Chi sono i nemici della scienza? Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza 9788890857072

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Chi sono i nemici della scienza? Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza
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Giorgio Israel

Chi sono i nemici della scienza? Riflessioni su un disastro educativo e culturale e un campionario di malascienza

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Copyright – 2013 Giorgio Israel Tutti i diritti riservati ISBN: 978-88-908570-7-2

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Sommario Sommario Avvertenza Introduzione 1 Il disastro educativo L’importanza di fare le aste Studiamo la storia e la geografia E disimpariamo la matematica L’ondata arriva all’Università Origini del disastro Responsabilità Pseudoscienze e scienze dei nullatenenti La scuola come impresa Pubblico e privato Una scienza Cenerentola?

2 Storia e leggende della scienza italiana Una nuova scienza nazionale sulla scena europea Conflitti tra le due culture Il fascismo e la scienza A proposito di “redenti” e di danni irreversibili

3 Quel che non riuscì a Croce riuscì ai suoi “nemici” Croce e la scienza: una eredità ingombrante Il marxismo italiano e la scienza Battaglie contro l’“irrazionalismo” Lo scientismo come teologia sostitutiva

4 Una cultura militante Taccia chi non è “progressista” Due fazioni della cultura militante La cultura scientifica vittima della cultura militante

5 Sfide difficili e necessarie Il ruolo dell’università e la scienza spettacolo Ancora sulla scuola

Qualche osservazione, per concludere 4

Campionario di malascienza 1. Come ridicolizzare la scienza e Galileo 2. Ma… non toccate Galileo 3. Le rette parallele, che passione! 4. Il mistero dei numeri primi 5. La storia della scienza splatter 6. Giocare a scacchi con il computer 7. Il cervello di Leopardi 8. E ora tocca a Keplero 9. Matematica dell’amore 10. Frontiere scientifiche dell’amore 11. A proposito di maschi e femmine 12. La mappatura delle emozioni 13. I neuroni dello shopping 14. Segreti svelati 15. Gene-for syndrome

Appendice: una selezione di articoli dell’autore 1. Insegnare senza effetti speciali 2. La salute totalitaria 3. La cultura non si misura 4. Cosa ci insegna il modello dell’insegnamento della matematica in Finlandia 5. Un bambino su cinque è “disturbato” o è la scuola medicalizzata che è folle? 6. Il capitale umano che i test ignorano 7. Università e lavoro. No a polli di batteria 8. Lo scippo del libero arbitrio 9. Ingegneria “umana” 10. I compiti a casa. Doveri e valori 11. La miseria di Erasmus 12. Università: i limiti dell’abilitazione “mediana” 13. Se la statistica rottama le scienze umane 14. Intervento al Meeting di Rimini 2012 15. Cambiare i concorsi senza merito 16. Come sfasciare la scuola in 12 mosse 17. Il cioccolato e i Nobel dimostrano che la correlazione ammazza la scienza 18. La distextia, ultimo sintomo della deriva che ci vuole tutti disturbati 19. Perché se muore il liceo classico muore il paese 20. La scuola svuotateste

Note

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Avvertenza Questo libro è stato pubblicato per la prima volta nel 2008 con lo stesso titolo e un sottotitolo lievemente diverso: Chi sono i nemici della scienza? Riflessioni su un disastro educativo e culturale e documenti di malascienza, Torino, Lindau, 2008. Nello stesso anno gli venne conferito il premio Capalbio 2008. Essendo tornati in mio possesso i diritti editoriali lo ripropongo in versione digitale Amazon-Kindle. È quasi superfluo dire che, essendo passati cinque anni, la tentazione di rivedere delle parti e di fare aggiunte e correzioni è stata grande. In particolare, vi sono stati molti sviluppi sul fronte dell’istruzione (malauguratamente quasi tutti negativi…) che meriterebbero una specifica attenzione. Per esempio, l’introduzione della legge sui DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento) e la nuova normativa sui BES (Bisogni Educativi Speciali) hanno introdotto una problematica nuova che hanno allargato in modo discutibile la platea della disabilità rischiando di trasformare il sistema dell’istruzione in un gigantesco ospedale. Gli sviluppi che si sono avuti in questi anni vanno nella direzione dell’ingegneria sociale e di un costruttivismo sempre più spinto che sta distruggendo la dimensione culturale dell’istruzione. A questo contribuisce l’indirizzo profondamente sbagliato che sta prendendo la metodologia della valutazione in Italia, dando uno spazio eccessivo alla metodologia dei test che introduce il devastante teaching to the test, l’insegnamento rivolto all’addestramento a superare i test. Ma tutto questo richiederebbe un nuovo libro a parte, per cui mi è sembrato inopportuno riscrivere un libro che 6

ha una sua storia, una sua organicità e le cui tesi di fondo mi sento di riproporre senza varianti. Sul fronte della cultura scientifica e della divulgazione scientifica, l’andazzo descritto e criticato non è cambiato, per cui la casistica proposta come “malascienza” poteva essere aggiornata con nuovi esempi, ma si sarebbe trattato semplicemente di sostituire gli esempi proposti con esempi equivalenti. Tuttavia, il libro – oltre a diverse modifiche, commenti specifici e aggiornamenti (anche bibliografici) – contiene qualcosa di nuovo: dopo l’antologia di “malascienza”, una serie di venti articoli e contributi scelti tra tanti che, pur non offrendo un discorso organico sulle nuove problematiche emerse in questi cinque anni, presentano in modo esplicito il mio punto di vista. Giorgio Israel

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Introduzione Il futuro sarà come sono le scuole oggi Albert Szent-Györgyi Premio Nobel per la medicina [Coloro] che prendono come rivelazione divina ciò che “dicono i dottori” e “dicono gli scienziati” nella stampa d’oggi e dimenticano ciò che questi sacerdoti e astrologhi moderni hanno detto ieri […] prestano al fanatismo della scienza una credulità superiore a quella del contadino medievale verso il suo parroco. Clifford A. Truesdell Fisico matematico e storico della scienza Disgraziatamente, gli studi “umanistici” in generale non sono percepiti oggi come aventi un ruolo centrale nell’educazione dell’uomo. Si tratta di una conseguenza della democratizzazione dell’insegnamento, ovvero di una tendenza che al contempo approvo e deploro. Thomas S. Kuhn Filosofo della scienza

Qualcuno sostiene addirittura che la scienza sia morta o in [1] via di estinzione. Si tratta di tesi radicali e di cui bisognerebbe diffidare, soprattutto ricordando il destino che hanno avuto tesi come quella che prediceva la fine della storia. [2] Non possiamo tuttavia trascurare le ragioni che le ispirano: uno sguardo anche sommario permette di constatare quanto siano cambiate le caratteristiche dell’impresa scientifica nel corso dell’ultimo mezzo secolo. In precedenza, nonostante i tanti mutamenti avvenuti a partire dal Seicento, era possibile parlare della “scienza” come di un’entità unitaria e ben definita. 8

Quel che ha modificato radicalmente il panorama è stato il cambiamento profondo dei rapporti tra la scienza pura e le applicazioni, tra la scienza propriamente detta e la tecnologia e il dilatarsi di una sfera di attività dominata dalla manipolazione tecnologica e in cui la scienza teorica ha un posto sempre meno [3] centrale se non subordinato. Questa sfera di attività viene [4] ormai abitualmente definita con il termine tecnoscienza. Nell’ambito di questa sfera, la scienza intesa nel senso tradizionale del termine – volta principalmente allo studio della natura e alle determinazione delle “leggi” che la governano – ha un ruolo sempre meno importante, se non come uno scenario di fondo che si allontana sempre di più nella dimensione del passato, poiché sono sempre meno numerose le nuove scoperte teoriche e sempre più astratti e labili i tentativi di ottenere nuove leggi generali. Ma non è di questi temi e delle forme attuali [5] della tecnoscienza che intendiamo occuparci qui, sebbene sia quasi impossibile non tener conto dello stato attuale della scienza e delle immagini che essa proietta di sé, nel valutare le cause della crisi della cultura scientifica e dell’insegnamento scientifico e dell’approfondimento del fossato che divide la cultura scientifica dalla cultura “umanistica”. Infatti è di queste ultime questioni che intendiamo occuparci. Assumeremo un approccio fenomenologico, limitandoci a un primo livello di individuazione delle cause di questa crisi e dei suoi possibili rimedi. Ragioneremo come se la scienza non fosse talmente diversa da come è stata in passato o, per meglio dire, come se il suo nucleo, sebbene offuscato, conservi sempre un ruolo significativo nel processo della ricerca e delle sue applicazioni. Del resto, questo è quel che sostiene la grande maggioranza degli scienziati. Forse essi hanno torto. Ma, in tal caso, la questione sarebbe praticamente chiusa, perché la scienza come l’abbiamo conosciuta – e cioè come una delle più grandi imprese conoscitive di tutti i tempi – non esisterebbe più, o 9

starebbe progressivamente sparendo, e avremmo di fronte soltanto un complesso di tecniche manipolative prive, o quasi, di valore conoscitivo e pertanto di qualsiasi funzione formativa e di qualsiasi dimensione culturale. In altri termini, non si potrebbe lamentare che la scienza non sia attraente sul piano culturale e sia poco amata. All’assunzione che la scienza come impresa conoscitiva esista ancora aggiungeremo un’ulteriore restrizione. Il fenomeno della crisi della cultura scientifica e della sua separazione crescente dalla cultura umanistica, se esaminato a livello internazionale, detta un compito sterminato, e cioè la considerazione e comparazione un gran numero di situazioni. Difatti, nonostante il carattere cosmopolita dell’impresa scientifica, le specificità nazionali si fanno comunque sentire, soprattutto sul terreno culturale. Di conseguenza, ci restringeremo al caso italiano. Queste brevi considerazioni iniziali non sono inutili. Esse servono a chiarire quali problemi ponga il tema che vogliamo affrontare. Qualsiasi cosa si pensi della natura attuale della scienza e del suo futuro, è impossibile non convenire che nessuna società del passato è stata tanto intrisa di scienza e di tecnologia quanto lo è la nostra. Al punto che, nelle recenti discussioni sull’ignoranza matematica che dilagherebbe in tutto l’Occidente e, in particolare, in Italia, qualcuno ha perso la pazienza sbottando che di matematica in giro ve n’è fin troppa. [6] Eppure, le lamentazioni circa la crisi della cultura scientifica e l’analfabetismo scientifico – in particolare, matematico – sono sempre più acute e in Italia diventano vere e proprie grida di allarme. Esse non sono prive di fondamento. Pur limitandosi ai dati meramente quantitativi e senza troppo concedere a inchieste e statistiche che vengono prese troppo spesso e superficialmente [7] per oro colato, basta pensare al modestissimo livello di iscritti alle facoltà scientifiche, oltretutto in decremento negli ultimi anni, malgrado una lievissima e insignificante recente 10

ripresa. Si tratta di un fenomeno caratteristico di tutti i paesi occidentali e non soltanto di un fenomeno italiano, come pretendono i soliti autoflagellanti, anche se in Italia ha assunto [8] caratteristiche più marcate. Questo clamoroso paradosso – una società sempre più e irreversibilmente fondata sulla scienza e sulla tecnologia, in cui [9] di scienza e di tecnologia si parla moltissimo, ma in cui la scienza suscita scarso interesse e in cui si diffonde l’analfabetismo scientifico – suscita uno stato di ansietà, un diluvio di deprecazioni, di diagnosi spesso abborracciate e di indicazioni terapeutiche affrettate. La deprecazione dominante è centrata attorno alla tesi che in Italia la scienza sia stata sempre “negata”, vilipesa e bistrattata da una prepotente, insulsa e vacua cultura umanistica e filosofica dominante. Ci è si è chiesti addirittura come un giovane possa apprendere a pensare razionalmente se la sua mente viene corrotta dalle letture delle imprese di Harry Potter o de Il Signore degli Anelli di Tolkien, come se questi libri non fossero ampiamente letti in paesi scientificamente più evoluti del nostro. La sopravvivenza della religione viene additata come un grave freno allo sviluppo di [10] una metodologia di pensiero rigorosa, come se gli Stati Uniti non fossero un paese molto più religioso del nostro. Queste diagnosi sgangherate non sono utili soltanto a innalzare e ispessire l’antica barriera tra le due culture. Esse hanno come effetto principale la produzione di sentimenti di ostilità sempre più forti nei confronti delle scienze: quale persona ragionevole potrà mai sentirsi incoraggiata a studiare una materia scientifica (o semplicemente a interessarsi di scienza) se gli si indica come prezzo da pagare la proscrizione della letteratura di fantasia e il dover subire che la mamma gli propini un teorema di geometria differenziale invece di raccontargli una favola? Alcune semplici riflessioni dovrebbero indurre a cercare spiegazioni meno rozze e infondate, a elaborare un’analisi più articolata e ad assumere 11

atteggiamenti meno irrazionali. È necessario ricordare che la fede religiosa non ha mai impedito di esercitare in modo men che brillante la ragione scientifica? È superfluo stendere liste di grandi scienziati credenti, ma basti, tra i casi più recenti, ricordare una mente matematica di primissimo livello come Ennio De Giorgi, per rendersi conto della futilità di simili “spiegazioni”. E quando mai la lettura delle fiabe ha intralciato la formazione di una mentalità scientifica? Non era forse un matematico Lewis Carroll (pseudonimo di Charles L. Dodgson), autore di una delle fiabe più fantastiche mai scritte, Alice nel paese delle [11] meraviglie? D’altra parte, tutti sanno che l’impostazione umanistico-letteraria della scuola italiana, fino a che non è iniziato il suo sistematico smantellamento, non ha impedito che l’Italia producesse scienziati di prim’ordine e detenesse una posizione di primo piano in matematica, in fisica o in biologia. Al contrario, era un luogo comune che i migliori studenti delle facoltà scientifiche provenissero dal liceo classico gentiliano piuttosto che dal liceo scientifico. Ed anche ora che la scuola italiana è allo sbando e le facoltà scientifiche attirano pochi studenti non mancano coloro che si orientano verso studi tecnico-scientifici: difatti, le uniche facoltà che non lamentano una crisi di iscrizioni sono quelle di ingegneria e, nell’ambito delle facoltà scientifiche tradizionali, corsi di laurea come quelli di biologia molecolare, genetica e bioingegneria. Proprio questo piccolo sintomo dovrebbe suggerire di compiere un’analisi meno superficiale. Dovremmo chiederci se il deperimento delle facoltà in cui s’insegna la scienza “di base”, mentre fioriscono quelle orientate verso le applicazioni e la tecnologia, non sia conseguenza di due fattori: la tendenza oggettiva verso un approccio tecnoscientifico, di cui si diceva all’inizio, e la propensione a esaltare la scienza soprattutto per le sue applicazioni. Tutti dovrebbero sapere che la scienza di base o “fondamentale” è importante e che la ricerca non deperisce 12

proprio e soltanto in quei paesi in cui si cerca di difendere ad ogni costo lo spazio della ricerca di base, malgrado la generale e inarrestabile tendenza verso il primato della tecnologia. Eppure, la scienza di base è sempre più la Cenerentola e dilaga la parola d’ordine doppiamente falsa secondo cui la scienza che non si applica direttamente a qualcosa non serve a niente e non interessa nessuno. Ci si ripete come un ritornello che la via giusta per diffondere la cultura scientifica consiste nel propagare un’immagine accattivante, divertente e utile della scienza, vicina alla vita di tutti i giorni, piena di riferimenti pratici e immagini giocose, anziché l’immagine severa della scienza “pura”. Come quei cattivi medici che, in presenza di una febbre ribelle al farmaco che hanno propinato, invece di riesaminare la diagnosi, raddoppiano, triplicano o quadruplicano la dose del medesimo farmaco, ci si illude che la soluzione consista in un diluvio di discorsi sulla scienza che insistano sui suoi aspetti pratici e ludici. Occorrerebbe invece chiedersi se le difficoltà non dipendano da una diagnosi sbagliata e da cattive medicine. Dovremmo riflettere a fondo su quale tipo di cultura scientifica stiamo diffondendo e sull’immagine della scienza che stiamo trasmettendo; chiederci se tale immagine sia corretta e interessante; avere maggior fiducia nell’intelligenza degli altri e sospettare che talora le idee interessanti sono più attraenti e gratificanti di quelle utili e che la demagogia del divertimento, del gioco e della festa è stucchevole e lascia con un sentimento di vuoto. A nostro avviso, stiamo diffondendo un’immagine della scienza che incoraggia a interessarsi alle applicazioni ed alla tecnologia, mentre scoraggia coloro che sono interessati alla scienza come impresa conoscitiva. Chi nutre già propensioni per le applicazioni viene ulteriormente spinto a coltivarle, mentre gli altri, di fronte a un’immagine della scienza costretta entro gli schemi tecnoscientifici più angusti, preferiscono dirigersi verso altri lidi in cui sopravvive l’idea di cultura e non si vive soltanto di tecnologia. Stiamo sistematicamente distruggendo ogni 13

visione umanistica della scienza e quindi non abbiamo ragione di lamentarci se l’interesse per la scienza deperisce a vista d’occhio. Ma – si dirà – è falso che nei giornali, nelle riviste e nei libri di divulgazione non si parli di questioni concettuali o “filosofiche” legate alla scienza. Ciò è innegabile, purché si precisi di quali questioni si parla e in che modo. L’aspetto più bizzarro e contraddittorio delle concezioni positivistiche e neopositivistiche della scienza è stato ed è di combattere la filosofia come una forma di riflessione che si limita a porre problemi, spesso intrinsecamente insolubili, senza rispondere mai a nessuna domanda, e poi di recuperare la tendenza più dura (e discutibile) della filosofia occidentale, e cioè la pretesa di costruire non tanto una metafisica (il che è perfettamente legittimo) quanto un’ontologia, ovvero una “scienza dell’essere”. La “cultura” e la divulgazione scientifica che ci vengono propinate quotidianamente, più che spiegare scoperte “positive” della scienza appaiono tutte protese a propugnare un’ontologia materialista. Sembra che parlare delle nuove acquisizioni della scienza sia soltanto un pretesto per “dimostrare” che tutto è materiale, che tutto si riduce a neuroni, geni o particelle elementari. Se a questo si aggiunge che gran parte della divulgazione scientifica è di una qualità a dir poco deplorevole – come conseguenza dell’ossessione per le applicazioni pratiche e tecnologiche, che conduce alla presentazione dei risultati scientifici teorici in forme che raggiungono livelli sconcertanti di ignoranza e di trivialità – si ottiene una miscela esplosiva: un florilegio di cattiva filosofia gabellata come scienza e vestita di panni tecnologici. Ma alla miscela si aggiunge una terza componente che la rende ancor più esplosiva: si tratta del disastro dell’istruzione scientifica nelle scuole di ogni ordine e grado e nell’università. Tutti riconoscono – magari a bassa voce per non urtare la suscettibilità delle confraternite politiche di appartenenza – che 14

la riforma che ha introdotto nelle università le lauree triennali e il sistema dei crediti ha prodotto un frazionamento in corsi e corsetti, sempre più brevi e sempre più focalizzati su temi ultraspecifici o ridotti a fornire un’insignificante spolverata di nozioni generali. Nei corsi di laurea di matematica ormai la maggior parte dei teoremi viene propinata senza dimostrazioni: non c’è tempo e non si deve troppo pretendere dagli studenti. Una simile scelta poteva avere qualche giustificazione se praticata con moderazione, ma essa ha raggiunto ormai livelli tali da creare una situazione grottesca: un matematico digiuno di dimostrazioni è l’equivalente di un meccanico che non abbia mai smontato e rimontato un motore. La finta autonomia delle università ha posto al centro la preoccupazione di farsi pubblicità, magari con attività pseudoculturali, come la proiezione di film estivi o i “wine-bar scientifici”: ormai nelle università si fa meno cultura che in qualsiasi altro luogo del paese. La crisi delle scuole secondarie è in parte di natura diversa e si riconduce a due fattori: l’immissione massiccia di personale insegnante scarsamente preparato – il grande problema dell’insegnamento della matematica nelle scuole secondarie è che esso viene svolto per lo più da insegnanti privi di preparazione disciplinare specifica – e lo smantellamento sistematico di programmi che, sebbene antiquati, avevano una loro coerenza e una provata utilità, a profitto di approcci sperimentali dilettanteschi e persino deliranti. La causa principale è da ricollegarsi al prevalere di gruppi di “esperti” che, per ragioni politiche e ideologiche, sono riusciti a imporsi come una casta di superspecialisti, titolari di una “metadisciplina” consacrata alla determinazione dei contenuti di tutte le altre discipline. La questione scolastica è fondamentale, e se è corretta la frase di Szent-György posta a epigrafe – «il futuro sarà come sono le scuole oggi» – la situazione italiana appare tale da far tremare le vene e i polsi, anche se problemi analoghi affliggono diversi altri paesi occidentali, e soprattutto europei. 15

Di tutti i temi sopra accennati ci occuperemo in dettaglio nel seguito. Ci preme qui sottolineare che la scelta di trattare assieme il problema dell’insegnamento scientifico nelle scuole e il problema della divulgazione scientifica e della diffusione delle idee e dei risultati della scienza è coerente: si tratta di due aspetti strettamente collegati rispetto alla questione generale della formazione di una cultura scientifica nel nostro paese. L’immagine della scienza trasmessa nella divulgazione e nelle iniziative culturali influenza il modo di vedere degli insegnanti e l’atteggiamento dei giovani di fronte alla scienza medesima, il quale è, a sua volta, determinato dall’insegnamento ricevuto. Il disastro educativo e culturale di cui parliamo in questo libro ha una molteplicità di cause che non sono riducibili all’idea semplicistica secondo cui di scienza si parla troppo poco e in modo poco laudativo. Inutile tentare di riassumere qui questa molteplicità di cause. Ne parleremo nel corso del libro e riserveremo una particolare attenzione al ruolo importante che hanno avuto ed hanno determinate finalità e pregiudizi ideologici e politici, certe eredità culturali e il modo in cui sono state rielaborate, nonché le politiche sindacali che hanno letteralmente dissestato il processo di reclutamento dei docenti, avanzando la pretesa di intervenire addirittura sulle questioni di contenuto dell’istruzione. È difficile pensare che la cultura scientifica nel nostro paese possa assumere un rilievo dignitoso – tale da renderla meritevole della denominazione di “cultura” – se la scuola, i mezzi di informazione, l’editoria e la miriade di iniziative culturali in cui si parla di scienza non verranno sottratte alla mano morta di certe caste e confraternite accademiche, ideologiche, politiche e sindacali. Il libro si conclude con un’antologia di cattiva cultura scientifica. Essa rappresenta una minima parte di una raccolta di ritagli di giornale, di riviste e di brani di libri. Come si vedrà, da essa emerge che non ci troviamo soltanto di fronte a un problema di ignoranza e di superficialità ma anche da distorsioni ideologiche che si avvalgono in modo perverso 16

dell’ignoranza e della superficialità. Stendere un’antologia dei manuali scolastici scientifici e delle collezioni di assurdità di cui sono intessute certe teorie pedagogiche e didattiche richiederebbe un libro a parte. Purtroppo il panorama di fronte a cui ci troviamo dimostra che l’immagine che viene trasmessa della scienza è deformata come un pezzo di elastico che viene tirato da una parte all’altra secondo le convenienze. È una scienza ad uso e consumo: di visioni ideologiche e talora politiche, di uno scientismo dozzinale, della cultura intesa come spettacolo, della macchina di “eventi” mediatico-scientifici e delle élite che li gestiscono, del mantenimento delle posizioni di potere di certe compagnie di giro culturali, delle congreghe del pedagogismo didattichese. Il risultato è qualsiasi cosa, meno che cultura scientifica, o semplicemente cultura.

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1 Il disastro educativo L’importanza di fare le aste Debbo confessarlo: alla mia non più verde età ho finalmente compreso l’importanza di fare le “aste” nella prima elementare. “Fare le aste” – cioè passare giorni e giorni a tracciare segmenti su pagine e pagine di quaderno – evoca qualcosa che ormai è ignoto ai più. Ho letto di recente un articolo su una rivista pedagogica in cui si spiegava che questa noiosissima attività era resa necessaria mezzo secolo fa dal fatto i bambini arrivavano in prima elementare senza saper tenere né la matita né la penna in mano; mentre oggi… oggi, tranne gli alunni con “particolari difficoltà”, tutti i bambini scarabocchiano fin da piccoli, disegnano qua e là, manipolano la plastilina, e quindi arrivano a scuola senza quei problemi che imponevano la pratica delle aste. La supponente ignoranza e la stupidità che sta dietro l’idea secondo cui scarabocchiare o addirittura manipolare la plastilina costituirebbero una premessa alla scrittura salta agli occhi di per sé; ma ne ho compresa appieno la portata soltanto quando ho visto un bambino di sei anni tentare di scrivere le lettere dell’alfabeto. Doveva scrivere una “m” e procedeva prima disegnando da sinistra a destra un primo dosso e poi accostandogli sulla destra un secondo dosso tracciato da destra verso sinistra. Inutile dire che teneva la matita come una zappa. — Come ti hanno insegnato a scrivere la “m” a scuola? 18

— La maestra l’ha scritta alla lavagna e ci ha detto di copiare. Ha detto di “copiare”… Come se si trattasse di riprodurre un disegno e non di tracciare un segno alfabetico. Come se lo scopo finale non fosse quello di imparare a scrivere da sinistra verso destra (almeno nel nostro alfabeto) con fluidità e continuità, e quindi tracciare ogni segno in modo tale da poterlo poi concatenare con altri segni che tutti insieme dovranno comporre una parola. Per la nostra maestra, come per il nostro pedagogista beota, scrivere è la stessa cosa che disegnare, scarabocchiare o manipolare oggetti. Naturalmente, e in perfetta coerenza con questa “visione”, nessuno si era sognato di insegnare al bambino come tenere la matita in mano. Molti maestri non circolano più tra i banchi controllando come scrivono i bambini, correggendoli attivamente, magari guidando loro la mano. Già, perché si tratterebbe di un atteggiamento impositivo e repressivo della spontaneità. Dal momento in cui ho avuto l’esperienza di cui sopra sono caduto in preda a una mania molesta, e cioè di andare a vedere come tengono la penna in mano tutti i bambini o i ragazzi che mi capitano a tiro, figli di amici, studenti di ogni età. Il risultato è sconvolgente: pochissimi impugnano la penna in modo corretto. Ho compiuto tale indagine anche su alcuni ragazzi presenti a un mio intervento sulla scuola. Una ragazza mi ha confessato di provare un dolore al polso dopo aver scritto per appena una decina di minuti. Le ho spiegato cosa sia il celebre crampo dello scrivano, che perseguita anche chi tiene in mano correttamente la penna, dopo diverse ore di scrittura: figuriamoci chi la tiene male ed è costretto ad arrancare penosamente sul foglio. Cosa insegnano queste vicende? Che certi pedagogisti e molti maestri influenzati o condizionati da costoro – perché deve essere ben chiaro che i maestri hanno il minimo di colpa in questa faccenda, la colpa maggiore è quella dei “cattivi maestri” 19

che hanno persino predicato che non bisogna più neppure controllare l’ortografia – non sanno più neanche da lontano che cosa sia scrivere. Non sanno che scrivere è qualcosa di concettualmente e praticamente diverso da qualsiasi altra forma di manualità, e non sono neppure più in grado di capire la differenza tra scarabocchiare e scrivere. Pensateci bene: affermare che chi è abituato a scarabocchiare per ciò stesso sa impugnare la penna per scrivere, è un’affermazione che rivela un’ignoranza abissale, imperdonabile in chi si arroga il compito di organizzare i processi educativi. Sarebbe come dire che chi corre sui prati acquisisce gli elementi per fare atletica leggera. Saltare non insegna a fare il salto in alto o in lungo. Difatti, il salto spontaneo è frontale, ma tutti sanno che, per superare ostacoli elevati, occorre eseguire in salto in modi del tutto “innaturali”, in particolare per via dorsale. Una prestazione tecnica efficace può richiedere comportamenti contrari a quelli spontanei. Pigiare a caso i tasti di un pianoforte non serve ad apprendere a suonare: al contrario, può determinare posizioni sbagliate e difetti irrimediabili, perché le mani debbono essere tenute sulla tastiera in un modo ben preciso, che è inizialmente costrittivo e faticoso ma è l’unico che consente precisione, velocità e controllo completo della pressione dei tasti. Una persona che impugni un violino in modo spontaneo e “naturale”, ovvero sorreggendolo con la mano sinistra, non potrà mai e poi mai riuscire a suonarlo in modo decente. Allo stesso modo, afferrare a caso una matita non serve a nulla per imparare a scrivere, può anzi avere come effetto il contrarre difetti difficili da rimuovere. Questo è un piccolo ma illuminante spaccato della scuola oggi. Essa è caduta in mano a persone che non sanno più che la calligrafia è una tecnica, anzi una tecnica sapiente e sofisticata [12] perfezionata nei secoli, e non è un’imposizione repressiva. Forse non lo sanno, oppure non lo vogliono sapere in nome di una ridicola ideologia antiautoritaria e del principio secondo cui 20

la scuola deve ridursi a un insieme di processi di autoapprendimento. Se spiegaste loro i concetti sopra esposti, e cioè che per fare bene il salto in alto, correre una maratona o suonare uno strumento occorre apprendere e mettere in opera delle tecniche specifiche e spesso contrarie a qualsiasi comportamento “naturale”, i più estremisti avrebbero il [13] coraggio di negarlo. I più ragionevoli risponderebbero con un sorrisino di sufficienza: «È ovvio». Poi dovrebbero spiegare la contraddizione per cui, per quanto riguarda la scrittura, le cose stanno diversamente, e perché mai qui dovrebbe regnare l’anarchia. Parrebbe che basti imbrattare un foglio o intrugliare con il pongo per essere pronti a scrivere meglio dei nostri sottosviluppati padri o antenati. E invece – guarda un po’ – quei trogloditi scrivevano assai meglio di noi e dei nostri figli. E perché mai? Ma è chiaro: perché facevano le aste! Pagine e pagine di aste noiose, fastidiose e utilissime; tanto quanto è noioso, faticoso, utile, imprescindibile l’apprendimento di qualsiasi tecnica. Aste e cerchi servivano non soltanto ad apprendere le due componenti fondamentali della scrittura, ma anche a incolonnare in modo preciso. Di che sorprendersi se, tanti bambini provano difficoltà a fare le operazioni aritmetiche in colonna? Il risultato non è stato di prendere coscienza dell’errore didattico e porvi rimedio, ma di trasformare questa difficoltà in una “patologia”, che è stata inclusa nel quartetto dei DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento), la “discalculia”, una patologia per lo più inesistente e che viene teorizzata, diagnosticata e trattata da persone che non hanno la minima idea di cosa sia un’operazione aritmetica e, più in generale, di cosa sia la matematica. Questa è l’ultima frontiera del disastro: la medicalizzazione della scuola, trasferita dalle mani degli insegnanti in quelle di psicologi dotati dell’estrema presunzione di possedere la metascienza di ogni scienza. Per non dire che attorno a tale costruzione è stato imbastito un gigantesco giro di 21

affari. Oltretutto, l’apprendimento delle aste – come l’apprendimento metodico e coscienzioso di ogni tecnica – era qualcosa di profondamente democratico. Ammesso – e per nulla concesso – che i bambini di un tempo fossero meno dotati di quelli di oggi, l’insegnamento della tecnica di scrittura basato su procedure metodiche e generali forniva a tutti una capacità di base che livellava le differenze creando una condizione comune di base per lo sviluppo delle capacità personali; in altri termini, livellava le differenze legate alle diverse condizioni sociali e culturali. Insomma, si trattava di un efficace modo di combattere le “differenze di classe”. Oggi la situazione si è rovesciata. Il bambino che torna a casa disegnando le lettere anziché scriverle e impugnando la penna come una zappa, supererà questo ostacolo se troverà una famiglia dotata degli adeguati strumenti culturali, del tempo, della pazienza e del coraggio di non farsi frenare dal timore di apparire come “repressiva” di fronte a una scuola divertente e corriva. Al contrario, i figli delle famiglie meno dotate continueranno a zappare scarabocchi. A fronte di questo disastro, invece di cercare di capire come far avanzare tutti in modo più efficace e veloce, si risponde ragionando a testa in giù. Siccome la scuola non deve abbandonare nessuno e quindi deve avere a cuore soprattutto i meno dotati, il livello dovrà essere abbassato in funzione di una prospettiva egualitaria la quale, per una classica eterogenesi dei fini, produrrà una disparità crescente: le famiglie più dotate offriranno ai loro figli le opportunità per correre velocemente senza ancorarsi al procedere elefantiaco e inefficace della scuola, mentre gli altri affonderanno sempre di più nella palude. In nome della democrazia e di una scuola non repressiva, divertente e soggetta a pochissime regole, abbiamo finalmente realizzato la “scuola di classe”, quella contro cui sono state scatenate epiche “lotte”, dal mitico 1968 in poi… I 22

“progressisti” (di nome, di fatto autentici reazionari) hanno finalmente realizzato quello che, a rigor di logica, dovrebbe essere il loro più grande incubo: uno stato di cose in cui ciascuno, nel migliore dei casi, è condannato a restare nella condizione sociale e culturale della propria famiglia e, nel peggiore dei casi, ad arretrare, e in molti casi a vegetare nella condizione dello stato “patologico” acclarato da diagnosi senza capo né coda. A meno che non fosse proprio l’obbiettivo che perseguivano: un incubo frutto di un altro incubo: l’egualitarismo scambiato per democrazia.

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Studiamo la storia e la geografia Forse una delle esperienze più emozionanti per un bambino è iniziare a studiare la storia. Non saprei indicare una descrizione più affascinante dei sentimenti che evoca il tempo storico di quella data da Thomas Mann nelle prime pagine delle sue Storie di Giacobbe. La storia è il pozzo del passato, un pozzo profondo e insondabile, perché «pur facendo discendere a profondità favolose lo scandaglio» siamo costretti a retrocedere «verso abissi senza fondo». La storia ci spinge verso punti d’arrivo illusori «dietro cui, appena raggiunti, si aprono nuove vie del passato, come succede a chi, camminando lungo le rive del mare, non trova mai termine al suo cammino, perché dietro ogni sabbiosa quinta di dune, a cui voleva giungere, altre ampie distese lo attraggono più avanti, verso altre dune». Certo, nella mente di un bambino non vive un’idea così complessa e raffinata della storia del passato. Forse neppure un adolescente capirebbe a fondo il senso di queste parole. Ma i sentimenti istintivi che prova un giovanissimo di fronte al passato sono proprio quelli evocati dalle parole di Thomas Mann. Può sembrare paradossale che una mente proiettata impetuosamente verso la conquista del futuro, com’è quella di un giovane, sia tanto ansiosa di conoscere il passato. Al contrario, ciò è perfettamente naturale perché riflette il desiderio di conoscere tutto del mondo in cui si è entrati da tanto poco tempo e di cui non si sa ancora quasi nulla. Ogni genitore sa bene con quanta ansia e insistenza i suoi piccoli lo incalzino di domande sui dinosauri, sul modo in cui vivevano gli uomini primitivi o sulla forma delle armature dei guerrieri medioevali. Un bambino è proiettato impetuosamente nel futuro, ma guarda avanti in modo disattento. Il trascorrere inesorabile del tempo e l’idea della morte sono soltanto un vago fantasma che si presenta minaccioso quando si affaccia l’idea che anche i genitori un giorno moriranno, ma che viene prontamente scacciato. 24

«Oggi iniziamo a studiare la storia»… annuncia la maestra dopo alcuni mesi dall’inizio della prima elementare. Ed è un momento suscettibile di destare il massimo di interesse e di attenzione, un momento in cui finalmente si racconterà in modo preciso cosa succedeva tanto tempo fa. La mente avida e quanto mai concreta del bambino pretende racconti, aneddoti, fatti, immagini. E invece che cosa gli può capitare di avere in cambio? La seguente frase scritta alla lavagna e che è tenuto a copiare scrupolosamente sul suo quaderno: «Il tempo passa. Il tempo non torna mai indietro»… A parte il tono vagamente iettatorio, ci si chiede: ma è proprio questo quel che si attende di ascoltare un bambino, in procinto di avvicinarsi alla storia? Quel che si aspetta è una sentenza apodittica sulla freccia del tempo e sulla sua irreversibilità? A parte la difficoltà del tema – all’origine di una fra le più astruse e controverse diatribe filosofiche che abbia impegnato le più grandi menti, da Aristotele a S. Agostino a Paul Ricœur – colpisce che anziché proporre qualche racconto di fatti, di eventi, ci si imbarchi in una questione concettuale fondazionale. Che cosa si vuole trasmettere al bambino, come premessa allo studio della storia? Forse l’ammonimento severo che siamo tutti destinati a ritornare alla polvere da cui veniamo e che la storia è soltanto un deposito di morte? Oppure che tutto è effimero e vano? Non è chiaro e, in fin dei conti, non è interessante tentare di chiarirlo. È evidente soltanto che siamo di fronte a quella situazione bene descritta dall’aforisma di Lucio Colletti secondo cui «la metodologia è la scienza dei nullatenenti», la scienza di coloro che non hanno niente da dire di concreto. I miserevoli scienziati del nulla hanno spazzato la via ciò che costituisce la sostanza, la trama, il contenuto concreto della storia: la narrazione. Si tratta forse di un caso? Ma figurarsi… Nel quaderno di un altro alunno di prima elementare ho letto la seguente geniale filastrocca, sempre propinata a mo’ di prima lezione di storia: 25

«La filastrocca scacciapensieri parla di oggi parla di ieri parla del tempo che passa veloce, parla del fiume che corre alla foce. Viene la sera e viene il giorno il tempo vissuto non fa ritorno; la settimana è presto passata e la domenica è già arrivata. Passano i mesi, cambia stagione, cadon le foglie, ci vuole il maglione passano i mesi, il freddo è finito, l’albero spoglio è giù rifiorito. L’anno che passa non ha importanza se tu lo vivi con la speranza di preparare un mondo migliore dove la gente ragiona col cuore». Stavolta il cupo e inesorabile scorrere del tempo – il solito richiamo del tipo “sei polvere ed alla polvere tornerai” – è dichiarato accettabile alla condizione che ci si batta per un mondo migliore. La filastrocca è idealmente recitata sul sottofondo del suono dell’Internazionale. È superfluo dire che la povera vittima di questa tirannia ideologica, frustrata nella speranza di sentirsi raccontare qualche vicenda concreta, è tornata a casa imprecando e proclamando che mai e poi mai da grande vorrà studiare qualsiasi cosa abbia lontanamente a che fare con la storia. Non diversamente vanno le cose per quanto riguarda la geografia. Come inizia lo studio della geografia? La maestra piazza al centro della classe un bel mappamondo e i bambini si affollano attorno curiosi facendo domande… Ma per carità! Questi sono approcci vecchi e superati. Nossignore. La maestra inviterà gli alunni a disegnare quel che vedono “fuori” della 26

finestra della classe. Poi sottoporrà loro una scheda di figure con domande a quiz: «il verme è fuori o dentro la mela?», «la mela è vicina alla pera o è lontana?». Ma che diamine c’entra tutto questo con la geografia? – chiederete voi. Ingenui e sorpassati. Occorre che il bambino acquisisca preliminarmente le idee della spazialità. Del resto, è dalla scuola materna che viene tormentato con domande, quiz e disegni su “fuori e dentro”, “vicino e lontano”, “sopra e sotto” e la tortura ricomincia interminabile alle elementari. Quale becero intellettualismo ha suggerito di storpiare le idee intuitive del bambino con quelle formali di freccia del tempo e di geometrie dello spazio? È l’intellettualismo di un’accolita di metodologi che hanno ritenuto che fosse una trovata geniale premettere allo studio della storia e della geografia l’assimilazione dei concetti generali di “spazialità” e di “temporalità”. E sbaglierebbe chi credesse che questa sia una tortura temporanea, destinata a concludersi rapidamente. Prima di arrivare a sporcarsi le mani con conoscenze concrete di storia e geografia bisognerà passare anni a costruire “storie” che dimostrino l’acquisizione della nozione di ordine temporale, a fare grafici del percorso da casa a scuola e, nel migliore dei casi, ad apprendere l’idea generale e astratta di “giungla”, “tundra” o “deserto”. Ma anche nelle scuole medie ci si può trovare di fronte a libri di testo in cui il globo terrestre non è suddiviso in continenti o in stati, bensì in regioni definite in modo del tutto arbitrario: magari denominando il Medio Oriente “area islamica” nonostante esso comprenda lo stato d’Israele o paesi come il Libano che comprendono consistenti comunità cristiane. In tal caso l’approccio astratto serve a veicolare la truffa ideologica. Che si sia arrivati a tanto non stupisce affatto. Basta percorrere le riforme della scuole che si sono susseguite dal 1985 ad oggi per cogliere un filo di continuità nell’applicazione da laboratorio di teorie pedagogiche preconfezionate, anche se, per tirare il sasso e nascondere la mano, si è proclamato che le scelte non venivano fatte seguendo alcuna particolare dottrina 27

pedagogica e didattica. Ma soltanto la sfrontatezza può permettere di affermare che non sia all’opera una precisa ideologia pedagogica quando si enunciano obbiettivi di apprendimento per la storia nelle scuole elementari come [14] questo: «riconoscere la ciclicità in fenomeni regolari e la successione delle azioni in una storia, in leggende, in aneddoti e semplici racconti storici». E quando mai, di grazia, è una nozione generalmente accettata che la storia umana si sviluppi per cicli periodici? Chi si è permesso di dare per scontato che la nozione di ciclo abbia senso in storia? E che diamine sarà un “fenomeno regolare” nella storia? Inoltre: perché mai «organizzare il lavoro scolastico utilizzando il diario» dovrebbe introdurre allo studio della storia? E che senso ha accoppiare simili banalità con l’introduzione alle nozioni di «successione e contemporaneità delle azioni e delle situazioni» o addirittura al «concetto di durata e valutazione delle durate delle azioni», al cui scopo immaginiamo che verrà proposta la lettura dei testi filosofici di Henri Bergson? Né va meglio nelle classi successive dove si studiano gli «indicatori temporali», il «concetto di periodizzazione» e addirittura il ruolo della causalità nella storia – «rapporti di causalità tra fatti e situazioni», «individuare a livello sociale relazioni di causa e effetto e formulare ipotesi sugli effetti possibili di una causa» – introducendo di nuovo un pesante elemento ideologico, come se fosse ovvio che la storia è dominata da relazioni di causa ad effetto al pari del mondo dei fenomeni fisici. E se credete che nelle ultime due classi la situazione migliori, ebbene, vi sbagliate. Perché, mentre la tortura della «contemporaneità», della «causalità», e dei «nessi» continua implacabile, lo studio delle civiltà antiche viene confinato alla scelta di «fatti, personaggi esemplari evocativi di valori, eventi ed istituzioni caratterizzanti» tali civiltà. Insomma, la storia come narrazione è totalmente distrutta: essa diventa soltanto un deposito di esempi particolari di situazioni 28

generali e di modelli formali, tra cui scegliere… Come si fa in matematica quando si sceglie un esempio particolare per illustrare una classe di equazione o di funzioni. In geografia s’inizia con lo studio di quelli che vengono ridicolmente chiamati «organizzatori temporali e spaziali («prima, poi, mentre, sopra, sotto, davanti, dietro, vicino, lontano, ecc.», si prosegue acquisendo il dominio del proprio «spazio vissuto» descrivendo «verbalmente, utilizzando indicatori topologici, gli spostamenti propri e di altri elementi [15] nello spazio vissuto», e così via. Come nel caso della storia, non va meglio nelle classi successive alla prima, dove ci si avvicina al problema della descrizione degli spazi geografici formulando «proposte di organizzazione di spazi vissuti (l’aula, la propria stanza, il parco…) e di pianificazione di comportamenti da assumere in tali spazi» e, al contempo, si affronta la bazzecola di «riconoscere gli elementi fisici e antropici di un paesaggio, cogliendo i principali rapporti di connessione e interdipendenza», senza trascurare aspetti civici consistenti nel definire i «comportamenti adeguati alla tutela degli spazi vissuti e dell’ambiente vicino». Ed anche nelle due ultime classi di geografia nel senso tradizionale del termine non vi è nulla di nulla. Si va dallo «spazio fisico» ed «economico» al «concetto di confine», dagli «elementi fisici e antropici del paesaggio» alla ridicola prescrizione di «ricercare e proporre soluzioni di problemi relativi alla protezione, conservazione e valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale», beninteso senza avere la minima idea della realtà geografica effettiva di questo patrimonio. Si dirà che queste sono specifiche indicazioni di un particolare governo e di un particolare ministro. Al contrario, esse sono emblematiche e rappresentative di un andazzo ormai trentennale, ne costituiscono, per così dire, il trionfale apogeo. E che il culmine di un orientamento culturale tipico del pedagogismo sedicente progressista sia stato conseguito 29

nell’ambito di un governo di centro-destra, la dice lunga sulla mano morta che quel pedagogismo ha steso implacabilmente sul sistema dell’istruzione. Ci si chiederà inoltre perché abbiamo parlato tanto di storia e di geografia, visto che questo libro è dedicato alla cultura scientifica. Ma il nodo è proprio qui: non è evidente che la concezione della storia e della geografia che soggiace a quelle indicazioni didattiche svuota completamente quelle materie del loro contenuto concreto trasformandole in una sorta di discipline formali dedicate ai concetti di spazialità e di temporalità? Se si rileggono le righe precedenti si ha persino una sensazione di irrealtà perché i confini tra geografia e storia sembrano dissolversi: sembra che tutto ruoti attorno al muoversi del soggetto-allievo nelle dimensioni spaziali e temporali di uno spazio vissuto… In altri termini, sia storia che geografia vengono ridotte a dipartimenti della geometria e svuotate della loro concretezza e attualità. Ma attenzione: in cambio la geometria viene deprivata di ogni forma di astrazione e ridotta a esperienza concreta e fisica della spazialità… Il che è quanto dire che la matematica viene privata delle sue caratteristiche distintive. Ne parleremo subito.

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E disimpariamo la matematica Così, la storia non è più narrazione ma un deposito di teorie preformate concernenti la dinamica della temporalità, la ciclicità degli eventi, i rapporti causali tra fatti, e così via. Invece di insegnare all’allievo gli eventi storici il più possibile in termini narrativi e oggettivi, lo si introduce preventivamente a quel che dovrebbe – casomai! – venire dopo e cioè alla filosofia della storia, per giunta a una filosofia della storia astratta, analitica, vista come un complesso di teorie formali della temporalità. Analogamente, la geografia diventa un deposito teorico concernente le forme della spazialità. Non debbono ingannare i riferimenti alle esperienze concrete e allo “spazio vissuto”: questa concretezza è apparente e falsa perché è soltanto l’esemplificazione di concetti astratti. L’allievo diventa una cavia per la sperimentazione di filosofie analitiche della spazialità e della temporalità e dopo, molto dopo, quando la sua mente sarà stata debitamente plasmata, potrà accedere alle nozioni di geografia reale e alla narrazione storica, sempre e soltanto viste come manifestazioni terrene delle nozioni generali introdotte. Nel contesto di questa matematizzazione della storia e [16] della geografia, che ruolo resta alla matematica? Con un singolare rovesciamento, essa diviene una disciplina eminentemente empirica e pratica. Per essere più precisi, è il percorso dell’apprendimento che viene rovesciato. Mentre nel caso della storia e della geografia si parte dall’astratto per arrivare al reale, qui si parte dal contare pratico – dai traffici su dita della mano, mele, pere e petali di fiori – per pervenire ai concetti della matematica. L’ossessione della concretezza raggiunge livelli parossistici nell’imposizione al bambino di illustrare ogni calcolo aritmetico con un disegno. A voler essere generosi e non trattare queste aberrazioni per quel che sono per 31

lo più – semplice miseria culturale – un simile approccio sembra prendere come modello il percorso storico: dalla matematica pratica dei Babilonesi e degli Egizi si è passati alla matematica dei Greci e al monumentale enciclopedia del ragionamento matematico che è data dagli Elementi di Euclide. Ma l’idea che il percorso didattico debba seguire la dinamica storica è una pura e semplice assurdità: non si ricostruiscono i livelli più avanzati della conoscenza attraverso un sorta di ripetizione dell’ontogenesi per via di filogenesi. Queste puerili teorie pedagogiche rendono attuale l’ammonimento di Platone: «È dunque opportuno, o Glaucone, prescrivere per legge questa dottrina [del computare e del noverare], e persuadere coloro che dovranno occuparsi delle faccende più importanti dello Stato di dedicarsi alla scienza dei conti, non però alla volgare maniera, ma fino a tal punto che l’intelligenza loro possa contemplare la natura dei numeri, non già occupandosene a scopo di compra e vendita, come mercanti e rivenditori, bensì in servizio della guerra e della tranquillità dell’anima, sì da condurla dal [17] generato alla verità e all’essere». Per comprendere come si sia potuto arrivare a concepire la concezione di partenza della matematica come quella di un sapere pratico e non di una forma di conoscenza, occorre risalire ai programmi didattici per la scuola primaria che nel 1985 sostituirono i programmi del 1955. Nella loro enunciazione si premetteva che «la vasta esperienza compiuta ha dimostrato che non è possibile giungere all’astrazione matematica senza percorrere un lungo itinerario che collega l’osservazione della realtà, l’attività di matematizzazione, la risoluzione dei problemi, la conquista dei primi livelli di formalizzazione. La più recente ricerca didattica, attraverso un’attenta analisi dei processi cognitivi in cui si articola l’apprendimento della matematica, ne ha rivelato la grande complessità, la gradualità di crescita e linee di sviluppo non univoche». Per un verso, si tratta di affermazioni banali, quasi la scoperta dell’acqua calda, 32

ma, a ben vedere, esse mirano soltanto a due fini: l’affermazione del primato dell’approccio pedagogico-didattico nella definizione dei principi dell’insegnamento; la prospettazione di un percorso di apprendimento che ripercorra quei cammini che, secondo la “più recente ricerca didattica”, sarebbero quelli seguiti dai processi cognitivi. I due aspetti sono strettamente connessi e si da per scontato qualcosa che non lo è per niente: e cioè che il percorso cognitivo segua la “complessità”, la “gradualità di crescita” e la “non univocità” individuata dai didatti-pedagogisti. Vediamo qui come venga operato lo scambio fra la storia reale e i processi cognitivi del soggetto, e si confonda la linea lenta, complessa e non univoca che ha condotto dalla matematica pratica dell’antichità all’astrazione matematica con il percorso che segue (o dovrebbe) seguire la mente di una persona. Si tratta, lo ripetiamo, di un’idea non soltanto infondata, ma anche assurda e pericolosa. I percorsi di apprendimento debbono prendere come punto di partenza lo stato presente della scienza e non proporre il percorso lento, complesso e non univoco con cui si è passati dalla matematica pratica al pensiero matematico, dai “conti” alla matematica. Un approccio più astratto e mentale è forse problematico per la mente del bambino? Ma quando mai? Sembra che certi didatti-pedagogisti non abbiano mai visto bambini in vita loro e non abbiano avuto modo di constatare che la loro mente è spontaneamente portata a concepire rapidamente il numero in modo astratto e a liberarsi quasi subito dell’uso delle dita o del riferimento a gruppi di oggetti nel contare, e a pensare i numeri e le operazioni tra di essi in modo puramente mentale. Al contrario, i bambini se ne compiacciono molto, considerando i calcoli che riescono a fare come prodezze da esibire al pari di un record atletico. E chi abbia avuto a che fare con dei bambini sa che la pratica dei numeri li spinge rapidamente a fare domande profonde del tipo “quanti numeri esistono”, “qual è il numero più grande”, oppure “esistono tutti i numeri”, le quali 33

[18] portano addirittura a toccare il concetto di infinito. Bisognerebbe prescrivere la lettura dell’osservazione di un profondo pensatore nel campo dell’insegnamento della matematica qual era Federigo Enriques: «Il valore formativo delle matematiche si palesa, non soltanto nell’elevamento e nel potenziamento delle intelligenze che, traverso l’istruzione classica, vogliono abilitarsi ai più alti studi, sì anche nei primi gradi dell’educazione dell’infanzia e nelle classi popolari; [19] perché l’intelligenza matematica è assai precoce». , Precoce e spontaneamente portata a uno sviluppo velocissimo, se non viene frenata da teorie cognitive sgangherate. È quindi straordinariamente frustrante che un bambino posto di fronte al compito di aggiungere 2 a 2 e così via, costruendo la successione 2, 4, 6, 8, … sia costretto ad arrestarsi a 20, perché – secondo le indicazioni vigenti fino a poco tempo fa – nella prima elementare oltre al 20 è meglio non andare. Nei programmi del 1985 si diceva che «va tenuto presente che l’idea di numero naturale è complessa e richiede pertanto un approccio, che si avvale di diversi punti di vista (ordinalità, cardinalità, misura, ecc.); la sua acquisizione avviene a livelli sempre più elevati di interiorizzazione e di astrazione durante l’intero corso di scuola elementare, e oltre». Grossolane sciocchezze. A sentire questi signori, per pervenire all’idea di numero naturale ci vorrebbero anni ed anni, ed anzi sarebbe necessario l’intero percorso che conduce dalle elementari agli studi superiori. Essi condannano il bambino ad avanzare in modo lentissimo, amputando le capacità che gli permetterebbero di procedere con velocità decupla. Il percorso che si pretende “concreto” è soltanto un arretramento verso la visione della matematica come scienza “pratica”: «la formazione delle abilità di calcolo va fondata su modelli concreti e strettamente collegata a situazioni problematiche». Peraltro, gli estensori di quei programmi erano consapevoli del fatto che un simile 34

approccio rischiava di porre le premesse degli sviluppi che oggi sono sotto i nostri occhi e che hanno condotto alla diffusa incapacità di fare i calcoli e all’analfabetismo matematico: «Con ciò non si intende sottovalutare l’importanza della formazione di alcuni automatismi fondamentali (quali le tabelline, ad esempio) da concepire come strumenti necessari per una più rapida ed essenziale organizzazione degli algoritmi di calcolo». L’accenno è ancora timido e la sfida non viene lanciata [20] apertamente. Lo sgretolamento dell’insegnamento della matematica è soltanto iniziato, attraverso la proposizione di una visione che predica che «lo sviluppo del contenuto di numero naturale va stimolato valorizzando le precedenti esperienze degli alunni nel contare e nel riconoscere simboli numerici, fatte in contesti di gioco e di vita familiare e sociale» e insistendo sull’approccio in termini di problem-solving. È derisorio osservare che se qualcosa andava rimproverato al modo con cui veniva insegnata la matematica nel quadro della riforma Gentile è un approccio eccessivamente problem-solving e pochissimo concettuale. Ma l’insistenza nella risoluzione di problemi di tecnica matematica è stata trasferita alla risoluzione matematica di problemi pratici, il che non costituisce necessariamente un progresso: si tratta, al contrario, di un gravissimo regresso se la matematica spunta fuori come una sorta di prodotto dei problemi pratici anziché come l’applicazione di schemi e metodi concettuali ai problemi in oggetto. Sarebbe lungo compiere un’analisi dettagliata delle riforme, delle indicazioni ministeriali e dei programmi che, in un trentennale crescendo wagneriano, hanno condotto al disastro attuale. È un’analisi che andrebbe certamente fatta ma che esorbita dagli obbiettivi del presente libro. Ci limiteremo a scegliere un esempio indicativo dal florilegio di assurdità di cui è intessuta questa sconcertante letteratura. Nei programmi del 2004 si dice che occorre introdursi allo studio della geometria apprendendo che cos’è la «collocazione di oggetti in un 35

ambiente, avendo come riferimento se stessi, persone, oggetti». Ma definire la spazialità mediante la collocazione di oggetti non è coerente con la nozione dello spazio attorno a cui è centrata la scienza moderna, da Newton in poi. La nozione di spazio come derivante dalla considerazione degli oggetti, anziché come un contenitore vuoto, è coerente con la nozione di “luogo” aristotelico in cui lo spazio è soltanto l’aggregato di corpi materiali. L’insistenza sull’esplorazione soggettiva della spazialità potrebbe far pensare che i nostri teorici siano fenomenologi husserliani. Troppo onore. Husserl avrebbe spiegato loro che, per tale via, non si arriva mai alla concezione dello spazio come un contenitore vuoto definito indipendentemente da ogni presenza soggettiva, che è caratteristica della matematica moderna. D’altra parte, è istruttivo leggere la definizione che si da della matematica in certe “pagelle” delle scuole elementari e che sono plasmate sulle indicazioni ministeriali (ma c’è bisogno di definire il contenuto di una materia in una pagella?). Vi si dice che nella scuola primaria la matematica consiste nell’«osservare oggetti e fenomeni e individuare grandezze misurabili, effettuare misure con strumenti elementari e classificare oggetti in base a una proprietà, raccogliere dati e informazioni e saperli organizzare». Tutte cose che con la matematica non c’entrano nulla, neanche in un’ipotetica fase intuitiva preliminare e che, casomai, definiscono l’oggetto di una scienza sperimentale. Come può funzionare una scuola in cui chi definisce materie e programmi ha simili idee della matematica? Concludiamo queste brevi considerazioni con le parole del matematico francese Laurent Lafforgue, protagonista di un aspro confronto sul tema della distruzione della scuola e, in [21] particolare, dell’insegnamento scientifico: «Il primo [compito] è l’istruzione elementare, che viene dispensata dalla scuole primarie. Essa deve garantire prioritariamente il dominio del linguaggio parlato e scritto. Poi quello dei numeri e del 36

calcolo, così come la conoscenza delle forme geometriche semplici. Infine, l’apprendimento di solide nozioni di storia cronologica, di geografia, e di scienza. D’altra parte, essa deve inculcare agli allievi una disciplina e tutte le abitudini di lavoro, di serietà e di attenzione richieste dallo studio».

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L’ondata arriva all’Università Ho di fronte il pacco delle prove scritte di esame per il mio corso universitario. Le ho corrette e le sto soppesando per decidere il voto finale, tenendo conto di considerazioni comparative. Mi cade soprattutto l’occhio su due compiti. Trattandosi di matematica è rilevante che il risultato finale sia corretto. Entrambi i compiti risolvono il problema posto e determinano la soluzione esattamente, anche dal punto di vista numerico. Tuttavia, differiscono per un aspetto fondamentale. Uno dei due si limita a riportare l’uno dopo l’altro i calcoli, omettendo anche diversi passaggi, non spiega praticamente nulla della concatenazione logica dello svolgimento, è quasi afasico e quando si degna di concedere qualcosa alle parole ricorre alla “stenografia” del tipo «xché» (= perché), «xciò» (= perciò), «+» (= più), ed è scritto oltretutto con geroglifici che mettono a dura prova la pazienza. L’esegesi del testo compiuta dal docente fa ritenere che egli abbia avuto in testa il ragionamento corretto, ma è soltanto un’ipotesi: potrebbe benissimo aver copiato alcuni passaggi sparsi senza sapere esattamente cosa stesse scrivendo. L’altro compito, al contrario è perfetto: tutti i passaggi sono spiegati in buon italiano, nulla è affidato all’interpretazione del docente, lo svolgimento è completamente trasparente ed è scritto senza invenzioni stenografiche e persino in buona calligrafia. Non esito molto: attribuisco il voto di trenta trentesimi al secondo compito e invece al primo ventisei trentesimi, riconoscendogli comunque qualche merito. Il giorno successivo ricevo gli studenti per comunicare loro il voto e discutere con loro il compito. Lo studente del ventisei si irrita subito e contesta il voto vivacemente. — Non capisco perché non mi abbia dato trenta. Il risultato è giusto, oppure no? E allora? Che cosa manca? 38

— Manca una spiegazione decente di quel che lei ha fatto. Per quel che risulta da quanto ha scritto, potrebbe essere pervenuto al risultato per caso, senza capire quel che faceva, o addirittura copiando. Do per scontato che questo non sia avvenuto, ma resta il fatto che lei non è stato capace di spiegare quel che stava facendo. È un compito afasico, scritto malissimo, in pessimo italiano, sembra opera di un analfabeta. — Ma qui siamo in un corso di laurea di matematica — replica il candidato con tono arrogante — che me ne importa dell’italiano? Io ho scritto le formule che servono, sono giuste, il risultato finale è corretto. Punto e basta. — Spiegare il ragionamento logico che sta dietro alla concatenazione dei calcoli non è una cosa secondaria, e spiegarlo con un linguaggio corretto non è meno importante. Cosa intende fare nella vita? L’insegnante? E cosa farà? Sbatterà agli studenti delle formule sulla lavagna, accompagnandole con segni o suoni indistinti, senza spiegare nulla a parole? Ma anche se dovesse lavorare in un’azienda o un’industria, le si chiederà prima o poi di scrivere un rapporto e allora cosa farà? Scriverà alcune parole frammentarie inframezzate da qualche «xchè»? Lo studente si ostina, si incaponisce, alza persino la voce, non vuol intendere ragioni. Lui ha in mano un risultato “giusto”; della logica e dell’espressione linguistica non gliene importa un accidente; vuole un trenta e basta. Frenando l’irritazione, ricorro allora a un argomento “etico”: — Guardi allora questo compito a fronte del suo? È perfetto, tutto è spiegato in modo ineccepibile. Il confronto penalizza il suo in modo pesante. Mi spieghi perché mai dovrebbe attribuire lo stesso voto a lei e alla signorina che ha fatto questo compito? Sarebbe un’ingiustizia plateale e nessuno ha ancora abolito la scala di merito introducendo il voto unico per decreto.

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Nulla da fare. La discussione diventa spiacevole e il tono dello studente sempre più aggressivo. Egli è impermeabile all’idea di trovarsi di fronte a un insegnante la cui funzione è proprio quella di valutarlo e che, fatto salvo il suo diritto di avanzare obbiezioni, è ragionevole per lui ascoltare le critiche e imparare qualcosa. Non resta che troncare la discussione che rischia di diventare una lite avvilente: — Ebbene, questo è il mio giudizio e non lo cambio. Lei non vuol discutere ma soltanto imporre la sua volontà. Fortunatamente questo non è ancora possibile. Quella è la porta. Quello che ho raccontato non è certamente un episodio isolato. Potrei raccontarne a decine. Come il caso di quella studentessa che mi aggredì a male parole – dicendo addirittura che ero un cattivo insegnante – perché il problema che avevo proposto era troppo facile… Inutile spiegarle che era un vantaggio dover svolgere un compito che richiedeva soltanto un semplice ma corretto ragionamento con pochissimi calcoli. No. Lei voleva calcolare alla disperata, ciecamente e ottusamente, e considerava un vero affronto che la si volesse costringere a ragionare. Quel che distingue ancora l’università dalla scuola secondaria è l’esistenza di un livello decente di disciplina. Un professore universitario possiede ancora un’autorità e alcuni strumenti per difendersi da atteggiamenti aggressivi, mentre il professore di scuola secondaria non li possiede quasi più. Nessuno di noi corre il rischio di vedersi piombare addosso un padre o una madre inferociti che contestino il giudizio dato del loro pargolo, il quale è a priori non criticabile qualsiasi cosa egli abbia detto o scritto di argomenti di cui non conoscono neppure il titolo. Per fortuna sono ancora eccezioni certi casi esilaranti come quello del fidanzato di una studentessa che venne di persona a contestare vivacemente le mie critiche alla sua tesi, presentandosi come un “collega”, in quanto insegnante di educazione fisica («Con tutto il sincero rispetto, quando si 40

tratterà di maratona ascolterò il suo parere, ma qui si tratta di matematica» fu la risposta). Qualsiasi insegnante della scuola secondaria può fornire testimonianze della straordinaria arroganza con cui studenti e famiglie sottopongono a una contestazione sistematica qualsiasi giudizio che non sia positivo; quando non si finisce a botte. Ma – si dirà – che cosa fare di fronte a situazioni di “mala didattica” come quelle descritte nelle due precedenti sezioni (e che, sia detto per inciso, non mancano di certo all’università)? Occorre reagire, certo, ma ponendo bene in chiaro che il cosiddetto “utente” ha titolo a discutere la validità di certi approcci e di certi giudizi, ma la sua opinione non può in alcun modo essere la prima in ordine di peso e importanza. È questo un punto delicatissimo ma cruciale sul quale torneremo, per la sua importanza nevralgica. I diritti e l’opinione dell’“utente” debbono trovare il giusto ascolto, e di ciò nel passato si è tenuto troppo poco conto, ma qui si sta andando fuori dai binari, nella direzione opposta. Si è prodotta una situazione nella quale l’“utenza” – insisto su questo termine perché intendo poi metterne in luce la valenza sciagurata – sta prendendo letteralmente in ostaggio gli insegnanti. Una situazione del genere non si è ancora prodotta nell’università, ma vi sono tutte le premesse perché ciò accada. Questo è conseguenza della diffusione e dell’egemonia di una serie di visioni ideologiche della questione dell’istruzione e dell’educazione sulle quali ci soffermeremo in seguito. L’episodio sopra raccontato mette in luce un’altra questione non meno grave, sul piano dei contenuti: la crescente frattura tra le “due culture”. Da un lato, non si è affatto attenuato il tradizionale disprezzo per le scienze, e la matematica in particolare, diffuso in molti ambienti delle facoltà umanistiche e che si esprime nelle solite tiritere snobistiche: “di matematica non ho mai capito nulla”, “solo a vedere un numero

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[22] o una formula mi sento male”, e via dicendo. E l’aspetto tragicomico della faccenda è che questo accade mentre di scienza si parla sempre più (e sempre peggio) dappertutto. Dall’altro lato, gli studenti delle facoltà scientifiche ricambiano in forme che non si erano mai viste: scrivendo come semianalfabeti, brutalizzando sintassi e grammatica e quasi se ne vantano. Persone che spendono senza esitare per scarpe griffate non sono disponibili a spendere una somma di denaro insufficiente a pagarsi una pizza e una birra per acquistare un libro in cui siano esposte in modo ordinato e organico i contenuti di un corso, e poi metterlo nel patrimonio della propria (piccola o grande) biblioteca personale. Chiedono soltanto dispense, non importa quanto sommarie e sgangherate, purché gratuite e contenenti esattamente le nozioni necessarie a superare un esame, e non una riga di più. Naturalmente questo non è colpa delle persone, che sono intelligenti e potenzialmente capaci come prima, bensì di un sistema dell’istruzione universitaria sempre più ridotto a somministrare nozioni e a fare esami (valutare), ovvero ridotto a una macchina cieca e rozza che con la cultura non ha nulla a che fare e che educa anzi all’incultura. La radice di questo imbarbarimento sta nella riduzione del sistema dell’istruzione a un apparato il cui esclusivo compito è dispensare “competenze” e “certificarle”, in nome del “passaggio dalla cultura delle discipline alla cultura delle competenze”, secondo l’orrido lessico pedagoghese.

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Origini del disastro Non è retorica dire che la scuola italiana di ogni ordine e grado era una delle migliori del mondo, un vero e proprio fiore all’occhiello del paese. Chiunque sa che il liceo classico ha formato non soltanto generazioni di persone preparatissime nel campo delle scienze umane, ma anche generazioni di eccellenti studiosi nel campo delle scienze naturali e matematiche. È ben noto che un laureato italiano in fisica o in matematica (secondo il vecchio ordinamento universitario) si trovava sempre in ottima posizione nel concorrere alle prove d’ingresso per un dottorato (PhD) negli Stati Uniti, in quanto possedeva una preparazione di base invidiabile. È quasi un luogo comune dire che gli studenti che uscivano dal liceo classico, sebbene avessero poche nozioni scientifiche, avevano acquisito una formazione concettuale che li metteva in posizione di recuperare rapidamente il ritardo rispetto ai diplomati nei licei scientifici e spesso di sopravanzarli. Uno dei più grandi matematici italiani, Federigo Enriques, ripeteva di aver scelto lo studio della matematica «per un’infezione filosofica liceale». Questa visione umanistica lo condusse a immaginare una struttura dell’istruzione che doveva raggruppare tutte le branche teoriche della conoscenza in un’unica “Facoltà filosofica”, accanto alla quale dovevano collocarsi le “Scuole di applicazioni” e i “Collegi di insegnamento normale” preposti alla formazione dei docenti della scuola secondaria. Malgrado i conflitti tra scienziati come Enriques e i filosofi neo-idealisti come Benedetto Croce e Giovanni Gentile, quest’ultimo seppe aprirsi sempre di più alla considerazione dell’importanza della cultura della scienza in una prospettiva umanistica. Si può dire quel che si vuole e si possono avanzare molte fondate considerazioni critiche, ma è innegabile che la “riforma Gentile” dell’istruzione ha rappresentato una delle più intelligenti, organiche ed efficaci riorganizzazioni della struttura educativa che abbia prodotto la 43

cultura europea del Novecento. Dopo mezzo secolo di ottime prove essa richiedeva senza alcun dubbio rilevanti correzioni, soprattutto volte a dare maggior spazio alla componente scientifica e tecnologica dell’istruzione, richieste non soltanto dal mutare dei tempi ma anche dalle tracce negative lasciate dall’impostazione neoidealistica di Gentile; sebbene – occorre dirlo – essa non abbia ostacolato la conquista da parte dell’Italia di posizioni di primissimo piano nel campo scientifico internazionale. Doveva essere comunque evidente che una riforma organica e complessa come quella di Gentile non poteva essere modificata senza un ripensamento profondo e un’ispirazione complessiva di pari profondità e portata. Ma questa evidenza non si è imposta. Al contrario, è iniziato un lento e metodico lavoro di smantellamento dell’edificio, ora abbattendo e spostando un tramezzo, ora picconando un asse portante e rabberciandolo, fino a che ne è venuta fuori una costruzione composita e per lo più incoerente, una sorta di sbilenca arlecchinata. Dicevamo che la motivazione più valida che spingeva a metter mano a una riforma della legge Gentile era quella di dare maggiore spazio alle materie scientifiche e di correggere una visione che non valutava appieno il valore culturale della scienza. Ma proprio per ottenere questo occorreva ripensare il tutto in modo da integrare le materie scientifiche in un approccio coerente che le ponesse su un piede di parità con le materie letterarie e storico-filosofiche. Si trattava, in altri termini, di valorizzare il significato culturale della fisica, della matematica, della chimica, della biologia, evitando accuratamente ogni approccio che le riducesse a meri saperi tecnici ed esaltasse al contrario la loro portata conoscitiva ed anche filosofica. In questa direzione, avrebbe dovuto insegnare molto proprio la visione di Enriques e l’importanza che egli attribuiva alla storia ed alla filosofia della scienza come ponte di congiunzione tra quelle che si usano chiamare le “due culture”. Ma non è stato fatto nulla di tutto questo. La pratica della 44

riforma per “bricolage” non poteva che condurre esattamente nella direzione opposta ed ha condotto di fatto ad una scuola priva di qualsiasi asse culturale formativo sensato, ma non priva di un influsso ideologico dominante, e cioè del “pedagogismo progressista” di cui parleremo tra poco. È paradossale che la demolizione sistematica di una delle migliori scuole statali del mondo sia stata compiuta soprattutto da governi di centro-sinistra, ovvero da governi che dovevano avere a cuore più di altri la difesa della scuola pubblica. A onor del vero, però, dopo un primo lavorìo di sgretolamento, la più rilevante picconata vibrata alla scuola italiana è stata dovuta al ministro della Pubblica Istruzione del primo governo di centrodestra presieduto da Silvio Berlusconi, e cioè al ministro Francesco D’Onofrio. Si è trattato dell’abolizione degli esami di riparazione nelle scuole superiori con la contemporanea introduzione dei cosiddetti “debiti formativi” da “recuperare” mediante degli “interventi didattici ed educativi integrati”. Si motivò tale provvedimento con la necessità di eliminare il mercato delle ripetizioni – oggi il crollo di livello della scuola ha reso addirittura impellente la necessità di integrare al livello universitario la preparazione degli studenti – e di allinearsi ad esperienze estere “più avanzate”. In realtà, fu un atto superficiale e irresponsabile, come tutti gli atti con cui si distrugge senza avere ancora un’idea precisa di come ricostruire e affidandosi alla buona sorte, seconda la logica del “in qualche modo ce la caveremo”. Oggi tutti sanno che l’abolizione degli esami di riparazione, oltre ad aver prodotto l’effetto quasi immediato di un crollo del livello di preparazione degli studenti, ha demolito uno dei pilastri della disciplina scolastica. Difatti, la “minaccia” degli esami di riparazione era uno degli strumenti più efficaci dell’insegnante per suscitare il senso del dovere. Soltanto gli illusi o i demagoghi possono sostenere che il senso del dovere sia un fatto naturale e che, per farlo consolidare come un 45

comportamento etico spontaneo, non sia necessario utilizzare anche qualche strumento costrittivo. Da quel lontano 1994, l’insegnante non possiede più la “deterrenza” costituita dalla minaccia di un’estate rovinata ed è soggetto alla derisione dei nullafacenti e degli indisciplinati che sanno perfettamente di non rischiare quasi nulla trascurando una o due materie. Gli esami di riparazione erano uno strumento di persuasione e spingevano lo studente a non trascurare nessuna materia o quantomeno a non trascurarne nessuna completamente. I [23] provvedimenti che hanno introdotto delle forme di controllo per cui lo studente che non risolve i suoi “debiti formativi” entro l’autunno è costretto a ripetere l’anno, lasciano sperare in un’inversione di tendenza, che tuttavia richiederà non pochi sforzi e farà vedere i suoi effetti positivi soltanto tra qualche tempo. In attesa che questi nuovi positivi sviluppi si manifestino, dobbiamo fronteggiare una situazione disastrosa – che è una delle cause principali del crollo del livello di istruzione e dello sfacelo disciplinare della scuola – la quale è stata determinata dai provvedimenti abborracciati e inefficaci con cui agli esami di riparazione autunnali è stata sostituita una miscela di caos e di vuoto. Sono stati gli anni peggiori per la scuola italiana, sottoposta a un insieme di provvedimenti promossi da colui che può ben essere considerato come l’Attila dell’istruzione italiana di ogni ordine e grado, il ministro Luigi Berlinguer, assieme al suo collega e mentore Tullio De Mauro. In primo luogo, il sistema di recupero dei debiti formativi non ha mai funzionato per l’assenza di fondi, per l’insensatezza di voler recuperare una carenza in materie di importanza primaria con corsi di pochissime ore, per la pretesa di mettere insieme studenti di provenienza diversa, per le differenze tra le diverse scuole che ha prodotto disequilibri qualitativi vistosi. In secondo luogo, esso è stato strutturato con regole perverse che consentono di fatto l’accantonamento di alcune discipline da parte dello 46

studente nell’intero corso degli studi. Difatti, la delirante invenzione dei “6 rossi” e “6 con asterisco” e della possibilità di promuovere con insufficienze “non gravi” in una o più discipline, ha indotto la stragrande maggioranza degli studenti a decidere preventivamente di non studiare (o studiare pochissimo) un paio di materie – tra cui, guarda caso, quasi sempre la matematica – e ottenere buoni risultati sulle altre, per garantirsi così di poter andare avanti senza problemi. È una situazione da mercato delle vacche che ha stimolato le forme più bieche di opportunismo, e ha indotto anche i più volenterosi alla nullafacenza e al cinismo: questi ultimi si sono chiesti perché mai avrebbero dovuto faticare di fronte allo spettacolo di ignoranti e nullafacenti che possono cavarsela con scelte astutamente mirate. Si è posta in essere una gara non al miglioramento bensì al ribasso, con una generale propensione alla mediocrità, alla negligenza e al disprezzo arrogante per il docente: quell’egualitarismo verso il basso di cui abbiamo già [24] parlato. A questa visione soggiace un’altra idea sciagurata: e cioè la concezione dello studente come “utente”, come se si trattasse del passeggero di un autobus, dell’utente di un ufficio postale o di un acquirente di prodotti in un supermercato. La scuola non assolve più a una funzione educativa, bensì a una funzione di erogazione di servizi che deve essere svolta con il massimo di soddisfazione dell’“utente”, in modo da conquistare alla scuola medesima una buona fama, aumentare il numero dei clienti o quantomeno non perderne. Inutile dire che la via maestra per ottenere questo risultato è offrire promozioni con il minimo di sforzo. Ma su questi temi, così come sul ruolo perverso della docimologia, dell’ossessione per la valutazione quantitativa “esatta”, la didattica dei test, e consimili amenità, torneremo più in dettaglio tra poco. Per ora, limitiamoci a registrare i disastri che ha prodotto la demagogia dell’egualitarismo e della 47

manipolazione della struttura scolastica in termini meramente tecnici, senza nessuna seria considerazione per i contenuti. Un crollo che non è soltanto in termini di qualità dell’istruzione, ma un disastro educativo che si riflette nell’indisciplina e nella mancanza di rispetto per la figura del docente – ridotto ormai a un burocrate stretto nella tenaglia delle normative calate dall’alto e della pretese dell’“utenza” – che ormai dilagano nelle scuole italiane. È davvero penoso assistere allo spettacolo dei principali attori di questo disastro che lamentano il fatto che gli alunni non sanno più scrivere in corsivo e non sanno fare calcoli elementari come se tutto ciò fosse colpa del riscaldamento globale o del buco nell’ozono e non fosse diretta conseguenza della loro “opera”. Costoro, come sono stati incapaci di affrontare efficacemente la problematica dell’insegnamento così sono incapaci di comprendere i loro errori, e tanto meno possono essere capaci di emendarli. Lo si è visto, del resto, nel modo in cui si è cercato di mettere delle toppe sul problema dell’indisciplina nelle scuole, emanando una “carta dello studente” che finiva col lusingare ancor di più la pretesa ad avere diritti anziché richiamare l’esigenza di adempiere a dei doveri. E si è così prodotto un esempio perfetto della situazione così bene descritta da Platone ne La Repubblica, in cui «un maestro ha paura degli allievi e li lusinga, gli allievi dal canto loro fanno poco conto sia dei maestri sia dei pedagoghi; insomma, i giovani si mettono alla pari dei più anziani e li contestano a parole e a fatti, mentre i vecchi, abbassandosi al livello dei giovani, si riempiono di facezie e smancerie, imitando i giovani per non sembrare spiacevoli e dispotici». Fino al caso grottesco di quel sottosegretario del governo Prodi, l’ineffabile Paolo Cento (detto “er piotta”) che fece una proposta di legge per legalizzare una settimana annuale di occupazione delle scuole da parte degli studenti… L’università richiede un discorso completamente a parte. Anche qui il degrado ha raggiunto livelli di estrema gravità, i quali tuttavia non sono ancora al punto raggiunto 48

nell’insegnamento secondario, ma si apprestano ad esserlo. Il sistema dei crediti formativi si è affiancato in modo tutto sommato formale alla valutazione tradizionale in voti, che non è stata sostanzialmente modificata. Il grimaldello che ha iniziato a scassare il sistema universitario e a proiettarlo sulla stessa china della scuola secondaria, è l’introduzione delle lauree brevi triennali, che possono essere proseguite con le cosiddette lauree specialistiche, il cosiddetto sistema del “3+2”. Si tratta di lauree praticamente inutili, salvo alcuni casi particolari, che non servono ad accedere ad alcuna professione, tutt’al più ad ottenere aumenti di stipendio in un ufficio, e quindi destinate a divenire assolutamente insignificanti nel caso di una soppressione del valore legale della laurea. La prosecuzione specialistica serve principalmente a tappare i buchi della laurea triennale e non produce alcuna sostanziale preparazione in più rispetto alle vecchie lauree quadriennali. La frantumazione dell’insegnamento in moduli e sottomoduli di poche ore – qui si manifesta l’effetto perverso del sistema dei crediti formativi – costringe lo studente a affrontare un numero esorbitante di piccoli corsi ed esami e il docente a spezzettare materie che richiederebbero uno sviluppo annuale, in microcorsi che hanno senso soltanto nel contesto di saperi tecnologici molto circoscritti. A questo spezzettamento si è accompagnato quello in una miriade di corsi di laurea spesso di fantasia o francamente ridicoli (“scienze della pace”, “scienze del benessere del cane e del gatto”), per concorrere efficacemente alla conquista del massimo numero di “utenti”. Tutto ciò ha concorso a creare un clima nevrotico, in cui studenti e docenti non riescono a realizzare forme di incontro e di comunicazione distese, tranquille e riflessive. La caduta del livello di preparazione è dovuta, oltre che a questi fattori, all’introduzione di criteri deliranti, come quello secondo cui un’università tanto più viene finanziata quanto più è elevato il numero di studenti che si laureano in tempo. In tal modo, le università sono stimolate a promuovere con la manica più larga possibile. Per 49

parte sua, il docente tende a comportarsi allo stesso modo, poiché è influenzato dalla tendenza a valutare la sua “produttività” nei termini del numero di studenti frequentanti il suo corso, a sua volta stimato in base al numero di promossi. Si produce così una corsa verso il basso del tutto analoga a quella della scuola secondaria. Si aggiunga a questo che, oltre alla eccessiva proliferazione della didattica, la mole di adempimenti burocratici e il moltiplicarsi delle attività amministrative (legata anche al proliferare delle forme istituzionali) conduce a una marginalizzazione crescente della ricerca scientifica e all’emergere di una categoria di docenti sempre più dediti alla gestione e all’amministrazione e che, per il carattere sempre più indispensabile di questi aspetti, ha conquistato posizioni di particolare autorità e considerazione, ben al di sopra dei docenti che hanno “soltanto” prestigio scientifico. Anche per queste forme esasperate di burocratizzazione e per l’ipertrofia degli aspetti gestionali, oggi l’università italiana è sempre meno un luogo dove si fa cultura. Anzi, non esagerato dire che la cultura si fa quasi esclusivamente all’esterno della struttura universitaria. Su questo tema torneremo nell’ultimo capitolo.

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Responsabilità Chi sostiene che le riforme sopra ricordate hanno incontrato un consenso maggioritario, o anche soltanto un largo consenso, nell’ambito del corpo docente, o non sa di cosa parla o mente sapendo di mentire. Alcuni anni fa, il noto giornalista Mario Pirani scrisse alcuni articoli di critica dell’andazzo che stava prendendo il sistema dell’istruzione e iniziò a ricevere ondate di lettere da parte soprattutto di docenti, ma anche di famiglie, che denunciavano una miriade di casi e di esempi a sostegno delle sue critiche e lo incitavano a proseguire la battaglia. Fu tutto inutile perché contro Pirani si erse un muro compatto: ministri, sindacati confederali e professionisti dell’educazione e della pedagogia si levarono come un sol uomo a proclamare il loro sdegno nei confronti delle calunnie [25] che venivano propalate dall’imprudente giornalista. Si disse anche che le assemblee e gli incontri con insegnanti e famiglie testimoniavano una realtà ben diversa, e cioè un’adesione largamente maggioritaria ai nuovi indirizzi impressi al sistema dell’istruzione. Un episodio occorsomi può servire più di lunghe spiegazioni a chiarire la situazione. Poco dopo l’insediamento del secondo governo Berlusconi, nel 2001, fui invitato a tenere una conferenza in un grande liceo di una città emiliana, senza dubbio una città saldamente in mano alla sinistra. In un incontro informale con un nutrito gruppo di insegnanti, prima della conferenza, si parlò della situazione della scuola. I commenti negativi e pessimistici, del tipo di quelli esposti nel precedente paragrafo, si sprecarono e, alla fine, un’insegnante esclamò: «Speriamo che il nuovo ministro Moratti, cancelli a zero tutte le riforme precedenti e ricominci da capo». Fui molto sorpreso, tenuto conto dell’orientamento politico di sinistra che accomunava tutti i presenti e chiesi: «Ma perché queste cose 51

non le dite pubblicamente, invece di borbottare in privato?». La risposta fu: «Scherziamo! Qui chi osa dire cose simili viene fatto a pezzi dai sindacati». Osservavo in precedenza che, con la notevole eccezione della picconata del ministro D’Onofrio, uno dei più grandi paradossi italiani è che una scuola pubblica di livello eccellente sia stata massacrata da una delle sinistre più stataliste d’Europa. Avremo modo di approfondire le ragioni politico-culturali di questo paradosso. Per il momento, ci interessa sottolineare un aspetto: l’attaccamento della sinistra italiana a una visione statalista ha fatto della scuola pubblica il terreno di elezione della sua egemonia politica. È qui che la sinistra ha sempre ritenuto di avere un ruolo particolare da svolgere. La scuola pubblica è sempre stata da lei considerata come “cosa sua”. A tal punto cosa sua, da manipolarla senza riguardi quando si è trattato di mettere in opera delle sconclusionate teorie riformatrici. Non c’è dubbio che i partiti di sinistra – in particolare il Partito Comunista – e i sindacati confederali – in particolare, la CGIL – hanno sempre considerato come una sorta di diritto naturale l’intervenire per decidere la struttura degli organi collegiali della scuola e persino i contenuti dei programmi scolastici o le modalità di scelta dei libri di testo, per scegliere i rettori delle università, i presidi di facoltà e i funzionari amministrativi, per indicare le modalità di reclutamento dei docenti, per gestire le biblioteche universitarie e via esemplificando. Posso dire di aver assistito, in tempi non molto lontani. a parecchie riunioni convocate esplicitamente a tali fini. E se il ruolo dei sindacati si è rivolto soprattutto alle modalità generali del reclutamento (ope legis, concorsi, ecc.), al livello dei partiti si è manifestata un’attenzione capillare al reclutamento dei singoli, all’andamento dei concorsi e al conferimento delle singole cattedre. Può essere curioso notare che vi è stata anche una certa forma di concorrenza tra partito e sindacato su tali questioni, in particolare nell’università, dove il fenomeno di progressivo rigetto nei confronti del sindacato da 52

parte dei professori e il loro passaggio a uno stato giuridico agganciato alla dirigenza ha suscitato un’irritazione che è sfociata in un vero e proprio desiderio di vendetta. Lo si è visto quando in cambio della sempre riproposta e mai accettata “contrattualizzazione” dei docenti universitari, i sindacati confederali hanno appoggiato in tutti i modi le decisioni più punitive sul piano delle retribuzioni. Da lungo tempo la sinistra considera la cultura e in particolare il sistema dell’istruzione come proprio dominio intoccabile, ed ha vissuto in modo traumatico la constatazione che le riforme dei governi di centro-sinistra avevano prodotto sentimenti di frustrazione e di scontentezza – proprio quelli che aveva registrato Mario Pirani – talmente diffusi e profondi da provocare un’emorragia elettorale proprio laddove si riteneva di possedere una roccaforte inespugnabile. Ma questo stato di cose è stato rimosso, come se fosse impossibile in quanto inconcepibile: istituzioni e forze politiche “riformatrici” si sono racchiuse in un sfera di assoluta cecità giudicando sé stesse in modo assolutamente autoreferenziale. Il malcontento si è diffuso a tutti i livelli del sistema dell’istruzione, dalle scuole materne all’università. Nell’ambito di quest’ultima l’influsso della sinistra è stato, ed è, forse ancor più forte che altrove. Non a caso, i pesanti tagli che derivarono dal decreto Bersani-Visco dell’agosto 2006, la pesantissima burocratizzazione delle procedure che esso introdusse, e persino i durissimi tagli di bilancio dei finanziamenti alla ricerca imposti dal governo Prodi provocarono soltanto proteste sussurrate rispetto a quelle violentissime e urlate in seguito alle iniziative dei governi di centro-destra. L’errore più grande del governo di centro-destra che ha retto le sorti del paese dal 2001 al 2006 è consistito nell’aver capito poco o nulla di questa situazione, nel non aver compreso che l’unico atto davvero popolare – malgrado le indubbie violente proteste che sarebbero insorte – sarebbe stato quello di 53

azzerare completamente l’interminabile catena di disastri compiuti dai ministri succedutisi dal 1994 in poi e di metter mano con calma e metodo a una riforma profonda e culturalmente solida. Non soltanto non l’ha fatto, ma ha proseguito, soprattutto nel periodo di governo iniziato nel 2008, in modo incoerente e disastroso: dapprima ha dato mostra di voler cambiare indirizzo, poi si è allineato culturalmente alle tendenze precedente, rimettendo in mano alle lobby consolidate la gestione di “riforme” che hanno subito stravolgimenti enormi in corso d’opera e, d’altra parte, segnalandosi per una pesantissima politica di tagli. La riforma universitaria messa in cantiere dal ministro Gelmini all’inizio prometteva bene, e cioè l’introduzione di marcate forme di autonomia e di un sistema di valutazione ex-post, ed è finita nel suo contrario: un dirigismo di stile sovietico (o bottaiano) e un pesantissimo sistema di valutazione a monte. È un fallimento alla cui origine sta un atteggiamento di subordinazione e di estrema povertà culturale. Il governo di centro-destra ha gestito la scuola e l’università in una linea di vera e propria continuità con i precedenti governi di centro-sinistra, malgrado quel che si è voluto far credere e fatti salvi alcuni aspetti marginali. L’ottica culturale è stata sempre la stessa e una plateale rappresentazione di questa continuità è stata data dal ricorso alle medesime competenze pedagogiche, didattiche, manageriali e docimologiche, spesso addirittura alle stesse persone che le impersonavano da anni. Inutile dire che, poiché l’Italia è un paese affetto dal male dell’ideologia, queste politiche hanno suscitato una violenta reazione da sinistra come se si trattasse di qualcosa di totalmente estraneo alla sua tradizione. Prova ne è che le politiche dei ministri di centro sinistra succeduti a Gelmini – in particolare, il ministro Francesco Profumo – hanno proseguito sulla stessa linea senza suscitare reazioni rilevanti.

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Pseudoscienze e scienze dei nullatenenti Qualcuno può seriamente sostenere che i meccanismi di selezione dei risultati scientifici in base al loro valore o le procedure di controllo della qualità delle attività di un docente o di uno studente siano un’invenzione del Ventesimo secolo, e in particolare degli ultimi decenni? Sarebbe un’affermazione risibile. Tanto varrebbe dire che il mondo dell’istruzione e il mondo della scienza e, più in generale, della cultura non sono stati capaci nel passato di selezionare le persone e i risultati più validi… I risultati parlano da soli e il confronto con il presente è impietoso. Ne sono stati capaci e con un’efficacia di fronte alla quale impallidiscono gli arzigogolati marchingegni di “valutazione” che vengono messi in opera ai tempi nostri. Nel 1929, il celebre matematico John von Neumann additava come modello le competizioni studentesche promosse dalla Società ungherese di Matematica e di Fisica intitolata a Lorand von Eötvös, i cui vincitori diventavano sistematicamente personalità di primo piano della scienza mondiale. Eppure – non v’è dubbio, al riguardo – in quella società non avevano mai sentito parlare di una scienza oggettiva ed esatta della “valutazione” e, molto probabilmente, se qualcuno avesse loro proposto i servigi di questa pseudoscienza si sarebbero fatti quattro risate. L’Europa ha prodotto una scienza, una cultura e delle istituzioni educative di qualità straordinaria per qualche secolo senza l’ausilio di alcuna pseudoscienza della valutazione. Con questo non si vuol certamente dire che “un tempo” le cose andassero in modo perfetto. I problemi inerenti a qualsiasi tipo di valutazione e selezione (di persone, di articoli, di libri, di progetti o di prodotti di vario tipo) sono ben noti: errori di merito, valutazioni alterate da propensioni soggettive che, nei 55

casi peggiori, possono essere dettate da cattiva fede, ovvero dalla volontà di premiare (o danneggiare) determinate persone o correnti di pensiero. Quel che vogliamo argomentare è che questo tipo di inconvenienti non possono essere in alcun modo eliminati completamente, che determinate normative possono al più attenuarne gli effetti ma che non esiste normativa al mondo che non possa essere piegata in un modo o nell’altro a un’intenzione soggettiva, e che i tentativi di oggettivazione completa dei processi di valutazione comportano inconvenienti di gran lunga peggiori dei vantaggi, oltre ad essere inconsistenti sul piano scientifico, diciamo pure puerili. Il peggiore degli inconvenienti è quello di umiliare e svilire le persone implicate in un modo o nell’altro nel processo di valutazione. Consideriamo una questione centrale oggi nell’università e nei centri di ricerca: il controllo dei risultati della ricerca scientifica. Il principio di questo controllo risale alla fondazione delle accademie scientifiche e quindi addirittura al Seicento. I risultati – lavori, saggi, memorie, ma in certi periodi e in taluni paesi anche i progetti di apparecchi o macchine che dovevano ottenere un permesso di fabbricazione o un brevetto – venivano presentati all’accademia delle scienze che nominava una commissione di personalità del settore, la quale presentava una relazione circostanziata e proponeva, nei casi favorevoli, la pubblicazione dell’opera (o concedeva il brevetto). Con la costituzione di società scientifiche e di riviste indipendenti oppure associate alle università, questa procedura divenne sistematica e i comitati scientifici della riviste assolvevano a tali funzioni di giudizio. I rendiconti delle accademie (e spesso anche gli archivi delle riviste) forniscono una vastissima collezione di questi giudizi che rappresentano una miniera di informazioni per lo storico della scienza. È spesso possibile ricostruire attraverso tale documentazione il percorso storico di interi settori disciplinari e mettere in luce errori ed anche ingiustizie, atti faziosi e pregiudizi culturali che hanno condotto al mancato sviluppo di certi settori o al loro deperimento. Quel 56

che conta è che tutta la procedura era abbastanza trasparente, certamente molto più trasparente delle procedure attuali. Ad esempio, l’idea dell’anonimato è una trovata relativamente recente che molte persone dabbene ritengono assai efficace e “corretta”, mentre si tratta di una delle più colossali e inefficienti trovate che si possano immaginare. L’anonimità dell’autore del lavoro in esame – che è peraltro praticata meno di frequente – è una presa in giro, in quanto è facile desumere di chi si tratti, o quantomeno a quale “scuola” egli appartenga, da un esame anche sommario della bibliografia. L’anonimità dell’esaminatore è invece un’idea sciocca e scandalosa. Chi deve firmare un giudizio e quindi mettere in gioco la propria rispettabilità sta bene attento a quel che scrive, mentre – e si potrebbe produrre un gran numero di esempi al riguardo – un recensore anonimo può permettersi il lusso di emettere giudizi affrettati, superficiali o anche di fare affermazioni palesemente sbagliate, con gli intenti più disparati, senza dover pagare alcun prezzo per questo. Il diffondersi delle procedure di selezione mediante il ricorso a valutatori anonimi, lungi dal garantire la serietà e l’obbiettività del giudizio – si sostiene che il valutatore anonimo sarebbe libero di esprimersi senza le reticenze dettate dai suoi eventuali rapporti di conoscenza o amicizia con il valutato o dal timore di rappresaglie – induce comportamenti poco etici se non addirittura scorretti. Che bisogno c’è dell’anonimato? Una persona che appartiene al mondo della ricerca e dell’università dovrebbe essere capace di conformarsi a criteri di “scienza e coscienza” e non avere il timore di difendere le scelte compiute su tali basi. L’anonimato rischia invece di offrire coperture a comportamenti intellettualmente superficiali o eticamente scorretti. La “scienza della valutazione” interviene a questo punto per offrire sofisticate griglie di parametri quantitativi all’interno dei quali deve svolgersi il processo di valutazione e che dovrebbero garantirne l’oggettività. L’arbitrarietà del giudizio soggettivo dovrebbe dissolversi costringendo il valutatore a 57

rispondere a domande predeterminate e a rispondere, quanto più sia possibile, in termini di valori numerici o di risposte del tipo si/no che possano essere tradotte in un sistema quantitativo. I problemi che nascono in relazione a questo approccio sono di due ordini. In primo luogo, non esiste griglia di parametri entro cui non possano penetrare valutazioni altamente soggettive: non soltanto, e in fin dei conti, chi risponde alle domande ha la libertà di scegliere cosa rispondere, ma una costrizione eccessiva può indurlo a escogitare strategie di elusione. In secondo luogo, quanto più la griglia è rigida tanto più rischia di non corrispondere alla natura del problema e di introdurre criteri insensati o addirittura dannosi. Prendiamo come esempio un sistema di valutazione utilizzato in alcune università statunitensi (il cosiddetto “Lombardi Program on Measuring University Performance”). Esso ricorre a nove indicatori di produttività. Quattro di essi sono economici: spese totali per la ricerca, spese federali per la ricerca, lasciti e donazioni ricevuti, contributi fiscali ricevuti. Due indicatori sono relativi alle onorificenze: affiliazioni dei membri dell’università alla National Academy of Science, alla National Academy of Engineering, all’Institute of Medecine) e i riconoscimenti ricevuti. Infine, tre indicatori sono relativi al “successo di pubblico”: numero annuale di dottorati assegnati, numero annuale di studenti postdottorali, valori medi nei tests di ammissione. Per quanto riguarda gli indicatori economici, si noti che la valutazione basata sulla quantità di fondi già ricevuti afferma il principio secondo cui avrai tanti più finanziamenti quanti più fondi già possiedi. Questo è quanto dire che chi non è già nel circuito rischia di non entrarvi mai. Le conseguenze di questo approccio sono già evidenti dappertutto e, in particolare, anche in Italia, dove il sistema del “cofinanziamento” conferisce fondi per la ricerca soltanto a chi disponga di una dotazione di base, ovvero abbia già ottenuto altri fondi in qualche modo. Così 58

viene favorito il conservatorismo culturale e vengono premiati i gruppi più potenti, chiudendo il sistema al suo interno. Non meno grave è il fatto che, in tal modo, si premiano coloro che svolgono ricerche che hanno bisogno di più finanziamenti, indipendentemente dall’interesse e dal valore di quel che fanno. L’autore di un risultato che richiede pochi mezzi (per esempio, un matematico che ha dimostrato una celebre congettura che resiste ad ogni tentativo di dimostrarla da decenni o da secoli) sarà punito: non otterrà nulla perché ha speso poco e quindi non possiede dotazione di base per ottenere un “cofinanziamento”. Viceversa chi possiede fondi per produrre modelli matematici con largo uso di mezzi di calcolo riceverà altri fondi anche se continua a produrre modelli di valore insignificante e richiedenti un impegno mentale e di conoscenze risibile rispetto a ricerche puramente mentali. Sarà possibile ottenere finanziamenti ancor più lauti se, oltre a spendere molto, si producono dei modelli che riguardano problematiche economico-finanziarie che implicano la circolazione di imponenti capitali e si riesce a far credere che questi modelli sono efficaci. Il problema in tutto ciò è che la qualità della ricerca non è quantificabile con parametri, tantomeno relativi alla quantità dei fondi ottenuti. Inutile dire che anche il criterio delle onorificenze dovrebbe essere usato con grande cautela, perché rischia di costituire una barriera nei confronti di nuovi settori di ricerca e di giovani studiosi che abbiano l’audacia di gettarsi in un settore non considerato di moda, o addirittura contro corrente. L’aspetto tragicomico della faccenda è che tutti questi criteri vengono propugnati come efficaci strumenti per aprire la strada ai giovani e all’innovazione. È invece facile constatare che mai come oggi la ricerca scientifica è dominata da gruppi autoreferenziali (“societies for mutual admiration”) e da visioni ideologiche (come il paradigma pangenetico) che chiudono drasticamente la strada ad ogni visione alternativa. Il terzo gruppo di criteri, quelli relativi al “successo di 59

pubblico”, sono i più disastrosi. Abbiamo già accennato alle conseguenze del ricorso alla valutazione della percentuale di studenti che si laureano in tempo come parametro di finanziamento delle università in Italia: esso ha avuto come ovvia conseguenza il crollo della qualità dei corsi e del rigore negli esami. Ove venisse esplicitamente introdotto come criterio di valutazione dei corsi – e addirittura come parametro per determinare lo stipendio del docente in un regime liberalizzato – il numero di studenti che frequentano il corso, stimato mediante il numero di studenti che superano il relativo esame del corso, si produrrebbe un crollo drammatico della qualità determinato da una frenetica e demagogica corsa al ribasso. Senza contare che questo potrebbe condurre alla sparizione di materie seguite da una ristretta minoranza ma di importanza fondamentale per la sopravvivenza di una cultura degna di questo nome e, in definitiva, per non dissipare conquiste intellettuali che sono il frutto di fatiche secolari. Menzionerò, al riguardo, la vicenda (autentica) di un docente che insegnava letteratura europea medioevale in un’università statunitense. Avendo pochissimi studenti, la sua posizione era sempre più precaria. Poiché era appassionato di cinema, propose di fare un corso di storia del cinema. Da quel momento, la sua aula si riempì di un centinaio di studenti, la sua posizione accademica ed economica divenne eccellente. Tuttavia, se ciò gli consentì di risolvere le sue difficoltà personali, ebbe come conseguenza che in quella università è venuto a mancare un buon corso di letteratura europea medioevale. Tra gli altri sistemi di valutazione quantitativi si potrebbe menzionare il cosiddetto impact factor (ovvero il numero di citazioni di un articolo, il quale dipende dalla diffusione della rivista che pubblica un dato articolo, e che costituirebbe quindi una misura del valore scientifico dell’articolo medesimo). Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un criterio assolutamente sciocco. Mi limiterò a un esempio. Nel 1906, il grande matematico Henri Poincaré scrisse una memoria, “Sur la 60

dynamique de l’électron”, che può ben essere considerato come uno degli articoli scientifici più importanti del secolo scorso. Fu pubblicato sui Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, una rivista siciliana di secondo ordine che divenne prestigiosa in quanto la cura con cui veniva prodotta dal suo curatore, Giovanni Battista Guccia, le attirò le simpatie di illustri matematici, che pubblicarono su di essa articoli di grande valore come quello di Poincaré. All’epoca non esisteva alcun “impact factor” e, di certo, quello di un articolo pubblicato su quella rivista sarebbe stato nullo rispetto a quello conseguito pubblicando lo stesso articolo su un grande rivista affermata come i Mathematische Annalen. Un “valutatore” contemporaneo avrebbe dovuto attribuire un valore modesto all’articolo di Poincaré e ciò, è quasi superfluo dirlo, sarebbe stata una decisione assolutamente idiota. In definitiva, l’impact factor è nient’altro che l’espressione pomposa del principio del più assoluto conformismo: se qualcosa piace alla maggioranza, [26] allora vuol dire che è buona. Lo scopo di queste considerazioni non è certamente quello di difendere un atteggiamento scettico nei confronti della valutazione e di dichiararne l’impossibilità: è da augurarsi che nessuno voglia cavarsela tentando di interpretare quanto precede come un rifiuto della valutazione. Noi sosteniamo, al contrario, che la valutazione è un processo fondamentale. Riteniamo che in esso intervengano una quantità di fattori che non possono essere espressi in termini quantitativi e che la pretesa ridicola di voler annullare ogni “errore” di valutazione annullando l’intervento soggettivo del “valutatore” può condurre a errori ancor più gravi, a un approccio culturalmente mediocre e persino a situazioni tra il grottesco e il ridicolo. Il fatto è che il processo di valutazione dipende comunque dalla cultura del valutatore, la quale ha caratteristiche soggettive ineliminabili e che ogni tentativo di annullarle conduce a una sorta di appiattimento su formulari di idee banali e 61

convenzionali. La cultura e le idee sono in primo luogo espressione di soggettività e volerle standardizzare è un controsenso. La questione fondamentale su cui occorre pronunciarsi in modo netto e senza reticenze riguarda il carattere “scientifico” della scienza della valutazione: questa disciplina non soltanto non ha nulla di scientifico, ma neppure nulla di rigoroso, ed è assai discutibile che meriti persino il nome di disciplina. L’insostenibile pretesa che sta dietro di essa è di considerare come un’ovvietà che sia possibile una scienza oggettiva di processi eminentemente soggettivi. Il minimo che si può pretendere è che venga dimostrata, al di là di ogni dubbio, la fondatezza e l’efficacia di una “scienza” siffatta. Ma tutte le sue applicazioni pratiche hanno dato risultati disastrosi, mentre, in linea di principio, non vi è alcun motivo che considerarne a priori evidente la sua fondatezza concettuale. Al contrario, poche cose sono discutibili come questa. Settant’anni fa Edmund Husserl lanciava una sfida, dichiarando impossibile la costituzione di una psicologia come scienza fondata su un metodo oggettivo mutuato dalle scienze fisico-matematiche. Questa sfida è rimasta ancora senza risposta, poiché tutte le discipline che hanno come oggetto fattori eminentemente soggettivi hanno incontrato enormi difficoltà e sostanziali insuccessi nel tentativo di costituirsi sul metodo mutuato dalle scienze fisico-matematiche. È assai più ragionevole ammettere che la valutazione è una pratica che presenta aspetti inevitabilmente soggettivi ed è meglio che essi si manifestino alla luce del sole anziché essere compressi entro griglie di criteri che si pretendono oggettivi e costretti a farsi largo surrettiziamente nei buchi (un autentico colabrodo) di queste griglie. La valutazione deve conservare le caratteristiche di un’operazione essenzialmente qualitativa e non formalizzata. Una valutazione alla luce del sole, pubblica, senza anonimato e praticata dalla comunità scientifica o dalla 62

comunità degli insegnanti è il miglior sistema di controllo e di diffusione di atteggiamenti eticamente corretti e volti al perfezionamento professionale. Va osservato, al riguardo, che le recenti proposte di introdurre procedure di valutazione fatte dall’esterno e cioè da agenzie “indipendenti” dalla comunità degli studiosi o dei docenti rappresenta una delle degenerazioni potenzialmente più devastanti, perché mette in mano alla politica il controllo della cultura, della scienza e dell’istruzione, e quindi prefigura uno scenario autoritario. La valutazione deve essere un processo di confronto e crescita culturale all’interno [27] del comparto disciplinare in oggetto. Occorre poi porsi un’altra domanda: per quale motivo la scienza della valutazione dovrebbe essere esente dall’obbligo di rendere conto dei suoi risultati e della plausibilità dei propri fondamenti? Allo stato essa è l’unica disciplina esente da valutazione!... La domanda «chi valuterà i valutatori» rimane perpetuamente senza risposta. Certo, se i valutatori dovessero sottoporsi al controllo, occorrerebbe definire una modalità di controllo della valutazione, e così via retrocedendo all’infinito. In definitiva, la loro credibilità si basa sull’assunzione dell’indiscutibilità dei loro procedimenti e si traduce di fatto in una dittatura di questa “disciplina” sulle altre. Ma è chiaro che la posizione di preminenza della valutazione (e della bibliometria) non si afferma sul piano scientifico, bensì su quello politico, e questo è proprio quel che è accaduto nei fatti. Si è creata una casta di intoccabili, come risultato di un progetto lucidamente perseguito. Sebbene l’idea della pedagogia, della didattica e della valutazione come scienze oggettive, sul modello fisico-matematico, risalga ai primi decenni del Novecento, essa ha preso forza in numerosi paesi europei – e segnatamente in Italia – entro un progetto fortemente contrassegnato da una volontà rivoluzionaria e di scardinamento (questi termini vengono frequentemente usati) di un sistema della ricerca e dell’istruzione considerato e definito come 63

un’eredità ottocentesca e reazionaria. Il “pedagogismo democratico” o “progressista” è una sintesi fra il progetto scientista di cui si diceva e le tendenze rivoluzionarie emerse nel Sessantotto. L’obbiettivo è quello di abbattere la “scuola di classe” con il maglio dell’oggettività della valutazione e delle dottrine pedagogiche: renderle egemoni nell’istruzione è l’unico modo per demolire il bastione della “vecchia” scuola, e cioè la cultura tradizionale degli insegnanti. Uno dei mezzi per realizzare questa egemonia è quello di sostituire all’idea di “interdisciplinarietà” quella di “iperdisciplinarietà”: anziché far interagire le discipline occorre dissolverle all’interno di un contesto unitario. Strumento fondamentale di tale operazione sarebbero la multimedialità e il calcolatore. Si è parlato esplicitamente di questo approccio come di un “grimaldello” capace di “scardinare i saperi formativi tradizionali” e addirittura della sua funzione “velenosa”, in un senso ritenuto [28] buono, s’intende. In tal modo si realizzerebbe l’obbiettivo “sessantottino” di distruggere la “scuola di classe” che favorisce i già privilegiati mantenendo i loro vantaggi e non fa progredire gli svantaggiati mantenendoli nella loro condizione subordinata e costruire la condizione ideale in tutte le teorie di derivazione più o meno consapevolmente marxista: l’egualitarismo. E che cosa di più dell’oggettivismo – oggettività nella definizione dei contenuti dell’insegnamento e, soprattutto, nella valutazione – può garantire meglio la realizzazione dell’egualitarismo? Come ha detto ripetutamente Tullio De Mauro – anche nella sua veste di Ministro della Pubblica Istruzione – scopo della scuola è di non lasciare nessuno indietro e di far sì che tutti raggiungano lo stesso livello. Per ottenere tutto ciò occorrono dei garanti, rappresentanti e ministri dell’oggettività e costoro sono i pedagogisti “progressisti”, muniti delle loro teorie “oggettive”. Ponendosi a supremi garanti del sistema della formazione culturale nel suo complesso essi diventano una casta di intoccabili, il riferimento supremo, che non può essere 64

contestato e sottoposto a giudizio senza mettere in discussione l’intera costruzione. Questa casta ha ottenuto una posizione di potere e di impunità per due vie: una teorica ed una pratica. Quella pratica è consistita nell’insediarsi abilmente in tutti i centri nevralgici di controllo del sistema dell’istruzione e della valutazione. Ciò è accaduto in Italia, ma anche in altri paesi come la Francia. È indicativo di questo stato di cose la vicenda di un matematico di prestigio come Lafforgue, costretto a dimettersi da una commissione ministeriale per aver osato denunciare le «politiche ispirate da un’ideologia che non attribuisce valore al sapere», bensì «a teorie pedagogiche deliranti», alla «teoria dell’allievo “al centro del sistema” e che deve “costruire lui stesso i suoi saperi”». La seconda via è stata quella teorica, consistente nel nascondere le elucubrazioni pedagogiste dietro il paravento della necessità di una sorta di metadisciplina di “garanzia”, quella appunto preposta a integrare tutte le altre, a garantire la loro coerenza e quindi, in definitiva, a stendere le regole del sistema dell’istruzione e della valutazione. Si tratta di un paravento che è meno di una foglia di fico e che ha retto soltanto perché sono stati in pochi ad avere tempo e voglia di mettere sotto i riflettori le miserie della disciplina. La lettura di certi testi dovrebbe portare all’esclusione in perpetuo dai finanziamenti della ricerca coloro che li hanno prodotti. Uno degli esempi più grotteschi di queste miserie pseudoscientifiche è dato dall’ossessivo ricorso alla distribuzione normale o [29] gaussiana. Talora si cita la cosidetta “legge di Posthumus” secondo cui «un docente tende a aggiustare il livello del suo insegnamento e le sue valutazioni sulle prestazioni degli allievi in modo da conservare di anno in anno, approssimativamente la stessa distribuzione gaussiana dei voti»: e la si cita per dimostrare che la valutazione soggettiva o normativa conduce a risultati fuorvianti. Altrove si osserva che «nelle scienze umane, la curva a campana di Gauss ha una considerevole funzione, 65

perché essa è l’immagine stessa della ripartizione di molte attitudini e qualità: gli individui medi abbondano, ma i geni e gli idioti, i giganti e i nani sono rari. La curva di Gauss è sia il riflesso della legge del caso che presiede alla nostra nascita, sia la risultante dell’influenza di un gran numero di fattori che agiscono in maniera più o meno indipendente su di un individuo o un oggetto». E si spara questa tesi a dir poco azzardata per ricavarne una conclusione ancor più arbitraria, e cioè che «il mastery learning ha dimostrato l’esatta corrispondenza tra la rappresentazione grafica, in forma di curva gaussiana, che si ha quando gli studenti sono normalmente distribuiti riguardo all’attitudine e la medesima rappresentazione dei loro risultati al completamento del ciclo di istruzione se ad essi fosse fornita un’istruzione uniforme in termini di qualità e di tempo». E difatti, la gaussiana, prima utile a criticare la valutazione tradizionale, ora diventa fondamento di quella “oggettiva”. E il bello è che ciò viene fatto in pratica, usando tale criterio per valutare se la valutazione è stata fatta in modo corretto: se essa non corrisponde alla gaussiana vuol dire che è stata fatta male. Salvo il fatto che la distribuzione normale ha senso per grandi numeri ed applicarla, ad esempio, ad una classe scolastica è la più straordinaria cialtronata che si possa immaginare. Inoltre, il ricorso alla distribuzione normale viene usato in funzione di appiattimento, ovvero per tagliar fuori le punte estreme (somari e primi della classe) come anomalie rispetto alle capacità medie acquisite in una istruzione “uniforme” il che è aberrante perché è proprio in queste situazioni estreme che possono annidarsi i casi più interessanti. Il risultato è il livellamento verso il basso, [30] verso la media minima, secondo la definizione sgangherata [31] di Tullio De Mauro. È l’ideologia di un egualitarismo triste e cupo, di stampo sovietico. Risparmiamoci altre amenità, come i tentativi di valutazione quantitativa della creatività e addirittura di definire 66

un’unità di misura della creatività; o certe deliranti disquisizioni sulla “misurazione della cultura”. Dopo decenni di pedagogismo “scientifico” dovrebbe essere chiara che è insostenibile la pretesa che soltanto queste discipline, in quanto metadiscipline, siano esenti dalla valutazione – diciamo pure da un giudizio – cui invece sono soggette le discipline “ordinarie” come la fisica, la matematica, la biologia o la filologia classica. Ma non è soltanto sul piano teorico, bensì anche su quello pratico che esse debbono subire l’esame. Difatti, chi ha avuto l’opportunità di esercitare la propria influenza, anzi di comandare e sperimentare in corpore vili e con ogni mezzo le proprie teorie non può esimersi dal rendere conto dei risultati. E i risultati sono quelli che sono: una catastrofe clamorosamente evidente. Ma gli autori di questa catastrofe fanno finta di nulla, e anzi propongono di raddoppiare la dose delle loro nefaste medicine. Il caso di Laurent Lafforgue ne costituisce l’esempio più clamoroso. Giustamente egli ha osservato che «tutte queste persone hanno oggi uno scopo soltanto: scaricare le loro responsabilità e quindi mascherare con tutti i mezzi la realtà del disastro». Purtroppo, oggi, dietro alla falange del pedagogismo “progressista” si sta facendo avanti un’altra falange non meno agguerrita che tende a prenderne il posto: i tecnocrati della gestione e, in particolare, i cosiddetti “economisti della scuola”. Resta da fare qualche osservazione sul movente profondo che sta dietro l’ossessione di sottoporre la cultura, la scienza e l’istruzione a una misurazione quantitativa oggettiva e a [32] processi di standardizzazione. Si tratta di una profonda sfiducia nell’uomo, una sfiducia tanto radicale da spingere a inventare qualsiasi marchingegno pur di eliminare la sua visibilità, le sue tracce e persino il sospetto della sua presenza. Così facendo si elimina anche la creatività delle persone. Come stupirsi allora dello stato di profonda umiliazione, abbattimento e depressione in cui cadono tutte le persone soggette alle procedure di standardizzazione. Il docente della scuola 67

standardizzata non è più un uomo di cultura che, sia pure entro certe finalità, programmi e metodologie, trasmette le sue conoscenza e la sua esperienza per formare persone, ma un “operatore”, un funzionario scolastico, un burocrate dell’istruzione che è tanto più apprezzato quanto più cancella la sua soggettività – il che, in definitiva, è impossibile, e provoca soltanto le conseguenze disastrose che abbiamo sotto gli occhi. Non vi è da stupirsi per questi esiti umilianti, visto che l’ideologia dominante è che il docente non debba insegnare e tanto meno educare, ma debba limitarsi esclusivamente a coadiuvare l’alunno in un processo di apprendimento autonomo: un facilitatore, come dicono i nostri fautori della “nuova” scuola. Insomma, il docente non è più un insegnante e un educatore, ma soltanto un animatore culturale, una figura del tutto analoga a quegli “animatori” delle feste di compleanno dei bambini che facilitano la socializzazione e il divertimento proponendo giochi e guidando la festa nel modo più gradevole possibile. Qui si tratta soltanto di socializzare il processo dell’apprendimento. È un esito davvero bizzarro sopprimere la soggettività del docente per esaltare quella dell’allievo secondo i criteri sciatti e servili del più squallido giovanilismo! In tal modo, l’incontro tra due persone viene trasformato nel servizio prestato da un impiegato a un giovane utente che gode di ogni diritto e non è soggetto ad alcun dovere. Riconosciamo in questa visione le caratteristiche tipiche di una visione totalitaria, che cerca di sopprimere il ruolo della soggettività e conformare tutto a una dottrina imposta dall’alto. L’aspetto più deprimente di questa faccenda è che l’influsso di queste visioni è stato tale da imporsi anche a chi si richiamava a concezioni opposte, di tipo liberale, e mirava persino a combattere il carattere statale del sistema dell’istruzione e della ricerca; non avvedendosi che anche un sistema privatistico basato su tali criteri oggettivisti – intrinsecamente egualitari – sarebbe un [33] sistema totalitario. Ancor più deprimente è che si siano 68

assoggettati a tale visione persone che credono nel merito e nella necessità di premiarlo, mentre la scuola del pedagogismo progressista ha appiattito tutto verso il basso, facendo dell’ultimo della classe il riferimento del sistema. Al contrario, la “vecchia” scuola assumeva come punto di riferimento il livello più alto e non congelava affatto i ruoli, bensì offriva le opportunità e gli stimoli ad andare verso traguardi più elevati. Come abbiamo già osservato, l’egualitarismo del pedagogismo “democratico” è riuscito a realizzare proprio quella scuola di classe che si proponeva pomposamente di combattere. Concludiamo osservando che una delle tendenze centrali del pedagogismo progressista è lo spostamento dell’attenzione dai contenuti dell’istruzione al metodo: ancora una volta l’approccio dei nullatenenti. È lo spostamento dal tema del “sapere” a quello del “saper fare” o del “saper essere”, con la conseguente costituzione di un insieme di metodologie, di approcci, di regole che non soltanto relegano la figura del docente a quella di mero esecutore e la umiliano nelle forme già descritte, ma si configurano come un’ideologia totalitaria e autoritaria, concretamente impersonata da una corporazione strapotente in ambito politico e amministrativo. È la teoria secondo cui occorre passare dalla cultura delle discipline alla cultura delle competenze, e che si propone per tale via di [34] scardinare l’intera cultura degli insegnanti. Gli insegnanti dovrebbero vedere messa in discussione la loro cultura da personaggi che non hanno mai visto una disciplina nella loro concretezza, visto che non si vergognano di contrapporre discipline a competenze, e addirittura a parlare di competenze come incarnazione delle conoscenze, come se fosse possibile considerare le tecniche del calcolo infinitesimale o delle equazioni algebriche come un’“incarnazione” di conoscenze che vivrebbero in un mondo di astrazioni. Ed è ora chiaro – se ripensiamo a quanto visto in precedenza – che è proprio su tali basi deliranti che è stato ripensato l’insegnamento della 69

matematica. Può un paese avanzato mettere il sistema dell’istruzione in simili mani? Il processo degenerativo di fronte al quale ci troviamo è stato visto quando era ancora ai suoi inizi da una mente lucida [35] come quella di Hannah Arendt. Dopo aver definito le scienze pedagogiche «un incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità», Arendt denunciava il fatto che le riforme dei sistemi scolastici avveniva «mettendo del tutto da parte ogni regola di sano giudizio umano, per amore di certe teorie, buone o cattive che fossero». È la sfiducia nell’uomo di cui parlavamo prima. «Influenzata dalla psicologia moderna e dai dogmi del pragmatismo – continua Arendt –, la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento in genere, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto s’insegna». La sostituzione della conoscenza con la pratica e la metodologia deriva da un mediocre pragmatismo secondo cui «si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé. Applicato all’istruzione ciò significa, in termini primitivi quanto ovvi, che l’imparare viene per quanto possibile sostituito dal fare. Non si dà alcun valore alla padronanza della materia da parte del professore proprio per costringerlo a proseguire nell’attività dell’apprendimento, così da non trasmettere, come si dice, delle “morte nozioni”, bensì essere continuamente teso a mostrare il processo produttivo della conoscenza. L’intenzione consapevole non è d’insegnare una conoscenza ma di inculcare una tecnica».

