Destino ed eternità. L'opera di Emanuele Severino 8855290754, 9788855290753

«Questo foglio, questa penna, questa stanza, questi colori, suoni e sfumature e ombre delle cose e dell'animo sono

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Destino ed eternità. L'opera di Emanuele Severino
 8855290754, 9788855290753

Table of contents :
Presentazione
Premessa
Perché la storia dell’Occidente è la storia del nichilismo: divenire altro da parte del medesimo
La struttura originaria e il valore dell’immediatezza nell’ontologia del destino della necessità
L’“indifferenza ontologica” e la posizione dell’uomo rispetto all’eterno
Sulla vita e la morte: riapparire, risignificare, oltrepassare
Bibliografia
Ringraziamenti
Indice

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Nazareno Pastorino

Destino ed eternità L’opera di Emanuele Severino

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 19 - Proposte

Nazareno Pastorino

Destino ed eternità L’opera di Emanuele Severino

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2020, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma

www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 19 - marzo 2020 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-075-3 ISBN – Ebook: 978-88-5529-076-0 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Rose buried in ashes © Kevin Carden – stock.adobe.com

A mio padre, un eterno che non appare più.

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Presentazione di Massimo Donà

Quando il confronto con un grande del proprio tempo diventa un modo per ripensare le questioni che più di altre hanno segnato un’intera vicenda storica, e quando questa vicenda storica si chiama Occidente e il grande del proprio tempo si chiama Emanuele Severino, ecco che il volume può diventare un’occasione, a disposizione di chiunque, per fare dei significativi passi avanti nella comprensione del senso stesso del “fare filosofia”. Un grazie, dunque, a Nazareno Pastorino, per averci stimolato a “pensare”.

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Premessa

Mettere anche parzialmente in questione la struttura logica sulla quale si fonda l’opera di Emanuele Severino è estremamente difficile. Tale opera si organizza infatti su una fittissima serie di interconnessioni che si richiamano continuamente, dandosi ragione e sostenendosi le une con le altre1. Ho cercato allora 1.  Sembra dello stesso parere Luca Taddio: «Alcune grandi opere del pensiero si caratterizzano per la forza di essere un sistema dove ogni singolo anello stringe a sé l’anello successivo. Non riesco ad immaginare una sola obiezione da porre a Severino che comporti o la rottura della catena o l’intero esame dei singoli anelli: da qualunque punto si approcci il suo pensiero esso ci condurrà verso lo stesso nucleo centrale, come i raggi di un qualsiasi punto dato su una circonferenza conducono al medesimo centro» (L. Taddio, Un realismo relativistico. In risposta a Emanuele Severino, in «La filosofia futura», n. 3, 2014, pp. 115-125: p. 115). Cfr. anche C. Arata, La Verità dell’essere neoparmenidea (il Destino della Verità) e il “problema” Emanuele Severino, in Aa. Vv., Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, a cura di A. Petterlini, G. Brianese e G. Goggi, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 27-55, in part. p. 28: «In presenza di simile compatta monoliticità strutturale non è filosoficamente facile intervenire anche solo nella forma del domandare, o comunque di un tentativo di “dialogo”. Ogni intervento pare fatalmente incorrere in una “esternità” in una “estrinsecità”, che lo condanna ad un immediato delegittimarsi». Arata, poco più avanti del brano proposto, rileva che anche una possibile domanda o obiezione che non voglia allinearsi alla

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di accedere a questa rete di rimandi e connessioni che formano la struttura granitica dell’opera di Severino senza tuttavia eliminare il tarlo del dubbio, per vedere a cosa sarei arrivato alla fine del percorso. Severino mette innanzitutto in questione la categoria sulla quale si fonda, sin dall’inizio, la storia del pensiero occidentale: il divenire. Come osserva Severino, è Platone ad affermare – opponendosi a Parmenide – l’assoluta dipendenza dell’essere dalla determinazione alla quale talora è attribuibile, talora non lo è, sicché l’essere diviene un predicato ora predicabile ora non predicabile. In questo modo, osserva Severino, Platone mette in opera proprio l’operazione che egli stesso vorrebbe evitare: spalancare le porte al nulla. Sorgono da ciò numerosi problemi: se un ente è soltanto e fintantoché esso è, qual è il suo destino una volta che non sarà più? Quando si afferma che la legna è divenuta cenere, cosa accade alla legna? Ho cercato di mettere in luce sin dall’inizio quanto rappresenti un serio problema pensare che un ente divenga un altro o addirittura che la presenza attuale di un ente

