione per ǫǸDzǶǭǬǰǨЃ). Alla luce di tutto questo si può dedurre: a) che scoliografia e lessicografia mostrano che già nell’antichità il testo era instabile; b) a rigor di termini, l’emendamento di Turnebus – a tutt’oggi la soluzione più probabile – 14

Questa denominazione non identifica a mio avviso una particolare scuola di esegeti, ma genericamente i predecessori di Aristarco (cf. in particolare Dyck 1987, nonché Tosi 1997, 239). 15 In Ricerche sull’Aiace di Sofocle nel cod. Neap. II F 34, Diss. Bologna 2010/2011. 16 Il Marciano offre dzǤǴǠǺǨǶǫǤǬ: Blomfield propose ͷǨǴήdzǤǴǠǺǨǶǫǤǬǷDzЃǵǫǨDzЃǵ, la correzione accolta da Latte è opera di R. Förster, Jb.f.kl.Phil. 133 (1886) 712. Per un’analisi di questo interpretamentum rinvio a Tosi 1986-87, 12-3.

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non è una correzione, perché poggia su una varia lectio antiqua; c) già gli antichi commentatori legavano il verbo all’azione del ǫǸDzǶǭǿDzǵ, il che ci permette di comprendere con più precisione il testo. Il ǫǸDzǶǭǿDzǵ originariamente, infatti, non era semplicemente un sacerdote, ma colui che cercava di trarre omina dal fumo dei sacrifici17: il poeta, con questo verbo, ‘crea’ dunque l’immagine di Clitemestra che scruta, con un’ansia che per il Coro risulta incomprensibile, il fumo dei sacrifici per trarre auspici per la sua impresa futura18. 7. Gli scolî, talora, tramandano varianti anche nei passi che citano, per i quali costituiscono tradizione indiretta. Un problema riguarda il comportamento che deve tenere il loro editore quando tali variae lectiones sono palesemente erronee: il funzionalismo, propugnato da B. Marzullo, partiva dalla magmaticità del tutto per affermare che quando un testo citato riporta errori bisogna correggerli, prescindendo dal livello di corruzione della testimonianza. Ciò, però, comporta un duplice rischio: quello di ritornare alla concezione, ormai definitivamente superata, di lessicografia e scoliografia come palestre di congetture, e quello di fornire edizioni degli scolî astoriche ed inattendibili per gli editori dei testi classici. I miei studi sulla scoliografia (Tosi 1988, 64-84) vanno nella direzione della necessità di un’analisi che stabilisca il livello in cui si è verificata la corruzione, e a favore di questa pur ardua operazione si è recentemente espresso anche Valente 201019. Il problema è comunque spinoso e spesso non di facile soluzione: concludendo questo mio contributo, fornirò alcuni esempi. In schol. Aesch. Suppl. 134-5 ǮǬǰDzǴǴǤ ǹΰǵǧǿǯDzǵǧDzǴǿǵƽͧǰǤАǵdzǤǴǿǶDzǰǷǴǸdzЛǰǷǨǵǷήǵǰǤАǵǶdzǟǴǷDzǬǵǤΒǷήǵǶǸǰ ǠǴǴǤdzǷDzǰǭǤαǷβdzǤǴХРǓǯǡǴЙ (Od. 14.383) «ǰϸǤǵ͊ǭǨǬǿǯǨǰDzǰ» (͊ǭǨǬǟǯǨǰDzǰ cod.) ǷβǶǸǴǴǟdzǷDzǰǷǤǧǪǮDzЃ΋ǫǨǰǭǤα͊ǭǨǶǷǴǢǤǵǷήǵЏǤdzǷǴǢǤǵǹǤǶǢǰ, ad es., ͊ǭǨǬǟǯǨǰDzǰ è una vox nihili, non reperibile altrove, probabilmente dovuta alla trasmissione dello scolio: Smith giustamente corregge, fornendo ogni ragguaglio in apparato. In schol. Aesch. Suppl. 489, invece, si legge ǷDzЃǵͫǶǶDzǶǬǰ[...]ǹǠǴǨǬƽ ΟǵǭǤα«dzǴβǵǷβǰ>ǨΘ@͞ǺDzǰǫХ·ǹǫǿǰDzǵ͟ǴdzǨǬ», cioè una citazione di Soph. Ai. 157 dzǴβǵǦήǴǷβǰ͞ǺDzǰǫХ·ǹǫǿǰDzǵ͟ǴdzǨǬ, con l’aggiunta di un ametrico ǨΘ, che è frutto di una banalizzazione, e probabilmente dell’inserimento nel testo di un elemento esegetico, che finisce col sostituire chi genericamente sta bene a chi, come nel passo sofocleo, ha potenza e ricchezza. Ovviamente, non sappiamo a che stadio della tradizione quasta operazione sia avvenuta: Smith adotta l’espunzione di Heath e Davies, e non si può escludere che l’ǨΘsi sia inserito durante la storia Una valenza banalizzata del termine è attestata già in Eur. Ba. 224, cf. anche Suda ǫ591 A. La teoria per cui in questo momento Clitemestra sarebbe presente sulla scena, comune fra gli studiosi del XIX secolo e nel XX ripresa da Murray, Denniston-Page, Petrounias e Pool, si rivela inconsistente dal punto di vista teatrale (alla fine della parodo Clitemestra fa il suo ingresso regale sulla scena, cf. vv. 255-63) ed è stata demolita da Eduard Fraenkel e soprattutto da Vetta 1976 e Taplin 1977, 278-85. 19 Diversamente, Merro 2011, pur avvertendo questa necessità, è propensa a correggere conformemente al senso del testo citato (esemplare è il caso del ǮАǶDzǰǥǮǠǹǤǴDzǰ di schol. Eur. Rh. 8), sostanzialmente seguendo i dettami del funzionalismo marzulliano. 17 18

