Nel castello di Emanuele Severino 9788855292399, 9788855292405

Il volume di Leonardo Messinese si propone come una guida accessibile per «capire» un autore il cui pensiero, al di là d

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Nel castello di Emanuele Severino
 9788855292399, 9788855292405

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Leonardo Messinese

Nel castello di Emanuele Severino

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 13 - Classici

Leonardo Messinese

Nel castello di Emanuele Severino

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 13 - aprile 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-239-9 ISBN – Ebook: 978-88-5529-240-5 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Bezděz Castle is a Gothic castle located some 20 kilometres (12 mi) southeast of Česká Lípa, in the Liberec Region, Northern Bohemia, Czech Republic. © Marek – stock.adobe.com

Nel ricordo affettuoso di Emanuele Severino, amico e maestro

«A ciò che non ha mai tramonto, come potrebbe alcuno sfuggire?» (Eraclito, Frammento 16)

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Prologo

L’uomo vive nella convinzione che ciò con cui ha quotidianamente a che fare – si tratti dell’esperienza nella sua accezione più immediata, oppure dell’esperienza assunta nella categorizzazione delle varie scienze – sia tutto ciò che appare e, anzi, sia tutto ciò che è. Una tale «immagine», però, rende incapaci di vedere ciò che autenticamente appare. In questo senso, si può dire con Wittgenstein che un’immagine «ci tiene prigionieri», novelli abitanti della caverna evocata da Platone anche se viaggiamo con grande speditezza nel cyberspazio. Viene da chiedersi: che cosa accadrebbe se, invece, fossimo liberi da tale «immagine»? In primo luogo, le cose contenute nell’«apparire del mondo», quindi anche ogni nostro pensiero, le nostre stesse azioni, apparirebbero in «una luce diversa», forse proprio nella loro luce. Per le antiche forme di sapienza e per le religioni, la «differenza» che sta nel cuore delle cose rispetto al loro apparire quotidiano, la luce che le accoglie, ma che è anche oltre di esse, costituisce la «dimora originaria» dell’essere umano, anche se poi i lineamenti concreti di questa dimora sono indicati, in ognuna di esse, secondo tratti diversi. Analogamente a quelle forme di sapienza, anche il pensiero ch’è contenuto negli scritti di Emanuele Severino è l’indicazione di «un altro apparire», rispetto a ciò che consideriamo il

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luogo sicuro del nostro pensare e del nostro operare, e di un «oltre» in cui siamo attesi da ciò che neppure osiamo sperare. Esso è, innanzitutto, questo. Tuttavia è bene aggiungere subito che non lo si dovrà accostare guardando ad esso come a una sorta di pensiero «oracolare», magari a motivo dell’eleganza della scrittura e, talvolta, dell’enfasi del discorso. Il tratto che caratterizza gli scritti di Severino è la forza impressa dalla struttura argomentativa al contenuto del «sapere filosofico». Abbiamo a che fare, quindi, con un raffinato universo concettuale che ha pochi eguali nel panorama contemporaneo, sebbene non sia sempre agevole comprenderlo appieno. È anche per questi motivi che il primo contatto con Severino può subito affascinare, ma in certi casi pure inquietare. Il pensiero filosofico di Severino può essere paragonato a un grande «castello», con una sola porta d’ingresso e di dimensioni molto strette, così che pure quando si riesce a evitare di cadere in questo o quel fraintendimento iniziale, è comunque molto faticoso riuscire a entrarvi. Anche una volta passati indenni da questa prima difficoltà, il disagio tuttavia potrebbe non essere terminato. Infatti potrebbe insorgere la preoccupazione che l’avanzare all’interno del castello vada di pari passo con il restringersi del proprio autonomo spazio di azione, fino a sentirsi costretti a guadagnare l’uscita prima che sia troppo tardi. Per qualcuno, perciò, l’impresa a cui mi sono accinto scrivendo questo libro potrebbe contenere un prezzo eccessivo, rispetto all’eventuale beneficio che ne potrebbe ricevere. Visto dal di fuori, il castello continua tuttavia a mostrarsi davvero affascinante e, d’altra parte, non vi è nessuno che possa costringere a restarci dentro più di quanto non si desideri. Proviamo, dunque, a entrare nel castello? Del resto, chi vorrebbe accontentarsi di continuare a vivere in una «caverna» senza almeno perlustrare un’alternativa?

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A chi si rivolge il libro

Esplicitando ulteriormente la metafora adottata nel Prologo, questo libro vorrebbe essere per i suoi lettori una guida per “capire” un pensiero estremamente complesso come quello di Severino, indagandolo nel contesto del panorama filosofico contemporaneo e prestando un’attenzione particolare ai suoi rapporti con il cristianesimo e la Chiesa cattolica. Vorrei rilevare innanzitutto, riecheggiando una celebre espressione di Hegel, che per quanto Severino soprattutto in Italia sia «molto noto» anche al grande pubblico, forse il suo pensiero tutto sommato non è ancora «bene conosciuto». I temi che lo hanno reso famoso anche al di fuori delle aule accademiche – la negazione del «divenire» degli enti; il «nichilismo» che pervade la cultura e la storia dell’Occidente; la non verità di ogni forma di «fede», inclusa quella cristiana; la inevitabile risoluzione dell’etica, ma anche della politica e dell’economia, nella «tecnica» – sono certamente sulla bocca di molti. È altrettanto vero, però, che sono molti di meno coloro i quali conoscono veramente dove si raccoglie la forza del pensiero di Severino e, parimenti, sanno individuare il luogo teoretico nel quale possono sorgere una seria discussione e un confronto appropriato.

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Questa situazione, tra l’altro, corrisponde solo in parte al fatto che sia stato lo stesso Severino ad aver scritto due serie di libri le quali si rivolgono, idealmente, a due pubblici diversi: la serie dei libri “più difficili” per gli specialisti in filosofia e quella dei “più facili” per un pubblico più largo. In ogni caso, questo libro poggia su una scommessa: quella di guidare a una comprensione dei fondamenti della filosofia severiniana e delle sue implicazioni più rilevanti sul piano teoretico e su quello pratico in forma accessibile, riducendo al minimo indispensabile “tecnicismi” che avrebbero inevitabilmente ostacolato l’accesso alle tematiche che sono state trattate a chi non sia abituato ad affrontare questioni di natura strettamente filosofica. In qualche modo, quindi, per me è stato come accettare la sfida di raccordare gli scritti di Severino dalla scrittura “facile” con quelli dalla scrittura “difficile”, rivolgendomi idealmente a chi è a conoscenza delle sue tesi attraverso le pagine dei quotidiani, per aiutarlo a fare un passo in avanti nella sua comprensione del pensiero severiniano. Del resto, qualcosa del genere avevo già provato a fare con alcuni miei articoli pubblicati in anni passati sui quotidiani «Corriere della Sera» e «Avvenire» e, più di recente, sul «Giornale di Brescia». Naturalmente, dovrebbe essere innanzitutto questo ideale lettore a giudicare se, ed entro quali limiti, il compito che mi ero assegnato sia stato effettivamente portato a termine. Allorquando, invece, a leggere il libro sia un “addetto ai lavori” del pensiero severiniano, mi auguro di riuscire a portarlo dalla mia parte, nel senso di convincerlo in merito alla bontà del percorso interpretativo che qui è stato tracciato. Vorrei richiamare l’attenzione particolarmente su un assunto che caratterizza la mia lettura del pensiero severiniano. Essa evita d’identificare la critica del filosofo alla tradizione metafisico-­teologica con un mero abbandono della «grande questione» speculativa che quella racchiude riguardo alla com-

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prensione unitaria di tutte le cose – una questione con la quale Severino ha sempre continuato a confrontarsi e di cui ha sottolineato l’importanza anche per la filosofia del nostro tempo. Un discorso analogo può essere fatto riguardo al confronto critico con la fede cristiana, ma su questi temi avremo modo di soffermarci ampiamente nel corso del libro. Il volume si compone di dieci capitoli, la cui lettura può essere relativamente indipendente, ma che di per sé si susseguono in modo organico intessendo un discorso unitario. Il primo capitolo ha lo scopo di condurre per mano nel laboratorio stesso del pensiero severiniano. Esso offre un’ampia panoramica dell’intero sviluppo intellettuale del filosofo fino alle sue ultime opere, per la cui composizione ho avuto modo di esaminare anche i Corsi di lezione, tuttora inediti, tenuti da Severino presso l’Università Cattolica di Milano nella prima e più cruciale fase del suo insegnamento accademico. Eseguita questa prima ricognizione a tutto tondo, il libro prosegue nell’intento di prendere per mano il lettore che conosce Severino solo per gli scritti “più facili”, per condurlo a una comprensione un po’ più avanzata del suo pensiero. In questo modo si verrà a incontrare il Severino più marcatamente teoretico, quello che discute davvero sui “massimi sistemi” e che, passando attraverso queste riflessioni più fondamentali, ha potuto poi svolgere la sua critica radicale nei confronti della civiltà dell’Occidente. Il lettore s’imbatterà in alcuni dei maggiori personaggi della storia della filosofia e in particolare del pensiero del Novecento; farà la conoscenza di colui che fu il maestro di Severino, quel metafisico di razza che risponde al nome di Gustavo Bontadini; verrà a sapere anche di ciò che sta alla base della critica di Severino alla fede cristiana e del significato che un tale confronto possiede agli occhi del nostro filosofo. Una volta mostrate quali siano le «radici ontologiche» delle tesi più note del filosofo, ho messo a fuoco il tema del tramonto

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della «tradizione occidentale», avendo cura di evitare la genericità in cui è sempre possibile cadere quando si affronta tale questione. Il tema di questo tramonto è esaminato in ordine alle varie forme in cui la tradizione occidentale si è incarnata lungo il corso del tempo: innanzitutto relativamente alla prassi etica dell’umanesimo occidentale, che per Severino viene a perdere la sua specifica differenza nei confronti dell’agire tecnico; poi alla conoscenza scientifica, di cui è mostrata la sua originaria inscrizione in una volontà di dominio del mondo; e infine alla stessa tecnica, della quale unitamente al suo carattere onniavvolgente è indicata la strutturale ambivalenza. Il sempre più articolato e avanzante «Apparato scientifico-­ tecnologico» del nostro tempo, infatti, pur al culmine della sua potenza, non può mantenere la promessa di realizzare il «paradiso» in terra, lasciando inevitabilmente l’uomo solo con se stesso, alle prese con l’angoscia che scaturisce dalla visione del nascere e del morire di ogni cosa e dalla considerazione del proprio «esser mortale». Questa, tuttavia, per Severino, non è l’ultima parola che, testimoniando la verità dell’essere, dovrà essere pronunciata riguardo a ciò che attende l’uomo nel suo futuro più autentico e più vero. Alla luce di queste prime sintetiche indicazioni possiamo entrare, con una comprensibile curiosità, nel castello di Emanuele Severino1.

1.  Per la stesura del libro ho utilizzato come materiale di lavoro alcuni capitoli del mio Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia, Dedalo, Bari 2013. Ringrazio, per questo, la dott.ssa Claudia Coga.

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Sostando sulla soglia

Emanuele Severino ha racchiuso in una sintetica, quanto suggestiva, riflessione autobiografica gli elementi fondamentali del suo itinerario filosofico ed esistenziale: la fede religiosa, ricevuta in una famiglia «supercattolica»; l’impegno filosofico di tutta la vita, che va al di là delle mansioni strettamente accademiche; la iniziale “armonia” tra la filosofia e la fede, che egli acquisiva dal suo personale processo formativo; il successivo giudizio di una loro reciproca “incompatibilità”, in quanto anche la fede cristiana è stata giudicata dalla «verità» come appartenente all’alienazione essenziale dell’Occidente. Sono andato avanti pensando che l’impegno nel discorso filosofico non fosse un ostacolo per la fede, e viceversa. La fede era lasciata in vita, in simbiosi con l’interesse filosofico. Solo in seguito è divenuta manifesta l’incompatibilità tra la fede cristiana e il discorso filosofico che avevo sviluppato; tra questo discorso e la fede in quanto appartenente a un orizzonte più ampio: la civiltà dell’Occidente.1

1.  E. Severino, La Follia dell’Angelo. Conversazioni intorno alla filosofia (= FA), a cura di I. Testoni, Mimesis, Milano 2006, p. 17. L’opera era stata edita originariamente dalla casa editrice Rizzoli nel 1997.

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Sarà bene tenere costantemente presente la suddetta riflessione lungo il percorso che andrò a disegnare, perché il rapporto tra le dimensioni della filosofia e della fede cristiana costituisce uno degli elementi essenziali per comprendere il pensiero di Severino nell’arco della sua evoluzione. Tale giudizio mi pare che risulti confermato anche dalla lettura dell’autobiografia del filosofo2, all’interno della quale sono svolte alcune riflessioni circa questo suo «stare tra filosofia e fede»3. L’aspetto «drammatico» del rapporto tra la filosofia e la fede cristiana traspariva in Severino, con maggior forza, negli anni in cui teneva i suoi corsi accademici presso l’Università Cattolica. Una tale partecipe attenzione al tema religioso nasceva in lui da motivazioni soprattutto di carattere filosofico, ma essa resterà sempre viva nel suo pensiero e solo a una lettura superficiale dei suoi scritti si potrà temere di sopravvalutarla. Incominciamo, ora, con ordine, il racconto dell’avventura umana e intellettuale di Severino, che è davvero singolare e che può essere rappresentata plasticamente dall’espressione: né laico, né cattolico.

2.  Cfr. E. Severino, Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia (= MRE), Rizzoli, Milano 2011. 3. Cfr. MRE, pp. 71-72.

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Capitolo I

La vita e le opere

1.  Le esperienze intellettuali di un giovane molto precoce Nato a Brescia il 26 febbraio del 1929, Emanuele Severino frequenta dalle elementari al liceo il collegio «Cesare Arici» della sua città, tenuto in quegli anni dai Padri Gesuiti. Raccontando le sue prime esperienze filosofiche, Severino riferisce di se stesso tredicenne che ascoltava il fratello Giuseppe, da alcuni anni studente alla Normale di Pisa, parlare di Giovanni Gentile; e di Mons. Angelo Zani, docente al Seminario Vescovile di Brescia, conosciuto nel 1943, dal quale il giovane Emanuele si recava per le sue prime lezioni private di filosofia mentre frequentava la quarta ginnasiale. Gli inizi della formazione intellettuale di Severino, quindi, sono segnati dal tomismo intelligente di Mons. Zani e dall’attualismo di Gentile appreso grazie alla voce entusiasta del fratello, poi prematuramente scomparso durante la Seconda guerra mondiale1. All’età di diciassette anni, conseguita la maturità classica e desiderando seguire le orme del fratello Giuseppe, Severino si 1. Cfr. FA, p. 14.

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iscrive al corso di laurea in Filosofia presso l’Università di Pavia, dove troverà professori quali Michele Federico Sciacca, Enzo Paci e, soprattutto, Gustavo Bontadini2, il quale alcuni anni dopo si sarebbe trasferito all’Università Cattolica di Milano. Bontadini è il filosofo che Severino riconosce come suo «mae­ stro» e a cui, tra gli autori a lui contemporanei, dedica le lodi maggiori unite a un grande affetto; ma il suo ricordo affettuoso comprende anche altri professori che in quegli anni insegnavano in Cattolica – Mons. Amato Masnovo, Mons. Francesco Olgiati, Sofia Vanni Rovighi, oltre che P. Agostino Gemelli –, ai quali si sarebbe aggiunto egli stesso nel 19543. Severino dà alle stampe il suo primo libro nel 1948, intitolandolo La coscienza. Pensieri per un’antifilosofia. Esso procede inizialmente ad analizzare il rapporto tra il razionale e l’irrazionale e, in tale contesto, esamina brevemente anche il rapporto tra la filosofia e la religione, esprimendo la tesi che «se l’atto del credere non si può spiegare razionalmente, non per questo è atto irrazionale»4. Il libro, comunque, è dedicato in modo particolare alla musica, che è vista, appunto, come «antifilosofia» rispetto alla filosofia, la quale, essendo sapere razionale, è la grande organizzatrice del «significato», cioè della conoscenza determinata delle cose. L’intento del giovane Severino, tuttavia, non era quello di teo­ rizzare grazie alla musica l’irrazionalismo e neppure di affermare una posizione di tipo dualistico. Rifacendosi a Schopenhauer, l’autore sosteneva che la musica non è una delle «arti», 2.  Cfr. FA, p. 16. Severino ricordava che nelle sue lezioni Bontadini analizzava soprattutto la Critica della ragion pura di Kant e che da lì fu condotto allo studio di Giovanni Gentile e dei filosofi italiani contemporanei (cfr. FA, p. 78). 3. Cfr. FA, p. 20. 4.  E. Severino, La coscienza. Pensieri per un’antifilosofia, Vannini, Brescia 1948, p. 20. Il testo era già pronto nel novembre 1947, come indica la prefazione, ed è dedicato affettuosamente alla memoria del fratello Giuseppe.

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da accostare ad esempio alla poesia o alla pittura, anzi essa propriamente non appartiene al novero delle arti, ma costituisce una forma autonoma dello spirito. E aggiungeva che la filosofia e la musica devono essere considerate unitariamente, in quanto esse costituiscono le due dimensioni del concreto attuarsi del «pensiero» nella sua unità. Il pensiero, infatti, è tanto forma (eidos), ovvero determinatezza, quanto «aneideticità» e cioè indeterminatezza, materia allo stato puro. Dopo questa prima esperienza letteraria – il libro, peraltro, per espressa volontà dell’autore non è stato mai ripubblicato5 – e mentre già attendeva precocemente ad altri lavori filosofici, Severino chiese a Bontadini di poter preparare la sua tesi proprio con lui. Si trattò, a conti fatti, di una scelta molto felice. Egli conseguì la laurea brillantemente, discutendo una tesi dal titolo Heidegger e la metafisica, pubblicata nel 1950, cioè nello stesso anno in cui era stata difesa. Lo scopo dell’ope­ra, ricordato con grande chiarezza dallo stesso autore, era quello di «mostrare che non solo Gentile (come, invece, riteneva Bontadini), ma anche Heidegger, lungi dall’essere un maestro dell’ateismo, era una porta spalancata sulla metafisica, cioè sull’affermazione dell’esistenza di Dio»6. Più in particolare – come egli stesso in seguito ha voluto ancora sottolineare – Severino in quel periodo vedeva «nell’analitica esistenziale di Heidegger un buon punto d’appoggio per la ripresa dell’episteme metafisica»7. Il termine «episteme» possiede, qui, il significato di «sapere incontrovertibile» ed era apparso negli scritti dei filosofi greci. 5.  Una parziale ripresa di questo primo libro, che si giova di un migliore assestamento, è costituita dal saggio del 1950 Lineamenti di una fenomenologia dell’atto, ora in E. Severino, Heidegger e la metafisica (= HM), Adelphi, Milano 1994, pp. 451-471. 6.  FA, p. 16; cfr. MRE, p. 33. 7.  E. Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano 2008, p. 163.

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Avendo all’attivo anche la pubblicazione del volume Note sul problematicismo italiano, sempre del 19508, l’anno successivo Severino ottiene la libera docenza in Filosofia teoretica9. Dopo aver tenuto due corsi all’Università di Pavia, secondo quanto era previsto dagli ordinamenti di allora, nel 1954 si trasferisce all’Uni­versità Cattolica di Milano raggiungendo Bontadini. Gli interessi filosofici di questo primo periodo resteranno decisivi per il tempo a venire, pure nella diversità degli esiti teoretici che caratterizzeranno il filosofo negli anni della maturità. Si fa già strada, infatti, quello che verrà a costituire il tema centrale del pensiero severiniano: la questione circa la «verità incontrovertibile», assoluta, definitiva10. Severino assumeva questa caratterizzazione della verità dalla filosofia di Platone, il cui pensiero resterà il suo punto essenziale di confronto – con tutte le integrazioni del caso – non soltanto nella fase di adesione alla metafisica, ma anche nel momento in cui avrebbe incominciato una revisione critica dell’intera tradizione filosofica dell’occidente. Inoltre, sarà questa stessa adesione alla verità incontrovertibile a stabilire costantemente la forma del rapporto di Severino con la fede cristiana, il quale si evolverà a seconda delle implicazioni veritative che il nostro filosofo vedrà emergere dagli sviluppi della sua riflessione, fino al suo congedo dalla Chiesa e dal cristianesimo.

8.  La stesura del testo, però, risale agli anni 1947-1949. In questa opera, come vedremo più avanti (cfr. cap. IV), era analizzato il rapporto tra due forme di «problematicismo», quello situazionale di Ugo Spirito e quello trascendentale professato da Nicola Abbagnano e Antonio Banfi in cui si sostiene l’impossibilità assoluta di uscire dal «problema» e, perciò, di ristabilire il «sapere metafisico». 9. Cfr. FA, p. 16; MRE, p. 38. 10. Cfr. MRE, p. 37.

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2.  L’insegnamento nell’Università Cattolica di Milano Una rassegna dei vari corsi accademici tenuti in Cattolica – in modo particolare quelli svolti nei primi anni d’insegnamento – potrà aiutare a rendersi conto di come sia molto ampia e di prima mano la competenza di Severino nell’ambito della storia della filosofia e, di conseguenza, a evitare di ritenere impropriamente che le critiche che egli in seguito ha rivolto al corso del pensiero occidentale siano frutto di una qualche facile improvvisazione. Il primo corso accademico nella Facoltà di Filosofia, come ricorda lo stesso Severino nella sua autobiografia, risale a quando egli fu chiamato a sostituire temporaneamente Mons. Francesco Olgiati, nel 1954, sulla cattedra di Storia della filosofia11. Argomento del corso fu La dottrina della scienza di Fichte, secondo l’edizione del 179412. Una precisa documentazione circa gli anni di insegnamento in Cattolica è disponibile a partire dal 1956-’57, quando Severino tenne un «corso libero» durante il quale si adoperava ad analizzare «alcune problematiche tipiche della filosofia contemporanea»13. Per quanto riguarda l’anno seguente, tuttavia, non vi sono dati a disposizione.

11. Cfr. MRE, p. 38. In quello stesso anno Severino pubblicò una nota critica su Croce, prendendo spunto da un libro dello stesso Olgiati: E. Severino, In margine a Benedetto Croce e lo storicismo di F. Olgiati, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», XLVI, n. 3, 1954, pp. 298-303. 12.  Cfr. MRE, p. 39. Alcuni anni dopo l’autore ritornerà su questo stesso tema con il volume Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana, La Scuola, Brescia 1960; ora in E. Severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, pp. 291-424. 13.  Ho tratto le informazioni relative ai corsi accademici tenuti nella sede milanese dell’Università Cattolica – ma qualcuno fu tenuto anche nella sede bresciana – dalle cronache riprodotte anno per anno sulla «Rivista di filosofia neo-scolastica».

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Nell’anno 1958-’59, sempre per il corso di Storia della filosofia contemporanea, risulta che Severino prese in considerazione alcuni aspetti tipici dell’idealismo, del neopositivismo e dell’esistenzialismo. Si tenga conto, inoltre, del fatto che per il Seminario di Filosofia diretto da Mons. Francesco Olgiati, insieme alla presenza degli assistenti del docente, quell’anno era prevista pure la partecipazione degli altri professori della Facoltà, tra i quali Bontadini e lo stesso Severino. Nell’anno accademico 1959-’60, oltre al corso di Storia della filosofia contemporanea, intitolato «Il neopositivismo e il fondamento della conoscenza», Severino ne presentò uno di Storia della filosofia antica, anche nella Facoltà di Pedagogia, avente come argomento «Il principio di non contraddizione nella filosofia greca». A partire dall’anno accademico 1960-’61 e fino all’anno 1962’63 Severino tenne il corso di Storia della filosofia antica e quello di Storia della filosofia contemporanea tanto nella Facoltà di Lettere e Filosofia, quanto nella Facoltà di Magistero (secondo le nuove denominazioni assunte in Università Cattolica dalle due Facoltà). Per il pensiero antico egli svolse i seguenti corsi: 1960-’61: «Dialettica e filosofia prima»; 1961-’62: «Doxa, episteme»; 1962-’63: «I presocratici», per il quale fu preparata una sintetica dispensa. In occasione di quell’anno egli tenne una Prolusione intitolata: La parola di Anassimandro14. Si trattava di argomenti che si rivelarono particolarmente significativi per gli interessi che vennero a maturare, da lì a poco, nella speculazione di Severino. Riguardo al pensiero contemporaneo, poi, i corsi furono i seguenti: 1960-’61: «Problemi della fenomenologia. Analisi di testi husserliani»; 1961-’62: «Analisi della Costru-

14.  E. Severino, La parola di Anassimandro, in «Rivista di filosofia neoscolastica», LV, n. 2, 1963, pp. 147-166; ora in Id., Essenza del nichilismo (= EN), nuova ed. ampliata, Adelphi, Milano 1982, pp. 391-411.

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zione logica del mondo di Carnap»15; 1962-’63: «Problemi della fenomenologia heideggeriana». Si evince, da qui, l’attenzione di Severino per gli aspetti più vivi della filosofia contemporanea, i quali erano indagati all’interno della prospettiva teoretica che per lui si andava sempre meglio delineando. Le importanti pubblicazioni di quei primi anni – sulle quali mi soffermerò in seguito – stanno lì a mostrare efficacemente questo assunto. Esse, peraltro, aprirono a Severino la strada per il ruolo di Professore ordinario, che egli ottenne nel 1962 per la cattedra di Filosofia morale. Il comunicato ufficiale dell’Università Cattolica così recitava: A coprire la cattedra di Filosofia nella Facoltà di magistero della nostra Università è stato chiamato il prof. Emanuele Severino, vincitore nel recente concorso alla cattedra di Filosofia morale bandito dall’Università di Genova e da alcuni anni incaricato degli insegnamenti di Storia della filosofia antica e di Storia della filosofia contemporanea nella nostra Facoltà di lettere e filosofia.16

3.  I primi corsi sulla cattedra di Filosofia morale Severino assunse l’insegnamento di Filosofia morale a partire dall’anno accademico 1963-’64 e lo tenne tanto nella Facoltà di Lettere e Filosofia, che nella Facoltà di Magistero dell’Ateneo milanese. I titoli dei corsi sono estremamente significati15.  Alcuni anni dopo Severino pubblicò un’edizione italiana dell’opera. Cfr. R. Carnap, La costruzione logica del mondo. Pseudoproblemi nella filosofia, a cura di E. Severino, Fabbri, Milano 1966; nuova ed., con notevoli cambiamenti nella intr. e aggiornamenti bibliografici, UTET, Torino 1997. 16.  Cronaca delle Facoltà di lettere e filosofia e di magistero. Anno accademico 1962-63, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», LV, n. 1, 1963, pp. 109116: p. 116.

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vi sia di per se stessi, sia in relazione al primo delinearsi delle nuove prospettive del pensiero severiniano. Il titolo del corso per l’anno 1963-’64 recita molto sinteticamente: «Verità e prassi». L’argomento viene ripreso l’anno seguente: «Verità e prassi. Analisi di testi», con il supporto per la precisione di alcuni passi tratti dalla Repubblica e dal Sofista di Platone. Si tratta del primo corso per il quale risulta che sia stata allestita una dispensa organica sulla base degli appunti raccolti dagli studenti a lezione. Severino si sofferma sul tema dell’«apparire» come svelamento dell’essere, sia in riferimento al pensiero moderno, che a quello antico, mettendo in luce in questo secondo caso il rapporto verità-non verità in Eraclito, Parmenide e Platone. Nella seconda parte del corso egli riprende alcuni dei temi trattati nei suoi Studi di filosofia della prassi (1962). Nel 1965-’66, durante il corso di lezioni, da Severino viene affrontato «Il problema della libertà». L’autore continuava, così, a trattare temi sui quali si era intrattenuto negli scritti pubblicati fino ad allora nel campo della filosofia morale, ma incrociando pure la questione della «essenza dell’uomo» in rapporto con il problema dell’essere e, insieme, alcune delle obiezioni oramai da lui avanzate nei confronti della metafisica classica. In tale contesto egli operava una revisione critica del modo in cui nel terzo dei suoi Studi di filosofia della prassi aveva argomentato riguardo a una «deduzione» della immortalità dell’anima. Con le lezioni dell’anno 1966-’67 la perlustrazione di nuovi sentieri per Severino si fa sempre più esplicita. La novità sta in primo luogo nella impostazione del corso, che viene orientato più decisamente nella direzione dell’antropologia, ma essa soprattutto è legata al fatto che il nostro filosofo, proseguendo il suo scavo del pensiero platonico, sottolinea con maggior forza alcune conseguenze di ampia portata dell’accusa mossa alla metafisica occidentale qualche anno prima – l’identificazione dell’ente con il niente – nel suo scritto forse più celebre: Ritornare a Par-

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menide17. Il corso, infatti, si intitola: «Antropologia: il problema dell’Occidente e l’essenza dell’uomo» e l’attenzione critica di Severino ora è rivolta alla metafisica pure in quanto il suo nichilismo si è incarnato nelle «opere» della civiltà occidentale.

4.  Le lezioni successive di Filosofia morale in Università Cattolica Nel corso accademico dell’anno seguente Severino approfondisce ulteriormente il tema della critica alla metafisica come «teoria» e come «alienazione nichilistica» dell’uomo e della sua prassi. Ora però, pur continuando a scavare nel sottosuolo della metafisica greca, lo sguardo di Severino si allarga fino a considerare il dominio del «progresso tecnologico», inteso quale costruzione di quel Dio che per il pensiero tradizionale era ritenuto, invece, il termine dello sguardo teoretico del filosofo e della richiesta di salvezza dell’uomo religioso. Nel medesimo tempo, prendeva forma la tesi essenziale – la quale per Severino conteneva un indubbio aspetto «drammatico» – che la matrice ultima della civiltà della tecnica sia da rintracciare nella stessa sapienza metafisica, essendo questa persuasa innanzitutto che esista il luogo in cui possa esercitarsi il «dominio» dell’uomo sulle cose: il mondo del divenire. Ponendo il suddetto problema, Severino ribadiva l’«inattualità» del suo discorso filosofico, anche con alcuni precisi riferimenti all’attualità costituita in quegli anni dalla montante ideologia neocapitalista, per un versante, e dal neomarxismo libertario di Herbert Marcuse, per un altro. Il corso era stato intitola-

17.  E. Severino, Ritornare a Parmenide, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», LVI, n. 2, 1964, pp. 137-175; ora in EN, pp. 19-61 (= RP).

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to: «Antropologia: a) Il problema dell’Occidente e l’essenza dell’uomo; b) Platone: il Fedone e il Fedro»; sebbene poi, leggendo la dispensa, ci si avvede come lo svolgimento effettivo delle lezioni abbia lasciato poco spazio alla trattazione di questo tema specifico e si sia, invece, soffermato più a lungo sul tema del sapere incontrovertibile inaugurato dai Greci. Nel 1968-’69 l’argomento del corso di Filosofia morale è sintetizzato in una sola parola: «Ethos», con la quale è evocata la critica oramai sostanzialmente avviata da Severino all’intera cultura occidentale. Il «mondo», cioè il luogo o l’orizzonte dove si crede di esercitare il dominio sulle cose in quanto ritenute producibili e distruttibili, è soltanto una consuetudine, vale a dire è un soggiorno storico all’interno del quale l’uomo ha imparato a orientarsi. La filosofia, nella sua dimensione autentica, cioè in quanto cura della «verità» come sapere incontrovertibile, è la più radicale messa in questione di questo orizzonte all’interno del quale si è andato sviluppando l’Occidente. La filosofia è un abbandonare quell’insieme di convinzioni che noi siamo. A partire da tale assunto, Severino procede in un’analisi molto articolata di ciò che la verità non è (ad esempio: la verità non è «linguaggio», non è «dimensione intersoggettiva», non è «soggettività», ecc.) e della struttura del sapere incontrovertibile in cui la verità appare. La seconda parte del corso, dopo questa trattazione che funge da fondamento, si sofferma sul tema della «essenza» dell’uomo quale eterno apparire della verità dell’essere. Viene, così, messo in luce un ethos ch’è ancora più originario di quello indicato in precedenza: l’Occidente soggiorna nell’alienazione del «mondo», ma questa alienazione soggiorna, a sua volta, nell’intramontabile verità dell’essere. Nel corso di lezioni per l’anno 1969-’70, ch’è l’ultimo tenuto da Severino in Cattolica, l’ambito tematico si allarga ulteriormente fino a includere più esplicitamente la dimensione religiosa. Il tema proposto per il corso è: «Introduzione

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al problema della salvezza». Anche questa volta, però, nello svolgimento delle lezioni si parte da più lontano. Severino si sofferma innanzitutto sul «senso della storia dell’Occidente», sviluppando un’«ermeneutica» di questa storia e mostrando, poi, l’«orizzonte» all’interno del quale viene condotto il suo discorso. La storia dell’Occidente è la storia del nichilismo, in un senso che è comunque diverso da quello intravisto da Nietzsche e dallo stesso Heidegger. L’orizzonte della diagnosi che viene eseguita da Severino è quello della Verità, secondo quel significato che, per il momento, è stato indicato solo per accenni e sul quale, ovviamente, dovremo ritornare. Tutto questo funge da introduzione al tema più specifico del corso, dove per «salvezza» deve essere intesa la «salvezza della verità» e quest’ultima comporta il «tramonto del mondo». L’accostamento al problema religioso e, più in particolare, al cristianesimo è condotto lungo questo filo teoretico e lascia spazio, in primo luogo, a una ripresa del tema fede/ragione e a quello dell’ermeneutica in rapporto alla «Parola di Dio» quale possibile parola di salvezza. La Parola di Dio, però – rileva Severino –, sta dinanzi a noi sempre all’interno di un’ampia struttura interpretativa e questa, storicamente, include innanzitutto il «mondo». La conclusione del corso è problematica e presenta quali punti da sviluppare ulteriormente i due seguenti: 1) sapere qual è il paradiso, cioè la «verità dell’essere» e, di conseguenza, quale sia «l’essenza dell’uomo»; 2) sapere quale «cammino» debba essere percorso da parte dell’uomo. Per ciascuno di questi corsi – se si eccettua l’anno 1963-’64 – furono preparate delle dispense ad opera degli studenti, i quali avevano provveduto alla registrazione delle lezioni18. Severino, 18.  Nello stendere queste pagine ho consultato direttamente quelle dispense, di cui ho potuto avvalermi grazie alle gentili premure di Emanuele Severino.

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da parte sua, sulle questioni affrontate durante i corsi pubblicò alcuni articoli, di cui darò conto più avanti, i quali successivamente furono raccolti nel volume Essenza del nichilismo (1972). A partire dall’anno accademico 1967-’68 il nostro pensatore aveva assunto due nuovi insegnamenti: l’incarico di Istituzioni di filosofia nella Facoltà di Magistero e l’incarico di Filosofia teoretica nella sezione di Brescia dell’Università Cattolica, egualmente nella Facoltà di Magistero. I suddetti incarichi furono tenuti da Severino fino all’anno 1969-’70, il quale, com’è stato accennato, fu l’ultimo della sua permanenza presso l’Uni­ versità Cattolica. Per la Filosofia teoretica gli argomenti dei corsi, in quei tre anni, furono particolarmente impegnativi. Rispettivamente: 1) «L’essenza della metafisica»; 2) «Il problema del fondamento»; 3) «Ontologia e antropologia». Per le Istituzioni di filosofia il titolo del corso per l’anno 1967-’68 fu «Realismo, fenomenismo, idealismo», mentre l’anno seguente Severino scelse come tema «Il problema del fondamento». Infine, per il 1969-’70 il titolo del corso fu più semplicemente «Introduzione alla filosofia». Mentre le dispense per i corsi di Filosofia morale furono preparate materialmente dagli studenti, relativamente al corso di Istituzioni fu lo stesso Severino ad allestire in prima persona una dispensa per l’anno 1967-’68, la quale restò immutata anche per il corso dell’anno successivo. Essa è stata pubblicata alcuni anni fa dall’editrice Morcelliana19. L’autore vi svolge una serrata trattazione del circolo tra la «filosofia» come sapere essenziale del tutto e la «storia della filosofia»: in un primo momento Severino mostra questo seguendo passo passo lo scandirsi storico del rapporto tra il soggetto pensante e l’essere ritenuto esterno al pensiero, cioè percorrendo l’arco della filosofia moderna da Cartesio a Kant e, infine, all’idealismo di 19.  E. Severino, Istituzioni di filosofia, Morcelliana, Brescia 2010.

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Hegel; successivamente egli si riferisce agli inizi della filosofia nei primi pensatori greci, con i quali si deve riconoscere che già nasce la «metafisica» nel significato di pensiero che, appunto, si rivolge alla totalità delle cose.

5.  Gli scritti più rilevanti del primo periodo milanese La presenza di Severino nell’Università Cattolica già nei primi anni è contraddistinta, oltre che dalle sue appassionate e appassionanti lezioni, dalla pubblicazione di due opere che, soprattutto, gli consentirono di dare una prima forma compiuta al duplice interesse che, come ho avuto modo di indicare, muoveva la sua riflessione: La struttura originaria, nel 1958, e gli Studi di filosofia della prassi, nel 1962. La struttura originaria è l’opera fondamentale da tenere in considerazione per poter comprendere nel modo più appropriato l’articolato itinerario filosofico di Severino; questo anche in riferimento a una corretta analisi della fase successiva alla «svolta» in chiave di critica alla metafisica classica, che si esplicitò nel 1964 con lo scritto Ritornare a Parmenide – una svolta la quale giunse al suo assestamento sostanzialmente definitivo nel 1980 con la pubblicazione di Destino della necessità. La struttura originaria, nella quale Severino offriva il suo maggior contributo a una rigorizzazione della metafisica, è un’opera di non facile lettura – una sorta di crux philosophorum – che indusse Mons. Francesco Olgiati, grande estimatore di Severino in Università Cattolica, a commentare, rivolgendosi allo stesso autore: «Professore, abbia pazienza: saranno pochi a capire questo libro!»20. 20.  FA, p. 16. Ritengo che il tempo abbia sostanzialmente confermato il giudizio di Olgiati, pur essendoci oramai alcuni pregevoli studi su quest’ope­ ra di Severino.

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L’opera veniva a tracciare la struttura della verità nella sua dimensione più universale (tale, cioè, da valere per ogni affermazione che ambisca alla incontrovertibilità) e il suo tema centrale era già costituito dalla necessità di affermare la verità dell’immutabilità dell’essere relativamente a ogni essente, sebbene questo assunto centrale fosse ancora posto da Severino in un contesto «creazionistico»21. Quel tema era stato peraltro anticipato in uno scritto del 1956, intitolato La metafisica classica e Aristotele22, il quale è davvero impressionante per la precocità speculativa di cui è testimonianza. In quell’articolo Severino, tra l’altro, prendeva posizione nei confronti della interpretazione di Aristotele che aveva offerto il noto filosofo spiritualista Armando Carlini23. Severino si sentiva particolarmente legato a Carlini, anche sul piano affettivo, dal momento che il fratello Giuseppe stava preparando la sua tesi di laurea proprio con il filosofo pisano di adozione24. L’articolo, peraltro, due anni dopo fu parzialmente tradotto in lingua inglese25. In relazione a un volume successivo, gli Studi di filosofia della prassi, incominciarono a esserci i primi problemi per Severino, 21.  Cfr. E. Severino, La struttura originaria, La Scuola, Brescia 1958, cap. XV, pp. 400-410; nuova ed. ampliata, Adelphi, Milano 1981 (= SO), cap. XIII, pp. 543-555. La prima edizione dell’opera è stata ristampata anastaticamente nel 2012 dall’editrice La Scuola. 22.  E. Severino, La metafisica classica e Aristotele, in Aa.Vv., Aristotele nella critica e negli studi contemporanei, Vita e Pensiero, Milano 1956, pp. 1-25; cfr. MRE, pp. 75-76. 23.  Cfr. MRE, pp. 77-78. 24.  Lo stesso Carlini volle subito pubblicare alcuni appunti già stilati dal giovane studioso (cfr. G. Severino, Storicismo e spiritualità (appunti), in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere, Storia e Filosofia», vol. 12, n. 4, 1943, pp. 215-223). 25.  Cfr. E. Severino, Aristotle and Classical Metaphysics, in «Philosophy Today», vol. 2, n. 2, 1958, pp. 71-82.

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anche se egli era sempre sotto l’ala protettrice di Mons. Olgiati26, che non era soltanto uno dei più importanti e ascoltati docenti della Cattolica, ma ne era pure il co-fondatore insieme con P. Agostino Gemelli. Era successo, infatti, che Mons. Carlo Colombo – un teologo molto stimato e in quegli anni particolarmente influente –, avendo letto il manoscritto dell’ope­ra, aveva manifestato talune perplessità che il testo gli suscitava «sul piano teologico», sebbene egli non esprimesse poi un giudizio negativo circa la «ortodossia» dell’autore27. Tali riserve, comunque, furono superate soprattutto per l’efficace intervento di Mons. Olgiati, il quale, dopo alcune conversazioni chiarificatrici con l’autore, decise di far pubblicare il libro, e proprio da Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica28. In seguito Severino avrebbe sottolineato soprattutto come in quegli Studi – in particolare nel primo – si affacciasse la tesi che la fede nella sua dimensione di fides qua creditur (= l’atto in virtù di cui si presta l’assenso alla Rivelazione) presenta la contraddizione di conferire il carattere della «incontrovertibilità» a ciò che, in quanto caratterizzato appunto dalla «fede», non possiede quel carattere29. All’epoca, però, ciò che premeva a Severino era piuttosto di mostrare le condizioni teoretiche affinché il contenuto della fede cristiana potesse stare di fronte alla verità filosofica in modo non contraddittorio30. 26.  Cfr. E. Severino, Il mio scontro con la Chiesa (= MSC), Rizzoli, Milano 2001, pp. 6, 10. 27.  Cfr. la lettera del 24 maggio 1961 inviata da Mons. Colombo a Severino e ora riprodotta in MSC, pp. 25-27. 28. Cfr. MSC, p. 10. 29. Cfr. MRE, p. 72. 30.  Il tema era affrontato nella parte seconda del primo di quegli Studi: cfr. E. Severino, Studi di filosofia della prassi (= SFP) (1962), nuova ed. ampliata, Adelphi, Milano 1984, pp. 97-150.