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La scuola come impresa Le considerazioni precedenti conducono in modo naturale a criticare un’idea oggi molto diffusa e strettamente connessa alle ideologie di cui ci siamo occupati: la visione della scuola come impresa. Può apparire strano che l’approccio metodologico del pedagogismo sia coerente con una visione che concepisce la scuola come un’azienda i cui soggetti sono fornitori di istruzione e “utenti”, che fornisce “prodotti” la cui valutazione tiene conto sia della soddisfazione dell’utente e delle sue associazioni (analoghe alle associazioni dei consumatori) sia del giudizio di autorità indipendenti sul modello delle autorità preposte al controllo del consumo. Il piano inclinato che ha condotto a questa convergenza è quel pragmatismo di cui parlava Hannah Arendt nei brani citati nella precedente sezione. Oggi, mentre i guasti di questa visione aziendalista si fanno sempre più evidente, il mondo del pedagogismo viene attraversato da inquietudini e da prese di distanza, e questo la dice lunga sul suo carattere anticulturale che, in fin dei conti, non può non essere percepito da chi opera [36] sul fronte della cultura. Di per sé, l’esigenza di introdurre criteri di efficienza e di tenere conto delle opinioni di tutti i soggetti implicati nel processo dell’istruzione è perfettamente comprensibile e giustificata; anche se è una falsificazione rovesciare sui modelli passati d’istruzione la responsabilità di inefficienze che derivano proprio dalle sgangherate riforme che ne hanno distrutto il meglio e conservato il peggio. Difatti, in tal modo ci si preclude la comprensione delle ragioni della crisi e si rischia di proporre correzioni ancora peggiori del male o che avranno l’effetto di aggravarlo in modo irreversibile. Una di queste correzioni – una delle più letali – è l’idea che la scuola debba essere considerata come un’azienda, come un’impresa e che 71

debba essere resa efficiente imitando i criteri di gestione di un supermercato, di una fabbrica di elettrodomestici o di un’azienda fornitrice di servizi. La scuola e l’università non forniscono “prodotti” o “servizi” bensì conoscenze e formano delle capacità. In senso generale, il sistema dell’istruzione fornisce cultura, e la cultura non è un prodotto al pari di un’automobile o una scatola di tonno, né il lavoro di un docente equivale alla prestazione di un servizio, come quello di un impiegato a uno sportello. Sappiamo bene che è invalsa l’abitudine, in particolare nei processi di valutazione della ricerca scientifica o delle prestazioni scolastiche, di chiamare “prodotto” un lavoro scientifico o una lezione: si tratta appunto di un’aberrazione, di un’autentica idiozia. Dovrebbe essere evidente che quello che viene trasmesso in un’ora di lezione – come anche la lezione in sé – non è un oggetto materiale nello stesso senso in cui lo è la summenzionata scatola di tonno. A tal punto non lo è, che chi vorrebbe far credere che lo sia è costretto a introdurre e imporre delle procedure di standardizzazione che trasformano le attività culturali o educative in altro da sé: e qui ci ricolleghiamo in modo naturale alle considerazioni della sezione precedente. Inoltre, la tendenza a sostituire i concetti con i metodi costringe a contrabbandare i metodi come “prodotti”. Per esorcizzare il fatto che la cultura, l’istruzione e la scienza sono attività eminentemente contrassegnate dall’intervento della soggettività, si tenta di uniformare le attività del prestatore d’opera costringendolo a operare in modo automatico, più o meno come il commesso di un supermercato o come l’impiegato allo sportello. Poiché un certo pedagogismo concepisce l’insegnamento come la trasmissione di “competenze”, ovvero di metodologie, l’insegnante deve attenersi al compito esclusivo di socializzare il processo di apprendimento. Perciò egli deve operare in modo ancor più restrittivo dell’animatore di feste per bambini: egli è una sorta di commesso di un supermercato la cui funzione è di accompagnare l’acquirente di scaffale in scaffale 72

aiutandolo a scegliere (nel modo più possibile “oggettivo”!), illustrando la natura del prodotto e così aiutandolo a costruire in modo quanto più possibile autonomo la sua “spesa”. Il guaio è che, non soltanto la scuola non fornisce prodotti o servizi, bensì qualcosa di assolutamente peculiare come la conoscenza ed ha una funzione educativa, che è impossibile descrivere in termini mercantili. Non soltanto il docente non è assimilabile a un fornitore di servizi o prodotti; ma ancor meno l’allievo e la sua famiglia possono essere concepiti come “utenti”. L’attività di acquistare e consumare merci o di usufruire di servizi è libera e discrezionale. Non esiste alcun dovere sociale o individuale di far la spesa in un supermercato. E anche ove si tratti di prodotti di interesse pubblico, la situazione non cambia: nessuno è obbligato a consumare corrente elettrica o a fare telefonate. Al contrario, neppure il più accanito liberista potrà sostenere che l’istruzione sia un’opzione da esercitare oppure a no, a proprio piacimento, così come ho la discrezionalità di scegliere un formaggio francese al posto di un formaggio italiano, oppure nessun formaggio. Leggere, scrivere e far di conto e acquisire un insieme di conoscenze elementari, è un dovere sociale universalmente riconosciuto, cui occorre ottemperare se non si vuole che la società decada a livelli di barbarie. Neppure il più radicale utilitarista negherà che una società civile degna di questo nome ha bisogno di una cultura in senso ampio, fatta anche di cose non direttamente “utili” ma essenziali, come la conoscenza storica o la capacità di fare calcoli elementari. Pensare allo studente come un “utente” che entra nel supermercato-scuola, acquista un barattolo di marmellata e, se non gli piace, protesta col commesso, col direttore (preside) e magari, con l’appoggio della famiglia, se la prende anche con le istanze superiori, è un’altra idea devastante, assieme alle tante che abbiamo già esaminato. Lo studente non ha soltanto dei diritti ma, in primo luogo, ha dei doveri. Non soltanto: le capacità sue e della sua famiglia di valutare la congruità, l’utilità e l’interesse dell’istruzione e delle specifiche 73

nozioni che gli vengono impartite sono inevitabilmente limitate. E come potrebbe essere altrimenti? Non si capirebbe quale possa mai essere la funzione della scuola se non quella di indirizzare chi non è capace di farlo da solo e di fornire strumenti critici a chi ancora non ne possiede. Lascia esterrefatti lo sciocco servilismo che ispira certe domande che compaiono nelle schede di valutazione di talune università da compilare a cura degli studenti: «Ritieni che questo corso sia utile alla tua formazione e al tuo futuro professionale?». Se ripenso a me stesso quando ero studente trovo inconcepibile attribuirmi la capacità di valutare se un corso era utile o no alla mia formazione. Del resto, gli effetti di questo approccio sono sotto gli occhi di tutti. Esso ha incentivato un atteggiamento aggressivo e irresponsabile da parte degli studenti e delle loro famiglie. Se lo studente va male in matematica è comunque colpa della scuola e, in particolare, del professore. Un voto insufficiente in una materia è come una scatola di pomodori avariata: l’utente protesta col venditore. Non passa neppure per la testa che la colpa possa essere dello studente che non studia: la pretesa è quella di andare avanti senza fatica. La scuola e il professore hanno il dovere di fornire un buon prodotto, ovvero di far andare avanti lo studente, indipendentemente dal suo rendimento scolastico. Il contenzioso suscitato da questa situazione è ben noto ai professori, la cui frustrazione dovuta alla “moderna” concezione della loro funzione è aggravata dalle aggressioni umilianti cui sono sottoposti da parte dell’“utenza”. A ciò si aggiunga il fatto che i presidi, nella loro nuova figura di “manager” si sentono tenuti a “vendere” il loro prodotto scolastico come il migliore e a combattere con la concorrenza, per cui considerano un grave problema dover affrontare il malcontento dell’“utenza” a causa di troppe bocciature o di [37] valutazioni troppo basse. È sorprendente che persino alcuni dei tanti che hanno 74

[38] firmato qualche tempo fa un appello per l’educazione di notevole portata considerino credibile la parola d’ordine della scuola come impresa. Quell’appello sottolineava la più grande emergenza nazionale italiana (ma che, è bene dirlo, non è soltanto italiana): l’ educazione. E sottolineava che l’educazione «non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro». Appunto: educazione è molto di più che istruzione e molto di più che una mera trasmissione di prodotti. Il manifestarsi di una crisi della «capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli» è conseguenza dell’ideologia secondo cui «la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere». Rischiamo – continuava l’appello – di far crescere « una generazione di ragazzi che si sentono orfani, senza padri e senza maestri», mentre per educare «occorrono maestri». Ma come può essere “maestro” un inerte funzionario dell’istruzione, che si limita a favorire il processo di “autoapprendimento” in conformità a precetti imposti in modo autoritario? E come può essere educato un “utente” mosso soltanto dall’intento di massimizzare la propria utilità? Ricordiamo ancora gli ammonimenti di Hannah Arendt. La crisi dell’educazione è inevitabile quando crollano i pilastri su cui essa si fonda, che sono libertà, tradizione e autorità. Una libertà senza autorità e tradizione, ovvero senza maestri, non è libertà autentica. Difatti, l’educazione ha bisogno di un fondamento di conservazione: soltanto chi sia educato entro solidi principi può essere capace di ripensarli ed eventualmente anche di innovarli in modo radicale ma costruttivo. Ed ha bisogno di maestri, di autentici maestri. Difatti, «il bambino non conosce ancora il mondo, deve esservi introdotto un poco alla volta; e poiché è una cosa nuova, occorre far sì che egli giunga a maturità rispetto al mondo qual è». Qui interviene la funzione dell’insegnante che «si qualifica per conoscere il mondo e per 75

essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo». Lasciamo ancora parlare Arendt: «il vero problema dell’educazione sta nell’estrema difficoltà […] di realizzare anche quel minimo di conservazione, quella situazione conservatrice assolutamente indispensabile per “educare” i giovani. […] L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».

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Pubblico e privato Nel secondo dopoguerra l’Italia fu invasa da un’ondata di passione per l’America. I simboli della vita americana dilagavano: Coca-Cola, blue jeans, chewing gum, hamburger, sigarette bionde, film western. Era la scoperta di un mondo nuovo ed emancipato da parte di un paese ancora intriso di cultura agricola. Questa passione fu all’origine di simpatiche satire tra cui spiccarono il film “Un americano a Roma” interpretato da Alberto Sordi e la celebre canzone “Tu vuò fa’ l’americano” di Renato Carosone. Era la presa in giro di un’immagine degli Stati Uniti al contempo mitica e ridicolmente fuori della realtà, come il Santi Bailor interpretato da Alberto Sordi, che credeva che gli americani si nutrissero di toast ricoperti di una miscela di yogurt, mostarda e marmellata. Sono passati alcuni decenni ma il motto “Tu vuò fa’ l’americano” è ancora perfettamente adatto a caratterizzare certi comportamenti nostrani che propongono progetti di modernizzazione su un modello “americano” che è americano quanto le fantasie gastronomiche di Santi Bailor. Una delle conversazioni più istruttive per me fu quella che ebbi una dozzina di anni fa, con un noto esponente della cultura di sinistra. Egli osservò che «purtroppo Baffone [cioè Stalin, per chi non lo ricordi] ci ha lasciati nei pasticci, per le malefatte che ha combinato, per cui gli antichi progetti non servono più alla sinistra; e allora non ci resta altro che la prospettiva di modernizzare il paese». Veniva da chiedersi per quale oscuro motivo una sinistra impregnata fino a quel momento di cultura marxista fosse particolarmente titolata a compiere un’opera di modernizzazione. Ma stiamo ai fatti. Da ormai quindici anni una sinistra orfana dei suoi paradigmi marxisti si è divisa in due correnti (che continuano a convivere da separate in casa): da un lato i rifondatori del comunismo o coloro che gli restano fedeli 77

ad ogni costo, e dall’altro i riformatori, ovvero coloro che si sono riconvertiti a un progetto di modernizzazione della società. In entrambe le famiglie continuano a vegetare sentimenti più o meno accentuati di antiamericanismo, ma nella seconda questi sono stati confinati al campo delle politica estera, mentre per le politiche economiche, sociali e dell’istruzione il modello “americano” è quasi divenuto una stella polare. Per quanto riguarda il mondo dell’istruzione e della ricerca scientifica ciò è apparso evidente nella sistematica introduzione di “modalità” copiate dal sistema americano: crediti e debiti formativi, sistemi di valutazione, managerialismo, tendenza alla privatizzazione ed alla liberalizzazione. Tuttavia, al di là dei simboli e delle tecniche, sul piano dei contenuti la copiatura è fasulla e rassomiglia molto ai modelli di un Santi Bailor. Un esempio emblematico al riguardo è dato dal modo con cui è stato e viene trattato il tema del rapporto tra sfera pubblica e privata, nonché quello del rapporto tra sfera amministrativa e sfera scientifica negli enti di ricerca. È noto che i convertiti possono dar prova del massimo fanatismo nell’adottare le posizioni che hanno fieramente combattuto fino a un momento prima. È alquanto divertente assistere allo zelo con cui i fautori, fino a ieri, di uno statalismo estremo tipico del mondo politico italiano, si fanno paladini delle virtù della “liberalizzazione”. Il riferimento al modello americano come ideale di “modernizzazione” – sia per imitarlo che per esorcizzarlo – congiunto a una visione del tutto deformata e caricaturale di tale modello, ha condotto a distorsioni assurde e dall’esito devastante. Prendiamo il caso del conferimento di autonomia amministrativa alle università. Si tratta di una finzione che ha portato soltanto a guasti. In effetti, da un lato si attribuisce alle università la “libertà” di determinare come meglio credono l’uso dei fondi in dotazione, scegliendo in “libertà” dove e come investire. Di fatto, esse si trovano con un nodo scorsoio al collo: l’entità dei finanziamenti è, in fin dei conti, sempre decisa dai governi, anno per anno e secondo criteri di bilancio che nulla o 78

poco hanno a che fare con le esigenze dell’istruzione; la voce stipendi è incomprimibile ed anzi dipende da decisioni esterne (governative, sindacali, ecc.); le università non possono liberamente determinare l’entità delle tasse universitarie, per non suscitare un malcontento sociale che destabilizzerebbe la politica. Resta loro la facoltà di giocare a monopoli con i denari dello stato o arrangiarsi a cercare finanziamenti di vario genere il che conduce a cercare affannosamente sponsors privati, a imbastire manifestazioni di vario in genere (incluse notti bianche, concerti rock e consimili) che conquistino la benevolenza di enti locali e di privati. Infine, la concorrenza assolutamente finta che è stata introdotta tra le varie sedi – finta, in quanto ogni università conferisce lo stesso “prodotto” avente l’identico valore legale – può essere esercitata soltanto in un modo: offrendo il prodotto-laurea al costo minimo possibile, ovvero studiando meno che si può, oppure offrendo talora lauree inconsistenti e demagogiche. Tutto ciò, congiunto a un sistema di reclutamento per concorsi localistico (alla cui introduzione ha contribuito in modo poco responsabile una parte rilevante del mondo accademico), congiura a un decadimento del livello degli studi e a una stagnazione della ricerca e degli scambi culturali, poiché, per un docente, spostarsi da un’università all’altra è diventato quasi impossibile, per vincoli di bilancio. Né la situazione è migliorata con la recente riforma Gelmini che prometteva maggiore autonomia in cambio di una valutazione ex post dei risultati ottenuti. Uno degli aspetti di tale “autonomia” doveva essere il nuovo regime di reclutamento, governato da un’abilitazione nazionale cui doveva seguire la chiamata diretta da parte delle università. Con la creazione di un organo di valutazione nazionale – Anvur, Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca – cui sono stati conferiti poteri di stile sovietico, l’abilitazione nazionale è divenuta una burla governata da un pugno di tecnocrati che impongono le loro regole automatiche basate sulla bibliometria 79

ed altri marchingegni ideati appositamente, cui dovrebbero seguire dei concorsi fintamente locali e di fatto ancora nazionali sotto l’occhiuto controllo dell’ente suddetto; il quale si produce a inventare pazzesche procedure di valutazione che hanno trasformato l’università in un gigantesco sistema burocratico di produzione di rapporti, schede e tabulati. Se si tiene conto dei risultati disastrosi introdotti da queste “riforme”, la brillante idea di esportare questo modello nella scuola secondaria, trasformando le scuole, ancor più di quanto già lo siano, in “imprese” in concorrenza l’una con l’altra, ma comunque soggette ai vincoli economici e strutturali di un sistema pubblico, è una follia che può germinare soltanto nella mente di persone che credono che una scuola sia la stessa cosa di una fabbrica di telefoni cellulari, con tutto il rispetto per quest’ultima. Il corrispettivo dell’Anvur nella scuola è stato creato con l’Invalsi (l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione) che anch’esso doveva essere un organo di valutazione ex post ed è diventato invece un organo dirigista di stile sovietico, che con le sue griglie di test sta trasformando la didattica in un colossale teaching to the test. Davanti alle macroscopiche inefficienze del sistema e della sua visibile decadenza intervengono i Santi Bailor, i quali credono che il modello “americano” insegni che l’efficienza del privato derivi dalla verifica dell’immediata utilità pratica del “prodotto”, tagliando così fuori i “perditempo”, i “chiacchieroni” e i fabbricanti di inutili astrattezze. Anche questa ideologia sta penetrando alla grande nelle università. Si stimola la creazione di lauree a indirizzo prevalentemente applicativo. Si tagliano i fondi ai centri di ricerca, lasciandoli “liberi” di cercare sostegni dove meglio credono, col risultato che chi offre “prodotti” – nel senso autentico della parola! – sopravvive, mentre chi crea scienza di base o cultura è destinato a sopravvivere rifornendosi dal cartolaio sotto casa. Si insiste sulla necessità di istituire un rapporto più stretto o addirittura 80

esclusivo con le imprese e con il “territorio”, facendo delle università un volano di crescita industriale e progettando persino di affidare la “valutazione” della ricerca e della didattica a “tavoli” formati da rappresentanti degli enti locali e delle associazioni confindustriali e sindacali. Tutto ciò punta direttamente alla creazione di entità inedite, una sorta di “scuole professionali superiori”, le quali con l’idea di università non hanno nulla a che spartire. Quanto alla cultura ed alla scienza, è preferibile non parlarne per non cadere nel ridicolo. Difatti, l’insistenza sulla produttività immediata e la concorrenza, all’interno di un sistema pubblico, non può che condurre, in modo ancor più rapido di quanto avvenga in un sistema prevalentemente privato, al declino rapidissimo di tutti quegli insegnamenti non immediatamente utili: filologia, lingue antiche, filosofia, storia e via dicendo. Forse questo farà piacere a qualcuno, in particolare a coloro che non capiscono che una società che disprezza la cultura è destinata al declino. Veniamo ora al famoso modello “americano” che costituisce la croce e la delizia dei nostri Santi Bailor. Non c’è dubbio che negli Stati Uniti l’iniziativa privata abbia sempre avuto un ruolo e un peso sconosciuto in Europa ed in particolare in Italia. Ciò detto, è singolare fino a che punto venga ignorato che gli Stati Uniti sono anche il paese in cui la ricerca scientifica gode di finanziamenti federali (ovvero pubblici) di entità enorme, incomparabilmente maggiore della nostra, e in cui sia il settore privato che quello pubblico nutrono una sensibilità altrove ignota per le imprese culturali e scientifiche anche non immediatamente utili. È innegabile che tale sensibilità si sia attenuata negli ultimi tempi ma è deprimente osservare come da noi l’attenzione già scarsa per la necessità di sostenere la ricerca scientifica e le imprese culturali non immediatamente utili stia crollando a zero. In tutti i ragionamenti che si vanno facendo su queste faccende si omette sistematicamente di ricordare che il modello 81

europeo e il modello americano dell’istruzione secondaria e universitaria hanno storie profondamente differenti. Agli inizi del Novecento, le università americane erano penosamente arretrate rispetto a quelle europee, trattandosi per lo più di centri di formazione didattica, che non offrivano alcuno spazio alla ricerca. Nello stesso periodo, il modello “statalista” europeo aveva – in Germania, in Francia, ma anche in Italia – caratteristiche di eccellenza straordinarie e funzionava a meraviglia. A tal punto che l’obbiettivo primario di coloro che si proposero di migliorare il sistema americano fu di imitare il modello europeo e, in particolare, tedesco. Il celebre Institute of Advanced Study di Princeton, considerato ancor oggi come una delle massime istituzioni scientifiche del mondo, fu realizzato imitando quasi pedissequamente il modello della facoltà di scienze (e in particolare dell’Istituto di matematica) dell’università tedesca di Göttingen. Certo, questo fu fatto con le modalità caratteristiche del sistema economico statunitense, ovvero avvalendosi di cospicui finanziamenti privati di industriali, nel contesto di una tradizionale politica di donazioni a fondo perduto per la cultura che era poco in uso in Europa. Ma non si capirebbe nulla del processo che ha condotto gli Stati Uniti al primato mondiale nel campo della scienza ed alla creazione di grandi università (private, beninteso), se si dimenticasse che queste istituzioni furono create con il reclutamento di migliaia e migliaia di professori, scienziati e ricercatori in fuga dall’Europa e dai suoi totalitarismi, e che questo reclutamento sarebbe stato impossibile senza un intervento statale massiccio che comportò finanziamenti imponenti e politiche federali coerenti. La sensibilità per il valore della scienza, della cultura e dell’istruzione è stata decisiva nell’affermazione del primato statunitense. È impossibile comprendere certi successi senza tener conto dell’intervento pubblico in campi come la ricerca spaziale o la “big science” e senza tener conto dei sostegni che persino l’esercito, la marina e l’aviazione hanno sistematicamente dato 82

anche alle ricerche di base più astratte e generali e non immediatamente utili, nella saggia convinzione – ereditata dal modello di successo europeo! – che la ricerca è un sistema unico che deve essere sostenuto nella sua globalità, inclusi i settori culturali apparentemente inutili, perché fiorisca e sia [39] anche concretamente produttivo. Quindi, il modello americano non si riduce a forme di privatismo assoluto, come credono certi “riformatori” nostrani, o anche gli oppositori radicali di qualsiasi cosa sia in sospetto di “americanismo”. Neppure però conviene occultare i difetti di quel modello e che, non a caso, stanno conducendo a un declino delle ricerche non direttamente aderenti a certi paradigmi [40] culturali o sociali dominanti. Ripetiamo che una storia comparata dei due modelli condurrebbe a una valutazione più equilibrata e saggia e capace di apprezzare la necessità di introdurre fattori di liberalizzazione nel sistema di tipo europeo senza dimenticare ciò che di positivo ha saputo dare il suo carattere pubblico. Sul rapporto tra pubblico e privato occorre saper ragionare senza dogmi e preconcetti. Occorrerebbe piuttosto chiedersi in modo serio e approfondito perché mai un sistema di straordinario successo, come quello dell’istruzione pubblica secondaria e superiore in Europa, abbia subito un declino così marcato. Le risposte sono diverse per le varie realtà nazionali. Nel caso italiano, appare evidente che ciò è stato dovuto alla trasformazione del sistema pubblico in un sistema essenzialmente corporativo-sindacale e attualmente anche a causa dell’interesse ossessivo del mondo confindustriale per fare della scuola uno strumento di formazione di quadri aziendali. Dovremmo porci la seguente domanda: perché mai la parola “statale” è divenuta quasi un epiteto obbrobrioso, sinonimo di inefficienza, nullafacenza, parassitismo, inadempienza ai doveri ed esaltazione accanita di ogni diritto? Eppure, la figura del funzionario pubblico dell’Italia post83

unitaria, e per quasi un secolo da quel periodo, era una figura nobile, di una persona che si sentiva investita di una missione e che esprimeva nella sua attività dei valori e rappresentava dei principi. Ciò era particolarmente vero per la figura dell’insegnante, personaggio quanto mai nobile e autorevole, una figura essenziale in quanto investita di una funzione sociale: l’educazione. Ricordiamo e ripetiamo le parole di Hannah Arendt: l’insegnante è una persona che «si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo». Oggi l’insegnante è invece ridotto al ruolo di “dipendente”, semplice cinghia di trasmissione di prescrizioni dettate per via burocratica, una pedina nelle mani di un sistema sempre più governato dalla triade Ministero-Sindacati-Confindustria, spinto in una condizione di degrado che suscita in lui soltanto il desiderio di difendere le proprie necessità materiali immediate. Si dirà che nutriamo una sorta di ostilità preconcetta nei confronti del ruolo dei sindacati. Nulla di tutto questo. Sarebbe stolto dimenticare quale ruolo di progresso sociale e di difesa di diritti essenziali abbiano avuto, ed abbiano, i sindacati. Ma non ci piace affatto un certo tipo di sindacalismo che non si limita a difendere i diritti e garantire le migliori condizioni di lavoro, ma pretende di gestire. Questo tipo di sindacalismo ha prodotto guasti di gravità indicibile nell’ambito del settore dell’istruzione. Esso ha preteso di impadronirsi in modo invadente e pretenzioso di un ruolo che non gli apparteneva, impicciandosi di ogni cosa, persino dei contenuti delle riforme o delle elezioni dei rettori delle università. La rappresentazione simbolica di questo sindacalismo è data dall’appellativo ridicolo che si è data la vecchia CGIL Scuola: Sindacato dei Lavoratori della Conoscenza… Né abbiamo nulla contro l’interesse degli imprenditori per la scuola. Ma è una tendenza davvero perversa 84

quella di certo confindustriale a usare i mezzi dello stato, le risorse pubbliche, per interessi privati, nel quadro di un assistenzialismo che ha purtroppo una lunga storia dietro di sé in Italia. Teniamo bene a mente questo: non bisogna confondere il sistema pubblico degradato e deprivato di ogni senso etico, in cui il funzionario pubblico è ridotto a un impiegato tendente al parassitismo, con un sistema pubblico funzionante ed ispirato a comportamenti etici. Difatti – non dimentichiamolo – nessun paese, anche il più liberista, può a fare a meno di un’amministrazione pubblica e di funzionari dello stato degni di questo nome. Se la scuola debba basarsi su insegnanti funzionari è certamente un tema di discussione aperto. Per almeno un secolo, la scuola pubblica italiana ed europea ha funzionato egregiamente su tali basi. Qualsiasi cambiamento si voglia introdurre deve basarsi su una discussione fondata su dati reali, non su ideologismi – quali che essi siano: che si tratti di adesione fanatica al pubblico o al privato – o sulle fantasie dei Santi Bailor. Nella concreta situazione italiana, noi siamo giunti ad un punto tale che non si sa più come andare avanti né è facile tornare indietro. Non è negli scopi di questo libro fare delle proposte organiche, né potrebbe esserlo. Ci limiteremo a sottolineare due nodi di importanza essenziale. Il primo riguarda l’università. L’unico provvedimento che può contrastare le tendenze degenerative in atto e forse (forse, e non trascurando le enormi difficoltà normative volte a implementarlo) può provocare un percorso virtuoso è l’abolizione del valore legale del titolo di laurea. Le ragioni di ciò sono state già accennate. Quel che rende del tutto virtuale ed ingannevole l’attuale “concorrenza” fra le università è il fatto che esse conferiscono il medesimo titolo, un “prodotto” di identico valore, per cui il modo migliore per attrarre il cliente è offrirlo al minimo costo. Questo determina quella corsa al ribasso, quella tendenza alla 85

dequalificazione delle università di cui abbiamo già parlato. Una condizione minima per arrestarla è di far sì che le lauree non valgano di diritto indipendentemente dalla loro qualità, ma valgano soltanto in funzione di questa. Lo studente tenderà così a scegliere l’università e il corso di laurea di maggior prestigio e che sono reputati per offrire le migliori opportunità per la futura vita professionale. A loro volta, le università saranno stimolate ad offrire dei corsi che acquistino una siffatta reputazione. È da notare che un provvedimento del genere può essere una condizione necessaria per invertire il declino dell’insegnamento superiore, ma non è affatto sufficiente. Ad esso occorre che si accompagni un sistema di reclutamento radicalmente diverso dall’attuale e comunque non basato sul sistema di concorsi in vigore fino ad oggi. È bene non illudersi: il sistema attuale è pubblico e tale resterà per lungo tempo, anche se dovesse prendere consistenza la presenza di università private, poiché transizioni del genere sono comunque lente e complesse. In questa situazione, sarà necessario affrontare di petto il problema del finanziamento delle università e della ricerca in modo da uscire dalla situazione attuale che presenta gli aspetti insostenibili sopra descritti. L’introduzione della concorrenza derivante dall’abolizione del valore legale della laurea può stimolare la crescita della qualità ma non garantisce affatto dal deperimento culturale derivante dal declino di interi settori ritenuti professionalmente poco utili. Come si è detto, il criterio di utilità diretta non è appropriato per lo sviluppo della ricerca e della cultura, soprattutto nelle loro parti più “deboli”, ovvero meno direttamente utilizzabili, ma che sono essenziali per garantire vitalità e creatività a tutto l’insieme. Occorre rendersi conto che tutto ciò che ha che fare con la cultura, la scienza e l’istruzione richiede un atteggiamento lungimirante e aperto, e deve contemplare la necessità di un sostegno materiale anche a fondo perduto, comunque non legato a criteri di redditività immediata. Naturalmente, la verifica delle attività svolte è non soltanto essenziale ma doverosa. È bene che essa si 86

svolga ricorrendo a criteri di valutazione che guardano alla sostanza ed alla qualità e che non siano immiseriti entro criteri formali e quantitativi spesso privi di senso. La scuola secondaria conduce a un discorso completamente diverso. Gli elementi di liberalizzazione che possono avere un ruolo vitale nell’insegnamento superiore qui possono perdere qualsiasi senso o essere addirittura controproducenti. Fare il medico o l’ingegnere è una libera scelta. Saper leggere e scrivere e possedere un bagaglio di conoscenze sufficiente a muoversi in una società sempre più basata sull’informazione e su fattori immateriali è una necessità assoluta e un dovere sociale (soggettivo ed oggettivo) come non gettare rifiuti per strada e non offendere il prossimo. La scuola dell’obbligo è una grande conquista sociale e di progresso. È impensabile non soltanto che essa diventi una facoltà modulata secondo le convenienze individuali, ma anche che la preparazione offerta dalle differenti unità scolastiche sia differenziata secondo criteri analoghi a quelli che possono aver senso per l’istruzione superiore. Si può articolare quanto si vuole lo spettro degli indirizzi formativi, ma la definizione delle conoscenze imprescindibili è necessaria e appare privo di senso pensare a una qualsiasi forma di abolizione del valore legale di un titolo di studio obbligatorio o quantomeno necessario per l’accesso all’insegnamento superiore. Altro discorso è, ovviamente, lo sviluppo di un’offerta di scuola privata in parallelo con la scuola statale. Quasi sempre, ma in questo ambito in modo particolare, una visione equilibrata e lontana dalle scelte estreme appare la più efficace e appropriata.

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Una scienza Cenerentola? Ed ora torniamo ai contenuti e alla questione specifica della scienza e del suo insegnamento. Difatti, se vogliamo uscire dal disastro educativo occorre pur parlare di contenuti dell’insegnamento, occorre che questa tematica riesca a elevare la sua voce al di sopra del chiacchiericcio metodologico o del cianciare di tecniche dell’apprendimento del nulla. È in tal senso che si impone in modo naturale un discorso sulla scienza. Che posto hanno la scienza, l’educazione scientifica, la divulgazione scientifica nel complesso di considerazioni che abbiamo svolto? Trattasi di materie come le altre, di un settore della cultura tra i tanti, che risente dei problemi che abbiamo descritto senza caratteristiche particolari e che non merita un’attenzione specifica? La risposta è negativa: il problema della cultura scientifica e dell’educazione scientifica ha una posizione del tutto speciale e particolarmente importante. Ciò è dovuto a due ragioni in certo senso opposte, come se dipendessero da una “forza” e da una “debolezza” della scienza. La “forza” è rappresentata dal fatto che la scienza ha un ruolo di assoluta centralità nelle nostre società. Basta guardarsi attorno e riflettere un minimo: a quasi tutti gli oggetti, gli atti o le operazioni che popolano la nostra esistenza sono sottesi concetti scientifici o tecnologici. Possiamo ignorare questi concetti, nondimeno essi sono vivi e operanti e plasmano la nostra vita quotidiana, e ignorarli fa di noi degli schiavi della rete tecnoscientifica, invece che soggetti capaci di farne un uso consapevole. La “debolezza” non è tanto dovuta alla scarsa diffusione della cultura scientifica e tecnologica diffusa, bensì alla scarsa propensione a informarsi e ad acculturarsi scientificamente. Circolano ancora a man bassa luoghi comuni insensati circa la difficoltà della matematica, che sarebbe materia riservata a poche menti elette e “predisposte” dalla 88

[41] nascita. L’apprendimento di nozioni e concetti scientifici non sembra meritare lo sforzo mentale che viene invece generosamente profuso per tematiche non meno faticose e assai più futili. C’è gente che trova naturale spremersi le meningi per risolvere un complicatissimo “sudoku” mentre non considererebbe neppure per scherzo l’ipotesi di riservare la metà di questo sforzo mentale a comprendere che cosa sia un’equazione differenziale, un frattale o il DNA. Peggio ancora: la scienza non è considerata come parte della cultura. Discuteremo in dettaglio più in là le origini e le responsabilità della diffusione di questi pregiudizi. Per ora, limitiamoci a registrare un fatto innegabile: la scienza non suscita particolari attrattive ed entusiasmi nella maggioranza delle persone, malgrado essa ci bombardi da tutte le parti e la sua presenza sia pervasiva in ogni senso. Questa situazione paradossale è particolarmente grave perché, essendo diffusa la consapevolezza del ruolo sempre più centrale della scienza e della tecnologia nella nostra vita, si afferma da molto tempo che la cultura scientifica deve diventare un asse portante della formazione e quindi dell’istruzione e della scuola. Era usuale parlare qualche decennio fa di “asse culturale” della scuola e, quando si ragionava attorno alle prospettive di riforma, si parlava di trasferire l’“asse culturale” dalle materie umanistiche alle materie scientifiche. Quale che sia la terminologia in uso, la sostanza del problema è più viva che mai e la questione rimane aperta. Difatti, se la riforma Gentile poteva ancora basarsi, con qualche fondatezza, su un ruolo preminente della formazione umanistica-filosofica, da tempo è ormai evidente l’insostenibilità della marginalizzazione della cultura scientifica e della scienza nel processo educativo. Il fatto grave è che, secondo molti sintomi, anziché andare verso una risoluzione del problema – ovvero verso l’attribuzione di un peso maggiore alla cultura scientifica nel processo educativo – sembra che la situazione stia addirittura peggiorando. Uno dei 89

sintomi di questo peggioramento è dato dal crollo delle iscrizioni alle facoltà scientifiche universitarie – matematica, fisica, biologia, con la notevole eccezione di ingegneria – malgrado una recente ma modestissima ripresa. Trattasi di un fenomeno di portata mondiale e che ha pertanto cause più profonde del semplice rigetto della cultura scientifica di cui si diceva sopra. Si tratta comunque di un fenomeno che va compreso e non semplicemente bollato – come ha fatto taluno – accusando gli studenti di scegliere le materie scientifiche per studiare di meno. Qui ci interessa osservare come questo declino abbia dato ulteriore alimento ai discorsi di coloro che lamentano una deplorevole specificità italiana: l’insensibilità per la cultura scientifica e il disamore per la scienza. Secondo costoro, da decenni in Italia la scienza sarebbe bistrattata, ignorata o addirittura detestata, in nome di una visione che non soltanto nega valore culturale alla scienza ma la considera come un nemico dell’uomo, insomma in nome di un irrazionalismo antiscientifico che troverebbe nel nostro paese un terreno di cultura particolarmente favorevole. Questo coro di proteste, che si è espresso e si esprime in una vastissima letteratura soprattutto giornalistica, ha fatto [42] sentire la sua nota più acuta in un volume del direttore della più importante e diffusa rivista di divulgazione scientifica in Italia – Le Scienze, edizione italiana di Scientific American – Enrico Bellone, dal titolo quanto mai espressivo La scienza [43] negata. Sulla copertina del libro si vede un signore che sega il ramo d’albero su cui è seduto, metafora del suicidio della nostra società. Nel libro si denuncia «la negazione della scienza come rifiuto dell’inedito, come paura del sovvertimento di un ordine, come crisi di valori: un pregiudizio che viene da lontano». L’Italia, più di altri paesi, continuerebbe su questa «strada di “rivolta della ragione”, di strenua ed ottusa resistenza» animata da «schiere di intellettuali, moralisti, 90

religiosi e politici» responsabili di diffondere un quadro della conoscenza «deformato e pericoloso», in una parola “irrazionalista”. Se le cose stanno così la situazione appare davvero molto grave, ai limiti della crisi irreversibile. Difatti, come possiamo sperare di venir fuori dal disastro educativo in cui siamo impantanati se non siamo capaci neppure di valorizzare uno dei fattori portanti della società in cui viviamo, ovvero la cultura scientifica e tecnologica? Secondo Bellone, rischiamo di trasformarci in un’«appendice turistica del mondo civile», un luogo – aggiungiamo noi – in cui si recita ancora qualche verso della Divina Commedia di Dante Alighieri (pochi, per la verità!), si rileggono I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, si cantano canzoni napoletane per il diletto dei turisti e li si conduce a spasso per le chiese. Ma quanto a Galileo… chi era costui? E della scienza e tecnologia contemporanee meglio se ne occupino americani e cinesi, ché poi noi compreremo i loro prodotti con il ricavato della Disneyland italica. Questo quadro è eccessivamente catastrofista. È però innegabile che un problema di cultura scientifica esista nel nostro paese. E non soltanto nel nostro. Dicevamo difatti che il declino delle facoltà scientifiche fa parte di una tendenza comune a molti paesi avanzati, che è certamente legata al prevalere dello sviluppo tecnologico su quello scientifico, della scienza applicata su quella di base. Esiste comunque una specifica debolezza della cultura scientifica nel nostro paese. Ne siamo anche noi convinti e insistiamo sul fatto che questa debolezza diventa un ostacolo macroscopico sulla via di una fuoruscita dal disastro educativo. Avanziamo però le più grandi riserve circa il fatto che la debolezza della cultura scientifica in Italia sia conseguenza del fatto che nel nostro paese la scienza sia sempre stata bistrattata e considerata come un fattore estraneo e quasi repellente dalla cultura dominante. Insomma, la tesi catastrofista proposta nel libro di Bellone, non ci convince 91

per niente. È proprio vero che l’Italia è sempre stata un paese “antiscientifico”. E, se vi sono state effettivamente correnti culturali e politiche ostili alla scienza, quali sono state? E, infine, ecco la domanda più importante: chi sta bistrattando e massacrando, oggi, la cultura scientifica?

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2 Storia e leggende della scienza italiana Una nuova scienza nazionale sulla scena europea Dunque, secondo qualcuno, l’Italia è sempre stata un paese sottosviluppato dal punto di vista scientifico e in cui la cultura scientifica è stata sistematicamente bistrattata e considerata come la figlia di un dio minore. Ciò sarebbe stato conseguenza di un atteggiamento «tipico di una cultura arretrata e di una classe dirigente che di quella cultura era, nello stesso tempo, il risultato e lo specchio […], una cultura diffusa e una società politica che neppure s’accorgevano di quanto in realtà stava [44] accadendo al di là delle Alpi». Si potrebbe rispondere retoricamente ricordando le grandi glorie della scienza italiana del passato, da Galilei a Volta a Giovanni Battista Morgagni. Ma non ci sogniamo neppure di farlo, perché la descrizione catastrofica sopra riferita si riferisce al periodo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Se si fosse riferita alla prima metà dell’Ottocento sarebbe stata una descrizione abbastanza plausibile. Difatti, come diceva il celebre matematico Vito Volterra «i retrivi ordinamenti delle nostre scuole ed il piccol numero delle cattedre impedivano che si allargasse il campo dell’istruzione universitaria e che si atterrassero le colonne d’Ercole dei programmi ufficiali. I nobili 93

sforzi di uomini egregi riescivano il più sovente infruttuosi perché mancanti di ogni connessione fra loro e perché avversati spesso dai Governi di ogni tempo, pei quali l’ignoranza [45] pubblica era valido sostegno al potere». Perfetto. Ma, se ci si riferisce alla situazione di mezzo secolo dopo, la descrizione catastrofista di cui sopra è completamente sballata e potrebbe essere rubricata alla voce di una ben nota manìa nazionale: quella di darsi addosso ad ogni costo, anche quando non ve ne è alcuna ragione. La formazione di un governo nazionale portò a un cambiamento radicale e il periodo tra gli anni 1860 e la fine del secolo condusse a una rinascita assolutamente straordinaria della scienza italiana. I governi ebbero la sensibilità di dotare il sistema dell’istruzione di un ordinamento nazionale unificato, di istituire molte nuove cattedre universitarie e di attribuire un ruolo importante a scienziati di primo piano non soltanto dal punto di vista accademico-scientifico e didattico, ma dal punto di vista della creazione di nuove istituzioni e della riforma di quelle già esistenti. Le Alpi furono prontamente varcate per andare a vedere cosa succedeva all’estero e per ricavare ispirazioni e suggerimenti dai paesi più avanzati, come la Germania e la Francia, sia sul piano organizzativo che sul piano dei contenuti scientifici. L’episodio più emblematico, al riguardo, fu la visita delle più importanti università europee da parte di tre matematici – Enrico Betti, Francesco Brioschi e Felice Casorati – allo scopo di rompere l’isolamento della scienza italiana e collegarsi ai filoni della ricerca avanzata. Tanto grande fu la sensibilità per quel che accadeva al di là delle Alpi che furono creati ex-novo interi indirizzi di ricerca ispirati agli sviluppi della matematica e della fisica-matematica tedesca e francese, peraltro rielaborati in forme originali. L’impegno degli scienziati italiani nel campo delle istituzioni scientifiche, universitarie e, più in generale, educative, fu intensissimo. Valga per tutti il caso del matematico Luigi 94

Cremona, che non soltanto pose le basi della ricerca geometrica in Italia – e le impresse uno sviluppo tale che qualche decennio dopo il grande matematico tedesco Felix Klein poteva dire che l’Italia era diventata il centro delle ricerca geometrica mondiale – ma creò le prime strutture istituzionali dell’ingegneria e svolse una incisiva attività come ministro dell’istruzione. Restando al campo della matematica e della fisica-matematica, si può ben dire che, agli inizi del Novecento, l’Italia aveva conquistato la terza posizione a livello internazionale, dopo la Germania e la Francia. In questo ambito, spiccavano nomi come quelli di Giuseppe Peano, Corrado Segre, Federigo Enriques, Guido Castelnuovo, Luigi Bianchi, e soprattutto Vito Volterra, che attraversava continuamente le Alpi ed era chiamato all’estero il “signor Scienza Italiana”, per l’autorevolezza con cui ne rappresentava il nuovo prestigio. E nel lunghissimo elenco di matematici di prestigio internazionale occorre, in particolare, ricordare il nome di Tullio Levi-Civita che elaborò una teoria che divenne il linguaggio per eccellenza della teoria della relatività e che ebbe un ruolo decisivo nell’elaborazione definitiva di questa teoria, come ebbe a riconoscere Albert Einstein, il quale gli rese merito di aver corretto un errore importante della sua prima formulazione. Se la matematica fu il campo in cui la scienza italiana acquisì rapidamente posizioni di primissimo piano in campo internazionale, la fisica non tardò a conoscere sviluppi altrettanto importanti. Alcuni esponenti della scuola matematica non furono pronti a intuire l’importanza della nuova fisica teorica, ma il direttore dell’Istituto di Fisica, Orso Maria Corbino, ne promosse lo sviluppo inviando una giovane promessa, Enrico Fermi al di là delle Alpi, a formarsi nelle università di punta di Göttingen e Leiden. Corbino riuscì a creare una vera e propria scuola, che annoverò esponenti come Franco Rasetti, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Ettore Majorana e Bruno Rossi, oltre allo stesso Fermi. La celebre “scuola di Via Panisperna” ebbe un ruolo fondamentale negli sviluppi della 95

fisica nucleare e presto si conquistò una fama tale che molti fisici stranieri venivano in visita a Roma. Fin qui abbiamo parlato di matematica e fisica, ma sviluppi non meno importanti si ebbero nel campo della chimica, dove basterà ricordare un nome come quello di Stanislao Cannizzaro, e in biologia, in cui si affermarono personalità come Giuseppe Levi, fondatore della moderna istologia e capo di una scuola che ha annoverato nomi come quelli di Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini. Vanno anche ricordate figure come quella di Giovanni Battista Grassi le cui ricerche sulla malaria ebbero un rilievo internazionale e furono anche concretamente utili nell’opera di risanamento delle zone paludose del paese. Potremmo continuare, ma l’elencazione diventerebbe alquanto noiosa e non è il nostro intento di fare un minicompendio di vicende che possono essere lette su ogni [46] buon libro di storia della scienza italiana. Ci preme soprattutto sottolineare due aspetti. È assolutamente falso che l’Italia non abbia fatto ogni sforzo per dotarsi di istituzioni preposte allo sviluppo delle scienze applicate e per acquisire una posizione di rilievo sul piano tecnologico. La situazione di partenza era di grande arretratezza, ma i risultati furono notevoli; anzi, date quelle condizioni iniziali, potremmo dire che furono spettacolari. Le scienze ingegneristiche e la chimica avevano raggiunto nei primo decenni del Novecento una posizione di tutto rispetto. Sul piano istituzionale occorre ricordare in particolare la fondazione, nel 1917, da parte di Volterra di un “Ufficio di Invenzioni e Ricerche” che fu dapprima preposto allo studio delle scoperte scientifiche o tecniche che potevano avere applicazioni militari, sul modello di consimili istituzioni esistenti in Francia e in Gran Bretagna. Alla fine della Prima guerra mondiale esso fu riorganizzato dallo stesso Volterra e 96

trasformato in un Consiglio Nazionale delle Ricerche, che egli fece affiliare al Consiglio Internazionale delle Ricerche creato [47] nel 1918 con sede a Bruxelles. Volterra era particolarmente sensibile al manifestarsi di «una corrente continua che unisce la vita pratica e la vita scientifica» che aveva mutato radicalmente la fisionomia dello scienziato moderno «la cui esistenza non resta chiusa nei laboratori e nei gabinetti di studio» [48] partecipando sempre di più alla vita sociale. In questo ordine di idee Volterra elaborò un progetto straordinariamente importante, e cioè di creare un’associazione entro cui sviluppare uno scambio di idee molto più ampio di quello tradizionalmente racchiuso entro i confini del mondo accademico: «Le antiche accademie sono un campo troppo chiuso, gli istituti di insegnamento hanno già altri intenti determinati, le singole società scientifiche sono un terreno troppo ristretto per prestarsi a questi scopi; essi solo possono conseguirsi in seno a una vasta [49] associazione che raccolga i cultori di tutte le discipline». In tal modo, avrebbe potuto svilupparsi una cultura scientifica diffusa, poiché «tutto ciò che il pubblico non può apprendere né da libri né da discorsi, si paleserà quando esso assista e si mescoli alle discussioni degli uomini di scienza, giacché son le dispute spontanee e vivaci che mostrano sotto la luce più naturale e vera il germogliare e l’esplicarsi di quei pensieri che [50] di solito un troppo sapienti artificio divulga». Questa associazione fu la Società Italiana per il Progresso delle Scienze (SIPS), che già esisteva ma fu rifondata da Volterra in una prospettiva più ampia e ambiziosa e presto divenne un centro nevralgico degli scambi scientifici interdisciplinari e un motore della formazione di una cultura scientifica nazionale. Nella SIPS interagivano e si scambiavano i rispettivi punti di vista matematici, fisici, biologi, ingegneri, medici, chimici e studiosi di scienze sociali, economiche ed umane e specialisti di questioni tecnologiche. La lettura degli atti della SIPS e, in 97

particolare, di certe conferenze di sintesi dello stato di una disciplina o di un filone di ricerche presentati da grandi specialisti del settore costituiscono un’esperienza intellettuale di grande interesse e fascino. Si trattava non soltanto di un’opera di interazione multidisciplinare, ma di formazione di una cultura scientifica diffusa. Basterebbe questo a far comprendere quanto sia priva di fondamento la tesi secondo cui in Italia non vi sia mai stata una cultura scientifica, o che la cultura scientifica non abbia goduto di peso, prestigio e diffusione. A ciò si aggiunga che gli scienziati italiani di rilievo nel periodo postunitario non furono soltanto specialisti ma furono spesso uomini di cultura di grande spessore, capaci di inquadrare e spiegare in termini generali il senso delle loro ricerche. In una parola, fecero cultura, cultura scientifica. Non ci riferiamo soltanto a Volterra, che come senatore del Regno, presidente dell’Accademia dei Lincei, della SIPS e di tante altre istituzioni, sviluppò una vera e propria politica culturale, intervenendo anche sulle questioni dell’istruzione, e pubblicando articoli e libri di divulgazione e cultura scientifica di estremo interesse. Quasi tutti questi scienziati scrivevano per un pubblico più ampio, ora illustrando gli sviluppi del calcolo delle probabilità, come Guido Castelnuovo, ora descrivendo le frontiere della fisiologia, come [51] Giulio Fano. Su tutti spicca Federigo Enriques, autore di un gran numero di libri di storia, filosofia e metodologia della scienza che ancor oggi hanno un posto di rilievo nella letteratura [52] scientifica. Enriques attribuì grande importanza alla storia della scienza nella formazione di una cultura scientifica – per promuovere la quale creò un Seminario di storia della scienza presso l’università di Roma – fu un grande divulgatore e scrisse dei libri di testo di geometria per le scuole secondarie (anche in collaborazione con Ugo Amaldi) che, sia pure con revisioni, sono stati adottati nelle scuole fino a non molto tempo fa. 98

Inoltre, egli fu responsabile del settore scientifico della Enciclopedia Treccani e, in tale veste, fu autore di memorabili articoli, ancor oggi da rileggere, e ne commissionò di altrettanto importanti ad altri grandi scienziati. L’Italia del primo Novecento era quindi un paese in cui la scienza e la cultura scientifica avevano acquisito un peso e un prestigio tanto più significativo in quanto erano stati conseguiti nel giro di così poco tempo. Nessun problema quindi, e tutto andava nel migliore dei modi e nel migliore dei mondi possibili? Niente affatto. Il tentativo di Enriques di entrare direttamente sul terreno filosofico, mirando a stabilire un rapporto più stretto tra il pensiero scientifico e il pensiero filosofico, affermando un «concetto più largo della filosofia, come forma d’attività implicata in ogni prodotto del pensiero» si scontrò con il neoidealismo allora dominante in Italia e i cui massimi esponenti erano Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Ne seguì un scontro violento che, nei fatti, segnò una sconfitta di Enriques, nel senso che il suo tentativo di stabilire quel rapporto più stretto fu respinto e fallì. A tale vicenda cruciale conviene prestare attenzione, per comprendere meglio gli sviluppi successivi.

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Conflitti tra le due culture Di recente, in un istituto universitario, ebbe luogo un dibattito sulle “due culture” – cultura umanistica e cultura scientifica – e sul loro persistente divorzio. Fu menzionata la polemica tra Enriques e i filosofi neo-idealisti come una vicenda che aveva segnato in modo profondamente negativo i rapporti tra le due culture. Intervenne allora un matematico che era stato scelto per intervenire sul versante della cultura scientifica, il quale propose il seguente commento: «Ho sentito parlare di questa storia, ma non me la ricordo. Comunque, non penso che fosse una cosa importante»… E passò a spiegare quanto è bella la matematica, ricorrendo alla seguente elegante metafora: la matematica è come il maiale, è tutta buona, non si butta via niente. È un piccolo episodio che illustra efficacemente quanta acqua sia passata sotto i ponti da un secolo a questa parte. Se la difesa e la diffusione della cultura scientifica deve camminare sulle gambe di simili “idiots savants” – competenti e magari anche brillanti nella loro stretta specialità ma che oltre a rifiutarsi di guardare oltre la propria “vetrina” esibiscono un livello culturale pietoso – non si può essere ottimisti. Parlando di “vetrina”, alludiamo a un aneddoto dovuto alla penna dello scrittore francese Anatole France, che fu ricordato da Vito Volterra con queste parole: «Alcuni anni fa, visitavo in una grande città d’Europa le gallerie di storia naturale insieme con uno dei conservatori, il quale mi descriveva con la maggior compiacenza gli animali fossili. Egli mi istruì benissimo fino ai terreni pliocenici; ma, allorché ci trovammo dinanzi ai primi vestigi dell’uomo, volse la testa ed alle mie domande rispose che quella non era la sua vetrina. Sentii la mia indiscrezione. Non bisogna mai domandare ad uno scienziato i segreti dell’universo che non sono nella sua vetrina». Volterra protesta che «negli uomini di scienza la curiosità è ben grande di 100

guardare fuori e lontano; vivo è il desiderio di frugare nella [53] vetrina degli altri per ben conoscere il valore della propria». Molta acqua è passata sotto i ponti: Volterra considerava una vergogna (non occuparsi delle altre vetrine) quella che certi “idiots savants” contemporanei considerano come la virtù che contraddistinguerebbe il vero scienziato. La vicenda della polemica tra Enriques e i neo-idealisti è importante, ed è importante valutarla in modo equilibrato per capire molti aspetti degli sviluppi dei rapporti tra le due culture nell’Italia del Novecento. Senza entrare in troppi dettagli ne ricorderemo gli aspetti essenziali. Secondo Enriques, per diffondere la cultura scientifica è essenziale affermare il valore conoscitivo e non meramente pratico della scienza. Allo scopo, egli riteneva necessario stabilire che le conquiste del pensiero scientifico sono inserite all’interno di un processo di crescita continua della conoscenza. Le crisi e i conflitti interni alla scienza fanno parte di questo processo di crescita e non sono dei fattori di arresto o di involuzione. Per usare il linguaggio dei dibattiti contemporanei, Enriques era recisamente contrario al “relativismo”. Secondo Enriques, la via per affermare pienamente il valore conoscitivo della scienza e colmare il fossato tra le due culture consiste nel scendere sul terreno filosofico, affermando un «concetto più largo della filosofia, come forma d’attività implicata in ogni prodotto del pensiero». Il compito primario è quindi quello di elaborare una teoria della conoscenza che mostri come le fasi deduttive del pensiero scientifico non si oppongono alle fasi induttive, ma fanno bensì parte dello stesso processo conoscitivo: se non si comprende questo si offre una visione deformata della scienza. È su tale via che, secondo Enriques, è possibile superare l’antica contrapposizione tra razionalismo ed empirismo. [54] Non entreremo ulteriormente nei dettagli. Ci preme 101

soprattutto ricordare che Enriques sostenne queste tesi in modo quasi militante, non soltanto nei suoi libri, ma nella sua attività culturale, nella Rivista di Scienza – Scientia, e con la fondazione della Società Filosofica Italiana (SFI) cui attribuì il compito di promuovere il «rinascimento filosofico della scienza contemporanea». Nel primo congresso della SFI egli si rivolse al ministro dell’istruzione proponendo la costituzione di quella “Facoltà filosofica” cui abbiamo già accennato, di consentire l’accesso alla laurea in filosofia a coloro che provenivano da studi scientifici e a riformare e integrare l’insegnamento della filosofia nei licei. Egli mirava quindi a rompere il diaframma tra le due culture sul terreno della filosofia ed anche a combattere la frammentazione disciplinare sostenendo che alla «sintesi, meta superiore di ogni progresso […] fa ostacolo la differenziazione delle discipline particolari, sia perché lo sviluppo del linguaggio tecnico rende ognora più inaccessibili i risultati di una disciplina ai cultori di un’altra, sia perché la stessa preparazione approfondita, richiesta nei singoli rami di studio, restringe la veduta dei problemi a taluni aspetti che lo studioso è tratto a contemplare troppo esclusivamente […] Contro codesti criteri ristretti intende reagire soprattutto il movimento nuovo di pensiero verso la sintesi; una Filosofia, libera da legami diretti coi sistemi tradizionali, sorge appunto a promuovere la coordinazione del lavoro, la critica dei metodi e delle teorie, e ad affermare un apprezzamento più largo dei [55] problemi della Scienza». L’attivismo di Enriques e la sua “intrusione” sul terreno filosofico suscitò l’irritazione degli esponenti della filosofia neo-idealistica italiana, propensi ad affermare una tesi opposta, e cioè che la sola attività avente un valore conoscitivo è la filosofia, mentre la scienza altro non è che un sistema di metodi pratici e quindi può avere soltanto un valore di utilità ma nessuna funzione conoscitiva. Il primo ad entrare in campo fu Giovanni Gentile, con la pubblicazione sulla rivista di 102

Benedetto Croce di una recensione alquanto polemica dei [56] Problemi della scienza di Enriques. In un successivo [57] articolo, Gentile asserì molto ruvidamente che gli scienziati debbono occuparsi dei fatti loro e restare nei limiti delle loro specialità, perché soltanto in tal modo possono contribuire al progresso scientifico. Ogni tentativo di sintesi del pensiero scientifico «non può incoraggiare se non il dilettantismo scientifico». Insomma, secondo Gentile, non esiste una scienza, bensì soltanto “le” scienze, e quindi tentare di costruire una filosofia scientifica è un’impresa destinata al fallimento. Tuttavia, Enriques non soltanto non si diede per vinto ma mostrò una capacità non comune di essere un protagonista su questi temi. Nel 1911 il Quarto Congresso Internazionale di Filosofia si tenne a Bologna sotto la sua presidenza. Questo fatto fu ritenuto insopportabile da Benedetto Croce che, abbandonando il Congresso, scrisse – si dice in treno – un articolo per il Giornale d’Italia in cui accusava Enriques di dilettantismo filosofico e lo invitava ad occuparsi di matematica: insomma, sutor ne ultra crepidam. Enriques rispose per le rime accusando Croce di intolleranza filosofica e lo invitò a rispondere nel merito delle sue tesi filosofiche. La disputa, iniziata nell’aprile 1911 proseguì fino al 1912 senza una conclusione definita. Tuttavia, l’esito fu generalmente interpretato come una “sconfitta” di Enriques. È bene chiarire questo punto perché esso riveste molta importanza per il nostro discorso e, in particolare, per valutare gli sviluppi successivi. [58] Da un punto di vista generale non vi fu alcuna sconfitta: Enriques continuò imperturbabilmente a scrivere e pubblicare di tematiche filosofiche e non cambiò le sue posizioni. Il prestigio della sua filosofia scientifica rimase immutato all’estero ed egli restò un personaggio di primo piano del dibattito filosoficoscientifico europeo, come testimonia, ad esempio, la sua partecipazione al Congresso Internazionale di Filosofia 103

Scientifica che si tenne a Parigi nel 1935. È però indubbio che, nel contesto italiano, la drastica presa di posizione di Gentile e Croce ebbe l’effetto di irrigidire il mondo filosofico e di elevare una barriera tra le due culture. Il tentativo di Enriques di “sfondare” nel campo umanistico-filosofico e creare un terreno culturale comune fu respinto e, in buona misura, marginalizzato. Tuttavia, anche qui una valutazione più attenta mostra che il panorama è molto più complesso di quanto appaia a prima vista e si può ben dire che gli effetti più negativi dello scontro tra Enriques e il neo-idealismo italiano si manifestarono in pieno soltanto nel secondo dopoguerra, come vedremo nel prossimo capitolo. Il panorama è molto più frastagliato nei due campi di quanto non suggerisca l’immagine di maniera di una contrapposizione frontale. La prima osservazione riguarda la situazione nel campo filosofico. Qui i punti di vista di Croce e Gentile non appaiono affatto omogenei: più precisamente, col trascorrere del tempo, essi subirono una divaricazione sempre più netta. Croce restò sempre fedele alla sua visione radicale secondo cui la scienza è un cumulo di “pseudo-concetti” che hanno valore soltanto pratico e nessun valore conoscitivo. La cecità di Croce nei confronti della scienza – se Enriques era un dilettante di filosofia, egli era un autentico analfabeta di scienza – e la sua incapacità di comprenderne il ruolo centrale nella formazione del pensiero filosofico moderno è uno degli aspetti deteriori della sua figura di pensatore. Su questo punto, dando prova della sua ben nota testardaggine, Croce non volle mai riflettere e ripensare criticamente le sue posizioni di rigetto [59] assoluto. Al contrario, Gentile diede prova di una capacità critica e di una disponibilità a riflettere di gran lunga superiore. Non è qui possibile entrare nei dettagli dell’evoluzione del suo pensiero sull’argomento. Ci limiteremo a dire che si verificò un lento riavvicinamento tra le posizioni di Enriques e quelle di Gentile, che si manifestò in modo evidentissimo all’inizio degli 104

anni trenta quando Gentile, nel corso del congresso della SIPS del 1931 dichiarò esplicitamente che la scienza partecipava dello stesso ordine di idee dell’arte e della religione e quindi faceva parte a pieno titolo del pensiero filosofico. In questo ordine di idee, Gentile accoglieva uno dei cavalli di battaglia del pensiero di Enriques, ovvero la centralità della storia (e quindi della storia della scienza) come mezzo per ricostituire l’unità della cultura: «Oggi, riconquistato il suo centro, la scienza riconquista la sua consapevolezza storica e ogni scienziato sente il bisogno di rendersi conto dei motivi da cui ha tratto origine il suo problema. Il quale ora egli sa bene che non gli è cascato dall’alto, non gli è imposto dall’osservazione del cosiddetto mondo esterno, bensì dai concetti con cui egli scompone e analizza questo mondo che gli sta davanti perché egli stesso se lo pone innanzi, costruendolo. La scienza ha la sua origine e la sua ragione d’essere e può avere la sua giustificazione e la [60] prova del proprio valore nella storia della scienza». Sono parole che segnano un distacco profondo di Gentile da Croce e suggellano un’alleanza con Enriques, peraltro testimoniata dal ruolo di prima importanza attribuito da Gentile a Enriques come direttore della sezione scientifica dell’Enciclopedia Treccani. Da parte sua, Enriques non poteva non trovare naturale una convergenza con un approccio di tipo idealistico che era assai coerente con le sue visioni filosofiche, [61] così distanti dal positivismo. Questa convergenza fu espressa in modo esplicito nel corso di una conferenza di fronte alle classi riuniti dell’Accademia Nazionale dei Lincei nel 1938: «La scienza, non più concepita come pura rivelazione di una verità esteriore, bensì come conquista e attività dello spirito, mal potrebbe considerarsi manifestazione isolata di una particolare facoltà. I suoi motivi si radicano nell’intimo delle anime. Essa si fonde dunque nell’unità dello spirito stesso colle idee, coi sentimenti, colle aspirazioni che si esprimono nei vari 105

aspetti della cultura: nell’arte, nella religione e nella filosofia, nella morale e nel diritto, nell’economia e nella politica. Si può dire che la storia ci avvicina così a cogliere il significato umano [62] della scienza, che implica un rapporto con l’uomo intero». In coerenza con questa dichiarazione, Enriques esprimeva la sua completa adesione alla riforma scolastica di Giovanni Gentile: «Un ministro filosofo, il quale sta dall’altra parte del ponte che separa le scienze della natura da quelle dello spirito, dico il nostro Collega Giovanni Gentile, ha avuto il merito di comprendere il valore educativo e didattico della storia della scienza e d’introdurne l’insegnamento in alcuni ordini della scuola media italiana. Egli non si è arrestato a considerare le difficoltà di una sintesi storica che abbracci insieme i diversi rami del sapere: nella sua robusta fede idealistica, ha ritenuto che se essa conviene alla gioventù studiosa, il dovere d’offrirla ne implichi la possibilità. Frattanto, urtando in ostacoli d’ogni genere e prima di tutto nella circostanza di fatto che manca un’adeguata preparazione degli insegnanti, la sua riforma non ha potuto ancora essere seriamente attuata. Ma l’idea rimane; [63] più che l’idea il dovere incombente di tradurla in atto». Da questa vicenda non apprendiamo soltanto che la “sconfitta” di Enriques non era stata poi così grave. Del resto, determinare l’impostazione della sezione scientifica di un’opera cruciale come l’Enciclopedia Treccani significava poter esercitare una funzione influente di politica culturale. Apprendiamo anche che il mondo scientifico non era così contrario alla riforma Gentile e, quantomeno alcuni suoi importanti esponenti non la consideravano affatto nociva per la formazione e la diffusione di una cultura scientifica. Se passiamo al campo scientifico troviamo un panorama altrettanto disomogeneo. Al dialogo che si instaura fra Enriques e Gentile fa da contrappeso la posizione alquanto diversa di Volterra che non soltanto è lontano da qualsiasi commistione 106

con le posizioni neo-idealistiche ma è decisamente contrario alla riforma Gentile. L’opposizione di Volterra si concretizzò nella costituzione di una commissione dell’Accademia Nazionale dei Lincei che doveva criticare la riforma e avanzare delle controproposte. Non ci addentreremo qui sulle vicende di questa [64] commissione se non per dire che si trattò di una “sconfitta”, poiché la commissione non riuscì ad arrestare la riforma e neanche a scalfirla; ma sarebbe superficiale interpretarla come una “sconfitta” del mondo scientifico, non tanto o soltanto perché non tutti gli ambienti scientifici erano sulle posizioni di Volterra, ma perché la lettura del documento prodotto dalla commissione mostra la sostanziale debolezza delle proposte avanzate, che si limitavano a proporre alcuni ritocchi della vecchia legge Casati dell’istruzione. La commissione voluta da Volterra non riuscì quindi a contrapporre una proposta avente un respiro e un’organicità culturale paragonabili a quelli della riforma Gentile. Tutte queste vicende conducono in modo spontaneo a dire qualcosa circa il ruolo avuto dal fascismo nell’indirizzare la politica culturale della scienza.

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Il fascismo e la scienza Qualche tempo fa un amico mi raccontò di aver assistito a una conferenza del direttore di un ente di ricerca. Il tema della conferenza era la storia e le attività dell’ente. A un certo punto, lo scienziato si pose la domanda del perché un paese come l’Italia avesse subito un così brusco declino nel campo delle scienze applicate e, in particolare, della matematica applicata. E il suo commento fu: «Ho riflettuto tanto, ma non sono riuscito a capire, a trovare una ragione di questa decadenza». Il mio amico diceva di aver provato un senso di vertigine di fronte a tanta avventata insipienza e al silenzio con cui il pubblico numeroso e qualificato l’aveva accolta e di essersi consolato soltanto dopo essersi reso conto di non essere stato il solo a provare sconcerto. Questo episodio appartiene alla casistica della “mala cultura” scientifica ed è frutto di un’arroganza – che mai un Enriques o un Volterra si sarebbero permessi – con cui certi “scienziati” si permettono di considerare la storia come un tema che non richiede alcuna competenza specifica. Essi ritengono che soltanto i ricercatori sul campo possano fare storia (ovvero chiacchierare di essa) e che la storiografia non è una disciplina dotata di metodi suoi propri che richiedono una competenza specifica, bensì un insieme di raccontini e di “ricordi”: quelli loro e dei loro amici, per l’appunto. Per costoro, essendo la storia un’attività che si fa chiacchierando al bar o in poltrona con un buon bicchiere di vino in mano, gli storici sono dei cialtroni e dei perditempo, bastando allo scopo i ritagli di tempo dello scienziato nei momenti di riposo dalle ricerche “serie”. Se il nostro ameno personaggio avesse studiato un po’ di storia chinandosi su libri e articoli, invece di ragionare a briglia sciolta, avrebbe compreso che la risposta alla sua domanda era abbastanza semplice: il declino si era verificato soprattutto perché in Italia c’era stato qualcosa che si chiama “fascismo” e 108

“leggi razziali”. Se si pensa che gran parte delle istituzioni preposte alle scienze applicate erano state create da Volterra (a cominciare dal Consiglio Nazionale delle Ricerche) e che Volterra era stato emarginato fin dall’inizio degli anni trenta per motivi politici e poi per motivi razziali, si comincia a capire qualcosa. Se si pensa che uno scienziato come Tullio LeviCivita era uno dei pochi fisico-matematici ad aver compreso l’importanza delle nuove teorie della turbolenza e delle loro applicazioni in campo ingegneristico, si comprende bene quali conseguenze abbia avuto la sua emarginazione dal mondo scientifico italiano. Se si pensa che l’intera “scuola di via Panisperna” fu demolita dalle leggi razziali, una qualche forma di spiegazione dovrebbe venire in mente. Se si pensa che lo sviluppo della biologia venne troncato dall’emarginazione in quanto ebreo di Giuseppe Levi (il maestro di coloro che hanno fondato la biologia molecolare moderna, Salvador Luria, Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco), forse una luce si accende al fondo del tunnel dell’ignoranza. Potremmo continuare con gli esempi. Tuttavia, siccome non vogliamo concedere nulla alla rozzezza degli “idiots savants” che credono di poter rispondere ai quesiti storici ignorando la storia, o costruendone le immagini di comodo, diremo subito che non intendiamo affatto accreditare una spiegazione semplicistica che faccia risalire tutte le colpe al fascismo. È un modo troppo comodo per archiviare il problema. Certo, se si guarda al caso tedesco, si comprende come una politica che costringe all’emigrazione gran parte dell’élite scientifica può avere effetti dirompenti: in pochi anni la Germania perse il primato assoluto che deteneva nel campo scientifico il quale passò in un sol colpo agli Stati Uniti. Quindi, non è affatto infondato dire che, per quanto il fenomeno dell’emigrazione scientifica dall’Italia sia stato molto più contenuto, l’emarginazione di tanti scienziati per ragioni politiche e razziali ebbe conseguenze gravissime per il paese.

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Ma occorre distinguere una prima fase del regime fascista in cui vennero messe in opera politiche della scienza e dell’istruzione che presentavano anche aspetti positivi ed efficaci di modernizzazione. Poi, a partire dalla metà degli anni trenta, prese sempre più piede una visione di tipo autarchico che divenne parossistica nella seconda fase “rivoluzionaria” del fascismo (dal 1936 in poi). Le leggi razziali rappresentarono la punta estrema di questa fase autarchica e ultranazionalistica e non c’è dubbio che questa produsse effetti rovinosi sulla scienza italiana e, più in generale, sulla cultura. Il fascismo non ebbe mai una politica della scienza coerente e ben definita. Tuttavia, è possibile discernere alcune idee che condussero a decisioni di rilievo e che erano ispirate da una visione assai diversa da quella (alla Volterra) di una stretta integrazione tra scienza e tecnologia, in cui la prima doveva avere una funzione di guida. Le politiche del fascismo ebbero una funzione innovativa e di modernizzazione consistente nel superare certi aspetti rigidi della visione ottocentesca del rapporto tra scienza pura e applicata. La visione corporativa del fascismo tendeva a promuovere una separazione dell’attività scientifica pura da quella applicata: non che si volesse impedire la loro interazione ma le si voleva distinte sul piano istituzionale. Indubbiamente, questa visione era anche ispirata da moventi politici. L’università era vista dal regime come il terreno più adatto per ricostruire l’unità corporativa della comunità scientifica, oltre ad essere un ambito più facilmente controllabile sul piano politico. Qui gli scienziati «segregati dai mondani rumori» – per usare le parole del ministro Giuseppe Bottai – avrebbero potuto dedicarsi alla ricerca pura. Altre istituzioni, come il Consiglio Nazionale delle Ricerche, dovevano presiedere invece alla ricerca applicata o gestire gli apporti della ricerca pura alle applicazioni. Veniva mantenuta una stretta interazione tra i due settori, ma la distinzione più marcata di ruoli e di funzioni introduceva un elemento di 110

dinamismo. Così, la creazione nell’ambito della matematica di un Istituto di Alta Matematica (INDAM), consacrato alla ricerca “pura” o – come si dice oggi, “di base” – e di un Istituto per le Applicazioni del Calcolo (IAC), dedicato al calcolo numerico e automatico, non soltanto rifletteva quella visione, ma era aderente ai modelli esteri più avanzati. L’INDAM seguiva un modello analogo a quello dell’Institute of Advanced Study (IAS) di Princeton che, a sua volta, aveva scelto come riferimento l’Istituto di Matematica dell’università tedesca di Göttingen. Queste innovazioni – assieme a molte altre in altri campi, come quello della chimica e dell’ingegneria – furono di fatto svuotate perché entrarono in contraddizione con il disegno totalitario ed autarchico del regime. La tendenza inarrestabile della scienza e della tecnologia era verso una crescente interazione e integrazione internazionale che portava a una progressiva perdita d’importanza delle scuole nazionali che erano state la struttura portante della scienza ottocentesca. Come poteva conciliarsi una simile tendenza con la visione rigidamente autarchica e nazionalista della scienza che il regime pretendeva di imporre, con l’ossessiva insistenza sulla superiorità della scienza italiana e sulla sua capacità di mantenere tale preteso primato senza la contaminazione di altri apporti, e addirittura in antagonismo con la scienza “straniera”? Quando tale sconsiderata visione nazionalista-autarchica sfociò nelle leggi razziali e quindi nella pretesa di voler “depurare” la scienza italiana dell’apporto ebraico, ritenuto addirittura contaminante e degenerativo, il capolavoro fu compiuto e la scienza italiana subì un colpo micidiale. Un simile colpo era tanto più letale in quanto le basi su cui poggiava la scienza (pura e applicata) del paese erano fragili: esse erano frutto di una costruzione tanto impetuosa e generosa quanto priva di quel lungo retroterra storico posseduto da paesi come la Francia nei quali esisteva da lungo tempo uno stato nazionale che aveva creato le strutture adatte a sostenere lo sviluppo della scienza e 111

della tecnologia. La scienza italiana era stata capace di fare miracoli in poco più di mezzo secolo, e in questo successo aveva giocato in modo decisivo la capacità di guardare al di là delle Alpi. Questa spinta andava incoraggiata e sostenuta. L’ultima cosa al mondo di cui vi era bisogno era di una politica di ferrea chiusura fino al punto di emarginare gli scienziati non “ariani” nella folle pretesa che la scienza avrebbe ripreso «con la potenza della razza purificata e liberata, il suo cammino ascensionale», come ebbe a dire il ministro Bottai. La politica autarchica del regime incoraggiò i peggiori sentimenti di avversione e chiusura nei confronti di tutto ciò che veniva dall’estero, confortandoli con l’illusione della superiorità della scienza “italica”. La politica razziale fu l’estrema punta di tale tendenza. Alcuni sintomi di stasi in certi settori della ricerca che avrebbero potuto e dovuto essere curati con ulteriori dosi di internazionalizzazione furono aggravati dalle politiche autarchiche e razziali con effetti da cui il paese non si è mai completamente risollevato. Occorre stupirsene? Scuole di grande prestigio internazionale nel campo della fisica e della biologia furono fisicamente cacciate all’estero. Ma anche in quei settori in cui il fenomeno dell’emigrazione fu più modesto, come quello della matematica, i guasti furono pesantissimi perché la situazione non tornò più alle condizioni precedenti. Si era affacciata una nuova generazione di protetti o zelanti del regime che aveva conquistato tutte le posizioni e che non ne fu più rimossa. Si trattava di personaggi spesso incompetenti e pronti ad ogni cambio di casacca pur di non perdere il potere. E tali cambi di casacca furono non soltanto accettati, ma accolti con favore e persino incentivati. Questi personaggi spazzarono via buona parte della cultura scientifica che aveva portato il paese ai primi posti al livello internazionale. Ed anche molti di coloro che appartenevano a questa parte migliore furono umiliati e abbrutiti dalle politiche del regime, come accade in ogni dittatura. Perché, anche quando aderirono al regime furono indotti, soprattutto nel periodo finale, a comportarsi in modi e 112

ad accettare compromessi umilianti e contraddittori con le loro vedute, ricevendone in contraccambio la conservazione del potere e delle posizioni di prestigio. Chi si piegò a questi compromessi fu anche pronto ad accettarne altri non meno umilianti, pur di conservare ancora una volta potere e posizioni di prestigio nella nuova condizione postfascista. È questo l’ultimo capitolo di cui vogliamo occuparci per spiegare le ragioni del declino italiano nel campo della scienza. Sono ragioni che, per la verità, riguardano la cultura nel suo complesso e non soltanto la scienza. In seguito, approfondiremo alcuni temi che sono più specificamente legati alla questione della cultura scientifica.

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A proposito di “redenti” e di danni irreversibili Quando mi iscrissi all’Università di Roma nel 1964 fu per me un autentico trauma leggere in calce al mio libretto universitario la firma dell’allora preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Roma, Sabato Visco. Quel nome destava incubi a casa mia. Mio padre Saul era stato primo aiuto del celebre fisiologo senatore Giulio Fano. Era considerato come il suo naturale successore alla cattedra di Fisiologia generale dell’Università di Roma: per alcuni anni, Fano gli aveva affidato completamente la direzione dell’Istituto di Fisiologia e le lezioni del corso, essendo egli affaticato dalla malattia cardiaca che lo avrebbe portato alla morte nel 1930. La scomparsa di Fano impedì di avviare le procedure concorsuali atte a realizzare la successione e sulla cattedra lasciata libera venne chiamato Sabato Visco. Costui smantellò rapidamente l’indirizzo di ricerca di Fano, concentrando ogni attività attorno alle sue balzane e mediocri ricerche nel campo della scienza della nutrizione, che erano motivate da ragioni essenzialmente politiche: il miglioramento della razza italica mediante l’alimentazione. Inoltre, egli non mancava di esibire il suo antisemitismo. Ho sentito molte volte il racconto di quando convocava mio padre e, roteando un mazzo di chiavi, gli ammanniva lunghi discorsi sulle peculiarità, manco a dirlo negative, del modo di pensare e agire giudaico. Da parte degli antisemiti radicali alla Giovanni Preziosi era considerato un moderato, in quanto era favorevole a una politica di discriminazione nei confronti degli ebrei e non di violenta persecuzione nello stile nazista. Tale atteggiamento “moderatamente” discriminatorio fu tuttavia sufficiente a indurre mio padre alle dimissioni dall’università, nella speranza di trovare un posto all’estero. Innumerevoli racconti circolavano 114

circa l’incompetenza scientifica di Visco. Quando mio padre me li raccontava, temevo che esagerasse per un astio nei confronti di una persona che gli aveva distrutto la carriera. Mi sembrava impossibile che avesse risposto a uno studente che gli chiedeva cosa fosse la metemoglobina trattarsi della “metà dell’emoglobina”, anche se questo e analoghi racconti li avevo sentiti da altre persone. Anni fa ebbi una conversazione con il premio Nobel per la fisica Emilio Segré e parlandogli della vicenda di mio padre feci il nome di Visco e lui esclamò: «Ah, sì, quello che diceva che la metemoglobina è la metà dell’emoglobina!». Capii allora che non c’erano dubbi. Tuttavia, al di là degli aneddoti basta rifarsi ai dati oggettivi: la mediocrità della produzione scientifica di Visco e il suo curriculum razzista a tutto tondo che culminò nella funzione di Capo dell’Ufficio per gli Studi e la Propaganda sulla Razza del Ministero della Cultura Popolare (Minculpop) ricoperto dal febbraio 1939 al maggio 1941. Visco fu un personaggio di primo piano dell’accademia e della politica del fascismo. Cumulò un numero ingente di cariche scientifiche e istituzionali: preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università di Roma, segretario del Comitato Biologico del Consiglio Nazionale delle Ricerche, direttore dell’Istituto Nazionale della Nutrizione (da lui fondato nel 1936 col primo nome di Istituto Nazionale di Biologia), membro della Camera dei deputati, e via dicendo. Fu anche membro del Consiglio Superiore della Demografia e della Razza e vicepresidente della Commissione ordinatrice e del Museo della Razza nell’ambito dell’Esposizione Universale E42. Insomma una figura non propriamente nobile. Quando lessi quella firma sul mio libretto volli capire. Conoscevo allora assai bene il ben noto matematico e dirigente del Partito Comunista Lucio Lombardo Radice, che era un influente membro della Facoltà di Scienze. Mi rivolsi a lui e gli chiesi come mai una Facoltà così nota per le sue tendenze 115

democratiche e antifasciste sopportasse di avere come Preside un personaggio di quel genere. La risposta fu: «Ma è così bravo a trovare denaro!». Fu di certo la mia militanza comunista di allora a farmi accontentare di una simile spiegazione. Certo, mi chiesi molte volte come un illustre scienziato (vittima delle leggi razziali) come Beniamino Segre accettasse di sedere accanto a Visco in diverse circostanze istituzionali. Allora Segre era presidente dell’Associazione Italia-URSS e fu proprio questa carica a farmelo apparire al disopra di ogni sospetto. La mia appartenenza politica mi rendeva difficile capire, anche se col tempo iniziai a rendermi conto di molte cose: per esempio, che esisteva attorno a questo personaggio un clima ambiguo e imbarazzato. Quando morì, nel 1971, sarebbe stato naturale farne una commemorazione, con tanto di discorso, magari del rettore in persona: alla fin fine egli era stato preside di facoltà per tanti anni e controllava un istituto universitario oltre ad essere direttore dell’Istituto della Nutrizione. Invece, la facoltà si limitò a “onorare” il deceduto con un minuto di silenzio… Non ho mai udito pronunziare, nell’ambito del mondo accademico, una sola parola sui trascorsi di questo personaggio. Al contrario, quando ne parlai con Giorgio Tecce, che fu rettore dell’università di Roma dal 1988 al 1997, egli concordò che avevo tutte le ragioni per considerare questo silenzio inaccettabile, ma disse che si trattava di materia molto scottante. Di che stupirsi? Dall’inizio degli anni trenta alla caduta del fascismo, facendo leva sul suo potere politico, Visco riuscì ad allineare dietro di sé il mondo accademico della biologia. Ebbe una capacità di condizionamento tale da costringere anche i più riluttanti a fare i conti con lui e a sottostare ai suoi indirizzi: ne farò un esempio tra poco. Pertanto, gran parte del mondo universitario e della ricerca nel campo biologico difficilmente poteva permettersi di parlar male e rompere con un personaggio con cui si era talmente compromesso ed anzi si era adattato a prendere per buone le sue baggianate nutrizionistico-razziali.

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[66] Come stupirsi allora se, ancor oggi, è possibile leggere sul sito web dell’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, fondato nel 1999 a trasformazione [67] dell’istituto di Visco) una nota storica che occulta completamente i fini di politica razziale dell’ente originario e trovarvi il resoconto di un convegno tenuto nel 2003 in cui si richiama senza pudore come «pietra angolare» delle attuali ricerche sull’alimentazione l’organismo creato da Sabato Visco. [68] Quanto è difficile svuotare gli armadi dei cadaveri! È assai interessante osservare a che punto oggi si è ancora incapaci di fornire una corretta valutazione delle responsabilità, dei meriti e dei demeriti – politici e scientifici – delle persone che sono state coinvolte nel terremoto provocato dalle politiche del fascismo in campo accademico, scientifico e universitario e dal modo a dir poco confuso e contraddittorio con cui è stata gestita la fase postfascista. Restiamo al caso della biologia. Anni fa ebbi a scrivere delle idee di un noto fisiologo dell’epoca, Silvestro Baglioni, mostrando come esse divergessero radicalmente dalle tendenze di tipo razzistico [69] prevalenti nella biologia allineata al regime. Apriti cielo! Da più parti si levò lo sdegnato rimprovero di aver commesso un madornale “errore”: difatti, avevo assolto un personaggio che si era compromesso con le politiche razziali del fascismo, mentre avevo attaccato altri, persino ebrei e antifascisti, per aver sostenuto la validità dell’eugenetica negativa (ovvero quella che ammette la soppressione dei soggetti difettosi). In realtà, erano i miei accusatori ad aver preso una colossale cantonata, guardando alla realtà con occhiali deformati. È noto che Baglioni negli ultimi anni del regime si rese responsabile di una non commendevole compromissione con le politiche razziali, in particolare tenendo dei corsi di biologia delle razze, sotto 117

l’egida – guarda caso – di Visco. Esistono testimonianze che ciò fu fatto per una serie di motivi personali che configuravano una condizione di ricatto, ma non sono surrogate da prove certe. Mi limiterò a menzionare, senza basarvi il mio discorso, la testimonianza di mio padre secondo cui Baglioni era ostile alle politiche razziali del regime e aveva una pessima opinione di Visco. Resta il fatto oggettivo che tutta la produzione scientifica di Baglioni, inclusi i testi in cui egli presenta le sue opinioni circa le politiche eugenetiche, va in una direzione opposta non soltanto al razzismo di tipo biologistico ma anche a quello cosiddetto “spiritualistico” caratteristico delle visioni di Visco o di Nicola Pende. Resta inoltre il fatto che Baglioni era uno scienziato di primo piano a differenza di Visco e anche di Nicola Pende. Nel fare un bilancio, occorre chiedersi se non sia corretto dare un giudizio più indulgente nei confronti di chi ha compiuto un grave e ingiustificabile atto di servilismo ma non ha mai dato un contributo continuativo, metodico e organico alle politiche razziali del regime, rispetto a chi non ha compiuto tali atti, ma ha promosso idee e teorie scientificamente inconsistenti che hanno portato acqua al mulino delle concezioni razziste ed eugenetiche. Non parliamo poi di chi non soltanto ha compiuto atti ben più nefandi e ha tenuto un comportamento coerente e sistematicamente teso al fine di promuovere il razzismo, e per giunta senza neppure poter accampare una minima credibilità scientifica. Qui ci troviamo nella situazione in cui, circondando di imbarazzato silenzio le malefatte di un Visco, si esaltano le “pietre angolari” che egli avrebbe edificato per la scienza italiana, mentre il solo pronunziare il nome di uno autentico scienziato come Baglioni suscita un’ondata di sdegnate condanne. Si tratta di manifestazioni di mancanza di equilibrio che si verificano spesso, per esempio quando si deprecano (giustamente) i libelli antisemiti o razzisti scritti episodicamente da tale o tal altro politico o accademico, e si tace accuratamente sui trascorsi sistematicamente razzisti di altri personaggi. Purtroppo, il 118

mondo accademico e culturale italiano si è largamente compromesso con la fase più efferata del fascismo, quella della politica imperiale, colonialista e razzista, e fin troppi hanno da nascondere qualche libello o articolo dai contenuti vergognosi. Ma qui ci troviamo di fronte alla situazione paradossale in cui persone che hanno da rimproverarsi qualche colpa isolata, magari neppure coerente con il resto delle loro azioni, debbono trascorrere la vita a discolparsi, mentre altri che hanno collaborato sistematicamente e continuativamente alle attività più efferate vengono assolti o godono di un totale silenzio sul loro passato. Questa situazione è conseguenza di quel processo di lavacro così bene illustrato dal libro di Mirella Serri I [70] redenti che ha avuto il coraggio di “profanare” la memoria di personaggi sacri della politica e dell’intellettualità della sinistra italiane, come il dirigente comunista Mario Alicata, il critico letterario Carlo Muscetta o il “maître à penser” del comunismo italiano Galvano Della Volpe, mettendone in luce i non edificanti trascorsi. Come mostra il libro di Serri, c’è chi è stato “redento” e chi è stato precipitato nei più bassi gironi dell’inferno. C’è da scommettere che qui è intervenuto qualche Minosse che ha “esaminato le colpe nell’entrata”, giudicando e [71] mandando “secondo ch’avvinghiava”, e che non si è comportato in modo corretto. Difatti, sono finiti nelle profondità infernali personaggi che avevano scarso peso politico, accademico o culturale, oppure che non si mostravano disponibili a farsi riciclare entro una delle forze politiche egemoni del periodo postfascista, in particolare nel Partito Comunista o nella Democrazia Cristiana e a trasferire ad essi la dote del proprio potere e della propria influenza. Chi disponeva di una consistente “ricchezza” da portare in dote e manifestava la volontà di compiere il cambio di casacca senza troppo tergiversare e senza riserve, trovava quantomeno spalancate le 119

porte del purgatorio, spesso quelle del paradiso. Ecco un esempio emblematico, sempre nell’ambito universitario e scientifico. La Commissione preposta alla ricostituzione dell’Accademia dei Lincei dopo la caduta del fascismo, nelle sedute che si tennero dal 5 al 7 novembre 1943, deliberò la decadenza di alcuni soci che erano stati nominati «per ragioni politiche e di partito e non per ragioni scientifiche». Tre di questi erano gerarchi di primissimo piano del fascismo: Luigi Federzoni, Cesare Maria De Vecchi, Giuseppe Bottai; il quarto era Sabato Visco. La delibera seguì il tortuoso percorso delle procedure di epurazione e impiegò molto tempo prima di diventare operativa. In una riunione tenutasi il 3 agosto 1945, la Commissione di epurazione propose per la radiazione definitiva dall’Accademia i seguenti soci: Silvestro Baglioni, Francesco Pentimalli, Paolo Vinassa de Regny, Livio Cambi, Giuseppe Bottai, Sabato Visco e Tullio Terni. Il nome di Terni merita [72] un’attenzione speciale. Terni era un biologo, collaboratore del già menzionato Giuseppe Levi ed era stato convinto sostenitore del regime. In quanto ebreo era caduto vittima delle leggi razziali ed era stato rimosso dal posto universitario il 16 ottobre 1938. In seguito, era stato reintegrato il 12 aprile 1945. Dopo neanche quattro mesi egli veniva proposto per la radiazione dall’Accademia dei Lincei per le ragioni opposte, [73] ovvero per le sue trascorse simpatie per il regime fascista… E – somma beffa – veniva messo nella stessa lista di proposte di radiazione assieme a protagonisti di primo piano delle politiche razziali come Giuseppe Bottai e Sabato Visco. Insomma, persecutori e perseguitato finivano nella stessa lista di proscrizione. La proposta fu trasmessa dalla Commissione di epurazione al Ministero della Pubblica Istruzione il 27 ottobre, seguì il corso burocratico e, il 4 gennaio 1946, Tullio Terni venne 120

definitivamente radiato dall’Accademia dei Lincei assieme a Visco e Bottai. L’affronto e l’umiliazione furono eccessivi per lui. Egli trascinò la vita per alcuni mesi penosamente. Tentò di trovare una collocazione richiedendo il reintegro nella sua Università di Padova. Il reintegro nell’insegnamento gli venne concesso ma il Rettore dell’Università gli scrisse una lettera in cui si legge testualmente: «Come Rettore ti dico di venire, come uomo ti sconsiglio di farlo». Difatti, nell’Università di Padova era attiva una cellula comunista che perseguitava puntigliosamente tutti i personaggi ritenuti anche lontanamente compromessi con il fascismo. Non bisogna dimenticare che rettore dell’Università era Concetto Marchesi, militante comunista e stalinista fervente, che fu ritenuto moralmente responsabile dell’assassinio del filosofo Giovanni Gentile. Questa cellula aveva diffidato l’ex-“direttore fascista” (ovvero Terni) dal riprendere il suo posto. Terni cadde in uno stato di disperazione senza via d’uscita. Il 25 aprile 1946 (nella sinistra coincidenza con il primo anniversario della liberazione del paese dal nazifascismo) egli si suicidò con una fiala di cianuro che aveva conservato per usarla nel caso in cui fosse stato catturato dai tedeschi per essere deportato in un campo di sterminio. È un episodio che illustra l’asimmetria morale con cui furono trattati i colpevoli di adesione al fascismo. Personaggi che non avevano avuto alcun rilievo politico nel regime fascista e si erano limitati a una generica adesione – e che oltretutto, erano stati perseguitati in quanto ebrei! – furono epurati in modo pesante. Al contrario, gerarchi di tutto rispetto, che avevano avuto un ruolo dirigente nel fascismo, o addirittura si erano resi colpevoli di atti efferati, venivano “lavati” perché utili, in quanto potevano contribuire a costruire una vera egemonia politico-culturale. Sabato Visco, sebbene epurato dall’Accademia dei Lincei, in data 6 gennaio 1946, fu reintegrato nella posizione di professore universitario, godendo dell’amnistia promossa da Palmiro Togliatti. Egli non trovò 121

alcuna cellula comunista a diffidarlo minacciosamente dal rientrare nell’Università. Al contrario, trovò un caloroso comitato di accoglienza. Non una delle vecchie posizioni che ricopriva gli venne negata. Riprese la posizione di Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell’Università di Roma e la mantenne fino alla morte; riassunse le posizioni che aveva ricoperto nel Consiglio Nazionale delle Ricerche e riprese possesso pieno della sua creatura, l’Istituto Nazionale della Nutrizione. Chiaramente Visco aveva offerto i suoi servigi a una parte politica, quella comunista, che li aveva prontamente accettati ricambiandolo con un generoso lavacro. Esiste al riguardo un documento che illumina chiaramente questa “conversione” politica. In data 17 ottobre 1957 ebbe luogo alla Camera dei Deputati un dibattito consacrato allo stato di previsione del Ministero della Pubblica Istruzione che diede luogo a un’accesa discussione sulla politica universitaria del governo democristiano dell’epoca e, in particolare, del Ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro. Il più acceso critico fu Mario Alicata, un illustre “redento”, che si era compromesso con il razzismo del regime ed era ora uno dei massimi dirigenti del Partito Comunista. Ebbene, nella sua durissima requisitoria contro la politica universitaria del governo, Alicata cita come massima autorità Sabato Visco: «Cito testualmente dalle dichiarazioni fatte a La Stampa di Torino da un autorevole professore dell’università di Roma, non certo sospetto di essere un sovversivo [sic!], il professor Visco: “i professori universitari ritengono che si renderebbero responsabili di un tradimento verso il paese se non denunciassero, con un serio gesto di protesta, la pericolosa decadenza nella preparazione dei tecnici e nelle attività scientifiche”». E in un altro intervento, sempre di parte comunista, si ricordava a Moro: «Signor ministro, so che giorni or sono è venuto da lei Sabato Visco, preside, a Roma, della facoltà di scienze, e che le ha detto 122

onestamente che i professori, stanchi e avviliti […] non intendono più continuare a far finta di adempiere sul serio una missione resasi impossibile; che occorrono nell’aule altri assistenti, che, soprattutto, nei laboratori bisogna far entrare gli strumenti necessari allo studio e alla ricerca, mancando i quali [74] non si va più avanti». E così via. Dunque, colui che era stato corresponsabile della cacciata dei professori universitari di “razza ebraica” (il 7% dei professori ordinari), a causa della quale erano stati smantellati interi settori della ricerca scientifica, e che aveva accolto in un discorso alla Camera tale cacciata «con suprema indifferenza», proclamando anzi che l’università italiana ne aveva guadagnato in «unità spirituale», questa stessa persona aveva ottenuto la copertura politica sufficiente per recarsi dal Ministro a rappresentare l’intera classe accademica. Da dove veniva una simile certezza di impunità e un tale potere, da parte di una persona con quel passato? Veniva chiaramente dall’appoggio dei suoi colleghi di “redenzione”, ed ora mandanti, come Mario Alicata. Ecco spiegato l’atteggiamento di tanti colleghi universitari nei confronti di Visco e la condiscendenza (o complicità) nei suoi confronti da parte di istituzioni universitarie dominate dalle sinistra. Come se non bastasse, si è dovuto assistere ad altri obbrobri: ancora nel 1987, il catalogo che illustrava lo spirito del progetto di esposizione E42 a Roma (“Utopia e scenario del regime”), insisteva molto sulla figura di Visco, presentato addirittura come un nobile scienziato ispirato da un amore disinteressato per la conoscenza mentre non si diceva una sola parola dei suoi trascorsi razzisti. Mentre simili personaggi avevano ripreso e conservato posizioni tanto rilevanti sul piano politico e accademico, l’emarginazione dei professori universitari ebrei era praticamente irreversibile e molti altri professori non ebrei subivano emarginazioni per motivi vari, comunque connessi alla loro incapacità di offrire servigi come “redenti”. Il caso Terni 123

rappresenta certo una punta estrema del rovesciamento di responsabilità e di una “remunerazione” capovolta. Molti altri casi meno estremi ma comunque drammatici testimoniano di questa colossale ingiustizia, per cui le vittime continuarono ad essere tali, e per giunta sotto il giogo dei medesimi persecutori. Tale fu il caso di coloro che, per un motivo o l’altro, rinunziarono a tornare in Italia, dopo essere emigrati nel periodo razziale. Altri morirono di dispiacere o di depressione per i lunghi otto anni trascorsi in un esilio umiliante. Coloro che furono reintegrati ebbero delle cattedre ad personam, le quali sarebbero sparite con la loro morte: non si trattava quindi di un vero reintegro, in quanto le cattedre precedentemente da loro occupate restavano in mano di coloro che le avevano usurpate, con tutto l’apparato di potere connesso che quindi era definitivamente passato di mano. La grande ingiustizia, che ha provocato conseguenze che ancor oggi paghiamo, si è verificata in due momenti fondamentali della transizione fra il regime fascista e la repubblica antifascista: l’epurazione e l’amnistia. Il loro effetto veniva così descritto dal fisico Enrico Persico in lettera inviata nel 1946 al suo collega Franco Rasetti definitivamente trasferitosi all’estero: «Qui come sai abbiamo fatto la repubblica, alla quale io ho dato il mio voto, ma senza farmi troppe illusioni. Il suo primo atto è stata una pazzesca amnistia che rimette in circolazione ladri, spie fasciste, rastrellatori e torturatori, eccetto quelli le cui torture erano “particolarmente efferate” (sic). Viene proprio il rimpianto di non aver fatto, a suo tempo, il torturatore moderatamente efferato. L’epurazione, come forse saprai, si è risolta in una burletta, e fascistoni e firmatari del manifesto della razza rientrano trionfalmente nelle Università». Una sparata superficiale e rabbiosa? Certo, qualche forma di riconciliazione nazionale doveva pur essere promossa. L’intellettualità italiana nella sua quasi totalità si era 124

compromessa con il fascismo e un’epurazione totale non avrebbe avuto alcun senso. Ma in quella situazione l’unica via d’uscita era sanzionare i casi più gravi, indurre i casi gravi a un periodo di discreto ritiro e di ripensamento, quantomeno a non riprendere la collocazione precedente come se nulla fosse, e, per il resto, creare le condizioni per una riflessione sincera, senza vergogna e senza timore di linciaggi. Come scrisse Arturo Carlo Jemolo, «salvare almeno quel sommo bene che è la sincerità con sé stessi», mentre «la posizione deteriore» è «quella di chi cavilla con sé, e cerca di persuadersi che quel che fece lo fece [75] senza venir meno alle sue fedi democratiche». È evidente che una volta avviato un processo di epurazione e amnistia contrassegnato dall’ambiguità e dall’ingiustizia, dall’applicazione frequente del motto “forte con i deboli, debole con i forti”, e ispirato al malefico intento di offrire una via d’uscita ai più compromessi per costruire su questa base un’egemonia culturale, si sarebbero ottenuti risultati devastanti. Da un lato, si sarebbe diffuso un generale sentimento di corruzione morale, dall’altro si sarebbe generata quella miscela, apparentemente incoerente, della tendenza ad occultare le proprie colpe con quella di scagliarsi come cani rabbiosi sulle colpe altrui. Corruzione morale e clima di ricatto, questo fu il risultato dell’epurazione e dell’amnistia, di cui molti furono responsabili, ma al disopra di tutti Palmiro Togliatti. Consideriamo la vicenda di Giovanni Gentile. Non ci sogneremo certo di dimenticare o perdonare nulla degli atti del fascistissimo ministro, cervello culturale del regime, né di assolvere il silenzio con cui egli accolse le leggi razziali senza opporsi e fiatare. Ma, di certo, egli fu uno dei pochi intellettuali che non si sporcò direttamente con la politica razziale ed anzi fece di tutto per mantenere la presenza degli studiosi ebrei nell’Enciclopedia Treccani e per proteggerli individualmente. Gentile fu assassinato in modo efferato: ci pensò un eroe partigiano ad abbatterlo, e il suo assassinio fu istigato in alto 125

loco con parole indegne, mentre ai “difensori della razza” si stendevano i tappeti del potere. Certo, Gentile era ingombrante: in primo luogo perché non aveva alcuna intenzione di “redimersi”, e poi perché era un intellettuale ed un organizzatore culturale di primissimo piano, e quindi poteva diventare un temibile riferimento per una cultura di destra nell’Italia del dopoguerra. Era quindi preferibile additarlo al boia e abbandonare al loro destino tutti quegli intellettuali che non si mostravano disposti a “redimersi” e a portare in dote alle “casematte” (in senso gramsciano) della nuova egemonia culturale il loro potere e le loro influenze. La guerra civile che si scatenò nell’Italia del dopoguerra, con esecuzioni sommarie di fascisti e vendette non fu in contraddizione con l’amnistiaepurazione che infierì troppo spesso su personaggi aventi colpe minori e assolse autentici mascalzoni. In tal modo, l’Italia antifascista recuperò, ed anzi valorizzò, un intero ceto intellettuale compromesso con i peggiori atti del regime, facendone materia di un nuovo gruppo dirigente, nonostante spesso si trattasse di personaggi di dubbio valore, se non di mediocrissimo livello. Difatti, la presa autoritaria del regime e le leggi razziali erano state all’origine di un vasto reclutamento di figure discutibili. Persino la rivista fascista Vita universitaria, nel 1938, aveva segnalato il fenomeno ammonendo che non erano stati cacciati gli ebrei dalle università «per saturarle di impreparati o di furbi». Il libro di Mirella Serri documenta con quanta larghezza di maniche Bottai creò cattedre e posti per servi spesso neppure diplomati. Tornando all’argomento che sta al centro del nostro discorso, e cioè la scienza, è su questi temi che occorre focalizzare l’attenzione se si vogliono individuare le cause di un declino delle università, delle istituzioni scientifiche del paese e della cultura scientifica; e non su una pretesa refrattarietà culturale e politica congenita dell’Italia per la scienza. L’abbiamo detto e lo ripetiamo: la condizione della scienza e della cultura scientifica italiana all’inizio degli anni venti non 126

era affatto lamentevole, ed anzi presentava un panorama di prestigio e di promettenti sviluppi, pur entro condizioni che dovevano essere rafforzate e migliorate. Neppure il primo periodo fascista ebbe effetti deleteri, ed anzi contribuì a introdurre alcuni aspetti innovativi e di modernizzazione, alcuni dei quali persino nella fase marcatamente totalitaria che ha inizio negli anni trenta, durante la quale iniziò il declino e si posero le premesse per il disastro. Occorrerà prima o poi fare una storia accurata delle vicende che condussero al declino della scienza, nel periodo che va dalla militarizzazione progressiva della cultura, con il giuramento di fedeltà al regime, all’autarchia, alle leggi razziali, all’epurazione e all’amnistia nel primo dopoguerra. Una simile opera richiederebbe un volume a parte, mentre qui ci preme soltanto sottolineare perché è in questo contesto che vanno ricercate le ragioni di un declino e della rottura con una tradizione di cultura scientifica che avrebbe potuto costituire un autentico patrimonio nazionale. Abbiamo visto come l’opera del fascismo e i guasti dell’amnistia condussero a un’autentica distruzione della biologia italiana, cui contribuì anche un consistente fenomeno di emigrazione. Tale fenomeno fu più clamoroso nel campo della fisica, e condusse al sostanziale smantellamento della scuola che aveva posto l’Italia in una posizione di primato. La situazione può apparire più sfumata in altre discipline, ma un attento esame mostra che gli effetti furono comunque rovinosi. Nel campo della matematica, la fascistizzazione totale, portò alla ribalta due personaggi che si contendevano il titolo di “matematico fascista”, Francesco Severi (geometra e primo direttore del già citato INDAM) e Mauro Picone (specialista nel calcolo numerico e primo direttore dell’IAC). Si trattava di personalità scientifiche di indiscutibile qualità e che tuttavia approfittarono indegnamente delle leggi razziali per esercitare un’occupazione sistematica delle posizioni lasciate libere dalla 127

cacciata dei loro colleghi non meno e spesso più prestigiosi. Nel dopoguerra, cancellarono le tracce delle loro malefatte con lo zelante aiuto di allievi e colleghi, e cambiarono rapidamente casacca: Severi si distinse per la pubblicazione, a tambur battente, di un libro su “scienza e fede”, a poca distanza di tempo dagli scritti con cui aveva esaltato la filosofia del fascismo. Entrambi rioccuparono posizioni di prestigio che ne fecero i numi tutelari della matematica italiana per parecchi anni ancora, quanto bastò per aggiungere ai guasti altri guasti. Difatti, oltre al cattivo esempio morale rappresentato da questo “recupero”, i nostri continuarono a esibire le “qualità” di autoritarismo ducesco che avevano contraddistinto il loro percorso accademico durante il regime. Inoltre, malgrado il loro elevato livello scientifico, essi praticavano una visione datata della matematica troppo ispirata a una visione autarchica e poco sensibile a una visione della ricerca come impresa internazionale. Questo discorso è valido soprattutto per Severi, che si era già distinto per difendere ostinatamente una linea di ricerca “all’italiana” contro le innovazioni della scuola tedesca. Egli continuò a insistere in questa linea autarchica conducendo le ricerche italiana di algebra e geometria in un vicolo cieco. Non continueremo in questa disamina che, come si è detto, richiederebbe una trattazione a parte. Ci limiteremo a sottolineare che gli sviluppi che abbiamo sommariamente descritto portarono a far emergere personaggi le cui principali caratteristiche erano l’autoritarismo o la mediocrità, senza escludere la combinazione delle due. E cosa vi è di più pernicioso nella cultura, nella scienza e nel mondo universitario del predominio di questi due difetti? Entrambi conducono a un risultato inevitabile, e cioè all’emergere di una nuova generazione peggiore della precedente e così via, in un processo di declino inarrestabile. Difatti, l’autoritario non sopporta chi non gli manifesti dedizione assoluta, anche e soprattutto intellettuale, e in tal modo uccide nella culla qualsiasi creatività; o piuttosto seleziona gli allievi proni ai suoi voleri e fedeli alle 128

sue idee. Il mediocre non sopporta la presenza di persone che gli possano far ombra e che possiedano qualità tali da mettere in luce la sua mediocrità. Il risultato è univoco: la creazione di una generazione di allievi di livello comunque inferiore, e così via. Questo è esattamente il fenomeno cui si è assistito e si assiste nell’università italiana, e quindi anche nel mondo scientifico; beninteso, con le dovute e importanti eccezioni, poiché l’Italia è un paese di grandi tradizioni culturali e di grandi intelligenze. Ma le vicende quotidiane ci dicono che queste intelligenze sono troppo spesso costrette a una vita grama di isolamento ed emarginazione, oppure a recarsi all’estero per poter sviluppare pienamente la loro creatività.