verità granitica esposta da Severino farebbe sempre parte della Totalità degli essenti e dunque del Destino della verità: «Il Destino della Verità o Verità dell’essere neoparmenidea pleno iure dunque fagocita, avoca a sé, rivendica come sua, insistiamo, ogni e qualsiasi “esternità”, ogni e qualsiasi illusione di “esternità”. Non solo non “esterna” l’“esternità”, bensì non “esterna” neppure l’illusione dell’“esternità”» (ivi, p. 29). In ultima analisi va altresì rilevato che, paradossalmente, proprio per seguire la struttura granitica di tutto il pensiero di Severino e non tradirlo, bisognerebbe, secondo Arata, che nemmeno Severino proferisca parola sulla struttura originaria e sul destino della necessità. Infatti se è vero quanto affermato dal filosofo bresciano, secondo il quale «l’ascoltante [della verità dettata dalla necessità] non può essere che la Necessità stessa» (E. Severino, La struttura originaria [1958], Adelphi, Milano 20073, p. 98), diventa problematico capire come Severino riesca, non essendo egli stesso la struttura originaria, ad ascoltarne la verità.

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condanni all’annichilimento – al perdersi completamente nel nulla – ciò che l’ha preceduto. Ciò deriva, secondo Severino, da un’errata concezione – propria della cultura occidentale – dell’identità: l’Occidente ha concepito le radici dell’identità nell’alterità, ha confuso l’identico con il diverso. Tale confusione deriva a propria volta dall’incomprensione del significato autentico del principio di non contraddizione. E Severino individua la radice ultima di tale incomprensione: la separazione tra soggetto e predicato. Affermando: “la rosa è rossa” si afferma che “A è B”2. Come si può notare, persino nella struttura del linguaggio è presente la confusione tra identico e diverso. Ho cercato di approfondire tale argomento seguendo le linee direttrici che Severino indica: la confusione tra identico e diverso prende le mosse dal non aver compreso la perfetta coappartenenza, per quel che riguarda il principio di non contraddizione, tra il diorismós (l’essere il principium firmissimum che lo vede sempre lontano dall’errare) e l’élenchos (la sua dimostrazione). Il principio di non contraddizione sfugge alla contraddizione costitutivamente. Non c’è spazio per la contraddizione laddove il linguaggio incomincia a concepirsi all’interno del destino della necessità, vale a dire, da sempre al di là del nichilismo. L’unico tipo di contraddizione che Severino ritiene necessaria, e dunque non situata all’interno della follia dell’Occidente, è quella che egli definisce la “contraddizione C”. Tale contrad-

2.  Per approfondire questo tema è sicuramente utile far riferimento a Tauta aei di Vincenzo Vitiello, ove il filosofo napoletano mostra di apprezzare la logica severiniana senza, però, evitare di avanzare su di essa qualche dubbio o di proporne una vera e propria alternativa: cfr. V. Vitiello, Tauta aei. La logica dell’inerenza di Emanuele Severino, in Aa. Vv., Il destino dell’essere. Dialogo con Emanuele Severino, a cura di D. Spanio, Morcelliana, Brescia 2014, pp. 175-187.

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dizione è da ritenersi necessaria in quanto tutto l’essente non può apparire mai nella sua concreta presenza proprio perché “apparire” significa mostrarsi come parte finita dell’infinito. La contraddizione C, in altre parole, mostra e conferma l’esser vivo e presente di ciò che non si mostra proprio grazie al fatto che esso non si mostra. Severino afferma, dunque, che la storia dell’Occidente è lontana dall’autentico senso della verità, che la storia dell’Occidente è la storia del nichilismo. Dov’è rinvenibile allora l’autentico senso della verità? In quella che Severino definisce la struttura originaria, cioè quella struttura presente da sempre nel destino di ogni ente, perché necessaria. Per Severino fenomenologia e linguaggio sono strettamente connessi3. Nell’ottica non nichilistica del destino della verità appare evidente ciò che l’Occidente non è più in grado di vedere: la lampada che appare accesa esiste nel suo essere accesa. Ciò che percepiamo quando percepiamo una lampada accesa, cioè, non è la lampada distinta dal suo essere accesa, noi percepiamo e vediamo la lampada-accesa. Quando la percepiamo come accesa dovremmo pensare che la lampada-accesa – vale a dire l’ente lampada unito indissolubilmente all’essere acceso – entri nel cerchio dell’apparire e appaia. Parimenti si può dire che il linguaggio non alienato dal senso della verità si struttura proprio sulla base di questo nuovo modo di rapportarsi alla fenomenologia: appare errato, infatti, affermare che la lampada è accesa (A = B) proprio per quanto detto sull’identità e l’alterità poc’anzi. Si dovrebbe invece dire, più correttamente: la lampada-accesa appare accesa, o meglio, 3.  Cfr. su questo tema quanto detto da C. Scilironi, Necessità del significato e destino del linguaggio in E. Severino, in «Sapienza», 1984, pp. 415-432. Si presti specificamente attenzione a quanto l’autore afferma a pagina 417 circa la piena corrispondenza tra significanza ed essere.