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dello scolio (che cita il passo sofocleo come un parallelo tematico di quello delle Supplici, dove si dice che si nutre benevolenza verso chi è inferiore), ma, se il commentatore di Eschilo attinse il passo di Sofocle da un’antologia o da uno gnomologio è probabile che la variazione fosse già presente (casi del genere, ad es., sono abituali in Stobeo e nei Monostici di Menandro). Mi limiterei, dunque, a segnalare l’errore in apparato. Infine schol. Aesch. Suppl. 1070 ǷβǧǢǯDzǬǴDzǰǤͶǰЛƽ ͧǧǠǼǵ ͞ǺǼ Ƿβ ǧǢǯDzǬǴDzǰ ǷЛǰ ǭǤǭЛǰ Ƕγǰ ͛ǰα ͊ǦǤǫМ ΋ ͚ǶǷǬ ǷϹ ͊dzǤǮǮǤǦϹ ǷDzА ǦǟǯDzǸǔǢǰǧǤǴDzǵƽ «͝ǰdzǤǴХ͚ǶǫǮβǰǶȀǰǧǸDzǧǤǢDzǰǷǤǬdzǡǯǤǷǤǥǴDzǷDzЃǵ͊ǫǟǰǤ ǷDzǬ» rispetto a Pind. Pyth. 81-2 ͝ǰdzǤǴХ͚ǶǮβǰdzǡǯǤǷǤǶȀǰǧǸDzǧǤǢDzǰǷǤǬǥǴDzǷDzЃǵ ͊ǫǟǰǤǷDzǬ presenta una trasposizione: anche questo è un caso dubbio, in cui non si hanno indizi sicuri, e a mio avviso è giusto non intervenire sul testo, come del resto fa anche Smith; non condivido però la sua scelta di non segnalare il fenomeno in apparato. In buona sostanza, il criterio più logico, prudente e fruttuoso quando c’è il margine di un ragionevole dubbio (cioè nella grande maggioranza dei casi) consiste nel rispettare il testo tràdito, fornendo però in apparato tutte le informazioni necessarie sia agli studiosi degli scolî sia a quelli dei testi citati: a tale criterio si dovrà contravvenire solo quando è evidente che la corruzione è avvenuta durante la trasmissione degli scolî ed è chiaro quale era il testo prima della corruttela20. In questo contributo ho inteso attirare l’attenzione su alcuni dei numerosi problemi insiti nello studio e nell’edizione degli scolî, convinto che ora non sia possibile fare filologia senza fare anche storia della filologia e che quindi sia comunque importante occuparsi di quelli che per noi sono gli scarni residui della ricezione dei classici nella cultura antica e bizantina. Bologna

Renzo Tosi

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Alberti 1972 G.B. Alberti, Thucydidis Historiae, I, Romae 1972. Alberti 1979 G.B. Alberti, Problemi di critica testuale, Firenze 1979.

20 Un problema editoriale riguarda l’uso delle cruces: a rigor di termini esse dovrebbero essere impiegate solo quando abbiamo a che fare con una corruttela dovuta alla tradizione scoliastica, ma non riusciamo a capire quale testo fosse da essa originariamente recepito. Ultimamente, tuttavia, nelle edizioni di lessici e di scolî è invalso – dopo l’edizione dello Pseudo-Ammonio di Nickau – un uso estensivo della crux, ad indicare anche gli errori precedenti alla stesura del testo pubblicato: ciò comporta varie ambiguità, già messe in luce da Degani 1984. Gli studiosi di lessicografia dovrebbero quindi individuare un nuovo sistema di annotazioni critiche (in questa direzione si sta ora in particolare muovendo S. Valente).

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ABSTRACT A new edition of Aeschylus’ scholia is required, but this task is very difficult. In fact, scholars do not accept any more the postulate that codices recentiores transmit only the most recent scholia, and it is obvious that it is quite impossible to draw a stemma codicum. Furthermore, the relations beetween scholia and lexica are very complex: the common idea of ‘lexicographic scholia’ must be replaced by that of ‘traditional glos’. Moreover, scholia present many variae lectiones and it is still under debate what should be the most appropriate editorial approach. KEYWORDS: Greek Literature - Aeschylus - scholiography - lexicography - textual criticism

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SIGLA DEI CODICI ESCHILEI CITATI1 A B Ba Bc Bd C Ca D Lj E F Fb Fc Fd G Ga H Ha I Ia J Ja K L La Lb Lc Ld Le Lf Lh Li M Ma Mb

Ambros. gr. C 222 inf. (886), saec. XIII (ca. 1270) Laur. 31.3 + 86.3, ann. 1287 Vat. Ottob. gr. 210, saec. XV Vat. gr. 1459, saec. XV/XVI Par. gr. 2790, saec. XVI Par. gr. 2785, saec. XIV med. Laur. 32.21, saec. XVI Ambros. gr. G 56 sup. (399), saec. XIV in. Mosqu. gr. 508, saec. XV Salmantic. Bibl. Univ. 233, saec. XV (ca. 1450-70) Laur. 31.8, saec. XIV (ca. 1335-48) Vat. gr. 1824, saec. XIV (ca. 1315) Ambros. gr. I 47 sup. (459), saec. XIV Laur. 91 sup. 5, saec. XIV Marc. gr. 616 (663), saec. XIV (ca. 1321) Vat. Palat. gr. 287, saec. XIV (ca. 1310-20) Heidelberg. Palat. gr. 18, saec. XIII (ca. 1270) Matrit. gr. 4617, saec. XIV (ca. 1335) Athon. ХǍǥǡǴǼǰ 209 (olim 161), saec. XIII/XIV Neap. II.F.32, saec. XV Vat. gr. 2248, saec. XVI Vat. Palat. gr. 344, saec. XVI Laur. conv. suppr. 11, saec. XIV (ca. 1330-40) Laur. 32.2, saec. XIV (ca. 1310) Par. gr. 2786, saec. XIV med. Rom. Vallicell. B 70, saec. XIV (ca. 1320) Cantabr. Bibl. Univ. Nn III 17 A, saec. XIV (ca. 1320) Vat. gr. 920, saec. XV Neap. II.F.28, saec. XV Laur. 31.1, saec. XV Cantabr. Bibl. Univ. Nn III 17 B, saec. XIV Vat. Ottob. gr. 185, saec. XV Laur. 32.9, saec. X Laur. S. Marco 222, saec. XIV in. Bonon. Bibl. Univ. 2271, saec. XV

1

L’elenco attinge ad A. Turyn, The Manuscript Tradition of the Tragedies of Aeschylus, New York 1943 passim, migliorato, nella datazione più puntuale di varî rilevanti codici, dalla teubneriana di West, Stutgardiae et Lipsiae 1998² (1990) LXXXI ss. Unica novità introdotta è il siglum Ia, che s’è proposto di adottare per il Neap. II.F.32, codice finora inesplorato e quasi senz’altro apografo di I (cf. supra p. 213 n. 23). S’avverte inoltre che nel volume sono stati scritti in grassetto i soli sigla dei codici eschilei.