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Nell’orizzonte del tema complessivo dell’opera, dedicata al rapporto tra verità e prassi, nel secondo studio era affrontata la questione se la libertà, intesa come «libero arbitrio», possa essere validamente affermata. Attraverso una fitta analisi, che teneva conto di alcuni tentativi di soluzione precedenti e che, soprattutto, aveva alle spalle la struttura originaria del sapere, Severino giungeva alla conclusione che la libertà non può essere affermata su una base puramente fenomenologica (cioè come qualcosa che sia immediatamente evidente) e, perciò, a tale scopo si rende necessaria una deduzione logica31. In tal modo, era avanzava la tesi che l’affermazione della libertà umana è di ordine metafisico32. Nel terzo studio dell’opera, infine, Severino proponeva una deduzione della «immortalità dell’anima» sulla scia della prospettiva teorica messa in luce da Kant e da Fichte, considerando perciò l’anima in rapporto all’«eticità» che caratterizza l’essere umano, e cioè al compito di aprire in misura sempre più concreta la finitezza umana alla dimensione dell’infinito33.

6.  L’insorgere del “caso Severino” all’interno della cultura cattolica Il “caso Severino” scoppiò nel 1964, in occasione della pubblicazione sulla «Rivista di filosofia neo-scolastica» di un saggio chiaramente programmatico dal titolo Ritornare a Parmenide, nel quale si sosteneva l’impossibilità del «non essere» ri-

31. Cfr. SFP, pp. 177-272. Lo studio era intitolato Per la costruzione del concetto di libertà. 32. Cfr. SFP, p. 180. 33. Cfr. SFP, pp. 273-288.

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guardo a ogni ente e non soltanto in riferimento a Dio, com’è invece affermato nella tradizione metafisica e in quella religiosa. A partire da quello scritto – il quale deve essere letto unitamente al relativo Poscritto del 196534 – si aprì un nutrito dibattito, tanto di carattere specificamente «filosofico», quanto legato alle implicazioni di carattere «teologico» della nuova posizione severiniana. Il primo dibattito fu pubblico e si sviluppò soprattutto attraverso la predetta rivista filosofica dell’Università Cattolica, coinvolgendo anche filosofi della scuola metafisica che si era costitui­ta presso l’Università di Padova35. Com’è facile immaginare, la disputa maggiore fu quella che si svolse tra Severino e il suo maestro Gustavo Bontadini36, con il quale comunque, al di là dei dissensi di carattere teoretico, i rapporti rimasero sempre ispirati all’antico affetto. È da rilevare, inoltre, che lo stesso Bontadini si sentiva teoreticamente stimolato soprattutto proprio dal suo «grande allievo», tanto da ritenere di dover riprendere le fila del suo pensiero metafisico sulla scia della disputa in corso con Severino37.

34.  E. Severino, Ritornare a Parmenide. Poscritto, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», LVII, n. 5, 1965, pp. 559-618; ora in EN, pp. 63-133 (= RPP). 35.  Per un consuntivo, da parte di Severino, di questo ampio dibattito, cfr. E. Severino, Risposta ai critici, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», LX, n. 4-5, 1968, pp. 349-376; ora in EN, pp. 287-316. 36.  Il testo più rilevante della disputa fu il primo, intitolato significativamente Σώζειν τα φαινόμενα. A Emanuele Severino, in «Rivista di filosofia neoscolastica», LVI, n. 5, 1964, pp. 439-468; poi in G. Bontadini, Conversazioni di metafisica, intr. di A Bausola, Vita e Pensiero, Milano 1995, vol. II, pp. 136166. Tra gli altri suoi interventi mi limito qui a segnalare Per continuare un dialogo, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», LXXV, n. 1, 1983, pp. 110-118. 37.  I due scritti più importanti dello sviluppo teoretico di Bontadini sollecitato dalla discussione con Severino sono: Sull’aspetto dialettico della dimostrazione dell’esistenza di Dio (1965), in G. Bontadini, Conversazioni di metafisica, cit., vol. II, pp. 189-194; Per una teoria del fondamento (1973),

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Il secondo dibattito fu di carattere privato e si svolse attraverso le lettere che Severino scambiava con alcuni autorevoli esponenti della cultura cattolica “ufficiale”, come il già ricordato Mons. Carlo Colombo; con autorità accademiche, come il Rettore della Cattolica, Giuseppe Lazzati; e con membri della stessa gerarchia ecclesiastica, tra i quali il Prefetto della Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica, il Card. GabrielMarie Garrone38. In un primo momento, Severino riteneva che la sua critica alla metafisica occidentale – in Ritornare a Parmenide, per la precisione, il filosofo si occupava soprattutto della metafisica «classica» – non significasse di per sé una negazione dei contenuti della fede cristiana, sebbene questa implichi certamente una «dottrina ontologica», cioè una concezione fondamentale della realtà. Severino allora guardava alla sua critica come a un invito rivolto al cristianesimo, restando ancora al suo interno, perché fosse rivisto il modo in cui i contenuti di fede erano presentati dalla teologia ufficiale della Chiesa cattolica. Si deve prendere in esame, soprattutto, la lettera inviata a Mons. Carlo Colombo il 23 luglio 1968, che appare come un estremo tentativo da parte di Severino per una “conciliazione” tra la sua posizione filosofica e la fede cristiana quale è proposta dalla Chiesa cattolica39. La questione ch’era sul tappeto presentava due aspetti: 1) da una parte, che fosse ripensata la concettualità della metafisica che sorregge l’«interpretazione in Id., Metafisica e deellenizzazione, intr. di A. Ghisalberti, Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 5-23. Sull’intero arco della disputa tra Severino e Bontadini, cfr. L. Messinese, L’apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino sulla “struttura originaria” del sapere, Mimesis, Milano 2008, pp. 225-273. 38.  Nel volume Il mio scontro con la Chiesa Severino offre un’abbondante documentazione sull’insieme di questa multiforme discussione. 39.  La lettera è stata pubblicata in MSC, pp. 39-44.

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ontologica» della Rivelazione fatta propria dalla teologia cattolica – una metafisica la quale attribuisce l’immutabilità soltanto a Dio e non agli enti finiti, considerati invece a partire da Platone come ciò che «oscilla» tra l’essere e il non essere; 2) dall’altra parte, che fosse nettamente chiarito che la Rivelazione non è, in quanto tale, una «forma di ontologia», così che, salvo caricare il messaggio rivelato in modo improprio di un’ontologia nichilista – quale risultava essere, per Severino, quella offerta da una metafisica che riserva l’immutabilità a Dio – non si dà un contrasto tra la rivelazione e la ragione naturale40. Severino, in particolare, al fine di mostrare la non incompatibilità tra la sua critica alla metafisica e l’adesione alla dottrina rivelata del cristianesimo, proponeva la seguente analogia: Il linguaggio del Verbo non è l’esplicitazione di un’ontologia (così come non è l’esplicitazione di una concezione scientifica del mondo!).41

Ancora nel 2001, pubblicando i documenti del suo «scontro con la Chiesa», Severino ha sostenuto che il cristianesimo potrebbe avere un alleato e non un avversario – e anzi l’avversario – nel contenuto dei miei scritti […] solo se si rinnovasse in modo essenzialmente più radicale di quello che per esempio ha portato il cristianesimo a un diverso atteggiamento verso la scienza moderna.42

Per comprendere nei suoi termini autentici quale fosse all’epoca il rapporto di Severino con la rivelazione cristiana, che non sempre è stato compreso in modo adeguato, ritengo che sia utile riportare un passo tratto dal suo corso di lezioni di Filosofia morale tenuto nell’anno accademico 1967-’68, nel

40.  Cfr. MSC, pp. 42-43. 41.  MSC, p. 41. 42.  MSC, p. 22.

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quale era chiamato in causa il cristianesimo «storico», cioè quello effettivamente esistente, e non quello «ideale» al quale Severino aveva fatto riferimento negli Studi di filosofia della prassi del 1962. Il Cristianesimo storico è la parola che, ascoltata attraverso il mondo, si è resa dissonante, cioè è nell’assurdo. Non è più problema: l’assurdo è ciò che si sa già che è l’opposto del logo. Finisce qui allora quanto io intendo proporvi? No: anche perché altrimenti non continuerei ad insegnare nella Università Cattolica. Il discorso non finisce qui, perché c’è la speranza di un recupero della parola dalla dissonanza, dalla mondanità essenziale in cui giace.43

Per comprendere il significato del brano, si deve tenere presente preliminarmente cosa debba essere inteso qui con la parola «mondo». Severino chiama «mondo» la regione dell’essere diveniente che è stata inventata dalla metafisica greca, in primo luogo da Platone. Il «mondo» è l’autentico mito originario del pensiero occidentale e della civiltà che esso ha potentemente contribuito a formare: la civiltà della tecnica, cioè la civiltà della «produzione» delle cose tratte dal nulla e risospinte sempre nel nulla. Lo scritto nel quale Severino aveva espresso in forma pubblica questo tema centrale del suo pensiero, sviluppato ampiamente in quegli stessi anni nei suoi corsi universitari, era intitolato Il sentiero del Giorno44. A esso aveva fatto seguito un primo significativo svolgimento della critica alla metafisica occidentale, con il quale il filosofo veniva a mettere in questione l’essenza «mortale» dell’uomo così come questa era stata affermata dal

43.  E. Severino, Appunti di filosofia morale, a.a. 1967-68, fasc. II, C.E.L.U.C., pp. 168-169 (corsivo mio). 44.  E. Severino, Il sentiero del Giorno, in «Giornale critico della filosofia italiana», XLVI, n. 1, 1967, pp. 12-65; ora in EN, pp. 145-193 (= SG).

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pensiero greco e dalle diverse religioni. Prese forma, in tal modo, lo scritto La terra e l’essenza dell’uomo45. Severino, nondimeno, si sentiva ancora sinceramente impegnato a compiere l’autentica «demitizzazione» del cristianesimo, che per lui consisteva nel togliere il diaframma del mondo tra la parola di Dio e il suo ascolto da parte dell’uomo. Il seguito della riflessione, tuttavia, indusse lo stesso Severino ad accettare il giudizio di «incompatibilità» tra i suoi scritti e la fede cristiana al quale si giunse nel procedere della discussione. Ciò avvenne allorquando fu coinvolta per una decisione definitiva – e per espresso desiderio dello stesso Severino – non più la Congregazione per l’Educazione Cattolica, ma la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede46. Con le decisioni che stavano per essere prese, una stagione della vita di Severino sarebbe tramontata.

7.  Il processo canonico e la dichiarazione d’incompatibilità con la fede cattolica Lo svolgimento del “processo canonico” comportava, in primo luogo, un esame degli scritti di Severino ad opera di tre periti. A tale scopo, dopo avere registrato alcune rinunce – tra le quali la più rilevante fu quella del noto teologo Karl Rahner per motivi di salute –, dall’autorità competente furono designati tre ecclesiastici, i quali erano tutti filosofi di professione e docenti universitari: lo stimmatino P. Cornelio Fabro, il gesuita P. Joannes Baptist Lotz e Don Enrico Nicoletti. 45.  E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo, in «Giornale critico della filosofia italiana», XLVII, n. 3, 1968, pp. 225-298; ora in EN, pp. 195-251. 46. Cfr. MSC, pp. 13-16.

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Il 16 dicembre 1969 fu inviata a Severino una lettera dal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Card. Franjo Seper, nella quale gli si comunicava una possibile data per un incontro chiarificatore sul «vero senso» e sulla «portata» delle sue indagini filosofiche47. La lettera conteneva come allegati tre Voti, cioè i pareri dei tre periti, in vista dell’incontro che avvenne nella sede della Congregazione al palazzo del Sant’Uffizio. Il più ampio di essi era quello redatto da P. Fabro48, il quale in seguito lo utilizzò come prima parte di un suo libro particolarmente critico nei confronti di Severino49. La discussione, tenutasi il 12 gennaio 1970, con la presenza di Mons. Vincenzo Miano al posto di P. Fabro, non fece altro che confermare i rispettivi punti di vista50, per quanto il giudizio Pro auctore che era stato preparato da Nicoletti propendesse per una interpretazione benevola del pensiero di Severino in rapporto alla fede cristiana51. Il 12 febbraio la Congregazione per la Dottrina della Fede inviava a Severino le Osservazioni conclusive sottoscritte dai tre professori partecipanti al colloquio52. I tre periti, pur sof-

47.  Il testo della lettera è in MSC, p. 75. 48.  Severino ne ha pubblicati la Premessa e il Giudizio conclusivo in MSC, pp. 83-87, ma vi si era riferito molto più ampiamente nello scritto citato, infra, alla nota 58, corredando le citazioni con un suo puntuale commento critico. 49.  C. Fabro, L’alienazione dell’Occidente. Osservazioni sul pensiero di Emanuele Severino, Quadrivium, Genova 1981 (nuova ed., EDIVI, Segni 2015). Nel libro non compaiono la Premessa e il Giudizio conclusivo ch’erano nel testo originario del suo Votum. Sull’interpretazione offerta da Fabro, cfr. L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., pp. 342-345, 369-372. 50. Cfr. MSC, pp. 16-17. Severino scrive che l’incontro avvenne il 9 gennaio, ma in una lettera inviata al filosofo, anch’essa pubblicata nel libro, si parla del 12 gennaio (cfr. MSC, p. 113). 51. Cfr. MSC, pp. 95-106. 52. Cfr. MSC, pp. 113-115.

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fermandosi sui punti che orientavano a esprimere un giudizio d’incompatibilità tra il dogma cristiano e il pensiero filosofico di Severino (dottrina della creazione, personalità di Dio, libertà del Creatore e dell’uomo), erano del parere che tuttavia «sul punto fondamentale, cioè sul modo di intendere la infallibilità della Chiesa»53, fosse opportuno sentire dei teo­logi di professione54. Con lettera del 3 aprile 1970 indirizzata a Mons. Carlo Colombo – dopo che Severino aveva inviato una risposta con alcuni rilievi in merito alle suddette Osservazioni55 –, la stessa Congregazione dichiarava che «la dottrina filosofica del Prof. Severino non è conciliabile con alcune verità della fede cattolica»56. Il 14 maggio 1970 un Elenco delle Proposizioni riguardanti la dottrina filosofica del prof. Severino, stilato dalla suddetta Congregazione e inviato come allegato a un’ulteriore lettera indirizzata a Mons. Colombo, specificava le ragioni che avevano portato alla dichiarazione d’incompatibilità e il contenuto delle proposizioni severiniane giudicate in opposizione con la fede cattolica57. Con tale dichiarazione ufficiale, e con la conseguente uscita di Severino dall’Università Cattolica, si conclude la prima parte della vicenda umana e intellettuale del filosofo bresciano. Gli scritti che testimoniano gli sviluppi teoretici di Severino in questo periodo – dei quali ho citato in precedenza i più rilevan-

53.  MSC, p. 115. 54.  Per alcuni rilievi in merito alle Osservazioni conclusive, cfr. L. Messinese, Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino, ETS, Pisa 2010, pp. 74-75. 55.  Cfr. la lettera inviata da Severino alla Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicata in MSC, pp. 116-117. In essa Severino continuava a sostenere la «possibilità» di una ermeneutica non nichilista del dogma cristiano. 56.  MSC, p. 125. 57. Cfr. MSC, pp. 133-134.

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ti – sono raccolti in Essenza del nichilismo, il cui ultimo saggio è una suggestiva Risposta alla Chiesa (1971)58, dove si acconsente al «contenuto» del giudizio di incompatibilità tra i suoi scritti e la Chiesa, ma, al tempo stesso, è criticata la concezione del rapporto tra fede e filosofia che sta «formalmente» alla base di quel giudizio. La pronuncia di quel giudizio – sottolinea Severino – implica che la Chiesa si consideri depositaria non soltanto della verità soprannaturale – come essa sostiene – ma anche della «verità naturale» o filosofica59. Si tratta di un tema sul quale Severino ritornerà costantemente negli anni a venire. Recensendo il volume Il mio scontro con la Chiesa (2001), nel quale Severino pubblicava la documentazione della suddetta vicenda con l’autorità ecclesiastica, Virgilio Melchiorre, che quella stagione ha conosciuto molto bene e da vicino, si domandava: La proposta teoretica di Severino mirava al ripensamento degli stilemi culturali della fede o indicava, alle radici, una contraddizione intrinseca alla dottrina cristiana della creazione?60

E, subito dopo, egli osservava: Il pensiero di Severino sembra oggi suonare chiaramente nel secondo senso. E tuttavia ci si può anche chiedere se la cosa discenda propriamente dai primi pensieri, dalle tesi portanti della sua filosofia prima. Alla fine degli anni Sessanta la domanda restava sospesa […].61 58.  E. Severino, Risposta alla Chiesa , in «Giornale critico della filosofia italiana», L, n. 3, 1971, pp. 379-451; ora in EN, pp. 317-387 (= RCH). 59.  Un primo accenno di tale critica, che sarà ampiamente sviluppata nell’articolo citato nella nota precedente, si trova nella Risposta alla lettera con la quale la Congregazione per la Dottrina della Fede inviava a Severino le Osservazioni conclusive a seguito del colloquio del 12 gennaio 1970 (cfr. MSC, p. 117). 60.  V. Melchiorre, Lo strappo di Severino, in «Avvenire», 25 novembre 2001. 61.  Ibidem.

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Si tratta di un giudizio molto equilibrato circa l’intera vicenda, che a mio avviso può essere senz’altro sottoscritto, anche perché lo stesso Severino nella sua Risposta alla Chiesa aveva ritenuto inadeguata la lettura dei suoi scritti eseguita da Cornelio Fabro, il cui Votum aveva orientato il «giudizio della Chiesa»: La Chiesa ha tentato di riportare il contenuto di quegli scritti alle categorie consuete del pensiero occidentale, ossia a qualcosa di già saputo e giudicato da essa; e invece la Chiesa non si è ancora imbattuta nella testimonianza della verità dell’essere.62

Severino, che nella Risposta alla Chiesa dedicava ampio spazio alla discussione con Fabro, riteneva in particolare che fosse fuorviante il tentativo da quegli operato di riportare il suo pensiero all’interno dell’immanentismo moderno e della sua logica di fondo63.

8.  La docenza a Venezia e il consolidarsi della nuova fase del pensiero severiniano La pubblicazione di Essenza del nichilismo (1972) appartiene al periodo veneziano di Severino. Già nel 1970, infatti, il filosofo è chiamato come docente all’Università «Ca’ Foscari» di Venezia64, dove egli porta con sé un gruppo di giovani e promettenti collaboratori, divenuti in seguito – tutti – professori ordinari65. Nel corso del tempo, però, molti di loro differenziarono la propria posizione filosofica da quella del maestro. 62.  RCH, pp. 354-355. 63. Cfr. RCH, pp. 345-355, 364-373. 64. Cfr. MSC, p. 21; MRE, pp. 101-102. 65.  Essi sono: Umberto Regina, Luigi Ruggiu, Mario Ruggenini, Carmelo Vigna, Arnaldo Petterlini, Umberto Galimberti, Salvatore Natoli, Luigi

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Nella nuova sede, oltre ad assumere vari altri insegnamenti, è Professore ordinario di Filosofia teoretica ed è chiamato a dirigere per numerosi anni l’Istituto di Studi filosofici, in seguito ribattezzato Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze. Severino, già da alcuni anni, partecipava ai Convegni internazionali sulla filosofia della religione organizzati a Roma da Enrico Castelli, presentando per l’occasione brevi ma significative comunicazioni, come quelle dedicate al tema della «morte di Dio» (1969) e alla «salvezza della verità» (1970). Esse furono pubblicate originariamente nell’«Archivio di filosofia» diretto dallo stesso Castelli66. A Venezia, poi, l’Istituto di Filosofia vedeva passare, invitati da Severino, molti dei più illustri docenti universitari dell’epo­ ca. Ne ricordo alcuni a titolo esemplificativo. Nel 1972 fu invitato Ugo Spirito, l’illustre filosofo «problematicista», oramai extra cattedra ma sempre attivo culturalmente, il quale tenne una conferenza, dal titolo «Come ho fatto storia della filosofia», che si rivelò essere un interessante saggio autobiografico in cui delineava quale fosse stato il suo cammino di ricerca filosofica. Nel 1973, invece, fu invitato per un seminario Lucio Vero Tarca, Italo Valent, Italo Sciuto, Luigi Lentini (cfr. MRE, p. 102). Per un panorama delle successive posizioni assunte in relazione al pensiero di Severino, cfr. le loro rispettive testimonianze contenute in D. Spanio (a cura di), Il destino dell’essere. Dialogo con Emanuele Severino, Morcelliana, Brescia 2014, pp. 199-235 e 241-261. Mancano le testimonianze di Italo Valent, prematuramente scomparso nel 2003, e di Umberto Regina. 66.  Le due comunicazioni, intitolate rispettivamente Sul significato della “morte di Dio” e Alienazione e salvezza della verità, furono in seguito raccolte da Severino in Essenza del nichilismo, la cui prima edizione è del 1972. Le altre comunicazioni, intitolate Storia e ideologia (1973), Tempo e alienazione (1975) e L’impossibilità della fede (1976) furono raccolte da Severino nel volume Gli abitatori del tempo, pubblicato in prima edizione nel 1978.

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Colletti, che stava meditando l’uscita dalle posizioni culturali del marxismo, come in effetti avvenne dopo la pubblicazione nel 1974 di un suo piccolo libro, subito divenuto celebre67. La questione centrale che era posta da Colletti riguardava il rapporto tra la dialettica di Hegel, adottata anche da Marx, che romperebbe con il principio di non contraddizione, e la conoscenza scientifica che invece si fonda su quel principio. L’esito al quale Colletti sarebbe di lì a poco pervenuto era l’esclusione del marxismo dal novero delle teorie scientifiche. In quegli anni il tema della «contraddizione» fu al centro di vari convegni e pubblicazioni68 e anche Severino non si tirò indietro a far sentire la propria voce, mostrando innanzitutto come nella dialettica hegelo-marxiana non sia affatto negato il principio di non contraddizione e come siano altri i limiti che caratterizzano il metodo dialettico hegeliano e la struttura filosofica del marxismo69. Unitamente a questi convegni di carattere universitario, su invito del regista teatrale Franco Parenti, per la stagione 1982’83, Severino organizzava una serie di eventi al Pier Lombardo di Milano, dando loro come titolo «Processo alla cultura», ai 67.  Cfr. MRE, pp. 106-107. Il “manifesto teorico” della fase iniziale del suddetto revisionismo fu costituito dal saggio Marxismo e dialettica, contenuto in appendice a L. Colletti, Intervista politico-filosofica, Laterza, Bari 1974, pp. 63-113. L’edizione originale dell’intervista era in lingua inglese (cfr. A Political and Philosophical Interview, in «New Left Review», 1974, n. 86, pp. 3-28). 68.  Cfr., ad esempio, E. Berti (a cura di), La contraddizione, Città Nuova, Roma 1977; S. Landucci, La contraddizione in Hegel, La Nuova Italia, Firenze 1978; Aa. Vv., Il problema della contraddizione. Atti del Convegno di Padova, 26-27 maggio 1980, «Verifiche», X, n. 1-3, 1981. 69.  Cfr. lo scritto di Severino citato, infra, alla nota 86. Sul tema della contraddizione nella dialettica hegeliana, facendo ampio riferimento a quelle discussioni, si sofferma il volume di P. Bettineschi, Contraddizione e verità nella logica di Hegel, pres. di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2010.

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quali parteciparono molti dei nomi più importanti della cultura italiana nei vari campi della filosofia, delle scienze, della storia e della letteratura70. La collaborazione con Parenti proseguì con un allestimento della Orestea di Eschilo per la stagione 1986-’87, sulla base di una traduzione del testo ad opera dello stesso Severino71. Di particolare rilievo è il rapporto che Severino, sempre in quegli stessi anni, intrattenne con l’economista Claudio Napoleoni, i cui interessi filosofici lo condussero a prendere in grande considerazione sia la critica che era stata mossa da Severino alle tesi di Lucio Colletti, con un’assunzione in proprio della tesi severiniana circa la specifica contraddizione che avvolge la dimensione del «finito», sia la critica che era stata rivolta sempre dal filosofo bresciano al senso attribuito da Heidegger al nichilismo72. Una sintetica ricostruzione di questa sorta di triangolo culturale tra Severino, Colletti e Napoleoni è stata offerta dallo stesso Severino in un articolo pubblicato nel 2002 sulla rivista «Liberal»73. Particolarmente significativa, era stata la partecipazione di Severino alla «Settimana di studi gentiliani» che fu tenuta a Roma

70. Cfr. MRE, pp. 118-119. 71.  Cfr. E. Severino, Interpretazione e traduzione dell’Orestea di Eschilo, Rizzoli, Milano 1985. 72.  Cfr. C. Napoleoni, Discorso sull’economia politica, Boringhieri, Torino 1985, pp. 95-122; dello stesso autore è da vedere pure il volume postumo Dalla scienza all’utopia. Saggi scelti 1961-1988, a cura di G.L. Vaccarino, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Per un commento di Severino alle tesi espresse da Napoleoni, in entrambi questi volumi, in sintonia con il suo pensiero, cfr. E. Severino, Il declino del capitalismo (1993), Rizzoli, Milano 2007, pp. 244-248 (sono ripresi due articoli ch’erano apparsi, rispettivamente, nel 1985 e nel 1989 sul «Corriere della Sera»). 73.  Cfr. E. Severino, Io, lui, Marx e la contraddizione, in «Liberal», n. 9, dicembre 2001/gennaio 2002.

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nel maggio 1975. Nella densa comunicazione che egli vi tenne si sosteneva la tesi dell’impossibilità di ogni immutabile, compreso il Dio metafisico, una volta ammessa l’«evidenza» del divenire delle cose, ravvisando in questo esito necessario la potenza del pensiero di Gentile. In tal modo Severino veniva a marcare con la maggiore nettezza possibile il suo distacco dalla interpretazione del pensiero gentiliano – valutato come una sorta di efficace propedeutica alla metafisica di trascendenza – che aveva accompagnato le sue prime esperienze filosofiche alla scuola di Bontadini74. Una prosecuzione dell’assunto teoretico fondamentale di questo scritto può essere considerata la relazione svolta da Severino al convegno internazionale su Ugo Spirito svoltosi a Roma nell’ottobre 198775. In un ulteriore intervento sul pensiero del filosofo di Castelvetrano, pronunciato al Convegno di studi che si tenne a Roma nel maggio 1994 a cinquant’anni dalla morte di Gentile, Severino confermava la tesi di un Gentile critico radicale di ogni struttura immutabile e, conseguentemente, rilevava l’oggettivo fondo anti­totalitario del suo pensiero.

9.  Da «Ca’ Foscari» alla docenza al San Raffaele di Milano. Ultimi eventi Emanuele Severino tenne l’ultima lezione come Professore ordinario a «Ca’ Foscari» il 17 gennaio 2001. Nel 2005 egli ricevette la nomina di Professore emerito. L’ultimo corso ac-

74.  Cfr. E. Severino, Attualismo e «serietà» della storia, in Aa.Vv., Il pensiero di Giovanni Gentile, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1977, pp. 789-794. 75.  Cfr. E. Severino, Attualismo e problematicismo, in Aa.Vv., Il pensiero di Ugo Spirito, vol. I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1988, pp. 29-39.

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cademico è stato pubblicato in due volumi, intitolati rispettivamente L’identità della follia e L’identità del destino76. L’attività didattica, tuttavia, non si interruppe. Dal 2002 Severino incominciò l’insegnamento di Ontologia fondamentale presso la neonata Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-­ Salute San Raffaele di Milano, tenuto ininterrottamente fino all’anno accademico 2018-2019. Parallelamente egli ebbe modo di presentare alcuni frammenti del suo pensiero nei corsi tenuti presso l’Università Bocconi di Milano e in numerose Conferenze che fu invitato a tenere da vari centri culturali, in Italia e all’estero. Tra queste ultime ne ricordo alcune che presentavano un carattere di ufficialità, come quelle tenute a Mosca nel 1998, a Teheran nel 2000 e a L’Avana nel 200977. Alcuni dei corsi accademici tenuti al San Raffaele sono stati in seguito pubblicati, parte su supporto elettronico e parte in formato cartaceo78. Soprattutto in questi ultimi anni, so-

76. Cfr., infra, cap. II, nota 14. 77.  Per alcuni particolari degni d’interesse circa il contenuto delle Conferenze e il loro contesto, cfr. MRE, pp. 144-148. 78.  Sono attualmente disponibili su supporto elettronico quattro dei corsi di lezione tenuti all’Università Vita-Salute San Raffaele. Si tratta del corso per l’a.a. 2004-2005 (cfr. E. Severino, La guerra e il mortale, a cura di L. Taddio, con un saggio di G. Brianese, 2 CD, Mimesis, Milano-Udine 2010); del corso per l’a.a. 2005-2006 (cfr. E. Severino, Volontà, fede, destino, a cura di D. Grossi, con un saggio di M. Donà, 2 CD, Mimesis, Milano-Udine 2008), del corso per l’a.a. 2011-2012 (cfr. E. Severino, Pólemos, a cura e con due saggi di N. Cusano, 1 CD, Mimesis, Milano-Udine 2012) e di quello per l’a.a. 2012-2013 (cfr. E. Severino, Téchne, a cura e con tre saggi di N. Cusano, 1 CD, Mimesis, Milano-Udine 2013). Due successivi corsi di lezioni sono stati pubblicati in formato cartaceo, entrambi con un adattamento del discorso orale alla forma scritta da parte della curatrice. Sono il corso per l’a.a. 2015-2016 (cfr. E. Severino, Lezioni milanesi. Il nichilismo e la terra (2015-2016), a cura di N. Cusano, Mimesis, Milano-Udine 2018) e il corso per l’a.a. 2016-2017 (cfr. E. Severino, Lezioni milanesi. Ontologia e violenza (2016-2017), a cura di N. Cusano, Mimesis, Milano-Udine 2019).

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no apparse traduzioni di alcune delle sue opere in numerose lingue79. Le monografie dedicate al pensiero di Severino, di diverso contenuto e valore, raggiungono oramai il numero di cinquanta, includendo alcune raccolte di saggi di autori vari80. Innumerevoli sono gli articoli nei quali sono discussi aspetti specifici del suo pensiero e le recensioni delle sue opere81. Nei giorni 29 e 30 maggio 2012, presso l’Università «Ca’ Foscari» di Venezia, si è tenuto un importante Convegno dedicato interamente al suo pensiero, sul tema «Il destino dell’essere. Dialogo con (e intorno al pensiero di) Emanuele Severino». Esso ha visto discutere, alla presenza dello stesso filosofo, molti dei suoi maggiori interlocutori oltre che discepoli appartenenti a tre diverse generazioni82. A distanza di pochi anni, nel 2018 e nel 2019, sono stati organizzati due Congressi inter-

79.  Per l’elenco di queste traduzioni, fino al 2014, cfr. G. Goggi, Emanuele Severino, Lateran University Press, Città del Vaticano 2015, pp. 475-476. Per la sua rilevanza segnalo la successiva traduzione in lingua inglese di Essenza del nichilismo, avvertendo che essa differisce parzialmente dall’edizione originale (cfr. E. Severino, The Essence of Nihilism, a cura di A. Carrera e I. Testoni, tr. ingl. di G. Donis, Verso Books, London-New York 2016). 80.  Tra queste ultime, oltre al volume citato alla nota 65, segnalo A. Petterlini - G. Brianese - G. Goggi (a cura di), Le parole dell’essere. Per Emanuele Severino, Bruno Mondadori, Milano 2005, e S. Sangiorgio - M. Simionato L.V. Tarca (a cura di), A partire da Severino. Sentieri riaperti nella filosofia contemporanea, Aracne, Roma 2016. 81.  Per la bibliografia relativa agli scritti su Severino, fino al 2014, cfr. G. Gog­gi, Emanuele Severino, cit., pp. 477-494. 82.  Gli atti integrali del Convegno, con l’aggiunta di alcuni altri saggi, sono stati pubblicati in D. Spanio (a cura di), Il destino dell’essere, cit. Il volume contiene scritti, in ordine, di Mauro Visentin, Leonardo Messinese, Paolo Pagani, Giorgio Brianese, Davide Spanio, Enrico Berti, Pietro Barcellona, Natalino Irti, Vincenzo Vitiello, Giulio Goggi, Veniero Venier, Paolo Bettineschi, Andrea Dal Sasso, Marco Simionato.

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nazionali, entrambi svoltisi a Brescia nelle sedi universitarie e istituzionali della città, in cui si è tornati a discutere con grande attenzione dell’opera di Severino. Il Congresso che si è svolto nei giorni 2-3 marzo 2018 era stato intitolato «All’alba dell’eter­nità. I primi 60 anni de La struttura originaria»83, mentre quello dei giorni 13-15 giugno 2019 aveva avuto come tema: «Heidegger nel pensiero di Emanuele Severino. Metafisica, Religione, Politica, Economia, Arte, Tecnica»84. Un rilievo speciale possiede l’evento svoltosi il 17 dicembre 2017 al Teatro Franco Parenti di Milano, quando un nutrito gruppo di allievi e discepoli ha reso omaggio al Maestro con l’esprimere, ognuno secondo una specifica modalità, il proprio affettuoso debito di pensiero nei suoi confronti85. Emanuele Severino è morto il 17 gennaio 2020 a Brescia.

10.  Gli scritti fondamentali del periodo veneziano e del secondo periodo milanese Nel 1981 la casa editrice Adelphi, facendo seguito alla pubblicazione del saggio breve Legge e caso (1979), aveva intrapreso

83.  Cfr. G. Goggi - I. Testoni (a cura di), All’alba dell’eternità. I primi 60 anni de La struttura originaria, Padova University Press, Padova 2018. 84.  Cfr. I. Testoni - G. Goggi (a cura di), Heidegger nel pensiero di Severino. Metafisica, Religione, Politica, Economia, Arte, Tecnica, Padova University Press, Padova 2019. 85.  Cfr. M. Capanna - M. Donà - L.V. Tarca (a cura di), Cháris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino, Inschibboleth, Roma 2019. Sono contenuti gli interventi di Francesco Berto, Laura Candiotto, Mario Capanna, Nicoletta Cusano, Massimo Donà, Giulio Goggi, Leonardo Messinese, Federico Perelda, Italo Sciuto, Davide Spanio, Andrea Tagliapietra, Luigi Vero Tarca, Ines Testoni, Francesco Valagussa e dello stesso Emanuele Severino.

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la riedizione delle opere di Severino, a partire da La struttura originaria, la cui nuova edizione presenta una lunga Introduzione, scritta quasi per intero nel 1979, che funge da significativo raccordo tra il volume del 1958 e gli scritti successivi. L’anno precedente Severino aveva dato alle stampe, sempre per Adelphi, Destino della necessità, l’opera in cui, dopo l’adesione alla metafisica classica e la successiva critica verso quella tradizione filosofica, vengono alla luce esplicitamente i tratti di un pensiero che si considera non soltanto al di fuori della tradizione del pensiero metafisico e, di conseguenza, della cultura occidentale – questo era il senso fondamentale di Essenza del nichilismo – ma pure al di là delle analoghe convinzioni che appartengono all’uomo «pre-metafisico», cioè all’uomo che non vede ancora le cose alla luce dell’ontologia inaugurata dai filosofi greci. Tra queste convinzioni vi è innanzitutto quella di essere un «mortale». Alcuni approfondimenti circa la «struttura nichilistica» della civiltà occidentale, con particolare riferimento al marxismo e alla fede cristiana, erano stati svolti da Severino in alcuni scritti pubblicati a metà degli anni Settanta e dopo breve tempo raccolti nel volume Gli abitatori del tempo86, che gli aprì la via

86.  E. Severino, Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando, Roma 1978. La nuova edizione, dalla quale si cita, presenta una modifica del sottotitolo: Gli abitatori del tempo. La struttura dell’Occidente e il nichilismo (= AT), Rizzoli, Milano 2009. Il volume contiene, tra l’altro, un ampio saggio sul testo di Colletti citato supra, alla nota 67, dal titolo Tramonto del marxismo. Discussione con Lucio Colletti e risposta semiseria a Paolo Rossi (pp. 44-150), in cui innanzitutto Severino mostrava il fraintendimento di molti interpreti di Hegel, i quali ritengono che questi abbia negato il principio di non contraddizione. Colletti replicò a Severino all’interno di un saggio intitolato Contraddizione dialettica e non contraddizione, in Aa. Vv., Il problema della contraddizione, cit., pp. 7-62. In seguito, prendendo spunto da alcuni rilievi contenuti in un articolo di Severino pubblicato sul «Corriere della sera» nel 1985, in occasione dell’uscita del già citato

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della notorietà presso un più largo pubblico. Ma è con Destino della necessità che la «svolta» inaugurata da Ritornare a Parmenide giunge al suo definitivo assestamento. Oramai Severino ritiene che nei suoi scritti parli una «lingua» diversa da quella che è parlata nei vari «linguaggi» della cultura occidentale. La lingua comune all’Occidente ha un nome ben preciso: «nichilismo», perché essa esprime che ogni «ente», in quanto è ritenuto abitato dal non essere dal quale proviene e nel quale ritornerà, in effetti sia «niente». È precisamente questa «nientità» a costituire l’essere del «mortale», cioè dell’uomo così come questi deve essere inteso, alla luce del pensiero di Severino, in relazione al suddetto nichilismo. Viceversa, l’essere autentico dell’uomo risiede in una dimensione che è più grande – in primo luogo, nel senso che è ritenuta dal nostro pensatore più vera – anche di quella costituita dal Dio della filosofia e delle religioni. Si tratta di una dimensione che, rispetto alla coscienza che l’uomo ha di se stesso, è «inconscia» e alla quale viene dato da Severino il nome di «Gioia», dal momento che, come attualità suprema della verità, in essa sono tolti ogni contraddizione e ogni dolore. Gli altri scritti fondamentali, che si susseguono a distanza ineguale negli anni successivi, costituiscono gli sviluppi, dapprima in profondità e poi anche in estensione, che fioriscono dalla solida base teoretica che era stata raggiunta da Severino con Destino della necessità. Si tratta, nel primo caso, di Oltre il linguaggio, che è del 1992, e di Tautótēs, edito nel 1995. Nel secondo caso, abbiamo la grande trilogia costituita dalle seguenti opere: La Gloria, che è del 2001, Oltrepassare, pubbli-

Discorso sull’economia politica di Napoleoni, Colletti tornò sulla questione della dialettica in Hegel e in Marx replicando a Severino sulle pagine dello stesso giornale (cfr. ora L. Colletti, Hegel e Marx (secondo Severino), in Id., Pagine di filosofia e politica, Rizzoli, Milano 1989, pp. 95-98).

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cato nel 2007, e La morte e la terra, edito nel 2011, come gli altri volumi che sono stati appena citati, da Adelphi. In Oltre il linguaggio l’autore, dopo avere ulteriormente perlustrato il rapporto tra la verità originaria e alcune forme della civiltà occidentale – come la salvezza religiosa e la specializzazione scientifica –, presenta la sua «filosofia del linguaggio», la quale chiaramente si oppone alla tesi, cara a un significativo settore della filosofia contemporanea, che «l’essere che può venir compreso è linguaggio»87. Per il filosofo bresciano, invece, la suddetta tesi è da criticare in quanto, per un verso, l’apparire della verità dell’essere è già da sempre oltre il linguaggio e, per un altro verso, con essa si intende attribuire al linguaggio l’autentico essere diveniente, che nell’età antica era stato riferito alla «cosa» e, in epoca moderna, al «pensiero»88. Con Tautótēs, all’insegna di un corpo a corpo con Hegel, vediamo Severino approfondire il senso autentico della «identità» che è propria di ogni ente, quella identità che è inevitabilmente negata quando si afferma il diventar «altro» di ogni cosa da quello che essa è, fino a quell’estremo «diventar altro» che è il venire dal nulla di sé all’essere, da parte degli enti, e il loro successivo identificarsi con il nulla. Nella trilogia formata da La Gloria, Oltrepassare, La morte e la terra, il filosofo mostra perché l’attuale configurazione della terra – alla cui superficie appaiono i segni della «persuasione nichilista» su indicata, che si concretizza nelle opere delle varie fedi religiose, etiche, politiche, economiche, scientifico-

87.  Com’è noto, la tesi è stata formulata da Hans-Georg Gadamer e se intende sostenere innanzitutto l’ontologicità del linguaggio, essa viene pure ad affermare la linguisticità dell’apparire della verità (cfr. H.-G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. e cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, p. 542). 88.  Cfr. E. Severino, Oltre il linguaggio (= OL), Adelphi, Milano 1992, p. 210.

