Clero criminale : l’onore della chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma [1. ed.]
 9788858106747, 8858106741

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Quadrante Laterza 192

Michele Mancino Giovanni Romeo

Clero criminale L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione aprile 2013 1

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0674-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa

Quando, molti anni fa, pensammo di dedicare una ricerca approfondita alla repressione dei crimini comuni del clero nell’Italia della Controriforma, immaginavamo che avremmo finito per scrivere l’ennesimo libro sull’applicazione del concilio di Trento. Più studiavamo le istituzioni deputate a regolare la vita religiosa nella penisola tra Cinque e Seicento, più si rafforzava in noi il convincimento che in Italia per gli ecclesiastici delinquenti la resa dei conti fosse cominciata in età tridentina. Alcune indicazioni erano perentorie. Proprio all’indomani del concilio le attività penali di moltissimi tribunali della Chiesa si intensificarono, o semplicemente ebbero inizio, in ogni angolo d’Italia, dalle metropoli come Napoli e Venezia alle campagne più sperdute del Nord e del Sud, dal Friuli al Sannio, dal contado pisano alla Riviera ligure, e colpirono il clero, più che i laici: soprattutto preti e chierici, ma anche frati e monaci. In secondo luogo, dove erano noti i dati complessivi sulla loro consistenza, il numero di quelli finiti alla sbarra era piuttosto alto: un ecclesiastico ogni quattro-cinque. Spesso, è vero, si trattava di cose da poco: litigi, ingiurie, eccessivo attaccamento ai soldi, pigrizia nell’esercizio del ministero sacerdotale. Ma una parte non proprio esigua dei relativi processi riguardava delitti gravi, dagli omicidi premeditati alle violenze sessuali su minori, e scelte di vita diffuse, ma sempre meno tollerate dalle autorità ecclesiastiche, come il concubinato. Tuttavia, al di là delle serie giudiziarie, l’eco tra i contemporanei di sviluppi repressivi così imponenti – ecco l’altro aspetto della ­­­­­v

questione che ci incuriosiva – era debole: se ne discuteva solo in occasione dei conflitti di giurisdizione che scoppiavano di fronte ai crimini più efferati degli uomini di Chiesa. Per il resto, l’aumento vertiginoso delle iniziative penali contro il clero delinquente era accompagnato da una diffusa indifferenza, come se si trattasse di un’attività di routine, non di una novità assoluta e per molti versi sorprendente. Nelle relazioni triennali al papa i vescovi accennavano poco e malvolentieri a quei processi, che soprattutto nei loro tribunali si stavano moltiplicando. Anche le visite delle diocesi, uno dei pilastri del progetto di rinnovamento approvato a Trento, sembravano in rapporto agli ecclesiastici – ma problemi seri non mancavano neppure con i laici – un’arma spuntata. Non a caso, restavano pochissime tracce della prassi, saltuariamente attestata in età pretridentina, di chiedere conto ai fedeli dei loro comportamenti e del loro ministero. I controlli sulla dirittura morale e sulle competenze del clero, quando pure erano effettuati, erano oggetto di colloqui riservati tra i visitatori e gli ecclesiastici della zona, e abitualmente riguardavano l’idoneità professionale, non i costumi. Come spiegare questa curiosa situazione? Perché la Chiesa italiana combatté una battaglia così importante in sordina, senza darle troppo rilievo? Era una delle conseguenze del progetto riformatore approvato a Trento, o il segno di incertezze e difficoltà nell’applicazione di un concilio che aveva affidato soprattutto a vescovi residenti e impegnati nell’azione pastorale il governo del rinnovamento religioso? Ecco le prime domande che ci siamo posti nel corso di questa lunga ricerca, che ci ha riservato svariate sorprese. Sulle risposte abbiamo ora ben pochi dubbi. Più che i limpidi schemi tridentini, furono determinanti le scelte romane che li affossarono, a cominciare da quelle che ridussero i vescovi italiani al ruolo di semplici esecutori delle decisioni centrali. Perciò il libro che presentiamo non è la storia di una riforma, di cui peraltro un piccolo nucleo di uomini di Chiesa attenti e sensibili avvertiva il bisogno urgente, dopo la drammatica crisi della prima metà del Cinquecento. Al contrario, nessun concetto storiografico si adatta meglio ai movimentati scenari qui ricostruiti di quello di Controriforma, nella sua accezione classica, di arroccamento e di difesa a oltranza delle istituzioni ecclesiastiche e dei loro esponenti. Il modello tridentino fu rapidamente svuotato di ogni valore. I pochi prelati che cercarono di applicarlo furono sconfessati, ­­­­­vi

anche perché aumentarono, a dispetto del concilio, le vie di fuga tradizionalmente offerte al clero delinquente dal pluralismo delle giurisdizioni ecclesiastiche. Così, proprio nel corso degli anni Settanta del Cinquecento, sentenze di condanna sistematicamente annullate o annacquate in appello e richiami costanti delle autorità romane alla cautela e alla riservatezza nell’uso dello strumento penale nei confronti degli uomini di Chiesa fecero capire allo sparuto gruppo di vescovi fedeli al concilio che erano su una strada sbagliata, che non bisognava eccedere nel rigore. In quella battaglia gli obiettivi irrinunciabili erano altri: la tutela dell’onore del clero e il rispetto del privilegio di foro, cioè del diritto dei suoi membri ad essere giudicati solo dai tribunali ecclesiastici. Alla fine, perciò, ispezioni, controlli, ammonizioni, decreti, processi e blande condanne servirono a poco: nel gran polverone sollevato nell’Italia tridentina dal rafforzamento delle Curie diocesane il solo risultato tangibile – che segna una netta differenza rispetto alla prima metà del Cinquecento – è il recupero da parte dei giudici ecclesiastici di spazi occupati in precedenza da tribunali secolari. Per questi ultimi diventò molto più difficile avviare l’azione penale contro gli uomini di Chiesa, anche in relazione ai delitti di particolare gravità, che comportavano per i responsabili la perdita del privilegio di foro e il rischio di essere condannati a morte. Gli esiti di questo processo storico furono dirompenti e di lunga durata: conflitti di giurisdizione insanabili, un solco sempre più profondo tra laici ed ecclesiastici, con conseguenze devastanti per l’evangelizzazione e il radicamento di un nuovo modo di vivere la fede. Basti qui ricordare che in Italia fino al Settecento inoltrato i crimini comuni del clero restarono appannaggio della giustizia di comodo garantita dai tribunali della Chiesa e che di norma, almeno fino alla fine del Seicento, i parroci condannati, anche più volte, furono sistematicamente reintegrati nello stesso incarico e nella stessa sede, senza alcun riguardo per i fedeli che avrebbero dovuto guidare spiritualmente. Alla luce di questi rilievi, anche l’enfasi sulla crescente professionalizzazione del clero e sui momenti di risveglio riformatore, come quello che contrassegnò nel tardo Seicento il pontificato di Innocenzo XI e alcuni episcopati italiani di primo piano, dev’essere congruamente ridimensionata. È problematico per ora stabilire in che misura una svolta così ‘antitridentina’ rispecchi contraddizioni complessive dell’Europa ­­­­­vii

della Controriforma. Le possibilità di comparazione sono ridotte, perché sui crimini comuni del clero e sulla loro repressione si sa ovunque pochissimo. È verosimile ad esempio che nel Cinquecento i tribunali dello Stato abbiano esercitato altrove – pensiamo alla Francia – un ruolo egemone, impedendo il dilagare di una giustizia di parte e favorendo indirettamente l’azione moralizzatrice dei vescovi e delle autorità deputate al governo degli Ordini. Ma non bisogna sottovalutare l’influenza del centralismo romano: anche se in nessun paese cattolico le istituzioni locali della Chiesa furono sottoposte ai controlli ravvicinati e puntuali esercitati sull’Italia, le linee di intervento in materia di criminalità ecclesiastica furono ovunque le stesse. D’altronde, le dolorose vicende che negli ultimi anni hanno portato alla luce in tanta parte del mondo cattolico sia gli abusi perpetrati sui minori da sacerdoti e prelati, sia le connivenze diffuse delle autorità locali e centrali della Chiesa, sono sotto gli occhi di tutti. Anche una scelta inedita, estranea alla prassi dell’Inquisizione romana, come quella che ha visto nel maggio del 2001 la Congregazione per la Dottrina della Fede avocare a sé i più gravi delitti degli ecclesiastici, è stata accompagnata dal divieto di dare pubblicità ai relativi processi: la versione moderna di quell’obbligo di tutelare l’onore del clero, che per secoli era stato l’unico obiettivo perseguito dalla Chiesa cattolica nella lotta alla criminalità ecclesiastica1. M.M. G.R. 1   Per la decisione dell’ex Sant’Ufficio vedi l’esemplare libro di G. Miccoli, La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, Roma-Bari 2011, pp. 386-394. Un esempio istruttivo dei suoi esiti è quello delle lodi profuse dal prefetto della Congregazione del Clero, il cardinale colombiano Darío Castrillón Hoyos, all’indirizzo di un vescovo francese condannato nel settembre del 2001 a tre mesi di reclusione e a un franco simbolico di risarcimento a ciascuna delle vittime di un prete pedofilo della diocesi. Il prelato, che pagava così la scelta di aver disatteso l’obbligo tassativo di denunciare abusi di cui era da tempo a conoscenza, è stato elogiato dal porporato sudamericano, in una circolare ai vescovi di tutto il mondo, come un martire dei nostri tempi, che ha preferito subire una condanna pur di non ‘tradire’ un collaboratore. L’iniziativa dell’autorevole cardinale è stata sconfessata solo nell’aprile del 2010 dal portavoce della Sala Stampa vaticana (l’illuminante vicenda è documentata in http:// magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/04/16).

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Ringraziamenti

Moltissime persone hanno agevolato lo svolgimento delle ricerche che hanno reso possibile scrivere questo libro. Fondamentale è stato il contributo del personale degli archivi e delle biblioteche dove abbiamo studiato, che ha mostrato quasi sempre grande disponibilità nei nostri confronti. Ci riferiamo in particolare alla Biblioteca Apostolica Vaticana, alle Biblioteche Nazionali di Roma e Napoli (in quest’ultima dobbiamo molto alla dott.ssa Patrizia Nocera e al sig. Franco Varriale), nonché alla Biblioteca di Ricerca di Area Umanistica dell’Università Federico II di Napoli (dove ci hanno colpito la premura e l’efficienza della direttrice, dott.ssa Gigliola Golia, e del dott. Frederick Maximilian Frank), all’Archivio Segreto Vaticano, all’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, agli Archivi di Stato di Firenze, Napoli e Roma, e a una parte degli archivisti ecclesiastici cui ci siamo rivolti, soprattutto a quelli della Curia patriarcale di Venezia e delle diocesi di Bitonto, Brescia, Firenze, Genova, Ischia, Milano, Pisa, Pistoia, Pozzuoli, Torino, Trento, Udine, Vallo della Lucania. Un ringraziamento particolare va poi ai direttori che si sono succeduti alla guida dell’Archivio storico diocesano di Napoli, dal compianto padre Salvatore Loffredo ai monsignori Ugo Dovere e Antonio Illibato, e a Carmela Salomone, che dello stesso Archivio è da sempre l’instancabile, gentilissima factotum. Siamo invece rammaricati per gli atteggiamenti di chiusura mostrati dai numerosi archivisti ecclesiastici che non consentono la libera con­­­­­ix

sultazione dei fondi criminali: pensiamo soprattutto, per il rilievo della documentazione preclusa, alle risposte negative ricevute dai responsabili degli Archivi diocesani di Verona e S. Agata dei Goti. Contributi, rilievi e indicazioni utili ci sono venuti da tante parti, da colleghi, studiosi e amici. Ci è impossibile qui ricordarli tutti. È doveroso però ringraziare almeno Enrico Anastasio, Giovanni Barblan, don Francesco Castelli, Lucia Cecchi, don Claudio Centa, Angelo, Paola e Tobia Costagliola, Benedetto Fassanelli, Pierluigi Giovannucci, Mariolina Goglia, Piera Iacomelli, Giovanna Lauro, Laura Levantino, Vincenzo Massa, Daniela Mei, Nicola Pastore, Gino Perrotta, Katja Piazza, Katia Pizzini, Domenico Rocciolo, Margherita Rostagno, don Giovanni Sacchetti, Daniele Santarelli, don Diego Sartorelli, Lucia Signori, Mario Taccolini, don Carmine Troccoli, Roberto Tufano, Margherita Turco, Giovanna Zavatti. Siamo debitori inoltre di schede e suggerimenti preziosi alla disponibilità di Giorgia Alessi, Antonella Barzazi, Marco Bellabarba, Diego Carnevale, Cesarina Casanova, Michele Cassese, Roberto Delle Donne, Gian Luca D’Errico, don Ugo Dovere, Massimo Firpo, don Paolo Fontana, don Antonio Illibato, Girolamo Imbruglia, Fiorenzo Landi, Paolo Malanima, Peter Mazur, Gaetana Mazza, Umberto Mazzone, Michele Miele, Stefano Milillo, Giovanni Muto, Fabrizio Pagani, Anna Maria Rao, Antonio Salvatore Romano, Gioacchino Romeo, Roberto Rusconi, Francesco Russo, Rodolfo Savelli, Pierroberto Scaramella, Brigitte Schwarz, Grazia Sirignano, Angelo Turchini, Michaela Valente. Elena Bonora e Gigliola Fragnito, oltre a fornirci numerose, importanti segnalazioni, hanno letto con scrupolo e acribia la versione finale del testo, aiutandoci a eliminare sviste e a chiarire passaggi complessi. Desideriamo perciò esprimere a entrambe la nostra viva gratitudine. Una piccola parte di queste ricerche è stata agevolata da un finanziamento ottenuto nell’ambito di un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale, quello dedicato nel 2008 dalle Università di Parma e Napoli, sotto la guida di Gigliola Fragnito, al tema Cattolicesimi del XVII secolo: Italia, Francia e Spagna (gruppo di ricerca dell’Università Federico II su I tribunali criminali ecclesiastici nell’Italia del Seicento: il caso di Napoli).

Clero criminale

Il libro è stato pensato, discusso e portato a termine dai due autori insieme. Per quanto riguarda la scrittura, precisiamo che i primi due capitoli sono opera di Michele Mancino, gli altri quattro di Giovanni Romeo. Un’ampia Appendice documentaria, dove sono trascritte le fonti edite e inedite che ci sono parse più indicative, sarà liberamente consultabile in FedOA (www.fedoa.unina.it), l’Archivio istituzionale della Università degli Studi Federico II, e sul sito della Casa Editrice.

I

Una ‘bottega di candele’, l’assalto a una canonica

1. Sangue sull’immagine di una Madonna, voci di miracolo, trambusto e animazione attorno a una pieve toscana, quella di Rigoli: cominciò così, il 17 luglio del 1572, a poche ore dai fatti, una concitata inchiesta della Curia arcivescovile pisana. Un primo scenario si delineò subito, grazie alle testimonianze del pievano, don Francesco Scaramelli, e della madre. Era stata la donna a scoprire il prodigio. Abituata ogni giorno, all’alba, a pregare davanti all’immagine che campeggiava proprio sulla porta della pieve, c’era andata insieme a una nipotina e inizialmente non si era accorta di nulla. Allontanatasi dopo un po’ per una commissione, era tornata per riprendere la bambina e alzando gli occhi aveva visto il sangue sul viso della Madonna. Si era messa allora a gridare, a piangere, a battere le mani, chiamando a gran voce il figlio. Richiamato dalle urla, il pievano, che era ancora a letto, vestitosi sommariamente, era accorso, aveva trovato la mamma distesa per terra, agitatissima, e si era inginocchiato davanti all’immagine. In poco tempo il passaparola e il suono delle campane a distesa attirarono verso la pieve un flusso ininterrotto di fedeli, soprattutto di donne. Un lanternino in alto, davanti all’immagine, e un banchetto sulla porta della chiesa, con le candele e la cassetta per le offerte, furono le prime risposte ‘istituzionali’ all’evento. Per il sacerdote non c’erano dubbi: si trattava di un miracolo. Lo fece capire al vicario della diocesi e al guardiano del convento di S. Francesco, accorsi im­­­­­3

mediatamente da Pisa a Rigoli con un canonico della cattedrale per valutare il caso1. Due furono gli elementi centrali della sua deposizione. Sulla mascella sinistra della Vergine, nel punto da cui partiva una delle righe di sangue, era evidente il segno di un colpo, forse venuto da un sasso; nel giro di poche ore, inoltre, le macchie si erano ingrandite. Uno dei presenti, aggiunse, aveva detto di aver visto la sera prima una stella in mezzo alla figura. In realtà, la difesa dell’autenticità del miracolo da parte dell’ecclesiastico cozzò subito contro svariati ostacoli. Malgrado l’appoggio della madre, non fu facile convincere i fedeli, costruire attorno all’evento un solido tessuto devoto. Se ‘movimenti’ del sangue e motivazione ‘sacrilega’ furono fin dall’inizio al centro delle discussioni, non è meno vero che scetticismo e incertezza le accompagnarono costantemente. Si andò subito consolidando, anzi, una tendenziale bipartizione delle reazioni: più emotive quelle delle donne, inclini a credere e a commuoversi, più fredde e sospettose quelle degli uomini. Essi cercarono soprattutto di verificare, quasi per istintiva diffidenza, anche se con circospezione, come se temessero di essere accusati di irreligione o di eresia. L’arrivo dalla vicina Pontasserchio di una confraternita, forse pilotato da don Francesco, costituì un’implicita ‘convalida’ dell’autenticità dell’evento, ma servì a poco, perché non ci fu mai unanimità sul caso. Gli uomini non si fidarono delle spiegazioni del pievano e vollero vedere da vicino, toccare, forse annusare; qualcuno baciò il sangue. Così, incuranti del sacerdote e della madre, che cercavano di trattenerli, presero prima una scala, poi un’altra, salirono e scesero, discussero, spaccarono il capello in quattro. Tuttavia, tra le acquisizioni di quella giornata campale affiora un’indicazione importante: c’era altro sangue sparso, su una scala e a terra, sotto l’immagine, e non si era visto gocciolare dal viso della Madonna. Da dove provenisse, se fosse identico a quello miracoloso e ne costituisse il ‘naturale’ percorso, nessuno poteva dirlo, ma il particolare non sfuggì ai giudici. Essi lo collegarono a una contraddizione 1   Archivio arcivescovile di Pisa (d’ora in avanti AAP), Acta criminalia (d’ora in avanti AC), 5, 1572, processo a don Francesco Scaramelli, cc. 734r-743v, 745r-748r, 752r-755v.

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tra le versioni di madre e figlio: per la donna la scoperta era avvenuta al sorgere del sole, per il sacerdote due o tre ore dopo l’alba. Il giorno dopo il vicario tornò a Rigoli, per rivedere l’immagine, per verificare un nuovo miracolo attribuito alla Madonna insanguinata, rivelatosi subito fasullo, ma soprattutto per chiarire i tanti punti oscuri. Accertò così che una delle scale era servita a un vicino per cavare piccioni da una colombaia, ma non era la stessa su cui si era raggrumato il sangue. Molti dei presenti si erano domandati perciò da dove provenisse, ipotizzando che c’entrassero in qualche modo i colombi della pieve2. Fu così che gli accertamenti si concentrarono su eventuali uccisioni di volatili o polli a casa del pievano e sui movimenti suoi e dei suoi familiari la sera prima del presunto miracolo. Non se ne ricavò nulla di preciso, ma il giudice intimò all’ecclesiastico una serie di rigide prescrizioni. L’immagine mariana, già preclusa alla vista, non doveva essere scoperta, toccata o spostata; bisognava togliere il banchetto con le candele, per evitare maldicenze («acciò non si dica che se ne facci bottegha»); era vietato celebrare, se non all’altare maggiore, e accendere candele davanti alla Madonna. In caso di trasgressione, il sacerdote sarebbe stato punito con una multa e con la privazione del beneficio3. Che le idee del prelato fossero ormai chiare – era un finto miracolo, inventato per fare soldi – lo si vide l’indomani. Don Francesco, convocato a Pisa, si contraddisse, fu trattenuto in una camera, col divieto di parlare con chicchessia, e infine incarcerato. Poco dopo fu imprigionata anche la madre, che ripeteva imperterrita la sua versione4. Il processo entrò rapidamente nel vivo. Se il 17 luglio c’era stato il presunto miracolo, alla fine del mese l’imbroglio era evidente. Il pievano dichiarò che dopo che qualcuno aveva osato toccare il sangue si era ricreduto e aveva pensato a una finzione imbastita per screditarlo; la madre ammise che il figlio si era alzato prima dell’alba per un bisogno fisico e che era tornato a letto dopo mezz’ora; la cognata reticente fu trattenuta per un po’ insieme alla domestica, che nel frattempo aveva gettato un’ombra pesante   Ivi, c. 737v, deposizione di Giovanni Belhomo del 18 luglio 1572.   Ivi, c. 739v. 4   Ivi, c. 740r-v (interrogatorio del 19 luglio; la carcerazione si desume dal costituto del 30 luglio, c. 742r-v), c. 740v (interrogatorio del 21 luglio della madre). 2 3

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sull’attendibilità del racconto della padrona (non andava mai così presto, disse, a pregare davanti all’immagine). Al vicario fu sufficiente osservare da vicino il sangue per dare l’ordine di cancellarne ogni traccia. Ascoltò di nuovo la madre dell’ecclesiastico, da poco rimessa in libertà, e avuta la conferma della levata sospetta del pievano, programmò la fase finale dell’inchiesta. Viste le contraddizioni e le scorrettezze del sacerdote (il divieto di salire sulle scale imposto ai fedeli, il livore contro l’uomo che più risolutamente negava il miracolo), bisognava solo convincerlo a vuotare il sacco, prima con le buone, poi con la tortura, anche ripetuta5. 2. Nel frattempo, il riesame del fedele più incredulo rafforzò nei giudici il convincimento della colpevolezza del pievano. L’uomo aggiunse dettagli prima taciuti, dal nervosismo di don Francesco allo scambio di battute intercorso tra lui e un vicino sui vantaggi legati all’eventuale approvazione del miracolo («Beato te, se monsignore ci authentica questa cosa», aveva detto l’uno; «Io ho già pronta la casa per fare l’hosteria», aveva risposto l’altro). A quel punto, dopo due sedute di tortura, il sacerdote confessò (l’aveva fatto «per aiutare la povera pieve di qualche cosa»), chiese misericordia, rinunciò alle difese. I giudici però non si lasciarono impietosire: lo condannarono alla sospensione perpetua a divinis, alla rimozione dall’incarico di pievano, a remigare per 5 anni nelle galere granducali e poi all’esilio perpetuo da città e diocesi. Se l’avesse violato, sarebbe finito su una trireme per il resto dei suoi giorni6. Rapida e inappuntabile, la decisione dovette però fare i conti con la controffensiva dell’ecclesiastico. Non più tardi del gennaio del 1575 – molto prima che finisse il quinquennio da passare al remo – un breve apostolico notificato al vicario capitolare pisano aprì le ostilità: era in discussione la legittimità della sentenza. Attraverso passaggi non meglio noti, il caso passò nel 1576 al tribunale della nunziatura toscana, a Firenze, che annullò la condanna. Era il 15 luglio del 1577, e pochi giorni dopo fu don   Ivi, c. 744r-v.   Ivi, cc. 743v (costituto del 9 agosto), 753r-754v (deposizione di Alessandro Carloni dell’11 agosto), 754v-755v e 745r (costituti dell’11, 12 e 13 agosto), 745r-748r (le fasi finali e la sentenza). 5 6

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Francesco in persona a depositare l’atto in Curia, a Pisa7. Forte di quella pronuncia, cominciò a brigare per tornare alla guida della pieve di Rigoli, contrastato dal successore, che cercò di ottenere la convalida della decisione di primo grado e forse di coinvolgere l’inquisitore di Pisa. Fu quest’ultimo, infatti, a segnalare in settembre ai cardinali del Sant’Ufficio i nuovi sviluppi del caso. Inizialmente, comunicò ai superiori, anch’egli aveva seguito la vicenda di quel prete che imbrattando con sangue di colombo un’immagine della Beatissima Vergine in sua chiesa, dicendo Miraculi miraculi, fece correre i populi convicini e drizò bottega di candele.

Al primo sopralluogo a Rigoli aveva partecipato il guardiano del suo convento, e non si era trattato solo di un gesto di riguardo da parte della Curia pisana. La sentenza era stata emanata in piena autonomia dai giudici diocesani, che però lo avevano messo al corrente della decisione e ne avevano ricevuto – si intuiva – l’assenso. Ma ora una coincidenza rischiava di rimettere tutto in discussione: morto pochi mesi prima l’arcivescovo Giugni, che si era opposto al ritorno di Scaramelli alla guida della pieve, il successore, Matteo Rinuccini, aveva scelto come vicario proprio l’ecclesiastico/avvocato che lo aveva difeso a Firenze. Di fronte a quegli sviluppi, l’inquisitore domandava ai cardinali del Sant’Ufficio se era opportuno un suo intervento. Non si conosce la risposta romana, che forse lo dissuase dall’interessarsi della questione, se è vero che nell’archivio dell’Inquisizione pisana non si trovano tracce del caso8. Ci fu però una breve appendice nel tribunale della nunziatura. Nel novembre 7   La notifica del breve è in AAP, AC, 10, c. 12r-v (lo presenta il 22 marzo del 1575 il fratello del pievano). Il ruolo della nunziatura è ricostruibile solo in parte, per la perdita degli atti del 1576-78: vedi Archivio di Stato di Firenze (d’ora in avanti ASF), Tribunale della Nunziatura apostolica, 844-845. Il procedimento era in corso almeno dall’11 luglio 1576 e fu oggetto di continui solleciti da parte del legale di Scaramelli; ma fu attivissimo anche il procuratore della Curia pisana e del nuovo pievano (ivi, mss. 126 e 127, cc. n.n.). La sentenza è ivi, ms. 5. Per la conferma del successore alla guida della pieve vedi AAP, Visite pastorali, 5, cc. 1096v-1097r, 29 aprile 1581. 8   Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (d’ora in avanti ACDF), St. St., HH2D1, cc. 414v e 427r, 7 settembre 1577, lettera dell’inquisitore di Pisa al cardinale Savelli.

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del 1577 una nuova querela – di cui non sono noti i contenuti – costò all’ex pievano la carcerazione a Firenze. Ottenne la libertà solo grazie a una contrastata malleveria, nel febbraio del 1578, ma non riuscì a tornare alla guida della sua chiesa: alla fine, malgrado tutto, pagò a caro prezzo la sciocchezza compiuta9. 3. Il finto miracolo pisano è un buon punto di partenza per riflettere su una questione, quella del governo del clero delinquente, studiata finora pochissimo. Certo, inserire il gesto del pievano di Rigoli tra i crimini comuni può apparire eccessivo. Più che un delitto, il suo sembra un atto di grave leggerezza, maturato in una situazione difficile, nota ai superiori sin dal 1561: la chiesa era fatiscente, ci pioveva anche dove avrebbe dovuto essere custodito il sacramento, che però non c’era, il fonte battesimale era aperto alle incursioni degli animali, gli arredi sacri erano in condizioni pietose, la canonica rischiava di crollare. Nulla avevano potuto in seguito i pievani di Rigoli, viste le misere rendite e i pochi fedeli (tra 140 e 180 anime), nulla i visitatori: nel 1575 la chiesa minacciava rovina, ma l’ordine di rimetterla in sesto cadde nel vuoto e nel 1581 fu necessario reiterarlo10. Non si tenne neppure conto dello zelo di don Francesco, che per giunta era incensurato. Aveva presentato un paio di querele ai superiori, la prima nel 1561, da semplice prete, contro un uomo che si era messo a bestemmiare e lo aveva picchiato mentre giocavano a carte, la seconda, nel 1571, da pievano di Rigoli, quando era stato minacciato da un fedele in chiesa per aver cercato di far rispettare l’adempimento del precetto pasquale11. Una risposta inflessibile a un eccesso atipico, un cavillo che la cancella: che cosa allora, nell’imbroglio toscano, si può ritenere rappresentativo della normalità, delle procedure con cui ordinariamente, in quegli anni, le autorità della Chiesa italiana combattevano i disordini del clero? Certo, l’impresa del sacerdote non

  ASF, Tribunale della Nunziatura apostolica, 127, passim.   AAP, Visite pastorali, 5, per le visite del 1561 (c. 805r, 12 settembre), del 1565 (c. 867v, 19 settembre), del 1572 (c. 909r-v, 13 ottobre), del 1575 (c. 1049r, 16 ottobre) e del 1581 (per cui vedi nota 7), e 6, per la visita del 1569 (c. 135v, 8 ottobre, l’unica in cui è presente don Francesco Scaramelli). 11   Sono entrambe in AAP, AC, 5: quella del 1561 contro Giovan Battista da Monticoli, la successiva contro Ranieri di Bartolo. 9

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stupisce i giudici: la frase icastica che subito la definisce è il segno della loro familiarità con abusi del genere. Anche per questa ragione è difficile stabilire se la punizione che lo raggiunse fosse di routine o esprimesse una nuova temperie religiosa. Il concilio di Trento, ad esempio, si era chiuso da poco, nel 1563, e aveva dedicato un certo spazio alla lotta agli illeciti degli ecclesiastici. Mai però, forse, un curato che avesse offeso così platealmente i sentimenti religiosi dei parrocchiani avrebbe potuto contare sulla comprensione dei superiori. Ancor più difficile da spiegare è la decisione di annullare la sentenza da parte della nunziatura di Firenze. Sin dal primo Cinquecento, come si vedrà, negli scambi epistolari tra nunzi italiani e Segreteria di Stato vaticana la preoccupazione per i crimini del clero è vivissima. Possibile che per un vizio di forma il tribunale dell’ambasciatore del papa garantisse l’impunità a un sacerdote così irresponsabile? Insomma, dov’era il vecchio e dov’era il nuovo nel finto miracolo e nel sorprendente esito dell’appello? Un secondo caso, capitato in Italia pochi anni prima, aiuta a mettere a fuoco altri aspetti della questione. 4. Nel 1566 Filippo Maria Campeggi, vescovo di Feltre dal 1559, decise di avviare una visita pastorale. Non era la prima volta: uomo impetuoso e zelante, aveva fatto capire da tempo al clero che la lotta ai suoi abusi, e in particolare al concubinato, era per lui un obiettivo prioritario, secondo solo alla caccia agli eretici. Così le carceri vescovili, da sempre inutilizzate, avevano cominciato a funzionare, anche se i preti della cattedrale scherzavano su quella novità. Nelle stesse ispezioni, domande precise, rivolte anche ai laici, permettevano di acquisire informazioni preziose sui disordini degli ecclesiastici e di farle fruttare. Non era un lavoro facile, soprattutto nella parte della diocesi soggetta all’arciduca d’Austria. Lì le autorità secolari consentivano ai rappresentanti della Chiesa di segnalare eccessi, non di esercitare giurisdizione. Se ci provavano, rischiavano grosso. Nel giugno del 1559, ad esempio, il vicario generale e l’inquisitore appena nominato, prima di visitare il paese dove si annidavano gli eretici più pericolosi, temendo per la propria incolumità, avevano preannunciato per iscritto, a futura memoria, la nullità delle assoluzioni che fossero stati costretti a rilasciare... Non avevano tutti i torti. Quando arrivarono, si scontrarono con un’ostilità diffusa ai ­­­­­9

controlli: sui libri proibiti di un prete, sulle pratiche superstiziose, soprattutto sull’eresia. Di processi nemmeno l’ombra. Il solo, magro risultato della visita fu una pubblica disputa con tre luterani. Nel 1566, però, il Campeggi diede subito allo strumento pastorale una spiccata fisionomia repressiva. Il piccolo nucleo di ufficiali che lo accompagnava si trasformò in un tribunale itinerante, abilitato a giudicare, come a Feltre, eresia, controversie matrimoniali, liti civili riguardanti il clero o le istituzioni ecclesiastiche, abusi di chierici e sacerdoti. L’iniziativa provocò un malcontento generalizzato. Era inaccettabile che un pastore si trattenesse per settimane o mesi ad istruire processi, anche perché così gravava pesantemente sulle comunità, che assicuravano vitto e alloggio a lui e ai collaboratori12. 5. Fu in questo orizzonte che nella parte imperiale della diocesi capitò nel febbraio del 1569 un caso eclatante. Il parroco di Levico, don Domenico Casanova, viveva da 12 anni con una donna, indifferente ai ripetuti ordini di allontanarla ricevuti dai superiori, aveva tre figli da un’altra relazione ed era anche sospettato di aver acquisito in modo simoniaco la parrocchia. Di fatto era un intoccabile, come si vide quando il Campeggi lo convocò in un paese vicino, dove stazionava il tribunale itinerante. Il prete rispose con un rifiuto, rafforzato anche da una lettera in cui il capitano di Levico sottolineava la necessità della sua presenza in parrocchia, al servizio della comunità. Quella reazione fu solo l’inizio di una lunga serie di avvertimenti, che videro un intero paese al suo fianco. Ordini di carcerazione revocati, tentativi di composizione stragiudiziale, una scomunica e una multa accrebbero solo l’insofferenza della comunità, oltre che dell’ecclesiastico. La tensione esplose in estate, quando i visitatori si acquartierarono nella canonica di Levico, eretta a sede del tribunale. Fu il capitano a citare l’uditore del Campeggi, con un beffardo rovesciamento delle posizioni: se gli ispettori fungevano da giudici, le autorità secolari locali li trasformavano in indagati13. Il prela12   La visita del 1566 è ricostruita da C. Centa, Una dinastia episcopale nel Cinquecento: Lorenzo, Tommaso e Filippo Maria Campeggi vescovi di Feltre (1512-1584), I, Roma 2004, pp. 619-696. 13   Ivi, pp. 672-696.

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to, dopo aver chiesto aiuto ai rappresentanti del comune e aver spiccato un mandato di arresto contro il capitano, senza alcun risultato, alla fine, spazientito, ordinò proprio a don Domenico di convocare l’ufficiale in canonica, senza armi e senza accompagnatori. La decisione, che puntava a spezzare i rapporti tra parroco e poteri locali, ebbe conseguenze disastrose. Il sacerdote la prese malissimo («vorrei piuttosto 200 spagnoli in casa che voi altri», gli rispose) e si mise a girare in paese con una lancia dotata di puntale, imponendo inoltre al macellaio di non dare più carne a credito al vescovo e ai suoi uomini. Nel frattempo Massenzia, la convivente, chiudeva a chiave la dispensa della canonica. Il vescovo ordinò allora di catturarlo, ma senza esito: scappò per i tetti, aiutato dai vicini, e reagì ad altre gride insultandolo e minacciandolo con la lancia. Il 31 luglio si fece anche accompagnare da un uomo munito di roncola, condannato dal tribunale itinerante in una causa matrimoniale, e alle timide obiezioni del superiore (non era quello il modo di presentarsi davanti a lui) rispose con asprezza: Tu mangi il mio indebitamente et vai mangiando il sangue de li poveri io te excomunico et ti maledico et ti dago nele mani del gran diavolo Sathanas, tu sei uno bugeron14.

L’epilogo della vicenda era vicino: alleatosi stavolta con un nobile, raggiunto anch’egli dai fulmini del Campeggi, il 3 agosto il sacerdote assalì la canonica ‘occupata’. Della banda facevano parte, oltre a un gruppo di uomini armati, le donne dei capi: M ­ assenzia con il genero, le mogli del notaio scomunicato e del vicario di Levico. Cercavano la cassa delle scritture, le argenterie, gli effetti personali, ma anche i letti e le coperte. L’obiettivo era uno solo: gli intrusi dovevano andarsene subito, senza i processi. Sorpresi a pranzo, il vescovo e i suoi rintuzzarono il tentativo degli assalitori di rovesciare la tavola e di prelevare i documenti. Per il resto, però, non ebbero scampo: la canonica fu depredata e il bottino ammassato in un’osteria. Al Campeggi non rimase che suonare le campane a martello e convocare una riunione senza storia. In piazza, davanti a un bel po’ di gente, al vicecapitano e al sindaco, chiese aiuto, si

  Ivi, p. 681.

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presentò come delegato del papa, dichiarò interdetta la parrocchia. Ma fu come versare benzina sul fuoco. Nessuno mosse un dito, anzi il capitano gli disse che lo rispettava come feudatario, non come vescovo. Dopo la sua partenza si rifecero vivi in canonica don Domenico e Massenzia, insieme a uomini armati, cacciarono i suoi famigli, rubarono un calice, la croce pettorale d’argento, le mitre e alcuni paramenti. Nel frattempo, laici e preti esaltavano l’impresa e non risparmiavano pesanti apprezzamenti al Campeggi. La prova di forza di un prelato zelante si chiudeva in modo disastroso. Così, se nel 1572 a Pisa una sentenza ineccepibile era stata annullata dal nunzio apostolico, in Trentino negli stessi anni i rapporti di forza tra vescovi ed ecclesiastici che vivono disordinatamente sembrano nettamente sbilanciati a favore di questi ultimi. I criteri di valutazione correnti dei loro eccessi sono molto più comprensivi di quelli della Chiesa ufficiale, la presenza del nunzio rafforza il clero delinquente, non i suoi giudici. In Italia, insomma, all’indomani del concilio di Trento, l’autorità vescovile era facilmente messa sotto i piedi, in modi e per motivi diversi. E altrove? Come stava evolvendo il governo della criminalità ecclesiastica nell’Europa di quegli anni? 6. Sulla questione si sa davvero poco, se non per il celibato del clero, da tempo oggetto di attenzione scientifica, sopraffatta non di rado da preoccupazioni di natura apologetica15. Eppure per larga parte dell’età moderna, nel mondo cattolico, omicidi, violenze, pratiche sessuali di ogni genere, estorsioni, truffe, usura, falsificazione di atti o di moneta, contrabbando, abusi legati al ministero sacerdotale, vedono con frequenza sotto processo esponenti del clero. Né mancano delitti, anche efferati, commessi nei monasteri femminili. Non di rado, inoltre, finiscono alla sbarra le stesse autorità della Chiesa. Fece scalpore, ad esempio, la condanna al carcere perpe-

15   Si veda la differenza tra il bel libro di A. Flüchter (Der Zölibat zwischen Devianz und Norm. Kirchenpolitik und Gemeindealltag in den Herzogtümern Jülich und Berg im 16. und 17. Jahrhundert, Köln 2006) e H. Parish, Clerical Celibacy in the West: c. 1100-1700, Aldershot 2010 (è qui che un’impostazione confessionale condiziona pesantemente una ricerca peraltro seria: vedi G. Romeo, Il celibato del clero nell’Occidente medievale e moderno, in «Studi storici», 52, 2011/3, pp. 765-776).

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tuo (di solito però condonato in breve) inflitta nel 1559 al vescovo di Polignano, sorpreso a Roma a letto con una cortigiana la notte prima della domenica delle Palme. Tuttavia, il prezzo più pesante lo pagò la donna, perché subì la frusta pubblica, la confisca dei beni, l’esilio e la distruzione della casa. La sentenza fece discutere, dato che l’interessata era in regola con il pagamento del tributo annuo dovuto dalle meretrici nella città del papa16. Per l’Italia moderna, a voler considerare solo gli archivi vescovili e le miniere dell’Archivio Segreto Vaticano, si tratta di una documentazione enorme, nell’ordine di svariate centinaia di migliaia di dossier. Inoltre, mentre le serie vaticane sono di fatto sconosciute, anche per le dimensioni ciclopiche, lo studio dei fondi criminali degli archivi vescovili, quando non è precluso alla consultazione da responsabili più realisti del re, deve fare non di rado i conti con le carenze organizzative di molti di questi istituti e con la mancanza di inventari. Sarebbe ingenuo, d’altra parte, pensare che questi ostacoli siano determinanti. C’è anche uno scarso interesse per il problema, ovvio negli storici legati all’apologetica cattolica o sensibili al fascino discreto che da tempo esercita la Controriforma, un po’ meno negli studiosi liberi da condizionamenti di questo tipo: come se fosse una questione scontata o di modesto rilievo. Si spiega anche così, crediamo, la mancanza di studi sistematici. Una monografia dedicata ai delitti del clero a Siviglia e nel circondario nel Settecento è finora il solo libro che ricostruisce dettagliatamente il funzionamento di un singolo tribunale penale della Chiesa in età moderna, mentre un convegno francese rappresenta il solo tentativo di tracciare un bilancio del problema tra la fine del Medioevo e il secolo dei Lumi. Anche in Italia, nonostante che dal secondo Cinquecento almeno i giudici criminali diocesani operino con una certa regolarità ovunque, si sa poco o nulla delle loro attività17. Neppure la storiografia sull’evo16   T. Storey, Carnal Commerce in Counter-Reformation Rome, Cambridge 2008, p. 1. 17   Per Siviglia ci riferiamo a M.L. Candau Chacón, Los delitos y las penas en el mundo eclesiástico sevillano del XVIII, Sevilla 1993. Per il convegno vedi Justice pénale et droits des clercs en Europe (XVIe-XVIIIe siècles), sous la direction de B. Durand, avec la collaboration de M. Lesne-Ferret, Lille 2005. Ricchi di spunti

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luzione della giustizia penale negli Stati moderni ha alimentato ricerche sull’omologo versante ecclesiastico18. Altrettanto si può dire dell’ampia letteratura dedicata negli ultimi decenni all’esame delle visite pastorali di età moderna, soprattutto in ambito cattolico: non mancano ovviamente i riferimenti ai disordini del clero, ma i confronti approfonditi con le fonti giudiziarie sono rari19.

anche, per la Germania cattolica, oltre al citato volume di Flüchter: M.R. Forster, The Counter-Reformation in the Villages. Religion and Reform in the Bishopric of Speyer, 1560-1720, Ithaca (N.Y.)-London 1992; A. Holzem, Katholische Konfession und Kirchenzucht. Handlungsformen und Deliktfelder archidiakonaler Gerichtsbarkeit im 17. und 18. Jahrhundert, in «Westfälische Forschungen», 45, 1995, pp. 295-332; Id., Religion und Lebensformen. Katholische Konfessionalisierung im Sendgericht des Fürstbistums Münster 1570-1800, Paderborn 2000. Per l’Italia i quattro volumi sulle cause matrimoniali curati da S. Seidel Menchi e D. Quaglioni (Bologna 2000-2006) sono finora il più solido punto di riferimento per i tribunali diocesani. Per i crimini comuni del clero le ricerche più approfondite sono quelle di C. Casanova sulla situazione bolognese del Sei-Settecento (vedi in part. Don Antonio e i suoi giudici. Storie criminali fra foro laico e foro ecclesiastico [Bologna, fine XVII-metà XVIII], Bologna 2009) e di M. Mancino sul Cinque-Seicento (Governare la criminalità degli ecclesiastici nell’Italia del primo Cinquecento: il caso di Napoli e della Campania, in «Studi storici», 50, 2009/1, pp. 101-130; Id., La giustizia criminale ecclesiastica nell’Italia del Seicento: linee di tendenza, in «Studi storici», 51, 2010/4, pp. 1003-1033). Utili anche le ricerche di O. Di Simplicio su Siena, soprattutto quelle confluite nel volume Peccato, penitenza, perdono. Siena 1575-1800. La formazione della coscienza nell’Italia moderna, Milano 1994, pp. 59-174. Una recentissima serie di contributi ha affrontato infine alcuni aspetti della questione tra il Seicento e gli inizi del Novecento: ci riferiamo al numero 81, 2012 di «Ricerche di storia sociale e religiosa» dedicato, a cura di B. Fassanelli, al tema «Sul capo dell’Unto del Signore». Giustizia ecclesiastica e criminalità del clero tra repressione dei reati e tutela delle immunità. Procedure e processi, diritto e pena (secoli XVII-XX). 18   In generale, vedi almeno W. Reinhard, La storia dello stato moderno, Bologna 2010 (ed. or. München 2007) e P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna 2000. Per la giustizia penale, vedi: E. Grendi, Per lo studio della storia criminale, in «Quaderni storici», 44, 1980, pp. 580-627; Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna, a cura di M. Bellabarba, G. Schwerhoff, A. Zorzi, Bologna 2001; M. Sbriccoli, Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Roma-Bari 2002, pp. 163-205; G. Alessi, Il processo penale. Profilo storico, Roma-Bari 2004; M. Bellabarba, La giustizia nell’Italia moderna, Roma-Bari 2008. 19   Nella impossibilità di citare anche in parte la ricchissima letteratura sul tema, rinviamo ai saggi raccolti in Fonti ecclesiastiche per la storia sociale e religiosa d’Europa: XV-XVIII secolo, a cura di C. Nubola e A. Turchini, Bologna 1999 e, per le visite nella Germania protestante, a F. Konersmann, Kirchenvisitation

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Ancor meno studiata, se non in relazione alle battaglie del giurisdizionalismo e dell’illuminismo, una questione altrettanto importante. Rientravano tra le competenze dei tribunali vescovili anche gli incidenti legati all’abuso del diritto d’asilo, all’abitudine di delinquenti e banditi, ma anche di persone ricercate per addebiti di natura civile, di sfuggire alla giustizia rifugiandosi in luoghi sacri. Le guardie che li catturavano nello spazio immune e i giudici che li processavano finivano nel mirino della giurisdizione episcopale: ne nascevano allora lunghi conflitti20. Rispetto a problemi di tale rilievo non siamo neppure in grado di misurare l’influenza del concilio di Trento. Le disavventure del parroco di Levico e del pievano di Rigoli, capitate a pochi anni dalla sua conclusione, sono un buon test per misurare il vecchio e il nuovo, per comprendere da quali modelli veniva e verso quali sviluppi evolveva il governo del clero delinquente nella Chiesa romana, in un secolo così complicato. 7. Non si sa molto di più per il millennio precedente. Non c’è confronto, ad esempio, con l’interesse consolidato per la giurisdizione civile dei vescovi. Comunque sia, già tra IV e V secolo cominciò ad affermarsi il cosiddetto privilegio di foro, cioè il diritto, prima riconosciuto ai soli vescovi e poi a tutti i membri del clero, di essere giudicati da tribunali della Chiesa, anche se inizialmente solo per le cause di religione. Si trattò di un processo storico carico di tensioni, nettamente differenziato tra Impero d’Occidente e d’Oriente (in quest’ultimo fu la giustizia statale a conservare un’egemonia pressoché incontrastata)21. All’immunità personale per gli ecclesiastici si accompagnarono gradualmente anche i privilegi legati ai luoghi sacri: dalle competenze esclusive della

als landesherrliches Kontrollmittel und als Regulativ dörflicher Kommunikation. Das Herzogtum Pfalz-Zweibrücken im 16. und 17. Jahrhundert, in A. Blauert, G. Schwerhoff, Kriminalitätsgeschichte. Beiträge zur Sozial- und Kulturgeschichte der Vormoderne, Costanza 2000, pp. 603-625. 20   Il contributo più importante resta finora Le droit d’asile, di P. Timbal Duclaux de Martin, Paris 1939. 21   Per il foro civile della Chiesa vedi almeno G. Vismara, La giurisdizione civile dei vescovi (I-IX secolo), Milano 1995; per la nascita del privilegio di foro, A. Banfi, Habent illi suos iudices. Studi sulla esclusività della giurisdizione ecclesiastica e sulle origini del privilegium fori in diritto romano e bizantino, Milano 2005.

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giurisdizione criminale della Chiesa sui delitti compiuti al loro interno al divieto di estrarne i delinquenti che vi si rifugiavano22. In questa evoluzione due dimensioni furono forse decisive: i rapporti tra i tribunali penali ecclesiastici e statali e i limiti imposti alla giustizia dall’etica cristiana. Ma su entrambe mancano ricerche moderne. Per la prima questione i consulti elaborati da Paolo Sarpi nel 1606, nel corso delle tensioni che sfociarono nell’interdetto fulminato da Paolo V, sono ancor oggi un punto di riferimento importante per comprendere l’ampio spazio occupato da sempre dalla giustizia dello Stato nel governo dei delitti del clero. Per la seconda basti pensare all’attenzione che un pontefice come Gregorio Magno riserva al rapporto tra il dovere della misericordia e il rigore delle condanne. È improbabile però che i suoi scrupoli abbiano trovato un’eco diffusa: l’uso della violenza, ad esempio, è documentato prestissimo nei tribunali ecclesiastici23. D’altra parte, neppure per i secoli XII-XIV, quando la Chiesa si rafforzò enormemente, disponiamo di ricerche esaurienti sulle immunità. Al di là di singoli eccessi del clero – come il matrimonio e la simonia – o di eventi drammatici, come l’assassinio in cattedrale, nel 1170, dell’arcivescovo di Canterbury, non si sa come erano trattati ordinariamente i

  Vedi Timbal Duclaux de Martin, Le droit d’asile cit., pp. 95-259.   Per Sarpi vedi Id., Consulti, vol. I (1606-1609), t. I (1606-1607), a cura di C. Pin, Pisa-Roma 2001, pp. 256-291 (è il consulto n. 5, scritto nel febbraio del 1606). Per il foro penale della Chiesa si vedano: W. Hartmann, Il vescovo come giudice. La giurisdizione criminale ecclesiastica su crimini di laici nell’alto medioevo (secoli VIXI), in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 40, 1986, pp. 320-341; Id., Der Bischof als Richter nach den kirchenrechtlichen Quellen des 4. bis 7. Jahrhunderts, in La giustizia nell’Alto Medioevo (secoli V-VIII), II, Spoleto 1995, pp. 805-837; A.K. McHardy, Church Courts and Criminous Clerks in the Later Middle Ages, e R.L. Storey, Malicious Indictments of Clergy in the Fifteenth Century, in M.J. Franklin, C. Harper-Bill (eds.), Medieval Ecclesiastical Studies in Honour of Dorothy M. Oven, Woodbridge 1995, rispettivamente pp. 165-184 e 221-240; R.N. Swanson, Before the Protestant Clergy: The Construction and Deconstruction of Medieval Priesthood, in C. Scott Dixon, L. Schorn-Schütte (eds.), The Protestant Clergy of Early Modern Europe, Basingstoke 2003, pp. 39-59; M. Mathieu, Le privilège du for en matière criminelle en France à la fin du Moyen Âge (XIVe-XVe siècles); M. Vleeschouwers-Van Melkebeek, Le procès du clerc Hannekin MeesterJans: la justice pénale ecclésiastique sur les clercs criminels dans les Pays-Bas méridionaux à la fin du Moyen Âge, entrambi in Durand, Justice cit., rispettivamente pp. 27-35 e 151-163. Per Gregorio Magno, vedi G. Arnaldi, Gregorio Magno e la giustizia, in La giustizia nell’Alto Medioevo cit., I, pp. 57-101. 22 23

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suoi crimini comuni24. Tutto però lascia credere che gli ecclesiastici godessero, a parità di delitti, di un trattamento di favore rispetto al laicato e che quando finivano alla sbarra utilizzassero senza scrupoli il ricorso al papa. In una lettera ai vescovi spagnoli del 1227 Gregorio IX, nel rammaricarsi del clero locale che si crogiolava nei disordini sessuali, come gli animali nello sterco, e bloccava i superiori con istanze alla sede apostolica, si impegnò ad evitare le strumentalizzazioni di istituti nati per evitare abusi giudiziari a danno di innocenti. È quantomeno dubbio però che ci sia riuscito25. Nell’Italia centro-settentrionale, ad esempio, anche nel Quattrocento, malgrado il migliore funzionamento dei tribunali vescovili, un accresciuto rigore sembra più evidente nei confronti dei laici. Liti tra coniugi, pratiche magiche e mancato rispetto del precetto pasquale

24   Vedi in generale: C. Morris, The Papal Monarchy: The Western Church from 1050 to 1250, Oxford 1989; O. Capitani, Gregorio VII e la giustizia, e W. Hartmann, Probleme des geistlichen Gerichts im 10. und 11. Jahrhundert: Bischöfe und Synoden als Richter im ost-fränkisch-deutschen Reich, entrambi in La giustizia nell’Alto Medioevo cit., rispettivamente I, pp. 385-421, e II, pp. 631-672; M. Ascheri, Medioevo del potere. Le istituzioni laiche ed ecclesiastiche, Bologna 2009. Importante per il ruolo della cancelleria papale nel Duecento il recente lavoro di U. Pfeiffer, Untersuchungen zu den Anfängen der päpstlichen Delegationsgerichtsbarkeit im 13. Jahrhundert, Edition und diplomatisch-kanonistische Auswertung zweier Vorläufersammlungen der Vulgataredaktion des Formularium audientie litterarum contradictarum, Città del Vaticano 2011. Per i conflitti in Inghilterra, C. Duggan, The Becket Dispute and the Criminous Clerks, in «Bulletin of The Institution of Historical Research», 35, 1962, pp. 1-28 e R.H. Helmholz, Crime, Compurgation and the Courts of the Medieval Church, in «Law and History Review», 1, 1983, pp. 1-26. Per singole questioni e singole aree, B. Schimmelpfennig, Die Degradation von Klerikern im späten Mittelalter, in «Zeitschrift fur Religions- und Geistesgeschichte», 34, 1982, pp. 305-323; M. Maccarrone, «Cura animarum» e «parochialis sacerdos» nelle costituzioni del IV concilio lateranense (1215). Applicazioni in Italia nel secolo XIII, in Pievi e parrocchie in Italia nel Basso Medioevo (sec. XIII-XV), atti del VI Convegno di Storia della Chiesa in Italia, Firenze, 21-25 settembre 1981, Roma 1984, pp. 81-195; R. Génestal, Le Privilegium fori en France, du décret de Gratien à la fin du XIVe siècle, I-II, Paris 1921-1924; l’annata 2007-2008 della rivista «Ludica», dedicata a Tempus ludendi. Chiesa e ludicità nella società tardo-medievale (secoli XII-XIV). 25   Per la disparità di trattamento tra laici ed ecclesiastici si veda quanto osserva Schimmelpfennig, Die Degradation cit., p. 307. La lettera di Gregorio IX, del 28 agosto, è pubblicata in E. Sanz Ripa, La documentación pontificia de Gregorio IX (1227-1241), Monumenta Hispaniae Vaticana, I-II, Roma 2001, I, pp. 116-117 (entrambi i volumi, relativi all’intera penisola iberica, sono ricchi di riferimenti agli abusi del clero).

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tornano con un’insistenza nuova nei questionari dei visitatori, molto di meno le trasgressioni degli ecclesiastici26. A Ferrara fu il marchese Nicolò III, d’intesa con il vescovo locale (anch’egli peraltro concubino), con l’arcivescovo di Ravenna e altri prelati, ad emanare nel 1421 un bando severo contro le relazioni proibite degli uomini di Chiesa. I laici che li denunciavano acquisivano il diritto di designare il nuovo titolare del beneficio tolto al colpevole. L’iniziativa fallì, anche perché era in conflitto con una norma sinodale, e si ‘ripiegò’ allora su un coinvolgimento dell’inquisitore di Ferrara, che accertò nel clero locale un numero di convivenze altissimo, nell’ordine del 50%. Non ci furono però, a quanto sembra, sviluppi giudiziari27.

26   In generale, vedi almeno: G. Chittolini, Stati regionali e istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centro-settentrionale del Quattrocento, in Storia d’Italia. Annali 9. La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino 1986, pp. 149-193; R. Bizzocchi, Chiesa e potere nella Toscana del Quattrocento, Bologna 1987 (in part. il VI capitolo, dedicato all’amministrazione della giustizia). Per le Curie vescovili: M.C. Ferrari, Il vicario arcivescovile Giovan Battista Ferri e la curia milanese alla fine del Quattrocento, in «Nuova Rivista Storica», 80, 1966, pp. 339-364; B. Mariani, L’attività della curia arcivescovile milanese e l’amministrazione diocesana attraverso l’operato del vicario generale Romano Barni (1474-1477), in «Società e Storia», 54, 1991, pp. 769811; G. Chittolini, “Episcopalis Curiae notarius”. Cenni sui notai di Curie vescovili nell’Italia centro-settentrionale alla fine del Medioevo, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, Spoleto 1994, pp. 221-232; C. Belloni, Governare una diocesi: l’episcopato comasco durante il vicariato di Francesco della Croce (1437-1440), in «Periodico della Società Storica Comense», 56, 1994, pp. 101-138. Per i tribunali vedi soprattutto i lavori di M. Dalla Misericordia (Giudicare con il consenso. Giustizia vescovile, pratiche sociali e potere politico nella diocesi di Como nel tardo Medioevo, in «Archivio Storico Ticinese», 38, 2001, pp. 179-218 – e in formato digitale in «Reti Medievali», pp. 1-30 – e La disciplina contrattata. Vescovi e vassalli tra Como e le Alpi nel tardo Medioevo, Milano 2000) e C. Cristellon, La carità e l’eros. Il matrimonio, la Chiesa, i suoi giudici nella Venezia del Rinascimento (1420-1545), Bologna 2010. Per il clero vedi: G.G. Merlo, Vite di chierici nel Trecento: inchieste nella diocesi di Torino, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 73, 1975, pp. 181-210; D. Bornstein, Priests and villagers in the diocese of Cortona, in «Ricerche storiche», 27, 1997, pp. 93-106; Preti nel Medioevo, Verona 1997 (in part., S.A. Bianchi, Chierici ma non sempre preti. Itinerari clericali nel Veneto tra la fine del XIII secolo e gli inizi del XV secolo, pp. 47-91; E. Curzel, Cappellani e altari nella cattedrale di Trento nel XIV secolo, pp. 125-163; D. Bornstein, Parish Priests in Late Medieval Cortona: The Urban and Rural Clergy, pp. 165-193; E. Canobbio, Preti di montagna nell’alta Lombardia del Quattrocento [Como 1444-1445], pp. 221-255). 27   Vedi E. Peverada, La visita pastorale del vescovo Francesco Dal Legname a Ferrara (1447-1450), Ferrara 1982, pp. 55-57 e 135.

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8. Restano perciò a lungo nell’ombra sia il funzionamento della giustizia penale della Chiesa in Italia, sia le tipologie e i tassi di criminalità del clero. Solo per il Quattro-Cinquecento si dispone di indicazioni più precise, relative a Napoli, Venezia e a poche altre aree italiane. Un primo elemento caratteristico è la scarsa consistenza degli interventi giudiziari, oltre tutto circoscritti ai tribunali diocesani e perciò relativi quasi soltanto al clero secolare, non ai regolari. Il dato è netto a Napoli, dove la serie frammentaria dei processi penali della Curia arcivescovile comincia nel 1493 e fino al 1525 si riduce a poche decine di fascicoli, a fronte di un buon numero di cause matrimoniali e soprattutto civili. Cifre irrisorie, in una città di circa 250.000 abitanti, in cui forse gli ecclesiastici secolari ammontavano a qualche migliaio e i regolari erano altrettanto bene insediati. Anche a Venezia, dove l’impegno della Curia patriarcale – 382 processi tra il 1451 e il 1525 in una città di circa 100.000 abitanti – fu senza dubbio più intenso, si tratta di interventi di modesto rilievo. Si pensi alla rarità delle indagini d’ufficio (prevalgono nettamente le querele di parte) e delle condanne a morte (tra il 1450 e il 1525 ce ne sono due a Venezia e cinque a Napoli), ma soprattutto alla tendenza sistematica a risolvere tutto alla buona, quali che siano gli addebiti. Ne sono espressione gli accordi tra imputati e parte offesa, quando c’è, la riduzione abituale delle pene all’impegno a ravvedersi (Napoli) e la conferma degli incarichi pastorali ai colpevoli, recidivi compresi (Venezia). Non è del tutto trascurabile, inoltre, la celebrazione di processi di secondo grado. Patriarchi veneziani e arcivescovi napoletani sono spesso, in quanto metropoliti, destinatari degli appelli dei sacerdoti condannati nelle diocesi delle rispettive province e trattano anche, per delega apostolica, cause criminali estranee al ‘proprio’ territorio. La lotta della Chiesa al clero delinquente, pur non particolarmente determinata, deve fare i conti nel primo Cinquecento con imputati pronti a rispondere colpo su colpo alle punizioni28.   Per la Curia patriarcale vedi il repertorio settecentesco curato da Giovanni Battista Scomparin (Archivio storico del Patriarcato di Venezia, d’ora in avanti ASPV, Sez. Antica, 5, Repertoria causarum civilium et criminalium Curiae Patriarcalis Venetiarum, d’ora in avanti Scomparin), comprensivo dei processi dal 1377 al 1758. Per Napoli, vedi Mancino, Governare cit., pp. 101-103. 28

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Scarsa efficacia ebbero anche, tra Quattro e Cinquecento, gli editti. A poco servirono tre costituzioni emanate dai patriarchi veneziani (1465, 1469 e 1509), per dissuadere il clero dal concubinato, dall’uso delle armi e dalla frequenza di taverne e postriboli. Modesti risultati ottenne anche a Napoli, nel 1522, il divieto di lavorare nel giorno della festa di S. Aspreno, uno dei patroni della città, accompagnato dall’obbligo per i chierici di tonsura e sottana. L’iniziativa ci è nota solo per le rabbiose reazioni di uno di questi ultimi: schiaffi a una guardia secolare, ingiurie e violenze a due canonici della cattedrale che cercavano di ammansirlo29. Nelle due più grandi città italiane i vescovi scontarono a lungo, accanto alle difficoltà dell’iniziativa penale, i magri risultati dell’azione di governo. Forse le due cose erano collegate: se si maneggiava lo strumento repressivo con troppa cautela, era inutile introdurre inasprimenti normativi. Inoltre, anche per i tribunali criminali ecclesiastici è probabile che tra Quattro e Cinquecento un loro regolare funzionamento fosse un’eccezione, che essi fossero inattivi o ininfluenti, supportati o sostituiti, nei casi più gravi, dalla vigilanza delle autorità secolari. Finora, per quanto riguarda le istituzioni diocesane, i processi pistoiesi del Quattrocento e quelli celebrati dalla Curia pisana nel primo Cinquecento sono, accanto alla documentazione veneziana, la più solida testimonianza di loro attività non episodiche30. Anche il confronto con l’Europa di questi anni è problematico, per la mancanza di ricerche ad ampio raggio. Un’indagine sulla repressione della sodomia del clero in Germania e Svizzera restituisce l’immagine di una giustizia corporativa, che tende a 29   Per Venezia, vedi Biblioteca del Seminario patriarcale di Venezia, ms. 522 (è una raccolta settecentesca di decreti ed editti dei patriarchi veneziani), pp. 82-88. Per Napoli, vedi Archivio storico diocesano di Napoli (d’ora in avanti ASDN), Processi criminali (d’ora in avanti PC), 1523, indagine (frammentaria) sul chierico Luigi Pulverino. 30   Per Pistoia il dato è in un inventario dattiloscritto che ci è stato gentilmente trasmesso dalla dott.ssa Piera Iacomelli (sette filze e altre carte sparse tra i primi del Quattrocento e il 1563 conservate nel locale Archivio vescovile); per Pisa da AAP, AC, 1 (per i procedimenti criminali avviati tra il 1511 e il 1547); per i pochi archivi diocesani italiani che conservano documentazione criminale di età pretridentina, vedi Associazione Archivistica Ecclesiastica, Guida degli Archivi diocesani d’Italia, I-III, annate 32-33, 1989-1990, e 36-37, 1993-1994, di «Archiva Ecclesiae»; per i riscontri diretti, ci riferiamo agli archivi diocesani di Pozzuoli, Capua, Telese-Cerreto Sannita, Capaccio, Bitonto.

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nascondere le responsabilità degli interessati. Altrettanto chiaro l’esito di una visita pastorale tedesca del primo Cinquecento: nella diocesi di Ratisbona nel 1508 il 55% dei sacerdoti vive stabilmente con una donna, anche se l’editore moderno del documento, per difendere la Chiesa, cerca maldestramente di ridurre la percentuale al 10%. La lotta al concubinato del clero promossa dai duchi di Jülich e Berg tra Quattro e Cinquecento non sembra più efficace, malgrado l’impegno profuso31. La ricerca più approfondita fin qui condotta, quella relativa alla repressione dei crimini dei parroci nella Francia del Nord nel secondo Quattrocento, conferma solo in parte le indicazioni veneziane e napoletane32. In primo luogo, la sorte dei curati delinquenti si decide all’interno di una Chiesa francese attenta e vigile, che non teme interventi della Curia romana, ma deve fare i conti con le tensioni tra foro vescovile, giurisdizioni arcidiaconali e diritti delle abbazie esenti. I comportamenti proibiti di una minoranza di curati francesi (dove le stime sono possibili, si aggira tra il 2% e il 5%), non sembrano molto diversi da quelli dei laici. Gli atti di violenza e le pratiche sessuali – concubinato soprattutto – sono le cause più comuni dei loro incidenti con la giustizia, ma non le sole. Non mancano le invenzioni di miracoli né atteggiamenti di irriverenza verso le reliquie, che sfiorano l’eresia33. I giudici della Chiesa si informano delle iniziative pastorali e di tanto in tanto emanano editti mirati, che invitano a segnalare singoli delitti. Anche le visite contribuiscono alla raccolta delle denunce e al controllo delle inadempienze. Gli esiti di questa azione incrociata non vanno però 31   Per la sodomia vedi H. Puff, Localizing Sodomy: The “Priest and Sodomite” in Pre-Reformation Germany and Switzerland, in «Journal of the History of Sexuality», 8, 1997/2, pp. 165-195; per Ratisbona, P.Th. Lang, Lo studio delle visite pastorali in età moderna. Recenti pubblicazioni in Germania, in Nubola, Turchini, Fonti ecclesiastiche cit., p. 150. Per i duchi di Jülich e Berg, vedi Flüchter, Der Zölibat cit., pp. 108-117. 32   V. Tabbagh, Croyances et comportements du clergé paroissial en France du Nord à la fin du Moyen Age, in B. Garnot (sous la direction de), Le clergé délinquant (XIIIe-XVIIIe siècle), Dijon 1995, pp. 13-64. Poco spazio è dedicato alla questione – anche per la mancanza di fonti – nell’ampia ricerca dedicata da V. Angelo ai curati parigini del Cinquecento (Les curés de Paris au XVIe siècle, Paris 2005). 33   Ivi, p. 15 (per gli aspetti istituzionali), pp. 17-18 (per i dati quantitativi) e 25-26 (per le idee e le pratiche religiose dubbie).

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enfatizzati. Ad esempio, gli ecclesiastici più potenti, che pure subiscono ripetute condanne per i disinvolti costumi sessuali, continuano a ricoprire prestigiosi incarichi. Tuttavia l’inadeguatezza delle pene ha talora esiti sconosciuti in Italia: è il caso delle spedizioni punitive nei confronti del clero lussurioso. Confluiscono in queste iniziative sia l’aggressività tipica del mondo giovanile, sia esigenze di ordine pubblico delle autorità laiche, sia la crescente ansia moralizzatrice di gruppi di sacerdoti, sostenuti anche dalle rispettive famiglie. Non sembra, però, che si tratti di comportamenti volti a combattere tutti i loro eccessi. Nella Francia del Nord, nel tardo Quattrocento, si restringono soprattutto gli spazi di tolleranza verso i preti che convivono o hanno liberi contatti con le donne: è in questo clima che si sviluppano anche strane idee, come quelle che i loro figli non hanno anima o sono diavoli34. 9. Su questi orizzonti calò la tempesta scaturita dalla straordinaria esperienza di Lutero. La sua sfida metteva in discussione, accanto ad aspetti centrali dell’esperienza religiosa, l’esistenza stessa del clero: la dottrina del sacerdozio universale dei credenti e l’abolizione del sacramento dell’ordine erano le premesse di una svolta epocale. Nasceva il pastore, una nuova figura di ministro, libero dall’obbligo del celibato, che evocava anche nel nome esigenze spirituali ben poco soddisfatte dai curati del tempo. La sua elezione da parte della comunità, il rapporto profondo con la parola di Dio e la sobrietà di vita ne facevano uno dei simboli più appariscenti di una rivoluzione nel modo di essere cristiani. Non c’era confronto con lo scarso impegno pastorale, la venalità e i vizi di tanta parte del clero cattolico35. Ancor più dirompente, però, fu l’arma della propaganda, che

34   Ivi, pp. 56-57 (per l’impunità), 58-63 (per le violenze ai preti) e 59 (per i loro figli). Sui figli dei preti nel Medioevo europeo vedi: B. Schimmelpfennig, Zölibat und Lage der “Priestersöhne” vom 11. bis 14. Jahrhundert, in «Historische Zeitschrift», 227, 1978, pp. 1-44; Id., Ex fornicatione nati. Studies on the position of priests’ sons from the Twelft to the Fourteenth Century, in «Studies in Medieval and Renaissance History», 2, 1980, pp. 3-50. 35   Un’aggiornata presentazione d’insieme del problema è in Flüchter, Der Zölibat cit., pp. 59-82. Per l’alto rilievo spirituale assunto dalla canonica e dalla famiglia del pastore vedi S.C. Karant-Nunn, The Emergence of the Pastoral Family in the German Reformation. The Parsonage as a Site of Socio-religious Change, in Scott Dixon, Schorn-Schütte, The Protestant Clergy cit., pp. 79-99.

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si inserì abilmente nel solco dell’anticlericalismo e delle polemiche religiose di matrice umanistica, per attaccare papi, cardinali ed ecclesiastici, con un particolare accanimento contro monaci e suore. Sin dagli anni Venti i fogli volanti diffusero un po’ ovunque, non solo in Germania, un’immagine devastante del clero. Il confronto con le repliche cattoliche non lascia dubbi sulla loro debolezza36. Dissacranti iniziative carnevalesche non risparmiarono neppure i più alti rappresentanti del papa. Ne sono una vivace testimonianza gli incidenti che turbarono a più riprese nel 1524 la legazione del cardinale Lorenzo Campeggi nelle terre imperiali. Egli aveva accolto con ansia il nuovo incarico, rinviando più volte la partenza e ponendo precise condizioni per l’accettazione: in caso di morte, la sede episcopale di Bologna, di cui era titolare, doveva passare a un figlio, mentre il sacro collegio si impegnava a dar marito a una figlia. Un vero e proprio testamento, insomma, che il papa accettò, anche perché sarebbe stato molto difficile sostituirlo. Campeggi aveva visto giusto: in Germania sin dai primi passi fu oggetto di ripetuti gesti ostili. Ad Augusta si evitò in extremis una mascherata di 100 ragazzi travestiti da diavoli; a Norimberga, egli stesso preferì entrare senza insegne cardinalizie; a Vienna, infine, dopo che i suoi editti erano stati più volte strappati e ricoperti di sterco, si trovò sulla porta del duomo una ‘carta dipenta’, con «uno asino che cagava adosso al cardinal Campezo, et el Prencipe teneva la coda al ditto asino», piena di frasi ingiuriose. Forse accoglienze così pesanti sarebbero state riservate a qualsiasi delegato papale, ma nel caso suo potrebbero aver influito anche i disinvolti costumi sessuali e la venalità: a Vienna si era fatto portare via la croce di legato apostolico da una cortigiana, in Ungheria era stato corrotto dai vescovi locali. Anche per questi motivi le sue imbarazzanti esperienze si possono considerare uno specchio fedele delle contraddizioni aperte dalla Riforma nelle file del clero. In attacchi così pesanti alle gerarchie cattoliche le frange clericali più povere e irrequiete potevano trovare una spiegazione convincente della miseria in cui versavano: proprio perché pochi superiori monopolizzavano i beni della Chiesa per godere di pia36   Vedi al riguardo R. Scribner, Per il popolo dei semplici. Propaganda popolare nella Riforma tedesca, Milano 2008 (ed. or. Cambridge 1981), in part. i capitoli 3-7 (per la Riforma) e 8 (per la debole risposta cattolica).

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ceri proibiti, a loro toccava fare i salti mortali per sopravvivere. Pesò inoltre su molti di essi la suggestione di un modello di vita religiosa che valorizzava la libertà del cristiano e consentiva a tutti di vivere senza fastidiosi divieti, rafforzata paradossalmente dall’accusa, comune nei pamphlet di parte papale e nei sermoni dei predicatori cattolici, di conquistare consensi col lassismo e l’immoralità. Fu anche così, ad esempio, che Ginevra e la Svizzera poterono apparire nella Napoli del tardo Cinquecento come luoghi dove si era affermato un modello armonioso e moderno di comunismo sessuale37. In questi nuovi orizzonti, si può comprendere perché tanti esponenti del clero si ‘fecero luterani’. È difficile per ora stabilire se le loro scelte abbiano influito sul trattamento dei delitti degli ecclesiastici italiani. Non sembra però che ci sia stato un rafforzamento degli interventi repressivi. Al contrario, le indicazioni più solide, quelle relative alla Curia patriarcale di Venezia, segnalano un calo netto dei processi penali: tra il 1526 e il 1550 essi si riducono da 244 a 139, in controtendenza rispetto all’andamento complessivo delle cause, che è in crescita (da 851 a 976). Modeste percentuali – molto inferiori a quelle dei processi civili – sono attestate negli stessi anni anche per il foro criminale arcivescovile di Napoli, così come a Pisa un aumento significativo della repressione si registra solo verso la metà del secolo. Le stesse visite pastorali del primo Cinquecento confermano la ridotta attenzione dei vescovi italiani agli eccessi del clero. Com’è stato osservato, mentre grazie ai loro verbali sappiamo tutto sulle tovaglie di ogni chiesa, quasi nulla se ne ricava su chi vi officiava. Anche nei prelati più sensibili prevale la prudenza: la consapevolezza della crisi in cui versavano gli ecclesiastici, lucidamente espressa nel 1537 in un documento celebre come il Consilium de emendanda ecclesia, ebbe modesti esiti concreti38. 37   Per le disavventure del Campeggi vedi Centa, Una dinastia cit., pp. 134148. Per l’immagine di Ginevra e della Svizzera a Napoli, G. Romeo, Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione, Roma-Bari 2008, pp. 89-95. 38   Per Venezia la fonte è Scomparin, per Napoli e Pisa i dati sono desunti dai fondi criminali di ASDN e AAP. Il rilievo sulle tovaglie è in Centa, Una dinastia cit., p. 497. Quanto al Consilium de emendanda ecclesia, vedi: H. Jedin, Storia del Concilio di Trento, I, Brescia 19873, pp. 473-497; Il «consilium de emendanda ecclesia». Riforma della chiesa e propaganda religiosa nel Cinquecento, testo latino con traduzione italiana a fronte, a cura di A. Aubert, Roma 2008.