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addirittura, la lampada-accesa appare accesa poiché l’esser acceso appartiene alla lampada. [(A = B) = (B = A)]. Ma cosa intende Severino per “cominciare e smettere di apparire”? Per Severino è errato dire che un ente inizia a essere e cessa di essere, piuttosto si dovrebbe dire che inizia ad apparire e cessa di apparire. Per Severino il fatto che un ente appaia significa che esso entra nel cerchio eterno dell’apparire, quando non appare più vuol dire che è uscito da questo cerchio. Il fatto che gli enti appaiano e scompaiano non vuol dire che essi incominciano o cessano di essere, ogni ente rimane stabile nell’essere e non oscilla tra quest’ultimo e il nulla. Da queste considerazioni ne conseguono altre circa il rapporto fra “libertà” e “necessità”. Il sistema di pensiero di Severino è da considerarsi un sistema completamente privo della nozione di libertà? Come va inteso in tale sistema il rapporto tra libertà, necessità e destino? Verso la fine del secondo capitolo, mi sono brevemente soffermato su un problema che Severino tiene in debito conto: l’eternità di tutti gli enti appare soltanto formale. Occorre spiegare più nel dettaglio come sia possibile l’eternità di tutti gli enti come totalità concreta e come ciò coinvolga l’uomo in rapporto alla morte. S’inserisce qui il concetto severiniano di indifferenza ontologica. È impossibile e illogico sostenere, come d’altronde fa il pensiero occidentale, la presenza all’interno dell’ente di una scissione: l’ente per un verso è caduco e transeunte, per l’altro, è immortale ed eterno grazie alla sua essenza o anima che lo rende tale. Tale operazione è condotta dall’autore sulla base di un ragionamento ben preciso: ogni ente è eterno, non deriva né fa ritorno al nulla, e dunque è eternamente presente in tutte le sue possibilità anche quando alcune di queste non appaiono, anche quando restano fuori dal cerchio dell’apparire. È chiaro che, in tale prospettiva, l’ente non ha nulla al di fuori di sé che

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attenga alla propria natura, nulla che lo sostenga in qualità di sostanza che sopravanzi a livello di mera qualità ontologica l’esser-presente dell’ente stesso4. La Gioia, spesso richiamata dall’autore, non è nient’altro che la salvezza dell’ente a partire solo e soltanto da se stesso. La sedia su cui ora siedo, il foglio su cui scrivo o la tastiera che ora utilizzo sono eterni proprio essendo e rimanendo enti finiti. Ogni ente non rimanda che a se stesso o alla finitezza eterna degli altri enti che sopraggiungono nel cerchio dell’apparire. Alcuni enti entrano nel cerchio dell’apparire, altri ne escono. Mi sono chiesto come fosse possibile, nell’ottica di Severino, che gli enti entrassero e uscissero dal cerchio dell’apparire pur rimanendo nell’essere. E mi è sembrato che proprio per rispondere a una simile domanda Severino abbia pensato l’esistenza di altri cerchi, infiniti cerchi, i quali pur essendo attuali non appaiono attualmente. Un discorso simile può creare molte perplessità. Per quel che mi riguarda, ho osservato come esso sia comprensibile soltanto se si abbandona la struttura aristotelica del rapporto tra potenza

4.  Anche Luca Taddio osserva che nella filosofia di Severino non c’è spazio per una metafisica sottostante la verità delle cose empiriche (cfr. L. Taddio, Un realismo relativistico, cit., p. 116). Ciò va discusso e va approfondito: proprio colui il quale formula la distinzione tra eternità di tutti gli enti e la loro apparizione o non apparizione rifiuta ogni distinzione ontologica che possa drammaticamente “spaccare” l’ente e la sua natura in una parte transeunte e un’altra eterna e sostanziale. Ciò è possibile perché, secondo il filosofo bresciano, la natura dell’ente è una natura eterna, non soggetta a scivolare nel non essere. Se qualcosa appare e qualcosa sempre, necessariamente, non appare, non bisogna pensare a una dicotomia tra eternità e mortalità, apparizione transeunte e stabilità dell’ente. Apparizione e assoluta fermezza immortale del fondamento, possibilità e necessità, atto e potenza rimangono uniti nella cosa che vive essa stessa immortale, salva in sé, al di là e nel fondamento, al di là e con il suo apparire o non apparire più.

