Chàris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino 9788885716537, 9788855290159

Convegno filosofico a Città di Castello, primavera 2017. Interventi degli allievi di Severino con una risposta del filos

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Chàris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino
 9788885716537, 9788855290159

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M. Capanna, M. Donà, L. V. Tarca (A cura di)

Cháris Omaggio degli allievi a Emanuele Severino

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinoli e Massimo Donà

Comitato scientiico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosoia italiana 8 - Classici

Francesco Berto, Laura Candiotto, Mario Capanna, Nicoletta Cusano, Massimo Donà, Giulio Goggi, Leonardo Messinese, Federico Perelda, Davide Spanio, Italo Sciuto, Andrea Tagliapietra, Luigi Vero Tarca, Ines Testoni, Francesco Valagussa

Cháris Omaggio degli allievi a Emanuele Severino con un testo di Emanuele Severino a cura di Mario Capanna, Massimo Donà e Luigi Vero Tarca

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metaisica e Filosoia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2019, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 8 - giugno 2019 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-85716-53-7 ISBN – E-book: 978-88-5529-015-9 Copertina e Graica: Uficio graico Inschibboleth Immagine di copertina: © Elisabetta Cesari, Omaggio a Emanuele Severino, Brescia, 2018.

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Premessa

Omaggio degli allievi a Emanuele Severino: l’idea mi frullava in testa da tempo, ma rimaneva lontana dal concretizzarsi. Poi, come quando un ilo galleggia a lungo nel tempo e, per impreviste circostanze, viene ad annodarsi, ecco l’occasione. Convegno ilosoico a Città di Castello, primavera 2017. Vi partecipano, fra gli altri, Massimo Donà e Luigi Vero Tarca, grandi pensatori. Ci mettiamo in un angolo ed espongo l’idea. La risposta, prima che dalle parole, viene dalla vividezza dei loro occhi. Decidiamo di metterci al lavoro senza indugio. Per prima cosa espongo l’idea al nostro Maestro: approva commosso. Coinvolgiamo subito Ines Testoni, insigne studiosa e anima dell’ASES (Associazione Studi Emanuele Severino), che garantisce il patrocinio all’iniziativa. Ci costituiamo in… “banda dei quattro”… che sovrintende al tutto: elenco degli allievi, recapiti di ciascuno, titolo del convegno, interventi (dato il numero) di non più di dieci minuti a testa, ecc.

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Arriviamo così all’evento, che si è svolto domenica pomeriggio, 17 dicembre 2017, al Teatro Franco Parenti a Milano. E, a veriicarsi, è un fatto inedito: per la prima volta uno straordinario ilosofo riceve, da vivo, l’omaggio e la gratitudine dei suoi discepoli. A suggello del convegno doniamo al Maestro una targa con incisi i nomi degli allievi. Veramente dies signanda lapillo, per la commozione di tutti, la profondità dei ragionamenti, l’intensità della gratitudine, l’autenticità e la bellezza dell’incontro. Mario Capanna

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La mia posizione ilosoica in relazione al pensiero di Emanuele Severino Francesco Berto

Scommetto che tutti ricordiamo la prima volta che abbiamo ascoltato Severino. Per me fu la prima lezione di un corso tenuto a Ca’ Foscari quand’ero studente da quelle parti. Fu nell’aula che oggi si chiama, credo, Aula Padoan. Era a gradoni e del tutto piena, e nessuno si accorse quando Severino entrò e cominciò a parlare. Quando scese il silenzio, le prime parole che tutti captammo erano già di ilosoia dura e pura. Anche le altre lezioni cominciavano sempre così: arrivava, si toglieva il famoso colbacco, non faceva un preambolo, e cominciava a ilosofare. Il corso si chiamava La contraddizione e il mortale. Includeva una parte dedicata al rapporto fra dialettica e contraddizione. Così mi innamorai dell’argomento. La ilosoia di Emanuele Severino mi ha inluenzato soprattutto per via della sua interpretazione, e riforma, della dialettica hegeliana. Il rovesciamento severiniano della dialettica era il titolo della terza parte del primo libro che scrissi. Il libro veniva dalla mia tesi di laurea, che aveva avuto Vero Tarca come relatore. Si chiamava La dialettica della struttura originaria, e parlava dei capitoli centrali de, beh…, La struttura originaria. Ancora nell’Introduzione del 1981, Severino chiamò quel suo libro «il terreno dove tutti i miei scritti ricevono il senso che è

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loro proprio». Eppure, i capitoli centrali della Struttura sono, immeritatamente, meno noti di altri (ad esempio, del famoso capitolo sull’aporetica del nulla). Severino vi sviluppò una teoria dialettica che mi ha aiutato a capire la dialettica hegeliana. Mi sono occupato di quest’argomento anche in un certo numero di articoli, e in un altro libro, scritto nel 2005, dal titolo Che cos’è la dialettica hegeliana? (il punto interrogativo è stato suggerito dal mio amico Luca Illetterati: io volevo proprio fornire la risposta deinitiva alla domanda; Luca mi suggerì di essere un po’ più modesto!). In tutti questi lavori, mi sono ispirato a due tesi sulla dialettica, mutuate da Severino: una tesi interpretativa, e una tesi critica. La tesi critica è a sua volta duplice, perché Severino fornì, in realtà, due diverse critiche alla dialettica hegeliana. Cominciamo dalla tesi interpretativa. 1. La lettura coerentista della dialettica: concetto astratto e concetto concreto dell’astratto La tesi interpretativa rientra in quelle che vengono di solito chiamate “letture coerentiste della dialettica”, le quali dicono: non è vero, contro quel che han creduto Popper e molti altri, che la dialettica hegeliana, e marxiana, implichi la negazione del principio di non-contraddizione (PNC). Al contrario, Hegel critica una certa concezione astratta del PNC. Ma la dialettica è mossa dalla necessità che le contraddizioni siano aufgehoben, perché non possono mai essere vere; e questa necessità è codiicata in una concezione concreta del PNC. Letture coerentiste sono state sostenute da vari autori: in Italia, da Diego Marconi; in Germania, da Pirmin Stekeler-Weithofer; negli Stati Uniti, da Robert Brandom, Vittorio Hösle, e molti altri. Quel che non è chiaro, in generale, è cosa “astratto” e “concreto” vogliano dire in questo contesto. Qui viene un primo contributo originale di Severino. Severino mutuò la

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minologia del neoidealismo italiano, che parlava di una distinzione fra «concetto astratto dell’astratto» e «concetto concreto dell’astratto», e la usò in un senso nuovo. L’interpretazione della dialettica che proponevo in quei miei libri era la seguente: la dialettica è una teoria generale dei concetti. Una teoria fortemente olistica, in cui l’identità di un concetto, diciamo, A, è determinata dai suoi nessi necessari a molti altri concetti opposti ad A. La famosa unità degli opposti hegeliana, realizzata nel momento del metodo dialettico che Hegel chiama «positivo razionale», o «speculativo», ad esempio nei famosi paragrai 79-82 dell’Enciclopedia, non è l’identiicazione di opposti contraddittori, A e non-A, che sarebbe una violazione del PNC. Al contrario, è la tesi che, per non confondere A con il suo opposto, dobbiamo pensarlo insieme al suo opposto, a cui è necessariamente connesso. Così connesso, A è concretamente concepito, come A. Viceversa, è il Verstand a pensare A astraendo dal suo opposto – “astrarre” qui vuol dire qualcosa come: tentare di rescindere un nesso. Naturalmente, che un nesso sia necessario vuol dire che non può essere reciso nella realtà. Ma in questo tentativo di separare ciò che non si può separare, l’intelletto astraente pensa qualcosa che non è A – l’A concretamente concepito – bensì qualcos’altro da A; diciamo: alfa. Questo alfa è il concetto astratto di A: l’esito dell’isolamento di A dal suo opposto, in connessione al quale, soltanto, A è A. 2. Severino critico di Hegel – due volte Fin qui, Severino interprete di Hegel. Ma Severino mosse anche due critiche a Hegel, e indicò una duplice direzione in cui la dialettica andava riformata, se doveva diventare una teoria davvero coerente. Severino notò, con un’attenta analisi di vari passi cruciali della grande Logica e dell’Enciclopedia, che Hegel vuole che il nesso necessario fra concetti opposti si produca, come esito del movimento dialettico. Per questo motivo, vuole

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anche che il semplice concetto astratto come tale, quello che abbiamo prima etichettato come alfa, sia già in sé stesso contraddittorio e sia quel principio da cui il movimento dialettico si dipana. Dal che la prima critica di Severino: (1) nel semplice pensare alfa non vi è, ancora, alcuna contraddizione. Stiamo pensando semplicemente qualcosa d’altro rispetto ad A. Perché vi sia contraddizione occorre che questo altro da A, questo non-A, che è alfa, sia pensato come A, ossia identiicato ad A. Come dice Severino nella Struttura, «questo affermare che quel non-A è A è appunto il concetto astratto dell’isolamento di A, ossia è il concetto astratto del concetto astratto di A» (p. 57). Ma perché A non può essere A isolato dal suo opposto, sicché l’intelletto che pensa A così, isolandolo, pensa, tanto per cominciare, quell’alfa, che è un non-A? Qui la seconda critica: (2) Severino notò che solo se A è già da sempre e necessariamente connesso al suo opposto, allora il tentativo di pensarlo isolato da quello produce il pensiero di un alfa alternativo (che poi, identiicato all’A di partenza, genera una contraddizione: un’identiicazione di non identici). Se invece A era, inizialmente, isolato dal suo opposto, nessuna contraddizione si produce nel pensarlo così isolato: al contrario, lo si pensa precisamente così com’è. Secondo Severino, Hegel vuole che i nessi necessari fra concetti, che determinano le loro identità, si producano come risultato del movimento dialettico, perché Hegel è affetto dalla famosa fede nel divenire: vuole che la verità sia il risultato di un divenire. Il duplice punto sollevato da Severino contro Hegel, però, è valido indipendentemente da quel che uno possa pensare intorno all’eternismo severiniano. (1) In primo luogo, il concetto astratto di A, ossia alfa, non basta ad avere una contraddizione dialettica. Per averla, occorre che l’intelletto identiichi quell’astratto, alfa, che non è A, con A. (2) In secondo

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luogo, solo se il nesso necessario fra A e l’opposto esiste di già, un tentativo di rescinderlo può produrre una contraddizione dialettica. Ma allora, quel nesso necessario non può essere il risultato di un processo – un divenire – che toglie la contraddizione dialettica. 3. Perché non è andata? Dicevo sopra che quei capitoli della Struttura originaria, dedicati alla dialettica, non sono fra i più noti del libro severiniano. Anche l’interpretazione e critica severiniana della dialettica non è molto celebre fra gli esperti di Hegel. L’altro autore che mi ha inluenzato maggiormente intorno alla dialettica hegeliana è stato Diego Marconi, un ilosofo c.d. analitico, e anche l’interpretazione marconiana della dialettica (anche Diego Marconi pensava che la dialettica fosse una teoria generale dei concetti, e che fosse una teoria coerentista) non è molto celebre fra gli esperti di Hegel. Come mai? Io la butto in politica: è colpa della famigerata divisione analitici-continentali. Una divisione che, a mio parere, fa male alla ilosoia in molti modi. Sia la lettura severiniana che quella marconiana avevano il merito di spiegare una procedura oscura come la leggendaria dialettica hegeliana ricorrendo a distinzioni chiare ma profonde. L’idea che Hegel potesse essere spiegato, chiariicato, e magari anche criticato – idea che aveva ispirato i miei lavori sulla dialettica –, però, non fece presa né nel partito analitico (la maggior parte dei ilosoi analitici ancora oggi pensa, secondo me a torto, che Hegel ci guadagni a non esser letto), né in quello degli specialisti hegeliani di area c.d. continentale, per i quali chiariicare Hegel è un po’ come perdere di vista l’oscura ambiguità del Nostro, che a quanto pare è vista come una ricchezza.

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Così da un po’ non mi occupo più di dialettica, e di cercare di convincere la gente (come dicono gli inglesi: life is too short). Ma ricordo sempre con piacere l’entusiasmo di addentrarmi in quei capitoli della Struttura originaria, come ricordo le lezioni di quel primo corso di Severino che seguii. Quelle lezioni furono decisive nel farmi interessare alla dialettica; restano nella mia memoria come un’autentica festa del pensiero. Riferimenti bibliograici E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981 (nuova ed. ampliata; prima ed., La Scuola, Brescia 1958).

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L’eternità dell’essere, una soteriologia? Laura Candiotto

La relazione originaria è il destino stesso dell’essente, ossia è l’esser sé dell’essente, cioè il suo non esser l’altro da sé. La relazione originaria è l’identità dell’essente. E l’essente è la propria identità – l’essente è l’esser sé dell’essente. Ciò signiica che la relazione non è separata dall’essente e che l’essente non precede la relazione. Come separata, è qualcosa con cui l’essente deve porsi in relazione; e se questa nuova relazione è daccapo separata, si deve introdurre una terza relazione che unisca l’essente alla seconda; e così in indeinitum. Ma separare l’esser sé dall’essente è negare l’esser sé – perché l’essente, separato dal suo esser sé, non può essere sé stesso.1

La ilosoia del Novecento può essere deinita, a buon diritto, una ilosoia delle relazioni. L’esposizione di sé nel e per l’altro, in un’originaria dimensione intersoggettiva, è un tratto costitutivo delle innovazioni ilosoiche novecentesche, dal Mitsein heideggeriano all’être-avec di Jean-Luc Nancy, non solo nella costruzione di un’ontologia dell’esistenza, ma anche nel fare i conti con la crisi, che sembra mettere a dura prova le relazioni tra gli umani – penso specialmente all’impatto della tragedia

1. E. Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 2001, p. 226.

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dell’Olocausto nelle prospettive ilosoiche di Hannah Arendt, Theodor W. Adorno e Emmanuel Levinas. Se la ilosoia di Emanuele Severino ben si inserisce in questo panorama ilosoico rispetto alla centralità della relazione, essa tuttavia presenta anche la sua estraneità e, dunque, eccezionalità. La relazione di cui parla Severino, infatti, esprime il legame necessario tra ogni cosa e il suo essere. L’essente, letteralmente ciò che è, non può essere scisso dal suo essere e, dunque, non può essere nulla e neppure provenire da o andare verso il nulla. Ogni essente afferma l’esser sé, ovvero l’essere un essente. Questa tautologia, lungi dall’essere triviale, per Severino esprime la verità dell’essere che si identiica con la negazione del nulla. La relazione originaria a cui si riferisce la citazione con la quale ho deciso di inaugurare questo saggio non è dunque la relazione intersoggettiva delle ilosoie del Novecento, tra tutte specialmente la fenomenologia e l’esistenzialismo – per Severino l’esistenza dell’altro ha sempre fatto problema2 –, bensì è la relazione tra ogni cosa e il suo essere, il suo esser sé, ovvero la prova tautologica contro l’esistenza del nulla. Questa relazione non è un terzo che sopraggiunge tra due sostanze, ma è ciò che costituisce l’identità degli essenti, ovvero è la relazione interna tra ogni cosa e il suo essere un essente. Questo tipo di argomentazione, che si muove su un piano prettamente logico, ha tuttavia delle importanti implicazioni esistenziali. Il sostenere che ogni cosa – anche l’umile ilo d’erba3 – non possa non essere signiica escludere la possibilità della morte come nulliicazione e della generazione ex nihilo. 2. Si veda La Gloria, cit., pp. 204-214, per la determinazione della problematica specialmente nei confronti della fenomenologia. 3. «Giacché, se tutto è eterno, tutto è legato a tutto, sì che, se un ilo d’erba non fosse, nulla sarebbe» (E. Severino, Il mio ricordo degli eterni. Autobiograia, Rizzoli, Milano 2011, p. 56). In questo passo il ilosofo bresciano non solo evidenzia che anche la più umile delle cose è eterna nel senso che non

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Signiica anche evidenziare la contraddittorietà dell’interpretazione della trasformazione come divenire altro, come passaggio cioè dal non essere x di x al diventare non x da parte di x. Ma, specialmente, implica la tesi dell’eternità dell’essere per la quale ogni cosa è eterna, ovvero non può essere o diventare nulla. Eterno è l’essere che non può diventare altro da sé e, dunque, nulla; la tesi dell’eternità dell’essere è quindi la negazione della nulliicazione dell’esistenza implicata dall’interpretazione errata del divenire come divenire altro. In questo contributo mi confronterò con queste implicazioni esistenziali, specialmente interrogando la portata salviica della tesi dell’eternità dell’essere. Per fare questo mi concentrerò sulla fenomenologia dell’eternità, esplorando alcune pagine di due testi autobiograici di Emanuele Severino, La follia dell’angelo4, scritto in forma dialogica con Ines Testoni, e Il mio ricordo degli eterni5. Questa scelta deriva dalla convinzione che non solo l’immediatezza logica debba sostenere l’immediatezza fenomenologica, come sostenuto da Severino ne La struttura originaria6, ma che l’immediatezza fenomenologica possa essere un valido strumento per scoprire, in prima persona, le tracce dell’eternità. Anche se il ilosofo bresciano esplicita che per trovare la fondazione di quanto viene portato alla luce nella scrittura autobiograica bisogna riferirsi alle sue opere teoretiche7, l’autobiograia di un ilosofo intesse l’esperienza nella rilessione ilosoica e permette dunque di cogliere come nella può diventare nulla, ma anche che ogni cosa è necessaria in una prospettiva olistica. 4. E. Severino, La Follia dell’Angelo. Conversazioni intorno alla ilosoia, a cura di I. Testoni, Rizzoli, Milano 1997. 5. E. Severino, Il mio ricordo degli eterni, cit. 6. E. Severino, La struttura originaria, Milano, Adelphi 1981 [1958]. 7. Severino sottolinea la sua perplessità nei confronti di questo tipo di opere nella captatio benevolentiae di Il mio ricordo degli eterni, cit., p. 15.

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vita si possa incarnare il pensiero e come nel pensiero si possa rispecchiare la vita. Questa è una possibilità, e forse anche uno dei migliori auspici, se il pensiero è pensiero del vero, ma non una necessità. Anzi, per Severino sembra essere quasi un’eccezione: alla domanda di Ines Testoni che chiedeva in che cosa credesse, il ilosofo rispose infatti che questo non aveva importanza8, e alla domanda che chiedeva se lui avesse paura della morte rispondeva che la parola “io” è ambigua9. Per Severino, dunque, la prospettiva teorica non sembra avere un’immediata ricaduta esistenziale, anche se è disposto a riconoscere che la consapevolezza dell’errore modiica l’agire10. In questo contributo vorrei interrogare proprio queste eccezioni, i casi nei quali pensiero ed esperienza stanno assieme, speciicatamente in merito al pensare e sentire l’eternità, testando così il valore di verità dell’esperienza ilosoica.

8. Cfr. E. Severino, La follia dell’angelo, cit., p. 48. 9. Cfr. ivi, p. 59. 10. «fumare sapendo che il fumo fa male è proprio la stessa cosa che fumare non sapendolo? Certamente no. Allo stesso modo, vivere sapendo che ogni azione che noi compiamo nella giornata è volontà di vivere, ossia è volontà di controllare il divenire dell’essere, e quindi errore, questa coscienza della negatività di ogni agire rende diversa la nostra quotidianità, anche se apparentemente non cambia nulla. Si prendono distanze rispetto a tutto ciò che si fa. Si è costretti a fare, ma si è altro dal fare» (ivi, p. 55). Come avrò modo di argomentare in quanto segue, distanziandomi su questo dalla prospettiva di Severino, la consapevolezza dell’errore è una delle opzioni che abbiamo a disposizione per una rinnovata esperienza ilosoica; tuttavia essa non è l’unica perché, rimanendo nell’esempio, vi è anche la possibilità di non fumare e, dunque, di esercitare un agire positivo. Se il pensiero critico dell’essere consapevoli che il fumo fa male dipende dalla conoscenza dell’errore, l’agire positivo dipende dalla conoscenza della verità.

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1. Esperienza originaria Partiamo dunque dall’esperienza. Chi scrive ha avuto il privilegio di seguire l’ultimo corso che Emanuele Severino ha tenuto presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il corso era dedicato a Tautótēs11. Ricordo con chiarezza la sensazione ambivalente provata al termine della prima lezione: la gioia di aver incontrato un ilosofo in carne e ossa e l’incertezza data dall’incomprensione del contenuto da lui esposto. Ma anche, e più forte, il desiderio di non mollare e la curiosità di approfondire quel pensiero inaudito, tanto insolito quanto affascinante. Ascoltando le parole di Severino avevo cioè la sensazione di assistere all’esposizione di qualcosa di estremamente prezioso ma che mi era oscuro: come era possibile sostenere che il divenire altro fosse una follia e che i creatori di questa follia, i mortali, fossero invece eterni? Con alcuni compagni di corso12 decidemmo di creare un “gruppo studi Severino” con la inalità di penetrare assieme nelle profondità del pensiero del ilosofo che avevamo la fortuna di ascoltare tre volte alla settimana. Decidemmo di leggere assieme la Struttura originaria e nella nostra impresa eravamo sostenuti dalla disponibilità di colleghi più grandi di noi, come Francesco Berto, e docenti, specialmente Giorgio Brianese e Italo Valent, sempre pronti a rispondere ai nostri dubbi, provocazioni e suggestioni. Nel secondo semestre ebbi poi modo di conoscere Luigi Vero Tarca, un altro allievo di Severino della ben nutrita scuola veneziana. Qui inizierebbe un’altra storia da raccontare, quella cioè che ha fatto di Tarca il mio maestro – al

11. Per i lettori sono da alcuni anni disponibili in stampa le sbobinature delle lezioni: E. Severino, L’identità della follia. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2007; Id., L’identità del destino. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2009. 12. Ricordo qui, con riconoscenza, i loro nomi in ordine alfabetico: Massimiliano Cabella, Christian Doni, Paolo Fabris e Stefano Sangiorgio.

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quale non posso non rivolgere i miei più sinceri ringraziamenti anche in questa sede –, ma il riferimento alla sua prospettiva riveste qui un signiicato speciico in merito al proposito che perseguo in questo contributo in onore di Emanuele Severino, ovvero investigare il valore dell’esperienza ilosoica. In quegli anni, Tarca stava elaborando da un lato la prospettiva teorica sul puro positivo e la pura differenza e, dall’altro, si stava impegnando nella promozione delle pratiche ilosoiche in Italia. Le pratiche ilosoiche erano intese da Tarca come la via per eludere la trappola del negativo13, quella strettoia della mente che ci porta a identiicare il positivo con il negativo del negativo; esse però non erano da lui proposte come una risposta pratica in contrasto a un eccesso di teoria nella ilosoia del suo maestro Severino, bensì come il tentativo di esprimere nell’esperienza la verità dell’essere e di essere dunque pronti all’ascolto dell’apparire concreto del tutto, in un’unità di teoria e pratica. Il pensiero di Tarca ha sicuramente inluenzato il mio modo di comprendere la ilosoia di Severino, prospettiva che ho poi sviluppato in alcuni scritti14. Questo approccio non è isolato, anche altri allievi di Severino, specialmente Ines Testoni15 e Giorgio Brianese16, hanno chiarito, in diversi modi e conte13. Cfr. L.V. Tarca - R. Màdera, La ilosoia come stile di vita. Introduzione alle pratiche ilosoiche, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 171. 14. L. Candiotto - S. Sangiorgio, Emanuele Severino: la verità di ogni cosa, in L. Candiotto - L.V. Tarca (a cura di), Primum Philosophari. Verità di tutti i tempi per la vita di tutti i giorni, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 342-357; L. Candiotto, La traccia della negazione. Per un’ontologia delle relazioni a partire dall’olismo severiniano, in M. Simionato - S. Sangiorgio - L.V. Tarca (a cura di), A partire da Severino. Sentieri aperti nella ilosoia contemporanea, Aracne, Roma 2016, pp. 71-105. 15. I. Testoni, Autopsia ilosoica. Il momento giusto per morire tra suicidio razionale ed eternità, Apogeo, Milano 2007. 16. G. Brianese, L’eterno che è qui, in L. Taddio (a cura di), A lezione da Emanuele Severino. La guerra e il mortale, Mimesis, Milano-Udine 2010,

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sti, la rilevanza – teorica e pratica – dell’esperienza nel coglimento dell’eternità dell’essere. Con le pratiche di verità17 ho portato così in evidenza come determinati esercizi ilosoici possano condurre a riconoscere le tracce inosservate e indecifrate dell’apparire del Tutto e a comprendere che «in questa umile cosa che è l’apparire della legna nel camino è presente la traccia del Tutto, ossia dell’apparire del Tutto – e pertanto della Gloria e della Gioia»18. In questa prospettiva rinnovata la determinatezza assume pienezza: essa non è più il prope nihil che dipende da un Dio per ricevere l’essere, ma grazie alla relazione originaria che porta alla luce l’essere che appartiene originariamente a ogni singolarità, essa riluce della traccia del Tutto. Se il divenire altro è il risultato dell’interpretazione errata dei mortali nei confronti della trasformazione e se l’inadeguatezza del mondo deriva da un’interpretazione errata in merito all’isolamento della determinatezza dal suo essere, allora quelle pratiche ilosoiche che sono mosse dalla inalità di far sperimentare prospettive della realtà secondo verità – le pratiche di verità – assumono un signiicato cruciale per l’esperienza della vita come piena espressione dell’essere. Le pratiche di verità si muovono dalla teoria alla pratica, ma corrono un grosso rischio di fraintendimento, ovvero quello di intendere la pratica in senso meramente “applicativo”: data una teoria, essa viene eseguita nelle pratiche ilosoiche. In questo contributo vorrei invece evidenziare qualcosa di più radicale, ovvero che la stessa esperienza illumina di verità la teoria. La difidenza nei confronti dell’esperienza, e dunque anche della pp. 29-87; G. Brianese, “Agire” senza contraddizione, in N. Cusano (a cura di), Discussioni su verità e contraddizione, numero monograico della rivista «La ilosoia futura», n. 1, 2013, pp. 17-28. 17. Cfr. L. Candiotto - S. Sangiorgio, Emanuele Severino: la verità di ogni cosa, cit., pp. 342-357. 18. E. Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, p. 528.

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corporeità, delle emozioni, di ciò che si manifesta rispetto a ciò che è, è un tratto caratteristico della ilosoia classica. Invece, non solo nella nostra esperienza quotidiana, ma specialmente nella storia della ilosoia, della letteratura, dell’arte e delle religioni, possono essere scoperti degli esempi di questa trasigurazione dello sguardo nei confronti dell’eterno, basti qui citare, Baruch Spinoza al quale si è riferito Giorgio Brianese proprio in merito al sentire di essere eterni in un dialogo con Severino19. Certo, Severino ha più volte ribadito che non basta esperire attimi di eternità, essa va dimostrata. Se vogliamo fare ilosoia questo è sicuramente l’atteggiamento da assumere, ma il mio punto è che in questa dimostrazione l’esperienza deve essere tenuta nel dovuto conto, evitando cioè di presupporre che essa testimoni solo il divenire, come sostenuto da Aristotele20. Se la tesi dell’eternità è vera, essa deve essere universale e dunque – seppur velata dall’errore – deve poter essere riconosciuta in ogni dimensione della realtà, senza dualismo tra dimensione logica e dimensione fenomenologica. Questo signiica che le tracce dell’eternità dell’essere permeano la stessa esperienza di coloro che si credono mortali. Esse possono dunque essere la fonte non solo per veriicare la teoria, ma anche per cogliere la portata esistenziale della ricerca ilosoica nelle pratiche ilosoiche, riconoscendo come la propria esperienza si trasiguri nella visione che la vita non è destinata alla morte come nulliicazione. E questo coglimento non è solo “applicativo”, bensì ha la capacità di rigenerare la stessa teoria perché modiica l’esperienza stessa del ilosofo21. Questa capacità trasigurante, 19. Cfr. G. Brianese, “Sentiamo e sperimentiamo di essere eterni”: Emanuele Severino interprete di Spinoza, in D. Spanio (a cura di), Il destino dell’essere. Dialogo con Emanuele Severino, Morcelliana, Brescia 2014, pp. 83-103. 20. Aristotele, Fisica, a cura di L. Ruggiu, Mimesis, Milano-Udine 2007. Per la discussione di Severino della prospettiva aristotelica sul divenire, si veda: E. Severino, I principi del divenire, La Scuola, Brescia 2012. 21. Cfr. L. Candiotto, La traccia della negazione, cit., p. 100.

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insita nelle pratiche ilosoiche, è proprio ciò che va messo in questione, non solo perché sembra implicare un divenire – ad esempio, da una prospettiva errata a una prospettiva corretta –, ma anche perché sembra conferire alla ilosoia un valore salviico. Non potrò qui rispondere a domande fondamentali, quali “Cosa signiica ascrivere a un’esperienza un valore di verità?”, o “Perché la verità dovrebbe essere migliore dell’errore e condurre a una trasformazione esistenziale?”, ma discutendo il legame tra verità e salvezza chiederò ragione dello statuto della teoria dell’eternità severiniana nel suo legame con l’esperienza. Essa è o non è una soteriologia, ovvero un discorso di salvezza22?

2. Eternità e salvezza Se l’eternità dell’essere venisse assunta come consolazione, la verità verrebbe ridotta a mezzo in funzione della salvezza. Severino contrasta questa posizione sostenendo che la verità deve essere il ine, non il mezzo, e così facendo sembra escludere ogni funzione salviica – o, in altri termini, terapeutica – alla ilosoia23. Speciicatamente, egli sostiene che se la tesi dell’eternità dell’essere venisse intesa in termini consolatori essa verrebbe inevitabilmente fraintesa ed equivocata24. La ilosoia, per rimanere sé stessa, sembrerebbe dunque non poter dare risposte alla sofferenza dell’umanità. Non solo, il ilosofo bresciano sostiene che è la stessa ilosoia a “inventare” il dolore, nel senso che è a partire dai Greci che l’essere è inteso come nulliicazione, ed è questa l’estrema sofferenza perché rende l’uomo un mortale che muore angosciato di fronte all’annientamento25. 22. Dal greco σωτηρία, “salvezza”, e λόγος, “parola”, “discorso”, “ragione”. 23. Cfr. E. Severino, La follia dell’angelo, cit., p. 60. 24. Cfr. ivi, p. 53. 25. Cfr. ibidem.

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La tesi dell’eternità dell’essere non è dunque una soteriologia, ovvero un discorso che salva? A questa domanda bisogna rispondere in prima battuta con una negazione. La tesi dell’eternità dell’essere – adeguatamente intesa e, quindi, non ridotta a una consolazione – non è una soteriologia perché essa esprime che non c’è niente da salvare, ogni cosa è da sempre libera dal nulla. Questa risposta radicale che elimina alla radice la possibilità di un bisogno di salvezza perché tutto è già originariamente salvo è però dificile da comprendere per coloro che si credono mortali. Come rilevato da Ines Testoni, la gente si rivolge alla ilosoia proprio per dare senso al dolore che esperiscono26. Ma chiedere aiuto alla ilosoia che ha inventato il dolore estremo è come chiedere aiuto al proprio aguzzino. La ilosoia di Severino, d’altra parte, è estranea alla ilosoia che pone l’uomo di fronte al nulla, anzi è la prospettiva che mostra l’infondatezza di questa interpretazione. La tesi dell’eternità dell’essere, dunque, parrebbe essere la vera prospettiva che offre la salvezza, la vera terapia che mostra l’insensatezza del dolore che proviamo. In questo senso, quindi, la risposta alla domanda che chiede se la teoria dell’eternità è una soteriologia dovrebbe essere un’affermazione. Riassumendo: bisogna rispondere “no” se si intende la tesi dell’eternità dell’essere come consolazione e se ci si confronta con il contenuto stesso della tesi che dice dunque che non c’è bisogno di salvezza. Questo secondo aspetto, però, è quello che porta anche, in seconda battuta, a rispondere affermativamente alla domanda, perché è esattamente il riconoscimento di non aver bisogno di essere salvati ciò che salva. Ma, domandiamo, può il mortale vivere altrimenti dalla consolazione questa alleanza con la tesi dell’eternità dell’essere?

26. Cfr. ibidem.

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La prima opzione disponibile per rispondere affermativamente a questa domanda è quella della critica. La tesi dell’eternità dell’essere andrebbe così compresa nelle sue mosse elenctiche, ovvero nel riconoscimento della contraddittorietà del divenire altro, dunque nel riconoscimento dell’errore. In questa operazione critica, la portata salviica della ilosoia sarebbe dunque da riconoscere nella liberazione dall’errore e la gran parte della produzione ilosoica di Severino è dedicata proprio a questa funzione. La seconda opzione è quella positiva dell’ascolto delle tracce dell’eternità e nella loro decifrazione. In questa funzione ermeneutica, la teoria dell’eternità diviene aleturgia, un lasciare apparire la verità nell’esperienza. E in questa funzione troviamo proprio il valore dell’esperienza ilosoica e delle pratiche di verità che sto discutendo in questo contributo. Questa opzione si fonda nella ilosoia di Severino: «l’eterno apparire della verità appartiene alla verità. Esso non si trova in un “altro mondo”, in un “al di là”, ma è il senso stesso del “qui”»27, anche se sulle implicazioni che da essa possono essere derivate ci troviamo di fronte a disaccordi.

3. L’agire dell’individuo e l’Io del destino Esiste un limite insito in entrambe queste opzioni: l’identiicazione del soggetto dell’agire con l’individuo, il quale dunque opera le pratiche di riconoscimento dell’eternità – siano esse di tipo elenctico o manifestativo. Secondo Severino, infatti, quando l’individuo ama la verità è nell’errore28 perché ogni agire – anche quello ilosoico come amore della verità – è una

27. E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, pp. 400-401. 28. Cfr. ivi, p. 61.

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forma di alienazione29. L’“agire” per il ilosofo bresciano è alienazione perché è opera di un individuo che si crede capace di far diventare altro le cose attraverso la volontà che è essenzialmente tecnica. La volontà di preparare rimedi è espressione di fede nel divenire altro, nel nulla, di qualcosa da cui ci si deve difendere, di un dolore da curare30. La critica severiniana all’agire sembra dunque sancire l’impossibilità di ogni fenomenologia dell’eternità perché nega ogni positività all’agire e all’esperienza. Il punto cruciale per oltrepassare questo sbarramento severiniano si trova però negli stessi scritti del ilosofo bresciano: la via d’uscita è lo spezzare alla radice il dolore del mortale che agisce tecnicamente alla ricerca di rimedi. La soluzione offerta implicitamente dallo stesso Severino è quella di riconoscere l’infondatezza dell’essere arteici dell’agire in quanto individui tecnici: Propriamente, l’‘individuo’ dell’antropologia dominante non esiste. Esiste la convinzione di essere degli ‘individui’. È l’individuo in quanto contenuto di tale convinzione (un sogno, dunque) a non poter essere rischiarato dalla verità. Ma noi non siamo semplicemente degli individui. Cioè la semplice convinzione di esserlo. Siamo innanzitutto la luce, l’apparire della verità.

Ma, di nuovo, può il mortale operare questa presa di coscienza e riconoscersi come io del destino, ovvero come espressione della verità dell’essere? Severino risponderebbe negativamente a questa domanda, proprio perché ogni forma di agire è alienazione, anche dunque quello che porta al riconoscimento della verità. Di contro, io sostengo che per operare questa trasigurazione del soggetto e poter dunque essere rischiarati

29. Cfr. E. Severino, Studi di ilosoia della prassi, Adelphi, Milano 1984. 30. Cfr. E. Severino, La follia dell’angelo, cit., p. 246.

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dalla verità non basta una teoria, serve la pratica31. Il limite è dunque non nell’alienazione totale dell’agire, ma in una teoria scissa dalla pratica. Per risolvere il limite insito nelle due opzioni disponibili per esperire autenticamente la teoria dell’eternità come soteriologia bisogna dunque andare oltre la stessa teoria dell’eternità. La teoria dell’eternità di Severino dunque, intesa nel suo senso autentico, è sì una soteriologia ma non è suficiente. Non basta perché è solo una teoria. Essa ha bisogno dell’esperienza che rinnova il soggetto e lo libera dal suo essere mortale per essere così una salvezza in azione. Se una positività va ascritta all’esperienza nella proposta di Severino è che essa non prova il divenire altro. Essa tuttavia tace su ciò che è oltre essa32. Ma, specialmente la seconda opzione, quella aleturgica,

31. Mi riferisco per esempio ad alcune pratiche buddhiste e a tutti quegli “esercizi spirituali” che, provenienti da tradizioni differenti, permettono di realizzare la visione al di là del dualismo tra soggetto e oggetto da integrare nella vita quotidiana. Sulle possibili consonanze teoriche tra alcuni aspetti della prospettiva severiana, il buddhismo chan e il taoismo, rinvio ai lavori di Massimiliano Cabella (si veda, per esempio, M. Cabella, Il “divenire dell’essere” nel pensiero cinese e nella ilosoia di Emanuele Severino, in «La ilosoia futura», n. 5, 2015). Su una lettura “mistica” di alcuni aspetti della ilosoia di Severino, si veda T. Mattiazzi, La mistica di Emanuele Severino. Verità e bellezza del ritrovamento, in M. Simionato - S. Sangiorgio - L.V. Tarca (a cura di), A partire da Severino, cit., pp. 151-179. Per quanto riguarda l’esperienza delle pratiche ilosoiche e degli “esercizi spirituali”, vedasi il già citato L. Candiotto - S. Sangiorgio, La verità di ogni cosa, cit., e la proposta di Luigi Vero Tarca sulle pratiche ilosoiche come cura delle patologie dell’Io isolato e, dunque, come cura della propria esistenza e trasformazione dello stile di vita, in L.V. Tarca, L’esperienza ilosoica come terapia dell’anima, in «Rivista di Psicologia Analitica», n. 83, 2011, pp. 261-279. 32. «L’esperienza, qui, è come il cielo. Se chiedessi al cielo che ne è del sole quando a sera tramonta e non si fa più vedere, che cosa risponderebbe il cielo […]? Forse che il cielo potrebbe mostrarci che ne è del sole quando esce dalla sua volta? No, il cielo può parlare di ciò che in esso si mostra ma non di ciò che si è portato al di fuori del suo regno. Di esso il cielo non può dir nulla. E così avviene nell’esperienza, che corrisponde al cielo. Crediamo

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esprime come l’esperienza riluce delle tracce dell’eternità ed è veramente salviica se è esperita dal punto di vista dell’assoluto, e non da quello dell’individuo. Questo perché se l’Io è una dimensione originariamente negativa e contraddittoria – in quanto segnata dalla sua scissione rispetto al mondo, e quindi da una sorta di disaccordo e dolore originari – e in questo senso patologica – allora il superamento dell’Io, se viene compiuto in maniera negativa (cioè negando la contraddizione in cui esso consiste), riproduce ed anzi intensiica tale contraddizione. L’autentica soluzione del problema dell’individuo consiste dunque in un superamento puramente positivo della contraddizione in cui l’Io originariamente consiste.33

Severino sostiene che «non è possibile agire per liberarsi dall’agire»34, perché l’agire è intrinsecamente legato alla fede nichilistica sulla capacità di trasformare il mondo. Ma rispondo a questa obiezione sostenendo che non è l’agire a essere nichilistico, ma l’interpretazione di esso operata dal mortale che crede, agendo, di far diventare altro le cose, identiicandosi con un io come soggetto tecnico. Anche l’agire, come ogni cosa, è dunque intrinsecamente espressione della verità, ma esso viene confuso per ciò che esso non è, ovvero volontà di potenza. Sostenendo questo non sto negando che il mortale creda di trasformare le cose attraverso la tecnica, ma argomento in favore del signiicato aleturgico dell’esperienza il quale non può essere negato se non a discapito dell’estensione universale della teoria dell’eternità. L’uomo soffre se crede di essere mortale, se crede di essere un individuo che deve porre dei rimedi alla propria negatività. che la morte sia annientamento. Ma l’esperienza tace intorno alla sorte di ciò che è uscito da essa» (E. Severino - Angelo Scola, Il morire tra ragione e fede, a cura di I. Testoni e G. Goggi, Marcianum Press, Venezia 2014, pp. 33-34). 33. L.V. Tarca, L’esperienza ilosoica come terapia dell’anima, cit., p. 274. 34. Ivi, p. 55.

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Egli è vittima di un errore cognitivo – ovvero l’interpretazione di essere venuto da e destinato al nulla, più che percettivoesperienziale. Come Severino ha sostenuto in diverse occasioni, il mortale è dunque un re che crede di essere un mendicante e, permettetemi di aggiungere, anche una regina che crede di essere una serva35. Severino accetta di riconoscere l’esistenza di tracce che permettono al mortale di cogliere il suo fondo nascosto che dice che egli è eterno. Tuttavia per Severino questa dimensione è nascosta e tragicamente non ascoltata: Chi ascolta queste parole stando nella verità è il mio Io del destino. Chi grida di essere stato abbandonato è invece il mio esser “uomo”, questa cosa qui che a un certo punto sarà seguita dal mio cadavere. […] Ma a questa “mia” tragedia (soltanto mia?), se è destinata ad accadere, assisto Io, il mio esser Io del destino, che sta in silenzio – della parola si sarebbe infatti impadronito il linguaggio dell’erba cattiva –, ma in silenzio come il sole della corona di monti ascolta in silenzio il temporale di fondovalle e le invocazioni di chi vi si trova.36

Eppure l’esistenza di questo fondo nascosto mi sembra essere la prova migliore della possibilità della sua manifestazione, se adeguatamente ascoltato, nutrito, coltivato. La relazione originaria con la quale ho aperto questo contributo è un valido strumento per rispondere all’errore del mortale: essa non solo salda originariamente ogni cosa al suo essere, ma estende i conini ino a far svanire la stessa illusione del mortale individuo nel dispiegamento del Tutto. La relazione, tuttavia, richiede di essere vissuta, esperita, sentita. Necessita di essere praticata assieme all’altro, in un modo puramente positivo diverso dalla

35. Aggiungo qui questo elemento di genere perché con la rivalutazione dell’esperienza vorrei anche portare alla luce quelle dimensioni femminili – apparentemente distanti dall’ontologia severiniana – che mi sembrano essere estremamente rilevanti per la rilessione ilosoica contemporanea. 36. E. Severino, Il mio ricordo degli eterni, cit., pp. 171-172.

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negazione37, in un modo altro dall’agire tecnico, sperimentando in prima persona, singolare e plurale, la stessa Gioia di cui Severino parla nei suoi scritti.

3. La Gioia e il sentire l’eternità La “Gioia” di cui parlano i miei scritti non ha nulla a che vedere con la gioia e la felicità come stati affettivi. Quindi non è nemmeno una conseguenza dello stato psichico. […] la “Gioia” a cui si riferiscono i miei scritti è il toglimento della totalità delle contraddizioni. Esso non attende il futuro per compiersi. È già da sempre. È eterno.38

Nel sottolineare che la Gioia non sia uno stato affettivo, troviamo un ulteriore motivo per non intendere la tesi dell’eternità come una soteriologia in senso consolatorio. Ma, di nuovo, se la Gioia implicata dalla tesi dell’eternità dell’essere è il toglimento di tutte le contraddizioni, allora la ilosoia di Severino viene a identiicarsi con la vera soteriologia. Tuttavia, il negare alla Gioia una qualsivoglia determinazione affettiva mi sembra essere un ulteriore residuo del dualismo che svaluta l’esperienza rispetto al quale ho già preso posizione nelle sezioni precedenti. Sottolineo qui con più forza il mio argomento: se l’eternità dell’essere non viene anche esperita essa non solo non è beneica – fatto che a Severino potrebbe non interessare, perché porrebbe la verità sotto il dominio dell’utile – ma non è completa. In ultima analisi, essa non porterebbe alla luce

37. Sottolineo questo punto perché l’olismo severiniano si fonda su una concezione della determinatezza come il non essere l’altro da sé. Sui limiti di questa prospettiva e sulla necessità di accogliere la proposta di Tarca sulla differenza tra differenza e negazione mi sono già espressa in L. Candiotto, La traccia della negazione, cit. 38. E. Severino, La follia dell’angelo, cit., pp. 49-50.

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l’eternità del Tutto, ma solo quella parte ritenuta privilegiata che è la teoria dell’eternità del Tutto. Severino ha delle valide argomentazioni con le quali rispondere a questa mia obiezione: si potrebbe riferire ai limiti del linguaggio che testimonia la verità dell’essere39, sostenendo dunque che l’obiezione che qui muovo tocca solo l’aspetto esteriore della sua ilosoia, ovvero l’espressione linguistica. Ma, di contro, io potrei rimarcare che costringere il linguaggio all’alienazione del mortale è segno di una svalutazione dell’esperienza del mortale, di cui il linguaggio è una delle espressioni. Oppure, Severino potrebbe sostenere che il mortale non è in grado di evadere dall’illusione che lo rende tale ma, a questo, risponderei non solo portando esempi empirici che potrebbero essere facilmente da lui contestati, bensì richiamando la sua stessa ilosoia che sostiene che è sì «errore pensare che un individuo possa essere rischiarato dalla verità! Come se un cieco potesse essere rischiarato dalla luce»40, ma anche che il mortale, benché non sappia di esserlo, è già da sempre salvo: Nel mortale si nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo della destinazione alla morte e al nulla. Si nasconde l’esser già da sempre aperti alla verità dell’essere. È per questa apertura che l’uomo è ininitamente più grande di Dio.41

Perché un soggetto già da sempre “aperto alla verità dell’essere” dovrebbe essere destinato all’errore? Perché non dovrebbe essere in grado di «capire ciò che egli è»42, ascoltando le tracce di eternità che si manifestano nella sua esistenza? Se è aperto 39. Cfr. E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992. Vedasi anche il più recente E. Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013, pp. 191-211. 40. E. Severino, La follia dell’angelo, cit., p. 49. 41. Ivi, p. 58. 42. Ivi, p. 51.

