Come non detto. Usi e abusi dei sottintesi 8858122232, 9788858122235

Del 'non detto' si fa grande uso. Nei nostri quotidiani scambi verbali, nella comunicazione politica, giornali

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Italian Pages 178 [193] Year 2016

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Come non detto. Usi e abusi dei sottintesi
 8858122232, 9788858122235

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i Robinson / Letture

Filippo Domaneschi Carlo Penco

Come non detto Usi e abusi dei sottintesi

Editori Laterza

© 2016, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione gennaio 2016

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Edizione 5 6

Anno 2016 2017 2018 2019 2020 2021 L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2223-5

Indice

Prologo. Attenti a quell’iceberg 1. Dare per scontato

vii

3

2. Dare a intendere

31

3. Dire

63

4. Fare

95

5. Dare ragioni

129

6. Capire

161

Bibliografia

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Prologo

Attenti a quell’iceberg

Stiamo guardando per la prima volta uno spot pubblicitario. A partire da una situazione totalmente ignota, in 30 secondi comprendiamo cosa accade e veniamo anche convinti ad acquistare un certo prodotto. Com’è possibile che tutto ciò si realizzi in soli 30 secondi? Dietro la comprensione di scambi verbali e di situazioni nuove c’è sempre un mare di sottintesi: ciò che si dice in modo esplicito rappresenta solo la punta visibile di un’enorme massa nascosta di informazioni comunicate in modo implicito. È l’iceberg della comunicazione. Pochi minuti prima di sederci a scrivere questa introduzione, siamo scesi al bar a prendere un caffè. Di ritorno verso l’ufficio, Carlo ha estratto una sigaretta da un pacchetto e ha domandato a Filippo: «Hai ancora l’accendino?». La frase di Carlo è la punta di un iceberg. Comprendere quanto detto da Carlo è come avvistare un iceberg in mezzo al mare: la punta è ben visibile, ma sotto v’è molto di più. Sotto la superficie di poche parole, infatti, si trova una montagna di informazioni nascoste. Vediamole. Prima di tutto, Carlo condivide con Filippo un vasto terreno di credenze presupposte, ovvero, date per scontate: che l’accendino sia un dispositivo per accendere sigarette, che in Italia sia permesso fumare per strada ma non nei locali pubblici, che il fumo danneggi la salute, ecc. Inoltre, Carlo ha usato il termine «l’accendino» e utilizzando l’articolo «il» si è riferito non a un generico accendino, ma a un accendino specifico. Per comprendere esattamente quanto detto da Carlo, dunque, abbiamo dovuto innanzitutto capire a quale ­­­­­VII

accendino Carlo volesse riferirsi (quello che Filippo aveva in mano poco fa o quello che Carlo aveva prestato a Filippo l’altro ieri?). Egli ha inoltre utilizzato il termine «ancora» sottintendendo che Filippo possedesse l’accendino in un tempo precedente e che potesse oramai non averlo più (ad esempio, nel caso in cui lo avesse perso o regalato). È facile, inoltre, dare per scontato che quella di Carlo fosse una richiesta implicita per accendersi la sigaretta. Ma non è detto: Carlo avrebbe potuto utilizzare la stessa frase per lamentarsi del fatto che Filippo non gli avesse restituito l’accendino, per minacciare Filippo o per spiegargli qualcosa sugli accendini. Per capire il proferimento di Carlo, dunque, abbiamo dovuto comprendere non solo ciò che egli ha detto, ma anche ciò che ha fatto dicendolo: una richiesta, una lamentela, una spiegazione o una minaccia? Carlo, che cosa intendeva far capire a Filippo? Questa volta è andata nel modo più prevedibile: Filippo ha fatto, quasi senza rendersene conto, alcuni semplici passi di ragionamento: «Carlo mi ha chiesto se avessi ancora l’accendino con una sigaretta in mano, dunque, probabilmente, aveva bisogno di accendere; quindi, è probabile che dicendo ‘Hai ancora l’accendino?’ intendesse chiedermi di prestarglielo per accendersi una sigaretta». In questo modo Filippo ha compreso e offerto a Carlo l’accendino con cui accendersi l’agognata sigaretta. Insomma, buona parte del lavoro che facciamo nel capire e nel farci capire è come... non detto. Del «non detto» si fa grande uso nella comunicazione pubblicitaria, giornalistica e, soprattutto, nella comunicazione politica. Perché? Perché un messaggio che passa come sottinteso non è facilmente opinabile o discutibile ed è quindi fortemente persuasivo. Compito di questo libro è introdurre con esempi e teorie il mondo sconosciuto e non visibile di ciò che è comunicato senza essere detto esplicitamente, e fornire una «cassetta degli attrezzi» utile per imparare a rendere esplicito l’implicito, in modo da aiutare gli ingannatori a ingannare meglio e tutti gli altri a non farsi ingannare. ­­­­­VIII

Qui proveremo a descrivere i meccanismi comunicativi di spot pubblicitari, di discorsi politici, ma anche di testi giornalistici, mettendo in luce il ruolo strategico giocato dallo sfruttamento di ciò che viene comunicato senza essere detto, svelando, dunque, usi e abusi dei sottintesi. L’immagine dell’iceberg spesso viene sfruttata per rendere conto del fatto che gran parte della comunicazione è «non verbale». È vero che nell’interazione faccia a faccia buona parte della comunicazione avviene tramite mezzi non linguistici (ad esempio, gesti, espressioni del volto, posture, ecc.), ma c’è dell’altro: l’iceberg del non detto è in buona parte costituito da un insieme ben strutturato di strategie legate all’uso del linguaggio. In particolare, distingueremo all’interno di ciò che è sottinteso, tra ciò che viene dato per scontato (le presupposizioni) e ciò che viene lasciato intendere (le implicature). Questa distinzione sarà soprattutto il tema dei primi due capitoli. Nel capitolo 3 spiegheremo in che modo ciò che diciamo può cambiare a seconda del contesto in cui un enunciato viene proferito. Nel capitolo 4 vedremo che comunicare significa compiere azioni che modificano sia il mondo che ci circonda sia le credenze dei nostri interlocutori. Nel capitolo 5 parleremo di argomentazione e illustreremo alcuni esempi di ragionamenti che risultano particolarmente efficaci quando lo scopo della comunicazione è persuadere. Una volta riempita la nostra cassetta degli attrezzi, proveremo a illustrare in cosa consiste il processo di «comprensione» utilizzando come esempio di applicazione l’analisi di uno spot pubblicitario (capitolo 6). Sui meccanismi della comunicazione sono stati versati fiumi d’inchiostro. La semiotica, la sociologia e la psicologia della comunicazione, in particolare, si sono concentrate a lungo sullo studio dei meccanismi coinvolti nella comunicazione politica e pubblicitaria. Questo non è un libro di semiotica, né tanto meno di sociologia; è un testo di divulgazione delle idee correnti nel mondo della ricerca che faticano a diffondersi perché rinchiuse nel recinto di filo spinato delle teorie ­­­­­IX

logiche, filosofiche e linguistiche. Siamo andati con le pinze a tagliare il filo spinato. Se questo libro ha una tesi da difendere, questa tesi è che le teorie sull’uso del linguaggio sviluppate nel corso degli ultimi cinquant’anni nell’ambito della filosofia, della linguistica e della psicologia del linguaggio sono strumenti efficaci, se non indispensabili, per lo studio della comunicazione ordinaria. Se poi questo lavoro sarà da considerare un «buon libro divulgativo», di quelli che Diego Marconi, nel suo Il mestiere di pensare (Einaudi 2014), auspica vengano apprezzati anche dalla comunità accademica come «servizio alla professione», lo lasceremo decidere al lettore. I capitoli 1, 4, e 6 sono stati scritti da Carlo; i capitoli 2, 3 e 5 sono stati scritti da Filippo. Li abbiamo riscritti più volte, uno per l’altro, facendo aggiunte e cancellando gli strafalcioni che l’altro scriveva. Poi abbiamo rivisto tutto assieme al Bishop’s Park e al pub Railway di Putney (Londra, UK). Rimangono alcune divergenze, ma quelle principali sono state appianate durante due giorni di lavoro in un rifugio sul Monte Beigua. Ringraziamenti: prima di tutto ringraziamo gli studenti dei corsi di Teoria della comunicazione e Semiotica dei media di Savona, di Teorie della comunicazione e Filosofia del linguaggio di Genova per le loro reazioni e i loro interventi. Ringraziamo Cristina Amoretti e Massimiliano Vignolo che hanno insegnato anche loro a Savona e hanno suggerito nuove idee ed esempi. Un ringraziamento va inoltre a Margherita Benzi, Claudia Bianchi, Andrea Iacona e Marcello Frixione, per aver letto parti del testo e offerto utili critiche cui non sempre siamo riusciti a rispondere. Errori e sviste sono dunque proprio nostri. L’Institute of Philosophy del School of Advanced Study di Londra, e in particolare il suo direttore Barry Smith, hanno offerto accoglienza, ospitalità e una stupenda atmosfera collaborativa che ha aiutato a mettere a punto con calma gran parte del lavoro. FD & CP

Come non detto Usi e abusi dei sottintesi

1.

Dare per scontato

Latet anguis in herba (Virgilio, Bucoliche, III, 93)

Diamo per scontato più di quanto sembra. Viviamo immersi in un terreno di informazioni che diamo per acquisite e che influenzano sia ciò che diciamo sia il modo in cui comprendiamo ciò che ci viene detto. Ad esempio, dicendo in un bar: «Caffè macchiato», diamo per scontata una gran quantità di informazioni, come il fatto che al bar servano il caffè, che il ruolo del barista sia quello di prepararcelo, che il caffè debba essere fatto sul momento, che esistano diverse preparazioni del caffè e che il caffè macchiato ne sia un esempio, che esso di norma viene versato in una tazzina che ci viene offerta subito dopo la richiesta, ecc. Dare per scontato aiuta a rendere veloci le conversazioni evitando di specificare ogni volta cose che sappiamo benissimo e giri di parole ridondanti come «Per favore, sarei felice se mi potesse fare un caffè, metterlo in una tazzina e mettervi assieme un po’ di latte caldo, con due cucchiaini di zucchero», cosa che non funziona in un bar affollato con venti persone frettolose in coda dietro di noi. Di fatto, non dobbiamo e non possiamo giustificare o spiegare tutto quello che diciamo o facciamo. Ci sono tanti modi per dare per scontato qualcosa: nella vita quotidiana, ad esempio, ci basiamo su stereotipi generalmente accettati. Il termine «stereotipo» spesso è inter3­­­­

pretato in maniera negativa, ma ha anche un aspetto positivo che lo rende uno strumento indispensabile per la comunicazione. Dopo aver visto gli aspetti positivi e negativi degli stereotipi, nella seconda parte di questo capitolo vedremo non solo cosa significa dare per scontato o presupporre, ma anche in che modo è possibile usare precisi mezzi linguistici per «attivare» presupposizioni. 1. Stereotipi, competenza lessicale ed esperti L’Europa è un miscuglio di nazioni con caratteri nazionali «tipici» sui quali spesso si sorride, come in questa diffusa cartolina (disegnata da J.N. Hughes-Wilson).

Capiamo l’ironia di questa cartolina perché, grossomodo, condividiamo stereotipi. Come sarebbe l’Europa se tutti avessero il self-control degli italiani (il cui stereotipo è essere espansivi all’eccesso) o fossero generosi come gli olandesi (il cui stereotipo è essere tirchi quasi quanto gli scozzesi), o spiritosi come i tedeschi (che sono notoriamente molto seri), ecc.? La cartolina agevola la comprensione dei diversi caratteri nazionali, allo stesso tempo però produce ironia e quindi benevola accettazione. 4­­­­

La parola «stereotipo» ha tipicamente un’accezione negativa. Ma non si può dimenticare un ruolo fondamentale degli stereotipi: facilitarci la vita. Specialmente in un mondo dove il problema principale non è trovare informazioni, ma non essere soffocati dalla sovrabbondanza di informazioni (spesso inutili o superflue), alcuni schemi semplificatori aiutano1. In questo capitolo, dunque, vedremo cosa sono e come si formano gli stereotipi, per capire poi quando sarebbe meglio non usarli, quando invece è possibile giocarci (come nell’inoffensiva cartolina) e quando li usiamo, di fatto, per sopravvivere. Cosa si intende per stereotipo? Uno stereotipo è un insieme di proprietà standard che caratterizza un tipo di individui, oggetti o azioni. Fin qui, niente di male. Per filosofi come Hilary Putnam (1975) parlare di stereotipi equivale a parlare degli aspetti del significato condivisi socialmente. Non siamo così padroni del nostro linguaggio come ci immaginiamo: per lo più sappiamo bene alcune cose che ci riguardano da vicino (sappiamo molto del nostro lavoro, dei nostri studi o della famiglia), ma su tutto il resto abbiamo nozioni molto generali, potremmo dire «stereotipiche». Sappiamo tutti che la tigre è un carnivoro aggressivo a strisce gialle e nere e che il limone è un frutto dalla buccia gialla, ma non tutti sapremmo distinguere a prima vista una tigre indiana da una malese o un limone acerbo da una limetta; sappiamo che il faggio è un albero nostrano e che è diverso dal leccio, ma probabilmente non sapremmo distinguerli. Dei termini del nostro linguaggio, dunque, abbiamo spesso una conoscenza approssimativa e conosciamo solo lo stereotipo: un insieme di proprietà che ci aiuta sia a cogliere il significato di una parola, sia a capire a che tipo di oggetti essa si applica. Detto in altri termini, abbiamo sia una «competenza inferenziale» (sappiamo dare definizioni generali del tipo: se è 1 Accenniamo così a un tema non trattato qui, quello del sovraccarico di informazione, che fa da sfondo alla nostra discussione. Una ottima trattazione si trova in Levitin (2014).

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una tigre allora è un animale; se è un faggio allora è un albero e quindi ha le foglie, ecc.) sia una «competenza referenziale» (sappiamo riconoscere ciò cui le parole si riferiscono: siamo capaci di distinguere un gatto da un cane e, se non siamo in grado di riconoscere un faggio, perlomeno sappiamo distinguerlo da un cespuglio di more)2. La nostra competenza, tuttavia, non è così precisa come in realtà servirebbe in diverse occasioni e il più delle volte ci troviamo costretti a dover interpellare chi è più esperto di noi: se dobbiamo comprare delle limette e non dei limoni, chiediamo al verduraio; se cerchiamo un bosco di lecci dove possiamo trovare esempi di Boletus Aereus (nei boschi di faggi, infatti, si trovano quasi solo esemplari di Boletus Aestivalis), dobbiamo chiedere a qualche nostro amico esperto in botanica di farci cogliere le differenze tra lecci e faggi. Insomma: per lo più conosciamo stereotipi, tranne quando qualcosa ci interessa davvero e la nostra competenza non è sufficiente. Ricorriamo dunque agli esperti per saperne di più, come per l’oro: tutti sanno cos’è e come appare, ma pochi sanno distinguere un anello d’oro a 24 carati da un anello d’oro a 18 carati o dall’oro di Bologna «che diventa rosso dalla vergogna» perché è misto a rame ed è sotto i 14 carati. 2. Stereotipi: frame, script e valori di default Negli anni ’70, quando i filosofi parlavano di stereotipi, iniziava a occuparsene Marvin Minsky, uno dei fondatori dell’intel2 Diego Marconi (1997) analizza queste due componenti della nostra competenza lessicale, cioè della capacità di comprensione del significato delle parole. La distinzione è confermata da casi di deficit mentali in cui viene a mancare ora una ora l’altra capacità. Alcuni pazienti, di fronte al nome di un tipo di oggetti (ad esempio «telefono»), sanno dire a cosa serve, ma non sono in grado di riconoscere l’immagine dell’oggetto. Altri sanno riconoscere l’immagine dell’oggetto, ma non sanno dire a cosa serve (cioè non sanno fare inferenze del tipo: se qualcosa è un telefono, allora serve per fare telefonate e sentire gli amici a distanza).

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ligenza artificiale. Minsky ha idee simili a quelle di Putnam e a partire da queste trova spunto per ideare nuovi progetti per l’intelligenza artificiale. Potremmo dire un po’ banalmente che l’obiettivo di Minsky sia far ragionare le macchine come ragionano i bambini: un bambino distingue a prima vista un cane da un gatto mentre un computer no. Come è possibile? Perché i bambini possiedono ottimi «stereotipi» di cane e di gatto. L’idea di Minsky è semplice: inseriamo nei nostri programmi di simulazione del linguaggio naturale uno stereotipo per ogni voce lessicale; ad esempio, «tigre» sarà qualcosa del genere: «Grosso quadrupede  / felino / giallo a strisce nere / aggressivo e pericoloso / vive nella giungla / mangia altri animali». Stop.

Una dettagliata specificazione scientifica delle caratteristiche delle tigri (compresi i diversi DNA delle diverse specie) può essere utile per una base di dati per una ricerca scientifica, ma non per un «sistema intelligente»3 che si voglia far dialogare con gli umani. È proprio per questo che Minsky tenta di lavorare con i programmi informatici come gli educatori lavorano con i bambini: fornisce loro stereotipi. Una volta fissato lo stereotipo di «tigre», il bambino a poco a poco impara che esistono anche tigri grigie (le tigri siberiane, ecc.), che le tigri non si trovano solo nella giungla ma anche allo zoo, al Museo di Storia naturale (dove sono imbalsamate e non possono nuocerti), ecc. 3 Si parla in genere di «sistemi intelligenti» per riferirsi a sistemi informatici che realizzano diverse caratteristiche dell’intelligenza, come il riconoscimento di oggetti, l’analisi e la produzione del linguaggio naturale, ecc. («Sistemi intelligenti» è anche il nome di una nota rivista edita dal Mulino).

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Gli stereotipi sono per Minsky rappresentazioni, dove per ogni proprietà c’è un valore «di default» (tale cioè che viene «attivato» in mancanza di altre informazioni). Nel caso in cui si trovino informazioni che contrastano con i valori di default, però, questi possono essere sostituiti da altri valori (ad esempio, una tigre zoppa avrà tre gambe invece di quattro e una tigre siberiana avrà il manto grigio invece che giallo, ecc.). Minsky chiama l’insieme che comprende i valori di default e le possibili variazioni con il nome di frame o «cornice». Ogni frame è collocato in una rete con diversi altri frame. Si può fare un semplice esempio, in cui a sinistra si trova il frame «tigre» con i valori di default, ai quali si collegano altri frame, ad esempio il frame «giungla», e così via. Frame Giugla:

Ambiente Defaults Luogo India Contiene piante Tek, Sandalo, Liane Contiene animali Tigri, Serpenti Clima Umido Monsonico è un

Frame Tigre:

è un Zampe Habitat Pelo Cibo

Felino Defaults 4 Giungla Giallo-nero Antilope

Frame Giallo:

...................

...................

Frame Antilope:

...................

...................

È un modo per spiegare la struttura dei concetti: Minsky immagina che abbiamo in mente una rete di frame o cornici concettuali; possiamo usare le cornici concettuali in modo veloce applicando subito gli stereotipi (i valori di default), ma possiamo sempre modificare i valori ogni volta che si renda necessario. I nostri concetti, dunque, non sono dati da un insieme fisso di proprietà, bensì dall’insieme di uno stereotipo e dalle sue variazioni che, in taluni casi, ci possono far allontanare di molto dallo stereotipo (immaginiamo ad esempio 8­­­­

una tigre albina e zoppa in uno zoo della steppa abituata a mangiare riso)4. Una volta acquisita la distinzione tra stereotipi e loro possibili variazioni, gli allievi di Minsky hanno allargato la visione dagli insiemi di proprietà di oggetti (cioè i frame o concetti) agli insiemi di «cose da fare» o «copioni» (script). Viviamo in una società apparentemente molto complessa ma, per usare una metafora, siamo un po’ come a teatro e seguiamo certi copioni fissi su cui, come nei frame, possiamo fare variazioni5. Prendiamo, ad esempio, i bar (proprio dove poco fa stavamo chiedendo un caffè al barista). A ben vedere, la varietà dei bar in tutto il mondo, delle bevande, del cibo venduto, dell’arredamento e degli avventori può sconcertare.

Ma di fronte al bar del film Guerre stellari ci troviamo quasi a casa. Perché? Perché in ogni bar si segue più o meno lo stesso copione, la stessa sequenza di azioni: si entra, si ordina, si beve (e/o mangia), si paga e si esce. Stop. 4 C’è una parziale sovrapposizione tra il termine «stereotipo» e il termine «prototipo». Mentre uno stereotipo consiste in uno schema astratto, un prototipo è un esemplare che fa da riferimento a un’intera categoria; ad esempio un uccello prototipico per un marinaio sarà un gabbiano o un albatro, mentre per un montanaro sarà un’aquila. Su questi temi gli psicologi hanno lavorato a lungo; si vedano ad esempio i lavori di Rosch (1978) e Barsalou (1992). Per un riferimento in lingua italiana si vedano Violi (1997), Lalumera (1990) e Coliva (2006). 5 La nozione di frame ha un ruolo centrale nelle analisi del sociologo canadese Erving Goffman. Goffman in La vita quotidiana come rappresentazione (1959) utilizza la nozione di frame all’interno del suo approccio «drammaturgico» allo studio delle interazioni quotidiane.

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D’accordo, a volte l’ordine cambia un poco e si paga mentre si ordina, specie nei bar affollati. Ma le cose da fare sono quelle e anche senza conoscere la lingua del posto in cui ci possiamo trovare (come nel bar di Guerre stellari) faremo comunque quelle cose lì e una serie di variazioni secondarie (ci si siede al banco o a un tavolo; si prendono posate o bastoncini; si guarda la tv o si gioca a freccette e calciobalilla; si va alla toilette e poco altro). Quando si entra in un bar si dà per scontato che si ordinerà, si berrà o mangerà e si pagherà: il resto può variare a piacimento (il tipo di bevanda o cibo, il modo di ordinare e di pagare, ecc.). È la padronanza delle sequenze di azioni «base» che ci rende così capaci di muoverci nel mondo e di capire cosa accade attorno a noi. A rifletterci un poco, non facciamo poi così tante cose nel corso delle nostre giornate: stiamo a casa o usciamo; entriamo in un locale pubblico chiuso o in un luogo aperto; all’interno di un certo luogo (e in un certo lasso di tempo) svolgiamo attività base: nutrirci, riposare, giocare, guardare (spettacoli di vario genere, dalla televisione al teatro), ascoltare (musica), costruire (case o oggetti), leggere, fare sport, fare l’amore o fare la guerra. Per la strada camminiamo, accompagniamo, compriamo oggetti o cibo (e per lo più cazzeggiamo) e poco altro. La nostra vita, descritta per tipi di cose da fare, è monotona. Quello che la rende gustosa sono le differenze con cui si fanno gli stessi tipi di cose. Qual è dunque la funzione degli stereotipi (o dei copioni)? Il valore degli stereotipi è aiutarci a capire in fretta le situazioni in cui ci troviamo o alle quali assistiamo e a concentrarci sulle cose nuove e diverse o sugli obiettivi che ci siamo prefissati. I grandi registi, ad esempio, ci introducono con poche immagini in un’epoca usando gli stereotipi dell’immaginario collettivo, come quando si vedono gli scozzesi di Braveheart con il kilt che in realtà venne adottato cinque secoli dopo; ma lo stereotipo dello scozzese con il gonnellino aiuta a capire chi sono gli scozzesi e chi gli inglesi e, di conseguenza, la scelta risulta estremamente efficace nella resa filmica. 10­­­­

Gli stereotipi spesso vengono sfruttati anche dai creatori di pubblicità, che, grazie al loro utilizzo, in pochi secondi ci portano a comprendere situazioni estremamente complesse. La pubblicità talvolta aiuta anche a costruire nuovi stereotipi e a renderli «malleabili», proprio come suggeriva Minsky influenzato dalle idee del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein6. A volte basta un piccolo particolare per attivare uno stereotipo e creare la cornice di un’ambientazione in cui inserire una sequenza di vicende: banalmente, il classico incipit «C’era una volta un re» è sufficiente per attivare nella nostra immaginazione un luogo con un re, un regno, probabilmente un castello con dei cavalieri, ecc. 3. Stereotipi e pubblicità Gli stereotipi giocano un ruolo fondamentale nella comunicazione pubblicitaria; uno spot ha bisogno di presentare in un tempo brevissimo una storia che venga immediatamente capita e che, alla fine, dia qualche soddisfazione. Come? Confermando lo stereotipo tout court o andandovi contro, dando vita a una reazione di sorpresa, oppure confermando sì lo stereotipo, ma sorridendone con ironia. Partiamo da quest’ultima idea; c’è una pubblicità della Fiat 500 che è stata ideata per le reti televisive statunitensi:

6 Più precisamente, Minsky cita il concetto wittgensteiniano di «somiglianze di famiglia» (cfr. Penco 2004, capitolo 9).

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nello spot si vede una coppia di americani intenta ad acquistare una Fiat 500 presso un autoconcessionario.

I due sembrano assolutamente convinti del loro acquisto, se non fosse per un piccolo particolare: nel sedile posteriore della macchina vive «un’autentica famiglia italiana» in tutto e per tutto aderente allo stereotipo: una mamma apprensiva, un giovane piacente ed elegante oltre che generoso e ospitale all’eccesso, un’ossessione per il caffè e per il calcio, tutto condito da un continuo vociare rumoroso.

La convivenza trasforma la coppia di americani che, senza neanche accorgersene, dopo poche settimane si riscopre «italianizzata»: i due, con una tazzina di caffè in mano, appaiono più eleganti, più «piacioni» e parlano un inglese dall’irresistibile accento mediterraneo.

La pubblicità gioca sullo stereotipo americano dell’italiano tipo e, confermandolo, produce un effetto umoristico che 12­­­­

appaga e attrae lo spettatore. Di più, la rappresentazione che viene fornita della famiglia italiana non risulta in alcun modo denigrante o offensiva ma rende nell’immaginario collettivo lo stereotipo in questione ancor più attraente; il messaggio dello spot conferma l’idea che «italiano è meglio»7. Si fa un utilizzo più sottile degli stereotipi quando l’aspettativa creata viene infranta in modo radicale. Per non moltiplicare gli esempi rimandiamo all’ultimo capitolo, dove compare un caso di questo genere sempre più spesso adottato dai pubblicitari: stereotipo ⇒ aspettative ⇒ violazione delle aspettative ⇒ sorpresa ⇒ rottura delle aspettative dello spettatore (pronto ormai ad accettare qualsiasi cosa e, in particolare, ovviamente, il prodotto pubblicizzato). L’effetto sorpresa aiuta infatti lo spettatore a fissare meglio il contenuto della pubblicità. La rottura dello stereotipo come metodo pubblicitario ha avuto un grande sviluppo a partire dagli anni ’90 (specie con una serie di pubblicità dell’Ikea, maestra di pubblicità basate su stereotipi nazionali8). Eppure a ben vedere questa tecnica

7 È curioso un altro caso riguardante la Fiat 500 che presenta due tipi di pubblicità molto diversi: in Italia, viene diffusa una pubblicità del tutto tradizionale, basata sulla storia d’Italia nella sua visione stereotipica più elevata e seria; negli Stati Uniti, per la 500L, si presenta uno spot che invece sullo stereotipo italiano gioca scherzosamente (mentre in altri lo irride con distacco). In quest’ultimo spot, soldati della rivoluzione americana, chiusi in un fortino, aspettano l’attacco dei nemici inglesi ma, inaspettatamente, al posto della cavalleria britannica arrivano «the Italians» con le loro 500. Nel fortino si sostituiscono subito le tazze da tè con quelle da caffè e le donne puritane non esitano a rendersi più piacenti, in attesa degli stereotipici italiani «latin lover» e caffeinomani (e con una sottile satira politica: «So much better that a tea party»). Da vedere e fare il confronto per chi non le conosce: La pubblicità tradizionalista per gli italiani: http://www.youtube.com/ watch?v=5wodHzwkt7g Per vedere una famosa pubblicità per gli Stati Uniti googlate «Fiat the English are coming the Italians are coming». 8 Vi è una grande differenza tra le pubblicità Ikea a seconda delle nazioni: ad esempio più puritane in Italia, più boccaccesche in Svezia e più famigliari in Australia.

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è piuttosto antica. Un caso esemplare è un noto spot degli anni ’60 della birra italiana Peroni: due uomini sperduti nel deserto, stravolti dal sole e dalla sete, vedono in mezzo alle dune due ragazze danzare:

Uno, titubante, capisce che si tratta di un miraggio, l’altro corre verso le ragazze. Una volta convinto di aver raggiunto l’oasi felice, le ragazze svaniscono nel nulla (è lo stereotipo del miraggio). Ma, poco dopo, appare un altro miraggio di fronte ai due malcapitati: una bionda avvenente. Il miraggio – e proprio qui sta la sorpresa! – si trasforma in realtà quando la ragazza offre loro una bella birra ghiacciata:

«Chiamami Peroni, sarò la tua birra!». Le pubblicità sfruttano gli stereotipi in numerosi modi: li violano, li confermano, cercano di giocarci o di costruirne di nuovi. Esemplari sono le pubblicità delle diverse marche di birra alla ricerca di target (bersagli!) mirati (anziani, tradizionalisti, giovani yuppies, giovani contestatori, studenti 14­­­­

squattrinati, ricchi possidenti, ecc.). La competizione tra le marche di birra è altissima e per questo i produttori tentano di rivolgersi e di attrarre categorie di persone sempre più specifiche. Un esempio sofisticato di questo lavoro di selezione dell’audience è offerto da una recente pubblicità della Carlsberg (in effetti, piuttosto lunga, ben un minuto e 38!) dal titolo 148 Bad Boys & Some Innocent Couples. Nel filmato si vedono alcune eleganti coppie intente ad acquistare un biglietto per il cinema. Al botteghino viene detto loro che nella sala restano solo due posti disponibili. Una volta entrati, di fronte ai due poveretti si presenta una scena minacciosa: la sala è piena di terribili e inquietanti bikers, grossi, muscolosi e pieni di tatuaggi, in tutto e per tutto coerenti con il loro stereotipo.

Molte coppie entrano, ma, alla vista dei bikers, escono dalla sala un po’ spaventate. Altre restano e, facendosi strada, arrivano con una certa difficoltà ai loro posti in mezzo ai bikers. Ma proprio qui sta la sorpresa: le coppie che, sprezzanti del pericolo, raggiungono le proprie postazioni vengono ricompensate ricevendo un grande applauso dai bikers, assieme a una birra in omaggio: 15­­­­

Giocando sul contrasto tra lo stereotipo dei bikers e quello dei borghesi eleganti e un po’ impacciati in mezzo ai forzuti motociclisti, la pubblicità colpisce in pieno un triplice bersaglio: primo, si accattiva i bikers che si ritrovano ampiamente rappresentati come consumatori di birra ma anche come figure positive; secondo, si ingrazia i borghesi, forse un po’ intellettuali ma non troppo, che hanno una certa apertura mentale; terzo, dimostra che la Carlsberg unisce le classi sociali! Tuttavia, la strategia più classica, che nasce con le origini della pubblicità, è sicuramente quella di far leva su stereotipi che dipingono un’immagine ideale di una società, con i suoi valori più tradizionali. Tutti conosceranno, ad esempio, i famosi spot della Barilla: l’immagine della famiglia felice attorno alla tavola che condisce la pastasciutta è la rappresentazione stereotipica della convivialità domestica e dell’unione famigliare italiana. Basti pensare al celebre motto:

... CASA! Come si vede dall’ultima immagine (dove seduto sul divano troviamo un ragazzo con un computer portatile), nel corso degli anni Barilla, da un lato, è stata in grado di aggiornare i propri stereotipi raffigurando famiglie sempre più adeguate 16­­­­

ai tempi; dall’altro, ha sapientemente mantenuto intatta la propria visione tradizionale dello stereotipo della famiglia felice attorno a una tavola traboccante di spaghetti al pomodoro o di rigatoni. Forse anche per difendere tale visione il signor Barilla è incorso in una situazione imbarazzante durante un’intervista per la trasmissione radiofonica La Zanzara del 26 settembre 2013. Posto di fronte alla questione della possibile rappresentazione delle famiglie omosessuali all’interno degli spot della sua azienda, ha infatti dichiarato: «No, non lo faremo perché la nostra è una famiglia tradizionale [...]. Se agli [omosessuali] piace la nostra pasta e la nostra comunicazione la mangiano, se non gli piace quello che diciamo, faranno a meno di mangiarla e ne mangeranno un’altra [...]. Non la penso come loro e penso che la famiglia cui ci rivolgiamo noi è comunque una famiglia classica. Io rispetto tutti. Che facciano quello che vogliono senza infastidire gli altri». All’epoca, a questa dichiarazione seguì un’accesa polemica, sedata dalle immediate scuse del signor Barilla. Ma, a ben vedere, che tipo di errore potremmo dire che egli abbia commesso? Cosa ha detto se non quello che pensava? Ha detto qualcosa di fortemente offensivo? Ha compiuto una violenza? Forse ha insistito troppo sulla validità di uno stereotipo di famiglia usato dalla sua ditta per decenni ma non altrettanto condiviso oggi e così facendo ha commesso, potremmo dire, una gaffe. È il caso dunque di fare due riflessioni su cosa accade agli stereotipi quando, invece di essere inseriti in cornici concettuali elastiche, come nella visione di Minsky, si irrigidiscono per creare una barriera contro le cosiddette «minoranze», cioè i «diversi da noi». 4. Il valore negativo degli stereotipi Gli stereotipi hanno un valore negativo quando si «fissano» e diventano strutture rigide; è bene conoscere gli stereotipi di una cultura ma può essere deleterio seguirli pedissequa17­­­­

mente: non è sempre la cosa migliore perdere la giornata al pub ubriachi di birra e facendo commenti grossolani con la scusa che siamo in Inghilterra o fumare marijuana fino allo sfinimento se siamo in vacanza in Giamaica. Gli stereotipi rigidi hanno un aspetto negativo in due sensi: da una parte possono portare a fare errori di valutazione o di ragionamento9, e dall’altra possono creare una barriera verso gruppi sociali specifici. In quasi ogni cultura, inoltre, si trovano termini offensivi connessi a stereotipi negativi: epiteti denigratori come «negro», «indiano», «finocchio», «crucco», «giallo», «terrone» e chi più ne ha più ne metta. Sono tutti modi per stigmatizzare una diversità e per ridurre la persona cui l’epiteto è rivolto a una sola caratteristica irrilevante, alla quale vengono associati una serie di valori negativi10. I termini razzisti o denigratori servono così a tagliare fuori dal gruppo, indicandole come diverse e inferiori – in quanto associate a valori negativi –, quelle che sono persone come noi. Com’è possibile difendersi da tutto ciò? Una risposta, sviluppata prima di tutto negli Stati Uniti dove il razzismo è sempre stato particolarmente forte11, è il

9 Uno dei casi più tipici è quello di Linda. Si tratta di un celebre esperimento di psicologia del ragionamento probabilistico che mostra come la maggior parte dei soggetti commetta errori indotti proprio dalla potenza degli stereotipi. Ai soggetti viene fornita una descrizione di Linda che corrisponde perfettamente allo stereotipo della femminista, poi viene chiesto di valutare se è più probabile che Linda sia (a) una commessa oppure (b) una commessa femminista. La maggior parte delle persone opta per (b) senza rendersi conto che dire «una commessa femminista» restringe la probabilità che la risposta sia giusta, mentre dire solo «una commessa» aumenta le probabilità di indovinare (la categoria di commessa è più ampia della categoria di commessa femminista). Si veda ad esempio Kahneman (2011, capitolo 15), ma anche Frixione (2007). 10 Su questo tema la letteratura è così abbondante che forse la cosa migliore è rimandare a un sito, a nostro parere molto ben fatto, dal titolo Reducing the stereotype threat («Ridurre la minaccia dello stereotipo»): http:// www.reducingstereotypethreat.org. 11 Forse non tutti sanno che il razzismo negli Stati Uniti era rivolto non solo contro i neri, ma anche contro gli europei del Sud, come riporta ma-

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linguaggio politically correct. Il linguaggio politicamente corretto cerca di eliminare parole denigratorie e sostituirle con termini «neutri»: «persona di colore», «nativo americano», «gay», «escort», ecc. La pratica del politically correct è stata però ampiamente derisa (specie da chi è abituato a usare epiteti denigratori). Flavio Baroncelli, in un bellissimo libro dal titolo Il razzismo è una gaffe (1996), ha analizzato a fondo il problema e ha riconosciuto che l’uso di un linguaggio edulcorato non è solo un eufemismo; non «nasconde» le offese ma evidenzia i problemi e la pericolosità degli stereotipi negativi connessi a parole non neutre: «negro» non è «nero», e «culattone» non è «gay». Il linguaggio politicamente corretto aiuta a cambiare atteggiamento e ciò che conta non è tanto usare parole diverse ma intraprendere la «fatica del cambiamento»: usare un linguaggio politically correct è «un modo per addestrare l’animale che noi umani siamo», come si addestra un cane a non mordere. Ovviamente, come Baroncelli mostra abbondantemente, vi sono esagerazioni e lo stesso linguaggio politically correct può diventare a sua volta addirittura controproducente per l’emancipazione di una categoria. Ma iniziare a eliminare termini che hanno un forte senso negativo è un primo passo. Poi tutto dipende dall’atteggiamento della persona: si dice che a Genova don Gallo fosse l’unico da cui omosessuali dichiarati si lasciavano interpellare con parole tradizionalmente spregiative come «buliccio» (il corrispondente del faggot ameri-

gistralmente Gian Antonio Stella (2002, capitolo II). Ora gli standard da dichiarare per la social security negli Stati Uniti non distinguono più tra europei, tutti rientranti tra i «bianchi»; la distinzione di «etnie» è così organizzata (almeno nei formulari del 2005, http://www.usaid.gov/sites/default/files/ Form-SF-181-Aug2005.pdf): bianchi, latini (=sudamericani), neri o afroamericani, asiatici, indiani americani o nativi dell’Alaska, nativi delle Hawaii o altre isole del Pacifico. Negli Stati Uniti il razzismo è sempre molto presente, ma altrettanto intensa è la discussione sulle sue origini e sugli stereotipi sia dei bianchi sia dei neri, a partire da un noto studio di Leonard e Locke (1993), fino alle nuove prospettive proposte da Stanley (2015).

