Potere criminale. Intervista sulla storia della mafia

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Salvatore Lupo

POTERE CRIMINALE Intervista sulla storia della mafia a cura di Gaetano Savatteri

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel settembre 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9338-1

Prefazione di Gaetano Savatteri

La storia di Cosa Nostra coincide con la storia d’Italia. Certo, la storia della mafia non spiega tutta la storia italiana, ma serve a comprenderne alcuni aspetti cruciali. E infatti non è un caso che il dibattito sulla mafia siciliana sia nato nel momento in cui la nazione assumeva la sua forma attuale, continuando a segnarne per sempre gli snodi nevralgici. All’indomani dell’unificazione, l’Italia scoprì la mafia. Ma in realtà, la mafia si rivelò alla stessa Sicilia, che l’aveva vista nascere e crescere, sia pure senza riuscire a darle nome né identità, fin quando non si trovò costretta a confrontarsi con altri modelli di convivenza civile, con altri istituti giuridici, con altre norme sociali. Paradossalmente, l’aspetto criminale costituì da subito il profilo più cupo e drammatico, gravido di ambiguità, con il quale la Sicilia e l’intero Mezzogiorno si affacciarono sul palcoscenico nazionale, finendo per condizionare le vicende politiche italiane. Investigatori, magistrati e osservatori sono concordi nel dire che oggi Cosa Nostra attraversa uno dei periodi di maggiore indebolimento della sua storia lunga più di centocinquant’anni: capi mafiosi in carcere, condanne esemplari, confische di beni, crisi di vocazioni. È possibile che Cosa Nostra si stia avviando verso il suo crepuscolo, d’altra parte Giovanni Falcone prevedeva che prima o poi, coV

me tutti i fenomeni umani, la mafia avrebbe avuto fine. Ma nel momento in cui altre organizzazioni criminali – camorra napoletana, ’ndrangheta calabrese, mafie straniere – prendono vigore e conquistano allarmati titoli sui giornali, è probabile che Cosa Nostra si stia preparando a cambiare ancora una volta faccia, metodi e strategie, per sopravvivere ai tempi nuovi. In ogni caso, è proprio questo il momento per provare a delineare un quadro compiuto del fenomeno. Opera apparentemente semplice, vista la gran mole di informazioni, studi, analisi, indagini che da un secolo e mezzo riempie gli scaffali delle biblioteche e gli archivi dei tribunali. Eppure, la fatica sta proprio nel sapersi districare tra interpretazioni falsate, luoghi comuni, formule consunte. La storia della mafia è disseminata di false piste: non soltanto investigative, ma soprattutto culturali. Alcune frutto di teorie troppo rigide, di distrazioni sociologiche, di schemi precostruiti; altre, invece, elaborate ad arte dalla mafia stessa, che ha saputo costruire la propria mitologia, inventando immagine, tradizioni e mistificazioni. Per muoversi dentro questo labirinto, era necessario rivolgersi a uno studioso capace di avere sguardo lucido e mente sgombra: il mio incontro con Salvatore Lupo, uno dei pochi storici che ha scelto un approccio scientifico alle cose di mafia, è diventato un confronto forte di idee, non sempre tra noi coincidenti, ma in grado di produrre stimoli, sollecitazioni e considerazioni che rompono schemi consolidati e offrono una lettura inedita della storia della mafia. La storia della mafia non è la storia dell’Italia, appunto. Ma dentro la storia di Cosa Nostra, c’è molto dell’Italia: c’è la storia dell’antimafia, ad esempio. Con i suoi esempi più luminosi, ma anche con i suoi errori. Attraverso la storia della mafia è possibile leggere, in filigrana, l’attualità con le sue pagine oscure, i suoi vizi e i suoi meriti, riuscendo a trovare un codice per decifrare alcuni di quelVI

li che chiamiamo i «misteri d’Italia», ancora oggi al centro del dibattito nazionale. Prima e durante le nostre conversazioni, che costituiscono l’ossatura di questa intervista, con Salvatore Lupo ci siamo trovati subito d’accordo su due cose. Una riguardava il metodo: abbiamo scelto di procedere cronologicamente, a partire proprio dal momento in cui la parola mafia è entrata a far parte del patrimonio linguistico e culturale d’Italia. Su un altro principio abbiamo trovato un’intesa ancor più immediata: sfuggire alle trappole dei luoghi comuni, perché siamo entrambi convinti, a differenza di un malinteso gattopardismo, che non sia affatto vero che cose e uomini in Sicilia, e nel resto d’Italia, non cambiano. Semmai, è la retorica a non cambiare mai. Quella stessa retorica sotto la quale sono state sepolte molte, troppe, vittime della mafia.

Ringraziamenti A Maddalena Bonaccorso che ha sbobinato buona parte delle nostre conversazioni. A Giovanni Taglialavoro che ha saputo dare i consigli giusti. Ad Anna Rita e Titti che sono state sempre vicine. E un pensiero speciale a mia mamma, che non ha avuto il tempo di leggere questo libro (g.s.).

POTERE CRIMINALE Intervista sulla storia della mafia

Capitolo 1

LA MAFIA SOMMERSA

GAETANO SAVATTERI Quando Bernardo Provenzano apparve per la prima volta in pubblico, l’11 aprile 2006, dopo la cattura nel casolare di Corleone dove si era conclusa la sua quarantennale latitanza, un lampo di delusione attraversò i pensieri di molti italiani: era solo un vecchio contadino, ma veniva descritto come il re dell’impero del male e comunque per decenni aveva beffato lo Stato. La ricotta e la cicoria trovate nel covo di Montagna dei Cavalli, alle porte del paese dove era iniziata la lunga carriera criminale di Provenzano, diventarono simboli di arretratezza e arcaismo che mal si conciliavano con l’immagine della Cosa Nostra capace di controllare affari, gestire denaro e influenzare il mondo. SALVATORE LUPO Provenzano di sicuro non ha costruito il suo potere in un eremo e mangiando cicoria, secondo la raffigurazione oleografica fornitaci dalla stampa al momento della sua cattura. S. Certo, sappiamo infatti che nel casolare dove è stato arrestato si era rifugiato solo negli ultimi mesi prima dell’arresto... L. Esatto. Il fatto che Saddam Hussein, braccato dagli americani, si fosse nascosto in una cloaca non vuol dire che vi risiedesse abitualmente. Nessuno ha fatto facile socio3

logia su di lui o sul suo partito Bath partendo dalla fogna in cui è stato trovato. Non si sarebbe dovuta nemmeno fare sociologia su Provenzano e la sua mafia traendo chissà quali conclusioni minimizzanti dal rifugio rupestre dove passò l’ultima fase della sua latitanza, dai suoi pasti a base di ricotta e cicoria. S. Resta però il fatto che l’immagine di Provenzano costretto a rifugiarsi in un casolare di Corleone riproponeva l’idea di una mafia paesana e contadina. Ancora una volta antico e moderno stridevano, come spesso avviene rileggendo la storia della mafia. L. È questo uno dei temi nodali della secolare discussione attorno alla mafia: la sua stessa esistenza mette in crisi il nostro concetto di modernità... per troppo tempo ci siamo raccontati la favola che la mafia fosse figlia del sottosviluppo. Poi abbiamo invertito i termini del discorso, dicendo che il sottosviluppo è figlio della mafia. Ma entrambe le proposizioni sono errate. S. La nostra conversazione servirà proprio a capire se hai ragione. Ma voglio restare per il momento su Provenzano, sull’ultimo grande capo dei capi di Cosa Nostra. L. Dubito fortemente che Bernardo Provenzano abbia esercitato un potere dittatoriale. La verità è che l’ossessione per il capo dei capi, amplificata dal gergo giornalistico e anche da fiction televisive, banalizza oltre misura il nostro ragionamento. Dal punto di vista pratico, poi, la cattura di un boss è un passo importante, ma per nulla definitivo nella lotta contro la mafia. S. Forse allora la definizione di capo dei capi è valida per Totò Riina che fino al 15 gennaio 1993, data del suo arresto, veniva indicato come il dittatore di Cosa Nostra... L.

Guarda, anche qui non guasterebbe qualche pruden4

za interpretativa. L’opinione pubblica, i politici, i giornalisti e, qualche volta, anche gli inquirenti, adorano immaginare un capo dei capi che trama nell’ombra e tutto decide. Può darsi che Riina fosse un uomo capace di dominare col consenso e il terrore il sistema di imprese, di gruppi e di gang che noi chiamiamo mafia, nonché un importante interlocutore per il mondo variegato che in qualche modo si connetteva con la mafia. Ammesso comunque che Riina abbia detenuto un potere personale straordinariamente ampio, c’è da chiedersi se questo non sia derivato da circostanze eccezionali. Dubito a maggior ragione che Riina abbia avuto predecessori o successori, come Luciano Leggio e poi Bernardo Provenzano. S.

Se Riina non era il capo dei capi, chi era allora?

L. Va premesso un dato: il personaggio Totò Riina fu inquadrato negli anni Ottanta esclusivamente sulla base di informazioni provenienti dai suoi arcinemici. Queste si sono rivelate molto attendibili per svelare i suoi misfatti; non è detto lo siano altrettanto per quanto attiene alle sue motivazioni, ai suoi argomenti, ai modi e ai limiti del suo potere. S. Stai dicendo che disponiamo di fonti di seconda mano, spesso interessate a restituire un certo profilo di Riina? L. Molto interessate, soprattutto nel caso del primo pentito di Cosa Nostra, quel Tommaso Buscetta che rivelò cose talmente importanti, talmente innovative, talmente risolutive da indurre gli inquirenti a non insistere sull’inverosimiglianza di alcune sue interpretazioni, in particolare di quelle che riconducevano ogni «degenerazione» di Cosa Nostra alla ferocia e al sadismo di Riina. S. Il risultato è che Riina appare come il boss sanguinario e spietato, mentre Provenzano si delinea come l’uomo della mediazione, dopo la stagione insanguinata delle stragi... 5

L. Mi chiedo: se noi avessimo avuto a suo tempo gli strumenti di conoscenza di cui oggi disponiamo, avremmo potuto attribuire a Riina un ruolo di analoga natura, il ruolo del mediatore tra fazioni, gruppi, personaggi diversi? Non c’è bisogno di chiamare in causa la mia competenza di storico di professione per spiegare che conosciamo attraverso le fonti. Ma le fonti non hanno tutte la stessa credibilità e non è indifferente che si debba o si possa far ricorso all’una o all’altra. La fisionomia dei boss di oggi ci viene delineata da intercettazioni telefoniche o ambientali e dai loro stessi scritti: i famosi pizzini di Provenzano, composti a fini interni, hanno dunque un livello elevato di credibilità. È appunto dai testi di Provenzano che noi traiamo l’impressione del grande mediatore, della persona autorevole, legittimata dall’esperienza del passato. È possibile che, dopo le stragi e l’arresto del suo compaesano Riina, Provenzano abbia tratto profitto anche da uno smarcamento più o meno repentino nei confronti della vecchia linea. In fondo è un classico di sempre dei sistemi politici: viene da pensare al ruolo che avrebbe potuto giocare Dino Grandi, se l’operazione da lui avviata con la seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 fosse andata in porto, garantendo così una transizione morbida dal fascismo al postfascismo. Provenzano consiglia, cerca di far sì che gli affari vadano avanti senza che i conflitti degenerino in violenza e tanto meno in guerra aperta. Catturato lui, un nuovo rischio di competizione si aprirà tra le fazioni guidate da Nino Rotolo e Salvatore Lo Piccolo, relativamente alla questione del ritorno in Sicilia degli Inzerillo, scappati in America durante l’ultima guerra di mafia, all’atto della presa del potere da parte corleonese. Il gioco è insomma collettivo, si sviluppa anche su tempi lunghi, si stringe e poi nuovamente si allarga determinando nuove leadership. Così almeno sarebbe stato se non fossero intervenuti gli inquirenti che fortunatamente marcavano stretti tutti questi soggetti. S. Restiamo al tema dal quale siamo partiti: se Provenzano è veramente il «viddano», il contadino della ricotta e del6

la cicoria, come riesce a gestire affari delicati e complessi come quelli della sanità? Bisogna pensare allora che non sia l’arcaico contadino a controllare direttamente i veloci business della modernità, ma che lo facciano per lui i suoi consulenti... L. O forse si potrebbe dire che è proprio Provenzano il consulente. S.

Consulente di chi e per che cosa?

L. Adesso mi inoltro nel gioco delle ipotesi plausibili, che vanno un po’ distinte (contrariamente a quel che molti usano fare) dai fatti provati. Allora: il problema che tu poni, e che moltissimi si sono posti, è quello cruciale. È mai possibile che alcuni rozzi contadinotti siano i capi di quella che è stata – e che ancora è – una delle più grandi organizzazioni criminali del mondo? Precisiamo innanzitutto cosa non è Cosa Nostra. Non è una holding. Non è una società per azioni. Non è un’impresa. È un’associazione criminale i cui affiliati sono a loro volta inseriti in sistemi di relazioni che li collegano ad altri soggetti, tra i quali figurano imprese, imprenditori e manager; categoria cui palesemente non appartenevano né Riina né Provenzano. Costoro, al pari dei loro predecessori, fornivano alle imprese o agli imprenditori servizi – perché ne venivano richiesti e/o perché obbligavano le une e gli altri ad accettarli, in una casistica che è infinita e non si può risolvere, se non ragionando caso per caso. In che campo Provenzano può essere stato un espertissimo consulente? Nella scienza del mettersi d’accordo o del modo di trattare quelli che non vogliono mettersi d’accordo. Un consulente su come si obbliga la gente a pagare i debiti, a onorare i crediti, a tenere fede alla parola data oppure su come si convincono alcuni a non pretendere che la parola data venga rispettata – pazienza, ci si deve adattare. Questo viene fuori dai pizzini, e veramente da tutti gli studi che rie7

scono a penetrare dentro il meccanismo elementare mafioso. Per il resto, escluderei che Cosa Nostra sia equiparabile a un’azienda, tanto meno a un’unica impresa che controlla in maniera centralizzata tutti i traffici. Insomma, escluderei che esista una Mafia Spa in grado di gestire tutto il malaffare. Eppure spesso si continuano a usare termini fuorvianti, a evocare questi concetti, e persino a citare cifre mirabolanti sul giro d’affari e i profitti di tale fantomatica impresa. Magari lo si fa in buona fede, per sottolineare la pericolosità del nemico. Alla lunga, però, lo schema è talmente fuorviante da rivelarsi controproducente. S. La Mafia Spa è un concetto che già circolava negli Stati Uniti ai tempi di Al Capone, quando il crimine veniva chiamato Murder Inc., cioè multinazionale del delitto... L. Ma anche allora, negli States degli anni Trenta, non c’era nessuna grande holding americana del crimine. C’erano piccoli affaristi-gangster particolarmente abili nell’eliminazione dei loro avversari, che vennero utilizzati quale gruppo di fuoco dai loro soci di più alto lignaggio: uomini come Vincenzo Mangano e Albert Anastasia, boss di un’organizzazione chiamata ai tempi Unione siciliana e che oggi chiamiamo Cosa Nostra. I giornalisti, gli inquirenti e gli studiosi pensarono che quella grande, complessa, stratificata organizzazione criminale fosse assimilabile al modello nitido, gerarchico e iperrazionale della grande corporation. A un esame più attento, si vede che la similitudine non funziona. Non funziona nemmeno nella riproposizione fatta da studiosi italiani come Pino Arlacchi nel libro La mafia imprenditrice, e nelle varie versioni successive. La mafia non è un’impresa e i mafiosi non sono degli imprenditori. S. Adesso non vorrai sostenere che non esistono imprese mafiose? 8

L. Ci sono imprese infiltrate o dominate da mafiosi, questo sì. Il caso più antico è quello delle aziende agricole condotte col sistema della gabella tra Otto e Novecento: in quel periodo molti mafiosi erano interessati alle varie fasi dell’intermediazione nel commercio degli agrumi. Un settore di gestione mafiosa classico, ma sempre attuale, è quello delle ditte concessionarie e subconcessionarie in campo edilizio. Oggi troviamo un po’ dappertutto i mafiosi – in Sicilia, ma anche in Calabria e in Campania – direttamente interessati alla grande distribuzione, ai supermercati. Parliamo di attività che non necessitano di particolare spirito manageriale, ma richiedono soprattutto la capacità di stare sul territorio. Per il resto, non possiamo definire imprenditore chi usa un’azienda per stipendiare gente impegnata in attività criminali, per gravarla di tangenti in qualsiasi forma, per riciclare merce rubata o capitali sporchi – provocandone il fallimento. C’è poi l’aspetto finanziario. Il mafioso che occulta i suoi denari in circuiti finanziari «protetti» dalla loro stessa complicatezza non è un imprenditore, come non siamo imprenditori io e te, quando mettiamo i nostri soldi in banca o li concediamo a un fondo di investimenti. C’è un che di fuorviante in questa enfasi sull’idea di una mafia finanziaria disancorata dal suo territorio, che è fatto di violenza, sangue, materia bruta. Leggo spesso che oggi la mafia avrebbe cambiato pelle, avrebbe abbandonato la sua natura primitiva, trasformandosi in una holding. Si dimenticano troppo facilmente Roberto Calvi e Michele Sindona, i loro progetti di conquista della finanza internazionale, i loro capitali misteriosi, le loro amicizie pericolose. Come si può sostenere, se non per avallare un indefinito crescendo retorico, che la mafia di oggi è più «finanziarizzata» rispetto a trent’anni fa? S. Referenti di Sindona erano boss considerati all’antica, come Stefano Bontate... L. Sì, può darsi che Bontate fosse per la finanza «sporca» un interlocutore più credibile dei corleonesi, ma ap9

punto questo dimostra che non siamo davanti a un ininterrotto processo «evolutivo», per cui la mafia si fa imprenditrice, finanziaria, borghese da miserabile e rozza qual era. S. Questa tua interpretazione rischia di travolgere le certezze processuali alle quali siamo arrivati: la prova, convalidata in Cassazione, che Cosa Nostra è – o quantomeno è stata, sotto la gestione del corleonese Totò Riina – una struttura verticale e fortemente centralizzata. L. Non voglio confutare nessuna sentenza, e tanto meno questa. Ci sono problemi interpretativi che non sono risolvibili attraverso la citazione delle sentenze. D’altronde, se quella è stata la mafia a un certo punto della sua storia, ciò non vuol dire che fosse tale anche prima – o sia tale oggi. S. Vuoi dire che, dopo l’arresto di Bernardo Provenzano e la successiva cattura di molti boss legati ai corleonesi, la mafia, per come l’abbiamo conosciuta, è morta? L. Troppe volte, nei centocinquanta anni della sua storia, la mafia è stata data per spacciata. Faccio lo storico e in linea generale mi sento qualificato a occuparmi più del passato che del futuro, ma non per questo voglio nascondere il mio pensiero. Giudico in effetti esaurita l’era della mafia corleonese o, meglio, il modello corleonese di mafia terroristica, supercentralizzata e incline a mostrarsi con ostentazione e arroganza. Molti dei suoi protagonisti, condannati a pesantissime pene detentive, non sono più sulla scena. Altri si sono convinti di aver sbagliato, e di grosso: lo sappiamo dalle intercettazioni, dalla loro stessa voce, non per deduzione. Non credo che vogliano o possano ritornare sui loro passi, sicuramente non a breve termine. S. È probabile che si torni a un’organizzazione più orizzontale, come è stato in passato? Una nuova mappa crimi10

nale simile a un sistema feudale, di zone giustapposte e coordinate? L. Sì, penso anch’io che sia possibile il ritorno a una mafia articolata in gruppi diversi, ma soprattutto credo che l’onorata società – come si diceva un tempo – abbia compreso quanto sia stata controproducente la smania di occupare le prime pagine dei giornali. S.

Una nuova mafia, una mafia sommersa...

L. Ecco, la mafia sommersa. Il concetto è tornato di recente in alcune affermazioni del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, di altri magistrati e giornalisti. Non mi sembra però che su tali versanti si sia indovinato definendo una tale mafia nascosta e invisibile come nuova. Bisognerebbe piuttosto parlare, se le cose stanno così, di una mafia antica, o per meglio dire della mafia per eccellenza, che controlla il territorio, che si occulta nelle pieghe delle relazioni economiche, politiche e sociali elementari. La mafia «storica» alternava a periodi di accordo fasi di feroci scontri intestini; non perpetrava, in generale, clamorosi attentati terroristici né delitti eccellenti. Oggi Cosa Nostra preferisce una strategia mimetica, ma vi è anche costretta dalla durezza della repressione che l’ha colpita nell’ultima fase della sua storia. S. Si torna dunque a quella che tu chiami la «mafia per eccellenza», un’organizzazione meno verticistica... L. In effetti, la mafia non ha più né la voglia né la necessità di atteggiarsi a partito armato, di rapportarsi alle istituzioni con una sequenza di azioni e reazioni che non poteva non essere governata da un unico centro ispiratore. D’altronde, in linea generale, i gruppi che la compongono non hanno necessariamente bisogno di una forte direzione centrale per controllare i loro territori o per gestire affari anche 11

di vasta scala. Le ricerche che io stesso e altri abbiamo compiuto, o stiamo compiendo, ci mostrano come per cento e più anni i gruppi mafiosi, particolarmente tra Palermo, l’hinterland e i paesi circostanti, si siano coordinati grazie a un sistema di interrelazioni piuttosto fitte, garantite da comuni codici, da un sistema di regole – chiamiamolo così – di tipo paramassonico. Certo, non sempre questo è bastato a garantire la convivenza pacifica in quel territorio relativamente piccolo e (purtroppo) da loro così fittamente presidiato. Le informazioni di polizia si riferiscono in diversi periodi storici, nell’Ottocento e nel Novecento, a «consigli supremi» che noi possiamo immaginare come organismi sovrani o consultivi, dove si ritrovavano i capi o gli elementi da essi delegati. Io penso che, nella lunga storia della mafia del Palermitano, centralizzazione e decentralizzazione si siano ciclicamente alternate, con punte in un senso o nell’altro, in situazioni eccezionali. S. Resta da capire appieno perché la Cosa Nostra di Totò Riina si sia affidata a una strategia terroristica che alla fine ha provocato una reazione fortissima da parte dello Stato con conseguenze devastanti per l’organizzazione criminale. L. Ricordiamoci il contesto storico in cui si adottarono quelle scelte, e facciamo uno sforzo perché esso appare oggi per molti aspetti remoto. Nell’Italia degli anni Settanta, i casi di violenza politica prima, di «lotta armata» poi, si moltiplicavano; per non dire delle terribili stragi perpetrate da personaggi misteriosi e per motivi misteriosi. Lo stragismo voleva ispirare paura più che simpatia, ma la violenza in generale veniva considerata metodo ammissibile, opzione plausibile, da parte di gruppi e fasce d’opinione non marginali. Tutti, comunque, si erano abituati a vivere in un contesto nel quale usualmente si registravano fenomeni di natura violenta, e molti ritenevano che i violenti avessero in passato, e avrebbero in futuro, conseguito i fini politici che si proponevano, vista la scarsa volontà o l’in12

capacità del paese nel suo complesso (istituzioni, partiti, gruppi di interesse, opinione pubblica) di contrastarli. Stato e legalità erano concetti vaghi, contrastati, disprezzati, delegittimati. Nel campo della criminalità organizzata si ebbe così un effetto di dimostrazione, una reazione imitativa. Il dilagare spaventoso della ferocia delle mafie e il loro ostentato protagonismo (penso alla vicenda della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo) risulterebbero inspiegabili ignorando questi meccanismi. In questa situazione alcuni settori di Cosa Nostra ritennero di poter giocare anch’essi la carta del terrore. Disponevano d’altronde di un formidabile know-how, fatto di capacità di erogare violenza, ma anche di sfuggire alla punizione. Ogni terrorismo punta alla disgregazione del fronte avversario e al compattamento del proprio. È probabile che, analogamente a quanto accadeva ai brigatisti, anche i corleonesi abbiano conseguito, ogni volta che ammazzavano qualcuno, credibilità in una parte sia pur limitata di società, all’interno del loro mondo. Più importante era la vittima, più importanti si sentivano ed erano sentiti i carnefici. L’escalation insomma aumentava il potere di chi la metteva in opera, rafforzava egemonie, determinava ulteriore centralizzazione. Ovviamente, c’erano effetti di medio periodo imprevisti e imprevedibili. S. Una mafia né centralizzata né verticale non avrà più bisogno della Commissione provinciale, quell’organismo di coordinamento, democraticamente eletto dagli affiliati. Cesserà di esistere la Cupola di Cosa Nostra? L. Sembra che quell’organismo, la Cupola ovvero la Commissione provinciale palermitana, cui in genere ci si riferisce sulla scorta di rivelazioni posteriori dei pentiti, abbia sempre avuto vita grama. Nacque agli inizi degli anni Sessanta, venne subito sciolta per le lotte intestine e la pressione delle autorità dopo la strage di Ciaculli. Ricostituita intorno al 1973, qualche anno più tardi non riuscì a 13

garantire la pax mafiosa (come prevedeva – diciamo così – il suo statuto fondativo), quando la fazione corleonese (ovvero i corleonesi propriamente detti, più i loro alleati palermitani) decise di prendersi il potere. Nel periodo successivo, c’è ben poca traccia del meccanismo cosiddetto democratico cui ti riferisci, e nemmeno di un meccanismo oligarchico, di un coordinamento alla pari tra i boss. Veramente, c’è poca traccia anche di un sistema di «famiglie» di pari dignità, radicate nei diversi territori di Palermo, dell’hinterland e dei paesi circostanti, e che troverebbero la loro camera di compensazione nella Commissione. S. Abbiamo parlato di vecchio e nuovo, di arcaismo e modernità. Se per Provenzano si può anche giustificare un’immagine del boss contadino, altro discorso è per i boss arrestati in seguito: giovani come Gianni Nicchi, Domenico Raccuglia, Salvatore e suo figlio Sandro Lo Piccolo. Soggetti diversi, modi diversi di muoversi vestire agire. Però addosso a Salvatore Lo Piccolo sono stati trovati il decalogo del giuramento rituale e le regole di bon ton di Cosa Nostra. Regole che mal si addicono, se ci penso, al giovane Sandro Lo Piccolo, che ascolta musica hip hop, ha la Smart e il telefonino, molte ragazze con le quali corrisponde. Ebbene, con la presenza del decalogo siamo di nuovo di fronte all’elemento arcaico... L. Certo, perché questo elemento funziona. Scusa, ma perché mai parlare di una contraddizione? Lo Piccolo padre si sarà sposato in chiesa, e anche Lo Piccolo figlio (immaginiamo) si sarebbe sposato in chiesa, se non gli fosse capitato l’incidente, chiamiamolo così, dell’arresto. Loro due, come chiunque altro, sposandosi partecipano a un rito che è arcaico alla pari di altri riti della Chiesa cattolica. Ci credono, non ci credono? Ricordo quell’udienza del maxiprocesso, in cui a un avvocato, che disquisiva sull’inverosimiglianza del giuramento mafioso, Buscetta tranquillo tranquillo rispose: «Avvocato, mi dicono che lei è iscritto alla massoneria. Lei pure l’avrà fatto qualche giuramento 14

strano». Chi fa un giuramento come quello massonico forse ci crede o forse no, forse è convinto che gli altri ci credano e vuole sfruttare la loro credulità. Come fai a valutare questo? Il punto è che tutto il nostro mondo, anche se noi non ce ne accorgiamo, è costellato di riti arcaici. Perché ce ne dobbiamo stupire solo quando sotto i riflettori finisce Lo Piccolo? Alla fin fine, il decalogo di Lo Piccolo non è molto diverso da quello di Provenzano, non è molto diverso da quello espresso nel libro di Joe Bonanno, non è molto diverso da quello inciso sulla tomba di Giuseppe Di Cristina, non è molto diverso da qualsiasi altro decalogo mafioso che noi abbiamo conosciuto. Stiamo attenti a non essere superficialmente modernisti solo quando parliamo di mafia. I mafiosi si sono convinti che il loro linguaggio tradizionalista (non necessariamente tradizionale davvero!) funziona e hanno ragione: funziona nel tenere il segreto all’interno, nel garantire forme di solidarietà tra la società dei mafiosi e la società tout court, nel rassicurare le autorità, nel far pensare a tutti che infine l’attività degli uomini d’onore possa essere tollerata, anzi possa essere addirittura utile. E funziona sia quando gli altri pensano che una cosa così arcaica non finirà mai, sia quando ritengono che sia troppo arcaica per poter sopravvivere nell’oggi. S. Capisco bene la regola che non bisogna tradire la moglie, che non bisogna assumere droghe. Sono regole morali, ma soprattutto regole di sicurezza di un’organizzazione segreta. Perché chi è esposto sentimentalmente, chi è in una situazione di debolezza per gli stupefacenti è più fragile rispetto alle esigenze di compartimentazione dell’associazione... L.

Ma non è solo per quello...

S. E allora per quale ragione? Parlavamo del giuramento della massoneria o delle regole morali della Chiesa, due realtà che fanno riferimento a un patrimonio spirituale. Per 15

la mafia esiste qualcosa di simile, un patrimonio morale o etico, un’ideologia insomma? L. La mafia ha interesse a essere credibile. La gente normale pensa che non si debba tradire la moglie, o perlomeno la regola accettata da tutti è che la moglie non andrebbe tradita. Allo stesso modo, è convinzione comune che le droghe facciano male. Cosa Nostra ha interesse a negare il proprio coinvolgimento nel commercio di droga, perché parliamo di un elemento distruttivo della relazione sociale tradizionale – ciò di cui la mafia pretende di essere tutrice. E qui vengo alla tua domanda. Possiamo dire che la mafia abbia in effetti una sua ideologia. Pretende di far funzionare la società valorizzando la famiglia – e l’elemento gerarchico presente nella famiglia – e l’amicizia, o almeno la cosiddetta «amicizia strumentale». E pretende che il sistema di relazioni solidaristiche di questa natura funzioni meglio di leggi scritte come il codice civile o penale. La mafia non nega che tutti barino, ma sostiene che i primi a barare sono i governanti, e dunque tanto vale farlo meglio di loro – come facevano i Beati Paoli, una leggendaria setta palermitana sulla quale ci soffermeremo più avanti, che per i mafiosi rappresenta il mito fondante e originario. Come dicevamo prima, i pizzini di Riina non li abbiamo trovati, le intercettazioni di Riina non le abbiamo, però sono convinto – ed esprimo qui una mia convinzione non basata su prove – che il gran capo corleonese queste stesse cose dicesse ai suoi sodali. Ovviamente tutti, e Riina a maggior ragione degli altri, si comportano in maniera diversa da come dicono, ma questo non cambia niente. Tutti dicono che non bisogna tradire la moglie, però moltissimi la tradiscono. I mafiosi dicono che la loro società serve a proteggere i deboli, ma la constatazione di fatto che al dunque conta solo la forza non vale a confutare il loro pseudoprincipio generale. È tutto molto cattolico, veramente. Non c’è da stupirsi che gli studiosi americani ab16

biano trovato molto difficile orientarsi in questo guazzabuglio. S. Hai introdotto il tema spinoso delle relazioni tra religione e mafia, che meriterebbe un approfondimento a parte. Mi limito a farti una domanda: perché il padrino ha bisogno di descriversi quasi sempre come un buon cattolico? L. Perché il mafioso si sente cattolico. Di conseguenza, è ben difficile che la Chiesa gli rifiuti questa qualifica che peraltro non nega a nessuno, neppure a me che cattolico non sono. Il mafioso si dice cattolico perché la mafia ha un forte senso di sé e della propria storia. Appartiene al suo carattere – dicono gli antropologi – di stare ben radicata nel proprio contesto socio-culturale, perché ha bisogno di comunicare con la società. E nella società siciliana essere o apparire cattolici è molto importante: ricordiamo che in dialetto si dice «cristiani» per indicare gli esseri umani. Per i mafiosi è fondamentale condividere valori con chi mafioso non è. S.

Buoni cristiani che ammazzano altri cristiani...

L. Non sarà il primo o l’unico caso. Non c’è bisogno di risalire alla Controriforma. Pensa ai falangisti nella guerra civile spagnola, agli ustascia croati, agli squadroni della morte sudamericani: tutti buoni cattolici. Ma sicuramente nella Controriforma prende piede l’idea che l’adesione al rituale religioso sia più importante del conformarsi ai principi etici affermati nel Vangelo. Vedremo in seguito, peraltro, che quello mafioso è un rituale misto massonicocattolico. E nella società siciliana sono molte le forme di associazionismo legate all’identità cattolica: le confraternite nobiliari o popolari devote al culto dei santi avevano e hanno funzioni di organizzazione del potere, sia dal basso che ai massimi livelli. Su questi fenomeni i veri cattolici, in genere, non sono i migliori analisti, perché vi cercano tracce di cristianesimo. Ma è evidente che spesso il cristiane17

simo non c’è. Per questa ragione molti bravi sacerdoti hanno sempre tentato di restringere il ruolo delle organizzazioni fazionarie raccolte attorno al culto dei santi, considerandole vagamente pagane. Ed è vero invece che, intorno alle congregazioni intitolate a qualche santo, spesso si riunivano gruppi mafiosi che, soprattutto alle origini, avevano bisogno di strutture ufficiali per aggregarsi. S. Riprendiamo il filo del nostro discorso: ogni qual volta si parla dei valori della mafia, qualcuno precisa che è un sistema di disvalori. Ma per gli affiliati a Cosa Nostra sono valori fondanti e identitari... L. Certamente possiamo e dobbiamo parlare di disvalori, purché siamo consci di inserire una valutazione morale; il che, dal punto di vista delle scienze sociali, non è propriamente corretto. Se non vogliamo essere intellettualmente pavidi, dobbiamo effettivamente ammettere che di un sistema di valori si tratta. Grazie a esso si comunica all’interno della mafia, nonché tra chi vi sta dentro e chi ne sta fuori, provando a raggiungere perfino quanti sono contro la mafia. Altrimenti non si spiegherebbe perché noi stessi, quando andiamo a vedere Il Padrino, ci entusiasmiamo alla risposta di don Vito Corleone a chi gli chiede vendetta per la figlia brutalizzata: «Tu avrai da me non vendetta, ma giustizia, e sarà proporzionata all’offesa». Significa, in altri termini: tu sarai difeso grazie alla relazione personale-affettiva-familiare-amicale che mantieni con me, non in base a una norma astratta. S. Un tempo si diceva che essere mafioso a Palermo era come essere un dirigente della Fiat a Torino. Oggi, con una mafia così indebolita e in difficoltà, questo modello ha una capacità di attrattiva? L. Questo bisognerebbe chiederlo a qualcuno che lavora sul campo. Però anche se la mafia non ha più questa ca18

pacità oggi, e ce l’aveva ieri, potrà riaverla domani. Perché è il modello di qualsiasi area del mondo in cui la tutela della legge comune è più debole e le grandi organizzazioni criminali impongono la loro legge, la loro solidarietà, il loro giro d’affari, in cui gangster e poliziotti finiscono per collaborare al mantenimento dell’ordine: nelle favelas di Rio, nei sobborghi di Los Angeles, in quelli di Napoli. Pensano che a tutelarli siano delle persone, e alla fine alcuni di loro penseranno di essere tutelati meglio dal gangster che dal poliziotto. Se il sistema mostra una capacità di andare oltre gli spazi dei quartieri popolari, coinvolgendo un mondo borghese, intermedio o anche alto-borghese, allora possiamo parlare di mafia. Il termine si è imposto a livello planetario, quando si è visto che esso era applicabile a due diversi continenti e a due società assolutamente diverse: quella siciliana e quella statunitense. Oggi si dice las mafias in Sud America, si parla di mafie russa, cecena, albanese. Certo, la fortuna della parola può andare a discapito del rigore nel suo uso. È difficile dire quanto queste altre mafie condividano il tratto peculiare di quella originaria: il carattere interclassista, la capacità di lambire i vertici della piramide sociale. S.

I vertici: non sarà esagerato?

L. Ti racconto un episodio. All’inizio degli anni Ottanta facevo ricerca su mafia e fascismo, sull’operazione repressiva che prende il nome dal prefetto Cesare Mori, e fu naturale che domandassi di consultare il materiale documentario conservato all’Archivio di Stato di Palermo. Mi ricevette un funzionario – non facciamo il nome –, il quale mi comunicò che il materiale non era consultabile. «Sì, lo so – risposi – la legge prevede che gli studiosi non possano accedere a una certa tipologia documentaria, se non dopo settant’anni; però per un altro tipo di documenti prevede solo un limite di cinquant’anni, e in questo caso ci siamo». E lui: «Ma io non le farò vedere niente lo stes19

so». Allora ingenuamente replicai: «Ma ci sono delle leggi». E il funzionario rispose: «Lei può anche venire con i carabinieri, ma le farò trovare le buste vuote». Ero giovane, non sarei mai andato dai carabinieri e il funzionario lo sapeva benissimo, ma questo suo enfatico disprezzo per la legge, per chi ne invocava l’applicazione e per chi eventualmente era chiamato ad applicarla mi parve sintomatico. Qualcun altro – accade spesso che gli archivisti siano troppo prudenti nel far vedere le carte, non volendo guai – avrebbe detto: «Sì, vedremo... però purtroppo c’è stato l’incendio, c’è stata la guerra, c’è stata l’alluvione, le carte si sono perse». Mi avrebbe fatto perdere dieci giorni, e alla fine mi sarei scoraggiato. Mi è successo in altri posti, ma nessuno mi ha replicato con l’enfasi e la chiarezza con cui mi è stato risposto a Palermo. E sai perché? Perché quel funzionario pensava di avere ragione. Allora gli studiosi della mafia ragionavano di codici culturali, di comportamenti, insomma di concetti e principi piuttosto vaghi e vagamente connessi allo specifico del problema. Una ricerca archivistica avrebbe portato alla luce nomi, persone, fatti. Anche falsi e calunnie, certo: lettere anonime, rapporti di polizia con accuse infondate, e polemiche in cui avversari politici o personali venivano definiti mafiosi. Quanto alle accuse e alle polemiche fondate, molte volte ho trovato coinvolti nei fatti di mafia i nonni di autorevoli esponenti dell’élite palermitana, gente in effetti perbene, anche schierata sul fronte antimafia. Il funzionario pensava che questo verminaio non andasse scoperchiato, checché ne dicesse la legge. Lui si sentiva in buona fede, e sospettava che io non lo fossi. Che uso avrei fatto di informazioni che per il bene di tutti non andavano rese pubbliche?

Capitolo 2

UNA STORIA DIFFICILE

GAETANO SAVATTERI L’episodio dell’archivista di Palermo deciso a non far vedere i documenti ci porta direttamente alla tua attività di ricerca e di studio. Ci mostra le difficoltà che hai incontrato, anche di carattere più generale. È molto strano infatti che fino al 1993, quando hai pubblicato per Donzelli la tua «Storia della mafia», nessuno avesse mai ritenuto di poter scrivere di quest’argomento dal punto di vista strettamente storico, con una visione complessiva. C’erano molti libri, ovviamente, una letteratura vastissima, ma erano testi sociologici, interventi giornalistici, romanzi o saggi di costume. Un ritardo, dal punto di vista dalla scienza storica, di oltre un secolo rispetto al dibattito politico e sociale sulla mafia. SALVATORE LUPO Sì, questo è vero per quanto riguarda gli storici. Ma non vuol dire che non ci siano stati contributi, diciamo scientifici, di cultori di altre scienze sociali. La discussione sulla mafia ad esempio vide tra Otto e Novecento fondamentali contributi di personaggi come Leopoldo Franchetti, Gaetano Mosca e, per un aspetto singolo ma cruciale, Santi Romano. S.

Quale aspetto?