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a questa destinazione, perché non dovrebbe avere accesso a essa? Non voglio porre qui la questione in termini psicologici, e dunque richiamarmi ad esempio agli studi sulla plasticità cognitiva e sulle capacità di cambiamento, ma mostrare l’infondatezza di quello che chiamerei un residuo classico presente nella ilosoia del grande ilosofo bresciano, ovvero ascrivere all’esperienza un carattere negativo, menzognero, errante. Le emozioni – fra tutte l’amore che anima la ilosoia e la gioia come fondo nascosto dei mortali – sono cioè espressione viva e incarnata della verità dell’essere. Il cuore di ogni cosa – la sua vocazione originaria – è l’eternità43, questo ha sostenuto il nostro ilosofo: perché escludere dal cuore le sue parti costituenti, ovvero le sue più nobili passioni? Ripeto: non è questo un retaggio di un vecchio pregiudizio nei confronti dell’esperienza e di tutto ciò – emozioni comprese – a essa collegata? Ma se l’errore radicale – il divenire altro – non è frutto dell’esperienza ma dell’interpretazione dell’esperienza, l’esperienza allora può essere essa stessa fonte di verità, se adeguatamente ascoltata e vissuta. Severino pensa il “risveglio” dal grande sogno – ovvero l’illusione/interpretazione di essere mortali e di vivere in una terra isolata –, ma lo pone al di là, nell’ininito dispiegamento dei cerchi dell’apparire: ma le vicende della mia vita non appartengono a me in quanto io sono l’eterno apparire del destino, ma a me in quanto appartengo al grande sogno. Come eterno apparire del destino io guardo questa appartenenza, guardo il sogno che appare in me e di cui vedo l’errare. Come ogni altra, anche questa autobiograia appartiene a quel sogno. L’io del sogno è il narrante. L’io del destino guarda il narrante e la narrazione. Poi ci sarà il risveglio.44 43. Cfr. ivi, p. 52. 44. E. Severino, Il mio ricordo degli eterni, cit., p. 57.

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Severino sostiene che il risveglio dall’illusione che rende l’uomo mortale e, dunque, sofferente e vittima del tragico, ha da venire nell’ininita manifestazione della Gloria come soluzione della contraddizione C. Non posso in questo contesto discutere questo punto fondamentale45 della ilosoia di Severino, ma concludo evidenziando che il collocare la soluzione nel futuro mi sembra, di nuovo, mosso dal presupposto che il presente, la nostra esperienza quotidiana, sia iniciato da una essenziale negatività. Lo stesso Severino però sostiene anche che il desiderio dell’eterno vela la verità dell’eterno46 perché l’eterno non va posto nel futuro, ma è già qui. Dunque, se la negatività non si pone a livello ontologico ma deriva da un errore interpretativo che rende gli uomini mortali, perché questo errore cognitivo dovrebbe essere necessario, inevitabile e non sanabile già adesso? Perché «il linguaggio che testimonia il destino non sa dire, ancora, quale sia il proprio percorso»47? Perché «anche se “io” sono una volontà di testimoniare il destino, io credo di più e più spesso nelle cose in cui comunemente si crede che non nel “destino della verità”»48? Perché se l’eterno è già qui non dovrebbe quindi poter essere esperito? Perché l’autentica soteriologia dovrebbe attendere per dare i suoi frutti? In questo contributo ho voluto evidenziare come la risposta a questi “perché” si radichi in una svalutazione dell’esperienza che mi sembra essere presente nell’importante opera del grande Maestro Emanuele Severino e come si tratti di un problema che dovrebbe venire risolto. Spero di poter avere l’onore di discutere questo argomento con lui.

45. Mi permetto di rinviare al mio già citato L. Candiotto, La traccia della negazione, cit., per l’enunciazione completa della mia posizione al riguardo. 46. Cfr. E. Severino, La follia dell’angelo, cit., p. 63. 47. E. Severino, Il mio ricordo degli eterni, cit., p. 169. 48. E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., p. 210.

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La tendenza fondamentale e le controtendenze Mario Capanna

Caro, grande, mio Maestro, dopo cinquant’anni debbo confermarle il mio rammarico insopprimibile, davvero inestinguibile, per non essermi potuto laureare con lei. Ricorderà che avevamo già parlato della tesi. Poi, non per nostra volontà, gli accadimenti presero una piega diversa. Io venni espulso dall’Università Cattolica nel gennaio 1968, per la mia partecipazione alle lotte studentesche – e, poco dopo, seguirono altre espulsioni, non solo di studenti; fu cacciato anche Salvatore Natoli, presente qui, che era già suo assistente, “reo” di avere solidarizzato con noi. Due anni dopo, lei lasciò la Cattolica, per incompatibilità fra il suo pensiero ilosoico e il cristianesimo. In proposito devo avanzarle una piccola critica: condivise il fatto di tenere riservato lo scontro fra la Chiesa e lei. Capisco quale può essere stata la sua preoccupazione: mantenere il conlitto con il Vaticano esclusivamente sul piano del confronto ilosoico.

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E però: immagini che cosa sarebbe successo se a noi studenti fosse giunto all’orecchio che lei era processato dal Sant’Ufizio secondo procedure analoghe a quelle usate contro Galileo Galilei: di certo la mobilitazione nell’Università si sarebbe iniammata ulteriormente. A separarci, dunque, furono l’intolleranza e la prepotenza delle istituzioni, ma il nostro rapporto rimase solido nel tempo: telefonate, scambi epistolari e, da parte mia, lo studio costante del suo pensiero e dei suoi sviluppi. Voglio qui ricordare un particolare che, forse, pochi conoscono: molti anni fa il Prof. Severino ha accettato di fondare, insieme a me e a molti scienziati e ricercatori, il Consiglio dei Diritti Genetici, un organismo indipendente da qualsiasi potere, che aveva come mission quella di dire la verità sugli OGM e le biotecnologie, mostrando sempre le due facce della medaglia (le opportunità e, insieme, i rischi e i pericoli). Il CDG conquistò in breve tempo prestigio e riconoscimenti in ambito nazionale e internazionale. Da un suo importante convegno – cui partecipò il Professore, dandoci un prezioso contributo – fu tratto il libro L’uomo è più dei suoi geni (Rizzoli, Milano 1991), che costituì un punto fermo contro lo scientismo e il riduzionismo. A riprova, questo, che il nostro Maestro non è un pensatore astratto. Tutt’altro. Vorrei ora evidenziare un rilievo su un punto cardine del discorso ilosoico severiniano: la tecnica e il suo ruolo nel mondo. La tesi è nota: l’Apparato scientiico-tecnologico ha come scopo essenziale quello di produrre scopi e dunque mira al rafforzamento indeinito di sé stesso, servendosi di tutto ciò che vorrebbe usarlo (l’economia, la inanza, le ideologie, il cristianesimo, l’islam ecc.). E questo costituisce la tendenza fondamentale del nostro tempo, anche se in futuro nemmeno la Tecnica avrà l’ultima parola…

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Pare a me di dover dire che lei pone tale questione eccessivamente more geometrico, a scapito della necessaria dialettizzazione. Nei suoi scritti credo che lei ponga insuficiente attenzione alle controtendenze che contrastano la tendenza fondamentale. Controtendenze derivanti dal thaûma che gli esseri umani provano, in misura crescente, nei confronti dell’Apparato scientiico-tecnologico (è noto che thaûma indica sì la meraviglia, ma anche l’angoscia di fronte a una realtà minacciosa e schiacciante). Due esempi. Il primo è costituito dai mutamenti climatici. I 2500 scienziati che, per conto dell’ONU nel 2007, redassero il rapporto in merito, evidenziarono che «siamo alle soglie dell’irreversibile» e che, per non pregiudicare il futuro della specie umana, non bastano blandi aggiustamenti dell’attuale modo di produrre inquinante e devastante. Sono necessarie secondo loro – e lo dicono all’unanimità, altro fattore da non sottovalutare – «tre rivoluzioni: quella delle coscienze, quella dell’economia, e quella della politica». (Non c’è qui un’eco degli ideali di fondo del Sessantotto?). Dieci anni dopo, a riprova di quanto quegli studiosi avessero colto nel segno, la situazione è divenuta ancora più grave. Abbiamo superato, nel 2015, le 400 parti per milione di anidride carbonica immessa nell’atmosfera (le 400 parti erano ritenute una «soglia psicologica») e oggi dobbiamo constatare che i mutamenti climatici sono una realtà segnata da una distruttività pericolosamente crescente. La progressione è maledettamente veloce: nell’aprile 2017 l’osservatorio di Mauna Loa, nelle Hawaii – la più antica stazione di rilevamento di CO2 al mondo – registrava il raggiungimento delle 410 parti per milione!

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Di fronte a questi pericoli estremi, gli esseri umani sono sempre più allarmati e si sollevano per imporre, ad esempio, l’uso di fonti rinnovabili e non inquinanti per produrre energia. Toccando con mano la funzione distruttiva dell’Apparato, si organizzano per contrastarne gli effetti. Secondo esempio: nel referendum sulle centrali elettronucleari, il popolo italiano, a grande maggioranza, ha detto: vogliamo, certo, l’energia elettrica, ma non prodotta dall’atomo dati i rischi e i pericoli – come dimostrato dal disastro di Chernobyl e da quello di Fukushima – bensì da fonti tradizionali e possibilmente rinnovabili. Alla tendenza fondamentale del nostro tempo si oppongono dunque signiicative controtendenze. Saranno perdenti o vincenti? Il quesito rimane aperto e ricordo che, in questo campo, non siamo nell’ambito dell’epistéme, ma in quello della dóxa, sì che il “vincere” o il “perdere” dei contrastanti è sostanzialmente una “fede”, non una verità incontrovertibile. Professore, lei ricorderà la bella (almeno per me) conversazione ilosoica che il 18 gennaio 2004 avemmo a casa sua proprio su questi temi, dialogo che, da lei rivisto, è stato pubblicato nel mio libro Coscienza globale. Oltre l’irrazionalità moderna (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006). Nella dialettica del confronto, lei fece delle ammissioni che nei suoi scritti precedenti non emergevano (o non comparivano con tale nettezza), tipo: «siamo d’accordo sull’esistenza delle controtendenze», e «la tecnica può addivenire in qualsiasi momento alla propria distruzione». Successivamente ho trovato consolante leggere, a p. 281 del suo straordinario libro La morte e la terra (Adelphi, Milano 2011), le seguenti parole:

41 La tecnica non può […] comprendere che, come ogni volontà, essa vuole l’impossibile e che quindi è solo fede la sua convinzione di prevalere sulle altre volontà e di ottenere ciò che di volta in volta essa vuole. Nello sguardo del destino appare che, proprio perché la volontà in quanto tale – quindi anche la sua forma suprema, la tecnica – vuole l’impossibile, al fondo della sua essenza, ossia del suo aver come scopo l’incremento indeinito della propria potenza, la volontà vuole il nulla.

Dunque sono una “fede” sia la volontà dell’Apparato di essere invincibile sia quella delle controtendenze che si oppongono a quella volontà. Ed è possibile che la prima “fede” prevalga sulla seconda, come che la seconda prevalga sulla prima. Verso la conclusione della nostra conversazione feci presente: «Lei qualche volta compie il torto di lasciare inespresse certe determinazioni concrete dei suoi assunti ilosoici, determinazioni che renderebbero il suo discorso più intelligibile ed eficace». Lei replicò: «Dal punto di vista dialogico e sociale mi dice cose simili a quelle che mi dice mia moglie». Lo considerai un complimento, perché sua moglie non era certo Santippe… aveva una profonda cultura, anche in campo ilosoico. Caro Maestro, oltre che per l’insieme del suo insegnamento teoretico, io le sono debitore del rigore razionale che ha instillato in me, che mi è stato tanto utile nella vita come nell’impegno politico e in quello scientiico. Rigore razionale che si è sempre accompagnato a quello etico. Perciò la ringrazio immensamente, e sono lieto di poterglielo dire in questa bellissima circostanza.

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Io trascendentale e fondazione della Gloria Nicoletta Cusano

Premessa “Filosofare” nel suo signiicato essenziale signiica andare al fondamento ultimo delle questioni. In questo senso la ilosoia è teoretica per deinizione. Questa premessa, così decisiva quando si considera la consistenza di un pensiero ilosoico, lo è in maniera particolare nel caso della rilessione di Emanuele Severino perché è costantemente e irriducibilmente guidata dall’attenzione al fondamento ultimo. Da qui la sua complessità. Si tratta di un di costrutto logico rigorosissimo in cui si procede deducendo ogni posizione dal fondamento ultimo e, sulla sua base, si ripensano (anche) radicalmente i grandi temi della tradizione ilosoica. Seguire la rilessione di Severino richiede perciò un consistente bagaglio di conoscenze “tecniche”. In questo intervento si avrà modo di saggiare tale complessità strutturale considerando, nella loro fondazione, quelle due posizioni logiche che nel linguaggio severiniano prendono il nome di «Io del destino» e «Gloria». Si vedrà come la fondazione della Gloria, che è il superamento deinitivo di quello che nel linguaggio severiniano prende il nome di «isolamento», e il toglimento inesauribile di quella che in tale

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gio prende il nome di contraddizione C, presuppone le basi portanti dell’intero sistema a iniziare evidentemente dal suo fondamento ultimo: la struttura originaria. Seguono – in ordine di progressività logica – l’eternità dell’essente, la struttura dell’apparire (o anche l’apparire come struttura, che implica come negata l’intera storia della fenomenologia occidentale), la differenza tra io empirico e Io trascendentale (di derivazione idealistica, ma ripensata alla luce dell’eternità dell’essente), la struttura dell’Io trascendentale tra persintassi e iposintassi, la differenza tra Io del destino inito e ininito (che nella sua fondazione supera le principali obiezioni tra cui quella di derivazione attualistico-gentiliana), la differenza tra contraddizione “normale” e contraddizione C nella loro reciproca implicazione (tale per cui ogni contraddizione cosiddetta normale è sempre una contraddizione C ma non viceversa).

Struttura originaria La struttura originaria è l’apparire dell’esser sé dell’essente, di ogni essente come tale. Non è semplicemente l’esser sé di ciò che è sé: è l’apparire dell’esser sé di ciò che è sé. Tale apparire è immediato in quanto «per essere affermato non richiede o non presuppone altro che la presenza di sé stesso, o non presuppone altro che sé stesso in quanto presente: […] per affermare che l’essere è, non c’è bisogno, né può esserci bisogno, di introdurre un termine diverso da ciò che è affermato; ossia per affermare che l’essere è non c’è bisogno, né può esserci bisogno, di alcuna mediazione, dimostrazione, apodissi»1. Ogni essente (ciò che-è, determinazione essente) appare immediatamente come un esser sé che nega di essere non-sé: è immediatamente (per sé e non per altro) essente e apparente

1. E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 143.

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come un esser sé che si oppone al proprio non esser sé. Tale opposizione si presenta dunque sotto due proili: in quanto è per sé nota, ovvero in quanto il predicato (l’opporsi al proprio non esser sé) conviene immediatamente al soggetto; e in quanto non può essere negata perché la sua negazione è un’autonegazione immediata. Il che può anche essere detto così: è immediatamente essente in quanto il suo non esser-sé è immediatamente impossibile o autonegativo (implica ciò che intende negare); è immediatamente apparente in quanto è noto per sé e non per altro. E qui si precisi che tale essere noto per sé e non per altro è a sua volta qualcosa la cui negazione è autonegazione, dal momento che la sua negazione implica l’apparire di quell’opposizione tra l’esser sé e il non esser sé che intende invece negare. Implica cioè la differenza dei differenti, il loro opporsi. Riprendendo Aristotele, Severino deinisce elenchos tale struttura oppositiva, che è bene esporre nei suoi tratti fondanti anche per rispondere ad alcuni rilievi2 sull’esistenza dell’affermazione e della negazione. La negazione dell’opposizione, ovvero del principio di identità-non contraddizione per cui ogni essente è sé in quanto è opposto al proprio non esser sé, è un’autonegazione perché, per porsi come negazione, implica proprio quell’opposizione che intende negare: per essere negazione e non non-negazione (affermazione, dubbio, possibilità ecc.) essa implica di opporsi al proprio negativo e che tutti i termini in cui essa accade siano fondati su tale opposizione. Ciò fa sì che per costituirsi come negazione dell’opposizione essa non possa valere come assolutamente negante l’opposizione, cioè come negazione pura, ma che debba necessariamente restringersi ai contenuti diversi da sé e dal suo dire: per negare l’opposizione deve implicare che il suo stesso negare non sia investito dalla portata della sua negazione. O anche: deve implicare che la sua 2. Cfr. ad esempio L.V. Tarca, Negazione della contraddizione e verità della contraddizione, in «La ilosoia futura», n. 1, 2013.

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negazione valga per tutto tranne che per sé stessa. Non valendo in relazione a sé e al proprio dire, è una negazione non assoluta ma relativa dell’opposizione. Così limitata, la negazione dell’opposizione non è più veramente negazione dell’opposizione. Ciò signiica che per toglierla non serve più mostrare che è autonegativa, ma solo che si contraddice. L’argomentazione sviluppata da Severino in Essenza del nichilismo può essere brevemente sintetizzata nel modo seguente: per valere come negazione, la negazione dell’opposizione divide l’intero in due parti: una in cui vale l’opposizione – in quanto essa intende appunto valere come negazione e non come nonnegazione – e una in cui non vale. Si chiami A la prima e B la seconda. A si oppone a B, mentre B non si oppone ad A. In questo modo A e B si contrappongono e insieme non si contrappongono. Per sfuggire a tale contraddizione la negazione dell’opposizione deve limitarsi ulteriormente, accettando di valere solo all’interno di B, dove ovviamente non può vigere alcuna contrapposizione e cioè o B è assolutamente indeterminato oppure, se è internamente determinato, si trova immediatamente in contraddizione, perché le sue parti si oppongono e insieme non si oppongono. L’aspetto interessante è che pur così ridimensionata la negazione dell’opposizione non solo è contraddicentesi ma anche autonegativa, cioè implica la verità di ciò che cerca di negare, se solo intende porre differenze al suo interno: l’unico modo per non autonegarsi è quello di non differenziare. Ciò spiega i motivi per cui molto spesso chi cerca di contestare la struttura originaria come fondamento inisce quasi inevitabilmente in posizioni molto vicine all’Uno indistinto di derivazione neoplatonica3. Sulla base di ciò sarebbe errato concludere che la struttura originaria – affermazione dell’opposizione – è equivalente alla sua

3. Cfr. N. Cusano, Sintesi e separazione, Mimesis, Milano-Udine 2017.

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negazione – negazione dell’opposizione – perché entrambe sono la negazione dell’altra e si fondano sull’apparire della propria negazione. È infatti essenzialmente diverso il modo in cui l’una è negazione dell’altra e presuppone l’apparire dell’altra: mentre la negazione dell’opposizione o della differenza dei differenti (dell’esser sé come non essere altro da sé) si fonda sull’apparire di tale opposizione come affermata per costituirsi – e perciò è un’autonegazione immediata! –, la struttura originaria è negazione della propria negazione in quanto si fonda sull’apparire della propria negazione come negata e non come affermata. Ciò signiica che la negazione dell’opposizione esiste in quanto l’opposizione è verità ovvero in quanto l’opposizione appare come affermata; l’affermazione dell’opposizione (struttura originaria) esiste in quanto la negazione dell’opposizione non è verità ovvero in quanto essa appare come negata. La struttura originaria consiste nell’implicare che la propria negazione è impossibile, la negazione della struttura originaria consiste nell’implicare che la propria negazione è necessaria. Se si dice che le due posizioni sono identiche in quanto implicano la propria negazione, ci si ferma all’aspetto astrattamente identico delle due senza tenere conto della concretezza dell’implicazione per cui la struttura originaria è la morte dell’altra, la negazione della struttura originaria è la vita della struttura originaria. Ciò di cui la struttura originaria necessita è dunque solo di sé stessa in quanto apparire di quell’essente che consiste nel signiicato della sua negazione (nel linguaggio di Severino positivo signiicare del nulla). La differenza tra il modo in cui la struttura originaria implica l’apparire della sua negazione e il modo in cui la sua negazione implica l’apparire della struttura originaria è evidente e fa sì che la struttura originaria sia “verità” e la sua negazione “non verità”. Questo nesso relazionale tra affermativo e positivo, da una parte, e di logico e fenomenologico, dall’altra, è dunque la struttura originaria quale fondamento, dove l’aggettivo “originaria”

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indica l’«impossibilità che ciò la cui negazione è autonegazione sia affermato sul fondamento di altro. L’originario non ha quindi nulla a che vedere con “ciò che si presenta per la prima volta”, o con “l’istante” – quale sembra essere l’originario husserliano (almeno nell’interpretazione datane da J. Derrida)»4. Si tratta cioè di un nesso logico e fenomenologico immediato, tale in quanto la sua negazione è un’autonegazione: non qualcosa che esiste e viene tolto, ma che non può costituirsi affatto, perché per farlo presuppone l’apparire di ciò che intende negare. Nel linguaggio di Severino l’innegabilità-immediatezza dell’originario è espressa con il termine necessità (in senso etimologico dal latino ne-cedo quale impossibilità di cedere al proprio negativo). Per indicare lo stare necessario dell’esser sé dell’essente in quanto immediata autonegatività della propria negazione, Severino usa il termine de-stino inteso nel senso etimologico di stare («stino») fortissimo («de» in senso rafforzativo). La necessità del destino è lo stare fortissimo dell’esser sé dell’essente, dove la forza dello stare consiste nell’originaria autonegatività del proprio negativo. In quanto l’originario è un tale intreccio relazionale, esso è struttura, complesso logico-semantico. L’originario è struttura in quanto è originario: se non fosse struttura non sarebbe originario. Rivolgiamoci brevemente al testo citato (La struttura originaria) dove per la prima volta Severino compie esplicitamente queste rilessioni sull’originario. In quanto «strutturarsi della principialità, o dell’immediatezza» la struttura originaria è il fondamento. «Ciò importa che l’essenza del fondamento non sia un che di semplice, ma una complessità, o l’unità di un molteplice»5. E poiché l’essenza del fondamento è necessariamente struttura (sulla base di quanto detto sopra), la struttura 4. E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 157. 5. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 107.

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originaria non è semplicemente fondamento, ma è l’essenza del fondamento, il modo autentico di essere fondamento: originarietà e complessità. “Struttura originaria” indica perciò sia il contenuto logico sia il modo essenziale di essere fondamento: come il fondamento deve essere per essere fondamento. La strutturalità dell’originario comporta che i tratti che lo costituiscono siano essenzialmente legati tra loro: sono distinguibili ma non separabili, giacché la loro separazione è negazione della struttura originaria. Possono perciò essere analizzati distintamente, ma solo in quanto si sa che sono concretamente ciò che sono in quanto relati. Il che non solo rende quella pluralità di determinazioni una pluralità di modi diversi di predicare l’identico – e dunque per questo aspetto la struttura originaria dell’essere è una predicazione di identici –, ma porta anche con sé la necessaria distinzione tra struttura originaria in quanto contenuto e in quanto linguaggio. La struttura originaria è come una corda, costituita da un intreccio di ili: unico e complesso. Per dirlo se ne devono dire i singoli ili: questa è l’essenza linguistica della struttura originaria, dove il linguaggio può nominare i ili solo uno dopo l’altro e in tale succedersi astrae inevitabilmente dalla loro concreta relazione. La discorsività è il realizzarsi dell’astratto del concreto: nel discorso «si è costretti a dire “una cosa dopo l’altra” (e quindi una cosa fuori dell’altra); senza che il “dopo” esprima alcunché sulla natura del rapporto logico tra le due cose»6. Ciò non solo pone la questione generale di un discorso sulla struttura originaria, ma pone anche la questione particolare della relazione concreta tra struttura originaria astrattamente (discorsivamente) intesa e le posizioni da essa necessariamente implicate in quanto apparire dell’esser sé dell’essente, che nel linguaggio di Severino prendono il nome di “persintattiche” (cfr. oltre). 6. Ivi, p. 120.

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In generale entrambe le questioni sono tolte distinguendo la posizione astratta dell’astratto e la posizione concreta dell’astratto. La prima è il discorrere che non si sa come tale, che astrae dal suo essere un discorrere e perciò è posizione astratta di sé ovvero di quell’astrarre che è il discorrere come tale; la seconda è il discorrere che si sa come discorrere, che non astrae dal suo essere un discorrere del concreto e dunque, in questo sapersi per quello che è, è posizione concreta dell’astratto del concreto (il discorrere è concreto quando si sa come astrarre da quel concreto che è la struttura originaria). Più semplicemente: il discorso sulla struttura originaria, in quanto discorrere, presenta un tratto dopo l’altro della struttura originaria e dunque inevitabilmente astrae dalla sua concretezza ovvero dall’unità concreta dei suoi tratti. Discorrere signiica astrarre dal concreto. In quanto il discorrere sa di essere necessariamente questo, esso pone sé stesso concretamente. Se invece si ritiene che il discorrere dica il concreto del contenuto, la struttura originaria come concreto nesso relazionale viene identiicata alla sua posizione discorsiva e con ciò negata: la distinzione dei suoi tratti coincide in tal caso con la loro esistenza separata. Sotto un certo proilo, si potrebbe dire che tutta l’opera di Severino è un chiarimento diretto o indiretto del signiicato originario e che con la struttura originaria Severino ripensa in modo radicalmente diverso le categorie della tradizione ilosoica. Astrattamente considerata, la struttura originaria si inserisce all’interno del solco di quella tradizione. Ma qualcosa la differenzia essenzialmente: l’affermazione dell’immediatezzainnegabilità (originarietà) dell’esser sé dell’essente in tutte le sue implicazioni. A iniziare dall’eternità dell’essente come tale.

Fondazione dell’eternità dell’essente In quanto la struttura originaria è il fondamento originario, fondare una posizione signiica mostrare come essa sia

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sariamente implicata dalla struttura originaria. Ciò vale anche per la posizione dell’eternità dell’essente in quanto le due posizioni siano intese discorsivamente. In quanto distinta dalla struttura originaria, la posizione dell’eternità dell’essente è da essa necessariamente implicata. Severino ne dà numerose illustrazioni, ma qui è suficiente considerarne la principale. In quanto l’esser sé dell’essente è innegabile (struttura originaria) esso è necessariamente eterno: negarne l’eternità signiicherebbe infatti pensare un tempo in cui l’esser sé è altro da sé ovvero non è sé. È dunque impossibile il divenire inteso come diventare altro, laddove ogni diventare altro è sempre innanzitutto un diventare nulla cioè un non essere nel senso del nihil absolutum. Poiché l’esser sé dell’essente è immediatamente innegabile, è impossibile pensare un tempo in cui l’esser sé dell’essente non sia. Segue che è necessariamente eterno. Negare l’eternità signiicherebbe negare la struttura originaria; ma poiché ciò è impossibile, non si può negare l’eternità dell’essente. Si è così fondata sulla base della struttura originaria (quale fondamento originario) la necessità dell’eternità dell’essente. Negare l’eternità dell’essente è volontà dell’impossibile. Il diventare altro degli essenti non è un’evidenza fenomenologica, ma un modo di pensare che non si accorge di essere convinto dell’impossibile. Ciò che appare è l’apparire e lo scomparire di eterni. Emerge con chiarezza che la concretezza dell’esser sé dell’essente consiste nella sua innegabilità che è già la sua eternità e tutte le determinazioni che concretamente gli appartengono. In senso astratto, logico-formale o discorsivo, la struttura originaria come fondamento non contiene la posizione dell’eternità dell’essente. O anche: non è fondativa in quanto include l’altra posizione. I riferimenti testuali in cui Severino esplicita questo aspetto sono molti, ma i principali per esplicitezza sono senz’altro Oltre il linguaggio (cit.) e Dike (Adelphi, Milano 2015) a cui in questo contesto si può solo rimandare.

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Differenza tra io empirico e Io trascendentale Esistere, nel senso del vivere come agire, è essenzialmente un “avere coscienza”. Ogni azione è un certo essere convinti che le cose stiano in un certo modo, che esista un certo presentarsi del mondo come realtà esterna al nostro io e che “io” sono l’individuo che è il soggetto di quell’agire. Agire è dunque un convincersi, un essere certi: un avere coscienza nel senso della certezza. L’avere certezza è la forma dell’avere coscienza, dell’apparire. Ogni esistere, ogni agire è dunque una forma di certezza, e ogni certezza è una forma di avere coscienza cioè di apparire. Anche quella convinzione in cui consiste il dubitare è un apparire: l’apparire della equipotenza di affermazione e negazione. Cartesio è il primo, nella storia ilosoica, a tematizzarlo esplicitamente. Esistendo e agendo, “io” sono il continuo “convincermi”, cioè la certezza, cioè l’avere coscienza, cioè l’apparire di convinzioni. Questo “apparire”, che è il mio continuo convincermi, è innanzitutto la certezza che “io” sono un io e che esiste un mondo intorno a me, fatto di cose e di altre coscienze individuali. In questo suo convincersi di avere fuori da sé il mondo, l’io empirico trascura necessariamente che esso è già l’apparire del mondo. È sempre Cartesio (tralasciando qui i limiti di quella prima posizione ancora ingenua) ad accorgersi per primo di questo aspetto: esistere signiica avere coscienza del mondo, delle cose, degli altri individui, del mio essere così cosciente. “Io” sono da un lato l’apparire del mondo come contrapposto a me, dall’altro sono la coscienza in cui questa contrapposizione appare. Vi sono qui due forme di “coscienza”: una in cui consiste il mio essere collocato all’interno del mondo e a esso contrapposto; una in cui consiste quel più ampio apparire in cui la mia stessa coscienza individuale è compresa accanto al mondo di cose e individui. Dopo Cartesio, è Fichte il primo a concentrarsi su questa tematica: Io sono il porre che pone sé stesso e anche

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l’altro da sé. Questo “altro da sé” è tuttavia posto dall’io, dunque non è altro dall’io. Ma allora cosa sono “io”, questo atto del porre che pone sé stesso e l’altro da sé? Evidentemente un’autocoscienza più ampia di quell’io che si trova contrapposto all’altro da sé (non-io). In quanto “io” non sono solo un oggetto del porre, ma lo stesso porre, io non sono altro da ciò che è “posto”, ma l’apertura o autocoscienza originaria del mondo e di me come contrapposto al mondo. Chiameremo allora «io empirico» quell’essente che ha la caratteristica essenziale di essere un “io”, cioè un apparire autocosciente (cfr. oltre), ma che è apparente tra essenti apparenti, mentre chiameremo «Io trascendentale» l’apparire autocosciente totale e perciò originario in cui ogni essente apparente appare. L’io empirico è quell’autocoscienza o apparire che presuppone l’apparire del “mondo” esterno e della totalità di ciò che appare (cose, persone, fatti, sentimenti ecc.); l’Io trascendentale è quell’autocoscienza o apparire della totalità in cui il mondo è presente come mondo e l’io empirico come io empirico. Quando l’io empirico soffre o gioisce per una certa circostanza, esso soffre e gioisce in quanto empirico, ovvero in quanto si sa come diverso dalla circostanza che si trova davanti, ovvero in quanto sa che quella circostanza gli è esterna ed estranea: in ciò consiste appunto la sua empiricità. In quanto empirica, la coscienza è la convinzione che esista un fuori e un dentro, un prima e un dopo, una realtà esterna contrapposta a una interna. Ma che vi sia quell’interno e quell’esterno appare. E tutto ciò di cui si parla, discorre, pensa, presuppone, innanzitutto appare, dove dire che appare signiica che è presente, è noto, è cosciente ovvero che esiste una coscienza di esso. Ecco che allora in relazione all’io empirico accade, sempre e necessariamente, un altro e diverso io che può essere deinito trascendentale in quanto trascende necessariamente l’io

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rico e ogni altra realtà pensata, ma la trascende non in quanto se ne porta oltre, bensì in quanto la pone, ne è la coscienza, la contiene e per questo è totale: la coscienza (autocosciente) di ogni apparente. In quanto l’io empirico accade sempre e necessariamente in relazione a quell’Io trascendentale che è apertura della totalità dell’apparire, l’essere umano è il luogo in cui si presenta questo doppio apparire: dell’io empirico e dell’apparire totale. Che esista tale doppio apparire è quanto sfugge alla coscienza non ilosoica e scientiica, per cui la coscienza è l’attività cerebrale dell’individuo. Con questi primi passi ci si avvicina a quanto Severino afferma della coscienza trascendentale passando attraverso quello che la storia della ilosoia, in modo particolare con l’idealismo e il neoidealismo, ha detto in relazione alla coscienza empirica e trascendentale. Il termine “io”, come mostra l’idealismo tedesco, è la coscienza in quanto sa di essere coscienza, in quanto autocoscienza, in quanto “io”: un “circolo” in cui il punto di partenza è il punto di arrivo della rilessione. L’io è la coscienza che ha come oggetto sé stessa, che sa di essere l’apparire o coscienza che è. (In quanto anche quell’essere io è saputo come tale, a rigore si deve parlare non semplicemente di “autocoscienza”, ma di coscienza di autocoscienza) Quando Fichte pone il primo principio della Dottrina della Scienza afferma proprio questa identità del porre e del posto: l’Io pone sé stesso, consiste essenzialmente nel porre sé stesso. È identità di porre e posto. «Io trascendentale» non indica dunque una caratteristica universale presente in ogni particolare, ad esempio il signiicato “rosso” presente in ogni cosa rossa ecc., ma la dimensione totale dell’apparire. Il trascendentale è la coscienza di ogni coscienza, al cui interno appare tutto ciò che può apparire. Nulla escluso ovvero escluso solo il nulla. Il trascendentale qui indica l’orizzonte degli orizzonti, oltre cui non si può andare. In quanto è così onnicomprendente esso trascende tutti i particolari: non in quanto li oltrepassa portandosi oltre, ma in quanto li contiene

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e racchiude tutti. È la Coscienza di tutto ciò che è cosciente, l’Apparire di tutto ciò che appare: l’apparire totale. In quanto totale include in sé tutto ciò che appare, dunque non ha e non può avere nulla accanto a sé, fuori da sé, prima di sé, dopo di sé. Non esiste un tempo passato o futuro rispetto a esso, né una regione dell’essere che ne stia fuori. Se si affermasse che fuori dall’apparire trascendentale esiste altro, un tempo o un luogo, lo si affermerebbe infatti perché questo altro appare (è presente, è noto, se ne ha in qualche modo coscienza). Altrimenti non se ne potrebbe parlare. In quanto questo altro «appare», è già necessariamente incluso nella totalità di ciò che appare. Ciò potrebbe sollevare la seguente obiezione: anche accettando l’esistenza di Io trascendentale trascendente l’io empirico, proprio in quanto vive in “me” esso è solo in relazione al mio io empirico e dunque non è e non può essere totale, ma limitato a questa relazione con il mio io empirico, con i suoi mondi e le sue dimensioni spaziali e temporali. Esistono luoghi e regioni dell’essere così come tempi, di cui tale Io trascendentale, proprio in quanto “mio”, non può essere cosciente. In quanto l’Io accade in me, esso è sì la totalità dell’apparire, ma solo in quanto “mio” apparire, relativo al mio io empirico e dunque temporalmente e spazialmente limitato. Da ciò segue che tale Io debba essere necessariamente spaziale e temporale, in quanto lascia fuori da sé luoghi e tempi. Tale rilievo commette (almeno) due errori. In quanto pensa che esistano tempi e spazi ulteriori, esso incorre nella classica contraddizione kantiana della cosa in sé: pone e pensa tali tempi e spazi ulteriori, ma non ne riconosce questo loro apparire ed essere pensati: li considera come non apparenti. In quanto riconosce che l’Io trascendentale è la totalità dell’apparire, ma poi restringe quella totalità al proprio io empirico, esso tratta la totalità di ciò che appare come non «totalità», perché

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la considera non inclusiva di un certo «apparire» (quello che ritiene appunto esserle estraneo). Si oltrepassano le due contraddizioni di sopra solo in quanto si riconosce che l’apparire «trascendentale» è totale in quanto è intrascendibile. Intrascendibile signiica intramontabile: proprio perché tutto ciò che appare e scompare entra ed esce dall’apparire trascendentale, è impossibile che l’apparire trascendentale non appaia da sempre e per sempre: se infatti iniziasse ad apparire o scomparire in un certo momento, dovrebbe entrare e uscire da sé stesso. Il suo essere intrascendibile è perciò il suo essere intramontabile. Da ciò l’espressione severiniana di “occhio senza palpebra”: l’apparire trascendentale non è un momento della storia dell’uomo, proprio perché la “storia” e il “tempo” sono inclusi in esso. Se “essere umano” è e signiica, nel suo senso più profondo, apparire o coscienza dell’essere, allora “essere umano” è e signiica nel suo profondo questo essere Io totale, intrascendibile e “immobile”.

Io del destino In quanto l’Io trascendentale non può essere apparire di niente, all’essere appartiene essenzialmente l’apparire e lo scomparire in esso. Per questo sempre in Essenza del nichilismo Severino afferma che l’Io trascendentale è «l’occhio di luce in cui si mostra il Dio»7. L’occhio senza palpebra contiene Dio, cioè l’esser sé dell’essente. Ma poiché l’esser sé dell’essente è immediatamente essente-apparente come innegabile ed eterno (de-stino), l’Io trascendentale è Io del destino: coscienza autocosciente dell’esser sé dell’essente e della sua eternità. L’Io del destino è autoapparire totale, essenziale autoreferenzialità. Se non lo fosse, dovrebbe apparire a un apparire diver7. E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995, pp. 99-100.

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so da sé (1), il quale a sua volta (per la motivazione di sopra) dovrebbe apparire a un apparire diverso da sé (2) e così via all’ininito. La verità (l’apparire dell’esser sé dell’essente, la struttura originaria, il destino) si struttura come «riferimento dell’apparire del destino a sé stesso (dove il “sé” non precede il riferimento, ma coincide con esso)»8. L’Io del destino è cioè l’apparire autocosciente dell’esser sé dell’essente: «l’apparire originario del destino è apparire di sé, autocoscienza, e in questo senso “Io” […]: l’Io del destino è la stessa verità originaria»9.

Sfondo (per-sintassi) Persintassi è l’espressione che Severino utilizza per indicare la struttura delle determinazioni logiche necessarie senza le quali nulla può apparire. Come indica il termine, si tratta della sintassi costante dell’apparire la cui presenza è condizione dell’apparire. Sotto il proilo formale sono le categorie della tradizione ilosoica: “esser sé”, “non esser sé”, “totalità”, “eternità”, “innegabilità” ecc. Senza persintassi non si darebbe apparire perché le determinazioni persintattiche sono la  forma logica degli essenti che appaiono e gli essenti che appaiono sono il contenuto di quella forma logica. Gli essenti apparenti appaiono in quanto sono in relazione a quelle categorie, e dunque non in quanto quelle categorie siano i loro predicati tout court: l’essente che appare non è l’esser sé come tale, ma appare in relazione alla determinazione “esser sé”. Che la presenza della persintassi sia condizione dell’apparire fa sì che nel linguaggio severiniano essa prenda anche il nome “sfondo”, sebbene quest’ultimo contenga anche una determi-

8. E. Severino, La Gloria, cit., p. 59. 9. Ibidem.

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nazione non persintattica (tema interessante, ma di cui non si può trattare in questa sede). La sua caratteristica essenziale è l’immobilità-invariabilità in due sensi: in quanto è eterna come ogni essente; in quanto non può presentarsi progressivamente nella sua concreta totalità. Giacché infatti l’apparire esige la presenza della totalità concreta della persintassi, se la persintassi non fosse presente al completo nulla potrebbe apparire: nemmeno le determinazioni persintattiche integrative. Che rapporto c’è tra struttura originaria e persintassi? Sono la stessa cosa o due entità distinte? In quanto discorsivamente intesa, la struttura originaria non è la persintassi, ma la implica essenzialmente; in quanto essa è quel concreto logico-semantico che è, essa è già la persintassi.

Ipo-sintassi (terra) La “terra” o iposintassi è il contenuto variante dell’Io trascendentale, che sopra-giunge sullo sfondo. Che esso sopraggiunga e sia variante signiica che non appartiene necessariamente allo sfondo, ovvero che tra sfondo e iposintassi non vi è una relazione necessaria particolare e privilegiata, ossia diversa e ulteriore rispetto a quella che lega ogni essente in quanto tale a ogni altro essente. Con ciò si è introdotto uno degli aspetti decisivi per la fondazione della Gloria.

Io ininito del destino (Gioia) Uno degli aspetti decisivi che la struttura dell’apparire porta con sé è la necessità che l’Io trascendentale, di cui si è in qui affermato l’essere intrascendibile in quanto orizzonte totale, non sia totale. L’eternità dell’essente esige che l’Io inito non sia la totalità concreta dell’essere, ma che esista una totalità concreta e immobile dell’apparire, che nel linguaggio di

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Severino prende il nome di Io ininito. Nell’Io inito il tutto appare processualmente e perciò parzialmente. Perciò si deve dire che «l’esser sé sarebbe qualcosa di contraddittorio se l’apparire ininito non fosse»10. Anche in questo caso la rilessione di Severino fonda la posizione dell’Io ininito sul fondamento ultimo: la struttura originaria. L’esser sé dell’essente, in quanto innegabile-incontraddittorio, esige l’esistenza dell’Io ininito, apparire della Totalità concreta, toglimento originario di ogni contraddizione. In quanto è toglimento di ogni contraddizione, anche di quella che appartiene all’Io inito del destino (cfr. oltre, contraddizione C), l’Io ininito non è un altro apparire rispetto all’Io inito, ma è l’apparire ininito del inito, così come il inito è l’apparire inito dell’Ininito. In questo senso l’Io ininito è l’inconscio dell’Io inito: sono due essenti diversi pur essendo il medesimo essente; l’Io ininito «non è il cerchio inito del destino; e tuttavia esso è assolutamente questo cerchio inito»11. Se non esistesse l’Io ininito, l’Io inito sarebbe il punto di vista supremo e cioè sarebbe controvertibile e incontrovertibile. Chi intenda negare l’esistenza dell’Io ininito deve dunque fare i conti con questa posizione logica: «l’esser sé sarebbe qualcosa di contraddittorio se l’apparire ininito non fosse». Ciò toglie l’obiezione di derivazione gentiliano-attualistica per cui l’apparire ininito, in quanto inconscio del inito, non appare attualmente nel inito. Tale obiezione può essere formulata nel modo seguente: l’apparire è per deinizione attualità, giacché, se non fosse tale, il suo essere presente non sarebbe presente e dunque l’apparire non sarebbe apparire. In quanto l’apparire signiica attualità, ossia essere “in sé e per sé”, come è possibile

10. E. Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, p. 175. 11. Ibidem.

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che l’apparire ininito sia un apparire non attuale, cioè non in sé e per sé? Fermo restando che il toglimento fondamentale di questa obiezione è stato dato sopra, si risponde a questo tipo di rilievo distinguendo tra attualità in sé e attualità in sé e per sé: l’attualità dell’ininito (il vero in sé e per sé) nel inito è solo in sé. Il inito è attuale in sé e per sé, mentre quello ininito, nel inito, è attuale solo in sé. Il che può anche essere detto nel modo seguente: l’Io ininito è l’inconscio del inito, ma in assoluto è il vero e autentico essere Io come coscienza di coscienza. L’essere “inconscio” e cioè il non apparire, il non essere attuale, non appartiene all’apparire ininito ma all’apparire inito: l’apparire ininito è la vera e originaria coscienza e attualità, presente solo formalmente nell’apparire inito e dunque in questo senso (solo in questo senso) esso è “inconscio”.

Contraddizione «C» Nell’Io inito del destino viene presentato un Tutto che non è il vero Tutto. Questo porre come tutto ciò che non è il tutto è detto da Severino contraddizione C (T = non-T). Proprio perché l’essere compare e scompare, il tutto non appare nella sua pienezza. Onde il tutto, che pure appare come tutto, non è il tutto. Il tutto è la compiuta ricchezza che non manca di nulla, ma se esso entra nell’apparire lasciando nascosta la propria compiuta ricchezza, allora nell’apparire viene posto come tutto ciò che non è il tutto. […] Questa contraddizione non si produce perché la parte viene falsamente identiicata al tutto, ma perché appare soltanto una parte di ciò a cui si riferisce il signiicato ‘tutto’, onde la parte […] resta signiicante come «il tutto».12

12. E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 167.

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La contraddizione C non nega l’esser sé dell’essente e la sua eternità, ma non mostra concretamente la totalità: è l’apparire formale del tutto concreto. E qui si aggiunga: in quanto ogni essente sopraggiungente nel cerchio dell’apparire è l’apparire di un aspetto della totalità concreta, ogni essente sopraggiungente è un certo toglimento della contraddizione C.