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La pericolosa contiguità tra gli abusi di preti e frati e le scelte dirompenti dei riformatori non fece scattare il sospetto che il dissenso religioso ne accrescesse i disordini, non cancellò la tolleranza consueta verso i loro modi di vita. Lo ammise nel 1548, in una lettera al cardinale Cervini, Luigi Lippomano, coadiutore e poi vescovo di Verona, di fronte a un caso di sodomia che coinvolgeva un consistente gruppo di chierici. I 4 delegati del Capitolo della cattedrale con cui era obbligato a procedere gli ponevano mille ostacoli; d’altronde, riconosceva, non erano tempi in cui si potevano divulgare a cuor leggero cose così gravi. Per togliersi dai pasticci, confidò all’illustre corrispondente, stava pensando di mandare i processi proprio a lui, perché ne desse conto al papa39. Questi atteggiamenti fanno riflettere, soprattutto per l’Italia del Nord. Proprio lì sarebbe stata legittima l’adozione di una linea intransigente verso i costumi sessuali del clero, viste le pericolose suggestioni che la vicinanza con gli eretici poteva alimentare. Si pensò al contrario che una maggiore severità verso le pecore zoppe le avrebbe spinte più facilmente alla diserzione, oltre ad offrire sostanziosi argomenti polemici agli avversari: un rimedio peggiore del male, insomma. Di questi atteggiamenti ci restano ricche testimonianze. 10. La visita pastorale condotta nel 1537-38 a Trento dai collaboratori del cardinale Bernardo Clesio, il principe vescovo che guidava la diocesi, è un primo punto di riferimento40. Prevale una linea prudente, sia nelle istruzioni, sia, soprattutto, nel concreto svolgimento dell’ispezione. Solo in caso di notorietà dei delitti e di infamia si possono avviare procedimenti formali contro gli ecclesiastici, ma l’applicazione della norma è ancora più cauta. Capita così con il concubinato, l’abuso più frequente. I colpevoli sono ammoniti, ma si prendono per buone le loro promesse di cambiare vita; solo due volte, a fronte di moltissime situazioni irregolari, si apre un’indagine, che prelude a un intervento dei giudici diocesani41. Ancor più chiaro ciò che capita nella Verona di Gian Matteo   G. Buschbell, Reformation und Inquisition in Italien um die Mitte des XVI. Jahrhunderts, Paderborn 1910, p. 231. 40   La visita pastorale del Cardinale Bernardo Clesio alla diocesi di Trento 15371538, a cura di G. Cristoforetti, Bologna 1989, pp. 142-154, in part. pp. 149-150. 41   Ivi, pp. 254 (si procede contro un prete di Ossana, infamato di adulterio 39

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Giberti, il più autorevole vescovo dell’Italia del primo Cinquecento. Nel suo lungo episcopato l’attenzione al clero delinquente fu viva e articolata, se si pensa ai numerosi procedimenti penali del foro criminale veronese relativi ai suoi anni giunti fino a noi e al rilievo della questione nelle molte visite pastorali da lui guidate tra il 1525 e il 154242. Conviventi, inconfessi, eretici, usurai, uomini che corteggiano le donne in chiesa o pretendono di starci armati, ma anche ecclesiastici ignoranti, inadempienti o abituati a delinquere, devono stare attenti. Tuttavia le linee d’intervento cui si ispirano i visitatori sono piuttosto elastiche. Se di solito le minacce di punizione severa riguardano solo gli incorreggibili, è vero anche che sono legate al rilievo degli eccessi. Il criterio vale soprattutto per il clero. La cattiva conservazione delle ostie consacrate e l’estrema ignoranza comportano l’adozione di misure immediate e rigorose: sospensione a divinis, divieto di confessare, obbligo di comparire in tempi ristretti43. Sono valutate invece con flessibilità le convivenze proibite, l’abuso più comune riscontrato. Se il giudizio sullo zelo pastorale degli interessati è positivo, è sufficiente ammonirli e preannunciare, in caso di recidiva, castighi severi44; quando invece il concubinato è un aspetto tra i tanti di un’indegnità complessiva, scattano dure punizioni45, che richiedono talvolta l’appoggio delle autorità secolari46. Ad aperture di credito verso chi sbaglia fanno pensare anche i richiami incidentali, nel corso della visita, a processi penali contro parroci: essi sono sempre stati riammessi dalla Curia a esercitare la

e stupro di consanguinee) e 290 (è indagato il pievano di Smarano, convivente invano ammonito nel passato e denunciato anche per altri abusi). 42   L’indicazione dell’esistenza di queste fonti è nel saggio introduttivo di A. Prosperi, in Riforma pretridentina nella diocesi di Verona: le visite pastorali del vescovo G.M. Giberti, a cura di A. Fasani, 3 voll., Vicenza 1989, I, p. xlii. Purtroppo non ci è stato possibile consultarle, perché nell’Archivio storico diocesano di Verona vige il divieto di accesso alla documentazione criminale relativa al clero, in ossequio al curioso principio che la ricerca storica «per quanto concerne gli Archivi Ecclesiastici, ha finalità pastorali (bene delle anime) non di mera divulgazione di qualsiasi tipo di notizie» (da una lettera del direttore, Mons. Franco Alvise Segala, dell’11 settembre 2010). 43   Alcuni esempi ivi, pp. 289, 307, 316. 44   Ivi, pp. 190, 201. 45   Ivi, pp. 156, 416. 46   Ivi, pp. 343-344.

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cura d’anime47. Ancora più comprensivi, d’altronde, si mostrano i fedeli, anche quando le loro deposizioni hanno inchiodato gli ecclesiastici. Per il concubinato, ad esempio, essi non condividono le decisioni più severe adottate dai visitatori in quaresima, quando l’esigenza dei servizi religiosi è più sentita, e talvolta si fanno garanti dell’abbandono del ‘peccato’ da parte dei curati, impegnandosi a pagare una multa, in cambio della revoca delle sospensioni a divinis48. Su un solo aspetto dei disordini del clero – i rapporti con la Repubblica di Venezia – le visite veronesi potrebbero portare fuori strada49. L’ampia libertà d’intervento di Giberti, anche nei confronti dei laici, potrebbe far pensare che il foro criminale vescovile godesse di uno spazio indiscusso ovunque, in una compagine statale così gelosa delle sue competenze. Ma le cose erano più complicate. Proprio nella città lagunare la questione della delinquenza del clero stava assumendo in quegli anni contorni molto più inquietanti. Ne sapevano qualcosa i nunzi apostolici permanenti, che verso la fine del Quattrocento la Curia romana aveva insediato, per la prima volta in Italia, proprio a Venezia. 11. Anche a un uomo navigato come Girolamo Aleandro, titolare dal 1533 di quel delicato incarico, era apparso subito chiaro che lì svolgere il lavoro più propriamente diplomatico sarebbe stato quasi impossibile. Alle fatiche della caccia agli eretici e ai rapporti difficili con la Repubblica si aggiungeva il peso dei crimini comuni di preti e frati. Riottosi, venali, spesso scandalosi, spregiudicati nell’uso del confessionale, più attenti a ingraziarsi i vertici dello Stato che ad obbedire al pontefice («dichino il Consiglio di Dieci esser il loro papa»), riducevano al lumicino i suoi spazi di mediazione, già ristretti («molto più esacerbano li laici contra di noi che

47   Un esempio ivi, pp. 985-988 (solo successivamente l’interessato sarà espulso dalla diocesi). 48   È un gruppo di fedeli di Lonato del Garda a sottoscrivere nel 1529 la malleveria (ivi, p. 327), mentre a Ostiglia di lì a poco il vescovo accoglie una richiesta analoga (p. 355). 49   Pochi anni prima, nel 1518, la controversia scoppiata sulla caccia alle streghe in Valcamonica era stata una riprova dell’attenzione con cui le autorità statali tenevano d’occhio l’attività dei giudici ecclesiastici. Vedi A. Del Col, L’Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano 2005, pp. 204-209.

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non sono etiamdio per sua natura»50). Il caso dei domenicani del convento dei SS. Giovanni e Paolo (vulgo San Zanipolo) è indicativo. Nel 1531, inviperiti per un breve papale che cercava di arginare le libertà dei loro predicatori, minacciarono le autorità della Repubblica di farsi in blocco luterani, se non li difendevano; due anni dopo sfidarono con un appello pretestuoso a Roma il nunzio, che aveva cercato di contenere gli abusi sessuali di un confratello; nel carnevale del 1534 quattro frati mascherati di S. Zanipolo furono coinvolti, con le donne che li accompagnavano, in una rissa con un altro domenicano del convento, anch’egli in maschera51. L’esasperazione per questo stato di cose spinse nella primavera del 1534 il Consiglio dei Dieci al varo di un durissimo provvedimento: non solo i chierici responsabili di delitti che i laici pagavano col bando non avrebbero più goduto del privilegio di foro, ma erano annullate anche tutte le assoluzioni date loro nell’ultimo cinquantennio dalla Chiesa. La retroattività della decisione scatenò le violente proteste di più di trecento nobili. Molti l’avevano fatta franca da giovani, facendosi accogliere per qualche tempo come chierici da vescovi compiacenti, proprio per quel motivo. Ora, influenti magistrati della Repubblica, ritenevano assurdo pagare un prezzo così alto. La decisione aveva incontrato però un diffuso consenso, e Aleandro se lo spiegava. Era particolarmente sgradevole che quando un chierico in conpagnia di un laico faceva qualche furto o altro delitto di morte, il laico fusse appiccato et il chierico andasse a solazzo per la Terra...

Perciò, ammetteva, la Chiesa stessa ne usciva rafforzata: i chierici vivevano in modo più regolato, perché incerti sull’impunità, i laici erano meno esasperati, perché scompariva un privilegio odioso. Da quando era nunzio, aggiungeva, egli stesso aveva punito severamente i preti delinquenti capitati nel suo tribunale,

50   Lettera a Pietro Carnesecchi del 17 aprile 1534, in Nunziature di Venezia, I, a cura di F. Gaeta, Roma 1958, p. 203. Sulla nunziatura dell’Aleandro è ancora utile F. Gaeta, Un nunzio pontificio a Venezia nel Cinquecento: Girolamo Aleandro, Venezia-Roma 1960. 51   Vedi M. Firpo, Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Roma-Bari 2001, pp. 74-77.

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ma senza esito; anzi, insinuava, proprio il suo rigore aveva forse influito sulla clamorosa decisione. Riconoscerne a denti stretti l’efficacia non gli impediva però di illustrarne a Roma la gravità. Bisognava protestare con forza, e lo avrebbe fatto («io non lassarò gridar»), perché era una scelta unilaterale, non autorizzata dalla sede apostolica e lesiva della giurisdizione della Chiesa. Chiedeva perciò alla Segreteria di Stato di sostenerlo in quella battaglia52. Di lì a poco, un altro caso grave lo costrinse a chiedere l’intervento del papa. Era sotto processo a Padova, davanti al vicario episcopale e all’inquisitore, un veneziano bandito da tempo dalla sua città; gli addebiti più gravi – pubblico bestemmiatore, sodomita, eretico marcio, anzi, scriveva, ‘pagano’ – avrebbero potuto comportare la pena capitale. Era stato però catturato in un luogo sacro, e per i delitti contro la fede di cui, tra i tanti, si era macchiato. Perciò soltanto l’esito di quel processo avrebbe consentito di giustiziarlo. Se però per quegli addebiti non fosse stato punito con la morte, il caso si complicava. Si rischiava un conflitto di giurisdizione, perché per la sodomia era egualmente in gioco il patibolo, ma non si trattava di una violazione dell’ortodossia e la cattura in luogo immune rendeva la pena capitale difficilmente compatibile con il riconoscimento del diritto d’asilo... Perciò Aleandro chiedeva lumi ai superiori, pur lasciando intendere che sarebbe stato meglio condannarlo a morte per l’eresia: si sarebbe disinnescata un’altra miccia pericolosa53. 12. Uomini di Chiesa spesso indistinguibili dai laici, poco sensibili ai doveri e molto agli interessi; prelati riluttanti all’uso dello strumento repressivo nei loro confronti; uno Stato non sempre disposto a lasciare mano libera alla giustizia ecclesiastica, soprattutto in presenza di delitti odiosi, ancor più quando a commetterli sono laici ‘travestiti’ da chierici: dobbiamo ritenere che si presentasse ovunque così, nell’Italia pretridentina, il governo dei crimini comuni del clero? A giudicare da ciò che succedeva nel Regno di Napoli, si direbbe che la situazione fosse ancora più favorevole ai delinquenti

52   Nunziature cit., I, pp. 246-247, lettera del 20 giugno 1534 a Pietro Carnesecchi. 53   Ivi, pp. 262-264, lettera del 22 luglio 1534 allo stesso.

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in talare. Sul piano pastorale, a differenza di Trento e Verona, c’è ovunque il vuoto, nella diocesi che comprende la più popolosa città italiana. Nel 1542, nel corso dell’unica visita del primo Cinquecento, anche l’impegno quasi solo amministrativo dell’arcivescovo Francesco Carafa si scontra con la resistenza passiva degli interessati. I visitatori si muovono con cautela anche quando incrociano vecchie conoscenze, da anni nel mirino dei giudici diocesani. Così veri e propri intoccabili convivono con ripetute sentenze di condanna e conservano lucrosi benefici54. Allo stesso modo, nel 1557, quando il papa/arcivescovo Gian Pietro Carafa programmò interventi tesi a vagliare le competenze del clero, non i suoi costumi, quelle verifiche limitate sembrarono una pretesa inaccettabile55. Se lo sguardo si allarga al versante repressivo, il risultato non è diverso. Gli addebiti non sono sempre lievi: spiccano fatti di sangue di varia gravità (dalle reazioni d’istinto agli omicidi premeditati), truffe, estorsioni, pratiche sessuali (queste ultime, peraltro, minoritarie, nell’ordine del 10% del totale, anche per la tolleranza diffusa verso gli ecclesiastici ‘accasati’). Eppure i giudici tendono ad evitare pene rigorose: cercano la remissione di querela, la riappacificazione tra le parti o rapide composizioni. Ancor più importante è l’influenza esercitata sui vescovi della provincia di cui l’arcivescovo di Napoli è il metropolita, grazie ai processi di appello, sulla Curia romana (da cui ottengono con frequenza deleghe, in merito a ricorsi provenienti da tribunali diocesani del Regno), sugli stessi vertici statali (per la tutela delle immunità ecclesiastiche). Siamo ben al di là dello schema di una giustizia che si limita a ricomporre i guasti provocati dagli eccessi del clero. Vediamone le caratteristiche essenziali. 13. Un primo rilievo riguarda il territorio e i rapporti tra le istituzioni dello Stato e della Chiesa. Una frattura è evidente: altro è la capitale e la diocesi che la circonda, altro è l’indefinito spazio del Regno, dove la Curia arcivescovile di Napoli, appoggiata dal Consiglio Collaterale del Regno, l’organismo consultivo che af54   Per la visita del 1542 vedi A. Illibato, Introduzione a Il «Liber visitationis» di Francesco Carafa nella diocesi di Napoli (1542-1543), Roma 1983, pp. xiii-lxx; per le reazioni del clero, Mancino, Governare cit., pp. 129-130. 55   Vedi R. De Maio, Le origini del Seminario di Napoli, Napoli 1958, p. 32.

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fiancava i viceré, si impone ben al di là della provincia ecclesiastica che gravita sulla capitale. Almeno in Campania, Puglia e Lucania la sua è un’egemonia indiscussa, garantita soprattutto dagli annullamenti indiscriminati delle sentenze di primo grado. Ne è una testimonianza esemplare un caso di santità controversa, trasmesso nel 1548 da Nola a Napoli a seguito di un appello presentato dal sindaco e dai preti di S. Anastasia. Una comunità schierata a difesa di presunti nuovi miracoli operati dalla santa che dà il nome al casale si coalizza contro il vicario generale di Nola, perché ha fatto chiudere la chiesa, piegando con la forza pubblica le resistenze dei devoti, ha preteso una parte delle elemosine e ha incarcerato alcuni sacerdoti. L’immediato ricorso alla Curia arcivescovile napoletana riceve una risposta rapida ed efficiente. In pochi giorni un commissario, pur senza pronunciarsi sui presunti prodigi, riconosce agli appellanti il diritto di agire in giudizio per la restituzione del maltolto e permette loro di entrare nella chiesa interdetta, a condizione che evitino ‘eccessi’ di devozione. Era una soluzione abile, attenta a ricomporre la spaccatura tra comunità locale e autorità diocesane, ma anche a ribadire le prerogative del metropolita nei confronti dei responsabili della Chiesa nolana56. Decisioni come questa invitano a riflettere sugli assetti precari di tanti piccoli episcopati, già abituati a subire l’interventismo di un Collaterale che di solito nega loro le rimessioni degli ecclesiastici delinquenti delle rispettive diocesi, a vantaggio del foro arcivescovile della capitale. In territori come l’agro aversano, in cui preti e chierici sono non di rado membri di vere e proprie bande, senza l’unità dei vertici napoletani di Stato e Chiesa contraddizioni come quelle sarebbero state insostenibili57. Rende ancor più precarie le giurisdizioni vescovili di provincia l’abilità degli interessati nell’incunearsi negli spazi offerti dal pluralismo delle giurisdizioni. Le loro manovre scavano solchi profondi, che mettono talvolta in evidenza i modi di fare focosi e violenti delle stesse autorità diocesane. 56   ASDN, PC, 1548. Il commissario raccoglie le testimonianze a S. Anastasia il 29 e il 30 maggio e redige subito il suo parere, recepito il 4 giugno dal vicario Fabio Mirto. 57   Mancino, Governare cit., pp. 121-122.

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Il caso più vivace riguarda Castellammare di Stabia, dove nel 1538 il vicario episcopale ingiuria e ferisce il messo del metropolita, l’arcivescovo di Sorrento, venuto a notificargli l’appello di un prete da lui processato per una convivenza sospetta e per violenze sessuali a carico della serva quindicenne. Egli è talmente sicuro dell’impunità che quando si presenta nella Curia di Sorrento, dopo aver premesso che per lui il solo giudice competente è il papa, irride il notaio e gli intima di non verbalizzare le sue espressioni di scherno («non scrivete ho ho ho»), nega gli addebiti e conclude sprezzante, rivolto alla controparte, «che se deve dare più credito ad me che ad mille pari soi». Aveva ragione: nello stesso giorno arrivò la remissione di querela, facilitata da una sua offerta in denaro. Se l’era cavata proprio così, d’altra parte, anche il prete stupratore: monetizzando il danno e rendendo la proposta più ‘convincente’ con pesanti minacce ai parenti della ragazza violentata. Certo, la Curia arcivescovile della capitale, su ricorso di quella di Castellammare, diede torto al tribunale sorrentino e rinviò la causa di stupro al giudice di primo grado. Purtroppo la quindicenne, la sola persona che si sarebbe potuta avvantaggiare della decisione, aveva già rimesso la querela, tacitata con qualche soldo58. Ben diversa è la situazione a Napoli e nel circondario. Qui si fa sentire l’unità d’intenti tra Collaterale e arcivescovi. Per la capitale la Gran Corte della Vicaria rimette alle autorità diocesane più facilmente che altrove gli uomini di Chiesa finiti nelle carceri statali, mentre la Curia arcivescovile chiude un occhio sui tanti ecclesiastici che scelgono i tribunali secolari per rivalersi sui confratelli o sui laici di cui lamentano abusi. Lo fanno anche questi ultimi, quando sono vittime di preti e chierici, ma senza esito, perché grazie al privilegio di foro rientrano in gioco i competenti giudici della Chiesa. Alla fine, il diritto all’impunità per il clero delinquente appare nella capitale ancor più solidamente garantito che nel resto del Regno, proprio come a Venezia, soprattutto per i delitti che costavano abitualmente la vita ai laici. È ciò che capita non di rado, in ogni angolo d’Italia, con il conio di falsa moneta e con la sodomia. Emblematico il caso di un ex carmelitano, che subisce a Napoli nella seconda me-

58   ASDN, PC, 1538, processo al sacerdote Paolo Cappello (il presunto stupratore) e a Paolo Coppola, il vicario di Castellammare.

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tà del Cinquecento ben 12 processi, finiti sistematicamente in bolle di sapone: usura, baratteria e sodomia erano solo le punte estreme di una fedina penale ricchissima di delitti59. 14. Trento, Venezia e il territorio della Repubblica, Napoli e il Sud: ovunque, nell’Italia del primo Cinquecento, le vite disordina­te di tanti uomini di Chiesa mettono a dura prova le sue autorità. Né l’impegno pastorale, né le condanne sono in grado di contrastarne gli abusi. Il clero delinquente dispone di molte vie di fuga, grazie al privilegio di foro, ai giochi di sponda con i giudici di Stato e con Roma, ai cattivi rapporti tra le autorità ecclesiastiche locali e al loro diffuso disagio nel maneggiare lo strumento repressivo. Non mancano però le differenze. I comportamenti più spregiudicati sembrano legati all’ambiente urbano, ma non dovunque allo stesso modo. Gli orizzonti di Trento e Verona appaiono meno complicati di quelli di Venezia e Napoli, mentre la trama delle relazioni in cui è inserito il foro criminale diocesano della capitale del Viceregno non trova confronti neppure nella situazione veneziana. Di questi scenari restano tracce preziose, sin dalle prime battute, negli atti del concilio di Trento. Le precarie condizioni della giustizia criminale della Chiesa erano ben note ai padri tridentini, che oltre tutto nella fase d’avvio erano in gran parte italiani e dalle esperienze maturate nella penisola traevano molti spunti di riflessione. Nel 1551, ad esempio, nella sessione XIII, si affrontò una questione preliminare, su cui poco o nulla trapela dalle fonti d’archivio: molti vescovi, si annotò, evitavano di procedere con rigore contro i sudditi, perché temevano di finire sotto processo, a seguito di false denunce degli imputati. Perciò i padri conciliari, come a prevenirne la delegittimazione, stabilirono subito come procedere in quei casi. Curiosamente, insomma, un concilio sensibile a un’incisiva riforma del clero, era costretto ad erigere preventivamente barriere protettive intorno alle autorità ecclesiastiche chiamate a guidarla. L’ultimo canone del decreto di riforma del 1551 era perentorio: le cause che per la serietà degli addebiti

  Mancino, Governare cit., passim.

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obbligavano i prelati a comparire in giudizio dovevano essere riferite al papa e terminate da lui stesso60. Su una situazione così critica poté influire poco anche l’Inquisizione romana, che pure nel corso degli anni Cinquanta del secolo accrebbe considerevolmente la sua egemonia sulla Curia romana e sulla penisola. Furono inseriti per la prima volta tra i delitti contro la fede abusi di pertinenza del foro ecclesiastico ordinario (simonia, celebrazione di messe senza essere ordinati, bestemmia e sodomia; queste ultime due trasgressioni erano peraltro rivendicate, per i laici, anche dai giudici secolari), si intensificarono gli scambi con le sedi periferiche e il tribunale sembrò diventare in Italia un punto di riferimento per molte autorità locali, ecclesiastiche e non, ben al là delle sue competenze: dai responsabili dell’ordine pubblico nel Lazio a vescovi riformatori di grande spessore, come il francescano Cornelio Musso. Sembrava che soltanto il Sant’Ufficio avrebbe potuto mettere in riga i frati vagabondi, reprimere l’incesto e il concubinato dei laici, bloccare le scappatoie offerte dalle stesse istituzioni della Chiesa agli abusi di pubblici ufficiali61. È altrettanto vero però che l’ampliamento di competenze riuscì solo in parte (simonia e sodomia rimasero crimini comuni), e che si affievolirono presto le speranze di interventi dell’Inquisizione in ambiti estranei al suo raggio d’azione. Bestemmie, biga­ mia, sortilegi semplici e adescamento in confessione furono le sole ‘annessioni’ autorizzate di lì a poco dalla Congregazione del Sant’Ufficio. Poté anche capitare che qualche prelato ­sconosciuto eccedesse nello zelo purificatore, ma le conseguenze furono disa-

60   Vedi Conciliorum oecumenicorum decreta, curantibus J. Alberigo, P.-P. Joannou, C. Leonardi, P. Prodi, consultante H. Jedin, Friburgi Br. 1962, pp. 676-677. Per gli sviluppi della questione nel pontificato di Pio IV, vedi E. Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Roma-Bari 2007, pp. 157-162. 61   ACDF, St. St., Q 3 a, lettere al Ghislieri del luogotenente di Nepi (1º aprile 1557, ha catturato due concubine, chiede istruzioni), del podestà di Acquapendente (10 giugno 1559, un incesto) e del Musso, in qualità di vescovo di Bitonto (11 marzo e 21 luglio 1559, contro le inibitorie del governatore di Roma, che lo costringono a scarcerare i frati apostati, e contro il sindaco di Bitonto e le sue guardie, assolti illegittimamente da religiosi di Molfetta dalle scomuniche fulminate da lui per aver arrestato un cappellano di monache).

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strose per la Chiesa. Successe nello Stato pontificio, ad Orvieto, nel­l’agosto del 1559. Qualche giorno prima dell’Assunta il ­vicario del vescovo costrinse una donna a restare legata sulla pubblica piazza, con la testa coperta da una mitra, su cui era dipinto un religioso che con una mano la assolveva e con l’altra le offriva un paio di scarpe, da lei offerte a un’altra figura femminile. Il senso dell’immagine era chiarito da due cartelli attaccati al petto e alla schiena della condannata: c’era scritto che, confessandosi, aveva ‘venduto’ la figlia al sacerdote in cambio delle calzature. Mariti e fratelli di Orvieto vietarono allora a mogli e sorelle di confessarsi più di una volta all’anno; durante la festa dell’Assunta i confessionali rimasero desolatamente vuoti; circolò la voce che il Decameron era stato proibito perché svelava i costumi dissoluti dei preti, occultati dalle autorità ecclesiastiche. In ogni caso, la Congregazione non raccolse gli inviti ad allargare il suo raggio d’azione: in un’Italia percorsa dal dissenso religioso erano ben altre le urgenze. Mentre l’eresia rischiava di distruggere la Chiesa, per gli abusi dei suoi uomini non c’era fretta: ripulita l’Italia dai nemici dell’ortodossia, si sarebbe trovato il tempo per combatterli62. 15. Possiamo ora tornare a Levico e a Rigoli, a due episodi finiti in modo così diverso: malissimo per il vescovo, male per il pievano, malgrado l’intervento della nunziatura. Alla luce del bilancio fin qui tracciato, alcune dimensioni dei due casi sono più chiare. Il sangue del colombo sull’immagine mariana e l’assalto alla canonica possono essere archiviati come aspetti della disinvoltura con cui una parte dei sacerdoti interpretava il suo ministero e reagiva ai tentativi di riportarli all’ordine. Rispetto al caso pisano, infine, neppure l’appello al tribunale della nunziatura di Firenze è una novità, se si pensa agli equilibrismi dell’Aleandro nella Venezia degli anni Trenta o alla facilità con cui la Curia arcivescovile di Napoli annullava sentenze di primo grado di tribunali vescovili. A pochi anni dalla conclusione del concilio di Trento c’era da aspettarselo: per rimediare ad abusi così radicati ci volevano tempo, metodo, un’organizzazione efficiente.

62   L’episodio è illustrato in G. Romeo, Confesseurs et inquisiteurs dans l’Italie moderne: un bilan, in «Revue de l’histoire des religions», 220, 2003, p. 154.

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Al contrario, non è usuale, nell’Italia pretridentina, che dei visitatori impiantino tribunali itineranti e degli ecclesiastici siano torturati o condannati al remo. Tra l’altro, sull’esigenza di non esagerare nei processi al clero delinquente insistono anche i ­primi manuali di età moderna consacrati alla questione: quelli del vescovo di Calahorra, Juan Bernardo Diaz de Lugo, ristampato a lungo in tutta Europa, e la Canonica criminalis praxis di Pietro Follerio, ispirata all’azione riformatrice del Seripando nella diocesi di Salerno, ma molto attenta al confronto con lo ‘stilo’ della Curia romana e dei vescovati meridionali63. Della diffusione di questa linea condiscendente nei tribunali della Chiesa ci sono rimaste in questi anni prove consistenti. È il caso dei giudici della nunziatura veneziana. A partire dalla metà del Cinquecento, mentre anche la Curia patriarcale intensifica la sua azione repressiva contro il clero delinquente, essi cominciano a ricevere querele, ricorsi e istanze di ogni genere: civili, matrimoniali e penali. Gli esiti del loro impegno non sembrano però esaltanti. Si pensi alla querela presentata nel 1551 da un prete veneziano inviperito per un eccesso carnevalesco: un certosino apostata aveva osato far recitare pubblicamente, davanti a una folla strabocchevole, una sua commedia oscena, piena di offese alla pubblica onestà, alla religione cristiana e al clero tutto. A far infuriare il sacerdote erano stati però i pesanti accenni alla sua persona. In una delle scene clou, l’esorcismo di presunti diavoli annidati in una botte, proprio lui era stato inopinatamente chiamato in causa, per nome e cognome, e sbeffeggiato: Va, chiama pre Battista Gambon de Santa Agnese, fa che venghi a scongiurar questa botte et chiamalo, che l’è quello che se ha fatto un cappuccio dele brachese de suo padre,

63   J.B. Diaz de Lugo, Praxis criminalis canonica, Lugduni, apud Theobaldum Paganum, 1543; P. Follerio, Canonica criminalis praxis, Venetiis, apud Haeredes Bartholomaei Rubini, 1583. In innumerevoli passi entrambi gli autori sottolinea­ no che la deferenza verso il clero impone al giudice ecclesiastico di attenersi alla ‘praxis canonica’, spesso divergente dalla legge civile. Sul Follerio vedi M.T. Napoli, s.v., in Dizionario biografico degli italiani, d’ora in avanti DBI, 48, 1997, pp. 560-562.

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aveva detto uno dei personaggi, tra le risate generali. L’attore che interpretava la parte del querelante aveva rincarato la dose: siccome aveva dato in pegno la cotta, dichiarò, si sarebbe vestito con un indumento intimo della sua donna. Sullo stesso registro aveva poi avviato la seduta esorcistica, con parole ancora più oscene. Motivi di scandalo, insomma, ce n’erano in abbondanza, ma non risulta che il tribunale del nunzio sia intervenuto64. Queste tendenze sono ancora più evidenti nel foro criminale diocesano di Pisa, attivo almeno dal 1511, con un impegno che diventa apprezzabile nel corso degli anni Quaranta e più intenso solo nel decennio seguente. Si tratta di un tribunale poco attrezzato, che non dispone neppure di un carcere (tanto è vero che nel 1562 ne costruisce uno) e sembra largamente subalterno alle autorità secolari. Forse le sole manifestazioni di autonomia piena riguardano gli accertamenti svolti su ordine degli inquisitori generali e il governo di alcuni abusi dei laici. Le torture sono rare, le condanne vere e proprie poche, abbondano multe e precetti, anche se gli eccessi dei secolari sono puniti con una severità inusuale altrove nei tribunali vescovili (è il caso della Campania pretridentina65). Basti qui ricordare come si chiude nel 1560 un processo attivato d’ufficio contro un uomo sospettato di picchiare la madre, di bestemmiare pubblicamente e di disprezzare le immagini dei santi. Condannato a pagare una pesante multa e relegato per tre anni all’isola d’Elba, in caso di inadempienza servirà per altri tre anni sulle pubbliche galere, dopo una penitenza pubblica infamante (girare per Pisa e poi nel Duomo e in tre chiese cittadine, accompagnato dalle guardie secolari e vestito di sacco, con una candela accesa in mano e una scritta sulle spalle che ne riassume le colpe)66. Nulla del genere è attestato per gli uomini di Chiesa. Ne è una

64   Archivio Segreto Vaticano, d’ora in avanti ASV, Nunziatura di Venezia, II (d’ora in avanti NV II), 301, cc. 4r-5r, querela di pre Battista Barilari (‘Gambon’, nella deformazione carnevalesca dell’istrione). 65   È quanto si osserva sia a Napoli in ASDN, PC, sia nei pochissimi procedimenti criminali pretridentini istruiti dai giudici di Capaccio (nel fondo sommariamente ordinato dell’Archivio diocesano di Vallo della Lucania). 66   AAP, AC, 4 (vi si raccolgono atti criminali compresi tra il 1557 e il 1572) e 5 (comprende atti rogati tra il 1559 e il 1574). Si tratta, fino al 1563, di una settantina di procedimenti. La costruzione del carcere è documentata ivi, AC, 4, c. 96r-v. Per il caso del 1560, ivi, cc. 25r-26v, processo a Giulio Del Mastro.

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limpida prova il trattamento differenziato delle risse. In quelle tra ecclesiastici l’unico obiettivo dei giudici pisani è la riappacificazione, al riparo da occhi indiscreti, anche quando lo scontro si è svolto in pubblico. Se invece lo scambio di colpi coinvolge anche dei laici, per loro, e solo per loro, c’è, insieme a una breve detenzione, la pena aggiuntiva della scomunica, con l’affissione dei cartelli nel luogo dove si è consumata la violenza e sulla porta del duomo67. L’altro aspetto di rilievo della situazione pisana riguarda il rapporto tra impegno repressivo e zelo riformatore. Le vite disordinate di una parte non esigua del clero sfuggono ai visitatori, che pure percorrono la diocesi in lungo e in largo, con una frequenza inusuale per l’Italia pretridentina: mancano le visite personali agli ecclesiastici e le valutazioni dei fedeli sul loro conto, i due momenti qualificanti delle migliori esperienze italiane del Tre-Quattrocento68. Così, sia nel finto miracolo, sia nell’assalto alla canonica vecchio e nuovo convivevano. La facilità con cui a Rigoli il pievano architetta la ‘bottega di candele’ fa il paio con i costumi disinvolti del curato di Levico. Entrambi, inoltre, cercano di sfuggire a una giustizia che avvertono come estranea o eccessiva e qualcosa ottengono. Le autorità della Chiesa, soprattutto a Feltre, si muovono invece con una determinazione nuova: Campeggi si inventa i tribunali itineranti, mentre a Pisa il tribunale infligge una severa punizione a don Francesco. Quest’ultimo, certo, ci aveva messo del suo, irritando i giudici, oltre che con la leggerezza commessa, con l’ostinato rifiuto di confessare, ma scontava anche l’aria nuova che circolava in Italia all’indomani della chiusura del concilio di Trento. Dobbiamo allora domandarci: quel grandioso progetto contemplava anche un nuovo modo di affrontare la lotta ai crimini comuni del clero? Era possibile, grazie ad esso, usare in modo più incisivo gli strumenti pastorali? Come fu riordinata dai padri tridentini la delicata materia della giustizia penale ecclesiastica? 67   Ivi, cc. 59r-63v e 89r-v, processo del 1561 a carico di prete Carlo e prete Giuliano (dopo vani tentativi di farli riappacificare, sono condannati a rimanere nel palazzo arcivescovile finché il vicario lo vorrà; poche settimane dopo c’è la dura punizione a un laico richiamata nel testo: ivi, cc. 69r-70r e 77r-v). 68   È quanto si ricava per questi anni dall’omonimo fondo conservato in AAP (per cui vedi l’ottimo strumento di consultazione costituito da L. Carratori Scolaro, Le visite pastorali della diocesi di Pisa (secoli XV-XX). Inventario e studio, Pisa 1996).

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II

Un concilio in soffitta?

1. La ‘riforma del clero e del popolo’ era uno degli obiettivi primari del concilio di Trento, insieme con l’estirpazione delle eresie, la pace e l’unione nella Chiesa. Lo indicò a chiare lettere, il 13 dicembre del 1545, la sessione inaugurale. Fu subito evidente, inoltre, che un ruolo centrale nell’educazione di laici ed ecclesiastici a un nuovo modo di vivere l’esperienza cristiana sarebbe stato affidato ai vescovi. Per quanto riguarda il clero, essi si videro attribuire sin dal 1546-47, accanto a poteri più ampi del passato nel governo dei predicatori e dei lettori di Sacra Scrittura, nel controllo della residenza di pievani e curati, nel conferimento dei benefici e nel diritto di visita, nuovi spazi giurisdizionali, sia pur limitati al ramo civile. In alcuni tipi di cause si dava loro la facoltà di procedere anche contro gli ecclesiastici esenti, come delegati della sede apostolica. Quel particolare – il conferimento ai vescovi di poteri speciali riservati al papa – sarebbe diventato una costante nei decreti tridentini. Per fare delle Curie vescovili i centri propulsori di riforme incisive bisognava porre un freno al dilagare delle esenzioni e delle deroghe, alimentato in larga misura proprio dalle ‘sponde’ romane. Solo deleghe apostoliche, orientate però a rafforzare le Chiese locali, non a delegittimarle, avrebbero potuto arginare una deriva così pericolosa1. 1   Conciliorum oecumenicorum decreta, pp. 636 (per la I sessione), 643-646 (V sessione, 17 giugno 1546, per i predicatori e i lettori), 657-659 (VI sessione,

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Su quel piano, però, il concilio scontò i suoi limiti: un confronto coraggioso sui problemi più delicati non poté mai esserci, per due motivi di fondo. Uno riguardava le responsabilità della Curia romana. I legati pontifici che dirigevano i lavori dovevano impedire che la discussione si avvicinasse al tema vietato della sua riforma. Troppi erano gli interessi in campo perché se ne potessero combattere adeguatamente le disfunzioni. Un ostacolo altrettanto pesante venne dalla scelta di non regolamentare con decisioni di portata universale aspetti importanti della vita religiosa, come ad esempio la lotta agli abusi dei sacramenti. Era inopportuno, si osservò, che un concilio ecumenico legiferasse su quei temi. Meglio affidarli alle singole Chiese2. Tra i problemi declassati a questioni locali rientrò anche il cattivo funzionamento della giustizia criminale ecclesiastica, e in particolare di quella diocesana. Il richiamo all’esigenza di affrontare i delitti del clero in un’ottica pastorale non impedì ai padri conciliari di intervenire a più riprese sui risvolti repressivi. Nell’ottobre del 1551 le prime decisioni concrete furono ispirate al rigore. Si stigmatizzò, ad esempio, la facilità con cui tribunali ecclesiastici di rango superiore inibivano l’azione di altri giudici della Chiesa; si vietarono gli appelli contro sentenze interlocutorie, a meno che non ne scaturissero conseguenze irreversibili per gli interessati; si dettarono criteri e termini precisi per la conclusione delle cause di secondo grado; si affrontò anche la questione dei rituali di degradazione, cioè delle cerimonie di riduzione allo stato laicale degli esponenti del clero condannati a morte, condizione inevitabile per giustiziarli senza infamare la Chiesa tutta. Se i vescovi obbligati a presenziarvi

13 gennaio 1547, per la residenza), 662-665 (VII sessione, 3 marzo 1547, per residenza, benefici e giurisdizione civile). Sull’uso inflazionato della formula della delega apostolica nei decreti tridentini vedi gli acuti rilievi di G. Alberigo, L’episcopato nel cattolicesimo post-tridentino, in «Cristianesimo nella storia», 6, 1985, p. 78 (ma tutto l’articolo è importante). 2   Ivi, p. 646. Sul ruolo dei legati vedi almeno: U. Mazzone, I dibattiti tridentini: tecniche di assemblea e di controllo, in Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Bologna 1996, pp. 101-136; Id., Giovanni Morone legato al concilio di Trento e la clausola del «proponentibus legatis», in Il cardinale Giovanni Morone e l’ultima fase del concilio di Trento, a cura di M. Firpo e O. Niccoli, Bologna 2010, pp. 117-141; C. Quaranta, Marcello II Cervini (15011555). Riforma della Chiesa, concilio, Inquisizione, Bologna 2010, pp. 205-236.

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non raggiungevano il numero legale, si poteva ricorrere ad altri prelati: difendere ad oltranza il privilegio di foro era inopportuno, se si voleva avviare un autentico processo di rinnovamento3. Dopo poche settimane, con un nuovo decreto si entrò ancor più nel vivo del problema. Il proemio era chiarissimo: come poteva essere credibile una Chiesa intenzionata a correggere i laici, se i loro stessi errori erano ampiamente tollerati negli ecclesiastici? Le risposte individuate passavano tutte per una rinnovata centralità dei vescovi. Sostenuti da ampie facoltà, autorizzati ad operare come delegati del papa, essi erano chiamati a un serio controllo delle ordinazioni e a un’attenta verifica degli abusi del clero. I soli limiti del loro foro criminale riguardavano gli eccessi di frati e monaci e i delitti, anche atroci, commessi da uomini di Chiesa di altre diocesi. Per i primi la competenza restava ai rispettivi Ordini; contro gli altri anche i vescovi forniti di deleghe speciali avrebbero dovuto procedere insieme ai colleghi competenti per territorio4. Più che sulla repressione, però, si insistette sulla prevenzione e sulla correzione. Lo dimostrano gli schemi di riforma del 1562-63. Avidità e simonia dovevano scomparire dall’orizzonte della Chiesa; nessuno poteva essere ordinato e neanche tonsurato senza la titolarità di un beneficio sufficiente per una vita dignitosa; i vescovi erano tenuti a verificare che chi si avviava al sacerdozio non lo facesse per sfuggire alla giustizia. Per i curati, inoltre, competenza e integrità morale diventavano requisiti obbligatori. Se erano ignoranti, avrebbero potuto rimediare, purché di buoni costumi, assumendo a proprie spese un coadiutore esperto. Chi dava scandalo, invece, non aveva alternative: o tornava alla retta via, o lo attendevano l’ammonizione, il castigo e la rimozione in caso di incorreggibilità. Inoltre, per gli eccessi più diffusi del clero – giochi, balli, gozzoviglie, attività secolari proibite – si attribuiva ai singoli prelati la facoltà di inasprire a proprio piacimento le pene in vigore. Competenze, sia pur limitate, furono riconosciute ai vescovi anche sui religiosi. Se le autorità dei rispettivi Ordini ne tolleravano gli abusi, potevano dare loro un termine di sei mesi e sostituirle in caso di persistente inattività5. 3   Conciliorum oecumenicorum decreta cit., pp. 674-677 (XIII sessione, 11 ottobre 1551). 4   Ivi, pp. 690-694 (XIV sessione, 25 novembre 1551). 5   Ivi, pp. 706-707 (XXI sessione, 16 luglio 1562).

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Così, nella formulazione definitiva, il trattamento dei disordini del clero gravò in larga misura su una nuova figura di vescovopastore, residente, fornito di ampi poteri, vincolato a precisi doveri d’ufficio: la regolare indizione di sinodi, la partecipazione ai concili provinciali, la selezione attenta di confessori e predicatori, la cura delle visite pastorali, l’istituzione dei seminari. Su competenze, procedure e pene della giustizia criminale della Chiesa non ci furono invece interventi di particolare rilievo. Si stabilì che i processi di primo grado fossero ultimati entro due anni dalla data di avvio, che solo in caso di mancato rispetto di quella scadenza fosse lecito adire giudici di grado superiore, o comunque competenti, vincolati a loro volta a decidere al più presto, che nel ramo criminale e nelle cause matrimoniali non ci fosse più spazio per giurisdizioni ecclesiastiche di rango inferiore a quello vescovile. La sola deroga a quello schema era rappresentata da una facoltà di avocazione da parte del papa, che però avrebbe dovuto esercitarla in modo discreto e solo per motivi urgenti e gravi. Turbative all’esercizio dei poteri dei tribunali episcopali non erano ammesse, neppure da parte dei nunzi apostolici e dei legati pontifici. Erano previste, infine, pesanti punizioni per notai e giudici che avessero ostacolato dolosamente l’esercizio del diritto di appello6. A quei correttivi poco o nulla fu aggiunto nell’ultimo mese dei lavori conciliari. A proposito degli Ordini religiosi, in caso di scandali tollerati dai superiori, si ribadì il ruolo di supplenza dei vescovi; si biasimò la subalternità di molti prelati a ufficiali dello Stato e baroni; si ribadì il diritto di usare le censure spirituali nelle cause criminali, anche se misuratamente; si dettarono criteri punitivi graduati in materia di concubinato del clero, con un preciso riferimento alle procedure da adottare contro i vescovi incontinenti (affidati in prima istanza al concilio provinciale, in secondo grado al papa). Rapidi accenni agli abusi dei giudici e delle autorità secolari e alla tutela delle immunità chiudevano un progetto di riforma importante, ma attento solo ad alcune delle contraddizioni endemiche che affliggevano la giustizia criminale della Chiesa7. Rispetto ad esso, in ogni caso, non tardò a farsi sen  Ivi, pp. 748-749 (XXIV sessione, 11 novembre 1563).   Ivi, pp. 756 (per i regolari) e 760-772 (per le altre decisioni, approvate il 3-4 dicembre 1563 nella XXV sessione). 6 7

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tire la presenza del convitato di pietra, di quella Curia romana che aveva governato così abilmente il concilio. Gli sviluppi dell’ultimo trentennio del Cinquecento ne sono una prova precisa. 2. Che le istituzioni ecclesiastiche avessero bisogno in Italia di riforme incisive era evidente. Le lettere dei nunzi apostolici testimoniano la gravità della situazione, a cominciare da quelle provenienti da Napoli. Una nota del 1560-61 di uno di essi, Pao­lo Odescalchi segnalava a Roma la diffusa abitudine dei preti del Regno di praticare commerci illeciti, forti della connivenza o dell’impotenza dei superiori. Fu ancor più esplicito il successore, Niccolò Fieschi. Nel giugno del 1563, dopo aver sollecitato nove vescovi meridionali a un più serrato impegno antiereticale, raccomandò a Carlo Borromeo, nella sua veste di cardinal nipote, di vigilare sugli appelli presentati al papa da ecclesiastici del Regno condannati per crimini comuni. Quei processi bisognava rivederli a Roma, non nel Sud, perché lì giudici di comodo avrebbero annullato sistematicamente le sentenze di primo grado, con conseguenze rovinose: niente castighi, incitamento al malaffare8. Non sappiamo come sia stata accolta una proposta così aderente allo spirito tridentino. Essa riflette un’attenzione diffusa, nei vertici romani, per gli abusi del clero. Su quel piano anche la collaborazione delle autorità secolari sembra ben accetta, se mira a riqualificare i prelati locali. Quando nell’autunno del 1562 il viceré comunicò al nunzio di Napoli l’urgenza di provvedere all’inadeguatezza dei vicari vescovili meridionali, la proposta non provocò a Roma arroccamenti o accuse di indebite ingerenze: se ne discusse solo il merito9. Con la chiusura del concilio, però, l’unità d’intenti tra Chiesa e Stato cominciò a sfaldarsi, sia per la fine dell’emergenza ereticale, sia per i tanti decreti tridentini che delimitavano il ruolo delle istituzioni laiche: dai diritti di patronato al governo degli ospedali, dalle esenzioni fiscali rivendicate dal clero al controllo dei monasteri femminili. In un contesto così   P. Villani, Origine e carattere della Nunziatura di Napoli (1523-1569), in «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea», 9-10, 1957-1958, pp. 318-319 (Odescalchi) e 512-515 (Fieschi). 9   Ivi, pp. 321-324 (per il ruolo dei nunzi) e 494, 24 ottobre 1562 (sulla segnalazione del viceré). 8

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teso, ridare trasparenza ed efficienza ai tribunali criminali ecclesiastici diventò una chimera. L’inizio del pontificato di Pio V, l’ex inquisitore maggiore Michele Ghislieri, segnò un primo spartiacque rispetto agli schemi tridentini. Proprio perché lo zelo antiereticale si sposava in lui con una spiccata tensione riformatrice, era legittimo attendersi una lotta rigorosa agli abusi del clero. A pene più severe per gli uomini di Chiesa blasfemi, simoniaci e sodomiti (bolla Cum primum) si accompagnarono richiami all’obbligo della residenza e controlli sulla loro eccessiva libertà di comportamento: se la città del papa si avviava a diventare un grande convento, era doveroso per gli ecclesiastici adeguarsi al nuovo clima10. Malgrado questi esordi, non ci volle molto per comprendere che anche per Pio V la difesa del privilegio di foro era importante almeno quanto lo zelo riformatore. Due episodi capitati nella Repubblica di Venezia nel 1566 sono indicativi. Essi riproposero la delicata questione degli uomini di Chiesa meritevoli della pena capitale. Il più grave era un fatto di sangue abietto: a Padova un prete aveva ammazzato una donna per derubarla, dopo aver convinto il marito ad allontanarsi dalla città con una falsa notizia. Condannato a morte in contumacia dal podestà locale, dopo la sua cattura le autorità secolari avevano chiesto al vescovo di degradarlo. Scoppiò allora il conflitto di giurisdizione: il prelato eccepì la nullità della sentenza e l’obbligo di un nuovo processo da parte del foro episcopale. Ma i vertici della Repubblica furono inflessibili, in base al principio che a Venezia lo Stato era abilitato a procedere, insieme alla Curia patriarcale, contro gli uomini di Chiesa responsabili di delitti atroci. La patata bollente finì a Roma, dove Pio V acconsentì a fatica all’esecuzione11. Si risolse così anche il secondo scontro. Un prete era stato catturato da una nave veneziana, mentre commetteva atti di pirateria con un gruppo di uscocchi. Il capitano aveva fatto impiccare tutti i prigionieri, con l’esclusione del sacerdote, perché non sapeva se   La Cum primum è in Magnum Bullarium Romanum, VII, Augustae Taurinorum 1862, pp. 434-438. Un aggiornato bilancio del suo pontificato è in Pio V nella società e nella politica del suo tempo, a cura di M. Guasco e A. Torre, Bologna 2005. 11   Nunziature di Venezia, VIII, a cura di A. Stella, Roma 1963, pp. 52-53 e 60. 10

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avesse diritto al privilegio di foro. Il Consiglio dei Pregadi, cioè il Senato della Repubblica, investito della questione, si era pronunciato per la sua condanna a morte, anche perché al momento della cattura era in abiti secolari. Ci fu però un immediato ripensamento. Il decreto fu sospeso e uno degli aristocratici che l’aveva approvato chiese al nunzio l’assoluzione, in vista della comunione a Pentecoste. Il prelato, dopo un iniziale rifiuto, si ammorbidì, forse per affidare la decisione al papa, che però neppure in questo caso poté negare il permesso di giustiziarlo12. Ancora una volta, di fronte agli eccessi più gravi degli ecclesiastici, l’unità di intenti tra Chiesa e Stato scricchiolava. A qualche anno dalla conclusione del concilio, l’esigenza di tutelare il buon nome del clero stava assumendo un rilievo crescente rispetto all’obiettivo di reprimere i delitti dei suoi rappresentanti. 3. La stessa strategia fu promossa nel corso del pontificato di Pio V nel Regno di Napoli, dove le relazioni tra Chiesa e Stato erano aggravate anche dai frequenti scontri con principi e baroni. Non sorprende perciò che le istruzioni trasmesse nel maggio del 1566 al nuovo nunzio ponessero l’accento sulla tutela dei diritti della Chiesa, non sulle iniziative di lotta agli abusi del clero, di cui pure non sfuggiva la gravità. Non era possibile, si osservava, che il potere del legato pontificio fosse inferiore a quello di qualsiasi ‘baronello’ e che per la pubblicazione di ogni minimo provvedimento romano fosse necessario l’exequatur, cioè il benestare delle autorità dello Stato. Così si distruggeva la giurisdizione ecclesiastica13. Queste preoccupazioni non facevano certo dimenticare a Pio V l’esigenza di riqualificare il clero. Già nei primi mesi del suo pontificato era nell’aria la decisione, formalizzata solo nell’ottobre del 1566, di affidare a Tommaso Orfini, un prelato di fiducia, il compito inedito di visitatore apostolico nel Regno di Napoli. Quella scelta aveva poco a che fare con i modi di vita disordinati di tanti ecclesiastici. Il nodo era ancora una volta l’eresia, che nel Sud allignava vigorosa. Combatterla però non era sufficiente; bisognava anche prevenirne la nascita. In quella prospettiva, per

  Ivi, p. 60, 8 giugno, Bonelli a Facchinetti.   Villani, Origine e carattere cit., pp. 531-536.

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papa Ghislieri, era fondamentale la formazione del clero, a tutti i livelli: solo ecclesiastici colti e ineccepibili avrebbero potuto recuperare il consenso dei fedeli. Qualcosa però, sin dall’inizio, non andò per il verso giusto. L’ampiezza dei controlli preventivati e la pretesa di svolgerli senza l’exequatur suscitarono rabbiose reazioni nel viceré e nel Collaterale. Per loro si trattava di una manovra subdola, volta ad istituire una sorta di protettorato sul territorio meridionale. Perciò il prelato poté compiere solo una visita dimezzata, che cominciò con forte ritardo – nel gennaio del 1568 – e senza un’autorizzazione vera e propria. Vista l’aria che tirava, Orfini decise inoltre di sorvolare sui conflitti di giurisdizione e di concentrare l’attenzione sulla Chiesa. La sua diagnosi fu impietosa. Non solo il livello eticoreligioso di molti degli ecclesiastici controllati era desolante, ma sulle penose condizioni delle diocesi gravavano i comportamenti criminali di una parte consistente degli stessi vescovi. Uno su tre era sospettato di vivere disordinatamente, di essere attaccato al denaro, di estorcere soldi, sia attraverso pratiche simoniache, sia con l’uso ricattatorio del potere giudiziario. Le cose non andavano molto meglio dove le Chiese locali erano guidate da prelati riformatori: occasionali interventi punitivi erano punture di spillo per sacerdoti e chierici avvezzi al sesso, al gioco e alle violenze14. Quegli esiti amari non furono una sorpresa per il papa e per i suoi collaboratori. Nel gennaio del 1568, prima che la visita cominciasse, la Segreteria di Stato aveva invitato il nunzio napoletano a muoversi con cautela. Faceva bene a proteggere prelati ed ecclesiastici del Regno, ma non doveva prendere per oro colato le loro lagnanze. Difenderli per partito preso sarebbe stato controproducente per la Chiesa, di fronte ad autorità statali che spesso avevano ragione nel denunciarne le enormità15. Insomma, senza eliminare le mele marce non si poteva fare la voce grossa con i viceré. La trasparente scelta conciliare di affidare ad istituzioni centrali le inchieste sui vescovi rivelava qui la sua inadeguatezza.   Id., La visita apostolica di Tommaso Orfini nel regno di Napoli (15651568). Documenti per la storia dell’applicazione del Concilio di Trento, in «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea», 8, 1956, pp. 3-79, passim. 15   Id., Origine e carattere cit., p. 539. 14

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Con l’avocazione delle indagini a Roma si era sperato di poterli difendere meglio dalle vendette degli inquisiti, una volta che avessero intrapreso la lotta agli abusi. I problemi più urgenti da risolvere erano però ben altri. Lo rivelarono sia l’esigenza di combattere le adesioni dei vescovi al dissenso religioso, sia, soprattutto, quella di contrastarne gli eccessi. Alcuni di essi finirono alla sbarra a Roma, e non si trattava di riformatori tridentini diffamati da ecclesiastici delinquenti puniti. Erano solo prelati che ne avevano fatte di cotte e di crude16. Quei processi non furono però la premessa di una svolta nel funzionamento ordinario della giustizia della Chiesa. Per l’Italia, infatti, proprio in quegli anni si cominciò a pensare a schemi di governo della criminalità ecclesiastica largamente diversi da quello approvato a Trento. 4. Un primo, importante tassello fu rappresentato dal potenziamento delle nunziature. Se già nel 1560 a quelle di Venezia e Napoli si erano aggiunte le nuove sedi di Torino e Firenze, è altrettanto vero che solo dopo la chiusura del concilio se ne avver­te in modo più netto il rilievo. Si allargò a dismisura il loro raggio d’azione e la difesa della giurisdizione ecclesiastica complessivamente considerata diventò un aspetto ordinario del lavoro diplomatico. Così, malgrado la diversità dei contesti, le quattro nunziature contribuirono tutte in modo determinante alla riorganizzazione della Chiesa nella penisola. Non era in gioco solo l’applicazione dei decreti tridentini. Fu subito chiaro, già all’indomani della chiusura del concilio, che non tutte le sue decisioni avevano lo stesso rilievo, che il nuovo impianto normativo esigeva revisioni e correttivi. Non si spiega altrimenti come mai Pio IV sin dall’estate del 1564 abbia istituito una Congregazione apposita, deputata alla interpretazione dei suoi decreti, ma destinata ad avere di lì a poco responsabilità molto più ampie17. Una delle prime conseguenze 16   Per il problema complessivo dei controlli sui vescovi si veda il bel libro di Bonora, Giudicare i vescovi cit.; per i processi meridionali,Villani, La visita cit., p. 21, e G. Romeo, Chiesa e Inquisizione nella Puglia del tardo Cinquecento, in Cultura e società a Bitonto e in Puglia nell’età del Rinascimento, atti del VI Convegno Nazionale di Studi, Bitonto, 19-21 dicembre 2007, a cura di S. Milillo, I, Galatina 2009, pp. 97-107. 17   Vedi almeno La Sacra Congregazione del Concilio. Quarto centenario della fondazione (1564-1964). Studi e ricerche, Città del Vaticano 1964.

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di questo processo fu il secco ridimensionamento del ruolo dei vescovi. Si pensi solo al riequilibrio dei poteri deciso da Pio V a vantaggio del clero regolare, che così recuperò in parte margini di autonomia sacrificati sull’altare della centralità episcopale18. Un altro duro colpo fu assestato loro dalla riorganizzazione interna operata dalla Congregazione del Sant’Ufficio negli anni Settanta: la nascita della rete di Inquisizioni locali che avrebbe presidiato l’Italia per circa due secoli, con la rilevante eccezione del Regno di Napoli e del Lazio, comportò in larga parte della penisola la sostanziale emarginazione dei tribunali vescovili dai controlli sull’ortodossia. Pur se essi conservarono precise competenze al riguardo, l’egemonia dei delegati romani fu indiscussa e insistentemente favorita dagli inquisitori generali19. Ancor più rilevante appare però in età postridentina il contributo dei nunzi apostolici a un’ulteriore delegittimazione dei vescovi, a vantaggio del centralismo romano. È indicativa la proposta avanzata nel 1569 alla Segreteria di Stato dal titolare della nunziatura veneziana, quel Giovanni Antonio Facchinetti che fu papa per poche settimane nel 1591. Convinto che il più grave disordine del clero locale fosse il concubinato, ne aveva discusso spesso col patriarca e col doge. Tuttavia, mentre quest’ultimo era pronto a fare la sua parte, il prelato, pur consapevole della delicatezza della questione, non aveva mai voluto provvedere, trattenuto dalla circostanza che alcuni degli ecclesiastici della sua Curia vivevano con le rispettive famiglie proibite. Di fronte a quella situazione di stallo Facchinetti si dichiarava pronto a sostituirlo. Se avesse continuato a fare orecchie da mercante, avrebbe stroncato egli stesso l’abuso, beninteso dopo essere stato autorizzato dal papa20. La sua non fu un’iniziativa isolata. Negli stessi anni altri nunzi

18   Per un quadro d’insieme, cfr. G. Fragnito, Gli Ordini religiosi tra Riforma e Controriforma e R. Rusconi, Gli Ordini religiosi maschili dalla Controriforma alle soppressioni settecentesche. Cultura, predicazione, missioni, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1992, rispettivamente pp. 115205 e 207-274; G. Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Roma-Bari 1999, specialmente il cap. IV, pp. 93-120; F. Rurale, Monaci, frati, chierici. Gli Ordini religiosi in età moderna, Roma 2008. Per la linea di Pio V, vedi Rusconi, Gli Ordini religiosi maschili cit., p. 210. 19   G. Romeo, L’Inquisizione nell’Italia moderna, Roma-Bari 2002, pp. 31-34. 20   Nunziature di Venezia, IX, a cura di A. Stella, Roma 1972, p. 122.

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italiani «misero la falce nella messe altrui», come nel gergo dei prelati si definivano le usurpazioni delle competenze di altre istituzioni ecclesiastiche: a volte per controllare il clero regolare, a volte per venire incontro a richieste delle autorità secolari. Se ne ebbe una riprova nel Ducato di Savoia, dove il nunzio si fece a più riprese visitatore, anche su istanza del duca, suscitando in qualche caso aspre reazioni, come quelle dell’arcivescovo di Torino nel 15737421. Se anche sul terreno pastorale la sola alternativa a vescovi pigri o troppo attenti agli equilibri interni delle rispettive Chiese era nell’intervento dei diplomatici del papa, non è difficile immaginare che cosa successe sul piano della giustizia ecclesiastica. È soprattutto in quell’ambito, e in particolare sul versante penale, che si misura il rafforzamento del ruolo delle nunziature dopo Trento. Certo, variabili politiche ne differenziarono l’operato, mentre lo stesso conferimento di privilegi ai singoli nunzi fu accortamente dosato, con decisioni che talvolta provocavano rea­zioni irritate degli interessati22. Complessivamente, però, ci sono ben pochi dubbi sull’intensità con cui i loro tribunali lavorarono nell’Italia tridentina. Nel 1579 il nunzio di Savoia motivò il limitato volume delle informazioni politiche trasmesse a Roma sia con la ridotta presenza di ambascerie a Torino, sia, soprattutto, con la circostanza che la sua sede era sempre piena di litiganti: il disbrigo delle cause frenava anche il lavoro diplomatico23. Era una giustificazione ben scelta. L’accentuata caratterizzazione giudiziaria delle attività dei nunzi non era malvista a Roma. Tutt’altro. Non è un caso se, nelle rare occasioni in cui dei vescovi si rivolgono alla Santa Sede per ottenere la correzione di ecclesiastici licenziosi, il referente centrale è sempre rappresentato dalle nunziature competenti per territorio24. A scanso di equivoci, però, Pio V, per evitare che i nunzi muniti di facoltà speciali le usassero in modo improprio, decise nel 1567 di obbligarli a tenere un regi21   Per la visita torinese vedi ASV, SdS, Savoia, 4, cc. 700r-704v, lettera del nunzio del 2 dicembre 1574; per quella di Alba, effettuata su richiesta del duca, ivi, 6, c. 13r-v, lettera del nunzio del 24 gennaio 1577. 22   Le lamentele del nunzio di Firenze sono in ASV, SdS, Firenze, 2, cc. 473r e 494r, lettere del 20 settembre e del 5 ottobre 1573. 23   ASV, SdS, Savoia, 7, c. 177v, 1º gennaio. 24   Capita così nel 1566, in margine a un’istanza del vescovo di Pola (Nunziature di Venezia, VIII, cit., p. 50, 25 maggio, Bonelli a Facchinetti).

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stro delle decisioni assunte in base ai privilegi avuti e di darne conto ogni trimestre a Roma: l’iniziativa, che forse non ebbe concreta applicazione, si riferiva alle scomuniche di pertinenza papale, non alle attività giudiziarie, ma è indicativa25. In questo nuovo assetto, nell’Italia ‘coperta’ dai nunzi apostolici, l’asse privilegiato su cui dopo Trento ruotò localmente la giustizia criminale ecclesiastica fu quello incentrato, sotto la supervisione romana, su accordi diretti, non sempre facili, tra i diplomatici del papa e i vertici dei singoli Stati. Succedeva anche nell’Italia del primo Cinquecento, certo, ma in età postridentina i toni e i contenuti di quei contatti cambiano. Prima erano in discussione solo i nodi più controversi, in particolare quelli legati all’applicazione della pena capitale; dopo, anche molte cause criminali di minore rilievo trovano spazio nelle aule delle nunziature e, di riflesso, nei rapporti quotidiani con i principi e i loro ministri. Era un aspetto caratteristico della penisola: lo si intuisce da un dispaccio del 1579 in cui il nunzio di Savoia riferiva a Roma le difficoltà incontrate nelle terre transalpine del Ducato. Lì, scriveva, sarebbe stato meglio per lui presentarsi come nunzio del Piemonte, perché di là dai monti «non ricorre alcuno a questo tribunale»: chi lo avesse fatto sarebbe stato etichettato come nemico del principe. Il modello francese dei ricorsi alle magistrature statali contro le pronunce dei giudici ecclesiastici influiva pesantemente sui comportamenti dei savoiardi. Se n’era accorto proprio quell’anno, in occasione della riesumazione, da lui imposta a colpi di scomuniche, del cadavere di una nobile eretica morta senza pentirsi: un’istanza al Senato di Chambéry aveva bloccato tutto. In Savoia, perciò, concludeva, era meglio limitarsi a qualche «dolce riforma del clero», senza rischiose incursioni sul terreno minato della giurisdizione26. 5. Nella stessa Italia, però, le difficoltà per i nunzi non mancano. Gli scambi epistolari intrecciati con la Segreteria di Stato vaticana sono eloquenti. Nel giro di pochi anni aspetti qualificanti del progetto di riforma conciliare si perdono nel nulla. È questa la sorte

  Ivi, p. 216, 10 maggio 1567, Bonelli a Facchinetti.   ASV, SdS, Savoia, 7, cc. 191r-192v, s.d., ma febbraio 1579, lettera del nunzio al cardinale di Como. 25 26

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che tocca anche ai pochi decreti tridentini relativi ai tribunali vescovili. Sul piano giudiziario ci sono altre esigenze da soddisfare, e di esse i nunzi devono farsi interpreti zelanti. Una è davvero urgente: ristabilire precisi confini tra le giurisdizioni concorrenti, ridare alla Chiesa i suoi diritti conculcati, chiudere per sempre la stagione oscura delle ingerenze di altri poteri. Questa situazione produce ovunque le controversie più disparate: dall’accertamento della condizione clericale, quando le guardie secolari catturano delinquenti che, pur vestiti da laici, eccepiscono il privilegio di foro in quanto uomini di Chiesa, alla questione degli appelli presentati ai tribunali dei metropoliti dislocati in altri Stati, dai casi di foro misto, contesi tra giudici ecclesiastici e secolari, al controllo dei crimini comuni di frati e monaci. Gli esiti di questi scontri sono incerti e territorialmente differenziati: rispetto al Ducato di Savoia e al Granducato di Toscana, Regno di Napoli e Repubblica di Venezia sembrano le aree più difficili per la Chiesa27. Una cosa però è sicura: sia per i vertici romani, sia per i nunzi, quelle battaglie non preludono a una riforma della giustizia criminale ecclesiastica imperniata sul modello tridentino, sulla centralità dei tribunali diocesani. Localmente l’asse privilegiato lega i diplomatici del papa ai vertici statali. I vescovi sono l’anello debole, i destinatari di accordi in cui non hanno avuto alcuno spazio. Di qualsiasi problema giudiziario si discuta, dagli appelli al cattivo funzionamento dei tribunali, ciò che essi pensano conta poco o nulla. Perciò nei dispacci dei nunzi si incontrano nei loro confronti giudizi sprezzanti, annotati per giunta con indifferenza, come se si trattasse di cose risapute o poco importanti. Ecco come il nunzio di Savoia stigmatizzava nel 1577 la prassi consueta dei vescovi del Ducato: continuavano ad assolvere dallo spergiuro e da altri delitti senza celebrare processi, limitandosi ad irrogare pene pecuniarie. Se ne avvantaggiavano sia il clero delinquente, sia i laici che incappavano in casi di foro misto, come la bestemmia, la bigamia e il concubinato. Di quei comportamenti   Per i chierici selvaggi il Regno di Napoli è l’area più infestata: si veda ad esempio l’intervento del 14 ottobre 1570 del nunzio Brumano, in Nunziature di Napoli, I, a cura di P. Villani, Roma 1962, pp. 56-57; per gli appelli vedi ASV, SdS, Savoia, 1, cc. 88v-89r, lettera del nunzio del 29 agosto 1571 al cardinale Alessandrino; per i casi di foro misto e per il clero regolare vedi le due note che seguono. 27

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equivoci si sarebbero potute dolere le autorità della Chiesa più sensibili alle riforme conciliari, pensate per sanare proprio quelle e altre disfunzioni. Ma i malumori venivano solo dai ministri del duca, e per una specifica questione giudiziaria. Erano in discussione – ovviamente per i soli laici – i casi di foro misto. Il principio che ne regolava il trattamento – la praeventio – prevedeva che la giurisdizione spettasse di volta in volta al tribunale che per primo era venuto a conoscenza dei fatti. Se però un vescovo si limitava ad infliggere sanzioni pecuniarie e i laici che le pagavano pretendevano di essere così al sicuro anche dalla giustizia dello Stato, i conti non tornavano. Era una forma di immunità mascherata: chi voleva persistere nei comportamenti proibiti avrebbe trovato – esattamente come il clero delinquente – una comoda sponda nei tribunali della Chiesa. Si comprende perciò l’irritazione dei ministri torinesi, ma anche la preoccupazione del nunzio, che segnalava alle autorità romane l’avvicinarsi dell’ennesima tempesta. Su quei casi era in corso dal 1569 a Napoli un aspro conflitto con il viceré e con il Collaterale, che si sarebbe chiuso con una fragile tregua solo venti anni dopo28. Altrove però le contraddizioni della giustizia ecclesiastica erano espressamente richiamate anche in relazione al clero. È ciò che si osserva negli esiti paradossali dell’attivismo giudiziario dei nunzi toscani. Legati da solidi rapporti personali coi granduchi, attentissimi alle rare esecuzioni capitali di uomini di Chiesa, essi si impegnarono molto anche sul versante del controllo del clero regolare, pur con le dovute cautele. Non si può dire, però, che il loro zelo ottenesse risultati brillanti. Non ci volle molto, ad esempio, per comprendere che frati e monaci usavano proprio un tribunale nuovo di zecca, come quello di una nunziatura da poco istituita, con la disinvoltura con cui si muovevano da sempre tra foro secolare ed ecclesiastico. Così dalla fine degli anni Settanta l’irritazione dei nunzi per la loro totale ingovernabilità si accentuò, confortata dal consenso del granduca Francesco I («vengono da noi quando gli vien bene e quando va male oppongono nullità...»), e diventò esasperazione vera e pro28   ASV, SdS, Savoia, 6, cc. 10v-11r, lettera del nunzio al cardinale di Como del 24 gennaio 1577. Per il conflitto napoletano vedi Romeo, Amori cit., pp. 4045. Sulle strategie antivescovili della Chiesa romana in questi anni vedi ancora Alberigo, L’episcopato cit., pp. 85-87.

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pria nel 1585. Fu allora che il nunzio propose alle autorità romane con imbarazzo, quasi scusandosi per la bizzarria dell’idea, di istitui­ re per frati e monaci un tribunale unico, al quale potessero sfuggire solo in caso di legittima suspicione29. A poco più di vent’anni dalla chiusura del concilio, uno dei quattro diplomatici papali impegnati nella difesa della giurisdizione della Chiesa in Italia, non trovava di meglio, per combattere gli abusi dei regolari, che inventarsi una nuova, improbabile riforma giudiziaria. 6. Il puzzle del governo del clero delinquente nell’Italia tridentina si arricchisce di tessere nuove e importanti. La ‘bottega di candele’ toscana e l’assalto alla canonica di Levico rientrano in una fase di passaggio delicata, in cui la lotta ai disordini degli ecclesiastici comincia a prendere piede, ma stenta a radicarsi. L’annullamento della sentenza di condanna pisana e la sconfitta di un intransigente come il Campeggi non sembrano insomma casi isolati. La presenza dei diplomatici del papa, anziché contribuire a un più puntuale funzionamento dei tribunali della Chiesa, ne favoriva la delegittimazione. La paradossale proposta di un foro unico per i regolari del Granducato di Toscana era lo specchio impietoso di una situazione stagnante: un po’ tutte le autorità competenti ne erano responsabili, non solo quelle ecclesiastiche, ma nessuna muoveva un dito per risolverla in modo definitivo. Le frange più incallite del clero delinquente della penisola continuavano a muoversi con maestria tra le giurisdizioni disponibili, anche negli Stati ‘protetti’ dagli ambasciatori del papa, malgrado il rigoroso schema di riforma tridentino. Proprio i tribunali dei nunzi apostolici   Per la collaborazione coi granduchi nei casi gravi vedi ASV, SdS, Firenze, 4, c. 460v, lettera del nunzio del 20 ottobre 1576; per le ricorrenti tensioni provocate dai regolari, ivi, 6, cc. 441r-v (lettera del nunzio del 18 maggio 1579; lo sfogo del granduca è qui, a c. 441v) e 450r-451r (lettera del nunzio del 31 maggio 1579); per le degradazioni, ivi, 5, cc. 212r, 230r, 261v, 295r, lettere del nunzio del 21 settembre, 12 ottobre, 16 novembre e 10 dicembre 1577. Per la proposta del nunzio, ivi, 9, c. 422r, lettera del 19 novembre 1585: l’idea – per cui chiede preventivamente scusa, se sarà ritenuta una sciocchezza – nasce dal fatto che i regolari scelgono a proprio piacimento l’ordinario diocesano, il nunzio o le magistrature laiche «con poca dignità della giurisdittione ecclesiastica». Due anni dopo fu il granduca a bocciare un correttivo animato dalla stessa esigenza e approvato da Sisto V, quello di utilizzare il carcere pubblico delle Stinche per frati e religiosi: si sarebbe dato scandalo (ivi, 10, c. 73r, lettera del nunzio del 25 luglio 1587). 29

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furono, come si vedrà, il primo macigno su cui si infranse la sua applicazione. Ma quelle strategie trionfarono in tutta la penisola. Non a caso, il ridimensionamento dei vescovi, e di quelli italiani in modo tutto particolare, fu accentuato nei primi anni Settanta dalla nascita di una nuova Congregazione romana, la cui identità rimase per alcuni decenni piuttosto fluida. Cardinali della riforma, della residenza, delle visite apostoliche: una curiosa varietà di termini ne designa a lungo le competenze, prima che assuma il nome definitivo di Congregazione dei Vescovi e Regolari. Ancora agli inizi del 1588, ad esempio, la Immensa aeterni Dei, la celebre costituzione di Sisto V che potenziò e riorganizzò l’assetto della Curia romana, prevedeva che clero regolare e secolare facessero capo a due diversi dicasteri, anche se la distinzione sembra rimasta sulla carta. L’ampiezza dei poteri della nuova Congregazione avrebbe dovuto scontare una sola, pesante limitazione: il divieto di operare a livello giudiziario. Su quel piano, però, i cardinali dei Vescovi e Regolari si muovevano con disinvoltura sin dal 1573, come i colleghi degli altri dicasteri, e non erano certo disposti a fare passi indietro. Già nel maggio del 1588 un concistoro approvò una sommaria regolamentazione delle loro competenze giudiziarie e di fatto cancellò i limiti d’intervento previsti dalla Immensa aeterni Dei30. L’altro elemento importante è, a dispetto del raggio d’azione universale della nuova Congregazione, la ‘italianità’ di gran parte delle pratiche sottoposte alla sua attenzione. Su questa delimitazio­ ne territoriale, decisamente più spiccata rispetto al peso che la penisola riveste nell’operato dei cardinali del Sant’Ufficio, c’è poco da dire. Si tratta di un dato oggettivo, che nel suo archivio risalta da qualsiasi punto di osservazione: quello centrale, con le decisioni adottate, e quello locale, con i ricorsi inviati a Roma. Il resto del mondo cattolico è quasi del tutto assente, se si esclude un limitato numero di esposti relativi ai monasteri femminili. Si dovrebbero

30   Il testo della Immensa aeterni Dei è in Magnum Bullarium Romanum, VIII, Augustae Taurinorum 1863, pp. 985-999 (le decisioni del concistoro dell’11 maggio 1588 sono ivi, p. 999). Per l’avvio della Congregazione, vedi G. Romeo, La Congregazione dei Vescovi e Regolari e i visitatori apostolici nell’Italia post-tridentina: un primo bilancio, in Per il Cinquecento religioso italiano. Clero, cultura e società, a cura di M. Sangalli, II, Roma 2003, pp. 607-614.

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semmai approfondire le ragioni del richiamo molto differenziato che il nuovo organismo esercita in Italia: fortissimo nel Regno di Napoli e nella parte centro-meridionale dello Stato pontificio, discreto nel Granducato di Toscana, decisamente inferiore nel Nord, e in particolare nella Repubblica veneta31. In ogni caso, negli interventi della Congregazione la particolare attenzione per il ruolo dei vescovi è fuori discussione. Il confronto con le decisioni relative agli Ordini religiosi è indicativo: al di là degli infiniti ricorsi di singoli frati, il clero regolare richiede impegno più per le continue scaramucce con i titolari delle diocesi che per esigenze di controllo puntuale delle sue attività, ritenute forse di rilievo strategico inferiore. Il successo del concilio è legato essenzialmente alla capacità dei vescovi di far fronte alle mille insidie dei processi di riforma decisi a Trento. D’altra parte, proprio per questi motivi i decreti tridentini avevano rimandato così spesso al sostegno dell’autorità del papa: da solo, un potere debole e spesso screditato come quello episcopale non sarebbe andato lontano. Ma per i vescovi italiani, già all’inizio degli anni Settanta, avere l’appoggio centrale non è scontato. C’è una questione preliminare da affrontare, ed è quella dei rapporti di forza. Più del merito dei problemi da risolvere, pesano nei contatti con il nuovo dicastero i toni romani, che sono spesso freddi, se non distaccati, e arrivano con facilità all’aut aut. Il primo messaggio che arriva forte e chiaro ai vescovi della penisola dai suoi cardinali riguarda la disponibilità ad eseguire gli ordini senza fiatare. Su aspetti anche centrali delle riforme, come il regolare svolgimento di sinodi e visite pastorali, si può chiudere un occhio. Sull’insubordinazione invece non si transige. Le ripetute reprimende che raggiungono tra il 1577 e il 1578 il vescovo di Ostuni si spingono fino a ricordargli impietosamente un lungo processo già subito a Roma, la detenzione e la clemenza finale mostrata nei suoi confronti, ma non si traducono in decisioni conseguenti. Sembra più importante umiliarlo che farlo recedere dagli abusi che continua a commettere. Un identico trattamento è riservato

31   Vedi, a titolo d’esempio, ASV, Congregazione dei Vescovi e Regolari (d’ora in avanti CVR), Registra Episcoporum (d’ora in avanti RE), 11, cc. 4r-20r, indice relativo alle decisioni del 1586.