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cano), perché l’atteggiamento del famoso prete di strada era così evidentemente positivo da porre il rapporto come un confronto «tra pari», un po’ come tra i neri non c’è alcuna remora a usare l’appellativo nigger in modo ironico. Baroncelli ricorda la differenza tra verità e appropriatezza: che una persona abbia una certa tendenza sessuale o una certa pigmentazione della pelle può essere vero, ma non sempre è appropriato dirlo. Ad esempio, dire di un presidente degli Stati Uniti d’America che è «abbronzato»12 è un modo per connotarlo come nero, mettendo in rilievo il colore della sua pelle e non la sua funzione e le sue capacità. In effetti, qui di vero c’è ben poco perché è falso che una persona di colore sia abbronzata; un’affermazione del genere, oltre che dar rilievo al colore della pelle, suggerisce che l’unico modo accettabile per avere un colore scuro sia essere bianchi e abbronzati. Chiariamo allora meglio che cosa si può intendere con la tesi secondo cui «il razzismo è una gaffe»; una gaffe è, secondo la definizione del dizionario, «dire qualcosa di vero ma inappropriato nel contesto sociale». Ma che cosa vuol dire «appropriato» e «inappropriato»? Diversi studi sul linguaggio e sulla conversazione, sulla scia del lavoro del filosofo del linguaggio Robert Stalnaker, definiscono un proferimento (cioè l’atto di dire una frase in un certo contesto) come appropriato se presuppone una credenza che è condivisa dai partecipanti. Se la credenza non è condivisa, allora il proferimento risulta inappropriato. Questa definizione ha diverse conseguenze, tra le quali una è immediata e facilmente intuibile: in un ambiente colloquiale, tra amici e magari in modo scherzoso, alcune parole volgari e denigratorie possono essere accettate senza remore. Il problema, però, sorge quando queste parole vengono pronunciate fuori dalla ristretta cerchia di amici. Nel 2004 l’allora ministro per gli Italiani nel mondo, Mirko Tremaglia, fu accusato per aver utilizzato i termini «culat12 È una famosa «battuta» dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi; si veda www.corriere.it del 6 novembre 2008.

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toni» e «froci». Tremaglia all’epoca si difese sostenendo che le sue parole erano state valutate «fuori contesto». Il ministro avrebbe potuto avvalersi di una interrogazione parlamentare in cui si criticava l’onorevole Sgarbi per aver definito a sua volta «culattoni» gli obiettori di coscienza. Nel resoconto stenografico della seduta della Camera in cui quell’interrogazione fu discussa (n. 62 del 14/11/2001, reperibile sul web), si legge che Gianfranco Fini, allora vicepresidente del Consiglio, sostenne che l’onorevole Sgarbi aveva usato il termine senza alcuna intenzione offensiva, trattandosi di un’affermazione fatta nel contesto scherzoso di una trasmissione televisiva a carattere satirico (Le Iene). Il ragionamento è corretto, e sarebbe assurdo incriminare per offesa chi ha detto una battuta in un ristretto contesto satirico; peraltro nella replica all’interrogazione si ricordava che più di 100.000 giovani avevano scelto il servizio civile, lavorando anche in Rwanda, Albania e Kosovo e si sosteneva che «per evitare nel futuro simili gaffe, sarebbe bene che qualcuno nel Governo si impegnasse a ricordare tutto questo all’onorevole Sgarbi» (corsivo nostro). Morale della favola: un dibattito su un’interrogazione parlamentare dà ragione all’idea di Baroncelli che «il razzismo è una gaffe». L’idea di fondo è che la volgarità di certe espressioni funziona come discorso accettabile solo in una ristretta cerchia di amici, ma, al di fuori di quel contesto, ciò che tra amici sembra normale diventa riprovevole per la società ed è considerato non consono all’ambiente sociale, insomma, una gaffe. Forse il problema non è tanto difendersi relativizzando una battuta a un contesto, ma ragionare su cosa vuol dire appartenere a un certo contesto (su questo tema discuteremo a fondo nel capitolo 4). Un punto importante per difendersi dall’abuso dei termini denigratori è sensibilizzare le persone sul significato di tali termini e sul loro utilizzo, cioè sulle responsabilità e sulle conseguenze che l’uso di queste espressioni comporta. È soprattutto una questione di competenza semantica e pragmatica: conoscere le parole e cosa implica il 21­­­­

loro utilizzo in un particolare contesto. Ovviamente, il problema non risiede tanto nel linguaggio, quanto nella situazione di emarginazione sociale ed economica di quelle categorie che sono oggetto di denigrazione. Ma qui solo decisioni di carattere politico possono modificare lo stato delle cose. La nuova mentalità derivante dal mutamento di usi linguistici è solo un segno che i tempi stanno cambiando. Concludiamo con una curiosa ulteriore conferma della tesi di Baroncelli, che si mostra nel cambiamento frettoloso di una campagna pubblicitaria della Microsoft in Polonia, dove un nero (foto di sopra) è stato sostituito da un bianco (foto di sotto) per non offendere la sensibilità dei polacchi:

Commento finale di Microsoft: «Microsoft apologizes for a gaffe in an ad on its Polish Web site» («Microsoft si scusa per una gaffe in uno spot nel suo sito web polacco»). No comment. 5. Presupposizioni Parlando di stereotipi razzisti abbiamo parlato anche di presupposizioni. «Dare per scontato» è il titolo di questo ca22­­­­

pitolo e l’idea di fondo è che vi siano diversi modi di dare per scontato: uno di questi è presupporre. Le presupposizioni costituiscono il terreno comune di una conversazione, la rete di credenze date per scontate: nell’intervenire in una conversazione non si dice ciò che si dà per scontato, ma qualcosa di nuovo. Il bello di una conversazione è la novità apportata da ciascun interlocutore: un’informazione nuova, un diverso punto di vista, qualcosa, insomma, che non fa parte del terreno comune, ma che si basa su di esso. Certe parole aiutano a reperire o ricordare le cose che vengono date per scontate, senza ripeterle inutilmente. Queste parole molto comuni vengono definite dai linguisti «attivatori presupposizionali» perché richiamano alla mente (attivano) presupposizioni, cioè informazioni date per conosciute. Se dico: «Elena ha smesso di fumare», presuppongo che Elena fumava e per lo più dirò questo in un contesto in cui i miei interlocutori sanno che Elena fumava, ma non sanno che ha smesso. «Smettere», dunque, è una parola che «attiva» presupposizioni. Ma gli attivatori presupposizionali possono risultare pericolosi e imbarazzanti se usati in modo improprio. Immaginate di essere stati sempre fedeli e che qualcuno vi domandi: «Hai smesso di tradire il tuo partner?». Difficile rispondere! Se dite «sì», la gente capirà che lo tradivate; se dite «no», la gente capirà che lo state tradendo ancora. In ogni caso, farete la figura dell’infedele. Questo esempio aiuta anche a capire una caratteristica delle presupposizioni: la presenza di una presupposizione si può verificare con il cosiddetto «test della negazione». Sia «Ho smesso di tradire» sia «Non ho smesso di tradire» presuppongono che io tradissi. «Smettere x», in tal senso, è un tipo di verbo che «attiva» la presupposizione che in 23­­­­

un tempo precedente abbia avuto luogo una certa azione x. Mettete qualsiasi cosa al posto della x, in ogni caso il gioco funziona: smettere o non smettere di tradire, smettere o non smettere di fumare, smettere o non smettere di barare, smettere o non smettere di ingozzarsi di cioccolatini, ecc., presuppongono sempre che si tradiva, si fumava, si barava e ci si ingozzava di cioccolatini. La presupposizione (ad esempio tradivo, baravo, fumavo, mi ingozzavo, ecc.) è qualcosa che resta vero sia che la frase in questione (ho smesso di...) venga affermata sia che venga negata. Analogamente, l’affermazione «Il cane di Valeria è docile» presuppone che esista un unico cane di Valeria. Ma, a ben vedere, anche la sua negazione (e cioè, «Il cane di Valeria non è docile») presuppone che esista un unico cane di Valeria. Diverse parole o costruzioni sintattiche «attivano» presupposizioni, cioè attivano quanto deve essere dato per scontato per poter dar senso alla frase in cui compaiono. Gli «attivatori presupposizionali» vengono classificati in modi più o meno sofisticati in varie categorie13, tra cui: – descrizioni definite («Il cane di Valeria» presuppone l’esistenza di un unico cane di Valeria); – verbi di cambiamento di stato (abbiamo appena visto il caso di «smettere» e lo stesso vale per «iniziare», «continuare», ecc.); – verbi fattivi (cioè che presuppongono certi fatti, come ad esempio «sapere», «rimpiangere»: che rimpianga o che non rimpianga di aver compiuto una certa azione, «rimpiangere» presuppone il fatto che io l’abbia compiuta). In questo libro non vogliamo discutere gli aspetti teorici delle presupposizioni, ma mostrare come queste possano venire sfruttate per «far passare» in un modo più efficiente e persuasivo (e a volte persino più subdolo) le proprie idee o per «ammorbidire» certe affermazioni. 13 Per un elenco più esaustivo e una spiegazione del loro funzionamento si veda Domaneschi (2014).

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Si dà per scontato di solito ciò che si ritiene condiviso, perché «tutti lo sanno». Talvolta, però, può capitare di dare deliberatamente per scontate cose di cui i nostri interlocutori non sono al corrente. È ciò che avviene, ad esempio, nei casi di quella che viene definita «presupposizione informativa». Eccone un esempio: immaginiamo che un estraneo stia cercando di conquistare una ragazza in discoteca e che lei, essendo disinteressata, per allontanarlo gli dica: «Il mio ragazzo sta per arrivare». La ragazza, in questo caso, sta informando il giovane del fatto di essere fidanzata comunicando l’informazione «ho un ragazzo» come presupposta, ovvero come se tale informazione fosse già nota al proprio interlocutore; infatti, dire «il mio ragazzo» presuppone che ci sia un ragazzo che ha con lei una particolare relazione. Ma perché talvolta può essere utile veicolare certe informazioni come presupposte? Per due motivi. Primo, è un risparmio di tempo: la ragazza in questo modo evita di dilungarsi a raccontare i dettagli della sua vita. Secondo, protegge da possibili contestazioni. Facciamo un altro esempio classico su questo aspetto, su cui si è discusso molto a partire da Kartunnen (1974). Immaginiamo che un gruppo di genitori si rechi a una cerimonia formale in un auditorium e che gli organizzatori vogliano evitare la presenza rumorosa di bambini durante l’evento. Come potrebbero comunicare questa informazione? Riflettiamo sulla differenza tra queste due frasi: (1) Ci dispiace che i bambini non possano accompagnare i genitori alla cerimonia. (2) I bambini non possono accompagnare i genitori alla cerimonia. Ci dispiace.

Che differenza c’è tra (1) e (2)? La differenza riguarda principalmente ciò su cui si vuole porre l’accento e ciò di cui non si vuole discutere. In (1) non si vuole discutere dei motivi per cui i bambini non possono entrare, e per questo tale informazione viene comunicata come data per scontata, 25­­­­

cioè come se in realtà si trattasse di un dato di fatto già condiviso dall’ascoltatore. In (2), invece, si asserisce che i bambini non possono entrare, e ciò rende più facile una eventuale contestazione da parte dei genitori, del tipo: «Perché non possono accompagnarci?». Questi aspetti di accento sono estremamente rilevanti dal punto di vista di una teoria della conversazione e vanno oltre l’aspetto puramente «automatico» degli attivatori presupposizionali. Con questi esempi si mostra quale uso si può fare degli attivatori e con quali scopi. Se gli esempi che abbiamo appena visto illustrano un uso delle presupposizioni legato a regole di cortesia e di socialità, vi è una funzione di questo livello del non detto che può essere sfruttata per persuadere i nostri interlocutori con una sottile forma di inganno: dare qualcosa per presupposto, comunicandolo sottobanco, significa sottrarlo alla discussione e renderlo più facilmente accettabile anche se ciò che presupponiamo è falso. Prendiamo, ad esempio, lo schema di una tipica discussione politica italiana: «Dobbiamo tagliare l’alta spesa sociale», che presuppone che esista un’alta spesa sociale; a ben vedere, per il test della negazione, chi nega tale proposta e urla duro e puro «No! Non dobbiamo tagliarla!» fa il gioco dell’avversario. Infatti, anche affermare «No! Non dobbiamo tagliarla» presuppone che esista un’alta spesa sociale. In questo modo, il vero problema rimane nascosto: esiste davvero una alta spesa sociale? È una questione della quale occorrerebbe discutere anziché assumerla come data per scontata; magari, si potrebbe scoprire che la percentuale della spesa sociale rispetto al Pil è minore che nella maggior parte di altri paesi simili al nostro. Uno degli esempi più celebri di uso persuasivo di una presupposizione falsa è forse il caso del senatore McCarthy (da cui il termine «maccartismo» per ricordare il periodo di caccia ai comunisti negli Stati Uniti a cavallo tra gli anni ’40 e ’50). Un giorno McCarthy dichiarò: «Non ho abbastanza tempo qui per nominare ad uno ad uno tutti i membri del Dipartimento di Stato che sono stati individuati come ap26­­­­

partenenti al Partito comunista [...]. Ho qui, nelle mie mani, una lista di 205 individui ben noti al segretario di Stato come membri del Partito comunista». Poi si disse che su 205 solo 87 avevano la tessera di partito. E successivamente che non avevano la tessera di partito ma erano solo «coinvolti». Ma la discussione era ormai consolidata e la caccia era in atto: tutti discutevano di quale fosse il reale numero dei comunisti presenti al Dipartimento di Stato. Parlare di «i membri del Dipartimento di Stato che sono stati individuati come appartenenti al Partito comunista» presuppone che esista un particolare numero di membri comunisti. All’epoca, nessuno mise in discussione la presupposizione che esistesse un certo numero di comunisti. Eppure, di fatto, nel Dipartimento di Stato non vi era alcun comunista. McCarthy confidò entusiasta ai suoi collaboratori: «Vedete, tutti discutono di quanti comunisti ci sono nel Dipartimento di Stato e vogliono sapere chi sono. Nessuno si chiede se ci sono». McCarthy, in questo caso, fu molto abile a sfruttare una presupposizione informativa: la presupposizione di esistenza di comunisti nel Dipartimento di Stato14. I verbi fattivi, cioè i verbi come «sapere» o «dispiacersi», che – come abbiamo visto – presuppongono la verità della frase che segue il verbo, sono spesso usati abilmente in ambito processuale dai pubblici ministeri. Un esempio eclatante è la domanda che Antonio Di Pietro rivolse all’allora onorevole Forlani, ex segretario Dc, durante il processo «Mani pulite» il 17 dicembre 1993. Il pubblico ministero chiese: «Ha mai saputo che [...] esisteva un illecito finanziamento al partito da parte degli imprenditori?». Usare il verbo «sapere» presuppone la verità della frase che segue, cioè che esisteva un finanziamento illecito del partito; inoltre, come abbiamo visto, per il test della negazione, sia dicendo «sì», sia dicendo «no», Forlani avrebbe confer-

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Si veda la discussione in Piattelli Palmarini (1996).

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mato la verità di tale presupposizione. Infatti sia rispondendo di sapere, sia rispondendo di non sapere dell’esistenza di un illecito, presupponiamo che un illecito ci sia stato. Forlani per diversi minuti vacilla, e infine fornisce una risposta poco comprensibile. Il giudice allora, forse inconsapevole della potenza delle presupposizioni dei verbi fattivi, chiede una risposta precisa: «Lo sapeva o non lo sapeva?». A questo punto Forlani cadde nel tranello linguistico: «Non sapevo di contributi che fossero venuti al nostro partito e non registrati a norma della legge dei finanziamenti pubblici». Questo equivale a cedere le armi e ammettere la presupposizione. Tuttavia Forlani è un politico piuttosto abile e riesce a salvarsi in corner (almeno dal punto di vista linguistico15). In che modo? Disinnescò la presupposizione denunciandola; dopo alcuni tentennamenti, infatti, risponde: «Non lo sapevo e non lo so nemmeno adesso perché è ipotizzato». Così facendo rende esplicita e dunque mette in discussione la presupposizione «esisteva un finanziamento illecito al partito», asserendo che quella frase corrispondeva solo a un’ipotesi e non a un dato certo. Se guardiamo alla politica spicciola quotidiana non è difficile incontrare lo sfruttamento persuasivo degli attivatori presupposizionali. Un esempio a caso: in un tweet del 25 marzo 2014, Matteo Renzi cinguetta sulla proposta dell’eliminazione delle province italiane: «Se domani passa la nostra proposta sulle province, tremila politici smetteranno di ricevere un’indennità dagli italiani». Invece di parlare di un risparmio nella spesa, l’accento viene posto sul termine «smettere». Come ben sappiamo, il termine attiva la presupposizione che gli italiani abbiano a lungo pagato l’indennità a ben tremila politici. È un esempio abbastanza semplice ma efficace di uso persuasivo di una presupposizione: l’italiano 15 L’audio del processo si trova su un filmato di SkyTg24 reperibile in https://www.youtube.com/watch?v=2lOE9NjiiFI.

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medio, infatti, si sente di guadagnare qualcosa nel «non dare più» soldi che gli sono stati a lungo sottratti dalle tasche. Gli esempi sugli usi strategici delle presupposizioni sono innumerevoli. Proposta: cercare nelle notizie quotidiane quante presupposizioni vengono «passate» silenziosamente da un accorto uso del linguaggio. L’elenco degli attivatori presupposizionali aiuterà in un lavoro di questo genere. Si potranno fare scoperte interessanti.

2.

Dare a intendere

Si possono dire molte parole e in un senso e nell’altro (Omero, Iliade, XX, 249)

1. Esplicito e implicito Per un certo periodo, intorno al 2007, è andata in onda una pubblicità della Mercedes. Lo spot mostra una ragazza bionda che, entrando in una biblioteca, si rivolge alla bibliotecaria dicendo ad alta voce e con aria convinta:

«Vorrei un hamburger, patatine fritte e un frullato». La bibliotecaria, sorpresa, risponde:

«Questa è una biblioteca!». 31­­­­

Una situazione strana. Insomma, una persona normale, con un minimo di conoscenza di cose del mondo, sa che in una biblioteca si prestano libri e non si vende cibo. La ragazza bionda, a questo punto, notando la reazione perplessa della bibliotecaria, si guarda attorno e realizza di aver fatto una gaffe:

Si rende conto di essere in un ambiente silenzioso... e ripete, ma questa volta parlando sottovoce:

«Vorrei un hamburger, patatine fritte e un frullato». Cosa sta dietro a questo scambio di battute? Qualcosa, nella breve conversazione, sembra essere andato storto. Dove si è inceppato esattamente il meccanismo della comunicazione? Innegabilmente la ragazza bionda ha compreso correttamente ciò che ha detto la bibliotecaria, letteralmente: «Questa è una biblioteca». Quello che, invece, la ragazza sembra non aver compreso è ciò che l’addetta della biblioteca intendeva comunicarle dicendo «Questa è una biblioteca», ovvero che in un luogo del genere non si servono né cibi né bevande. Questo esempio ci aiuta a introdurre una seconda idea sul funzionamento della comunicazione linguistica: quando 32­­­­

usiamo il linguaggio, non solo diamo molto per scontato, ma buona parte di ciò che vogliamo comunicare non viene detto esplicitamente bensì viene lasciato intendere ai nostri interlocutori o, in altre parole, viene veicolato in modo implicito. Ed è proprio al livello dell’implicito che spesso ha luogo la maggior parte dei fraintendimenti (come nel caso della bibliotecaria). Distinguiamo così «ciò che viene detto» da «ciò che viene comunicato» o, in altre parole, distinguiamo il significato letterale dal messaggio inteso. Questa semplice distinzione si rivelerà molto fruttuosa. Benché sembri strano, questo vale nella maggior parte dei casi: non diciamo quasi mai direttamente ed esplicitamente tutto ciò che realmente vogliamo comunicare ed è per questo che, nelle nostre conversazioni quotidiane, ci capita spesso di dire, o di sentirci dire, ad esempio, «Cosa intendi dire...?», «Scusa, intendi dire che...» oppure «Non lo ha detto ma è chiaro cosa intendeva dire...». Come mai ci comportiamo in questo modo? Forse siamo pigri? Forse vogliamo essere parsimoniosi anche nell’uso delle parole? Beh, in parte potremmo dire di sì. In effetti, è molto più semplice e veloce evitare di dire tutto se i nostri interlocutori possono comunque capire ciò che intendiamo. Si può sostenere come i teorici della Relevance theory (Sperber e Wilson, 1986) che nella comunicazione siamo portati a cercare il massimo effetto cognitivo con il minimo sforzo. Ma non si tratta soltanto di pigrizia: le ragioni di tale comportamento sono molteplici ed è anche per questo che, nel corso degli ultimi quarant’anni, molti linguisti e filosofi del linguaggio si sono impegnati nel tentativo di spiegare i meccanismi della comunicazione implicita. 2. Come nasce l’implicito? La lunga e complessa indagine sul tema dell’implicito ha avuto origine, in anni recenti, dal lavoro di un importante filosofo del linguaggio inglese di nome Herbert Paul Grice. 33­­­­

La riflessione di Grice parte da una considerazione piuttosto semplice: così come molte altre attività, parlare è un comportamento che richiede cooperazione. Un nostro amico ci aiuta a trasportare un armadio durante un trasloco? Per raggiungere il nostro scopo dobbiamo cooperare con lui dividendoci il peso del mobile. Giochiamo a calcio con la nostra squadra? Se vogliamo vincere la partita dobbiamo cooperare con gli altri giocatori per riuscire a segnare almeno un goal. Conversiamo con i nostri amici per decidere dove andare a cena fuori? Beh, anche in questo caso dobbiamo cooperare. Ma che cosa significa cooperare quando si è coinvolti in una conversazione? Diciamo che perlopiù significa cercare di capire chi ci parla e di farci capire da chi ci ascolta, e capire lo scopo della conversazione. Per capire e farsi capire, secondo Grice, occorre rispettare in particolare alcune regole, più precisamente quattro precetti che egli chiama «massime della conversazione»: Massima della qualità: dobbiamo dire cose che reputiamo vere. Massima della quantità: non dobbiamo dare troppe informazioni ma neanche troppo poche. Massima della relazione: dobbiamo dire cose pertinenti. Massima del modo: dobbiamo esprimerci in modo chiaro e comprensibile.

È importante rispettare queste massime della conversazione, ne va del nostro buon senso. Ad esempio, se chiedessimo un’indicazione stradale a uno sconosciuto e costui, violando la massima della relazione, ci rispondesse: «Mi piacciono le lasagne al sugo», rimarremmo quantomeno perplessi. Insomma, che cosa c’entrano le lasagne al sugo con le indicazioni stradali? Le persone, però, di solito non rispondono «a caso». Risposte a caso ci confondono perché normalmente abbiamo a che fare con individui ragionevoli, e ci aspettiamo che i nostri interlocutori dicano cose vere, informative, pertinenti, parlando in modo chiaro e comprensibile. In altre parole, ci 34­­­­

aspettiamo che i nostri interlocutori rispettino le elementari regole di comportamento cooperativo e, cioè, quelle quattro semplici massime. Anche le persone dotate di ragione e di buon senso, tuttavia, a volte violano queste massime e lo fanno volontariamente, comportandosi in modo apparentemente poco cooperativo. Siamo arrivati così al punto più originale della teoria di Grice: la violazione delle massime della conversazione è una delle principali fonti dell’implicito. Quando, rivolgendosi a Giulietta, Romeo dice: «Cos’è quella luce alla finestra? È l’Est e Giulietta è il sole. Sorgi magnifico sole e uccidi la luna gelosa», Romeo dice esplicitamente qualcosa di falso e viola una delle massime della conversazione, la prima. È evidente, infatti, che Giulietta non sia letteralmente un corpo celeste e che il sole non possa uccidere la luna. Ma Romeo dice esplicitamente qualcosa di palesemente falso con l’intenzione di lasciare intendere implicitamente qualcos’altro, ovvero che Giulietta per lui è una fonte di gioia e una ragione di vita (proprio come il sole) e che la voglia di vivere dovrebbe sconfiggere la luna simbolo della verginità di cui Giulietta è schiava (per cui la luna è gelosa di Romeo perché lui desidera che Giulietta non le sia più sottomessa). Un po’ troppe informazioni da dare esplicitamente: due righe di metafore, che violano la verità dei fatti, invece, lasciano capire molto più di quanto viene detto. Anche quando si dice che «Gli uomini sono uomini» si viola una massima, la seconda, che impone di dire qualcosa di informativo, mentre una tautologia non dice proprio nulla di nuovo; ma dicendo in un certo contesto «Gli uomini sono uomini» è possibile lasciar intendere implicitamente un sacco di cose come, ad esempio, che tutti gli uomini hanno debolezze tipiche dello stereotipo maschile. Come violazione della terza massima, Grice stesso sugge35­­­­

risce un caso emblematico: a un professore viene richiesto di scrivere una lettera di referenze per un suo studente poco brillante desideroso di essere ammesso in una prestigiosa università. Il professore non può fare a meno di scriverla, e la scrive così: «Lo studente x che ha seguito le mie lezioni, sa scrivere bene al computer, i suoi lavori sono bene ordinati e formattati, la stampa dei suoi saggi è sempre perfetta». In tal modo nella lettera espone dettagli irrilevanti (violando, così, la massima della relazione), lasciando intendere, senza dirlo esplicitamente, un suo giudizio negativo sulle capacità di ricerca del candidato. Infine, immaginiamo che Carlo, stonato come una campana, canti a un karaoke e che qualcuno ci chieda: «Come ha cantato Carlo ieri?». Noi, un po’ imbarazzati, rispondiamo: «Beh, ha emesso una sequenza di suoni articolati in una successione temporale coerente con la musica». In questo caso, esprimendoci in modo contorto e inutilmente prolisso, violeremmo la massima del modo, lasciando intendere implicitamente che preferiremmo non esprimere un giudizio sulle sue doti canore. Ecco dunque un modo in cui funziona la comunicazione implicita: quando un parlante dice qualcosa che non risulta sufficientemente verosimile, informativo, pertinente o perspicuo, agli occhi dei suoi interlocutori si comporta in modo apparentemente irragionevole; per dar senso al suo comportamento, gli ascoltatori devono ricercare un senso alternativo a ciò che viene detto esplicitamente, qualcosa che viene lasciato intendere in modo implicito. 3. Le funzioni dell’implicito L’uso diffuso della comunicazione implicita non è solo una questione di comodità o di pigrizia. Lasciar intendere qualcosa implicitamente invece di dirlo in modo esplicito spesso è un modo per produrre particolari effetti comunicativi. Per intenderci, se invece di paragonare Giulietta al sole Romeo si fosse limitato a dire «Giulietta è fonte di piacere» non avreb36­­­­

be dimostrato delle grandi doti poetiche e seduttive e forse la storia di Shakespeare avrebbe avuto un epilogo meno romantico (ma, d’altra parte, anche meno tragico). Dell’implicito, non a caso, si fa grande uso nella comunicazione pubblicitaria, giornalistica e, soprattutto, politica. Perché? Perché tra le tante funzioni della comunicazione implicita ve ne sono due che risultano particolarmente efficaci in certe forme di comunicazione strategica: l’implicito seduce chi ascolta, l’implicito tutela chi parla. Perché l’implicito seduce chi ascolta? L’idea è piuttosto semplice: mentre un messaggio esplicito viene compreso direttamente e senza sforzo, un messaggio implicito per essere capito deve essere ricavato dagli ascoltatori i quali, in un certo senso, diventano complici del messaggio stesso. Vediamo un esempio tratto dalla comunicazione pubblicitaria. Lo spot in questione promuove una marca di preservativi. La pubblicità si apre con l’inquadratura di un pub pieno di maiali:

I maiali provano a flirtare con le ragazze ma le ragazze, ovviamente, sembrano non essere interessate.

Uno dei maiali, allora, si reca in bagno, acquista un preservativo e si trasforma miracolosamente in un bel ragazzo. 37­­­­

Solo a questo punto, una volta tornato in sala, riesce a conquistare una ragazza. Lo spot si conclude con una raccomandazione: «Evolvi!». Il messaggio che la pubblicità tenta di veicolare è «Usare il preservativo è una scelta intelligente». Ma il messaggio non viene detto, bensì viene lasciato intendere. Ciò che ci interessa far notare in questo caso è che, se lo stesso messaggio fosse comunicato espressamente e palesemente, lo spot avrebbe un effetto decisamente meno persuasivo o perlomeno il messaggio verrebbe ricordato con maggiore difficoltà. In questa pubblicità, invece, gli ascoltatori stessi sono chiamati a ricostruire il contenuto del messaggio con una serie di passaggi basati su presupposizioni condivise e stereotipi (i maiali sono animali inferiori e sporchi) e sulle informazioni fornite dallo spot, che sono costituite da una serie di falsità ovvie: i maiali non vanno a bere al bar e non si trasformano in umani. Qui la seduzione va di pari passo con il calcolo: infatti occorre fare del lavoro mentale per «calcolare» il messaggio implicito. È un principio di Grice che le implicature siano «calcolabili», cioè derivabili dalla violazione delle massime assieme a presupposizioni condivise. I passi del calcolo potrebbero essere illustrati nel modo seguente: i maiali non sono esseri evoluti e intelligenti, perciò non riescono a conquistare le belle ragazze presenti nel pub; un maiale compra un preservativo e si trasforma in un essere evoluto e intelligente e, grazie a ciò, conquista una ragazza. Conclusione: usare il preservativo è una scelta intelligente. In questo caso è il pub38­­­­

blico stesso che ricostruisce il messaggio della pubblicità e che, in un certo senso, diventa in parte autore del messaggio stesso. Da qui a capire perché un messaggio implicito seduca e rimanga più impresso negli ascoltatori, il passo è breve. Il principio è piuttosto semplice: se io recito a mio nipote la tabellina del 4 è difficile che lui se la ricordi, se invece gli chiedo di provare a «calcolarla» da sé è più probabile che la volta successiva sappia recitarla a menadito. Vediamo ora la seconda funzione strategica della comunicazione implicita: perché l’implicito tutela chi parla? In sintesi: un messaggio che passa come sottinteso non è direttamente discutibile o criticabile. In altre parole, dire qualcosa esplicitamente comporta mettere le proprie idee allo scoperto e porle sul tavolo della discussione a disposizione della critica. Comunicare qualcosa indirettamente, in modo implicito, invece, consente di passare determinate informazioni di soppiatto e in modo ammiccante prendendone, in un certo senso, le distanze. Facciamo un esempio con un episodio di qualche tempo fa. Siamo in Italia nell’aprile 2013 e, in particolare, nel periodo dell’elezione del presidente della Repubblica. Il panorama politico di allora era caratterizzato da tre principali forze contrapposte: il Movimento 5 Stelle, il Partito Democratico e il Popolo delle Libertà. Il M5S, a seguito di una consultazione on line, presenta come proprio candidato Stefano Rodotà, noto e stimato costituzionalista che annovera nel suo curriculum una militanza nelle file dei Ds, partito di centrosinistra dal quale ha avuto origine il Pd. Il M5S, in poche parole, propone un candidato votabile anche dal Pd: per il Partito democratico sostenere la candidatura di Rodotà significherebbe spalleggiare il M5S, respingerla vorrebbe dire dover giustificare una scelta poco coerente agli occhi dei propri elettori. Il Pd opta per una figura alternativa e il 20 aprile, con il supporto dei voti del Pdl, sostiene la rielezione al Quirinale di Giorgio Napolitano. Bersani, il segretario del Pd, in più occasioni si trova a dover dare giustificazioni per far apparire 39­­­­

come legittima una decisione apparentemente incongruente della dirigenza del proprio partito. Qualche mese dopo, il 3 settembre 2015 durante una diretta della trasmissione televisiva In onda, Bersani, in collegamento da Genova, si trova a faccia a faccia con Rodotà.

Luca Telese, il conduttore, domanda a Bersani: «Qualche volta ha sognato [...] un governo con Bersani premier e Rodotà al Quirinale?»:

E Bersani risponde: «Figurati, io con Stefano Rodotà farei qualsiasi cosa...». Che cosa c’è di interessante in questo breve scambio di battute? Proviamo a immaginare che cosa sarebbe successo se alla domanda di Telese Bersani si fosse limitato a rispondere «Sì». Il giornalista molto probabilmente avrebbe replicato: «Ma allora perché non avete eletto Rodotà quando ne avete avuto l’occasione?». Bersani, invece, afferma: «Io con Stefano Rodotà farei qualsiasi cosa». Tornando alle nostre massime della conversazione, che cosa potremmo dire 40­­­­

di questa risposta? Bersani viola la massima della quantità dicendo esplicitamente molto più di quanto richiesto dalla domanda (cui sarebbe bastato rispondere appunto con un «Sì» o un «No»). In questo modo, Bersani lascia intendere implicitamente due cose: primo, con Rodotà Bersani farebbe di tutto (suscitando, in questo modo, una risata tra i presenti), compreso il fatto di eleggerlo al Quirinale; secondo, Bersani farebbe qualsiasi cosa con Rodotà perché Rodotà è una persona degna di grande stima e rispetto. Il punto in questione è che in questa occasione Bersani riesce a fornire una risposta apparentemente soddisfacente e che al contempo lo mette al riparo da possibili domande imbarazzanti. Egli, infatti, sfruttando l’implicito, manifesta la propria approvazione rispetto all’eventualità di un’elezione di Rodotà a presidente della Repubblica ma nel contempo riesce a disimpegnarsi e, in un certo senso, a evitare di esprimere in modo esplicito la propria opinione ponendola direttamente sul tavolo della discussione sotto gli occhi di tutti. Vi è un altro aspetto che consente a Bersani di tutelarsi e di prendere le distanze dalla questione dell’eleggibilità di Rodotà. L’idea è che, comunicando il suo commento in modo implicito, Bersani riesce a presentare la faccenda dell’elezione di Rodotà come un aspetto marginale che non può prescindere da un’altra considerazione che egli veicola sempre implicitamente, ovvero il fatto che Rodotà, prima ancora che un candidato eleggibile o non eleggibile, sia innanzitutto una persona verso la quale Bersani nutre grande ammirazione. Insomma, un semplice «Sì» di Bersani sarebbe stato una risposta certamente più responsabilizzante. Qui non ci interessano considerazioni di carattere politico, piuttosto vogliamo puntare i riflettori su un aspetto ben preciso: l’idea che la comunicazione implicita possa essere sfruttata per tutelarsi o, più precisamente, per inserire nella discussione in modo indiretto questioni che, se comunicate in modo diretto ed esplicito, potrebbero risultare compromettenti per chi parla. 41­­­­

4. Implicature: tipi di implicito Finora abbiamo visto che dell’implicito si fa ampio uso anche grazie alle sue funzioni «strategiche». A questo punto, qualche termine tecnico aiuterà. Grice, nel suo lavoro preliminare, definisce «implicature» le informazioni che vengono comunicate implicitamente sulla base di ciò che viene detto in modo esplicito, e su quanto viene presupposto in una conversazione. All’interno della categoria delle implicature, Grice distingue due tipi principali: le implicature conversazionali e le implicature convenzionali. Implicature conversazionali.      Innanzitutto, che cosa sono? Sono tutti quegli impliciti che hanno origine quando vengono violate le massime della conversazione (una di esse o a volte anche più d’una). Esistono diversi tipi di implicature conversazionali. Due tipi particolarmente rilevanti sono le implicature scalari e le implicature generalizzate. Le implicature scalari sono impliciti generati da «scale lessicali». Ad esempio, se dico «Alcuni studenti hanno preso 30» implicitamente comunico che «Non tutti gli studenti hanno preso 30» grazie al fatto che, in quanto parlanti dell’italiano, siamo a conoscenza della scala lessicale . Detta così potrebbe sembrare una riflessione un po’ sofisticata per linguisti esperti; ma di fatto è un tipo di implicatura usata molto spesso, sia nella conversazione quotidiana, sia in pubblicità.