«Isolamento» (contraddizione nichilistica) L’isolamento della terra dalla posizione della sua eternità nega la verità dell’esser sé. È contraddizione in quanto separa l’essente dalla necessità del suo esser sé e ha a che fare con un essente impossibile (contraddittorio): che è e non sé stesso. Mentre la contraddizione C afferma il destino ma non può mostrarlo nella sua concreta totalità, la contraddizione in cui consiste l’isolamento nega il destino.

La Gloria Per la fondazione della Gloria sono logicamente indispensabili le basi in qui esposte, ma non le questioni cui essa dà soluzione; tuttavia per avere una visione globale delle implicazioni che essa porta con sé, partiremo dalle domande con cui terminava Destino della necessità: Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla solitudine o all’oltrepassamento della solitudine? E queste domande esprimono il limite del linguaggio mortale che incomincia a testimoniare il destino, o il limite del destino che, abitando il cerchio inito dell’apparire, lascia nel proprio inconscio il riconoscimento del sentiero che la terra è destinata a percorrere?13

13. E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 597.

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Lo scritto intitolato La Gloria, edito nel 2001, cioè vent’anni dopo le domande di Destino della necessità, risolve tali questioni aggiungendone (e risolvendone) un’altra: «ora si può aggiungere: sia che quel sentiero oltrepassi la solitudine della terra, sia che non la oltrepassi, è destinato, esso, a pervenire in un luogo inoltrepassabile, oppure è necessario che ogni luogo raggiunto da quel sentiero sia oltrepassato e che dunque l’oltrepassamento non sia mai compiuto?»14. La terra è destinata alla “solitudine” cioè a permanere entro l’isolamento dal destino? Il luogo a cui perverrà sarà deinitivo oppure destinato a essere oltrepassato all’ininito? La risposta, scrive Severino nella Gloria, si è presentata. Si trattava dunque di un limite del linguaggio testimoniante il destino. Con le parole di Severino: Ciò che incomincia ad apparire non appartiene necessariamente alla dimensione senza di cui, nel cerchio inito del destino, non può apparire alcun essente. Tale dimensione è la stessa struttura originaria del destino della verità – lo «sfondo» intramontabile della terra, che accoglie tutto ciò che sopraggiunge e da cui si congeda tutto ciò che passa […]. Ciò che incomincia ad apparire entra nell’orizzonte dello sfondo, e quindi non può appartenere necessariamente a tale orizzonte, ossia non può essere necessariamente unito ad esso in quanto esso è, appunto, lo sfondo. Lo sfondo è un essente, e ogni essente è necessariamente unito a ogni altro essente (giacché ogni essente è eterno); quindi anche gli essenti che incominciano ad apparire sono necessariamente uniti allo sfondo. Ma gli sono necessariamente uniti in quanto esso è un essente, non in quanto esso è lo sfondo. Mostrare la necessità della Gloria signiica mostrare l’impossibilità che un qualsiasi essente che incomincia ad apparire impedisca – ossia renda impossibile – il sopraggiungere di

14. E. Severino, La Gloria, cit., p. 91.

63 ogni altro essente, cioè impedisca il proprio oltrepassamento e coniguri, stabilisca e sigilli il volto deinitivo del contenuto che appare.15

È necessario che ogni essente che incomincia ad apparire sia oltrepassato da un altro essente perché è contraddittorio che un essente sopraggiungente incominci a unirsi necessariamente con la totalità di ciò che appare e allo sfondo in quanto essi sono tali (e non, daccapo, in quanto essi sono essenti). Unione necessaria è infatti quella la cui negazione è qualcosa di contraddittorio. Ma allora è contraddittorio che l’unione necessaria sia il risultato del sopraggiungere di un certo essente. È contraddittorio che l’unione necessaria incominci, cioè sia preceduta da un tempo in cui essa non esiste. Ed è innanzitutto contraddittorio che quell’essente, che è l’unione necessaria, sia stato un inesistente, cioè un nulla.16

È contraddittorio che l’unione necessaria abbia un inizio anche nel senso non nichilistico di iniziare ad apparire, in quanto si tratta dell’unione tra un essente che incomincia ad apparire e la dimensione che non incomincia ad apparire: in quanto lo sfondo non incomincia ad apparire, una relazione necessaria che abbia come uno dei suoi termini lo sfondo non può iniziare ad apparire (cfr. quanto illustrato sopra sui due sensi in cui la persintassi è immobile). Fin dall’inizio di questa rilessione si è detto che “fondare” una posizione signiica mostrare come essa sia necessariamente implicata e richiesta dal fondamento ultimo, cioè dalla struttura originaria, quale apparire dell’esser sé dell’essente. La fondazione ha appunto mostrato come la Gloria sia necessariamente implicata dalla struttura originaria. L’argomento fondante

15. Ivi, pp. 92-93. 16. Ivi, pp. 95-96.

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è infatti il seguente: se l’essente sopraggiungente non fosse sopraggiunto e oltrepassato nell’apparire da un altro essente sopraggiungente, inizierebbe una relazione necessaria tra lo sfondo e l’essente sopraggiungente. Ma una relazione necessaria non può avere inizio: se ha inizio, non è necessaria. Affermare che una relazione inizia a essere necessaria, signiica che non lo è da sempre: ma una relazione è necessaria in quanto è da sempre tale. Quindi pensare che una relazione inizia a essere necessaria, signiica pensare che un essente è e non è ciò che è, ovvero signiica negare l’esser sé dell’essente. La fondazione della Gloria consiste nel mostrare la sua implicazione necessaria col destino quale apparire dell’esser sé dell’essente: se non si afferma la necessità della gloria, si nega il destino. Se non si afferma la necessità che ogni essente sopraggiungente sia sopraggiunto e oltrepassato da un altro essente sopraggiungente, si nega l’esser sé di quell’essente che è la relazione necessaria e la relazione non necessaria, ovvero si pensa che un essente (la reazione non necessaria) sia e insieme non sia ciò che è. Se il nesso necessario iniziasse a essere necessario, cioè se non fosse sempre stato tale, prima di essere necessario sarebbe stato non necessario e quell’essente che è il nesso necessario sarebbe stato un nulla. Dunque è impossibile che tra l’essente che sopraggiunge e lo sfondo inizi ad esistere una relazione necessaria. Fondando la necessità che il sopraggiungere degli essenti non si possa arrestare a nessuna conigurazione deinitiva e inoltrepassabile, il linguaggio di Severino ha affermato anche la necessità che l’isolamento della terra dal destino tramonti deinitivamente e che tutti gli essenti eterni della terra che entrano nel cerchio del destino ne escano anche necessariamente, cadendo nell’oblio, e inine vi facciano deinitivamente ritorno. Poiché l’io empirico è isolamento, l’io empirico è destinato al tramonto: spettatore del processo inesauribile della Gloria è l’Io

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scendentale. In questo modo la Gloria è un grande chiarimento che la ilosoia offre dell’esistenza dell’uomo e del signiicato del tempo come sopraggiungere e scomparire di essenti. In questo modo mentre l’Io ininito è il toglimento originario di ogni contraddizione, nell’Io inito con la Gloria accade il toglimento deinitivo dell’isolamento e inesauribile della contraddizione C: mentre è necessario che la contraddizione in cui consiste l’isolamento tramonti deinitivamente nell’Io inito, è altrettanto necessario che la contraddizione C non sia mai tolta deinitivamente nel inito (accadrebbe l’impossibile: il cerchio inito del destino diventerebbe l’Io ininito) e che il suo toglimento dia luogo a un ampliamento progressivo e inesauribile del contenuto iposintattico: ogni nuovo essente sopraggiungente è un nuovo apparire e cioè un certo toglimento determinato della contraddizione C. Si parla di “ampliamento” perché il signiicato di sopra-giungenza porta con sé la necessità che tutto il contenuto scomparso sia conservato come oltrepassato (aspetto che qui non può essere considerato). Il senso autentico del tempo è la pro-gressione e accrescimento indeinito dell’iposintassi a fronte dell’immobilità-invariabilità della persintassi. Si concluda rilevando che l’isolamento della terra è destinato al tramonto non solo come pensiero […], ma anche come contenuto concreto […]. Se infatti questa concretezza del contenuto dell’isolamento non fosse oltrepassata e quindi non continuasse ad apparire nel suo esser oltrepassata, essa sarebbe daccapo un luogo in cui la terra si imbatte ma che non può oltrepassare. […] Ma appunto perché il loro tramonto è il loro oltrepassamento concreto, essi sono concretamente, cioè interamente conservati nella luce che li oltrepassa; […] in carne e ossa, così come si sono presentati.17

17. Ivi, pp. 125-126.

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Nota inale sul lessico della Gloria Questo intervento è limitato alla fondazione della Gloria, che apre scenari che in questa sede non possono essere affrontati e che il linguaggio di Severino indica con termini formalmente vicini al lessico religioso. Premesso che il termine “gloria” è utilizzato da Severino secondo il suo etimo indoeuropeo ovvero come manifestazione della Gioia, si invita a non vedere in altre espressioni usate da Severino, quali venerdì santo o pasqua della resurrezione, vicinanze alla prospettiva cristiana quale espressione dell’ontologia di matrice greca fondata sul diventare altro degli essenti e perciò sulla negazione del destino. Per parte mia ritengo – e l’ho ribadito in ogni occasione a Severino – che la scelta di quel lessico, per quanto suggestiva e capace di grandi effetti, possa generare ambiguità. La risposta di Severino è sempre stata decisa e convinta: il contenuto è così essenzialmente distante che non può generare confusione e ambiguità; inoltre noi parliamo il linguaggio della tradizione, usiamo i termini “ente”, “niente”, “divenire” ecc. che sono parole della tradizione ilosoica storica e perciò del nichilismo. Dunque non dovremmo nemmeno usare quelle espressioni. È vero. A ciò si può però replicare (come ho fatto) che proprio perché il contenuto è essenzialmente distante, sarebbe meglio utilizzare un linguaggio – una forma – che esprima in modo assolutamente unico e peculiare quel contenuto; e che mentre i termini dell’ontologia, che pure continuiamo a utilizzare per parlare del destino, appartengono all’intera tradizione storicoilosoica e in quanto tali accomunano tutte le ilosoie, nel caso della Gloria e tematiche annesse (la passione del venerdì santo, la pasqua della resurrezione ecc.) il riferimento storico è al linguaggio cristiano. Ma si tratta solo di opinioni, che come tali non riguardano la fondazione della Gloria e tutto ciò che concettualmente segue.

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Quello che importa sottolineare è che il contenuto della Gloria è una critica radicale del linguaggio cristiano e che il linguaggio in cui è mostrata la Gloria utilizza alcune espressioni cristiane per esprimere la più radicale negazione (anche) del contenuto del messaggio cristiano.

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La “verità” e il mago Frestone Massimo Donà

Ricordo ancora, come fosse oggi, la prima lezione che mi capitò di seguire, da studente, nella mitica Aula A di San Sebastiano a Venezia (quella in cui normalmente Severino svolgeva i suoi corsi) – una lezione che ha segnato la mia vita, anzi che l’ha letteralmente de-cisa. Decidendo appunto del mio futuro, e consegnandomi ad una inossidabile ossessione per la “verità”. D’altro canto, la verità – lo capivo anch’io, già allora – non poteva evidentemente essere né mia né di Severino, essendo, la medesima, nello stesso tempo di tutti (essendone tutti gli essenti originaria manifestazione) e di nessuno (ché non è posseduta da nessuno degli essenti che la testimoniano, allo stesso modo in cui nessuno degli essenti è posseduto da essa, come da una catena che in qualche modo lo “costringa”). La potenza di quelle parole – la ricordo come fosse ieri… i riferimenti alla lampada accesa (una lampada effettivamente collocata sul sofitto dell’aula A), al suo apparire, al suo costituirsi come apparire dell’eterno. Ecco: tutto ciò metteva chiarissimamente in luce come quel che Emanuele Severino stava cercando di far capire, a noi studenti, non fosse affatto la semplice opinione di un pur bravissimo professore di ilosoia, ma,

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ben più radicalmente, qualcosa che si sarebbe dovuto poter riconoscere come signiicato originario dell’essente tutto intero. Si badi bene, un signiicato già allora (per quanto fossimo solo verso la ine degli anni Settanta) concepito da Severino come di gran lunga eccedente l’imperfezione delle parole e dei concetti che avessero voluto farsene testimoni. Insomma, qualcosa mi stava facendo capire che, inalmente, avevo incontrato non solo un Maestro – al quale, peraltro, devo ancora tutto quel poco o tanto che sono riuscito a fare in seguito –, ma la concreta occasione per ricondurre la mia vita a quella che oggi Severino chiamerebbe, forse, “Gioia originaria”. Un concetto, quest’ultimo, che ancora non era stato tematizzato dagli scritti pubblicati sino quel tempo; ma che già vibrava nelle parole tanto di Essenza del nichilismo quanto di Destino della necessità (uscito, quest’ultimo, non molto tempo prima della mia tesi di laurea, avvenuta nel 1981). Un concetto che vibrava già, nelle parole di quegli scritti, quale loro ultima e più autentica “destinazione”. Per quanto solo in seguito – devo anche riconoscere – l’avrei davvero compreso. Capivo infatti che non si trattava solo di un’occasione per imprimere una svolta alla mia vita, per trasformarla e magari renderla più autentica (come sarebbe stato facile dire), ma del palesarsi del suo “essere già da sempre stata” (la mia vita) quel che peraltro solo allora cominciavo a intravedere. Perché proprio della possibilità che si trattasse di una “trasformazione”… quel discorso costituiva la più radicale messa in questione. Ma soprattutto, di quel discorso, mi affascinava il desiderio di venire criticato o interrogato, quasi auspicando di venire messo incessantemente in questione. Di questo, le parole del Maestro si facevano già allora testimoni, conformandosi ad una dinamica argomentativa davvero straordinaria.

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È cosa nota, infatti – e il Maestro continua a ribadirlo anche nei volumi più recenti –, che, nell’orizzonte del Destino, «tutti [i critici], con maggiore o minore potenza sviluppano il Contenuto a cui si rivolgono i [suoi] scritti»1. Un contenuto che già allora veniva inteso come “verità”, anzi come destino della verità. Ma già allora il Maestro sapeva bene che, se è vero che «senza errore non c’è verità»… ancor più vero è che proprio «l’errore con-ferma la verità, la rende ferma»2. Insomma, la verità sarà «tanto più concreta quanto più l’errore sarà concreto e iorirà, e sarà robusto, coerente, razionale e suggestivo»3. Insomma, già allora avrebbe riconosciuto che «la verità non abbandona a se stesso l’errore: [perché] esso cresce secondo le leggi della verità»4. Insomma, Severino non ha mai temuto i discorsi volti a confutarlo, impegnati a scorgere dei supposti punti deboli all’interno del suo sistema ilosoico; anzi li ha (in modo solo apparentemente paradossale) sempre cercati e reclamati… con grande avidità e sorprendente soddisfazione. Questo mi sembrò sin da subito rilevante; anch’io, infatti, come tutti, ero abituato a credere che, invece, nessuno che fosse convinto di sapere qualcosa in modo certo, anzi vero, potesse addirittura desiderare d’essere messo in questione, o quanto meno in dificoltà.

1. E. Severino, La potenza dell’errare. Sulla storia dell’Occidente, Rizzoli, Milano 2013, p. 178. 2. Ibidem. 3. Ibidem. 4. Ivi, p. 179.

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Ma in realtà, come ho capito assai presto, anche se non subito, Severino amava (e lo ama ancora) che ci si impegnasse a confutarlo per un semplice, ma fondamentale motivo: perché già allora era perfettamente convinto di quello che ho appena ricordato: ossia, del fatto che l’errore non può che crescere conformemente alle leggi della verità. Anzi, che l’errore, in senso proprio, non esiste (ad esserci essendo sempre e solamente l’errare, e mai l’errore… allo stesso modo in cui c’è il contraddirsi, ma mai la contraddizione). Cito da Tautótēs (ma potrei citare da molti altri testi): L’identità dei non identici è il nulla; ma nell’isolamento della terra il pensiero dei mortali, che in verità pensa il nulla (pensa il nulla, diciamo: non diciamo che non pensa nulla), crede di pensare che questa supericie è bianca, che Socrate è bianco, che questo è Socrate […]. E, ciò che è morto e nullo, i mortali lo intendono come un certo signiicare non nullo – il signiicare in cui consiste l’identiicazione dei non identici; il positivo signiicare del nulla.5

Che è un essente, certo… mentre non lo è, in alcun modo, l’identità dei non identici – così si esprime Severino, in Tautótēs. Ma potremmo anche citare Ritornare a Parmenide: il pensiero vive anche quando si contraddice: quando si contraddice, non si annulla. Ed eccoci al punto: il contraddirsi non è un non pensar nulla, ma è un pensare il nulla. […] Il pensiero che si contraddice guarda il nulla. Si intenda: la negazione dell’opposizione nega il proprio fondamento e quindi nega se stessa: ciò che viene effettivamente pensato, in questa negazione (che è anche autonegazione), è il nulla. E in quanto il nulla si lascia guardare, indossa la veste del positivo.6 5. E. Severino, Tautótēs, Adelphi, Milano 1995, p. 156 (corsivo mio). 6. E. Severino, Ritornare a Parmenide, in Id., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 57.

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Ma se non c’è errore, ovvero se c’è solo un errare perfettamente conforme alle leggi della verità (che cresce in modo perfettamente conforme alle leggi della verità), la verità non confuterà mai l’errore. Ma sempre e solamente il suo fantasma; un semplice fantasma dell’errore. È di quest’ultimo, cioè, che essa mostra l’autotogliersi. Sempre che il suo autotogliersi dica davvero la propria originaria conformità al “vero”. O meglio, l’errore mostra di non esserci, e lo mostra nell’atto stesso del suo autotogliersi; perciò in questo autotogliersi, a darsi, è semplicemente l’errare – fatto impropriamente valere come espressione dell’originario autotogliersi dell’errore. Il quale, in verità, in virtù del proprio autotogliersi, non dovrebbe neppure riuscire a costituirsi. Eppure, è Severino stesso ad avercelo insegnato: se il soggetto dell’autotogliersi fosse nulla, ossia, non fosse, di cosa potremmo mai dire “che si autotoglie”? Per autotogliersi, dunque, l’errore deve esserci, per quanto, appunto, come l’autotoglientesi. Ma se l’autotoglientesi “è” – perché “deve” esserci, pena il non costituirsi neppure del suo autotogliersi –, in che senso verrebbe ad autotogliersi quel che, in ogni caso, “deve esserci”, se non altro per potersi autotogliere (anche se non si sa bene in che senso il medesimo possa autotogliersi)? In che senso, cioè, si autotoglierebbe quel che comunque deve esserci? Non potendo certo costituirsi, l’autotogliersi, come un semplice annichilirsi (sempre stando al discorso testimoniato da Severino). Insomma, Severino mi ha fatto capire (e questo è quel che conta)… e proprio seguendo rigorosamente il “cosiddetto” suo

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ragionamento, che se l’errore non è, a non essere sarà anzitutto il nulla, e non qualcosa di esistente… sarà il nulla, insomma, a costituirsi come il primariamente autotoglientesi. Lasciando, per ciò stesso, del tutto inspiegato il senso di tale autotogliersi – che non può certo coincidere con l’annullarsi dell’autotoglientesi, ma con il semplice non fungere da contraddizione da parte del contraddirsi. Eccoci, dunque, alla questione decisiva: se il nulla non è (stante che esso non può essere), da cosa verrà mai determinato l’essere? Cioè, da cosa viene determinata la sua verità? Eppure tale verità altro non dice che l’esser sé di tutto; l’esser sé di un tutto che può essere se stesso solo in quanto distinguentesi da qualcosa di altro da sé. Ma, insisto, da cosa potrà mai distinguersi la verità, se l’errore, di fatto, non c’è? Forse, dunque, è proprio seguendo il discorso testimoniato dai testi di Severino che ci si trova a dover riconoscere che, da ultimo, l’unico vero errore consiste nell’erranza della verità. La quale si ritroverebbe ad errare, in quanto costituentesi proprio essa, anzitutto, come non conformantesi al proprio nomos – non avendo di là da sé nulla che possa determinarla come verità. Come verità distinta dall’errore. Insomma, Severino mi ha insegnato tutto; anzitutto mi ha insegnato – nonostante e nello stesso tempo grazie al costituirsi, da parte del cosiddetto “suo discorso”, quale testimonianza del Destino – che proprio l’errare è il senso originario della verità. Che proprio l’erranza, cioè, è l’inconscio di una verità che pur vorrebbe (vana pretesa!) distinguersi da quell’errare che è anzitutto il suo.

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Lo so… il discorso del Destino potrebbe redarguirmi, come fa Don Chisciotte con Sancho Panza, ed evocare un analogon del mago Frestone, che potrebbe esser stato proprio lui ad aver subdolamente convertito quei giganti (le contraddizioni) in mulini (in un semplice contraddirsi), per togliergli la gloria di vincerli (tale è l’inimicizia che gli tiene). Ma non è così… il “vero” “vince” su qualcosa che non si contrappone mai ad esso, proprio perché destinato a crescere secondo le sue leggi. Ad ogni modo, cari amici e care amiche, e caro Professore, chiuderei questa brevissima rilessione ponendomi (e ponendoLe) una domanda: e se fosse necessario (proprio per il suo stesso costituirsi come intrascendibile “erranza”) che – ad immagine del Chisciotte – anche il Destino (destinato, appunto, a vedere il contraddirsi come contraddizione, e a indicare il suo togliersi) non possa rinunciare, per nulla al mondo, a credere che: «alla resa dei conti, poco varranno le male arti di Frestone [cioè, le mie] contro la bontà della sua spada?».

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Un Omaggio… ininito Giulio Goggi

Ho avuto il piacere di frequentare per diversi anni Emanuele Severino, prima a Ca’ Foscari, poi al San Raffaele, dove il Professore mi ha chiamato a far parte della squadra dei suoi collaboratori per la preparazione dei seminari legati alle lezioni di Ontologia fondamentale. Di lui ho avuto modo di apprezzare l’immane vigore speculativo e la profondissima umanità, essendo egli persona squisita, umile e alta, mi verrebbe da dire, come solo i più grandi sanno essere. E il mio omaggio vuole essere poco più che questo, un grazie riconoscente alla sua igura di teoreta eccezionale, per quel contributo straordinario che, con i suoi scritti, ha saputo dare e continua a dare al pensiero ilosoico. Ma un evento di questa natura – il presente “Omaggio degli allievi” – è anche occasione per ritornare su qualche tema caro al nostro Maestro. Quel che segue è una rilessione occasionata da questo sentito ringraziamento.

1. La forma ultima del pensare Il riferimento alla persona di Emanuele Severino fa rilettere, perché è proprio la lezione di Severino a mostrare che ciò che noi chiamiamo “persona” (rationalis naturae individua

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stantia) è una di quelle cose che la volontà interpretante, e quindi la fede, crede di essere, credendo nell’esistenza di una molteplicità di “io” individuali. Ad essere contenuto della fede sono anche le opere e le azioni dell’“individuo”: lo sono nella misura in cui esse implicano la fede nell’esistenza di un “io” che ne sia l’autore. Ma poiché ogni autore – e ogni produzione – è ciò che fa passare le cose dal non essere all’essere, e poiché questo passaggio implica l’impossibile identiicazione dell’essere e del nulla (perché implica l’esistenza di un tempo in cui l’essere non è), allora qualcosa come un autore/produttore è l’assolutamente impossibile. Che vi sia un autore dello stesso linguaggio che testimonia la verità dell’essere, anche questa non è una verità incontrovertibile, ma è il contenuto di una fede: è una delle cose credute dalla fede isolante. L’isolamento della terra – ossia la fede che isola le cose che sopraggiungono dalla verità dell’essere – è la forma originaria della volontà di potenza che, rivolgendosi a sé, non si vede come fede, bensì come l’attestazione di ciò che vi è di più evidente: il divenir altro delle cose. Ma credere che vi sia un divenir altro, e che vi sia un autore/produttore che faccia divenir altro le cose, è errare: lo è non solo perché la fede è un tenere fermo come non controvertibile (come vero) ciò che è controvertibile (non vero), ma anche perché l’esistenza del divenir altro e di un autore (il contenuto di quella fede) è qualcosa di impossibile, di inesistente, implicando l’identiicazione dei non identici: «Se non si pensa che, nel risultato del divenire, qualcosa è altro da sé – A è non-A –, non si pensa né il risultato del divenire né il divenire»1. Si impone, dunque, la seguente questione: come può darsi qualcosa come l’essere persuasi di ciò che non è?

1. E. Severino, Tautótēs, Adelphi, Milano 1995, p. 15.

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L’aporia di Aristotele Era l’Anno Accademico 2000/2001 e, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Professor Severino teneva il suo ultimo corso, prima di essere collocato fuori ruolo per raggiunti limiti di età. In quell’Anno mi era stato assegnato parte del seminario di Filosoia teoretica afferente alle lezioni del Maestro. Un corso memorabile, di cui, più avanti, sarebbe uscita l’intera trascrizione per i tipi della Rizzoli2. Uno dei fuochi delle Lezioni veneziane fu lo studio analitico di quel passo del Libro IV della Metaisica dove Aristotele dimostra, una volta per tutte, che una coscienza che sia convinta, insieme, della tesi e dell’antitesi è qualcosa di inesistente. Una coscienza siffatta, persuasa cioè delle opinioni contraddittorie, è impossibile perché è impossibile che esista un essente (in sé stesso contraddittorio) cui convengano i contrari3. Il discorso di Aristotele è dirompente perché ci dice che ad essere inesistente è non solo il contenuto dell’errare, ma anche lo stesso errare. Un passaggio cruciale che costituisce, però, un’aporia perché, così diceva il Professore, se il discorso di Aristotele sta, e cioè se la follia è impossibile, tutto quanto noi abbiamo detto intorno alla follia della storia dell’Occidente non sta. Che cosa stiamo continuando a dire? Che la storia dell’Occidente è la storia del nichilismo. E che cosa è il nichilismo? È la persuasione […] che ha come contenuto il divenir altro

2. E. Severino, L’identità della follia. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2007; Id., L’identità del destino. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2009. A cura di G. Brianese, G. Goggi, I. Testoni. 3. Cfr. Aristotele, Metaisica, IV, 3, 1005 b 6-31. Per il commento analitico di questo straordinario passo aristotelico, si vedano: E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, Parte aggiunta; Id., L’identità della follia, cit., capp. 7-9; Id., Identità del destino, cit., capp. 27-29; Id., Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, Parte prima.

80 dell’essente. Ma abbiamo mostrato che è inevitabile che il divenir altro abbia come risultato l’identità del cominciamento e del risultato.4

La fede che isola la terra dalla sua verità vuole l’impossibile: crede nella contraddizione. Ebbene, fermo restando che è impossibile essere e non essere convinti della tesi, come essere e non essere convinti dell’antitesi, come può esistere la fede nel divenir altro, nell’esistenza di un autore/produttore, se tutto questo implica l’impossibile identità dei non identici? Richiamo molto schematicamente la soluzione di quella che allora Severino chiamò l’“aporia di Aristotele”: 1) innanzitutto il discorso dello Stagirita va confermato: un apparire che sia apparire della pura tesi e della pura antitesi, come entrambe affermate, è impossibile: è un che di contraddittorio, è nulla. 2) L’orizzonte ultimo, la forma/sfondo ultimo del pensare, comprensivo di ogni pensiero, non è dunque l’apparire della contraddizione, ma è quello che Severino chiama lo “sguardo del destino”, ossia l’apparire dell’incontrovertibile esser sé dell’essente in cui la contraddizione appare come incontrovertibilmente negata; ed è solo al suo interno che può farsi innanzi qualcosa come la fede che isola la terra dal destino, la fede nell’esistenza del divenir altro. 3) Il linguaggio della fede che nomina il divenir altro delle cose, la loro trasformabilità, la loro produttività, la-

4. E. Severino, L’identità de destino, cit., p. 249. Il pensiero ontologico intensiica all’estremo la follia del divenir altro implicante l’identiicazione dei non identici: «Per rendere pensabile quel divenir altro, da parte di qualcosa, che nel pensiero preontologico mostra immediatamente il proprio carattere contraddittorio, il nichilismo (cioè l’ontologia dell’Occidente) afferma che nel divenir altro il qualcosa diviene niente, ma con questa affermazione raddoppia la contraddittorietà del divenir altro – giacché il nichilismo deve non solo continuare a pensare che, nel divenir altro, qualcosa (la legna) è altro perché è un altro qualcosa positivo (cenere), ma deve pensare anche che qualcosa è altro perché è nulla (è quell’altro che è il nulla)» (E. Severino, Tautótēs, cit., p. 26). Cfr. anche, Id., L’identità della follia, cit., capp. 11-22.

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scia innominata la follia necessariamente implicata da ciò che tale linguaggio nomina: indica il divenir altro, ma non il rapporto essenziale che unisce il divenir altro alla persuasione che l’essente sia niente5. Si capisce allora in che senso è necessario dire che la fede (l’errare, la follia) esiste, ossia è un essente, eterno anch’esso come ogni essente: lo è nel senso che ad esistere è l’atto separante della fede, per il quale essa si isola da ciò che necessariamente implica e dal proprio essere negata6. Nello sguardo del destino appare la nientità del niente in cui consiste il contenuto della fede isolante, ed è precisamente in tal senso che il destino nega la propria negazione (l’errare della fede isolante): vede la nientità del contenuto che dalla negazione del destino è invece creduto (voluto) come un nonniente. Nello sguardo del destino appare dunque l’eternità di quell’essente che è la fede nella non nientità del niente, fede che, isolando/separando dal proprio contenuto l’autocontraddittorietà da esso implicata, appare a sé medesima come la più fondamentale delle evidenze. Ma poiché la fede è argomento delle cose che non appaiono7, ossia delle cose di cui non appare l’impossibilità del contraddittorio, essa è anche, e neces5. E di qui appare anche la necessità che la follia del divenir altro sia presente a sé stessa in forma rovesciata, ossia come affermazione che l’ente non è il niente e che, quando è, è certo che l’ente è: è cioè necessario che la follia della persuasione che l’ente è niente «rimanga nella latenza e nell’inconscio dell’in sé, ed appaia in forma rovesciata ed indiretta nel fenomeno del nichilismo (cioè nella coscienza che il nichilismo può avere di sé)» (E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 430). 6. Poiché neppure nell’inconscio può esistere la pura follia, la persuasione che l’ente è niente, coninata nella latenza e nell’inconscio dell’in sé, «e il cui fenomeno […] domina ormai su tutta la terra, può esistere soltanto nel suo essere già da sempre negata dalla Necessità che già da sempre sta, aperta al di là dei domini del nichilismo. Al di là: cioè come regione che dunque è l’inconscio dell’inconscio in cui l’in sé del nichilismo consiste» (E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 432). 7. Secondo la deinizione che se ne dà in Eb 11,1.

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sariamente, inseparabile dal dubbio. Nella “decisione” (che è un insieme di fedi: la fede che le cose andranno in un certo modo, che siano orientabili in un certo modo, che stia in noi il principio intelligente capace di orientarle in un certo modo…) accade che la fede si separi dal dubbio, dimenticandolo e non vedendo altro che il proprio contenuto. Se il linguaggio della fede tace dell’insicurezza della terra e della contraddizione tra la sicurezza e l’insicurezza della terra, riservando ogni sua parola per dare spessore e risalto alla terra isolata, ciò non signiica che tale contraddizione non appaia8. Si è però visto che la contraddizione può apparire solo in quanto negata (e che il negante, ultimamente, è il destino)9. Se la terra è il sopraggiungente, la terra che diciamo “isolata” – perché su di essa cade la rete della fede isolante – è il “mondo”, ossia un complesso di signi-

8. «Quando si decide, e in quanto si decide, tutti i dubbi si dissolvono. Questa nientiicazione del dubbio è appunto la sua separazione dal contenuto della fede. Ma il dubbio non diventa un niente per il fatto che esso per la fede non esiste. Il suo venire isolato consente alla fede di costituirsi, e ciò che viene chiamato “azione” è la conseguenza di questo isolamento della fede dal dubbio; ma l’azione non è la conseguenza di una fede che sia riuscita ad annientare il dubbio […], ma di una fede che convive essenzialmente col dubbio anche se vuole dimenticarlo» (E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 396). 9. In quanto isolata dal destino, la negazione della contraddizione è, a sua volta, una fede e quindi un dubitare intorno a ciò in cui essa crede, qualcosa che, per costituirsi, deve isolarsi dal dubbio. Ma non si dà un regressus in indeinitum che differirebbe all’ininito la negazione della contraddizione: non si dà tale regressus perché «la contraddizione, in cui la negazione della contraddizione consiste, appartiene alla contraddizione di cui la negazione è negazione e quindi l’insicurezza della negazione appartiene all’insicurezza della terra, che la decisione originaria decide di ignorare» (ivi, p. 479). È cioè necessario che «il dubbio dubiti anche di sé stesso nell’atto stesso in cui dubita della fede (fondandone l’esistenza), e che la negazione della contraddizione [in quanto appartenente alla terra isolata] neghi anche sé stessa nell’atto stesso in cui nega la contraddizione (fondandone l’esistenza)» (E. Severino, Storia, Gioia, Adelphi, Milano 2016, p. 113).

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icati che sono eterni essi stessi, perché eterno è anche l’errare della fede. Ognuno dei signiicati della terra isolata è dunque, in quanto negazione del destino, un positivo signiicare che ha per contenuto il nulla. E poiché il contenuto contraddittorio di ogni contraddizione è il nulla, ad essere un nulla è anche ogni contenuto contraddittorio di quelle contraddizioni che sono gli eventi della terra isolata.

La terra degli dèi Ciò che nella terra isolata è vissuto come l’evidenza più palmare – il divenir altro delle cose – è il positivo signiicare del nulla, che può apparire solo in quanto appare come negato (nel senso che si è detto). E ad essere il positivo signiicare del nulla è ogni contenuto della terra isolata, non solo perché in ciascuno di tali contenuti viene posto come essente ciò che non è (l’essente separato dalla verità del destino è niente), ma anche perché ciascuno di quei contenuti è quel certo contenuto: sono i molteplici modi in cui appare la contraddizione del divenir altro. Le cose di questo mondo, quelle più dolorose, ma anche quelle più piacevoli, le cose più care e le stesse persone, comprese quelle che più ci stanno a cuore, sono parte del “sogno” della terra isolata cui appartiene anche questo nostro sentito Omaggio al Professor Emanuele Severino. Ma se è vero che il sogno è non-verità che può apparire solo nell’orizzonte trascendentale della verità, l’apparire dell’esistenza dell’errare «appartiene alla struttura originaria del destino»10: per la verità, l’apparire della non-verità del sogno è tutt’altro che qualcosa di indifferente, è una necessità. Inoltre, la fede isolante è tale nella misura in cui essa esercita la propria vis separante su un contenuto che, da ultimo, non può essere a sua volta fede (essendo appunto

10. E. Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Milano 2018, p. 252.

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ciò su cui viene gettata la rete dell’isolamento). Ciò signiica che, al di là delle determinazioni che nella terra isolata vengono pensate come il “mio” esser uomo e l’“altrui” essere uomo, sta quella che Severino ha chiamato, “la terra degli dèi”, per cui si può dire che noi siamo “dèi” che si credono “mortali”11. Più in generale: ad ogni tratto della terra isolata, dai più grandi eventi della storia mondiale ino a quelli più circoscritti e più “personali” come l’Omaggio al Maestro, corrisponde un tratto della terra non isolata dal destino, per quanto attualmente contrastata dalla fede isolante, «una sapienza nascosta» nella terra degli dèi, qualcosa che è «interamente da decifrare da parte del linguaggio che nel cerchio originario testimonia il destino»12, ma che intanto è necessario affermare che sia e che appaia. Ma poi l’essenza dell’uomo è qualcosa di ben più profondo della “terra degli dèi”, poiché noi siamo l’eterna manifestazione del destino della verità nella quale appare la necessità che a tramontare sia lo stesso isolamento della terra, salvando così la “terra degli dèi” dal contrasto con la fede isolante. Su questi recenti sviluppi del discorso vorrei fermare adesso l’attenzione.

2. Una sinfonia ininita Frequentavo le lezioni del Professore, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, e la principale questione che

11. Cfr. E. Severino, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011, cap. VIII, pp. 330 ss. Si badi: che vi sia un “noi” e un intreccio di “sguardi del destino” non è affatto qualcosa che risulti da una semplice ricognizione fenomenologica. L’esistenza di una molteplicità (ininita) di “cerchi dell’apparire” è una delle più notevoli implicazioni della “Gloria”, cui farò cenno nel seguito del presente contributo. 12. E. Severino, La morte e la terra, cit., pp. 333-334.

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allora rimaneva ancora aperta era la domanda formulata nelle pagine conclusive di Destino della necessità: «Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, e destinata a percorrere? È destinata alla solitudine [e cioè all’isolamento] o all’oltrepassamento della solitudine?»13. Tra gli allievi, nessuno dubitava che la risposta, prima o poi, sarebbe giunta; era solo questione… di tempo. E quel memorabile ultimo corso del 2000/2001 confermò questo presentimento: allusioni alla soluzione del problema stavano tra le righe. Di lì a qualche mese venne dato alle stampe La Gloria, dove si dimostra che la terra «è destinata a percorrere il sentiero in cui resta dispiegata all’ininito la manifestazione eterna dell’eterno e che lungo questo sentiero appare anche l’oltrepassamento deinitivo della solitudine della terra»14. Vale la pena di ripercorrere, per grandi linee, questo tratto del “destino” che è il vertice della speculazione del Maestro.

La Gloria dell’essente [I] Il destino della verità è l’apparire di ciò senza di cui nulla può apparire, neppure la persuasione (la fede) nel divenir altro, ed è precisamente per questa ragione che il destino è fondamento dell’apparire dell’errare e non viceversa. D’altra parte, stante l’eternità del Tutto, se anche un solo sospiro non fosse, nulla sarebbe, e ciò signiica che, senza l’apparire di quel non-niente che è l’errare (il positivo signiicare del nulla), nulla sarebbe. In altri termini, l’idea che si possa fare a meno della negazione della verità (e quindi della negazione) è una grande illusione: è, essa stessa, una negazione dell’incontrovertibile esser sé dell’essente. Gli scritti di Emanuele Severino indicano,

13. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 597. 14. E. Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 2001, p. 26.

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appunto, questo legame essenziale tra la verità e l’errare. E poiché la verità appare tanto più concretamente quanto più concretamente appare l’errare, che dalla verità è originariamente oltrepassato, è necessario che ad apparire sia la forma più estrema dell’errare, ossia l’isolamento dei sopraggiungenti dal destino, il che implica la necessità dell’accadere degli essenti, il loro apparire e scomparire. La fede nel divenir altro non è, dunque, un errare che l’uomo avrebbe potuto fare a meno di compiere: non è qualcosa che l’uomo, se avesse prestato maggiore attenzione al dettato del lógos, avrebbe potuto evitare, ma è, invece, un errare inevitabile. Ma la solitudine della terra – e quindi la contraddizione tra la verità e l’errore dell’isolamento – è destinata alla compiutezza del tramonto. È appena il caso di ricordare che qui abbiamo a che fare con un gigante del pensiero: ciò che allievi, e non, hanno da sempre ammirato in questo Maestro è il rigore assoluto nelle sequenze argomentative. In effetti, lo speciico di quelli che chiamiamo gli scritti di Emanuele Severino è che nessuna delle tesi ivi contenute sono riconducibili al campo della “razionalità” cui fanno appello, secondo speciiche movenze, le scienze storiche, quelle isicomatematiche, il senso comune: non siamo nell’ambito della ragionevolezza, né in quello di una logica ipotetico-deduttiva, o della credibilità/afidabilità, bensì in quello originario della necessità autentica. Le tesi che vi si incontrano sono espressione della struttura originaria o sue implicazioni: sono cioè appartenenze di quella struttura su cui si fonda ogni altro pensiero, compresa la sua negazione la quale dunque, fondandosi su ciò che essa nega, nega sé stessa. La più notevole delle implicazioni è quella che Severino ha deinito “implicazione aurea”, ed è l’affermazione della eternità dell’essente. Ma vi è un’altra implicazione fondamentale alla quale estenderei il timbro della “auricità” per il suo carattere luminoso: è l’affermazione della Gloria dell’essente e cioè la necessità che il sopraggiungere degli eterni, nell’eterno cerchio inito dell’apparire, si distenda

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in indeinitum. La si può richiamare così: la verità dell’essere è il predicato essenziale di ogni essente, «non nel senso che l’ente stia al di fuori della verità dell’essere, ma nel senso che questa e la stessa predicazione, ossia la stessa unità veritativa dell’ente e del suo predicato, dove il soggetto non vive altrove che in questa sua unita al predicato. La verità dell’essere […] è pertanto lo sfondo di ogni apparire, o dell’apparire in quanto tale»15. Ebbene, un sopraggiungente inoltrepassabile sarebbe qualcosa che incomincia ad essere unito necessariamente allo “sfondo di ogni apparire”. Ma, poiché è impossibile che un’unione necessaria incominci ad essere (e che si dia un tempo in cui un’unione necessaria non è), è impossibile che il procedere degli eventi si arresti dinanzi ad una qualsiasi conigurazione che la terra, via via, va mostrando: il sopraggiungere degli essenti è cioè destinato a dispiegarsi all’ininito e ciò implica anche che un numero ininito di essenti sia destinato a non sopraggiungere. [II] Le implicazioni del teorema fondamentale della Gloria sono di straordinaria rilevanza teoretica. 1) Se consideriamo che anche l’isolamento della terra (l’irrompere della fede separante) è un sopraggiungente, giacché la terra stessa è un sopraggiungente, segue che anche l’isolamento della terra è destinato ad essere oltrepassato da una molteplicità ininita di dimensioni dell’essente oltrepassanti la terra isolata. In effetti, la «terra che salva» dall’isolamento è, essa stessa, un sopraggiungente destinato, quindi, ad essere conservato come oltrepassato e ininitamente oltrepassato. 2) Inoltre, poiché anche l’attualità del sopraggiungente è un sopraggiungente, si dovrà pensare ad un necessario oltrepassamento della stessa attualità del sopraggiungente, oltrepassamento che non può essere che

15. E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo, in Id., Essenza del nichilismo, cit., p. 214.

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l’incominciare ad apparire secondo un’attualità dell’apparire differente da quella originaria, ossia secondo un’attualità che sopraggiunge in un cerchio dell’apparire che è altro da quello originario. La terra è destinata ad inoltrarsi in un primo cerchio, poi in un secondo, in un terzo e così via: ininiti sono quindi i cerchi dell’apparire e ininito è il dispiegamento cui ciascuno di essi è destinato. E poiché ogni essente è eterno, ogni essente che sopraggiunge è già, prima ancora del suo sopraggiungere, sicché è necessario che il dispiegamento ininito della terra nella «costellazione ininita dei cerchi initi dell’apparire del destino»16 sia già da sempre incluso nella totalità dell’essente, ossia nell’apparire ininito dove ciascun essente appare nella sua relazione concreta a ciascun altro essente e alla totalità degli essenti. Ad esservi da sempre incluso è dunque anche l’eterno e concreto oltrepassamento della terra isolata. E poiché la concretezza dell’oltrepassamento implica che siano concretamente decifrate le tracce che il Tutto lascia nella terra isolata e che la terra isolata lascia nel Tutto17, ciò che è destinato a sopraggiungere, con l’oltrepassamento dell’isolamento, è quella forma di salvezza che è la stessa ininita concretezza del Tutto «il quale ‘si limita’ nell’atto stesso in cui invade il inito»18, e al quale è necessario che facciano seguito ininite e sempre più ampie manifestazioni del Tutto, perché ciascuna di esse sta in relazione non solo con la terra isolata, ma anche, di volta in volta, con ciascuno degli eterni che sopraggiungono

16. E. Severino, La Gloria, cit., p. 167. 17. Poiché ogni essente è eterno, ogni essente è necessariamente relato ad ogni altro essente, e ciò signiica che in ogni essente è in qualche modo presente l’altro. Questa presenza è la traccia (come dirò meglio nel prossimo paragrafo) che ogni essente lascia in ogni altro essente. 18. E. Severino, Storia, Gioia, cit., p. 163.

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a partire dall’avvento della “terra che salva”19: un’ininità di forme diverse di salvezza20.