263

N Nb Nc Nd ǒD O Oa P Pd Q R Ra Rb Rc Rd S Sa Sb Sc Sd Se Sf Sg Sh Si Sj Sk Sn T U Ua Ub V W  Xc Y Ya Z Za Zc Zd Ze Zi 264

Matrit. gr. 4677, saec. XIII (ca. 1290) Rom. Vallicell. B 70, saec. XIV (ca. 1320) Laur. 28.25, saec. XIII ex. Laur. 31.38, saec. XIV (ca. 1330-40) Par. suppl. gr. 110, saec. XIV (ca. 1340) Lugd. Bat. Voss. gr. Q4A, saec. XIII ex. Oxon. Bibl. Bodl. Auct. T.6.5, saec. XVI Par. gr. 2787, saec. XIV in. Par. gr. 2789, saec. XV Par. gr. 2884, ann. 1301 Vat. gr. 57, saec. XIV (ca. 1330) Oxon. Bibl. Bodl. Selden Supra 18, saec. XV Vat. gr. 2222, saec. XIV inc. Laur. conv. suppr. 7, anno 1344 Ambros. gr. +18 sup., saec. XV Marc. gr. XI 7 (1340), saec. XV Perus. Bibl. Aug. H 56, saec. XV Oxon. Bibl. Bodl. Canon. gr. 40, saec. XV Par. gr. Coislin 353, saec. XV Par. gr. 2788, saec. XV Vat. Barber. gr. 135, saec. XVI Vat. gr. 1826, saec. XVI Vat. gr. 1360, saec. XV/XVI Lugd. Bat. Bibl. Publ. gr. 51, saec. XV Par. gr. 2886, saec. XVI (ca. 1518-21) Vat. gr. 58, saec. XV Vat. Palat. gr. 139, saec. XVI in. Vat. gr. 912, saec. XVI Neap. II.F.31, saec. XIV (ca. 1325) Lips. Rep. I.4.43, saec. XV Vat. Regin. gr. 155, saec. XV Monac. gr. 486, saec. XVI Marc. gr. 468 (653), saec. XIII (ca. 1270) Vat. gr. 1332, saec. XIII (ca. 1290) Laur. 31.2, saec. XIII ex. Laur. conv. suppr. 98, ann. 1372 Lugd. Bat. Voss. gr. Q6, saec. XIV in. Vindob. phil. gr. 197, ann. 1413 Athen. ХljǫǰdžǬǥǮ1056, saec. XV Athon. džǤǷDzdzǨǧǢDzǸ33, saec. XVI Taurin. gr. B.VI.33, saec. XVI Ambros. gr. C 11 sup., saec. XVI Vindob. hist. gr. 122, saec. XVI Vindob. phil. gr. 235, saec. XV

Zj

Mosqu. Khludov A 173, saec. XVI ALTRI SIGLA INTRODOTTI DA WEST2 E CITATI NEL VOLUME

 ǥ ǧ ǭ Ǯ ǯ Ǚ

H B, accedunt interdum Nc X Rc C et in posteriore parte triadis Lj A W D, accedunt interdum ǒa La Q K, accedunt saepe Lc R Ha L La (Prom. Sept.) Lb (Sept. Pers.) Ga G commentarius paraphrasticus in triadem, saec. fere XII

Si riporta di séguito quanto scrive West nel suo Index (pp. LXXXIII-IV); al gruppo Ǯ si potrebbero aggiungere varî altri testimoni.

2

265

INDICE DEI LUOGHI NOTEVOLI Aeschylus

Euripides

Pers. 1-139: 15-21; 96: 42; 481: 237; 548-56: 31; 549: 31-42; 558: 37; 558-66: 31; 559: 31-42; 563: 39-40; 763: 33; 787: 149-52; 834: 47-55; 850: 49-55; 914: 53; Sept. 35-68: 216; 69-77: 72; 329-30: 40; 1004: 63-5; 1005-78: 61-74; 1009: 65-7; 1035-6: 67; 1037-40: 67-9; Suppl. 6: 53; 354-5: 80-4; 359-64: 84-7; 386: 87-9; 389: 89-90; 405-6: 90-3; 442: 152-5; 524-99: 116; 630-709: 97106, 108-11; 966-79: 113-5; 979: 117; 1018-33: 117-9; 1034-51: 113, 115-6; 1043-51: 118-9; 1052-61: 119-20; 1062-73: 120; Ag. 11: 1678; 87: 258-9; 102: 168; 200: 257-8; 245: 256; 262: 168-9; 266: 169; 276: 125-31; 355-487: 97, 101-2, 104, 111; 505: 170; 679: 170-1; 817: 171; 900: 172; 956: 156-9; 994: 172-3; 999: 173-4; 1044: 174; 1117: 13643; 1128: 136-43; 1143: 136-43; 1153: 136-43; 1434: 175; 1668: 1756; Ch. 87: 177; 194: 177; 236: 178; 317: 33; 334: 33; 539: 179; 699: 180; 776: 180; Eum. 490: 15961; PV 2: 79, 185-98; 20: 186-7; 90: 213; 108: 216; 138: 213; 141: 212; 159: 214; 163: 211; 172-3: 215; 187: 213; 219: 212; 235: 212; 236: 212; 242: 212, 215; 246: 212; 267: 187; 268: 212; 269: 216; 279: 212; 401: 215; 438: 212-3; 538: 213; 549-50: 216; 585: 212; 629: 213; 772: 212; 803: 198-204; 838: 216; 853: 212; 1071: 215; fr. 25 R.: 227-8; 36: 2225; 37: 225; 38: 225-6; 39: 226; 78a 1-22: 233-9; 78c 39-58: 239-45; 258: 220-1; 259: 221-2; 260: 222