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Come funziona questa pubblicità? L’espressione «sconti fino al 50%» significa che non ci saranno sconti oltre al 50% ma ci saranno tanti sconti al 50%, forse tutti. Di fronte a una pubblicità del genere, dunque, il cliente potrà legittimamente pensare quantomeno che vi siano numerosi prodotti a metà prezzo e correrà al negozio con grandi aspettative. Implicitamente, però, il messaggio lascia intendere che vi siano alcuni prodotti scontati al 50%, ma non tutti. Quindi, di fatto, potrebbe esservi anche un solo prodotto a metà prezzo. Laddove il cliente si adirasse una volta scoperto che di prodotti al 50% ve ne è uno solo, e per di più inutile, il negoziante avrà tutte le sue ragioni per difendersi e potrà dire: non conosci le implicature scalari? Quelle scalari sono un caso particolare di un tipo di implicature conversazionali dette «generalizzate». Potremmo dire che le implicature generalizzate sono tutti gli impliciti generati dall’uso di espressioni di una certa forma, in assenza di circostanze particolari. Ad esempio, se dico «Paolo stasera esce con una donna», di norma implico che la donna in questione non sia né sua mamma, né sua sorella, né sua zia, ecc. Certo, potrei smentirmi facendo presente che in realtà stasera Paolo uscirà proprio con sua mamma per portarla a teatro, ma in questo caso probabilmente direi «Paolo esce con sua mamma», perché l’uso dell’espressione «una donna», come nella frase citata, generalmente implica che la donna in questione non sia una parente stretta di chi parla, ma una persona estranea con cui Paolo ha o può avere un rapporto diverso dai normali rapporti famigliari. Questo vale per diversi usi di «un», come: «Paolo è entrato in una casa» «Paolo ha guidato una macchina» ecc.

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In questi casi è ovvio che si tratti di una casa generica o di una macchina generica, e non della casa di Paolo o della macchina di Paolo. Queste implicature sono dette «generalizzate» perché si attivano in generale con l’utilizzo di un’espressione di una certa forma, a prescindere dalla particolare occasione d’uso. Analogo discorso vale per l’uso di «e». Dicendo «Marina ha avuto un figlio e si è sposata», diciamo che «Marina si è sposata» e che «Marina ha avuto un figlio». In altre parole, non ci esprimiamo direttamente riguardo all’ordine in cui hanno avuto luogo questi eventi. Detto ciò, tutti riconosciamo facilmente che «Marina ha avuto un figlio e si è sposata» generalmente lascia intendere in modo implicito il fatto che Marina prima abbia avuto un figlio e poi si sia sposata. Le implicature generalizzate rendono conto del fatto che, di norma, usando espressioni di una certa forma, diamo origine a diversi modi dell’implicito. Su questo aspetto si fa leva soprattutto nella comunicazione politica e giornalistica, dove si cerca di comunicare un messaggio in breve tempo o in poco spazio. Un caso lampante è offerto da tutte quelle circostanze in cui vengono accostate due frasi diverse per implicare un legame causale tra di esse. Guardiamo ad esempio questo manifesto propagandistico esposto qualche anno fa dalla Lega Nord:

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In questo caso, si stanno dicendo due cose: «Loro [i pellerossa] hanno subito l’immigrazione» e «Ora vivono nelle riserve». L’uso dell’espressione «I pellerossa hanno subito l’immigrazione. Ora vivono nelle riserve» genera l’implicatura «Il fatto che i pellerossa abbiano subito l’immigrazione è causa del fatto che siano finiti a vivere reclusi nelle riserve». Al di là della similitudine poco condivisibile o per lo meno opinabile, il punto interessante è il seguente: l’uso di una certa forma di espressione, cioè l’accostamento di due frasi in successione, è esattamente ciò che comunica implicitamente una relazione causale. È una delle tecniche più comuni nei titoli dei quotidiani: «Mancanza di fondi. Chiude l’Istituto», oppure: «Assenza di controlli di sicurezza. Il treno deraglia». In questi casi si può capire il proverbio «meno è meglio»; infatti, violare la regola della quantità, cioè dire meno di quanto richiesto, aiuta a veicolare più informazione in meno spazio. Con il caso delle implicature scalari e delle implicature generate da termini come «un» ed «e» o dalla giustapposizione di frasi o espressioni abbiamo presentato esempi generali di implicature conversazionali «generalizzate»; ma, come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, vi sono innumerevoli usi «occasionali» di implicature conversazionali, che nascono spontaneamente in ogni occasione in cui, per seguire la regola del «meno è meglio», invece di sfinire il nostro interlocutore (e noi stessi) con lunghe spiegazioni, violiamo una regola per «far capire» quello che vogliamo comunicare in modo rapido e breve. Implicature convenzionali.   Veniamo ora al secondo tipo principale di implicature: le implicature convenzionali. Di cosa si 45­­­­

tratta esattamente? Le implicature convenzionali sono impliciti generati dal significato convenzionale delle espressioni linguistiche contenute all’interno di un enunciato. Esempio: immaginiamo che Carlo dica «Filippo è povero ma onesto». Dicendo una frase del genere, Carlo lascia intendere l’implicatura «Generalmente chi è povero non è onesto». Come mai? Perché Carlo usa la parola «ma» che è una congiunzione avversativa e che comunque la si usi, per convenzione, implica un senso di opposizione o contrasto. Così vale per ogni applicazione di «ma»: «Karl è svizzero ma ritardatario» implica «Generalmente chi è svizzero non è ritardatario», «Sara è italiana ma non ama la pizza» implica «Generalmente chi è italiano ama la pizza», ecc. Lo stesso vale per molte altre espressioni linguistiche come «quindi», «persino» o «ancora»: «quindi» implica una conseguenza logica, «persino» spesso suggerisce implicitamente l’idea di eccesso, «ancora» lascia intendere un senso di ripetitività, ecc. Proviamo a concentrarci su un breve passaggio di un tipico caso di studio della comunicazione politica: il Discorso alla gioventù tedesca tenuto da Hitler nel 1934 a Norimberga. In questa orazione, egli anima i giovani della Hitlerjugend elencando con enfasi quelle che reputa essere le aspettative del popolo tedesco nei confronti delle nuove generazioni. In un punto del suo intervento, il Führer manifesta un auspicio particolare dicendo: ... vogliamo che questa nazione ami la pace ma che abbia anche molto coraggio; e voi dovete essere pacifici e coraggiosi allo stesso tempo.

In questo passaggio Hitler sfrutta un’implicatura convenzionale e riesce così a veicolare la tesi che costituisce il filo conduttore del suo discorso. In sintesi, utilizzando 46­­­­

la congiunzione avversativa «ma», egli genera l’implicatura convenzionale «Generalmente amare la pace ed essere coraggiosi sono comportamenti in contrasto tra loro». Nell’enunciato successivo, però, il Führer invita i giovani a «essere pacifici e coraggiosi allo stesso tempo», ordinando loro di sforzarsi a conciliare due comportamenti che implicitamente vengono presentati come contraddittori. Proprio grazie a questa breve mossa retorica, Hilter riesce a veicolare implicitamente un’esortazione più generale a superare ciò che apparentemente risulta contraddittorio, a togliere ogni regola e ad essere liberi di «tutto e il contrario di tutto»: è il «trionfo della volontà». Il giovane nazista dovrà andare oltre alle proprie possibilità superando anche ciò che apparentemente risulta insuperabile in quanto contraddittorio, diventando così un «superuomo» libero di fare ciò che vuole. Ecco, dunque, un buon esempio di sfruttamento strategico delle implicature convenzionali. 5. La cancellabilità o «come non detto» Arriviamo ora a considerare uno degli aspetti più affascinanti e curiosi dell’implicito. Abbiamo visto che esistono vari tipi di implicature che hanno origine in modi differenti e che possiedono diverse caratteristiche, come, ad esempio, la «calcolabilità» di cui abbiamo già parlato (pp. 38 sgg.). Vediamo ora, invece, la proprietà della cancellabilità. Che cosa si intende con cancellabilità? Più precisamente, chi cancella che cosa? L’idea di «cancellare» fa pensare allo scrivere su un foglio una frase con la matita e subito dopo passarci la gomma sopra; o allo scrivere un tweet e cancellarlo dopo averlo postato. Spesso, quando si dice qualcosa di sconveniente, di fronte a un’osservazione critica si reagisce con un «Come non detto». Ma c’è una differenza tra negare di aver detto qualcosa e negare di aver voluto intendere qualcosa. Il problema della cancellabilità riguarda il secondo caso. Infatti, non tutto ciò che comunichiamo usando il lin47­­­­

guaggio verbale può essere effettivamente «cancellato» come se niente fosse. Vediamo prima di tutto cosa succede quando neghiamo qualcosa che abbiamo detto. Si può negare ciò che si è detto in due modi differenti: (i) «ritirare» esplicitamente quello che si è detto, esponendosi in prima persona e ammettendo di aver sbagliato; in questo modo, ci si mette in una situazione di inferiorità rispetto agli altri, ma si può suscitare una certa comprensione e simpatia; (ii) sostenere che non si è detto quanto si è effettivamente pronunciato; in questo modo, si cade in contraddizione e si rischia di venire sbugiardati di fronte all’evidenza. Ecco un esempio del caso (ii): il 21 maggio 2008, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sta tenendo una conferenza stampa sul tema dell’emergenza rifiuti a Napoli insieme ad altri ministri del governo in carica. Durante il proprio intervento il premier dichiara: Nel nostro primo Consiglio abbiamo prima di tutto affrontato con un decreto legge il problema, suggerendo una soluzione che sarà seguita passo per passo e che io sono, siamo convinti, porterà a una vita nuova per Napoli...

Al termine dell’incontro, nella parte dedicata ai quesiti della stampa, la giornalista Conchita Sannino interviene dicendo: «Buonasera presidente, sono di ‘Repubblica’. Lei ha parlato di una vita nuova per Napoli, la città dei fiori anziché...»; a questo punto, Berlusconi, scocciato, interrompe subito la giornalista e, correggendola, afferma: «‘Vita nuova per Napoli’ l’ha detto lei», e aggiunge: «L’ho detto io? No, non l’ho detto». La Sannino tenta di replicare dichiarando: «Beh, l’abbiamo scritto in tanti» e Berlusconi perentorio insiste: «No, guardi, non l’ho detto», suscitando in questo modo un senso di imbarazzo tra i presenti1. Insomma, è piuttosto chiaro cosa mostra questo esempio: non c’è modo di cancellare o rimangiarsi a posteriori   L’episodio è tratto da Sannino (2010).

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ciò che viene detto esplicitamente senza cadere in contraddizione. Se uno ci prova, si contraddice, rischiando di fare una figuraccia, almeno dal punto di vista logico. Chi ha abbastanza potere può anche negare di aver detto ciò che ha detto; chi non ne ha abbastanza non può permetterselo. Ma un politico accorto ha un’altra interessante possibilità: se qualcosa viene comunicato tramite un’implicatura, il messaggio può essere legittimamente «cancellato» a posteriori senza che chi parla corra il rischio di cadere in contraddizione. Questa è una caratteristica davvero sorprendente perché consente di suggerire una tesi o un’idea per poi prenderne le distanze a posteriori, deresponsabilizzandosi. Insomma, grazie alla cancellazione dell’implicito è effettivamente possibile tirare il sasso e nascondere la mano, senza correre il rischio di essere scoperti. C’è un’osservazione da fare: non tutti i tipi di implicito sono cancellabili. Ad esempio le implicature convenzionali non possiedono tale proprietà. Per quale ragione? La spiegazione è semplice. Immaginiamo che io dica: «Hans è svizzero ma non è puntuale». Come abbiamo visto, l’uso della congiunzione avversativa «ma» per convenzione comunica implicitamente che «Generalmente chi è svizzero è puntuale». Ora, se io subito dopo dicessi: «Hans è svizzero ma non è puntuale; però non intendo dire che generalmente chi è svizzero è puntuale», come minimo susciterei in chi mi ascolta qualche perplessità e probabilmente mi sentirei rispondere: «Scusa, ma se secondo te chi è svizzero generalmente non è puntuale, allora perché dici che Hans è svizzero ma non è puntuale?». Ecco il punto: un’implicatura convenzionale è legata al significato delle espressioni che un parlante usa, dunque non può essere facilmente ritrattata a posteriori. Le implicature conversazionali, invece, possiedono la proprietà della cancellabilità. Vediamo un esempio: all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 del Tribunale Ecclesiastico della Liguria, il presidente del Tribunale mons. Paolo Rigon, 49­­­­

a fianco del cardinale Angelo Maria Bagnasco, svolge la sua relazione. Il vicario giudiziale dedica il suo intervento alle principali ragioni che sono alla base della separazione tra coniugi nel rapporto matrimoniale. Nell’affrontare tale tematica, in un passaggio della sua relazione, Rigon tocca il tema dell’omosessualità e dichiara: Non si nasce omosessuali, la nascita dell’omosessuale è rarissima, nel senso di disfunzione ormonale o fisica. Quindi, dal momento che l’omosessualità è indotta, bisogna prenderla dall’inizio, perché così si può superare, attraverso la psicoterapia.

In questo intervento, mons. Rigon non definisce esplicitamente l’omosessualità come una malattia. È altrettanto evidente, però, che questa definizione viene lasciata intendere in modo implicito in due punti. Primo punto: Rigon valuta l’omosessualità come un fenomeno raro se intesa come «disfunzione ormonale o fisica». L’espressione «disfunzione ormonale o fisica» è una perifrasi che viola la massima del modo (è una maniera un po’ contorta o asettica per parlare di malattia) e implicitamente rimanda dunque al concetto di malattia intesa come alterazione dello stato fisiologico di un organismo. Secondo punto: Rigon afferma «l’omosessualità è indotta [...] si può superare, attraverso la psicoterapia». In questo caso, a monte vi è un ragionamento un po’ più articolato del precedente ma comunque abbastanza semplice da comprendere: se l’omosessualità può essere superata attraverso la psicoterapia e se la psicoterapia è metodo di cura di certe forme patologiche, allora ne segue che l’omosessualità è una forma patologica, ovvero, una malattia. Come si può immaginare, all’epoca le parole di mons. Rigon scatenarono un putiferio tanto che spinsero associazioni omosessuali come Arcigay, Arcilesbica Genova e Gaylib Liguria a presentare esposti nei confronti dell’alto prelato alla Procura della Repubblica oltre che all’Ordine dei medici e all’Ordine degli psicologi. A seguito del trambusto mediatico 50­­­­

suscitato dall’episodio, mons. Rigon intervenne di nuovo dichiarando pubblicamente: Non ho mai definito l’omosessualità una malattia o un male da estirpare. Ma io sono il presidente del Tribunale Ecclesiastico e dal mio punto di vista l’omosessualità è un problema se si manifesta all’interno della famiglia.

Dopo qualche tempo, la Procura della Repubblica chiese l’archiviazione della denuncia contro mons. Rigon per infondatezza della notizia di reato. Ora, che cosa possiamo concludere da un punto di vista strettamente linguistico su questa vicenda? Due cose. Primo: è vero, Rigon non ha mai asserito esplicitamente che l’omosessualità sia una malattia. Un esposto fondato su questo capo d’accusa, pertanto, sarebbe potuto risultare facilmente infondato. Però è evidente che pur non avendo detto espressamente che l’omosessualità sia una forma di patologia, Rigon lo abbia lasciato intendere in modo implicito. Ma qui sopraggiunge una seconda conclusione interessante: il presidente del Tribunale, con il suo secondo intervento, è stato particolarmente abile a cancellare esplicitamente ciò che aveva lasciato intendere in modo implicito durante il suo primo intervento dicendo: «Non ho mai definito l’omosessualità una malattia o un male da estirpare». Risultato: Rigon è riuscito a introdurre nel dibattito un punto di vista fortemente compromettente, soprattutto sul piano giuridico, tutelandosi da possibili conseguenze legali. In che modo? Tramite una semplice strategia linguistica: comunicando il proprio messaggio in modo implicito e cancellandolo a posteriori. Facciamo un altro esempio per rendere conto di quanto la cancellabilità dell’implicito sia una proprietà sfruttata, spesso con buoni esiti, nella comunicazione politica. Consideriamo il celebre episodio dell’editto bulgaro o editto di Sofia che ha avuto come protagonista nuovamente l’ex premier Silvio 51­­­­

Berlusconi. Ricordiamo brevemente i passaggi salienti della vicenda: il 18 aprile 2002, durante una visita ufficiale a Sofia in qualità di presidente del Consiglio, Berlusconi muove una severa critica nei confronti dei giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro e del comico Daniele Luttazzi, tutti e tre conduttori di programmi della Rai. Più precisamente, nel corso di una conferenza stampa Berlusconi dichiara: L’uso che Biagi... Come si chiama quell’altro? Santoro... Ma l’altro? Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga.

Dopo poco tempo, Biagi, Santoro e Luttazzi vengono esclusi dal palinsesto televisivo delle tre reti di Stato. Nel novembre del 2007, cinque anni e mezzo dopo, viene a mancare Enzo Biagi. In un clima generale di costernazione per la perdita di un’importante firma del giornalismo italiano, Berlusconi, ormai all’opposizione, commentando la notizia della scomparsa del giornalista, prova a chiarire la sua posizione rispetto al cosiddetto editto bulgaro dichiarando quanto segue: Non c’era nessuna intenzione di far uscire dalla televisione e neppure di porre veti alla permanenza in tv di chicchessia.

Pochi mesi dopo, nel febbraio 2008, invitato alla trasmissione televisiva Tv7 condotta da Gianni Riotta, Berlusconi torna nuovamente sull’argomento e afferma: Mi sono battuto perché Enzo Biagi non lasciasse la televisione, ma alla fine prevalse in Biagi il desiderio di poter essere liquidato con un compenso molto elevato.

Mettiamo subito in chiaro un punto: in questa sede non ci interessa appurare la veridicità delle affermazioni di Ber52­­­­

lusconi né tantomeno darne un giudizio politico. Il nostro unico scopo è mostrare i meccanismi linguistici tramite i quali Berlusconi è giunto a produrre una certa rappresentazione della vicenda dell’editto di Sofia. Procediamo passo per passo. Nel primo intervento, Berlusconi valuta come criminoso l’uso della televisione pubblica perpetrato da Biagi, Santoro e Luttazzi e afferma: «Io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga». Come nel caso precedente di mons. Rigon, anche in questa occasione Berlusconi non dichiara esplicitamente una sua intenzione di allontanare dalla Rai Biagi, Santoro e Luttazzi ma, inequivocabilmente, ammette che essa venga riconosciuta come una possibilità plausibile. Anzi, una delle uniche due alternative ammissibili che la dirigenza Rai, per evitare un uso criminoso della televisione da parte dei tre dipendenti, avrebbe potuto mettere in atto: tagliare la testa al toro ed estromettere Biagi, Santoro e Luttazzi dal palinsesto, oppure porre una forma di controllo nei confronti della loro attività televisiva. Nel suo secondo intervento, Berlusconi, tra le due alternative, cancella a posteriori l’implicatura più compromettente dicendo: «Non c’era nessuna intenzione di far uscire dalla televisione e neppure di porre veti alla permanenza in tv di chicchessia», lasciando intendere, in questo modo, che il suo primo intervento fosse finalizzato a veicolare la seconda implicatura plausibile: era necessario porre una forma di controllo nei confronti dell’attività di Biagi, Santoro e Luttazzi. Nel terzo intervento, Berlusconi ritratta definitivamente quanto implicato in origine affermando esplicitamente l’esatto contrario: non solo non era sua intenzione lasciar intendere l’ipotesi di un’epurazione ma, nel caso di Enzo Biagi, egli rivela di essersi battuto per far sì che il giornalista non lasciasse la televisione. Risultato: Berlusconi è riuscito a insinuare l’ipotesi dell’estromissione di Biagi, Santoro e Luttazzi dai palinsesti, deresponsabilizzandosi a posteriori. In che modo? Prima, negan53­­­­

do di aver mai inteso qualcosa del genere, poi, affermando l’esatto contrario e, infine, cancellando definitivamente di aver proposto esplicitamente tale ipotesi. Non è facile stabilire se Berlusconi nel suo primo intervento intendesse veramente persuadere la dirigenza Rai ad allontanare i tre personaggi televisivi dall’azienda. Infatti, come è noto, non si può fare un «processo alle intenzioni». Ed è su questo che si basa la liceità di cancellare un’implicatura. Ma una cosa è certa: Berlusconi avrebbe potuto sopprimere fin dall’origine questa interpretazione negandola esplicitamente invece di non far nulla per far sì che tale ipotesi venisse intesa implicitamente. Caso diverso, con una immediata cancellazione dell’implicatura, è quello di papa Benedetto XVI, che in una sua Lectio Magistralis del 2006 dal titolo «Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni», presso l’Università di Ratisbona, citò un’asserzione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo: Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava.

Alla divulgazione via web di questa frase seguirono diversi gravi incidenti e violenze da parte di fondamentalisti musulmani che si ritennero offesi dalle parole del pontefice. Fu facile per gli integralisti interpretare le sue dotte citazioni come qualcosa che il papa sottoscriveva. Per fermare una terribile deriva anticristiana nel mondo, per la prima volta nella storia della Chiesa cattolica, la Santa Sede, tramite il suo segretario Tarcisio Bertone, intervenne per ritrattare: il papa non intendeva sostenere la tesi riportata, che era solo una citazione dotta nel suo intervento. In tal modo, Bertone riuscì così a cancellare l’implicatura che alcuni avevano pensato derivasse dalle parole del papa. Ma una citazione non è un’asserzione. Citare non comporta sottoscrivere ciò che si cita. Bisogna anche ammettere che molti fanatici religiosi sono probabilmente incapaci di distinguere tra una affermazione 54­­­­

e una citazione tra virgolette, eppure la differenza è fondamentale: possiamo dire che la parola «Napoleone» ha nove lettere, ma la parola «Napoleone» non ha vinto la battaglia di Austerlitz e non ha perso la battaglia di Waterloo. Le parole non perdono battaglie come gli umani; è stato Napoleone in carne e ossa a vincere e perdere. Così, quando noi citiamo le parole di certi politici come Berlusconi e Grillo, con questo non intendiamo sottoscriverle; sono loro in carne e ossa a parlare, noi ci limitiamo a scriverne. 6. Metafore In quest’ultimo paragrafo vorremmo dedicare qualche riflessione a un tema classico nell’ambito di studi sull’implicito: la metafora. Ci sarebbe veramente molto da dire sulla questione. La metafora, infatti, è stata un oggetto di interesse privilegiato nell’ambito degli studi sul linguaggio fin dalle origini del pensiero occidentale e, in particolare, a partire dalla Poetica di Aristotele. Per molti secoli, nel campo della retorica, la metafora è stata considerata una delle principali figure ornamentali del discorso e ha attratto l’interesse di filosofi, linguisti e, in tempi più recenti, anche di psicologi e scienziati cognitivi. Per quanto ci riguarda, ci limiteremo a dire due cose: che cos’è una metafora e che uso se ne fa. Che cos’è una metafora? In breve, si può dire che la metafora è un esempio (forse il caso più emblematico) di «linguaggio figurato», ovvero, un uso non letterale del linguaggio. Esistono tante forme di linguaggio figurato come, ad esempio: – la metonimia: «Bere un bicchiere» dove il contenitore sta per il contenuto; – l’ironia: «Oggi è una bella giornata!» detto in un giorno di pioggia; – la sineddoche: «Le vele della flotta inglese», dove la parte (le vele) sta per il tutto (le imbarcazioni); 55­­­­

– l’iperbole: «Sono morto dal ridere», ove si arricchisce la descrizione di un fatto con un’esagerazione per rafforzarne il contenuto; – l’ossimoro: «Lucida follia» o «Ghiaccio bollente» (o la «dotta ignoranza» di Agostino di Ippona) dove si accostano due parole dai significati normalmente contraddittori o contrari. La metafora è una delle forme più frequenti di linguaggio figurato; uno dei primi studi sulla frequenza degli usi metaforici stimava addirittura quattro metafore per ogni minuto di parlato2. Non solo utilizziamo spesso metafore ma usiamo metafore di diverso tipo. Ci sono quelle più logore o convenzionali, dette catacresi nel lessico della retorica, come, ad esempio, «Il collo della bottiglia», «La gamba del tavolo» o «Il braccio della gru». Altre sono usuali ma meno convenzionali, come «Restare come un allocco (o come un baccalà)», o «Sentirsi un pesce fuor d’acqua», e così via, con una serie di esempi più o meno originali e innovativi o anche inusuali al punto che il loro significato non sempre è facile da cogliere: prendiamo ad esempio espressioni come «Tuono della vita» o «Lampo di bellezza». Cosa vogliono dire? Difficile capirlo al di fuori di un contesto. Seguendo il discorso che abbiamo svolto nel secondo paragrafo, la metafora è spiegabile come una violazione della massima della qualità, come abbiamo visto nel caso del Romeo di Shakespeare; infatti, in questo caso, si dice letteralmente il falso per far intendere qualcosa senza dirlo esplicitamente. Non tutti sono d’accordo con questo modo di vedere e le discussioni di filosofi e linguisti sulla metafora hanno ormai riempito decine di volumi e migliaia di pagine di riviste specialistiche. Ci fermiamo così alla nostra definizione iniziale per ragionare su un aspetto particolare del problema.

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Pollio, Barlow, Fine e Pollio (1977).

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Uso strategico della metafora nella vita quotidiana.   La seconda cosa che ci interessa dire sulla metafora è che di questa forma di linguaggio figurato se ne fa un uso strategico, con sorprendente frequenza, non solo nel discorso quotidiano, ma anche nella comunicazione politica e pubblicitaria. Ad esempio, considerando la storia politica italiana più recente, si può pensare all’uso consistente di metafore che è possibile riscontrare nel linguaggio di diversi politici, da Umberto Bossi a Beppe Grillo3. Anzi, consideriamo un caso particolare, ovvero quanto Grillo sfrutti il linguaggio figurato per deformare con effetto sarcastico i nomi propri degli avversari politici: nel suo vocabolario Berlusconi diventa lo «Psiconano», Pier Luigi Bersani viene definito «Gargamella» o «Zombie», Walter Veltroni viene ribattezzato «Topo Gigio», Romano Prodi è «Alzheimer», all’ex presidente Napolitano Grillo si riferisce con l’epiteto «Salma», mentre l’appellativo più denigrante spetta senz’altro al direttore del «Foglio» Giuliano Ferrara che viene metaforicamente rappresentato come un «Container pieno di merda liquida». Come si può notare, le metafore vorrebbero essere ironiche o sarcastiche, anche se evidentemente possono sconfinare nell’offesa o nella coprolalia. Lasciamo da parte le perversioni dei politici e dedichiamo le ultime considerazioni di questo capitolo alla questione dell’efficacia delle metafore nella comunicazione pubblicitaria. Prima di discutere un esempio nel dettaglio, però, occorre spendere qualche parola per illustrare una teoria della metafora proposta dal linguista George Lakoff e dal filosofo Mark Johnson in un testo dal titolo Metaphors We Live By (1980). L’idea centrale di Lakoff e Johnson è che le metafore sono così frequenti nel linguaggio quotidiano per via del fatto che ad essere metaforico, prima ancora che il nostro linguaggio, è 3 Per un’analisi più attenta delle strategie di comunicazione verbale e non verbale di Beppe Grillo rimandiamo ai numerosi interventi sul tema apparsi sul blog Disambiguando della semiologa Giovanna Cosenza (www. giovannacosenza.it).

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il nostro sistema concettuale. In altre parole, potremmo dire che parliamo metaforicamente poiché innanzitutto pensiamo metaforicamente. Secondo i due autori statunitensi, infatti, la metafora è un meccanismo cognitivo che funge da strumento di categorizzazione e organizzazione delle nostre conoscenze. Ecco perché Lakoff e Johnson distinguono il meccanismo cognitivo delle metafore concettuali dalle semplici espressioni metaforiche, che sono manifestazioni linguistiche delle metafore concettuali. Facciamo un esempio: le espressioni metaforiche «Sara è uscita vincente dalla discussione» e «Marco non è riuscito a difendere il suo punto di vista» sono differenti manifestazioni linguistiche della medesima metafora concettuale le discussioni sono una guerra, tramite la quale la nostra cultura concettualizza il fenomeno delle discussioni. Oppure, le espressioni metaforiche «Abbiamo fatto tanta strada insieme», «Siamo arrivati a un bivio» e «Dove sta andando a finire il nostro rapporto?» sono tutte differenti espressioni metaforiche che proiettano a livello linguistico la medesima metafora concettuale l’amore è un viaggio. Cosa ancor più interessante è che, secondo Lakoff e Johnson, il modo in cui concettualizziamo la realtà è strettamente legato al modo in cui il nostro corpo si rapporta con l’ambiente circostante. La ragione è che, secondo i due autori, ci creiamo degli schemi di immagine basati sulla nostra esperienza corporea che estendiamo metaforicamente per afferrare concetti più astratti. Ad esempio, consideriamo la distinzione alto/basso. Ebbene, secondo Lakoff e Johnson, alto/basso è un esempio di schema di immagine che ci formiamo a partire dalla nostra struttura fisica verticale e che applichiamo tramite la metafora alto-positivo/basso-negativo a concetti astratti quali l’umore (ad esempio quando diciamo «Matteo si sente un po’ giù»), alla condizione economica (nel caso di espressioni come «L’economia sta precipitando») o alle relazioni interpersonali (quando diciamo frasi come «Il nostro rapporto è in declino»). Anche se la discussione sulla metafora si è ulteriormente 58­­­­

sviluppata in diversi campi4, la proposta di Lakoff e Johnson ha avuto un grande successo nella letteratura linguistica e psicologica degli ultimi vent’anni. Questo, in particolare, grazie al fatto che la teoria delle metafore concettuali è riuscita a mostrare che lo studio delle espressioni metaforiche utilizzate da una comunità di parlanti può costituire una chiave di lettura efficace per studiare gli schemi di pensiero e i pregiudizi condivisi all’interno di una certa società. Non è un punto semplice da illustrare in poche parole, ma c’è un esercizio piuttosto banale che forse può aiutarci a comprendere la forza esplicativa di questa teoria. Consideriamo il caso degli insulti. La maggior parte degli insulti sono ottimi esempi di metafore (spesso coprofile come «stronzo» o «pezzo di merda»). Ora proviamo a pensare a cinque insulti che vengono comunemente rivolti agli uomini e a cinque insulti che vengono comunemente rivolti alle donne. Probabilmente, nel primo caso, la maggior parte degli insulti attingerà da una metafora concettuale che associa l’uomo alla sfera della razionalità («ignorante», «deficiente», «imbranato», ecc.), nel secondo caso, le offese avranno origine dalla associazione tra la donna e il campo della sessualità («sgualdrina», «puttana»). Certo, non si tratta di un’analisi sofisticata, ma questo piccolo esercizio aiuta a capire che lo studio della metafora sia un buon punto di partenza per studiare come, nella nostra società, vengono concettualizzate e valutate le differenze biologiche o di genere. Metafora e pubblicità.   Abbiamo detto che l’uso strategico delle metafore trova il suo campo di applicazione privilegiato nella pubblicità. Ecco un esempio. La réclame in questione è della ditta di cosmetici I Provenzali. Lo spot si apre con 4 Si può ricordare la grande importanza che ha assunto la metafora (e in generale il tema dell’analogia) nell’ambito delle discussioni di filosofia della scienza a partire dal lavoro di Mary Hesse su Models and Analogies in Science (1963).

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... una ragazza, in un bagno...

... che versa un po’ di lozione idratante e inizia ad applicarla sul corpo...

... via via che il prodotto viene cosparso, alle spalle della ragazza crescono e fioriscono i rami di una pianta, finché, in conclusione...

a fianco della protagonista compare un albero di mandorlo. 60­­­­

La pubblicità si conclude con lo slogan «La natura ti dona». L’obiettivo principale dello spot è porre l’accento sulla peculiarità positiva del prodotto: la naturalità. La naturalità, in questo caso, è intesa in un duplice senso che è reso esplicito dall’indicazione finale «100% Natura. 100% Rispetto»: da un lato, il cosmetico è realizzato interamente tramite prodotti naturali, senza l’aggiunta di reagenti chimici, dall’altro, la ditta riserva un’attenzione particolare per il rispetto della natura tramite la creazione di articoli rigorosamente non testati sugli animali. L’aspetto che rende degna di interesse questa pubblicità risiede nella costruzione della sua strategia tanto consueta e intuitiva quanto efficace nella sua semplicità. Lo spot non ha una struttura narrativa particolarmente articolata. Al contrario, potremmo dire che l’intera pubblicità orienta l’attenzione degli ascoltatori su un unico aspetto centrale: il parallelismo tra il gesto della protagonista – l’applicazione del prodotto sul corpo – e la crescita dell’albero. La pubblicità, dunque, è costruita su un’unica soluzione narrativa che tenta di rendere visibile, in particolare, una metafora: «Il corpo è una pianta». Tornando alle nostre considerazioni, quindi, che cosa potremmo dire di questa soluzione? È evidente che, tramite il parallelismo tra la cura del corpo e la crescita della pianta, il video pubblicitario affianca alla metafora «Il corpo è una pianta» tutta una serie di associazioni metaforiche quali «Curare il proprio corpo è curare la natura», «Il prodotto dei Provenzali è linfa vitale», ecc., che sono tutte proiezioni della stessa metafora concettuale naturale-positivo vs artificiale-negativo. Ora, dal momento che, come è noto, la sfera del «naturale» è comunemente connotata positivamente – tramite proprietà quali la salubrità, la spontaneità, la purezza, l’autenticità e il calore –, per mezzo della semplice metafora visiva corpo-pianta lo spot riesce a dotare il prodotto oggetto della réclame di un intero repertorio di valori positivi che sono propri di qualunque prodotto naturale. 61­­­­

Ecco la strategia: tramite l’associazione tra l’uso del cosmetico sul corpo e la crescita di una pianta, simbolo della natura, lo spot assegna implicitamente al prodotto tutte quelle proprietà positive che connotano qualsiasi aspetto, oggetto o prodotto naturale, in quanto naturale. Insomma, un meccanismo semplice ma efficace.

3.

Dire

Datemi una frase fuori contesto e vi farò impiccare un uomo (Voltaire, Candide)

Sherlock Holmes e il dottor Watson vanno in campeggio. «Mio caro Watson» dice Holmes, una volta calata la notte, «cosa deduci dal fatto che vedi il cielo stellato sopra di te?». Watson, carico d’ispirazione, risponde: «Dal punto di vista etico deduco che la legge morale è dentro di me e dal punto di vista scientifico che la mia posizione è orientata verso il nord; difatti le costellazioni a cielo sereno permettono di orientarsi non solo al mare, ma anche in montagna, dove noi appunto siamo, e la posizione del Gran Carro che si vede sopra le nostre teste mi fa dedurre la posizione relativa del mio corpo». A questo punto, soddisfatto della risposta dettagliata, Watson attende un commento. Sherlock Holmes, accendendosi la pipa, sorride e prosegue: «Mio caro Watson, sei un cretino. Ci hanno rubato la tenda». Come spesso accade nelle vicende narrate da Arthur Conan Doyle, anche in questo caso Watson fornisce una deduzione corretta e coerente ma senza tener conto in modo adeguato del contesto. 1. Dipende dal contesto L’importanza del contesto è ancor più evidente quando si ha a che fare con lo studio della comunicazione verbale. Perché? 63­­­­

Perché la produzione e la comprensione del linguaggio dipendono dal contesto in molti modi differenti. Per illustrare questa idea, proviamo a partire da un esempio banale ma efficace. Si tratta di un test che, in una forma abbastanza simile, girava qualche tempo fa su diversi social network. Leggete velocemente il testo che segue ad alta voce senza badare troppo al suo contenuto: Secnodo uno sdtiuo dll’Untisverià di Cadmbrige, non irmptoa cmoe snoo sctrite le plaroe, tutte le letetre posnsoo esesre al pstoo sbgalaito, è ipmtortane sloo che la prmia e l’umltia letrtea saino al ptoso gtsiuo, il rteso non ctona. Il cerlvelo è comquune semrpe in gdrao di decraifre tttuo qtueso coas, pcheré non lgege ongi silngoa ltetrea, ma lgege la palroa nel suo insmiee e rsipteto al cotnesto in ciu è insreita.

Quale conclusione si può trarre da questo esercizio? Il suggerimento è che siamo abituati a comprendere le lettere che compongono una parola sempre tenendo in considerazione il contesto dell’intera espressione entro cui sono inserite. Potremmo aggiungere che, analogamente, comprendiamo sempre il significato di una parola rispetto al contesto più ampio dell’enunciato in cui l’espressione è inclusa (suggeriva Gottlob Frege, padre della logica matematica e della filosofia del linguaggio contemporanea: «Una parola ha senso solo nel contesto di un enunciato»). A sua volta un enunciato viene sempre valutato rispetto al contesto più ampio di un discorso, un discorso rispetto al contesto di una conversazione, e così via. Insomma, per capire qualcosa, è importante evitare di commettere l’errore di Watson e occorre considerare sempre il contesto. Nell’ottobre 2010 Guido Bertolaso incontra nell’Auditorium di via Vitorchiano a Roma alcuni dirigenti della Protezione Civile, della quale era allora a capo. Durante l’incontro, come si evince da un file audio diffuso dalla Cgil, commentando le sue possibili dimissioni, Bertolaso dichiara: 64­­­­

L’eruzione del Vesuvio? Mi è mancata solo quella, ma non sarebbe una grande disgrazia. L’unico rammarico che avrò, che avremo, sarà che purtroppo fra Vesuvio e Campi Flegrei non è successo niente. È l’unica che ci manca.

E, a seguito delle risate in sala, aggiunge: Inutile che vi grattiate, da buon leghista vi dico che non sarebbe quella grande disgrazia.