Il rilesso ininito delle tracce [I] L’immagine che in dalla prima lettura dei testi del ciclo della Gloria21 mi si è fatta innanzi è quella di una sinfonia ininta: uno sviluppo organico e armonioso di più suoni e di voci (la compagine orchestrale) che sono ininiti e che si distendono all’ininito; dove ciascuno di essi, essendo un eterno, sta in relazione necessaria con ciascun altro e col Tutto, e dove la regia (la direzione orchestrale) è tenuta dal “Tutto assolutamente 19. Posto che la Gioia è l’apparire ininito in cui ogni contraddizione del inito è risolta, noi siamo destinati «ad accogliere nella luce dell’apparire la Gloria della Gioia, ossia ciò che in verità noi siamo all’interno del nostro essere l’inesauribilità della Gioia – che per essere inesauribile è necessario che sottragga la propria luce, che è la più luminosa, alle ininite luci che all’ininito la illuminano» (E. Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, p. 561). 20. La “terra che salva” non è una dimensione omogenea, ma è data da una molteplicità ininita di forme diverse di salvezza: «La terra che salva dall’isolamento della terra è […] necessariamente [giacché è essa stessa un sopraggiungente] oltrepassata da una diversa forma di salvezza: quella che salva all’ininito dalla contraddizione che avvolge il inito dopo che il inito è stato salvato dalla contraddizione della terra isolata» (E. Severino, Dike, Adelphi, Milano 2015, p. 293). Il inito è contraddizione perché in esso non appare concretamente la totalità delle relazioni che esso intrattiene con la totalità (ininita) degli essenti. Una contraddizione, quella che avvolge il inito, il cui oltrepassamento «è un cammino ininito, un indeinito allargarsi del cerchio inito – sì che la contraddizione del inito, in quanto inito, permane all’ininito nel suo esser oltrepassata all’ininito» (E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., p. 89), essendo peraltro da sempre e compiutamente oltrepassata nell’apparire ininito del Tutto. 21. Per “ciclo della Gloria” intendo il trittico: Gloria (cit.) – Oltrepassare (cit.) – La morte e la terra (cit.) e gli sviluppi delle opere più recenti: E. Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013; Dike (cit.); Storia, Gioia (cit.).

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assoluto”, ossia dall’apparire ininito e non sopraggiungente in cui dimora da sempre la totalità del positivo, in sé contenente e ininitamente oltrepassante questa ininità di dispiegamenti ininiti. In forza della relazione necessaria tra gli essenti, si dirà allora che è impossibile che X sia ed appaia indipendentemente da Y, da Z… e dalla totalità di ciò che è altro da X, e che tale impossibilità è la necessità che ciò che è altro da X sia in qualche modo “presente” in X, essendo altresì necessario che X sia “in qualche modo” presente in ciò che è altro da X. È il tema delle “tracce” che Severino ha sviluppato a partire da La Gloria e al quale è opportuno fare un breve cenno per render conto di come questa necessaria presenza sinfonica di tutto in tutto non sia affatto contraddittoria. Che in ciascun essente sia originariamente presente ogni altro essente è possibile nella misura in cui: 1) la presenza di X, nell’altro da X, non sia X nella sua concreta determinatezza: è cioè necessario che «un qualsiasi essente X – nella e quanto alla sua concreta determinatezza – sia nulla in un qualsiasi altro essente Y, e che la concreta determinatezza di Y (cioè di ogni altro essente) sia nulla in X. La concreta determinatezza di X è, in Y, nulla. […] Ossia è necessario che qualcosa di X sia nulla in Y e viceversa: altrimenti X sarebbe Y»22; 2) X sia incluso e quindi sia presente in Y «nel senso che in Y è presente la forma astratta di X» che «non è separata dalla concretezza di X […]; anzi è il ‘rappresentante’, il ‘portavoce’ di tale concretezza»23; 3) l’altro, che in Y è incluso come “aspetto inito” e cioè come “traccia”, appartenga come negato al proprio altro: «Che cioè X, in quanto traccia di X, sia in Y non è qualcosa di contraddittorio solo in quanto vi è presente come negato»24. La “forma astratta” di X è dunque

22. E. Severino, Dike, cit., p. 142. 23. E. Severino, Storia, Gioia, cit., p. 181. 24. E. Severino, Dike, cit., p. 144.

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parte di quel tutto che è Y. Lo stesso Severino ricapitola e precisa ulteriormente così: Che X in quanto X sia presente, in Y, come negato signiica […] che X in quanto X, in Y, è nulla; ma che la forma astratta di X sia presente, in Y, come negata non signiica che, in Y, essa sia nulla, ma che Y è, in sé stesso, la negazione di essa, che è a sua volta un essente. Ciò signiica che, stante l’appartenenza della forma astratta di X a Y, la negazione di tale forma (il non esser identico a tale forma) non è propria di Y in quanto Y, ma di quella parte di Y che, appunto, non è tale forma (o è propria di Y in quanto includente tale parte): è quella parte concreta di Y che, essendo sé stessa, è la negazione di tutto ciò che in Y è la forma astratta di tutto ciò che non è Y. La forma astratta è la parte astratta di Y. È per la sua parte concreta che Y è Y. Se questa parte concreta non esistesse non sarebbe Y a esistere, ma la forma astratta di tutto ciò che non è Y.25

È allora necessario che ogni essente includa, in modo speciico (e nel senso detto) la totalità degli altri essenti. La include in modo speciico, anche perché la relazione dell’essente X al Tutto è diversa dalla relazione dell’essente Y o dell’essente Z al Tutto. Inoltre, poiché ad essere un essente è anche l’apparire dell’essente, è necessario che anche l’apparire di ogni essente includa in sé un aspetto inito (una traccia) di ogni altro essente e cioè ne sia l’apparire. In tutte le cose si rilette, dunque, come in uno specchio, il Tutto, ma secondo speciiche modalità. E «come il tutto include come negata la forma astratta della parte [nella misura in cui la parte, che pure esiste nel Tutto, non è il Tutto], anche la parte include, come negata, la forma astratta del tutto»26. Sarà allora necessario affermare che, in ciascuno degli essenti, e quindi anche nell’apparire di questo “Omaggio

25. E. Severino, Storia, Gioia, cit., pp. 189-190. 26. E. Severino, Dike, cit., p. 146.

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degli allievi”, è presente la forma astratta (la traccia) del Tutto e dell’ininito dispiegamento della Gloria cui siamo destinati. [II] Lo “sfondo di ogni apparire” è ciò che è necessario che appaia afinché un qualsiasi essente possa apparire; si tratta (come già detto) del predicato essenziale di ogni essente, ossia dell’apparire dell’esser sé dell’essente (ciò la cui negazione è autonegazione) e delle sue implicazioni. A partire da La struttura originaria, Severino ha chiamato questo orizzonte semanticosintattico, “campo persintattico”, distinguendolo dalle determinazioni “iposintattiche” che sono gli essenti “empirici” (ad esempio questo nostro sopraggiungente Omaggio al Maestro). Ebbene, il tema della “presenza” di ogni essente in ogni altro essente trova applicazione anche nel contesto del rapporto tra le determinazioni iposintattiche e le determinazioni persintattiche, sia pure in modo speciico: si dovrà infatti riconoscere che «la traccia dell’iposintassi nella persintassi [è] la presenza, in quest’ultima, della forma astratta dell’iposintassi; e che la traccia della persintassi nell’iposintassi [è] invece l’individuazione, in quest’ultima, della persintassi»27. Rispetto alla determinazione persintattica fondamentale (l’esser sé dell’essente) le sue implicazioni (come ad esempio l’eternità dell’essente e la gloria dell’essente) sono tratti della sua concretezza: «Per esser presenti in tale esser sé, esse [ossia le altre determinazioni persintattiche] non hanno quindi bisogno di una traccia che le rappresenti e ne sia la forma astratta», ma ciascuna di esse è un concretarsi dell’esser sé dell’essente (il suo esser già da sempre così concretato), e ciò signiica anche «che ogni determinazione persintattica è un concretarsi di ogni altra determinazione persintattica»28. Inine, il campo persintattico è esso stesso ininito, non solo perché sta in relazione al glorioso svolgimento

27. E. Severino, Storia, Gioia, cit., p. 186. 28. Ivi, p. 187.

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ininito della terra, ma anche perché sono ininite le tracce delle determinazioni iposintattiche del Tutto già da sempre presenti nella persintassi, con la seguente proprietà: «nella totalità della persintassi della verità le tracce del Tutto sono determinazioni persintattiche anche quando sono tracce di determinazioni iposintattiche»29. In quanto originaria manifestazione della verità dell’essere noi siamo dunque, da sempre, l’apparire di questo orizzonte ininito.

Il “merito”, il “compito” Il merito del Professor Severino sta nell’aver incominciato a portare nel linguaggio qualche tratto essenziale di quella verità incontrovertibile che è (come s’è visto) un complesso di signiicati e di implicazioni ininito: la sintassi del destino. Affacciati da sempre su questa pianura ininita della verità, il compito di noi allievi – dove il tema del merito e del compito va inserito nel rapporto tra verità ed errare cui ho fatto cenno: solo all’interno di quell’eterno che è la fede nel divenir altro si può pensare in termini di merito e di compito – è di riuscire a portare nella parola (se è destino che ciò accada) qualche ulteriore tratto o implicazione di quella verità incontrovertibile che peraltro, da sempre e per sempre, appare insieme alla totalità ininita delle sue relazioni.

3. Una nota “personale” Alla luce del pensiero del Maestro, mi sono applicato dapprima alla metaisica classica, poi al pensiero italiano dell’Ottocento e del Novecento, passando per Gentile e Bontadini. Lo studio di autori quali Tommaso e Rosmini mi ha consentito di sconinare

29. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 529.

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un po’ sul versante teologico. Sul piano teoretico ho tentato qualche colpo di sonda sul terreno della struttura originaria nella sua valenza logica e fenomenologica. Sfogliando il mio curriculum, si potrebbe dunque dire che i miei contributi sono, in qualche modo, dei libri ex libris e cioè che escono fuori, tutti, dai testi di Severino e, in modo particolare, da quel testo fondamentale che è La struttura originaria. Al che replico così: innanzitutto mi chiedo che cosa sarebbe il pensiero ilosoico italiano (per lo meno da cinquant’anni a questa parte) senza i cosiddetti scritti di Emanuele Severino. E rispondo: poco o nulla! Dopodiché, ricordo le parole dell’altissimo poeta, Virgilio, il quale, a coloro che gli contestavano di aver attinto a piene mani da Omero, poeta sovrano, rispondeva così: «Perché non provate anche voi gli stessi furti? Capireste che è più facile togliere la clava ad Ercole, anziché un verso ad Omero»30. Mutatis mutandis, e sostituendo il principe della forza (l’olimpico Ercole, iglio di Zeus) col dio del tuono della mitologia norrena (l’asgardiano Thor, iglio di Odino), posso assicurare che è più facile sollevare il martello di Thor, anziché togliere un solo paragrafo dal contesto degli scritti di Emanuele Severino.

30. Vita Virgilii secundum Donatum.

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La luce dell’essere sul divenire delle cose e l’agire umano Leonardo Messinese

Il mio personale rapporto con il pensiero di Emanuele Severino è nato sui banchi dell’università. Non avendo però di fronte a me, seduto in cattedra, il Maestro. Il primo contatto nacque ascoltando il mio docente di metaisica, mons. Giorgio Giannini, all’Università del Laterano, che ha sede in Roma. Fui subito molto incuriosito e, ancor più, letteralmente affascinato, sentendo parlare in alcune di tali lezioni della disputa sull’“essere” e il “divenire” che vedeva protagonisti Severino e il suo affezionato maestro Gustavo Bontadini. Pur essendosi sostanzialmente conclusa quanto all’essenziale – si era attorno alla metà degli anni Settanta e i due interlocutori erano, oramai, assestati nelle loro rispettive posizioni – quella disputa, ai miei occhi di giovane studente, conservava ancora intatta la sua importanza “speculativa”. E per me fu come una folgorazione. Lessi e rilessi avidamente i primi e, tutto sommato, anche i principali documenti della discussione: Ritornare a Parmenide di Emanuele Severino e Sózein tà phainómena. A Emanuele Severino, di Gustavo Bontadini. Se ino ad allora, guardando alle cose della vita, cercavo di comprenderne il senso privilegiando l’orizzonte della “storia”, incominciai a pormi la questione di comprendere l’accadere di quelle stesse cose e l’agire storico dell’uomo alla luce dell’“immutabilità dell’essere”.

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Sin da quegli anni, perciò, pur continuando a frequentare il mio Ateneo romano, mi iscrissi idealmente anche all’Università Cattolica di Milano, dove Bontadini stava terminando il suo insegnamento in qualità di professore emerito, e a quella di Venezia, dove com’è noto era approdato Severino dopo aver lasciato la sua docenza in Cattolica. Allorquando dovetti decidere che cosa approfondire per il mio Dottorato in Filosoia, fu così per me naturale scegliere di occuparmi del pensiero di Severino e di venire più in chiaro della celebre disputa. Giunto a questo punto, però, devo introdurre un altro protagonista della vicenda che sto narrando. Il mio relatore di tesi, nonché mio mentore in dai primi anni universitari, il professor Aniceto Molinaro, fu d’accordo riguardo all’idea di fondo del mio progetto. Egli riteneva, tuttavia, che non avrei dovuto procedere nel mio studio limitandomi sostanzialmente agli scritti raccolti in Essenza del nichilismo, secondo quanto io mi ero, invece, immaginato di dover fare. Avrei dovuto andare ancora più a fondo nella mia ricerca, pur se doveva restare sempre centrale la questione circa la verità dell’essere di ogni ente che Severino aveva posto con il suo Ritornare a Parmenide. E, perciò, avrei dovuto studiare l’opera che – mi disse – era da ritenersi non solo quella fondamentale, ma anche la più dificile da affrontare: La struttura originaria. Chi ne abbia una qualche notizia, può rendersi conto del fatto che non mi aspettava di certo un’impresa facile. E, in effetti, all’epoca mancava uno studio dedicato speciicamente alla suddetta opera. Del resto, parlandone con Severino, mons. Francesco Olgiati aveva esclamato profeticamente: «Professore, abbia pazienza, saranno pochi a capire questo libro!». Che cosa fare, a quel punto? Ero come dinanzi a un bivio e ciò che mi si prospettava era: “prendere o lasciare”. In realtà, il mio mentore non mi disse proprio così, ma il senso delle sue parole era sostanzialmente quello. Decisi di sacriicarmi alla

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“buona causa” e di vestire, perciò, i panni del pioniere. E, in questo, non mi riferisco solamente allo studio di quell’opera. Passai un intero anno letteralmente sprofondato nella lettura del testo, al solo scopo di cercare di entrare innanzitutto nel signiicato complessivo dell’opera la quale, oltretutto, era scritta in un linguaggio ch’era per me alquanto ostico, così diverso da quello a cui mi ero andato abituando attraverso la mia precedente frequentazione di Essenza del nichilismo. Tuttavia non volevo demordere e feci bene, perché la dificoltà da superare fu molto formativa sotto vari aspetti. E ha dato sicuramente i suoi frutti. Il mio primo contatto diretto con il professor Severino avvenne con una telefonata, alla quale in breve tempo ne seguirono alcune altre. Ero favorevolmente stupito del fatto che egli fosse così cordiale con un giovane studente che, oltretutto, per lui era ancora poco più di uno sconosciuto. In seguito ci fu anche qualche scambio epistolare e questa cosa mi rese ancora più felice, anche se c’era un altro scoglio da superare: era dificilissimo interpretare i caratteri della scrittura a mano del professore. Più avanti nel tempo, ebbi inalmente modo d’incontrare Severino di persona e di discutere con lui della tesi che mi apprestavo a terminare. Ricordo molto bene, in particolare, l’appuntamento che egli mi dette a San Sebastiano, allora sede della Facoltà di Filosoia dell’Università di Venezia, e di un’audiocassetta in cui era incisa la Quarta Sinfonia di Mendelssohn che dovetti sacriicare per registrare almeno alcuni momenti della conversazione con il professore. In quel periodo ebbi pure modo di leggere, addirittura in anteprima, la lunga «Introduzione» da lui preparata per la nuova edizione de La struttura originaria. Da allora, poi, quanti incontri seguirono! Essi dapprima ebbero luogo a Roma, dove c’incontravamo in occasione di alcuni Convegni ilosoici, tra cui ricordo con particolare piacere quello dedicato al pensiero di Ugo Spirito, svoltosi nell’ottobre del 1987 presso la sede dell’Enciclopedia Italiana. Un’altra volta

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si trattò di una manifestazione culturale per un pubblico più vasto, che ebbe come sede il Teatro Eliseo. Molto di più, però, questi incontri avvenivano, e avvengono, a Brescia, a casa del professore, circondati da una serie di ordinate librerie e con un pianoforte a coda la cui vista mi è particolarmente gradita, stante il mio grande amore per la musica. Che privilegio quelle lunghe e amabili conversazioni… Insomma, posso senz’altro dire che da circa trentacinque anni a questa parte il professor Severino mi onora della sua amicizia ilosoica e umana. Per concludere queste annotazioni sul ilo della memoria, mi sembra opportuno non far passare sotto silenzio che, all’epoca, a un certo punto riuscii ad incontrare in un paio di occasioni anche Gustavo Bontadini. Era oramai avanti negli anni, ma non aveva perso la sua proverbiale giovialità ed era sempre lucidissimo nel suo eloquio, come pure intransigente in modo ferreo nell’esigere ben fondate “argomentazioni”. Naturalmente, in entrambe le occasioni, buona parte della conversazione non poteva che vertere sulla celebre disputa tra lui e Severino, anche perché – si era nel 1985 – gli avevo fatto pervenire un mio scritto in cui intervenivo riguardo a quello che, poi, restò l’ultimo episodio della discussione tra queste due grandi menti speculative, augurandomi che potesse esser pubblicato sulla «Rivista di ilosoia neoscolastica». Cosa che, in effetti, avvenne in quello stesso anno. Letto a distanza di tempo, il titolo di quel mio breve scritto potrebbe risultare, involontariamente, ironico: Per far continuare un dialogo. Ora, però, devo tornare in modo più speciico al mio rapporto con il pensiero di Severino e ai temi che ho maggiormente frequentato e, poi, anche discusso con il Maestro. Il tema della “verità” e innanzitutto di quale sia il suo contenuto essenziale, unitamente al tema del valore che possiede la

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nifestazione di tale contenuto, stanno indubbiamente al centro del pensiero di Severino. Il contenuto essenziale dice dell’“eternità” di ogni cosa – un’eternità, tuttavia, che non signiica il permanere nell’apparire delle singole cose, ovvero la negazione di un divenire quanto a ciò che appare, quasi che le “variazioni” che l’esperienza mostra siano illusorie. Tale contenuto essenziale esprime, piuttosto, la verità di ordine “metaisico” circa le cose, quella cioè che si riferisce al loro essere rispettivo e su cui, peraltro, non si deve chiedere alla dimensione dell’“apparire” (delle cose) che sia essa a dover pronunciare parola. Il valore di quest’affermazione essenziale sta nella sua incontrovertibilità, il cui lineamento concreto, ovviamente, qui non può essere preso in considerazione neppure alla lontana, sebbene poi sia proprio la dimensione dell’incontrovertibile a prendere spicco nella “testimonianza della verità” offerta dagli scritti di Severino. Nel momento in cui tale duplice aspetto della verità è giunto a implicare, per Severino, una critica radicale della metaisica inaugurata dal pensiero greco, come pura di ogni forma di fede, inclusa quella cristiana, il ilosofo bresciano ha messo in luce una serie di temi che hanno dato via via una concretezza ulteriore sia alla pars destruens, sia alla pars construens della testimonianza della verità dell’essere. In particolare, la vita dell’uomo sulla terra è apparsa come segnata da una serie di alienazioni la cui radice è di carattere strutturale e non meramente “storico” – come se esse dipendessero unicamente, ad esempio, dall’evento storico costituito dal suddetto pensiero metaisico, che distingue l’essere in due regioni, quella dell’immutabile e quella dell’essere diveniente. La forma radicale dell’alienazione avrà termine con la morte e cioè con l’ingresso, per l’essere umano, nella sua “vera vita”. In virtù di tale svolgimento, in Severino la testimonianza della verità dell’essere e dell’essente si è fatta, da ultimo, anche

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nianza del “destino escatologico dell’uomo”, per quanto esso si collochi al di fuori dell’ambito della fede cristiana. Dopo la mia tesi di Dottorato ho continuato a dialogare, e a più riprese, con molti degli elementi di pensiero che ora ho dovuto presentare in una forma estremamente sintetica. Mi piace ricordare, qui, i volumi L’apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino sulla “struttura originaria” del sapere (Mimesis, Milano 2008); Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino (Edizioni ETS, Pisa 2010); Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa e la ilosoia (edizioni Dedalo, Bari 2013). In tale dialogo ho privilegiato il tema della verità relativa all’essere degli essenti e quello inerente all’incontrovertibilità presente nella testimonianza di tale verità. Nello stesso tempo, ho cercato di porre alcuni interrogativi sulle conseguenze di ordine teoretico e anche in ordine alla prassi che Severino ne ha tratto, nel momento in cui egli è venuto a criticare, dopo la metaisica, pure le varie forme di antropologia e di etica presenti nella storia del pensiero ilosoico. Sono due, in particolare, le questioni principali che ho inteso rivolgere al Maestro. La prima questione riguarda la tesi di un’incompatibilità, o meno, tra la testimonianza della verità originaria dell’essere degli essenti e l’affermazione di una relazione dell’ambito di apparizione degli essenti – ovvero della totalità mondana – con ciò che nel linguaggio religioso è chiamato Dio. Le conclusioni a cui sono giunto in merito a tale questione, possono essere così sommariamente indicate. La “sintesi teoretica”, che è tale in relazione ai due ambiti della struttura originaria di immediatezza fenomenologica e immediatezza logica, e che afferma Dio quale “Creatore del diveniente”, consente di comprendere speculativamente il “negativo” che concerne gli enti in quanto appare che essi divengono – beninteso, divengono nel senso del loro “apparire processuale” – e del

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le si sa originariamente, in forza del Principio di Parmenide, che esso non può dipendere da un incremento (o decremento) dell’essere in senso assoluto. Alla luce di tale struttura teoretica, propriamente parlando, la qualiica di “di-veniente” per ciò che entra nell’apparire e ne esce (ossia il “venire-da” degli essenti) non appare in sede di fenomenologia, ma in sede di speculazione metaisica. La seconda questione concerne la tesi di una netta dicotomia tra la “dimensione dell’incontrovertibile” e ogni modalità conoscitiva che non possieda una forza altrettanto granitica di affermare il proprio valore – ad esempio il conoscere interpretativo, la fede religiosa – ma anche di una netta opposizione tra lo “stare” di ogni relazione tra gli essenti, ch’è affermato in nome della verità dell’essere, e l’agire morale e tecnico dell’uomo con i quali, movendo da valori diversi, si ritiene di poter modiicare il legame eterno che tiene unite le cose. In tal modo ho cercato di ripresentare, in primo luogo, un pensiero ilosoico della trascendenza, avvalendomi per questo anche di non pochi elementi dell’ontologia severiniana. Un tratto importante degli scritti che ho sopra ricordato è costituito dall’aver ricondotto la questione circa l’essere dell’essente nel suo alveo naturale, avendo fatto chiarezza riguardo alla cosiddetta “aporia del divenire” in relazione alla quale prendeva la sua forma speciica la metaisica storica. In secondo luogo, ho avuto modo di mettere in evidenza una dimensione di verità che ho chiamato “verità inita” non in un senso generico, ma come un terzo ambito che deve essere distinto da quello dell’incontrovertibile e da quello dell’errore. Questo secondo esito è quello che è venuto ad emergere più di recente, svolgendo in un libro intitolato Verità inita. Sulla forma originaria dell’umano (Edizioni ETS, Pisa 2017), la tesi di come l’attuarsi teoretico e pratico dell’uomo, ch’è inerente alla sua essenza di “coscienza inita” dell’essere, non sia in quanto tale espressione

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dell’“isolamento dalla verità”. All’esistenza umana, così a me pare, può essere così riconosciuto il suo speciico “essere nella verità”. Si è trattato, e continua ad esserlo, di un dialogo che ha visto Severino sempre molto attento e partecipe, seppure in cordiale disaccordo con una prospettiva di lettura del suo pensiero che, pur mettendo in evidenza gli elementi di novità rispetto alla prima fase della sua speculazione, ha inteso privilegiare e ha cercato di tenere in vita un rapporto di maggiore unità con le sue radici ilosoiche e anche con quelle più speciicamente religiose e, anzi, cristiane. In ogni caso, al di là della valutazione che può essere data circa la mia lettura del pensiero severiniano, come pure in merito alla discussione che ho intrattenuto con esso, devo sottolineare una cosa. La considerazione che avevo fatto agli esordi di questo mio oramai non breve dialogo con il Maestro, e cioè che nonostante tutto i maggiori e più decisivi interlocutori di Severino restino quelli che erano stati alla base della sua formazione ilosoica, col tempo si è di certo meglio precisata – prendendo in considerazione anche gli interlocutori successivi, onde evitare ogni elemento di unilateralità – ma si è pure sostanzialmente confermata. E del resto, non era stato lo stesso Severino, in occasione di uno degli ultimi “dialoghi” con Gustavo Bontadini, a mettere in guardia i suoi lettori, afinché non accadesse che essi, guardando a tale discussione in modo supericiale, prendessero l’abbaglio di credere che i due ilosoi s’intendessero meglio con dei personali uditori e non, invece, proprio tra di loro? Allargando ulteriormente un tale discorso, in modo da includervi gli inizi del pensiero ilosoico occidentale ma anche il suo futuro, e per pronunciare una parola conclusiva circa il senso di fondo della mia testimonianza, direi perciò questo. Se

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vito di Severino a “ritornare a Parmenide”, giustamente, non dev’essere inteso come un’espressione di “neoparmenidismo”, in ultima analisi una riproposta del passato, allora è proprio esso indirettamente a suggerire al pensiero di compiere un passo ulteriore. Verso dove? Ebbene, il cammino di pensiero dovrà condurci nuovamente a Platone: per porci dinanzi al fondatore della civiltà occidentale e prestare grande attenzione al suo maggior problema, ch’era pur stato quello di non lasciare la “terra degli uomini” al di fuori della “verità dell’essere”. Ma, ancora una volta, non per proporre un diverso passato, quanto piuttosto per guardare a quel problema con occhi nuovi e per riconsiderare il senso autentico del nostro “abitare” l’inoltrarsi della terra nell’apparire. Detta la cosa in altri termini, si tratterebbe per noi di ritornare al “bivio” di Parmenide non solo per le ragioni indicate magistralmente da Severino e, cioè, per oltrepassarlo in modo diverso da come sia stato oltrepassato “storicamente”, innanzitutto da parte di Platone. Si dovrebbe tornare a quel bivio anche per cogliere l’elemento di verità racchiuso nella soluzione ch’è offerta dallo stesso Platone riguardo all’“apparire del mondo” e procedere ancora più avanti. In modo tale che si vada oltre Parmenide, ma non contro Parmenide. Stando, così, al cospetto della “verità dell’essere” più rigorosamente – sia detto “cum timore et tremore” – di quanto sia accaduto al sommo autore della Repubblica.

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Al Maestro Severino Federico Perelda

Con questo contributo vorrei spiegare in che senso Severino sia stato e sia tuttora per me un Maestro. Nel chiamarlo così, non mi riferisco primariamente alla sua statura di ilosofo: non c’è spazio, qui, per un intervento di carattere scientiico, per esaminare qualcuna delle sue tesi fondamentali – anche se la tentazione di farlo è forte, poiché la stima che si ha nei confronti di un pensatore si misura anche dal desiderio sempre rinnovato di discuterne le tesi fondamentali. E certamente, affrontare la sua teoria, entrando nel merito, sarebbe un modo per rendergli omaggio. E neppure, nel chiamare Severino Maestro, mi propongo di celebrarlo, di farne un encomio; mi guardo da questo proposito per mille ragioni, la più ovvia delle quali è che non credo di avere l’autorevolezza necessaria per un simile compito. Mi limiterò, piuttosto, a raccontare ciò che il prof. Severino è stato ed è per me, in base alla mia esperienza personale; e cioè a riferire di come egli abbia inluito sulla mia carriera intellettuale. Racconterò, dunque, letteralmente di come Severino sia stato per me un maestro di pensiero. Ero al primo anno di studi universitari quando iniziai a frequentare le lezioni di Severino, che erano ospitate nella sede

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di Ca’ Bembo – un palazzo veneziano che iancheggia il rio di San Trovaso –, in una bella sala al piano nobile, col sofitto affrescato, sempre gremita di studenti. Io, tanto per essere chiari, ero allora uno studente alquanto sprovveduto. Certo, per una matricola, seguire le lezioni di Severino era impegnativo, viste le tematiche affrontate; ma non proibitivo, perché il prof. Severino ha sempre avuto il dono della chiarezza, introducendo i concetti man mano, spiegandoli, imprimendoli nella mente degli uditori, di modo che si potesse ben seguire lo svolgimento del discorso. In genere, una volta a settimana, un’intera lezione era riservata alle domande. A intervenire erano per lo più quelli già avanzati, spesso i laureandi, talvolta citando le opere di Severino, che io, come buona parte degli altri studenti, non avevo ancora letto. Si trattava per lo più di convintissimi seguaci di Severino, così entusiasti da apparirmi un po’ acritici. Francamente, non mi pareva quello il modo di studiare ilosoia. Al contrario, mi sembrava e mi sembra tuttora che, contro le seduzioni intellettuali indotte da un pensatore, quale che sia, si debba tenere a portata di mano un antidoto; si debba sempre sentire il controcanto. Così era sorto anche in me il desiderio di porre qualche domanda – un po’ per non esser da meno degli altri, un po’ perché quanto più rilettevo su ciò che andavo ascoltando, tanto più mi sorgevano dei dubbi. Il contesto, però, mi intimoriva. Un giorno mi feci coraggio, e rivolsi al prof. Severino un paio di quesiti. Il primo, su Hegel, riguardava, per dirla in termini severiniani, la dialettica hegeliana come teoria del signiicato invece che come teoria del divenire. La domanda non era fatta a sproposito, ma neppure intimamente meditata. Era una domanda da studente preparato che voleva attirare su di sé l’attenzione. Su quel tema ci sono tornato su, in nella tesi di dottorato. La seconda domanda, meno scontata, era di quel tipo di quesiti che uno si pone anche dopo la lezione, tornando a casa, e su cui chi ha una passione ilosoica medita anche lontano dalle aule universitarie. Il tema era l’identità di

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un oggetto attraverso il tempo. Mi chiedevo: se il tempo passa nel modo in cui siamo abituati a credere (in modo nichilistico, insomma), allora Socrate può essere prima seduto e poi in piedi, pur rimanendo lo stesso Socrate, alternando il possesso di affezioni incompatibili. L’esser seduto di Socrate, quando Socrate non è più seduto, è niente (e viceversa); e questo evita che Socrate possieda simultaneamente proprietà contraddittorie. Avendo allora appena superato un esame su Kant, non avevo mancato, nella mia domanda, di citarne la tesi secondo cui il tempo distende la contraddizione prodotta dal cambiamento. Vale a dire: il mutamento produce situazioni incompatibili, contraddittorie; ma queste sono possibili proprio perché il tempo le disloca in dimensioni diverse: passato, presente e futuro, risolvendo la contraddizione. Ora, questa concezione ha il vantaggio di garantire la persistenza di un identico oggetto nel tempo, preservandolo dalla contraddizione; ma ha lo svantaggio di richiedere una concezione nichilistica del divenire. Il punto è: se invece con Severino pensiamo che tutte le cose e tutti i loro stati siano eterni, allora anzitutto è eterna un’entità come Socrate, senza dubbio; ma lo sono anche il suo essere in piedi e il suo essere seduto. Ne segue, sembra, che l’eterno Socrate sia eternamente in piedi ma anche seduto, eternamente giovane ma anche vecchio; Socrate, se tutto è eterno, sembra essere un oggetto contraddittorio. La mia considerazione era che avevamo rigettato il divenire perché contraddittorio, per poi trovarci a fronteggiare una contraddizione che prima invece eravamo capaci di evitare. È un gran guadagno? La mia domanda fu accolta da Severino come importante e profonda. Peraltro, la formulazione del quesito mi era particolarmente ben riuscita (rem tene verba sequantur!) – cosa che il prof. Severino non mancò di rilevare, rivolgermi un complimento che mi rese raggiante e che mi diede un certo prestigio presso gli altri studenti. Ma, soprattutto, il prof. Severino – nonostante al tema da me posto siano dedicate certe parti dei

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suoi scritti, alle quali avrebbe potuto rimandarmi – diede ampio spazio alla riposta, facendomi comprendere la sua posizione, ovvero che devono esistere tanti individui differenti quante sono le loro affezioni incompatibili, e che Socrate è in verità una classe di individui simili ma numericamente differenti; è un po’ come un universale per i nominalisti: un raggruppamento di individui. Oggi ritrovo questa teoria in certe dottrine della persistenza proprie della metaisica analitica, ma per ora non aggiungo altro, perché mi sono ripromesso di non entrare nel merito delle tesi ilosoiche. Piuttosto, ho riferito questo aneddoto per testimoniare l’atteggiamento di Severino a lezione: quando c’era il tempo per la discussione, egli raccoglieva e teneva in grande considerazione le domande – o, sarebbe forse il caso di dire, le obiezioni – degli studenti. Lo faceva anche quando (e ciò avveniva non di rado) erano formulate in modo un po’ confuso. In questo caso le rettiicava, le rinforzava, dimostrando di ritenere che anche tra gli studenti ci potessero essere degli autentici interlocutori; cercava sempre di trovare entro una domanda, per quanto abborracciata, il contenuto di un autentico pensiero. Già di per sé questo era un grande insegnamento, entro e fuori dal contesto della lezione universitaria. Ma l’insegnamento di tenere in vista il contenuto di pensiero, il concetto, oltre o attraverso le parole che lo esprimono, è un proposito che Severino metteva in pratica più in generale a lezione, quando parlava dei grandi ilosoi e della storia del pensiero. In effetti, nell’ambito degli studi storici c’è ormai un’enorme proliferazione di indagini, al punto che quasi ci si perde nella selva degli specialismi. Gli studiosi, per varie ragioni, si dedicano a indagini settoriali, circoscritte a questo o a quell’altro pensatore, e non di rado sono quasi incapaci di parlarsi e comprendersi gli uni con gli altri, tanto è lo specialismo raggiunto. Questo stato di cose diventa persino scoraggiante per lo studente (e non solo per lui). Rispetto a questa frammentazione, il prof. Severino, pur rispettoso del lavoro degli

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specialisti, ci insegnava a tenere in vista i concetti che uniscono o oppongono i ilosoi rendendoli idealmente interlocutori gli uni degli altri, anche a distanza di secoli o millenni; ci forniva delle chiavi di lettura per poter abbattere gli steccati, per poterci districare nella selva degli specialismi, sfrondandola, in modo da poter così inalmente intravvedere quei legami che rendono la storia del pensiero un grande paesaggio e non una serie di luoghi isolati; un grande dialogo, magari anche polemico, ma non certo una sequenza di monologhi sconnessi. Il piacere che ne derivava era grande, paragonabile a quello che si può avere quando ci si solleva da terra, decollando in aereo, e si può dominare con un solo sguardo un territorio: le sue parti, le sue forme e le sue connessioni. A questo proposito, ricordo un episodio avvenuto a un convegno che era, mi pare, dedicato a Parmenide o al Parmenide di Platone, non ricordo. Dato il tema, o forse anche solo data la piega che aveva preso il discorso, la discussione si era fatta complicata, per non dire ostica (dificile pensare il contrario). Anzitutto, che cosa ha detto davvero Parmenide? È una questione controversa: c’è il Parmenide di Platone, Aristotele e Hegel; ma è una igura attendibile? Infatti, gli studi storici e ilologici hanno invitato a ridimensionare quel Parmenide, ritenendo invece che quello autentico avesse detto ben altro rispetto a ciò che gli è stato messo in bocca da Platone e compagnia. In altre parole: Parmenide aveva davvero negato il divenire in ogni sua forma, e sostenuto un’ontologia monista? E se sì, allora perché buona parte del suo poema era una isica? La discussione coinvolgeva navigati storici della ilosoia antica e ilosoi di vaglia, e vedeva opporsi ragioni teoretiche ad altre di carattere storicoilologico, col risultato, però, che non se ne veniva fuori. In quella circostanza, Severino intervenne dicendo una cosa che mi colpì: anche si scoprisse, sulla base di indagini storico-ilologiche inoppugnabili, che il Parmenide di cui ci hanno parlato Platone, Aristotele e Hegel non fosse altro che il risultato di un

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travisamento, un Parmenide di fantasia, insomma, nondimeno si tratterebbe di un Parmenide con cui ci si deve confrontare; si tratterebbe insomma di un fraintendimento storico che sarebbe comunque valsa la pena inventarsi, tanto è la ricchezza di pensiero che svela! E quindi, ben vengano tutte le indagini storico-ilologiche che consentono di interpretare i testi nella giusta luce, ci mancherebbe! Ma poi si deve comunque parlare di concetti, e tenerli in vista, per fare ilosoia! Ogni studente poi, inita l’università, fa altre letture, segue altri percorsi; e questo è sicuramente salutare. Per quel che mi riguarda, concludendo gli studi, mi ero occupato di Hegel, considerato come il pensatore dialettico del divenire, e di Russell, il logico che sosteneva che la metaisica e la logica hegeliane (e non solo quelle) fossero basate su un erroneo presupposto riguardante la natura delle relazioni e la forma logica delle proposizioni. Attraverso lo studio di Russell ero approdato poi alla ilosoia analitica, già assaggiata durante gli anni universitari. In Italia è stata lungamente considerata solamente come una ilosoia del linguaggio, con, per di più, spiccate tendenze antimetaisiche, di ascendenza neo-positivistica; all’estero, invece (ma allora non lo sapevo), la tradizione analitica aveva già avuto una svolta metaisica, liberandosi del retaggio neo-empirista. Agli interlocutori esterni, la ilosoia analitica appare non di rado ostica, piena di tecnicismi e di sottili distinzioni logicolinguistiche, dedita ad analisi cosi minuziose e circoscritte che talvolta si fatica a comprenderne il senso; in certi casi fa sorgere il sospetto che si riduca a un esercizio intellettuale ine a sé stesso, ricordando certa scolastica, o l’immagine distorta di essa, coi dottori sottili e cavillosi. Si tratta, ovviamente, di un’immagine largamente errata e distorta, della quale però gli analitici hanno qualche responsabilità. Nondimeno, avanzando negli studi e scoprendo quelli di metaisica analitica, a lungo

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ignoti in Italia, ho fatto però una scoperta: Severino, tra i metaisici analitici, al contrario di quanto si potrebbe pensare, si può trovare a casa – tanto quanto o persino di più che nel settore degli studi continentali (per quanto si possa o voglia far valere questa distinzione)! Quel che avevo scoperto, infatti, era che il dibattito tra eleati ed eraclitei, tra amici e nemici del divenire, si è rinnovato nella metaisica analitica nei termini della contesa tra i cosiddetti eternisti da una parte e i presentisti dall’altra, tra gli staticisti e i dinamicisti. Severino, avevo compreso, non è, da un punto di vista teoretico, una igura isolata, quasi un masso erratico in un paesaggio estraneo e ostile (analitico o continentale che sia, non fa differenza); al contrario: tesi sostanzialmente equivalenti a certi tratti fondamentali del suo pensiero sono da decenni largamente discusse in ambito analitico, rivestendo persino il ruolo di corrente principale, di mainstream, anche per il loro ruolo di cerniera con la isica della relatività. Mi riferisco anzitutto alla tesi della eternità di tutto, che trova la sua ovvia controparte nell’eternismo; ma anche a quella della processualità dell’apparire, fatta salva l’eternità del tutto, che trova riscontro nella posizione cosiddetta moving spotlight view, secondo la quale il tutto è come una serie di ediici allineati lungo una strada, avvolta dal buio, e il tempo presente è come un fascio di luce che ne passa in rassegna le facciate, progressivamente. Ma persino la teoria severiniana dell’identità degli oggetti nel tempo (quella della mia prima domanda a lezione!) trova una sponda nella dottrina della persistenza degli oggetti nel tempo, resa in termini di controparti temporali, nella cosiddetta stageview o exdurantism. E ancora da esplorare sono, mi pare, le afinità tra la negazione di Severino del divenire, perché contraddittorio, e la negazione della realtà del tempo di McTaggart, col suo noto paradosso che ha dato la stura al dibattito analitico sulla natura del tempo.

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Questo vuol forse dire che l’importanza di Severino andrebbe in qualche modo ridimensionata? Non direi proprio, giacché quel che caratterizza il suo neoparmenidismo è il radicamento della tesi dell’eternità del tutto nel signiicato fondamentale dell’essere, ovvero nel fatto che l’affermazione che l’ente è, è una tautologia. Certamente, ci sono molti punti di accordo, non certo supericiali, tra Severino e gli eternisti; e ci sono moltissime proposizioni che potrebbero essere sottoscritte da lui e dagli altri; nondimeno, sono le ragioni di questa possibile sottoscrizione a fare la differenza. A me pare che il radicamento ontologico del pensiero di Severino collochi la sua posizione rispetto a quella degli analitici in modo analogo a come si rapporta nella dottrina marxiana il socialismo scientiico rispetto a quello utopistico: i socialisti, scientiici o utopistici che siano, son tutti d’accordo, e stanno tutti dalla stessa parte, grosso modo! Ma la profondità e la consapevolezza delle ragioni addotte dagli uni e dagli altri è ben diversa! Comunque, proprio per questa afinità col pensiero analitico, penso che la recente traduzione in inglese di Essenza del nichilismo sia benemerita: credo sia opportuno che i metaisici analitici possano conoscere il pensiero di Severino, trovando in lui un grande interlocutore. Con questo spirito, mi ero prodigato per far recapitare The Essence of Nihilism a un logico e ilosofo analitico di vaglia e di fama, Graham Priest. Questi è, per certi versi, l’esatto contrario di Severino: è, potremmo dire, un eracliteo impenitente e, non a caso, un nemico del principio di non contraddizione. Questa inimicizia va sotto il nome di dialetheismo, la teoria che sostiene che certe proposizioni sono sia vere che false, al contempo. Si tratta, beninteso, di un nemico molto accorto, che non nega il principio indiscriminatamente, ma in modo circoscritto. Il dialetheista, infatti, non afferma che tutte le contraddizioni sono vere, ma che alcune lo sono o possono esserlo. Ci si può chiedere se questo venga affermato o meno da un punto di vista incontraddittorio, ma si tratta di una questione

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che non è qui possibile affrontare. In ogni caso, con Priest abbiamo a che fare con un rafinato negatore del principio di non contraddizione, il quale non a caso applica questa sua teoria alla spiegazione della realtà del cambiamento e del luire del tempo, riprendendo gli antichi paradossi di Zenone. Ora, il punto non è persuadere Graham Priest della ilosoia di Severino mediante la lettura di The Essence of Nihilism, cercando di fare proselitismo, come se questa o altre opere fossero il Verbo: un simile intento sarebbe deleterio. Tuttavia, ciò che Priest mi ha detto di Severino per via epistolare, dopo aver letto Returnig to Parmenides, è che la difesa fatta da Severino del principio di non contraddizione è la più solida ed interessante che sia mai fatta dai tempi di Aristotele! E tanto ha ribadito poi in una pubblica circostanza, dialogando di persona con Severino. Come dicevo prima, è ovvio che, anche se si ha avuta la fortuna di studiare (di laurearsi e di addottorarsi) con Severino, si fanno poi altre letture e si seguono altri percorsi, allontanandosi dalla fonte cui si è attinto da studente. Personalmente credo sia salutare farlo, perché la validità di un pensiero non si apprezza isolandolo o isolandosi dal mondo ma, al contrario, confrontandolo e confrontandosi con altri pensieri e altri interlocutori. E tuttavia, quali che siano le vie intraprese e quali che siano gli esiti raggiunti, credo si possa dire di Severino qualcosa di simile a quel che Nietzsche aveva detto di Schopenhauer e di Hegel: sono una specie di malattia da cui non ci si riprende più! Nietzsche con la sua affermazione probabilmente non aveva intenti lusinghieri, ma non fa differenza. Parafrasando e adattando quella frase, vorrei dire che la severinite è una malattia dalla quale non si guarisce mai completamente! Mi spiego meglio: qualche volta ho suggerito a degli amici, lontani dal pensiero di Severino, di leggerne gli scritti; ebbene, anche se sono stati persuasi poco o nulla dalle tesi di Severino, hanno cambiato il loro sguardo, non hanno più guardato ai problemi come prima! Questo è un tratto meritorio che va sicuramente riconosciuto:

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si può essere anche in totale disaccordo con Severino, ma una volta che ci si sia confrontati col suo pensiero, non si guarda più alle questioni da lui trattate con sguardo innocente, scontato, banale, come se non fossero un problema. Rispetto alle tematiche ilosoiche che fanno dialogare Severino con gli analitici, vorrei dire quale sia quella su cui io mi trovo ancora maggiormente a pensare. Provo a delinearla per sommi capi, senza entrare nel merito, solo per chiarire il tipo di insegnamento che credo Severino mi abbia impartito. Con Severino diciamo che tutto è eterno; questo è un punto fermo. Eppure, in qualche modo, il tempo luisce, le cose passano (certo, non nel senso che diventano niente o vengono dal niente; ma passano). Ma che cosa vuol dire che il tempo luisce, se tutto è eterno? Procediamo con ordine: noi pensiamo e diciamo che siamo reali, qui, ora. Ci vediamo, ci percepiamo: tutto ciò che ci appare, c’è. Eppure, se tutto è eterno, sono reali anche le cose che diciamo passate, come i dinosauri; e lo sono anche le cose future, che devono ancora venire, apparire. Ma che cosa signiica che ciò che è ancora futuro c’è già, è reale come il presente, e che anche il passato lo è? Forse che sono qui, nell’unica totalità dell’essere, ma che sono invisibili? Sono presenti ma inaccessibili? No, non proprio. Tutto, incluse le cose passate e quelle future, esiste; e dunque tutte le cose in qualche modo co-esistono; tutto è avvolto da ciò che Severino chiama il destino, ed è già da sempre preservato da ogni possibile rapina del tempo. Ma non perciò tutto è simultaneo. Tutte le cose sono: passate presenti e future; eppure, ci insegna Severino, non tutto appare – ovvero il tutto, concretamente, non appare. Alcuni eternisti sostengono che il tempo e l’apparire processuale delle cose siano meramente un’illusione soggettiva, una distorsione percettiva, poiché quel che conta è la salda coesistenza di tutto nel tutto (la realtà è come una spranga d’acciaio, indefettibile), rispetto al quale le distinzioni di presente, passato e futuro non

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hanno alcuna rilevanza: latus vocis. Ma Severino non è tra questi. Mi limito a ricordare questo passo pregnante: il Tutto, di cui eternamente appare la verità, non appare tutto insieme, in ogni suo tratto, ma si inoltra nella luce dell’apparire. Vi si inoltra, rimanendo ciò che esso è, inalterabile e immutabile. Come il sole che, immobile, si mostra nel cielo. (Ma il Tutto solare – che include lo stesso cielo in cui si inoltra – è totalmente immutabile e non soltanto in relazione a un certo tipo di movimento, come avviene nell’astronomia eliocentrica. Ma l’inoltrarsi nel cielo dell’apparire non è un’“apparenza” o un’“illusione trascendentale”, bensì appartiene a ciò che appare e quindi a ciò che la verità dice). (Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 127)

Lascio monca questa citazione, perché non è questo il luogo per analizzare e investigare il tema. Il problema, su cui mi trovo a pensare, è che con Severino si può dire, anzi si deve dire, che tutto è eterno; eppure il tempo passa, ma senza che nulla cambi. Il che sembra una contraddizione. Non approfondisco ulteriormente la questione: mi contento di avere delineato il problema. Quando mi capita di parlare di questi temi con il prof. Severino, ho l’impressione (anzi, la certezza) che egli pensi di averli già affrontati, articolati e risolti! Sarà senz’altro così! Io però tendo un po’ a puntare i piedi, e a cercare di analizzarli ancora, entro e fuori del pensiero di Severino; quindi, in un certo senso, mi attardo un po’ a pensare e a ripensare ciò che magari è già stato risolto, perché non ne sono del tutto convinto. Di questo mio attardarmi e dei miei ripensamenti non è il caso che me ne faccia un vanto: può ben darsi che io non abbia capito ino in fondo alcuni libri, alcuni passaggi, alcune tesi di Severino! Ma neppure, di questo mio attardarmi, devo farmene un cruccio – né per me, che indugio nel ripensare a queste cose, né per il prof. Severino il quale potrebbe ben pensare: “Federico, queste cose le ho già risolte! Rileggiti questi miei scritti!”. Non

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me ne faccio un cruccio, di questo mio puntare i piedi, perché sono convinto che la grandezza e la maestria di un pensatore non stiano tanto nel farsi ripetere a menadito dagli allievi, ma nell’indurli a pensare – e anche, se è il caso, a resistere e a puntare i piedi, imboccando altre vie di pensiero! Grazie Maestro!