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e atto, cosa che Severino non fa esplicitamente, ma che mi è sembrata implicita nel suo pensiero. Nell’importante opera Oltrepassare, Severino chiarisce sin dal­l’inizio l’intenzione di spiegare in maniera compiuta in che senso ogni ente deve considerarsi eterno e in che modo si può pensare di oltrepassare la morte. La salvezza proposta dal cristianesimo appare a Severino come del tutto interna al nichilismo; egli mostra infatti che l’ente non ha bisogno di esser salvato ma è salvo già da sempre, eterno e lontano dal pericolo di divenire nulla attraverso la morte. Da qui ciò che Severino definisce “persintassi” e che sta in stretto rapporto con l’eternità di ogni ente. Ogni ente è se stesso e resta ciò che è perché va inteso come un significato eterno all’interno della struttura persintattica che entra ed esce dal cerchio dell’apparire. Ogni cosa è connessa a ogni altra e in ciò ritrova la propria eternità. Una lampada, questo foglio sono significati eterni i quali entrando e uscendo dal cerchio dell’apparire lasciano un segno, una traccia e aprono all’apparire di altri enti, al sopraggiungere di nuove, e al tempo stesso eterne, configurazioni di mondo. Ed è appunto in questa tesi dell’eternità di tutte le cose, del­ l’impossibilità di ogni cosa di venire dal nulla e finire nel nulla – perché semplicemente il nulla non è –, il fascino inconfondibile dell’opera di Severino, un fascino che, forse, si dovrebbe riuscire a subire intensamente, senza tuttavia mai cedervi completamente. Sicché, in definitiva, alla fine del percorso che avevo iniziato proponendomi di ancorarmi al vaglio critico del dubbio, il dubbio ha continuato paradossalmente a persistere nella domanda se sia riuscito davvero a mantenerlo vivo.

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Capitolo I

Perché la storia dell’Occidente è la storia del nichilismo: divenire altro da parte del medesimo

1. Il divenire come falsa struttura di verità nel pensiero occidentale […] l’Occidente vuole che le cose della terra, in quanto cose, non siano un niente. Anche quando abbandona le cose alla precarietà estrema e le vede attraversate e consumate dal niente, alla sua superficie l’Occidente rifiuta che, per quanto breve e minacciato sia lo spazio in cui le cose riescono a non essere un niente, in questo spazio esse siano, in quanto cose, un niente. Ma a partire dal pensiero greco, e una volta per tutte, l’Occidente è insieme la volontà che una cosa, in quanto tale, sia ciò che esce e rientra nel niente; sia ciò che è, ma che sarebbe potuto non essere.1

Per Severino l’Occidente ha alle sue radici una caratteristica che lo conduce naturalmente a preferire l’essere delle cose piuttosto che il nulla. Per questo motivo, secondo Severino, 1.  E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 15. Cfr. anche E. Severino, Esser convinti di ciò che non è, in «La filosofia futura», n. 5, 2005, pp. 119127, in part. p. 124, ove l’autore afferma che Platone attraverso il suo Sofista destina la storia dell’Occidente a essere storia del nichilismo: «Il Sofista prepara la casa dell’Occidente e ormai nel Pianeta – la casa dell’essenza autentica del nichilismo».

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l’Occidente è costitutivamente aperto allo spazio della necessità ontologica. Tale necessità è il luogo ove ogni cosa trova la propria configurazione stabile, la propria univoca modalità d’esi­ stenza. Con l’affermarsi dapprima della filosofia platonica, poi di quella aristotelica, tuttavia, si iniziò a credere che la salvezza razionale dell’ente in quanto ente dovesse ritenersi necessariamente legata alla sua facoltà di poter ora essere, ora non-essere. Ogni ente è fintanto che esso è, sino a quando, cioè, appartiene al regno dell’essere; parimenti esso non sarà più, quando non vi apparterrà2. L’ente risulta così un oggetto precario, oscillante tra essere e nulla. Esso trae la sua esistenza e affermazione dall’essersi distinto da qualcosa di assolutamente ignoto e indeterminabile, qualcosa di problematico dal quale misteriosamente deriva e al quale altrettanto misteriosamente fa ritorno. Severino classifica come assolutamente “alienata” e priva di consistenza formale quel tipo di ragione che vorrebbe difendersi e fortificarsi sulla base di tale ragionamento: infatti, dire che l’essere è soltanto quando esso appunto è, si rivela senz’altro l’errore più insidioso della ragione occidentale. Quest’ultima separa arbitrariamente l’essere dal determinato, causando così un’estraneità tra la determinazione e l’essere che è del tutto innaturale. In sostanza, Platone pensa l’“è” come predicato attribuibile o non attribuibile alla determinazione, pensa l’“è” come una discriminante qualitativa della determinazione che è di volta in volta in questione. Egli, per un verso, vincola indissolubilmente l’essere e la determinazione; dall’altro, pro2.  Si tenga ben presente la critica mossa a Severino da A. Crescini in Emanuele Severino. Il suo “essere” il suo “nichilismo”, in «Giornale di Metafisica», XVII, n. 3, 1995, pp. 461-512, in part. pp. 490 ss. Crescini dubita fortemente che Platone volesse intendere la natura di ogni ente come oscillante tra essere e non-essere, piuttosto egli intende rimarcare la differenza ontologica tra l’imperfezione del mondo sensibile e la perfezione del mondo delle idee. Cfr. su questo tema anche quanto affermato da V. Vitiello in Dire Dio in segreto, Città Nuova, Roma 2005, pp. 86-90.