L. Romano è un grande giurista palermitano di inizio Novecento, universalmente noto per la sua teoria della 21

pluralità degli ordinamenti giuridici, secondo la quale coesistono nello stesso tempo e nello stesso luogo, accanto a quello statale, altri ordinamenti importanti (ad esempio quello ecclesiastico) o minori (ad esempio quello di una federazione sportiva), che il più delle volte non sono antagonistici all’ordinamento statale – a meno, certo, che non assumano un atteggiamento eversivo o rivoluzionario. Romano stesso cita tra gli esempi possibili quello di «certe» organizzazioni segrete e criminali, e dei loro ordinamenti. S.

Quindi ordinamenti antistatali?

L. Non antistatali – questo è il punto – almeno finché non si mettono in testa di fare concorrenza all’ordinamento «maggiore», statale. Non possiamo nemmeno dirli «comunitari», perché non riguardano tutti i membri di una comunità ma solo i componenti del gruppo criminale. Vorrei ricordare un’applicazione davvero geniale della teoria di Romano da parte dell’etnogiurista sardo Antonio Pigliaru, che nel suo libro del 1959, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, definisce la faida come ordinamento giuridico prestatale comune a tutta la società pastorale della Barbagia; da distinguersi dunque dalla mafia e dal suo ordinamento che riguarda un sottogruppo particolare. Ecco, con Romano e Pigliaru siamo sulla strada giusta. S. Intuizioni che tu definisci geniali, ma ancora fuori dal campo della scienza storica... L. Esatto. Potrei aggiungere il contributo importantissimo di Emilio Sereni, grande studioso di storia agraria e dirigente comunista degli anni Trenta e Quaranta, che andò a collocare la questione mafiosa in una grande discussione storiografica: quella sul latifondo meridionale. Sereni – riprendendo le fila di un dibattito quasi secolare – vide la mafia come uno strumento del ceto sociale dei gabelloti, cioè gli affittuari dei latifondi, una sorta di variante locale 22

e mancata di borghesia. La funzione storica dei gabelloti e dunque della mafia, gli uni e l’altra intermediari tra latifondisti e contadini, sarebbe secondo Sereni venuta meno con l’accentuarsi della lotta di classe. S. Pensiero che segnerà tutte le analisi successive di impronta marxista. L. Basterebbe pensare allo studio di un grandissimo storico marxista come Eric Hobsbawm, I ribelli, che, con riferimento a certe situazioni calabresi, citava l’onorata società come strumento di una «forma primitiva di lotta sociale», destinata a esaurirsi quando si fossero creati moderni movimenti collettivi. Le altre versioni marxiste peraltro assunsero questa tesi in una forma più semplificata, politicamente più spendibile. La cultura di sinistra degli anni Cinquanta rappresentò la mafia come un mero strumento dei latifondisti. D’altronde gli eventi drammatici del dopoguerra si prestavano a questa interpretazione, mostrando latifondisti e mafiosi saldati in un gruppo unico. Questa stessa cultura di ispirazione marxista o radicale vide la mafia come il segno della permanenza di antiche «tare» nella nostra società, nonostante l’avvento della democrazia e dei processi di sviluppo economico. S. Un contributo importante arrivò da sociologi e antropologi. L. Sì, ma spesso erano stranieri, che avevano poca conoscenza dell’argomento nel suo complesso e, potrei dire, non avevano letto né Romano né Pigliaru. Prevalse, come nel caso del sociologo tedesco Henner Hess, lo «sguardo esterno» di chi leggeva il comportamento mafioso come specchio di una cultura mediterranea resistente alla moderna etica statale. Così però il fenomeno veniva collocato in una sfera arcaicizzante, nella categoria dei «fossili culturali», in un mondo per definizione senza tempo e sen23

za storia. Comunque negli anni Sessanta si erano cominciati a vedere in libreria testi scritti da storici di professione: il primo a cimentarsi fu Salvatore Francesco Romano, un pioniere negli studi contemporaneistici sulla Sicilia, ma che sullo specifico non fornì contributi di ricerca originale. Sino a quel periodo, d’altronde, la storia sociale aveva poco credito in Italia e gli storici dell’età contemporanea si occupavano di altro: dello sviluppo e del sottosviluppo economico, dei partiti di massa... S. Può sembrare strano, peraltro, che i primi studi e le prime ricerche storiche siano venute da Catania e non da Palermo, in teoria un luogo di osservazione purtroppo privilegiato rispetto alle vicende mafiose. L. Palermo era forse un punto di osservazione troppo privilegiato, ovvero troppo vicino all’oggetto. Comunque, per spiegare quest’arcano, bisogna partire dagli anni Settanta. S.

Prova a farlo, magari seguendo un filo autobiografico.

L. Allora bisogna partire da prima ancora, dall’inizio. Mio padre era ufficiale di polizia, mia madre un’insegnante di lettere. Lasciarono la natia Catania per trasferirsi a Novara nel 1949, e poi a Siena dove sono nato nel 1951. Abbiamo vissuto a Vicenza e Forlì, tornando in Sicilia solo nel 1964, quando mio padre venne destinato a Siracusa. Insomma, sono figlio di un’emigrazione borghese, nazionalizzata e nazionalizzante. A casa mia era in uso un rigorosissimo italiano. Guai se – approdati in Sicilia – mia sorella e io ci lasciavamo condizionare da qualche dialettismo: era escluso che usassimo transitivamente i verbi intransitivi, cosa che usualmente fanno molti siciliani. Tutt’oggi né io né lei parliamo decentemente il dialetto. Tutto questo spiega forse qualcosa del mio carattere di siciliano di complemento, che ha sempre guardato alla sua terra un po’ dall’esterno. S.

I tuoi studi universitari iniziano in Sicilia... 24

L. Sì. Mi sono iscritto al corso di laurea in Filosofia a Catania nel 1970, ma optando per un piano di studi storico. Fu dunque naturale che, al pari di altri studenti politicizzati (ed erano tanti in quegli anni!), privilegiassi la storia contemporanea che dal 1965 era insegnata da un docente di grande fascino e prestigio come Gastone Manacorda. Già direttore prima di «Società» e poi di «Studi storici» – due imprese cruciali nella formazione della cultura comunista italiana –, Manacorda non si era presentato col piglio militante che ci si aspettava da lui, ma con un appello a ragionare sulle fonti, a lavorare con rigore, a rifuggire dal facile ideologismo. Come «continentale» in Sicilia, come studioso di livello nazionale e internazionale finito a insegnare storia contemporanea (tra i primissimi nel nostro paese) in periferia, provò a porre le basi di una storiografia regionale, ma non di taglio regionalista. S. C’era già una grande tradizione di studi storici. Non sembra possibile che si dovesse ricominciare da capo a fare storia della Sicilia. L. Nel campo della storia medievale e moderna magari no, ma in quello della contemporanea le cose stavano proprio così. E comunque c’era una tradizione, soprattutto a Palermo, che considerava l’isola come un mondo diverso, da trattarsi separatamente dal resto d’Italia e con strumenti intellettuali differenti da quelli adottati altrove. Peraltro, Manacorda era consapevole che la stessa storia nazionale avesse da guadagnare dall’attenzione alla storia regionale, in particolare se parliamo di una regione così ricca di conflitti, cultura e discussioni pubbliche come la Sicilia. Per usare una sua frase: dal punto di vista siciliano, si possono vedere prospettive e vedute d’insieme diverse rispetto a quelle che si scorgono dalle finestre del Principe, ovvero dai punti culminanti dello sviluppo. S.

Oltre a te, chi erano gli allievi di Manacorda? 25

L. Tra quelli che hanno lavorato sulla mafia o su argomenti simili, citerò Giuseppe Barone e Rosario Mangiameli. Non era allievo di Manacorda ma entrò nel suo giro Nino Recupero, fine studioso e intellettuale carismatico che oggi purtroppo non c’è più. Ne potrei ricordare altri, giovani e politicamente orientati a sinistra. Mangiameli e io, ad esempio, militavamo nel «manifesto». S. Un’area dentro la quale già allora si affrontava la questione della mafia. L. Sì, ma nel gruppo palermitano piuttosto che in quello catanese. A Palermo «il manifesto» era guidato da Mario Mineo, personaggio di rilievo, di tutt’altra generazione rispetto alla nostra, già deputato nel dopoguerra alla Consulta regionale siciliana ed estensore di uno dei progetti di Statuto, poi passato attraverso varie esperienze nella sinistra, senza radicarsi in nessuna in particolare, a causa – diciamo così – del suo eccessivo spirito critico. Ricordo quando discutevamo di mafia con lui e con Umberto Santino, che avrebbe fatto dell’antimafia una ragione di vita: Mineo sosteneva che in Sicilia, come nel dopoguerra ai tempi del movimento contadino, la mafia fosse ancora il problema centrale. A me e agli altri del nostro gruppo, catanesi e tanto più giovani di lui, sembrava un vecchio ossessionato dal passato e dai conflitti del passato, ossessionato da altri vecchi con le coppole storte, gli abiti di fustagno e così via. D’altronde non eravamo gli unici a pensarla così: anche a livello nazionale nel «manifesto» nessuno gli prestava orecchio, tanto che lui e i suoi seguaci si sarebbero tirati fuori ben presto anche da quell’esperienza. S. Ma nella Catania di allora non c’era la discussione sui grandi imprenditori cittadini, i cosiddetti Cavalieri del lavoro, cioè Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Francesco Finocchiaro e Mario Rendo? Stavano all’interno di una rete di relazioni di cui facevano parte anche esponenti e gruppi mafiosi. 26

L. Ma noi non saremmo stati eventualmente in grado di riconoscere la mafia in quegli ambienti, e nemmeno nei figuri di cui si contornava Carmelo Costanzo – massimamente in colui che stava emergendo come il boss cittadino, Benedetto Santapaola, detto Nitto. Certo, eravamo molto critici verso il Pci, che considerava personaggi del genere come interlocutori affidabili di un improbabile «patto dei produttori», ma non perché ci vedessimo un meccanismo di collusione mafiosa, bensì per la deplorevole subordinazione del movimento operaio agli interessi del capitalismo – di un capitalismo che sapevamo particolarmente corrotto e dipendente dall’aiuto pubblico, certo. S. Insomma, nutrivi molte perplessità sul discorso politico che in Sicilia veniva portato avanti dai comunisti... L. Sì, in particolare per la faciloneria con cui veniva attribuita la patente del progressista a chi non ne aveva i titoli, per l’abuso dell’argomento sulla difesa degli interessi siciliani contro i «monopoli» del Settentrione. Risentivo gli echi della vicenda di fine anni Cinquanta, quando, invocando gli stessi interessi, i comunisti si erano ridotti a fare da supporto al governo regionale presieduto da Silvio Milazzo, un’ibrida alleanza comprendente (tra l’altro) la destra neofascista. Vedevo che, ancora sulla base del medesimo argomento, i comunisti si preparavano a sottoscrivere un «patto autonomistico» con la Democrazia cristiana. Temevo che avremmo avuto su scala regionale il peggio di quello che a me già appariva il peggio, il compromesso storico. Proprio in polemica con questo tipo di strategie, Mineo parlava già da tempo di «borghesia mafiosa». Ma, devo ribadirlo, nemmeno noi del «manifesto» comprendevamo allora a Catania l’importanza della sua polemica. S. Insomma i comunisti erano regionalisti, ma come le altre forze politiche e come molta parte dell’opinione pubblica siciliana. 27

L. Come gli altri, certo. Però in una situazione come quella degli anni Settanta, nella stagione del compromesso storico e del patto autonomistico, questo posizionamento diveniva assai condizionante non solo per la politica, ma anche per la cultura e in particolare per gli studi sulla storia recente della Sicilia. Ti sintetizzo in poche battute la vulgata che era diffusa allora e che forse è diffusa ancor oggi. I latifondisti – si diceva – avevano oppresso i contadini come lo Stato unitario aveva oppresso i siciliani almeno fino al secondo dopoguerra, quando i partiti avevano ottenuto l’autonomia regionale, anche utilizzando lo choc (lo storico Massimo Ganci diceva: il «pugno sul tavolo») del movimento separatista. Nel corso di lussuosi convegni organizzati negli sfarzosi saloni dell’Assemblea regionale, si guardava al passato, ma dal punto di vista di quello sbocco escatologico, delle luminose sorti e progressive della Sicilia autonoma. Gli storici di sinistra (Ganci appunto, Francesco Brancato, Carlo Marino, Francesco Renda) si univano al coro, sia pure con diversità di accenti e con qualche distinguo. S. Parli di storici palermitani o comunque radicati a Palermo. L. La regione ha la sua «capitale» a Palermo. A Palermo c’è il suo «Parlamento» (così enfaticamente lo si chiama), e quindi non casualmente l’intera storia della Sicilia viene vista da Palermo in una prospettiva ossessivamente regionalista. Nella mia testa, la differenza tra quella «vecchia» storiografia e la storiografia nuova corrispondeva alla differenza tra Palermo e Catania. Catania guardava alla storiografia nazionale, cui aveva dato un grandissimo come Rosario Romeo. A Catania insegnava Giuseppe Giarrizzo, preside della facoltà di Lettere, lo storico forse più illustre tra quelli rimasti a lavorare nell’isola, uno dei pochi a essersi mantenuto immune dalle lusinghe del sicilianismo. A Catania c’erano le forze giovani e vivaci, gli allievi di Manacorda. Il quadro vale anche a rispondere alla tua do28

manda di prima, sul perché si sia cominciato a fare storia della mafia sul versante in cui storicamente la mafia scarso ruolo aveva avuto, piuttosto che sul versante nel quale storicamente era nata. S. Gli studiosi palermitani che hai citato però avevano esaminato e studiato approfonditamente le stagioni del movimento contadino e delle lotte per la terra, soffermandosi anche sulla mafia e sui suoi interessi... L. Però la dimensione del conflitto sociale veniva collocata non solo nel passato, ma in una sfera remota e anche mitica, in un’improbabile Sicilia senza città e tutta latifondi, laddove la relazione tra contadini e latifondisti era rappresentata come una sempiterna lotta dei buoni contro i cattivi, dalla rivolta di Bronte (1860) ai Fasci siciliani (1893-94) ai movimenti del secondo dopoguerra. Quanto alla mafia, la si considerava come un mero strumento dei proprietari per contrastare i contadini, e in quanto tale la si liquidava come parte integrante di quel passato – destinata a esaurirsi con esso. Restava invece da spiegare, nell’ottica della vulgata sicilianista, perché alla dissoluzione della società rurale latifondistica avesse fatto seguito non il collasso, bensì l’incrudimento del fenomeno mafioso. Inoltre non potevo non chiedermi come mai la Regione a statuto speciale, questa creatura dipinta a tinte così rosee, avesse dato un risultato così cattivo sul piano della democrazia, del senso civico, dell’efficienza amministrativa. Mi convinsi che lo slogan del «siamo tutti sulla stessa barca», tipico del regionalismo, fosse incompatibile con un discorso di opposizione, determinando un’atmosfera torbida di solidarismi silenziosi e sostanzialmente complici. S. Vorrei capire se queste insoddisfazioni etico-politiche abbiano indirizzato le tue ricerche storiche o se sia successo il contrario. 29

L. Diciamo che esiste una stretta relazione tra il mio rifiuto del sicilianismo e i risultati delle mie prime esperienze sul campo come storico. La mia tesi di laurea riguardava una rivista diretta dall’economista palermitano Giuseppe Frisella Vella, nata nel 1924 col nome di «Problemi siciliani», ribattezzata negli ultimi anni del regime «Problemi mediterranei». Attraverso la rivista vennero fatti transitare nel fascismo temi esasperatamente regionalisti già emersi nel dopoguerra precedente e che furono consegnati al separatismo nel dopoguerra seguente. Mi colpiva la lunga tenuta di una retorica per cui si negava ogni contrasto di interessi o di idee all’interno della Sicilia, mentre tutti i mali di noi siciliani andavano addebitati a un complotto ordito dai continentali ai nostri danni. L’ideologia sicilianista mi apparve lo strumento per cementare l’egemonia delle classi dirigenti e la logica di un «blocco agrario» (uso l’espressione gramsciana allora molto in voga tra gli storici di sinistra), nel quale accanto ai latifondisti stavano, senza esprimere nessuno spirito di contraddizione, proprietari e imprenditori interessati a settori dinamici, commercializzati e «capitalistici»: ad esempio, quelli dell’agrumicoltura, cui Frisella Vella era molto attento. Il mio lavoro di tesi ebbe un parziale sbocco editoriale in un volume di saggi – oltre al mio, c’erano quelli di Barone, Rita Palidda e Marcello Saija, con la prefazione di Manacorda – intitolato Potere e società in Sicilia nella crisi dell’Italia liberale (1977). Come noterai, sin dal titolo era chiara l’intenzione di tenere saldamente connessa la storia siciliana a quella nazionale. S.

Iniziava così la tua carriera universitaria?

L. Macché. Gli ingressi alla docenza nell’università italiana sono avvenuti per cicli di apertura, alternati a cicli di feroce chiusura. Fui escluso dalla fase di più largo e facile accesso, quella della prima metà degli anni Settanta, per ragioni anagrafiche (mi ero laureato nel 1975). Sposato a soli vent’anni, avevo un figlio e dopo essermi arrangiato nel pe30

riodo degli studi avevo assoluto bisogno di lavorare. Prima di laurearmi, avevo provato con successo un concorso di «aiuto-biliotecario». Presi dunque servizio alla Sovrintendenza bibliografica a Catania, per poi trasferirmi alla Biblioteca universitaria statale sempre a Catania. Il direttore era Salvatore Mirone, persona notevole, un vero intellettuale. Mi trovavo bene, avevo davanti una carriera. Però l’esclusione dall’università rappresentava per me un cruccio. S. C’è da stupirsi che tu non abbia rinunciato, come fecero molti altri. L. Invece continuavo ostinatamente a impegnarmi nella ricerca, nei ritagli di tempo e nelle ferie. Era una passione. Naturalmente conservavo un legame con i «manacordiani» anche dopo il trasferimento a Roma di Manacorda, e con l’università attraverso Barone, il primo di loro a salire di grado accademico. S. Erano anni turbolenti a Catania, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. La città stava cambiando aspetto e la mafia mostrava il suo volto in un territorio ritenuto tradizionalmente indenne dall’influenza di Cosa Nostra. Qualcuno se ne accorse in tempo reale: si chiamava Pippo Fava. L. Fava non era ben visto nel mio ambiente, in particolare da chi ricordava la sua ostilità nei confronti del movimento studentesco nel ’68 e la sua vicinanza agli ambienti dell’establishment cittadino. Partecipai molto marginalmente dell’esperienza del «Giornale del Sud», quotidiano da lui diretto dal 1980 alla fine del 1981 con l’idea di rompere il monopolio del quotidiano cittadino «La Sicilia». Ma non mi convinceva il suo stile che tanto puntava sulla cronaca, con un taglio che mi sembrava scandalistico, e l’accentramento estremo di ogni decisione nella figura del direttore, peraltro l’unico giornalista esperto di una redazione formata da tanti giovani. Si aggiunga che su Fava gi31

ravano molte voci calunniose. Non sapevo allora quanti nemici si stesse facendo e quanto strumentalmente costoro lavorassero a mettere in giro maldicenze. Tutt’oggi mi dispiace di non aver allora capito quanto fosse sporco questo gioco. S. Voci, calunnie, sospetti contro un giornalista coraggioso: una storia molto siciliana. L. Eccome. Come oggi sappiamo da atti certi, uno dei suoi finanziatori, il cavalier Graci, cercò di mettergli il bavaglio e al suo rifiuto lo licenziò. Fu allora che Fava fondò il periodico «I Siciliani», dove – in particolare – trovarono spazio le rivelazioni del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa dell’agosto 1982 (formulate dunque a poche settimane dal suo assassinio) sull’asse esistente tra la Cosa Nostra palermitana, il boss Santapaola e i Cavalieri del lavoro catanesi. Grande fu lo choc in una Catania profondamente segnata dall’omertà, abituata al silenzio sul reale potere affaristico-politico-criminale cittadino. Il mutamento, ahimé, non fu duraturo, anche perché Fava l’avrebbe pagato con la vita, quel suo coraggio. S. Ma tutto questo non ti suscitava delle riflessioni, soprattutto come storico? L. Il dramma che si stava consumando mi colpiva come colpiva tutti. Non era facile però collegare le urgenze della drammatica congiuntura con la riflessione colta, specie con quella storiografica che sul tema, come ho detto, sembrava avesse ben poco da dire. Leggevo dunque i libri degli scienziati sociali: quello di Henner Hess, Mafia, pubblicato nel 1973; quello del 1974 di Anton Blok, The Mafia of a Sicilian Village: 1860-1960, di cui assieme a Barone avevamo preso cognizione durante un viaggio in Inghilterra e che consigliammo a Einaudi per la traduzione in italiano; è del 1980, invece, il volume di Pino Arlacchi su Mafia, contadini e la32

tifondo nella Calabria tradizionale. In tutte queste opere, come abbiamo accennato, la mafia era vista come il comportamento proprio di una società tradizionale. Soprattutto, con ostinazione degna di miglior causa, si negava potesse trattarsi di un’organizzazione vera e propria. Ora, la mafia che ci trovavamo davanti era palesemente il frutto di una pur distorta modernità, ed era vista dagli inquirenti come una poderosa e pericolosissima organizzazione. Quella letteratura si poneva dunque solo in parte come uno stimolo, ma possiamo dire che per un’altra parte rappresentasse addirittura un ostacolo sulla strada della ricerca. S. Però nel 1983 «La mafia imprenditrice», sempre di Pino Arlacchi, segna un passaggio importante: lo studioso racconta la trasformazione della mafia da soggetto specializzato nella mediazione degli interessi del mondo agricolo a protagonista della nuova accumulazione di capitali nella società moderna, cioè la mafia che si fa impresa. L. Veramente, come abbiamo già detto, dubito che la mafia possa essere definita un’impresa e il mafioso un imprenditore. Ma il punto non è tanto questo. Arlacchi non aveva il coraggio di prendere con nettezza le distanze dallo schema interpretativo «primitivista» cui aveva così acriticamente aderito. Sosteneva che lo schema valeva per il passato, quando la mafia era davvero (ma quando lo è mai stata?) onorifica, paciosa, disinteressata al denaro, ma non per il presente, perché la mafia aveva cambiato completamente pelle facendosi gangsteristica, sanguinaria e, appunto, imprenditrice. Giudicavo allora la contrapposizione fuorviante e così la penso ancor oggi: quella che va compresa è proprio la relazione di (parziale) continuità o (parziale) discontinuità tra passato e presente. Sul tema dell’organizzazione inoltre Arlacchi continuava a riferirsi alla vecchia posizione negazionista, senza porre in un credibile contesto interpretativo le informazioni in senso contrario che, pure a pezzi e bocconi, gli giungevano dagli ambienti giudiziari. 33

D’altronde, il suo riferimento alle fonti restava episodico, privo di vaglio critico. L’analisi non raggiungeva mai il livello «scientifico» – almeno per quanto un simile argomento possa essere trattato scientificamente, e per quanto le scienze sociali possano aspirare alla scientificità. S. In effetti proprio negli stessi anni, per l’esattezza nell’ottobre del 1984, il pool dei magistrati di Palermo di cui faceva parte Giovanni Falcone aveva reso pubbliche le dichiarazioni di Tommaso Buscetta. Ciò che veniva fuori dalla «cantata di don Masino», come scrivevano i giornali, non era un modo di essere o un comportamento diffuso: nomi, organigrammi, competenze, territori, affari, relazioni di Cosa Nostra adesso erano sotto gli occhi di tutti. E svelavano la presenza di una potente organizzazione criminale. L. Quello fu il vero punto di svolta che accentuò la nostra insoddisfazione per lo schema interpretativo «culturalista» cui si ispirava un po’ tutta la letteratura corrente. S.

E tu come hai provato a uscirne?

L. Ripartendo dai temi base della mia ricerca. La società siciliana otto-novecentesca nel suo complesso mi pareva non identificabile con un modello di società tradizionale. Barone, Mangiameli e io organizzammo a Catania un convegno sulla storia meridionale di inizio Novecento, intitolato La modernizzazione difficile. Pensavamo che non ci fosse solo il latifondo, ma che la modernità avesse coinvolto e – perché no – squassato il Mezzogiorno e ancor più la Sicilia con la costituzione dello Stato unitario, lo sviluppo di sistemi rappresentativi e movimenti di massa, con la connessione col più vasto mondo determinata dall’emigrazione, dall’esportazione di zolfi e agrumi. S. Quest’ultimo è un argomento che hai trattato particolarmente. 34

L. Sin dai tempi della tesi di laurea ero andato avanti con la ricerca sul tema che avrebbe avuto il suo primo sbocco pubblicistico nel 1984. Gli agrumi di Sicilia erano stati sin dagli anni Trenta dell’Ottocento indirizzati in maggioranza verso il ricco mercato statunitense e per una parte minore verso la Gran Bretagna; solo molto più tardi si sarebbe creato un mercato mitteleuropeo e ancor più tardi un mercato nazionale. S.

Ma la mafia con questo cosa c’entrava?

L. C’entrava eccome. Gli agrumi destinati agli Stati Uniti venivano coltivati per una parte molto grande nell’agro palermitano, nella cosiddetta Conca d’Oro. Era un’economia sviluppata in cui la mafia era presente, anzi lo era come in nessun altro ambiente: una mafia impegnata in traffici e commerci, nella custodia di impianti redditizi, insediata nelle borgate circostanti Palermo – altro che paesi dell’interno e campagne desolate! S.

Dunque la mafia poteva essere figlia della modernità?

L. In alcuni casi era proprio così. Mi feci un’idea delle forzature che avevano permesso l’elaborazione di un’immagine tutta primitivistica, delle censure che erano state necessarie per occultare quanto era ben chiaro già nelle fonti ottocentesche. Cominciai a capire perché il fenomeno non fosse scomparso, né si fosse trasformato, sino a diventare irriconoscibile, all’avvento della modernità. Esposi i primi risultati di questa riflessione in un saggio che intitolai Nei giardini della Conca d’Oro. Era il 1983. S. Il periodo terribile delle guerre di mafia, delle mattanze mafiose, dei cadaveri eccellenti. Il momento in cui «Sagunto veniva espugnata», tanto per citare una frase celebre sulla Palermo di quegli anni... L.

Ma erano anche gli anni di un primo riarmo della so35

cietà civile, della politica e delle istituzioni. Se parliamo di dibattiti disciplinari o accademici, chiaro che quello tra i giuristi era il più importante. La riflessione storiografica non poteva avere un diretto impatto sugli eventi, si sviluppava in una nicchia periferica e (tra l’altro) senza alcun contatto con il movimento antimafia nascente a Palermo. Era però importante che desse anch’essa un segnale. Grazie all’iniziativa e alla «copertura» accademica di Barone, il mio saggio comparve su una rivista milanese (e settentrionalista) come «Italia contemporanea», a formare quasi un numero monografico insieme a un contributo di Mangiameli sul secondo dopoguerra, e al testo di un terzo catanese, Raimondo Catanzaro, il più brillante tra i sociologi allora impegnati sul tema. S. I tuoi colleghi come guardavano a questo nuovo filone di studi? Ci credevano, lo prendevano in considerazione? L. Non ti nascondo che i più nemmeno se ne accorgevano. C’era innanzitutto, e c’è tutt’oggi, una generale, bizzarra difficoltà degli studiosi settentrionali a interessarsi della storia meridionale (e, specularmente, dei meridionali a farsi sentire). A Nord come a Sud, ma perfino tra gli stessi siciliani, c’era chi si diceva scettico sulla stessa conoscibilità dell’oggetto mafia. C’era pure chi mi consigliava di dedicarmi ad altro se ci tenevo a essere preso sul serio come storico e a fare carriera nell’accademia: tra questi (che paradosso!) qualcuno in seguito ha firmato libri sulla mafia, pur senza aver mai condotto vera ricerca nel campo. Col tempo il problema è diventato proprio questo: si sono moltiplicati i libri sulla mafia, ma i contributi di ricerca restano pochi e preziosi, al punto che è difficile distinguerli sul banco di una libreria, nella massa di volumi che ripropongono all’infinito gli stessi stereotipi. Ecco perché molti restano tuttora convinti che qualsiasi storiografia sul tema sarà necessariamente di serie B. D’altronde, c’è chi la pensa in questo modo per qualsiasi tipo di storia sociale. 36

S.

Puoi raccontare qualche episodio specifico?

L. Ti racconterò piuttosto quello che accadde quando Giarrizzo e Maurice Aymard mi chiamarono a partecipare con un saggio sul fascismo al volume Einaudi della Storia d’Italia (le regioni) dedicato alla Sicilia, ancora insieme a Mangiameli, Barone, Recupero, e a molti altri. Nostro interlocutore era un giovane funzionario dell’Einaudi, calabrese di formazione torinese, Carmine Donzelli: un intellettuale brillante e un organizzatore culturale di rara capacità, col quale intrecciai allora un sodalizio che non si sarebbe più spezzato, e che mi ha dato molto. Donzelli rilevò che l’immagine stessa dell’opera sarebbe stata irrimediabilmente compromessa dall’assenza di un contributo specifico sulla mafia, che Giarrizzo non aveva previsto, limitandosi a commissionare a un altro studioso catanese (Rosario Spampinato) un breve intervento sulla secolare discussione sul tema. Come sempre, l’argomento di Giarrizzo non era banale. Nei diversi contributi cronologicamente ordinati che dovevano formare il volume, diceva, la mafia sarebbe comparsa, come gli altri oggetti e aspetti di una ricostruzione generale. Così avvenne in effetti: nel saggio di Recupero sul Risorgimento, in quello di Barone sul passaggio dall’Otto al Novecento, nel mio sul fascismo, in quello di Mangiameli sul secondo dopoguerra, la mafia compare eccome, anche se (va detto) più che altro nelle pieghe della lotta politica. Sono contento comunque che insieme a Donzelli, con una sorta di colpo di mano, riuscimmo a far sì che fosse assegnato a Paolo Pezzino un saggio intitolato Stato violenza società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso. Un saggio importante e un concetto illuminante, sul quale dovremo tornare più avanti. S. Insomma, comincia a farsi strada la possibilità di raccontare la mafia sotto il profilo storico e non soltanto sociologico. L. Esatto. Pezzino insegnava a Pisa, in un’università do37

ve gli studi contemporaneisti avevano grande spazio e tradizione. Il suo interesse per la mafia non derivava dalle vaghe relazioni personali che lo connettevano dal punto di vista biografico con la Sicilia, ma era di tipo squisitamente conoscitivo e storiografico. E avrebbe dato risultati importanti. Vorrei poi citare gli storici di professione siciliani che si erano già messi a quel tempo sulla strada della ricerca, come Giovanni Raffaele a Messina. Già nel 1984 era uscito l’importante studio sul brigantaggio preunitario di Giovanna Fiume (la quale insegna a Palermo, ma – sarà un caso? – non è palermitana e si è laureata a Catania). Ancora un catanese, Catanzaro di cui abbiamo detto, pubblicò nel 1988 Il delitto come impresa, importante studio sociologico ma che venne da lui stesso definito una «storia sociale della mafia». S. Hai messo l’accento sulla necessità di una ricerca seria, di tipo documentario. Si rendevano disponibili in questa fase nuove fonti, fino ad allora inedite? L. Fonti nuove venivano ora utilizzate, insieme ad altre già in precedenza disponibili. È il caso della cosiddetta inchiesta Bonfadini, ovvero gli atti della Commissione parlamentare sulle condizioni della Sicilia nel 1875-76, pubblicati nel 1968, e da cui partì Pezzino per il suo primo studio sul nostro argomento, apparso nel 1985 su un’importante rivista specialistica fiorentina, «Passato e Presente». Della Commissione Bonfadini era nota la relazione conclusiva, anzi era famigerata per le giuste critiche cui venne sottoposta da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Eppure le cose più interessanti non stavano nella relazione, bensì nella documentazione. S. Dai documenti dell’inchiesta salta fuori la storia del dottor Gaspare Galati, che hai ritenuto emblematica, e tale sembra pure a me, per capire e spiegare la natura della mafia. Vogliamo raccontarla? 38

L. Nel 1872 il dottor Gaspare Galati, medico e agiato possidente palermitano, prova a impegnarsi nella gestione di un suo agrumeto di quattro ettari in contrada Malaspina, nella borgata dell’Uditore. Siamo in un periodo di boom, ma i redditi dell’agrumeto sono modesti. Galati individua il problema in un guardiano che «ruba» (ma forse bisogna parlare di suoi accordi con i sodali che commerciavano il frutto, intesi a tenere il prezzo basso). Licenziato il guardiano, il problema si aggrava, perché la locale cosca mafiosa, capeggiata da certo Antonino Giammona, non gradisce: il nuovo sorvegliante nominato dal proprietario viene ucciso, un altro viene intimidito e ferito. Galati, dopo essersi trasferito a Napoli con la famiglia, denuncia i fatti, fa ricorso alla sua rete di amicizie, trova ascolto dall’autorità, che per la prima volta sembra accorgersi del marciume esistente. La storia è emblematica, certo, e si può usare per comprendere alcuni meccanismi base. S.

Quali?

L. Fondamentalmente tre. Primo: la cosca mafiosa scoraggia i concorrenti e chiunque sia eventualmente chiamato dal proprietario a soppiantarla nelle sue funzioni. Punisce i ladri, garantisce le transazioni legali, preleva una tangente che è tanto maggiore quanto più il proprietario è estraneo alla sua rete di relazioni, però mantiene un atteggiamento deferente nei confronti dei proprietari, specialmente quelli borghesi come Galati. Secondo: la compattezza della cosca è garantita da riti di iniziazione, riposa su un meccanismo di associazione legale e addirittura morale (i mafiosi dell’Uditore sono «terziari di san Francesco», cioè appartenenti a un ordine religioso laicale). Terzo: le fortune della cosca derivano da un riconoscimento da parte delle classi dirigenti che ha una lunga durata nel tempo, come ben sa l’avvocato di Giammona presentandolo come campione della «lega degli abbienti contro i non abbienti» nella fase dei rivolgimenti risorgimentali. Bisogna dire 39

che a un certo punto, dopo il mutamento politico di metà anni Settanta dell’Ottocento, le autorità di polizia cominciano a considerare criminali Giammona e soci: gli stessi cui aveva guardato fino a poco tempo prima come fidati collaboratori, capaci di tenere a freno con i loro sistemi la criminalità comune. Un concetto che un magistrato di allora definì efficacemente con queste parole: «la mafia è il rimedio omeopatico della criminalità». S. Giammona era un capo mafioso di un certo spessore o un mafiosetto di borgata? L. Era un grande capo, il cui potere era destinato a durare nel tempo. Lo ritroviamo infatti indicato come il grande vecchio della mafia palermitana in un documento di valore straordinario, scritto oltre vent’anni dopo il caso Galati, che rinvenni a Roma, all’Archivio centrale dello Stato: lo chiamai «rapporto Sangiorgi», dal nome del questore palermitano che firmò le centinaia di pagine che lo compongono. Il documento nel 1898-1900 descriveva le varie cosche, il loro campo d’azione, i loro delitti, i loro capi. S. Con il materiale dell’inchiesta Bonfadini e il rapporto firmato dal questore Ermanno Sangiorgi avevi tra le mani una ricca documentazione per approfondire la tua analisi: cosa ne ricavasti? L. Il rapporto Sangiorgi mi consentiva di penetrare più a fondo, perché deriva da informazioni e informatori collocati all’interno di quello che il documento definiva «il tenebroso sodalizio». Schematizzo ancora cosa ricaviamo dalla lettura del rapporto. Primo: anche qui la mafia mantiene un atteggiamento di deferenza verso le élites. Fa ricorso all’omicidio nel caso di guerre intestine e, normalmente, per punire i cani sciolti, gli intrusi, gli indisciplinati. La sanzione massima non colpisce i proprietari terrieri, di cui i mafiosi si limitano, all’occorrenza, a danneggiare i 40

beni. Secondo: la mafia ci viene qui descritta come un insieme di gruppi territoriali, radicati nelle borgate e nei paesi dell’hinterland palermitano. Però in questo caso vediamo anche il meccanismo e le istituzioni grazie a cui le cosche riescono a coordinarsi tra loro – o nonostante i quali, talora, si scontrano sanguinosamente. Terzo: la polizia viene indotta a scoprire quello che le è già ben noto dall’input proveniente dal potere politico, e dal primo grande scandalo mafioso di portata nazionale, provocato dall’assassinio di Emanuele Notarbartolo, importante uomo politico ed ex direttore del Banco di Sicilia. Infine, il confronto tra gli atti dell’inchiesta Bonfadini e il rapporto Sangiorgi indica la straordinaria tenuta nel tempo dei gruppi egemoni del potere mafioso. Già alla fine dell’Ottocento si parla, nei rapporti di polizia, di «alta mafia dei Ciaculli», una definizione che viene usata solo per i Greco, la stessa famiglia che fino a una trentina di anni fa ha dominato la borgata di Ciaculli. S. Se è vero che la storia si fa sui documenti, allora eri ormai pronto a scrivere la tua storia della mafia. Come nacque l’idea? L. Beh, per il momento mi sembrò necessario rendere pubblico il contenuto del rapporto Sangiorgi e il ragionamento che si poteva fare su di esso. Lo feci in un seminario organizzato a Napoli dalla collega Marcella Marmo, che stava cominciando a studiare storicamente la camorra, e in un articolo che intitolai Il tenebroso sodalizio, pubblicato nel 1988 su «Studi storici», una delle riviste italiane di punta. Il tentativo della Marmo e mio era di portare all’attenzione del circuito storiografico nazionale la storia meridionale, e quel suo particolare argomento così scabroso in tutti i sensi. Nel frattempo avevo finalmente messo il primo piede nell’accademia, ma cominciando dal fondo (dal ruolo di ricercatore), in un luogo che mi era piuttosto estraneo, la facoltà di Economia dell’Università di 41

Napoli, e tale per me sarebbe rimasto. Le difficoltà accademiche mie personali e quelle di un discorso nuovo sulla storia del Sud mi sembravano un tutt’uno, ma ovviamente si tratta di due ordini di grandezza non comparabili. S. Questo è anche il periodo in cui nasce «Meridiana», e con essa una nuova storiografia – qualcuno dice «revisionista» – sul Mezzogiorno. L. Sì, infatti. È un punto di svolta di cui va merito soprattutto all’asse formato da Piero Bevilacqua, uno storico calabrese di brillante ingegno, e Carmine Donzelli, che avevo conosciuto al tempo della Sicilia Einaudi. Fondammo così l’Istituto meridionale di storia e scienze sociali (Imes) e «Meridiana. Rivista di Storia e Scienze sociali», con l’idea di dare spazio a un’idea di Mezzogiorno buono o cattivo, ma comunque moderno, la cui storia risultava intrecciata a quella delle grandi trasformazioni del mondo contemporaneo. Cominciammo organizzando una serie di seminari a Copanello, località vicina a Catanzaro, nella quale furono coinvolti storici siciliani, calabresi, pugliesi – più diffidenti sono stati sempre i napoletani. Non spetterebbe a me dirlo, ma il lavoro di scavo e conoscenza fatto in vent’anni sui numeri monografici di «Meridiana» è stato formidabile (la rivista esce tutt’oggi e ne sono il condirettore). Nel frattempo Donzelli aveva lasciato l’Einaudi ed era passato a dirigere Marsilio, con cui pubblicai il volume che coronava i miei studi sull’agrumicoltura (Il giardino degli aranci, 1990). Ma Donzelli, spinto da un dinamismo interiore implacabile, voleva creare una casa editrice che portasse il suo nome. Lo fece nel 1993, e subito mi chiese di scrivere per lui un libro sulla mafia. Accettai. S.

Un impegno non da poco...