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Che fare? Italo Sciuto

Si dice, sia pure solo in partibus idelium, che in uno dei suoi non infrequenti attacchi di feroce vis ironica, il severo e rigoroso Gustavo Bontadini sia incorso una volta, durante una lezione, per deinire l’essenza del pensiero ilosoico del suo più geniale allievo, al tempo della rovente polemica suscitata in Università Cattolica dall’uscita di Ritornare a Parmenide e in particolare dal tema dell’eternità dell’essere, nella fatale caduta in cui facilmente precipita il popularis insipiens che almeno su ciò intende distribuire sicura sapienza: «ecco un esempio che documenta la verità del detto popolare: “la ilosoia è quella cosa con la quale e senza la quale si rimane tale e quale”». In realtà, già da quei tempi lontani, ma certamente poi sempre più frequentemente e intensamente, il pensiero di Severino si è impegnato, con un coraggio che non sempre, purtroppo, ha onorato la vita dei grandi ilosoi, a rilettere sulla realtà attuale; e quindi a tentare di modiicarla, soprattutto nelle sue radici più profonde e perciò inesplorate. Ciò appare chiaramente non soltanto, e anzi direi non tanto negli studi di Filosoia della prassi, ancora irrigiditi nelle fredde maglie teoretiche da cui dipendono, quanto nella produzione più recente e, soprattutto, nella decisione della duplice destinazione editoriale degli

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ti: Adelphi per le opere di alto impegno teoretico, Rizzoli per la divulgazione. In quest’ultima edizione, infatti, non appare soltanto la traduzione divulgativa degli ardui ilosofemi esposti nella prima, ma anche e soprattutto lo straordinario impegno pratico e direi civile, volto a chiarire il senso dell’attuale attività umana (ormai globalizzata, quindi senza più le antiche e sostanziali distinzioni tra Occidente e Oriente, Nord e Sud del mondo), specialmente e direi quasi ossessivamente in relazione al fare tecnico e all’agire politico; ossia, al che fare?. Tra i molti temi trattati in questa prospettiva, emerge con vigore e continuità, nel corso ormai di molti anni, il tema della violenza e della guerra come tratto essenziale della civiltà prima occidentale e poi, oggi, globale. Sono molto signiicative, in questa prospettiva, la continuità e la coerenza del discorso severiniano, che si possono cogliere anche solo confrontando i due testi a mio avviso più rilevanti e incisivi a questo riguardo, ossia La guerra (1992), testo composto a ridosso dell’epocale disfacimento dell’Unione Sovietica, in cui tra l’altro si mostra che la “pace” mondiale (nel senso della non guerra nucleare) è ancora garantita dall’equilibrio del terrore e che il “bipolarismo” Est-Ovest è inito in termini economici ma non in quelli militari, da cui la persistenza di molte guerre indirette o per procura nelle zone periferiche del conlitto, e il più recente Macigni e spirito di gravità (2010), in cui l’emergenza del senso e della forza del processo di globalizzazione diventa particolarmente incisiva. Mi paiono particolarmente signiicative, queste opere, anche per documentare la straordinaria capacità severiniana di leggere in alcuni testi classici profondità mai prima osservate, e decisive per dimostrare la tesi fondamentale circa il fondamento e la ragione di ciò che Severino chiama la “follia” dell’Occidente. Circa il senso della guerra, infatti, Severino parte da ciò che si può ritenere ben noto, ossia che la guerra si trova sempre «al centro dell’esperienza umana» e «scandisce da sempre il

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ritmo della storia», sicché giustamente Eraclito afferma che «la guerra è madre di tutte le cose»1 (frammento 53: «Polemos è padre e re di tutte le cose»), ma poi mette in rilievo l’aspetto decisivo e sempre inavvertito, cioè non soltanto la stretta connessione tra “guerra” e “cosa”, ma anche e soprattutto la loro fondamentale identità. In virtù di questa identità, si può allora concludere non soltanto che la guerra può cessare solo se tramonta il senso greco della “cosa”, cioè la sua esposizione al nulla dell’origine e della ine, ma anche che tra guerra e pace vi è una essenziale solidarietà: «il senso greco della “cosa” è l’essenza che in forma diretta si presenta in ciò che diciamo “guerra” (e morte), in forma mascherata in ciò che diciamo “pace”»2. Questo è allora il punto fondamentale, che sta alla base della civiltà prima occidentale e ora mondiale. Tra l’altro, tutto ciò consente di rilevare che l’Occidente, come realtà deinita e originale, è scomparso non a seguito di supposte e fantasiose “invasioni” da parte aliena, per esempio islamica, ma per il motivo contrario, ossia perché ha avuto pieno successo e perciò si è mondializzato. Il dominante senso comune, tuttavia, non percepisce nulla di tutto ciò e continua a mantenersi fermo a una opposizione tra pace e guerra che in realtà è solo una “preferenza”, non potendosi porre in termini di “verità”. Inoltre, e conseguentemente, sempre più il senso comune delega alla scienza il compito non solo di trovare le risposte più adeguate alle richieste universali di pace, ma anche di formulare il senso stesso delle domande: «Oggi non ci sono dubbi, l’unica regione autorizzata a rispondere ad ogni domanda è la scienza moderna»3. In effetti, oggi soltanto la scienza può “dimostrare” se e che la guerra è male

1. E. Severino, La guerra, Rizzoli, Milano 1992, p. 9. 2. Ivi, p. 12. 3. Ivi, p. 10.

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e la pace è bene, nonché il senso dei termini stessi di “guerra” e “pace”. Conseguentemente, da qualche decennio si sono affermate, anche come discipline accademiche, vere e proprie “scienze della pace” che, partendo da un’assunzione logicamente positiva e non meramente negativa (non-guerra) della pace, cercano di determinare le condizioni (politiche, economiche, sociali, psicologiche ecc.) necessarie e suficienti a conseguire di fatto una pace mondiale. Ora, a parte il fatto che per non pochi pensatori, anche di grandissimo rilievo, la condizione della pace si debba considerare pericolosa per il progresso umano (basti citare Hegel, Lineamenti di ilosoia del diritto, parte III, sez. III, § 324: la guerra costituisce un «momento etico» da considerare non come un male assoluto, ma anzi come un bene, perché produce movimento, innovazione, creazione, mentre la pace comporta stagnazione, sicché per mezzo della guerra «la salute etica dei popoli è conservata», essendo come il vento che preserva il mare dalla putredine cui lo ridurrebbe la bonaccia, ossia una pace durevole o, come vorrebbe Kant, “perpetua”), la questione di fondo è che, in ogni caso, in discussioni di questo genere il senso comune non si afidi alla verità, ma alla preferenza, cioè in sostanza a una scelta emotiva o al massimo di razionalità strumentale. Si tratta, invece, di seguire non tanto giudizi di “valore” sempre soggettivi, quanto piuttosto la forza universale della verità. In questo senso, direi che il pensiero di Severino segue con rigore la celebre e luminosa massima di Spinoza, che prescrive di considerare le cose umane non per deriderle, compiangerle o detestarle, ma per comprenderle (Tractatus Politicus, I, 4: sedulo curavi humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere). Tutto l’immane sforzo teoretico di Severino consiste, in effetti, nel leggere-dentro (intus-legere) la concezione occidentale della guerra e della pace, per coglierne il senso vero, al di là di “preferenze” che hanno i piedi d’argilla anche quando non

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si connotano di volute falsità e ipocrisie. Nelle dichiarazioni esplicite, oggi la “preferenza” largamente prevalente, quasi unanime, si risolve a vantaggio della pace, ma nulla autorizza a garantire che tale “preferenza” rimarrà salda e ferma anche domani e dopodomani. Anzi, è ben noto come essa in realtà sia meramente nominale e selettiva, in quanto si riferisce al “nostro” mondo e si può tranquillamente conciliare col modello imperialistico attuale, fondato sulla strategia della “esternalizzazione” dei conlitti, in virtù della quale si addossano le conseguenze negative del nostro “progresso” proprio sulle spalle dei paesi che l’imperialismo occidentale ha potuto cinicamente, lungamente e sistematicamente depredare. Severino prospetta chiaramente la situazione, quando afferma che oggi il conlitto fondamentale non consiste più nel “bipolarismo” Est-Ovest, ma nello scontro Nord-Sud, ossia in quel modello di sviluppo economico che dice di voler universalizzare il benessere ma che in realtà fa continuamente aumentare la distanza tra ricchi e poveri. Per limitarne le conseguenze distruttive, si dice che è necessario perseguire un modello di “sviluppo sostenibile”, cioè un ossimoro che non potrà mai realizzarsi, dato che si tratterebbe solo di addolcire un modello di sviluppo che, implicando necessariamente la crescita continua e in-inita, anche se rallentata con opportuni accorgimenti tecnici e sagge disposizioni politiche, del consumo di risorse non rinnovabili, è in realtà incompatibile col fatto incontestabile e insuperabile che la terra è una realtà inita. Nel primo capitolo di Macigni e spirito di gravità, con l’eficace titolo Se i ricchi non aiutano i poveri, mi pare che le conseguenze di tutto ciò siano chiarissimamente e drammaticamente espresse: dato che «i Paesi ricchi continuano a lasciare insoluti i problemi della povertà planetaria»4, è inevitabile che il terrorismo accresca la sua 4. E. Severino, Macigni e spirito di gravità. Rilessioni sullo stato attuale del mondo, Rizzoli, Milano 2010, p. 9.

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intensità e pericolosità, contro cui i paesi ricchi possono essere tentati di ricorrere al loro enorme potenziale atomico. Sinora non lo hanno fatto «perché il loro uso sarebbe stato controproducente, non per preoccupazioni di carattere morale»5, ma in un futuro anche molto vicino potrebbero cadere in questo fatale errore, le cui conseguenze sarebbero catastroiche per l’intero pianeta. Eppure, la capacità di risolvere tecnicamente i problemi sollevati dal contrasto ricchi-poveri «è già nelle mani dell’uomo. Ma occorre uno straordinario impegno politico per inanziare la realizzazione di tali capacità»; d’altra parte, «se la politica si sottrae a questo suo compito suggella la propria ine», cui seguirebbe la possibilità di un governo tecnologico del mondo, ma questo imperialismo della Tecnica «arriverà in tempo prima che la politica scateni l’apocalisse?»6. Il tono drammatico di questa per nulla retorica domanda mostra chiaramente come l’impegno severiniano a intelligere ciò che accade nel e al mondo non sia affatto il risultato di uno sguardo distaccato e disinteressato, ma il segno evidente di una profonda passione per il destino del mondo, in un momento in cui appare inalmente molto chiaro il senso di ciò che esso è diventato per opera dell’uomo. Per questo aspetto, quindi, si potrebbe dire che il pensiero di Severino si oppone diametralmente alla possibilità prospettata da un ilosofo a lui molto caro come Nietzsche, quando questi afferma, nel mirabile inizio del saggio Su verità e menzogna, che se il mondo sparisse non sarebbe accaduto nulla di notevole («In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso ininiti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto.

5. Ivi, p. 12. 6. Ivi, p. 13.

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Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. – Qualcuno potrebbe inventare una favola del genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare suficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente inito, non sarà avvenuto nulla di notevole»7). Possiamo allora concludere, dicendo che il severo Bontadini si potrebbe e anzi si dovrebbe tranquillamente ricredere: il pensiero di Severino interpella frontalmente la questione del che fare e anzi, dicendo che i ricchi devono aiutare i poveri, sembra muoversi addirittura con un respiro evangelico che avrebbe certamente fatto sobbalzare d’intenso piacere, oltre che di viva sorpresa, il suo venerato maestro.

7. F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Id., Opere, vol. III, t. II, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1980, p. 355.

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Omaggio al Maestro Davide Spanio

Sono particolarmente lieto di rendere omaggio, come posso, al professor Emanuele Severino, di cui mi onoro di essere allievo. Si tratta infatti, per me, certamente di onorare l’uomo (l’homme, appunto, cui l’omaggio allude), assecondando il sentimento di deferenza e di ammirazione che da tempo, e in molti modi, mi lega a lui. Ma è al ilosofo, al formidabile pensatore intorno al quale oggi ci stringiamo (adombrando le fattezze di una scuola che – sulla scia di una veneranda tradizione – esorta a non dare ascolto al Maestro, ma al logos, di cui anche il Maestro è soltanto il testimone1); è al ilosofo, dicevo, che siamo chiamati a guardare ed è dunque al pensatore che proverò a rivolgermi, abbozzando le linee di un breve discorso dal quale mi auguro possa trasparire l’entità del debito speculativo che ho accumulato. Le linee che ho in mente sono tre e tenterò di marcarne il tratto, accontentandomi tuttavia di descrivere sommariamente una traiettoria.

1. Nell’opera severinana, infatti, irrompe il «linguaggio che incomincia a testimoniare il destino della verità» (E. Severino, Destino della necessità. Κατὰ τὸ χρεών, Adelphi, Milano 1980, pp. 13-14. L’allusione è a Eraclito, fr. 50 DK).

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1 Il pensiero severiniano obbliga la ilosoia, con una perentorietà che non concede tregue, a prendere posizione2: non per dire da che parte si sta, ma per dire stabilmente che cosa sta3. Sovrastante o Stante (ma non senza sovrastare la propria negazione)4, il dettato ilosoico deve radicare sé stesso (ed è in questo radicamento il sé stesso dello stare) in un Fondamento. Per questo verso, il dover esser della ilosoia rinvia il ilosofo a una prassi (il prendere posizione) coincidente con la teoria chiamata dunque a ribadire la consistenza del Contenuto che riposa esclusivamente su sé stesso. Il prendere posizione si estingue cioè nel posto che lo ha già da sempre custodito, cancellandone il gesto. Lungo questa via, in termini hegeliani, potremmo allora anche dire che la ilosoia rappresenti piuttosto uno stare a guardare, prendendo posto, senza che però lo sguardo ecceda il contenuto visibile o che il contenuto attenda, avvolto dalle tenebre, gli occhi capaci di illuminarne le sembianze. 2. «La struttura originaria è l’essenza del fondamento», innegabile senza presupporlo, sì che «tutti i possibili modi di prendere posizione (esplicitamente o implicitamente) rispetto al fondamento, meno uno, costituiscono altrettante negazioni del fondamento» (E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 19812, pp. 107 e 110). 3. Alla domanda: «Severino da che parte sta?», il Maestro risponde: «È più importante chiedere: “Quello che pensa Severino, da che parte sta?”. Ma l’essenziale è che stia. Se sta, sta non perché è pensato da qualcuno (per esempio da me). Il termine “stare” allude appunto al tema del de-stino della verità. Nel suo signiicato autentico […], la verità è lo stare che non può essere smosso da alcuna forza e in alcuna epoca: lo stare dell’apparire dell’essere» (E. Severino, Studi di ilosoia della prassi, Adelphi, Milano 19842, p. 400). 4. Si tratta infatti di ciò che «riesce ad essere lo stare a cui l’epistéme ha invano mirato», per il quale dunque «è opportuno serbare la parola de-stino, che è costruita anch’essa, come epi-stéme, sulla radice indoeuropea stha (che indica appunto lo stare), e che assumiamo in modo che la preposizione de non indichi la provenienza da, ma l’intensiicazione, la grandezza, il pieno compimento» (E. Severino, La ilosoia futura, Rizzoli, Milano 1989, p. 12).

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Ne esce, insomma, un’immagine della ilosoia guardinga e sorvegliata, cartesianamente impegnata a sottrarre tutto alle grinie dell’errore, in vista della verità che non volta le spalle a nulla e che, implacabile, a nulla concede di occupare il suo spazio, senza il vaglio analitico delle credenziali esibite. La circostanza allude a una continuità essenziale del pensiero severiniano rispetto all’esperimento ilosoico dell’Occidente, guidato, da Platone in poi, dall’esigenza di sgombrare con sempre maggior decisione il terreno del sapere dal mythos, aflitto dalla gratuità e dalla contraddizione di un giudizio incapace di risalire alla propria arché. In questo senso, la Struttura originaria, esibendo i tratti immancabili dell’anipotetico5, misura e norma di qualunque ipotesi, appartiene alla storia della ilosoia, della quale inaugura il percorso inale, eccentrico ed eversivo, destinato a consegnare nelle mani del mito le ragioni (incontraddittorie e fondate) escogitate in precedenza. Le ragioni che sono la Ragione stessa, destinata a giocare il ruolo dell’alienato incapace di avvertire in sé – se non, forse, in obliquo e, da ultimo, nelle punte estreme del nichilismo – le movenze di una Follia che prima erige e in seguito demolisce l’ediicio metaisico abitato dagli Immutabili deputati ad amministrare il «mondo», dettandone i margini di oscillazione6.

5. Anypótheton, scrive Aristotele a proposito della bebaiotate arché, alludendo al culmine della epistéme platonica. Cfr. Aristotele, Metaph., IV, 1005b 14 e Platone, Res., VI, 507b 7; 511b 6. 6. Certo, «perché il ‘mondo’ […] venga alla luce, si devono chiamare innanzitutto alla luce l’essere e il niente […], ma il suo sopraggiungere è stato l’abbandono della verità dell’essere e del niente» (E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 19822, p. 147). Del resto, l’oscillare del mondo è un epamphoterízein (cfr. Res., 479c 3), cioè un essere conteso da entrambi: con il mondo, cioè, «Platone porta alla luce il senso della cosa» in quanto «ente» e «non-niente», ma «questo non-niente si mantiene legato all’essere e, insieme, al niente», sì che «i tratti essenziali del nichilismo escono alla luce quando la metaisica greca, una volta per tutte nella storia dell’Occidente,

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Un legame, questo del pensiero severiniano con la storia della ilosoia, che il Maestro ribadisce a suo modo, traducendo il proprio approccio speculativo in un invito a Ritornare a Parmenide7, dove l’accento cade sul ritornare più che su Parmenide, e costringe perciò il discorso ilosoico a muovere bensì da Parmenide, ma dopo avere percorso a ritroso il lungo cammino della ragione occidentale, per emanciparsene con uno scatto in avanti che eredita e mette a frutto il congedo contemporaneo della verità tradizionale, additandone però un’altra, capace davvero di Stare8. Da questo punto di vista, la ilosoia severinana rappresenta un compito, per me ineludibile. Non è dunque possibile muovere da Severino senza accostarne l’arduo intendimento per via (diciamo così) storica. Del resto, non è un caso che alle spalle di Destino della necessità ci sia, tra gli altri, il confronto con l’attualismo di Giovanni Gentile9 e che sia l’indagine su

stabilisce il senso di ciò che viene indicato dalla parola “cosa” e pone la cosa come “ente”» (E. Severino, Destino della necessità, cit., risp. pp. 21, 19). 7. Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., pp. 19-61. 8. Lungo questo versante, il Maestro, dopo aver detto che «la metaisica, come teorematicità o categoricità, [che] appartiene alla struttura [originaria]», chiamata in seguito a fondare il destino della Necessità, si affretta a precisare come essa equivalga, «da un punto di vista storico», al «ritorno alla pura essenza della metaisica, quale si realizza nel pensiero di Parmenide; con in più la consapevolezza dell’originarietà di quella pura essenza» (E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 109). 9. Mi riferisco al saggio Attualismo e “serietà” della storia (1975), ora in E. Severino, Gli abitatori del tempo. La struttura dell’Occidente e il nichilismo, Rizzoli, Milano 2009, pp. 151-166. Aggiungo che non mi pare senza signiicato il fatto che «la “fondazione ulteriore” dell’eternità dell’essente in quanto essente», contenuta nel recente Dike (Adelphi, Milano 2015) sia esplicitamente presentata anche come «una forma di “rovesciamento” del contenuto dell’“inevitabilità” del “sottosuolo” essenziale del nostro tempo» (cfr. ivi, p. 180), dal quale proviene, insieme a poche altre, la voce di Gentile, che il Maestro è tornato ad ascoltare in un denso saggio, Attualismo e storia

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Nietzsche10 a precedere La Gloria11, in un intervallo di vent’anni occupati dal Maestro anche a esplorare l’origine della ragione in Eschilo12 e la sua ine, con il dominio incontrastato della tecnica, in Leopardi13.

2 Ho nominato Parmenide. Era inevitabile. Prendere posizione, in ilosoia, signiica infatti assicurare al posto la sua posizione. Il posto è appunto il positivo, opposto al negativo: l’Essere, opposto al Nulla. Prendere posizione signiica allora esibire il valore dell’opposizione ontologica, escogitando l’elenchos in grado di scongiurare la sua negazione14. Prendere posizione signiica appunto ritornare a Parmenide, il ilosofo dell’essere. Ma il positivo di Severino è l’essere platonico ricondotto tuttavia all’apparire nel quale l’indeterminato dell’Eleate si estingue, consentendo al determinato di imporsi sulla scena originaria

dell’Occidente, chiamato l’anno prima a introdurre le opere fondamentali del ilosofo siciliano (G. Gentile, L’attualismo, Bompiani, Milano 2014, pp. 7-69). 10. E. Severino, L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999. 11. E. Severino, La Gloria. ἅσσα οὐκ ἔλπονται: risoluzione di «Destino della Necessità», Adelphi, Milano 2001. 12. E. Severino, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano 1989. 13. E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla ine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990; E. Severino, Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1997. 14. A proposito del «‘valore’ dell’opposizione del positivo e del negativo», il Maestro, prospettando l’interrogativo: «perché questa identità dell’essere e del non-essere non può essere affermata?», si affretta a chiarire che «rispondere a questa domanda vuol dire operare il disvelamento autentico della verità dell’essere, che non è un semplice dire, ma è un dire che ha valore, ossia è capace di togliere la propria negazione» (E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 40).

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dell’esperienza dove trovano il loro solido intreccio logica e fenomenologia. Lungo questa via, allo èè di Parmenide occorre dunque associare il ciò che è di Platone, ripetendo il parricidio evocato dal Soista15. Il compito che il Maestro ci invita ad assolvere si precisa, costringendoci a pensare daccapo lo stare insieme dell’Essere e del signiicato, in una sintesi che consenta di sfaccettare la consistenza ontologica per cui il Tutto è la totalità degli essenti contrapposta al Nulla. Ma ciò che è è non essendo l’altro da sé, e nelle maglie dell’essente si insinua perciò la differenza, non solo tra gli essenti, ma anche nell’essente che divarica l’essere e inaugura una sintesi, tale per cui non c’è signiicato che colmi l’essere né essere che non travasi tutto sé stesso in un signiicato. Ripetere il parricidio, allora, equivale a cogliere inalmente l’opporsi dell’essere al nulla come eterno differire dell’essente, abolendo il pregiudizio nichilistico chiamato a fondare il mondo compagno dell’uno e dell’altro, dell’essere e del nulla, e dunque alleato notturno di un nemico solo diurno, pronto a smettere, con il favore delle tenebre, i panni dell’avversario16. Afferrare il nesso esclusivo che stringe i due, l’essere e il nulla, nell’essente che marca l’avvento della differenza, signiica perciò rimontare al di qua del mondo, smettendo di chiedersi se 15. Cfr. E. Severino, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011, pp. 207 ss.; E. Severino, Sortite. Piccoli scritti sui rimedi (e la gioia), Rizzoli, Milano 1994, p. 278. Si tratta, del resto, di «saper accogliere l’irruzione delle differenze» nella «casa dell’essere», evitando inalmente di farne una «dimora di fantasmi» (E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., pp. 26 e 30). In Oltrepassare (Adelphi, Milano 2007), leggiamo: «L’essente è “ciò-che-è”; e “ciòche-è” è un “qualcosa è” […]. Dunque il qualcosa (il “ciò che” del “ciò che è”) non è separato dal suo “è”, ma è al qualcosa-che-è che compete l’“è”; e gli compete non come l’“è” di qualsiasi cosa, ma come il suo “è”, ossia come l’“è” del “qualcosa”» (pp. 320-321). 16. Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 21.

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ci sia qualcosa che lo oltrepassi, per custodirne il porto sicuro, o se, al contrario, esso costituisca la totalità di un reale già da sempre alla deriva.

3 È cioè del mondo stesso che si tratta di discutere, non per abolire, ma appunto per cogliere l’autentica unità dell’essere e del nulla che Platone, evocandolo, tradisce e contribuisce a intorbidire, destinando la ilosoia allo scacco della ragione. L’intreccio, per dir così, dell’essere e del nulla infatti c’è17: anzi l’esserci dell’intreccio costituisce proprio l’imporsi dell’essente come differenza ontologica, tale per cui il suo apparire è sempre accompagnato da uno sparire, testimone di un apparire più grande: inito, il primo; ininito, il secondo18. Per questo verso, allora, mi sono convinto che uno straordinario contributo al chiarimento del senso da attribuire alla differenza ontologica evocata dal Maestro possa venire da quei pensatori che egli, con la sua irresistibile provocazione, contribuisce per17. «Proprio perché è impossibile che un essente sia ciò che è l’altro da esso, e pertanto sia quell’altro da esso che è il nulla – e non solo sia il nulla, ma sia stato e divenga nulla –, proprio per questo è necessario che, nell’altro da tale essente, tale essente, in quanto esso è tale, sia un nulla» (E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 242). 18. Si affaccia così il tema collegato alla necessità che l’essente testimoni bensì una complicazione ontologica (Platone scrive symploché), ma tale per cui l’essere disvela, insieme, un «signiicato complesso» e un «signiicato semplice»: «Il signiicato complesso di “essere” è l’“esser sé”, ossia l’identità, l’identità che si costituisce come non isolamento tra il qualcosa che è e ciò che esso è (dove ciò che esso è è anche questo “è”), cioè si costituisce secondo la concretezza dell’equazione (x=y)=(y=x), la quale concretezza è l’oltrepassamento ininito del contraddicentesi (ossia dell’astratto) esser sé che pure compete a questa equazione concreta – ossia tale concretezza è il non contraddicentesi esser sé in quanto ciò che è sé è l’apparire ininito della totalità concreta degli essenti» (E. Severino, Oltrepassare, cit., pp. 321-322).

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ciò a rideinire, quasi indirizzandone a rovescio la vocazione. Una vocazione intorno alla quale si raccolgono alcune voci del pensiero ilosoico e che in Italia ha conosciuto un timbro inconfondibile e fecondo di armonie speculative inedite. Penso, in particolare, a Vincenzo Gioberti e alla sua formula ideale chiamata a vincolare l’Ente all’esistente, ma anche e soprattutto a Giovanni Gentile, campione dell’autoctisi dell’esperienza nella quale è appunto l’unità dell’essere e del nulla a imporsi. Si tratta, sia detto tra parentesi, di due autori cari a Gustavo Bontadini, da associare, allungando la lista, a entrambi19. E penso ad Antonio Rosmini e a Bertrando Spaventa, ma anche (per aggiungere almeno un altro nome) a Luigi Scaravelli, attraverso i quali sono Cartesio, Kant e Hegel a palesare un nuovo volto, dove è l’intreccio Io sono-Dio è, fenomenonoumeno, e inalmente essere e nulla nel divenire a venire con decisione in primo piano. Punte di diamante (con minore e maggiore coerenza) della contraddizione, stando al Maestro, ma, proprio per questo, direi, capaci di lasciar più facilmente trasparire il suo fondamento20. Ora, il tema che su questo versante del pensiero contemporaneo si impone è quello bensì della creazione21, ma senza più una creatura al cospetto del creatore; il che spinge ambigua-

19. I due, tra l’altro, dovrebbero essere letti anche in relazione a Leopardi, con il quale ebbero modo (Gioberti dal vivo) di interloquire. 20. Cfr. E. Severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005. Qui leggiamo, tra l’altro, che «nelle sue sommità – sebbene in forma implicita, che però scuote potentemente l’esplicito – il pensiero dell’Occidente, che pure è l’affermazione più radicale ed essenziale del divenire del Tutto, è già giunto ad avvertire la contraddittorietà del divenire, di cui esso è la celebrazione più alta» (p. 112). Il Maestro ha in mente Leopardi, Nietzsche e Gentile. 21. «La creazione è creazione del divenire e quindi dell’annientamento» (E. Severino, La morte e la terra, cit., pp. 224-225).

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mente il discorso, via Cusano e Bruno, in direzione almeno di Tommaso d’Aquino e di Platone, accomunati dal rinvio a una dýnamis esposta bensì, ma non riducibile, alla logica della potenza aristotelica22. In molti modi, infatti, la ilosoia italiana del XIX e XX secolo, che spinge in direzione del creazionismo, avverte la necessità di ritornare a Parmenide, esplorando la trama del parricidio platonico, da ripetere appunto (è questo, ritengo, il movente della creazione additata), in direzione dell’annientamento del nulla chiamato a manifestare autenticamente l’essente; ma è soltanto attraverso Severino che la iligrana persistente di questa ilosoia viene alla luce e si impone come un tratto fondamentale del suo discorso. Anche per questo verso, quasi mettendo in ila autori, testi e questioni della più recente ilosoia italiana lungo una linea che rinvia al parmenidismo come al proprio tratto distintivo, il pensiero del Maestro costituisce un’occasione imperdibile per chi, nonostante tutto, si ostina a ritagliare uno spazio per la ilosoia teoretica in Italia. Onorarne il magistero ha signiicato e signiica per me anche approfondire i passaggi meno esposti di questa trama speculativa. Ciò detto, anche se con ogni probabilità – adotto una formula nietzschiana riferita a Gesù e ai cristiani23 – esiste un solo se22. Si tratterebbe cioè di approfondire le ragioni di una logica che, mettendo in discussione il concetto di potenza come ciò che precede l’avvento dell’atto, ma anche e soprattutto proilando i lineamenti di una ilosoia dell’atto puro, prospetta un radicale superamento della tradizionale logica dell’anticipazione escogitata per scongiurare il provenire ex nihilo di ciò che sopraggiunge e si congeda nell’esperienza. Tenendo presenti almeno E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., pp. 97-112, ma anche E. Severino, Dike, cit., pp. 307 ss., per un primo approccio alla questione, sul versante gentiliano, mi sia consentito di rinviare a D. Spanio, L’immanenza dell’atto. Gentile e il realismo, in «Aquinas», LIX, n. 1, 2016, pp. 101-118. 23. «In fondo, è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce» (F. Nietzsche, L’anticristo, Milano, Adelphi 19866, p. 50).

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veriniano e questi è Severino, almeno in tal senso – l’allusione stavolta è a un celebre titolo crociano24 – non posso non dirmi severiniano. Grazie Maestro.

24. B. Croce, Perché non possiamo non dirci “cristiani”, in «La Critica», XL, 1942, pp. 289-297.

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Il panorama al limite del senso. La lezione del maestro Andrea Tagliapietra

Amicus Plato, sed magis amica veritas è la celeberrima massima latina, rielaborata a partire dall’invito dell’Etica Nicomachea di Aristotele, nella discussione delle dottrine del suo maestro Platone, a «sacriicare i sentimenti personali dal momento che siamo ilosoi» (I, 6, 1096a 14-16). L’antico adagio colloca la storia del rapporto fra maestro e allievo – non un maestro e un allievo qualsiasi, ma quel maestro e quell’allievo da cui prende avvio la storia della ilosoia – sotto una cattiva stella: un paradigma funesto, che sembra rendere impossibile vuoi la verità, vuoi l’amicizia. Da un lato, infatti, che amicizia potrebbe esserci senza verità? Dall’altro, che verità potrebbe essere quella che ci costringesse a negare un legame fondamentale come quello dell’amicizia? Del legame, infatti, l’amicizia manifesta la posizione originaria, il suo non essere un risultato, un effetto delle circostanze, ossia l’autonomia e l’indipendenza, la sua originarietà. Anche se capita di diventare amici o di incontrare, nella propria avventura intellettuale, un maestro, questo evento appare per altri versi fondamentale e inevitabile. L’autentica amicizia non dipende da altro che da sé stessa. È – si potrebbe dire – causa sui. Viene in mente l’“amicizia stellare” (Sternen-Freundschaft)

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di cui parlava Nietzsche, che sussiste anche se su questa terra si dovesse diventare nemici, come nel caso del suo rapporto con Wagner. Di conseguenza il legame dell’amicizia non si dà come terzo, ossia, appunto, come il risultato di una relazione, ma è l’origine della relazione, cioè la relazione stessa. L’amicizia, che, come si diceva, appare nella quotidianità dei rapporti umani come qualcosa che accade ed è intenzionata – l’amico trova l’amico, l’allievo incontra il maestro o lo cerca –, si scopre come indipendente dalle circostanze che sembravano averla determinata. Essa è dotata di una sua intrinseca necessità. Ma questa necessità non può essere ricondotta a nessuna delle ragioni che solitamente giustiicano categorialmente ciò che è necessario. Né tantomeno si può immaginare questa necessità come il risultato di una fedeltà, della volontà, della disciplina dell’allievo nei confronti del maestro, del suo pensiero e del suo insegnamento. Di conseguenza, il requisito essenziale dell’amicizia autentica, come dell’autentico rapporto fra il maestro e l’allievo, deve venir ricondotto, piuttosto, alla libertà e alla spontaneità. Tuttavia, si tratta di una libertà e di una spontaneità singolari, che non sono arbitrarie, ma che appaiono altrimenti destinate, insite nel gioco della singolarità stessa. «Se mi si chiede di dire perché l’amavo», scrive Montaigne a proposito del suo amico Étienne de La Boétie, «sento che questo non si può esprimere che rispondendo: “Perché era lui; perché ero io”» (Essais I, XXVIII). È questa libertà destinale e singolare che esprime il senso proprio del legame fra il maestro e l’allievo e confuta il signiicato supericiale che la tradizione e la scuola hanno voluto attribuire alla massima aristotelica. Infatti, l’amicizia, la philía che risuona nel nome stesso della ilosoia, è stata onorata sia dall’allievo che dal maestro nel meraviglioso evento, ogni volta sorprendente come una grazia, della traduzione del pensiero. Pensare è tradurre. È traduzione di esperienze e dell’incontro con altri pensieri. Le grandi ilosoie che il canone del pensiero occidentale

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ci offre come una magniica ghirlanda brillante, si rapportano le une alle altre nell’operoso tessuto della traduzione, nel magniico arazzo della storia del pensiero che, come Penelope, scioglie i suoi nodi solo perché ne annoda di nuovi. La traduzione non consiste nell’adesione pedissequa, nella fedeltà sempre esposta alla falsa misura del tradimento, nella ripetizione ostinata, nella volontà e nella gelosia del discepolo o nella dogmatica autorità di un maestro, ma si attua proprio in quanto l’allievo, alla ine, ha saputo “prendere le distanze” dal maestro e questi, a sua volta, simmetricamente, “fare spazio” all’allievo, lasciando apparire, allora e solo allora, l’originarietà del legame, là dove la distanza appare, scriveva Italo Valent, «come il risultato di un gesto di avvicinamento, di un movimento di appropriazione»1. Ritrovandoci tutti insieme in un pomeriggio di dicembre prossimo al Natale, a festeggiare Emanuele Severino, il nostro comune maestro e la sua inesausta passione per il pensare, non possiamo non interrogarci sul senso di ciò che ci accomuna, in una tonalità che, pur nell’occasione, tenga conto dell’evento della sua ilosoia. Ecco le supericiali ed apparenti accidentalità e casualità dell’incontro, che ci hanno riuniti, prima nello studio, nella comprensione e nella discussione delle sue opere e del suo pensiero – in anni e circostanze vicine e lontane, nella successione generazionale di giovani e di studiosi ormai divenuti a loro volta maestri –, poi, oggi, nella comunità degli affetti che si ritrova e festeggia, mi sembrano una manifestazione esemplare della verità di quell’amicizia necessaria e singolare che ho cercato di abbozzare all’inizio di queste righe. È indubbio che pensieri che hanno assunto stili, colori e declinazioni spesso molto diverse uniche e originali, siano espressi dai membri della comunità ilosoica sorta e cresciuta attorno 1. I. Valent, L’identità come relazione (1995), in Id., Asymmetron, in Italo Valent – Opere, a cura di A. Tagliapietra, Moretti & Vitali, Bergamo 2007 ss., vol. V, pp. 251-266, qui p. 258.

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ad Emanuele Severino e alla sua scuola. Cosa accomuna studiosi e pensatori così diversi – citerò quelli che mi vengono in mente per differenza speciica rispetto al maestro – come Umberto Galimberti o Salvatore Natoli, Luigi Tarca o Italo Valent, Massimo Donà o Italo Sciuto, Luigi Ruggiu o Arnaldo Petterlini e Romano Gasparotti, ino ai giovani Francesco Berto, Francesco Valagussa o Davide Spanio? Sorge spontanea, allora, la domanda a proposito di quali siano, in ultima analisi, i tratti che tengono assieme questa comunità plurale, che appare legata e riunita da una forte e sincera tonalità affettiva, che si esprime nella gratitudine e nella cura degli allievi, come nello sguardo gioioso, iero e riconoscente del maestro. Chi scrive, prendendo parola in occasione di un evento festivo che, proprio come ci ha insegnato Severino, non può che essere occasione lieta per fare ilosoia assieme, cercherà allora, calandosi nel ruolo dell’osservatore e dello storico delle idee, di indicare questi tratti comuni. Anticipo subito che questi tratti comuni non dipendono solo né prevalentemente dall’attinenza del lavoro degli allievi di Severino rispetto alle particolari tematiche poste dalla sua opera o dall’impiego del gergo che progressivamente in essa, come spesso accade negli scritti dei maggiori ilosoi, prende forma e si cristallizza. Il ricco pluralismo dei temi, degli approcci e delle posizioni degli esponenti della scuola severiniana mi pare tenuto assieme da una stilistica ilosoica, ossia da un’analoga concezione del lavoro e della funzione della ilosoia, che accomuna studiosi e pensatori che pur manifestano stili di pensiero e, spesso, forme di scrittura molto diversi. Mi soffermerò, allora, su due caratteristiche generali, ma potentemente signiicative, di questa stilistica che, declinate differentemente, troviamo nelle opere di tutti gli allievi cresciuti all’interno della scuola severiniana. Nel cuore della ilosoia contemporanea e nell’incrocio delle tradizioni in cui si è voluto dividerla – per esempio Heidegger e Husserl, l’ermeneutica e la fenomenologia, da un lato,

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Carnap, Wittgenstein e Schlick, il neopositivismo logico e la ilosoia analitica, dall’altro, nonché, certo, la dialettica hegelogentilian-bontadiniana, per evocare solo quelle che ritroviamo con maggior evidenza nella strumentazione e nell’inventario ilosoico de La struttura originaria – Severino pone, con un’intensità e una cogenza argomentativa ineludibili, la necessità teoretica del rapporto con il canone del pensiero dove la domanda teoretica del presente si incrocia con una consapevole e decisiva euristica del passato. Non è senza signiicato che un saggio chiave nell’articolazione del pensiero severiniano e nell’architettura della sua opera si intitoli Ritornare a Parmenide (1964). Il “ritorno” signiica, in una rigorosa impostazione storico-ermeneutica, argomentativa e logica (ossia in una prospettiva nettamente diversa sia dallo storicismo ilologistico che dall’etimologismo poetico con cui Heidegger si accostava ai presocratici) non la ricostruzione di una risposta, ma il ricupero di una domanda, ovvero il disporsi a pensare tutta la ilosoia come contemporanea. Severino pensa l’originario come contemporaneo in quanto risorsa effettiva per ogni ri-soluzione del pensiero a venire. Infatti, già all’inizio de La ilosoia futura – titolo quantomai eloquente e che è stato poi ripreso nell’omonima rivista semestrale di ilosoia teoretica, edita da Mimesis, ed ispirata e presieduta dal maestro – Severino si chiedeva, polemicamente, «che cosa è originale oggi?» e poi approfondiva la domanda, interrogandosi su che cosa signiicasse l’aggettivo “originale” attribuito al pensiero, insomma che cosa volesse dire, per la nostra epoca, l’espressione avere un “pensiero originale”. «“Originale”», era la risposta, «è ciò che non dipende da un modello, ma è esso il modello, l’origine rispetto ai derivati»2. Di conseguenza, concludeva poco più avanti il ilosofo bresciano, oggi, «il pensiero autenticamente e radicalmente originale può essere solo quello che riesce a mettere in questione la fede 2. E. Severino, La ilosoia futura, Rizzoli, Milano 1989, p. 16.

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in cui cresce l’intera civiltà occidentale»3, ossia quel pensiero che sia in grado di mettere in questione la civiltà occidentale a partire dalla sua origine. In un intervento scritto in occasione dell’“Omaggio a Severino” da parte del Comune di Brescia nel 2002, Remo Bodei notava che, di contro alla catena degli errori delle storie della ilosoia, che dispongono la serie dei ilosoi come dei serial killers, in cui ciascuno uccide i propri predecessori in attesa di fare la stessa ine ad opera di chi lo seguirà, nell’autore di Essenza del nichilismo i ilosoi e i poeti non sono legati fra loro da un misero ilo cronologico, ma situati dentro costellazioni di pensiero che portano l’impronta non solo della verità, ma della sua volontà di verità. Sono poi il segno di una sida, della decisione di andare contro la corrente della prima evidenza. La follia dell’Occidente non è, in questo caso, una serie di errori, ma il risultato dell’aver imboccato una strada che porta inevitabilmente in una determinata direzione.4

Le parole di Bodei ci permettono di sviluppare quanto si diceva prima a proposito dell’essenziale rapporto con il canone del pensiero della domanda ilosoica posta da Severino e, insieme, del suo intimo collegamento con il presente e con quell’orizzonte del “mondo della vita” e dell’attualità che per altri versi potrebbe apparire così remoto, nella sua dispersiva concretezza, rispetto alle astratte formulazioni della tradizione ilosoica. Invece, la forza del paradigma severiniano sta nel coniugare il canone ilosoico in compatte “costellazioni di pensiero”, per usare l’espressione di Bodei, che interagiscono con i sintomi

3. Ivi, p. 19. 4. R. Bodei, Pensare e non solo raccontare, in I. Valent (a cura di), Il sentiero del giorno. Omaggio a Emanuele Severino, Grafo Edizioni, Brescia 2005, pp. 63-68, qui p. 63.