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prio attraverso tale operazione, separa ciò che è già da sempre nell’essere unito tramite una congiunzione non-mediata, naturale3. Profondo conoscitore della dottrina di Parmenide, Platone ravvisa in essa il pericolo che la determinazione rimanga esterna e ininfluente all’essere. Tale assolutezza indeterminata, lungi dal respingere definitivamente il problema del nulla, lo cela dentro di sé alimentandolo giustappunto in virtù della propria natura irrelata. Per tali ragioni Platone, afferma Severino, al fine di salvare i fenomeni, vincola l’essere alle differenze afferenti al determinato. Tale operazione, paradossalmente, risulta essere la condanna dell’Occidente: da questo evento in poi inizia a costituirsi una struttura menzognera, la quale costituirà essa stessa un grande ostacolo per istituire un corretto rapporto con i fenomeni stessi. In una pagina molto nota del poscritto di Ritornare a Parmenide, il pensiero di Severino appare chiarissimo: Ormai Platone era divenuto il difensore del concreto, dal naufragio parmenideo, e sotto questo riparo il pensiero occidentale si poneva una volta per tutte, senza avvedersi che l’ovile non era stato chiuso prima che entrasse il lupo e senza avvedersi che era stata lasciata fuori, in sovrana solitudine, la luce della verità dell’essere. Nell’ovile si era lasciato entrare quanto si sarebbe dovuto abbandonar fuori, e cioè l’astratta separazione dell’essere e della determinazione; mentre si era abbandonato fuori quanto sarebbe dovuto entrare per primo, il respiro del gregge, la verità di Parmenide.4 3.  Cfr. quanto detto da Severino in Essenza del nichilismo (1982), Adelphi, Milano 19952, p. 75: «Ciò vuol dire che nello stesso pensiero col quale Platone unisce la determinazione al suo “è” (ponendola appunto come ciò che non è nulla), in questo stesso pensiero si intende la determinazione come ciò che può sciogliersi dal salutare abbracciamento al suo essere, e quindi come ciò che può non essere». 4.  Ivi, p. 74.

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Platone si dimostra un «guardiano infido»5 che invece di difendere il proprio gregge, dà vita a una «malattia mortale»6: non è possibile infatti, secondo il filosofo greco, affermare che l’esistenza è inclusa immediatamente nell’essenza senza far ricorso alla posizione di un medio, che, tramite la predicazione ulteriore dell’essere, riesca a far convenire l’esistenza all’essenza. Severino non esita ad affermare che proprio la sicurezza razionale del fondamento, volendo essere logica e mediata, destitui­ sce il fondamento stesso da ogni senso7. 5.  Ibidem. 6.  Ivi, p. 76. 7.  Massimo Donà, su questo tema, ha una posizione differente da quella del suo maestro. Ne L’aporia del fondamento infatti sembra affermare che se si vuole correttamente pensare a una logica del fondamento come logica immediata, è possibile farlo solo pensando alla logica, apparentemente contraddittoria e aporetica, della mediazione. Infatti se si è alla ricerca di ciò che è immediato quale fondamento astratto e primo del visibile, occorre rilevare il suo primo porsi proprio nell’apparire. Il darsi nelle modalità mediate dell’apparire fenomenico garantisce all’immediatezza del fondamento il suo esserci. In tal senso, non volendo scacciare l’aporia, occorre difenderla: solo attraverso la mediazione si manifesta l’immediato, tale che la manifestazione mediata è immediata in ragione del suo porsi mediato. Per questo è possibile dire che ogni cosa, anche considerata sotto il profilo della sua essenza immediata, si dà come qualcosa di immediato, e contemporaneamente (senza alcuna differenziazione e senza alcun timore di cadere in contraddizione) di mediato. L’immediatezza trova la sua naturale esplicazione proprio nel suo apparente contrario. Ciò, tuttavia, non tradisce la natura più profonda del suo essere, piuttosto la rafforza dandole l’unica possibilità di esistere e di porsi. In base a tale ragionamento appaiono perciò assai più comprensibili le parole di Donà secondo le quali: «se in Hegel il giudizio originario si dà nella forma “il mediato è immediato”, nel contesto teorico disegnato da questo volume lo stesso giudizio originario trova invece la seguente forma: “l’immediato è mediato”» (M. Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, Milano-Udine 2008, p. 62). E ancora: «È chiaro allora: l’inizio è immediato solo nel senso che in esso mediazione e immediatezza sono “insieme” (sub eodem) diversi e identici. Nel senso che la mediazione si viene a designare come forma della propria originaria immediatezza» (ivi, p. 81).