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tecnologiche – sia destinata al «tramonto». In tal modo egli giunge a dare una risposta di carattere positivo alle domande con le quali si chiudeva Destino della necessità: Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla solitudine o all’oltrepassamento della solitudine? E queste domande esprimono il limite del linguaggio mortale che incomincia a testimoniare il destino, o il limite del destino che, abitando il cerchio finito dell’apparire, lascia nel proprio inconscio il riconoscimento del sentiero che la terra è destinata a percorrere?89

In particolare, ne La morte e la terra, portando a termine quella che può essere chiamata la sua “escatologia filosofica”, Severino presenta gli approdi ultimi del suo pensiero relativi all’oltrepassamento della situazione di isolamento dalla verità che caratterizza la vita del «mortale». La «Gioia», nella quale è oltrepassato ogni dolore, non resta più soltanto una dimensione «inconscia» dell’uomo – questa era la posizione alla quale ci si arrestava in Destino della necessità –, ma è un effettivo «superamento» dell’alienazione dell’uomo, con l’apparire di alcuni tratti della sua essenza autentica e di sempre più vaste dimensioni della totalità concreta dell’essere non più occultate dal nichilismo. La morte costituisce il termine dell’attesa relativa al tramonto della terra isolata dalla verità. Negli scritti di questa trilogia, secondo una progressione che ne La morte e la terra raggiunge il suo culmine speculativo, Severino viene così a prospettare per l’uomo uno stato delle cose che si differenzia dal «paradiso terreno» della tecni-

89.  E. Severino, Destino della necessità. Kατα τò χρεων (= DN), Adelphi, Milano 1980, cap. XVI, p. 597.

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ca, ma anche dallo stesso «paradiso escatologico» della fede cristiana. Giunto alla conclusione del suo percorso teoretico, negli ultimi suoi scritti Severino ha inteso presentare una fitta serie di “contrappunti” ad alcune delle tesi portanti del suo pensiero, introducendo alcune sostanziose integrazioni sul piano argomentativo in ordine all’affermazione dell’«eternità di ogni essente» e operando, con l’occasione, alcuni preziosi chiarimenti e precisazioni circa il contenuto delle sue opere maggiori. Mi riferisco a opere come Intorno al senso del nulla, in cui Severino ritorna su uno dei luoghi di maggior rilievo della sua speculazione, ovvero sul tema dell’«aporia del nulla»90; poi a Dike, dove egli torna a riflettere sul celebre «frammento di Anassimandro» al quale, come ho già ricordato, aveva dedicato la sua prolusione al corso di Storia della filosofia antica nell’anno accademico 1962-’63 intitolata La parola di Anassimandro – portando alla luce, questa volta, il significato meno scoperto del frammento e della «giustizia» di cui esso parla in ordine alla verità originaria che concerne ogni essente –, e si confronta con l’interpretazione del frammento che era stata proposta da Heidegger in uno scritto pubblicato nel 195091; e, infine, a Testimoniando il destino, in cui si fa ancora più serrato l’esercizio compiuto da Severino per mostrare l’unitarietà dei suoi scritti e indicandola sotto l’insegna di una «testimonianza» della verità, alla quale non si arriva movendo dalla non-verità, mentre il «linguaggio», in cui quella testimonianza si esprime, tenta di fungerle da piedestallo92. Un approfondimento di tipo diverso è eseguito nell’opera Storia, Gioia, in cui Severino presenta alcune implicazioni delle due tesi dell’eterni90.  Cfr. E. Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013. 91.  Cfr. E. Severino, Dike, Adelphi, Milano 2015. 92.  Cfr. E. Severino, Testimoniando il destino, Adelphi, Milano 2019.

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tà degli essenti e del loro infinito dispiegarsi nell’apparire in ordine a una filosofia della storia93. La storia, considerata alla luce del destino, è l’«ordine» dell’apparire e dello scomparire degli eterni, inclusa la sequenza secondo cui entrano nell’apparire le diverse forme della «terra isolata» e cioè le epoche del mito, della metafisica, della tecnica. Ma anche in quest’opera è presente la ripresa di alcuni temi essenziali svolti precedentemente, come la struttura dell’«esser sé» dell’essente e dell’autonegazione della sua negazione.

11.  Breve ragguaglio sugli altri scritti Nel delineare questo profilo bio-bibliografico mi sono soffermato sulle opere maggiori di Severino, vale a dire su quelle in cui sono esposte le strutture concettuali che fungono da fondamento del suo articolato pensiero. Alcuni altri scritti del filosofo che finora non ho preso in diretta considerazione si soffermano in modo approfondito sulla interpretazione di alcuni nodi fondamentali della civiltà occidentale, studiata nei suoi inizi (all’«inizio della ragione») e nel suo attuale compimento (alla «fine dell’età della tecnica»)94. Altri ancora ci consegnano varie analisi circa i diversi «soggetti» – religiosi, politici, economici – che nel nostro tempo 93.  Cfr. E. Severino, Storia, Gioia, Adelphi, Milano 2016. 94.  Cfr. E. Severino, Il giogo. All’inizio della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano 1989; Id., Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990, e Id., Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1998. In questa medesima linea deve essere letto il volume dedicato a Nietzsche: Id., L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999. Un serrato confronto con molti dei maggiori pensatori dell’Occidente, svolto in una forma più accessibile, è in Id., Sortite. Piccoli scritti sui rimedi (e la gioia), Rizzoli, Milano 1994.

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si sono proposti di guidare i destini del mondo e rispetto ai quali Severino viene a mostrare che, all’interno dell’Occidente, il potere effettivo appartiene non a loro, ma all’Apparato scientifico-tecnologico95. Nella prima serie di questi scritti, Severino mette in luce come in Eschilo, attraverso l’evocazione del «sapere» come rimedio che rende sopportabile il dolore dell’esistenza, venga a essere anticipata l’essenza dell’intera tradizione metafisico-teologica; mentre con Leopardi, grazie all’individuazione della conseguenza necessaria che comporta l’affermazione del divenire delle cose, vale a dire la «morte di Dio», è anticipata l’essenza della filosofia contemporanea. Nella seconda serie Severino si confronta con le maggiori scuole di pensiero nel campo dell’economia, della politica, delle religioni, con l’intento di mettere in luce quella che egli considera la «struttura contraddittoria» presente nelle diverse proposte, volta per volta avanzate, di dare forza teoretica alla pretesa di «guidare» il corso degli avvenimenti del mondo che caratterizza le varie autorità economiche (capitalismo) politiche (Stato democratico) o religiose (Chiesa cattolica, Islam). Una menzione speciale, infine, deve essere fatta per alcune altre opere di Severino. Innanzitutto questo riguarda il volume 95.  Cfr., innanzitutto, E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit.; Id., Téchne. Le radici della violenza (1979), Rizzoli, Milano 2010, e Id., La tendenza fondamentale del nostro tempo (1988), Adelphi, Milano 2008. Tra gli scritti successivi di Severino, segnalo: Il declino del capitalismo, cit.; Pensieri sul cristianesimo (= PC) (1995), Rizzoli, Milano 2010; Il destino della tecnica, (1998), Rizzoli, Milano 2009; Dall’Islam a Prometeo, Rizzoli, Milano 2003; Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa (= N), Rizzoli, Milano 2005; Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Rizzoli, Milano 2006; Democrazia, tecnica, capitalismo, Morcelliana, Brescia 2009; L’intima mano. Europa, filosofia, cristianesimo, destino, Adelphi, Milano 2010; Capitalismo senza futuro, Rizzoli, Milano 2012; Il tramonto della politica. Considerazioni sul futuro del mondo, Rizzoli, Milano 2017.

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La filosofia futura96, nel quale anche a un lettore non specialista è dato trovare una sorta di summa dei temi fondamentali del pensiero di Severino97. Un’operazione analoga di «introduzione» al suo pensiero, rivolta però a un pubblico di giovani filosofi, è quella messa in esecuzione da Severino con il volume Volontà, destino, linguaggio98, il quale raccoglie il corso di lezioni tenuto nel 2010 a Torino, presso la Scuola di Alta Formazione Filosofica diretta da Ugo Perone99. Dev’essere ricordato poi il volume intitolato La buona fede, dove il filosofo affronta in modo particolare la questione circa lo statuto veritativo della «ragione pratica», criticando i vari tentativi di giustificare la dimensione della morale, cioè l’attribuzione di un carattere veritativo all’«ordinamento» dell’agire umano, restando all’interno della fede nella radicale alterabilità delle cose100. Da ultimo, segnalo i volumi La potenza dell’errare101 e Dispute sulla verità e la morte102, nei quali Severino aveva continuato a

96.  E. Severino, La filosofia futura (= FF) (1989), nuova ed. riv., Rizzoli, Milano 2006. 97.  Rivolgendosi a prima vista al medesimo tipo di lettore – ma, in realtà, anche a un pubblico di specialisti – Severino ha pubblicato una storia della filosofia in tre volumi, raccolti successivamente, con alcuni ampliamenti, in un volume unico dal titolo La filosofia. Dai Greci al nostro tempo, Rizzoli, Milano 1996. 98.  E. Severino, Volontà, destino, linguaggio. Filosofia e storia dell’Occidente, a cura di U. Perone, Rosenberg & Sellier, Torino 2010. 99.  Quasi a conclusione del Seminario, alla cui buona riuscita contribuirono Giulio Goggi e Luca Grion, fu tenuta da Severino una Lectio Magistralis presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino. In quell’occasione ebbi l’onore di presentare la figura del nostro filosofo. 100.  E. Severino, La buona fede (= BF) (1999), Rizzoli, Milano 2008. 101.  Cfr. E. Severino, La potenza dell’errare. Sulla storia dell’Occidente, Rizzoli, Milano 2013. 102.  Cfr. E. Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Milano 2018.

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prendere in esame i maggiori problemi politici e culturali del nostro tempo e a confrontarsi con numerosi esponenti della filosofia attuale (tra i quali non pochi sono suoi allievi e discepoli) sul senso della verità incontrovertibile e della «potenza» posseduta dal nichilismo, come pure su quale sia l’autentico significato della vita umana e della morte terrena.

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Capitolo II

Un pensiero rivolto all’eterno

È probabile che il contenuto di questo capitolo, almeno a una parte di lettori, richiederà un impegno supplementare di attenzione. Lo avverto fin da ora, ma è necessario che si compia un tale sforzo per introdursi nel pensiero di Severino in modo da non restarne alla superficie e rischiare, così, di fraintendere il genuino significato delle tesi più note che caratterizzano la sua posizione filosofica. Alla presentazione dell’«ontologia» severiniana, oltre a questo capitolo che si propone di mostrarne la direzione fondamentale, saranno dedicati ancora il quarto e il quinto capitolo, nei quali mi soffermerò sul suo contesto teorico più immediato e sulle critiche che essa ha ricevuto. Mi auguro che, sulla base di queste prime acquisizioni, la loro lettura possa poi risultare meno ostica.

1.  L’eternità di ogni cosa e la critica al divenire come nascita e morte degli enti L’ontologia è la scienza filosofica che si occupa dei tratti comuni di «tutto ciò che è». Il cuore del pensiero ontologico di

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Emanuele Severino è racchiuso nella tesi che afferma rigorosamente l’eternità di ogni cosa, dalla più alta alla più umile. In questo concreto determinarsi della verità dell’immutabilità dell’essere – che era apparsa per la prima volta, ma in una forma imperfetta, con il pensiero di Parmenide – risiede il centro del pensiero di Severino, il fuoco dal quale si irradiano le varie parti di un discorso che è venuto facendosi sempre più complesso. Innanzitutto, quindi, si deve cercare di comprendere questa tesi nel suo decisivo e autentico significato. Siamo in presenza della verità originaria, in qualche modo della «risposta» essenziale che precede ogni specifica domanda su cui ci si possa interrogare. Ed essa è tale in quanto è il contenuto originario del sapere incontrovertibile1. Che ogni ente sia «eterno» non vuol dire, per Severino, che si debba negare il fatto che le cose «vengano ad apparire» e, successivamente, «scompaiano». Se si intendesse sostenere questo, cioè se si affermasse un mondo immune da variazioni, si verrebbe a negare senza ragione alcuna lo spettacolo che sta dinanzi ai nostri occhi. Quello che la tesi della eternità degli enti mette in questione è, invece, il «senso» dell’apparire delle cose e del loro scomparire e, quindi, il senso di ciò che solitamente è chiamato il loro divenire, sovrapponendo però surrettiziamente allo spettacolo che appare una sua erronea «interpretazione», che Severino ritiene essere alla base della malattia di cui è affetta la nostra civiltà. Non si tratta di una questione puramente teorica e meno che mai oziosa, ma di qualcosa che ha a che fare con il senso della

1.  Detto in termini semplici, il sapere incontrovertibile è quello in relazione al quale anche i tentativi di negarlo implicano la sua affermazione. L’esemplificazione classica della forza posseduta da tale forma di sapere è costituita dal modo in cui Aristotele confuta colui che intende negare l’incontraddittorietà dell’essere. A tale proposito cfr., infra, la nota 5.

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morte e, proprio per questo, con il senso stesso della vita umana, in analogia a ciò che della verità dell’uomo hanno sempre cercato di dire le religioni e le maggiori speculazioni filosofiche. Anche se questo importante risvolto non appare in modo esplicito in un discorso che ha come suo tema diretto l’ontologia, esso nondimeno ne è sempre implicato. Questa verità originaria è così rilevante da costituire il luogo in cui si concentra anche il fondamento della critica di Severino all’intera civiltà occidentale e a quella vicenda più ampia che si è costituita con il farsi innanzi dell’uomo persuaso di essere un «mortale», secondo il significato che di questo termine è stato indicato precedentemente. Il lettore comprenderà da sé che è su questo nesso essenziale che dovrà fissare l’attenzione maggiore leggendo questo libro. La tesi che presiede alla interpretazione severiniana dell’intero corso della storia del pensiero dell’Occidente, anzi – come si diceva – dell’intera civiltà occidentale, poggia sul rilievo fondamentale che sia la tradizione filosofica – dai Greci a Hegel – sia la filosofia contemporanea si sviluppano sulla base della «comune» convinzione circa il divenire degli enti, inteso come il loro incominciare ad essere e il loro cessare di essere. L’affermazione dell’eternità degli enti, perciò, è contrapposta da Severino alla tesi che afferma il «divenire ontologico» delle cose – ovvero il loro entrare nell’essere e uscirne, e non all’evi­ denza di carattere fenomenologico che il contenuto dell’esperienza sia variante. Essa è stata fatta valere da Severino in ragione del fatto che, affermando il divenire così inteso, si ha la contraddittoria posizione, riguardo a ogni singola cosa, della «identità dell’essere con il non essere» e, così facendo, ogni ente è ultimamente considerato «niente». Alla verità dell’essere appartiene l’opposizione dell’essere e del nulla. Non nel senso che l’essere abbia a premere su qualcosa che gli faccia resistenza, ma nel senso che, quando si dice

64 appunto che nulla resiste all’essere, l’essere lo si pensa nella sua relazione al nulla, e in questa relazione prende significato. La verità originaria dell’essere è lo stesso senso originario dell’essere.2

La verità dell’essere, perciò, esclude unicamente quella caratterizzazione nichilistica del divenire che è stata resa possibile dall’avvento del pensiero greco e dalla nascita dell’«ontolo­ gia». Infatti, nel portare alla luce per la prima volta il senso della opposizione assoluta dell’essere e del non essere, le «variazioni» che l’apparire delle cose manifesta sono state comprese come un venire all’essere di qualcosa dal non essere di sé e un andare dello stesso qualcosa dall’essere al non essere di sé. La concezione nichilistica del «divenire» si basa su una concezione nichilistica dell’«essere», secondo la quale l’ente, come tale, è niente. Questa stessa ontologia diviene una «metafisica» allorquando va alla ricerca delle ragioni per le quali alcuni enti privilegiati sono sottratti al processo di nascita e morte e sono, perciò, divini. A incominciare dall’articolo programmatico Ritornare a Parmenide, Severino procede alla giustificazione di questa tesi essenziale e alla sua difesa rispetto alle varie critiche che le erano state rivolte al suo primo affacciarsi.

2.  L’identità di ogni cosa con se stessa e la critica al divenire come «diventar altro» degli enti Il filosofo bresciano, successivamente, ha messo in luce la contraddizione che è presente nell’affermazione del divenire secondo un ulteriore aspetto, portando l’attenzione sul tema 2.  RP, p. 37 (corsivo mio).

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del­l’identità di ogni cosa e criticando il divenire come l’impossibile «diventar altro» di ogni cosa rispetto alla propria identità. Questa seconda forma della contraddizione appartiene a un’epoca che precede quella inaugurata dal pensiero ontologico dei filosofi greci, un’epoca che perciò può essere chiamata «pre-ontologica». Ogni trasformazione del mondo è un divenire altro da sé da parte di qualcosa. […] Ma che qualcosa (cioè un essente, una determinazione, un significato) sia altro da sé è impossibile, è lo stesso significato originario dell’impossibilità. L’essere identico a sé, l’essere sé è, cioè, lo stesso senso originario della necessità.3

L’affermazione dell’eternità di ogni ente, in questo modo, viene a essere esplicitata come l’affermazione autentica della identità degli enti con se stessi, la quale, invece, stando alla concezione che si ha comunemente del divenire, risulterebbe impossibile, in quanto nell’affermazione dell’identità sarebbe implicata la contraddizione di un essere identico che diventa altro da sé.

3.  Approfondimento circa il modo di affermare l’identità Severino ritiene che nel modo stesso in cui l’identità è stabilita nella logica inaugurata da Aristotele – vale a dire nell’affermazione del «principio d’identità»: A è A (A = A) – può essere ravvisata una contraddizione. Lì, infatti, l’intenzione di dire l’identità è smentita dalla modalità in cui è detta, stante che per esprimerla A è detto due volte e, quindi, si usano con-

3.  E. Severino, Violenza e salvezza, in OL, pp. 15-34: pp. 21-22.

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traddittoriamente due termini per dire l’identico. Il tema, di per sé, è di notevole importanza; tuttavia il lettore ideale a cui innanzitutto mi rivolgo, se lo vorrà, potrà omettere la lettura di questo sintetico approfondimento e passare direttamente al paragrafo successivo. Il tema dell’identità compariva con grande rilievo già ne La struttura originaria, in cui si provvedeva a superare alcune aporie inerenti al «modo astratto» di affermare il principio d’identità e anche quello di non contraddizione4. Mi soffermerò unicamente sul principio d’identità5. L’astrattezza, ch’è qui da togliere, è duplice. In primo luogo, essa sta nel considerare la forma logica del «giudizio», in cui sono uniti il soggetto (A) e il predicato (A), come successiva alla forma dell’«apprensione» del soggetto, mentre invece la struttura del giudizio (A = A) appartiene al significato A. In secondo luogo, per evitare che si ritorni semplicemente nella situazione logica dalla quale era4. Cfr. SO, III, pp. 180-193. 5.  Questo, non perché non sia altrettanto rilevante nel pensiero di Severino la tematizzazione del principio di non contraddizione (cfr. SO, III, pp. 171178), accompagnata da un’edizione commentata del IV libro della Metafisica di Aristotele (cfr. E. Severino, Il principio di non contraddizione [1959], Morcelliana, Brescia 2021), e non siano di estremo rilievo anche la discussione operata dal filosofo in merito alla formulazione aristotelica del principio (cfr. RP, pp. 21-23) e alla sua difesa radicale (cfr. RP, pp. 40-58 e RPP, pp. 116-133), come pure il dibattito che, in momenti diversi, ne è scaturito. Anzi, di recente la questione sul «valore» del principio di non contraddizione negli scritti di Severino è stata fatta oggetto di studio in un confronto con quelle logiche che ammettono la possibilità della contraddizione. A questo tema è dedicato un fascicolo della rivista online «Eternity & Contradiction. Journal of Fundamental Ontology», vol. 2, n. 2, 2020. Su questi medesimi temi si vedano i contributi di F. Perelda, N. Cusano, G. Barzaghi e M.E. Cerrigone contenuti nel volume a cura di C.A. Testi, Ai confini della contraddizione: Tommaso d’Aquino, Florenskij e Severino, Insedicesimo, Savona 2021. Tuttavia, data l’indole di questo libro, i temi a cui ho accennato devono essere tenuti fuori, rimandando per alcuni degli aspetti prima elencati a G. Goggi, Emanuele Severino, cit., pp. 159-175.

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vamo partiti, si deve rilevare che l’identità concreta è l’identità dell’identità con se stessa. Pertanto si ha la seguente formulazione del principio di identità: (A = A) = (A = A)6. Nel contesto de La struttura originaria il tema dell’identità era stato affrontato nell’ottica di mostrare la modalità non contraddittoria di affermare qualunque tipo di «giudizio», cioè di dire qualcosa (il predicato del giudizio) di qualcos’altro (il soggetto del giudizio)7: sia quando si tratti di giudizi «tautologici» – ad esempio: «il tavolo è tavolo» –, sia quando si tratti di giudizi «non tautologici» – ad esempio: «Socrate è ateniese». Sul primo tipo di giudizi valgano le considerazioni precedenti. Per questo secondo caso, si evitava di affermare una contraddittoria identità tra due diverse determinazioni8, mostrando che l’identità di Socrate comporta l’affermazione del suo essere ateniese e che l’essere ateniese affermato è proprio quello che appartiene a Socrate. La formulazione del giudizio è, perciò, la seguente: (A = B) = (B = A)9. Tuttavia, successiva6.  Per una discussione critica con Severino sul tema dell’identità, cfr. gli interventi di V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova, 1992, pp. 231-232; Id., Tauta aei. La logica dell’inerenza di Emanuele Severino, in D. Spanio (a cura di), Il destino dell’essere, cit., pp. 175-187; D. Didero, La teoria della predicazione come identità in Emanuele Severino, in «Divus Thomas», vol. 101, n. 3, 1998, pp. 219-291; F. Turoldo, L’identità e la differenza, in Id., Polemiche di metafisica. Quattro dibattiti su Dio, l’Essere e il Nulla, pres. di C. Vigna, con un saggio di E. Berti, Cafoscarina, Venezia 2001, pp. 113-143; M. Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, Milano 2008, pp. 336-368; M. Scurati, Pensare l’identità. Da Schelling a Severino, pref. di V. Vitiello, AlboVersorio, Milano 2008, pp. 48-80 (l’autore assume le riflessioni critiche di Donà e di Vitiello). 7.  Sulla struttura autentica dei giudizi non contraddittori, che sono tutti identici, cfr. SO, VI, pp. 271-277. 8.  Severino prende in esame l’insufficienza della soluzione proposta da Platone nel Sofista a tale riguardo (cfr. SO, VI, pp. 269-270). 9. Cfr. SO, VI, pp. 276-277. La formulazione ch’è stata riportata fa, però, riferimento all’Introduzione di SO, pp. 28-30.

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mente, in un’opera intitolata Tautótēs10, lo stesso Severino ha rilevato l’inadeguatezza di quella formulazione, sostituendola con la seguente: [A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A]11. In questo modo, si afferma che A è identico al suo «essere insieme a B», preservando al tempo stesso il suo «non essere B». E ora un ultimo rilievo. Inizialmente, la posizione di Severino era quella di affermare la «molteplicità» degli enti – e, perciò, ogni complessità semantica – nella prospettiva di fare un passo innanzi sia rispetto a quanto già era stato compiuto da Platone, allorquando aveva offerto una risposta alla negazione operata da Parmenide della molteplicità degli enti, sia alla modalità in cui Aristotele aveva posto la connessione di due diverse determinazioni (ad esempio la connessione di sostanza e accidente). La messa in luce dell’intima relazione tra il tema dell’identità dell’ente con se stesso e quello della concezione non nichilistica del divenire appartiene, invece, alla seconda fase del suo pensiero12.

4.  Identità ed eternità dell’ente All’interno degli scritti di Severino, la più radicale e approfondita esplicitazione dell’unità essenziale tra l’«esser sé» e l’«eternità», che vale per ogni essente, ha trovato il proprio svolgimento in Tautótēs, dove peraltro il tema dell’identità incomincia a essere articolato anche sul piano «verticale», allar-

10.  E. Severino, Tautótēs, Adelphi, Milano 1995. 11.  Ivi, p. 152. 12.  Per una trattazione più analitica di questo tema nelle due fasi del pensiero severiniano, devo rinviare a L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., pp. 82-88.

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gandosi al campo della «totalità infinita», che sarà collocato al centro de La Gloria e degli scritti ultimi del filosofo13. Questo sviluppo del pensiero severiniano è molto bene documentato, in una forma più accessibile, dalla pubblicazione dell’ultimo corso di lezioni tenuto dal filosofo all’Università di Venezia nell’anno accademico 2000-2001, in due volumi intitolati rispettivamente L’identità della follia e L’identità del destino14. In questi due volumi si intende sottolineare una opposizione tra il modo contraddittorio in cui l’identità di ogni cosa è stata intesa nella storia del pensiero filosofico, sulla scia della filosofia aristotelica (= l’identità della follia), e il modo in cui l’identità di ogni «ciò che è» deve essere affermata evitando di restare avvolti nella contraddizione (= l’identità del destino). Nelle sue ultime opere Severino, particolarmente nella seconda e nella terza parte di Dike, è ritornato ancora sui temi congiunti dell’identità dell’essente e della «fondazione» dell’eternità degli essenti, introducendo sviluppi ulteriori in funzione di conferma e di supporto alle precedenti argomentazioni. Si avverta, però, che con quanto fin qui è stato esposto si è giunti a cogliere l’«esser sé» dell’essente soltanto nella sua configurazione più astratta, cioè in quella sua struttura formale che consente di affermare l’identità dell’essente non contraddittoriamente. Il suo senso massimamente concreto implica alcuni decisivi elementi ulteriori, che potranno essere introdotti solo nel seguito del libro (cfr. cap. VI).

13.  Per alcuni elementi circa gli sviluppi articolati in questi scritti, cfr. ivi, pp. 374-379. 14.  E. Severino, L’identità della follia. Lezioni veneziane (= IF), Rizzoli, Milano 2007; Id., L’identità del destino. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2009. Entrambi i volumi sono a cura di G. Brianese, G. Goggi e I. Testoni.

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5.  Il rapporto tra le due forme del divenire nichilistico Ci si può interrogare in merito al rapporto tra le due forme della negazione della verità dell’essente allorquando il variare del contenuto dell’esperienza sia inteso nichilisticamente, ovvero chiedersi quale sia il rapporto tra la forma pre-­ontologica e quella ontologica di affermare il «diventar altro» dell’es­sente. Ricordando che quando Severino nomina l’uomo come il «mor­ tale» si riferisce anche alla volontà che le cose divengano «altro da sé»15, possiamo adottare un’immagine usata dallo stesso filosofo per indicare il rapporto tra l’ambito più ampio della persuasione che caratterizza il «mortale» e l’ambito più ristretto, ma sotto un certo aspetto più significativo, costituito dalla persuasione che avvolge il pensiero dei Greci. All’interno di questo grande cerchio che rappresenta la vicenda del “mortale” di essere una forza capace di far diventare altro le cose, inscrivano un cerchio più piccolo ma, diciamo così, più intenso, che è quello che riguarda la storia dell’Occidente propriamente detto, cioè la storia della riflessione sul senso dell’essere e del niente: la storia dell’ontologia in cui diventar-altro è espresso in termini ontologici.16

Adoperando la celebre terminologia del metodo dialettico di Hegel, Severino precisa che la contraddizione implicata nel «diventar altro» da parte dell’essente emerge quando si riflette sul fatto che, in quella posizione di pensiero, «il “cominciamento” è quel proprio “altro” che è il “risultato”»17. Per fare un esempio, la sequenza costituita dalla legna non ancora accesa dal fuoco, dalla legna accesa e, infine, dalla cenere è intesa come il «diventar altro» di una determinazione che funge da «cominciamento» (= la legna) e che, proprio per questo, 15.  Cfr. IF, p. 348. 16.  Ibidem. 17.  IF, p. 349.

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si identifica con il suo essere altro, cioè con il «risultato» (= la cenere). Nel caso del «diventar altro» affermato nell’orizzonte ontologico che è stato inaugurato dal pensiero greco, la suddetta contraddizione è raddoppiata, dal momento che è duplice il rapporto di contraddizione che sussiste nella identificazione del «cominciamento» con il «risultato»18. Tenendo conto degli sviluppi teoretici che sono stati indicati e non dimenticando la stagione in cui Severino aveva abbracciato il progetto di rigorizzazione della teologia filosofica del suo maestro Gustavo Bontadini, siamo ora nelle condizioni di vedere quale sia stato il cambiamento essenziale compiuto da Severino. In un primo momento vi era una perfetta identificazione della «verità dell’essere» con l’Essere assoluto del pensiero metafisico e una sua armonia con il Dio della tradizione religiosa; in una fase successiva, invece, il contenuto più alto della verità dell’essere è stato identificato con la «totalità infinita degli essenti», la quale resta distinta dalla totalità degli essenti che entra nell’apparire. In tale sviluppo teoretico può essere ravvisato il passo decisivo della critica rivolta da Severino alla metafisica occidentale e, più in particolare, alla metafisica che afferma Dio come l’Essere trascendente. Le ragioni dell’attuale posizione critica di Severino in riferimento alla trascendenza teologica, peraltro, appaiono con maggiore chiarezza quando la tesi dell’«eternità dell’ente in quanto ente», da una parte, viene a essere esaminata più direttamente nella sua relazione di opposizione a una concezione del divenire inteso come provenienza dell’ente dal nulla di sé e come ritorno nel nulla di sé; e, dall’altra parte, è posta a confronto con la prospettiva della metafisica del pensiero greco e, più in particolare, con quella del suo sviluppo «creazionista» realizzatosi in epoca cristiana. 18. Cfr. IF, pp. 348-349.

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Il lettore non si spaventi a motivo di questa rarefatta concettualità filosofica. Il mio intento resta sempre quello di aiutarlo a entrare all’interno del castello di Severino e non soltanto di mostragli le insegne che consentono di individuarlo, ma restandone comunque fuori. Prima, però, di prendere in esame più approfonditamente le due fasi fondamentali che, a tale riguardo, sono rintracciabili nella speculazione filosofica di Severino, è opportuno esaminare più da vicino quale sia la posizione del filosofo in relazione alla storia del pensiero occidentale, secondo le tappe scandite dall’epoca antico-medievale, da quella moderna e, infine, da quella contemporanea. Il fascino maggiore che può emanare da questo meno impervio tipo di perlustrazione può costituire, oltretutto, un modo per riprendere un po’ il fiato e prepararsi ai successivi approfondimenti.

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Capitolo III

Il confronto con la storia della filosofia

La considerazione del corso storico della filosofia come il diversificarsi di un «errore fondamentale» costituisce il filo conduttore dell’interpretazione che Severino ha dato dell’intera storia del pensiero occidentale. Non si pensi, tuttavia, che in nome di una tesi monocromatica vengano a essere trascurate le differenze che caratterizzano le posizioni espresse dai vari pensatori, avvolgendole in una sorta di camicia di forza. È vero, piuttosto, che questa prospettiva unitaria consente di cogliere alcune parentele che, a prima vista, potrebbero sembrare artificiose e di venire a capo di alcuni nodi particolarmente significativi di quella complessa vicenda intellettuale che si chiama «storia della filosofia». L’intento di questo capitolo è di mostrare quali siano le relazioni tenute da Severino con le epoche fondamentali del pensiero filosofico e con alcuni dei suoi maggiori rappresentanti.

1.  Severino alle prese con il pensiero antico e medievale La prima considerazione può partire da una valutazione di fondo circa il rapporto del pensiero di Emanuele Severino

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con il pensiero metafisico che ha fortemente caratterizzato la filosofia antica e quella medievale. La filosofia di Severino – sia pure, senza dubbio, con una modalità tutta propria e con le precisazioni che saranno a mano a mano indicate – difende con appassionata acribia la «cosa» stessa che va sotto il nome di metafisica dell’essere, la quale nelle sue espressioni migliori ha inteso rivendicare la sua dimensione di sapere incontrovertibile. Aristotele, nel libro IV della Metafisica, l’aveva formalizzata mostrando la situazione in cui la negazione di un asserto implica l’affermazione di quell’asserto. Questa relazione diviene ancora più significativa quando si consideri che, al di fuori degli ambienti tradizionalmente legati a tale metafisica, si assiste per lo più al venir meno di una filosofia intesa come sapere «non ipotetico» e in grado di tenere aperto lo sguardo sull’«intero dell’essere». Già sotto tale aspetto, perciò, la posizione di Severino mostra una indubbia peculiarità. In particolare, essa si differenzia da molte delle posizioni che caratterizzano l’attuale panorama filosofico, nelle quali si esprime la convinzione che sia impossibile offrire un fondamento assoluto per qualunque tipo di sapere. Tali posizioni di pensiero, a loro volta – sia detto di passaggio –, sono senz’altro degne di «riconoscimento» nelle rispettive esigenze critiche – dal momento che sono avanzate a partire dagli esiti ultimi della filosofia contemporanea –; tuttavia, in quanto separate da un più produttivo riferimento al sapere metafisico, esse contribuiscono a disegnare una sorta di dissoluzione di quell’orizzonte «teoretico» inaugurato dai pensatori greci, chiamato appunto filosofia, al quale a loro modo intenderebbero comunque restare fedeli1. 1.  Su questa “singolarità” di Severino nell’attuale panorama filosofico si sofferma, tra gli altri, Carlo Angelino (cfr. E. Severino, Oltre l’uomo e oltre Dio, a cura di A. Di Chiara, intr. e interventi di C. Angelino, il melangolo, Genova 2002, pp. 65-66).

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La vicenda filosofica di Severino, come aveva notato lo stesso pensatore di area cattolica Cornelio Fabro, pur nell’ambito della forte critica che egli esprimeva nei confronti del filosofo bresciano, costituisce quindi un «incitamento per la riflessione essenziale»2; una riflessione alla quale è opportuno che continui a essere dedicata la ricerca filosofica, considerando che il compito essenziale per il pensiero resta quello di meditare sulla verità dell’essere. La filosofia di Severino, inoltre, non si propone semplicemente come una sorta di scelta di campo – quello «metafisico», sia pure con tutte le virgolette del caso –, ma come la rigorosa posizione della identità tra la filosofia come luogo del sapere fondamentale e la metafisica. Anche questa «identità», che una volta era assunta pacificamente in campo filosofico, ora non è più scontata. Si pensi, solo a titolo di esempio, alla nota posizione espressa da Emmanuel Lévinas riguardo all’etica come filosofia prima, nel senso preciso che per lui sarebbe l’etica il luogo stesso della «metafisica» autentica, intesa questa come rapporto con l’Altro. «Il volto – scrive Lévinas – apre il discorso originario la cui prima parola è un obbligo che nessuna “interiorità” consente di evitare»3. E, subito dopo, aggiunge: «La relazione con l’ente che si esprime preesiste allo svelamento dell’essere in generale, come base della conoscenza e come senso dell’essere, il piano etico preesiste al piano ontologico»4. Lévinas, però, fon2.  C. Fabro, L’alienazione dell’occidente, cit., p. 164. L’attenzione del pensiero “tomista” nei confronti di Severino continua lodevolmente a perdurare (cfr. E. Morandi, L’attenzione «critica» del tomismo al pensiero severiniano, intr. a U. Soncini, Il senso del fondamento in Hegel e Severino, pref. di E. Severino, Marietti 1820, Genova-Milano 2008, pp. 9-13). 3.  E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. di A. Dall’Asta, con un testo intr. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1998, p. 206. 4.  Ibidem (corsivo mio). Cfr. anche ivi, p. 301: «La morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima».

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da la sua tesi su una netta opposizione – che a mio avviso non è sufficientemente giustificata – tra «ontologia» e «metafisica», precisamente nel senso che l’ontologia occidentale si costitui­ rebbe come una riduzione dell’Altro al medesimo5 e, quindi, impedirebbe l’apertura autenticamente «metafisica» del pensiero nell’accezione tipicamente levinasiana sopra ricordata. Considerando, dunque, con estrema attenzione il pensiero di Severino, questo può essere ritenuto un valido contributo per confrontarsi criticamente con le forme «deboli» di razionalità e con gli esiti del nichilismo contemporaneo, le une e gli altri facilmente percepibili nell’attuale panorama filosofico e culturale, ma che in tanti contestano non sempre con buoni argomenti. Questi critici, di solito, sono dei validi rappresentanti della «razionalità classica», i quali però, da una parte, dovrebbero sottoporre la forma di ragione che intendono difendere a una rigorizzazione adeguata, che la faccia apparire nella sua autentica luminosità; dall’altra parte, dovrebbero dedicare una maggiore attenzione a comprendere meglio la natura dei processi «storico-speculativi» che hanno condotto il pensiero contemporaneo agli esiti appena ricordati. Tenendo conto di tutto questo, si deve ritenere che la «rigorizzazione» teoretica di Severino continua a costituire un imprescindibile punto di riferimento per la metafisica nel suo significato storico, anche dopo che è stato lo stesso filosofo a considerarsi al di fuori della tradizione del pensiero occidentale e a vedere quella stessa tradizione inevitabilmente destinata al «tramonto», unitamente alla civiltà che ne è scaturita. Un sostegno di particolare autorevolezza a questa tesi interpretativa è fornito dal pensiero di Gustavo Bontadini, il quale, con la sinteticità e la precisione semantica che gli erano proprie, continuava a sostenere, anche quando la discussione con 5.  Cfr. ivi, p. 41.

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il suo discepolo aveva acuito le differenze delle rispettive posizioni, che Severino «ci ha dato, essenzialmente, una dottrina dell’essere come tale; che vorrebbe essere la ripresa della strada giusta, la metafisica buona, finalmente»6. Se si guarda all’essenziale, quindi, come invitava a fare Bontadini, si deve riconoscere il persistere almeno di un orizzonte comune di pensiero tra la metafisica classica e la filosofia di Severino; questo, nonostante poi – come dicevo – sia stato lo stesso Severino a ritenere di dover rimarcare la distanza del pensiero espresso nei suoi scritti rispetto alla metafisica classica e, più in generale, rispetto all’intera tradizione occidentale7. A tale riguardo, un esempio particolarmente significativo è costituito dal modo in cui Severino ha guardato alla relazione tra la concezione dell’essere affermata da Parmenide e la concezione dell’essere comune a Platone e ad Aristotele. In un primo momento Severino aveva visto nell’affermazione della molteplicità e del divenire degli enti un passo innanzi rispetto all’astratta concezione dell’essere propria di Parmenide e aveva valutato positivamente, almeno quanto al suo impianto logico essenziale, la struttura della teologia filosofica greca, perfezionata successivamente da Agostino e Tommaso d’Aquino. In un secondo momento, confermando il giudizio positivo unicamente per l’affermazione platonica della molteplicità degli enti, Severino ha inteso mostrare l’essenziale nichilismo ch’è implicato sia nella concezione del divenire che accomuna 6.  G. Bontadini, Ancora conversando di metafisica classica, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», LXXII, n. 2, 1980, pp. 318-340: p. 319. 7.  Un confronto tra Severino e alcune grandi figure della filosofia occidentale, svolto aderendo alla linea del pensiero severiniano, è quello che viene presentato da N. Cusano, Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana, Brescia 2011, pp. 441-523. La comparazione viene eseguita con Anassimandro, Eraclito, Parmenide, Aristotele, per quanto riguarda il pensiero antico; con Cartesio, Spinoza, Fichte, Hegel, Marx, Nietzsche, Heidegger, relativamente al pensiero moderno e contemporaneo.

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l’intero pensiero occidentale, sia nell’impianto della sua teologia filosofica, in cui si ritiene che l’affermazione dell’essere diveniente implichi l’affermazione dell’essere immutabile8. Sul rapporto di Severino con questa tradizione di pensiero avremo modo di tornare più avanti9.

2.  La relazione con il pensiero moderno e contemporaneo Con le riflessioni svolte finora si è cercato di mostrare alcuni elementi in virtù dei quali nella filosofia di Severino è presente una relazione in parte positiva con la tradizione della metafisica classica. Tale chiarificazione intende essere pure un invito a superare i possibili fraintendimenti in cui si potrebbe incorrere con una lettura quanto meno superficiale degli scritti del filosofo bresciano, senza naturalmente nascondere le differenze che pure sussistono tra l’attuale posizione di Severino e quella propria della metafisica che si è venuta a costituire nel pensiero antico-medievale. Non vorrei, tuttavia, far sorgere io stesso un diverso possibile fraintendimento a motivo delle considerazioni che sono state presentate, vale a dire ingenerare l’erronea convinzione che la posizione teorica di Severino non abbia quale «interlocutore» anche il pensiero moderno e, in modo diverso, anche quello contemporaneo. In effetti, se dovessi soffermarmi su 8.  Per entrambi gli aspetti cfr. L. Messinese, Divenire fenomenologico, divenire ontologico, incontraddittorietà dell’essere, in «Divus Thomas», vol. 121, n. 2, 2018, pp. 169-197. 9.  Circa l’evoluzione del rapporto di Severino con il pensiero aristotelico, cfr. E. Berti, Severino e Aristotele, in D. Spanio (a cura di), Il destino dell’essere, cit., pp. 131-143. Berti nel suo saggio fa proprie le ragioni di Aristotele rispetto alle critiche avanzate da Severino in merito alla concezione dell’essere propria dello Stagirita.