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della quotidianità, con la politica, con l’arte, con la scienza, con le questioni più comuni e condivise, restituendo alla ilosoia, accecata nello sterile accademismo della ilosofologia, anzi della philosophology in voga oggi nelle università non solo angloamericane5, la dotazione di uno sguardo. In questo senso il ritornare che si inscrive nell’insegna araldica del pensiero severiniano non si limita ad indicare un luogo strategico, inanche un “inizio” cronologico della storia della ilosoia e di un sapere per così dire “disciplinare”, ma fonde la questione della verità posta dai testi del canone ilosoico con una radicale messa in discussione dell’ovvio e del vissuto di ciascuno, qui ed ora come lì ed allora. Tutta la ilosoia è così contemporanea, come del resto lo è l’arte che certo sa che Picasso è venuto dopo Piero della Francesca o Charlie Parker dopo Johann Sebastian Bach, e compara le loro differenze, ma sa bene anche che entrambi oggi inluenzano il nostro modo di concepirla e il lavoro stesso dell’artista. Ecco che il magistero severiniano, nel momento in cui ritorna, con rigore storico, acribia ermeneutica e stringente argomentazione logica, ai classici del pensiero e agli snodi fondamentali della tradizione ilosoica mostra la necessaria relazione della ilosoia con l’insieme della conversazione sociale della cultura e con i modi comuni del vivere. Il ritorno al canone della ilosoia è anche il ritorno al mondo che può essere ora guardato da un punto di vista estremo, dal belvedere situato al limite del senso – l’insegnamento minimo che si può trarre dalla lettura di un testo ilosoico è simile al passo indietro che il pittore compie per vedere l’insieme del quadro che sta dipingendo –, ossia al bordo di ciò che appare e, quindi, dell’orizzonte condiviso.

5. Mutuo il termine dai due bei romanzi di Robert M. Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (1974) e Lila (1991), in Italia pubblicati da Adelphi.

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L’opera di Severino e il rilesso di questa stilistica del pensiero nel lavoro dei suoi allievi mostra quanto sia pretestuoso e stupidamente settario il tentativo, ricorrente nel quadro contemporaneo del pensiero accademico, di dividere la ilosoia, come ha proposto qualcuno6, in una ilosoia professionale, blindata nello specialismo e apparentemente poco capace di incidere sul resto della cultura, e una ilosoia mediatica, sostanzialmente irrilevante per i ilosoi professionali. Ma forse, aggiungo io, non per il resto della cultura che ne trae motivo di ispirazione e sviluppo, né per la comunità umana che viene inclusa e non esclusa dalle parole della ilosoia, che la chiamano in causa direttamente e non la fanno semplice ripiego secondario di una supponente divulgazione. Severino mostra che l’autismo ilosoico, ieramente perseguito dai cosiddetti ilosoi professionali, simili ai gofi e sciocchi scienziati di Laputa che, ne I viaggi di Gulliver, costruiscono porte sbilenche perché non sanno correggere i loro calcoli con l’uso empirico della squadra, non è l’esito necessario della ilosoia anche quando questa, ritornando sui suoi passi, affronta i più ardui problemi. La ilosoia privata del suo senso strategico in relazione al mondo in cui accade e ridotta al puro autoriferimento strumentale scade a mera “tecnica della ragione”, in cui il paragone innocuo e familiare con l’artigiano e con il “mestiere di pensare” nasconde la gelosia con cui si vuole ridurre la ilosoia ad un’attività disciplinata da una corporazione di mestieranti nella quale il prodotto principale del fare ilosoia sia, in ultima analisi, la tutela autarchica della corporazione stessa. Di qui, tra l’altro, la funzione del “gergo”, oggi sostituita dall’uso dell’inglese inteso non come una lingua di studio e di cultura (privilegiata o fra le altre a cui si può avere accesso), ma come la lingua stessa dell’espressione ilosoica standardizzata, sì che i risultati inali sembrano analo-

6. D. Marconi, Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino 2014 (riporto di seguito la frase di copertina).

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ghi, ma senza dubbio più eficaci, di quelli ottenuti in passato mediante il tentativo di tradurre il linguaggio comune in meri simboli logici. Il gergo pertanto non caratterizza il lavoro, più o meno riuscito, del ilosofo sul linguaggio per modellare meglio i concetti che si trova a maneggiare, ma la produzione di un’uniformità che mette a tacere, letteralmente, le potenzialità creative di ciascuno in cambio del riconoscimento e dell’appartenenza ad un gruppo. Nell’introduzione alle sue lezioni di Logica7, tenute in conclusione della carriera accademica (l’ultima lezione universitaria del maestro di Königsberg, nel 1796, fu appunto dedicata a questo argomento) e pubblicate nel 1800 a cura di uno dei suoi allievi, il vecchio Kant s’interrogava sul signiicato generale della ilosoia e del far ilosoia. Innanzi al concetto scolastico della ilosoia come «sistema delle conoscenze razionali per concetti», Kant contrappone un concetto cosmico della ilosoia come «scienza dei ini ultimi della ragione umana». Solo quest’ultimo concetto, aggiunge Kant, conferisce dignità, ossia un valore assoluto alla ilosoia. Nel primo caso, infatti, la ilosoia quale sistema delle conoscenze razionali per concetti appare come una sorta di abilità e il ilosofo si riduce ad un tecnico della ragione (Vernunftkünstler) – sono le parole di Kant – che ha a che fare con il sapere e con le regole per l’uso della ragione in vista di un qualsiasi ine possibile. In questa accezione, precisa Kant, già Socrate chiamava il tecnico della ragione ilodosso, lasciando intendere la sua possibile e ulteriore degenerazione nella igura, spregevole sin dall’antichità, del soista. Nel secondo caso, invece, la ilosoia come scienza dei ini ultimi della ragione umana non è un’abilità, ma una dottrina della saggezza, un sapere universale, una Weltweisheit in cui il ilosofo non è un tecnico della ragione, ma il suo legislatore. Per Kant solo 7. I. Kant, Logica (1800), a cura di L. Amoroso, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 18-21.

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questo legislatore della ragione, maestro della saggezza tramite l’insegnamento e l’esempio, è l’autentico ilosofo. Il tecnico della ragione, infatti, non si interroga sull’uso e, quindi, sui limiti e sugli effettivi poteri della ragione, ossia crede di disporne come uno strumento stabilito per qualsivoglia ine possibile o ritiene che la questione del ine, ossia del senso, non sia questione della ilosoia. Il ine vi appare, cioè, come qualcosa di aggiunto successivamente ed esteriormente (eteronomia del ine in Kant è sempre sinonimo di dipendenza e, dunque, di una relazione di potere subita, passiva, da ultimo irrazionale). Il tecnico della ragione dispone, cioè, di una scorta suficiente di conoscenze razionali e di una connessione sistematica di queste secondo l’idea di un tutto, ma rinunciando alla domanda critica sui limiti dell’organo di queste conoscenze, che implica necessariamente la domanda sulla loro inalità, rende, di fatto, quell’organo stesso, ovvero la ragione, impotente e inutile di per sé stessa, ossia come centro di forza autonoma, perché in relazione di dipendenza diretta da una forza esterna. Di conseguenza il tecnico della ragione, pur potendo sembrare fra le più elevate manifestazioni della razionalità, è, in realtà, altrettanto e intimamente irrazionale dei fanatici e dei visionari che non fanno alcun uso, ossia né strategico né strumentale, della ragione stessa. Severino trasmette alla sua scuola l’ampiezza dello sguardo strategico che Kant chiamava Weltweisheit: non certo il mero artiicio di una tecnica della ragione, sicché la creazione di una “scolastica severiniana” non ha e non avrebbe senso. Né codesta scolastica potrebbe presumere certo di portare avanti la più importante eredità ilosoica del maestro che, come sosteniamo in queste pagine, è di carattere strategico. Severino, con un’insistenza teoretica sulla storia della ilosoia che non ha eguali dai tempi di Hegel, ci invita a totalizzare lo sguardo sul canone ilosoico occidentale e sul mondo che vi si rispecchia per trarne, dal confronto, condotto con un’intensità e una passione che

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rasentano l’ostinazione, un’inedita, poderosa provocazione del pensiero, originale, si diceva, perché originaria. Ciò che accade, quindi, è un nuovo inizio del pensiero, un’apertura in cui si collocano, in modo diverso, con la libertà che è propria del ritorno come autentico ri-cominciare, gli allievi del maestro. A questo carattere di radicale ricupero dello sguardo ilosoico che non consiste in una particolare teoria, ma in un gesto8 che dischiude uno spazio cavo per ininite teorie, ovvero a questo primo elemento della stilistica ilosoica che possiamo ricavare dall’opera di Severino, ne consegue un secondo, tuttavia non meno “rivoluzionario”. In seguito al primo elemento emergeva l’impossibilità di intendere il lavoro della ilosoia come tecnica del pensiero centrata sulla volontà di controllo data da uno strumento (il lógos, il cogito, l’intelletto, la ragione, ecc.) tutto sommato inteso antropologicamente nel quadro di una teoria dell’azione e, quindi, in una prospettiva moralistica del pensiero (dopo Nietzsche la ilosoia e chi cerca di intenderla hanno compreso che l’intera parabola del pensiero occidentale o buona parte di essa può, ahimè, essere ricondotta ad un’utilitaristica, dal punto di vista delle esigenze sociali, genealogia della morale). Severino ci libera da questo giogo e dalla teoria del senso che esso implica, ossia da un pensare che è un agire per stabilire relazioni e quindi, come Adamo nel Giardino dell’Eden, imporre un ordine disciplinare dei signiicati che prima non apparivano o persino non c’erano. Ecco l’“essenza del nichilismo”! L’essere, per Severino, non è il contenitore astratto che stilizza, nella maschera del nulla-signiicato, il risultato di questo pensiero-azione che annoda i ili slegati dell’apparire, sì che il senso sarebbe sempre un risultato – quel ritrovare il tesoro della verità dietro il

8. Mi permetto di rinviare in proposito all’analisi condotta in A. Tagliapietra, Il dono del ilosofo. Sul gesto originario della ilosoia, Einaudi, Torino 2009.

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cespuglio dove prima lo si aveva nascosto, come suggeriva il giovane Nietzsche interrogandosi su Verità e menzogna in senso extramorale. Non si tratta, quindi, di aver heideggerianamente dimenticato il “senso dell’essere”, ma piuttosto, se mi si consente di giocare un po’ con le parole com’è d’uso fra i decostruzionisti, l’“essere del senso”. Ancora una volta, proprio in Ritornare a Parmenide – è questo breve, ma densissimo saggio l’autentico giro di boa della ilosoia di Severino, il punto prospettico da cui anche la Struttura originaria, che lo precede di sei anni, assume il signiicato suo proprio, che è, infatti, quello pienamente conferitole dalla seconda edizione del 1981 –, ecco presentarsi il secondo elemento, ossia una concezione dell’essere del senso che non dipende dalla contingenza del pensiero e dal suo rilesso nel mondo, ovvero da una presunta attività del pensare (chi mai “decide” di pensare?), ma rimane dove è sempre stato, ossia nella determinazione medesima, nell’esserci. Con l’eliminazione del contingente, il singolare viene restituito alla propria autentica dignità ontologica nell’orizzonte di quella “nuova” ontologia che Valent si azzardava a chiamare microntologia come «forza insieme unica e universale dell’esserci: quella che si rispecchia prima di tutto – prima del “che cosa”, del “perché”, dell’“a che titolo” – nel corrente “c’è”. Una microntologia? Sì, ma non una “ontologia del piccolo”. Microntologia, invece, nel senso che non c’è nessun evento che non si disponga per virtù propria in una peculiarità di signiicato, nel vigore elementare e insieme metamorico di un “qui”». Certo, i luoghi in cui la microntologia può afiorare e mostrarsi possono ben essere, come aggiungeva Valent in quelle pagine, il remoto, l’avverso-diverso, l’improbabile, l’anonimo, il folle, ossia «tutto ciò che insieme si ritiene minore nella capacità di realtà»9. Ma ciò avviene non per la loro “eccentricità” rispetto 9. I. Valent, Dire di no. Filosoia Linguaggio Follia (1995), in Italo Valent – Opere, cit., vol. IV, p. 26 (i corsivi sono miei).

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ai punti cardinali segnati da una presunta bussola ontologica del senso basata su una qualche differenza, bensì perché nella loro apparente deiezione si mostra meglio che cosa signiica che «la necessità sta nel tutto», ovvero che tale necessità, intrinseca e non estrinseca, risiede, «piuttosto, nel minimo – perché un massimo, come imprendibile vertice solitario del conoscere e come cintura inestensibile dell’essere, non è più rappresentativo. È, invece, metamorica, ininitamente metamorica»10. È su questo punto, ossia sul valore autofondativo di ogni determinazione, che si compie il ritorno a Parmenide, ma anche, con un gesto rivoluzionario che sovverte l’intera tradizione del pensiero occidentale e della cultura che vi si appoggia, si estende al concreto porsi dell’esserci ciò che nell’arcipelago dei frammenti superstiti del poema parmenideo si delineava con l’immagine mitica della totalità, ovvero la «ben rotonda sfera» (fr. 7,43). Ma la sfera del tutto, disintegrando l’immagine stessa, non può che essere quella che ha il suo centro ovunque, ma che necessariamente deve darsi nel “qui” da cui si irraggia il “negativo-positivo”, ossia l’affermativo, della determinazione11. 10. I. Valent, “A prezzo della vita”. Sulla follia della volontà (2000), in Id., Panta diapánton. Scritti teorici su follia e cura, in Italo Valent – Opere, cit., vol. VI, pp. 303-317, qui p. 306 11. In una glossa del recente Politica e negazione. Per una ilosoia affermativa (Einaudi, Torino 2018, pp. 56-58), Roberto Esposito segnalava l’importanza della particolare riconsiderazione del negativo sviluppata all’ombra del pensiero di Emanuele Severino da alcuni suoi allievi come Luigi Tarca e Massimo Donà. Mi permetto di aggiungere quello che indubbiamente, a partire dalla lezione del maestro, per primo ha affrontato questo tema portandolo al calor bianco, ovvero Italo Valent e il suo Dir di no. Per questa via certo si deve riaprire il conto con Hegel, che non viene certo chiuso dal gioco linguistico per cui nella negazione risuona la necazione dell’homo necans e dell’ordine sacriicale. Per altro è forse signiicativo che, nella pragmatica del buon sacriicio, in Grecia come altrove, il sacerdote oficiante cercasse il dir di sì, ovvero il gesto di assenso (o quello che veniva interpretato come un gesto di assenso) da parte della vittima sacriicale.

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Un negativo che infatti non esclude, ma equivale ad affermare oltre a questo c’è il tutto, ossia ad includere nella determinazione, nel ciascuno della singolarità, il tutto, ad affermare nell’esserci l’unico e concreto volto dell’essere. L’esserci è, allora, per riprendere le parole di Parmenide e del suo Poema (fr. 8,27), ánarchon, senza principio, come si suole tradurre, tradendo, senza dubbio almeno in parte, il signiicato cosmico-politico che l’arché assume nel contesto del pensiero della sapienza greca. L’esserci è anarchico. Arché nel greco classico signiica “principio”, ma, com’è noto, anche “ordine” nel senso di “comando”. La rivoluzionaria concezione dell’ontologia che viene proposta dal “ritornare a Parmenide” severiniano libera dalle antiche archaì, dalle «cose nascoste sin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35), per parafrasare il Vangelo, che tuttavia continuano a ripetersi ino ad oggi, ossia dai falsi legami delle potenze e delle gerarchie del potere. Questi legami non possono essere comandati e, in seguito al comando, ordinati. Invece, l’ordine dell’esserci, cioè la costellazione ininita dei suoi legami, è già da sempre nella determinazione stessa, senza dipendere da alcuna matrice, da alcun fondamento o condizione, da alcun controllo e imposizione sovrana, da alcun salvatore dei fenomeni o delle anime. L’esserci, ciascun esserci, è, in questo modo, nella sua necessaria singolarità12 (nel suo destino, come Severino preferisce dire) assolutamente libero dal rinvio ad una fondazione archica (e arcaica) – gli gnostici avrebbero detto sciolto e liberato dagli arconti di questo mondo – e pertanto intrinsecamente anarchico. È questo il panorama vertiginoso, al limite del senso, che la ilosoia di Severino dischiude alla ine di un equivoco lungo

12. Per lo sviluppo di questa nozione di “singolarità” mi permetto di rinviare ad A. Tagliapietra, Esperienza. Filosoia e storia di un’idea, Raffaello Cortina, Milano 2017.

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tanto quanto un’intera epoca del pensiero. A questo, quindi, ci convoca la lezione del maestro e la stilistica che, nell’evento del suo magistero ilosoico, facciamo nostra, perché, ripetendo le parole del poeta, «una misura sussiste, / comune a tutti, seppure a ciascuno è assegnata la propria [immer bestehet ein Mass, / Allen gemein, doch jeglichem auch ist eignes beschieden]»13.

13. F. Hölderlin, Brot und Wein (autunno 1800), III, vv. 8-10; tr. it., Pane e Vino, in Id., Poesie, con testo tedesco a fronte, a cura di G. Vigolo, Mondadori, Milano 1976, pp. 134-135.

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Grazie davvero, Maestro! Luigi Vero Tarca

Sono qui anch’io – insieme a voi, come tutti voi – per dire il mio “Grazie!” al Maestro Emanuele Severino. Grazie perché Lei ci ha offerto la possibilità di fare un’esperienza straordinaria. L’incontro con il Suo pensiero ci ha attratti irresistibilmente coinvolgendoci in un’avventura che, sia pure con modalità anche molto diverse per ciascuno di noi, ha segnato il nostro destino: dal punto di vista professionale, certo, per molti, ma anche in un senso più ampio e quindi forse più profondo per tutti coloro che oggi sono qui a renderLe omaggio. Grazie perché avere un autentico Maestro è una fortuna enorme nella vita. È un po’ come avere un padre. Si tratta infatti di un’esperienza che ha il tratto dell’irrevocabilità, anche se in questo caso essa va intesa in un senso diverso da quello della necessità semplicemente naturale tipica della generazione isica: è il generarsi di una dimensione che, se questo termine non fosse ormai un po’ logorato, potrei chiamare “spirituale”; o forse meglio, volendo usare una parola più adatta all’attuale circostanza, “destinale”. È anch’essa una specie di generazione, caratterizzata però dal modo di essere dell’eterno, il quale, per dirla con Parmenide (sì, proprio, e non a caso, Parmenide) «rimanendo identico e nell’identico, in sé medesimo giace, e

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in questo modo rimane saldo lì stesso [ταὐτόν τ᾽ ἐν ταὐτῶι τε μένον καϑ᾽ ἑαυτό τε κεῖται / χοὔτως ἔμπεδον αὖϑι μένει]» (Parmenide, DK 28 B 8, vv. 29-30). Sulla scia di questi versi, e indulgendo ancora per un momento a quel minimo di solennità che un’occasione di questo genere esige, ho pensato di leggere l’elogio che appunto Parmenide fa del suo Maestro1: ἀνδρὸς δὴ ἱεροῦ δέμας αἰϑέρες οἰκοδόμησαν [i cieli forgiarono il corpo (la igura) di quell’uomo sacro].

*** Lei, Professore, ha sempre tenuto rigorosamente distinta la Sua persona dalla verità che il Suo discorso ilosoico testimonia. Giusto, anche se forse pure tra la Sua igura – la quale comprende, naturalmente e in primo luogo, i Suoi scritti e i Suoi discorsi – e la verità dell’Essere che questi testimoniano vi è una qualche coappartenenza essenziale: una Zusammengehörigkeit, per dirla con lo Heidegger di Identität und Differenz. La igura (il corpo/scrittura/parola) del Maestro è certamente altro da ciò che lo rende Maestro. La sua presenza isica indica (semainei), allude (tramite lo allos contenuto in questo termine) a qualcosa d’altro rispetto alla sua persona, precisamente a quell’altro costituito dalla verità che «né uomini né dèi possono smentire», per rievocare le parole solenni che, giovani studenti, sentivamo echeggiare nelle aule dove Lei teneva lezione. Ma anche la Sua igura, in qualche modo, appartiene a questa verità che il Suo discorso evoca. Come la quercia che, accanto alla casa, custodi-

1. Il Maestro di cui si tratta era, secondo alcuni, il pitagorico Ameinias Diochaites. Questo verso compare come frammento 20 della raccolta curata da Giovanni Cerri (Poema sulla natura, BUR, Milano 1999, p. 161) sotto il titolo appunto di Elogio del Maestro.

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sce la dimora, cioè quel dimorare al quale anch’essa appartiene; o come la lapide celebrativa che a sua volta fa parte del palazzo che nomina e consacra. Allo stesso modo, l’individuo che nomina la verità e le sue parole che la enunciano appartengono, in un modo peculiare, a questa stessa verità. In questo senso, anche la igura (δέμας) del Maestro Emanuele Severino appartiene a quella verità “non smentibile” che la sua ilosoia testimonia. Tutti noi, credo, abbiamo sperimentato la potenza dell’incontro con una sua battuta, una sua osservazione, una sua domanda, capaci di segnare in maniera deinitiva il nostro modo di pensare. Voglio dire che è forse possibile, pur rispettando in pieno l’invito severiniano a tenere ben distinto il suo insegnamento dalla sua persona, cogliere quell’aspetto per il quale la coappartenenza dei due può essere intesa nel senso che il modo di parlare, di ragionare e di discutere di Severino, proprio per il suo essere costantemente rivolto alla verità innegabile, porta in sé un carattere peculiare che richiama palesemente un tratto essenziale di tale verità, quello della perentorietà deinitiva. Ed è proprio anche per questo che la sua testimonianza della verità è persuasiva e perciò eficace. Ho già accennato a questo aspetto nel saggio che è stato pubblicato nel volume in suo onore2. Lì osservavo come dialogare con Severino fosse sempre un’esperienza molto particolare, perché è un confrontarsi con qualcuno che ti invita a dialogare con la verità, ovvero con l’indiscutibile; essendo la verità, appunto in quanto innegabile, precisamente l’indiscutibile: ciò che è tale solo se è altro da tutto ciò che possa essere messo in discussione.

2. Il destino dell’essere. Dialogo con Emanuele Severino (a cura di D. Spanio), Morcelliana, Brescia 2014. Il mio saggio, che avevo scherzosamente intitolato “Te lo do io il dialogo…”. Una conversazione ilosoica con Emanuele Severino, vi compare alle pp. 247-258.

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Perché Severino è un Maestro duro, potrei dire inlessibile, appunto come il Destino del quale i suoi scritti parlano. Questa è, credo, parte essenziale della sua grandezza, il fatto cioè di non fare mai sconti sulla strada del pensiero, di non indulgere mai a cedimenti dettati da sentimenti umani, troppo umani… Sentiamo così risuonare, nel suo modo di fare ilosoia, il timbro dell’inlessibile. Eppure questa inlessibilità è profondamente lontana da ogni forma di arroganza o di prepotenza umane. Parlare di ilosoia con lui signiica sempre essere posti in quella situazione – che deinisce l’esperienza ilosoica (diciamo da Socrate a, per l’appunto, Severino) – nella quale non c’è una persona che ti imponga o ti costringa a riconoscere una sua verità; sei tu stesso che, posto di fronte alle pacate ma ferme domande/questioni che il vero ilosofo ti pone, inisci per confutare te stesso, e quindi, proprio attraverso questa puriicazione, per riconoscere che la verità è molto diversa da come in lì te l’eri immaginata. Proprio questo contribuisce a rendere particolarmente eficace e fruttuoso l’insegnamento di Severino. Ogni sua parola è un grande insegnamento. Mi limito qui a riportare un solo ricordo, risalente a molti anni fa. Avevo appena letto Siddhartha di Hermann Hesse, e avevo inviato a Severino una copia del libro con alcune mie sottolineature e osservazioni che evidenziavano una certa vicinanza al suo pensiero; almeno così a me sembrava, e su questo, appunto, chiedevo il suo parere. Qualche giorno dopo ci incontrammo a Venezia, in Dipartimento, ma non avevamo molto tempo a disposizione, perché Severino doveva prendere il treno per tornare a Brescia, sicché, salutandoci sulla soglia del suo studio, ci scambiammo un paio di parole, al termine delle quali egli disse una frase di questo genere: “Sì, ma all’Oriente manca la negazione”. Naturalmente si tratta di una battuta che va rigorosamente circoscritta al preciso contesto in cui essa fu pronunciata e quindi limitata a un veloce scambio di opinioni; eppure è un’osservazione che mi sono portato dentro

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come uno stimolo permanente. Questa battuta mi ha aiutato a capire che, se volevo davvero fare i conti con la verità di cui Severino parla, dovevo prendere sul serio, molto sul serio, la questione della negazione; cosa che ho poi appunto fatto nel seguito delle mie ricerche ilosoiche. Ma ciascuno di noi, immagino, potrebbe raccontare diversi episodi capaci di confermare il ruolo essenziale della persona di Severino nella nostra comprensione della verità. Pensiamo anche solo alla magistrale (in questa occasione è proprio il caso di usare tale parola) capacità di Severino di andare, in ogni momento, diritto al punto; di metterti cioè davanti allo scoglio che devi superare se vuoi raggiungere l’obiettivo che ti sta a cuore, cioè che venga riconosciuto come vero quello che affermi. Certo, questo può, in molte occasioni, risultare anche fastidioso per chi in qualche modo era convinto di essere giunto a un approdo deinitivo, di avere cioè guadagnato un punto fermo che gli pareva dotato di un valore incondizionato ma che invece adesso, dopo le osservazioni di Severino, veniva a manifestarsi come precario, cioè come opinabile se non, alla ine, propriamente contraddittorio. Le calme ma inlessibili domande di Severino ci costringono sempre a fare i conti con la verità ultima che ciascuno di noi, in qualche misura, pretende di avere. Per questo spesso accade che la sua parola sia avvertita come una sorta di macigno che viene posto tra noi e la verità che pure siamo convinti di possedere, come uno scomodo ostacolo sulla via di pensiero che stiamo percorrendo. Insomma, la fruttuosità dei colloqui con Severino dipende in gran parte dal fatto che essi ti mettono sempre di fronte alla durezza inlessibile della verità, quella che ti puriica costringendoti a riconoscere i tuoi errori, le tue contraddizioni. Del resto – come ricordavo – il dialogo con l’autentico ilosofo, almeno da Socrate in poi, richiede un’enorme disponibilità a riconoscere i propri errori; però esso dona, in compenso, la puriicazione determinata proprio

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da questo passaggio iniziatico attraverso il fuoco dell’elenchos, cioè della confutazione, che la verità comporta. *** Parlando dei colloqui con Severino ho evocato, inevitabilmente, il procedimento dell’elenchos, di cui credo proprio che Severino sia stato, in tutto il pensiero ilosoico, il maestro più rigoroso. Con questo voglio sottolineare – confermando dunque che anche su questo punto (cioè sulla necessità di distinguere colui che parla della verità da questa stessa) egli ha ragione – che rendere davvero omaggio alla igura reale del Maestro Severino vuol dire non tanto indulgere ad elogi personali, ancorché meritati, quanto piuttosto prendere sul serio la sua ilosoia, e fare davvero i conti con essa. È quello che ho fatto in tutta la mia vita. Così, è giusto che nel poco tempo che ho a disposizione io dica qualcosa a questo proposito; rispetto a ciò, del resto, ho già introdotto alcuni elementi in qualche misura decisivi, ovvero il procedimento fondativo elenctico e la questione della negazione, i quali, del resto, fanno tutt’uno, almeno in un certo senso. Tuttavia è opportuno, per introdurci adeguatamente a tale breve trattazione, passare attraverso alcuni aspetti che, anche se a prima vista possono apparire ancora di carattere biograico e quindi meramente fattuale, in realtà costituiscono una via d’accesso privilegiata al contenuto propriamente ilosoico che voglio presentare. La verità di Severino – questa espressione, qui, vuol sempre dire: la verità testimoniata dal discorso di Severino, cioè quella verità che, appunto, «né uomini né dèi possono smentire» – è, come ho incominciato a dire, una verità dificile, anche dolorosa. Perché essa suona come una condanna, totale e inappellabile, di tutta la nostra vita di uomini/mortali. È dura la vita degli allievi di Severino…: essere irresistibilmente attratti, fatalmente persuasi da una parola che

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però giudica conclusivamente, e in un certo senso condanna in maniera deinitiva, tutto quello che facciamo. Accogliere la parola di Severino pare (sottolineo questo “pare”) innanzitutto chiedere la disponibilità a una sorta di “suicidio virtuale”: condannare tutto ciò che si fa e quindi tutto ciò che si è. Basti pensare che ci viene da Lui dimostrato che ogni forma di agire è, in verità, follia. Che cosa resta, della nostra povera vita, se siamo costretti a riconoscere, a voce alta e in maniera netta, che tutto quello che facciamo è follia e violenza? Tutto; ma proprio tutto tutto: anche quello che facciamo quando facciamo ilosoia, persino quando facciamo l’elogio del Maestro, e addirittura pure quando riconosciamo la natura nichilistica del nostro agire. Capite perché dicevo che è dura la vita di un allievo di Severino… Ecco, la mia esperienza – ma credo non solo la mia – è stata un continuo fare i conti con questa inesorabile verità-condanna. Sia chiaro, nel pensiero di Severino è contenuta la risposta a questo problema, la sua soluzione, cioè l’assoluzione delle nostre “misere” vite di mortali. Basti pensare anche solo al fatto che essa ci ricorda costantemente che noi (richiamo parole che sono già state citate in questa occasione) «siamo re che si credono mendicanti». Ma il punto è che ciascuno di noi questa soluzione conforme all’inlessibile verità deve trovarla, afinché essa valga davvero, nella propria stessa vita, nel più intimo di sé stesso e nella propria esistenza reale. Così ho fatto anch’io; e ho capito subito – ecco riemergere il tema della negazione – che qualsiasi tentativo di negare/rinnegare la verità severiniana sarebbe stato in qualche modo un boomerang, una strada sbarrata (un’aporia, appunto). Ho capito subito, insomma, che il problema era proprio la negazione. In particolare – ecco un aspetto decisivo per la mia esperienza ilosoica – ho compreso che la verità di Severino, se veniva usata come un’arma contundente, cioè per “danneggiare” l’interlocutore, perdeva la propria caratteristica essenziale. Ricordo, a questo proposito, un episodio che ha segnato in maniera

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icativa il mio percorso ilosoico. Durante un seminario che si svolgeva in Dipartimento, un collega fece ricorso all’elenchos severiniano per zittire piuttosto perentoriamente, se non addirittura bruscamente, un giovane studioso che in realtà stava cercando di porre, magari in maniera ancora un po’ ingenua e immatura, una questione importante. In quell’occasione vidi usare la verità innegabile appunto come una sorta di arma contundente (appunto perché “contendente”, si potrebbe scherzosamente aggiungere); e capii come in un lampo che ciò che veniva usato per sconiggere/danneggiare qualcuno era qualcosa di diverso dalla verità ilosoica. Mi sarebbe venuto da dire, riferendomi al collega che si era comportato in quel modo, qualcosa di questo genere: “Quello che dici è vero… ma tu hai torto”. D’altro canto ho capito altrettanto presto che se per sfuggire alla verità contendente/contundente avessi rinunciato alla pretesa di innegabilità e di deinitività avanzata dal discorso di Severino avrei perso qualcosa di irrinunciabile; avrei sprecato il pregio essenziale della sua esperienza ilosoica. Così, in quell’occasione mi parve improvvisamente chiaro che il problema essenziale consisteva nel modo in cui l’innegabile verità veniva enunciata e comunicata. Per questo – esprimendomi in maniera ultrasintetica – la mia inlosoia, lungi dal contestare quella di Severino, è consistita nel derivare, dalla verità di cui egli parla, quella pura differenza e quel puro positivo che deiniscono appunto il mio pensiero. In altri termini, quello che sostengo è che è proprio la verità innegabile di cui parla Severino che implica le nozioni che esprimono gli aspetti peculiari della verità di cui parla il mio discorso ilosoico. Del resto, anche quelle che ho formulato come obiezioni al suo discorso sono sempre state esplicitamente presentate, persino nella prima fase del mio percorso ilosoico, come riletture della sua verità, in qualche modo integrative piuttosto che

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contestative rispetto ad essa, perché anche l’elemento critico (dove questo termine va inteso nel suo signiicato etimologico connesso al greco krinein, e cioè al giudicare che ha originariamente a che fare con ciò che è giusto) costituiva un aspetto interpretativo (e ri-valutativo) piuttosto che polemico. Per esempio, il primo saggio dedicato al suo pensiero3 è – anche al di là del titolo, che del resto non a caso riporta la parola “rilettura” – un’elaborazione delle tematiche severiniane che utilizzava alcune possibili obiezioni in vista di una riproposizione del suo pensiero caratterizzata da alcuni aggiustamenti e sviluppi relativi ad alcuni nodi fondamentali. E ho avuto la soddisfazione di vedere che in effetti tali suggerimenti risultavano non solo compatibili ma in alcuni punti propriamente coincidenti con l’evoluzione che lo stesso discorso di Severino ha effettivamente avuto per forza interna, cioè grazie all’esplicitazione e alla coerentizzazione di alcuni aspetti concettuali. Mi riferisco, per esempio, alla problematizzazione del “non apparire” proposta in quel mio libretto, la quale, riprendendo la classica obiezione di Bontadini (il non apparire di qualcosa attesta l’annullamento almeno dell’apparire di tale cosa), la convertiva, per così dire, in positivo (l’impossibilità che anche l’apparire si annulli impone un ripensamento del senso stesso del non apparire), cioè in una posizione che mi pare ampiamente convergente con il passo compiuto da Severino a partire da Destino della necessità. Potrei poi anche aggiungere, venendo a scritti successivi, che l’esigenza di un compimento positivo del dire ilosoico espressa nel mio Differenza e negazione4 – dove avevo osservato che il suo discorso, se da un lato enuncia la 3. Verità, alienazione e metaisica. Per una rilettura critica della proposta ilosoica di Emanuele Severino, Mevio Washington & C., Sondrio, elaborato in successive occasioni negli anni Settanta e pubblicato nel 1980. 4. Differenza e negazione. Per una ilosoia positiva, La Città del Sole, Napoli 2001 (revisione di una prima edizione del 1999 dal titolo Filosoia positiva),

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positività totale dell’essere, dall’altro lato sembra testimoniare solo la negatività della follia e dell’alienazione complete della nostra vita5 – risulta ampiamente soddisfatta nelle sue opere più recenti, a partire in particolare da La Gloria. *** A questo punto, la domanda dei miei interlocutori di solito suona: ma insomma, qual è allora la differenza tra il tuo pensiero e quello di Severino? Mi risulta sempre dificile rispondere a questa domanda;6 perché il mio pensiero, che scaturisce in gran parte da quello di Severino, giunge a mettere in questione, ma proprio sulla base dell’impostazione ilosoica severiniana, la stessa nozione di differenza e quindi anche quella di negazione, nonché quella specie di identiicazione tra le due che di fatto viene compiuta quando esse vengono poste come equivalenti l’una all’altra (equivalenti nel senso logico del termine: ciascuna delle due implica l’altra). Il mio pensiero si interroga a fondo, appunto, su questa originaria commistione e poi anche compromissione della differenza con la negazione, e attraverso questa via perviene a un ripensamento/rinnovamento profondo del signiicato di tutti i termini in gioco (differenza, negazione, e così via). È per questo che ritengo poco utile – almeno in prima battuta (magari in seguito, al termine del discorso, riuscirò a soddisfare anche questa richiesta) – rispondere alla domanda circa la differenza tra il mio pensiero e quello di

riedito nel 2017 come tomo 2 del volume I delle mie opere complete in via di pubblicazione presso Mimesis (Milano-Udine). 5. Si veda il cap. V della Prima Parte, §§ 2 e 3, in particolare al § 2.3. 6. Come del resto avevo accennato anche a p. 253 del già citato saggio “Te lo do io il dialogo…”.

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Severino; perché sono praticamente sicuro che il signiicato che l’interlocutore dà a queste parole è profondamente diverso da quello che io attribuisco loro, sicché egli intenderebbe tutto quello che io dico in una maniera pregiudicata dal fatto di essere originariamente piegata in una certa direzione. Per esempio, all’interno di un orizzonte (quale è quello consueto) che identiica la differenza con la negazione, sembra che ammettere una differenza tra il mio discorso e quello di Severino equivalga a indicare almeno un punto, fosse anche minimo, sul quale i nostri due discorsi risultano reciprocamente incompatibili, e per il quale essi sono quindi l’uno la negazione dell’altro. Se invece l’individuazione di un punto siffatto manca, allora si deriva da ciò che i nostri due discorsi sono identici, perché tra di essi, mancando un momento di reciproca negazione, non vi possono essere differenze. Ma – ecco il punto decisivo – al di fuori di tale pregiudiziale identiicazione della differenza con la negazione la conclusione può essere diversa. Per esempio, in un certo senso potrei dire che il mio discorso conferma tutto quello che la verità di Severino afferma, e che tuttavia il mio discorso è diverso dal suo. Certo questo può anche signiicare che i due discorsi siano in qualche misura in reciproca contraddizione, ma può anche signiicare semplicemente che invece essi testimonino differenti aspetti della stessa verità, ovvero che testimonino in maniera diversa la medesima verità. Questo è precisamente quello che io sostengo con la mia posizione, della quale esporrò dunque ora uno schema ultrasintetico e puramente formale. Naturalmente so di avere a che fare con persone intelligenti le quali capiscono perfettamente che quello che ora vi dirò è, nella migliore delle ipotesi, solo l’indice di quella che potrebbe essere una trattazione soddisfacente di questioni così complesse e dificili come quelle che qui si pongono. Ecco dunque la brevissima sintesi della mia posizione ilosoica, considerata qui in particolare nella sua derivazione

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da quella di Severino e nella sua relazione con alcuni punti fondamentali di quest’ultima. *** Partiamo dunque dalla verità innegabile. La verità, in quanto in-negabile, cioè non-negabile, è, per ciò stesso, non-negata. Il suo pregio e il suo valore (quindi il suo fungere da positivo) consistono nel fatto che essa non patisce le offese della negazione e perciò non è un negativo, intendendo per “negativo” appunto la realtà in quanto subisce/patisce le offese della negazione. È per questo che la verità ha la meglio rispetto alla non-verità (ne ha ragione, pre-vale su di essa); appunto perché la verità è salva rispetto a quel negativo dal quale è invece affetta la non-verità. Ma allora – ecco un primo, decisivo punto – la verità (con tale termine intendo qui e in seguito sempre la verità innegabile), se consiste in una negazione, viene a sua volta negata da ciò che essa nega (giacché ciò che nega qualcosa viene a sua volta negato da tale qualcosa) e si costituisce quindi essa stessa come un negativo (essendo negativo ciò che subisce la negazione), perdendo in tal modo il carattere positivo (il pregio/valore) di cui si diceva. Insomma, se negativo è tutto ciò che si determina mediante la negazione, allora la verità, in quanto si determina (come in-negabile, cioè come non negabile) mediante la negazione, viene a sua volta ad essere qualcosa di negato e, per ciò stesso, qualcosa di negativo. In quanto tale, essa viene a contraddire il suo carattere in-negabile e quindi si presenta come non-verità piuttosto che come verità. Spesso sintetizzo questa situazione con la formula: “(in verità) omnis negatio est contradictio”, cioè “ogni negazione è una contraddizione”. L’attribuzione alla verità di un valore positivo (differente da quello negativo) esige dunque che essa sia pensata come

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cosa di diverso da ogni negazione e quindi che anche la sua differenza rispetto alle altre cose sia pensata come qualcosa di diverso dalla differenza-negazione (la differenza che è negazione)7, cioè come “pura differenza”8. La differenza tra la verità e la non-verità consiste in una pura differenza perché se si costituisse come una differenza-negazione allora la verità verrebbe ad essere negativa e quindi a rovesciarsi in non-verità. È poi importante osservare che solo grazie alla pura differenza è eventualmente possibile introdurre, in relazione alla nozione di negazione, quelle distinzioni che consentono di elaborare delle concezioni della negazione capaci di risolvere l’aporia dell’in-negabile (quella per cui l’in-negabile si presenta come negativo). Penso per esempio a un tipo di negazione diversa da quella che rende negativo ciò che mediante essa si determina9, diversa cioè da quella negazione “nociva” che io chiamo necazione in riferimento all’etimo latino nex, necis (morte violenta, uccisione, strage). Se, infatti, tali distinzioni venissero introdotte mediante delle differenze che sono negazioni, ciò riproporrebbe il problema anziché risolverlo, dal momento che in questo caso è proprio la negazione ciò che costituisce problema e al cui interno bisogna quindi operare le distinzioni. Qui la questione linguistica diventa decisiva, giacché un linguaggio che possiede, come unico strumento per indicare le differenze,

7. La differenza-negazione è quella usuale per la quale la differenza e la negazione sono equivalenti (in senso logico), il che, qui, vuol dire: ogni negazione costituisce una differenza, e ogni differenza costituisce una negazione. 8. Questa è l’espressione che io uso per riferirmi alla differenza in quanto questa si distingue dalla negazione mediante una differenza diversa dalla differenza-negazione. 9. Per esempio, si può pensare anche a una negazione diversa da quella per cui ciò che nega è automaticamente anche negato; oppure ancora a una negazione priva di qualsiasi oggetto; o comunque, in generale, a una negazione diversa da quella che scatena l’aporia.

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formule che incorporano negazioni – come per esempio accade quando la differenza tra A e B implica un’affermazione del tipo A non è B – si trova in dificoltà quando si tratta di risolvere questo peculiare tipo di contraddizioni. Insomma, la soluzione richiede in ogni caso l’introduzione di alcune distinzioni interne alla differenza e alla negazione (ordinariamente intese), e quindi richiede comunque una pura differenza. Quello che merita di essere sottolineato è, come ho anticipato, che tutto questo risulta giustiicato proprio mediante il procedimento elenctico, quello che individua l’innegabilità della verità nel fatto che persino la sua negazione è costretta ad affermarla. Questo è, appunto, uno dei grandi insegnamenti di Severino, che certamente egli eredita dalla nostra tradizione ilosoica – Parmenide, Platone, Aristotele, solo per nominare i primi della lista – ma che sviluppa in maniera originale e davvero magistrale (oggi possiamo concederci di abbondare nell’uso di questa parola…). Paradigmatico è il principio di opposizione, cioè «la legge dell’opposizione del positivo e del negativo»,10 per la quale «il positivo non è il negativo»11; appunto perché persino chi si oppone a tale principio è costretto, con ciò stesso, ad affermarlo. Quello che io faccio osservare è che proprio l’elenchos mostra come vi sia un senso secondo cui la verità è libera rispetto alla negazione perché, nella misura in cui è negante (cioè consiste in una negazione), è autonegativa (cioè nega sé stessa), dal momento che nega qualcosa che a sua volta afferma la verità12. 10. E. Severino, Ritornare a Parmenide, in Id., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano (1982) 1995, pp. 19-61: p. 29. 11. Ivi, p. 37. 12. Perché ciò che la verità nega è, necessariamente, la sua negazione (cioè la non-verità); ma, come abbiamo visto, la verità è deinita dal fatto che persino

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Di particolare interesse è poi la circostanza che è proprio la pura differenza che, oltre a risolvere l’aporia dell’in-negabile, consente di rendere davvero rigorosa la fondazione elenctica. Perché, sempre osservando da vicino tale fondazione, ci accorgiamo che vi è un senso secondo nel quale il contenuto della verità coincide con quello della non-verità. Infatti, se vi fosse anche solo una minima differenza tra ciò che dice la verità e ciò che dice la non-verità, accadrebbe allora che tale differenza/ eccedenza (che chiameremo dE) comprometterebbe la fondazione elenctica della verità13. In generale, insomma, se vi è una differenza tra quello che afferma la verità e quello che afferma la non-verità (intese come contrapposte l’una all’altra mediante un rapporto di reciproca negazione) allora viene meno la possibilità di rendere ragione del prevalere della prima sulla seconda, cioè del suo (della verità) avere la meglio sulla nonverità, avere ragione di essa. Perché qui siamo nel regno della

la sua negazione (la non-verità) la afferma; sicché la verità, negando, nega qualcosa (la non-verità) che la afferma (afferma la verità), e quindi in qualche senso la verità nega sé stessa. Da questo punto di vista si deve riconoscere che la verità, in quanto è negazione, è autonegazione. 13. Poniamo, infatti, che la verità affermi dV, e che invece la non-verità non affermi dV. Questo signiica che dV, comunque si determini il suo speciico contenuto, è qualcosa che la verità afferma ma che non risulta confermato dalla non-verità. Almeno tale contenuto (dV), quindi, non risulterebbe elencticamente fondato, sicché poi anche la verità nel suo complesso (cioè in quanto inclusiva pure di dV) risulterebbe non confermata elencticamente, e dunque perderebbe la caratteristica di verità innegabile. Per converso, se fosse la non-verità ad affermare qualcosa (dN) che non viene affermato dalla verità, accadrebbe allora che vi sarebbe un contenuto particolare (appunto dN) capace di costituirsi come negazione della verità (giacché è un contenuto che deinisce la non-verità) ma che non si conigurerebbe come autonegazione, dal momento che la non-verità, pur negando tutta la verità, non verrebbe a negare questo suo contenuto, dal momento che esso, per ipotesi, non viene affermato dalla verità. Vi sarebbe, in tal modo, un aspetto della negazione della verità che non subisce il “processo” elenctico e quindi resta in circolazione come un nemico della verità che non è stato sconitto da questa.