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ad altri suoi colleghi che ignorano il concilio32. Le parole diventano invece di fuoco quando si sfida il papa e la Curia romana. Nel 1580 un vescovo toscano, quello di Sovana, osa nominare un vicario generale, come provocatoria risposta all’arrivo del vicario apostolico, cioè di un plenipotenziario papale. È inaudito, gli scrivono da Roma: non lo faccia mai più, se non vuole ricevere un castigo severo33. Ovviamente, non si può sopravvalutare il peso di queste testi­ monianze. Spesso i vescovi richiamati all’ordine non erano ‘stinchi di santo’ e l’uso di toni minacciosi era inevitabile, se si voleva piegare la loro pervicacia. La trafila usuale nelle lettere della Congregazione è quella delle corrispondenze di lavoro. Prevalgono, insomma, pur nella freddezza degli atteggiamenti, margini di disponibilità non disprezzabili. Malgrado ciò, il sospetto che il nuovo dicastero puntasse più a complicare la vita ai vescovi che a sostenerli nell’avvio delle riforme si insinuò presto anche in prelati dotti e zelanti. Una lettera addolorata scritta nel 1577 da uno di loro, Giovanni Battista Castelli, è indicativa. Tornato da poco nella diocesi di cui era titolare, Rimini, aveva ricevuto un ordine per lui amarissimo. Proprio la Congregazione dei Vescovi e Regolari, l’organismo che lo aveva avuto a lungo alle sue dipendenze come visitatore apostolico, gli chiedeva spiegazioni su un esposto inviato a Roma da un penitente. Era in gioco un problema pastorale delicato: si potevano assolvere nel foro della coscienza i fedeli restii a perdonare i nemici? Forse il Castelli aveva optato per il rifiuto e si trovava ora costretto a motivarlo ai superiori romani. Per uno come lui, addestrato ad imporre la linea centrale nelle diocesi dei colleghi, era un’umiliazione cocente. Perciò, dopo aver chiarito le proprie ragioni, sentì il bisogno di sfogarsi. Com’era possibile che bastasse una letterina qualunque per screditare un vescovo? Se ogni fedele, senza spendere una lira, senza presentare un ricorso formale, poteva mettere il bastone tra le ruote ai prelati riformatori, non c’era

  ASV, CVR, RE, 3, cc. 7v-8v, 14r, 114r (decisioni adottate tra il 3 settembre 1577 e il 13 agosto 1578). Per altri interventi simili, ivi, cc. 47r e 48r-v (11 gennaio 1578, vescovi di Acqui e Tortona), 62v (8 marzo 1578, Fiesole) e 82r (20 maggio 1578, Cittaducale). 33   ASV, CVR, RE, 5, c. 88v (decisione dell’11 ottobre). 32

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da stare allegri. Grazie a un semplice memoriale spedito a Roma i vescovi sarebbero ripiombati negli ‘antichi travagli’, nel caos pretridentino. A pochi anni dalla chiusura del concilio, anche un uomo di Chiesa influente e sensibile al rinnovamento cominciava a dubitare che qualcosa sarebbe cambiato davvero34. 7. La riprova più convincente che la Congregazione dei Vescovi e Regolari mirava, prima ancora che all’applicazione dei decreti tridentini, all’intimidazione dei vescovi, viene da due strumenti che essa utilizza largamente nell’Italia del tardo Cinquecento. Il più conosciuto è quello delle visite apostoliche, cioè delle ispezioni delle diocesi affidate a delegati romani. Oggetto di limitata attenzione nei dibattiti tridentini, erano state rispolverate da Pio V, come si è visto, per imprimere un ritmo più intenso a riforme che arrancavano ovunque, e in particolare nel Regno di Napoli: era stato per quel motivo che nel 1566 Tommaso Orfini aveva ricevuto l’inedito incarico di visitarne tutte le diocesi. Le difficoltà incontrate indussero forse la Curia romana a sfumare la dimensione ‘statale’ degli interventi dei suoi delegati. Di una nuova ondata di visite ‘generali’ tentata di soppiatto nel 1583, ancora nel Regno di Napoli, attraverso il nunzio, non restano tracce. Anche altrove in Italia non mancarono gli screzi con le autorità dello Stato: il duca di Savoia, ad esempio, confidò al nunzio che avrebbe preferito lui come visitatore. Né attecchirono i tentativi di esportazione del modello al di fuori della penisola, come si vide ad Avignone nel 1569 e in Lorena nel 158435. 34   ASV, CVR, Positiones (d’ora in avanti POS), 1573-1576, lettera del 3 aprile 1577 al cardinale Maffei. Sul Castelli vedi G. Fragnito, s.v., in DBI, 21, 1978, pp. 722-726. 35   Per l’attacco complessivo al potere vescovile in questi anni, il contributo più maturo e aggiornato è la monografia di Bonora, Giudicare i vescovi cit. Quanto alle visite apostoliche, una presentazione efficace del problema è in U. Mazzone, La visita apostolica come strumento di controllo e governo della Chiesa post-tridentina, in Forme storiche di governo nella Chiesa universale, a cura di P. Prodi, Bologna 2003, pp. 143-166. Per l’iniziativa del 1583 vedi ASV, CVR, RE 8, c. 117v, decisione del 10 maggio; per la Francia M. Venard, Le visite pastorali francesi dal XVI al XVIII secolo, in Le visite pastorali. Analisi di una fonte, a cura di U. Mazzone e A. Turchini, Bologna 1985, pp. 30-31, e Girolamo Ragazzoni, évêque de Bergame, Nonce en France. Correspondance de sa Nonciature (15831586), a cura di P. Blet, Roma 1962, pp. 32-33.

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Ordinariamente, perciò, le ispezioni furono organizzate per Stati, ma in rapida progressione, non contestualmente e non in ogni diocesi. Influirono inoltre sulla scelta anche i problemi delle singole Chiese. Lo si vede bene dal confronto con i criteri che dettavano l’adozione del secondo tipo di intervento centrale caratteristico delle strategie ‘italiane’ della Curia romana nel tardo Cinquecento: l’invio in una diocesi di un vicario apostolico, cioè di un commissario papale investito del suo governo per periodi anche molto lunghi, al posto del vescovo inadempiente o impossibilitato a svolgere il suo ministero. Le due opzioni non sono equivalenti. Quando la crisi si può risolvere con una certa facilità, si decide per la visita, che, pur sgradevole per il prelato che la subisce, ha il vantaggio per lui di durare poco. Se però pigrizia, abusi o limiti del vescovo rischiano di arrecare pregiudizi insanabili agli interessi della Chiesa, si nomina il vicario apostolico, un plenipotenziario abilitato a governare la diocesi, ovviamente a spese del titolare, a tempo indeterminato. Fu così che si scrisse senza mezzi termini nel 1583 al vescovo di Cortona. Se continuava a pensare solo ai soldi e agli interessi di un nipote, si sarebbe trovato tra i piedi anziché il visitatore, nominato nel frattempo, un vicario apostolico36. Quale che fosse la soluzione prescelta, però, il senso degli interventi romani è chiaro: l’applicazione del concilio in Italia poggia in primo luogo sul riequilibrio dei poteri tra autorità ecclesiastiche locali e centrali, a tutto vantaggio di queste ultime. Il forte rilievo di questi obiettivi è evidente nell’operato degli uni e degli altri, dei visitatori come dei vicari. Gli interventi dei primi, nominati dalla Congregazione del Concilio o da quella dei Vescovi e Regolari, dotati di ampie deleghe e abilitati a fruire del braccio secolare, furono un’arma importante, ma presto abbandonata. Utilizzata massicciamente nel pontificato di Gregorio XIII e più limitatamente sotto Sisto V, per lo più nella penisola e in Corsica, scomparve quasi del tutto nel Sei-Settecento, quando peraltro si concentrò su singoli monasteri e conventi. Le ragioni del forte aumento delle visite apostoliche negli anni Settanta-Ottanta del Cinquecento sono chiare. Pensate inizialmente da Pio V, d’in-

  ASV, CVR, RE, 8, c. 94v, 15 marzo 1583.

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tesa col Borromeo, per rafforzare un modello di Chiesa territoriale articolato sulla provincia ecclesiastica e sulla diocesi, nella fase di massima espansione esse servirono a ribadire il principio che l’elaborazione e la guida dei processi di rinnovamento toccavano alla Curia romana, non ai vescovi37. È più difficile, al contrario, stabilire perché furono abbando­ nate così presto. Le violente reazioni che suscitarono ovunque, il contenzioso infinito che le accompagnò, gli inevitabili compro­ messi conseguenti, nonché il rapidissimo radicamento della Congregazione dei Vescovi e Regolari in Italia, potrebbero spiegarne il crollo. Lo strapotere del nuovo dicastero fu forse la circostanza decisiva. Fin dalle prime proteste contro i visitatori, i suoi cardinali si mostrarono pronti alla revoca o alla moderazione dei loro provvedimenti. La sola eccezione riguarda le dure decisioni adottate per i monasteri femminili dopo il concilio: non solo i delegati romani ne furono gli interpreti più inflessibili, ma la Congregazione su quel punto li difese a spada tratta38. Per il resto, invece, non si contano i decreti dei visitatori emanati in ossequio alle istruzioni avute, poi cancellati o annacquati a Roma, a seguito dei ricorsi ricevuti. Ovviamente, se mediazioni in senso lato politiche mettevano tra parentesi le regole del gioco, non aveva molto senso alzare polveroni. Era più semplice eliminare gli ispettori, affidare esclusivamente alle autorità centrali – come poi avvenne – il governo dei conflitti locali più delicati39. Così, grazie all’effetto combinato delle opposizioni incontrate e del riequilibrio imposto da Roma, le incursioni dei visitatori apostolici ottennero modesti risultati. Non altrettanto si può dire per le conseguenze istituzionali delle loro ‘scorrerie’. Le strategie antivescovili della Congregazione trovano in esse un punto di forza, come si vede dai questionari che ne uniformarono l’azione. In quello utilizzato per i controlli sulle chiese umbre operati nel 1573-74 ben 55 domande su 130 riguardavano i vescovi: prima ancora che sul clero e sul laicato bisognava indagare sul loro conto. Gli esiti furono   È quanto osservano sia N. Raponi, Visite apostoliche post-tridentine nello Stato pontificio, in «Studia picena», 61, 1996, pp. 235-284, in part. pp. 235-257, sia Mazzone, La visita cit., pp. 149-153. 38   Vedi la sintesi efficace di Greco, La Chiesa in Italia cit., pp. 121-155. 39   Romeo, La Congregazione cit., passim. 37

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più di una volta sconcertanti. Si pensi ai prelati che ritornano nella diocesi di cui erano titolari dopo aver condotto visite apostoliche: non fu solo la Congregazione, come nel caso del Castelli, a dare loro imprevisti dispiaceri. Ci pensarono anche gli ispettori romani. La sgradevole esperienza toccò nel 1573 allo stesso Tommaso Orfini, l’apprezzato visitatore delle chiese dell’Urbe e di quelle meridionali. Diventato vescovo di Foligno, sua città natale, incappò in uno dei più inflessibili delegati centrali di quegli anni, il collega Pietro Camaiani. Secondo la sua impietosa relazione, la rettitudine e la sobrietà dell’Orfini non ne compensavano le gravi inadempienze pastorali: era un prelato negligente, remissivo e abituato ai favoritismi. Non era con quei modi, troppo flessibili e pronti al compromesso, che si governava una diocesi40. Ancor più istruttive, l’anno dopo, le reazioni a un’altra visita apostolica del Camaiani. Girolamo Mannelli, vescovo di N ­ ocera Umbra, destinatario dell’ispezione, confidò al segretario della Con­gregazione dei Vescovi e Regolari l’amarezza per i controlli subiti. Era stato un tormento continuo, soprattutto perché, dichiaratosi disponibile a fornirgli sostegno e ragguagli utili, era stato puntualmente evitato. Prevenuto e scostante, il Camaiani dava a vedere di essere lì non per aiutarlo, ma per ‘inquirere’ contro di lui. Un giudice travestito da visitatore, insomma, che non a caso aveva raccolto gli esiti della visita in un volume corposo e pieno di addebiti. Per rispondere a tutto, osservava Mannelli, avrebbe dovuto redigerne uno di pari densità e lunghezza, ma non aveva né il tempo né la voglia di farlo e si dichiarava pronto ad accettare le conseguenze della sua scelta. Se si trattavano così i vescovi, lasciava capire, non si andava da nessuna parte41. Certo, il carattere dei singoli visitatori poteva avere un ruolo in questi contrasti, e il rigore di Camaiani suscitò ovunque identiche reazioni, ma la sostanza era nelle istruzioni romane. Più che i decreti tridentini da far applicare, c’era l’autonomia eccessiva dei vescovi da delimitare. È ciò che si osserva anche nel modo di governare la giustizia penale ecclesiastica da parte delle due Congregazioni, quella dei Vescovi e Regolari e quella del Concilio, che

  Raponi, Visite apostoliche cit., pp. 268-269.   Il testo integrale della lettera è ivi, pp. 274-275.

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esercitarono più diretti controlli al riguardo, e della Curia romana complessivamente considerata. Dai loro interventi i giudici diocesani compresero presto che i limpidi schemi tridentini contavano pochissimo, che anche il trattamento dei crimini comuni del clero, come altri aspetti della rinnovata presenza vescovile, era una corsa ad ostacoli, in cui spiccavano quelli frapposti dalle autorità centrali della Chiesa. 8. Alcuni chiarimenti mandati da Roma nell’estate del 1578 a Giovan Francesco Bonomi, visitatore apostolico impegnato in un territorio di frontiera difficile come la Valtellina, sono un buon punto di partenza. Il prelato, un intransigente, educato alla scuola di Carlo Borromeo, aveva chiesto lumi alla Congregazione dei Vescovi e Regolari sui suoi poteri in materia di dispense matrimoniali, di abiure di eretici e di cause criminali ecclesiastiche. I cardinali lo rassicurarono per le prime due questioni, ma sulla terza, pur ribadendo che era suo diritto istruire processi contro chiunque, gli suggerirono di non perderci troppo tempo: alla fine avrebbero dovuto completarli i vescovi. Come si sarebbero mossi, non lo riguardava42. Eresia e problemi matrimoniali sì, crimini comuni degli ecclesiastici no: c’era in quella distinzione un punto fermo delle strategie della Chiesa postridentina. Qualche visitatore più zelante poteva anche irrogare pene severe – sospensione a divinis, esilio – per gli eccessi del clero, come fece Agostino Valier nel 1580 con i tanti preti istriani con donne e figli, ma erano decisioni controproducenti, data la diffusione di quei comportamenti e le conseguenze che ne sarebbero scaturite: chiese deserte e prive di servizi religiosi, fedeli in tumulto43. Insomma, già all’indomani del concilio la riorganizzazione dei tribunali criminali vescovili non era nell’agenda di una delle due Congregazioni che ne seguiva più da vicino l’applicazione. È indicativo il confronto con le scelte dei cardinali del Sant’Ufficio, impegnati negli anni Settanta del Cinquecento nella c­ ostruzione della rete inquisitoriale locale che avrebbe controllato larga parte   ASV, CVR, RE, 3, cc. 112r e 128r, 4 agosto e 15 settembre 1578.   Vedi da ultimo A. Miculian, La Controriforma in Istria: il concilio di Trento e il ruolo dei gesuiti, in «Atti del Centro di ricerche storiche di Rovigno», 29, 1999, pp. 200-226. 42 43

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d’Italia per tutta l’età moderna. Essi applicano un modello di centralizzazione giudiziaria flessibile, capace di assicurare il controllo romano sulle cause più delicate e di fornire ai responsabili dei nuovi tribunali un quadro aggiornato e vivo della lotta alle idee e alle pratiche contrarie all’ortodossia: spettava all’intelligenza e all’esperienza dei singoli giudici valutare se e come coinvolgerli. Dal 1581, inoltre, essi obbligarono gli inquisitori italiani a trasmettere ogni anno a Roma le copie delle sentenze emanate e la lista delle cause ultimate e pendenti: un segnale preciso del rilievo che assumeva per la potente Congregazione l’andamento della lotta per la tutela della fede in ogni angolo della penisola44. Non è il modello utilizzato negli stessi anni dai cardinali della Congregazione dei Vescovi e Regolari. Non c’è un particolare interesse né per la riorganizzazione dei tribunali criminali ecclesiastici, neppure per quelli diocesani, su cui poggiava l’impianto tridentino, né per le loro attività giudiziarie. Che cosa facciano, se eccedano nell’esercizio dei propri poteri o adottino decisioni erronee, conta fino a un certo punto. La logica che li guida è quella tradizionale dell’appello alle grandi istituzioni centrali. Se nessuno segnala a Roma abusi, errori o disservizi, non c’è motivo per interessarsi della giustizia penale della Chiesa. Altrettanto si può osservare per la scarsa capacità della Congregazione di incidere sulle altre modalità di lotta alla criminalità ecclesiastica. Rendere il clero più colto e più avvertito della delicatezza del suo ruolo, come il concilio tridentino si era riproposto di fare, avrebbe potuto facilitare l’isolamento delle pecore zoppe. Seminari, residenza di vescovi e parroci, rivitalizzazione dei sinodi e delle visite pastorali potevano essere, rispetto alla piaga del clero delinquente, un’alternativa più efficace della mera azione repressiva. Di queste sollecitazioni, però, restano tracce molto modeste. Fu forse anche la lentezza con cui si stavano concretizzando questi aspetti della riforma tridentina ad influire sulla decisione, adottata da Sisto V nel 1585, di reintrodurre, sulle ceneri di una tradizione desueta, un potente strumento di pressione sui vescovi: l’obbligo di presentare di persona al papa, ad intervalli

44   Romeo, L’Inquisizione cit., cap. II; Ch.F. Black, The Italian Inquisition, New Haven (Conn.)-London 2009, pp. 19-56.

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regolari, relazioni sull’andamento della vita religiosa nelle proprie diocesi. Era un’occasione propizia per verificare come evolveva il controllo dei disordini degli ecclesiastici e per suggerire, se del caso, soluzioni più adeguate. Vediamo come fu utilizzata. 9. Il 20 dicembre 1585, con la bolla Romanus Pontifex, Sisto V istituì l’obbligo per i vescovi delle visite ad limina Petri, cioè di periodici viaggi a Roma per incontrare il papa, consultarsi con lui e riceverne paterni consigli per il governo delle proprie Chiese. La motivazione ufficiale dell’iniziativa era la diffusione dell’eresia: i suoi successi – si scriveva – erano dovuti anche all’abbandono di quella prassi antica. Era importante perciò ripristinarla e renderla obbligatoria per tutti i titolari di diocesi, anche per quelli insigniti della porpora cardinalizia. Bisognava presentare al papa una relazione sull’andamento della vita religiosa nelle rispettive comunità, ad intervalli fissi, proporzionali alla distanza da Roma: triennali per i vescovi della penisola italiana e delle aree adiacenti, quadriennali e quinquennali per quelli europei e nordafricani, decennali per tutti gli altri. Solo in presenza di legittimi impedimenti si poteva nominare un sostituto dotato di precisi requisiti, mentre per gli inadempienti erano previste pene severe: sospensione dalle cariche di governo, blocco delle rendite connesse, divieto di ingresso in chiesa. Più sfumati, ma non meno importanti, erano gli esiti concreti di quelle visite. I vescovi erano tenuti ad eseguire scrupolosamente gli eventuali ordini ricevuti, dopo la lettura e la valutazione delle relazioni presentate. Non erano incontri di cortesia, insomma. Essi davano vita a piccole pratiche, istruite e chiuse con regolari notifiche ai singoli prelati45. Sisto V dava molta importanza alle visite ad limina: fino all’ottobre del 1587 fu lui in prima persona a ricevere i vescovi e a dare loro le indicazioni più opportune, ma ne seguì da vicino gli an-

45   Il testo della costituzione è in Magnum Bullarium Romanum, VIII, cit., pp. 641-645. Le tracce di un istituto confrontabile con quello sistino sono esigue, pur se le visite ad limina sono attestate sin dal IV secolo. Vedi almeno O. Cavalleri, Visite pastorali e “Relationes ad limina”, in «Archiva Ecclesiae», 22-23, 1979/80, pp. 99 sgg., nonché il bilancio aggiornato di F. Ricciardi Celsi, Le Relationes ad limina. Aspetti della esperienza storica di un istituto canonistico, Torino 2005, in part. pp. 27-30.

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damenti anche successivamente, quando furono i cardinali della Congregazione del Concilio ad interessarsene. Non è facile però stabilire quale rilievo abbia assunto il nuovo istituto nel corso dei secoli. Una valutazione approfondita dell’iniziativa non è stata mai tentata, neppure per brevi periodi, anche per la straordinaria ricchezza della documentazione e l’ampiezza territoriale che essa riflette: tutto il mondo cattolico, non solo l’Italia, a differenza di tanti altri aspetti della rinnovata presenza romana in questi anni46. Alcune linee di tendenza sembrano però chiare fin dalla fase di avvio. Una prima riflessione riguarda il tasso di obbedienza dei vescovi, che nel primo quindicennio appare complessivamente basso, oltre che molto differenziato territorialmente. Basti qui ricordare che nei primi 6 anni su poco meno di 900 diocesi sparse per il mondo le visite compiute sono poco più di 400; che anche in Italia e nella penisola iberica, le aree più rispettose del nuovo obbligo, si presenta a Roma meno della metà dei vescovi; che aumentano rapidamente le richieste di proroga da parte dei ritardatari e di restituzione delle rendite sequestrate da parte degli inadempienti ‘pentiti’; che da subito ci si imbatte spesso nel rifiuto dei vescovi di andare di persona a Roma. Alla radice di quella disaffezione diffusa non ci fu solo il fastidio del viaggio. Scorrendo i registri di lettere della Congregazione, si ha la sensazione che il nuovo obbligo fosse avvertito dagli interessati come un obbligo sgradevole e di difficile esecuzione47. Ne è un pendant preciso il

46   Le ricerche sull’applicazione della bolla sistina sono per lo più confinate nell’ambito locale, con diffusi cedimenti all’apologetica, e concentrate sui testi delle Relationes ad limina (in ASV, Congregazione del Concilio, Relationes dioecesium, d’ora in avanti RD), molto di meno sui Libri Litterarum Visitationum Sacrorum Liminum (d’ora in avanti LLV), che raccolgono le valutazioni romane. Tra i pochi contributi che, per quanto ci risulta, sfuggono a questo cliché, vedi per le Relationes, D. Menozzi, L’utilizzazione delle relationes ad limina, in «Storia e problemi contemporanei», 9, 1992, pp. 135-156, e M. Aymard, Relationes ad limina et états des âmes: l’exemple de l’Italie méridionale, in «Mélanges de l’École Française de Rome» (Moyen Age-Temps Modernes), 86, 1974, pp. 379-418 (a proposito del rilievo della fonte per i demografi). Per i Libri Litterarum, vedi V. De Marco, L’immunità ecclesiastica nel Regno di Napoli durante il XVII secolo. Il caso delle diocesi di Puglia, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 18, 1989, pp. 123-156. 47   Ricaviamo i dati quantitativi da ASV, LLV, 1 (dall’indice dei nomi relativo agli anni 1587-1592) e 2 (per gli anni 1593-1601: qui però le indicazioni sono il frutto dello spoglio del manoscritto, in mancanza dell’indice dei nomi).

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silenzio abituale sui costumi degli ecclesiastici e sulle attività dei tribunali delle rispettive diocesi. È ancor più indicativo, però, come la Congregazione del Concilio valuta queste omissioni: i volumi che raccolgono i suoi rilievi sulle relazioni dei vescovi sono una fonte preziosa. È sottinteso che sono scelte comprensibili, che ben altre sono le questioni importanti. Negli schemi standardizzati delle loro risposte le note dolenti riguardano i sinodi, le visite pastorali e l’istituzione dei seminari, non certo la lotta serrata ai delitti del clero. Ma anche nei rari casi in cui sono i vescovi a chiedere lumi al riguardo, le indicazioni romane sono vaghe, se non evasive, a meno che non sia a rischio la loro giurisdizione. I criteri suggeriti al vescovo di Pistoia nel 1594 in materia di parroci scandalosi puntano sulla gradualità degli interventi: prima le ammonizioni, poi i castighi; solo successivamente, in caso di incorreggibilità, la revoca dell’incarico48. Solo una volta si registra un invito – nel 1590, al vescovo di Massa Carrara – a rompere gli indugi, a procedere senza riguardi contro chierici delinquenti e canonici abituati al cumulo dei benefici. L’argomento delle chiese prive di servizi religiosi, strumentalmente agitato contro le sue ammonizioni dagli interessati, è inconsistente: meglio pochi preti, ma buoni, gli scrivono i cardinali49. Si tratta però di interventi isolati. In questi anni le preoccupazioni romane in materia di giustizia penale sono concentrate su altri problemi. Ne è la riprova un’iniziativa promossa da Gregorio XIV, sulla scia di un progetto che solo la morte aveva impedito al predecessore, Sisto V, di portare a termine: la costituzione Cum alias, che nel 1591 disciplinò in modo nuovo il diritto d’asilo. Il suo intervento mirava a porre un freno all’intollerabile audacia di ministri secolari che abusavano della facoltà di estrarre dalle chiese i delinquenti, senza alcun riguardo per i luoghi sacri e per la giurisdizione della Chiesa. Non era in discussione il limitato gruppo di delitti gravissimi per il quale era tradizionalmente autorizzata la cattura dei rifugiati: dall’omicidio proditorio alla lesa maestà, dall’eresia agli omicidi commessi in aree immuni. Si dovevano pe-

  ASV, LLV, 2, c. 67v, 17 novembre.   ASV, LLV, 1, c. 60r-v, 11 aprile.

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rò rispettare sia le prerogative degli esponenti del clero – protetti, oltre che dal diritto di asilo, dal privilegio di foro – sia quelle delle autorità ecclesiastiche: negli spazi sacri gli arresti potevano essere eseguiti solo su licenza dei vescovi e alla presenza di loro delegati, bisognava trattenere le persone catturate nel carcere della Curia locale, la verifica degli addebiti era di competenza esclusiva dei giudici diocesani. Per il papa, più che la punizione di chi usava strumentalmente le aree immuni, contava la riaffermazione della centralità del foro ecclesiastico50. 10. Una Chiesa cattolica attenta soprattutto a sorvegliare l’Italia, a imporle un nuovo e più raffinato centralismo; vescovi a disagio, tra l’incudine di ecclesiastici e laici pronti alla denuncia e alla calunnia e il martello delle nuove Congregazioni romane nate per delegittimarli: non fu certo il modello di governo locale elaborato a Trento a guidare le strategie postconciliari. L’emblema di questa paradossale stagione è forse nelle contraddizioni che accompagnarono il ricorso massiccio a visitatori e vicari apostolici. Utilizzati per imporre ovunque la linea romana, anch’essi finirono spesso sotto le forche caudine dello strapotere centrale. In questo orizzonte è comprensibile che le relazioni triennali dei vescovi italiani al papa fossero fin dall’inizio documenti formali, redatti con fastidio e presentati di malavoglia, all’indomani di un concilio piegato sempre più agli interessi della Curia romana. Reticenza diffusa sui disordini del clero come sull’evangelizzazione, sull’esplosiva situazione dei monasteri femminili come sulla diffusione della magia, per ricordare solo alcune tra le dimensioni più controverse dell’attivismo della Chiesa postridentina: questa fu la risposta vescovile all’ennesimo ordine da eseguire senza fiatare. Perché mai, d’altra parte, di fronte a una centralizzazione così aggressiva, avrebbero dovuto collaborare con autorità romane così poco rispettose del loro ruolo? Questi atteggiamenti erano ancor più comprensibili per la giustizia penale. Se la lotta ai crimini comuni del clero continuava ad essere esposta all’alea di appelli strumentali, c’era ben poco

50   Il testo della Cum alias è in Magnum Bullarium Romanum, IX, Augustae Taurinorum 1865, pp. 424-428.

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da fare. Le relazioni ad limina avrebbero dovuto diventare requisitorie antiromane, impietose denunce delle contraddizioni alimentate dalle stesse autorità centrali. Era meglio non toccare quel tasto. Oltre tutto, se nessuno a Roma dava particolare importanza a quelle cause, a meno che non provocassero conflitti di giurisdizione o ricorsi di parte, non era proprio il caso di rinunciare, non richiesti, a gestire in proprio spazi così importanti, che già era difficile difendere nei gineprai locali. In un orizzonte così intricato, una domanda allora s’impone. Se quell’aspetto della normativa tridentina fu messo in soffitta, cambiò davvero qualcosa nell’Italia del tardo Cinquecento nel governo dei crimini comuni del clero? Come si mossero ordinariamente i tribunali ecclesiastici locali, segnatamente quelli vescovili, che secondo gli schemi tridentini avrebbero dovuto dare un contributo decisivo al rinnovamento della Chiesa? Provarono davvero a stringere i freni sui tanti esponenti del clero abituati a vivere in modo incompatibile con i nuovi, severi modelli delineati a Trento, approfittando semmai, come fece a Levico il Campeggi, di visite pastorali stravolte? O ci rinunciarono, sia per dare spazio a un’opera paziente di convincimento e di ‘conversione’, sia perché scoraggiati dalle resistenze locali e dagli imponenti processi di centralizzazione degli anni Settanta-Ottanta?

III

Una giustizia di parte

1. Ricostruire il funzionamento dei tribunali penali abilitati a giudicare gli ecclesiastici nell’Italia tridentina è difficile. Non si sa neppure – né sarà semplice accertarlo – quali e quanti fossero. Anche a voler considerare solo quelli della Chiesa, la presenza di giurisdizioni concorrenti e la loro sovrapposizione territoriale sono un primo nodo intricato. Alla rete diocesana, che comprendeva in Italia circa 270 sedi, bisogna sommare le abbazie nullius, le prelature apostoliche e le altre istituzioni ecclesiastiche – a cominciare dai Capitoli delle Cattedrali e dalle arcipreture – che potevano giudicare il clero. Delle loro attività si sa poco o nulla, ma sono organismi che di solito difendevano con tenacia le proprie prerogative. Un discorso a parte merita poi la vera e propria terra di nessuno – storiograficamente parlando – dei tribunali degli Ordini religiosi. Non soltanto non sono mai stati studiati in modo approfondito, ma sembra improbabile che ci si possa riuscire: dei loro archivi restano poche tracce. Se però si riflette sulla circostanza che si tratta di istituzioni in larga misura decentrate e che molti conventi e monasteri sono dotati di carceri, l’ipotesi che il foro penale della Chiesa contasse complessivamente nell’Italia tridentina su non meno di un migliaio di sedi potenzialmente attive è verosimile. Ancora, si deve tenere presente il peso della giustizia signorile e di quella statale. Quest’ultima, ad esempio, ebbe per buona parte del Cinquecento un ruolo di primo piano nel trattamento dei crimini comuni del clero. Dulcis in fundo, se a queste 68

considerazioni si aggiunge il dato che le serie processuali relative ai tribunali vescovili sono in larga misura disperse, indisponibili o faticosamente consultabili, si comprende come ogni approssimazione sia per ora problematica. Malgrado tutto, però, un punto di partenza solido c’è. All’indomani del concilio di Trento, l’azione dei tribunali penali della Chiesa italiana, ovunque possiamo misurarla, è in netto aumento rispetto al passato, o semplicemente comincia, e ha nel mirino soprattutto il clero. È quanto si osserva sia nelle corti diocesane e nei tribunali delle nunziature, dove peraltro lievitano tutte le cause (si pensi a quelle civili e matrimoniali nelle Curie di Napoli e Venezia e, in quest’ultima città, al foro del nunzio), sia nei competenti organismi degli Ordini. A Venezia e nella Repubblica veneta, a Pisa, a Napoli e nel Mezzogiorno – le aree più studiate in questa ricerca – i confronti con le attività degli stessi giudici nei decenni centrali del Cinquecento sono eloquenti. Identici rilievi si possono avanzare per Milano, malgrado la provvisorietà dell’inventario, riguardo al ventennio di governo di Carlo Borromeo, e per Pistoia. L’indicazione più precisa viene per ora dalla piccola diocesi campana di Telese: il foro criminale vescovile comincia a funzionare con continuità nel 1579 e da allora opera ininterrottamente fin verso gli inizi dell’Ottocento, soprattutto contro uomini di Chiesa. Dinamiche simili si registrano anche a Brescia, Genova, S. Agata dei Goti, Capaccio e Sarno1. Una stretta di freni potrebbe

1   I dati di Telese e Venezia sono i più solidi, perché ricavati da due inventari settecenteschi. Il primo è nell’Archivio storico diocesano di Cerreto SannitaTelese (d’ora in avanti ASDCT), Criminalia ab anno 1579 usque 1737 (ma aggiornato fino al 1804; utili riferimenti alla serie telesina sono in R. Zarro, Note sul tribunale criminale vescovile della diocesi di Telese (1579-1699), in «Campania Sacra», 25, 1994, p. 46); il secondo, in ASPV, è costituito da Scomparin. Per ciò che resta delle carte criminali della Curia milanese, siamo debitori alla gentilezza del direttore dell’Archivio storico diocesano di Milano, dott. Fabrizio Pagani: la valutazione espressa nel testo si ricava dai preziosi inventari in corso di elaborazione che ci ha fornito. Allo stesso modo, per Pistoia ringraziamo la direttrice dell’Archivio vescovile, dott.ssa Lucia Cecchi, e la dott.ssa Piera Iacomelli, per la copia dell’inventario dattiloscritto del fondo. Anche per Brescia dobbiamo alla grande disponibilità del direttore dell’Archivio diocesano, prof. Mario Taccolini, e della dott.ssa Lucia Signori, la copia dell’inventario degli atti criminali redatto da mons. A. Masetti Zannini. Per gli altri fondi diocesani, dobbiamo le indicazioni relative a Genova alla gentilezza di don Paolo Fontana, che ne ha

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esserci stata anche nell’azione dei tribunali degli Ordini religiosi. Oltre alle tracce rimaste nei fondi inquisitoriali e nell’archivio giudiziario della nunziatura veneziana, ne sono uno specchio fedele le sentenze emanate dai giudici della Provincia domenicana del Regno di Napoli: dal 1565 le condanne aumentano nettamente rispetto al quindicennio precedente2. Per avere un’idea del peso di questi dati, basta dare uno sguardo ai procedimenti avviati tra il 1581 e il 1600 a Telese, che per ora è la sola diocesi italiana in cui è nota, accanto alla serie presunta dei processi penali ecclesiastici, la consistenza complessiva del clero. Nell’arco di una generazione il 27% degli uomini di Chiesa finisce alla sbarra3. Insieme ad essi, tra l’altro, fu travolto anche accennato (si tratta di 143 filze, che forse raccolgono più di 10.000 processi tra il 1569 e il 1852) in “Permissione divina” e “malitia humana”. Giudicare i miracoli nella Genova moderna, in «Sanctorum», 7, 2010, pp. 173-178, p. 173. Per S. Agata dei Goti (dove il direttore vieta di studiare le carte criminali) il dato è desunto dalla rapida lettura, consentita eccezionalmente in anni lontanissimi a uno degli scriventi, di un prezioso inventario settecentesco, in tutto e per tutto simile a quello di Telese; per quelli riguardanti Capaccio dalla serie criminale dell’Archivio diocesano di Vallo della Lucania; per quelli di Sarno dalle ricerche di Gaetana Mazza, che qui ringraziamo per averle messe a nostra disposizione. I processi criminali più antichi conservati nell’Archivio storico del Vicariato di Roma furono mandati al macero nell’Ottocento (lo ha scoperto A. Groppi, Il welfare prima del welfare. Assistenza alla vecchiaia e solidarietà tra generazioni a Roma in età moderna, Roma 2010, pp. 193-194; ringraziamo il prof. Domenico Rocciolo, direttore dell’Archivio, per averci fornito copia della scheda). Per il funzionamento del foro criminale di altre istituzioni ecclesiastiche locali dopo Trento, conosciamo solo il caso dei giudici dell’abbazia di Moggio Udinese, illustrato in S. Comuzzi, Susanna e il parroco Mirai. Storia di un curato della montagna friulana nell’avanzare della Controriforma, Verona 2002. 2   Quanto ai fondi inquisitoriali, si vedano i dati ricavabili da AAP, Inquisizione, e da ASDN, Sant’Ufficio. Per la nunziatura veneziana fa testo l’inventario curato da G. Roselli (L’archivio della Nunziatura di Venezia. Sezione 2a (1550-1797). Inventario, Città del Vaticano 1998). La serie domenicana, per gli anni 1555-1626, è invece in Archivio di Stato di Napoli (d’ora in avanti ASN), Monasteri soppressi, 582, e l’abbiamo consultata nelle riproduzioni integrali in possesso dell’amico Michele Miele, che qui ringraziamo per la gentilezza. Del medesimo vedi Giordano Bruno: i documenti napoletani, in «Bruniana e Campanelliana», 9, 2003, pp. 159-203, dove (pp. 186-203) sono pubblicati due elenchi di domenicani della provincia del Regno processati tra il 1550 e il 1600 (conservati nell’Archivum Generale Ordinis Praedicatorum, d’ora in avanti AGOP). 3   È quanto risulta dall’incrocio tra i dati giudiziari di ASDCT, Criminalia, e quelli contenuti in un prospetto allegato alla relazione del 1597 del vescovo Savino (in ASDN, RD, 795/A, c. 41r). Sostanziosi riferimenti al processo al de

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da pesanti accuse e costretto a dimettersi, nel 1587, anche uno dei quattro vescovi che inaugurarono il nuovo corso, il domenicano spagnolo Giovanni Stefano de Urbieta. Se ritmi repressivi così intensi fossero attestati anche nel resto d’Italia, dove forse il clero secolare comprendeva non meno di 50.000 persone, i soli giudici diocesani potrebbero aver avviato nell’ultimo ventennio del Cinquecento indagini e/o processi sul conto di oltre 10.000 tra preti e chierici: se non una svolta, insomma, una prima inversione di tendenza rispetto al passato. Non è semplice spiegare questi sviluppi. Sono gli stessi anni in cui si costruisce in buona parte della penisola la rete dei tribunali dell’ortodossia, ma proprio il confronto con l’Inquisizione è indicativo. Pur a fronte di una documentazione giudiziaria falcidiata, se ne è potuta delineare in modo accettabile la fisionomia, grazie al suo assetto fortemente centralizzato. Al contrario, per il foro criminale ecclesiastico, l’indisponibilità di molte serie processuali è aggravata dalla inesistenza di scambi ordinari di corrispondenze tra giudici locali e autorità romane. I processi penali intentati ad esponenti del clero non suscitano abitualmente particolare interesse in queste ultime, a meno che da singoli abusi non scaturiscano conflitti di giurisdizione o scandali. Incide poco sui tribunali criminali della Chiesa anche la nascita, all’indomani del concilio di Trento, di nuove Congregazioni cardinalizie competenti a vario titolo sul clero, come quelle dei Vescovi e Regolari e del Concilio. La prima non svolge una funzione di indirizzo paragonabile a quella esercitata dai vertici dell’Inquisizione romana sui propri delegati locali; la seconda mostra scarsa attenzione alla giustizia penale ecclesiastica4. Non che le relazioni dei vescovi ai papi con-

Urbieta sono in ASV, Congregazione dell’Immunità Ecclesiastica, Acta, 151798. Per le dimissioni vedi G. van Gulik, C. Eubel, Hierarchia cattolica medii et recentioris aevi, III, Monasterii 1923, p. 312. Un accenno reticente alla sua morte in patria (‘dove dopo tre anni di ottimo governo si era ritirato’) è quanto gli dedica G.M. Cavalieri, Galleria de’ Sommi Pontefici, Patriarchi, Arcivescovi e Vescovi dell’Ordine de’ Predicatori, I, Benevento, nella Stamparia Arcivescovile, 1696, p. 483. 4   Per le istituzioni ecclesiastiche e le rispettive giurisdizioni un buon quadro d’insieme è in Greco, La Chiesa in Italia cit. Per il clero regolare il punto di riferimento più ricco riguarda i cappuccini, grazie ai dieci volumi di fonti relative agli anni 1573-1646 pubblicate in V. Criscuolo, I Cappuccini e la Congregazione

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tengano molto di più. Negli stessi anni in cui le attività dei loro tribunali aumentavano a vista d’occhio, essi avevano pochissima voglia di darne conto a Roma. Anche questa dimensione del problema aiuta a ricostruire come stava evolvendo la repressione dei delitti del clero in Italia, all’indomani del concilio di Trento. 2. Come si è accennato, l’obbligo di presentare personalmente al papa ogni tre anni rapporti sul proprio impegno pastorale, operativo all’incirca dal 1588, provocò in buona parte dei vescovi italiani disagio, forse anche fastidio. Che cosa dovessero scriverci non era chiaro: non c’erano schemi da seguire. Tuttavia, l’ampia discrezionalità di cui godevano era un’arma a doppio taglio, che li poteva esporre al rischio di lavate di testa da parte di autorità centrali da tempo poco tenere nei loro confronti. Essi scelsero perciò un’ufficialità composta e decorosa, poco compatibile con la segnalazione di problemi e difficoltà, che d’altronde i vertici romani non ignoravano: dall’inizio degli anni Settanta variopinti scenari di vita religiosa locale, in cui la libertà di costumi degli ecclesiastici aveva spesso largo spazio, campeggiavano sia nei procedimenti trasmessi ai cardinali del Sant’Ufficio, sia nelle infinite controversie affidate alla Congregazione dei Vescovi e Regolari. Al contrario, nelle relazioni al papa gran parte dei vescovi italiani non ha chiarimenti da chiedere o dubbi da sciogliere e ricopia spesso i testi del triennio precedente. Alcuni scrivono a chiare lettere che dopo tre anni c’è poco da aggiungere5. Verso la fine del secolo il modello di relazione più comune si limita a descrivere le istituzioni diocesane, con vaghi accenni ai fedeli e al clero, ma anromana dei Vescovi e Regolari, Roma 1989-2004. Per l’Inquisizione in Italia, vedi: J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’Inquisizione romana, Milano 1991; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori e missionari, Torino 1996; Romeo, L’Inquisizione cit.; Del Col, L’Inquisizione in Italia cit.; Black, The Italian Inquisition cit. Per la Congregazione dei Vescovi e Regolari il rilievo è il frutto di prolungate ricerche nel suo sterminato archivio, in ASV: sistematiche nelle sezioni Registra Episcoporum e Registra Regularium tra il 1573 e il 1625 e per sondaggi decennali fino al tardo Settecento, nonché nei Registra Monialium (sondaggi decennali dagli inizi del Seicento alla fine del Settecento). La sezione Positiones è stata studiata sistematicamente tra il 1573 e il 1578, per sondaggi quinquennali tra il 1579 e il 1618 e per singoli anni nel corso del Seicento. 5   L’articolazione delle relazioni è sostanzialmente identica ovunque. Per il ridotto numero dei vescovi che presentano dubbi, la riprova è in ASV, LLV.

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che ad aspetti importanti dei decreti conciliari, come l’indizione dei sinodi e lo svolgimento delle visite pastorali. Una fitta nebbia avvolge infine le attività dei rispettivi tribunali, anche dove sono in forte crescita, con l’eccezione dei problemi di giurisdizione e dell’eresia (ma per quest’ultima solo in aree a rischio, come a Torino e la Valtellina, o, per l’Europa, in Francia e Germania)6. Gli scarni riferimenti agli uomini di Chiesa si appuntano per lo più sull’istruzione e la professionalità, non sui costumi. I panni sporchi, insomma, si lavano in famiglia7. Non a caso, forse, il riferimento più pregnante alla giustizia penale ecclesiastica rintracciato in qualche centinaio di rendiconti italiani di questi anni non riguarda i delitti del clero, ma le disfunzioni di un tribunale influente come quello napoletano. Dopo i documenti di facciata presentati a nome dell’arcivescovo Annibale di Capua tra il 1590 e il 15958, il successore, il cardinale Alfonso Gesualdo, ritenne doveroso illustrare nel 1599, nella sua prima relazione, i provvedimenti d’urgenza adottati per combatterle. Neppure per lui, è vero, la trasparenza era un imperativo catego6   I rilievi si riferiscono, per il tardo Cinquecento, allo spoglio sistematico dei rendiconti di tutte le diocesi dello Stato pontificio e della selezione che segue (in ordine alfabetico, continuata fino alla fine del Seicento): Acerra, Acqui, Agrigento, Alba, Aquileia, Arezzo, Bergamo, Brescia, Capaccio, Capua, Coira, Como, Cremona, Curzola, Feltre, Firenze, Fondi, Genova, Grosseto, Lacedonia, Lucca, Milano, Modena, Napoli, Nola, Padova, Palermo, Pisa, Pozzuoli, Savona, Siena, Telese, Torino, Veglia, Venezia, Ventimiglia, Verona. Le rispettive segnature sono agevolmente ricavabili dall’Indice delle Relationes, in ASV. Le decisioni romane di fine Cinquecento sono in ASV, LLV, mss. 1 e 2. 7   Per i vescovi del mondo fa testo la documentazione conservata in ASV, LLV. Per gli italiani, due esempi in ASV, RD, 509/A, c. 41v (sono le lagnanze contro i giudici secolari contenute nella relazione milanese del 1594) e 121/A (identiche lamentele dell’arcivescovo di Benevento nei rendiconti del 1588 e del 1591). Per i problemi di giurisdizione c’è solo l’imbarazzo della scelta, dalla sorpresa dei cardinali nell’apprendere dal vicario patriarcale di Venezia che la Curia locale utilizzava le carceri dei laici per detenervi gli ecclesiastici (ASV, LLV, 1, c. 111r-v, 27 aprile 1592) alle raccomandazioni al vescovo di Traù su come tutelare i diritti della Chiesa (ASV, LLV, 2, c. 72r, 15 dicembre 1594). 8   I tre testi sono in Le Relazioni ad limina dell’archidiocesi di Napoli in età moderna, Introduzione, testo e note a cura di M. Miele, numero unico di «Campania Sacra», 2011, pp. 2-19. La sola altra diocesi italiana di cui sono stati pubblicati integralmente i rendiconti triennali per l’età moderna è Catania, grazie alla meritoria iniziativa di A. Longhitano, Le relazioni «ad limina» della diocesi di Catania (1595-1890), Catania 2009.

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rico. Tutt’altro. Egli tace, ad esempio, sul tentativo di ostacolare in ogni modo l’azione del ministro napoletano del Sant’Ufficio, a tutela del monopolio inquisitoriale della sua Curia, e sulle ingerenze nelle attività della Vicaria criminale, il più potente tribunale penale del Viceregno9. Anche per gli eccessi del clero della capitale se la cava con poco: è numeroso, non è fatto solo di napoletani, non vive solo di entrate ecclesiastiche e perciò costringerlo a una ‘vera’ disciplina è impossibile. Si fa quel che si può, con editti, esortazioni, ammonizioni e qualche castigo soltanto quando è inevitabile. Ammette però che il suo tribunale – cosa ben nota agli stessi inquisitori generali – serviva più ad arricchire chi lo faceva funzionare che a rendere giustizia. Corruzione diffusa, estorsioni, costi altissimi per gli utenti, abusi d’ufficio: era stato costretto – scriveva – ad intervenire con severità, dopo aver chiesto e ottenuto il via libera dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari. Aveva reso più difficili gli imbrogli, aveva anche decurtato le spettanze a notai e scrivani, come al vicario generale e agli ufficiali di più alto grado, ma senza rimuovere o destinare ad altri incarichi i responsabili. Una soluzione che oggi può apparire blanda, ma era forse coraggiosa, visto il rango di molti dei corrotti10. 3. Intense attività penali promosse dai giudici vescovili, ma in sordina, come se non rientrassero tra le riforme in corso, scarso interesse delle autorità centrali della Chiesa per i nuovi scenari: come spiegare questa situazione? Se non erano le competenti Congregazioni romane a premere sui tribunali diocesani della penisola per un impegno più serrato su quel fronte e se neppure i prelati che li guidavano attribuivano ad esso un rilievo particolare, dove affonda le radici la stretta repressiva di questi anni? Una prima ipotesi da vagliare riguarda gli eventuali contraccolpi della costruzione coeva della rete inquisitoriale locale in buona parte della penisola. Si può ritenere plausibile che l’aumento esponenziale dei controlli del Sant’Ufficio su abusi in precedenza tollerati o affidati all’azione pastorale (si pensi alla magia o agli eccessi alimentari)

9   G. Romeo, Aspettando il boia. Condannati a morte, confortatori e inquisitori nella Napoli della Controriforma, Firenze 1993. 10   Miele, Le Relazioni cit., p. 107.

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abbia favorito un rafforzamento complessivo della giustizia penale ecclesiastica in Italia? La risposta è negativa. Le verifiche effettuate non solo lo escludono, ma invitano a riflettere sull’invadenza della giurisdizione del Sant’Ufficio a danno dei tribunali criminali della Chiesa. Essa è netta nel Centro-Nord, dove le sedi dell’Inquisizione sono più numerose, ma si osserva anche nelle aree in cui la sua rete periferica ha maglie più larghe (nello Stato pontificio) o è quasi inesistente (nel Regno di Napoli, dove i controlli sull’ortodossia sono efficaci solo nella capitale). La riorganizzazione dei tribunali di fede, anziché avere riflessi positivi sul foro penale ordinario della Chiesa, ne ridimensionò il ruolo. Vediamo perché. In primo luogo, consapevoli dell’ostilità dei cardinali del San­ t’Uf­ficio a un loro impegno attivo nella lotta all’eterodossia, pochi vescovi italiani si impegnarono stabilmente nel tardo Cinquecento in quei processi. Nelle aree in cui non c’erano inquisitori pesarono la debolezza delle loro Curie (si pensi ai tanti piccoli episcopati del Sud) e la vicinanza di Roma (è il caso del Lazio); ovunque, inoltre, furono una remora l’impreparazione e il timore di castighi da parte della Congregazione11. Non si possono infine sottovalutare altre due circostanze. Nell’Italia di questi anni, come d’altronde in Castiglia12, preti, frati e chierici sfidano l’ortodossia molto più dei laici: se la consistenza del clero rispetto alla popolazione si attesta tra l’1,5% e il 2%, nelle serie inquisitoriali finora meglio inventariate, tra il 1570 e la fine del secolo, gli ecclesiastici sospettati o processati per delitti contro la fede oscillano tra il 23,7% (Napoli) e all’incirca l’11% (Aquileia) del totale delle persone finite nel mirino dei giudici13. Il che vuol dire che negli ultimi decenni del secolo, in buona parte della penisola, vescovi e responsabili di

11   È per ora da considerare un’eccezione, soprattutto, ma non solo, alla luce dello spoglio sistematico di ACDF, DSO, il caso di Aquileia e Concordia (al contrario di quanto scrive A. Del Col, Vescovi, Italia, s.v., in Dizionario storico dell’Inquisizione, Pisa 2011, d’ora in avanti DSI, 3, p. 1673). 12   Vedi I. Fernández Terricabras, Clero, s.v., in DSI, 1, pp. 342-343. 13   È quanto si ricava dall’incrocio tra i dati degli inventari delle serie inquisitoriali di Aquileia (L’Inquisizione del patriarcato di Aquileia e della diocesi di Concordia. Gli atti processuali, 1557-1823, a cura di A. Del Col, Trieste 2009) e Napoli (Il fondo “Sant’Ufficio” dell’Archivio Storico Diocesano di Napoli. Inventario (1549-1647), a cura di G. Romeo, numero unico di «Campania Sacra», 34/2003).

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Ordini religiosi sono insidiati spesso dagli inquisitori nel governo degli uomini di Chiesa soggetti alle rispettive giurisdizioni. Un numero non proprio esiguo dei loro ‘sudditi’ può essere in qualsiasi momento catturato e punito da giudici che rispondono solo ai cardinali del Sant’Ufficio e non mostrano particolare riguardo per i superiori. Per questi ultimi, inoltre, è molto difficile, in caso di condanna, dar loro una mano. Si può solo sperare nella grazia o, per i religiosi, nell’intervento del cardinale protettore, non in appelli di comodo o insabbiamenti14. Non bisogna sottovalutare, infine, un altro aspetto insidioso della riorganizzazione inquisitoriale. Una parte non irrilevante degli eccessi del clero – la celebrazione di messe senza il requisito dell’ordinazione, l’adescamento in confessione, il sacrilegio e il matrimonio – è trasferita nel tardo Cinquecento tra i delitti contro la fede ed è assoggettata a punizioni severe, fino al patibolo (è il caso degli aspiranti sacerdoti che dicevano messa)15. Nell’Italia più fittamente presidiata dagli inquisitori, era una stretta bruciante per i vescovi e i responsabili degli Ordini religiosi. In una sola direzione il rafforzamento della rete del Sant’Ufficio rese talvolta più forte il ruolo giudiziario dei vescovi italiani: nelle sollecitazioni ad essere più vigili verso le ingerenze dei tribunali secolari, soprattutto statali. In quei casi l’esercizio di autonome competenze in materia di ortodossia poteva essere utile per difendere strumentalmente il diritto di perseguire delitti controversi (è il caso di Napoli e dei vescovati del Viceregno)16. Se si escludono questi contraccolpi, non risulta però che una rete inquisitoriale a maglie fitte come quella che presidiò buona parte dell’Italia dagli anni Settanta-Ottanta del Cinquecento ab-

14   Per le pratiche di grazia nella storia europea un buon punto di riferimento è in Grazia e giustizia. Figure della clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea, a cura di K. Härter e C. Nubola, Bologna 2011. 15   Per l’adescamento in confessione, vedi W. de Boer, Sollecitazione, s.v., in DSI, 3, pp. 1451-1455, peraltro largamente insufficiente, e l’importante contributo di B. Fassanelli, «Sul modo di fare le diligenze nelle cause di sollecitazione ad turpia». Un dibattito in Sant’Ufficio alle soglie del XX secolo, in Id., «Sul capo dell’Unto» cit., pp. 133-188; per i celebranti non ordinati vedi F. Albizzi, De Inconstantia in Iure Admittenda vel non, Amstelaedami, Sumptibus Ioannis Antonij Huguetan, 1683, pp. 420-421. 16   Vedi: Romeo, Aspettando il boia cit., p. 58; Id., Amori cit., p. 49.

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bia influito più di tanto sui poteri e sulle competenze dei vescovi e degli Ordini religiosi. Per molti aspetti della vita civile e religiosa – si pensi soltanto alla confessione dei peccati e alla predicazione – le autorità ecclesiastiche locali continuarono a godere di un’egemonia indiscussa, anche nel Centro-Nord, dove i tribunali del Sant’Ufficio esercitarono, soprattutto nei decenni conclusivi del secolo, un’influenza notevole. I vescovi, in particolare, obbligati alla residenza e a una serie di adempimenti pastorali, come la regolare indizione di sinodi e le ispezioni frequenti del territorio diocesano, avevano a disposizione strumenti adeguati per combattere gli eccessi del clero. Se li abbiano utilizzati, e con quali risultati, è quanto dobbiamo ora verificare. 4. Un primo punto di riferimento viene dai decreti sinodali. Se è vero che essi stigmatizzano abitualmente le infrazioni collegate al ministero sacerdotale e le debolezze più comuni tra gli ecclesiastici (convivenze proibite, abitudine a vestire come laici, a camminare armati o ad alzare troppo il gomito), le sanzioni previste per la loro inosservanza restano quelle, tradizionali, di natura pecuniaria. Ai delitti veri e propri, invece, la legislazione sinodale abitualmente non dà spazio: ci sono i dettami del diritto canonico, s’intende, ma si tratta di dimensioni su cui di solito in quella sede si sorvola. Decreti importanti come quelli inseriti negli Acta Ecclesiae Mediolanensis non lasciano dubbi: pur ispirati al rigore di Carlo Borromeo e attentissimi a delineare il modello ideale di chierico e l’organizzazione dei tribunali ecclesiastici, essi ignorano il problema degli uomini di Chiesa che si macchiano di crimini comuni17. Allo stesso modo, la decisione del patriarca di Venezia, Giovanni Trevisan, di pubblicare una silloge delle costituzioni quattro-cinquecentesche della diocesi, con particolare attenzione a quelle relative ai costumi del clero, continua a muoversi nell’ottica degli abusi ‘professionali’. L’azione di contrasto resta affidata essenzialmente a sanzioni pecuniarie e a provvedimenti punitivi riguardanti il ‘mestiere’ di prete18. 17   Acta Ecclesiae Mediolanensis, Mediolani, apud Pacificum Pontium, 1583, cc. 10v-12r (per i chierici) e 13v-14r (per i tribunali). 18   Constitutiones Patriarchatus et Cleri Venetiarum..., Venetiis, Ex Bibliothe­ ca Aldina, 1582, passim.

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Diverso è il discorso per le visite pastorali. Ispezionare il territorio diocesano consentiva ai vescovi di farsi un’idea più precisa della vita della Chiesa e del clero, di ricevere lamentele e ricorsi, di adottare provvedimenti. Era già successo nell’Italia del TreQuattrocento, quando i visitatori più solerti avevano interrogato gli esponenti più autorevoli delle comunità locali sui costumi e sullo zelo dei sacerdoti. Nell’Italia tridentina quel modello tende a scomparire, in primo luogo perché c’è una pregiudiziale nei confronti dei laici. Sul conto degli ecclesiastici non sono credibili, perché li avversano per partito preso. Se hanno qualcosa da ridire nei loro confronti, devono esporsi in prima persona, scegliere gli accidentati percorsi della giustizia. In Italia, perciò, all’indomani del concilio, in materia di costumi del clero le fonti dei visitatori sono le deposizioni riservate degli uomini di Chiesa, non sempre verbalizzate e assoggettate spesso all’obbligo della segretezza. È l’impostazione che prevale in tre dei più influenti manuali per visitatori scritti nell’Italia tridentina, sia pur con toni e contenuti piuttosto diversi. I primi due, pubblicati negli anni Ottanta da Paolo Fusco, vescovo di Sarno, e dal domenicano Feliciano Ninguarda, insigne prelato valtellinese attivo come nunzio apostolico (Germania e Austria), ma anche come vescovo (Scala, S. Agata dei Goti, Como), convenivano su una risposta agli eccessi del clero centrata non sul castigo, ma sul ravvedimento: l’equilibrio tra misericordia e rigore era uno dei segreti di quel mestiere difficile19. Tuttavia,

19   Vedi: P. Fusco, De visitatione et regimine ecclesiarum libri duo, Romae, Ex Typographia Vincentij Accolti, 1581, pp. 8-11 e 31-41 (in part. p. 37; sull’opera vedi P. Caiazza, La trattatistica pastorale tra riforma cattolica e controriforma: il “De visitatione et regimine ecclesiarum” di Paolo Fusco (1581), in «Campania Sacra», 10, 1979, pp. 131-175); F. Ninguarda, Manuale visitatorum duobus libris complectens visitationi subiacentia, Romae, Ex officina Accoltiana in Burgo, 1589, pp. 17, 19-20, 27-28 e passim. Sullo zelante domenicano vedi almeno: Il vescovo, il clero, il popolo. Atti della visita personale di Feliciano Ninguarda alle pievi comasche sotto gli Svizzeri nel 1591, a cura di S. Bianconi e B. Schwarz, Locarno 1991; U. Mazzone, Visitatori in Valtellina tra ’500 e ’600. Visite pastorali, visita apostolica e “relationes ad limina”, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 27, 1991, pp. 27-54, in part. pp. 40-45, per la visita condotta nel 1589 come vescovo di Como; M. Miele, Le iniziative pastorali di Feliciano Ninguarda nella diocesi di Sant’Agata dei Goti (1583-1588), in Feliciano Ninguarda riformatore cattolico, a cura di G. Perrotti e S. Xeres, Sondrio 1999, pp. 109-160. Per le varie tipologie di visita praticate nell’Europa moderna vedi il bilancio tracciato

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pochi anni dopo, un terzo manuale, redatto da Paolo Salodi, canonico della cattedrale di Milano, delineava un profilo di visitatore nettamente sbilanciato verso la repressione. Per l’autore il dosaggio tra rigore punitivo e comprensione verso chi sbaglia non doveva essere l’espressione di valutazioni discrezionali, della capacità di adattare la norma alle singole situazioni. Contavano la notorietà dei delitti, lo scandalo, l’incorreggibilità dell’ecclesiastico delinquente. Da quelle variabili doveva scaturire la decisione di maggiore rilievo per i vescovi e i loro collaboratori: se definirne i profili criminali subito, in via stragiudiziale, comprese le eventuali misure punitive (multe, penitenze), o intimare agli interessati il precetto di comparire in giudizio. Su un solo aspetto del ruolo repressivo dei visitatori i tre manuali erano unanimi. In nessun caso, per il clero, i procedimenti penali possono rendere pubblici abusi o delitti non noti. Bisogna occultarli, soprattutto quelli di natura sessuale. In caso contrario, si otterrebbe solo il paradossale risultato di rinfocolare l’avversione endemica dei laici per gli ecclesiastici: una leggerezza imperdonabile per un prelato20. 5. Iniziative rigorose come quelle del Campeggi non erano insomma colpi di testa di un vescovo imprudente. La vita disordinata del parroco di Levico era di pubblico dominio, i duri provvedimenti adottati nei suoi confronti ampiamente giustificati, la sua resistenza avrebbe potuto comportare risposte anche più severe. Non è da escludere perciò che almeno nell’Italia più sensibile al rigore borromaico una spinta potente a stringere i freni sugli eccessi di tanti uomini di Chiesa sia venuta anche da visite pastorali condotte da prelati zelanti e agguerriti. Al di là della Milano guidata da Carlo Borromeo, che resta un caso a sé, i controlli severi, conditi di aspri rimproveri e di punizioni, effetda A. Turchini, La visita come strumento di governo del territorio, in Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi, W. Reinhard, Bologna 1996, pp. 335382 (in particolare pp. 362-377); per le visite alla luce dei rapporti tra Chiesa e Stato, C. Nubola, Visite pastorali fra Chiesa e Stato nei secoli XVI e XVII, ivi, pp. 383-413. 20   P. Salodi, Praxis compendiosa de visitatione, Mediolani, apud Pacificum Pontium, 1593, soprattutto pp. 161-186. Per la tutela della segretezza nelle procedure relative al clero: ivi, p. 164. Identiche considerazioni in Fusco, De visitatione cit., p. 37, e Ninguarda, Manuale visitatorum cit., p. 19.

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tuati tra il 1579 e il 1581 dai visitatori trentini, e quelli disposti da Ninguarda come vescovo di Como ne sono per ora il migliore esempio21. Sembra però largamente improbabile che un’impostazione così intransigente si sia imposta in tutta la penisola. Non a caso, crediamo, di lì a poco un trattatista navigato come il napoletano Marco Antonio Genovese si pronunciò al riguardo in modo nettamente diverso. Per lui, se era scontato il diritto dei visitatori di processare e condannare ecclesiastici, non lo era altrettanto l’esercizio abituale di quelle facoltà. Quando i loro abusi non provocano scandalo, infamia o pregiudizio di terzi, è meglio astenersene: ordinariamente una visita pastorale deve mirare a correggere, non a reprimere22. Su un altro aspetto del problema, inoltre, i manuali più oltranzisti tacciono, proprio come i sinodi: sui crimini che più stridono con il modello del sacerdote ideale, quelli che comportano la perdita del privilegio di foro. Che cosa fare in quei casi non rientra tra le competenze che il visitatore è tenuto ad acquisire. Si tratta di questioni che riguardano i giudici e si discutono nei manuali di diritto, come si è visto a proposito dei trattati di età pretridentina come quelli di Juan Bernardo Diaz de Lugo e Pietro Follerio. Da quei testi, ma anche da concrete esperienze, presero spunto nel tardo Cinquecento le opere di due prelati formatisi in contesti molto diversi, come Feliciano Ninguarda, il domenicano valtellinese già ricordato, e il napoletano Marco Antonio Genovese, alto ufficiale della Curia arcivescovile di Napoli e poi vescovo nel Regno. L’Enchiridion de censuris, de irregularitate et privilegiatis dell’uno e la Praxis Archiepiscopalis Curiae Neapolitanae dell’altro, pur diversamente concepite, hanno in comune, per quanto concerne il foro penale ecclesiastico,

21   Per Milano si può consultare il ricco, ma discutibile volume di W. de Boer, La conquista dell’anima. Fede, disciplina e ordine pubblico nella Milano della Controriforma, Torino 2004 (ed. or. Leiden 2001). Per Trento vedi C. Nubola, Conoscere per governare. La diocesi di Trento nella visita pastorale di Ludovico Madruzzo (1579-1581), Bologna 1993, in part. pp. 347-378; per le pievi comasche sotto gli svizzeri Bianconi, Schwarz, Il vescovo, il clero cit., passim. Per l’andamento delle visite pastorali in età moderna in Spagna, un altro paese ‘difeso’ dall’Inquisizione, un buon punto di riferimento è nel recente bilancio di P. Broggio, Visite pastorali, Spagna, in DSI, 3, pp. 1695-1697. 22   M.A. Genovese, Praxis archiepiscopalis curiae Neapolitanae, Neapoli, apud Io. Iacobum Carlinum, 1602, pp. 112-113.

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pochi, importanti obiettivi. Non certo una riforma che ruoti, nel solco dei decreti tridentini, sulla centralità dei tribunali vescovili. Le esigenze che accomunano i due prelati sono altre. Si tratta soprattutto di chiarire che nel processare gli uomini di Chiesa, quali che ne siano le responsabilità, bisogna evitare eccessi, a cominciare dalle condanne a morte, lecite solo in rarissimi casi. Così, se Ninguarda elenca uno per uno i sacerdoti e i chierici giustiziati nell’Europa del Quattro-Cinquecento (pochissimi, secondo lui, e sempre dopo l’assenso delle autorità ecclesiastiche), Genovese insiste sull’obbligo, da parte dei giudici dello Stato, di muoversi con deferenza nei confronti del clero delinquente. Il trasferimento nelle carceri della Chiesa, dopo la verifica del loro status, dei preti o dei chierici finiti nelle prigioni statali, non deve essere pubblicizzato dalla trombetta del banditore o accompagnato dall’infamia delle catene al collo e della mitra sul capo. Nella sua città, sottolinea compiaciuto, un Reggente della Vicaria criminale è stato privato dell’ufficio per un eccesso così grave. Ancora, mentre Ninguarda ribadisce che agli ecclesiastici la tortura va applicata con cautela e le condanne a morte devono essere irrogate solo di fronte a delitti efferati, Genovese va molto oltre. Bisogna andarci piano anche nel metterli in carcere, perché ne derivano danni irreparabili all’onore del clero e scandalo per laici già di solito prevenuti. A Napoli i giudici diocesani vi ricorrono solo quando ci sono prove sufficienti per la condanna o almeno per la tortura: di solito gli arresti domiciliari e/o l’obbligo di risiedere nel palazzo vescovile o in città sono le pene più adeguate. Ancor più netto è il rifiuto che la ‘sua’ Curia oppone alla fustigazione pubblica degli ecclesiastici, una pena che a Napoli a memoria d’uomo essi non hanno mai subito. Quanto alle condanne a remigare sulle triremi, infine, fermo restando che non possono essere inflitte, se non in casi rarissimi, ai chierici nobili o figli di dottori, si cerca di evitarle per tutti. Per le stesse ragioni, d’altra parte, gli uomini di Chiesa che hanno ingiuriato dei laici devono sì chiedere perdono, ma non in ginocchio, e anche quelli obbligati ad abiurare eresie lo fanno solo privatamente23.

23   M.A. Genovese, Praxis archiepiscopalis curiae Neapolitanae, ex Typographia Iacobi Mascardi, Romae 1619, cap. 27, pp. 111-118 (per il carcere); per le altre pene, cap. 29, pp. 120-121.

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6. Manuali per visitatori e per giudici ecclesiastici offrono insomma elementi preziosi per comprendere che cosa stava succedendo nell’Italia del tardo Cinquecento sul fronte della giustizia penale della Chiesa. L’attivismo dei suoi ufficiali e i silenzi dei vescovi trovano un preciso riscontro nelle opere destinate a guidarli in due fasi così delicate della loro azione. In qualsiasi momento e in qualsiasi modo le autorità ecclesiastiche vengano a sapere che preti, frati o chierici soggetti alle rispettive giurisdizioni commettono delitti, sono tenute ad intervenire, ma senza foga. Evitare le ingerenze secolari non basta. Bisogna muoversi con equilibrio e soprattutto evitare ogni pubblicità agli interventi repressivi. Il nuovo modo di combattere il clero delinquente è inscindibile dalla riservatezza. Non è detto ovviamente che le cose siano andate davvero così. È difficile, ad esempio, stabilire se e quanto la trattatistica abbia influito sui visitatori e sui giudici della Chiesa. Andrebbero anche studiati l’impatto delle bolle papali (si pensi alle contraddizioni scaturite dalla pubblicazione della In Coena Domini24) e il ruolo avuto dagli editti dei singoli prelati. Un’ulteriore complicazione viene dalla mancanza pressoché totale di informazioni sull’identità, la formazione e le carriere degli ufficiali diocesani nell’Italia moderna. Non si può escludere che, soprattutto nelle diocesi più piccole, attività pastorali e giudiziarie si siano svolte alla buona, su un registro modesto, caratterizzato dal buonsenso più che da conoscenze o direttive precise. Fa riflettere, ad esempio, una testimonianza veronese di fine Cinquecento. In una Chiesa autorevole, dove nella prima metà del secolo lo zelo del Giberti si era misurato anche sul terreno della repressione, in piena età tridentina le incertezze ‘professionali’ dei giudici diocesani erano vive, palpabili. Verso la fine del lungo episcopato di un cardinale influente come Agostino Valier, visitatore apostolico, nonché membro delle Congregazioni del Sant’Ufficio e dell’Indice, il nuovo vicario generale chiedeva in prestito libri di legge a uno degli avvocati che bazzicava in Curia. Aveva stilato   Vedi in generale S. Pagano, s.v. In Coena Domini, in DSI, 2, pp. 774-775, e, per un’esemplare ricostruzione della conflittualità che essa scatenò, M.C. Giannini, Tra politica, fiscalità e religione: Filippo II di Spagna e la pubblicazione della bolla “In Coena Domini” (1567-1570), in «Annali dell’Istituto Storico Italo-germanico in Trento», 23, 1997, pp. 83-152. 24

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un elenco di preti da processare, ma non sapeva come muoversi. La guida della diocesi da parte di un prelato insigne gli serviva a poco: il suo imbarazzo era parso evidente al legale dall’irritazione con cui aveva reagito a un consiglio. Quando gli aveva suggerito di procedere solo se era in possesso di prove solide, l’ufficiale aveva risposto piccato «che ben sapeva quello che havesse a fare»: pensasse perciò al suo lavoro e non si permettesse più di mettere il becco negli affari del tribunale25. Un caso non fa storia, s’intende. Ma i verbali delle visite e gli atti giudiziari consentono di verificare se in profondità, nell’Italia del tardo Cinquecento, stava cambiando qualcosa nella lotta al clero delinquente. 7. Il modo di condurre le ispezioni delle diocesi è un primo banco di prova. Certo, senza un’analisi comparata delle migliaia di verbali di visitatori arrivati fino a noi, è impossibile stabilire se schemi ‘aggressivi’ come quelli suggeriti dal Salodi siano stati applicati davvero o abbiano avuto il sopravvento le prudenti linee guida degli altri manuali. A dire il vero, nella stessa Milano di Carlo Borromeo sembra che lo zelo dei vicari foranei faccia fatica ad imporsi26. Le verifiche condotte in alcune delle diocesi della penisola in cui in età postridentina i tribunali penali della Chiesa sono in piena attività sono ancora più indicative. Ci riferiamo a Napoli, Venezia, Pisa, Telese, Capaccio. Un dato importante ne accomuna le visite. In nessuna di esse ci sono tracce apprezzabili di interventi giudiziari veri e propri da parte dei visitatori. Solo dove sono arrivate le incursioni dei delegati apostolici – è il caso di Pisa e Venezia – le dinamiche repressive sono parte integrante delle ispezioni. Tuttavia, in entrambi i casi gli esiti sono modesti. Nella città toscana, raggiunta nel 1576 da un segugio esperto come il Castelli, le sue decisioni sono poco più di un fuoco di paglia. Lasciano il tempo che trovano sia le sfilze di precetti a preti non residenti o abituati a vivere con donne e figli, sia i divieti di confessare, sia le intimazioni alla   ASV, Nunziatura di Venezia, II (d’ora in avanti NV II), 1047, c. 48r-v, 12 ottobre 1602, deposizione di Antonio Dionisio. Il vicario in questione era mons. Bizzochi (ivi, 977, c. 1r). 26   Vedi A. Turchini, Monumenta borromaica II. Milano inquisita. Inchieste di Carlo Borromeo sulla città e diocesi. 1574-1584, Cesena 2010, passim. 25

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stessa Curia arcivescovile, perché proceda contro gli ecclesiastici stanati. Gli interessati che non riescono ad aggirarne localmente le punizioni risolvono la pendenza con un ricorso alla Congregazione dei Vescovi e Regolari27. Ancor più indicativi i contraccolpi della visita apostolica veneziana del 158128. Voluta da Carlo Borromeo, che aveva osservato con inquietudine, in un suo soggiorno in laguna, il dilagare degli abusi nel clero locale, si era potuta svolgere solo dopo faticosi patteggiamenti con la Repubblica e con il patriarca. Erano in gioco sia la visita dei monasteri femminili, vista come il fumo negli occhi dalla élite cittadina, sia l’autonomia del prelato, fermamente difesa dal governo. Alla fine un’inedita figura di nunzio/visitatore sbloccò l’impasse e aprì il capitolo doloroso dei costumi troppo liberi di tanti ecclesiastici veneziani. 35 sacerdoti titolari di incarichi pastorali in 22 importanti parrocchie della città, compresi l’arciprete della cattedrale e cinque pievani, furono oggetto di provvedimenti punitivi di diverso peso, adottati nell’arco di poche settimane. Erano tutti accusati di svariati abusi sessuali, aggravati per alcuni dal gioco e da altri comportamenti scandalosi. Numeri alti, in una città dove i pievani erano 72 e in un caso, a S. Canziano, condivisero la disavventura giudiziaria con quasi tutti i sacerdoti che li aiutavano nella cura. A ben vedere, però, la sostanza degli interventi è di dubbia efficacia. Ciò che più importa ai visitatori è far capire agli interessati l’incompatibilità tra vita sessuale disordinata e impegno pastorale. Per quasi tutti basta il precetto di separarsi dalle compagne o di astenersi da rapporti proibiti; solo gli inadempienti saranno giudicati e castigati in base al diritto canonico. Tuttavia, anche le pene ventilate sono di consistenza molto diversa, né è sempre agevole comprendere perché. Si oscilla infatti tra misure lievi – obblighi di digiuni e pagamento di una cauzione – e condanne gravose – perdita dell’incarico, sospensione a divinis, carcere o triremi. Alla fine le punizioni raggiungono solo un terzo degli imputati. Cinque di esse riguardano però i preti della parrocchia di S. Canziano, 27   AAP, AC, 7, cc. 16r-17v, 54r-58v, 81r-83r (precetti e atti giudiziari del Castelli) e cc. 84r-89v (è un’inchiesta ordinata dal Castelli al vicario arcivescovile). 28   L’importante iniziativa è stata ben illustrata da S. Tramontin, La visita apostolica del 1581 a Venezia, in «Studi veneziani», 9, 1967, pp. 453-533.

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sospesi dall’esercizio delle proprie funzioni per periodi di tempo che variano da un mese a 3 anni. I due più colpiti – con l’esilio – dovranno anche pagare a proprie spese i sostituti. Ma è una delle due sole condanne severe inflitte nel corso della visita. L’altra – 2 anni di carcere e 10 di bando – sembra legata al rapporto proibito con una donna sposata. Di difficile spiegazione, inoltre, è il caso di due sacerdoti di S. Geremia, che se la cavarono con poco, nonostante che si fosse provato che avevano avuto rapporti sessuali con monache. Non bisogna dimenticare, infine, che anche le sentenze più dure sono vincolate alla facoltà di moderarle o commutarle, riservata ai visitatori stessi, ai nunzi pro tempore o, su loro delega, al vicario patriarcale29. L’altro aspetto controverso della visita veneziana del 1581 era quello istituzionale. Equilibrio nelle condanne e disponibilità a puntare sulla redenzione furono forse anche il frutto del fuoco di sbarramento che aveva bloccato a lungo l’iniziativa. È improbabile, tra l’altro, che fossero stati passati al setaccio tutti gli ecclesiastici di una città così grande. Varietà e quantità dei loro eccessi sono ben documentate dalla metà del secolo, mentre le punizioni del 1581 riguardano un solo tipo di abusi. Inoltre, un’indagine a tappeto sul clero veneziano sarebbe stata uno sgarbo per il patriarca Trevisan, che è trattato invece con riguardo, come prova l’esito di due casi tra i più delicati, quelli del primicerio della cattedrale, accusato di adulterio, e di un prete querelato per aver deflorato una bambina. Ai giudici del foro patriarcale furono rimesse sia l’esecuzione della condanna del primo, sia la gravissima denuncia presentata contro il secondo. Alla fine, come a Pisa nel 1576, la raffica di condanne del 1581 fu un episodio isolato. Come nel 1569, il patriarca continuava forse ad avere le mani legate. Per il concubinato, ad esempio, se anche gli ufficiali della sua Curia vivevano relazioni proibite, come avrebbero potuto stringere i freni su quelle dei confratelli30?