Ba. 978: 139; 998: 139; Her. 504: 24; HF 348-450: 98, 101-2, 104-6, 111-2; Hipp. 341: 23; IT 643-56: 13; Rh. 54: 24-6; 126: 24-6; fr. 50 K.: 24

Aristophanes

1.134.4: 254

Hesychius Ǥ 8031 L.: 256-7;  380-1: 256; 694: 256;  917: 258-9;  3976 H.: 254 Homerus Il. 13.41: 202-3; 14.78: 190-1; Od. 23.233-40: 172 Lucianus Prom. 1: 190; 11: 198 Plato Lg. 644 C-D: 165-6; Phdr. 252 B: 34 Pollux 2.173-4: 256-7 Scholia in Aeschylum Suppl. 134-5: 259; 489: 259-60; 1070: 260; Ag. 200: 257-8; 245: 256-7; 536: 256; 276: 125-9 Scholia in Aristophanem Lys. 217: 256-7 Scholia in Homerum Od. 17.57: 125, 129 Scholia in Thucydidem

Thesm. 120: 33

267

Sophocles Ai. 247: 25, 27; 350: 138; 358: 13840, 140; El. 867: 54; 1152: 139-40; 1160: 139; OC 1720-1: 152; Phil. 2: 188-9; fr. 265 c 20 R.: 192-4

268

INDICE DEI NOMI MODERNI Abresch, F.L.: 36, 42, 160, 162 Ahrens, E.A.I.: 160, 162 Ahrens, H.L.: 128, 131, 161, 167 Alberti, G.B.: 252, 260 Alberti, J.: 237 Alexiou, M.: 101, 106 Allen, T.W.: 149, 162 Amarante, F.: 222, 228 Amendola, S.: 6, 27 Andreatta, L.: 139, 143 Angioni, C.: 152, 161 Arrigoni, G.: 238, 245 Arsenio di M.: 216 Askew, A.: 67, 212 Asola, F. da: 47, 49, 55, 88, 137, 143, 197, 214-7 Asulanus : v. Asola, F. da Auratus: v. Dorat Austin, C.: 225, 230 Bamberger, F.: 80-2, 93, 102, 106, 108 Barigazzi, A.: 239-42, 246 Barrett, W.S.: 137, 139, 143, 156-7, 162 Basta Donzelli, G.: 140, 234, 246 Battezzato, L.: 177-180, 182 Bekker, I.: 221, 228, 251 Belloni, L.: 16, 20-1, 35, 37, 39-42, 535 Bentley, R.: 244 Bergk, T.: 52, 108 Bieber, M.: 238-9, 246 Blass, F.W.:138, 159, 162 Blaydes, F.H.M.: 41, 179 Bloch, E.: 166 Blomfield, Ch.J.: 24-5, 27, 31-2, 41-2, 48-50, 55, 69, 74, 136, 139, 141-4, 147, 158, 162, 172, 201, 204, 258 Blume, H.-D.: 239, 246 Boeckh, A.: 135 Boissonade, J.F.: 48-9, 55, 137, 144 Bond, G.W.: 98, 100, 102, 106, 144 Bordaux, L.: 38, 42 Bordigoni, C.: 83, 93 Bossi, F.: 257, 261

Bothe, F.H.: 24, 28, 39, 41-2, 47-8, 55, 108, 136-7, 142, 144, 147, 172, 185, 201, 204 Bourdelot, J.: 87 Braun, M.: 160, 162 Broadhead, H.D.: 32, 37, 39-43, 48, 50, 54-5, 150-1, 162, 220, 228 Brown, A.L.: 64, 66, 70, 74 Brunck, R.F.P.: 31-2, 34, 43 Buffière, F.: 51, 55 Burges, G.: 47, 50, 54, 84, 88, 93, 108 Burzacchini, G.: 228 Butler, S.: 24, 28, 108, 137, 144, 159, 162 Buttmann, P.: 190, 204 Buxton, R.: 188, 204 Candio, A.: 6, 131 Cantarella, R.: 167, 181, 225, 229, 2345, 239-40, 244, 246 Canter, W.: 47-8, 54-5, 86, 88, 108, 143, 196 Carden, R.: 193, 204 Casaubon, I.: 150, 243 Centanni, M.: 226, 229 Cerbo, E.: 97-8, 107 Cerri, G.: 79, 93, 204 Chantraine, P.: 165, 181, 202-4 Chantry, M.: 223, 229, 244, 246 Cipolla, P.: 7, 245 Citti, V.: 5-7, 9, 51, 53, 55, 74, 79, 824, 93, 108, 142, 144, 152, 155, 171, 176, 181, 185, 262 Cobet, C.G.: 225 Collard, C.: 150, 162 Conomis, N.C.: 137-41, 144 Conrad, G.: 234, 245-6 Conradt, C.: 50-1, 57 Daehn, J.: 52 Dähnhardt, O.: 255, 261 Dain, A.: 138 Dale, A.M.: 31, 33, 40-1, 43, 108, 1434

269

Davidson, D.: 158, 162 Davies, J.F.: 191, 259 Dawe, R.D.: 23, 28, 32-3, 43, 68, 74, 85, 138, 144, 210-3, 217 de Finis, L.: 7, 79 De Romilly, J.: 48, 50, 55 Debiasi, A.: 222, 229 Deforge, B.: 51, 55 Degani, E.: 228-9, 260-1 Deichgräber, K.: 220-1, 229 Denniston, J.D.: 23, 28, 37-8, 41, 43, 128, 131, 144, 259 Dettori, E.: 198 Di Benedetto, V.: 19, 22, 142, 144, 1623, 167-75, 177-80, 181-2 Di Donato, R.: 6, 21 Di Marco, M.: 233-5, 237, 241-2, 246 Diggle, J.: 24, 26, 28, 33, 41, 43, 137, 140, 144, 193, 204 Dindorf, W.: 26, 28, 48-52, 55-6, 142, 189, 201, 203, 251, 255, 261 do Céu Fialho, M.: 71, 75 Dodds, E.D.: 139, 144, 234 Doederlein, L.: 38 Dorat, J.: 51 Dover, K.J.: 7, 56, 145, 159-60, 162, 164 Dübner, F.: 22, 223, 229 Durante, M.: 126, 131 Dyck, A.R.: 258, 261 Eckermann, J.O.: 12 Elmsley, P.: 6, 24-9, 33, 41, 135 Enger, R.: 38, 142, 145 Erbse, H.: 67, 75, 251, 257, 261 Erfurdt, A.: 52 Ernesti, I.C.T.: 150, 162 Estienne, H.: 24-6, 29, 31-2, 58, 221, 232 Fajen, F.: 226, 229 Fileni, M.G.: 137-8, 144 Fleming, J.: 32, 34, 43 Flintoff, E.: 220, 229 Fogelmark, S.: 82 Förster, R.: 258