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giustiicazione ultima (quella elenctica, appunto), sicché una giustiicazione che si rifacesse a qualcosa di altro dall’elenchos implicherebbe una giustiicazione più fondamentale della giustiicazione ultima, il che è contraddittorio. Ora, nella prospettiva della pura differenza – per la quale la differenza è libera rispetto al suo essere negazione – si apre la dimensione per la quale la differenza tra la verità e la non-verità risiede tutta precisamente in quel “non”, cioè nella negazione (intesa come necazione, o almeno come negazione indifferenziata e quindi comprensiva anche dell’aspetto necativo). La non-verità è la negazione che, negando ciò che essa stessa afferma, nega sé stessa; la verità, per parte sua, ponendo tutto, pone anche la non-verità, anche se naturalmente la pone nel suo autonegarsi. In tal modo l’aspetto negativo/necativo del loro rapporto resta tutto e solo dalla parte della non-verità, pur essendo totalmente posto anche dalla verità (la quale semplicemente rilette l’autonegazione della non-verità). Insomma, la non-verità è la negazione che, affermando ciò che nega, nega sé stessa, mentre la verità, ponendo tutto, pone anche l’autonegarsi della non-verità, e in tal modo si differenzia in maniera puramente positiva da quest’ultima. Proprio questo rende possibile giustiicare in maniera ultimativa il prevalere della verità sulla non-verità: dato che la negazione (in quanto rende negativo ciò a cui si riferisce) è l’essenza di ogni negativo, ciò che, rapportandosi ad essa in maniera positiva, se ne distingue mediante la pura differenza, è per ciò stesso meglio rispetto al negativo. Chiedere perché la verità (puramente, pienamente positiva) sia da preferire alla non-verità è come chiedere perché la liberazione rispetto al dolore sia da preferirsi al dolore. Questo signiica appunto che la pura differenza è condizione della possibilità dello stesso funzionamento della giustiicazione elenctica; perché solo essa consente di distinguere coerentemente la verità dalla non-verità come ciò che prevale rispetto alla seconda.

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*** Le questioni che ho sinteticamente proposto conducono a un ripensamento profondo dell’argomento elenctico e a una conseguente risemantizzazione complessiva che schiude uno scenario anche profondamente innovativo. Fornisco, in proposito, solo qualche cenno. La pura differenza e il puro positivo (cioè il positivo in quanto si differenzia in maniera pura dalla totalità del negativo, compreso quindi anche il non-negativo) caratterizzano la igura dell’elenchos positivo che si presenta ora accanto a quello negativo. Quest’ultimo è l’elenchos per il quale la verità è ciò che viene confermata dalla propria negazione; positivo, invece, è l’elenchos per il quale la verità è ciò che viene confermata da ogni cosa (perciò eventualmente anche dalla negazione e quindi persino dalla propria negazione). La verità positiva è, da questo punto di vista, l’insieme totale (o completo: l’intero) – dal momento che questo è ciò che si com-pone di/con ogni essente – ovvero l’assoluto (il tutto-positivo, salvo rispetto alla totalità del negativo). Un’ulteriore conseguenza altrettanto importante è quella alla quale io do il nome di onnialetismo, cioè la posizione la quale riconosce che “tutte le pro-posizioni sono vere”; almeno nel senso che tutte le pro-posizioni appartengono alla verità, perché tutte contribuiscono, ognuna a suo modo, a determinare l’assoluta verità che dunque ciascuna di esse, in una maniera speciica e peculiare, manifesta. Si dovrebbe poi parlare del versante che potrei chiamare esistenziale/etico/politico di questo orizzonte di pensiero; perché l’approfondimento di tali punti aiuta a cogliere il nesso originario che vi è tra la nozione del negativo e quella del dolore, da una parte, e quindi tra la nozione del positivo e quella del

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cere, dall’altra parte; e poi tra la nozione del negativo e quella del conlitto/potere, e così via. Tutto questo, inine, consente una lettura, di quello che sta accadendo al mondo, guidata dallo sguardo della verità, per esempio e in particolare nella misura in cui scorge, in primo luogo, l’incarnarsi della igura dello in-negabile nel potere in-vincibile (in-contrastabile e in-vulnerabile); ma poi, più in generale e a un livello ancora più originario, il suo (dell’in-negabile) fare tutt’uno con la igura dell’im-mortale. Anche rispetto a tali questioni la distinzione tra l’in-negabile e il puro positivo gioca un ruolo decisivo, grazie al quale la libertà rispetto alla totalità del negativo viene ad assumere, piuttosto che la forma della rottamazione dei mortali, quella dell’avvento sulla terra di una forma di vita libera dal dolore e dalla morte: l’oltrepassamento della vita dolente e mortale. Tutti questi punti andrebbero naturalmente approfonditi a lungo14, ma ciò che ora, dovendo concludere il mio intervento, mi preme comunicare può essere compendiato in due battute. *** La prima è che tutto quello che ho detto è, dal mio punto di vista, pienamente compatibile con l’intero insegnamento severiniano, perché è derivato precisamente dalla verità di cui si parla nei suoi scritti e che egli ci ha insegnato a comprendere. 14. Chi volesse appunto approfondire tutti gli aspetti qui semplicemente accennati può fare riferimento ai miei scritti, tra i quali mi limito ora a segnalare, oltre a quelli citati nelle precedenti note, La ilosoia come stile di vita. Introduzione alle pratiche ilosoiche, Bruno Mondadori, Milano 2003 (scritto con Romano Màdera); Quattro variazioni sul tema negativo/positivo. Saggio di composizione ilosoica, Ensemble ’900, Treviso 2006; e Verità e negazione. Variazioni di pensiero, a cura di Th. Masini, Cafoscarina Editrice, Venezia 2016.

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In particolare – ci tengo a ribadirlo – è compatibile con l’affermazione che la verità implica necessariamente la negazione della non-verità. A prima vista può sembrare che non sia così. Per esempio potrebbe sembrare che, mentre Severino afferma che la verità è negazione della non-verità, io affermi – al contrario (?!) – che la verità non è negazione della non-verità. Ma questo contrasto è apparente. Perché ciò che il mio discorso fa, ben lungi dal negare una qualsiasi proposizione, è chiarire il signiicato di alcuni aspetti peculiari dell’affermazione severiniana che «la verità è negazione della non-verità». In effetti, tutto quello che ho esposto deriva direttamente dalla stessa verità fondata elencticamente; d’altro canto è chiaro che, proprio perché la dimensione all’interno della quale qui ci muoviamo è quella nella quale il signiicato autentico di tutte le parole si costituisce, ogni aspetto del discorso si fa qui estremamente complesso e sottile. La straordinaria delicatezza del compito ilosoico si palesa in particolare nella circostanza che, risultando qui messo in questione il signiicato stesso delle nozioni di differenza e di negazione, qualsiasi determinazione sembra vacillare, e quindi tutto pare a volte precipitare in una confusione insanabile. Questo, però, accade solo nella misura in cui noi presupponiamo automaticamente che si dia determinazione solo laddove si dia negazione. Credo che il compito essenziale della ilosoia consista oggi proprio nella capacità di mettere in questione persino la nozione di negazione, di interrogarsi cioè sul suo stesso signiicato, conservando però, nello stesso tempo, la capacità di determinare chiaramente il proprio discorso. Si tratta dunque di temi estremamente delicati che vanno affrontati con calma e con la dovuta attenzione ai dettagli e alle singole situazioni. Qui mi limito a “chiudere” il punto con una formulazione scherzosa, che mi consente comunque di portare

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un chiarimento importante circa la questione, sollevata all’inizio, della differenza tra la ilosoia di Severino e la mia. Potrei dire in questo modo. Io presto ascolto alla parola di Severino che mi dice di ascoltare la verità innegabile. Prestando ascolto alla verità, io “sento” anche le parole che mi parlano della pura differenza, del puro positivo, e così via. Dal momento che io le ascolto dalla verità, posso dire di essere totalmente d’accordo con l’insegnamento di Severino, il quale appunto questo mi ha invitato a fare. La vera domanda, a questo punto, è: io sono totalmente d’accordo con Severino, ma Severino è d’accordo con me? Perché quelle che io ascolto dalla verità sono parole anche diverse da quelle che la verità ha “dettato” a Severino. Può così accadere, come in effetti è accaduto, che egli non sia d’accordo con il discorso che io propongo, o almeno con parte di esso. La situazione a questo punto si fa delicata, perché ora i “dialoganti” sono tre: Severino (che riferisce le parole che egli ha ascoltato dalla verità), il sottoscritto (che a sua volta riferisce quello che sente dalla verità), e naturalmente la innegabile (e quindi indiscutibile) verità. I primi due discutono tra di loro su quello che la indiscutibile verità dice. Questa “triangolazione” determina una situazione già estremamente complessa in sé, ma poi particolarmente delicata dal mio punto di vista, in quanto questo comprende quello che ho chiamato “onnialetismo”. Infatti, se tutte le proposizioni sono vere, come potrei io dire che non è vero quello che dice Severino?… Il suo discorso, anzi, è doppiamente vero: come un qualsiasi discorso, ma poi anche, e soprattutto, come quel discorso che con tanta forza nomina, evoca e testimonia la verità ultima. Ma se il suo discorso è tutto vero, allora è vero anche quando dichiara che quello che io dico non è vero. Questo esito pare assolutamente esiziale per il discorso che propongo, e tuttavia esso è davvero tale solo nella misura in cui si dimentichi che il signiicato di tutte le nozioni in gioco (verità, negazione, signiicato ecc.) si determina differentemente in ogni contesto/

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situazione, sicché il senso di una pro-posizione, quando questa viene affermata, è diverso da quello che essa assume quando viene negata. E diverso è, nei due differenti contesti, persino il senso della verità e della negazione. L’introduzione di questa differenza è suficiente a salvare la posizione onnialetica dalla contraddizione, ma naturalmente impone a chi la sostiene il compito di chiarire il senso delle varie distinzioni che entrano qui in gioco, dal momento che resta fermo che la verità è sempre (anche) diversa da tutto ciò che possa essere negato, e quindi anche diversa da qualsiasi discorso, nella misura in cui questo è passibile di negazione. Quando accade, dunque, che Severino neghi la verità del discorso che io propongo, ciò che la verità mi invita a fare è di comprendere più a fondo il senso secondo il quale il mio discorso ilosoico resta vero anche a fronte della negazione portata15. In altri termini, si tratta di cogliere il senso secondo il 15. Chi volesse avere una prima idea di questa discussione tra Severino e il sottoscritto può tenere presente la critica che egli ha mosso al mio già citato libro Differenza e negazione nell’articolo intitolato Verità, negazione, differenza, in «Teoria», XXII, n. 2, 2002 (nuova serie, XII/I), pp. 3-15, alla quale io ho risposto nel saggio Tutto diverso dalla negazione, in L’identità in questione. Prospettive ilosoiche, numero monograico di «Teoria», XXVI, n. 1, 2006 (terza serie I/1), pp. 113-135. Successivamente, al mio saggio Negazione della contraddizione e verità della contraddizione, in N. Cusano (a cura di), Discussioni su verità e contraddizione, numero monograico della Rivista «La ilosoia futura», n. 1, 2013, pp. 165-190 (che peraltro era stato preceduto da Negazione del non essere e verità dell’essere, in Omaggio a Emanuele Severino, numero monograico della rivista «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012, pp. 31-46), Severino ha replicato, nel numero successivo della stessa rivista («La ilosoia futura», n. 2, 2013), all’interno della Rubrica “Discussioni” (pp. 141-155), con un articolo intitolato Intervento di Emanuele Severino, pp. 141-149, precisamente alle pp. 141-144. Inine, in riferimento al mio saggio Chi di negazione ferisce… L’unico argomento possibile per una confutazione della verità inconfutabile, in S. Sangiorgio - M. Simionato - L.V. Tarca (a cura di), A partire da Severino. Sentieri

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quale quello che io dico è pienamente compatibile con quello che dice Severino (compresa la sua obiezione), così che i nostri due discorsi vengano entrambi a presentarsi come due valide testimonianze di differenti aspetti della stessa verità. In effetti, nelle occasioni precedenti in cui Severino ha mosso delle obiezioni al mio discorso, le sue osservazioni critiche hanno sempre costituito degli stimoli formidabili che mi hanno consentito di chiarire meglio il contenuto veritativo che intendevo davvero comunicare, spingendomi anche a ritoccare alcune formule espressive e aiutandomi in tal modo a portare alla luce quel senso autentico del mio discorso che consente a questo di appartenere alla verità innegabile di cui parla Severino. È anche alla luce di queste osservazioni che potrei, al termine di questo breve tragitto speculativo, rispondere alla domanda circa la differenza tra la ilosoia di Severino e la mia dicendo che tra le due vi è una pura differenza, quella differenza che, appunto, è compatibile con l’identità, o forse meglio, pensando di nuovo a Heidegger, con la stessità. Appunto perché la mia ilosoia nasce interamente dall’ascolto della verità che Severino ha indicato, e perché solo in una logica non-veritativa diventa necessario che la differenza tra le nostre due parole (i nostri due discorsi) implichi la loro contrapposizione piuttosto che la loro reciproca com-posizione. Qui, di nuovo, il discorso si rivela particolarmente complesso e delicato; anche perché si pone il problema di distinguere il discorso della verità della quale il discorso di Severino parla da questo suo stesso discorso che di aperti nella ilosoia contemporanea, Aracne, Ariccia (RM) 2016, pp. 277-317, l’intervento critico di Severino è comparso, con il titolo Risposta a Luigi Vero Tarca, alle pp. 55-61 di Sull’ininito (a cura di N. Cusano), numero monograico della rivista «La ilosoia futura», n. 7, 2016. Risponderò a mia volta a questo ultimo intervento di Severino nel prossimo numero della stessa rivista, anche se alcuni punti di tale risposta sono contenuti nei vari saggi che ho pubblicato successivamente all’articolo di Severino, tra i quali, sia pure nella forma di semplici accenni, naturalmente anche il presente.

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essa parla. Io credo che anche a questo livello sia necessario introdurre la pura differenza, perché da un lato i due (il discorso di Severino e la verità) vanno rigorosamente distinti (e Severino, come ho già detto, è il primo a esigere questo), eppure in qualche modo essi anche si coappartengono, perché è proprio nel discorso di Severino che la verità viene testimoniata. Vediamo così ritornare, in conclusione, il tema della coappartenenza tra Maestro e verità, ma questa volta giustiicato teoreticamente piuttosto che biograicamente. *** La seconda battuta conclusiva – molto più breve ma, almeno per me, altrettanto importante – è che questi pensieri hanno allietato tutta la mia vita. Compreso evidentemente questo momento di festa, di gratitudine e di gioia. Perché il Vostro/Nostro essere qui oggi è essenziale al rivelarsi completo del Magistero di Severino, dal momento che il Maestro si rivela come tale proprio anche nel Suo aprire lo spazio al cui interno si raccolgono tutti coloro che nel Suo insegnamento si riconoscono. Grazie, dunque, Maestro! E grazie a tutti Voi, la cui presenza mi consente oggi di fare questo sentito omaggio a Emanuele Severino. Grazie davvero. “Davvero” innanzitutto perché – ritornando ancora una volta al tono scherzoso che è consono all’affettività propria di un’occasione di questo tipo – il ringraziamento proviene dal Vero, inteso come una persona in carne e ossa (proprio questo, infatti, è il mio nome di battesimo); ma poi anche perché è, insieme, un ringraziamento che si riferisce sostanzialmente al dono della verità che Lei ha offerto, insieme a molte altre persone, anche a me. Il mio, insomma, è un “Grazie!” che intende essere personale e, insieme, conforme alla verità.

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Morte e indicazione di eternità di Emanuele Severino. Dal cambio di paradigma etico alla rivoluzione morale Ines Testoni

Introduzione Qualsiasi discorso che tratti il tema della morte si affaccia su due versanti. Il primo riguarda il fatto che non si abbia niente da dire a causa dell’implosione di senso che deriva dal trovarsi nella condizione di Re Mida dinanzi al Sileno nietzscheano, là dove ogni scenario si estingue nel trapasso dall’eroico sì alla vita greco al cinismo che ne può conseguire e di cui spesso la storia ci ha dato tragica testimonianza1. Il secondo invece si impone per la complessità, ma anche per il rigore, con il quale il tema viene affrontato. Infatti, se è certo che proprio perché non si può dubitare che siamo destinati a morire e dunque nessuna nuova può esser detta in proposito, è altrettanto sicuro che qualsiasi discorso che parta da questo punto fermo volendo negare la soluzione tragica può risultare banale in quanto foriero di inganni e affabulazioni e dunque accendere, per la legge del contrappasso, il pensiero critico. Rispetto a questo secondo caso, molto è già stato detto, proprio grazie a Nietzsche, tra Ottocento e Novecento, dal pensiero del disincanto, che ha 1. Cfr. F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. di S. Giametta, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1978.

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mostrato come ogni consolazione possa esser presa sul serio solo dopo che ne siano stati decodiicati i ini sociali e siano stati riconosciuti i gruppi di potere che ne traggono vantaggio. Per quanto riguarda invece la rilessione su ciò che viene considerato signiicativo e non meramente palliativo, il rischio è quello di stabilire che intorno a ciò che è necessario non si abbia alcunché da dire, perché il linguaggio è usato per trasformare il mondo. Per esempio, le strategie linguistiche delle scienze mediche, rispetto alla morte, sembrano tutte altamente propizie perché in qualche modo utili, essendo associate alla fede che da esse dipenda l’estensione del tempo della vita e la vittoria contro la malattia. Di fatto però, da ultimo, rappresentano anche l’espressione della sconitta più certa di qualsiasi volontà di immortalità, perché oltre determinati limiti, per quanto estensibili, la medicina non può nulla. Ebbene, è proprio quando il gioco linguistico perde di valore che il parlare con rigore diventa ineludibile e il suo manifestarsi dirada l’oscurità per lasciar trasparire la luce, a cui siamo così abituati da ignorarne la presenza, insieme al signiicato più profondo che fa da sfondo a ogni possibile parola. Si tratta dell’illuminazione garantita, dice Emanuele Severino, dal sapere di essere già da sempre salvi e dall’apparire di questo contenuto come sfondo di tutto il visibile. Eppure, proprio perché è esattamente ciò che ignoriamo, in questo capitolo prendiamo l’abbrivio verso siffatta direzione, volendo mettere in evidenza come ancora sul senso del morire ciò che più conta è inalmente stato enucleato, proprio dallo stesso ilosofo. Poiché da questa indicazione dipende un nuovo signiicato da attribuire alla vita, probabilmente molto è ancora da deinire anche rispetto alla morale, intesa non tanto come espressione comportamentale di obbedienza a un’etica che deinisce il dover essere, quanto piuttosto come risposta culturale entro cui l’azione si compie illuminata appunto da un linguaggio che non assume la fede nel divenire come fondamento del senso di ogni parola. In

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sto spazio, che non predeinisce leggi che vorrebbero imporsi come inconfutabili o immodiicabili e destinate invece ad esser smantellate dalla storia, è possibile pensare ad un’autentica uniicazione tra morale ed etica. Se infatti i comportamenti dell’uomo sono sempre inscritti nell’orizzonte linguistico, all’interno di un linguaggio che tiene ben presente la propria distinzione rispetto a quello issato sulla fede nel divenire, la morale che ne deriva non può che essere altra da quella che la storia ci ha insegnato ino ad ora e probabilmente da essa si può evincere il senso etico dell’azione umana. Se l’etica metaisica intendeva imporsi in nome della volontà di verità, assumendo determinati riferimenti come immutabili e deinendo la bontà in funzione del comportamento che rispetta il dover essere nel rispetto di un percorso deduttivo, al contrario, da questa nuova prospettiva, la morale, senza dover obbedire supinamente ad alcuna volontà ideologica predeinita, lascia trasparire l’etica che la sottende, e riconoscibile solo quando il senso dell’azione sia completamente compiuto attraverso la storia, grazie ad un processo ermeneutico induttivo relativo a quanto già accaduto. Quando riuscissimo a muoverci in questa direzione, potremmo davvero dare senso alla convinzione, che ino ad ora sembra esser stata solo proclamata e poco confermata, secondo cui la storia insegna. Nel nostro caso, dovremmo dire “ha disvelato”.

1. Crisi e conlitto in Occidente a partire dal terrore della morte La cultura contemporanea si trova a dover fronteggiare due aspetti che contraddistinguono quella che viene considerata come la crisi più importante dopo la seconda guerra mondiale. Per un verso l’occidentalizzazione massiva e sempre più rapida di tutte le culture e per l’altro le dificoltà che questo processo comporta da un punto di vista bio-economico, ovvero relativo al cambiamento del mondo e al fatto che esso  garantisca

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comunque la sopravvivenza dell’umanità. Una delle più evidenti lacerazioni che derivano da questa condizione critica riguarda il conlitto tra le ideologie di gruppi umani fortemente religiosi, quali per esempio quelli medio-orientali, e le istanze di benessere che causano le forti ondate migratorie verso l’Occidente. La meta di questo lusso sono Paesi che non erigono più le proprie leggi su un fondamento religioso, bensì su quello tecnologico-scientiico e proprio per questo vengono percepiti dalle culture da cui parte l’onda migratoria come territorio del male. Il terrorismo sembra basarsi sulla volontà di boniicare questo spazio laico restituendogli la fede in una divinità alla quale riferirsi per ripristinare lo Stato etico, magari addirittura teocratico. Questo scontro, per quanto drammatico, è però una grande conquista nella storia dell’umanità, perché permette all’Occidente di rafforzare la propria consapevolezza di che cosa i suoi abitatori vogliono lasciarsi alle spalle, ovvero la costruzione di una società etica che giustiichi cannibalismi e massacri in nome di leggi assolutizzate acriticamente. Il problema bio-economico non è quindi meramente economico, bensì riguarda quella parte del bíos che si confronta con il proprio limite, alla cui base regna il terrore della morte. Da sempre l’essere umano cerca di signiicare la vita in funzione della initudine per non soccombere all’angoscia e, nella storia dell’umanità, la civiltà comincia ad apparire proprio a partire dalla costruzione di parole e simboli in grado di rappresentare tale rapporto. Al contempo, gli stessi simbolismi, spesso religiosi, hanno causato appunto dolore e strazio attraverso la gestione politica della morte. Per un verso essi hanno tentato di conferire senso alla vita nonostante il suo limite, parlando di un’esistenza oltre l’ultimo respiro, dall’altro essi hanno giustiicato le violenze più atroci santiicando l’oppressione della dissidenza e del pensiero critico. Negli ultimi decenni, questo argomento è divenuto territorio di ricerca anche per la psicologia. In particolare, la teoria più affermata – la Terror

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Management Theory (TMT) – illustra come tutti i comportamenti umani siano inconsciamente guidati dal terrore di dover morire. Il conlitto tra culture occidentali e mediorientali può essere inscritto nelle dinamiche intergruppi descritte dalla TMT, la quale dimostra, con un numero ormai esorbitante di evidenze empiriche, come il bisogno di negare la morte allestisca complessi apparati culturali utili a giustiicare la fede nell’immortalità. Quando i contenuti di queste fedi vengono messi a repentaglio anche solo per la presenza di un pensiero dubitativo, il terrore di perdere la certezza nelle proprie credenze scatena la violenza2. Lo scontro tra popoli che parlano in nome di Dio e l’Occidente che parla in nome della tecnica si gioca proprio in questo scenario, ovvero sul terrore della morte e le strategie che gli esseri umani mettono in atto per soffocarlo, ove il vero conlitto consiste nell’abissale distanza che separa la modalità con cui viene intesa la morte dai migranti mediorientali e quella con cui la intendono i cittadini europei3. Si tratta di uno spettacolo in cui viene in evidenza come l’Occidente sia il territorio in cui più la vita appare come desiderabile contro qualsiasi scelta di morte, perché in esso l’uomo ha imparato dalla propria storia che guerre, torture e massacri sono ciò che ognuno aborrisce tanto per sé quanto per gli altri. Il valore supremo tributato alla pace dai Paesi occidentali, che dopo Hitler non vogliono più erigere alcuno stato assoluto, è basato sulla consapevolezza che l’unico brandello di esistenza che ci riguarda è quello della vita sulla terra. E proprio per questa convinzione, in Occidente, durante la seconda metà del

2. Cfr. S. Solomon - I., Testoni - S. Bianco, Clash of civilizations? Terror management theory and the role of the ontological representations of death in contemporary global crisis, in «TPM. Testing Psychometric Methodology in Applied Psychology», vol. 24, n. 33, 2017, pp. 379-398. 3. Cfr. I. Testoni, L’ultima nascita. Psicologia del morire e Death Education, Bollati Boringhieri, Torino 2015.

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Novecento, ha preso forma un processo di sistematica censura e rimozione della morte dalla vita quotidiana4. Severino decodiica con estrema chiarezza l’origine di questo bisogno di occultamento, derivante da ciò che egli indica come declino degli immutabili, consistente nella morte del Dio epistemico e della volontà di verità da cui deriva ogni etica assolutistica che orientava la morale modellando il comportamento in funzione della salvezza oltre la morte5. Con questa eclissi, che non consiste semplicemente nella perdita della fede quanto piuttosto nella consapevolezza della necessità di rideinire i costrutti in cui affondano le radici della fede nell’immortalità, gli abitatori dell’Occidente non sanno più come gestire il momento più importante della vita, quello della sua conclusione, quando si tirano le somme di ciò che è stato fatto e di che cosa si lascia a chi rimane. Da quando Dio è morto, la tecnica, evocando il terrore dell’annientamento assoluto in cui consiste la morte, giustiica gli sforzi più ingenti per garantire l’espansione del tempo di permanenza nel mondo nel modo migliore possibile. Sulla base del credere che la morte signiichi annientamento assoluto, l’Occidente cerca rimedi afinché alla vita qui ed ora siano garantite tutte le risorse afinché essa sia il più possibile desiderabile. Ciò che si cerca di scongiurare è la soluzione del Sileno, ovvero la scelta suicidaria.

4. Cfr. I. Testoni - D. Ancona - L. Ronconi, The ontological representation of death. A scale to measure the idea of annihilation versus passage, in «Omega. Journal of Death and Dying», vol. 71, n. 1, 2015, pp. 60-81. 5. Severino sviluppa questo concetto in molte opere, tra queste: Legge e caso, Adelphi, Milano 1979; Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando, Roma 1978 (nuova ediz. 1981); La ilosoia futura, Rizzoli, Milano 1989 (nuova ediz. 2005).

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2. Religione e tecnica I riti di passaggio hanno sempre segnato il cambiamento dell’individuo da una condizione ad un’altra nel ciclo della sua vita all’interno della comunità e questo è ancora vero nelle culture storicamente più arretrate. Prima del secolo scorso, anche in Occidente la ritualità funebre cristiana assolveva a siffatto compito, deinendo il passaggio dalla condizione della vita biologica all’esistenza ultraterrena. Oggi questo non accade più e tale tipo di celebrazioni sta progressivamente scemando per lasciare spazio a mode e complesse espressioni di manipolazione della salma con funzione apotropaica. L’Occidente è infatti lo spazio storico in cui si consuma l’estinzione della capacità di performare collettivamente il cordoglio per celebrare, al contrario, innanzitutto la vita biologica, nascondendo l’evidenza del fatto che siamo comunque destinati a morire. Ci troviamo quindi immersi in una società che ha interamente esternalizzato dal soggetto l’esperienza della malattia e della fragilità, afidando il momento del distacco al linguaggio della tecnica piuttosto che a quello degli affetti e della ricerca spirituale interiore. Questo fenomeno appartiene allo spettacolo del declino degli immutabili, il quale rappresenta l’incontro con il Sileno, perché mette in discussione qualsiasi idea di esistenza oltre la morte e coloro i quali credono fortemente nella necessità di obbedire eticamente a una divinità suprema, che garantisce invece l’immortalità, non vogliono affatto accettare questa visione. Per questo cercano la guerra, ritenendo che la soppressione dei miscredenti sia lo strumento ottimale per mettere a tacere il pensiero critico e quindi rispondere alla volontà della loro divinità, che peraltro, in questo modo, viene rappresentata come deicitaria di intelligenza e di comprensione universalistica. In realtà i popoli migratori, portatori di una fede incrollabile in una divinità, non potranno mai vincere l’Occidente, proprio perché vogliono vivere in tale spazio culturale per stare meglio e questo comporta che l’uso delle tecniche che migliorano

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la qualità della vita diventi lo scopo primario anche per loro. Presto anche alle religioni di cui queste persone sono portatrici accadrà qualcosa di simile a quanto sta accadendo alla Chiesa cattolica in Italia. Infatti, anche la Chiesa cattolica sembra addirittura promuovere insistentemente l’idea che l’amore si dimostri attraverso l’uso di tecniche altamente invasive, che lasciano appesa la vita biologica a complessi e costosi presidi medici, ovvero a ciò che il linguaggio bioetico internazionale chiama extraordinary meanings. Dinanzi alla morte, la pietas cattolica sembra volersi identiicare con l’uso di dispositivi tecnologici sempre più rafinati, anziché proporsi come esperienza di condivisione della sofferenza nella vicinanza, attraverso l’ascolto e la ricerca profonda del signiicato che la vita già vissuta ha espresso o mantenuto segreto. In realtà, le cure palliative permetterebbero proprio questo tipo di conclusione, resa possibile dalla soppressione del dolore isico che lascia aperto interamente il vissuto dell’angoscia che la consapevolezza della morte disvela. Al contrario, la disputa su come garantire ino all’ultimo, magari appellandosi alla speranza, il “rimedio vitale” distoglie dal compito di mantenere fermo il focus sullo strazio del morire. E questo accade proprio perché sembra che neppure la Chiesa voglia più scommettere su qualcosa che riguardi il senso dell’esistenza dopo la vita biologica. Quando Dio era il ine di qualsiasi azione morale anche nella cultura cattolica, i santi affermavano che la cura del corpo distoglieva dalla cura dell’anima e proprio per questo sceglievano penitenze e rinunce. Prima di Feuerbach, Marx, Leopardi, Schopenhauer, Nietzsche e Gentile, in nome di Dio, gli esseri umani sacriicavano la stessa vita, perché erano convinti che così facendo avrebbero guadagnato la salvezza eterna6. La morte non era 6. Cfr. I Testoni, Il dio cannibale. Anoressia e culture del corpo in Occidente, UTET, Torino 2001.

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il temibile, lo era invece il peccato e il dedicare al corpo più attenzioni di quelle rivolte all’anima. A causa di questo cambiamento, che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, chi muore si trova spesso in solitudine e dipende da sempre più complesse apparecchiature che mantengono la vita biologica e non restituiscono alcun senso alla ricerca di un contatto interiore con la propria luce e la propria trascendenza. Questo comporta che, intorno al morire, si sviluppi un deserto meccanizzato che isola i sofferenti, peggiorando drammaticamente la loro condizione esistenziale. L’esito potenzialmente infausto che tale stato determina è caratteristico di tutte quelle malattie sempre più numerose che prevedono un esito fatale a decorso prolungato. Se un tempo esse causavano una morte rapida, come per esempio il cancro o le malattie neurodegenerative, oggi grazie alla medicina vengono cronicizzate e la loro terminalità è sempre più estesa. Quando diviene evidente che solo la morte può porre ine a tale condizione, allora l’angoscia prende il sopravvento e con essa le strategie di negazione, rimozione e inautenticità messe in essere tanto dal malato quanto dai suoi familiari e dalla comunità curante. Tale periodo, che inizia con l’annuncio della diagnosi e della prognosi infausta, ovvero da quando viene data la notizia dell’impossibilità di porre rimedio alla patologia destinata ad avanzare irresistibilmente, in realtà potrebbe essere, come ritenevano gli antichi, un tempo utile per chiudere bene la vita in accordo con l’iperuranio e con i propri simili. Invece è esattamente ciò che più si teme: una lunga sofferenza che toglie progressivamente facoltà e potere, lasciando il malato in balia di macchine e sostanze chimiche, spesso percepite come intrusioni violente che non ripristinano affatto il benessere. Là dove colei che stabilisce che così deve essere è proprio la Chiesa cattolica, evidentemente incapace di ripristinare un linguaggio che evochi la salvezza oltre la morte e il senso della sofferenza come il dolore della nascita, grazie alla quale si

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accede a ciò che più autenticamente siamo oltre gli angusti recinti della vita biologica7. Probabilmente questo incredibile paradosso, al quale siamo così abituati che neppure ne riconosciamo i proili contraddittori, è riconducibile a quanto Severino discute rispetto al destino della tecnica8. La sua analisi mette infatti in evidenza come capitalismo, marxismo, democrazia e religione conliggano tra loro per guadagnare la supremazia nel perseguimento dei propri obiettivi, e per poter vincere sono costretti ad avvalersi di mezzi. Poiché però gli strumenti sono perfettibili e quanto più eficaci sono tanto più potente è chi ne è in possesso, l’obiettivo di perfezionare sempre più gli strumenti diviene primario e in questo modo la tecnica secondarizza tutti gli obiettivi primari delle ideologie in conlitto. La morale della bioetica cattolica del ine-vita sembra non accorgersi di essere totalmente alle mercé del primato della tecnica, a dispetto del primato spirituale che lascia morire chi è giunto al proprio traguardo e quindi deve guardare oltre il proprio stato attuale per rintracciare in sé la propria inalienabile eternità. 7. Cfr. I. Testoni - D.D. Sposito - L. De Cataldo - L. Ronconi, Life at all costs? Italian social representations of end-of-life decisions after President Napolitano’s speech – Margin notes on withdrawing artiicial nutrition and hydration, in «Nutritional Therapy and Metabolism», vol. 32, n. 3, 2014, pp. 121-135. I. Testoni - J. Lazzarotto Simioni - D. Di Lucia Sposito, Representation of death and social management of the limit of life: Between resilience and irrationalism, in «Nutritional Therapy and Metabolism», vol. 31, n. 4, 2013, pp. 192-198. 8. Questo concetto è discusso da Severino in diverse opere. In particolare si vedano: Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998 (nuova ediz. 2009); Il declino del capitalismo, Rizzoli, Milano 1993 (nuova ediz. 2007); L’etica del capitalismo e lo spirito della tecnica, con un saggio inedito sulla pena di morte, AlboVersorio, Milano 2008. Per alcune rilessioni sul cristianesimo in questa direzione si vedano anche: Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, cit.; Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995 (nuova ediz. 2010).

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3. Tramonto dell’Occidente e bio-economia Il tentativo di comprendere perché le economie della partita doppia tra essere e nulla fossero sempre in perdita si è manifestato a più riprese lungo la storia, a partire dall’esempio socratico. Più di recente, la volontà di dissimulare il sostanziale errore di calcolo di ogni morale metaisica e delle sue politiche ha guadagnato un generale consenso, grazie al metodo genealogico di Nietzsche. L’operazione decostruzionista che prende le mosse dalla genealogische Forschung ha infatti assunto una dimensione imponente nel pensiero contemporaneo. Sulle orme di Menschliches Allzumenschliches si è mosso tutto il Novecento, elaborando quanto indiziato da Ludwig Wittgenstein e Michel Foucault, i quali, con Philosophische Untersuchungen e con La volonté de savoir, hanno declinato il senso della genealogia, ovvero del riportare all’originario, intendendo lo stesso come Sprachspiele e archéologie, ovvero Sprachpraktikum e rélexion historique et politique sur la société. Alla base di questo successo sta la presa di coscienza che l’uomo abita la parola e non la cosa9. Su questa linea oggi si muove un’importante corrente di pensatori italiani, che si stanno facendo spazio nell’agorà internazionale, prendendo ad oggetto un tema caro a Foucault: i rapporti tra biopolitica e biopotere10. Questa rilessione è sostanzialmente volta a manifestare il vantaggio goduto da alcune categorie di persone che dominano il linguaggio a discapito 9. Cfr. F. Nietzsche, Menschliches Allzumenschliches (1878); tr. it. di S. Giametta, Umano, troppo umano, 2 voll., Adelphi, Milano 1965; L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen (1953); tr. it., Ricerche ilosoiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 2009; M. Foucault, La volonté de savoir (1976); tr. it. di P. Pasquino e G. Procacci, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978. 10. Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995; R. Esposito, Bíos. Biopolitica e ilosoia, Einaudi, Torino 2004.

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di altre. Simone Weil, antesignana di questa tematica, parlava esplicitamente di “cannibalismo”, in senso rigorosamente ontologico e antropologico: lo sfruttamento della vita di chi lavora per mantenere nell’essere e nel benessere i “virtuosi” è cannibalismo11. Per la ilosofa nessuna legge garantisce che il rapporto servo-padrone si risolva nell’inversione del potere, perché la vita del primo è semplicemente divorata dal secondo. Una volta conosciuta con l’esperienza in prima persona la condizione di operai e contadini, stabilito che Hegel non sapeva che cosa voglia dire essere servi, Simone Weil decise di digiunare ino a morir di stenti, per non alimentarsi con il cibo prodotto da chi a sua volta dissipava i propri giorni nei campi e nelle fabbriche. La critica weiliana, come l’intento decostruzionista foucaultiano, risponde alla volontà di riconoscere l’abuso, che garantisce introiti cospicui a coloro che costruiscono il linguaggio per fare leggi per il proprio vantaggio economico, a discapito della condizione del bíos. Questi tentativi di tornare all’originario affondano certamente il coltello nella piaga, ma sono anche una componente essenziale della piaga stessa: data una piaga, qualcuno vi conicca un coltello. E non è certo con il coltello che si cura la piaga: con esso la si produce o la si dilania. L’incapacità di trasformare il mondo sulle basi di questa forma di decostruzionismo è dovuta al fatto che la critica condivide gli stessi assunti di fondo di quanto viene criticato. L’immagine “piaga-coltello” appare nella sua evidente paradossalità in tutta l’opera di Severino, che testimonia il destino e che inaugura un’ontologia radicale assolutamente inedita e rivoluzionaria per la “parola” che l’uomo inevitabilmente abita.

11. Cfr. S. Weil, Quaderni, vol. IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993.

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4. Il linguaggio che testimonia il destino come cambiamento di paradigma Il linguaggio parlato ino all’apparire in esso dell’indicazione di Emanuele Severino non sapeva esprimere il senso dell’eternità, anzi ne rincorreva il bagliore senza mai poterlo afferrare e dunque tradendolo ad ogni tentativo che di conseguenza risultava fallimentare. Questo ha comportato il non saper dare senso al dolore e alla sofferenza della vita quotidiana che caratterizza tanto la biograia di ognuno quanto l’intera storia, perché associati alla convinzione che essi preannuncino il nostro annientamento. L’apparire del linguaggio che testimonia il destino mostra che l’annientamento è esattamente l’impossibile ed è anche ciò che non appare affatto12. La morte non racconta alcun diventare niente da parte dell’essente, testimonia invece solo il suo scomparire, ovvero il suo eclissarsi dal mondo per apparire altrove13. Questo è esattamente ciò che le religioni hanno da sempre cercato di deinire senza mai riuscirci se non richiedendo al pensante un atto di fede, ovvero l’accettazione del non poter comprendere un fondamento contraddittorio14. L’indicazione di eternità di Severino, in quanto rigorosamente non contraddittoria e capace di togliere l’errore delle contraddizioni, può essere assunta come fondazione dei testi sacri

12. Si tratta di un punto cruciale del pensiero di Severino, e viene trattato in modo sistematico in più testi. In particolare rimandiamo a: La legna e la cenere. Discussioni sul signiicato dell’esistenza, Rizzoli, Milano 2000; La ilosoia futura, cit.; Volontà, fede e destino, Mimesis, Milano-Udine 200; Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013. 13. L’impossibilità di considerare la morte come l’apparire dell’annientamento e la necessità invece del suo essere un passaggio verso la più autentica destinazione dell’essente è discusso in particolare dal ilosofo in: Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Milano 2018; La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011. 14. Si veda in proposito I. Testoni, L’ultima nascita, cit.

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per l’emendamento del loro linguaggio, ovvero come ontologia fondamentale per una nuova ermeneutica che insegni all’uomo che cosa signiichi che credersi mortale è un errore15. L’indicazione severiniana deinisce il terreno dove tutto il linguaggio riceve il senso che gli è proprio attraverso un percorso di emendamento dell’errore a partire da La struttura originaria16, opera che invera in sé stessa il signiicato stesso dell’“originario”, ovvero di ciò che non tramonta perché in grado di reggere il tempo e gli “oltrepassamenti” che ne delineano le forme dell’apparire, anche nel linguaggio. Capace di sostenere la propria rigorizzazione nelle opere che l’hanno seguita, essa è la prima indicazione inconfutabile della necessità del senso originario dell’eternità, su cui si basa il proprio ininito inveramento. Si tratta dell’assolutamente “inaudito” (giammai “ascoltato”) tanto per l’Occidente quanto per tutte le culture pre-ontologiche, che mai, prima e neppure dopo, hanno avuto accesso a questo contenuto. L’“eternità”, infatti, intesa come impossibilità che l’essente sia altro da sé ovvero non sia, è ancora “l’indicibile” per qualsiasi linguaggio che non sia in grado di testimoniare il destino, perché l’ente o l’esistente è stato in qui universalmente inteso e conteso all’interno di un baratto inestinguibile, e anche fallimentare, tra la negazione della necessità del suo essere e il tentativo di conferirgliene una minima porzione, sulla base di leggi dominate dalla tecnica e dalla morale. Questa impotenza radicale si manifesta come nichilismo, ovvero come volontà impotente, che si articola linguisticamente attraverso l’azione fondata sulla convinzione che sia possibile mettere in essere qualcosa dal nulla, ove altresì la

15. Questo è quanto viene discusso in I. Testoni, Autopsia ilosoica. Il momento giusto per morire, Apogeo, Milano 2007. 16. La struttura originaria, La Scuola, Brescia 1958 (nuova ediz. Adelphi, Milano 1981).

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misura della capacità di trattenere l’esistente dal niente deinisce il “positivo”, economicamente e moralmente qualiicabile17. Ogni linguaggio che abbia espresso e continui a deinire tale rapporto mercantile ha prodotto rappresentazioni monetariamente misurabili di rapporti tra vantaggio e svantaggio, ove la regolamentazione della durata dell’essere è stata sottoposta alla continua manipolazione commerciale delle leggi dominanti. Le politiche e le etiche più evolute hanno innanzitutto tecnicamente armonizzato tale relazione sulla base di un unico obiettivo primario e apparentemente irresistibile, ovvero quello di stabilire come strappare al nulla l’ente considerato meritorio di albergare nello spazio di produzione dell’esistenza. La morale, intesa in senso universale, ha quindi gerarchizzato nel corso della storia i livelli della forza (virtù), facendo perno sostanzialmente su un unico fulcro, quello secondo cui ciò che è in grado di chiamare l’essere dal nulla ha il diritto di regolare la legge che disciplina le modalità della permanenza. A tali tassonomie sono corrisposti i cosiddetti “valori”, appunto, ovvero i codici in grado di quantiicare il merito su cui basare ogni linguaggio bio-economico, il cui parametro essenziale consiste nel tempo di mantenimento nell’esistenza degli enti. I complessi sistemi di valorizzazione della forza di trattenere nell’essere ciò che è niente sono quindi incessantemente incorsi in lunghi processi di costruzione e decostruzione, caratterizzati dall’ignorare la propria contraddizione sostanziale. E poiché il linguaggio oggi non può più essere identico a quello che era prima di questa indicazione, in quanto esso deputato ad essere la testimonianza del destino che si manifesta come l’interezza linguistica dei popoli, ciò che altresì è necessario che

17. Il concetto di nichilismo in rapporto alla volontà di potenza che vuole l’impossibile è discusso anche in Essenza del nichilismo, Paideia, Brescia 1972 (nuova ediz. Adelphi, Milano 1982).

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appaia come novità rispetto al nichilismo nel volgere verso tale traguardo è lo stesso “abitare la parola dell’eternità” anziché quella del “nulla e della morte”18. Solo all’interno del linguaggio che testimonia il destino appare infatti evidente la struttura essenziale dell’alienazione del nichilismo che nega la necessità dell’esser sé dell’essente e dunque la sua irriducibile eternità. Oggi sembra che il linguaggio nichilista permei l’intero scenario a cui l’umano accede, persuaso d’esser indiscutibilmente mortale, ovvero un “niente”, debitore di un sofio di esistenza nei confronti di dèi, politici e tecnica. Sul senso di questo debito l’umanità giustiica violenze e sopraffazioni, da ultimo utili a garantire che i “virtuosi” possano godere di una vita più lunga e possibilmente piacevole a discapito di chi non si sa difendere. Poiché però l’alba del linguaggio che testimonia il destino sta già annunciando la parola che ino ad ora era rimasta disabitata lungo la storia, è possibile vedere un nuovo senso dell’abitare che libera l’umano dalla prigionia della contraddizione di pensarsi mortale. Agire pensando di essere mortale e vivere in questo terrore senza comprendere il senso stesso del terrore non è identico all’agire abitando la parola che testimonia il destino e che mostra la contraddizione di ogni paura. Nuovi orizzonti si affacciano dunque sullo scenario dell’azione da decifrare dopo il suo compimento.