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3 Quel che non riuscì a Croce riuscì ai suoi “nemici” Croce e la scienza: una eredità ingombrante «Le scienze naturali non sono altro che edifizî di pseudoconcetti, e propriamente di quella forma di pseudoconcetti, che abbiamo denominati empirici o [76] rappresentativi». Così si esprime sulle scienze naturali Benedetto Croce, ovvero colui che il filosofo marxista Antonio [77] Banfi definì il magister Italiae. E poiché Croce è stato davvero l’intellettuale italiano più influente nell’Italia del Novecento il lettore ci perdonerà se lo costringeremo a ricordare quale fosse l’opinione dell’illustre filosofo sulle scienze. Dunque, le scienze naturali sono costruzioni di pseudoconcetti empirici, scienze di fenomeni. Ma, attenzione: «il puro fenomeno, ingenuamente puro, è rappresentazione dell’arte» e «i fatti, presi senza alcuna determinazione di valore e di universalità, si risolvono in puri fenomeni». Le scienze non offrono né puri fenomeni né meri fatti, bensi «concetti rappresentativi, un qualcosa di mezzo tra rappresentazione e concetto, che si elabora per ragioni pratiche». Tolta alle scienze anche la dignità riservata all’arte, viene loro tolta anche quella 130

di essere «pratiche perché mirano ai fini dell’azione». Difatti, in quanto composte di concetti empirici, le scienze naturali «non servono direttamente all’azione, e per operare è necessario tornare da quegli schemi alla conoscenza della individuata situazione di fatto, o, come si dice comunemente, mettere da banda le astrazioni». Pertanto, le scienze naturali sono pratiche soltanto nel senso «che sono esse stesse azioni». Che cosa sono dunque le scienze? Semplici classificazioni di fatti. È una comprensione davvero profonda del metodo scientifico, non c’è che dire… praticamente a testa in giù. Ma andiamo avanti. In quanto bruti elenchi di fatti, le scienze non hanno alcun “universale”, «non potendosi porre distinzione rigorosa tra il concetto di animale (l’universale della zoologia) e quello di vegetale (l’universale della botanica) e nemmeno tra il vivente e il non vivente». Di conseguenza, «le scienze naturali non sono unificabili in un concetto (donde il loro incancellabile plurale), e restano perciò asistematiche, ammasso di scienze senza intrinseca relazione»; e parimenti «non sono possibili all’interno di ciascuna distinzioni logiche». E così viene liquidata anche la possibilità di parlare di “scienza”. Non sfugge neppure a Croce la tendenziosità di questa ridicola presentazione laddove ammette che nelle scienze la raccolta di fatti e la classificazione è un semplice lavoro preparatorio, mentre «il vero fine delle scienze naturali non è la classe ma la legge, e che nella legge il rigore di verità è indubitabile, tanto che per mezzo delle leggi che si scoprono è possibile, nientemeno, formare di previsioni di quel che sarà per accadere. Miracoloso potere, in vero, che metterebbe le scienze naturali di sopra a ogni altra forma di conoscenza, anzi le doterebbe di forza quasi magica, mercé la quale l’uomo, non pago di conoscere ciò che accade (che pure è tanto arduo a conoscere), sarebbe in grado di conoscere, perfino, ciò che non è accaduto ancora, il fatturo o futuro! Prevedere (bisogna rendersi chiaro conto dei concetti) tanto vale quanto antivedere 131

o profetare; e il naturalista sarebbe in questo caso né più né meno che lo scientifico e metodico erede degli antichi veggenti». Ma – lo si intuisce già dalla pesante ironia di questo passaggio – Croce si appresta anche a demolire questo «vantato potere» la cui miracolosità è il più chiaro indizio che fa dubitare che «la legge innalzi davvero le scienze naturali a scienze di verità». È semplicissimo: «la legge è la stessa cosa del concetto empirico». E la questione è chiusa. Anzi, può essere addirittura rovesciata la «sentenza, che tanto rifulge nella rettorica delle scienze naturali, circa l’inesorabilità e ineccepibilità delle leggi di natura. Proprio perché sono costruzioni arbitrarie e danno come fisso il mobile, non solamente esse non sono ineccepibili e patiscono talvolta eccezioni, ma addirittura non vi ha fatto reale che non sia eccezione alla sua legge naturalistica». Non si crede quasi ai propri occhi, rileggendo un brano come quello che segue, in cui con prosopopea si ammannisce una ridicola baggianata a “dimostrazione” di quanto precede: «Analizzando chimicamente un bicchier d’acqua, si ottiene H2O; ma, ricombinando chimicamente H2O, l’acqua che si riottiene è, per modo dire, la stessa di prima; perché quel combinare e ricombinare qualche modificazione deve avere prodotta (ancorché non percepita da noi), e mutazioni sono avvenute intanto nella realtà tutta, dal cui complesso niente è separabile e nemmeno quell’acqua, la quale dunque, presa nella sua particolarità e concretezza, si è anch’essa modificata. Onde si potrebbe definire: le leggi inesorabili della natura sono leggi che a ogni attimo vengono violate; e per converso le leggi filosofiche sono quelle che vengono in ogni attimo osservate». Si potrebbe osservare che Croce, in quanto brillante anticipatore dell’ipotesi della memoria dell’acqua, ha fornito la giustificazione teorica dell’omeopatia; ma, più seriamente, Croce si propone come caposcuola dei sostenitori contemporanei dell’idea che la scienza è fondata sul relativismo assoluto. 132

Lasciamo ora le scienze naturali per passare alla matematica ed alla scienza matematica della natura. Croce ricorda la celebre frase di Bertrand Russell (senza citarlo), secondo cui la matematica «è una scienza nella quale non si sa mai di che cosa si parli, né se ciò di cui si parla sia vero» e, senza fondamento, sostiene che essa sarebbe ripetuta da «tutti i matematici consapevoli dei propri procedimenti». Ne prende spunto per lanciarsi in una filippica demolitoria: «E a qual titolo un lavoro mentale che può meritare definizioni siffatte, si dovrebbe chiamare scienza? Una scienza, che non affermi verità alcuna, non appartiene allo spirito teoretico, perché non è nemmeno poesia; e una scienza, che non si riferisca a nessuna cosa, non è nemmeno scienza empirica, la quale si riferisce sempre a un gruppo determinato di cose ossia di rappresentazioni». Ma allora cos’è la matematica, visto che non è scienza, non è linguaggio, non è arte, non è logica? Ce lo spiega Croce, in un brano sensazionale che vale la pena di degustare riga per riga: «Del procedere matematico può valere come esempio qualsiasi operazione dell’aritmetica, e sia la moltiplicazione 4 x 4 = 16, dove il segno = (eguale) designa l’identità; e 4 x 4 è identico a 16 come è identico a infinite altre formole siffatte, perché ogni numero può avere infinite definizioni. Ora, che cosa mai da siffatta eguaglianza si apprende circa le cose reali, circa l’eterno essere o le contingenti sue determinazioni nella storia? Nulla di nulla. Ma ben si apprende a sostituire 16 a 8 x 2, a 9 + 7, a 21 – 5, a 32 : 2, a 42, a , e così via: ciascuna delle quali sostituzioni è utile secondo i casi, per modo che ove alcuno ci prometta di somministrarci 4 lire al giorno, e noi vogliamo sapere la totalità di lire, ossia l’oggetto che avremo disponibile dopo quattro giorni, eseguiamo l’operazione 4 x 4 = 16; e se abbiamo 32 lire da dividere in parti eguali tra noi e un altro, ricorriamo all’altra formola: 32 : 2 = 16. La matematica, in quanto matematica, non conosce, ma stabilisce formole di eguaglianza, e non serve al conoscere, ma a contare e a 133

calcolare il già conosciuto». Croce procede affermando nientemeno che «considerati rigorosamente» i principi della matematica «si mostrano tutti e del tutto falsi»: per esempio, la successione dei numeri naturali non esiste, perché «la serie numerica si ottiene movendo dall’unità e aggiungendo sempre un’unità; ma nella realtà non vi ha alcuna cosa che possa fungere da caposerie, e nessuna cosa è distaccabile da un’altra per modo da generare una serie discontinua» (dimostrazione rigorosa invero, non c’è che dire). E conclude che «come non sono pensabili, così i principi delle matematiche non sono immaginabili; e perciò malamente vengono definiti entità immaginarie, nel qual modo cesserebbero finanche di avere validità in quanto apriori. Essi sono a priori, ma senza carattere di verità; contradizioni organizzate. Se la matematica (diceva lo Herbart) dovesse morire per le contradizioni di cui è contesta, sarebbe morta da lunga pezza. Ma essa non ne muore, perché non si prova a pensarle; come un animale velenoso non muore del proprio veleno, perché non se lo inocula. Se pretendesse pensarle e darle come vere, quelle contradizioni diventerebbero tutte falsità». L’autentico odio di Croce per la matematica esplode in un crescendo: la matematica è «simia Philosophiae (come il diavolo fu detto dai teologi simia Dei)», attività che costruisce «formule vuote e lascia vuota la mente», che «promuove la superstizione, perché dai suoi schemi rimane fuori tutta la realtà concreta come mistero inattingibile», e che «appare alle menti alte troppo difficile, appunto perché troppo facile». E così via con l’invettiva. Abbiamo riportato questi brani quasi senza commenti. Ma, in verità, cosa dire? Si resta senza parole davanti a una simile miscela di abissale ignoranza e di arroganti insulsaggini. Questo era il personaggio che si era permesso di lanciare un sutor ne ultra crepidam a Federigo Enriques che ne sapeva di filosofia mille volte di più di quanto lui sapesse di scienza e che in 134

campo filosofico non scrisse mai nulla di tanto ridicolo quanto le disquisizioni precedenti su somme e prodotti o l’incredibile affermazione circa il sistema numerico. Questo era il personaggio che, dopo aver gettato la matematica nel girone più basso dell’inferno e le scienze naturali in uno appena più alto, concedeva loro di sopravvivere in quanto rivolte a uno scopo meramente pratico e disgiunte dal compito superiore della filosofia: «devastazione, mutilazione, flagello» la matematica, ma in fondo «affatto innocua in quanto non afferma nulla circa la realtà», mentre le seconde alla fin fine «rendono servigi non surrogabili». Siamo negli anni della relatività, della crisi del sistema newtoniano, della nascita delle teorie quantistiche, dei grandi dibattiti sui fondamenti della matematica e sui suoi rapporti con la logica. Siamo in un’epoca in cui la scienza e la tecnologia mostrano il loro immenso potere di trasformazione del mondo e in cui pongono sfide straordinariamente complesse al pensiero filosofico. Si poteva pensare qualsiasi cosa di questi processi, anche tutto il male possibile, ma esibire una simile abissale ignoranza rivestita di tanta spocchia, cavarsela con argomentazioni indegne del più oscuro maestrucolo di provincia, è qualcosa che lascia stupefatti. Questo è stato il magister Italiae, il “maître à penser” della cultura italiana del Novecento? E non si venga a far distinzioni tra il Croce storico e filosofo e il Croce critico della scienza: nessuna schizofrenia è ammissibile per un uomo di cultura degno di questo nome di fronte all’importanza di processi che hanno cambiato la faccia del mondo. Non vi è dubbio che il contesto culturale italiano dominato dalla filosofia idealistica non era favorevole allo sviluppo di una cultura scientifica, ma con quel tipo di idealismo, così chiuso, gretto e provinciale, non restava alcun margine, neppure quelli concessi dalle politiche culturali ed educative di Giovanni Gentile. In fin dei conti, la riforma Gentile – lo si è detto – non 135

ha costituito certo un ostacolo alla formazione di scienziati italiani di primo piano a livello mondiale. Al contrario, la formazione umanistica implicita in quella riforma è stata un fattore positivo: si è ripetutamente constatato che i migliori scienziati italiani provenivano dal liceo classico, a tal punto che questa constatazione è divenuta un luogo comune. Ma quale spazio poteva essere concesso alla scienza nell’ambito della concezione crociana, se non una vaga tolleranza come mero sapere pratico-utilitaristico, in pieno accordo con le tendenze del più piatto e banale positivismo? Sono casomai i “tecnoscienziati” di oggi – quelli che disprezzano in modo saccente ogni visione culturale e umanistica della scienza – che trovano confacente al loro punto di vista la concezione crociana. Ciascuno per conto suo, e un muro a dividere. Da un lato del muro si deride la scienza come sapere meramente pratico e privo di qualsiasi valore conoscitivo; dall’altro lato del muro si deridono le scienze umane come vuote chiacchiere prive di costrutto e di qualsiasi utilità. D’altra parte, Benedetto Croce non è stato qualcuno che passava di là per caso. È stato il magister Italiae. E la sua influenza non si è affatto ristretta al campo della cultura e della politica liberali. Per quanto criticato e punzecchiato da ogni lato, per quanto additato come modello da superare, Croce è stato “il” modello di riferimento per le altre culture, in particolare per quella che più ha esercitato la sua egemonia nell’Italia del dopoguerra, ovvero la cultura marxista. Non a caso abbiamo ripreso l’appellativo di magister Italiae da uno studioso marxista, Antonio Banfi, che pure è stato a lungo considerato come uno dei più aperti alla cultura scientifica e che pubblicò una raccolta di saggi dal titolo significativo L’uomo copernicano. Eppure, per quanto Banfi si spinga a denunciare le ragioni che impedirono a Croce di «riconoscere la validità del sapere scientifico», Croce resta il suo interlocutore 136

fondamentale, e tutti i suoi discorsi passano attraverso la critica della filosofia crociana. Per arrivare all’“uomo copernicano” bisogna passare attraverso questa angusta strettoia, attraverso una visione ristretta e provinciale in cui il resto della cultura mondiale appare sullo sfondo, ridotta a dimensioni assurdamente minime rispetto a quelle gigantesche di Croce. La cultura marxista italiana è soggiogata da Croce. Lo attacca ma è costretta a ruotare attorno a questo sole. E, in fondo, nutre per Croce una segreta – e neppure tanto segreta – ammirazione, un legame profondo, che si manifesta nel tono affettuoso con cui si ricorda e si ripete la definizione di “don Benedetto” delle idee di Hegel come “caciocavalli appesi”. Basta sfogliare gli indici analitici dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, e constatare il numero esorbitante di riferimenti riservati a Croce e il numero ridicolmente basso di riferimenti riservati a personaggi ben altrimenti importanti, per rendersi conto della gravitazione della cultura marxista attorno all’odiato-amato “don Benedetto”. Pochi si sono salvati da questa soggezione e da questa subordinazione culturale che è, in definitiva, la principale responsabile della incapacità di comprendere le tendenze della cultura scientifica in Italia nel secondo dopoguerra. Uno dei pochi che si salvò da questa soggezione fu Ludovico Geymonat, la cui formazione fu indiscutibilmente diversa da quella dominante nella cultura italiana del dopoguerra. Geymonat ebbe un ruolo importante e meritorio nell’introdurre in Italia tematiche e autori altrimenti sconosciuti. Purtroppo, le sue posizioni politiche, ispirate a un comunismo ortodosso di stampo stalinista, che si accentuarono in senso estremo col passare del tempo, intrisero la sua cultura scientifica di un materialismo dialettico dogmatico che ne compromise irrimediabilmente il valore. Ad ogni modo, il legame viscerale col crocianesimo è stato talmente profondo da resistere a tutte le intemperie. Questa resistenza è certamente dovuta al fatto che la cultura dominante 137

che si è affermata nel dopoguerra è stata quella marxista che aveva un rapporto di interlocuzione privilegiato, se non esclusivo, con l’idealismo; e in Italia l’idealismo accettabile, l’idealismo “democratico”, non compromesso con il fascismo, era quello di Croce. Soltanto così si spiega il fatto che persino oggi, a distanza di tanti anni, quando ormai la cultura marxista sembra sparita dalla scena italiana e Croce appare come un pensatore appartenente a un passato ormai lontano, il riferimento a lui spunti fuori da dove meno te l’aspetti. Può accadere che persino Giulio Giorello, nell’anno di grazia 2007, vada a recuperare un carteggio di Croce con Maria Curtopassi. Questo carteggio di “don Benedetto” (come anche Giorello continua affettuosamente a chiamarlo) sarebbe interessante «data la peculiarità del caso italiano: un Paese che dovrebbe dirsi laico e [78] che è allo stesso tempo così vicino al Vaticano». L’eredità cristiana dell’Italia sarebbe rimasta laica se fosse stata conservata nel modo con cui è stata acquisita e cioè, per dirla con don Benedetto, «con metodo antidommatico e critico, che non ammette verità che non nascano dal pensiero». Con questo riferimento al metodo critico e antidogmatico, secondo Giorello, Croce coglierebbe «uno dei nodi della modernità che sono emersi in modo anche drammatico da due grandi eventi della storia dell’Occidente: la Riforma protestante e la rivoluzione scientifica». Davvero? Può veramente dirsi che Croce fosse sensibile a questi due nodi della modernità, in particolare alla rivoluzione scientifica? Giorello si spaventa da solo dell’arditezza della sua affermazione e la tempera osservando che «per quanto concerne quest’ultima [la rivoluzione scientifica] è stata forse un’occasione perduta la sostanziale indifferenza del filosofo rispetto alle acquisizioni della scienza». Come abbiamo visto, si trattava ben altro che di “sostanziale indifferenza”! Si trattava di accanita ostilità. È da chiedersi se non vi fosse proprio nessun altro da andare a pescare nella 138

cultura italiana quale “testimone” dei due grandi eventi della storia dell’occidente. Sconcertante. Non è allora strano che nel già citato libro di Enrico [79] Bellone, La scienza negata, che pure è esplicitamente dedicato al “caso italiano”, lo sguardo sia rivolto prevalentemente al di là dei confini nazionali. Certo, non sarebbe corretto tacerlo, Bellone menziona negativamente Croce, accenna al conflitto tra Croce e Enriques, agli influssi negativi del fascismo e delle leggi razziali (senza dire peraltro mai nulla sul primo dopoguerra). Ma si tratta di accenni di passaggio, quasi marginali. La conclusione che si ricava dalla sua presentazione è che non abbiano giocato tanto, o quasi per niente, processi endogeni e fenomeni culturali e politicoculturali nazionali, quanto influssi provenienti dall’estero, i quali non hanno avuto effetti e sono stati marginalizzati nei paesi d’origine, mentre da noi sono stati amplificati a dismisura da una cultura “irrazionalista” non meglio definita. I protagonisti negativi della “scienza negata” sono Edmund Husserl, Jeremy Rifkin, Isabelle Stengers, Bruno Latour, David Bloor, Robert Musil, Max Horkheimer, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Edgar Morin, Paul Feyerabend, Gilles Deleuze, ecc. I nomi italiani citati sono soltanto quelli di alcuni sconsiderati che hanno avuto il torto principale di fare da eco alle tesi di quegli autori: Emanuele Severino, Umberto Galimberti, don Giussani, Federico Di Trocchio e pochi altri, tutti nello stesso mazzo. È così che ci viene raccontata la storia della crisi della cultura scientifica in Italia. Insomma l’idealismo crociano c’è stato, sì, e non se ne mettono in dubbio gli effetti negativi, ma è stato roba da nulla rispetto agli effetti del trapianto autoctono di certe scellerate filosofie straniere. Sulle conseguenze del fascismo, delle politiche razziali, del recupero “redenti”, non si dice nulla di rilevante, se non un richiamo generico. Certo, il libro si chiude con una citazione di Antonio Banfi, 139

che, nel 1941 criticava Croce e Gentile e «lo schema di una cultura in cui la natura s’evaporasse e alla scienza fossero [80] affidati i bassi servizi pratici». Banfi è stato uno dei pochi ad avere sensibilità per la cultura scientifica, ma il suo dialogo con essa si riduceva al riferimento alquanto generico alla visione galileiana e – come abbiamo osservato in precedenza – ruotava tutto attorno al confronto, sia pure critico, con il magister Italiae. Con tutto il rispetto che si deve a un pensatore intelligente e aperto come Banfi, egli è un buon esempio di un intellettuale che «neppure s’accorgeva di quanto in realtà stava accadendo al di là delle Alpi». Anzi, che non s’accorgeva neppure di quel che era accaduto e accadeva sul suolo nazionale, visto che non era in grado, non dico di dialogare, ma neppure di riconoscere l’esistenza della produzione filosoficoscientifica di un Enriques (ben nota e apprezzata al di là delle Alpi) o di quella di un Vito Volterra. E come appare bizzarra l’ossessione crociana di Banfi, così appare singolare che non si trovi di meglio da recuperare, nell’ambito della cultura italiana, che un filosofo marxista (Banfi) che si riferiva al razionalismo scientifico di Copernico e Galileo soprattutto per sentenziare che tale razionalismo non poteva non dischiudersi pienamente e fiorire se non all’interno del materialismo storico e dialettico e dell’“umanesimo marxista”. Questo modo di citare, di interpretare e di puntare i riflettori in certe direzioni piuttosto che in altre non è certamente casuale. Esso ha come conseguenza l’accantonamento di una questione centrale: e cioè che è stata la cultura marxista dominante in Italia nel dopoguerra, e la cui egemonia è stata incontrastata fino a pochissimo tempo fa, a ereditare e gestire il tema della scienza e della cultura scientifica. E non l’ha fatto per niente bene, aggiungendo guasti ai guasti. Altro che don Giussani.

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Il marxismo italiano e la scienza Abbiamo detto che l’atteggiamento della cultura marxista nei confronti della scienza è di importanza fondamentale, a causa dell’egemonia che questa ha esercitato in forme quasi incontrastate sulla cultura italiana. Conviene quindi dedicare [81] qualche riflessione a questo aspetto. La scienza è doppiamente importante per il marxismo: dal punto di vista teorico, perché il marxismo è la dottrina del “socialismo scientifico”; dal punto di vista concreto, perché la scienza è uno dei motori delle forze produttive e quindi, siccome il socialismo è l’erede predestinato della struttura produttiva della società capitalistica, deve in primo luogo incorporarne il sapere che ne costituisce l’ossatura. Fin dall’inizio, Marx presenta la sua opera, Il Capitale, come una sorta di newtonianesimo delle scienze sociali ed economiche: «Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantirsi lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest’opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento, loro sede classica e [82] l’Inghilterra». Pertanto, l’analisi storica del capitalismo inglese equivale alla considerazione del processo nel suo stato “puro” (“difalcando gli impedimenti”, per dirla con Galileo) in modo da determinare le leggi scientifiche che lo governano. Marx si pensa come il Newton delle scienze sociali ed economiche. Egli ricerca le grandi leggi della gravitazione sociale e le compendia nella sua teoria del valore. Solo che la sua ambizione non è puramente descrittiva, bensì mira a giustificare la necessità storica dell’avvento della nuova classe 141

dominante capace di realizzare il paradiso sociale: il proletariato. Una volta dimostrata tale necessità si tratterà di accelerare l’inevitabile esito, determinando, sempre scientificamente, gli strumenti più adatti a realizzarlo. D’altra parte, il proletariato si propone come erede della potenza produttiva del capitale, gestendola in forme collettivistiche e, siccome «scienza e tecnica costituiscono una [83] potenza dell’espansione del capitale», esse hanno un ruolo fondamentale e debbono essere riappropriate entro la nuova società comunista. È facile comprendere come derivi in linea diretta da questa visione la tesi di Antonio Banfi secondo cui la logica evoluzione del razionalismo critico, lo sbocco naturale della via che esso percorre, da quando il sorgere della società borghese e dell’economia capitalistica ha promosso lo sviluppo della coscienza scientifica e storica dell’uomo, sia il materialismo storico e dialettico, e la scienza possa espandersi in modo pieno soltanto nella società comunista. È quasi superfluo dire che la scienza sociale marxiana è improntata a una scientificità sui generis, per il carattere di determinismo assoluto che gli deriva dalla matrice idealistica hegeliana, che raggiunge accenti esasperati nella versione di Engels del materialismo dialettico. Perciò, malgrado l’ombra di Newton incomba su Il Capitale, chi si formi al tipo di scientificità proposta da quest’opera apprende ben poco di che cosa sia il metodo scientifico di un Galileo o di un Newton, e piuttosto apprende a ragionare nel modo schematico che risulta da una brutale trasposizione del meccanicismo entro il dominio delle scienze umane, per giunta assortito delle formule stereotipate della dialettica di derivazione hegeliana. Per quanto riguarda poi la realizzazione pratica dell’incorporazione della scienza e della tecnica nei tentativi di costruzione di società socialiste, i fatti parlano da soli. Nell’Unione Sovietica la scienza è stata assoggettata a 142

costrizioni teoriche del tutto analoghe a quelle in vigore nella Germania nazista. La teoria della relatività e la meccanica quantistica sono state a lungo guardate con diffidenza in quanto scienze borghesi e recuperate soltanto al prezzo di interpretarle in termini materialistico-dialettici. La biologia è stata assoggettata ai dogmi di Lysenko. Ogni ricerca scientifica teorica veniva perseguitata come estranea agli interessi del proletariato. Gli esempi sono innumerevoli: ricorderemo soltanto quello del biologo teorico G. F. Gause che fu costretto ad abbandonare i suoi studi matematici sugli ecosistemi e a darsi a ricerche sugli antibiotici. Persino in matematica gli studi sulla programmazione passavano sotto l’occhiuto controllo del matematico Pontriaghin, fedele al regime. Era difficile pubblicare persino un trattato di probabilità senza premettere nell’introduzione che tutto quanto era stato fatto nel passato era viziato da un approccio idealistico o contaminato da idee sociali reazionarie. È facile immaginare come un simile contesto non fosse il migliore per stimolare un atteggiamento aperto nei confronti della scienza e della cultura scientifica e una conoscenza non storpiata da costrizioni ideologiche. Ci si potrebbe illudere che la tanto vantata “diversità” del comunismo italiano abbia creato condizioni migliori. In parte è vero, ma limitatamente. Intanto, il grande teorico del marxismo italiano, Antonio Gramsci, ha mostrato un livello di comprensione dell’impresa scientifica alquanto modesto. Un semplice esame dell’indice analitico dei [84] Quaderni del carcere fornisce alcune significative indicazioni: Croce gode di quasi quattrocento citazioni, Galileo di nove, Newton di una, Einstein di tre, Hegel di più di cento, Marx di quasi duecento (meno di Croce…), Copernico di due, gli scienziati italiani più prestigiosi del Novecento non sono citati mai. Non ci sarebbe troppo da stupirsi se Gramsci avesse sistematicamente evitato di parlare di scienza. Al contrario, egli propone sentenze perentorie senza la minima esitazione. Ad 143

esempio, accusa la «mentalità scientifica moderna» di superficialità e debolezza per le critiche che vengono mosse alla fondatezza scientifica del concetto di “homo œconomicus”, avanzando un argomento non privo di valore ma che fa ricorso, guarda caso, alla strampalata elucubrazione di Croce sull’acqua! Ecco quanto scrive: «Per comprendere quanto sia superficiale e fondata su deboli basi la mentalità scientifica moderna […] basta ricordare la recente polemica sul così detto “homo œconomicus”, concetto fondamentale della scienza economica, altrettanto plausibile e necessario quanto tutte le astrazioni su cui si basano le scienze naturali (e anche, sebbene in forma diversa le scienze storiche o umanistiche). Se fosse ingiustificato, per la sua astrattezza, il concetto distintivo di homo œconomicus, altrettanto ingiustificato sarebbe il simbolo H2O per l’acqua, dato che nella realtà non esiste nessuna acqua H2O ma [85] un’infinita quantità di “acque” individuali». In altri brani egli si impelaga in disquisizioni improbabili sul concetto di oggettività, dandone una definizione in termini di accettazione “sociale” e distinguendo tra oggettivismo del senso comune, che avrebbe un fondamento religioso e il primo che è accettabile dalla filosofia della prassi (ovvero dal marxismo), sebbene sia anch’esso una forma di ideologia: «“Oggettivo” significa proprio e solo questo: che si afferma essere oggettivo, realtà oggettiva, quella realtà che è accertata da tutti gli uomini, che è indipendente da ogni punto di vista che sia meramente particolare o di gruppo. Ma in fondo anche questa è una particolare concezione del mondo, è una ideologia. Tuttavia questa concezione, nel suo insieme e per la direzione che segna, può essere accettata dalla filosofia della praxis, mentre è da rigettare quella del senso comune, che pure conclude materialmente nello stesso modo. Il senso comune afferma l’oggettività del reale in quanto la realtà, il mondo, è 144

stato creato da dio indipendentemente dall’uomo, prima dell’uomo; essa è pertanto espressione della concezione mitologica del mondo; d’altronde il senso comune, nel descrivere questa oggettività, cade negli errori più grossolani, in gran parte è ancora rimasto alla fase dell’astronomia tolemaica, non sa stabilire i nessi reali di causa ed effetto ecc., cioè afferma “oggettiva” una mera “soggettività” anacronistica, perché non sa neanche concepire che possa esistere una concezione [86] soggettiva del mondo e cosa ciò voglia e possa significare». Si faccia avanti chi pensa di riuscire, su queste basi, a fondare una qualsiasi versione sensata dell’oggettivismo scientifico. Difatti, Gramsci finisce con l’escludere che la scienza possa fornire verità oggettive, perché allora sarebbero verità definitive e l’attività scientifica non avrebbe più nulla da dire, dovrebbe limitarsi a divulgare il già scoperto: «Ma tutto ciò che la scienza afferma è “oggettivamente” vero? In modo definitivo? Se le verità scientifiche fossero definitive, la scienza avrebbe cessato di esistere come tale, come ricerca, come nuovi esperimenti e l’attività scientifica si ridurrebbe a una [87] divulgazione del già scoperto». Inutile dire che il pasticcio è totale, non soltanto perché questa nozione di oggettività non si accorda con le precedenti, ma anche perché a Gramsci non passa neppure per l’anticamera del cervello che la scienza ha sempre ritenuto di fornire risultati aventi un valore oggettivo rispetto a una “verità-limite” verso cui ci si avvicina indefinitamente senza raggiungerla mai completamente, essendo il processo di approssimazione garantito dalla crescente capacità di spiegazione e previsione di tali risultati. Gramsci invece conclude con la scoperta dell’ombrello e cioè, che, essendo falso l’oggettivismo nella forma assoluta da lui posta, la scienza è anch’essa immersa nella storia: « Ciò che non è vero, per fortuna della scienza. Ma se le verità scientifiche non sono neanche esse definitive e perentorie, anche la scienza è una 145

[88] categoria storica, è un movimento in continuo sviluppo». E alla fine conclude, disgustato, gettando la scienza nella pattumiera marxiana delle ideologie: «Ma in realtà anche la [89] scienza è una superstruttura, una ideologia». Questo era il grande pensatore del marxismo, attorno al cui pensiero si sono formati tanti filosofi della sinistra, sui Quaderni del quale si sono chinate generazioni di studiosi e, indotti da questi e dai loro testi, tanti giovani hanno [90] (abbiamo…) mal speso ore e ore della vita. Quando si rileggono oggi i commenti di Gramsci sulla scienza e quelli dei maggiori filosofi marxisti italiani – da Galvano Della Volpe a Lucio Colletti a Sebastiano Timpanaro, da Cesare Luporini a Nicola Badaloni – si ha l’impressione di trovarsi davanti a un piccolo mondo di provincia, non soltanto chiuso al di qua delle Alpi, ma anche isolato (in compagnia dell’amico-nemico Benedetto Croce) in un villaggio ignaro dell’esistenza di una cultura scientifica italiana che si era fatta conoscere e rispettare [91] all’estero. È desolante pensare che tanti giovani, formatisi nell’ambito della cultura egemone del paese, hanno letto seriamente frasi come questa: «… non c’è, infine, che una scienza, perché non c’è che un metodo ossia una logica: la logica materialistica della scienza sperimentale galileiana o moderna, fugato quindi quel sottinteso platonismo più o meno matematizzante ch’è lo sfondo filosofico della scienza di ogni [92] scienziato borghese, da Galilei a Einstein». Si può ben consentire che, a fronte di questo stuolo di pensatori, Antonio Banfi spiccasse per la conoscenza della filosofia della scienza [93] dell’epoca, come testimoniano, se non altro, le sue citazioni. Ma, a parte la piega che prende ogni sua analisi nella direzione del materialismo storico e dialettico, non si può non rilevare il carattere sommario delle sue conoscenze della scienza e della 146

sua storia, tutte mediate da un discorso puramente filosofico. Quale visione della scienza, della razionalità e della cultura scientifica poteva mai ottenersi da simili letture? Non se ne poteva di certo ottenere neppure una critica sensata, in quanto poggiata su conoscenze dirette e profonde. Appare quindi derisorio che, nel compiere una rassegna delle cause e dei responsabili della “scienza negata” venga evacuato in toto questo panorama culturale e venga additato al pubblico ludibrio soprattutto il povero Husserl che aveva sviluppato la sua critica della scienza contemporanea sulla base di una conoscenza indiscutibile e di prima mano e che, peraltro, antiscientifico non fu mai né mai si sognò di profferire anatemi come quelli di Gramsci o baggianate sul carattere borghese di Galilei ed Einstein. Tanto più l’evacuazione di quel panorama culturale – che godeva di un’egemonia quasi esclusiva – suscita il sospetto di una persistente copertura ideologica e politica. L’unica eccezione in questo panorama è quella di Paolo Rossi che ha prodotto una storiografia eccellente, all’altezza dei problemi reali e aliena da distorsioni ideologiche (e, non a caso, riconosciuta e premiata all’estero). L’unico rimprovero che si potrebbe muovere a Paolo Rossi è la partecipazione a una campagna contro l’“irrazionalismo” di cui parleremo nel prossimo paragrafo. L’altra eccezione è quella, già menzionata, di Ludovico Geymonat, forse l’unico filosofo della scienza italiano che possedeva un’autentica conoscenza degli orientamenti della scienza della sua epoca. Tuttavia, leggendo [94] un suo pregevole libro giovanile oggi quasi dimenticato, ci si rende conto dell’occasione perduta, a causa della progressiva adesione di Geymonat a un dogmatismo materialistico dialettico che assunse forme sempre più esasperate, a tal punto da corrompere anche i suoi migliori contributi alla cultura scientifica italiana. Che tristezza nel vedere come si siano consumate tante energie, anche di giovani e valenti allievi, per

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[95] pubblicare libracci volti a dimostrare che «il materialismo dialettico costituisce oggi una concezione del mondo veramente consona ai più recenti risultati della scienza e di una seria critica della conoscenza», e a proporre Materialismo e empiriocriticismo di Lenin come un testo «geniale» capace nientemeno che di raddrizzare l’epistemologia della scienza. Quel che non era riuscito a Croce è riuscito ai suoi “nemici”.

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Battaglie contro l’“irrazionalismo” Non intendo qui fare minimamente la parte di colui che “se ne lava le mani”. Come risulta chiaro da alcuni accenni precedenti anch’io sono stato immerso per qualche tempo dentro quella cultura marxista di cui lamento l’effetto negativo sullo sviluppo di una cultura scientifica in Italia. Potrei addurre come attenuanti non soltanto la giovane età e il non aver sostato più di una decina di anni in quel contesto culturale, ma anche il fatto che, rileggendo alcune polemiche di una trentina di anni fa e dopo aver gettato alle ortiche la scorza di catechismo marxista che avvolgeva le argomentazioni, mi riconosco in certi argomenti allora avanzati e ravviso persino il riprodursi della medesima contrapposizione che mi porta oggi a osteggiare certi anatemi sulla “scienza negata”. Occorre premettere qualcosa che forse abbiamo dimenticato, e cioè che negli anni successivi al ’68, in relazione con l’emergere di un aspro attacco alla cultura e alle istituzioni culturali ed educative “dominanti”, venne al centro della scena il tema della “non neutralità” della scienza. Naturalmente, questo tema non era nuovo nella cultura marxista, ma era stato sempre interpretato nel senso riduttivo di una strumentalizzazione o deformazione del razionalismo da parte della borghesia e non come qualcosa di intrinseco alla scienza stessa. Invece, il radicalismo sessantottino sostenne che entro la scienza stessa, anche entro le sue forme concettuali, fossero presenti elementi di non neutralità, omogenei alla cultura delle classi dominanti. Quindi, veniva messo in discussione non soltanto l’“uso” della scienza ma anche la forma concettuale che essa aveva nella società presente. Tale punto di vista ebbe numerosi sostenitori e trovò la sua massima espressione [96] editoriale in un libro di successo, L’ape e l’architetto, che mi trovò allora d’accordo per alcuni aspetti e in dissenso per 149

altri, che ritenevo aprissero la strada a posizioni irrazionaliste e che facevano un riferimento rozzamente propagandistico alla [97] cosiddetta “cultura antagonista”. Il campo della cultura marxista e, più in generale, della sinistra, fu spaccato da una violenta polemica in cui, da un lato, si schierarono autorevoli personalità come Ludovico Geymonat e la sua scuola nonché Paolo Rossi, dall’altro scienziati come Marcello Cini, gli autori de L’ape e l’architetto e altri storici ed epistemologi della scienza. La polemica assunse il tono di una contesa molto aspra attorno alla questione dell’irrazionalismo. La posta era l’egemonia della cultura scientifica comunista e di sinistra. Una svolta significativa fu rappresentata dalla pubblicazione in lingua italiana di numerosi testi stranieri che accreditavano, in certo senso, l’idea di una dipendenza della scienza dall’ideologia e di un suo condizionamento sociale delle sue forme concettuali, tra cui i libri di Imre Lakatos, di Paul Feyerabend e, soprattutto, il famoso La struttura delle [98] rivoluzioni scientifiche di Thomas S. Kuhn. L’ingresso in Italia di questa letteratura gettò benzina sul fuoco della polemica, in quanto questi testi furono additati come vettore di un’ideologia irrazionalista e antiscientifica, e accusati di mettere in discussione il carattere rigorosamente oggettivo della scienza. Nel corso del 1975 furono pubblicati sulla rivista teorica del Partito Comunista, Rinascita, numerosi articoli firmati da [99] Ludovico Geymonat e da diversi suoi allievi, alcuni dei quali si richiamavano alla definizione già a suo tempo data da Paolo Rossi delle posizioni di critica sociale della scienza come «una forma di oscurantismo antiscientifico ammantato di [100] pensiero rivoluzionario». Questi articoli proponevano una difesa a oltranza del “razionalismo” il cui contenuto può così essere sintetizzato: a) la scienza ha un carattere puramente oggettivo, essa è riflesso del reale, e come tale è vera, anche se 150

il processo di crescita della scienza implica un continuo perfezionamento e una continua rielaborazione; b) la scienza è non-neutrale soltanto per l’uso che di essa viene fatto dalla borghesia, e quindi la sfera dei rapporti tra uomo e natura è rigorosamente separata dalla sfera dei rapporti sociali; c) occorre “riappropriarsi” della scienza fuori dalla “contraddittoria cultura borghese” entro i “canoni del razionalismo e del materialismo”. Se ripensiamo a quanto abbiamo visto nel paragrafo precedente, riconosciamo il perfetto legame di continuità con le concezioni tradizionali dell’ortodossia marxista. In questo quadro la condanna delle degenerazioni borghesi rappresentate dalla letteratura alla Kuhn, Lakatos e Feyerabend era durissima: si dichiarava il rifiuto persino di discutere le concezioni della scuola storica anglosassone, si liquidava nientemeno che il “cosiddetto marxismo occidentale” e addirittura tutta la cultura borghese contemporanea, definita da Geymonat (in stile crociano) “noncultura”. Veniva inoltre attribuito alla storia della scienza il compito di ordinare, interpretare e ricostruire la storia, andando al di là dei “fatti filologici bruti”, per fare nientemeno che “una storia della razionalità globalmente intesa”, per portare alla luce, ovviamente con il metodo del materialismo, il suo carattere di sviluppo univoco verso la verità. Quel che più conta sottolineare è che, in questa contrapposizione tra razionalismo e irrazionalismo, sotto l’etichetta dell’irrazionalismo veniva incluso di tutto: la “non-cultura” borghese, il “cosiddetto marxismo occidentale”, buona parte della cultura di sinistra (quella radicale), la scuola storica anglosassone (cioè Kuhn e compagni), gli extraparlamentari ed inoltre i maghi, le fattucchiere, i facitori di oroscopi e tutta quella genìa di mascalzoni dediti alla diffusione di pratiche distruttrici del pensiero scientifico razionale. S’intende, lungi da me riattizzare polemiche archeologiche, e tanto meno entrare nella diatriba marxista che le avvolgeva. Tuttavia, rileggendo il lungo articolo di replica 151

[101] che pubblicai allora e che suscitò reazioni veementi, al di sotto del ciarpame del catechismo di partito, sottoscriverei ancor oggi gran parte della tesi avanzata: e cioè che la scienza è bensì costruzione di conoscenza oggettiva, e quindi acquisizione di verità, ma è anche determinata da concezioni culturali e ideologiche (quelle che in altro modo Lakatos chiamava “programmi di ricerca”), nonché da fattori sociali, e quindi non procede in modo lineare ma per rotture o “rivoluzioni”. Ancor oggi, sono profondamente convinto che occorra respingere sia la tesi relativista assoluta – che asserisce il carattere puramente soggettivo dell’impresa scientifica e che è sostenuta soprattutto dalla microsociologia scientifica alla David Bloor – sia la tesi radicalmente oggettivista. Ma questo è il punto! Una discussione attorno a questo tema non implica affatto una guerra di religione, tanto più quando sono in gioco non le posizioni di qualche guru ambientalista o di qualche estremista no global bensì quelle assolutamente rispettabili di un Thomas Kuhn che, non a caso, concluse la sua carriera con una presa di distanza radicale dalle posizioni del relativismo assoluto e della [102] microsociologia. Qualsiasi cosa se ne pensi, il dibattito sollevato dalla tanto deprecata storiografia anglosassone fu di grande importanza, è ancor oggi pienamente attuale, e fece uscire l’epistemologia scientifica dalle secche di un positivismo stantio, dal quale si era saputo distinguere fra i primi il nostro Federigo Enriques. Non si comprende quale senso razionale abbia mai avuto distruggere quel dibattito, soffocarlo nella culla, con l’intervento dei maggiori esponenti della filosofia scientifica italiana e delle loro scuole, ricorrendo ad argomenti brutali e volgari come l’equiparazione di Kuhn e Lakatos alle fattucchiere. Condannare in blocco tre quarti della cultura scientifica mondiale (“non-cultura” borghese, anglosassone, marxista occidentale, ecc.) additandola come un pericolo per il razionalismo, al pari dei maghi e dei guaritori, è stato un vero e proprio attentato contro lo sviluppo della cultura scientifica in 152

Italia. Quella vicenda ha rappresentato una deleteria manifestazione di provincialismo, dagli effetti nefasti, per giunta pronunciata in nome di un’ortodossia marxista non meno stalinista di quella dei fautori delle “culture antagoniste”. Ripeto: scagli la prima pietra chi non ha qualche cadavere nell’armadio. Ma a parte il fatto che c’è chi ha qualche scheletrino e chi invece ha cadaveri ben più ingombranti, bisogna pur avere il coraggio di aprire gli armadi, svuotarli e far aria. È mai possibile che l’esperienza non insegni nulla? Appare quindi sconcertante e preoccupante che il direttore della più importante rivista di divulgazione scientifica italiana – quella che dovrebbe essere la sede per eccellenza della formazione di una cultura scientifica nazionale – invece di prendersela con i nefasti effetti delle tesi di Croce, Gramsci, Della Volpe o Geymonat, non trovi di meglio che replicare la caccia alle streghe di un trentennio fa, facendo di Husserl il padre di tutti i nemici della scienza. E questo senza neppure degnarsi di considerare le tesi di Husserl per quello che sono e senza porsi il problema che non è stato soltanto Jeremy Rifkin (il guru ambientalista nemico della ragione) a citare Husserl, ma anche un grande matematico di origini italiane (ed emigrato negli Stati Uniti) come Gian Carlo Rota che ha ancorato tutte le sue ricerche matematiche a un costante riferimento alla [103] fenomenologia husserliana. Quindi, Husserl di per sé non ha fatto mai del male alla ricerca scientifica, così come né Kuhn né Feyerabend hanno minimamente messo in crisi il primato scientifico degli Stati Uniti. Ma – si risponde – quegli autori hanno avuto un effetto negativo soltanto da noi perché sono stati presi sul serio da una banda di filosofastri irrazionalisti. Insomma, sarebbe tutto colpa di Galimberti e Di Trocchio. Ma ci facciano il piacere – diceva il Principe Antonio De Curtis, in arte Totò. Piuttosto, non vi siete mai chiesti se non sia colpa vostra?

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Lo scientismo come teologia sostitutiva Secondo George Steiner il vuoto lasciato libero dalla crisi delle religioni è stato riempito da una serie di teologie sostitutive, di sistemi “mitopoietici” (ovvero, generatori di miti), fra cui spicca il marxismo, il quale è una «mitologia razionale» [104] che «si attribuisce uno status normativo e scientifico». Le teologie sostitutive sono definite da una serie di caratteristiche: la pretesa di totalità, ovvero di spiegare l’intero quadro del mondo; il fondarsi su alcuni testi canonici che rappresentano le “tavole della legge” del movimento; il conseguente e continuo conflitto fra ortodossia ed eresia; la costituzione di un linguaggio proprio formato da metafore, simboli, gesti, scenari che hanno un valore cruciale di identificazione. In particolare, il marxismo ha teso a riempire il vuoto lasciato libero dalle chiese tradizionali proponendo come centro della propria teologia sostitutiva lo scientismo, sia pure uno scientismo molto sui generis. Come tutti i surrogati, le teologie sostitutive sono molto più radicali dell’originale e di un’intolleranza molto più pervasiva e opprimente in quanto agiscono esclusivamente nella sfera terrena. Non esiste alcuna possibilità di praticarle in una dimensione individuale e spirituale che, in definitiva, non da fastidio a nessuno. Le religioni in senso proprio hanno esercitato forme di oppressione, talora violentemente persecutorie, quando hanno preteso di imporre il loro dominio terreno diretto, anziché rivolgersi alle coscienze. Tuttavia, alcune hanno appreso col tempo a definire il loro intervento in forme più tolleranti. La storia dei totalitarismi del ventesimo secolo, così le vicende presenti dell’islam, dimostrano la pericolosità di “religioni” che pretendono di controllare ogni aspetto della vita sociale e terrena. Tuttavia, il successo di siffatte “fedi” è proprio legato 154

alle certezze che offrono all’individuo, alla capacità di fornirgli un quadro di riferimento per ogni aspetto della vita sociale, politica e persino familiare e individuale. Non a caso le religioni più “mature” attraversano maggiori difficoltà. Il crollo del socialismo reale e del marxismo ha lasciato un numero enorme di persone prive del riferimento a una cornice ideologica, politica, sociale che definiva ogni aspetto della loro vita. Ho sempre ritenuto profondamente puerile la tesi secondo cui il comunismo è finito nel giorno della caduta del muro di Berlino. Uscire da un’esperienza di decenni che aveva plasmato la vita senza avere più un punto di riferimento nel Partito, o nel Movimento, comportava di acquisire la capacità non soltanto di ripensare criticamente il proprio passato, ma di camminare con le proprie gambe, senza stampelle di sorta. Per molte persone è risultata impossibile sia l’una che l’altra cosa. Di qui la propensione ossessiva a ritrovare un “ambiente”, un “contesto”, [105] un insieme di relazioni, e anche di gesti e di immagini che dia il senso di un tessuto comune non ancora del tutto perduto o – chissà – da ricostituire in un futuro; e, conseguentemente, la considerazione di chi non fa parte della “rete” come di un “altro”, se non di un nemico; da cui la tendenza a escludere di chi non è “uno dei nostri” e a praticare forme di connivenza lobbistica di cui parleremo in seguito. Di qui anche lo sforzo – quantomeno nei ceti intellettuali – di ricercare nuovi riferimenti ideologici “sostitutivi”. Che cosa poteva restare in piedi dopo il crollo della scorza del marxismo? È semplice: l’ideologia scientista, nuda e cruda, senza il riferimento al contesto teorico della filosofia materialistica della prassi e alla prospettiva della costruzione del socialismo. Ricordiamo la frase di un autorevole intellettuale già comunista citata in precedenza: «Baffone ci ha lasciati nei pasticci… non ci resta altro che la prospettiva di modernizzare il paese». Modernizzare vuol dire scienza e tecnologia.

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Se proviamo ad osservare sotto questo profilo la miriade di iniziative culturali attorno a temi scientifici o tecnologici, nonché la maggior parte degli articoli e dei libri riguardanti la scienza – in stragrande parte promossi dagli orfani della cultura dominante nel paese – il quadro è impressionante. I fumi d’incenso attorno alla scienza invadono ogni angolo dell’atmosfera. La nuova teologia sostitutiva della sinistra erede di un’ideologia che fu, è ormai lo scientismo più scatenato e acritico. Non è necessario portare a testimonianza le più radicali affermazioni sulla scienza come “religione della ragione”. Basta riferirsi ai peana quotidiani sui progressi della scienza nel campo della salute, della procreazione assistita, e le scomuniche nei confronti degli “oscurantisti” che sollevano dubbi sulla opportunità di manipolare la vita umana. Anche coloro che predicano scelte che qualcuno definirebbe antiscientifiche, come l’opposizione agli OGM o all’energia nucleare, lo fanno in nome della scienza… Persino i più accaniti catastrofisti, quelli che dicono che l’uomo sta distruggendo la terra e che invitano allo sviluppo delle energie alternative, lo fanno in nome dei “risultati della scienza”. La contrapposizione tra “razionalisti” e “irrazionalisti”, che prima divideva il fronte della sinistra, è ora divenuta una contrapposizione tra fautori del progresso e reazionari. Il fronte “progressista” si è ricomposto sulla linea dello scientismo e la differenza resta soltanto nella valutazione se la scienza sia un bene perché fornisce un sapere oggettivo oppure perché è relativista. È una differenza non da poco… Ma la contraddizione viene sepolta sotto la retorica scientista. Come diceva Steiner, le teologie sostitutive hanno bisogno di riti, di simboli, di gesti, di scenari aventi un valore di identificazione. Come fare, ora che gran parte della simbolologia della sinistra si è dissolta, che le iniziative culturali e i convegni attorno ai temi teorici sociopolitici non hanno più ragione di essere, e che persino le feste di partito non riescono a farsi come prima? Un sostituto è stato trovato: le 156

iniziative sulla scienza. Non si pensi che questa sia un’esagerazione. Non si era mai visto nel passato un simile dilagare di “eventi”, festival, feste della matematica, della biologia, della tecnologia, che non durano un giorno o due, ma una settimana, due e persino tre. Per giunta, non c’è ormai regione o comune, persino quelli più piccoli, che non cerchi di promuovere la sua iniziativa culturale sulla scienza. E chi viene chiamato a tenere conferenze, a presiedere, a formare i comitati scientifici di queste iniziative? La solita compagnia di giro degli orfani della cultura di sinistra. Non faremo nomi: chiunque può controllare facendo una passeggiata per gli innumerevoli siti web che illustrano queste iniziative. Constaterà che gli “altri”, quelli che non appartengono alla compagnia di giro degli intellettuali che si autoconsiderano come “democratici” non hanno il minimo spazio, se non in qualche pertugio che, per distrazione, non è stato presidiato. Non a caso molte di queste iniziative hanno un contorno ideologico in cui spunta lo zampino della cultura “progressista”: per lo più si tratta di iniziative contro la religione e per la difesa della “laicità”, di cui la scienza sarebbe il presidio, oppure di iniziative “multiculturali”, a difesa degli oppressi del mondo. Non si contano le presentazioni o gli articoli in cui si spiega che la grande novità, anzi la svolta epocale cui stiamo assistendo è che la “conoscenza” è diventata la nuova fonte della ricchezza delle nazioni. E allora ecco i nuovi temi da trattare su cui si potrebbero imbastire convegni, feste e festival da riempire l’intero paese: il ruolo della “nuova” conoscenza scientifica; il mutamento del rapporto tra uomo e tecnologia; il futuro della conoscenza. Poi spuntano i temi socio-politici: in quali mani è la conoscenza? Come potremo affrontare i problemi di questo mondo al contempo così ricco e così pieno di disuguaglianze e ingiustizie? Un tempo si discuteva della proprietà dei mezzi di produzione, oggi si discute della proprietà dei mezzi di ideazione. Ed ecco che rispunta fuori, un po’ spelacchiato ma pervicace, il vecchio zampino marxista. Insomma, ora 157

lavoriamo per la società della conoscenza, ma non rinunciamo a costruire una “democrazia della conoscenza” che modifichi la proprietà dei mezzi di ideazione… Il terreno dove più si è espressa l’idea della democrazia della conoscenza e si sono manifestate tutte le pulsioni represse verso il superamento della società di classe e il mai del tutto spento ideale rivoluzionario, è quello della scuola e dell’istruzione in generale. Ricordate la vecchia parola d’ordine sessantottina della “scuola di classe”? Il tentativo di abbattere direttamente la scuola di classe è fallito, ahimé. Come procedere allora? Con l’arma totale dello scientismo pedagogico e docimologico. Non vogliamo certo dire che la pedagogia e, in particolare, il progetto di una pedagogia scientifica sia un prodotto del sessantotto. Ma la grande scoperta dei “reduci” è stata che lo scientismo pedagogico poteva essere uno strumento ideale per la realizzazione dei loro ideali frustrati. Qual è il pilastro fondamentale della “scuola di classe”? La “cultura di classe” e la sua struttura disciplinare consolidata in più di un secolo. È questa che bisogna abbattere. E in che cosa si sostanzia concretamente tale pilastro? Nella cultura degli insegnanti. È questa che bisogna cambiare alle radici. Ma una simile operazione richiede un impegno proibitivo e tempi epocali. La via più semplice è quindi quella di cortocircuitare gli insegnanti riducendo il loro ruolo a quello di impotente cinghia di trasmissione delle decisioni prese da un gruppo di comando abilmente insediatosi nei centri nevralgici in cui si controlla il sistema dell’istruzione. Il potere dell’insegnante risiede nelle sue conoscenze disciplinari e nella valutazione del lavoro scolastico svolto in questo ambito disciplinare. Ma se si afferma il principio che la cultura scolastica è un unicum che deve essere integrato in forme “iperdisciplinari” e che la valutazione va compiuta sull’insieme delle “competenze” acquisite e non sulle singole discipline, ecco che la funzione dell’insegnante si riduce a quella di semplice socializzatore del processo di apprendimento e la sua funzione di valutatore è 158

ridotta al minimo. Non stiamo inventando nulla: basta riferirsi a quanto abbiamo già discusso nel primo capitolo. Si potrebbero addurre le tante dichiarazioni circa il carattere “rivoluzionario” o “democratico” di questo approccio. Ma è anche significativa l’insistenza con cui, di fronte allo sfacelo della scuola, si propone come soluzione addirittura una radicalizzazione degli interventi, escludendo del tutto gli insegnanti dalla funzione valutativa, che verrebbe integralmente conferita a organismi esterni di valutazione, funzionanti su basi “scientifiche oggettive”. È superfluo insistere sulle radici “progressiste” del pedagogismo “scientifico”, anche se va precisato una volta per tutte che questa autoidentificazione è del tutto soggettiva e arbitraria, perché il pedagogismo non è un fenomeno progressista né scientifico, e la pretesa di considerare “reazionari”, “retrivi” e “non scientifici” coloro che rifiutano quei paradigmi è a dir poco abusiva. Essa è espressione dello spirito di gruppo che abbiamo sopra descritto. L’espansione esponenziale del pedagogismo “progressista” non a caso è iniziata in concomitanza con la dissoluzione degli ultimi cascami sessantottini e con l’inizio della disgregazione del movimento comunista. Esso è un’ulteriore manifestazione di quello scientismo “sostitutivo” che ha avuto come effetto di riconsegnarci i tic, le frasi fatte, il linguaggio gergale e i luoghi comuni di generazioni che non sono riuscite a fare i conti con i propri fallimenti e che li replicano come un incubo senza fine, condannando anche le incolpevoli giovani generazioni a riviverli e a pagarne il prezzo.

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4 Una cultura militante Taccia chi non è “progressista” Debbo fare una confessione. Quando ho iniziato a scrivere questo capitolo avevo davanti una raccolta di fatti ed episodi occorsi a me e ad altri, rigorosamente documentati, che testimoniano quella che un collega ha definito “una sorta di cristallizzazione” nel modo in cui la scienza viene gestita nei mezzi d’informazione, e che danno sostanza alla spiacevole impressione che si sia costruito un “sistema di potere” che controlla (o quantomeno aspira a controllare) in modo esclusivo tale gestione. Avevo anche iniziato a mettere nero su bianco questi fatti ed episodi, per non dare l’impressione di un discorso campato per aria e persino paranoico. Ma poi ho deciso di trattenermi. Ho cancellato quel che avevo già scritto e riposto la documentazione in una cartellina. Questo libro non vuol essere una raccolta di episodi piccanti (per quanto fondati sui fatti). So bene che gli darebbero più attrattiva e lo renderebbero più vendibile, ma sarebbe un cedimento sbagliato alla pessima propensione a rendere tutto appetibile con il pepe della rissa. Mi limiterò quindi a svolgere delle considerazioni generali e a tracciare un quadro ambientale, facendo tutt’al più alcuni riferimenti generici a situazioni particolari. Insomma, mi rivolgo a chi vuol ascoltare in buona fede e con disponibilità a riflettere. Con chi mantiene una preclusione a priori, c’è poco da fare. 160

Quando ho riferito dell’impressione netta e diffusa che si sia costituito un “sistema di potere” che mira a controllare tutto quanto riguarda la diffusione della cultura scientifica – e quindi a controllare gli spazi sui giornali, nell’editoria, nelle manifestazioni culturali e nelle “feste”, nelle trasmissioni radiofoniche e televisive – intendevo forse dire che esiste e opera una lobby politico-culturale? Bisogna stare molto attenti a parlare di lobbies, soprattutto in Italia e, più in generale in Europa, dove il termine non denota, come negli Stati Uniti, un’organizzazione i cui scopi di propaganda e pressione sui partiti o le istituzioni sono definiti esplicitamente, in modo istituzionale e si manifestano alla luce del sole. Esso denota da noi qualcosa di losco e di sotterraneo, persino di illegale e comunque mirante a ottenere vantaggi per una rete di potere mediante intrighi e maneggi di vario tipo. Il fenomeno che c’interessa corrisponde piuttosto all’esasperazione di un’antica propensione del nostro paese, e cioè quella di dividersi in fazioni. Non insisteremo su un fatto ben noto, e cioè sul contributo che hanno dato a questa esasperazione gli anni della Guerra fredda. Il guaio è che la fine della Guerra fredda, con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione del cosiddetto “blocco socialista”, non ha migliorato le cose, come era lecito sperare. Il sistema bipolare che ha dominato la politica italiana negli ultimi quindici anni non è riuscito a fondarsi su una visione condivisa di alcuni temi di interesse vitale per tutti e ha approfondito la divisione del paese in due fazioni contrapposte quasi in senso antropologico: “destra” e “sinistra”. Il fatto paradossale è che nel periodo della Guerra fredda sarebbe stato impossibile parlare della “sinistra” come qualcosa di unitario, mentre oggi che la sinistra appare molto più frammentata di quanto lo fosse allora, emergono alcuni elementi comuni di identificazione. I comunisti hanno sempre coltivato il sentimento di una loro diversità rispetto a tutte le altre formazioni politiche, una diversità che caratterizzava anche il singolo uomo comunista: 161

mirare all’instaurazione di una società più giusta, democratica e onesta non era soltanto il fine del partito ma del singolo e lo definiva come un uomo che anteponeva quell’ideale a qualsiasi altra cosa, che sacrificava ad esso anche i propri interessi personali, ed era quindi intrinsecamente onesto e lungimirante come nessun altro. Chi abbia fatto parte di quella “comunità” sa bene quanto vi fosse intenso ed esclusivo il senso di appartenenza: uscirne implicava perdere il privilegio della diversità e piombare nella palude degli “altri” – i non “compagni” – al punto di meritare il trattamento più freddo e persino la negazione del saluto. Questa frontiera delimitava il partito comunista non soltanto dai “borghesi”, ma anche da tutto il resto della sinistra: socialisti riformisti, socialdemocratici, trotzkisti, ed altri estremisti di sinistra “frazionisti” potevano essere malvisti ancora più dei borghesi. E non è da credere che la fine dello stalinismo abbia temperato questo sentimento di “diversità”: esso continuò ad essere coltivato gelosamente anche nell’ambito della “via italiana al socialismo”, tanto vantata come aperta e tollerante. Durante la segreteria di Enrico Berlinguer, la cosiddetta linea dell’austerità rappresentò la proposta all’intera società italiana di adottare il modello etico e antropologico del militante comunista. Oggi, le divisioni nella sinistra italiana appaiono persino accentuate, ma in un modo profondamente diverso: non è più l’immagine di un pianeta centrale attorno a cui ruotano più o meno indisciplinatamente una serie di satelliti, bensì un insieme di corpi che gravitano in libertà, ciascuno per conto suo. Occorre quindi concluderne che, non esistendo più quel fattore di identificazione forte tipico della militanza comunista, non esiste neanche più un collante della sinistra? Al contrario! È come se nella disintegrazione politica del comunismo una serie di elementi identitari si fossero propagati ovunque, per una sorta di metastasi. Fra questi, il principale è proprio il sentimento della diversità, della diversità dell’uomo di sinistra. Nell’Italia bipolare dell’ultimo quindicennio, questo è stato, ed è tuttora, il 162

collante principale della sinistra: ritenersi diversi dagli altri, dalla gente “di destra”, ritenersi come i soli capaci, onesti, intelligenti e interessati alle sorti del paese più che al proprio tornaconto personale. Alla vigilia del voto elettorale del maggio 2001, questo sentimento fu espresso da uno dei massimi intellettuali della sinistra, Umberto Eco, in un articolo pubblicato sul giornale La Repubblica. Egli divideva l’Italia in due: da un lato, la gente perbene e intelligente, che non poteva non essere di sinistra, dall’altro tutti gli altri. E questi “altri”, questa “destra”, veniva descritta in termini antropologici come composta da due parti: un “elettorato motivato” composto da “leghisti deliranti” ed “ex-fascisti” che, in quanto ideologicamente convinti, errano irrecuperabili; e poi l’“elettorato affascinato” dal benessere e rintontito dalla televisione, che non legge libri, quasi mai quotidiani e le riviste soltanto se riportano un sedere in copertina. Insomma, gli “altri” erano visti come un conglomerato di fanatici, delinquenti e ignoranti abbrutiti. Questo appello particolarmente spiacevole non rappresentò un episodio sfortunato e isolato: esso fu, ed è, [106] l’emblema di una casistica immensa. Non passa giorno che chi non è di sinistra non venga qualificato come un evasore fiscale, come uno che passa al semaforo rosso, fa fare al cane la cacca per strada senza pulirla, supera i limiti di velocità, [107] distrugge le opere d’arte e devasta l’ambiente. La questione culturale è sempre stata particolarmente a cuore della sinistra e, in particolare, dei comunisti. Questo interesse si è manifestato in forme particolarmente accentuate nel comunismo italiano – proponendosi come modello anche all’estero – per l’insegnamento di Antonio Gramsci, secondo cui l’egemonia sulla società poteva essere ottenuta conquistando, attraverso un lungo cammino, quelle che egli chiamò le robuste “casematte” che si vedono dietro la facciata tremolante dello Stato e che ne costituiscono la struttura 163

portante, tra le quali hanno un ruolo centrale la cultura e le sue forme istituzionali. Non c’è dubbio che su questo terreno il partito comunista abbia mietuto i suoi maggiori successi: dal secondo dopoguerra ad oggi, la cultura comunista è stata sempre più presente ed egemone nell’editoria, nell’università, nella radio e nella televisione, nonché in tutte le manifestazioni culturali dei tipi più disparati, fino a divenire dilagante. È interessante notare che fino agli anni sessanta la presenza comunista non appariva particolarmente rilevante nelle università. Nel 1964, la vicenda della morte di uno studente di sinistra nel corso di uno scontro fisico con gli estremisti di destra che spadroneggiavano nell’università di Roma, fu l’occasione per un ingresso massiccio delle forze politiche antifasciste in una zona che pareva loro preclusa, e tra queste quella che riuscì a farsi largo più efficacemente fu quella comunista. Il sessantotto fece il resto: anche se in buona misura favorì posizioni ostili al partito comunista, alla fine chi ne guadagnò di più sul piano istituzionale fu quest’ultimo. È fuor di dubbio che, a partire dagli anni settanta, molte candidature alle cariche di rettore delle università, di presidi di facoltà e talora persino di direttori di istituti e dipartimenti – spesso risultate vincenti – venivano decise a tavolino in riunioni di partito. Oggi, ovviamente, la situazione è differente, per il processo di frammentazione di cui si diceva prima, ma è indubbio che le università sono largamente orientate a sinistra. A tal punto che, qualsiasi provvedimento sgradito venga preso da un ministro di sinistra suscita soltanto mugugni nei corridoi, mentre qualsiasi provvedimento venga preso da un governo di centro-destra suscita manifestazioni furibonde. La scuola si è rivelato un campo più difficile e complicato, dove hanno esteso la loro influenza soprattutto i sindacati. Sul piano prettamente culturale qui il ruolo primario è stato assunto dal pedagogismo, che ha cercato (e cerca) di superare le difficoltà di esercitare un’egemonia capillare su una sistema così vasto e complesso, tentando di ridurre l’autonomia degli insegnanti e di ricondurre 164

la gestione del sistema a criteri imposti da “esperti” dell’“apprendimento”. È difficile trovare un esempio più clamoroso di un gruppo che si presenta come politicamente neutrale e trasversale e che, invece, è espressione di un’ideologia intimamente “di sinistra”. È necessario fare una precisazione importante. Non apprezzo il moralismo e ritengo che se un’egemonia si manifesta e si impone nei fatti, il torto è di chi non sa esprimere idee migliori. Si potrebbe ben dire che, se la sinistra è culturalmente più capace, peggio per gli altri… Sono convinto che i regimi delle “quote” siano profondamente sbagliati e, in fin dei conti, penalizzino le capacità personali. Quindi, non è certo con un simile regime che si può pensare di garantire un’“equa” occupazione delle “casematte”– cattedre, posizioni nelle case editrici, controllo di iniziative culturali, ecc. Sarebbe come sostituire al principio del merito quello della “lottizzazione” partitica. Un secondo motivo per evitare discorsi insulsamente moralistici è che la tentazione di privilegiare i propri amici non è certamente una prerogativa di sinistra: lungi da noi fare discorsi simili a quelli di Umberto Eco. Potremmo fermarci qui se non fosse che l’egemonia culturale della sinistra non è più il frutto di una maggiore capacità. Soprattutto oggi, la cultura di sinistra appare allo sbando, nella misura in cui, invece di rigenerarsi e cercare nuovi riferimenti e nuove idee si attacca con disperata nostalgia alle consunte stampelle del passato. Appare evidente che questa egemonia sopravvive oggi soprattutto come frutto di una consolidata occupazione delle posizioni di potere e di una collaudata abilità di gestione che è sorretta da un fattore tanto più potente in quanto frutto di una convinzione sincera. Si tratta, per l’appunto, della perdurante convinzione che chi è “di sinistra” – indipendentemente da quel che dovrebbe significare questa etichetta, cioè quasi più niente di ben definito – sia migliore, più bravo, più intelligente, e che quel che pensa, dice, scrive e insegna sia più utile alla società, mentre quel che fanno gli altri sia pericoloso ed efferato. Di 165

conseguenza, è vissuto come una sorta di dovere morale il privilegiare i “compagni” – il termine è sopravvissuto alla fine del partito comunista – e portarli dovunque ai primi posti, dove potranno garantire il controllo “progressista” e “democratico” della cultura. Le manifestazioni estreme di questo modo di vedere furono plasticamente rappresentate dai verbali di esame che, durante il sessantotto, venivano lasciati aperti ai “compagni” che apponevano la loro firma accanto a un voto unico (almeno ventisette), mentre tutti gli “altri” sostenevano regolarmente le prove. Ma, se questi casi limite appartengono al passato, è di oggi la vicenda di una persona che, non vedendomi da trent’anni ed essendo rimasto fermo il suo orologio all’epoca della mia militanza comunista, mi fece una raccomandazione motivandola non con le qualità scientifiche del candidato o con un suo interesse personale a promuoverlo, bensì offrendo garanzie circa la sua “affidabilità politica”… Quella persona credeva di far risuonare le corde del sentimento di una comune missione. All’epoca del partito comunista questa missione si realizzava concretamente nel tentativo di conquistare il potere attraverso l’estensione dell’egemonia. Oggi, tutto questo non c’è più. Quel che è rimasto, in tutta la sinistra, è il sentimento che occorre chiudere le porte ai “barbari”, ai “selvaggi”, ai “reazionari”, agli “antidemocratici”. Per quanto la sinistra possa dilaniarsi nei suoi conflitti interni e nelle sue liti, essa conserva un comune collante rappresentato dalla necessità assoluta di far fronte all’“altro” – identificato nella destra, nella reazione, nel fascismo, nell’oscurantismo – e di occupare tutte le posizioni con persone che partecipino di quel minimo comun denominatore di convinzioni “progressiste”. Naturalmente, per quanto si tratti dei brandelli di quella che fu una cultura compatta e organica come poche, la crisi del comunismo (e dei suoi incroci con il cosiddetto “cattolicesimo democratico”) ha lasciato qualcosa sul terreno che definisce quel comun denominatore di convinzioni “progressiste”: un generico sentimento anticapitalista e antimperialista, il mito 166

dell’egualitarismo, il terzomondismo e quel pasticciato assemblaggio di aspirazioni alla pace universale che va sotto il [108] nome di “multiculturalismo”. Accanto a questi aspetti, uno degli elementi fondamentali del minimo comun denominatore di “progressismo” è rappresentato dalla nuova teologia sostitutiva: la fede nella scienza e nella tecnologia, nel progresso scientifico e tecnologico. “Nemici della scienza” sono tutti coloro che non credono ciecamente nella nuova religione e che osano avanzare una sia pur minima critica delle tendenze e delle realizzazioni pratiche della tecnoscienza contemporanea. Quando si tratta di letterati o di religiosi, la cosa più semplice è metterli all’indice come persone ignoranti oppure ostili alla ragione scientifica. Nel caso malaugurato in cui si tratti di scienziati, li si censura, sperando che nessuno si accorga della loro presenza e, se questo non è possibile, li si bolla come traditori e venduti. “Anche tu matematico”, era il titolo di una recensione a un mio libro, che esprimeva molto efficacemente un’inesorabile scomunica e la messa al bando dalla comunità dei credenti nella fede scientifica: anche tu, o Bruto, hai pugnalato la scienza… Inutile dire che quel libro non conteneva il minimo attacco alla scienza. Al contrario, mirava a difendere i diritti della ragione scientifica contro certe degenerazioni della tecnologia. Ma figurarsi… Quel che è caratteristico delle fedi assolute è di definire un insieme di principi dogmatici che sono considerati come “veri” di per sé: chi non vi crede o li viola in qualsiasi modo, è un eretico e gli vengono appioppate le qualifiche distintive dell’eresia. Nel nostro caso, le qualifiche dell’“eresia” sono, oltre a quella naturale di “nemico della scienza”, quelle ereditate dall’ortodossia progressista: “nemico del progresso”, “oscurantista”, “reazionario”, nemico del “libero pensiero” e della “ragione”, e via dicendo. Oggi, che i dogmi dello scientismo sono divenuti un elemento caratterizzante dell’essere “di sinistra” e “progressista”, chiunque non vi aderisca è automaticamente 167

collocato nella schiera della reazione, indipendentemente da quali siano le sue convinzioni e senza alcuna possibilità di far ascoltare la sua voce al di fuori di un contesto di contrapposizione frontale. Abbiamo ricordato come, negli anni sessanta e settanta, la sinistra si divideva tra scientisti e coloro che sostenevano il carattere “non neutrale” della scienza e quindi ne sviluppavano una critica anche di contenuto. Ora che la sinistra ha adottato in toto la prima posizione, i secondi sono senza casa e, se non la sentono di essere additati come “di destra”, tacciono. Chiunque osservi con un minimo di attenzione il panorama attuale non potrà non constatare l’isolamento di coloro che hanno sostenuto allora quelle posizioni e che oggi vengono semplicemente gratificati di silenzio, se non vogliono pagare il prezzo del “tradimento”. Una vicenda che ha clamorosamente messo in evidenza questo stato di cose è stato il dibattito che si è sviluppato nel 2005 attorno al [109] referendum sulla legge 40 sulla procreazione assistita. Non c’è stato verso: nessun dibattito magari vivace e anche polemico, ma esente dalla manìa di etichettare l’altro, è stato possibile. I difensori della legge e tutti coloro che hanno avanzati argomenti contro i rischi dell’emergere di una nuova eugenetica – si trattasse pure di autorevoli personaggi della sinistra – sono stati etichettati con il marchio infamante e indelebile di “reazionari”, “nemici del progresso e della scienza”. Ho promesso di evitare l’elencazione di casi specifici, e manterrò la promessa. Non posso però evitare di portare, sia pure in termini generici, la testimonianza personale di che cosa significhi non accettare di rinunziare a esprimere idee in cui si crede sinceramente, nella convinzione – che richiede di essere confutata, non condannata – che determinati sviluppi della tecnoscienza rappresentino un rischio per la conoscenza scientifica e per la società nel suo complesso; e, per giunta, nella convinzione che una sinistra attenta a valori umanistici 168

dovrebbe essere particolarmente sensibile a questi temi, soprattutto quando non sono presentati entro la cornice di vecchi discorsi di stampo sessantottino sulla non-neutralità capitalistica della scienza, che – questi sì – possono portare ad atteggiamenti antiscientifici. Ebbene, fare una simile scelta significa pagare il prezzo di essere classificati come reazionari e oscurantisti, qualsiasi cosa si dica e quale che sia il valore degli argomenti avanzati. Dieci anni fa scrissi un libro in cui sviluppavo un’analisi critica degli sviluppi oscurantisti di certo tecnoscientismo. La [110] sua pubblicazione presso un piccolo editore fu l’esito di una via crucis presso un gran numero di editori di maggior rilievo, il cui rifiuto di pubblicare il libro non era mai motivato con critiche specifiche al testo ed alla sua qualità, ma da osservazioni del tipo: «È l’espressione di una crisi mistica dell’autore». Vi fu un caso in cui mi si chiese semplicemente se ero in condizione di ottenere la prefazione di tale esponente di punta dello scientismo, altrimenti non se ne sarebbe fatto nulla. In un altro caso si chiese – che coincidenza… – di tagliare il capitolo sul marxismo, ritenuto troppo critico (che contenesse errori o affermazioni insostenibili, non fu mai detto). Una via crucis analoga dovetti sostenerla per un altro libro critico del meccanicismo, tra chi riproponeva la tesi della “crisi mistica” e chi lamentava la presenza di un capitolo sul mito del Golem, roba “antiscientifica”, evidentemente. Fu alfine degnamente [111] pubblicato. Un critico – manco a dirlo “progressista” – ne era talmente entusiasta da volerne fare una recensione. Egli mi intrattenne in una lunga passeggiata sui temi del libro, sempre più convinto ed entusiasta. Fino a che si arrestò in mezzo alla strada, preso da un dubbio improvviso: «Ma non è che per caso sotto sotto c’è un’ispirazione spiritualista… insomma, non è che sei religioso?». Risposi evasivamente, ma non bastò: la recensione non uscì mai. 169

Potrei raccontare che cosa significa scrivere su un giornale come Il Foglio, uno pochissimi organi di stampa che ospita tesi non convenzionali sulla scienza: significa ricevere lettere di “scienziati” che ti chiedono come sei potuto scendere così in basso da collaborare a una simile testata, oppure ti chiedono la copia di un tuo articolo, perché non potrebbero sporcarsi le mani a toccare quelle pagine. Insomma, non stare nell’ortodossia scientista significa pagare il prezzo del boicottaggio: difficoltà nell’editoria e sulla stampa, taglio negli inviti ai convegni, ai festival e a tutte le iniziative promosse dalle “casematte” della cultura, in cui imperversa la solita compagnia di giro. Si può essere anche censurati se si osa sottoporre a critica, pur in termini rigorosamente scientifici, un articolo il cui autore sia uno dei mostri sacri dello scientismo progressista, e si rischia di essere immediatamente catalogati [112] come “di destra”, anche se il contrario è vero. Resta la consolazione, anzi la vera e propria remunerazione, di essere ascoltati in ambienti in cui predomina un autentico interesse per le idee, piuttosto che l’esibizione della scienza da avanspettacolo.

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Due fazioni della cultura militante Affrontiamo ora una questione cruciale per lo scientismo militante: quale immagine offrire della scienza? O, per essere più precisi, in che modo spiegare perché la scienza è sinonimo di libertà, di progresso, di ragione? Qui si disvela la natura essenzialmente ideologica dello scientismo militante, il quale è capace di dividersi radicalmente nella risposta (e magari di dividersi nella stessa persona…), pur continuando a far credere di non essere diviso. Per semplicità distingueremo due posizioni militanti: la cultura scientista militante di tipo A e di tipo B. Il militante di tipo A è quello che difende il carattere rigorosamente oggettivo della scienza: la scienza è acquisizione di verità obbiettive e indiscutibili, anche se continuamente perfezionabili, anzi è l’unica forma di acquisizione di verità, rispetto a tutte le altre forme di pensiero umano che, nel migliore dei casi (la letteratura), costruiscono prodotti di fantasia e, nel peggiore (la religione) educano alla superstizione e al fanatismo. Il militante di tipo A è erede sia del punto di vista di Galileo, quando affermava che l’Iliade e l’Orlando Furioso sono opere della fantasia di un uomo «ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero»; [113] sia della contrapposizione di stile voltairiano della scienza alla religione. Il campione di tale punto di vista è uno più gettonati divulgatori dello scientismo progressista, il sedicente “matematico impertinente” Piergiorgio Odifreddi. Egli ha rigettato con sprezzo le critiche al relativismo dilagante chiedendosi da dove mai si possa trarre «la balzana idea che il sistema di vita tecnologico che l’intero mondo ha ormai adottato si basi sul relativismo, invece che sull’assolutismo matematico e scientifico». A suo dire questa idea balzana deriverebbe dall’«equivoco che le immaginarie tesi post-moderne sulla scienza, dolo(ro)samente amplificate dai media, abbiano una 171

qualche rilevanza riguardo a ciò che che realmente succede nei laboratori». Quindi, l’idea che la scienza sia relativista è una «stupidaggine» di gente che «non capisce un’accidente». E conclude solennemente: «All’assolutismo politico-teologico, impantanato nelle sabbie mobili della rivelazione e della fede, va dunque contrapposto non il relativismo filosofico ma l’assolutismo matematico e scientifico, fondato sulle rocce della dimostrazione e della sperimentazione». Come se non bastasse, diversamente dalle ideologie politiche e dalle fedi religiose e dalle teorie filosofiche: «la matematica e la scienza esistono in un’unica versione: solo ad esse si possono dunque applicare senza usurpazioni gli aggettivi katholikós, “universale”, e global, “globale”». Bontà sua, il nostro ammette che l’assolutezza delle verità matematiche e delle leggi scientifiche è «temperata» dalla limitatezza dei mezzi conoscitivi, per cui «le cose che sappiamo le sappiamo veramente, ma una delle cose che sappiamo è che non potremo mai sapere veramente [114] tutto». Ne segue come corollario il dovere di distruggere le religioni, in primo quelle dell’Occidente (cristianesimo ed ebraismo), per sostituire al culto di Dio quello della scienza: «la scienza è una sola: magari non santa, ma certo katholika, nel senso letterale di “universale”. Ed è solo alle sue affermazioni, non certo ai dogmi cattolici, che si può sensatamente applicare il motto quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditur: cioè di essere e dover essere credute “sempre, dovunque e da tutti”. Diversamente dalle religioni, la scienza non ha dunque bisogno di rivendicare nessun monopolio della verità: [115] semplicemente, ce l’ha». Allo stesso modo con cui la religione deve essere sostituita dalla scienza, autentica “religione della verità”, le forme di espressione diverse dalla scienza sono faccende minori, che meritano di essere considerate nella misura in cui si fanno apologete e ancelle della scienza. Le feste e gli spettacoli “scientifici” si avvalgono quindi ampiamente di cornici letterarie, musicali e figurative, a 172

condizione che queste siano finalizzate a veicolare contenuti scientifici. Non c’è quindi da stupirsi se l’asserzione galileiana circa il carattere “minore” delle opere letterarie, in quanto incapaci di trasmettere verità, venga estremizzata al punto da essere usata per “spiegare” come mai la cultura matematica nel nostro paese non decolli: «come può, [un] giovane, imparare a pensare razionalmente, se da bambino si appassiona alle imprese fantastiche di Harry Potter o del Signore degli Anelli, e da adulto ha il 10% di probabilità di diventare uno dei sei milioni di italiani che ogni anno consultano maghi, astrologhi, chiromanti o guaritori, e altrettante probabilità di diventare uno dei sei milioni di pellegrini che ogni anno fanno visita a Padre [116] Pio, per chiedergli grazie o miracoli?». In conclusione, siamo qui di fronte a un punto di vista che è condiviso da un gruppo consistente di scienziati o divulgatori della scienza – in particolare quelli raccolti attorno all’UAAR (Unione degli Atei e Agonostici Razionalisti) – e che contrappone radicalmente la scienza alle altre forme di conoscenza, in quanto sapere assolutamente oggettivo, portatore di verità. Ogni posizione relativista è radicalmente esclusa. Si tratta di posizioni che richiamano quelle che venivano sostenute da Ludovico Geymonat e dalla sua scuola nei dibattiti ricordati in precedenza. Memorabili certe battute di Enrico Bellone che, in polemica con i discorsi sulla “non neutralità” della scienza sostenuti da personalità come Marcello Cini e che avevano largo corso nella sinistra radicale, affermava che, per quanto imponente, nessuno sciopero generale potrà mai alterare il valore della costante di gravitazione universale. E si può ben dire che lo spirito che anima il suo più recente libro su “la [117] scienza negata” è in perfetta continuità con le posizioni di allora e rinnova i fasti dello scientismo iperoggettivista. Se non che… ma non anticipiamo i tempi. Passiamo al punto di vista di un altro difensore della 173

scienza contro l’assalto degli oscurantisti, Giulio Giorello. Qui entriamo in un altro mondo, anzi in un’altra galassia: quella dei militanti di tipo B. Difatti, la tesi centrale di Giorello è che la scienza è relativista, anzi proprio per questo è una forma di conoscenza antidogmatica, razionale, e capace di aprire le menti alla libertà di pensiero. La scienza si contrappone alle religioni – in modo assai più civile e tranquillo di quello odifreddiano, è doveroso dirlo – in quanto non ammette il dogma, si rimette continuamente in discussione. Nel pubblicare un interessante inedito del celebre matematico italiano Bruno de Finetti, Giorello scrive sulla quarta di copertina che «a decenni di distanza, mentre infuria la polemica sul “relativismo”, le parole di Bruno de Finetti, che ci fanno scoprire come i nostri valori si fondino “non su roccia ma su sabbia”, risultano più vive che [118] mai». Abbiamo appena lasciato un discorso su “sabbie” e “rocce”, ma impostato in modo radicalmente rovesciato… Del resto, il titolo dell’introduzione al saggio di de Finetti è inequivoco: “scienza senza illusioni”. Giorello non risparmia duri colpi agli “assolutisti”, ma sempre senza citarli per nome e cognome: «Non c’è solo il fondamentalismo dei religiosi. Non meno pernicioso è quello di filosofi o di scienziati che temano di mettere in discussione [119] anche la meno rilevante delle loro certezze». E siccome quel che si dice se non è avvallato da Galileo non è credibile, anche Giorello tira il pisano per la palandrana: «… se [Galileo] in nome di Platone o di Archimede esortava a penetrare i segreti del Libro del Mondo “che è scritto in caratteri geometrici”, di fatto stava ponendo le premesse di “nuove scienze” capaci di tradurre in formule matematiche le osservazioni di chi ha il coraggio di sporcarsi le mani con gli esperimenti. Aveva intuito che l’efficacia di un qualsiasi “modello” matematico di un fenomeno naturale sta nella sua capacità di sfruttare insieme numeri e figure. Si può anche non riuscire nell’intento, ma 174

Galileo era convinto che quando il controllo sperimentale e il successo tecnologico premiano qualche ipotesi audace si è sulla buona strada verso la verità. Qualche anno fa lo storico della scienza Morris Kline dichiarava che queste asserzioni galileiane costituiscono una vera e propria dichiarazione di indipendenza intellettuale che precede di più di un secolo quella dei “risoluti ribelli” americani del 1776!». Parleremo nella prossima sezione del fondamento di questi discorsi. Per il momento, ricordiamo un’altra frase di Galileo riportata da Giorello: «“Desidero la vera costituzion dell’universo” scriveva Galileo nel suo Saggiatore (1623) e sembra quasi il tono di un amante appassionato». E Giorello così conclude: «Più volte gli studiosi hanno sottolineato come Galileo non sia mai riuscito a esibire una prova definitiva a sostegno del sistema copernicano. […] Se, da scientisti, pensiamo che la conoscenza debba essere dotata di assoluta certezza, dovremmo paradossalmente essere dalla parte di chi ha condannato Galileo! […] L’eresia del pisano era una sola, quella della parola». E la parola – commenta il sottotitolo dell’articolo – è lo strumento che ci consente di relativizzare ogni certezza. Se ne potrebbe dedurre che Giorello non meriti di essere annoverato nella cultura scientista militante, visto che addirittura si pronunzia contro lo scientismo. E invece no, perché egli è stato, ed è, uno dei difensori più accesi della tecnoscienza contro ogni sia pur minima critica delle più recenti manipolazioni genetiche ed eugenetiche, in nome di un illuminismo progressivo che non conosce dubbi. Per Giorello, ogni riserva di tipo etico o morale nei confronti degli sviluppi tecnoscientifici è espressione di un atteggiamento bigotto, ispirato dal fondamentalismo religioso, soprattutto di tipo cattolico. Non una minima fessura critica incrina questa convinzione, quasi che la scienza e la tecnoscienza fossero l’unica impresa sana in questo mondo. Pertanto, egli è a buon 175

diritto un campione di uno scientismo relativista largamente diffuso e che, com’è ovvio, fa a pugni con lo scientismo assolutista. Ma il fatto sorprendente è che questo conflitto non viene mai alla luce, anzi prevale sistematicamente l’esibizione degli elementi comuni che, però sono quasi inesistenti sul piano teorico, mentre sono ben evidenti sul piano dell’intento ideologico. Si tratta di una manifestazione di quel comportamento che viene comunemente definito come “marciare divisi per colpire uniti”. Dicevo che gli esponenti dello scientismo relativista, ovvero i militanti di tipo B sono numerosi, forse più numerosi di quelli di tipo A. Quel che li contraddistingue dai secondi è l’affermazione dell’improponibilità di qualsiasi discorso sul significato della realtà, ovvero dell’assurdità della ricerca di senso caratteristica dell’istanza religiosa o, più in generale, spirituale e umanistica. Mentre il militante di tipo A ritiene che il significato sia espresso nelle leggi scientifiche, e nega quindi alla religione o alla filosofia qualsiasi ruolo in quanto incapaci di produrre leggi oggettive e “vere” secondo i criteri della razionalità matematico-sperimentale, il militante di tipo B nega quel ruolo in quanto la ricerca del senso è insensata. Nulla ha senso e il mondo è soltanto il prodotto di processi casuali. Pertanto, soltanto la scienza è un’attività degna di considerazione: difatti essa fornisce conoscenze provvisorie e falsificabili, che sono tanto più apprezzabili proprio in quanto sono tali e quindi dimostrano di essere prodotto della ragione. I campioni di tale punto di vista sono numerosi soprattutto nel campo della genetica e delle neuroscienze. Per loro, tutto è frutto del caso e quindi anche le nostre idee sono prodotto di configurazioni contingenti del cervello. È una posizione che è stata sostenuta, fra gli altri, da Edoardo Boncinelli, per concluderne che ogni discorso sul senso non ha senso, e che nulla ha senso. Quel che appare evidente in queste posizioni è la classica contraddittorietà del pensiero ultrarelativista: se nulla ha senso, neppure questa affermazione lo ha e quindi è futile. 176

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Ma non è soltanto futile dal punto di vista teoretico, bensì anche dal punto di vista pratico, giacché appare davvero singolare dedicare tanti sforzi della propria vita a confutare che la vita abbia senso: in altri termini si cade nel bizzarro paradosso di dare come senso alla propria vita quello di dimostrare che non ne ha!… Il che non è soltanto contraddittorio teoreticamente – perché impegnandosi accanitamente a dimostrare quella tesi si prova che l’esistenza può avere un senso – ma praticamente, perché chi crede che nulla abbia senso dovrebbe utilizzare più proficuamente il proprio tempo nelle attività che gli possono dare piacere senza pagare il prezzo del lavoro – pescare, giocare a carte, passeggiare o altro – e certamente non in attività faticose e stressanti come quella di scrivere libri e articoli. Quel che è davvero sorprendente è scoprire nel campo dei militanti di tipo B un personaggio che avevamo incontrato tra i militanti di tipo A, e cioè Enrico Bellone. In un suo recente libro egli affronta un tema che gli è caro da tempo, e cioè quello della diffusione di una visione radicalmente naturalistica, che qui mira all’obbiettivo di «adottare un modello naturalistico dello sviluppo culturale». Per far questo egli assume come riferimento la teoria dell’evoluzione per pervenire alla tesi estrema che le teorie (incluse quelle scientifiche) abbiano origine e si sviluppino come fenomeni biologici. Pertanto, poiché tutto è governato dal caso, le teorie non sono dirette né da un progetto né da una logica interna, non mirano ad alcuno scopo e si sviluppano secondo processi di adattamento dell’organismo all’ambiente esterno. Se ne deduce che occorre «rivedere molte opinioni sul ruolo di parole come “progresso” e “verità”» e occorre muovere verso una collocazione della teoria della conoscenza nell’ambito delle neuroscienze. Bellone enuncia tre tesi o leggi: la prima è che il problema delle origini delle teorie è analogo a quello delle origini delle specie; la seconda è che l’evoluzione delle teorie non è retta da 177

un progetto né tende a uno scopo (in buona sostanza essa dipende da quelle «norme corporee e non progettuali che l’evoluzione ha pazientemente e ciecamente imposto negli organismi viventi»); la terza è che l’evoluzione culturale è prodotto delle mutazioni, e la sua velocità dipende dal numero enorme delle connessioni sinaptiche. Non intendiamo entrare [121] nel merito di queste tesi o teorie. A noi interessa osservare che esse implicano la demolizione di ogni carattere oggettivo della conoscenza e di ogni “verità”. Come ammette l’autore, il problema di «mantenere una data cultura sempre adattabile all’ambiente sempre mutante che la circonda» non è detto che abbia soluzione. È lecito allora chiedersi quale sia il valore di queste teorie. Evidentemente, esso è nullo: non si vede per quale motivo la teoria che spiega la nascita e i modi di evoluzione delle teorie debba avere il valore oggettivo che è negato a tutte le altre teorie e non sia anch’essa un puro frutto del caso. Insomma, non può esistere una metateoria “vera” che spiega che nessuna teoria è “vera” e che sarebbe prodotto dello stesso cervello umano che sarebbe capace soltanto di funzionare in modo darwiniano, a meno che non si dica che essa è stata trasmessa per “rivelazione” non da Dio onnipotente ma dal suo surrogato ateo, l’Evoluzione. Se ci mettiamo nei panni dell’autore di tesi o teorie siffatte immaginiamo che egli debba vivere un senso di stupore nel vederle emergere dal proprio cervello, sentendosi oggetto e strumento del processo evolutivo dominato dal caso, chiedendosi (con ansia o curiosità?) quanto dureranno quelle teorie nel proprio cervello e nel contesto culturale (ovvero nella comunità dei cervelli). E siccome non può saperlo, perché l’evoluzione è cieca, la cosa migliore che gli resta da fare è quel che proponevamo sopra: non agitarsi – tantomeno perder tempo a scrivere quel che gli passa per il cervello – e godersela con i passatempi preferiti. Certo, a Bellone costa caro separarsi dall’idea che la scienza produca verità, la quale ha ispirato la sua decennale 178

lotta contro l’irrazionalismo e il relativismo. Difatti, egli osserva che «soltanto in apparenza [la tesi che l’evoluzione delle teorie non è retta da un progetto e non tende a uno scopo] è in disaccordo con la plurisecolare credenza secondo cui la dinamica delle teorie porta gli esseri umani a estendere e approfondire le descrizioni dei fenomeni». Tuttavia, dopo aver definito sprezzantemente questa credenza una «vetusta opinione» non riesce a spiegare in alcun modo perché il disaccordo sia apparente, e anzi si lancia in una filippica contro il realismo, contro la tesi secondo cui esiste una realtà esterna che ha carattere oggettivo, perché la realtà è qualcosa di soggetto a continui cambiamenti, e forse (aggiungiamo noi) è anche influenzabile dagli scioperi generali. «Quale rispecchiamento? E che cosa si dovrebbe mai riflettere in quegli specchi variabilissimi che chiamiamo teorie?». È quasi superfluo dire che, entro una visione del genere, non vi è il minimo motivo per stabilire una gerarchia di valori conoscitivi tra le teorie scientifiche e le discettazioni filosofiche critiche di certi sviluppi della scienza contro cui si scaglia il Bellone della “scienza negata”. Insomma, qui siamo in presenza di un Bellone di tipo B che malmena e deride il Bellone di tipo A (così come i suoi colleghi alla Odifreddi) e tutte le sue battaglie in difesa del carattere oggettivo della scienza e del valore di “verità” delle teorie scientifiche. Il Bellone B sbertuccia i concetti di “verità” e di “progresso” mentre il Bellone A proclama che una società che non ponga la scienza e le sue conquiste al suo centro è destinata al declino e al regresso. Se ripensiamo al dibattito degli anni settanta di cui abbiamo parlato in precedenza, ci rendiamo conto che le tesi di Bellone B farebbero la gioia dei più accaniti relativisti contro cui allora egli si scagliava. Anzi, in certi casi, sarebbero da loro respinte: tale sarebbe il caso di Kuhn che, nei suoi ultimi scritti, si pronunciò drasticamente contro tesi di questo genere. In definitiva, quel dibattito, sebbene abbia prodotti effetti perniciosi per la cultura scientifica 179

italiana – perché ha eretto una barriera provinciale contro una rispettabile letteratura scientifica tacciata di connivenza con le fattucchiere e i maghi – aveva ben altra dignità in quanto non nascondeva o confondeva le rispettive posizioni. Invece qui siamo di fronte a un pasticcio totale, a un marasma in cui militanti di tipo A e militanti di tipo B raccontano ciascuno la sua, in perfetta contraddizione, talora in totale contraddizione con sé stessi, ma di questa contraddizione non emerge nulla. L’importante è essere uniti nell’obbiettivo meramente politicoideologico di difendere la bandiera della “razionalità scientifica” (che non si sa che cosa sia e che ognuno declina a suo modo), l’idea di progresso (magari ridendoci sopra un istante dopo), nell’attaccare oscurantismo e reazione. Insomma, come si è detto, il motto è marciare divisi e colpire uniti. Anche chi, come Giorello, esprime una visione del relativismo coerente e rispettabile, si guarda bene dal contrapporla esplicitamente a quella dei militanti di tipo A e di intraprendere con questi un confronto intellettuale aperto. Viene voglia di dire: siete tutti scientisti o, se si vuole, paladini della scienza contro gli irrazionalisti; ma se volete farlo coerentemente provate a mettervi d’accordo, oppure esplicitate il disaccordo. Altrimenti, chi ne fa le spese è la cultura scientifica che viene trasmessa in un contesto di falsificazioni e di deformazioni senza limite, come avremo modo di precisare nella prossima sezione.