All’epoca l’episodio suscitò grande clamore mediatico, tanto che la Protezione Civile fu costretta a ritornare sull’intervento di Bertolaso definendo la diffusione dell’audio una «spregevole strumentalizzazione da parte del sindacato», accusando la Cgil di aver «decontestualizzato e artatamente ricostruito ciò che ha detto il capo Dipartimento» e sostenendo che il riferimento all’eruzione era null’altro che una manifestazione di consapevolezza del fatto che «la Protezione civile sarebbe in grado di affrontare e superare anche un’eventuale crisi vulcanica in Campania». Ecco dunque un primo buon esempio di come, nella comunicazione politica, l’appello a una «decontestualizzazione impropria» possa essere sfruttato per sciogliere fraintendimenti e cancellare interpretazioni inesatte. Ma una domanda sorge spontanea: fino a che punto è possibile appellarsi al contesto? Ovvero, quanto di ciò che diciamo può dipendere effettivamente da aspetti contestuali? Si tratta di un quesito al quale i linguisti e i filosofi del linguaggio stanno provando a rispondere ormai da diversi anni. Affronteremo l’argomento nei prossimi paragrafi, ma, considerando l’esempio di Bertolaso, possiamo già rintracciare una risposta plausibile a tale interrogativo: il contesto contribuisce di gran lunga a determinare ciò che diciamo ma, d’altra parte, ci sono frasi che rivelano comunque qualcosa a prescindere dal contesto. Ad esempio, commentare una possibile eruzione del Vesuvio dicendo che «non sarebbe quella grande disgrazia», a prescindere da possibili decontestualizzazioni, è inequivocabilmente un modo per 65­­­­

insinuare che un evento catastrofico di questo tipo comporterebbe comunque dei risvolti positivi di qualche natura. Un esempio ancor più lampante in tal senso risale sempre all’ottobre 2010 e ha come coprotagonista l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Uno dei fatti di cronaca che all’epoca riempì i palinsesti televisivi italiani fu la divulgazione di un video che mostrava il premier intento a intrattenere un gruppo di militari con il racconto di una barzelletta a conclusione della quale esclamava una sonora bestemmia. Ecco, in sintesi, la battuta raccontata da Berlusconi: Serata danzante. Ogni cavaliere si avvicina a una ragazza per invitarla a ballare. La ragazza si presenta con il nome di un fiore al femminile e ogni uomo risponde con il nome dello stesso fiore al maschile. Un cavaliere si avvicina alla prima ragazza, la dama dice «Margherita» e lui risponde «Margherito». Un’altra ragazza dice «Rosa» e un altro cavaliere risponde «Roso». Infine, l’ultimo cavaliere avvicina Rosy Bindi, un po’ coperta nell’ombra. Lei, mostrandosi, dice «Orchidea», lui la guarda e spaventato esclama...

Per pudore evitiamo di riportare l’espressione blasfema che fa assonanza con l’ultimo nome floreale femminile, ma è facile intuire che l’esclamazione destò non poco scandalo nell’opinione pubblica. Tra i molteplici commenti sull’avvenimento, un intervento particolarmente interessante ebbe come protagonista mons. Salvatore Fisichella (noto arcivescovo cattolico e teologo italiano), il quale, in riferimento all’espressione blasfema, dichiarò: Bisogna sempre in questi momenti saper contestualizzare le cose.

Nel caso di questa vicenda, il punto che ci interessa mettere in luce è quanto mai evidente: è certamente possibile provare a minimizzare la gravità dell’esclamazione di Berlusconi (anche se questo tentativo, fatto da un alto prelato, potrebbe suonare un po’ inconsueto). È infatti plausibile ammettere che proferire un’espressione blasfema in un contesto 66­­­­

cameratesco risulti meno indecoroso che farlo in una circostanza formale. Risulterebbe però del tutto inutile il tentativo di ritrattare il significato di un’imprecazione di questo tipo appellandosi al contesto. Perché? Perché una bestemmia ha un significato ben preciso e, a prescindere dal contesto, mantiene sempre il significato di una bestemmia. Come abbiamo visto nel capitolo sugli stereotipi, casi analoghi di richiamo al contesto per l’uso di parole sgradevoli erano già avvenuti più volte nel raffinato contesto del Parlamento italiano, a testimonianza del fatto che il tema della contestualizzazione e della decontestualizzazione è molto sentito nella comunicazione politica. Un problema notevole che si pone a chi analizza tali questioni è individuare la portata e il ruolo del contesto, prima ancora della portata e del ruolo delle parole decontestualizzate. Forse non sono le parole decontestualizzate il vero problema, ma il contesto stesso. Prima ancora di cercare di stabilire quali espressioni del linguaggio dipendano effettivamente dal contesto d’uso, dunque, occorre innanzitutto rispondere a una domanda preliminare: che cos’è il contesto? 2. Contesto o contesti? Il filosofo del linguaggio statunitense John Perry1 è probabilmente l’autore che, in tempi recenti, ha fornito una delle risposte più interessanti alla domanda: che cos’è il contesto? Perry, sulla base di una lunga tradizione filosofica e linguistica, sostiene che nell’interpretazione del linguaggio entrano in gioco due tipi di contesti: il contesto stretto e il contesto ampio. Il contesto stretto corrisponde al luogo, al tempo e al parlante. Per intenderci, la conoscenza del contesto stretto è ciò che consente di interpretare frasi come «Io ho fame», «Qui c’è il sole», «Ora mi mangio un gelato». Perché? Perché solo sapen-

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Si veda ad esempio Perry (1998).

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do chi sia il parlante possiamo interpretare correttamente «Io ho fame», solo conoscendo il luogo in cui parla capiamo di cosa sta parlando chi dice «Qui c’è il sole» e solo essendo a conoscenza del tempo nel quale si parla possiamo comprendere «Ora mi mangio un gelato». Tutto ciò che non corrisponde al tempo, al luogo e al parlante, invece, fa parte del contesto ampio. Potremmo dire quindi che il contesto ampio è il contesto cognitivo, cioè quell’insieme di presupposizioni condivise, assunzioni, scopi, gesti e altro che caratterizzano una situazione comunicativa. Ad esempio, banalmente, se qualcuno dicesse «Marco è pronto», per interpretare correttamente questa frase, dovremmo conoscere, oltre al tempo, al luogo e al parlante, anche altri aspetti della circostanza comunicativa che ci aiutino a capire esattamente sotto quale aspetto Marco possa dirsi pronto (pronto per far cosa? Per sostenere un esame? Per sposarsi? Per uscire di casa?). Ora, ai fini dell’analisi della comunicazione che stiamo provando a condurre, in che modo può tornare utile la nozione di contesto? Vi sono numerose risposte plausibili a questa domanda, ma una ci pare particolarmente interessante: conoscere i diversi aspetti del contesto aiuta a capire la responsabilità comunicativa che sta dietro a un’affermazione. La responsabilità comunicativa, infatti, viene spesso nascosta da resoconti approssimativi, da quella che si può chiamare «decontestualizzazione impropria», quando non vengono chiaramente indicati gli elementi fondamentali del contesto, sia esso inteso in senso stretto (tempo, luogo e parlante), sia in senso ampio (credenze e presupposizioni). Conoscere le caratteristiche del contesto in cui una frase viene pronunciata è dunque importante per stabilire la responsabilità di chi parla rispetto al proprio discorso. Facciamo due esempi. Nel primo ragioniamo sull’importanza del contesto stretto, nel secondo sulla rilevanza del contesto ampio. Il primo aneddoto ha ancora come protagonista Silvio Berlusconi. Il 14 febbraio 2005 l’allora premier è ospite su Rai1 68­­­­

a Conferenza Stampa, una trasmissione condotta da Anna La Rosa. Berlusconi accusa il sistema dell’informazione italiana e individua nell’«Unità» il capofila di un gruppo di giornali impegnati in una campagna mediatica di delegittimazione nei suoi confronti. A questo proposito, afferma: Sull’«Unità» è stato scritto che sono peggio di Pinochet, che sono Francisco Franco, che sono come Saddam Hussein, un mostro bavoso, un pericolo per la democrazia. Hanno scritto che sono il re dei bari, un Peron di plastica, la degenerazione del sistema e che i giovani di Forza Italia sono dei mercenari.

In studio la conduttrice non obietta alcunché. Il giorno seguente, invece, nella colonna dei commenti dell’«Unità», il giornalista Antonio Padellaro smentisce le affermazioni di Berlusconi ricordando che buona parte degli attributi da lui elencati erano stati semplicemente riportati dall’«Unità» (nella rubrica «Bananas» a cura di Marco Travaglio) come epiteti usati da altri. Molte delle espressioni calunniose ricordate da Berlusconi non erano opera dei giornalisti dell’«Unità», ma in realtà di Umberto Bossi, ormai divenuto alleato di Berlusconi, quando il segretario della Lega Nord additava Berlusconi con l’epiteto «il mafioso di Arcore». Addirittura l’espressione «mascalzone bavoso», sempre riportata nella rubrica «Bananas», non era nemmeno riferita a Berlusconi, ma era stata utilizzata da Paolo Guzzanti, senatore di Forza Italia e vicedirettore del «Giornale», per riferirsi a Romano Prodi in un articolo pubblicato tempo prima sulla stessa testata (di proprietà del fratello dell’ex presidente del Consiglio)2. Morale della vicenda: la responsabilità di un’affermazione è legata innanzitutto al primo aspetto del contesto stretto, ovvero al parlante (e alle persone cui il parlante si riferisce!). Potrebbe sembrare banale, in effetti, ricordare che la responsabilità di un’affermazione sia di chi la pronuncia. Ma ripor  Si veda Gomez e Travaglio (2005).

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tare frasi senza indicare chi le ha dette e perché e metterle in un unico calderone è un meccanismo ingenuo ma estremamente efficace se sfruttato con un po’ di abilità. Basti pensare che, mentre la smentita di Padellaro all’epoca dei fatti ebbe una risonanza piuttosto ridotta, le accuse denunciate da Berlusconi divennero oggetto di dibattito mediatico e contribuirono significativamente a rafforzare la tesi di un complotto dell’informazione italiana nei suoi confronti. Proviamo ora a concentrarci sull’importanza del contesto ampio. L’idea in questione è che per ricostruire la responsabilità comunicativa occorre far riferimento non solo ad aspetti quali il parlante, il tempo e il luogo, ma anche a informazioni più ampie che riguardano gli scopi di chi parla, gli atteggiamenti degli interlocutori, gli assunti di sfondo dei partecipanti a uno scambio comunicativo, ecc. Vediamo subito un esempio di fraintendimento legato al contesto ampio, prendendo in considerazione, questa volta, un caso di comunicazione non verbale. Siamo nel settembre 2011 e Joseph Ratzinger, allora papa Benedetto XVI, si trova in Germania per il suo ventunesimo viaggio al di fuori dei confini della Città del Vaticano. Accompagnato dal segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, Ratzinger incontra a Berlino il presidente della Repubblica tedesca Christian Wulff. Durante l’incontro tra i due capi di Stato, come documentato da una tv polacca, il papa e il presidente Wulff camminano fianco a fianco per porgere il loro saluto ai vescovi e ai cardinali presenti, disposti in fila sulla loro destra.

Il primo e il secondo vescovo stringono la mano a Wulff e subito dopo al papa in segno di omaggio... 70­­­­

... ma a questo punto, quanto accade ha apparentemente dell’incredibile: il terzo vescovo stringe la mano al presidente tedesco e ignora la mano tesa del papa. La scena si ripete nuovamente con gli altri prelati: Wulff stringe la mano ai presenti mentre il papa rimane con la mano tesa nel vuoto. L’episodio all’epoca destò grande interesse, dando adito alle interpretazioni più disparate e alimentando, in particolare, le ipotesi dei teorici del complotto. Una cosa però è evidente fin da subito: per capire cosa intendessero comunicare i vescovi tedeschi con quel gesto occorre ricostruire gli aspetti più salienti del contesto ampio in cui ebbe luogo l’incontro tra il papa e Wulff. Ecco infatti alcune delle possibili spiegazioni che vennero fornite della vicenda a partire, per l’appunto, da diverse ipotesi sul contesto. Prima ipotesi: alcuni vescovi si rifiutarono di stringere la mano al papa con l’intenzione di manifestare la loro ostilità nei suoi confronti. Seconda ipotesi: Ratzinger, in realtà, non tese la mano per ricercare la stretta dei vescovi, bensì per indicare i diversi prelati al presidente tedesco e presentarli a quest’ultimo facendo le veci del padrone di casa. Terza ipotesi: i vescovi avevano già salutato Ratzinger in precedenza. Quarta ipotesi: i porporati si rifiutarono di omaggiare il papa con una semplice stretta di mano dal momento che l’etichetta prevede che il sommo pontefice venga salutato tramite genuflessione e bacio dell’anello del Pescatore (basti pensare che quando il 27 settembre 1997 Bob Dylan, dopo aver tenuto un concerto a Bologna in presenza dell’allora papa Wojtyla, si congedò stringendo la mano al pontefice, il cantautore americano fu aspramente criticato per il suo gesto poco conforme all’etichetta). 71­­­­

Questo esempio mette in mostra in maniera piuttosto evidente il fatto che le presupposizioni condivise, le assunzioni, gli scopi intesi, i gesti possono giocare un ruolo determinante nel ricostruire ciò che si intende comunicare e la responsabilità che sta dietro a un atto comunicativo. Si tratta infatti di aspetti che appartengono al contesto ampio di una circostanza comunicativa che, quando risultano poco perspicui, possono dar adito a fraintendimenti ed equivocazioni. 3. Deissi Abbiamo distinto contesto stretto e contesto ampio. Alcune parole dipendono strettamente dal contesto stretto (tempo, luogo e parlante). Prendiamo una frase: «Io ho ragione e tu hai torto». Detta da Carlo e detta da Filippo vuol dire due cose diverse; nel primo caso che Carlo ha ragione e nel secondo che Carlo ha torto. Espressioni come «io», «qui», «ora» sono chiamate espressioni deittiche. Il termine «deissi» deriva dal greco deixis e significa ‘indicazione’. Con deissi si intende il fenomeno per il quale la comprensione del significato di alcune espressioni dipende in modo essenziale da aspetti legati al contesto d’uso. Vi sono infatti alcune espressioni del linguaggio che non hanno di per sé un significato completo ma che di volta in volta «indicano» cose diverse a seconda di chi le proferisce, dove vengono proferite e quando vengono proferite. «Io» si riferisce a chi sta parlando in quel momento, «oggi» si riferisce al giorno in cui viene proferita l’espressione e così via con parole come «qui», «là», «questo», «quello», ecc. Le espressioni deittiche, o indicali, danno luogo a fenomeni interessanti come la frase «Io sono qui ora» che in qualsiasi situazione venga pronunciata risulta sempre vera, pur non essendo una verità logica. Su questi temi è sorta una letteratura logica, filosofica e linguistica sterminata. I linguisti Charles Fillmore (1975) e John Lyons (1977), in particolare, hanno individuato alcune componenti principali del contesto alle quali sono «anco72­­­­

rate» le diverse espressioni deittiche: la persona, il luogo, il tempo, il testo e la situazione sociale. Grazie al lavoro di Fillmore e Lyons, oggi le espressioni deittiche vengono generalmente classificate in cinque principali categorie. Vediamole brevemente. I deittici personali come i pronomi personali «io», «tu», «ella», i pronomi clitici «mi», «ti», «le», le desinenze verbali «andavi», «andava», gli aggettivi possessivi «mio», «tuo» sono espressioni che in contesti diversi possono riferirsi a individui diversi, coinvolti direttamente o indirettamente in uno scambio comunicativo. I deittici spaziali, invece, indicano luoghi differenti in contesti differenti; ne sono un esempio gli avverbi di luogo come «qui», «lì», «là» o gli aggettivi e pronomi dimostrativi «questo», «quello», ecc. Di solito, espressioni spaziali di questo tipo vengono distinte in «prossimali», se indicano luoghi vicini a chi parla (come «qui»), e «distali» se indicano invece luoghi distanti (ad esempio, «laggiù»). I deittici temporali sono espressioni che si riferiscono a tempi o intervalli temporali come, ad esempio, gli avverbi «ora», «poi», «dopo», «adesso», «allora», «ieri», «domani» o gli aggettivi temporali come «prossimo», «scorso», «passato». È interessante notare che la comprensione dei deittici temporali è spesso legata al modo in cui una determinata cultura concettualizza il tempo e, di conseguenza, a come ciò si riflette sulla struttura di una specifica lingua. Per intenderci, nella cultura occidentale il tempo è ordinato secondo una logica lineare «Passato⇒Presente⇒Futuro» e organizzato sulla base di unità distinte come la divisione tra giorno e notte, le settimane, i mesi, le stagioni, gli anni o i secoli che si riflettono in espressioni della lingua italiana come «oggi», «ieri» o «il prossimo lustro». Ad esempio, «oggi» potrebbe essere parafrasato «L’intervallo diurno che comprende il tempo di proferimento», «ieri» indica «L’intervallo diurno che precede l’intervallo diurno che comprende il tempo di proferimento» mentre «dopodomani» si rife73­­­­

risce a «L’intervallo diurno successivo all’intervallo diurno successivo all’intervallo diurno che comprende il tempo di proferimento» e così via. I deittici testuali sono espressioni che indicano parti di un testo in una certa situazione comunicativa. Nel caso di un testo scritto ne sono esempi espressioni come «Nel paragrafo precedente» o «Nel capitolo successivo». Espressioni di questo tipo potrebbero sembrare meno frequenti dei deittici personali o spaziali, ma se per «testo» intendiamo anche discorsi orali come le conversazioni possiamo accorgerci facilmente del fatto che, in effetti, anche dei deittici testuali si fa un uso cospicuo: basti pensare a espressioni come «Quello che hai detto...», «Questa storia l’ho già sentita...», «Questo è il punto...». Infine, vi sono i deittici sociali che indicano lo status o il ruolo sociale di un parlante in relazione allo status o al ruolo dei suoi interlocutori. Si pensi, ad esempio, a espressioni come «Vostro Onore» o «Signor direttore» oppure agli «onorifici di riferimento» come, ad esempio, in italiano, l’uso del «lei» al posto del più informale «tu» che indica una certa distanza sociale tra chi parla e il proprio interlocutore. La deissi è uno strumento linguistico che nella comunicazione verbale può essere sfruttato per produrre effetti comunicativi fortemente persuasivi. Un caso particolare su cui val la pena di riflettere è l’uso del «noi». «Noi» è uno dei deittici più ambigui (noi chi? Noi due? Noi amici? Noi umani?). Vediamo un esempio di come si possa analizzare lo sfruttamento strategico dei deittici personali. Il caso in questione riguarda un intervento di Rosy Bindi durante la puntata di Servizio pubblico del 29 marzo 2012. Si sta discutendo delle misure prese dal governo Monti per fronteggiare la crisi economica e, in particolar modo, della possibile revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori italiani che norma i casi di licenziamento illegittimo (senza giusta causa). Grazie anche all’utilizzo di deittici personali («io» e «noi» in particolare), Rosy Bindi in quest’occasione riesce a produrre 74­­­­

un forte effetto persuasivo negli ascoltatori creando un senso di comunanza ed empatia col pubblico, in contrapposizione a un generico «loro» identificato con il termine «la politica». La Bindi esordisce dicendo: La crisi in cui ci troviamo non l’ha prodotta lo stato sociale! Non sono stati i diritti dei lavoratori! L’assistenza pubblica! [applauso] La previdenza pubblica! La sanità pubblica! L’istruzione pubblica...

Questa prima affermazione rappresenta la pars destruens della sua argomentazione. La Bindi sta sostenendo che l’attuale situazione di crisi economica non è stata causata da quei servizi che rappresentano una prerogativa per le classi più deboli, pertanto non si deve puntare il dito contro tali diritti acquisiti. Si tratta di una vera e propria provocatio ad populum tramite la quale la deputata riesce ad accattivarsi il pubblico in ascolto. Questo effetto è prodotto innanzitutto dall’utilizzo del pronome personale alla prima persona plurale (ad esempio, «La crisi in cui ci troviamo...») grazie al quale la Bindi esplicita la propria compartecipazione alle problematiche delle classi più povere, ascrivendosi tra le vittime dei disagi economici creati dalla crisi. Segue, quindi, la lista dei servizi statali ai quali, a suo avviso, non può essere ricondotta l’origine della difficile congiuntura economica. Si noti che, per prima cosa, per alimentare il consenso tra i ceti popolari, la Bindi chiama in causa le due principali conquiste degli Stati democratici contemporanei: lo stato sociale e i diritti dei lavoratori. Dopodiché, l’allora vicepresidente della Camera dei deputati continua enumerando una serie di servizi statali (ad esempio l’assistenza, la previdenza, la sanità, l’istruzione) ai quali, sistematicamente, fa seguire l’aggettivo «pubblico», con l’intento esplicito di mettere in evidenza il fatto che vi siano in gioco questioni care alla collettività. Tale elenco viene inoltre pronunciato con estrema enfasi retorica: la Bindi proclama con forza assertoria ciascuna voce, intervallando 75­­­­

l’una dall’altra con una breve pausa che suscita un applauso da parte del pubblico3. La Bindi, dunque, prosegue: Questa crisi è frutto di una finanziarizzazione dell’economia che non ha avuto nessuna regola e che la politica non è stata in grado di governare.

In questo secondo passaggio si svolge la pars construens dell’argomentazione, nella quale la deputata sostiene la propria tesi: la politica, avendo favorito un’economia di mercato priva di regole, è la reale responsabile della crisi. Con l’espressione «la politica», la Bindi individua il soggetto che si pone in antitesi ai ceti più deboli, ai quali, nella parte iniziale, come abbiamo visto, lei stessa ascrive la propria appartenenza. In questo modo, non solo individua un avversario contro il quale far fronte comune e crea, in questo modo, un’opposizione noi/loro, ma si chiama fuori da tale gruppo, identificando la politica come un soggetto altro e distante da lei (pur appartenendo da più di vent’anni a tale categoria). Nel contempo, per deresponsabilizzarsi rispetto ai contenuti della propria accusa, la Bindi mette in pratica una strategia di mitigazione linguistica (tra qualche paragrafo vedremo più attentamente di che si tratta): il sostantivo «la politica» viene utilizzato con valore generale, senza che i soggetti verso i quali viene mossa la critica siano individuati con precisione.

3 In questa prima parte, inoltre, l’effetto persuasivo è alimentato da una forma di ragionamento che risulta facilmente condivisibile in quanto fallace. Per esattezza, viene commessa la cosiddetta fallacia dell’uomo di paglia, vale a dire quando, per confutare una tesi, si attacca un’altra tesi simile ma meno plausibile e più facilmente confutabile, almeno quanto è facile bruciare un fantoccio di paglia. Infatti, per non affrontare direttamente la questione dell’opportunità di modificare l’articolo 18, la Bindi sposta i riflettori su una tesi creata ad hoc, più generale e più facile da confutare: la tesi che il welfare abbia generato la crisi economica. Dello sfruttamento delle forme di ragionamento fallace ci occuperemo, però, nel capitolo 5.

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Ad esempio, di quale classe politica si sta parlando, dato che lei ne è una tipica rappresentante? Allora io dico, c’è da fare dei sacrifici? Bisogna ristrutturare il nostro sistema di Welfare?

Nel penultimo passaggio troviamo nuovamente uno sfruttamento strategico del valore referenziale delle espressioni che denotano i soggetti protagonisti del conflitto. Domandandosi «c’è da fare dei sacrifici?», la Bindi riporta la palla nella metà di campo delle vittime della crisi economica e, tramite questo spostamento, rimarca l’antitesi tra le classi deboli, da un lato, e la politica, dall’altro. Per non lasciar dubbi ai propri interlocutori su quale sia la squadra nella quale sta giocando, la Bindi, innanzitutto, afferma con tono assertorio «Allora io dico», richiamando l’attenzione su di sé tramite il pronome personale alla prima persona singolare. Dopodiché, chiedendosi «Bisogna ristrutturare il nostro sistema di Welfare?», compie inequivocabilmente una scelta di campo e si annovera come appartenente al gruppo di chi non può rinunciare ai servizi offerti dallo stato sociale. Sono d’accordo, ma tutto questo ha un senso se la politica, a partire dall’Europa, ritrova la forza di dare le regole ai mercati e fa investimenti per la crescita.

L’intervento si conclude con l’ultimo spostamento di campo che, in modo risolutivo, sancisce l’opposizione noi-classi popolari/loro-la politica: tutto questo (= «che noi facciamo sacrifici») ha senso se la politica (= «loro») ripara gli errori commessi in passato. La frase conclusiva dà finalmente la possibilità di riscatto a loro (= «la politica») mettendoli su un piano ancora più ampio («a partire dall’Europa»). In questo modo, i soggetti responsabili della crisi non sono più i politici italiani ma quelli europei, le cui soluzioni sono comunque generiche e lontane da proposte precise che possano coinvol77­­­­

gere la politica locale, di cui la politica italiana è comunque rappresentante. La proposta di cosa dovrebbero fare «loro» è indebolita dal fatto che la richiesta di regolamentare i mercati è subordinata alla richiesta di «ritrovare la forza» per farlo. Inoltre, il termine «ritrovare» attiva la presupposizione che prima l’Europa avesse tale forza e che in tempi più recenti l’abbia perduta. 4. Ambiguità Osservate il disegno di questo cubo:

Si tratta del cosiddetto «cubo di Necker» ma non è un cubo speciale, tutt’altro. È una semplice immagine di cubo che, a seconda di come la si guarda, può rivelare diversi modi di vedere il cubo. Se immaginiamo di scoprire uno dei lati, rendendo scura la parte interna, una raffigurazione può aiutare (facciamo l’esempio di due casi, al lettore il compito di trovarne altri):

Ora provate a guardare di nuovo il cubo fissandolo per un po’: la vostra visione potrebbe oscillare tra più punti di vista. Ebbene, si tratta di un esempio molto astratto di figura «ambigua». Un esempio più semplice, in quanto bidimensionale, è quello discusso da Ludwig Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche: 78­­­­

Osservando l’immagine, a prima vista si vede un’anatra; ma dopo un po’ il becco dell’anatra si trasforma nelle orecchie di un coniglio e ora si vede l’anatra e ora il coniglio (ma non tutti e due contemporaneamente). Vi è una grande quantità di figure ambigue discusse dalla letteratura di psicologia della percezione. La peculiarità di questi due esempi è che sono figure ambigue «pure», mentre altri tipi di ambiguità dipendono dal rapporto figura/sfondo, cioè da quale parte del disegno venga considerata come sfondo; come nel caso che segue, in cui a seconda che si consideri come sfondo la parte nera o la parte bianca, si vede ora un vaso ora due profili che si fronteggiano:

L’ambiguità si trova non solo nella percezione, ma anche nel linguaggio. Anche qui possiamo riscontrare ambiguità «pure», cioè parole che possono avere diversi significati, come «chiodo» che può essere un piccolo strumento di ferro o un tipo di giacca, «pila» che può essere un insieme di oggetti posti l’uno sull’altro o un meccanismo per fare luce, o «porto» che, oltre a essere voce del verbo «portare», può riferirsi sia a un rifugio sicuro per le navi sia a un tipo particolare di bevanda di un certo pregio e grado alcolico. Ovviamente il contesto in questi casi disambigua facilmente: in «Ho indossato il chiodo» l’espressione «chiodo» si riferirà più probabilmente al capo d’abbigliamento piuttosto che a un pezzo di metallo, mentre «Ho acceso la pila» riguarderà l’accensione del dispositivo per fare luce (a meno che non ci si trovi in un ambiente anti-intel79­­­­

lettuale dove si vogliano accendere pile di libri per bruciarle e non leggere più; speriamo che questo non accada a chi sta leggendo ora). Analogamente, è più facile che la frase «Sono entrato nel porto» si riferisca all’ingresso in un luogo marittimo con navi e barche piuttosto che in una bottiglia di liquore. Altre ambiguità sono provocate da particelle più piccole del discorso, come ad esempio le preposizioni «di» e «con»: dicendo «Ho letto il libro di Giovanni» posso voler dire che ho letto il libro posseduto da Giovanni o il libro scritto da Giovanni. La differenza chiaramente salta agli occhi in contesti come «Giorgio ha comprato la televisione di Giovanna» e «Murdoch ha comprato le televisioni di Berlusconi». Nel primo caso si capisce che Giorgio ha comprato un apparecchio televisivo e nel secondo che Murdoch ha comprato non un apparecchio televisivo ma l’intera compagnia televisiva di Mediaset (non è vero; è solo un esempio grammaticale!). Allo stesso modo (1) Ho visto un uomo con i binocoli può voler dire che ho visto un uomo da lontano, usando i binocoli, oppure che ho visto un uomo che aveva in mano un paio di binocoli. Qui, ammettiamolo, un po’ di parentesi come in aritmetica aiuterebbero. Si potrebbe dire che 3 + 2 x 4 è ambiguo perché potrebbe voler dire (3 + 2) x 4, cioè 20, oppure 3 + (2 x 4), cioè 11. Le parentesi aiutano a disambiguare non solo le operazioni matematiche ma anche le frasi ambigue, ad esempio distinguendo tra: (1a) Ho visto [un uomo con i binocoli] (1b) Ho visto un uomo [con i binocoli]. In effetti, le parentesi non sono immediatamente comprensibili. Si parla in questi casi di ambiguità legate al campo di azione (o ambito) di un operatore linguistico. In (1a), ad 80­­­­

esempio, il campo di azione di «con i binocoli» è stretto e agisce solo sull’espressione «un uomo», mentre il campo di azione di «con i binocoli» in (1b) è ampio e riguarda tutta la frase, cioè «Io ho visto un uomo». Altri esempi di questo tipo sono i campi di azione dei connettivi enunciativi (quelle espressioni che servono per legare le frasi tra di loro, come «e», «o») o dei quantificatori (le espressioni generali come «tutti», «qualche», «un», ecc.). Anche in questo caso si presentano ambiguità di vario tipo che richiederebbero parentesi come in aritmetica o perlomeno un ordine dei quantificatori che aiuti a disambiguare. Si prenda, ad esempio, questa frase: (2) Tutti i marinai amano una ragazza. La frase può voler dire due cose differenti: (2a) C’è un’unica ragazza che tutti i marinai amano (2b) Ciascun marinaio ha una sua particolare ragazza che ama. La lingua è piena di tranelli di questo tipo. Data la complicazione della nostra grammatica, alcune frasi presentano ambiguità a seconda di quale tipo di categoria sintattica (ad esempio, verbo o nome?) si attribuisce a una parola. Il contesto della frase, tuttavia, di solito aiuta e solitamente non è facile confondere «faccia» come verbo («Ma faccia il piacere!») con «faccia» come nome («Ho perso la faccia»). Ma in alcuni casi, come in un esempio noto tra i linguisti, le parole di una frase da sole non bastano: (3) Una vecchia porta la sbarra può voler dire che una persona anziana porta un oggetto presumibilmente pesante e rigido, oppure che una porta ormai consumata impedisce il passaggio. Qui il contesto del discorso può aiutare dove la frase da sola non basta; nella seconda interpretazione «la» potrebbe riferirsi a un’uscita in un con81­­­­

testo del tipo: «I nostri eroi stanno cercando l’uscita, ma una vecchia porta la sbarra». In casi come questo, l’idea delle parentesi funziona alla perfezione: in linguistica (e nel trattamento automatico del linguaggio che avviene nei programmi informatici), infatti, è tradizionale il metodo della «parentesizzazione etichettata» dove a ciascuna parentesi corrisponde un’etichetta che indica il tipo di categoria sintattica in questione. È un metodo un po’ faticoso per gli umani ma ottimo per i computer e per i programmi di intelligenza artificiale che, per dirla un po’ banalmente, non fanno altro che giocare su enormi quantità di parentesi: se volete divertirvi ad agire come un computer potete vedere la differenza tra le due interpretazioni di (3)4: f[sn[Art[una]Agg[vecchia] n[porta]] sv[v[sbarra][Pron[la/essa]]]] f[sn[Art[una]n[vecchia]] sv[v[porta] sn[Art[la] n[sbarra]]]].

Un problema particolare legato all’ambiguità riguarda il fatto che spesso siamo portati ad «anticipare» la struttura delle frasi e, quando una frase si sviluppa in modo per noi imprevisto, siamo costretti a tornare indietro e rileggerla. I linguisti, a questo proposito, parlano di frasi garden path. Per intenderci, il nostro cervello è veloce, si butta a capofitto in una direzione e di solito coglie l’interpretazione corretta. Ma se ci imbattiamo in elementi che ci fanno capire che l’interpretazione in corso non è corretta, siamo costretti a fare «marcia indietro» e ripercorrere il cammino fino alla bifor-

4 In questa versione f = frase; sn = sintagma nominale; sv = sintagma verbale; v = verbo; n = nome. Le due parentesizzazioni corrispondono a due diversi alberi sintattici. Anche le altre ambiguità, come «Ho visto un uomo con i binocoli», si possono tradurre in parentesizzazione etichettata o alberi sintattici: lasciamo il compito al lettore come perfida beffa.

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cazione del sentiero che ci aveva fuorviato, in modo tale da prendere così l’altra strada. Dagli esempi precedenti potrebbe sembrare che di ambiguità si parli solitamente a livello sintattico o semantico, cioè riguardo all’appartenenza delle parole a categorie sintattiche differenti (verbo o nome) o a significati differenti («pila» o «collo»). Vi sono però ambiguità più profonde e più pericolose che si rivelano nella conversazione quotidiana e che non sono soltanto sintattiche o semantiche. Con una stessa frase una persona, infatti, può far capire cose diverse a persone diverse. Ad esempio, «Non mi aspettavo il tuo arrivo!» può essere inteso dalla persona appena giunta come una manifestazione di piacevole stupore e interesse oppure, con le debite assunzioni di sfondo, come un segno di fastidio per un imprevisto indesiderato. Conclusa la premessa (forse troppo lunga), vediamo almeno un caso in cui il fenomeno dell’ambiguità può essere sfruttato nella comunicazione strategica. In una recente campagna pubblicitaria della Pepsi, celebre bevanda gassata diretta antagonista della Coca-Cola, al fianco dell’immagine della bibita compare la scritta «Too much taste to call ourselves a zero» che potremmo tradurre «Troppo gusto per definirci uno zero».

Lo sfruttamento dell’ambiguità, in questo caso, risulta tanto evidente quanto efficace: l’espressione «zero» si riferisce sia al numero zero, inteso come un indice di poco valore, sia al principale prodotto lanciato in quel periodo sul mercato dalla Coca-Cola, ovvero la Coca-Cola Zero, dove «zero» rappresenta l’assenza di zuccheri. Proprio grazie a questo 83­­­­

elementare stratagemma linguistico, la pubblicità della Pepsi riesce a produrre un effetto umoristico e, nel contempo, a proclamare implicitamente un messaggio estremamente forte e suggestivo: la Pepsi è di gran lunga migliore della CocaCola e mai si sognerebbe di definirsi uno zero! L’ambiguità, tuttavia, può rappresentare anche un’arma a doppio taglio e, in certe circostanze, può dar adito a fraintendimenti disastrosi. Come è accaduto, ad esempio, in questo spot della Ferrero andato in onda qualche tempo fa nelle televisioni tedesche.

Il video mostra un’enorme confezione di cioccolato bianco di fronte a una folla di sostenitori. La cioccolata bianca è intenta a tenere un comizio politico dall’alto di un pulpito. La metafora non è del tutto chiara, anche se l’idea forse è che tutti i tedeschi amano la cioccolata bianca. Lo spot si conclude con uno slogan elettorale:

«Deutschland wählt weiss» che potremmo tradurre «La Germania vota bianco». Non è difficile immaginare come mai i dirigenti dell’azienda abbiano deciso di ritirare il video della pubblicità dalle televisioni tedesche. La Ferrero in breve tem84­­­­

po è stata infatti tacciata di razzismo da più parti: in molti hanno interpretato l’invito a «votare bianco», con riferimento alla tavoletta di cioccolato, anche come un messaggio xenofobo e razzista, affine agli slogan dell’NDP, il partito nazionalista tedesco di estrema destra. Insomma, l’ambiguità dell’espressione «bianco», in questo caso, ha decisamente giocato un brutto scherzo, generando un fraintendimento a dir poco rovinoso. 5. Vaghezza ed espressioni generiche Facciamo un salto indietro nel tempo di più di duemila anni e trasferiamoci in Grecia. Come è noto, è qui che ha avuto origine la filosofia occidentale. A partire dagli insegnamenti di Socrate, furono diverse le scuole che sorsero nel tentativo di sviluppare ambiti diversi come l’etica, la metafisica o la logica. Eubulide di Mileto è stato un filosofo greco antico che, dopo Euclide di Megara, fu a capo di una di queste scuole, la Scuola megarica, una tra quelle che contribuì maggiormente allo sviluppo della logica nell’antichità. Eubulide è famoso per i suoi paradossi, alcuni dei quali tutt’oggi rappresentano una sfida per chi si occupa di logica e ontologia. Quello più noto e discusso è il paradosso del mentitore, richiamato indirettamente in una lettera di san Paolo, che suggeriva di diffidare dei cretesi in quanto mentitori (forse san Paolo era miglior predicatore che non logico). Il paradosso si produce semplicemente nel pronunciare le seguenti parole: «Io mento sempre». Sto mentendo o no? Se dico il vero allora è vero che mento, quindi sto dicendo il falso; ma se dico il falso allora è vero che mento, quindi sto dicendo il vero. Se questo vi stanca passiamo ad altri due suoi paradossi ancor oggi utilizzati per introdurre e affrontare il cosiddetto problema della «vaghezza»: – il paradosso del sorite o del «mucchio»: prendete un 85­­­­

mucchio di sabbia. Se togliete un granello dal mucchio, avrete ancora un mucchio. Se ne togliete un altro, avrete sempre di fronte un mucchio. Ora eliminate un altro granello, un altro e un altro ancora: continuerete ad avere un mucchio finché non rimarrà un solo granello di sabbia. Potremmo ancora parlare di un mucchio in questo caso? Evidentemente no. Ma allora in quale momento il mucchio che avevate di fronte all’inizio può non essere più considerato un mucchio a tutti gli effetti? La differenza tra mucchio e non mucchio può risiedere in un solo granello? – Il paradosso del calvo: un uomo con tanti capelli non può essere considerato calvo. Se quest’uomo perde un solo capello certamente non diventa calvo. Ma neanche se ne perde solo due, tre o quattro. Se i capelli continueranno a cadere, però, l’uomo ben presto diventerà calvo. Ma quand’è esattamente che l’uomo smetterà di essere un non-calvo e inizierà a essere calvo? Un solo capello fa la differenza? I due paradossi di Eubulide di Mileto mostrano che «mucchio» e «calvo» sono due espressioni «vaghe». Altri esempi potrebbero essere aggettivi come «alto», «ricco», «giovane» o, simmetricamente, i loro opposti «basso», «povero», «vecchio» ma anche gli avverbi «rapidamente», «chiaramente», i sostantivi «montagna», «adulto» o i termini singolari «Monte Bianco», «Mar Ionio». Si tratta di espressioni la cui estensione non è ben definita. A questo proposito si parla di casi borderline: mentre con l’espressione «cane» possiamo tracciare una linea abbastanza netta tra gli animali che possono essere considerati cani e quelli che cani non sono, nel caso di «mucchio» abbiamo casi evidenti di mucchi (una montagnetta di sabbia), casi evidenti di non mucchi (un granello) e numerosi casi intermedi dai confini sfumati5. 5 Tra le introduzioni al tema della vaghezza in italiano rimandiamo a Paganini (2008) e Moruzzi (2012).