L. Certo, perché Donzelli premeva per avere un testo coi caratteri della completezza, che proponesse un unico per42

corso di lettura dall’Unità d’Italia a oggi. Conoscevo abbastanza bene la fine dell’Ottocento grazie allo straordinario contributo del rapporto Sangiorgi, e l’affare Notarbartolo di cui avevo scritto su «Meridiana», dopo averne parlato a Copanello nel corso di un grande seminario che parve fondativo dei nuovi studi sull’argomento. Sul fascismo e sull’operazione Mori non avevo problemi. Sapevo invece troppo poco sul periodo postunitario e sull’età repubblicana, ma su questo secondo versante ero consapevole dell’esistenza di una documentazione formidabile quanto poco analizzata: quella della Commissione parlamentare antimafia. Quanto al periodo più recente, mi proponevo di ragionare sull’altro enorme giacimento documentario creato dal pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, l’istruttoria del maxiprocesso. S. Naturalmente nel tuo libro, seppur dentro un’impostazione storica, non potevi non tener conto degli studi sociologici e antropologici, non foss’altro per prenderne le distanze. O no? L. Sapevo benissimo e so che lo studio della mafia, quanto e più di altri argomenti di storia sociale, ha bisogno di tenersi in una fitta relazione con i metodi della sociologia e dell’antropologia. La mia polemica era indirizzata contro gli studi cattivi, non contro le discipline stesse. Effettivamente contributi importanti erano venuti da quei versanti, immediatamente prima dell’uscita del mio libro, con i lavori di Catanzaro e con il volume di Diego Gambetta La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata. Gambetta sostiene che la mafia offre un servizio di protezione. Tesi robusta che permette espliciti consensi e dissensi. Ho sempre pensato che vada anche considerato l’elemento dell’estorsione, perché molte volte la mafia protegge da minacce create ad arte da essa stessa. S.

Il tuo libro uscì nel 1993. Mi ricordo che per chi, come 43

me, faceva il giornalista e da anni si occupava di storie di mafia, fu una sorpresa trovare un testo che finalmente, dentro un’impostazione storica, non faceva a pugni con quanto raccontavamo, giorno dopo giorno. Inoltre, aveva un bel passo narrativo... L. Quello della scrittura non fu un problema da poco. Infatti, le fonti per una storia della mafia in molti casi sono carenti, ma in altri sono invece sovrabbondanti, e rischiano di schiacciare lo studioso. Mi spiego meglio: le transazioni mafiose hanno sempre più o meno la stessa dinamica. C’è il meccanismo della protezione/estorsione, nella quale non si capisce mai se prevalga il primo o il secondo termine del binomio, se l’imprenditore sia vittima o complice dei mafiosi. C’è la costruzione di un complesso sistema di regolamenti interni, codici e codicilli, che vale a sancire la solidarietà interna della cosca o famiglia mafiosa. C’è la violazione di quelle regole che porta a usare la violenza intestina, giustificata con argomentazioni di varia natura, ma intesa sempre ad affermare la supremazia di una fazione sulle altre. In altre parole, c’è il problema che una storia non può ridursi a un’eterna ripetizione con un’infinita sovrapposizione di casi e di nomi; ma neppure a una serie di exempla astratti, che collocano i fenomeni sociali fuori dal tempo e dallo spazio. Gli scienziati sociali fanno talora ricorso all’espediente dei nomi convenzionali per persone e luoghi. Rifuggo da questo malvezzo, perché la storia della mafia è fatta proprio da relazioni tra persone in luoghi specifici, da genealogie e signorie territoriali di lungo periodo. Temevo però di rendere incomprensibile il testo, moltiplicando all’infinito i nomi e i luoghi. È poi vero che nei diversi periodi e contesti (politico, economico, sociale, istituzionale) l’impatto del fenomeno mafioso è differente. Bisognava rendere conto degli incontri della mafia con la grande storia, dei molteplici intrecci tra la prima e la seconda. Bisognava tenere insieme continuità e rottura: era questa la grande sfida. 44

Capitolo 3

ALLE RADICI DEL FALSO MITO

GAETANO SAVATTERI La mafia prospera nel silenzio, si usa dire. Eppure ho l’impressione che attorno alla mafia siciliana ci sia stato ben poco silenzio, sin da subito dopo l’Unità d’Italia. SALVATORE LUPO È così, infatti. Non è vero che attorno alla mafia c’è sempre stato silenzio. Anzi, c’è stato molto chiasso, un grande rumore e un acceso dibattito politico, che in alcune occasioni ha raggiunto livelli elevatissimi. E questo fin dall’Unità d’Italia, non perché prima la mafia non esistesse, ma perché l’ingresso della Sicilia in un sistema di norme nazionali e generali, fa improvvisamente emergere la presenza di un fenomeno che sfugge e si contrappone al nuovo sistema giuridico e di regole di convivenza sociale. S. La mafia quindi trova una sua prima definizione dopo il 1861. Eppure già nel 1838 il procuratore di Trapani, Pietro Calà Ulloa, ne aveva indicato la presenza in Sicilia. L. Parliamo però di un testo che ha tutt’altro intento. Il citatissimo Pietro Calà Ulloa era procuratore del re a Trapani, un bravo magistrato reazionario del governo borbonico. Cercando la rivoluzione e i modi di frenarla, tentando di individuare le modalità con cui questi siciliani insubordinati potessero diventare dei sudditi ubbidienti del suo re, 45

il procuratore di Trapani si interroga e ragiona sulle cause per le quali costoro sono così indisciplinati e non c’è modo di ricondurli all’ordine. E nel fare quest’analisi dice: «ci sono delle fratellanze, ci sono delle strane sette...». Nota che ne fanno parte l’arciprete e il possidente, comincia quindi a rilevare il carattere interclassista di queste aggregazioni. S. Possiamo dire che il procuratore di Trapani scopre la mafia incidentalmente, andando alla ricerca d’altro... L. Non dobbiamo mai dimenticarlo, analizzando il testo. E difatti quella di Calà Ulloa è una definizione assolutamente insufficiente. Perché? Perché il funzionario dei Borbone è troppo impegnato a considerare illecito ciò che noi invece consideriamo lecito, cioè il dissenso politico. S. Mentre nella legislazione borbonica non è reato l’appartenere a una fratellanza? L. Per il procuratore di Trapani, il fatto che queste fratellanze o sette tramassero dissenso politico o abigeati era la stessa cosa. Ma attenzione allo spirito liberticida che rischia di inquinare le fonti in questa prima fase storica. S. Prima dell’Unità d’Italia non esisteva la parola mafia – quantomeno nell’accezione che ne diamo oggi –, perché nessuno ne parlava o perché nessuno in realtà aveva mai cercato una definizione? L. La mafia è un concetto, non è un oggetto. Non è come un tavolo o una pietra. Non è neanche semplicemente un crimine: per proibire la mafia per legge ci sono voluti centoventi anni. La mafia è un fenomeno sociale talmente complesso da non potersi racchiudere in una formula giuridica. Dunque, la mafia è una costruzione intellettuale di quella che in senso lato possiamo chiamare l’antimafia. L’antimafia concepisce che una serie di fenomeni deteriori debbano essere riassunti con una singola parola, con un 46

singolo concetto e «inventa» la mafia. Non è che prima dell’Unità d’Italia non esistessero fenomeni deteriori definibili come mafia. Ma nessuno li definiva. Con l’Unità d’Italia, in relazione a concetti più civili, moderni e progrediti di vita sociale e di istituti giuridici, emerge lo scarto tra quello che ci si aspetterebbe, che dovrebbe essere e una realtà invece diversa – in questo strano e barbaro paese, (così appariva almeno ai continentali), che è la Sicilia. S. Questo vuol dire che prima del 1861 la mafia non esisteva? E allora il procuratore del re a Trapani come aveva fatto ad accorgersene? L. Ti ripeto: in età borbonica esistevano già situazioni e strutture che possiamo definire di tipo protomafioso. Va detto che in età borbonica si affermò comunque il concetto francese dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e furono varate leggi antifeudali che sancirono la distinzione tra amministrazione pubblica e proprietà della terra. Abbiamo insomma un contesto giuridico e amministrativo moderno, è possibile definire situazioni di questa natura. Perché si definisse fino in fondo il concetto e nascesse la parola mafia, mancava ancora qualcosa: la conclusione della stagione rivoluzionaria, l’affermarsi dell’idea di Stato rappresentativo costituzionale, la nascita di un dibattito pubblico libero. S. Dunque, prima che qualcuno dicesse che in Sicilia c’era la mafia, la mafia non aveva bisogno di definirsi. La mafia esisteva... L.

Esisteva nelle cose.

S. Ma se è vero che è l’antimafia a dare nome e quindi identità alla mafia, si può dire che ogni storia della mafia diventa, di fatto, una storia dell’antimafia? L. Ma dobbiamo avere chiaro cosa intendiamo per anti47

mafia, visto che allora questo termine, ovviamente, non era in uso. S. Se la mafia nasce sulla spinta dei movimenti rivoluzionari siciliani, a voler datare possiamo dire che siamo nel periodo compreso tra il 1821 e il 1861? L. Se proprio vogliamo usare delle date, per maggiore chiarezza, usiamo pure queste. C’erano in quel periodo gruppi armati, alle dipendenze dell’alta aristocrazia palermitana. I personaggi mobilitati alla violenza politica durante le stagioni delle rivoluzioni del 1821 o del 1848, elementi già collocati sul confine tra mondo politico e criminalità, furono chiamati dai loro protettori a gestire l’ordine nel periodo del passaggio dei poteri dallo Stato borbonico allo Stato unitario. Ecco, a questo punto possiamo parlare chiaramente di mafia: nasce nel periodo della transizione, e questo emerge dalle biografie di alcuni personaggi mafiosi in seguito coinvolti in inchieste e processi. S. Ma non siamo ancora arrivati alla definizione della parola mafia. L. Nel 1864, nei suoi Cenni sullo stato attuale della pubblica sicurezza in Sicilia, Nicolò Turrisi Colonna, componente del governo rivoluzionario nel 1849, in seguito senatore d’Italia e sindaco di Palermo, esponente della sinistra moderata, spiega benissimo il fenomeno. Il suo è il primo libro sulla mafia, anche se la parola mafia non vi compare. Turrisi racconta di una «setta» composta da ladri e contrabbandieri, la dice ordinata secondo le regole dell’«umiltà» (termine massonico poi corrotto dialettalmente in omertà), spiega che in essa le decisioni vengono prese da assemblee, che vi si entra per giuramento, che i suoi tribunali possono emanare condanne capitali. Nel 1860 la setta è stata usata a fini politici, continua Turrisi, 48

ma nel 1864 bisogna fare i conti con questa realtà, a meno che il governo non adotti misure adeguate. S. Turrisi è prodigo di particolari, nonostante in seguito sarà accusato di essere il capo della mafia. Non poteva limitarsi a dire, come fecero altri, che la mafia non esisteva? L. Questo è il punto. Nel 1864 non è ancora nato il «paradigma mafioso». S.

Il paradigma mafioso?

L. È una definizione di Paolo Pezzino. Il paradigma mafioso è un sistema mistificatorio che ha consentito di dire, per molto tempo e da parte di molti, più o meno direttamente coinvolti in fatti di mafia, che la mafia non esiste o che – se esiste – non si tratta di un’associazione criminale con questo nome. Nel 1864 il paradigma non è stato messo a punto. Turrisi Colonna non nega l’esistenza di un’organizzazione, anzi ne parla tranquillamente. Eppure non aveva torto chi lo indicava come grande protettore di alcuni dei più pericolosi gruppi di mafia. S. Se Turrisi Colonna non usa mai la parola mafia, però già un anno prima, nel 1863, qualcuno l’aveva messa nel titolo di una commedia di grande successo: «I mafiusi della Vicaria» scritta da Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, che si replicò centinaia di volte nei teatri di Palermo e di tutta Italia. La commedia è ambientata nella prigione borbonica della Vicaria, alla vigilia dell’Unità d’Italia, e mette in scena la storia di un’organizzazione criminale guidata da Gioacchino Funciazza, un artigiano che dentro il carcere impone il pizzo ai detenuti. Ma quando in cella arriva l’Incognito, un detenuto politico, Funciazza, dopo averlo riconosciuto, si astiene dal fargli pagare la tangente. L’Incognito spiegherà a Funciazza che una volta caduta la tirannide borbonica non ci sarà più biso49

gno dei suoi sistemi criminali, ma basterà associarsi in società di mutuo soccorso per avere la difesa dei propri diritti... L. Nella commedia di Rizzotto e Mosca ci sono tutti gli elementi connotativi della mafia: la natura criminale dell’organizzazione, la capacità di interpretare interessi diffusi non necessariamente criminali, l’impressione (fallace) che si tratti di un fenomeno arcaico legato a un passato di oppressione e l’auspicio che, in un’era di libertà, il popolo siciliano possa trovare forme più civili e progredite per difendere i propri diritti. È una prospettiva «accomodante», ottimistica, non mistificatoria né depistante. S. Nella figura dell’Incognito è stato ravvisato il profilo di Francesco Crispi... L. È possibile, perché Crispi era il grande leader della sinistra moderata postgaribaldina siciliana e nazionale, l’esponente più prestigioso del nuovo ordine. La commedia indica le carceri come luogo strategico, prima dell’Unità, per mettere in contatto detenuti comuni e politici, per realizzare un’osmosi tra associazioni segrete rivoluzionarie e associazioni segrete criminali. I mafiusi della Vicaria viene scritta e rappresentata nei primissimi anni dopo l’Unità, ma è ambientata nella fase terminale del regime borbonico: racconta la transizione. S. A un certo punto comunque la mafia è riuscita a costruire una narrazione di se stessa: ha saputo veicolare un sistema leggendario di norme e regole; ha accresciuto una sua fama, più o meno sinistra, di potere e di forza; è perfino riuscita a far condividere le proprie ragioni fondative da intellettuali e politici... L. Quello che Pezzino ha definito il paradigma mafioso nasce dopo il 1875 nel corso dell’accesa discussione pubblica sulle leggi eccezionali per la Sicilia che prevedevano 50

la possibilità del governo di sospendere le garanzie statutarie, lasciando mano libera alla polizia nelle zone infestate da camorristi e mafiosi. In realtà, non c’era stato nessun peggioramento dell’ordine pubblico, ma si era in vista di una svolta politica cruciale perché lo schieramento di destra era stato quasi battuto nelle ultime elezioni dall’opposizione della sinistra di cui la Sicilia era caposaldo. La classe politica siciliana ritenne, non del tutto a torto, che si trattasse dell’ennesima legge eccezionale tesa a colpire il dissenso politico. Nella discussione parlamentare quasi tutti i deputati siciliani sostennero questa tesi. Si ricorda l’intervento di Diego Tajani, deputato di sinistra che da procuratore generale del re a Palermo aveva denunciato la sistematica complicità della polizia con la mafia, al punto da incriminare il questore Giuseppe Albanese come mandante di un omicidio commesso da mafiosi. Nel discorso di un deputato siciliano di sinistra moderata come Filippo Cordova, si vede come la parte migliore della classe politica siciliana non neghi l’esistenza della mafia, semmai accusi il governo di servirsene. Dopo il 1877 si apre il «peloso» dibattito sul libro di Leopoldo Franchetti. S. Abbiamo già accennato a Leopoldo Franchetti. Nel 1876-77 la sua inchiesta sulla Sicilia, firmata con Sidney Sonnino, sancisce ufficialmente non tanto la presenza della mafia, ma la sua natura sociale. L. Franchetti arrivando in Sicilia porta due cose nel suo bagaglio: una profonda adesione alla teoria liberal-moderata e i risultati di un decennio di discussione sui difetti del governo liberal-moderato in Sicilia – con la punta finale dello scontro parlamentare sulle leggi eccezionali. La mafia prende così nella discussione pubblica il posto centrale che manterrà per sempre – contrariamente a camorra e criminalità organizzata calabrese (diciamo pure ’ndrangheta). Franchetti e Sonnino si dividono il lavoro: il primo studia i problemi politici e amministrativi, il secondo la 51

questione agraria con particolare attenzione alla condizione contadina. Ti segnalo un particolare: fino a un trentennio fa la parte curata da Sidney Sonnino era considerata la più importante, in uno schema marxisteggiante che privilegiava il tema dei rapporti di produzione. Poi le cose sono mutate, non solo per l’ingigantirsi del problema mafioso, ma per una maggiore attenzione ai temi etico-politici: oggi la sezione sempre citata dell’inchiesta è quella firmata da Franchetti. S. Il giovane Franchetti, nemmeno trentenne, riesce a dare una definizione abbastanza esatta della mafia, no? L. Franchetti parla di facinorosi della classe media. Ora, intendiamoci: la classe media non va considerata nei termini odierni. La classe media è quella che sta a metà tra il proletariato e l’aristocrazia, quindi una classe borghese di proprietari terrieri. Fin dall’inizio del dibattito sulla mafia, quello che risulta sconcertante a molti osservatori è proprio la presenza di personaggi di estrazione sociale elevata. Tutto il dibattito sulla mafia è legato al tentativo di spiegare questa particolarità, che sembra molto strana agli osservatori ottocenteschi, perché ritengono la criminalità un problema dei ceti sociali inferiori. I funzionari della destra storica, già prima di Franchetti, lamentavano l’universale corruzione diffusa in Sicilia in tutti gli strati sociali. E quando iniziò il dibattito sul manutengolismo – manutengoli erano i protettori di briganti e di mafiosi –, il termine veniva applicato sia al contadino che dava da mangiare al brigante sia al possidente che liberamente lo ospitava in casa. Franchetti spiegò anche che certa gente faceva fortuna attraverso il delitto, che esisteva un’«industria» del delitto, attraverso cui certi soggetti divenivano parte del ceto medio o addirittura grandi possidenti. Franchetti disse: in antico erano i feudatari a gestire la forza, ma oggi la violenza si è «democratizzata», molti e diversi soggetti so52

ciali la usano, mentre manca l’idea della superiorità della legge nei confronti dei singoli. S. Tuttavia la mafia descritta nell’inchiesta di Franchetti continua a essere un comportamento sociale, non un’organizzazione criminale vera e propria... L. In verità Franchetti – i suoi interlocutori lo informarono esattamente – riconobbe l’esistenza di fitte e strutturate organizzazioni, soprattutto nel Palermitano. Volle però inserire il problema in un contesto interpretativo più generale, e privilegiò un punto di vista che ugualmente gli veniva offerto dai suoi informatori siciliani: non tanto la mafia esiste, quanto il «comportamento mafioso». Da qui un errore interpretativo che, come abbiamo detto, è perdurato a lungo e fino a pochissimi anni fa. S. Sicuramente inaccettabili erano però le conclusioni della sua indagine. L. Franchetti sostenne che i siciliani erano tutti affetti dal comportamento mafioso, perfino nella parte orientale dell’isola, dove pure – e lo sapeva benissimo – la mafia non c’era. Ne concluse che uno Stato civile non dovesse valersi del contributo dei siciliani per amministrare la Sicilia. La questione veniva portata così su un piano regionalista assai delicato in un’Italia postunitaria in cui le élites dirigenti erano ancora in buona parte piemontesi o al massimo tosco-emiliane. Fu facile per i membri della classe dirigente siciliana controbattere: questa «cosa» ve la inventate voi per continuare a emarginarci. La controversia entrò così su un terreno minato, guadagnando alla mafia sostegni di cui altrimenti non avrebbe potuto godere. S. Il libro di Franchetti provoca infatti la reazione sdegnata dei ceti intellettuali siciliani. 53

L. Infatti. Ma la cosa interessante è che il paradigma mafioso si consolida nel momento in cui la sinistra va al potere, quando i pregiudizi della destra «settentrionale» verso i siciliani e quelli delle élites siciliane verso il governo sarebbero dovuti finire in soffitta. Il nuovo governo Depretis invita a trasformare in processi penali le indagini che la polizia mette in piedi. Uno di questi procedimenti – contro la cosca Amoroso di Porta Nuova – si conclude in primo grado con un gran numero di condanne a morte. Altri processi, come quello agli stuppagghieri di Monreale, si concluderanno però con una selva di assoluzioni. Ma nelle aule di giustizia, nelle arringhe degli avvocati difensori, prende forma il paradigma mafioso. Spesso i legali sono anche importanti politici: è il caso del crispino Antonio Marinuzzi, che attacca l’idea dell’associazione a delinquere come una montatura della polizia per colpire i siciliani. Nel processo Amoroso la difesa sostiene la stessa tesi: il siciliano è un popolo forse primitivo, forse violento, chiuso in una logica di clan, per cui reagisce malamente all’offesa, ma proprio per questo non può parlarsi di associazione: l’associazione è un concetto moderno, mentre il siciliano è un popolo antico. S.

Tesi difensive molto suggestive...

L. Ti racconto un episodio. Un avvocato difensore chiede al giudice che un testimone giuri sulla memoria del padre. Il magistrato replica che il giuramento deve riflettere la formula di legge, ma il difensore replica: non in questo caso, perché questa gente diversa rispetta e ha come unico valore la famiglia, e solo giurando sulla memoria del padre il testimone dirà la verità. La richiesta, stranamente, viene accolta dal giudice. Ebbene, siamo palesemente di fronte a una messa in scena. Devi considerare che gli imputati erano accusati di aver ammazzato un cugino: parliamo insomma di un delitto consumato all’interno della famiglia, lo stesso valore supremo cui si faceva appello. La rappresen54

tazione dunque tendeva a far risultare inverosimile l’accusa e nel contempo a determinare un flusso di simpatia tra gli imputati e il pubblico: si sa, tutti rispettano la famiglia. S. Un sistema sofisticato costruito per replicare alle accuse di associazione a delinquere attraverso la definizione di un paesaggio culturale. Se ho ben capito, il concetto che la mafia non esiste, cioè il paradigma mafioso, viene elaborato dopo che pubblicamente era già stata individuata e denunciata la mafia come organizzazione criminale? L. Esatto. Si descrive la mafia come un fenomeno informale e subculturale, appartenente all’intera Sicilia, di per se stesso non condannabile e per alcuni versi accettabile: questi primitivi in fondo sono a loro modo onesti, e possono risultare perfino simpatici. In definitiva, rappresentano la «robusta barbarie» di cui aveva scritto Giambattista Vico, portatori di valori che i folcloristi ottocenteschi stanno cominciando a spiegare all’Europa progressista. E qui incontriamo Giuseppe Pitrè, medico del quartiere Borgo di Palermo, folclorista – o demopsicologo, come si diceva ai tempi – di fama mondiale, autore di preziose raccolte di proverbi, usi e costumi siciliani. Fu Pitrè a dare forma concettuale e teorica a questa immagine della mafia, in tre paginette destinate a diventare canoniche. S. Riepiloghiamo brevemente. «La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti», diceva Pitrè. «La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, d’ogni urto d’interessi e di idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui». E aggiungeva che il termine mafia, da quanto emergeva dalle sue ricerche, era stato usato in passato per definire la bellezza di una donna, il valore di un uomo, la grazia o la forza. Nulla a che fare quindi con il significato deteriore che aveva finito per assumere. Anzi. Questo concetto ha avuto 55

fortuna e durata nel tempo: il boss corleonese Luciano Leggio citava lo stesso esempio, nel corso di una sua intervista con Enzo Biagi, parlando di un cavallo mafioso o di una donna mafiosa, come aggettivo di qualità estetica o morale... L. La definizione di Pitrè è stata riproposta come parola definitiva della «scienza», innumerevoli volte, nelle aule dei tribunali e nelle riviste giuridiche. Per cento e più anni, ha formato il fulcro delle fumose pseudospiegazioni fornite dai siciliani ai continentali sull’essenza nascosta della mafia. Logico che se ne siano serviti i mafiosi stessi. S. Ironicamente, ne riprenderà i termini Leonardo Sciascia in un racconto del 1960 intitolato «Filologia», nel quale un mafioso viene istruito da un uomo di cultura siciliano prima di un’audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia, per portare «un contributo alla confusione, si capisce... e te lo garantisco io che a un certo punto non si capirà più niente: tra storia, filologia e lettere anonime non si capirà più niente, niente...». L. Chissà quante volte sarà successo, direttamente o indirettamente. D’altronde Pitrè usa la stessa tecnica mistificatoria per la parola omertà, che per lui sta per omineità, cioè virilità: il siciliano avrebbe un senso poderoso della propria virilità, sarebbe insomma un maschio al cubo, che non tollera le offese e quindi qualche volta può esagerare nella reazione. La parola, invece, viene da umiltà, termine di derivazione massonica, che vuole indicare la regola dell’obbedienza all’interno di un’organizzazione segreta – proprio quanto si voleva occultare. S. Proprio negli stessi anni in cui Pitrè mette a punto la sua definizione di omertà e di mafia, lo stereotipo del siciliano focoso e mal disposto a subire le prepotenze si fa strada in tutta Europa sulle note della «Cavalleria rusticana» di Pietro Mascagni, ispirata alla novella di Giovanni Verga. Il cerchio dunque si chiude. 56

L. Verga però parlava di una situazione diversa, quella della Sicilia orientale, e comunque di una cultura «di tutti», nella quale Pitrè tentava di occultare lo specifico mafioso. Ma la mafia e la società siciliana di fine Ottocento non erano la stessa cosa. S. È una distinzione sottile e difficile. Sempre restando a Verga, infatti, perché non considerare Mastro don Gesualdo il classico archetipo del mafioso? L. Mastro don Gesualdo rappresenta il prototipo del gabelloto che vorrebbe entrare a pieno titolo nella classe dirigente paesana e non ci riesce. Però la storia non è ambientata a Riesi, a Favara o a Corleone, ma a Vizzini, nella Sicilia orientale. Condizioni sociali simili non producono lo stesso risultato, a conferma che siamo di fronte a fenomeni specifici. Forse molti mafiosi di quel tempo erano simili a Mastro don Gesualdo, ma non credo che, creando il suo personaggio, Verga pensasse alla mafia. S. Con Pitrè comunque si avvia quel processo culturale che tende a negare l’esistenza stessa della mafia... L. Si va verso una negazione totale. La mafia non esiste e se esiste è solo un comportamento. Quanto ai continentali che fantasticano di associazioni criminali, vogliono calunniare la Sicilia. S. Nella scia di Pitrè si collocheranno anche uno scrittore come Luigi Capuana e molti altri intellettuali, spesso in buona fede. L. Perché il paradigma mafioso si costruisce non solo per interesse diretto di alcuni – e penso agli avvocati difensori dei mafiosi, ai politici e ai proprietari collusi –, ma anche su un’idea di orgoglio regionalista che vuole uscire da uno stato di minorità durato fino al 1875, che rivendica una pari dignità nazionale. 57

S. Stiamo analizzando la nascita del paradigma mafioso, cioè la negazione stessa dell’esistenza del fenomeno criminale. Ma in questi stessi anni trova identità forte il fronte che oggi potremmo definire antimafioso. Mi piace tornare al caso che abbiamo citato in precedenza, quello del dottor Gaspare Galati. Possiamo individuare questo episodio come una protoantimafia o il dottor Galati nel 1874 non sa di essere antimafioso, ma rivendica solo un diritto? E il fatto stesso di rivendicare un diritto è già antimafia? L. Il dottor Galati sicuramente si rendeva conto di fare una battaglia di tipo generale partendo dalla sua personale esperienza. Era indignato: non solo difendeva un suo interesse, ma anche la legge quale la si ritrovava nei codici, qual era affermata nelle carte fondative del regno d’Italia. Galati denunciava l’esistenza di trame, la tolleranza della pubblica autorità nei confronti dei mafiosi. Mi pare che ci sia quasi tutto quanto può interessarci: abbiamo molte delle componenti del paesaggio dell’antimafia. S. È già un’antimafia consapevole o solo un episodio isolato? L. Molto consapevole, e conforme ai dettami del liberalismo, era la protesta contro la diminutio del diritto di proprietà, derivante dai condizionamenti mafiosi. I proprietari erano il fondamento dell’opinione pubblica e delle pubbliche libertà. Questo lo sapevano bene i mafiosi stessi perché, checché ne dicesse Galati, alla fine nessuno dei proprietari veniva ammazzato. Il capomafia Giammona, di cui Galati lamentava le prepotenze, non risulta abbia mai fatto degli attentati veri e propri contro i proprietari. Piuttosto, non appena alcuni dei suoi accoliti minacciarono di rapire i figli di illustri personaggi, lui li fece ammazzare. Giammona aveva ben chiaro che il suo compito era di mantenere l’ordine, condizionando i proprietari, ma senza scontrarsi con loro, perché altrimenti ne sarebbe 58

uscito con le ossa rotte. Lo scontro frontale con la proprietà non era negli interessi di quel ceto di intermediari. S. C’era sempre il rischio che il ceto dei proprietari si coalizzasse contro la mafia... L. Almeno in teoria. Basterebbe, diceva Franchetti, che i proprietari agissero per dieci minuti d’accordo tra di loro: mafia e brigantaggio non ci sarebbero più. Ma questo non succedeva, e non a caso l’avvocato di Giammona, nel patrocinare il suo assistito, lo descriveva come un grande difensore dei diritti della proprietà. E probabilmente non a torto. L’avvocato di Giammona e Galati ci restituiscono due diverse rappresentazioni del problema. S. Nella realtà le due rappresentazioni sono meno incompatibili di quanto sembrino... L. Già, perché Giammona contemporaneamente difende i diritti della proprietà se i proprietari sono suoi amici, ma viola quegli stessi diritti dei proprietari non amici. Naturalmente, se deve costruire una propria immagine esterna, si mantiene sul primo versante. Fa la sua mossa, quando esibisce nell’aula del processo la lettera di raccomandazione di Turrisi Colonna, che già conosciamo come illustre uomo politico e, soprattutto, grande proprietario terriero. Cosa scrive Turrisi Colonna? Leggiamo: Giammona è sempre stato una persona di mia fiducia e ha sempre difeso le istituzioni. S. Abbiamo visto che in questa stagione di fine Ottocento c’è l’antimafia individuale del dottor Galati, cioè del proprietario terriero che tenta di difendere se stesso. Ma c’era anche l’inchiesta di Franchetti. E c’era anche l’inchiesta parlamentare, la Commissione Bonfadini, davanti alla quale una categoria di soggetti istituzionali, carabinieri, magistrati, delegati di pubblica sicurezza, mostrava di avere una per59

cezione molto chiara del fenomeno. C’erano alleanze virtuose tra uomini come il dottor Galati e l’antimafia istituzionale? L. Sicuramente. Il dottor Galati si rivolgeva a funzionari di polizia e aveva i suoi referenti all’interno del mondo delle istituzioni: in una città in cui votavano poche centinaia di persone, il dottor Galati con i suoi parenti e clienti costituiva un notevole serbatoio elettorale, di certo riceveva la giusta attenzione. Quanto all’antimafia istituzionale del periodo della destra storica, aveva suggerito a Franchetti l’idea secondo cui il popolo siciliano, tutto, dal marchese al contadino analfabeta, era mafioso perché incivile. Diceva il prefetto di Caltanissetta Guido Fortuzzi: le istituzioni liberali non sono adatte a questi climi, non possiamo continuare nell’«azzardoso e terribile esperimento» di voler governare un popolo proclive al sangue come questo, con gli stessi ordinamenti che si applicano presso i popoli nordici e civili. S.

Al solito: due Italie, due mondi, leggi diverse...

L. Comunque anche quando questa estrema diffidenza si attenua, l’antimafia resta sostanzialmente di destra. Per l’autorità l’ordine conta più della libertà, e la libertà facilmente degenera in licenza. Peraltro (anche qui Franchetti fa propria l’opinione dei funzionari governativi della destra) in tutto il mondo la borghesia è fautrice dell’ordine, mentre il proletariato è fautore del disordine; in Sicilia invece c’è la stranezza di una borghesia fautrice di disordine. S. Quindi l’esercito, la legge marziale, le esecuzioni, gli abusi... L. Sì, ma non oltre il 1876. La linea di Antonio Malusardi, primo prefetto della sinistra storica, era intesa a spez60

zare il fronte avversario, di modo che i proprietari fondiari, i latifondisti più importanti, scaricassero i banditi da loro protetti. Malusardi sostenne di aver definitivamente sconfitto brigantaggio e mafia – forse era vero per il primo, non certo per la seconda. Però la sua battaglia fu la prima a risultare efficace. S. Il primo febbraio 1893, sul treno in viaggio fra Termini Imerese e Palermo, viene ammazzato Emanuele Notarbartolo: il primo cadavere eccellente siciliano. Il suo omicidio spezza tutti gli equilibri tra mafia e gruppi dirigenti... L. Perché per la primissima volta viene colpito con la sanzione capitale un esponente dell’élite politica e sociale: Notarbartolo apparteneva a uno dei rami più antichi dell’aristocrazia, era stato sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia. Quella del 1893 era una società in cui alcuni giravano vestiti di stracci e altri invece con cravatta, bastone e carrozza. Il liberalismo considerava la proprietà fondiaria la base dell’ordine sociale. La mafia in generale era imperniata sulla deferenza verso queste gerarchie, ma l’uccisione di un personaggio illustre come Notarbartolo segna un mutamento radicale. Si infrange il diaframma che fino ad allora aveva diviso i due mondi, canalizzando la violenza esclusivamente all’interno delle relazioni tra gli stessi facinorosi. S.

Perché i mafiosi si decisero a violare quel tabù?

L. Perché Notarbartolo, dopo essere stato allontanato dalla direzione del Banco di Sicilia, era venuto a sapere che i fondi dell’istituto di credito erano stati impiegati segretamente in una speculazione al rialzo sui titoli azionari della Navigazione generale – ovvero a sostegno degli interessi del più importante gruppo economico e di potere palermitano, rappresentato dalla famiglia Florio. Aveva speculato per proprio conto anche un deputato palermitano 61

non di primo rango, Raffaele Palizzolo, ben noto per le sue relazioni mafiose: in quell’occasione utilizzò broker finanziari legati ad ambienti criminali, abituati a operare su scala internazionale. Siamo dunque in una trama di grande politica e di grande finanza. Ancora una volta, interessi moderni per definizione! Palizzolo, a quanto sembra, commissionò il delitto ai suoi protettori-protetti della cosca di Villabate nel timore che se Notarbartolo fosse tornato a guidare il Banco avrebbe richiesto un’inchiesta. S. Colpire un esponente dell’aristocrazia e del potere siciliano provocò una reazione fortissima... L. Possiamo dire che in questa fase nasce un movimento antimafia assimilabile al concetto moderno che ne abbiamo oggi. Palizzolo viene a lungo coperto dall’autorità giudiziaria e di polizia, ma poi è incriminato e infine arrestato. A creare lo scandalo, a incalzare lungamente le autorità locali e nazionali perché si faccia giustizia, è un movimento trasversale tra destra e sinistra. La famiglia Notarbartolo si appoggia sul mondo delle classi dirigenti, politicamente liberal-conservatore, di cui faceva parte la vittima, ma dà l’incarico di patrocinare la parte civile all’avvocato socialista Giuseppe Marchesano. E dal mondo radical-socialista provengono i più noti membri di questo fronte antimafia, come Napoleone Colajanni e Giuseppe De Felice Giuffrida (siamo, non dimentichiamolo, all’indomani della repressione dei Fasci socialisti siciliani). Sulla stessa linea convergono anche il «Giornale di Sicilia» e una vasta parte dell’opinione pubblica palermitana, siciliana e nazionale. S.

E sull’altro fronte chi c’è?

L. Dall’altro lato, ci sono gli amici politici di Palizzolo, i Florio, che schierano in campo il loro quotidiano, «L’Ora», e c’è un movimento accesamente regionalista (il Pro 62

Sicilia) che riproduce imperturbabile la solita tesi – Palizzolo viene perseguitato perché siciliano –, sfruttando lucidamente qualche caduta di stile simil-razzista della stampa nazionale. Entrambi gli schieramenti, come vediamo, hanno importanti argomenti e strumenti di pressione. Il fatto che i processi si svolgano fuori dalla Sicilia – a Firenze, Bologna, Milano – ne amplifica ancor più la portata, dando rilievo nazionale al dibattito attorno alla mafia. S. Immagino che lo schieramento pro Palizzolo abbia iscritto sulla sua bandiera il paradigma mafioso... L. È proprio Pitrè a illustrarlo, quando viene chiamato dalla difesa a testimoniare al processo. Certo è mosso da un intento regionalistico, ma anche dalla rete di amicizie e di clientele che lo collega direttamente a Palizzolo. Nell’aula del processo ripropone la sua tesi, quindici anni dopo averla scritta, negando l’esistenza stessa della mafia come organizzazione criminale. Dopo la sua deposizione, commenterà così l’avvocato Marchesano: «Pitrè è un ottimo folclorista, ma un pessimo testimone, perché invece di spiegarci cos’è la mafia, ci ha spiegato cosa non è». S. Negli stessi anni del processo Notarbartolo, probabilmente sotto l’influenza del furioso dibattito pubblico che lo accompagnava, lo scrittore Luigi Natoli – giornalista repubblicano, storico autodidatta, erudito e prolifico autore di feuilleton – scrive «I Beati Paoli», la storia di una setta di giustizieri incappucciati. Della leggenda di questi vendicatori, nascosti nei cunicoli sotterranei di Palermo, restava traccia nella tradizione orale, ma pure nel diario di fine Settecento del marchese di Villabianca e perfino nella toponomastica della città, dove ancora adesso c’è una piazzetta dedicata ai Beati Paoli. Il romanzo d’appendice, pubblicato a puntate sul «Giornale di Sicilia», ebbe un clamoroso successo di pubblico e in qualche modo fornì alla mafia la sua origine mitica... 63

L. Natoli recuperò una tradizione preesistente, peraltro già legata alla mafia. Bernardino Verro, leader dei Fasci siciliani a Corleone, lasciò testimonianza di aver giurato alla mafia con il rito dei Beati Paoli (fu un errore di gioventù: Verro, a capo del movimento contadino di Corleone, avrebbe negli anni seguenti coraggiosamente contrastato i gabellotti mafiosi, fino ad essere da loro assassinato nel 1915). Probabilmente, la storia dei Beati Paoli era già entrata nell’armamentario arcaicizzante della mafia... S. Leggiamo cosa dice il capo della setta dei Beati Paoli, nel romanzo di Natoli, per giustificare il proprio operato: «Un nobile può togliere al suo vassallo, solo perché è vassallo, le bestie, le armi, il cavallo, e il suo diritto glielo consente; questo stesso diritto manda sulla forca quel vassallo, se ardisce rubare una bica di frumento o un agnellino del padrone. E questa si chiama giustizia! [...] È la giustizia dello Stato: è la giustizia secondo le leggi scritte a beneficio dei più forti... Ma questa giustizia è la più mostruosa delle iniquità! La nostra non è scritta in nessuna costituzione regia, ma è scolpita nei nostri cuori: noi la osserviamo e costringiamo gli altri ad osservarla [...] Chi riconosce la nostra autorità? Nessuno. Chi riconosce in noi il diritto di esercitare giustizia? Nessuno. Ebbene, noi dobbiamo imporre questa autorità e questo diritto e non abbiamo che un’arma: il terrore, e un mezzo per servircene: il mistero, l’ombra. Non ci nascondiamo per viltà, ma per necessità. [...] Puniamo e vendichiamo l’offesa. Nessuno vede il braccio punitore, nessuno può dunque sottrarvisi... Questa è la nostra giustizia. Essa non ha punito mai un innocente, ed ha asciugato molte lagrime». Insomma, c’è tutta la retorica della mafia buona e cavalleresca. L. La società segreta è l’unica che possa amministrare una «giustizia giusta», non certo quella ufficiale: questo è il punto di giunzione. Il romanzo ambienta la sua storia in un momento di transizione, cioè il passaggio dal vicerea64

me spagnolo al breve reame di Vittorio Amedeo di Savoia, in qualche modo evocando la transizione che la Sicilia ha appena attraversato, passando dai Borbone al Regno d’Italia. Il romanzo di Natoli diventa la Bibbia della mafia, perché intreccia elementi del dibattito pubblico e immaginari, recepiti e rielaborati nei sotterranei del rituale mafioso. Quanto più antico, tanto meglio: spesso, infatti, ai Beati Paoli si sovrappone la rielaborazione fantastica dei Vespri siciliani. Entrambi i richiami ammiccano furbescamente all’orgoglio patriottico isolano. In pratica, tutti i materiali utili vengono usati per realizzare, come direbbe Eric Hobsbawm, «l’invenzione della tradizione».