29   ASPV, Archivio Segreto, Visite apostoliche, b. 1, fasc. 74, cc. 786r-793r. Per S. Canziano vedi 787v-788v. Per l’altra condanna dura – a don Giovanni Maria de Cominis – vedi c. 789v; per S. Geremia cc. 788v-789r. Un caso di commutazione rapidissimo è quello del pievano di S. Marina: la sospensione quadrimestrale a divinis decisa in agosto fu trasformata in multa dopo un mese (cc. 786v-787r). 30   Il primicerio è Francesco Lurano (ivi, c. 786v); il prete è Luigi Lupato

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8. Se questi erano gli echi dei temuti interventi dei visitatori apostolici, non sorprende che nelle ispezioni diocesane si proceda coi piedi di piombo. In questi anni, tra l’altro, non sempre e non dovunque i vescovi possono visitare le diocesi. Nel Lazio e nelle Marche, ad esempio, i rischi per la loro incolumità sono altissimi, per il pullulare dei banditi31. Ma anche dove le visite si svolgono, sono prioritarie altre esigenze. Interrogare preti e chierici, o anche soltanto i parroci, sui loro modi di vita, non è usuale. La prima visita postridentina del clero napoletano, parziale e frettolosa, risale alla fine del Cinquecento e non tocca il nodo dei costumi. Inoltre, anche dove c’è tempo e voglia di esaminare gli ecclesiastici, gli esiti sembrano modesti. A Telese, ad esempio, in uno dei rendiconti triennali al papa meno reticenti di questi anni, un vescovo segnala di aver raccolto nel corso della visita informazioni sul conto di preti e chierici e di aver corretto i pochi depravati con spirito di carità: verifiche ‘tranquille’, aliene da slittamenti verso la repressione, che invece è in pieno svolgimento nella sua Curia32. D’altra parte, anche Ninguarda e i suoi ufficiali, che hanno lasciato nella vicina S. Agata dei Goti, come d’altra parte nella Svizzera italiana, tracce precise di interrogatori rigorosi e severi sui costumi degli ecclesiastici, sono inflessibili nel pretendere sotto giuramento dai sacerdoti interrogati il segreto sugli abusi dei confratelli. Purtroppo l’incomprensibile divieto di accedere ai processi celebrati nel corso del suo breve episcopato sannita rende impossibile verificare se c’erano intrecci tra interrogatori così puntuali e interventi giudiziari33.

(per il suo singolare profilo criminale vedi qui, p. 97). Per i disagi del patriarca nel 1569 vedi qui, p. 48. 31   Esempi in ASV, RD, 20/A (Albano, c. 5r, relazione del 1596), 41/A (Anagni, cc. 10r-11v, relazione del 1594) e 539/A (Montalto delle Marche, c. 6r-v, relazione del 1592). 32   ASV, RD, 795/A, cc. 23r-34v, relazione del 1597 del vescovo Savino. Per l’inesistenza di collegamenti diretti tra visite e processi a Telese vedi anche Zarro, Note sul tribunale criminale cit., p. 47. 33   Dobbiamo alla liberalità e all’apertura mentale di padre Michele Miele, se abbiamo potuto consultare questa documentazione, conservata nell’Archivio diocesano di S. Agata dei Goti, nelle riproduzioni in suo possesso. Dobbiamo invece a don Antonio Abbatiello, direttore dello stesso archivio, il secco rifiuto di farci consultare le fonti criminali relative all’episcopato del Ninguarda, così come il prezioso inventario settecentesco e tutte le altre carte del fondo. La decisione è tanto più grave, in quanto le altre tracce dell’attività giudiziaria del

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Se però facesse testo per l’Italia intera ciò che succedeva in quegli anni nella vasta area del Cilento compresa nella diocesi di Capaccio, dovremmo concludere che ordinariamente le visite non fossero il volano dei processi e che il controllo dei costumi del clero ne costituisse un aspetto marginale. Preti e chierici della zona sono interrogati in ciascuna delle tre ispezioni intraprese tra il 1580 e il 1594, in una fase difficile per la diocesi, dai collaboratori di due diversi vescovi, ma la sostanza è la stessa: per i visitatori conta solo il possesso dei ferri del mestiere, e in particolare la capacità di confessare. Inoltre, a distanza di tre anni dai primi precetti, molti di coloro che hanno ricevuto patenti di confessore provvisorie, vincolate all’obbligo di studiare, se ne sono guardati bene e si stringono nelle spalle, quando sono invitati a rendere conto dell’inadempienza. Sul piano morale, al contrario, si oscilla tra il silenzio, nettamente prevalente, e rare annotazioni: qualche sacerdote ha inimicizie, di altri si dice male, di pochi si annota che sono di buoni costumi o che almeno non godono di cattiva fama. Allo stesso modo, sui 50 preti visitati i cenni ad eccessi gravi sono pochissimi: di un omicida si scrive che, dopo aver o ­ ttenuto una dispensa a Roma, è stato reintegrato nelle sue funzioni, di altri, che devono restituire rendite indebitamente percepite. C’è poi il clero di un paese, Gioi, invitato in blocco a vestire in modo adeguato alla dignità sacerdotale. In nessun caso, però, si registrano intimazioni, decreti, tempi ultimativi. Silenzio assoluto anche sui chierici selvaggi, che pure nella visita del 1580 erano stati oggetto di una reprimenda del vicario generale (‘figli di iniquità’, che mirano solo al privilegio di foro). Sono semmai gli scandali dei laici a richiedere approfondimenti. Dopo le prime sporadiche annotazioni relative alla visita del 1580, in quella del 1583 coNinguarda vescovo sono esigue, sia nella sede comasca (dove la documentazione è recuperabile solo attraverso ricerche faticose e dall’incerto esito nell’Archivio di Stato di Como; ringraziamo per il ragguaglio il dott. Rolando Fasana, la dott.ssa Brigitte Schwarz e i funzionari dello stesso Archivio), sia in quella di Scala (per la parte dell’Archivio diocesano sfuggita a un incendio e donata alla Badia di Cava dei Tirreni: vedi A. Caruso, Le scritture pergamenacee e cartacee raccolte da Gaetano Mansi, in «Rassegna del Centro di Cultura e Storia Amalfitana», 2, 1982, pp. 101-121). Per le visite delle pievi comasche fa testo il ricchissimo volume Bianconi, Schwarz, Il vescovo, il clero cit.

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minciano le domande sulla presenza di eretici, fattucchiere, concubini, usurai, bestemmiatori e usurpatori dei beni della chiesa, anche se la stragrande maggioranza degli ecclesiastici risponde evasivamente. Nello stesso verbale, inoltre, scompaiono i cenni ai costumi dei preti. Capita così anche nel 1594, quando si interrogano 100 sacerdoti, ma non i chierici, e solo sull’amministrazione dei sacramenti. Se vivono disordinatamente o delinquono, non è affare dei visitatori. Visti dal profondo Sud, insomma, i tribunali itineranti del Campeggi, le esperienze trentine e i suggerimenti del Salodi sono lontanissimi, appartengono a un modo impensabile di utilizzare uno strumento così delicato34. Ne sono una riprova le tre relazioni presentate al papa dal vescovo di Capaccio tra il 1590 e il 1595: non c’è nulla sul foro diocesano e sul clero. I soli accenni indiretti all’uno e all’altro riguardano conflitti di giurisdizione: i giudici di Stato gli impediscono di procedere contro i concubini laici, i sacerdoti che dipendono dalla badia di Cava rifiutano di farsi esaminare, l’arcivescovo di Salerno lo umilia con sentenze d’appello che mandano in fumo il lavoro del suo tribunale. Alla fine, ciò che conta per un vescovo è spingere gli ecclesiastici a far bene il proprio lavoro e a studiare almeno i casi di coscienza. Se ci sono umane debolezze, si risolvono alla buona35. 9. Se abitualmente sinodi e visite pastorali non aprirono la strada agli interventi repressivi, neppure i rari provvedimenti monocratici dei singoli arcivescovi sembrano più efficaci. Nella piccola diocesi adriatica di Traù un editto vescovile che nel 1575 riprendeva alla lettera il decreto tridentino sul concubinato del clero non ottenne, come si vedrà, risultati di rilievo. Non andò meglio nel 1596 al Gesualdo a Napoli: la sua decisione di inasprire le 34   Archivio diocesano di Vallo della Lucania (d’ora in avanti ADV), Visite pastorali, 1580, 1583 e 1594. Per il 1580 le visite personali sono registrate, paese per paese, tra c. 7r e c. 132r; nei verbali del 1583 tra c. 22r e c. 197r; in quelli del 1594 tra c. 55r e c. 141r. Per i chierici selvaggi, l’omicida e le rendite vedi 1580, cc. 9r, 16r e c. 18r. Rientra nei controlli del 1583 il rilievo sul clero di Gioi (c. 73v). 35   ASV, RD, 185/A, relazioni del 1590 (cc. 1r-2v), del 1593 (c. 9r-v) e del 1595 (c. 15r-v). Per i concubini e i conflitti con la badia di Cava dei Tirreni, ivi, c. 15r, per le tensioni con Salerno, c. 1v. Per la crisi della diocesi vedi C. Troccoli, La Riforma tridentina nella diocesi di Capaccio (1564-1609), Napoli 1994.

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pene per i chierici sorpresi con armi proibite e di organizzare ronde per stroncarne i contatti con le monache rimase lettera morta36. Come spiegare allora l’accresciuto impegno dei giudici penali ecclesiastici, e in particolare di quelli diocesani, nell’Italia del tardo Cinquecento? Possiamo ravvisare nella difesa intransigente delle competenze esclusive della Chiesa sul clero e, più in generale, delle immunità, gli obiettivi principali, se non unici, di quel massiccio investimento di energie? O c’era anche, almeno in una parte dei prelati italiani, l’intenzione di riqualificare i propri collaboratori, di far crescere un clero pronto ai suoi nuovi compiti e ineccepibile sul piano dei costumi? L’imponente documentazione giudiziaria esaminata consente di approfondire la questione. Una prima verifica riguarda l’avvio dei procedimenti, il peso avuto dalle indagini d’ufficio rispetto alle querele. La risposta è semplice: ovunque prevalgono nettamente le istanze di parte. Solo di rado – flagranza di reato, lesione del privilegio di foro o delle immunità locali, scandali – si muovono i promotori fiscali delle Curie vescovili, cioè gli odierni pubblici ministeri, o per reclamare la consegna degli ecclesiastici catturati da guardie secolari e il ritorno dei rifugiati nei luoghi immuni, o per avviare l’azione penale. Sembrano episodici interventi come quelli della Curia patriarcale di Venezia, volti a verificare i costumi di pievani appena eletti37. Il motore principale della repressione è ovunque nelle querele presentate da chi si ritiene danneggiato da eccessi di qualche ecclesiastico o da uomini di Chiesa che lamentano abusi di laici nei propri confronti. È proprio qui,   Per Traù vedi qui, pp. 112-113. Per le ronde ci resta solo il frammento di un processo avviato nel 1596 dopo la cattura dell’interessato, sorpreso a parlare senza licenza con alcune monache (è fra Giuseppe da Potenza). Anche l’intervento sulle armi è applicato in un solo caso, quello di don Pietro Pelusio (ASDN, PC, 1596). L’editto in questione, del 22 luglio, è conservato ivi e prevedeva tre anni sulle triremi, commutati in carcere (con il consueto sconto di pena per gli ecclesiastici di origine nobile). Ma l’applicazione, nel caso del Pelusio, fu molto benevola: il 3 novembre era stato condannato al remo per 3 anni, ma già il 2 dicembre la pena fu commutata dal Gesualdo nell’esilio triennale. 37   Scomparin, cc. 187v (10 settembre 1594, indagine su don Girolamo Locatelli, S. Tommaso), 188v (23 ottobre 1595, don Iacobo de Corderiis, S. Eustachio) e 190v (1 luglio 1598, don Pietro Pezzini, S. Stefano). 36

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nel ricorso ai tribunali vescovili, sempre più frequente nel clero come nel laicato, uno dei motivi del loro accresciuto volume di attività. Si tratta di un dato importante, perché ci introduce nel vivo dei rapporti tra la giurisdizione della Chiesa e quella dello Stato. La novità del tardo Cinquecento, in tutti i casi che coinvolgono – come sedicenti vittime o come presunti responsabili – esponenti del clero, non consiste nel preferire la denuncia agli accordi privati, ma nella decisione di indirizzarla ai giudici ecclesiastici, anziché a quelli statali. L’aumento esponenziale dei procedimenti penali nei loro tribunali vuol dire in primo luogo un più rigoroso rispetto del privilegio di foro. Le indicazioni dei manuali trovano così piena rispondenza nella prassi giudiziaria, soprattutto nelle Curie vescovili più potenti: a Napoli, a Pisa e a Venezia il dato è più evidente che a Telese e a Capaccio. Anche quando i delitti del clero sono denunciati ai tribunali dello Stato, la rimessione degli atti al foro ecclesiastico tende a diventare una pratica di routine. Ce ne restano tracce precise ovunque, ma lo schema è documentato con straordinaria ricchezza proprio a Napoli, dove il bilancio appare ancora più favorevole al tribunale diocesano di quanto non risulti dalla Praxis di Genovese. Buona parte delle catture di ecclesiastici sorpresi in flagranza di reato è opera di guardie secolari, che trasferiscono i responsabili nelle carceri della Vicaria, dove essi si trovano in buona compagnia: non mancano infatti i confratelli detenuti lì a seguito di querele sporte nei loro confronti. Dagli uni e dagli altri scattano abitualmente le richieste di rimessione al foro della Chiesa. Sono proprio queste pratiche a rivelarci che nella Napoli postridentina gli arcivescovi potevano stare tranquilli: se ancora parecchi ecclesiastici hanno conti in sospeso con la giustizia penale dello Stato, non è in discussione, quando il requisito dell’appartenenza al clero è provato, la consegna ai superiori. Tra il 1564 e il 1600 le procedure sembrano anche diventare più veloci: negli anni Novanta, se non si tratta di delitti controversi, basta qualche mese per ottenere la rimessione38.

38   È ciò che si osserva nei 76 casi finora schedati di ecclesiastici – quasi solo chierici – consegnati dai giudici della Vicaria al foro arcivescovile.

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Ancora, finiscono nelle carceri diocesane della capitale anche gli ecclesiastici forestieri che hanno chiesto di essere consegnati ai propri ordinari: talvolta lo richiede la Curia napoletana, più spesso lo decide autonomamente la stessa Vicaria. Malgrado le ricorrenti tensioni, una forte solidarietà istituzionale lega a Napoli i vertici giudiziari di Chiesa e Stato. In un solo caso, quello di un suddiacono di Gragnano imputato di spaccio di falsa moneta, un delitto passibile della pena capitale, è il viceré a premere sul nunzio per trasferirlo a Roma. Ma la spunta il tribunale arcivescovile napoletano, che ottiene la rimessione: così l’imputato in qualche modo se la cava39. È possibile invece che nei confronti dei più piccoli vescovati del Regno atteggiamenti più risoluti delle autorità statali abbiano mantenuto più a lungo in vita gli equilibri preesistenti. La stretta collaborazione tra giudici di Stato e Curia arcivescovile della capitale spicca ancor più, se si riflette sulla circostanza che essa riguarda soprattutto i chierici selvaggi. Si tratta in larga misura di rampolli della nobiltà e della borghesia del Regno ammessi nei ranghi del clero da vescovi attenti più ai buoni rapporti con i potentati locali che alle riforme. Nell’ultimo trentennio del Cinquecento ne finisce nelle prigioni arcivescovili oltre un centinaio, e più della metà arriva proprio dalle carceri della Vicaria. Quando però le disavventure giudiziarie colpiscono giovani aristocratici della capitale, le famiglie e i Seggi di appartenenza li difendono con successo, quale che sia l’istituzione che li giudica. Esemplare nel 1585-86 il caso del giovanissimo chierico/cavaliere Orazio Sersale. Querelato per omicidio premeditato dal padre della vittima, un ufficiale che aveva ‘osato’ aprire un’indagine sgradita alla sua famiglia, e rimasto contumace, ottenne la rimessione e poi la grazia dall’arcivescovo Annibale di Capua, dopo due esposti dell’influente Seggio di Nido, cui apparteneva. Poco o nulla poté il vescovo di Aversa, che ne reclamava la consegna, 39   Per i chierici forestieri la prassi è quella illustrata per il primo Cinquecento in Mancino, Governare cit., pp. 116-118; per la falsa moneta vedi ASDN, PC, 1589, processo al suddiacono Fabrizio Della Bagnara. Il giovane ottenne la scarcerazione il 15 settembre 1590, ma pochi mesi dopo fu catturato di nuovo e condannato, ancora dai giudici diocesani, a restare provvisoriamente sulle triremi del papa, ritenute più sicure delle carceri arcivescovili.

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visto che il delitto era stato compiuto nella sua diocesi (ratione loci)40. Superfluo aggiungere che quel principio, quando era invocato dalla Curia della capitale, era applicato senza difficoltà41. In un quadro così favorevole la iattanza del clero napoletano poteva solo aumentare, come ben documentano il suo disprezzo verso i giudici di Stato («tengo in culo la Vicaria», avrebbe detto un chierico violento42) e le minacce di uccidere le guardie secolari («ne doveva ammazzare due o tre di quelli, atteso non ne poteva patere danno per essere preyte»43). Per la più grande città d’Italia, insomma, la Praxis sfondava una porta aperta. Una Chiesa potente e protesa a riaffermare il privilegio di foro stava archiviando senza troppi affanni il tradizionale sistema cogestito. Bisognava solo estendere quel modello ovunque, e il trattato del Genovese puntava anche a un obiettivo così ambizioso. Considerazioni non diverse si possono avanzare a proposito delle immunità locali. L’enfasi della Praxis sul problema dei rifugiati appare eccessiva, perché nel tardo Cinquecento a Napoli i casi di violazione del diritto di asilo sfociati in procedimenti penali aperti dalla Curia sono pochissimi. C’era forse un consenso di fondo sulle regole del gioco tra autorità della Chiesa e dello Stato, come sembra indicare l’incidente più clamoroso di questi anni, l’irruzione di molti soldati nel monastero di S. Pietro ad Aram, alla 40   ASDN, PC, 1585: il fatto di sangue risaliva al 1582, ma Sersale, rimasto a lungo contumace, era stato dichiarato ‘forgiudicato’ dai giudici della Vicaria, con le pesanti conseguenze – la confisca dei beni – che la decisione comportava. Alla fine, catturato e rimasto in carcere per sei mesi, aveva ottenuto la rimessione ai giudici diocesani della capitale. Per l’istanza del vescovo di Aversa vedi c. 52r (17 luglio 1585; a c. 52v è la bocciatura da parte del tribunale napoletano). Il Sersale, scarcerato e autorizzato a rimanere nel palazzo dell’arcivescovo, ottenne il 1º giugno 1585 la remissione di querela (c. 59r) e nel gennaio 1586 la definitiva liberazione, su istanza del suo Seggio (c. 60r e sgg.). 41   ASDN, PC, 1593, cc. n.n., processo al chierico Ottaviano Pisano, di Castel Morrone, sorpreso a Napoli con armi proibite dalle guardie secolari. Il 9 giugno la Vicaria ne decide la rimessione, senza specificare a quale giudice ecclesiastico; il giorno dopo il procuratore fiscale della Curia arcivescovile napoletana ne richiede la consegna; il 12 giugno l’istanza è accolta e il detenuto è trasferito nelle carceri diocesane. 42   ASDN, PC, 1583, cc. n.n., processo al chierico Giulio Tauromino, deposizione del 21 giugno 1583 di Gennaro Percaccio. 43   ASDN, PC, 1584, processo al chierico Giovanni Bernardino D’Anna, c. 13r, deposizione del 26 giugno 1584 di Raffaele Sberta.

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ricerca di un bandito44. In generale, insomma, le rivendicazioni di Genovese sembrano sproporzionate. Si comprende bene, anzi, perché il Consiglio Collaterale del Regno abbia disposto immediatamente il sequestro della Praxis45. Cogestire una situazione complessa con reciproche concessioni era utile sia alla Chiesa, sia allo Stato. I conti invece non tornavano, se la Curia arcivescovile pretendeva di additare ad esempio per tutta la penisola gli schemi di intervento praticati nella capitale, come se le autorità ecclesiastiche avessero acquisito sempre e ovunque diritti che erano solo il frutto di singole negoziazioni. 10. Si può ritenere perciò molto probabile che l’attivismo postridentino dei tribunali penali della Chiesa italiana mirasse in primo luogo a ridimensionare gli spazi occupati dai giudici di Stato, a pretendere il rispetto assoluto del privilegio di foro. Bisogna salvaguardare gli interessi e l’onore degli ecclesiastici delinquenti, indipendentemente dalla gravità dei delitti. Perciò ovunque i giudici diocesani cercano di risolvere i loro incidenti giudiziari presto e con pene lievi, come multe, malleverie, precetti. Inoltre, soprattutto nei casi di ferite, ingiurie, risse, piccoli furti, essi si spendono volentieri per una composizione bonaria delle vertenze. A Napoli, in particolare, le cautele attribuite da Genovese alla Curia arcivescovile sono abbondantemente superate dalle scelte dei suoi colleghi. Sono largamente praticate le alternative alla detenzione, dagli arresti domiciliari all’obbligo di risiedere nel palazzo arcivescovile o in città; si ricorre alla tortura solo in pochissimi casi e per periodi di tempo limitati (ma la subiscono anche i bambini sodomizzati, come lo stesso Genovese aveva teorizzato); non c’è traccia di 44   ASDN, PC, 1597, cc. parzialmente numerate, dossier relativo ai capitani Raffaele Sberta, Girolamo de Alvis, Domenico Gijon e Antico Palomares, nonché ai soldati entrati nel luogo immune, tutti scomunicati con ‘cedoloni’ (cartelli affissi in pubblico). Nel giro di pochi giorni essi sono assolti, ma una parte delle penitenze è pubblica e, soprattutto, l’irruzione suscita il forte dissenso di un giudice della Vicaria criminale, Carlo Tappia, che, indignato per l’insolenza della pattuglia, si ripromette di scrivere una relazione al reggente del suo tribunale (c. 9r). 45   Per l’episodio vedi: P. Lopez, Inquisizione, stampa e censura nel Regno di Napoli tra ’500 e ’600, Napoli 1974, p. 236; E. Di Rienzo, Genovese, s.v., in DBI, 53, Roma 1999, pp. 153-154.

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condanne a morte, di punizioni infamanti o comunque pubbliche (un’unica decisione in tal senso viene revocata). Gli abusi più lievi sono risolti in breve, in base al principio che basta la carcerazione preventiva subita (carcer cedit in poenam). Per quelli più pesanti (ferite mortali, falsi in atto pubblico, adulterio) la soluzione abituale è il bando da città e diocesi, che però è poco rispettato, anche perché i giudici non applicano a chi lo viola le pene rigorose previste nelle sentenze di condanna. Solo i delitti gravissimi (falsa moneta, omicidi premeditati, sodomia) sono puniti con la relegazione e con le triremi, ma si tratta di appena sette condanne, peraltro quasi tutte condonate. Inoltre – particolare taciuto da Genovese – nell’ultimo trentennio del Cinquecento ben 126 procedure giudiziarie contro ecclesiastici si arenano. Sommate ai 35 proscioglimenti attestati, queste decisioni, quasi mai motivate, sono di poco inferiori al numero delle condanne. La spiegazione più probabile è che i giudici abbiano favorito la riappacificazione tra le parti, ma non mancano i richiami a ragioni di opportunità non meglio precisate. Lo stesso Genovese, ad esempio, è chiamato in causa nel 1602 da un imputato per avergli concesso, dopo averlo giudicato e condannato, una licenza di celebrazione quantomeno discutibile46. Nell’Italia tridentina è la linea più comune dei tribunali penali diocesani. Lo mostrano bene alcuni procedimenti pisani dell’estate del 1569. Il rettore della chiesa di Pettori, Sebastiano Giuntini, catturato perché continuava a convivere con la serva e con i figli, malgrado ripetute ammonizioni, accampò un permesso avuto verbalmente da un vicario. Quando però i giudici gli domandarono se aveva partecipato al sinodo ed era a conoscenza del divieto per i preti di vivere con donne sospette, rispose che c’era stato, ma

46   Il cenno al Genovese è in ASDN, PC, 1597: è il secondo processo (dei sei contenuti nel fascicolo) intentato a don Giacomo Trapani, cc. n.n., costituto del 21 aprile 1602. Per il resto sintetizziamo qui lo spoglio sistematico dei 508 fascicoli finora recuperati in ASDN, PC, tra il 1564 e il 1599: è nostra intenzione illustrare analiticamente questa ricchissima documentazione, una volta che sarà stato completato il riordinamento del fondo. Per le sette condanne (1564-89, tutte a remigare per tre anni), sei sono conservate (ma ne furono scontate solo due, quella inflitta nel 1567 al chierico omicida Ludovico de Gaudio e quella del 1569 al suddiacono Giovanni Berardino de Adamo, che aveva falsificato una carta di credito), mentre la settima è solo citata (in ASDN, PC, 1584, processo al chierico Giovampietro Balsamo, condannato nel 1572 per un omicidio).

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aveva fatto come gli altri, cioè se ne era infischiato, perché per governare la casa ci voleva una donna. Né esitò a fare il nome di un cappellano, don Ascanio Lolli, che ne aveva condiviso la scelta. Questi, subito incarcerato, ammise il suo ‘errore’ (era stato esiliato dalla diocesi di Lucca per la stessa ragione). Se la cavarono entrambi in pochi giorni con il consueto divieto e con la minaccia di punizioni adeguate, in caso di infrazione. Di poco più severa fu la pena inflitta pochi giorni dopo a un cappellano del duomo di Pisa che conviveva con una donna: o tre mesi di carcere o cinque sacchi di grano a un monastero femminile della città. Ben più rigoroso era il trattamento riservato ai laici della diocesi per i procedimenti penali legati alla sessualità, come si vede anche dalla maggiore frequenza con cui presentavano appello al nunzio47. Non diverso era il quadro della lotta alle coppie di fatto a Pisa e nell’Italia tridentina: solo i laici sperimentarono un’intransigenza crescente, che li accompagnò per quasi tutta l’età moderna48. Ovviamente il clero fece presto il callo a procedure così blande. Lo si vede bene proprio nel caso del rettore di Pettori. Pochi giorni dopo la Pasqua del 1580 fu convocato dall’arcivescovo per spiegare perché avesse rifiutato la comunione a una donna. Aveva infamato, rispose, la figlia della sua serva. Ci volle poco al prelato per ricostruire la vita privata del sacerdote: 47 anni, sempre la stessa donna da 24-25 anni, sei figli, tra cui due ragazze da marito. Preoccupazioni di un padre, insomma, condivise dalla stessa comunità parrocchiale: quando, forse dopo l’incidente del 1569, era stato costretto ad allontanarla, i fedeli avevano chiesto all’arcivescovo di farla tornare – doveva badare ai figli – ed erano stati accontentati. Quel gesto di benevolenza non risparmiò al sacerdote l’ennesimo precetto: entro quindici giorni avrebbe dovuto spostare donna e

47   AAP, AC, 5, cc. 564r-566v, 25 giugno-5 luglio 1569 (per Lolli), cc. 570r-572v, 25-29 giugno 1569 (per Giuntini), cc. 590r-1r, 21-23 luglio 1569 (per prete Adamo, cappellano del duomo). Per due cause di stupro ‘sub spe’ (rapporti sessuali intrattenuti dopo la promessa di matrimonio) finite in nunziatura, ivi, cc. 510r-543r e 619r-623v (un caso capitato a Calci), nonché 548r-555r e 558r-559v (Avane). 48   Per la repressione del concubinato a Pisa vedi S. Luperini, Il gioco dello scandalo. Concubinato, tribunali e comunità nella diocesi di Pisa (1597), in Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, bigamia (XIV-XVIII secolo), a cura di S. Seidel Menchi, D. Quaglioni, Bologna 2004, pp. 383-415; per Napoli e l’Italia, Romeo, Amori cit., passim.

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figli ad almeno tre miglia. Non sappiamo come finì la sua storia, ma è probabile che, forte del consenso della comunità, abbia continuato a vivere per sempre con la famiglia in canonica: alla fine, malgrado tutto, al vino della disciplina le autorità ecclesiastiche italiane preferivano, per i preti, l’olio della misericordia49. 11. Nell’Italia del tardo Cinquecento la sola svolta apprezzabile nel trattamento dei crimini comuni del clero è il netto ridimensionamento del ruolo dei tribunali secolari, soprattutto statali. Forse solo nelle piccole diocesi dello Stato pontificio e del Regno le Curie vescovili sono in difficoltà. Nel resto della penisola i giudici della Chiesa difendono senza soverchi ostacoli il privilegio di foro, fedeli allo spirito dei manuali, che li abbiano letti o no, e non solo per la scelta di sanzioni irrilevanti. Colpisce soprattutto la loro attenzione a non rimuovere i condannati dagli incarichi ricoperti, modesti o prestigiosi che fossero. Anche se sono stati più volte riconosciuti colpevoli, essi continuano a servire – tranne casi gravissimi – nelle stesse Chiese. Neppure i trasferimenti o l’affidamento di uffici di minore rilievo sono abituali. È ciò che succede a Venezia, dove pievani, preti e diaconi titolati, cioè il nerbo del clero curato diocesano, pur finendo con frequenza davanti ai giudici patriarcali, ancor più dei tanti preti forestieri venuti in laguna a sbarcare il lunario, non perdono quasi mai i rispettivi incarichi. Il caso dei 35 sacerdoti ‘pizzicati’ nella visita apostolica del 1581 è indicativo: ben 14 di essi incappano nelle maglie del tribunale diocesano nel ventennio successivo, e non solo per gli abusi sessuali. Alcuni picchiano colleghi e donne, girano armati di notte, frequentano taverne; Giovanni Battista Scomparin, il pio archivista che nel Settecento inventariò con qualche disagio i processi della Curia patriarcale, usa spesso nei loro confronti termini come depravazione, abusi di ogni genere. Eppure per tutto il tardo Cinquecento continuano ad avere responsabilità pastorali nelle stesse chiese dove erano al momento della prima disavventura giudiziaria. Sfortunatamente Scomparin non annota l’esito dei

49   Il breve procedimento del 1580 a carico del Giuntini è in AAP, AC, 7, cc. 501r-502r. Nel marzo del 1584 era ancora rettore a Pettori (AAP, AC, 11, c. 120r).

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loro processi, ma è largamente improbabile, se non impossibile, che fossero stati scagionati tutti50. Per ora, anzi, il record italiano – per così dire – nelle recidive e nelle riconferme spetta proprio a un sacerdote veneziano di questi anni, Luigi Lupato, uno dei due preti titolati della parrocchia di S. Giovanni in Bragora. Dopo un primo processo per costumi depravati nel 1578 e uno per percosse e ingiurie nel 1580, la visita apostolica del 1581 lo sorprese con una pesante pendenza giudiziaria (una querela per stupro di una bambina). Ma anche quella causa finì presto e bene per lui, se è vero che tra il 1582 e il 1603 accumulò, sempre come prete titolato di quella chiesa, altri nove processi. Erano quasi soltanto percosse, ingiurie e minacce, cose da poco per quegli anni. Nel 1591 però, quando gli fu contestata una sfilza di abusi di ogni genere («excessus quamplurimi», scrive Scomparin), neppure il nuovo incidente ebbe conseguenze di rilievo sulla cura d’anime, se è vero che era ancora a S. Giovanni in Bragora nel 1603, quando il suo nome compare per l’ultima volta, per l’ennesima rissa, nel repertorio criminale51. Che nella seconda città d’Italia don Luigi abbia continuato tranquillamente ad amministrare i sacramenti nella stessa chiesa per almeno 22 anni potrebbe sembrare un caso eccezionale, quello di un intoccabile, protetto dai superiori. Ma non è così. Il trattamento riservato a lui era quello di cui ovunque godevano abitualmente i recidivi, anche dopo ripetuti processi, a meno che non avessero compiuto abusi gravissimi. Quasi nessun delitto è tanto disdicevole per un curato da suggerire ai superiori l’opportunità di trasferirlo, di affidargli compiti di minore rilievo o di ridurlo allo stato laicale. Ne è la riprova un altro aspetto singolare della questione, di cui sono rimaste tracce nelle fonti veneziane. Procedimenti penali, anche ripetuti, non impediscono neppure significativi avanzamenti di carriera, se è vero che nell’intenso ventennio di repressione successivo al 1581 due dei recidivi sono eletti pievani. Uno di essi, don Girolamo Locatelli, per oltre trent’anni cancelliere del patriarcato, supera anche senza problemi, prima della nomina, un esame speciale sui costumi (nel 1594, quando aveva subito, dopo   Il dato è il frutto della elaborazione del repertorio di Scomparin.   Al di là della condanna del 1581 (su cui vedi ASPV, Archivio Segreto, ms. cit., c. 793r), tutte le altre disavventure sono in Scomparin, ad annum. 50 51

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la condanna del 1581 del nunzio/visitatore per una convivenza proibita, un altro processo per concubinato nel 1586, due per negligenza nell’esercizio delle sue funzioni nel 1586 e nel 1589, uno per simonia e altri eccessi nel 159352). Nel patriarcato di Venezia, insomma, la linea borromaica è ben poco visibile. Prevale nettamente, anche a livello giudiziario, un’ampia, generalizzata tolleranza verso gli eccessi del clero. Come a Napoli, anche nella seconda città italiana finire ripetutamente alla sbarra è ininfluente sul conferimento di incarichi pastorali. Le raccomandazioni dei manuali sulla riservatezza come cifra obbligata delle procedure avviate contro gli esponenti del clero sono applicate anche in funzione di scelte pastorali quantomeno discutibili. I fedeli non devono essere informati delle magagne dei sacerdoti, a maggior ragione, si direbbe, quando sono i loro curati o potrebbero diventarlo. La memoria delle loro disavventure – quando pure riesce a consolidarsi – deve svaporare presto. La necessità di garantire la continuità dei servizi religiosi è un obiettivo molto più importante della lotta agli abusi, anche quando si sono ripetuti e hanno dato scandalo. 12. Appare perciò quantomeno dubbio, alla luce dell’azione del foro vescovile nell’Italia tridentina, che il suo accresciuto zelo abbia aperto una stagione di riforme incisiva e duratura. Né ci sono elementi per ritenere che l’impegno dei tribunali degli Ordini religiosi abbia raggiunto risultati più sostanziosi. Tutt’altro. Per quel poco che se ne sa, se si escludono i più autorevoli istituti nati nel cuore della crisi del secolo (gesuiti, teatini, barnabiti e somaschi), dotati di efficienti apparati interni di controllo, i religiosi restano nell’Italia tridentina una spina nel fianco per i superiori, per i responsabili dell’ordine pubblico, oltre che per i pochi vescovi attenti ad arginarne gli eccessi. La loro propensione al crimine e la loro abilità nei giochi di sponda tra i giudici appaiono ovunque ancor più spiccate di quelle degli ecclesiastici secolari.   Sul Locatelli vedi ASPV, Archivio Segreto, ms. cit., cc. 789v-790r, e Scomparin, ad annum. Per Nicoletto Diedo, l’altro reduce dalla condanna del 1581, vedi ASPV, Archivio Segreto, ms. cit., c. 789r, e la fedina penale che si ricostrui­ sce da Scomparin: già processato due volte prima del 1581, fu coinvolto, da pievano, in altri tre incidenti giudiziari (nel 1583, nel 1591 e nel 1600). 52

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I vescovi, oltre tutto, hanno di solito poca voglia di immischiarsi nelle beghe di religiosi e religiose: i numeri parlano chiaro ovunque. Per le monache, a Venezia, ai 12 procedimenti del cinquantennio 1520-70 se ne aggiunsero altrettanti tra il 1571 e il 1580, quattro tra il 1581 e il 1590 e 15 nel decennio conclusivo del secolo. Il dato è indicativo anche perché si incrocia con le fortissime resistenze frapposte dalla Repubblica alla visita apostolica dei monasteri femminili. Non diversa appare la capacità della Curia patriarcale di tenere a bada i religiosi. Ridotti al lumicino – appena undici casi – tra il 1520 e il 1570, i procedimenti diventano otto tra il 1571 e il 1580, 22 nel decennio successivo e 21 tra il 1591 e il 1600: una goccia nel mare, se si riflette sul numero e sul peso politico dei conventi e monasteri della città53. Non a caso, nel mirino dei giudici della nunziatura veneziana è soprattutto il clero regolare. Forse i criminali più pericolosi, in ambito ecclesiastico, si annidano proprio al suo interno, forse i tribunali degli Ordini sono poco affidabili: sta di fatto che la sola istituzione che potrebbe tenerli a bada appare proprio il foro del nunzio. Ne è convinto nel 1585 il generale domenicano, mentre nel 1588 aperte accuse di connivenza sono indirizzate al provinciale del Terzo ordine francescano dal vescovo di Parenzo54. Ma erano speranze mal riposte. La severa requisitoria pronunciata in senato nel 1592 dal nunzio Taverna contro frati e monaci abituati a girare di notte armati e vestiti da secolari ebbe esiti modesti. Nei rari casi di condanne esemplari comminate da giudici ecclesiastici, ci pensavano i tribunali romani d’appello a scagionarli, anche di fronte ad imputazioni come la sodomia, che i dogi avrebbero punito con la morte55. Le cose non vanno meglio nel Regno di Napoli. A Telese i giudici diocesani non esercitano in questi anni sul clero rego-

53   I dati giudiziari si ricavano da Scomparin, cc. 244r-245v (per le monache) e 237r-239v (per il clero regolare). A Venezia ai primi del Seicento i monasteri femminili erano 31 (ASV, RD, 860/A, c. 266r, relazione del 1612), e altrettanti gli insediamenti maschili (ivi, c. 266v). 54   ASV, NV II, 834, c. 54r-v, e 840/7, c. 4r, rispettivamente lettere al nunzio del generale domenicano e del vescovo di Parenzo. 55   La Nunziatura di Ludovico Taverna (25 febbraio 1592-4 aprile 1596), a cura di S. Pagano, Roma 2008, pp. xxviii-xxix (sugli eccessi dei regolari). Per il disappunto del doge su un caso di sodomia, ivi, p. 317, 12 febbraio 1594, Taverna a Cinzio Aldobrandini.

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lare controlli di rilievo. Sintomatico l’esito di un’iniziativa in cui si avventurò nel 1596 il vescovo Savino. In un monastero domenicano abusivo sorto da tempo in diocesi, l’unico frate che ci viveva aveva picchiato l’arciprete, responsabile di averlo redarguito perché lavorava nei giorni festivi. La procedura avviata dal prelato ebbe sviluppi paradossali, proprio perché Savino si premurò di segnalare l’atto di insubordinazione alle autorità dell’Ordine. Invitato dai superiori a chiedere perdono all’ecclesiastico e trasferito altrove, il religioso fu sostituito da un frate che insidiava le donne del paese e commetteva abusi di ogni genere. Il rimedio, insomma, si rivelò peggiore del male. Le pressanti richieste d’intervento contro il nuovo venuto spiazzarono Savino: dato che coinvolgere i domenicani sarebbe stato inutile, visti i risultati, non gli restò che chiedere lumi a Roma. La questione però la risolsero da soli gli abitanti del luogo, con una tecnica efficace, che ricorda quelle feltrine del 1569. Costrinsero il frate ad andarsene, prendendolo per fame, negandogli la disponibilità di beni commestibili56. A Napoli la situazione era, se possibile, ancora più complicata. Nei monasteri femminili, in piena età tridentina, le famiglie aristo­ cratiche difendono con le unghie e con i denti i privilegi e gli spazi vitali delle congiunte. Anche le semplici ispezioni sono una sfida temeraria. Quando nel 1564 Giulio Antonio Santoro, il futuro cardinale di S. Severina, cercò di visitare il convento di Donnalbina, le religiose, appoggiate dai governatori, si rifiutarono di riceverlo, salirono sul tetto e di lì per due ore lo tempestarono di «pietre, tecole, calcine, craste de scotelle e anchora pietre grosse». Più di venti anni dopo il vicario delle monache scrisse da Napoli ai cardinali della Congregazione dei Vescovi e Regolari che avrebbe preferito zappare da mattina a sera, anziché ricoprire un incarico impossibile come quello57. Sfuggono ordinariamente ai controlli della Curia arcivescovile anche i regolari, se non nei casi di flagranza, che però sono seguiti abitualmente da richieste di rimessione ai giudici dei rispettivi   ASV, RD, 795/A, relazione del 1597 cit.   ASDN, PC, 1564, Inchiesta sulle monache di S. Maria a Donnalbina, c. 3v, 14 febbraio 1564, deposizione di Michele di Campoli. Lo sfogo del vicario è in ASV, CVR, POS, 1588 M-P, lettera del 22 aprile 1588 al Santoro. 56 57

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Ordini. Esse sono accolte, anche se quasi sempre accompagnate dall’obbligo per i destinatari di informare il tribunale diocesano degli sviluppi del procedimento e dal preavviso che in caso di inadempienza procederà da solo il foro episcopale. Raramente, inoltre, le autorità regolari rinunciano spontaneamente a processare propri sudditi o preferiscono la cogestione delle cause. Di solito, perciò, il trattamento dei crimini comuni di frati e monaci è riservato ai rispettivi organismi interni. Non ne discute neppure la Praxis del Genovese. Il modello tridentino, centrato sul ruolo di coordinamento dei tribunali vescovili, è tramontato, le tensioni abituali tra secolari e regolari sconsigliano forzature58. Non sorprende allora che gli esiti dei processi intentati dalle autorità degli Ordini non divergano da quelli aperti dai tribunali vescovili a carico del clero diocesano: penitenze salutari, pene che danno ancor meno nell’occhio, nascoste come sono nello spazio protetto dei conventi, e, nei casi gravi, trasferimenti di cui nessun fedele conoscerà il motivo. La sola differenza rilevante tra le rispettive procedure riguarda il rapporto con la comunità in cui vive il religioso che ha sbagliato: le sentenze sono pubblicate in refettorio, alla presenza dei confratelli, ed è lì che si praticano le penitenze, in ossequio alla disciplina monastica. Prevalgono però sulle pene effettive i simbolismi. Una testimonianza esemplare viene dalla condanna inflitta in questi anni dai superiori al guardiano di un convento dei francescani osservanti, quello di Castellammare di Stabia. Al religioso, dedito da sempre alla sodomia e sospettato di rapporti con fuorusciti, le autorità dell’Ordine «avevano come sodomita fatto le forche e i chiappi appesi e un foco per mostrar giustitia e pena deli peccati», nel refettorio del convento napoletano di S. Maria la Nova. Era certo una pena infamante, mai comminata, a parità di delitti, ad esponenti del clero secolare, ma si trattava pur sempre di una punizione virtuale59. Rispetto a questi schemi repressivi, l’unica eccezione per ora affiorata nell’Italia di questi anni nei tribunali degli Ordini sembra quella delle autorità   I dati più ricchi sono in ASV, CVR, RE, 1573-1600. Per un aspetto cruciale, quello delle patenti per confessare, vedi M. Mancino, Licentia confitendi. Selezione e controllo dei confessori a Napoli in età moderna, Roma 2000. 59   ASDN, Sant’Ufficio (d’ora in avanti SU), 956, c. 13r, 20 ottobre 1594, costituto di don Tommaso Rocco. 58

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domenicane della provincia napoletana, che non esitano a condannare alle triremi i confratelli responsabili dei crimini più gravi. Se però ci andassero davvero e ci rimanessero, non si sa60. 13. Riaffermazione del privilegio di foro e realizzazione di un modello giudiziario che cerchi di porre un freno agli abusi del clero senza danneggiare più di tanto la Chiesa sono insomma i due aspetti cruciali del rafforzamento dei tribunali penali ecclesiastici nell’Italia dell’ultimo trentennio del Cinquecento. Gli elementi di continuità con le connivenze tradizionali sono largamente prevalenti sulle istanze riformatrici. Le differenti tipologie criminali, l’appartenenza al clero secolare o a quello regolare e i diversi assetti politico-istituzionali della penisola contano fino a un certo punto. Blandi richiami e condanne poco più che simboliche sono sufficienti. La tutela intransigente del privilegio di foro è inscindibile dalla cautela nelle procedure e dalla moderazione nei castighi. Qui il confronto con il trattamento riservato ai laici nelle cause matrimoniali o nei processi di competenze dei tribunali diocesani è istruttivo. Ad essi si infliggono senza difficoltà condanne severe, se del caso accompagnate da penitenze pubbliche infamanti, che al clero sono risparmiate, tranne casi eccezionali. Inoltre, gli ecclesiastici che delinquono, anche ripetutamente, restano di fatto inamovibili. Recupero della pienezza della giurisdizione su di essi vuol dire anche garanzia di totale discrezionalità per le autorità che ne processano gli esponenti: se si escludono le parti lese, quando ve ne sono, nessuno ha il diritto di conoscere ciò che succede nei loro tribunali penali. Interventi giudiziari così nettamente caratterizzati non potevano lasciare indifferenti compagini statali impegnate da tempo nel rafforzamento dei propri apparati. Per quanto ne sappiamo, tra l’altro, la seconda metà del Cinquecento costituisce per la giustizia penale degli Stati italiani un momento di crescita e di riorganizzazione non dissimile dal nuovo corso del foro ecclesiastico61. Se   È quanto si ricava da ASN, Monasteri soppressi, 582, e da Miele, Giordano Bruno cit. 61   Per l’Italia moderna la presentazione complessiva più convincente è nella recente sintesi di Bellabarba, La giustizia penale cit. Per le singole aree vedi Tribunali, giustizia e società nella Roma del Cinque-Seicento, a cura di I. Fosi, 60

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per la prima metà del secolo è verosimile che il peso delle fazioni e delle rivolte ne rendesse problematico il regolare esercizio e rare dimostrazioni di forza convivessero con una prassi propensa a favoritismi, grazie, composizioni in denaro, come Federico Chabod osservava molti anni fa nel suggestivo saggio dedicato allo Stato di Milano, nei decenni successivi la repressione dei delitti si fece ovunque più rigorosa e intransigente. L’immagine di Cosimo de’ Medici che apriva ogni giornata di lavoro dando udienza al «secretario de’ criminali, al qual vien redrizzato tutte le criminalità» e solo dopo faceva entrare il Segretario di Stato, può essere a buon diritto considerata un emblema di questa fase. Per l’ambasciatore veneto, che nel 1561 inserì quelle notazioni in un rapporto al Senato, la decisione dell’ambizioso e temuto duca era uno dei tanti segni dell’energia e dell’abilità politica con cui stava rafforzando il suo Stato. Il diplomatico aveva ragione nel dare spazio a quel dettaglio. Se è vero, infatti, che giustizia ‘egemonica’ e ‘negoziata’ potevano coesistere e che uno spazio crescente si aprì nel corso dell’età moderna alle ‘composizioni’, la tendenza all’inasprimento delle pene appare inarrestabile. Chiunque abbia familiarità con le fonti tardocinquecentesche sa quanto pesasse sul comune sentire dei contemporanei la presenza di organismi statali pronti a reprimere nel sangue le trasgressioni «Roma moderna e contemporanea», 5, 1997; Giustizia e criminalità nello Stato pontificio. Ne delicta remaneant impunita, a cura di M. Calzolari, M. Di Sivo, E. Grantaliano, Roma 2002; I. Fosi, La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato Pontificio in età moderna, Roma-Bari 2007; C. Casanova, G. Angelozzi, La giustizia criminale in una città di antico regime. Il Tribunale del Torrone di Bologna (secc. XVI-XVII), Bologna 2008; A. Cicerchia, Giustizia di antico regime. Il Tribunale criminale dell’Auditor Camerae (secc. XVI-XVII), Tesi di dottorato in Storia politica e sociale dell’Europa moderna e contemporanea presentata nell’a.a. 2009-2010 presso l’Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’, coordinatrice M. Formica; La giustizia dello Stato pontificio in età moderna, a cura di M.R. Di Simone, Roma 2011; Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (secoli XIV-XVIII), a cura di G. Cozzi, Roma 1980; Id., La società veneta e il suo diritto. Saggi su questioni matrimoniali, giustizia penale, politica del diritto, sopravvivenza del diritto veneto nell’Ottocento, Venezia 2000; L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII), a cura di G. Chiodi e C. Povolo, Verona 2004; Processo e difesa penale in età moderna. Venezia e il suo stato territoriale, a cura di C. Povolo, Bologna 2007. I rapporti complessivi tra Stati italiani e Chiesa in età moderna sono ben illustrati in Greco, La Chiesa in Italia cit., pp. 191-219.

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più gravi, dal banditismo ai delitti che offendono valori universalmente condivisi, come gli abusi sessuali sui minori o gli atti di violenza più efferati. La spettacolarizzazione crescente delle esecuzioni capitali e lo spessore politico-religioso dell’assistenza spirituale imposta dalle Compagnie di Giustizia ai condannati ne sono un altro aspetto caratteristico62. Che però queste spinte abbiano consentito agli apparati statali di fronteggiare adeguatamente l’offensiva lanciata dalla Chiesa postridentina, è tutt’altro discorso. Per un verso è evidente che quando degli ecclesiastici si rendono responsabili di crimini atroci i vertici dello Stato non hanno particolari esitazioni – quando ci riescono – nel mandarli a morte. A Venezia, ad esempio, nel 1594 il Consiglio dei Dieci decide nell’arco di qualche giorno la cattura, la condanna alla pena capitale e l’esecuzione di due frati querelati dai padri di alcuni novizi sodomizzati. Qualche mese prima il doge aveva confidato al nunzio che se il Consiglio dei Dieci avesse avuto tra le mani un frate da lui prosciolto, su ordine dell’uditore di Camera, malgrado identiche, pesanti accuse, lo avrebbe fatto annegare in laguna da un pezzo. D’altra parte, di fronte ai delitti più efferati non si andava troppo per il sottile neppure nello Stato pontificio. Basti qui ricordare il caso di un prete di Ardea, divenuto famoso come assassino, stupratore e autore di misfatti di ogni genere: la sua testa, ‘adornata’ da una beffarda corona regia, fece bella mostra di sé a Roma nel Natale del 158563. Tuttavia, di qui a sostenere che ci fu da parte statale nell’Italia del tardo Cinquecen-

62   Per l’Italia del Cinquecento si veda Bellabarba, La giustizia penale cit., pp. 40-129. Per lo spazio occupato dai rituali di pace, vedi: O. Niccoli, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento, Roma-Bari 2007; Stringere la pace. Teorie e pratiche della conciliazione nell’Europa moderna (secoli XV-XVIII), a cura di P. Broggio e M.P. Paoli, Roma 2011. Per lo Stato di Milano vedi: F. Chabod, Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971, in part. pp. 236 sgg.; D. Sella, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa, in D. Sella, C. Capra, Il Ducato di Milano dal 1535 al 1796, in Storia di Milano, XI, Torino 1984, pp. 61-102. Il cenno a Cosimo è in Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, vol. 2, a cura di A. Segarizzi, Roma-Bari 1980, pp. 135-137. Per le Compagnie di Giustizia il più aggiornato punto di riferimento è Misericordie. Conversioni sotto il patibolo tra Medioevo ed età moderna, a cura di A. Prosperi, Pisa 2007. 63   Il caso veneziano è in Pagano, La Nunziatura cit., pp. 363-364, 367-368, 371-372 (lettere del nunzio Taverna a Cinzio Aldobrandini tra il 29 aprile e il 2 maggio). Per il frate prosciolto, ivi, p. 317 (Taverna ad Aldobrandini, 12 feb-

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to una repressione sistematica degli abusi gravi del clero, quelli non tutelati dal privilegio di foro, ce ne passa. A prescindere dalle resistenze delle autorità ecclesiastiche, quasi mai disponibili ad abbandonare al proprio destino gli uomini di Chiesa senza porre precise condizioni, bisogna mettere nel conto in primo luogo le difficoltà che i giudici secolari incontrano nell’adozione di una linea repressiva troppo rigorosa nei confronti degli stessi laici. Le fortissime perplessità suscitate a Roma nel 1585 dal giro di vite che Sisto V cerca di imporre ai tribunali penali dello Stato pontificio, non solo nella lotta al banditismo, fanno il paio con le resistenze incontrate a Napoli dal viceré nella crudele repressione della rivolta che nel maggio di quell’anno aveva condotto allo strazio del cadavere dell’Eletto Starace. Ai romani parve assurda la decisione del papa di condannare a morte una parte degli autori del macabro gesto di tagliare la testa a degli sfortunati gatti e di porle su alcuni pali, con polemico riferimento a quelle dei banditi esibite continuamente come trofei; i napoletani restarono ‘fuor di modo alterati’ per gli atroci supplizi riservati ai rivoltosi64. Influisce negativamente sull’immagine e sulla prassi dei tribunali penali di Stato anche la protezione sistematicamente garantita agli eccessi degli ecclesiastici che officiano nelle chiese e nelle cappelle dei principi. Intoccabili sacerdoti di élite, essi costituiscono per tutta l’età moderna la frazione più potente e indisciplinata del clero tutto. La condizione dei preti di S. Marco a Venezia ne è un esempio istruttivo. Dalle questioni di minore rilievo, come quella della berretta, che essi pretendono di continuare a portare tonda e non quadrata, a forma di croce, contro gli ordini del patriarca, a quelle più serie – i procuratori pretendono di tenere al proprio servizio frati banditi dal tribunale del nunzio, il doge difende a spada tratta il primicerio e i canonici marciani sia nei privilegi di foro, sia nell’autonomia pastorale di cui godono – l’occhio di riguardo da parte della Repubblica è un elemento di frizione continuo. Non diversamente si profila nel Regno di Napoli il ruolo del Cappellano Maggiore e del suo tribunale65. braio 1594). Per il prete di Ardea vedi Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in avanti BAV), Urb. Lat. 1053, c. 583r. 64   Le reazioni napoletane e romane del 1585 sono ben illustrate ivi, passim. 65   Per la questione delle berrette vedi Pagano, La Nunziatura cit., p. 141

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14. Il modello interpretativo fin qui proposto – una Chiesa che rivendica con forza il diritto esclusivo dei propri tribunali di procedere nei confronti del clero delinquente e ne governa gli eccessi con l’accortezza necessaria a tutelarne l’immagine complessiva – non tiene conto di una circostanza. Non tutti i giudici ecclesiastici italiani sono attestati su questa linea morbida. Alcuni di essi – probabilmente una piccola, agguerrita minoranza – cercano di rispondere con severità agli abusi che più stridono con il nuovo modello di prete delineato dai decreti tridentini. È un ventaglio di comportamenti proibiti che spazia da quelli direttamente legati al ministero sacerdotale, come la celebrazione di più messe nello stesso giorno o gli eccessi compiuti all’interno di luoghi sacri, ai delitti che costano abitualmente la vita ai laici (omicidi premeditati, falsa moneta, sodomia). In questi casi, uso della tortura, anche ripetuto, e condanne pesanti, come quelle a remigare sulle triremi, sono risposte inevitabili, anche perché le parti lese premono e sono in gioco valori sentiti, come l’imparzialità della giustizia e la riprovazione diffusa per abusi odiosi come le violenze perpetrate sui bambini. Proprio nel corso di questi processi, però, le autorità locali della Chiesa si scontrano con difficoltà di ogni genere e finiscono spesso nelle sabbie mobili. La spregiudicatezza con cui gli ecclesiastici cercano di sfuggire ai castighi è direttamente proporzionale alla gra(Taverna ad Aldobrandini, 12 dicembre 1592); per le pretese dei procuratori, ivi, pp. 609-610, 614-615, 630-635, 641 (Taverna ad Aldobrandini, tra il 6 maggio e il 17 giugno 1595); per la facoltà di conferire la prima tonsura e gli ordini minori ai chierici di S. Marco, reclamata dal doge per il primicerio, ivi, 538-539 (23 dicembre 1594). Nel 1598 la carcerazione da parte dei giudici patriarcali di un canonico di S. Marco, che era anche pievano di S. Mosè, provocò violenti contrasti con il doge, che si estesero anche alla questione della giurisdizione del primicerio (vedi al riguardo il vivace racconto del Contarini nelle Istorie veneziane, in Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni e T. Zanato, Milano-Napoli 1982, pp. 240-242). Per il clero marciano vedi almeno G. Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio della Cappella ducale di S. Marco (secc. XVI-XVIII). Controversie con i procuratori di S. Marco de supra e i patriarchi di Venezia, in «Atti dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 151, 1992-1993, pp. 1-69. Per il tribunale del Cappellano Maggiore, vedi M. Mancino, Autorità episcopale ed esenzioni nell’Italia post-tridentina. Note sui rapporti tra il Cappellano Maggiore del Regno di Napoli e gli arcivescovi della Capitale, in Munera parva. Studi in onore di Boris Ulianich, a cura di G. Luongo, II, Napoli 1999, pp. 251-275.

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vità degli eccessi. Entro certi limiti, si tratta di reazioni fisiologiche, note a chiunque studi il funzionamento dei tribunali penali, anche secolari. Ciò che sorprende, invece, è la molteplicità delle vie di fuga disponibili, all’indomani di un concilio che aveva cercato di fare piazza pulita delle connivenze tradizionali. Anche su questo piano, inoltre, la capacità di intervento da parte delle autorità statali appare debole, ininfluente. Per tornare allo scandalo di Rigoli e alle clamorose vicende di Levico, cioè ai due casi da cui ha preso le mosse la ricerca, nell’Italia tridentina contano più le reazioni degli ecclesiastici puniti che le decisioni rigorose dei superiori intenzionati a dare loro una lezione. Le pagine che seguono ne sono la riprova.

IV

Resistenze. Il clero delinquente contro i suoi giudici

1. Nell’autunno del 1581 il vicario arcivescovile di Pisa, Cesare Nuzzi, fu colpito a morte con un uncino dal parroco di Molina di Quosa, il corso don Salvatore Fanacci. Fu un fulmine a ciel sereno, un omicidio improvviso, forse imprevedibile: il prelato era andato di persona nella canonica del sacerdote, per interrogarlo sui rapporti sospetti con la serva. Per Fanacci si trattava del quarto ‘incidente’ in pochi anni: privato nel 1576 della patente di confessore dal visitatore apostolico, ma poi riammesso, era uscito indenne nel 1579-80 da due querele, una per presunta diffamazione nel corso di una predica, l’altra per atti di violenza. All’ennesima prova, forse la più difficile, perché erano in gioco i suoi rapporti affettivi, perse la testa. Il delitto di cui si macchiò fa pensare, malgrado le differenze, a un caso reso celebre da Leonardo Sciascia, quello dell’inquisitore Giovanni Lopez de Cisneros, assassinato nel 1657 a Palermo da fra Diego La Matina, un agostiniano sospettato di eresia. A un giudice così influente non bastarono le precauzioni adottate con un detenuto esasperato dalla lunga prigionia: il religioso lo colpì a morte durante un interrogatorio, con i ceppi che ne bloccavano le mani. Circostanze e motivazioni dell’assassinio pisano sono molto meno ‘eroiche’. Mentre l’inquieta figura del frate ha potuto ispirare la suggestiva ricostruzione di Sciascia, l’orizzonte in cui matura il caso toscano rientra a pieno titolo nel quotidiano. Forse l’intervento del Nuzzi era un bonario tentativo di persuasione; l’abuso su cui inda­­­­­108

gava non era particolarmente grave; al colloquio assisteva anche un ragazzino nato dalla relazione proibita del sacerdote; niente lasciava presagire esiti così drammatici. Eppure lo zelo del vicario era parso assurdo all’interessato, se è vero che prima della reazione inconsulta gli aveva detto stizzito: «Voi mi domandate di certe cose, par che io habbi fatto qualche gran male». Non si può escludere, peraltro, che il suo risentimento fosse stato acuito anche dal clima teso che si respirava in città e in diocesi almeno dal 1576, da quando la visita apostolica del Castelli aveva lasciato strascichi pesanti e si erano avvertiti i primi echi della presenza dell’Inquisizione. Lo stesso tribunale criminale arcivescovile aveva condannato nel 1579 alla degradazione e alla pena capitale – fatto rarissimo per la giustizia ecclesiastica – un canonico della cattedrale, responsabile dell’efferato omicidio di una donna. Inoltre, pochi mesi prima della sua tragica morte, nel luglio del 1581, proprio Nuzzi aveva promosso con un folto gruppo di canonici della cattedrale di Pisa una vera e propria spedizione punitiva ai danni dell’inquisitore, Francesco Pratello, e dei frati del suo convento, per giunta nella loro chiesa. Alla radice della clamorosa aggressione, al di là dei privilegi vantati dal Capitolo della cattedrale, c’era anche l’intento di tutelare le prerogative del tribunale arcivescovile in materia di ortodossia. L’Inquisizione pisana le ignorava, ma i vertici diocesani non si rassegnavano. Nell’assalto, su cui aprirono un’indagine sia l’inquisitore, sia l’arcivescovo, Nuzzi si era comportato come un capopopolo, rispondendo anche per le rime al Pratello. Quando questi l’aveva scomunicato, perché «maggiore era la sua autorità», gli aveva ribattuto che era prelato e dottore e ne sapeva quanto lui. Anche per quel motivo i cardinali del Sant’Ufficio non avevano avuto dubbi nel convocarlo a Roma e nel costringerlo a chiedere perdono all’inquisitore. Lo aveva fatto con malcelato imbarazzo il 6 ottobre, poco prima di finire i suoi giorni a Marina di Quosa1.

1   AAP, AC, 6, cc. 669-676 (è il processo, chiuso con la condanna a morte in contumacia). Gli altri incidenti giudiziari sono ivi, cc. 296-303 (la presunta diffamazione) e 652-657 (la violenza; qui, a c. 652r, si accenna alla revoca della licenza di confessione). Per l’assassinio siciliano, il rinvio è a L. Sciascia, Morte dell’inquisitore, Milano 2003 (l’edizione originale risale al 1964). Per il Castelli vedi qui, pp. 56-57 e 83-84. Per l’aggressione al Pratello vedi G. Romeo, Una città,

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Non sappiamo se la clamorosa vicenda avesse avuto un ruolo nell’episodio che gli costò la vita. Una cosa però è certa. A Pisa le resistenze che ostacolano il radicamento dell’Inquisizione sono più aspre delle reazioni allo zelo dei giudici della Curia arcivescovile. Lo dimostrarono nel 1582 altri due distinti ‘incidenti’. In primavera una donna minacciò apertamente – stavolta nella sede del tribunale – il vicario del Sant’Ufficio che la stava interrogando, insieme stupita e arrabbiata nel sentirsi rivolgere domande pignole su un banale sortilegio. Erano curiosità assurde, era come cercare di «dirizzare il becco alle civette», aveva rinfacciato al giudice. Prima di Natale, inoltre, anche l’abiura pubblica che avrebbe dovuto chiudere quello e altri procedimenti finì con un colpo di scena: fu il bargello della città a mettersi di traverso, rifiutando la consegna delle donne condannate. La cerimonia fu annullata e fu inevitabile ripiegare su un’abiura privata. Nella città toscana, insomma, nell’insofferenza verso le autorità ecclesiastiche, don Salvatore Fanacci era in buona compagnia2. 2. Proiettata sull’orizzonte della penisola, l’effervescente situazione pisana si rivela ampiamente rappresentativa. C’è ovunque una diffusa ostilità verso tutte le istituzioni giudiziarie della Chiesa, che si estende spesso anche alle iniziative di governo delle sue autorità (dai monasteri femminili in rivolta contro la stretta postridentina alle resistenze dei fedeli alla nuova disciplina del matrimonio). Tuttavia, proprio come nella città toscana, non c’è confronto tra l’ostilità manifestata ovunque agli inquisitori e le reazioni allo zelo dei tribunali ecclesiastici ordinari: l’avversione verso i giudici di fede è molto più netta. Grava come un macigno su di essi il ricordo delle crudeli esecuzioni pubbliche di eretici, studiate per terrorizzare e spingere al pentimento i complici sfuggiti alle retate. Non a caso, la costituzione con cui nel 1569 Pio V stabilì pene severissime per chi offendesse gli inquisitori o ne

due Inquisizioni: l’anomalia del Sant’Ufficio a Napoli nel tardo ’500, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 24, 1988, pp. 61-62. L’inchiesta diocesana è in AAP, AC, 7, cc. 510-522v (qui, a c. 517v, c’è il cenno alla risposta del vicario). Il ricordo post mortem di un altro severo intervento di Nuzzi, è ivi, c. 17r. 2   Vedi G. Romeo, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Firenze 1990, pp. 169-174.

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intralciasse l’azione, ebbe una diffusione notevole, agevolata dalla traduzione in italiano3. Anche dopo la fase più sanguinosa della repressione del dissenso, essi furono malvisti come poche altre autorità della Chiesa. Istituire nuovi tribunali rimase un’impresa difficile. Le violente reazioni di Milano e Napoli ai progetti di introduzione dell’Inquisizione spagnola non sono molto diverse da quelle che il Sant’Ufficio incontra quando cerca di ampliare la rete dei suoi uffici giudiziari: nella Savoia, in Dalmazia, nelle isole greche4. I dati parlano chiaro: oltre a svariati incidenti ‘professionali’ simili a quello pisano, tra la metà del Cinquecento e il primo Seicento si possono ricordare almeno due aggressioni (all’inquisitore a Cremona e al ministro del Sant’Ufficio a Napoli), l’assassinio di due frati domenicani del convento dove operava l’Inquisizione mantovana, in segno di ritorsione per la dura repressione antiereticale in corso nella città, un inquisitore pugnalato a morte a Pavia, un paio di tentati omicidi di due suoi colleghi (a Como e a Reggio Emilia). Ancora, altri due inquisitori furono arrestati dalle autorità secolari, in Abruzzo nel 1563 e a Sebenico nel 1590. Indicativo poi ciò che successe a Benevento nell’estate del 1566: bastò la pubblicazione di una bolla papale che stringeva i freni su una serie di inadempienze e trasgressioni per scatenare due tumulti contro la ventilata introduzione dell’Inquisizione5.

3   È quanto osserva G. Fragnito, Cinquecento italiano. Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma, Bologna 2011, p. 26. 4   Per Milano e Napoli gli elementi essenziali sono in DSI, alle voci rispettive. Per le altre aree fanno testo le ricchissime fonti epistolari conservate in ACDF (è impossibile indicare qui i rimandi, ma l’inventario di ACDF, Stanza storica, contiene i ragguagli necessari). 5   Per Cremona vedi ACDF, DSO, 1548-1558, p. 175, seduta del 19 gennaio 1553; per Mantova, S. Pagano, Il processo di Endimio Calandra e l’inquisizione a Mantova nel 1567-1568, Città del Vaticano 1991, pp. 54-57 e 64-68; per Pavia, M.C. Giannini, s.v., in DSI, 3, p. 1178; per i due tentati omicidi, vedi ACDF, DSO, 1592, c. 424v, seduta del 15 dicembre 1592 (Como) e DSO, 1617, c. 393v, 5 ottobre (Reggio, è la prima decisione romana successiva all’attentato). Nel complicato caso reggiano le sentenze di condanna saranno emanate solo il 21 giugno 1618 (DSO, 1618, pp. 216-217). Allo stesso anno risale l’aggressione napoletana (in AGOP, s. II, vol. 65, c. 559r; ringraziamo Peter Mazur per la segnalazione). Per la vicenda abruzzese, vedi G. Romeo, Note sull’Inquisizione romana tra il 1557 e il 1561, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 36, 2000, p. 131; per quella di Sebenico, ACDF, DSO, 1590-

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Alquanto diverso, nell’Italia del tardo Cinquecento, il quadro che risulta dai processi penali ecclesiastici: gli episodi di violenza appaiono più contenuti, soprattutto nel clero. Il celebre attentato a Carlo Borromeo, che costò nel 1570 la vita a quattro frati che intendevano vendicare i durissimi provvedimenti assunti dal prelato contro il loro Ordine, sembra per ora un caso isolato6. Sono semmai i laici a reagire con maggiore asprezza all’accresciuta intolleranza delle Curie vescovili. Gli atteggiamenti di irrisione verso le scomuniche e la resistenza passiva di chi ne è colpito – concubini, inadempienti al precetto pasquale, appassionati del gioco e del ballo, ma anche artigiani, contadini e pescatori contrari alle limitazioni del lavoro festivo – rendono pressoché impossibile punirli come meriterebbero, con il divieto di ingresso in chiesa da vivi e il rifiuto di sepoltura quando muoiono7. Ancor più controproducente sembra l’uso delle penitenze pubbliche. A Barzago, nella Milano di Carlo Borromeo, quando il curato costrinse dei giocatori a rimanere davanti alla parrocchia con le carte appese al collo, l’iniziativa fece solo ridere. A Cernusco sul Naviglio, infine, solo per aver rimproverato un oste che aveva permesso di giocare nel suo locale, il parroco dovette scappare a gambe levate, inseguito dall’uomo con un pugnale8. Le risposte degli ecclesiastici agli eccessi di zelo dei giudici si situano per lo più a un altro livello, rientrano nelle loro strategie processuali. Essi sanno che alla fine lo spirito di corpo prevarrà sull’applicazione della legge. Perciò anche nei più sanguigni le reazioni d’istinto convivono con scelte più lungimiranti. È ciò che succede a Traù, la perla croata allora appartenente alla Repubblica di Venezia, in un vivace caso giudiziario che si snodò tra il 1581 e il 1583.

1591, c. 375v. Per Benevento, vedi M.A. Noto, Viva la Chiesa, mora il Tiranno. Il sovrano, la legge, la comunità e i ribelli (Benevento 1566), Napoli 2010, pp. 15-39. 6   L’episodio attende ancora una ricostruzione moderna, libera dagli schemi agiografici in cui fu subito calato. Per una presentazione essenziale vedi M. Bendiscioli, Politica, amministrazione e religione nell’età dei Borromei, in Storia di Milano, X, Milano 1957, pp. 184-186. 7   Il dato è evidente sia in ASV, CVR, sia, a livello locale, nella Napoli moderna (Romeo, Amori cit., passim). 8   Turchini, Monumenta cit., p. 65.

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3. A finire sotto processo fu don Giovanni Rotondi, un prete pugliese venuto dall’altra sponda dell’Adriatico con una malmaritata. La scelta di puntare su Traù con quella ingombrante compagnia poteva forse essere rischiosa: c’era un vescovo intransigente, che pochi anni prima, come si è accennato, aveva emanato un editto rigoroso contro il concubinato del clero. L’iniziativa però non doveva aver attecchito, visto che l’ecclesiastico avviò una convivenza proibita con la conterranea e divenne anche canonico della cattedrale. Ma l’equilibrio si ruppe presto, per la soffiata di un confratello pugliese al metropolita, l’arcivescovo di Spalato, che trasmise subito la lettera, per competenza, al vicario di Traù. Quest’ultimo cercò prima di convincere bonariamente Rotondi a desistere; poi, visto il suo rifiuto, gli intimò invano di mandar via la donna. Solo a quel punto, nel maggio del 1582, arrivò la condanna, rigorosa, ma aperta al ravvedimento: accanto al bando, alla sospensione quinquennale dall’ufficio e al sequestro delle rendite, era prevista la grazia immediata, se avesse cacciato entro tre giorni la convivente. Obbligato a optare tra la perdita di una posizione di prestigio e la rinuncia a un rapporto cui teneva, il canonico reagì con asprezza. Sul piano legale scelse come tribunale di secondo grado la nunziatura di Venezia. Nel frattempo, però, decise di sfidare il prelato, stazionando su una barca sotto la fortezza della cittadina e ospitando lì la compagna. Era un’iniziativa ben studiata. La questione del mare e della sua appartenenza territoriale era da tempo oggetto di riflessione nei manuali di diritto e un buon avvocato avrebbe potuto difendere senza problemi la compatibilità di quel soggiorno col bando. Ma il vicario episcopale gli reiterò subito il divieto di frequentare la donna9. A quel punto Rotondi si spazientì e cercò di bruciarlo vivo in casa con un ordigno incendiario. L’attentato fallì, ma fu il governatore di Traù a reagire con forza, condannandolo al bando per 15 anni. Anche autorità intransigenti verso la Chiesa, quando erano in gioco le sue istituzioni, le difendevano senza esitazione. Imperterrito, però, il canonico riprese a vivere in barca, insultando e minacciando di morte il vicario. I giudici della nunziatura 9   ASV, NV II, 789/1, passim. Per la territorialità del mare, vedi P. Belluga, Speculum Principum ac Iustitiae, Parisiis, venundatur a Gallioto Pratensi, 1530, f. CXLVIII, rubrica 30.

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aggiornarono il fascicolo processuale con quelle bravate, ma non ne furono influenzati più di tanto. La sentenza di appello prese le distanze da entrambe le punizioni. Il divieto di frequentare la donna e un bando biennale erano il giusto corrispettivo dei suoi abusi; condonate le altre pene, fu reintegrato nell’ufficio di canonico, purché pagasse un sostituto finché durava l’esilio. Con la mossa giusta al momento giusto l’imputato aveva appianato tutte le pendenze10. 4. Qualche ulteriore riflessione, a questo punto, è d’obbligo. Una nuova condanna ineccepibile emanata da una Curia vescovile era stata annacquata dal tribunale di un nunzio pontificio. Tra l’altro, rispetto alla sentenza fiorentina sul caso di Rigoli, motivata da un vizio di forma, la decisione veneziana era ancora più sconcertante. Chi cercava di uccidere il suo giudice, secondo i manuali, meritava la condanna a morte. Il prete pugliese se la cavò invece con una pena poco più che simbolica, come se fosse stato vittima di un eccesso di zelo. Scontata per buona parte dei tribunali ecclesiastici del tempo, la scelta ha un che di paradossale, se si riflette sulla qualificazione dei magistrati che la adottarono e sul rigore sbandierato ufficialmente da tutti i nunzi della penisola, sia negli scambi di lettere con i vertici vaticani, sia nei colloqui di lavoro con i capi di Stato. Essi sanno bene che gli anelli deboli della giustizia penale della Chiesa sono i tribunali di primo grado e lanciano fuoco e fiamme contro i prelati responsabili di quella situazione. Inoltre gli uditori della nunziatura di Venezia, unici in Italia tra i loro colleghi, erano anche giudici del Sant’Ufficio, costituivano il contrappeso romano all’atipica presenza di rappresentanti laici all’interno del tribunale inquisitoriale della città lagunare. La familiarità con la più potente Congregazione cardinalizia consentiva loro di tenersi aggiornati come pochi altri colleghi sugli orientamenti della giurisprudenza. Ancora, se è vero che per le cause penali ordinarie non avevano obblighi di consultazione con il centro, come invece erano tenuti a fare nei più delicati casi di 10   ASV, NV II, ivi, cc. 54v-55r, 27 agosto 1582 (è il secondo decreto del vicario) e c. 56r-v, 2 ottobre 1582 (il bando del governatore e le reazioni del Rotondi). La sentenza d’appello è in ASV, NV II, 339, cc. 97v-98v (2 settembre 1583).

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violazione dell’ortodossia, è improbabile che risolvessero quelle più gravi senza informarne i nunzi. Anche per queste ragioni la sentenza che chiuse il caso di Traù richiede approfondimenti. Com’è possibile che giudici così influenti annacquino nel 1583 una decisione ineccepibile? Si può ipotizzare che se lo stesso caso fosse capitato a Venezia sarebbe stata confermata la condanna di primo grado? O a determinare quella scelta furono motivi occasionali – ad esempio l’esigenza di non criminalizzare ulteriormente un prete già colpito con durezza dal governatore e di riaffermare il monopolio della giurisdizione ecclesiastica sul clero? Più in generale, infine, come si regolava una magistratura così autorevole nelle cause d’appello? L’archivio della nunziatura di Venezia consente di rispondere in modo esauriente a queste domande. 5. Le prime attività note del suo foro criminale risalgono alla metà del Cinquecento e sono concentrate sulla capitale, non sul resto dello Stato veneto. È un impegno modesto, inferiore ai ritmi dell’omologa serie giudiziaria del patriarcato. I processi penali di appello – appena sette tra il 1554 e il 1563, di cui uno relativo proprio a un prete veneziano – ne sono la riprova. Neppure la chiusura del concilio modifica andamenti così blandi: tra il 1563 e il 1570 lievitano solo le cause civili. Ancora una volta, non c’è confronto con il foro patriarcale11. C’è però una significativa differenza tra le sentenze di secondo grado pretridentine e le successive. Nella prima fase (1554-1563) i giudici penali della nunziatura si mostrano equilibrati, attenti a dosare rigore e mitezza, in funzione del recupero delle pecore zoppe. Nel 1557, ad esempio, l’uditore generale, Rocco Cataneo, revocò una sentenza del vescovo di Cherso con una clausola – ‘in melius reformando’ – destinata a 11   Questi dati e i successivi sono il frutto dello spoglio integrale di ASV, NV II, mss. 338-341, 365-368, 370-373 e 376, per i registri di sentenze dal 1557 al 1599. Per i processi ci siamo serviti di Roselli, L’archivio della Nunziatura cit., pp. 97-165, ma anche dello spoglio integrale (per i soli atti criminali) di NV II, 305/2, 322, 329, 332-333, 336. Non è stato possibile, invece, studiare la cospicua sezione dei Documenta addita, neppure per il Cinquecento (Roselli, L’archivio della Nunziatura cit., pp. 337-358). In ogni caso resta da spiegare come mai non tutti i processi dell’inventario siano corredati delle decisioni finali e quanto il fondo, nella sua attuale consistenza, sia rappresentativo della serie presunta. Per la Curia patriarcale fa testo invece il citato repertorio di Scomparin.