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In questo caso, paradossalmente, volendo pensare in maniera strutturata, il pensiero si auto-nega e non pensa nulla8. Ora occorre interrogarsi: cosa conduce Severino a denunciare l’annichilimento del pensiero? Su quale fondamento di ragione quest’ultimo può sostenere a gran voce che proprio il pieno esercizio del pensiero può condurre al suo totale non-senso? Se quanto più qualcosa viene esercitata, tanto più dovrebbe rafforzare le proprie radici, perché ciò non avviene? La risposta può essere la seguente: il pensiero, lungi dall’esercitarsi lontano dall’errore e, quindi, riuscire a eliminarlo, ritrova tale elemento prima come configurazione e struttura fondamentale di se stesso9 e poi, di conseguenza, anche come struttura costitutiva

8.  Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., pp. 80 s. Cfr. Anche V. Vitiello, Filosofia teoretica. Le domande fondamentali: percorsi e interpretazioni, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 230 s. 9.  Si prenda in considerazione quanto affermato da Messinese in Severino e la metafisica: secondo quest’ultimo la filosofia di Severino si pone come un assoluto. Il pensiero di Severino vuole giungere a essere un sistema filosofico che non può avere, al di fuori di sé, altre prospettive valide, prospettive, cioè, alternative. Alla base di questa operazione esiste l’idea che il pensiero occidentale stia vagando nel buio e a tentoni per sentieri lontani dalla verità, ma vi è anche la consapevolezza, messa in discussione da Severino, che lo stesso pensiero che cade in errore ha costitutivamente la forza di procedere correttamente. Il pensiero da se stesso, dal suo esercizio pieno, può far emergere, senza dubbio, una effettiva possibilità, valida per tutto il sapere metafisico. Addirittura Messinese arriva a rilevare che per Severino: «l’assenza del sapere metafisico, quindi, già da allora era per Severino soltanto una situazione dell’uomo, qualcosa di attinente alla sfera “psicologica”, ma non alla dimensione propriamente speculativa» (L. Messinese, Severino e la metafisica, in Aa. Vv., Il destino dell’essere, cit., pp. 29-53: p. 32). Cfr. su questo tema le parole dello stesso Severino: «siamo convinti che l’uomo oggi non sia in possesso soltanto della sicurezza della sua situazione, ma sia in grado di possedere quelle verità che va cercando affannosamente: sgombrato il campo da ogni pregiudizio, è anche in possesso di una tradizione metafisica gloriosa: da Parmenide a Leibniz; si tratta di vedere concretamente quale struttura metafisica potrà costituire effettivamente l’incrollabile punto di

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del mondo fenomenico. L’errore, il nichilismo, il lupo, è tutto all’interno del gregge. Deve esservi, dunque, un elemento interno alla struttura del pensiero che compromette la verità e l’esattezza di ogni processo logico; Severino osserva inoltre che tutto il pensare, inteso come momento astratto e come capacità logica di far confluire argomenti correlati verso una conclusione corretta, non solo non è in grado di smascherare tale elemento fallace, ma, addirittura, ne fa il proprio indiscutibile e più saldo fondamento. Si tratta ora di capire qual è questo elemento: secondo Severino si tratta della fiducia cieca e incondizionata della tradizione occidentale nel divenire. A partire da Platone si stabilisce sì che, nel divenire delle cose che appaiono, il loro non essere non è il nulla di ogni cosa, ma è il non essere di una certa cosa – onde il divenire è il passaggio da un certo non essere ad un certo essere.10

Cosa indica con inconfutabile certezza che il divenire è la struttura fondamentale, la regola che regna indisturbata su tutto l’essente in generale? Quale elemento permette di poter affermare con incontrovertibile sicurezza che le cose passano da un certo modo d’essere a un altro, o addirittura dall’essere qualcosa a non essere più nulla? Severino osserva: Questa definizione [del divenire] esprime con fedeltà il contenuto che appare? Questo pezzo di carta sta bruciando rapidamente, ed ora è ridotto a poca cenere. Diciamo allora che è andato distrutto e che il risultato di questa distruzione è il suo essere ormai un niente. Ma – ecco il problema – questo essere niente appare, oppure di quell’oggetto non appare più

appoggio: si tratta di incominciare a pensare decisivamente» (E. Severino, Note sul problematicismo italiano, in Id., Heidegger e la metafisica, Adelphi, Milano 1994, p. 447). 10.  E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 85.