Capitolo 4

IL PREFETTO DI FERRO

GAETANO SAVATTERI Cosa Nostra ha sempre vietato, almeno fino a qualche tempo fa, che i suoi affiliati votassero e sostenessero esponenti politici neofascisti. Quasi che nella memoria collettiva della mafia resistesse forte il ricordo della campagna fascista contro la mafia. Ma fu veramente così importante questa stagione antimafia del regime mussoliniano? SALVATORE LUPO È importante per due ragioni. Perché ebbe oggettivamente grande portata, e perché per la prima volta fu dato a un’operazione di questa natura un rilievo politico generale, con conseguente grande valorizzazione propagandistica. Molti ne hanno tratto l’erronea convinzione che soltanto il fascismo abbia represso la mafia. S. Una convinzione ancora corrente; vedremo in seguito se sia andata veramente così. Ma cosa ricaviamo dalla rilettura della campagna antimafia del fascismo? L. Innanzitutto, dovremo prendere atto che l’antimafia non va collocata necessariamente a sinistra. Possiamo pensarla come un pendolo che oscilla verso la destra (storica) in età postunitaria, prosegue oscillando verso sinistra con l’affaire Notarbartolo e ancor più col tentativo di leghe e affittanze di tagliare fuori i grandi gabelloti dall’affitto dei 66

latifondi. Poi il pendolo dell’antimafia torna bruscamente a destra, la destra «nuova» del fascismo. S.

Ed è un’antimafia istituzionale, di regime...

L. Di sicuro quella fascista è un’antimafia istituzionale. C’è però una componente ideologica, secondo cui la mafia è un frutto perverso dell’allargamento dei canali della partecipazione politica e dà la dimostrazione di quanto malefica sia la democrazia in quanto tale. Rielaborando Franchetti nella logica totalitaria, il fascismo afferma che quanto viene dal basso o dalla periferia è portatore di mafia. Naturalmente anche nel fascismo, come in Franchetti, la borghesia con le sue ambizioni, il suo opportunismo, le sue fazioni, può essere considerata un elemento corruttore. S. Siamo già alla definizione del concetto di borghesia mafiosa? L. Per certi versi sì, anche se i fascisti usano concetti generici come «costume borghese», o «costume feudale». Polemizzano contro i gabelloti, definendoli elementi socialmente ed economicamente parassitari, e spesso lamentano l’assenteismo dei grandi proprietari. La propaganda fascista chiama peraltro gli stessi proprietari, assieme ai contadini, ad assumere il loro posto di «produttori», attivi e operosi, nel nuovo edificio corporativo che il regime sta costruendo per la patria. Osserverai che questo discorso prende in prestito molti argomenti da quello tradizionale della sinistra. In maniera demagogica? Forse, comunque col tipico carattere trasversale dell’ideologia fascista. Sta di fatto che parliamo essenzialmente di un’operazione di polizia condotta con la mancanza di scrupoli tipica di un regime totalitario. S.

Ma il fascismo fu sin dall’inizio così ostile alla mafia?

L. Direi di no. Le fonti sono concordi nel dirci che, nel 67

Palermitano soprattutto, il listone fascista del ’24 aveva al suo interno alcuni dei più importanti gruppi mafiosi. Non tutti e non dappertutto, certo. S. Va collocato in questo periodo, se non sbaglio, il famoso comizio di Vittorio Emanuele Orlando a Palermo quando disse: «Se la mafia è senso dell’onore e resistenza alla sopraffazione, allora io sono il primo dei mafiosi». Un discorso spesso indicato come il classico tic del politico pronto a difendere la mafia. Mi chiedo se invece le parole di Orlando non siano state pronunciate in un altro senso, in un significato antifascista. È possibile? L. Attenzione. Nel ’24 Orlando era ancora alleato con Mussolini, ma poi rompe quando vede che la «rivoluzione» fascista non può essere riassorbita negli usuali canali trasformisti. E nel ’25 capeggia la lista liberale antifascista nelle elezioni amministrative palermitane. In questo caso sì, la sua apologia della mafia voleva avere un significato antifascista, di difesa del vecchio mondo siciliano da una minaccia dipinta nello stesso tempo come moderna e tirannica. Che paradosso! Bada però: parliamo di un discorso, insomma di una retorica, visto che, come abbiamo accennato, buona parte dei gruppi mafiosi in quel momento erano schierati col fascismo. La retorica è la solita, la stessa di Pitrè: se voi mi date del mafioso perché sono siciliano, allora sì, lo rivendico, perché il siciliano è uomo d’onore; se invece intendete per mafioso il delinquente, la cosa non mi riguarda. Insomma Orlando sperava di recuperare qualche voto suonando la grancassa sicilianista. S. La repressione viene affidata al prefetto Cesare Mori, un funzionario dello Stato peraltro non di stretta fede fascista. In che momento scatta l’operazione? L. L’operazione Mori inizia nel momento in cui il fascismo ha appena vinto la sua battaglia, subito dopo le ele68

zioni amministrative del 1925. Dopo di allora, elezioni non se ne faranno più. E infatti il numero uno del fascismo palermitano, l’ex nazionalista Alfredo Cucco, va da Mussolini e dice: «Adesso dovremo liberarci delle clientele più o meno mafiose di cui ci siamo serviti per vincere le elezioni e che non ci serviranno più». Cucco nella sua autobiografia la racconta più o meno così. S. L’operazione Mori, oltre al ristabilimento dell’ordine pubblico, aveva anche uno scopo politico? L. Certo, ma non si trattava tanto di far fuori l’opposizione liberale: i liberali si erano già ritirati dalla competizione o erano intenti a mascherarsi da fascisti. L’obiettivo politico assegnato a Mori ricadeva all’interno del fascismo stesso. Parliamo di una variante regionale, siciliana, della generale epurazione del Partito nazionale fascista, intrapresa dalla segreteria di Augusto Turati a partire dal ’26. I vari ras del fascismo padano o toscano, giovanotti senza scrupoli impegnati a crearsi una carriera o una posizione, furono accusati di corruzione e di ogni genere di nefandezze. Le accuse erano fondate? In parte. In parte erano strumentali. S. Nella scelta del regime di mandare a Palermo il prefetto Mori, un «continentale», sembra resistere la lezione di Franchetti secondo cui solo gli stranieri potevano sradicare la mafia dalla Sicilia. L. Mori era un poliziotto che veniva dai ranghi e conosceva bene la Sicilia. Lo possiamo dire quasi specializzato in Sicilia: era stato prima questore, poi prefetto di Trapani. Era considerato antifascista, perché quale prefetto di Bologna, tra il ’21 e il ’22, aveva contrastato lo squadrismo (contrariamente agli altri suoi colleghi). Nel ’19 aveva fatto caricare dalla polizia e poi arrestare molti nazionalisti durante le manifestazioni pro Fiume. Era un uomo di Francesco Saverio Nitti, l’arcinemico dei fascisti. 69

S.

E nonostante tutto Mussolini sceglie Mori. Perché?

L. Perché Mussolini voleva proprio uno impermeabile agli ambienti e ai personaggi del fascismo. Cucco sostiene di essere stato lui a consigliare Mori a Mussolini, ma lo escluderei. Cucco apparteneva alla fazione fascista più radicale legata a Roberto Farinacci, quella che vedeva Mori come il fumo negli occhi. Aggiungo che era conosciuto come antifascista anche Luigi Giampietro, il procuratore incaricato di gestire i processi scaturiti dalle retate di Mori. Insomma siamo di fronte a un’antimafia istituzionale, diciamo pure repressiva, a un’idea della legge che, certo, poco o nulla si pone il problema dei diritti individuali. Mussolini si appellò allo Stato, senza aggettivi, come fece in molti altri casi locali nella seconda metà degli anni Venti. Il movimento fascista, come ben si sa, aveva carattere anarcoide, e i ras fascisti, se fossero stati lasciati a sé stessi, avrebbero creato tante piccole repubbliche basate sull’illegalismo non solo politico. A Firenze, ad esempio, la polizia li accusò di basarsi sul racket, sulle tangenti, sulle attività illecite, sulla prostituzione... S. Si racconta una storia sulla decisione di Mussolini di aprire l’offensiva alla mafia. Si dice che durante una visita del duce a Piana degli Albanesi, vedendo la nutrita scorta che Mussolini aveva attorno, Francesco Cuccia, sindaco di Piana, gli abbia detto: «Duce, c’è bisogno di tutti questi sbirri? Ci sono io... lei qui è al sicuro». Quest’allusione al proprio potere mafioso avrebbe innescato la reazione di Mussolini, che, indignato da questo episodio, avrebbe deciso di mandare Mori in Sicilia. È un episodio citato nei libri, ma non so quanto vero... L. L’incontro tra Cuccia e Mussolini potrebbe anche essere leggendario. Però Cuccia era uomo graditissimo ai fascisti, perché aveva rovesciato l’amministrazione rossa a Piana degli Albanesi, dopo averne assassinato i leader. I documenti pubblicati recentemente mostrano come la po70

lizia fosse ben conscia della grande caratura mafiosa di questo personaggio, ma anche del debito che le «forze nazionali» avevano verso di lui. Mussolini lamenta l’arroganza di Cuccia e dice che lo distruggerà, ma lo fa nel 1926. Quando viene in Sicilia e va a Piana degli Albanesi siamo ancora nel 1923: a quella data Mussolini si guarda bene dal parlare male di Cuccia. S.

Cuccia era veramente mafioso?

L. Eccome. Anzi, verrà poi indicato dalle fonti come il capomafia palermitano, più che di Piana degli Albanesi. La sua carriera sembra un po’ l’anticipo della storia dei corleonesi: Cuccia porta il suo potere da un paese della provincia al capoluogo. S. Anche don Vito Cascio Ferro, indicato da Mori come un nemico pubblico, aveva il suo potere a Bisacquino, ma viveva e operava a Palermo... L. Sì, però le cose che sappiamo su questo personaggio riguardano più che altro attività svolte a Bisacquino, Corleone, Contessa Entellina. Per Cuccia, le informazioni sono più precise: sappiamo di grandi affari, di una sua politica di acquisti fondiari nell’agro palermitano. S. Nella lotta alla mafia il fascismo gioca in gran parte la sua credibilità. Vi costruisce attorno una colossale macchina di propaganda a livello nazionale e internazionale come poche altre volte... L. Ho sempre pensato che il fascismo abbia realizzato sulla lotta alla mafia la sua più importante operazione propagandistica verso il Mezzogiorno, in qualche modo paragonabile solo a quella messa in moto per la bonifica dell’Agro Pontino. S.

A quei tempi l’Agro Pontino era sicuramente il primo 71

avamposto del Mezzogiorno. Dunque bonifica e antimafia grandi campagne mediatiche del fascismo... L. Esatto. Se rileggiamo le pagine del «Times» o del «New York Times», con i titoloni in prima pagina sull’assedio di Gangi, ci accorgiamo di quanto l’operazione propagandistica, non solo a livello regionale, non solo a livello nazionale, ma anche a livello internazionale, sia stata molto efficace. Gli stranieri erano indulgenti verso Mussolini, pensando che un popolo come quello italiano avesse bisogno di ordine e di legge. Pazienza se per riuscirci era necessaria la frusta. S. Ma, fatta la tara alla propaganda, qual era invece la realtà delle cose? L. La realtà è che tra il ’26 e il ’27 le retate si susseguono, coinvolgendo migliaia di persone. Subito dopo vengono i processi, anche se sotto il profilo propagandistico l’utilità marginale di ogni successiva azione cala progressivamente. Negli anni Venti, non c’è ancora una vera censura sulla cronaca nera e quindi sul «Giornale di Sicilia» le notizie sui processi vengono pubblicate, ma finiscono progressivamente relegate nelle pagine cittadine e regionali. Quanto alle condanne: nel primo processo, alle cosche delle Madonie, sono pesanti, ma molti dei procedimenti successivi si risolvono con sentenze per associazione a delinquere e pene alquanto lievi, due o tre anni di carcere. Arriverà poi un’amnistia e moltissimi usciranno dalla galera. S. Ma chi non viene condannato, spesso viene colpito da provvedimenti di polizia come il confino. L. Certo. In realtà penso che gran parte della repressione, passata per il confino, sia stata delegata alla polizia piuttosto che alla magistratura. Alla fin fine, con lo stesso 72

metodo adottato dallo Stato liberale, seppur applicato con mano più pesante. S.

Arbitrarietà discrezionale e scarsi controlli di diritto...

L. L’arbitrarietà di un regime repressivo che manda al confino, come sappiamo, non solo gli oppositori politici, ma anche chi non si comporta in maniera «normale» (gli omosessuali, ad esempio, o le donne «di facili costumi»). Allo stesso modo colpisce chi per ragioni familiari o locali ha relazioni con appartenenti alla mafia. Tra l’altro, la fine della prefettura Mori (fu mandato in pensione nel ’29) e della stagione dei grandi processi non significa la fine della repressione: abbiamo una «seconda ondata», che contrariamente alla prima non è affatto amplificata propagandisticamente. Anzi, a quanto risulta, ai giornali viene proibito di parlarne. Evidentemente si teme che il secondo repulisti getti dubbi sull’efficacia del primo. S. Forse proprio per questo non si ha memoria netta di una seconda operazione antimafia: fu fatta passare in sordina. A che distanza di tempo dalla prima fu avviata la seconda campagna? L. Intorno alla metà degli anni Trenta, quando si vedono gli effetti negativi dell’amnistia. Segnalo i soliti contrasti tra carabinieri e polizia, ma anche la costituzione di un’istituzione investigativa interforze, qualcosa di simile alla nostra Direzione investigativa antimafia: si chiamava Ispettorato generale di pubblica sicurezza per la Sicilia. Da questa seconda repressione comunque ricaviamo un materiale straordinario: abbiamo infatti centinaia e centinaia di fascicoli personali dei confinati, oggi conservati presso l’Archivio centrale dello Stato, con la storia giudiziaria e personale di ciascuno, un materiale di studio interessantissimo. 73

S.

Vere e proprie biografie giudiziarie...

L. Per certi versi. Interessantissimi anche alcuni documenti dell’Ispettorato di Ps, i cui contenuti provo a sintetizzare. Vi si legge: Mori è stato bravo, ma non ha potuto fare fino in fondo il suo lavoro perché la cosiddetta opinione pubblica siciliana, montata dai soliti aristocratici protettori dei mafiosi, ha indotto le autorità a mollare la presa, e pertanto oggi la situazione è addirittura peggiore di quella precedente al 1926. I documenti sono basati su testimonianze dall’interno e delineano la struttura tipica di Cosa Nostra: giuramento, affiliazione, sistemi verticali, cupole. Si tratta di un modello, scrivono i funzionari dell’Ispettorato, uguale a quello della massoneria. Ora, cosa dire, di questo? Innanzitutto che non solo per i rivoluzionari, ma anche per i poliziotti, i successi della mafia sono dovuti all’appoggio della classe dirigente. E poi che, di certo, la mafia del 1937 – data del documento che cito – non era più forte di quella del 1926. Come accade ancora oggi, gli inquirenti usano l’iperbole per impedire che si «abbassi la guardia». S. D’altra parte chi combatte per mestiere la mafia non può svegliarsi un giorno e dire che la mafia non c’è più: verrebbe meno la ragione stessa del proprio ruolo... L. Non solo. C’è uno scontro di iperboli, uno scontro di retoriche. C’è chi sostiene che oggi la mafia sia più pericolosa di ieri per stoppare in anticipo chi – in buona o in cattiva fede – sussurra: la polizia dovrebbe occuparsi dei delinquenti, non delle persone perbene – bisognerebbe smetterla con queste esagerazioni sulla mafia... S.

Un copione che rivedremo spesso...

L. È uno schema ripetitivo. Noi lo conosciamo oggi, ma ritrovarlo dentro tutt’altro regime di tutt’altro periodo è 74

rivelatore, no? Le retoriche sono, per loro natura, impermeabili ai mutamenti reali, vengono ripresentate sempre uguali a sé stesse. Lo storico può individuare alcune cose che restano stabili, ma spesso gli unici «fatti» immutabili sono le retoriche. S. Ma torniamo a Mori e al senso politico della sua operazione. Hai detto che era rivolta contro Alfredo Cucco. L. Anche. Cucco fu travolto dalle inchieste già alla fine del ’26, e venne non solo destituito ma espulso dal Pnf, al pari di altri leader del fascismo radicale in tutt’Italia e in altre province siciliane. Come ho detto, ci furono accuse di corruzione quasi per tutti e Cucco venne chiamato in causa anche per relazioni con elementi mafiosi. S. Sul contrasto tra il prefetto Mori e il federale Cucco ci sono varie versioni. Cucco era un perseguitato da Mori o un personaggio veramente in odore di mafia? L. In prima istanza i guai di Cucco furono dovuti alla determinazione con cui Mussolini e Turati perseguirono lo scopo di eliminare il gruppo farinacciano su scala nazionale. S.

Mori si fa strumento di questa liquidazione politica...

L. Fu lo strumento, come tutti i prefetti, di un’operazione nazionale. Se avesse prestato servizio a Modena, avrebbe trovato buone ragioni per liquidare il federale di Modena. Detto questo ovviamente a noi resta la curiosità di sapere in che misura Cucco fosse veramente legato alla mafia. S. Ci serve soprattutto per capire se la continuità di relazioni tra «establishment» politici e mafia resiste anche cambiando forme politiche e regimi... L. Le relazioni di Cucco con i mafiosi risalivano ai primi anni Venti, quando nel costruire turbinosamente da zero 75

una carriera politica aveva raccolto, tra l’altro, anche il sostegno dei «partiti» mafiosi paesani smaniosi di inserirsi nella nuova politica. Va detto che Cucco uscì assolto da tutti i processi intentati contro di lui. Nondimeno, come accade per molti politici, gli stessi atti processuali dimostrano i suoi rapporti, le sue amicizie pericolose, i finanziamenti, gli scambi di favori relativi ad appalti e cose del genere, smentendo così la presunta pulizia del suo modo di far politica e la sincerità del suo impegno antimafioso. S. Ti sembra che questi procedimenti abbiano dato risultati sul versante dei rapporti tra mafia e politica? L. Fino a un certo punto, forse perché allora mancava lo strumento giuridico per colpire questo tipo di comportamenti. Peraltro Cucco, per quanto emarginato dalla politica «ufficiale», aveva buoni avvocati e conservava probabilmente alcuni appoggi. Nota che, per quanto assolto, non venne automaticamente riabilitato. Il nuovo segretario nazionale del Pnf, Achille Starace, si rifiutava di incontrarlo e scrisse a Mussolini di stare bene attento, se Cucco si fosse presentato, a non riceverlo. Fu solo nel ’39, con la caduta di Starace, che l’ex federale ritornò clamorosamente in prima fila e addirittura diventò vicesegretario nazionale del partito. S. La parabola di Cucco ci mostra un personaggio, legato ad ambienti mafiosi, che a un certo punto proclama di essere antimafioso, perché il regime ha deciso di intestarsi la battaglia contro la mafia... L. Ma, come abbiamo detto, solo quando i risultati elettorali non ebbero più importanza i fascisti puntarono propagandisticamente sulla lotta alla mafia. S. In ogni caso, l’opzione antimafia viene assunta come un valore positivo. È così? 76

L. Valore che poi è un disvalore, perché Cucco diceva: «Io sono antidemocratico quindi sono antimafioso». I socialisti avevano fatto dell’antimafia nel primo dopoguerra e anche prima, pagando pesanti prezzi di sangue, ma non direi che abbiano presentato questa battaglia come un elemento centrale della loro identità politica. Non poteva essere, perché la loro rivoluzione non voleva certo presentarsi come legalitaria. D’altronde i socialisti «ufficiali» erano nel complesso della vita politica isolana piuttosto deboli. Nel 1919 non ne era stato eletto nemmeno uno, nel ’21 le cose erano andate solo un po’ meglio. Quanto al gruppo storicamente più importante della sinistra siciliana, quello socialriformista, c’erano al suo interno le persone perbene, ma anche i collusi. Per trovare loro prese di posizione rilevanti su questo versante bisogna risalire al delitto Notarbartolo. S. Comunque i fascisti furono i primi a presentare la mafia come un disvalore in sé, da condannare e rifiutare, quantomeno nelle prese di posizione pubbliche. Mi pare che questo accada per la prima volta nel dibattito pubblico... L. Per certi versi è vero, soprattutto se pensiamo all’apologetica di Vittorio Emanuele Orlando. Per altri versi però il fascismo, che proponeva un modello da noi abbastanza distante (e qualche volta repellente) di virtù civica, pretendeva addirittura di riappropriarsi dei codici mafiosi. Mori diceva ai siciliani: la vostra virilità, il vostro coraggio, la vostra capacità di farvi giustizia da soli è un valore nazionale. Ecco ancora l’eterno Pitrè! Mori definiva l’omertà come un valore positivo, in passato deformato, ma ora pronto a essere messo al servizio dello Stato e del fascismo. S. Perché si scelse lo scontro piuttosto che tentare di coinvolgere la mafia nella fascistizzazione della Sicilia? L.

Potrei dire perché mafia e fascismo erano troppo si77

mili, e dunque concorrenti. Il fascismo inoltre aveva un disegno di nazionalizzazione autoritaria incompatibile con un potere locale di questo genere, specie per come il potere mafioso era cresciuto in maniera abnorme nel dopoguerra, strumentalizzando i movimenti collettivi, inserendosi in cooperative agricole e partiti paesani. Il fascismo scioglieva perfino i circoli ricreativi, chiudeva i caffè: troppo forte era l’ossessione dell’inquadramento totalitario, l’ostilità per qualsiasi moto proveniente dal basso e dalla periferia. S. Resta allora da capire perché e come la mafia riuscì a sopravvivere. L. Innanzitutto perché – in questo e in altri casi – c’è un che di utopistico nel totalitarismo fascista, nell’idea di una società governata attraverso un’unica catena, che dal centro verso la periferia trasmette la volontà statale-mussoliniana. L’altra ragione è che il fascismo, al di là delle considerazioni dei suoi superpoliziotti, non ha mai chiamato la classe dirigente a rendere conto delle sue complicità. Potremmo fare un’operazione molto semplice: vedere quanti dei mafiosi del secondo dopoguerra avevano fatto carriera nel periodo fascista. Non è necessariamente un metodo giusto, perché ce ne furono tanti altri che vennero stroncati e giusto per questo non li ritroviamo nel dopoguerra. Ma ho visto i documenti e le mappe del potere mafioso consegnate nel 1943 dai carabinieri agli americani, al momento in cui questi, arrivando in provincia di Palermo, chiesero di conoscere i nomi dei mafiosi: i carabinieri prepararono un’eccellente mappatura, paese per paese, famiglia per famiglia. Ebbene, erano sempre gli stessi nomi del primo dopoguerra. S.

Erano usciti indenni dai processi e dalle retate di Mori?

L.

Spesso erano le stesse persone che nella gran parte 78

dei processi del 1926-30 avevano avuto pene irrisorie: sei mesi di carcere preventivo, due anni per associazione a delinquere, l’amnistia, due anni di confino. Nei rapporti di polizia quei figuri erano stati accusati di reati gravissimi, ma nei processi le accuse davvero gravi erano cadute quasi sempre. Bisogna dirlo: la montagna partorì il topolino.

Capitolo 5

GLI ZII D’AMERICA

GAETANO SAVATTERI Leggenda vuole che la mafia combattuta dal fascismo riprenda vigore in Sicilia nel 1943, poco prima dello sbarco delle truppe alleate. L’immagine simbolica è il lancio da un aereo americano di un fazzoletto giallo sulla casa di don Calò Vizzini, padrino di Villalba: sulla stoffa campeggiava una grande elle nera, la firma di Lucky Luciano, il segno che la mafia americana e quella siciliana si preparavano ad accogliere gli anglo-americani. La storia non ha mai avuto alcun riscontro, ma è così bella che un po’ tutti coloro che hanno scritto sull’argomento l’hanno ripresa nella versione fornitane da Michele Pantaleone nel suo libro «Mafia e politica». SALVATORE LUPO Infatti è così. Una leggenda deve avere sempre alla base qualcosa di vero, in fondo in fondo... il primo errore comunque sta nell’idea che la mafia sia stata sconfitta dal fascismo. Abbiamo visto però che l’operazione Mori non implicò la sconfitta della mafia. S. Comunque, parliamo di una suggestione che racchiude una verità: la mafia riprende forza grazie alla nuova linfa che arriva dall’altra parte dell’oceano. L. Questo può essere corretto, perché la relazione tra mafia americana e mafia siciliana (cui la leggenda allude) ancora negli anni immediatamente precedenti alla guerra 80

era strettissima, al punto tale che nel 1940 gli americani avevano ottenuto utilissime informazioni sulla mafia newyorkese proprio dall’Italia. S. Non a caso trent’anni prima il tenente newyorkese Joe Petrosino era venuto in Italia proprio per attingere informazioni sulla criminalità siciliana di New York. E a Palermo era stato assassinato. L. Esatto. Ma questo era successo molto tempo prima, nel 1909. Si potrebbe pensare che questi rapporti nel frattempo si fossero interrotti. Invece il gruppo costitutivo di quella che noi oggi chiamiamo la Cosa Nostra americana si era formato più di recente, nei primi anni Venti, attraverso l’emigrazione di un gruppo molto qualificato (o squalificato, se vogliamo) di persone. S. Parli del gruppo mafioso originario di Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani? L. Parlo dei castellammaresi come Joe Bonanno e Stefano Magaddino, parlo del palermitano Vincenzo Mangano e di Joe Profaci da Villabate, parlo di un altro palermitano come Carlo Gambino. S. Eppure già in precedenza in America c’erano presenze criminali siciliane, anche se non connotate come Cosa Nostra... L. Sì, lo abbiamo detto, ma intorno a questi personaggi si dipana il filo che porta alla metà degli anni Trenta alla fondazione negli Stati Uniti di un’organizzazione centralizzata: gran parte del cosiddetto sistema newyorkese delle Cinque Famiglie è formato da questa gente. Certo, non va dimenticato il contributo cruciale fornito da Salvatore Lucania detto Charlie Lucky Luciano. Però la sua è un’altra storia. 81

S. La vogliamo raccontare, visto che Luciano è il personaggio centrale della leggenda di cui abbiamo parlato? L. Emigrato negli Stati Uniti da bambino, assieme alla famiglia, all’inizio del Novecento, Luciano era originario di Lercara Friddi, nel centro della Sicilia, al confine tra le province di Palermo e Agrigento. Non si conoscono sue relazioni né di parentela né di altra natura con mafiosi siciliani, contrariamente agli altri di cui abbiamo parlato. Nulla giustifica l’idea di Pantaleone che Lucky Luciano, dalla prigione americana dove si trovava detenuto, abbia potuto avere un’influenza nella gestione dell’organizzazione siciliana e quindi un qualsiasi ruolo nel 1943, alla vigilia dello sbarco anglo-americano in Sicilia. Se qualcuno poteva avere un ruolo non era certo Luciano, semmai gente come i Bonanno, i Magaddino, i Profaci, i Mangano. S. Che continuavano invece ad avere rapporti fitti con la Sicilia... L. Per quel che riusciamo a capire, indirettamente e da prove dirette, erano emigrati più di recente e in età adulta, e soprattutto appartenevano già in partenza a gruppi mafiosi siciliani, cosa che per Luciano non si è mai potuta dimostrare... S. I fondatori della Cosa Nostra americana erano andati via dall’Italia per sottrarsi alle campagne del prefetto Mori? L. Molti erano andati via prima dell’avvento del fascismo, comunque prima dell’operazione Mori. La tesi opposta, fatta propria dalle fonti ufficiali americane e ripetuta acriticamente da molti, è sbagliata proprio per ragioni elementari di cronologia. I nostri antieroi invece lasciarono la Sicilia – nonostante la legislazione si fosse fatta molto restrittiva e dunque utilizzando canali clandestini –, perché l’emigrazione era fruttifera, perché in America c’era il proibi82

zionismo e lì avrebbero fatto i soldi. La repressione del fascismo in effetti provocò la fuga di altri, ma non egualmente importanti. Comunque i rapporti tra le due sponde dell’oceano restarono sempre piuttosto fitti. C’era un bel po’ di gente che andava in continuazione su e giù per l’oceano. S. Stupisce molto che in un’epoca di viaggi lunghi e complicati ci fosse gente che faceva spola tra l’Italia e gli States con una tale frequenza... L. Nick Gentile, mafioso di Siculiana, che ci ha lasciato un interessantissimo libro di memorie (curato da un grande giornalista come Felice Chilanti), andò di qua e di là per una dozzina di volte. S. Muoversi in continuazione rientrava anche in una logica di relazioni mafiose? L. Certo, anche se non è facile approfondire il tema. Prendiamo Nick Gentile, ad esempio. Non si capì mai se volesse stare da una parte o dall’altra: ogni volta sembrava che volesse tornare definitivamente, e ogni volta ripartiva. Lui racconta di questioni familiari, di intrighi politici e di potere, di vendette, affari leciti o illeciti su entrambi i versanti. Sappiamo che negli anni Trenta commerciava in morfina, e io penso lo facesse già negli anni Venti, reinvestendo i profitti nel contrabbando degli alcolici. Sappiamo comunque che moltissimi emigrati onesti facevano gli stessi percorsi, a seconda delle necessità, a seconda del fatto che trovassero lavoro oppure no, in base alle congiunture economiche e agli affari, per raggiungere i parenti o la moglie. S.

Molti tornarono in Sicilia dopo la recessione del ’29.

L. Molti tornarono nel ’29. Le congiunture economiche o politiche, come le guerre mondiali, provocavano trasferimenti e nessuno sapeva se fossero definitivi o temporanei. 83

S. Tra le destinazioni dell’immigrazione italiana e siciliana c’erano anche il Sud America e alcuni paesi europei. Come mai Cosa Nostra attecchisce e trova ragioni solo negli Stati Uniti e non altrove? L. Perché in America, soprattutto nelle grandi metropoli della costa orientale, c’era già una tradizione grande e importante di corruzione politica e di criminalità organizzata, spesso su base etnica. Per questo lo specifico knowhow dei mafiosi siciliani viene bene accolto e trova un ambiente favorevole, che non trova in altre parti del mondo. L’immigrazione di per se stessa non provoca mafia né criminalità organizzata di alcun tipo. S. Negli Stati Uniti c’erano anche vuoti legislativi, norme di diritto diverse, una cultura giuridica molto garantista rispetto alle libertà individuali e un capitalismo rampante... L. Certo, una società diversa in cui non si concepivano tutti i meccanismi con i quali, tradizionalmente, in Italia e nei paesi europei, si tenevano sotto pressione i criminali professionali. Negli Stati Uniti non esistevano le misure «preventive», le polizie erano diverse, dipendenti dai poteri politici locali e molto corruttibili. Basti pensare che l’Fbi fino al secondo dopoguerra non si interessava al crimine organizzato. Brooklyn e Castellammare erano negli anni Venti realtà diversissime ma – lo posso dire? – i malfattori che imperversavano sui due fronti erano favoriti in entrambi i luoghi da enormi vuoti di statualità. S. Eppure già trent’anni prima, ai tempi di Joe Petrosino, si era creata una squadra di investigatori italiani incaricata di indagare negli ambienti criminali immigrati... L. I poliziotti newyorkesi erano in grande maggioranza irlandesi. Negli anni della grande immigrazione, quando succedeva qualcosa a Little Italy, si giravano dall’altra parte e 84

dicevano: fate voi. A un certo punto l’amministrazione civica costituì l’Italian Squad, nella quale emerse la figura di Petrosino, che arrestò alcuni latitanti, risolse alcuni casi, proponendo una risposta razionale alle fobie collettive verso l’immigrazione e la presunta vocazione criminale degli immigrati italiani. Le cose tornarono a peggiorare quando Petrosino, impegnato in una missione «segreta» a Palermo per individuare il percorso della misteriosa mafia, finì assassinato proprio nel luogo d’origine del mostro. S. Ma se Petrosino nel 1909 aveva già intuito i rapporti tra Italia e Stati Uniti, se aveva capito i meccanismi fondamentali della criminalità italiana e in particolare siciliana, come mai l’esperienza sulla Mano Nera dell’Italian Squad appena dieci anni dopo, cioè negli anni Venti, non viene usata contro la nascente Cosa Nostra americana? L. Perché i due fenomeni sono completamente diversi. La Mano Nera era un’attività estorsiva interna comunque a una comunità italiana per nulla integrata, e nel complesso abbastanza miserabile. Con la nascente mafia americana invece parliamo dei grandi affari del periodo proibizionista, del labour racket, ovvero della penetrazione criminale nel mercato del lavoro. Molti italo-americani sono in via di integrazione, c’è una «seconda generazione», le leggi proibitive sull’immigrazione hanno eliminato il grande flusso dall’Europa. Ben altre possibilità si offrono ai fondatori di quella che sarà chiamata quarant’anni più tardi la Cosa Nostra americana. S. Insomma, la Mano Nera fioriva dentro il convulso e massiccio flusso degli immigrati, mentre la Cosa Nostra è un’emigrazione di «cervelli» mafiosi, di ceti dirigenti del crimine... L. Esatto: l’immigrazione mafiosa degli anni Venti è molto più qualificata, sotto il profilo criminale. Tutta clande85

stina, è direttamente gestita dalle cosche palermitane e dei paesi circostanti. I mafiosi siciliani trovano nelle due proibizioni statunitensi, degli alcolici e dell’immigrazione, un’occasione per fare soldi a palate, ma anche per collegarsi con altre forme locali di criminalità, italiane o meno. Guardiamo il sistema delle Cinque Famiglie: quattro su cinque sono guidate negli anni Trenta da immigrati dalla Sicilia degli anni Venti, solo la quinta, quella di Lucky Luciano e Vito Genovese, è formata da soggetti nati o cresciuti a New York, alcuni dei quali non sono nemmeno siciliani. S. In questo periodo come si chiama questa organizzazione? L. In America viene chiamata l’Unione siciliana. La definizione di Cosa Nostra è di molto successiva. S.

Questa definizione nasce in Italia e viene esportata?

L. Per quanto se ne può capire, nasce in America. Di certo, è qui che viene usata per la prima volta nel dibattito pubblico. S. Eppure, nell’ordinanza di un processo sulla mafia trapanese un magistrato sosteneva che il nome di Cosa Nostra fosse stato coniato a Castellammare del Golfo: non so da quali fonti ricavasse questa convinzione. L. Se così fosse, Castellammare del Golfo sarebbe proprio il luogo ideale in quanto fulcro della connection siculo-americana. Possiamo pensare peraltro che questi termini in un primo tempo vengano usati in maniera «informale», insieme ad altri analoghi, e solo a un certo punto vengano formalizzati. Immaginiamo che alcuni mafiosi abbiano usato, parlando tra loro, il termine «cosa nostra» in forma ammiccante e con l’intenzione di tenersi sul vago. Gli agenti dell’Fbi, che alla fine degli anni Cinquanta cominciavano a intercettare le loro conversazioni, credettero di trovare una risposta alla loro assillante domanda: di che 86

diavolo si tratta? Veramente è la misteriosa mafia? È un’Unione siciliana illegale, da distinguersi da altre associazioni di immigrati legali e innocue? O questa «cosa loro» ha un altro nome ancora? S. Fratellanze, leghe, unioni, declinazioni dello stesso concetto... L. È evidente che siamo sempre di fronte alla formalizzazione di termini di uso corrente, generalmente scelti per la loro possibile accezione positiva. Diverso il caso del termine mafia, del quale non esiste un uso in positivo, checché ne dicesse Pitrè. S. Gli stessi mafiosi hanno piena coscienza di non potere fare proprio il termine mafia, tanto è vero che non l’hanno mai usato al loro interno. L. I mafiosi tra loro parlano di «onorata società» e si definiscono «uomini d’onore», cioè nella maniera più positiva che riescono a escogitare. Il modello è quello aristocratico, quello dei loro antichi protettori. Veramente anche le società di mutuo soccorso, agli albori dei movimenti operai, scrivevano nei loro statuti che i soci dovevano essere persone onorate, non malfamate (e incensurate). È chiaro che parliamo di termini utilizzati in diversi contesti per esprimere genericamente «distinzione». Perché i mafiosi tanto li apprezzano? Perché amano mischiarsi con le persone perbene in modo da celare la loro natura criminale e la natura criminale dell’associazione stessa. S. Torniamo negli Stati Uniti. Le Cinque Famiglie di New York stringono il patto di non belligeranza, si spartiscono la città e gli affari, sotto le insegne dell’Unione siciliana. Tutto bene per loro, insomma... L. No. Perché, soprattutto a New York, ma anche altrove, al passaggio tra gli anni Venti e Trenta, il gangsterismo è sot87

to forte pressione. Ci sono indagini di polizia sollecitate da forze politiche riformatrici, che si propongono come principale scopo la lotta alle criminalità organizzate e alla corruzione politica. In questo movimento possiamo collocare il democratico Franklin D. Roosevelt, prima da governatore di New York poi da presidente; il repubblicano Thomas E. Dewey, che dopo aver fatto il procuratore divenne l’uomo di punta del suo partito su scala nazionale; Fiorello La Guardia, sindaco di New York, massimo esponente della comunità italo-americana. Lucky Luciano è in galera, Vito Genovese per evitare di finire in prigione è scappato in Italia, dove – a proposito dell’antifascismo del regime – si trova ottimamente introdotto negli ambienti della corte di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini. Il gruppo della seconda ondata che ti dicevo, Vincenzo Mangano e Albert Anastasia, è già sotto il tiro degli inquirenti, il loro compare ebreo Lepke viene arrestato e mandato sulla sedia elettrica, unico boss della criminalità organizzata ad aver fatto questa fine. S.

Le cose però cambiano con la guerra...

L. La guerra viene a proposito: salva la sezione più organizzata e più radicata della criminalità siculo-americana, strutturata secondo i modelli settari siciliani e quindi più coperta di fronte alle indagini. Anch’essa però sarebbe stata presto investita dalle indagini, se invece tutta l’attenzione non si fosse concentrata sulla guerra e sui timori dell’America di non essere abbastanza compatta per affrontare la sfida bellica (questa era anche l’opinione di Hitler e Mussolini, convinti che la grande superpotenza economica, non avendo compattezza nazionale, non fosse in grado di reggere al conflitto). In America si temeva soprattutto che le minoranze italiane e tedesche, legate ai paesi nemici, avrebbero sabotato lo sforzo bellico: le preoccupazioni riguardavano in particolare la situazione del porto di New York, dove la quantità degli immigrati, molti dei quali clandestini, era grandissima e altrettanto grande il potere delle organizza88

zioni criminali. Le autorità americane fecero pertanto un passo verso queste organizzazioni criminali, offrendo un accordo che prevedeva il congelamento delle indagini in cambio del controllo sul porto da eventuali sabotaggi. S.

È questo il contenuto dell’accordo con Lucky Luciano?

L. Lucky Luciano stava in galera con una condanna da trenta a cinquant’anni di reclusione. Fu subito portato in un carcere di minima sicurezza, dove gli venne consentito di abboccarsi e incontrarsi non solo con i suoi avvocati, ma anche con i suoi complici e dipendenti. S.

Non siamo davanti a un’altra leggenda?