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La cultura scientifica vittima della cultura militante L’ossessione di difendere la scienza, come se fosse una verginella insidiata da un’orda di bruti, è ormai tale che non si sa dove prendere gli esempi. Mi limiterò all’ultimo che mi è capitato sotto gli occhi, e che certamente è il meno rilevante. È stato tradotto in italiano un libro del fisico canadese Lee Smolin che mette in luce la crisi della teoria delle stringhe e la riconduce a una crisi più generale che, secondo lui, starebbe [122] attraversando la fisica. Secondo Smolin, le vicende della teoria delle stringhe sarebbero addirittura un modello di come non si deve fare scienza e il paradigma di una deriva preoccupante di tutta la ricerca scientifica. È un merito della casa editrice Einaudi aver pubblicato in italiano questo libro, ma qualche anima bella deve essersi preoccupata del titolo, che in inglese suona assai inquietante e anche un po’ “antiscientifico”: The Trouble with Physics. The Rise of String Theory, the Fall of a Science, and What Comes Next. Ed ecco la prudente e casta traduzione in italiano: L’universo senza stringhe. Fortuna di una teoria e turbamenti della scienza. È possibile che non vi sia stata intenzione, ma sembra difficile. In ogni caso, l’effetto è evidente: quasi si trasmette il messaggio che la “fortuna” di una “teoria” – quale? la teoria che l’universo è senza stringhe? – abbia provocato “turbamenti” nella scienza. Non ho scelto questo esempio a caso perché si tratta di un libro scritto da uno scienziato autentico (salvo prova contraria) che apre una discussione critica sugli indirizzi attuali della scienza, senza risparmiare colpi. Leggiamo alcuni passaggi: «La scienza richiede un delicato equilibrio tra conformismo e varietà di opinioni. […] Affinché la scienza possa progredire, quindi, la comunità scientifica deve sostenere 181

una grande varietà di approcci a ogni singolo problema. Molte cose indicano che nella fisica fondamentale non si seguono più questi principî di base. […] Quel che sta facendo fiasco, secondo me, non è tanto una specifica teoria quanto un modo di fare scienza che era adeguato ai problemi che abbiamo affrontato attorno alla metà del Novecento, ma che mal si adatta ai problemi di oggi. Il modello standard della fisica delle particelle è stato il trionfo di un modo particolare di fare scienza che arrivò a dominare la fisica negli anni Quaranta del Novecento. È uno stile pragmatico e aggressivo e favorisce il virtuosismo nel calcolo più che la riflessione su problemi concettuali difficili. È profondamente diverso dal modo di fare scienza di Albert Einstein, Niels Bohr, Werner Heisenberg, Erwin Schrödinger e degli altri rivoluzionari dell’inizio del Novecento, il cui lavoro si basava su una profonda riflessione sugli interrogativi essenziali in merito allo spazio, al tempo e alla materia; ai loro occhi tale attività si inseriva in una tradizione filosofica più ampia, di cui avevano una profonda conoscenza. Nell’approccio alla fisica delle particelle sviluppato e insegnato da Richard Feynman, Freeman Dyson e altri, la riflessione sui problemi fondazionali non aveva alcun posto nella ricerca. Questo li esentò dai dibattiti sul significato della fisica quantistica in cui erano stati coinvolti i loro colleghi più anziani e portò a trent’anni di successi spettacolari. È così che dovrebbe essere: per risolvere tipi diversi di problemi sono necessari stili diversi di ricerca. Ideare le applicazioni di strutture concettuali conosciute richiede un genere di riflessioni – e di pensatori – molto diverso rispetto a quello necessario per inventare una nuova struttura concettuale. […] la lezione degli ultimi trent’anni è che il problema con cui siamo alle prese oggi non si può risolvere con questo stile pragmatico di fare scienza. Per continuare il progresso della scienza dobbiamo di nuovo affrontare interrogativi profondi sullo spazio e il tempo, sulla meccanica quantistica e sulla cosmologia e abbiamo di nuovo bisogno di persone che sappiano inventare nuove soluzioni per 182

[123] gli annosi problemi fondazionali». Un brano del genere rappresenta una critica molto severa di un andazzo che viene addirittura definito come un “fiasco”, di uno stile di ricerca “pragmatico” che viene ritenuto come inadeguato a risolvere i problemi in gioco e che viene imputato di bloccare il progresso della scienza. La critica non è di poco conto perché investe una tendenza generale della scienza contemporanea ben definita dall’aggettivo pragmatico. Se il pragmatismo ha contagiato persino la fisica teorica, esso la fa da padrone in biologia, dove è la manipolazione per tentativi (talora il vero e proprio “bricolage”) che ha sostituito l’analisi teorica. Denunciare i rischi di questo andazzo significa essere nemici della scienza, o non piuttosto suoi amici? Non appare chiaro, nelle parole di Smolin, che egli è preoccupato di difendere un approccio fondazionale capace di far riprendere il cammino a una ricerca bloccata? Si tratta quindi di una preoccupazione costruttiva. Ma – si dirà – nessuno scienziato professionale negherà di misurarsi con i temi sollevati da Smolin, o con questioni analoghe e, in fin dei conti, il suo libro è stato pubblicato e tradotto in italiano. La prima affermazione è abbastanza vera, anche se non bisogna sottovalutare la forza del conformismo: Smolin si mostra «assai preoccupato per una tendenza che fa sì che una sola direzione di ricerca riceva il sostegno necessario, [124] mentre altri approcci promettenti sono ridotti alla fame». E quanto alla seconda, occorre chiedersi quali siano state le ripercussioni di questo libro, in che modo il suo contenuto è [125] stato riassunto nelle rare presentazioni, quanto se ne sia parlato. Praticamente per niente. Guardiamo alla divulgazione “ufficiale”, quella che domina nelle principali riviste, nell’editoria, sulla stampa quotidiana e settimanale, nei mezzi radiotelevisivi. Essa è 183

improntata a una sorta di retorica agiografica, come se il suo compito fosse esclusivamente quello di esaltare le sorti magnifiche e progressive della scienza e di intonare un peana ai suoi trionfi. È sostanzialmente vero, come ha spiegato Thomas Kuhn, che la scienza procede per rotture e i periodi intermedi della cosiddetta “scienza normale”, in cui prevale un determinato “paradigma” della ricerca, sono caratterizzati da un marcato conformismo e persino dalla resistenza a tutti i costi a qualsiasi tentativo di innovazione. Insomma, non si può negare che il procedere della scienza esprima un’alternanza di fasi di innovazione radicale seguiti da periodi segnati quasi da forme di dogmatismo. (Già immaginiamo lo scandalo che susciteranno queste parole presso chi si beve le ridicole immagini della scienza come unanimismo universale, “cattolicesimo” della ragione). Ma se la scienza è un’impresa razionale positiva è proprio in quanto riesce a trovare in sé la forza per rompere le cristallizzazioni derivanti dai tentativi di perpetuare ad ogni costo il dominio della concezione prevalente. Smolin è una di quelle voci innovative di cui la scienza ha bisogno per progredire. La domanda che si pone allora è la seguente. Quale deve essere il ruolo di una cultura scientifica viva e di una divulgazione capace non soltanto di trasmettere informazioni più o meno esatte ma di suscitare quello spirito critico che si tromboneggia essere il cuore del metodo scientifico? Deve essere quello di difendere ad ogni costo l’idea che nella scienza tutto è buono, che non ci sono aspetti critici, difficoltà e persino processi involutivi? Deve essere quello di far credere che la scienza è un processo lento e sicuro di accumulazione di scoperte, l’una sull’altra come una torre che s’innalza senza posa, e che da essa ci verrà ogni conoscenza ed ogni benessere materiale, ogni progresso ed ogni salvezza dal dolore e dalle malattie? È difficile sostenerlo, se neppure i militanti di tipo B ci credono, nonostante diano comunque fiato alle trombe. Il migliore omaggio allo spirito critico – a quello spirito che viene 184

definito “scientifico” – non consiste forse nel descrivere l’impresa scientifica per quello che realmente è stata ed è, con i suoi successi e insuccessi, i suoi progressi e le sue ritirate, i suoi tentativi di dominare la natura talora coronati da straordinari trionfi, talora vani o aventi come conseguenza effetti imprevisti e nocivi? Un simile approccio, oltre ad essere l’unico modo corretto di trasmettere informazione e fare cultura, trasmette un’idea più umana della scienza, più vicina a noi e al nostro modo comune di pensare, invece di trasmettere l’immagine odiosa e repulsiva di una intoccabile e perfetta religione della ragione, dell’unico modo di ragionare cui tutti debbono inchinarsi e cui sottostare ciecamente, perché “l’ha detto lo scienziato”. Provate a trovare traccia di un simile approccio nella “cultura” scientifica corrente: è quasi impossibile. La linea dominante è quella apologetica che si avvale del doppio strumento della condanna e della censura: quando l’atteggiamento critico viene da qualcuno che non è uno scienziato professionale in senso stretto esso viene liquidato come “antiscientifico”, quando viene da uno scienziato [126] professionale viene censurato. Naturalmente, l’atteggiamento apologetico degli scientisti militanti impone un prezzo duro da pagare, e questo prezzo lo paga proprio la cultura scientifica, nei termini di una divulgazione deformata e superficiale e soprattutto di una presentazione rozza e parodistica di concetti sottili e complessi e di un uso grottesco della storia della scienza, ridotta a disciplina di servizio dell’agiografia scientista. Le manifestazioni deteriori della divulgazione si hanno soprattutto nei “festival” della scienza, vere e proprie messe cantate della scienza, in cui il mito della scienza salvifica si accompagna al tentativo di renderla accattivante presentandola in modo facile e soprattutto giocoso. Ma è una perniciosa illusione far credere che quel che è intrinsecamente difficile, e magari difficilissimo, 185

[127] possa essere reso facile e banale. Come non s’impara a suonare il pianoforte pestando sui tasti a caso, la teoria della relatività o la teoria di Galois non sono riducibili a un spettacolino o allo show di un divulgatore attorniato di veline. Eppure c’è chi lo crede e, in tal modo, compromette alla radice la capacità di apprendere, studiare, concentrarsi e riflettere attorno a idee difficili e complesse. Quanto alle deformazioni concettuali e storiche, il discorso sarebbe lunghissimo e gli esempi innumerevoli: non a caso abbiamo corredato questo libro di un’antologia che permette di gettare l’occhio su alcune delle deformazioni più macroscopiche. Abbiamo parlato del tema del relativismo, circa il quale occorrerebbe chiedersi cosa sia passato nelle menti di chi legge certe insensate diatribe che vengono pubblicate sull’argomento. Lasciamo da parte le tesi più estreme e ridicole, come quella avanzata da taluni militanti di tipo B secondo cui il relativismo è provato dal fatto che su ogni questione esistono opinioni diverse… Naturalmente il relativismo è un punto di vista non così banale: esso afferma che non esistono criteri che permettono di decidere quale tra opinioni diverse sia quella “vera”. Esistono poi molte declinazioni del relativismo, da [128] quella del relativismo assoluto – di cui abbiamo esaminato in precedenza alcune implicazioni – a forme più moderate di relativismo, che non negano un certo carattere di “progresso” nell’impresa scientifica, ma non riconoscono la possibilità di verificarlo in termini di acquisizione di “verità”, bensì soltanto in termini di maggiore “efficacia” descrittiva o predittiva. Non è qui la sede per disquisire in modo rigoroso sul tema del [129] relativismo, ma ci si lasci almeno dire che nessun motivo polemico può giustificare la trasformazione di un tema così delicato in sparate da avanspettacolo. E – lo ripetiamo – neppure è giustificabile avanzare posizioni contrapposte 186

facendo finta che non esistano dissensi pur di salvare la compattezza del fronte del progressismo scientifico. Intrattenersi sul tema dell’uso distorto e strumentale della storia della scienza richiederebbe pagine e pagine. Si tratta di un argomento particolarmente urtante per chi fa questo mestiere e assiste allo scempio della storia, dilaniata a pezzi secondo le convenienze polemiche. Limitiamoci a un esempio, che ritornerà anche nell’antologia: l’uso e abuso del riferimento a Galileo. Capisco bene che chi vuol far credere di essere l’autentico profeta della scienza trovi conveniente trincerarsi dietro le spalle del grande pisano, ma qui si esagera. Poniamoci questa domanda: Galileo era relativista, oppure no? La risposta dovrebbe essere banalmente negativa. Non c’è dubbio che i militanti di tipo A siano più nel giusto quando invocano Galileo come testimone del fatto che la scienza è assisa su solida roccia (meno quando vogliono presentare Galileo come un presidente onorario della summenzionata UAAR). Ha invece completamente torto Giorello quando tende a presentare Galileo come un antesignano del relativismo scientifico: è comprensibile la sua ansia di trovare supporto alle sue tesi, ma non è da lui fare un simile torto alla storia della scienza. Quando Galileo parlava di un mondo scritto in caratteri geometrici enunciava un punto di vista neoplatonistico rigorosamente e assolutamente oggettivista: la struttura matematica del mondo (e per giunta una struttura semplice!) fonda la possibilità che lo scienziato scopra “le” leggi che governano il mondo, leggi espresse in linguaggio matematico. E queste leggi non sono modelli! Qui l’accostamento della visione galileiana con la nozione di “modello” è un’autentica dissonanza. Per Galileo la scienza non è questione di efficacia ma di “verità”. «Desidero la vera costituzion dell’universo», è la frase ricordata proprio da Giorello: “la” vera e non un modello dell’universo. Questa confusione non è certamente fatta per chiarire le idee di chi voglia apprendere le filosofie passate e presenti della scienza e

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[130] le loro differenze. D’altra parte, non si tratta di un caso isolato. Tutti i grandi protagonisti della rivoluzione scientifica vengono presentati secondo un cliché positivista, come dei campioni del libero pensiero, della laicità, della lotta contro l’oscurantismo religioso. Galileo sarebbe stato più o meno un ateo, comunque una sorta di precursore di Auguste Comte, i non occultabili interessi di Newton per la teologia e l’alchimia vengono derubricati a effetto di rimbecillimento senile (mentre è provato che egli coltivò questi interessi fin dai tempi in cui enunciava i principi del sistema dei corpi celesti), e via di seguito con Copernico, Keplero e Descartes. Le deformazioni e falsificazioni storiografiche sul tema del rapporto tra scienza e religione sono une delle manifestazioni più clamorose dell’ideologia scientista. Anche qui è ben esser chiari perché non appena si propone questo tema si viene accusati di bigottismo clericale: ognuno è libero di essere credente, ateo o agnostico, panteista o politeista, ma non è libero di piegare la storia alla difesa delle proprie credenze. Sostenere che la scienza e la religione siano e siano sempre state in antitesi è altrettanto falso di quanto lo sarebbe sostenere che la scienza è un prodotto della religione. Ormai il tema del rapporto tra scienza e religione è divenuto materia di uno scontro non soltanto culturale ma politico che si manifesta in termini particolarmente accesi e finisce col trascinare nell’arena in modo rozzo e strumentale questioni molto complesse e delicate di storia della scienza e del pensiero scientifico, filosofico e teologico. Non intendiamo occuparci qui della letteratura più violenta e superficiale sull’argomento, che ha come massima espressione un già citato [131] volume di Piergiorgio Odifreddi. Non riteniamo difatti degna di considerazione la pretesa di voler discutere di argomenti sottili e che richiedono una competenza specifica con 188

un livello di conoscenza a dir poco insufficiente e sostituendo al ragionamento l’invettiva spesso condita con espressioni da suburra. Ma di certo non può essere sottovalutato l’impatto e le conseguenze estremamente negative che ha una letteratura del genere, buona soprattutto ad eccitare sentimenti faziosi e reazioni plebee da parte di una certa categoria di lettori che si compiace più della rissa che della discussione ragionata, come è facile constatare esaminando anche sommariamente i blog e i siti web che ne riecheggiano le tesi. La letteratura di orientamento scientista afferma che tra scienza e religione esiste una contrapposizione irriducibile, ma questa affermazione viene proposta secondo le due modalità contraddittorie dei militanti di tipo A e di tipo B: i primi affermano che la religione è soltanto superstizione e dogmatismo, espressione del fondo irrazionale dell’animo umano, mentre la scienza è manifestazione piena della razionalità ed è l’unica via per l’acquisizione di verità oggettive; per gli altri, invece, l’aspirazione religiosa alla verità è espressione di oscurantismo in quanto l’idea stessa di “verità oggettiva” sarebbe assurda e improponibile e l’essenza della razionalità è il relativismo. Comunque, per quanto contraddittorie siano queste modalità, l’atteggiamento ostile alla religione è comune a entrambe. La difficoltà più elementare di fronte a cui si trovano i sostenitori della tesi del contrasto irriducibile tra scienza e religione è di spiegare come mai tutti i fondatori della scienza moderna fossero religiosi, anzi dei “teologi laici”, per dirla con [132] Amos Funkenstein. Le risposte possono essere riassunte nei seguenti tipi: (a) non si poteva non essere religiosi, a quei tempi; (b) si trattava di forme di superstizione che rappresentavano soltanto incrostazioni residue attorno all’emergere di un nuovo spirito razionale; (c) l’intolleranza delle religioni costringeva a una religiosità di facciata cui non corrispondeva alcuna convinzione reale e a nascondere le 189

proprie vere opinioni; (d) il Dio dei protagonisti della rivoluzione scientifica era quasi sempre un Dio impersonale – il che è invece grossolanamente falso nella maggior parte dei casi – anzi la loro religiosità era soltanto una forma di panteismo, e il panteismo altro non sarebbe che una forma di ateismo mascherato. Questa è una forma di falsificazione diffusa: la tendenza a presentare Spinoza come un ateo è un cavallo di [133] battaglia degli scientisti in cerca di padrini filosofici. Tra le altre falsificazioni storiche più comuni vi è il completo occultamento di tutta la tematica filosofica e teologica che sta alla base della formazione dei concetti di spazio e di tempo nella fisica-matematica moderna. E inoltre, come è possibile comprendere la formazione del concetto di “legge scientifica” senza tener conto delle sue ascendenze giuridiche e teologiche? [134] Accanto a queste tematiche più “raffinate”, occorre menzionare la consueta polemica contro l’intolleranza delle religioni, la rievocazione del caso Galileo, del rogo di Giordano Bruno, delle persecuzioni che colpirono Spinoza, Cartesio, Copernico. Il ricordo di questi eventi persecutori serve a rinvigorire la tesi secondo cui la religione è, per sua natura, intollerante, fanatica e ostile al libero pensiero razionale che è l’essenza del metodo scientifico. Occorre sottolineare un aspetto curioso in questo panorama, e cioè l’“esenzione” di cui gode la religione musulmana da tutte le critiche sopra ricordate. Nonostante non sia lecito asserire che la religione musulmana non sia dogmatica – se non altro perché concepisce il Corano come un testo disceso direttamente dal cielo e il cui testo va preso in modo assolutamente letterale – quasi tutti i libri e gli articoli che hanno come bersaglio la religione e mirano a contrapporla al libero e razionale pensiero scientifico, puntano invariabilmente il dito contro l’ebraismo e il cristianesimo, mentre manifestano un’indulgenza o quantomeno un silenzio sconcertanti nei 190

confronti della religione musulmana. Questo non è del tutto vero nel caso della letteratura internazionale, come è testimoniato, per esempio, dal libro contro la religione di [135] Richard Dawkins, ma è clamorosamente evidente nel contesto europeo e, in particolare, in quello italiano. Da noi vi è stato anche chi, come Giulio Giorello, ha sostenuto che il libero [136] dibattito e l’illuminismo sono stati inventati dall’islam. A parte questi casi estremi, è indubbio che da decenni vada avanti una sistematica opera di rivalutazione del contributo della civiltà islamica alla fondazione della scienza europea, la quale [137] ha un indiscutibile fondamento. Soltanto che ora si sta esagerando e quella che era una legittima e fondata operazione storiografica sta trasformandosi in una vera e propria attività di propaganda tesa, da un lato, a dimostrare che l’islam ha creato praticamente tutta la scienza europea, la quale di suo non ha messo nulla e, d’altro lato, a occultare il fatto che l’islam ha avuto un “caso Galileo” ben prima del Seicento, ovvero il “caso Averroé” che ha interrotto drammaticamente la partecipazione [138] dell’islam alla costruzione della scienza occidentale. È facile constatare come questa campagna propagandistica stia producendo i suoi effetti, e si stia trasferendo al livello dell’immagine pubblica della scienza. Ogni atteggiamento intellettualmente inquinato da pregiudizi provoca atteggiamenti simmetrici: il pregiudizio si diffonde come la gramigna. Alla campagna antireligiosa in nome della scienza si oppone talora – anche se con assai minore intensità – una campagna anch’essa militante che propone delle tesi di un semplicismo estremistico che hanno come solo effetto di alimentare le posizioni che vorrebbero confutare e di fare ulteriormente degenerare il livello del dibattito. Ecco un breve inventario di queste posizioni sbagliate. Si nega, contro ogni evidenza che sia esistito un conflitto 191

tra le nuove correnti della scienza del Cinquecento e del Seicento e le autorità religiose. Invece di ammettere che la rivoluzione scientifica è avvenuta in un periodo di intolleranza che ha visto perseguitare i maggiori scienziati e filosofi in tutti i campi (Bruno, Galileo e Cartesio in campo cattolico, Copernico in campo protestante, Spinoza in campo ebraico), e invece di sottolineare che questo non implica affatto una contraddizione di principio tra scienza e religione, si propongono ricostruzioni storiografiche di comodo, in spregio all’evidenza. Si tenta di screditare Giordano Bruno come un mago (come se gran parte dei mistici rinascimentali non si ritenesse tale) e un ciarlatano, ignorando valutazioni equilibrate e approfondite del suo pensiero, e come se questo potesse servire a spiegare o giustificare in qualche modo la sua condanna al rogo. Si tentano ricostruzioni artificiose e semplicistiche del caso Galileo, ignorando la letteratura esistente e i problemi storiografici aperti. Un altro tema fondamentale riguarda il ruolo del pensiero teologico medioevale. Che il razionalismo teologico di Tommaso d’Aquino, Maimonide e Averroé abbia favorito lo sviluppo dello spirito scientifico, è indubbio; come è indubbio che è proprio nel rifiuto del razionalismo di Averroé che si situa l’inizio del divorzio tra l’islam e la modernità. Le discussioni teologiche medioevali, incluse quelle tendenti a confutare le “eresie” hanno avuto un ruolo importante nella creazione dei [139] concetti fondanti della scienza moderna. Ciò detto, è assurdo sostenere che esista un legame di continuità, senza fratture, tra la teologia medioevale e la scienza moderna. Quest’ultima è nata compiendo una demolizione sistematica della fisica aristotelica nonché rigettando la metafisica aristotelica a profitto del recupero del platonismo e del pitagorismo. Se la teologia medioevale cattolica ed ebraica ha avuto un ruolo importante nella formazione del razionalismo moderno, questo ha usato lo stesso strumento della razionalità 192

per demolire nei contenuti le immagini metafisiche e fisiche dell’aristotelismo dominante. Pertanto, è una falsificazione strumentale accreditare l’idea che la scienza moderna e il neoplatonismo non siano indissolubilmente legati. Ed è per questo che non è accettabile la denigrazione del pensiero rinascimentale, anche se la scienza moderna si è affermata rompendo con l’idea dell’unitarietà del mondo e con la concezione rinascimentale delle concatenazioni astrali. Ma, così come è stata debitrice del razionalismo della teologia medioevale, la scienza moderna non sarebbe mai nata senza la rottura cruciale operata dal pensiero rinascimentale, quello che Koyré ha definito il passaggio “dal mondo chiuso all’universo infinito”. Anche gli eccessi critici nei confronti del pensiero illuministico non sono accettabili. La realtà storica è fatta di chiaroscuri ed è sbagliato parlare del pensiero illuministico come di una realtà unica e senza sfaccettature. Ed è inaccettabile negare il ruolo dell’illuminismo nell’affermazione dei diritti della persona, che non sono esclusivamente riconducibili alla tradizione ebraico-cristiana. Quantomeno si dovrà ammettere che l’illuminismo ha saputo interpretarli e propugnarli validamente. Se il centro vitale della civiltà europea è stata la sintesi tra tradizione ellenica e latina e tradizione ebraico-cristiana, sarebbe assurdo negare il ruolo avuto dall’Illuminismo nel valorizzare la componente del razionalismo di derivazione greca. Ho voluto compiere una rapidissima rassegna di questi temi affinché ci si renda conto di quanto il rigore storiografico e una considerazione equilibrata e attenta dei fatti storici può contribuire alla formazione di una cultura autenticamente libera e critica. Al contrario, oggi l’estremizzazione polemica e strumentale serve soltanto a trasmettere slogan preconfezionati che producono la subordinazione della cultura scientifica a uno spirito di fazione. Né vale dire che si tratta di temi troppo 193

difficili e che richiedono risposte complesse e troppo sofisticate per un pubblico vasto. Spiegare è sempre possibile, almeno entro certi limiti, semplificare troppo è pericoloso, soprattutto se serve a creare immagini stereotipate che sono soltanto funzionali a contrapposizioni ideologiche. Oggi ci troviamo di fronte a un’alternativa: accontentarci di una mera trasmissione di notizie di “eventi” accaduti nell’ambito della ricerca scientifica, oppure comunicare un’informazione pensata, elaborata, critica e che non si limiti al puro e semplice annuncio, magari presentato in forme sensazionali, ma che sia trasmissione di contenuti di cui chi li riceve non è semplicemente bersaglio e deposito passivo, bensì anche soggetto capace di utilizzarli attivamente. Nel secondo caso noi staremmo effettivamente creando cultura scientifica. Nel primo caso non trasmettiamo neppure informazione, bensì soltanto un insieme indistinto e rumoroso di notizie. Come ha osservato Lévy-Leblond, «… le novità che nascono oggi nei laboratori possono diffondersi fino al pubblico non specialistico in modo quasi istantaneo. Tuttavia, senza il lento e paziente lavoro di critica e interpretazione […] l’effettivo contenuto informativo di queste onde mediatiche è praticamente nullo. In attesa di una loro effettiva comprensione, il loro impatto reale sulla cultura generale è trascurabile. L’informazione si propaga meno velocemente della vibrazione, la cultura si propaga molto meno velocemente della [140] “comunicazione”». Forse è ormai velleitario e illusorio, in tempi dominati in ogni campo dal culto della velocità crescente e dell’effimero (“usa e getta”), sperare che sia ancora possibile far prevalere il secondo approccio, quello propriamente culturale. Eppure chi abbia avuto a che fare con il “pubblico” in modo diretto e non mediato dalle varie forme di fracasso mediatico si può rendere conto che, in fin dei conti, quel che affascina di più e sveglia 194

l’interesse è la cultura. Tuttavia, chi è pessimisticamente convinto che non vi sia nulla da fare è bene che abbandoni la pretesa di fare cultura scientifica, dichiari di ritenere che questa sia una dimensione ormai impossibile, e smetta di fare un’insopportabile retorica oscillante tra il tronfio e il lamentoso. Non esistono scorciatoie. Leggiamo di un’iniziativa sponsorizzata da alcune Fondazioni per produrre un glossario che conterrà le spiegazioni di 100 parole che si usano correntemente in biologia, in chimica e in fisica. Niente di male, se questa viene intesa come una modesta iniziativa di supporto. Me se – come ha detto uno dei responsabili del progetto – essa viene intesa come un modo di smantellare il pregiudizio secondo cui «in Italia non si considera la scienza come disciplina culturale», cascano le braccia. Qualcuno potrebbe pensare seriamente di convincere del valore culturale della filosofia compilando un glossario di termini filosofici o stimolare alla lettura della Divina Commedia distribuendo un elenco dei personaggi? È proprio una simile iniziativa a svelare che chi l’ha promossa non ha la minima idea di che cosa sia la dimensione culturale della scienza e forse anche di che cosa sia la cultura. Non stupisce il dislivello qualitativo che intercorre fra la letteratura divulgativa (anche a livello di stampa quotidiana), per esempio, in campo storico, la quale è non di rado avvincente e capace di stimolare interesse – malgrado il lavoro metodico di distruzione della disciplina “storia” compiuto nelle scuole – e quel che viene analogamente proposto in tema di scienza, che si segnala per la rozzezza, la mediocrità e spesso gli errori marchiani. È una mediocrità che presenta un bizzarro impasto di pettegolezzi e sensazionalismi per lo più infondati e di ideologia, quest’ultima ridotta in genere a un primitivo riduzionismo materialistico. La manifestazione più clamorosa (e onnipresente) di questo impasto è data da quella che gli anglosassoni chiamano la “gene-for syndrome”, ovvero la 195

tendenza maniacale a individuare il gene che sarebbe responsabile di un particolare aspetto della nostra vita e del nostro essere: il gene della paura, della gelosia, dell’invidia, della rabbia e via folleggiando. Si tratta quasi sempre o di pseudoscoperte annunciate ai giornali o alla televisione prima che alle riviste scientifiche da qualche ricercatore in cerca di finanziamenti, o di ricerche deformate in modo sensazionalistico dai mezzi d’informazione stessi. Il tutto viene immancabilmente presentato nella cornice della solita predica materialistica secondo cui, pezzo dopo pezzo, la scienza starebbe svelando le cause materiali di ogni aspetto dell’esistenza. Non insistiamo con esempi perché il lettore ne troverà parecchi nell’antologia e ciascuno può trovarne sfogliando i giornali del giorno. A questa squallida antologia vanno aggiunti certi miserevoli sottoprodotti come la “matematica dell’amore” e larga parte della modellistica matematica tendente a misurare le qualità e i sentimenti, e che spesso ha un confine con la docimologia e ne alimenta le peggiori prestazioni: anche di questo il lettore troverà esempi nell’antologia. C’è chi può appassionarsi a simili visioni della pratica scientifica? Certamente sì. Ricordo il caso di quella studentessa, appena iscritta a un corso di laurea in biologia, che obbiettava a rilievi critici del tipo sopra esposto dicendo: «Mi sono iscritta a biologia perché ho un folle desiderio di clonare… clonare… clonare…». Tuttavia, la maggioranza delle persone ragionevoli, soprattutto di quelle intelligenti, non può che disgustarsi di queste immagini della scienza. Non c’è allora da sorprendersi che la diffusione di simili immagini sia corresponsabile del crollo delle iscrizioni alle facoltà scientifiche. Un altro aspetto deteriore dell’ideologia scientista è l’odio che essa coltiva e propala per ogni atteggiamento sia pur vagamente critico. Questo odio si manifesta in forme particolarmente virulente in relazione alla teoria dell’evoluzione

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[141] cosiddetta darwiniana. Non vogliamo approfondire qui le ragioni di tanta virulenza. Probabilmente esse sono dovute alla combinazione di due fattori: l’innegabile stato precario della teoria, che presenta numerose falle che hanno resistito finora a tutti i diversi tentativi di porvi rimedio, e il carattere ideologico che molti le attribuiscono, in quanto baluardo di una visione antireligiosa e che pone il caso al centro delle dinamiche della vita. Probabilmente si tratta di questo, ma non vogliamo insistervi: ci basta rilevare la situazione di fatto e cioè che troppi autori montano su tutte le furie al semplice sentir parlare di difficoltà della teoria, e reagiscono sia negando nel modo più assoluto l’esistenza di queste difficoltà – in spregio alla verità e ad ogni standard minimo di probità scientifica – sia inveendo violentemente contro chi ne menziona l’esistenza accusandolo di voler ripristinare una visione creazionista, religiosa, irrazionale e oscurantista delle origini della vita. Non è sempre così e merita sottolineare i casi (purtroppo rari) di un atteggiamento obbiettivo ed equilibrato, che poi sarebbe quello che merita l’appellativo di “scientifico”, nel senso che gli danno gli “amici” della scienza. Tale è il caso di [142] Massimo Piattelli Palmarini che, in un articolo, sottolineava che «sarebbe doveroso […] che l’insegnamento dell’evoluzione biologica avvenisse presentando, con meno sicumera, un quadro estremamente complesso […] complesso, ricco, sfumato e pieno di incertezze». E continuava così: «La dottrina darwiniana tradizionale fa acqua da molte parti. Un illustre genetista americano, Gregory C. Gibson ha parlato recentemente su Nature della “concezione emergente che la selezione naturale è solo uno dei fattori dell’ordine biologico, e forse nemmeno il più importante”. Non è il solo a dirlo. Citazioni in questo senso abbondano, da parte di scienziati rigorosamente laici. Il contratto intellettuale di base che la scienza ha con i ragazzi delle scuole, e con la società civile più 197

in generale, impone adesso di offrire una visione affascinante e assai complessa dell’evoluzione del vivente. Non il tradizionale fumetto darwiniano. Facilmente spiegabile, facilmente assimilabile, ma caricaturale». Non è facile leggere affermazioni che, come questa, rompono con il conformismo dominante secondo cui sollevare riserve sullo stato attuale della teoria dell’evoluzione significa [143] schierarsi con il più becero e fanatico creazionismo. Eppure, è significativo rilevare che anche Piattelli Palmarini non riesce a evitare i facili moduli dello scientismo. Riferendosi a una risoluzione del Parlamento europeo (4 ottobre 2007) a favore dell’insegnamento dell’evoluzione biologica come «teoria scientifica basilare», e che invita a mettere al bando l’insegnamento del creazionismo «come disciplina scientifica alla stessa stregua dell’evoluzione», Piattelli Palmarini la saluta [144] come «razionale e liberatoria». Vediamo come egli giustifica questa adesione: «Il contratto intellettuale implicito che la scienza ha con la società civile è quello di spiegare i fenomeni della natura, vita compresa, in termini accessibili all’intelligenza umana, senza invocare fattori esterni alla natura stessa. Questo non impedisce a fisici di elaborare teorie di straordinaria astrattezza e di introdurre enti e interazioni invisibili, almeno per ora, non solo all’occhio, ma persino ai più potenti acceleratori di particelle. Né impedisce di confessare, almeno per ora, la nostra ignoranza su tanti fenomeni. Un conto, però, è cercare pazientemente e ingegnosamente nuove e migliori spiegazioni naturalistiche, tutt’altro invocare disegni intelligenti esterni alla natura stessa e atti di libera creazione da parte di entità superiori. Questo è un diverso contratto, quello, per chi lo, per chi vi aderisce, delle religioni. È una conquista di libertà e una salutare igiene intellettuale che la religione non si immischi di questioni scientifiche e che, simmetricamente, la scienza non si immischi di questioni religiose. Qui sono in 198

disaccordo con alcuni colleghi , come me scienziati e come me atei, per esempio il biologo inglese Richard Dawkins e il cognitivista americano Daniel Dennett, che si sono sentiti in diritto nei mesi scorsi, in libri di successo, di attaccare la religione partendo da presunte basi scientifiche. Da noi lo ha fatto l’amico Piergiorgio Odifreddi , valentissimo logico e matematico, ma improvvisato teologo. Le risposte della scienza ai grandi “perché” non possono, per loro natura, retrocedere all’infinito. C’è sempre un perché dietro ad ogni perché. Dateci un’ottima spiegazione razionale e scientifica di un fenomeno e alcuni di noi saranno lieti di fermarsi a questa. Io fra loro. Ma lasciamo poi libero, chi se la sente, di chiedersi il perché. E poi il perché della sua stessa risposta, senza limiti. C’è una netta divisione di compiti, di stili e di strumenti intellettuali per far fronte a queste umanissime inquietudini. I nostri ragazzi, a scuola, è sacrosanto che vivano il fascino di ambedue questi tipi di curiosità. Ma non si devono mescolare le carte. Non si deve presentare alla stessa stregua un’ipotesi scientifica e un’ipotesi teologica. Questa non è libertà, questa è confusione. Il [145] Parlamento europeo ha fatto bene a marcarne la frontiera». In realtà, la questione si presenta in termini molto più sottili e complessi. Piuttosto che partire dalla distinzione tra scienza e religione è preferibile distinguere tra le “spiegazioni in termini naturalistici” e quelle che non lo sono. In tal senso, Piattelli Palmarini ha ragione a dire che non è corretto tentare di confutare le religioni su basi scientifiche: è un obbiettivo che non ha alcuna possibilità di successo, in quanto non ha alcun senso tentare di confutare su basi naturalistiche asserzioni che si muovono in un ambito diverso. È altrettanto sbagliato proporsi di “dimostrare” le verità della fede con argomenti di tipo naturalistico, ed è questo il difetto principale delle teorie del “disegno intelligente”: esse possono, tutt’al più, mostrare proprio che le spiegazioni di tipo naturalistico non possono essere esaustive e onnicomprensive. Ma questa osservazione 199

deve essere accompagnata da un’altra non meno importante: e cioè che la storia del pensiero dimostra che il confine che definisce la natura dal “resto” non è affatto ben definito e si è mosso in modo assai sensibile; e non necessariamente nella direzione di accrescere la sfera della naturalità. Ad esempio, le scarse conoscenze della fisiologia umana inducevano secoli fa a ritenere che l’embrione raggiungesse caratteristiche di individualità e di “umanità” molto tardi, persino soltanto al momento della nascita, mentre oggi sappiamo che non è così. [146] C’è chi ritiene che tutto possa essere riducibile alla sfera naturale e che quindi non esista spazio residuo per il “soprannaturale” salvo quello dovuto alla nostra ignoranza, ma che gli sviluppi attuali della scienza indicano chiaramente che tale spazio residuo è in via di sparizione. C’è, al contrario, chi ritiene che esista una sfera irriducibile alla naturalità e che man mano che si va avanti tale irriducibilità si manifesta sempre più chiaramente. E si tratta di posizioni che dividono il campo stesso della scienza. Pertanto, se è poco convincente tentare di rompere la demarcazione dimostrando su basi naturalistiche l’esistenza o la non esistenza di Dio, o viceversa dedurre leggi naturali su basi teologiche, questo non implica che la demarcazione sia talmente ben definita da consentire di definire una volta per tutte la frontiera tra “scienza” e “non scienza”. Secondo Piattelli Palmarini, il criterio di demarcazione sarebbe appunto il naturalismo: esisterebbe un «contratto intellettuale implicito» che la scienza avrebbe stabilito con la società civile, e cioè di «spiegare i fenomeni della natura, vita compresa, in termini accessibili all’intelligenza umana, senza invocare fattori esterni alla natura stessa». In realtà, tale contratto non è stato stabilito in alcun tempo e in alcun luogo e neppure in forma implicita per il semplice motivo che la nozione di natura è variata nel corso della storia ed ha assunto significati diversi nelle diverse culture. Né può parlarsi di «termini accessibili all’intelligenza 200

umana» perché anche le questioni religiose, teologiche e persino mistiche vengono manipolate dalla ragione umana: con cos’altro potremmo pensare se non con la ragione? La ragione umana è indivisibile, anche se possono essere distinti i piani semantici del suo operare. Per questo è, non dico difficile, ma praticamente impossibile trovare uno scienziato che non abbia avuto una visione religiosa, teologica, metafisica o filosofica, insomma una visione del mondo, che non lo abbia influenzato, e sensibilmente, nella sua attività di studio e di ricerca. Come ha osservato Koyré, soltanto una scienza che parte dal senso comune e della percezione sensibile non ha bisogno di partire da una metafisica: ma questa scienza è quella di tipo aristotelico, ovvero il contrario della scienza moderna, della “nostra” [147] scienza. Nel corso dello sviluppo storico reale gli scienziati si sono dati metafisiche influenti che hanno orientato le loro ricerche ed hanno definito la loro particolare concezione di “natura”. Venendo al caso specifico, potremmo distinguere tre punti di vista: il creazionismo, intendendo con questa denominazione la dottrina basata sul racconto biblico; l’essenzialismo e cioè la concezione secondo cui ogni specie è caratterizzata da un’essenza e, come tale, è separata da tutte le altre; il fissismo, ovvero la dottrina secondo cui le specie sono immutabili nel corso del tempo. Per non dover bollare tutte le scienze naturali precedenti l’opera di Lamarck e di Darwin come “non scienze”, potremmo tentare di mantenere una netta distinzione tra il primo punto di vista e le altre due dottrine. Ma avrebbe molto senso? Carlo Linneo, non era soltanto un sostenitore del punto di vista essenzialista e fissista ma anche un devoto creazionista e sarebbe alquanto azzardato sostenere che la sua visione religiosa non avesse potentemente condizionato la sua visione della natura. Eppure, sarebbe non meno azzardato – diciamo pure, ridicolo – sostenere che Linneo non fosse uno scienziato e non abbia dato un contributo poderoso alle scienze naturali, senza 201

cui non sarebbe stato neppure possibile l’emergere delle dottrine evoluzionistiche. Peraltro, tutto il mondo scientifico del Settecento accolse il concetto di specie essenzialista e fissista, il quale era evidentemente derivato (o quantomeno influenzato) da una lettura testuale della Bibbia. Se definissimo tutto ciò come “non scienza” dovremmo relegare nel campo della teologia o delle superstizioni persino l’opera di Georges Cuvier e neppure l’opera di Georges-Louis Leclerc de Buffon si salverebbe del tutto. D’altra parte, nessuna persona ragionevole potrebbe proporre come criterio di demarcazione quello ricavato dallo stato attuale della scienza: ovvero è “scienza” quella accettata in maggioranza dalla comunità scientifica, e il resto è “non scienza”. Il criterio dei “vincitori” è estremamente pericoloso e può ritorcersi contro i vincitori stessi. Se domani le falle dell’evoluzionismo darwiniano dovessero condurre al suo abbandono, non soltanto dovremmo bollarlo come “non scienza”, ma condannare la metafisica influente che lo ispira, la quale è – con tutta evidenza – il materialismo. In tal modo, imboccheremmo una via estremamente pericolosa e molto irragionevole. L’unico atteggiamento ragionevole e serio consiste nell’affermare – e nell’insegnare! – che le dottrine evoluzionistiche hanno oggi un grado di attendibilità molto più elevato di quelle essenzialiste-fissiste, ma che contengono troppe falle per poterle considerare come la parola definitiva. A ciò andrebbe accompagnata una descrizione accurata delle visioni religiose e metafisiche che si sono accompagnate storicamente a queste visioni, spiegando che una visione dell’universo come “creazione” non è necessariamente messa in crisi dalle dottrine fissiste, ma può accordarsi anche con una teoria evolutiva, così come un’eventuale crisi della teoria evolutiva darwiniana non implicherebbe una crisi della metafisica materialista. Non si vede neppure che male ci sia a illustrare il significato delle teorie del disegno intelligente – non di rado avanzate da scienziati rispettabili – beninteso mettendo 202

chiaramente in luce le loro difficoltà cui abbiamo accennato sopra. Tuttavia, tanto sono forti le metafisiche influenti di stampo positivista che, in un successivo articolo, Piattelli Palmarini mette in luce come il suo atteggiamento apparentemente neutrale sia, in realtà, profondamente squilibrato. Richiamando un intervento del Cardinale Cristoph Schönborn, che invitava a «superare la visione materialistica dell’evoluzionismo», egli sostiene che la visione che attribuisce un ruolo centrale all’evoluzione «è perfettamente materialista», «complessa, astratta, ma materialistica, proprio come lo sono la fisica e le [148] sue leggi». Ma quando mai? Questo è un solenne svarione dal punto di vista della storia della scienza. Quasi nessuno scienziato (e, in particolare, nessun fisico) del Seicento era materialista e non lo era neppure la maggioranza degli scienziati del Settecento e dell’Ottocento. Non si vede affatto per quale motivo le leggi della fisica dovrebbero essere materialiste. Parimenti privo di fondamento è negare l’asserzione secondo cui «l’evoluzione non può dimostrare, ma [149] neppure escludere la sfera trascendente». Dice Piattelli Palmarini: «invece penso proprio che la escluda, almeno quando si resta in ambito scientifico»; e insiste sulla bizzarra teoria “contrattuale” secondo cui «introdurre il trascendente violerebbe il patto scientifico, che consiste nello spiegare la natura restando nel naturale». Ma se egli fosse coerente e mantenesse, come ha promesso, una rigida demarcazione tra scienza e “non scienza”, dovrebbe, per l’appunto, escludere non soltanto che la spiegazione dell’evoluzione biologica sia un’impresa estranea al trascendente, ma anche che l’esistenza di una sfera trascendente possa essere esclusa e confutata mediante metodi naturalistici. Altrimenti, qui si ciurla nel manico: da un lato, si vieta a tutto ciò che non è “scienza” di intervenire nel suo campo, ma d’altro lato si concede alla scienza il privilegio 203

di dimostrare la verità di una “sua” metafisica congenita che sarebbe il materialismo. Difatti, sarebbe davvero curioso far finta che il materialismo non sia una metafisica: credere nel materialismo significa sostenere che tutto si riduce a materia, che il mondo si riduce a natura. Pertanto, il “tollerante” criterio di demarcazione di Piattelli Palmarini viene spostato a piacimento, fino ad annullare praticamente qualsiasi spazio esterno al naturalismo e al materialismo. Insomma, il suo modo di ragionare è la dimostrazione pratica che la scienza non può fare a meno di una metafisica influente, che la metafisica da lui scelta è il materialismo e anche che il tentativo di far finta che questa sia una posizione non metafisica è un inaccettabile escamotage. Dire che «il significato del mondo esula dalla scienza e ciascuno lo cerca, a suo modo, nella letteratura, l’arte, la filosofia, la musica e, ovviamente, i credenti nella religione» è soltanto un trucco se poi si dice che dalla scienza discende necessariamente la verità del materialismo (l’evoluzione “esclude” la sfera del trascendente e le leggi della fisica sono materialiste) e quindi si afferma, sulla base dell’autorità della scienza, che il significato del mondo è nel suo carattere meramente materiale, ovvero nell’identità tra mondo e natura. Può anche darsi che tutto ciò derivi da una semplice difficoltà nel manipolare correttamente dei concetti elementari di carattere filosofico. La conclusione tuttavia non cambia: qui si sta facendo cattiva cultura scientifica, proponendo al “pubblico” un modo di ragionare sbagliato e una deformazione grave della storia della scienza, ed inoltre dando per scontata un’immagine caricaturale basata sull’idea di un “contratto” mai scritto e mai pensato, se non nell’ambito della metafisica positivista. La fenomenologia del cattivo uso di concetti filosofici e delle deformazioni di aspetti storici ed epistemologici fondamentali del pensiero scientifico è purtroppo molto estesa. Ci limiteremo a ricordare, come esempio particolarmente 204

sorprendente di questo genere di deformazioni, l’affermazione di Edoardo Boncinelli e Galeazzo Sciarretta secondo cui «concepire l’infinito non è nelle corde del cervello umano», né all’uomo capiterà mai di imbattersi in qualcosa di infinito». Soltanto i matematici e i logici sarebbero in grado di manipolare questo concetto «nell’ambito dei loro astratti sistemi formali» e «un progettista che includesse qualcosa di infinito nel suo elaborato verrebbe prontamente radiato dall’albo e affidato alle [150] cure dello psichiatra!». Quindi il celebre scienziato Hermann Weyl, che sosteneva che la matematica è “la scienza dell’infinito” forse si sarebbe salvato dal manicomio, in quanto matematico, ma se si fosse occupato di questioni applicative avrebbe dovuto fare una brutta fine. Peccato che tutta la tecnologia sia basata su concetti ed equazioni che derivano dalla manipolazione dell’infinito e semplicemente non esisterebbe senza questo fondamento. È difficile comprendere come possa venire in mente di sostenere che tra scienza e tecnologia esista un diaframma invalicabile ed è difficile capire come si possa, con tanta leggerezza, confondere completamente le idee di chi cerchi di capire che cosa siano la scienza e la tecnologia nelle loro reciproche relazioni. Non ci soffermeremo su questo [151] punto se non per dire che tutta la storia della scienza e della tecnologia nasce proprio dalla sfida di manipolare il concetto di infinito e ignorare o contestare questo fatto è quanto propalare una visione falsata sia dal punto di vista storico che metodologico. Di simile qualità è l’affermazione dovuta pure a Boncinelli secondo cui sono gli esperimenti e non le teorie a far procedere la ricerca scientifica: «le speculazioni teoriche appartengono certamente alla storia delle idee, ma non alla scienza: divengono scienza solo se danno luogo ad esperimenti e se questi ne dimostrano le anticipazioni, o per meglio dire, ne dimostrano alcune anticipazioni e ne confutano altre. Purtroppo molti 205

tendono a dimenticare tutto ciò e scambiano per scienza le interpretazioni teoriche della stessa, dando più o meno involontariamente l’impressione che su certi punti ci sia un [152] dibattito scientifico, che invece non c’è». Una simile affermazione meriterebbe una bocciatura a un esame di storia ed epistemologia della scienza e anche di cultura scientifica, in generale. Il principio d’inerzia non è “un’interpretazione teorica” della scienza, bensì una «libera invenzione» – secondo le parole di uno che non capiva nulla di scienza, tal Albert Einstein – che non può essere in alcun modo dimostrato [153] sperimentalmente. Come Einstein ha dimostrato, il principio d’inerzia può essere giustificato soltanto con esperienze mentali e non in modo conclusivo, tanto è vero che la relatività ha condotto a modificare il concetto di sistema inerziale. È sulla base di queste “libere invenzioni” mentali – massa forza, sistema inerziale – indimostrabili sul piano sperimentale, che è nata e si è sviluppata la scienza moderna dando luogo a risultati straordinari. La scienza è tutta basata su “speculazioni teoriche” che ne sono state il motore e non necessariamente hanno ricevuto conferma sperimentale, e spesso sono suscettibili soltanto di giustificazioni mentali. Il confine posto da Boncinelli tra “scienza” e “non scienza”, basato sullo sperimentalismo, è privo di qualsiasi fondamento e propala un’idea fuorviante dell’impresa scientifica, un’autentica parodia dei suoi sviluppi reali. È probabile che tutte queste deformazioni derivino dall’ansia di diffondere delle visioni ideologiche (scientiste) cui si tiene molto. Ma un insegnamento capace di sviluppare autonomia di pensiero non deve concedere nulla all’ideologia mascherata da obbiettività scientifica e non deve indulgere in presentazioni dogmatiche e stereotipate: questo sarebbe precisamente il modo di coltivare una mentalità non critica e pertanto contraria a quel che viene definito come spirito e 206

metodo scientifico. Soprattutto non bisogna aver paura della complessità, delle articolazioni, dei “pro” e dei “contro”, di mostrare le tante sfaccettature di un problema, illudendosi che la [154] semplificazione porti a qualcosa di buono, se non a rendere l’immagine della scienza poco attraente, quasi si trattasse di un sistema di precetti e di dogmi codificati, di una gabbia concettuale entro cui ci si può muovere in un modo solo e, per giunta, separata da tutte le altre forme di attività mentale. Occorre rendersi conto che uno strumento fondamentale per una visione critica e aperta è la conoscenza della storia della scienza; e deve trattarsi di una conoscenza capace di rifletterne le dinamiche complesse e contraddittorie, non di un insieme di raccontini apologetici. Lo scientismo è il nemico principale di una visione critica e culturale degna di questo nome. Il rischio più grave è legato al fatto che la fiaccola dello scientismo è stata presa in mani oggi, in particolare in Italia, da troppi vedovi inconsolabili di dottrine integraliste e totalitarie ed è da essi vissuto come una teologia sostitutiva per la quale sono disposti a fare guerre di religione sventolando il vessillo salvifico della razionalità scientifica. La scienza è una forma di attività conoscitiva umana come le altre, che non ha alcuna caratteristica di superiorità rispetto alle altre, se non una caratteristica distintiva, quella di produrre previsioni attendibili in certi campi. Questa caratteristica è profondamente utile e pregevole, in quanto è il fondamento della tecnologia e quindi (potenzialmente) di migliori condizioni di vita, ma non costituisce di per sé un motivo di superiorità. Al riguardo, occorre sottolineare che una deriva particolarmente sbagliata e pericolosa consiste nell’accantonare i problemi e le impasses della scienza teorica concentrando l’attenzione sugli aspetti di utilità pratica della scienza: la scienza come salvatrice dell’umanità dalla miseria, dalle malattie, dall’arretratezza. Se esiste un tratto distintivo della scienza rispetto alle altre forme di attività umane è nella 207

capacità di trasformare in profondità la realtà. Ma insistere su questo aspetto per accentuare quella distinzione – “la scienza permette di risolvere problemi e quindi è utile, a differenza degli altri saperi” – rischia, alla luce degli sviluppi contemporanei, che vedono sempre più la conversione della scienza in tecnoscienza, di portare acqua al mulino del discorso sulla “morte” della scienza: «… bisogna ammettere che oggi la scienza è, almeno per quanto riguarda il nostro pianeta, universalizzata. I fisici lavorano sugli stessi temi e con gli stessi acceleratori a Ginevra e a Chicago, i biologi eseguono gli stessi esperimenti a Tokyo e a Prigi, gli astronomi utilizzano gli stessi telescopi in Cile e alle Hawaii. Tuttavia, questa globalizzazione non è nient’altro che la vittoria di un certo tipo di scienza “occidentale”, inizialmente europea e in seguito statunitense. […] Questo predominio spaziale non implica però alcun privilegio temporale: proprio come è accaduto alla scienza greca e araba, anche la scienza occidentale (o mondiale, ormai è la stessa cosa) potrebbe rivelarsi mortale o addirittura già moribonda, dopo quattro secoli di evoluzione. La sua stessa efficacia, che le ha permesso, a partire dal XIX secolo, di realizzare il programma baconiano e cartesiano, adesso le si rivolta contro. Le necessità sociali, o meglio di mercato, assoggettano lo sviluppo scientifico agli imperativi della produttività e del guadagno, a breve termine. La possibilità di fare ricerca in campo teorico, a un livello fondamentale, senza garanzia di un successo immediato, diventa sempre più illusoria. Così, in maniera insidiosa, viene meno il connubio, dopo tutto piuttosto sorprendente e storicamente molto particolare, tra speculazione e azione, che ha caratterizzato la scienza occidentale per due secoli. Il regime della tecnoscienza, del quale facciamo già parte, concretizza, senza dubbio per quello che sarà un periodo di tempo abbastanza lungo, una nuova fase di metamorfosi di quest’attività decisamente “multiversale” che è “la” scienza».

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[155] Pertanto, se si accantona o si svilisce la funzione conoscitiva della scienza, si opera attivamente per produrre il declino di quel felice connubio tra speculazione e azione e, in definitiva, si agisce anche per la fine della cultura scientifica. Difatti, la tecnologia intesa come bricolage privo di un solido rapporto con la speculazione conoscitiva non produce cultura. È un esito davvero paradossale e ironico che coloro che predicano contro il declino della cultura scientifica lavorino, magari inconsapevolmente, per consegnare la fiaccola della cultura ai saperi non naturalistici o ancora non “naturalizzati” svuotando la scienza di ogni residua dimensione culturale.

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5 Sfide difficili e necessarie Il ruolo dell’università e la scienza spettacolo Non dovrebbe essere l’Università la sede di elezione per la formazione e la trasmissione di una cultura scientifica critica aliena da schematismi, volgarità, deformazioni e ideologismi di qualunque tipo? L’Università dovrebbe esserlo in molti sensi: perché è nei suoi corsi che vengono presentati gli sviluppi più recenti della scienza; perché essa dovrebbe trasmetterne la dimensione culturale attraverso corsi e seminari di storia, filosofia e metodologia della scienza; perché è nell’università che si dovrebbero attivare al livello più elevato e profondo le interazioni interdisciplinari e i rapporti tra le “due culture”; e infine perché l’università è il luogo deputato alla formazione degli insegnanti, ovvero di coloro che hanno il ruolo straordinariamente importante di introdurre le nuove generazioni, fin dalla più tenera età, alla conoscenza scientifica. Purtroppo, l’università italiana – a meno che lo stato di crisi sempre più grave non trasformi i diffusi sentimenti di depressione in un’impetuosa reazione vitale sia da parte dei legislatori che (e soprattutto) da parte di coloro che vi operano – appare sempre meno in grado di assolvere a questa funzione culturale. Anzi, la vera domanda è se l’università abbia ormai qualcosa a che fare con la cultura, nel senso generale del 210

termine, e se non si sia piuttosto trasformata da luogo in cui si coltivano e trasmettono conoscenze in una macchina dispensatrice di competenze, secondo un orrido neologismo caro ai professionisti della didattica e che lascia trasparire un neppure velato disprezzo per la cultura a profitto dell’esaltazione delle “abilità”. Ma oltre a questa tendenza – che viene spesso esplicitamente, e senza senso del ridicolo, definita proprio in termini di contrapposizione tra “cultura disciplinare” e “cultura delle competenze” – e su cui torneremo qui e nella prossima sezione, esiste un altro aspetto assai concreto che ha inciso assai negativamente sulla vita delle università italiane. Si tratta del falso e ambiguo statuto di autonomia che è stato loro conferito dalle riforme del ministro Berlinguer. Di questo aspetto abbiamo già parlato nel primo capitolo e quindi non insisteremo. Chiediamoci piuttosto cosa si doveva (e si deve) fare per rompere le incrostazioni che rendevano (e rendono) l’università un’istituzione sempre più sclerotizzata e autorefenziale in cui sembra che l’unica questione interessante siano le modalità di reclutamento dei docenti? Forse l’unica cosa davvero utile sarebbe istituire un autentico regime di autonomia che consenta a ogni università di reclutare i docenti migliori, magari con procedure di assunzione diretta abbandonando l’ipocrita meccanismo di concorsi che rappresenta comunque un meccanismo di cooptazione per nulla trasparente. Si potrebbe anche pensare a forme di assunzione differenziate, non soltanto con posti fissi, ma anche con contratti temporanei (non indegnamente retribuiti come quelli attuali), riservati sia a giovani che possono poi essere confermati in una posizione stabile, sia a docenti anziani che possono avere ancora un’importante funzione di coordinamento [156] e indirizzo della ricerca. Ovviamente, l’università deve avere i mezzi finanziari e poter gestire in autonomia questi mezzi, se vuole perseguire simili obbiettivi e con modalità elastiche, e deve sottoporsi ai dovuti controlli relativi all’uso 211

efficace di questi mezzi dato il suo carattere di ente pubblico. Quel che è inammissibile è che questi mezzi siano tanto modesti da non permettere di mantenere anche i settori della ricerca e dell’insegnamento più deboli, che sono invariabilmente i settori della ricerca di base e degli insegnamenti di natura più teorica o “disinteressata”, ovvero che non hanno implicazioni pratiche ed applicative immediate, o non ne hanno alcuna. Abbiamo già visto che, invece, il regime di autonomia delle nostre università mantiene tutti i difetti del regime centralistico precedente e quasi nessuno dei vantaggi che dovrebbe apportare. Lo stato giuridico dei docenti è regolato centralmente in forme rigide ed è soggetto a invariabili pressioni per l’assunzione di “precari” o persone aventi acquisito “meriti” a vario titolo. I finanziamenti concessi dal governo coprono a malapena gli stipendi dei docenti e dei dipendenti amministrativi, i quali sono peraltro regolati dall’esterno. Né le università possono supplire alla carenza di mezzi finanziari aumentando le tasse universitarie: il governo non lo consentirebbe per evitare l’impopolarità. Le conseguenze sono ovvie: un progressivo decadimento della struttura che, per sopravvivere, tende a tagliare i “rami secchi”. Ormai l’esercizio principale delle università più in difficoltà è di tagliare gli acquisti delle biblioteche e di evitare come la peste il trasferimento di docenti da altre università. Difatti, mai il sistema è stato così bloccato come con questo regime di autonomia: la mobilità dei docenti e ricercatori era vertiginosa nel periodo di massimo centralismo rispetto alla totale glaciazione del presente. L’assenza di mobilità implica il mancato rinnovamento dell’insegnamento e della ricerca, la rinuncia a nuovi apporti e a nuove interazioni e significa una sola cosa: decadenza scientifica e culturale. Alle università resta un solo strumento per far quattrini: mettersi al servizio del territorio, sia nel senso di offrire prestazioni e consulenze all’industria o ad altre attività 212

produttive, sia nel senso di promuovere attività “culturali” gradite agli enti locali. E qui bisogna davvero mettere le virgolette attorno a “culturali” perché queste attività hanno per lo più poco o niente di culturale e si riducono alla promozione di feste, festival, manifestazioni di vario tipo. A tutto ciò va aggiunta la pratica del conferimento massiccio di lauree honoris causa e di altre onorificenze, di invitare a tenere lezioni magistrali persone che con la cultura hanno poco a che fare, talora semianalfabeti noti nel campo dello spettacolo, che però producono quel che viene chiamato un “ritorno d’immagine”. Come ebbe a dire un docente di qualche responsabilità di un’importante università, è più utile per l’istituzione un articolo pubblicato su un quotidiano ad altissima tiratura che ne vanti le attività “culturali”, che non un articolo scientifico pubblicato su Nature. È facile intendere che quando si arriva a questo punto è la stessa natura dell’istituzione che è messa in discussione ed è in corso la sua mutazione genetica in una strana macchina erogatrice di corsi e diplomi e di “eventi culturali”. Non mi sorprenderei se siffatte valutazioni destassero reazioni sdegnate. Ma si tratterebbe di un brutto segnale, perché denunciare questo andazzo significa mettere sotto accusa chi ha ridotto l’università a un simile stato di disperazione in cui la grande maggioranza dei docenti è schiacciata da sentimenti di depressa impotenza, mentre si avanza una nuova strana categoria di docenti che non ha mai conosciuto un’università propriamente detta e si compiace curiosamente di questa struttura in cui la fatiscenza si copre con i panni del parossismo burocratico amministrativo e a tale parossismo è capace di prestare gran parte del proprio tempo quasi con voluttà, come una funzione sostitutiva della ricerca e dello studio. Nello svuotamento culturale delle università stanno giocando un ruolo determinante quei discutibilissimi “eventi” – termine orrendo e insensato, poiché tutto ciò che accade nel tempo è un evento – rappresentati dai festival della scienza. 213

Ormai non c’è città che non organizzi la festa o il festival della scienza o di qualche scienza, e si tratta per lo più di manifestazioni incredibilmente pletoriche, della durata di due e anche tre settimane. Ho già osservato che anche le manifestazioni culturali “umanistiche” vengono rimodulate in modo da introdurre qualche elemento di carattere “scientifico”. Potrei citare il caso di un invito che ricevetti a discutere della relazione tra la Divina Commedia di Dante e l’evoluzionismo… Potrebbe mai esistere una relazione del genere? Si è mai vista un’opera ispirata da una concezione più radicalmente creazionista della Divina Commedia? Eppure, siccome si ritiene che l’evoluzionismo “tiri” e poiché la parola d’ordine è che bisogna parlare a tutti i costi di scienza, anche Dante è costretto a passare sotto le forche caudine di Darwin. Un altro tema classico è la relazione tra matematica e musica, che certamente esiste, anzi la musica ha una struttura essenzialmente matematica. Ma sostenere che la struttura matematica della musica ne esaurisca il contenuto è una cialtronata così grande da non meritare alcuna considerazione: eppure è il contrario che viene comunemente ammannito in nome dello scientismo dozzinale che ispira questi “eventi”. Ha osservato molto efficacemente Michele Emmer: «Eventi, parola che rimanda al fatto che se un famoso dipinto è in mostra nell’abito di un “evento” si muovono migliaia di persone per andarlo a vedere, ma se lo stesso quadro è in mostra “normalmente” in un museo, allora non ci va quasi nessuno. Parola che rimanda anche ad organizzazione, hostess, uffici stampa, che gli “eventi” organizzano, promuovono, fanno sponsorizzare. Insomma si è creata in pochissimo tempo una grande macchina “culturale” che gestisce, investe, crea, diffonde i festival della cultura, ed in particolare quelli sulla scienza. Si è anche creata in pochissimo tempo una “elite” intellettuale che di questi eventi è il cuore. Coloro che a questi “eventi” che si ripetono ad un ritmo impressionante parlano, discutono, dibattono, illustrano. 214

Insomma le “star” di questo grande circuito mediatico e [157] scientifico». Si tratta – aggiungiamo noi – di una “elite culturale” che è sempre più chiaramente definita dall’adesione a una comune ideologia scientista e che abbiamo diffusamente descritta in precedenza. Gli esempi concreti che potrebbero essere dati per provare tale caratterizzazione sono infiniti. Basti pensare al fatto che se in un festival della scienza si tiene una conferenza per “spiegare” le ragioni per cui Einstein smise di portare i calzini nessuno fa una piega o contesta la serietà culturale dell’iniziativa; se qualcuno si produce in una sceneggiata contro la religione deridendola con il linguaggio più volgare in quanto manifestazione dell’idiozia umana, si sorride compiaciuti e l’“evento” viene annunciato come una “simpatica provocazione”. Ma se si organizza una mostra sulla Via Lattea, con la consulenza scientifica di un astronomo dotato di tutte le credenziali accademiche, e viene commesso il peccato orrendo di citare in un pannello una frase di don Luigi Giussani (fondatore di quel movimento di “fascisti” che va sotto il nome di Comunione e Liberazione), allora apriti cielo: la cronaca cittadina di un giornale progressista di massima tiratura dedicherà un’intera pagina allo “scandalo”. Certo, ogni tanto si aprono delle “fessure” e nel fortino della scienza entra di soppiatto qualche nemico dello scientismo o qualche “oscurantista”: i primi sono perdonati e accolti nella misura in cui sono di sicura fede “progressista”, i secondi sono assai meno tollerati, soprattutto se religiosi. Se poi il soggetto incriminato è doppiamente colpevole di essere un critico dello scientismo e un “oscurantista”, allora la fessura si richiuderà definitivamente su di lui. L’élite intellettuale che domina il circuito delle feste scientifiche è divenuta anche proprietaria di un sistema intrinsecamente potente in quanto dotato di una base finanziaria impressionante. «Non so se tutti sanno che quando un docente universitario o un esperto in un settore viene invitato a tenere 215

una conferenza all’università riceve usualmente un compenso, oltre alle spese, di meno di 200 euro. I compensi di molti di questi festival sono di gran lunga superiori. E quasi tutti gli oratori più richiesti sono professori universitari. Insomma, si è creata una grossa convergenza di interessi per raggiungere il grande scopo di diffondere la cultura, quella scientifica, in particolare. Si organizzano, festival e feste, si mobilitano coloro che questi eventi organizzano, si crea un grande effetto di aspettativa nel “pubblico” tramite pubblicità e media, si sollecitano a partecipare i grandi nomi della cultura e della scienza, si attrae un grande numero di persone che riempiono teatri, auditori, si vendono tanti libri delle persone che sono coinvolte, e quindi tutti, dagli assessori ai giornali, dalla televisione agli editori, sono contenti. Un circuito perfetto?». [158] La risposta di Emmer, che è anche la mia, è che questo circuito non è perfetto perché è viziato da un’idea sbagliata, e che abbiamo già incontrato: la scienza deve essere resa divertente. Ciò è particolarmente evidente nel caso della matematica che è comunemente considerata come la scienza più noiosa, arida, priva di idee e insopportabilmente difficile. Per renderla accattivante bisognerà renderla facile, enuclearne l’aspetto giocoso, divertente, festaiolo. E allora via le definizioni e e teoremi, per non parlare delle odiose dimostrazioni, per portare la matematica terra terra a girare attorno a giochi e divertimenti. Naturalmente, questo è particolarmente evidente per la matematica, ma si verifica con modalità appena diverse anche per le altre scienze. Il guaio è che, così facendo si trasmette un’idea totalmente falsata di che cosa sia la scienza e lungi dall’avvicinare ad essa i giovani li si allontana, respingendoli verso un atteggiamento superficiale, pigro e inadatto ad addestrare allo studio. Vorrei fare un esempio raccontando un’esperienza personale. Nel marzo 2007 venni invitato a tenere una conferenza alla Festa della matematica di Torino. Si dirà: ma 216

allora anche tu vai alle feste, predichi bene e razzoli male? Credo di non aver razzolato male perché quella non soltanto era una cosa da nulla rispetto al mega-Festival della matematica che si teneva proprio in quei giorni a Roma, ma soprattutto era una cosa assai diversa: si trattava della manifestazione conclusiva di una serie di iniziative tenute nelle scuole, le cosiddette “gare matematiche” – attività di ben altra utilità in quanto coinvolgono direttamente e attivamente lo studente – e questa manifestazione prevedeva alcune conferenze di docenti e la mia in particolare. Il tema da me scelto era la teoria matematica degli scacchi. Il problema può essere così descritto. È noto che una serie di giochi di società sono “banali”, nel senso che se i due giocatori non commettono errori, ovvero adottano un profilo di gioco “ottimale”, in un’accezione che può essere precisata in modo rigoroso, l’esito del gioco è predeterminato. Un esempio classico è dato dal gioco del tris – quel gioco il cui obbiettivo è mettere in riga, colonna o diagonale tre contrassegni (croci o palline, di solito) in una scacchiera a tre righe e tre colonne: se i giocatori non commettono errori, l’esito è invariabilmente una patta. Pertanto, il gioco è “banale”, in linea di principio non è interessante. Può dirsi lo stesso per gli scacchi? La risposta è affermativa, in base a un teorema di “teoria dei giochi” dimostrato dal celebre matematico tedesco Ernst Zermelo un secolo fa. Il fatto curioso è che il teorema di Zermelo dimostra che questa soluzione determinata esiste, ma non dice quale sia: in altri termini, non sappiamo precisare se l’esito sarà una patta, oppure la vittoria del bianco, o magari anche quella del nero, anche se ciò appare improbabile. Lo sapremo soltanto quando riusciremo a formalizzare completamente il gioco, ovvero a inserire tutte le varianti nella memoria di un calcolatore, il che è lungi dalle possibilità attuali a causa del numero immenso di queste varianti. Spiegare il teorema di Zermelo non è facile per una serie di motivi. In primo luogo perché è complicato far capire che possono esistere teoremi che affermano l’esistenza di qualcosa 217

ma non ci dicono quale sia la sua natura concreta e specifica: teoremi di esistenza non costruttivi. È qualcosa di sottile ma che getta una luce profonda sulle modalità del ragionamento matematico e, volendo, può aprire la strada a discorsi molto interessanti circa il rapporto tra intuizione e astrazione e le polemiche relative tra “intuizionisti” e “assiomatici” agli inizi del Novecento. In secondo luogo, parlando del teorema di Zermelo si trasmettono conoscenze circa uno specifico risultato matematico, che illustra la natura di uno dei giochi più popolari, e che sono generalmente ignorate. Infine – e questo fu uno dei temi della conferenza – possono svilupparsi riflessioni importanti circa il rapporto tra intelligenza umana e “intelligenza” artificiale, tra uomo e calcolatore e circa il significato da attribuire al fatto che una macchina “vinca” l’uomo a scacchi. Non voglio qui vantare il modo in cui svolsi questi temi, ma penso che così si debba fare cultura matematica, ovvero trasmettere un’immagine della matematica come una disciplina di pensiero (e che suscita riflessioni anche molto profonde) e non un arido e noioso insieme di tecniche algoritmiche. Ebbene, dicevo che in quello stesso momento si svolgeva a Roma il grande Festival della matematica. Ad esso era stato invitato il celebre scacchista russo (e già campione del mondo) Boris Spasski. A lui fu chiesto di tenere un incontro simultaneo con quindici avversari matematici. Dalle testimonianze di colleghi risulta che tutti gli avversari erano men che dilettanti. Risulta anche che la Federazione scacchistica non sia stata mai consultata per proporre giocatori matematici di qualche livello, che pure esistono. È evidente che, in queste condizioni, un confronto con un campione di quella levatura era una semplice buffonata, qualcosa che si doveva risolvere in poche mosse. Il campione, resosi conto del livello dei suoi antagonisti, offrì una generosa patta che soltanto pochi compresero trattarsi di una cortesia e la kermesse finì in questo modo. Ora, pur tenendo conto delle poche parole di circostanza pronunziate da Spasski 218

sui rapporti tra matematica e scacchi prima dell’“incontro”, la domanda da porsi è questa: che cosa ha trasmesso questo “evento”? La risposta è ovvia. Nulla di nulla. Che cosa ne avrebbe dovuto ricavare uno studente? Forse che gli scacchisti sono più bravi dei matematici o che la matematica non serve a niente per giocar bene a scacchi? Si trattava di puro e semplice spettacolo senza il minimo contenuto informativo. Parlare di “cultura”, poi, sarebbe semplicemente derisorio. Di qui nasce la domanda: siamo tanto sicuri che queste feste servano a qualcosa? Forse piacciono, visto l’elevato numero di partecipanti, così come a tanti (anche agli “intellettuali”) piace andare al Luna Park. Ma bisogna essere prudenti nel sostenere che questi “eventi” servano, nel senso che riempiano il vuoto di quella cultura scientifica che manca, che destino l’interesse dei giovani per la scienza e che, magari, incoraggino anche a iscriversi alle facoltà scientifiche. Gli indizi, al riguardo, vanno in tutt’altra direzione. Ho sotto gli occhi un questionario compilato da tutti gli immatricolati al primo anno del corso di laurea in matematica presso la più grande università romana: circa duecento persone, un campione certamente ristretto, ma da non prendere sottogamba trattandosi di tutti gli studenti del primo anno di corso. Alla domanda “il tuo interesse per la matematica è aumentato grazie a” ben 142 hanno risposto “il tuo insegnante”, 64 “grazie alla partecipazione a giochi o gare matematiche” (del genere di quella sopramenzionata di Torino, tanto per capirci) e soltanto 8 – dicasi otto – “grazie al festival della matematica di Roma”… Se si aggiunge che ben 24 hanno dichiarato che il loro interesse per la matematica era cresciuto per “la lettura di libri sulla matematica” e soltanto 7 per aver partecipato al progetto lauree scientifiche (su 25 partecipanti), se ne ricavano alcune conclusioni. In primo luogo, che il festival della matematica non ha avuto il minimo effetto, ammesso che non ne abbia avuto di negativi su altri studenti che hanno deciso di iscriversi ad altre facoltà… In secondo luogo, che le attività che coinvolgono 219

sforzo, concentrazione, abilità, conoscenze e competizione sono largamente preferite. In terzo luogo, che i libri rappresentano ancora uno strumento fondamentale per la diffusione della cultura, anche se sono “noiosi” e poco eccitanti. Infine – e questo è l’aspetto più importante – che l’agente di gran lunga più influente resta il tanto vituperato insegnante. Potremmo aggiungere il dato che il numero di coloro che ha dichiarato di essersi iscritto a matematica per la speranza di trovare lavoro (66) era identico a quello di coloro che hanno detto di averlo fatto per “coltivare interessi culturali” e soltanto 13 per la speranza di conseguire “buoni guadagni”. Quindi, i nostri giovani non sono così bruti e idealisti come si vuol far credere, sono disposti a leggere libri, sono pronti a sforzarsi e concentrarsi nello studio purché quello che si propone loro sia interessante, né sono tanto tonti da dover essere imboniti con i festival, i giochi e le divulgazioni di infimo livello e la contraffazione della scienza con il divertimento. E, d’altra parte, i loro insegnanti – per quanto il loro livello sia certamente decaduto, per quanto li si debba riqualificare, migliorare e “valutare” – restano la risorsa primaria, coloro che lo studente ascolta e in cui ha fiducia, coloro che più sono capaci di trasmettere entusiasmo e interesse. Tutto ciò in barba a coloro che vogliono far credere che l’unico modo di salvare il sistema dell’istruzione sia di oggettivizzarlo al massimo: il guaio di costoro è che non hanno fiducia nelle persone. « […] la cultura, la conoscenza, la scienza richiedono fatica e impegno, nessuno riceverà mai nulla per nulla. Che non a caso è il messaggio predominante delle televisioni, da anni. L’idea è che ci sia una conoscenza divertente, interessante, stimolante, ma per carità, lasciate perdere la scuola, l’università, le dimostrazioni e i teoremi, è un messaggio che non sembra fatto per migliorare la situazione. Già perché da tutto questo processo, da tutti questi festival, da tutte queste iniziative, restano fuori proprio le università, gli istituti di ricerca, quelle 220

istituzioni che tutto sanno fare tranne che organizzare “eventi”. Per cui si ha il fenomeno curioso di feste, e festival in cui a parlare sono tutti professori universitari, ma le università, i centri di ricerca che si trovano nella città in cui quelle feste sono organizzate non sono per nulla coinvolte. Anzi, gli stessi professori universitari sono i primi ad essere contenti che sia così. E allora le università corrono ai ripari organizzando nelle notti della ricerca dei grandi concerti rock come “vergognandosi” del mestiere che fanno, o che dovrebbero fare, di diffondere le conoscenze e promuovere la cultura. Un fatto è incontrovertibile, non sono i media a stabilire chi siano i grandi protagonisti della cultura e della scienza. Ma almeno nel caso degli scienziati, sono le comunità scientifiche. E si pone il problema che la gran parte dei grandi risultati della scienza, penso alla matematica, non possono essere né raccontati né spiegati in termini “semplici, piacevoli, appassionanti” a nessuno che non sia competente nel settore. Basta essere chiari e far comprendere come ascoltare una conferenza, o un dibattito o assistere ad un incontro non sia la stessa cosa di studiare, capire, approfondire, insomma che si tratta, fatte salve le dovute differenze, di spettacolo. Per far capire sarebbe come dire che delle trasmissioni televisive serali in cui si assiste ad un bel dibattito su un qualsiasi argomento, siano “informazione” e non [159] spettacolo della comunicazione». Di qui deriva la “disperazione” delle università, che si aggrappano a tutto per sopravvivere. Ed ecco così il dilagare delle notti bianche in cui si proiettano film, oppure si imbastiscono pietose iniziative culturali denominate “wine bar scientifici”, in cui si blatera di scienza a casaccio davanti a un pubblico fluttuante, tutti con i bicchieri di carta in mano che poi finiscono per terra insieme alle bottiglie rotte, per poi andare a visitare i dipartimenti dove rubare o magari soltanto scassare qualche computer. I dipartimenti impotenti debbono prestare le loro magre dotazioni di corrente e di acqua, che non sono mai 221

bastate a preservare un livello dignitoso dei laboratori, a garantire la riuscita degli “eventi”. È da chiedersi, piuttosto, perché tutto ciò venga subìto e non vi sia un sussulto di dignità. Non vanno cercate giustificazioni, soprattutto di fronte allo spettacolo di docenti la cui unica lamentela è di non essere stati invitati alla festa. Una rivolta morale sarebbe più degna, ma bisogna anche comprendere la depressione e il senso di impotenza dopo decenni in cui le indubbie responsabilità del corpo accademico sono state poca cosa rispetto alle devastazioni prodotte da politici sconsiderati che hanno accumulato riforme di pessima qualità l’una sull’altra per crearsi clientele, da sindacati bramosi di stendere la loro mano morta sull’intero sistema dell’istruzione, da amministratori locali che non hanno cercato altro che di espandere le loro iniziative culturalfestaiole, da un sistema imprenditoriale miope che non chiede altro che di asservire l’attività universitaria alla massimizzazione dei suoi profitti. In questo clima, tanti saluti alla cultura scientifica… Ormai tutti sanno che gli incontri più vivaci culturalmente, quelli in cui è presente un pubblico impegnato, attento, talora appassionato, sono quelli promossi da associazioni culturali locali oppure all’interno di manifestazioni di straordinaria vitalità e partecipazione come il Meeting di Rimini. Chi ha provato a promuovere in ambito universitario manifestazioni culturali come la presentazione di libri – anche se l’università dovrebbe essere il luogo di elezione per iniziative del genere – sa a cosa va incontro: al deserto o a una partecipazione minima, per lo più costituita da persone che entrano ed escono continuamente, di ritorno da qualche riunione organizzativa o per recarvisi. Last but not least, la crisi dell’università ha un’altra causa: la nuova organizzazione didattica. Qualche anno fa Claudio Magris scrisse un memorabile

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[160] articolo in cui era descritto perfettamente a cosa si è ridotto il sistema universitario con le “riforme” berlingueriane sviluppate e approfondite in modo imperterrito dal ministro Moratti e ulteriormente aggravate da quelle successive. Conviene riportarne alcuni brani perché la situazione non potrebbe essere meglio descritta, a partire dalla condizione che si crea quando un professore, come era il caso di Magris, va in pensione: «Chi va in pensione non lascia più vacante una cattedra, da destinare a un altro docente, bensì libera alcune quote, ossia parti o frazioni del suo stipendio, la spartizione delle quali esige non solo l’abituale aggressività primordiale, come quella dei lupi nei romanzi di Jack London, ma anche una sofisticata arte combinatoria, a metà fra la cabala e il calcolo infinitesimale. Una quota delle quote potrà essere prelevata, come un balzello, dall’amministrazione centrale, altre saranno suddivise o sommate per ingaggiare un associato più mezzo ricercatore, oppure un ricercatore e mezzo più forse un termosifone, oppure per contribuire all’allestimento di uno stand in cui l’università presenta se stessa, regalando uno zainetto a ogni studente che partecipa all’iniziativa. Da qualche anno, all’università, non si parla che di quote; si somma, sottrae, divide, occupando così quasi tutto il tempo che dovrebbe essere dedicato a ricercare, insegnare, leggere, discutere di problemi scientifici con allievi e colleghi. […] La vecchia, classica università aveva le sue pecche, ma una sua logica e una sua struttura organica e funzionava. La sua trasformazione – necessaria per la nuova dimensione di massa e le vertiginose innovazioni del sapere e delle sue tecniche – non è mai avvenuta. I rammendi e i compromessi – fra sbracate concessioni demagogiche, civetterie con mode culturali vagamente orecchiate, difese corporative di obsoleti e iniqui privilegi feudali e modernizzazioni a vanvera – l’hanno distrutta senza crearne un’altra. […] Come rivela la febbre delle quote, l’imperante economicismo, che crede di 223

poter trasformare di colpo le università in imprese, produce l'effetto contrario. L’impresa ha la sua logica e la sua peculiarità e proprio per questo non ogni cosa è un’impresa. Una famiglia, una fabbrica di scarpe e una brigata alpina devono essere tutte gestite con oculatezza economica, senza sprechi e facendo quadrare i bilanci, ma senza scordare che il fine della fabbrica di scarpe e il profitto, il quale invece per la famiglia e per la brigata alpina – e anche per l’università – è un mezzo necessario per realizzare altri fini. La Fiat e un’azienda, l’Italia o la Chiesa no, e ciò non significa sottovalutare la dignità della Fiat. Una cultura d’impresa inoltre non si crea per decreto o vezzo intellettuale. Le università americane hanno dei patrimoni che investono, ma non passano tutto il tempo a parlare di investimenti, anche quando è il momento di parlare di filologia classica o di odontoiatria. Da noi invece le università, strangolate dalla povertà di mezzi che spesso le priva delle più elementari attrezzature scientifiche e assordate dall’aziendalismo ideologico, parlano solo di soldi senza [161] produrli». Non meno efficace è la descrizione del delirante sistema dei crediti formativi: «Un’altra comica è la nefasta scopiazzatura che è stata l’introduzione dei crediti. I crediti hanno imposto una gretta mentalità, secondo la quale ogni atto dello studente – dalla lettura di un libro a una corsa campestre – deve comportare un utile formale e immediato. Mesi fa uno studente mi ha detto che sarebbe venuto a sentire un seminario interdisciplinare su letteratura e scienza, tenuto alla Scuola superiore di studi avanzati di Trieste, se ciò gli avesse procurato dei crediti. Stupefatto che non gli fosse venuta in mente l’idea di andarci perché il tema lo interessava, gli ho chiesto se aveva mai baciato gratis una ragazza. I crediti disabituano a investire. Ogni investimento, all’inizio, è un rischio; le cose che facciamo solo per amore – anche leggere un libro – sono spesso quelle che poi ci rendono di più, ma indirettamente, ed è ridicolo 224

pretendere punti perché si è letto – si spera con passione – Leopardi. La distribuzione dei crediti fra i vari corsi e discipline è complicatissima, scatena contese, esige conteggi tortuosi, togliere un credito a un modulo (ossia a uno spezzone di lezioni) per poterne assegnare due a un altro, ma i conti non tornano, i crediti mancano e avanzano e le energie che bisognerebbe dedicare alla filosofia di Kant o al diritto civile [162] vengono assorbite da logoranti e rissosi puzzle». Sono esperienze comuni nella vita universitaria. Capita facilmente che uno studente chieda dei crediti in cambio della frequentazione di un seminario. Ciò non implica affatto che gli studenti attuali siano più cinici; più ignoranti, certamente sì, come conseguenza dello sfacelo complessivo. Significa piuttosto che il sistema induce a comportamenti disdicevoli e stimola a proposte indecenti talvolta per mere esigenze di sopravvivenza. Quale altro movente, se non la disperazione, può ispirare uno studente che ti ferma per chiederti se sei disponibile a concedergli in qualche modo un credito facendo con lui una conversazione su qualche argomento prefissato perché, nell’infernale conteggio dei crediti relativi ai vari esami, è rimasto con un credito di meno? Il sistema costringe ad occuparsi in modo così ossessivo dei conteggi di crediti e della sua struttura stessa da sostituire la forma al contenuto e da generare una sorta di idolatria dell’organizzazione. Ancora una volta è il trionfo della metodologia come scienza dei nullatenenti. « Pure l’articolazione dei corsi di studi e delle lauree specialistiche, priva di un saldo modello, costringe a discussioni interminabili e spesso inconcludenti su quanti e quali corsi o moduli attivare, suddividere, spezzare, nel dissolvimento di ogni itinerario di studi preciso. Non sono le paventate centoventi ore di lezione «frontale» (?), che molti già di fatto tengono per le necessità del loro insegnamento, a minacciare i docenti, la lezione e la ricerca. Sono le innumerevoli ore di sedute, 225

comitati, commissioni didattiche, snervanti discussioni, che occupano il tempo e le energie e ostacolano la riflessione, lo studio, il dialogo sui temi di una ricerca o di una disciplina. Travestita sotto le spoglie di una modernizzazione tecnocratica, trionfa la vecchia retorica dei blateramenti assembleari. È anche questo che soffoca l’università, dove non si dovrebbero fare quasi soltanto riunioni; lo Spirito, ha detto Céline, non ama le [163] riunioni». Lo spezzettamento della didattica in moduli corti, sempre più corti, ha effetti particolarmente dannosi sui corsi di laurea scientifici, soprattutto per le materie teoriche. Si può ancora comprendere il senso di un corso breve volto ad addestrare ad una tecnica molto specifica, per esempio in ambito informatico o in certi settori dell’ingegneria. Ma è problematico sviluppare un argomento di natura teorica in poche ore, se non a un prezzo ben preciso: l’estrema semplificazione al punto di non poter fornire gli strumenti per dominare autonomamente l’argomento. Nel caso della matematica ciò significa omettere gran parte delle dimostrazioni. Vi sono docenti che salutano questo come un progresso e si può anche ammettere che un eccesso puntiglioso di dimostrazioni, talora complicate e non istruttive in quanto non costruttive, può essere dannoso. Ma la struttura frammentata dei corsi conduce a risultati disastrosi. La soppressione di gran parte delle dimostrazioni in matematica significa che lo studente viene “informato” dei risultati ma non gli viene fornita alcuna capacità di ricostruzione autonoma: è come se si insegnasse a una persona a fare il falegname mostrando disegni e facendo rapide spiegazioni verbali senza mai mettergli in mano una pialla o una sega e metterlo alla prova su un pezzo di legno reale; o, peggio ancora, mostrare a una persona il risultato della fabbricazione di un ponte senza mostrare in dettaglio come è stato fatto. E poi ci si lamenta della scarsa preparazione matematica degli studenti… La modularizzazione esasperata ha effetti particolarmente 226

disastrosi nelle materie a metà strada tra le scienze naturali e le scienze umane. Per esempio, la materia che svolgo da anni, la storia della matematica – così come tutte le storie delle scienze – soffre in modo pesante della frammentazione. Una presentazione dignitosa dello sviluppo storico della matematica richiede tempo e non può non dispiegarsi dignitosamente altro che nell’arco di un corso annuale. Questo è evidente nel caso di un excursus generale che, ridotto a dimensioni semestrali, può farsi soltanto al prezzo di ridurre la presentazione tecnica degli argomenti a cenni molto vaghi. Ma è non meno evidente nel caso di corsi consacrati a sviluppi particolari, in cui quel che corre maggiormente il rischio di essere sacrificato è l’aspetto propriamente storico. Con l’introduzione delle lauree brevi a struttura modulare, corsi del genere sono stati degradati, per quanti sforzi faccia il docente e il loro degrado contribuisce al decadimento culturale generale dei corsi di laurea scientifici, ridotti a fornire rapide e sintetiche nozioni, senza avere il tempo di svilupparle in modo profondo. È comunque la dimensione culturale quella che è stata colpita più gravemente. D’altra parte, se materie come la fisica, la matematica e la biologia, il cui supporto principale è la scienza di base e teorica, vengono ridotte a un insieme di nozioni rabberciate e stereotipate, per quale motivo uno studente dovrebbe preferirle a materie di carattere direttamente applicativo e mano attente ai fondamenti teorici? Ripeto ancora che non è certamente un caso se al crollo di iscrizioni alle facoltà scientifiche universitarie corrisponde un incremento, o quantomeno una tenuta, delle iscrizioni alle facoltà di ingegneria o di certi corsi di laurea di punta nel campo tecnoscientifico, come genetica, biologia molecolare, bioingegneria. Un altro aspetto importante riguarda il ruolo dell’università nella formazione degli insegnanti della scuola secondaria. Con la soppressione dei megaconcorsi l’abilitazione degli insegnanti era passata alle università che la conferivano con un esame finale, dopo che il laureato aveva frequentato i corsi (e 227

sostenuto i relativi esami) delle Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario (SSIS). È stato questo uno degli ambiti dove il pedagogismo è riuscito a imporre la propria dittatura smantellando persino l’assetto disciplinare delle materie scientifiche. Difatti, una delle caratteristiche istitutive delle SSIS era basata su un principio delirante: e cioè che un laureato sapesse già tutto della sua materia e che nulla gli dovesse essere più insegnato in termini disciplinari, neppure sotto forma integrativa, ma che lo scopo della Scuola fosse esclusivamente quello di formare alle metodologie dell’insegnamento. E così, mentre è connaturato al concetto stesso di “insegnante” il principio che egli debba studiare, aggiornarsi e maturare per tutta la vita, qui si partiva dando per ovvio il principio dell’ignoranza: e cioè che chi è laureato in matematica, in fisica, in biologia, in filosofia o in lettere, sappia già tutto della propria materia e debba soltanto apprendere come insegnarla. Quanto questo principio che erige l’ignoranza a sistema fosse, a sua volta, frutto di ignoranza o non fosse piuttosto un modo di imporre l’egemonia dei pedagogistididatti, lasciamo al lettore di giudicare. A noi pare chiaro che esso era frutto di una combinazione di entrambi i fattori secondo proporzioni variabili e dipendenti dalle singole SSIS. Vi erano difatti quelle che, gestite da un corpo insegnante più avveduto e responsabile, introducevano integrazioni disciplinari, magari mascherate sotto l’etichetta dei cosiddetti “laboratori”. In altre, invece, impazzava il metodologismo più sfrenato. Poteva così accadere che un laureato in matematica – che aveva bisogno di integrazioni disciplinari e culturali e di una riflessione approfondita sui fondamenti, la storia e i metodi della propria disciplina – fosse costretto a seguire non soltanto corsi di didattica, ma una valanga di corsi di natura pedagogicopsicologico-sociologica, e nient’altro. Poteva accadere, nei casi peggiori (e purtroppo non rari) che le uniche e sole materie seguite per essere abilitati come insegnanti di matematica e fisica consistessero in una lista in cui accanto alle uniche 228

materie “tecniche” (si fa per dire), ovvero “Didattica della matematica”, “Didattica della fisica” e “Metodi delle scienze sperimentali”, si allungasse una interminabile lista del tipo: “Scienze dell’educazione”, “Psicologia dello sviluppo”, “Sociologia e scuola”, “Processi cognitivi” (con annesso laboratorio), “Verificare e valutare”, “Orientare e progettare nella scuola dell’autonomia” e addirittura “Diritto costituzionale”, “Orientare e progettare tra scuola e territorio”, “Valorizzare le diversità”. Una menzione particolare merita il modo talora indegno con cui sono state strapazzate materie come la storia (della matematica, della fisica, della biologia, ecc.). Nel migliore dei casi sono state concepite come discipline di servizio della didattica, ovvero come una sorta di “deposito” di casi da prelevare con la più totale spregiudicatezza al fine esclusivo di esemplificare tale o tal altra metodologia didattica, spesso nella più totale ignoranza della storia massacrata da persone che non ne avevano la minima nozione. Nei casi peggiori la storia è stata soltanto un’etichetta di comodo e sotto il titolo di “laboratorio di storia della matematica” venivano contrabbandati programmi del tipo “insegnamento della geometria solida nelle scuole secondarie superiori: contenuti e strumenti”, in cui si parlava dei quesiti di geometria proposti all’esame di stato, si faceva una “discussione critica” dei processi di “autoformazione” relativi alla geometria solida, e si compiva una rassegna di strumenti di insegnamento quali i modelli in plastica e in cartone. Tali modelli possono ben trovare il loro posto in un laboratorio, ma cosa abbia a che fare tutto ciò con la storia appartiene ai misteri della fede. Del resto, la sola idea di concepire un “laboratorio di storia” è grottesca. Sarebbe ingeneroso infierire sui contenuti di certi programmi di metodologia dell’apprendimento in cui, sulla base di una letteratura di secondo ordine, si definisce “il processo che dall’esperienza, dall’osservazione e dallo studio conduce alla 229

riflessione, alla formazione di concetti ed allo sviluppo delle capacità” come “stile di apprendimento”. Sono definizioni inutili e vuote il cui unico scopo è di costruire una presentazione formalizzata dei processi di apprendimento che vengono ridotti ad alcuni tipi standard per sviluppare una teoria “scientifica” delle “competenze”. L’unico risultato di tutti questi deliri è stato di sfornare una gran quantità di insegnanti che conoscono poco o male la loro disciplina – avendo avuto modo di dimenticarla sotto il rullo compressore delle SSIS –, che ignorano le sue interazioni con le altre discipline, cui è stata trasmessa un’idea degradante della dimensione culturale, storica e filosofica della scienza, ma che, in cambio, sono addestrati a manipolare un armamentario e un lessico burocratico-didattichese a base di “gestioni”, di “somministrazioni di test”, di “autoapprendimento”, di “dialogo educativo”, di “soggetti normodotati”, e via blaterando. Quel che più sorprende è che vi siano persone che mostrano di sorprendersi se gli insegnanti di materie scientifiche (in particolare, matematica e fisica) siano sempre più impreparati e inadeguati. Alla fine del 2008 Mariastella Gelmini, nuovo ministro dell’istruzione del governo Berlusconi, manifestò in un’intervista a Il Foglio un fervente apprezzamento per le tesi esposte nella prima edizione di questo libro (e qui ripresentate tal quale). Su questa base propose allo scrivente di occuparsi della riforma della formazione degli insegnanti, costruendo un meccanismo alternativo a quello delle SSIS che erano state tempestivamente soppresse. Mi fu affidata la presidenza di una commissione che lavorò intensamente per alcuni mesi formulando un progetto che il lettore interessato può trovare in tutti i dettagli in rete: https://sites.google.com/site/giorgioisrael/formazioneinsegnanti La considero un’esperienza molto bella e positiva, anche 230

per l’affiatamento che si produsse nel gruppo di lavoro. Ma quel che fu deprimente e progressivamente sempre più drammatico – oltre che istruttivo di come vanno le cose nel nostro paese – fu il modo in cui il progetto fu impantanato, corroso e sbocconcellato da tutte le parti, fino a ridurlo a qualcosa di irriconoscibile rispetto alle intenzioni originarie, mentre il ministro lasciava fare per non inimicarsi le potenti lobbies che non sopportavano quella riforma. Quando finalmente fu approvato (ben due anni dopo!) esso era ormai qualcosa che faticavamo a riconoscere. Ma il peggio doveva ancora venire con i regolamenti attuativi che ne fecero strame. Ci pensò la dirigenza ministeriale a far fuori quel che restava, e poi il ministro Profumo che seppellì definitivamente le lauree magistrali per la formazione degli insegnanti della scuola media, che forse avrebbero potuto fare qualcosa per migliorare questa sezione dell’istruzione. Si salvò soltanto la laurea per la formazione primaria che funziona egregiamente: ma per quanto? Non intendo soffermarmi ulteriormente qui su questa deprimente esperienza. Ho descritto il modo con cui è stata fatta a pezzi la riforma a suo tempo e, per chi ne abbia voglia, rinvio a quel documento: http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2011/9/5/SCUOLAIsrael-vi-racconto-il-Vietnam-che-ha-ucciso-la-riforma/204822/ Siamo così ricondotti al discorso sull’istruzione scolastica.