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Mettiamo subito in chiaro una cosa: la vaghezza è un fenomeno diverso dall’ambiguità. Per intenderci, mentre l’espressione «chiodo» è ambigua poiché ha due possibili significati chiaramente distinti (e quindi per nulla vaghi), l’espressione «mucchio» non ha due significati distinti; solo non possiede un significato facilmente precisabile. Analogamente, potremmo dire che le espressioni vaghe sono diverse anche dalle espressioni deittiche; pensate a «Io ora mi trovo a Genova»: le parole «io» e «ora», una volta interpretate rispetto a un contesto di proferimento, risultano tutt’altro che vaghe e assumono un significato ben preciso. Siamo dunque di fronte a un altro fenomeno linguistico che contribuisce a rendere suscettibile di interpretazioni differenti ciò che viene detto da un parlante. In genere, potremmo dire che la vaghezza è un esempio di strategia che consente ai parlanti di disimpegnarsi; rendere vago il contenuto di una propria asserzione è infatti un modo per deresponsabilizzarsi rispetto a ciò che si dice. Non a caso, è facile vedere che la vaghezza sia spesso una componente essenziale del discorso politico. I «programmi» politici, per svariate ragioni, sono frequentemente connotati da un senso di vaghezza. Prendiamo come esempio gli otto punti programmatici proposti dal Partito democratico a seguito dei risultati delle elezioni politiche del 2013, quando il presidente Napolitano incaricò il segretario del Pd Bersani di interloquire con le diverse forze politiche con lo scopo di formare una squadra di governo (è ormai materia di storia e non ha alcun valore polemico). I punti in questione, pur vertendo inequivocabilmente su tematiche care a un elettorato progressista, nel merito dei contenuti programmatici risultano spesso indefiniti e neutrali, proprio in virtù di un ampio utilizzo di espressioni vaghe e generiche. La vaghezza, in questo caso, è imposta dalla necessità di proporre contenuti programmatici non manifestamente faziosi o in diretto contrasto con le posizioni dei potenziali interlocutori politici del Pd (in quella particolare fase politica, 87­­­­

intento a trovare punti di convergenza con tutto l’arco parlamentare, nel tentativo di formare un esecutivo). Concentriamoci esclusivamente sulle caratteristiche linguistiche del testo esaminando alcune delle voci. Al punto primo «Fuori dalla gabbia dell’austerità» troviamo la voce Conciliare la disciplina di bilancio con investimenti produttivi dove il verbo «conciliare» rimanda a indefiniti provvedimenti conciliatori (di fatto, non vi è riferimento a interventi specifici di alcun tipo), mentre il termine «investimenti» viene utilizzato senza ulteriori specificazioni (se non quella di prediligere interventi di tipo produttivo). La proposta, di conseguenza, ha un contenuto talmente vago da renderla quasi incontrovertibile (d’altra parte, quale forza politica si impegnerebbe a sostenere che non occorra conciliare il bilancio con interventi produttivi?). La proposta Disciplina più rigorosa del falso in bilancio del punto secondo «Per un’Italia onesta» e, al punto terzo «Creare lavoro per far crescere l’Italia», la voce Un’ora di lavoro stabile sia più conveniente di un’ora di lavoro precario sfruttano l’uso di due strategie abbastanza simili. Nel primo caso, l’enunciato esprime un contenuto generico in virtù dell’utilizzo del comparativo «più rigorosa»: non si specifica il termine di comparazione (più rigorosa di che cosa?), e non viene data alcuna informazione che chiarisca quale tipo di provvedimento possa conferire maggiore rigore alla disciplina sul falso in bilancio. Nel secondo caso, il comparativo «più conveniente» veicola un contenuto incompleto: a differenza del precedente comparativo qui abbiamo il termine di paragone, «stabile» è più conveniente di «precario». La vaghezza consiste nel non 88­­­­

specificare in che senso e per chi sia conveniente. Certo, è più conveniente per il lavoratore avere un lavoro fisso, e forse la frase lascia intendere – senza dirlo – che potrebbe essere più conveniente per un datore di lavoro assumere personale fisso e non precario. Ma come? Pagando meno tasse? Con incentivi? Sgravi fiscali? Niente di tutto questo viene esplicitato, bensì viene presentato un principio generico che può essere interpretato con diversi tipi di precisazioni alternative tutte compatibili con quanto espresso. Vaghezza e genericità consentono di produrre enunciati ampiamente condivisibili. In tal modo, peraltro, permettono di proporre non progetti bensì atteggiamenti; ad esempio, non si suggeriscono politiche robuste sulle fonti alternative (come ad esempio in Germania), ma atteggiamenti «favorevoli» ad esse: Favorire la produzione di energia più pulita. Come sopra, non vi è alcuna indicazione programmatica, ma un vago richiamo all’energia pulita. Quale? Marmitte catalitiche? Energia solare? Eolica? Il politico dirà: di queste cose se ne occupano i tecnici, a noi spetta dare indicazioni generali. Certo, si può sostenere che un discorso programmatico non debba scendere nei dettagli ma dare indicazioni generali; ma «generale» non vuol dire «vago». Su un asserto vago e generico tutti possono essere d’accordo perché ciascuno darà la propria interpretazione o precisazione. Il prezzo da pagare è, tuttavia, il seguente: se le indicazioni sono così generali tanto da non poter essere oggetto di disaccordo, è difficile capire in cosa consista l’originalità di un programma. 6. Mitigazione In questo capitolo abbiamo visto che ciò che un parlante dice dipende dal contesto in numerosi modi differenti. Proprio questo aspetto, da un lato, spesso può dare adito a frainten89­­­­

dimenti, dall’altro, può essere sfruttato sapientemente per produrre una comunicazione strategica e persuasiva. C’è un’ultima considerazione interessante da fare rispetto al tema di «ciò che è detto». L’idea in questione è che ciò che diciamo e il modo in cui lo diciamo contribuiscono a determinare la nostra identità e la distanza emotiva tra noi e i nostri interlocutori (Caffi, 1999). A seconda di come poniamo una richiesta, agli occhi di chi ci ascolta possiamo apparire come persone educate o sgarbate. Inoltre, ciò può contribuire a creare una maggiore empatia con i nostri interlocutori o, viceversa, può allontanarci emotivamente da loro. In che modo, dunque, possiamo «controllare» ciò che diciamo evitando di dar luogo a conseguenze disastrose nelle nostre interazioni quotidiane? In linguistica si parla di mitigazione per riferirsi a tutte quelle strategie utilizzate dai parlanti per attenuare i rischi interazionali e per deresponsabilizzarsi rispetto a ciò che si dice. Cerchiamo di capire meglio osservando alcuni esempi di strategie di mitigazione. Nella letteratura, solitamente si distinguono tre gruppi di mitigatori: i cespugli, le siepi e gli schermi. I cespugli sono tutte quelle espressioni che mitigano il contenuto che un parlante esprime. Ne è un esempio, per l’appunto, la vaghezza. Per intenderci, sono esempi di cespugli espressioni come «una sorta di», «più o meno», «in qualche modo», «circa», «un certo», ecc. Ad esempio, un muratore, per «mitigare» la comunicazione di un preventivo, potrebbe dire: «Bisogna rifare tutto il pavimento, più o meno saranno 15.000 euro». Oltre alla vaghezza, altri esempi di cespugli sono i diminutivi, come «Il tuo comportamento mi ha deluso un pochino» o gli avverbi di ambito come «Clinicamente, lei ha un mese di vita» che restringono l’ambito di validità di ciò che si afferma (in questo caso, l’ambito clinico; quante volte poi uno muore dopo anni. Oppure il giorno dopo). Vi sono poi le siepi, quei mitigatori che consentono a un parlante di prendere le distanze dall’azione che egli compie affermando qualcosa (affronteremo con attenzione questo tema 90­­­­

nel capitolo 5). Un esempio di siepe è l’uso del futuro epistemico in «C’è la porta di casa aperta. Saranno stati i ladri», che attenua la responsabilità di chi parla rispetto alla verità della sua affermazione la quale, in questo modo, assume il valore di una semplice ipotesi. Anche l’uso del condizionale al posto dell’indicativo, sfruttando il modo ipotetico, funge da mitigatore; ad esempio, dire «Ti chiederei di abbassare la voce» è un modo per attenuare il valore impositivo di una richiesta che altrimenti suonerebbe scortese. Qualcosa di simile accade pure con l’uso di espressioni come «Se hai voglia, potresti scendere a comprare il latte» o «Se ti va...» che, facendo appello alla libertà di scelta di chi ascolta, rendono la proposta in questione meno invasiva. Infine, gli schermi sono meccanismi mitigatori che sfruttano lo slittamento delle diverse componenti del contesto, come la persona, il tempo o il luogo. Supponiamo, ad esempio, che vogliate raccontare a qualcuno un pettegolezzo del quale non siete del tutto sicuri. Invece di dire «Luca ha tradito Sara con Martina» potreste attenuare la vostra responsabilità dicendo «Si dice che Luca ha tradito Sara con Martina», ovvero attribuendo la diceria a un parlante generico non ben individuato e «slittando», in questo modo, la fonte della vostra affermazione. Un altro esempio di schermo potrebbe essere l’uso di «Quando mi fanno critiche stupide, mi arrabbio» dove l’espressione «Quando mi fanno critiche stupide» generalizza il contenuto dell’affermazione a un tempo imprecisato (invece di dire «Tu mi hai fatto una critica stupida e quindi mi arrabbio con te»). Delle strategie di mitigazione si fa un grande uso in tutti quei contesti di comunicazione in cui chi parla vuole muoversi con i piedi di piombo stando attento a non compromettersi più del dovuto. Non è un caso, difatti, che una gran quantità di studi linguistici sulla mitigazione abbiano esaminato le interazioni medico-paziente e, nella fattispecie, la comunicazione delle diagnosi. Un discorso analogo può essere fatto per tutte quelle circostanze comunicative in cui una certa af91­­­­

fermazione può avere innanzitutto ricadute sul piano legale, come, ad esempio, nell’ambito della comunicazione pubblicitaria. Vediamo brevemente due esempi: uno di mitigazione riuscita e uno di mitigazione mancata. Un primo esempio è offerto da una pubblicità del dentifricio AZ pro expert.

Durante il video che mostra delle gengive contagiate dalla placca e l’azione benefica del dentifricio sulle gengive, una voce descrive il prodotto elencandone le principali caratteristiche. Tra le varie qualità del prodotto, la voce fuori campo sottolinea il fatto che AZ pro expert aiuta a prevenire e ridurre i problemi gengivali in quattro settimane. È interessante notare che tale affermazione risulta fortemente compromettente dal punto di vista legale: insomma, se grazie a una semplice analisi si venisse a scoprire che AZ pro expert non sia realmente in grado di ridurre i problemi gengivali come promesso, la AZ probabilmente si troverebbe costretta a risponderne all’Antitrust. Nel testo della pubblicità, però, la formidabile caratteristica viene «mitigata» con una strategia molto frequente e al tempo stesso efficace: la voce fuori campo, precisamente, afferma che «È clinicamente dimostrato che AZ pro expert aiuta a prevenire e ridurre i problemi gengivali in quattro settimane». Insomma, chi parla mette le mani avanti sottolineando che quanto si sta dicendo è sostenuto e provato da qualcun altro, qualcuno di autorevole: i test clinici. Di quale strategia mitigatoria si tratta? È un esempio di siepe: in questo caso, infatti, chi parla si protegge slittando una delle componenti del contesto, ovvero il parlante. In questo modo, la responsabilità comunicativa viene spostata da colui che compie l’affermazione a una fonte più autorevole. È inoltre abbastanza chiaro che vi è un’infinità di modi indefiniti di «ridurre» i problemi gengivali, da una loro elimina92­­­­

zione a un impercettibile miglioramento (non è un po’ come il paradosso del mucchio?). Contro chi si dovesse lamentare si può sempre sostenere che i test hanno dimostrato statisticamente la riduzione della placca e che una statistica non può rendere conto di un caso singolo. Non sempre, tuttavia, i tentativi di mitigazione vanno a buon fine e quando succede, soprattutto nella comunicazione pubblicitaria, le conseguenze possono essere tragiche. Proviamo a prendere in esame il caso di una recente pubblicità del noto detersivo Dash, prodotto della Procter & Gamble. Saltiamo alcuni aspetti di cornice dello spot e andiamo dritti al punto incriminato. All’interno dello spot il protagonista, un noto comico italiano, descrivendo le qualità del detersivo, propone un confronto tra il detersivo Dash e quello che viene presentato come il «principale concorrente». Come noto a tutti coloro che frequentano i supermercati, si tratta del detersivo Dixan. Ecco in cosa consiste la comparazione:

Dash viene presentato come più conveniente: un singolo misurino di Dash, difatti, lava tanto quanto un misurino e mezzo del principale concorrente. Insomma, mica un’affermazione da poco! Se fosse vero sarebbe di certo più conveniente! Il problema però è che, poco dopo la diffusione dello spot, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha commissionato una serie di test comparativi tra i due prodotti per valutare l’attendibilità dell’affermazione. Risultato: dalle analisi non è emerso alcun elemento che consentisse di sostenere la superiorità di Dash in quanto ad efficacia. L’Antitrust ha dunque avviato una procedura legale per impedire la prosecuzione della diffusione del video e per multare la Procter & Gamble con un’ammenda di 100 mila euro. Di contro, la Henkel, ditta produttrice del Dixan, il «principa93­­­­

le concorrente», ha promosso una campagna pubblicitaria sulla carta stampata in risposta alla decisione dell’Antitrust, tacciando la campagna pubblicitaria della Procter & Gamble come menzognera e ingannevole:

Qual è la morale della storia? I pubblicitari della Procter & Gamble, in questo caso, hanno omesso ogni tentativo di mitigazione pagandone care le conseguenze. Sarebbe bastato poco per deresponsabilizzarsi e mettersi al riparo da accuse e attacchi legali; ad esempio, banalmente, introducendo la comparazione tra i due prodotti con un «I nostri clienti sostengono che...» o «Chi lo ha provato dice che...» o semplicemente «Si dice che...». Un modo facile ed economico per dire (quasi) la stessa cosa attribuendo, però, la responsabilità dell’affermazione ad altri, e non a sé stessi.

4.

Fare

Potere alla parola (Frankie Hi-NRG MC)

Noi umani siamo animali parlanti. Anche il pappagallo, se è per questo. Ma il pappagallo ripete parole, non inventa. Magari può essere addestrato a dire «rosso» di fronte a cose rosse ma non sa dirci che il rosso è un colore e che non è né blu né giallo. Così un cane può sapere che il padrone è alla porta (ne sente l’odore), ma non potrà mai sapere che il padrone verrà mercoledì pomeriggio della prossima settimana. Prima ancora che per comunicare, il linguaggio umano è un mezzo incredibile per descrivere il mondo in modo complesso e organizzato. Per comunicare aspetti base della vita, infatti, abbiamo, come altri animali non umani, sguardi, gesti, posture, empatia. Quello che gli animali non umani non sanno fare è descrivere: questa è una capacità propria degli animali parlanti quali noi siamo. 1. Frammento di microstoria della filosofia La capacità di descrivere, di rappresentare il mondo ha sempre affascinato i filosofi tanto da essere stata considerata per lungo tempo l’unica caratteristica rilevante del linguaggio umano – anche se alcuni filosofi come Immanuel Kant e Ludwig Wittgenstein si spinsero a studiare i limiti di quello che poteva essere descritto o detto con il linguaggio naturale. Per i neopositivisti logici tedeschi e austriaci riuniti negli anni 95­­­­

’20 e ’30 nel famoso «Circolo di Vienna» il compito della filosofia consisteva nel chiarire quando un enunciato linguistico può essere una buona descrizione del mondo. Il compito del filosofo era distinguere, da una parte, gli enunciati sensati, che sono buone descrizioni e possono essere verificati, e, dall’altra, gli enunciati insensati, che non sono descrizioni e non si può dire, quindi, se siano veri o falsi. Ad esempio, «Il 19 maggio 1929 ci sarà un’eclisse solare» è un enunciato sensato che si può verificare: si va in un posto ove sia possibile vedere bene l’eclisse e si attende il 19 maggio; in questo caso, basta osservare il cielo. «La Gioconda è bella», invece, è un enunciato che non descrive niente, e non si può verificare; è infatti un’espressione dell’emozione di chi apprezza il quadro e non una descrizione di un qualche fatto. Altri enunciati sono insensati e basta; ad esempio «Il principio è privo di fondamento» è un enunciato di cui non si capisce il senso: non è chiaro a quali condizioni sia vero o falso, non descrive alcunché ed è un enunciato «metafisico» che va eliminato dal nostro linguaggio descrittivo. Non ha alcun ruolo effettivo nel nostro linguaggio; è come una ruota che gira a vuoto. Questa esigenza di purificare il linguaggio della filosofia da sofismi inutili rappresenta uno sforzo eroico degli anni dell’anteguerra; è un’esigenza sorta assieme allo sviluppo della logica matematica e della scienza empirica: gli eroi dei neopositivisti erano Gottlob Frege e Albert Einstein, inventori l’uno della nuova logica e l’altro della nuova fisica (per la quale un enunciato di simultaneità tra eventi non aveva significato se non si davano specificazioni dei metodi di misura nello spazio-tempo). Fautore della nuova rivoluzione filosofico-scientifica in Inghilterra, a Oxford, è stato il filosofo Alfred J. Ayer, famoso al grande pubblico per aver fermato Mike Tyson dal picchiare Naomi Campbell (trovate le informazioni su Wikipedia). Ayer non difendeva solo le donne dai violenti, ma anche le idee dei neopositivisti dai suoi critici. In particolare, sostene96­­­­

va l’idea che tutti gli enunciati sensati dovessero dividersi in due gruppi: (1) enunciati analitici, veri a priori: appartengono alla logica e alla matematica (come «A=A» o «2+2=4»), (2) enunciati sintentici, la cui verità è a posteriori: sono gli enunciati descrittivi sia del senso comune sia delle scienze empiriche, come «C’è un pianeta che disturba l’orbita di Mercurio»1 o «C’è un pianeta che disturba l’orbita di Urano». Seguendo le idee sviluppate da Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus e le tesi dei neopositivisti, Ayer sosteneva che per essere dotato di significato un enunciato deve appartenere a una di queste due categorie: o è un enunciato della logica o della matematica oppure deve poter essere verificabile empiricamente, deve avere cioè delle condizioni di verità: ci deve essere un metodo per stabilire quando è vero e quando è falso. Per chi non avesse mai sentito il proverbio sul buttare il bambino con l’acqua sporca questo è il momento: i neopositivisti rischiavano di buttare il bambino (il linguaggio con le sue complessità) assieme all’acqua sporca, cioè i sofismi e le vacue filosofie dei metafisici, da loro identificate soprattutto nelle idee di Heidegger e colleghi2. 1 Questo enunciato è stato usato per giustificare l’anomalia dell’orbita di Mercurio rispetto alle leggi di Newton; l’enunciato è stato usato dal matematico Urbain Le Verrier nel 1859 per ipotizzare l’esistenza di un pianeta (chiamato «Vulcano») che di fatto non esisteva. L’enunciato è dunque stato verificato a posteriori come falso (la deviazione dell’orbita di Mercurio è uno dei casi paradigmatici in cui si conferma la teoria della relatività di Einstein). Caso diverso è quello dell’enunciato «Vi è un pianeta che disturba l’orbita di Urano» (Urano era stato scoperto nel 1781 da Herschel). Sulla base dell’ipotesi che vi fosse un pianeta che disturba l’orbita di Urano, Le Verrier postulò l’esistenza di un pianeta che venne scoperto, usando i suoi calcoli, nel 1846: era il pianeta Nettuno. L’enunciato «vi è un pianeta che disturba l’orbita di Urano» si è rivelato a posteriori come vero. 2 È almeno da sapere che l’influenza diretta o indiretta del neopositivismo si sviluppò soprattutto negli Stati Uniti e non nel continente europeo: infatti la filosofia di Heidegger, che era rimasto in Germania durante il nazismo, ebbe una grande influenza in Europa, mentre i neopositivisti, come molti altri intellettuali, o venivano assassinati – come il fondatore del «Cir-

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2. Il linguaggio come azione C’è voluto un altro filosofo di Oxford per restituire al bambino la sua importanza e la sua complessità: John L. Austin, studioso di Aristotele, ha sostenuto che il linguaggio non serve solo per descrivere il mondo, anche se questa è una sua encomiabile caratteristica, ma serve anche per agire, per fare cose con le parole, come appunto sostiene in un omonimo libretto – degno dei libretti «fai da te», tipo Come fare costruzioni col legno o Come fare bambole di pezza. L’intuizione di Austin nasce considerando enunciati di questo tipo: «Battezzo questa nave ‘Queen Mary’» «Scommetto 10 euro che domani pioverà» «Sì, lo voglio» (detto da uno dei due sposi durante la cerimonia nuziale). Queste frasi non sono né vere né false (non hanno, quindi, condizioni di verità) ma non si possono dire insignificanti, metafisiche o mere espressioni di emozioni. Non descrivono né fanno un resoconto di un’azione, bensì compiono l’azione stessa. Dicendo «Scommetto...» compio l’azione di scommettere (con tutti i rischi di perdere) mentre dicendo «Battezzo...» eseguo l’azione di battezzare una nave (sperando che la bottiglia si rompa e non resti intatta come pare accadde con il Titanic). Questi sono casi evidenti in cui parlare è agire. Riflettendoci su, peraltro, basta poco (Austin ci mette una cinquantina di pagine) per rendersi conto del fatto che ogni uso del linguaggio costituisce una vera e propria azione, descrizioni comprese. Descrivere non è forse un’azione? La più comune delle azioni che facciamo con le parole. Parlare comporta sempre fare qualcosa: descrivere, domandare, pro-

colo di Vienna» Moritz Schlick – o erano costretti a emigrare, come Carnap, Popper, Reichenbach, Waismann, Wittgenstein, per non parlare di Gödel, Einstein e Freud.

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mettere, comandare sono le azioni più comuni, che chiunque abbia letto un fumetto sa padroneggiare3. Austin sviluppa dunque una teoria degli atti linguistici:

Asserzione

Domanda

Ordine

un’analisi delle diverse azioni che possiamo compiere ogni volta che apriamo bocca per dire qualcosa. Un po’ di attenzione e una cultura letteraria che va oltre la lettura dei fumetti ci rende capaci di fare e capire le innumerevoli azioni che compiamo parlando: giudicare, descrivere, analizzare, licenziare, condannare, arruolare, lasciare in eredità, scomunicare, perdonare, patrocinare, promettere, insinuare, garantire, scommettere, scusarsi, ringraziare, deplorare, lodare, augurare, provocare, asserire, informare, testimoniare, ammettere, concedere, e via dicendo. Vediamo subito un’applicazione di queste idee: riflettendo sulle principali categorie di azione (comando, descrizione e domanda) possiamo già vedere una cosa interessante. Lo stile di propaganda politica di regimi dittatoriali e regimi democratici si differenzia per il tipo di azioni linguistiche che i partiti rivolgono alla popolazione. Ecco un esempio preso dalla propaganda del regime fascista in Italia (a sinistra) e dalla propaganda del regime democratico (a destra), qui esemplificato da due manifesti del Partito democratico:

3 I disegni sono tratti dalle storie di Tex Willer, pubblicate dall’editore Bonelli.

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La diversità degli atti linguistici o delle azioni comunicative4 presenti in queste immagini è presto detta: – lo scopo del comando è farsi obbedire e implica una relazione asimmetrica tra chi parla e chi ascolta: chi ascolta è inteso che debba obbedire, riconoscendo l’autorità maggiore di chi parla; – lo scopo di una descrizione è quella di rappresentare uno stato di cose sul quale ciascuno possa dire la sua e presuppone una relazione di parità tra chi parla e chi ascolta; – lo scopo di una domanda è avere una risposta; anche questo presuppone una relazione di parità tra chi parla e chi ascolta: porre una domanda significa considerare il nostro interlocutore come un parlante razionale, capace di elaborare ed esprimere un pensiero in modo autonomo. Un breve commento per ricordare, per chi non lo sapesse, che gli imperativi erano piuttosto comuni nella propaganda del ventennio fascista, nel periodo in cui occorreva «credere, obbedire e combattere» (dove «obbedire» è qualcosa che si fa di fronte a un ordine). Diversamente, la propaganda in una democrazia fa appello alla razionalità degli interlocutori e alla loro libertà di scelta e privilegia quindi le domande e le 4 Il termine «azione comunicativa» viene divulgato dal filosofo Jürgen Habermas, sulla scia delle teorie di Austin. Nella sua Teoria dell’agire comunicativo (1981), Habermas suggerisce una classificazione degli atti linguistici nel tentativo di identificare gli universali pragmatici che costituiscono la razionalità comunicativa. Per intenderci, verbi come «esprimere» e «negare» sono universali linguistici che caratterizzano ogni discorso razionale; in ogni dialogo razionale, infatti, ad ogni parlante dovrebbe essere sempre consentito di esprimere le proprie credenze o confutare le opinioni altrui.

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descrizioni. Anche il ruolo della donna cambia, e mentre per i regimi e le ideologie più rozze le donne sono una cosa da difendere (dai comunisti o dai neri), nei regimi democratici più avanzati le donne sono (o almeno si spera che siano) soggetti politici che si rivolgono agli elettori: «Ce lo chiede Claudia» è lo slogan di un manifesto di propaganda Pd; cosa chiede Claudia? Ovviamente di votare Pd, ma questo non viene detto, bensì inferito dal fatto che Claudia si trova sul manifesto del Partito democratico che dice «L’Italia che vince battendo il rigore». Ammettiamolo, non tutta la propaganda politica nei paesi democratici si rivolge alla razionalità dei cittadini, e in molti casi punta alla «pancia» degli elettori, proprio come la vecchia propaganda fascista (e la sua visione della donna «da difendere»). Ma gli italiani hanno ormai acquisito una buona capacità di discernimento (o almeno si spera) e dovrebbero saper distinguere le forme di propaganda che fanno leva sull’emotività e si rivolgono solo alla «pancia» da quelle che si basano sul confronto razionale e riconoscono agli elettori la capacità di pensare e ragionare per conto proprio. 3. Verità e felicità Insomma, parlare è fare, parlare è un tipo di azione. Descrivere, domandare, comandare sono azioni. Attenzione però: un’azione non può essere vera o falsa, ma può essere fatta bene o male. Se do un pugno, o corro, o nuoto, compio azioni. Le azioni stesse di dare un pugno o di correre o di nuotare sono azioni che possono avere diversi gradi di efficienza. Possono essere eseguite in modo corretto o scorretto, bene o male. Austin a questo proposito parla di «felicità» degli atti linguistici, cioè di quelle azioni eseguite tramite l’uso del linguaggio. A chi non è mai capitato di dire qualcosa di infelice? Una battuta al momento non opportuno? Una considerazione quando era meglio stare zitti? Oltre che dal punto di vista delle condizioni di verità che riguardano i contenuti delle descrizioni tanto amate dai neopositivisti, si può dun101­­­­

que considerare l’uso del linguaggio anche dal punto di vista delle condizioni di felicità. Il proferimento di una frase sarà, nel senso più tecnico di Austin, «felice» se rispetta (i) le convenzioni usate e (ii) le intenzioni e i sentimenti che si accompagnano normalmente a quel proferimento. Un comando, ad esempio, risulta felice e ben eseguito se chi comanda ha l’autorità di farlo (un colonnello può comandare a un soldato semplice, ma non viceversa); implorare funziona se chi implora chiede qualcosa che l’interlocutore può realizzare (e se non si trova nessuno in grado di farlo, magari si implora una divinità); una promessa può essere eseguita felicemente solo se ciò che si promette è davvero realizzabile; certo, se ti prometto qualcosa di realizzabile ma senza l’intenzione di mantenere la mia promessa, lì per lì la promessa va a buon fine ma una volta scoperta la mia insincerità tu avrai tutto il diritto di lamentarti e di esigere che io esegua quanto promesso. Quindi, per una buona azione linguistica, occorre anche rispettare le intenzioni e i sentimenti che si suppone accompagnino l’azione. Il caso della promessa introduce due aspetti di quella che Austin chiama «infelicità» di un’azione linguistica. Prendiamo l’esempio da un fatto di cronaca. Un caso di infelicità.   Il 18 marzo 2014 a Grosseto un argentino di 54 anni viene rinviato a giudizio per reato di bigamia: si è sposato con una donna pur essendo già sposato e con un figlio. Il secondo matrimonio, dunque, viene considerato nullo. Cosa avrebbe da dire Austin riguardo a questo episodio? Dicendo «Sì, lo voglio» nel secondo tentativo di matrimonio, l’uomo ha commesso un atto linguistico infelice, rendendo l’azione di sposarsi invalida e vanificando, di fatto, il suo matrimonio. È un po’ come se, sparando un colpo, il fucile si fosse inceppato: l’uomo ha emesso, secondo la terminologia di Austin, un colpo a vuoto. Ma immaginiamo, diversamente, il caso in cui un maschio adulto non sposato voglia sposare una donna solo per interesse e la costringa contro la sua volontà per conseguire vantaggi 102­­­­

economici. In tal caso, egli non rispetterebbe i sentimenti e le intenzioni che si accompagnano normalmente a un matrimonio, che si assume si faccia intenzionalmente per amore. Forse questo renderebbe il matrimonio nullo? No di certo, anche se l’atto linguistico «Sì, lo voglio» risulterebbe anch’esso in qualche modo infelice; infatti, «Sì, lo voglio» è un’abbreviazione per dire che ci si sposa con l’intenzione di aiutarsi nella buona e nella cattiva sorte. A differenza del caso della bigamia, però, il matrimonio fatto per mero interesse risulterebbe istituzionalmente valido, perché la procedura convenzionale verrebbe rispettata. A ben vedere, infatti, occorrerebbe comunque una procedura legale molto complicata per poter sciogliere un matrimonio conseguito con cattive intenzioni e con coercizione della sposa. Però non si può negare che quest’atto costituisca, come dice Austin, un abuso. Quali considerazioni emergono da questi due casi? Che, per certi versi, in un’azione linguistica contano più le convenzioni che le intenzioni; infatti, quale che sia la tua intenzione, se hai parlato, hai compiuto l’atto e ne sei responsabile. Ti sei sposato, hai promesso, ti sei impegnato, ecc. anche se le tue intenzioni sono diverse da quanto si presuppone che siano. In conclusione, un atto linguistico può essere infelice in due diversi modi: (i) colpo a vuoto: l’atto viola le convenzioni e quindi è un atto mancato, non riesce a essere un atto compiuto in modo efficace (il matrimonio non è valido); (ii) abuso: l’atto viola le intenzioni o i sentimenti previsti da un certo tipo di azione, ed è quindi compiuto ma in modo fraudolento. Benché fraudolenta, tuttavia, l’azione in definitiva viene realizzata (il matrimonio è valido). Con le convenzioni, anche linguistiche, non si scherza. Quanto vale per la dichiarazione di matrimonio vale per ogni atto linguistico: ad esempio, una promessa è un colpo a vuoto se si promette ciò che è impossibile mantenere (ad esempio «Ti prometto che ti farò vivere in eterno» o «Ti prometto di darti la luna»). Difatti, è convenzione che si prometta solo quello che è possibile mantenere, a meno che sia un 103­­­­

caso di figura retorica, come quando un amante dice al partner: «Vuoi la luna? Ti darò la luna»; questa è un’espressione di emozioni e sentimenti e una promessa metaforica non è una vera promessa, se non come metafora di una forse eccessiva disponibilità. Diverso è il caso dell’abuso: anche una promessa può essere fatta, come purtroppo a volte accade, senza intenzione di mantenerla («Ti prometto che sarò fedele!» detto da un amante fedifrago e traditore o «Ti prometto che ti restituirò i soldi al più presto» detto da un bugiardo squattrinato). Questi ultimi sono casi di abuso: l’azione non è «ben fatta», è in qualche modo infelice; però, l’azione stessa non è nulla, per via del fatto che sono state pronunciate certe parole: una volta fatta una promessa, la persona cui è stato promesso può a buon diritto reclamare i soldi o adirarsi per il mancato rispetto della parola data, e in tal caso a nulla vale dire «Ho promesso ma non intendevo mantenere» (si peggiorerebbe solo la situazione).

Un caso famoso di infelicità.   Per John L. Austin una condizione di felicità è che alcune procedure, che consistono nel pronunciare certe parole, devono essere eseguite «correttamente e completamente». Un caso eclatante di violazione delle condizioni di felicità è stato il caso del primo giuramento di Obama come presidente degli Stati Uniti. Non solo i matrimoni devono rispondere a precise condizioni di felicità, ma anche 104­­­­

i giuramenti, specie quelli istituzionali e ancor più quando a giurare è il presidente degli Stati Uniti. In un resoconto giornalistico pubblicato su «La Stampa» del 22 gennaio 2009 si legge: Quando Feinstein chiama il giudice John Roberts a far giurare Obama sulla Bibbia di Lincoln tenuta da Michelle, con un ritardo di sei minuti rispetto alle 12, Washington ammutolisce. Un silenzio irreale circonda Barack mentre inciampa nella ripetizione della formula del giuramento, costringendo Roberts a ripeterla. L’uomo più calmo d’America cede all’emozione e il suo popolo lo travolge d’affetto con un imponente grido «O-ba-ma, O-ba-ma» simile a quello dei comizi.