L. Non c’è vicenda più provata di questa, perché ci restano i registri: sappiamo chi partecipava alle riunioni e in quali giorni. Resta da capire quale sia stato il reale contributo offerto dall’organizzazione di Luciano. Cominciamo col dire che la spiegazione offerta dalle autorità e amplificata dalla stampa dell’epoca (il porto minacciato da sabotaggi, commandos e assaltatori della marina tedesca) non è giustificata da nessun elemento concreto e probabilmente fu fatta circolare ad arte sui giornali. S. Se la priorità non era quella di proteggere il porto da attacchi nemici, quale poteva essere la ragione che spingeva le autorità americane a siglare un’intesa con Luciano? L. Probabilmente la gestione della forza lavoro. Cioè il labour racket. L’organizzazione criminale controllava i sindacati e senza la collaborazione dei sindacati non poteva funzionare il porto, ganglio essenziale dello sforzo bellico per garantire le relazioni tra Inghilterra e Stati Uniti, nel momento cruciale. C’erano già grandi polemiche sul funzionamento del porto e sulle sue diseconomie: fu stretto quindi un accordo per tenere la forza lavoro in riga, per garantire l’ordine ed evitare scioperi e ostruzionismi. E in89

fatti un sindacalista democratico e di sinistra fu invitato a sparire, se non ci voleva lasciare la pelle: lo testimoniano i rapporti dei servizi segreti della Marina, soddisfatti di questa impresa dei loro alleati. S. Possiamo escludere che Lucky Luciano abbia aperto le porte della Sicilia agli Alleati? L. Io lo escluderei. Non è molto ragionevole, né ci sono indicazioni in questo senso. Tutto deriva dalle interminabili polemiche che si svilupparono dopo la liberazione di Luciano tra i vari gruppi di potere americano. A cose fatte risultò chiaro che nemmeno nel porto di New York c’erano stati tutti questi vantaggi. Insomma, un enorme bluff. S. Ma a suffragio della tesi del patto tra Cosa Nostra e settori dei comandi anglo-americani ci sono i nomi dei sindaci nominati dagli americani nei paesi appena liberati: alcuni erano notoriamente mafiosi. E poi c’è la presenza di un boss come Vito Genovese a fianco di Charles Poletti, capo dell’Amgot, il governo militare alleato in Sicilia nei mesi successivi al luglio 1943. L. Genovese frequentava il comando alleato a Napoli: non aveva un ruolo preciso. Sfruttava amicizie e faceva affari. Anche Nick Gentile aveva amicizie: nelle sue memorie (in genere abbastanza attendibili) racconta che faceva il mercato nero d’accordo con qualche ufficiale americano, mentre se la passava male con gli inglesi. Quanto ai sindaci, Charles Poletti nominò in effetti un bel po’ di mafiosi in provincia di Palermo. Quando però i carabinieri lo resero edotto delle fedine penali chilometriche di alcuni dei prescelti, destituì quegli stessi sindaci o li costrinse a dimettersi. È probabile che in alcuni casi al loro posto subentrarono amici e parenti degli stessi, come nel caso di don Calò Vizzini, che fu sostituito da suo nipote Benedet90

to Farina, ma da questo a intravedere un complotto organizzato a New York da Lucky Luciano ce ne corre. S. Ma allora a quale logica rispondevano le scelte sulla nomina dei sindaci insediati dagli americani? L. Gli americani, avanzando, nominavano sindaci dei centri liberati i primi che incontravano, poi andavano avanti; in quel paese arrivava un nuovo ufficiale, cambiava il sindaco e ne metteva un altro. In quei primi convulsi momenti, prendevano quanto offriva la stessa società locale. Il primo gruppo politico a mettersi in moto fu il separatismo e quindi i sindaci nominati erano separatisti, soprattutto in provincia di Palermo, con una forte presenza dell’elemento mafioso. In alcuni casi, i mafiosi si presentarono come perseguitati politici, visto che avevano le carte e i precedenti penali che mostravano di avere attraversato processi e galera. Non dissero che l’antifascismo non c’entrava niente... S. E così all’interno dei comandi inglesi e americani si aprì una furiosa polemica sulla mafia. L. Gli inglesi furono felici di poter mettere in difficoltà gli americani: gli accordi alleati avevano stabilito che toccava a loro il ruolo di senior partner, e volevano ribadire il concetto. S.

Tutto si riduce a questo?

L. No, non esageriamo. Poletti, in scritti successivi, dice di non sapere niente della mafia e di non averla mai incontrata. Mente spudoratamente, se non altro perché tra le carte dell’Amgot c’è un fascicolo massiccio dedicato specificamente al tema. Molte volte la questione fu posta e discussa. Io credo che gli americani abbiano trovato comodo lasciare che la scena fosse occupata da chi era in grado di farlo. E in un primissimo momento, sulla scena c’erano solo separatisti e mafiosi. 91

S.

Ma non c’erano veri antifascisti?

L. Gli americani cercavano gli antifascisti, i socialisti e i cattolici, ma in alcune zone trovarono i separatisti e i mafiosi, e non si crearono tanti problemi. Peraltro tutto questo non c’entra con i comandi militari, che erano cosa ben distinta. La mia impressione è che l’Amgot nei suoi pochi mesi di governo abbia fatto uso della mafia come qualsiasi altro governo della Sicilia. S. Pochi mesi, ma fondamentali. Mesi in cui in genere si dice che la mafia abbia ripreso potere e vigore... L. Sì, ma è la straordinaria congiuntura storica a rappresentare di per se stessa una straordinaria occasione. C’è la dissoluzione dello Stato oltre che del regime. C’è il separatismo, l’unico movimento politico in cui la mafia si sia identificata pienamente, attivamente, in maniera non strumentale. Tutta questa complessità non può essere ridotta alla dimensione del complotto, e a maggior ragione del complotto straniero. I documenti ci mostrano i capimafia che andarono ad accogliere gli americani inneggiando alla democrazia e vituperando il fascismo. È vero che furono mesi cruciali: tutto avvenne in tempi rapidissimi, nel giro di poche settimane. Prendiamo ad esempio il rapporto del capitano americano Scotten, scritto a breve distanza di tempo dallo sbarco. Di fronte alle turbolenze sociali, al mercato nero, alla presenza di molti sbandati diventati banditi, Scotten si chiede se la mafia possa essere un utile alleato nel controllo dell’ordine pubblico. E risponde: sì, forse sarebbe utile, ma io lo sconsiglio, perché una tale operazione sarebbe moralmente riprovevole e politicamente compromettente. Aggiunge peraltro: è vero che non abbiamo truppe sufficienti per la repressione del banditismo, allora prendiamo tempo. Insomma, la scelta di non fare nulla. S.

Perché questa fase viene comunemente considerata il 92

momento di rifondazione della mafia nella nascente democrazia italiana? L. Perché la leggenda si vende bene nel dibattito dell’opinione pubblica, in Italia come in America. Basta ricordare che l’atto di scarcerazione di Luciano porta la firma di Thomas E. Dewey, uno degli uomini politici più importanti degli Stati Uniti e non ci fu avversario di Dewey che negli anni a seguire non gli rinfacciasse quella firma. Quando Luciano, scarcerato ed esiliato in Italia, tornò a essere accusato di essere a capo di un grande business, l’esportazione di droga dall’Europa agli Stati Uniti, la firma di Dewey diventò ancora più imbarazzante. S.

E in Italia?

L. Sul versante italiano c’erano tutto l’antiamericanismo e l’idea, ancor oggi pervicacemente resistente, che la mafia fosse il prodotto della guerra fredda, e si spiegasse in relazione ai suoi intrighi. L’idea secondo cui qualcuno a Washington abbia tramato per promuovere le fortune della mafia ci risparmia qualunque complicazione interpretativa e qualche senso di colpa. Persino Andreotti avalla la teoria del complotto. Perché? Perché non si dica che la gran parte delle responsabilità sono sue – insomma, della Democrazia cristiana. Fatto sta che la Dc ha amministrato la Sicilia per cinquant’anni, mentre gli alleati solo per sette mesi. S. Eppure è un discorso sostenuto a lungo a sinistra, forse non solo a causa dell’antiamericanismo... L. Te lo ribadisco: l’idea del grande regista, del supremo burattinaio, ci semplifica la vita, per quanto poco sia vera o appena verosimile. Nessun documento ne dà conferma, ma (osservano i furbi) non esiste documento che possa smentirla.

Capitolo 6

MAFIA, BANDITI E POLIZIA

GAETANO SAVATTERI All’indomani dello sbarco angloamericano in Sicilia, nell’estate del 1943, la Sicilia è una terra senza re né regno, allo sbando e fuori dalle leggi. La miscela è esplosiva: in particolare per il fenomeno scioccante delle bande armate che infestano le campagne. SALVATORE LUPO In effetti è questo uno dei segnali più clamorosi della dissoluzione dello Stato, di una congiuntura storica straordinaria che riporta per un attimo in auge i caratteri più arcaici della storia meridionale, e siciliana in specie. S. Era già accaduto in passato, dopo l’Unità d’Italia e dopo la Prima guerra mondiale. Ma i banditi siciliani sembra si comportino diversamente da quelli presenti in altre regioni del Sud Italia, forse proprio per il rapporto che ingaggiano con la mafia, a volte di intesa, altre di scontro. L. E allora distinguiamo. Il «grande» brigantaggio postunitario del Mezzogiorno continentale va considerato come uno strascico delle guerre risorgimentali e coincise con una sorta di guerriglia legittimista, composta da grandi gruppi armati, che si impegnarono in veri combattimenti: insomma, era un fenomeno politico. Si sviluppò lungo la frontiera pontificia, in Basilicata e negli Abruzzi, finì presto e dopo il 1865 non se ne parlò più. Il banditismo postuni94

tario nella Sicilia occidentale era invece composto da piccoli gruppi e sprovvisto di carattere politico, ma si rivelò un fenomeno endemico. Può essere assimilato a quello che affliggeva l’Aspromonte. L’uno e l’altro hanno dato luogo a fenomenologie mafiose. Potremmo aggiungere il banditismo sardo della Barbagia, da cui non derivarono gruppi mafiosi, anche se sarebbe potuto accadere per il rifiuto collettivo della legge statale, concretizzato nella faida, nell’omertà, nella solidarietà verso i banditi. S.

Vuoi dire che la mafia nasce dal banditismo?

L. Dovrei dire forse meglio che la mafia nasce con il banditismo. In età postunitaria i gruppi mafiosi sono chiamati a gestire un problema grave di disordine sociale e di controllo del territorio, di cui il banditismo è sintomo massimo: gestiscono la sicurezza privata, garantendo gli amici o magari lasciando che le azioni banditesche vadano a colpire i nemici. S.

Perché banditismo e mafia rinascono nel dopoguerra?

L. Perché, come ho detto, lo Stato si dissolve insieme alla sua capacità di garantire l’ordine. Tieni conto che nell’estate-autunno del 1943, nel momento in cui l’Italia viene invasa dalle truppe alleate, mentre il fascismo crolla e la monarchia sembra incapace di garantire la continuità dello Stato, nessuno sa se lo Stato italiano si ricostituirà, in che forma e se la Sicilia tornerà a far parte di esso. S. È l’obiettivo separatista di portare l’isola fuori dal progetto unitario nazionale... L.

Che va spiegato in quest’ottica e solo in essa.

S. I banditi vengono reclutati dai separatisti: il percorso di Salvatore Giuliano da Montelepre è esemplare per raffigurare la conversione politica dei gruppi armati fuorilegge. 95

L. Però l’operazione si concretizza quando l’ipotesi separatista è tramontata: il nuovo corso italiano è stato riconosciuto dagli alleati, la Sicilia è stata restituita al governo Badoglio, la monarchia ha trovato un accordo con gli antifascisti e gli anglo-americani hanno mostrato a chiare lettere di non avere alcuna intenzione di accreditare il separatismo. Dunque la criminalità banditesca non viene reclutata, politicamente, in vista della fantomatica battaglia per la Sicilia indipendente, ma per creare uno stato di tensione utile al fronte conservatore (comprendente alcuni separatisti), in cerca di una trattativa con la Democrazia cristiana. S. I morti del Primo maggio 1947, quando la banda Giuliano spara sulla folla, dovevano essere gettati sul piatto di questo accordo tra mafia e Dc? L. La prima ipotesi è che a sollecitare Giuliano all’azione siano stati i mafiosi di Piana degli Albanesi, che avevano una lunga tradizione di terrorismo politico, risalente al dopoguerra precedente (ricordi il sindaco Cuccia?) e che a questo punto militavano già nella Dc. La motivazione locale è assolutamente plausibile, perché in quell’area erano già partite le lotte per la terra. Lo so che la spiegazione può sembrare troppo «piccola». Però non è affatto detto che un evento «grande» debba derivare per forza da una motivazione «grande». S.

E la seconda ipotesi?

L. Che la motivazione politica sia di dimensione regionale. Nata la Regione siciliana, si sono appena tenute le prime elezioni regionali e i consensi popolari si sono divisi in tre parti più o meno equivalenti: un terzo al Blocco del popolo social-comunista, meno di un terzo alla Dc e più di un terzo a un composito fronte di destra, monarchica, liberale, ex separatista. La destra sa che i cattolici, 96

in rotta di collisione con i social-comunisti, avranno bisogno di lei: su scala nazionale e a maggior ragione su scala regionale. S. Veramente si è sempre detto che la strage del Primo maggio doveva sbarrare la strada al Blocco del popolo verso la conquista del potere in Sicilia... L. Ma in nessun caso la sinistra sarebbe andata al governo regionale con quell’esito elettorale e in quella situazione politica nazionale! Per non dire poi della situazione internazionale. Te lo ribadisco: se la strage ha un senso politico regionale, è quello di radicalizzare lo scontro aumentando il valore del sostegno della destra (di alcuni gruppi della destra) alla Dc. S. Se è come dici tu, vuol dire che il racconto fatto a sinistra ha avuto un’efficacia eccezionale, fino a diventare la versione comunemente e sbrigativamente accettata. L. Ti rispondo con Pietro Scoppola: non è vero che la storia la fanno sempre i vincitori – caso tipico quello del dopoguerra italiano, nel quale tutte le versioni autocelebrative della sinistra sono entrate a far parte dell’immaginario storiografico. Diciamo invece che la sinistra siciliana nel 1947 era tutta da costruire, che stava appena cominciando a radicarsi attraverso la lotta per la terra e che era su una strada di sviluppo destinata a confermarsi con le regionali del 1951 e le politiche del 1953. Questo vuol dire che il terrorismo di Portella delle Ginestre non la fermò, ma anzi ne mostrò il realismo politico nel respingere la provocazione, mantenendosi sul terreno della competizione pacifica. Tipico il caso di Piana degli Albanesi: il paese con il maggior contributo di caduti nella strage è stato per decenni uno dei comuni più rossi della Sicilia. S. Tu parli di una versione autocelebrativa della sinistra, ma i morti sono morti. A partire dal 1947 saranno uccisi 97

moltissimi sindacalisti, uomini come Accursio Miraglia, Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale. La sinistra è il bersaglio dell’attacco mafioso agli esponenti più in vista delle lotte contadine... L. Anche nel dopoguerra precedente erano caduti molti sindacalisti sotto il piombo mafioso. Nei paesi siciliani l’assassinio politico era pratica antica, i gruppi non integrati in sistemi mafiosi rischiavano di avere vittime nelle loro file. Questo vale per i socialisti, per i comunisti e per i democristiani. Se la maggior parte dei caduti è socialista, forse lo si deve al fatto che i socialisti erano inseriti nelle lotte paesane molto più dei comunisti, finendo per pagarne il prezzo più duro. O forse ci sono altre ragioni. Ma questa è solo un’ipotesi, perché una matura riflessione storiografica sull’argomento specifico è di là da venire. S. Si dice che per capire da quale parte sta la mafia basta vedere a chi spara. Se in questi anni cadono così tanti uomini della sinistra, possiamo dire che proprio in questa fase, e sul sangue di queste vittime, si costruisce la tradizione di un’antimafia di sinistra? L. Abbiamo visto l’antimafia della destra storica e l’antimafia fascista. Adesso, molto più che ai tempi del delitto Notarbartolo, si configura un’antimafia della sinistra. I social-comunisti anzi ne hanno quasi il monopolio, perché nello schieramento governativo centrista cala una grande inedita censura sul tema. La sinistra è la sola a parlare della mafia. Ne derivano due conseguenze logiche senz’altro forzate (se non del tutto erronee), ma comunque destinate a segnare la formazione della mia generazione. Primo: ci si convince che parlare di mafia corrisponda comunque a parlare contro la mafia. Secondo: si fa strada l’idea che quello antimafia coincida necessariamente con un discorso di sinistra, centrato sulla contestazione del latifondo, della borghesia e del capitalismo. 98

S. Ma per costruire questa proposizione così rilevante e convincente, non bastano solo i morti ammazzati e la loro commemorazione. Ci vuole ben altro... L. Certo. Ci vuole una grande capacità di elaborazione di discorsi etico-politici, in altre parole viene fuori il capitale sociale della sinistra gramsciana e togliattiana, così come di quella socialista e di quella azionista, emarginate in un ruolo di opposizione perenne dalla guerra fredda e dalla logica centrista. La Dc viene accusata di tradimento nei confronti della sua vocazione «ciennellista», democratica, repubblicana e antifascista. Per altro su questo discorso, come sull’altro di portata nazionale sulla Resistenza tradita, i comunisti si mantennero sempre prudenti, timorosi di sembrare moralisti. Il maggior contributo alla polemica venne non tanto da loro, semmai dai socialisti e soprattutto da intellettuali di sinistra non inquadrati nel Pci. Prendiamo i più impegnati: Pantaleone e Simone Gatto erano socialisti, Carlo Levi proveniva dal Partito d’azione e restò sempre un intellettuale non organico, Sciascia era un indipendente. S. Il Pci si limitò ad amplificare le parole degli intellettuali di area? L. Diciamo che offrì loro strumenti importanti e autorevoli di diffusione degli interventi, come fece il giornale «L’Ora» diretto da Vittorio Nisticò. Anzi, vorrei saperne di più sull’estrazione politica dei giornalisti di punta del quotidiano palermitano: forse emergerebbero percorsi più complessi del prevedibile. S. Resta il fatto che il Pci fu uno dei pochi partiti, forse l’unico, a farsi carico o comunque ad assumere come propri sostenendoli i discorsi e le polemiche contro la mafia portati avanti da quei giornalisti e intellettuali... 99

L. Per il Pci la polemica sulla mafia coincise con quella contro la Dc, indicata come la parte peggiore del potere tradizionale. A ragione, per quanto riguarda la mafia, ma anche a torto. Non so infatti se la Dc fosse così conservatrice come la si descriveva. Prendiamo la questione della riforma agraria: i democristiani l’hanno fatta, mentre i comunisti votarono contro, ma per la storiografia comunista è come se la riforma l’avesse fatta il Pci, mentre la Dc la sabotava. S. Attraverso gli strumenti e il peso del Pci, in ogni caso, la voce di scrittori e giornalisti siciliani riesce a farsi sentire in tutta Italia. Addirittura nel mondo, nel caso di un personaggio come Michele Pantaleone, autore di un libro di grande risonanza... L. Dirigente socialista di Villalba, rampollo di un’eminente famiglia locale, Pantaleone collabora negli anni Cinquanta alle grandi inchieste sulla mafia del giornale «L’Ora». Sulle pagine del quotidiano di Palermo espone per la prima volta la sua teoria del complotto mafia-alleati, di cui abbiamo già parlato. Ma soprattutto assume a bersaglio il suo avversario politico e personale su scala paesana, Calogero Vizzini, facendone con molta esagerazione il grande capo della mafia siciliana e forse mondiale. La fama dell’uno e dell’altro decolla grazie al libro Mafia e politica, scritto da Pantaleone e pubblicato (grazie a Carlo Levi) dalla massima casa editrice di cultura nazionale, la torinese Einaudi, la stessa che pochi anni prima aveva bocciato Il Gattopardo. Il volume viene tradotto in tutte le lingue, Villalba diventa la capitale mondiale della mafia, Pantaleone il suo interprete. S. Pensi che nella sua ricostruzione Pantaleone abbia esagerato? L. Senz’altro. Dalle testimonianze successive dei pentiti, sappiamo che Vizzini non era un elemento di spicco nella 100

gerarchia mafiosa e Villalba non era certo un importante centro di mafia. Però Vizzini era un gabelloto e un imprenditore minerario molto noto, certamente coinvolto negli intrighi mafiosi: senza dubbio era stato un personaggio importante negli anni caldi del dopoguerra, a cavallo tra destra separatista e destra democristiana. L’episodio più noto riguarda il conflitto a fuoco tra separatisti e social-comunisti nella piazza di Villalba in occasione del comizio del leader del Pci Girolamo Li Causi, accanto al quale c’era lo stesso Pantaleone. Dunque, esagerazioni a parte, il problema è che negli anni Cinquanta l’immagine della mafia viene elaborata esclusivamente attraverso la lente della politica e in una logica fortissima di schieramento. La stessa sparatoria di Villalba rappresenta uno scontro politico, come tale venne rivendicata dai separatisti. Eppure, in maniera davvero improbabile, viene dipinta in genere – ancor oggi – come una «strage» (sebbene, per fortuna, non morì nessuno), analoga a quella di Portella delle Ginestre. S. Sarà pure una costruzione artificiosa o retorica, ma questa che tu chiami la costruzione di un’immagine della mafia e dell’antimafia ha prodotto pagine memorabili di letteratura civile. Penso a quando Carlo Levi, nel libro «Le parole sono pietre», dà voce a Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, il segretario della Camera del Lavoro di Sciara, assassinato nel maggio 1955. L. Levi scrive che la madre di Carnevale parla «un linguaggio di partito». È interessante l’uso non pudico di questo termine, da parte di uno che non era certo un intellettuale di partito: un linguaggio che in altra bocca apparirebbe povero, perché la lingua del partito è povera, ci fa capire Levi, riesce a diventare un linguaggio epico. È un passaggio bellissimo del libro. Queste non sono sconfitte, ma vittorie culturali. Ecco come la capacità di un’opposizione che poteva atteggiarsi a bolscevica, tagliandosi fuori 101

dalla vita nuova della nazione, trova invece un grande spazio sociale, di immagine e di comunicazione per condurre la propria battaglia politica. S. Secondo questo tuo ragionamento, la battaglia antimafiosa del Pci nella Sicilia degli anni Cinquanta è più di parole che di sostanza? L. Non ne sappiamo abbastanza e troppo ci fidiamo della ricostruzione della memoria successiva dei comunisti piuttosto che di un’analisi delle fonti coeve. Posso solo dire che il discorso etico-politico sulla e contro la mafia non è proprio del realismo iperpolitico del filone principale della cultura comunista. S. Lo storico Francesco Renda, in passato dirigente comunista, sostiene che l’unica antimafia reale e collettiva sia stata quella dell’occupazione delle terre. Possiamo parlare di un’antimafia di popolo legata da un filo rosso, che parte dai Fasci siciliani di fine Ottocento e arriva fino alla battaglia contro il latifondo degli anni Cinquanta? L. La lotta per l’occupazione delle terre è una grande vicenda di mobilitazione popolare e democratica che riprende un filo antico, che è in effetti quello dei Fasci e delle battaglie contadine del primo dopoguerra. È dubbio però che tutta questa vicenda possa essere letta in un unico sviluppo di continuità. E non tutto in essa parla il linguaggio definibile come antimafioso. Il mondo politico socialriformista di inizio Novecento, direttamente derivante dai Fasci, era fatto di interessi e clientele locali, con cui i gruppi mafiosi riuscivano spesso a dialogare. Sia in quel periodo che nel primo dopoguerra, molteplici erano state le infiltrazioni di gruppi mafiosi nel movimento contadino. Gente come Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo avevano comprato o ottenuto pezzi di latifondo, avevano fondato cooperative, avevano ridistribuito appezza102

menti, ne avevano ricavato ricchezza, consenso, potere. Da questo punto di vista, era complicato utilizzare la memoria di queste stagioni ai fini della produzione di democrazia e di lotte antimafia. D’altronde anche nel secondo dopoguerra i gruppi mafiosi si sono inseriti nella distribuzione di ricchezza, posizionandosi nei consorzi di bonifica, gestendo gli istituti di riforma agraria o controllando le cooperative. S. Stai dicendo che la mafia, durante le lotte contadine per l’occupazione delle terre incolte, non si è schierata a difesa del latifondo? L. Spesso sì, altre volte no. Di fronte alla crisi del latifondo, la mafia sfrutta i canali di mobilità sociale. Tieni conto che dopo il ’45 i partiti di sinistra, organizzati su scala nazionale e su un modello accentrato, si sono fatti meno permeabili di quanto fossero in età liberale. La mafia teme la concorrenza dei movimenti contadini da essi organizzati e si propone spesso come concorrente nel controllo delle nuove risorse ora disponibili. S. Anche per questa ragione Luciano Leggio, campiere del feudo Strasatto di Corleone, uccide Placido Rizzotto. L. Perché Rizzotto, come altri sindacalisti e politici social-comunisti assassinati dalla mafia, disturbava la gestione «controllata» degli affitti dei feudi. S. Torniamo all’epilogo della vicenda di Salvatore Giuliano. È il 5 luglio 1950, il cadavere del bandito è riverso a terra in un cortile di Castelvetrano, attorno al quale si schierano magistrati e carabinieri per concedersi ai flash dei fotografi. La messinscena del suo omicidio a tradimento – svelata per primo dal giornalista Tommaso Besozzi, che dopo avere visto il cadavere del bandito, scrisse: «Di sicuro c’è solo che è mor103

to» – viene considerata simbolica dell’intesa tra mafia, forze di polizia, politica e forse servizi segreti stranieri. L. I servizi segreti stranieri perché avrebbero dovuto entrarci? Perché mai pensare che, quanto più è oscuro un episodio, tanto più deve esserci dietro un complotto planetario? È vero che carabinieri e polizia fecero a gara a chi prendeva (o faceva fuori) Giuliano, non disdegnando di usufruire dei servizi della mafia. Ma siamo di fronte a un altro possibile complotto, forse autonomo da quello intessuto dai mandanti della strage di Portella. Parlo del mandato di prendere Giuliano vivo o morto, di trattare con chiunque e utilizzare qualsiasi metodo. L’assassinio di Gaspare Pisciotta, luogotenente e, a sua volta, assassino di Giuliano, può essere mosso dall’intento di coprire o l’uno o l’altro o entrambi. Da qui la celebre frase pronunciata da Pisciotta al processo di Viterbo: «Siamo una cosa sola banditi, mafia e polizia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo». S. È questo l’intrigo fondante tra potere politico e mafia, il patto scellerato e originario? L. Forse anche questo, ma non solo. Ci sono forze politiche e sociali, clientele, famiglie interessate a transitare dalla vecchia alla nuova Sicilia. Ci sono intrighi occulti sì, ma anche fenomeni palesi. Ci sono nella Sicilia occidentale gruppi mafiosi desiderosi di restare in contatto con proprietari e politici, a loro volta in cerca di una strada. Ci sono apparati di sicurezza già operanti sotto il fascismo, consapevoli di una storia ancora precedente, abituati a servirsi dei mafiosi, a metterli gli uni contro gli altri, a vantarsi di un ordine restaurato in barba a ogni principio di legalità. Basterebbe pensare al commissario Aristide Spanò, già principale collaboratore di Mori. Basterebbe pensare al commissario Ettore Messana o al colonnello Ugo Luca, entrambi fortemente interessati a ottenere, a ogni costo, la testa di Giuliano. 104

S. Come mai la Dc accetta, apparentemente senza apprezzabili resistenze interne, l’accordo con pezzi di classe dirigente legati alla mafia? Solo Giuseppe Alessi, uno dei fondatori della Dc siciliana, in un suo libro di memorie racconta che cercò di opporsi all’ingresso nella Dc della mafia del Vallone, cioè i gruppi che facevano riferimento a Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo... L. Veramente proprio Vizzini e Genco Russo erano popolari, ovvero cattolici, già nel dopoguerra precedente. Alessi la racconta pro domo sua. Immagino che molti elementi della Dc abbiano lavorato affinché l’impatto non fosse condizionante più del dovuto. Molti di loro non pensavano nemmeno di creare un problema di lungo periodo: chi pianifica una politica non sempre sa o può essere consapevole di tutti i suoi effetti. Bernardo Mattarella, un politico moderno, di un certo livello, era stato popolare e antifascista, ma era un notabile di Castellammare del Golfo e può darsi ritenesse necessario, e non poi così grave, tener conto anche degli interessi mafiosi. Ma questo non lo sapremo mai, perché la Dc non ci lascia archivi e non riusciamo a fare una storiografia professionale. Rischiamo di doverci fidare della memoria «interessata» di un personaggio, certo di elevato profilo, come Alessi. S. Tentativi di infiltrazione e di condizionamento mafiosi si verificarono anche verso il Pci. L. Un caso clamoroso – documentato dalla ricerca di uno studioso locale, Calogero Castronovo – si verificò a Favara, dove nel gruppo dirigente comunista c’erano dei mafiosi, tali per curriculum, per precedenti penali e per relazioni familiari, accusati di aver assassinato il sindaco socialista Gaetano Guarino. Ma il Pci era un partito supercentralistico: lavorò duramente, e credo efficacemente, al105

l’epurazione. Presumo d’altronde che si trattasse di fenomeni e situazioni abbastanza marginali. S. Ma perché elementi così compromessi si rivolgevano al Pci, nonostante fosse un partito all’opposizione? L.

Per controllare il potere locale, ovviamente.

S. Significa che in politica, e non solo, la mafia non è conservatrice? L. Di per sé non lo è. La tesi della mafia naturalmente conservatrice è figlia della tesi della mafia necessariamente arcaica. La mafia si muove con la società e con la storia, si cerca gli spazi disponibili e non rifugge da alcuna alleanza o occasione di profitto. Chi non lo capisce, finisce prima per sottovalutarla e poi per subirla.

Capitolo 7

GLI ANNI RUGGENTI

GAETANO SAVATTERI Doveva essere ancora bella Palermo negli anni Cinquanta: una città armoniosa, con i suoi boulevard, le sue ville liberty, il mare di fronte e alle spalle i giardini d’agrumi della Conca d’Oro. Sopravvivono fotografie e vecchi ricordi. SALVATORE LUPO Bella era bella, Palermo. Ma anche povera e sfregiata dai bombardamenti nel suo straordinario centro storico, che non si sarebbe ripreso più. Fu lasciato deperire perché si sentiva il bisogno di costruire un moderno tessuto urbanistico, di dare risposta alla domanda crescente di moderne abitazioni. La città, non lo dimenticare, aveva riconquistato il suo ruolo storico di capitale con la nascita della Regione. Voleva essere all’altezza. S.

La Regione, già. Cosa porta di nuovo?

L. Tanta speranza e qualche sproporzionata ambizione della classe dirigente regionale di lavorare alla «rinascita» della Sicilia, ovvero a un riequilibrio col resto d’Italia. La parte migliore della classe politica si identifica con i tre partiti di massa e viene dall’interno dell’isola, mentre nelle grandi città della costa – Catania, Messina e appunto Palermo – ci si affida pigramente ai rimasugli di una destra di sapore prefascista, liberale o monarchica. 107

S. Fu a questo punto che i mafiosi si mossero dalle campagne decisi a conquistare la città, per ricavarne denaro e potere. E si aprì la stagione terribile del sacco di Palermo: speculazione edilizia, cemento e denaro con la complicità delle amministrazioni comunali, che in una sola notte, magari quella di Capodanno, rilasciavano cinquemila licenze edilizie a un paio di prestanome delle cosche. Questa è la storia per come viene abitualmente raccontata... L. Ma non viene raccontata nella maniera giusta. La mafia del sacco edilizio è palermitana, più tradizionalmente legata agli interessi delle élites fondiarie delle borgate e dell’hinterland, le cui aziende ha sempre controllato attraverso una rete di intermediari commerciali e di guardiani. Parliamo di una dialettica interna alla città stessa, che si ingigantisce, ingloba le borgate, «divora» il suo hinterland agricolo. Parliamo di un mutamento che per certi versi valorizza i caratteri di continuità del fenomeno e tra essi il meccanismo del controllo territoriale. La mafia e i suoi referenti borghesi fanno valere la loro antica rendita di posizione, vogliono fermamente usufruire del vertiginoso aumento di valore di terreni che da sempre presidiano. Si crea un pulviscolo di imprese edilizie prive di capitali e know-how, come l’impresa del carrettiere Francesco Vassallo, in buona sostanza una sorta di cooperativa della mafia stessa e dei suoi protettori politici. S. Perché allora l’insistenza del dibattito pubblico sul trasferimento della mafia dal latifondo alla città? L. Perché in questo modo si tiene ferma l’idea (sbagliata) che tutto origini da una mafia «tradizionale», espressione di una società rurale-arcaica e mero strumento di un potere proprietario latifondistico. Invece c’è una dimensione cittadina fondante della fenomenologia mafiosa e che palesemente si ripropone – in una mutata situazione e confrontandosi con nuove opportunità – negli anni Cinquanta. 108

S. In ogni caso, lo ammetti tu stesso, i mafiosi di Corleone – che i palermitani di città con disprezzo continueranno a chiamare sempre «viddani», cioè cafoni e contadini – sbarcano a Palermo. E si appropriano di molti affari... L. Sì. Bisogna considerare anche il ruolo assunto nella politica cittadina dal corleonese Vito Ciancimino. Però, guarda, io direi che è sempre esistita una grande provincia mafiosa che fa centro sulla città e le sue borgate, che lungo la costa va da Partinico a Bagheria, mentre verso l’interno si spinge fino a Corleone. Ricordiamoci del ruolo svolto da Francesco Cuccia, nel dopoguerra precedente, sull’asse tra Piana degli Albanesi e Palermo. S. I successi dei corleonesi non indicano in questa fase già una netta discontinuità? L. In effetti no. Comunque questi successi andrebbero rapportati al permanente peso dell’antica mafia delle borgate. Penso a Paolino Bontate e a suo figlio Stefano, il «principe di Villagrazia»; penso ai Greco di Ciaculli e Croceverde-Giardini, eredi di dinastie che le nostre attuali ricerche storiche mostrano insediate nelle borgate da quasi un secolo. Si potrebbero fare molti altri esempi. Quanto ai leader democristiani che si sostengono su costoro e ne vengono sostenuti, va bene, c’è il corleonese Ciancimino, però c’è anche Salvo Lima, il cui padre è stato di recente indicato come un personaggio importante della mafia palermitana degli anni Trenta. C’è Giovanni Gioia, legato da numerosi vincoli di parentela con pezzi dell’élite borghese cittadina. Risulta insomma evidente la centralità della mafia palermitana con tutte le sue relazioni. S. La cosiddetta prima guerra di mafia, destinata a esplodere all’inizio degli anni Sessanta, è preceduta dagli scontri per il controllo del mercato generale, dalle grandi specula109

zioni edilizie e soprattutto dal narcotraffico. È la droga a innalzare il volume degli interessi e il livello dello scontro... L. È infatti la fase dell’inserimento di alcuni gruppi mafiosi nei lucrosi traffici di droga, in collaborazione con i cugini americani e con destinazione America. Palermitani, trapanesi, persino qualche catanese, aggiungono il narcotraffico al contrabbando dei tabacchi. Tra essi troviamo un esponente di punta della già citata famiglia Greco, Salvatore Greco detto l’Ingegnere; giovani privi di background mafioso, provenienti dal centro città, come Tommaso Buscetta; un personaggio come Tano Badalamenti, che mette a frutto un consolidato asse familiare Cinisi-Detroit. S. Eppure Buscetta ha negato che la mafia dei suoi tempi trafficasse in droga... L. Sì, ma ha mentito. Può darsi volesse dire che le famiglie, dedite ad attività legate al controllo territoriale (l’estorsione, i subappalti edilizi, le cave di pietra), non erano direttamente coinvolte nella gestione dei traffici a lunga distanza. Di certo erano coinvolti singoli affiliati, i quali coinvolgevano gli amici, e amici degli amici non necessariamente affiliati – è il caso di Masino Spadaro, l’«Agnelli del contrabbando», come si definì lui stesso. Parliamo di un sistema duttile, che lavora in diverse direzioni e fornisce diverse opportunità di potere e guadagno. S. È proprio il business del narcotraffico al centro del summit all’hotel delle Palme di Palermo che si svolge tra il 12 e il 16 ottobre 1957, quando Joe Bonanno arriva dagli Stati Uniti per incontrare i capi della mafia siciliana? L. È molto accreditata l’ipotesi che si sia parlato di eroina. Credo che il castellammarese Bonanno, in grandi difficoltà nell’élite criminale newyorkese per l’ostilità che lo contrapponeva all’astro nascente Carlo Gambino, abbia trattato per proprio conto e per fare affari in proprio. Tor110

nato in America, trovò che Gambino e i suoi avevano eliminato il loro boss Albert Anastasia, facendogli fare (ad alcuni anni di distanza) la stessa fine del loro precedente boss, e grande amico di Bonanno, Vincenzo Mangano. Seguì il grande meeting di Apalachin, organizzato dai castellammaresi di Buffalo forse per sanare i dissidi. Come si sa, però, la polizia fece irruzione e identificò l’intero Gotha della mafia americana. L’organizzazione passò bruscamente dall’oscurità alla luce dei riflettori. L’Fbi si mobilitò. Fu la fine di un’epoca di tolleranza dell’autorità verso misfatti e affari mafiosi. S. Questo significa che all’hotel delle Palme non si svolse il vertice generale della mafia americana e siciliana, ma soltanto la riunione di alcuni gruppi e famiglie? L. Bonanno aveva fatto organizzare l’incontro con i palermitani dai suoi parenti Gaspare Magaddino e Diego Plaja, siciliani di Castellammare del Golfo. Joe Bonanno si presentò nell’albergo di via Roma con la prosopopea del grande capo, ma non sappiamo fino a che punto i siciliani si lasciarono convincere. Dobbiamo ricordare che il suo grande nemico newyorkese, Carlo Gambino, era palermitano, manteneva a Palermo relazioni e parentele: è escluso che sul versante siciliano si ignorassero le difficoltà in cui si trovava Bonanno al di là dell’oceano. S. Buscetta racconta che Joe Bonanno invitò i palermitani a organizzare la Commissione provinciale o Cupola di Cosa Nostra per avere un corrispettivo e un interlocutore con la Commissione americana. L. Mah... a mio parere Bonanno cercò di conquistarsi un canale, quanto più possibile esclusivo, con i palermitani. E a questo scopo può darsi li abbia effettivamente invitati ad agire in maniera coordinata. Ma Buscetta, come al solito, 111

nega si sia parlato di narcotraffico. E non è proprio credibile. S. La Commissione però, ne abbiamo fatto cenno, era sempre esistita, anche prima dell’eventuale invito o suggerimento di Joe Bonanno. L. Già il questore Sangiorgi a fine Ottocento aveva descritto una rete di organizzazioni territoriali in grado di coordinare la propria azione attraverso un’istituzione direttiva. Il medico mafioso Melchiorre Allegra e l’Ispettorato di Ps ne avevano parlato nei secondi anni Trenta: le fonti di polizia scrivevano di un Gran Consiglio della mafia americana – come il Gran Consiglio del fascismo – e già allora di una Commissione palermitana. Anche ora le fonti parlano di Commissione, come le Commissioni senatoriali americane, come la Commissione parlamentare antimafia italiana (il sottomondo trae sempre parole e quindi modelli dal sovramondo). È logico che le cosche, soprattutto se agiscono su territori contigui come avviene a Palermo e intorno a Palermo (o a New York), cerchino di operare d’accordo, riunendosi in organismi rappresentativi e federativi. È possibile che questi vincoli siano stati ribaditi nella Palermo di fine anni Cinquanta. S. Ma gli anni Sessanta si aprono con la prima guerra di mafia tra Salvatore Greco Cicchiteddu e i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera, che semina decine di morti e rimette la violenza mafiosa al centro delle attenzioni investigative... L. La guerra scoppiò a breve distanza dalla (presunta) data di costituzione della Commissione. Questo ci deve far riflettere. Stando alla versione di Buscetta, la Commissione non impedì l’omicidio di Calcedonio Di Pisa, uomo dei Greco, da parte dei La Barbera che lo accusavano di averli truffati in una certa spedizione di eroina. Da lì lo scontro. Dopo qualche tempo, la Commissione sarebbe stata 112

sciolta: insomma durò ben poco e nel suo breve arco di vita non funzionò per nulla. Buscetta, come al solito, vagheggia ideologicamente l’onorata società del tempo antico che funzionava così bene, ma non vuole ammettere che la mafia mantiene l’ordine, quando ci riesce, con la prepotenza e l’intimidazione – non con sistemi pseudolegali e pseudodemocratici. S. Dopo una stagione di omicidi, la guerra a un certo punto finisce. Per quale motivo? L. Sì, la guerra si conclude in maniera apparentemente catastrofica per i mafiosi. Dallo scontro emerge vincente il gruppo dei Greco sui La Barbera. Salvatore La Barbera viene ammazzato, suo fratello Angelo finisce in galera. Buscetta – un satellite del gruppo La Barbera – scappa in Messico. Ma anche colui che sembra il vincitore, Salvatore Greco Cicchiteddu, fugge in Venezuela e fa perdere le sue tracce. Scappano tutti perché, dopo l’attentato di Ciaculli, la politica e l’autorità di polizia si sono accorti che la mafia è una creatura pericolosa. S. Determinante nel sovvertire l’immagine tradizionale della mafia è dunque la strage di Ciaculli del 30 giugno 1963, quando una Giulietta imbottita di tritolo salta in aria uccidendo cinque carabinieri e due artificieri dell’esercito. Le inchieste successive alla strage sembrano colpire a fondo Cosa Nostra, al punto che secondo Buscetta durante il processo di Catanzaro i mafiosi valutarono se sciogliere l’organizzazione... L. La strage fa della mafia (finalmente) un problema di ordine pubblico. I mafiosi, non più abituati alla repressione, oscillano sotto i colpi. Però i processi di Catanzaro e di Bari non danno i risultati sperati. Comunque i corleonesi – Leggio per un certo tempo, i suoi luogotenenti Totò Riina e Bernardo Provenzano per un periodo che risulterà 113

interminabile – si danno alla latitanza. I fatti successivi diranno che la capacità di reggere e agire dalla latitanza rappresenta la prima delle loro virtù (diciamo così). Li renderà capitani di un esercito incontrollabile dalle autorità e dagli stessi altri mafiosi. S. La strage di Ciaculli dà un impulso fortissimo alla neonata Commissione parlamentare antimafia, richiesta a gran voce dalla sinistra già anni prima, quando negli Stati Uniti era stata costituita la commissione senatoriale Kefauver. E si apre subito il dibattito politico, ad esempio sulle schede segrete dedicate ai politici siciliani e alle loro collusioni. L. La costituzione della Commissione è il segno di una difficoltà delle forze di governo di fronte alla violenza mafiosa, ma nello stesso tempo è l’effetto della presenza dei socialisti nel governo di centrosinistra. Tuttavia, la Commissione, nonostante i suoi ampi poteri d’inchiesta, produce dibattito politico e poco più: scatena inutili polemiche sulla cosiddetta polveriera che si accumulava nei suoi archivi e che veniva tenuta segreta. Solo in seguito, all’inizio degli anni Settanta, la Commissione antimafia comincerà a produrre documenti per nulla segreti, ma nel complesso di straordinario valore. S.