27 niente (niente del modo di essere che gli conveniva prima di andare bruciato)? Appare che l’oggetto è niente, o l’oggetto non appare più?11

La ragione alienata tende a nascondersi questo problema. Quando è pronta ad affermare senza dubbio che del foglio che brucia non resterà nulla, intende infatti rafforzare non un fondamento su ciò che effettivamente appare, ma quel giudizio del tutto arbitrario che poi arriverà ad asserire: “L’essere si è tramutato in niente”. Tuttavia, quando appare tale passaggio? I nostri occhi cosa vedono12? Possiamo solo testimoniare che di un pezzo di carta è rimasta della cenere, che prima avevamo l’ente “carta” e ora abbiamo l’ente “cenere”13. 11.  Ibidem. 12.  Severino ha più volte affermato che ciò che sembra evidente (il divenire) non è evidente perché manca del tutto la possibilità di vedere ciò che si crede di vedere. In Essenza del nichilismo – e specificamente nelle pagine dedicate al saggio Il sentiero del giorno (pp. 145-193) –, l’autore bresciano afferma che l’unica cosa che possiamo testimoniare grazie ai nostri sensi è l’apparire e lo scomparire degli enti, non il loro divenire, non il loro mutare, né il loro finire nel nulla. Tutto ciò è da attribuirsi a un errato rapporto col senso autentico dell’apparire e alla pura immaginazione. Enrico Berti segnala che «c’è in Aristotele un passo in cui, all’affermazione di Parmenide secondo cui il movimento è solo opinione o apparenza, lo Stagirita obietta: “Se questa opinione è falsa, comunque esiste come opinione, e dunque anche in questo caso il movimento esiste, anche se si trattasse di immaginazione [phantasia = apparenza], anche se questo dovesse talvolta apparire in un modo e talvolta in altro modo, giacché anche l’immaginazione e l’opinione sono da ritenere movimenti” [Aristot., Phys., VIII, 3, 254a 27-31]» (E. Berti, Severino e Aristotele, in Aa. Vv., Il destino dell’essere, cit., pp. 131-145: p. 137). Berti crede che questa argomentazione aristotelica sia la prova inconfutabile che il divenire non possa essere messo in discussione in alcun modo. 13.  Si prenda in considerazione quanto detto da Severino in La legna e la cenere, Rizzoli, Milano 2000, p. 21 e p. 52: «Ma quell’“evidenza” suprema, che imprigiona tutti gli abitatori dell’Occidente, vorremo discuterla un giorno o l’altro? E scorgendo che non è affatto un’“evidenza”, ma la fede e la violenza originaria che guida la nostra civiltà, non dovremo dire che la follia estrema è proprio la convinzione che l’essere sia nulla?»; «Quel che rimane del tutto

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Nel II capitolo de L’identità della follia Severino afferma che l’evidenza somma attribuita al divenire deriva dalla confusione tra l’identico e il diverso. Già nel frammento 88 di Eraclito si possono leggere queste parole: «Lo stesso: il vivente e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio; queste cose, infatti, tramutandosi son quelle e quelle, di nuovo tramutandosi, son queste»14. Si tenga presente che Severino preferisce questa traduzione del frammento: Son lo stesso le cose che hanno nomi opposti (giovane-vecchio, morto-vivo…) perché le une, metapesónta (dal verbo metapípteìn, che vuol dire cadere), precipitando (così avevamo tradotto), sono altre.15

Questo precipitare delle cose diviene per la cultura occidentale l’evidenza indiscutibile del divenire16. Ciò di cui si sta parlando acquisisce notevole rilievo se si tiene presente che la “cosa”, ciò che ci sta di fronte come altro da noi, riceve le nostre azioni sulla base di questa concezione dell’identità e dell’alterità. Infatti, nota Severino, in greco “cosa” può essere detto in molti modi, uno di questi, πρᾶγμα, richiama la prassi, ciò che può dirsi relativo al fare, all’agire; la “cosa” è ciò su cui massimamente si può agire17. L’uomo vive, organizza, agisce, rapportandosi alle cose; ciò sarebbe impossibile o massima-

impensato è che all’interno di questo progetto il contenuto che viene descritto non è mai ciò che appare, bensì ciò che si è preliminarmente deciso di assumere come il contenuto che appare, come il “dato”». Cfr. Su questo tema anche quanto detto da A. Crescini, Emanuele Severino, cit., p. 468. 14.  D-K 22, B 88. 15.  E. Severino, L’identità della follia. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2007, p. 31. 16.  Cfr. quanto, giustamente, affermato da Crescini in Emanuele Severino, cit., p. 479: «[per Severino] La cosa non scompare, non cade dunque nel nulla, ma cade in se stessa, nella sua autentica manifestazione». 17.  Cfr. E. Severino, L’Identità della follia, cit., p. 35.

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mente difficile se tra la cosa “legna” e la cosa “cenere” venisse messo in discussione il ponte che collega causalmente i due elementi. Che qualcosa sia se stessa pur essendo diversa da sé è per l’Occidente qualcosa di impensabile, tanto che lo stesso Platone nel Teeteto afferma con chiarezza che «nemmeno in un sogno» o «nemmeno nella follia» si può pensare che «una cosa sia l’altro da sé»18. Quando tuttavia si pensa alla cenere come prodotto della combustione della legna si dimentica totalmente che l’identico non può in alcun modo essere diverso da sé. Il principio di non contraddizione, ovvero ciò che è stato definito come principium firmissimum, sarebbe violato. Il problema che ci si pone davanti è il seguente: affermare che qualcosa diventi altro da sé è per Severino affermare implicitamente che quel qualcosa è già da sempre altro da ciò che è19. Nel concordare all’essere di una cosa una certa capacità di trasformazione, non si fa altro che piegare l’identificazione alla non-identificazione. Il procedimento che permette tale atto, tuttavia, si fonda pur sempre su una ricerca dell’identità del diverso; infatti per il pensiero occidentale la diversificazione si fonda ontologicamente sulla base del suo concetto antitetico, senza che ciò sia denunciato come folle autocontraddittorietà. In Tautótes Severino afferma: «L’“atto” con cui qualcosa