Si è saputo in seguito che Obama dovette ripetere il suo primo giuramento da presidente in forma privata perché l’ordine delle parole durante la cerimonia era stato pronunciato in modo non corretto. E un giuramento del presidente degli Stati Uniti, per essere valido, deve seguire quanto afferma la Costituzione, cioè che la formula deve essere recitata in modo esatto. Ma la parola «faithfully» era stata pronunciata in una successione errata. Dunque, il giuramento fu considerato non valido. Un aspetto curioso della vicenda è che il fatale errore in realtà non era stato commesso da Obama, ma da John Roberts, il quale, in veste di presidente della Corte Suprema, aveva il compito di recitare il testo che Obama avrebbe dovuto ripetere. Obama in quell’occasione non aveva ceduto all’emozione; si era accorto dell’errore e aveva cercato di segnalarlo, seppur senza successo, al presidente della Corte Suprema, senza riuscire quindi a evitare di invalidare il suo primo giuramento da presidente degli Stati Uniti. 4. Le conseguenze di un’azione (linguistica) Parlare è agire e la prima cosa che si cerca di fare quando si impara una lingua straniera, mentre si studia il lessico, è capire quali sono i diversi tipi di atti linguistici: mi ha fatto una domanda? Mi ha dato un ordine? O è stata una dichiarazio105­­­­

ne? Le diverse azioni linguistiche, infatti, hanno diverse conseguenze e chi le esegue assume impegni precisi: nell’asserire ci impegniamo rispetto al contenuto dell’asserzione, nel comandare sosteniamo di averne l’autorità, nel domandare ci dimostriamo disposti ad accettare una risposta. Per questo non basta studiare il lessico di una lingua per farsi capire. Il problema di imparare i diversi modi in cui le lingue eseguono le varie azioni linguistiche è uno dei punti centrali negli insegnamenti di una lingua straniera. In italiano, normalmente, la domanda è caratterizzata da un’intonazione ascendente e grossomodo non ha una sintassi diversa da un’asserzione. Ma non è così in tutte le lingue. Ad esempio, in italiano la frase «Esci con me questa sera» può essere una domanda se pronunciata con intonazione interrogativa o un comando se pronunciato in modo secco. Al contrario, pronunciare il corrispondente francese o inglese «Tu vien avec moi cette soir» o «You come with me tonight» con intonazione da domanda, non serve a nient’altro che a suscitare una reazione indispettita da parte della ragazza francese o inglese che si sente impartire un comando dal macho italiano. Infatti in queste lingue la differenza tra domanda e comando è data dalla sintassi e non dall’intonazione. Domande, asserzioni e comandi sono tre azioni base di cui ci si impadronisce presto o, perlomeno, dopo aver fatto qualche brutta figura. Solo allora si impara a dire «Est-ce que tu veux venir avec moi cette soir?» o «Do you come with me tonight?» o meglio «Would you like to come with me tonight?». Certo, sono frasi comunque grossolane ma almeno esprimono una domanda e non un comando. E pensate come è difficile per inglesi e francesi distinguere domanda e comando in italiano! Capire i diversi modi in cui si eseguono domande, comandi e asserzioni è il primo passo per diventare un parlante competente. Padroneggiare una lingua significa distinguere le varie sfumature delle azioni che si possono compiere con essa, e i diversi tipi di impegno che quelle azioni comportano. Questo vale sia nella lingua parlata sia, con conseguenze 106­­­­

ancor più marcate, nella lingua scritta e a maggior ragione nella scrittura digitale. Quando clicchiamo su «Invia» per mandare un sms o una email esercitiamo un comando rivolto al programma del cellulare o del pc, e un nostro pensiero (per lo più banale) arriva a uno o più destinatari in qualsiasi posto del mondo in una frazione di secondo. Quando cerchiamo un nome nella rubrica rivolgiamo una domanda al programma del cellulare. Quando indichiamo una località di partenza e una località di arrivo sul navigatore dell’auto o su Google Maps indirizziamo al programma una richiesta di informazione; quando, dopo aver scelto con quale treno o aereo partire, clicchiamo su «Invia» ci impegniamo ad accettare le condizioni del viaggio; immettendo i dati della nostra carta di credito ci impegniamo a pagare il costo del viaggio. E infine passiamo ai divieti. Quando vediamo un cartello di questo tipo

capiamo che si tratta di un divieto, un atto linguistico che comporta implicazioni legali: chi infrange il divieto può essere soggetto a sanzioni di vario tipo. Da qualche tempo, su divieti del genere è d’obbligo segnalare anche il nome del «responsabile» che ha il compito di accertarsi che nessuno violi la regola e che, in caso contrario, prenda i giusti provvedimenti. In altre parole, è un po’ come se vi fosse scritto: «Io, direttore del Dipartimento tal dei tali, a nome del legislatore, ti vieto di fumare e se fumi pagherai una multa». Di che si tratta esattamente? Di un divieto assieme a una minaccia. Due 107­­­­

atti linguistici in uno. Ogni divieto di questo genere (divieto di sosta, divieto di passaggio, ecc.) comporta sempre una minaccia di sanzione. È la legge che normalmente si esprime in azioni linguistiche con conseguenze pecuniarie. Quando riceviamo una multa (scritta), siamo di fronte a un atto d’ingiunzione: il legislatore, o chi per lui, ci ingiunge di pagare. Ma queste cose le sapevamo già. Quello che cerchiamo di richiamare all’attenzione del lettore e della lettrice è il fatto che la dimensione di azione linguistica permea ogni aspetto dell’uso del linguaggio. Un’azione linguistica non solo comporta certe conseguenze pratiche, ma fa attivare altre azioni che comportano certe conseguenze, che a loro volta comportano altre azioni con relative conseguenze, e così via. La scrittura, in tutto ciò, ci rende ancor più responsabili rispetto agli effetti dei nostri atti linguistici. Verba volant scripta manent. 5. Condizioni di sincerità e menzogne Filosofi e linguisti si sono impegnati a lungo per classificare i diversi tipi di atti linguistici, utilizzando spesso numerosi e sofisticati criteri. Uno schema liberamente preso dal lavoro del filosofo John Searle5 può forse aiutare a dare un’idea della complessità e della difficoltà di questa impresa classificatoria. Consideriamo quattro atti esemplari, lasciamo per una volta da parte domande, comandi e promesse, e concentriamoci su altre azioni linguistiche come affermazioni, richieste, avvertimenti e consigli: Direzione di adattamento

Condizione di sincerità

5

Affermazioni

Richieste

Avvertimenti

Consigli

il linguaggio si adatta al mondo P crede q

il mondo si adatta al linguaggio P vuole che A esegua l’azione q

il linguaggio si adatta al mondo P crede che q non convenga ad A

il linguaggio si adatta al mondo P crede che q convenga ad A

Per un approfondimento rimandiamo a Domaneschi (2014, capitolo 5).

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In questo schema abbiamo messo in evidenza, tra l’insieme di criteri e definizioni di Searle, un criterio di variazione (la direzione di adattamento) e un aspetto costitutivo degli atti linguistici (la condizione di sincerità). Vediamo il primo. Cosa significa «direzione di adattamento»? L’idea è che vi sono alcuni atti linguistici per i quali è il mondo che si deve adattare alle parole, e altri atti in cui sono le parole che si devono adattare al mondo. Ad esempio, in un comando è il mondo che si deve adattare alle parole: se dico «Chiudi la finestra!» voglio che un aspetto del mondo venga modificato conformemente alle mie parole. Nelle descrizioni, invece, sono le parole a doversi adattare al mondo: se voglio descrivere un paesaggio devo trovare le espressioni giuste che si adattano al panorama che mi trovo di fronte. L’importanza della direzione di adattamento è ben spiegata da un esempio proposto da Searle (1983), uno degli autori che insieme a John L. Austin si è occupato più a lungo di atti linguistici. Supponiamo che un uomo si rechi al supermercato con una lista della spesa e che un investigatore che lo sta pedinando annoti sul suo taccuino tutta la merce che l’uomo acquista. Una volta terminata la spesa, l’uomo e l’investigatore avranno in mano due elenchi identici su cui è scritto, ad esempio, «Pane, latte, caffè, formaggio, ecc.». La lista dell’acquirente corrisponde a una serie di comandi («compra questo!») e, pertanto, ha una direzione di adattamento dal linguaggio al mondo: dato che lo scopo illocutorio della sua lista è quello di indicargli cosa acquistare, l’uomo cerca di adattare il mondo alle parole della lista prendendo dagli scaffali tutti i prodotti segnalati. La lista dell’investigatore, invece, è una descrizione e ha perciò una direzione di adattamento dal mondo al linguaggio: l’investigatore trascrive una lista di parole in conformità a ciò che accade nel mondo, ovvero a seconda delle azioni che svolge l’uomo che sta pedinando. Stessa lista di parole, diversa direzione di adattamento mondo-linguaggio. Stesse parole, diversi atti linguistici. 109­­­­

Le «condizioni di sincerità» riflettono l’aspetto «intenzionale» delle condizioni di felicità di cui parlava Austin (pp. 101 sgg.). L’idea di fondo è che ad ogni atto linguistico deve corrispondere un certo atteggiamento mentale da parte di chi lo esegue: a una richiesta di una certa azione si assume che il richiedente voglia che noi facciamo quell’azione; di fronte a un avvertimento su una certa attività si assume che chi avverte consideri quell’attività come pericolosa o sconsigliabile, se qualcuno ci dà un consiglio si assume che egli ritenga la cosa consigliata come utile per noi, ecc. Anche le descrizioni e le asserzioni sono atti che hanno condizioni di sincerità ben precise: in questi casi, si presuppone che chi descrive o asserisce qualcosa creda in ciò che egli o ella dice. Per intenderci, chiediamo quale strada si può fare per arrivare in un certo posto in una città sconosciuta, e ci rispondono di andare sempre dritto. Cosa ci aspettiamo? Che chi descrive la strada sia sincero, altrimenti non si chiederebbe mai la strada ma si userebbe sempre Google Maps. Ma se abbiamo il telefonino scarico o siamo fuori dalla portata di ogni rete come facciamo? Chiediamo. E ci aspettiamo una risposta sincera. Qui la condizione di sincerità delle asserzioni o delle descrizioni è che colui o colei che descrive creda che ciò che sta descrivendo corrisponda ai fatti. È proprio questa aspettativa di sincerità che abbiamo nei confronti dei nostri interlocutori a rendere possibili la menzogna e l’inganno6. Oggi vi è un grande interesse riguardo alle tecniche per individuare le menzogne (basti pensare alla serie televisiva Lie to me), come, ad esempio, l’analisi della direzione dello sguardo: se gli occhi dell’interlocutore non guardano direttamente in faccia ma virano alla sua destra verso l’alto è probabile che la persona stia mentendo. Ma a volte si guarda a destra se 6 La menzogna (lying) e l’inganno (deceiving) sono fenomeni differenti. Per approfondire questi temi rimandiamo a un bellissimo lavoro di Jennifer Mather Saul (2012), che fa un’analisi della menzogna utilizzando gli stessi strumenti concettuali che descriviamo in questo libro.

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si cerca di ricordare una musica (e a sinistra un’immagine), o anche se si è timidi, o per un tic personale. Dunque, non c’è una tecnica sicura per capire quando qualcuno mente, anche se una poliziotta esperta, durante un interrogatorio, probabilmente utilizzerà anche le tecniche di comprensione dei movimenti oculari per cercare di individuare le menzogne dei sospetti. Dal punto di vista cognitivo la menzogna e l’inganno sono atteggiamenti molto più faticosi della sincerità7. Chi dice il falso, infatti, deve sempre avere in mente due punti di vista paralleli: ciò che è realmente avvenuto e ciò che viene falsamente raccontato. Ma le bugie, si sa, hanno le gambe corte e, dopo un certo tempo, la fatica di tenere a mente sia il vero sia il falso può diventare tale da portare il bugiardo a smentirsi quando non ricorda bene quali menzogne ha detto. La condizione di felicità, credere nella verità di ciò che si asserisce, rispecchia l’importanza del «dire ciò che si crede vero», che è anche la regola base della conversazione (almeno secondo Grice, si veda pp. 34-35) e, in generale, della convivenza umana, come sosteneva nella Metafisica dei costumi il filosofo tedesco Immanuel Kant8. Menzogne.   L’azione linguistica di asserire si estende anche alla nostra generale capacità di rappresentare fatti: descriviamo sia con parole sia con immagini. Anche l’azione di rappresentare con immagini è regolata da un’aspettativa di sincerità: si assume che chi rappresenta un fatto con un’immagine rappresenti uno stato di cose effettivo. Ma le immagini, anche se sono un mezzo potente di descrizione della realtà, sono uno strumento ancor più potente di menzogna. Uno dei problemi che si pone di fronte all’utilizzo di immagini nella comuniCfr. Paglieri e Woods (2011, pp. 491-492). Kant (1797). È consolante dunque constatare che le massime universali dei filosofi sono anche cognitivamente economiche, come confermano, tra gli altri, van’t Veer, Stel e van Beest (2014). 7 8

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cazione politica e pubblicitaria è come individuare la menzogna. È facile, infatti, mentire con video e foto, attraverso fotoritocchi o ponendo le immagini in un contesto artefatto o addirittura eliminandone intere parti (come nelle famose foto in cui Trotsky scompare dalle immagini ufficiali, specie quando accostato a Lenin di cui era amico). Basta un semplice taglio e via: un personaggio sparisce dalla storia. Negli anni della rivoluzione sovietica mancavano i cellulari e le foto ufficiali erano difficilmente smentibili. Un bell’esempio grafico è la scomparsa di Nikolai Yezhov, capo della polizia segreta di Stalin, che cadde in disgrazia e «scomparve» non solo dalla vita pubblica, ma anche dalle immagini ufficiali che lo ritraevano9:

Strategie simili – ma, al contrario, inserendo persone in un contesto artefatto invece che eliminandole – sono state messe in atto durante le elezioni statunitensi del 2004 quando John Kerry perse contro Bush jr. Non è escluso che almeno una certa percentuale di voti strappati da Bush al Partito democratico fosse dovuto anche a una foto che ritraeva Kerry al fianco di una bellicosa sessantottina Jane Fonda, considerata troppo estremista dall’elettorato benpensante e indeciso. Ma, scavando a fondo, si scopre che... Jane Fonda non c’era. Era 9 Le foto sono riprese dal sito «Falsification of History», dove sono contenute anche quelle dell’eliminazione di Trotsky: http://www.tc.umn. edu/~hick0088/classes/csci_2101/false.html. A questo proposito, si veda anche King (1997).

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una menzogna, un fotomontaggio con una foto presa da un comizio di Jane Fonda e inserita artatamente in un altro contesto. Il danno era stato fatto e un’immagine falsa porta via più voti di quanti ne possa recuperare una smentita.

Questi sono esempi rozzi rispetto alle possibilità offerte dalla tecnologia di oggi. Photoshop permette lavori più sofisticati: eliminare e aggiungere figure ma anche deformare, cambiare e stravolgere un’immagine nel tentativo di persuadere lo spettatore che l’immagine artefatta corrisponde a un fatto reale10. Questo tipo di menzogne rispecchiano spesso una certa ideologia e hanno una funzione strategica nel creare o mantenere un clima culturale o una visione del mondo. L’immagine femminile, in tal senso, è al centro del dibattito sulla deformazione visiva del corpo della donna nel «tentativo di inscatolarlo in un ideale culturale di bellezza»11. Ci limitiamo qui a presentare due casi simili in contesti culturali diversi. 10 Nell’autunno 2014 Zilla van den Born postò su Facebook per amici e parenti le foto, giorno per giorno, di un viaggio di più settimane in paesi dell’Asia meridionale, mostrando i suoi incontri con monaci buddisti, gente del posto, pesci tropicali, ecc. In verità, la giovane era rimasta a casa sua ad Amsterdam e aveva photoshoppato tutte quelle immagini prendendole dal web. A posteriori commentò: «Faccio questo per mostrare che filtriamo e manipoliamo quello che mostriamo nei social media – creiamo un mondo ideale on line che la realtà non può realizzare. Il mio scopo era provare com’è comune e facile distorcere la realtà. Tutti sanno che le immagini delle modelle sono manipolate, ma spesso non vediamo che manipoliamo noi stessi la realtà anche nelle nostre vite». 11 Così la modella australiana Meaghan Kausman a proposito del caso da lei riportato su http://instagram.com/p/rtip0vhl5r/.

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Il primo caso è quello dell’attrice Keira Knightley, che protestò dopo che venne raffigurata nelle locandine del film King Arthur con un seno ritoccato, mostrando quello che una ideologia maschilista tipicamente americana predilige. L’altro caso riguarda Maryam Mirzakhani, la prima donna a vincere nell’agosto 2014 la Medaglia Fields, il «premio Nobel» per la matematica. Maryam Mirzakhani è di origine iraniana, e la notizia non poteva non comparire sui principali quotidiani di quel paese. In alcuni di questi, la donna apparve con un velo creato ad hoc tramite Photoshop, mostrando, in questo caso, quello che una ideologia maschilista tipicamente iraniana predilige. Il trucco è stato immediatamente denunciato su Twitter dagli iraniani progressisti: datemi una connessione Internet e vi svelerò l’inganno.

6. Atti linguistici indiretti Sai dirmi che ore sono? Sì. Sai dove è piazza De Ferrari? Sì. A chi risponde «sì» a queste domande e se ne resta poi in silenzio cosa si può dire? Che non ha capito niente: non ha capito che queste non erano domande ma richieste di informazione. Dal punto di vista della forma grammaticale, però, richieste di questo tipo sono domande polari (che richiedono 114­­­­

una risposta affermativa o negativa), così come «Puoi passarmi il sale?». Anche quest’ultima non è una domanda sulle capacità motorie dell’interlocutore, ma una richiesta. Sono atti linguistici, ma indiretti: in questo caso direttamente sono domande, ma indirettamente sono richieste. Certo, è beneducato rendersi conto se qualcuno è in grado12 di rispondere alla richiesta: dicendo «Sai dirmi che ore sono?» o «Sai dove è piazza De Ferrari?» si lascia libero l’interlocutore di rispondere «Scusa, ma non ho l’orologio» o «Mi dispiace, sono un turista anche io». Quante cose sottintese! Gli atti linguistici indiretti giocano un ruolo importante in un aspetto fondamentale delle nostre conversazioni: la cortesia. Immaginate se qualcuno vi dicesse all’improvviso: «Dimmi che ore sono!» o «Dimmi dove è piazza De Ferrari!». Questi sono ordini e gli ordini solitamente li danno i superiori ai subordinati (è una delle condizioni di felicità degli ordini), mentre nessuno vuole ricevere ordini dai suoi pari. Molti di questi accordi nascosti o sottintesi si esprimono nelle regole della cortesia, per cui normalmente si dice «Potresti per favore chiudere la finestra?», invece di «Chiudi la finestra!». Verrebbe da dire che una richiesta è cortese se è indiretta: «Ti spiacerebbe....», «Mi chiedo se potresti...» o «Ti sarei grato se potessi....». Però non si può esagerare. Se una richiesta è troppo indiretta rischia di non essere capita. Vediamo una scala di richieste, dalla più rude alla troppo sofisticata: 0. «Riportami il libro domani!» 1. «Mi riporti il libro domani?» 2. «Puoi riportarmi il libro domani per favore?» 3. «Ti spiacerebbe riportarmi il libro domani?» 4. «Cosa ne diresti di riportarmi il libro domani?» 12 Searle, in modo un po’ enfatico, definisce quest’aspetto «condizione preparatoria»: se uno non sa l’ora non la potrà dire, se uno ha il braccio ingessato non potrà passare il sale.

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5. «Mi chiedo se potresti, con tua discrezione, far sì che magari in un tempo ragionevole, ad esempio domani, ci fosse la possibilità per me di leggere un libro che qualche mese fa ti avevo prestato, magari se lo hai finito o non lo leggi più». A parte l’intonazione, che è sempre fondamentale, la 0, la 1 e forse anche la 2 possono risultare un po’ rudi, ma la 5 è troppo gentile e rischia di non essere capita; magari a metà frase il mio interlocutore pensa già ad altro! 7. Chiarezza e cortesia Alcuni linguisti hanno elaborato teorie sofisticate per individuare una logica della cortesia, che pur essendo caratterizzata da alcune norme universali si realizza in modi diversi in paesi diversi, raggiungendo il massimo di sofisticazione in Giappone e il minimo di sofisticazione a Genova, dove – si dice – i negozianti sono piuttosto scortesi. Una delle prime analisi sociolinguistiche della cortesia è stata proposta da Robin Lakoff13 che ha elencato tre regole base: 1. Non ti imporre 2. Offri delle alternative 3. Metti l’interlocutore a suo agio. Qualche commento aiuterà a capire il significato di queste regole:

13 La letteratura sulla cortesia è sconfinata e si divide tra «universalisti» e «relativisti»: i primi vedono regole universali applicate in modi differenti, i secondi vedono diversità non riconducibili ad alcun criterio unificante. Anche se le culture umane sono molto diverse, non è difficile che alcuni principi generali aiutino a capire perché esistano comportamenti differenti. È quello che suggeriscono Lakoff (1973) e Brown e Levinson (1999).

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Regola 1: «Non ti imporre» è un modo per non invadere il territorio altrui con aspetti troppo personali: non si parla di soldi, sesso e gabinetto con persone con cui non si ha confidenza; sono «merce non franca». Questo è un aspetto quasi universalmente riconosciuto: la merce non franca è riservata all’ambiente famigliare e non a interazioni con colleghi o persone con cui non si ha confidenza. Ma questo vale anche per la pubblicità, dove tentativi di inserire merce non franca (riferimenti a questioni riguardanti emissioni corporee imbarazzanti) sono forse destinati al fallimento, anche se possono incuriosire e divertire le persone poco raffinate. Un esempio è la pubblicità della Vigorsol, una chewing-gum per «alito fresco» (addirittura, nello spot, «un’esplosione di aria fresca»): una puzzola, dopo aver ingurgitato una Vigorsol, emette dal suo didietro un’esplosione di aria fresca il cui scopo metaforico (un po’ forzato) sarebbe quello di rendere fresco l’ambiente circostante; ma l’effetto finale non convince del tutto. Lo spot gioca su un argomento tabù, correndo il rischio di raffreddare, prima ancora che l’alito, lo spirito dei telespettatori più tradizionalisti.

La prima regola «Non ti imporre» è tipicamente in vigore negli ambienti di lavoro. In un colloquio di lavoro ci si aspetta che il datore di lavoro e il candidato si rivolgano dandosi reciprocamente del «lei», senza andare troppo sul personale e focalizzandosi sui requisiti richiesti per l’impiego. «Non ti imporre» aiuta anche la correttezza dei rapporti di lavoro. Alberto X lavorava per la nostra università e forniva servizi 117­­­­

informatici. Tempo fa uno di noi gli propose: «Diamoci del tu» e lui, giustamente, rispose: «Preferirei che ci dessimo del lei». Di fatto questa risposta era l’invito a una corretta applicazione della prima regola della cortesia. Spesso si pensa che dando «del tu» si metta l’altra persona a proprio agio (regola 3), ma non è sempre vero: in una situazione di disparità, come tra chi paga e chi svolge il lavoro, può essere segno di superiorità o paternalismo. D’altra parte, al «padrun dalle belle braghe bianche» non si chiede di fraternizzare, ma si chiedono «le palanche» (chi non conoscesse il vecchio canto popolare delle mondine può andare su Internet e digitare «Sciur padrun dalle belle braghe bianche fora le palanche, che andum a cà!...»). Regola 2: «Offri delle alternative». Con le azioni linguistiche facciamo fare ad altri azioni di ogni tipo; e maggiore è la chiarezza più precisa sarà l’azione che vogliamo venga eseguita. La chiarezza si scontra però con la cortesia: l’azione che segue una richiesta fatta con eccessiva chiarezza può venire eseguita di malavoglia, e questo può rovinare i rapporti. Dunque, se a una festa con il vostro partner siete stanchi e desiderate andare a casa, non dite: «Andiamo via» (massima chiarezza), ma date un’alternativa: «Cosa ne diresti di andare via tra poco?». La domanda lascia un’alternativa al partner, che potrebbe così suggerire di restare ancora. Inoltre, gli sarà difficile replicare un «no» deciso, non sentendosi costretto ad andare quasi su comando (se poi vi dice: «Vai tu e io resto», a questo punto cambiate partner). È proprio la regola 2 quella che fa degli atti linguistici indiretti un importante strumento di cortesia. Essa infatti aiuta a capire le richieste in forma di domanda («Sapresti dirmi l’ora?», «Potresti passarmi il sale?»), lasciando all’interlocutore l’alternativa tra rispondere e trovare una scusa per non farlo. Insomma, mettere una persona in un angolo senza alternative è davvero una delle azioni più maleducate e scortesi che si possano fare. Anche se, come ogni cosa, forse è meglio 118­­­­

non esagerare nell’offrire continue alternative. Nei rapporti amichevoli spesso essere diretti può aiutare. Ma anche qui molto dipende da aspetti culturali e la regola 2, a ben vedere, può avere diverse declinazioni a seconda della società, della circostanza, o della persona che ci si trova di fronte. Regola 3: la cultura in cui si vive è ovviamente fondamentale per saper applicare la regola «Metti il tuo interlocutore a suo agio»; ci sono infatti diversi modi di mettere in pratica tale regola, almeno tanti quanti le culture e i paesi: per fare un esempio stereotipico, nei paesi mediterranei è più consueto essere espansivi e parlare con vivacità, mentre in ambienti nordici il silenzio è d’oro. Facciamo un esempio più specifico: alla domanda «Preferisci tè o caffè?», un giapponese, probabilmente, risponderà: «Entrambi, grazie» (Ryousa, arigatoo), mentre un italiano, presumibilmente, dirà: «Caffè, grazie». Con la prima risposta, che sta per «vanno bene entrambi», si vuole mettere a suo agio chi fa la domanda, non ci si vuole imporre e si ripropone al proprio anfitrione l’alternativa che è stata offerta, in modo da dargli massima libertà di scelta; la seconda risposta esprime semplicemente una preferenza, mettendo a proprio agio chi ha fatto la proposta senza lasciare a chi offre la responsabilità e l’imbarazzo della scelta. La risposta dell’italiano, in effetti, può apparire meno cortese di quella del giapponese (d’altra parte, è nota l’estrema 119­­­­

raffinatezza delle regole di cortesia in Giappone)14. Ma ammettiamolo: la mancanza di cortesia aiuta la chiarezza e toglie eventuali dubbi. C’è un contrasto continuo tra chiarezza e cortesia e trovare il giusto equilibrio non è sempre facile15. La logica della cortesia insegna l’importanza di distinguere: una cosa è il contenuto di ciò che diciamo, un’altra è il modo in cui lo diciamo. Parliamo in modi diversi: possiamo essere precisi, simpatici, distanti, maleducati, ma anche, ad esempio, noiosi. La ripetizione di uno stesso tipo di azione, alla lunga, può diventare noiosa, stancante e alienante (come mostra Charlot nel famoso capolavoro Tempi moderni). Le lezioni universitarie, ad esempio, sono particolarmente noiose perché di solito i professori reiterano senza sosta un solo tipo di azione linguistica: declamano. Anche i dibattiti politici sono di una noia mortale per un non esperto (tranne quando le discussioni trascendono in battute volgari e fuori luogo). Perché? Per due ragioni: sono discorsi così indiretti che ciò che si vuole dire trapela ma non viene mai detto espressamente (es. «Chiediamo a tutti un’assunzione di responsabilità» per chiedere «Votate o no la fiducia?»), e soprattutto perché ci si trova di fronte a una ripetizione dello stesso tipo di azioni: descrizioni, descrizioni e descrizioni (tranne che nei comizi preelettorali dove i retori più esperti non risparmiano promesse, minacce, perorazioni, inviti, rimpianti, richiami, domande, ecc.). Si salvano dalla noia del lavoro dei politici le interviste. Nell’intervista c’è botta e risposta, e si intrecciano diversi tipi di azioni linguistiche: domande, risposte, provocazioni, smentite, reazioni indispettite. È anche importante che l’inter-

14 La lingua giapponese presenta un complesso sistema di opposizioni tra forme di linguaggio «di umiltà» e di linguaggio «onorifico» che codificano i diversi rapporti interpersonali tra i parlanti a seconda della loro età, dello status sociale o del loro livello di confidenza. 15 Si veda Leech (1983) che ha insistito sul contrasto tra i due tipi di regole, della chiarezza e della cortesia.

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vistatore sia abbastanza bravo da «tenere il punto», e che l’intervistato riesca a rispondere «a tono» a ogni tipo di domanda. Purtroppo, non sempre accade: è nota la difficoltà di diversi personaggi pubblici di rispettare i «turni» della conversazione, sovrastando le voci altrui, compresa quella dell’intervistatore. Un esempio famoso, a questo proposito, è l’intervista di Lucia Annunziata a Silvio Berlusconi, ospite nella puntata di In mezz’ora del 12 marzo 200616. Ecco alcuni dei passaggi più salienti del confronto (non facciamo qui un’analisi degli altri aspetti dell’intervista): dopo un difficile inizio, pressato dalle domande della giornalista, Berlusconi propone: «Adesso le dico io... vorrei che lei mi domandasse perché gli elettori devono votare per noi...». Di fronte a questa bizzarra richiesta, la Annunziata, cogliendo un attimo di pausa nel fluente eloquio dell’intervistato, ricorda che è l’intervistatore e non l’intervistato a stabilire le domande: «Vorrei avere il privilegio di essere una delle poche persone che con lei riesce a fare delle domande invece di sentirsi dire che cosa si deve sentir dire... questa è un’intervista». Berlusconi, cercando di evitare la logica di domanda/risposta, alla fine conclude infastidito: «Io posso dire quello che voglio e lei non mi può negare di dire quello che voglio... lei non mi fa parlare; complimenti...». L’intervista è un esempio di interazione faccia a faccia in cui vigono regole ferree, tra queste, in primis, il fatto che sia l’intervistatore a fare domande e l’intervistato a rispondere. Venire meno a questa regola aurea significa ‘imporsi’, ‘non offrire alternative’ e ‘non essere amichevole’. Anche questa, dunque, è una questione di cortesia e buona educazione. La televisione italiana ha mostrato così tante violazioni delle elementari regole della cortesia che risulta quasi imbarazzante scegliere esempi17. Lasciamo dunque la televisione 16 Per un’analisi più approfondita di analisi della conversazione si veda Caniglia e Mazzoni (2007). 17 Mentre la televisione delle origini aveva la funzione di educare e migliorare il pubblico, la neotelevisione «generalista» è caratterizzata da un interesse

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che rappresenta un oggetto sociale del passato; oggi il maggior interscambio di azioni linguistiche avviene sul web. 8. Agire in Internet Per navigare nel web occorre impratichirsi sia nelle regole della cortesia (in Internet si chiama netiquette) sia nelle insidie che si celano nei diversi atti linguistici. Una chat o un forum in Internet sono diversi da un colloquio verbale faccia a faccia; l’anonimato, che vige ancora in alcuni social network, rende più sfrontati e fa correre il rischio di violare più facilmente la netiquette18. Nella comunicazione web, è importante imparare certe forme di cortesia (nell’uso delle email che hanno un ruolo più istituzionale, nelle chat, nei forum, ecc.). Le amministrazioni pubbliche, università comprese, sono casi esemplari dell’utilizzo di un linguaggio impersonale e burocratico, al punto da rendere certe comunicazioni a volte indecifrabili (sono esempi di quella che Italo Calvino chiamava «antilingua»19). Il passaggio al web, per certi aspetti, ha mantenuto alcuni vizi linguistici del passato cartaceo: permane e anzi si moltiplica la produzione di messaggi asettici e del tutto impersonali della burocrazia (applicazione, forse eccessiva, della regola di cortesia numero 1). È quello che avviene nella tipica dicitura standard: «Con riferimento a quanto evidenziato in oggetto...», dove per «in oggetto» ci si riferisce a quanto scritto alla voce «Oggetto» nei campi di intestazione della email. Ecco un buon esempio di antilingua in una email reale da noi ricevuta (con i dati «sensibili» omessi): quasi ossessivo per il quotidiano, un passaggio dalla sfera pubblica alla sfera privata (dove anche i dibattiti politici fanno emergere a volte il peggio della sfera privata degli attori stessi). Per una analisi si veda Freccero (2013). 18 Tra i numerosi siti che spiegano le regole di cortesia del web – introdotte dalla Internet Engineering Task Force nel 1995 – «Italiansonline» dà alcune brevi e utili indicazioni sulla netiquette: http://www.italiansonline. net/faq/3.html. 19 Calvino (1965).

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Su indicazione del Dirigente del Dipartimento X, Dott. Y, si trasmette in allegato la Circolare informativa n° x del ......, predisposta dal Servizio X e dallo scrivente Servizio, alla luce delle numerose richieste di chiarimenti pervenute recentemente con riferimento alla materia di cui all’oggetto.

Ma anche gli studenti, abituati alle chat, quando scrivono email ai docenti incontrano drammatiche difficoltà nell’individuare il giusto registro di scrittura, come, ad esempio, nel seguente testo: Caro Proff., sono una studentessa di ... curricula ... Le scrivo perché devo ancora sostenere con Lei il Suo esame di ... da 5 CFU (traducibili in 6 CFU). Ma non ho seguito il Suo corso (A.A. ....), perché ero in Erasmus in Spagna. Volevo cortesemente chiederLe in cosa consiste l’esame sopracitato perché sul sito c’è scritta una cosa ma una mia amica mi ha detto che lei ha portato una cosa diversa all’esame. Posso dare l’esame il giorno 24? Perché prima sono impegnata e non posso venire. Lei c’è il 24? Cordiali saluti

La studentessa in questione mostra un certo impegno nel tentar di sfoggiare uno stile adeguatamente formale e cortese (con evidenti difficoltà; ad esempio, non sa che «Proff.» è il plurale di «Prof.»). Il suo sforzo, però, si vanifica in diversi punti in cui la studentessa inciampa nell’utilizzo di un linguaggio eccessivamente colloquiale rispetto a quanto richiesto da una lettera a un docente (per intenderci, è un po’ insolito che una studentessa scelga lei stessa la data di un esame che è fissata a tempi precisi dall’organizzazione di ogni Ateneo). Ad essere sinceri, il risultato, seppur sconfortante, ha anche un qualcosa di comico, ed è difficile parlare di maleducazione intenzionale. La maleducazione riempie invece le pagine dei commenti ai quotidiani e molti forum on line. Ma la maleducazione via web non è che un caso particolare della maleducazione ordinaria: nihil sub sole novi. 123­­­­

Mentre gli studiosi si accaniscono a studiare la differenza dei dialoghi sul web rispetto ai dialoghi a viva voce, ci sembra importante ricordare che il gioco degli atti linguistici nel mondo del web non si limita alle sole conversazioni virtuali, siano esse chat, forum, gruppi di discussione, email o quant’altro. Se dichiari i dati della tua carta di credito, probabilmente questa verrà utilizzata; su Internet troverai spesso scritto qualcosa come

Stiamo attenti ogni volta che leggiamo «Start Your Free Trial!», «Prova gratuita», «Prova gratis» o frasi del genere, siano esse presenti in siti di antivirus, cinema on line, giochi o quant’altro. L’inganno si nasconde nell’aggiunta «per un giorno» «per 10 giorni» o «per un mese» che viene scritta di solito in caratteri piccoli e nascosta nel testo dell’accordo. Questa aggiunta segnala che al termine del periodo di prova la nostra carta di credito inizierà a essere utilizzata per il pagamento, quando noi oramai ci saremo dimenticati della cosa. Se accettiamo un «free trial», una «prova gratis», ci impegniamo a continuare dopo la prova, salvo richiesta esplicita del contrario. Questo è uno dei tanti modi in cui gli operatori in rete guadagnano sulla base dell’affidabilità e della solidità degli atti linguistici istituzionali: se sottoscrivi, allora ti impegni. È una condizione di felicità di ogni sottoscrizione. Molto più complessa è l’interazione finanziaria, dove le contrattazioni sono realizzate dai programmi dei computer e non direttamente dagli umani che non riescono ad avere sufficiente velocità di riflessi. Ma anche in quel caso le regole sono date dalle condizioni di felicità o appropriatezza delle azioni linguistiche e legali che si svolgono nel mondo finan124­­­­

ziario virtuale e che hanno effetti non virtuali, bensì sull’economia intera. Lasciamo l’economia e la finanza e torniamo a noi, semplici utenti del web. Incontriamo sempre più spesso assistenti virtuali, come Siri, il software di iPhone e iPad che risponde a domande (se ben formulate) d’ogni sorta: dove si trova il bar più vicino, dove possiamo acquistare un pezzo di ricambio della moto o dove troviamo un supermercato. Gli assistenti virtuali, che sono costituiti da una base dati d’informazione e da un programma che permette di rispondere a domande specifiche su un campo di informazioni prestabilito, si stanno moltiplicando in diversi settori commerciali. Sono il risultato dell’utilizzo delle varie sperimentazioni di chatbox, ossia ‘scatole’ per chiacchierare o dialogare20. Gli assistenti virtuali hanno una lunga storia alle spalle, che nasce con Alan Turing, padre dell’Intelligenza artificiale, il quale negli anni ’50 suggerì che in mezzo secolo le macchine avrebbero imparato a pensare, o meglio, avrebbero potuto almeno dialogare correntemente con gli umani. Per sostenere questa previsione, il matematico propose ciò che è passato alla storia come «test di Turing»: egli immaginava di far dialogare, con la mediazione di un video e di una tastiera, due esseri separati da un muro: da una parte un umano e dall’altra... non si sa. L’umano avrebbe dovuto capire se dall’altra parte della tastiera vi fosse un uomo, una donna o un programma informatico di elaborazione del linguaggio naturale. Nel caso in cui l’umano non fosse riuscito a rendersi conto di essere coinvolto in un dialogo con un programma informatico, questo avrebbe significato che il programma, in qualche modo, avrebbe potuto essere considerato come un essere «pensante». Oggi c’è anche un premio21 per il miglior sistema di chatbox 20 Un elenco di un migliaio di agenti virtuali si trova in http://www. chatbots.org. 21 Il premio, anche se non è molto apprezzato dagli scienziati, incontra

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che riesca a confondere gli utenti più esperti, facendo loro credere di interagire con un umano e non con un software. I primi programmi effettivi di dialogo risalgono agli anni ’60 e ’70, con i famosi programmi eliza di Joseph Weizenbaum, che simula il dialogo con uno psicoterapeuta, e shrdlu di Terry Winograd, che permette di dialogare con un robot riguardo a un mondo composto da blocchi geometrici che il robot può spostare, rinominare o descrivere. È stato proprio Terry Winograd, docente degli inventori di Google, ad elaborare – assieme a Fernando Flores – uno dei primi sistemi informatici di dialogo basato sulla teoria degli atti linguistici. Winograd e Flores, nell’ambito del loro quadro di lavoro definito «conversazione per l’azione», hanno provato a catalogare e ordinare le possibili sequenze di azioni che possono seguire, ad esempio, all’atto linguistico di una richiesta da parte di un parlante a un ascoltatore. Una richiesta, per intenderci, comporta una sequenza di azioni del tipo «richiesta⇒promessa⇒asserzione⇒dichiarazione»: Tizio richiede a Caio di fare la spesa, Caio promette di farlo entro il pomeriggio, Caio la sera stessa asserisce di aver fatto la spesa, Tizio, infine, dichiara che Caio ha soddisfatto la sua richiesta. Come risultato di questo lavoro, Winograd e Flores svilupparono The Coordinator, un programma per lo scambio di messaggi elettronici in contesti aziendali. Il software permetteva di spedire messaggi etichettati in modo differente a seconda del tipo di atto linguistico eseguito dal mittente e di rispondere a tali messaggi scegliendo tra un elenco di possibili azioni linguistiche. Per intenderci, quando un utente spediva un messaggio utilizzando la dicitura «Riil favore di molti programmatori che vi partecipano (http://www.loebner. net/Prizef/loebner-prize.html). Ogni tanto qualche umano viene scambiato per un programma di computer. Questo illustra i limiti delle nostre capacità mentali.