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Ancora sulla scuola Una certa virulenza polemica potrebbe indurre qualcuno a credere (o a voler credere) che io nutra un’ostilità preconcetta nei confronti della pedagogia. Nulla di tutto ciò. Non ho nulla contro la pedagogia, al contrario. In questo libro ho fatto frequente riferimento a un grande scienziato e uomo di cultura come Federigo Enriques, il quale ebbe sempre un grande interesse per le problematiche dell’insegnamento e dell’apprendimento. Egli può essere, a buon diritto, considerato come un fondatore della cultura dell’insegnamento delle scienze in Italia e, non a caso, i suoi manuali scolastici sono stati per decenni un modello insuperabile e, ancor oggi, hanno qualcosa da insegnarci. La pedagogia è una disciplina rispettabile, che ha una tradizione antichissima e raccoglie un complesso di conoscenze preziose. Almeno da Socrate in poi il problema della trasmissione della cultura è stato sempre al centro della cultura stessa: in altri termini, è stato sempre naturale pensare assieme a dei concetti il modo di comunicarli, di trasmetterli, di fornire ad altri (per lo più, ai giovani) i mezzi per appropriarsene e per rielaborarli autonomamente, eventualmente confutandoli o superandoli. La storia ci insegna anche che i più grandi innovatori sono stati coloro che possedevano, e a fondo, la conoscenza dei saperi consolidati nella loro epoca. Galileo non ha costruito una nuova fisica partendo da zero, nell’ignoranza della fisica aristotelica. Al contrario. Il percorso della sua scienza indica un progressivo affrancamento da quella aristotelica basato su una conoscenza profonda di essa e su un lavoro di analisi critica serrato e instancabile. Del resto, che cosa sono i dialoghi galileiani se non un continuo confronto con la cultura scientifica precedente? Persino Cartesio, che ha tanto vigorosamente proposto la necessità di un azzeramento delle conoscenze e di ricominciare a pensare daccapo sulla base di idee chiare e distinte, ha potuto permetterselo perché possedeva 232

il retroterra di una conoscenza profonda del pensiero scolastico. Ed anche figure radicalmente rivoluzionarie come Karl Marx hanno potuto essere tali perché si muovevano sulle basi di una conoscenza profonda della cultura della loro epoca, nella fattispecie, dell’economia politica, della filosofia e delle dottrine politiche dei secoli precedenti. È proprio questo il senso della profonda osservazione di Hannah Arendt riportata nel primo capitolo: l’educazione è efficace soltanto se è basata su una visione conservatrice e se è imperniata sul ruolo di una persona, l’insegnante che si rivolge ai giovani come rappresentante della società per mostrare loro qual è il mondo in cui vivono. Soltanto su tali basi solide il giovane può acquisire gli strumenti e la cultura per andare avanti e anche rinnovare in modo radicale il mondo. Il fulcro e la sostanza di questi basi sono le conoscenze, ed esse sono strutturate nelle discipline, la cui articolazione ha un carattere storicamente variabile. Il problema è che, sull’onda di una tendenza a costituire tutti i saperi sul modello formale delle scienze fisicomatematiche, la pedagogia si è trasformata in qualcosa di diverso dal deposito delle conoscenze e delle esperienze relative all’insegnare. Essa si è proposta come una “scienza”, ovvero come un insieme di metodologie didattiche che dovrebbero “ottimizzare” il “processo dell’apprendimento”. Volendo affannosamente dimostrare il proprio status scientifico, la sua pari dignità con le scienze esatte – subendo in tal modo, e penosamente, la sudditanza a quel modello di conoscenza, e dimenticando che la conoscenza può essere acquisita per tante vie, tutte ugualmente rispettabili e tanto più proficue in quanto non assoggettate a un metodo unico – la pedagogia tenta di proporsi come una forma di “metaconoscenza” indipendente dal contenuto dei saperi. Insomma, si tenta di ribaltare l’idea secondo cui prima vengono le conoscenze – ovvero, le discipline – e poi le tecniche del loro insegnamento. La pedagogia è terrorizzata di essere considerata come un sapere ancillare e, per evitarlo, assume la posizione opposta, 233

proponendosi come un sapere dittatoriale, una disciplina al di sopra delle discipline. Prima vengono i metodi dell’insegnamento e poi i contenuti che, a questo punto, divengono un aspetto del tutto accidentale, quasi una conseguenza dei metodi: apprezzabili e utili se seguono fedelmente le prescrizioni delle teorie pedagogiche, dannosi se non le seguono. Ma non basta. Perché la pretesa di oggettivizzare al massimo il processo educativo impone di limitare al massimo la discrezionalità e la soggettività dell’insegnante e, per far questo, occorre sostituire all’idea di insegnamento quella di apprendimento. Il centro del sistema non è più il rapporto tra docente che insegna e studente che apprende, ma è lo studente stesso e il suo processo di autoapprendimento, rispetto al quale il docente ha soltanto una funzione di catalizzatore, di agente che favorisce e stimola il processo medesimo. Di qui una cascata di affermazioni insensate, tra cui spicca quella secondo cui persino le parole “insegnare” ed “insegnante” andrebbero abolite nel nuovo dizionario di una didattica politicamente corretta. Con somma presunzione viene proclamata la fine di un’era che affonda nella notte dei tempi e cioè quella dell’ insegnamento trasmissivo: questa prassi “impositiva” e “autoritaria” dovrebbe essere sostituita con quella in cui lo studente, al centro del sistema, costruisce da solo le proprie “competenze” e deve essere soltanto aiutato a farlo. Quest’idea è difesa con argomenti di carattere democraticistico che, non di rado, raggiungono livelli farseschi, come nelle recenti direttive nazionali enunciate in Spagna in cui si afferma addirittura il “diritto” [sic] del bambino a sbagliare; oppure nelle nuove metodologie di insegnamento della matematica in Svizzera, in cui lo studente può scegliere i temi e i problemi di matematica di sua preferenza… Tornano così alla mente le parole ironiche di Thomas Kuhn riportate in epigrafe a questo libro, secondo cui la tendenza alla democratizzazione dell’insegnamento va approvata e deplorata, al contempo. 234

Difatti, chi potrebbe mai dichiararsi contrario alla democrazia? Ma se democrazia non significa soltanto offrire le opportunità di apprendere a tutti e offrire a tutti pari opportunità, bensì significa “democratizzare” le procedure dell’insegnamento e dell’apprendimento e persino i suoi contenuti – per cui ognuno apprende come gli pare e quel che gli pare – allora si tratta di una tendenza da deplorare. E deplorare è dir poco. Non è un caso che gli “insegnanti” – la loro ostinazione a voler “insegnare” e il loro attaccamento alla “disciplina” – vengano individuati come il nemico principalo, l’ostacolo che si frappone al libero e totale dispiegamento dell’egemonia pedagoghese-didattichese. Metodologie didattiche e docimologia vengono viste come il grimaldello per scavalcare il muro disciplinare nell’attesa che i pensionamenti e la sostituzione con nuovi docenti debitamente ammaestrati a fare gli animatori didattici, risolvano la situazione. Occorre, al riguardo, sottolineare quanto una simile visione si ponga in rottura con punti di vista pedagogici pure radicalmente innovativi e che pure vengono indicati ipocritamente come riferimenti concettuali fondamentali. Per quante critiche – e fondate! – possano essere mosse alle pedagogia sperimentale di Lucio Lombardo Radice ed alle sue responsabilità in certi sviluppi odierni, la pretesa di identificarlo come padre delle correnti attuali si scontra con brani come questo, che potrebbero essere considerati come un atto di accusa contro le tendenze del pedagogismo progressista di oggi: «L’introduzione dei metodi attivi nella educazione della mente è stata, ed è, un fatto rivoluzionario di importanza fondamentale. Il nuovo punto di vista credo si possa riassumere in una frase molto semplice: il ragazzo, a scuola, deve capire, e per capire deve studiare in modo attivo, ricostruendo in modo creativo ogni processo mentale, ogni esperimento, ogni vicenda, ogni teoria che gli vengono esposti. La passività intellettuale non genera conoscenze, ma imprime labilmente nozioni. 235

Secondo certe tendenze “estremistiche” e superficiali, oggi purtroppo di moda nel nostro paese, “attivismo” significherebbe invece liquidazione di ogni sforzo, di ogni noia, di ogni sistematica disciplina mentale e con ciò di ogni organico sapere. Si esalta una scuola nella quale è sempre domenica, nella quale ad ogni ora si celebra la festa dello spirito creatore, nella quale ogni attività è individuale, libera, piacevole, giocosa. Al bando la geografia sistematica: basta organizzare un viaggio, reale o ideale, della classe in un’altra regione studiandone le carte, le comunicazioni, i prodotti, i costumi. Morte alla scienza classificatoria: tre mesi di osservazione ed esperimenti sulle lumache formerebbero lo spirito scientifico assai più di un’organica visione (in buona parte necessariamente libresca, o frutto di lezioni ex cathedra) delle grandi linee della evoluzione delle specie. Basta con le date, colla successione cronologica e le periodizzazioni storiche; episodi, racconti, immedesimazione con pochi “eroi” darebbero il vero senso della storia. Si confonde, insomma, l’esercizio con lo studio, l’applicazione con la teoria, il “di più” con il necessario, la integrazione e la “verifica” didattica con la programmazione e la realizzazione di un organico “piano” culturale. Si va anzi molto al di là della confusione tra due momenti educativi: si arriva ad annullarne uno, quello basilare, riducendo la scuola a escursione, esercitazione, libera ricerca, lettura occasionale o così via. […] Vogliamo sottolineare che un momento non eliminabile, per un solido sviluppo intellettuale in una direzione quale che sia, per la acquisizione di un permanente patrimonio culturale comunque configurato, è lo studio-lavoro, la lettura-riflessione, lo sforzo di comprensione tenace, l’applicazione disciplinata, organica, paziente, la faticosa organizzazione della propria [164] mente e del proprio sapere». Ogni commento è superfluo ed è chiaro come certi richiami a Lombardo Radice come “padre” delle visioni attuali

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[165] siano assolutamente strumentali. Sono invece prevalse le visioni estremistiche, quelle che riducono la funzione dell’insegnante a passacarte di metodologie preconfezionate (altro che lezioni ex cathedra!), e propinano una concezione piattamente empiristica in cui l’apprendimento è ricostruzione giocosa dal nulla verso il nulla. Peccato che il passato della storia umana, quello contrassegnato dall’insegnamento e dalla didattica biecamente “trasmissiva”, abbia prodotto risultati di eccellenza che, nella situazione attuale, non possiamo immaginare neppure nei più rosei sogni. Peccato che negli ultimi centocinquanta anni le strutture educative biecamente “trasmissive” dell’Europa ne abbiano fatto il centro della scienza mondiale, e che da questa posizione essa sia stata detronizzata soltanto per merito delle politiche autarchiche e razziali delle dittature nazifasciste, delle intrusioni ideologiche del comunismo nella scienza e del pedagogismo ideologico. È davvero singolare che dal fondo del declino in cui siamo giunti, e in cui continuiamo a precipitare insistendo sulle medesime nefaste ricette, si sia persino capaci di scomunicare una tradizione che ha dato così brillanti risultati. Tanta incosciente arroganza può spiegarsi soltanto con l’illusione di possedere come fondamento una scienza avente pari rigore delle scienze esatte. Il fatto è che tale rigore è un’illusione assoluta e può essere creduto soltanto mantenendo le elucubrazioni della pedagogia scientifica al riparo da una verifica seria e da un confronto serrato, insomma mantenendole nel buio del sottoscala degli addetti ai lavori, senza rapporti con l’esterno. Questa condizione privilegiata si regge sull’equivoco di una disciplina che, in quanto metodologica, avrebbe la natura di “metadisciplina” e quindi si sottrae al confronto con le altre, di cui costituirebbe la precondizione se non addirittura il terreno del loro dissolvimento. Le correnti di “pensiero” (si fa per dire) di cui stiamo parlando si basano quindi su una miscela di scientismo 237

metolodogico e di democraticismo che – anche per non confondere la pedagogia tradizionale, per cui nutriamo rispetto – abbiamo fin qui definito con una denominazione apposita, “pedagogismo progressista” o “pedagogismo democratico”. [166] Il pedagogismo progressista ritiene di possedere esso soltanto il diritto di stabilire come vada strutturato il processo di apprendimento, proprio in quanto l’approccio disciplinare va scardinato e quindi gli “specialisti” delle varie discipline non devono poter dire nulla su quel che va appreso o, peggio, “insegnato”. La determinazione dei contenuti dell’insegnamento – dei “programmi”, come dicono gli aborriti tradizionalisti – è una conseguenza automatica dei processi di apprendimento: i contenuti della storia sono l’esito finale dell’acquisizione progressiva dell’idea di temporalità, così come quelli della geografia sono conseguenza dell’acquisizione dell’idea di spazialità, e quelli della matematica del concetto di numero, di contare, di misurare e, per la geometria, di rapporto fisico con lo spazio. Questa operazione è riuscita alla perfezione per la storia e per la geografia che, come abbiamo visto nel primo capitolo, sono state letteralmente distrutte nella loro struttura disciplinare per cui uno studente può arrivare alla fine delle scuole primarie senza avere idea di dove sia l’Africa ma con un bombardamento di chiacchiere sui concetti strutturali dello spazio fisicogeografico. L’operazione ha incontrato maggiori difficoltà con la matematica, in quanto trattasi di una disciplina che possiede un “nucleo duro” difficile da dissolvere, ma, per quanto possibile, si è lavorato alacremente. La via seguita è stata una miscela di vecchie e discutibili dottrine pedagogiche, come quelle ispirate al pensiero di Jean Piaget – discutibili in quanto strettamente legate a una visione rigidamente assiomatica della matematica e ormai peggio che obsoleta – e da un empirismo derivante dalla dottrina già qui esposta secondo cui il processo di apprendimento dovrebbe ripercorrere in laboratorio quello 238

storico reale, come una sorta di filogenesi che ripercorre l’ontogenesi. Di qui la miscela incongrua di concetti astratti – quantificatori logici, insistenza assurda e notoriamente dannosa sulla teoria degli insiemi, ecc. – e di un approccio empirico ai concetti di numero e soprattutto di spazio che quasi ci riporta a una visione aristotelica o, peggio ancora, a una visione della matematica pratica pre-euclidea. Quando si indicano come “traguardi per lo sviluppo delle competenze [ancora questo [167] orrido termine] al termine della scuola primaria” il «percepire e rappresentare forme, relazioni e strutture che si trovano in natura o che sono state create dall’uomo» si esprime una particolare visione della matematica che molti potrebbero a buon titolo ritenere che non abbia nulla a che fare con la matematica almeno da alcuni secoli a questa parte e richiami piuttosto alla matematica pratica anteriore a quella greca. Anche l’insistenza su “misure, dati e previsioni” è più appropriata alle scienze sperimentali che non alla matematica. E il “comunicare la posizione di oggetti nello spazio fisico, sia rispetto al soggetto, sia rispetto ad altre persone o oggetti, usando termini adeguati, come sopra/sotto, davanti/dietro, destra/sinistra, dentro/fuori” esprime una visione che ben poco ha a che fare [168] con la geometria da Euclide in poi: l’introduzione di una soggettività fisica e personale nello spazio, come riferimento, è qualcosa che è fatto per confondere le idee e frastornare lo studente rispetto ad una corretta acquisizione del concetto di spazio geometrico. Qui emergono due problemi collegati, ma distinti che vediamo proiettarsi fino alla scuola superiore: da un lato, la tendenza a stabilire il primato di un approccio di tipo fisicosperimentale alla matematica, dall’altro l’insistenza di un approccio di tipo empirico-materiale. Nel maggio 2007 un Gruppo di lavoro per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica, presieduto dall’ex-ministro 239

Luigi Berlinguer ha prodotto un documento volto a proporre rimedi alla crisi della cultura scientifica nel nostro paese e, in particolare, al crollo delle iscrizioni nelle facoltà scientifiche. [169] Il documento si articola in sei campi d’intervento: scuola, università, istituzioni e organizzazioni culturali, imprese, media e la famigerata zapaterista “cittadinanza scientifica”. Tralasciando quest’ultimo aspetto vuotamente demagogico, occorre pur riconoscere al documento alcuni meriti, sia per quanto riguarda la diagnosi della situazione sia per alcune affermazioni che, nel contesto attuale, richiedono un coraggio da leoni, come quella secondo cui occorre «non solo insistere nello sviluppo delle tecnologie per la didattica sia dentro la scuola sia in mano ai singoli studenti e docenti, ma anche studiare soluzioni che permettano di dare una nuova impostazione ai libri di testo». Anche la questione dei rapporti tra università e mondo della produzione è trattata in modo abbastanza equilibrato e senza indulgere troppo a certi luoghi comuni che finiscono col predicare l’assoggettamento della prima al secondo. Ma quando si passa alla scuola iniziano i dolori, non tanto per la riproposizione del consunto precetto secondo cui «la formazione dei docenti deve essere strettamente collegata al contesto reale del loro luogo di lavoro, cioè la scuola», ma soprattutto per l’affermazione secondo cui «il metodo dell’indagine e la pratica di laboratorio debbono essere un punto centrale della formazione degli insegnanti di discipline scientifiche e tecnologiche». Difatti, il documento individua come causa principale, anzi unica, dei mali presenti il fatto che «in Italia la scienza è oggetto di apprendimento scolastico, cartaceo, nozionistico, deduttivistico. Un non senso. Non si è adeguatamente applicato il metodo scientifico-sperimentale. Al contrario oggetto e metodo di tale apprendimento dovrebbero essere soprattutto le esperienze, la costruzione di propri risultati, anche pratici, fino al raggiungimento delle strutture concettuali e alle adeguate forme di astrazione». Il vero non senso – un 240

esito degradante da parte di un così alto consesso – è l’additare come causa della crisi della cultura scientifica, la scuola, lo studio, la carta e il ragionamento deduttivo. Secondo la commissione tutto dipenderebbe da metodi di insegnamento inadeguati in quanto non avvicinano i giovani all’essenza della scienza, che sarebbe l’indagine sperimentale e la progettazione: l’uso limitato del laboratorio, il ricorso prevalente ai libri di testo e l’assenza di contestualizzazione storica. A ciò si dovrebbe porre rimedio con un’aumento delle ore dedicate alle materie scientifico-tecnologiche e con l’introduzione delle pratiche sperimentali, assieme a un poco di storia della scienza. Come ha osservato Enrico Giusti in una pungente critica del [170] documento, «in definitiva, ecco la panacea: più metodo sperimentale, più laboratorio, un pizzico di storia. E d’altra parte, cosa poteva proporre di diverso un comitato in cui i fisici hanno una schiacciante predominanza?», e – aggiungiamo noi – presieduto da un giurista che si picca di dare anche le direttive per l’“apprendimento” della musica. Proseguiamo riportando alcuni passaggi dell’articolo di Giusti, perché non si potrebbe dire meglio: «Naturalmente non voglio assolutamente sostenere l’inutilità dei laboratori; al contrario, penso che l’uso di un laboratorio scientifico (così come quella di un laboratorio informatico) sia essenziale nell’insegnamento della scienza. Ma il laboratorio non è la scienza, meno che mai tutta la scienza. Ci sono infatti scienze sperimentali come la fisica, scienze di osservazione come l’astronomia, scienze deduttive come la matematica, scienze tassonomiche come la botanica, ognuna con i propri metodi e le proprie tecniche. Appiattirsi su un’immagine unidimensionale della scienza, ridotta al solo metodo sperimentale, porta a un impoverimento altrettanto se non più grave di quello lamentato». Ma c’è di peggio, e si tratta della specifica visione del metodo sperimentale che soggiace al documento. Prosegue Giusti: «… si individuano i motivi delle carenze scientifiche nel 241

fatto che “la scienza è oggetto di apprendimento scolastico, cartaceo, nozionistico, deduttivistico”, e chiediamoci: a cosa si contrappongono i quattro aggettivi incriminati? quale sarebbe invece il modo positivo di apprendere la scienza? Le risposte sono di diverse difficoltà. Alcune sono evidenti: invece di un apprendimento nozionistico occorre un apprendimento “organico”, o anche […] a cartaceo si potrà opporre “sperimentale”. Ma qual è il senso di “scolastico” come connotazione negativa? La scienza che si insegna a scuola sarà necessariamente oggetto di apprendimento scolastico. A meno che con questo termine non si voglia intendere “pedante” o “arido”, nel qual caso un buon apprendimento sarebbe “creativo”». Si noti che qui sfugge a Giusti – che, per sua fortuna, deve aver avuto poca dimestichezza col pedagoghese, la polemica implicita nel documento contro la didattica “trasmissiva”, altrimenti non avrebbe osato ricorrere al verbo “insegnare”… Ma andiamo avanti: «Più rivelatore di tutti è comunque l’aggettivo “deduttivistico”. Si badi, non “deduttivo”, peggio che deduttivo; l’uso di un suffisso peggiorativo – e la corrispondente coniazione di un nuovo termine – denota che si hanno di mira non le deduzioni sbagliate o fuori luogo, ma che è il metodo deduttivo che è cattivo di per sé, come cattiva è la scienza che esso produce. La buona scienza è induttiva. Di qui il cammino che caratterizza il metodo scientifico-sperimentale secondo il gruppo di lavoro: si parte dalle esperienze, e da queste si costruiscono “propri risultati, anche pratici” (questo, sinceramente, non sono arrivato a decifrarlo; vuol dire forse “fare delle ipotesi”?), progredendo fino al “raggiungimento delle strutture concettuali e alle adeguate forme di astrazione”». Giusti non è riuscito ancora una volta a decifrarlo perché non ha identificato l’impasto tra empirismo e autoapprendimento che caratterizza questa bizzarra visione del metodo sperimentale. E assai correttamente egli propone ai soloni della commissione una lezione di storia della scienza di cui tanto propongono l’utilità quanto sono digiuni: 242

«Questo, se ho capito bene – e ripeto, spero di sbagliarmi – sarebbe il metodo sperimentale che, con l’aggiunta di un po’ di condimento storico, dovrebbe prendere il posto del vituperato apprendimento scolastico, cartaceo, nozionistico, e soprattutto “deduttivistico” oggi in vigore. Se è così, l’apparato ideologico mi sembra un po’ obsoleto e soprattutto incapace di rendere conto dell’effettivo meccanismo del progresso scientifico. Che io sappia, mai nella storia le esperienze hanno preceduto la teoria e mai una teoria scientifica è sorta per induzione [171] dall’accumulo di esperienze. L’affastellarsi di dati sperimentali può al massimo produrre una fenomenologia – una fenomenologia di altissimo livello come le ellissi di Keplero o una più modesta come la classificazione delle particelle elementari sulla base delle rappresentazioni dell’algebra di Lie di SU3 – ma non può giungere alla scienza; per questo occorreva Newton da una parte, e occorre armarsi di molta pazienza e speranza dall’altra. La scienza newtoniana nasce in primo luogo da riflessioni sulla natura dell’inerzia e del moto accelerato, e solo in via subordinata dalle innumerevoli osservazioni di Tycho Brahe e dalla fenomenologia kepleriana. A volte poi il progresso della scienza avviene addirittura contro le esperienze, che testimonierebbero altrimenti, o quanto meno scegliendone alcune a detrimento di altre ugualmente legittime; si confronti la deduzione della traiettoria parabolica dei proiettili in Galileo con le esperienze quotidiane dei bombardieri». È un discorso che abbiamo già sviluppato in precedenza. L’idea di una scienza in cui l’apparato teorico è marginale, o addirittura appartiene alla storia delle idee e non alla scienza, è fuorviante: occorre rimettere «nel dovuto ordine di priorità il rapporto tra esperienza e teoria che la relazione sbilancia totalmente a vantaggio della prima: se non si può essere totalmente d’accordo con la famosa affermazione di Koyré: “La buona fisica si fa a priori”, meno ancora si può consentire con una epistemologia paleopositivista, che non trova conferma in 243

[172] nessuna analisi storica». Ne discende anche per la matematica un ruolo marginale: «Se le idee del Gruppo di lavoro dovessero passare in toto, la matematica – scienza deduttiva per antonomasia – potrebbe al più aspirare a un ruolo strumentale e subalterno. A meno che non ci sia qualcuno che pensi di poterne barattare la primogenitura scientifica col piatto di lenticchie di una improbabile natura induttiva a colpi di [173] giochetti con i pacchetti di software geometrico». La scelta di un simile indirizzo sarebbe non soltanto la morte della matematica ma anche «minaccia alla cultura scientifica vista [174] l’inconsistenza delle basi su cui quell’analisi si fonda». Purtroppo, come abbiamo visto, e come è facile verificare da un dettagliato esame delle indicazioni nazionali e dei programmi affastellatisi in questi anni passati, la primogenitura è stata già venduta per quel piatto di lenticchie e a colpi di giochetti non soltanto informatici. E qui il discorso sul primato del metodo sperimentale – che non soltanto svende la matematica ma propone un’immagine inconsistente della scienza – si salda con quello dell’approccio empiristico e pratico alla matematica predicato dal pedagogismo e con la teoria delirante dell’autoapprendimento. Giusti si stupisce dell’idea di un approccio attraverso cui lo studente, partendo dagli esperimenti “costruisce i propri risultati” perché non conosce – come la maggior parte dei ricercatori scientifici o delle persone di cultura – quel che avviene nelle cantine del pedagogismo; e cioè che persino nel campo della matematica si predica la via della scelta autonoma dei problemi da parte dello studente e della “scoperta” o “riscoperta” personale della soluzione dei problemi medesimi. Al punto che vi sono correnti che sostengono che debba essere abolito il ricorso a metodi algoritmici univocamente definiti e che ogni studente debba “costruirsi” le proprie personali procedure algoritmiche. L’insegnamento della matematica appare allora stritolato tra le 244

tendenze al formalismo – teoria degli insiemi, insistenza sui quantificatori e sui simboli logici – e le tendenze alla matematica pratica, che vanno indietro verso le ridicole pratiche di ritaglio, incollaggio, manipolazione di oggetti. Per non parlare del ricorso agli strumenti elettronici di calcolo che ha [175] prodotto effetti profondamente diseducativi. Si ha bel sorprendersi allora che gli studenti europei (e più in generale occidentali), carne da macello di questa pedagogia sperimentale da strapazzo, esibiscano conoscenze matematiche sempre più miserevoli rispetto a quelle di un ragazzo indiano, cinese o coreano. Molto semplicemente in quei paesi studiano la matematica occidentale con i metodi che venivano utilizzati qui fino a trent’anni fa, mentre noi stiamo arretrando verso una visione pre-euclidea. Le concettualizzazioni che sono sottese alle indicazioni didattiche di questi ultimi trent’anni sono espressione di un impoverimento culturale drammatico. Qual è il senso di proporre una visione dello spazio come aggregato di “corpi”, una visione concreta dello spazio che tutt’al più può adattarsi a quella aristotelica, ma in realtà combacia pienamente con quella della matematica pratica? La matematica propriamente detta è nata entro la sintesi euclidea e quindi si è strutturata essenzialmente come scienza deduttiva. Questa è la sua intima essenza e ogni tentativo di ridurla a una scienza semi-empirica costituisce un arretramento. Chiunque abbia provato a illustrare a uno studente, anche universitario, la nozione di luogo aristotelico ha provato la grande difficoltà di trasmettere questo concetto così lontano dalla nostra intuizione. Difatti, la rivoluzione scientifica del Cinquecento e Seicento ha progressivamente introdotto una nozione di spazio come un contenitore vuoto, entro cui “galleggiano” gli oggetti fisici rappresentati mediante le posizioni da essi occupate. La matematizzazione dello spazio è ormai un’idea connaturata alla nostra intuizione che viene trasmessa fin dall’infanzia in modo 245

istintivo anche per il carattere essenzialmente tecnologico del mondo in cui viviamo. Una situazione del genere si verifica per quanto riguarda la concezione del tempo. L’abitudine a misurare il tempo mediante orologi, che permea ogni atto della nostra vita quotidiana, viene trasmessa fin dalla prima infanzia e costruisce una visione spontanea dello spazio come una variabile matematica. Nessuno possiede più il sentimento di un tempo qualitativo basato sullo scorrere delle stagioni e degli eventi naturali. Così il nostro spazio geografico è tutto strutturato in maniera cartografica e definito in termini quantitativi. Sono nozioni tutt’altro che naturali che sono tuttavia divenute spontanee e che non vi è alcun bisogno di insegnare. Allo stesso modo, i modi della nostra vita contemporanea trasmettono un’idea dello spazio che è profondamente plasmata da alcuni secoli di matematizzazione del mondo fisico e dalla trasformazione tecnologica dell’ambiente circostante. Ritornare ai “primordi” delle concezioni di spazialità e temporalità non è soltanto un approccio obsoleto, ma un goffo procedere filogenetico che non conduce da nessuna parte e produce un solo risultato già illustrato agli inizi di questo libro: ridurre la storia e la geografia a disquisizioni astratte sullo spazio e sul tempo e ridurre la matematica a un sapere induttivo, di fatto alla fase precedente alla matematica propriamente detta. Questo percorso inverso in realtà corrisponde a un arretramento verso una fase che viene arbitrariamente identificata con la fase primordiale dei processi cognitivi: a una fase mitica in cui l’uomo, ancora privo di storia passata e di conoscenza dell’ambiente fisico esterno, iniziava l’esplorazione del tempo e dello spazio orientandosi in essi; e in cui, iniziando a rapportarsi con i corpi circostanti e a misurare essi e le reciproche distanze, poneva le premesse dell’emergere dei concetti matematici. Il documento degli scienziati ministeriali presieduti dal giurista ha prodotto la sintesi tra una visione inconsistente e 246

culturalmente miserevole della scienza, basata su una conoscenza singolarmente povera della sua storia, e una visione improntata ai dogmi dell’autoapprendimento del pedagogismo progressista. È una sorta di campione da laboratorio dell’ideologia che sta distruggendo l’insegnamento scientifico e sgretolando le basi di una cultura scientifica degna di questo nome. Per cui, viene spontaneo il detto: Medice, cura te ipsum.

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Qualche osservazione, per concludere La scienza moderna è intessuta di una contraddizione analoga a quella di cui è intessuta la democrazia: essa non conosce frontiere, per sua natura è internazionalista, e persino cosmopolita ma, al contempo, è nata e cresciuta nel terreno delle realtà nazionali, delle culture nazionali. E, come la democrazia, non è detto che riesca a sopravvivere fuori da questo terreno. Quando parliamo di “scienza” ci riferiamo qui alla scienza “moderna”, ovvero a quell’impresa che prende le mosse dal Seicento e che non è una semplice espressione di un desiderio individuale di conoscenza, bensì appunto un’impresa collettiva che si è data forme organizzative sempre più vaste e complesse e che mira a connettere la conoscenza della natura con la sua trasformazione, ovvero ad accompagnarsi alla tecnologia. In tal senso, la scienza è un’impresa essenzialmente di origine europea e di qui discende il suo legame profondo con l’affermarsi della democrazia liberale. Non è certo un caso se la democrazia liberale ha come moventi la razionalità e l’universalità, e pone, di conseguenza, al suo centro i temi dei diritti dell’uomo e della conoscenza, ovvero della scienza. Se la tendenza all’universalismo – evidente conseguenza dell’influsso della concezione ebraica e cristiana della persona umana e della sua dignità – implica una propensione al cosmopolitismo, questa propensione si è manifestata storicamente all’interno dell’idea di nazione e nel contesto concreto degli stati nazionali. Questo è un punto centrale da non dimenticare. Non è mai esistita una forma storica in cui abbia preso forma la democrazia liberale diversa da quella degli stati nazionali. 248

Un discorso analogo vale per la scienza. In quanto impresa, e non diletto di singoli, la scienza non poteva svilupparsi senza avere dietro di sé una struttura capace di sostenerla, di attribuirle un ruolo sociale e una funzione determinante nel realizzare l’ideale del progresso. I grandi sviluppi della scienza si sono verificati entro il contesto degli stati nazionali, con il sostegno delle loro economie e in rapporto con i loro fini e le loro culture nazionali, la loro lingua e le loro tradizioni; anche se la scienza, per la sua natura universalistica, ha teso e tende sistematicamente a irrompere oltre i confini nazionali e senza i rapporti internazionali declina e muore, come insegnano le catastrofi determinate dall’autarchismo. E tuttavia è difficile parlare di cultura scientifica se non in connessione con “culture” che, in quanto inevitabilmente legate a linguaggi e storie particolari, hanno una connotazione nazionale. Fuori di questo riferimento riesce difficile pensare a una cultura scientifica. Si può certamente ipotizzare la formazione di una cultura scientifica mondiale, come è possibile pensare a una cultura (in senso lato) universale, ma si tratta di ipotesi del tutto immaginarie. Ancor oggi, per quanto l’inglese possa considerarsi come una base di comunicazione fondamentale dei risultati scientifici, non rappresenta una piattaforma linguistica sufficiente per far vivere una cultura scientifica nel senso proprio e pieno del termine, né potrebbe essere altrimenti perché, se la cultura scientifica deve essere (o diventare auspicabilmente) un fatto di massa, essa deve basarsi sulle forme di comunicazioni e sulle culture nazionali, le uniche che non sono fruibili soltanto da ristrette élite. In attesa che tutto il mondo parli un esperanto (l’inglese) e che questo sia qualcosa di più di un gergo di comunicazione elementare, la cultura scientifica, così come la cultura in generale, non può che vivere e alimentarsi dei contesti nazionali, e vivere anche dei fini ideali e politici, nonché delle strutture economiche offerti da questi contesti, sia pure inseriti entro le cornici delle collaborazioni internazionali. Non è certamente un caso se, in ambito 249

scientifico, i paesi più vivaci sono quelli che manifestano un senso di identità e dei comuni intenti progettuali: oggigiorno soprattutto certi paesi asiatici emergenti, che fanno curiosamente proprio quello che facevano i paesi europei un secolo fa, e cioè considerare lo sviluppo scientifico come un fattore di affermazione della loro identità nazionale e persino della loro supremazia. Non è quindi sorprendente che l’Europa, in particolare e molto più degli Stati Uniti, stia attraversando una fase di affannosa decadenza sul piano scientifico, ed anche sul piano culturale generale. Dopo aver distrutto la propria supremazia scientifica con la tragedia dei totalitarismi, l’Europa si è imbarcata in un processo di unificazione che è iniziato improvvidamente per la coda, ovvero per le questioni economiche e monetarie. In tal modo, non è più chiaro quale sarebbe il terreno su cui dovrebbe costituirsi il senso di un progetto comune, di comuni finalità, una trama culturale e ideale condivisa. Senza questi fattori un’impresa come la scienza diventa una questione meramente produttiva da lasciar gestire a una burocrazia europea che sostituisce la gestione alle idee e ai progetti, perché ovviamente di questi ultimi non sa dire nulla. Ma una cultura non si costruisce sul calcolo delle dimensioni ottimali dei cetrioli o anche della ripartizione dei fondi di ricerca, magari basati su procedure docimologiche. È forse un caso che le istituzioni europee siano esperte in tali operazioni mentre non si è riuscito neppure a creare un insieme di riviste scientifiche o di cultura scientifica (o di cultura, in senso lato) europee degne di questo nome? Pertanto, se sgretoliamo le culture nazionali senza avere la minima idea di come costruire una cultura europea, non avremo alcuna cultura scientifica ed avremo soltanto delle forme di ricerca scientifica mediocri e declinanti, comunque perdenti rispetto a quelle degli stati nazionali che conservano ancora qualche forma di identità e possiedono una volontà di autoaffermazione, come la Cina o l’India. Lo sgretolamento degli stati nazionali prodotto 250

dall’economicismo europeistico porta all’emergere di egoismi locali che, a loro volta, si esprimono nell’emergere di isolamenti linguistici che non portano a nulla di buono, bensì a un indebolimento culturale drammatico e al disfarsi di qualsiasi principio educativo. La creazione di enti culturali o di università in cui si parla inglese e friulano, e magari altre varianti consimili, non è un arricchimento, bensì un drammatico impoverimento, perché significa rinunziare a una cultura nazionale che, al momento, è l’unica piattaforma su cui è possibile sviluppare una cultura scientifica dotata di storia e tradizioni, in cambio della somma di un gergo di comunicazione internazionale e di una lingua locale che non è capace di sostenere un compito così impegnativo. La costruzione di una cultura europea può farsi soltanto partendo da basi sufficientemente aggregate e non disgregando ulteriormente il contesto. Non intendiamo sviluppare ulteriormente questi temi che vanno al di là delle finalità del libro e che potrebbero indurre a un pessimismo radicale. Ma di essi occorre tenere conto, quantomeno sullo sfondo. Perché se l’Europa resta in mezzo al guado tra le culture nazionali e un’unificazione monetaria ed economica priva di qualsiasi principio, idealità, avulsa da qualsiasi idea di cultura, e soltanto aggrappata a vacui e ridicoli principi del “politicamente corretto”, non potrà che aversi il trionfo degli scienziati del nulla: che si tratti dei metodologi dell’apprendimento e della valutazione o dei burocrati che prescrivono la dimensione delle piastrelle delle malghe alpine.

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Campionario di malascienza Intervistato da un giornalista scientifico, un noto “luminare” della scienza, alla domanda se esistano altri mondi abitati oltre la Terra risponde affermativamente in modo perentorio. «È assolutamente certo – sentenzia – che la vita esista su altri pianeti. Si tratta di trovarli e di vedere se abbia le stesse caratteristiche della vita della specie umana terrestre». C’è da rimanere trasecolati. Poiché non risulta che il suddetto abbia esplorato in incognito l’universo, non si capisce da dove abbia tratto argomenti per affermare con assoluta certezza che non siamo soli. L’unico argomento cui può aver fatto ricorso – senza averlo detto – è di carattere probabilistico: poiché il numero dei pianeti nell’universo è elevatissimo, la probabilità che l’unico pianeta abitato dalla vita sia la Terra è estremamente bassa, quasi nulla. Già, ma non nulla. E una probabilità piccolissima non è comunque nulla, per cui parlare di “certezza assoluta” è assolutamente abusivo. Oltretutto, un siffatto modo di ragionare – considerare un evento estremamente improbabile come impossibile – è altamente pericoloso per le credenze ideologiche del nostro “luminare”, quali risultano dal resto dell’intervista. Difatti, egli mira a dedurre dalla pluralità dei mondi abitati – e, meglio ancora, dalla plausibilità che vi siano forme di vita diverse dalla nostra – l’assurdità del racconto biblico e la necessità di gettare le religioni nella pattumiera della storia. Ma allora bisognerebbe chiedergli cosa ne pensa della teoria del brodo primordiale, ovvero della teoria secondo cui la vita sarebbe emersa da una combinazione spontanea di molecole che ha dato luogo all’emergere di cellule “vitali” a partire dalla materia bruta e inanimata. Si tratta, con tutta evidenza, di un evento che ha una probabilità quasi nulla: anche i più convinti 252

fautori dell’idea che la vita e l’uomo siano frutto del caso ammettono che la probabilità di questo evento è straordinariamente piccola. Ma allora, se seguiamo il modo di ragionare precedente, dobbiamo concludere che tale evento è impossibile… Insomma, o la vita è sempre esistita – e magari si propaga nell’universo per “panspermia”, come ha sostenuto l’astronomo Fred Hoyle, tacciato di misticismo dalla maggior parte dei suoi colleghi – oppure è necessario ammettere una qualche forma di creazione divina. Queste sono le banali obiezioni che il giornalistica “scientifico” avrebbe dovuto poporre al nostro “luminare”. Ma egli se ne è guardato bene, dando così mostra del comportamento descritto da Clifford Truesdell: prendere come rivelazione divina ciò che «dicono gli scienziati», prestando «al fanatismo della scienza una credulità superiore a quella del contadino medievale verso il suo parroco». Questo è uno dei tanti esempi – che formicolano sulla stampa e sui libri di divulgazione – di bestialità pronunziate con pomposa sufficienza. Quale cultura scientifica e soprattutto quale capacità di ragionare dovrebbero ricavare i lettori, e in particolare i giovani, da simili modelli di delirio mentale gabellati come “risultati scientifici”? In realtà, non ne ricavano soltanto disinformazione, ma un modello di come si possa sragionare e di come si possa fare strame persino della logica comune. E ne ricavano anche una vera e propria antipatia per la [176] scienza. Questa appendice offre una piccola raccolta di assurdità scientifiche e culturali, di retorica vacua e diseducativa, di pessima divulgazione e di un modo di sragionare, e spesso di farlo scrivendo con i piedi in forme sconcertanti. Avremmo potuto riempire centinaia di pagine. Ci limitiamo a presentare alcuni modelli rappresentativi che forse guideranno il lettore a individuare da solo le centinaia di casi analoghi e a crearsi degli 253

anticorpi. Uno sguardo anche sommario alla divulgazione degli ultimi anni mostra come l’attenzione si sia progressivamente spostata dalle scienze fisiche e fisico-matematiche alle scienze biologiche, alla genetica ed alle neuroscienze. Un tempo la fisica rappresentava la “big science”, oggi il bastone di comando è passato al campo biologico. Pertanto, se un tempo la divulgazione – e le relative castronerie – erano abbastanza equamente diffuse, oggi si parla quasi soltanto di genetica e di neuroni e, per lo più, per ripetere la solita assurda solfa dei geni che determinano tutto e della scoperta di questa o quella base materiale del pensiero. Si tratta di un fenomeno impressionante di degenerazione culturale. Non passa giorno in cui non venga aggiunto un mattoncino a tale monumento alla degenerazione della ragione. Mentre scriviamo queste righe un noto quotidiano dedica un’intera pagina alla “sensazionale” scoperta di un’illustre scienziato secondo cui i figli primogeniti sarebbero sempre e comunque più intelligenti… Che dire? Viene piuttosto voglia di chiedere se questo “risultato” non costituisce un invito implicito a non fare più di un figlio. Ma di certo non è così, perché la natura, che di logica se ne intende, non si farebbe imbrogliare in modo così banale: l’idea di “più” intelligente presuppone un confronto, che in tal caso non ha luogo di essere, per cui la natura si sentirebbe pienamente libera di produrre un deficiente. La faccenda è comparativa, e quindi preparatevi soltanto a trattare i figli minori come i reietti della famiglia… Aggiornare un bestiario tenendo conto di tutto ciò che diluvia giorno dopo giorno sarebbe un’impresa inutile. Mentre scriviamo leggiamo di un professore di una rinomata università americana che avrebbe “dimostrato” che i disordinati impiegano soltanto 9 (sic) minuti a ritrovare una carta sul loro tavolo, mentre gli ordinati perdono il 36% (non il 37 né il 35…) di tempo in più per recuperare il materiale necessario; e il solerte giornalista scientifico annuncia la cialtronesca “scoperta” dicendo che «la scienza riabilita il caos… sono più produttivi i disordinati»… 254

Occorre inoltre osservare che le responsabilità dei ricercatori nel campo delle scienze biologiche o sociali sono di gran lunga maggiori di quelle che hanno i loro colleghi fisici, matematici o ingegneri. Sarebbe ingiusto, in questo caso, sovrastimare le responsabilità dei divulgatori nella diffusione di notizie e concetti discutibili. Troppi sono i casi di scienziati e ricercatori che presentano ricerche strampalate, discutibili e corredate di considerazioni “culturali” o “filosofiche” risibili. In molti casi queste ricerche vengono presentate alla stampa prima ancora che alle riviste scientifiche, e quindi prima ancora di essere sottoposte al controllo della comunità scientifica. Ma non sono affatto rari i casi in cui i risultati di queste ricerche sono stati pubblicati su riviste di tutto rispetto. Siamo pertanto di fronte a fenomeni che testimoniano un vero e proprio processo degenerativo della qualità della ricerca scientifica e del livello [177] di “probità” dei suoi controlli. Pertanto, in certi casi, le responsabilità della diffusione di una cultura scientifica disastrosa sono molto vaste e profonde e non possono essere addebitate altro che in parte alla comunità dei divulgatori, anche se una persona razionale e colta non può esimersi dal dovere di ragionare con la propria testa e, quantomeno, di sollevare dei dubbi capaci di stimolare il lettore a una visione critica, anziché spingerlo a comportarsi come un beota che assimila passivamente qualsiasi cosa gli si dica. Desideriamo comunque sottolineare che la fenomenologia dell’incultura scientifica è molto vasta e chiama in causa un ampio ventaglio di responsabilità, come risulta del resto dalla varietà dei temi toccati in questo libro. Fra queste responsabilità è particolarmente rilevante quella di chi ha il potere di pubblicare articoli o libri pieni di errori e sciocchezze e di censurare le critiche per spirito di consorteria politico-culturale. Un capitolo a parte meriterebbe un’analisi dettagliata della qualità di tanti testi scientifici scolastici. In certo senso, si tratterebbe della tematica più importante e decisiva. Tuttavia, 255

essa richiederebbe quasi un libro a parte, per cui ci limiteremo alle considerazioni generali svolte in precedenza. Poiché non è nostro scopo fare scandalo, non citeremo quasi mai – salvo alcuni casi clamorosi – gli autori di queste mediocrità scientifico-culturali. Il nostro scopo non è di fare gossip o di denigrare questa o quella persona, bensì di gettare luce su un fenomeno di sfacelo concettuale. La “mala cultura” scientifica – per distinguerla da altre affermazioni ragionevoli – è citata in corsivo e tra virgolette.

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1. Come ridicolizzare la scienza e Galileo Uno dei maggiori quotidiani italiani decide di acculturare scientificamente la gente pubblicando una serie di volumi elegantemente intitolati Piccola Enciclopedia delle curiosità scientifiche e dedica il secondo volume della serie a un tema che Giovanni Gentile avrebbe definito “brevi cenni dell’Universo”, ovvero Le grandi questioni della scienza. È quasi superfluo dire che la prima questione, la questione delle questioni, è la domanda “Che cos’è la scienza?”. E ad essa viene fornita la seguente risposta: «L’uomo ha sempre cercato di comprendere il mondo che lo circonda. E ha chiamato “scienza” il metodo che finora si è dimostrato più efficace per raggiungere questo scopo». Se volessimo essere molto maligni potremmo chiederci quando è accaduto che qualcuno si sia alzato una mattina e abbia detto: «Qui stiamo cercando da tempo di comprendere il mondo che ci circonda, ma la gente non si è resa conto che c’è un metodo migliore degli altri per riuscirci. Bisogna dargli un nome. Chiamiamolo “scienza”»… Ho il vago sospetto che quel signore fosse Archimede Pitagorico, l’amico di Paperino. Ma lasciamo perdere e concentriamoci sul contenuto dell’affermazione. Ritroviamo così un vecchio conoscente: la metodologia. Insomma, la scienza non sarebbe un corpo di conoscenze, bensì un “metodo”, anzi “il” metodo. L’anonimo autore del libro non si cura del fatto che la scienza ha collezionato, nel corso della sua storia, innumerevoli approcci e metodi diversi e che fare un compendio di metodologia della scienza richiederebbe parecchi volumi. Figuriamoci… Quel signore è un ignorante assoluto di storia e, sfacciato come tutti gli ignoranti, risolve la questione alla radice definendo in poche parole nientemeno che “il” metodo della scienza, ovvero la scienza. 257

Prima però osserva che le domande fondamentali della conoscenza – Chi siamo? Da dove veniamo? Come ha avuto inizio il mondo e perché? – sono state affrontate fin dalla notte dei tempi secondo due “metodologie” diverse: quella religiosa e quella della scienza, «basata su fatti oggettivi e razionali, misurabili sperimentalmente o deducibili matematicamente da principi assodati». Sarei davvero curioso di sapere quali siano le risposte espresse in termini sperimentali o matematici alle domande di “chi siamo” o “o da dove veniamo” e “perché”: nella mia ignoranza non le conosco e compulsando freneticamente il volume non le ho trovate. Si vede che verranno date in una prossima Piccola Enciclopedia. Ma lasciamo ancora una volta perdere. Continuando la nostra lettura apprendiamo che c’è stato un intreccio tra scienza e religione durato fino a Galileo, che anche i Greci oscillavano confusamente tra approcci diversi, che per secoli la conoscenza della natura è stata dominata dall’aristotelismo eretto a dottrina “sacra”; ma che «questa situazione non poteva durare in eterno». Come al solito, c’è sempre un signore che si alza una mattina e decide di dare un corso nuovo alle cose. Pare che questo sia avvenuto nel Rinascimento «anche per l’invenzione della stampa, che permise una più ampia circolazione delle idee». Perché mai la stampa debba aver favorito i nemici di Aristotele è un mistero su cui è meglio non indagare. Ma in fondo la solfa è sempre la solita: sono i metodi e le pratiche che decidono di tutto, le idee mai, quelle vengono dopo. Prima si inventa la stampa e poi esce fuori qualcuno che decide di mettere delle nuove idee nei libri stampati. Infatti, se si cambiano i metodi di comunicazione, bisognerà cambiare anche le idee. Ovvio, no? Comunque, si è fatto avanti il solito signore, che stavolta si è definitivamente scocciato e «ha sferrato l’attacco definitivo», ponendo fine alla situazione insostenibile e «fondando, di fatto, la scienza moderna». Sempre così: una mattina e di colpo. E infine l’enigma è svelato: non si trattava di Archimede 258

Pitagorico ma di Galileo Galilei. Ha deciso di fondare la scienza, perché non si poteva andare avanti così… e ha detto che bisognava costruire «un metodo che permettesse di arrivare a conclusioni inconfutabili attraverso le osservazioni sperimentali». Non va dimenticato che Galileo introdusse anche l’idea che la natura è “scritta in lingua matematica”, un’idea ripresa da Newton che aprì la strada alla visione dell’universo «come un’enorme macchina che “gira” seguendo leggi matematiche: era nato il meccanicismo». A noi storici della scienza da assai fastidio che Newton, anziché Descartes, sia considerato il padre del meccanicismo, ma ci rendiamo conto che il rigore concettuale e filologico è un orpello per pedanti. Restiamo al metodo della scienza, che poi sarebbe il metodo del metodo, ovvero la scienza della scienza, visto che scienza e metodo sono la stessa cosa. Il requisito è che «le verità della scienza per essere oggettive e indiscutibili devono essere acquisite in maniera rigorosa». Ciò è possibile «per mezzo del metodo scientifico introdotto da Galileo Galilei». Esso si svolge in cinque fasi. Noi abbiamo disperatamente cercato dove Galilei abbia codificato queste cinque fasi, e non ci siamo riusciti. Ma, ancora una volta, lasciamo perdere le pedanterie da storici e vediamo «in che cosa consiste il metodo scientifico». La prima fase consiste nel «definire un problema sperimentale e preparare un’osservazione diretta»: per esempio «guardare alla volta celeste» o «far rotolare biglie di bronzo sopra un piano inclinato». Poi si effettuano “misure” (seconda fase). La terza fase è l’“induzione”, che «consiste in un processo di astrazione che consente di trovare una regola generale a partire da dati particolari», cui segue la quarta fase, ovvero «a partire dalla generalizzazione dei dati empirici costruire modelli o teorie di validità più generale», come la teoria della gravitazione di Newton. Infine, la quinta fase consiste nella verifica sperimentale delle conseguenze della teoria, «perché nessuno garantisce a priori che siano valide».

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Tutto ciò è straordinariamente ridicolo. Nessuna persona che abbia un minimo di dimestichezza con la ricerca scientifica troverebbe sensato uno schema simile. Non c’è bisogno di essere d’accordo con il celebre matematico René Thom, che affermava che il metodo scientifico non esiste e il metodo sperimentale consiste soltanto di tradizioni locali di laboratorio, [178] per rendersi conto che le differenti scienze seguono procedure diverse legate alla diversa natura del loro oggetto. Parlare di un metodo scientifico unico per la fisica e la biologia non ha il minimo senso, ma vi sono persino grandi diversità tra la fisica teorica e la fisica-matematica. Non meno assurdo è parlare di “modelli” con riferimento a Galileo ed alla fisica classica: di modelli ha senso parlare soltanto a partire dalla [179] prima metà del Novecento. Pignolerie? No, sono fondamentali distinzioni, senza di che si confonde tutto e nessun concetto acquista senso. Ma al lettore di questo testo non viene soltanto propinata questa immagine puerile della scienza, ma anche una serie di falsità prive di qualsiasi fondamento storico e concettuale. Si fornisce come esempio di applicazione della terza fase, la scoperta da parte di Galileo della legge di caduta dei gravi. Secondo i nostri ineffabili autori «quando Galileo vide oggetti diversi cadere dalla torre di Pisa nello stesso modo, concluse che l’accelerazione di gravità è la stessa per tutti i corpi… compresi quelli che non aveva visto» e si arriva al punto di esibire l’immagine delle palle che Galileo faceva cadere dalla torre di Pisa. Il fatto è che Galileo non vide nessun oggetto cadere dalla torre di Pisa per il semplice motivo che quella esperienza non l’ha mai fatta. Se egli l’avesse fatta non avrebbe potuto vedere diversi oggetti cadere nello stesso modo – più precisamente giungere a terra nello stesso tempo – perché nell’aria ciò non può avvenire. Quindi, a meno che non fosse stato un imbroglione o fosse stato capace di racchiudere la torre 260

di Pisa dentro un cilindro sotto vuoto, avrebbe dovuto concludere che l’accelerazione di gravità di una piuma e di una palla di piombo sono diverse. Pertanto sostenere che «una palla di legno e una di piombo cadono dalla torre di Pisa esattamente nello stesso modo» è una solenne castroneria. Come lo è asserire che questa «osservazione profetica» sarebbe servita ad Albert Einstein «come base per la teoria della relatività». Il fatto è che gli storici sanno bene che quell’esperienza Galileo non l’ha mai fatta, e che la sua deduzione fu dovuta a [180] esperimenti “pensati”. Galileo non era lo sperimentalista che si fa credere. Galileo era soprattutto un matematico, che deduceva le leggi per via concettuale, “difalcando gli impedimenti” e quindi dopo, soltanto dopo, le confrontava con la realtà empirica attraverso esperimenti che chiamava “cimenti”, un modo di saggiare la bontà delle leggi matematiche ottenute. Ma la matematica, per Galileo, viene innanzi tutto: nel Dialogo dei Massimi Sistemi, quando parla della legge di caduta dei gravi la definisce «matematica purissima». Altro che palle dalla torre di Pisa. Omettiamo di insistere su tante altre assurdità, come quella secondo cui Galileo fu il «padre della relatività» - la relatività galileiana è cosa ben diversa da quella einsteiniana -, che egli possedeva il concetto moderno di forza – le conquiste di Galileo avvennero soprattutto nell’ambito della cinematica, mentre nel campo della dinamica egli non ruppe definitivamente con Aristotele – e che a lui si deve il principio d’inerzia – che invece è dovuto a Descartes, mentre Galileo ne diede una formulazione vaga che adombrava l’idea secondo cui un corpo lasciato libero a sé stesso si muovo di moto circolare uniforme. La storia della scienza non è un optional che può essere usato come e quando fa più comodo per imbastire descrizioni della scienza da fumetto. Un divulgatore scientifico dovrebbe avere l’obbligo non soltanto di non propinare autentici errori, ma di studiare umilmente la storia della scienza per stimolare lo 261

spirito critico del lettore e sollecitarlo a pensare, invece di imbottirlo di schemini preconfezionati privi di fondamento. Fare divulgazione deve significare fare cultura. Dovrebbe…

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2. Ma… non toccate Galileo Galileo è il padre supremo della scienza, è il suo emblema, il suo simbolo, la sua bandiera. Se fosse disponibile la sua palandrana, sarebbe ridotta a brandelli per le strattonate che le verrebbero date da ogni parte e i tentativi di appropriarsene. Ma Galileo ha anche dei paladini, o qualcosa di simile alle vestali – quelle sacerdotesse che custodivano gelosamente il fuoco di Vesta – o piuttosto ancora dei cherubini, come quelli che il Signore Iddio mise a guardia del Paradiso terrestre dopo il peccato originale. Questi cherubini si ergono con spade fiammeggianti attorno alla sacra icona di Galileo per difenderla dai malvagi che vorrebbero contaminarla con le loro manacce impure. E chi sono i malvagi? I nemici della scienza, ovviamente, visto che Galileo è la personificazione della scienza. Agli amici della scienza è consentito fare strame di Galileo. Quel che conta è l’obbiettivo: difendere la scienza. Purché lo si persegua, non importa come lo si fa. Non è quindi da stupirsi se un cherubino ha perso la pazienza e ha cominciato a roteare la spada fiammeggiante di fronte alla dilagante «diatriba integralistica contro le discipline scientifiche motori di sviluppo culturale ed economico di questo paese», particolarmente inquietante in un paese che nutre nei confronti della scienza «una storica diffidenza», aggravata da «una intromissione di autorità religiose nelle decisioni di uno stato la cui laicità è sancita dalla costituzione, dall’interesse lobbistico ad una superiorità delle discipline umanistiche erroneamente contrapposte a quelle scientifiche», e dal dilagare delle credenze negli «oroscopi, le superstizioni, l’omeopatia, la medicina ayurvedica, gli scongiuri e la cartomanzia». Lasciamo pure perdere la scombiccherata sintassi: il cherubino ha perso la trebisonda e poi la sintassi è roba da umanisti lobbisti. Per quanto nervoso, il nostro cherubino laico 263

– non dimentichiamo che è un guardiano di Galileo! – concede che la religione ha un ruolo: da sempre essa si cimenta con «quello che sta a monte della nascita dell’universo». È già una bella concessione! Se qualcuno pensava ingenuamente che la religione si occupasse anche del mondo vivente e degli esseri umani si ricreda: le competenze della religione non possono estendersi oltre l’istante del Big-bang. Un’altra bella concessione è data dalla dichiarazione che l’etica e le verità generali sono «appannaggio di discipline umanistiche che si devono compenetrare e non contrapporre a quelle scientifiche». È una porta aperta a un rapporto armonioso tra le due culture e non meno commendevole è l’affermazione che una bioetica laica non è antireligiosa ma rispettosa di tutti i valori. Però, quando si va al concreto, di spazio alle discipline umanistiche, a tutto ciò che non è “scientifico” – nel senso delle scienze esatte basate sul metodo matematico, sul metodo sperimentale e sulle tecniche di laboratorio – ne resta quanto ne è stato concesso alla religione, relegata alla fase antecedente all’esistenza del mondo. Ovvero, niente. Soltanto la scienza è destinata a «guidare i destini dell’umanità trascinandosi la staticità delle filosofie». E, diciamo la verità, è pure generosa: perché invece di lasciarle per strada al loro miserabile destino, se le trascina pure dietro. Le filosofie sono «statiche» mentre la scienza è una disciplina «postmedioevale evolutiva». Noi da autentici ignorantoni, credevamo che Euclide fosse vissuto prima del Medioevo, che l’algebra fosse stata inventata nel Medioevo e che Cartesio e Kant fossero filosofi vissuti dopo il Medioevo. E invece no. Il nostro cherubino rimette le cose a posto: la filosofia sta tutta prima o durante il Medioevo, e la scienza tutta dopo. Non migliore sorte viene riservata alla politica e all’etica che sono pure emanazioni della scienza: l’individuazione delle decisioni corrette in politica o la determinazione del momento in cui emerge la coscienza sono materia di esperti. E infine, la scienza l’ha fatta finita una volta per tutte con i misteri perché ha «la potenzialità intrinseca di svelarli tutti». Stavamo per 264

osservare villanamente che è un “mistero” come questo signore lo sappia, ma stavamo dimenticando che l’ha saputo da Galileo. Piuttosto, è interessante vedere in cosa consista svelare i misteri. Secondo il nostro, «se la scienza ha già svelato i misteri della creazione della vita, non vuol dire essere antireligiosi, se la neurofisiologia è in grado di svelare le basi fisiologiche che sottendono all’estasi e all’idea del trascendente, probabili varianti di una forma epilettica, non vuol dire negare i fenomeni, vuol solo dire che sappiamo da che cosa sono determinati». A questo punto, siamo stati invasi da un sentimento di profonda pietà. Ma, insomma, se questi scienziati, hanno capito tutto, se hanno svelato tutti i segreti dell’universo, se sanno da cosa sono determinati tutti i fenomeni, proprio tutti, sarà forse colpa loro? Bisognerà linciarli per questo, accusandoli di essere nemici della religione e di voler negare i fatti? Infine, diciamola tutta: se noi non conosciamo ancora cosa c’è dietro tutti i segreti dell’universo, è soltanto colpa nostra, della nostra bestiale indifferenza alla scienza e del nostro inveterato lobbismo umanistico. Ed ora si capisce perché la religione deve restare confinata al “prima” della creazione del mondo: semplicemente perché come è stato creato lo sappiamo perfettamente. E non siate così impertinenti da fare domande. Ci è venuto soltanto un piccolo dubbio a proposito della faccenda che la neurofisiologia ha svelato le basi fisiologiche dell’idea del trascendente, che sarebbero varianti di forme epilettiche. Allora, Newton, Keplero, Copernico, Galileo (con rispetto parlando), Einstein ecc. ecc. erano tutti epilettici. Insomma, per essere grandi scienziati bisogna forse essere epilettici? Ma le nostre riflessioni impertinenti sono state interrotte da un gran fracasso e da urla: era Galileo, in preda a una crisi epilettica, che inseguiva con un nodoso bastone il suo zelante cherubino.

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3. Le rette parallele, che passione! In questo caso abbandoneremo la regola di non citare gli autori dei brani dell’antologia, perché il caso è troppo clamoroso e mostra come la realtà spesso superi l’immaginazione. Nella calda giornata dell’8 agosto 2004 sul quotidiano più diffuso del paese, La Repubblica, compare un’intera pagina dal titolo “L’ossessione delle rette parallele”, e dal sottotitolo “un libanese vuole dimostrare la storica teoria di Euclide”. L’autore dell’articolo, Gabriele Romagnoli, inizia spiegando il problema attorno a cui si sono affannate tante menti matematiche, ovvero dimostrare il quinto postulato degli Elementi di Euclide che il nostro così enuncia: «In un piano, per un punto esterno a una retta è possibile condurre una e una sola parallela alla retta data e le due rette non si incontreranno mai». In realtà, la definizione di Euclide è più sottile: dopo aver definito «parallele quelle rette che, essendo nello stesso piano e venendo prolungate indefinitamente in entrambe le direzioni, non si incontrano fra di loro in nessuna di queste», egli enuncia il postulato in questo modo: «se una retta, venendo a cadere su due rette, forma gli angoli interni da una stessa parte minori di due angoli retti, le due rette, prolungate indefinitamente, si incontrano dalla parte in cui sono i due angoli minori di due angoli retti». La differenza con l’enunciato proposto dall’articolista è sottile ma importante: difatti, Euclide evitava così l’affermazione esplicita che esistano coppie di rette che non si incontrano mai. Ciò era coerente con la cautela con cui i Greci manipolavano il concetto di infinito: Euclide non parla mai di rette infinite, ma soltanto della possibilità di prolungare “indefinitamente” una retta, il che non è affatto la stessa cosa, perché non postula il ricorso al concetto di infinito “attuale” (dato una volta per tutte) ma soltanto di quello “potenziale” (ovvero di una quantità che può accrescersi senza limiti). Ma lasciamo pure da parte queste sottigliezze, sebbene su di esse si 266

sia giocata buona parte della storia dei fondamenti della matematica. Veniamo alla questione centrale. L’asserzione di Euclide è un postulato, ovvero un’asserzione che si impone come una verità per la sua evidenza e che non è suscettibile di dimostrazione. Il nostro tenta di spiegarlo in modo alquanto confuso, buttandola “in politica”: il postulato sarebbe un’asserzione che «suscita il disagio degli spiriti liberi che, pur cogliendone l’evidenza, intuiscono una parentela con i dogmi che verranno, nella politica, nel diritto e nella fede». Insomma, per realizzare la libertà dello spirito e la razionalità scientifica bisognerebbe dimostrare tutto… ovvero, come si possono diffondere illusioni prive del minimo fondamento razionale. Un altro riquadro accresce la confusione introducendo un’affermazione a dir poco delirante: i postulati sarebbero «“assiomi speciali” validi solo per la geometria» mentre «gli “assiomi generali” hanno validità universale». Questo è uno dei rari casi in cui l’asserto è talmente fuori dal mondo da rendere impossibile qualsiasi tentativo di capire che cosa si è voluto dire. Ma andiamo avanti. Qualunque cosa esso sia, sembrerebbe appurato che un postulato è qualcosa che si da per vero senza dimostrarlo. Ma ciò è messo in discussione da un riquadro che afferma che «Euclide non riuscì a dimostrare la sua affermazione». Ma insomma, per Euclide si trattava di un postulato oppure no? La risposta è affermativa. Sono stati altri, dopo di lui, a chiedersi se questo postulato potesse essere sostituito con altre formulazioni più semplici o, addirittura, se non si trattasse di un postulato e potesse essere dimostrato come teorema a partire dagli altri postulati che Euclide aveva posto a fondamento della geometria. L’articolo spiega che molti tentarono questa via, e cioè di tentare di dimostrare il postulato come teorema; e fin qui tutto bene, salvo che poi si afferma che Gauss «lo dichiarò indimostrabile», che «persi in un gioco di 267

scatole cinesi [sic] Beltrami e Houël pretesero di dimostrarne l’indimostrabilità» e «nessuno riuscì in nulla». Intanto «Lobachevsky e Riemann creavano la geometria iperbolica e quella ellittica, alternative a quella euclidea, e il pensiero kantiano perdeva il proprio fondamento di verità». Ma proprio qui una corretta divulgazione avrebbe dovuto spiegare la morale della storia. Erano state create nuove geometrie non basate sul postulato delle parallele, bensì basate su altri asserti (per esempio che per un punto passano due o persino infinite rette parallele a una retta data) che si dimostravano perfettamente compatibili con gli altri postulati della geometria. Ciò mostrava che il postulato delle parallele era assolutamente necessario per fondare la geometria euclidea ed era indipendente dagli altri postulati. Pertanto, ogni tentativo di dimostrarlo era vano, come aveva ben capito Gauss. Da quel momento, quel genere di tentativi era definitivamente bandito dalla ricerca matematica. Questo avrebbe dovuto spiegare una corretta divulgazione, anziché alimentare la credenza che la questione sia ancora aperta, e incentivare il fenomeno folkloristico di quei matti o esaltati che si aggirano per i corridoi degli istituti universitari di matematica con un foglietto in mano contenente una dimostrazione “semplice” del quinto postulato, del teorema di Fermat, della congettura di Goldbach o del teorema dei quattro colori. Ricordo bene di aver assistito alcuni anni fa a una scena del genere: nell’atrio del mio dipartimento di matematica un insegnante in pensione bloccò un noto professore di geometria per proporgli la sua dimostrazione semplicissima del quinto postulato, e poiché questo resisteva tentando di spiegare che la cosa non aveva senso, il poveraccio si mise a urlare e inveire contro il dogmatismo degli accademici… Folklore tra il comico e il malinconico, che nessuno si sognerebbe mai di proporre come una cosa seria. E invece no. Per aprire le menti a cosa sia la ricerca scientifica e, in particolare, la matematica, la paginata de La 268

Repubblica prosegue annunciando in pompa magna che «nel 1939, in un villaggio libanese chiamato Ehmej, non lontano da Byblos, nasceva Rachid Matta, autoproclamato erede della tradizione di Talete e Pitagora». Immaginiamo che, in quel giorno, comparve anche in cielo una cometa. Di certo, il destino di Matta (e del mondo matematico) fu presto segnato dal suo incontro, alla tenera età di sette anni, con il quinto postulato, che lo condusse alla laurea in matematica. Perfezionò a Parigi le sue conoscenze in ingegneria e statistica, ma ormai «nella sua testa non c’era e non c’è quasi altro». Il professore da dieci anni mette la sveglia alle quattro del mattino e per quindici ore calcola e scrive: ha riempito diecimila quaderni… «Gli chiedo dov’era l’11 settembre 2001. Risponde che stava studiando e non si è lasciato distrarre perché “nel lungo periodo il suo problema era troppo più rilevante”». Proprio nella notte in cui morì sua madre, il 3 ottobre 2001, «arrivò al primo metodo di dimostrazione: quello che utilizza la coincidenza di due angoli qualunque». Cosa diamine sia la “coincidenza di due angoli qualunque” è un mistero della fede che non pretendiamo esplorare. Ma quel che conta è che «ci lavorò per un mese e poi dovette ammettere: funzionava». Poi, qualche mese più tardi, ottenne una seconda dimostrazione, con il “metodo di Jawad”, dal nome del figlio (inutile tentare di capire di cosa si tratti). E, incontentabile e implacabile come un rullo compressore, ne trovò altre otto, perché «le soluzioni continuavano a sbocciargli davanti e non voleva lasciarle ad altri». «Ha spedito l’esito dei suoi studi all’Accademia delle Scienze in Francia, a Heidelberg in Germania, è pronto a fare un fax alla Normale di Pisa» e «attende con fiducia il verdetto delle università europee sui suoi studi». L’intervistatore gli chiede cosa farà se tutti suoi diecimila quaderni risultassero pieni di scarabocchi senza valore e lui risponde pronto: «Sono un uomo d’onore. Vado in televisione e dico che ho sbagliato. Poi ricomincio. Perché quella retta parallela è il cammino verso l’eternità e Dio: se non c’è una ragione a sostenerla, cadiamo nel vuoto». 269

Tutto ciò potrebbe essere discretamente divertente se non avesse ottenuto lo spazio di una paginata del più diffuso quotidiano italiano, e nel contesto di una divulgazione fasulla, piena di errori e fuorviante e che, soprattutto, fa credere al povero lettore che il quinto postulato sia davvero dimostrabile. Difatti, l’autore dell’articolo non si trattiene dall’affermare che della «validità» degli studi di Matta «non posso giudicare». Del che non dubitiamo vista l’ignoranza di cui ha dato prova. Resta da capire il perché di tanta attenzione nei confronti di una vicenda ancor più penosa che ridicola. La chiave sta forse nelle motivazioni date dal matematico libanese per la sua ossessione: «Quando parla delle geometrie non euclidee tutta la faccia gli si scompone per il disgusto di una visione infetta, anarchica e atea. L’universo, ritiene, ha bisogno di una logica, di un fondamento di pensiero, di un linguaggio eterno che colleghi l’uomo a Dio e questo tramite è la geometria dimostrata, in cui la somma degli angoli di un triangolo è inferiore a 180° [?] e due rette parallele, per ragioni non solo intuibili ma spiegabili, vanno ognuna per la propria strada». E, si badi bene, se egli riuscirà ad ottenere ragione dalle accademie e università europee, non chiederà «tanto che il suo entri nei sussidiari, ma che ne escano le geometrie eretiche ispiratrici del caos». Come disse Giulio Andreotti, a pensar male si fa peccato ma si indovina quasi sempre. E qui viene da chiedersi: provate a mettere queste parole in bocca a un matematico europeo, magari religioso. Cosa accadrà? Si urlerà all’attentato contro la ragione e contro la scienza, al tentativo di ribaltare le verità scientifiche acquisite attraverso l’esercizio della ragione. Gli spiriti liberi che non sopportano i dogmi si ribelleranno e insorgeranno. Già, perché questo signore, non vuole tanto affermare le proprie idee quanto distruggere quelle altrui. È un bigotto che vuole imporre i dogmi della religione, un censore, un inquisitore, un membro del Santo Uffizio che mira a stabilire un nuovo “indice dei libri 270

proibiti” in cui gettare i lavori di Gauss, Riemann, Bolyai, Lobatchevsky e di tutti quei mascalzoni che hanno osato parlare di geometrie non euclidee. A questo attentato contro la libertà di pensiero risponderemo, alla maniera di Galileo: “eppur si muove” (ovvero, il quinto postulato non si dimostra). Invece qui, silenzio e condiscendenza. Che la terra sia al centro dell’universo potrebbe essere possibile. Aspettiamo di leggere i diecimila quaderni. Né si mena scandalo se Rachid Matta chiede di epurare i libri di testo di geometria. Sarà perché si tratta di un matematico libanese, di uno scienziato del terzo mondo che lotta contro il dogmatismo oppressivo delle accademie scientifiche dell’Occidente? Sarà perché le sue sono migliaia di pagine di una nobile lotta contro il colonialismo e l’imperialismo? Siamo troppo maligni? Forse. Ma vederla in questo modo è l’unico modo per trovare qualche spiegazione alla paginata in oggetto che non sia quella dell’abisso della mala divulgazione scientifica.

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4. Il mistero dei numeri primi “Scoperto il mistero dei numeri primi”: questo è il mirabolante annuncio di un importante quotidiano. L’articolo, a tutta pagina, parla di una «formula di tre matematici indiani» che «renderà più sicuri Internet e le carte di credito». I numeri primi sono quei numeri divisibili soltanto per 1 e per sé stessi, come 1, 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, ecc. Il grande Euclide dimostrò che i numeri primi sono infiniti, ma una legge, una formula che permette di scrivere un qualsiasi numero primo non l’ha fornita, né alcuno vi è riuscito dopo di lui. Per esempio, per ottenere tutti i numeri pari basta moltiplicare un qualsiasi numero intero per 2. Quindi, in questo caso, la formula esiste ed è 2n. Analogamente, per determinare un numero dispari arbitrario basta sommare 1 a un qualsiasi numero pari: in questo caso la formula (o legge di formazione) dei dispari è 2n + 1. Invece, nel caso dei primi non soltanto non possediamo una formula ma non sappiamo neppure se esista una legge che governa la distribuzione dei numeri primi. Ha quindi ben ragione il titolo dell’articolo a parlare di “mistero”. Non ha invece ragione per niente ad annunciare che il mistero è stato “scoperto”. I tre matematici indiani non hanno scoperto affatto la legge di formazione dei numeri primi, e quindi il titolo è un inganno: il mistero non è stato svelato. E allora che cosa hanno scoperto? Hanno escogitato un nuovo algoritmo per scoprire nuovi numeri primi, il che non è poca cosa ma è un’altra cosa. L’articolo, pervicace nella sua disinformazione dice che «il terzetto ha ideato un nuovo algoritmo, e cioè una formula, mantenuta rigorosamente segreta perché calcolare un nuovo numero primo è come trovare un tesoro. Le sue applicazioni infatti sono preziose e nascondono grandi affari». Disinforma pervicacemente perché un algoritmo non è affatto la stessa cosa di una formula. Cos’è 272

un algoritmo. Ecco una buona definizione: «Un algoritmo è un metodo, una procedura, un procedimento, un programma, una ricetta per raggiungere un determinato obbiettivo o svolgere un determinato compito, che definisce con precisione quale successione di operazioni elementari compiere su una particolare struttura. Presuppone che si sia chiarito quali sono le operazioni elementari e come le si possa comporre e [181] concatenare». Un algoritmo può bensì descrivere le procedure mediante formule, ma non è la stessa cosa di una formula, tantomeno se si intende che quella formula definisca un oggetto, come nel caso precedente per i numeri pari o dispari. Se possedessimo la “formula” che definisce la struttura di un numero primo, allora sì che il mistero sarebbe svelato, ma quel che ci hanno dato i tre matematici indiani è una tecnica per «scovare numeri primi» sempre più, ma non per scovarli tutti. Piacerebbe sapere quale sia questa tecnica, anche soltanto averne una vaga idea. Si tratta probabilmente di qualcosa di troppo difficile per essere divulgato. Ma allora a che serve cavarsela dicendo che i tre «hanno immaginato un “metodo di classe polinomiale” per scovare numeri principi facendo ricorso ai computer esistenti». A parte il fatto che riesce difficile immaginare come avrebbero potuto far ricorso a computer inesistenti, ci piacerebbe sapere cosa dica a un lettore comune, persino a un laureato in matematica di livello medio, l’espressione “metodo di classe polinomiale”. Ma forse aiuta l’osservazione che le difficoltà sarebbero state superate facendo ricorso al “piccolo teorema di Fermat” che è notoriamente pane quotidiano per l’uomo della strada. È la matematica del cittadino. L’articolo prosegue introducendo il lato più intrigante: e cioè che l’algoritmo è segreto perché i numeri primi hanno applicazioni cruciali in crittografia, nella codificazione segreta della comunicazione: «Oggi qualsiasi tipo di comunicazione, non solo militare, per garantire sicurezza e riservatezza deve 273

essere confezionata con dei codici in grado di renderla inattaccabile. Dalle transazioni con carte di credito alla navigazione in Internet, tutto ha solide basi sui sistemi crittografici. Il più diffuso è noto con la rigla Rsa e fa ricorso a un numero primo con un centinaio di cifre. Aumentare le cifre significa rendere il codice sempre più impenetrabile». Una buona divulgazione suggerirebbe di tentare una spiegazione di questo aspetto e di lasciar perdere l’algoritmo, tanto più che è segreto… Insomma, la curiosità sarebbe soddisfatta da un tentativo di dare un’idea sia pur vaga di come intervengano i numeri primi nella crittografia. Niente da fare. Questo aspetto resta per il lettore un assoluto mistero. Insomma, un’intera pagina di giornale per trasmettere un paio di idee sbagliate assortite di una serie di parole incomprensibili.

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5. La storia della scienza splatter Nel gennaio 1996 La Rivista dei Libri pubblicò un articolo-recensione di Piergiorgio Odifreddi di una biografia di [182] John von Neumann scritta da A. Millán Gasca e da me. Il titolo era “John von Neumann. L’apprendista stregone”. L’articolo, in realtà, non parlava affatto del contenuto del libro ma ne prendeva spunto per raccontare a suo modo la vita di von Neumann. Esiste una letteratura-gossip che accredita l’immagine di un von Neumann mondano e festaiolo, forse anche un po’ alcolizzato, che amava guidare (e sfasciare) macchine a folle velocità, maniaco sessuale. Tutti questi racconti hanno scarsa attendibilità e sono stati ampiamente contestati da familiari e amici, in quanto dettati da antipatie politiche. Nel nostro libro mettevamo in guardia contro queste leggende alimentate ad arte e cercavamo di attenerci a quanto era provato e attendibile. Odifreddi avrebbe fatto bene a leggere il libro e invece, ha ripreso tutti i pettegolezzi più incontrollati, caricandoli fino al parossismo. È chiaro che le divisioni della Guerra fredda hanno condizionato l’immagine che molti hanno dato di von Neumann. Si dice che dietro il dottor Stranamore dell’omonimo film di Stanley Kubrick vi fosse appunto lui, von Neumann, costretto sulla sedia a rotelle nell’ultimo anno della sua vita da un cancro osseo; o piuttosto si trattava di una miscela di von Neumann e Edward Teller. Che von Neumann abbia collaborato a fabbricare la bomba è indubbio, insieme a tanti altri, come il nostro Enrico Fermi, senza dire di Albert Einstein che, con la sua autorità, indusse il presidente americano ad aprire la via alla sua realizzazione. Erano anni drammatici, anni di guerra calda e poi fredda in cui ci si schierava. Molti si schierarono dalla parte dell’Occidente, altri dalla parte dell’Unione Sovietica, come il fisico italiano Bruno Pontecorvo. I giudizi morali sommari non sono degni di una storiografia 275

seria ma soltanto di una libellistica di parte. Quando poi sono animati da un accanimento pieno di odio, fino al punto di “spiegare” la morte di von Neumann come effetto di una legge del “contrappasso”, ovvero di una sorta di vendetta divina per le colpe da lui commesse, si raggiunge il livello della storiografia splatter. Ancora peggio se il tutto è condito da errori storiografici plateali che mostrano il livello di attendibilità del testo. Ecco un esempio di storiografia della scienza che bisognerebbe evitare. La versione di qui cui riproponiamo alcuni brani è quella riveduta e messa in rete in diversi siti web ed è accompagnata da miei commenti tra parentesi quadre. Fatti e misfatti L’apprendista nacque ebreo ed ungherese a Budapest il 28 dicembre 1903 come Janos Neumann, e lo stregone morì cattolico e statunitense a Washington l'8 febbraio 1957 come John von Neumann (l’ereditario ‘von’ venne assegnato nel 1913 a suo padre per meriti economici dall’imperatore Francesco Giuseppe). La sua conversione al cattolicesimo avvenne in occasione del (primo) matrimonio nel 1930, con la figlia di una bigotta. [La famiglia della prima moglie, Marietta Kövesi, era semplicemente cattolica: perché definire la madre una bigotta?] Di fronte al Senato statunitense descrisse la sua ideologia come “violentemente anticomunista, e molto più militarista della norma”. La sua morte precoce fu l'effetto di un contrappasso, dovuto ad un cancro alle ossa contratto per l’esposizione alle radiazioni dei test atomici di Bikini nel 1946, la cui sicurezza per gli osservatori egli aveva tenacemente difeso. [Non sapevamo che fosse stata dimostrata scientificamente l’esistenza della legge del contrappasso e che sia possibile provare che alcune morti sono dovute al verificarsi di tale legge. Un emerito esempio di razionalismo]. Von Neumann fu un bambino prodigio: a sei anni conversava con il padre in greco antico; a otto conosceva l’analisi; a dieci aveva letto un'intera enciclopedia storica; 276

quando vedeva la madre assorta le chiedeva che cosa stesse calcolando; in bagno si portava due libri, per paura di finire di leggerne uno prima di aver terminato. Da studente, frequentò contemporaneamente le università di Budapest e Berlino, e l'ETH di Zurigo: a ventitré anni era laureato in ingegneria chimica, ed aveva un dottorato in matematica. [La storielle della madre e soprattutto quella del bagno sono molto divertenti soltanto per chi potrebbe divertirsi a mettere in relazione la velocità di lettura di von Neumann con quella delle sue evacuazioni. Forse sarebbe più interessante leggere commenti come quello del suo amico, Eugene Wigner, premio Nobel per la fisica: «Spesso facevamo delle passeggiate ed egli mi parlava di matematica e di teoria degli insiemi e di questo e di quello. Era stupefacente. E gli piaceva parlare di matematica e ci ritornava sopra continuamente e io ascoltavo avidamente. Era inesauribile in queste occasioni nel parlare di teoria degli insiemi, di teoria dei numeri e di altri argomenti matematici. Era davvero meraviglioso. Non pensava mai a tornare a casa […] Era fenomenale anche nel suo desiderio di parlare. […] Soprattutto per aver conosciuto Jancsi von Neumann, mi sono reso conto di quale sia la differenza tra un matematico di primo livello ed uno come me.»] La sua velocità di pensiero e la sua memoria divennero in seguito tanto leggendarie che Hans Bethe (premio Nobel per la fisica nel 1967) si chiese se esse non fossero la prova di appartenenza ad una specie superiore, che sapeva però imitare bene gli umani. In realtà, il sospetto di un'origine marziana era esteso non solo a von Neumann, ma a tutto il resto della banda dei figli della mezzanotte, i coetanei scienziati ebrei ungheresi emigrati che contribuirono a costruire la bomba atomica: Leo Szilard, Edward Teller e Eugene Wigner (premio Nobel per la fisica nel 1963). [Molto raffinato questo mettere insieme, sotto l’etichetta di “banda dei figli della mezzanotte” soltanto una parte di coloro 277

che contribuirono a costruire la bomba (non, ad esempio, Enrico Fermi): gli scienziati “ebrei” ungheresi emigrati.] Benché si vestisse sempre con giacca e cravatta (anche in occasioni improbabili quali le gite a cavallo nel Gran Canyon, o le passeggiate in montagna), gli piaceva dare feste sfavillanti, guidare pericolosamente (spesso leggendo, e a volte schiantandosi contro gli alberi o venendo arrestato), bere e mangiare forte (si diceva di lui che sapesse contare tutto, meno le calorie), dire storielle o battute sporche (tipo “una violenza carnale è un dispiacere fatto con l'intenzione di fare un piacere”), e fissare insistentemente le gambe delle ragazze (tanto che le segretarie di Los Alamos furono costrette a schermare le loro scrivanie con del cartone). Quando si dichiarò alla donna che poi sposò, non seppe andare oltre un romantico: “Io e te potremmo divertirci insieme, visto che ad entrambi piace bere”. Nella vita familiare la sua collaborazione era ovviamente nulla, a parte saper aggiustare istantaneamente le cerniere rotte: una volta dovette portare dell’acqua alla moglie, e fu costretto a domandarle dove si tenevano i bicchieri (nella casa in cui abitavano da diciassette anni). [Tutto questo, come si è detto, è pettegolezzo raccolto qua e là senza il minimo controllo, in particolare le battute sul rapporto con la moglie, con cui risulta invece avesse un ottimo e affettuoso rapporto; e che non era, come il lettore potrebbe chiedere la figlia della “bigotta”, bensì la seconda moglie, l’ebrea ungherese. Klara Dán]. Delirava di interventi ambientali per il controllo climatico, ottenuti ad esempio spargendo coloranti sulle calotte polari per inibire la radiazione solare e far alzare la temperatura globale, anche a fini bellici. Quanto alle armi che invece già esistevano, era favorevole ad un attacco nucleare preventivo contro l'Unione Sovietica, prima che anch’essa ottenesse la bomba. [In realtà von Neumann fu uno dei fondatori della moderna 278

meteorologia scientifica e sosteneva che non era da escludere che si sarebbe potuto pervenire a un controllo globale del clima. Circa tale prospettiva proponeva le seguenti preoccupate considerazioni: « Le terribili possibilità presenti di una guerra nucleare possono aprire la via ad altre possibilità ancor più terribili. Quando diverrà possibile un controllo globale del clima, forse le nostre difficoltà presenti sembreranno semplici. Non dobbiamo illuderci: quando queste possibilità diverranno attuali, saranno sfruttate. Sara quindi necessario sviluppare delle nuove forme politiche e dei procedimenti adeguati.». Altro che i “deliri” attribuitigli in questo articolo.] Logica L’assiomatizzazione delle matematiche, sul modello degli Elementi di Euclide, aveva raggiunto nuovi livelli di rigore e ampiezza alla fine del secolo XIX, in particolare in aritmetica (grazie a Richard Dedekind e Giuseppe Peano) e geometria (grazie a David Hilbert). Agli inizi del secolo XX all'appello mancava però la teoria degli insiemi, la nuova branca della matematica inventata da Georg Cantor, e messa in crisi da Bertrand Russell con la scoperta del suo paradosso (sull'insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi). Il problema di una adeguata assiomatizzazione della teoria degli insiemi fu risolto implicitamente nel giro di vent’anni (grazie a Ernst Zermelo e Abraham Fraenkel) mediante una serie di principî che permettevano di costruire tutti gli insiemi usati nella pratica matematica, ma che non escludevano esplicitamente la possibilità che esistessero insiemi che appartengono a se stessi. Nella sua tesi di dottorato del 1925 von Neumann mostrò come fosse possibile escludere tale possibilità in due modi complementari: l’assioma di fondazione, e la nozione di classe. Con il contributo di von Neumann il sistema assiomatico della teoria degli insiemi divenne pienamente soddisfacente, e la domanda successiva fu se esso fosse anche definitivo, e non ulteriormente migliorabile. Una 279

risposta fortemente negativa venne nel settembre del 1930 dallo storico congresso di Königsberg, in cui Kurt Gödel annunciò il suo famoso primo teorema: gli usuali sistemi assiomatici sono incompleti, nel senso che non possono dimostrare tutte le verità esprimibili nel loro linguaggio. Il risultato era sufficientemente innovativo da confondere allora la maggior parte degli addetti ai lavori, e tuttora la maggior parte dei curiosi. Ma von Neumann, che aveva partecipato al congresso, confermò la sua fama di pensatore istantaneo, ed in meno di un mese era in grado di comunicare a Gödel stesso un'interessante conseguenza del suo teorema: gli usuali sistemi assiomatici non possono dimostrare la propria consistenza. E proprio questa conseguenza che ha più attirato l'attenzione, anche se Gödel la considerò originariamente soltanto una curiosità, e l’aveva comunque notata indipendentemente (per questo motivo il risultato si chiama oggi secondo teorema di Gödel, senza menzioni al nome di von Neumann). [Questa parte è sostanzialmente corretta, a parte alcune affermazioni discutibili: non è corretto dire che l’assiomatica moderna abbia come “modello” quella di Euclide. La nozione euclidea di postulato e quella moderna di assioma sono profondamente diverse, e la diversità passa proprio attraverso lo svuotamento di qualsiasi contenuto concreto che è la caratteristica specifica dell’assiomatica hilbertiana]. Meccanica quantistica Al Congresso Internazionale dei Matematici del 1900 David Hilbert presentò una famosa lista di 23 problemi, considerati centrali per lo sviluppo della matematica del nuovo secolo: il sesto fra essi era l’assiomatizzazione delle teorie fisiche. Fra le nuove teorie fisiche del secolo l’unica che non avesse ancora ricevuto un tale trattamento alla fine degli anni ‘20 era la meccanica quantistica. Essa si trovava anzi in una condizione di crisi dei fondamenti simile a quella della teoria degli insiemi nei primi anni del ‘900, con problemi di natura sia 280

filosofica che tecnica: da un lato il suo non determinismo non era ancora stato ridotto, come proponeva Albert Einstein sul modello della termodinamica nel secolo XIX, ad una spiegazione determinista; dall’altro ne esistevano due formulazioni euristiche equivalenti, dovute ad Werner Heisenberg e Ernst Schrödinger, ma non una formulazione teoretica soddisfacente. Dopo aver completato l’assiomatizzazione della teoria degli insiemi von Neumann affrontò dunque quella della meccanica quantistica. Egli si accorse immediatamente, nel 1926, che un sistema quantistico si poteva considerare come un punto di un cosiddetto spazio di Hilbert, analogo a quello euclideo ma con infinite dimensioni (corrispondenti ai possibili infiniti stati del sistema) invece delle tre usuali: le grandezze fisiche del sistema (ad esempio, posizione e momento) potevano dunque essere rappresentate come particolari operatori agenti su questi spazi. La fisica della meccanica quantistica veniva così ridotta alla matematica degli operatori (lineari hermitiani) su spazi di Hilbert: essa comprendeva come casi speciali le formulazioni di Heisenberg e Schrödinger, e culminò nel 1932 nel classico I fondamenti matematici della meccanica quantistica. A dire il vero all'approcciò di von Neumann, estremamente soddisfacente per i matematici, i fisici finirono per preferire quello introdotto nel 1930 da Paul Dirac ne I principî della meccanica quantistica, benché esso fosse basato su uno strano tipo di funzione (la cosiddetta delta di Dirac), aspramente criticata da von Neumann. La sua trattazione astratta gli permise comunque di affrontare anche il problema del determinismo, e nel libro egli dimostrò un teorema secondo il quale la meccanica quantistica non può essere ricavata per approssimazione statistica da una teoria deterministica del tipo di quelle usate nella meccanica classica. Il risultato di von Neumann inaugurò una linea di ricerca che, passata attraverso il teorema di John Bell del 1964 e gli esperimenti di Alain Aspect del 1982, ha mostrato come la fisica quantistica richieda una nozione di realtà 281

sostanzialmente diversa da quella della fisica classica. In un complementare lavoro del 1936 von Neumann provò (insieme a Garrett Birkhoff) che la meccanica quantistica richiede anche una logica sostanzialmente diversa da quella della fisica classica, mostrando così matematicamente che la rottura col senso comune richiesto dalla fisica dei quanti è sia radicale che irrimediabile. [Anche questo brano è sostanzialmente corretto, anche se talora scritto male: davvero bizzarra l’espressione «il suo non determinismo non era stato ridotto ad una spiegazione determinista»]. Economia Fino agli anni ‘30 l'economia sembrava aver usato molta matematica, ma a sproposito: per dare formulazioni e soluzioni inutilmente precise a problemi che invece erano intrinsecamente vaghi. Essa si trovava nello stato della fisica del XVII secolo, in attesa del linguaggio appropriato per poter esprimere e risolvere i suoi problemi: mentre la fisica lo aveva trovato nel calcolo infinitesimale, von Neumann propose per l’economia la teoria dei giochi e la teoria dell’equilibrio generale. [Qui l’autore mostra di non saperne nulla e pretende di straparlare di cose che non ha avuto voglia di studiare. Fino agli anni trenta l’economia ha usato pochissima (e cattiva) matematica senza riuscire ad ottenere alcuna formulazione chiara e soprattutto nessuna soluzione precisa (né utile né inutile) di problemi che erano intrinsecamente piuttosto chiari… I problemi di esistenza, unicità e stabilità dell’equilibrio economico erano chiari, ma nessuno – né Walras né Pareto né altri – ha saputo darne formulazioni precise e tantomeno ne ha dato soluzioni (Walras pretendeva che un sistema di equazioni non lineari avesse una ed una sola soluzione in quanto il numero di equazioni era uguale al numero delle incognite…). Von Neumann non ha fondato affatto la teoria dell’equilibrio 282

generale che aveva preso corpo già da più di un secolo prima di lui! Anzi, la detestava e mirava a sostituirla con la teoria dei [183] giochi. Insomma, è tutta una storia raccontata a rovescio. ] Il suo primo contributo fu il teorema minimax del 1928: esso stabilisce che in certi giochi a somma zero (in cui cioè la vincita di un giocatore è uguale e contraria alla perdita dell'altro giocatore) e ad informazione perfetta (in cui cioè ogni giocatore conosce esattamente sia le strategie dell'altro giocatore, che le loro conseguenze), esiste una strategia che permette ad entrambi i giocatori di minimizzare le loro massime perdite (da cui il nome minimax). Il teorema minimax venne migliorato ed esteso a più riprese da von Neumann, ad esempio a giochi ad informazione imperfetta o con più di due giocatori, ed il suo lavoro culminò nel 1944 nel classico testo La teoria dei giochi e il comportamento economico (scritto con Oscar Morgenstern). L’interesse duraturo suscitato dalla teoria dei giochi nell'economia è sottolineato dall'assegnazione del premio Nobel nel 1994 a John Harsanyi, John Nash e Reinhard Selten. [L’interesse di von Neumann per la teoria dei giochi è riconducibile soltanto in parte all’interesse per l’economia ed è soprattutto motivato all’interno della stessa teoria dei giochi. Il teorema di minimax non fu propriamente esteso al caso di più giocatori: von Neumann e Morgenstern riducevano i casi di più giocatori a quello di due giocatori introducendo il concetto di coalizione. Quella generalizzazione è piuttosto dovuta a Nash. Peraltro, in una nota a questo brano, l’autore dimostra di non aver chiaro il senso della teoria dei giochi di von Neumann (o Nash): «Per ogni sua possibile strategia, un giocatore considera tutte le possibili strategie dell’avversario, e la massima perdita che potrebbe derivargli; egli gioca poi la strategia per cui tale perdita è minima. Tale strategia, che minimizza la massima perdita, è ottimale per entrambi i giocatori se essi hanno minimax uguali (in valore assoluto) e 283

contrari (in segno): nel caso che tale valore comune sia zero, allora è inutile giocare». In realtà, qui nessuno gioca concretamente nulla, tantomeno gioca il suo minimax, o maximin, indipendentemente dal fatto che essi coincidano. La loro coincidenza indica soltanto che esiste una soluzione “razionale” del gioco in questione: razionale nel senso che costituisce la soluzione migliore possibile per ciascun giocatore compatibilmente con le azioni dell’altro. Si tratta quindi di un puro e semplice teorema di “razionalità” che non indica in alcun modo come giocare. Non a caso vi furono aspri dissensi circa la [184] portata di questo teorema ]. Il secondo contributo di von Neumann fu la soluzione nel 1937 di un problema risalente a Leon Walras nel 1874: l’esistenza di situazioni di equilibrio nei modelli matematici dello sviluppo del mercato, basati sulla domanda e sull'offerta (attraverso prezzi e costi). Egli vide anzitutto che un modello andava espresso mediante disequazioni (come si fa oggi) e non equazioni (come si era fatto fino ad allora), e trovò poi una soluzione applicando un teorema del punto fisso (di Luitzen Brouwer). L'interesse duraturo suscitato dalla teoria dell'equilibrio generale e dalla metodologia dei punti fissi nell'economia è sottolineato dall'assegnazione del premio Nobel nel 1972 a Kenneth Arrow, e nel 1983 a Gerard Debreu. [Di nuovo, parlando di “secondo contributo” si fa credere che entrambi rientrino pienamente nell’economia. Il lavoro del 1937 (che non è del 1937, bensì del 1932, presentato in quell’anno a Princeton) non risolve il problema di Walras, anche se pone le basi per la sua soluzione matematica, che però richiederà non pochi passaggi e, infatti, sarà ottenuta soltanto nel 1954 da Arrow e Debreu. Il problema nella forma posta da Walras verrà risolto in un caso particolare, con tecniche diverse da quelle di von Neumann, nel 1934 da Abraham Wald. Un altro cumulo di imprecisioni].

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Armamenti Nel 1937 von Neumann, appena ricevuta la cittadinanza statunitense, iniziò ad interessarsi di problemi matematici ‘applicati’. Egli divenne rapidamente uno dei maggiori esperti di esplosivi, e si impegnò in un gran numero di consulenze militari, soprattutto per la marina (sembra che egli preferisse incontrarsi con gli ammiragli piuttosto che coi generali perché in mensa i primi bevevano liquori ed i secondi acqua). [Altra barzelletta, recuperata in qualche libro di gossip]. Il suo risultato più famoso nel (o sul) campo fu la scoperta che le bombe di grandi dimensioni sono più devastanti se scoppiano prima di toccare il suolo, a causa dell'effetto addizionale delle onde di detonazione (i media sostennero più semplicemente che von Neumann aveva scoperto che è meglio mancare il bersaglio che colpirlo). L'applicazione più infame del risultato si ebbe il 6 e 9 agosto del 1945, quando le più potenti bombe della storia detonarono sopra il suolo di Hiroshima e Nagasaki, all'altezza calcolata da von Neumann affinché esse producessero il maggior danno aggiuntivo. [Questa di von Neumann che calcola l’altezza che massimizza il numero dei morti è la bufala più sensazionale e vergognosa dell’articolo, al puro scopo di presentare von Neumann come un mostro. Anche se l’autore l’ha copiata da qualche parte, un minimo di rigore avrebbe dovuto imporre di controllarne l’attendibilità prima di propinarla col contorno della condanna morale]. Questo non fu comunque l’unico contributo di von Neumann alla guerra atomica. Dal punto di vista tecnico, ancora più sostanziale fu il suo lavoro sulla cosiddetta lente di implosione, la stratificazione di esplosivi attorno alla massa di plutonio che permette di comprimerla fino ad innescare la reazione a catena. Dal punto di vista politico, egli fece parte del comitato che decise gli obiettivi (la sua prima scelta, la città santa di Kyoto, fu fortunatamente bocciata dal Ministro della 285

Guerra in persona). Secondo il suo stesso direttore Robert Oppenheimer, l'impresa atomica aveva mutato gli scienziati in "distruttori di mondi": il cinico commento di von Neumann fu che "a volte qualcuno confessa una colpa per prendersene il merito". Egli proseguì poi imperterrito e divenne, assieme a Teller, il convinto padrino del successivo progetto di costruzione della bomba all'idrogeno (che fu approvato da Truman nonostante la raccomandazione contraria dell'apposito comitato presieduto da Oppenheimer, il quale pensava che gli scienziati avessero già fatto abbastanza male all'umanità). [Anche qui il racconto è infarcito di leggende]. Informatica La complessità dei calcoli balistici richiesti per le tavole di tiro di armamenti sempre più sofisticati aveva portato, nel 1943, al progetto del calcolatore elettronico ENIAC di Filadelfia. Non appena ne venne a conoscenza, nell’agosto 1944, von Neumann vi si buttò a capofitto: nel giro di quindici giorni dalla sua entrata in scena, il progetto del calcolatore veniva modificato in modo da permettere la memorizzazione interna del programma. La programmazione, che fino ad allora richiedeva una manipolazione diretta ed esterna dei collegamenti, era così ridotta ad un'operazione dello stesso tipo dell'inserimento dei dati, e l'ENIAC diveniva la prima realizzazione della macchina universale inventata da Alan Turing nel 1936: in altre parole, un computer programmabile nel senso moderno del termine. Nel frattempo un nuovo modello di computer, l’EDVAC, era in cantiere, e von Neumann ne assunse la direzione. Nel 1945 egli scrisse un famoso rapporto teorico, che divenne un classico dell'informatica: in esso la struttura della macchina era descritta negli odierni termini di memoria, controllo, input e output. L'effettiva costruzione della macchina andò però a rilento: le maniere di von Neumann, ed in particolare il fatto che egli contrabbandasse sotto il suo nome molte delle innovazioni che erano frutto di lavoro 286

comune, non erano piaciute al resto del gruppo di lavoro dell’EDVAC, che si sfaldò subito dopo la guerra. [Quest’ultima osservazione è un’autentica falsificazione dettata da pura e semplice antipatia. Basterebbe leggere i libri dedicati all’argomento e la sintesi della vicenda che viene esposta, con precisa documentazione nel nostro libro per rendersi conto che le cose stanno precisamente all’opposto e cioè che von Neumann oppose un comportamento di rigore accademico a [185] comportamenti dettati dall’interesse ]. Anche von Neumann se ne andò dal miglior offerente, e cioè all’Istituto di Princeton [Anche questa del “miglior offerente” è mera calunnia: tra le varie istituzioni l’IAS di Princeton era certamente quella che non poteva portare a vantaggi economici, in quanto istituzione di ricerca pura]. Qui egli si dedicò alla progettazione di un nuovo calcolatore, producendo una serie di lavori che portarono alla definizione di quella che oggi è nota come architettura von Neumann: in particolare, la distinzione tra memoria primaria (ROM) e secondaria (RAM), e lo stile di programmazione mediante diagrammi di flusso. Anche questa macchina non fu fortunata: essa fu inaugurata solo nel 1952, con una serie di calcoli per la bomba all'idrogeno, e fu smantellata nel 1957 a causa dell'opposizione dei membri dell'Istituto, che decisero da allora di bandire ogni laboratorio sperimentale. Oltre che per varie applicazioni tecnologiche (dalla matematica alla metereologia), il computer servì a von Neumann anche come spunto per lo studio di una serie di problemi ispirati dall'analogia fra macchina e uomo: la logica del cervello, il rapporto fra l'inaffidabilità dei collegamenti e la loro ridondanza, e il meccanismo della riproduzione. Egli inventò in particolare un modello di macchina (automa cellulare) in grado di autoriprodursi, secondo un meccanismo che risultò poi essere lo stesso di quello biologico in seguito scoperto da James Watson e Francis Crick (premi Nobel per la medicina nel 287

1962). Politica e affari Von Neumann aveva avuto una carriera accademica fulminea come il suo intelletto, ottenendo a ventinove anni una delle prime cinque cattedre del neonato Institute for Advanced Studies di Princeton (un'altra era andata ad Einstein). Egli dovette quindi cercare altri campi per soddisfare le sue ambizioni, e li trovò nella collaborazione (o meglio, nel collaborazionismo) con il complesso militare, politico e industriale: attraverso una frenetica attività di rapporti di consulenza fugaci e proficui (con l'esercito e la CIA da una parte, la Standard Oil, l'IBM e la RAND Corporation dall'altra), egli divenne una vera e propria prostituta della scienza. [Perché mai una collaborazione con l’esercito o con l’industria dovrebbe essere marchiata con il termine infamante di “collaborazionismo” e perché mai fra tanti scienziati che hanno sviluppato simili collaborazioni von Neumann dovrebbe essere la “prostituta della scienza”?] Come presidente del cosiddetto Comitato von Neumann per i missili dapprima, e membro della ristretta Commissione per l'Energia Atomica poi, a partire dal 1953 e fino alla sua morte nel 1957 egli fu lo scienziato con il maggiore potere politico negli Stati Uniti. Attraverso il suo comitato sceneggiò la proliferazione nucleare, lo sviluppo dei missili intercontinentali e sottomarini a testata atomica, e l’equilibrio strategico del terrore (quest'ultimo come applicazione della strategia minimax): in una parola, l’aspetto ‘scientifico’ della politica di guerra fredda che condizionò il mondo occidentale per quarant’anni. Ai suoi avventurismi politici, così come alle sue avventure intellettuali, mise bruscamente fine il cancro alle ossa che lo distrusse nel giro di pochi mesi, costringendolo dapprima a partecipare alle riunioni strategiche sulla sedia a rotelle (scena che ispirò il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick, nel 1963), e poi ad essere guardato a vista da 288

infermieri militari per la paura che potesse rivelare segreti nei suoi deliri. Nel tramonto della vita si riavvicinò a dio, la cui esistenza riteneva probabile “perché essa rende molte cose più facili da spiegare”: non sappiamo se gli passò mai per la mente, velocemente come ogni altro pensiero, che forse la sua stessa precoce morte potesse essere facilmente spiegata come una misericordiosa azione divina verso l’umanità. [Il brano si completa con la legge del “contrappasso” con cui era iniziato. È davvero esilarante che un ateo dichiarato non trovi di meglio che “spiegare” (e “facilmente”) la morte di von Neumann come una misericordiosa azione divina. Ogni commento è superfluo per chi intenda minimamente che cos’è il rispetto per la morte e il rispetto per la storia].

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6. Giocare a scacchi con il computer È da più di dieci anni che il tormentone va avanti: è più intelligente l’uomo o la macchina? Tutto è iniziato quando qualcuno ha ritenuto che fosse trascorsa l’era in cui i computer che giocano a scacchi servivano soltanto da allenatori, da “sparring partners” dei giocatori umani. La IBM realizzò un supercomputer a calcolo parallelo, di nome Deep Blue, ed osò lanciare il guanto di sfida contro il campione in carica, il trentaquattrenne russo Garry Kasparov. Era il 1996 e l’uomo sconfisse il computer, ma soltanto per 4 a 2: per ben due volte la macchina ebbe ragione del campione mondiale. Il computer fu poi reso più potente e nel maggio 1997 la sfida si ripeté e stavolta la macchina vinse. Dopo il match perso, Kasparov disse che talora gli era parso di notare un’intelligenza e una creatività così profonde da non riuscire a comprenderle, a tal punto da insinuare che durante la partita la macchina avesse goduto di un “aiuto” umano. Era esattamente il contrario. Il principale progettista di Deep Blue, Murray Campbell, in una recente intervista, ha affermato che il punto di svolta nella progettazione di un computer capace di giocare a scacchi fu quando «ci si rese conto che, se si lasciano i computer liberi di fare quel che sanno fare meglio – ovvero calcolare quante più varianti possono e quanto più velocemente riescono a farlo – e si lascia perdere la pretesa di tentare di emulare il modo in cui giocano gli umani, si ottiene una performance migliore. E così, da quel momento in poi, si tende a focalizzare i computers, incluso Deep Blue, sulla ricerca di quante più possibili mosse di scacchi nel tempo consentito per il calcolo». Ci si potrebbe fermare qui, perché questa è la corretta descrizione della situazione: intelligenza umana e intelligenza artificiale sono cose assolutamente diverse e incommensurabili. 290

Di più: se si prosegue sulla via indicata da Campbell, il che è perfettamente possibile in ragione del continuo e velocissimo aumento delle memorie di massa e della velocità di calcolo dei calcolatori, non tarderà molto il momento in cui la macchina vincerà sempre e comunque il giocatore umano. Cerchiamo di spiegare perché. La teoria matematica dei giochi affronta da circa un secolo il tema delle situazioni in cui più agenti si confrontano per realizzare i propri fini anche in termini conflittuali, e tra queste situazioni vi sono i giochi in senso stretto o, per meglio dire, i giochi di società. Per questi ultimi la teoria è in grado talvolta di fornire interessanti informazioni. Consideriamo, ad esempio, un semplice gioco: il gioco del tris, in cui due giocatori debbono contrassegnare con una croce o un cerchietto a turno le caselle di un reticolo con tre righe e tre colonne. Vince chi riesce a contrassegnare le caselle di una riga, di una colonna o di una diagonale tutte con croci oppure con cerchi. È facile dimostrare che le partite possibili a tris sono 362.880, anche se quelle significative sono 255.168, in quanto le altre finiscono prima e l’ulteriore apposizione di segni è irrilevante ai fini dell’esito della partita. Le partite che finiscono con una patta (ovvero senza nessun vincitore) sono 46.080, corrispondenti a circa il 18% del totale. Ebbene, è noto che, se nessuno dei due giocatori commette errori plateali e segue elementari regole strategiche volte a impedire all’avversario di mettere in fila tre segni uguali, la partita finirà inevitabilmente con un patta. In altri termini, esiste sempre la possibilità per entrambi di adottare una coppia di strategie (ovvero una sequenza di scelte di dove mettere il proprio segno) che impedisce all’altro di vincere, di modo che si finirà sempre in una partita facente parte di quel 18% di partite che hanno come esito un pareggio. Tutto ciò può essere dimostrato matematicamente in termini rigorosi. La conseguenza è che il tris è un gioco “determinato”, ovvero il cui esito è inevitabile, purché entrambi i giocatori adottino strategie “ottimali”. In altri termini, il tris è un gioco meccanico e privo di interesse per 291

giocatori esperti e può riservare divertimento soltanto per dei bambini o persone disattente o pasticcione. Nel 1913 il celebre matematico tedesco Ernst Zermelo ha dimostrato un teorema analogo per gli scacchi, e cioè ha provato che gli scacchi sono un gioco determinato, nel senso che, se entrambi i giocatori adottano strategie ottimali – che potrebbero definirsi come quelle in cui ogni giocatore contrappone ad ogni mossa dell’altro la miglior risposta possibile – l’esito è assolutamente univoco. C’è però un piccolo dettaglio: il gioco degli scacchi è talmente complicato e il numero delle partite è talmente elevato che un calcolo esplicito, come nel caso del tris, non è possibile. Per cui, non siamo in grado di dire quale sia questo esito “determinato”, ovvero se si tratti della vittoria del bianco, del nero o di una patta. Ma siamo assolutamente certi che esso esiste. Il teorema di Zermelo può essere quindi così enunciato: «nel gioco degli scacchi è possibile una ed una soltanto delle tre seguenti alternative: 1) il bianco possiede almeno una strategia che gli permette comunque di vincere; 2) il nero possiede almeno una strategia che gli permette comunque di vincere; 3) ciascuno dei giocatori possiede almeno una strategia che conduce inevitabilmente a un pareggio». Ripetiamo, tuttavia, che non siamo in grado di dire quale di queste tre alternative sia quella vera. Per poter dare una risposta occorrerebbe saper descrivere tutte le possibili partite e, per ogni mossa, esaminare tutte le varianti di partita e scegliere quella migliore. Non soltanto la mente umana è incapace di un simile calcolo né ne sarà mai capace, ma nessun calcolatore, fino ad oggi, è capace di un simile exploit. È però evidente che la questione si pone soltanto in termini di capacità di calcolo e di memoria: il progresso tecnologico dei calcolatori permette di dire che un simile obbiettivo sarà prima o poi raggiunto, e forse prima che poi, data la velocità esponenziale con cui crescono le memorie di massa dei calcolatori. Quando questo obbiettivo sarà raggiunto qualsiasi calcolatore sarà capace di realizzare la 292

soluzione di Zermelo. La situazione diventerà allora francamente noiosa e priva di interesse. Supponiamo che la soluzione ottimale sia sempre la vittoria del bianco. In tal caso, il massimo cui potrà aspirare un giocatore umano che sfidi il calcolatore sia di giocare con il bianco e di imbroccare la strategia ottimale che lo conduca alla vittoria, mentre se giocherà col nero perderà sempre. Se, invece, la soluzione ottimale è la patta, non potrà sperare altro che in questa e niente più. Se metteremo di fronte due calcolatori a giocare tra di loro, essi verificheranno, in modo sistematicamente noioso, la validità del teorema… In conclusione, anche gli scacchi sono, in linea di principio, un gioco meccanico e privo di interesse. Se vale la pena di giocarli, è soltanto perché non siamo ancora in grado di formalizzarli completamente e di calcolare tutte le possibili varianti. Ma, come si vede, la crescita della potenza di calcolo dei computer, sta restringendo la possibilità di vittoria del giocatore umano. Qui veniamo al punto nodale dal punto di vista interpretativo e di ciò che si deve trasmettere sul piano della divulgazione. Dai tempi della sfida tra Kasparov e Big Blue sentiamo ripetere la stessa solfa da parte di cattivi o ignoranti divulgatori: se il calcolatore riuscirà a vincere sistematicamente l’uomo a scacchi sarebbe “una svolta culturale come l’avvento dell’auto o lo sbarco sulla Luna», «crollerebbe uno degli ultimi miti dell’umanità, la superiorità dell’intelligenza della nostra specie. Ed è probabile che prima o poi la vittoria ci sarà». Si racconta che di Big Blue i suoi inventori hanno detto «È la prima macchina che pensa». E potremmo continuare con la citazione di simili scempiaggini, che potrebbero costituire, casomai, la migliore prova che l’intelligenza umana è davvero un mito… Ma noi abbiamo visto che coloro che hanno progettato Big Blue non si sono sognati di dire queste cose, e hanno detto altro. Campbell ha detto che il calcolatore è efficace 293

e vince quando procede a suo modo, e cioè facendo leva sulla forza bruta dell’elaborazione di calcolo, addirittura 200 milioni di calcoli di varianti al secondo, nel caso di Big Blue, dieci anni fa… Se invece il calcolatore si mette sul piano dell’intelligenza umana, pretendendo di imitare le sue procedure, ovvero il ricorso all’inventiva e all’immaginazione, rischia di buscarle di brutto. Veniamo alle conclusioni. Quel che ci insegna questa storia è che l’intelligenza umana e l’intelligenza meccanica del calcolatore sono profondamente diverse e ogni tentativo di metterle a confronto, stabilire una graduatoria e addirittura parlare di svolte epocali – di calcolatori che “pensano” e hanno un’intelligenza “superiore” – è insensato e ridicolo. Questa è la realtà dei fatti, non un tentativo puerile di difendere la “superiorità” della mente umana. L’uomo sa calcolare, anzi egli possiede una virtù innata in tal senso, ma le sue capacità materiali di calcolo sono limitate sia per la quantità di informazioni che è capace di elaborare sia per la velocità di calcolo. Simulando i meccanismi del calcolo cerebrale l’uomo è riuscito a costruire macchine che svolgono esclusivamente tale compito e, concentrate su di esso, lo svolgono con velocità ed efficacia incomparabilmente superiore: sono protesi di questa nostra funzione cerebrale, come una motocicletta è una una protesi della nostra capacità di correre che ci permette di raggiungere velocità proibite alla nostra conformazione fisica. Ma la mente umana possiede altre capacità che sono basate soprattutto su una funzione inesistente in qualsiasi macchina: l’iniziativa. E, come diceva Karl Popper, l’iniziativa non può essere imitata, altrimenti bisognerebbe descrivere l’iniziativa, il che è un controsenso: se è tale, l’iniziativa non può essere descritta. Nel giocare una partita a scacchi un giocatore umano mette in gioco fattori psicologici non formalizzabili come la “sorpresa”, l’“attesa”, la “difesa” e l’“attacco improvviso”, l’ 294

“inatteso” sacrificio di un pezzo, e così via. Il punto cruciale è che gli scacchi sono un gioco completamente determinato, in cui non esistono fattori che non siano strettamente dipendenti dalle regole del gioco e dalla scelta in un insieme di strategie finito, per quanto enorme. Gli scacchi rappresentano un contesto totalmente artificiale e perfettamente determinato in cui la macchina capace di informazione completa è assoluta dominatrice e l’approccio intuitivo dell’uomo rappresenta un approccio di “supplenza” alla sua incapacità di calcolo completo di tutte le varianti. Nell’ambito di un gioco simile, condotto sul terreno della potenza di calcolo, l’uomo è destinato a soccombere. Ma ciò non dimostra nulla sul piano del confronto di “intelligenze” se non quello che sapevamo già, e da quasi un secolo, sulla base del teorema di Zermelo; e che – possiamo aggiungere – vale certamente per tutti i giochi a informazione perfetta e formalizzabili in termini deterministici. Il discorso cambia completamente quando si passa a giochi in cui intervengono componenti “psicologiche” non formalizzabili se non in termini probabilistici, sulla cui efficacia la discussione è del tutto aperta. Quando poi si passa a situazioni “aperte”, ovvero in cui le varianti possibili non sono calcolabili a priori, ed anzi sono infinite, nel senso che se ne possono aggiungere continuamente di nuove non prevedibili a priori, entriamo in un altro mondo. Tali sono le situazioni in cui il soggetto si muove in un contesto “storico”, ovvero nel tempo reale e irreversibile, in cui nulla si ripresenta più nello stesso modo. Qui le capacità della mente umana in termini di “esperienza” e di “intuizione” rivelano tutte le loro potenzialità. Chi volesse “giocare” a quella che Metastasio chiamava la “tenzone d’amore” calcolando tutte le possibili “varianti” per determinare il comportamento ottimale, rischierebbe di fare la figura del cretino rispetto a chi si muove sulla base dell’intuizione psicologica o anche soltanto 295

dell’enorme esperienza accumulata nella storia, nella tradizione, nella letteratura, nella poesia. E rischierebbe di fare la figura del cretino per un motivo evidente: nel gioco degli scacchi, come in altri giochi consimili, l’obbiettivo è banalmente definito da un criterio di ottimalità – nessun giocatore può desiderare altro che ottenere il risultato quantitativamente migliore – il quale ha una facile traduzione nei termini di un problema matematico. Ma i giochi “umani” sono spesso dettati da motivazioni che non rispondono ai criteri di ottimalità quantitativa e non sono formalizzabili in termini matematici, quantomeno non nel modo evidente in cui lo sono i giochi “artificiali”. Il discorso può essere approfondito e ampliato e da luogo a molte considerazioni su cui possono espressi pareri divergenti. Comunque – e questo è il punto! – l’interesse della questione è affrontarne i nodi autentici e stimolare a ragionare su di essi, anziché fare retorica vieta, sensazionalismo da quattro soldi, assortito da stupidaggini fuorvianti.