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duratura fortuna nel suo tribunale. Erano di solito miglioramenti a senso unico, favorevoli solo agli appellanti, sgravati da condanne ritenute sistematicamente eccessive, anche quando la loro colpevolezza era certa. Tuttavia, in quel caso – un sacerdote locale era stato privato degli uffici e delle rendite e sospeso a divinis per pratiche sessuali – il tribunale veneziano si limitò a imporre il divieto di relazioni proibite, bilanciando la revoca delle pene restanti con un inasprimento delle sanzioni in caso di inadempienza: sospensione dalla celebrazione della messa, bando quinquennale dalla diocesi. Se avesse violato il confino, sarebbe finito in carcere per un mese, con l’obbligo – se voleva tornare libero – di pagare 15 ducati d’oro a chi lo aveva catturato e 8 per la fabbrica della cattedrale. Soddisfatta quella condizione, doveva riprendere la via dell’esilio. Dulcis in fundo, per tutta la durata del bando ogni violazione sarebbe stata punita così: una vera e propria spada di Damocle. La forbice tra la pena ordinaria e quella legata alla disobbedienza – diminuita la prima, accresciuta la seconda – era il contrassegno di una giustizia pronta alla clemenza, se il colpevole indirizzava la sua vita verso il bene. La redenzione contava più della punizione12. Per gli stessi motivi, infine, in un paio di casi l’appello fu un boomerang per i ricorrenti. Nel 1560 Cataneo, nel confermare la condanna di un parroco della diocesi di Treviso colpevole di rapporti proibiti con monache, lo sospese anche dalla cura d’anime, con motivazioni di natura pastorale. Sarebbe stato assurdo, scrisse, se un curato detenuto per imputazioni così gravi fosse tornato subito a guidare la parrocchia. Bisognava prima far riassorbire lo scandalo ed essere certi del suo ravvedimento13. Nell’estate del 1563, infine, i suoi fulmini si abbatterono sull’arciprete di Pago, già punito dal metropolita, l’arcivescovo di Zara, per offese al vicario generale e inesistenti pretese giurisdizionali. Per la petulanza mostrata, oltre alle pene irrogate in primo grado, fu obbligato a chiedere perdono al vescovo, in ginocchio e davanti ad almeno 20 testimoni. Se avesse rifiutato, sarebbe stato sospeso dalla celebrazione della messa e interdetto dall’ingresso in chiesa.

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  ASV, NV II, 366, sentenza del 25 ottobre.   Ivi, 370, sentenza del 21 giugno.

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Qui, ovviamente, era in gioco l’articolazione dei poteri all’interno delle Chiese locali. Un arciprete non poteva arrogarsi competenze che non gli spettavano; se per di più era insolente, si interveniva con il dovuto rigore14. 6. Ben altra, invece, fu la linea degli uditori della nunziatura veneziana dopo Trento. Tra il 1565 e il 1580, in una fase in cui peraltro continuano a ricevere pochi appelli in ambito penale, il quadro è eloquente. Su 11 condanne una sola è confermata, una seconda è moderata, tutte le altre sono annullate e i ricorrenti detenuti sono scarcerati. Il senso di questi interventi è chiaro. Il problema è nel rigore eccessivo dei giudici, non nei delitti del clero. È giusto punire un ecclesiastico che ha sbagliato, ma rendergli la vita impossibile, vietandogli di celebrare o sequestrandogli i proventi, è inopportuno. È l’esilio temporaneo la soluzione adatta, perché acquieta le tensioni senza esporre più di tanto chi le ha provocate e permette agli interessati di ravvedersi. Perciò, se una parte dell’episcopato della Repubblica sta esagerando, bisogna fermarla. Si spiega forse così la soluzione data nel 1570 a un processo in cui i giudici di primo grado avevano calcato la mano. Un frate ritenuto responsabile di aver violentato una bambina era stato condannato dal tribunale patriarcale di Aquileia a passare 12 anni su una trireme e poi al bando perpetuo: una pena apertamente sconsigliata dai manuali di procedura penale canonica. Anche l’Inquisizione, per un abuso obbrobrioso come l’adescamento in confessione, la infliggeva per non più di un decennio. In ogni caso l’uditore del nunzio rimise in libertà il religioso15. D’altronde, non è senza significato ciò che si legge nell’unico annullamento motivato di questi anni. Il foro del patriarca di Aquileia, coinvolto stavolta come metropolita, aveva cancellato una durissima sentenza inflitta dal vescovo di Concordia – la sospensione perpetua a divinis – a un prete accusato di omicidio. Al di là del fatto – si osservò a Venezia, in terzo grado – che la decisione era passata in giudicato e forse si era trattato di suicidio, c’era stata la pace, sancita dal notaio, tra il sacerdote e i

  Ivi, 367, sentenza del 23 giugno.   Ivi, 370 (è il caso di fra Vincenzo Sasso).

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familiari del morto. Anche per i delitti più gravi magistrati così influenti preferivano la giustizia negoziata alla repressione16. Tuttavia, fino all’inizio degli anni Ottanta si trattò di decisioni isolate. Non a caso, proprio a Venezia, nell’estate del 1577 alcuni sacerdoti travestirono per gioco un amico da uditore del nuovo nunzio e lo resero promotore di una finta visita pastorale a un cappellano, con tanto di domande su serve giovani, sulla tenuta del Santissimo e sul messale tridentino...17. L’esercizio di attività penali non era diventato ancora contrassegno caratteristico della nunziatura, e i preti della diocesi potevano aspettarsi dai suoi uomini solo ispezioni ‘tranquille’. Ma di lì a poco – in città non si erano spenti gli echi della visita apostolica – le loro iniziative divennero più incalzanti, soprattutto in appello, con esiti dirompenti per i prelati più rigorosi. 7. Si amplia in primo luogo l’influenza dei giudici della nunziatura veneziana sul territorio della Repubblica, da cui ricevono sempre più spesso richieste di appello. Nell’ultimo ventennio del secolo sono 119: un mare, a fronte delle 11 del quindicennio precedente. Aumentano anche – da 5 a 75 casi – le attività di primo grado, legate soprattutto ai controlli sul clero regolare e alle querele ricevute, ma anche alla scelta di altri magistrati, secolari ed ecclesiastici, di rimettere loro singoli procedimenti. Come gli appelli, anche queste istanze non riguardano quasi mai Venezia e sono frutto in parte del disagio di autorità restie a procedere (vescovi, soprattutto, ma anche esponenti delle gerarchie degli Ordini religiosi e talora i loro cardinali protettori), in parte della diffidenza delle sedicenti vittime verso i rispettivi giudici. Due volte, infine, i procedimenti sono delegati al nunzio da rappresentanti della Repubblica18. Un’altra caratteristica accomuna la maggioranza di queste cause, anche quelle di primo grado. La fiducia riposta nel tribunale veneziano da istituzioni ‘deboli’ e da querelanti in cerca di giustizia non fu ripagata: sui 14 casi noti si registrano sei proscioglimenti, un’ulteriore rimessione (di un frate al suo Ordine) e sette   Ivi, 365, cc. 164r-165r (è una sentenza del 1569).   Ivi, 322, cc. 5r-9v (l’inchiesta, avviata il 7 agosto, si chiude il 22 con la conferma che era stata una burla). 18   Il dato è il frutto dello spoglio integrale della documentazione criminale inserita nei mss. segnalati qui, nota 11. 16 17

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condanne, di cui solo una particolarmente pesante (quattro anni sulle triremi, ma l’interessato era un criminale incallito); quanto alle altre 61 cause di primo grado, 25 si chiudono con l’assoluzione, accompagnata con crescente frequenza da una clausola – l’obbligo del perpetuo silenzio sull’oggetto del processo – che è come il contraltare del meccanismo inquisitoriale della damnatio memoriae, 31 con pene ben poco rigorose. Soltanto per l’omicidio proditorio perpetrato da un religioso ai danni dell’abate scattò una condanna a morte in contumacia, ma dopo l’assenso del cardinale protettore dell’Ordine. Le poche altre sanzioni di rilievo – galere da due a cinque anni, esilio decennale dalla diocesi o dalla repubblica – riguardano trasgressioni pesantemente lesive della disciplina regolare e del sentimento religioso, come l’apostasia dall’Ordine e i furti sacrileghi19. Invece anche gli abusi gravi di esponenti del clero contro terzi godono abitualmente di un trattamento di favore, che stride con le punizioni inflitte a parità di delitti ai laici: è il caso della sodomia, che comporta molto spesso per questi ultimi la pena capitale. È istruttivo al riguardo il processo intentato nel 1593 a un influente francescano, il confessore e lettore di sacri canoni del convento di S. Francesco della Vigna, accusato da più confratelli sia di pratiche sessuali e avances, sia della loro esaltazione come atti ‘santi’ e caratteristici di papi e cardinali. Il nunzio e le autorità dell’Ordine, incerti sul da farsi – l’imputato potrebbe essere vittima di una ritorsione per le riforme da lui introdotte come guardiano – demandano la decisione al cardinal protettore, che lo proscioglie20. Inoltre, per i crimini atroci degli uomini di Chiesa la sola condanna adeguata è l’esilio, per periodi e spazi mutevoli, da pochi anni a tutta la vita, dalle singole diocesi al territorio della Repubblica: pena che non dà

19   Vedi ad esempio ASV, NV II, 339, cc. 101v-102v (è la sentenza contro don Marco Andriolich, che per una sfilza di reati se la cavò con il bando triennale, revocato in meno di un anno). La condanna a morte raggiunse nel 1584 don Carlo Borromeo, un canonico regolare lateranense (ivi, 365, cc. 403r-404r). 20   ASV, NV II, 916, processo del 1593 a fra Ludovico de Grigis. Per il proscioglimento romano, ivi, cc. 125v-126v. Anche in un rarissimo caso di condanna a morte in contumacia per sodomia (1570, giudici diocesani di Capodistria) il tribunale veneziano consentì all’interessato di tornare al suo paese (era anziano ed erano passati tanti anni: ivi, 339, cc. 64r-65v, sentenza del 14 marzo 1583).

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nell’occhio ed è spesso condonata, anche dopo poche settimane21. Continuava così lo scandalo dei preti delinquenti che passeggiavano indisturbati per la città, mentre i cadaveri dei loro complici laici pendevano dalle forche. Adesso però i nunzi fingevano di non vederli, a differenza dei loro colleghi del primo Cinquecento, ed erano anzi in prima fila nel difendere l’odiosa disparità di trattamento. Dove però nell’ultimo ventennio del secolo una linea così devastante assume un rilievo tutto particolare è nella gestione degli appelli. Dal 1582 uno stillicidio di decisioni favorevoli ai ricorrenti si abbatte su tutti i 32 tribunali vescovili della Repubblica, ma non mancano (sette casi) le sentenze che ammorbidiscono le pronunce dei giudici degli Ordini. Su 119 decisioni, quasi sempre in secondo grado, ma talora anche in terzo (rispetto agli interventi dei metropoliti), una sola volta i nunzi aggravano le pene (comprensibilmente, peraltro, visti i comportamenti dell’interessato), e in altri cinque casi le confermano, anche se in seguito in un paio di occasioni le riducono. Per il resto, cioè in più del 95% degli appelli, le decisioni sono molto vantaggiose per gli appellanti: 20 di essi ottengono l’annullamento, 93 consistenti sconti di pena. ­Colpisce in particolare il sistematico affossamento delle condanne al ­remo e l’attenuazione, quasi altrettanto frequente, delle sanzioni pecuniarie. In fin dei conti, si osserva talvolta, sono uomini di Chiesa: dovranno pur vivere in modo dignitoso, senza chiedere l’elemosina. Ne risulterebbe compromessa l’immagine complessiva del clero, un valore incommensurabilmente più importante dell’esigenza di ripulirlo delle mele marce22. Con il passare del tempo si fa sempre più chiara la logica che

21   Un buon esempio in ASV, NV II, 365, cc. 308r-309r, sentenza in contumacia del 12 gennaio 1593 contro don Girolamo de Ludovici (per il tentato omicidio, in chiesa, del vicario generale gerosolimitano). Condannato al bando perpetuo dal dominio e alla privazione di tutti i benefici, gli bastò avere la remissione di querela dalla vittima e presentarsi per essere prosciolto. 22   ASV, NV II, 340, cc. 81v-82v, sentenza d’appello del 23 settembre 1587, che di fatto azzera la condanna inflitta il 29 luglio 1587 dalla Curia vescovile bresciana a don Giovan Battista de Nobili, dichiarato incorreggibile, costretto a pagare una pesante multa, privato di tutti i benefici, sospeso dagli ordini per sempre e bandito da tutta la Val Camonica, per la persistenza nel concubinato. Di questo impianto resta poco e nulla nella decisione veneziana: essenzialmente il divieto di convivenza.

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pervade le sentenze degli uditori. Tranne rari accenni a vizi di forma o alla debolezza delle prove, di solito la colpevolezza c’entra fino a un certo punto, soprattutto nei casi di sodomia, pedofilia, omicidio, stupro. Perché i delitti ricevano un’adeguata sanzione, devono essere ripetuti e accompagnati dalla dichiarazione di incorreggibilità. È quanto si osserva in una decisione del 1593. Il tribunale vescovile di Parenzo aveva inflitto una severa condanna a un servita che ne aveva combinate di tutti i colori: rapporti sessuali con una figlia spirituale e con vergini, cui prometteva in cambio una dote, adescamento in confessione, minacce, contratti illeciti e scandali vari. La risposta dei giudici non si era fatta attendere: bando perpetuo dalla diocesi e sospensione a divinis per cinque anni. In caso di inadempienza, sarebbe finito per sette anni sulle triremi venete, dopo aver sborsato 200 ducati a chi lo aveva catturato. Stavolta l’uditore della nunziatura si superò. Accolse l’appello, pur riconoscendo che la sentenza era giusta. Era una sfida al buonsenso, oltre che alle formule abituali nelle decisioni di secondo grado (male iudicatum, bene appellatum e viceversa). Si inventava una terza alternativa: avevano ragione entrambi, il giudice che aveva condannato e l’imputato che aveva presentato il ricorso. Tuttavia il frate doveva tornare in libertà, visti i danni subiti, e senza sospensione a divinis. Bastavano per lui penitenze salutari per un anno, che il nunzio per giunta si riservava di moderare23. Nella stessa direzione, paradossalmente, vanno anche alcune delle condanne annullate perché la colpevolezza non è provata. Per cinque volte gli interessati, anziché essere prosciolti, vedono limitata la propria libertà di movimento, per motivi di opportunità: è meglio che stiano alla larga dal luogo dove sono stati accusati, anche falsamente, di abusi. Così preti onesti, vittime di ingiustizie in primo grado, erano beffati anche in appello24.

  Ivi, 372, sentenza del 14 giugno 1593 contro fra Lelio da Brescia.   È la soluzione data il 13 aprile 1589 (ivi, 341, cc. 43v-44v), dalla nunziatura all’appello dell’arciprete di Nogara, don Troilo Nichessola, condannato in primo grado a cinque anni di carcere e alla privazione dell’ufficio dalla Curia vescovile di Verona, come mandante dell’omicidio di un cappellano e del furto dei suoi beni. Si stabilì che era innocente, ma si ritenne opportuno che non tornasse a Nogara. 23 24

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8. In assoluto, però, chi esce con le ossa rotte dalle decisioni della nunziatura è quella minoranza di giudici diocesani che aveva ritenuto doveroso punire con rigore gli abusi più gravi. La soluzione accomodante prevalsa nel processo di Traù è ben poca cosa rispetto ad altre decisioni adottate nello stesso anno. È il caso dei giudici di una diocesi influenzata dal rigore di Carlo Borromeo, come quella di Bergamo. La governò dal 1577 al 1592 Girolamo Ragazzoni, dopo una lunga carriera di visitatore apostolico, culminata, tra il 1575 e il 1577, in una rigorosa ispezione della stessa Milano borromaica. L’intransigente prelato fu anche per alcuni anni (1583-87) nunzio apostolico nella Francia scossa dalle guerre di religione. Poco prima che egli si avviasse verso la nuova destinazione, in un solo giorno, nel febbraio del 1583, il suo vicario aveva condannato al remo per un triennio due frati apostati e un sacerdote abituati a falsificare licenze e a vivere tra donne e gozzoviglie. Le istanze di appello furono risolte dalla nunziatura veneziana alcuni mesi dopo, nel giro di pochi giorni: tre anni di carcere per tutti. Ancora più sconcertante fu il seguito. Uno dei detenuti, subito evaso, fu catturato e condannato alle triremi per un triennio, ma in pochi mesi ottenne a Venezia la permuta in un pari periodo detentivo e la scarcerazione definitiva. Gli altri due nel frattempo erano stati liberati, purché abbandonassero il territorio della Repubblica. Ancora una volta, insomma, non era il rigore la risposta più adeguata ai delitti del clero25. All’applicazione di questa linea non sfuggì neanche Venezia. Non c’entravano i provvedimenti del 1581, che rimasero un’eccezione. Se è vero infatti che la giurisdizione criminale del patriarca non fu mai più messa in discussione in modo così pesante, il rispetto per le sue prerogative non impedì agli ufficiali della nunziatura di interferire attraverso le sentenze di appello sulla repressione delle malefatte del clero locale. Anche due vecchie conoscenze dei giudici diocesani fruirono della benevolenza del nunzio. Uno, cancelliere del patriarcato per oltre 30 anni, già finito nel mirino degli uditori/visitatori apostolici nel 1581, si era rituffato in attivi25   Le sentenze sono ivi, 339, cc. 77v-78v e 82v-83r (23-27 maggio 1583). Per Ragazzoni, oltre a Blet, Girolamo Ragazzoni cit., vedi la recente, importante edizione della sua visita milanese: La visita apostolica di Gerolamo Ragazzoni a Milano (1575-1576), a cura di A.G. Ghezzi, 2 voll., Milano 2010.

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tà sessuali ad ampio raggio – faceva anche il protettore di alcune cortigiane e dei loro figli – ed era stato condannato in primo grado al bando per tre anni da Venezia e Torcello e alla sospensione dalla messa per alcuni mesi. Il tribunale della nunziatura annullò tutto e lo rimise in libertà26. Non meno sconcertante fu, nel 1592, la decisione adottata nei confronti di don Luigi Lupato, l’incallito prete delinquente di cui si è detto. Prosciolto in patriarcato il 19 agosto dall’accusa di aver violentato due bambini (aveva resistito alla tortura) e relegato per un anno nell’isola della Giudecca per altri abusi sessuali, per ingiurie scandalose al pievano e per aver celebrato due messe in uno stesso giorno, trovò una comoda sponda nella nunziatura. Era colpevole, si decise, ma la pena era dannosa per lui e per i fedeli. Bastava che chiedesse di riconciliarsi col confratello offeso per essere trasferito al sestiere di Castello, dove avrebbe potuto continuare a servire nella sua chiesa27. Ancora più indicativo un terzo caso. Nell’aprile del 1580 una commissione giudicante composta da ufficiali del patriarcato di Venezia e da esponenti del Capitolo della cattedrale aveva deposto Giovanni de Olzinio dall’ufficio di canonico e da tutti gli altri incarichi, condannandolo a due anni di carcere e al bando perpetuo da città e diocesi, per una relazione proibita con una penitente. In appello, il tribunale del nunzio aveva ritenuto opportuno, come sempre, attenuare il rigore della sentenza, confermando solo la perdita del canonicato e riducendo l’esilio a due anni. Tuttavia quello sconto, pur consistente, non andò giù all’ecclesiastico, che cominciò presto a sfidare i giudici, tornando spesso a Venezia, divertendosi a camminare in pubblico travestito da greco o da turco e andando ad ingiuriare la donna sotto casa. Il culmine della sfrontatezza lo toccò nella festa del Corpus Domini del 1583, con l’ennesima bravata, condita di insulti e lanci di pietre alle finestre dell’ex amante. Solo a quel punto gli uditori della nunziatura dis-

26   ASV, NV II, 367, sentenza del 4 marzo 1592 che annulla la condanna in primo grado del 13 ottobre 1591. Si tratta di don Girolamo Locatelli (su cui vedi qui, p. 97), che peraltro figura anche dopo il suo proscioglimento nella documentazione giudiziaria della nunziatura veneta (ivi, 333, deposizioni di testi raccolte contro di lui tra il luglio e il settembre del 1592). 27   ASV, NV II, 372, sentenza dell’uditore Girolamo Scacchi del 18 dicembre 1592. Anche per Lupato vedi qui, p. 97.

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sero basta: gli inflissero dieci anni di esilio da Venezia e diocesi e dieci sulle galere in caso di infrazione, con il consueto pagamento di una taglia a chi lo avesse catturato. È incerto se quella piccola lezione sia servita a qualcosa. È il caso di osservare, peraltro, che neppure uno dei suoi giudici, il primicerio della cattedrale, era un prete irreprensibile. Obbligato nella visita del 1581 a interrompere una relazione adulterina, subì altri due procedimenti (ingiurie e negligenza nelle cerimonie) nel 1596 e nel 159928. 9. Un nuovo tassello si aggiunge al mosaico fin qui ricostruito: nella compagine statale italiana più intransigente nei confronti della Chiesa il controllo del clero delinquente deve fare i conti anche con la presenza ingombrante del tribunale della nunziatura. Alle tendenze al compromesso dilaganti nel foro ecclesiastico e allo scarso interesse delle autorità romane si devono sommare anche gli esiti delle strategie dei loro più alti rappresentanti locali. Le poche condanne rigorose inflitte dai giudici diocesani erano sconfessate dai nunzi o da interventi di altre istituzioni di livello superiore. Non bisogna però sottovalutare le particolarità della situazione veneziana. La convivenza con una Repubblica attentissima alle proprie prerogative potrebbe aver influito pesantemente sugli atteggiamenti complessivi della Chiesa locale. Non si può escludere, ad esempio, che la presenza di autorità statali abituate a contrastare con fermezza gli eccessi più gravi del clero e la necessità di evitarne intromissioni abbiano spinto una parte dei vescovi veneti ad accentuare il rigore degli interventi e giudici d’appello così autorevoli a inevitabili decisioni moderatrici. Un abile gioco di squadra avrebbe raggiunto, malgrado le sfavorevoli condizioni di partenza, l’obiettivo più importante per la Chiesa: il recupero dei suoi spazi giurisdizionali insidiati. La disponibilità degli uditori della nunziatura veneziana a venire incontro ai preti delinquenti condannati in primo grado potrebbe allora essere il frutto della necessità di temperare la severità talvolta eccessiva, ma funzionale alla difesa della giurisdizione ec28   ASV, NV II, 339, cc. 71r-v e 103v-104r, sentenze dell’aprile-luglio 1583. Quanto al primicerio, Francesco Lurano, per l’incidente del 1581 vedi supra, p. 85, nota 30; per i processi del 1596 e del 1599 Scomparin, ad annum.

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clesiastica, dei vescovi più combattivi. Decisioni dello stesso tipo potrebbero aver avuto il sopravvento in tutta l’Italia presidiata dai nunzi, quella politicamente più delicata per la Curia romana. In essa una giustizia penale della Chiesa orientata, come ovunque, a difendere l’immagine e l’onorabilità del clero, avrebbe raggiunto i suoi obiettivi più faticosamente che altrove, attraverso il rigorismo strumentale dei vescovi, temperato dagli indispensabili interventi moderatori dei diplomatici del papa. Non si può escludere, d’altra parte, che le severe condanne emanate in primo grado da alcuni dei giudici della Chiesa attivi nella Repubblica di S. Marco si inscrivano in un orizzonte ben diverso. Non è irrilevante la circostanza che nel ventennio finale del Cinquecento almeno una volta i tribunali di tutte le diocesi dislocate nel suo territorio ebbero la mano pesante nei confronti di ecclesiastici delinquenti. Questo dato potrebbe essere l’espressione di un disegno riformatore collegabile all’influenza dei modelli borromaici su una parte dell’episcopato della Repubblica e segnalare perciò l’esistenza di settori della Chiesa italiana non del tutto allineati alle strategie accomodanti prevalenti un po’ ovunque. Se l’ipotesi fosse verificata, le sorprendenti sentenze veneziane rientrerebbero – anche o soprattutto – in una dialettica interna alle autorità ecclesiastiche tra vescovi riformatori e giudici d’appello impegnati a smussarne le asprezze. La specificità della situazione veneta, rispetto alle connivenze abituali della giustizia penale della Chiesa, potrebbe essere ravvisata, più che nei disinvolti interventi degli uditori della nunziatura, nell’intransigenza di singoli prelati, in un’area sensibile forse più di altre al rigorismo borromaico. Altre cesure potrebbero allora attraversare l’Italia del tardo Cinquecento sul piano del governo del clero delinquente. Accanto all’azione dei nunzi bisognerebbe ricostruire il ruolo dei vescovi fedeli a un’applicazione inflessibile dei decreti conciliari. La verifica di entrambe le ipotesi consentirà di approfondire nuove dimensioni dell’azione di contrasto alla criminalità ecclesiastica avviata nell’Italia tridentina. 10. Il problema più complicato da risolvere è quello del rapporto tra esemplarità delle sentenze di primo grado annullate e zelo dei giudici che le emanano. Ci vorrebbero scavi ad ampio raggio, sia negli archivi vescovili, sia in quelli vaticani. Per quanto abbiamo ­­­­­125

potuto verificare, però, se si escludono casi come quelli della Bergamo di Ragazzoni, è difficile trovare tracce precise di collegamenti tra l’adozione di una politica giudiziaria severa contro il clero delinquente e linee di governo delle diocesi ispirate a un’applicazione rigorosa del concilio. In base alla documentazione esaminata, l’ipotesi più probabile è che si tratti di decisioni pressoché obbligate, dovute alla incorreggibilità o alla particolare efferatezza di singoli comportamenti criminosi e al peso delle pressioni esercitate dalle vittime e dalle autorità statali. Al contrario, sono molto più abbondanti le fonti che ci restituiscono le varie forme di delegittimazione dei giudici e di resistenza alle condanne più rigorose. Cominciamo dall’andamento degli appelli nelle altre tre nunziature italiane. Anche se una verifica sistematica della questione risulta per ora impossibile, perché i loro archivi giudiziari sono perduti (Napoli), in corso di riordinamento (Torino) e privi di inventari idonei (Firenze), non mancano le testimonianze utili, a cominciare dalla netta ostilità dei vescovi verso l’azione di disturbo esercitata dai giudici delle nunziature29. Sono indicative le reazioni di due prelati raggiunti da inibitorie (cioè divieti di procedere) dei nunzi di Savoia: il vescovo di Ventimiglia nel 1577 le ignora deliberatamente, mentre nel 1580 quello di Vercelli preferisce disertare l’appello e ricorrere direttamente a Roma30. Ma il banco di prova più convincente è nei processi di primo grado relativi all’Italia delle nunziature: da Pisa a Telese, da Capaccio a Napoli. L’indicazione più importante che se ne ricava è una sola: la pratica diffusa di una giustizia ‘negoziata’ si impone senza problemi. È ciò che capita soprattutto a Telese e a Capaccio, dove non affiorano tracce di ricorsi al tribunale della nunziatura e scarseggiano gli appelli tout court. Abitualmente l’effetto combinato di scelte punitive blande e di composizioni pecuniarie spegne sul nascere ogni rivendicazione. Al contrario, quando la giustizia ‘egemonica’ 29   L’archivio della nunziatura fiorentina è in ASF, quello della nunziatura torinese è in ASV. Sul tribunale fiorentino vedi M. Belardini, Il potere giudiziario del Nunzio apostolico. Note sull’Archivio del Tribunale della Nunziatura di Firenze, in Gli archivi della Santa Sede come fonte per la storia moderna e contemporanea, a cura di M. Sanfilippo e G. Pizzorusso, Viterbo 2001, pp. 59-86. 30   Per Ventimiglia, vedi ASV, SdS, Savoia, 6, cc. 108r-109r, lettera del nunzio del 17 maggio 1577; per Vercelli, ivi, 9, c. 37r-v, lettera del nunzio del 28 gennaio 1580.

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si fa rispettare anche nei confronti del clero, ricorrere a un giudice di secondo grado conviene, proprio come a Venezia. Chi sceglie questa strada può contare sull’annullamento della sentenza o su una congrua riduzione delle pene. Ne restano tracce diffuse sia nell’azione delle Curie diocesane più grandi e autorevoli, sia in quelle in crisi, governate da delegati romani, sia nelle più piccole. È ciò che si osserva, per i vescovati più deboli, in un caso capitato a Montepeloso, in Lucania (oggi Irsina). Nella minuscola diocesi il vescovo, Lucio Maranta, in rotta col Capitolo della cattedrale, commise nel 1581 l’ingenuità di illustrare per filo e per segno alla Congregazione dei Vescovi e Regolari le sue difficoltà. I caporioni del clero locale, malgrado dieci processi subiti, gli rendevano la vita impossibile, forti di sponde centrali non meglio specificate: «questa porta di Roma così aperta», scriveva il 29 gennaio, «me travaglia tanto, che non ho core di procedere nelli delitti, perché subbito fugeno in Roma». Era uno sfogo sincero, forse anche un atto di fiducia nel nuovo dicastero, ma non piacque ai destinatari. Per tutta risposta, infatti, gli notificarono la sorprendente decisione adottata. Il processo più pesante – quello aperto per adulterio, deflorazione e pubblica usura contro il cantore della cattedrale – era stato trasmesso alla Segnatura di Giustizia, che a sua volta aveva delegato il titolare di una diocesi vicina alla sua. Un vero e proprio schiaffo in faccia al povero vescovo, spiazzato ancora una volta da una ‘porta’ romana nuova di zecca, e per giunta a vantaggio di un collega della zona, facilmente abbordabile dall’interessato31. Non andava meglio nel Regno agli stessi vicari apostolici. Spesso la delega ricevuta dal papa serviva a poco. Uomini di legge, visti come il fumo negli occhi sia dai vescovi, costretti ad ospitarli a proprie spese, sia dal clero delinquente, dovevano combattere su molti fronti: intralci pretestuosi, ricorsi ai metropoliti, appelli ai tribunali romani32. Ma i cardinali della Congre31   ASV, CVR, POS, 1581 F-P, dossier contenente cinque lettere del M. alla Congregazione e la copia di un ordine del cardinale Maffei del 2 ottobre 1580. Per il contesto locale vedi M.A. De Cristofaro, Vita religiosa nel Mezzogiorno pretridentino. Vescovi e Capitolo cattedrale a Montepeloso (Irsina) dal 1532 al 1563, in Girolamo Seripando e la Chiesa del suo tempo nel V centenario della nascita, a cura di A. Cestaro, Roma 1997, pp. 565-597. 32   Esempi a iosa di queste contraddizioni sono in ASV, CVR, POS e RE, tra il 1573 e il 1600.

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gazione, anziché sostenere i propri delegati, davano fiducia alle altre istituzioni giudiziarie centrali. Ce ne resta una vivacissima testimonianza in un caso aquilano del 1578, relativo all’impegno di uno di essi, Ercole Lamia. Inviato nella diocesi abruzzese per dare una mano al vescovo, Giovanni de Acugna, anziano e malato, l’ufficiale dopo pochi mesi di attività era esausto. La diocesi era nelle mani di una banda di nove potenti ecclesiastici criminali, in larga parte canonici e arcipreti. Appoggiati dall’amministrazione comunale e incuranti dei tanti gravi addebiti (concubinato, pedofilia, rapimenti di vergini, bestemmie, eresia, subornazione di testimoni), manovravano a proprio piacimento il clero e usurpavano gli stessi poteri episcopali, compresa la giurisdizione penale. Per loro Lamia, ultimo di una lunga serie di vicari apostolici arrivati lì, era solo l’ennesimo intruso da eliminare. Già poco dopo l’inizio delle sue attività si era dovuto difendere da una raffica di false accuse trasmesse da ‘fedeli’ alla Congregazione (prosciutti ricevuti nel corso della visita pastorale, licenze di matrimonio a consanguinei, soldi per ‘togliere’ scomuniche33). Nel giro di qualche mese, però, la situazione precipitò. Se il 10 marzo del 1578 aveva chiesto ai cardinali di affidargli un altro incarico, tre giorni dopo li pregò solo di lasciarlo tornare a Roma. Temeva per la sua incolumità, perché nel sinodo appena concluso la consorteria di canonici e arcipreti si era scatenata. Aveva fatto il possibile per reagire, ne aveva anche incarcerato qualcuno, ma senza esito. Su richiesta degli interessati – osservava stancamente nella parte finale della lettera – erano intervenute la Segnatura di Giustizia e la Camera apostolica, avocando a sé le cause. La Congregazione, accennava timidamente, avrebbe dovuto bloccarne le iniziative; ma erano parole al vento, se ne rendeva conto. Nell’ultima lettera, scritta con l’acqua alla gola, ribadì che non si poteva fidare di nessuno, neppure dei notai, suoi o del vescovo: erano tutti aquilani, non c’era altro da aggiungere. Perciò, visto che gli erano state anche rubate le lettere provenienti da Roma, fuggire quanto prima a gambe levate era l’unica soluzione. L’anziano vescovo lo

33   ASV, CVR, POS 1578, lettera di Lamia al cardinale Maffei del novembre 1577.

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difese, anche se forse – azzardò – era stato troppo arrendevole. Al contrario, i rappresentanti della città ne chiesero con forza a Roma l’immediato allontanamento: i suoi provvedimenti si erano rivelati incompatibili con gli interessi pubblici e con le riforme che aspettavano dalla Santa Sede34. Ercole Lamia riuscì a tagliare la corda e pochi mesi dopo fu premiato da una nomina vescovile nel Regno, ma lontano dall’Aquila, ad Alessano, nel Salento. A Roma forse furono apprezzate la sua obbedienza e la sua pazienza. Restava però il pesante significato politico-religioso di quelle esperienze. Se, più che a un’incisiva lotta alla criminalità del clero, la Congregazione dei Vescovi e Regolari mirava, come si vedrà, a conquistare l’egemonia sulle più influenti istituzioni giudiziarie romane e mandava allo sbaraglio i suoi stessi delegati, c’era ben poco da fare35. 11. Non che le cose andassero molto meglio in Curie più potenti. Le serie processuali di Pisa e Napoli sono indicative. Anche se non manca il coinvolgimento dei giudici delle rispettive nunziature, la familiarità con la ‘porta’ di Roma, nelle sue varie articolazioni, appare fortemente radicata. A Pisa anche qualcuno degli ‘eccessi’ di un visitatore apostolico intransigente come il Castelli è riassorbito dagli interventi dei cardinali del nuovo dicastero36. A Napoli, sin dai primi anni postridentini, sono le grandi istituzioni romane che deputano spesso gli uditori del nunzio, in risposta ad istanze di ecclesiastici processati in primo grado, talora non ancora condannati, con esiti identici a quelli garantiti a Venezia dai colleghi della nunziatura veneziana37. Non sono diverse, d’al  Ivi, dossier costituito da due lettere (del 10 e del 13 marzo 1578) e una relazione di Lamia e altre lettere (una del vescovo e una del camerlengo e di altri tre amministratori, dell’11 marzo 1578). 35   Per la nomina a vescovo, l’11 giugno 1578, vedi Van Gulik, Eubel, Hierarchia cit., III, p. 103. 36   Vedi Romeo, La Congregazione cit., p. 611. 37   Due esempi: ASDN, PC, 1564 (il nunzio, delegato dal papa, cui aveva inoltrato appello l’ex agostiniano Giovanni Andrea Torre, condannato dalla Curia arcivescovile al remo per tre anni, commuta la pena in quattro anni di esilio, cc. 255r-271r) e 1570 (il novizio certosino fra Pietro Antonio Russo, sotto processo come mandante di assassinio e sospetto sodomita, appella alla Santa Sede e ottiene che la causa sia delegata al nunzio Brumano. Questi intima ai giudici dell’arcivescovato l’inibitoria e l’ordine di trasmettere gli atti). 34

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tra parte, le conclusioni degli appelli presentati ai giudici della Curia arcivescovile della capitale da esponenti del clero puniti da tribunali della provincia ecclesiastica napoletana. È emblematico un processo del 1573, aperto dalla Curia vescovile di Acerra contro don Bartolomeo d’Orofino, un prete sospettato da tempo per relazioni proibite con donne sposate. Il vescovo e il vicario avevano cercato invano di convincerlo a desistere, anche attraverso confessori e confratelli. Mormorii e dicerie dei vicini avevano alla fine reso inevitabile un blitz serale a casa sua. Il sacerdote trovò il tempo di far scendere dal letto la donna con cui stava dormendo, ma il vicario arcivescovile verificò che il giaciglio era caldo da entrambi i lati, ritenne il dettaglio prova sufficiente della flagranza e lo fece arrestare. Dopo un breve periodo di detenzione e un’ampia istruttoria don Bartolomeo fu condannato a due anni di sospensione a divinis, con il consueto divieto di frequentare donne disoneste, a cominciare dall’amante. Per quegli anni non era una pena particolarmente severa, ma il prete non ebbe dubbi sul da farsi: due giorni dopo presentò appello a Napoli, al metropolita, e in poco più di un mese ottenne l’annullamento della sentenza. Lo firmarono il vicario arcivescovile Pietrantonio Vicedomini e il consultore Paolo Tasso, giudici esperti, abituati a trattare con rigore i delitti contro l’ortodossia, destinati entrambi a diventare vescovi nel Regno. Si trattava però di un processo penale come tanti, non di una causa del Sant’Ufficio. Perciò neppure l’aggravante dell’adulterio li spinse ad approfondire il caso. Nella sentenza si limitarono a scrivere che i giudici di Acerra avevano giudicato male. Un solo fastidio residuo rimaneva per il sacerdote: il precetto di non intrattenere rapporti proibiti con donne, una quisquilia, una punizione poco più che simbolica38. Gli uditori della nunziatura di Venezia, insomma, non erano i soli a premiare l’uso spregiudicato del diritto di appello. Ovunque, in Italia, nei rari casi in cui i tribunali di primo grado usavano la mano pesante, gli imputati avevano buon gioco nell’impugnare le sentenze. Nel giro di poche settimane o di qualche mese

38   ASDN, PC, 1573. Il fascicolo contiene quasi soltanto la copia del processo acerrano (cc. 1r-57r, gennaio-giugno). La sentenza d’appello è del 6 luglio 1573.

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andavano in fumo con un tratto di penna condanne emanate a fatica, dopo anni di pazienti tentativi di dissuasione, da colleghi di rango inferiore. 12. Si potrebbe osservare che tutte le contraddizioni fin qui affiorate riguardano l’Italia più agguerrita nei confronti della Chiesa, quella presidiata dai nunzi apostolici. Altrove, nella penisola, i giudici ecclesiastici potrebbero aver svolto il proprio lavoro in modo più regolare. Verifiche sistematiche sono allo stato attuale delle ricerche impossibili: non sappiamo quasi nulla di gran parte dei tribunali penali della Chiesa attivi in Italia in questi anni cruciali. Tuttavia, le grandi serie vaticane, e in particolare quelle delle Congregazioni dei Vescovi e Regolari e del Concilio, consentono alcuni approfondimenti. In queste pratiche affiorano le stesse linee guida che muovono i nunzi apostolici: combattere con equilibrio gli abusi del clero, non sbilanciare troppo sul versante repressivo le istituzioni ecclesiastiche, a meno che non sia in gioco la giurisdizione. Questa linea vale anche per lo Stato pontificio. Quando nel 1583 il vicario apostolico di Ferentino vuole processare un uomo che ha ‘osato’ liberare un bambino da lui messo alla berlina per aver rubato dei vasi d’argento da una chiesa, gli si intima di lasciar perdere. L’irritazione per lo zelo indiscriminato non risparmia neppure prelati illustri come Carlo Borromeo: alle prese di distanza dei colleghi del Sant’Ufficio dal suo profilo di ossessionato cacciatore di streghe corrispondono i giudizi severi, se non sprezzanti, espressi nel 1593, a pochi anni dalla morte, sui decreti dei suoi celebri concili provinciali, caduti in disuso anche a Milano39. Tutt’altro discorso, invece, se gli eccessi di zelo servono a difendere il foro ecclesiastico. Non ci sono critiche, nel 1574, alle pene infamanti inflitte dal vescovo di Alessandria alle adultere, costrette a stare di domenica davanti alla cattedrale, nel momento di maggiore affluenza dei fedeli, con la testa rapata a zero e ‘agghindata’ da un coperchio d’orinale. Si tratta dello Stato di Milano, e quelle pra39   Il caso di Ferentino è in ASV, CVR, RE, 8, c. 87r, 1º marzo 1583; per i concili provinciali milanesi vedi G. Romeo, Confessione dei peccati e confessori nell’Italia della Controriforma: cosa dire del Seicento?, in «Studi storici», 51, 2010, pp. 974-975.

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tiche, segnalate alla Congregazione dei Vescovi e Regolari come prova dell’esercizio di giurisdizione in casi di foro misto, servono a difenderla dalle ingerenze statali40. La sola eccezione a questo schema riguarda il governo delle pratiche sessuali che si consumano nei monasteri femminili. Immurazione per le religiose e condanna a morte per chi ne ha violato il corpo sono la risposta più frequente ai rapporti proibiti con le spose di Cristo, anche se in più di un caso le esecuzioni capitali sono sospese, perché non c’è omogeneità di vedute ai vertici della Chiesa. Le soluzioni draconiane studiate per contrastare i disordini riscontrati nei monasteri femminili di Salerno ne sono una testimonianza esemplare. Nel 1583 i cardinali della Congregazione ottennero a fatica da Gregorio XIII la revoca della condanna a morte da lui pretesa per un frate che aveva fatto il bello e il cattivo tempo tra le monache di S. Chiara. Pochi anni dopo, però, Sisto V fu irremovibile nel pretendere il trasferimento a Roma e l’esecuzione della pena capitale per un nobile e un domenicano che avevano violato delle religiose salernitane: neppure l’intervento di un cardinale influente come Giulio Antonio Santoro gli fece cambiare idea41. 13. Complessivamente, insomma, nei primi decenni di vita due sembrano, insieme ai controlli sui monasteri femminili, gli obiettivi primari della Congregazione dei Vescovi e Regolari in materia di giustizia criminale ecclesiastica: riequilibrare i poteri tra centro e periferia, soprattutto in funzione del ridimensionamento dei vescovi italiani, conquistarsi un ruolo egemone nei meandri giudiziari romani. Forse ci riuscì solo in parte: sia i tribunali diocesani, sia i grandi apparati centrali d’appello, pur indeboliti, continuarono in larga misura a gestire in modo indipendente le rispettive   Romeo, Amori cit., pp. 27-28.   Il rilievo risulta dallo spoglio delle fonti segnalate nella nota 1 del cap. III. Per il primo episodio salernitano vedi ASV, CVR, RE, 8, cc. 184r, 13 settembre 1583 (è la notifica all’arcivescovo della decisione del papa) e 223v, 8 novembre 1583 (si comunica al vicario arcivescovile che, tenuto conto dei patimenti del religioso, il papa ha revocato la sentenza e lo ha condannato a remigare per dieci anni sulle galere). Per il tragico epilogo del secondo caso, vedi M. Miele, La riforma dei monasteri femminili di Salerno nella seconda metà del Cinquecento, in «Campania Sacra», 36, 2005, pp. 9-40. 40 41

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attività. Entro questi limiti, però, si radicano nel tardo Cinquecento inedite forme di controllo sui giudici locali della Chiesa: avocazioni di processi, richieste di copie di atti, decisioni interlocutorie o definitive ne condizionano pesantemente le scelte. È una novità assoluta, perché la Congregazione non è vincolata alle norme che regolano gli appelli e le altre possibilità legali di ricorso. A subire i suoi interventi sono per lo più i tribunali vescovili, ma non mancano gli interventi richiesti da religiosi incappati nei rigori dei rispettivi Ordini. Per il resto, però, il disinteresse del nuovo organismo cardinalizio per l’introduzione di un sistema di controlli centralizzato rende saltuario e casuale il governo dei delitti del clero nella penisola, incapace di imprimere un indirizzo omogeneo a un aspetto così importante del rinnovamento delle Chiese locali. Le sole decisioni della Congregazione riconducibili a un’esigenza di tutela del foro diocesano riguardano le contraddizioni interne alle province ecclesiastiche: i metropoliti, cioè gli arcivescovi che le guidavano, sono invitati spesso a non compromettere il lavoro dei vescovi e dei vicari apostolici operanti nei rispettivi distretti, accogliendo appelli irricevibili. Si tratta però, ancora una volta, di interventi che fanno seguito alle proteste dei giudici spiazzati o delle controparti danneggiate, non di iniziative d’ufficio, tese a riportare ordine nella giustizia penale della Chiesa. È quantomeno dubbio che esse abbiano reso più limpidi i rapporti tra suffraganei e metropoliti42. È ciò che si ricava anche dall’atteggiamento della Congregazione nei confronti degli appelli rivolti, nel solco di un’inveterata tradizione, alla Camera apostolica o alla Segnatura di Giustizia, i grandi tribunali centrali specializzati nel bloccare le sentenze di condanna locali, quelli che a Trento si era cercato in qualche modo di frenare. Due sono le linee d’intervento più comuni: si continuano a delegare loro i processi più gravi aperti contro i vescovi, come ad evitare un proprio diretto coinvolgimento in   Vedi ad esempio ASV, CVR, RE, 5, c. 62v (20 luglio 1580: l’arcivescovo di Otranto è rimproverato per gli appelli ‘frivoli’ ammessi, in danno del vescovo di Alessano – ancora il povero Lamia – che se ne era lamentato) e 28, cc. 50v-51r (il vicario arcivescovile di Capua è invitato a non bloccare il vicario apostolico di Caiazzo, nell’azione di contrasto che sta conducendo contro i concubini). 42

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logiche repressive43, e nello stesso tempo, come a Montepeloso, si ignorano le accorate proteste di questi ultimi, quando sono messi fuori gioco dagli annullamenti di comodo delle loro sentenze, decisi a Roma su istanza degli ecclesiastici condannati. In un solo caso, per quanto ci risulta, i potenti cardinali sembrano cambiare registro. Nel 1588, in risposta all’ennesima protesta avanzata da un vescovo, quello di Camerino, contro distruttivi provvedimenti centrali, decisero di rimettere la soluzione a Sisto V. Questi intimò allora all’uditore di Camera di non accettare più appelli relativi all’esecuzione di decreti dei visitatori apostolici e di trasmetterli alla Congregazione dei Vescovi e Regolari44. Non sembra che l’intervento sistino abbia ottenuto risultati duraturi. Era certo un passaggio importante: anche il papa confermava il diritto del nuovo organismo di avocare a sé o di smistare a qualsiasi tribunale ecclesiastico, centrale o locale, qualsiasi causa, escluse ovviamente quelle di pertinenza del Sant’Ufficio. Per quanto ci risulta, però, la realtà quotidiana rimase molto più sfrangiata. Le tracce di una stabile egemonia esercitata dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari sulla Camera apostolica e sulla Segnatura di Giustizia sono pressoché nulle, le giurisdizioni romane concorrenti mantennero a lungo una forza intatta, l’ordinaria amministrazione degli appelli registrò solo la presenza di un nuovo terminale romano. La riprova della forza immutata di linee d’intervento così poco tridentine è nella curiosa situazione della giustizia criminale della Chiesa nello Stato pontificio. Malgrado la mancanza di ricerche di prima mano sulle sue attività, essa appare molto più vicina alle contraddizioni dei piccoli vescovati del Sud che ai solidi equilibri di una compagine statale in cui governo spirituale e potere temporale sono, ai massimi livelli, nelle stesse mani. 14. Le linee generali dell’amministrazione della giustizia penale nelle terre del papa sono state ben ricostruite in alcune recenti ricerche, anche se forse è rimasto nell’ombra il ruolo dei legati, che   Esemplare quanto si scrive l’11 gennaio del 1578 al vescovo di Acqui, chiamato a Roma a rendere conto dei problemi della diocesi: si deve ritenere fortunato, perché di solito i vescovi si convocano con mandato dell’uditore di Camera (ASV, CVR, RE, 3, c. 47r). 44   ASV, CVR, RE, 15, c. 133r-v, 10 giugno 1588. 43

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in Emilia, in Romagna e nelle Marche potrebbero aver esercitato un peso non indifferente sui tribunali vescovili45. L’elemento di maggiore rilievo che ne scaturisce riguarda la forza disgregatrice del potere dei feudatari e la debolezza delle strutture statali nel fare fronte alla difesa dell’ordine pubblico e della convivenza civile. Le istituzioni diocesane appaiono spesso come il vaso di coccio tra i vasi di ferro. I silenzi e i toni sconfortati di molte delle relazioni ad limina provenienti nell’ultimo decennio del Cinquecento dallo Stato pontificio si integrano bene con gli esposti pesantissimi trasmessi dai sudditi del papa, spesso non senza esito, alla Congregazione dei Vescovi e Regolari. Il dato è particolarmente evidente nel Lazio e nelle Marche. Visite pastorali e sinodi impossibili per la paura dei banditi (Anagni), vescovi sequestrati, costretti a pagare un riscatto e a scoprire che a consegnarli ai rapitori erano stati i maggiorenti locali (Montalto delle Marche) o a subire senza fiatare usurpazioni massicce dei beni della diocesi (Sutri e Nepi): la vita quotidiana di una parte non esigua dei prelati prescelti per guidare spiritualmente le terre del papa-re era insidiata e turbata da tensioni e conflitti di ogni genere. In quelle condizioni, il regolare funzionamento dei tribunali diocesani era un lusso che pochi potevano permettersi. Chi ci provava doveva fare i conti sia con la scarsa collaborazione delle istituzioni secolari, governatori compresi, sia con la ‘porta di Roma’, aperta e disponibile a tutti46. Che l’alternativa del ricorso ai grandi apparati della tradizione conservi intatta la sua forza soprattutto nello Stato pontificio lo ha ben dimostrato d’altra parte una recente ricerca, dedicata al tribunale dell’uditore di Camera47. Qualche vescovo anziano, che sa forse di non aver niente da perdere, ha anche il coraggio di scriverlo: come a Tivoli Giovanni 45   Vedi: C. Casanova, Gentiluomini ecclesiastici. Ceti e mobilità sociale nelle legazioni pontificie (secoli XVI-XVIII), Bologna 1999; Id., Don Antonio cit.; Casanova, Angelozzi, La giustizia criminale cit.; U. Mazzone, Governare lo Stato e curare le anime. La Chiesa di Bologna dal Quattrocento alla Rivoluzione francese, Padova 2012, in part. pp. 111-145. 46   Per Anagni, vedi ASV, RD, 41/A, 9r-13v (1592 e 1594); per Montalto delle Marche, ivi, 539/A, 6r-7v (1592); per Sutri e Nepi 774/A, cc. n.n. (1590, 1592 e 1594: il duca di Bracciano fa il bello e il cattivo tempo). 47   Cicerchia, Giustizia di antico regime cit.

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Andrea Croci. Nel 1591, dopo aver lamentato la prepotenza dell’arcidiacono, chiudeva la relazione al papa con amari rilievi: nella Curia romana, scriveva, con le sue liti immortali, con gli appelli strumentali all’ordine del giorno, a pagare il prezzo più alto erano sempre i poveri vescovi... Allo stesso modo, nel 1600, il rendiconto di Girolamo Bentivoglio, vescovo di Montefiascone, segnalava come un problema di tutti i colleghi l’assurdità delle cause civili d’appello avviate dai debitori condannati in primo grado contro i creditori più poveri, che ovviamente rinunciavano a costituirsi in giudizio, perché le spese legali sarebbero state superiori alla somma da incassare. Difficile pensare che la stessa cosa non succedesse per le condanne penali un po’ più incisive48. Non sorprende allora che in questi anni nelle relazioni provenienti dallo Stato pontificio ci sia di solito solo un dato indirettamente rivelatore di tribunali vescovili funzionanti: quello relativo alle pene pecuniarie incassate e devolute a luoghi pii. L’indicazione serviva, è ovvio, a prevenire i sospetti di avidità diffusissimi tra i fedeli e non riguardava solo l’azione penale. Ma è l’unica traccia precisa di un qualche esercizio di giurisdizione da parte di istituzioni così sguarnite49. La musica non cambia neppure nei rendiconti relativi alle cosiddette diocesi suburbicarie, quelle che attorniavano Roma, governate spiritualmente da cardinali. Forse Gabriele Paleotti, nominato vescovo della Sabina nel 1592, è l’unico a nutrire – ma per poco – sogni di riforma50. I colleghi hanno altro per la testa, a cominciare dai banditi che ad Albano inquietano il cardinale Alessandrino. Due esempi. A Frascati nel 1590 il cardinale Galli si vantava di aver ridato forza alla giurisdizione vescovile conculcata dalle usurpazioni di altri tribunali, ma venti anni dopo toccò a uno dei suoi successori scoprire che gli atti della cancelleria episcopale erano conservati negli uffici della curia secolare e porre rimedio alla sconcertante situazione. Neanche Giulio Antonio Santoro, il potente segretario dell’Inquisizione romana, sembra particolarmente interessato ai costumi del clero di Palestrina: nella relazione del 1597   Per Tivoli, vedi ASV, RD, 800/A; per Montefiascone ivi, 541/A, c. 11r-v.   Vedi ancora ivi, 541/A, c. 1v, relazione del 1591. 50   Ivi, 701/A, c. 5r e sgg. (1594). Già l’anno dopo però le sue speranze si sono affievolite (vedi 38r-40r: non ce la fa a reggere il peso di governare Bologna e la Sabina, ha chiesto al papa di accogliere la sua richiesta di dimissioni). 48 49

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accenna ai guai giudiziari di un arciprete, assolto dal tribunale del governatore dall’accusa di adulterio, solo perché i parrocchiani non lo vogliono e bisogna trovare un accomodamento51. 15. Resistenze in giudizio ben accolte dai tribunali dei metropoliti, dalle istituzioni centrali e dagli uditori delle nunziature sono così il corrispettivo dell’egemonia sugli abusi del clero conquistata dalla Chiesa italiana nel tardo Cinquecento. Anche per questi motivi l’efficacia del nuovo corso è dubbia. È possibile, certo, che vi sia stata qualche eccezione. Nello Stato di Milano, dove i condannati non avevano a disposizione la comoda sponda della nunziatura, l’inasprimento repressivo potrebbe essere stato, quantomeno nell’episcopato del Borromeo, più difficilmente aggirabile. Né bisogna dimenticare, sul versante opposto, la particolare debolezza degli apparati giudiziari della Chiesa nelle piccole diocesi dello Stato pontificio e del Regno di Napoli. Complessivamente, insomma, pur in una fase di riorganizzazione, l’immagine dei tribunali criminali ecclesiastici italiani nell’ultimo trentennio del Cinquecento è quella di un coacervo di istituzioni attive e formalmente dotate di una larga autonomia, ma incapaci, quando ci provano, di riportare all’ordine un clero in larga misura refrattario ad ogni riforma. Di fronte agli ecclesiastici più incalliti nel crimine anche i tribunali più organizzati e i pochi vescovi intransigenti devono fare i conti con lo strapotere dei metropoliti e con le sponde romane, potenziate, dove operano i nunzi apostolici, da giudici abituati ad annacquare o a revocare le pene inflitte in primo grado. Di questi scenari non c’è traccia nei manuali per visitatori, ma neanche in quelli relativi al buon funzionamento delle Curie vescovili: non ne discutono Ninguarda e Salodi, mentre Genovese dedica pochi rilievi alla questione degli appelli, senza accennare neppure di sfuggita alle tante vie di fuga che consentono al clero delinquente di aggirare le condanne52. La repressione della criminalità ecclesiastica, al di là dei numeri, resta così sostanzialmente fedele al modello pretridentino: una 51   Ivi, 20/A, c. 5r (Albano); 833/A, cc. 2r, 1590, e 28v, 1610 (Frascati); 665/A, c. 14v (Palestrina). 52   Genovese, Praxis cit., edizione del 1602, pp. 375-387. Ancora più ridotti gli accenni al tema nell’ed. del 1619 (vedi pp. 171-176).

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giustizia accomodante, in parte costretta ad esserlo anche per la debolezza dei suoi apparati. La preferenza per scelte punitive miti e riservate potrebbe anche essere il frutto della necessità di evitare complicazioni, di difendere un potere fragile da comportamenti processuali spregiudicati, che ne avrebbero facilmente ragione. Ancora una volta, il confronto con i tribunali dell’Inquisizione romana è istruttivo. Sul piano dei diritti degli imputati c’è un abisso tra il Sant’Ufficio e il foro penale ordinario della Chiesa. Gli spazi di manovra di chi finisce negli ingranaggi inquisitoriali sono abitualmente molto ridotti. Se non sono accolte le richieste di grazia e, per il clero regolare, non hanno successo le mediazioni degli Ordini, le pene si scontano. La sola speranza in un annullamento delle sentenze o dei processi è legata all’intervento degli inquisitori generali e all’accertamento di gravi irregolarità commesse nei tribunali locali del Sant’Ufficio. Se però il sistema funziona come dovrebbe, c’è ben poco da fare per un inquisito. Al contrario, si sarebbe tentati di concludere, siccome i condannati sanno bene come muoversi e hanno ampi spazi di manovra, nel governo dei crimini comuni del clero c’è poco da fare per i suoi giudici. Anche su questi aspetti dell’azione del foro penale ecclesiastico le autorità dello Stato sembrano poco attente o del tutto incapaci di intervenire. Colpisce soprattutto la situazione veneziana. È probabile che l’ammorbidimento e l’annullamento delle più rigorose sentenze penali di primo grado da parte del tribunale della nunziatura fosse noto ai vertici della Repubblica. Non risulta però che vi siano state proteste o pressioni volte quantomeno a far sentire il peso del proprio dissenso rispetto a decisioni così gravi. Eppure in quegli anni le frizioni con Roma erano all’ordine del giorno. Gli abusi del clero – con l’esclusione dei delitti più efferati – continuavano a rimanere una questione di rilievo inferiore rispetto ai tanti altri nodi che avvelenavano i rapporti con la Chiesa. Perciò, se anche nello Stato italiano più intransigente nella tutela della propria giurisdizione era così facile per i giudici che operavano in nome del più alto rappresentante del papa in terra veneta garantire al clero delinquente un trattamento di favore, si può immaginare cosa potesse succedere altrove. 16. Proiettata sull’orizzonte europeo del tardo Cinquecento, questa situazione appare in qualche modo confrontabile – per ­­­­­138

quanto se ne sa – solo con i modelli di intervento caratteristici di altre nazioni cattoliche. Dove sono egemoni le nuove confessioni cristiane, è lo Stato a dettare legge, con esiti piuttosto diversi. Il caso più studiato è quello dell’Inghilterra. Qui i ministri anglicani rispondono di eventuali abusi o delitti alla giustizia penale ordinaria, né più né meno dei laici, mentre le questioni più minute, a cominciare da quelle relative all’inosservanza dei doveri sacerdotali, sono regolate dalle visite pastorali. Spicca ancora, come importante elemento di differenza, la funzione dei churchwardens, i laici che curano la tenuta delle chiese, il regolare svolgimento delle funzioni e la moralità dei parrocchiani. Le loro informative si concentrano prevalentemente sui fedeli, ma non trascurano i disordini dei pastori. I frutti di questo articolato sistema di controllo si colgono già agli inizi del Seicento nel netto miglioramento della preparazione e dei costumi degli ecclesiastici53. Più varia si presenta invece la situazione nell’Europa cattolica, dove peraltro le indagini sono poche e per lo più concentrate sulla questione del celibato degli ecclesiastici. Rispetto all’Italia, la capacità di intervento delle Congregazioni romane è molto ridotta, s’intende. Quando però i vescovi stranieri accennano agli eccessi del clero delle rispettive diocesi con rilievi incompatibili con la linea ufficiale, le lavate di testa non si fanno attendere. Al vescovo di Bratislava, che si era mostrato comprensivo con i parroci e gli altri uomini di Chiesa legati alle conviventi da affetto maritale, la Congregazione del Concilio risponde con asprezza nel 1594 che quegli ecclesiastici non sono cattolici: bisogna stroncarne subito gli abusi. Né è più tenera qualche mese dopo col vescovo di Zamora, per l’eccesso opposto. Come gli è venuto in mente di pubblicare un editto che obbligava a denunciare i delitti di canonici e preti, indicati per filo e per segno, per giunta con le pene 53   Vedi: R.A. Marchant, The Church under the Law. Justice, Administration and Discipline in the Diocese of York 1560-1640, Cambridge 1969; M. Ingram, Church Courts, Sex and Marriage in England, 1570-1640, Cambridge 1987; R.B. Outhwaite, The Rise and Fall of the English Ecclesiastical Courts, 1500-1800, Cambridge 2006. Non mancano però altrove, nelle aree controllate dalle nuove Chiese, le difficoltà nel controllo degli eccessi del clero: il caso di Zurigo è indicativo (vedi i rilievi di B. Gordon, The Protestant Ministry and the Cultures of Rule: The Reformed Zurich Clergy of the Sixteenth Century, in Scott Dixon, Schorn-Schütte, The Protestant Clergy cit., soprattutto pp. 149-155).

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che comportavano?54 Si tratta però di casi rari. Ordinariamente nell’Europa cattolica il trattamento dei crimini comuni del clero dipende dagli equilibri istituzionali dei singoli paesi. Così, se nella Borgogna del Seicento poteva addirittura capitare che tribunali secolari mandassero a morte i preti e le concubine, con un rigore sconosciuto all’Italia della Controriforma, è verosimile che per i crimini atroci degli ecclesiastici lo Stato esercitasse in Francia i propri poteri senza le tensioni e le faticose trattative caratteristiche della penisola. Sappiamo poco però degli spazi ordinari lasciati alla giurisdizione della Chiesa nel Cinquecento, dopo l’ordinanza di Villers-Cotterêts, che nel 1539 aveva quasi annientato il privilegio di foro55. Anche le complicazioni di un paese religiosamente diviso come la Germania sono indicative. Colpisce la modesta efficacia dell’azione disciplinatrice sugli ecclesiastici. In Vestfalia l’intensa azione pastorale/giudiziaria svolta dai funzionari arcidiaconali per tutta l’età moderna, a dispetto delle disposizioni tridentine, ottiene ben pochi risultati fino al Settecento avanzato. Non diversamente, nelle aree rurali della diocesi di Spira, i processi di confessionalizzazione avanzarono con molta lentezza, in un contesto in cui il forte radicamento dei preti nelle comunità locali e l’ostilità dell’alto clero rendevano difficile ai vescovi combatterne gli abusi. Nei ducati di Jülich e Berg, infine, sulla lotta ai disordini sessuali del clero prevale, anche quando i duchi optano nel tardo Cinquecento per il cattolicesimo, l’esigenza di trovare un punto di equilibrio tra i fedeli di diverse confessioni. Né sembra che l’interventismo dei rappresentanti ducali in materia religiosa si traduca, in relazione al concubinato e al matrimonio degli ecclesiastici, in interventi incisivi. Il loro obiettivo primario è quello di governare nel modo più appropriato le dolorose fratture aperte nella società dalla crisi religiosa della prima metà del secolo56. 54   Per Bratislava, vedi ASV, LLV, 2, cc. 47v-48r, 13 agosto 1594; per Zamora, ivi, c. 96r, 27 aprile 1595. 55   Per il caso borgognone vedi M.E. Wiesner Hanks, Christianity and Sexuality in the Early Modern World. Regulating Desire, Reforming Practice, London 2000, p. 118; per gli esiti di Villers-Cotterêts, B. Durand, Avant-Propos. Entre droit pénal laïque et droit ecclésiastique: les clercs justiciables, in Id., Justice cit., p. 9. 56   Per le ‘liturgie giudiziarie’ in Vestfalia vedi Holzem, Religion cit., pp. 103-154; per le difficoltà a Spira all’indomani del concilio di Trento vedi Forster,

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Qualche riflessione utile viene anche dai confronti della situazione italiana con i risultati delle importanti ricerche condotte negli ultimi anni sulla Chiesa portoghese, che pure non riguardano direttamente il trattamento dei crimini comuni del clero. Lo zelo di vescovi pronti a collaborare con l’Inquisizione e attenti a trasformare le visite pastorali in indagini ad ampio raggio sui peccati pubblici e sui comportamenti proibiti dei laici è un’eccezione di straordinario rilievo nell’Europa della Controriforma, anche rispetto alla Spagna. Non si sa però quanto tutto ciò abbia pesato, direttamente o indirettamente, sulla moralità degli ecclesiastici. Le resistenze accanite che i canonici delle cattedrali portoghesi opposero ai vescovi ‘normalizzatori’, sia sul fronte del concubinato, sia sull’esercizio stesso del diritto di visita, potrebbero rientrare nei privilegi che ovunque nell’Europa cattolica l’alto clero rivendicò a lungo con successo. Per il resto, invece, è possibile che ispezioni che obbligavano i curati ad indagare sugli scandali e gli abusi dei laici li abbiano trasformati, anche a malincuore, in collaboratori di un vasto progetto di riordinamento dei costumi, sconosciuto – in questi termini – nel resto dell’Europa cattolica, e li abbia obbligati a vivere in modo più regolato57. In Italia, al contrario, l’insistenza e l’efficacia con cui la Curia romana opera per trasformare i vescovi in meri esecutori delle sue scelte di politica religiosa contribuiscono, insieme alle forti resistenze delle comunità locali, a rendere la loro azione di governo faticosa e improduttiva. Di collaborazione con l’Inquisizione non restano tracce significative, di incisivi e stabili progetti di lotta agli abusi dei laici neppure. Allo stesso modo la repressione dei disordini del The Counter-Reformation cit., pp. 20-36 e 58-89; per i ducati di Jülich e Berg nel Cinquecento, vedi Flüchter, Der Zölibat cit., pp. 119-276. 57   Per le visite pastorali vedi: J. Ramos de Carvalho, A jurisdição episcopal sobre leigos em matéria de pecados públicos: as visitas pastorais e o comportamento moral das populações portuguesas de Antigo Regime, in «Revista Portuguesa de História», 24, 1988, pp. 121-163; J.P. Paiva, A administracão diocesana e a presença da Igreja. O caso da diocese de Coimbra nos séculos XVII e XVIII, in «Lusitania Sacra», 2/3, 1991, pp. 71-110. Per il ruolo dei vescovi, vedi Id., Baluartes da fé e da disciplina. O enlace entre a Inquisição e os bispos em Portugal (1536-1739), Coimbra 2011. Per i canonici delle cattedrali, vedi H. Ribeiro da Silva, O clero catedralício português e os equilibrios sociais do poder (1564-1670), tesi di dottorato in Storia e civiltà dell’Europa, presentata il 30 luglio 2010 all’Istituto Universitario Europeo di Firenze.

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clero segna il passo, tra i mille ostacoli che frenano i pochi prelati decisi a combatterli. Se l’obiettivo principale delle autorità romane è il consolidamento del privilegio di foro, esso si può dire sostanzialmente raggiunto. Se invece qualcuno – vescovi, preti e laici zelanti – si era illuso che dopo il concilio potesse radicarsi l’esperienza di un nuovo modello sacerdotale, quei sogni rimasero nel cassetto. Nel governo delle inadempienze del clero italiano la situazione resta stagnante, malgrado (o proprio per) l’attenzione particolare che la Curia romana dedica alla penisola. Gli ecclesiastici del tardo Cinquecento, non solo quelli abituati a delinquere, continuano a vivere in modo largamente difforme dalle indicazioni tridentine, fortemente legati agli equilibri di una società che assegnava loro ruoli e spazi difficilmente compatibili con i nuovi standard. A vederli da vicino, molti uomini di Chiesa condividono con i laici passioni, debolezze e talvolta anche delitti efferati. Allo stesso modo, anche quando non delinquono, manifestano freddezza e ostilità verso gli aspetti più qualificanti delle riforme in corso, non diversamente da molti fedeli. È a questi aspetti del problema che dobbiamo ora prestare attenzione, se vogliamo avere un quadro più completo del governo del clero nell’Italia tridentina.

V

Verso la quaresima, lentamente. Preti, frati e chierici italiani di fine Cinquecento

1. Una cattedrale, tre chierici che ci lavorano, la quaresima che si avvicina, con il ciclo di prediche più atteso dell’anno e i devoti che comprano i banchi nuovi... Ma c’è il carnevale in agguato. Il suo carico di trasgressioni vede ovunque, nell’Europa moderna, le autorità darsi da fare per contenerne la vitalità. Anche la partecipazione del clero al clima irriverente ed eccitato di quei giorni è un dato diffuso, come gli affanni dei vescovi per scoraggiarla. È questo lo sfondo su cui si muovono nel 1569 tre chierici adolescenti del duomo di Napoli, Marco d’Egizio, Albenzio Vitale e Francesco de Bernardo. Il ‘capo’ sembra il più giovane, Marco detto Marcoffo, che, come aiutante del campanaro, ha ‘assunto’ Francesco, promettendogli qualche soldo, perché in quaresima bisogna suonare spesso le campane. A corto di soldi, e perciò ai margini del carnevale, i tre si rendono conto che solo rubando o arrangiandosi potranno togliersi qualche soddisfazione. La prestigiosa sede in cui lavorano offre varie possibilità. Prendere i banchi un po’ sconnessi e bruciarli per preparare cibi è il primo passo, che forse hanno già visto compiere ad altri chierici della cattedrale. La seconda mossa è l’uso spregiudicato della torre campanaria. Da un buco nel muro si può andare a rubare nella casa di un medico: lo fanno da tempo anche gli studenti di un fabbricato vicino. Le manovre cominciano in gennaio, quando il carnevale non è ancora entrato nel vivo: i tre sfasciano e bruciano banchi usura­­­­­143

ti nella cappella di S. Restituta e lì stesso preparano maccheroni e zeppole. Sono i giorni in cui nobili e borghesi fanno sistemare quelli nuovi con il proprio nome in cattedrale e controllano se qualcuno fa il furbo, occupando spazi già assegnati ad altri. È così che arrivano le prime lamentele: un’aristocratica non trova il suo banco e chiede spiegazioni. Un canonico della cattedrale conferma di aver sentito strani rumori notturni, ma nulla di più. È l’ultima settimana di febbraio: ai primi di marzo ci sarà il martedì grasso e chi vuole goderselo deve darsi da fare. I tre, che hanno già adocchiato nella stalla del medico briglie e staffe di pregio, si muovono. Marcoffo, prima di avviarsi verso il tetto, finge di chiamare per accertarsi se c’è gente in casa, ma il servitore non abbocca, tace e avverte il padrone. Entrambi si appostano e quando vedono i giovani chierici varcare il confine chiedono spiegazioni. Marcoffo non si scompone. Cercavano solo, risponde, di calarsi nel giardino per prendere arance amare per i consueti scherzi carnevaleschi, avevano chiamato per ottenere il permesso... Il medico non può che acconsentire e assiste in silenzio al salto spericolato di un chierico su un albero e alla discesa degli altri due lungo il muro. Il colpo grosso è solo rinviato, i tre tornano a occuparsi dei banchi e ne trovano uno nuovo, ma con un piede in cattivo stato. Lo trascinano – ormai è notte – verso la torre campanaria, dove ci sono i maccheroni da cucinare e mangiare, prima di riprovare a casa del medico. Sfasciano il banco e cominciano a fare fuoco, ma qualcosa non va per il verso giusto. Visto nell’ombra il curioso corteo, due chierici sguinzagliati dal sacrestano avevano avvertito il sacerdote, che a sua volta aveva chiamato un altro prete. Bussare alla porta della torre è inutile. I tre non rispondono e cercano di nascondere le tavole ancora integre. Gli altri però si aprono un varco, recuperano il sedile bruciacchiato, dove ancora si legge il nome della proprietaria, e sequestrano gli altri pezzi. Il blitz si chiude con un rimprovero del sacrestano, a cui peraltro Marcoffo risponde minacciosamente: stia attento a ciò che fa, è pronto a vendicarsi. 2. La notte brava della piccola banda continua: bisogna prima rubare briglie e staffe (l’operazione va in porto e si conclude il giorno dopo con la vendita della refurtiva e un’abbuffata), poi prevenire gli strascichi dell’incidente. Chiusi dentro la cattedrale, senza chiavi, i giovani decidono di non aspettare la riapertura mat­­­­­144

tutina, di muoversi subito. Così Marcoffo si cala all’esterno della chiesa con la fune delle campane e va ad avvertire il mediatore prescelto, il padre di Albenzio, che dovrà premere sul sacrestano, impegnandosi a costruire a sue spese un banco nuovo, purché non si faccia ‘rumore’. Ma l’iniziativa fallisce. I tre fanno appena in tempo a saziare la fame con i soldi guadagnati e si ritrovano in carcere. La loro linea difensiva è fragilissima. Dovevano preparare le ostie, ma si erano dimenticati di comprare la legna e avevano pensato di servirsi di un banco rotto, come facevano talvolta anche altri chierici della cattedrale... Un solo elemento potrebbe giocare a loro favore. I cinque ecclesiastici del duomo chiamati a deporre minimizzano e premono per una ricomposizione bonaria del caso. Si tratta di giovani irreprensibili, seri e diligenti; sono anche incensurati, aggiungono tre di loro. Gli altri due ammettono che Francesco è stato inquisito un paio di volte dai giudici di Stato, ma per resistenza e possesso di una spada. Cose da poco, insomma. Pur se appartengono al clero della chiesa colpita dalla ragazzata, i loro sono criteri di valutazione larghi. Più che chierici sono giovani, è sufficiente che paghino i danni e ricevano qualche blando castigo. Il processo prende però un’altra piega. Prevale nella Curia la linea dura, anche se concentrata solo su Marcoffo, ripetutamente e pesantemente torturato. Su quella scelta influirono forse i suoi atteggiamenti, oscillanti tra malizia e sarcasmo. Non appena è appeso alla fune e sollevato da terra, finge di svenire: i giudici si spaventano, ordinano di calarlo giù, ma accortisi della beffa riprendono a torturarlo, ottenendone una prima, parziale confessione. Smentito dai compagni, si rimangia tutto, eccepisce la sua condizione di minorenne e incassa la remissione delle querele, che è forse il frutto delle pressioni congiunte delle famiglie e del clero. Ma la risposta dei giudici è inflessibile: bisogna torturarlo di nuovo. Comincia così una seduta pesante e nervosa, in cui le beffarde reazioni del giovane irritano gli ufficiali di Curia. Il rifiuto di confessare, alternato a finti svenimenti (sembrava che dormisse, sintetizza indispettito il notaio), è condito di espressioni sarcastiche (invitato a dire la verità, risponde: «Ho ammaczato cinquemilia peducchi»; quando gli chiedono chi ha fatto il buco nel muro, dice: ‘Lo viento’). Ancora, quando gli fanno capire che se confessa non ha nulla da temere («hai pagura forse che di questo ne ­­­­­145

sarai impiso?»), il giovane risponde per le rime («Tu nce vorissi squartare, si potissi; averti signor che io ho uno parente iodice ad Tropeia») e trova anche il tempo per scherzare sul cognome di uno dei giudici («Signor Rendina mio bello, signor Rendina mio bello, fatime un poco reposare, signor Rendina mio proprio Rendinella...»). Alla fine, scrive il notaio sbalordito, è sollevato fin quasi sulle nubi e subisce uno squasso, ma resiste. Invano l’avvocato chiede il proscioglimento e preannuncia l’appello al papa: secondo lui i tre hanno ‘purgato’ a sufficienza gli indizi, dopo due sedute di tortura a un minorenne, la remissione delle querele e due mesi di prigione. L’11 maggio, con l’assenso dell’arcivescovo, Marcoffo e Albenzio furono condannati all’esilio triennale da città e diocesi, mentre il silenzio su Francesco fa pensare che per lui sia stata accolta la petizione del legale: il carcere patito fu ritenuto forse una pena appropriata1. Non andò male, d’altra parte, neppure agli altri due. Sia Albenzio, sia l’indisponente leader erano in servizio in duomo pochi anni dopo. Marcoffo era sempre lo stesso, se è vero che il 2 aprile del 1576, querelato da Albenzio per ingiurie, per un morso in faccia e altre violenze, sfuggì alla cattura, anche grazie all’appoggio degli abitanti della casa dove si era rifugiato. Bazzecole, ovviamente: bastarono pochi giorni – si avvicinava la settimana santa – per convincere l’altro a rimettere la querela e chiudere il piccolo incidente2. 3. Rispetto ai tanti eccessi del clero italiano del Cinquecento, quello dei tre chierici napoletani è tra i più coloriti. Per quanto ci risulta, forse solo i misteriosi ‘giochi disonesti’ praticati nella chiesa di S. Benedetto a Venezia nel 1568 dal pievano e da altri preti reggono il confronto con il rogo dei banchi: il relativo processo, purtroppo perduto, apparve nel primo Settecento degno di nota e molto curioso all’archivista che lo lesse3. Tuttavia, singolare 1   ASDN, PC, 1569, processo aperto il 28 febbraio 1569 (o il 27; non lo si può precisare perché nel ms. manca la prima carta numerata). Per le torture (28 marzo e 26 aprile 1569), ivi, cc. 24r-v e 43r-v; per il clero del duomo cc. 36r-38v e 40r-v; per il decreto finale c. 47r. 2   ASDN, PC, 1576, cc. n.n.: alla querela del 2 aprile fece seguito, l’8, la remissione. 3   Scomparin, c. 172v (10 dicembre 1568, processo a don Paolo Desiderati e altri preti di S. Benedetto).