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questo aspetto in una misura adeguata, potrei mostrare pure in questo caso la «duplicità» dell’atteggiamento – che è insieme di assimilazione e di critica – tenuto da Severino. In questa sede, però, devo limitarmi all’indicazione di alcuni elementi essenziali. Per un verso, in Severino si ha la valorizzazione massima di una lezione che egli aveva appreso alla scuola di Bontadini. Questa consisteva nella tesi che, dopo l’avvento della stagione dell’idealismo moderno, per una più valida ripresa della stessa metafisica classica era lecito riferirsi al pensiero come orizzonte manifestativo dell’essere. In questo modo potevano essere respinte le obiezioni avanzate dallo stesso idealismo nei confronti dell’«essere» metafisico, le quali erano portate a scambiare, erroneamente, l’essere in quanto tale con la «natura» ritenuta da alcune forme di realismo come preesistente – ma, in effetti, nelle modalità di un mero ingenuo presupposto – al pensiero in atto10. Questo aspetto di «assimilazione» sul piano metodologico della filosofia moderna – in particolare, come si diceva, di quella idealistica post-kantiana – era in primo piano nella fase giovanile del pensiero severiniano, quando era prevalente l’obiettivo di una «rigorizzazione» della metafisica classica e la trascendenza era conquistata mostrando l’insufficienza teoretica dell’immanenza idealistica. C’è, tuttavia, da considerare anche l’altro verso della situazione teoretica che si sta esaminando. Per il secondo Severino, infatti, la filosofia moderna viene a costituire una tappa particolarmente significativa del processo di «distruzione degli immutabili» – a incominciare dal Dio della tradizione metafisica e di quella religiosa –, la quale consente di portare alla luce un

10.  La critica idealistica nei confronti dell’essere è valida nella misura in cui essa si istituisce effettivamente, e cioè solo nei confronti della realtà presupposta al pensiero considerato nell’atto del pensare.

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aspetto rilevantissimo riguardo alla natura del «pensiero teoretico» tradizionale. Il pensiero, nell’intera filosofia occidentale, non sarebbe stato affatto inteso nella sua autentica dimensione di orizzonte manifestativo dell’essere, ma piuttosto come «produzione» degli enti, anche quando esso nella sua fase classica presumeva di essere una pura theoria e, quindi, di non avere alcun altro scopo che il sapere per il sapere. Il ruolo centrale nel suddetto processo è svolto, comunque, per Severino, sempre dalla filosofia idealistica. Le conseguenze ultime del tramonto di ogni dimensione immutabile, nell’ambito della filosofia contemporanea, possono essere colte quando si prende in esame particolarmente la figura di Giovanni Gentile11. Con l’idealismo di Gentile, infatti, nel suo effettivo attuarsi, il pensiero si costituisce esso stesso come l’autentico divenire che incrementa la realtà e, in tal modo, si pone come il succedaneo del «creatore» che la metafisica della trascendenza patristico-medievale, lungo la linea platonico-­aristotelica, aveva ritenuto di dover affermare per assicurare un quadro perfettamente unitario e incontraddittorio della realtà. Tale valutazione della filosofia moderna, che riguarda anche gli esiti di quest’ultima nell’epoca «contemporanea», accompagna ininterrottamente la seconda fase del pensiero severiniano. Essa, senza dubbio, contiene pure un rilevante aspetto di «critica» e di presa di distanza rispetto a questo processo, nel momento in cui Severino espone i contenuti della sua teoresi antinichilistica. La suddetta valutazione, tuttavia, contiene il riconoscimento della maggiore “coerenza” che appartiene alla filosofia moderna – e ancora di più a quella «contemporanea» – rispetto alla speculazione antico-medievale che, sulla base di un’affermazione originaria del divenire delle cose, riteneva si

11.  Si veda, innanzitutto, lo scritto Attualismo e «serietà» della storia, cit., ripubblicato in AT, pp. 151-166.

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dovesse affermare l’essere trascendente rispetto al mondo in vista di una comprensione incontraddittoria del reale.

3.  I testimoni della coerenza del nichilismo occidentale: Leopardi, Nietzsche, Gentile È necessario, a questo punto, aggiungere qualche ulteriore elemento sulla valutazione più specifica eseguita da Severino riguardo al pensiero contemporaneo. Per il nostro autore, filosofi quali Nietzsche e Gentile e un poeta-filosofo come Leopardi devono essere presi in attenta considerazione, quando si voglia comprendere il significato essenziale della filosofia del nostro tempo e dell’orizzonte che essa dischiude per il dominio dell’Apparato scientifico-­ tecnologico in ogni ambito della vita dell’uomo contemporaneo. Essi sono i testimoni maggiori di quella «verità» che, in relazione al divenire, la filosofia contemporanea è giunta ad affermare nei confronti del pensiero tradizionale, in modo ancora più radicale di quanto avvenisse nell’ambito dello stesso pensiero moderno12: la distruzione di ogni «immutabile», sulla base della supposta evidenza del «divenire ontologico» degli enti13.

12.  Ad essi Severino ha accostato, da ultimo, Fëdor Dostoevskij, sebbene poi il grande scrittore russo non riesca effettivamente nel suo intento di rompere con la tradizione «aristotelica», d’infrangere cioè il «muro di pietra» della verità necessaria. Si veda in particolare E. Severino, Il muro di pietra, in PC, pp. 226-230, e Id., Il «muro di pietra», in Id., Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, cit., pp. 53-88. 13.  Severino precisa che, mentre per Leopardi il «Nulla», in quanto «origine e termine del tutto», conserva qualcosa di assoluto e si rivela come una sorta di «risvolto di Dio», al contrario, da Nietzsche, in virtù della dottrina dell’eterno ritorno, viene escluso il «nulla assoluto e teologico» (cfr. E. Severino, L’anello del ritorno, cit., p. 432).

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Questi autori mostrano come ci sia un’implicazione necessaria tra l’evidenza del divenire mondano e l’inesistenza di ogni realtà immutabile, a partire dal Dio della metafisica e delle religioni, per giungere agli immutabili «terrestri» (la legge morale naturale, i rapporti di produzione, l’episteme filosofica, le leggi scientifiche, ecc.) con i quali l’uomo ha cercato di arginare l’infinita plasticità e minacciosità delle cose. Se il divenire del mondo è l’evidenza suprema, allora tutto ciò che «è» esce solo provvisoriamente dal nulla e, quando muore, ritorna definitivamente nel nulla14. Di conseguenza, a motivo della necessità di tale implicazione, affermare l’impossibilità di ogni «immutabile» non ha affatto il sapore di un debole e ingenuo «scetticismo» riguardo alla verità, come spesso erroneamente si crede. Si può anche dire che il «divenire» radicale si pone come l’uni­co vero immutabile, ma non si tratta in questo caso di un’affermazione contraddittoria; al contrario, se questo speciale immutabile fosse esso stesso eliminato, ciò equivarrebbe all’affermazione degli «immutabili» della tradizione che rendono impossibile il reale divenire15. Inteso nella sua accezione storica, il pensiero metafisico, come pure quello che proviene da una fede religiosa, deve perciò arrendersi di fronte a questa necessaria conclusione. Sia l’uno che l’altro, secondo Severino, poggiano sullo stesso terreno dal quale è germogliato tale esito rigorosamente e unitariamente antimetafisico e antireligioso16. 14.  Severino rileva esplicitamente: «Il superuomo di Nietzsche e il pensiero in atto di Gentile hanno il compito di riconoscere, proteggere, liberare, salvare il divenire dagli immutabili che lo rendono impossibile» (E. Severino, Nietzsche e Gentile, in OL, pp. 77-98: p. 97). 15.  Cfr. E. Severino, Attualismo e «serietà» della storia, in AT, p. 161. 16.  Per alcuni approfondimenti riguardo a Gentile, Nietzsche e Leopardi in merito a questo esito del pensiero contemporaneo, cfr. L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., pp. 167-179.

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4.  La posizione peculiare di Martin Heidegger Severino ha ravvisato un esito analogo del contrasto che si apre tra l’essere diveniente e l’essere immutabile prendendo in considerazione il pensiero di Martin Heidegger; questo, malgrado alcune apparenze di segno contrario e le esplicite dichiarazioni del filosofo tedesco che lasciano aperta la porta verso la trascendenza teologica. Severino, per motivi di coerenza, pone nei confronti di Heidegger la seguente questione: come si può ritenere autenticamente «possibile» l’affermazione dell’esistenza di Dio quando – come accade nel pensiero di questo filosofo – si consente effettivamente al divenire ontologico degli enti e, inoltre, si sostiene esplicitamente l’impossibilità di un sapere incontrovertibile su Dio? Severino, in altri termini, contesta a Heidegger due cose. Una obiezione è che possa esserci un’effettiva «apertura» nei confronti della teologia razionale, una volta che in filosofia ci si affidi programmaticamente soltanto alla forma del pensiero fenomenologico, stando alla quale non è consentito trascendere in modo rigoroso il piano dell’essere che viene a manifestazione, cioè gli enti del mondo. In secondo luogo, egli rileva la oggettiva connotazione anti-teistica della «differenza ontologica» heideggeriana di ente ed Essere. Infatti l’Essere, per Heidegger, non è il «Pieno» – come l’Essere della metafisica aristotelico-tomista – ma è il «Ni-ente», il Nulla di enti. Ebbene, questo vuol dire che l’Essere, inteso heideggerianamente come Ni-ente, è soltanto lo «spazio vuoto» per il divenire ontologico degli enti, il quale anche da Heidegger è ritenuto un dato evidente da accogliere e che però – come oramai sappiamo – per Severino viene a escludere l’affermazione di Dio17.

17.  Cfr. E. Severino, La «differenza ontologica», in Id., Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, cit., pp. 123-125.

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Infine, in Destino della necessità Severino aveva mostrato un altro aspetto oggettivamente presente nella “differenza ontologica” heideggeriana, la quale, proteggendo la «verità dell’essere» – tenendo conto di ciò che significa «essere» in Heidegger –, non fa altro che proteggere quello stesso «gioco» del divenire nichilistico che nella tecnica contemporanea viene a essere estremamente valorizzato e potenziato18. La posizione critica di Severino nei confronti di Heidegger non si restringe a questo tema pur di grande rilievo19. Essa coinvolge la concezione del pensare filosofico, stante che per Heidegger al centro della filosofia vi è la «domanda fondamentale» circa l’essere, mentre per Severino sta la «verità originaria» che concerne l’essere degli enti20. Tutto questo, però, appartiene al pensiero maturo di Severino. Infatti, come si vedrà nel capitolo seguente, nei suoi anni giovanili egli si era assunto il compito di valorizzare la filosofia heideggeriana in funzione di un rinnovamento della metafisica classica e di un suo possibile accordo con la cultura cattolica.

18.  Cfr. DN, VII, pp. 229-230. Alcune brevi, ma incisive «letture» di importanti opere heideggeriane sono state raccolte in E. Severino, Sortite, cit., pp. 127-130, 133-143, 157-158. 19.  Per alcuni elementi ulteriori della critica severiniana, cfr. L. Messinese, Differenza ontologica e differenza teologica, in «Itinerari. Annuario di ricerche filosofiche», LVII, 2018, pp. 245-266, in part. pp. 253-257. 20.  Per un approfondimento di questo aspetto della relazione tra i due pensatori, cfr. L. Messinese, L’apparire di Dio. Per una metafisica teologica, ETS, Pisa 2015, pp. 106-109.

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5.  Il significato del lavoro storiografico di Severino e la partecipazione al dibattito filosofico contemporaneo L’impostazione di fondo che presiede alla critica di Severino nei confronti della storia della filosofia è concretamente all’ope­ra nella ricostruzione completa che egli ha eseguito del corso del pensiero occidentale, che naturalmente qui non può essere presa compiutamente in considerazione21. Piuttosto, come primo complemento di quanto è stato indicato circa i più importanti filosofi di riferimento da tenere presenti, è opportuno menzionare anche il grande interesse mostrato da Severino per la critica alla metafisica di matrice neopositivista, in particolare quella operata da Rudolf Carnap22. L’attenzione verso questo importante filone del pensiero novecentesco23, come anche per Wittgenstein, è un indice ulteriore dell’ampia prospettiva «storica» all’interno della quale si staglia la riflessione teoretica del nostro autore24. Gli elementi che sono stati qui presentati, comunque, sono a mio avviso sufficienti per comprendere quale sia l’orientamento di fondo della «interpretazione storiografica» avanzata da Severino e per scorgere lo stretto legame di quest’ultima con il «fondamento teoretico» che la guida. A proposito di quest’ul21.  Cfr. E. Severino, La filosofia, cit. 22.  Cfr. E. Severino, Note sul problema dell’intersoggettività nella «Costruzione logica del mondo» di R. Carnap, in Id., Legge e caso, Adelphi, Milano 1979, pp. 65-147. Questo scritto rielabora la “introduzione” di Severino a R. Carnap, La costruzione logica del mondo, cit., pp. 3-57 (nuova ed., UTET, Torino 1997, che riproduce come introduzione il saggio del 1979). 23.  Cfr. il commento del 1963 allo scritto di Moritz Schlick Sul fondamento della conoscenza (ora in E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., pp. 427-483). 24.  È lo stesso Severino a riferire dell’invito a partecipare alla commemorazione di Carnap tenutasi a Los Angeles nel 1970, che fu però declinato (cfr. MRE, p. 111).

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timo riferimento, qualcuno potrebbe vedere nella suddetta dimensione teoretica la camicia di forza che impedirebbe ai testi interpretati di esprimere se stessi; ritengo, invece, che il discorso debba essere rovesciato e cioè che, piuttosto, la fortissima tempra teoretica di Severino consenta di illuminare quei testi “concettualmente”, così che sia proprio il loro effettivo contenuto teoretico a essere portato alla vista25. La stessa cosa si potrebbe dire riguardo al dialogo intrattenuto da Severino, sicuramente da pari a pari, con alcuni dei più celebrati pensatori del nostro tempo, ad esempio con Hans-­Georg Gadamer ed Emmanuel Lévinas. Il suo notevole background teoretico, anzi, pure in questo caso consentiva a Severino d’incalzare questi suoi illustri interlocutori sul punto nodale delle questioni che venivano affrontate, anche in pubblici dibattiti, come ad esempio quando prende in esame le tesi di Lévinas sulle radici della violenza e su Dio come «assolutamente Altro» dall’essere e dalla coscienza; oppure quando discute con Gadamer circa il significato autentico del pensiero greco e della differenza tra la filosofia nella sua accezione classica e il sapere scientifico contemporaneo26. Con Lévinas egli si dice d’accordo che le radici della violenza risiedono nel significato che la filosofia attribuisce all’«essere». Severino, tuttavia, osserva che la violenza più profonda non 25.  Anche un autore che è molto critico nei confronti del pensiero di Severino ha osservato che «spesso anche solo qualche sua riga su Tommaso d’Aqui­no e su Aristotele è più chiarificatrice di molti altri libri letti sul tema» (M. de Paoli, Furor logicus. L’eternità nel pensiero di Emanuele Severino, Franco Angeli, Milano 2009, p. 167). 26.  Alcuni degli incontri con questi due filosofi sono stati narrati dallo stesso Severino in MRE, pp. 129-132. Riguardo ad alcuni rilievi critici nei loro confronti sono da vedere almeno le pagine loro dedicate in E. Severino, La legna e la cenere. Discussioni sul significato dell’esistenza (= LC), Rizzoli, Milano 2000, pp. 9-13 (per Gadamer), 52-57 (per Lévinas); su quest’ultimo cfr. pure Id., Sortite, cit., pp. 151-156.

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è quella esercitata dall’immutabilità dell’essere nei confronti del divenire su cui intende dominare e rendendolo però effettivamente impossibile, ma piuttosto la violenza della fede nell’instabilità dell’essere degli enti, così che sulla base di tale concezione sia possibile progettare il controllo della loro precarietà e dominare su di essi27. Inoltre, quando Lévinas si riferisce al Trascendente come «Totalmente altro» dall’essere, non fa che perseverare nell’equivoco neoplatonico di intendere malamente sia l’«al di là» dell’essere di cui parla Platone che la tesi idealista dell’impossibilità, pensando, di oltrepassare l’essere28. Nei confronti di Gadamer si rileva che, quando egli segue Heidegger nel considerare il senso conferito dalla filosofia dei Greci alla parola «verità», vede in questa soltanto il disvelamento che vince il nascondimento dell’essere, ma non vede adeguatamente ciò che essa svela, ossia «la stabilità dell’episteme»29. Gadamer, sempre con Heidegger – rileva ancora Severino –, ritiene invece che i caratteri dell’episteme appartengano alla tecnica dei Greci e alla scienza moderna, che non sono in grado però di risolvere i problemi fondamentali dell’uomo, mentre il sapere della filosofia, che si occupa di questi ultimi, avrebbe un carattere insuperabilmente problematico30. 27.  Cfr. LC, p. 53. 28. Cfr. LC, pp. 53-55. 29. Cfr. LC, p. 10. 30. Cfr. LC, pp. 11-12. Severino per questi rilievi prendeva spunto da un breve scritto di Gadamer intitolato Prometeo e Sisifo, in «Nuova civiltà delle macchine», IX, n. 2, 1991, pp. 11-13, il quale costituiva la replica a braccio, nel corso di un convegno tenutosi a Cattolica nel 1989, a un intervento del filosofo bresciano pubblicato sulla medesima rivista con il titolo Il dogma del divenire e la fine della verità, pp. 7-10. Gadamer aveva opposto alla tesi di Severino che la verità come «stabilità» e «definitività» sia stata elaborata dai Greci, la tesi che in Platone si esclude che l’uomo possa giungere alla verità definitiva. Egli, però, avrebbe dovuto riflettere sulla distinzione tra «definitività» e «totalità» della verità (cfr. LC, p. 10).

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Almeno un cenno merita la discussione intrattenuta da Severino con Gianni Vattimo, imperniata innanzitutto, ma non solo, sul concetto di «nichilismo»31. Qui mi soffermo unicamente su questo punto, anche perché così avremo modo di sottolineare nuovamente un concetto che, nell’economia del pensiero severiniano, riveste una posizione centrale, sia nel suo momento fondativo, che nelle implicazioni che ne vengono tratte dal filosofo bresciano. Per Vattimo si tratta di affermare una concezione positiva di nichilismo, andando oltre la concezione tradizionale che si ha dell’essere: «affinché l’esistenza abbia un senso, l’essere non deve avere quei caratteri di stabilità, immutabilità, definitività che […] il tradizionale pensiero metafisico gli ha conferito»32. Lo stesso si deve dire riguardo alla possibilità di conferire un senso alla «storia»33. Severino gli obietta che al fondo di una concezione secondo la quale l’essere dell’esistenza umana, ma anche degli altri enti, è minacciato dal niente, dalla incessante possibilità di «non essere più» così come «prima non era», vi è il pensiero che «le cose sono niente» ed è questo il nichilismo nel suo significato più autentico, quel nichilismo che percorre non solo la filosofia, ma l’intera civiltà occidentale34. Ovviamente nessuno ritiene esplicitamente che «le “cose” siano niente», tuttavia per evitare la sotterranea implicazione appena segnalata, Severino invita a ripensare la concezione che si ha abitualmente della storia e, più in generale, del divenire degli enti, anche perché il prodursi delle cose e il loro annientamento non è un tratto del volto dell’esperienza35.

31.  Cfr. LC, pp. 79-96. La discussione verte pure sui concetti di verità e d’interpretazione (cfr. LC, pp. 79-83 e 94-96), fino a investire il valore della logica fondata sul principio di non contraddizione (cfr. LC, pp. 92-94). 32.  LC, p. 86. 33. Cfr. LC, pp. 87-88. 34. Cfr. LC, pp. 85 e 87. 35. Cfr. LC, pp. 88-89.

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Capitolo IV

Il ritorno della metafisica oltre il problematicismo

Anche se questo scritto si propone di conservare un carattere essenzialmente introduttivo nell’esposizione di tematiche prettamente filosofiche, nondimeno esso intende dare conto di ciò che sta alla base di quegli aspetti del pensiero di Severino che sono maggiormente noti a un pubblico non costituito da specialisti e sui quali il filosofo si sofferma nei suoi testi più divulgativi. In questo capitolo e nei due seguenti ho voluto concentrare gli elementi costitutivi dell’insieme concettuale che funge da fondamento del complesso pensiero severiniano. È bene tenere presente, fin da ora, che tale plesso si dispone secondo un duplice piano o livello. Il primo livello è costituito dalla dottrina ontologica, cioè dalla indicazione degli elementi che costituiscono la struttura fondamentale di ogni singolo ente. È, questo, tradizionalmente, il campo di ciò che va sotto il nome di «filosofia prima» e sarà preso in esame nel presente capitolo e in quello successivo. Il secondo livello riguarda il rapporto tra il suddetto ambito del sapere filosofico – che è quello della «verità originaria» – e gli sviluppi che il medesimo sapere viene a mostrare, secondo articolazioni sempre più determinate, in riferimento alle for-

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me più alte che caratterizzano l’abitare dell’uomo nel mondo, quali sono la dimensione etica e quella religiosa. Di tutto questo tratterò nel sesto capitolo. Gli elementi appena indicati, come si può facilmente intuire, svolgono un ruolo strategico di primaria importanza nell’economia del presente scritto e come tali mi auguro che saranno presi in attenta considerazione dal lettore. Riguardo a molti dei temi fondamentali, peraltro, la bibliografia su Severino va accrescendosi costantemente di numerosi titoli, coinvolgendo antichi e nuovi interlocutori e mantenendo sempre molto viva la discussione sul pensiero del filosofo.

1.  Il magistero di Gustavo Bontadini e l’«inveramento» dell’idealismo gentiliano La prima fase del pensiero di Severino si svolge nell’orizzonte di quel peculiare rinnovamento della metafisica che andava proponendo il suo maestro Gustavo Bontadini. Per comprendere quale fosse allora la posta in gioco dobbiamo, però, portare sulla scena anche altri personaggi di notevole rilievo. La prima produzione di Severino è caratterizzata dall’analisi critica di alcuni importanti filoni del pensiero contemporaneo, nella quale il rapporto di carattere positivo del filosofo bresciano con la metafisica, in particolare con quella di matrice classica, traspare con grande chiarezza. Il magistero di Bontadini è rivelato, innanzitutto, dall’attenzione di Severino verso la modalità in cui il filosofo milanese si era accostato prima nei confronti dell’«attualismo» di Giovanni Gentile e, poi, verso il suo successivo sviluppo in senso «problematicistico» operato da Ugo Spirito. Cerchiamo di chiarire, sia pure in breve, di che cosa si trattasse.

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La riforma operata da Gentile dell’idealismo in «attualismo» non comportava soltanto il venir meno del carattere assoluto della realtà in quanto considerata come presupposta al pensiero (= la natura), ma esigeva pure che al concreto atto del pensare quale realtà autenticamente spirituale non dovesse essere presupposto neppure l’organico sistema hegeliano delle «categorie logiche». Solo così poteva essere portato al suo più genui­ no compimento l’idealismo introdotto da Hegel e affermare in modo radicale che la realtà assoluta non è l’Atto puro del quale parlava Aristotele, inteso cioè come l’Atto già perfettamente realizzato, ma invece il processo dialettico del Pensiero. Ugo Spirito, da parte sua, aveva denunziato l’esito contraddittorio inerente all’assolutezza che la «dialettica» veniva ad assumere nell’attualismo di Gentile. Ripristinando un «assoluto», sia pure sui generis, a suo parere la dottrina del maestro si rivelava anch’essa una forma di «metafisica» che era chiaramente in contraddizione con l’assunto dialettico fondamentale della dottrina. Onde evitare il suddetto esito, il discepolo si era orientato, pur con alcune oscillazioni, verso una forma di problematicismo situazionale riguardo all’affermazione o meno di una realtà che trascendesse la dimensione che veniva a configurarsi nel processo dialettico così come era affermato dall’attualismo gentiliano. Bontadini, che pure comprendeva molto bene il significato proprio che le dottrine dell’attualismo e del problematicismo possedevano, rispettivamente, in Gentile e Spirito, si era risolutamente orientato a valorizzarle nella prospettiva di una efficace ripresa e di una valida rigorizzazione della metafisica di trascendenza nella quale veniva data una risposta positiva al problematicismo. Il giovane allievo inizialmente segue il maestro molto da vicino, fino ad affiancarglisi nella strategia teoretica di fondo. Nondimeno, si manifesta subito un carattere già più personale delle indagini di Severino, che è rivelato particolarmente

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dall’inserimento in tale progetto ermeneutico, teso a rivalutare la metafisica classica nel contesto del pensiero contemporaneo, anche della filosofia di Martin Heidegger. Il risultato dell’insieme di queste ricerche severiniane è contenuto nei due volumi Note sul problematicismo italiano1 e Heidegger e la metafisica2. L’analisi di queste due opere può aiutare a chiarire il progetto metafisico iniziale del nostro filosofo. Nel volume Note sul problematicismo italiano Severino prendeva in esame le tre figure più rappresentative del problematicismo italiano: Ugo Spirito, Nicola Abbagnano e Antonio Banfi3. L’indagine era svolta tenendo bene presente il rapporto del problematicismo con l’attualismo di Gentile, quale sua diretta filiazione4. Questo significava, per Severino, ritrovare già nell’attualismo – a seconda che di Gentile fosse privilegiata, in un caso, la Teoria generale dello spirito come atto puro oppure, nell’altro caso, il Sistema di logica come teoria del conoscere – le due diverse posizioni nelle quali veniva a configurarsi il problematicismo: quello «trascendentale» di Banfi e Abbagnano, per il quale era impossibile trascendere l’orizzonte problematico di ciò che costituisce la dimensione dell’esperienza, nella pluralità dei suoi contenuti, in vista di una verità assoluta riguardo alla medesima esperienza; e quello «situazionale» di Spirito, che

1.  E. Severino, Note sul problematicismo italiano (= NPI), Vannini, Brescia 1950. Una versione ridotta del testo, dalla quale citerò, è stata ripubblicata come Appendice I all’opera citata nella nota seguente. 2.  E. Severino, Heidegger e la metafisica, pref. di G. Bontadini, Vannini, Brescia 1950. La seconda edizione dell’opera (= HM) è stata pubblicata senza la prefazione e con l’aggiunta di altri testi severiniani posti in appendice. 3.  Cfr. NPI, in HM, pp. 357-447: p. 357. 4.  Cfr. NPI, in HM, p. 365.

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invece era strutturalmente orientato al proprio oltrepassamento e lasciava, quindi, oggettivamente aperta la possibilità del sapere metafisico: in concreto, l’affermazione dell’essere che trascende assolutamente l’ambito dell’esperienza e cioè Dio5. Nella prospettiva teoretica di chi, come Severino, intendeva rivalutare la metafisica classica, è chiaro che in quel tempo si dovesse insistere sulle potenzialità teoretiche del problematicismo «situazionale» di Ugo Spirito. Questo, malgrado le possibili resistenze di chi invece sosteneva in prima persona la suddetta posizione filosofica e, proprio per tale motivo, non riusciva a cogliere le conseguenze che scaturiscono oggettivamente dal problematicismo in ordine al sapere metafisico e alla «trascendenza teologica». In effetti, l’attuazione di un tale sviluppo teoretico può avvenire più facilmente in un contesto ermeneutico che sia libero dal peso esercitato da una «eredità» immanentistica, come avveniva nello stesso Ugo Spirito, che restava pur sempre discepolo di Gentile6. La conclusione di Severino in queste sue Note sul problematicismo italiano è estremamente lineare: «Rigorosamente, a questo punto, il problema si enuncia in questo modo: immanenza o trascendenza? Si tratta di dimostrare concretamente la validità dell’una o dell’altra affermazione»7.

5.  Cfr. NPI, in HM, pp. 365-367. A tale riguardo è doverosa comunque una precisazione, anche se essa risulterà utile soprattutto agli “addetti ai lavori”. Severino, infatti, già in quegli anni, discostandosi in parte da Bontadini, a riguardo della dialettica gentiliana veniva a sottolineare quanto segue: «Esatte allora le considerazioni di Bontadini sull’identità tra attualismo e problematicismo situazionale. Ma considerando la dialettica dell’auto­ concetto come situazione. Considerandola come affermazione assoluta c’è identità tra attualismo e problematicismo trascendentale» (NPI, in HM, p. 436; corsivo mio) 6.  Cfr. NPI, in HM, pp. 367-368. 7.  NPI, in HM, p. 447.

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L’esecuzione di tale compito sarà contenuta nella poderosa opera severiniana intitolata La struttura originaria, un aspetto, questo, che non deve essere trascurato neppure oggi che il suddetto scritto viene quasi inevitabilmente considerato e compreso alla luce del nuovo orientamento di fondo della filosofia severiniana, e cioè ponendo al centro dell’attenzione la tesi della eternità degli enti, piuttosto che quella relativa all’affermazione dell’Essere trascendente. Prima, però, dobbiamo ancora seguire Severino nelle sue indagini inscindibilmente storiche e teoretiche affidate a Heidegger e la metafisica, la sua tesi di laurea discussa con Bontadini a Pavia e prontamente pubblicata.

2.  La valorizzazione del pensiero di Heidegger in funzione di una ripresa della metafisica Nella Introduzione dell’opera Severino chiariva subito che la sua ricerca era «interessata a evidenziare la portata teoretica di questo pensiero [di Heidegger] nell’ambito della speculazione contemporanea e, cosa più essenziale, nell’ambito della costruzione di un (del) radicale sapere filosofico»8. Anche in questo caso, dobbiamo chiarire il significato delle espressioni citate, che possono risultare troppo dense a un orecchio poco esperto. La mossa ermeneutica di Severino era di interrogare la filosofia heideggeriana in una forma che era analoga a quella già adottata da Bontadini nell’esame della filosofia di Giovanni Gentile. Adottando tale criterio, si trattava di porre attenzione non soltanto a ciò che il testo di un filosofo dice esplicita8.  HM, p. 33.

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mente, ma anche e soprattutto a quel che il testo deve dire e a quali conseguenze esso deve condurre alla luce del puro rigore teoretico. In questo caso, poi, il compito era ulteriormente facilitato dal fatto che almeno la possibilità di una futura «costruzione metafisica», da parte di Heidegger, era affermata con sufficiente chiarezza. Una delle tesi più note e distintive del pensiero bontadiniano è che la filosofia moderna, nella sua conclusione «idealistica», ha contribuito in modo determinante alla posizione dell’autentico concetto di «immanenza». Cercherò di chiarire questo plesso concettuale. Di solito, quando si pensa all’immanenza in senso idealistico, si fa riferimento alla negazione della trascendenza di Dio nei confronti del mondo. Bontadini, invece, chiarisce che si tratta in primo luogo della negazione della trascendenza dell’essere semplicemente presupposto rispetto all’essere che è «effettivamente presente» e che ha il nome di esperienza. L’immanenza idealistica, intesa in questi termini, non si oppone di per se stessa alla trascendenza teologica. Questa identità di pensiero ed essere coincide, piuttosto, con il concetto più genuino di «esperienza», senza che questa immanenza debba ricevere necessariamente una qualificazione «teologica», nel senso che si costituisca come l’essere assoluto. Bontadini, quindi, aveva potuto mostrare che l’esperienza nella sua uni-totalità non deve essere identificata immediatamente con l’essere assoluto, come aveva fatto invece, poi, con troppa precipitazione, lo stesso idealismo. In tal modo, rifiutando in quanto ingiustificata l’«immanenza teologica», il filosofo milanese aveva comunque tesaurizzato la parte migliore dell’attualismo di Giovanni Gentile. Severino fa proprie queste assunzioni teoretiche e, più in generale, il distillato teoretico della interpretazione bontadinia-

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na dell’intero ciclo del pensiero moderno9 e, in virtù di tutto questo, ritiene giustamente eliminata la tesi di una inattingibilità dell’essere da parte del pensiero, che stava alla base della critica di Kant alla metafisica come dottrina dell’Essere trascendente. Di conseguenza, grazie all’aver messo in risalto il concetto autentico di «esperienza» – la quale è pur sempre un certo ambito dell’«essere» –, Severino vedeva assicurato il corretto fondamento metodologico in vista della concreta esecuzione del sapere metafisico, considerato oramai un’impresa non più impossibile. In particolare, grazie alle felici analisi bontadiniane, si poteva ricavare una struttura concettuale che è certamente complessa, ma che espongo nella forma più accessibile che mi sia riuscita. a) Il «fondamento metodologico» è costituito dalla totalità dell’ente presente nel suo immediato apparire. Si tratta di ciò che prima è stato chiamato «esperienza» e che ora, per sottolinearne l’aspetto unitario, possiamo chiamare «Unità del­l’Esperienza». b) Sulla base del fondamento metodologico, messo in relazione con l’idea della Totalità, si costruisce rigorosamente la «domanda metafisica» per eccellenza – cioè la domanda sull’esistenza di Dio – in quanto essa chiede se la totalità dell’ente presente (= l’Unità dell’esperienza) costituisca o meno la totalità dell’ente10. c) Il «sapere metafisico», nella sua dimensione principale, è appunto affermazione della trascendenza dell’essere divino ri9.  Cfr. G. Bontadini, La funzione metodologica dell’Unità dell’Esperienza (1946), in Id., Conversazioni di metafisica, cit., vol. I, pp. 33-63. 10. Cfr. HM, pp. 113-114.

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spetto all’essere mondano (e, sotto tale aspetto, esso si articola come una «metafisica dell’esperienza»)11. Severino, perciò, accogliendo pienamente nel suo saggio heideggeriano la «lezione» di Bontadini12, può esporre con lucidità quale ne sia la proposta storica e teoretica a un tempo: mostrare che non soltanto nella filosofia di Gentile è presente il fondamento metodologico della «scienza metafisica» – come era stato già evidenziato dal maestro nella sua lettura del pensiero gentiliano –, ma che pure nella filosofia di Heidegger, che valorizza la dimensione fenomenologica del sapere, è dato riscontrare una struttura ad esso equivalente13. Tale guadagno è consentito sempre dall’aver eliminato l’erronea tesi – che era stata tipica del pensiero moderno pre-idealistico, incluso Kant – della inaccessibilità dell’essere da parte del pensiero, il quale ultimo, nel caso fosse vera tale inaccessibilità, resterebbe inevitabilmente chiuso nelle proprie «rappresentazioni» ed espropriato della conoscenza dell’essere. Severino, anzi, aggiungeva che in Heidegger ci sarebbe anche qualcosa di più rispetto alla semplice e già meritoria «posizione del problema metafisico» per eccellenza, che è quello di Dio, e alla possibilità di dare risposta alla questione dell’immortalità dell’anima. A una più attenta analisi – così riteneva allora Severino –, sia pure in modo implicito, il testo heideggeriano fornirebbe già alcune essenziali determinazioni del 11.  Cfr. L. Messinese, Il cielo della metafisica. Filosofia e storia della filosofia in Gustavo Bontadini, pref. di V. Melchiorre, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; Id., Gustavo Bontadini. La rigorizzazione della teologia filosofica dopo la critica idealista alla metafisica, in Id., Stanze della metafisica. Heidegger, Löwith, Carlini, Bontadini, Severino, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 103-146. 12. Cfr. HM, pp. 52-54. 13.  Cfr. HM, pp. 54 e 112-124, dove il «fondamento metodologico» nel pensiero heideggeriano viene ad essere illustrato nella sua concreta specificità.

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sapere metafisico, quali la dimensione «cosmologica» e la dimensione «psicologica», cioè le determinazioni «ontiche» del mondo e dell’io14. Com’è stato già indicato nel capitolo precedente, la valutazione teoretica del pensiero di Heidegger avrebbe subito in seguito una profonda revisione da parte di Severino.

3.  L’adesione di Severino alla metafisica classica e l’affermazione dell’Essere trascendente Severino procede oramai speditamente lungo il sentiero che aveva tracciato e scrive alcuni brevi saggi15 che preparano la sua prima grande opera di carattere puramente teoretico: La struttura originaria, pubblicata nel 195816. In questo scritto di notevole impegno speculativo Severino giunge a dare concreta esecuzione al «programma» verso il quale era stata indirizzata tutta la sua produzione precedente, offrendo una complessa articolazione che però, in questa ricostruzione essenziale del pensiero severiniano, può essere soltanto accennata17. 14. Cfr. HM, pp. 20 e 22. 15.  Oltre al già ricordato articolo del 1956 su La metafisica classica e Aristotele, in questa sede mi limito a segnalare, per la sua importanza teoretica, il saggio La struttura dell’essere (1950), ripubblicato nella Appendice II di HM, pp. 472-502. 16.  La nuova edizione dell’opera, dalla quale saranno tratte le citazioni, contiene una lunga e imprescindibile Introduzione ed è stata pubblicata, come ho già segnalato, da Adelphi nel 1981 (= SO). 17.  Per il lettore che sia interessato ad approfondire il contenuto dell’opera, mi permetto di segnalare che ne ho ripercorso l’intero sviluppo in L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., parte I, pp. 37-205. Un’analoga operazione, seppure con modalità e intenti diversi, è stata svolta più di recente nel volume di N. Cusano, Emanuele Severino, cit., pp. 103-219. Segnalo, infine, i

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Innanzitutto, si deve ricordare che il programma del filosofo bresciano era di fissare i lineamenti essenziali della metafisica classica, attraverso un assestamento «metodologico» migliore rispetto a quello che è dato trovare esaminando quella stessa metafisica nel suo volto storico. Sotto tale aspetto, la lezione bontadiniana circa una interpretazione più adeguata del pensiero moderno, e perciò funzionale a una ripresa della metafisica, si faceva positivamente sentire. A tale riguardo, oltre alle indicazioni che sono state offerte in precedenza, dev’essere rilevata la potente valorizzazione del «metodo dialettico» di Hegel che sta al centro dell’opera, nella precisa funzione di operare il progressivo mostrarsi del sapere circa l’Intero dell’essere, e questo attraverso il superamento delle posizioni, costituite dal sistema delle categorie logiche, che lo determinano in modo inadeguato in quanto lo esprimono «astrattamente», cioè in modo parziale18. Avendo dato accoglienza al contributo che poteva venire alla metafisica da parte della filosofia moderna, la trattazione del­ l’ontologia – della dottrina dell’essere – nella sua veste classica era svolta da Severino attraverso un progressivo assestamento della «relazione» tra i due cespiti del sapere incontrovertibi-

due recentissimi ampi studi di A. Stella: Il concetto di «relazione» nell’opera di Severino. A partire da «La struttura originaria», Guerini e Associati, Milano 2018; «Metafisica originaria» in Severino. Precisazioni preliminari e approfondimenti tematici, Guerini e Associati, Milano 2019. 18.  Cfr. Messinese, L’apparire del mondo, cit., pp. 107-149. Nell’Introduzione alla nuova edizione dell’opera, riprendendo una critica già da lui avanzata, Severino metterà in questione la validità di quella valorizzazione del «metodo» hegeliano, in quanto si rileva che esso presuppone il nesso necessario tra le determinazioni che intende fondare. Ma la critica si allarga ulteriormente poiché nel «metodo dialettico» egli ora vedrà l’espressione di una «teoria del divenire», che vorrebbe essere più rigorosa di quella aristotelica, ma il cui fondamento è sempre e solo la presunta evidenza del «divenire» (cfr. SO, Introduzione, pp. 41-61).

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le: l’apparire dell’essere, che è indicato nel testo del 1958 come «immediatezza fenomenologica»; e l’incontraddittorietà dell’essere, chiamata «immediatezza logica». Quanto, poi, al risultato di questa complessa rivisitazione del pensiero classico (Parmenide, Platone, Aristotele) e medievale (Tommaso d’Aquino), esso si condensava nel grande rigore con il quale Severino argomentava che il Principio della Unità dell’Esperienza, cioè della totalità mondana, è trascendente rispetto a questo stesso ambito: La struttura originaria del sapere è posizione originariamente categorica della disequazione tra il contenuto immediatamente presente e l’assoluta concretezza dell’intero, tra il mondo e Dio.19

Si consideri inoltre che, ne La struttura originaria, l’affermazione dell’Essere assolutamente immutabile e le tesi relative alla dipendenza dell’essere mondano da Dio e alla libertà dell’atto creatore esprimevano in modo unitario l’adesione di Severino al pensiero metafisico classico. L’elemento caratterizzante la rigorizzazione severiniana della metafisica consisteva nel valorizzare una tesi capitale implicata nell’opposizione assoluta dell’essere al non essere, una tesi che costituisce l’elemento unitario nelle due fasi del pensiero di Severino: Risiede nel significato stesso dell’essere, che l’essere abbia ad essere, sì che il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con sé medesima (o la

19.  Per motivi di una maggiore semplicità nell’esposizione del pensiero dell’autore, traggo la citazione da E. Severino, Studi di filosofia della prassi, Vita e Pensiero, Milano 1962. Ho già segnalato che la nuova edizione dell’ope­ra, la quale è ampliata da una nutrita serie di postille, è stata ripubblicata da Adelphi nel 1984 (= SFP). La citazione è alla p. 276 di questa edizione.

101 sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza).20

Per la comprensione del testo si consideri che qui il termine «essenza» sta per «determinazione» (albero, casa, ecc.) e, quindi, per «identità dell’essenza con l’esistenza» si deve intendere che la verità dell’essere implica che ogni determinazione solo contraddittoriamente può essere sciolta dal suo «è» ed esser abbandonata al non essere. L’affermazione della suddetta tesi, però, ne La struttura originaria era accompagnata dalla correlativa affermazione del «divenire» degli enti, il quale esprime un’istanza contraria a quella indicata precedentemente, che sarebbe attestata dallo stesso apparire delle cose. Di conseguenza, al fine di evitare di porre il divenire in una relazione di contraddittorietà rispetto alla immutabilità dell’essere in ogni sua determinazione, Severino giungeva all’affermazione del divenire come manifestazione dell’essere immutabile21, inteso quest’ultimo in una chiave che era esplicitamente creazionista22. La novità fondamentale del secondo Severino, in sede di filosofia prima, riguarda il concreto determinarsi della relazione tra l’essere diveniente e l’essere immutabile, con il progressivo venir meno della dottrina metafisico-teologica relativa al suddetto rapporto. Entra, cioè, in crisi il modo tradizionale di intendere la relazione tra il mondo e Dio. Su questo passaggio cruciale mi soffermerò nel capitolo seguente. Vorrei, però, consigliare al lettore che, prima di procedere, si assicuri di avere assimilato bene questa prima parte del discorso sul tema della metafisica, che riconosco possa riuscire 20.  SO, XIII, p. 517. 21.  Cfr. SO, XIII, pp. 546-549. 22.  Cfr. SO, XIII, pp. 553-554.