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7. Il cervello di Leopardi Debbo ammettere che, di fronte all’esempio che segue, al suo infinito squallore, non riesco a trovare la forza di fare un commento articolato. Lascio giudicare al lettore. Per parte mia, riesco soltanto a pensare ad alcuni titoli, del genere: «come provocare un profondo disgusto e disprezzo per tutto ciò che è scienza formalizzata e quantitativa»; «come indurre un lettore a spegnere il calcolatore e a stendersi sotto un albero con un libro di poesie in mano»; «un esempio di come, sotto una veste “scientifica”, si possano contrabbandare discorsi che, se presentati in modo informale, sarebbero considerati manifestazione di cialtroneria irrazionalistica». Il titolo dell’articolo – pubblicato anch’esso sulla pagina culturale di uno dei principali quotidiani italiani – è «Il cervello nasconde messaggi nei versi dell’ignaro poeta» e afferma che il migliore omaggio a Giacomo Leopardi non l’ha reso qualche storico della letteratura bensì un ingegnere informatico versato anche nella psicologia e nella psicoanalisi che ha applicato al caso del grande poeta la teoria secondo cui i processi inconsci si rivelano nelle struttura anagrammatiche segrete del linguaggio. Si prende il caso della celebre poesia “L’infinito” il cui «nucleo semantico è il rapporto finito-infinito» e in cui «l’intuizione dell’infinito nasce per contrasto dal limite che la siepe pone alla visione arrestando lo sguardo». Guardando bene si scopre una parola “nascosta”: stasi. Si trova nell’espressione «que-STA SIepe», e «trasmette l’idea dell’arresto motorio [e] benché veicolata solo da una parola latente, quest’idea fa sentire la sua influenza in tutto il testo e ne orienta la stessa conclusione». Ma attenti: l’espressione può essere anagrammata in modo diverso, «que-ESTA SIepe», ottenendo così la parola estasi «di pregnanza semantica ancora maggiore». 297

Queste conclusioni sono una «forzatura»? Ma, per carità! Figuratevi che la parola estasi ricorre in un brano dello Zibaldone in cui si parla anche della tendenza dell’uomo all’infinito. Ai comuni mortali tutto ciò sarebbe bastato per dire che Leopardi era particolarmente interessato dal tema dell’infinito. Ma passare attraverso la scoperta della presenza segreta (ovviamente anche all’“ignaro poeta”) delle parole stasi ed estasi, è tutt’altra cosa… «Si aggiunga che questa poesia si conclude con un verso («e il naufragar m’è dolce in questo mare») che trae almeno una parte della sua straordinaria forza evocativa dalla risoluzione dell’eterna tensione in uno stato anticipato proprio da quelle due parole nascoste: estasi e stasi». Infatti, è noto che quando uno affoga, prima entra in una condizione di stasi e poi di estasi. Del resto che si finisca con la morte è ineluttabile, come appare dal fatto che un anagramma di morte, ovvero termo, è celato nel primo verso: «quesT’ERMO colle». Non ci si inganni: la morte è fredda, ma è proprio al contrasto che mirava l’inconscio di Leopardi: «Se si ricorda la dimestichezza che Leopardi aveva col greco (in cui “termo” significa caldo) non può sfuggire il contrasto che l’anagramma instaura fra il freddo della morte e il calore della vita. Questa opposizione, per quanto latente, sovradetermina l’intera poesia, sono a imporre al suo autore, dallo stesso avvio, il ricorso a un aggettivo estremamente raro e ricercato (“ermo”) per definire il colle delle sue contemplazioni». Altrimenti, l’avrebbe chiamato ripido o scarrupato. E d’altra parte, non è difficile trovare tracce del contrasto caldo-freddo, vita-morte in tutto il poema, per esempio nella parola «intermiNATI»: “nato” è il contrario di “morto”, perbacco, e questa parola «dà ulteriori valenze al verso conclusivo (il “dolce naufragar” nell’infinito) in cui si ricompone il contrasto fra la vita e la morte. Se quest’ultima è infatti evocata dal naufragio nel mare dell’infinito, la metafora acquatica richiama anche la “quiete” originaria del liquido ambiente in cui, nell’utero materno, si forma la vita. L’utero è però uno spazio chiuso e limitato. 298

Persiste così l’opposizione: finito = calore e vita; infinito = freddo e morte». Ma il nostro ingegnere è andato molto più in profondità scoprendo che «tutta la poesia è in realtà sovradeterminata da una struttura permutativa basata su anagrammi di cinque lettere. Un puro caso? Difficile crederlo. La probabilità del ricorso casuale di una tal rete di permutazioni è inferiore a una su un miliardo e le poesie (non solo di Leopardi) sono pervase dalle reti anagrammatiche. Abilità del poeta, dunque? Neppure, almeno nel riduttivo significato tecnico del termine. Nulla in realtà permette di pensare a una ricerca deliberata di questi effetti. […] La spiegazione va ricercata in un’altra direzione. In realtà l’analisi delle poesie di Leopardi (assieme a quella delle poesie e delle prose di molti altri autori italiani e stranieri delle più diverse epoche storiche […]) apre dei significativi spiragli sulle straordinarie potenzialità del controllo corticale inconscio». Figuriamoci se non finiva così… Voi, ingenui, credevate che quella poesia fosse il prodotto di quell’uomo, con quella storia, quella cultura, quella sensibilità, ecc. E persino l’autore ha creduto di aver “creato” qualcosa. Non sapeva, il povero illuso, di essere soltanto il veicolo di una macchina corticale inconscia, produttrice di messaggi abilmente anagrammati. E ora, chi fa l’analisi anagrammatica dei testi dell’ingegnere per capire cosa diamine ci sia sotto?

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8. E ora tocca a Keplero Ci rendiamo conto che, di fronte a una nota personalità scientifica, non è facile avere il coraggio di contraddire, criticare o anche soltanto di emettere riserve. Eppure accade che, se quella personalità appartiene alla “parrocchia perdente”, ovvero a quella che non è accreditata come rappresentativa della scienza che conta, il coraggio di dargli addosso si manifesta, eccome. Sarebbe invece prova di serietà, di rigore e di equilibrio assumere una posizione razionale in tutti i casi, ed esercitare sempre e comunque lo spirito critico, invece di farlo funzionare a corrente alternata. Pertanto, vi sono circostanze in cui bisognerebbe quantomeno proporre al lettore gli aspetti critici di un testo o di una tesi, se non altro per esercitare la ragione invece di abituare allo spirito di fazione. Proponiamo un esempio emblematico di una tesi a dir poco scombiccherata e presentata su un noto giornale come se si trattasse di un testo sacro, senza l’ombra di una riserva critica. Una nota Autorità scientifica ha elaborato un programma informatico il quale sarebbe riuscito a “scoprire” da solo nientemeno che la terza legge di Keplero, quella che asserisce che il quadrato del periodo P di rivoluzione di un pianeta è uguale al cubo della sua distanza media D dal Sole; in formule P2 = D3. Non è roba da niente. Ci si sta dicendo che il calcolatore si è mostrato capace di una funzione creativa: nientemeno che di scoprire una legge scientifica. Lo stupore e l’incredulità sono più che legittimi. Chi abbia un minimo di dimestichezza con la storia della scienza sa benissimo che nessuna legge scientifica è stata mai “scoperta” estraendola da un ammasso di dati numerici ottenuti mediante rilevazioni empiriche o esperimenti fatti a caso. E questo per il semplice motivo che, per fornire qualcosa di significativo, la raccolta di dati deve essere orientata da un fine ben preciso. In altri termini, 300

lo scienziato deve avere già in testa un’ipotesi (da convalidare o confutare) circa la legge che sta cercando. Ma il computer non è in grado di fare nulla da solo, se non sulla base di un programma, e quindi viene il dubbio legittimo che il programma contenga già precise indicazioni su dove e come cercare. Vediamo allora che cosa ha fatto il nostro calcolatore sotto la guida dell’Autorità. Ci si dice che è stato dotato di capacità euristiche di ricerca selettiva tra le classi di funzioni che potrebbero regolare il rapporto tra le variabili in gioco. Pertanto, esso ha iniziato col prendere in esame funzioni semplici (lineari), e poi è passato a funzioni più “complesse” per via combinatoria. Come? «Moltiplicando o dividendo coppie di funzioni l’una con l’altra»: le funzioni “semplici” sono quelle generate all’inizio e quelle “complesse” sono quelle generate successivamente. Poi, sono i dati a guidare il programma nella scelta della successiva funzione da saggiare. In altri termini, gli è stata fornita la conoscenza dei dati empirici relativi alle rilevazioni di P e D: mediante questi dati egli sceglie dove indirizzarsi per trovare una funzione “migliore”. In tal modo, il calcolatore origina una classe di funzioni algebriche e «ampliando un po’ l’insieme delle funzioni primitive (per esempio aggiungendo la funzione esponenziale, logaritmica e seno) la classe delle funzioni generali può essere considerevolmente estesa». Nel caso di più variabili, il programma «cambia una variabile indipendente alla volta, e una volta che ha trovato dipendenze condizionali tra piccoli insiemi di variabili, cerca di scoprire gli effetti che si hanno cambiando altre variabili». I dati che gli sono stati forniti sono quelli «effettivamente usati dagli scopritori originali». Per tale via, il programma non ha “scoperto” soltanto la terza legge di Keplero, ma anche altre leggi, come quella di Ohm. Riflettiamo su questa descrizione. Immettere i dati usati dagli “scopritori originali” sul calcolatore non è certamente una grande idea. Non è neppure una trovata sensazionale l’idea di 301

elaborare un programma che conosca alcune funzioni elementari dell’analisi matematica e che venga dotato di algoritmi mediante i quali (combinando e ricombinando nel modo sopra descritto, peraltro assai elementare) costruisca funzioni sempre più complicate. Quel che gli resta da fare è confrontare i dati con le relazioni funzionali man mano costruite e scegliere quella che si accorda meglio con i dati. E questa sarebbe la grande “scoperta”? Su questa base si pensa di poter parlare di “creatività” del calcolatore e della sua capacità di simulare le dimensioni «più importanti» della scoperta scientifica? Riflettiamo ancora. Il programma conosce già le variabili tra cui deve stabilire delle relazioni funzionali. Ovvero sa già che deve confrontare i dati con le possibili relazioni funzionali fra due variabili P e D che sono rispettivamente corrispondenti a due insiemi di dati numerici che gli sono stati forniti. Né potrebbe essere altrimenti, perché esso non può avere la minima idea del “significato” fisico di P e D, ovvero non ha avuto l’“idea” che i parametri rilevanti sono P e D e non una qualsiasi altra coppia o terna o quaterna di parametri caratteristici del moto del pianeta. Questa è una cosa che sapeva soltanto il programmatore, ovvero l’Autorità, che ha preventivamente imbeccato il calcolatore della parte rilevante della faccenda: ovvero dicendogli di giocare con due parametri e con un insieme di dati numerici precostituiti. Il nostro esegue il comando e si mette a giocare, costruendo l’una dopo l’altra una serie di funzioni – seguendo le regole imposte dall’Autorità – e confrontandole con l’ insieme di dati numerici che gli sono stati trasmessi e che sono relativi a P e D. Gira e che ti rigira, guarda caso, “scopre” che l’accordo migliore con i numeri è dato dalla formula P2 = D3, ovvero dalla terza legge di Keplero… Francamente ridicolo. L’aspetto «più importante», il nucleo creativo della scoperta di Keplero non è certamente questo bensì proprio la individuazione di P e D come le variabili significative, Esso è stato frutto di un processo razionale e non 302

di un miracolo. Se le scoperte delle leggi scientifiche si facessero così, allora si potrebbe procedere in questo modo: ad esempio, si potrebbero rilevare tutti giorni alle ore 12 i dati della temperatura media del sole nell’arco di un mese e quelli della pressione arteriosa media degli abitanti di una città e poi si potrebbe lasciare al calcolatore il compito di scoprire una legge scientifica che colleghi questi dati. Lasciamo al lettore di immaginare una miriade di situazioni analoghe, anche le più stravaganti. Chissà che per tale via non si riescano a determinare le leggi scientifiche dell’astrologia o del contrappasso… La scienza ha impiegato duemila anni per “scoprire” la legge di Newton, che asserisce la proporzionalità fra la forza agente su un corpo e l’accelerazione che gli viene impressa. Nella rappresentazione parodistica di cui sopra, si trascura che ciò è avvenuto perché si è fatta astrazione dell’attrito e si è ragionato su una condizione ideale. Ci piacerebbe proprio vedere un calcolatore che, fornito di opportuni dati numerici, si mette a giocare su una serie di possibili relazioni funzionali: f = ma2, f2 = ma, f2 = ma2, ecc., fino a trovare quella giusta. La creatività non è riducibile a una farsa in cui il calcolatore gioca a mosca cieca, non all’aria aperta ma in una stanza chiusa appositamente preparata e contenente l’oggetto da catturare. Essa si manifesta negli enormi sforzi concettuali volti a orientarsi entro il groviglio dei fenomeni per discernere i parametri significativi, poi formulare le relazioni funzionali che li correlano, non attraverso un procedimento casuale ma sulla base di ipotesi fisiche, e infine confrontare queste relazioni con i dati empirici. Questa situazione richiama quella così descritta da Karl Popper: «In un suo celebre intervento, Alan Turing disse: “Ditemi, secondo voi, cosa non è in grado di fare un computer, e ne costruirò uno apposta”. Gli risposi per lettera: “Cosa intende per “ditemi”? Che dovrei forse darle una descrizione? 303

Perché in questo caso sarebbe una sfida banale. È chiaro che quel che va evidentemente evitato è proprio la descrizione. Comunque sia, se c’è una cosa che il computer non ha è l’iniziativa. E non vedo come si possa descrivere l'iniziativa. Quindi la sua sfida è un bluff. Peraltro, qualsiasi bambino, anzi, [186] qualsiasi cucciolo in buona salute, è pieno di iniziativa». Proprio il “ditemi” va evitato, se si vuole convincere che il calcolatore può essere creativo. Invece qui il programma sa già tutto quel che deve fare e gli viene evitata la vera sfida: trovarsi da solo una legge scientifica non nota in un contesto non prefissato. Non pretendiamo di aver chiuso la discussione. Esiste materia di discussione, eccome. Tuttavia, quel che racconta l’Autorità è a dir poco discutibile!... Ci si attenderebbe che esso serva di materia per riflettere, per esercitare la ragione, e non per fare esercizio di fede mistica. È troppo chiedere? Parrebbe di sì. Nella pagina di giornale in cui comparve la sintesi di questa “sensazionale” scoperta campeggiava la foto di Einstein con accanto un enorme E = mc2… Naturalmente, Einstein e la sua formula c’entravano come i famosi cavoli a merenda. Ma il segnale era ben preciso: qui parla la Scienza e pertanto toglietevi il cappello. E come se non bastasse, l’articolo, dal titolo cubitale «Creatività senza miracoli» – quasi non esistesse una terza via fra i miracoli e l’ottuso procedere di un programma informatico – lanciava un proclama tutto ideologico «contro coloro che negano che le macchine possano simulare certe funzioni del pensiero umano». E proseguiva additando al pubblico ludibrio «quei filosofi e scienziati cognitivi che oppongono all'Intelligenza artificiale molti dubbi teorici ma nessuna evidenza empirica». Concedeva, grazia sua, che anche l’Autorità «può essere criticata» ma ammoniva che «è consigliabile rimanere con i piedi ben piantati per terra», 304

perché l’Intelligenza artificiale gode di «enormi conferme», tali da «far impallidire i più seri oppositori». Anche il lettore più disponibile agli argomenti dell’Autorità non potrà non convenire che definire quegli argomenti come “enormi conferme” da far addirittura “impallidire i più seri oppositori” suscita nient’altro che un’incontenibile ilarità. Questa sarebbe una seria divulgazione scientifica atta a sviluppare lo spirito critico e la propensione a condurre analisi pacate quali – ci si dice – convengono alla prassi scientifica? Siamo piuttosto di fronte a una manifestazione di fanatismo. Altro che razionalismo… Ancora una volta vediamo all’opera coloro che – come diceva Truesdell – «prendono come rivelazione divina ciò che “dicono i dottori” e “dicono gli scienziati” e prestano al fanatismo della scienza una credulità superiore a quella del contadino medievale verso il suo parroco».

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9. Matematica dell’amore La matematica è piena di problemi da risolvere, spesso molto difficili. Non è detto che tutti debbano affrontare il compito di risolvere i problemi più ardui. C’è materia per molti, anche per chi non ha capacità eccelse e che può comunque dare un valido contributo a far avanzare l’intero fronte della ricerca, sviluppando tematiche che hanno una funzione di consolidamento delle scoperte principali o un utile ruolo di contorno. C’è però evidentemente qualcuno che, invece di dedicarsi a tale umile funzione, preferisce inventarsi qualche campo di ricerca inedito e “sensazionale” che può attirare l’attenzione dei mezzi d’informazione e magari ottenere persino qualche paginata di giornale. L’importante è non restare al chiuso della matematica pura, ma di buttarsi su qualche “applicazione” particolarmente inaspettata e di forte impatto sul “grande pubblico”. E cosa c’è di più adatto dell’amore e del sesso? Le paginate sulla matematica e l’amore si sprecano (“Equazione amorosa”, “Anche l’amore è una formula matematica”, e così via). Si apre la nuova prospettiva di risolvere una quantità di problemi rivolgendosi al modellista matematico anziché alla veggente o alla fattucchiera. Non è questo un modo per combattere l’“irrazionalismo”? Ecco allora l’equazione che correla il sentimento X provato da A con la reazione Y di B al manifestarsi di tale sentimento. Pensate che l’autore di questa equazione è riuscito persino a dimostrare il detto di Metastasio secondo cui “in tenzone d’amor vince chi fugge». Lo ha applicato al caso di Petrarca: nel Canzoniere, quanto più Petrarca corteggia Laura, tanto più questa gli sfugge, e poi, quando il poeta si stufa e molla la presa, lei torna a illuderlo, per cui lui torna alla carica, e il ciclo ricomincia. C’è da scommettere che l’equazione cambierà le 306

nostre vite introducendo conoscenze ignote. Un conto è sentenziare alla maniera di Metastasio, altro conto è mettere nero su bianco una bella formula, con tutta la sua autorità indiscutibile. C’è un piccolo dettaglio: come diamine si misurano X e Y? Un tempo questi problemi erano cruciali nella scienza ed costituivano una delle massime difficoltà nella matematizzazione dei fenomeni non fisici. Sulla questione della misurabilità dell’utilità, ovvero di quella funzione che dovrebbe descrivere quantitativamente le propensioni e le scelte di un agente economico, sono nate interminabili discussioni e la [187] questione non è mai stata definitivamente chiusa. Ma i nostri scienziati dichiarano di poter «tranquillamente» misurare tutto: il fascino del partner, la lontananza tra gli amati, ecc. Sarebbe interessante conoscere qualcosa circa tali misurazioni, per esempio, le unità di misura. È da immaginare che, nel caso del fascino, si chiamerà “fascinone”. Qualche buontempone potrebbe anche chiedere come si fa a definire il fascino in modo oggettivo, visto che per taluno una persona è attraente mentre per talaltro è repellente. Ma sono domande di cui ci si dovrebbe vergognare. Occorre piuttosto prestar fede cieca alla garanzia offerta che il modello matematico descrive “alla perfezione” la relazione amorosa. «Tanto da non escludere la sua applicazione – visto il successo riscosso dall’uso di modelli matematici nei settori più diversi – come sussidio nella psicoterapia di coppia». Vediamo un esempio concreto di equazione proposta da questi ricercatori. Qui si vuole descrivere l’effetto del “colpo di fulmine” o “innamoramento”, rappresentato dalla variabile I. Secondo i nostri e il loro “divulgatore”, il colpo di fulmine «da un punto di vista fisiologico corrisponde a una tempesta che devasta l’intero organismo: nel giro di pochi minuti gli ormoni impazzano, gli occhi languiscono, il cuore batte forte». I dipende da due variabili: il fascino A emanato dalla persona (ancora considerato come una variabile “oggettiva” e intrinseca 307

della persona) e l’importanza che colui che è in balia dell’innamoramento attribuisce al sex appeal, rappresentata da S. Il “modello” si risolve nell’asserire che I = A·S. In altri termini, quanto più la persona è fascinosa, e quanto più uno attribuisce importanza al sex appeal, tanto più forte è l’innamoramento. Ovviamente, si tratta di una banalità sesquipedale che, se non altro, si presta a una serie di (altrettanto ovvie) considerazioni gustose. Così, se una persona ha pochissimo fascino ma l’oggetto della seduzione è un maniaco sessuale egli si innamorerà comunque, mentre per far innamorare una persona frigida bisognerà mettere in campo un fascino pazzesco. Di più il modello non permette di dire. A parole si potrebbe dire molto di più, ma volete mettere il fascino della formula? Altri “studiosi” hanno proposto formule diverse e più “sofisticate”. Secondo una di queste formule, l’intensità dell’amore L è funzione dell’attrazione fisica A, del piacere psicologico di stare assieme alla persona amata B, del desiderio di intimità C, del bisogno di essere desiderato e accettato D e del timore di perdere la persona amata E. I parametri variano su una scala da 1 a 10 (come i voti a scuola), e fin qui passi, ma essi pesano nell’equazione finale in modo diverso e secondo dei coefficienti numerici il cui valore è giustificabile negli stessi termini in cui lo sono gli oroscopi. Precisamente, l’equazione è: L = (1,7 · A) + (1,5 · B) + (1,5 · C) + (1,5 · D) + (1,3 · E). Come si vede, i coefficienti numerici sono eguali per tutti – che si tratti di un timido o di un “tombeur de femmes” – e ogni termine concorre ad accrescere l’intensità dell’amore. Non vi mettete in testa di chiedere come si misura il valore numerico dei parametri: la scienza è verità e discuterne la serietà è una profanazione. Non basta. Con la matematica si può anche determinare l’età ottimale per sposarsi. Sia indicata questa età con la variabile M ed inoltre siano indicate rispettivamente con X e con 308

Y l’età minima e l’età massima per sposarsi. Allora l’equazione che permetterebbe di calcolare l’età “giusta” per sposarsi è dove e è la base dei logaritmi naturali. L’autore di questa trovata geniale, della quale non viene fornita alcuna giustificazione, suggerisce che l’età minima Y sia 16 e fin qui possiamo seguirlo. Meno convincente è fissare l’età massima X in 60. Come che sia, uno dovrebbe scegliere i propri valori personali per X e per Y e trovare il proprio M. Pare che l’età media in cui occorrerebbe sposarsi risulti 31 per i maschi e 28 per le femmine. Tuttavia, troppi si discostano da tali suggerimenti della scienza. Un educato commentatore ha osservato che se una persona vive nel nord della Scozia può essere indotto a sposare la prima persona che incontra, data la difficoltà di incontrare gente, ma a Londra può essere indotto ad aspettare, dato l’imbarazzo della scelta. A noi sembra che esistano motivi più radicali per gettare nel cestino simili baggianate, ma siamo senza dubbio fuori moda. Peraltro, chi è irrimediabilmente sedotto dal fascino discreto della matematica può trovare modo di raffinare le proprie scelte matrimoniali. Basta informarsi delle ricerche di un altro gruppo di ricercatori polacchi che ha «messo a punto una formula scientifica basata su rigidi calcoli matematici». E meno male che erano rigidi… Lo annuncia un articolo significativamente intitolato «Uomo e donna perfetti esistono: è matematico». Rigidamente matematico, s’intende, e allora chi oserebbe dubitarne? Difatti, «confrontando le misure di 24 finaliste di un concorso di bellezza nazionale con quelle di altre 115 donne particolarmente avvenenti, i ricercatori sono riusciti a racchiudere la bellezza in un’equazione. Valida per entrambi i sessi. Non c’è spazio per la fantasia o per il gusto soggettivo». Insomma, a conti fatti – conti di lunghezze di cosce, di dimensioni dei polpacci, indice di massa corporea e via misurando – se siete uomini dovete tutti sposarvi con Naomi 309

Campbell e, se siete donne, con Christian Bale, il protagonista di “Batman Begins”. Non c’è spazio per la fantasia e per il [188] gusto soggettivo. È la matematica, bellezza.

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10. Frontiere scientifiche dell’amore L’amore è da sempre considerato come l’emblema stesso della fantasia, dell’imprevedibile, di tutti quei moti dell’animo che non possono essere ricondotti al “freddo intelletto”. Non è quindi da stupirsi che si debba provvedere a sparare con tutte le armi e le munizioni della “scienza” contro questo fortilizio dell’“irrazionalità”. La matematica è certo un’arma di importanza primaria. Un giornale ha messo in contrapposizione una frase di Honoré de Balzac – «L’amore è la poesia dei sensi, o è sublime o non esiste» – al crudo asserto «L’amore è una formula matematica», che sarebbe convalidato dalle speculazioni di cui alla sezione precedente. Ma la matematica può non bastare. Meglio sparare anche con i cannoni della chimica. E così alla frase di Emile Verhaeren, secondo cui «Coloro che vivono d’amore vivono d’eterno», bisogna contrapporre la sentenza «L’amore non è eterno», come risulterebbe dalle ricerche di una professoressa di psicologia della Cornell University (USA) secondo cui «l’amore è un cocktail chimico di dopamina, feniletilamina e ossitocina che danno un incredibile senso di felicità che dura appunto al massimo due anni e mezzo». Perciò, se dopo tre anni vi sentite ancora innamorati di qualcuno i casi sono due: o siete degli psicotici oppure avete seri disturbi nell’equilibrio delle dette sostanze chimiche. Né si creda quel che diceva Arrigo Boito, ovvero che «Come ti vidi mi innamorai e tu sorridi perché lo sai»: «il corteggiamento dipende da un gene scoperto da un team di scienziati americani che hanno isolato nel sistema nervoso di un moscerino, la drosofila, scoprendo che da esso dipendono le reazioni sessuali anche durante il corteggiamento fra umani». Difatti, non illudetevi, l’innamoramento è soltanto semplice, duro e crudo sesso. E, infine, bando alle sciocchezze sulle pene d’amore, nello stile di Angelo Poliziano: «Io ti ringrazio amore d’ogni pena e tormento e son contento ormai 311

d’ogni dolore». Macché. «La gelosia è una patologia ossessiva, un vero e proprio disturbo della personalità, come sostengono dei ricercatori australiani». Insomma, l’amore è una malattia, un vero e proprio disordine della neurochimica cerebrale. Questa sensazionale “scoperta” deriverebbe da alcune ricerche dapprima svolte sulle manie “ossessivo-compulsive”, del genere di chi in continuazione si lava le mani o controlla che la porta di casa sia chiusa, nelle quali si evidenzierebbe la carenza di serotonina. Agli autori di queste ricerche – come a tutti i maniaci ossessivocompulsivi delle relazioni tra chimica e stati d’animo o processi mentali – non passa neppure per la mente che il manifestarsi di un determinato stato chimico in una specifica situazione affettiva, emotiva o mentale implica soltanto una probabile correlazione e non dimostra minimamente l’esistenza di un legame di causalità. No, per loro è evidente che il calo di serotonina è “causa” della mania. Così si sono dati a esplorare se vi siano altre situazioni di “squilibrio” emotivo in cui si manifesti un calo di serotonina. È apparso così evidente che uno dei principali imputati è l’amore: non assomiglia, difatti, l’atteggiamento di chi passa ore ed ore a pensare alla persona amata, a scriverle lettere e a darsi a simili follie ossessivocompulsive, a quello di chi si lava le mani ogni due minuti? È evidente, nessun dubbio. Però la scienza non accetta risultati senza averli dimostrati. Ed ecco che vennero ricercati un certo numero di soggetti “ossessionati” da una condizione amorosa, e disponibili a farsi determinare il tasso di serotonina nel sangue. «Risposero appena 17 ragazze e tre giovani maschi. Pochi per uno screening di massa, ma – udite! udite! – abbastanza per provare». Quale lezione di rigore scientifico! Diciassette miseri casi sono pochi per uno screening di massa, ma per “provare” invece no, sono sufficienti… Oltretutto, che vuol dire? Ma passiamo oltre. Quel che conta è che i soggetti volontari avevano il 40% di serotonina in meno dei soggetti «normali». Ne è nato un dilagare di ricerche di cui la stampa ha dato 312

largamente conto. C’è chi ha scoperto che massicce dosi di alcool riducono la serotonina nel cervello e rendono «vulnerabili alla passione». Altri hanno “dimostrato” che coloro che hanno “una versione “corta” del gene che trasporta la serotonina conducono vite particolarmente sexy, sono sessualmente molto attivi, ma anche troppo ansiosi e facili alla depressione». Ammesso, e non concesso, che tutto ciò abbia il benché minimo senso – uno spiritualista potrebbe sostenere, con lo stesso grado di attendibilità, che il tasso di serotonina è soltanto un indicatore, e che è determinato da processi psicologici, a loro volta determinati in parte da fattori esterni – che cosa ce ne facciamo? Distruggiamo la letteratura romanzesca o poetica o la ridicolizziamo in quanto maschera i processi “reali”? Per carità, risponde uno di questi ricercatori. «Spiegare la natura non significa diminuire l’uomo, ma permettergli di vivere meglio. Nel caso dell’amore, se arriviamo a capirne la vera [sic] realtà biologica, potremo liberarci dalle incrostazioni e deformazioni imposte dalla cultura e dalla società e viverlo nella sua pienezza originaria, prepotentemente naturale e umanissima». Ma perché mai la cultura e la società produrrebbero soltanto “incrostazioni” e “deformazioni”? Per quale motivo esisterebbe una naturalità e una “normalità” – quali aberrazioni si celano dietro questa visione di normalità! – che di per sé sono buone e umane, mentre il culturale e il sociale sono perversioni, incrostazioni, deformazioni, da eliminare? In altri termini, l’umanissima pienezza dell’uomo sarebbe la sua nuda natura biologica? Un simile punto di vista implica il carattere fallace, fuorviante, deformante della letteratura e della poesia e quindi la necessità di buttare alle ortiche tutto quanto esse ci hanno detto sull’amore. E che cosa dovremmo fare poi, concretamente? Fare un test mensile (o più frequente?) della serotonina per seguire il processo della nostra condizione amorosa? Per esempio, se 313

rilevassimo un sensibile aumento della medesima, dovremmo avvertire il “partner” che il rapporto è alla fine e che conviene andare dall’avvocato per provvedere a una civile ed efficiente separazione consensuale. Oppure un’altra soluzione potrebbe essere quella di prendersi un periodo di rapporto con un altro partner. Meglio ancora confidare nell’avanzata “scientifica” degli studi biologici, che magari potrebbero fornirci qualche rimedio in pillole con cui prolungare la durata del rapporto: forse «più alti livelli di ossitocina garantiscono maggior durata della relazione affettiva». Ne potrebbero derivare situazioni assai divertenti: uno dei due partner che si droga di ossitocina per restare innamorato, mentre l’altro manipola la serotonina per darsi alla fuga dal rapporto. E se poi avesse ragione lo spiritualista e succede che uno resta disamorato, pur drogandosi di ossitocina, e così patisce una serie di inutili disturbi fisici collaterali?... Tuttavia, stiamo dimenticando che l’amore è stato catalogato nella specie della manie “ossessivo-compulsive” e quindi che rappresenta una rottura della normalità. Per cui, la scelta più naturale non è quella di favorire il calo della serotonina, bensì quella di sopprimere questo fastidioso disturbo. Commenta un giornale: «Cureremo anche il “mal d’amore” con una pillola? È possibile. Man mano che scopriamo che sono i geni a fare di noi quello che siamo, più figli di Darwin che di Freud, una cosmetica del benessere e della felicità sta riempiendo gli scaffali delle nostre farmacie, affollandoli di prodotti che magari non servono a salvarci la vita ma solo a renderla più gradevole e meno tormentata. Nei prossimi venti anni gente sana e normale sarà messa in grado di manipolare i propri stati d’animo senza effetti collaterali. Ci saranno pillole per diventare più affabili e socievoli, o più introversi e contemplativi, a seconda delle esigenze. Forse un giorno potremo anche dosare sulla bilancia quanto amore siamo disposti a tollerare, quando e come: una dose di Prozac, una d Viagra, e via col sesso tranquillo. I nostri accoppiamenti 314

saranno più sereni e meno caotici, o non ci saranno affatto. Di poeti e canzonette avremo sempre meno bisogno». Ma che bel mondo… E come mai alla pillola per diventare meno cretini nessuno pensa mai? Considerando la questione in termini seri, occorre rilevare che siamo di qui fronte a un inquietante intreccio di responsabilità. Da un lato, vi sono ricercatori scientifici che si rendono colpevoli di sviluppare ricerche insensate, ignorando i più elementari principi di che cosa sia una qualsiasi metodologia scientifica, bistrattando le idee più elementari circa il rapporto di causa-effetto, facendo passare per “prova scientifica” quattro “statistiche” scalcinate e prive di senso e assortendo il tutto di considerazioni indegne di una persona minimamente acculturata. Che questo accada, e che esistano anche riviste scientifiche capaci di dar credito a simili “ricerche”, è la manifestazione di un declino della qualità della ricerca scientifica ai tempi nostri. Siamo di fronte a una pletora eccessiva di ricercatori, che spesso non sanno che cosa fare e che cosa inventare per giustificare la loro esistenza in quanto tali e il loro stipendio e che inventano tematiche di ricerca che sono spesso caratterizzate dal fatto di essere particolarmente appetibili dai mezzi d’informazione. Siamo quindi pronti a dire che la responsabilità della stampa e della divulgazione è minore di quella di chi inventa simili “scienze”. Ma il secondo livello di responsabilità non è inesistente ed è tanto più rilevante quanto più il divulgatore è persona qualificata. Il fatto che certi discorsi vengsno a trasmessi sotto l’etichetta della “scienza” non esime da un atteggiamento critico e dall’avanzare quantomeno qualche timida perplessità che verrebbe alla mente anche della persona meno preparata ma semplicemente dotata di buon senso. Tanto meno autorizza a emettere, sempre con il sigillo di garanzia della scienza, assurdità del tipo: «Cerco il maschio maschio. Niente compagni effeminati e mansueti. Le donne preferiscono i machi. Perché a guidarle sono gli ormoni. La scelta cade 315

sull’uomo che può soddisfare meglio il desiderio animalesco. Parola di scienziati». Colpisce che la scienza sia divenuta l’unico lasciapassare mediante il quale si possano dire le cose più triviali e volgari senza essere messi alla berlina dal dominio incontrastato del “politicamente corretto”. La nostra antipatia per il “politicamente corretto” non arriva al punto da rendere accettabile qualsiasi espressione da angiporto, anche se iscritta sullo sfondo dell’immagine del povero Einstein.

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11. A proposito di maschi e femmine Volete leggere articoli dedicati alle prove “scientifiche” della differenza tra uomini e donne? C’è soltanto l’imbarazzo della scelta. Il fatto interessante è che tutte queste ricerche e i commenti con cui vengono riferite e divulgate mirano invariabilmente al medesimo obbiettivo: confermare “scientificamente” una serie di luoghi comuni la cui origine si perde nella notte dei tempi: in particolare quello secondo cui gli uomini sono più portati per le attività intellettuali, le donne sono più intuitive ed emotive, gli uomini sono più razionali e le donne più irrazionali, e via dicendo. Gli esempi, come dicevamo, si sprecano. Secondo quanto ci racconta la stampa, un gruppo di scienziati della Stanford University (Usa) ha pubblicato un articolo sulla rivista dell’Accademia delle scienze statunitense che identifica alcune radicali differenze mentali tra uomini e donne, mediante la tecnica alla moda della risonanza magnetica. I nostri hanno esaminato ben 24 volontari (una cifra che fa onore a chiunque voglia rendere credibile una ricerca scientifica…) proponendo loro 96 immagini di vario tipo, da quelle “neutre”, come un idrante, a quelle impressionanti come un corpo mutilato. Dopo aver registrato le reazioni cerebrali dei soggetti, i medesimi sono stati riconvocati a tre settimane di distanza per osservare le stesse immagini e – sorpresa – le aree cerebrali attivate sono risultate diverse nei due sessi. Le immagini cruente hanno attivato in tutti l’amigdala ma la memorizzazione delle immagini stesse ha provocato l’accensione della parte sinistra dell’amigdala nelle donne e di quella destra negli uomini. Conclusione: le donne sono più attive sul piano emotivo. Se ne deduce che le donne hanno un’«abilità verbale più sviluppata, hanno più connessioni tra le cellule cerebrali, in molte funzioni, tra cui quelle linguistiche, usano entrambi gli emisferi», mentre 317

gli uomini «sono più bravi a risolvere i problemi spaziali e matematici, hanno circa il 4% in più di neuroni e 100 grammi in più di tessuti cerebrali, hano molta più serotonina, il loro parietale inferiore più grande, il che spiega le loro maggiori capacità matematiche, e usano prevalentemente l’emisfero sinistro». Un’altra ricerca sviluppata al Massachusetts Institute of Technology è consistita nel porre una serie di tests ad alcune centinaia di studenti universitari. Le domande erano di questo tipo: posto che una racchetta da ping pong e una pallina costano assieme $ 10,10, mentre la pallina costa $ 1 meno della racchetta, qual è il prezzo della pallina? Un’altra domanda era la seguente: se 5 macchine costruiscono in 5 minuti 5 oggetti, in quanto tempo 100 macchine costruiranno 100 oggetti? Infine: in uno stagno vi sono delle ninfee che raddoppiano la loro superficie ogni giorno e occorreranno 48 giorni per coprire interamente la superficie del lago; in quanti giorni copriranno metà della superficie del lago? Lasciamo da parte il risultato più interessante del test e cioè che soltanto la metà degli studenti delle migliori università americane ha risposto bene ai tre quesiti, mentre la percentuale è scesa al 7 % nel caso di università minori: di questo risultato non importa niente a nessuno. La conclusione più interessante è che i maschi hanno messo in evidenza capacità di lunga maggiori delle donne. Qualche sfacciato potrebbe dire che questo è un titolo di merito, vista la futilità delle questioni poste, che con l’intelligenza vera e propria hanno poco a che fare, e casomai porre domande circa l’intelligenza di coloro che hanno promosso questa “ricerca scientifica”. Ma anche di questo tipo di domande non importa nulla a nessuno. Quel che invece ha interessato è la constatazione che coloro che rispondevano bene erano anche i più propensi ad aspettare un guadagno maggiore differito nel tempo, piuttosto che un guadagno immediato minore, ovvero dei «razionali stimatori del rischio economico». Questa qualità è stata definita come «riflessione cognitiva». Se ne deduce che 318

le donne non sono, in generale, “razionali stimatrici del rischio economico”, preferendo prendere l’“uovo oggi” anziché programmare l’allevamento di una più redditizia “gallina domani”. Insomma, sono esseri irrazionali e incapaci di riflessione cognitiva, in definitiva un un po’ deficienti. E, come se non bastasse, lo “studio” condurrebbe alla conclusione che l’istruzione non serve a colmare questa disparità genetica. L’aspetto allucinante della faccenda è questa emerita assurdità viene presa seriamente in esame nelle procedure di selezione del personale. Tanto più allucinante alla luce delle considerazioni di uno degli “scienziati”: «Il vantaggio pratico è quello di un test rapido, ma lo svantaggio è che da una netta facilitazione agli uomini. Sovrastima, quindi, il successo degli uomini in altri settori intellettuali e sottostima quello delle donne. Simmetricamente, alcuni test oggi in vigore offrono una facilitazione alle donne. Un buon bilanciamento dipenderà da quello che vuole concretamente ottenere chi fa la selezione». Ma allora – scusate la domanda stupida – tanto vale selezionare sulla base di criteri espliciti, anziché fare questo giro tortuoso e ipocrita attraverso test pretesi “scientifici” e che comunque nascondono un’intenzione di scelta predeterminata. Sul piano della ricerca il nostro “scienziato” dice che «sarebbe splendido identificare le aree cerebrali responsabili delle risposte impulsive e quelle, probabilmente distinte, responsabili della riflessione cognitiva ulteriore». “Splendido”… A quale altro fine perverso? Ma lasciamo perdere. Sappiamo bene che questi casi toccano più che la correttezza e la qualità della divulgazione la serietà stessa di una ricerca che si pretende scientifica, anche se sarebbe compito di un divulgatore serio assumere un atteggiamento critico e non scaricare in giro qualsiasi notizia senza provare neppure ad avanzare qualche domanda e suggerire qualche perplessità. Limitiamoci a porre una questione molto generale. Nel gennaio 2005 il presidente della prestigiosa Harvard University, 319

Lawrence H. Summers, osò dire, nel corso di una conferenza, che esistono diversità innate fra uomini e donne che spiegherebbero perché poche donne hanno successo nella ricerca scientifica e, in particolare, matematica. Successe il finimondo. Diverse donne presenti alla conferenza uscirono dalla sala, tra cui una biologa presso il Massachusetts Institute of Technology, Nancy Hopkins, che poi dichiarò che trovava scandaloso che tante donne fossero dirette da una persona che pensava cose simili, aggiungendo che se non se fosse andata si sarebbe bruciata. La polemica che si sviluppò assunse toni sempre più aspri e Summers fu messo sotto accusa. Egli si difese dicendo che aveva soltanto riportato punti di vista diffusi nel mondo della ricerca, senza necessariamente condividerli, e anzi che pensava che essi richiedessero un maggiore approfondimento. Alla fine, la posizione di Summers divenne a tal punto insostenibile che egli dovette dimettersi da presidente della Harvard University e fu sostituito da una donna. Questa vicenda è emblematica. Difatti, ancor oggi, chi navighi in rete alla ricerca di informazioni su di essa potrà imbattersi in una massa di insulti nei confronti dell’indegno Summers. In alcuni siti femministi, anche italiani, si trovano espressioni che sconfinano nella volgarità da trivio nei confronti della sua persona e delle idee espresse in quella malaugurata conferenza. Ma allora occorre chiedersi: come mai si continuano a pubblicare articoli – del genere qui appena esemplificati – in cui, sotto veste “scientifica”, vengono proposte le stesse tesi senza che nessuno fiati, protesti, scriva lettere ai giornali chiedendo le dimissioni dell’incauto articolista o magari anche del direttore? Sarà forse perché queste tesi vengono ammantate di “oggettività scientifica”, magari citando qualche prestigioso centro di ricerca? Sarà quindi perché lo scientismo è un passaporto che permette di dire qualsiasi cosa, e di compiere due misfatti insieme: presentare come credibili delle emerite cialtronate e, al contempo, violare i più sacri dogmi del politicamente corretto. 320

Un indizio dei meccanismi che sono coinvolti in questa nerissima pagina della scienza e della cultura scientifica è dato proprio dall’atteggiamento della summenzionata Nancy Hopkins che sedeva a pochi metri da Summers e, dopo aver udito le sue frasi scandalose, chiuse di scatto il computer portatile, indossò il soprabito e prese la porta. Difatti, Hopkins era stata una delle principali autrici di una ricerca promossa nell’ambito del Mit che documentava le discriminazioni nei confronti delle donne. Pur dichiarando di non pretendere di asserire che non vi siano differenze tra uomini e donne, Hopkins sostenne che le donne mostrano effettivamente minori capacità degli uomini sul piano matematico, ma che i test matematici cui vengono sottoposte danno risultati molto migliori se la presenza maschile nella stanza in cui avvengono gli esami è ridotta al minimo… Insomma, Hopkins, da brava biologa obbediente al paradigma genetista-materialista dominante non contestava la sostanza del discorso di Summers, ma recuperava il tanto vituperato fattore sociale per contestare la validità del risultato non con uno dei tanti argomenti seri che potrebbero essere addotti, ma con un’ipotesi che più sciocca non è possibile immaginare e questo per rendere omaggio all’ideologia maschiofobica del femminismo più estremista. Qui la razionalità scientifica esce, più che ammaccata, completamente a pezzi. Compito di una cultura scientifica seria è di non dare credito a una simile accozzaglia di assurdità.

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12. La mappatura delle emozioni Abbiamo visto da quanto precede che il metodo della risonanza magnetica funzionale è diventato un “must” per lo studio di quel che viene chiamata la “mappatura” delle emozioni, dei pensieri e degli stati mentali. Sono centinaia gli studiosi in tutto il mondo che si sono dati a questo genere di ricerche e si stanno creando delle vere e proprie banche dati con le immagini dei cervelli raccolte con la risonanza magnetica funzionale. Come è stato detto autorevolmente la mappatura delle emozioni e degli stati mentali è diventata una vera e propria “industria”. Questo non significa che non si tratti di un’attività seria, utile ed interessante. Come ha osservato Paul [189] Ricœur, in un libro-dialogo con Jean-Pierre Changeux, nessuno può seriamente contestare che, quando penso, qualcosa accada nel mio cervello. Ma di qui a concluderne che i processi fisici che avvengono nel cervello – e che la risonanza magnetica permette di seguire – siano la “causa” dei pensieri e del loro contenuto di significato, ne corre. Affermare questo equivale a stabilire una grossolana identificazione tra “correlazione” e “causalità”, ovvero asserire che se esiste una “correlazione” tra due eventi, allora l’uno è causa dell’altro senza possedere alcuna prova ragionevole di tale fatto. È quasi superfluo dire che si potrebbe sostenere senza difficoltà l’esistenza di un [190] legame di causalità in senso inverso. Trattasi probabilmente di una questione ontologica insolubile e che tale rimarrà non essendo possibile dirimerla sul terreno delle scienze naturali. Ma anche se così fosse e se si volesse assumere come fondamento delle scienze neurologiche un assunto di ontologia materialistica, resterebbero valide le considerazioni svolte nella sezione 5 circa il carattere irrealistico e spropositato di un programma che pretendesse di fornire una ricostruzione 322

dettagliata dei processi di formazione del pensiero a partire dalla dinamica dei processi materiali cerebrali. Dal punto di vista strettamente scientifico sarebbe una pretesa alquanto grottesca e forse non priva di aspetti intrinsecamente [191] contraddittori. Un atteggiamento ragionevole e dotato della moderazione e dell’equilibrio che si dice essere qualità essenziali e caratterizzanti della ricerca scientifica dovrebbe indurre a una presentazione non troppo enfatica dei risultati ottenuti con la risonanza magnetica, senza negare il valore di queste ricerche e il grande interesse che riveste il conoscere con sempre maggiore dettaglio che cosa accade nel cervello mentre pensiamo, ma senza contrabbandarlo come una straordinaria rivoluzione scientifica. Un siffatto atteggiamento lo troviamo in alcune presentazioni. In una di esse, ad esempio, si osserva che la risonanza magnetica permette di rilevare che alcune «aree sono deputate al monitoraggio delle emozioni (proprie e altrui), altre ancora a capire le intenzioni di comunicare. Le corrispondenti passeggiate dei neuroscienziati sulle loro dettagliate mappe cerebrali sono, appunto, di pochi centimetri, qualche volta soltanto millimetri. Rallegriamoci per questi sbalorditivi e ardui progressi, ma non si pensi che, per adesso almeno, si riesca ad andare oltre le pure correlazioni. Quando si individua un’area cerebrale come probabile centro di una specifica attività mentale, ci si ferma lì, o quasi. Perché neuroni situati a pochi centimetri di distanza facciano cose tanto diverse è per ora assai misterioso. Si vedono i rami, ma la logica della foresta ci sfugge». Questa presentazione è molto corretta perché sottolinea due aspetti cruciali: il fatto che tutte queste ricerche non vanno oltre la mera correlazione, senza riuscire ad istituire alcun legame di causalità, e il carattere grossolano e parcellizzato delle mappe cerebrali che possediamo, le quali oltretutto sono troppo poco fini (ritornano qui alla mente le considerazioni di 323

von Neumann riportate nel paragrafo 5). È un esempio significativo perché l’autore non è scettico come noi circa la difficoltà di principio di passare dalle correlazioni ai legami causali, se non altro perché la speranza di ricostruire a livello microscopico elementare tutti i processi cerebrali e determinarne gli effetti è senza speranza. Ma questa differenza è secondaria: siamo in presenza di una divulgazione corretta perché i problemi non vengono taciuti a profitto della retorica scientista. La quale invece dilaga nelle maggior parte delle altre presentazioni, in cui si straparla di «nuova frontiera nello studio del cervello» che apre «prospettive inimmaginabili». E queste prospettive sarebbero nientemeno che la costruzione di una «mappa funzionale cerebrale” che permettebbe di «determinare tutti i legami tra la fisiologia e le manifestazioni della mente» e permetterebbe, di conseguenza, di «curare le patologie della mente» e di «mettere a punto terapie adeguate» anche su base farmacologica. E casomai non foste convinti delle autentiche mediocrità cui può dar luogo questo approccio, sentite questa. La stampa ci annuncia il risultato di una ricerca pubblicata su una “autorevole” rivista scientifica britannica: «Trovati i neuroni politici: così il cervello sceglie tra liberal e conservatori». Secondo lo “scienziato”, nei «rigidi dogmatici» – che poi sarebbero gli individui di destra – la corteccia cingolata anteriore del cervello sarebbe meno reattiva, mentre nel cervello dei «flessibili e aperti all’ambiguità» essa si accende più intensamente, il che sarebbe coerente con la maggiore reattività al cambiamento di questi soggetti. Qui è sufficiente una sola osservazione: un aspetto materiale (il comportamento di certi neuroni) viene messo sullo stesso piano di una caratteristica meramente soggettiva, storica e contingente, come quella di essere liberal o conservatore. In tal modo, le nozioni di liberal e conservatore, in quanto inerenti alla struttura del cervello, 324

diventano delle categorie astoriche, universali e sempre esistite: l’umanità, dai tempi delle caverne ad oggi si sarebbe sempre ripartita in un liberal e conservatori… Non solo: si nasce e si muore liberal o conservatori, come ognuno sa… A meno che i nostri emeriti venditore di fandonie non stiano approntando una cura mediante la quale correggere farmacologicamente o con qualche altro tipo di intervento le propensioni politiche innate. Sorge una domanda: preferirebbero trasformare un liberal in un conservatore o un conservatore in liberal? Immaginiamo che dipenderà dalle specificità della loro corteccia cingolata anteriore. E viene un’altra curiosità: chissà com’erano fatte le cortecce cingolate anteriori di Hitler e di Stalin.

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13. I neuroni dello shopping Questo è un esempio del modo in cui ricerche sperimentali serie e dotate di un’oggettività indiscutibile possano essere utilizzate per dedurre delle conseguenze di carattere metafisico, anzi ontologico che più discutibili non potrebbero essere. Si tratta quindi di una situazione che rientra nella problematica descritta nella sezione precedente. «Bot o azioni? Decidono i neuroni» proclama il titolo dell’articolo di un noto periodico, annunciando che recenti ricerche hanno «scoperto dove sono le cellule che governano le nostre scelte economiche». Un quotidiano, riferendosi alle stesse ricerche, annuncia più prudentemente che sono state scoperte «le cellule che si accendono quando dobbiamo prendere una decisione», ma poi nel testo ci si scatena, affermando che si tratta dei gruppi di neuroni che «ci fanno decidere tra, mettiamo, uno spuntino dolce o salato, un paio di jeans o un pantalone elegante, una svolta a destra o a sinistra». L’esperimento che ha condotto a tali esiti sensazionali viene così divulgato: si è preso in esame un gruppo di scimmie cui sono stati inseriti elettrodi nell’area orbito-frontale e si sono individuate le cellule nervose che si accendono o si spengono a seconda del valore associato a una data offerta di bevande. L’attività di questi neuroni varierebbe proporzionalmente al valore assegnato all’offerta, indipendentemente dal tipo di bevanda scelta. Per esempio, l’attività di uno specifico neurone risulta bassa quando la scimmia beve una goccia di mela oppure tre gocce d’acqua, mentre è tre volte più alta quando prende tre gocce di mela o nove di acqua. Insomma, esisterebbe una correlazione tra il valore quantitativo dell’oggetto e l’intensità dell’attività dei neuroni. «A pesare non è stata solo la predilezione per l’una o l’altra bevanda (quando i bicchieri contenevano lo stesso livello di succo, la scelta è caduta 326

inevitabilmente sul gusto preferito), ma anche il vantaggio derivato dalla dose: per bere di più, insomma le scimmie rinunciavano ai gusti del palato […] nel momento della scelta, i ricercatori hanno visto “illuminarsi” alcune aree del cervello dei primati. Piccoli gruppi di neuroni che si “accendevano” a turno, ciascuno collegato a un tipo specifico di decisione. Come se fossero allenati a valutare, incrociando diversi punti di vista e scale di valore non omogenee, la posta in gioco». Fin qui nulla da dire. Si tratta di ricerche serie e interessanti che appartengono a un filone rispettabile e in piena espansione che descrive sempre più in dettaglio che cosa accade nel nostro cervello quando pensiamo. Insistiamo su questa formulazione: «cosa accade nel nostro cervello quando pensiamo». La quale non può essere trasformata con leggerezza nella formulazione: «come pensa il nostro cervello». Quest’ultima è un ossimoro, come ha efficacemente osservato Paul Ricœur, in pieno accordo con il neuroscienziato Changeux. [192] Con un simile slittamento di formulazione si passa da una distinzione semantica tra attività di pensiero e attività cerebrale, che evita accuratamente di scendere sul terreno ontologico, a un’affermazione pesantemente ontologica: e cioè che il pensiero è esclusivamente attività cerebrale, ovvero prodotto dell’attività materiale dei neuroni. Uno scienziato che si dichiari estraneo a ogni forma di estrapolazione metafisica e di volersi attenere ai fatti positivi e oggettivi non dovrebbe compiere simili slittamenti. Pertanto, è un passaggio del tutto illecito inferire da quegli esperimenti l’ipotesi che «le scelte siano determinate proprio dall’attività di questi neuroni». Non è una cosa seria perché qui si fa uso di un concetto che in ambito scientifico ha un significato molto preciso: “determinazione” significa l’esistenza di un legame di causa a effetto. Ora le situazioni in cui è possibile dimostrare l’esistenza di un legame causale sono molto poche e sono quelle in cui è possibile formulare una “legge scientifica” (deterministica). Per lo più, quel che si riesce 327

a fare è individuare delle “correlazioni” e, come è noto, le correlazioni vanno manipolate con estrema cautela ed è estremamente delicato e periglioso ricavare da un legame di [193] correlazione un legame di causalità. Questo è precisamente il caso in questione, ammesso (e non concesso) che abbia senso trasferire le nozioni di correlazione e causalità sul terreno dei rapporti tra pensiero e cervello, come se si trattasse di sfere della stessa natura. Pertanto, chi ha detto che le ricerche di cui sopra, toccando «eterni quesiti della filosofia, come quello sull’esistenza del libro arbitrio» e «svelando i segreti della nostra materia grigia», potrebbero «rivoluzionare secoli di dibattito su volontà e libero arbitrio» sta facendo soltanto del sensazionalismo da fiera di paese. Molte altre osservazioni potrebbero essere fatte per mettere in luce le tante facce negative del sensazionalismo accesosi attorno a queste ricerche. Si potrebbe osservare che siamo di fronte a esperienze che riguardano reazioni istintive elementari, quasi primitive e che indurre da queste esperienze conclusioni circa la tematica generale della “scelta” soggettiva è un passaggio a dir poco ardito. Pertanto, parlare di “neuroni del decision-making” è alquanto avventato. I processi decisionali coinvolgono valutazioni che riguardano una quantità di aspetti “immateriali” anche nel caso di oggetti puramente materiali. Per cui, asserire che da queste ricerche potrebbe dedursi che il processo di scelta economica sia una scelta tra beni materiali piuttosto che tra azioni è un passo nel vuoto, privo di fondamento. Va osservato inoltre che trattasi di un tipo di ricerche che ricade nella sfera di quella che viene chiamata la “neuroeconomia”. In questo contesto uno dei contributi consisterebbe nell’aver mostrato che le funzioni di utilità che rappresentano nella teoria economica neoclassica i comportamenti soggettivi di scelta sarebbero già iscritte materialmente nella struttura neuronale del cervello. Ma ancora 328

una volta questo è un passo metafisico indebito e, per di più, basato su una grossolana circolarità. La nozione delle funzioni di utilità è sorta come tentativo di rappresentazione in termini quantitativi e matematici delle preferenze individuali. Se tale rappresentazione ha un minimo di attendibilità non è affatto sorprendente – sorprendente sarebbe il contrario – che essa trovi qualche conferma nelle reazioni cerebrali di fronte a beni materiali situati diversamente sulla scala di preferenza. In altri termini, avremmo constatato che l’idea di funzione di utilità ha qualche senso: non è detto che ne abbia molto quando si passi a situazioni appena più complicate dei casi estremamente semplici di cui nelle esperienze in oggetto su animali. Di qui a dire che le funzioni di utilità sono iscritte nella struttura neuronale del cervello ne corre. Non è difficile immaginare che, su tale via, possa “dimostrarsi” che il teorema di Pitagora è iscritto nel nostro cervello. Concludiamo constatando il dilagare di un fenomeno deleterio per la cultura scientifica: e cioè il diffondersi della pessima abitudine per cui proprio coloro che si fanno paladini di una visione “positiva” e “oggettiva” dell’impresa scientifica e attaccano senza quartiere le “fumisterie” filosofiche, sembra abbiano come principale preoccupazione quella di dedurre conseguenze metafisiche dai risultati della ricerca, come se la loro principale motivazione fosse dimostrare la verità del materialismo o del riduzionismo.

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14. Segreti svelati «Svelato il segreto dell’effetto placebo». Secondo la ricerca di un’equipe di un’università statunitense “l’effetto placebo non è suggestione. Prendere una pillola di zucchero credendo che sia un farmaco contro il dolore spinge il cervello a produrre endorfine, le sostanze naturali che aiutano il nostro corpo ad alleviare la sofferenza fisica». Un gruppo di quattordici volontari si è sottoposto a un esperimento: l’iniezione di una soluzione salina nella mascella. Ad alcuni veniva detto che l’iniezione – di per sé dolorosa – conteneva una soluzione antidolorifica. Le reazioni del cervello venivano registrate con un apparecchio Pet e si è constatato che, nei soggetti cui era stata comunicata la falsa informazione che il liquido consisteva di un antidolorifico, i neuroni iniziavano a produrre endorfine. Quindi, il capo dell’équipe avrebbe commentato così il risultato: «Il nostro studio è un altro serio colpo all’idea che l’effetto placebo sia un fenomeno solo psicologico e non anche fisico». Questa frase è evidentemente responsabilità dello scienziato e della sua penosa confusione mentale e non del divulgatore che pure avrebbe dovuto mettere in opera un minimo di spirito critico. Difatti, che l’effetto placebo sia soltanto un fenomeno psicologico e non anche fisico, poteva averlo detto soltanto un imbecille: non consiste, per l’appunto, l’effetto placebo nella soppressione di un fenomeno fisico?... Quindi, che l’annuncio dell’assunzione di un medicamento determinasse dei processi materiali era ovvio, faceva parte della definizione stessa del fenomeno placebo. Ora ci si annuncia che sono stati scoperti alcuni meccanismi di questo fenomeno. Ottimo e interessantissimo risultato. Ma questo non ha come conseguenza che esso sia un fenomeno puramente materiale. Al contrario! Non è forse l’annuncio puramente verbale a produrre conseguente materiali? 330

Non a caso il commentatore osservava che «era in realtà stato intuito da tempo che l’illusione producesse dei cambiamenti concreti nel cervello» e ora sappiamo positivamente che «una sensazione psicologica – l’illusione del beneficio del farmaco – è dunque in grado di scatenare un meccanismo chimico ben misurabile, con il risultato finale che il dolore diminuisce davvero». Un accanito spiritualista si fregherebbe le mani, osservando che si è finalmente dimostrato in modo positivo che una “sensazione psicologica”, ovvero un processo puramente psichico, mentale, è capace di determinare dei processi materiali concreti. Noi non ci addentriamo in queste dispute ontologiche, ma osserviamo che la cupidigia ideologica fa brutti scherzi, conducendo a discorsi che si fanno beffe non soltanto della logica ma persino del buon senso. Tanto è grande la spinta a strumentalizzare la ricerca alla dimostrazione di un’ontologia materialista. E tanto è grande questa spinta che non ci si ferma di fronte alle più ridicole classificazioni delle emozioni in funzione delle sedi cerebrali in cui sarebbero generate o all’identificazione tra i processi che stimolano il piacere per il sesso, il cibo e la droga e quelli che generano sentimenti astratti come quelli di bontà, altruismo o generosità. Un esempio sintomatico di tale materialismo miserevole è il modo con cui taluni parlano in termini “scientifici” del tema della felicità. Si fa riferimento a celebri esperimenti di autostimolazione dei topi in cui si provocava una reazione di piacere attraverso la chiusura di un circuito elettrico contenente elettrodi impiantati nei centri nervosi. I topi apprendevano a premere la levetta che chiudeva il circuito e iniziavano presto a farlo di continuo fino a trascurare il cibo e i rapporti sessuali. Come è stato giustamente osservato questo comportamento mostra che quando gli oggetti reali vengono considerati come semplici mezzi per provocare piacere, essi vengono dimenticati e addirittura aboliti. Il comportamento di quei topi è analogo a 331

quello di chi, non potendo procurarsi piacere nella vita ordinaria, tenta di procurarselo con la droga, fuggendo quindi fuori della realtà. Che vi siano scienziati che considerino questi studi come capaci di illuminare i meccanismi della felicità e chiamino addirittura “circuito della felicità” il circuito elettrico dei topi di cui sopra, la dice lunga sull’idea di felicità cui essi si riferiscono. È un’idea che è soltanto una triste ombra della felicità autentica. È la felicità della droga e della fuga dalla realtà. A tanto conduce il riduzionismo materialistico. E allora perché stupirsi che una persona normale fugga inorridita da questi lidi e sia indotta a contrapporre al mondo della scienza il mondo dell’umanità reale e delle manifestazioni intellettuali ed emotive che ne sono un autentico riflesso?

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15. Gene-for syndrome «Siamo tutti uguali, lo dicono i geni», proclama il titolo di una paginata firmata da un luminare. E il giorno dopo si annuncia che con un test del Dna «sarà possibile dire tutto di un individuo»: «dall’altezza al carattere», tutto risulterà dalla mappa. «Sarà il trionfo delle cure su misura». Tutte le predisposizioni alle malattie verranno conosciute: una conseguenza «rivoluzionaria soprattutto per le sindromi psicologiche o psichiatriche». Insomma, «potremo sapere tutto di noi». Niente da obbiettare, ci mancherebbe altro. Resta soltanto da definire che cosa sia questo “tutto” che sapremo di noi. Davvero tutto, dall’altezza al carattere? Davvero tutto sta scritto nei geni, persino se saremo ipocondriaci o estroversi? Vediamo cosa scriveva un noto biologo francese pochi anni fa: «Si inventò il “programma” genetico, che venne presto assimilato al programma di sviluppo che gli embriologi cercavano di identificare. All’inizio, la denominazione aveva un carattere metaforico, poi vennero dimenticate le virgolette! Si cominciò a credere alla realtà del programma genetico, divenuto per di più programma di sviluppo. Si attribuiva alla cellula dell’embrione, all’uovo fecondato, la proprietà di contenere nel suo genoma la totalità del suo programma di sviluppo. Una cellula della pelle avrebbe eseguito il programma di sviluppo contenuto nel suo genoma, cioè nel suo nucleo, e non avrebbe potuto dividendosi altro che produrre cellule della pelle. Analogamente per tutte le altre cellule differenziate. E quindi, a partire dal nucleo di una cellula della pelle, per quale miracolo questo sarebbe potuto tornare indietro e ritrovare il programma di sviluppo completo iniziale, suscettibile di produrre la totalità dei differenti tipi di cellule differenziate di tutti i tessuti e gli 333

organi? “È impossibile”. Il successo di Dolly mostra che il nucleo già differenziato è “riprogrammato”, come si dice, quando viene trasferito nel citoplasma di un ovulo. Ciò significa che il programma di sviluppo non si trova soltanto nel nucleo e si trova anche nel citoplasma. Il programma di sviluppo non si riduce al genoma. Esso è fatto di interazioni tra i geni ed altri fattori, proteici ed altri, del nucleo e del citoplasma. Le esperienze di clonazione non sono le sole rimettere in discussione il paradigma del “tutto genetico” che domina da alcune decine di anni. Come accade spesso nella storia della scienza, delle esperienze nuove divenute più facilmente realizzabili grazie alle tecniche sviluppate nel quadro di questo paradigma, contribuiscono a mostrarne il limite e a fare [194] emergere nuovi paradigmi». Di questo aspetto – e cioè che il paradigma del “tutto è genetico” non si regge più in piedi – è però difficile trovare traccia nella divulgazione. Al contrario. Perfino le persone più esperte – quelle che in privato sono pronte a ripetere i concetti di cui sopra – si abbandonano con leggerezza e lirismo al ritornello secondo cui con la conoscenza del genoma sapremo tutto di noi, perfino se avremo una depressione a 45 anni o suoneremo il pianoforte. Volete mettere quanto “tira” un discorso del genere – proclamare che ormai la scienza sa tutto ed è onnipotente – piuttosto che mettersi a parlare di “limiti”, di programmi da rivedere, di cose che non si sanno? Ricordo il caso di quell’editore che mi bocciò l’introduzione di un libro perché iniziava dicendo qualcosa del tipo: «Questo libro non pretende di spiegare… ma soltanto di…». «Per amor di Dio!» – esplose – «non bisogna mai metterla in negativo, ma sempre esaltare la positività del contenuto, altrimenti il prodotto non si vende». Sarà pur vero dal punto di vista del “marketing”, ma è difficile sostenere che ciò abbia qualcosa a che fare con l’acquisizione seria di conoscenza. Non a caso, la proposizione acritica e persino volgarmente retorica, del paradigma del “tutto 334

è genetico” ha diffuso idee che la gente considera ovvie, scontate e indiscutibili e che è difficile demolire. La conseguenza più evidente e patologica del dare per scontato il paradigma del “tutto è genetico” è data da quel fenomeno che sulla celebre rivista Science è stata chiamato la “gene-for syndrome”, ovvero la sindrome ossessiva consistente nell’individuare il gene che presiederebbe ad ogni fenomeno. [195] Volete un po’ di esempi per illustrare questa è vera e propria patologia, questo fenomeno di subcultura scientifica? Basta la lettura quotidiana dei giornali e dei periodici. Per parte nostra, ci limiteremo a offrire un ventaglio limitatissimo di esempi tra i più clamorosi. «Avete paura? È tutta colpa di un gene». Sarebbe questa la scoperta di un gruppo internazionale di “ricercatori” facenti capo a un’università spagnola. Questi luminari avrebbero messo a confronto un gruppo di tipi coraggiosi con un gruppo di topi fifoni scoprendo che l’atteggiamento pauroso dei secondi sarebbe una caratteristica del loro Dna, e sarebbe determinato da una specifica regione del genoma localizzata nel cromosoma 5. Di qui la prospettiva di curare la paura con appositi farmaci. A parte la suprema idiozia di questa prospettiva – immaginate che bel risultato privare di paura la gente, così tutti viaggerebbero a duecento orari sulle strade senza il minimo timore… – un ricercatore italiano ha invano criticato la visione “genocentrica” dei colleghi. Niente da fare. La notizia è che la paura è un fatto meramente biologico: «anche l’ansia e la paura si piegano alle ferree leggi della genetica […] e in futuro verranno messi punto nuovi farmaci “ad alta precisione” capaci di colpire al cuore l’origine della paura». C’è da scommettere che ora anche la paura muore di paura. Invano un noto scienziato si ribella alle «spiegazioni scientifiche assurde barattate come vere». Un gruppo di 335

ricercatori inglesi avrebbe identificato il “gene della sfortuna”: esisterebbe «una familiarità per incidenti, disgrazie e grane di vario tipo». Insomma menagrami e iettatori si nasce e quindi appare quanto mai opportuna un’eugenetica della jella: selezionare gli embrioni degli iettatori e prontamente sopprimerli è un dovere morale nei confronti di sé e degli altri. Commenta lo scienziato critico: «Le correlazioni vanno interpretate e non implicano necessariamente un nesso di causa ed effetto: nel nostro caso, non è detto che una particolare tendenza familiare o affinità tra il comportamento di individui apparentati o di gemelli omozigoti dipenda per forza da un gene, si tratti di sfortuna, intelligenza od omossessualità. Paradossalmente, il fatto di vivere in una cultura che avvalora la logica e la scienza può farci cadere in pregiudizi logicoscientifici: semplificare alcune situazioni è aver fede in spiegazioni che sembrano solide in quanto si basano sul rispetto di un ipotetico principio di causa ed effetto. Ma attenzione, spesso quanto appare plausibile a causa della sua logica interna non è necessariamente veritiero». Parole sante. Ma è come tentare di fermare le cascate del Niagara con un dito. Ecco che un altro “luminare” ci spiega che «il gene dell’omosessualità servirà a migliorare l’uomo». Dopo aver precisato che i geni dell’omosessualità non sono stati identificati «c’è evidenza – quale? Bel rigore scientifico… – che la tendenza ad essere omosessuali sia genetica». «Ma com’è che il gene legato all’omosessualità si è diffuso nella popolazione se la loro non è un’attività sessuale che porta a riprodursi? C’è una spiegazione sola: che il gene “gay” sia utile all’evoluzione della specie». Ci rifiutiamo di andar oltre perché, su queste basi, si potrebbe discutere anche dell’utilità del sesso degli angeli per l’evoluzione della specie. È proprio quel che contesta un altro scienziato serio al nostro luminare, in primo luogo rivelando che la ricerca cui si fa riferimento (senza citare nulla) è un modello 336

matematico assolutamente ipotetico che “dimostra” che se un gene dell’omosessualità esistesse, allora potrebbe diffondersi nella popolazione: «si tratta di uno studio matematico basato su assunzioni di cui non c’è la minima evidenza empirica (come usano fare i modelli matematici), del tipo “se gli elefanti avessero le ali, essi forse potrebbero volare”». Il luminare contestato rispose in modo imbarazzato cincischiando. Il guaio è che il suo articolo era comparso a titoli di rilievo occupando mezza pagina di un giornale mentre la risposta era confinata in un trafiletto a caratteri minuscoli nelle lettere al direttore. Cosa è rimasto nelle menti dei lettori? Vi risparmiamo le elucubrazioni di quell’altro luminare che ha scoperto il gene che rende stupidi, il che lascia sperare, in tempi ragionevoli, di rendere tutti intelligenti. Ricordate il celebre episodio di quel signore che gridò al generale de Gaulle: «Mon général, à mort les imbéciles!»? Il generale, con perfetto umorismo rispose: «Vaste programme, monsieur». Ma egli non sapeva che la sua battuta sarebbe stata svuotata di lì a poco: il vasto programma – eliminare gli imbecilli – è ormai a portata di mano. C’è poi la faccenda del gene del dolore. E passi ancora che vi siano persone più soggette di altre a patire il dolore fisico e che si possa fare qualcosa per loro. Ma che esista anche il gene del dolore mentale o spirituale, della sofferenza per amore non ricambiato o per la morte di un defunto, è cosa che lasciamo commentare a chi ha tempo da perdere. Né meriterebbero tanto spazio le ricerche di quegli “scienziati” australiani che avrebbero trovato il gene dell’ansia. Ci limiteremo soltanto a dire che la persona che richiede davvero una cura è colui che pensa che debbano essere soppresse le pene d’amore o che si deve fare in modo che a uno non venga la voglia di farsi un pianto quando muore la mamma. Tempo fa un altro noto luminare scrisse che la nostra epoca conosce sviluppi portentosi che mai si sono visti nella 337

storia della scienza e della filosofia: è come se fossero all’opera simultaneamente decine di Newton, Galileo, Aristotele, Kant, Einstein, Leonardo da Vinci e Cartesio. Vien voglia di dire, come una vecchia pubblicità di Carosello: «Cala, cala Trinchetto!».

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Appendice: una selezione di articoli dell’autore 1. Insegnare senza effetti speciali Per secoli la retorica, come arte dell’esposizione del pensiero, è stata una branca fondamentale della conoscenza. Sebbene, a livello specialistico, vi sia un nuovo interesse per la retorica, nell’accezione comune il termine ha un connotato negativo, quasi spregevole, sinonimo della capacità di vendere fumo per arrosto. La retorica altererebbe la trasmissione onesta e oggettiva dei concetti e andrebbe proscritta nell’istruzione per evitare che l’allievo sia ridotto a subire passivamente le prodezze verbali dell’insegnante. Di qui il discredito della lezione “ex-cathedra” simbolo di un’istruzione retorica e trasmissiva, che uccide la partecipazione attiva del discente. Chi è nostalgico della lezione “ex-cathedra” sarebbe un “laudator temporis acti”, un lodatore del passato. Si tratta di affermazioni “retoriche” nel senso cattivo del termine. L’insegnamento partecipato e che vede l’intervento attivo dell’allievo è vecchio di più di duemila anni – quantomeno fin dall’accademia peripatetica – e non esclude affatto l’utilità delle lezioni “ex-cathedra”. Piuttosto, nell’ansia di compiacere i giovani e accattivarseli – secondo quello stile dei vecchi privi di dignità bene descritto nella Repubblica di Platone – abbiamo trascurato l’importanza di ascoltare. Bisognerebbe leggere nelle scuole e nelle università l’Arte di 339

ascoltare di Plutarco per rammentare che «se è vero che chi gioca a palla impara contemporaneamente a lanciarla e riceverla, nell’uso della parola, invece, il saperla accogliere bene precede il pronunciarla, allo stesso modo in cui concepimento e gravidanza vengono prima del parto» e che occorre apprendere, ascoltando un altro, a evitare di «agitarsi o abbaiare a ogni sua affermazione, e anche se il discorso non è troppo gradito, pazientare e attendere che chi sta dissertando sia arrivato alla conclusione» e poi «guardarsi dall’investirlo subito di obiezioni» ma prima riflettere a fondo. Perciò, il necessario coinvolgimento dell’allievo (più in generale, dell’ascoltatore) nel discorso deve essere preceduto da una presentazione organica e pienamente dispiegata. E ciò significa anche presentare bene, con un’arte del discorso. Non si tratta di un aspetto formale, bensì profondamente sostanziale. Chi presenta bene ha pensato a fondo a come rendere chiari e trasparenti i concetti che vuol comunicare e il dispendio di tempo ed energie che ha posto in quest’opera esprime il rispetto che porta per chi ascolta. Egli non si limita a sciorinare piattamente una serie di concetti per abbandonarli subito alla discussione, ma impegna tutto se stesso in una presentazione convincente, chiara e anche appassionata. Con questa passione trasmette l’importanza che egli attribuisce a quel che dice e sottolinea gli aspetti che lo studio e la riflessione gli hanno fatto ritenere fondamentali. Pertanto l’arte retorica è una componente fondamentale del discorso e dell’insegnamento. Lo sa bene chi abbia avuto un vero maestro, uno di quelli che sanno appassionarti a una materia e sanno stabilire un dialogo autentico, non l’abbaiare fintamente democratico di cui parla Plutarco. Tra le manifestazioni di falsa democrazia va annoverato un certo stile disinvolto di insegnanti che si presentano in aula con l’aria del genio pazzo, trascinando sulle ciabatte jeans sdruciti per propinare sciattamente una filastrocca di nozioni in cui 340

l’arte retorica si riduce a ravvivare l’esposizione con battute umoristiche. Si trascura il fatto che lo stile impresso a un incontro intellettuale ne determina il livello dei contenuti e un certo rigore (non formale) induce a pensare in modo riflessivo e non superficiale. L’introduzione di nuovi e potenti mezzi tecnologici – dall’ormai arcaica lavagna luminosa alle presentazioni multimediali “powerpoint” mediante il calcolatore, fino alle lezioni registrate scaricabili in rete – richiedono un ripensamento delle modalità dell’insegnamento e della comunicazione intellettuale. Da un lato, sarebbe puerile e vano pensare di farne a meno: si rischierebbe di fare come quel mio lontano parente che, proprietario di una ditta di trasporti a cavallo, all’apparire dei camion disse «non dura», e naturalmente fallì. D’altro lato, non bisogna dimenticare che ogni strumento tecnologico non deve diventare il fine bensì essere piegato a un fine, che è quello di comunicare pensieri e concetti. Pertanto l’arte retorica non scompare con i nuovi strumenti ma deve assoggettarli. Purtroppo spesso accade il contrario: insegnanti e conferenzieri (ma anche laureandi) ridotti a bacchette che indicano liste di concetti numerati in una “slide”. L’autore della presentazione scompare: egli legge con gli astanti quanto è scritto nella presentazione. Nessuno gli bada, tutti guardano lo schermo, nella noia mortale di una voce inevitabilmente piatta e anonima. Non c’è pathos partecipativo e la lista della spesa dei concetti perde ogni forza di convincimento. In fondo, non si sa più neppure se chi la presenta l’abbia pensata davvero o l’abbia scopiazzata da qualche parte. Tanto è evidente il rischio della noia e del disinteresse che i programmi informatici offrono una pletora di “animazioni” volte a ravvivare l’attenzione: potrebbe darsi una prova migliore di quanto l’arte retorica sia necessaria? Ma chi usa queste animazioni in modo passivo anziché funzionale ai suoi scopi, ne cade vittima. Ricordo il caso di un 341

conferenziere che ricorse a tutte le animazioni visive e sonore possibili, dal rumore di vetri infranti allo scroscio d’acqua, fino a che dal fondo della sala un sarcastico «troppi effetti speciali!» demolì la conferenza in una risata generale. L’arte retorica è ineliminabile. Tanto vale porre al centro quella autenticamente umana. In quest’ottica un uso molto parco e accuratamente pensato dei mezzi tecnologici può essere efficacissimo: qualche immagine di un personaggio di cui si parla, una citazione importante di un paio di righe al massimo e, quando si vuol concentrare pienamente l’attenzione su quanto si dice, uno sfondo vuoto. Al contrario, chi sostituisce la tecnica retorica con quella formalizzata nel programma informatico riduce se stesso a un imbarazzante burattino di cui non si sa neppure se sia capace di pensare autonomamente. Per questo motivo l’uso delle presentazioni “powerpoint” nelle sedute di laurea andrebbe vietato (con l’eccezione dei materiali contenenti grafica complicata). Quanto a chi crede che le lezioni possano essere sostituite completamente da registrazioni scaricabili in rete, non si rende conto che una lezione (come qualsiasi comunicazione orale) è innanzitutto una relazione tra persone che trae il suo fascino e trova la sua pienezza in un rapporto che deve avere una fisicità, una collocazione spaziotemporale definita. Non rendersi conto di questo e pensare di poter eliminare la relazione interpersonale diretta non può che aprire la strada a forme gravi di degrado intellettuale e culturale. (Il Messaggero, 4 maggio 2009)

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2. La salute totalitaria Si sente dire tante volte la frase che «chi non conosce la storia passata è condannato a riviverla» da averne quasi la nausea. Quantomeno proviamo a conoscerla questa storia passata. Ecco alcune reminiscenze che potranno forse suscitare riflessioni attuali. Negli anni trenta, sull’onda crescente della passione mussoliniana per il tema del miglioramento della “razza italica” un’attenzione particolare si accentrò sugli immigrati, per lo più veneti, che avevano popolato le paludi pontine bonificate. Era la grande occasione – si disse – per sperimentare un miglioramento scientificamente guidato di un gruppo umano che poteva diventare il modello di una nuova razza italica rigenerata. Il mondo scientifico – biologi, antropologi, demografi – si lanciò compatto nell’impresa e si parlò di un «grande laboratorio di biologia umana» che doveva basarsi su un censimento, un’indagine delle caratteristiche somatiche e demografiche degli immigrati. Fu la sagra delle schedature volta a formare un grande archivio delle famiglie. Vi fu il “foglio antropografico” dell’antropologo Sergio Sergi, consistente in un cartoncino contenente (sono parole sue), «brevi note anamnestiche e morfofisiologiche del soggetto, alcuni dati antropometrici e antropografici, tra cui il gruppo sanguigno, le impronte digitali, la fotografia», corredato di una piccola busta, incollata al cartoncino, contenente un campione di capelli. Vi fu la scheda antropometrica o costituzionalista di Corrado Gini, per raccogliere dati sulla costituzione somatica dei genitori. Poi una scheda che descriveva le abitudini alimentari. E, infine, la scheda biotipologica di Nicola Pende, volta a registrare (anche qui sono parole sue) «tutte le caratteristiche somatiche e psichiche, buone e cattive del soggetto, e le sue tendenze 343

ereditarie, e la sua particolare maniera di reagire e di adattarsi all’ambiente cosmico ed all’ambiente sociale e la sua produttività ed i suoi valori, che io classifico in: resistenza vitale generale, attitudini specifiche al lavoro manuale od intellettuale, attitudini specifiche nell’ambito muscolare in genere, valore economico, valore riproduttivo per la specie, valore sociale» Insomma, «la scheda della personalità completa in azione». Tutto il mondo della scienza addosso ai poveri contadini veneti immigrati… In verità, Pende era il più lungimirante, perché la sua schedatura biotipologica mirava a tutto il paese, altro che Bonifica pontina. Essa era concepita come il «registro indispensabile per lo Stato Fascista, perché esso possa in ogni momento conoscere lo stato del bilancio della sua più grande e solida ricchezza, il capitale umano nazionale». E Pende la descriveva così: «La cartella deve contenere l’accertamento completo della personalità psico-fisica normale e sub-morbosa o pre-morbosa, cioé il documento personale del biotipo individuale a scopo di ortogenesi. Tale cartella deve diventare il fondamento dell’allevamento nazionale dell’infante, del fanciullo, dell’adolescente fino all'età adulta; sarà insomma il vero serio documento individuale di identificazione, di salute e di valutazione di un cittadino che, come il cittadino del Regime Fascista, deve essere veramente una cellula produttiva ingranata armonicamente e consensualmente nel complesso cellulare unitario dello Stato Mussoliniano». A parte la retorica fascista finale, la scheda di Pende, nel linguaggio contemporaneo, è un “portfolio”? Ma, si dirà, il “portfolio” odierno è un documento che attesta le prestazioni scolastiche del soggetto e non le sue caratteristiche psicofisiche. In verità, i solerti scienziati fascisti avevano pensato anche a questo. Per esempio, il clinico Banissoni aveva pensato di istituire un libretto personale scolastico “ai fini della valutazione individuale negli impieghi e nel lavoro”. Era un 344

“portfolio” a metà tra la valutazione delle competenze delle abilità (nella terminologia euroburocratica odierna) e la valutazione della personalità psico-fisica. Difatti, Banissoni sosteneva energicamente che la medicina dovesse mettere piede nella scuola – autentico vivaio della nazione – per contribuire in prima linea alla formazione di una generazione sana e forte. Per far questo occorreva che la medicina cambiasse volto e non si occupasse soltanto di malati, ovvero di limitarsi a soccorrere quello che egli chiamava sprezzantemente «l’individualismo egocentrico del malato e del sofferente». Occorreva che si occupasse dei sani, che investisse «le masse di popolo» per preparare generazioni sempre più sane ed efficienti. Una medicina del genere doveva ampliare i suoi interessi all’igiene del corpo e della psiche: non a caso si predicava la necessità di un incremento esponenziale delle cattedre universitarie e scolastiche di psicologia. In particolare, era necessaria una schedatura di massa nelle scuole che doveva raggiungere in pochi anni la cifra vertiginosa di 8-10 milioni di schede. Fermiamoci qui. Si dirà: cosa c’entrano i “portfolio” con le schedature di un regime totalitario? cosa c’entra la medicina fascista “ortogenetica” con l’encomiabile desiderio di soccorrere i disabili? Nulla, apparentemente. Il fascismo aveva un’attenzione particolare per i soggetti “sani” e mirava a individuare i soggetti “difettosi”, nelle intenzioni peggiori per isolarli, nelle migliori per “bonificarli”. L’obbiettivo era eugenetico: migliorare la qualità della razza. E per questo servivano le schedature di massa e l’allargamento della concezione della medicina. Oggi siamo tutti buoni e la nostra principale cura sono i malati. Anzi, siamo talmente buoni che, per aver cura di quante più persone sia possibile, allarghiamo il concetto di malattia a quello di disturbo. Così, ai disabili propriamente detti si aggiungono i dislessici, stimati in tre milioni e mezzo, di cui i bambini, aggiungendovi i Dsa (Disturbi specifici di 345

apprendimento), rappresentano il 5% della popolazione infantile. A questi vanno aggiunti i bambini Ahdh (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, sindrome del bambino agitato) per raggiungere cifre apocalittiche. In realtà, siamo ancora più buoni perché, non volendo considerarli malati, li definiamo “diversi” (i disabili sono diversamente abili), al pari degli immigrati, degli omossessuali e degli ebrei. E poiché la “diversità”, se riferita a una “normalità”, è una cosa brutta, occorre dire che siamo tutti “diversi”. In un gioco di specchi vertiginoso la diversità e la malattia diventano normalità e la normalità diventa diversità o malattia. Naturalmente servono specialisti: di qui l’esigenza di avere sempre più psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, cognitivisti, sociologi, ecc. Dove opereranno costoro? Nel Servizio Sanitario Nazionale, non più ristretto alla misera, piatta, individualistica funzione di curare le malattie, bensì investito del compito globale e sociale di promuovere il benessere e la felicità della popolazione. Questo stato maggiore del benessere viene caricato di tante funzioni – come l’accertamento dello stress negli uffici, mediante stressometro, prescritto per legge, o la diagnosi di Dsa e Ahdh – che non deve soltanto crescere di numero ma avere gli adeguati strumenti di conoscenza. Di qui l’insistente richiesta di “screening” di massa per accertare i vari stati di diversità da registrare scrupolosamente. Così, per esempio, se uno si becca la diagnosi di Dsa se la porta a vita e viene identificato come tale anche quando si presenta quarantenne a un colloquio di lavoro. Censimenti di massa e allargamento del concetto di medicina. Ricorda qualcosa? Vi è qualcosa che sa di totalitario in questa medicalizzazione della società? Per carità, è soltanto “bontà”. Anche Nicola Pende era animato dalle migliori intenzioni quando perseguiva la “bonifica umana razionale”. Di certo, siamo agli antipodi dal motto liberale di John Stuart Mill: «Ciascuno è l’unico autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale». 346

(Il Foglio, 15 maggio 2010)

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3. La cultura non si misura Apprendiamo dal Foglio (6 ottobre) che per gli “stati generali della cultura italiana” del 15 e 16 ottobre Guido Martinotti e Walter Santagata hanno preparato un discorso sul metodo: come misurare la cultura, e perché. Nel libro “La comunicazione della salute” (Cortina), Domenico De Masi sostiene che, nell’odierna società della comunicazione, quest’ultima «esce dal mondo del pressappoco per entrare nell’universo della precisione scientifica». È uno sviluppo che porta a una gestione scientifica della vita dell’uomo e della sua salute, dalla nascita alla morte. Per la verità, lo storico della scienza Alexandre Koyré, che aveva intitolato a quel modo uno dei suoi saggi più celebri, si rivolterebbe nella tomba all’idea che la precisione dalla sfera del mondo fisico possa entrare in quella del mondo della vita. Misurare, misurare, misurare. Ormai è un’ossessione. Non si tratta più soltanto di misurare spazi, tempi, correnti elettriche, campi magnetici, ma di misurare salute, intelligenza, cultura, sentimenti, insomma ogni “qualità” esistente. A dire il vero, uno scienziato degno di questo nome non può che inorridire sentendo parlare di misurazione della cultura o dell’intelligenza. È possibile misurare se esiste un’unità di misura dell’ente in questione. Un secolo fa, il grande scienziato Henri Poincaré e il fondatore della microeconomia Léon Walras scambiarono lettere di importanza cruciale sul tema della misurabilità dell’utilità, ovvero di quella funzione che mira a rappresentare quantitativamente le preferenze di un agente economico. Convennero che l’utilità non è misurabile. Si può dire – osservava Poincaré – che una soddisfazione è più grande di un’altra, perché preferisco l’una all’altra, ma non che una soddisfazione è due volte più grande di un’altra. Questo non 348

vuol dire che una grandezza non misurabile sia esclusa da ogni speculazione matematica. Per esempio la temperatura (prima dell’avvento della termodinamica) era una grandezza non misurabile, definita arbitrariamente con la dilatazione del mercurio. E comunque, «se è possibile dire che la soddisfazione che prova un individuo è maggiore in tale circostanza o in tal altra, non è possibile confrontare le soddisfazioni provate da due individui differenti». La questione dovrebbe essere chiusa. Come disse Poincaré, l’uso della matematica nelle questioni “morali” è lo scandalo della scienza. Le grandezze per cui non può darsi un’unità di misura riconosciuta universalmente possono essere manipolate numericamente ma non sono misurabili. Per esempio, quando attribuisco un voto al compito di uno studente non misuro un bel nulla: non faccio altro che usare numeri per rappresentare in modo sintetico il mio giudizio soggettivo che mai potrà essere “oggettivo” come lo è invece misurare la lunghezza di un tavolo con un metro. Posso al più tentare di essere “equanime”. Ma è proprio la soggettività che disturba coloro che sono ossessionati dall’idea che tutto ciò che esiste al mondo debba essere ridotto a valutazioni oggettive. La loro ambizione è di ricondurre tutto a numeri indiscutibili. E così, prima ancora di aver dimostrato che ciò sia possibile e persino che abbia senso, danno per scontato che ogni aspetto della vita degli uomini possa essere misurato e “valutato oggettivamente”, per poterlo gestire in modo “scientifico”. Valutazione degli studenti, degli insegnanti e della ricerca scientifica, rappresentazione delle capacità individuali con strutture neuronali, gestione delle aziende, della salute delle persone, delle loro caratteristiche fin dalla nascita: tutto potrà e dovrà essere regolato in base a regole scientifiche altrettanto certe e determinate di quelle che governano il moto degli astri. In questa apoteosi panmisuratoria un posto speciale spetta oggi alla “valutazione oggettiva”, libera dal dannato inquinamento della soggettività e del giudizio 349

“arbitrario”. Sarebbe lungo spiegare da dove nasca tutto questo. Molto sinteticamente, la problematica originaria nacque nel settore militare e si sviluppò durante la Seconda Guerra Mondiale. Per esempio, si osservò che le capacità di un pilota da combattimento possono essere stimate con parametri numerici, come il rapporto tra il numero degli obbiettivi colpiti rispetto a quelli assegnati. Nelle forze armate britanniche e statunitensi si introdussero sistemi di punteggio (“assessment”) per valutare le “performance.” Queste metodologie furono riprese negli anni cinquanta dallo psicologo americano David McClelland che elaborò una “teoria delle competenze” al cui centro era una metodologia di assessment che presto si diffuse in ambito aziendale. L’obbiettivo era di rendere “scientifica” la valutazione dei dipendenti ai fini dell’assunzione, degli avanzamenti di carriera, dei premi, dei licenziamenti, ecc. Peraltro il modello di McClelland si rivelò subito di difficile uso, soprattutto perché non si riusciva a definire in modo standard il colloquio di valutazione. Ciononostante, attraverso una serie di correzioni il modello si diffuse sempre di più nelle aziende, investendo anche la problematica delle decisioni di gestione al fine di renderne predicibili gli esiti in modo esatto. Una svolta cruciale avvenne con l’avvento dell’informatica che sembrò poter rendere applicabile su grande scala il modello di competenze. Da tempo ormai è una prassi obbligata nelle aziende definire una tipologia di competenze relative ai vari settori di attività e sviluppare processi di valutazione che richiedono ogni anno un impegno massiccio che spesso sottrae ingenti forze alle attività produttive. Tutto ciò ha prodotto qualcosa che corrisponde alle intenzioni? Da più parti si ammette che non è così. La valutazione aziendale sta diventando sempre più un rito tanto ingombrante quanto inefficiente. La ragione è semplice. La definizione precisa dei vari livelli di competenza si sta rivelando 350

impossibile: basta vedere le tabelle con cui varie aziende definiscono le tipologie per rendersi conto della genericità, vaghezza e arbitrarietà di tali definizioni. La deprecata soggettività è sempre lì, appena nascosta, come la spazzatura sotto il tappeto. Essa si ripropone in modo imbarazzante nelle interpretazioni locali e talora del tutto personali del modello di competenze. Inoltre, sia la tipologia che le interpretazioni sono costruite spesso a tavolino e hanno uno scarso rapporto con la realtà che non soltanto non riescono a imprigionare ma di cui forniscono una parodia. Però la baracca resiste per motivi ideologici – il mito della misurazione oggettiva – per motivi pratici – è la foglia di fico per giustificare “scientificamente” i licenziamenti – e infine perché si è costituita una corporazione di “valutatori” di professione che difende la propria ragione di esistenza a qualsiasi costo. Non soltanto: l’ideologia delle competenze ha espugnato il fortino della ricerca scientifica e dell’istruzione, proponendosi come sostituto “oggettivo” delle valutazioni di merito delle pubblicazioni scientifiche, e delle valutazioni soggettive dei professori, le cui prestazioni, a loro volta, dovrebbero essere valutate con metodi “esatti”. Per queste ultime il criterio dovrebbe essere quello del giudizio del dirigente scolastico “manager”, sommato con la stima numerica della “customer satisfaction”, ovvero del grado di soddisfazione degli “utenti”: famiglie e studenti. All’obbiezione che con questi criteri la via maestra per cavarsela è promuovere tutti, si fanno orecchie da mercante; così come viene ignorata l’osservazione che la deprecata soggettività è stata rimossa come la spazzatura sotto il tappeto, ovvero trasferita al giudizio soggettivo dell’“utente” e del dirigente. Le pubblicazioni scientifiche, a loro volta, non dovrebbero più essere valutate dai colleghi mediante giudizi di merito (“peer review”), bensì mediante i metodi bibliometrici 351

“oggettivi”, fondati sul conteggio del numero di citazioni ottenute. Uno dei parametri chiave è l’Impact Factor della rivista su cui è pubblicato l’articolo: l’IF di una rivista nell’anno N è il rapporto tra il numero di citazioni rilevate in quell’anno di articoli pubblicati nei due anni precedenti diviso per il numero totale degli articoli pubblicati negli stessi anni sulla rivista. Si noti che questa metodologia non è stata né ideata né implementata dalla comunità scientifica bensì da una ditta privata l’ISI (Institute of Scientific Information) fondata nel 1960 da Eugene Garfield e oggi parte della Thomson Reuters Co. Questa azienda, con il suo database, si propone esplicitamente di guidare anche la politica degli acquisti librari e, di fatto, stronca tutte le riviste non anglofone e che non soddisfano i criteri da essa imposti i quali, oltretutto, soffocano nella culla l’emergere di nuovi settori della ricerca. Negli ultimi anni si sta manifestando una rivolta della comunità scientifica contro un andazzo che, come ha osservato il presidente della prestigiosa Society for Applied Mathematics, sta distruggendo l’integrità scientifica: difatti, una volta indicato l’obbiettivo da conseguire, le riviste e i singoli conseguono performance spettacolari semplicemente citandosi a vicenda, anche se gli articoli sono mediocri o addirittura copiati: al contenuto non bada nessuno. Come ha osservato un rapporto della International Mathematical Union e dell’Institute of Mathematical Statistics (le massime autorità mondiali in tema di numeri), si sta sviluppando una “cultura nei numeri” con cui «i decision-makers, incapaci di misurare la qualità la sostituiscono con numeri che possono misurare»: è questo il modo specifico con cui la “spazzatura” della soggettività viene nascosta sotto il tappeto. Come osserva il rapporto, il concetto di citazione non è per niente oggettivo: casomai sarebbe necessaria una sociologia della citazione. Inoltre, il rapporto denuncia gli esiti pazzeschi dell’uso di parametri come l’h-indice – il più grande n per cui uno scienziato ha pubblicato n articoli con n citazioni – che equiparano una persona che ha pubblicato 10 lavori con 10 352

citazioni e una che, oltre a questi, ne ha pubblicati altri 90 con 9 citazioni ciascuno… Non meno imbarazzante è la valutazione “oggettiva” degli apprendimenti scolastici. Poiché si è stati costretti ad ammettere che la conoscenza non è misurabile – ma pare che Martinotti e Santagata abbiano sfidato anche questa evidenza – si è pensato di distinguere tra “conoscenza” e “competenza”, mutuando quest’ultimo concetto dal contesto aziendale e lasciando credere che esso sia, a differenza del primo, misurabile. Per dar senso a questa operazione occorreva stabilire che la competenza (intesa, grosso modo, come la capacità di applicare autonomamente le nozioni apprese) è molto più importante della conoscenza. Allo scopo, si è sviluppata una campagna accanita contro l’insegnamento tradizionale accusato di nozionismo, di “trasmissività” ex-cathedra, di reprimere la creatività dello studente. Inutile dire che si è trattato e si tratta di un grande imbroglio, perché è facile dimostrare che anche nella pedagogia di un secolo fa (e diciamo pure da Socrate in poi) era chiarissima l’idea che un buon insegnamento è quello che permette all’allievo di camminare con le proprie gambe, mentre l’altro è semplicemente un cattivo insegnamento. Ma tant’è: ormai la dicotomia conoscenze-competenze è stata esasperata in modo folle a discapito del primo termine. Il colmo è che, pur di difendersi dalla situazione insostenibile che si è così prodotta, è invalsa l’abitudine di accusare chi vuole introdurre una visione meno manichea di essere responsabile della dicotomia stessa… La chiave per rendere oggettiva la valutazione era la tesi secondo cui le competenze sono misurabili mediante i test. Ma questa tesi è insostenibile per il semplice fatto che non esiste una definizione accettata di competenza di uno studente. Anzi, ne sono state prodotte a centinaia, da quelle “deboli” – come la precedente – a quelle “forti” che includono capacità relazionali e persino affettive. Chi si occupa in modo serio di questi problemi ammette che le definizioni “forti” non si prestano ad 353

alcuna misurazione e che, tutt’al più, con quelle “deboli” si può stimare qualcosa con i test. Ma gli altri proseguono imperterriti vendendo fumo e proponendo il modo specifico per nascondere la “spazzatura” della soggettività sotto il tappeto: far credere che esista una definizione univoca di competenza e che i test ne costituiscano l’unità di misura, anche se è ovvio che la preparazione dei test viene fatta da soggetti con le loro idee, la loro cultura (o incultura) e le loro idiosincrasie. La “certificazione delle competenze” introdotta di recente nelle scuole italiane è l’ultimo capitolo di questa triste saga dell’arbitrio gabellato come oggettività: per convincersene basta leggere uno qualsiasi di questi schemi di certificazione. Tutto ciò significa che non si può “valutare”? Nient’affatto. Il più grande ricatto consiste nel far credere che chi critica questi metodi sia contro la valutazione. In un prossimo capitolo potremmo spiegare cosa si può fare di serio. Per ora concludiamo sottolineando che non quattro scalmanati ma autorità scientifiche di primo piano denunciano un andazzo che rischia di lasciare sul terreno la ricerca scientifica, l’istruzione e, in definitiva, la cultura. (Il Foglio 13 ottobre 2010)

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4. Cosa ci insegna il modello dell’insegnamento della matematica in Finlandia È ormai un luogo comune indicare la Finlandia come un modello di scuola innovativa, di successo e che riesce a conquistare le prime posizioni nelle classifiche internazionali OCSE-PISA, in particolare nella matematica; e quindi come un modello da seguire per avere successo nelle valutazioni. Ma un’analisi più approfondita dimostra che non è tutto oro quel che riluce e che ci si trova di fronte a un esempio che dimostra quanto lo slogan delle “valutazioni oggettive” e della “misurazione delle qualità” sia fondato sulla sabbia. Diverse analisi sviluppate da matematici e studiosi di problemi dell’insegnamento finlandesi (tra cui ricordiamo articoli pubblicati dal 2006 in poi da G. Malaty, E. Pehkonen, [196] O. Martio e altri) mettono in luce una realtà molto diversa da quella dorata che si ricava dal test OCSE-PISA. Come intitola un appello firmato nel 2006 da Kari Astala, professore all’università di Helsinki, e da più di altri duecento professori, [197] «le classifiche Pisa dicono soltanto una verità parziale circa le abilità matematiche dei bambini finlandesi», mentre, di fatto, «le conoscenze matematiche dei nuovi studenti hanno subito un declino drammatico». Del resto, i sondaggi TIMSS del 1999 avevano dato un ben altro risultato, mostrando che gli studenti finlandesi erano sotto la media in geometria e algebra. Secondo Astala e i duecento firmatari dell’appello, questa contraddizione è dovuta al fatto che PISA stima soprattutto la matematica di “tutti i giorni” (la “matematica del cittadino”), semplici calcoli numerici, l’interpretazione di grafici statistici e 355

quasi mai la capacità di calcolare le frazioni, risolvere equazioni anche elementari, fare deduzioni geometriche, calcolare aree e volumi e manipolare espressioni algebriche. In altri termini, PISA non dice nulla circa le effettive competenze matematiche. I matematici K. Tarvainen e S. Kivelä, in un articolo intitolato [198] «Gravi difetti nelle abilità matematiche finlandesi» hanno sottolineato che il tentativo di minimizzare le critiche dell’appello, qualificandolo come espressione di una visione “accademica” o “teorica” è completamente infondato: gran parte dei firmatari dell’appello di Astala sono professori di politecnici o università tecniche e quindi «non insegnano una matematica “accademica”, bensì una matematica richiesta nelle pratiche tecniche e nelle scienze dell’ingegneria». Da parte sua, George Malaty ha osservato con molta franchezza che «in Finlandia sappiamo che non avremmo avuto alcun successo in PISA se i test avessero riguardato la comprensione dei concetti o delle relazioni matematiche». Da più parti è stato severamente osservato che le varie riforme introdotte in Finlandia hanno finito col generare un “oggetto didattico” che con la matematica propriamente detta ha in comune soltanto il nome e che serve a superare bene i test OCSE-PISA ma ha avuto effetti disastrosi sulla cultura matematica diffusa, oltre che su un declino accertato della conoscenza superiore nelle università e nei politecnici. Nel 2006, soltanto il 40% degli studenti provenienti dalle scuole secondarie superiori è riuscito a superare le prove di ammissione di base ai politecnici. «Gli insegnanti dei politecnici su argomenti professionali sono stupefatti per quanto poco gli studenti sappiano maneggiare le espressioni algebriche e risolvere le equazioni. Le abilità matematiche declinanti degli studenti hanno indotto a ridurre il materiale d’insegnamento nei corsi di ingegneria che più poggiano sulla matematica. Questo è un problema serio tenendo conto dell’importanza delle conoscenze ingegneristiche nell’economia e nel welfare della [199] Finlandia». 356

L’insegnamento della matematica in Finlandia ha conosciuto varie riforme. In sintesi: la riforma “New mathematics” implementata dal 1970 al 1980, la “Back-toBasics” (1980-1985), seguita da altre due riforme che hanno prodotto un orientamento sempre più deciso verso un approccio pratico, e cioè verso il “Problem solving” (1985-1990), per finire con la riforma più radicale, “Everyday mathematics” (1990-95). La tendenza è stata quindi verso un approccio concreto ispirato a una visione puramente operativa della matematica, rivolta a scopi pratici e alla “matematica del cittadino”. Inoltre tale approccio ha teso a dare un’importanza crescente al calcolatore, per giunta visto in un senso molto radicale, e cioè non come ausilio bensì come modello di riferimento. Ciò ha condotto, come vedremo, a sostituire le procedure di calcolo codificate nell’aritmetica e nell’algebra con quelle ideate ad hoc per far funzionare la macchina. Sintetizziamo rapidamente le caratteristiche dell’“oggetto didattico” detto “matematica” che queste riforme hanno man mano costruito. In primo luogo, non si fanno quasi più dimostrazioni. L’insegnante si limita a trasmettere i risultati come manuali d’istruzioni senza proporne quasi mai la prova logica. È superfluo dire che questa scelta, oltre a produrre un tipo di insegnamento nozionistico – che soltanto un estremo semplicismo rende accettabile – atrofizza le capacità logicodeduttive dello studente. Inoltre, insegnare la matematica senza dimostrazione è come pretendere di addestrare uno scultore senza mai mettergli in mano uno scalpello. In secondo luogo, la geometria è praticamente sparita dall’insegnamento. Questo è coerente con la scelta di eliminare le dimostrazioni: difatti la geometria elementare senza dimostrazioni non ha senso. Questa sparizione produce un’altra conseguenza molto negativa: l’atrofizzazione delle capacità di intuizione spaziale che sono stimolate in modo decisivo dal 357

pensiero geometrico. Veniamo ora agli effetti dell’esasperata tendenza a vedere la matematica come un insieme di procedure di “problem solving”. Per inchiodare nella testa all’allievo questo approccio, fin dalle elementari le operazioni dell’aritmetica sono introdotte in modo puramente grafico, ovvero strettamente pensate come un procedimento di incolonnamento delle cifre e di applicazione di regole meccaniche. È noto come la tendenza a concepire le operazioni in termini di “incolonnamento” si sia fatta strada anche nell’insegnamento primario in Italia, con effetti pessimi. Difatti, identificare un’operazione con una rappresentazione grafica impedisce di comprenderne il concetto e svilisce il ruolo del calcolo mentale. Ma nella scuola finlandese questa discutibile tendenza è arrivata al punto di escludere il simbolo “=” a favore della lettera “V” che sta per “Vastaus”, in finlandese “Risultato”. L’alunno è chiamato a incolonnare i dati e a scrivere il risultato in un apposito riquadro denotato con il simbolo “V”. Come osservano gli autori citati, alla fine del percorso primario un bambino finlandese non conosce il simbolo e il concetto di uguaglianza e concepisce pertanto ogni espressione matematica come la richiesta di ottenere un “risultato”. La sostituzione del simbolo “=” con quello di “risultato” implica quindi l’identificazione del concetto di “uguaglianza” con quello di risultato. È un approccio puramente operativo che fa pagare un prezzo pesantissimo. È come se fossero cancellati più di duemila anni di matematica e di logica – è come se fossero cancellati dalla storia gli Elementi di Euclide – per tornare allo stadio della matematica pratica, approssimata e puramente operativa dei babilonesi. Con tutto il rispetto per le conquiste di questi ultimi, straordinarie in relazione con i tempi, far fuori il grandioso impianto concettuale della matematica da Euclide in poi non è un progresso, bensì un autentico imbarbarimento. I risultati sono disastrosi. Come racconta 358

Martio, in un test quasi nessuno studente è riuscito a spiegare perché la somma degli angoli di un triangolo sia 180 gradi. In linea generale, quel che resta della geometria viene “spiegato” in classe con esempi materiali, ricorrendo alla carta e alle forbici e senza mai alcun ragionamento concettuale. Viste queste premesse anti-concettuali, era inevitabile che nella scuola finlandese venisse smantellata anche l’algebra. Così, non s’insegnano più le proprietà fondamentali dell’aritmetica: associatività, distributività, commutatività, ecc. Al loro posto viene somministrato un insieme di istruzioni per l’uso detto “Ordine delle operazioni”, chiaramente copiato dalle procedure usate dai computer. Prima occorre calcolare le espressioni tra parentesi, poi moltiplicare, poi dividere, infine sommare o sottrarre da sinistra a destra. Come osserva Malaty, il risultato è che uno studente non è in grado di scrivere correttamente un testo matematico e questo produce problemi gravissimi all’università. Di fatto, l’“Ordine delle operazioni” mette in mora l’algebra. Difatti, non si saprebbe come operare con espressioni del tipo 2x + 3y + 3x + y, visto che non sono date regole per associare e distribuire i termini. Il modo di cavarsela (e di smantellare l’algebra) è il seguente. Dapprima si osserva come l’esperienza suggerisca che la somma di due mele e di tre mele sia cinque mele, ovvero 2mela + 3mela ha come risultato 5mela. Analogamente 2kg + 3kg ha come risultato 5kg e 2metro + 3metro valgono 5metro. Insomma, l’esperienza suggerisce che è possibile sommare grandezze omogenee e quindi in generale calcolare 2x + 3x ottenendo 5x. Dall’esempio pratico si passa all’espressione simbolica, sostituendo alle mele o ai metri l’indeterminata x. Ma, in tal modo, x non è più il simbolo algebrico di un numero bensì il simbolo di un oggetto. Pertanto, immaginando che nell’espressione di partenza x sia una mela e y una banana, se ne conclude che l’espressione 2x + 3y + 3x + y vale 5x + 4y (5mela + 4 banana). Inutile dire che in tal modo l’algebra è completamente distrutta, sostituita da un insieme di procedure pratiche basate su analogie empiriche di 359

valore assai inferiore alle manipolazioni che venivano fatte prima degli Arabi. È importante soffermarsi ancora un poco su questo aspetto perché la diffusione della cosiddetta “didattica per competenze” lascia credere a qualche insegnante che un simile approccio sia accettabile, e anzi valido. Si dice che, anziché proporre tante manipolazioni – passaggi da una parte all’altra del segno “=” che confonderebbero le idee – tanto vale fa constatare che 2mela + 3mela ha come risultato 5mela, per poi invitare lo studente a mettere x al posto di “mela”. Ma occorre ripetere che x non è simbolo di un oggetto, bensì il simbolo di un numero, altrimenti la soluzione dell’equazione 2x = 4 sarebbe mela = 2, il che è un’assurdità totale, come è facile capire. Come si potrebbe giustificare un passaggio come 2x + 2y = 2(x + y) nella logica della didattica finlandese? Occorrerebbe dire, ad esempio che 2mela + 2banana = 2(mela + banana). Ma il concetto di somma di mele e banane (come oggetti!) è privo di senso, mentre l’espressione precedente ha perfettamente senso in quanto x e y sono numeri che simbolizzano la quantità di determinati oggetti – per esempio di mele e banane – non gli oggetti medesimi, che non possono comparire nell’equazione. C’è poco da fare: l’algebra ha un carattere astratto e formale e si può ben sostenere – come fa il celebre matematico René Thom, a nostro avviso a ragione – che dal punto di vista didattico l’algebra non è la giusta porta d’ingresso alla matematica: lo sono la geometria e l’aritmetica. Ma poiché l’algebra è comunque uno strumento fondamentale nella matematica pura e applicata, sia pure in una fase successiva al primo ingresso elementare alla matematica, essa deve essere insegnata come tale, e non sostituendola con qualcosa che ne tradisce l’essenza e introduce un modo di ragionare assurdo. Lo smantellamento della matematica nella scuola finlandese non si ferma qui e investe direttamente anche l’aritmetica. Abbiamo già parlato del modo di pensare le 360

operazioni. Ma il disastro peggiore di tutti è la sostanziale abolizione del concetto di frazione. Difatti, nell’insegnamento finlandese della matematica i numeri sono concepiti soltanto in espressione decimale, e questo per ovvi motivi, in quanto è soltanto in questa forma che possono essere digitati su un calcolatore. Ma questo rappresenta un’autentica catastrofe, perché il concetto di numero non si identifica con la sua espressione decimale che, nella maggior parte dei casi ne rappresenta soltanto un’approssimazione: 1/3 non è la stessa cosa di 0,3333333… La forza incomparabile della matematica sta nel poter manipolare in modo esatto dei numeri dati al di là della loro rappresentazione numerica decimale (per lo più approssimata) ed è questo che permette alla matematica di ottenere formulazioni generali che servono a rappresentare le leggi naturali. Si tratta quindi di qualcosa che ha un valore eminentemente “concreto”: la fisica e le nostre scienze applicate non esisterebbero senza la matematica “esatta”, cui è subordinato il calcolo numerico approssimato. I Greci si attennero alla geometria per perseguire l’ideale di esattezza che non riuscivano a realizzare nei numeri. Ci sono voluti secoli per sviscerare la struttura dei numeri e riuscire a pensare “numeri” come 1/3 al di là della loro approssimazione decimale. Ora si propone nientemeno che cassare tutto questo. Racconta Martio (in Martio 2009) che chi entri oggi in una macelleria finlandese e chieda 3/4 di kg di carne non viene capito: occorre dire 750 grammi, perché nella “matematica del cittadino” le frazioni non esistono. E osserva: «La matematica non riguarda soltanto i professionisti. La matematica è usata sempre di più nelle professioni ordinarie e i problemi connessi sono diversi da quelli dei test PISA. In Finlandia, come in molti altri paesi, il curriculum matematico include concetti e abilità che vi sono stati messi perché qualcuno ha ritenuto che fossero utili. Nella maggior parte dei casi il tempo ha dimostrato che queste abilità speciali non corrispondono più alle richieste della società. L’architettura del curriculum finlandese e le pratiche di 361

insegnamento richiedono considerevoli cambiamenti per venire incontro alla sfida». Come spesso accade, confondendo la concretezza con l’empirismo si distruggono le basi stesse di ciò che rende una scienza come la matematica efficace sul piano concreto. Così l’”Everyday mathematics” rischia di diventare poco utile, salvo per operazioni di livello minimo, come quelle alla cassa del macellaio. Nel 2003 sono state svolte ricerche per valutare gli effetti del curriculum matematico finlandese proponendo a ragazzi di 15-16 anni alcuni test (diversi da quelli OCSE-PISA) che erano stati già proposti nel 1981. Ecco alcuni risultati. Nel 1981 il 95,2% riusciva a calcolare 54: nel 2003 la percentuale era scesa al 90,1%. Ancor più significativo è il fatto che se nel 1981 il 79,0% era in grado di constatare che 0 · 8436 = 0 · 0,536, nel 2003 questo era chiaro soltanto al 65,6%. Il crollo più grave, fino a punte del 20% si è manifestato nelle questioni concernenti i numeri razionali. La moltiplicazione (1/2)·(2/3) che il 56,4% riusciva a fare nel 1981, veniva eseguita correttamente nel 2003 soltanto dal 36,9%. Ancor più impressionante il crollo relativo alla corretta esecuzione della divisione (1/5):5 : si passa dal 49,2% al 27,5%. Anche il calcolo delle potenze dava esiti deludenti. Mentre nel 1981 il 55,1% riusciva a giustificare il fatto che (592)3 = (593)2, nel 2003 soltanto 31,7% riusciva a farlo. La percentuale di coloro che erano capaci di fare il banale calcolo di x4 · x5 crollava dal 71,7% al 47,3%. Ancor più devastante l’esito del calcolo corretto di 103 · 102: dal 72,5% al 43,3%. Potremmo continuare. Ma forse il risultato peggiore è dato dall’esito (nel 2003) delle risposte alla domanda «spiegate con parole vostre il significato di (4/5)·5». Soltanto il 6,5% rispose correttamente a questa domanda e il 5,4% “quasi correttamente”. Il restante 88,1% diede risposte sbagliate o gravemente sbagliate. 362

Concludiamo qui con alcune osservazioni generali. È opportuno non attribuire il valore di “prova scientifica” ai test OCSE-PISA, senza preoccuparsi della loro sostanza, e su questa base fragile imbastire in modo apodittico considerazioni generali e impartire ricette e comandamenti. Occorre tornare a riflettere sugli orientamenti dell’insegnamento della matematica riferendosi ai contenuti e non in modo astratto e puramente metodologico. Dire che una metodologia di insegnamento è buona soltanto perché ha successo in certi test, senza chiedersi quale sia il contenuto dei test proposti è profondamente sbagliato. Questo esempio – come tanti altri – dovrebbe suggerire di accantonare l’inconsistente slogan della “misurazione oggettiva” basata sui test. I test contengono una fortissima componente soggettiva di arbitrarietà, derivante dalle scelte e dalle visioni di chi le formula. In questo caso, come si è visto, derivante da una visione molto particolare della matematica, che nessuna persona competente potrebbe avvallare. L’autentica valutazione è qualcosa di infinitamente più complesso della misurazione della superficie di un appartamento. Essa coinvolge una gran quantità di aspetti qualitativi, spesso non quantificabili ma che possono essere analizzati e giudicati seriamente senza numeri, e tra i quali ha un posto centrale il contenuto della disciplina in oggetto. La valutazione ha senso soltanto se è concepita come un processo interattivo volto a produrre una crescita culturale. Ma se è gestita da “esperti” incompetenti a entrare nel merito si traduce in un autentico disastro. Nel caso specifico, un cattivo uso dei test conduce a occultare che l’orientamento verso una visione empirista della matematica sta manifestandosi come un totale insuccesso e che appare necessario un radicale cambiamento di orientamento se non vogliamo compromettere le basi stesse su cui si regge una società capace di sviluppo scientifico-tecnologico.