Valore politico o storico?

L. Le relazioni conclusive, anche quelle di opposizione, utilizzarono in maniera superficiale la documentazione, più che altro riproducendo tematiche già note del dibattito pubblico. In realtà i materiali allegati offrirebbero ancora oggi spunti di grande valore per ricerche originali. S. In definitiva, la Commissione non fu del tutto inutile e il suo lavoro non si rivelò del tutto vuoto o parolaio. L. Inutile proprio no. Basti pensare alla vicenda del giudice Cesare Terranova, già pubblico accusatore in molti 114

processi di mafia, in seguito eletto in Parlamento nelle file comuniste ed entrato a far parte della Commissione antimafia. Conclusa l’esperienza parlamentare, Terranova tornò in magistratura a Palermo con idee più precise e analisi più approfondite sulla mafia: e proprio per questo fu ferocemente assassinato. Credo che molti funzionari di polizia, carabinieri e magistrati ascoltati dalla Commissione abbiano fornito o viceversa ricavato elementi utili, in un processo importante di sensibilizzazione. In fondo, le forze di polizia lavorano così: considerano gravi o meno gravi i fenomeni criminali «nascosti», regolandosi sul vento che soffia nelle istituzioni e nella politica. Altre sollecitazioni avranno ricevuto gli stessi componenti della Commissione: l’audizione di Carlo Alberto Dalla Chiesa – un intervento importante, da rileggere – non può non aver provocato una forte impressione. S. La ripresa del dibattito sulla mafia finì per avere contraccolpi anche dentro la Dc: l’elezione a sindaco di Palermo di Vito Ciancimino, nel novembre 1970, venne accolta da accese reazioni in tutta Italia, perfino nello stesso partito di maggioranza, costringendo Ciancimino alle dimissioni nel giro di cinque mesi... L. Credo che all’interno della Dc non pochi abbiano considerato Ciancimino e Lima, alla luce dello sviluppo degli eventi, come personaggi pericolosi. Qualcuno avrà capito che non era più il tempo, per la classe dirigente, di guardare i mafiosi dall’alto in basso, come strumenti che alla bisogna potevano essere facilmente messi al loro posto. Dall’altra parte, bisogna considerare il peso deteriore della logica sicilianista del «siamo tutti sulla stessa barca», la ritrosia a dare argomenti al «nemico» centralista e settentrionale. Tutti stavano bene attenti a non forzare sul tasto dei contrasti di tipo etico-politico all’interno del partito di maggioranza (e nella stessa polemica tra maggioranza e opposizione). Mi chiedo se mai sapremo qualcosa di più preciso. 115

Ma, come abbiamo detto, né la Dc in quanto tale né i maggiori notabili democristiani siciliani ci hanno lasciato archivi. Nessuno ci propone un libro di memorie che non sia agiografico. Il percorso della storiografia è arduo. S.

Insomma sul passato è calato il silenzio.

L. Ricordi le risposte sprezzanti date dall’archivista palermitano alle mie richieste? La rimozione è avvenuta con la complicità della città stessa, parliamoci chiaro. Prendiamo la vicenda del padre di Salvo Lima che, come oggi sappiamo, era stato indicato dalla polizia come il killer di un importante delitto di mafia. Eppure a Palermo, dove tutti sanno tutto di tutti, questo evento non è mai stato rievocato da nessuno, tutti hanno descritto Lima come un uomo politico che forse, e solo per ragioni elettorali, è entrato in contatto con la mafia. Penso allora a quanti scheletri nascosti negli armadi della classe dirigente palermitana non verranno mai alla luce. S. Una bellissima poesia si conclude con questi versi: «Saprò forse domani che questo splendido torpore / era fitto di crude operazioni, ed anche / questo abbaglio / ingannevole ci ammalia... così è Palermo». Mario Luzi intuisce che dietro la sua facciata, la città nutre una trama oscura di relazioni, spesso criminali. L. In effetti. Resisteva, negli stessi ceti borghesi e intellettuali, la contrapposizione retorica tanto indulgente quanto depistante tra la mafia tradizionale, protettiva e bonaria, e quella attuale – così inspiegabilmente ridottasi a delinquenza! Sotto c’era la paura dei ceti dirigenti di un proprio passato, familiare e di classe, che si sapeva o si sospettava ben distante dalle rappresentazioni bonarie. Molto più facile era negare che la mafia fosse cosa pericolosa ovvero – il che è lo stesso – proiettare il problema verso una dimensione simbolica tanto rarefatta quanto innocua. 116

S.

È ancora così?

L. No di certo, perché cose tremende sono successe e moltissimo, nella percezione pubblica della questione mafiosa, è mutato, sicuramente in meglio. Lasciami però solo esprimere la mia insofferenza per le innumerevoli citazioni del Gattopardo, le compiaciute autocalunnie sugli insanabili difetti dei palermitani, sulla Palermo irredimibile, di cui tanto gli intellettuali cittadini si compiacciono. A me sembrano trappole retoriche paralizzanti, destinate a confermare per sempre l’esistente. S. Siamo al passaggio tra gli anni Sessanta e Settanta. C’è una certa efficacia dell’azione repressiva, ma ci sono anche importanti magistrati convinti che la mafia non esiste e perfino la Commissione parlamentare antimafia dirà nel 1976 che «il fenomeno è destinato a trasformarsi in una comune forma di delinquenza organizzata, non più connotata da requisiti tipici». L. Non vorrei esagerare con la questione dei difetti interpretativi. Mi sembra però che il paradigma tradizionalista, seppure in crisi, non cessi in questa fase di provocare effetti nefasti. I mafiosi non portano più la coppola, sparano con i mitra e fanno saltare in aria i carabinieri col tritolo, commerciano in droga, si danno alla latitanza, non si atteggiano a notabili come Calogero Vizzini. La realtà è troppo distante dalla rappresentazione, ma il punto è che la rappresentazione era stereotipata già cinquant’anni prima – e forse anche cento. S. Il 5 maggio del 1971 viene ammazzato il procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione. È il primo cadavere eccellente della storia repubblicana, primo di una lunga serie. L’omicidio di un magistrato così importante dà l’improvvisa percezione nazionale dell’aggressività del fenomeno mafioso, ma non seguono indagini e reazioni adeguate... 117

L. Anche qui siamo davanti a una percezione sbagliata. Tutti pensano che la mafia non ammazzi magistrati e uomini dello Stato, se non nel caso siano suoi complici. Dunque Scaglione è una mela marcia. Solo negli anni seguenti, e davanti a una sequenza di sangue, si comprenderà che la regola generale non è necessariamente sempre valida. S. Eppure nel settembre 1970 era già scomparso il giornalista Mauro De Mauro, un altro mistero palermitano... L. Beh, era più facile comprendere le ragioni per cui veniva colpito un giornalista come De Mauro: un’inchiesta indiscreta, un’informazione pericolosa. Il suo rapimento peraltro coronava una lunga stagione di attentati e intimidazione nei confronti del suo giornale, «L’Ora». S. Col caso De Mauro e il delitto Scaglione la mafia sta cambiando pelle? L.

Vedendo le cose col senno del poi, direi di sì.

S. Le indagini, in entrambi i casi, partono tra molti dubbi e molti errori, si arenano presto e non arriveranno mai a una conclusione processualmente certa... L. Certo, perché passa la convinzione che Scaglione se la sia cercata. E comincia la stagione delle mancate reazioni, cui purtroppo ci abitueremo. S. Per Cosa Nostra è anche il periodo del consolidamento delle relazioni internazionali del narcotraffico. L. Lo smantellamento della connection marsigliese accelera l’espansione mafiosa verso l’Italia meridionale e il Nord. Entrano in gioco i gruppi calabresi e campani, dapprima subalterni, poi sempre più coinvolti nei traffici di Cosa Nostra. È una specie di decennio di preparazione e di accumulazione di capitali. Sono portato a pensare che la ripresa dell’emigra118

zione di elementi qualificati mafiosi dalla Sicilia verso gli Stati Uniti si risolva in una ripresa forte dei traffici di stupefacenti. S. È il caso di Buscetta, del suo soggiorno newyorkese e delle relazioni di affari da lui strette con i Gambino. L. Certamente. Nel 1970 Buscetta torna da New York in Italia, dove viene fermato assieme a Salvatore Greco, per una riunione, sostiene lo stesso Buscetta, legata ai preparativi del golpe Borghese. Sapendo quanto Buscetta ci tenga a occultare il narcotraffico e la connessa partnership siculo-americana, io penso invece che nel corso dell’incontro si decidessero questioni riguardanti quel tipo di affari. Sgominato dalle autorità americane un reticolo, quello della cosiddetta French Connection, se ne apre un altro: l’ennesimo groviglio siculo-americano. S. Come abbiamo detto, è anche il periodo di minore reazione e comprensione del fenomeno mafioso negli apparati statali, a esclusione di alcune eccezioni... L. Il paese viene coinvolto in una crisi politica in cui la violenza politica diviene un oggetto di uso comune e accettato. Scoppiano bombe nelle banche e nei treni, azionate forse da individui annidati negli apparati di sicurezza per misteriose ragioni. Fazioni politiche di estrema destra e di estrema sinistra si danno battaglia nelle strade senza che né l’autorità di governo né l’opposizione se ne preoccupino più di tanto. La repressione viene dipinta come impossibile o immorale. Viene svalutata l’idea stessa di Stato. Ma senza l’idea di Stato l’antimafia non si fa. In compenso, passa nel pensiero corrente la legittimazione della violenza politica e della possibilità di influenzare la vita politica attraverso la guerra per bande. S. In questo scenario, è verosimile che siano stati frequenti i contatti tra mafia ed eversione politica. L. È logico che sia così. Negli studi storici sull’Italia an119

ni Settanta questa dimensione della reciproca infezione tra mondo dell’eversione politica e mondo dell’eversione criminale viene poco rilevata. Il territorio dell’illegalità è un territorio di confine: lo dimostrano i fatti di Reggio Calabria, momento di straordinaria rilegittimazione della mafia reggina. La mafia non vive in un mondo impermeabile. La sua etica antistatale esce amplificata al massimo dall’immersione nell’opinione pubblica. S. Contatti documentati per la camorra, ad esempio nel caso del sequestro dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo, quando Raffaele Cutolo fu chiamato in causa per aprire canali di trattative con le Brigate Rosse. L. Tutta la vicenda della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo ci racconta la storia dei rapporti tra criminalità e terrorismo. S. È successo anche con la mafia, a sentire Tommaso Buscetta quando parla dei tentativi di esponenti dei servizi segreti di coinvolgere Cosa Nostra per intavolare una trattativa con i brigatisti detenuti, durante i cinquantacinque giorni del sequestro di Aldo Moro... L. È vero che dentro le carceri coabitavano mafiosi di ogni estrazione e terroristi. Come sappiamo, gli apparati di sicurezza avevano un’antica pratica nel fare appello alla mafia per la restaurazione dell’ordine. I mafiosi, dal canto loro, avevano un’antica pratica nel risolvere i problemi dell’autorità o anche solo nel fingere di poterli risolvere in modo da attribuirsi importanza. La capacità di millantare credito fa parte del profilo del mafioso. Può darsi che Buscetta abbia fatto ricorso a questa qualità anche nel corso delle indagini sul delitto Moro. Tutti il resto mi pare non provato e improbabile.

Capitolo 8

L’ATTACCO AL CUORE DELLO STATO

GAETANO SAVATTERI La sera del 26 gennaio 1979, in viale Emilia a Palermo, un giornalista sta rientrando a casa: si chiama Mario Francese ed è un cronista del «Giornale di Sicilia». Un uomo si accosta, gli spara addosso con freddezza, lasciando il cadavere di Francese sull’asfalto: il killer si chiama Leoluca Bagarella, uomo d’onore di Corleone e cognato di Totò Riina. Francese era stato uno dei pochi che avevano intuito che dentro Cosa Nostra i corleonesi stavano prendendo il sopravvento e ne aveva scritto nei suoi articoli. Con questo omicidio si apre la stagione della mattanza, organizzata dai corleonesi di Riina per eliminare i nemici interni alla mafia e i nemici esterni. SALVATORE LUPO Nella strategia dei corleonesi influisce probabilmente il tentativo di fare di Cosa Nostra qualcosa di simile alla sua leggenda: una superorganizzazione, con un supercapo. Nella realtà storica del secolo precedente la mafia, o se vuoi la Cosa Nostra, era stata un insieme di organizzazioni territoriali e affaristiche, non coincidenti le une con le altre, i cui affiliati avevano possibilità di accedere a certi affari, ma per farlo dovevano possedere il know-how, i capitali e relazioni giuste. I corleonesi pensano che alla fine degli anni Settanta sia arrivato il momento di creare un’unica organizzazione che controlli tutto. 121

S. Ne deriva una strage continua che appare guidata da una furia omicida e irrazionale... L. C’è una furia omicida certo, che si rivelerà anche controproducente, ma comunque derivante da una logica che va compresa. Ha una sua logica l’obiettivo di una distribuzione più egualitaria dei grandi introiti del narcotraffico siculo-americano. In fondo, è il meccanismo classico delle monarchie assolute che promettono ai sudditi la difesa dall’arbitrio dei singoli feudatari. La fazione corleonese – composta dai corleonesi propriamente detti e dagli aderenti alla loro fazione, palermitani o meno – si propone di distruggere quello che possiamo definire il notabilato di Cosa Nostra, che godeva di più consolidate relazioni con il mondo «di sopra» e in particolare con il gruppo affaristico siculo-americano. Questo avviene a Palermo e in provincia, ma anche nel Trapanese, zona di antica vocazione narcotrafficante. Significativo l’attacco alla mafia di Castellammare del Golfo, della quale conosciamo l’importanza storica nelle relazioni transoceaniche. S. Parliamo di annientamento: definizioni che più che a una guerra di mafia fanno pensare a un’azione di sterminio. L. Pensiamolo come un colpo di Stato. Certo, da un certo punto in poi il raziocinio dell’operazione un po’ si perde. È quanto avviene nelle guerre: nello scatenarsi delle logiche più belluine prendono la mano i macellai più sanguinari. Nel convincimento che la violenza funzioni, tanto vale utilizzarla in tutti gli ambiti. S. Una pratica di violenza spesso preventiva: uccidere più degli altri, prima degli altri... L. Infatti. Ne sentiamo l’eco in certe intercettazioni del 2006, nelle quali ascoltiamo Nino Rotolo discutere con altri uomini d’onore – tutti di fede corleonese, seppure pa122

lermitani – sull’ammissibilità del ritorno di alcuni esponenti del clan siculo-americano degli Inzerillo, sopravvissuti alla strage di venticinque anni prima. Rotolo dice: «Adesso sembrano innocui, ma domani chissà... colpiamoli noi prima che ci colpiscano loro». Si ripropone lo schema mentale che vent’anni prima sembrava razionale, non solo a Palermo, ma anche in altre aree di criminalità organizzata. S.

Dove?

L. A Catania, dove c’era solo un gruppo di Cosa Nostra – strettamente collegato ai palermitani –, ma anche un nugolo di altre fazioni di tutt’altra origine, impegnate a scannarsi tra loro. La stessa conflittualità estrema si registra nel Napoletano tra cutoliani e anticutoliani. Abbiamo detto più volte che l’Italia degli anni Settanta era culturalmente un campo fertile per la diffusione, il successo e la proliferazione della violenza politica, a fronte di una paralisi della reazione statale: tutti erano autorizzati a pensare che con la violenza si risolvessero i problemi. S. Eppure la mattanza di quegli anni, penso ai cento e più morti a Palermo nel 1982, quando il quotidiano «L’Ora» ormai sparava in prima pagina solo i numeri dei cadaveri (71, 72, 73... e così via), non sembra una guerra classica, con caduti e vittime da entrambe le parti in conflitto, ma piuttosto una strage di soggetti incapaci di reagire... L. E così. A Palermo, contrariamente a quanto avveniva prima e a quanto continua a succedere altrove, non abbiamo il classico meccanismo delle guerre di mafia dell’azione e della risposta – muore uno da una parte, poi viene ammazzato uno dall’altra parte. Qualche volta mi sono chiesto se non siamo stati trascinati in un’interpretazione troppo totalizzante, se non siamo invece davanti a diversi conflitti che leggiamo unitariamente. Le informazioni disponibili porta123

no però a credere che tutto vada ricondotto al colpo di Stato corleonese. La mancanza di reazioni indica che questa fazione aveva in mano una sorta di monopolio della forza. S. Non riuscirono a capire la portata della strategia corleonese nemmeno due boss di lunga esperienza e tradizione mafiosa come Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, uccisi a distanza di due settimane l’uno dall’altro nella primavera del 1981... L. È chiaro che, nel momento in cui furono ammazzati, Bontate e Inzerillo non erano più seguiti dai loro stessi uomini, dal grosso degli affiliati delle loro famiglie. Per questa primissima fase tutto è abbastanza chiaro. Resta più difficile, ma non impossibile da capire, il seguito, ovvero il dilagare incontrastato di quella che si dice la mattanza. S. Parallelamente al golpe interno a Cosa Nostra, si attua una strategia di eliminazione di molti uomini dello Stato: dal capo della squadra mobile Boris Giuliano, ucciso nel 1979, al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato nel 1982. Ancora una volta la reazione dello Stato appare inadeguata, anche se proprio in questi anni si sta formando un gruppo di magistrati e di investigatori di grandissimo valore, dal giudice Giovanni Falcone al vicequestore Ninni Cassarà. L. C’è infatti una reazione che darà i suoi frutti. Però i tempi del riarmo dello Stato sono molto più lenti dei ritmi dell’offensiva corleonese, con la sua volontà (e capacità) di prendere sul tempo gli avversari. Però la realtà o la prospettiva a breve di un riarmo delle istituzioni rappresentano la chiave per comprendere la stagione del terrorismo mafioso. È il continuo innalzarsi della posta nella partita tra mafia e antimafia a rendere duro il gioco. Se pensiamo le istituzioni come strutturalmente inclini a passare la mano – come troppo spesso si fa – non capiamo nulla di quanto è successo. 124

S.

Quali sono i segnali di questo riarmo istituzionale?

L. Importanti stimoli venivano dagli Stati Uniti agli investigatori italiani, come nel caso di Boris Giuliano, il capo della squadra mobile di Palermo, che intuì la rete del narcotraffico. Tra i magistrati inquirenti cominciò a prevalere l’idea dell’organizzazione in pool specializzati, come era già avvenuto con successo nella lotta al terrorismo. Sempre dall’esperienza dell’antiterrorismo derivava l’idea che fossero necessarie nuove leggi contro i reati associativi e che si dovessero incoraggiare rotture interne nel fronte nemico, ovvero ricercare le testimonianze dei cosiddetti pentiti. Molti dei caduti sotto il piombo mafioso praticavano o sostenevano questi nuovi metodi di lotta. S. Il numero e la scansione delle vittime è impressionante: Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Succede qualcosa, poi tutto sembra tornare come prima fino al prossimo omicidio. Il cantautore Fabrizio De André ne trarrà spunto per inserire questi versi nella sua canzone «Don Raffaè»: «E lo Stato che fa? / Si costerna, s’indigna, s’impegna, / poi getta la spugna con gran dignità». L. È un micidiale gioco di azione e reazione. Ogni delitto della mafia provoca allarme e la ricerca di nuove soluzioni. Ogni nuova soluzione provoca una sanguinosa reazione della mafia. La sequenza è agevolata dal fatto che manca una risposta emergenziale: l’Italia sembra non rendersi conto della necessità di garantire subito l’ordine pubblico. Il ministero degli Interni finge che tutto sia normale. Si abitua. Accetta una situazione inaccettabile. S. C’erano risposte di medio periodo, per certi versi preparatorie dell’eccezionale stagione successiva, coronata dal maxiprocesso. Ma in quel momento mancò la reazione immediata dello Stato, dando l’impressione di istituzioni inermi. Di 125

conseguenza a molti, a me per primo, sembrò che gli uomini migliori delle istituzioni fossero stati mandati a morire a mani nude e a petto scoperto, senza avere dietro nessuno... L. Proprio così. Il ritardo delle istituzioni rispetto al dinamismo corleonese è reale, ma anche simbolico, perché lo stesso terrore corleonese ha talvolta intenti prevalentemente simbolici. Il delitto Dalla Chiesa è l’esempio lampante di questo nuovo modo di ragionare. Il generale arriva in Sicilia essenzialmente come un simbolo, privo di strumenti e, a mio parere, senza ben sapere cosa stesse accadendo in Cosa Nostra e forse addirittura senza conoscere le informazioni più importanti disponibili alla magistratura e agli apparati investigativi. Viene ucciso perché il suo corpo e quello di sua moglie finiscano in apertura dei telegiornali. La Cosa Nostra uccide per ostentare il proprio potere, per lanciare un messaggio intimidatorio poderoso, ma generico, alle classi dirigenti e all’opinione pubblica. La mafia agisce per finalità analoghe a quelle di un gruppo politico terrorista. S. Il segno simbolico del delitto Dalla Chiesa vale anche per gli omicidi del presidente della Regione Piersanti Mattarella e del segretario del Pci siciliano Pio La Torre? L. Ritengo di sì. Ecco perché è difficile trovare il senso dei delitti «politici»: dall’eliminazione di questi personaggi la mafia non si aspettava alcun vantaggio diretto, perché non c’è un movente specifico. S. Dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa, il Parlamento in gran fretta vara la legge sulla confisca dei beni e l’articolo 416 bis del codice penale, che configura l’associazione di tipo mafioso «quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto 126

o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri». C’è voluto un dibattito lungo centoventi anni per arrivare a una norma che definisce e punisce l’associazione mafiosa. Non credi ci sia stato un po’ di ritardo? L. No, perché? Le diffidenze verso il reato collettivo nella tradizione giuridica italiana erano molte. Per causam, direi, visto che la responsabilità penale è personale, visto che questo tipo di reato porta in sé il rischio della montatura e della persecuzione, visti i precedenti delle leggi antianarchiche e antisocialiste di età liberale e di periodo fascista. Fu la dura lezione dei fatti a cambiare le cose. S. Per approvare la legge, presentata da tempo in Parlamento, furono necessari i cadaveri di La Torre e Dalla Chiesa. Le Camere votarono e approvarono il provvedimento (che portava il nome di legge Rognoni-La Torre) venti giorni dopo l’omicidio del generale. Forse, se fosse stata varata prima, ci sarebbero state due vittime in meno... L. Nell’immediato, in effetti, la risposta arriva sempre in ritardo. Parliamo di situazioni drammatiche in cui è come se i tempi della storia accelerassero. Però, se allontaniamo lo sguardo e ragioniamo sul quinquennio 1978-82, le cose appaiono diversamente: la risposta arriva. S. Arriva anche la risposta di Cosa Nostra: il consigliere istruttore Rocco Chinnici viene eliminato con un’autobomba al tritolo, nel luglio 1983. La mafia adotta tecniche già praticate sugli scenari mediorientali. Lo sconcerto di quei giorni è racchiuso nel titolo di prima pagina di un quotidiano: «Palermo come Beirut». L. L’attentato a Chinnici dà il segno che, organizzandosi in pool specializzati, la magistratura inquirente sta im127

boccando la strada giusta. Certo, in molti contrastano questa tendenza. Non parliamo solo dell’ala più conservatrice della magistratura, ma anche di parte della sinistra, che ha considerato «liberticida» ogni intensificazione della «repressione», e quindi anche le scelte organizzative di questa natura. S. Chi è invece che si intesta l’azione di rinnovamento per rendere più incisiva l’azione giudiziaria contro la mafia? L. Certamente c’è un’elaborazione interna nei settori più dinamici della magistratura. Sul versante politico, bisogna considerare l’esperienza della solidarietà nazionale e il trauma del delitto Moro. Durante il sequestro del presidente della Dc, la leadership comunista non solo pensa, ma dichiara a voce alta che l’ordine rappresenta un valore primario e che la sua difesa deve essere efficace. Nella lunga storia del Pci, credo sia forse il momento più alto. Il gruppo dirigente mostra patriottismo, realismo politico, duttilità mentale. A spaccarsi semmai è il popolo di sinistra, con lacerazioni per certi versi doloranti ancora oggi. S. In questi primi anni Ottanta nasce l’antimafia delle marce, dei cortei, delle fiaccolate. Oggi la consideriamo, forse non a torto, retorica e a servizio dei media... L. Ma la retorica ci vuole. Il linguaggio che i movimenti collettivi usano sulla scena pubblica non può non essere adeguato alla drammaticità della fase storica e alla gravità dei problemi. S. E in effetti nella Palermo di allora era sicuramente significativo che studenti e cittadini scendessero a protestare contro la mafia per le strade di una città considerata cinica e indifferente. Pochi giorni dopo il 3 settembre 1982, una mano anonima aveva lasciato un cartello sul luogo del delitto Dalla Chiesa: «Qui è morta la speranza dei palermitani one128

sti». Con quel grido e con la reazione che innescò nasce il movimento antimafia che siamo abituati a conoscere... L. Sì, nascono un movimento abbastanza nuovo e un nuovo stile politico. Il paragone che mi viene in mente riguarda gli Stati Uniti degli anni Trenta. Nelle grandi città come New York e Chicago le gesta della criminalità organizzata provocarono la nascita di movimenti riformatori orientati a chiedere pulizia degli affari e della politica, decisi a dare sostegno all’azione penale contro la criminalità. S. Abbiamo visto che in Sicilia c’era già stato il precedente dell’antimafia contadina del dopoguerra, sia pure sotto il segno della lotta contro il latifondo... L. Un precedente importante per dimostrare che anche in Sicilia può aversi un’opposizione. Però le differenze tra i due movimenti sono enormi, e l’uso di uno stesso schema non ci porta lontano. La mafia era considerata dalla tradizione comunista come un mero sottoprodotto del potere di una classe dirigente basata sulla proprietà fondiaria, da rovesciarsi mediante una lotta di classe e una riforma agraria. Ora la lotta ha nuovi protagonisti su entrambi i fronti. E ha bisogno di metodi, parole e passioni nuove. La mafia è di per sé il protagonista e l’antagonista. L’obiettivo è la creazione di uno strato robusto di società civile che sospinga lo Stato di per sé riluttante a far valere la sua etica, difendendo essenzialmente il concetto di legalità. Siamo in una sfera etico-politica a cui il «realismo» marxisteggiante o pseudomachiavelliano dei gruppi dirigenti della sinistra ha sempre guardato – e continua a guardare – con presunzione di superiorità, se non con disprezzo. S. Molti siciliani si schierano a sostegno dei carabinieri, dei poliziotti e dei magistrati. Sarebbe stato impensabile appena pochi anni prima, in una terra segnata da un antico pregiudizio contro gli «sbirri»... 129

L. Sì. Considera però il carattere minoritario del movimento antimafia palermitano: cittadino, borghese, di élites intellettuali e studentesche, di «cani sciolti» della sinistra. Fenomeno singolare e interessante: non mancano i rampolli delle tradizionali classi dominanti, le stesse che sino al giorno prima avevano fatto uso di servizi mafiosi ... S. È un riferimento a Leoluca Orlando, il consigliere comunale democristiano che da lì a poco, nel 1985, sarebbe diventato sindaco di Palermo con una forte connotazione antimafia? L. Leoluca Orlando è il massimo protagonista della rottura interna alle classi dirigenti e della dislocazione sul terreno dell’antimafia di una parte importante di forze politiche di ispirazione cattolica o genericamente di sinistra. La sua ascesa segnala anche l’incapacità dei comunisti di occupare lo spazio politico e d’opinione che l’antimafia si va conquistando. S.

Prova a spiegarlo...

L. Il moderatismo comunista si trova a disagio di fronte ai discorsi radicaleggianti di Leoluca Orlando; ostenta quella che abbiamo già definito una presunzione di superiorità, perde peso e credibilità. S. È arduo sostenerlo, se soltanto pensiamo all’iniziativa e all’eliminazione di Pio La Torre, figura a lungo viva nella memoria dei comunisti siciliani... L. Distinguiamo. Come ho detto, il Pci berlingueriano e postberlingueriano era un ottimo interlocutore degli apparati impegnati sul campo e di chi volesse fare una politica sanamente repressiva. Mostrava, come si dice, senso dello Stato. Ma non era attrezzato a porsi sul piano mobile dei movimenti. Su scala regionale continuava a ragionare di patto autonomistico con la Dc, di accordo con una 130

borghesia cosiddetta progressista e in realtà, spesso, decisamente inquinata (era il caso dei Cavalieri del lavoro di Catania). Con Michelangelo Russo, uno dei suoi leader siciliani, si rifiutava di fare l’analisi del sangue alle imprese. S. C’erano diverse anime nel Pci siciliano: il partito da una parte proclamava la sua tradizionale posizione antimafia, mentre nello stesso tempo le cooperative rosse facevano parte dei consorzi d’impresa con aziende in odore di mafia nella realizzazione di grandi opere pubbliche. La contraddizione deflagrò violentemente a metà degli anni Ottanta. L. Senza che per questo si trovasse una strada. Prendi ancora Catania, dove il gruppo dirigente impegnato nella collaborazione con uno dei Cavalieri, Mario Rendo, cade di fronte all’evidenza dei suoi errori, ma il gruppo radicaleggiante che l’ha contrastato non si mostra in grado di gestire il partito. La storia si conclude con l’arrivo di un commissario «continentale». Risultato? Un’inarrestabile decadenza politica ed elettorale. Prendi i funerali di Pio La Torre, quando i dirigenti fanno intervenire il presidente democristiano della Regione Mario D’Acquisto, andreottiano molto discusso, beccandosi (loro e lui) i fischi della folla. S. I contrasti più accesi però esplodono dentro la Dc e i partiti di governo, riducendo i margini di convivenza. L’antimafia finisce per diventare una discriminante interna alle forze di maggioranza: nella Dc palermitana e siciliana, e in tutto il mondo politico, fecero scalpore le parole di Leoluca Orlando in risposta all’ipotesi di una sua candidatura al Parlamento europeo nel 1989. Il sindaco di Palermo replicò: «O me o Lima». Contrapposizioni così radicali e pubbliche non si erano mai viste dentro un partito avvezzo alle sfumature e alla mediazione... L. La stessa cosa accade a Catania con Enzo Bianco, un ex repubblicano che ritrova un’opinione pubblica, un mo131

do di presentarsi, un gruppo di forze a cui collegarsi. Ribadisco però che questa dialettica, lo spappolarsi del fronte di governo, si traduce contemporaneamente – e paradossalmente – in una decadenza del Pci. S. Proprio mentre il discorso dell’antimafia diventa elettoralmente redditizio... L. Già. L’antimafia vera o presunta, fatta o proclamata, comincia a diventare pagante. Ma nessuno dei partiti è attrezzato per inoltrarsi su questa strada. Le fortune di Orlando passano dalla costruzione della Rete, un «antipartito» che anticipa di poco la svolta del 1993. Si verifica un fenomeno senza precedenti: non solo si chiede alla società civile di sostenere lo Stato, ma segmenti di istituzioni a lungo considerati come la faccia più cattiva dello Stato «separato» – polizia, carabinieri e magistratura penale – si trasformano in campioni della società civile. Il paragone con gli Stati Uniti stavolta non vale, perché in America quelle istituzioni sono elettive. Siamo davanti a un corto circuito concettuale decisamente originale. S. Possiamo dire che in questi anni a Palermo si struttura il concetto del «partito dei giudici»? L. Sì, è così. C’erano dei precedenti, come i pretori d’assalto degli anni Settanta. Ma a Palermo, attraverso l’impegno di alcuni e (purtroppo) il martirio di altri, l’idea del partito dei giudici prende forma. Nasce dalla sorpresa che, in un’Italia senza senso della patria e dello Stato, ci siano funzionari disposti a morire per il loro dovere, per questa patria e per questo Stato. A ogni funerale, a ogni commemorazione prende forma l’idea di per sé contraddittoria dei magistrati come rivoluzionari, in quanto portatori di legalità. L’immagine abbozzata a Palermo avrà presto il suo corrispettivo milanese con Tangentopoli: Giovanni Falcone e Antonio Di Pietro ne divengono i simboli. 132

S. Un’istanza di legalità che segna pure il mondo cattolico, per certi versi perfino il clero, se ricordiamo l’omelia dell’arcivescovo di Palermo Salvatore Pappalardo alle esequie di Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie e il loro autista: «Mentre Sagunto viene espugnata, a Roma si discute...». Un atto d’accusa nei confronti della politica dello Stato che appare inerme di fronte ai massacri di Palermo. L. Un pezzo di mondo cattolico è parte integrante o prevalente di questo movimento antimafia. D’altronde era già successo, e su più larga scala, nel ’68. Ma distinguerei i movimenti cattolici dalla gerarchia ecclesiastica. Il cardinale Pappalardo è lo stesso che aveva censurato alcuni preti palermitani per le loro posizioni politicamente eterodosse. La gerarchia, con l’omelia su Sagunto, arriva buon ultima all’appuntamento con l’antimafia dei cattolici. E il clero nel suo complesso? Non possiamo pensarlo unitamente schierato su una linea antimafia, nemmeno dopo l’anatema contro i mafiosi lanciato da Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993. D’altronde tutt’oggi – lo ha documentato un libro importante di Alessandra Dino – molti sacerdoti stanno ben attenti a evitare contrapposizioni con la mafia e con i mafiosi. S. Ma in definitiva possiamo dire che si forma all’inizio degli anni Ottanta un modello di antimafia che sopravvive ancora oggi? L. Si può dire proprio così: sopravvive – e anche stentatamente. Piuttosto è la mafia a essere diversa da com’era allora.

Capitolo 9

I PROFESSIONISTI DELL’ANTIMAFIA

GAETANO SAVATTERI Nel clima arroventato di una Sicilia e di un’Italia intera scosse dagli omicidi eclatanti e dalla nascente strutturazione della nuova antimafia, stona la voce dissonante di Leonardo Sciascia. Su «L’Espresso» del 20 febbraio 1983, appena sei mesi dopo il delitto, chiamato in causa da un intervento di Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale ucciso, Sciascia scrive che il prefetto di Palermo non aveva capito «la mafia nella sua trasformazione in ‘multinazionale del crimine’, in un certo senso omologabile al terrorismo e senza più regole di convivenza e connivenza col potere statale e col costume, la tradizione e il modo di essere dei siciliani». Un articolo duro fin dal titolo: «Anche i generali sbagliano». E destinato ad aprire una furiosa polemica. SALVATORE LUPO La storia non è fatta di conflitti tra moralità e immoralità, tra bene e male. Semmai, esistono scontri di interessi e di idee. Sciascia lo sapeva e lo diceva. Si mostrava un vero epigono della più grande tradizione culturale siciliana dei Verga, dei De Roberto, dei Pirandello, dei Mosca, quando si mostrava sospettoso verso chi si riempie la bocca di «questioni morali». Ripartiva da quello che era un punto fermo tradizionale per la cultura di sinistra: la repressione statale finisce per colpire solo i deboli e gli oppositori, l’idea del reato collettivo nasconde intenti liberticidi. Sulla linea di uno slogan molto diffuso 134

a sinistra negli anni precedenti, non voleva che la repressione della mafia seguisse il metodo del prefetto Mori: accuse pretestuose di associazione a delinquere, confino di polizia, condanne di innocenti o anche colpevoli con false prove. Il generale Dalla Chiesa arrivò a Palermo con poteri eccezionali (veri o presunti che fossero), forte dei suoi successi contro i terroristi, ma tra mille polemiche riguardanti appunto i suoi metodi. A Sciascia sembrò di vivere un déjà vu. Anche il clima politico gli ricordava il fascismo. Si era appena allontanato dal Pci criticando aspramente l’ipotesi del compromesso storico, che considerava come l’anticamera di un nuovo regime: al pari, d’altronde, di tanti altri intellettuali collocati in una vasta area nella quale si affollavano conservatori di ogni genere, socialdemocratici, socialisti craxiani e non, radicali, extraparlamentari di sinistra. S. Lo scontro tra Sciascia e il Pci risaliva ad alcuni anni prima, già al tempo dei primi processi alle Brigate Rosse. La sua posizione venne riassunta nello slogan: né con lo Stato né con le Br. E dal Pci fu fortemente criticata... L. I cittadini nominati al ruolo di giurato al processo di Torino alle Brigate Rosse non avevano voluto assumere l’incarico, e Sciascia aveva sostenuto che non li si poteva criticare, perché non era giusto difendere quello Stato. Giorgio Amendola replicò duramente. Non si doveva cedere, disse, e non era ammissibile «l’apologia della viltà». S. Torniamo a Dalla Chiesa. Nemmeno la sua tragica morte pose fine alle polemiche. L. Già. Sciascia tenne la sua posizione anche dopo l’omicidio, con un amor di coerenza che non dava spazio alla pietas che in genere fa seguito a tragedie di quel tipo. A quel punto il figlio del generale, Nando Dalla Chiesa (un sociologo con un passato di estrema sinistra), gli diede in 135

sostanza del colluso. Sciascia non ebbe ritegno a insultarlo sul cadavere ancora caldo del padre. La polemica fu pesante e sconveniente da entrambe le parti. Ognuno evidentemente pensava di avere «tutte» le ragioni, di non poterne concedere alcuna all’altro. S. Il fronte garantista si presentava agguerrito, capace di cavalcare le paure e le preoccupazioni di molta gente... L. Le paure a Palermo erano – e sono – tante. Il garantismo vecchio e nuovo di sinistra venne a saldarsi con quello degli avvocati e dei giuristi palermitani, con i timori di una classe dirigente nazionale e locale, per un pentolone ribollente che stava per essere scoperchiato. Tutta questa gente assunse Sciascia a suo eroe. Non so dirti quanto e se lui lo gradisse. S. Al palazzo di giustizia di Palermo intanto si era costituito il pool antimafia, motore delle indagini che avrebbero portato al maxiprocesso. Ma uno spettro aleggiava su Palermo: quello del maxiprocesso contro la camorra di Napoli, segnato dal clamoroso errore giudiziario che aveva portato all’arresto di Enzo Tortora. L. È vero. Il martirio di Tortora, chiamato in causa da presunti pentiti, fu agitato come una bandiera dai garantisti. I radicali, con i libri di Mauro Mellini e di Lino Jannuzzi, partirono da qui per l’attacco al pool antimafia di Palermo, al maxiprocesso, alla credibilità di Buscetta. Dietro c’erano gli intellettuali francesi e i loro appelli contro la repressione, i vari terroristi rifugiati a Parigi pronti a gridare al nuovo fascismo italiano, le polemiche sul delitto Moro, l’enfasi sulle colpe non delle Brigate Rosse, ma del Pci e della Dc. Era stato detto che Toni Negri era vittima di un indimostrabile «teorema» accusatorio. Qualcuno provò a rifare la stessa operazione con Riina e soci. 136

S.