270

Fraenkel, E.: 27-8, 38, 43, 65-6, 70, 75, 128, 131, 137, 141, 143-4, 156, 163, 167-8, 170, 175, 177, 182, 220, 229, 234-5, 240, 243, 258-9, 261 Francken, C.M.: 66 Franz, J.: 61 Friis Johansen, H.: 32, 34-8, 43, 80-2, 84-93, 98, 102-3, 107, 118, 122, 1389, 144, 152-5, 163 Frisk, H.: 165, 182, 245 Fritsch, C.-E.: 193, 205 Fusaro, D.: 166 Gadamer, G.: 13 Galistu, A.M.: 213, 217 Gallo, I.: 29, 239, 246 Ganz, Th.: 219, 229 García Romero, F.: 225 Gargiulo, T.: 189, 205 Garriga, C.: 6, 161, 185 Garvie, A.F.: 15-6, 18, 21-6, 28, 31, 334, 37-43, 48-51, 53, 56, 98, 115, 122, 138, 144, 151, 156, 163, 177, 182, 219-20, 229 Garzya, A.: 42-3, 52, 107, 253, 261 Gemoll, A.: 149, 163 Gentili, B.: 5, 34, 40, 43, 83, 97, 99, 105, 107, 137-8, 143, 145-6 Gernet, L.: 118, 122, 244, 246 Gerth, B.: 92 Girard, P.: 201 Giudice Rizzo, I.: 219, 229 Goethe, J.W. von: 9, 12-4 Gomperz, Th.: 222 Gondicas, M.: 36, 43 Goossens, R.: 223, 229 Görschen, F.C.: 234, 241, 246 Gostoli, A.: 100, 105, 107 Graevius, J.G.: 150, 162 Griffith, M.: 186, 201, 205, 210 Grimaldi, M.: 98, 107 Groeneboom, P.: 25, 28, 34-5, 43, 50-1, 65, 75, 185, 187, 202, 205 Grotefend, G.F.: 167 Gruber, M.A.: 83, 93 Guilleux, N.: 51, 53, 56

Haase, F.: 254 Hainsworth, J.B.: 126, 131 Hall, E.: 42, 44, 48, 50-1, 56, 220, 229 Hansen, P.A.: 221, 229, 257 Harberton, J.S.P.: 80-1, 83-4, 94 Harry, J.E.: 199, 205 Hartung, J.A.: 48, 50, 56, 220, 226, 230 Haupt, C.G.: 24, 28 Headlam, W.: 85-7, 90-1, 94, 128, 132, 142, 145 Heath, B.: 47, 56, 80, 85, 102, 108, 160, 163, 259 Heimsoeth, F.: 255 Henry, W.B.: 233, 239-40, 243, 245-6 Herington, C.J.: 153, 163, 202-3, 205, 255, 261 Hermann, G.: 12-3, 31, 33-6, 38, 40-1, 44, 48, 50-1, 54, 56, 80-1, 94, 108, 128, 132, 135-41, 143, 145-7, 195, 199-200, 205, 215 Hesse, H.: 12 Heyne, Ch.G.: 227-8, 230 Hude, C.: 254 Hutchinson, G.O.: 64-8, 75, 138, 141, 145 Italie, G.: 34, 44, 48, 50, 56, 90, 149, 152, 163, 165, 182, 196, 205 Jackson, P.: 52 Jakob, H.: 170 Janko, R.: 203, 205 Jauß, H.R.: 13 Jebb, R.C.: 25, 28, 138, 145 Jens, W.: 98, 107 Jentel, M.-O.: 219, 230 Judet de La Combe, P.: 6, 18, 36, 43, 70, 74-5, 128, 132, 156-7, 163, 16971, 175-6, 182, 185 Jurenka, H.: 48, 50-1, 56 Kahil, L.: 219, 230 Kamerbeek, J.C.: 25, 28, 234-5, 239-41, 243, 247 Kannicht, R.: 24, 28, 145, 225, 230 Kapsomenos, A.: 54, 56, 139, 145 Kassel, R.: 225, 230

Kastner, W.: 138, 145 Kearns, E.: 233, 236, 247 Kirchhoff, A.: 48, 50, 56 Klausen, R.H.: 108, 142, 145 Kleinlogel, A.: 254, 262 Knox, B.M.W.: 159 Kohl, R.: 64, 75 Körte, A.: 223, 230 Korzeniewski, D.: 34-5, 37, 39-40, 44, 48, 50, 56 Koster, W.J.W.: 223, 228, 230 Krumeich, R.: 219, 227, 229, 236-7, 241, 248 Kruse, C.: 108 Kühner, R.: 92, 138 Lachmann, K.: 251-4, 262 Lachnit, O.: 165-6, 182 Lange, E.R.: 24, 29 Lapini, W.: 51, 56 Latacz, J.: 126, 130, 132 Latte, K.: 256, 258 Lebeck, A.: 159, 163 Lech, M.L.: 63, 75 Legrand, L.: 136, 142, 145 Lehnus, L.: 227, 230 Leumann, M.: 191, 196, 205 Liberman, G.: 92, 94 Lloyd-Jones, H.: 44-5, 68-9, 71, 75, 114, 122, 138, 152, 159, 163, 193-4, 205, 233-5, 237, 240-1, 247 Lobeck, C.A.: 47-9, 52, 54, 56, 220, 230 Lobel, E.: 224, 230, 233-5, 239-41, 247 Lomiento, L.: 6, 34, 40-1, 43-4, 85-7, 90-1, 94, 97, 99, 106-7, 116, 122, 137-8, 140, 143, 145, 244 owiski, A.: 141 Lucas de Dios, J.M:: 219, 230, 236, 247 Luschnat, O.: 254 Luzzatto, M.J.: 254, 261 Maas, P.: 34, 44, 174, 254 Maelher, H.: 101 Marckscheffel, G.: 84, 94 Marconi, C.: 235-9, 247 Martin, J.F.: 108