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5. Un bambino su cinque è “disturbato” o è la scuola medicalizzata che è folle? Non bastava l'alta propensione ad abortire né il freno della recessione economica. La bassa propensione a far figli scenderà al minimo quando ci si renderà conto che in Italia la probabilità di generare un bambino "disturbato" è circa del 20%. Quando fu varata la legge sui Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) avevamo previsto il peggio, poiché gli "esperti" stimavano tra il 3% e il 5% i DSA (dislessici, discalculici, disgrafici e disortografici), cui occorreva aggiungere un altro 3% di bambini ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, la sindrome del bambino agitato e disattento). Avevamo previsto una medicalizzazione di massa della scuola, suscitando lo sdegno degli specialisti del settore che ci additarono come infami nemici dei disabili. Erano previsioni molto prudenti. Risulta che nelle scuole dilaghi la diagnosi dei "disturbati". Sulla scorta di teorie demenziali secondo cui fare un'operazione aritmetica equivale a un incolonnamento, un bambino che non incolonni correttamente le cifre nel fare una somma è sospettato di "discalculia". Altrettanto lo è un bambino che, richiesto di scrivere "ottocentotrentuno", scrive 800301, il che dimostra solo che il poveretto ha capito benissimo la funzione dello zero nell'indicare le decine e le centinaia, ma non sa ancora integrarla con la notazione posizionale per evidenti "disturbi specifici d'insegnamento". Ma tant'è. Molti insegnanti resistono. Quelli pigri o che si lasciano intimidire da famiglie che non accettano il minimo insuccesso scolastico dei figli, scaricano il problema in termini di "disturbo". Toccherà a una commissione del 364

Servizio Sanitario Nazionale composta da una triade di competenti in didattica, ortografia o matematica – un neuropsichiatra, uno psicologo e un logopedista – fare la diagnosi. Poi sarà la famiglia a entrare nel tunnel della malattia, scoprendo di avere in casa un figlio disturbato. L'andazzo è al tal punto preoccupante che il direttore dell'Istituto di Ortofonologia di Roma, Federico Bianchi di Castelbianco, ha invitato ad andarci piano ricordando che le linee guida del Ministero indicano una percentuale di DSA del 3% e non del 15% e ammonendo che le diagnosi vanno fatte non oltre la seconda elementare non esistendo casi di dislessia improvvisa a 10 o 14 anni. Castelbianco ha aggiunto che l'aumento "vertiginoso" di casi di DSA "non è veritiero" e che "si tratta di un'ondata di medicalizzazione che investe tutti quei bambini i cui comportamenti si mostrano non inquadrati in un modello prestabilito" e che presentano solo comuni difficoltà scolastiche o sono considerati Adhd "solo perché troppo agitati, quando invece potrebbero essere depressi o presentare disturbi di condotta". A tutti costoro “viene così precluso un percorso di apprendimento vero". Aggiungiamo noi che questo appiattimento, con il conseguente sperpero di risorse, colpisce soprattutto i disabili veri, le cui famiglie e associazioni dovrebbero per prime sollevarsi contro questo scandalo nazionale. L'altra conseguenza pazzesca sono le spese enormi per l'acquisto di strumenti compensativi – computer, calcolatrici – e per l'impegno del Servizio Sanitario Nazionale; per non dire delle cure private che ingrassano psicologi furbacchioni e del fatto che la legge prevede orari di lavoro flessibili per l'esercito crescente delle famiglie dei "disturbati". Tuttavia, mentre il governo stringe i cordoni sulla formazione dei nuovi insegnanti in nome del rigore finanziario, apre generosamente i cordoni della borsa finanziando master per l'aggiornamento di dirigenti e insegnanti alla "didattica dei DSA", che prevedono ben 100 365

partecipanti a master. Mentre la legge era in corso di approvazione parlai con alcuni parlamentari che la definirono senza mezzi termini una follia e una voragine per le casse statali. Ma quando fu approvata l'imperio del politicamente corretto si impose: non vi fu chi non la definì una straordinaria conquista di civiltà. Oggi, quella "conquista di civiltà" sta trasformando la scuola in un gigantesco ospedale, l'insegnamento in una terapia; e, soprattutto, sempre più i bambini in una malattia che, dal concepimento in poi, grava sulla società come una cupa minaccia. Il governo dei tecnici farà finta di niente o penserà di turare il buco di bilancio con un'imposta scolastica, la IBD, Imposta Bambini Disturbati? (Il Foglio, 4 gennaio 2012)

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6. Il capitale umano che i test ignorano Il presidente del Consiglio Monti invita a metter mano al miglioramento del capitale umano italiano, poiché il paese è in coda per il numero di diplomati, dopo l'Estonia, la Polonia, il Cile e la Slovenia. Occorre chiedersi se questi parametri misurino un'effettiva inferiorità formativa. Pensando alla tradizione dell'Italia sul piano culturale, scientifico, tecnico e artistico, a quel che si "respira" nel paese, se non altro per la presenza della massima concentrazione di beni culturali del mondo, pensando alle straordinarie capacità creative in tanti campi, c'è da dubitarne, per quanto evidente sia la crisi del sistema dell'istruzione. Un corretto procedere scientifico imporrebbe piuttosto di spiegare il paradosso: quando un risultato statistico è in stridente contrasto con l'evidenza occorre verificare se non si è capito qualcosa o se è l'analisi che non funziona. Tanto più se il paradosso investe altri paesi: incredibilmente l'Estonia è al vertice mondiale, la Francia fa una cattiva figura (sotto la media Ocse), la Spagna è al disastro, Israele è battuto dalla Slovenia. Viviamo nella mitologia dei numeri. Gli ingegneri francesi, primi a introdurre la statistica nelle scienze sociali e nel management, ammonivano che con i numeri si dimostra tutto e il contrario di tutto. Questa saggezza si è persa e siamo all'opposto della tesi del grande matematico Poincaré, secondo cui la misurazione delle qualità "morali" è lo scandalo della scienza: si crede ciecamente a qualsiasi tabella. Occorrerebbe invece chiedersi cosa vi sia dietro quei titoli di studio messi a confronto, e magari inconfrontabili: persino i numeri possono essere incommensurabili tra loro, figuriamoci i contenuti della 367

formazione. Un esempio per tutti. La Finlandia è comunemente indicata come un modello dell'istruzione, prima nelle classifiche Ocse. È indubbio che le immagini delle scuole finlandesi, linde e lucenti rispetto alle aule decrepite delle nostre scuole, rafforzano tale convinzione. Ma andando a fondo si scopre che non è oro quel che luccica e che molte voci in quel paese denunciano il grave declino della formazione matematica compromessa da un piatto pragmatismo. Come ha scritto uno dei massimi matematici finlandesi, «in Finlandia sappiamo che non avremmo avuto alcun successo nelle classifiche Ocse-Pisa se i test avessero riguardato la comprensione dei concetti o delle relazioni matematiche». Non è difficile dimostrare che uno studente italiano, malgrado tutto, ha una preparazione matematica superiore e assai più profonda di quella di uno studente finlandese, sebbene figuri molto più in basso nelle statistiche internazionali. Questo chi conosce la scuola lo capisce bene. Gli "esperti" fanno orecchie da mercante e si attengono ai dati numerici come se fossero le tavole del Sinai. Prima di dire che il "capitale umano" estone è superiore a quello italiano occorrerebbe esaminare a fondo il livello di alfabetizzazione, di formazione letteraria, matematica e scientifica sulla base dei contenuti della formazione, invece di giustapporre dati il cui confronto può essere privo di senso. Il vero problema è l'obbiettivo verso cui si mira. Se – com'è usuale – si considera la formazione culturale una perdita di tempo, se si ritiene che la scuola debba soltanto formare forza-lavoro per le aziende, se si crede che la scienza non serva alla tecnologia e che tutto ciò che è "umanistico" è chiacchiera inutile, allora l'Italia è malmessa. Se pensiamo – tornando all'esempio finlandese – che non serva sapere cos'è una frazione e che la matematica debba essere ridotta a un insieme di ricette di calcolo, allora siamo malmessi. Ma una simile visione è sbagliata e miope. Se Steve Jobs fosse stato soltanto un abile 368

tecnico informatico non avrebbe conseguito tanti successi. Per salvare l'industria musicale non bastava la tecnica mp3 o l'invenzione dell'iPod: ci voleva un'idea rivoluzionaria della diffusione e gestione dell'informazione che è frutto di una visione culturale. Jobs stesso ha ricordato il ruolo che ebbe per lui lo studio della calligrafia, la scoperta di Leon Battista Alberti e del Rinascimento italiano e quanto questi riferimenti culturali l'abbiano ispirato. È lungimirante considerare questi "nostri" riferimenti culturali e lo studio della storia dell'arte l'ingombro che ci preclude il progresso? Quindi, a seconda del criterio interpretativo, l'Italia è un fanalino di coda, oppure un paese che, malgrado i suoi guai, precipita più lentamente di altri nel declino dell'Europa. Perché questo è il nodo. Come non vedere il drammatico declino culturale e dei sistemi dell'istruzione del continente? Non si tratta di riproporre la critica per aver costruito l'Europa sull'economia. Si poteva ben iniziare dalla moneta, con la ferma consapevolezza però che il primo compito era por mano a un processo di integrazione culturale e della formazione reso difficile dall'esistenza di tante lingue e culture diverse. L'obbiettivo – come diceva una decina di anni or sono un intellettuale francese – doveva essere la formazione di giovani dotati della conoscenza di non meno di tre delle lingue principali del continente e della capacità di assimilarne le culture portanti, di amarle come la propria. Invece non abbiamo visto che il simbolo del fallimento era tra le nostre mani: in quelle carte-moneta per le quali non si era trovato il consenso necessario a stamparvi le grandi figure della civiltà europea, e neppure i monumenti principali, bensì solo forme stilizzate. Era un fallimento provocato dal politicamente corretto che ha respinto il fatto ovvio che non tutte le culture e le lingue europee hanno lo stesso peso. Ma se non è stato possibile battere in breccia queste diffidenze e queste chiusure, su che basi costruire l'amore per la civiltà e la cultura dell'altro?

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Ci si è invece rifugiati nel minimo comun denominatore, rappresentato dalle famose otto "competenze chiave" di Lisbona volte al ristretto scopo di facilitare lo scambio di forza-lavoro. È un elenco di abilità minime in termini di comunicazione linguistica, di capacità di calcolo e tecnologica, "competenze" sociali, civiche, imprenditoriali, digitali. È una miscela di formalismo e di economicismo che prefigura sistemi dell'istruzione in cui non c'è più posto per le culture del continente. Di che stupirsi se progetti che dovevano essere il motore della conoscenza culturale reciproca, come Erasmus, si sono ridotti a viaggi-vacanze in cui neppure ci si sforza di apprendere la lingua dell'altro e che offrono ai docenti di ogni paese il mezzo gaudio di un mal comune? Di che stupirsi se le chiusure nazionalistiche sono più forti di prima? Questi sono i veri problemi del continente, così strettamente connessi alla crisi economica che lo mette in affanno. Per il resto, sarebbe meglio evitare di trarre conclusioni affrettate da statistiche che rischiano di farci inseguire lustrini illusori i quali potrebbero indicare soltanto la via per un declino più veloce. (Il Messaggero, 9 gennaio 2012)

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7. Università e lavoro. No a polli di batteria L’ottima indagine che Marco Ferrante ha svolto per Il Messaggero sul rapporto tra università e mercato del lavoro offre molti spunti di riflessione che partono da un dato evidente: indirizzare le scelte del corso di laurea in modo che s’incontrino con l’offerta di lavoro resta un problema molto difficile e in buona parte irrisolto. È il caso di ricordare la conclusione del servizio: «Quello che sarà tra cinque o dieci anni è in parte una scommessa. La visibilità sul futuro del mercato del lavoro a medio termine resta limitata». La capacità di previsione dell’andamento generale dell’economia è ristretta spesso non al medio periodo – sul lungo periodo, per dirla con Keynes, siamo tutti morti – ma anche al breve periodo, per cui un eccesso di dirigismo in materia è sconsigliabile. Tentare di calcolare il fabbisogno di laureati nei vari settori per poi tentare di indirizzare le scelte formative degli studenti può rivelarsi un azzardo, non solo perché è problematico determinare il primo numero, o per la difficoltà di indirizzare le scelte, ma per i danni che possono provocare le rigidità derivanti da un approccio pianificatorio. Vi sono situazioni in cui la questione può essere posta in termini diretti: il servizio menziona il dato di 117.000 posti di lavoro offerti nel settore tecnico-artigianale che sono andati deserti. Questo riguarda però la formazione tecnicoprofessionale, un settore che era di eccellenza nella tradizione italiana è che stato disastrato da pessime riforme. Ma l’università è un’altra cosa. L’università fornisce un tipo di formazione completamente differente, che non mira a creare forza lavoro specificamente indirizzata verso questo o quel 371

settore, salvo casi particolari. Pertanto, il problema è culturale: si tratta di decidere quale modello si vuole dell’università. I tassi di disoccupazione dei laureati del 2005 – peraltro non così drammatici – oscillano tra un massimo del 14% e un minimo del 2%. È significativo il fatto che il minimo sia toccato dalla facoltà di Medicina che prevede uno sbocco occupazionale univoco; e che di poco superiori siano quelli di facoltà come Farmacia e Ingegneria. Soffrono di più le facoltà “generaliste” e non soltanto Scienze Politiche o Lettere e Filosofia ma anche Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. Se ne potrebbe concludere che il male sta nella visione classica dell’università, come luogo di formazione e di cultura generale; e che il modello da adottare sia quello di una marcata specializzazione. Sono in molti a indicare questa come “la” soluzione, ma siamo certi che la ricetta non aggravi il male? Nel servizio si mette in luce la differenza tra le università private e quelle statali. Non è solo una questione di numeri: le prime possono adottare un indirizzo preciso (commerciale, economico, manageriale) che conduce a determinati sbocchi occupazionali e a non ad altri (nessuno si iscriverà alla Bocconi per fare il filologo classico) mentre le seconde non possono farlo. E non perché un rettore eviti di indirizzare la scelta degli studenti verso una facoltà piuttosto che verso un’altra per non irritare qualche componente accademica, ma perché un simile modo di operare non corrisponde alla missione universitaria tradizionalmente intesa. L’approccio generalista è obsoleto e sbagliato? Per dirlo non basta limitarsi a deprecare i troppi letterati e avvocati. Bisogna dimostrare che la scienza di base non serve e che la facoltà di Scienze può essere riassorbita da quella di Ingegneria. È difatti evidente che la formazione di un laureato in fisica o in matematica, ma anche in biologia, non configura uno sbocco professionale preciso, per quanto possa essere specialistica la tesi di laurea scelta. Per far progredire le scienze applicate non servono più fisici teorici, chimici o matematici? Sarebbe una tesi avventata a fronte di quello che 372

insegna la storia della tecnologia, termine che vuol dire proprio questo: tecnica fondata sulla scienza. È difficile immaginare che un paese avanzato, che non si accontenti di vegetare sulle scoperte altrui, possa avere un futuro senza scienza di base. Peraltro, lo sviluppo della tecnologia si è sempre avvalso di un atteggiamento lungimirante da parte delle imprese, consistente nel privilegiare le persone aventi una formazione di base e generale solida, proprio in quanto capaci di autonomia e di flessibilità, riservandosi di fornire in azienda le competenze specifiche. È da augurarsi che non prevalga la visione miope di cercare persone formate per mansioni particolari invece che dotate di flessibilità e autonomia intellettuale, modellando l’università su questi scopi ristretti, come un servizio di formazione addetti. Si parla tanto dell’esigenza di “imparare a imparare” e poi rischiamo di chiedere all’università di venir meno a una delle sue funzioni principali, “insegnare a imparare”. Va inoltre osservato che il fatto che molti giovani cambino indirizzo non va considerato a priori come un “errore”. La scelta di cosa fare nella vita – che può non essere affatto quel che si farà per sempre! – è molto complessa e spesso il cambiare corso di laurea dopo un anno o due non è di per sé negativo, ma può essere il segnale di una maggiore consapevolezza che può condurre ad aggiustare efficacemente le proprie scelte. Di certo, queste riserve non vogliono dire che il sistema universitario funzioni bene. Ma non convince che la via da seguire sia quella di un raccordo meccanico tra formazione e mercato del lavoro: una cinghia di trasmissione del genere, se troppo stretta, sarà dannosa per entrambi i settori. I mali dell’università sono ben noti e hanno origine nel modo sconsiderato con cui sono state fatte riforme che, in un diluvio di regolamentazioni minute e formalistiche, hanno mutato (e continuano a mutare) l’istituzione in un enorme, elefantiaco apparato burocratico in cui l’ultima delle funzioni è quella di 373

insegnare e la prima quella di “gestire”. Oggi il percorso di uno studente non è quello di chi per cinque anni può pensare alla propria formazione, bensì quello di chi deve battersi per superare un percorso a ostacoli costituito da miriadi di esamini spezzettati in pochi crediti, in una parcellizzazione che disgrega qualsiasi valore culturale e non lascia spazio alla crescita di alcun autentico interesse. La vera riforma da fare è abbattere questa burocrazia e ripensare i contenuti culturali dell’università. Si lamenta tanto di avere troppi avvocati e troppi esperti in comunicazione e che la cultura scientifica sia trascurata? La via per valorizzare la cultura scientifica, di cui si proclama tanto la necessità, non è quella di trasformarla in percorsi direttamente applicativi, funzionali a uno sbocco professionale determinato a priori. Così non formeremo persone capaci e autonome, ma polli di batteria, per giunta spesso frustrati. (Il Messaggero, 28 febbraio 2012)

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8. Lo scippo del libero arbitrio Gran parte della storia dell’umanità si è ispirata a una visione dualistica che distingue tra la sfera naturale e la sfera mentale e spirituale. È una visione che ha permeato la struttura del sistema della conoscenza, già nel mondo pagano. Il pensiero di Aristotele è articolato nella considerazione della fisica, della metafisica, della logica, dell’etica e dell’estetica, e non mira a ridurre l’una all’altra. Anche la distinzione medioevale tra “trivio” e “quadrivio”, pur non riconducibile direttamente a quel dualismo, riflette la distinzione tra saperi “scientifici” e saperi “letterari”, senza ordinarli gerarchicamente. Una siffatta gerarchia venne invece introdotta da Galileo quando additò l’Iliade e l’Orlando Furioso come opere di fantasia in cui la verità di quel che vi è scritto è la cosa meno importante. L’attribuzione di un valore di verità alle sole scienze naturali, e la negazione di un valore di conoscenza razionale all’esplorazione letteraria dell’animo umano, riflettono l’entusiasmo suscitato dagli straordinari successi delle scienze fisico-matematiche. Ma, nonostante tutto, siamo ben lontani dalla negazione del dualismo. Per i grandi fondatori della scienza moderna – come Galileo, Descartes, Newton, Leibniz, Keplero – non è in discussione che esista una sfera naturale, esplorata con successo dal metodo matematico-sperimentale, e una sfera spirituale che è dominio della filosofia, della religione, della letteratura e dell’arte. Il monismo materialista ha lontani antecedenti, ma il suo pieno ingresso sulla scena avviene con le teorie settecentesche dell’uomo-macchina di Lamettrie e con la medicina materialista di Cabanis. Si trattò di una parentesi perché il pensiero dominante dell’Ottocento fu prevalentemente dualista. Anche un matematico come Cauchy sosteneva che non bisognava «ostentare le scienze matematiche al di là del loro dominio» e non ci si doveva illudere «che si possa affrontare la 375

storia con delle formule, e sanzionare la morale con dei teoremi». Sono frasi in cui traspare una tensione. La sortita del materialismo settecentesco, se pur in momentanea ritirata, aveva aperto una ferita insanabile. Era di fatto solo una tregua. Agli inizi del Novecento si ripresentò un riduzionismo materialista più agguerrito che mai che trasformò la distinzione tra le due sfere del pensiero in una condizione di conflitto permanente. Circa mezzo secolo fa, il termine “le due culture” fu coniato da C. P. Snow nell’omonimo saggio in cui denunciava l’incomprensione crescente tra scienziati e umanisti: «trent’anni fa le due culture non si rivolgevano la parola, ma almeno si sorridevano freddamente. Ora la cortesia è venuta meno, e si fanno le boccacce». Allo scienziato che condanna come una perdita di tempo la lettura di un romanzo, si oppone la sprezzante vanteria dell’umanista di non saper fare neppure una moltiplicazione. Tuttavia il conflitto non si pone in termini astrattamente equivalenti. Non esiste un tentativo riduzionista delle scienze umane. Esiste invece un riduzionismo naturalistico sempre più pervasivo. L’unico progetto in campo è quello che mira a superare il dualismo tra le due culture riducendo l’una all’altra, riassorbendo la sfera umana entro la sfera naturale, riducendo l’uomo a fisica e biologia. Tutto il complesso delle scienze umane consolidato nei secoli deve essere riscritto nel linguaggio delle scienze naturali, ed eventualmente matematico. In attesa che il progetto si realizzi quel complesso è messo in mora, come privo di valore e interesse. La problematica conoscitiva si salda strettamente con una tematica metafisica: difatti, il progetto riduzionistico non è scientifico, bensì metafisico. L’obbiettivo non è più quello di studiare la natura, bensì di dimostrare che tutto si riduce a processi materiali. Gli sviluppi contemporanei della scienza ne forniscono la conferma più evidente. In un periodo in cui la fisica conosce una stasi, il ruolo di “big science” è assunto dalla biologia, o meglio dalla genetica e dalle neuroscienze; che si 376

ripartiscono in due filoni: uno di direttamente tecnologico e l’altro volto a “dimostrare” l’assunto metafisico di cui si diceva. La dimensione teorica della biologia – già di per sé esile, perché non esiste una biologia teorica analoga alla fisica teorica – è sparita e si è trasformata in una metafisica materialistica che gioca il ruolo di supporto teorico della pratica manipolativa. Come ha osservato Gilbert Hottois, caratteristica della tecnoscienza è l’abbandono dell’approccio “logoteorico” della scienza classica, a favore dell’operatività. Eppure mai come ora la tecnoscienza ambisce a dare risposte metafisiche, proprio mentre predica la fine della filosofia. In realtà, vuole sostituirsi ad essa e fornire risposte alle classiche domande della filosofia gabellandole come risultati scientifici. Lo scopo è di dissolvere la questione antropologica naturalizzando la sfera umana, riducendo l’uomo a un complesso biofisico contingente e modificabile nel genoma e nel cervello. La natura simbolica dell’uomo sparisce e viene ridotta ad altro, a processi materiali: la mente è cervello e null’altro; l’essere è genoma e null’altro; la sfera simbolica è un prodotto tecnobiofisico; la vita e la morte sono l’accensione e lo spegnimento di una macchina; l’uomo-macchina è interamente manipolabile. Con la questione antropologica è dissolta la questione morale, ridotta a una questione di conformazioni neuronali. La religione viene dissolta nella neuroteologia. Si potrebbe obiettare che tutto ciò sarebbe legittimo se fosse scientificamente dimostrabile; se la scienza contemporanea avesse realizzato il miracolo di trasformare i classici problemi della metafisica in problemi scientifici risolubili in termini positivi. Proprio su questo occorre misurarsi senza reticenze. I “risultati” che sosterrebbero queste “scoperte” offrono un panorama di edifici pieni di crepe e la cui stabilità è a dir poco precaria. Non sono in discussione i singoli risultati sperimentali bensì le deduzioni arbitrarie che ne vengono tratte. Quale 377

risultato sperimentale avvalla la tesi secondo cui «tutto è genetico»? Come osservò il biologo Henri Atlan, proprio il successo (pur fortunoso) della clonazione ha demolito conclusivamente quella tesi. Eppure essa viene riproposta come un truismo, tanto che è divenuta un luogo comune. Consideriamo tre esempi relativi all’ossessione dominante nell’ambito delle ricerche neuronali e genetiche: dimostrare che il libero arbitrio non esiste. Esiste un ampio filone di ricerche in tal senso che può essere rappresentato dal libro Mind Time di Benjamin Libet. Si tratta di esperimenti volti a dimostrare che l’esperienza soggettiva della libertà è un’illusione e che le nostre azioni sono prodotte da processi cerebrali inconsci che agiscono prima che noi si sia consapevoli delle nostre intenzioni. Tali esperimenti consistono nel misurare l’attività elettrica cerebrale che si manifesterebbe in concomitanza con l’assunzione di una decisione e nel confrontare l’istante d’inizio di tale attività cerebrale con il momento in cui la decisione viene presa, segnalato dal soggetto mediante la pressione su un bottone, o con un atto analogo. Si sarebbe mostrato che l’attività cerebrale ha inizio prima della pressione del bottone: lo scarto varia tra qualche millisecondo e un decimo di secondo. I ricercatori più scrupolosi, rendendosi conto che un simile esile scarto potrebbe rientrare negli errori di misura, hanno seguito un’altra via: fare una ricerca e uno studio delle aree del cervello che «predeterminano le intenzioni consapevoli», misurarne l’attività con tecniche di risonanza magnetica individuando l’inizio della «fase preparatoria della decisione». In tal caso, lo scarto salirebbe ad alcuni secondi. Non è difficile vedere i vizi di questa procedura. In primo luogo, dare per scontato che esistano aree che «predeterminano» le intenzioni consapevoli indica che la tesi dell’inesistenza del libero arbitrio viene data per dimostrata prima di averlo fatto, anzi viene usata per dimostrarla. Inoltre, è chiaro che è 378

improprio chiedere a una persona di annunciare l’istante in cui egli assume una decisione per confrontarlo con un istante di natura totalmente diversa: quello in cui ha inizio una vaga «attività preparatoria» nel corso della quale viene elaborata la decisione: è evidente che il momento in cui rifletto se uscire o no di casa viene prima del momento in cui decido di uscire. Ma c’è un vizio ancor più grave. Da un lato si misurano grandezze fisiche, osservabili misurabili con apparecchi di laboratorio: intensità di correnti, flussi sanguigni. Dall’altro lato si ha a che fare con qualcosa di diverso, ovvero con un rapporto con cui il soggetto dichiara l’esistenza di uno stato mentale: “premo il bottone o indico una lettera, e così informo di aver compiuto la scelta”. È qualcosa di analogo ai rapporti verbali (un “racconto”) in cui il soggetto descrive quel che prova soggettivamente. È del tutto arbitrario considerarlo come la determinazione esatta dell’istante temporale della presa di decisione, analoga alla misurazione diretta con un apparecchio. Qui vengono identificate cose diversissime: un rapporto dichiarativo e uno stato mentale. Per controllare la coincidenza della “dichiarazione” con lo stato mentale occorrerebbe penetrare direttamente in questo. Ma il rapporto dichiarativo può essere verificato soltanto con altri rapporti dichiarativi, in un’impossibile regressione all’infinito verso il “foro interiore” della persona senza che sia possibile mettere in atto qualcosa di simile alla misurazione diretta di una corrente elettrica. Pertanto mettere a confronto quelle due “misurazioni” del tempo è un grave errore metodologico indotto dalla pressione dell’assunto metafisico. Una situazione analoga si presenta nella teoria dei neuroni specchio, che M. Jacoboni nel suo Neuroni specchio definisce come gli elementi neurali determinanti per il comportamento sociale. Anche qui l’identificazione di aree che si attivano nei rapporti sociali e nelle situazioni di “empatia” non autorizza a considerarle come un fattore causale, come il fattore materiale che «colma il divario tra il sé e l’altro». Soprattutto se si 379

ammette che «sembra esservi nel cervello, oltre al sistema dei neuroni specchio, un altro sistema neurale, il sistema della condizione di default, implicato sia con il sé sia con l’altro, nel quale il sé e l’altro sono interdipendenti». Mentre i neuroni specchio hanno a che fare con gli aspetti fisici del sé e dell’altro, il sistema della condizione di default dovrebbe «concernere aspetti più astratti della relazioni tra il sé e l’altro: i loro rispettivi ruoli nella società o comunità cui appartengono». In attesa di capire di cosa si tratti, l’indimostrata riduzione dell’empatia a neurobiologia deve far fronte al problema del perché talora l’empatia non si manifesti e vi siano piuttosto manifestazioni di insofferenza persino atroci. S’invoca allora l’ipotesi che gli stessi meccanismi che provocano l’empatia diano luogo alla violenza imitativa. La legislazione dovrebbe tenerne conto e modellarsi sui codici sociali descritti dalla neurobiologia. Si lamenta al riguardo che il riconoscimento del ruolo di guida della scienza nell’etica pubblica sia ostacolato dai pregiudizi, in particolare dalla credenza nel libero arbitrio, così svelando che il vero obbiettivo è quello di distruggere questo “pregiudizio” e non di attenersi a risultati positivamente dimostrati. Sorge inoltre il problema di come dovrebbe avvenire la riorganizzazione sociale basata sull’accettazione ufficiale del determinismo biologico. Un indizio lo fornisce il nostro terzo esempio. Esso è dato da una serie di ricerche sui ratti effettuate dal neuroscienziato statunitense Jean Decety. Egli ha constatato che un ratto cui viene offerto un pezzo di cioccolato davanti a un suo simile imprigionato preferisce spesso liberarlo e dividere con lui il cioccolato anziché comportarsi in modo egoistico. Massimo Piattelli Palmarini riferisce che, secondo Decety, i circuiti cerebrali coinvolti in questi processi sono gli stessi che nell’uomo e così gli ormoni legati all’attivazione di questi circuiti. Il neurofilosofo Peter Singer si è posto allora il problema del manifestarsi di casi reali opposti, e cioè di persone 380

totalmente indifferenti al dolore altrui. Sarebbe un buon motivo per concludere che il libero arbitrio esiste… E invece no. Dando ancora una volta per scontato quel che andrebbe dimostrato, e cioè che l’empatia sia un processo cerebrale, determinato da una struttura neuronale (con meccanismi non univoci o meccanismi sconosciuti, visto che essa può esservi o no), Singer si chiede se non sia possibile fabbricare una pillola dell’empatia che la susciti in chi ne è sprovvisto. Siamo di fronte alla patente alleanza tra metafisica materialista e tecnoscienza manipolatoria. Piattelli Palmarini si ribella di fronte a questa deriva e denuncia la presenza di una «crescente neuromania» e «genetomania», aggiungendo che non è bene assumere «un atteggiamento scientista e potenzialmente manipolatore»: «il libero arbitrio è un peso ma dobbiamo sopportarlo». Non credo che il libero arbitrio sia un peso da sopportare. Penso, al contrario, che sia ciò che rappresenta il fattore distintivo (e nobile) dell’uomo. Ma la pressione del riduzionismo scientista è tale che termini come “libero arbitrio”, “libertà”, “persona” e “dignità della persona” sono visti come relitti di un passato oscurantista. Eppure la fragilità di queste costruzioni pseudoscientifiche non giustifica alcuna soggezione nei loro confronti e tantomeno l’accettare che tutta la conoscenza venga assoggettata al prefisso “neuro-”. È vergognoso dirsi spiritualisti? In verità, per un religioso, che crede in un Dio creatore diverso da un Giove tonante, e che crede che l’uomo porti in sé una scintilla dello spirito divino, non dirsi tale è negare sé stesso. E non esistono scoperte scientifiche che dimostrino la metafisica materialista. Occorre avere il coraggio di dirlo. Anche per il bene della scienza. (L’Osservatore Romano, 4 marzo 2012).

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9. Ingegneria “umana” Criticare qualsiasi cosa venga dal fronte scientifico costa l’accusa di essere nemici della ragione. Ma si può andare avanti così e prendere sul serio delle cose che meriterebbero una pernacchia di volume triplo rispetto a quella che merita la proposta di vietare la lettura della Divina Commedia? L’ultima – per prudenza è meglio dire, una delle ultime – è data da un articolo pubblicato sulla rivista Ethics, Policy and Environment dal titolo “Human Engineering and Climate Change”. L’autore principale è S. Matthew Liao, professore di bioetica alla New York University, assieme a due colleghi del Future of Humanity Institute dell’Università di Oxford, il neuroscienziato Anders Sandberg e la filosofa Rebecca Roache. La tesi centrale dell’articolo – ampiamente ripreso dalla stampa “liberal” – è che tutti i tentativi di controllare il degrado ambientale dovuto alle attività umane sembrano essere destinati all’insuccesso, come dimostra lo scarso impatto del protocollo di Kyoto. La via della “geoingegneria” sembra essere destinata al fallimento. Occorre piuttosto appuntare l’attenzione sul responsabile dei cambiamenti climatici, ovvero l’uomo, imboccando la via dell’“ingegneria umana”. Tre proposte possono dare l’idea dell’approccio suggerito dai nostri progettisti del futuro dell’umanità. Posto che una delle fonti principali di inquinamento sono gli allevamenti di animali destinati al consumo (per l’inquinamento ambientale, i vegetali che consumano, i gas che producono e la deforestazione necessaria all’ampliamento dei pascoli) la soluzione è indurre la gente a non consumare più carne. La via proposta è di indurre un rifiuto delle proteine animali. Ciò può essere fatto sia somministrando alla gente una pillola che provochi nausea di fronte alla carne, oppure con una modificazione del sistema 382

immunitario che provochi il rigetto, e quindi l’impossibilità di consumare proteine animali. La seconda proposta – assai più radicale e originale – è legata a una “scoperta” sensazionale: quanto più una persona è grossa tanto più consuma cibo ed energia. Quindi, se si riducesse l’altezza delle persone di 15 cm e quindi la massa di circa il 21%, i tassi metabolici si ridurrebbero del 15-18%. Un bel risparmio di cibo ed energia! Le tecniche proposte per ridurre l’altezza media degli uomini sono varie: vanno da tecniche già in uso nella fertilizzazione in vitro, a trattamenti di carattere ormonale a interventi diretti sul patrimonio genetico. Non vi sarebbero problemi etici, garantisce il professor Liao, perché si dovrebbe procedere per via di selezione degli embrioni adatti e «l’embrione scelto non può lamentarsi di aver potuto essere diverso, perché se i genitori ne avessero scelto un altro lui non sarebbe esistito affatto». La terza ancor più originale proposta nasce dall’osservazione dei gatti che vedono più o meno come gli umani di giorno ma molto meglio di notte. Bisogna lavorare sul terreno della genetica per trasformare gli occhi umani in occhi di gatto, o almeno per renderli simili ad essi: «se ognuno avesse occhi di gatto, non sarebbe necessaria tanta illuminazione e si potrebbe ridurre l’uso di energia globale considerevolmente. Forse anche di una percentuale shocking». A questo punto non mi pare che sia necessario alcun commento. Quantomeno, se qualcuno ha bisogno di commentare o di aprire una discussione “seria”, non mi sento disponibile a seguirlo e andar oltre la tripla pernacchia di cui sopra. Con un’avvertenza, e cioè che questi signori non sono gli scalcagnati che hanno proposto l’abolizione di Dante, bensì professori di università che le graduatorie internazionali pongono ai primi posti nel mondo. Questa è la realtà, che speriamo non distolga quanta più gente possibile da una tripla pernacchia, nella speranza che esista ancora la ragione. 383

(Il Foglio, 16 marzo 2012)

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10. I compiti a casa. Doveri e valori Ci sentiamo ripetere tutti i giorni che, per superare la crisi e far ripartire il paese, occorre mettere in campo un rinnovato senso di responsabilità e la capacità di fare sacrifici. Del resto, che cosa inspira la riforma delle pensioni, la politica fiscale e la riforma del lavoro se non il principio che occorre lavorare di più a fronte di minori redditi? Si ribadisce che la società – in definitiva, chi lavora sodo con senso di responsabilità – non può più sovvenzionare pensionati cinquantenni ed evasori fiscali. Ma per mettere in campo una simile energia di riscossa non è necessario soltanto che si diffondano atteggiamenti eticamente e socialmente corretti, ma anche una passione per il lavoro, la capacità di applicarvisi sopportando le fatiche che comporta, e le competenze per svolgerlo bene. L’istituzione in cui le società moderne educano cittadini che possiedano questa sintesi di spirito etico e di competenze è l’istruzione pubblica. La scuola non è soltanto il luogo dove si acquisiscono le conoscenze e le capacità adatte a svolgere qualsiasi attività lavorativa, ma anche il luogo in cui si acquisisce l’attitudine a lavorare, che significa anche (o soprattutto) impegno, sforzo, sacrificio. Difatti, non è naturale passare ore in un ufficio, in una fabbrica o in un’aula: è una costrizione che allenarsi allo sforzo e alla concentrazione può, paradossalmente, trasformare in qualcosa di stimolante e persino di piacevole. La scuola ha sempre avuto la funzione di fornire tale allenamento, che è rappresentato non soltanto dalle ore passate con l’insegnante e i compagni di classe, ma dal lavoro a casa, in cui si confronta individualmente, faccia a faccia con sé stessi, con i risultati del lavoro fatto. È qualcosa che non soltanto stimola il senso di responsabilità, e addestra allo sforzo inerente a qualsiasi attività lavorativa; ma è la via maestra per realizzare l’obbiettivo tanto proclamato dai pedagogisti “moderni”: la capacità di “saper fare”, di applicare 385

le nozioni apprese, che non si stimola e non si verifica nelle attività collettive che spesso nascondono le magagne in un calderone indistinto. Di qui il ruolo dei “compiti a casa” di cui tanto si discute in questi giorni. Tutto è nato da un appello di genitori francesi che si scagliano contro i compiti a casa. L’idea che i “compiti fanno male” è stata ripresa qui da alcune associazioni con svariati argomenti: i ragazzi sono stressati, le famiglie non ce la fanno a reggerne lo stress, i compiti impediscono le attività alternative, tutto deve essere fatto a scuola, e così via. È un atteggiamento da tempo diffuso: la scuola deve risolvere i problemi e non porli, garantire il successo formativo, la serenità dei ragazzi, deve essere un servizio per la famiglia giocoso e di intrattenimento. È una veduta che converge con quella di certa pedagogia secondo cui lo studio va ridotto a un’attività ludica. Il ministro Profumo si è dichiarato a favore dell’abolizione dei compiti a casa. Ha osservato che una versione di latino può essere copiata da internet e che è meglio far lavorare i ragazzi con strumenti logico-deduttivi. Ma, a parte il fatto, che le versioni dal latino possono essere fatte in classe e quelle dall’italiano a casa, la traduzione mette in opera qualcosa di più della logica deduttiva, che è poca cosa persino in matematica. Il ministro ha incitato la scuola a preparare i ragazzi ai test d’ingresso all’università, come se non sapessimo a quali disastri abbia condotto l’insegnamento in funzione dei test, dove è stato praticato. Ha detto che in classe si apprende solo una parte delle competenze e quindi tutti fuori a seguire progetti organizzati dalla scuola. Infine, ha aggiunto che la scuola deve insegnare ai ragazzi a fare gruppo invece di chiudersi nella loro cameretta. Certe reazioni hanno forse lasciato credere al ministro che simili propositi siano molto popolari, ma forse egli non sa quanto sconcerto e avvilimento abbiano provocato in tantissime famiglie che si battono quotidianamente – e contro mille ostacoli – per educare i figli al senso di responsabilità (che è 386

anche stimolato dall’obbligo di fare i compiti), alla capacità di applicarsi, a non disperdere i pomeriggi bighellonando nell’ozio, ad allenarsi allo sforzo. È curioso. Quando pensiamo all’allenamento di un atleta troviamo naturale che egli passi ore ed ore a concentrarsi faticosamente sulla tecnica innaturale del salto in alto dorsale; e ammiriamo nel suo sguardo la concentrazione spasmodica su sé stesso (nella propria “cameretta”) quando tenta di superare una prova. Troveremmo ridicoli degli atleti che si addestrino salterellando su un prato, tutti insieme, e senza metodo. E invece per lo studio ormai sembra naturale pensare il contrario. Di certo, il ministro Profumo avrà studiato nella sua cameretta, per dire, l’elettrodinamica, e avrà risolto al chiuso tanti problemi per verificare la sua comprensione e il suo “saper fare” e non può credere che un impegno del genere possa essere sostituito da “progetti” collettivi all’aperto. Anche un fautore dei “metodi attivi” come Lucio Lombardo Radice metteva in guardia contro l’idea di «una scuola in cui è sempre domenica», ridotta «a escursione, esercitazione, libera ricerca, lettura occasionale» a scapito di «un momento non eliminabile, per un solido sviluppo intellettuale in una direzione quale che sia, per la acquisizione di un permanente patrimonio culturale comunque configurato: lo studio-lavoro, la lettura-riflessione, lo sforzo di comprensione tenace, l’applicazione disciplinata, organica, paziente, la faticosa organizzazione della propria mente e del proprio sapere». Colpisce anche che, mentre si parla continuamente di autonomia scolastica e di ridare dignità alla funzione docente, si avanzi un dirigismo soffocante che riduce gli insegnanti a burocrati. Non è consono a una visione liberale indicare soltanto gli obbiettivi ineliminabili nell’istruzione e poi lasciare a scuole e docenti piena libertà metodologica? Qualcuno darà più compiti, altri meno o niente: il confronto tra i risultati dirà chi 387

ha operato meglio (non dovrebbe consistere in questo la valutazione?). E invece no. Il ministero sforna a getto continuo metodologie di insegnamento e ora appresta un “modello nazionale” per la certificazione delle competenze con annesse “linee guida” e parla addirittura di una campagna pluriennale di rieducazione autoritaria delle menti dei docenti alla didattica per competenze. Come non bastasse, ora si vuol prescrivere a scuole e insegnanti se e quanti compiti a casa debbano assegnare. C’è da temere che abbia ragione Piero Ostellino quando dice che in Italia non si riesce altro che a passare da un dirigismo all’altro. Ed è tanto più sconcertante che un governo che tanto chiede agli italiani in termini di responsabilità, di sacrifici, di rigore, di impegno lavorativo, sulla scuola invece proponga il dirigismo del faticare il meno possibile. Si potrebbero citare tanti casi come quello del ragazzo extracomunitario di origine sudamericana che, posto di fronte alla scelta della lingua a scuola, ha detto: «Lo spagnolo no, perché per me sarebbe troppo facile». Siamo ineluttabilmente destinati alla decadenza? Ci ripensi, signor Ministro. (Il Messaggero, 2 aprile 2012)

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11. La miseria di Erasmus “Europa, forza gentile” è il titolo di un libro di Tommaso Padoa-Schioppa pubblicato una decina di anni fa in concomitanza con il debutto dell’euro. Sulla copertina era rappresentata la ninfa che, secondo il mito, domava la violenza del toro; a simboleggiare il ruolo dell’Europa che, limitando i poteri degli stati opponeva ai miti nazionalisti la parte migliore della sua civiltà: la forza “gentile” del diritto e della cultura. Secondo Padoa-Schioppa molto restava da fare, ma con l’ingresso in scena dell’euro buona parte della costruzione era già realizzata. Oggi, la formula della “forza gentile” potrebbe suscitare ilarità – se non fosse da stolti ridere – pensando alla commissaria europea per la pesca Maria Damanaki che ha scritto ad Andrea Camilleri intimandogli di «non permettere» al commissario Montalbano di indulgere all’abitudine «inaccettabile nel Mediterraneo» di «mangiare novellame», i pescetti neonati. Se siamo a questo punto è da attendersi che la proposta di epurare la Divina Commedia venga accolta. Altro che Dante: bisognerà fare i conti con le intollerabili scorrettezze dei personaggi di Boccaccio, Ariosto e persino Manzoni. E questo per restare entro i confini italiani: su Shakespeare, Goethe o Rabelais stendiamo un velo pietoso. Dunque, la “forza gentile”, la parte migliore della civiltà europea, ha preso le forme di un “politicamente corretto” simile a quello in voga negli ambienti statunitensi dominati dal più scatenato sinistrismo “liberal”. Certo, nell’anno in cui uscì il libro di Padoa-Schioppa si potevano ancora nutrire illusioni. Quel periodo mi ricorda un pranzo in un ristorante parigino con un amico, noto fisico e filosofo della scienza francese. Erano i primi giorni in cui 389

circolava l’euro. Il mio amico dispose sul tavolo una moneta da un euro coniata in Italia e una coniata in Francia: sulla prima, l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, l’uomo “misura di tutte le cose”; sulla seconda, l’albero della vita racchiuso nell’esagono, simbolo dei confini della Francia. Egli sottolineò la differenza di stile tra la moneta “italiana”, impregnata di spirito umanistico e quella “francese” intrisa di nazionalismo, e francamente brutta. Una situazione analoga era proposta dal confronto tra la moneta da 2 euro di conio italiano, con il volto di Dante, poeta universale, e quella di conio tedesco che proponeva la solita aquila. La chiacchierata conviviale non stimolava solo considerazioni ovvie – la persistente vitalità del senso artistico italiano, una propensione umanistica favorita da un nazionalismo debole a fronte di quello forte francese e tedesco – ma anche riflessioni circa gli ostacoli da superare per costruire una vera unificazione, di cui la moneta unica poteva essere soltanto un “gancio”, ma che doveva poggiare su un’unificazione culturale, senza la quale l’unificazione politica era impensabile. Non si trattava in fondo di inventare nulla. Gli scambi culturali sono stati sempre una caratteristica della civiltà europea, nonostante gli interminabili conflitti e anche nei periodi di massimo oscurantismo. Quando esplose la rivoluzione scientifica l’Europa era dominata dal fondamentalismo religioso e dall’intolleranza, eppure le opere di Galileo, Cartesio, Newton, Leibniz circolavano come un patrimonio di tutto il continente. E così fu nei secoli successivi. Indubbiamente, questa comunanza culturale, al di sopra di nazioni e lingue, era un fenomeno di élites, mentre oggi la sfida di un’unificazione che investa i popoli è ben più complessa e difficile. La posta in gioco era stata compresa ben prima dell’ingresso in scena dell’euro, già nel 1987, quando si mise in piedi il “programma Erasmus” volto a favorire la circolazione di migliaia di studenti da un paese all’altro, per avvicinarli alle altre culture nazionali, apprendere loro ad amarle come la 390

propria, anzi a considerarle come “la propria” cultura, anche imparando alcune delle lingue principali del continente. Il mio amico francese enunciava un principio generale: non ha senso identificare una sola lingua (l’inglese) come mezzo di comunicazione, perché questo servirebbe solo a garantire gli scambi minimi e non risolverebbe il problema della progressiva acquisizione reciproca delle culture nazionali, che si sono consolidate attraverso tradizioni letterarie secolari e lingue raffinatissime. Occorre essere realisti. Una sola lingua può bastare per il turismo o per le comunicazioni tecniche. D’altra parte, il livello di comunicazione sofisticato delle élites dei secoli passati non può essere esteso a strati più ampi. Ma è pensabile educare nuove generazioni di laureati europei (milioni di persone, molto di più di una élite) che conoscano bene un paio di lingue oltre la propria, e abbiano la capacità di intenderne passivamente almeno un’altra. Ma perché questo funzioni occorre accettare un principio “politicamente scorretto”: prendere realisticamente atto del fatto che non tutte le culture europee sono parimenti importanti (per quanto tutte, compresi i dialetti, siano rispettabili e degne di essere preservate). Non tutte le lingue hanno lo stesso grado di importanza. È inevitabile accettare che quel paio di lingue da conoscere bene, ed anche le altre da conoscere discretamente siano le lingue delle culture europee “portanti”. Nei fatti, la tendenza è stata ed è questa: la stragrande maggioranza degli studenti Erasmus si è concentrata in Spagna, Francia, Italia, Germania e Regno Unito e nelle scuole si studiano soltanto alcune lingue “fondamentali”. Ma il realismo non è stato, e sempre meno è, l’anima della costruzione europea che ha scelto come ideologia il “politicamente corretto”, il quale si situa agli antipodi del realismo. In fondo, nella chiacchierata conviviale con l’amico francese sarebbe bastato poco per capire cosa ci attendeva. Sarebbe bastato mettere sul tavolo accanto alle monete 391

metalliche i biglietti della carta moneta europea. In essi era condensata l’immagine dell’equivoco di fondo, della detestabile ipocrisia di cui oggi vediamo la manifestazione quando, come i famosi polli di Renzo dei Promessi Sposi, i paesi europei si beccano secondo inveterati tic nazionalisti – l’Italia che incolpa la Spagna di essere una fonte d’infezione e la Spagna che rimprovera all’Italia una cattiva riforma del lavoro – ma con le zampe legate dalle regole comunitarie. Basta guardarli quei biglietti: non una sola immagine dei grandi monumenti di un continente che raccoglie gran parte dei beni artistici del mondo, non una sola effigie dei grandi letterati, scienziati o musicisti europei. Il perché è chiaro. L’Italia avrebbe avuto l’imbarazzo della scelta nel proporre monumenti o effigie di pittori: ma ciascuno di essi doveva essere controbilanciato da un pari numero di maltesi o finlandesi. La Germania avrebbe potuto proporre stuoli di musicisti: da controbilanciare con musicisti ciprioti o bulgari. Fin dall’inizio non è stato accolto il principio che mettere il volto di Cervantes, di Newton o di Cartesio su un biglietto da 10 euro significava rendere omaggio non a uno spagnolo, a un inglese o a un francese, ma a un grand’uomo “europeo”. L’inizio del superamento delle divisioni nazionalistiche doveva manifestarsi nell’accettazione piena che le culture nazionali erano da considerare come un patrimonio comune e che, senza offesa, qualcuna ha da offrire di più. Ma non è andata così. I biglietti di carta che ci scorrono tra le dita da più di un decennio – con l’assenza di figure concrete sostituite da assurde immagini di elementi architettonici astratti – sono l’immagine della miseria morale e culturale su cui si è costruita l’unificazione e del mancato superamento delle contrapposizioni e degli egoismi nazionali. Altro che “forza gentile”… Sono ben noti gli effetti grotteschi di tale egualitarismo: per esempio, le esorbitanti spese di traduzione nelle istituzioni comunitarie. Chiunque può esercitarsi nel calcolo delle 392

combinazioni a due a due tra più di venti lingue e dell’esercito di traduttori che richiedono. Ma non è di questi effetti kafkiani che vogliamo parlare quanto delle loro cause che sono date dalla sintesi tra il politicamente corretto e il suo inevitabile compagno: la tecnocrazia e la sua pretesa di ridurre i problemi culturali a problemi tecnici. L’eurocrazia ha coltivato l’illusione che si possa creare una cultura come sintesi di una scelta “educata” e paritaria di parti selezionate delle culture nazionali o addirittura definendo a tavolino i principi di una nuova cultura europea. Nel migliore dei casi, si è consentita quella limitata scelta che evocano le immagini delle monete metalliche; nel peggiore dei casi si è inventato un ectoplasma di cultura europea ben rappresentato dal vuoto squallido della carta moneta, metafora del metodologismo puro. Inoltre, la tecnocrazia giustifica il suo vuoto con la pretesa di procedere “scientificamente”. Perciò essa deve affermare la pretesa che le regole che essa impone producano effetti verificabili, quantitativamente misurabili. Quindi, nella valutazione di un progetto culturale quel che conta non sono i contenuti, ma i parametri quantitativi che lo caratterizzano. Prendiamo il caso del programma Erasmus, che era nato con un intento di creare un effettiva conoscenza reciproca delle culture nazionali. Non è esagerato dire che i suoi aspetti positivi sono stati progressivamente erosi e vanificati dall’imporsi della dittatura dei parametri e del politicamente corretto. Se il successo del programma si misura con i numeri, ogni paese si affannerà a salire nelle classifiche di chi accoglie più studenti, senza preoccuparsi di quel che fanno, di cosa apprendono e se imparano la lingua. Ricordo bene gli studenti Erasmus di parecchi anni fa, che seguivano con scrupolo i corsi e facevano ogni sforzo per apprendere l’italiano. Ricordo bene l’intemerata che feci ai miei studenti quando risultò che la prova scritta meglio redatta in italiano era quella di uno studente olandese. Gli studenti Erasmus di ora chiedono di fare l’esame nella loro lingua, non hanno tempo e voglia di studiare l’italiano, si 393

irritano se non ottengono un buon voto anche se non sanno nulla. «Lei mi mette in difficoltà con la mia università», protestava uno studente francese bocciato perché aveva ritenuto fosse sufficiente per superare un esame di storia della matematica leggere l’articolo relativo su Wikipedia… Del resto, per capire a cosa è ridotto l’Erasmus basta navigare in rete. Un sito che fornisce consigli in materia indica la Spagna come meta ideale «soprattutto per la bellezza del paese e la voglia di divertirsi della gente». «Amante dello sci? Granada. Soffri il caldo? Evita la meravigliosa ma afosa Siviglia. Ti piace il surf? Cadice è perfetta». Uno studente italiano, alla mia proposta di seguire un corso a Parigi replicava: «A Parigi sono già stato. Mi trovi qualcosa a Barcellona o a Berlino». Inutile dire che i giovani europei non sono sciocchi e corrotti, ma percepiscono al volo che cosa si chiede loro, e cioè un insieme di procedure che rivestono il nulla. L’Erasmus è soltanto un esempio e tanti altri se ne potrebbero fare. Senza affannarsi troppo a sviluppare analisi, v’è qualcosa che rappresenta in modo perfetto il fallimento del progetto di unificazione culturale del continente: le famose otto “competenze chiave di Lisbona” raccomandate dal Parlamento europeo nel 2006. Lo abbiamo detto: la via maestra per promuovere l’unificazione culturale del continente era di assumere come base le sue culture nazionali nella loro pienezza, ricchezza e integrità, e formare nuove generazioni che le vivessero come elemento della propria identità. Sarebbe stata un’impresa titanica e certamente molto lunga che avrebbe richiesto la valorizzazione piena delle istituzioni educative e culturali di tutti i paesi, ma che era l’unica via realistica e concreta. L’alternativa era il corto circuito tecnocratico dettato dalle esigenze economiche: infischiarsene della cultura e stabilire le condizioni minime per realizzare la mobilità del “capitale umano” e la sua “integrazione nel mercato del lavoro”. Questa è 394

stata la soluzione falsamente concreta, di fatto irrealistica e distruttiva, scelta dall’eurocrazia. Le condizioni minime di cui sopra sono le otto competenze chiave di Lisbona, quella «combinazione di conoscenze, abilità e attitudini» necessarie alle “persone-risorse” del continente per la «cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione». Inoltre, siccome occorre essere “scientifici”, queste competenze debbono essere “misurabili”, in conformità con i “parametri di riferimento” stabiliti dal Consiglio d’Europa. Ricordiamone rapidamente l’elenco: 1) comunicazione nella madrelingua; 2) comunicazione nelle lingue straniere; 3) competenza matematica e di base in scienza e tecnologia; 4) competenza digitale; 5) imparare a imparare; 6) competenze sociali e civiche; 7) spirito di iniziativa e imprenditorialità; 8) consapevolezza ed espressione culturale. Chiunque può leggere i documenti ufficiali e rendersi conto come dietro queste sigle non ci sia nulla: parole vuote di qualsiasi contenuto, vuote come la carta-moneta dell’euro. Per esempio, la competenza matematica è l’abilità di applicare il pensiero matematico per risolvere problemi quotidiani, nella sfera domestica e sul lavoro. Imparare a imparare è l’abilità di perseverare nell’apprendimento. Le competenze sociali e civiche debbono servire a partecipare in modo efficace e costruttivo alla vita civile e a risolvere i conflitti. L’ottava competenza – l’unica in cui si cercherebbe una parvenza di contenuti culturali – si riduce alla «consapevolezza dell’importanza dell’espressione creativa di idee, esperienze ed emozioni» e alla «consapevolezza del retaggio culturale locale, nazionale ed europeo»: basta esserne consapevoli, quanto a conoscerlo è faccenda che non interessa. Non c’è un riferimento a una tradizione culturale, scientifica o artistica, a qualcosa di specifico che sia indicato come fondante dell’identità europea. Nulla di nulla. Come accade sempre, il vuoto concettuale mobilita chi non 395

ha nulla da pensare e sguazza nella metodologia. È proliferato così un esercito di specialisti del niente, che si sono adoperati e si adoperano con determinazione implacabile ad applicare vuote formule, a costruire le reti burocratiche e amministrative necessarie tale applicazione e a costruire la “scienza” della misurazione delle competenze. Questo esercito eurocratico, con la solita parola d’ordine «l’Europa lo vuole», è riuscito a mobilitare divisioni nazionali di soldati delle competenze che si applicano indefessamente a sostituire le conoscenze con la metodologia, il sapere con il “saper fare”, i contenuti con le regole, mediante un diluvio di prescrizioni e di formulari degni dei più soffocanti regimi dirigisti. Si è così prodotto un fenomeno straordinario e paradossale. L’intento dell’unificazione culturale si è trasformato in un progetto immenso e metodico di distruzione della cultura europea per quel che è stata realmente, il quale, passo dopo passo, divora persino il ricordo dei letterati, degli scienziati, dei musicisti, degli artisti che hanno disseminato il continente di opere artistiche e architettoniche. Questa è la “forza gentile” che come un esercito di termiti tecnocratiche sta sgretolando pezzo a pezzo le culture nazionali che dovevano essere i mattoni costitutivi dell’identità culturale del continente. Siamo certi che anche un europeista, ma colto e intellettualmente onesto quale era Tommaso Padoa-Schioppa, resterebbe inorridito di fronte a questa mutazione della “forza gentile” in un Moloch buro-tecnocratico che divora la “parte migliore” della civiltà europea. (Il Foglio 25 aprile 2012)

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12. Università: i limiti dell’abilitazione “mediana” Se il Presidente di Confindustria ha detto di aver smesso di leggere la riforma del lavoro dopo poche pagine perché gli “fumava il cervello”, la lettura del decreto per l’abilitazione nazionale a professore universitario potrebbe liquefare il cervello dei comuni mortali. Basti dire che il primo articolo è dedicato alle “definizioni” di concetti come “parametro”, “indicatore”, “mediana”. Difatti, le nuove procedure mirano a marginalizzare la soggettività dei giudizi dei commissari introducendo criteri “scientifici oggettivi”. Tra questi spicca quello della “mediana”, un numero che dovrebbe definire i requisiti minimi per far parte di una commissione giudicante e per essere ammessi al giudizio. Siamo tutti abituati a maneggiare le medie. Se ognuno dei 10 dipendenti di una piccola azienda guadagna 1000 euro al mese e il dirigente ne guadagna 12.000, la media delle retribuzioni sarà il totale diviso per il numero di dipendenti: 22.000 diviso per 11, cioè 2000 euro. La mediana è ben diversa dalla media: messi i dati, cioè i valori degli stipendi, in ordine crescente, essa è il valore di mezzo, quello che divide la lista in due parti uguali. Nel nostro esempio, cinque da ogni parte, e la mediana è 1000. Il libro sulla statistica più venduto della storia, “Mentire con le statistiche” di Darrell Huff, spiega come essa sia una disciplina che consente di manipolare, anche con intenti poco raccomandabili. Il caso di prima fornisce un buon esempio. Il datore di lavoro userà la media (la statistica del pollo di Trilussa: ogni italiano ha mangiato mezzo pollo in media, anche se non ne ha mai visto uno) per dire “come si guadagna bene nella mia azienda!”. I lavoratori risponderanno 397

con la mediana per dire “guarda che stipendi miserabili sono i nostri!” Si dirà: ma cosa c’entra tutto questo con l’università? C’entra, perché – semplificando perché non fumi la testa, ma senza tradire la sostanza – l’idea è di stimare il valore di un professore universitario giudicante o candidato con una statistica. Non con il numero delle pubblicazioni – indice troppo rozzo, che non dice nulla sulla qualità – ma con il numero di citazioni ottenute dalle pubblicazioni, che dovrebbe essere un indicatore di qualità. I professori “ammessi” sarebbero quelli che superano la mediana delle citazioni nel loro settore. A prima vista il criterio non sembra malvagio. L’esempio precedente lascia credere che la mediana difenda i “disagiati”. Niente affatto. Prendiamo i casi (autentici) di gruppi di docenti che praticano una disciplina difficile e poco citata e che appartengono a raggruppamenti in cui vi sono altri gruppi numerosi di docenti che pubblicano lavori per niente “migliori” ma molto citati. I primi avranno valori molto bassi, gli altri molto alti e la mediana si attesterà su questi ultimi. Risultato: tutti i commissari e i candidati del primo ambito (inclusi i loro settori di ricerca e didattica) saranno spazzati via. In realtà, il difetto è molto più profondo del fatto che il migliore filologo classico o fisico teorico è inevitabilmente meno citato di un mediocre genetista (si dirà che le mediane vengono calcolate per settore, anche se questo non evita problemi come quello menzionato). Esso attiene all’idea stessa che il numero di citazioni dica qualcosa circa la qualità di un lavoro scientifico. I motivi per cui si cita sono innumerevoli ed eterogenei, e non sempre irreprensibili. Si cita per esibire la propria conoscenza bibliografica, si cita per favorire gli amici, si cita sé stessi, si cita per debito intellettuale (o servilismo) nei confronti dei maestri, non si citano i lavori importanti di colleghi sgraditi o delle cordate ostili, e via dicendo. Come se non bastasse, la stima del numero di citazioni viene fatta su un 398

“database” gestito da una ditta privata, la Thomson-Reuters, che tiene scarso conto dei libri, nessuno di tutto ciò che sa vagamente di “umanistico”, e indicizza solo certe riviste che, guarda caso, sono quelle che poi sponsorizza fortemente affinché le biblioteche le acquistino. Come pretendere che via sia qualcosa di oggettivo in tutto questo? Gli ambienti universitari umanistici hanno visto il pericolo della bibliometria e hanno protestato. Quel che è stato loro concesso peggiora le cose: una divisione tra settori “scientifici” e settori “umanistici”, i primi soggetti a rigidi criteri bibliometrici, i secondi a forme di valutazione diverse, per lo più basate su classifiche di qualità delle riviste elaborate dall’Anvur (l’Agenzia di valutazione dell’università e della ricerca, che dirige l’intero processo), le quali, alla fine, utilizzano sempre un criterio di mediana, con modalità che tralasciamo per non far fumare la testa del lettore. Chi ha stilato le classifiche di qualità delle riviste? Una mente “oggettiva” di natura divina? Soltanto gruppi di ricercatori con le loro opinabili idee “soggettive”, tanto è vero che il risultato ha aperto un contenzioso senza fine. Né si vede perché mai un articolo debba essere considerato di valore perché pubblicato in una data rivista. Alla fine dell’Ottocento a Palermo nacque un Circolo Matematico che iniziò la pubblicazione di una rivista che, sebbene di terz’ordine (con i criteri dell’attuale decreto) si fece conoscere per la sua qualità editoriale. Mezzo mondo scientifico europeo guardò con simpatia all’impresa e i Rendiconti vantarono la pubblicazione di alcuni tra i più famosi articoli scientifici del primo Novecento. Chi oggi si sognerebbe di pubblicare articoli su una rivista classificata di serie C per poi vedere il suo articolo sotto la mediana indipendentemente dal suo valore? Altro che largo al nuovo e ai giovani: questa è la via maestra per sbarrare la strada alle novità e sclerotizzare definitivamente la ricerca. Ma l’aspetto più devastante è aver sanzionato per decreto 399

la divisione delle culture scientifiche e umanistiche, separate da un rigido muro valicabile soltanto attraverso il ponte della mediana. Dal lato scientifico le discipline teoriche saranno duramente ridimensionate e i pochi punti di contatto con le scienze umane (storia, filosofia della scienza) saranno spazzati via; dall’altro regnerà l’arbitrio delle classifiche delle riviste. La miopia di chi, da parte umanistica, ha chiesto un “trattamento di favore”, sta nel non aver voluto vedere che da tempo all’estero, proprio in ambiente scientifico, cresce la pubblicistica che denuncia il crollo di probità provocato dalla bibliometria dei “nefarious numbers” (i numeri scellerati), che induce a comportamenti scorretti, fino al formarsi di conventicole che citano a vicenda articoli senza valore scientifico e persino plagiati. In Australia, il governo ha abolito la bibliometria nella valutazione della ricerca scientifica. Nel nostro sfortunato paese, invece di approfittare del vantaggio di arrivare per ultimi e di valutare le esperienze altrui, siamo stati capaci di inventare una cura peggiore del male delle pastette delle commissioni: sommare all’arbitrarietà totale della bibliometria il bislacco criterio della mediana, distruggere ogni valutazione di merito a favore di tecnicismi statistici arbitrari. È diffuso un sentimento di sollievo tra chi, vicino al pensionamento, vede la prospettiva di poter continuare a far ricerca scegliendone i temi secondo criteri esclusivamente scientifici e culturali, e sottoponendo i propri risultati a una valutazione esclusivamente di merito; anche se è un sentimento egoistico, pensando a chi dovrà sopravvivere in un contesto destinato a diventare un deserto culturale. (Il Messaggero, 30 giugno 2012)

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13. Se la statistica rottama le scienze umane In questi giorni migliaia di docenti universitari o di aspiranti tali sono stati impegnati nel compito di immettere in rete decine di migliaia di dati relativi alle proprie pubblicazioni, che saranno valutate con il numero di citazioni ricevute. Su questa base sarà determinato il valore sotto il quale non si potrà accedere alla prova nazionale di idoneità a docente universitario e non si potrà essere commissario di concorso. È la famosa “bibliometria”, la determinazione della qualità di un articolo mediante il numero di citazioni, che suscita tante controversie e che ha terrorizzato gli studiosi di scienze umane, poiché i “database” che raccolgono le citazioni trascurano questi settori di ricerca a vantaggio delle scienze “dure”, della medicina, dell’economia. Per placare questi timori le scienze umane sono state sottratte alla quantificazione bibliometrica, valutando la qualità degli articoli secondo classifiche delle riviste in cui sono pubblicati, le quali hanno suscitato riserve a non finire, per i criteri arbitrari con cui sono costruite. Chi ha patrocinato tale divisione in due del sapere non si è reso conto di aver favorito due esiti gravi: la sanzione per legge della divisione tra cultura scientifica e cultura umanistica e l’aver chiuso la seconda in una riserva indiana che, come quelle americane, è destinata all’estinzione. È un processo che sarà accelerato dalla tendenza sempre più spinta a invadere il campo delle scienze umane con approcci quantitativi che soppiantano quelli tradizionali. Da tempo è di moda sostituire agli studi filologici classici dei testi letterari, analisi statistiche informatiche: calcolo di quante volte ricorre tale parola nella Divina Commedia, e così via. Ora c’è chi punta direttamente a ridurre la storia a statistica ed econometria. 401

Un esempio può illustrarlo. È noto che l’espulsione degli scienziati ebrei dalla Germania nazista produsse un depauperamento della scienza tedesca a favore di quella americana che assorbì migliaia di studiosi togliendo alla Germania la posizione leader nel campo scientifico e culturale. I tanti libri e articoli scritti sull’argomento sono ciarpame inutile per i fautori dei metodi quantitativi che hanno ricominciato tutto daccapo, esaminando l’impatto dell’espulsione degli ebrei dalle università tedesche con metodi statistici e bibliometrici. Sarebbe lungo citare le numerose “ricerche” in tale direzione. Menzioniamo soltanto, a titolo di esempio, quelle del tedesco Fabian Waldinger che, in una serie di articoli, ha prodotto due risultati principali. Il primo è che l’impatto delle leggi razziali è stato dannoso sulla qualità degli studenti di dottorato; il secondo è che l’impatto è stato modesto sulla qualità scientifica dei colleghi degli espulsi. Sono ovvietà evidenti a priori, perché se è chiaro che la sparizione di specialisti unici detentori della competenza in certi settori non poteva non colpire la formazione dei giovani ricercatori, non è strano che ricercatori già formati possano aver continuato a produrre nel loro ambito. Piuttosto, sarebbe stato interessante notare che questi ultimi, anche se sono stati in grado di galleggiare individualmente, non sono stati in grado di riparare il disastro per la scienza e la cultura tedesca. Dal resto è sotto gli occhi di tutti che queste non hanno mai più riacquisito il ruolo egemone che avevano un tempo. Ma queste osservazioni l’autore non poteva neppure provare a formularle perché la competenza in statistica ed econometria non basta a valutare questioni di contenuto, come il fatto che fosse un danno irreparabile la perdita dei migliori algebristi (in un periodo in cui questa disciplina aveva un ruolo cruciale nella fisica teorica) o degli unici competenti in teoria della turbolenza. Ma queste faccende di contenuto non interessano alla strana orda di barbari culturali che s’avanza; la quale, con incredibile supponenza, pretende di fare la storia con quattro grafici bibliometrici; il tutto per produrre un misto di 402

banalità, di tesi revisioniste (il nazismo non avrebbe poi fatto tanto male alla scienza) e di ricette insensate (far lavorare insieme scienziati di primo piano sarebbe inutile). Ed ecco il paradosso finale. Mentre gli scienziati di base delle scienze “dure” si ribellano sempre più duramente alla sostituzione dei giudizi di contenuto con un uso sgangherato della statistica e ne ottengono (all’estero) un ridimensionamento, questa pretende di colonizzare le scienze “molli”, con i metodi quantitativi delle scienze “esatte”, indipendentemente dalla qualità dei risultati. Nel nostro paese, dove il carattere di riserva indiana delle scienze umane è stato decretato per legge, lo svuotamento della riserva da parte di queste nuove forme di barbarie culturale potrebbe essere più rapido e facile. (Il Giornale, 18 luglio 2012)

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14. Intervento al Meeting di Rimini 2012 Quest’estate ho scelto, tra le letture estive, un vecchio libro che apparteneva a mio padre. Si tratta di un testo scritto nella Spagna del secolo XI da un mistico ebreo, Bayha ibn Paqûda, dal titolo Introduzione ai doveri dei cuori. È un’opera che vuole contrastare la tendenza a una visione materialista e pragmatica della religione e sottolineare l’importanza primaria di una visione spirituale. L’uomo – dice Paqûda – è sintesi di anima e corpo e la religione propone sia precetti materiali, pratici, rivolti al corpo, che precetti spirituali, rivolti all’anima. Sono quelli che egli chiama rispettivamente doveri del corpo e doveri dell’anima, per affermare che i doveri dell’anima sono molto più numerosi e importanti di quelli del corpo. Tra essi si annoverano precetti fondamentali e difficili come “amare Dio”, “avere fiducia in Lui”, “amare il prossimo come sé stessi”, “amare lo straniero come il prossimo”. L’edizione in possesso di mio padre è una traduzione in lingua francese opera di un celebre studioso ebreo francese, André Chouraqui, e pubblicata nel dopoguerra con l’introduzione di un altrettanto celebre pensatore cattolico francese, Jacques Maritain. Chouraqui la fece durante l’occupazione nazista della Francia, mentre era clandestino e faceva parte della resistenza. È una storia straordinaria: di giorno egli partecipava a delle azioni, la sera, al rientro, dedicava alcune ore a questo lavoro. Egli scrive nell’introduzione: «Nel corso di viaggi incessanti, tra montagne e foreste […] la meditazione dell’opera che traducevo iniziava alle discipline interiori provate dalla testimonianza dei martiri e dei santi. Bayha insegnava la lunga pazienza alle sorgenti 404

dell’essere, dove l’unità trionfa di tutte le violenze, l’unità dell’amore più potente dei frutti amari di tante morti. Al ritorno di ogni missione ritrovavo la pagina da completare, maturata nell’azione quotidiana». Perché ho introdotto un argomento che sembra fuori tema? Perché questa vicenda straordinaria mi ha fatto venire in mente una domanda: come è possibile affrontare una situazione drammatica, una crisi epocale, senza un alimento di spiritualità, senza una fiducia profonda nel senso dell’esistenza? Certo, il paragone tra la crisi che noi viviamo e il dramma della Seconda guerra mondiale può apparire quasi offensivo per quest’ultimo; nonostante la nostra crisi sia contrassegnata da un deserto morale piatto e desolante che rende ancor più impellente l’esigenza di una prospettiva, di una finalità che dia senso all’esistenza. Ma quel che ha mi suggerito questa vicenda è che è impensabile affrontare una crisi senza una prospettiva spirituale. Non il mero uomo materiale - il “mero uomo di fatto”, per dirla con Husserl – può vincere una crisi, ma la persona, sintesi di materialità e spiritualità, di doveri etici e di doveri morali. Non per captatio benevolentiae nei confronti del pubblico del Meeting citerò don Giussani, ma perché è evidente che non mi era possibile non rilevare la consonanza tra queste considerazioni e una frase di don Giussani che ho letto in una delle varie presentazioni dei temi del Meeting. E la frase è questa: «Quando la morsa di una società avversa si stringe attorno a noi fino a minacciare la vivacità di una nostra espressione, e quando una egemonia culturale e sociale tende a penetrare il cuore aizzando le già naturali incertezze, è venuto il tempo della persona». È il momento dell’autocoscienza, «una percezione chiara e amorosa di sé, carica della consapevolezza del proprio destino». Non è forse evidente quanto tutto ciò abbia a che fare, e profondamente, con l’educazione, ovvero con l’atto più 405

importante con cui una società si autoperpetua, con cui scrive il proprio destino? E come può affrontarsi il tema dell’educazione se non come un problema di rapporti di persone? E come può affrontarsi una crisi educativa se non chiamando in gioco il tempo della persona, la definizione del suo destino, dei fini spirituali che individuano e guidano questo destino? E ha senso affrontare invece questa tema e questa crisi, anziché in termini di persone, di rapporti di persone, e di fini di persone, parlando di capitale umano, concependo l’istruzione come un incremento misurabile, un “valore aggiunto” del capitale umano, magari misurabile come un’utilità marginale? Eppure ci si vuol far credere che questo approccio economicista e formalista sia l’unico approccio razionale al problema dell’educazione. A me pare che si tratti invece di un approccio che è il contenitore di un grande e drammatico vuoto spirituale e morale, un vuoto da cui non può uscire nulla, men che mai il superamento di una crisi di prospettive. Quel che misura questo tremendo vuoto è la tendenza che sempre più prevale in questi anni nell’insegnamento: un crescente e quasi sprezzante disinteresse per i contenuti – le tanto denigrate “conoscenze” – a favore di un interesse esclusivo per i metodi, le tecniche. Ma – ci si chiede – per cosa esiste il processo dell’istruzione se non per trasmettere e aiutare ad acquisire con i propri mezzi (entrambe le cose!) concetti, contenuti, conoscenze, cultura, in nome di un antico e sempre valido principio, e cioè che la conoscenza è libertà? Un processo di educazione e istruzione ridotto all’applicazione di un insieme di tecniche di apprendimento è semplicemente annientato come tale. In questi ultimi anni, assieme a mia moglie Ana Millán, ho dedicato molto del mio tempo alla scrittura di un libro appena 406

uscito, dal titolo Pensare in matematica (Zanichelli), la cui principale ambizione è affrontare il problema difficile dell’insegnamento della matematica al livello di base elementare (e quindi delle scuole primarie), ma più in generale a introdurre chi non ne sa nulla a questa disciplina ostica e screditata perché considerata arida, difficile e repellente. La convinzione profonda che ci ha guidato è che, per risolvere le difficoltà dell’insegnamento e dell’apprendimento della matematica, la via sia quella di restituire la matematica alla cultura. Per questo, per sottolineare l’unità della conoscenza, la copertina del libro riproduce un dipinto di Botticelli in cui Venere introduce un giovane allievo al cospetto delle sette arti liberali. La matematica non è una disciplina di calcoli pratici, aridi e noiosi quanto purtroppo necessari. È una disciplina speculativa che ha un rapporto profondo e costitutivo con la filosofia e persino con la teologia. A chi gli chiedeva perché avesse deciso di studiare matematica, un grande matematico italiano, Federigo Enriques, rispondeva: «Per un’infezione filosofica liceale». La matematica è la scienza che si è proposta di sfidare l’infinito: “la matematica è la scienza dell’infinito”, diceva un altro grande matematico del Novecento, Hermann Weyl. Il tema dell’infinito è proprio il tema centrale del Meeting di quest’anno, che si misura con la grande inesauribile questione: come mai noi esseri finiti siamo capaci di pensare l’infinito, e fino a che punto si spinge questa intuizione dell’infinito? Uno studio profondo e non meramente pratico della matematica conduce proprio a questa domanda, in definitiva irrisolta, se non in questo senso: che la matematica è riuscita nell’impresa di manipolare l’infinito mostrando al contempo l’impossibilità di dominarlo. Per cui, essa contribuisce a farci capire come la caratteristica paradossale dell’uomo sia di intuire e pensare l’infinito pur restando irriducibilmente separato da esso, da una 407

sua completa acquisizione. Questa è la matematica che può suscitare interesse e passione, non certo il trucco di renderla digeribile presentandola come un insieme di ricette pratiche, utili per la vita quotidiana, per fare la dichiarazione dei redditi o calcolare percentuali. È quella squallida trovata della cosiddetta “matematica del cittadino”, che non rende la matematica più attraente, ma riesce a oscurare il senso dei suoi concetti. Subiamo il pontificare di persone che non sanno e non capiscono nulla di matematica ma sono eruditi di una scienza – mai come oggi chi non capisce nulla di scienza abusa di questa parola –, la tecnica dell’apprendimento. In realtà, trattasi di una pseudoscienza, praticata da un esercito di esperti del nulla rivestito di metodo i quali, in un nome del primato della tecnica, distruggono l‘unico autentico motore del processo educativo: la passione e l’interesse. Non è difficile capire perché una tendenza caratteristica delle istituzioni educative sia il progressivo accantonamento delle persone dotate di cultura e conoscenza a favore dei cosiddetti “esperti”. È il fenomeno che è stato definito col termine di dittatura degli esperti, o dittatura della tecnocrazia. Sembra che ormai l’istruzione sia di pertinenza esclusiva degli “economisti della scuola”, degli statistici o di categorie che sembrano inventate nel contesto di una parodia, come quella degli “esperti di gestione dei sistemi complessi”. Non si sa in nome di quale legge naturale il ricorso agli “esperti”, alle statistiche, ai test darebbe la garanzia di conseguire il mito dei tempi nostri, l’oggettività. Ma è sotto gli occhi di tutti a quali risultati sgangherati, per non dire efferati, abbia condotto l’uso dei test, delle statistiche, delle cosiddette “misurazioni oggettive”: autentici affronti all’oggettività. Basti pensare al concorso per dirigenti scolastici, alle prove a quiz per il TFA (Tirocinio Formativo Attivo), a certi test Invalsi, ai test di ammissione a certi corsi di laurea universitari, dati in 408

gestione a ditte private che, non si sa perché, offrirebbero garanzie di serietà e rigore. Nei confronti degli insegnanti – che, bene o male, nella maggior parte dei casi, hanno superato qualche selezione – si nutre una diffidenza sconfinata, mentre gli sconosciuti e mai valutati esperti di società private autocostituitesi per preparare test sarebbero a priori persone serie e competenti. Si guardi a quel che sta accadendo all’università. La difficoltà di valutare nel merito e nei contenuti – l’unico modo serio di procedere – un numero enorme e crescente di testi scientifici ha indotto a ricorrere a procedure automatiche, in particolare al conteggio del numero di citazioni e a una serie di parametri collegati che, si pretende, offrirebbero garanzie di rigore e di oggettività che non offrirebbe il primo approccio. È la cosiddetta “bibliometria”, che è oggetto di critiche sempre più forti e sviluppate da personalità e istituzioni di primo piano – come la International Mathematical Union e l’Institute of Mathematical Statistics – e che ha condotto in Australia a proscriverne l’uso. Ad ogni modo, negli USA – dove la bibliometria si è sviluppata, al pari delle critiche odierne – essendo il sistema universitario e della ricerca privatistico, c’è chi ricorre a questi metodi, e in versioni disparate, c’è chi non vi ricorre. Invece, in Italia, abbiamo realizzato l’exploit unico al mondo di imporre una bibliometria di stato sotto il controllo di sette personaggi di nomina politica che costituiscono il direttivo di un nuovo onnipotente organismo, l’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca). A Ferragosto l’Anvur ha comunicato le “mediane”, ovvero i numeri al disotto dei quali un docente non potrà essere candidato ai concorsi per l’abilitazione nazionale e un candidato non potrà fare domanda. Sarebbe lungo dettagliare tutti i risultati folli prodotti dalla bibliometria di stato all’italiana. Mi limiterò a citarne uno che riguarda me come i miei colleghi storici della matematica, tutti esclusi a priori dalla possibilità di essere commissari o candidati. Siamo tutti somari? Gli autentici 409

somari sono altrove. La spiegazione è che le nostre numerose e prestigiose pubblicazioni non valgono nulla per il semplice motivo che, trattandosi per lo più di libri, articoli in volume ed edizioni critiche, non sono indicizzate dalla ditta privata (Thomson Reuters) al cui database l’Anvur si riferisce per calcolare i suoi parametri, e che considera soltanto articoli su certe riviste, e ignora tutto ciò che sa vagamente di umanistico. Che dire? Simili esiti non sono certo una vergogna per chi ne è la vittima ma per chi ha escogitato un simile demenziale marchingegno. E soprattutto: soltanto in un paese privo di cultura liberale e devastato da vent’anni di fascismo seguiti da qualche decennio di un’altra egemonia culturale totalitaria, quella comunista, poteva capitare di assoggettare la ricerca a un controllo di stato che ha poche analogie storiche. In Italia, burocrazia ministeriale e dittatura degli esperti del nulla stanno producendo forme di dirigismo statalista mostruose che nulla hanno a che vedere – e anzi sono in piena contraddizione – con l’idea classica dell’istruzione pubblica. Vorrei concludere con un’osservazione che può sembrare, a prima vista, fuori tema. La riassumerei nell’avvertimento: difendiamoci dal materialismo. Sia ben chiaro: questo non vuol dire che non sia legittimo essere e dirsi materialisti, né di dirimere questioni filosofiche che tengono in affanno l’umanità da più di due millenni. Ma, per l’appunto, quel che è inammissibile è che si dia sempre più per scontato che, per essere considerati razionali, “scientifici”, in una parola rispettabili, occorra essere materialisti. Ricordo le parole di don Giussani circa le egemonie culturali e sociali che tendono a penetrare il cuore aizzando le già naturali incertezze. Oggi, l’egemonia culturale del materialismo tende non solo ad aizzare le naturali incertezze ma a far sentire come “vergognosa” qualsiasi posizione diversa, in particolare una visione spiritualista, al punto di identificare scientificità con materialismo e a far assurgere il materialismo a filosofia di 410

stato. Si pensi alla crescente insistenza a fare delle neuroscienze un sostituto della filosofia e persino della teologia, quando si identifica il senso della trascendenza con la presenza di certe conformazioni neuronali e, in tal modo, si distrugge la religiosità riducendola a un fatto materiale contingente. Nel campo educativo questo si manifesta nella pretesa di voler ridurre tutto a questioni di neuroscienze, di neuroni e di sinapsi. Il massimo rispetto per le neuroscienze non toglie la profonda verità di quanto diceva il celebre filosofo Paul Ricoeur, quando osservava che è interessantissimo studiare cosa succede nel cervello quando penso, ma che il cervello è oggetto di scienza e non soggetto, e che per pensare non occorre neppure sapere di avere un cervello. Aristotele, sant’Agostino, Maimonide, Galileo o Newton hanno pensato benissimo – molto meglio e più profondamente di tanti contemporanei – senza avere la minima idea di cosa fosse un neurone o una sinapsi. Risolvere i problemi dell’insegnamento con le neuroscienze? Basta osservare attentamente la povertà, per non dire la miseria, dei tentativi in questa direzione per capire che si tratta soltanto di una pretesa ideologica che ha un solo effetto: prosciugare il terreno di un approccio di contenuto e di senso, sviando l’attenzione di molti (suggestionati dalle mode e timorosi di essere considerati retrogradi) verso perline luccicanti quanto prive di valore. Una delle manifestazioni deteriori di questo materialismo è quella tendenza che potremmo chiamare la medicalizzazione dell’istruzione e che si basa sulla riduzione di ogni difficoltà di apprendimento a disturbi funzionali, a una condizione di “anormalità”, da trattare non con strategie educative bensì con strumenti psicologici, con supporti materiali e persino decretando per alcuni (troppi) soggetti la loro minorità strutturale e percorsi di apprendimento semplificati e ridotti. Non si tratta certo di minimizzare l’importanza di curare le forme di disabilità. Ma è un affronto alla disabilità e ai veri 411

disabili ampliare la platea dei “disturbati” a percentuali incredibili. E tutto questo inventando disturbi che, a differenza della dislessia, non hanno alcun serio fondamento, come la “discalculia”, che viene diagnosticata e trattata per lo più da persone che non hanno alcuna seria conoscenza della matematica, e spesso anzi ne hanno idee distorte, alimentate da pseudomatematici compiacenti. In fin dei conti, quello cui si assiste con l’espansione esponenziale delle diagnosi di questi “disturbi” è una vera e propria fuga dalle responsabilità, una resa, la rinuncia ad affrontare con l’amore e la competenza difficoltà che possono essere superate, e che quantomeno vanno affrontate fino in fondo sul terreno proprio dell’istruzione prima di arrendersi a trattarle come disturbi o malattie strutturali. In conclusione, nel campo educativo occorre rimettere al centro conoscenza, interesse, passione, ricerca del senso. Inoltre, occorre rimettere al centro il rapporto tra maestro e allievo. L’esigenza di un insegnamento che fornisca allo studente gli strumenti per procedere con le proprie gambe, che non sia nozionistico, che non sia meramente “trasmissivo” è indiscutibile. Ma è inaccettabile che questo venga pensato come l’esigenza di marginalizzare la figura dell’insegnante, ridotto a “facilitatore”, a una sorta di “animatore” del processo autonomo di apprendimento. L’insegnamento vero è anche trasmissione di conoscenze e metodi da parte di un maestro. Anche su questo voglio ricordare le belle pagine di don Giussani sull’educazione per testimonianza. Come egli osserva, senza un “testimone” che, per la sua autorevolezza e capacità ispiri fiducia, non si va da nessuna parte, si resta confinati in un metro quadrato. È ridicolo pensare di poter ricostruire da soli la conoscenza e verificare tutto. Non ho mai fatto né mai farò l’esperienza di Michelson-Morley, ma “credo” nella sua validità sulla base di testimonianze attendibili. Non potrei certo rifare da solo tutto il percorso della fisica. 412

Quindi, l’educazione è, in primo luogo, testimonianza. E come può esistere una testimonianza priva di contenuti e di senso e ridotta a mera tecnica e metodo?