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ostica a chi non sia in possesso almeno delle conoscenze filosofiche di base. Nondimeno, sebbene proprio la prospettiva metafisica che è stata finora presentata sia stata successivamente criticata dallo stesso Severino, essa resta un punto di riferimento imprescindibile proprio per comprendere a fondo il successivo pensiero del filosofo bresciano.

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Capitolo V

La svolta di Ritornare a Parmenide e l’inizio di un nuovo cammino

1.  La critica di Severino alla metafisica e l’eternità di tutto ciò che è Il saggio Ritornare a Parmenide, pubblicato nel 1964, costi­ tuisce la porta d’ingresso nella seconda fase del pensiero severiniano1. Essa contiene al suo interno una serie di sviluppi, anche autocritici, che hanno condotto gradatamente a un assestamento definitivo della dottrina che stiamo qui esaminando. Guardiamo la questione più da vicino. Tanto ne La struttura originaria, quanto in Ritornare a Parmenide, la verità dell’immutabilità dell’essere, che poggia sulla opposizione tra l’essere e il nulla, implica che oltre la regione del diveniente – dell’essere che viene ad apparire e scompare – ci sia l’ambito dell’essere assolutamente immutabile. Questa implicazione necessaria poggia sulla considerazione che altrimenti il processo di manifestazione degli enti, contro la verità dell’essere che ne esige 1.  Ricordo che la pubblicazione originaria del saggio, che qui sarà comunque citato da Essenza del nichilismo (cfr. supra, cap. I, nota 17), era contenuta nella «Rivista di filosofia neo-scolastica».

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la immutabilità, costituirebbe un incremento e un decremento dell’essere medesimo. Una significativa differenza tra i due scritti, tuttavia, dev’essere rilevata. Infatti, nell’opera del 1958, pur essendo stata già avanzata la tesi dell’impossibilità del non essere riguardo a ogni ente sulla base dello stesso significato dell’essere, il “centro speculativo” era costituito dall’Essere assolutamente immutabile, del quale, proprio perché tale, veniva mostrata la trascendenza rispetto alla totalità degli enti divenienti (equivalente a ciò che, nel linguaggio delle religioni, è chiamato Dio). Invece, ciò che occupa il posto centrale nel saggio del 1964 è la tesi della immutabilità di ogni ente, come ciò rispetto a cui si dovrà procedere per ogni ulteriore determinazione della verità dell’essere, inclusa quella relativa a ciò che ne La struttura originaria era considerato l’Essere assoluto nella prospettiva della metafisica classica e in armonia con la fede cristiana. Questo foglio, questa penna, questa stanza, questi colori e suoni e sfumature e ombre delle cose e dell’animo sono eterni, se ‘eterno’ possiede l’essenziale significato che la lingua greca attribuisce ad αἰών: «che è» (senza limitazioni).2

Il riservare agli «enti» la suddetta centralità speculativa non era ancora tale da escludere in modo definitivo che potesse esserci almeno una «corrispondenza» tra l’Essere assolutamente immutabile, nei termini in cui ne incominciava a parlare ora Severino, e Dio nel senso tradizionale del termine. In Ritornare a Parmenide, in effetti, si parla ancora di Dio, sebbene non lo si faccia più nell’orizzonte della metafisica nella sua accezione storica. Inoltre, la differenza tra l’«essere diveniente» (beninteso: senza che il suo divenire comporti un incominciare e un cessare del suo essere, come un certo modo

2.  RP, p. 28.

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di considerare il variare delle cose farebbe ritenere) e l’«essere assolutamente immutabile» (che è tale perché neppure è soggetto alla vicenda del «venire a manifestarsi» e dello «scomparire») da Severino è ancora indicata come quella tra Dio e il mondo. Certamente, in quel saggio con la parola «Dio» è nominato «l’essere nella sua immutabile pienezza»3, oppure «l’intero del positivo»4 – vale a dire non ci si riferisce formalmente a un Dio personale. Quest’ultimo, però, a mio avviso, non è ancora realmente negato. I testi di questo primo ripensamento critico della metafisica classica, piuttosto, vengono implicitamente a indicare una sorta di riserbo circa il rapporto tra la «totalità assoluta dell’essere» e il Dio della tradizione religiosa, per quanto Severino insista in modo esplicito sulla critica al concetto di creazione introdotto dalla metafisica del pensiero dei Padri della Chiesa, come sant’Agostino, e della scolastica medievale5. Nel Poscritto a Ritornare a Parmenide, che è del 1965, non è dato trovare indicazioni ulteriori che siano particolarmente significative per la cruciale questione che stiamo affrontando. La novità maggiore di questo testo, rispetto allo scritto precedente, è costituita dal fatto che, finalmente, il «divenire» è mostrato nella sua effettiva realtà anche in merito alla dimensione fenomenologica, riguardo alla quale si chiarisce che quando si consideri l’autentico apparire delle cose, non si può parlare di un «non essere ancora» o di un «non essere più» degli enti. Quanto al resto, Severino veniva a confermare ciò che aveva sostenuto nello scritto precedente. In un contesto di discorso nel quale s’intende mostrare in termini positivi in che cosa con3.  RP, p. 58. 4.  RP, p. 59. 5. Cfr. RP, pp. 30-32.

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sista effettivamente il processo del divenire, dovendo nel contempo salvaguardare rigorosamente l’immutabilità dell’essere, egli ribadisce che questa determinazione positiva del divenire è «il divenire [come] apparizione-sparizione dell’essere»6, cioè è il divenire in relazione all’immutabile. Stando così le cose, si deve ritenere che, sebbene nel Poscritto a Ritornare a Parmenide non fosse affermata la trascendenza «teologica» nel suo significato tradizionale, questa tuttavia non era neppure radicalmente esclusa, continuando Severino a lasciare aperta la porta riguardo a una «connotazione teologica» dell’Essere assolutamente immutabile, nella sua irriducibile differenza rispetto all’essere che entra nell’apparire e ne esce. Gli scritti raccolti in Essenza del nichilismo (1972) lasciavano ancora aperta la possibilità di un contenuto vero in riferimento a ciò che nel linguaggio religioso pre-metafisico, ma anche nello stesso cristianesimo, viene colto attraverso la parola «Dio»7. In aggiunta a quanto è stato finora messo in evidenza, può essere portata qualche ulteriore conferma. Pur essendo impossibile, per Severino, che Dio possa essere veritativamente la potenza che crea le cose facendole uscire dal loro non essere (e con la quale l’uomo si allea per conseguire la «salvezza»), egli sostiene ancora come non sia da escludere che la parola

6.  RPP, p. 114. 7.  «La parola greca ϑεός è essenzialmente costruita sulla radice δα. Innanzitutto δα indica lo star dinanzi manifesto e luminoso; sì che Ζεύς, lo «splendente», è δήλος. Ma la manifestazione lascia apparire ed è la dispensatrice delle differenze (come i colori restano dispensati nella luce), e quindi δα indica anche il dispensare, il dare in sorte distribuendo le differenze; sì che il dio è il δαίμον che divide e distribuisce (δαίομαι) le parti del tutto» (E. Severino, Sul significato della ‘morte di Dio’, in EN, pp. 253-263: pp. 254-255).

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«Dio» abbia a mostrare un significato effettivamente irriducibile alla sua interpretazione «metafisica», ritenuta oramai intrisa di nichilismo. Di conseguenza, relativamente al significato della parola «Dio», Severino poteva osservare: Il carattere ambiguo e misterioso della parola premetafisica ϑεός è completamente lasciato da parte nella chiarezza razionale del nichilismo. In questa razionalità, ϑεός è la tecnica dominatrice dell’essere e del non essere degli enti.8

Il pensiero di Severino mi pare sia qui molto chiaro. Egli ritiene che si debba certamente sottolineare l’eccedenza della parola «Dio» rispetto alla sua traduzione nella concettualità metafisica, ma si debba al tempo stesso rilevare che quella parola è comunque già uscita storicamente dall’ambiguità pre-­metafisica, aprendo così l’orizzonte della «potenza dominatrice» sul divenire delle cose, la cui ultima configurazione ha assunto nel nostro tempo il volto dell’Apparato scientifico-tecnologico.

2.  Il significato della critica severiniana al «Dio meta­ fisico» Nella Risposta alla Chiesa (1971), che è lo scritto – già citato –, posto come conclusione di Essenza del nichilismo9, la distanza tra Severino e la tradizione della metafisica classica, come pure rispetto alla fede cristiana, si approfondisce ulteriormente e si esplicita ancora di più, anche se non ancora in termini definitivi per quanto riguarda quest’ultima. Quello che per il nostro filosofo è divenuto sempre più chiaro è che la metafisica greca ha portato alla luce un senso della 8.  Ivi, p. 258. 9. Cfr. supra, cap. I, nota 58.

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«cosa» – valido, quindi, per ogni cosa – tale che è per un’intima necessità che esso deve condurre alla caduta del «Dio metafisico», come, di fatto, è avvenuto nel pensiero filosofico degli ultimi due secoli (e qui si ricordino, in particolare, i nomi di Leopardi, Nietzsche, Gentile). Secondo quel senso, che costituisce l’anima stessa del pensiero occidentale, la cosa è «ciò che è unito all’essere e al non-­ essere»10 e il mondo è l’insieme di tutte le cose che vengono dal nulla di sé e tornano nel nulla di sé, così come risulterebbe da una apparentemente indiscutibile attestazione fenomenologica. Il ‘mondo’ è la dimensione in cui gli enti, divenendo (in senso nichilistico), o essendo come ciò che sarebbe potuto non essere, sono un niente. La metafisica […] impone il ‘mondo’ alle cose che si lasciano vedere (sì che esso diventa come l’a priori di ogni visione), e si persuade di averlo dinanzi come un veduto, anzi come ciò che per eccellenza è veduto.11

Il «mondo», quindi, ora non significa più, secondo un’accezione più abituale, la totalità delle cose visibili, ma piuttosto l’orizzonte nichilistico all’interno del quale ogni cosa della terra viene a mostrarsi. Il mondo del quale ora parla Severino è ciò che è stato portato alla luce per la prima volta dal pensiero metafisico greco. Il «fondatore» di un tale mondo è stato Platone, il quale ha concepito l’ente come «intermedio» tra l’essere e il nulla12, ovvero come ciò che oscilla tra l’uno e l’altro di questi due estremi, ciò che è conteso dall’essere e dal non essere13, secondo quan-

10.  RCH, p. 318. 11.  E. Severino, Risposta ai critici, in EN, pp. 287-316: p. 299. 12. Cfr. SG, p. 147. 13. Cfr. DN, I, p. 21.

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to Severino preciserà in seguito. Proprio per tale ragione, il pensiero platonico unitamente a ogni altra posizione metafisica identifica l’ente al niente; affermando il divenire delle cose, esso afferma che il «qualcosa-che-è» (= il non-niente) è «niente»14. Il pensiero metafisico, tuttavia, non è in grado di cogliere il suo esito inevitabile, per quanto certamente non voluto: l’evidenza originaria del «mondo» esige la negazione di ogni ordine immutabile, sia questo trascendente o immanente al mondo15. Qual è la ragione di questo esito, che da Severino è ritenuto necessario, restando all’interno del pensiero che ha evocato l’orizzonte nichilistico del «mondo»? Nello scritto Il sentiero del Giorno (1967) tale ragione è indicata per la prima volta; qui, però, per motivi di maggiore chiarezza espositiva, faccio riferimento a uno scritto successivo: Il mondo moderno si rende conto che se il divenire delle cose, il loro uscire e ritornare nel nulla, è l’evidenza’ originaria […], è necessario allora negare ogni immutabile che precontenga e predetermini i risultati dell’incremento del mondo e dei progetti umani che lo promuovono.16

Anche questa affermazione, tuttavia, non va affatto confusa o assimilata con le tradizionali negazioni della esistenza di Dio. 14. Cfr. SG, p. 150. 15. Cfr. RCH, p. 320. 16.  RCH, p. 319. Si legga pure quest’altro testo di Severino: «Nella storia del pensiero metafisico, ‘Dio’ viene dapprima pensato come ciò senza cui il ‘mondo’ non potrebbe esistere; ma poi ci si rende conto che ‘Dio’ non può esistere, altrimenti impedirebbe l’esistenza del ‘mondo’. Giacché le cose del ‘mondo’ possono essere state davvero un niente e possono per davvero ridiventare niente, solo se non sono precontenute in ‘Dio’ (solo cioè se non esiste la dimensione divina, rispetto alla quale la nientificazione degli enti e la creazione degli enti – che sono ritenute un dato evidente – sarebbero irreali)» (SG, p. 181).

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Essa, invece, intende sostenere che, la negazione dell’«essere trascendente» il mondo, riguarda il «dio» che è stato concepito «all’interno del mondo», cioè all’interno del divenire inteso nichilisticamente17 e che conduce a escludere necessariamente l’affermazione dell’Essere immutabile.

3.  La verità dell’«ontologia» non nichilistica in rapporto alla «teologia filosofica» La distanza di Severino dalla ontologia del pensiero metafisico, come pure dal Dio della fede cristiana, viene a delinearsi in modo compiuto con la pubblicazione di Destino della necessità (1980). Infatti, confermando la critica al Dio metafisico, Severino procede ora a una radicalizzazione della critica al concetto di «contingenza» degli enti. Il nuovo passo è connesso alla critica circa il modo in cui è stata intesa nella storia del pensiero filosofico la «libertà» dell’agire. La libertà dell’uomo è stata concepita come «libero arbitrio», che è il concetto con cui è stata data storicamente espressione alla contingenza delle decisioni umane18. Sotto tale aspetto, la tesi centrale di Destino della necessità è costituita dalla netta contrapposizione che da Severino viene individuata tra: a) un pensiero – quello testimoniato negli scritti del nostro filosofo – che si costituisce come svolgimento della verità originaria della «necessità» di tutto ciò che è, stante l’assoluta immuta-

17. Cfr. RCH, p. 325. 18.  Cfr. innanzitutto DN, III, pp. 67-94. Come si ricorderà, negli Studi di filosofia della prassi, Severino si era limitato a rilevare la non fenomenologicità del libero arbitrio; successivamente, in Essenza del nichilismo, la libertà dell’agire era stata ritenuta ancora possibile limitatamente all’“apparire” dell’essere, anche se non relativamente all’essere in quanto tale.

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bilità dell’essere; e b) una diversificata, ma sostanzialmente unitaria tradizione di pensiero e di civiltà, come quella occidentale (senza che, per questo, possieda una maggiore verità il rivolgersi verso l’Oriente), nella quale domina la «libertà dell’ente» rispetto alla necessità dell’essere e, perciò, vige la pura «essenza del nichilismo». La tesi di Severino è molto chiara. È la libertà così intesa – la libertà dell’ente di «oscillare» tra l’essere e il niente – che sta al fondamento tanto della supposta «contingenza» dell’ente come tale, quanto della presunta contingenza dell’agire e cioè del «libero arbitrio» dell’uomo. La «libertà», quindi, si identifica con la produzione e l’annientamento delle cose. Essa è qualcosa che ha a che fare innanzitutto con il «senso del­ l’ente»19, esprime cioè una ontologia che sta sotto il segno del nichilismo. In tal modo, oltre a venire in luce una nuova comprensione dell’essenza dell’uomo e del suo agire, che non è più sotto il segno di una concezione nichilistica della libertà, anche la differenza tra il Severino rigorizzatore della metafisica classica e il Severino che ne diviene un critico acceso si mostra in termini oramai molto netti. Egli stesso viene a precisarla in una nota che aggiunge alla nuova edizione di Essenza del nichilismo (1982). La parola «Dio» […] in questa opera è il nome della totalità immutabile degli enti, mentre negli scritti successivi si presenta con il significato storico che autenticamente gli compete.20

Con Destino della necessità l’opposizione che nel pensiero severiniano si era venuta a stabilire tra la verità dell’«ontologia» non nichilistica e la non verità della «teologia filosofica» qua-

19. Cfr. DN, I, pp. 19-37. 20.  RP, p. 45, nota.

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le espressione del nichilismo può essere considerata oramai compiuta21. Nell’opera La morte e la terra, Severino sviluppa alcuni ulteriori elementi della critica sia nei confronti della teologia filosofica che di quella biblico-cristiana22. Questo non vuol dire che per Severino la filosofia prima sia soltanto un’«ontologia», ma piuttosto che la verità autentica del contenuto della teologia filosofica viene alla luce in conformità con l’ontologia non nichilistica. Un altro tratto di rilievo della critica al pensiero metafisico della tradizione emerge in Dike, dove Severino giunge a parlare della «metafisica originaria del mortale» quale specificazione ulteriore di quella critica. Al fondamento delle grandi costruzioni metafisiche che hanno affermato l’al di là di un mondo che non appare, vi è la preliminare affermazione che quell’al di là che non appare, ossia il «diventar altro» e il «diventar nulla e da nulla» degli enti, sia invece al di qua e appaia (sia, cioè, il contenuto dell’esperienza)23. Dal canto loro, le costruzioni metafisiche che affermano l’Essere immutabile intendono essere il «rimedio» speculativo alla folle convinzione del «divenire»24. Le conseguenze di questo esito radicale riguardo all’ontologia non nichilista e del suo ruolo teoreticamente strategico si faranno sentire allorquando il nostro filosofo si cimenterà

21.  Per un’analisi del rapporto di Severino con la metafisica nelle due fasi principali del suo pensiero, cfr. L. Messinese, Severino e la metafisica, in D. Spanio (a cura di), Il destino dell’essere, cit., pp. 29-53; Id., The two faces of the “primal structure”, in «Eternity & Contradiction. Journal of Fundamental Ontology», vol. 2, n. 3, 2020, pp. 21-43. 22.  Cfr., in particolare, E. Severino, La morte e la terra (= MT), Adelphi, Milano 2011, cap. IV, pp. 155-180. 23.  Cfr. E. Severino, Dike, cit., parte II, cap. I, § 17, pp. 160-161. 24.  Cfr. ivi, p. 161.

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con il grande compito di assicurare uno sviluppo più concreto alla «verità originaria» dell’essere e dell’«esser sé» dell’essente. Come si ricorderà, nel terzo capitolo avevo fatto cenno ad alcuni elementi ulteriori che conducono da una comprensione astratta dell’«esser sé» a una sua comprensione massimamente concreta. Precisamente di tali sviluppi ci occuperemo nel capitolo successivo, giungendo così a mostrare il compimento della pars construens del pensiero di Severino. Sarà in virtù di questo svolgimento ulteriore che verrà ad aumentare la distanza tra Severino e la tradizione occidentale non solo in relazione al configurarsi della filosofia prima, ma anche della concezione che si ha della scienza e delle forme teoriche e pratiche della cultura, dal momento che si sono stabilite sul fondamento di una comprensione nichilistica dell’essere degli enti. Ancora una volta, però, vorrei consigliare il lettore di verificare in prima persona di avere raggiunto un grado almeno sufficiente di comprensione delle ardue questioni che sono state sottoposte alla sua attenzione, unitamente alla consapevolezza dell’estrema importanza della «questione di Dio» nella economia dell’intero percorso severiniano, al di là dello stesso differenziarsi della «risposta» che ne è offerta nelle due fasi principali del suo pensiero.

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Capitolo VI

Il «destino» e il senso della vita e della morte

Sia quando orientava il suo pensiero sostanzialmente all’interno della metafisica classica e della fede cristiana, sia quando è giunto a proporre una critica radicale dell’intera civiltà occidentale, Severino non ha limitato la sua vis speculativa alla sola «struttura originaria» della verità, ma ha proceduto a individuare i tratti che esprimono quest’ultima in una dimensione di maggiore concretezza. Nella prima fase del suo pensiero, egli parlava di un «inveramento pratico» della verità teoretica, nel senso che una maggiore determinatezza nella manifestazione dell’essere era vista dipendere, in primo luogo, dalla prassi etica dell’uomo; nella seconda fase, invece, il farsi più concreto della verità è identificato da Severino con l’entrare nell’apparire di sempre maggiori volumi di ciò che costituisce il «destino della necessità»1, senza che l’incremento della manifestazione dell’essere venga quindi a dipendere dall’agire dell’uomo o dalla salvezza operata da Dio secondo quanto è affermato, in particolare, dal cristianesimo. 1.  Sul significato di questa espressione, che è centrale nel pensiero di Severino, ci soffermeremo più avanti. Per il momento si tenga conto di ciò che è stato esposto nelle pagine conclusive del precedente capitolo.

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Questa manifestazione della verità nella sua maggiore concretezza è stata chiamata da Severino la «Gloria» dell’essere, ma la sua semplice evocazione non consente di coglierne appieno il significato. Prenderemo, perciò, analiticamente in considerazione questo duplice e diversificato articolarsi del pensiero severiniano. Esso deve essere compreso in stretta connessione con il nuovo orientamento di fondo assunto da Severino, in seguito alla critica che aveva rivolto alla metafisica tradizionale, il quale si riflette sul senso stesso che è assegnato alla vita e alla morte. I temi affrontati sono diversi, ma considerati unitariamente consentono di cogliere la concezione di fondo sia del primo Severino, sia di quello successivo che si è lasciato alle spalle la tradizione filosofica e religiosa accolta in precedenza.

1.  La dimensione teoretica e la prassi etica e religiosa Insieme con il fondamentale trattato su La struttura originaria, lo scritto dalla portata più dichiaratamente speculativa nella prima fase del pensiero di Emanuele Severino è costitui­to dagli Studi di filosofia della prassi. Questa opera, pubblicata nel 1962, si dispone su una linea di diretta prosecuzione di quella precedente per una pluralità di aspetti. Uno dei temi centrali dell’opera del 1958 era il seguente: la «struttura originaria» della verità è contraddizione, in quanto essa è sì l’apparire della Totalità dell’essere (= Dio) che trascende l’essere mondano, ma lo è soltanto in modo «formale», senza cioè che il Tutto possa apparire nella concretezza delle sue determinazioni. La tipica «contraddizione» che caratterizza la struttura originaria consiste, perciò, in questo: essa è l’apparire del Tutto e, insieme, non è l’apparire del Tut­

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to2. Essa, a differenza delle normali contraddizioni, è tale non per ciò che la struttura originaria dice, ma per quello che essa non dice. Negli scritti severiniani essa è chiamata «contraddizione C»3. Questa tesi caratterizza entrambe le fasi del pensiero di Severino e ne costituisce un elemento di primaria importanza, come avremo modo di accertare. Essa, in particolare, assume un ruolo centrale per quanto riguarda la caratterizzazione dell’«essenza dell’uomo». Per il secondo Severino l’antropologia filosofica è messa in luce in modo autentico dall’organismo di pensiero che subentra alla metafisica considerata nella sua accezione storica; nondimeno, anche tale antropologia continuerà a essere intimamente legata, quanto alla sua struttura fondamentale, alla suddetta «finitezza» dell’apparire dell’essere che caratterizzava già il pensiero di Severino nella sua prima fase. Occupiamoci, in primo luogo, della dottrina esposta da Severino negli Studi di filosofia della prassi. L’uomo, nella sua essenza, è manifestazione dell’essere, ma nello stesso tempo si trova di fronte al «compito» di liberarsi dalla contraddizione relativa alla non attualità di questa manifestazione nella sua compiutezza4. Il compito di liberare la verità dalla contraddizione, nella misura consentita, in questo primo momento era affidato alla «prassi», lungo una linea che avvicinava per questo aspetto il pensiero di Severino a quello dell’idealismo etico di

2. Cfr. SO, X, pp. 422-423. 3.  Per un’esposizione analitica della «contraddizione C» relativamente a La struttura originaria, cfr. L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., pp. 112123, 130-135, 143-147, 192; in riferimento agli scritti successivi di Severino, cfr. Id., Alcuni rilievi sulla “contraddizione C” della verità, in «La filosofia futura», I, n. 1, 2013, pp. 115-129; Id., Verità finita. Sulla forma originaria dell’umano, ETS, Pisa 2017, pp. 125-136. 4.  Cfr. SO, XIII, p. 555; SFP, p. 278.

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Fichte5. L’espressione «nella misura consentita», che ho adottato, indica che una liberazione assoluta dalla contraddizione è impossibile, stante la strutturale finitezza dell’uomo in rapporto alla manifestazione dell’essere: «Il finito deve diventare l’infinito, ma non può diventarlo»6. L’uomo, in altri termini, non può diventare Dio. Inoltre, qui si fa riferimento alla «prassi» perché questa è necessariamente implicata dalla necessità che ha la coscienza teo­ retica di riferirsi a un contenuto più concreto rispetto a quello attuale, stante la suddetta contraddizione e la necessità che essa sia tolta7. In tale prospettiva, si deve quindi parlare di un inveramento «pratico» della struttura originaria della verità, cioè della necessità che sussiste di oltrepassare l’orizzonte puramente teoretico in ordine all’apparire dell’essere. Questa intima relazione della teoria con la prassi può essere assunta come la cifra essenziale della prima fase dell’intero pensiero severiniano. Nello stesso tempo, proprio qui, per il primo Severino, si giunge a cogliere il significato originario del «dovere» – ovvero dell’imperativo categorico, nel linguaggio kantiano – in relazione alla struttura originaria della verità. Nel suo significato originario «dovere» significa: «non ci si deve contraddire»8. Nell’Avvertenza agli Studi di filosofa della prassi, Severino rilevava: «è proprio l’atteggiamento teoreticistico, vissuto nel 5.  Cfr. SO, XIII, p. 555; SFP, p. 280. È da tenere presente che, poco tempo dopo, lo stesso Severino presenterà un’originale interpretazione della filosofia fichtiana (cfr. E. Severino, Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana, cit.). 6.  SFP, p. 280. Severino precisa: «L’affermazione che il finito deve, ma non può diventare infinito significa che il finito deve diventare all’infinito, deve cioè oltrepassare ogni contenuto secondo il quale esso finito venga a determinarsi» (SFP, p. 283). 7. Cfr. SFP, p. 285. 8. Cfr. SFP, p. 110.

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modo più rigoroso, a portare al proprio superamento, o, meglio, al proprio inveramento, nella prassi»9. L’opera, quindi, si poneva come stretta prosecuzione de La struttura originaria in riferimento all’agire morale, all’antropologia filosofica – attraverso la «deduzione» della immortalità dell’uomo che veniva eseguita nel terzo di questi studi10 – e, infine, in ordine all’apertura della dimensione religiosa, essendo posta in essa la questione se la vita dopo la morte debba avere un esito felice o di disperazione11. È in relazione a tale duplice situazione – di un compito da eseguire e dell’impossibilità di eseguirlo compiutamente – che gli Studi di filosofia della prassi introducevano il tema del cristianesimo e della fede cristiana come una possibile dimensione di «salvezza» per la verità12. Peraltro, è opportuno chiarire che la salvezza assicurata dalla fede cristiana era posta qui sul piano della possibilità in quanto si faceva riferimento sempre all’orizzonte del «sapere incontrovertibile», cioè al piano della ragione naturale considerato distintamente da quello della fede cristiana nella sua dimensione «soprannaturale» (per il quale, ovviamente, la salvezza è una certezza assoluta). A tale riguardo, le considerazioni fondamentali eseguite da Severino erano tre. a) In quanto la verità attuale si costituisce soltanto come «struttura originaria» della verità e non come sua struttura totale, la verità non può essere pura verità, ma è di necessità impegnata praticamente, cioè a compiere delle «scelte» e, in questo senso, essa è necessariamente un «esser nella fede» inteso appunto come un trovarsi a dover risolvere pragmaticamente

9.  SFP, p. 37. 10. Cfr. SFP, pp. 283-284. 11. Cfr. SFP, p. 287. 12.  Cfr. SFP, pp. 139-150. Il capitolo era significativamente intitolato: «Perdere la verità per salvare la verità».

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il problema costituito dalla inattualità della verità totale13. Ciò significa che non si può essere nella verità senza essere nella fede, la quale è implicata precisamente dall’organismo attuale della verità che non appare nella sua pienezza14. b) L’«essere nella fede» deve essere distinto dall’«avere una fede», ad esempio quella cristiana, il quale è un caso specifico dell’esser nella fede. L’«avere fede» è «la certezza che ha come contenuto qualcosa che non ha verità»15, intesa quest’ultima come ciò che appare incontrovertibilmente. Da un certo punto di vista, per chi voglia continuare a essere nella verità, sembrerebbe che la scelta della fede cristiana debba essere esclusa16. Tuttavia, in una riflessione più approfondita appare che l’«aver fede» nel paradigma cristiano non implica un tipo di contraddizione rispetto alla struttura originaria della verità tale da dover essere costretti ad abbandonarlo. Al contrario, l’aver fede nella Parola di Cristo risulta essere un’autentica scelta in riferimento al dovere di uscire dalla contraddizione nella quale la verità attuale è posta17. c) In funzione di una liberazione dalla contraddizione nella quale la verità attuale è avvolta, non è autocontraddittorio progettare che, sacrificando nel tempo la verità, dedicandosi al concreto mettere in pratica la fede cristiana, si pervenga non a una perdita, ma alla salvezza della verità18. La non contraddittorietà di una tale posizione, però, implica una metábasis

13.  Cfr. SFP, pp. 111-114. L’«esser nella fede» appartiene non soltanto alla «coscienza comune» o a quella «religiosa», ma anche alla «coscienza scientifica». 14. Cfr. SFP, p. 118. 15.  SFP, p. 114. 16. Cfr. SFP, pp. 114-119. 17. Cfr. SFP, pp. 128-132; 134-137. 18. Cfr. SFP, pp. 145-148.

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della «situazione umana» (= morte e risurrezione) tale che, per l’appunto, la distrazione dalla verità sia solo «nel tempo», cioè soltanto provvisoria19. In tal modo, stante la necessità di «essere nella fede» da parte della verità originaria, la via della fede cristiana che conduce l’uomo a Dio, sul piano della ragione filosofica, era vista da Severino come un’autentica possibilità di assicurare, meglio di altre vie, la felice riuscita del processo di liberazione dalla tipica contraddizione che è stata sopra indicata come inerente alla struttura veritativa che caratterizza l’uomo in quanto egli è in rapporto con l’infinito, ma ha a che fare con la determinazione finita dell’infinito20. A questo compimento della verità, che oltrepassa la dimensione strettamente teoreticoconoscitiva di quest’ultima, Severino dava il nome di «salvezza della verità». Orbene, considerato nei suoi termini strettamente formali, questo intreccio di «verità originaria» e di «salvezza» della verità resterà inalterato nel suo pensiero. Quello che, invece, verrà a cambiare in Severino è ciò che consente l’effettualità di tale salvezza: non più l’agire dell’uomo unito all’esperienza religiosa dell’alleanza con Dio e al gratuito dispiegarsi della dimensione escatologica nei termini in cui esso è indicato dal cristianesimo, quanto invece l’inoltrarsi nell’apparire della totalità di ciò che è «destinato» ad apparire. Questo cambiamento riguardo alla dimensione escatologica, cioè «delle cose ultime», costituisce l’esito in qualche modo richiesto dal cambiamento avvenuto in Severino riguardo alla dimensione protologica, ovvero riguardo «alle cose prime».

19. Cfr. SFP, p. 147, nota. Su questo punto sono da vedere le chiarificazioni apportate da Severino nella Prefazione alla nuova edizione dell’opera (cfr. SFP, pp. 21-23). 20. Cfr. SFP, pp. 287-288.

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Di più, negli Studi di filosofia della prassi si diceva che la verità, a motivo della sua finitezza attuale, non soltanto è necessariamente avvolta nella «contraddizione», ma lo è anche «nella fede», e questo comporta che si trovi a essere «praticamente impegnata», a dover fare comunque delle «scelte», che sia il «soggetto fondamentale della prassi»21. Il secondo Severino, invece, ha operato una netta distinzione tra la necessità che la verità, in quanto finita, sia nella contraddizione e il fatto che essa debba essere anche «nella fede»22. La verità – giungerà a ritenere Severino compiendo una decisiva retractatio – propriamente non “sceglie”, ma è lo sguardo che vede la non verità della «scelta»23. Le implicazioni che sono contenute in questo passaggio sono di grande peso e non mancheranno di farsi sentire negli sviluppi del pensiero severiniano. Innanzitutto, Severino preciserà che la «salvezza della verità» fa tutt’uno con la «verità della salvezza», cioè con una salvezza che non presenta più il volto dei contenuti della fede cristiana e che non è più oscurata da quei residui di nichilismo che, per lo stesso Severino, erano presenti nei suoi scritti precedenti in relazione alla prassi etica. Ma avremo modo di vedere le ragioni per le quali gli sviluppi dovranno interessare ogni altra forma di prassi (politica, economica, scientifica), ritenute ognuna espressione della prassi nella sua dimensione più originaria, che è quella della «tecnica».

21. Cfr. SFP, pp. 325-327. 22. Cfr. SFP, p. 330. 23. Cfr. ibidem.

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2.  La critica al nichilismo della civiltà occidentale La distinzione tra un primo e un secondo Severino, quindi, non deve essere riferita soltanto alla dottrina ontologica che caratterizza il suo pensiero. Su questo elemento essenziale è opportuno continuare a soffermarsi. A partire dalla tesi che afferma l’eternità di ogni ente – nel significato che le compete a partire dalla nuova concreta determinazione della «struttura originaria» della verità –, Severino ha svolto una serrata critica dell’intera tradizione filosofica, religiosa, morale, politica dell’Occidente, che si è estesa anche alla prassi scientifica e tecnologica, per giungere fino a tutti gli ambiti più significativi della nostra cultura. Un posto di rilievo particolare, in tale ripensamento svolto a tutto campo da Severino, è occupato naturalmente dalla riflessione sul cristianesimo. Dopo l’apologia del «paradigma cristiano» svolta negli Studi di filosofia della prassi, si assiste in Severino a una progressiva chiamata in causa del cristianesimo «storico» quale partecipe a pieno titolo dell’alienazione dalla verità; questo sebbene nell’opera Essenza del nichilismo, attraverso il riferimento della verità originaria alla dimensione del Sacro, si continui ancora a ritenere che, liberato dall’errore fondamentale della metafisica, lo stesso cristianesimo potrebbe mostrare un volto diverso, non più in conflitto con la genui­na verità dell’essere, e, perciò, potrebbe tornare a essere un «problema» autentico per la verità, secondo quanto era stato sostenuto negli Studi di filosofia della prassi. La critica al cristianesimo, però, costituisce soltanto un aspetto – sia pure avente un particolare rilievo – di una critica dai contorni più ampi, per la quale Severino indica un nome largamente in uso nella discussione filosofica contemporanea, ma al quale egli annette il significato specifico che discende dalla verità dell’essere parmenideo: «nichilismo». In tal modo, volendo indicare anche riguardo alla dimensione di «critica»

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della tradizione contenuta nel pensiero di Severino una cifra che sia particolarmente significativa, questa deve essere individuata nella tesi del «nichilismo» che avvolge e penetra l’intera civiltà occidentale, tesi che costituisce il cuore del già citato Essenza del nichilismo e degli scritti coevi. Con questa seconda tesi fondamentale ci troviamo nel cuore pulsante della critica severiniana che accomuna la cultura «tradizionale», cioè metafisica e religiosa, e la cultura della «rivoluzione» scientifica e tecnologica. Pensare che le cose non siano (quando non sono ancora nate o non sono ancora prodotte, o quando periscono o vengono distrutte) significa pensare che le cose – ossia ciò che non è un niente – sono un niente. Questo, il pensiero che nasce con la metafisica greca e che guida e unifica l’intera storia dell’Occidente.24

È sulla base di tale critica fondamentale che sorge dal centro del suo pensiero filosofico, che Severino, pur lasciandosi alle spalle la «fede cristiana», non va ad abbracciare la «fede laica» che caratterizza per ampi suoi tratti il tempo moderno. La vicenda planetaria del nichilismo, per Severino, non è però qualcosa che dipenda da un semplice errore di «prospettiva» o di «valutazione» da parte dell’uomo. Con questa osservazione ci avviamo a prendere in considerazione la critica rivolta dal filosofo alla civiltà occidentale nella sua configurazione più completa.

24.  E. Severino, Senso e destino dell’Europa, in AT, pp. 9-31: p. 26.

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3.  Il «destino» alla luce della verità dell’essere. L’errore dell’etica e della religione Se nei primi scritti dopo la «svolta» del 1964, poi raccolti in Essenza del nichilismo, si intravedeva il persistere almeno della possibilità del ripristino di un qualche legame tra il nuovo Severino e la tradizione che egli stava progressivamente abbandonando, con Destino della necessità quella possibilità mostrava di non essere più all’ordine del giorno. Con la pubblicazione di questa nuova opera, che era il frutto di una lunga meditazione, Severino veniva anzi a presentare un orizzonte della «vicenda dell’errore» che era più ampio rispetto a quello già testimoniato in Essenza del nichilismo, in quanto egli mostrava come tale vicenda si estenda al di là della stessa civiltà occidentale. L’«accadere» del nichilismo, dei suoi pensieri e delle sue opere, è il determinarsi concreto di un isolamento strutturale dell’uomo dalla verità, all’interno del quale si aprono le varie «fedi» religiose, morali, politiche, che ne sono appunto la manifestazione storica. L’uomo che comprende se stesso all’interno del suddetto «iso­lamento» dalla verità dell’essere è chiamato da Severino il «mortale»25. Ma tale comprensione di se stesso e, anzi, dell’intero contenuto che è chiamato abitualmente «civiltà occidentale» è in verità soltanto il risultato di una «interpretazione»26, il che per il filosofo significa che essa è radicalmente avvolta dall’errore. Si tratta, anzi, più precisamente, della stessa erronea «interpretazione fondamentale» che caratterizza l’uomo il quale ritiene se stesso un «mortale». Questo livello originario della «interpretazione», che fa tutt’uno con l’errore originario, consiste nell’isolare la terra – e cioè: 25. Cfr. DN, XII, pp. 417-419. 26. Cfr. DN, XIV, pp. 487-495.

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la totalità degli enti che sopraggiungono nell’apparire – dalla verità dell’essere27. Qui cogliamo il nesso essenziale che c’è in Severino tra la dottrina ontologica e la comprensione che si deve avere della vicenda storica dell’uomo. Unitamente a questo, il nostro filosofo non dimentica di rilevare che lo spazio ancora più originario per l’accadere dell’isolamento della terra dalla verità è il necessario «restare nascosto» del Tutto della verità concreta degli essenti. Questo importante rilievo consente di confermare la tesi già espressa: ciò che resta costante, lungo il corso del pensiero di Severino, è la «finitezza» dell’apparire dell’essere assoluto; e, quindi, la finitezza della dimensione umana. D’altra parte, però, è la «totalità infinita degli essenti», la quale trascende irriducibilmente la «totalità dell’esperienza», a costituirsi come la nuova determinazione dell’Assoluto. Essa viene a sostituire, in Severino, il Dio della metafisica e della fede cristiana. Resta, comunque, ribadito che l’apparire necessariamente «finito» del Tutto è pure la dimensione originaria che apre lo spazio per l’isolamento della terra dalla verità e, di conseguenza, anche per l’accadere del nichilismo nelle sue varie forme. In Destino della necessità, comunque, non viene testimoniata soltanto la «vicenda dell’errore», ma anche il «luogo» dove sono tolti ogni isolamento e ogni contraddizione28. Tale luogo si identifica con lo stesso Assoluto, il cui volto – è bene ripeterlo – è costituito dal Tutto concreto, infinito e necessario degli essenti. Per comprendere a cosa intenda riferirsi Severino quando parla del «destino» e apprezzare appieno la portata della novità teoretica che è qui in gioco, è opportuno evidenziare quale 27.  Cfr. E. Severino, Oltrepassare (= O), Adelphi, Milano 2007, cap. IV, p. 275. 28. Cfr. DN, XVI, pp. 588-597.

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duplice dimensione il «destino» venga a sostituire in termini di verità. Si tratta in primo luogo della dimensione dell’etica e, ultimamente, di quella della salvezza religiosa, le quali in precedenza avevano ricevuto da Severino una ben diversa valorizzazione. Per quale ragione l’agire etico viene a essere escluso dall’orizzonte veritativo ed è relegato nella estesa regione dell’errore? Esso, in quanto si inscrive nell’orizzonte del presunto «oscillare» delle singole cose tra l’essere e il nulla – altrimenti verrebbe meno il presupposto stesso dell’azione –, implica secondo Severino il nichilistico prodursi degli enti. Naturalmente lo implica secondo una sua specificità, che è costituita dal concreto articolarsi del «de-cidere» umano, erroneamente convinto di poter separare in virtù dell’agire gli enti dal loro «stare», cioè dal loro essere originario e immutabile29. È questa la ragione fondamentale per cui, rivelandosi nella sua opposizione al «destino» che avvolge ogni essente, l’agire etico è giudicato con sempre maggiore risolutezza al di fuori della verità dell’essere. L’agire etico, di conseguenza, non può essere più deputato a dare concretezza al superamento della «contraddizione del finito», secondo la tesi ch’era stata espressa invece negli Studi di filosofia della prassi. Approfondendo il discorso su questo punto, in analogia con la sua personale retractatio, Severino giunge a rilevare che tra la «verità» e la «ragion pratica» non sussiste quel legame che Kant aveva ritenuto di dover mettere in luce. Questi, infatti, aveva distinto anche un «uso pratico» della ragione oltre a quello strettamente teoretico e aveva affermato, di conseguenza, la verità che è propria della ragione pratica30. L’etica invece mostra di essere, nella sua essenza più riposta, nulla più che 29. Cfr. DN, XI, pp. 361-370. 30. Cfr. BF, pp. 64-90.