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quanto si vuole, la disinvolta iniziativa ricorda pratiche piuttosto diffuse nel clero di questi anni. La vita spericolata di un parroco padovano ne è forse lo specchio più limpido. Faceva perdere la testa alle donne con focacce impastate col proprio seme, sperimentate con ottimi risultati su una figlia spirituale, insegnava a farle e a dispensarle durante le baldorie del carnevale, condivideva la giovane donna conquistata magicamente con il marito che le aveva trovato, contrattandone i servigi come un mercante. Si richiamava anche all’esempio di vescovi, cardinali e papi: se le più alte autorità ecclesiastiche «tenghono delle bardasse, ghe è lecito anche a lui a tenir delle donne», confidava agli amici. Né ebbe ritegno a dichiarare che gli stessi ufficiali di Curia erano stati suoi ospiti con le rispettive donne e ne aveva dedotto che a certe cose i superiori non ci tenevano più... Rilasciato su cauzione, inoltrò appello al nunzio. Come sempre, l’esito dell’iniziativa, ignoto, non pregiudicò la sua carriera: sette anni dopo, quando subì un’altra condanna, era parroco nella stessa chiesa. Gli era anche servita a poco la prima lezione: alle vecchie debolezze si erano aggiunte le accuse, ben più gravi, di aver rivelato il contenuto delle confessioni e di aver ordinato l’uccisione di un bandito su cui pendeva una taglia. Colpito da una sanzione pecuniaria e dalla sospensione per tre mesi dall’incarico, ricorse di nuovo al nunzio4. L’insieme di queste trasgressioni – ecco l’altro aspetto importante del rogo dei banchi – non disturba più di tanto i fedeli e neanche il clero. Alla bonomia con cui i sacerdoti napoletani guardano ai tre chierici corrispondono ovunque, nell’Italia tridentina, atteggiamenti comprensivi verso i comportamenti più spregiudicati degli ecclesiastici. Le stesse autorità della Chiesa non ne sembrano particolarmente impressionate. Una delle testimonianze più esplicite di questo spirito conciliante viene dalla Lucania, dallo stesso vescovo che si doleva con la Congregazione dei Vescovi e Regolari per le sponde romane dei suoi preti delinquenti. Nel 1581, in una lettera amara e risentita, avvertì il bisogno di sdrammatizzare, segnalando la stravagante iniziativa di alcuni sacerdoti: 4   ASV, NV II, 657/1, 1567, processo a don Giovanni Zaghi, cc. 64v-66r, 22 febbraio 1568 (deposizioni di Paolo e Stefano Rosso), e 84r-87v, costituto del 7 giugno 1568 (le giustificazioni del prete). Il rilascio su cauzione è ivi, 97v-99v. Il secondo processo, del 1574, è ivi, 657/2.

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Ma ne dirò una per fare ridere. Certi preti magnandono insieme facevano il brinniso in questo modo. Cominciava l’uno con la tassa piena di vino puro in mano et diceva: Uno è Cristo che vive e regna nei secoli dei secoli Amen e dicendo Vive bisognava trovarsi la tassa in bocca, altramente pagava non so che pena, e seguiva l’altro et diceva: Due sono le tavole di Mosè, uno è Cristo che vive e regna ecc. con la tassa del modo di sopra e l’altro: Tre sono i tabernacoli, due sono le tavole di Mosè, uno è Cristo che vive e regna etc. con la tassa in bocca e l’altro: Quattro sono gli evangelisti, tre sono i tabernacoli, due sono le tavole di Mosè, uno è Cristo che vive e regna ecc. Et in questo modo correvano cantando e bevendo a torno insino alli dodici apostoli, cioè: cinque sono le ferite di Cristo, sei le idrie in Cana di Galilea, sette le ‘allegrezze’ della Vergine, bevendo sempre, cantando et gridando, tanto che concorreva tutto il vicinato de donne et homini al rumore...

Il brindisi ‘sacro’ dell’allegra brigata, disinvoltamente celebrato all’aperto, non solo non aveva scandalizzato nessuno, ma aveva suscitato curiosità, se non simpatia, nei vicini. Il piacere del vino e la storia della salvezza non erano incompatibili, né per i laici né per gli ecclesiastici. A Roma, è vero, non la presero altrettanto bene. Si annotò sulla lettera che era «un caso brutto di certi preti che facevano brindisi et dicevano per burla parole sacre con vilipendio». I cardinali però decisero di lasciar perdere: nel conflitto rovente tra il vescovo e i caporioni del clero locale ci mancava soltanto che si aprisse un’inchiesta sul conto di quei sacerdoti buontemponi5. 4. Anche il rogo delle panche di un duomo e la trasformazione della sua torre campanaria in cucina e sala da pranzo sono indice di una sensibilità diffusa nell’Italia di questi anni. Essi corrispondono a modi di vivere gli spazi sacri poco conformi ai processi di riforma in corso, ma ben documentati. Cattedrali, chiese parrocchiali, cappelle, oratori si usano spesso per svolgere attività che poco o nulla hanno a che fare con la religione e diventano perciò con una certa frequenza teatro di svaghi e di piaceri proibiti, ma anche di ingiurie e di risse. I principali responsabili sono proprio

5   ASV, CVR, POS, 1581 F-P, lettera del 29 gennaio 1581 del vescovo Maranta al cardinale Maffei (la traduzione del testo del brindisi, che nel ms. è in latino, è nostra).

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i preti e i chierici che ne hanno cura, al Nord come al Sud, nelle grandi città come nei piccoli centri. Incidenti così incresciosi, frutto di rancori covati a lungo, ma anche di scatti di nervi, avrebbero potuto comportare pubbliche penitenze. Ancora una volta, però, ha la meglio l’esigenza di tutelare l’immagine del clero, rafforzata dagli interventi perentori della Congregazione dei Vescovi e Regolari. Nel 1589, di fronte a un ricorso dell’arcidiacono di Spalato, coinvolto in una rissa in cattedrale con un canonico finita sul tavolo del nunzio di Venezia, a Roma si decise di affidare l’indagine all’arcivescovo, per favorire la riappacificazione tra i due6. Solo eccezionalmente queste cautele possono essere ignorate per gli ecclesiastici. Aver ferito un uomo davanti al Santissimo costò caro nel 1579 a un prete di Pontedera: oltre che al pagamento di una multa, fu condannato al bando decennale dal Granducato e alla sospensione a divinis ad arbitrio dell’arcivescovo di Pisa, anche se quest’ultima pena gli fu subito revocata7. Ancor più raramente le risse in chiesa tra esponenti del clero erano punite con penitenze pubbliche. È ciò che capita ancora a Pisa nel 1583, dopo un brevissimo processo a due sacerdoti che il martedì dopo Pasqua avevano fatto a pugni per futili motivi nella chiesa di Cascina piena di gente. Il pievano li aveva subito mandati via, ma uno dei due era tornato per ‘sbudellare’ l’altro con una picca. Dovettero rimanere entrambi, spogliati della talare – una specie di simbolica degradazione – e con un cero acceso in mano, davanti alla pieve ‘profanata’ dai loro eccessi. Il più aggressivo subì anche il divieto perpetuo di officiare lì e il bando triennale da città e diocesi8. Circostanze non diverse avevano spinto alcuni mesi prima i giudici della Curia toscana a punire duramente un curato del contado, che nel giorno della festa di S. Antonio abate aveva partecipato, in abiti militari, a un gioco pisano violento come quello del ponte. Gli furono inflitti, oltre a una multa, 50 giorni di carce-

6   ASV, NV II, 840/5, processo all’arcidiacono Nicola Alberti e al canonico Girolamo Nestapolei; la decisione romana è del 17 gennaio. 7   AAP, AC, 6, cc. 521-528, 5 novembre-13 dicembre, l’imputato è don Pietro Galeotti. 8   Ivi, 11, cc. 205r-226r, processo a don Bartolomeo (Meo) Carpete e a don Ulivo di Ulivo. Le sentenze (ivi, 219r-221r) furono subito eseguite.

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re e di sospensione a divinis. Pagò però forse, insieme all’audacia della scelta, le blasfeme reazioni alla sconfitta della sua squadra9. Ciò che per il clero è l’eccezione è invece la regola per i laici. Quando danno scandalo in chiesa, le punizioni dei giudici sono molto più aspre. L’esempio più drammatico finora noto – ben otto condanne a morte – viene dall’esito di un processo intentato nel 1578 dal tribunale del governatore di Roma a una ‘confraternita’ costituita prevalentemente da spagnoli e portoghesi, quasi tutti laici, che aveva osato celebrare matrimoni omosessuali nella basilica di S. Giovanni a Porta Latina. Si era pensato inizialmente di bruciarli vivi (così aveva reagito d’istinto il papa), poi di affidarli all’Inquisizione. Ma anche al di là di casi così gravi l’obiettivo della Chiesa postridentina è chiaro: bisogna ridare austerità agli spazi sacri, luoghi da sempre aperti a ogni forma di socialità, dai banchetti ai balli, e ancor più evitare che le cerimonie religiose siano occasione di contatti proibiti. Se tradizioni pasquali delle confraternite, devozioni in ascesa come le quarantore e contiguità tra uomini e donne nel corso della messa inquietano molte autorità ecclesiastiche, si può immaginare quali margini di tolleranza ci potessero essere per i fedeli che nei luoghi sacri si affrontavano o insultavano gli stessi sacerdoti. Ancora una volta è esemplare lo zelo dei giudici diocesani di Pisa. Giannino Ciola, un contadino di Vecchiano, aveva ingiuriato pesantemente il pievano in chiesa («bargellaccio tristo... hai il culo grosso...»), minacciandolo di morte con un uncino, perché non aveva voluto confessare la moglie. Fu condannato nel 1580 a una multa e al confino per sei mesi dalla podesteria di Ripafratta. Il bando sarebbe stato revocato solo se avesse chiesto perdono al sacerdote nella stessa pieve, in ginocchio davanti all’altare maggiore, di fronte ai fedeli. Allo stesso modo una multa e il confino per due mesi raggiunsero nel 1584 due uomini di Buti che si erano feriti a colpi di spada, con spargimento di sangue e conseguente sacrilegio, nel cimitero10.

9   Ivi, cc. 5r-6v, processo a don Antonio Giuliani, rettore di Mezzana, avviato il 22 gennaio 1583 e chiuso l’8 febbraio seguente. 10   La vicenda romana è stata scoperta e ricostruita, ma in modo un po’ frettoloso e non sempre condivisibile, da G. Marcocci (Matrimoni omosessuali nella Roma del tardo Cinquecento. Su un passo del «Journal» di Montaigne, in «Quaderni storici», 45, 2010, pp. 107-137). Le intenzioni del papa e il ventilato

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5. Eccessi carnevaleschi e scarso rispetto degli spazi sacri da parte degli ecclesiastici italiani non suscitavano nel tardo Cinquecento reazioni particolarmente sdegnate, né nei fedeli, né nei loro giudici. È come se tutti dessero per scontato che la loro condizione non ne poteva modificare più di tanto i comportamenti. Ci si deve domandare, anzi, se questo spirito comprensivo riguardasse, entro certi limiti, l’insieme delle pratiche trasgressive del clero. Non mancano al riguardo indicazioni precise. Un primo elemento utile viene dagli atteggiamenti di testimoni e conoscenti verso gli uomini di Chiesa che ricadono sistematicamente negli stessi abusi: dalle ingiurie alle minacce, dai furti ai crimini di sangue. Erano in tanti, ovunque, e ne combinavano di tutti i colori. Dove si conservano – è il caso di Napoli – documenti preziosi come quelli che oggi chiameremmo le fedine penali, i dati del tardo Cinquecento sono indicativi. Essi riguardano in primo luogo i chierici selvaggi, veri e propri delinquenti abituali. Si pensi ai 18 processi accumulati da uno di essi, Giovanangelo de Pascale, tra il 1565 e il 1583, quasi tutti per atti di violenza, in un caso mortali. Non mancano neppure i preti che lavorano per la Curia arcivescovile: otto incidenti giudiziari punteggiarono tra il 1552 e il 1585, senza interromperla, la carriera di un sacerdote addetto a controllare il rispetto del riposo festivo (furti, abusi di potere, contrabbando, pratiche sessuali varie). Eppure, anche in questi casi è rarissimo trovare tra i testimoni, laici o ecclesiastici che sia­ no, parole di esecrazione o di stupore: l’identità clericale non è un’aggravante neppure per chi delinque tanto11. Le testimonianze più ricche di questa sensibilità provengono dalle valutazioni della loro vita sessuale, che all’indomani del concilio di Trento continua a presentarsi – in Italia, come ovunque nell’Europa cattolica – ricca e varia. Le convivenze ne intervento dell’Inquisizione si ricavano da BAV, Urb. Lat. 1046, c. 271r, 30 luglio 1578. Il caso di Vecchiano è in AAP, AC, 6, cc. 573r-599v (la sentenza, del 3 giugno 1580, è a c. 587r-v); quello di Buti ivi, 11, cc. 598r-616r (il processo si era aperto il 13 agosto 1583). 11   Le ‘fedine’ napoletane sono certificati – usualmente rilasciati nel corso di processi penali avviati sia dalla Curia arcivescovile, sia dalla Vicaria – allegati agli atti, contenenti sommarie indicazioni – in genere anno, delitto e condanna – sulla storia ‘criminale’ dell’interessato. Per de Pascale vedi ASDN, PC, 1583, c. 14r; per l’altro, don Giovan Battista Bianco, ivi, 1585, cc. 12r-14r.

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sono l’aspetto più diffuso, soprattutto, ovviamente, per il clero secolare. Il quadro del Trentino e della Svizzera italiana, come si delinea rispettivamente nelle visite del 1581 e del 1591, è fortemente indicativo, anche per i sacerdoti impegnati nella cura d’anime12. Inoltre, atteggiamenti di relativa indifferenza verso i preti che si costrui­scono una famiglia accomunano sia buona parte delle autorità della Chiesa, sia la maggioranza dei fedeli. Certo, altro è giudicare da parrocchiani i comportamenti di curati che vivono con donna e figli e spesso condividono con i fedeli litigiosità e amore per il vino, il gioco e la caccia, altro è osservarli dagli uffici vescovili. È evidente, ad esempio, che l’esigenza di accertare se i sacerdoti siano passati dall’alcova all’altare senza aver ripulito la propria coscienza è molto più avvertita dalle autorità ecclesiastiche che dai fedeli. Solo alcune delle loro preoccupazioni sono condivise dalle comunità. Anche per i parrocchiani – come per i vescovi – è importante che i curati celebrino regolarmente, non si mostrino avidi nell’amministrare i sacramenti, accorrano subito al capezzale dei malati gravi, siano attenti al decoro delle chiese dove officiano. Allo stesso modo, per i crimini veri e propri del clero, il giudizio del laicato dipende essenzialmente – come per tutti gli eccessi – dalla gravità delle trasgressioni, oltre che, s’intende, dall’eventuale danno subito. Un conto è uccidere o violentare, a maggior ragione se la vittima è un amico o un parente, un conto avere un debole per le donne, ingiuriare o schiaffeggiare qualcuno. Talvolta la distinzione tra ministero sacerdotale e costumi è richiamata esplicitamente. Per quanto riguardava l’altare era un ‘valentuomo’, dichiarò nel 1568 del sacerdote padovano che conquistava magicamente le donne il testimone a lui più ostile: altro era il possesso dei ferri del mestiere, altro la discutibile vita privata. Ancor più nette erano state qualche anno prima a Napoli le valutazioni espresse dai fedeli interrogati sul conto di un parroco, poi condannato per abusi vari (concubinato, bestemmie, celebrazione sacrilega di messe, furto). Tutti ne pongono in evidenza la premura verso gli ammala-

12   Vedi Nubola, Conoscere per governare cit., p. 349, per il Trentino, e Bianconi, Schwarz, Il vescovo, il clero cit., pp. 287-296, per la Svizzera italiana.

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ti, la cura per la chiesa, la severità con cui richiama i parrocchiani a vivere in modo morigerato, lo zelo nel ‘convertire’ prostitute; per qualcuno, inoltre, contano anche i suoi nobili natali. Chi è al corrente dei suoi discussi costumi non dà peso alla circostanza: un accenno benevolo ai piaceri sessuali che si concede è tutto ciò che esce dalla bocca di un fruttivendolo («per quello che diceno le gente, è uno prete uno poco lecentiuso della brachetta»), ma non gli impedisce di lodarne l’attivismo, ‘premiato’ anche dalla sudorazione di un’immagine della Madonna, peraltro moderatamente pubblicizzata. La stessa donna che lo querela si riferisce a comportamenti di lunga durata, osservati da lei e da tutto il vicinato da anni, sin nei dettagli – dalla partecipazione al parto della convivente alla richiesta di una culla in prestito. Solo quando nel caseggiato gli equilibri si spezzano, quei particolari riemergono dalla memoria e fanno scattare l’offensiva legale13. Una conferma di questa sensibilità viene dalle denunce presentate dai fedeli contro i vescovi, particolarmente numerose in questi anni nelle piccole diocesi dello Stato pontificio e del Regno di Napoli. Esse sono una costante della movimentata vita religiosa dell’Italia postridentina, soprattutto quando dei prelati avviano riforme incisive. Negli elenchi torrenziali di accuse trasmessi alla Congregazione dei Vescovi e Regolari i disordini sessuali sono una delle voci ricorrenti, ma non l’elemento di rottura, la goccia che fa traboccare il vaso. Sono altre le cose gravi per le comunità, nel governo delle Chiese locali: l’avidità, l’amministrazione autoritaria della confessione dei peccati, la pretesa di scegliere i predicatori quaresimali senza tener conto delle loro richieste14.   ASV, NV II, 657/2, cc. 126r-131r (è la deposizione di Iacopo Barbierato del 2 ottobre 1568). Il caso napoletano è quello di don Giovanni Carlo de Forma, parroco di S. Maria a Cancello (ASDN, PC, 1565). Per la deposizione del fruttivendolo, Giovanni Domenico di Nola, resa il 22 luglio, vedi cc. 45v46v; per la paternità condivisa, cc. 77v-78v, deposizione di Antonio de Cannice. Anche nella diocesi di Trento, nel 1581, prevale tra i fedeli la tolleranza verso il concubinato ‘semplice’ degli ecclesiastici: vedi Nubola, Conoscere per governare cit., pp. 351-354. 14   Esempi a iosa in ASV, CVR, sezioni RE e POS tra il 1573 e il 1600 (per l’analisi di qualche caso vedi Romeo, Chiesa cit.). Per i predicatori vedi M. Mancino, Il costo della predicazione nell’Italia moderna: criteri di finanziamento e dinamiche conflittuali, in Chiesa e denaro tra Cinquecento e Settecento: possesso, uso, immagine, a cura di U. Dovere, Cinisello Balsamo 2005, pp. 221-279. 13

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6. Il carattere strumentale di una parte consistente delle querele a sfondo sessuale risalta con chiarezza ancora maggiore nei centri agricoli, dove spesso il clero locale gestisce proprietà terriere e svolge attività economiche, sia in proprio, sia per conto dei vescovi. È in queste aree che si colgono aspetti importanti delle reazioni dei laici ai modi di vita degli ecclesiastici. A S. Stino di Livenza, in Veneto, le accuse iniziali mosse nel 1580 dai procuratori del comune al pievano, Giovanni Nicola Pizolotti, vertono soprattutto sulla mancata assistenza ai moribondi e sull’attaccamento al denaro, che lo spinge, come imprenditore agricolo, a calpestare l’obbligo del riposo festivo per i contadini. Qualche mese dopo i querelanti rincarano la dose, accusandolo di chiedere soldi per l’amministrazione dei sacramenti e di aver reiterato dei battesimi per quel motivo. Solo alla fine, per rafforzare il quadro accusatorio, ne denunciano anche il concubinato con una figlia spirituale, aggravato dalle frodi suggerite alla donna per privare una cognata del suo patrimonio. Parrocchiani sensibilissimi all’avidità, alla trascuratezza di servizi religiosi delicati come il conforto degli ammalati gravi e alla trasparenza nella gestione del sacro, sono interessati molto di meno alla vita sessuale dei parroci. Invece i giudici ecclesiastici identificano il nucleo più pericoloso delle accuse nelle possibili radici eterodosse del doppio battesimo. In un’area dove nei decenni centrali del secolo si era consolidata la rete di comunità anabattiste più ampia d’Italia non si poteva escludere che qualche eco di quelle esperienze fosse ancora viva. Perciò l’addebito di aver reiterato il sacramento è stralciato e sottoposto al vaglio dei tribunali di fede di Aquileia e Venezia, che peraltro non riscontrano deviazioni dall’ortodossia, ma solo un sacrilegio. Le altre complicazioni del caso affiorano dopo la condanna in primo grado di Pizolotti al confino triennale a Portogruaro e alla sospensione a divinis, aggravata dall’obbligo di rimanere per altri 3 anni ad almeno 10 miglia dal paese. Nel processo d’appello in nunziatura vengono alla luce le spaccature interne alla comunità locale. Il podestà non vuole essere trascinato in giudizio, perché sostiene che i denuncianti hanno tirato in ballo la comunità senza il suo consenso, mentre una parte dei fedeli chiede il ritorno del curato. Il deteriorarsi dei rapporti di singoli parrocchiani con lui non può pregiudicare ­­­­­154

il disbrigo di servizi religiosi essenziali per tutti. Anche quelle contraddizioni rafforzarono forse la scelta clemente dei giudici di secondo grado, che mitigarono congruamente il rigore della condanna15. Non diversamente, pochi anni prima, a S. Giovanni alla Vena, nel contado di Pisa, un altro parroco era finito davanti al tribunale diocesano, su denuncia di uno dei governatori del comune, per averlo ingiuriato pesantemente, mentre si discuteva della distribuzione del grano portato all’ammasso. L’ecclesiastico ne lamentava la parzialità, perché l’aveva fatto pagare anche al figlio della serva, che era povero e aveva diritto all’esenzione, concessa invece arbitrariamente a un congiunto. L’irritazione per la villania del prete aveva spinto l’amministratore a inserire nella querela una raffica di inadempienze di ogni genere, vicine e lontane nel tempo: si era rifiutato di fare pace con alcuni parrocchiani e di celebrare una messa, viveva un rapporto sospetto con la serva, malgrado l’ordine di separarsene ricevuto dall’arcivescovo, aveva rinunciato pretestuosamente ad officiare uno dei riti del venerdì santo. È evidente però che, nell’insieme dei suoi presunti eccessi, quelli relativi ai servizi religiosi omessi sono ritenuti i più gravi. Inoltre, della sua presunta convivente si lamentano la volgarità e la lingua lunga, non la scelta di vita, e il solo abuso del sacerdote ritenuto incompatibile con l’amministrazione dei sacramenti è il diniego opposto a un parrocchiano che gli aveva chiesto di riappacificarsi. La consapevolezza dell’inopportunità di quel rifiuto per un curato non impedisce peraltro di riconoscerne i meriti: la pieve non è mai stata officiata bene come da quando è lui a go­vernarla, ammette anche un

15   ASV, NV II, 783, cc. 15v-21r (è la sintesi del vicario di Concordia), 18r-v (la decisione dell’Inquisizione veneziana), 66r-69r (le accuse del podestà), 141v-148v (22 dicembre 1582, la sentenza dell’uditore Tani, che riduce la pena a due anni di sospensione a divinis, con obbligo di stipendiare un sostituto, di farsi dispensare dall’irregolarità in cui è incorso e di pagare entro un anno 100 libbre di moneta corrente; è in essa che si dà conto della condanna inflitta in primo grado dal tribunale di Concordia). Un buon punto di riferimento per la conquista religiosa delle campagne europee – dall’alto medioevo all’età contemporanea – è nei saggi apparsi in La christianisation des campagnes, Actes du colloque du C.I.H.E.C. (25-27 août 1994) edités sous la direction de J.-P. Massaut e M.-E. Henneau, I e II, Bruxelles-Roma 1996.

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testimone che lo vorrebbe in buoni rapporti con tutti. Ancora una volta, come per i disordini sessuali, la distinzione tra vita privata dei preti e gestione del sacro è netta16. Sono contraddizioni lampanti anche nelle campagne del Sud. Ne sono una riprova i tre processi intentati tra il 1580 e il 1599 a Giovanni Maria Santadomenica, parroco di Pollena, nel vesuviano. Dopo una querela per violenze e ingiurie subita quando era suddiacono, poi rimessa, una raffica di pesanti accuse lo colpì nel 1583, ad appena due anni dalla nomina a curato del piccolo centro agricolo. Bestemmie, ingiurie, ferite, furti, commercio di legna, taglio di siepi, baratteria, negligenza dei doveri di parroco: era il comune a dolersi di lui per un insieme di abusi in cui il profilo ‘laico’ era largamente prevalente. Il suo rilascio su cauzione con il divieto di amministrare i sacramenti a Pollena – la decisione di compromesso adottata dalla Curia arcivescovile di Napoli dopo un’aspra battaglia legale – fu oggetto di un appello di Santadomenica al nunzio, che il 23 gennaio del 1590 gli diede ragione e revocò il provvedimento17. Ma il fuoco covava sotto la cenere, se è vero che nell’estate del 1599 il tribunale diocesano aprì un’iniziativa d’ufficio sul suo conto, perché lo riteneva responsabile di delitti contro l’ortodossia, oltre che di crimini comuni. Essa però trovò subito alimento nell’ostilità di una parte consistente dei fedeli. 33 testimoni, per oltre la metà appartenenti a 5 famiglie, dichiararono che girava armato a cavallo insieme al fratello, caporale del tribunale di campagna, e ad altre guardie, per riscuotere affitti, operare sequestri e controllare occupazioni abusive di terreni della Mensa arcivescovile. Dava anche scandalo, aggiunsero, perché commetteva abusi

16   AAP, AC, 7, cc. 338r-371r, 1577, processo a don Iacopo Franceschini. Per i capi d’accusa vedi la comparizione dell’11 maggio di Mariotto di Domenico, ivi, c. 339r-v; per i riti non officiati, ivi, c. 356r-v, 18 giugno 1577, deposizione di Andrea Battaglini. 17   Vedi ASDN, PC, 1580. Il primo processo (ivi, cc. 288r-310r), aperto da una querela del 15 agosto 1580, rimessa il 5 settembre, si chiude il 14 ottobre seguente con la scarcerazione. Il secondo si apre nel 1583 e si chiude il 17 ottobre (ivi, c. 169r) con un rilascio su cauzione, accompagnato dal divieto di amministrare i sacramenti in parrocchia. Il rifiuto dei giudici di revocare quest’ultima limitazione spinge il Santadomenica a presentare appello (ivi, c. 181r). Il nunzio annullò il provvedimento il 23 gennaio 1590 (ivi, cc. 182r-183r).

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sessuali di vario genere, dagli stupri all’adescamento in confessione, rivelava i peccati dei penitenti e li obbligava a renderli pubblici, davanti a testimoni, per poi denunciarli. Tuttavia la cronologia degli eccessi di Santadomenica è chiarissima: il suo duplice profilo di curato e uomo d’ordine al servizio della diocesi è una novità, legata a un incarico ricevuto dai superiori qualche anno prima e accompagnata anche dal dileggio di alcuni sacerdoti della zona («i preti di Santo Nastaso facevano la baia a lui perché andava armato in comitiva»), mentre gli altri disordini erano molto più lontani nel tempo – alcuni risalivano fino a undici anni prima – eppure parecchi se ne ricordavano. Anche nelle campagne meridionali, insomma, gli atteggiamenti delle comunità contadine verso gli abusi dei parroci coincidevano solo in parte con quelli della Chiesa ufficiale. Se un curato ha un debole per le donne e non rispetta una regola inviolabile come quella che lo obbliga a tacere sulle cose ascoltate mentre confessa, per i parrocchiani si tratta di trasgressioni meno gravi che per le autorità ecclesiastiche. Vi si può porre facilmente rimedio, confidando ad altri i propri peccati o tacendo quelli più scabrosi. Non le si sottovaluta, sia ben chiaro; restano vive nella memoria e possono tornare utili, se i rapporti con l’interessato si guastano per altre ragioni. È ciò che il curato di Pollena addebita subito agli accusatori, che secondo lui puntano solo a bloccarlo in quanto delegato arcivescovile. Lo confermano senza esitazione altri parrocchiani, non danneggiati dalle sue attività e perciò molto meno sensibili dei compaesani a quelle accuse. Tuttavia, la certezza del carattere pretestuoso di molti degli addebiti mossi a Santadomenica non ne alleviò più di tanto la posizione processuale. Il sospetto che avesse abusato di un sacramento rese inevitabile il coinvolgimento dei cardinali del Sant’Ufficio. A giudici così esperti bastò il sommario degli atti per decidere che una breve tortura e la sospensione dalla cura d’anime a discrezione dell’arcivescovo fossero la soluzione più appropriata del caso. Le autorità diocesane eseguirono gli ordini romani e lo tennero lontano per un anno dal paese, autorizzandolo però a girare armato, perché lo faceva al servizio della Curia. Da allora sappiamo poco o nulla di lui. Una cosa però è sicura. Più di venti anni dopo, quando la prima visita pastorale successiva alla condanna raggiunse Pollena, Santadomenica poté ancora salutare gli ­­­­­157

ufficiali vescovili nella veste di parroco locale. Alla fine, forse, quella dei contadini vesuviani era stata una vittoria di Pirro18. 7. Una sostanziale indifferenza è altrettanto evidente nei giudizi espressi dai fedeli sugli ecclesiastici dediti a pratiche omosessuali. Anche qui il recupero del privilegio di foro dispiegava i suoi effetti positivi per il clero: i regolari potevano giovarsi dello spazio protetto dei chiostri, mentre i secolari si giovavano della riservatezza e della mitezza delle procedure. Contava ancor più la rarità delle esecuzioni capitali inflitte agli uomini di Chiesa nei casi più gravi, quelli in cui c’era violenza carnale accompagnata dall’omicidio delle vittime, in un secolo in cui l’intolleranza verso i laici che si macchiavano di quel delitto raggiunse in Europa e in Italia punte molto alte. Colpisce però anche un’altra circostanza. Nel tardo Cinquecento accenni, più o meno scherzosi, all’omosessualità di papi, cardinali, vescovi e prelati accompagnano abbastanza spesso le relative denunce. L’eco dell’anticlericalismo di matrice medievale e rinascimentale mantiene intatto il suo vigore e trae forse nuova linfa anche dal mutato clima della Controriforma. Nelle pesanti accuse mosse nel 1593 a un francescano, confessore e lettore di sacri canoni nel convento veneziano di S. Francesco della Vigna, i confratelli gli attribuiscono anche il convincimento che «il sodomitar era solo da cardinali et persone grandi et illustri» e che il suo membro «buttava acqua santa»19. Finora, però, in Italia le testimonianze più ricche di questa sensibilità provengono dalla Napoli postridentina. La spregiudi18   ASDN, SU, 1140, processo aperto il 13 giugno 1599 su istanza del fiscale. Per i fedeli, vedi le deposizioni della vedova Maddalena Strina (ivi, c. 3r-v, 13 giugno) e del rentier napoletano Clemente de Acampora (ivi, cc. 5r-6v, 13 giugno; è lui a ricordare la burla dei preti). La reazione del S. è nel primo costituto, del 25 giugno 1599 (ivi, cc. 43r-45r). Per i parrocchiani vicini a lui vedi cc. 125r167v, deposizioni rese tra il 12 e il 26 gennaio 1600. La decisione romana, del 21 luglio 1600, è in P. Scaramella, Le lettere della Congregazione del Sant’Ufficio ai tribunali di fede di Napoli 1563-1625, Trieste 2001, pp. 304-305; la sentenza napoletana, del 12 settembre 1600, è in ASDN, SU, 1140, c. 178r-v; l’autorizzazione al porto d’armi, del 18 agosto 1600, ivi, c. 176r. Per la visita a Pollena, vedi ASDN, Visite pastorali, 32, cc. 275r-276r, 16 ottobre 1622. 19   ASV, NV II, 916, c. 6r-v, 12 aprile 1593, deposizione di fra Giovan Pietro Buontempo. Per le pasquinate vedi O. Niccoli, Rinascimento anticlericale. Infamia, propaganda e satira in Italia tra ’400 e ’500, Roma-Bari 2005, pp. 29-48.

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catezza con cui si vive la sessualità in una delle grandi capitali della Controriforma è già nota. Ne sono una riprova, a tacer d’altro, le audaci imprese di una sedicente accademia, di cui erano animatori frati, chierici selvaggi e professionisti, insieme con alcuni adolescenti. Due matrimoni omosessuali e una finta prammatica vicereale in lode della sodomia furono nel 1591 le sue iniziative più clamorose, che costarono ai leader del gruppo anche un breve soggiorno nelle carceri dell’Inquisizione romana. Il documento riecheggiava un’idea non dissimile, partorita nel 1583 dalla fertile mente di Giuliano Schirillo, un chierico che quell’anno era carceriere della Curia arcivescovile, titolare di quell’incarico dopo aver superato indenne un pesante processo per sodomia. Su un foglio di indulgenze aveva rilasciato a uno sconosciuto, firmandola come commissario della ‘bucera’ (Iulianus Schirillus commissarius), un’autorizzazione per «bucerare liberamente senza esserli dato fastidio». Se la sarebbe cavata di nuovo, dopo una duplice tortura, malgrado le testimonianze raccolte dai giudici sulle attività sessuali praticate di notte con un aiutante, mentre prestavano servizio nel palazzo arcivescovile20. Ma sono altrettanto rappresentativi degli esiti paradossali della stretta controriformistica alcuni crudi riferimenti napoletani di questi anni alla tolleranza dei papi rinascimentali verso la sodomia. Siamo nel 1579, e incappa per la seconda volta nelle maglie della giustizia arcivescovile Giovanni Berardino Imparato, un chierico diciannovenne. Era stato già sorpreso qualche anno prima a spacciare false indulgenze nelle chiese napoletane, nel corso delle messe, con alcuni monaci greci e un altro giovanissimo ‘pretarello’. Il sistema ideato, identico a pratiche diffuse e ampia-

20   Per il circolo napoletano vedi Romeo, Amori cit., pp. 107-110. La finta licenza del 1583 è ricordata in ASDN, PC, processo aperto il 9 agosto 1583, cc. 7r-v e 9r-v (deposizioni del 1º settembre 1583 dei chierici Lelio Facinio e Antonio Ruoppolo). Quanto ai pesanti particolari, rivelati con molto ritardo rispetto ai fatti (c. 4v, 13 agosto 1583) da Tommaso Russo, un cursore della Curia che dormiva nella stessa stanza, svegliato dai rumori dei due («lo detto sbarvato dolendose faceva u u u et intendea che lo detto Iuliano naserchieiava facenno a a a, per lo che io conoscivi benissimo che lo detto Iuliano conoscea carnalmente lo detto sbarvato»), è indicativo che il teste, pur stupito dell’audacia dei due, non ne facesse molto conto e si rimettesse a dormire («et io maravegliannome de questo, me puossi a dormire»).

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mente tollerate in città, poggiava sulla promessa della remissione perpetua dei peccati a chi visitasse il celebre monastero di S. Giovanni, a Patmo, o versasse un’elemosina per aiutare i monaci dell’isola greca. Ovviamente, l’opzione più comune tra i fedeli e più conveniente per la combriccola era la seconda. I due chierici, proprio come i coetanei che nel 1569 avevano bruciato i banchi del duomo, scialacquavano la sera il denaro raccolto di mattina, con i ragazzini di cui si invaghivano e con qualcuno degli stessi religiosi. Proprio l’utilizzazione peccaminosa dei soldi ricavati dalla vendita delle indulgenze irritava di più i conoscenti e aveva spinto a più riprese gli ufficiali di Curia ad intimare loro di smetterla. Già allora però – avevano cominciato nell’aprile del 1575 – era apparso chiaro che per le autorità diocesane la cosa più grave era, accanto allo spaccio delle indulgenze, il disturbo arrecato ai fedeli e al sacerdote officiante. Alla fine i due, sorpresi in flagranza di reato in una chiesa cittadina, erano stati catturati. La sodomia si era profilata come un elemento secondario del processo: il chierico più giovane, Francesco, era stato rilasciato presto col divieto di questua, l’altro era stato trattenuto in carcere più a lungo forse soltanto per la coincidenza, sfortunata per lui, dell’arrivo a Napoli nel 1576 di un arcivescovo rigorista, il teatino Paolo Burali d’Arezzo. Il nuovo vicario generale aveva minacciato al giovane, se non la smetteva, la temuta pena delle galere, ma le sue giustificazioni – era povero in canna, non sapeva come sbarcare il lunario – gli avevano fruttato la scarcerazione, con l’obbligo di tenersi a disposizione del tribunale. Tuttavia la facilità con cui le Curie vescovili assumevano o riassumevano ai propri servizi preti e chierici condannati o rilasciati a stento gli consentì di ottenere un incarico di collaborazione dal carceriere diocesano. A quel lavoro, forse insufficiente per vivere, pensò bene di associare di nuovo lo spaccio delle indulgenze, anche se stavolta si cautelava con l’accorgimento di praticarlo al di fuori delle chiese. Ma gli andò male, perché, sorpreso in un negozio con l’ennesimo adolescente a rivendere lino avuto in elemosina, fu incarcerato, sia pur dopo vivacissime resistenze. Passato repentinamente dalla condizione di carceriere a quella di carcerato, si trovò invischiato nell’inferno delle prigioni vescovili, insieme a un gruppo di ecclesiastici smaliziati e pronti a tutto. Una querela segnalò ai superiori che il giovane chierico aveva approfittato dei ­­­­­160

turni di notte per darsi a piaceri proibiti con un altro aiutante del carceriere, su uno strapuntino collocato nella stanza di quest’ultimo, nel palazzo arcivescovile. Era il preavviso della tempesta che si stava addensando su di lui. Un memoriale anonimo lo accusò di aver anche pronunciato in carcere frasi pesantissime contro Sisto IV, il papa rinascimentale noto per l’omonima cappella, per il riconoscimento dell’Inquisizione spagnola e per i privilegi concessi agli Ordini religiosi, ma anche per il nepotismo e le accuse – peraltro tutte da verificare – di immoralità e malcostume. Gli accenni poco credibili di un avversario prevenuto come il cronista Stefano Infessura alla omosessualità del pontefice si erano forse radicati a Napoli, se a quasi un secolo di distanza un gruppo di chierici e di sacerdoti ne parlava senza peli sulla lingua. La sodomia «è opera de charità e l’ha ordinato Papa Sixto», «l’havea comandato Papa Sixto perché se cacciava cera per allomare le lampe», «chi fotteva in culo guadagnava l’indulgentia o faceva opera di misericordia», «lo comanda Papa Sisto, chi fotte in culo schiara la vista». Il giovane chierico diceva proprio così, confermarono i compagni di prigionia, anche se, accortosi dell’enormità di quelle frasi, li aveva scongiurati di non querelarlo. Imparato ammise subito di aver sbagliato, ma assicurò di aver detto quelle cose ‘asenescamente’, perché gli altri stavano parlando «di cose di burla», e invocò comprensione: «pigliatelo a quello senso che io l’ho ditto, ignorantemente». Non sfuggì però a giudici esperti come quelli napoletani la circostanza che espressioni così curiose non potevano essere farina del suo sacco. Gli domandarono perciò da quanto tempo le conosceva e le aveva mandate a memoria. La vaga risposta del giovane – da tre anni le sentiva in giro per Napoli – rende possibile solo avanzare due ipotesi. La prima riguarda la Cappella Sistina e le celebri braghe sui nudi che campeggiavano negli affreschi di Michelangelo. Proprio pochi anni prima, nel 1564, c’era stato, per una decisione della Congregazione del Concilio, il primo intervento censorio, affidato a Daniele da Volterra, seguito, dopo la sua morte, da ‘lavoretti’ analoghi. I contraccolpi di quelle operazioni tra i contemporanei potrebbero essere stati più forti di quel che si sa ed essersi estesi, in qualche modo, a un papa che ovviamente non aveva alcuna responsabilità per i nudi michelangioleschi, se non quella di aver promosso la ristrutturazione della cappella che li avrebbe ospitati. ­­­­­161

L’arrivo a Napoli, nell’autunno del 1576, di un arcivescovo ben poco amato come il rigorista Burali, potrebbe aver spinto le frange più indisciplinate e maliziose del clero locale a collegarne le iniziative agli stessi ambienti romani che avevano voluto coprire i nudi della Sistina e a rafforzare ancor più stereotipi già diffusi sulla presunta libertà di costumi di Sisto IV. In ogni caso, stroncare sul nascere la circolazione di quelle vere e proprie pasquinate era doveroso. Pur derubricate da delitto contro la fede a manifestazione di rozzezza e ignoranza (non le aveva pronunciate con malizia, si scrisse nella sentenza, ma scherzosamente), le espressioni scandalose del giovane furono punite, dopo una pesante tortura, con la condanna a servire per tre mesi in un ospedale cittadino. Fu rilasciato su cauzione, invece, per le pratiche sodomitiche. Tra abusi sessuali, pur gravi, e frasi che mettevano in discussione in modo così volgare la figura di un papa, i giudici non ebbero dubbi: era molto più importante porre un freno all’irriverenza di quelle critiche21.

21   ASDN, SU, 437. Il primo processo è ivi, cc. 1r-34r (tra il novembre del 1575 e il dicembre del 1576). Per la cattura, ivi, cc. 1r-3r (la deposizione del complice quattordicenne di Imparato, il chierico Francesco D’Amato); per le reazioni, ivi, cc. 4r-5v (testimonianza del sarto Berardino Festa). D’Amato fu dimesso il 22 novembre 1575 (c. 29r), Imparato solo il 28 dicembre del 1576 (c. 36r; le minacce del vicario del Burali – «gli fece una parlata et bravata, che non andasse più con sbarbati, che l’haveria mandato in una galera» – sono ricordate dal carceriere, Fabrizio de Florio, il 28 luglio 1579, c. 48r). Proprio de Florio era stato colpito il 19 febbraio del 1578, per corruzione, dal divieto di ricoprire cariche in Curia, sotto pena di esilio per 10 anni (ASDN, PC, processo aperto il 30 gennaio 1578, c. 17r). La sua prima deposizione contro Imparato, resa il 18 maggio 1579, è in ASDN, SU, 437. Le testimonianze degli ecclesiastici detenuti sono ivi, cc. 51r-56r; la confessione, la tortura e la condanna di Imparato ivi, cc. 57v-68r, tra il 12 ottobre e il 10 novembre 1579. Per pratiche coeve pressoché identiche vedi Romeo, Inquisitori cit., pp. 209-213 e 312-320. Per il Burali, ivi, ad indicem, per le carceri arcivescovili vedi Romeo, Aspettando il boia cit., pp. 77-103. Per le braghe della Sistina, oltre al classico R. De Maio, Michelangelo e la Controriforma, Roma-Bari 1981, vedi: B. Barnes, Michelangelo’s Last Judgment. The Renaissance Response, Berkeley (Cal.)-London 1998, pp. 74 sgg.; M. Schmitt, Painting, Criticism, and Michelangelo’s «Last Judgment» in the Age of the Counter-Reformation, in Michelangelo’s Last Judgment, ed. by M.B. Hall, Cambridge 2005, pp. 113-149. Per l’immagine negativa di Sisto IV non ci sono novità di rilievo. Nessuno nega, neppure Ludwig von Pastor, nella sua risentita difesa d’ufficio (in Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, II, Roma 1942, pp. 608-611), che nepotismo e simonia siano stati una delle caratteristiche del suo

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8. Confini labili tra l’identità e l’immagine degli ecclesiastici e quelle dei laici, scarsa importanza attribuita dai fedeli agli abusi del clero, anche quando si tratta di curati, purché garantiscano servizi religiosi essenziali e non siano avidi nell’amministrazione del sacro: questi scenari aiutano a comprendere la larga indifferenza di chierici e laici per buona parte degli interventi moralizzatori delle autorità ecclesiastiche. Gli equilibri tradizionali di una società in cui i fedeli chiedono poco agli uomini di Chiesa e questi ultimi ne condividono spesso passioni e debolezze reggono bene all’impatto con le riforme. Superfluo aggiungere che questa sensibilità complica enormemente l’azione dei prelati – non moltissimi, tra l’altro – più impegnati nella promozione di un nuovo modello di vita clericale. Se ne ritrovano tracce precise – ecco un altro aspetto importante della questione – anche quando gli ecclesiastici picchiano, insultano, maneggiano coltelli e armi da fuoco, uccidono. È davvero difficile imbattersi, nelle deposizioni dei testimoni, in espressioni di stupore o di indignazione per l’identità clericale dei violenti. Anche su questo piano una larga omogeneità accomuna le fonti giudiziarie consultate, dal Veneto alla Toscana, dal Lazio alla Campania: preti, frati e chierici sono indistinguibili dai laici. Non suscita particolare sorpresa neppure vederli commettere crimini efferati. Il caso più sconvolgente finora rintracciato riguarda la feroce vendetta consumata da un chierico selvaggio a Napoli, sotto gli occhi di tutti, nel marzo del 1577. Tra i passanti si era diffusa come un lampo la voce che nei pressi di una chiesa cittadina molto nota e frequentata, quella della Carità, c’era stato un assassinio atroce: «senci era fatto una chianca» (vi si era ‘fatta’ una macelleria), aveva sentito dire per strada uno scrivano della Curia arcivescovile, che poi si precipitò a riferire ai superiori l’accaduto. Un prete a cavallo aveva ammazzato crudelmente un gentiluomo, aiutato da un complice, anch’egli a cavallo. Le deposizioni raccolte, tutte di persone scosse e incapaci di trovare le parole adeguate ad esprimere l’orrore delle cose viste, spaziano dai paralleli con le attività dei macellai (il pontificato, ma nessuno dà credito alle accuse di perversione sessuale (vedi il recente profilo di P. Bernardini, in DSI, 3, pp. 1437-1439). Per l’orizzonte culturale e religioso in cui maturano queste accuse vedi Niccoli, Rinascimento cit., passim.

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sacerdote dava coltellate «così come abbattesse lardo»; i due «lo pugnevano come puorco in terra»), alle immagini della foresta e degli animali selvatici («ne fecero scheficcio, che mancho se fosse stato allo bosco»), unanimi nel sottolineare la crudeltà inaudita di assassini che passavano con i cavalli sul corpo dell’uomo ancora vivo e «mentre lo vedevano frizicare sempre li davano». Rispetto all’atrocità della scena, neppure l’altra conseguenza della furia degli sconosciuti, pur ricordata da alcuni, cioè l’impossibilità di amministrare alla vittima i sacramenti d’urgenza, assunse il rilievo consueto in quei frangenti. Ancora, neanche uno dei tanti testimoni oculari dello scempio accenna al fatto che il sanguinario cavaliere era vestito da prete o all’ipotesi di un suo travestimento strumentale, studiato per cogliere di sorpresa la vittima. Non era del tutto inusuale, insomma, che degli ecclesiastici si lasciassero andare ad atti così crudeli. La sola cosa che davvero sconvolge tutti è la ferocia di quell’omicidio, la disinvoltura con cui sono state infrante regole che anche i criminali più spietati rispettano22. Anche in quella vicenda si rispecchiavano le contraddizioni implicite nella ferma rivendicazione del privilegio di foro per il clero. L’assassino, Andrea Di Carluccio, si era avviato alla carriera clericale nel 1568, all’età di 18 anni, quando per la Vicaria era già un delinquente abituale. Nel 1565 aveva riportato la prima condanna, per uno schiaffo e una ferita, era già stato ammesso più volte a composizioni bonarie e infine esiliato, ma invano, perché era stato più volte sorpreso in città. Con l’acquisizione dello status di chierico, arricchito dalle rendite di un beneficio, le sue attività criminali erano aumentate in modo esponenziale e a nulla era servito un nuovo esilio per 6 anni disposto dai giudici di Stato, poi rientrato per un indulto. Ovviamente Di Carluccio era al corrente della determinazione nuova con cui la Curia arcivescovile reclamava da qualche tempo dalla Vicaria la consegna dei preti e dei chierici finiti nelle sue carceri. Così, ben consigliato dai suoi avvocati, nel 1576 aveva riacquistato per l’ennesima volta   ASDN, PC, 1576. I brani citati sono in una relazione del 26 marzo 1577 (ivi, c. 50r), e nelle deposizioni rese in pari data da un ragazzino, Cicco Moreno (ivi, c. 60v), dallo speziale Giulio Cesare Basile (ivi, c. 68r) e dal fruttivendolo Berardino de Nunzio (ivi, cc. 77v-78r), nonché il 28 marzo dal cavalcatore Claudio delo Campo (ivi, c. 98v). 22

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la libertà, grazie alla benevolenza dei giudici diocesani, e aveva cominciato a preparare la nuova impresa, con cui vendicava l’assassinio di un fratello23. L’indifferenza dei fedeli all’identità clericale dei delinquenti si osserva anche nei processi agli ecclesiastici avvezzi all’uso della violenza nei rapporti sessuali. La questione ha risvolti giudiziari di una certa entità solo per i casi di pedofilia. Per le donne stuprate, che, soprattutto quando non erano vergini, avevano ben poche speranze di ottenere giustizia, lo scarso interesse dei tribunali vescovili è palpabile. Non affiorano differenze di rilievo rispetto ai casi pretridentini noti. Ricavare qualche soldo – una parvenza di dote – per non finire sul marciapiede continua a rimanere per loro il massimo obiettivo, a meno che la violenza non sia stata compiuta da chierici, cioè da uomini di Chiesa non ancora ordinati, che perciò potevano recedere dalla scelta compiuta e sposarsi. Di punizioni severe per gli ecclesiastici stupratori neppure l’ombra. Non c’è confronto con le durissime condanne inquisitoriali che colpivano – quando era possibile completare i relativi processi – i sacerdoti che usavano la confessione dei peccati per i propri piaceri proibiti. Sul piano della criminalità ordinaria, i rischi più gravi il clero li correva solo per i rapporti intrattenuti con bambini, a maggior ragione quando si concludevano con la soppressione delle vittime. In quei casi le autorità dello Stato, quando ci riuscivano, mandavano a morte senza esitazione i responsabili. Su questo versante, anzi, la Chiesa italiana potrebbe aver pagato nel Cinque-Seicento un prezzo piuttosto alto, malgrado la strenua difesa dei suoi uomini24. Non era facile però – né per chi cercava giustizia né per le stesse magistrature statali – districarsi tra le abili mosse degli interessati e le connivenze dei superiori. Proprio qui si misurano i risvolti più pesanti della difesa a oltranza del privilegio di foro per il clero.

23   Ivi, cc. 4r-v (per la fedina penale tra il 1563 e il 1568), 7r-v (per la prima tonsura, in data 7 giugno 1568). Sulle sue consultazioni con gli avvocati, ivi, c. 43r-v. 24   Uno di questi casi atroci, chiuso a Roma nell’Ottocento dalla condanna a morte del responsabile, anche grazie al personale intervento del papa, è stato recentemente ricostruito da M. Baldassari, «Processo e sentenza degli orrendi misfatti del sacerdote Domenico Abbo». Perizia medica e dinamiche processuali intorno ad un episodio giudiziario (1842-1843), in Fassanelli, «Sul capo dell’Unto» cit., pp. 71-131.

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9. Non c’è alcun dubbio sulla particolare attenzione che i giudici della Chiesa riservano agli ecclesiastici dediti a pratiche omosessuali. Qualche incertezza al riguardo c’è solo, per quel poco che ne sappiamo, sugli interventi repressivi degli Ordini religiosi. Il confronto tra gli atteggiamenti dei francescani, sia a Napoli, sia nel Veneto, e le scelte prevalenti tra i giudici della provincia domenicana del Regno di Napoli dà risultati contrapposti. Mentre gli uni procedono con cautela e lasciano ampio spazio alla mediazione dei cardinali protettori dell’Ordine, gli altri hanno in questi anni la mano pesante e puniscono abitualmente la sodomia con la condanna alle triremi, come fanno per l’omicidio e gli altri delitti gravi25. Nei tribunali diocesani, invece, per quanto si è potuto finora verificare, si procede con relativa severità, coinvolgendo pesantemente gli stessi bambini. In un caso pisano del 1560, ad esempio, nella sentenza che condanna un prete a rimanere per 3 anni su una trireme, l’assoluzione della vittima dei suoi abusi, un ragazzino di 11 anni, è motivata anche dall’accertamento della violenza esercitata dal sacerdote, non solo dall’età. Un eventuale rapporto consensuale con un adulto non sarebbe passato indenne, neppure per il minore, al vaglio dei giudici ecclesiastici26. Non si può dire, peraltro, che in questi atteggiamenti le autorità della Chiesa siano appoggiate incondizionatamente dai fedeli. Due processi celebrati a Napoli ne sono una riprova precisa. Il più precoce è quello che coinvolge nel 1578 don Giovan Battista Cicerao, un prete titolare di un’affollata scuola. Querelato dai genitori di due bambini sodomizzati, ma accusato di averne violentato altri due, si difende con forza e ammette di aver avuto soltanto rapporti a pagamento con prostitute. Si tratta a suo dire di una vendetta alimentata dalle punizioni inflitte ad alcuni dei suoi scolaretti dediti a giochi sessuali e dall’intenzione di uno dei due accusatori di evitare che il cognato, convinto che Cicerao avesse una relazione 25   Per i francescani napoletani vedi qui, p. 101; per quelli veneti vedi il citato processo al de Grigis a p. 119; per i giudici domenicani, Miele, Giordano Bruno cit., pp. 199-203 (su 118 domenicani processati tra il 1555 e il 1581 dal provinciale napoletano dell’Ordine, 21 sono condannati al remo). 26   AAP, AC, 4, cc. 45r-53v, processo del 1560 a prete Lorenzo di Giuliano. La tortura, nel caso suo, è solo adombrata (è legato alla fune, ma non è sospeso) e minacciata (ivi, c. 49r). Le motivazioni dell’assoluzione del ragazzino sono ivi, c. 51v, sentenza del 23 agosto.

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con la moglie, lo ammazzasse per difendere il proprio onore. In questo modo avrebbe risparmiato al congiunto una pesante condanna, mentre il sacerdote se la sarebbe cavata facilmente, con un poco di ‘corda’, cioè con una tollerabile seduta di tortura. Al di là di queste dimensioni, che confermano la grande familiarità degli abitanti della più grande città italiana con la giustizia penale, il caso è importante perché mostra con chiarezza una netta divaricazione tra la sensibilità dei genitori, non particolarmente allarmata verso l’omosessualità, e quella dei giudici, che si mostrano invece molto determinati, sia nei confronti dell’ecclesiastico, sia verso i bambini. Un magazziniere non crede al racconto del figlio di cinque anni, che si è confidato con la mamma; anche quest’ultima nutre dubbi al riguardo (era troppo piccolo, secondo lei, per attirare le attenzioni di Cicerao). È la sua carcerazione a incrinare le certezze dell’uomo, che però neppure a quel punto si convince, se è vero che fa prima visitare il bambino da un cerusico. Solo quando questi gli conferma la violenza, aggravata dalla circostanza che chi l’ha perpetrata aveva la sifilide, decide di sporgere querela. Allo stesso modo, un’altra madre è scettica sul racconto del figlio e, particolare ancora più indicativo, il padre di due bambini violentati raccomanda loro di scagionare l’ecclesiastico. Se confermano le accuse, saranno bastonati. Anche un’altra piccola vittima ha deciso di confidarsi soltanto con la madre, temendo le reazioni violente del genitore. Superfluo aggiungere che Cicerao può contare sulle deposizioni favorevoli di laici e uomini di Chiesa, pronti a giurare sulla sua innocenza e sui vizi di bambini maliziosi, e qualche risultato lo ottiene: i giudici riesaminano e fanno frustare i più grandicelli, ma senza esito. La conferma delle accuse da parte loro comporta per il sacerdote la tortura per oltre un’ora, alla quale resiste, anche se con movimenti delle labbra sospetti (il ricorso a formule magiche per combattere il dolore è molto diffuso tra chi deve superare una prova così difficile). Alla fine fu rilasciato su cauzione, ma gli fu vietato di continuare a fare il maestro, per motivi di opportunità. Su di lui restavano ombre, che sconsigliavano rapporti troppo ravvicinati con i bambini27. 27   ASDN, PC, 1578, processo aperto il 25 giugno dalla querela di Gabriele Marra (è lui il testimone più sospetto: ivi, c. 33v, 29 luglio 1578, don Giovan Battista Saya). Per i genitori increduli, ivi, cc. 16v-18r, deposizione dell’11 luglio 1578 di Giulio Barraso; alla madre dubbiosa accennano il 31 luglio Mariano

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Ancor più rappresentativo è il secondo caso, capitato a Napoli nel settembre del 1588. Si sospetta che un ricco sacerdote, don Nicola Teruonto, abbia ucciso per vendetta – architettando l’abile messa in scena di una disgrazia – Agostino, il giovanissimo chierico pugliese che lo serviva a casa, forse dopo che i parenti avevano deciso di querelarlo perché, come avevano sospettato sin dall’inizio, dormiva nello stesso letto col ragazzino e lo ‘teneva come donna’. La scelta del sacerdote era apparsa dubbia alla madre e non troppo ‘buona’ alla zia, che se ne erano accorte quando erano andate a trovare Agostino nella sua nuova sistemazione, con la trepidazione di chi osserva un adolescente muovere i primi passi fuori casa. Il vicinato, però, ben presto informato del particolare, non ne è scandalizzato, anche perché da tempo correva voce delle ­tendenze omosessuali del prete. Ancora una volta, se i giudizi di buona parte dei conoscenti su di lui sono negativi, è per altre ragioni: è superbo e insolente. Che sia dedito al ‘vizio’ contro natura, come molti pensano, importa meno, un po’ come il fatto che è ricco e abituato a mangiar bene, anche insieme a laici. Uno speziale che ne conosce la libertà di comportamento («ha più del compagno che del sacerdote», osserva) e sa che dorme col ragazzino non esprime giudizi al riguardo. D’altra parte, nel 1581, quando un vicino lo aveva accusato di averlo colpito con un pugno e di avergli lanciato delle pietre, gli aveva rinfacciato di essere ‘namecato’, cioè di avere una relazione proibita con una donna, non di essere omosessuale28. Che cosa fosse successo nel 1588 è difficile dire. In agosto proprio l’uomo che lo aveva querelato nel 1581 aveva avuto una nuova scaramuccia con lui. Dopo averlo denunciato in Curia arcivescovile per ingiurie, era finito egli stesso nelle carceri della Vicaria, a seguito di un’immediata ritorsione del sacerdote, che aveva anche deciso di sfrattarlo dalla casa in cui viveva. I contraccolpi di quelle tensioni avevano forse suggerito all’ecclesiastico di tra-

Manco (ivi, c. 46v) e Lisa deli Mandi (ivi, c. 50v). La paura delle reazioni paterne è segnalata da Marcantonio e Andrea Turco (ivi, cc. 56v-58r, 29 ottobre 1578). Per le frustate ai bambini, ibid., ma anche (Gennaro Casella) ivi, cc. 55r-56v, 25 settembre 1578. Il decreto finale, del 12 dicembre 1578, è ivi, c. 66r. 28   ASDN, PC, processo a don Nicola Teruonto (Tirunto, Tarunto), aperto il 30 agosto 1581 da una querela, poi rimessa, di Minico Corcillo.

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sferirsi altrove, nella zona del porto. Proprio lì, poche settimane dopo, era successo il tragico episodio. Agostino, dissero ai vicini don Nicola e le sorelle, era caduto da una scala mentre era intento ad appendere delle zucche appena comprate. Falso, replicarono gli zii dell’adolescente: era stato picchiato a morte con dei colpi in testa. Oppostisi risolutamente all’intenzione del sacerdote di seppellirlo subito, essi adirono i giudici di Stato, chiedendo una perizia medica sul cadavere e l’apertura di un’inchiesta, che ebbe esiti rapidissimi. Furono incarcerati in Vicaria i cognati di Teruonto, per complicità e/o favoreggiamento nell’omicidio, mentre don Nicola preferì forse costituirsi nelle prigioni arcivescovili, dopo aver chiesto lumi ad autorevoli uomini di legge sulla opportunità di presentarsi anch’egli davanti ai giudici di Stato ed esserne stato sconsigliato (sei un prete, gli avevano fatto presente, rivolgiti al tribunale cui hai diritto). La ferma tutela del privilegio di foro da parte della Chiesa si tradusse così in quel caso in un inevitabile sdoppiamento processuale: i laici da una parte, l’ecclesiastico da un’altra, verità separate e destini giudiziari diversi per gli uni e per gli altri. Sulla sorte dei cognati di don Nicola non sappiamo molto. Forse, dopo una prima fase ‘colpevolista’, la Vicaria escluse loro responsabilità nella morte del ragazzo o l’ipotesi stessa dell’omicidio, anche per le divergenze tra gli esperti che avevano esaminato il cadavere (alcuni chirurghi avevano ritenuto compatibili le lesioni con dei colpi, altri lo avevano escluso). Una cosa però è evidente. Pur se orientati a credere che si tratti di un delitto perpetrato dal sacerdote e/o dai congiunti per motivi abietti, per prevenire una querela da parte dei familiari del ragazzo, i giudici della Curia sono molto irritati con lui soprattutto perché con le sue iniziative ha contribuito a dare spazio alla Vicaria, in una vicenda da cui doveva rimanere fuori. La prova lampante del loro limitato interesse per l’accertamento della verità viene proprio dalle dichiarazioni reticenti delle sorelle del sacerdote e dal loro rifiuto di rispondere a una parte delle domande ricevute, accompagnato dall’invito, sostanzialmente provocatorio, ad acquisire agli atti gli interrogatori dei giudici di Stato. Nei verbali del processo numerose note a margine sottolineano l’attenzione con cui gli ufficiali di Curia le leggevano, ma gli sviluppi dell’inchiesta provano la loro assoluta indisponibilità ­­­­­169

a chiedere copia del processo alla Vicaria, per non legittimare iniziative a loro avviso indebite. Così, nel nervoso interrogatorio finale cui lo sottopongono, gli chiedono ripetutamente conto delle tante zone d’ombra della sua versione, prima di sottoporlo alla tortura di un’ora cui resisterà, guadagnandosi il proscioglimento29. 10. Possiamo ora tracciare un bilancio della svolta che nel tardo Cinquecento cercò di stringere i freni sul clero italiano e di indirizzarlo verso modelli di comportamento più adeguati agli standard tridentini. Osservata da un’altra prospettiva, quella della vita quotidiana, essa si presenta ancor meno incisiva di quanto strategie della Chiesa e resistenze degli interessati facessero pensare. I tratti che più marcatamente la caratterizzano, cioè il secco ridimensionamento delle competenze dello Stato e l’accorta graduazione degli interventi punitivi, si affermano senza particolari difficoltà tra i fedeli, almeno tra coloro che non ne subiscono direttamente le sgradevoli conseguenze, e non subiscono ostacoli di rilievo da parte delle stesse autorità statali. L’accresciuto volume delle inchieste e dei procedimenti penali è poco più di un fuoco di paglia, cui nessuno fa caso, se non coloro che se ne avvantaggiano o ne traggono spunto per esprimere disprezzo nei confronti dei tribunali dello Stato. Sul piano dei comportamenti del clero c’è una

29   ASDN, PC, processo aperto il 4 agosto 1588 dalla querela di Minico Corcillo e dalla deposizione della moglie (c. 4r-v). Le perplessità di Angela e Girolama Berzicca, madre e zia del ragazzo sono ivi, 1º dicembre 1588, cc. 26r-29v. Per l’immagine corrente del prete la più lucida testimonianza è quella dello speziale Ferrante d’Ancona (ivi, cc. 18v-19v, 17 ottobre 1588). Per le due versioni dei fatti, vedi ancora lo stesso d’Ancona (ivi, c. 19v) e le nervose deposizioni del 9 febbraio 1589 di Francesca e Vittoria Teruonto (ivi, cc. 42r-48v). Per le divergenze dei periti vedi la copia della testimonianza resa in Vicaria il 16 novembre 1588 dal professo in medicina e chirurgia Carlo Guerriero (ivi, cc. n.n.). Per le manovre legali del T. vedi l’aspro interrogatorio del 10 giugno 1589, chiuso dalla tortura (ivi, cc. n.n.). Il sacerdote continuò a vivere disordinatamente. Lo dimostrano sia una breve inchiesta avviata nel 1597, per una coltellata a un inserviente della sua spezieria, nel corso di un diverbio (ASDN, PC, 1597; alla querela della vittima e alla citazione dei testimoni non c’è seguito, non si sa perché), sia un processo inquisitoriale del 1600 (fu scagionato, dopo una breve carcerazione, dall’accusa di bestemmie ereticali, sodomia, usura e commerci illeciti: ASDN, SU, 1216).

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sostanziale continuità tra età pretridentina e anni postconciliari. I suoi stili di vita restano in larga misura indistinguibili da quelli dei laici. I parrocchiani, d’altra parte, si limitano a richiedere ai curati, come sempre, poche cose essenziali e sono indifferenti, se non contrari, al rigore con cui le autorità ecclesiastiche più zelanti cercano di ricondurli all’ordine. Gli equilibri della vita religiosa poggiano ancora, in larga misura, su intese locali, che spesso vedono uniti i rappresentanti della Chiesa, dei comuni e dello Stato contro i vescovi più sensibili alle esigenze di riforma, ritenuti poco più che fastidiosi intrusi. Un solo tribunale ottiene in questi anni in Italia risultati di un certo rilievo dai controlli sugli ecclesiastici, ed è quello inquisitoriale. Quantità e qualità della repressione che si abbatté su di essi si possono misurare sia in riferimento all’ampio loro coinvolgimento in pesanti processi di magia e negromanzia, sia nella facilità con cui incappano nel sospetto di eresia. Ma l’impegno del Sant’Ufficio fu rigorosamente delimitato ai controlli sull’ortodossia, sia pur nell’accezione larga che s’impose con la loro riorganizzazione tardocinquecentesca, e non poté contare sulla collaborazione piena dei vescovi. Qui il confronto con la situazione portoghese è inequivocabile. In Italia il quadro istituzionale appare molto più frammentato, anche grazie al rapido svuotamento della funzione vescovile e alla sua riduzione a ruoli meramente esecutivi. Le autorità diocesane si sentono per lo più estranee a un’Inquisizione che, spalleggiata dai cardinali del Sant’Ufficio, ha depotenziato i loro tribunali, ma sono anche palesemente a disagio nel promuovere le poche riforme cui le Congregazioni romane le chiamano. La svolta tridentina, complessivamente considerata, sembra molto meno incisiva di quanto si potesse pensare. Anche Curie influenti come quelle di Milano, Venezia e Napoli fanno fatica a imporre le novità più indigeste – dagli esami degli aspiranti confessori al controllo degli inadempienti al precetto pasquale – e sembrano sopraffatte dalle resistenze congiunte di clero e comunità locali. Quanto alle visite pastorali, non risulta che esse siano state mai piegate a controlli accurati dei costumi dei fedeli, come in Portogallo, e tanto meno impressionano uomini di Chiesa di solito ben poco disponibili a studiare i casi di coscienza, ad istrui­re religiosamente i fedeli e ad abbandonare stili di vita incompatibili con i modelli tridentini. Né si possono sottovalutare le gravi responsabilità dei ­­­­­171

tanti vescovi che continuarono a ordinare uomini indegni, ad affidare loro la cura d’anime anche dopo ripetute condanne, e – soprattutto nel Sud – ad avviare alla carriera ecclesiastica giovani appartenenti a famiglie potenti, desiderosi di farsi chierici soprattutto per ottenere vantaggi economici e certezza dell’impunità. Sono questi orizzonti a rendere problematica l’applicazione di categorie storiografiche usuali come quella di disciplinamento al governo del clero nell’Italia postridentina30. Sembra molto improbabile che sinodi, visite pastorali, ordinanze vescovili, maggiore familiarità con la cultura e lo studio abbiano potuto ottenere risultati di rilievo senza il complemento di un’energica e limpida azione di contrasto agli abusi e alle omissioni che caratterizzano la vita di tanti ecclesiastici. Non mancarono ovviamente i vescovi e gli uomini di Chiesa che cercarono di combattere con l’efficacia dell’esempio e con nuovi sistemi formativi la propensione a delinquere di tanti confratelli, ma le loro sembrano ovunque fatiche di Sisifo. Una parte consistente del clero italiano continuò a vivere con grande libertà, forte di una buona integrazione con comunità sensibili, a loro volta, ad esigenze che coincidono solo in parte con quelle delle autorità della Chiesa. Il modesto interesse che i fedeli mostrano per le delimitazioni faticosamente imposte dai vescovi e dalle autorità regolari alle esperienze sessuali degli ecclesiastici, in linea con tendenze ben documentate in tutta l’Europa cattolica, è la riprova più evidente della sostanziale tenuta degli equilibri tradizionali. Se i curati garantiscono ai parrocchiani i servizi religiosi che essi ritengono importanti – soprattutto l’assistenza ai moribondi e la regolare celebrazione della messa – e non si mostrano avidi, se le donne con cui vivono non sono arroganti, litigiose o spendaccione,

30   Vedi, a titolo d’esempio: i saggi raccolti in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra Medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi, Bologna 1994, e in Chiesa, chierici, sacerdoti. Clero e seminari in Italia tra 16. e 20. secolo, a cura di M. Sangalli, Roma 2000, nonché The Formation of Clerical and Confessional Identities in Early Modern Europe, ed. by W. Janse and B. Pitkin, Leiden-London 2006 (in part. i contributi inseriti nella III parte, pp. 285-409, tra cui figurano due interventi sul clero italiano, che risentono negativamente dell’uso pressoché esclusivo di fonti ‘pastorali’: K.M. Comenford, “The Care of Souls Is a Very Grave Burden for [The Pastor]”. Professionalization of Clergy in Early Modern Florence, Lucca and Arezzo, pp. 349-368; W. de Boer, Professionalization and Clerical Identity. Note on Early Modern Catholic Priest, pp. 369-377).

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le loro scelte di vita interessano relativamente. Non meraviglia allora se, entro orizzonti così tesi e ribollenti di contraddizioni, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento la questione del clero delinquente sembrò riaccendersi, e proprio nelle due più grandi città italiane, Venezia e Napoli. Vediamo come.

VI

Ipotesi sul Seicento

1. I primi segni di crisi, negli equilibri tra Stato e Chiesa nel Regno di Napoli, vennero nel 1599 dalla Calabria. Si scoprì che un folto gruppo di autorevoli ecclesiastici e laici, d’intesa con Tommaso Campanella e altri domenicani locali, tramava, forse col papa e col ‘Turco’, per cacciare gli spagnoli. Fu subito chiaro, però, che malgrado il rigore sbandierato dal viceré, le responsabilità di molti uomini di Chiesa avrebbero complicato l’azione repressiva. Il Sant’Ufficio mise subito sotto processo per delitti contro la fede gli ecclesiastici sospetti. Siccome il privilegio di foro non tutelava chi era accusato di lesa maestà ed era pressoché scontata una raffica di condanne a morte per tutti, sfruttare la preminenza assoluta della difesa dell’ortodossia su qualsiasi altra esigenza punitiva era l’unico modo per non finire sul patibolo. Alla fine, però, fu solo Tommaso Campanella a salvarsi, attraverso l’arma della follia, sia pur dopo pesantissime torture. Al contrario, per i laici che usarono l’autoaccusa di eresia come àncora di salvezza, non ci fu speranza di essere trasferiti nelle carceri del Sant’Ufficio e di sfuggire così alla pena capitale. La morte raggiunse anche chi si aggrappò a un’incerta identità clericale. L’esasperazione del viceré e del Collaterale per quelle manovre strumentali trovò sfogo nel dicembre del 1599 nel rifiuto di consentire a un sedicente chierico sospettato di aver aderito alla congiura di provare la propria condizione, premessa indispensabile per ottenere la rimessione ai giudici ecclesiastici. A quel gesto fece anche seguito ­­­­­174

la scelta beffarda di giustiziarlo – affronto gravissimo per la Chiesa – con l’abito clericale addosso. Una sfida così temeraria non s’era mai vista in città, e non a caso Marco Antonio Genovese, che ebbe un ruolo importante in quei passaggi, ignorò l’episodio nel 1602, nella prima edizione della Praxis, e stravolse i fatti in quella del 16091. Di lì a poco, nel 1606, una situazione non meno incandescente indusse Paolo V a fulminare l’interdetto contro la Repubblica di Venezia. Lo scontro affondava le radici in una sequenza di tensioni che aveva punteggiato tutta l’età tridentina. La legge con cui nel 1605 fu esteso all’intero dominio il divieto di alienare beni di laici ad ecclesiastici, già in vigore nella sola Venezia, e la violazione, di poco successiva, del privilegio di foro vantato da due influenti uomini di Chiesa accusati di crimini comuni, erano state solo la classica goccia che fa traboccare il vaso. Tra l’altro, i due non erano esattamente esempi di integrità morale, ma neppure persone particolarmente pericolose per l’ordine pubblico. Fin dall’inizio, insomma, fu evidente che le questioni di principio avevano preso il sopravvento sulla portata degli eccessi lamentati, che si fronteggiavano due modi contrapposti di concepire i rapporti tra istituzioni ecclesiastiche e statali. Proprio per queste ragioni a Venezia si guardò con costante attenzione alle iniziative adottate dai viceré in materia di giurisdizione della Chiesa. Prevalse però l’esigenza di trovare una via d’uscita, di allentare tensioni che a nessuno conveniva esasperare. Il compromesso raggiunto l’anno dopo, con la revoca dell’interdetto, la consegna dei due ecclesiastici contesi al re di Francia e la garanzia che l’applicazione delle leggi sgradite a Roma sarebbe stata poco puntuale, costituì l’inevitabile conclusione di uno scontro che ebbe un’eco enorme in Europa e pesò a lungo sul trattamento dei crimini comuni del clero nel territorio della Repubblica2. Sia nella Curia 1   Sull’intera vicenda vedi almeno: L. Amabile, Fra’ Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, 3 voll., Napoli 1882; L. Firpo, I primi processi campanelliani in una ricostruzione unitaria, in «Giornale critico della filosofia italiana», 20, 1939, pp. 5-43; Romeo, Aspettando il boia cit., pp. 55-73; Tommaso Campanella e la congiura di Calabria, atti del Convegno di Stilo (18-19 novembre 1999), a cura di G. Ernst, Stilo 2001. Sul sedicente chierico vedi M. Mancino, Giustizia penale ecclesiastica e Controriforma. Uno sguardo sul tribunale criminale arcivescovile di Napoli, in «Campania Sacra», 23, 1992, pp. 201-205. 2   Un ottimo punto di riferimento per la genesi dell’interdetto è nella In-

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patriarcale, sia nella nunziatura di Venezia ci fu un calo nettissimo delle attività penali tra il 1606 e il 1620, segno probabile della scelta dei rispettivi tribunali di evitare sovraesposizioni e rischi agli uomini di Chiesa. Il dato appare particolarmente importante per il foro del legato papale, anche perché riguarda soprattutto le sue iniziative in materia criminale, non le cause civili e matrimoniali, che invece crollarono, come le altre, in Patriarcato. I nunzi potrebbero aver scelto di dare un freno alle attività giudiziarie più controverse, per prevenire altri scontri3. In quegli anni andò forse allo stesso modo in tutta la Repubblica. La disciplina ecclesiastica, osservava il vescovo di Padova nei rendiconti al papa del 1613 e del 1622, non è più quella di prima: popolo e clero, e in particolare frati e monaci, si rivolgono al foro secolare, mentre quasi ovunque si impedisce ai laici di deporre nei tribunali della Chiesa4. Frequenti, inoltre, furono le dimostrazioni di forza contro gli ecclesiastici delinquenti da parte dei giudici di Stato, seguite in più di un caso da esecuzioni capitali pubbliche, praticate anche senza la degradazione preventiva: Sarpi ne scriveva compiaciuto ai corrispondenti stranieri. Non mancarono, infine, i contraccolpi dell’interdetto sulla vita interna delle Chiese venete: proprio a Venezia, nel 1619, un aspro scontro tra il patriarca Tiepolo e una pletora di confessori restii a sottoporsi all’esame d’idoneità, soprattutto ma non solo regolari, fu segnato

troduzione a Sarpi, Consulti cit., in part. pp. 43-57. Per le interpretazioni dello scontro basti qui richiamare G. Cozzi, Venezia dal Rinascimento all’età barocca, e P. Prodi, Chiesa e società, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, Roma 1994, rispettivamente pp. 3-126 e 305-339 (in part. pp. 82-90 e 328-334). Inoltre, per l’eco dell’interdetto fuori d’Italia, vedi almeno S.H. De Franceschi, Raison d’État et raison d’Église: la France et l’Interdit venitien (1606-1607), aspects diplomatiques et aspects religieux, Paris 2009. Sull’interesse veneziano per la linea dei viceré vedi: Sarpi, Consulti cit., pp. 13-15; e Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli – Dispacci, III, 27 maggio 1597-2 novembre 1604, a cura di A. Barzazi, Roma 1991, passim (e pp. 245-277, per i puntuali resoconti della congiura di Calabria). 3   I dati sul tribunale patriarcale di Venezia tra il 1606 e il 1620 sono in Scomparin, cc. 98v-99r (processi civili), 137v-138r (cause matrimoniali) e 194r199v (criminali); quelli relativi alla nunziatura in ASV, NV II, mss. 343-351, 366, 368-371, 373-375 (per le sentenze) e in Roselli (pp. 177-194) per i processi. 4   I rilievi del vescovo di Padova sono in ASV, RD, 626/A, cc. 30v-32r (1613) e 41r (1622).