Tu che ne pensi?

L. Che Sciascia poteva scegliersi meglio i compagni di strada. S. Erano però legittime le preoccupazioni che il maxiprocesso si potesse risolvere in un procedimento «monstre», nel quale i diritti dei singoli imputati potessero venire calpestati... L. Le preoccupazioni potevano all’inizio apparire fondate; sta di fatto che al termine del processo lo stesso Sciascia riconobbe che la sentenza di condanna era basata sui fatti, non sul cosiddetto «teorema Buscetta». S. Nel pieno del maxiprocesso, il 10 gennaio 1987, il «Corriere della Sera» pubblica un articolo di Sciascia con il titolo «I professionisti dell’antimafia». Diventerà il cuore di uno scontro politico di inaudita violenza. L. Proviamo ad analizzarlo, questo celebre articolo. Si apre con una excusatio non petita, in cui Sciascia elenca i suoi meriti di analista e di avversario della mafia. Prosegue con la recensione al libro di Christopher Duggan su La mafia durante il fascismo. Abbiamo detto che Sciascia era ossessionato dal fantasma di Mori. Duggan aggiungeva un altro tassello alle tradizionali critiche contro il prefetto: non solo Mori si era valso dell’accusa di mafia per stroncare l’opposizione antifascista, ma anche per una lotta interna al fascismo stesso, per fare fuori alcune fazioni e promuoverne altre. Operazioni di questa natura, precisò Sciascia, puzzavano di totalitarismo, quand’anche fossero realizzate in regime cosiddetto democratico, «retorica aiutando e spirito critico mancando». Potevano ben riprodursi nel tempo presente. S. L’articolo entra nel vivo, quando prende di mira il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e il giudice Paolo Borsellino... 137

L. Certamente Sciascia riteneva Orlando il massimo interprete di una strumentale retorica antimafia, e lo lasciò intendere nell’articolo. Peraltro, curiosamente, non citò espressamente il suo nome. Citò invece quello di Borsellino, descrivendolo come un altro esempio dell’uso strumentale dell’antimafia: aveva ottenuto la carica di procuratore di Marsala, scrisse, facendosi forte dei titoli derivanti dalle sue inchieste su Cosa Nostra, a scapito dei titoli di anzianità del suo concorrente. In cauda venenum: l’attacco a Borsellino era spropositato. Se per un politico fare professionismo dell’antimafia può essere discutibile, per un magistrato lo specialismo nel campo è un titolo valido, non certo un demerito. S. Credevo allora e lo credo tuttora che l’attacco di Sciascia a Borsellino fosse sbagliato e nei suoi effetti sconcertante... L. Ma il testo è tutto sconcertante, nella sua stessa composizione. Sembra derivi dalla sovrapposizione di parti scritte con «mano» diversa e con diverse finalità. Aggiungo che la parte finale finisce per sminuire il valore di fondo del discorso, che posso così riassumere: anche l’antimafia è mossa da interessi, e la sua aspirazione alla riforma morale non ne deve nascondere l’intenzione politica. Ovviamente ciò non vuol dire che questo modo di far politica sia illecito, o peggio strutturalmente totalitario. L’appello al realismo interpretativo potrebbe essere ribaltato contro Sciascia. Gli Stati Uniti sono un paese sicuramente democratico, nel quale ci sono stati molti movimenti intesi a combattere la criminalità organizzata e la corruzione politica insieme; e nello stesso tempo a proporre se stessi come politica «nuova», riformatrice, moralizzatrice. S. La reazione all’articolo di Sciascia sarà violentissima, lo scrittore sarà tacciato di essere un «quaquaraquà», definizione che lui stesso aveva coniato nel romanzo «Il giorno della civetta»... 138

L. Ironia della sorte. Col suo testo esagerato, reticente e fuorviante, Sciascia si era messo in una posizione debolissima. Immagino sia stato in qualche modo contento del comunicato del Coordinamento antimafia, che lo additò come traditore e complice della mafia, decretandone addirittura l’espulsione dalla società civile. Questo concetto era sì indicativo di una mentalità protototalitaria. Nessuno, per definizione, può decidere dell’appartenenza altrui alla società civile. Mascherandosi da società civile, l’antimafia rifiutava di pensarsi come una parte politica, e dunque di ammettere la liceità di posizioni diverse dalla sua. S. Erano anni e ambienti in cui circolava la frase, tratta da un libro di Friedrich Dürrenmatt, «il sospetto è l’anticamera della verità». L. Sul fronte antimafia erano schierati ex sessantottini, gesuiti, giovanotti esagitati, scolaresche plaudenti a elevati sermoni di poliziotti, magistrati, prefetti. C’era in larga maggioranza gente coraggiosa e perbene, e pazienza se qualcuno, dopo quegli inizi, si lasciò andare a sconcertanti trasformismi: penso a Carmine Mancuso, Cristina Matranga o padre Pintacuda, che hanno cominciato da orlandiani e sono finiti berlusconiani. Spirito liberale ce n’era poco. E c’era una concezione ingenua dell’impegno civile, da cui Sciascia era lontanissimo: spiegò che non voleva essere arruolato nel loro fronte, perché non voleva essere arruolato in alcun fronte preconfezionato, perché non voleva sentirsi di nuovo negli anni Cinquanta. S. L’effetto dell’articolo di Sciascia non si esaurì, ma anzi ebbe lunga durata, travalicando perfino la morte dello scrittore. Nonostante tra Sciascia e Borsellino ci fosse stata una riconciliazione sul piano personale («In realtà scontro tra me e Sciascia non ve ne fu», puntualizzò Borsellino, intervenendo nel luglio 1991 a un convegno pubblico a Racalmuto), dopo la strage di Capaci, nell’estate tragica del 1992, 139

Paolo Borsellino disse pubblicamente che la morte di Falcone era cominciata con l’articolo di Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Parole ultimative e testamentarie, perché Borsellino fu trucidato un mese dopo questo suo discorso. Parole che lasciarono il segno... L. Tra Sciascia e Borsellino ci fu ben altro che un’incomprensione. Attaccando un magistrato valoroso (anche a prescindere dalla sua fine eroica), Sciascia fece una scelta difficilmente giustificabile. Diverso è il discorso, se ci riferiamo agli aspetti più generali della polemica sull’antimafia: laddove le posizioni delle parti si giustificano nel contesto del tempo e ci spiegano il contesto del tempo. Il conflitto è il sale della storia. Evitiamo di ridurre il passato a una glassa caramellosa.

Capitolo 10

LE VERITÀ DI BUSCETTA

GAETANO SAVATTERI Il pensiero garantista prende di mira i collaboratori di giustizia, sbrigativamente definiti pentiti. E tra loro il più importante, cioè Tommaso Buscetta. Eppure don Masino non è il primo uomo d’onore che si rivolge all’autorità giudiziaria: prima di lui c’era stato Leonardo Vitale, non a caso assassinato nel 1984, proprio quando si diffonde la notizia della «cantata» di Buscetta, e cinquant’anni prima aveva parlato con la polizia il dottor Melchiorre Allegra, medico e mafioso di Castelvetrano. Nonostante questi precedenti, i critici sostengono che un mafioso non possa essere pentito e che se è pentito allora non è mafioso... SALVATORE LUPO Fu il radicale Mauro Mellini, nel libro che ho già evocato, a sostenere che può collaborare con le autorità il membro di un gruppo politico, mentre un pentito di Cosa Nostra non può esistere per definizione, essendo la mafia un compatto sistema subculturale e non un’organizzazione. Siamo al solito discorso depistante, insomma. Tra l’altro, sappiamo bene che (in barba alla presunta etica antistatale!) era sempre accaduto che i mafiosi parlassero con l’autorità; però riservatamente, nel chiuso dei commissariati. Se si voleva portare lo scambio nello spazio del processo penale, se lo si considerava plausibile dal punto di vista etico, bisognava inserire nella legislazione italiana meccanismi che lo rendessero realizza141

bile – come da sempre avveniva, ad esempio, in quella americana. S. Tommaso Buscetta aveva una grandissima forza narrativa: il suo racconto dei sotterranei di Cosa Nostra ha una coerenza interna, una chiarezza espositiva e una capacità seduttiva che hanno colpito gli stessi magistrati. È possibile che gli inquirenti siano rimasti stregati da Buscetta? L. È certo, anzi: la sua testimonianza apre squarci senza precedenti su quei sotterranei. Come tu dici, va riconosciuta a Buscetta una grande capacità di racconto: si capisce che ha molto riflettuto sul senso delle cose che dice, sui concetti base, sul modo di proporre la mitologia mafiosa. Lo ha fatto dall’interno, ma anche guardando le cose un po’ dall’esterno: parliamo del figlio di un vetraio, non del rampollo di una dinastia mafiosa delle borgate palermitane come i Greco o i Bontate. S. Buscetta parla spesso del suo carisma, per spiegare le ragioni che lo mettevano al centro delle vicende di Cosa Nostra, pur non essendone mai stato un capo. È verosimile? L. Buscetta era un personaggio carismatico, è vero, come dimostrano fatti indiscutibili. Mai però fornì spiegazioni soddisfacenti di questo suo carisma, almeno a noi che siamo inclini a legare questo concetto non a qualità misteriosamente intrinseche della personalità, ma a relazioni di potere, materiale o morale, comunque razionalmente spiegabile. Ora, secondo la sua stessa testimonianza, Buscetta non avrebbe mai ricoperto cariche in Cosa Nostra; non avrebbe mai guidato «gruppi di fuoco» o ordinato omicidi; non avrebbe mai avuto un ruolo in traffici particolarmente fruttuosi, come quello della droga. Aggiungo che di sicuro egli passò la parte maggiore della sua vita da adulto lontano da Palermo e dalla Sicilia; tra l’altro nelle due Americhe dove, sempre a suo dire, non avrebbe partecipato ad attività criminali. Come vedi non ci siamo. I conti non tornano. 142

S. Donne, figli da mogli diverse, viaggi all’estero, abbigliamento vistoso, lunghe permanenze nelle Americhe restituiscono il profilo di un mafioso anomalo. E anomala per certi versi è la sua carriera mafiosa... L. Buscetta comincia i suoi viaggi piuttosto giovane, passando lunghi periodi in Argentina e in Brasile. Lo ritroviamo poi affiliato del gruppo palermitano La Barbera; che però nella sua attività di contrabbandiere di tabacchi si muove continuamente in Italia e all’estero. Quando i La Barbera perdono la prima guerra di mafia, Buscetta, ricercato dalla polizia, si sposta prima in Messico, poi negli Stati Uniti. È più o meno a questo punto che la stampa gli assegna un soprannome: il boss dei due mondi. A New York, checché ne dica, si occupa di commercio di droga. Viene contattato e finanziato dai Gambino, gruppo dirigente della Cosa Nostra americana, ed entra a far parte di un nucleo composito di emigrati di ultima generazione siciliana – chiamati dagli americani zips, non si sa bene perché. Gli zips forniscono l’eroina ai Gambino e anche alla vecchia famiglia castellammarese di Joe Bonanno, il cui boss in carica – Carmine Galante – viene clamorosamente assassinato. S. Quali sono, oltre a Buscetta, i siciliani più direttamente coinvolti sul versante americano? L. A New York ci sono il giovane Salvatore Inzerillo e una famiglia di palermitani di nome Gambino, che si spacciano per nipoti del superboss Carlo Gambino e forse gli sono parenti, ma alla lontana; fanno parte dell’entourage del banchiere Michele Sindona. Anche Tano Badalamenti, boss di Cinisi, ex pezzo grosso di Cosa Nostra siciliana, fratello di un importante esponente della mafia di Detroit, lavora nel ramo. I Caruana-Cuntrera di Siculiana agiscono tra Montreal e il Venezuela, dove si è rifugiato il vecchio Salvatore Greco Cicchiteddu, che immaginiamo non abbia rinunciato alle antiche attività. Sono convinto – e tutto spinge verso 143

questa spiegazione – che il presunto carisma di Buscetta tra i palermitani derivi dall’essere rappresentante dei potentati di oltreoceano e dal ruolo cruciale da lui svolto nei traffici di droga. Per gli americani è ambasciatore dei siciliani, e viceversa. Possiamo parlare di una terza mafia, né americana né siciliana, ma siculo-americana. S. Se diamo per buona la tua spiegazione, quale sarebbe il ruolo della terza mafia? L. Gli americani chiedono alla terza mafia di trattare con i siciliani le spedizioni di droga, e di occuparsi delle importazioni. Si guardano bene dallo svolgere loro, direttamente, queste attività. Negli Stati Uniti, le polizie locali sono tolleranti con il gioco d’azzardo e con il racket, ma il traffico di stupefacenti ricade nella competenza di agenzie federali, Dea e Fbi, i cui agenti sono assai meno accomodanti. Anche le pene previste per questi reati sono molto pesanti. Per gli americani, la terza mafia rappresenta una specie di esternalizzazione del rischio. S. Di Buscetta, il fratello di Totò Riina diceva con disprezzo: «Ha visto il mondo e gli è scoppiato il cervello». In realtà, lo sguardo di don Masino sembra un po’ esterno al mondo della mafia palermitana, anche se lui si considera l’interprete autentico dello spirito mafioso... L. Questo fa di sicuro parte del suo cosiddetto carisma. Ha visto il grande mondo e se ne fa rappresentante nel piccolo mondo natio. S. Falcone dice che Buscetta fornì il codice per decifrare una lingua sconosciuta... L. È certamente così. Precedenti testimoni come Joe Valachi o ancor prima il dottor Melchiorre Allegra si difendevano dicendo di essersi ritrovati per caso nella mafia, descrivevano i mafiosi come gente strana, rispetto alla qua144

le erano rimasti sempre estranei. Buscetta invece dice: io sono più mafioso di loro, sono più vero di loro. Io posso interpretare questa cosa per voi. S. A premessa delle sue dichiarazioni, sostiene perfino di non essere un pentito... L. Non è una novità. Simile discorso faceva Nick Gentile nel suo libro di memorie curato con Felice Chilanti agli inizi degli anni Sessanta. Simile discorso fa Joe Bonanno nel suo libro di inizio anni Ottanta. Buscetta racconta la mafia nel suo complesso come se scrivesse un libro, e vi colloca i personaggi: Salvatore Greco Cicchiteddu, capo abilissimo e suo grande amico; Stefano Bontate, altro mafioso di rango ma purtroppo un po’ troppo fine, destinato alla sconfitta; Salvatore Inzerillo, ragazzotto presuntuoso; Totò Riina, il più cattivo tra i cattivi, negazione vivente del modello dell’antico mafioso. S. Buscetta però un libro lo scrive veramente, con Pino Arlacchi. Nell’introduzione al testo di «Addio Cosa Nostra», il sociologo calabrese ammette a distanza di molti anni di avere sbagliato quando affermava che la mafia non aveva una struttura piramidale. L. Nessuno saprà mai che cosa in questo libro sia attribuibile al sociologo e cosa propriamente al pentito. Siamo al solito disprezzo per la filologia, al disinteresse per la critica delle fonti, che affligge la mafiologia. La contraddizione tra la teoria di Arlacchi e le rivelazioni di Buscetta è in effetti clamorosa. Ma non basta dire: avevo sbagliato. Prendiamo comunque atto che da allora Arlacchi ha rinunciato a scrivere testi di tipo, diciamo così, scientifico sul tema. S. La ricostruzione di Buscetta rischia di farci cadere nell’idolatria della Cupola mafiosa: tutto dentro la Cupola, nulla fuori dalle decisioni della Cupola. Non siamo di fronte all’eccesso di verticalizzazione? 145

L. C’è una forzatura, che però non è tutta riconducibile alla testimonianza di Buscetta. Quando Buscetta spiega il funzionamento del narcotraffico o del contrabbando, dice comunque esplicitamente che ad agire sul mercato sono i singoli mafiosi, non le famiglie e tanto meno la Cupola. I mafiosi hanno una sorta di diritto di prelazione: possono, se vogliono, partecipare al traffico con una propria quota, con propri soldi e a proprio rischio. S. Non esiste dunque la cassaforte della mafia, ma il denaro di ciascun mafioso. Non esiste pertanto nemmeno il cassiere della mafia, così come era stato ribattezzato Pippo Calò... L. Di Calò Buscetta dice: «Se era cassiere, lo era della sua cassa». Queste sue precisazioni non sono state recepite, perché sono state come schiacciate dalla descrizione di una struttura compattissima, armata di regole inviolabili, fatta da Buscetta con uno stile che potrei dire quasi di formalismo giuridico. Però il suo racconto di singole transazioni, dei rapporti tra persone, affari e interessi, contraddice di continuo quest’immagine piramidale. S. Basta citare la regola pomposamente enunciata che ciascun uomo d’onore deve dire la verità, mentre le cronache sono fitte di bugie, tradimenti e inganni. L. Lo stesso Buscetta mostra che non è vero che i mafiosi dicano sempre la verità. Anzi, potrebbe dirsi, dimostra suo malgrado che nessuno mai dice la verità. S. Il formalismo di Buscetta, come lo definisci tu, dà corpo alla definizione di Antistato: la mafia ha popolo, territorio e sovranità. Esattamente come lo Stato. L. La mafia, replicherebbe Romano, è un ordinamento giuridico minore. Però aspira a essere maggiore, cioè statale, ed è così che si racconta al suo popolo; ed è così che ce la racconta Buscetta. Qualcuno ha scritto: la mafia pre146

tende di portare l’ordine, la mafia è disordine, quindi la mafia non esiste. È come se dicessimo: siccome ci sono i colpi di Stato, lo Stato non esiste. La mafia è una velleità di Stato, è una caricatura di Stato. S.

Ma Buscetta non sempre dice la verità...

L. Si arrampica sugli specchi per farci credere che il narcotraffico sia il peccato originale dei suoi nemici corleonesi, da cui i suoi amici sarebbero mondi. Fa scendere una fitta censura sul ruolo degli americani e della terza mafia. Mente sistematicamente ogni qual volta parla di se stesso. Non spiega perché gli esattori Nino e Ignazio Salvo facciano ricorso a lui, né perché venga temuto così tanto dai corleonesi, né le ragioni dell’uccisione dei suoi figli e parenti. Non spiega perché il boss Saro Riccobono, alleato dei corleonesi, non riuscì a ottenere la sua testa, nonostante avesse telefonato agli Inzerillo d’America con una proposta: vi salviamo tutti, se ci consegnate Buscetta. Perché tutti si interessavano a lui, per chiedergli aiuto o per farlo fuori? S. Perché era il «trait d’union» tra siciliani e americani nel traffico della droga? L. Certo: un canale che i corleonesi volevano controllare o eliminare. La ricostruzione di Buscetta è invece utilissima nel raccontare l’ascesa dei corleonesi. A volte esagera, ma riusciamo a capirlo dalle sue stesse parole: i fatti che raccontano valgono a correggere lo schema. Questa è una virtù delle grandi testimonianze. S. Perché Falcone e il pool antimafia accettano le verità di Buscetta senza infierire? L. Lo dice Falcone stesso: perché fornisce l’alfabeto, la grammatica e la sintassi della mafia. Perché apre le porte dell’enorme edificio sotterraneo, pur occultando alcune delle sue stanze. 147

Capitolo 11

DAI VELENI ALLE STRAGI

GAETANO SAVATTERI Il maxiprocesso seleziona un gruppo eccezionale di inquirenti e investigatori. Eppure subito dopo la sentenza, un grande successo per la giustizia, si apre la lunga stagione dei veleni a palazzo di giustizia. Perché la conclusione del maxiprocesso segna l’inizio del declino e dello smantellamento del pool? SALVATORE LUPO Potrei rispondere: perché il successo era stato grande, ma l’avversario era tutt’altro che battuto. Intendiamoci però: per avversario non intendo solo Cosa Nostra, ma quell’insieme di pratiche giudiziarie, e i loro concreti interpreti, che i successi del pool rischiavano prima di stravolgere e poi di travolgere. La lotta delle fazioni dentro la magistratura aveva avuto d’altronde momenti esplosivi anche prima del maxiprocesso, e continuò per il controllo delle cariche, degli uffici, dei dossier investigativi. Bisogna poi considerare che la logica dell’antimafia giudiziaria non necessariamente coincide con quella dell’antimafia politica. Leoluca Orlando accusò Falcone e compagni di tenere chiuse nei cassetti le inchieste sui delitti politici (Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa). Stando a Saverio Lodato, Falcone replicò: «Orlando ha bisogno di tenere sempre alta la tensione». Sembra una frase di Sciascia. In effetti, l’antimafia politica ha bisogno di rilanciare sempre, fino a un’ipotetica rivoluzione che naturalmente 148

non si verifica mai. Falcone invece aveva bisogno di chiudere le indagini, di far condannare gli imputati e di arrivare a sentenze definitive. Accordandosi con Claudio Martelli, ministro della Giustizia e vicesegretario di quel Psi già protagonista della battaglia garantista, trovò un alleato solido che, sperava, gli avrebbe consentito di portare a casa il risultato. S. Ma il Psi di Martelli era il partito che nelle elezioni politiche del 1987 aveva raccolto molti consensi tra gli uomini di Cosa Nostra, decisi a lanciare un segnale di diffida alla Dc... L. Proprio per questo Falcone fece un’operazione adeguata. Allearsi con il Psi significava dividere lo schieramento avversario, impedire la creazione di un fronte ipergarantista e concedere a una parte politica di godere dei successi contro la mafia. Significava anche muoversi in una logica istituzionale, bada: Martelli era il ministro della Giustizia. S. Oltre che con gli avversari politici, Falcone doveva fare i conti con le resistenze interne alla magistratura... L. Sì, e te lo confermo: qui non dobbiamo leggere ogni polemica come un conflitto tra i nemici e gli amici della mafia. Il fronte che si opponeva a Falcone si configurava come un vasto schieramento conservatore, con qualche sponda a sinistra in una Magistratura democratica restia ad abbandonare equilibri e strategie tradizionali. S. Dopo il maxiprocesso, la vicenda di Falcone è un susseguirsi di fallimenti e frustrazioni: la bocciatura a capo dell’ufficio istruzione, la mancata elezione al Consiglio superiore della magistratura, l’emarginazione dentro la Procura di Palermo. L. Emerge sempre comunque la straordinaria lucidità di quest’uomo: non si faceva mai mettere nell’angolo. Abilità 149

ma anche senso dello Stato, se vogliamo usare questo termine. Mi affascina molto la sintonia tra Falcone e Borsellino, l’uomo di sinistra e l’uomo di destra. Molti invece ne sono infastiditi. S. La scelta di Falcone di accettare l’incarico di direttore degli Affari penali nel ministero guidato da Martelli destò delusioni e irritazioni nel movimento antimafia... L. Però solo chi non capisce niente di politica può pensare che il sostegno di Martelli andasse sdegnosamente respinto. Aveva un interesse politico? Certo, il vero successo era proprio fargli capire che la sconfitta della mafia poteva essere una buona cosa per il suo paese, per il suo partito, per la sua fazione, per lui personalmente. S. Ricordo Alfredo Galasso, eletto nel Pci e in seguito esponente della Rete di Leoluca Orlando, che in televisione rivolse un invito accorato a Falcone: «Giovanni, non mi piace che vai con Martelli». L. Ma per quale ragione Falcone avrebbe dovuto preferire la compagnia di Galasso a quella di Martelli? Ancora una volta: questa vicenda non può essere ridotta a una lotta dei buoni contro i cattivi. S. L’antimafia a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta sembra ormai patrimonio della sinistra movimentista: la Rete, sindaci come Orlando a Palermo e Bianco a Catania, testate giornalistiche di sinistra. Un mondo molto fluido, ma ben ramificato e presente in tutta Italia. L. Questo mondo ancora esiste, è uno spazio etico-politico (tutt’altro che minore) oggi rappresentato dall’Italia dei valori. Da Palermo passò qualcosa di molto importante per la storia italiana, come si sarebbe visto nel 1993, al passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. 150

S. Il 12 marzo 1992 viene ammazzato l’eurodeputato Salvo Lima, da sempre indicato come l’interlocutore di Cosa Nostra. Due mesi dopo, la strage di Capaci e il 19 luglio l’autobomba in via D’Amelio. Sembra che i corleonesi stiano vincendo la battaglia contro lo Stato, incapace di proteggere Falcone e Borsellino, i suoi uomini migliori e più esposti. L. Veramente i corleonesi stanno perdendo. Quando comincia a prendere forma la linea moderata di Provenzano, in opposizione a quella estremista di Riina? Forse in questo periodo. Non so cosa verrà fuori dalle indagini sul cosiddetto «papello» scritto nell’estate del 1992. L’unica cosa certa è che le richieste della mafia allo «Stato» (qui mettiamo le virgolette, perché in realtà usando questa parola così grossa ci riferiamo a una qualche frazione annidata in qualche istituzione, composta da funzionari o uomini politici) in esso contenute non sono state mai accolte. Questo vorrà pur dire qualcosa. L’Italia si scandalizza per l’esistenza di un «papello», cioè per l’ipotesi che Riina abbia cercato di intavolare una trattativa con qualche pubblico funzionario, ma non si accorge quanto l’episodio indichi la rottura di rapporti tra mafia e Stato, che in passato erano stati ben altrimenti stabili, pervasivi, micidiali. Quel «papello», in realtà, è l’ultima risorsa di chi ha ancora molto tritolo e molta capacità di fare male, ma non sa più con chi parlare. S.

Fino a poco tempo prima parlavano con Salvo Lima.

L. Ma lo ammazzano. Forse perché non riescono più a parlare nemmeno con Lima o forse perché Lima non può fare ormai niente per loro. S. La reazione statale alle stragi consisterà nel trasferimento dei boss detenuti nel penitenziario dell’isola di Pianosa e nel varo del carcere duro per i condannati per mafia, l’articolo 41bis del regolamento carcerario. 151

L. Certo, cos’altro ne poteva derivare? Se qualcuno pensò veramente che le stragi potessero aprire il terreno della trattativa, ebbene, si sbagliò. S. Possono esserci dei mandanti occulti, dei suggeritori politici dietro le stragi? L. Vediamo cosa accerteranno le indagini. Quel che temo è un continuo rilancio interpretativo, al termine del quale ci troveremo impaludati sul terreno delle ipotesi destinate a non assumere mai la consistenza della prova. Come antidoto, mi attacco ai miei remoti studi di logica, provo ad applicare il «rasoio di Occam». S. Vuoi dire il principio del filosofo Guglielmo di Occam per cui «a parità di fattori la spiegazione più semplice tende a essere quella esatta»? L. Proprio questo. Le stragi di Falcone e Borsellino si spiegano abbastanza bene nella logica corleonese, in una strategia più che decennale. Controproducente? Certo, si rivelò tale nei suoi esiti. Ci sono state accuse contro Marcello Dell’Utri, ma una recente sentenza ha escluso sue responsabilità. Staremo a vedere, ma io credo che anche in futuro questa linea investigativa non darà niente. Per ora, il punto deve essere un altro: non c’è bisogno di chiamare in causa nessuna trama occulta per spiegare la simpatia di alcuni mafiosi per il progetto di Forza Italia nel 1994. Indirizzarono i loro consensi verso la nuova offerta politica di area «moderata» come fecero tanti gruppi di interesse, e milioni di cittadini italiani. S. Il ragionamento che fanno alcuni settori dell’opinione pubblica e della magistratura è questo: la nascita di Forza Italia non è stata decisa dalla mafia, ma la mafia ha avuto 152

un peso determinante nella nascita di quel partito. È plausibile? L. Diciamo le cose come stanno. Molti (e tra loro, forse, qualcuno degli inquirenti) pensano la mafia come il soggetto che ha pianificato quell’operazione. Si sentono rassicurati respingendo il berlusconismo nel sottosuolo, molto lontano dalla loro idea «di sinistra» d’Italia. Invece parliamo di una nuova offerta di politica (e di anti-politica) nata in risposta a una formidabile domanda di opinione pubblica, al Nord come al Sud – nonché alle esigenze di pezzi della classe politica e del mondo degli affari. Per quale ragione dovremmo privilegiare un singolo soggetto occulto su soggetti palesi così numerosi, influenti, poderosi? Nella sostanza, questo voglio dire: non c’è nessun mistero da spiegare. S. Il pentito Gaspare Spatuzza e compagni raccontano una storia diversa. L. Si nutrono dell’idea della mafia come iper-potenza, e ancora una volta ce la trasmettono provando a farci ragionare con i loro strumenti interpretativi di boss e gregari: dovremmo stare insomma a quello che Graviano ha capito o ha ritenuto di far capire a Spatuzza, a quello che Ciancimino padre ha capito e ha ritenuto di far capire a Ciancimino figlio. S.

Insomma, non è vero niente?

L. Non direi proprio. Dell’Utri è stato condannato per associazione mafiosa anche in appello. Vittorio Mangano, boss di Cosa Nostra e personaggio chiave del riciclaggio dei profitti del narcotraffico su Milano, ha soggiornato a lungo in casa Berlusconi con mansioni che né Dell’Utri né Berlusconi hanno mai saputo spiegare. I due hanno poi definito Mangano un eroe. Su certi finanziamenti pio153

vuti in quegli anni sulle aziende berlusconiane, infine, il mistero è sempre stato e resta fitto. Non c’è da stupirsi che i capimafia messi pesantemente sotto pressione, di fronte ai danni provocati all’organizzazione della loro strategia stragista, abbiano detto ai gregari: sono nostri amici, li abbiamo nelle mani, avranno bisogno di noi, ci salveranno. Questo però non vuol dire che le cose siano andate (allora e poi) come dicevano, prevedevano o speravano. S. Le ultime dichiarazioni di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, attribuiscono però un ruolo determinante a soggetti dei servizi segreti che agli inizi degli anni Novanta avrebbero allacciato rapporti con Bernardo Provenzano per riuscire a catturare Riina. Secondo questa lettura, siamo di fronte a un’operazione in cui uomini dello Stato cercano di mettere i boss l’uno contro l’altro... L. Infatti. D’altronde avevamo pensato anche noi che per colpire una fazione si era deciso di salvarne un’altra. La mancata perquisizione nel covo di Riina era un segnale troppo evidente. Aggiungiamo che parliamo di un gioco antico e ben consolidato: come storici, sappiamo che non c’è mai stata mafia senza questo tipo di relazioni con gli apparati di sicurezza. S. Nelle bombe di via Fauro a Roma, negli attentati degli Uffizi a Firenze e nelle bombe di Milano e Roma del luglio 1993, Cosa Nostra mostra la sua carica terroristica pura. Sono gesti altamente simbolici, più congeniali a un gruppo eversivo che alla mafia... L. In effetti, per il tipo di obiettivi prescelti e la loro localizzazione «continentale», siamo davanti a un’ulteriore escalation. 154

S. Escludi che quegli attentati puntassero ad aprire un canale di dialogo con nuovi interlocutori politici? L. Francamente continuo a non vedere come mosse del genere potessero essere utili a quel presunto interlocutore. Se l’attentato all’Addaura, come disse Falcone, era opera di menti raffinatissime, l’attentato fallito all’Olimpico contro un autobus di carabinieri non poteva che essere il frutto di menti rozzissime. Parliamo di un nucleo militarista – von Clausewitz avrebbe detto che la guerra è una cosa troppo seria per farla fare ai generali – prigioniero di una coazione a ripetere, convinto che alzando sempre il tiro si potessero risolvere i problemi. Totò Riina era già in galera. Seguì l’arresto di altri corleonesi a piede libero, da Leoluca Bagarella a Giovanni Brusca. S.   Continui a privilegiare le logiche interne di Cosa Nostra, ma non possiamo certo escludere che ci siano stati suggerimenti e protezioni e consigli di «entità esterne», per usare la definizione del procuratore antimafia Piero Grasso... L.   Non possiamo escluderlo. Lascia però che esprima il mio fastidio per questo tipo di terminologia ormai dilagante sui media: nella sua voluta indeterminatezza, il termine entità mi fa pensare alla metafisica, piuttosto che alla scienza politica o a maggior ragione al diritto. Per non farci travolgere dalla retorica del «grande vecchio» che tutto sa e di tutti dispone, attacchiamoci al concreto. Ci si vuol riferire a persone, fazioni e gruppi occulti, annidati nell’ordinamento «maggiore» (lo Stato) o in quello «minore» (la mafia), adusi da gran tempo a trattare tra di loro. È importante che si sappia delle consultazioni tra il «signor Franco», Ciancimino e Provenzano. Non è però sufficiente; bisognerebbe sapere quali contenuti dessero, nella mutata congiuntura, alla pratica antica della reciproca protezione. Logiche interne? I soggetti attivi nello scambio tra sovramondo e sottomondo hanno più che altro lo155

giche relazionali: si offrono l’un l’altro servizi, forniscono e accettano consigli, accumulano crediti per il presente e per il futuro. Te lo ripeto: vedremo i risultati delle indagini. Allo stato delle mie conoscenze, continuo a ritenere la scelta terroristica dei primi anni Novanta come il frutto di una sorta di estrema coazione a ripetere, da attribuirsi in prima battuta a quanti su quella strategia avevano in passato più degli altri puntato, sino a farne una sorta di marchio di fabbrica: Riina e soci.