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15. Cambiare i concorsi senza merito Il tentativo di riaprire i concorsi fermi da anni sta gettando nel marasma l’università italiana. La materia ha aspetti tecnici indigesti ma la sostanza è chiara e di interesse generale. Il nodo da sciogliere è come selezionare i nuovi docenti evitando arbitrii e favoritismi. Ciò richiede un processo di valutazione della ricerca scientifica quanto più possibile imparziale. Se chiedessimo a una persona ragionevole come valutare un lavoro scientifico la risposta non potrebbe che essere: leggendolo. Beninteso, facendolo leggere a più lettori competenti e indipendenti, con regole che garantiscano imparzialità. Questa è la procedura classica (“peer review”), che ha pregi evidenti pur non garantendo del tutto dall’arbitrio e dagli errori. Il guaio è che la produzione scientifica è cresciuta in modo esponenziale ed è sempre più difficile leggere con calma e serietà i milioni di articoli che si affacciano ogni anno sulle migliaia di riviste scientifiche, per non dire dei libri. Di qui l’emergere della “bibliometria”, la cui essenza si compendia nella formula: valutare i lavori scientifici senza leggerli. È l’imitazione dei procedimenti di valutazione dei prodotti commerciali. Nessuno si sognerebbe di aprire e assaggiare tutte le scatole di pelati immesse sul mercato. Basta fare un’indagine di mercato analizzando il gradimento del prodotto dei consumatori. Nel nostro caso si tratterebbe di raccogliere le valutazioni dei lettori di un articolo, il che è praticamente impossibile. L’idea è allora di assumere come indicatore di qualità il numero di citazioni del lavoro scientifico e di valutare “prodotto” e autore attraverso alcuni parametri statistici, circa i quali non affliggeremo il lettore. Il fatto paradossale è che lo studio delle citazioni fu pensato, in ambito sociologico, per dimostrare che la scienza non è un’attività di ricerca del vero, 414

bensì un’impresa condizionata da tanti aspetti sociali. Difatti, si cita per motivi tutt’altro che “oggettivi”: per esibire le proprie conoscenze, per debito intellettuale, per servilismo accademico, per esaltare la propria scuola, per denigrare qualcuno, si omette di citare per ostilità tra scuole, ecc. Assumere il numero di citazioni come indice oggettivo della qualità di un lavoro scientifico è paradossale. Inoltre, è noto che quanto più un indicatore sociale è usato per assumere decisioni e tanto più è soggetto a pressioni corruttive e distorce i processi sociali che deve monitorare: è la cosiddetta legge di Campbell o di Goodhart. Numerose ricerche hanno mostrato che la bibliometria induce comportamenti scorretti: persone o gruppi che si citano all’impazzata per far crescere i loro parametri, mentre l’analisi di contenuto degli articoli citati rivela spesso una qualità infima, e persino casi di plagio. In fondo, il vizio è nell’idea di mutuare metodi appropriati alla produzione di merci ma non a quella delle idee. Un indice di qualità delle scatole di pelati è la loro standardizzazione, cioè che i prodotti siano il più possibile simili, in modo che aprendoli non vi siano sorprese. Ma standardizzare la ricerca scientifica e la cultura è un obbiettivo demenziale e distruttivo: il valore dei lavori scientifici sta nella loro individualità: l’uno è eccelso, l’altro modesto ma utile, un altro è da cestinare. Perciò, non si scappa: vanno letti. Le citazioni rendono conto della qualità in minima parte, tanto più se la base di dati dei lavori citati è gestita da ditte private interessate a censire solo le riviste, e solo certe riviste, ignorando i libri e tutto ciò che ha a che fare con la cultura umanistica. Per queste e molte altre ragioni la bibliometria è aspramente criticata, proprio negli USA dove è nata e proprio negli ambienti scientifici. Comunque, non v’è paese al mondo in cui la bibliometria sia una procedura di stato per selezionare i docenti. Negli USA i docenti sono reclutati per lo più discrezionalmente dai direttori di dipartimento. Poi, assunto e direttore saranno chiamati a rispondere del loro operato. 415

In Italia si sta mettendo in opera qualcosa di unico al mondo, e con enorme sperpero di risorse: la bibliometria di stato gestita insindacabilmente da un ente di nomina politica, l’Anvur (Agenzia di valutazione dell’università e della ricerca). In realtà, le intenzioni dichiarate dalla politica durante l’approvazione della riforma erano opposte: “Mai una valutazione a monte, bensì a valle. Le università assumano liberamente e poi saranno valutate, premiate o penalizzate secondo gli effetti delle loro decisioni”. Ma la cultura liberale in Italia è debole e le intenzioni si sono ribaltate. Ministero e Anvur hanno dettato i criteri statistici – anche qui ricorrendo a un sistema unico al mondo, il calcolo della “mediana” – che determinano chi ha diritto a entrare in commissione e a presentarsi come candidato. Il sapere è stato diviso in due, tra settore scientifico (soggetto alla bibliometria) e settore umanistico, comunque soggetto a parametri statistici basati sulle citazioni e una classifica di qualità delle riviste decisa dall’Anvur. Sono emerse situazioni assurde, ingiustizie patenti, e il verificarsi della legge di Campbell, con l’arrembaggio a farsi classificare al primo livello le proprie riviste. Le proteste dilagano e si prospettano numerosi e fondati ricorsi legali. È il marasma di cui si diceva all’inizio. Di fronte a questa situazione l’Anvur ha prodotto un imbarazzante documento. Da un lato si ammette che i metodi di calcolo sono cambiati a più riprese, per evitare situazioni platealmente assurde, fornendo così ironicamente la dimostrazione della mancanza di oggettività della bibliometria. Dall’altro, si tenta di scaricare la responsabilità sul decreto ministeriale, in cui le definizioni statistiche sarebbero ambigue, e si lamenta di non aver potuto disporre di un’anagrafe della ricerca. L’autocritica è evidente ma è troppo parziale: ci si ostina a dire che la metodologia scelta non da luogo a risultati inaccettabili, mentre le prove del contrario sono evidenti. Inoltre, tentare di uscirne aprendo un palleggio di responsabilità col ministero significa aprire la strada alla catastrofe finale. 416

Una persona ragionevole deve chiedersi “come uscirne”, nel presupposto che ostinarsi è irragionevole. Se non si vuole andare avanti a costo di finire sugli scogli, né scegliere la via opposta (la più onesta) di dire “ci siamo sbagliati, ricominciamo presto tutto daccapo”, la via per salvare i concorsi è una sola. Il Ministero emetta un provvedimento con forza normativa secondo cui i calcoli delle “mediane” dell’Anvur sono un elemento di valutazione tra i tanti di cui le commissioni terranno conto nel giudizio dei candidati, e non sono un fattore di esclusione dei commissari. I difetti di una simile scelta sono evidenti, ma sarebbe scandaloso commettere ingiustizie (escludere commissari validissimi e demolire interi settori) solo per salvare le teorie sballate dell’Anvur. In futuro, un’Anvur opportunatamente ripensata dovrà attenersi alla funzione davvero utile: valutare ex-post le scelte fatte e i risultati ottenuti, senza fanatismi statistici, e senza assumere un ruolo da commissariato tecnico-politico. V’è infine un aspetto singolarmente trascurato. Un professore universitario non è solo un ricercatore ma anche un insegnante. L’università ha la funzione di formare e non solo di produrre ricerca. Vi sono docenti che insegnano senza far ricerca da anni, ma vi sono studiosi che si occupano egoisticamente delle proprie ricerche insegnando poco o male. È sconcertante che questo aspetto sia assente nella valutazione, mentre è centrale nei sistemi universitari di qualità che proclamiamo di voler imitare. Basterebbe questo per accantonare il pessimo lavoro che è stato fatto. (Il Messaggero, 18 settembre 2012)

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16. Come sfasciare la scuola in 12 mosse Il ministro Profumo lancia un “patto” per la scuola. Un “patto” è qualcosa che presuppone un confronto, un accordo e allora è sembrato che fosse venuta l’ora del dialogo e, in questo spirito, ho commentato l’intervista del ministro al Messaggero in cui egli lanciava questa idea del “patto”: http://www.senato.it/notizie/RassUffStampa/121015/1lsohp.pdf. Poi ho letto la frase pronunciata dallo stesso ministro alla convenzione Diesse e commentata sul Sussidiario da Fabrizio Foschi: «La scuola, come luogo fisico, diventerà un ambiente di interazione allargata e di confronto, che mano a mano supererà gli spazi tradizionali dell’aula e dei corridoi. La immaginiamo come un vero e proprio Hub della conoscenza. Aperto agli studenti e alla cittadinanza, centro di coesione territoriale e di servizi alla comunità, un vero e proprio centro civico». L’ho letta e mi sono detto che è troppo, francamente troppo. Dice cortesemente il titolo dell’articolo di Foschi che al centro civico di Profumo mancano le parole “educazione” e “docente” . Nel testo si dice che la scuola è un’altra cosa. Infatti, al “centro civico” di Profumo manca semplicemente la scuola. Sarebbe impietoso riferire i commenti di quei giovani che egli vuole sedurre (alla maniera di quegli anziani descritti nella Repubblica di Platone) alla lettura di questo brano. Un luogo fisico che supera gli spazi delle aule e dei corridoi? Per allargarsi a che? Alla palestra, ai gabinetti (possibilmente meno intasati e puzzolenti di quanto lo siano in media attualmente), al cortile, fino a finire in strada? E quali servizi verranno prestati 418

alla comunità? L’emissione di carte d’identità, qualche piatto caldo, la visita medica per il rinnovo della patente? “Hub della conoscenza”... Davvero inedita – ma per nulla sorprendente – la contaminazione tra linguaggio ingegneristico e linguaggio da centri sociali. Già, perché lasciando da parte le facili ironie, è proprio questa contaminazione che costituisce il segno delle politiche ministeriali dell’istruzione. Basta vedere il recente video zuccheroso e privo del più elementare senso dell’humour affidato dal Miur al cantante Roberto Vecchioni (ma è proprio il caso di buttare dalla finestra così i pochi quattrini disponibili?). Sfilano immagini di inesistenti classi supermoderne, con un computer per banco (pardon, tavolino), lavagne interattive multimediali, mentre si alternano volti improbabili di ragazze e ragazze che si sganasciano in sorrisi da pubblicità di dentifrici. Tutto così dolce, sereno e tecnologico. La voce suadente del cantante “democratico” per definizione ricorda che «c’erano un tempo i libri di carta, c’erano le lavagne col gesso» e - udite, udite – «un tempo si credeva che si potesse imparare soltanto dalle maestre e dai professori»... Un tempo c’erano i trogloditi, che insegnavano con carta e gesso, bastonando con la mazza chi non ascoltava e obbediva. Oggi apprendiamo dalla vita... C’è internet, ci sono i libri elettronici, le lavagne digitali e «noi insegnanti», mettendo via la mazza da trogloditi, abbiamo persino capito che abbiamo da imparare dai ragazzi. Viene in mente l’inossidabile commento di Platone sul «bello e baldanzoso principio da cui si genera la tirannia»: «che il maestro tema e aduli gli scolari, e gli scolari facciano poco conto dei maestri e dei pedagoghi; e in tutto i giovani si mettano alla pari con gli anziani e con essi gareggino a parole e in atti; e i vecchi cedendo ai giovani si mostrino pieni di arrendevolezza e imitino i giovani per non sembrare né sgraditi né autoritari». È la fotografia delle visioni del nostro ministero. Quanto precede apre territori sterminati al sarcasmo ma 419

con quale utilità? Lo spettacolo non è serio, ma la situazione è grave e c’è poco da ridere. Per imbastire discussioni costruttive occorre un terreno minimo di serietà. Si può parlare di tutto, confrontare dottrine pedadogiche diverse, anche dibattere sulla figura dell’insegnante tra “maestro” e “facilitatore”, ma quel che non è ammissibile è proporre come base una rappresentazione caricaturale al limite dell’autolesionismo per cui tutto finora sarebbe stato un colossale errore e soltanto adesso avrebbe inizio la storia di una vera scuola moderna e “democratica”. E quale incosciente pretesa farlo dal fondo di una crisi epocale del sistema dell’istruzione su cui pure hanno avuto campo libero da qualche decennio proprio quelle teorie sventolate come toccasana! Nessuna discussione seria è possibile se si prende come punto di partenza la derisione della scuola della carta e del gesso, che dava un ruolo troppo centrale a maestre e professori, come se quella scuola non avesse prodotto il meglio della cultura nazionale di fronte al quale l’immagine del presente desta un senso di pena. È semplicemente penoso confrontare le barriere sociali che pone la scuola di oggi – tanto più quanto più solletica idee ludiche e si prostra davanti al soggetto studente – di fronte all’ascensore sociale che era possibile nella scuola italiana postunitaria; quando il futuro “signor scienza italiana” Vito Volterra, figlio di una vedova indigente e destinato al mestiere di impiegato, riuscì a farsi valere in un Istituto Tecnico sotto la guida di un professore di fisica che ebbe l’autorità (quale professore di Istituto Tecnico l’avrebbe oggi?) per farlo entrare alla Normale di Pisa. Nessun rimpianto per vecchi modelli ma, per favore, lasciar sfottere un passato rispettabile da un canzonettista, con slogan di una retorica vuota e bolsa, indica il livello culturale cui è giunto il nostro ministero, capace ormai soltanto di un dirigismo statalista e di operazioni di propaganda che indicano la discendenza dal modello autoritario costruito da Giuseppe 420

Bottai. Cosa di buono può venire da tutto ciò? Il ministro Profumo è da poco al ministero e non è responsabile di tante cose negative accumulatesi nei decenni e di cui portano la massima responsabilità diversi suoi predecessori. Ma è ormai il caso di chiedersi cosa abbia fatto di buono in questa breve permanenza. 1) Si è trovato davanti al dossier del nuovo regolamento per la formazione degli insegnanti e invece di implementarlo ha dato spazio alla guerra della dirigenza ministeriale contro i numeri proposti dalle università per le lauree magistrali e per il Tirocinio Formativo Attivo. 2) Ha definitivamente affossato le dette lauree magistrali per la formazione degli insegnanti, che erano uno degli aspetti più innovativi di quel regolamento e la cui preparazione aveva stimolato un inedito coinvolgimento delle università nel rapporto con le scuole. 3) Ha lasciato che le prove di ammissione al TFA fossero gestite nel modo più contrario allo spirito del regolamento e cioè con batterie di test che, anziché servire a una scrematura iniziale, sono state una esibizione indecorosa di nozionismo e di errori sesquipedali. 4) Anziché cassare queste prove, chiedere scusa e ricominciare in modo serio, ha fatto “aggiustare” la baracca da una commissione in forme a dir poco discutibili. 5) Alla vigilia dell’esame di maturità, di fronte alla richiesta di pronunciarsi contro la prassi del “copiare”, ha nicchiato ed ha evitato di prendere posizione. Basterebbe questo a dire quanto sia “internazionale” la posizione del ministro, ove si pensi a quanto sia considerato scandaloso copiare negli USA, dove si è scatenato un dibattito acceso circa le vie oblique che offrirebbe al copiare la procedura del “copia e incolla” da internet. 6) Ha preso posizione con grande leggerezza sul tema dei 421

compiti a casa, che merita riflessione e non dichiarazioni estemporanee e su cui, comunque, il ministero non deve mettere becco, lasciando al docente la libertà di metodologia didattica, a meno di non tornare a stili autoritari di stampo “bottaiano”. 7) Ha fatto dichiarazioni a ruota libera sulla scuola che deve diventare web community, con la sostanziale abolizione dei libri, mentre le conoscenze debbono essere costruite attraverso lo studio collettivo e in rete degli studenti, “verificate” in classe con l’aiuto dei docenti, in un’alternanza docente-studente sulla cattedra. Il tutto per finire con la proposta della scuola come “centro civico”. 8) Ha promosso un concorsone per la scuola il cui bando sulla Gazzetta fa inorridire: sembra un esame per la patente di guida, con la pretesa di verificare con test le competenze “logiche e deduttive” e un esame per discutere come si gestisce una classe. Ciò si accompagna alla ripetuta affermazione del ministro secondo cui le conoscenze sono meno importanti dello “stare in classe”. Il ministro dovrebbe avere il buon gusto di rendersi conto che egli non è Aristotele e che non basta affermare una cosa (tanto discutibile) perché sia vera e tantomeno per farne l’ossatura di un concorso di stato (torna ancora Bottai). 9) Ha fatto una proposta di aumentare l’orario dei professori a 24 ore che non merita altro commento se non quello del professor Ferratini sul Corriere della Sera: “chiacchiere da bar”. Le quali però rischiano di diventare realtà, di provocare un altro sconsiderato taglio proprio sul fronte su cui andrebbe evitato e di produrre un ulteriore degrado della figura dell’insegnante verso quella dell’“istruttore”, che passa di classe in classe come una sorta di badante (il che sembra essere voluto, perché è plateale la coerenza con i propositi di cui al punto 7). 10) Sul fronte universitario il ministro Profumo ha lasciato che l’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca) si arrogasse poteri non previsti 422

dalla legge di riforma, in particolare quello di definire mediante criteri numerici chi ha o non ha diritto di essere commissario per l’abilitazione nazionale e di presentarsi al concorso. Ha lasciato che l’Anvur definisse criteri basati su un calcolo della “mediana” a livello nazionale, che non sono adottati in nessun paese del mondo, ignorando con intollerabile supponenza le critiche pur fondate su un’ampia letteratura internazionale. Ha patrocinato la messa in opera di un sistema di valutazione di stato sotto il controllo di un ente irresponsabile, il che ancora rappresenta un caso unico al mondo di dirigismo che può essere spiegato soltanto con l’inossidabile eredità di stile bottaiano. 11) Ha ignorato gli innumerevoli errori commessi dall’Anvur nei suoi calcoli, il fatto stesso che il ripetuto cambiamento di algoritmo della mediana indicava il carattere totalmente arbitrario (altro che “oggettivo”!) del procedimento adottato. Ha ignorato lo scandalo di decine e decine (ma il numero continua ad aumentare) di riviste per nulla scientifiche che l’Agenzia ha accreditato come scientifiche. Ha ignorato il fatto che con i calcoli dell’Anvur sono state escluse a priori dal ruolo di commissari persone riconosciute in Italia e all’estero come di grande prestigio, magari ammettendone altre che tale prestigio non hanno. 12) Non ha fatto quel che doveva, ovvero sconfessare e sciogliere l’Anvur, e in tal modo si è reso corresponsabile delle sue imprese. Vi sarebbe dell’altro ma quanto precede basta e avanza. Il ministro Profumo è riuscito nell’impresa di fare un numero incredibile di cose sbagliate e perniciose in un tempo ristrettissimo. Dovrebbe avere almeno la sensibilità di ritirarsi prima di provocare altri guasti. (Il Sussidiario, 18 ottobre 2012)

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17. Il cioccolato e i Nobel dimostrano che la correlazione ammazza la scienza Due fattori stanno ammazzando la scienza contemporanea: il concetto di correlazione e la pretesa di quantificare tutto. La correlazione è l’esistenza di una connessione quantitativa tra due fenomeni che può significare che l’uno influenza l’altro. Si dice che l’aspirina sia nata così. Qualcuno notò una concomitanza tra i reumatismi e l’umidità. Ne dedusse l’ipotesi che la seconda determini i primi, almeno in certa misura. Ma in quel “può” e in quel “in certa misura” si annida la coda del diavolo. La tentazione di stabilire un rapporto di causa-effetto è enorme perché è nella psicologia umana aspirare alla certezza. Pare che, con quell’idea in testa, sia venuto in mente che una pianta che prospera nell’acqua è il salice. La corteccia del salice venne ridotta in polvere e risultò essere un toccasana contro i dolori reumatici: conteneva la salicina, precursore naturale dell’acido acetilsalicilico. Naturalmente era una botta di fortuna: esistono molte piante acquatiche prive di effetti antireumatici e nessuno oggi stabilirebbe uno stretto rapporto di causa-effetto tra umidità e reumatismi. Fu una botta di fortuna, in barba a qualsiasi rigore scientifico. Difatti, nella maggior parte dei casi l’uso sconsiderato di correlazioni come se fossero rapporti di causa-effetto conduce a conclusioni insensate e anche pericolose: come quella di consigliare la mastectomia a giovani donne che hanno un rischio genetico che “può” condurre al tumore alla mammella. L’altro fattore nefasto di cui si diceva è la mitologia dei numeri: una relazione è seria e “scientifica” se è espressa in numeri, mentre le parole stanno a zero. Mettete assieme la mitologia dei numeri e l’abuso delle correlazioni e ne 424

può uscire di tutto, anche roba da barzelletta di stile demenziale gabbata come “scienza”. L’ultimo esempio viene addirittura dalla Columbia University, dove un ricercatore ha prodotto un lavoro i cui meccanismi concettuali sono assai interessanti. Il dottor Franz Messerli è partito dalla constatazione che il cioccolato, come gli alimenti contenenti flavonoidi, fa bene alle cellule cerebrali; la quale gli ha suggerito la seguente congettura: chi mangia più cioccolato è più intelligente. Senonché qui si ha da un lato una variabile quantitativa (consumo di cioccolato), dall’altro una facoltà di difficile misurazione come l’intelligenza. Certo, si potrebbe tentare con i test di quoziente intellettivo (ammesso e non concesso che siano una cosa seria), ma ci vorrebbe un’enorme massa di dati, molto tempo, e chissà. È più semplice dare per scontata la seguente correlazione, come se fosse una legge scientifica: quanto più una nazione è composta di gente intelligente tanto più riceve premi Nobel. Lasciamo al lettore i facili sarcasmi. Ciò posto, il gioco era facile: analizzare la correlazione tra consumi nazionali di cioccolata e numero di premi Nobel. Ne sono uscite fuori interessanti “conferme”: Svizzera e Germania sono paesi di superintelligenti, gli Stati Uniti a mezza strada, l’Italia in posizione mediocre, Giappone e Cina una massa di cretini. Pare che si apra un panorama di nuove “ricerche”. Occorre risolvere il “paradosso svedese”: la Svezia ha molti premi Nobel pur consumando poco cioccolato. Un’ipotesi è che i cervelli svedesi siano capaci di beneficiare delle virtù del cioccolato molto più degli altri popoli. Il tutto ha meritato la pubblicazione nientemeno che sul prestigioso “New England Journal of Medicine”. Tenuto conto dell’elevato impact factor di questa rivista, la nuova normativa di valutazione quantitativa da poco introdotta in Italia avrebbe premiato il detto “scienziato” con l’abilitazione a professore ordinario. Purtroppo un simile genio è sbocciato negli USA, dove si consuma più cioccolato che da noi. Possiamo però 425

consolarci col fatto che nessuno come noi è capace di trasformare le correlazioni in leggi deterministiche, fino a mandare in galera chi non prevede i terremoti. (Il Foglio, 1 novembre 2012)

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18. La distextia, ultimo sintomo della deriva che ci vuole tutti disturbati Un tempo c’era la vecchia cara dislessia. Poi, a tenerle compagnia nel mondo delle “dis,” sono giunte la disortografia, la disgrafia e la discalculìa. Il quartetto (fiancheggiato dall’Adhd, la sindrome del bambino agitato) è stato oggetto di una legge sui Dsa (disturbi specifici di apprendimento) che prevede percorsi didattici speciali e garantiti per coloro che sono stati diagnosticati Dsa dal Servizio Sanitario Nazionale (o dai convenzionati). Come si era previsto, il numero dei bambini “disturbati”, che era stato prudentemente indicato in un 3-5% (più un altro 3-5% di Adhd), sta crescendo di giorno in giorno e in alcune realtà locali ha raggiunto punte del 15%. Logopedisti un po’ straniti sono impegnati ad aiutare a fare i compiti di bambini che non sanno incolonnare bene le cifre (perché questa sarebbe discalculìa). Ma ora questa prateria estesa sì, ma confinata ai piccoli, potrebbe diventare poca cosa se assorbiremo - magari anche legislativamente e come variabile indipendente dalla spending review – la novità che viene d’oltre oceano: la distextia. È un disturbo che si manifesta quando uno scrive un sms confuso e sconclusionato, pieno di errori e scambi di lettere. Qualche buontempone l’ha ricondotto alla condizione di una persona tanto pigra da usare a tal punto il chatspeak da diventare incomprensibile. Ma alcuni serissimi dottori statunitensi hanno ammonito che c’è poco da scherzare: la distextia è una cosa serissima. Potrebbe segnalare disturbi neurologici complessi e persino il sopraggiungere di un ictus. La teoria è corroborata dal caso di una signora bostoniana che, in visita ginecologica, inviava deliranti sms al marito, e poco 427

dopo fu colpita da ictus. Una deduzione tipicamente “scientifica”, basata sull’intercambiabilità tra causa ed effetto. Ma quel che più interessa sono le prospettive che si aprono con il moltiplicarsi delle “dis” e, in particolare con la distextia. Altro che quei quattro gatti di bambini delle materne e delle elementari! Qui sono in ballo milioni di utenti della telefonia cellulare. Né si vede perché la tematica della distextia non possa essere estesa agli utenti della rete, di Facebook, di Twitter, a tutti coloro che chattano o inviano post ai blog: qui di testi sconnessi, sconclusionati e pieni di errori di battitura ce n’è a iosa. E state attenti, cari utenti, perché, se passa una legge per la distextia, al primo sms o post sconnesso il corrispondente premuroso potrebbe spedirvi un’equipe medico-psicologica a casa (e il conto della cura finirà pure nel redditometro). A questo punto, perché non cogliere l’occasione e andar oltre? Le vecchie “dis” non sono attraenti, bisogna puntare sui neologismi, tipo distextia. Per esempio, la dislalia è generica. Ma volete mettere se considerassimo la distelefonia (fissa e mobile), ovvero il parlare sconnesso e caotico al telefono? Invece della desueta distopia si potrebbe introdurre il distopismo, la tendenza a farsi immagini cupe del futuro. Così sarebbe possibile medicalizzare l’esercito dei pessimisti. Trascuro suggerimenti eccessivi, come il patologizzare la distrazione e la dissimulazione né darò retta a qualche maleducato che ha parlato di dis-senteria. Ma basta guardarsi intorno per sentire quanta gente starnutisce in modo compulsivo, disordinato e rumoroso: è la distarnutìa, un disturbo che può colpire chiunque. Le praterie del West appariranno ridicole di fronte a quelle che i “dis” possono aprire agli “esperti”. (Il Foglio, 25 gennaio 2013)

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19. Perché se muore il liceo classico muore il paese Da un lato un boom di iscritti ai test d’ingresso al Politecnico di Milano e una propensione per le lauree di ingegneria o direttamente correlate a una professione definita; dall’altro, un declino delle iscrizioni ai licei, in particolar modo al liceo classico. Alcuni commenti salutano questi dati come espressione di una tendenza positiva verso la “laurea utile”, verso l’abbandono delle propensioni “generaliste”, verso una preparazione corrispondente alle figure richieste dalle aziende. A noi sembra invece che la valutazione vada divisa: ottima è la prima tendenza, perché la rivalutazione delle professioni ingegneristiche e tecnologiche anche a livello della formazione professionale, è essenziale per un paese in via di declino industriale; pessima è la seconda tendenza per motivi che dovrebbe essere superfluo dire. Come può un paese che possiede più della metà dei beni culturali, artistici, architettonici del mondo non preoccuparsi di coltivare un ceto di persone di altissima competenza capace di valorizzare quel patrimonio che, se non altro, ha un enorme potenziale economico? Si badi bene: non si tratta soltanto della necessità di formare un esercito di archeologi, di restauratori, di persone all’altezza di gestire musei e l’immenso, quando degradato e depredato, patrimonio librario del paese. Si tratta di non disperdere la memoria dell’identità storico-culturale italiana. Come è possibile pensare che il patrimonio culturale del paese possa essere preservato in un contesto in cui quasi nessuno conosce più neppure i nomi degli architetti, dei pittori, dei letterati, degli scienziati che l’hanno costruito e finisce inevitabilmente col considerarlo un irriconoscibile ciarpame? Il disprezzo dell’umanesimo (anche sul fronte della cultura scientifica, si badi bene!) è la via per il 429

sicuro declino. Ci potremmo fermare qui, ma c’è di peggio. A chi ha sempre difeso le assurde accuse di stampo idealistico alle scienze esatte non può piacere il disprezzo simmetrico per l’“altra cultura” tacciata di non fornire né conoscenze né saperi pratici, insomma di essere un cumulo di prodotti inutili o superflui e di chiacchiere di dubbio valore. La sciagurata diatriba tra le due culture danneggia entrambe. Nella furia di distinguerle, le scienze vengono separate dalla cultura e pensate come mere abilità pratiche, predicando che solo ciò che ha un’utilità diretta vale qualcosa. Non a caso stiamo perdendo il senso della parola “ricerca”, ormai sinonimo di “innovazione tecnologica”. Invece, lo straordinario successo della scienza occidentale è stato fondare la tecnica sulla scienza, creando la “tecnologia”. Tutte le grandi scoperte scientifiche che hanno cambiato il volto del mondo – a partire dal computer digitale – sono frutto di idee teoriche, fondate sulla “scienza di base”. Un grande ingegnere come Leonardo da Vinci ammoniva: «Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza. Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada». Oggi questo è più vero di ieri. Giorni fa un illustre ingegnere osservava che nel contesto odierno, sempre più complesso e ricco di interrelazioni, servono persone di formazione vasta e aperta, in breve di formazione umanistica, che spesso solo il liceo classico può dare. L’innovazione tecnologica richiede una cultura vasta capace di attingere ai campi più disparati, altro che specializzazione. Mi ha profondamente colpito l’osservazione che ho sentito da diversi ingegneri che le automobili di oggi sono, in fondo, ancora “bricolage” del modello originario, mentre occorrerebbe ripensarne uno nuovo non soltanto in termini tecnici stretti, ma tenendo conto del senso del “trasporto” nella realtà economicosociale di oggi. Come può farlo questo chi non sappia di 430

economia, di sociologia, di storia? In un’università tecnologica francese mi raccontarono: «Un’importante ditta automobilistica ci chiede come migliorare una difficoltà di carburazione. Un ricercatore elabora un modello e conclude che occorre aumentare di tot millimetri il diametro di un tubo. Cosa di veramente nuovo può venire da questo?». È comprensibile che le imprese abbiano fretta e desiderino un sistema dell’istruzione funzionale alle formazione di addetti. Ma ciò può portare solo al disastro. Nè vale produrre l’esempio di paesi che imboccano questa via: qui il mal comune non è mezzo gaudio. Tanto meno può esserlo in un paese che non solo possiede gran parte del patrimonio culturale e artistico mondiale, ma ha una grande tradizione: aver saputo sintetizzare con successo, dal periodo postunitario, visione umanistica, scientifica e tecnologica. Di tale sintesi è stata espressione l’ingegneria italiana, costellata di grandi personalità che non erano solo “pratici” di prim’ordine, ma scienziati e umanisti. Tale fu Luigi Cremona, matematico puro, fondatore della Scuola di Ingegneria e ministro dell’istruzione. Tale fu Francesco Brioschi. Tale fu Vilfredo Pareto ingegnere ferroviario, imprenditore, e grande teorico dell’economia e della sociologia. Scienziato umanista fu il creatore della plastica Giulio Natta (diplomato in un liceo classico). Questa è la tradizione cui riallacciarsi, invece di degradare i Politecnici a scuole di formazione di addetti alle aziende, credendo che sia un progresso distruggere la formazione umanistica classica, proprio mentre viene riscoperta in paesi privi delle nostre tradizioni. Abbiamo bisogno di persone di ampia formazione e capaci di scelte autonome, e non di polli di batteria formati per una sola funzione che, col procedere tumultuoso della tecnologia, potrebbe diventare obsoleta nel giro di poco tempo. Per formare persone del genere serve anche il liceo classico. Chi gioisce per il suo declino ride mentre è segato il ramo su cui sta seduto. (Il Mattino e Il Messaggero, 25 agosto 2013)

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20. La scuola svuotateste Una ventata di mentalità totalitaria vestita di politicamente corretto sta distruggendo il sistema dell’istruzione che ha governato l’Occidente per un paio di secoli: non più creazione di conoscenze e cultura come strumenti di libertà dell’individuo, ma meccanismo standardizzato per plasmare gli individui entro ideologie preconfezionate. Certo, il mondo è complesso, standardizzare è difficile, le differenze nazionali persistono, pur indebolite, e Giulio Meotti (L’abracadabra del pol. corr. Il Foglio, 29 agosto) ha bene descritto la realtà francese, le sue inveterate tendenze laiciste e giacobine. Ma il motto “la scuola non deve trasmettere conoscenze ma forgiare i valori dell’individuo” non esce solo dalla cucina francese: circola ovunque. Un professore mi racconta di un consiglio di classe aperto dal dirigente con la perentoria indicazione: “è prioritario stabilire il modello di persone che vogliamo formare”. E non è roba che esce solo dalla cucina della “gauche”. Si pensi a Monsieur Claude Thélot, uno dei massimi esperti mondiali di problemi scolastici, che presiedette nel 2003, su mandato di Jacques Chirac (un “gauchiste”?) una commissione sul futuro della scuola. Tre anni fa, invitato in Italia con tutti gli onori, dichiarò che i professori insistono sulle conoscenze e invece dovrebbero occuparsi meno di trasmettere il sapere e di più della formazione della personalità degli allievi. Del resto, tanti docenti francesi da anni si battono contro questa visione totalitaria e si scontrano con i poteri enormi della burocrazia centralista: hanno subito ispezioni, ammonimenti, tagli di stipendi perché “insegnavano” invece di “formare le teste”. Nel 2005, il celebre matematico Laurent Lafforgue entrò a far parte dell’Alto Consiglio dell’Educazione francese. Inorridito dalle prescrizioni di funzionari ed “esperti”, scrisse al presidente del Consiglio che «per me è esattamente come se fossimo un Alto 432

Consiglio dei Diritti dell’Uomo e decidessimo di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per la promozione dei Diritti Umani». Fu cacciato su due piedi. Va detto che la critica di Edgar Morin del provvedimento di Peillon (“L’uguaglianza imposta uccide la libertà, non può essere stabilita per decreto”) è una manifestazione sesquipedale di ipocrisia. Proprio lui ha proposto l’ideologia della “costruzione delle persone” con il libro-manifesto “La testa ben fatta”, che ha distorto il senso del detto di Montaigne contro il nozionismo – “È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena” – in un proclama contro la trasmissione delle conoscenze. Certo, Morin avrebbe applaudito se avessero scelto la sua versione del costruttivismo. I fabbricanti di teste hanno vedute differenziate ma sono liti in famiglia. Li unisce il proposito fondante dell’internazionale della “nuova” istruzione: basta con le conoscenze e con la cultura, basta con i “saperi del passato”, l’istruzione deve essere un sistema di fabbricazione di individui nuovi, dotati di capacità adatte alle esigenze della società contemporanea. In sintesi: basta con le conoscenze, viva le “competenze”, nel linguaggio della convenzione di Lisbona. Qualcuno parla addirittura, ridicolmente, di “competenze della vita”, le sfumature sono tante, ma è comune la pretesa totalitaria di fare dell’istruzione un sistema di “formazione di teste”. Se qualcuno non è convinto che la distruzione cultura passata sia vista come la chiave per imporre la dittatura del politicamente corretto consiglio di leggere Humanism and Democratic Criticism (2004) dell’intellettuale americanopalestinese Edward Said (il celebre autore di Orientalism). Said descrive le università statunitensi prima degli anni ottanta: culle della tradizione culturale e letteraria dell’Occidente, in cui si leggevano con devozione Omero, Erodoto, Eschilo, Platone, Aristotele, la Bibbia, Virgilio, Dante, Cervantes, Sant’Agostino e Dostoievski. Racconta compiaciuto come nel giro di un ventennio questa tradizione fu distrutta per creare un nuovo “umanesimo” libero dagli efferati “essenzialismi” e razzismi 433

della letteratura classica; e cita come modello la “rigenerazione” della Columbia University, di cui era diventato professore. Fu un gigantesco svuotamento di teste per rifarle daccapo. Manco a dirlo, nelle teste venne messo qualcos’altro. Difatti, è un gigantesco imbroglio far credere che si possano confezionare teste “ben fatte” senza metterci nulla dentro: il modo con cui le si confeziona presuppone il contenuto auspicato. Ma è la pretesa in sé, l’idea di “svuotare” e rifare il recipiente che costituisce l’aberrazione primaria. Voler rifare le teste secondo i principi del laicismo giacobino è aberrante, ma non sarebbe meglio se si trattasse di principi religiosi integralisti, o dell’ateismo di stato che veniva praticato in URSS, o delle ideologie nazi-fasciste. Piaccia o non piaccia, la Francia è un paese molto importante in ambito culturale: un tempo si diceva che “ogni uomo colto deve passare per Parigi”. L’antica gloria è ormai scolorita – anche se il postmodernismo statunitense è frutto di una colonizzazione del pensiero di Foucault e Derrida – ma il suo passato ha molto da insegnare. Prendiamo, ad esempio, il riferimento al 1789. Di per sé non vuol dir molto: nel 1789 vi sono molte cose diverse. A quale 1789 si riferisce il ministro Peillon quando dice di volerne realizzare gli ideali? Pensa alle visioni dell’istruzione del Marchese di Condorcet o alle teorie educative di Jean-Jacques Rousseau? Non c’è dubbio: JeanJacques è il profeta del ministro Peillon, e di tanti rifacitori di teste di altri paesi, anche di tendenze tutt’altro che laiciste. Condorcet e Rousseau: da tempo si dibatte in Francia sui due pensatori, individuando la contrapposizione tra “istruzione” ed “educazione” come il nodo da dirimere. Non intendiamo riproporre tal quale lo scientismo di Condorcet che – lo ricordavamo su queste pagine contro le teorie della democrazia temperata dal governo dei tecnici – pretendeva che “una nazione che non è governata da filosofi cade in mano ai ciarlatani”. Ma la visione dell’istruzione di Condorcet è una delle espressioni più alte della democrazia liberale. È l’idea moderna di un sistema di istruzione di massa garantito dallo 434

stato che offra pari opportunità a tutti. Lo scopo non è affatto indottrinare i cittadini, bensì fornire cultura e conoscenza come strumento di libertà, con cui essi decideranno autonomamente le forme della loro presenza nella realtà sociale. La scuola non educa ma “istruisce”, formando con la cultura capacità critiche autonome. Da questo punto di vista, la “trasmissione” della conoscenza è fondamentale e fa dell’insegnante una figura centrale nella società. È una funzione che è stata mirabilmente descritta da Hannah Arendt: l’insegnante «si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo di assume la responsabilità. Di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo». È evidente che – come spiega Arendt – questo richiede un fondo di atteggiamento “conservatore”: solo così, offrendo gli strumenti per la comprensione critica del mondo in cui entra il giovane si dimostra «che noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di sé stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano l’occasione di intraprendere qualcosa di nuovo». Purtroppo dilaga il motto opposto: non bisogna fornire conoscenze, ma forgiare gli individui, secondo i precetti di Rousseau. Come dice Rousseau nell’Émile, l’istruzione deve essere “educazione a vivere”, insegnare al giovane l’uso delle facoltà che danno il sentimento dell’esistenza. Parlando dei giovani e, in particolare, dei suoi figli, Rousseau esclama: “vivere è il mestiere che voglio insegnargli!”. Peccato che ai suoi cinque figli abbia insegnato questo mestiere abbandonandoli tutti nella ruota... scacco dell’arrogante pretesa di volere nientemeno che insegnare agli altri a vivere, invece di attenersi all’intento di fornire gli strumenti critici per decidere liberamente come costruire la propria vita. Ma i rousseauiani di ogni sponda rovesciano la frittata: secondo loro, la scuola come istruzione sarebbe “impositiva” in 435

quanto “trasmette” conoscenze. Loro, si “limiterebbero” a fornire i metodi per fare da sé, come se imporre la metodologia del vivere non fosse ciò che di più impositivo si possa immaginare. Predicano le virtù dell’autoformazione: ognuno ricomincia da zero, ricostruendo il sapere e l’insegnante fa solo l’allenatore, il “facilitatore” (come si dice oggi). È faticoso confutare una visione tanto irragionevole e ridicola: è la fatica che prova il buon senso di fronte al muro dell’ideologia. Il trionfo postumo dell’educatore ginevrino si manifesta nel dilagare universale del costruttivismo. Dopo gli orrori dell’eugenetica si credeva ingenuamente che la pretesa di “costruire l’individuo perfetto” fosse un brutto ricordo del passato: e invece la vediamo riemergere in ogni ambito, dalla genetica alle scienze sociali. Si credeva che il ricordo degli asili infantili sovietici di Aleksandra Kollontai, in cui si costruiva il nuovo uomo socialista, potessero destare soltanto ilarità e la pena, e invece pullulano pedagogisti che citano come la Bibbia il poema pedagogico di Makarenko. Ed ecco che il ministro di uno stato democratico si propone di formare l’ “uomo nuovo” laico, facendo fare una figura da ultraliberale a Jules Ferry. La manifestazione forse più importante di tale rigurgito di totalitarismo è l’ossessione di introdurre nella gestione sociale, e nell’educazione, i concetti (rozzamente mutuati dalle scienze esatte) di “oggettività” e “standardizzazione”. Il risultato, nell’istruzione, è la progressiva riduzione della figura dell’insegnante a un burocrate votato ad applicare le direttive che vengono da centri esterni: amministrazioni statali, enti di valutazione, aziende private – tutti autoreferenziali e fuori controllo – sia pure entro differenti tradizioni nazionali: in Francia prevale il centralismo statalista, negli USA l’invadenza di imprenditori privati come Bill Gates, che propongono di mettere un bracciale elettronico agli studenti per stimare il grado di attenzione in classe e così “valutare” gli insegnanti. Ci vorrebbe un libro per analizzare le varie forme che assume il dilagante costruttivismo sociale. Ora è sotto i riflettori 436

quello francese. Ma merita attenzione il modo con cui, negli USA, il crollo della diga rappresentata dal legame con la tradizione umanistica classica ha trasformato il costruttivismo pedagogico di John Dewey in un’ideologia violenta che definisce l’insegnamento dell’ortografia e della fonetica come una “violenza su minori” da rimpiazzare con i precetti del politicamente corretto. Limitiamoci a dare un’occhiata in casa nostra. Strano paese l’Italia, in cui la gran varietà di opinioni e l’individualismo sembrano escludere la presenza di tendenze orientate in una direzione definita. Eppure il costruttivismo sociale pedagogico dilaga anche qui. Nessun proclama laicista, nessun manifesto ideologico esplicito, ma l’idea di trasformare la scuola in un luogo in cui si “costruiscono le persone” è diffusa, coperta dietro la maschera “buona” dell’assistenzialismo agli “esclusi”. È il progetto dell’exministro Profumo di trasformare la scuola da centro d’istruzione a “ambiente d’interazione allargata... aperto agli studenti e alla cittadinanza, centro di coesione territoriale e di servizi alla comunità, un vero e proprio centro civico”. Avete un problema, vi fa male la pancia, vi ha lasciato la fidanzata, avete un disagio psico-fisico o la vostra famiglia è un disastro? Andate a scuola. Esagerazioni? Si legga la normativa del diluvio che sta per cadere sulla scuola, i BES (Bisogni Educativi Speciali). Prevede che «ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, possa manifestare BES: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta». E per farlo si ricorre a strutture pesanti, come i “Gruppi di lavoro per l’inclusione” formati da “educatori culturali”, “assistenti alla comunicazione”, esperti istituzionali o in convenzione, genitori e, by the way, insegnanti. La capacità di questi “esperti” di imporre la loro dittatura è collaudata. Mi limito a citare il caso di un dipartimento universitario di psicologia che, ottenuta una convenzione con un 437

plesso scolastico elementare per esplorare le “caratteristiche cognitive e psicologiche di bambini che presentano ritardo mentale”, infilò nelle cartelle dei bambini una richiesta ai genitori di autorizzare un screening di massa, con l’avvertimento intimidatorio che la mancata collaborazione avrebbe avuto “gravi conseguenze a livello sociale”. Nella disattenzione generale la scuola viene trasformata in un sistema di costruzione e controllo sociale, in cui l’apprendimento è marginale rispetto alla creazione di una coscienza politicamente corretta dell’“inclusione”. Come mai si è giunti a questo punto in un paese per decenni dominato dalle culture comunista e cattolica? Qualche osservazione, in estrema sintesi. Certo, il costruttivismo sociale era costitutivo della cultura comunista. Ma, la tradizione italiana, ha difeso a oltranza l’importanza dello studio rigoroso e “faticoso” e, in particolare, il valore degli studi classici. Si pensi alle celebri pagine di Gramsci sul valore del latino, di sapore quasi gentiliano, o al culto per la letteratura e il rigore linguistico di Togliatti. Negli anni settanta Luigi Berlinguer attaccava duramente le tendenze nella comunità europea verso un’istruzione praticistica e difendeva il sapere disinteressato e il primato della conoscenza. Con il muro è crollato tutto e l’antico costruttivismo ha assunto vesti postmoderne in cui, primeggiano i dogmi del politicamente corretto e la scuola va trasformata nel senso descritto dal ministro Profumo. Sul versante della cultura cattolica un’opera decisiva di demolizione è stata compiuta dal “donmilanismo” – uso questo termine per venire incontro a chi dice che don Milani non è mai giunto alle aberrazioni dei suoi interpreti più fanatici. Ma c’era anche un altro polo, rappresentato da don Giussani, cui si deve una critica chiara, diretta e devastante dell’ideologia dell’autoformazione, contro la distruzione della figura del “maestro”. Eppure, è sconcertante vedere che parecchi suoi seguaci, mentre ribadiscono l’adesione ai suoi insegnamenti, perseguono forme di costruttivismo educativo, esibendo una 438

singolare schizofrenia tra una visione che mette al centro la persona e i valori umani e una visione tecnocratica, tra l’educazione centrata sulla trasmissione della cultura e l’educazione come ingegneria sociale. Ci si chiede come possa un cattolico proporre l’Emilio di Rousseau come vangelo della pedagogia. Eppure anche questo accade. Così, nello sbandamento e sgretolamento culturale, capita in Italia che si operi per il trionfo di qualcosa che, per altro verso, viene additato come un nemico: un relativismo e un politicamente corretto che non si presenta con un manifesto esplicito ma avanza per via ministerial-burocratica, meno clamorosa di quella francese ma non meno insidiosa. (Il Foglio, 11 settembre 2013)

439

Note

[1]

J. Horgan, La fine della scienza, Milano, Adelphi,

1998. [2]

F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 2003. [3] Uno studio recente su questi temi è P. Forman, “The Primacy of Science in Modernity, of Yechnology in Postmodernity, and of Ideology in the History of Technology”, History and Technology, vol. 23, n. 1 & 2, 2007, pp. 1-152. [4] Nella diffusione di questo concetto e di questa parola ha avuto un ruolo particolare il fisico francese Jean-Marc LévyLeblond. Da anni egli insiste sull’importanza di arrestare il processo di riduzione della scienza alla sua dimensione pratica che ha condotto al formarsi di una “tecnoscienza” in cui scienza e tecnica si confondono e perdono la loro autonomia. Per l’introduzione della tematica della tecnoscienza nel dibattito italiano cfr. G. Israel, Il giardino dei noci, Napoli, Cuen, 1998; nuova ed. riveduta col titolo Incubi postmoderni e tirannia della tecnoscienza, e-book Amazon-Kindle, 2013. [5] Su questi temi e alcune loro implicazioni cfr. G. Israel, Incubi postmoderni e tirannia della tecnoscienza, cit. e G. Israel, Liberarsi dei demoni. Odio di sé, scientismo e relativismo, Milano-Genova, Marietti, 2006. [6] «… il successo di Harry Potter non dimostra la crisi della matematica in Occidente, ma al contrario il suo trionfo. 440

Harry Potter, con il suo straordinario “realismo magico”, è l’uscita di sicurezza dall’ossessione della matematica dalla quale si può evadere solo con la letteratura o con il brutto voto a scuola. La matematica, infatti, è l’anima della Tecnica contemporanea, dal frullatore al frigorifero, ma anche del parlare, perché persino il più spontaneo e il più incolto parlare è strutturato in regole rigorose, dentro quella matematica che già il grande matematico Bertrand Russell, con un’autoironia povera di seguaci, definiva “la sola scienza esatta in cui non si sa mai di che cosa si sta parlando né se quello che si dice è vero”» (F. Merlo, “Ma siamo un popolo di grandi calcolatori”, La Repubblica, 3 agosto 2007, pp. 42-3). [7] Tale è il caso del rapporto Pisa (Programme for international student assessment) del 2003. Difatti, questi sondaggi provocano troppo spesso le risposte desiderate ed è sufficiente modificare di poco il tipo di quesiti per ottenere risultati radicalmente diversi in cui un paese all’ultimo posto dal punto di vista delle capacità matematica scala improvvisamente un gran numero di posizioni. Come esempio significativo, cfr. G. Israel, “L’insegnamento della matematica in Finlandia”, http://online.scuola.zanichelli.it/israel/. [8] La crisi è marcata nel caso italiano in quanto le regole permissive di valutazione nella scuola secondaria consentono di “scaricare” almeno una materia nel pacchetto dei “debiti formativi” che quasi mai vengono recuperati. Questa materia è molto spesso la matematica. Risulta che più del 40 % degli studenti della scuola secondaria italiana ha un debito formativo in matematica e ciononostante riesce allegramente ad andare avanti nella carriera scolastica. [9] Difatti, è una favola che non si parli di scienza sulla stampa e che non venga pubblicato un gran numero di libri e riviste dedicati alla divulgazione scientifica. Per un’accurata confutazione di tale pregiudizio si veda M. Bucchi, Scegliere il 441

mondo che vogliamo. Cittadini, politica, tecnoscienza, Bologna, Il Mulino, 2006. [10] P. Odifreddi, “Matematica. La scienza odiata dagli italiani”, La Repubblica, 3 agosto 2007, p. 41. La deplorazione per l’interesse nei confronti di Harry Potter e de Il Signore degli Anelli è parimenti dovuta a Odifreddi. [11] Dodgson-Carroll fu autore di un trattato di teoria dei determinanti pubblicato nel 1867. [12] I primi professionisti della scrittura furono gli scriba, e la parola in sumero significa “colui che procede rapidamente e senza deviazioni sulla tavoletta” e non “chi procede come gli pare sulla tavoletta perché è vietato vietare”. Cfr. A. Millán Gasca, All’inizio fu lo scriba, Milano, Mimesis, 2004. [13] Tale è il caso dell’ex-ministro Luigi Berlinguer, ora presidente di una commissione per le scienze e la musica (ovviamente sulla base delle sue competenze di giurista). In un’intervista al Corriere della Sera (6 settembre 2007) egli ha dichiarato: « Naturalmente non si inizia col solfeggio. Perché prima si suona e poi si legge la musica, così vale per la scienza». In realtà, mai, neppure nelle forme più tradizionali di insegnamento della musica, si è fatto solfeggio senza neppure aver a che fare con uno strumento. Ma è un’idea semplicemente grottesca che una materia così intrisa di matematica come la musica possa essere praticata senza insegnare subito cosa significhino il ritmo, le durate delle note e i loro rapporti, gli intervalli musicali, e senza insegnare (sia pure gradualmente) come si rappresenti tutto ciò, lasciando invece che lo studente “impari” qualcosa strimpellando a caso. Essa è in parallelo con l’affermazione secondo cui questo varrebbe anche per la scienza. Una simile sciocchezza – che prima si sperimenti (su cosa, in che modo o con quali principi?) e poi si faccia teoria – può venire soltanto da chi non abbia la minima idea di che cosa sia la scienza ed è l’espressione di un’ideologia della 442

destrutturazione della cultura e dell’insegnamento. Da un commento di mio figlio (scuola elementare: «La musica non mi piace… ma non quella che faccio il pomeriggio [lezioni private con tanto di scrittura musicale e di solfeggio], quella sì, mi piace… ma quella della scuola no… si fanno cose strane, gesti, rumori, disegni…». [14] Dalle Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella Scuola Primaria del 2004. Le nuove Indicazioni per le primarie del 2012 hanno, se possibile, peggiorato la situazione. [15] Si noti l’abuso di termini completamente inventati come “indicatore topologico”, probabilmente sperando di far credere agli sprovveduti che corrispondano a concetti matematici ben definiti. [16] Su questi temi si veda il più recente: G. Israel, A. Millán Gasca, Pensare in matematica, Bologna, Zanichelli, 2012. [17] Cit. Platone, La Repubblica, Libro VII, 525, b-d. [18] Per non dire della domanda recentemente udita da un bambino: “Qual è il penultimo numero?”… [19] F. Enriques, Le matematiche della storia e nella cultura, Bologna, Zanichelli, 1938 (rist. anast. 1982), p. 185. [20] «In effetti, la conoscenza di tali algoritmi, insieme all’elaborazione di diverse procedure e strategie del calcolo mentale, contribuisce anche alla costruzione significativa della successione degli interi naturali e di altre importanti successioni numeriche (pari, dispari, multipli, ecc.)». [21] Si veda il sito http://www.ihes.fr/~lafforgue/, dove è disponibile tutta la documentazione delle polemiche in cui è stato coinvolto Lafforgue, Field Medal per la matematica. Egli è 443

coautore del recente libro: L. Lafforgue, L. Lurçat, La débâcle de l’école. Une tragédie incomprise, Paris, F.-X. De Guibert éd., 2007. Il disastro ha caratteristiche simili in tutta Europa. Sul degrado dell’istruzione in Spagna si veda A. Delibes Liniers, La gran estafa. El secuestro del sentido comun en la educación, Madrid, Grupo Unisón ediciones, 2006. [22] Un siffatto atteggiamento non è diffuso soltanto a livello universitario ma tra la gente comune. «È tanto tempo che non vedevo roba simile. Mi ha fatto prendere un colpo», mi disse l’addetta al check-in di un aeroporto alla vista di un foglio di formule che le avevo messo sotto gli occhi per errore, al posto del foglio su cui avevo stampato il biglietto elettronico. [23] Ci si riferisce al decreto del 4 ottobre 2007 con cui il Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni ha reintrodotto qualcosa di simile agli esami di riparazione autunnali. [24] Intervista a Paola Mastrocola, “Noi prof severi solo fra 20 anni. La generazione ’68 ha fallito”, Il Giornale, 17 luglio 2007. [25] Sorte non migliore ebbe un libro che denunciava il disastro in atto nella scuola: L. Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?, Milano, Feltrinelli, 2001. Si veda anche P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, Milano, Guanda, 2004 e P. Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Milano, Guanda, 2011. [26] La letteratura critica nei confronti della bibliometria è ormai vastissima. Ci occuperemo dettagliatamente di questa tematica in altra sede. Ci limitiamo a segnalare, per il prestigio delle firme, il documento “Citation Statistics”, http://www.mathunion.org/fileadmin/IMU/Report/CitationStatistics.pdf Circa i risultati efferati della bibliometria in Italia si veda il sito: http://www.roars.it/online/. 444

[27]

La nostra opinione, che abbiamo motivato in numerosi articoli e che tratteremo in dettaglio in una futura pubblicazione, è che il metodo centrale della valutazione deve essere quello delle ispezioni incrociate. [28] Per maggiori dettagli si veda G. Stelli, Il filo di Arianna. Relativismi postmoderni e verità della ragione, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2007. [29] Non citiamo i testi da cui sono tratte alcune delle frasi che seguono per misericordia. [30] «C’è una fase di maturazione lenta, fino a 18 o 20 anni, che è preceduta da numerose oscillazioni. Per questo motivo ritengo che il sistema ideale sia quello di tenere conto della media complessiva dei risultati. Puoi andar male in matematica e bene in Storia e viceversa, l’importante è che ci sia una certa media minima. Credo che sia un buon sistema quello che valuta la storia personale dello studente» (Intervista di Tullio De Mauro al Corriere della Sera, 4 ottobre 2007, p. 9). Ci si chiede se chi parla così abbia mai visto un giovane in vita sua. Risulta inoltre evidente l’indicazione ideologica verso una scuola che indirizzi tutti verso la “media minima”, la scuola della mediocrità, dell’abbrutimento e della noia, quale si è in effetti mostrata; per cui, l’insistenza sul fatto che questo sarebbe “un buon sistema”, indipendentemente dai risultati che esso ha dato, è sconcertante. Lascia inoltre esterrefatti la pervicacia con cui si continua a ignorare che questo sistema di eliminazione di alcune materie in cui si va male ha prodotto una crescita di debiti formativi aberranti in matematica. E poi magari ci si viene a fare pure la predica sulla crisi della cultura scientifica… [31] Il termine “media minima” è privo di senso. Una media è una media e basta e non è né minima né massima. A meno che non si alluda al minimo delle medie calcolate su diversi gruppi (per esempio, classi). In tal caso si sta 445

proponendo di appiattire tutto verso il livello più basso. Ma vi è un’altra interpretazione suggerita dalle pratiche effettive dei docimologi e cui abbiamo or ora accennato. Si considera la distribuzione dei risultati, quindi la si considera attendibile se si accorda con una distribuzione gaussiana, altrimenti vuol dire che il valutatore ha sbagliato. Poi si tagliano i casi peggiori e migliori, perché geni e idioti sono rari e quindi insignificanti. Quindi si calcola la media su questo insieme di casi “depurato”. È quel che viene fatto sovente nelle valutazione dei test: si scartano i quesiti cui hanno risposto quasi tutti gli esaminati, o quasi nessuno di essi e poi si fa una media determinando il valore soglia di sufficienza. Sfugge a questi signori che proprio i casi estremi sono quelli doppiamente significativi, non soltanto perché i casi critici o di eccellenza debbono ricevere la dovuta attenzione, ma perché la riflessione sulla natura delle domande che sono risultate troppo “facili” o troppo “difficili” è istruttivo. Ma per avere questo genere di interesse occorrerebbe attribuire valore ai contenuti dell’insegnamento. [32] Insistiamo sul fatto che una delle conseguenze più gravi della tendenza esasperata all’oggettivizzazione quantitativa della valutazione è un appiattimento egualitarista verso il basso nell’ambito culturale, in forme del tutto analoghe a quelle che abbiamo descritto nel processo di degrado dell’istruzione. Si pensi ancora al processo di valutazione e di revisione degli articoli scientifici (ma anche dei libri) quando esso non si limita a esaminare il contenuto del testo, il suo valore e a proporre modifiche formali ragionevoli, ma pretende di intervenire pesantemente sullo stile dell’autore, omogeneizzandolo a criteri “generali” adottati dalla rivista o della casa editrice, non si sa su quali basi. È sempre più frequente la comparsa di una bizzarra figura di “revisore stilistico”, quasi sempre una persona di livello culturale molto più basso dell’autore dell’articolo o del libro, che è però investito di un potere speciale che esercita con una prepotenza 446

pari alla sua mediocrità. Anche limitandosi alla considerazione della letteratura scientifica, è facile constatare che essa ci ha offerto in passato una molteplicità di stili e una varietà di approcci che costituiscono un’autentica ricchezza. Oggi ci dirigiamo invece verso una letteratura tanto più piatta e mediocre quanto più è omogenea e standardizzata. [33] È assolutamente deprimente l’inconsapevolezza dell’ondata di malcontento che dilaga tra insegnanti e genitori per questa scuola e per la dittatura del pedagogismo. Ecco, al riguardo, un piccolo campionario di commenti raccolti sul mio blog. «Forse è proprio dal bestiario “luogocomunista” (sempre più khomeinista) che bisogna partire per avere ragione di un ‘68 che in Italia dura ormai da quasi 40 anni: una vera dittatura! Forse bisognerà smontare quella fraseologia di vecchie pezze logore fatte di “elaborare un confronto”, “aprire un tavolo negoziale”, “nella misura in cui...”, “in ultima analisi”, “a monte e a valle”, “oggettivamente”, “senza se e senza ma”, “redistribuzione”, “migranti” (ovvero gli immigrati in procinto di volare come uccelli di passo), “interferire sulla sfera personale”, “strutture”, “livelli”, “e quant’altro”…». «Non ho nulla di personale contro il ministro Fioroni che ha un’aria paciosa e simpatica e se devo dire la mia, è il più presentabile tra i ministri di questo sgangherato governo. Ma temo che ancora una volta dovrà vedersela direttamente coi suoi. Dopo decenni e decenni di “controscuola” sessantottara, di “descolarizzatori della società”, di “pedagogia degli oppressi” (che ancora ci opprime) di docimologia e di “griglie di valutazione”, di mappe di ricognizione e di altro bestiario pedagogico, temo che la sua riscoperta dell'acqua calda (ovvero delle tabelline e della grammatica) nonché di quel sano nozionismo che esercita un po’ le meningi degli alunni – visto che nessun bambino sa più mandare a memoria una poesia – temo troverà non pochi oppositori intestini.Se anche alla destra mancherà il buon senso di apprezzare i suoi sforzi, 447

significa che la colonizzazione “pedagogica” della sinistra, sfida tutte le latitudini e le longitudini. A prescindere...». «Per quanto riguarda la geografia sono rimasto esterrefatto dal metodo proposto in un libro di testo per la terza media. Il globo terrestre non è suddiviso in continenti o in stati bensì in regioni rese omogenee secondo il loro punto di vista. Il medio oriente (comprendente Israele e le svariate comunità cristiane) è chiamato “regione islamica”. Nello stesso testo ovviamente ci si guarda bene dal definire “regione cristiana” l'Europa o l'America. Anche i testi di inglese sono infarciti di dialoghi, esercizi, moduli che rimandano a CD allegati ma se cerchi una tabellina che riepiloghi semplicemente le regole grammaticali rischi di perderci mezz’ora.» «Due piccole postille che possono ulteriormente chiarire quanto sia giusta e sacrosanta l’affermazione che con l’abolizione degli esami di riparazione ci si è spinti sull’orlo di un baratro.1. Davanti a un alunno che non ha raggiunto gli obiettivi minimi (fuori dal pedagoghese, a un voto inferiore al 6), la scuola è obbligata ad attivare interventi di recupero. Ciò vuol dire che se l’alunno Pierino ha una serie di 3 perché per tutto l’anno, invece di andare a scuola, è andato giocare a biliardo, l’alunno Pierino ha diritto a partecipare a una serie di corsi di recupero attivati fuori orario scolastico a spese del contribuente. Altrimenti, se lo bocciano, ricorrerà e gli daranno ragione; non solo: dirigente scolastico e docenti possono essere sanzionati.2. Negli scrutini finali, l’alunno va promosso a meno che non abbia fatto registrare gravi lacune rispetto agli obiettivi minimi (fuori dal pedagoghese, 4 o meno) in un rilevante numero di materie. Ma l’alunno, per essere promosso, deve aver conseguito la sufficienza in tutte le materie. Di conseguenza, se l’alunno Pierino ha uno o due 5, poniamo in matematica e latino, questi saranno automaticamente trasformati in 6 (cosiddetto “6 rosso”). Il calcolo dei crediti scolastici, però, non tiene conto del “colore” del 6, quindi l’alunno Pierino, che non ha studiato matematica e latino perché non gli andava, avrà lo stesso credito 448

dell’alunno Ciccillo che non è un genio ma i 6 se li è sudati studiando tutto l’anno; anzi, se magari fa parte della squadra di pallavolo o di calcetto e ha 9 in educazione fisica, avrà un credito più alto.Entrambi questi dati di fatto si verificano ormai da tre lustri senza che professori o presidi possano farci nulla, perché si tratta di disposizioni di legge, che nessun governo di sinistra o di destra a pensato, sino a ieri, di modificare. Non solo, ma su di essi vige il più assoluto silenzio stampa: qualcuno ne ha mai sentito parlare entro qualsiasi servizio giornalistico o televisivo che si interroga ansiosamente sul perché la scuola non riesce più a trasmettere cultura e formare ai principi etici?». «Sono anni che sono, come padre, testimone dello sfacelo del sistema educativo. Non sopporto più quei genitori che, di fronte a ogni problema, sono sempre alla ricerca di una colpa da addebitare ai professori o alla scuola pur di non risparmiare fatiche e preoccupazione per i loro figli. Non è più tollerabile la prevaricazione di minoranze di studenti prepotenti che occupano gli Istituti. È assurdo che ogni mese si tengano assemblee durante l’orario didattico.Non è possibile che i nostri figli siano molestati con corsi di “Educazione affettiva” (come si fa ad insegnare l’“affettività”?) quando si trascurano le materie fondamentali. Faccio fatica a mantenere la calma quando i professori si trincerano dietro una presunta “ingestibilità” della classe (ma non è il loro mestiere “gestire” una classe?). Vorrei denunciare tutti quei professori lassisti e assenteisti (ma tanto non serve a niente). Ma, più di tutto, mi angoscia la superficialità e l’incoscienza di molti genitori che, quando denuncio queste situazioni, mi guardano come se fossi un marziano, come se appartenessi ad un’altra epoca, come se andasse tutto “discretamente” bene....». «È vero, la distruzione parte dalle elementari con le solite sinistre predicare una scuola da soviet supremo con tre maestre su due classi; col tempo pieno o tempo prolungato che altro non è che un’area di parcheggio per bambini precocemente resi alienati. E che serve più a riempire l’“organico” (che detto in 449

“sindacalese”, vuole dire il corpo docenti a cui dare lavoro), che a venire incontro alle reali esigenze psicologiche degli scolari. Con genitori che giocano a scaricabarile sulla scuola, e con docenti che non vogliono assumersi la responsabilità di trasmettere valori, regole e criteri. Ma volendo andare ancora più indietro questo permissivismo parte dalla materna, della puericultura alla Benjamin Spock e soprattutto dall’illusione che l’educazione sia un processo “ludico” e non impegnativo come dovrebbe essere sia per il docente che per l’allievo». «Tutti i professori dovrebbero leggere ai loro alunni il libro Cuore di Edmondo De Amicis e fare meno corsi di “educazione affettiva”». [34] Sulle “competenze” si veda “Un dibattito sulle competenze”: https://sites.google.com/site/gisrarticles/altro. [35] I passaggi che seguono sono tratti da H. Arendt, “La crisi dell’istruzione”, in Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 2001. [36] Questa evoluzione ci induce a un atteggiamento più articolato rispetto a quello assunto nella prima edizione di questo libro. I pedagogisti sono per lo più dei professori e, per quanto il costruttivismo abbia influenzato i loro orientamenti, era inevitabile che una tendenza fortemente tecnocratica e aziendalista – che non a caso tende ormai a ridurre fortemente il loro influsso a favore degli “economisti della scuola” – divenisse prima o poi difficile da accettare. [37] Non è certamente un caso che le reazioni più negative al ripristino delle prove di riparazione autunnali siano venute dai presidi, e non dai professori, perché i primi sono particolarmente esposti alla reazione negativa dell’“utenza”. Si vede così che la trasformazione della figura del preside in manager l’ha svuotata della sua dimensione di docente. È qualcosa di analogo a quel che è accaduto nel sistema sanitario, dove la gestione è caduta completamente in mano di 450

amministratori. [38] Riportiamo il testo integrale dell’appello: «Se ci fosse una educazione del popolo tutti starebbero meglio». L’Italia è attraversata da una grande emergenza. Non è innanzitutto quella politica e neppure quella economica - a cui tutti, dalla destra alla sinistra, legano la possibilità di “ripresa” del Paese -, ma qualcosa da cui dipendono anche la politica e l’economia. Si chiama “educazione”. Riguarda ciascuno di noi, ad ogni età, perché attraverso l’educazione si costruisce la persona, e quindi la società. Non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro. Sta accadendo una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli. Per anni dai nuovi pulpiti - scuole e università, giornali e televisioni - si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere. È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta. È stata negata la realtà, la speranza di un significato positivo della vita, e per questo rischia di crescere una generazione di ragazzi che si sentono orfani, senza padri e senza maestri, costretti a camminare come sulle sabbie mobili, bloccati di fronte alla vita, annoiati e a volte violenti, comunque in balia delle mode e del potere. Ma la loro noia è figlia della nostra, la loro incertezza è figlia di una cultura che ha sistematicamente demolito le condizioni e i luoghi stessi dell’educazione: la famiglia, la scuola, la Chiesa. Educare, cioè introdurre alla realtà e al suo significato, mettendo a frutto il patrimonio che viene dalla nostra tradizione culturale, è possibile e necessario, ed è una responsabilità di tutti. Occorrono maestri, e ce ne sono, che consegnino questa tradizione alla libertà dei ragazzi, che li accompagnino in una 451

verifica piena di ragioni, che insegnino loro a stimare ed amare se stessi e le cose. Perché l’educazione comporta un rischio ed è sempre un rapporto tra due libertà. È la strada sintetizzata in un libro cruciale, nato dall’intelligenza e dall’esperienza educativa di don Luigi Giussani: Il rischio educativo. Tutti parlano di capitale umano e di educazione, ci sembra fondamentale farlo a partire da una risposta concreta, praticata, possibile, viva. Non è solo una questione di scuola o di addetti ai lavori: lanciamo un appello a tutti, a chiunque abbia a cuore il bene del nostro popolo. Ne va del nostro futuro». I primi firmatari: Allam Magdi, Amicone Luigi, Astorri Romeo, Avati Pupi, Bavetta Sebastiano, Bazoli Giovanni, Bechis Franco, Belpietro Maurizio, Bersanelli Marco, Bertazzi Pier Alberto, Bonacina Riccardo, Boffo Dino, Borghesi Massimo, Borgna Eugenio, Botturi Francesco, Branciaroli Franco, Calearo Massimo, Campiglio Luigi, Caprara Massimo, Cesana Giancarlo, Chiosso Giorgio, Colombo Valentina, Cominelli Giovanni, De Bortoli Ferruccio, De Maio Adriano, Doninelli Luca, Farina Renato, Feliciani Giorgio, Ferrara Giuliano, Grassi Onorato, Guzzetti Giuseppe, Israel Giorgio, Liguori Paolo, Mazza Mauro, Mazzotta Roberto, Mazzuca Giancarlo, Muccioli Andrea, Mussari Giuseppe, Nembrini Francesco, Ornaghi Lorenzo, Persico Roberto, Polito Antonio, Quagliariello Gaetano, Ribolzi Luisa, Risè Claudio, Rondoni Davide, Rossella Carlo, Roth Luigi, Roversi Monaco Fabio Alberto, Sapelli Giulio, Scaglia Silvio, Squinzi Giorgio, Ugolini Elena, Versace Santo, Vignali Raffaello, Vittadini Giorgio, Zamagni Stefano. [39] Cfr. G. Israel, “Scienza pura e applicata nell'ultimo trentennio: una trasformazione radicale”, in Bollettino UMI sez. A, La Matematica nella Società e nella Cultura, Serie VIII, Vol. X-A, N. 1, Aprile 2007, pp. 21-53. [40] Si veda D. Ravitch, The Death and Life of the Great American School System. How Testing and Choice are 452

Undermining Education, Basic Books, 2010. [41] Si veda ancora G. Israel, A. Millán Gasca, Pensare in matematica, Bologna, Zanichelli, 2012. [42] Per la verità, non si tratta affatto della più acuta, ma della più acuta tra quelle non piattamente volgari. Non prenderemo quindi in considerazione chi si è scagliato contro «la clonazione dell’ignoranza» e ha ridicolmente sostenuto che «solo in Italia gli attacchi alla scienza hanno raggiunto livelli terroristici» (cfr. G. Corbellini su La Rivista dei Libri, ottobre 2000). [43] E. Bellone, La scienza negata. Il caso italiano, Torino, Codice edizioni, 2005. [44] Ivi, p. 6. [45] V. Volterra, “Le matematiche in Italia nella seconda metà del secolo XIX”, Atti del IV Congresso Internazionale dei Matematici, Roma, 6-11 aprile 1908, vol. I, pp. 55-65. [46] Per il periodo che va fino alla Seconda guerra mondiale un buon riferimento resta sempre: AA. VV., Un secolo di progresso scientifico italiano (1839-1939), Roma, Società Italiana per il Progresso delle Scienze, 1939 (in 7 voll.), nonostante risenta delle direttive ideologiche del regime fascista e, in particolare della promulgazione delle leggi razziali. [47] Cfr. Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (a cura di R. Simili e G. Paoloni), Roma-Bari, Laterza, 2001 (2 voll.). [48] V. Volterra, “Il momento scientifico presente e la nuova Società Italiana per il Progresso delle Scienze”, Rivista di Scienza, vol. I, n. 2, 1907, pp. 225-237. [49] Ivi. 453

[50]

Ivi.

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Castelnuovo fu autore di molti volumi sul calcolo delle probabilità, diversi dei quali affrontavano questioni di metodo o erano scritti secondo una prospettiva culturale. Giulio Fano fu autore del celebre Cervello e cuore, Bologna, Zanichelli, 1923. Nella rivista Archivio di Fisiologia creata fa Fano comparvero articoli di importanza basilare per le conoscenze del sistema nervoso centrale, a firma di personalità come Camillo Golgi e Santiago Ramon y Cajal. Anche Fano era uomo di grande sensibilità culturale. La sua rivista aprì le pubblicazioni con una sola frase di Leonardo Da Vinci: «La Natura è piena d’infinite ragioni che non furon mai in isperienza». [52] I libri di Enriques sono stati ristampati innumerevoli volte dalla casa editrice Zanichelli e non pochi di essi sono ancora disponibili. Va in particolare ricordato il celebre Problemi della scienza, Bologna, Zanichelli, 1906. [53] V. Volterra, Saggi scientifici, Bologna, Zanichelli, 1920, rist. 1990. [54] Cfr. G. Israel, “Federigo Enriques e il ruolo dell’intuizione nella geometria e nel suo insegnamento”, saggio introduttivo all’edizione anastatica del volume: F. Enriques, U. Amaldi, Elementi di Geometria, Zanichelli, Bologna, 1945; Edizioni Studio Tesi, 1992, pp. IX-XXII; G. Israel, “Il ‘positivismo critico’ di Federigo Enriques nella filosofia scientifica del Novecento”, in Federigo Enriques, Filosofia e storia del pensiero scientifico (a cura di O. Pompeo Faracovi e F. Speranza, Livorno, Belforte Editore Libraio, 1998, pp. 19-44. [55] Dal Programma della Rivista di Scienza – Scientia, vol. I, 1907, pp. 1-3. [56] G. Gentile, recensione a F. Enriques, Problemi della 454

scienza (Bologna, 1906), La Critica, vol. 6, 1908, pp. 430-446. [57] G. Gentile, “Scherzi innocenti intorno alla metafisica hegeliana”, La Critica, vol. 8, 1910, pp. 142-145. [58] Si veda: L. Lombardo Radice, “Il confronto filosofico di Federigo Enriques con il neo-idealismo”, L. Geymonat, “Federigo Enriques e la storia della scienza”, entrambi in Atti del Convegno Internazionale “Storia, Pedagogia e Filosofia della scienza”, Pisa-Bologna-Roma, ottobre 1971, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1973; G. Israel, L. Nurzia, “Fundamental trends and conflicts in Italian Mathematics between the Two World Wars”, Archives Internationales d'Histoire des Sciences, Vol. 39, N. 122, 1989, pp. 111-14; G. Israel, “Federigo Enriques: a psychologistic approach for the working mathematician”, in Perspectives on psychologism (M. A. Notturno ed.), Leiden, Brill, 1989, pp. 426-457. [59] Il tentativo di alcuni “fedelissimi” del pensiero crociano di giustificare le posizioni di Croce in quanto sarebbero state espressione di un tentativo (addirittura, si dice, l’unico) di criticare il positivismo, non hanno il minimo fondamento. Croce era ostile alla scienza tout court, e non soltanto alle filosofie positivistiche o neopositivistiche, come vedremo nel prossimo capitolo. Casomai, la critica più brillante e penetrante del positivismo che sia stata prodotta nella cultura italiana è rappresentata proprio dal “positivismo critico” di Enriques. Particolarmente pungente fu il suo intervento introduttivo al Congresso di Parigi del 1935: F. Enriques, “Filosofia scientifica”, in Filosofia scientifica ed empirismo logico, a cura di G. Polizzi, Milano, Unicopli, 1993, pp. 55-58. [60] Si veda ad esempio, in L. Geymonat, Storia del pensiero scientifico, Milano, Garzanti, 1972, vol. IV, pp. 354355. [61] Abbiamo già accennato al fatto che il “positivismo 455

critico” di Enriques era di fatto una critica del positivismo. La denominazione era dovuta al desiderio di sottolineare la necessità di riconciliare razionalismo ed empirismo entro una visione che aveva comunque marcati caratteri idealistici. [62] F. Enriques, “Importanza della storia del pensiero scientifico nella cultura nazionale”, Scientia, vol. 63, 1938, pp. 125-134. [63] Ivi. [64] Si veda G. Israel, “Vito Volterra e la riforma scolastica Gentile”, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana, Sez. A, serie VIII, vol. I-A, N. 3, dicembre 1998, pp. 269-287. [65] Si veda G. Israel, Il fascismo e la razza, Bologna, Il Mulino, 2010. [66] Giova ricordare che il Settimo Convegno Volta di scienze fisiche, matematiche e naturali, che si tenne a Roma dal 26 settembre al 2 ottobre 1937 ebbe per tema “Lo stato attuale delle conoscenze sulla nutrizione” e la relazione introduttiva fu tenuta da Visco. Molti degli intervenuti evidenziarono nei loro discorsi l’importanza dei risvolti economici, amministrativi e politici alla base degli studi sulla nutrizione e sul metabolismo umano, che spiegarono a seconda dell’appartenenza a una determinata “razza”. Come ebbe a dire uno dei più stretti amici del Visco, il fisiologo Filippo Bottazzi, la scienza della nutrizione è fondamentale per «l’incremento demografico della popolazione e il perfezionamento della razza». Tale visione fu enfatizzata da Giuseppe Bottai che sottolineò, nel suo intervento l’interesse «sommo» del Governo per questi temi che focalizzano i rapporti tra alimentazione e metabolismo della razza: «dalla fecondità del chicco dipende la fecondità della razza». (Lo stato attuale delle conoscenze sulla nutrizione, Reale Accademia d’Italia, Fondazione Alessandro Volta, Convegno di scienze fisiche, matematiche e naturali, Roma, 456

1938). Si noti che siamo nel 1937, ancora un anno prima delle leggi razziali, il che la dice lunga sull’orientamento razzista di questi scienziati. [67] La nota storica recita: «L’Istituto è stato fondato nel 1936 dal noto studioso Sabato Visco, come Istituto Nazionale di Biologia, nel quadro degli istituti scientifici del Consiglio Nazionale delle Ricerche. L’intento era quello di favorire le conoscenze nello specifico ambito della biologia che si andava allora delineando nel panorama scientifico internazionale: la scienza dell’alimentazione, studiata in quanto interrelazione fra l’agricoltura - fonte di risorse alimentari - e il benessere e la salute della popolazione attraverso la nutrizione. Nel 1958 l’Istituto diviene Ente di diritto pubblico sotto la vigilanza del Ministero dell’Agricoltura e Foreste e cambia la sua denominazione in Istituto Nazionale della Nutrizione (INN)». A parte la curiosa menzione di Visco come “noto studioso”, la definizione degli intenti dell’Istituto di Visco è fuorviante, in quanto il benessere e la salute della popolazione era inteso come miglioramento razziale. [68] Si spiega che nel congresso si è parlato «delle norme per una sana e corretta alimentazione, dei problemi di conoscenza del valore nutrizionale dei cibi e della necessità, che fin dai primi anni, l’essere umano abbia coscienza del rapporto “alimentazione-salute”»; ricordando che «sono questi i capisaldi sui quali si è svolta o si svolge l’attività di studio e di ricerca, nel campo della nutrizione e della alimentazione, anche nel nostro Paese. Pietra angolare di questa attività è l’organismo scientifico fondato dal Prof. Sabato Visco, nell’ambito dell’Università di Roma negli anni Cinquanta, che è oggi quel grande e autonomo istituto che si chiama INRAN». L’INRAN è il «pilastro» di tali ricerche, ed esso, «fino a qualche anno fa, si chiamava Istituto Nazionale della Nutrizione». Ci si guarda bene dal dire che l’Istituto Nazionale della Nutrizione fu fondato nel 1936 (e non negli anni cinquanta, in cui fu soltanto 457

ristrutturato) e quali erano i suoi fini extra-scientifici. [69] Cfr. G. Israel, Il fascismo e la razza, cit. [70] M. Serri, I Redenti, Milano, Corbaccio, 2005. Ora, fortunatamente, la letteratura su questa tematica, si sta allargando: si veda P. Battista. Cancellare le tracce, Milano, Rizzoli, 2007. [71] Cfr. Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto V. [72] Per una ricostruzione dettagliata della vicenda di Terni si veda: P. Simoncelli, “Il dramma di uno scienziato ebreo. Il suicidio di Tullio Terni e l’epurazione ai Lincei”, Nuova Storia Contemporanea, VII, no. 1, 2003, pp. 101-120. [73] Non fu il solo. Anche illustri scienziati ebrei come Carlo Foà e Mario Camis furono epurati dall’Accademia del Lincei. [74] Cfr. gli atti parlamentari. [75] Cit. in P. Battista, Cancellare le tracce, cit. p. 63. [76] B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1908 (3a ed. 1917), p. 223. Tutti i brani citati qui appresso sono tratti da quest’opera. [77] A. Banfi, L’uomo copernicano, Milano, Mondadori, 1950 (rist. Milano, Il Saggiatore, 1965), p. 120. [78]

G. Giorello, “Il laico Croce e l’idea di grazia”, Corriere della Sera, 27 agosto 2007, p. 33. [79] E. Bellone, La scienza negata. [80] Cit. ivi, p. 116. [81] Per un’analisi più dettagliata cfr. G. Israel, Il giardino 458

dei noci, cit. [82] K. Marx, Il Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1970, vol. I, p. 32. [83] Ivi, p. 662. [84] A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975 (4 voll.). [85] Ivi, p. 1948. [86] Ivi, p. 1456. [87] Ivi. [88] Ivi. [89] Ivi, p. 1457. [90] È illusorio pensare che tutto questo appartenga al passato. Dopo la nomina del nuovo esecutivo del Partito Democratico, il segretario Walter Veltroni ha detto che con esso «inizia il cammino di una compagine di donne e uomini innovativa, fresca, aperta e autorevole che avrà il compito di interpretare al meglio la grande forza riformista del Pd». Ma lo scrittore Vincenzo Cerami, probabile nuovo responsabile della cultura, richiesto di chi sia «un grande da recuperare» non ha trovato di meglio che rispondere: «Gramsci e il suo sentimento della realtà». [91] È pertanto assai deprimente constatare che, mentre è difficile che vengano promossi convegni su personalità della cultura scientifica italiana come Vito Volterra o Federigo Enriques, se non in un contesto accademico e limitato a pochi addetti ai lavori, si promuovono convegni sul pensiero di Gramsci, introdotti da sindaci e personalità di primissimo piano del mondo culturale e politico in cui si presentano relazioni su 459

“Un approccio gramsciano in storia della scienza”. [92] G. Della Volpe, Logica come scienza storica, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 204. In questo contesto, è interessante ripensare alla natura di “redento” di Della Volpe. Difatti, questo genere di discorsi si accordano perfettamente non soltanto con la critica sovietica della scienza borghese, ma anche con quella di certi teorici della scienza ariana, come Hugo Dingler. [93] A. Banfi, Principi di una teoria della ragione, Roma, Editori Riuniti, 1967. [94] L. Geymonat, Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore, 1945. [95] M. E. Omelyanovskij, V. A. Fock e altri, L’interpretazione materialistica della meccanica quantistica: Fisica e filosofia in URSS, a cura di S. Tagliagambe, prefazione di L. Geymonat, Milano, Feltrinelli, 1972. Nel quadro di questa pubblicistica discutibile uno dei prodotti migliori fu N. Bucharin e al., Scienza al bivio (Interventi dei delegati sovietici al Congresso internazionale di storia della scienza e della tecnologia, Londra 1931), Bari, De Donato, 1977, che quantomeno non era improntato a una piatta ortodossia materialistico-dialettica e conteneva saggi di qualche valore e ancor oggi leggibili, come quello di B. Hessen su “I ‘Principia’ di Newton”. [96] G. Ciccotti, M. Cini, M. De Maria, G. Jona-Lasinio, L’ape e l’architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico, Milano, Feltrinelli, 1976. [97] G. Israel, “La scienza come progetto per la società”, Rinascita, anno 33, n. 33, 20 agosto 1976, p. 24-25. «… [si] propone un quadro semplicistico e trionfalista delle lotte che avrebbero portato, a partire dagli anni ’60, culminando con il ’68, al costituirsi di una “nuova scientificità”, alternativa a 460

quella della classe dominante. Non si tenta un’analisi critica di quelle esperienze e non si coglie il fatto che è proprio alla “resistenza” di tanti intellettuali a certe tendenze – queste sì irrazionalistiche – emerse nel movimento del ’68, che si deve la possibilità di ricostruire oggi una proposta positiva sulla funzione sociale della scienza». [98] T. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, The University of Chicago Press, 1962. [99] Tra gli interventi segnaliamo quelli di Giulio Giorello, Bernardino Fantini, Sandro Petruccioli, Roberto Maiocchi. [100] P. Rossi, Aspetti della rivoluzione scientifica, Napoli, Morano, 1972. [101] G. Israel, “La crisi dell’ottimismo scientista e i diritti della ragione”, Rinascita, anno 32, n. 19, 9 maggio 1975, pp. 25-27. L’allora responsabile per la ricerca scientifica del PCI mi disse che Geymonat aveva minacciato l’uscita dal Partito per il fatto che fosse stato pubblicato un articolo così irrispettoso delle sue tesi, cosa che fece quando si rese conto che il Partito non sceglieva la sua come linea ufficiale. Peraltro, con Geymonat ebbi in seguito un rapporto molto disteso. [102] G. Israel, “L’idea di rivoluzione scientifica e le tendenze recenti della storiografia della scienza”, Rivista di Filosofia, vol. LXXXIX, N. 1, aprile 1998, pp. 113-138. [103] Cfr. F. Palombi, La stella e l’intero. La ricerca di Gian-Carlo Rota tra matematica e fenomenologia, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. [104] G. Steiner, La nostalgia dell'assoluto, Anabasi, Milano, 1995. [105] Si pensi all’incapacità di abbandonare il ricorso al termine “compagno”. 461

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L. Ricolfi, Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori, Milano, Longanesi, 2005. [107] È evidente che quando si inizia a scoprire che questa frontiera antropologica non esiste e che anche a sinistra si commettono gli stessi misfatti, nasce un senso di scoramento ed è questa la radice autentica del cosiddetto vento di “antipolitica” che, a partire dal 2007, sta dilagando nel paese. [108] Per un’analisi più approfondita, cfr. G. Israel, Liberarsi dei demoni, cit. [109] Vedi ancora il libro cit. alla nota precedente. [110] G. Israel, Il giardino dei noci, cit., ripubblicato con varianti come Incubi postmoderni e tirannia della tecnoscienza, ebook, Amazon-Kindle, 2013. [111] G. Israel, La macchina vivente, Milano, Bollati Boringhieri, 2004. [112] Questo è l’unico riferimento esplicito che intendo fare, per la sua particolare gravità: ovvero la censura compiuta nei confronti del professore Paolo Diodati da parte della direzione della rivista Le Scienze (cfr. Il Foglio, 27 settembre 2007, 25 ottobre 2007). [113] In questo passaggio de Il Saggiatore Galileo polemizza con il padre gesuita Orazio Grassi (e la sua opera Disputatio astronomica pubblicata con lo pseudonimo di Lotario Sarsi) e la sua convizione che la filosofia sia cosa che sta scritta nei libri e prosegue con una celebre affermazione: «Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza 462

i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». Come ha osservato Alain Finkielkraut, «così può nascere l’espressione che non avrebbe avuto alcun senso per gli umanisti: e tutto il resto è letteratura» (A. Finkielkraut, Noi altri, i moderni, Torino, Lindau, 2006). [114] P. Odifreddi, Il matematico impertinente, Milano, Longanesi, 2005, pp. 9-10. [115] P. Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Milano, Longanesi, p. 227. [116] P. Odifreddi, “Matematica. La scienza odiata dagli italiani”, cit. [117] E. Bellone, La scienza negata, cit. [118] B. de Finetti, L’invenzione della verità, Milano, Raffaello Cortina editore, 2006 (con un’introduzione dal titolo “Scienza senza illusioni” di G. Bruno e G. Giorello). [119] G. Giorello, “Galileo eretico del linguaggio”, Corriere della Sera, 15 ottobre 2007, p. 35. [120] Si ricordi la critica di Merton al caratteristico circolo vizioso del relativismo radicale, nel quale le proposizioni stesse che asseriscono questo relativismo sono ipso facto invalide. [121] Ci limitiamo ad osservare che il modo in cui Bellone giustifica le difficoltà delle sue tesi è una curiosa maniera di ribaltare queste difficoltà in “spiegazioni”. La difficoltà analoga a quella della teoria darwiniana, ovvero la mancanza di “anelli di congiunzione” tra le fasi di sviluppo delle teorie è “spiegata” dicendo che «gli anelli di congiunzione sono irreperibili perché sono situati nella materialità delle cellule nervose, là dove continuamente mutano quelle condizioni dell’apprendimento che sono le vere responsabili delle variazioni culturali». Quanto 463

al fatto che i tempi dell’evoluzione si stimano in milioni di anni mentre la nascita del linguaggio scritto è recentissima, si suggerisce che «l’evoluzione culturale, così come la rintracciamo nei documenti restanti, coinvolga velocità di crescita e ristrutturazione ben superiori a quella che invece è adatta alle scale temporali dell’evoluzione degli organismi viventi». Perché mai, non è dato sapere. Più che di “spiegazioni”, si tratta di atti di fede. [122] L. Smolin, The Trouble with Physics. The Rise of String Theory, the Fall of a Science, and What Comes Next , Boston, Houghton Mifflin Company, 2006 (in italiano, L’universo senza stringhe. Fortuna di una teoria e turbamenti della scienza, Torino, Einaudi, 2007). [123] Ivi, p. XXIII-XXIV. [124] Ivi, p. XXIV. [125] Si è teso ad insistere sul carattere puramente matematico e formale della teoria delle stringhe e sul richiamo che Smolin farebbe alla necessità di sviluppare una teoria suscettibile di verifica sperimentale, mentre Smolin ha insistito soprattutto sulla riflessione fondazionale, addirittura su una riflessione filosofica sui concetti di spazio e di tempo. [126] Una casistica di questo duplice riferimento è illustrata in vari brani di G. Israel, Liberarsi dei demoni, cit. [127] « […] si pone il problema che la gran parte dei grandi risultati della scienza, penso alla matematica, non possono essere né raccontati né spiegati in termini “semplici, piacevoli, appassionanti” a nessuno che non sia competente nel settore. Basta essere chiari e far comprendere come ascoltare una conferenza, o un dibattito o assistere ad un incontro non sia la stessa cosa di studiare, capire, approfondire, insomma che si tratta, fatte salve le dovute differenze, di spettacolo. Per far 464

capire sarebbe come dire che delle trasmissioni televisive serali in cui si assiste ad un bel dibattito su un qualsiasi argomento, siano “informazione” e non spettacolo della comunicazione. Ci avevano provato a semplificare lo “studio” anni fa in una famosa accademia, inventando un metodo molto raffinato. È Gulliver che racconta, in visita alla Accademia di Lagado: “Andai infine alla scuola di matematica, dove il maestro seguiva un metodo d’insegnamento che in Europa si stenterebbe ad immaginare. Problema e dimostrazione erano bellamente scritti su un’ostia con inchiostro composto di una essenza encefalica, e lo studente doveva ingoiarla a stomaco digiuno restando poi tre gironi senza mangiar altro che pane ed acqua. A mano a mano che l’ostia veniva digerita, la tintura saliva al cervello e si portava la dimostrazione con sé.” Solo un difetto aveva il metodo. Non funzionava, purtroppo». (M. Emmer, “Scienza e spettacolo”, Sapere, ottobre 2007, pp. 44-45). [128] Essa è stata magistralmente descritta da Aristotele: «[…] essi, osservando che tutta quanta la natura è in movimento e che non è possibile dire alcuna verità su ciò che cambia, sostennero che non si può dire la verità su tutto quello che per ogni dove e per ogni guisa attua il cambiamento. Da questa considerazione germogliò l'opinione che, tra quelle da noi esaminate è la più estremistica, quella, cioè, di quanti si professano seguaci di Eraclito, opinione che è stata sostenuta da quel Cratilo, il quale finì col credere che non si dovesse proferire neppure una parola, e soleva fare soltanto movimenti col dito e rimproverava ad Eraclito di aver detto che non si può scendere due volte nello stesso fiume, giacché la sua opinione personale era che non vi si potesse scendere neppure una volta! […]Comunque, tanto tra quelli che sostengono con convinzione le teorie da noi criticate, quanto tra quelli che le professano solo per trovare, mediante queste, argomenti di disputa, vi sono alcuni che sollevano le seguenti difficoltà, domandandosi, ad esempio, quale persona possa giudicare sulla buona salute di un 465

uomo e, in generale, chi possa dare un corretto giudizio su ciascuna cosa. Ma porre questioni di tal genere equivale a chiedersi se in questo istante noi stiamo dormendo o siamo desti, e le aporie siffatte hanno tutte quante il medesimo punto di partenza, giacché quelli che le pongono ritengono che si possa dare una spiegazione razionale di tutte le cose. Essi, infatti, vanno alla ricerca di un principio e intendono conseguirlo mediante la dimostrazione, ma poi con il loro comportamento fanno chiaramente vedere che essi non posseggono alcuna convinzione. Ma, come noi dicevamo, il loro caso è appunto il seguente: essi cercano una spiegazione razionale di ciò che non può averla, giacché il principio di una dimostrazione non va soggetto esso stesso a dimostrazione. Quelli che sono in buona fede possono essere facilmente convinti di ciò, ma quelli che mirano soltanto a farsi valere nella discussione, vanno alla ricerca dell'impossibile, giacché essi si arrogano il diritto di fare asserzioni tra loro contrarie, cominciando col fare realmente asserzioni che sono tra loro contrarie». (Aristotele, Sul relativismo). [129] Questi temi sono trattati con qualche maggior dettaglio in G. Israel, Liberarsi dei demoni, cit. Cfr. anche G. Israel, “The Science of Complexity: Epistemological Problems and Perspectives”, Science in Context, vol. 18 (3), 2005, pp. 131. [130] Cfr. G. Israel, La visione matematica della realtà, Introduzione ai temi e alla storia della modellistica matematica, a

Roma-Bari, Laterza, 1996, 3 ed. 2003. La visione moderna di modello, abissalmente diversa da quella di Galileo fu bene espressa da John von Neumann: «[…] le scienze non cercano di spiegare, a malapena tentano di interpretare, ma fanno soprattutto dei modelli. Per modello si intende un costrutto matematico che, con l’aggiunta di certe interpretazioni verbali, descrive dei fenomeni osservati. La giustificazione di un siffatto 466

costrutto matematico è soltanto e precisamente che ci si aspetta che funzioni — cioè descriva correttamente i fenomeni in un’area ragionevolmente ampia. Inoltre, esso deve soddisfare certi criteri estetici — cioè, in relazione con la quantità di descrizione che fornisce, deve essere piuttosto semplice» (cit. in G. Israel, A. Millán Gasca, Il mondo come gioco matematico. John von Neumann scienziato del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 2008 (premio Peano)). [131] P. Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), cit. [132] A. Funkenstein, Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento, Torino, Einaudi, 1996. [133] Cfr. in merito il libro-dibattito J.-P. Changeux, P. Ricœur, Ce qui nous fait penser. La nature et la règle, Paris, O. Jacob, 1998. [134] Cfr. Casini, P. 1976, “La Loi naturelle: réflexion politique et sciences exactes”, Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, Oxford, The Voltaire Foundation at the Taylor Institution, vol. CLI-CLV, pp. 417-432; AA. VV. Dio, la Natura e la Legge, God and the Laws of Nature (a cura di S. Moriggi, E. Sindoni), Milano, Angelicum – Mondo X, 2005; G. Israel, “Y a-t-il des lois en économie ?”, in AA. VV., Y a-t-il des lois en économie?, (études coordonnées par A. Berthoud, B. Delmas, Th. Demals), Presses Universitaires du Septentrion, 2007, pp. 19-35; G. Israel, “The Science of Complexity”, cit. [135] R. Dawkins, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Milano, Mondadori, 2007. [136] “E io vi dico che la modernità l’hanno inventata gli arabi”, Intervista a Giulio Giorello, Corriere della Sera – Sette, giugno 2004. [137] A livello divulgativo mi sono espresso anch’io più 467

volte in questo senso. Cfr. G. Israel, “La sapienza del nulla”, in J. D. Barrow, G. Israel, E. Di Mauro, P. Zellini, J. M. Winter, B. Placido, C. De Seta, Zero e infinito, I princìpi di ordine che intervengono in natura, Napoli, Cuen, 1999, pp. 41-52; G. Israel, “Le zéro et le néant: la Kabbalah à l'aube de la science moderne”, Alliage, n° 24-25, Automne-Hiver 1995, (numero spécial “Autour de la Méditerranée”), pp. 88-98; G. Israel, “E infine arrivò lo zero”, Sapere, anno 62°, n. 3 (984), giugno 1996, pp. 21-28. [138] Una valutazione molto equilibrata è quella di Alexandre Koyré: «È con ardore sorprendente che, dopo aver completato la conquista politica, il mondo arabo-islamico si lancia alla conquista della civiltà, della scienza e della filosofia greche. Tutte le opere scientifiche, tutte le opere filosofiche saranno sia tradotte, sia – è il caso di Platone – esposte e parafrasate. Il mondo arabo si sente, e si dice, erede e continuatore del mondo ellenistico. E in ciò ha ben ragione. Perchè la brillante e ricca civiltà del Medio evo arabo – che non è un Medio Evo ma piuttosto un Rinascimento – è, in tutta verità, continuatrice ed erede della civiltà ellenistica. Ed è per questo che essa ha potuto giocare, a fronte della barbarie latina, il ruolo eminente di educatrice che è stato il suo. Indubbiamente, questa fioritura della civiltà arabo-islamica è stata di corta durata. Il mondo arabo, dopo aver trasmesso all'Occidente latino l’eredità classica che aveva raccolta, l’ha lui stesso persa e persino ripudiata. Ma, per spiegare questo fatto non c’è bisogno di invocare, come fanno molto spesso gli autori tedeschi — e anche francesi — una ripugnanza congenita dell’Arabo per la filosofia; una opposizione irriducibile fra lo spirito greco e lo spirito semitico; un’impenetrabilità spirituale dell’Oriente per l'Occidente – si dicono molte sciocchezze sul tema Oriente-Occidente… Si può spiegare la cosa molto più semplicemente con l’influsso di una reazione violenta dell'ortodossia islamica che, non senza ragione, rimproverava 468

alla filosofia la sua attitudine antireligiosa, e soprattutto, con l’effetto devastatore delle ondate di invasione barbare, turche, mongole (berbere in Spagna) che hanno distrutto la civiltà araba e hanno trasformato l'Islam in una religione fanatica e ferocemente ostile alla filosofia. È probabile che senza quest'ultima ‘influenza’ la filosofia araba avrebbe proseguito uno sviluppo analogo a quello della scolastica latina; che i pensatori arabi avrebbero saputo trovare delle risposte alle critiche di Al Gazal (Ghazzali), avrebbero saputo ‘islamizzare’ Aristotele… Non ne hanno avuto il tempo. I turchi e i berberi hanno brutalmente arrestato il movimento e fu all’Occidente latino che spettò il compito di raccogliere l’eredità araba, assieme all’eredità greca che gli Arabi avevano trasmesso» (A. Koyré, Études d'histoire de la pensée scientifique, Paris, Gallimard, 1973). Secondo vari studiosi, l’apporto arabo è «sopravvalutato […] Per uno scienziato moderno questo contributo non è trascurabile, ma non è decisivo, perché gli Arabi non hanno proposto nuovi modelli di rappresentazione del mondo, non hanno rimesso in discussione il modello tolemaico: il loro contributo alla scienza del cosmo si è dunque mantenuto modesto. […] Si può concludere con questa riflessione di Slim Laghmani: “La storia comparata delle idee musulmane e cristiane in materia di rapporti tra religione e rivelazione conduce alla conclusione, certo schematica ma fondamentalmente valida, di due opposte traiettorie, in cui il punto di partenza dell’una coincide con il punto d’arrivo dell’altra. Storia di una chiusura nell’Islam, storia di un’apertura nella cristianità”» (F. F. Charfi, “Islamismo e progresso tecnologico”, Prometeo, anno 14, n. 54, Giugno 1996, pp.5257). [139] Si pensi alla confutazione e di ipotesi controfattuali, come quella del vuoto o del moto rettilineo uniforme, la cui analisi ha aperto la strada al principio d’inerzia in meccanica. [140] J.-M. Lévy-Leblond, La velocità dell’ombra. Ai 469

limiti della scienza, Torino, Codice Edizioni, 2007, p. 215. [141] Difatti, il termine è usato impropriamente perché la teoria darwiniana originaria è stata abbandonata da quasi un secolo e si è ripresentata soltanto attraverso una sintesi col mendelismo e quindi l’abbandono delle spiegazioni del meccanismo evolutivo proposte da Darwin. Per non dire che la teoria si presenta oggi in forma ancora diversa e diversificata secondo le interpretazioni di differenti scienziati. [142] M. Piattelli Palmarini, “Il darwinismo caricaturale”, Corriere della Sera, 16 ottobre 2007, p. 38. [143] Si veda anche l’importante articolo: M. Piattelli Palmarini, “Darwin. I seguaci più ortodossi smentiti dalla natura”, Corriere della Sera, 4 novembre 2007, p. 35. È interessante notare come Piattelli Palmarini sia stato duramente rimbrottato dalle vestali del darwinismo, in nome dell’oggettività dei fatti. Ma se si tenesse davvero a tale oggettività bisognerebbe proprio non occultare le difficoltà della teoria neodarwiniana. Invece di richiamare duramente al rispetto incondizionato del verbo di tale teoria, si dovrebbero far leggere nelle scuole libri come: R. Junker, S. Scherer, Evoluzione. Un trattato critico. Certezza dei fatti e diversità delle interpretazioni, Milano, Gribaudi, 2007. [144] Non entriamo qui negli aspetti politici della dichiarazione che mette in guardia contro i “rischi per la democrazia” e per “i diritti dell’uomo” che sarebbero rappresentati dal creazionismo. Riteniamo che questo intervento sia stato vergognoso. Cfr. G. Israel, “Il creazionismo una minaccia per la democrazia? Suvvia”, Il Foglio, anno XII, n. 251, 24 ottobre 2007, p. IV. [145] Ivi. [146] Nella tradizione ebraica-talmudica si riteneva che il 470

feto avesse consistenza “acquosa” prima del quarantesimo giorno e quindi soltanto da quel momento iniziasse ad acquisire caratteristiche “personali”. [147] A. Koyré, Lezioni su Cartesio, Milano, Tranchida, 1990, p. 80. «L’abbiamo dimenticato. La nostra scienza va avanti senza occuparsi molto dei suoi fondamenti. Il suo successo le basta. Fino al giorno in cui una “crisi” – “una crisi dei principi” – le rivela che manca qualche cosa: cioè capire ciò che fa» (Ivi). [148] M. Piattelli Palmarini, “Tra Dio e Darwin meglio ascoltare la natura”, Corriere della Sera, 9 novembre 2007, p. 57. [149] Questa è un’affermazione dell’antropologo e paleontologo monsignor Fiorenzo Facchini. [150] E. Boncinelli, G. Sciarretta, Verso l’immortalità. La scienza e il sogno di vincere il tempo, Milano, Raffaello Cortina, 2005. [151] Per una critica più dettagliata cfr. G. Israel, Liberarsi dei demoni, cit. [152] E. Boncinelli, “La legge di Darwin e il peso della casualità”, Corriere della Sera, 10 novembre 2007, p. 49. [153] A. Einstein, L. Infeld, L’evoluzione della fisica. Sviluppo delle idee dai concetti iniciali alla relatività e ai quanti, Torino, Bollati Boringhieri, 2000. Il biologo Jacques Monod ha identificato addirittura il significato del principio d’inerzia con il principio di oggettività, «pietra angolare del metodo scientifico», sostenendo che esso è un «postulato puro, per sempre indimostrabile, perché è impossibile immaginare un’esperienza che possa dimostrare la non esistenza di un progetto, di uno scopo perseguito» (cfr. J. Monod, Il caso e la necessità, Milano, Mondadori, 2001). Monod ha perfettamente 471

colto nel segno, in quanto il principio d’inerzia ha senso soltanto se pensiamo a un universo assolutamente vuoto, in cui non esiste un osservatore capace di interagire con gli eventi e in cui, quindi, l’osservatore è esterno: è la garanzia del carattere assolutamente oggettivo degli eventi fisici. Ma una simile situazione può essere soltanto pensata, non può essere neppure simulata perché ogni esperimento in tale direzione è soggetto a confutazione. Eppure questo principio è il pilastro di tre secoli di scienza, come ha osservato Einstein. [154]

Questo mito della semplificazione e della riduzione del difficile al facile e “attraente” è uno degli errori più devastanti della divulgazione scientifica contemporanea. «”La televisione è semplice e immediata. Anche un bambino può guardarla e capirla, e immediatamente. Questo e’ il suo fascino. Questo è il suo limite, il suo pericolo […] Invece la cultura è difficile, il sapere che conta non è né facile né immediato ma vale la pena di impegnarsi [….] è un’attività che dà una immensa soddisfazione, una volta che si sia fatta la fatica necessaria per imparare a padroneggiare gli strumenti, […] dire che tutto può essere reso semplice, facile, è un imbroglio, un inganno.” Parole di Beniamino Placido su La Repubblica del 20 aprile del 1990, diciassette anni fa» (M. Emmer, “Scienza e spettacolo”, Sapere, ottobre 2007, pp. 44-45. [155] J.-M. Lévy-Leblond, La velocità dell’ombra, cit., p. 201.2. [156] Soltanto nel nostro paese si sviluppa una sterile e ridicola polemica sull’età di pensionamento. Nel tanto vantato modello statunitense non esiste età di pensionamento e un docente può essere mantenuto in servizio anche a novant’anni se si ritiene che possa essere utile per la sua esperienza, oppure può essere giubilato a cinquant’anni in quanto fannullone o poco capace. [157] M. Emmer, “Scienza e spettacolo”, cit. 472

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M. Emmer, “Scienza e spettacolo”, cit. M. Emmer, “Scienza e spettacolo”, cit.

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C. Magris, “La mia università scomparsa”, Corriere della Sera, 16 marzo 2004. [161] Ivi. [162] Ivi. [163] Ivi. Dispiace che una così brillante descrizione sia stata in parte attenuata dopo un rimbrotto pubblico da parte dell’allora presidente della Conferenza dei Rettori. [164] L. Lombardo Radice, L’educazione della mente, Roma, Editori Riuniti, 1964. [165] Aggiungiamo a questo che la visione di Lombardo Radice del rapporto dinamico e aperto che doveva stabilirsi fra docente e studente era quanto mai estranea a quelle forme di codificazione meccanica della “valutazione” che oggi si vanno diffondendo, nella inconsistente pretesa che tale processo possa essere governato in forme rigorosamente obbiettive. Lombardo Radice era un intuitivo e il rapporto con lo studente era per lui qualcosa di profondamente vivo in cui la soggettività giocava un ruolo primario, ed egli avrebbe considerato come ridicolo il tentativo di dissolvere la soggettività degli agenti del processo educativo in una sorta di meccanismo fatto di “valutazioni”, di automatismi di “crediti” e “debiti”, di “bollini blu e rossi” e quant’altro tende oggi a ridurre la scuola a un processo produttivo di tipo industriale (per di più, giocoso), in totale spregio della specificità del processi culturali. Di certo, questa visione dinamica e intuitiva dei processi psicologici ricollega il suo modo di vedere a quello del grande matematico italiano Federigo Enriques al cui pensiero, non a caso, egli sovente si richiamava, e che ebbe come maestro nell’Università di Roma 473

fra il 1934 e il 1938. [166] In un dibattito tenuto nell’agosto 2007 al Meeting di Rimini, Pietro Barcellona mi rimproverò di far uso in modo ironico del termine “democratico” che è rispettabile e non merita derisione. Sono completamente d’accordo. Infatti, qui l’ironia non colpisce il termine in sé, bensì la pretesa di presentare quelle visioni come espressioni di spirito “democratico” o “progressista”. Qui, come in situazioni analoghe, chi si autorappresenta come democratico o progressista esprime invece una posizione profondamente retriva e involutiva, se non altro perché è distruttiva del progresso culturale, ed è il principale responsabile del ridicolo che si attacca all’aggettivo. [167] Nelle Indicazioni Nazionali per il Curricolo del Ministero della Pubblica Istruzione (2007). [168] Senza contare che chi ha introdotto queste distinzioni ha pasticciato in modo incongruo tra idee di ordine (del tutto convenzionali) e idee topologiche. [169]

Il gruppo era composto da Carlo Bernardini (fisico), Enrico Rizzarelli (chimico), Edoardo Boncinelli (biologo), Franco Pacini (astrofisico), Luigina Carlucci Aiello (informatica), Vittorio Silvestrini (fisico, presidente della Città della Scienza di Napoli), Paolo Galluzzi (storico della scienza, già direttore dell'Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze), Fiorenzo Galli (direttore del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano), Pietro Greco (giornalista scientifico), Enrico Bellone (storico della fisica), Carla Romagnino (fisica e storica della fisica), Rita Serafini (insegnante, fisica), Giancarlo Quaranta (sociologo), Mario Fierli (ingegnere informatico), Carlo Sbordone (matematico), Andrea Granelli (informatico), Gianfelice Rocca (fisico, imprenditore). Per il documento vedi: http://www.pubblica.istruzione.it/argomenti/gst/allegati/documento_di_lavo

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E. Giusti, “Verso l’emarginazione della matematica nella scuola secondaria?”, Notiziario della Unione Matematica Italiana, anno XXXXIV, n. 8-), agosto-settembre 2007, pp. 7580. [171] Come disse Henri Poincaré, «la scienza non è una collezione di fatti, più di quanto un ammasso di pietre sia una casa». [172] E. Giusti, “Verso l’emarginazione della matematica nella scuola secondaria?”, cit. [173] Ivi. [174] Ivi. [175] Con riferimento agli Stati Uniti, Piattelli Palmarini scrive: «Il caso della matematica è esemplare. Dopo aver tentato di tutto per renderla più accessibile intuitiva, compresa la sciagurata riforma chiamata New Math, nella quale tutto si basava sulle nozioni (supposte) elementari dell’insiemistica, e dopo aver introdotto nella classe di matematica bilancette, palloni gonfiabili, forbici e cartone (la tanto incensata manualità), si è dovuto constatare che i risultati erano modesti. Allora si pensò di espellere completamente le operazioni aritmetiche e far leva sulle calcolatrici tascabili. Ne uscivano ragazzi schiavi dell’elettronica e incapaci di ragionare in astratto. Molte piccole e grandi riforme ne sono seguite, ma si constata ancora oggi, nei principali dipartimenti universitari di matematica, la strapresenza di giovani studiosi provenienti dall’India, Giappone e Corea. Più della metà dei dottori superiori in matematica nelle università americane vengono conseguiti da cittadini di altri Paesi, in prevalenza dal lontano Oriente. Durante una mia recente visita a Seul ho constatato che ragazzi e ragazze di dieci o dodici anni trovano perfettamente normale stare a tavolino cinque o sei ore al giorno, dopo la 475

scuola, per fare i compiti. Da noi e negli Stati Uniti, invece, è emerso il concetto che non bisogna mettere mai un ragazzo di fronte a un insuccesso. La resa di conti, inevitabilmente, viene rimandata a sempre più tardi, magari agli inizi della professione» (M. Piattelli Palmarini, “Se lasciamo la matematica agli studenti asiatici”, Corriere della Sera, 16 novembre 2007, p. 52). [176] Da una lettera inviata al blog de Le Scienze il 9 novembre 2007: «A proposito di imprecisioni (per non dire di vere e proprie boiate) e di informazione non credibile mi vengono in mente un paio di esempi agghiaccianti degli ultimi giorni: – “Craig Venter scopre il primo cromosoma sintetico”. The Guardian scrive: “Craig Venter […] has built a synthetic chromosome out of laboratory chemicals and is poised to announce the creation of the first new artificial life form on Earth”. Ma è una bufala.Tutti scopiazzano The Guardian e parlano di fantabioetica e di scenari ora esaltanti ora terrorizzanti. Nessuno si prende la briga di verificare; nemmeno di guardare il sito di Venter per vedere la faccia che ha. L’addetto stampa di Venter smentisce: nessuno ha voglia di dare la notizia (forse nemmeno hanno letto il comunicato, e forse sarebbe poco appetitoso; vuoi mettere con l’annuncio della vita eterna??). – “Ashera, il micione transgenico”: altra bufala. Il micione è il risultato di incroci “tradizionali”. Ma nessuno smentisce. Una tale superficialità alimenta la già scarsa informazione e “simpatia” riguardo alla scienza. E ne è il risultato. Il circolo vizioso manda in cancrena le menti» (Chiara Lalli). E ancora (9 novembre 2007): «Anch’io ne vedo di tutti i colori sui tre quotidiani che leggo abitualmente, e facciamoli i nomi, in ordine di castronerie decrescenti:- La Repubblica […] - La Stampa- Il Corriere.Invio molte mail a questi tre quotidiani dicendo senza troppi peli sulla lingua che sono giornalisti ignoranti (in scienze), e una volta uno di questi pensatori mi rispose che se ero tanto bravo potevo propormi 476

come giornalista scientifico e che lui era solo un povero geologo, e che non ci si poteva aspettare che scrivesse bene di cose biologiche!!!» (Gianni F.). [177] Una più dettagliata illustrazione di tale fenomeno nell’ambito della modellistica matematica nel campo dei fenomeni biologici e sociali può trovarsi in G. Israel, “Modèlerécit ou récit-modèle?”, in Le modèle et le récit, (sous la direction de Jean-Yves Grenier, Claude Grignon, Pierre-Michel Menger), Paris, Editions de la Maison des sciences de l'homme, 2001, pp. 365-424. [178] “Il demiurgo intelligente”, intervista a René Thom, a cura e con schede di G. Israel, Prometeo, Anno 8, N° 29, Marzo 1990, pp. 28-37. Si veda la versione completa: Un entretien avec René Thom – Un’intervista a René Thom, a cura di G. Israel, e-book, Amazon-Kindle, 2013. [179] Si veda G. Israel, Modelli matematici, Roma, Editori Riuniti, 1986; nuova ed. riveduta Modelli matematici, Introduzione alla matematica applicata, Roma, Franco Muzzio, 2002; e G. Israel, La visione matematica della realtà, Introduzione ai temi e alla storia della modellistica matematica, Roma-Bari, Laterza, 1996 (2a ed. 1997, 3a ed. 2003). [180] Si veda A. Koyré, “Galilée et l’expérience de Pise: à propos d’une légende” e “Le ‘De Motu gravium’ de Galilée: de l’expérience imaginaire et de son abus”, in Etudes d’histoire de la pensée scientifique, Paris, Gallimard, 1973, pp. 213-271. [181] F. Honsell, L’algoritmo del parcheggio. Il lato divertente della matematica, Milano, Mondadori, 2007, p. 117. [182] G. Israel, A. Millán Gasca, Il mondo come gioco matematico, Roma La Nuova Italia, 1994. Il libro è stato successivamente riscritto completamente in una versione ampliata: G. Israel, A. Millán Gasca, John von Neumann 477

scienziato del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 2008 (premio Peano). È stato inoltre tradotto in inglese: G. Israel, A. Millán Gasca, The World as a Mathematical Game. John von Neumann and Twentieth Century Science, Basel-Boston-Berlin, Birkhäuser, 2009. [183] B. Ingrao, G. Israel, La mano invisibile. L’equilibrio economico nella storia della scienza, Roma-Bari, Laterza, 1987 (4° ed. 2006). [184] L. Dell’Aglio, “Divergences in the History of Mathematics: Borel, von Neumann and the Genesis of Game Theory”, Rivista di Storia della Scienza, vol. 3, 1995, pp. 1-46. [185] G. Israel, A. Millán Gasca, Il mondo come gioco matematico. John von Neumann scienziato del Novecento, cit. [186] K. R. Popper, “Meccanismi contro invenzione creativa: brevi considerazioni su un problema aperto”, in G. Giorello, P. Strata, L’automa spirituale. Menti, cervelli e computer, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 7-17. [187] Cfr. ad esempio B. Ingrao, G. Israel, La mano invisibile. L’equilibrio economico nella storia della scienza, cit. [188] Chi crede che quanto qui esposto rappresenti una patologia marginale s’inganna. Basta guardarsi in giro per trovare di tutto e di più. David Holmes della Manchester Metropolitan University ha determinato la formula matematica del sedere perfetto: , dove S rappresenta la forma generale del sedere (sic), C la rotondità, B l’assenza dell’effetto budino, F quanto è sodo, T la bellezza della pelle caratterizzata soprattutto dall’assenza di cellulite, V, il rapporto tra vita e fianchi. Inutile dire che la misurazione di queste variabili è quanto mai problematica, per cui si richiede che l’utente della formula dia un voto da 1 a 20 ai vari parametri. Il dato ottimale si assesterebbe attorno a 80. 478

[189]

Cfr. J.-P. Changeux, P. Ricoeur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, (trad. di M. Basile), Milano, Raffaello Cortina, 1999. [190] Cfr. in merito G. Israel, La macchina vivente, cit. [191] «Vi è tuttavia una qualche forma di contraddizione nell’idea che, in ogni momento, un individuo possa essere completamente informato circa lo stato del suo apparato nervoso in quell’istante particolare» (John von Neumann, cit. in G. Israel, A. Millán Gasca, Il mondo come gioco matematico. John von Neumann scienziato del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, in stampa). [192] Cfr. J.-P. Changeux, P. Ricoeur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, cit. Changeux ha esplicitamente dichiarato di voler evitare simili espressioni. [193] Cfr. in merito la successiva sezione 15 sul tema “Gene-for syndrome”. [194] H. Atlan, “Possibilités biologiques, impossibilités sociales”, in H. Atlan, M. Augé, M. Delmas-Marty, R.-P. Droit, N. Fresco, Le clonage humain, Paris, Seuil, 1999, pp. 51-52. [195] «… i limiti del riduzionismo sono sempre più evidenti… L’assioma abusato secondo cui gli scienziati sanno sempre e sempre di più circa sempre e sempre meno può avere qualche elemento di verità… Un altro problema è l’ipersemplificazione. Ne è testimonianza la sindrome del “gene di” (come nel caso del ‘gene dell’intelligenza’ o del ‘gene della preferenza sessuale’) in cui i geni che contribuiscono alla determinazione di certi tratti umani vengono considerati al posto di questi tratti» (R. Gallagher, T. Appenzeller, “Beyond Reductionism”, Science, 284, 1999, p. 79. [196] Malaty, G. 2006, “What are the reasons behind the 479

success of Finland in Pisa?”, Gazette des Mathematiciens, pp. 59-66; Malaty, G. 2006, “What are the reasons behind the success of Finland in Pisa?”, Matilde – Nyhedsbrev for Dansk Matematisk Forening medlem af European Mathematical Society, 29, pp. 5-10; Malaty, G. 2007, “PISA Results and School Mathematics in Finland: strenghts, weaknesses and future”, in Proceedings of the Ninth International Conference of the Mathematical Education into the 21th Century Project: Mathematics Education in a Global Community, Charlotte, University of North Carolina, pp. 420-424; Malaty, G. 2007, “Mathematics and Mathematics Education Development in Finland: the impact of curriculum changes on IEA, IMO and PISA results”, Joensuu, Finland, pp. 390-394; Martio, O. “Long Term Effects in Learning Mathematics in Finland – Curriculum Changes and Calculators”, The Teaching in Mathematics, XII, 2, pp. 51-56; Pehkonen, E. 2008, “How Finns Learn Mathematics: What is the Influence of 25 Years of Research in Mathematics Education?”, ptt., pp. 30; Pehkonen, E., Ahtee, M., Lavonen. J. 2007, How Finns learn mathematics and science, Sense Publishers. Altri articoli sono citati in questi testi. [197] Pubblicato in Helsingin Sanomat, 17 febbraio 2005 e riprodotto in inglese in Malaty 2006. [198] Pubblicato in Helsingin Sanomat, 10 marzo 2005 e riprodotto in Malaty 2006. [199] Ivi.

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