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una mera «volontà di verità»31, che è quindi destinata a essere vinta da una volontà la quale mostri di essere libera dai «limiti» che la volontà etica presume di poter stabilire rispetto alle altre forme di agire dell’uomo32. Sul fondamento della fede nel «diventar altro» delle cose e nell’agire della volontà – rileva Severino – la prassi tecnica che è così dominante nel nostro tempo deve essere riconosciuta come la forma suprema dell’etica; e quest’ultima risulta essere essa stessa una «tecnica», la cui efficacia reale è stata però superata dalla potenza dell’Apparato scientifico-tecnologico. In conclusione, l’«anima» più nascosta dell’etica viene a manifestazione quando assume il «volto» della tecnica. Stando sul fondamento e all’interno della fede nell’esistenza del divenire, l’Occidente è destinato alla dominazione della tecnica e della morale trascendentale della tecnica.33

Anche alla dimensione religiosa tradizionale viene a esser negata da Severino ogni connotazione veritativa, sulla base della sua critica, che si è oramai stabilizzata, alla metafisica teologica. Si può, così, toccare con mano l’importanza di avere preso precedentemente in considerazione questioni certamente difficili, ma pur necessarie per comprendere ciò che sta alla base delle più note tesi severiniane sul nichilismo che avvolge ciascuna delle strutture ideologiche ed istituzionali della civiltà occidentale. Evocando una celebre espressione di Heidegger, sia pure per prenderne nettamente le distanze, Severino afferma: Nessun Dio ci può salvare. I Salvatori salvano dal nulla. Gli essenti – gli eterni – non hanno bisogno di essere salvati. Al 31. Cfr. BF, pp. 91-106. 32. Cfr. BF, pp. 107-133. 33.  BF, p. 128.

129 di fuori della fede nel divenire e del senso alienato della salvezza, la «salvezza» è il tramonto della follia del divenire e dei Salvatori.34

4.  La salvezza e la Gioia del Tutto Oramai, per Severino, la salvezza dell’uomo assume un significato nuovo rispetto a quello del rapporto di questi con Dio, inteso nei termini tradizionali. L’apparire infinito del Tutto non è […] l’«altro» dall’apparire finito del Tutto, ma è l’«inconscio» dell’apparire finito.35

Severino ora chiama «Gioia» il toglimento, già da sempre scolpito nell’essere, di ogni contraddizione che avvolge l’ambito finito dell’essere. La Gioia è l’eterno e totale toglimento della contraddizione e, perciò, di ogni dolore dell’uomo, sebbene essa resti nascosta all’uomo che si ritiene un «mortale». La Gioia, da un lato, è l’essenza più profonda dell’uomo, la sua essenza autentica; dall’altro lato, è la sua essenza «inconscia». Si tratta, quindi, di una Gioia che non ha niente a che vedere con uno stato psicologico dell’uomo. La Gioia è il «nostro» inconscio essenziale e, tuttavia, non appare in «noi» in quanto siamo la dimensione soltanto finita dell’apparire della verità. Essa, piuttosto, costituisce ciò che, l’«apparire finito» del destino della verità, in verità è. Alla luce di quanto precede, può essere letto il seguente testo severiniano, certamente molto denso, ma estremamente significativo del suo pensiero:

34.  BF, p. 133. 35.  SFP, p. 364. Si tratta dell’ultima delle Postille aggiunte all’opera, la quale esprime la posizione raggiunta da Severino con Destino della necessità.

130 L’inconscio del destino è il Tutto, e il Tutto è l’assoluta potenza del destino: il luogo in cui è da sempre ottenuto tutto ciò che può essere voluto ed è già da sempre passato ogni contrasto. Questo luogo – che è la totalità stessa del destino come totalità concreta – è l’inconscio del luogo che, come apparire del contrasto, è l’inconscio dei mortali – la forma suprema della coscienza dei mortali essendo la fede che la terra è la regione sicura.36

Qui, a mio avviso, si assiste a una trasposizione in chiave “severiniana” di ciò che nelle varie tradizioni religiose costituisce il percorso che conduce l’uomo alla conoscenza del “sé” autentico.

5.  Le linee essenziali dell’«escatologia» severiniana Nei suoi ultimi scritti Severino ha operato un ulteriore sviluppo della pars construens del suo pensiero. In particolare, egli ha offerto le risposte ad alcune domande che la «struttura originaria» della verità lasciava insolute o, comunque, non affrontava (in quanto essa si pone come una teoria del fondamento, che apre dunque lo spazio per una serie di ulteriori determinazioni dell’essere), come pure alle domande con le quali si concludeva Destino della necessità37 e che già richiamavo nel capitolo iniziale del libro. A tale sviluppo del suo pensiero Severino, con chiari riferimenti all’“escatologia cristiana” – che, peraltro, non mancano pure in altri suoi scritti –, ha consacrato le pagine, anche letterariamente molto belle, de La Gloria. In questa opera, che costituisce il primo tratto degli esiti ultimi del pensiero seve36.  DN, XIV, p. 493. 37. Cfr. DN, XVI, p. 597.

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riniano38, viene data risposta alla questione, lasciata insoluta in Destino della necessità, se nell’apparire finito del Tutto sopraggiungerà l’oltrepassamento dell’isolamento dell’uomo dal destino della verità; oppure se l’apparire sia destinato a ospitare quell’isolamento, quella solitudine. La risposta è positiva, così che Severino può affermare che nell’apparire va svelandosi la Gioia e che il disvelamento della Gioia, libera dal contrasto con le opere che testimoniano l’isolamento dell’uomo dalla verità, è la «Glo­ria»39. Ed è appunto la Gioia il Luogo in cui appare il senso massimamente concreto dell’“esser sé” dell’essente. Uno degli sviluppi più consistenti dell’opera consiste, poi, nel mostrare il fondamento dell’affermazione – fino ad allora ritenuta soltanto una «possibilità» dal punto di vista rigorosamente teoretico40 – relativa all’esistenza di una molteplicità di coscienze, ovvero di altri «io», oltre a quel che viene chiamato da Severino il «cerchio originario o attuale dell’apparire»41. In termini più semplici, stante che una tale alterità non è un contenuto fenomenologico, si tratta qui di una giustificazione filosofica dell’alterità, ovvero della irriducibilità degli «altri soggetti» all’io42. 38.  E. Severino, La Gloria. ἅσσα οὐκ ἐλπονται: risoluzione di «Destino della necessità» (= G), Adelphi, Milano 2001. 39. Cfr. G, IX, pp. 395-398. 40.  Di questa «possibilità» di coscienze ulteriori rispetto alla mia, da tenere distinta rispetto all’affermazione corrispondente che viene fatta sulla base di convinzioni extra-filosofiche, Severino aveva parlato già a partire da La struttura originaria (cfr. SO, I, pp. 125-128). 41.  Si veda la sequenza argomentativa che è svolta in G, V, 167-204. Per una buona sintesi di queste pagine severiniane, cfr. N. Cusano, Emanuele Severino, cit., pp. 336-346. 42.  Circa la critica di Severino alla inadeguatezza della posizione di Husserl e di Heidegger relativamente all’esistenza di una molteplicità di individui umani, cfr. G, V, pp. 204-212.

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Nel suo significato complessivo, il disvelamento della Gloria comporta il tramonto dell’isolamento della terra e viene a prendere il posto della speranza di salvezza che, nel primo Severino, era stata affidata alla fede cristiana. L’oltrepassamento della solitudine della terra non è la semplice – cioè indeterminata e astratta – negazione della contraddizione che avvolge la terra in quanto isolata: tale negazione ha un contenuto positivo, il quale consiste nella terra che appare al di fuori dell’isolamento.43

Successivamente l’articolazione del «destino della verità» ha trovato ulteriori e più concreti sviluppi in Oltrepassare e ne La morte e la terra, le due opere che costituiscono davvero il compimento del pensiero severiniano. Se ne La Gloria era stata testimoniata la necessità dell’apparire di ciò che oltrepassa l’iso­lamento della terra e l’alienazione fondamentale alla quale non sfugge l’uomo che si ritiene un «mortale», qui sono mostrati i primi tratti concreti di tale oltrepassare, i primi tratti di ciò che Severino chiama l’apparire della «terra che salva», in relazione al tramonto dell’isolamento della terra dal destino della verità44. La «terra che salva» è «l’apparire del Tutto infinitamente concreto, in quanto è in relazione alla terra isolata»45. Essa è la terra della beatitudine, ciò che costituisce per Severino l’autentico paradiso. Col tramonto dell’isolamento della terra appare, non contrastata da esso, la terra che appare nello sguardo del destino:

43.  G, XI, p. 488. 44.  Per alcuni approfondimenti sulla complessa tematica del dispiegamento della Gloria cui qui s’è fatto cenno, cfr. N. Cusano, Emanuele Severino, cit., pp. 347-380, e G. Goggi, Emanuele Severino, cit., pp. 324-407. 45.  O, X, p. 696.

133 uscendo dall’isolamento appare il positivo significare della terra che appare in tale sguardo.46

Non solo, ma è altrettanto vero che, ciò a cui deve riferirsi ultimamente la stessa «interpretazione isolante», è la terra così come questa appare nello sguardo del destino47. Ciò vuol dire che, se qualcosa appare, appare il destino della verità; questo, anche quando, nell’interpretazione isolante, la terra si isola da esso. La volontà interpretante isola la terra dal destino e impadronendosi del linguaggio lo fa parlare solamente della terra isolata, voltando le spalle a ogni parola che possa indicare quel fondo [sc. della verità], che pur appare e rende possibile l’apparire stesso della terra isolata, sebbene contrastato, quel fondo, dalla volontà che la terra isolata sia il terreno sicuro del mortale. «Al fondo» della non verità appare la verità, da cui la [non] verità si è isolata.48

L’azione morale, la conoscenza scientifica, l’agire tecnico sono il concreto determinarsi di ciò che Severino chiama l’«inter­ pretazione isolante», la quale pertanto coinvolge ogni uomo nei vari ambiti della vita quotidiana.

6.  La vita del «mortale» e l’autentico significato della «morte» Al centro dell’escatologia severiniana si trova la tesi dell’oltrepassamento della «morte» in cui realmente consiste la «vita»

46.  O, IV, p. 297. 47.  Cfr. O, IV, p. 301. 48.  O, IV, p. 300; per un evidente errore di stampa, nel testo manca un «non» che ho provveduto a inserire.

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del mortale e l’indicazione di ciò che conduce, invece, alla «nascita vera». Soffermiamoci su questa affermazione all’apparenza quanto meno singolare, ma che a ben vedere richiama su questo punto il pensiero di Eraclito. Cosa può voler dire che è la vita del mortale a essere «morte»? E, quindi, in ultima analisi, che cos’è la morte nel pensiero di Severino? Il tema della morte, in effetti, presenta una notevole complessità, in quanto la sua comprensione adeguata richiede nulla di meno di una buona conoscenza dell’intero pensiero severiniano, mentre fin qui, relativamente ai suoi ultimi sviluppi, ho dovuto dare solo qualche indicazione inerente alle tematiche più rilevanti. In altri termini, intendo dire che per un’autentica comprensione di ciò che è la morte nel pensiero di Severino e per saggiare il valore di quanto è affermato a suo riguardo, sarebbe necessario offrire un’articolazione concettuale molto complessa; questa, tuttavia, non potrebbe essere maneggiata adeguatamente dal lettore al quale innanzitutto questo libro si rivolge. In ogni caso è pur vero che, a chi abbia avuto la pazienza di seguire passo dopo passo la presente esposizione, può essere messa dinanzi agli occhi almeno la dimensione più essenziale dell’ampia e complessa configurazione che deve essere presupposta per una concreta comprensione della «morte» nel pensiero di Severino. Essa è costituita da alcune strutture concettuali che oramai al lettore dovrebbero essere ben note, anche se a essere state sviluppate sono soprattutto le prime due: a) la «struttura originaria» della verità dell’essere e il senso autentico del divenire, il quale, da ultimo, è stato espresso da Severino con il termine «oltrepassare»; b) il rapporto tra la «dimensione finita» della verità e lo specifico strutturarsi di tale finitezza in cui consiste l’«isolamento della terra»; c) il concetto del «mortale» e il tramonto dell’isolamento della terra;

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d) il concreto determinarsi del «destino della necessità» nella «terra che salva». Alla luce di questo necessario chiarimento, è possibile fissare in alcune affermazioni il senso fondamentale della tematica che si sta ora prendendo in considerazione. Innanzitutto, ciò che abitualmente intendiamo per «morte» è qualcosa che acquista il suo significato all’interno della ontologia greca e della comprensione nichilistica del divenire che caratterizza quest’ultima. Sotto questo aspetto, per Severino, si può dire che la morte, così com’è intesa dagli abitatori dell’Occidente, è stata «inventata» dalla filosofia greca e che questo significato di fondo permane anche quando si sia convinti dell’«immortalità dell’anima» e della «resurrezione del corpo». I Greci incominciano a morire (e a nascere) in un modo inaudito, perché portano alla luce – «inventano» – la notte del nulla, su cui si stagliano gli effimeri astri della vita. «Inventano» la nostra morte, sia perché evocano per la prima volta il senso del nulla, sia perché la morte, intesa come annullamento dell’uomo, non ha alcuna verità: è l’impossibile, l’assolutamente inesistente. La filosofia dell’Occidente «inventa» la nostra morte perché «interpreta» come annullamento l’insieme degli eventi terribili (ed eterni) che costitui­ scono il «morire».49

Per Severino, quindi, la morte non può consistere in un «annientamento», neppure se questo sia inteso come limitato al disfacimento del corpo50.

49.  LC, p. 147. Sul legame tra la convinzione di un «disfacimento» del corpo e la fede di avere una potenza su di sé da parte del «mortale», la quale verrebbe meno nell’arrestarsi e decomporsi del corpo, cfr. G, IX, pp. 398401. 50.  Per un approfondimento di questo tema, cfr. ora MT, II, pp. 109-118.

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Ma come dev’essere intesa più precisamente l’eternità di ogni essente, in base alla quale si esclude il suddetto annientamento? Passiamo, così, a un secondo aspetto della nostra questione. L’affermazione dell’eternità di ogni ente, che caratterizza la verità originaria, non deve essere identificata con una «indefinita persistenza nell’apparire» e, per quanto riguarda in particolare l’uomo, la tesi che la morte non è un «annullamento» non significa che «si continuerà a vivere indefinitamente»51. Sotto questo aspetto, anzi, si deve dire piuttosto che la morte è un assentarsi dall’apparire. A tale proposito, in un primo momento Severino aveva sottolineato quanto segue: Tutto quello che abbiamo vissuto – innanzitutto la «nostra coscienza» – è eterno, non verrà mai meno; ma che altri eterni debbano farsi innanzi senza fine – solo questo potrebbe essere il senso autentico del «continuare a vivere indefinitamente» – rimane ancora un problema.52

Quanto comunemente si intende con l’espressione «la mia vita dopo la morte» coincide con ciò che Severino chiama il farsi innanzi di altri eterni che abbiano un rapporto specifico – rispetto a quello che essi hanno con gli altri enti – con quel vivente che, con la morte, si assenta dall’apparire – una situazione, questa, che nel testo appena citato egli riteneva che costituisse ancora un «problema» rispetto al contenuto effettivamente manifesto della verità. Ebbene, con La Gloria e con Oltrepassare e, infine, con l’ope­ ra La terra e il mortale, anche questo problema trova una soluzione. Appare, in tal modo, il significato autentico di quella sopravvivenza oltre la morte della quale hanno parlato per secoli, ma restando all’interno del nichilismo, sia la tradizione religiosa che la filosofia. 51. Cfr. LC, p. 148. 52.  Ibidem (corsivo mio).

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Per comprendere questo ultimo sviluppo, dobbiamo ritornare alla questione dalla quale siamo partiti nel presente tratto del nostro percorso interpretativo. Affermando che è la «vita del mortale» a essere la morte autentica, Severino intende dire che se è impossibile la morte intesa come una «distruzione del mortale» (la quale, rispetto alla vita considerata come uno stato di «veglia», sarebbe un «sonno» più profondo di quello che ci caratterizza quotidianamente, un «sonno senza sogni»53), viceversa, la vita che i mortali credono di vivere all’interno della terra isolata dal destino è effettivamente un «sonno accompagnato dai sogni», tale essendo la vita del mortale, in quanto espressione dell’isolamento della terra dalla verità. Orbene, è questa vita, cioè la vita del «mortale», che merita di essere chiamata «morte». Se il linguaggio che testimonia il destino sa indicare il significato più profondo della morte allora è necessità che i mortali siano i morti e che morte sia la vita vissuta all’interno dell’iso­ lamento della terra.54

La vita del mortale è «morte» precisamente perché essa, come illusoria convinzione della terra isolata, è il sonno più profondo accompagnato dai sogni più illusori. In questo senso, è il «mortale» a essere il già morto e non colui il quale è in attesa della morte55; e la vera nascita è ciò che attende il mortale, è ciò che attende il tramontare del mortale56. La nascita è l’opposto della morte, però, nella sua verità, non la precede, ma la segue: prima appare la vera morte, poi la vera nascita, ossia la terra che salva.57

53.  Cfr. O, X, p. 691. 54.  O, X, p. 690. 55.  O, X, p. 693. 56.  O, X, p. 694. 57.  Ibidem.

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Nello sguardo del destino, il rapporto tra la vita e la morte appare, così, rovesciato rispetto alla convinzione del mortale, cioè alla convinzione di ciascun uomo. Con questo, naturalmente, Severino non intende sostenere che la morte della quale abitualmente parliamo e alla quale sottostiamo non esista, ma viene a indicare piuttosto ciò che essa è in verità.

7.  L’oltrepassamento della morte e la «vita beata» Nella luce di tale orizzonte, Severino giunge a mostrare quali siano le affermazioni fondamentali riguardo alla vita e alla morte. Innanzitutto, è opportuno mettere bene in evidenza quanto è stato già sottolineato come primo tratto di questo compimento ultimo del pensiero severiniano, prima cioè della pubblicazione de La morte e la terra. a) La vera nascita è il tramonto della morte – cioè della terra isolata, di ciò che il mortale considera la «sua vita» – con il sopraggiungere della «terra che salva»58. La «morte» non solo non può essere l’annientamento di qualcosa […] ma non può essere nemmeno lo scomparire definitivo di alcuna delle forme, situazioni e aspetti della terra isolata.59

b) Il linguaggio che testimonia il destino non è ancora in grado di esprimere la «verità» della morte in modo compiuto, perché non sa indicare in modo determinato il rapporto tra la morte e la vita futura.

58.  Cfr. O, X, pp. 693-694. 59.  G, IX, p. 401.

139 Il linguaggio che testimonia il destino non sa ancora affermare che quel che i mortali chiamano «morte» sia l’apparire dell’ultimo tratto di ciò che in verità è la morte (ossia di ciò che in verità è la terra isolata o una parte di essa) – cioè sia il compimento della «morte», il suo essere oltrepassata, sì che quel che per i mortali è la «morte» sia il tratto che nella terra isolata precede la nascita vera. […] Rimane cioè aperto il problema se si prolunghi, e come si prolunghi l’isolamento della terra dopo la «morte» dei mortali e prima del sopraggiungere della terra che salva.60

Come, però, annunciavo, l’opera con cui il percorso filosofico di Severino perviene al suo compimento speculativo, La morte e la terra, ci consegna alcuni elementi ulteriori – anzi quelli ultimamente decisivi – che in questa sede possono essere richiamati solo per accenni. Detto in breve, il problema precedentemente rimasto ancora insoluto viene a essere risolto nel senso che con la morte l’isolamento tramonta e, quindi, termina l’attesa della terra che salva61. Propriamente parlando, ciò che muore è la volontà – che è, poi, essa stessa una semplice «fede» – di far diventare altro le cose, di trasformare il mondo62. Analogamente, il tramonto della «fede originaria» che sta al fondo dei pensieri e delle opere della terra isolata, accade con la morte. Giungendo al suo «compimento» – con la morte – la volontà dell’io empirico, appare lo spettacolo della terra liberata dal suo isolamento63. L’uomo, dunque, è destinato alla «vita beata», la quale è ciò che segue alla morte, cioè al compimento della «vita» – quest’ul-

60.  O, X, pp. 694-695. 61. Cfr. MT, p. 19. 62. Cfr. MT, XI, p. 401. 63. Cfr. MT, XI, pp. 401-402.

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tima essendo l’io empirico della terra isolata64. Avvicinandosi alla morte, l’uomo si avvicina alla Gioia65. È questa, per Severino, la verità di ciò che il mortale chiama la propria morte. È una verità che si differenzia dalla dottrina greca dell’immortalità dell’anima, ma anche da quella della resurrezione cristiana, la quale, in tale ottica, sarebbe una impossibile resurrezione di quella «volontà» isolante che ha il suo compimento con la morte. Infine, essa si differenzia pure dalla dottrina della reincarnazione che, a sua volta, non farebbe altro che moltiplicare il ripresentarsi di quella (impossibile) «volontà dell’io empirico» che costituirebbe il contenuto erroneo implicato nella nozione di resurrezione66. Con questo capitolo è stata completata l’esposizione di ciò che per intenderci possiamo chiamare il pensiero “più difficile” di Severino. Avere raggiunto questo traguardo potrà essere di qualche conforto per il lettore che, a motivo della sua formazione, fa maggiore fatica a seguire le articolazioni più ardue di un pensiero filosofico. Oramai la strada che al nostro lettore ideale resta da percorrere gli si apre innanzi con minori asperità, anche se nello stesso tempo è bene tenere presente che ancora non siamo pervenuti alla meta. C’è ancora un tratto di strada che deve essere percorso per completare di vedere ciò che unisce le tesi più note di Severino a ciò che le giustifica a livello della loro più profonda fondazione teoretica.

64. Cfr. MT, XI, p. 401. 65. Cfr. MT, XII, p. 414. 66.  Sulla relazione che sussiste tra l’opera ultima di Severino e l’escatologia ebraica e cristiana si sofferma il recentissimo volume di G. Gris, L’esca­tologia del destino. L’apocalisse del linguaggio nell’opera di Emanuele Severino, Inschibboleth, Roma 2020.

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Capitolo VII

Il dialogo mai interrotto con la fede cristiana

Sull’articolato rapporto di Severino con la fede cristiana abbiamo avuto modo di soffermarci in diverse occasioni nel corso del libro, analizzando varie opere che vi sono dedicate dal nostro filosofo. A motivo del fatto che esso è significativamente presente nell’intero corso della meditazione severiniana, pur nella diversa configurazione che è venuto ad assumere nel corso del tempo, prima di dare inizio al già annunciato nuovo tratto del nostro itinerario, ritengo che sia opportuno compiere una sosta e svolgere alcune considerazioni ulteriori su questa tematica. Avverto, preliminarmente, che si dovrà prestare attenzione a tenere uniti i vari fili che costituiscono l’intreccio del discorso di Severino, onde comprendere in modo adeguato il senso fondamentale del confronto che il filosofo bresciano non ha mai cessato di svolgere con il cristianesimo.

1.  Oltre l’uomo, oltre Dio In primo luogo, è bene rimarcare quale sia lo sfondo sul quale si erige l’insieme del discorso articolato dal filosofo bresciano circa la fede cristiana e l’istituzione ecclesiastica.

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L’affermazione rigorosa e concretamente determinata della verità dell’essere si è configurata, in Severino, come un’affermazione che estende il suo raggio d’azione dal campo dell’ontologia a ogni altro ambito tradizionale della filosofia e, ancora più ampiamente, a ogni ambito della cultura e prassi dell’uomo. La verità del legame di ogni essente con l’essere illumina con la sua luce ciò che, abitualmente, viene nominato come il pensiero e l’agire dell’uomo, fino a comprendere anche il suo destino “escatologico”. Noi, per un certo aspetto, siamo già “oltre” l’esser mortali, siamo già nel “luogo più alto”, abitatori del paradiso. E tuttavia – osserva pure Severino – il linguaggio ancora non possiede i nomi adeguati alla dimensione di verità che è racchiusa come «traccia» nei pensieri e nelle opere dell’alienazione nichilistica in cui si determina l’isolamento della terra1. In un certo senso, si potrebbe dire che, per Severino, anche nella nostra civiltà fondamentalmente nichilistica si nasconde qualche raggio della luce della verità. Tuttavia in Oltrepassare egli precisa che la terra isolata non «sa» delle tracce, quindi che il linguaggio che la testimonia neppure ne parla2; inoltre, già ne La Gloria aveva indicato che si tratta di tracce che non sono dirette e che, perciò, sono «svianti»3. A motivo di tutto questo, la loro decifrazione secondo verità implica «che l’infinito Tutto concreto sopraggiunga in carne ed ossa»4, pur se ovviamente si tratterà sempre della manifestazione del Tutto

1.  Sul tema delle «tracce della Gioia», cfr. G, II, pp. 69-73, ma gli sviluppi molto articolati di questo tema sono contenuti nel cap. IX di Oltrepassare (pp. 519-576). Un utile filo conduttore per lo studio di queste pagine è contenuto in G. Goggi, Emanuele Severino, cit., pp. 366-380. 2.  Cfr. O, IX, p. 532. 3.  Cfr. G, II, pp. 70-71. 4.  O, IX, p. 537.

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nella sua «dimensione finita»5. Ancora una volta, ciò che sta in primo piano è la «verità» nella sua manifestazione più concreta. E quindi la decifrazione delle tracce «non è un’ermeneutica, non è una volontà interpretante: è l’apparire della necessità che unisce certi essenti a ciò di cui sono traccia»6. Il linguaggio, a maggior ragione, non possiede neppure i nomi per ciò che Severino chiama, ancora con un chiaro riferimento al cristianesimo, l’autentica «Apocalisse». Egli, da parte sua, con tale nome intende riferirsi al tramonto della terra isolata e, perciò, al sopraggiungere della «terra che salva»7, altra espressione che è tipica dell’ultimo Severino. Si tratta sempre dell’apparire del Tutto e, tuttavia, di nuovo non del Tutto come è «in sé» – si ricordino i motivi di tale impossibilità –, ma del «Tutto inesauribile, in quanto esso […] è in relazione a quella parte di sé che è la terra isolata»8. Già fin d’ora, tuttavia, nell’attesa dell’Apocalisse, il linguaggio che testimonia il destino incomincia a mostrare l’apparenza (= la non verità) del contenuto della «fede» in cui l’agire e la potenza del mortale consistono. In questo senso, tale fede appare già come un «passato» e, venendo a esser conosciuta l’apparenza di ciò che la volontà presume di volere e di ottenere, l’Apocalisse comincia a «togliere il velo» anche per gli occhi del mortale9.

5.  Cfr. O, IX, pp. 537-538. 6.  O, IX, p. 542. 7.  «Non abbiamo nomi per gli essenti della terra della salvezza, che sono gli oltrepassanti (cioè sono gli essenti della terra isolata in quanto oltrepassati), ma ognuno degli essenti della salvezza è legato al contenuto e al nome dell’oltrepassato» (O, X, p. 673). 8.  O, X, p. 684. 9. Cfr. O, X, p. 647.

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Severino è consapevole che tutto questo discorso potrebbe essere scambiato per un «mito», al cospetto delle convinzioni più abituali dell’uomo, ma anche delle nostre varie acquisizioni culturali. Proprio per questo egli sottolinea sempre che si debba prendere in esame la struttura concettuale che è a fondamento di tali affermazioni. Sulla base di tale avvertenza egli può sostenere che la verità degli essenti, sia nella sua dimensione più astratta, già fin d’ora presente, sia in quella più concreta che s’inoltrerà nell’apparire al tramonto della terra isolata, non giace nelle mani dell’uomo e neppure nelle mani di Dio, ma appartiene al «destino della necessità», all’identità che è al cuore stesso delle cose10. È in questo che risiede anche il pieno significato dell’«eternità» di ogni cosa. In tale senso, per Severino, la verità dell’essere non può non condurre oltre l’uomo, inteso come una «volontà» e una «potenza» di produrre e di modificare le «cose» – sebbene entrambe appartengano a un essente che poi, comunque, ritiene di essere egli stesso precario, che pensa cioè di venire dal nulla e nel nulla dovrà ritornare, almeno quanto al suo corpo. Ma la verità dell’essere conduce anche oltre Dio, inteso come la potenza che, meglio dell’uomo, disporrebbe dell’essere degli enti11. L’«uomo», lungo tutto il suo cammino sulla terra, è stato inteso come volontà e come potenza. Nello sguardo del destino della verità, l’essenza autentica dell’uomo è lo stesso destino della verità. Nella sua autentica essenza l’uomo non è dunque «originariamente divino», bensì è al di sopra del divino e della «creatività demiurgica» perché è al di sopra delle fede

10.  Anche lo stesso titolo di un’opera di Severino sta a testimoniare questo che è il punto di arrivo della speculazione severiniana (cfr. E. Severino, L’identità del destino, cit.). 11.  Cfr. E. Severino, Oltre l’uomo e oltre Dio, cit.

145 nella potenza, è al di sopra della volontà, cioè della fede nella propria capacità di far diventare altro le cose della terra. Nella sua essenza autentica l’uomo è oltre l’«uomo» e oltre ogni «Dio».12

La verità, quindi, non è qualcosa che sia posseduta propriamente dall’io empirico, dal mortale, ma coincide con l’Innegabile che appare in ognuno di noi, per quanto il suo eterno apparire sia attualmente contrastato dall’isolamento della terra, in attesa del tramonto della fede nell’esistenza del «mondo», circa il quale le riflessioni severiniane sulla morte risultano certamente decisive.

2.  La ragione, la fede e la salvezza della verità Giunti a questo punto, possiamo con buone ragioni affermare che la questione della «salvezza della verità» (e della verità della salvezza) è il grande tema della filosofia di Severino, il tratto che unifica non soltanto i distinti aspetti del suo pensiero attuale, ma anche le due grandi fasi del suo itinerario filosofico13. Questo tema davvero centrale è stato trattato sinora facendo riferimento soprattutto alla sua dimensione contenutistica. Intendo dire che è stato mostrato come in Severino la salvezza della «verità» – cioè l’oltrepassamento sempre maggiore, relativamente a quest’ultima, della sua determinazione astratta o finita – sia affidata non più all’agire dell’uomo e al manifestarsi del Sacro – come si sosteneva negli Studi di filosofia

12.  Ivi, p. 108. 13.  Cfr. L. Messinese, La struttura originaria, la verità che salva, la metafisica originaria. In memoria di Emanuele Severino, in «La filosofia futura», VIII, n. 14, 2020, pp. 85-98.

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della prassi e, in una certa qual misura, ancora in Essenza del nichilismo –, ma unicamente all’apparire del «Destino della necessità». Questa medesima dimensione verrà ora ripresa approfondendo in primo luogo il tratto che, nel primo Severino, unificava la verità originaria alla dimensione del Sacro e, anzi, più specificamente, alla fede cristiana; e, in secondo luogo, indicando le ragioni del venir meno della suddetta sequenza. Introducendo questo più ampio contesto, cercherò di mostrare che anche riguardo alla dimensione più strettamente formale della questione circa la salvezza della verità, sono presenti nel pensiero di Severino due fasi distinte, nel senso che viene a diversificarsi il modo in cui è posta la relazione tra la dimensione della «fede» e quella della «verità». Nella seconda fase del pensiero severiniano non c’è più spazio per la «fede» – inclusa la fede cristiana – quale espressione di un ambito della verità «possibile», come incremento quindi della verità originaria nella sua dimensione di incontrovertibilità. In altri termini, il «destino della necessità» costituisce la vera forma dell’apparire della verità anche nella sua dimensione più concreta, a differenza della «fede» che ora per Severino, proprio in quanto è tale (= mera certezza che si spaccia per verità), non può più essere intesa come la «fede che salva» la verità – anche quando dovesse trattarsi della fede cristiana –, ma soltanto come «errore». A essere più precisi, tra la soluzione proposta negli Studi di filosofia della prassi e quella diametralmente opposta avanzata in Destino della necessità, è da prendere in considerazione anche una sorta di posizione intermedia, che contraddistingueva gli anni in cui Severino continua a insegnare nell’Università Cattolica nella convinzione che i conti con il cristianesimo non fossero ancora del tutto chiusi. Tale posizione emerge dalla parte seconda di Essenza del nichilismo, in cui, pure nel con-

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testo delle obiezioni che già conosciamo, la dimensione della fede nella sua «struttura formale» non era stata ancora criticata nel modo più radicale e si continuava a sottolinea­re, invece, la possibilità che l’«accettazione del Sacro», pur comportando nel tempo la specifica contraddizione inerente all’affermazione di un «contenuto problematico», fosse «il prezzo che la verità deve pagare per salvarsi»14. Un più radicale atteggiamento critico nei confronti della «strut­ tura formale» della fede si sarebbe fatto presente già a partire dallo scritto Risposta alla Chiesa, ch’è contenuto nella successiva parte terza dell’opera. A quanto aveva esposto in quest’ultimo scritto, Severino avrebbe fatto seguire alcuni significativi interventi sul medesimo tema, raccolti poi nel volume Gli abitatori del tempo.

3.  La critica al contenuto e alla forma della fede cristiana Prima di soffermarci sulla critica alla fede nella sua dimensione formale, è opportuno richiamare brevemente la tesi severiniana circa la non verità dei contenuti della fede cristiana. Nella Prefazione all’edizione adelphiana degli Studi di filosofia della prassi, che amplia notevolmente il testo della prima edizione dell’opera, Severino presenta in forma sintetica il cambiamento avvenuto nel suo pensiero, relativamente alla possibilità che il contenuto della fede cristiana possa costituire la «salvezza della verità»: Mentre in Studi di filosofia della prassi si ritiene che quella forma del «Sacro» che è il messaggio cristiano, possa essere (e quindi possa anche non essere) un tratto del volto definitivo 14.  SG, p. 177.

148 o senz’altro il volto definitivo della verità in quanto liberatasi, nella misura consentita, dalla alienazione originaria, a partire invece da Essenza del nichilismo ci si rende conto che il cristianesimo storico, il cristianesimo cioè che viene alla luce e cresce all’interno delle categorie fondamentali del pensiero greco, non può essere un tratto del volto, e tanto meno il volto definitivo della verità.15

Per gli elementi che mi propongo di esporre nel libro, la suddetta precisazione può essere sufficiente, anche per la sua chiarezza. Da essa si evince come Severino avesse diretto inizialmente la sua critica a un cristianesimo che «si struttura all’interno delle categorie greche», il che tuttavia non gli impediva allora di ipotizzare un cristianesimo «al di fuori» delle categorie dell’ontologia greca. Aggiungo soltanto due cose che meritano di essere entrambe tenute presenti: 1) Severino in queste sue obiezioni si riferisce sempre al cristianesimo storico; 2) all’analisi critica di alcuni contenuti dogmatici della fede cristiana, il filosofo ha fatto seguire numerosi interventi in riferimento alle dottrine etiche, politiche ed economiche che si sono sviluppate lungo la storia del cristianesimo16. In merito, invece, alla critica che fa riferimento alla dimensione formale della fede cristiana – cioè alla dimensione del «credere» in quanto tale –, può essere opportuno indicare la progressiva sequenza delle aporie che Severino giunge a

15.  SFP, pp. 20-21. La posizione espressa negli Studi di filosofia della prassi era ancora mantenuta nel corso di «Istituzioni di filosofia» tenuto in Università Cattolica nel 1968. Qui Severino faceva riferimento all’idealismo per indicare il punto di arrivo dell’episteme filosofica con cui la fede cristiana era chiamata a confrontarsi e rispetto a cui quest’ultima era posta dall’autore nello stato di «dimensione problematica» (cfr. E. Severino, Istituzioni di filosofia, cit., pp. 82-88). 16.  Cfr., in particolare, gli scritti che compongono i Pensieri sul cristianesimo e Nascere.

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segnalare  e dei rilievi che egli viene a formulare nei suoi scritti17. a) L’aporia che viene alla luce quando si considera che la Chiesa cattolica, da una parte, intende difendere l’“autonomia della ragione” e, dall’altra parte, è costretta a negarla. Su questo primo aspetto, un testo essenziale di Severino è il seguente: L’affermazione che il contenuto della fede cristiana è rivelazione divina, e quindi «verità», è essa stessa un atto di fede. Ciò che essa afferma è una parte di quel contenuto. È il credente in quanto tale a credere che ciò in cui crede sia rivelazione divina […]. Ed è dunque il credente in quanto tale che deve qualificare come errore ogni pensiero che sia in contrasto con il contenuto della fede […]. Tutto ciò significa che l’intera concezione tomista del rapporto fede-ragione – e quindi la posizione ufficiale della Chiesa, relativa a questo rapporto – è effettuata dal punto di vista della fede. Appropriandosi di questa concezione, la Chiesa ha inteso difendere l’autonomia della ragione, ma in effetti ha riconosciuto alla ragione solo quell’autonomia che può esserle riconosciuta all’interno dei limiti della fede. E, rispetto alla ragione, un’autonomia limitata è l’assenza di ogni autonomia, appunto perché in ultima istanza è la fede che decide del valore della ragione.18

b) L’aporia costituita dalla pretesa della fede cristiana di giudicare la filosofia, nell’atto stesso in cui essa ribadisce di essere «fede» e non sapere, non «conoscenza filosofica», così che la fede cristiana o deve accettare di costituirsi effettivamente come «gnosi» – contro la medesima coscienza che ha di se stessa – oppure deve riconoscere di non potersi costituire come

17.  Su entrambe queste dimensioni della questione posta da Severino alla fede cristiana, unitamente ad alcune mie osservazioni critiche, cfr. L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., pp. 69-104. 18.  RCH, p. 328 (corsivo mio).

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«giudice» della ragione naturale. Anche per questo aspetto propongo uno dei testi severiniani maggiormente significativi: […] se la Chiesa non intende (e in effetti non intende) lasciare al di fuori di sé la verità […], allora è inevitabilmente costretta a porre l’armonia di fede e ragione come verità di ragione, «verità filosofica». La «verità filosofica» o «naturale» dell’affermazione di tale armonia consentirebbe allora (qualora riuscisse a costituirsi) di porre come «errore filosofico» ogni pensiero che risultasse in contrasto con la fede. In questo caso sarebbe «verità filosofica» che il contenuto della fede cristiana forma l’orizzonte inoltrepassabile all’interno del quale la verità filosofica deve costituirsi e svilupparsi.19

c) L’aporia costituita dalla fede che pretende di costituirsi come «certezza indubitabile» e, invece, in realtà non può non essere unita al «dubbio», così che quella del credente risulta essere in effetti una figura «impossibile», in quanto la sua fede si fonderebbe sulla propria negazione. La suddetta tesi è espressa da Severino nei termini seguenti: Se la fede può dare il suo argumentum al κήρυγμα solo in quanto il κήρυγμα appare, e se l’apparire del κήρυγμα è l’apparire della sua incapacità di imporsi alla propria negazione, e se il dubbio è appunto l’apparire di questa incapacità, ciò significa che il dubbio è il fondamento della fede, ossia che la fede si fonda sulla propria negazione.20

Veniamo, ora, a evidenziare alcuni rilievi che, sempre per Severino, emergono da quanto precede. a) Una conseguenza che risulta dall’osservazione precedente è che, quale volontà di fornire un argumentum – cioè una visibilità – a contenuti che sono di per sé invisibili, la fede viene

19.  RCH, p. 332 (corsivo mio). 20.  E. Severino, L’impossibilità della fede, in AT, pp. 190-199: p. 193.

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a costituirsi come «prevaricazione», come una vera e propria forma di «violenza». L’intelletto del credente assume come incontrovertibile il controvertibile, come indubitabile il dubitabile, come certo l’incerto, come visibile l’invisibile, come chiaro l’oscuro. Anche per questo motivo nei miei scritti si sostiene che la fede – ogni fede (e oggi tutto è diventato fede) – è violenza e che l’essenza della violenza è la volontà che vuole l’impossibile, la contraddizione.21

b) Il rilievo fondamentale, comunque, è che l’«aver fede» risulta essere come tale – quindi indipendentemente dal fatto che si tratti della fede cristiana, oppure di un’altra – un tratto emergente dell’isolamento dell’uomo dalla verità; in tal modo l’erroneità della fede è colta nella sua dimensione formale ultima. […] il processo nel quale il cristianesimo è divenuto una fede è lo stesso che lo ha condotto a lasciarsi dominare dall’Occidente. La volontà di sottrarre la terra al destino è il fondamento della fede in quanto tale.22 […] la fede che sta al fondamento di ogni fede è la separazione della terra dal destino della verità […]. E qualcosa come la «fede cristiana» è possibile solo sul fondamento di quella fede originaria che è la separazione della terra dal destino della verità.23

In conclusione, per Severino, il cristianesimo non può proporsi quale «Parola di Dio»; questo, almeno fino a quando esso si autocomprende come una «fede» – con tutto ciò di erroneo che egli vi vede implicato, a incominciare dal suo costituirsi

21.  PC, p. 100. 22.  RCH, p. 384. 23.  DN, XI, pp. 398-399.

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quale «isolamento dal destino» –, e finché lo stesso cristianesimo continua ad appartenere al «mondo», inteso come ciò che è stato evocato dal pensiero metafisico inaugurato da Platone e che si concretizza nel complesso teoretico-pratico che chiamiamo civiltà occidentale. La «fede originaria» nell’esistenza del «mondo», in cui si è isolati dalla verità dell’essere, sta al fondamento anche della fede cristiana24. Ecco i motivi per i quali il «cristianesimo storico» – a differenza di quanto Severino aveva sostenuto negli Studi di filosofia della prassi – non mostra di essere nella «possibilità» di costituire il volto più concreto della verità, quindi come ciò che ne può costituire la «salvezza». E, del resto, abbiamo visto che cosa intenda il secondo Severino per «salvezza della verità».