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Martinelli, M.C.: 34, 40, 44, 137, 143, 146, 201, 205 Marzullo, B.: 199, 205, 259 Mastronarde, D.J.: 35, 44 Matino, G.: 37, 44, 161, 163 Mazon, P.: 40, 44, 65, 69, 75, 88-90, 94, 126, 132, 151, 154, 163, 201, 205 McNamee, K.: 252, 261 Medda, E.: 6, 136-7, 139-40, 143, 1456, 156-7, 163-4, 167, 169-76, 182, 185 Meillier, C.: 68 Meineke, A.: 41, 54 Melero, A.: 241, 247 Merro, G.: 227, 230, 259, 261-2 Mette, H.J.: 223-5, 230, 239 Miralles, C.: 6, 37, 79, 83, 94, 115, 118, 122, 152, 185 Monk, J.H.: 41 Montana, F.: 252, 261 Montanari, F.: 252, 257, 261 Morani, G. e M.: 226, 230 Moreau, A.: 76, 220, 231 Moritz, H.E.: 101, 107 Morris, S.: 233, 236, 247 Müller, K.O.: 18, 22, 143, 145-6 Müller, G.: 51, 57 Mund-Dopchie, M.: 137, 146 Murray, G.: 32, 34, 43-4, 48, 50-2, 57, 81, 88-90, 94, 100, 107-8, 144, 197, 205, 259 Musgrave, S.: 80, 82, 90, 142 Musuro, M.: 197, 220 Myres, J.L.: 165, 182 Nauck, A.: 24, 29, 33, 88, 129, 139, 146, 225-6, 231 Nickau, K.: 260-1 Nikolaus, P.: 65, 67-8, 75 Norsa, M.: 223-4, 231 Novelli, S.: 40, 72-3, 76, 80, 94, 246 Nunlist, R.: 233, 240, 246 O’ Sullivan, P.: 237, 247 Oberdick, J.: 48, 50, 57 Olson, S.D.: 225 Onians, R.B.: 126, 132

272

Pace, G.: 6, 15, 21-2, 26, 29, 32, 42, 44 Paduano, G.: 19, 22, 193, 205 Page, D.: 12, 32, 39, 44, 48, 50, 57, 67, 74, 76, 79, 81, 86, 88-90, 94, 100, 107-8, 128, 131, 167, 172, 179, 182, 209-13, 216-7, 234, 236-7, 240, 247, 259 Paley, F.A.: 35-6, 38, 44, 48-50, 57, 81, 88, 94, 108, 185, 196, 201, 206 Palumbo Stracca, B.M.: 51, 57 Papadopoulos-Kerameus, A.: 214, 217 Parenza, E.: 258 Parker, L.P.E.: 33, 44 Pasquali, G.: 214-5, 252, 255, 261 Pattoni, M.P.: 7, 142, 162-3, 182, 204 Pauw, J.C. de: 47, 57, 68, 80, 84, 87, 108, 226, 231 Pavese, C.: 193, 206 Pearson, A.C.: 197, 206 Perilli, L.: 165-6, 177, 182 Perysinakis, I.N.: 220, 231 Petersmann, H.: 62, 76 Petitmengin, P.: 222, 231 Petrounias, E.: 259 Pfeiffer, R.: 193, 206 Philippson, R.: 222, 231 Pierson, J.: 67 Pinzger, G.: 24, 29 Platnauer, M.: 13-4 Podlecki, A.J.: 159, 163, 186, 201, 206, 210 Pontani, F.: 251 Pool, E.H.: 259 Porro, A.: 252, 262 Porson, R.: 37, 42, 44, 47, 49, 57, 135, 137, 143, 146, 187, 206, 212, 215, 217, 227, 231 Porto, F.: 38, 87 Portus: v. Porto Pötscher, W.: 63, 76 Pralon, D.: 61, 65, 76 Prato, C.: 41, 45 Prien, C.: 63, 67 Rabehl, W.: 48, 50-1, 57 Radermacher, L.: 139, 146 Radice, R.: 166

Radt, S.: 149, 152, 163, 165, 182, 196, 205, 219, 221, 223-7, 231-5, 240 Ramelli, I.: 225, 231 Reinhardt, K.: 234-5, 237, 240-2, 247 Reitzenstein, R.: 220-1 Richter, G.M.A.: 236, 247 Rigo, G.: 180, 182 Ritchie, W.: 25, 29 Robert, C.: 233, 236, 247 Robortello, F.: 47, 49-50, 57, 88, 94, 217, 255 Rode, J.: 98-9, 107 Rose, H.J.: 25, 29, 36, 38-9, 41, 45, 57, 152-3, 163, 185, 201, 206 Roussel, L.: 25, 29, 36, 40, 45, 48, 51 Saïd, S.: 37, 45 Saint-Ravy, J. de: 24, 29, 151, 159, 163 Sandin, P.: 82-92, 94, 98-9, 107, 153-4, 163 Sanravius: v. Saint-Ravy Savignago, L.: 224-5, 231 Scaligero, G.G.: 33, 87, 196 Schaefer, H.: 234, 247 Schiller, F.: 13-4 Schiller, L.: 48, 50-1, 57 Schmid, W.: 116, 122 Schmidt, L.: 195, 206, 221, 231 Schmidt, M.: 221, 231 Schneider, G.C.W.: 24, 27, 29, 137, 142, 146 Schneidewin, F.W.: 106, 139, 146 Schober, A.: 222, 232 Schoemann, G.F.: 185, 206 Scholefield, J.: 48-9, 57 Schöll, A.: 61 Schrijen, J.J.A.: 165, 182 Schroeder, O.: 31, 41, 45, 108, 138, 146 Schütz, C.G.: 31-4, 45, 47-9, 52-3, 58, 64-5, 76, 80, 88, 95, 142, 146, 156, 185, 201, 206 Schuursma, J.A.: 37, 45, 128, 132, 151, 164 Schwartz, E.: 226-7, 232 Schwerdt, F.I.: 102 Schwinge, E.R.: 13-4 Schwyzer, E.: 202, 206