Conclusioni Dopo Nietzsche, la diffusa convinzione che Dio sia solo un atto di fede e dunque un’illusione perché siamo profondamente certi che l’esistenza della realtà sia indipendente dalla volontà (credenza, desiderio, speranza) individuale, la parte inale del-

18. Questo concetto è sviluppato in I. Testoni, La frattura originaria, Liguori, Napoli 2007.

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la vita, essendo considerata esposta al nulla e dunque non un momento importante di passaggio, ha perso il proprio valore esistenziale. Siamo drammaticamente incapaci di offrire senso a questo momento perché sembra che esso tolga signiicato a tutto ciò che è già stato vissuto, ovvero a ciò che è apparso alla coscienza di coloro che muoiono e di quella di chi ha condiviso con loro l’esperienza dell’incontro. L’indicazione di Severino restituisce al linguaggio l’orizzonte dell’eternità in modo inconfutabile, in quanto indica autenticamente la consapevolezza che la morte è un oltrepassamento verso ciò che ci attende. E si può dire questo non perché tale contenuto dipenda dalla nostra fede, quanto piuttosto perché viene indicato in che senso non esiste alcun nulla che possa annientare ciò che è. A partire da ciò si può gestire un nuovo signiicato con cui elaborare la sofferenza che precede la morte e considerare il periodo prima della ine dell’apparire nel mondo come una fase in cui è possibile accedere alla propria più profonda interiorità e prepararsi al distacco gestendo l’angoscia. L’indicazione della necessità dell’eternità dell’essente si pone quindi come fondamento per qualsiasi intervento psicologico con i morenti. Ma perché questo possa assumere signiicato è necessario che la psicologia assuma il pensiero di Severino come punto di non ritorno nella storia epistemologica da cui può prendere origine una rivoluzione scientiica e anche ermeneutica. Assumendo come fondamento il concetto di eternità come necessità è infatti possibile modiicare il linguaggio di rilessione sull’esperienza umana, a partire dalla rappresentazione della morte, che non può che considerarsi ormai irreversibilmente rifondata, perché sapere che essa non può signiicare annientamento non è come non saperlo, e saperlo signiica lavorare seriamente per dare senso non solo all’ultimo tratto della vita ma a tutto il percorso destinato a giungere in lì. Forse è impossibile emendare l’errore grazie a un’ermeneutica che decodiichi le tracce del destino in tutto ciò che è stato

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detto usando il linguaggio nichilista. Fino ad ora si è mostrato solo il “toglimento”, ovvero come la verità toglie l’errore mostrandole l’autocontraddizione o l’insigniicanza. Al momento, ciò che possiamo dire è che già Severino ha rintracciato il nesso tra ogni tratto della storia della “terra isolata” e la “pura terra”, ovvero ciò che è visto dal “destino”, al cui sguardo appare la necessità che invece noi possiamo solo pensare in forma astratta19. Ma tutta la scienza, come la psicologia, è caratterizzata dalla capacità di modulare i propri contenuti sulla base degli statuti fondativi che permettono di descrivere il senso di ciò che è osservato, e a partire da qui è certamente possibile immaginare nuovi territori della descrizione del visibile che ino ad ora sono sembrati impossibili o inconcepibili. In questa direzione, rispetto al supporto psicologico di chi muore, si può dire che così come possiamo ripensare la morale quale disvelamento post-hoc dell’etica, ovvero del senso della storia delle azioni dell’umanità, così è possibile ripensare l’ultima fase della vita di chi muore come il momento in cui è offerta l’occasione di svolgere il più grande compito evolutivo, ovvero quello di dare senso alla propria biograia, sapendo che ciò che viene narrato è il ricordo dell’apparire degli eterni che si sono avvicendati nell’esperienza della vita compiuta20.

19. Il rapporto tra terra isolata e pura terra, ovvero ciò che indica la possibilità di decodiicare in riferimento alla verità l’interpretazione storica è discusso da Severino in Storia, Gioia, Adelphi, Milano 2016, e già fondato nella possibilità di risoluzione in: La Gloria, Adelphi, Milano 2001; Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007; La morte e la terra, cit.; Dike, Adelphi, Milano 2015. 20. Il «ricordo degli eterni» è il concetto dato da Severino all’autobiograia, nel libro Il mio ricordo degli eterni, Milano, Rizzoli, 2011.

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Severino e l’oltrepassamento della metaisica Francesco Valagussa

Ascoltando non me, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno1

«Che cosa di essenziale ci accade nel fondo dell’esserci per il fatto che la scienza è divenuta la nostra passione?»2. L’uomo di scienza, risponde Heidegger poche pagine dopo, indaga l’ente soltanto: «solo l’ente e oltre questo – niente; unicamente l’ente e al di là di questo – niente»3. Nel senso che l’uomo di scienza non vuole saperne del Niente, «la scienza riiuta il Niente e lo abbandona come nullità»4. Lo scienziato non ha letteralmente il tempo di occuparsi di quel Niente assai più originario della

1. Eraclito, DK22 B 50; tr. it., I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari 19752, vol. I, p. 208. 2. M. Heidegger, Was ist Metaphysik? (1929), Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1976, p. 24; tr. it., Che cos’è metaisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 20064, p. 38. 3. Ivi, p. 41; tr. it. cit., p. 26. Sull’operazione che sta alla base dell’impostazione scientiica cfr. M. Heidegger, Platon: Sophistes, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1992, p. 559; tr. it., Il «Soista» di Platone, a cura di N. Curcio, Adelphi, Milano 2013, p. 565: «l’essere del “non”, il μή, non è nient’altro che la δύναμις del πρὸς τι, la presenza dell’essere-per». 4. M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, cit., p. 26; tr. it. cit., p. 41.

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stessa negazione, poiché deve concentrarsi sull’ente: «Il carattere specialistico della scienza appartiene ormai all’essenza della ricerca e della prassi scientiica»5. Lo scienziato si trova costretto a concentrarsi sul singolo albero e a perdere di vista l’intera foresta, se vuole conseguire l’eficacia nel suo lavoro. Sin dall’origine, aristotelicamente, il technítes viene venerato in quanto sophóteros6: conosce più cose, perché è capace di estrarre dall’ente possibilità che gli altri non vedono; «viene stimato come uno che si distingue»7, ma innanzitutto perché sa distinguere ciò che per gli altri rimane confuso o inaccessibile.

1. Un parallelismo cinematograico Come l’inquadratura cinematograica – che da un campo d’insieme può restringersi verso una singola igura, e magari verso una mezza igura, poi un primo piano, e inine un primissimo piano –, così la scienza si specializza focalizzando sempre meglio l’obiettivo. A un certo livello di specializzazione, continuando ad approfondire l’indagine sull’ente, viene meno persino la “dimensione cosale” in cui una visione umana, ancora troppo umana, crede che consista l’essenza dell’ente8 – esattamente come, mantenendo il paragone cinematograico, «il primo piano ha soltanto spinto il volto ino a quelle regioni in cui il

5. E. Severino, La specializzazione scientiica e il nulla, in Id., Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 57. 6. Cfr. Aristotele, Metaph., I, 1, 981b 30-31; tr. it., Metaisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 20023, p. 7. 7. Cfr. M. Heidegger, Platon: Sophistes, cit., p. 93; tr. it. cit., p. 132. 8. Cfr. E. Severino, Legge e caso, Adelphi, Milano 20025, in particolare pp. 4658, dove si discute del principio di indeterminazione.

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principio di individuazione cessa di regnare»9: la focalizzazione progressiva non coincide necessariamente con un’individuazione sempre più accurata dell’oggetto d’indagine, ma può condurre in ambiti ove i determinati cessano di risultare rintracciabili nelle forme e nei modi in cui si presentano abitualmente. Così come l’inquadratura può restringersi ino al primissimo piano, magari sino a un dettaglio anatomico che fa addirittura perdere i connotati di un volto10, allo stesso modo l’indagine scientiica può ingrandire la “scena dell’ente”. Pensiamo ad esempio alle sequenze iniziali del ilm Citizen Kane di Orson Welles, dove viene inquadrata una casa: ad un tratto l’inquadratura si allarga e così lo spettatore capisce che si tratta di una casetta all’interno di una snowglobe11. Una volta compreso che la casa si trova in una boule à neige, chiunque continuasse a confonderla con una casa vera e propria apparirebbe folle: soltanto dalla prima inquadratura, mentre la casa appariva nel suo isolamento, si poteva credere che si trattasse di una casa nel senso autentico del termine. La stessa dinamica entra in campo quando si rileva un’apparente discrasia, per esempio nella comprensione del principio di identità dell’essere E = E, e allargando l’inquadratura si scopre il signiicato concreto dell’identità (E = E) = (E = E)12; 9. G. Deleuze, Cinéma. 1. L’image-mouvement, Les Éditions de Minuit, Paris 1983; tr. it. di J.-P. Manganaro, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 1984, p. 122. 10. Cfr. ad esempio G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 123: «il primo piano-volto è al contempo la faccia e il suo sfacimento». 11. Cfr. F. Valagussa, L’aporia del nulla: tra astrazione e narrazione, in «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012, pp. 143-145, dove avevo già formulato un esempio simile a proposito della costruzione e risoluzione dell’aporia del nulla ne La struttura originaria. 12. Cfr. E. Severino, La struttura originaria (1958), Adelphi, Milano 1981, pp. 181-186. Ma si veda anche G. Gentile, Sistema di logica come teoria del

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ma anche nella risoluzione dell’aporetica del nulla nel quarto capitolo de La struttura originaria13; lo stesso allargamento dell’inquadratura occorre per superare «l’isolamento di questa lampada (o di qualsiasi ente considerato) dalla struttura originaria»14.

2. Metaisica e collezionismo Qualora si intendesse prescindere da questo gesto che allarga la prospettiva e costringe a riconsiderare l’intera concezione del mondo, la metaisica rischierebbe di ridursi a un vago collezionismo, peraltro di bassa lega e di pessima qualità e a quel punto sarebbe non soltanto semplice, ma quasi inevitabile ridurla davvero a «un campo di pensate arbitrarie»15, come già denunciava Heidegger: una tentazione che è ben lungi dall’essere stata affrontata e superata, e che anzi si è trasformata in una suggestione quasi inevitabile. Il “metaisico”, si diceva, correrebbe il rischio di assomigliare al collezionista: senza dubbio i pezzi della serie possono offrire l’idea di ordine e interezza all’interno della teca in cui sono raccolti; certamente la pagina del ilatelico si mostra completa e accurata, perché ogni francobollo occupa esattamente il proprio posto. Ma sappiamo, in realtà, che si tratta di una semplice astrazione: una certa idea di compiutezza può proilarsi soltanto perché si sono rotti tutti i rapporti concreti col mondo. La pagina dell’album non tiene conto, infatti, dell’emissione dovuta alla Zecca di Stato, della storia reale di un francobollo

conoscere, Le Lettere, Firenze 2003, vol. I, pp. 206-219, ma in particolare p. 213, dove si riporta la medesima formula nei termini (a = a) = (a = a). 13. Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 209-234. 14. Ivi, p. 79. 15. M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, cit., p. 41; tr. it. cit., p. 65.

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che è servito un tempo a recare una certa missiva, del sistema postale che ha reso possibile una serie di relazioni epistolari. Il complesso di questi elementi diviene oggetto di astrazione, e noi possiamo osservare una pagina perfettamente organizzata. «Ciò che nel collezionismo è decisivo – si legge in una pagina dei Passagen-Werk – è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto possibile con gli oggetti a lui simili»16. L’allestimento medesimo della pagina o della vetrina servirebbe soltanto a creare l’illusione di una qualche compiutezza del tutto astratta e posticcia: qualcosa che si potrebbe essere deinito come astratto dell’astratto17. «Che cos’è poi questa “completezza”? Un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione»18. La metaisica si riduce a collezionismo quando i suoi concetti divengono astratta universalità, utile soltanto a una vana volontà classiicatoria relativamente alla complessità del mondo. In tal senso coglie nel segno la critica nietzscheana: il concetto diviene sempliicazione arbitraria19, incapacità di tenere conto 16. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991, vol. V.1, p. 271; tr. it., I «passages» di Parigi, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000, vol. I, p. 214. 17. Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 118: «concetto astratto dell’astratto, cioè di quel concetto che contraddittoriamente nega il concreto». 18. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, cit., p. 271; tr. it. cit., p. 214. 19. Cfr. ad esempio, ma è solo uno dei tanti esempi possibili, F. Nietzsche, Nachlaß 1884-1885, 34 [131], in Id., Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, de Gruyter, Berlin 19882, vol. XI, p. 464; tr. it., Frammenti postumi 1884-1885, a cura di S. Giametta, Adelphi, Milano 1978, vol. VII, t. III, p. 142: «La nostra logica, il nostro senso temporale e il senso spaziale sono enormi capacità di abbreviazione, ai ini del comando. Un

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della molteplicità dei dettagli in gioco. Come se bastasse individuare alcune strutture logiche e costruire qualche teorema relativo al calcolo proposizionale per “mettere ordine” nel mondo. Tali sono invece quelli che già Kant chiamava «vecchi capricci impolverati»20 contro cui si scaglia lo scherno della moda.

3. Sul tramonto dell’epistéme Se da un lato il collezionista intraprende «una lotta [disperata] contro la dispersione»21, perché avvolto nella frammentarietà e nella confusione, al polo opposto Benjamin colloca l’allegorista22. «L’allegorista costituisce in un certo senso l’antipodo del collezionista: ha rinunciato a far luce sulle cose attraverso la ricerca di ciò che a esse sarebbe in qualche modo afine e omogeneo, le scioglie dal loro contesto e rimette in da principio alla propria assorta profondità il compito di illuminare il loro signiicato»23. Alla “battaglia di retroguardia” del collezionista, che ancora attua lo sforzo di sapere, ma producendo un ordinamento astrat-

concetto è un’invenzione che esattamente non corrisponde a niente, ma corrisponde un po’ a molte cose». 20. I. Kant, Träume eines Geistes erläutert durch Träume der Metaphysik, in Id., Werke, a cura di W. Weischedel, WBG, Darmstadt 1983, vol. II, p. 939; tr. it., I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metaisica, in Id., Scritti precritici, a cura di A. Pupi, Laterza, Bari 20003, p. 363. 21. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, cit., p. 279; tr. it. cit., p. 222. 22. Sul concetto di allegoria in Benjamin, nello speciico a proposito del rapporto tra merce e mercato, rimando a F. Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori Riuniti, Roma 1980, in particolare pp. 283-287: «l’allegoria è come il ponte costruito nella materia della scrittura, che il poeta tenta di gettare tra lo spleen e la vie antérieure». 23. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, cit., p. 279; tr. it. cit., p. 222.

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to, si contrappone l’atteggiamento dell’allegorico24, che «estrae ora qui e ora là un pezzo dal fondo disordinato che il suo sapere gli mette a disposizione, lo afianca ad un altro e prova se si adattino l’uno all’altro: questo signiicato a quest’immagine o questa immagine a quel signiicato. Il risultato non può mai essere previsto»25. In entrambi i casi, malgrado le differenze, si assiste a una conferma della direttrice essenziale che fa da sfondo alle “tendenze fondamentali del nostro tempo”26, quella del tramonto degli eterni: la frammentarietà del collezionista e l’imprevedibilità che si registra attorno al “sapere allegorico” devono essere lette insieme all’evoluzione della previsione scientiica verso formulazioni statistico-probabilistiche27. Collezionismo, enunciazioni allegoriche e calcolo statistico s’inscrivono tutti, a vario titolo, entro la distruzione di quel «sortilegio degli immutabili che rendono impossibile l’accadere»28. Se i 24. Sul signiicato dell’allegorico in Benjamin cfr. M. Cacciari, Di alcuni motivi in Walter Benjamin, in «Nuova Corrente», n. 67, 1975, particolare p. 228: «di questo sviluppo si riempie lo spazio “abbandonato da dio” dell’allegorico, del Trauerspiel». Rimane signiicativo, per il discorso che segue – legato al tramonto degli immutabili – il fatto che l’allegorico possa aprirsi in un campo abbandonato dal dio. 25. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, cit., p. 466; tr. it. cit., p. 408. 26. Cfr. E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 1988. 27. Cfr. E. Severino, Legge e caso, cit., pp. 34-35. Si deve notare che tale evoluzione, come si afferma ivi, p. 36, «non ha nulla a che vedere con una sorta di negazione reazionaria o romantica della razionalità della scienza. […] È proprio perché la scienza riconosce di non essere epistéme, cioè verità incontrovertibile ed evocazione degli immutabili, che alla scienza può accadere di essere la forma più potente di dominio e cioè la forma suprema di razionalità». Sul rapporto tra legge e imprevedibilità cfr. J. Monod, Le hasard e la nécessité, Éditions du Seuil, Paris 1970; tr. it., Il caso e la necessità, a cura di A. Busi, Mondadori, Milano 1997; e inoltre I. Prigogine, Le leggi del caos, Laterza, Roma-Bari 1993. 28. E. Severino, Legge e caso, cit., p. 37.

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“modi del sapere” si orientano sempre più verso la distruzione degli immutabili29, il pensiero di Emanuele Severino si presenta come vero e proprio contraccolpo: non soltanto rispetto al contesto attuale, bensì mettendo in discussione l’intera tradizione occidentale, proprio a motivo della «“evidenza” originaria e trascendentale dell’Occidente – il divenire dell’ente»30. Proprio nell’epoca in cui il nichilismo raggiunge la sua piena coerentizzazione eliminando ogni pretesa immutabilità, nei suoi scritti compare l’assolutamente non pensato dal pensiero occidentale. L’eternità dell’essente, di ogni essente, quindi l’eternità del Tutto è il pensiero da cui l’Occidente si è tenuto più lontano31. La metaisica viene intesa come la prima “responsabile” di questo impensato – al punto da poter essere considerata, in realtà, una isica32: malgrado la ricerca di razionalizzazione, il superamento del mito e la sua ricca progenie – dalla scienza alla tecnica – la metaisica non è mai riuscita effettivamente a liberare l’Occidente dalla «persuasione che l’ente sia niente»33. Anzi, nessuno avrebbe mai pensato con maggiore rigore l’oscillazione dell’ente – si pensi al celebre Ἐπαμφοτερίζειν platonico – tra l’essere e il nulla. Dunque, l’operazione severiniana potrebbe in apparenza rievocare le movenze tipiche della tradizione metaisica, proprio perché si conigura come tentativo di allargare la prospettiva per modiicare essenzialmente la scena. Nessuna “metaisica” tutta-

29. Su questa tesi cfr. E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 19992, pp. 45-63, dedicate alla “coerenza del nichilismo” nella distruzione di ogni sapere che pretenda di fondarsi sugli immutabili. 30. Ivi, p, 54. Su questi stessi temi rimane essenziale la lettura presente in E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995, pp. 19-32. 31. Cfr. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 24. 32. Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995, pp. 23-27. 33. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 37.

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via allarga la prospettiva al punto da mettere in questione il divenire inteso come autentico trascendentale sotteso a qualsiasi tentativo di comprensione dell’essere formulato dall’Occidente. Dunque il parallelismo con l’allargamento dell’inquadratura non sarebbe ancora in grado di rendere la peculiarità del gesto messo in atto da Severino. Dovremmo allora estremizzare il parallelismo cinematograico: nella sua Teoria generale del montaggio Ejzenštejn, cercando di rendere per mezzo di inquadrature successive alcuni versi, parla dell’interazione tra suono e immagine quando si tratta di rendere durante la proiezione della pellicola l’effetto di un proiettile. «Basterà, molto semplicemente, “far lavorare” il proiettile oltre l’inquadratura. Non essendo visibile, sarà naturale “farlo lavorare” nel suono. […] In questa situazione il proiettile sarà sia visibile sia udibile. Esso è appena stato visibile, ma non udibile. L’anello di passaggio sarà l’udibilità nella visibilità»34. Dobbiamo immaginarci le prime occasioni in cui questa interazione è stata compiuta, durante i primi ilm sonori: per la prima volta sorgeva qualcosa di realmente “inaudito” e di totalmente eterogeneo rispetto al contesto abituale; mentre l’attenzione si concentrava sullo schermo, inteso come campo trascendentale dove si avvicendavano immagini e igure di ogni genere, irruppe il suono come totale alterità rispetto a ciò che sinora si era potuto soltanto vedere. E si pose il problema dell’anello di passaggio che rendesse possibile l’udibilità nella visibilità. Questo passaggio equivale a La struttura originaria e agli scritti che ne conseguono: fare in modo che questo “inaudito”35 divenga per la prima volta visibile.

34. S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 20044, p. 277. 35. Ossia la negazione di quella somma evidenza che è il divenire.

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È lecito aspettarsi, dunque, che un’operazione di tale portata produca dei contraccolpi, dei sommovimenti, dei rimbalzi ogni volta che giunga a confrontarsi con le varie discipline e con l’impostazione scientiica complessiva che ha dominato gli ultimi secoli, esattamente come il suono – quando irruppe per la prima volta – risultò totalmente eterogeneo rispetto al “contesto igurale” di uno schermo cinematograico.

4. La glottologia nel pensiero severiniano Qui possiamo presentare soltanto un breve esempio di interazione e di inevitabile interferenza tra la “necessità del destino”, così come si articola a partire da La struttura originaria, e un certo campo della ricerca scientiica. L’esempio, tratto da Destino della necessità, riguarda Il timbro della lessione nelle lingue indoeuropee: Severino stesso cita il Vergleichendes Wörterbuch di Walde, così come la Crestomazia indoeuropea del Pisani. La prima edizione di Destino della necessità è del 1980, quindi si deve escludere l’inlusso, per esempio, di Semerano36, di Martinet37 e ovviamente anche degli studi, assai più recenti, di Rendich38; ma senza dubbio sono

36. Cfr. G. Semerano, Le origini della cultura europea, 2 voll., Olschki, Firenze 20073. L’opera, benché sia comparsa in prima edizione tra il 1984 e il 1994, non può aver esercitato alcuna inluenza su Destino della necessità, per lo meno nella sua prima edizione del 1980. 37. Cfr. A. Martinet, Des steppes aux océans. L’indo-européen et les “Indo-européens”, Payot, Paris 1986; tr. it. di M. Barba, L’indoeuropeo. Lingue, popoli e culture, Laterza, Roma-Bari 1987. 38. Cfr. F. Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee. Struttura e genesi della lingua madre del sanscrito, del greco e del latino, Palombi, Roma 20072. Lo stesso dicasi per il suo Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee. Indoeuropeo, sanscrito, greco, latino, Palombi, Roma 2010.

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presenti, per lo meno implicitamente, gli studi di Pagliaro39 e di Benveniste40. La ricerca sulla differenza tra timbri del lessibile e timbri dell’inlessibile conduce a quel caso notevole che è la radice “*ar”, con cui si designa tutto ciò che è capacità, tecnica, adattarsi, convenire a un ine41. Il campo semantico che viene delineato assume proporzioni inevitabilmente vastissime: ars, artus, brachius (per metatesi di “*ar”), lacertus, dorsum, e poi fortis, fortuna, expertus, gurus, ma anche arma, preda, fructus, servus, ferrum, hortus, trama, e ancora arx, verba, prex, ara, ritus, sacrum, e l’elenco potrebbe continuare42. Se si guarda la trattazione della radice indoeuropea “*ar” nel saggio di Benveniste, si ritrova – benché la diversità d’operazione lì svolta comporti un’estensione complessiva e un numero di ramiicazioni decisamente meno cospicuo – il medesimo sfondo, pur con qualche inevitabile variazione: troviamo ars, artus, ritus43. Altri casi si potrebbero citare, oltre a quello eclatante di “*ar”, e certamente si dovrebbero sottolineare anche alcune signiicative differenze tra le varie trattazioni. Ma quando Severino scrive che «la parola β-ρο-τός nomina il mortale in quanto ar-tifex; la parola ϑνητός nomina il mortale quando il suo ἀρτίζειν ha un limite»44, allora si colloca su uno 39. Cfr. A. Pagliaro, Saggi di critica semantica, D’Anna, Messina-Firenze 1953. 40. Cfr. É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2 voll., Les Éditions de Minuit, Paris 1969; tr. it., Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 2 voll., a cura di M. Liborio, Einaudi, Torino 20012. 41. Cfr. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 257. 42. Cfr. ivi, pp. 265-287. 43. Cfr. É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, cit., vol. II (Potere, diritto, religione), p. 358. 44. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 280. Sullo stesso tema si svilupperanno, per esempio, le indagini presenti in M. Cacciari, Dell’inizio,

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sfondo completamente differente rispetto all’ambito in cui si costituiscono argomentazioni come quelle di Benveniste, o di Pagliaro, o quelle che saranno poi di Semerano. Qui davvero si avverte un suono “inaudito”, imparagonabile rispetto a ogni “teoria”, a ogni immagine precedentemente vista sullo schermo. Dalla tesi relativa ai due sensi del mortale discende, infatti, la connessione di μορτή con μείρομαι, con ἅρμα, meritum e la volontà di dominio tramite cui il mortale domina la terra. All’opposto, nei termini ϑνητός e νέκυς da cui dipendono poi i vocaboli latini nex e neco, si deve sentire «il senso della negazione»45, della necessità della morte, del ne-cedere, «cioè un non cedere alla volontà di dominio del mortale»46. Non si tratta di rintracciare semplicemente un ilone etimologico o di stabilire una connessione tra varie radici47, ma di rintracciare persino nell’evoluzione delle lingue indoeuropee il progressivo superamento di ogni immutabile: si verrà condotti a rilevare non una «semplice contrapposizione dei due timbri», ma il «progressivo diffondersi del timbro della lessione»48, e che da ultimo «il timbro della lessione non è una “radice”: esso

Adelphi, Milano 20012, dove a p. 365 l’autore stesso precisa: «Questi passi […] sono pienamente comprensibili soltanto come ‘Auseinandersetzung’, in connessione e dialogo, anche, come ovvio, polemico, con Destino della necessità […] di Emanuele Severino». 45. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 283. 46. Ibidem. 47. Per certi versi, a risultati non distanti, sulla connessione tra arte, abilità, virtù, ricompensa, era giunto proprio V. Pisani, Crestomazia indoeuropea, Rosenberg & Sellier, Torino 19472, p. 108. Ma in nessun caso si potrà trovare, come ovvio, in un libro come quello del Pisani il riferimento agli immutabili e al superamento dell’inlessibile. 48. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 259. Un’altra interpretazione, legata al mito del Politico e a quello del Protagora, viene data in M. Cacciari, Dell’inizio, cit., pp. 380-384.

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sfugge allo stato attuale della rilessione glottologica»49. Non due radici, bensì un timbro dell’inlessibile che cede terreno mano a mano alla volontà di dominio del mortale. A questo punto, infatti, il movimento diviene da un lato constatazione dell’impossibilità della quiete e dunque condizione dell’ars, ma dall’altro il nuovo e più radicale inlessibile: «il movimento può essere infatti uno degli inlessibili, e anzi è per il mortale la forma più immediata della inlessibilità: l’accadimento insondabile delle cose, il cui corso nessuna arte umana o divina può dominare e modiicare»50. Qui l’inquadratura non soltanto s’ingrandisce, ma cerca di rendere visibile un suono, di “far lavorare” il suono nello schermo, perché coglie nella lingua il rilesso di un plesso ancora più originario, che travalica le analisi di carattere sociologico, politico, antropologico o glottologico. Tale gesto rimane impraticabile non perché il glottologo o lo studioso di etimologia non siano disposti ad allargare il campo: sarebbe dificile sostenere che le tesi di Benveniste, o di LéviStrauss, ma anche di Dumézil o di Pagliaro, proprio a motivo del “livello di rilessione” raggiunto, non assumano una dimensione inevitabilmente “ilosoica”, andando a intercettare vari campi di analisi. Il gesto presente in Destino della necessità, nell’approfondire il timbro dell’inlessibile rispetto al diffondersi della lessibilità, rimane inaudito perché ha il coraggio di introdurre un suono mai udito prima, mettendo in questione il divenire stesso come “trascendentale” della cultura occidentale: è chiaro che una simile esigenza sfugge alla rilessione glottologica, per lo meno nel suo stato attuale.

49. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 265. 50. Ivi, p. 357.

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Il suono inaudito può essere rintracciato spesso negli scritti severiniani, in particolare quando si tratta di interpretare sotto una nuova prospettiva la dottrina di grandi ilosoi della tradizione, come succede appunto nel saggio Ritornare a Parmenide51, ma anche in un testo come L’anello del ritorno52, a proposito dell’ewige Wiederkunft des Gleichen nietzscheano, e ancora in Tautótēs53, una sorta di regolamento di conti con la dialettica hegeliana, oltre al già citato ἐπαμφοτερίζειν platonico54. In tutte queste occasioni lo Standpunkt rimane il medesimo: rendere visibile un suono inaudito che era rimasto impensato e inascoltato dall’intera tradizione. Là dove Severino raggiunge i suoi esiti massimi, tuttavia, è nel confronto con quegli autori che non sono ancora stati toccati dalla metaisica occidentale55 e dall’operazione platonica in particolare, ossia Eschilo e Anassimandro56. Il celebre verso eschileo «páthei máthos… kyríōs échein»57 non signiica più, come comunemente si traduce, «dal dolore la conoscenza», bensì che

51. E. Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, cit., pp. 19-61. 52. E. Severino, L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999. 53. E. Severino, Tautótēs, Adelphi, Milano 1995. 54. Cfr. E. Severino, Destino della necessità, cit., in particolare pp. 19-29. 55. E per motivi opposti anche il confronto con chi, all’interno di questa lettura, se ne sarebbe totalmente liberato: ci riferiamo all’interpretazione del pensiero di Leopardi. Cfr. E. Severino, Il nulla e la poesia, Rizzoli, Milano 1990, cui si deve aggiungere Id., Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1997. 56. Al confronto con Eschilo e Anassimandro, cfr. E. Severino, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano 1989, è seguito recentemente un vero corpo a corpo con Eraclito, cfr. Id., Dike, Adelphi, Milano 2015. 57. Eschilo, Ag., vv. 177-178; tr. it., Agamennone, in Eschilo - Sofocle Euripide, Tutte le tragedie, a cura di A. Tonelli, Bompiani, Milano 2011, p. 247.

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«rispetto al dolore il sapere vero ha potenza»58 – interpretando il dativo páthei non come dativo strumentale, bensì come dativo propriamente detto, di termine, e dunque nell’accezione “rispetto al dolore”. In quel momento non soltanto si vede quanto fosse folle interpretare quella casetta isolata all’interno della snowglobe come se fosse una casa vera e propria, ma per la prima volta si ode anche un suono “inaudito” che lavora oltre lo schermo.

58. E. Severino, Il giogo, cit., p. 38.

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Risposta agli interventi degli allievi Emanuele Severino

Venendo oggi a Milano mi dicevo: “Quando prenderò la parola, non dovrò dimenticare nessuno dei tanti Amici da ringraziare!”. Ma l’emozione provocata da una giornata come questa mi rende dificile mantenere il mio proposito. E allora mi sforzo di dire subito quello che in questo momento ho in mente. Vi è una singolare convergenza tra quanto ho sentito da coloro che hanno parlato prima di me e il luogo che ci ospita, cioè il Teatro Franco Parenti. Ho gradito in modo particolare che prima abbia parlato Andrée Ruth Shammah; che mi fatto ricordare tempi molto belli, quando ci vedevamo spesso, e con Franco Parenti, per le attività che stavamo svolgendo in questo teatro. Quindi, grazie cara Andrée; e grazie anche al caro Professor Andrea Bisicchia, che è il direttore di questo teatro. C’è davvero una toccante convergenza che unisce in questa occasione gli ospiti e gli ospitanti: grazie dunque, e in modo altrettanto intenso, anche agli Amici che hanno parlato. Li ringrazio anche per la loro sapienza. Infatti, ascoltandoli, ho imparato molte cose. Conosco bene i discorsi che ho ascoltato questa sera; ma, essendo persone di alto, altissimo livello, hanno saputo presentare quello che mi poteva anche essere ben noto con modalità nuove.

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Quindi vorrei deviare le lodi che sono state rivolte al sottoscritto; vorrei deviarle verso chi ha parlato, rivolgendole cioè a lui. (Me lo si lasci dire: mi sento un po’ nella condizione di un pianista del quale si sia detto: “È bravo, è bravo, è bravo”; ma chi lo andava dicendo suonava molto bene – sì che, quando poi arriva il pianista e gli dicono di suonare, eccolo qui… può anche deludere rispetto all’immagine che i laudatori, suonando molto bene, hanno preigurato delle sue capacità). Dicevo che sarebbe il caso di deviare le lodi verso gli amici che hanno parlato, che sono persone di altissimo livello culturale e tutti appartenenti al mondo universitario. Qui le presentazioni sono state scarse, ma avrebbero dovuto essere ben più sostanziose. Ci troviamo di fronte a quanto di meglio c’è nella cultura ilosoica italiana contemporanea; anzi no, non solo ilosoica, perché il Professor Donà, ad esempio, è anche direttore di un ensemble musicale, ed emerge anche in quel campo. La deviazione di cui sto parlando è compiutamente riuscita se pensiamo a colui che è stato il mio Maestro, cioè a Gustavo Bontadini. È stato giustamente rilevato che qui si tratta di lodare la ilosoia; ecco, allora, lodiamo la ilosoia. Certamente, ma allora lodiamo anche Gustavo Bontadini. Forse mi è venuto in mente di parlare di lui anche per il fatto che sì, sono modesto, ma non smodatamente modesto; e quindi parlare di Bontadini signiica riferirmi a una delle menti più lucide e rafinate della cultura ilosoica del secolo scorso; che è stato così audace, nella sua apertura, da accettare, alla ine della sua carriera, il principio di cui qui si è parlato continuamente – quello relativo alla necessità che l’essente in quanto essente, ogni essente, sia eterno. Ogni essente: anche questo nostro incontro, anche questo istante del nostro incontro.

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Il mio affetto per Bontadini è sempre stato grande, ci siamo voluti un gran bene, ma la mia non smodata modestia, cioè il mio piccolo orgoglio, mi porta a dire che è di grande rilievo che Bontadini abbia visto bene questo che è il centro dei miei scritti; cioè l’impossibilità che gli essenti non siano; o anche, la necessità che ogni essente sia eterno. Ma forse dovrei irrobustire le mie gratitudini, aggiungendo qualche considerazione in lode della ilosoia, ossia della cura per la verità. Ma la lode della ilosoia è inevitabilmente ambigua. La ilosoia è un immenso Giano bifronte. La scienza e anzi l’intera civiltà occidentale appartengono a una delle due fronti. C’è sempre qualcuno che chiede a che cosa serva la ilosoia. Con questa domanda non si tiene presente che la ilosoia è stata la gran servitrice dei servitori. Cioè soprattutto essa è servita a coloro che servono. La ilosoia ha preparato il terreno su cui è cresciuta la nostra civiltà. Ha portato alla luce le categorie sulle quali si basa ormai ogni azione. Se a un certo momento della sua storia l’uomo ha incominciato ad agire con l’intento di produrre qualcosa che prima non era, ciò è stato possibile perché la ilosoia, per la prima volta, ha portato alla luce il senso dell’essere, del non essere, del produrre come un far essere ciò che prima non era, e tutto l’alone di signiicati connessi a questo senso del produrre. La ilosoia ha reso radicali l’agire e il produrre. Se l’agire e il produrre sono i servitori, la ilosoia è la gran servitrice dei servitori. Ma, questo, è un elogio della ilosoia? No di certo, non tanto perché Aristotele ha affermato che la ilosoia non è una serva ma è essa a servirsi del resto, ma perché il far

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essere ciò che prima non era è credere che l’essente possa non essere, ossia è negare l’eternità dell’essente in quanto essente. Nella sua conigurazione storica la ilosoia porta alla luce l’errore e l’errare estremo. Ma questo non è nemmeno un demerito. La verità ha bisogno dell’errore e dell’errare, perché essa esiste solo se è la loro negazione, e quindi solo se essi sono venuti alla luce. Stando ormai alla base di tutti i servizi compiuti nella civiltà occidentale e sulla Terra, la ilosoia è ciò che più serve; ma questa sua prestazione è solo uno dei due lati della sua testa bifronte; quello che guarda verso l’essenza del nichilismo. L’altro lato è il destino della verità – dove la verità non è quella a cui si è sempre rivolto il lato nichilistico della ilosoia. All’alone di signiicati connessi al senso del produrre, portato alla luce dal popolo greco con la ilosoia, appartiene anche la chiariicazione del rapporto tra il mezzo e lo scopo (tra ciò che serve a produrre qualcosa e il qualcosa che si intende produrre). La ilosoia ha reso radicale questo rapporto perché ha inteso il mezzo come ciò che serve a produrre quel che ancora è niente, e lo scopo come ciò la cui realtà è inizialmente niente – è soltanto ideell vorhanden, come dice Marx, ossia è esistente solo idealmente nella mente dell’uomo. Servire, far passare qualcosa dal non essere all’essere mediante mezzi che producono lo scopo: questa è la grande rete del senso da cui è ormai sorretta l’intera storia del mondo. Ma per quanto grande e potente è essa in grado di reggere questo peso? In metafora: tutto quel che accade in una città dipende dall’aria che la avvolge. (L’aria corrisponde alla rete). E se l’aria fosse inquinata? Ciò, comunque, non vuol dire che si debba o si possa smettere di agire, che si debba o si possa scendere dalla rete, o non respirar più l’aria della città. Si vuol dire che è destinato a farsi innanzi un tempo in cui, pur essendo costretti alla produzionedistruzione delle cose e ad agire in modo sempre più potente

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per la presenza della tecnica, si è anche consapevoli della Follia estrema della fede nell’esistenza della produzione-distruzione, cioè dell’agire. Credendo che gli essenti siano un oscillare tra l’essere e il nulla, questa fede, infatti, pensa e vive le cose come nulla. La Follia estrema è anche l’estrema Violenza. Ma quando si agisce conoscendo la Follia dell’agire si agisce in modo diverso dall’agire che è privo di questa consapevolezza. Tuttavia nemmeno a questo punto si chiudono i conti col nostro rapporto con l’esistenza. La Follia è destinata al tramonto. La morte non può essere l’andare nel nulla: la morte è il tramonto della Follia. L’uomo che per lo più ognuno di noi crede di essere muore all’interno di sé stesso, cioè all’interno di quel nostro esser l’apparire del destino della verità, di quel nostro immenso Io che in quanto abitatori della Follia ignoriamo. Il tramonto della Follia non ne è l’oblio. Se la verità dimenticasse l’errore e l’errare, la verità sarebbe nulla. Il cristianesimo è una delle grandi forme della Follia; e tuttavia la sua immagine del Cristo che siede ormai glorioso alla destra del Padre può essere interpretata come una illuminante metafora di ciò che appare con la morte da cui ogni uomo è atteso. Il Figlio di Dio, si incarna per salvare l’umanità. Soffre, muore in croce. Poi siede e siederà in eterno alla destra del Padre. Se ora ci chiedessimo: “Ma sedendo alla destra del Padre si è dimenticato o si dimenticherà del dolore così duramente patito per salvare l’uomo?”, e rispondessimo di sì, potremmo dire che egli avrebbe davvero patito un dolore di cui poi si sarebbe dimenticato? No di certo. Che dolore sarebbe, che sacriicio sarebbe quello di un dolore patito per la salvezza dell’uomo e poi dimenticato? Se ci facessimo quella domanda dovremmo rispondere che Cristo siede alla destra del Padre senza dimenticare il dolore patito.

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Ma possiamo fare ancora un passo avanti, chiedendoci: “Come ricorda quel dolore, il Cristo? Lo ricorda forse così come noi ricordiamo il passato?”. Molti, in passato, hanno patito il dolore. E ora lo ricordano. E Cristo, seduto alla destra del Padre, ricorda il dolore patito così come noi ricordiamo il dolore patito in passato e che ora è lenito dal tempo trascorso? No, perché ricordare in questo modo signiicherebbe aver dimenticato il dolore effettivamente patito. Il ricordo è un’immagine sbiadita del passato. E se, e poiché dobbiamo escludere questo dimenticare, allora si dovrà riconoscere che il dolore passato è esperito in carne ed ossa da Cristo. Un Cristo che siede alla destra del Padre e nella Gloria, in una Gloria ininita, non può dimenticare “il negativo”: il dolore, l’errore, l’errare, il male. Cristo ha patito, per salvare l’uomo, caricandosi sulle spalle, come dice l’apostolo Paolo, tutti i peccati del mondo, e diventando così il massimo peccatore. Cioè non si è caricato sulle spalle tutti i peccati così come ci si carica sulle spalle un sacco di carbone. Egli ha potuto farsi carico dei peccati dell’uomo perché li ha sperimentati; li ha davvero sperimentati; non li ha sperimentati in astratto, in immagine, ma in concreto. Caricandosela sulle spalle, il Figlio di Dio ha concretamente sperimentato la totalità dell’esistenza umana, la totalità del dolore, del piacere, della gioia, della verità, della falsità, del far bene e del far male. Questo carico è la crociissione. La Crociissione siede ora alla destra del Padre, nella Gloria. Ma una volta che il senso del “Padre” e della “Gloria” siano sottratti al mito cristiano, è necessità che ognuno di noi sia un crociisso destinato a sedere alla destra del Padre, nella Gloria – la necessità che compete al destino della verità. Il Padre è la Gioia, nel senso a cui guardano i miei scritti e alla quale ci si è riferiti in alcuni degli interventi che abbiamo sentito. La Gioia è l’apparire ininito della totalità degli essenti, dove la Follia,

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in ogni sua possibile forma, è già da sempre oltrepassata – e conservata. Ma – ancora questo vorrei dire – noi non siamo destinati a star “seduti” alla destra del Padre: siamo destinati a un cammino ininito che ci avvicina sempre di più alla Gioia alla destra della quale noi siamo e che peraltro è il Fondo ultimo del nostro stesso essere, è ciò che noi da ultimo siamo. All’ininito ci avviciniamo all’Immenso che noi stessi, nell’Inconscio più profondo, siamo. Questo cammino ininito, questo ininito avvicinarci alla Gioia è il manifestarsi degli eterni e sempre più concreti volti della Gioia… Ma ora è tempo che mi congedi: ho aperto troppo incautamente i tabernacoli, mi son lasciato andare. È tempo di rivolgere nuovamente il mio ringraziamento, che viene dal cuore, a tutti gli Amici: a chi ci ha ospitato, ai relatori – e questa volta anche al pubblico che ha avuto la pazienza di ascoltarmi…

Indice

Premessa

p. 9

Francesco Berto, La mia posizione ilosoica in relazione al pensiero di Emanuele Severino

p. 11

Laura Candiotto, L’eternità dell’essere, una soteriologia?

p. 17

Mario Capanna, La tendenza fondamentale e le controtendenze

p. 37

Nicoletta Cusano, Io trascendentale e fondazione della Gloria

p. 43

Massimo Donà, La “verità” e il mago Frestone

p. 69

Giulio Goggi, Un Omaggio… ininito

p. 77

Leonardo Messinese, La luce dell’essere sul divenire delle cose e l’agire umano

p. 95

Federico Perelda, Al Maestro Severino

p. 105

Italo Sciuto, Che fare?

p. 117

Davide Spanio, Omaggio al Maestro

p. 125

Andrea Tagliapietra, Il panorama al limite del senso. La lezione del maestro

p. 135

Luigi Vero Tarca, Grazie davvero, Maestro!

p. 151

Ines Testoni, Morte e indicazione di eternità di Emanuele Severino. Dal cambio di paradigma etico alla rivoluzione morale

p. 175

Francesco Valagussa, Severino e l’oltrepassamento della metaisica

p. 193

Emanuele Severino, Risposta agli interventi degli allievi

p. 209

Zeugma | Lineamenti di ilosoia italiana 8 - Classici

Collana diretta da: Massimo Adinoli e Massimo Donà Comitato scientiico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 978-88-5529-015-9

Dalla Premessa di Mario Capanna Omaggio degli allievi a Emanuele Severino: l’idea mi frullava in testa da tempo, ma rimaneva lontana dal concretizzarsi. Poi, come quando un ilo galleggia a lungo nel tempo e, per impreviste circostanze, viene ad annodarsi, ecco l’occasione. Convegno ilosoico a Città di Castello, primavera 2017. Vi partecipano, fra gli altri, Massimo Donà e Luigi Vero Tarca, grandi pensatori. Ci mettiamo in un angolo ed espongo l’idea. La risposta, prima che dalle parole, viene dalla vividezza dei loro occhi. Decidiamo di metterci al lavoro senza indugio. Arriviamo così all’evento, che si è svolto domenica pomeriggio, 17 dicembre 2017, al Teatro Franco Parenti a Milano. E, a veriicarsi, è un fatto inedito: per la prima volta uno straordinario ilosofo riceve, da vivo, l’omaggio e la gratitudine dei suoi discepoli. A suggello del convegno doniamo al Maestro una targa con incisi i nomi degli allievi. Veramente dies signanda lapillo, per la commozione di tutti, la profondità dei ragionamenti, l’intensità della gratitudine, l’autenticità e la bellezza dell’incontro. Con saggi di Francesco Berto, Laura Candiotto, Mario Capanna, Nicoletta Cusano, Massimo Donà, Giulio Goggi, Leonardo Messinese, Federico Perelda, Italo Sciuto, Davide Spanio, Andrea Tagliapietra, Luigi Vero Tarca, Ines Testoni, Francesco Valagussa, e Emanuele Severino.