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chiesta», il destinatario poteva replicare selezionando da un menu un’opzione di risposta coerente con l’atto linguistico della richiesta come, ad esempio, «Accettazione», «Promessa», «Rifiuto», «Contro-richiesta», ecc. Gli assistenti virtuali che utilizziamo oggi sono, tuttavia, frutto di programmazioni ben più complesse e garantiscono una migliore efficienza. Ciò non toglie che i rischi siano sempre dietro l’angolo e che dovremmo cercare di dotarci, quindi, di una buona competenza sul contenuto dei diversi ambienti in cui ci muoviamo (banche, aeroporti, sevizi sociali, servizi sanitari, ecc.), in modo da interagire sensatamente (e prudentemente) con gli assistenti virtuali. Forse dovremo imparare a eseguire atti linguistici più semplici e più chiari in modo da poter interagire meglio con i nostri colleghi virtuali? La risposta è: sì.

5.

Dare ragioni

Non c’è ragione che non ne abbia una contraria (Michel de Montaigne, Saggi, II, 15)

1. Ragionare Sulla base di quanto abbiamo detto finora, possiamo trarre una conclusione: usare il linguaggio significa innanzitutto ragionare o, più precisamente, fare inferenze. Con «inferire» si intende l’attività di passare dalle premesse alle conclusioni. Quando comunichiamo qualcosa a qualcuno o quando proviamo a capire ciò che qualcuno intende comunicarci, mettiamo in moto complessi meccanismi inferenziali che svolgiamo il più delle volte in maniera quasi automatica. Il ragionamento è senza dubbio una delle facoltà più sorprendenti e caratterizzanti degli esseri umani. Aristotele sosteneva che l’essere umano è un «animale razionale», ovvero un animale come tutti gli altri che possiede, in più, la capacità di ragionamento. Ma cosa vuol dire saper ragionare? Ragionare significa sostanzialmente ‘argomentare’, cioè saper dare ragioni alle proprie tesi: quando ragioniamo o forniamo un’argomentazione quello che facciamo è raggiungere una certa conclusione (la nostra tesi), sulla base di certe premesse (le ragioni a supporto della tesi), usando certe regole. Un ragionamento, dunque, si dice «sconclusionato» o quando non ha una conclusione o quando la conclusione risulta del tutto slegata rispetto alle premesse. Un esempio: 129­­­­

«Piove e non ho l’ombrello. Quindi mangio il formaggio». È difficile trovare un senso in questo ragionamento: non c’è alcuna relazione apparente che colleghi i fenomeni meteorologici e i metodi per ripararsi da essi con i gusti alimentari1. La conclusione di un ragionamento, piuttosto, deve scaturire da determinate premesse secondo certe regole accettate e riconosciute. Sono regole su come agire, non poi così diverse dalle regole che disciplinano tanti altri tipi di azione, ad esempio, la danza. Ragionare è un po’ come danzare con i pensieri: anche il ragionamento prevede dei «passi» e il ragionamento sconclusionato è qualcosa che «non sta in piedi», così come quando si inciampa durante un ballo e si casca per terra. Come nel ballo vi sono schemi di passi di danza, così, tradizionalmente, si suole distinguere, a partire da Aristotele, gli «schemi di ragionamento» buoni da quelli che non funzionano. Iniziamo con una presentazione sommaria della divisione tra due tipi di ragionamento: la deduzione e l’induzione. La deduzione è una forma di ragionamento che porta a una conclusione che consegue necessariamente dalle premesse, cioè se le premesse sono vere la conclusione non può che essere vera. Ne è un esempio il seguente sillogismo: Tutti gli uomini sono mortali Socrate è un uomo -------------------------------------Socrate è mortale. Dalla verità della prima premessa «Tutti gli uomini so1 Lewis Carroll, autore di Alice nel paese delle meraviglie, suggerisce un gioco logico: a partire da una premessa e da una improbabile conclusione trovare dei passi intermedi che portino ad essa. Proviamo: piove e non ho l’ombrello; se piove e non ho l’ombrello mi bagno; se mi bagno mi viene fame; se mi viene fame mangio il solo cibo che mi piace davvero; il solo cibo che mi piace davvero è il formaggio; quando piove e non ho l’ombrello mangio il formaggio. Lasciamo la formalizzazione logica al lettore esperto.

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no mortali» e della seconda premessa «Socrate è un uomo», infatti, segue necessariamente (la riga qui sta per «quindi» o «ragion per cui») la conclusione «Socrate è mortale». In altre parole, potremmo dire che se è vero che tutti gli uomini sono mortali e se è vero che Socrate è un uomo allora segue necessariamente che Socrate sia mortale. Altri esempi di schemi elementari di ragionamento deduttivo sono le regole inventate dagli stoici greci (riprese, seppur con nomi differenti, nella logica contemporanea): il Modus ponens e il Modus tollens che garantiscono la verità della conclusione se le premesse sono vere: Modus ponens Modus tollens Se A allora B Se A allora B A Non B ----------------------------- ----------------------------Non A B Esempio di Modus ponens: «Se piove allora mi bagno. Piove. Dunque mi bagno». Esempio di Modus tollens: «Se piove allora mi bagno. Non mi bagno. Dunque non piove». Moltissime pubblicità usano il «se... allora»: «Se hai più energia... si vede che hai scoperto Polase Plus», «Se è Negro­ ni si sente», «Pasta Voiello: se non la provi non sai cosa ti perdi», «Se c’è Aia c’è gioia», «È più di un salotto se fatto da te: Leroy Merlin», ecc. Tutte si basano su un implicito «ammiccamento» alla regola del Modus ponens. Ma, come vedremo, non sempre un uso esplicito o implicito di un «se... allora» vale come un buon ragionamento. L’induzione, a differenza della deduzione, è uno schema di ragionamento in cui la conclusione non segue necessariamente dalle premesse, ma le premesse si limitano a fornire evidenza a sostegno della conclusione. Dal punto di vista conoscitivo possiamo dire che la conclusione non è certa, ma solo probabile. Un classico esempio è il ragionamento per generalizzazione: «Vedo un corvo1 nero, vedo un corvo2 nero, 131­­­­

vedo un corvo nero... Allora tutti i corvi, anche quelli che non ho ancora visto, sono neri». Nessuno nega che l’induzione possa portare a una conclusione vera. Ma non si tratta di una conclusione necessaria, bensì solo probabile. Basti pensare allo stesso ragionamento fatto con i cigni bianchi: quando si sono scoperti i cigni neri si è dimostrata la falsità della generalizzazione per cui tutti i cigni sono bianchi (e chissà che da qualche parte non esista un corvo bianco che nessuno è mai riuscito a vedere). L’induzione è sempre un metodo rischioso, come ricorda il logico inglese Bertrand Russell con la metafora del tacchino induttivista: fidandosi dell’induzione, un tacchino americano si convince che, dato che gli hanno dato da mangiare tutti i giorni precedenti, anche il giorno del Ringraziamento (Thanksgiving) gli daranno da mangiare. Ma invece di avere il suo pasto quotidiano, come di rito, il tacchino fungerà da pasto, comprendendo così che l’induzione non sempre funziona. Una forma particolare di ragionamento non deduttivo è l’abduzione, lo schema di ragionamento tipico dei detective o dei medici (come, ad esempio, Sherlock Holmes e il dottor House)2. L’abduzione ha anch’essa una minor capacità dimostrativa della deduzione, ma si caratterizza per il fatto che non porta a una conclusione che ha pretese generali (come ad esempio il fatto che tutti i corvi siano neri) bensì a considerazioni su un caso particolare, che risulta essere la spiegazione più plausibile in base a un certo insieme di evidenze. Un esempio, liberamente preso da chi ha introdotto il termine «abduzione», il logico americano Charles S. Peirce, potrebbe essere: 2 Il modo di operare di Sherlock Holmes è stato eretto a esempio di metodo abduttivo (Eco-Sebeock 1983). In parte è vero, ma non si deve dimenticare che Holmes usava anche la deduzione; si veda un esempio banale: «Ho detto che deve essere andato a King’s Pyland o a Mapleton. Non è a Mapleton, quindi è a King’s Pyland». È una deduzione: o A oppure B; non A; quindi B. Sul ruolo dell’abduzione nell’indagine medico-diagnostica si veda il contributo di Daniele Porello in Biltris (2007).

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Queste palline sono bianche Tutte le palline in quel cesto sono bianche ------------------------------------------------------Queste palline provengono da quel cesto. È il modo di ragionare degli investigatori e dei medici diagnostici: ci sono delle palline bianche di cui non sappiamo la provenienza, sappiamo che un certo cesto è composto di sole palline bianche, non possiamo essere sicuri al 100% che le palline di cui ignoriamo la provenienza provengano da quel cesto ma di sicuro si tratta di una buona pista da seguire. Ci sono pallottole di una colt 45 nel corpo; il presunto assassino ha una colt 45 scarica; le pallottole probabilmente provengono da quell’arma. Ci sono pustole rosse sul corpo del bambino; le pustole rosse di quel genere sono tipiche della scarlattina; probabilmente quel bambino ha la scarlattina. La scarlattina è una buona spiegazione della presenza delle pustole rosse. È una forma di ragionamento rischiosa ma d’altra parte anche molto utile per una prima conclusione approssimata, da verificare poi con altri mezzi. 2. Errori di ragionamento e fallacie È facile commettere degli errori di ragionamento. Nella nostra quotidianità ci capita di frequente e accade anche ai logici più esperti. A dimostrarlo vi sono una serie di interessantissimi esperimenti ideati intorno alla metà degli anni ’60 dallo psicologo cognitivo Peter Wason. Uno dei più celebri è quello delle quattro carte. Osservate queste quattro carte:

A 1.

C

4

2.

3. 133­­­­

7 4.

Ora, girando solo due carte, provate a verificare la seguente regola: «Se una carta ha su una faccia una vocale, allora l’altra faccia avrà un numero pari». Quali carte avete scelto? La maggior parte dei lettori probabilmente avrà girato la prima carta con la lettera A per verificare che dietro vi fosse un numero pari, dopodiché avrà scelto, erroneamente, di girare la terza carta con il numero pari 4. Perché erroneamente? Perché la regola non vieta che dietro a un numero pari come 4 possa esservi una consonante. La scelta corretta è quella di girare, oltre alla prima carta, la quarta, con il numero 7. Infatti, per il Modus tollens, se il conseguente è falso (in questo caso è falso che ci sia un numero pari) è falso anche l’antecedente (è falso che ci sia una vocale). Se non c’è una vocale la regola è confermata, viceversa, se c’è una vocale, la regola è falsificata. Molti hanno sostenuto che il problema sembra risiedere nel fatto che l’uso del Modus tollens sia più «difficile» del Modus ponens. Ma lo è davvero? Non lo usiamo forse spesso? Ad esempio, se una ragazza che abbiamo sempre visto con i capelli neri ci si presenta sostenendo di avere i capelli biondi naturali, possiamo dire, senza timore di essere smentiti: «Se tu hai i capelli biondi naturali allora mio nonno ha le ruote» (o qualsiasi altra palese falsità, come «Io sono Napoleone», ecc.). Con questo vogliamo intendere che, dato che mio nonno non ha le ruote, lei non ha i capelli biondi naturali. È l’uso quotidiano del Modus tollens. Quindi forse la difficoltà risiede anche in qualcos’altro: l’esempio delle quattro carte è molto astratto. Le cose cambiano se proviamo a riproporre la stessa forma dell’esperimento con un contenuto differente e più intuitivo: immaginate di essere una poliziotta che deve verificare se in un bar non vi sono minorenni che bevono alcolici. Le vostre informazioni sono: 134­­­­

Ida ha 15 anni 1.

Pia ha 22 anni

Lea beve Coca-Cola

2.

3.

Ada beve birra 4.

Provate ora, con due sole verifiche, a controllare la validità della regola «Se la persona è minorenne allora beve analcolici». In questo caso è facile capire che, dopo essersi accertati che Ida (che è minorenne: caso 1) non beva alcolici, non avrebbe senso chiedere a Lea (caso 3) la carta di identità. Infatti, Lea sta bevendo una Coca-Cola e, sia che abbia o meno raggiunto la maggiore età, è libera di farlo. La mossa da fare è chiedere la carta di identità ad Ada (caso 4), che beve birra. Se fosse minorenne, allora il barista sarebbe penalmente perseguibile e andrebbe incontro a una sanzione3. Questo esempio mostra che le nostre capacità di ragionamento dipendono notevolmente dal contesto e dal materiale in uso, oltre che dalle istruzioni che ci vengono fornite. La psicologia del ragionamento cerca di mostrarci come le persone di fatto ragionano e anche, tra l’altro, come e perché fanno «errori» di ragionamento. A questo proposito, si suole distinguere tra logica formale, o studio delle forme generali di ragionamento avvalendosi di sofisticati linguaggi simbolici artificiali, e lo studio dell’argomentazione, che riguarda l’analisi dei ragionamenti ordinari o di senso comune. La letteratura a questo proposito è abbondante4. Qui ci limitiamo

3 Secondo Fiddick, Cosmides e Tooby (2000) la capacità di individuare chi inganna violando le regole di un gruppo sociale si è sviluppata nel corso dell’evoluzione. Questo renderebbe comprensibile la facilità con cui eseguiamo il compito di verificare, ad esempio, chi inganna sul bere alcolici in minore età. 4 Sulle forme «alternative» di ragionamento rimandiamo al breve saggio di Frixione (2007); sull’argomentazione in generale, invece, si veda Iacona (2010).

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a mostrare come certe argomentazioni siano spesso usate in modo ingannevole per convincere di qualcosa di non vero o di altamente improbabile. È infatti facile incorrere in errori di ragionamento. Prendiamo ad esempio il seguente argomento: Tutti i marocchini sono africani Tutti i delinquenti sono africani ---------------------------------------------Tutti i marocchini sono delinquenti. L’argomento è scorretto: una delle due premesse è falsa e, per giunta, la conclusione non segue in alcun modo dalle premesse. Eppure, è un tipo di ragionamento che a molti sembra non solo plausibile ma anche convincente e condivisibile. Come facciamo a difenderci da ragionamenti fraudolenti di questo tipo? Un modo approssimato è presentare un contro-esempio, un’argomentazione della stessa forma che porti a una conclusione del tutto implausibile, ad esempio: Tutti i marocchini sono africani Tutti i coloni olandesi (di Cape Town) sono africani -------------------------------------------------------------------Tutti i marocchini sono coloni olandesi. Non è sempre facile, peraltro, avere un contro-esempio a portata di mano. Un altro modo per difenderci dai pessimi argomenti è conoscerli. Perché se poche sono le argomentazioni buone e affidabili5, moltissime sono quelle che ci ingannano. 5 In teoria dell’argomentazione, si distingue tra argomentazioni deduttive valide (le conclusioni conseguono necessariamente dalle premesse) e corrette (le argomentazioni sono «fondate», cioè hanno anche le premesse vere).

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Una cosa sono gli errori, un’altra gli inganni. Vi sono ra­ gionamenti che non sono per nulla validi, ma appaiono plausibili e convincenti. Queste forme di ragionamento sono spesso usate per persuadere. Si tratta delle fallacie. Il termine «fallacia» deriva dal latino fallere che significa ‘ingannare’. Nei prossimi paragrafi ci soffermeremo sulla funzione persuasiva di queste forme di ragionamento. Delle fallacie, infatti, si fa grande uso in diverse forme di comunicazione strategica come la pubblicità o la comunicazione politica. Occorre ricordare che, nonostante vi sia un generale accordo sui criteri di identificazione delle fallacie, su come distinguere, cioè, le buone forme di ragionamento da quelle cattive, in letteratura sono state proposte diverse soluzioni per quanto riguarda la classificazione di queste forme di ragionamento ingannevole. La prima trattazione, neanche a dirlo, risale ad Aristotele, il quale, nelle Confutazioni sofistiche, elencava venti tipi diversi di fallacie distinguendo tra i «sofismi», cioè i ragionamenti ingannevoli usati dai sofisti per ingannare gli ascoltatori, e i «paralogismi», vale a dire gli errori di ragionamento inconsapevoli e involontari. Oggi, sia pur nella diversità di classificazioni, si continua a mantenere una distinzione generale tra fallacie formali, in cui l’errore di ragionamento sta nella forma del ragionamento, dalle fallacie informali, in cui l’inesattezza non risiede nella forma del ragionamento bensì in molteplici possibili fattori come la falsità delle premesse, la loro pertinenza, ecc. In questa sede ci limiteremo a fornire alcuni esempi per mostrare in che modo alcune forme di comunicazione strategica possono sfruttare l’uso di ragionamenti fraudolenti6. Nel

6 Vi sono diversi lavori sulle fallacie, non ultimi Verità avvelenata di Franca D’Agostini (2010), Quando il pensiero sbaglia (a cura di Giuseppe Mucciarelli e Giorgio Celani con un capitolo introduttivo generale sulle fallacie

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seguente schema forniamo una mappa7 utile per orientarsi tra gli esempi che seguiranno: fallacie

informali

formali

– affermazione del conseguente – negazione dell’antecedente

quarto incomodo

di rilevanza .....

di ambiguità ....

3. Fallacie formali Si definiscono fallacie formali quegli schemi di ragionamento in cui l’errore risiede nella forma del ragionamento, cioè nella relazione logica tra le premesse e la conclusione, a prescindere, quindi, dal loro contenuto. Le fallacie formali appaiono convincenti e persuasive per via del fatto che spesso assomigliano a forme di ragionamento valide come, ad esempio, il Modus ponens e il Modus tollens. Un esempio classico a questo proposito è la fallacia dell’affermazione del conseguente (che ha uno schema molto simile a quello del Modus ponens):

di Margherita Benzi, 2002), il volume a più voci e su diversi tipi e ambiti di inganno logico, o Cantù 2011. 7 Per una classificazione un po’ più ricca si veda http://www.fallacyfiles. org/taxonomy.html. Vi sono numerose pagine web sulle fallacie (non solo Wikipedia): tra queste segnaliamo la guida alle fallacie di Stephen Downes (http://onegoodmove.org/fallacy/), quella di Gary N. Curtis (http://www. fallacyfiles.org/whatarff.html) e, in italiano, quella di Michael C. Labossiere (http://www.linux.it/~della/fallacies/index.html). Più sofisticato è il lavoro di Hans Hansen per la Stanford Encyclopedia of Philosophy (http://plato.stanford.edu/entries/fallacies/).

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Se A allora B B -----------------A Si tratta di uno schema di ragionamento non valido. Eccone la prova: Se Mario è di Genova allora è italiano Mario è italiano ------------------------------------------------Mario è di Genova. Il ragionamento non funziona. Non basta essere italiani per essere nati a Genova: Mario potrebbe benissimo essere nato a Livorno o a Salerno e avere ugualmente il passaporto italiano. Eppure, in molti casi, l’affermazione del conseguente si rivela una forma di ragionamento estremamente efficace e persuasiva e, proprio per questo, se ne fa ampio uso nella comunicazione pubblicitaria. Consideriamo ad esempio una recente pubblicità dell’acqua Rocchetta.

Nello spot si vedono due ragazze, una bruna di costituzione più robusta, l’altra bionda, magra e di bell’aspetto; la prima protagonista domanda: «Come sto?». 139­­­­

Un gruppo di ragazze replica: «Depurati!». A questo punto anche la seconda ragazza chiede: «Come sto?».

Il gruppetto di ragazze presenti risponde: «Depurata». Lo spot si conclude con la ragazza bionda che soddisfatta afferma: «Rocchetta, acqua della salute!». Lo spot in questione tenta di veicolare il messaggio che il consumo di acqua Rocchetta garantisca una forma fisica salutare e un bell’aspetto. Ed è proprio sulla fallacia dell’affermazione del conseguente che si basa il meccanismo comunicativo di questo spot pubblicitario; si tratta di un ragionamento che potremmo ricostruire in questo modo: Se bevi acqua Rocchetta allora ti depuri (sei più sana, più bella, ecc.) La ragazza bionda è depurata (più sana, più bella, ecc.) -------------------------------------------------------------------------La ragazza bionda beve acqua Rocchetta. 140­­­­

Il ragionamento però non sta in piedi. Per quale ragione? Perché il fatto che la protagonista del video beva acqua Rocchetta non segue logicamente dalle premesse. La ragazza in effetti è depurata, sana e di bell’aspetto ma, banalmente, tutto ciò potrebbe essere dovuto a mille altri motivi indipendenti dal fatto che lei beva un certo tipo di acqua piuttosto che un’altra. Si tratta di una forma di ragionamento invalida, ed è facile rendersi conto del perché lo sia. Eppure, moltissimi spot pubblicitari sono costruiti in modo analogo e sfruttano meccanismi di ragionamento che sono riconducibili all’affermazione del conseguente. Basta accendere la televisione per accorgersene. Vediamo invece un altro esempio di fallacia formale: la negazione dell’antecedente. Essa ha una forma simile a quella del Modus tollens e, proprio per questo, risulta apparentemente valida e, di conseguenza, convincente: Se A allora B Non A ----------------Non B Anche in questo caso è abbastanza facile mostrare l’invalidità dell’inferenza: Se Mario è di Genova allora è italiano Mario non è di Genova ------------------------------------------------Mario non è italiano. Il ragionamento non funziona perché Mario potrebbe essere benissimo italiano pur non essendo di Genova (vale invece il vero Modus tollens: se non è italiano non è neanche genovese). Anche la fallacia della negazione dell’antecedente, però, seppur invalida, può rivelarsi convincente e persuasiva. Consideriamo, ad esempio, uno spot dell’anticalcare Calfort, 141­­­­

ditta le cui pubblicità ricorrono nei palinsesti televisivi italiani da ormai molti anni.

Lo spot mostra una lavatrice fuori uso, intaccata dal calcare. Il tecnico della lavatrice domanda a una casalinga: «Ma lei, signora, che anticalcare usa?».

La signora risponde «Uno economico». A questo punto, il tecnico, raccomandandosi, replica a sua volta: «Il calcare è un problema serio! Per questo le consiglio di usare sempre Calfort!». In che modo il tecnico suggerisce quale sia la causa del problema riscontrato nella lavatrice della signora? Con un ragionamento di questo tipo: Se usi Calfort allora hai le tubature pulite Non usi Calfort -----------------------------------------------------Non hai le tubature pulite. Messa in questo modo, abbiamo un esempio di fallacia della negazione dell’antecedente. Lo spettatore attento alle questioni di logica può accorgersi facilmente del fatto che la conclusione dell’esperto di lavatrici di certo non segue dalle premesse. L’argomento non sarebbe valido neanche se Calfort fosse l’unico prodotto effettivamente capace di eliminare calcare. Il calcare nella lavatrice della signora, in142­­­­

fatti, potrebbe essere dovuto a molte altre cause rispetto al semplice fatto di non aver utilizzato un particolare prodotto anticalcare. Di fallacie formali ne esistono molte altre come, ad esempio, la fallacia del quarto incomodo (o quaternio terminorum), in cui un termine medio del sillogismo che si trova in entrambe le premesse ma non nella conclusione del ragionamento assume due significati diversi. Eccone un esempio: Le cose ricercate sono care I criminali sono ricercati -----------------------------------I criminali sono cari. Qui la parola «ricercato» nella prima premessa significa ‘prezioso’, nella seconda significa ‘seguito dalla polizia’. Anche in questo caso, gli esempi pubblicitari sono numerosi (invitiamo il lettore a cimentarsi nella ricerca). La stessa fallacia della quaternio terminorum non è che un caso particolare di un tipo di fallacia più generale, detta fallacia di «equivocazione», che ha una applicazione più vasta. Lasciamo il campo delle fallacie formali per vedere almeno alcuni casi di «fallacie informali». 4. Fallacie informali Le fallacie informali sono ragionamenti non corretti che sfruttano tecniche retoriche o altre caratteristiche del linguaggio per trarre in inganno. Nelle fallacie informali, in particolare, l’errore di ragionamento va ricercato per lo più nel contenuto delle premesse e della conclusione. Ad esempio, la petitio principii (o ragionamento circolare) ha una forma valida (p; quindi p), ma il suo contenuto la rende un ragionamento fallace. Consideriamo un classico esempio: «Dio esiste (p) perché lo dice la Bibbia e la Bibbia dice solo cose vere. Perché? Perché la Bibbia è la parola di Dio. Quindi Dio esiste (p)». 143­­­­

In questa argomentazione il contenuto della conclusione è presente nelle premesse che lo giustificano (infatti, assumere che la Bibbia sia la parola di Dio presuppone assumere che Dio esista). Una buona argomentazione richiede perciò che le premesse a sostegno della conclusione non presuppongano e siano differenti dalla conclusione stessa. Un modo semplice per orientarsi tra le fallacie informali è dividerle in due gruppi: quelle di rilevanza e quelle semantiche. In conclusione, faremo anche un accenno alle fallacie induttive o probabilistiche. Vediamo alcuni casi di fallacie, come invito a cercarne altri esempi (come abbiamo accennato alla nota 8, non v’è abbondanza d’altro nel mare del web). Fallacie di rilevanza.   Sono fallacie di rilevanza quei ragionamenti in cui vengono utilizzate premesse che risultano irrilevanti rispetto alla conclusione e che, per questa ragione, sono inadeguate per stabilirne la verità. Vi sono molti tipi di fallacie della rilevanza e ne abbiamo vista una nel capitolo 3 (p. 76, nota 20): la fallacia dell’uomo di paglia, che consiste nel confutare una tesi attaccandone un’altra simile ma meno plausibile. Facciamo qui di seguito diversi esempi. – Ad ignorantiam: è una fallacia in cui si ricava la verità di una tesi dal semplice fatto che la stessa tesi non sia stata dimostrata falsa. Proviamo a ragionare su un caso. Consideriamo, ad esempio, questo spot elettorale promosso dal Partito repubblicano in sostegno di Ronald Reagan per la campagna presidenziale statunitense del 1984. Il video mostra le immagini di un orso che attraversa solitario una foresta mentre una voce fuori campo recita quanto segue: C’è un orso nel bosco. Per alcuni è facile vederlo. Altri non lo vedono per nulla. Alcuni sostengono che l’orso sia docile. Altri dicono che sia aggressivo e pericoloso. Dato che nessuno sa chi abbia davvero ragione, non conviene prepararsi a essere tanto forti quanto l’orso? 144­­­­

Lo spot si conclude con il messaggio «Preparati per la pace». Il messaggio implicito dello spot è chiaro: siamo in piena guerra fredda, lo scontro militare con l’Unione Sovietica (tradizionalmente rappresentata come un orso) può sopraggiungere da un momento all’altro. Nessuno sa quanto la Russia sia o non sia realmente pericolosa. Proprio per questo, occorre essere preparati ad essere «tanto forti quanto» l’orso sovietico (anche se non è possibile sapere quando si sarà forti tanto quanto l’orso, dato che nessuno sa quanto esso sia forte). In questo caso, dove sta l’errore di ragionamento? Si tratta di un buon esempio di fallacia ad ignorantiam8 che potremmo ricostruire come segue: dato che nessuno sa se la Russia sia effettivamente aggressiva, allora potrebbe esserlo; data l’incertezza, conviene assumere che la Russia sia aggressiva, e che quindi occorra prepararsi ad affrontarla. L’argomento a molti potrebbe risultare condivisibile e persuasivo, ma la conclusione del ragionamento, evidentemente, non segue dalle premesse: il fatto di non sapere se esiste una minaccia, infatti, non è una ragione sufficiente per sostenere che la minaccia esiste (e quindi che occorre prepararsi ad affrontarla). – Ad verecundiam: qui la verità di una tesi viene sostenuta tramite l’appello a un’autorità (della quale si avrebbe timore o vergogna – questo è il significato di verecundia). Se ne trovano esempi in molte pubblicità che promuovono medicinali o cosmetici, come in questo spot del dentifricio Neo Mentadent P, in cui la verità del messaggio pubblicitario («Neo Mentadent P combatte la placca e protegge nel tempo le gengive») viene avvalorata dal fatto che a sostenerla sia

8 La struttura classica dell’argomento ad ignorantiam è la seguente: si sostiene A; non vi sono prove per negare A; quindi A è vero. Ad esempio: gli ufo esistono; non vi sono prove per negarlo; quindi esistono. L’esempio dell’orso sovietico, a ben vedere, è un po’ più complesso e richiede qualche passaggio in più per rivelarne l’aspetto fallace (per una discussione su questo tipo di fallacia si veda Walton, 1999).

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proprio la figura autorevole di un medico. E chi oserebbe mettersi contro l’autorità di un camice bianco?

L’aspetto fallace di questa forma di ragionamento risulta evidente quando a sostenere una certa tesi – a fare da «testimonial» – è un’autorità che appare del tutto irrilevante rispetto a ciò che si vuole sostenere. Si tratta di un meccanismo estremamente frequente nella comunicazione pubblicitaria: ne è un esempio questo spot in cui un nuovo shampoo antiforfora viene promosso dal calciatore Cristiano Ronaldo,

famoso per le sue doti sportive e per le sue qualità estetiche ma certamente meno noto per la sua competenza nell’ambito della cosmetica. – Ad populum: quando l’autorità cui si fa appello per sostenere una tesi non è un singolo individuo ma, più in generale, il senso comune, si ha a che fare con la fallacia ad populum che, in altre parole, si verifica quando si sfrutta il fatto che un’opinione sia condivisa da una maggioranza per sostenere una certa tesi. Un esempio è la classica pubblicità della Scavolini che recita: «Scavolini, la più amata dagli italiani»,

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dove la qualità delle cucine Scavolini viene comprovata dal fatto che tali prodotti siano apprezzati dalla maggior parte degli italiani. Se «amare» è una forma di conoscenza, si potrebbe sostenere che lo sanno tutti che la Scavolini è la migliore ditta nel settore, e di conseguenza anche noi dovremmo adeguarci. – Ad misericordiam: se la precedente pubblicità fa ricorso in parte ad aspetti emotivi, ma al fondo ricalca l’idea del «tutti sanno che», altre forme di fallacia fanno leva più direttamente sulle emozioni degli ascoltatori. Il meccanismo della fallacia ad misericordiam, ad esempio, induce gli ascoltatori ad arrivare a una certa conclusione a partire dal loro sentimento di pietà. Se ne trovano esempi in tutte quelle pubblicità che stimolano un atteggiamento pietoso o compassionevole. È il caso ad esempio di questo spot televisivo dell’associazione internazionale ActionAid, impegnata nella lotta alla povertà e contro la violazione dei diritti umani.

L’invito a donare 82 centesimi di euro al giorno per adottare un bambino a distanza, in questo caso, è infatti supportato da un appello alla misericordia degli ascoltatori: nello spot viene presentato il racconto della vita di Daia, bambina orfana indiana, costretta a soli 6 anni a prendersi cura della sorellina e della nonna, al quale segue un monito che chiama in causa il senso di responsabilità e il sentimento di misericordia degli ascoltatori: «Un domani diverso [per Daia] dipende anche da te!». Se sto così male, si potrebbe dire, allora mi devi aiutare. Benché persuasivo, questo argomento non è valido; il nostro essere emotivamente coinvolti, di fatto, 147­­­­

non è una ragione sufficiente per giustificare una donazione di denaro proprio a quell’associazione invece che a un’altra (che peraltro, probabilmente, userà analoghe strategie comunicative). È come quando uno studente che rivela totale ignoranza della materia dice al professore: «Ho passato ore e ore a studiare con grande fatica, quindi mi deve promuovere all’esame!». Altre fallacie che fanno leva sull’emotività degli ascoltatori sono la fallacia ad baculum e la fallacia dell’appello alle conseguenze. – Ad baculum: in questo caso si sfrutta la propria forza o il proprio potere per affermare una certa tesi; potrebbe essere, ad esempio, il caso di un datore di lavoro che si rivolge al proprio dipendente dicendo: «Se ritieni che ti meriti un aumento di stipendio, allora ti licenzio». Da questo il dipendente dovrebbe essere portato ad accettare la tesi che non merita un aumento di stipendio. Ma il merito è indipendente dall’eventuale sanzione del principale. – Appello alle conseguenze: qui si fa ricorso alla paura o al timore dei propri interlocutori mettendo in evidenza le (possibili) conseguenze negative (o positive) di una certa tesi per negarla o affermarla. Consideriamo come esempio questa pubblicità progresso promossa dal Ministero delle Politiche Giovanili e delle Attività Sportive sui rischi procurati dall’abuso di alcol per chi si mette alla guida. Oltre a ricordare che «La vita non è un optional», lo spot in questione avanza una raccomandazione fondamentale: «Evita di bere e guida i tuoi amici al sicuro». Il messaggio della pubblicità, in questo caso, viene supportato da una carrellata di immagini che mostrano le conseguenze provocate da alcuni incidenti stradali dovuti a un eccessivo stato di ebbrezza dei conducenti:

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Proprio l’appello alle possibili conseguenze tragiche della guida in stato di ebbrezza, in questo caso, costituisce la premessa principale a sostegno del messaggio promosso dalla pubblicità. Si tratta di un messaggio supportato da un ragionamento che potremmo ricostruire nel modo seguente: se bevi e guidi vai incontro a conseguenze tragiche come quelle mostrate nelle immagini, quindi evita di bere quando guidi. Sia chiaro, il contenuto del messaggio è quanto mai condivisibile, ma la struttura del ragionamento, a ben vedere, risulta scorretta. L’appello alle conseguenze, difatti, non è un argomento logicamente valido per sostenere una certa tesi. Pendio scivoloso (slippey slope) è un caso particolare dell’appello alle conseguenze: nel tentativo di confutare una tesi, si prospettano una serie di potenziali conseguenze negative irrimediabili che tale tesi potrebbe comportare. In questo caso, l’invalidità dell’appello alle conseguenze risulta ancor più evidente, anche se ogni passo dell’argomento è del tutto plausibile. Eccone un esempio: «Se ti lasciassi uscire la domenica sera il giorno dopo a scuola saresti stanco; se a scuola sei stanco stai disattento; se stai disattento prendi brutti voti; se prendi brutti voti ti bocciano; se ti bocciano non vai all’università; se non vai all’università non trovi un buon lavoro; se non trovi un buon lavoro non guadagni bene; se non guadagni bene non puoi mantenere una famiglia o te stesso; se non riesci a mantenerti finisci a vivere sotto un ponte; quindi, per non lasciarti finire sotto un ponte, non ti lascio uscire la domenica sera». – Ignoratio elenchi è la fallacia in cui una conclusione viene tratta in modo logicamente corretto sulla base di certe 149­­­­

premesse ma, in definitiva, risulta irrilevante rispetto al tema di cui si discute. L’ignoratio elenchi è usata anche in alcune arringhe di pubblici ministeri che – invece di indicare i motivi che dovrebbero confermare chi è davvero il colpevole di un delitto – si soffermano ad analizzare i particolari più truci che evidenziano i risvolti più cruenti di un crimine. Ma il pubblico ministero non deve convincere la giuria dell’efferatezza di un delitto; questo è del tutto irrilevante per dimostrare che l’accusato sia effettivamente il suo autore. – Ad hominem: questa fallacia ricorre frequentemente nella comunicazione politica nostrana e, nella fattispecie, nei dibattiti mediatici. La fallacia sfrutta un meccanismo tanto semplice quanto efficace e fraudolento: spostare l’obiettivo polemico dalla tesi che si vuole sostenere o criticare alla persona che sostiene tale tesi. Potremmo dire quindi che la fallacia ad hominem consiste, ad esempio, nell’affermare che chi sostiene una certa tesi è intelligente, virtuoso, onesto, moralmente integro, ecc., per sostenere e avvalorare la tesi che egli o ella sostiene. O, viceversa, nell’accusare qualcuno di essere disonesto, incoerente, poco intelligente, poco credibile, insincero, ecc., con lo scopo di negare la tesi che egli o ella vuole sostenere. Ne è testimone l’urlo «Vergogna!» tanto diffuso in televisione come argomento per sminuire quanto sostenuto da un avversario politico. Ma vi sono esempi più sofisticati. Un caso di sfruttamento magistrale della fallacia ad hominem è il celebre episodio del duello televisivo tra Silvio Berlusconi e Marco Travaglio che ebbe luogo durante la puntata di Servizio pubblico del 10 gennaio 2013, a ridosso delle elezioni politiche. Lo scontro dialettico al vetriolo tra i due contendenti si concluse con una trovata teatrale di Berlusconi il quale, al termine del suo intervento, spolverò la seggiola occupata fino a poco prima da Travaglio, per compiere un gesto di sprezzo nei confronti del vicedirettore del «Fatto Quotidiano». Ecco in estrema sintesi i passaggi salienti del faccia a faccia tra i due: Travaglio prende parola per il suo consueto 150­­­­

editoriale e nel suo intervento muove principalmente due linee di accusa all’ex premier: prima, Berlusconi negli ultimi vent’anni non ha potuto, voluto, o per lo meno non è stato in grado di evitare di circondarsi di persone dalla sospetta moralità e, in molti casi, persino con pendenze penali; seconda, la colpa principale di Berlusconi va riconosciuta non tanto in ciò che egli ha detto o fatto in vent’anni di attività politica quanto, piuttosto, in ciò che egli non ha detto o non ha fatto (come, ad esempio, non aver condannato apertamente l’evasione fiscale o non aver sostenuto e promosso la lotta alla mafia). Al termine dell’intervento, a Berlusconi viene concessa la possibilità di replica ed è proprio a questo punto che l’ex premier sfodera una fallacia ad hominem che si rivela dal punto di vista retorico estremamente efficace: Berlusconi, invece di rispondere a Travaglio entrando nel merito del contenuto delle sue critiche, replica elencando e illustrando nel dettaglio dieci condanne per diffamazione ricevute dal vicedirettore del «Fatto Quotidiano» nel corso della sua carriera giornalistica. In che cosa consiste l’aspetto fallace dell’intervento di Berlusconi? Egli ha messo in atto una tecnica di «avvelenamento del pozzo» tentando di delegittimare innanzitutto la fonte delle accuse a lui rivolte, cioè la persona di Travaglio, minando in questo modo la sua credibilità e, di conseguenza, ogni sua possibile affermazione (comprese le sue accuse). Abbiamo appena visto un esempio di fallacia ad hominem di tipo prevaricante. Anche in questo caso, però, è possibile riconoscere diversi tipi di fallacie ad hominem. Si parla ad esempio di fallacia del tu quoque quando qualcuno tenta di giustificare le proprie azioni facendo riferimento ad azioni simili compiute da altri: ad esempio «Io fumo, ma anche il mio medico fuma, quindi fumare non fa poi così male». La fallacia ad hominem circostanziale, invece, ha luogo quando, anziché respingere il contenuto di un’affermazione, viene messo in luce il rapporto compromettente tra la persona che esegue 151­­­­

l’affermazione e le circostanze in cui egli o ella si trova: ad esempio «Tizio dice che i cibi biologici fanno bene ma Tizio vende cibi biologici, quindi non è vero che i cibi biologici fanno bene». – Post hoc ergo propter hoc o Falsa Causa: fallacia post hoc ergo propter hoc (che è anche un caso particolare di non sequitur), è un tipo di fallacia molto utilizzata sia in politica che in pubblicità. Essa si basa sulla facilità con cui il fatto che un evento segua temporalmente a un altro venga assunto come premessa per sostenere che il secondo evento sia causa del primo: ad esempio La crisi economica è giunta dopo una grande ondata migratoria dai paesi del Nord Africa, quindi l’ondata migratoria ha provocato la crisi economica.