Seidler, A.: 135, 137, 139-40, 146 Setti, A.: 233-5, 240-42, 247 Sider, D.: 51, 58 Sideras, A.: 37, 45, 128, 132 Sidgwick, A.: 32, 37, 45, 65, 68, 76, 90, 212, 217 Siegmann, E.: 223-5, 232, 234 Sier, K.: 62, 76, 79 Sikes, E.E.: 149, 162 Simon, E.: 235, 237, 247 Smith, O.L.: 53, 58, 68, 76, 80, 85-7, 95, 120, 122, 255, 259-60, 262 Snell, B.: 7, 223, 225, 230, 233-5, 237, 239-41, 245, 247-8 Sodini, I.: 7, 181 Sommerstein, A.: 32, 35, 37-8, 45, 48, 50-1, 53, 58, 63, 66-9, 76, 79, 82, 856, 89-92, 95, 153-4, 160-1, 164, 185, 201, 206, 210, 219-20, 223-4, 227-8, 232, 234-5, 240, 244-5, 248 Sophianus, M.: 87 Stadtmüller, H.: 90 Stählin, O.: 116, 122 Stanford, W.B.: 126, 132, 138-9, 146 Stanley, Th.: 24, 29, 47, 58, 80, 87-8, 95, 151, 159, 164 Stark, R.: 235, 248 Stephanus: v. Estienne Stieber, M.: 236, 239, 241, 248 Sutton, D.F.: 235, 238, 241, 248 Swift, L.A.: 106-7 Taplin, O.: 15, 22, 113, 115, 122, 224, 232, 235, 242, 248, 259, 262 Taufer, M.: 7, 12, 14, 185, 209, 213, 215-7 Tessier, A.: 138, 143, 146 Teuffel, W.S.: 38, 45 Thalmann, W.G.: 71, 76 Thomson, G.: 7, 126, 128, 132, 142, 145, 147, 253, 262 Timpanaro, S.: 251, 257, 262 Tosi, R.: 7, 185, 206, 253-4, 257-62 Totaro, P.: 7, 185, 228, 256, 262 Tournebus, A.: 33, 45, 47, 49, 58, 86-8, 95, 108, 196, 213, 215, 217, 258 Tsantsanoglu, K.: 227

273

Turnebus: v. Tournebus Turyn, A.: 75, 210, 214-6, 218, 255, 263 Tychsen, Th.C.: 251 Ucciardello, G.: 252-3 Untersteiner, M.: 34, 45, 48, 50-1, 58, 90, 95, 233, 235, 248 Ussher, R.G.: 235, 241, 248 Valckenaer, L.K.: 35, 45, 52, 225, 232, 251 Valente, S.: 259-62 Valgimigli, M.: 185, 206 van der Valk, M.H.A.L.H.: 126, 132, 197 van Menxel, F.: 165, 167, 170, 182 van Nes, D.: 34, 37, 45, 154, 164 Verrall, A.W.: 65, 76, 137, 146 Vetta, M.: 259, 262 Vettori, P.: 32, 46-7, 58, 88, 255 Victorius: v. Vettori Villoison, J.-B. G. d’Ansse: 251 Vitelli, G.: 58, 223-4, 231 Voelke, P.: 233-5, 238, 241-2, 248 Volpe Cacciatore, P.: 6, 15, 22, 55, 185, 217 Vürtheim, J.: 153-4, 164 Wackernagel, J.: 138, 146 Wagner, F.W.: 227, 232 Wakefield, G.: 66, 143, 147 Wecklein, N.: 24, 38, 45, 48, 50, 52, 54, 58, 80-2, 88-91, 95, 108, 195-6, 199, 206 Weil, H.: 47-8, 50-1, 58, 66, 69, 76, 108, 140, 146 Weir Smyth, H.: 34, 46, 88, 214, 217, 247 Welcker, F.G.: 65, 219, 232

274

Wellauer, A.: 25, 27, 29, 34, 40, 46, 48, 58, 185, 206 Wessels, A.: 219, 227, 241, 248 West, M.L.: 12, 23, 29, 31, 33-4, 38, 40-2, 46, 48, 50-1, 54, 58, 64, 66-7, 76, 79-83, 85-91, 95, 100, 102, 1078, 138-41, 143-4, 147, 152, 154, 156, 159-61, 164, 171, 183, 187, 198, 207, 209-13, 215-6, 218-9, 227, 232, 263, 265 Wetsrup, J.A.: 101, 108 White, J.W.: 252 Whittle, E.W.: 32, 34-8, 43, 80-2, 8493, 98, 102-3, 107, 118, 122, 138-9, 144, 152-5, 163 Wiel, J.: 54 Wilamowitz Moellendorff, U. von: 16, 22, 31, 34, 37, 41, 46, 48, 50-1, 59, 63, 76, 80, 88-90, 95, 98, 100-2, 1078, 112, 128, 132, 147, 183, 212-3, 215, 218, 220, 222, 232, 255 Wilkins, J.: 138, 147 Willink, C.W.: 33, 46, 142, 147 Wilson, N.: 138, 152, 210, 244 Woschitz, K.M.: 165-8, 183 Wunderlich, E.C.F.: 139 Wundt, M.: 73, 76 Yorke, E.C.: 126, 132 Young, D.: 137, 147, 210 Zabrowski, Ch.J.: 36, 39, 46 Zacher, K.: 214, 218 Zanetto, G.: 26 Zeitlin, F.: 234-5, 248 Zelter, C.F.: 12 Zimmermann, B.: 5-7, 14, 63, 76, 166, 183 Zomaridis, E.: 48, 50, 58 Zuntz, G.: 32-4, 40, 46, 252