4.  Tramonto inevitabile della fede cristiana? Ho preso in esame le ragioni di fondo per le quali il cristianesimo – o, perlomeno, il cristianesimo come si è configurato storicamente – è giudicato da Severino fuori dall’orizzonte della «verità». Come mi pare emergere dagli argomenti che sono stati presi in considerazione, siamo in presenza di una critica della fede cristiana che contiene degli elementi di originalità rispetto alle tradizionali forme di critica della religione operate nel pensiero moderno e contemporaneo, siano esse di orientamento “razionalistico” oppure di derivazione “neo­empiristica”. 24.  Ho approfondito queste relazioni, sviluppando alcune riflessioni critiche, in L. Messinese, Finitezza della verità, fede cristiana e fede originaria. In dialogo con Severino, in «Filosofia e teologia», XXXII, n. 2, 2018, pp. 267-278.

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Certo, quando si leggono alcuni interventi che riguardano le implicazioni della fede cristiana nel campo dell’etica, oppure quelli che entrano nel merito della dottrina sociale della Chiesa cattolica e del suo ruolo pubblico, si può avere a prima vista l’impressione che Severino sia rimasto attardato nel solco del razionalismo «illuministico» e che si sia rapportato al cristianesimo con l’atteggiamento di superiorità che è proprio di chi intenda giudicarlo semplicemente dall’esterno. La critica del filosofo, tuttavia, intesa nel suo significato più genuino, vorrebbe mostrare – si dovrà, poi, naturalmente, discutere se a ragione o a torto –, da una parte, le varie contraddizioni che la fede cristiana presenta al suo stesso interno; e, dall’altra, le conseguenze estreme che scaturiscono dai presupposti “dottrinali” della Chiesa in relazione alla sua presenza nel mondo, al di là delle sue stesse buone intenzioni di dare un volto positivo a tale “presenza”. Riguardo a questo ultimo aspetto, Severino scrive, ad esempio, che per la Chiesa il capitalismo, la tecnica e la democrazia non possono che essere oggettivamente degli «avversari», in quanto in vario modo queste strutture del mondo moderno rifiutano di sottostare alla pretesa che accompagna ogni fede, inclusa quella cristiana, di costituirsi come «verità assoluta»25. Una critica di questo genere, in primo luogo, come dovrebbe risultare abbastanza chiaro, dipende dall’analisi severiniana del pensiero contemporaneo, interpretato quale critica radicale dell’assolutismo della verità e, di conseguenza, di ogni valore stabile affermato nell’ambito della tradizione etica e religiosa. Su questo punto la discussione con Severino da parte del credente dovrebbe svolgersi su un piano che è strettamente filosofico. A questo si deve aggiungere che è la stessa interpretazione offerta da Severino di ciò che è implicato dal25. Cfr. N, pp. 35-36.

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la assolutezza della fede cristiana a esigere una più articolata discussione, entrando nel merito della riflessione che su questo tema è stata portata avanti dalle voci più consapevoli della teologia contemporanea. D’altra parte, proprio un tale sostare da parte di Severino sugli aspetti delle varie questioni che rivestono un carattere più “fondamentale”, rende a mio avviso la sua critica degna d’interesse anche agli occhi del credente, e questo pure quando Severino non segue il metodo del politically correct nel rivolgersi alla Chiesa. Inoltre, com’è stato opportunamente rilevato da un attento e penetrante «lettore» del filosofo bresciano, qual è stato Italo Valent, non si deve sottovalutare che il discorso di Severino non possiede affatto il segno di una «indifferenza a Dio»26. Anzi, è la stessa concreta struttura del pensiero severiniano a costituirsi come una continua interlocuzione con il Dio della metafisica e il Dio della fede cristiana. Chiarite queste cose, oltre alla discussione sui punti specifici della critica di Severino alla fede cristiana nella sua struttura formale, che ho esposto in precedenza27, e sui vari interventi che toccano il tema del cristianesimo nella storia, che ho appena ricordato, resta in piedi innanzitutto una questione preliminare che concerne gli scritti del filosofo, la quale dovrebbe interessare particolarmente anche i suoi interlocutori credenti. La questione è la seguente: tenendo conto della evoluzione che è ravvisabile in Severino riguardo alla sua filosofia ontologica, qual è la determinazione della verità originaria dell’essere all’interno della quale deve essere accolta la “Parola di Dio” annunciata dal cristianesimo? Essa consiste nell’immutabilità assoluta dell’Essere e, in relazione a questa, nell’affermazione 26.  Cfr. I. Valent, Credere di credere. Spunti e materiali per un’analisi della critica di Severino al cristianesimo, in G. Ciolini (a cura di), I percorsi della fede, Città Nuova, Roma 1999, pp. 57-80: p. 76. 27.  Per un approfondimento, cfr. il mio volume citato supra, nota 17.

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non nichilistica degli enti eseguita dalla metafisica creazionista (come sosteneva il primo Severino)? Oppure essa è l’eternità degli essenti al di fuori del suddetto quadro creazionistico (come sostiene il secondo Severino)? Su tale questione si dovrebbe sostare maggiormente, discutendo innanzitutto proprio questo punto essenziale. Da esso, infatti, dipendono le stesse tesi circa la «morte di Dio», il carattere “ideologico” delle forme della cultura umanistica occidentale e la inevitabilità del «dominio nichilistico» della tecnica – le quali sono affermate sul fondamento di quanto è stato messo in luce dai grandi numi tutelari del pensiero del nostro tempo (Leopardi, Nietzsche, Gentile) –, come pure le tesi ultime di Severino relative alla sua “escatologia” e la connessa critica nei confronti del concetto cristiano di resurrezione. In caso contrario, si faticherà a trovare argomenti da opporre validamente alla diagnosi fatta da Severino nei confronti del destino storico della fede cristiana, a suo avviso destinata anch’essa al tramonto, analogamente a quanto è avvenuto per il comunismo sovietico, nonostante l’attuale rigoglio della sua vita sulla scena attuale del mondo28. D’altra parte, malgrado non lo si tenga quasi mai presente, è bene pure sottolineare che, per Severino, non sta affatto meglio, quanto alla sua vita reale, la stessa cultura “laica”, la quale non sa nulla dell’inevitabilità del suddetto processo di caduta di ogni struttura immutabile e, così, riduce la «morte di Dio» a un ritornello puramente opinabile, talvolta molto assordante, ma comunque anch’esso privo di un contenuto di verità al pari della tradizione metafisica e di quella religiosa29. Ancora una volta, quindi, si dovrà dire di Severino: né laico, né cattolico!

28. Cfr. N, pp. 37-42. 29. Cfr. N, pp. 43-45.

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C’è, infine, un ulteriore elemento che riguarda la discussione circa la fede come «virtù teologale», al quale vorrei accennare almeno su un punto. Per il cristianesimo, la dimensione della «fede» non si restringe unicamente a ciò che di essa è preso in esame dalla ragione filosofica. Questo, Severino lo sapeva molto bene e mi pare che non lo abbia messo in questione, ma abbia invece criticato, da un certo momento in poi, il valore da riconoscere a tale eccedenza. A ben vedere, tuttavia, è più giusto rilevare che si tratta di una «eccedenza» che, per sua natura, non può entrare nell’orizzonte dell’indagine strettamente razionale, sia relativamente all’oggetto della fede – ossia alle «cose che non si vedono» e che «non sono dimostrabili» con la ragione –, sia relativamente al soggetto – cioè al credente. L’eccedenza della fede come virtù teologale è, per la ragione, un «problema» autentico. In un dialogo con gli scritti di Severino che miri, innanzitutto, al fondamento delle questioni che sono affrontate, è soprattutto una tale eccedenza del contenuto della fede, rispetto alla verità filosofica, che dev’essere con maggiore attenzione sottolineata nell’ambito della dottrina cristiana, ed è proprio così che la fede verrebbe, poi, a esser meglio preservata agli occhi della ragione.

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Capitolo VIII

La fine della metafisica e la distruzione della cultura occidentale

Attraverso l’analisi delle opere maggiori di Severino, come ho già avuto modo di avvertire, è stato disegnato l’ambito del discorso che si può chiamare “più difficile” relativamente al nostro filosofo, quello che dovrebbe consentire al nostro ideale lettore di compiere il passo in avanti più decisivo nella comprensione del pensiero severiniano. Detto fuor di metafora, ed esprimendo la stessa cosa in termini rovesciati, ciò che è stato esposto finora – magari comportando qualche fatica per chi ha avuto la pazienza di arrivare sin qui – dovrebbe consentire di accostarsi in modo più ponderato alle tematiche per le quali il filosofo bresciano è maggiormente noto e sulle quali, finalmente, è arrivato il momento di soffermarci per completare il quadro della sua figura di pensatore davvero a tutto campo. Questo, però, non significa che per il lettore lo sforzo intellettuale sia oramai giunto al termine. A sua parziale consolazione gli si può ribadire che è terminata la sua fatica maggiore, avendo egli oramai scalato il picco più alto della catena montuosa filosofica alla quale era stato invitato ad avvicinarsi. Resta, tuttavia, da scalare ancora un monte che è di altezza minore, vale a dire l’articolazione concettuale che funge da raccordo tra le tesi più note di Severino e il loro fondamento ultimo.

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A tale proposito, vorrei sottolineare preliminarmente che l’elemento da dover tenere presente per questa ultima parte dell’impresa è costituito, soprattutto, dalla tesi che vi è una implicazione necessaria tra la «fede nel divenire» degli enti, accettata per lo più come innocua, e il «nichilismo» relativamente ai valori ritenuti più importanti nella nostra vita. In tale implicazione Severino ha colto il sottosuolo dell’intera vicenda filosofica, culturale e storica dell’Occidente e, in qualche modo, del pianeta. Alla luce di tale assunto fondamentale prenderò in esame gli elementi essenziali del processo – che da Severino è ritenuto inevitabile – del suddetto nichilismo. Tale necessario svolgimento può essere indicato nei termini di un itinerario che va dalla metafisica greca alla scienza moderna e al prassismo contemporaneo. Quest’ultimo, poi, sarà considerato nelle sue due varianti fondamentali: quella meno coerente della «ideologia», sul cui preciso significato mi soffermerò nel capitolo seguente, e quella più consequenziale costituita dall’«Apparato tecnologico». Per comprendere in modo adeguato la ragione per la quale un tale processo è ritenuto inevitabile da Severino, dovremo ora soffermarci preliminarmente – mi auguro, giunti a questo punto, non con eccessiva fatica – sulla più specifica struttura concettuale che sorregge le ricche analisi severiniane relative alle suddette tematiche.

1.  Il contrasto interno al pensiero metafisico e il «tramonto degli immutabili» La struttura della civiltà occidentale si sviluppa a partire dalla presunta originaria evidenza dell’uscire delle cose dal niente

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di sé e del loro ritornarvi, «evidenza» che ha avuto la sua prima esplicita testimonianza nella filosofia greca. A tale proposito, Severino sottolinea che, quando ci si riferisce al pensiero metafisico inaugurato dai Greci, di solito si pone la maggiore attenzione nel considerare il trascendimento della totalità dell’esperienza al quale esso perviene – in modo particolare con Platone e Aristotele –, in analogia con quanto è affermato in nome di una fede religiosa. Non ci si sofferma, invece, sulla circostanza che tale oltrepassamento implica, innanzitutto, la (supposta) evidenza originaria che l’essere delle cose «oscilla» tra il niente e l’essere. Ad avviso del filosofo, è su questo primo punto che, piuttosto, sarebbe necessario concentrare l’attenzione, sia per cogliere in modo adeguato il significato fondamentale della «cosa» – di ogni cosa – così come viene a essere stabilito nel pensiero greco, sia per comprendere la ragione degli esiti antimetafisici che caratterizzano il pensiero del nostro tempo. Dopo avere considerato che la metafisica greca trova la sua prima grande affermazione nella filosofia di Platone, Severino sottolinea che essa, venuta a contatto con il cristianesimo, per un suo aspetto è stata ulteriormente perfezionata, essendo liberata da un irrisolto dualismo tra la materia che costituisce il sostrato delle singole determinazioni, il cui essere era ritenuto «indipendente», e il Principio di tutte le cose. Per riferirci al pensiero metafisico in questa sua dimensione unitaria, è lecito usare il termine di metafisica greco-cristiana. La struttura di tale pensiero può essere raccolta nella tesi seguente: il diveniente implica necessariamente l’immutabile trascendente. La necessità di un tale sbocco del processo razionale, nel pensiero inaugurato dai Greci, era ravvisata nella contraddittorietà di una provenienza originaria dal nulla da parte degli enti: ex nihilo nihil fit. Da qui l’affermazione, operata dalla metafisica, di un Dio immutabile trascendente all’origine del mondo.

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La novità del “secondo” Severino, a tale riguardo, è che il diveniente e l’immutabile – cioè i due elementi costitutivi della struttura del pensiero metafisico classico, che si era venuta a perfezionare nell’orizzonte delle fede cristiana con l’affermazione del Dio creatore – non possono essere armonizzati tra di loro. Essi, invece, danno origine a un contrasto tale che, posta quale evidenza originaria il divenire come «oscillazione» dell’ente tra l’essere e il non essere, l’immutabile evocato a tutela del divenire medesimo, introdotto cioè per «salvare i fenomeni» dalla contraddittorietà, deve essere piuttosto negato che affermato. In effetti, al compiersi più coerente della complessa vicenda costituita dalla filosofia moderna, viene alla luce che, ove la realtà diveniente fosse pre-contenuta nell’essere immutabile trascendente il mondo, verrebbe a realizzarsi un’autentica nientificazione della realtà stessa del divenire, che pure è affermato come l’evidenza originaria. Di conseguenza, onde evitare tale esito, che sarebbe inaccettabile all’interno di una concezione che ritiene evidente il divenire ontologico, Dio non può più essere inteso come l’essere immutabile trascendente il mondo, ma deve essere posto come la totalità stessa del processo del divenire. La nuova struttura di pensiero cui qui si sta facendo riferimento, quella della metafisica chiamata immanentistica, sembrerebbe costituire l’approdo definitivo circa la nostra questione, un approdo reso praticabile dalla filosofia moderna, una volta superata l’obiezione kantiana circa la possibilità di oltrepassare, mediante la pura ragione, l’ambito costituito dall’esperienza. La struttura di tale metafisica, a sua volta, può essere racchiusa nella tesi seguente: l’immutabile (= il Tutto) è necessariamente diveniente. La Scienza della logica di Hegel, per Severino, costituisce il tentativo sommo di giustificazione della tesi appena proposta. In realtà, però, così il processo di rigorizzazione teoretica del divenire non è stato ancora porta-

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to al suo compimento ultimo. È emerso, infatti, nel pensiero filosofico successivo, un residuo di contrasto tra l’immutabile e il diveniente che resta operante nella predetta configurazione della totalità dell’essere che è tipica dell’idealismo. In Hegel la posizione delle immutabili «categorie», messe in luce dalla riflessione filosofica, rispetto alle mutevoli determinazioni empiriche che sono manifeste, ripete in ultima analisi lo stesso inconveniente logico riscontrato precedentemente nell’affermazione dell’immutabile operata dalla metafisica classica. Il risultato di tutto questo è che il processo del divenire risulta ridotto, ancora una volta, a mera apparenza. Si è resa necessaria, quindi, una «riforma della dialettica hegeliana», tale che il divenire possa esser affermato effettivamente e non, invece, assunto come una sorta di divenire «dipinto». Tale riforma è stata realizzata nella successiva speculazione idealistica e ha preso forma, in particolare, nel pensiero di Giovanni Gentile1. L’intento di fondo è di scongiurare che una qualunque determinazione di «essere preesistente» – come sarebbe il Pensiero di Dio prima della creazione, oppure la Natura, o anche la struttura delle categorie della Logica – possa limitare l’attività della vera realtà che è lo Spirito2, impedendo così ancora una volta l’autentico processo del «divenire» che pure si intende affermare nella sua assolutezza. In tal modo, conseguita l’autentica immanenza della realtà nel concreto attuarsi del “processo storico” operato dall’uomo, il divenire è affermato realmente e nel modo più rigoroso che sia possibile. Per quanto possa sembrare paradossale agli occhi di un metafisico, l’attualismo gentiliano, considerato nella sua dimensione di «teoria del divenire», si rivelerebbe quindi l’esito più 1.  Cfr. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana (1913), Sansoni, Firenze 1975 (il volume riproduce il testo della seconda edizione dell’opera, riveduta e accresciuta, che è del 1923). 2.  Cfr. ivi, pp. 226-229.

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coerente e inoppugnabile di quella struttura metafisica che era stata inaugurata molti secoli prima dal pensiero greco3. Per Severino soltanto poche altre filosofie possono essere accostate all’attualismo di Gentile per un’analoga rigorosità4.

2.  La fine del sapere filosofico tradizionale Questo guadagno possiede un autentico spessore speculativo. Nondimeno, esso ha condotto la filosofia a un esito che potrebbe essere scambiato, addirittura, con la sua stessa fine. Cerchiamo di capire il perché di tale affermazione. Considerando più a fondo come stanno qui le cose sembra che, attraverso la «rigorizzazione» di ciò che è implicato nell’affermazione del divenire, ci si trovi nelle mani l’argomento migliore per affermare la «distruzione» del discorso filosofico nella sua forma classica di «sapere incontrovertibile». Affrontando tale questione, Severino precisa che, comunque, non viene a cadere la filosofia nella forma che essa ha assunto nel pensiero contemporaneo, il quale anzi trova qui una sua più valida giustificazione. E questo perché viene finalmente alla luce il senso più autentico della incontrovertibilità della forma di pensiero inaugurata dai Greci, con il tarlo che la corrode dall’interno.

3.  Cfr. sul tema D. Spanio, Anticipare il niente. Intorno alla lettura severiniana di Gentile, in Id. (a cura di), Il destino dell’essere, cit., pp. 105-130. 4.  Come abbiamo visto in precedenza, Severino pensa soprattutto a Leopardi e a Nietzsche, anche se egli osserva pure: «In Nietzsche e in Gentile – e ancor meno nelle altre forme della filosofia contemporanea – non viene però in luce piena che l’affermazione dell’immutabilità annienta il divenire, perché non rispetta la nientità del niente che, nel divenire, è unito all’essere» (E. Severino, Nietzsche e Gentile, cit., p. 96; corsivo mio).

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Vediamo in qual modo ciò possa risultare, esaminando due sequenze fondamentali che Severino presenta facendo ancora una volta riferimento alla filosofia gentiliana. Gentile, con la sua straordinaria messa in chiaro della struttura essenziale dell’intero pensiero occidentale, giunge a porre l’unico immutabile che lungo la storia dell’Occidente è destinato al dominio: l’evidenza del divenire e la conseguente coscienza del divenire e dunque la problematicità del tutto.5

Tuttavia, una volta che si sia pervenuti a tale esito, almeno in prima istanza si deve riconoscere che, se riguardo all’aspetto del contenuto l’attualismo costituisce la soluzione del «contrasto» tra la fede nel divenire e la volontà di porre un immutabile, esso stesso pare configurarsi come il luogo del «contrasto» tra la forma epistemica o incontrovertibile della filosofia tradizionale e il contenuto sfuggente del divenire che, per sua natura, rifiuta di lasciarsi catturare in una rete epistemica. In altri termini, il divenire nella sua chiara evidenza si pone come l’«unico dio» e l’unico «immutabile». Per questo aspetto, Severino può affermare: Quest’unico dio immutabile, destinato alla distruzione di ogni altro dio, lascia dietro di sé lo stesso attualismo; anzi, lo stesso idealismo all’interno del quale l’attualismo è soltanto un episodio, per quanto rilevante, anzi la stessa filosofia.6

Tenendo conto di questo, il «contrasto» di cui si sta parlando potrà essere definitivamente cancellato quando la forma stessa del sapere avrà dimesso la veste dell’«incontrovertibilità epistemica» che si pone al di sopra del contenuto diveniente, per assumere quella della controvertibilità che è propria del «metodo sperimentale» della scienza e che è perfettamente in linea 5.  E. Severino, Attualismo e «serietà» della storia, in AT, p. 164 (corsivo mio). 6.  Ibidem.

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con il «divenire» del suo contenuto. La soluzione definitiva del contrasto aperto dal sapere metafisico, che ha posto contraddittoriamente l’immutabile e il divenire, il caso e la necessità, accade perciò con il riconoscimento del carattere «ipotetico» della conoscenza scientifica. Detto questo, però, si dovrà nello stesso tempo riconoscere che la distruzione del sapere filosofico tradizionale avviene nella più radicale fedeltà alla sua vera essenza: la fede nel divenire dell’«essere», cioè la fede nella distruzione degli immutabili, la fede nel «nichilismo». La scienza contemporanea, che ritiene di porsi in alternativa alla metafisica greco-cristiana, in realtà è figlia legittima di quest’ultima – sebbene non si riconosca come tale –, cosicché, insieme con la tecnica e il suo sempre più imponente apparato, ne è giustamente l’erede; da parte sua, all’interno della fede nel divenire, la metafisica grecocristiana deve generare necessariamente tale figlia matricida. A motivo di tale relazione, l’omicidio perpetrato dalla scienza è, in realtà, il suicidio inevitabile della filosofia intesa come «epi-steme», come ciò che pretende contraddittoriamente di governare il divenire da essa stessa evocato.

3.  La filosofia contemporanea quale custode del nichilismo Severino, tuttavia, mette in luce che il pensiero di Gentile deve essere compreso anche sotto un altro aspetto, in virtù del quale il rapporto tra la filosofia e il sapere scientifico-tecnologico assume un significato diverso. Se l’attualismo viene considerato nella sua funzione di sorvegliante dello spazio al cui interno soltanto può prendere senso la dominazione del mondo e quindi quella forma di dominazione che ha ormai distrutto ogni altra forma, cioè la dominazione tecnologica, allora il rapporto tra tecnica e attualismo

165 è il rapporto tra la tecnica e una delle forme più coerenti della sorveglianza delle condizioni trascendentali della tecnica.7

In tal modo il pensiero gentiliano non soltanto si conferma come uno dei vertici della filosofia contemporanea, ma nello stesso tempo ci permette di cogliere il senso più autentico della stessa filosofia contemporanea nel suo rapporto con il sapere delle scienze e con il dominio dell’apparato tecnologico. La messa in luce di tale aspetto consente a Severino di affermare che la «filosofia», venuta meno come sapere epistemico – cioè come sapere che vuole dominare dall’esterno il divenire e imporsi sulle altre forme di conoscenza –, deve essere più adeguatamente compresa come l’autoconsapevolezza stessa della scienza e della tecnica del nostro tempo. Severino viene, così, a precisare che la filosofia contemporanea – la quale è stata qui esemplificata attraverso il pensiero di Giovanni Gentile – più che essere stata superata o sostituita dal sapere scientifico, ne apre lo spazio o, forse ancora meglio, ne costituisce il «sottosuolo» nascosto eppure essenziale8. In altri termini, ciò che propriamente nell’epoca contemporanea è venuto meno non è la «filosofia». Ciò che è caduto, invece, è il residuo di contrasto tra: a) la «forma epistemica» che caratterizza anche quella rigorosa teoria del divenire che è l’attualismo gentiliano; e b) la radicalità estrema del «divenire» che è messa in luce nella ipoteticità che caratterizza la conoscenza scientifica. Quello che, perciò, è stato sostituito dal sapere scientifico è soltanto l’apparato «epistemico» della filosofia tradizionale, la quale aveva ritenuto di essere espressione del «sapere incontrovertibile». Resta, però, inattaccabile 7.  Ivi, p. 165 (corsivo mio). 8.  Severino ha potuto con ragione osservare: «L’incongruenza tra la filosofia di Gentile e il pensiero scientifico riguarda solo la superficie del problema» (E. Severino, Destino della tecnica [= DT], Rizzoli, Milano 1998, p. 207).

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il sapere che non implica il contrasto che avvolge l’episteme inaugurata dalla filosofia greca, ma mostra invece l’autentico stare degli essenti e al quale, come s’è visto, è appropriato il nome di «destino». La conclusione che Severino ricava da tutto questo è estremamente chiarificatrice per le sorti della filosofia nel nostro tempo. Proprio per aver mostrato l’impossibilità di mantenere Dio, come qualunque altro «immutabile», a salvaguardia o a protezione dall’esterno di quel «divenire» che è assunto come l’evidenza originaria, la filosofia contemporanea è per ciò stesso l’apertura del sapere ipotetico, sperimentale, quindi del sapere scientifico secondo l’accezione odierna. Nello stesso tempo, al di là delle interpretazioni riduttive di questo processo, la filosofia contemporanea evita di decadere a mero «scetticismo» o «relativismo», proprio in quanto si costituisce come affermazione assolutamente non oppugnabile del divenire di ogni cosa e negazione di ogni immutabile. La filosofia del nostro tempo è il fondamento essenziale della scienza e della tecnica (che dunque ancora ignorano il senso autentico del loro rapporto con la filosofia), perché mostra che non può esistere alcuna dimensione immutabile, cioè alcun limite inoltrepassabile e dunque rende possibile la crescita indefinita della capacità di produrre scopi.9

Egualmente, la radicale coerenza che deve essere riconosciuta al pensiero filosofico degli ultimi due secoli fa sì che debba essere dichiarata l’impossibilità di un mondo così com’è prefigurato dal credo cristiano, il quale ha al suo centro l’Essere eterno e la verità assoluta. Da due secoli il pensiero filosofico mostra l’impossibilità di un mondo come quello in cui crede il cristiano, cioè l’impossibilità di ogni Essere eterno, e dunque l’impossibilità di ogni

9.  DT, p. 187.

167 verità assoluta che rispecchi quell’Essere e l’impossibilità di ogni limite assoluto all’agire dell’uomo.10

In altri termini, Severino viene a confermare i risultati raggiunti dal pensiero filosofico contemporaneo, ma offrendo ad essi una diversa e ben più robusta fondazione rispetto ai propri assunti di fondo. Nello stesso tempo, egli sottolinea che l’intera vicenda del pensiero filosofico occidentale si svolge all’interno di un orizzonte più ampio, per il quale esso non ha avuto occhi. Infatti lo sguardo che ha caratterizzato sia l’evo­ cazione della metafisica che delle fedi religiose non è mai stato un “puro sguardo”, ma ha guardato ogni cosa nella luce falsante del «mondo», cioè nell’ombra di quella dimensione di non verità che – come sappiamo – Severino attribuisce originariamente alla filosofia platonica.

10.  N, p. 35 (corsivo mio).

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Capitolo IX

Il nichilismo contemporaneo e la risoluzione della metafisica e dell’etica nella tecnica

1.  Breve apologia da parte dell’autore Siamo giunti, finalmente, nei pressi del pensiero di Severino che è più ampiamente noto. Abbiamo operato l’accesso alle stanze più importanti e anche più impervie del nostro castello, che in un primo momento ci erano sembrate inaccessibili. Ma quanta fatica è costato tutto questo, dirà probabilmente il nostro lettore ideale. Chiediamoci, allora, mettendoci dal suo punto di vista: ne valeva davvero la pena? Oppure si sarebbe potuto impiegare il tempo in modo più proficuo e anche con maggiore soddisfazione? Personalmente gli direi di sì, che ne valeva proprio la pena. Soprattutto perché, così facendo, si è riusciti a entrare effettivamente nel sancta sanctorum di qualcuno di cui magari si apprezzava il pensiero, ma rispetto al quale prima ci sarebbe venuto da fare alcune domande. Leggendo i brevi scritti di Severino apparsi abitualmente sul “suo” quotidiano e le interviste da lui rilasciate a varie testate giornalistiche, si ha a che fare solo con alcune “opinioni” tra le tante, sia pure presentate molto bene, fino al punto da essere affascinanti? O, piuttosto, attraverso le tesi espresse – ad esempio, quelle inerenti al

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significato più profondo della nostra civiltà occidentale –, ci viene offerto da Severino un abbondante materiale sul quale è proficuo meditare anche se non si è filosofi di professione, andando al di là di convinzioni che il più delle volte sono assunte con una disarmante ingenuità? Ecco, se qualche volta il mio lettore ideale si è posto domande come queste, allora è probabile che la fatica a cui è stato sottoposto risulterà, per lui, oltremodo gratificante in quanto avrà avuto la sua ricompensa. Dopo questa nuova e più breve sosta, dedicata a riflettere sul cammino che è stato percorso, ma che è possibile considerare pure, bonariamente, come una sorta di “apologia” per se stesso da parte dell’autore del libro, avviamoci a visitare con una maggiore speditezza le ultime stanze del nostro castello.

2.  Le forme tradizionali e moderne del dominio sul «divenire» e la loro natura «ideologica» La parabola che è stata disegnata nel capitolo precedente costituisce l’intera vicenda del sapere inaugurato dal pensiero metafisico e pervenuto, finalmente, ai suoi esiti più coerenti rispetto alle proprie premesse. La distruzione degli «immutabili», però, non riguarda soltanto il Dio (trascendente o immanente) della tradizione filosofica e religiosa o l’apparato categoriale della «logica metafisica» di Hegel. Tale distruzione, per Severino, investe ogni altro immutabile che nel corso del tempo si sia candidato a prendere il posto degli immutabili evocati dalla metafisica sia antica che moderna quali, ad esempio: la «legge morale naturale»; il «giusnaturalismo» moderno; i «rapporti capitalistici di produzione»; oppure la «teoria marxiana», che ritiene quei rapporti

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soltanto storici, ma poi considera se stessa come una teoria immutabile; oppure ancora la «psicanalisi» o, infine, lo «strutturalismo». Insomma, ogni immutabile che voglia predeterminare il corso del divenire è destinato a essere travolto necessariamente dal processo stesso del divenire. Il divenire di ogni cosa, in quanto rifiuta di essere guidato da qualsiasi immutabile, è solidale non più con il sapere di tipo epistemico, ma con quello di tipo ipotetico o probabilistico che è stato fatto valere dalle scienze nel significato che queste assumono nell’epoca moderna e, ancora di più, nel nostro tempo. Questa solidarietà, tuttavia, deve essere guardata più da vicino. È da considerare, infatti, che il «divenire», in quanto implica l’oscillazione degli enti tra l’essere e il non essere, mostra di esser solidale anche – se non di più – con la «prassi», dove con questo termine dovrà essere intesa ogni «tecnica» produttiva dell’essere. Questo, a motivo del fatto che l’apertura dell’evidenza del divenire ontologico è anche l’apertura della disponibilità dell’ente a ciò che lo strappa dal niente di sé e ve lo risospinge: la prassi tecnica riempie nel modo più efficace tale apertura. Emergono, a partire da qui, alcune conseguenze di particolare rilievo. Innanzitutto, pure nel caso in cui la «verità», intesa secondo l’impostazione della filosofia tradizionale, continui anche al presente a occupare l’orizzonte del «linguaggio» che è dato ascoltare, si deve rilevare che la preoccupazione per la verità, quanto all’effettività delle cose, è già stata sostituita dalla prassi tecnica, rispetto alla quale anche la stessa conoscenza scientifica costituisce piuttosto lo «strumento» che il fine. In secondo luogo, rispetto a ogni «teoria» che faccia riferimento al divenire dell’essere, si deve rilevare come sia essa stessa a far cadere la presunzione di porsi in termini di pura verità. La «verità», in quanto è stabilita nell’orizzonte del »divenire», si riduce coerentemente a essere un mero strumento della prassi

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così ridefinita, cioè della «volontà di potenza»1. Infine, ogni forma di pensiero che intenda essere puramente teoretico ha un carattere essenzialmente «pratico» anche per un altro aspetto. Infatti, se si guarda più da vicino cosa accade in relazione alla teoria per eccellenza inaugurata dalla filosofia greca (la theoria metafisica), si deve rilevare quanto segue. Il pensiero, proprio in quanto è teoretico, intende essere la «previsione» dell’ordine immutabile a cui devono adeguarsi le cose che divengono; ma, precisamente per questo, in virtù di tale previsione, le cose soggiacciono al «dominio della teoria»2, venendo così alla luce un ulteriore aspetto della «praticità» del pensiero. Una volta che si giunga a capire ciò che è implicato nel divenire nichilisticamente inteso, ciò che va ancora sotto il nome di «teoria» assume un significato diverso da quello che esso possedeva, in forma esemplare, nel pensiero greco. Ora si può comprendere che ogni teoria, all’apparenza pura e disinteressata, è sempre e soltanto una «ideologia», vale a dire è una rappresentazione delle cose che mira al proprio vantaggio (e, quindi, a realizzare uno «scopo» che in linea di principio è diverso da quello costituito dall’incremento indefinito dell’Apparato scientifico-tecnologico). Più precisamente, riguardo alle varie ideologie così intese (religiose, morali, giuridiche, politiche, economiche) Severino viene a rilevare: in quanto si pongono ancora come una specifica determinazione dell’«episteme», ov-

1.  Nel contesto che è stato descritto, «l’unico senso possibile della parola “verità” rimane quello della capacità pratica di imporsi sulle forze contrastanti» (SFP, Appendice, p. 391). 2.  Cfr. E. Severino, Legge e caso, cit., p. 18. Per Severino, tuttavia, l’episteme metafisica è il dominio sognato, rispetto all’effettivo dominio del divenire, che è reso possibile dalla «distruzione degli immutabili» (cfr. ivi, p. 27). Diverso dal sapere epistemico della tradizione filosofica, perché libero dal contrasto con il divenire delle cose, è ciò che è nominato da Severino come «destino».

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vero del sapere che si ritiene immutabile, esse sono destinate al tramonto; ma in quanto giungano coerentemente a riconoscersi come mere «teorie ipotetiche», le ideologie lasciano aperto il campo del dominio degli enti a quella che viene a rivelarsi come la più «potente» tra di loro. Le diverse forme ideologiche della tradizione, quindi, in ultima analisi, si riducono a essere «tecniche del dominio». Severino sottolinea fortemente questo aspetto: Non si presta la dovuta attenzione al rovesciamento […] che inevitabilmente si produce quando le forze economiche, politiche, etico-religiose, spirituali, culturali si propongono di assumere la tecnica come semplice mezzo per la realizzazione dei loro scopi. Data la situazione di conflittualità in cui tali forze si trovano (tra di loro e ognuna al proprio interno) e data l’interpretazione del mondo all’interno della quale soltanto può presentarsi qualcosa come «forza economica», «forza politica», «forza etico-morale», ecc., è inevitabile – ripetiamo – che il mezzo di cui esse intendono servirsi divenga il loro scopo e che il loro scopo sia ridotto alla funzione di mezzo.3

Di conseguenza, le diverse «forze ideologiche» ora nominate «sono guidate dalla volontà di prevalere sugli avversari mediante il crescente rafforzamento degli strumenti di cui dispongo­ no»4. Ma se questo è vero, appare sempre più chiaramente che la forma di dominio che va distruggendo tutte le altre, perlomeno in quanto in ultima istanza le assoggetta tutte a sé, costituendosi essa stessa quale loro scopo, è quella «tecnica»5.

3.  DT, p. 43. 4.  DT, p. 44. 5.  In occasione di un dialogo con Natalino Irti, Severino ha chiarito esplicitamente che nei suoi scritti la tecnica «non è semplicemente potenza “tecnologica” nel senso del riduttivismo scientifico e fisicalistico, ma è la potenza nella totalità possibile delle sue espressioni, in grado quindi di promuovere

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Quanto è già accaduto in una forma più facilmente constatabile al comunismo sovietico è «destino» che accada anche al capitalismo, alla democrazia liberale e allo stesso cristianesimo. La ragione è già stata indicata: Se uno strumento è insostituibile, esso – cioè la sua perpetuazione e l’incremento della sua potenza – è destinato a diventare lo scopo delle forze che intendono servirsene come di un semplice mezzo. E l’apparato planetario della scienza e della tecnica è ormai lo strumento insostituibile per la sopravvivenza dell’uomo.6

Perciò, se per l’aspetto della forma del sapere il processo di autodistruzione della filosofia tradizionale conduce alla scienza come sapere ipotetico, sotto l’aspetto del contenuto il processo di autodistruzione, inaugurato dalla «fede» nel divenire, conduce dal dominio del Dio della metafisica, prototipo di ogni immutabile, al dominio della tecnica, giacché «la tecnica è la forma più radicale in cui si presenta il divenire»7 ed è pure, come sottolinea Severino, «l’erede di quella funzione di rassicurazione che nella tradizione veniva compiuta da Dio»8. D’altra parte, senza alcuna contraddizione, si deve pure aggiungere: «Come l’“Io” idealistico, anche la tecnica vuole diventare l’assoluta, incondizionata e infinita potenza. Anche per la tecnica il compito supremo è diventare Dio»9. Solo che, a differenza del Dio metafisico e di quello religioso, nel caso della tecnica si tratta appunto di un «compito», di uno «sforzo eterno» di essere un’assoluta pienezza. anche tutte le potenze dell’“anima” e dello “spirito”» (N. Irti - E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 34-35). 6.  DT, p. 22. 7.  DT, p. 186. 8.  E. Boncinelli - E. Severino, Dialogo su Etica e Scienza, Editrice San Raffaele, Milano 2008, p. 10. 9.  DT, p. 203 (corsivo mio)

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3.  L’Apparato scientifico-tecnologico del nostro tempo legittimo erede del Dio metafisico Gli immutabili evocati dall’Occidente per controllare il divenire degli enti, a partire dal Dio della tradizione greco-­cristiana, per finire alle varie forme di umanesimo radicale che gli si sono a mano a mano sostituite, devono necessariamente morire nella civiltà della tecnica. Quando si accede a una comprensione della tecnica sul piano metafisico, è inevitabile che si torni a parlare dell’attualismo di Gentile. Quest’ultimo costituisce una delle poche filosofie il cui contenuto teorico è in grado di essere in pari con la radicalità del processo unitario di produzione/distruzione degli enti e morte degli immutabili in cui consiste l’essenza della tecnica. È in questo specifico senso, nell’estendere cioè all’intero dell’essere il processo di creazione/nientificazione degli enti, che oggettivamente Gentile è insieme il «pensatore della tecnica» e una delle più coerenti espressioni del nichilismo10. Sempre in relazione a questo processo emerge, per Severino, il significato più autentico che deve essere assegnato alla tesi della «morte di Dio», portandosi in tal modo nel sottosuolo delle posizioni che sono state assunte esplicitamente tanto da Nietzsche, quanto da Heidegger11. L’annuncio di Nietzsche che Dio è morto significa appunto che il mondo si è accorto non solo di non aver bisogno di un ente

10.  A ragione, Biagio de Giovanni ha potuto vedere nella «disputa sul divenire» l’elemento centrale dell’opposizione che corre tra Severino e Gentile, i quali esprimono due opposte «grammatiche dell’essere» (cfr. B. de Giovanni, Disputa sul divenire. Gentile e Severino, Editoriale Scientifica, Napoli 2013). Una puntuale replica alle meditate osservazioni dell’autore è contenuta in E. Severino, Sul divenire. Dialogo con Biagio de Giovanni, Mucchi, Modena 2014. 11.  Cfr. E. Severino, Sul significato della ‘morte di Dio’, cit.

176 immutabile e trascendente, ma che tale ente renderebbe impossibile la creatività dell’uomo. Dal punto di vista di un modo di pensare che rimane all’interno dell’essenza metafisica della τέχνη, si deve dire allora che il principio della nientificazione e della nientità dell’ente non è più un dio, ma il superuomo.12

Questo esito caratterizza la «tendenza fondamentale» del nostro tempo, osservabile all’interno delle stesse coordinate di pensiero della civiltà occidentale: la tendenza dell’Apparato scientifico-tecnologico a riprodursi indefinitamente e a porsi esso stesso quale fine supremo, rispetto a una sua assunzione strumentale da parte dei sistemi «ideologici» e delle forze «etiche»13. Consideriamo ancora più da vicino questo aspetto e chiariamo qualche possibile equivoco. Il processo ch’è stato descritto non comporta l’estinzione delle varie «forze ideologiche» (religiose, politiche, economiche) che intendono regolare per i loro scopi specifici il processo del divenire, ma implica soltanto una loro diversa configurazione, rispetto alla quale la tecnica si pone come la loro forma trascendentale14. Le forze che in un primo tempo si ponevano come «fine a se stesse» e che ritenevano di poter utilizzare la tecnica come «mezzo» per il raggiungimento dei loro fini rispettivi, rivelano di essere esse, invece, ciò che contribuisce al realizzarsi del fine proprio della tecnica, il fine dell’incremento infinito della «capacità di realizzare scopi». Le determinazioni specifiche di questa forma universale o «norma fondamentale» che è la tecnica costituiscono un processo che, per molti aspetti, è

12.  Ivi, p. 258. 13.  Per lo sviluppo articolato di questo tema, cfr. E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, cit. (in particolare il cap. omonimo del libro, pp. 39-66). 14.  Cfr. le significative chiarificazioni svolte dal filosofo su questo punto essenziale sempre in N. Irti - E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, cit., pp. 31-35.

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ancora agli inizi e che è destinato a cambiare il senso di ciò che chiamiamo, attualmente, «politica», «diritto», «capitalismo». Si consideri, poi, un elemento ulteriore. La tecnica non viene a costituirsi soltanto come il coerente punto d’arrivo del «pensiero» metafisico-teologico, una volta che questo sia liberato dall’intimo contrasto che lo caratterizza, ma è anche la più potente forma di «etica». Infatti, in quanto la tecnica possiede un proprio «scopo», essa deve essere riconosciuta anche come la vera «morale», la quale contiene in se stessa tutte le altre «forze morali» reciprocamente in competizione nell’assegnare all’uomo il fine del proprio agire15. Se il vero «ordinamento dell’essere» è quello stabilito dal «divenire», se «l’essere in quanto essere è divenire», allora «l’agire è adeguato all’essere, ed è agire morale, quando […] oltrepassa ogni limite che vorrebbe presentarsi come immutabile»16. Ma questo è proprio l’agire della «tecnica», la quale è, di conseguenza, la «suprema morale»17. Un discorso analogo deve essere fatto quando l’etica è posta in rapporto con la scienza: «l’etica intrinseca della scienza è appunto la volontà della scienza di realizzare lo scopo supremo che essa possiede di per sé stessa: l’incremento infinito della propria potenza»18.