– Falso dilemma: la categoria delle fallacie di rilevanza per omissione include uno degli esempi di ragionamento fallace e persuasivo più sfruttati nella comunicazione pubblicitaria. Si tratta della fallacia del falso dilemma, detta spesso anche il «dilemma del venditore» che ha luogo quando, discutendo di un problema, vengono presentate due alternative come se fossero le uniche opzioni possibili, mentre in realtà ve ne sono molte altre non contemplate. Il falso dilemma è plausibile perché richiama alla mente reali alternative come «O la borsa o la vita», «O mangi la minestra o salti dalla finestra». Il trucco peraltro è banale: presentare come alternativa ciò che alternativa non è. Il falso dilemma è sotteso a quasi tutte le pubblicità comparative, perché propone una scelta tra due alternative come se non vi fossero altre possibilità. La stessa pubblicità di Calfort che abbiamo visto basarsi su una fallacia formale (la negazione dell’antecedente) che si evince dalle parole dell’idraulico porta lo spettatore a creare un falso dilemma: o usi Calfort – e non hai calcare nelle tubature, 152­­­­

o usi altri prodotti – e hai calcare nelle tubature; vuoi forse usare altri prodotti – e avere calcare nelle tubature? No di certo. Dunque userai Calfort. La pubblicità fa capire che l’unica alternativa è tra Calfort, che pulisce davvero, e dall’altra parte tutti gli altri prodotti del genere, che non sono all’altezza del compito. Ma non lo dice esplicitamente; lo fa capire implicitamente dalla risposta della signora: «Ho usato un anticalcare economico» (v. p. 142). Chi propone un falso dilemma in modo esplicito rischia le sanzioni della legge, perché dice, appunto, il falso. Lo abbiamo visto con l’esempio dell’alternativa tra Dash e il «principale concorrente» (si veda pp. 93-94). In quel caso, il falso dilemma era esplicito: o prendi Dash e risparmi un terzo rispetto al principale concorrente (Dixan), o scegli la concorrenza (Dixan), e spendi un terzo in più. Si trattava di un falso dilemma che, una volta smentito, ha portato a una condanna. Meglio dunque evitare riferimenti espliciti ai concorrenti, e lasciare intendere che l’unica alternativa per risolvere un problema sia tra la propria ditta e tutte le altre, senza però esplicitarlo. È la strategia, sicura e affidabile, degli spot Ikea. Ne diamo un esempio.

Lo spot inizia con delle squadre di ricerca all’opera e un investigatore che domanda a una donna disperata: «Signora, mi dica, da quanto tempo non lo vede?». 153­­­­

Mentre le ricerche proseguono, la signora in lacrime dà un indizio: «L’ultima volta era andato a cercare... un calzino».

A questo punto un collaboratore sopraggiunge e afferma: «Signore, abbiamo trovato qualcosa!»; e, in mezzo a una montagna di vestiti, compare un uomo un po’ scosso che apparentemente si era perso nel disordine della casa. La pubblicità si conclude con il messaggio promozionale: «Fate spazio all’ordine. Con l’armadio PAX!». Su quale schema di ragionamento si basa questo spot? Su un’elementare ma efficace presentazione di un falso dilemma; c’è un problema che si presenta a un livello esasperato: il disordine. C’è solo un modo per non correre il rischio di perdere il proprio compagno in mezzo alla confusione della propria casa: comprare l’armadio PAX. In poche parole, «O compri l’armadio PAX e ti salvi dai rischi del caos domestico oppure non compri PAX e te la vedi brutta». Ecco dunque un buon esempio di sfruttamento persuasivo della fallacia del falso dilemma. Perché è una fallacia? Perché è ovvio che l’alternativa tra PAX/ordine e non-PAX/disordine sia un falso dilemma! Da che mondo è mondo, è ben risaputo che si può mantenere la propria casa in ordine pur non essendo 154­­­­

dotati dell’armadio PAX. Eppure, molto spesso, quello che di fatto è un falso dilemma viene percepito come reale, ed è proprio questo che rende molte pubblicità persuasive e molti consumatori propensi ad acquistare prodotti che sembrano capaci di fornire l’unica soluzione a problemi che ne hanno più d’una. Fallacie semantiche.   Un altro tipo di fallacie non formali sono le fallacie semantiche o di equivocazione generate dall’utilizzo di espressioni che possono avere più interpretazioni. Immaginiamo ad esempio che qualcuno dica: «Chiara mi ha detto che Matteo è molto alto, quindi può giocare a basket con noi!»; in questo caso, la conclusione del ragionamento non segue dalle premesse. Perché? Perché l’espressione «alto» è un’espressione che può avere significati diversi a seconda del contesto. Ad esempio, Chiara potrebbe aver considerato Matteo come molto alto rispetto a una classe di bambini di 5 anni e, in tal caso, evidentemente, egli risulterebbe inadeguato per entrare nella squadra di basket! Qui ci limitiamo a dare solo due esempi. – Anfibolia: la fallacia dell’anfibolia si verifica quando un intero enunciato risulta ambiguo per via della sua costruzione grammaticale. È il caso di questo spot del Crodino, in cui uno scimmione parlante seduto al bancone di un bar con due amici e un grosso cane nero chiede al barista:

«Dino, dammi tre Crodino». La ragazza seduta accanto nota il cane nero ed esclama: «Piccolino!», e l’uomo risponde: «Me lo hanno dato per mia moglie!». 155­­­­

A questo punto, lo scimmione replica: «Davvero?! E di’ un po’, dove li fanno ’sti scambi?» (per poi scoppiare in una grassa risata). In questo caso, è abbastanza evidente che la fallacia dell’anfibolia (e l’effetto umoristico che essa genera) è dovuta a un’ambiguità nella struttura dell’enunciato «Me lo hanno dato per mia moglie» e in particolare all’espressione «dato per»: il cane, evidentemente, non è stato dato in cambio della moglie, bensì, come animale per la compagnia della consorte. – Accento: una fallacia semantica della quale si fa ampio uso nella comunicazione pubblicitaria è la fallacia dell’accento. Essa ha luogo quando viene posta (o omessa) un’enfasi particolare su un’espressione linguistica o talvolta su un’intera frase. Un esempio classico avviene quando in uno spot pubblicitario viene posto un accento particolare sugli aspetti accattivanti del messaggio della réclame, mentre altre informazioni potenzialmente dannose vengono veicolate in sordina. Sono comuni pubblicità di società che offrono supporto nella preparazione di esami universitari con titoli invitanti come il seguente:

In questo caso, come si può vedere dall’immagine, lo spot pone l’accento sull’aspetto più persuasivo e accattivante del prodotto, ovvero il fatto che la preparazione del primo esame sia gratuita. Chi legge ragiona così: se il primo esame è a pre156­­­­

parazione gratuita allora è conveniente iscriversi. Ma occorrerebbe fare sempre molta attenzione alle pubblicità troppo invitanti. Infatti, il messaggio principale dello spot viene veicolato insieme a un’altra informazione che risulta, però, meno evidente agli occhi dei telespettatori: sotto la scritta «Preparazione gratuita primo esame» ne compare un’altra decisamente meno visibile che pone una clausola vincolante del tipo: «Se ti iscrivi entro il 31/10/2007 ad un pacchetto minimo di quattro esami dal costo di circa dodicimila euro». Una strategia simile viene spesso messa in atto anche nella comunicazione parlata. In questo caso, l’enfasi nei confronti di certe informazioni viene accentuata o diminuita tramite un tono più o meno marcato della voce e una dizione più o meno accelerata. È il caso, ad esempio, di molti spot di medicinali in cui il protagonista dello spot scandisce chiaramente e con tono gioioso il messaggio promozionale:

Ma, a conclusione dello spot, una voce fuori campo interviene e, rapidamente e con tono impersonale, recita: «È un medicinale che può avere effetti collaterali anche gravi». È evidente la ragione per la quale questa seconda informazione viene comunicata in sordina, senza riservarle un’enfasi particolare: ai fini della persuasione all’acquisto risulta molto più efficace mettere in rilievo gli effetti positivi del medicinale piuttosto che le possibili conseguenze dannose del suo utilizzo. Fallacie induttive o probabilistiche.   Il campo delle fallacie induttive e probabilistiche è molto vasto, dato che coinvolge aspetti informali e aspetti formali legati al calcolo delle probabilità e all’uso quotidiano delle statistiche, non sempre usate nel modo più chiaro da giornalisti esperti. 157­­­­

Dal momento in cui Mario Monti è divenuto presidente del Consiglio, in Italia si è iniziato a parlare di spread e a produrre una sempre maggiore quantità di grafici.

L’apparente «oggettività del dato statistico» non inganni; alcuni studiosi onesti lo sanno interpretare e usare; ma non v’è nulla di più facile per un esperto se non usare un grafico per convincere del miglioramento (o del peggioramento) dello spread cambiando alcune semplici variabili (ad esempio l’arco temporale). Gli inganni statistici e probabilistici sono un campo a sé, che richiederebbe una trattazione a parte9: lasciamo la discussione agli esperti, e anche qui ci limitiamo a fare solo due esempi di fallacie induttive, la fallacia del giocatore e la generalizzazione impropria. – Fallacia del giocatore: sappiamo che il ragionamento induttivo non dà conclusioni certe, ma solo probabili. Anche in questo campo si può tuttavia essere facilmente sviati. Uno dei casi più frequenti di fallacia induttiva è la fallacia probabilistica del giocatore [the gambler’s fallacy] quando, cioè, si pensa che eventi avvenuti in passato possano influire sulla probabilità che certi eventi si realizzino in futuro in contesti regolati dal caso. Ne è un esempio il classico ragionamento del giocatore di azzardo: «È da 70 estrazioni che non esce il 5 sulla ruota di Napoli, dunque è molto probabile che presto esca il 5 sulla ruota di Napoli. Quindi, bisogna puntare 5 fisso sulla ruota di Napoli». – Generalizzazione impropria: per limitarci al tema della generalizzazione, un aspetto fondamentale del ragionamento induttivo, possiamo occuparci delle fallacie legate alla gene9 Sul tema delle fallacie probabilistiche e statistiche si vedano i lavori di Gigerenzer (2002) e Girotto (2005).

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ralizzazione impropria. Si parla di generalizzazione impropria quando per sostenere una tesi viene preso in considerazione un campione non rappresentativo, ovvero un campione la cui dimensione non è sufficiente a giustificare la conclusione del ragionamento. Eccone un esempio tutto italiano:

Si tratta di un manifesto di Forza Nuova, partito politico italiano di estrema destra, diffuso sul web nella primavera 2013 a sostegno di una campagna contro la proposta sullo ius soli. Lo slogan della campagna di Forza Nuova, come mostra il volantino, recita «L’immigrazione uccide!». Sul manifesto compare dunque il volto di Mada Kabobo, trentunenne ghanese che all’alba dell’11 maggio 2013 per le strade di Milano aggredì a colpi di piccone diversi passanti, affiancato dalla scritta: «Milano 11 maggio 2013. Uccide una persona e ne ferisce altre quattro a picconate». In questo caso, dove risiede l’aspetto fallace del ragionamento? La campagna di Forza Nuova si basa su un ragionamento di questo tipo: «Kabobo ha commesso un crimine efferato. Kabobo è un immigrato. Se accettassimo lo ius soli verremmo invasi dagli immigrati. Quindi, verremmo invasi da criminali come Kabobo. Pertanto, è scorretto riconoscere il diritto di acquisizione della cittadinanza italiana come conseguenza del fatto di essere nati entro i confini dello Stato italiano». L’argomentazione, a ben vedere, si fonda su diverse premesse che si rivelano generalizzazioni improprie di un unico caso non rappresentativo: l’omicidio commesso da Kabobo. Ad esempio, l’idea che «Kabobo è un immigrato che ha com159­­­­

messo un crimine efferato, quindi tutti gli immigrati commettono crimini efferati», oppure l’idea che «Kabobo è un immigrato. Kabobo ha commesso un crimine efferato. Quindi, il fatto di essere immigrati porta a commettere crimini efferati». Che la generalizzazione impropria sia un meccanismo di ragionamento scorretto e fraudolento risulta piuttosto evidente. E a ben vedere sembra facile smascherare ragionamenti basati su considerazioni generali indebite, come nel caso del manifesto di Forza Nuova. Basterebbe il metodo del controesempio già proposto a p. 136 (lo lasciamo per esercizio al lettore). Eppure, anche in questo caso, abbiamo a che fare con un esempio di fallacia che, nella sua scorrettezza, risulta ampiamente diffuso e capace di ingannare e persuadere con estrema facilità.

6.

Capire

Ora incomincio a capir il mistero... e a veder schietto tutto il vostro progetto (Mozart-Da Ponte, Le nozze di Figaro, Scena II)

1. Una cassetta degli attrezzi Pensare non è un’attività che ci impegna tutto il tempo; molto spesso agiamo automaticamente e comprendiamo la maggior parte delle cose che vediamo e sentiamo senza nemmeno «pensarci su». Siamo diventati bravissimi a «capire» o «comprendere» anche senza pensare; ma capire, in effetti, è un processo che comporta molti più pensieri di quanto a prima vista si intuisca. In questo libro abbiamo mostrato alcuni aspetti di questa sorprendente capacità di «capire» o «comprendere», facendo soprattutto esempi di strumenti e tecniche che ci permettono qualcosa di unico, che caratterizza solo quegli animali linguistici che noi umani siamo: la comprensione linguistica. Herbert Paul Grice, nel presentare la sua concezione delle implicature (si veda il capitolo 2), suggerisce che le regole che a suo dire disciplinano la comunicazione linguistica (le massime della conversazione) valgono sia per la comunicazione verbale sia per quella non verbale. Qualcosa del genere vale anche per le altre idee che abbiamo presentate e illustrate fin qui. Fino a questo punto abbiamo riempito la nostra cassetta 161­­­­

degli attrezzi di strumenti utili per lo studio della comunicazione e abbiamo ragionato sul ruolo strategico giocato dal «non detto» nella comunicazione e, ancor più, in quelle forme di comunicazione che hanno fini persuasivi. Ora è giunto il momento di prendere la nostra cassetta degli attrezzi e di utilizzare quegli strumenti tutti assieme: in quest’ultimo capitolo presentiamo un esempio che illustra come implicature, presupposizioni, deissi, atti linguistici e fallacie interagiscano tra loro quando comprendiamo ciò che ci viene comunicato. Lasceremo poi a chi legge il gusto di divertirsi a usare tali attrezzi nelle occasioni più disparate. Questi strumenti di lavoro ci permettono di vedere con maggiore chiarezza come facciamo a capire non solo gli eventi reali che ci circondano ma anche eventi possibili, presentati in testi narrativi di ogni tipo (dai video ai blog, ai forum, alla carta stampata, ecc.). La quantità di informazioni che dobbiamo digerire quotidianamente richiede una grande prontezza di riflessi. Un esempio tra tutti è la velocità con cui comprendiamo gli spot pubblicitari, cioè una manciata di secondi in cui si costruisce un’intera storia. Capiamo la storia e allo stesso tempo veniamo condotti per mano ad acquistare un prodotto. Data la frequenza e l’invasione della pubblicità nel nostro quotidiano, concludiamo questo libro riassumendo le idee che abbiamo presentato, e torniamo alla nostra domanda di partenza: come comprendiamo uno spot? Siamo circondati da spot sempre più rapidi (il tempo in televisione e nei social network costa) e basta fare un confronto con le pubblicità televisive degli anni ’60 per accorgersi di come la velocità e la quantità di informazioni per unità di tempo si siano moltiplicate quasi esponenzialmente. Un discorso analogo vale per i videogiochi. Sono entrambi un allenamento delle nostre capacità cognitive: gli spot per le capacità di comprensione e ragionamento, i videogiochi per velocità di riflessi e anticipazione dell’azione. Vi sono analogie tra questi due tipi di capacità, ma la parte più rilevante del nostro lavoro riguarda aspetti che in un modo o 162­­­­

nell’altro si riconducono alla capacità di fare inferenze (passi di ragionamenti). Comunicare non è semplicemente far passare idee o immagini da una mente a un’altra; l’esempio di comprensione di uno spot che proporremo vuol mostrare questo: comunicare comporta sempre dare indizi su cui ragionare, cioè fare inferenze a partire da informazioni che acquisiamo direttamente o, perlopiù, indirettamente, in modo non esplicito. Non staremo a descrivere nel dettaglio tutti i passi inferenziali che caratterizzano la comprensione di uno spot, ma ci limiteremo a mettere in evidenza come la nostra comprensione sia intessuta di inferenze che attivano schemi e inducono a prevedere i passi futuri della storia che viene raccontata. 2. Capire uno spot Gli psicologi distinguono due sistemi di pensiero, quelli automatici e quelli non automatici. Per semplicità chiamiamoli, come Kahneman (2011), Sistema 1 e Sistema 2. Il Sistema 1 si attiva automaticamente e ci permette di svolgere un sacco di attività quotidiane in maniera quasi inconsapevole. C’è da attraversare la strada? Sappiamo come si fa. Dobbiamo andare a comprare qualcosa al supermercato? Sappiamo come si fa. Abbiamo immagazzinato stereotipi e schemi d’azione per molti tipi di attività (si veda il capitolo 1). È un po’ come se avessimo accumulato in schemi o rituali una quantità di inferenze e ragionamenti che padroneggiamo senza quasi accorgercene (come, ad esempio, «Se c’è rosso allora non attraverso»). Anche nel capire le situazioni (Dove sono? Con che tipo di persone sono?) questi schemi funzionano quasi sempre bene tranne... quando qualcosa va storto. Quando accade qualcosa che interferisce con il nostro modo automatico e ordinario di agire, dobbiamo rincominciare a ragionare, cosa che facciamo meno spesso di quanto crediamo proprio perché, il più delle volte, demandiamo il lavoro inferenziale agli stereotipi o 163­­­­

agli schemi mentali. Seguire gli schemi inferenziali automatici è una cosa, ragionare è un’altra. Ma schemi automatici e ragionamento sono realtà fluide: quando impariamo qualcosa apprendiamo delle istruzioni ragionandoci sopra, dopodiché non ci «pensiamo» più perché l’azione che abbiamo appreso, come ad esempio guidare, entra a far parte dei nostri automatismi (e da qui in poi ci affidiamo al Sistema 1). In un posteggio difficile, tuttavia, i nostri schemi automatici potrebbero non essere sufficienti ed è qui, dunque, che torniamo a ragionare e che subentra il Sistema 2: «Ora forse mi conviene girare il volante a destra invece che a sinistra». Prendiamo uno spot a caso e proviamo a mostrare in che modo a ogni fotogramma si attivano schemi o stereotipi sulla base di presupposizioni e implicature che in pochi secondi ci portano a comprendere una situazione complessa. L’esempio in questione è tratto da un famoso spot di Ameriquest, la banca che riempì di ottima pubblicità gli Stati Uniti, convincendo il ceto medio-basso a indebitarsi prima della crisi dei subprimes del 2006. Cerchiamo di ripercorrere fotogramma per fotogramma questo breve episodio richiamando i concetti discussi nei capitoli precedenti.

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1. Lo spot si apre con una circostanza ambigua: un uomo, in completo grigio, con un mazzo di fiori e un pacco entra in un corridoio. Il corridoio con diverse porte attiva due possibili interpretazioni: l’idea di un condominio o l’idea di un corridoio d’albergo. Il vestito e il fatto che l’uomo porti un pacco, presumibilmente la spesa, però, ci fanno optare per la prima strada: l’uomo si trova in un condominio di fronte alla 164­­­­

porta di casa sua. L’idea del condominio, a sua volta, ci induce ad attivare lo stereotipo della classe media o medio-bassa americana, proprio quella cui si rivolge la pubblicità. 2. L’uomo prende la chiave da sopra la porta; questa azione ci fa capire che l’uomo è il padrone di casa o comunque qualcuno che ha a disposizione l’appartamento. 3. Si apre la porta; il contesto fa presupporre che sia la parte interna dell’appartamento; il gatto che si vede dentro casa sembra suggerire che sia davvero un appartamento e non, ad esempio, un albergo (dove normalmente non si trovano gatti). Come se non bastasse, la presenza di un gatto all’interno dell’appartamento viola la regola della pertinenza: per dare un senso alla presenza del gatto dobbiamo inferire che è un «gatto di casa». A questo punto, siamo pienamente inseriti all’interno dello stereotipo «casa» e da qui in avanti ci aspettiamo che l’uomo si comporti seguendo gli schemi tipici di chi torna a casa dal lavoro.

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4. Si vede meglio la figura dell’uomo: ha in mano un pacco da supermercato e, in questo modo, in una manciata di secondi, si consolida in modo risolutivo lo stereotipo iniziale. Che il gatto non si stupisca, ma anzi si avvii nella stessa direzione dell’uomo, lascia presupporre che uomo e gatto si conoscano bene e che presumibilmente il gatto, come tutti i gatti che si rispettino, sia in attesa di qualcosa dall’uomo (due carezze o, nella migliore delle ipotesi, un boccone). 5. Compare l’immagine di una cucina e dell’uomo di fronte al piano col lavandino (lo si deduce dalla presenza dello 165­­­­

scolapiatti); questo fa presupporre che l’uomo abbia portato il pacco in cucina, convalidando l’idea che contenesse acquisti alimentari, aspetto ulteriormente confermato dal gatto che si avvicina curioso accanto alla spesa (secondo lo stereotipo del comportamento utilitarista dei gatti). 6. L’uomo si toglie la giacca (ma non lo si vede; lo si deduce dal fatto che non l’ha più indosso; questo è un aspetto tipico dei filmati dove molte azioni non sono «viste», ma inferite o derivate dai loro effetti). Postura e direzione dello sguardo dell’uomo davanti agli sportelli dei mobili di cucina fanno capire che stia cercando di decidere cosa fare o cosa cucinare (azione pienamente conforme allo schema di azioni «ritorno a casa dal lavoro»).

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7. La scena successiva mostra un fornello con una pentola sul fuoco. Questo presuppone che l’uomo l’abbia sistemata in precedenza. Al contempo, il fatto che l’uomo guardi l’ora subito dopo aver acceso il fuoco attiva l’implicatura che egli abbia particolare fretta (altrimenti perché guardare l’ora? Potrebbe anche essere che voglia calcolare il tempo di cottura, ma per questo, di solito, vi sono i contaminuti che non dovrebbero mancare in una cucina del genere). 8. Lo sguardo dell’uomo è intenso e perso nel vuoto; questo suggerisce che abbia in mente qualcosa. Cosa? 9. La scena successiva mostra l’uomo che mette i fiori su una tavola, apparecchiata per due. Questa scena dà per scontato che nel frattempo l’uomo abbia apparecchiato tavola, scartato i fiori, acceso la luce. Al contempo, il fatto che vi siano due posti apparecchiati e lui metta dei fiori in tavola im166­­­­

plica che stia aspettando qualcuno. Qui sorge un’importante aspettativa: chi aspetta? La moglie o l’amante? (Guardate quante informazioni «non dette» abbiamo già acquisito fin qui grazie a presupposizioni, stereotipi e implicature!) Sono trascorsi soltanto 10 secondi dall’inizio del filmato.

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10. La scena successiva mostra l’uomo che sta tagliando della verdura in cucina mentre la pentola bolle sul fuoco e il gatto aspetta; non c’è più la fretta dei momenti precedenti; la scena mostra lo stereotipo o copione (script): preparazione di una cena intima con amica o consorte. Manca solo la compagna (certo potrebbe trattarsi di un compagno, ma nell’immaginario comune dell’epoca lo stereotipo della coppia di classe media americana non prevedeva coppie omosessuali). 11. L’inquadratura si riapre sulla scena iniziale e il copione trova conferma: una donna arriva con un pacco di vestiti evidentemente preso da una lavanderia (lo si inferisce dalla copertura di plastica trasparente). Tutto induce a pensare allo stereotipo della moglie piuttosto che a quello di un’inserviente, giacché il modello di borsa e l’elegante abbigliamento formale implicano che la donna non sia una donna delle pulizie. 12. La donna, per giunta, apre la porta con la sua chiave confermando l’ipotesi che si tratti della compagna dell’uomo (aspetto che forse insinua che lei stessa sia la padrona di casa, dato che l’uomo aveva preso la chiave da sopra la porta). Certo potrebbe anche trattarsi della coinquilina, ma fin qui una serie di cose non dette, presupposizioni e implicature ci hanno condotto a formarci un’immagine di una situazione 167­­­­

molto comune: un partner sta preparando una cena intima con l’altro partner. Tutto questo viene fatto capire da piccoli particolari che presuppongono cose fatte ma non dette, cioè non viste esplicitamente nel filmato; in questo modo si suggerisce una direzione alla storia creando un’aspettativa: stiamo per assistere a una cena a lume di candela tra due giovani amanti. Ma... l’aspettativa non verrà rispettata.

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13. L’immagine si sposta dalla donna che entra in casa alla cucina: il gatto che guarda in direzione della porta suggerisce che abbia sentito la padrona arrivare; la distrazione gli fa posare la zampa sulla pentola e questo implica una possibile conseguenza rovinosa: il gatto potrebbe versare il contenuto della pentola. 14. La scena successiva mostra quanto di più prevedibile: il gatto rovescia il sugo contenuto nella pentola (notate che «rovesciare il sugo» presuppone che nella pentola vi fosse del sugo, altra cosa che prima non sapevamo). L’uomo che si volta di scatto, senza avere il tempo nemmeno di posare il coltello, inoltre, implica sorpresa e prontezza di riflessi. 15. La scena successiva mostra il gatto che salta via dal fornello mentre il sugo continua a versarsi a terra. Da ciò si deduce ovviamente che il felino voglia allontanarsi dal pericolo. A questo punto – dato che stiamo guardando uno spot – si apre una seconda aspettativa che ci fa «uscire» dalla storia per immaginare come proseguirà lo spot. Dati gli elementi in gioco è facile prefigurare lo scopo della pubblicità, come invito a com168­­­­

prare prodotti quali cibi precotti o per la pulizia dei pavimenti. Vedremo che anche questa aspettativa risulterà frustrata.

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16. La scena mostra l’uomo in una postura che rivela stupore e sgomento; il fatto che egli tenga il coltello in mano presuppone che stesse tagliando qualcosa e il movimento del corpo lascia intendere che stia indietreggiando per non sporcarsi. Lo zoom sul viso e la postura delle mani attivano l’implicatura che l’uomo cerchi di prodigarsi per far qualcosa e rimediare al disastro (ad esempio impedire che il gatto si sporchi di sugo). 17. Questa è l’unica scena in cui compaiono assieme i due (oramai) coniugi; la testa di lui che si abbassa lascia intendere che stia per raccogliere il gatto affinché non si sporchi di sugo; al contempo, l’ingresso di lei ci fa capire che, dalla sua prospettiva, non vede quanto sta accadendo, essendo concentrata su sé stessa. 18. La frenesia delle ultime scene contrasta con la calma dell’ingresso della donna, suggerendo e confermando l’idea che lei non abbia visto nulla di quanto accaduto. La previsione ragionevole della situazione è che lei si scandalizzi per il pavimento sporco, ma...

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19. ...la scena successiva mostra l’uomo che prende il gatto: quest’ultimo gesto implica che la preoccupazione del malcapitato sia tutta rivolta al gatto e l’azione di prenderlo implichi a sua volta il desiderio di preservare il suo bel pelo bianco dallo sporcarsi di sugo. 20. 21. La donna è entrata, e in soli due fotogrammi mostra un cambiamento di espressione del viso tale da far capire (in questo caso esplicitamente) che la sua reazione è di grandissimo sgomento, cosa che non ci si aspetterebbe per un semplice pasticcio casalingo.

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Ed ecco l’inaspettato, fuori dagli schemi: 22. Lo stereotipo che è stato attivato e confermato nei primi venti secondi di spot (il marito felice che prepara la cena per la moglie) va in frantumi. La figura di lui, fuori dal contesto di quanto è accaduto, mostra un uomo con un gatto in una mano, un coltello nell’altra e una macchia rossa sul pavimento. Il gatto è sporco di rosso e l’immagine di un gatto immobile sporco di rosso tenuto in mano da un uomo con un coltellaccio viene interpretata, tramite una inferenza alla miglior spiegazione (qualcosa di simile all’abduzione che abbiamo visto nel capitolo 5), come un tentativo di assassinio del felino. La scena, difatti, attiva l’implicatura che l’uomo abbia usato il coltello per squartare il gatto: è un’implicatura che il regista suggerisce con l’immagine e che ovviamente viene cancellata da chi, come lo spettatore, è a conoscenza della reale dinamica dei fatti. Ma al contempo chi guarda lo spot 170­­­­

riconosce che una persona che vedesse la scena (la moglie in questo caso) senza essere a conoscenza dei fatti che la precedono, non potrebbe che formarsi una conclusione del genere. 23. Questo finale infrange tutte le aspettative della storia e aiuta a far comprendere il fraintendimento della moglie capitata in casa nel momento decisamente meno opportuno. A questo punto, a didascalia della scena, compare la scritta: «Non giudicare troppo velocemente». L’asserzione presuppone che qualcuno abbia giudicato troppo velocemente dalle apparenze e implica che sia stata proprio la donna a giudicare in modo affrettato e a credere che l’uomo abbia ucciso il gatto, mentre noi spettatori conosciamo la storia e sappiamo che le cose sono andate diversamente. 24. L’immagine finale è un capolavoro, perché rivela il vero soggetto della storia: «noi non lo faremo». Noi non giudicheremo troppo velocemente. Ma chi è il «noi» che ci ha tolto la parola di bocca dicendo quello che anche a noi spettatori veniva da dire? E a chi si contrappone? (Sappiamo ormai benissimo che l’uso del deittico «noi» fa sempre accendere una lampadina di attenzione a possibili inganni; ricorderete la discussione sull’intervento di Rosy Bindi a pp. 74 sgg.) Arrivano a questo punto il logo e il nome della banca che ormai ci si fissa in mente come unica ancora di salvezza, affidabile e intelligente; il «noi» della banca si identifica con il «noi» degli spettatori. Come noi spettatori, la banca non si fida delle apparenze e ci garantisce un mutuo ipotecario (ipotecando la nostra casa) anche se non ci presentiamo come ricchi possidenti ma come membri della classe medio-bassa (la stessa dell’uomo vittima del fraintendimento domestico). Stendiamo un velo pietoso su cosa è accaduto agli ingenui che sono stati convinti a comprare casa da pubblicità di questo tipo e cerchiamo di capire cosa è successo nei 30 secondi di questo spot (che hanno richiesto 30 minuti di spiegazione). Proviamo a usare lo schema di Kahneman. 1. Sistema 1: Stereotipi – Una serie di indizi fungono da presupposizioni e implicature per costruire un copione col171­­­­

laudato: coppia piccolo-borghese, in casa, in una cena intima a lume di candela, con il marito che prepara affettuoso la cena. 2. Sistema 1: Aspettative – Attraverso un gioco di presupposizioni e implicature lo spot genera numerose aspettative; nel nostro caso, in poco tempo ne vengono attivate ben due: l’aspettativa di una bella cenetta e quella di una reazione di sgomento dato dallo sporco per terra. 3. Sistema 2: Sorpresa – La situazione finale non risponde alle aspettative (noi stessi siamo chiamati a cancellare le implicature che abbiamo diligentemente ricavato) e rompe gli schemi. La rottura di quanto è dato per scontato fa «accedere» al Sistema 2: dobbiamo ragionare un po’ per capire cosa sta succedendo. Ci dobbiamo confrontare con un nuovo punto di vista. La sorpresa ci rende più fragili, più recettivi e pronti ad accettare una spiegazione della situazione. Qui ci viene in aiuto un retroterra di ragionamenti necessari per ‘mettere le cose a posto’; ricostruiamo la storia, vediamo i diversi punti di vista nei volti di lui e di lei, ci facciamo affascinare dai fraintendimenti tra quello che è accaduto e quello che appare e, solo in conclusione, capiamo la spiegazione finale. Come? Veniamo condotti animalescamente, da animali razionali quali siamo, dalla struttura «razionale» che sottende la conclusione: è come se ci trovassimo di fronte a un’argomentazione convincente, come il più classico esempio di argomentazione razionale, il Modus ponens (si veda p. 131): Se non vogliamo essere giudicati male affidiamoci ad Ameriquest Non vogliamo essere giudicati male --------------------------------------------------------------------Ci affidiamo ad Ameriquest. Invece, di fatto, ci troviamo di fronte alla banalissima fallacia del venditore di cui abbiamo parlato nel capitolo 3 (si veda pp. 152 sgg.): 172­­­­

O ti affidi a Ameriquest («noi») o sei giudicato male (e non hai il mutuo) Non ti affidi a Ameriquest -------------------------------------------------------------------Sei giudicato male (e non hai il mutuo). Al tempo della pubblicità, molte altre banche cercavano di offrire un mutuo ipotecario al ceto medio-basso. È scorretto dunque pensare che l’unica soluzione fosse affidarsi alla Ameriquest1. Quindi l’alternativa della prima premessa è falsa. Ciò che è davvero interessante notare è che lo spot in questione contiene soprattutto un’anfibolia (vedi pp. 155-156): dare un giudizio sugli aspetti morali di una persona è ben diverso dal dare un giudizio sulle sue capacità economicofinanziarie. Nessuno vuole essere giudicato male, ma tutti vorrebbero un aiuto effettivo per capire se sono davvero in grado di mantenere un mutuo ipotecario con le loro reali condizioni finanziarie. Di fatto, la pubblicità nasconde un paradosso: la banca sostiene di non voler giudicare frettolosamente, ma di fatto si comporta in modo opposto rispetto a quanto dichiarato. Ameriquest giudica frettolosamente per accettare chiunque sia disposto a impegnarsi in un mutuo senza alcuna presumibile capacità di rispettarlo. Abbandoniamo ora i problemi in cui sono incorsi gli ingenui fruitori di quei bellissimi spot, che come novelle sirene di Ulisse hanno portato diverse persone alla rovina. Questo è un solo esempio di un tipo di spot: vi sono spot di diverso genere riconducibili a schemi e strutture differenti; ne abbiamo discusso alcuni esempi nei capitoli precedenti. Come abbiamo visto, però, tutti sono basati su una serie di accor1 Ameriquest – che è stata chiusa nel 2007 – era una delle banche di prestiti ipotecari all’origine della crisi finanziaria mondiale. Per altre informazioni su Ameriquest, basta consultare la relativa pagina della versione inglese di Wikipedia.

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gimenti linguistici e non linguistici che fanno leva su diverse componenti di ciò che viene comunicato senza essere detto. Aristotele sosteneva che siamo animali razionali (oltre che bipedi implumi); non ci accontentiamo di seguire i nostri istinti, ma vogliamo capire. A quanto pare, vale anche per gli spot. Ma capire gli spot non basta. Capire uno spot è solo un primo passo per allenare la nostra capacità di comprensione. Forse potremmo usarla anche per capire qualcosa di più.

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