Capitolo 12

I PROCESSI AI POLITICI

GAETANO SAVATTERI Il 1993 si apre con l’arresto di Totò Riina proprio nel giorno in cui si insedia a capo della Procura di Palermo un magistrato valente come Gian Carlo Caselli. La sua gestione sarà segnata da alcuni processi a uomini politici accusati di associazione mafiosa: il più celebre e discusso è contro Giulio Andreotti. Viene definito il processo del secolo. La carriera dell’uomo politico più longevo e famoso d’Italia, per sette volte presidente del Consiglio, viene riletta sotto il profilo criminale. L’atto di rinvio a giudizio sarà pubblicato in volume, con il titolo «La vera storia d’Italia». Una storia raccontata sul versante dei rapporti tra la mafia e Andreotti. SALVATORE LUPO Il titolo del libro è veramente fuorviante: non si capisce perché questa dovrebbe essere la vera storia d’Italia. Certo, coinvolgendo Andreotti l’accusa chiama a rispondere di complicità con la mafia un pezzo importantissimo della classe dirigente italiana. Resta da capire quale sia il gioco delle parti tra questi due soggetti. È stato scritto nell’atto di accusa che Andreotti, baciando Riina, avrebbe riconosciuto la superiorità dell’Antistato mafioso sullo Stato. Andreotti è un cinico, potrebbe anche aver baciato chiunque, ma senza garantire niente a nessuno... Insomma, io non penso che Andreotti si sia subordinato a Cosa Nostra. Penso casomai che Cosa Nostra abbia 157

fatto parte, in una qualche posizione da definire, dell’andreottismo. S. Vuoi dire che i magistrati hanno sbagliato a processare Andreotti? L. No di certo. Avevano degli indizi validi e hanno fatto bene a procedere. Le esasperazioni interpretative di cui ho parlato non inficiano di per sé l’accusa. S. D’altra parte, la sentenza definitiva riconosce i rapporti intercorsi tra Andreotti e gli uomini d’onore fino al 1980, ritenendo però prescritto il reato, perché relativo a un periodo in cui non esisteva ancora la fattispecie penale dell’associazione mafiosa. I giudici assolvono invece il senatore a vita dall’accusa di associazione mafiosa per i suoi presunti rapporti con Cosa Nostra dal 1980 in poi... L. Guarda, io rispetto le sentenze, ma non ritengo che ogni ragionamento debba fermarsi davanti a esse, né quando condannano né quando assolvono. Il problema centrale è infatti storico-politico, non giudiziario: Andreotti si è appoggiato su uomini politici siciliani che a loro volta si appoggiavano su Cosa Nostra. Ogni studioso può ragionare su questo fatto indubitabile, ogni cittadino può trarne un suo giudizio. S. L’indagine prese avvio da una dichiarazione di Buscetta. Ancora una volta don Masino è la chiave di tutto... L. Buscetta racconta quanto gli ha raccontato Badalamenti e, come spesso fa, interpreta le voci interne di Cosa Nostra. Entro questi limiti, la sua testimonianza probabilmente è sincera. Il punto è un altro: i fatti dimostrano che i capi di Cosa Nostra non solo parlano, ma si comportano come se potessero influenzare Andreotti e si aspettassero da lui delle risposte. Direttamente? Attraverso Lima? Attraverso qualche altro canale? Non importa. Stefano Bon158

tate, che non è un imbecille, si aspetta da Andreotti un appoggio: bisogna capire il perché. S. Andreotti ha sempre negato di avere conosciuto uomini di Cosa Nostra. Ha perfino sostenuto di non conoscere i cugini Nino e Ignazio Salvo, potenti esattori siciliani e democristiani influenti, ancora prima che satelliti di Cosa Nostra. L. Se è per questo ha perfino sostenuto di non aver mai sentito il nome di Michele Greco, che pure era finito nelle prime pagine dei giornali quale capo della Commissione di Cosa Nostra. Dobbiamo pensare che Andreotti non leggesse i giornali? S. Credo che Andreotti parlasse al processo, ma non si rivolgesse ai giudici. Sapeva che qualunque sua ammissione, alla fine, sarebbe stata destinata a imprimersi nella memoria collettiva – infatti resisterà la sua dichiarazione sul «quieto vivere» tra mafia e Stato fino agli anni Ottanta. La strategia difensiva è stata pagante, se pensiamo che la maggior parte degli italiani è convinta che Andreotti sia stato assolto con formula piena... L. È vero. Avrebbe potuto fare piccole ammissioni che avrebbero reso più verosimile la sua difesa. Non lo ha fatto per un calcolo sottile di tipo politico. Sapeva che alla fine del processo sarebbero rimaste a suo carico solo le cose che lui stesso avesse ammesso. S. I processi ai politici si sono trascinati dietro discordanti valutazioni su nuove tipologie di reato come il voto di scambio e ancor più il concorso esterno in associazione mafiosa, fattispecie che da molti giuristi viene avvertita come un reato artificioso... L. La questione è complicata. Quando fu introdotto il reato di voto di scambio, pensai che ogni voto è di scam159

bio. In cambio dei voti si possono offrire beni e servizi illeciti, ovvero commettere scorrettezze, fare preferenze. Alcuni di questi scambi possono essere penalmente rilevanti, altri no. La politica non è il regno della moralità. Ecco perché la valutazione sulla moralità politica non può dipendere dal giudizio penale. Ammettiamo, senza concederlo, che Andreotti non sapesse degli intrallazzi mafiosi di Sindona e di Lima. Dopo che qualcun altro glieli aveva fatti scoprire (il generale Dalla Chiesa glielo aveva detto), avrebbe dovuto fare un gesto di pentimento e di rottura. Come direbbe Max Weber, quella del politico è l’etica della responsabilità e non delle buone intenzioni. Invece Andreotti è stato nominato senatore a vita e in seguito santificato. Continua a dire di non aver mai saputo niente dei mafiosi e dei protettori della mafia. S. Ma se Andreotti avesse fatto atto pubblico dei propri errori, se tali sono, cosa sarebbe successo? L. Sarebbe finita la sua carriera politica, avrebbe ammesso una macchia o più d’una sulla sua immagine, ma avrebbe consentito agli italiani di fare i conti con la storia. Poi avrebbe potuto aggiungere, stavolta in maniera credibile, che la storia della Dc e la storia d’Italia non si riducono ai rapporti con la mafia, che anzi ne rappresentano una parte molto minore. Che quando furono chiari gli effetti catastrofici di quella relazione, anche i democristiani presero posizione dalla parte giusta. Avrebbe poi potuto rivendicare, come fa, i suoi successi di politica interna ed estera. Ma non lo ha fatto. S. La santificazione di Andreotti, come la definisci tu, dimostra però che ha avuto ragione lui... L. Dimostra l’incredibile tolleranza degli italiani verso i vizi altrui e l’incredibile capacità dell’establishment politico, giornalistico ed ecclesiastico di agire come un tutt’uno, 160

di perdonare, perdonarsi e guardare avanti come se niente fosse. S. Qual è la somma conclusiva della tormentata stagione dei processi ai politici della procura di Caselli? L. Un saldo in concreto non te lo so dare. Traggo però dalle vicende una considerazione generale. Non tutte le mille cointeressenze politiche e affaristiche attorno alla mafia possono avere una definizione penale. Il problema tecnico e sostanziale del concorso esterno in associazione mafiosa è questo qua. L’assoluzione di molti non deve essere motivo di scandalo: anche perché un politico assolto non ha con questo dimostrato di aver tenuto comportamenti onesti e specchiati. S. Caselli si è spesso difeso sostenendo che la valutazione sui politici imputati per mafia è stata resa difficile dalla loro influenza e possibilità di difendersi con ogni sistema, anche fuori dal processo... L. Può darsi. Resta il fatto che un processo politico di questa natura sia di per sé esposto a strumentalizzazioni e montature. Dunque, non è forse sbagliato che la prova debba essere più solida di quanto avviene in processi di altra natura. S. Più solida o più sofisticata. A Gian Carlo Caselli succede Piero Grasso: la sua procura mette sotto processo il presidente della Regione Salvatore Cuffaro, ma usa un calibro d’accusa minore rispetto all’associazione mafiosa, incriminandolo per favoreggiamento. Il processo si conclude in primo grado con la condanna di Cuffaro e le sue conseguenti dimissioni da governatore. Paradossalmente, abbassando il tiro si colpisce meglio il bersaglio? L. Forse sì. D’altronde Cuffaro è stato condannato anche in appello. 161

S. Eppure la scelta di imputare il favoreggiamento a Cuffaro, oltre ad altre decisioni investigative, ha riacutizzato gli scontri dentro la Procura di Palermo, tra i magistrati cosiddetti «caselliani» e quelli più vicini a Grasso, con terribili accuse reciproche. È possibile che non possa esserci un fronte antimafia unito, nemmeno dentro l’avanguardia più avanzata della Procura di Palermo? L. Non solo è possibile, ma è sempre andata così. Noi che ovviamente siamo stati ammiratori di Falcone e Borsellino pensiamo agli scontri di fazione che li hanno visti protagonisti come alla lotta tra i buoni e i cattivi, tra gli avversari della mafia e i suoi complici. Come già abbiamo detto, le cose non stanno proprio così. C’è in questi apparati un conflitto fazionario che ha motivazioni autonome, come quello secolare tra carabinieri e polizia. Comunque le ragioni di merito erano percepibili negli anni Ottanta, quando veramente si crearono le basi nuove per un’efficace lotta alla mafia. Adesso non più: non vorrei che sul campo restassero soltanto le ragioni di carriera, di rappresentanza di gruppi e di fazione. S.

Un quadro desolante, insomma...

L. No. Anzi, voglio dire che non c’è nella magistratura palermitana una fazione che vuole aiutare o salvare la mafia. Chi vede le cose dall’esterno sa che Caselli e Grasso sono due valorosi magistrati, men che meno amici della mafia. Entrambi i gruppi si sono mostrati impegnati sul campo e hanno ottenuto importanti successi. S. Eppure c’è sempre qualcuno che punta a sminuire i successi dell’altro. Torniamo alla trappola retorica per cui la mafia è sempre troppo forte... L. Questa è una retorica molto diffusa, dentro e fuori gli ambienti della magistratura, che ha del paradossale. Negli 162

ultimi anni, al susseguirsi dei successi investigativi e degli arresti di grandi latitanti, si sono contrapposte grida d’allarme sul superpotere mafioso come se nulla fosse stato fatto. S.

Perché?

L. Innanzitutto perché molti sono ben consci che la mafia vive nelle pieghe della società e che dunque ogni vittoria è provvisoria. L’idea che il successo consista in una serie di vittorie parziali a molti non sembra accettabile. Strano paese il nostro: anche quando si riesce a concludere qualcosa di importante sembra quasi che non lo si voglia ammettere. Così restano in campo solo gli ottimisti per professione, Craxi una volta, Berlusconi oggi. S. L’indebolimento della Cosa Nostra ha comportato un affievolimento dell’antimafia sociale dei movimenti e della società civile? L. Certamente. Se non c’è emergenza mafiosa, non c’è nemmeno mobilitazione antimafiosa. La mobilitazione dovrebbe indirizzarsi alla soluzione di problemi politici e amministrativi, meno drammatici, ma in fondo decisivi nell’affrontare i nodi della nostra storia. S. Eppure la capacità di aggregazione di un’associazione come Libera, il movimento emotivo suscitato da Roberto Saviano attorno al suo libro e alla sua stessa persona, il consenso che riscuotono giornalisti come Marco Travaglio, affondano le proprie radici in una sensibilità emersa per la prima volta proprio nel movimento antimafioso palermitano... L. ...poi continuata con Tangentopoli e in qualche modo tenuta viva dalla contrapposizione etica tra una larga fetta di opinione pubblica e il berlusconismo. Il punto è che 163

questi sono problemi politici che si risolvono con la conquista del consenso politico. S. C’è pure chi sostiene che le vittorie siano di facciata, perché il vero cuore della mafia è ai piani alti e il processo a Marcello Dell’Utri, condannato in primo grado a nove anni, e in appello a sette, per concorso esterno in associazione mafiosa, ne sarebbe la controprova... L. Sì, ma anche se Dell’Utri venisse condannato in via definitiva e finisse in galera, qualcuno direbbe che non è successo niente di importante, perché il vero problema sta altrove. La lotta alla mafia deve dare quello che può dare, ed essere valutata per quello che ha dato e sta dando. Il resto è lotta politica. Non bisogna svalutare i successi della prima, per giustificare le sconfitte della seconda.

Capitolo 13

L’ANTIDOTO CONTRO LA MAFIA

GAETANO SAVATTERI La nostra conversazione mi pare abbia voluto distinguere tra due diverse questioni, sia pur strettamente connesse: il tentativo di definire esattamente le caratteristiche della mafia e la necessità di riesaminare il secolare dibattito sulla mafia. Partirei dal primo punto, sapendo che corro il rischio di apparire generico: cos’è la mafia? Proviamo a dare una definizione sintetica e riassuntiva? SALVATORE LUPO La mafia è formata da – ovvero è collegata a – un insieme di gruppi informali, segreti e illegali, che collaborano o anche confliggono tra loro per la gestione di aree economiche, politiche e sociali «periferiche» nelle quali si è rivelata difficile l’affermazione del carattere astratto e generale della legge. La regolamentazione mafiosa è basata essenzialmente sulla capacità intimidatrice attuale o potenziale, insomma sulla violenza, ma anche su un consenso vero o presunto. La mafia si propone come un ordinamento prestatale o non statale, una sorta di perfezionamento «moderno» di modelli giuridici antichi in qualche modo ricollegabili a quello della faida. Non raramente accade che l’autorità pubblica deleghi (forzatamente? volontariamente?) una parte delle proprie funzioni ai gruppi mafiosi, aspettandosi che essi garantiscano sul territorio una parvenza o caricatura di ordine; dei cui ser165

vizi peraltro si valgono imprenditori, politici, vari gruppi o aree della società. S. Attorno alla mafia insomma si muove un mondo di interessi economici, politici e sociali. Sono quelle contiguità o zone grigie che l’azione giudiziaria tenta di colpire attraverso la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa. Una nuova scuola di studiosi parla di network mafiosi. L. Il concetto non è certo nuovo: la network analysis fa parte da molti anni dell’attrezzatura delle scienze sociali. Però è vero che alcuni studiosi – penso ad esempio al sociologo Rocco Sciarrone – sono tornati di recente a riflettere sulla natura dei legami («forti» o «deboli») che tengono insieme persone e interessi variamente coinvolti nei misfatti della mafia. L’immagine della piovra con una testa e cento tentacoli, della cattedrale sormontata da un’unica cupola – dell’unica struttura di tipo piramidale, insomma – non solo non è applicabile a tutte le manifestazioni o fasi storiche della mafia, ma forse non si attaglia a nessuna di esse. Parliamo di gruppi che si intrecciano e si sovrappongono, raggruppabili in tre tipi base. Primo: clan parentali che utilizzano la particolare compattezza dell’istituzione per la competizione violenta e per mantenere meglio la segretezza di fronte agli avversari e all’autorità. Secondo: organizzazioni di modello pseudomassonico, società segrete nelle quali può riscontrarsi un rito di affiliazione, che agiscono su scala locale, ma possono anche riconoscersi e coordinarsi tra loro. Terzo: reticoli affaristici di scala sovralocale e anche internazionale, fluidi quanto richiedono gli affari stessi. Ma l’analisi del network non termina qui. Dobbiamo tener conto dei soggetti non inquadrabili in alcuno dei tre tipi di organizzazione che abbiamo delineato, ma i cui interessi, i cui atti (le cui omissioni) concorrono in maniera decisiva alle sue fortune. Mafia di certo vuol dire criminalità, però non soltanto. Più in generale, vuol dire patologia del potere. 166

S. Abbiamo fatto cenno al concetto di «borghesia mafiosa». Coniata da Mario Mineo, la definizione ha avuto di recente una grande fortuna e viene usata spesso per spiegare la presenza tra gli affiliati di Cosa Nostra di esponenti delle professioni e per disegnare l’area vasta di consenso della mafia anche in alcune fasce della società apparentemente distanti o insospettabili... L. Siamo nel cuore del problema. Storicamente e sino a oggi, come tu dici, Cosa Nostra ha trovato tolleranza, consenso, complicità in ambienti sociali che in teoria dovrebbero avere ben poco a che fare con la criminalità. La parola mafia ha trionfato su scala mondiale per il pubblico «scandalo» che hanno dato le classi dirigenti in questa parte del mondo. Va ricordato però che la mafia non è una classe sociale. Ha carattere interclassista, i suoi affari mettono insieme interessi di ogni tipo, soggetti appartenenti a ceti emergenti, intermedi e popolari. Insomma Mario Mineo nacque alla politica nel 1943 come socialista rivoluzionario, e aspettava ancora la rivoluzione quarant’anni più tardi, quando la gran parte dei suoi compagni della prima ora si era convertita a un tranquillo riformismo. Lo stesso Umberto Santino, la cui opera ha più di recente valorizzato questa categoria, si colloca in sostanza su una linea ideale postsessantottesca. Penso si tratti di una nobile tradizione. Essa non può essere però esaustiva delle esigenze dell’oggi... la lotta alla mafia è necessaria qui e ora, vi partecipano e devono parteciparvi quieti conservatori e arrabbiati radicali, imprenditori e poliziotti, giornalisti e studenti. Non dobbiamo aspettare una qualche improbabile rivoluzione politica o sociale. S. Quanto alla cattiva coscienza di certa borghesia siciliana, in precedenza hai fatto riferimento alle relazioni pericolose che mantenevano molte famiglie appartenenti alla classe dirigente. Quanto è grande l’ipocrisia su questo passato oscuro da lasciare nell’ombra? 167

L. Il lato oscuro, già. Gli scheletri nell’armadio, e dunque il problema di partenza: la ritrosia a chiamare in causa con nome e cognome persone, famiglie, patrimoni, delitti, se anche ci riferiamo a un remoto passato. Ricordo un episodio che risale a quand’ero ancora un neofita della ricerca storica. Tra i mafiosi perseguiti da Mori avevo individuato un grosso gabelloto, capostipite di un’importante famiglia di intellettuali di sinistra. Ne parlai a uno storico palermitano che mi rispose con una certa enfasi, quasi indignato: parli di uno che forse era mafioso, ma di sicuro non delinquente, uno che al massimo nel suo paese «esercitava una certa autorità», basata su certi «codici culturali». La strada della rimozione è sempre la stessa: rendere astratto tutto quanto può essere compreso solo attraverso un sano bagno di concretezza. S. La tua ricostruzione riporta dentro le logiche di Cosa Nostra gran parte delle dinamiche, degli scontri e delle strategie. Escludi quindi nettamente l’esistenza di un livello superiore, quello che fu chiamato «il terzo livello»? L. In genere, chi evoca questo terzo livello guarda all’interazione tra poteri palesi e poteri occulti (mafiosi) pensando all’interazione tra burattinai e burattini. Come già disse Falcone, l’interpretazione è rozza e finisce per precludere la via della persecuzione giudiziaria per responsabilità che sono sempre individuali, e non possono rimandare all’infinito a qualche sfera invisibile, empirea. Se poi parliamo dei grandi delitti, potrebbero anche esserci mandanti occulti, ma sta di fatto che non sono stati mai trovati. S. Se, come ipotizzi tu, i mafiosi sono una sorta di «consulenti», l’uso di violenza, intimidazioni, assassinii e stragi, rientra nei mezzi di esplicazione di quest’attività e viene determinato in piena autonomia o è un servizio a favore del committente? 168

L. Guarda, non è vero che un’azione che provoca grandi risultati debba avere per forza grandi motivazioni e grandi ispiratori. I poteri palesi lasciano ai poteri occulti uno spazio vergognosamente grande. Le mafie (e anche i servizi segreti, per intenderci) usano questo spazio per mettere in piedi un gioco di segnali, pressioni, intimidazioni, ricatti, che essenzialmente appartiene al loro mondo. Continuo a non capire, per fare un esempio, per quale ragione i grandi poteri affaristico-politici, spesso chiamati in causa, avrebbero dovuto affidare a Cosa Nostra il mandato per la strage degli Uffizi. S. Non rischi di alimentare una visione «riduttivista» che finisce per riportare la grande valenza del potere mafioso a semplici relazioni, più o meno conflittuali, tra gruppi e singoli protagonisti di faide paesane? L. Ma no. Faide paesane? Forse, ma questo è solo il punto di partenza. Il meccanismo, d’altronde, parte dal basso e dalla periferia, ma qualche volta punta in alto. Cosa Nostra, non lo scordare, ha raggiunto con Calvi e Sindona gangli cruciali del potere finanziario su scala nazionale e mondiale. Sostenendo importanti fazioni politiche, proteggendo grandi imprese, si è procurata interlocutori «eccellenti». C’era una ragione per cui la Standa di Catania, del gruppo Berlusconi, pagava il pizzo alla locale filiale di Cosa Nostra. Non so se fosse la stessa che portava Vittorio Mangano ad Arcore, a casa di Silvio Berlusconi. C’è sempre una ragione, bisogna però sapere quale. S. Siamo in grado di segnare differenze e analogie tra la mafia siciliana e altre organizzazioni criminali italiane come la camorra napoletana e la ’ndrangheta calabrese? L. Solo la mafia è stata al centro di una discussione pubblica per tutto il lunghissimo periodo che va dal momento stesso della nascita dello Stato unitario italiano. Non a 169

caso, la parola ha nel corso di questo periodo assunto carattere paradigmatico-universale e attualmente parliamo di mafie con riferimento a diverse varianti (non solo italiane) di criminalità organizzata. Oggi la legge italiana parla di organizzazioni «di tipo mafioso», comprendendo ovviamente le analoghe fenomenologie campana o calabrese. Bisogna dire però che in Calabria o in Campania non troviamo in campo una superorganizzazione o una superholding, ma vediamo bande criminali-affaristiche, qualche volta di base familiare o paesana, che controllano certi territori o certi traffici, si accordano o si scontrano, si aggregano o si spaccano, rappresentando comunque il fulcro di reticoli di scala nazionale o internazionale. Anche in Sicilia, peraltro, troviamo situazioni del genere: a Catania, ad esempio. Penso che una riflessione comparativa possa indirizzarci verso l’uso di strumenti interpretativi più duttili anche per Cosa Nostra. S. Abbiamo visto che la mafia esaspera il ruolo dei valori familiari, fino all’estremizzazione del cosiddetto «familismo amorale» per cui dentro e a tutela della famiglia si giustifica ogni gesto. Cosa si può fare per sancire una discontinuità e un’incompatibilità tra l’ambito familiare e quello mafioso? L. Niente. La mafia deve i suoi successi agli insuccessi dello spirito pubblico, della civicness o del senso dello Stato – chiamalo come vuoi. Dipinge se stessa come una famiglia, sapendo bene che è nel cosiddetto familismo amorale che può trovare un asse valoriale in grado di collegarla con la società e di mimetizzarla nella società. Io spero che gli italiani (la questione meridionale è una specie di questione italiana al cubo) finalmente imparino che esiste un’etica pubblica autonoma da quella individuale o familiare, e altrettanto importante. Ma non possiamo aspettare i tempi di quest’autoriforma morale, che nel migliore dei casi saranno lunghi. Siamo di nuovo all’attesa messianica della rivoluzione? Collegare in maniera indissolubile 170

queste nobili prospettive di lungo periodo alla lotta antimafia, sostenere esplicitamente o implicitamente che senza il pieno successo sul terreno generale non se ne potrà ottenere alcuno su quello specifico, significa fare un grande regalo al nemico. La battaglia va affrontata e può essere vinta coi materiali disponibili, nel mondo complicato e tutt’altro che puro nel quale ci troviamo a vivere. S. Veniamo al dibattito attuale sulla mafia e alle sue connotazioni. Spesso si fa ricorso al termine mafia anche per situazioni nelle quali la mafia non c’entra nulla. Per citare il titolo di un libro di Nicola Tranfaglia, è prevalsa l’idea della «mafia come metodo». Cosa comporta questo tipo di analisi? L. Il discorso può essere interessante. Sicuramente esiste un metodo mafioso, sicuramente le classi dirigenti locali e nazionali hanno una loro tradizione di tolleranza o anche di uso di illegalità di questa o di altra natura. Spero solo che non si vada a nuove alienazioni del problema specifico, all’ennesimo annacquamento generalista e generico. S. Un magistrato come Roberto Scarpinato, titolare di importanti inchieste sulla mafia presso la Procura di Palermo, nel suo libro «Il ritorno del Principe», parte dalla storia passata e recente di Cosa Nostra, per dimostrare la tesi che violenza criminale, mafia e corruzione sono elementi costitutivi del potere italiano. L. Conosco Scarpinato: è un magistrato valoroso e una persona colta. Però non sempre ci troviamo d’accordo. In particolare, dal suo libro pare che nessun importante successo sia stato mai conseguito, non dico in età liberale e in età fascista, ma nemmeno con Falcone e Borsellino, con Caselli e (che paradosso!) con lo stesso Scarpinato. Se anche la bassa macelleria di Cosa Nostra ha ricevuto qualche colpo, che importa? Il Principe – figura vaga e sfumata, 171

quintessenza del discorso generalista e generico sul potere – ha sempre comandato e continua a farlo. Se la mafia ha sempre vinto, è facile dedurne che vincerà sempre: conclusione che da un lato è paralizzante per i «buoni» e dall’altro, semplicemente, non è fondata nella realtà dei fatti. S. A che punto è, secondo te, il dibattito interno all’antimafia? L. Se ti riferisci alla magistratura di prima linea e alle istituzioni investigative, mi pare che siamo pur sempre su una buona strada, quella imboccata già da molti anni. Se ti riferisci all’antimafia come movimento, prendiamo atto che la situazione attuale, con la mafia postcorleonese apparentemente così poco minacciosa, non ispira risposte militanti né tanto meno di massa. Dello spirito dell’antimafia del passato resta molto nell’opinione antiberlusconiana, oggi sconfitta sul piano nazionale e molto più su quello regionale siciliano. Io, che mi colloco a sinistra, sono preoccupato dalla tendenza di tanti a leggere i risultati della lotta alla mafia attraverso il filtro di questa frustrazione politica. Come cittadino, so che gli eccessi di frustrazione sono dannosi. Come studioso, so che i piani dell’analisi vanno distinti. S. Durante questa nostra conversazione abbiamo parlato a lungo del pendolo dell’antimafia, che si è spostato più volte da destra a sinistra. Secondo te, oggi la lotta alla mafia è diventata patrimonio collettivo? E le iniziative antimafia di governo, soprattutto quando il governo è di centrodestra, sono sempre per definizione insufficienti o di facciata? L. In teoria sia la destra che la sinistra possono fare la lotta alla mafia. Ma in pratica, nella situazione storica italiana, credo che il centrodestra attuale abbia qualche difficoltà a portarla fino in fondo. 172

S. Quale peso ha avuto l’esperienza dei commercianti associati, avviata a Capo d’Orlando nel 1991 e ora, in qualche modo, ripercorsa dalla Confindustria siciliana? Può essere un modello di antimafia concreta e meno astratta che nel passato? Penso al movimento dei giovani di Addiopizzo, che invitano i consumatori a fare i propri acquisti solo nei negozi dei commercianti pubblicamente impegnati a rifiutare l’estorsione mafiosa. L. Sino a qualche tempo fa a Palermo molti negavano che fosse mai esistita quella cosa là – la mafia. E se esisteva, stava a Roma, a Milano, dappertutto fuorché tra di loro. Sino a ieri, tutti i commercianti palermitani negavano assolutamente di aver mai pagato il pizzo, disinteressandosi delle prove certe che li sbugiardavano. Oggi non è più così. I radicalismi dell’antimafia sono stati forse astratti, ma anche efficaci: hanno creato spazi, hanno introdotto qualche luce nella zona grigia. Esperienze come quelle che hai citato dimostrano che l’antimafia può fare proseliti anche negli ambienti in passato più silenti e collusi. S. Su questo fronte, la questione giuridica è molto complessa: l’imprenditore o il commerciante che paga il pizzo deve essere considerato vittima o complice? L. Certamente tra quelli che pagano ci sono i complici, ma non tutti possono essere considerati tali. Ci sono la paura, giustificata o meno, la carenza di senso civico, l’amore per il quieto vivere, la ricerca di una qualche autorità. La criminalizzazione collettiva è ingiusta sotto il profilo giuridico e giudiziario, controproducente sotto quello politico. Diamo a tutti il modo di venirne fuori. S. Resta comunque fortissima la seduzione narrativa della mafia: film, romanzi, fiction televisive. L.

Seduzione, hai detto. Infatti la gran parte delle opere 173

letterarie e di fiction o offrono un’immagine affascinante della mafia o le riconoscono un potere assoluto – e dunque sono apologetiche anch’esse. Come in America, laddove la mafia occupa sugli schermi cinematografici e televisivi un posto molto più importante rispetto a quello che occupa (ormai) nella realtà. S. Si disse di Sciascia, si disse perfino di Falcone: stregati dalla mafia. Chi scrive e si occupa di mafia ne subisce sempre il fascino? L.

Sempre no. Nella maggior parte dei casi forse sì.

S. Forse anche noi finiamo per subirne il fascino? Qual è, se esiste, l’antidoto? L. Possiamo subirne il fascino quando ci troviamo a esporre gli argomenti dei mafiosi stessi: la legge non è in grado di risolvere niente, i potenti sono sempre corrotti; fìdati di noi, aggiusteremo le cose; siamo potenti e proprio per questo raggiungiamo accordi e utilizziamo la violenza solo come risorsa estrema, come strumento razionale per punire gli ingordi e i rapaci; siamo gli ultimi rappresentanti di virtù antiche – onore, prudenza, equilibrio, coraggio –, che nel mondo moderno rischiano di perdersi e che saranno rimpiante. L’antidoto? Sapere che si tratta di un’ideologia, mostrare come i comportamenti reali si ispirino a tutt’altri principi, spiegare le ragioni strutturali (non occasionali!) del fallimento del metodo mafioso. S. Facciamo un’ipotesi: e se la mafia, per come la conosciamo, fosse definitivamente morta? È possibile ipotizzare un futuro senza mafia o con una mafia «legalizzata»? L. La mafia che da più di un secolo affligge la Sicilia centro-occidentale potrebbe anche essere un malato terminale: però non vorrei confondere le mie speranze con la realtà e non voglio fare previsioni che sarebbero troppo fa174

cilmente smentite. Attenzione comunque. Le mafie, cioè la criminalità organizzata e il malaffare politico-affaristico, continueranno ad esistere, nella nostra e in molte altre società. Legalizzarle? Niente affatto. Al contrario è necessario approntare strumenti sempre più sofisticati (analitici, legali, operativi) per definire le dinamiche operanti negli strati più profondi della società, per limitare i poteri nascosti, che, sovrapponendosi a quelli legali e costituzionali, finiscono per negare i diritti di ognuno. S. Vorrei concludere riprendendo i termini di una tua risposta iniziale: la mafia non è figlia del sottosviluppo, né tantomeno produce sottosviluppo. Insomma, la mafia può nascere e vivere nella modernità? L. La mafia è una patologia della modernità. È stata una patologia della modernità del diciannovesimo e del ventesimo secolo, speriamo che non continui a esserlo nel ventunesimo secolo.

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GLI AUTORI

Salvatore Lupo è professore di Storia contemporanea presso l’Università di Palermo. È condirettore di «Meridiana. Rivista di Storia e Scienze sociali» e fa parte della redazione della rivista «Storica». Autore di numerosi studi sulla storia della società meridionale tra Otto e Novecento, ha pubblicato, tra l’altro: per Donzelli, Andreotti, la mafia, la storia d’Italia (1996); Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (2004); Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri (n.e., 2004); Il fascismo. La politica in un regime totalitario (2005); Che cos’è la mafia. Sciascia e Andreotti, l’antimafia e la politica (2007); per Einaudi, Quando la mafia trovò l’America. Storia di un intreccio intercontinentale, 1888-2008 (2008). Per i nostri tipi, Novecento italiano (con altri Autori, 2008) e Il passato del nostro presente. Il lungo Ottocento 1776-1913 (2010). Gaetano Savatteri, giornalista, segue per la redazione del Tg5 i grandi fatti di attualità e in particolare le cronache giudiziarie. Scrive per cinema, televisione e teatro e ha pubblicato romanzi, saggi e inchieste sulla mafia. Tra i suoi libri, L’attentatuni. Storia di sbirri e di mafiosi (Baldini Castoldi Dalai, 1998), scritto con Giovanni Bianconi, sulle indagini per l’individuazione degli autori della strage di Capaci. Con Sellerio ha pubblicato i romanzi La congiura 183

dei loquaci (2001); La ferita di Vishinskij (2003); Gli uomini che non si voltano (2006); Uno per tutti (2008). Nel 2009 ha scritto per Rizzoli I ragazzi di Regalpetra. Per i nostri tipi, I siciliani (20098).

INDICI

INDICE DEI NOMI

Albanese, Giuseppe, 51. Alessi, Giuseppe, 105. Allegra, Melchiorre, 112, 141, 144. Amendola, Giorgio, 135. Amoroso, cosca, 54. Anastasia, Albert, 8, 88, 111. Andreotti, Giulio, 93, 157-60. Arlacchi, Giuseppe (Pino), 8, 32-33, 145. Aymard, Maurice, 37.

Bontate, Paolino, 109. Bontate, Stefano, 9, 109, 124, 145, 158-59. Borbone, dinastia, 46, 65. Borsellino, Paolo, 43, 137-40, 150-52, 162, 171. Brancato, Francesco, 28. Brusca, Giovanni, 155. Buscetta, Tommaso, 5, 14, 34, 110-13, 119-20, 136-37, 14147, 158.

Badalamenti, Gaetano (Tano), 110, 143, 158. Badoglio, Pietro, 96. Bagarella, Leoluca, 121, 155. Barone, Giuseppe, 26, 30-32, 34, 36-37. Berlusconi, Silvio, 153, 163, 169. Besozzi, Tommaso, 103. Bevilacqua, Piero, 42. Biagi, Enzo, 56. Bianco, Enzo, 131, 150. Blok, Anton, 32. Bonanno, Joseph (Joe), 15, 8182, 110-12, 143, 145. Bonfadini, Romualdo, 38, 40-41, 59. Bontate, famiglia, 142.

Calà Ulloa, Pietro, 45-46. Calò, Giuseppe (Pippo), 146. Calvi, Roberto, 9, 169. Capone, Al, 8. Capuana, Luigi, 57. Carnevale, Salvatore, 98, 101. Caruana-Cuntrera, famiglia, 143. Cascio Ferro, Vito, 71. Caselli, Gian Carlo, 157, 161-62, 171. Cassarà, Antonino (Ninni), 124. Castronovo, Calogero, 105. Catanzaro, Raimondo, 36, 38, 43. Chilanti, Felice, 83, 145. Chinnici, Rocco, 127.

187

Fiume, Giovanna, 38. Florio, famiglia, 61-62. Fortuzzi, Guido, 60. Francese, Mario, 121. Franchetti, Leopoldo, 21, 38, 51-53, 59-60, 67, 69. Frisella Vella, Giuseppe, 30.

Ciancimino, Massimo, 153-54. Ciancimino, Vito, 109, 115, 153, 155. Ciano, Galeazzo, 88. Cirillo, Ciro, 120. Clausewitz, Carl Phillip Gottlieb von, 155. Colajanni, Napoleone, 62. Cordova, Filippo, 51. Costa, Gaetano, 125. Costanzo, Carmelo, 26-27. Craxi, Bettino, 163. Crispi, Francesco, 50. Cuccia, Francesco, 70-71, 96, 109. Cucco, Alfredo, 69-70, 75-77. Cuffaro, Salvatore, 161-62. Cutolo, Raffaele, 13, 120.

Gaetani, Francesco Maria Emanuele, marchese di Villabianca, 63. Galante, Carmine, 143. Galasso, Alfredo, 150. Galati, Gaspare, 38-40, 58-60. Gambetta, Diego, 43. Gambino, famiglia, 119, 143. Gambino, Carlo, 81, 110-11, 143. Ganci, Massimo, 28. Gatto, Simone, 99. Genco Russo, Giuseppe, 102, 105. Genovese, Vito, 86, 88, 90. Gentile, Nicola (Nick), 83, 90, 145. Giammona, Antonino, 39-40, 58-59. Giampietro, Luigi, 70. Giarrizzo, Giuseppe, 28, 37. Gioia, Giovanni, 109. Giovanni Paolo II, papa, 133. Giuliano, Boris, 124-25. Giuliano, Salvatore, 95-96, 103104. Graci, Gaetano, 26, 32. Grandi, Dino, 6. Grasso, Piero, 11, 155, 161-62. Graviano, Giuseppe, 153. Greco, famiglia, 41, 109-10, 11213, 142. Greco, Michele, 159. Greco, Salvatore, detto l’Ingegnere, 110. Greco, Salvatore Cicchiteddu, 112-13, 119, 143, 145.

D’Acquisto, Mario, 131. Dalla Chiesa, Carlo Alberto, 32, 115, 124-28, 133, 135, 148, 160. Dalla Chiesa, Nando, 134-35. De André, Fabrizio, 125. De Felice, Giuseppe, 62. Dell’Utri, Marcello, 152-53, 164. De Mauro, Mauro, 118. De Roberto, Federico, 134. Dewey, Thomas E., 88, 93. Di Cristina, Giuseppe, 15. Dino, Alessandra, 133. Di Pietro, Antonio, 132. Di Pisa, Calcedonio, 112. Donzelli, Carmine, 37, 42. Duggan, Christopher, 137. Dürrenmatt, Friedrich, 139. Falcone, Giovanni, V, 34, 43, 124, 132, 140, 144, 147-52, 155, 162, 168, 171, 174. Farina, Benedetto, 90-91. Farinacci, Roberto, 70. Fava, Giuseppe (Pippo), 31-32. Finocchiaro, Francesco, 26.

188

Mancuso, Carmine, 139. Mangano, Vincenzo, 8, 81-82, 88, 111 Mangano, Vittorio, 153, 169. Mangiameli, Rosario, 26, 34, 3637. Marchesano, Giuseppe, 62-63. Marino, Carlo, 28. Marinuzzi, Antonio, 54. Marmo, Marcella, 41. Martelli, Claudio, 149-50. Mascagni, Pietro, 56. Matranga, Cristina, 139. Mattarella, Bernardo, 105. Mattarella, Piersanti, 125-26, 148. Mellini, Mauro, 136, 141. Messana, Ettore, 104. Milazzo, Silvio, 27. Mineo, Mario, 26-27, 167. Miraglia, Accursio, 98. Mirone, Salvatore, 31. Mori, Cesare, 19, 43, 68-71, 7375, 77-78, 80, 82, 104, 135, 137, 168. Moro, Aldo, 120, 128, 136. Mosca, Gaetano, 21, 134. Mosca, Gaspare, 49-50. Mussolini, Benito, 68-72, 75-76, 88.

Guarino, Gaetano, 105. Guglielmo di Occam, 152. Hess, Henner, 23, 32. Hitler, Adolf, 88. Hobsbawm, Eric, 23, 65. Hussein, Saddam, 3. Inzerillo, famiglia, 6, 123, 147. Inzerillo, Salvatore, 124, 143, 145. Jannuzzi, Lino, 136. La Barbera, famiglia, 112-13, 143. La Barbera, Angelo, 113. La Barbera, Salvatore, 112-13. La Guardia, Fiorello, 88. La Torre, Pio, 125-27, 130-31, 148. Leggio, Luciano, 5, 56, 103, 113. Lepke, pseud. di Louis Buchalter, 88. Levi, Carlo, 99-101. Li Causi, Girolamo, 101. Lima, Salvo, 109, 115-16, 131, 151, 158, 160. Li Puma, Epifanio, 98. Lodato, Saverio, 148. Lo Piccolo, Salvatore, 6, 14-15. Lo Piccolo, Sandro, 14. Luca, Ugo, 104. Lucania, Salvatore, v. Lucky Luciano, Charlie. Lucky Luciano, Charlie (Salvatore Lucania), 80-82, 86, 8891. Luzi, Mario, 116.

Natoli, Luigi, 63-65. Negri, Antonio (Toni), 136. Nicchi, Gianni, 14. Nisticò, Vittorio, 99. Nitti, Francesco Saverio, 69. Notarbartolo, famiglia, 62. Notarbartolo, Emanuele, 41, 43, 61-63, 66, 77, 98.

Magaddino, Gaspare, 111. Magaddino, Stefano, 81-82. Malusardi, Antonio, 60-61. Manacorda, Gastone, 25-26, 28, 30-31.

Orlando, Leoluca, 130-32, 13738, 148, 150. Orlando, Vittorio Emanuele, 68, 77.

189

Palidda, Rita, 30. Palizzolo, Raffaele, 62-63. Pantaleone, Michele, 80, 82, 99101. Pappalardo, Salvatore, 133. Petrosino, Giuseppe (Joe), 81, 84-85. Pezzino, Paolo, 37-38, 49-50. Pigliaru, Antonio, 22-23. Pintacuda, Ennio (padre), 139. Pirandello, Luigi, 134. Pisciotta, Gaspare, 104. Pitrè, Giuseppe, 55-57, 63, 68, 77, 87. Plaja, Diego, 111. Poletti, Charles, 90-91. Profaci, Giuseppe (Joe), 81-82. Provenzano, Bernardo, 3-7, 10, 14-15, 113, 151, 154-55.

Santapaola, Benedetto (Nitto), 27, 32. Santino, Umberto, 26, 167. Saviano, Roberto, 163. Scaglione, Pietro, 117-18. Scarpinato, Roberto, 171. Sciarrone, Rocco, 166. Sciascia, Leonardo, 56, 99, 13440, 148, 174. Scoppola, Pietro, 97. Scotten, W.E., 92. Sereni, Emilio, 22-23. Serio, Francesca, 101. Sindona, Michele, 9, 143, 160, 169. Sonnino, Sidney, 38, 51-52. Spadaro, Masino, 110. Spampinato, Rosario, 37. Spanò, Aristide, 104. Spatuzza, Gaspare, 153. Starace, Achille, 76.

Raccuglia, Domenico, 14. Raffaele, Giovanni, 38. Recupero, Nino, 26, 37. Renda, Francesco, 28, 102. Rendo, Mario, 26, 131. Riccobono, Rosario (Saro), 147. Riina, Salvatore (Totò), 4-7, 10, 12, 16, 113, 121, 136, 144-45, 151, 154-57. Rizzotto, Giuseppe, 49-50. Rizzotto, Placido, 98, 103. Romano, Salvatore Francesco, 24. Romano, Santi, 21-23, 146. Romeo, Rosario, 28. Roosevelt, Franklin D., 88. Rotolo, Nino, 6, 122-23. Russo, Michelangelo, 131.

Tajani, Diego, 51. Terranova, Cesare, 114-15, 125. Tortora, Enzo, 136. Tranfaglia, Nicola, 171. Travaglio, Marco, 163. Turati, Augusto, 69, 75. Turrisi Colonna, Nicolò, 48-49, 59. Valachi, Joseph (Joe), 144. Vassallo, Francesco, 108. Verga, Giovanni, 56-57, 134. Verro, Bernardino, 64. Vico, Giambattista, 55. Villabianca, marchese di, v. Gaetani, Francesco Maria Emanuele. Vitale, Leonardo, 141. Vittorio Amedeo II di Savoia, 65. Vizzini, Calogero (Calò), 57, 80, 90, 100-102, 105, 117.

Saija, Marcello, 30. Salvo, Antonino (Nino), 159. Salvo, Ignazio, 147, 159. Sangiorgi, Ermanno, 40-41, 43, 112.

Weber, Max, 160.

190

INDICE DEL VOLUME

Prefazione di Gaetano Savatteri

V

1.

La mafia sommersa

3

2.

Una storia difficile

21

3.

Alle radici del falso mito

45

4.

Il prefetto di ferro

66

5.

Gli zii d’America

80

6.

Mafia, banditi e polizia

94

7.

Gli anni ruggenti

107

8.

L’attacco al cuore dello Stato

121

9.

I professionisti dell’antimafia

134

10. Le verità di Buscetta

141

11. Dai veleni alle stragi

148

12. I processi ai politici

157

191

13. L’antidoto contro la mafia

165

Bibliografia essenziale

177

Gli Autori

183

Indice dei nomi

187