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anche da una pubblica ‘cospirazione’, cioè da un gioco di sponda degli interessati, non meglio noto, davanti al principe5. La pesantezza di questi contraccolpi, confrontata con gli esiti del caso Campanella, molto meno traumatici per la Chiesa, fa riflettere. Certo, nel primo Seicento non mancarono nel Regno di Napoli episodi anche truculenti di violazione del privilegio di foro. Quando nel 1609 il vescovo di Mileto ‘osò’ diffidare il marche­ se di S. Agata, capitano di guerra in Calabria, dal processare un ecclesiastico omicida, la reazione fu rabbiosa. Il messo diocesano fu fustigato pubblicamente, mentre il presunto delinquente fu strangolato in carcere, senza assistenza spirituale e senza degradazione, e poi squartato, con successiva esposizione dei quarti nella piazza di Seminara6. Ma nei tribunali vescovili meridionali, per quanto se ne sa, le cause penali non furono turbate più di tanto dalla congiura del 1599. Come spiegare questa divaricazione? La penisola era reduce da un trentennio cruciale, in cui la preponderanza delle magistrature secolari nel controllo dei crimini comuni del clero era stata ovunque nettamente ridimensionata a vantaggio della giurisdizione penale ecclesiastica. Che cosa successe agli inizi del Seicento? Il nuovo assetto cominciò a scricchiolare o la forza tranquilla della Chiesa superò senza problemi una crisi così grave? Un’ampia serie di fonti consente di approfondire la questione. 2. Un primo rilievo riguarda il Seicento nel suo insieme. Né la congiura di Calabria, né l’interdetto, né, molto più tardi, la cosiddetta svolta innocenziana – l’ascesa al pontificato, nel 1676, di Benedetto Odescalchi (Innocenzo XI), che tra i papi del secolo fu il più sensibile a un’autentica riforma della Chiesa – influirono più di tanto sul governo del clero delinquente in Italia. Restarono intatte le linee d’intervento postridentine. Il dato è particolarmente evidente nelle decisioni romane. Se c’è un filo rosso che unisce 5   Per le esecuzioni capitali di ecclesiastici dopo l’interdetto vedi ancora Sarpi, Consulti cit., p. 610 (l’impiccagione pubblica di un curato, accusato di rapine e saccheggi, disposta senza la preventiva degradazione nel 1609). Lo scontro del 1619 è in ASV, RD, 860/A, c. 460v, rendiconto del 1622. Sul clima veneziano di questi anni sono fondamentali le lettere del Sarpi (vedi almeno Id., Lettere ai protestanti, a cura di M.D. Busnelli, Bari 1931, 2 voll., e Lettere ai Gallicani, ed. critica, saggio intr. e note a cura di B. Ulianich, Wiesbaden 1961). 6   Vedi Sarpi, Consulti cit., p. 14.

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le direttive impartite ai nunzi, gli appunti mossi ai vescovi in sede di approvazione delle relazioni ad limina e le soluzioni date alle controversie che rimbalzano al centro da ogni angolo della penisola, è l’esigenza di tutelare sempre e comunque le istituzioni ecclesiastiche, non la volontà di contrastare adeguatamente i delitti degli uomini di Chiesa. Per quanto abbiamo potuto verificare, nell’Italia del Seicento le due novità più importanti in materia di giurisdizione riguardano solo indirettamente i crimini comuni del clero. La prima, nel 1626, è la nascita, da una costola della Congregazione dei Vescovi e Regolari, di un nuovo dicastero a raggio d’azione universale, quello dell’Immunità, che però dedicò gran parte del suo tempo ai problemi giurisdizionali in Italia, Stato pontificio compreso, con un occhio di riguardo alla difesa del diritto d’asilo. L’istituzione dell’influente organismo chiudeva nel modo più intransigente una stagione di scontri che, avviata all’indomani del concilio di Trento, aveva trovato un primo punto di equilibrio nel 1591, con la bolla Cum alias di Gregorio XIV7. Tuttavia, malgrado l’ampiezza degli obiettivi che la sua denominazione lasciava presagire, esso si interessò poco di privilegio di foro. A Roma i crimini comuni degli ecclesiastici rimasero in larga misura appannaggio delle istituzioni che se ne occupavano tradizionalmente, in particolare della Congregazione dei Vescovi e Regolari e dell’uditore di Camera8. 7   Il riscontro più solido dell’impegno mirato della nuova Congregazione viene dal ricchissimo Indice in 7 volumi della sezione dei Libri Litterarum, che ne presenta le attività dalla nascita fino al 1722 (ASV, Indice 1182, curato nel 2001 da G. Roselli e F. Di Giovanni). La presentazione più completa, ancorché datata, del problema dei rifugiati, è quella di P. Timbal Duclaux de Martin. Per l’età moderna vedi C. Latini, Il privilegio dell’immunità. Diritto d’asilo e giurisdizione nell’ordinamento giuridico dell’età moderna, Milano 2002; per il Seicento italiano (oltre De Marco, L’immunità cit.): A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel regno di Napoli. Problema e bibliografia (1563-1723), Roma 1974; D. Edigati, Il ministro censurato: giustizia secolare e diritto di asilo nella Firenze del Seicento, «Annali di Storia di Firenze», 2, 2007, pp. 115-149. Fondamentale, inoltre, per il primo Settecento napoletano, R. Ajello, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la prima metà del secolo XVIII, I, La vita giudiziaria, Napoli 1961. 8   Per l’ampiezza dei rispettivi interventi vedi Cicerchia, Giustizia di antico regime cit., pp. 254-275 (uditore di Camera, trentennio 1590-1620) e ASV, CVR, sezioni Positiones e Registra (Episcoporum, Regularium, Monialium), fonti indicate qui, cap. III, nota 4.

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Non ebbe alcun peso sul clero delinquente, per quanto ci risulta, neppure la costituzione Universi agri dominici, con cui nel 1612 Paolo V cercò di porre un argine al diffuso disordine del sistema giudiziario romano. Malgrado l’ampiezza e la puntualità del documento, un vago richiamo all’obbligo di trattare le cause penali che coinvolgevano gli ecclesiastici secondo le regole dettate dal concilio di Trento è tutto ciò che se ne può ricavare al riguardo9. Qualcosa potrebbe essere cambiato nel governo dei crimini comuni del clero in Italia, quantomeno sul versante centrale, solo verso la fine del secolo, grazie a una seconda, importante decisione. Ci riferiamo al decreto che nel 1693 modificò profondamente la Immensa Aeterni Dei, la costituzione con cui Sisto V aveva ridisegnato nel 1588 l’assetto della Curia romana. Dopo oltre un secolo in cui dicasteri come la Congregazione dei Vescovi e Regolari avevano liberamente operato in ambito giudiziario, ben al di là dei confini tracciati dalla riorganizzazione sistina, essi persero per sempre quelle facoltà. I cardinali che li guidavano furono costretti a circoscrivere le proprie attività di coordinamento all’ambito pastorale/ religioso, senza intromettersi nel disbrigo dei processi, restituito alle istituzioni giudiziarie romane titolari di poteri d’appello. Una sola deroga era ammessa, ma in subordine al consenso delle parti in causa. Se erano tutte d’accordo nel demandare loro la valutazione delle controversie, le Congregazioni cardinalizie prescelte dagli interessati conservavano il diritto di decidere. Anche in quel caso, però, i procedimenti dovevano essere istruiti presso i competenti tribunali romani. Accenni a specifiche tipologie processuali non ce n’erano. Il governo del clero delinquente faceva capolino solo in una precisazione finale, introdotta verosimilmente per evitare interpretazioni di comodo del decreto. Da quel momento qualsiasi processo penale affidato al vaglio di Congregazioni cardinalizie – anche contro laici e contumaci, in primo

9   Vedi Magnum Bullarium Romanum, XII, Augustae Taurinorum 1867, pp. 58-111. L’accenno ai crimini del clero è a p. 60. Sulla giustizia ecclesiastica nello Stato pontificio vedi G. Santoncini, Il groviglio giurisdizionale dello Stato Ecclesiastico prima dell’occupazione francese, in «Annali dell’Istituto Storico Italo-germanico in Trento», 20, 1994, pp. 63-127, I. Fosi, Sudditi, tribunali e giudici nella Roma barocca, in Ead., Tribunali cit., p. 22, e S. Tabacchi, Le riforme giudiziarie nella Roma di fine Seicento, ivi, p. 155.

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grado come in appello – doveva essere seguito, sentenza esclusa, da altri giudici centrali. Il nuovo criterio si applicava anche ai delitti commessi dai regolari al di fuori di conventi e monasteri. Così il secolo che si era aperto con due violenti conflitti di giurisdizione scoppiati negli Stati italiani più sensibili ai disordini del clero si chiudeva con un aggiustamento interno, deciso in piena autonomia a Roma, per appianare contraddizioni divenute forse insostenibili negli intricati assetti giudiziari della città del papa10. Osservata dalle periferie italiane, era una scelta che non modificava in modo apprezzabile equilibri consolidati, ritenuti con ogni probabilità ampiamente soddisfacenti anche dalle più alte autorità della Chiesa cattolica. È un dato che non sorprende, se si analizzano le linee di intervento cui si erano attenuti nel corso del Seicento gli organismi romani coinvolti a vario titolo nel governo dei tribunali penali ecclesiastici della penisola. 3. L’elemento che più colpisce è la netta sproporzione tra il crescente rilievo delle questioni connesse alla difesa della giurisdizione e della ‘libertà’ della Chiesa e il persistente disinteresse per il contenimento dei crimini comuni del clero. Una dura decisione notificata nel 1616 dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari al vescovo di Cremona esprime al meglio questa sensibilità. Paolo V, gli scrissero i cardinali, era rimasto molto ‘ammirato’ per la sciatteria con cui per oltre due anni aveva lasciato procedere i giudici secolari nella causa di un frate, poi giustiziato senza degradazione. Incredibilmente, di fronte a violazioni così plateali del privilegio di foro, non solo non aveva eseguito gli ordini ricevuti, ma aveva anche ammesso una richiesta di assoluzione da parte del magistrato responsabile dell’abuso. Quanto a 10   ASV, CVR, RE, 138, cc. 177v-179r (il decreto, approvato dai cardinali il 31 luglio 1693, fu emanato il 9 agosto seguente, dopo il placet di Innocenzo XII). Un accenno alla decisione è in Bellabarba, La giustizia penale cit., p. 149. Per il pontificato di Innocenzo XII, vedi: Riforma, religione e politica durante il pontificato di Innocenzo XII (1691-1700), Atti del Convegno di studio (Lecce, 11-13 dicembre 1991), a cura di B. Pellegrino, Galatina 1994 (ai progetti papali di riforma giudiziaria è dedicato il contributo del compianto C. Donati, “Ad radicitus submovendum”: materiali per una storia dei progetti di riforma giudiziaria durante il pontificato di Innocenzo XII, ivi, pp. 159-178); Tabacchi, Le riforme cit., pp. 164-169.

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quest’ultimo, nel frattempo scomunicato, «non ci manca altro se non d’intendere ch’Ella senza autorità apostolica habbia avuto ardire d’assolverlo», concludevano sferzanti, nell’intimargli di trasmettere subito gli atti in suo possesso, se non voleva sfidare la pazienza del papa. Quali crimini avesse commesso il religioso era per loro indifferente. Contava solo il rischio – da scongiurare subito – che l’episodio potesse essere invocato in futuro come precedente11. Proprio in quegli anni, d’altra parte, gli stessi cardinali appaiono attentissimi a rafforzare la propria egemonia sulle altre istituzioni centrali coinvolte nei ricorsi ricevuti. Al vescovo di Veroli fanno presente di non eccedere nei distinguo, nel caso di un uomo assolto in foro interno dalla Penitenzieria apostolica; all’uditore di Camera e al suo luogotenente criminale ordinano più volte di smetterla con interventi che paralizzano la giustizia ecclesiastica. È evidente che mirano a conquistare la preminenza assoluta nel governo del contenzioso penale che dalla penisola si riversa su Roma12. Non diversamente, i colleghi della Congregazione del Concilio e i Segretari di Stato reclamano rispettivamente dai vescovi e dai nunzi apostolici fermezza nella difesa della giurisdizione, non certo impegno nella lotta al clero delinquente13. Su una sola tipologia criminale – i rapporti sessuali con le monache – si conferma, soprattutto nella prima metà del secolo, il rigore del tardo Cinquecento. Si tratta di un vero e proprio sacrilegio, da punire con la morte per i seduttori, anche se sono uomini di Chiesa, e con l’immurazione perpetua per le sedotte; è come profanare l’ostia consacrata o dire messa senza essere ordinati. Talvolta non si rispetta neppure l’obbligo della segretezza dell’esecuzione capitale. Nel 1601, ad esempio, in un caso ferrarese

11   ASV, CVR, RR, 19, c. 220r, seduta del 3 dicembre 1616 (interventi concordati col papa). 12   Per Veroli vedi ASV, CVR, RR, 19, c. 216r, decisione del 22 novembre 1616; per l’uditore di Camera, un esempio è ivi, c. 219r, 22 novembre 1616 (eviti di intralciare ulteriormente l’azione del vescovo dell’Aquila, come ha fatto su richiesta di un gruppo di preti di Paganica, contro cui il prelato stava procedendo su ordine della Congregazione). 13   Per la Congregazione del Concilio, vedi ASV, LLV, voll. 2-19 (1597-1699); per la Segreteria di Stato, un bel po’ di esempi in ASV, SdS, Firenze, 14/A, 15, 15/A-B (1600-1615), e ivi, Napoli, 21-24 (1616-1641).

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ritenuto a Roma ‘bruttissimo’, Clemente VIII fu irremovibile nel pretendere che il tribunale del legato facesse giustiziare pubblicamente un confessore di monache. Siccome la religiosa da lui ingravidata aveva partorito un neonato, subito ucciso, con enorme scandalo, bisognava dare un valore esemplare alla punizione del principale responsabile del duplice misfatto. Un prezzo pesante fu pagato anche dall’ordine carmelitano, cui il monastero era affidato. Entrambi gli istituti femminili che governava a Ferrara furono trasferiti sotto l’autorità del vescovo14. Alla purezza delle donne consacrate papa e cardinali sono sensibilissimi, ancor più che all’onore del clero. Le inchieste relative ai loro abusi sessuali devono essere trasmesse integralmente a Roma, cosa che capita sempre di meno nel corso del Seicento per i delitti degli ecclesiastici15. Anche i soli tentativi di violare la clausura da parte di uomini innamorati di qualche monaca devono essere notificati alla Congregazione. Quando essa appura nel 1617 che un giovane nolano briga per farsi nominare governatore dell’istituto dove vive la religiosa che ama, per averne legittimamente le chiavi, il silenzio del vescovo suscita in Paolo V non minore meraviglia della sfrontatezza dell’uomo16. Allo stesso modo, per i laici che seducono le monache, i cardinali non esitano a chiedere ai capi di Stato la pena di morte, ‘caricandone’ la coscienza. La sola condizione pretesa è la segretezza dell’esecuzione capitale. È ciò che succede tra il 1614 e il 1615, in un caso aquilano definito a Roma ‘atroce’, con gravidanze e aborti di più monache, trasmesso al viceré perché provveda17. Per i delitti del clero, invece, le autorità centrali della Chiesa continuano ad intervenire solo su richiesta di interessati, vescovi e controparti, oppure quando il rilievo delle cariche rivestite

  ASV, CVR, RR, 3, cc. 59r-v, 82r e 88v (sono tutte le decisioni romane).   Per un esempio, vedi ASV, CVR, RR, 32, 12 gennaio 1624 (il sommario è insufficiente, il vicario delle monache di Aquileia deve mandare gli atti integrali, ben sigillati). 16   ASV, CVR, RR, 20, c. 251r, seduta del 5 agosto 1617. 17   ASV, CVR, RR, 16, cc. 174r e 178r (le decisioni del 14 e 21 novembre 1614), e 18, c. 61v (le istruzioni del 20 marzo del 1615 al nunzio di Napoli sul caso aquilano). Una condanna a morte era stata inflitta per lo stesso delitto pochi mesi prima a un giovane di Assisi, mentre la religiosa era stata murata viva per sempre: vedi Cicerchia, Giustizia di antico regime cit., pp. 254-255. 14 15

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dai sospettati rende necessarie informazioni stragiudiziali. Novità importanti non ce ne sono, se si esclude una tendenza innegabile alla burocratizzazione. La Congregazione dei Vescovi e Regolari, ad esempio, risolve sempre più spesso cause locali in base a semplici comunicazioni o a sommari, senza leggere gli atti integrali, anche quando si tratta dello Stato pontificio. La stessa decisione – che finora non ha trovato riscontro nella penisola – di dare vita a Corneto, nel 1627, a un ‘ergastolo’, dove religiosi delinquenti destinati per la gravità degli addebiti alle triremi scontano il debito contratto con la giustizia lavorando, ma in condizioni più adeguate al proprio status, non sembra aver avuto esiti di particolare rilievo. Ancora, neppure per le terre del papa si incontrano interventi mirati, tesi a stringere i freni su singoli eccessi del clero: l’inasprimento delle pene introdotto nel 1628 da Urbano VIII a carico degli ecclesiastici che nello Stato pontificio falsificavano monete resta per ora un’iniziativa isolata18. Ciò non vuol dire, peraltro, che i vertici romani siano indifferenti all’operato dei giudici penali della Chiesa in Italia. Se è necessario, non rinunciano a richiamarli all’ordine. È meglio, ad esempio, che – esperienze sessuali delle monache escluse – essi evitino eccessi di rigore, anche nei confronti dei laici. Nel 1615 un secco rimprovero raggiunge il vescovo di Ripatransone. Non è piaciuto alla Congregazione che, dopo aver costretto una prostituta a rivelargli i nomi dei clienti, li abbia incarcerati e liberati solo dopo il pagamento di una pesante multa. Inoltre, nei rari casi in cui giudici diocesani mettono sotto processo dei regolari, i cardinali li obbligano a consegnarli ai superiori, con toni accigliati, come se avessero commesso un grave abuso. È quanto succede nel 1623 a Nicotera19. Il ruolo di supplenza riconosciuto ai vescovi dai decreti tridentini rispetto alle autorità degli Ordini colluse con i 18   Per Corneto vedi Fosi, La giustizia cit., pp. 155-157, ma soprattutto il recentissimo contributo di R. Benedetti, Dalla Galera all’ergastolo. Storia del carcere per ecclesiastici criminali, in Fassanelli, «Sul capo dell’Unto» cit., pp. 1569. Riferimenti alla struttura sono anche nel settecentesco trattato del Cuggiò (Della giurisdittione e prerogative del Vicario di Roma. Opera del canonico Nicolò Antonio Cuggiò segretario del tribunale di Sua Eminenza, a cura di D. Rocciolo, Roma 2004, pp. 345-349). 19   Per Ripatransone, vedi ASV, CVR, RE, 51, c. 50v, seduta del 13 marzo 1615; per Nicotera, ASV, CVR, RR, 30, c. 359v, seduta del 24 novembre 1623.

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propri sudditi delinquenti è acqua passata. Per frati e monaci, che restano una mina vagante in Italia anche dopo le soppressioni dei ‘conventini’ nel 1652, la Congregazione dei Vescovi e Regolari si barcamena tra il rinvio ai cardinali protettori dei rispettivi Ordini, nel solco della prassi tardocinquecentesca, e il coinvolgimento dei procuratori generali dei singoli istituti, una delle poche novità introdotte nel corso del Seicento su questo versante20. 4. Queste osservazioni assumono un rilievo ancora più pregnante se si confrontano con le novità che modificarono assetto e competenze dell’Inquisizione romana sin dalla prima metà del secolo e con le conseguenze che ne scaturirono per il clero delinquente. Ci riferiamo soprattutto al calo della tensione repressiva che caratterizza il tribunale a tutti i livelli, all’incirca dal secondo decennio del Seicento. Mostrano segni di stanchezza gli inquisitori generali come quelli locali e si muovono da subito su un registro nettamente burocratico i ‘nuovi’ giudici di fede, i titolari delle Vicarie, uffici decentrati che cominciano a diffondersi alla spicciolata verso la fine del Cinquecento, con il compito di raccogliere le denunce e sbrigare le cause più semplici, sotto lo stretto controllo degli inquisitori dei rispettivi distretti. L’aspetto più appariscente del profilo del Sant’Ufficio in questa fase della sua storia è presto detto: diminuiscono i processi, buona parte delle attività giudiziarie si concentra nella raccolta di denunce, di informazioni senza seguito e sempre più, verso la metà del secolo, di autodenunce indotte dal divieto di assoluzione dei confessori, anch’esse con esiti punitivi di fatto irrilevanti. Se l’Inquisizione aveva investito le sue migliori energie, tra il tardo Cinquecento e il primo decennio del Seicento,

20   ASV, CVR, RR, 21, cc. 296v-297r, decisione del 7 luglio 1618 (il processo per sodomia a un frate celestino è affidato, d’intesa col papa, al Bellarmino, cardinale protettore dell’Ordine), e ivi, 23, c. 199v, 19 aprile 1619 (il procuratore generale dei minori osservanti è scelto come mediatore per risolvere i presunti abusi di un predicatore dell’Ordine). Per le soppressioni vedi gli aggiornati rilievi in Rurale, Monaci cit., pp. 140-142, e la ricca bibliografia; per i cardinali protettori M.C. Giannini, Politica curiale e mondo dei regolari: per una storia dei cardinali protettori nel Seicento, in Religione, conflittualità e cultura. Il clero regolare nell’Europa d’antico regime, «Cheiron», 43-44, 2005, pp. 241-302.

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per ricondurre con la forza i fedeli nell’alveo dell’ortodossia, dopo quella data si accontenta per lo più di avvertimenti simbolici21. Questi sviluppi riguardano anche il clero. A tacer d’altro, l’incrocio tra i due inventari più esaurienti dei fondi locali, quelli relativi ai tribunali di fede di Aquileia e Napoli, dà indicazioni preziose. Una viene dal rapporto con i laici finiti nel mirino dei giudici di fede. Gli ecclesiastici continuano a figurare nei verbali degli inquisitori in misura molto più alta rispetto alla loro consistenza effettiva (circa l’1,5% della popolazione): in relazione al numero complessivo degli inquisiti, essi sono nella prima metà del secolo più del 13% ad Aquileia e più del 24% a Napoli. Ma è ancor più indicativa una seconda circostanza, anch’essa ben documentata in entrambi i tribunali: gli uomini di Chiesa, come tutti i sospettati di delitti contro l’ortodossia, si giovano ampiamente del netto calo dei processi rispetto alle denunce, alle autodenunce e alle inchieste finite con l’archiviazione, sfruttano appieno la stagione della burocratizzazione del Sant’Ufficio. Alla luce di questi sviluppi, il tardo Cinquecento appare ancor più chiaramente come un momento irripetibile, forse unico, nella storia del clero italiano: sottoposto di punto in bianco sia al vaglio dei giudici ordinari della Chiesa, che non erano sempre e comunque pronti a chiudere un occhio sui suoi eccessi, sia, soprattutto, al rischio di finire nei vortici di una giustizia ben poco malleabile come quella del Sant’Ufficio. Già nel primo Seicento, invece, gli orizzonti sembrano molto più favorevoli agli ecclesiastici delinquenti: mentre per i crimini comuni continuano a ricevere un trattamento di riguardo, gli stessi inquisitori sono molto meno rigorosi, al centro come in periferia. Ne sono una riprova anche gli incerti esiti di un’altra importante novità del secolo, il definitivo passaggio di un abuso grave come l’adescamento in confessione tra i delitti contro la fede, con il conseguente inasprimento delle pene per chi ne è ritenuto responsabile. Le contromisure degli interessati e le fortissime resistenze delle donne alla denuncia rendono molto difficile condannarli. Se si riflette infine sulla circostanza che una parte dei confessori italiani collabora un po’ più assiduamente con l’Inquisizione solo nel tardo Seicento, quando

  Vedi Romeo, L’Inquisizione cit., cap. II.

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la tensione repressiva dei giudici di fede si è ancor più attenuata, mentre frequenza e rilievo della pratica sacramentale sono in ulteriore crescita rispetto al tardo Cinquecento, si ha la misura della relativa ininfluenza degli inquisitori sulle attività di un’élite ecclesiastica dotata di poteri sempre più ampi22. 5. Se nel Seicento anche la più autorevole rete giudiziaria della Chiesa influì meno di prima sui disordini più gravi del clero italiano, ci si deve domandare se non furono più incisivi gli interventi di natura pastorale. Anche qui però la situazione appare molto vantaggiosa per gli ecclesiastici delinquenti. Come nei primi decenni postridentini, quando uno strumento importante come la visita non aveva fruttato granché, le difficoltà o l’indifferenza dei controllori diocesani si toccano con mano, mentre le stesse autorità centrali della Chiesa si guardano bene da pressioni in tal senso. Non si incontrano né inviti a dare spazio alle dinamiche repressive all’interno delle visite, né sollecitazioni ad affrontare la questione in modo più lungimirante, in funzione del ravvedimento di preti e chierici delinquenti. Nei richiami ai prelati pigri non si insiste neppure sugli esami personali dei curati, che pure erano stati momenti qualificanti delle ispezioni più rigorose di età tridentina. Al contrario, quando vescovi e Chiese locali agiscono con maggiore determinazione, le autorità romane annullano o annacquano le loro decisioni. Due esempi. Nel 1616 il vescovo di Ruvo aveva emanato un editto che inaspriva le pene contro i chierici dediti a giochi proibiti e chi vi assisteva: per i confessori che li avrebbero assolti erano previste la scomunica e la sospensione a divinis. Fu sufficiente segnalare la novità alla Congregazione dei Vescovi e Regolari perché il prelato si vedesse notificare l’ordine di moderare il provvedimento: quelle punizioni dovevano essere congruamente mitigate. Allo stesso modo, due anni dopo, fu bocciato dalla

22   Le percentuali indicate risultano da Del Col, L’Inquisizione cit., e Romeo, Il fondo cit.; per l’adescamento vedi Id., L’Inquisizione cit., pp. 74-77. Per il ruolo dei confessori, Id., Confessione cit. Rilievi autoreferenziali sulla questione sono invece nella recente premessa alla ristampa di un libro debole come Tribunali della coscienza, Torino 2009, p. 18. Una solida riprova delle difficoltà di contrastare i preti adescatori è venuta dal recentissimo contributo di Fassanelli, «Sul modo», in Id., «Sul capo dell’Unto» cit., pp. 133-188.

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Congregazione il decreto sinodale perugino che inseriva gli abusi sessuali degli ecclesiastici tra i peccati che solo il vescovo può assolvere. Non si poteva togliere all’improvviso al clero una via di fuga comoda come quella delle assoluzioni nel foro della coscienza23. Non sembra neppure, a dire il vero, che da Roma nel corso del Seicento si insista più di tanto sulla lotta agli eccessi del laica­to. Il modello portoghese di visita pastorale non fa breccia nei cardinali che governano la vita religiosa nella penisola. Anche le missioni interne, lo strumento di governo più innovativo ­utilizzato nell’Europa cattolica del Sei-Settecento, trovano piuttosto freddi i cardinali delle due Congregazioni – Concilio e Vescovi e Regolari – che con i colleghi del Sant’Ufficio controllano più da vicino l’Italia. Nessuno a Roma le propone esplicitamente come alternativa efficace al dilagare di faide e violenze, in cui il clero è spesso coinvolto, pur se c’è apprezzamento per i risultati che se ne ricavano. Anche su questo piano, il confronto con il contributo che le missioni interne diedero all’Inquisizione in Portogallo, Spagna e negli spazi coloniali è improponibile24. Ordinariamente, insomma, nel corso del Seicento i vescovi della penisola si muovono con una certa libertà nel trattamento dei crimini comuni degli ecclesiastici. Non è semplice per ora stabilire che cosa significhi, in relazione alle strategie della Curia romana, la 23   ASV, CVR, RE, 52 (c. 53v, seduta del 5 febbraio, per Ruvo) e 56 (c. 95v, seduta del 13 marzo, per Perugia). Sulla paralisi dei sinodi per tutto il secolo vedi: D. Menozzi, Prospettive sinodali nel Settecento, in «Cristianesimo e storia», 8, 1987, pp. 116-117; P. Caiazza, La prassi sinodale nel Seicento: un “buco nero”?, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 51, 1997, pp. 61-109. 24   Sui rapporti tra missionari e inquisitori in Italia vedi le osservazioni suggestive, ma fragili, di Prosperi, Tribunali cit., pp. 568-586 (si tratta di rilievi avanzati senza ricerche approfondite sulle fonti inquisitoriali). Per la questione al di fuori d’Italia vedi F. Palomo, Missioni, s.v., in DSI, 2, pp. 1049-1052. Nei rendiconti al papa l’attenzione dell’episcopato italiano del Seicento per uno strumento pastorale così poliedrico è nettamente inferiore alle attese (sembrano un’eccezione i riferimenti che si incontrano continuamente nelle relazioni fiorentine dal 1628 in avanti: vedi ASV, RD, 337/A, cc. 87v, 141v, 153v e così via). L’assenza di inviti della Congregazione del Concilio ai vescovi a servirsi dei missionari si ricava da ASV, LLV, voll. 2-19, anni 1600-1699, anche se le note di consenso (‘laudandus’ e simili) apposte accanto ai brani delle relazioni che ne danno conto testimoniano il favore con cui i cardinali guardano – soprattutto negli anni Ottanta – alle loro ‘scorrerie’. Lo stesso discorso vale per i colleghi della Congregazione dei Vescovi e Regolari.

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maggiore autonomia di cui godono, su questo piano, dopo le pesanti mortificazioni subite in età tridentina. Potrebbe essere il frutto di precise aperture di credito verso i presuli più affidabili, ma non è escluso che derivasse da un crescente fastidio per le beghe locali. Il ricorso meno frequente alla nomina di visitatori e vicari apostolici farebbe pensare alla prima ipotesi. Tuttavia, la facilità con cui nel corso del Seicento si concedono proroghe ai vescovi italiani restii a presentarsi ogni tre anni al cospetto del papa e la casualità con cui ogni tanto si scoprono resistenze diffuse all’applicazione di decreti cui la Congregazione tiene molto – si pensi all’obbligo per i vescovi di nominare ecclesiastici forestieri alla carica di vicario generale – invitano a tenere nel debito conto anche le disfunzioni centrali25. 6. Rilievi solo in parte diversi si possono avanzare anche per la cosiddetta svolta innocenziana, la stagione di rinnovamento che caratterizza il pontificato di Innocenzo XI (1676-1689). Certo, l’amarezza di papa Odescalchi per la decadenza in cui versano molte Chiese locali traspare anche nelle decisioni della Congregazione dei Vescovi e Regolari. Rispetto ai decenni centrali del secolo si avverte in esse un’attenzione più viva per la criminalità del clero, che può far pensare al clima postridentino. Si richiedono più spesso ai giudici locali copie di atti, integrali o in sommario, si commentano con severità scelte discutibili o abusi d’ufficio, si interviene talvolta duramente26. Nel 1683, ad esempio, è il papa in persona a preten-

25   Sia il ricorso diffuso alle richieste di proroga, sia il fastidio crescente dei vescovi italiani – anche di quelli più vicini a Roma – per le visite al papa sono ben documentati nelle 42 diocesi prese in esame. Che redigere i rapporti e presentarli di persona ad limina Petri resti un’attività ben poco amata dai loro responsabili lo dimostrano anche i preziosi dati raccolti da Gigliola Fragnito (che ringraziamo per averceli trasmessi) nel 1967-68, in funzione della realizzazione dell’Atlante storico italiano dell’età moderna. Nel corso del Seicento il numero delle relazioni, in un’ampia area del territorio italiano (70 diocesi del Regno di Napoli e 8 dello Stato pontificio) è mediamente di 21 sulle 33 che a rigore avrebbero dovuto essere redatte. Per i vicari generali vedi ASV, CVR, RE, 59, c. 70v (ordine del 7 febbraio 1620 al vescovo di Pavia) 99, c. 109v (21 novembre 1653, Nicotera), e 118, c. 189r (17 novembre 1673, Alessandria). 26   Per la svolta innocenziana vedi almeno: C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760), in Storia d’Italia, Annali 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino 1986, pp. 719-766; Id., Vescovi e diocesi d’Italia dall’età

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dere che si dia una lezione al vicario capitolare di Spoleto. I suoi cedimenti alle ‘private passioni’, la disobbedienza alla Santa Sede e la reticenza su gravi eccessi di dignitari ecclesiastici locali resero opportuno l’avvio di un’indagine, affidata un po’ provocatoriamente al governatore di Spoleto, con l’obbligo di trasmettere gli atti a Roma. Un’identica premura era stata mostrata l’anno prima dal papa di fronte ai disordini degli agostiniani di Napoli27. Se questo è vero, se a Roma si reagisce ora con severità agli abusi più gravi, è altrettanto certo che non sono affiorati progetti di riforma incisivi, capaci di imprimere una svolta al governo dei delitti degli ecclesiastici. Non sembra, ad esempio, che l’attivismo di un giurista poliedrico e influente come Giovan Battista De Luca abbia lasciato tracce su questo versante28. Anche sotto Innocenzo XI sono i ricorsi di parte ad alimentare di solito gli interventi della Congregazione dei Vescovi e Regolari, mentre i rilievi mossi dalla Congregazione del Concilio alle relazioni triennali dei vescovi continuano ad ignorarne i silenzi sul nodo del clero delinquente. La revisione della Immensa Aeterni Dei approvata nel 1693 da Innocenzo XII resta per ora il solo limitato correttivo apportato alle procedure in vigore dal tardo Cinquecento. Il confronto con

postridentina alla caduta dell’Antico regime, in Rosa, Clero e società cit., pp. 321389. Sugli ostacoli che ne rallentarono lo slancio riformatore (oltre a A. Menniti Ippolito, Innocenzo XI, beato, s.v., in Enciclopedia dei papi, III, Roma 2000, pp. 368-389, e a G. Signorotto, Lo Squadrone volante. I cardinali ‘liberi’ e la politica europea nella seconda metà del XVII secolo, in La Corte di Roma tra Cinque e Seicento «Teatro» della politica europea, a cura di G. Signorotto e M.A. Visceglia, Roma 1998, pp. 93-138), vedi i più recenti rilievi dello stesso Menniti Ippolito, 1664. Un anno della Chiesa universale. Saggio sull’attività italiana del papato in età moderna, Roma 2011, pp. 34-42. Per l’attenzione con cui nel suo pontificato si guarda anche agli abusi dei prelati, vedi ASV, CVR, RE, 128, cc. 91v-92r: sono le decisioni del 28 maggio 1683 sullo stupro di una monaca addebitato al vescovo di Gerace. 27   Il caso di Spoleto è in ASV, CVR, RE, 128, 177v-178v, 22-24 settembre. L’intervento napoletano, altrettanto pesante, è ivi, RR, 90, 22 gennaio. 28   Sul pensiero di De Luca vedi A. Mazzacane, Diritto comune e diritti territoriali: il riformismo di G.B. De Luca, in Giustizia, potere e corpo sociale nella prima età moderna: argomenti nella letteratura giuridico-politica, a cura di A. De Benedictis e I. Mattozzi, Bologna 1994, pp. 73-77. Per la sua figura vedi almeno Mazzacane, s.v., in DBI, 38, 1990, pp. 340-347, e A. Lauro, Il cardinal Giovan Battista De Luca. Diritto e riforme nello Stato della Chiesa (1676-1683), Napoli 1991. Sulla sconfitta dei suoi progetti di riforma vedi Tabacchi, Le riforme cit., pp. 157-164.

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il funzionamento e le strategie della Congregazione dell’Immunità è indicativo. Proprio nella seconda metà del Seicento il suo attivismo registra un’impennata. Una sequenza impressionante di interventi intercetta, anche nei più sperduti villaggi della penisola, abusi di giurisdizione di ogni tipo, ma soprattutto quelli legati alla protezione che la Chiesa assicura nei luoghi sacri a tutti, anche ai più pericolosi delinquenti, in funzione degli interventi romani. Il pontificato di Innocenzo XI appare anzi come una fase tra le più concitate nella storia del nuovo dicastero, soprattutto per il diritto d’asilo. Le aspre reazioni di giudici, capitani e forze dell’ordine agli abusi delle immunità locali si traducono in un netto aumento delle ‘estrazioni’ (catture), cui fa seguito, per gli ufficiali responsabili, la lunga trafila delle scomuniche e delle assoluzioni29. Superfluo aggiungere che c’è una sproporzione lampante tra il rilievo enorme di queste tensioni e il modesto interesse che le autorità ecclesiastiche continuano a riservare alla lotta ai delitti del clero. La Chiesa si mobilita ai più alti livelli per interferire a proprio piacimento, attraverso la difesa sistematica dei rifugiati, in attività tra le più delicate della giustizia statale, ma dedica ben poca attenzione ai suoi tribunali penali. È importante che essi difendano ‘virilmente’ la giurisdizione ecclesiastica, non che una parte consistente del clero continui a delinquere, sostanzialmente indisturbata. Di queste dinamiche le serie locali offrono testimonianze imponenti per tutto il secolo e oltre. 7. Importanti elementi di riflessione vengono dagli inventari sette-ottocenteschi dei fondi criminali vescovili. Al calo di tensione caratteristico degli interventi centrali non corrisponde una diminuzione dei procedimenti penali locali contro il clero. Tutt’altro. Nel Sud, ad esempio, nel corso del Seicento l’azione dei tribunali diocesani non conosce soste e tende anzi ad infittirsi. Inoltre, se è vero che dal secondo decennio del Settecento comincia il loro declino, si tratta di una flessione lenta, graduale. Il crollo definitivo matura più tardi, non prima degli anni Settanta-Ottanta30. Infine, 29   I dati più preziosi sono per ora quelli ricavabili dai 7 tomi dell’Indice 1182 cit. 30   Per Telese fa testo l’inventario citato. Per il foro arcivescovile di Napoli si conserva in ASDN, relativamente al Sei-Settecento, oltre a un fondo

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dovunque, nel territorio dell’Italia attuale, siano disponibili indicazioni anche sommarie sull’operato del foro criminale vescovile, da Milano a Siena, da Genova a Pisa, da Brescia a Montefiascone, da Pienza a Napoli, da Trento a Pistoia, da Torino a Firenze, nel Seicento, esse ne attestano il regolare funzionamento31. La sola eccezione riguarda per ora il tribunale patriarcale di Venezia: le sue attività penali, dopo la forte crisi successiva all’interdetto, mostrano ritmi altalenanti fino a metà Seicento, imboccano la china di un calo inarrestabile negli anni Settanta e si riducono al lumicino già nei primi decenni del Settecento. Sequenze pressoché identiche sono documentate anche nel foro criminale del nunzio, ma non è detto che vi si rispecchi una flessione nell’operato dei tribunali diocesani della Repubblica: potrebbe essersi attenuata solo la severità delle condanne di priricco, ma frammentario, un importante Regestum criminale, che peraltro non dà conto di tutti i procedimenti, se è vero che una parte non esigua delle carte recuperate non vi è annotata. Riguarda invece il cinquantennio tra il 1657 e il 1709 un dettagliato elenco di processi relativo al tribunale diocesano di Bitonto (in Archivio vescovile di Bitonto, Fondo Curia, Acta criminalia, anch’esso non esaustivo, come si vede dal riscontro con l’inventario moderno del fondo. Dobbiamo alla gentilezza dell’amico prof. Stefano Milillo, direttore dell’Archivio, la segnalazione e la riproduzione del ms.). Tra l’altro, nella cittadina pugliese c’era la consuetudine di asportare i processi dall’archivio nei periodi di sede vacante. Essa fu stigmatizzata nel sinodo del 1682: vedi Constitutiones sinodales bituntinae..., Romae, typis Christophori Dragondelli, 1682, titolo XVI, p. 309 (anche di questa segnalazione siamo debitori a Stefano Milillo). Vanno nella stessa direzione i dati relativi a Capaccio (per il nucleo documentario conservato nell’Archivio diocesano di Vallo della Lucania), Conversano (nel sito web della diocesi), Sarno (da G. Mazza, Streghe, guaritori, istigatori. Casi di Inquisizione diocesana in età moderna, Roma 2009, oltre che dai regesti che la stessa studiosa ci ha gentilmente trasmesso, purtroppo incompleti, visto che le autorità diocesane locali hanno ritirato dalla consultazione le carte criminali) e a Capua (sondaggi nell’Archivio arcivescovile). 31   Per Firenze, Milano, Pisa, Trento le indicazioni si ricavano dagli inventari moderni messi gentilmente a nostra disposizione dalle Direzioni dei rispettivi archivi diocesani; per Genova e Torino, da cortesi comunicazioni dei direttori, don Paolo Fontana e don Giovanni Sacchetti; per l’Archivio storico diocesano di Brescia, dall’inventario Masetti Zannini; per Montefiascone, dai dati inseriti nel sito web dell’Archivio diocesano; per Pienza, da L’Archivio diocesano di Pienza. Inventario della Sezione storica, a cura di G. Chironi, Siena 2000, pp. 137-138; per Siena, da L’Archivio arcivescovile di Siena, a cura di G. Catoni e S. Fineschi, Roma 1970, pp. 317-320, oltre che dalle ricche indicazioni di Di Simplicio, Peccato, penitenza, perdono cit., passim; per Pistoia vedi p. 69, nota 1.

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mo grado, con un conseguente calo degli appelli. Le informazioni sommarie relative a quelli di Crema, Brescia e Aquileia fanno pensare a una sostanziale continuità, nel Sei-Settecento, nelle loro attività ordinarie. Per il patriarcato di Venezia, però, non c’è alcun dubbio. Il confronto con i fondi vescovili italiani meglio documentati dà tra il 1690 e il 1758 esiti inequivocabili. In laguna, nella seconda città d’Italia, i giudici del patriarcato istruiscono tra il 1690 e il 1699 appena 30 procedimenti penali (nello stesso decennio sono, rispettivamente, almeno 1500 a Napoli, 277 a Bitonto e 237 a Telese) e altri 186 tra il 1700 e il 1758 (non meno di 3582 a Napoli, 1003 a Telese, almeno 444 a Bitonto). Indicazioni altrettanto, se non più perentorie, si ricavano dai conflitti di giurisdizione passati al vaglio della Congregazione dell’Immunità tra il 1623 e il 1722. Spicca in primo luogo il volume bassissimo degli incidenti capitati in tutto il territorio della Repubblica veneta: ovunque, dalla laguna a Bergamo, da Feltre ad Aquileia, da Verona alla Dalmazia, il peso di questi scontri è irrilevante, rispetto ai ritmi della penisola, che appaiono in netta crescita, in particolare nel Regno di Napoli e nello Stato pontificio. Solo nel Trentino e nella Svizzera italiana persiste una situazione paragonabile a quella veneta, se non più rigorosa, in linea con gli assetti postridentini. Nel resto d’Italia, invece, la tendenza alla rottura degli equilibri tra Stato e Chiesa è inarrestabile, a cominciare dal Sud e dalle terre del papa. I conflitti di giurisdizione nelle città vescovili, ad esempio, sono in crescita sia in centri piccoli come Acerra, Alatri e Ventimiglia, sia in sedi di media grandezza, sia nelle più grandi città, da Milano a Palermo, da Torino a Firenze, da Genova a Napoli. L’enorme dislivello tra Venezia (138.000 abitanti) e Napoli (circa 220.000) è emblematico: 59 scontri in laguna, 3153 all’ombra del Vesuvio32. L’altra indicazione secca che 32   Ecco gli esiti di alcuni confronti. Mentre da Acerra (1800-6000 abitanti) finirono a Roma nel Sei-Settecento 51 ‘pratiche’, da Alatri (4500-8000) 290 e da Ventimiglia (circa 2300) 51, da Bergamo (13.000-22.000) ne arrivarono 5 e da Verona (36.000-40.000) 17. A Milano (109.000) sono attestati 509 incidenti, a Torino (61.000) 229, a Genova (64.000) 407, a Firenze (72.000) 284, a Palermo (110.000) 268. Non sono da meno Roma e Bologna, le due maggiori città dello Stato pontificio, con 621 scontri nella prima (140.000) e 507 nella seconda (63.000). I dati relativi ai conflitti sono nei 7 tomi dell’Indice 1182 cit., sotto i nomi delle rispettive città. Per Ventimiglia le indicazioni demografiche

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viene da questi documenti è di tipo cronologico: in ogni angolo d’Italia, e nella stessa area veneta, indipendentemente dalla situazione pregressa, gli scontri aumentano piuttosto tardi, tra Sei e Settecento, come se un’unica regia li inasprisse ovunque, anche dove si erano raggiunti equilibri accettabili. Restano in ogni caso da spiegare l’atipico e drastico calo di attività del tribunale penale patriarcale di Venezia e il modestissimo rilievo dei conflitti di giurisdizione tra Stato e Chiesa in tutta la Repubblica, nel tardo Seicento. In mancanza di ricerche sistematiche, per ora si può solo ipotizzare che nella città lagunare la forza dello Stato abbia influito più che altrove, grazie a una lunga tradizione di intransigenza, rafforzata dall’eredità sarpiana, e abbia tolto spazi di manovra alle autorità diocesane, anche a quelle più sensibili alla svolta innocenziana. Le tensioni ricorrenti su questioni cruciali come la nomina dei vescovi, il ruolo incisivo dei consultori in iure e l’attacco alla gestione esclusivamente ecclesiastica di un meccanismo inquisitoriale importante come quello che ruotava attorno al privilegio della spontanea comparizione (con l’impunità garantita a chi denunciava se stesso e i complici) furono nei decenni centrali del Seicento la spia della persistenza ai vertici della Repubblica di una linea di rigore, ben poco conciliante verso i privilegi della Chiesa33. provengono da ASV, RD, 861/A, c. 88r, relazione del 1658; per gli altri centri, dal database Italian Urban Population 1300-1861, curato da P. Malanima e disponibile on line all’indirizzo http://www.paolomalanima.it, e dall’Appendice II in Id., L’economia italiana. Dalla crescita medievale alla crescita contemporanea, Bologna 2002. Per Acerra e Alatri l’ampio intervallo indicato si spiega con lo scarto tra le indicazioni del database segnalato e quelle contenute nelle relazioni triennali di due vescovi (quella del 1686 per Acerra, in ASV, RD, 4/A, c. 154r; quella del 1637 per Alatri, ivi, 19/A, c. 64v). 33   Per gli scontri di questi anni, vedi: A. Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo XVII. I vescovi veneti fra Roma e Venezia, Bologna 1993, pp. 183-226; Id., «Sudditi di un altro Stato»? Gli ecclesiastici veneziani, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, VII, La Venezia barocca, a cura di G. Benzoni e G. Cozzi, Roma 1997, pp. 325-365. Per i consultori in iure: A. Barzazi, I consultori «in iure», in Storia della cultura veneta, V, 2, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 179-199; C. Povolo, Giovan Maria Bertolli, l’ascesa di un giurista nella Venezia della seconda metà del Seicento, in 300 anni di Bertoliana. Dal passato un progetto per il futuro, I, Vicenza 2008, pp. 19-51. Per lo scontro sulle spontanee comparizioni, G. Trebbi, Il processo stracciato. Interventi veneziani di metà Seicento in materia di confessione e Sant’Ufficio, in «Atti dell’Istituto

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Di fronte a una presenza statale così ingombrante non fu semplice per le autorità ecclesiastiche locali elaborare contromisure. Anche alcuni aspetti dell’azione dei più zelanti vescovi veneti potrebbero essere indicativi. Il lungo episcopato del patriarca Morosini (1644-1678) documenta quanto fosse faticoso per un prelato riformatore governare in modo incisivo la Chiesa veneziana. Non manca nelle sue visite, come in quelle dei due successori, l’attenzione ai disordini del clero, ma sono evidenti sia l’interesse spiccato per le inadempienze legate al ministero, sia l’incapacità di rispondere in modo adeguato alle infrazioni riscontrate. Né andò meglio a Padova al Barbarigo, con canonici della cattedrale abilissimi nel muoversi tra il foro del metropolita e le istituzioni della Repubblica. Finì male per lui, con ogni probabilità, anche lo scontro che lo oppose nel 1670 a un patriarca di Aquileia influente come il cardinale Giovanni Dolfin. Le dotte argomentazioni con cui quest’ultimo, di fronte alla Congregazione del Concilio, difese il suo diritto di intervenire a proprio piacimento, in quanto metropolita, sulle sentenze padovane di primo grado, sono lo specchio consueto di una Chiesa che, anche nel difficile contesto della Repubblica di S. Marco, era capace di dividersi su nodi cruciali, anziché fare fronte comune contro lo Stato34. Maturarono in questo orizzonte gli sporadici controlli sui costumi del clero avviati in territorio veneto nel Seicento, nel corso di visite pastorali e ispezioni interne agli Ordini religiosi. Si trattava di un percorso protetto, che forniva forse ai prelati più sensibili alle esigenze di riforma l’occasione propizia per puntare in modo discreto sul recupero delle pecorelle smarrite. Ma anche su questo

Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti», 161, 2002/3, pp. 115-238. 34   Per il Morosini (patriarca di Venezia tra il 1644 e il 1678) vedi da ultimo A. Barzazi, s.v., in DBI, 77, Roma 2012, pp. 132-135; alla gentilezza della stessa Barzazi dobbiamo molte, preziose schede relative alle visite pastorali sue e dei due successori, Alvise Sagredo (1678-88) e Giovanni Alberto Badoer (1688-1706). Per il Barbarigo fanno testo i due importanti volumi di lettere recentemente pubblicati (Padova 2011), con le rispettive, ricchissime introduzioni: C. Magni, Governare la diocesi nei conflitti. Lettere di Gregorio Barbarigo ai familiari (1671-1676); P. Giovannucci, Il decennio finale dell’episcopato padovano. Lettere di Gregorio Barbarigo ai familiari (1688-1697). Il conflitto col Dolfin è in ASV, RD, 66, cc. 163r-169v e 171r-172r.

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terreno il trauma dell’interdetto potrebbe aver pesato, almeno per qualche tempo. Nella relazione triennale presentata a Roma nel 1610 il vescovo di Veglia lamentò che i laici invitati dai visitatori a deporre sulla vita e sulla professionalità degli ecclesiastici si rifiutavano di farlo. Alla renitenza tradizionale, dovuta agli stretti rapporti che li legavano alle rispettive comunità, si era aggiunto un divieto preciso delle autorità veneziane, che anche in cause civili di indiscussa pertinenza della Chiesa pretendevano che i vescovi si munissero di apposita autorizzazione per poterli interrogare35. È difficile però stabilire quanto pesasse, non solo nel Veneto, l’intransigenza statale e quanto la fatica di riformare la Chiesa. Non è escluso, ad esempio, che i vescovi del Nord fossero un po’ più sensibili al rigorismo borromaico di quelli dello Stato pontificio e del Regno di Napoli, anche per la presenza di autorità statali più intransigenti. È l’ipotesi, recentemente avanzata, di un’Italia settentrionale del tardo Seicento insieme più statalista e più ‘tridentina’, che ricorre poco alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, a differenza di un Centro-Sud in cui i laici riversano su Roma migliaia di ricorsi contro Chiese locali in affanno. Ma è dubbio che questo schema si possa applicare all’andamento del governo della criminalità ecclesiastica, sia nello Stato veneto, sia nel resto d’Italia36. Gli sviluppi della lotta agli eccessi del clero nel corso del Seicento, osservati sul territorio di tutta la penisola, mal si adattano a distinzioni così nette. Neppure per il Centro-Nord si può essere certi che per le Curie vescovili la situazione, a tutti i livelli, fosse in qualche modo confrontabile con quella veneta e si distaccasse nettamente dal disordine più spiccato del Centro-Sud. Un esempio. La rarità dei riferimenti ai delitti del clero nelle relazioni al papa e lo scarso rilievo dato al ruolo giudiziario dei vicari foranei sono dati evidenti ovunque, anche dove i giudici criminali diocesani lavorarono a pieno regime per tutto il secolo37. 35   Per l’uso delle visite in funzione repressiva, esempi in ASV, NV II, 375 (da un’ispezione dei visitatori dell’Ordine dei Minimi nascono nel 1626 i guai giudiziari di fra Egidio Regazzola), 374 (la decisione di processare don Giacomo Speraindeo scaturisce nel 1621 da una visita pastorale). La lamentela del vescovo di Veglia è in ASV, RD, 857, c. 16r. 36   La valutazione richiamata nel testo è in Menniti Ippolito, 1664 cit., pp. 181-196. 37   Esempi di relazioni per lo più ‘silenziose’ sul foro criminale in ASV, RD,

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La sola netta frattura territoriale che si coglie con certezza nell’Italia del Sei-Settecento riguarda il dilagare dei chierici selvaggi nel Sud, dove continuano a fare il bello e il cattivo tempo, soprattutto nelle piccole diocesi, forti delle connivenze di troppi vescovi38. Sembrano inoltre in netto aumento in tutto il Viceregno anche le ‘patenti’ rilasciate dai nunzi apostolici e dai commissari della Fabbrica di S. Pietro ad agenti, ufficiali e subcollettori, che si garantiscono così gli stessi privilegi del clero. Al contrario, a Venezia, Milano, Brescia e Trento gli aspiranti sacerdoti indagati o processati sono nel Sei-Settecento una netta minoranza rispetto agli ordinati, mentre, soprattutto nello Stato pontificio, dinamiche non diverse da quelle meridionali si registrano nella proliferazione dei collaboratori laici degli inquisitori (i cosiddetti familiari). Tuttavia, se i cardinali del Sant’Ufficio intervennero con severità a più riprese, e forse con qualche risultato, sugli eccessi di questi ultimi, la presenza dei chierici selvaggi e degli agenti della nunziatura e di altre istituzioni romane, pur segnalata spesso dai vescovi e formalmente stigmatizzata dalle Congregazioni del Concilio e dei Vescovi e Regolari, fu fonte di continue tensioni39. Invano protestarono per tutto il secolo i viceré, sdegnati per l’impunità assicurata ai loro gravi delitti, e le comunità locali, strangolate dalle esenzioni fiscali di cui continuarono a godere. Il disordi415/A (Genova), 642/A (Pisa) e 787/A (Torino); l’unico riferimento importante a un ruolo giudiziario circoscritto, ma autonomo, dei vicari foranei (e addirittura dei ‘priori delle Classi’, cioè di parroci influenti dotati di una qualche giurisdizione), riguarda la Lucca del cardinale Buonvisi: vedi ASV, RD, 462/A, cc. 76v (relazione del 1661) e 84v (relazione del 1667). 38   Per i chierici selvaggi al Sud, vedi: M. Rosa, Clero cattolico e società europea nell’età moderna, Roma-Bari 2006, pp. 72-75; Menniti Ippolito, 1664 cit., pp. 100-103. Una solida presentazione della Chiesa nel Regno in età moderna è in M. Rosa, La Chiesa meridionale nell’età della Controriforma, in Chittolini, Miccoli, Storia d’Italia cit., pp. 291-345. 39   Per i ‘familiari’ in Italia vedi E. Brambilla, s.v., in DSI, 2, pp. 575-576. Per la Congregazione del Concilio, vedi Miele, Relazioni cit., p. 177 (risposta data nel 1640 all’arcivescovo Boncompagni); per quella dei Vescovi e Regolari, vedi ASV, CVR, RE, 42, c. 99r, 6 agosto 1608 (si fa presente al nunzio di Napoli, nell’interesse del vescovo di Acerra, che non è possibile che su 11 preti della piccola diocesi due siano suoi agenti). Per un’altra variante dello stesso problema vedi anche Menniti Ippolito, 1664 cit., pp. 159-160 (il vescovo di Aquino lamenta nel 1662 che il suo impegno per vietare l’uso delle armi agli ecclesiastici diocesani è vanificato dai permessi rilasciati loro dai subcollettori del nunzio).

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ne delle vite dei chierici selvaggi potrebbe aver inciso a lungo anche sulla particolare pesantezza degli abusi che una parte non esigua di tutto il clero meridionale continua a perpetrare per tutta l’età moderna. L’esplorazione sistematica di un intero anno di lavoro della Congregazione dei Vescovi e Regolari, il 1664, è un ottimo esempio delle tante contraddizioni che affliggono le Chiese del Sud40. Il confronto tra i processi per omicidio intentati contro ecclesiastici nelle diocesi meridionali e a Venezia, Trento e Brescia nel Sei-Settecento è istruttivo. Mentre nel Meridione – da Napoli (almeno 130 casi tra il 1615 e il 1778, con picchi nel tardo Seicento e medie che si abbassano solo nel quarto decennio del Settecento) a Telese, da Bitonto a Conversano – gli uomini di Chiesa continua­no a uccidere con una notevole frequenza, i tassi attestati nel Nord sono decisamente inferiori: 3 casi a Venezia, nessuno a Brescia e 6 a Trento. Inoltre, a Telese, dove si può ricostruire anche il rapporto tra omicidi perpetrati e subiti dagli esponenti del clero, gli ecclesiastici assassini sono costantemente più numerosi di quelli ammazzati41. 8. Questi rilievi territoriali non possono però essere sopravvalutati. Se si tiene presente l’orizzonte complessivo della penisola, nell’azione di contrasto alla criminalità degli uomini di Chiesa i tratti comuni sono decisamente più importanti delle differenze. Una prima conferma viene dai rendiconti triennali dei vescovi italiani del Seicento al papa. Rispetto ai silenzi tradizionali sulle attività dei giudici penali delle rispettive Curie e alle isolate lamentele per l’indisciplina e la spregiudicatezza del clero, la sola novità in questi documenti è un’accresciuta attenzione per i conflitti di giurisdizione, in qualsiasi ambito si manifestino. Il confronto tra le relazioni napoletane e catanesi di età moderna e quelle riguardanti altre 42 diocesi italiane, dal Trentino alla Sicilia, ne è un ottimo esempio42. Se poi, al di là del nodo dei chierici selvaggi, si osservano da vicino procedure ed esiti dell’azione repressiva esercitata dalle

  Ci riferiamo ovviamente a Menniti Ippolito, 1664 cit., pp. 87-152.   I dati veneziani sono in Scomparin, ad annum, quelli trentini e bresciani negli inventari segnalati qui nella nota 31, quelli meridionali nella nota 30. 42   Il riferimento è ai rendiconti segnalati nella nota 6 del cap. III. Per Napoli e Catania il rimando è rispettivamente a Miele, Le Relazioni cit., pp. 99-270, e a Longhitano, Le relazioni «ad limina» cit., pp. 84-402. 40 41

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autorità ecclesiastiche italiane nei confronti del clero, la stessa situazione veneziana, anche negli anni del precoce declino del foro patriarcale, appare agevolmente confrontabile con le linee di intervento che prevalgono altrove: dalle sentenze delle nunziature, proclivi, non solo a Venezia, a moderare le punizioni più severe dei giudici di primo grado, alla incapacità dei tribunali diocesani di tenere a bada il clero regolare; dalla conferma sistematica, nei rispettivi incarichi, degli ecclesiastici condannati, alla persistente varietà delle tipologie delittuose, ben più ampia delle debolezze della carne. I risultati, s’intende, erano quelli di sempre. Nell’atipica relazione triennale presentata nel 1693 al papa dall’arcivescovo di Palermo, un documento che egli stesso definiva ‘molesto’ e quasi delirante, proprio alla gravità dei delitti degli ecclesiastici, secolari e regolari, e alla loro impunità, era collegato l’aumento dei casi di assassinio di preti e chierici. Se le vittime dei loro eccessi non avevano difese sul piano legale, si facevano giustizia da sé43. Le cose vanno così ovunque. Anche altrove in Italia il fitto reticolo di procedimenti istruiti a carico del clero delinquente si esaurisce di solito in tirate d’orecchie che lasciano il tempo che trovano. Solo omicidi, falsificazioni di atti e pesanti abusi sessuali (soprattutto deflorazione e pedofilia) richiedono abitualmente, ma non sempre, accertamenti più accurati, o perché le vittime premono, o per evitare conflitti di giurisdizione. In ogni caso, però, rispetto ai laici, a parità di trasgressioni, gli ecclesiastici continuano a ricevere un trattamento di riguardo. La linea vincente è quella che traspare dallo studio sistematico degli oltre 1300 procedimenti napoletani del Seicento finora recuperati: la soluzione ideale per i delitti del clero è quella delle composizioni bonarie, precedute, quando occorre, dalla remissione di querela44. Ovun-

43   ASV, RD, 617/A, cc. n.n., relazione del 2 marzo 1693 di Ferdinando Bazán y Manriquez. 44   Vedi, per la Repubblica di Venezia, i dati di Scomparin, quelli di ASV, NV II (fonti segnalate qui nella nota 3, per le sentenze) e di Roselli, Archivio cit., pp. 166-301, per i processi del Seicento; per Napoli, le indicazioni che si ricavano dall’incrocio tra il Regestum criminale e i 1342 fascicoli recuperati tra il 1600 e il 1699; per gli altri tribunali diocesani, i fondi citati nella nota 30 del presente capitolo. Una riprova della tendenza dei giudici ecclesiastici italiani a mediare è venuta recentemente per il foro penale arcivescovile di Genova da un ricco contributo dedicato a Moneglia nel Sei-Settecento, quello di P. Fontana, «Gente

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que, inoltre, sembrano poco efficaci le rare utilizzazioni delle visite pastorali come strumento di controllo del clero. Si spiega forse con la diffusa consapevolezza della loro inutilità – sotto questo profilo – il fatto che finora, al di fuori della Repubblica di Venezia, non ne restano tracce consistenti45. Semmai le verifiche cominciano a farsi più accurate sul piano ‘professionale’, spia della sensibilità nuova che dal tardo Seicento in avanti accompagna l’organizzazione/riorganizzazione di una rete di seminari46. Persiste però la continuità con il tardo Cinquecento: promuovere controlli territoriali incisivi, del clero come dei fedeli, è un’impresa. Se si stringono i freni, le reazioni sono secche e violente. Anche fonti di solito reticenti come le relazioni al papa sono talvolta rivelatrici. A Enna, allora nella diocesi di Catania, nel 1627, di fronte a un rarissimo caso di visitatori/giudici itineranti, impegnati nella repressione dell’usura e del concubinato, una folla inferocita mise a fuoco il palazzo che ospitava il vescovo e liberò le persone imprigionate su ordine delle autorità ecclesiastiche; a S. Maria Maggiore (oggi S. Maria Capua Vetere), il più grande centro della diocesi di Capua, fu molto difficile per l’arcivescovo, nel 1661, costringere i fedeli di entrambi i sessi a non passare, come sempre, la notte del primo agosto nella basilica omonima, deturpandola con le loro evacuazioni corporali, convinti com’erano che solo così avrebbero potuto acquisire un’indulgenza47. Non erano da meno gli ecclesiastici. Colpisce ad esempio il quadro a tinte fosche di Telese, immutato per tutto il Seicento, a cominciare dalla relazione presentata nell’autunno del 1611 a nome del vescovo, tanto inurbana e temeraria». L’occhio del tribunale diocesano genovese su Moneglia, in L’Oratorio dei Disciplinanti di Moneglia. Testimonianze di fede e di arte nella storia di una comunità, atti del Convegno, Moneglia 10-11 ottobre 2008, a cura di G. Algeri e V. Polonio, Chiavari 2012, pp. 119-142, in part. pp. 138-139. 45   Editti e formulari per i visitatori non mancano (un esempio senese del 1663 è in Di Simplicio, Peccato, penitenza, perdono cit., p. 130), ma gli incroci con l’azione repressiva sono inusuali e fortemente stigmatizzati, sia dai laici, sia dagli ecclesiastici (vedi di seguito). 46   Il dato complessivo si ricava soprattutto dalle relazioni ad limina studiate e dalle risposte romane (ASV, RD e LLV), oltre che dalle visite seicentesche di Napoli, Bitonto e Capaccio (in ASDN, ASDB e ADV); per Bitonto siamo debitori dell’indicazione a Stefano Milillo. 47   Per Enna vedi Longhitano, Le relazioni «ad limina» cit., pp. 123-125 e 129-130; per S. Maria Maggiore ASV, RD, 184/A, c. 140r.

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il colto torinese Giovanni Francesco Leone, che poco più di un anno dopo sarebbe morto avvelenato per mano di un arciprete. Non poteva venire a Roma, scrisse, perché l’ostilità del feudatario e del clero non gli lasciava nemmeno il tempo di respirare. Altro che lotta agli abusi e alternativa tra visite pastorali o processi... Lì da tempo, quando i vescovi morivano o erano trasferiti, i canonici della cattedrale erano costretti ad eleggere il reggente della diocesi (nel linguaggio canonistico, il vicario capitolare sede vacante) con gli schioppi puntati addosso: li imbracciavano il ‘candidato’ e gli ecclesiastici che lo fiancheggiavano. Inoltre, quando aveva privato l’ultimo dei canonici delinquenti dell’ufficio che ricopriva, aveva dovuto assistere impotente alla sua nomina a commissario della Fabbrica di S. Pietro. Chiedeva perciò consiglio al papa, tra la rassegnazione e l’imbarazzo, consapevole della inopportunità della richiesta, che infatti non ebbe risposta. Non andò meglio ai suoi quattro successori48. Non c’è confronto, certo, con la situazione della capitale del Viceregno, dove i poteri della Curia arcivescovile sono con tutta evidenza molto più solidi. È altrettanto vero, però, che le visite pastorali continuano a disinteressarsi dei disordini e dei delitti del clero, anche quelle del Boncompagni e del Caracciolo, gli arcivescovi napoletani più incisivi ed energici del secolo. Come sempre, inoltre, le loro relazioni triennali si dolgono dell’uditore di Camera e delle nomine, da parte dei commissari della Fabbrica di S. Pietro e dei nunzi apostolici, di agenti desiderosi solo di godere di immunità e privilegi di foro. La stessa nascita, negli anni Settanta del secolo, di un inedito «Tribunale della Santa Visita», frutto dello zelo del Caracciolo, non produsse risultati sul piano penale. La nuova istituzione operò solo in controversie di natura civile scaturite dalle verifiche dei visitatori49. 48   La relazione del Leone è in ASV, RD, 795/A, cc. 47r-55v (la prova del suo avvelenamento è in ASDCT, Criminalia, n. 345). Per i successori, ivi, 795/A, cc. 71r-72r, cc. 164r-186r e 244r-49v, ma anche, per le resistenze alla visita pastorale, ASDCT, Criminalia, nn. 1966 (Solopaca, 1695), 1977 (Cusano Mutri, 1696), 1984 (Cerreto, 1696), 1986-1987 (Guardia, 1696). 49   Le visite dei due prelati sono in ASDN, Visite pastorali, voll. 35-39 (per Boncompagni) e 48-58 (per Caracciolo). L’azione del tribunale di Santa Visita è documentata in ASDN da 5 fasci recuperati nelle Miscellanee. Per il Boncompagni, vedi almeno Romeo, Amori cit., pp. 150-177; per l’episcopato del Caracciolo,

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Bisogna sottolineare, infine, il rilievo dei delitti commessi dai titolari di incarichi importanti, come quelli di parroco e canonico. La continuità con il Cinquecento è ovunque impressionante. Neppure il rispetto, forse maggiore del passato, dei rigorosi meccanismi selettivi previsti dai decreti tridentini impedisce di affidare la responsabilità della cura d’anime a uomini di Chiesa condannati anche più volte. L’esigenza di difendere ad oltranza l’immagine dell’istituzione li rende come sempre inamovibili. La stessa scelta dell’esilio, punizione di routine per gli ecclesiastici ritenuti indegni, per la gravità dei delitti, di governare spiritualmente i fedeli, è di solito temporanea e consente loro di tornare, scontata la pena, dove hanno dato cattiva prova di sé. È una costante, dal Veneto alla Sicilia, che ha talvolta esiti sconcertanti. Un caso capitato a Casalduni, nel Sannio, è esemplare. Nel 1655, in una chiesa piena di gente, un sacerdote cercò di uccidere a coltellate l’arciprete, don Giovanni Pingue, mentre stava confessando, nel corso di un giubileo, col Santissimo esposto. Ma la temerarietà del gesto non gli costò più di tanto. Pochi anni dopo prestava servizio nella stessa chiesa e non aveva rinunciato al progetto di liberarsi del superiore, sia pur in modo più accorto, se è vero che nel 1661 fu processato per aver tentato di avvelenarlo. Del povero don Pingue, reduce da una grave malattia, si era ricordato nel 1648, nella solita relazione a Roma, lo stesso vescovo, eleggendolo a simbolo delle difficoltà in cui operava la parte migliore del suo clero: dopo la travagliata nomina ad arciprete, in quanto ‘straniero’ – nato in un paese vicino, si era dovuto difendere in giudizio, con spese enormi, dall’accusa di simonia presentata presso il tribunale della Fabbrica di S. Pietro dal sacerdote locale che ambiva alla sua carica – reggeva da solo il peso insostenibile del governo di una chiesa dove i preti, sicuri del salario, non facevano nulla50.

R. De Maio, Società e vita religiosa a Napoli in età moderna (1656-1799), Napoli 1971, passim, e Mancino, Licentia cit., pp. 207-247. 50   Per i due tentati omicidi vedi ASDCT, Criminalia, fascicoli nn. 1169 e 1254. L’odissea di don Pingue è in ASV, RD, 795/A, c. 169r-v. Una conferma della prevalenza dei sacerdoti più influenti nei ranghi del clero delinquente e del rilievo della violenza nei loro abusi viene per la diocesi di Genova da Fontana, «Gente tanto inurbana» cit., pp. 138-139.

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È impossibile rendere conto qui, per ragioni di spazio, delle tante sfumature di una situazione così sconcertante, in un orizzonte in cui nel corso del Seicento, al Nord come al Sud, giudici e inquisiti sembrano giocare una partita sempre uguale. Le questioni aperte dalla ricchezza delle fonti sono tante. Due di esse – le reazioni dei laici e il ruolo dello Stato – ci sono sembrate le più importanti, anche in funzione degli sviluppi sette-ottocenteschi. Nel tardo Cinquecento, lo si è visto, i fedeli sono relativamente indifferenti al malcostume degli ecclesiastici, a meno che i loro eccessi non li colpiscano direttamente e non danneggino i pochi servizi religiosi davvero sentiti, come la regolare celebrazione della messa e l’assistenza ai moribondi. Quanto ai poteri secolari, pur attenti a contrastare su altri piani l’invadenza della Chiesa, essi subiscono senza troppo disagio, a quanto pare, l’intransigente difesa del privilegio di foro, che è ovunque il contrassegno dei primi decenni postridentini. Bisogna perciò domandarsi: cambiò qualcosa negli atteggiamenti degli uni e degli altri nel corso del Seicento, dopo gli scossoni che avevano aperto il secolo a Venezia e a Napoli? Una ricca documentazione locale consente di tracciare un bilancio della questione. 9. Aveva permutato la parrocchia di cui era titolare con un’arcipretura in un paese vicino e voleva portare con sé i beni della canonica dove aveva esercitato la cura per 15 anni. Incurante della netta opposizione della comunità, aveva anche ingiuriato e minacciato il ‘massaro’ della chiesa, fermamente deciso a difendere i diritti dell’istituzione che rappresentava. Ma don Nicolò Lippi, parroco di Masi, in diocesi di Padova, aveva fatto i conti senza l’oste. Il 21 ottobre del 1614 l’uomo da lui insultato si presentò in Curia vescovile per denunciarne ai superiori una relazione proibita, attentamente memorizzata da lui e dalla comunità tutta, sin dai lontani anni in cui il Lippi aveva preso possesso della parrocchia. Se n’era venuto infatti con una giovane e piacente vedova bolognese, accompagnata da un sedicente nipote e presentata come la governante. Dopo aver superato senza problemi l’ostacolo di una visita pastorale in cui gli era stato prescritto con l’opportuna riservatezza – solo un prete locale se ne ricordava – di allontanare la convivente entro 3-6 mesi, don Nicolò ne aveva anche gestito abilmente una gravidanza, trasferendola in un paese vicino. Lì era nata una bambina, battezzata senza difficoltà come figlia di ­­­­­202

un uomo del posto, mentre la puerpera era tornata in canonica di notte, in abiti maschili, senza peraltro sfuggire agli sguardi del vicinato. Ma i tratti somatici della neonata, pressoché identici a quelli paterni, avevano esposto il prete ai mormorii del paese. Una donna rivelò ai giudici di averglielo anche detto in confessione, ricevendone una reazione stizzita. Le aveva infatti domandato: A che conoscete che sia mia figliola? Et io gli risposi: Vi assomiglia negli occhi, nel naso et in tutto. Et lui mi replicò: Mi assomiglia nelli calcagni...51

Si trattava però di cose da poco, che la comunità registrava da sempre, senza particolare acredine, come arma di autodifesa da tenere pronta in caso di bisogno, e gli stessi giudici ritenevano gravi solo quando si incrociavano con i sacramenti (assoluzioni indebite delle conviventi, celebrazioni di messe precedute da rapporti sessuali). Ne scaturì perciò una decisione salomonica, che confermò a lui la promozione desiderata e ai fedeli il possesso dei beni della chiesa. Se la sua posizione si complicò presto, fu perché, scomunicato subito nella nuova sede per la persistenza della relazione proibita, osava anche celebrare, indifferente al provvedimento subito. La segnalazione dell’abuso da parte di un sacerdote locale gli costò cara. Fu spiccato il mandato di arresto, anche se per eseguirlo le guardie rischiarono la vita, sotto una pioggia di grosse pietre lanciate dalle finestre da don Nicolò. Nel corso della tortura cui fu sottoposto immediatamente, forse per la violenta resistenza, preannunciò e presentò appello al nunzio apostolico di Venezia. Degli esiti della vicenda non c’è traccia, ma è verosimile che in secondo grado abbia ottenuto quantomeno un alleggerimento della sua posizione, visto che le linee d’intervento degli uditori veneziani nelle 324 sentenze penali d’appello emanate nel corso del Seicento non si discostano da quelle postridentine52.