15.  Severino ha sintetizzato la sua posizione in proposito nello scritto L’etica della tecnica, che costituisce l’ultimo capitolo del volume Democrazia, tecnica, capitalismo, cit., pp. 115-126. 16.  BF, p. 126. 17. Cfr. ibidem. 18.  Cfr. E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, cit., p. 71 (il testo è tratto dal cap. III, intitolato L’etica della scienza). A distanza di alcuni anni, Severino ha messo in luce un altro aspetto relativo all’etica intrinseca della scienza, a partire dalla duplice considerazione che, nel suo significato fondamentale, «la parola etica indica appunto il luogo in cui si vive, la consuetudine: il luogo rassicurante» e che tale «rassicurante» è la «potenza suprema» (cfr. E. Boncinelli - E. Severino, Dialogo su Etica e Scienza, cit.,

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Conclusivamente, per Severino non si può evitare di riconoscere che «la civiltà della tecnica è la conseguenza inevitabile del passo iniziale dell’Occidente: la riflessione greca sul senso dell’essere e del niente»19. Questo, però, può essere affermato quando non si abbia l’ingenuità di considerare l’Apparato scientifico-tecnologico separatamente da ciò che lo costituisce nella sua inevitabilità, ma lo si veda invece unitamente all’esito necessario della filosofia contemporanea che è stato considerato determinatamente nel precedente capitolo. La potenza suprema, oggi, non è la tecnica in quanto separata, ma in quanto unita alla filosofia contemporanea. In quanto così separata, la tecnica non può riuscire a liberarsi dalla sua sudditanza rispetto alle forze che intendono servirsi di essa.20

Come la tecnica è la forma più rigorosa in cui si manifesta l’ontologia greca, così essa assume la forma di una civiltà che «è destinata a subordinare a sé il grande passato dell’Occidente (cristianesimo, democrazia, capitalismo e, innanzitutto, la verità dell’episteme)»21.

4.  La radice «parmenidea» del nichilismo e la «logica analitica» della scienza Finora è stata sottolineata la stretta parentela tra il nichilismo della metafisica greca e quello della scienza e della tecnipp. 8-9). Orbene, nella fede posseduta dall’uomo contemporaneo, la potenza suprema è posseduta dalla scienza (cfr. ivi, pp. 9-10). 19.  PC, p. 298. Tale destinazione dell’Occidente alla tecnica, con riferimento particolare alla crisi «economica» e «politica» del nostro tempo, è stata sviluppata in E. Severino, Democrazia, tecnica, capitalismo, cit. 20.  E. Severino, Dall’Islam a Prometeo, cit., p. 107. 21.  Ibidem.

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ca contemporanee lungo la comune direttrice del «divenire» dell’essere – ed è sotto tale aspetto che è stata posta al centro della metafisica greca la figura di Platone. Si deve rilevare che Severino traccia un’analoga linea genealogica del nichilismo in riferimento all’aspetto della «molteplicità» dell’essere. Per questa seconda direttrice la figura centrale di riferimento è quella di Parmenide, del quale si osserva che, «proprio per tener fermo che l’essere non è nulla, afferma che gli essenti sono nulla»22. Severino rileva che in Parmenide «è presente lo stesso atteggiamento isolante e separante che sta alla radice della specializzazione scientifica»23. Infatti, quando Parmenide pensa che il non significare «Essere» da parte delle determinazioni equivalga al loro «esser nulla», egli può farlo solo in quanto le determinazioni da lui «sono isolate dal loro essere», e quindi sono «separate», «considerate come significati indipendenti ed autonomi rispetto al loro essere»24. È anche per questo lato che la «specializzazione scientifica» è la forma più coerente dell’ontologia greca, al punto che ora è proprio essa a costituirsi come l’autentica «filosofia prima»25, che viene a sostituire quella aristotelica. Analogamente, la logica del «legame necessario» delle parti con il tutto affermata

22.  DT, p. 253 (corsivo mio). Per un approfondimento di questo tema, cfr. FF, pp. 50-57. 23.  DT, p. 253. 24.  Ibidem. Questa osservazione consente di calibrare meglio il significato dell’invito di Severino a «ritornare a Parmenide» (per il quale cfr. I. Valent, Essere apparire sembrare. Riflessi e riflessioni dal pensiero di Emanuele Severino, in S. Natoli [a cura di], Percorsi e figure. Filosofi italiani del ’900, Marietti 1820, Genova 1998, pp. 297-324: pp. 319-324) e testimonia la inadeguatezza del termine «neoparmenidismo» per caratterizzare il suo pensiero. 25.  Cfr. E. Severino, Crisi della tradizione occidentale, Marinotti, Milano 1999, p. 152.

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dal pensiero metafisico antico – ma anche da quello moderno, nella forma della logica dialettica di Hegel – deve cedere le armi alla «logica analitica» della scienza, la quale afferma esplicitamente quell’isolamento delle parti, dal tutto e tra di loro – sia sul piano sincronico, sia sul piano diacronico –, che il pensiero metafisico aveva nascosto a se stesso26. Per Severino, tutto questo conduce all’inevitabile dominio del­ l’Apparato scientifico-tecnologico sulla vita umana, che si svolge nell’orizzonte della fede comune nel «diventare altro» di tutte le cose. Se s’intende mettere in questione la tesi dell’assolutezza di questo dominio, si rende necessario discuterne il suo fondamento. In particolare, per configurare un significato diverso della «prassi etica», andrebbe discusso se, sul fondamento della struttura originaria della verità, l’agire etico sia destinato a esser soltanto una delle forme della «non verità», oppure se costituisca una delle espressioni eminenti dell’esserci umano in quanto «apparire finito» della verità27.

26.  Cfr. L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., pp. 220-223. 27.  Mi sono impegnato a svolgere una siffatta riflessione in L. Messinese, Verità finita, cit.

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Capitolo X

L’angoscia del divenire, i «rimedi» del mortale e la Gioia

L’itinerario che mi ero proposto di tracciare, offrendo una guida per “capire” Severino entrando nel cuore stesso del suo far filosofia, volge oramai al suo termine. Forse in qualcuno dei lettori, dopo l’iniziale soddisfazione intellettuale di cui ho parlato in precedenza per essere stati condotti all’interno del castello di Severino, potrebbe aver fatto capolino l’impressione di avere avuto a che fare con un filosofo dal pensiero magari particolarmente rigoroso, ma purtroppo assolutamente “algido”, privo di quel calore che dovrebbe promanare da chi sembrerebbe animato dalla intenzione di voler svelare agli uomini la verità anche nei suoi riflessi più “esistenziali”. Ma, poi, sarà così? Certamente, per Severino non si può parlare propriamente della verità filosofica come «rimedio» ai mali dell’uomo, ma piuttosto come di una sorta di trasfigurazione relativamente a quella realtà umana che, invece, si vorrebbe semplicemente sottoporre a una “terapia analgesica” lasciando indiscussa quale sia l’essenza dell’uomo. È proprio la strategia del «rimedio» che, secondo il nostro filosofo, deve essere abbandonata e lasciata a se stessa. Per tale motivo, il risvolto esistenziale della verità assume una forma diversa.

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Questo vero e proprio oltrepassamento dell’«uomo» – cioè del mortale che in diversi modi, lungo il volgere dei secoli, ha provato l’«angoscia» e che egualmente, secondo una molteplicità di strategie, ha cercato di renderla sopportabile – consiste fondamentalmente nel lasciare che «in noi», in qualche modo fin da adesso, splenda la Gioia del Tutto. Si può convenire che questa Gioia, stando a quanto è stato mostrato, non è cosa di poco conto; com’è chiaro, pure, che non si tratta di una sorta di nuovo «mito», per giunta poco rispettoso del dolore altrui. Peraltro, qui si aprirebbe invero lo spazio per dirigersi verso ciò che, depurata da pieghe di tipo nichilistico, può essere chiamata la dimensione «pedagogica» del pensiero di Severino, la quale ha trovato una sua essenziale esposizione in un libro-intervista intitolato significativamente Educare al pensiero, ma su cui non è possibile che mi soffermi in questa sede1. Quanto, invece, alla comprensione concreta di questa Gioia e del suo rapporto con ciascuno di noi posso rimandare, innanzitutto, a ciò che ho scritto nel sesto capitolo; ma, poi, si dovrebbe ripercorrere l’intero itinerario che è stato tracciato, tenendo unite quindi la pars destruens e la pars construens del pensiero severiniano. A queste scarne, per quanto decisive, indicazioni è però possibile, e anzi opportuno, aggiungere un breve tratto di cammino che resta ancora da fare – il lettore mi perdoni di questa specie di gioco dell’elastico al quale l’ho costretto lungo tutto il corso del libro – e che mi accingo a tracciare nelle pagine che seguono.

1.  Cfr. E. Severino, Educare al pensiero, a cura di S. Bignotti, La Scuola, Brescia 2012.

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1.  Il falso «paradiso» della tecnica L’articolato processo di caduta del sapere epistemico che è stato descritto non costituisce, per Severino, la verità ultima delle cose, ma è soltanto l’esito più coerente della «fede» nel divenire ontologico. Alle spalle di tale Götterdämmerung2 sta, immutabile, la luce del «destino della verità». Il terreno del nichilismo metafisico è un deserto coperto dai relitti degli «immutabili» evocati dall’Occidente, ma quale suo inconscio, secondo quanto Severino ritiene fermamente, sta immutabile il Tutto dell’Essere. Altra, infatti, è la tesi della «caduta degli dèi» all’interno di una cultura fondata sull’ipoteticità del sapere, la quale non è in grado di escludere un «ritorno» degli antichi dèi perduti; altra è l’affermazione della fine degli immutabili evocati dall’Occidente all’interno dello sguardo che vede la non verità dello stesso «contrasto» tra il divenire e le forze che vorrebbero governarlo. Severino è molto chiaro nell’esprimere la peculiarità della propria posizione: se si parte dalla fede nel divenire, se si ha fede nell’esistenza del divenire, ogni eterno è una forma di immobilizzazione, una forma di dominio, di volontà di potenza destinata ad essere travolta. Ciò che però nessuna critica «progressista» all’immobilizzazione e cristallizzazione della storia è in grado di mostrare è perché la storia e il divenire non debbano essere immobilizzati e cristallizzati da una volontà di potenza che salvi il divenire dal caos e dall’irrazionalità; e perché il diversificarsi del divenire storico non debba essere controllato e dominato da regole e leggi immutabili. Nessuna critica

2.  Riferendosi alla nota espressione di Nietzsche, Severino intende mettere in luce anche la «grandezza» di ciò che tramonta: «Sono degli dèi che tramontano» (E. Severino, Crisi della tradizione occidentale, cit., p. 20).

184 «progressista» è in grado di mostrare che gli eterni e gli immutabili sono «destinati» ad essere travolti. […] Ma se si scorge che la fede nell’esistenza della storia, del tempo, del divenire – la fede di tutti noi abitatori dell’Occidente – è la follia estrema, allora l’«eterno» – che nei miei scritti appare come proprietà di ogni cosa e non di certe cose privilegiate rispetto ad altre – assume un significato inaudito, cioè del tutto diverso dagli eterni che sono stati evocati nel tentativo di difendersi dal divenire.3

La «tradizione» dell’Occidente e la «civiltà della tecnica» sono entrambe «forme di organizzazione del divenire altro» delle cose, cioè del divenire nichilistico4. La seconda di queste forme costituisce di certo il tramonto della prima, ma entrambe, in quanto forme della fede nel divenire, appartengono alla «terra isolata» dalla verità, cosicché lo stesso «paradiso della tecnica»5 che si sviluppa nell’orizzonte di tale isolamento è destinato ad essere oltrepassato. Il paradiso della tecnica, così, in un primo momento, appare davvero come il «culmine della potenza», ma poi all’interno dello sguardo della verità deve essere ravvisata la destinazione anche di quel paradiso alla perdita della propria potenza. La ragione di questo capovolgimento, in breve, risiede nel fatto che la tecnica non può «rendere eterno e immortale lo smisurato carico di felicità che essa è riuscita a produrre»6. Si deve riconoscere, in effetti, che essendo sempre oscillante, instabile la stessa «immortalità» raggiunta nel paradiso della tecnica – in

3.  SFP, Appendice, pp. 394-395. 4.  Cfr. O, X, p. 598. 5.  «Il paradiso della tecnica è il tempo in cui la potenza dell’essente è al culmine, perché nell’apparato filosofico-tecnologico la tecnica ha ascoltato la voce della filosofia, che le mostra l’impossibilità di ogni limite assoluto e inviolabile e l’agire ha ottenuto tutto quanto i mortali possono immaginare» (O, X, p. 638). 6.  Ibidem.

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quanto potrà essere sempre annientata – e stante che questo paradiso non è in grado di pronunziarsi sulla «verità della felicità», non può essere escluso il venir meno di tale situazione edenica. E così una tale felicità risulta essere essenzialmente «insicura» ed è al tempo stesso carica dell’angoscia dovuta alla minaccia di un suo annientamento7.

2.  I rimedi della poesia e della filosofia nichilistica La suprema potenza è, perciò, in verità, la suprema impotenza, alla quale il paradiso della tecnica può cercare di sottrarsi cercando altri rimedi per sopravvivere rispetto al «nulla» che incombe anche su se stesso. Esaminando queste ulteriori possibilità, Severino allude a un possibile sfruttamento che potrebbe essere eseguito delle dottrine di Leopardi e di Nietzsche nell’orizzonte del paradiso della tecnica8. Un rimedio potrebbe essere il «linguaggio della poesia», il quale consentirebbe al «genio» di sopportare il dolore infinito originato dal nulla (Leopardi). Oppure lo potrebbe essere una dottrina filosofica come quella dell’«eterno ritorno di tutte le cose», grazie alla quale sembrerebbe possibile affermare per davvero il «divenir altro», evitando quindi che il divenire si costituisca come l’annullamento delle cose (Nietzsche). Secondo un’ulteriore possibilità, il rimedio potrebbe essere ravvisato, addirittura, nello stesso mettere in questione il divenire ontologico e il diventar altro, così che il paradiso della tecnica – reso consapevole della «contraddittorietà del divenire» contenuta nella dottrina nietzscheana – giunga a volere 7.  Cfr. E. Severino, Crisi della tradizione occidentale, cit., pp. 137-138; Id., Angoscia e volontà di potenza, in OL, pp. 35-56: pp. 54-55. 8.  Cfr. O, X, pp. 652-655.

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che il divenire non sia l’angosciante «annientamento» delle cose che tornano nel nulla da dove provengono, quanto invece il venire dal proprio essere eterno9. Tuttavia – osserva criticamente Severino – è chiaro che i primi due «rimedi», prospettati rispettivamente in Leopardi e in Nietzsche, non sono tali da poter vincere l’errore del divenire nichilistico; e quanto al terzo, proprio perché l’eternità delle cose sarebbe qualcosa di voluto, con esso si resterebbe pur sempre nell’orizzonte nichilistico della «potenza». Siamo, così, arrivati alla conclusione ideale del discorso radicalmente critico di Severino. È proprio la convinzione dell’esser potente – cioè di esercitare una potenza sulle cose – il tarlo originario del paradiso della tecnica, che ne giunge a mostrare la radicale impotenza10. Scienza e tecnica non dominano gli enti nel loro esser semplicemente presenti, ma in quanto segni ed espressione del ‘mondo’.11

In tal modo, il carattere puramente illusorio dell’homo faber, quale tratto unitario del sapere contemplativo tradizionale e dell’agire tecnico del nostro tempo, viene a essere svelato, secondo Severino, nella sua indiscutibile necessità. La filosofia tradizionale, quindi, anche per il nostro filosofo non può essere resuscitata. E tuttavia questo non significa che non ci sia spazio per la «filosofia futura», vale a dire per ciò che, essendo oltre le forme tradizionali del filosofare e oltre la negazione che ne è stata eseguita dal pensiero contemporaneo, possa più legittimamente «sedersi sul trono della filosofia»12. 9.  Cfr. O, X, p. 655. 10. Cfr. O, X, pp. 655-656. 11.  E. Severino, Alienazione e salvezza della verità, in EN, pp. 265-283: p. 281. 12.  FF, p. 11.

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3. La «filosofia futura» interroga le forme della cultura occidentale Il merito essenziale che deve essere riconosciuto a Severino è quello di aver riproposto all’attenzione generale – non soltanto a quella dei filosofi di professione – questioni che sembravano lasciate ai margini del dibattito culturale dall’adesione ad alcune «convinzioni» di certo consolidate, ma non per questo inoppugnabili; lo stesso si deve affermare riguardo ad alcuni temi che erano ritenuti oramai obsoleti dalla successione delle «mode» culturali, a incominciare dal tema della verità. Naturalmente, ciò non significa che quell’attenzione sia stata universalmente catturata, anzi ritengo si possa rimarcare ancora una volta come, malgrado la grande diffusione e notorietà del pensiero severiniano, questo conservi una sua «inattualità», che è analoga all’inattualità del pensiero metafisico nel nostro tempo, almeno secondo l’accezione classica. Si badi bene, non intendo riferirmi soltanto al nostro tempo «filosofico», ma più ampiamente al nostro tempo «culturale», che è senza dubbio il tempo della concezione scientifica e tecnica della realtà. Su questo punto, peraltro, devono essere evitati alcuni possibili fraintendimenti. Quando Severino sottolinea con forza che l’episteme metafisica muore nel metodo sperimentale della scienza e che il Dio della metafisica muore nel «dio» dell’organizzazione tecnica, egli non intende sostenere la verità in assoluto del metodo scientifico e dell’apparato tecnologico, così come entrambi sono venuti a determinare il corso della civiltà occidentale. Il pensiero di Severino, in realtà, intende essere anzi un’apologia della verità filosofica nei confronti di una ingiustificata assolutizzazione della scienza e della tecnica. È, questa, l’indicazione di un aspetto decisivo della «filosofia futura».

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Si tratta, tuttavia, pure di rendersi conto – per altro verso – che da Severino non viene affatto messo in discussione il valore che è proprio della scienza, come talvolta gli si è invece rimproverato. Si deve rilevare, piuttosto, che egli stigmatizza il dogma dello scientismo, contribuendo così a chiarire alcuni tra i più diffusi equivoci presenti a tale riguardo nel nostro panorama culturale circa il posto che deve essere assegnato al sapere scientifico. La filosofia mette in questione tutto, anche la scienza, la logica e la tecnica, non perché, vivendo, non ci si debba servire di esse, ma perché – per dirla molto alla buona – nemmeno il sapere scientifico più rigoroso si appoggia (né, ormai, vuol più appoggiarsi) a un fondamento assolutamente incontrovertibile, cioè alla «struttura originaria» del sapere.13

Ad esempio, in relazione al «condizionamento» della mente dal cervello affermato dalla neuropsicologia, Severino rileva che il suddetto condizionamento, oltre che a poter essere affermato in modo solo probabilistico, può riferirsi soltanto alla mente intesa come «oggetto particolare», ma non alla mente (= il pensiero) che costituisce l’orizzonte totale dell’apparire, al quale perciò appartiene anche la teoria che afferma il condizionamento della mente da parte del cervello14. Già soltanto per questa ragione, a cui le nostre orecchie sono oramai poco abituate, si vede come sia inappropriato far dipendere le sorti della filosofia da quelle delle teorie scientifiche. La filosofia contemporanea, pur non essendo la forma autentica della filosofia, non funziona come rispecchiamento delle procedure scientifiche, ma è la condizione della loro possibilità, sta al loro fondamento. Ma poi: quale verità com13.  LC, p. 205. 14.  Cfr. E. Severino, Sul “fondamento” della mente, in L. Messinese - C. Göbel (a cura di), Verità e responsabilità. Studi in onore di Aniceto Molinaro, Centro Studi S. Anselmo, Roma 2006, pp. 195-206: p. 202.

189 pete alla filosofia del nostro tempo? E perché la tradizione filosofica deve tramontare? E come è possibile capire il suo tramonto se non se ne capisce l’abissale profondità? A queste domande non risponde la scienza, ma la forma autentica del pensiero filosofico.15

In ultima analisi, quella che Severino ci propone attraverso il suo pensiero è una seria riflessione sulla singolare grandezza del sapere filosofico e sulla sua rilevanza pratica anche per i problemi del nostro tempo. Si deve, però, avere sempre l’accortezza di non fraintendere il significato più genuino della dimensione pratica della «filosofia futura», che è quello di preparare il tramonto del nichilismo dell’Occidente. Il presente è il tempo della dominazione del nichilismo del­ l’Occidente, e la filosofia futura è quella testimonianza del destino, che si dispiega col tramonto dell’Occidente. La filosofia futura non è questo tramonto: lo prepara. […] Si tratta di attendere il tramonto dell’Occidente, e quindi il tramonto del fondamento stesso del nichilismo dell’Occidente: si tratta di attendere il tramonto dell’isolamento della terra, e quindi dell’esser mortale del mortale.16

Alla luce di quanto Severino è giunto a indicare nelle sue ultime opere, a me sembra che queste così suggestive espressioni non siano volte a disegnare un orizzonte «storico» – rispetto al quale, peraltro, Severino sollecita soprattutto a non conferire un carattere di assolutezza al «dominio della tecnica» –, ma a indicare l’avvento escatologico della terra che salva, che si dischiude nell’attimo di ciò che chiamiamo “la morte”. Il tramonto dell’esser mortale dell’uomo consiste in quella vera vita che è oltre ciò che nella terra isolata dalla verità è chiamata “questa nostra vita”.

15.  LC, p. 206 (corsivo mio). 16.  FF, p. 369.

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Congedo dal lettore

Al lettore che ha avuto la pazienza di seguirmi sino alla fine del percorso affido alcune parole di congedo, quasi un ultimo tratto di matita per il profilo intellettuale che mi sono proposto di disegnare e di far conoscere più da vicino, certamente nella sua «singolarità» e, nondimeno, all’interno di un insieme molto complesso di relazioni filosofiche, religiose e, più ampiamente, culturali. Il tratto della filosofia di Emanuele Severino che emerge più immediatamente consiste, con ogni probabilità, nella «critica» rivolta al pensiero e alle opere del nichilismo che dominano alla superficie della civiltà occidentale e proiettano la loro ombra sull’intero pianeta terrestre. La critica contenuta in tale dimensione emergente non deve, però, essere scambiata con l’articolazione più essenziale e profonda del pensiero di Severino. Giunti a questo punto, infatti, dovrebbe essere chiaro che il pensiero severiniano indica un orizzonte che è molto più ampio. Esso ha in vista cose per le quali non soltanto non basta – come si dice comunemente – «aprire gli occhi», ma la cui visione implica innanzitutto che debba essere rimesso in discussione proprio ciò che si ritiene stia «dinanzi ai nostri occhi» e che è affermato come la totalità di ciò che è. Innanzi-

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tutto, si devono avere occhi in grado di «vedere» il cielo e non soltanto gli uccelli che lo attraversano con il loro volo. Non è necessario aderire totalmente a tali indicazioni fondamentali per dover riconoscere che, una volta entrati nel castello del pensiero di Severino, non se ne esce come si era prima e con le stesse certezze che si possedevano anteriormente. Dire questo, tuttavia, non sottintende che debba essere sottolineata soprattutto l’«originalità» del suo pensiero, delle tesi e delle analisi in esso contenute, come pure sembrerebbe ovvio che si debba fare almeno in prima istanza. Le une e le altre dal lettore degli scritti di Severino devono essere, invece, proiettate sugli «schermi di pensiero» che sono offerti dalla tradizione filosofica, e questo, oltretutto, anche per coglierne le peculiarità autentiche. Del resto, è lo stesso Severino ad averci avvertiti a più riprese di non isolare il suo pensiero dal contesto più ampio della tradizione dalla quale esso proviene, sia pure per prenderne le distanze1. E così, per quanto debbano essere evidenziati i numerosi rilievi critici che il filosofo ha avanzato nei confronti dell’intera civiltà occidentale e in primo luogo del pensiero metafisico che ne sta alla base, si deve allo stesso tempo non passare sotto silenzio come egli abbia sempre continuato a dialogare con la tradizione metafisica e religiosa dell’Occidente. Quest’ultima si è presentata ai suoi occhi filtrata, in particolare, dall’opera del suo maestro Gustavo Bontadini e ha continuato a essere per lui un ineludibile termine di confronto anche al cospetto

1.  Severino, certo, riferendosi ai suoi scritti, parla di «pensiero originale», in quanto ciò che essi indicano mette in questione lo spazio all’interno del quale è cresciuto l’intero Occidente. Al tempo stesso, però, egli dice pure che tale pensiero «è ciò che la filosofia dell’Occidente sarebbe voluta essere, ma non è riuscita ad essere» (FF, p. 12), conferendo così legittimità al mio quadro interpretativo.

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della Götterdämmerung, della «caduta degli dèi» che è stata messa in luce dagli esiti della filosofia contemporanea. In considerazione di tutto questo, il pensiero di Severino non può non essere restituito, per essere meglio compreso, a questo più vasto orizzonte. Meno ancora, poi, a motivo della sua radicale dimensione critica, esso deve esser precipitosamente fatto passare come una delle varie forme di nichilismo che caratterizzano la filosofia e la cultura del nostro tempo. La critica delle convinzioni comuni – più o meno elevate culturalmente che esse siano – non è in lui puramente distruttiva, ma è orientata a indicare un volto diverso della «terra» che abitiamo e un senso diverso dell’«esser uomo» che pronunciamo in prima persona. La stessa critica nei confronti dei contenuti della fede cristiana – per quanto essa stessa da discutere in modo determinato – dev’essere compresa secondo questa medesima prospettiva. Accostarsi a Severino potrà anche produrre l’effetto di sentirsi mancare il fiato, ma perché si è condotti a respirare l’aria che avvolge le cime più alte del pensiero filosofico, ad avvicinare le incontaminate e inaccessibili montagne alle quali Heidegger paragonava le «grandi metafisiche», e a dover saper stare nella cerchia di questo «sovrastare»2. La lettura degli scritti di Severino è sempre illuminante e anche quando ci si orienti a dissentire da essi si può essere sollecitati a una platonica – ma non meno agostiniana – «conversione dello sguardo» che consenta almeno di chiedersi: cos’è che appare autenticamente?. Una indicazione – questa della conversione dello sguardo – che è molto cara anche alla fenomenologia contemporanea, rispetto alla quale, però, Severino inviterebbe a considerare anche il sostegno robusto e imprescindibile che proviene al pensie2.  Cfr. M. Heidegger, Contributi alla filosofia. Dall’evento, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2007, § 93, pp. 197-198.

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ro filosofico dalle sue origini greche e che dona all’autentico apparire delle cose, al quale intende rivolgersi la fenomenologia, la forza dell’affermazione invincibile. Nulla meno di questo è la «struttura originaria della verità» che fa da sfondo a ogni concreta manifestazione dell’essere, alla quale Severino aveva dedicato interamente se stesso fin dagli anni giovanili e che siamo tuttora invitati a prendere in seria considerazione. Dopo, solo dopo, dovrà venire il momento, anch’esso necessario, della discussione critica con il filosofo: innanzitutto riguardo al contenuto della «struttura originaria» della verità3,

3.  Agli scritti segnalati in precedenza si aggiungano almeno, in ordine cronologico, i seguenti volumi: C. Scilironi, Ontologia e storia nel pensiero di Emanuele Severino, Francisci, Abano Terme 1980; L. Messinese, Essere e divenire nel pensiero di E. Severino. Nichilismo tecnologico e domanda metafisica, Città Nuova, Roma 1985; G. Barzaghi, Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1997; C. Vigna, Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Vita e Pensiero, Milano 2000 (i saggi contenuti nelle pp. 119134, 475-488, 489-501; ristampato in versione ampliata nel 2015 dall’editrice Orthotes); I. Valent, (a cura di), Cura e salvezza. Follia e Occidente nel pensiero di Emanuele Severino, Moretti & Vitali, Bergamo 2000; L.V. Tarca, Differenza e negazione. Per una filosofia positiva, La Città del Sole, Napoli 2001; F. Berto, La dialettica della struttura originaria, Il Poligrafo, Padova 2003; I. Valent, Dire di no. Filosofia Linguaggio Follia (1995), a cura di R. Madera, pres. di E. Severino, Moretti & Vitali, Bergamo 2007; D. Sacchi, Lineamenti di una metafisica di trascendenza, Studium, Roma 2007 (pp. 7681, 133-142); I. Valent, Asymmetron. Microntologie della relazione, a cura di A. Tagliapietra, Moretti & Vitali, Bergamo 2008 (la seconda parte, intitolata Scritti teorici 1989-2001, pp. 165-326); A. Dal Sasso, Dal divenire all’oltrepassare. La differenza ontologica nel pensiero di Emanuele Severino, pref. di G. Brianese, Aracne, Roma 2009; G. Sasso, Il logo, la morte, Bibliopolis, Napoli 2010 (i capp. V-IX, pp. 103-254); M. Visentin, Il neoparmenidsmo italiano, vol. II, Dal neoidealismo al neoparmenidismo, Bibliopolis, Napoli 2010 (l’ampio capitolo dedicato a Severino, pp. 301-426); N. Cusano, Capire Severino. La risoluzione dell’aporetica del nulla, Mimesis, Milano-Udine 2011; G. Goggi, Al cuore del destino. Scritti sul pensiero di Emanuele Severino, Mimesis, Milano-Udine 2014; M. Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi,

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in specie al «volto dell’Assoluto»4, che a mio parere presiede alle restanti questioni; poi, al significato non radicalmente nichilistico del pensare e dell’operare dell’io in quanto «apparire finito» della verità5; e infine alla relazione che corre tra la «salvezza» prospettata negli scritti di Severino e la salvezza annunciata dalla fede cristiana6. Alessandro Carrera, alcuni anni fa, aveva osservato che Severino è sempre rimasto cristiano, meno il tempo, meno la temporalità soteriologica del cristianesimo che contempla la caduta, l’esilio, e il regno come eventi causati e progettuali. In Severino, caduta, esilio e regno sono compresenti, sono anzi lo stesso. Ma cristianesimo meno il tempo significa cristianesimo meno la storia, meno l’incarnazione, meno la speranza, meno il giudizio e meno la salvezza.7

Milano 2014 (il confronto con Severino è presente in più parti del volume); F. Saccardi, Metafisica e parmenidismo. Il contributo della filosofia neoclassica, pres. di P. Pagani, Orthotes, Napoli-Salerno 2016 (nuova ed. riv. 2018); E. Severino - V. Vitiello, Dell’essere e del possibile, Mimesis, Milano-Udine 2018 (è una raccolta degli interventi che i due filosofi si erano scambiati reciprocamente negli ultimi anni); N. Pastorino, Destino ed eternità. L’opera di Emanuele Severino, Inschibboleth, Roma 2020. 4.  Cfr. L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., parte III, pp. 307-379, e Conclusione, pp. 381-393; Id., Il paradiso della verità, cit., pp. 195-219; Id., L’apparire di Dio, cit., pp. 103-119 e 139-155; Id., La via della metafisica, ETS, Pisa 2019, pp. 211-255; Id., La metafisica come unità originaria di physis e logos, in «Aquinas», LXII, n. 1-2, 2019, pp. 121-133. 5.  Cfr. L. Messinese, Verità finita, cit. 6.  Cfr. L. Messinese, Finitezza della verità, fede cristiana e fede originaria, cit. 7.  A. Carrera, La consistenza del passato. Heidegger, Nietzsche, Severino, Medusa, Milano 2007, pp. 122-123. Più di recente egli si è espresso in termini che, a mio parere, aderiscono meglio al pensiero di Severino, rilevando che esso parla di «una salvezza senza Dio, ma non senza la Gnosi», ma che a differenza della Gnosi non presenta «una rinuncia al mondo della carne»

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Personalmente, direi che in Severino vi è una trasfigurazione sia del «tempo» che della «salvezza». Per lui l’esistenza nel tempo è reale, è un «accadimento», ma non è in rapporto alla creazione, così come, analogamente, pure la salvezza è reale, ma non è in relazione a un Dio personale. Aggiungerei poi che, essendo l’esistenza nel tempo un «esilio» altrettanto reale, proprio per questo essa resta distinta dall’esistenza escatologica. Soprattutto, però, vorrei rilevare che, operate queste distinzioni, resta in piedi la questione di maggior peso che dev’essere rivolta agli scritti di Severino e cioè se, per dare ragione dell’esistenza nel tempo e dell’isolamento dalla verità che la caratterizza, sia sufficiente far riferimento al «destino della necessità». Resta comunque il fatto che, come dicevo, nonostante Severino sia giunto a respingere il significato metafisico di Dio e quello ch’è contenuto nelle religioni storiche, li ha in qualche modo entrambi trasfigurati8. Egli, attraverso i suoi scritti, continua a farci porre l’interrogativo fondamentale per l’uomo, quello che concerne la sua «destinazione», e a farcelo esprimere in questi termini: cos’è che apparirà dopo la morte?. Da parte sua, Severino ha provveduto a stabilire l’elemento che sta alla base delle diverse risposte che potranno essere avanzate, e, cioè, che la morte non è un annientamento; e ha indicato, con la categoria della Gloria, il tratto essenziale dell’oltrepassamento della morte. (Id., Severino’s Magical Castle, pref. a E. Severino, The Essence of Nihilism, cit., pp. VII-XI: pp. X-XI). Inoltre, Carrera ha osservato che sebbene l’Essere di Severino non è Dio, comunque come Dio l’Essere è causa sui (cfr. ivi, p. XI), intendendo affermarne l’assolutezza, pur se la terminologia spinoziana adottata non sembra essere la più appropriata. 8.  A tale riguardo, per quanto concerne la dimensione metafisica, raccomanderei la lettura di I. Valent, Essere apparire sembrare. Riflessi e riflessioni dal pensiero di Emanuele Severino, cit., ora in Id., Asymmetron, cit., pp. 189-212.

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Ma se è questo il punto di arrivo del nostro itinerario, un’espressione che ho utilizzato all’inizio di questo cammino nel seguire le orme di Severino: né laico, né cattolico, pare quasi che venga a mostrare ora un’intonazione diversa. E potrebbe darsi che siano venuti meno il timore che possa mancare il fiato una volta entrati nel suo castello e la premura di abbandonarlo quanto prima.

Indice

Prologo

p. 11

A chi si rivolge il libro

p. 13

Sostando sulla soglia

p. 17

Capitolo I La vita e le opere

p. 19

1.  Le esperienze intellettuali di un giovane molto precoce 2.  L’insegnamento nella Università Cattolica di Mi­ lano 3.  I primi corsi sulla cattedra di Filosofia morale 4.  Le lezioni successive di Filosofia morale in Università Cattolica 5.  Gli scritti più rilevanti del primo periodo milanese 6.  L’insorgere del “caso Severino” all’interno della cultura cattolica 7.  Il processo canonico e la dichiarazione d’incompatibilità con la fede cattolica 8.  La docenza a Venezia e il consolidarsi della nuova fase del pensiero severiniano

p. 19 p. 23 p. 25 p. 27 p. 31 p. 34 p. 39 p. 43

9.  Da «Ca’ Foscari» alla docenza al San Raffaele di Milano. Ultimi eventi 10.  Gli scritti fondamentali del periodo veneziano e del secondo periodo milanese 11.  Breve ragguaglio sugli altri scritti Capitolo II Un pensiero rivolto all’eterno 1.  L’eternità di ogni cosa e la critica al divenire come nascita e morte degli enti 2.  L’identità di ogni cosa con se stessa e la critica al divenire come «diventar altro» degli enti 3.  Approfondimento circa il modo di affermare l’identità 4.  Identità ed eternità dell’ente 5.  Il rapporto tra le due forme del divenire nichilistico Capitolo III Il confronto con la storia della filosofia 1.  Severino alle prese con il pensiero antico e medievale 2.  La relazione con il pensiero moderno e contemporaneo 3.  I testimoni della coerenza del nichilismo occidentale: Leopardi, Nietzsche, Gentile 4.  La posizione peculiare di Martin Heidegger 5.  Il significato del lavoro storiografico di Severino e la partecipazione al dibattito filosofico contemporaneo

p. 47 p. 50 p. 56 p. 61 p. 61 p. 64 p. 65 p. 68 p. 70 p. 73 p. 73 p. 78 p. 81 p. 83

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Capitolo IV Il ritorno della metafisica oltre il problematicismo 1.  Il magistero di Gustavo Bontadini e l’«inveramen­ to» dell’idealismo gentiliano 2.  La valorizzazione del pensiero di Heidegger in funzione di una ripresa della metafisica 3.  L’adesione di Severino alla metafisica classica e l’affermazione dell’Essere trascendente Capitolo V La svolta di Ritornare a Parmenide e l’inizio di un nuovo cammino 1.  La critica di Severino alla metafisica e l’eternità di tutto ciò che è 2.  Il significato della critica severiniana al «Dio metafisico» 3.  La verità dell’«ontologia» non nichilistica in rapporto alla «teologia filosofica» Capitolo VI Il «destino» e il senso della vita e della morte 1.  La dimensione teoretica e la prassi etica e religiosa 2.  La critica al nichilismo della civiltà occidentale 3.  Il «destino» alla luce della verità dell’essere. L’errore dell’etica e della religione 4.  La salvezza e la Gioia del Tutto 5.  Le linee essenziali dell’«escatologia» severiniana 6.  La vita del «mortale» e l’autentico significato della «morte»

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p. 103 p. 103 p. 107 p. 110 p. 115 p. 116 p. 123 p. 125 p. 129 p. 130 p. 133

7.  L’oltrepassamento della morte e la «vita beata» Capitolo VII Il dialogo mai interrotto con la fede cristiana 1.  Oltre l’uomo, oltre Dio 2.  La ragione, la fede e la salvezza della verità 3.  La critica al contenuto e alla forma della fede cristiana 4.  Tramonto inevitabile della fede cristiana? Capitolo VIII La fine della metafisica e la distruzione della cultura occidentale 1.  Il contrasto interno al pensiero metafisico e il «tramonto degli immutabili» 2.  La fine del sapere filosofico tradizionale 3.  La filosofia contemporanea quale custode del nichilismo Capitolo IX Il nichilismo contemporaneo e la risoluzione della metafisica e dell’etica nella tecnica 1.  Breve apologia da parte dell’autore 2.  Le forme tradizionali e moderne del dominio sul «divenire» e la loro natura «ideologica» 3.  L’Apparato scientifico-tecnologico del nostro tempo legittimo erede del Dio metafisico 4.  La radice «parmenidea» del nichilismo e la «logica analitica» della scienza

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p. 157 p. 158 p. 162 p. 164

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Capitolo X L’angoscia del divenire, i «rimedi» del mortale e la Gioia 1.  Il falso «paradiso» della tecnica 2.  I rimedi della poesia e della filosofia nichilistica 3.  La «filosofia futura» interroga le forme della cultura occidentale Congedo dal lettore

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Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Classici Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Pasquale Galluppi, Memoria sul sistema di Fichte. 2. Carlo Invernizzi, Lucentizie. L’enigma del tempo. 3. Massimo Adinolfi - Massimo Donà (a cura di), Trovarsi accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello. 4. Luca Basile (a cura di), Croce e la revisione del marxismo. Antologia di testi critici. 5. Nicola Magliulo, Segni del presente. Prospettive di filosofia italiana contemporanea. 6. Vincenzo Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla storia alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia. 7. Massimo Donà, Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile. 8. Mario Capanna - Massimo Donà - Luigi Vero Tarca (a cura di), Cháris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino. 9. Vincenzo Vitiello, L’Ora e l’attimo. Confronti vichiani. 10. Antonio Rosmini, Dell’amicizia. Alcuni inediti giovanili.

11. Massimo Donà, Apologia dell’immediato. Percorsi evoliani. 12. Gaetano Rametta, Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel. 13. Leonardo Messinese, Nel castello di Emanuele Severino.

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 13 - Classici

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Il volume di Leonardo Messinese si propone come una guida accessibile per «capire» un autore il cui pensiero, al di là di alcune semplicistiche raffigurazioni, è estremamente complesso. Il pensiero di Severino può essere paragonato a un grande castello, con una sola porta d’ingresso e dalle dimensioni molto strette. Anche quando si riesce faticosamente ad entrarvi, è difficile riuscire a visitarlo per intero. Accostandosi ai suoi scritti si è condotti a respirare l’aria che avvolge le cime più alte del pensiero filosofico, ad avvicinare le incontaminate e inaccessibili montagne alle quali Heidegger paragonava le «grandi metafisiche». Il libro si rivolge a una duplice tipologia di lettori. Coloro i quali conoscono le tesi di Severino attraverso le pagine dei quotidiani e delle riviste culturali, potranno averne una comprensione più adeguata. Chi, invece, è un «addetto ai lavori» nel campo degli studi filosofici, potrà valutare la bontà del percorso interpretativo che è stato tracciato nel libro e, magari, esserne convinto.

Leonardo Messinese è professore ordinario di Metafisica alla Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista di filosofia «Aquinas». È autore di molti saggi, alcune curatele e numerosi studi specialistici di carattere sia storico che sistematico. Tra i suoi libri: Stanze della metafisica. Heidegger, Löwith, Carlini, Bontadini, Severino (Brescia 2013); L’apparire di Dio. Per una metafisica teologica (Pisa 2015); Il problema di Dio nella filosofia moderna (Città del Vaticano 20172); Verità finita. Sulla forma originaria dell’umano (Pisa 2017), La via della metafisica (Pisa 2019).

ISBN ebook 9788855292405 € 10,00