INDICE GENERALE

MATTEO TAUFER Introduzione

p. 5

BERNHARD ZIMMERMANN Approccio testuale e dimensione filologica oggi

p. 9

RICCARDO DI DONATO La parodo dei Persiani: forme espressive e strutture interpretative

p. 15

STEFANO AMENDOLA Nota ad Aesch. Pers. 481

p. 23

GIOVANNA PACE Aesch. Pers. 549 = 559: problemi testuali, metrici ed esegetici

p. 31

PAOLA VOLPE CACCIATORE Eschilo, Pers. 834 e 850

p. 47

PIERRE JUDET DE LA COMBE Sur la poétique de la scène finale des Sept contre Thèbes

p. 61

VITTORIO CITTI Aesch. Suppl. 354 ss.

p. 79

LIANA LOMIENTO Considerazioni sulla funzione dell’efimnio ritmico-metrico in Aesch. Suppl. 630-709

p. 97

CARLES MIRALLES Il finale delle Supplici di Eschilo

p. 113

ANTONELLA CANDIO ͖dzǷǨǴDzǵǹǟǷǬǵ: persuasione e reticenza in Aesch. Ag. 276

p. 125

ENRICO MEDDA Aeschylus correctus? Metrica e testo in due versi dell’Agamennone (1117/1128, 1143/1153)

p. 135

CARLES GARRIGA ǭǤǷǤǶǷǴǠǹǼe ǭǤǷǤǶǷǴRǹǡin Eschilo (Aesch. Pers. 787, Suppl. 442, Ag. 956, Eum. 490)

p. 149 275

IVAN SODINI Su ͚ǮdzǢǵ nell’Orestea: una proposta di lettura

p. 165

MARIA PIA PATTONI Due note prometeiche

p. 185

MATTEO TAUFER Una rilettura dei codici del Prometeo

p. 209

PIERO TOTARO I frammenti del Fineo e del Glauco di Potnie di Eschilo

p. 219

PAOLO CIPOLLA Gli ‘oggetti misteriosi’ dei njǨǼǴDzαͨ;ǶǫǯǬǤǶǷǤǢ







p. 233

RENZO TOSI Testo ed esegesi di alcuni scolî eschilei

p. 251

Sigla dei codici eschilei citati

p. 263

Indice dei luoghi notevoli

p. 267

Indice dei nomi moderni

p. 269

276

Thomas Baier (Hrsg.)

Generationenkonflikte auf der Bühne Perspektiven im antiken und mittelalterlichen Drama DRAMA – Studien zum antiken Drama und seiner Rezeption, Neue Serie, Band 3 2007, 252 Seiten, €[D] 54,00/SFR 85,50 ISBN 978-3-8233-6268-5

Der vorliegende Band vereinigt die Beiträge eines internationalen Symposions über Generationenbewusstsein und Generationenkonflikte im europäischen Drama der Antike und des Mittelalters. Die Studien beleuchten das Thema unter komparatis tischen sowie kultur-, mentalitäts- und sozialgeschichtlichen Aspekten mit dem Ziel, exemplarisch Elemente kollektiver Identität in vormodernen Gesellschaften zu identifizieren und zu beschreiben. Jede der behandelten Epochen stellt sich den alten Mythen von neuem und deutet die Binnenbeziehungen innerhalb von Familienverbänden, die Erziehungsproblematik und schließlich den Umgang mit dem Alter zwischen anthropologischer Kontinuität und zeitgebundenen Werten.

Narr Francke Attempto Verlag GmbH + Co. KG Postfach 25 60 · D-72015 Tübingen · Fax (0 7071) 97 97-11 Internet: www.narr.de · E-Mail: [email protected]

Christopher Meid

Die griechische Tragödie im Drama der Aufklärung »Bei den Alten in die Schule gehen« Drama Neue Serie, Band 6 2008, 136 Seiten, €[D] 39,90/SFr 67,00 ISBN 978-3-8233-6419-1

Für die deutschsprachige Literatur des 18. Jahrhunderts ist die Orientierung an der griechischen Antike von geradezu paradigmatischer Bedeutung, insbesondere auf dem Gebiet der Tragödie. Die produktive Auseinandersetzung mit den griechischen Tragikern beginnt bereits in der ersten Hälfte des 18. Jahrhunderts, was allerdings von der Forschung lange vernachlässigt wurde. Diese Studie untersucht erstmals im Kontext die deutschsprachigen Bearbeitungen der griechischen Prätexte. Dabei reicht die Bandbreite von der Hanswurstiade Stranitzkys über die heroisch-klassizistische Tragödie Johann Elias Schlegels bis hin zum bürgerlichen Trauerspiel Lessings. In textnahen gründlichen Interpretationen wird gezeigt, wie der antike Mythos mit Positionen der Aufklärung verbunden wird und im Wettstreit mit der französischen Literatur neue Wege erprobt werden, den antiken Mythos auf der Bühne der Neuzeit heimisch zu machen.

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Markus A. Gruber

Der Chor in den Tragödien des Aischylos Affekt und Reaktion DRAMA - Neue Serie, Band 7 2009, XIV, 570 Seiten, €[D] 78,00/SFr 132,00 ISBN 978-3-8233-6484-9

In der ersten Monographie zum Chor in allen sechs erhaltenen Tragödien des „Vaters der Tragödie“ Aischylos (525–456 v.Chr.) steht die Frage im Mittelpunkt, welche Funktion der Chor für den Zuschauer hat. Nach einem methodischen Teil, der auch eine Darstellung des frühgriechischen Chores insgesamt enthält und in dem ein rezeptionsästhetisches Interpretationsparadigma konstruiert wird, orientieren sich die ausführlichen Einzelinterpretationen an zwei Überlegungen: Die Darbietung von Affekten aufseiten des Chores zielt auf eine sympathetische Involvierung des Rezipienten in die tragische Handlung ab. Der Chor offenbart aber stets auch aktive Reaktionen auf die Krise, die ihn im Zusammenhang mit der Polis betrifft: Ratschläge an die Figuren, Reflexionen und Formen des Rituals dienen ebenfalls der Lenkung des Zuschauers. Durchgehend ist beim Chor das Bestreben zu erkennen, die Ordnung der Gemeinschaft aufrechtzuerhalten und zu einer ‚Heilung’ des Konfliktes zu gelangen – dies kann sich aber auch zu einer weiteren Zuspitzung auswachsen.

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