  ASV, NV II, 1127, c. 18r, 23 ottobre 1615, deposizione di Caterina Veronese.   Il dato è frutto dello spoglio integrale di ASV, NV II, mss. 343-351, 366, 368-371, 373-375. In quasi il 95% dei casi le condanne inflitte in primo grado sono annullate o congruamente moderate, proprio come nel tardo Cinquecento (nel computo sono state inserite anche le sentenze di terzo grado che confermano annullamenti di decisioni punitive di primo grado disposti dai metropoliti). 51

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Dinamiche di questo tipo – fedeli che segnalano ai giudici i comportamenti proibiti del clero, a cominciare dal concubinato, solo quando si associano a inadempienze o ad abusi che ne ledono legittimi interessi – sono solidamente attestate ovunque53. Un caso capitato nel 1634 nei paraggi di Napoli è particolarmente indicativo. Un giovane sacerdote irpino rapisce con il suo consenso una vedova e trova ospitalità presso un prete del suo paese, ma non ha messo nel conto la vendetta di un uomo legato da tempo alla donna. Egli conduce le guardie del vescovo nella casa dove i due si sono rifugiati, attigua a una cappella, ma scatta la reazione dei vicini, che danno l’allarme suonando le campane e armandosi di tutto punto a difesa dei sacerdoti: la logica ‘territoriale’ ha di gran lunga la meglio sulla premura per la repressione dell’abuso. Solo a fatica gli ‘assalitori’ poterono arrestare i due ecclesiastici e la vedova54. Rispetto al tardo Cinquecento, insomma, c’è ben poco di nuovo. Persiste nei fedeli la comprensione per gli esponenti del clero che vivono esperienze proibite, anche se si va consolidando la consapevolezza che si tratta di un punto debole su cui all’occorrenza si può contare, per far valere esigenze e recriminazioni più sentite. Le stesse autorità diocesane, d’altra parte, continuano a mostrarsi attente, più che agli abusi sessuali degli ecclesiastici, alle conseguenze negative che ne possono scaturire sull’amministrazione del sacro. 53   Vedi Comuzzi, Susanna e il parroco cit., pp. 118-129 (sugli atteggiamenti comprensivi dei friulani del Cinque-Seicento verso i preti che convivono) o, per un caso del 1624, Di Simplicio, Peccato, penitenza, perdono cit., pp. 128-129 (a proposito di un parroco che la Curia arcivescovile di Siena aveva processato più volte per convivenze proibite e comportamenti scorretti verso i parrocchiani, mentre questi ultimi si dolevano di lui soprattutto per la venalità con cui amministrava il sacro, per l’usura e per abusi collegati ai lavori agricoli) e di Fontana, «Gente tanto inurbana» cit., p. 140 (sui fedeli di Moneglia e la sessualità del clero locale nel Sei-Settecento). Non diversa era la situazione nell’Europa cattolica: vedi rispettivamente la lamentela del vescovo di Autun, che nel 1652 deplorava l’indifferenza dei parrocchiani per il concubinato dei curati (A. Barnes, The Social Transformation of the French Parish Clergy, 1500-1800, in Culture and Identity in Early Modern Europe [1500-1800]. Essays in honor of Natalie Zemon Davis, ed. by B.B. Diefendorf and C. Hesse, Ann Arbor [Mich.] 1995, p. 142), e gli identici atteggiamenti dei fedeli e dei responsabili laici delle chiese, quando erano interrogati dai visitatori, nelle comunità rurali della diocesi di Spira (Forster, The Counter-Reformation cit., pp. 23-24). 54   ASDN, PC, 1634, processo a don Girolamo de Vendola e a don Francesco Stella, cc. n.n., relazione del 2 febbraio di Francesco Sorece.

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10. La distanza tra atteggiamenti delle Curie vescovili e dei fedeli si fa ancora più netta, quando sono in gioco violazioni gravi, pesantemente lesive degli interessi o dell’onore di chi le subisce. Due casi capitati nel primo Seicento e nel primo Settecento mostrano le difficoltà persistenti che incontrano i laici intenzionati a far valere nei tribunali penali della Chiesa diritti calpestati dal clero delinquente. Teatro del primo processo, che si svolge nel 1635, è ancora una diocesi della Repubblica veneta, quella dell’isola di Veglia. Un ricco sacerdote locale, don Giovanni Bruzich, finisce sul banco degli accusati, querelato da un uomo che teme di essere ucciso perché il figlio non ha voluto sposare una figlia dell’ecclesiastico e, denunciato al foro secolare, è scappato dall’isola per paura di subire violenze dalla famiglia del prete. Anche in questo caso, nell’ampio ventaglio di accuse presentate, non è il concubinato l’arma migliore per mettere in difficoltà il Bruzich, pur se il ricorrente sa bene che due interventi punitivi scattati dopo altrettante visite pastorali (nel 1619-20 e nel 1624-25) potrebbero renderla più acuminata. Presunte truffe nell’attribuzione delle decime al clero, errori nella celebrazione della messa e impreparazione nelle cerimonie sono gli elementi supplementari prescelti per irrobustire la denuncia. È una strategia giudiziaria efficace, perché consente all’uomo di rafforzare la propria posizione in vista dell’accordo con il sacerdote, che fin dall’inizio è il suo obiettivo. Lo raggiunge infatti, sia pure a fatica, e ottiene condizioni più favorevoli, sufficienti a convincerlo alla remissione di querela. Che il vicario generale di Veglia poco dopo punisca con una certa severità il Bruzich, dichiarato incorreggibile e sospeso a divinis per 2 anni, è il segno di uno zelo non comune, anche se l’immediato appello alla nunziatura ridimensionò probabilmente, come sempre, la condanna55. Costò cara invece a Napoli, ai primi del Settecento, a Felice De Tomaso, un servitore di 55 anni, la decisione di denunciare un sacerdote per le pesanti molestie sessuali a sua figlia, una bambina di 10 anni, sfuggita per poco a uno stupro. D’intesa con lei, 55   ASV, NV II, 1181/3, cc. 1r-4r (la querela, del 6 giugno 1635), 5r-9v (le copie delle sentenze del 1620 e del 1625), 10r (il ricorso della donna al foro secolare, ricordato da un teste il 13 giugno 1635), 96r (l’accordo finale, del 31 dicembre 1635), 112r-113r (la condanna, del 15 febbraio 1636).

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programmò con lucidità una trappola all’ecclesiastico, pedinandolo a distanza mentre tentava un nuovo adescamento. Quando però il prete intuì il pericolo e rinunciò all’idea, l’uomo perse la testa e subito, in strada, cercò di ammazzarlo a colpi di spada. Intervennero allora molte persone, tutte solidali con la vittima, due sdegnate anche dalla circostanza che si trattava di un uomo di Dio, e lo salvarono dall’aggressore, chiamando le forze dell’ordine. Nessuno dei presenti diede rilievo alle giustificazioni del mancato assassino, difeso a spada tratta solo dalla moglie e dalla figlia, subito intervenute. Fu al contrario il capitano delle guardie a mostrarsi più comprensivo, rilasciandolo e limitandosi ad annotarne il nome. Il giorno dopo De Tomaso si presentò in Curia, raccontò per filo e per segno la dolorosa vicenda, ammettendo di aver perso la testa, e querelò il sacerdote per le molestie sessuali alla bambina. Non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato l’unico responsabile dell’accaduto. Colpito da scomunica riservata al papa per gli atti di violenza compiuti, dovette ricorrere alla Penitenzieria apostolica, che diede facoltà all’arcivescovo di Napoli di assolverlo, ma solo dopo aver soddisfatto la vittima e ottenuto il suo perdono. Il sacerdote, però, per timore di una trappola che lo smascherasse, sostenne l’ipotesi di uno scambio di persona, negò di essere l’interessato e a scanso di equivoci se ne tornò al paese natale, dove poco dopo morì. La Curia arcivescovile, a quel punto, decise di tenere sulla corda l’uomo, rifiutandosi di assolverlo, in base al rilievo che aveva presentato a Roma una versione addomesticata dei fatti. Ci fu bisogno di un nuovo esposto alla Penitenzieria apostolica, che tagliò corto, ribadendo il diritto del ricorrente all’assoluzione, ma ancora una volta il vicario generale prese tempo: volle verificare se il prete era morto e se si poteva davvero chiudere il caso. Solo allora, a quasi un anno e mezzo dai fatti, Felice De Tomaso fu reintegrato nella comunità dei fedeli56. 56   ASDN, PC, 1710, procedimento aperto il 24 ottobre dalla querela del De Tomaso contro don Bartolomeo Lancumba (Lancuba). Per l’aggressione vedi cc. 3v-16v. L’assalto a un sacerdote è ritenuto particolarmente grave da Anna Mazzarella (29 ottobre, c. 11v) e da Giovan Giacomo De Martino (31 ottobre, c. 14v; è lui a ricordare anche il rilascio immediato dell’uomo, c. 16r-v). I rescritti della Penitenzieria risalgono al 30 gennaio 1711 (c. 22r) e al 9 luglio seguente (c. 23r). Le verifiche che precedono l’assoluzione sono disposte il 20 febbraio 1712, cc. 25r-29r.

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11. In un orizzonte sostanzialmente immobile, in cui il clero delinquente continua a fare i suoi comodi, muovendosi con disinvoltura tra giudici ecclesiastici e secolari, si può ritenere che nel corso del Seicento ci siano state trasformazioni significative negli atteggiamenti degli Stati della penisola? Si è accennato alla relativa ininfluenza del caso Campanella e dell’interdetto sul riconoscimento del privilegio di foro. Per tutto il secolo, per quanto se ne sa, il foro penale della Chiesa conserva in regime di quasi monopolio il governo dei crimini del clero in ogni angolo d’Italia: il crollo precoce delle attività del patriarcato di Venezia è l’unica rilevante anomalia accertata. Se a questo dato si aggiunge l’altra indicazione, inoppugnabile, che i conflitti relativi alle immunità locali sono pressoché inesistenti in tutta la Repubblica di S. Marco, nelle terre dell’arciduca d’Austria e nella Svizzera italiana, ma crescono in misura esponenziale nel resto della penisola, è fondata l’ipotesi che nel corso del Seicento cominci quasi ovunque in Italia una battaglia senza esclusione di colpi tra Stato e Chiesa. Resta invece incerto se in questi mutati scenari gli ecclesiastici abituati a delinquere impuniti abbiano visto peggiorare la propria condizione. Per ora rispondere in modo esauriente alla domanda è impossibile. Non solo è molto insoddisfacente il quadro delle ricerche sui rapporti tra Chiesa e Stato nell’Italia moderna, ma anche le indagini più approfondite sull’amministrazione della giustizia penale sono circoscritte, sia sul piano territoriale, sia sul piano cronologico, anche per la straordinaria ricchezza delle fonti, non solo di quelle processuali. In particolare, se è assodato che nel corso del Cinquecento, in Italia come nel resto d’Europa, si avviò il passaggio dai modelli comunitari di negoziazione dei conflitti al rigore punitivo della cosiddetta giustizia egemonica, e che il Settecento fu caratterizzato da una netta, crescente riaffermazione del ruolo dello Stato, non è altrettanto agevole ricostruire gli sviluppi della questione nel Seicento. Agli indiscussi elementi di novità segnalati da tempo – la nascita dell’inchiesta e di un modello di processo incentrato sul libero convincimento del giudice, non sul sistema tradizionale di prove legali, imperniato su confessione e tortura, l’ascesa prepotente di una generazione di giuristi pratici di provenienza non nobiliare (i cosiddetti ‘togati’), una stagione di riforme che si apre ovunque nella seconda metà del secolo – non si sono accompagnate finora ricostruzioni sistematiche di aspet­­­­­207

ti importanti dell’azione penale, dalla tipologia delle condanne all’incidenza delle grazie, dal ricorso agli appelli all’uso della pena capitale57. Non mancano, però, le indicazioni utili, a cominciare da quelle contenute nelle relazioni triennali al papa. Se si escludono Trentino e la Svizzera italiana, dove i vescovi hanno da sempre limitate possibilità di esercitare giurisdizione, e la Repubblica di Venezia, dove, malgrado tutto, i loro poteri sembrano un po’ più ampi, gli accenni alla repressione dei delitti del clero si dividono equamente tra le tensioni con lo Stato e le contraddizioni interne alla Chiesa. Nel primo Seicento, però, essi sembrano concentrarsi soprattutto sulle nebbie romane, dove i processi si perdono, e sul ruolo devastante di nunziature e tribunali dei legati papali. È un coro pressoché unanime. Spicca la debolezza estrema di molti vescovati dello Stato pontificio e del Regno di Napoli, ma non sono da meno le lagnanze provenienti dal Ducato di Savoia e dallo Stato di Milano. I vescovi che hanno giurisdizione in diocesi appartenenti solo in parte al dominio sabaudo uniscono alla segnalazione dell’assurdità del privilegio apostolico goduto dai Savoia, che vietava l’estrazione dei sudditi, laici o ecclesiastici, dai loro territori, vibranti proteste contro gli uditori della nunziatura torinese. Oltre a spogliarli sistematicamente delle cause civili e criminali di ogni grado provenienti dal territorio del Ducato, essi giudicavano anche appelli riguardanti chi viveva in altri Stati incorporati nelle rispettive diocesi. Altrettanto indicative a Milano le reiterate lamentele di Federico Borromeo: se l’uditore di Camera continuava a paralizzare il lavoro dei giudici della sua Curia, c’era poco da stare allegri, visto che già l’applicazione della Concordia faticosamente raggiunta con le autorità statali nel 1615 era motivo di frequenti scontri58. 57   Per la bibliografia essenziale vedi cap. III, nota 61. Per la ricchezza degli archivi giudiziari basti pensare ai tribunali del Torrone (nell’Archivio di Stato di Bologna) e del Governatore (nell’Archivio di Stato di Roma), ma anche ai fondi di ASN (in part. alla Delegazione della Real Giurisdizione e al tribunale della Cappellania Maggiore). 58   Per i territori arciducali, vedi ASV, RD, 66, cc. 121v e 152r, relazioni del 1646 e del 1667 (per Aquileia) e 814/A, cc. 13v-14r e 95r-v, relazioni del 1603 e del 1658 (per Trento); per la Svizzera italiana, vedi 245/A, c. 56v, relazione del 1606 (Como) e 283, cc. 7r e 15v, relazioni del 1607 e del 1613 (Coira). Per le

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È nel tardo Seicento, però, che si infittiscono nelle fonti ecclesiastiche i segnali di un ulteriore, netto deterioramento nei rapporti complessivi tra Chiesa e Stato in Italia. Rendiconti di ospedali e luoghi pii, esenzioni fiscali, questioni beneficiarie e, in misura sempre più intensa, il nodo del diritto d’asilo, diventano molto più spesso oggetto di controversie accese e prolungate. Di questi orizzonti conflittuali risente anche il pieno godimento del privilegio di foro da parte del clero. Alcune di queste tensioni, è vero, sembrano ancora una volta esclusive dello Stato pontificio e del Regno di Napoli: ci riferiamo ai numerosi incidenti relativi all’uso del diritto di asilo da parte di ecclesiastici criminali – un segnale decisamente sorprendente, una via di fuga sconosciuta fino al primo Seicento – o al ruolo non proprio episodico esercitato dalla giustizia signorile59. Altri scontri, non meno importanti, riguardano invece tutta la penisola. È quanto si osserva in primo luogo a proposito della ‘famiglia armata’, cioè del diritto dei vescovi di servirsi di una propria polizia. Non che la disponibilità di propri uomini fosse funzionale solo alla repressione dei delitti del clero, che anzi proteste contro l’invadenza ‘romana’, vedi, per lo Stato pontificio, le relazioni dei vescovi di Alatri nel 1615, nel 1640 e nel 1643 (soprattutto contro l’uditore di Camera: 19/A, cc. 18v, 71v e 81r), di Montalto delle Marche (1696, ancora contro l’uditore di Camera: 539/A, c. 175r), e Bologna (per i tempestosi rapporti tra foro del legato e tribunale arcivescovile, già ampiamente documentati in Casanova, Angelozzi, La giustizia criminale cit., passim, vedi 136/A, cc. 85v e 102v103r, relazioni del 1643 e del 1655); per il Regno di Napoli, Telese (795/A, cc. 135v-136v, relazione del vescovo Gambacorta del 1634). Per il Ducato di Savoia, basti richiamare le diocesi di Alba (il vescovo Ludovico Gonzaga, in ben tre relazioni, redatte tra il 1623 e il 1628, lamentò sia gli eccessi della nunziatura di Torino, sia i danni provocati dal privilegio ducale) e di Acqui (nel 1604 si stigmatizzano le inibitorie del nunzio, nel 1636 si denunciano le pesanti intimidazioni dei ministri del duca contro chi si rivolge alla giustizia ecclesiastica: 64/A, cc. 22r-v e 72r-v). Per Milano fanno testo le reiterate proteste del Borromeo: 509/A, cc. 82r-v, 106v, 111r, rispettivamente relazioni del 1618, del 1625 e del 1628. 59   Per entrambi i problemi un prezioso punto di riferimento è l’Indice 1182 cit. (la prassi del rifugio degli ecclesiastici meriterebbe ovviamente una ricerca sistematica). Quanto alla giustizia signorile, tema studiato finora soprattutto per il Settecento, vedi il pionieristico libro di A.M. Rao, L’‘amaro della feudalità’. La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ’700, Napoli 1984, pp. 127-153; utile è anche l’ampia rassegna di D. Armando, La questione feudale, in Il Settecento negli studi italiani, a cura di A.M. Rao e A. Postiglione, Roma 2010, pp. 171-183.

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continuava a rimanere l’ultima delle preoccupazioni dei vescovi: erano in gioco l’autonomia e l’autorevolezza del foro diocesano in tutte le sue articolazioni. Se nel Sud le Curie vescovili continuano nel Seicento a fruirne, sia pur con molte difficoltà per quelle più deboli, in Piemonte, Liguria, Toscana e Veneto, ma ancor più nelle piccole diocesi dello Stato pontificio, nel corso del secolo per le Chiese locali la situazione si complica. Solo a Napoli, dove persistono nel Collaterale e negli arcivescovi le esigenze di cogestione, la libertà di movimento delle guardie diocesane non è messa in discussione. Le stesse rimessioni dei chierici catturati dalle ronde della polizia di Stato sono molto meno conflittuali rispetto al tardo Cinquecento e calano nettamente nella seconda metà del secolo60. Nel resto d’Italia, invece, non solo aumentano le restrizioni per i vescovi, ma la stessa disponibilità del braccio secolare è subordinata di volta in volta all’esame dei motivi della richiesta e può anche venir meno, se si ritiene che ne sia lesa la giurisdizione dello Stato. Le condizioni più pesanti sembrano quelle del Ducato di Savoia, dove le tensioni sulla famiglia armata si accompagnano a un’offensiva in grande stile contro i giudici ecclesiastici, a cominciare dalle intimidazioni nei confronti di chi vuole ricorrere ai loro tribunali. Anche i casi di Padova e Siena sono indicativi, perché i limiti imposti ai vescovi nella seconda metà del secolo rovesciano un assetto preesistente, in cui era garantita piena libertà di azione ai loro uomini. Non va meglio ai giudici dei vescovati più sguarniti dell’Italia centro-meridionale. Si pensi solo ai numerosi episodi di resistenza alle guardie diocesane di Telese, che devono temere le

60   Per la ‘famiglia armata’ dei vescovi nell’Italia moderna si dispone di ricerche solo per il Settecento; vedi: E. Brambilla, La polizia dei tribunali ecclesiastici e le riforme della giustizia penale, in Corpi armati e ordine pubblico in Italia (XVIXIX sec.), a cura di L. Antonielli e C. Donati, Soveria Mannelli 2003, pp. 73-111; Ead., I poteri giudiziari dei tribunali ecclesiastici nell’Italia centro-settentrionale e la loro secolarizzazione, in Le secolarizzazioni nel Sacro Romano Impero e negli antichi Stati italiani: premesse, confronti, conseguenze, a cura di C. Donati e H. Flachenecker, Bologna-Berlino 2003, pp. 99-112. Per Napoli la valutazione è il frutto dell’esame dei processi recuperati in ASDN. Per le rimessioni dalla Vicaria, ai 64 casi relativi all’intervallo 1600-1649 fanno riscontro i 9 della seconda metà del secolo: un crollo che non sembra casuale, malgrado le riserve sulla rappresentatività della serie arrivata a noi.

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reazioni violente dei chierici e dei laici fermati, ma anche quelle di passanti, funzionari e ufficiali dello Stato, o alle aggressioni, talvolta mortali, che i messi dei vescovi di Alatri subiscono dagli sgherri dei Caetani61. 12. Che però in questi primi attacchi all’assetto consolidatosi dopo Trento una giustizia ‘giusta’ abbia cominciato a soppiantare nei tribunali statali del tardo Seicento i favoritismi e le connivenze di vescovi e superiori di Ordini, è tutto da dimostrare. I pochi indizi per ora disponibili invitano alla cautela. Gli interventi noti del tribunale del legato nella Bologna degli anni Settanta mostrano giudici prudenti, che continuano ad avere un occhio di riguardo per il clero, nei delitti in cui ci sono complici laici ed ecclesiastici, in un ambiente in cui l’alternativa delle soluzioni negoziali dei conflitti è ancora forte. La linea del foro bolognese fa il paio con gli esiti dei sondaggi effettuati nell’imponente archivio della Delegazione della Real Giurisdizione, l’istituzione che nel corso del Seicento ampliò e potenziò nel Regno di Napoli i controlli esercitati in precedenza dal Collaterale. L’aumento degli interventi tesi a condizionare i giudici penali della Chiesa nel Sud non sembra anteriore al tardo Seicento, ma la determinazione con cui lo Stato ne rimette in discussione l’operato non si accompagna a scelte radicali62. Sullo sfondo, comincia forse a profilarsi il principio dei vescovi e degli ecclesiastici come funzionari dello Stato, destinati a svolgere funzioni pubbliche di rilievo e perciò meritevoli di un occhio di riguardo anche da parte delle sue autorità. Non può sorprendere allora che la splendida documentazione giudiziaria residua della Cappellania Maggiore del Regno di Napoli, l’influente istituzione che governa i preti e i chierici in servizio presso la Cappella Reale, nelle chiese di regio patronato, oltre che nelle fortezze e nelle aree militari, documenti nettamente per tutto il Sei-Settecento il prevalere dell’attenzione per l’immagine dei cappellani al servizio del   Per Telese fa testo l’incrocio tra l’Indice 1182 cit., e i ricchi dati di ASDCT, Criminalia; per Alatri vedi ASV, RD, 19/A, c. 81r (relazione del 1643). Sui Caetani vedi Fosi, La giustizia cit., pp. 71-75. 62   ASN, Delegazione della Real Giurisdizione, Inventari 33-34. Il rilievo si riferisce a sondaggi effettuati nella serie Processi. 61

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re sull’esigenza di reprimerne le malefatte: gli stessi atteggiamenti che guidavano da secoli l’azione dei tribunali criminali ecclesiastici. Questo segmento dell’alto clero rimane intoccabile e ancora nel primo Ottocento può permettersi libertà di comportamento non più consentite agli altri uomini di Chiesa. Non sembra peraltro che sia diversa la situazione a Venezia, dove i sacerdoti della chiesa di S. Marco continuano a godere per tutta l’età moderna della protezione del doge63. In questo orizzonte non meraviglia più di tanto che talvolta, nell’Italia di fine del Seicento, si cerchi di approdare a ragionevoli intese tra i due fori. La testimonianza più illuminante viene da Genova, una città in cui nella seconda metà del secolo la conflittualità tra le autorità diocesane e i vertici della Repubblica aveva toccato punte di notevole asprezza. Nel rendiconto del 1690 l’arcivescovo poteva segnalare con soddisfazione a Roma che da quando si era insediato alla guida di quella Chiesa nessun ecclesiastico locale era stato espulso dai magistrati laici. Con loro aveva siglato un’intesa, per risolvere alla buona i casi in cui gli eccessi del clero apparivano insostenibili alle autorità della Repubblica. I giudici di Stato di volta in volta competenti gli segnalavano in segreto i nomi dei chierici che turbavano la pubblica quiete, in modo che fosse lui a provvedere con il necessario rigore. Riteneva che da quell’accordo la sua Curia ricavasse solo vantaggi. Si toglieva ai laici il pretesto di ingerenze nelle cause ecclesiastiche e agli uomini di Chiesa il vantaggio di muoversi con disinvoltura tra i due fori, con l’ovvia conseguenza che i delitti calavano, sia quelli del clero, sia quelli dei laici pronti a farsi giustizia da sé contro gli impuniti, con sollievo della stessa Repubblica. Infine, cosa non da poco, quel clima di collaborazione aveva avuto una benefica influenza sulla concessione del braccio secolare. Prudentemente, però, il prelato avvertiva il bisogno di chiedere lumi ai superiori, dichiarandosi inesperto e bisognoso di indirizzo. Non aveva tutti i torti. Una sola lode romana accompagnò il suo rendiconto, e riguardava la sospensione delle espulsioni degli ecclesiastici. Difficilmente, crediamo, quel si63   Per l’istituzione napoletana vedi ASN, Archivio della Cappellania Maggiore, serie Curia, Processi diversi, fasci 1091-1104; per il clero marciano vedi almeno Cozzi, Giuspatronato cit.

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stema cogestito poteva piacere ai cardinali della Congregazione: un modo per governare una situazione complicata, non una soluzione praticabile ovunque64. 13. Trarre conclusioni definitive da una ricerca condotta su un terreno molto vasto e sostanzialmente inesplorato è arduo. Tuttavia ci sembrano legittime alcune riflessioni sui modelli interpretativi abitualmente utilizzati per qualificare due secoli cruciali per la Chiesa romana, attraversati dalla crisi più grave della sua storia e dal più ambizioso progetto di rinnovamento mai concepito. Pensiamo in primo luogo al concetto di Riforma cattolica. Alla luce dei risultati dell’indagine esso appare largamente inadeguato a spiegare il governo dei crimini comuni del clero in Italia. Se è indubbio, infatti, che prima e soprattutto dopo il concilio di Trento non mancarono nella penisola i vescovi e i prelati propensi a reprimerli con asprezza, è altrettanto vero che quella linea intransigente fu liquidata molto presto. Nunzi e legati pontifici, visitatori e vicari apostolici, nonché istituzioni romane vecchie e nuove, fecero capire senza mezzi termini ai ‘riformatori’ che i soli obiettivi importanti da raggiungere erano il recupero della giurisdizione perduta e il rispetto tassativo dei privilegi del clero, primo fra tutti quello di foro. Per i suoi delitti il punto di riferimento non poteva essere la rigida legislazione tridentina. Una sorda volontà di nasconderli o minimizzarli s’impose su chi aveva motivo di dolersene: le vittime, in primo luogo, ma anche i vescovi e i magistrati secolari più sensibili alla scandalosa disparità di trattamento che garantiva comode scappatoie agli ecclesiastici per le stesse trasgressioni punite col patibolo, quando a commetterle erano laici. Il ruolo destabilizzante dei tribunali delle nunziature, che annullano o annacquano sistematicamente le sentenze di primo grado, mentre i nunzi nelle lettere alla Segreteria di Stato continuano a manifestare sgomento per gli abusi del clero, è una delle acquisizioni più solide e inattese della ricerca. La sostanziale ingovernabilità degli ecclesiastici delinquenti in Italia fu anche, nel corso del Seicento, il frutto della stanchezza crescente del Sant’Ufficio: mentre nel tardo Cinquecento i loro

  ASV, RD, 415/A, cc. 97r-98r.

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delitti contro la fede erano stati combattuti con asprezza nei tribunali inquisitoriali, il calo progressivo dei processi e l’aumento delle autodenunce – i due indicatori più precisi, verso il 1620, di una fase nuova nella storia dell’Inquisizione romana – non sfuggirono agli uomini di Chiesa, che li utilizzarono diffusamente, come i laici. La stessa lotta intrapresa contro i sacerdoti che adescavano le donne in confessione ottenne risultati complessivamente modesti, così come fu limitata la collaborazione garantita agli inquisitori dagli specialisti della coscienza. Abbastanza presto, insomma, anche il più temuto tribunale ecclesiastico italiano dovette fare i conti con le tante libertà del clero della penisola. Neppure una categoria come quella di disciplinamento, che gode da tempo di notevole credito tra gli studiosi del cattolicesimo moderno, appare adeguata a rendere conto delle dinamiche studiate. Il Seicento dovrebbe essere un secolo cruciale: in una trama di conquiste realizzate su scala mondiale e segnate da una capacità non comune di orientamento, mediazione e guida da parte delle autorità ecclesiastiche, l’azione pastorale incisiva garantita da vescovi colti e zelanti sarebbe stata uno spartiacque decisivo. Un clero professionalmente ineccepibile avrebbe posto le condizioni per un salto di qualità nella vita della Chiesa, con positive conseguenze sia sul piano dei comportamenti e dei costumi, sia per quanto riguarda la cura d’anime. Che ciò sia in parte vero, che nel corso del secolo quote crescenti di ecclesiastici cattolici si avvicinino sensibilmente in Europa ai severi modelli tridentini, è indubbio. Troppo spesso, però, queste conclusioni sono il frutto di indagini limitate a singole tipologie documentarie – dagli elenchi dei libri del clero al numero dei chierici formatisi in seminario, dai manuali per confessori alle norme sinodali – ed evitano accuratamente di incrociarle con fonti più vive, dalle corrispondenze d’ufficio alla documentazione giudiziaria. La botte dà il vino che ha, insomma. Sicché, per ora, è impossibile stabilire se e quanto la formazione di una élite seria e motivata abbia contribuito tra Sei e Settecento a migliorare la tenuta complessiva del clero cattolico europeo. Per quanto ci risulta, si tratta – forse non solo in Italia – di minoranze incapaci di incidere sulla pigrizia e sugli eccessi di tanti loro confratelli e di larga parte dei fedeli. Al di là degli abusi del privilegio di foro, che continuano ad avere esiti devastanti, ben oltre la fase della riorganizzazione sei-settecentesca dei se­­­­­214

minari, pesa negativamente la resistenza diffusa degli uomini di Chiesa ai nuovi meccanismi di professionalizzazione che si vanno consolidando. Confronti approfonditi per ora sono problematici, visto che le poche ricerche esistenti riguardano singole aree e che le differenze tra gli ecclesiastici dell’Europa cattolica sono considerevoli65. Entro questi limiti, però, la situazione italiana non sembra isolata. In Vestfalia, come si è accennato, solo nel tardo Settecento la formazione dei curati raggiunge standard notevoli, mentre gravi disordini sono ancora ben presenti nei primi decenni del secolo, aggravati dai difficili rapporti che continuano ad avere con i parrocchiani66. Inoltre, sono tutti da ricostruire i riflessi del buon livello culturale raggiunto da quote crescenti di ecclesiastici sui loro stessi costumi. Finora è da considerare eccezionale il caso del colto cappellano genovese, che dopo una vita disordinata come poche – frequentava taverne e bordelli, scriveva pesantissimi sonetti ispirati all’Aretino, subì due processi tra il 1599 e il 1612 – si trasformò nel 1624 in uno zelante fustigatore dei costumi. Al contrario, sembrano molto più rappresentativi i ricordi di un alto ufficiale di Curia, che su incarico dell’arcivescovo di Napoli scrisse ai primi dell’Ottocento, all’indomani della tragica esperienza della Repubblica, una relazione accurata e amara sui 50 fallimentari anni di ‘disciplinamento’ cui aveva collaborato. Il suo bellissimo resoconto non rispecchia solo la fatica di governare gli ecclesiastici della più grande città italiana: è un ritratto lucido e impietoso della straordinaria difficoltà di riportare all’ordine i chierici e i preti di antico regime, abituati da sempre, non solo nella penisola, a vivere con grande libertà67. Nel Seicento italiano, inoltre, sono altrettanto incerti obiettivi e tempi delle strategie delle autorità statali. Se sussistono pochi dubbi sul fatto che nel tardo Cinquecento esse subiscono l’avanzata della Chiesa, pur con forti resistenze in Trentino, nella Sviz  Si veda il bilancio tracciato da Rosa, Clero cit.   È quanto documenta Holzem, Katholische Konfession cit., pp. 320-323. 67   È il caso illustrato da E. Taddia, Histoire d’archives: une célébrité douteuse à Gênes au XVIe siècle, au défi des pouvoirs civils et religieux, in Mémoire et subjectivité (XIVe-XVIIe siècle). L’entrelacement de “Memoria”, “Fama” et “Historia”, études réunies par D. de Courcelles, Paris 2006, pp. 77-87. Il testo napoletano è stato pubblicato e illustrato da U. Dovere, Il buon governo del clero. Cultura e religione nella Napoli di Antico Regime, Roma 2010. 65 66

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zera italiana, nella Repubblica di Venezia e nel Regno di Napoli, il quadro è molto più nebuloso per tutto il Seicento, anche nei decenni conclusivi, quando pure i loro atteggiamenti sono ovunque meno remissivi. I conflitti sul diritto d’asilo si moltiplicano a dismisura quasi ovunque, aumentano le limitazioni alla ‘famiglia armata’ delle Curie vescovili e cresce l’insofferenza dei vertici e delle magistrature dello Stato per lo strapotere delle autorità ecclesiastiche nel governo del clero delinquente. Tutto lascia pensare, insomma, che i nodi arrivino al pettine, che assetti consolidati siano rimessi in discussione. Eppure non è facile per ora precisare in quale orizzonte si inscriva questa nuova sensibilità, al di là dell’ovvia considerazione che il potere dei papi uscì nettamente ridimensionato sullo scacchiere politico europeo dalla guerra dei Trent’Anni e che la forza delle istituzioni della Chiesa sembra averne risentito ovunque. Sul piano giudiziario, ad esempio, per quanto se ne sa, non sembra proprio che nell’Europa cattolica, nel corso del Seicento, i poteri dello Stato stessero distruggendo ovunque il privilegio di foro: dalla pienezza dei poteri dei giudici della Chiesa nei Paesi Bassi spagnoli al riequilibrio che si consolidò in Francia dopo la svolta ‘statalista’ del primo Cinquecento. Verso la metà del secolo le esigenze di cogestione trovarono spazio anche nella Russia ortodossa, dove le tradizioni cesaropapiste avevano da sempre confinato in un angolo i tribunali ecclesiastici68. Qualcosa del genere potrebbe essere successo, malgrado l’asprezza delle tensioni sei-settecentesche, anche in Italia. Neppure dalla fase di accesa conflittualità che si aprì tra Stato e Chiesa verso la fine del Seicento scaturirono subito nuovi equilibri, capaci di garantire una più efficace azione di contrasto ai delitti del clero, quantomeno a quelli più gravi. La battaglia per abolire ogni disparità di trattamento fu lunga e faticosa, anche perché nei memoriali e nelle proteste degli uomini di Stato l’eccessiva indulgenza

68   Vedi in Durand, Justice cit., i contributi di: B. Durand, Délits privilégiés et délits communs en France: conflits de compétence et batailles de procédure autour du clerc délinquant, pp. 37-61; E. Put, Justice pénale et pouvoir disciplinare: Les évêques et le privilège du for dans les Pays-Bas méridionaux, la principauté de Liège et l’Angleterre, pp. 101-112; D. Caroli, La justice pénale ecclésiastique en Russie (XVIIe-XVIIIe siècles), pp. 113-133; e i rilievi finali di J.-P. Royer, pp. 279-285.

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delle autorità ecclesiastiche nei confronti dei propri uomini non occupa uno spazio di rilievo, neppure nel Settecento anticuriale. A Torino, per fare solo un esempio, si discute nel 1740-41 degli eccessi del foro del nunzio, ma non c’è traccia di riferimenti alle molte altre vie di fuga garantite da sempre al clero delinquente dalla pluralità delle giurisdizioni ecclesiastiche69. Anche verso la fine del secolo dei Lumi, quando i tribunali penali della Chiesa appaiono ovunque in Italia in crisi profonda, gli stessi giudici statali si muovono con prudenza su quel fronte, sia quando operano in regime di monopolio, sia quando delegano i giudici vescovili. Né si possono considerare risolte le contraddizioni secolari legate al privilegio di foro. Se, dopo tante battaglie giurisdizionali, è lo Stato ad avere sempre più spesso, anche in Italia, l’ultima parola sui delitti del clero, altre armi potenti consentono alle autorità ecclesiastiche di difendere l’onore dei propri uomini come e meglio di prima. Così, mentre una plurisecolare stagione di favoritismi e connivenze si andò lentamente esaurendo, si utilizzarono con spregiudicatezza precedentemente sconosciuta, a tutela dell’onore del clero, percorsi alternativi inattaccabili, destinati a duratura fortuna. Due processi di stupro del tardo Settecento riflettono in modo esemplare sia i disagi dei giudici di Stato, sia i nuovi spazi che la Chiesa si stava aprendo. 14. A Fivizzano, nella Toscana leopoldina, fu l’assalto a una canonica, nel 1784, ad imprimere una svolta a un caso giudiziario intricato. Stavolta però non erano preti delinquenti ad attaccare vescovi zelanti, come nella Feltre postridentina. Si trattava di una trappola, architettata dalla famiglia di una giovane sedotta e ingravidata due volte dal parroco. L’aveva organizzata il fratello di lei, un bellicoso sacerdote, all’insaputa dell’interessata, per sorprendere la coppia in flagranza di reato e ridare fiato a una querela che rischiava di finire in una bolla di sapone. Infatti, nonostante

69   Nell’impossibilità di indicare una bibliografia adeguata, basti qui ricordare, accanto al classico Settecento riformatore II. La Chiesa e la repubblica dentro i loro limiti 1758-1774, di F. Venturi, Torino 1976, M.T. Silvestrini, La politica della religione. Il governo ecclesiastico nello Stato sabaudo del XVIII secolo, Firenze 1997 (per il cenno al tribunale del nunzio vedi pp. 67-69), e, per la giustizia, Bellabarba, La giustizia penale cit., pp. 159-207.

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che il vescovo di Sarzana avesse solo funzioni consultive e tutte le scelte fossero saldamente nelle mani delle competenti istituzioni del Granducato, furono queste ultime, fin dall’inizio, a guardare con freddezza all’ipotesi di un regolare processo. Ne sarebbero potute scaturire tensioni e spaccature inopportune, nel clero come tra i fedeli. Si profilava all’orizzonte – era orientato ad esempio a quella soluzione il Segretario del Regio Diritto – l’accoglimento della blanda soluzione proposta dal vescovo: sei mesi di esercizi spirituali, una scelta accorta, un compromesso accettabile. Furono solo gli esiti del clamoroso assalto a spingere la Segreteria di Stato a decidere l’avvio di una procedura formale, che costò cara all’ecclesiastico: oltre alla sospensione a divinis e al bando per sei mesi, fu anche costretto a pagare alla donna una dote riparatrice e le spese per il parto e il puerperio. Giustizia, insomma, assicurata più per circostanze occasionali che per una decisa presa di posizione, consona allo spirito del riformismo leopoldino70. Che la disavventura del parroco di Fivizzano fosse poco più che un banale incidente di percorso, che ordinariamente nell’Italia del tardo Settecento un sacerdote responsabile di eccessi sessuali gravi come il suo continuasse a cavarsela con poco, è quanto risulta da una fitta trama di processi celebrati negli stessi anni. Dall’archivio della Congregazione dei Vescovi e Regolari ai ricchissimi fondi relativi all’Italia meridionale conservati nell’Archivio di Stato di Napoli, per fare due esempi scelti a caso, c’è solo l’imbarazzo della scelta71. È impossibile renderne conto in questa sede. Uno di essi, però, ci è sembrato il degno epilogo di questa ricerca. Dobbiamo spostarci di alcune centinaia di chilometri, dalla Lunigiana all’Abruzzo, e compiere un breve salto all’indietro nel tempo, dal 1784 al 1771.

70   Il caso è illustrato con vivacità e finezza in G. Alessi, Processo per seduzione. Piacere e castigo nella Toscana leopoldina, Catania 1988, in part. pp. 9-48. 71   Per i Vescovi e Regolari, come per i secoli precedenti, i documenti più ricchi sono quelli della serie Positiones. Per le fonti dell’Archivio di Stato di Napoli ci riferiamo soprattutto allo sterminato archivio della Delegazione della Real Giurisdizione e a quello del Tribunale del Cappellano Maggiore. Per quest’ultimo un buon esempio del rilievo della sua documentazione è in M. D’Agnese, Ecclesiastici e sessualità nella Napoli moderna: i processi di stupro del Tribunale del Cappellano Maggiore, Tesi di laurea discussa nel 1992/3 presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’, rel. il prof. G. Romeo.

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Fu nel giugno di quell’anno che Grazia Caputi, un’orfana ventenne di Raiano, si presentò nella Curia vescovile di Sulmona per querelare un ricco sacerdote locale, don Domenico Lepore, responsabile, a suo dire, di averla stuprata e ingravidata. Di lì a poco arrivò da Napoli, dal Delegato della Real Giurisdizione, la copia di un ricorso identico, con l’invito al prelato a procedere. La sponda dello Stato era ormai di routine e costringeva i tribunali della Chiesa a muoversi con velocità. Nel giro di poche settimane ben 14 testimoni deposero compatti a favore della ragazza, mai ‘chiacchierata’ fino ad allora, mentre più d’uno ebbe da ridire sulle troppe libertà di comportamento dell’ecclesiastico. Un altro segnale indicativo venne da un’immediata iniziativa del parroco e di un altro sacerdote di Raiano: avevano pensato, pur di chiudere al più presto quella brutta storia, di procurare essi stessi una dote a Grazia e convincere un uomo, già contattato e disponibile, a sposarla. Ma la soluzione, proposta al confratello, era stata rigettata da quest’ultimo, sia perché, a suo dire, la famiglia della donna aveva chiesto come indennizzo anche l’aggravio, per lui inaccettabile, della donazione di una casetta, sia perché la sua reputazione ne sarebbe stata irrimediabilmente compromessa. Sulla base dell’istruttoria il vicario obbligò allora il sacerdote a restare confinato a Sulmona, a disposizione del tribunale, anche se nel frattempo il lavorio dei mediatori non si arrestò. La nascita del bambino e il matrimonio andato in porto, insieme all’annullamento degli atti, disposto per vizi di forma, su ricorso dei legali dell’ecclesiastico, dal Delegato della Real Giurisdizione, modificarono radicalmente l’andamento del processo. Nel marzo del 1772 Grazia ritrattò tutto davanti al giudice regio di Roccaraso, sostenendo di essere stata subornata da persone non meglio identificate, mentre il marito dichiarò di essere il responsabile dello stupro, risollevando così anche il suo onore. Ma per gli esponenti della Chiesa di Raiano non bastava. L’arrivo da Napoli – casuale o intenzionalmente ricercato, non si sa – di un gruppo di missionari, forse avvertiti dal clero locale del ‘lavoretto’ da portare a termine, consentì di chiudere il cerchio. Successe a Raiano in una mattina di giugno del 1772, a quasi un anno dalla querela: dall’intercettazione in confessionale della donna alla pubblica sua umiliazione davanti all’altare, nella chiesa stracolma, in ginocchio davanti a don Domenico, il passo fu bre­­­­­219

ve. Piangendo a dirotto, lei gli «restituì la fama», dichiarò a voce alta e intelligibile il suo errore, cercò di baciargli i piedi, cosa che lui magnanimamente rifiutò; poi fu vista ritornare al confessionale, per ottenere l’assoluzione e potersi comunicare con tutti i compaesani. Cinque anni dopo, quando il sacerdote, che nel frattempo era incappato in altri incidenti giudiziari, reclamò la ‘regolarizzazione’ della sua posizione processuale, una delle testimoni inizialmente solidali con la donna sostenne che in realtà Grazia non godeva di buona fama e che al tempo della missione s’era scoperta l’innocenza del prete. Siccome sapeva di aver dichiarato tutt’altro nel 1771, per togliersi dagli impicci accusò il delegato vescovile che l’aveva esaminata di aver scritto nel verbale cose da lei non dette72. Un epilogo così pesante resta per ora isolato. Come si è accennato, i missionari italiani non s’immischiano volentieri in dinamiche repressive e collaborano poco anche con gli inquisitori; preferiscono riappacificare e sedare, non colpevolizzare, o, almeno, sono soliti presentare così i propri interventi. Sorprende però che nella vastissima documentazione esaminata tra Cinque e Settecento l’unico riferimento a un intreccio così sconcertante tra missioni interne ed esigenze di tutela del clero delinquente sia così tardivo. Potrebbe essere un caso o un’impressione ingannevole, dovuta alla reticenza delle fonti. Ma non si può escludere che specialisti di così alto spessore culturale e religioso, in un momento di crisi profonda della giustizia penale della Chiesa, abbiano contribuito a riequilibrare le voragini aperte dalla controffensiva dello Stato con scelte di inaudita gravità, come quella che ‘sistemò’ per

72   Il documento è in ASN, Archivio della Cappellania Maggiore, Processi diversi, 1101/1, II serie numerata (c. 1r-v, querela del 21 giugno 1771; cc. 11r23r, escussioni dei testi nel luglio seguente; cc. 33r-43r, tre interrogatori del L. nell’agosto del 1771; c. 86r-v, ritrattazione della donna, nel marzo del 1772; cc. 87r-99v, la conclusione, nell’aprile del 1777). Non è stato possibile identificare i missionari venuti da Napoli. Nulla risulta da ASDN, Congregazione delle Apostoliche Missioni, 76 (il volume che raccoglie i resoconti della attività della celebre istituzione napoletana tra il 1771 e il 1772). Sulla giustizia ecclesiastica nel Settecento meridionale, con particolare riferimento all’Inquisizione, vedi la recente, ricca ricostruzione di P. Palmieri, Il lento tramonto del Sant’Uffizio. La giustizia ecclesiastica nel Regno di Napoli durante il secolo XVIII, in «Rivista storica italiana», 123, 2011/1, pp. 26-70.

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sempre la dolorosa vicenda di Raiano. Nel corso dell’Ottocento in Italia il privilegio di foro sarebbe stato cancellato, ma nel tardo Settecento le avvisaglie di quella svolta c’erano già tutte. Per difendere adeguatamente l’onore del clero, per ottenere risultati che le aule di tribunale non potevano più garantire, bisognava inventare alternative nuove. La vicenda abruzzese ci sembra un buon esempio dell’intelligenza politica e della lungimiranza con cui la Chiesa romana cominciava ad attrezzarsi, verso la fine di un secolo difficile, per rispondere ovunque, non solo nel giardino del papa, alle sfide della modernità.

Indici

Indice dei nomi*

Abbatiello, A., 86. Ajello, R., 178. Alberigo, G., 34, 40, 52. Alberti, Nicola, arcidiacono, 149. Albizzi, Francesco, cardinale, 76. Aldobrandini, Cinzio, cardinale, 99, 104, 106. Aleandro, Girolamo, nunzio apostolico, 27-29, 35. Alessi, G., x, 14, 218. Algeri, G., 199. Amabile, L., 175. Anastasio, E., x. Andriolich, Marco, prete, 119. Angelo, V., 21. Angelozzi, G., 103, 135, 209. Antonielli, L., 210. Aretino, Pietro, letterato, 215. Armando, D., 209. Arnaldi, G., 16. Ascheri, M., 17. Aubert, A., 24. Aymard, M., 64.

Badoer, Giovanni Alberto, cardinale, 194. Baldassari, M., 165. Balsamo, Giovampietro, chierico, 94. Banfi, A., 15. Barbarigo, Gregorio, cardinale, 194. Barbierato, Iacopo, 153. Barblan, G., x. Barilari, Battista, prete, 37. Barnes, B., 162, 204. Barraso, Giulio, 167. Barzazi, A., x, 176, 193-194. Basile, Giulio Cesare, 164. Battaglini, Andrea, 156. Bazán y Manriquez, Ferdinando, arcivescovo, 198. Belardini, M., 126. Belhomo, Giovanni, 5. Bellabarba, M., x, 14, 102, 104, 180, 217. Bellarmino, Roberto, cardinale, 184. Belloni, C., 18. Belluga, Pietro, 113.

  * Sono stati inseriti tutti i nomi di persona citati nel libro (con la sola iniziale del nome di battesimo quelli dei contemporanei) tranne quelli riguardanti persone di cui si ignora il cognome.

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Bendiscioli, M., 112. Benedetti, R., 183. Bentivoglio, Girolamo, vescovo, 136. Benzoni, G., 106, 193. Bernardini, P., 163. Berzicca, Angela, 170. Berzicca, Girolama, 170. Bianchi, S.A., 18. Bianco, Giovan Battista, prete, 151. Bianconi, S., 78, 80, 87, 152. Bizzocchi, R., 18. Bizzochi, Andrea, vicario generale, 83. Black, Ch.F., 62, 72. Blauert, A., 15. Blet, P., 57, 122. Boncompagni, Francesco, cardinale, 196, 200. Bonelli, Michele, cardinale, 45, 4950. Bonomi, Giovan Francesco, vescovo, 61. Bonora, E., x, 34, 47, 57. Bornstein, D., 18. Borromeo, Carlo, cardinale, 43, 59, 61, 69, 77, 79, 83-84, 112, 122, 131, 137. Borromeo, Carlo, religioso, 119. Borromeo, Federico, cardinale, 208-209. Brambilla, E., 196, 210. Broggio, P., 80, 104. Brumano, Cesare, nunzio apostolico, 51, 129. Bruzich, Giovanni, prete, 205. Buonarroti, Michelangelo, 161. Buontempo, Giovan Pietro, frate, 158. Buonvisi, Girolamo, cardinale, 196. Burali d’Arezzo, Paolo, cardinale, 160, 162. Buschbell, G., 25. Busnelli, M.D., 177. Caetani, famiglia, 211. Caiazza, P., 78, 187.

Calzolari, M., 103. Camaiani, Pietro, vescovo, 60. Campanella, Tommaso, 174, 177, 207. Campeggi, Filippo Maria, vescovo, 9-12, 38, 53, 67, 79, 88. Campeggi, Lorenzo, cardinale, 2324. Candau Chacón, M.L., 13. Canobbio, E., 18. Capitani, O., 17. Cappello, Paolo, prete, 32. Capra, C., 104. Caputi, Grazia, 219. Caracciolo, Innico, cardinale, 200. Carafa, Francesco, arcivescovo, 30. Carafa, Gian Pietro, vedi Paolo IV. Carloni, Alessandro, 6. Carnesecchi, Pietro, 28-29. Carnevale, D., x. Caroli, D., 216. Carpete, Bartolomeo, prete, 149. Carratori Scolaro, L., 38. Caruso, A., 87. Casanova, C., x, 14, 103, 135, 209. Casanova, Domenico, parroco, 1012. Casella, Gennaro, 168. Cassese, M., x. Castelli, F., x. Castelli, Giovanni Battista, vescovo, 56-57, 60, 83-84, 109, 129. Cataneo, Rocco, uditore generale, 115-116. Catoni, G., 191. Cavalieri, Giovanni Michele, 71. Cavalleri, O., 63. Cecchi, L., x, 69. Centa, C., x, 10, 24. Cervini, Marcello, cardinale, 25. Cestaro, A., 127. Chabod, F., 103-104. Chiodi, G., 103. Chironi, G., 191. Chittolini, G., 18, 188, 196.

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Cicerao, Giovan Battista, prete, 166-167. Cicerchia, A., 103, 135, 178, 182. Ciola, Giannino, 150. Clemente VIII, papa, 182. Clesio, Bernardo, cardinale, 25. Comenford, K.M., 172. Comuzzi, S., 70, 204. Coppola, Paolo, vicario generale, 32. Corcillo, Minico, 168, 170. Cosimo I de’ Medici, granduca di Toscana, 103-104. Costagliola, A., x. Costagliola, P., x. Costagliola, T., x. Cozzi, G., 103, 106, 176, 193, 212. Criscuolo, V., 71. Cristellon, C., 18. Cristoforetti, G., 25. Croci, Giovanni Andrea, vescovo, 136. Cuggiò, Nicolò Antonio, canonico, 183. Curzel, E., 18. D’Agnese, M., 218. Dalla Misericordia, M., 18. D’Amato, Francesco, chierico, 160, 162. D’Ancona, Ferrante, 170. Daniele da Volterra, 161. D’Anna, Giovanni Berardino, chierico, 92. de Acampora, Clemente, 158. De Acugna, Giovanni, vescovo, 128. de Adamo, Giovanni Berardino, chierico, 94. de Alvis, Girolamo, 93. De Benedictis, A., 189. de Bernardo, Francesco, chierico, 143, 145. de Boer, W., 76, 80, 172. de Cannice, Antonio, 153. de Cominis, Giovanni Maria, prete, 85.

de Corderiis, Iacobo, pievano, 89. de Courcelles, D., 215. De Cristofaro, M.A., 127. de Florio, Fabrizio, chierico, 162. de Forma, Giovanni Carlo, parroco, 153. De Franceschi, S.H., 176. De Gaudio, Ludovico, chierico, 94. D’Egizio, Marco (Marcoffo), chierico, 143-146. De Grigis, Ludovico, frate, 119, 166. Del Col, A., 27, 72, 75, 186. deli Mandi, Lisa, 168. Della Bagnara, Fabrizio, suddiacono, 91. Delle Donne, R., x. Del Mastro, Giulio Giacomo, 37. delo Campo, Claudio, 164. De Luca, Giovan Battista, cardinale, 189. De Ludovici, Girolamo, prete, 120. De Maio, R., 30, 162, 201. De Marco, V., 64, 178. De Martino, Giovan Giacomo, 206. De Nobili, Giovan Battista, prete, 120. De Nunzio, Berardino, 164. De Olzinio, Giovanni, canonico, 123. de Pascale, Giovanni Angelo, chierico, 151. D’Errico, G.L., x. Desiderati, Paolo, prete, 146. de Tomaso, Felice, 205-206. de Urbieta, Giovanni Stefano, vescovo, 71. de Vendola, Girolamo, 204. Diaz de Lugo, Juan Bernardo, vescovo, 36, 80. di Campoli, Michele, 100. di Capua, Annibale, cardinale, 73, 91. Di Carluccio, Andrea, chierico, 164. Diedo, Nicoletto, pievano, 98. Diefendorf, B.B., 204.

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Frank, F.M., ix. Franklin, M.J., 16. Fusco, Paolo, vescovo, 78-79.

Di Giovanni, F., 178. Di Nola, Giovan Domenico, 153. Dionisio, Antonio, 83. Di Rienzo, E., 93. Di Simone, M.R., 103. Di Simplicio, O., 14, 191, 199, 204. Di Sivo, M., 103. Dolfin, Giovanni, cardinale, 194. Donati, C., 180, 188, 210. D’Orofino, Bartolomeo, prete, 130. Dovere, U., ix-x, 153, 215. Duggan, C., 17. Durand, B., 13, 16, 140, 216. Edigati, D., 178. Ernst, G., 175. Eubel, C., 71, 129. Facchinetti, Giovanni Antonio, 45, 48-50. Facinio, Lelio, chierico, 159. Fanacci, Salvatore, parroco, 108, 110. Fasana, R., 87. Fasani, A., 26. Fassanelli, B., x, 14, 76, 165, 183, 186. Fernández Terricabras, I., 75. Ferrari, M.C., 18. Festa, Berardino, 162. Fieschi, Niccolò, nunzio apostolico, 43. Fineschi, S., 191. Fioravanti, M., 14. Firpo, L., 175. Firpo, M., x, 28, 40. Flachenecker, H., 210. Flüchter, A., 12, 21-22, 141. Follerio, Pietro, giurista, 36, 80. Fontana, P., x, 69, 191, 198, 201, 204. Formica, M., 103. Forster, M.R., 14, 140, 204. Fosi, I., 102-103, 179, 183, 211. Fragnito, G., x, 48, 57, 111, 188. Franceschini, Iacopo, parroco, 156.

Gaeta, F., 28. Galeotti, Pietro, prete, 149. Galli, Tolomeo, cardinale, 136. Gambacorta, Sigismondo, vescovo, 209. Garnot, B., 21. Génestal, R., 17. Genovese, Marco Antonio, vescovo, 80-81, 90, 92-94, 101, 137, 175. Gesualdo, Alfonso, cardinale, 73, 88-89. Ghezzi, A.G., 122. Ghislieri, Michele, vedi Pio V. Giannini, M.C., 82, 111, 184. Giberti, Gian Matteo, vescovo, 2627, 82. Gijón, Domenico, 93. Giovannucci, P., x, 194. Giugni, Bartolomeo, arcivescovo, 7. Giuliani, Antonio, parroco, 150. Giuntini, Sebastiano, parroco, 9496. Giuseppe da Potenza, frate, 89. Goglia, M., x. Golia, G., ix. Gonzaga, Ludovico, vescovo, 209. Gordon, B., 139. Grantaliano, E., 103. Greco, G., 48, 59, 71, 103. Gregorio I, papa, 16. Gregorio IX, papa, 17. Gregorio XIII, papa, 58, 132. Gregorio XIV, papa, 65, 178. Grendi, E., 14. Groppi, A., 70. Guasco, M., 44. Guerriero, Carlo, 170. Hall, M.B., 162. Harper-Bill, C., 16. Härter, K., 76. Hartmann, W., 16-17.

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Helmholz, R.H., 17. Henneau, M.-E., 155. Hesse, C., 204. Holzem, A., 14, 140, 215. Iacomelli, P., x, 20, 69. Illibato, A., ix-x, 30. Imbruglia, G., x. Imparato, Giovanni Berardino, chierico, 159, 161-162. Ingram, M., 139. Innocenzo XI, papa, vii, 177, 188190. Innocenzo XII, papa, 180, 189. Janse, W., 172. Jedin, H., 24, 34. Joannou, P.P., 34. Karant Nunn, S.C., 22. Konersmann, F., 14. La Matina, Diego, frate, 108. Lamia, Ercole, vescovo, 128-129, 133. Lancumba (Lancuba), Bartolomeo, prete, 206. Landi, F., x. Lang, P.Th., 21. Latini, C., 178. Lauro, A., 178, 189. Lauro, G., x. Lelio da Brescia, frate, 121. Leonardi, C., 34. Leone, Giovanni Francesco, vescovo, 200. Lepore, Domenico, prete, 219. Lesne-Ferret, M., 13. Levantino, L., x. Lippi, Nicolò, parroco, 202-203. Lippomano, Luigi, vescovo, 25. Locatelli, Girolamo, pievano, 89, 97-98, 123. Loffredo, S., ix. Lolli, Ascanio, prete, 95. Longhitano, A., 73, 197, 199.

Lopez, P., 93. López de Cisneros, Giovanni, inquisitore, 108. Lorenzo di Giuliano, prete, 166. Luongo, G., 106. Lupato, Luigi, prete, 85, 97, 123. Luperini, S., 95. Lurano, Francesco, primicerio, 85, 124. Lutero, Martino, 22. Maccarrone, M., 17. Maffei, Marco Antonio, cardinale, 57, 127-128, 148. Magni, C., 194. Malanima, P., x, 193. Mancino, M., 14, 19, 30-31, 33, 91, 101, 106, 153, 175, 201. Manco, Mariano, 167-168. Mannelli, Girolamo, vescovo, 60. Maranta, Lucio, vescovo, 127, 148. Marchant, R.A., 139. Marcocci, G., 150. Mariani, B., 18. Mariotto di Domenico, 156. Marra, Gabriele, 167. Masetti Zannini, A., 69, 191. Massa, V., x. Massaut, J.-P., 155. Mathieu, M., 16. Mattozzi, I., 189. Mazur, P., x, 111. Mazza, G., x, 70, 191. Mazzacane, A., 189. Mazzarella, Anna, 206. Mazzone, U., x, 40, 57, 59, 78, 135. McHardy, A.K., 16. Mei, D., x. Menniti Ippolito, A., 189, 193, 195197. Menozzi, D., 64, 187. Merlo, G.G., 18. Miccoli, G., viii, 18, 188, 196. Miculian, A., 61. Miele, M., x, 70, 73-74, 78, 86, 102, 132, 166, 196-197.

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Milillo, S., x, 47, 191, 199. Mirto, Fabio, vicario generale, 31. Moreno, Cicco, 164. Morosini, Gianfrancesco, patriarca, 194. Morris, C., 17. Musso, Cornelio, vescovo, 34. Muto, G., x. Napoli, M.T., 36. Nestapolei, Girolamo, canonico, 149. Niccoli, O., 40, 104, 158, 163. Nichessola, Troilo, arciprete, 121. Nicolò III d’Este, marchese, 18. Ninguarda, Feliciano, nunzio apostolico, 78-81, 86-87, 137. Nocera, P., ix. Noto, M.A., 112. Nubola, C., 14, 21, 76, 79-80, 152153. Nuzzi, Cesare, vicario generale, 108-110. Odescalchi, Benedetto, vedi Innocenzo XI. Odescalchi, Paolo, nunzio apostolico, 43. Orfini, Tommaso, vescovo, 45-46, 57, 60. Outhwaite, R.B., 139. Pagani, F., x, 69. Pagano, S., 82, 99, 104-105, 111. Paiva, J.P., 141. Paleotti, Gabriele, cardinale, 136. Palmieri, P., 220. Palomares, Antico, 93. Palomo, F., 187. Paoli, M.P., 104. Paolo V, papa, 16, 175, 179-180, 182. Parish, H., 12. Pastor, L. von, 162. Pastore, N., x. Pellegrino, B., 180.

Pelusio, Pietro, prete, 89. Percaccio, Gennaro, 92. Perrotta, G., x. Perrotti, G., 78. Peverada, E., 18. Pezzini, Pietro, pievano, 89. Pfeiffer, U., 17. Piazza, K., x. Pin, C., 16. Pingue, Giovanni, arciprete, 201. Pio IV, papa, 34, 47. Pio V, papa, 44-45, 48-49, 57-58, 110. Pisano, Ottaviano, chierico, 92. Pitkin, B., 172. Pizolotti, Giovanni Nicola, pievano, 154. Pizzini, K., x. Pizzorusso, G., 126. Polonio, V., 199. Postiglione, A., 209. Povolo, C., 103, 193. Pratello, Francesco, inquisitore, 109. Prodi, P., 14, 34, 40, 57, 79, 172, 176. Prosperi, A., 26, 72, 104, 187. Puff, H., 21. Pulverino, Luigi, chierico, 20. Put, E., 216. Quaglioni, D., 14, 95. Quaranta, C., 40. Ragazzoni, Girolamo, nunzio apostolico, 122. Ramos de Carvalho, J., 141. Ranieri di Bartolo, 8. Rao, A.M., x, 209. Raponi, N., 59-60. Regazzola, Egidio, frate, 195. Reinhard, W., 14, 40, 79. Rendina Girolamo, canonico, 146. Ribeiro da Silva, H., 141. Ricciardi Celsi, F., 63. Rinuccini, Matteo, arcivescovo, 7. Rocciolo, D., x, 70, 183.

­­­­­230

Rocco, Tommaso, prete, 101. Romano, A.S., x. Romeo, Gioacchino, x. Romeo, Giovanni, 12, 24, 35, 47-48, 52, 54, 59, 62, 72, 74-76, 95, 109112, 129, 131-132, 153, 159, 162, 175, 185-186, 200, 218. Rosa, M., 48, 196, 215. Roselli, G., 70, 115, 176, 178, 198. Rosso, Paolo, 147. Rosso, Stefano, 147. Rostagno, M., x. Rotondi, Giovanni, canonico, 113114. Royer, J.A., 216. Ruoppolo, Antonio, chierico, 159. Rurale, F., 48, 184. Rusconi, R., x, 48. Russo, F., x. Russo, Pietro Antonio, chierico, 129. Russo, Tommaso, 159. Sacchetti, G., x, 191. Sagredo, Alvise, patriarca, 194. Salodi, Paolo, canonico, 79, 83, 88, 137. Salomone, C., ix. Sanfilippo, M., 126. Sangalli, M., 54, 172. Santadomenica, Giovanni Maria, parroco, 156-157. Santarelli, D., x. Santoncini, G., 179. Santoro, Giulio Antonio, cardinale, 100, 132, 136. Sanz Ripa, E., 17. Sarpi, Paolo, frate, 16, 176-177. Sartorelli, D., x. Sasso, Vincenzo, frate, 117. Savelli, Giacomo, cardinale, 7. Savelli, R., x. Savino, Eugenio, vescovo, 70, 86, 100. Saya, Giovan Battista, prete, 167. Sberta, Raffaele, 92-93. Sbriccoli, M., 14.

Scacchi, Girolamo, uditore generale, 123. Scaramella, P., x, 158. Scaramelli, Francesco, pievano, 3-8, 38. Schimmelpfennig, B., 17, 22. Schirillo, Giuliano, chierico, 159. Schmitt, M., 162. Schorn Schütte, L., 16, 22, 139. Schwarz, B., x, 78, 80, 87, 152. Schwerhoff, G., 14-15. Sciascia, L., 108-109. Scomparin, Giovan Battista, archivista patriarcale, 19, 24, 69, 89, 96-99, 115, 124, 146, 176, 197198. Scott Dixon, C., 16, 22, 139. Scribner, R., 23. Segala, F.A., 26. Segarizzi, A., 104. Seidel Menchi, S., 14, 95. Sella, D., 104. Seripando, Girolamo, cardinale, 36. Sersale, Orazio, chierico, 91-92. Signori, L., x, 69. Signorotto, G., 189. Silvestrini, M.T., 217. Sirignano, G., x. Sisto IV, papa, 161-162. Sisto V, papa, 53-54, 58, 62-63, 65, 105, 132, 134, 179. Sorece, Francesco, 204. Speraindeo, Giacomo, prete, 195. Starace, Giovan Vincenzo, 105. Stella, A., 44, 48. Stella, Francesco, prete, 204. Storey, R.L., 16. Storey, T., 13. Strina, Maddalena, 158. Swanson, R.N., 16. Tabacchi, S., 179-180, 189. Tabbagh, V., 21. Taccolini, M., x, 69. Taddia, E., 215. Tani, Roberto, uditore generale, 155.

­­­­­231

Tappia, Carlo, giudice, 93. Tasso, Paolo, arcivescovo, 130. Tauromino, Giulio, chierico, 92. Taverna, Ludovico, nunzio apostolico, 99, 104, 106. Tedeschi, J., 72. Teruonto, Francesca, 170. Teruonto, Nicola, prete, 168-169. Teruonto, Vittoria, 170. Tiepolo, Giovanni, patriarca, 176. Timbal Duclaux de Martin, P., 1516, 178. Torre, A., 44. Torre, Giovanni Andrea, frate, 129. Tramontin, S., 84. Trapani, Giacomo, prete, 94. Trebbi, G., 193. Trevisan, Giovanni, patriarca, 77, 85. Troccoli, C., x, 88. Turchini, A., x, 14, 21, 57, 79, 83, 112. Turco, Andrea, 168. Turco, Marcantonio, 168. Turco, M., x. Ulianich, B., 177. Ulivo di Ulivo, prete, 149.

Urbano VIII, papa, 183. Valente, M., x. Valier, Agostino, cardinale, 61, 82. Van Gulik, G., 71, 129. Varriale, F., ix. Venard, M., 57. Venturi, F., 217. Veronese, Caterina, 203. Vicedomini, Pietrantonio, vicario generale, 130. Villani, P., 43, 45-47, 51. Visceglia, M.A., 189. Vismara, G., 15. Vitale, Albenzio, chierico, 143-146. Vleeschouwers-Van Melkebeek, M., 16. Wiesner Hanks, M.E., 140. Xeres, S., 78. Zaghi, Giovanni, parroco, 147. Zanato, T., 106. Zarro, R., 69, 86. Zavatti, G., x. Zorzi, A., 14.

Indice dei luoghi*

Abruzzo, 111, 218. Acerra, 73, 130, 192-193, 196. Acquapendente, 34. Acqui, 56, 73, 134, 209. Agrigento, 73. Alatri, 192-193, 209, 211. Alba, 49, 73, 209. Albano (Albano Laziale), 86, 136137. Alessandria, 131, 188. Alessano, 129, 133. Anagni, 86, 135. Aquileia, 73, 75, 117, 154, 182, 185, 192, 194, 208. Aquino, 196. Ardea, 104-105. Arezzo, 73. Assisi, 182. Augusta (Augsburg), 23. Austria, 9, 78, 207.

Avane, 95. Aversa, 91-92. Avignone, 57. Barzago, 112. Benevento, 73, 111-112. Bergamo, 73, 122, 126, 192. Bitonto, ix, 20, 34, 191-192, 197, 199. Bologna, 23, 136, 192, 208-209, 211. Borgogna, 140. Bracciano, 135. Bratislava, 139-140. Brescia, ix, 69, 73, 121, 191-192, 196-197. Buti, 150-151. Caiazzo, 133. Calabria, 174, 176-177. Calahorra, 36.

* Sono stati inseriti tutti i luoghi menzionati nel testo, con l’esclusione di Italia (che ricorre spessissimo, in quanto è l’area studiata). Quanto a Roma, citata quasi sempre in riferimento ai poteri centrali della Chiesa, e a Trento, presente per lo più in rapporto all’omonimo concilio, sono state annotate solo quando figurano come città. Tra parentesi sono i nomi contemporanei delle località, quando siano diversi da quelli indicati nelle fonti studiate.

­­­­­233

Calci, 95. Camerino, 134. Campania, 31, 37, 163. Canterbury, 16. Capaccio, 20, 37, 69-70, 73, 83, 8788, 90, 126, 191, 199. Capodistria, 119. Capua, 20, 73, 133, 191, 199. Casalduni, 201. Cascina, 149. Castellammare di Stabia, 32, 101. Castel Morrone, 92. Catania, 73, 197, 199. Cava de’ Tirreni, 87-88. Cernusco sul Naviglio, 112. Cerreto Sannita, 20, 69, 200. Chambéry, 50. Cherso, 115. Cittaducale, 56. Coira, 73, 208. Como, 50, 52, 73, 78, 80, 87, 111, 208. Concordia (Concordia Sagittaria), 75, 117, 155. Conversano, 191, 197. Corneto (Tarquinia), 183. Corsica, 58. Cortona, 58. Crema, 192. Cremona, 73, 111, 180. Curzola, 73. Cusano Mutri, 200. Dalmazia, 111, 192. Emilia, 135. Enna, 199. Feltre, 9-10, 38, 73, 192, 217. Ferentino, 131. Ferrara, 18, 182. Fiesole, 56. Firenze, ix, 6-9, 35, 47, 49, 73, 126, 191-192. Fivizzano, 217-218. Foligno, 60.

Fondi, 73. Francia, viii, 21-22, 57, 73, 122, 140, 175, 216. Frascati, 136-137. Genova, ix, 69, 73, 191-192, 196, 198, 201, 212. Gerace, 189. Germania, 14, 20, 23, 73, 78, 140. Ginevra, 24. Gioi, 87-88. Gragnano, 91. Grosseto, 73. Guardia (Guardia Sanframondi), 200. Ischia, ix. Isola d’Elba, 37. Lacedonia, 73. L’Aquila, 129, 181. Lazio, 34, 48, 75, 86, 135, 163. Levico, 10-11, 15, 35, 38, 53, 67, 79, 107. Liguria, 210. Lonato del Garda, 27. Lorena, 57. Lucania, 31, 127, 147. Lucca, 73, 95, 196. Lunigiana, 218. Mantova, 111. Marche, 86, 135. Masi, 202. Massa Carrara, 65. Mezzana, 150. Milano, ix, 69, 73, 79-80, 83, 103104, 111-112, 122, 131, 137, 171, 191-192, 196, 208-209. Mileto, 177. Modena, 73. Moggio Udinese, 70. Molfetta, 34. Molina di Quosa (frazione di S. Giuliano Terme), 108. Moneglia, 198, 204.

­­­­­234

Montalto delle Marche, 86, 135, 209. Montefiascone, 136, 191. Montepeloso (Irsina), 127, 134.

Pontasserchio, 4. Pontedera, 149. Pozzuoli, ix, 20, 73. Puglia, 31.

Napoli, v, ix, 19-20, 24, 29-33, 35, 37, 43, 45, 47-48, 51-52, 55, 57, 69-70, 73, 75-76, 80-81, 83, 88, 90-93, 95, 98-100, 105, 111-112, 126, 129-130, 137, 143, 151-153, 156, 158, 160-163, 166, 168, 171, 173-174, 177, 182, 185, 188-192, 195-199, 202, 206, 208-211, 215216, 218-220. Nepi, 34, 135. Nicotera, 183, 188. Nocera Umbra, 60. Nola, 31, 73. Norimberga, 23.

Raiano, 219, 221. Ratisbona, 21. Ravenna, 18. Reggio Emilia, 111. Rigoli (frazione di S. Giuliano Terme), 3-5, 7-8, 15, 35, 38, 107, 114. Rimini, 56. Ripafratta, 150. Ripatransone, 183. Roccaraso, 219. Roma, ix, 13, 28-29, 33-34, 43-44, 47, 49-50, 54-57, 59, 61-64, 67, 70, 72, 75, 87, 91, 100, 104-105, 109, 126129, 132, 134-136, 138, 148-150, 165, 175, 178, 180-182, 187-189, 192, 195, 200-201, 206, 212. Romagna, 135. Russia, 216. Ruvo (Ruvo di Puglia), 186-187.

Orvieto, 35. Ossana, 25. Ostiglia, 27. Ostuni, 55. Otranto, 133. Padova, 29, 44, 73, 176, 194, 202, 210. Pago, 116. Palermo, 73, 108, 192, 198. Palestrina, 136-137. Parenzo, 99, 121. Patmo, 160. Pavia, 111, 188. Perugia, 187. Pettori, 94-96. Piemonte, 50, 210. Pienza, 191. Pisa, ix, 4-5, 7, 12, 20, 24, 37-38, 69, 73, 83, 85, 90, 95, 108-110, 126, 129, 149-150, 155, 191, 196. Pistoia, ix, 20, 65, 69, 191. Pola, 49. Polignano, 13. Pollena (Pollena Trocchia), 156158.

Sabina, 136. Salento, 129. Salerno, 36, 88, 132. S. Giovanni alla Vena, 155. Sannio, v, 201. S. Agata dei Goti, x, 69-70, 78, 86. S. Maria Maggiore (S. M. Capua Vetere), 199. S. Anastasia, 31. Santo Stino di Livenza, 154. Sarno, 69-70, 78, 191. Sarzana, 218. Savoia, 49-51, 57, 111, 126, 208-210. Savona, 73. Scala, 78, 87. Sebenico, 111. Seminara, 177. Sicilia, 197, 201. Siena, 14, 73, 191, 204, 210. Smarano, 26. Solopaca, 200.

­­­­­235

Sorrento, 32. Sovana, 56. Spalato, 113, 149. Spira, 140, 204. Spoleto, 189. Sulmona, 219. Sutri, 135. Svizzera, 20, 24. Svizzera italiana, 86, 152, 192, 207208. Telese, 20, 69-70, 73, 83, 86, 90, 99, 126, 190, 192, 197, 199, 209-211. Tivoli, 135-136. Torcello, 123. Torino, ix, 47, 49, 73, 126, 191-192, 196, 209, 217. Tortona, 56. Toscana, 51, 53, 55, 163, 210, 217. Traù, 73, 88-89, 112-113, 115, 122. Trentino, 12, 152, 192, 197, 208, 215. Trento, ix, 25, 30, 33, 80, 153, 191, 196-197, 208. Treviso, 116. Valcamonica, 27.

Vallo della Lucania, ix, 37, 70, 88, 191. Valtellina, 61, 73. Vecchiano, 150-151. Veglia, 73, 195, 205. Veneto, 154, 163, 166, 194-195, 201, 210. Venezia, v, ix, 19-20, 24, 27, 32-33, 35, 44, 47, 51, 69, 73, 77, 83, 8990, 96, 98-99, 104-105, 112-115, 117-118, 122-124, 127, 129-130, 146, 149, 154, 173, 175-176, 191194, 196-199, 202-203, 207-208, 212, 216. Ventimiglia, 73, 126, 192. Vercelli, 126. Veroli, 181. Verona, x, 25-26, 30, 33, 73, 121, 192. Vestfalia, 140, 215. Vienna, 23. Villers-Cotterêts, 140. Zamora, 139-140. Zara, 116. Zurigo, 139.

Indice del volume

Premessa

v

Ringraziamenti

ix

I. Una ‘bottega di candele’, l’assalto a una canonica

3

II. Un concilio in soffitta?

39

III. Una giustizia di parte

68

IV. Resistenze. Il clero delinquente contro i suoi giudici

108

V. Verso la quaresima, lentamente. Preti, frati e chierici italiani di fine Cinquecento

143

VI. Ipotesi sul Seicento

174



Indice dei nomi

225



Indice dei luoghi

233

­­­­­237