18. Plato, Thaeth., 190b-c. 19. In Oltrepassare, Severino va oltre l’argomentazione meramente logica e indica come il divenire altro da parte del medesimo presupponga una ferita nel medesimo: «la ferita è anzi uno squartamento; ed è ferito anche l’altro, che è invaso da ciò che, differendo, stravolge l’altro: è ferito dal differente. La differenza – la “cosa” in quanto differenza – è il luogo e il fondamento del dolore e della morte, e dell’angoscia di fronte ad essi. Differire, è da ultimo, morire. La “cosa” è, da ultimo, morte» (E. Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, p. 136).

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diventa altro da sé è l’atto stesso con cui qualcosa si identifica all’altro da sé»20. L’ontologia occidentale, per questo, è un’ontologia fondata sull’auto-contraddizione: infatti, il proprio fondamento razionale la costringe a pensare sempre il “questo” nell’altro. Inoltre la contraddittorietà diviene duplice, o come preferisce scrivere Severino, raddoppia se si pensa che non solo qualcosa per essere altro deve essere in se stessa, a dispetto dell’identità, già altro, ma addirittura, per essere identica e diversa da sé, deve essere in qualche modo nulla21. Aristotele si mostra ben conscio di tali problematiche e tenta in alcuni passaggi della Fisica22 di introdurre un sostrato permanente il quale permetta di pensare l’esistenza del divenire evitando l’identificazione di qualcosa con qualcos’altro. Il filosofo greco, infatti, utilizzando i due termini empedoclei “odio” e “amore” dietro i quali è sottesa la dicotomia di “unione” e “disunione”, spiega che ciò che è “amore” non può diventare “odio” e viceversa; semmai potrebbe esistere un sostrato che permanendo sempre uguale a se stesso, lontano quindi da ogni possibilità di auto-contraddizione potrebbe configurarsi, ora come ciò che ama, ora come ciò che odia23. Occorre però domandarsi: tale discorso è sufficiente a risolvere una questione così spinosa? Tale ragionamento può essere soggetto alla seguente critica: ammessa l’esistenza di un sostrato immutabile, che per sua natura logica e razionale non possa assolutamente scivolare nell’opposto di ciò che fermamente è,

20.  E. Severino, Tautótes, Adelphi, Milano 1995, pp. 14 s. 21.  Cfr. ivi, p. 26. 22.  Cfr. Aristot, Phys., 189a 24-26; cfr. quanto affermato da Severino riguardo ad Aristotele su questo tema in Tautótes, cit., pp. 54 s. 23.  Cfr. E. Severino, Tautótes, cit., pp. 16 s.

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come si giustifica la duplice e contrapposta attività concernente ora l’esser capace d’amare, ora l’esser capace di odiare? Se ciò è possibile, l’unico elemento che può permettere tale passaggio è un cambiamento di stato, o, se meglio si crede, di prospettiva; tale mutamento richiede necessariamente il divenire del medesimo in altro. Ciò conduce a un’ulteriore considerazione problematica: la semplice affermazione dell’alterità non indica in maniera scontata che qualcosa sia diventato altro, ma, piuttosto, che qualcosa24 proprio essendo se stesso viene concepito come altro e quindi è altro. Si consideri quanto affermato da Severino nel già citato Tautótes all’inizio del quarto paragrafo del capitolo intitolato significativamente Essere altro, essere nulla: Se, per pensare il divenire, e dunque il risultato del divenire, bisogna pensare che il qualcosa che diviene è altro da sé, il pensiero del divenire nasconde d’altra parte a se stesso la contraddizione (l’impossibilità) del divenire, isolando il qualcosa dal suo altro: isolando l’altro dal qualcosa e ponendo, come risultato del divenire soltanto l’altro – ponendo cioè che nel risultato della combustione c’è soltanto la cenere; e nel risultato dell’annichilimento c’è soltanto il niente.25

L’Occidente nasconde a sé l’aporia del divenire, la nasconde proprio perché essa si rende insostenibile alla ragione. Cercando di penetrare il problema: l’Occidente ammettendo il divenire delle cose, come si è già detto, deve ammettere di pensare l’alterità come presente nell’identità e, viceversa, di pensare l’identità come ciò che essendo ciò che è – cioè identico a sé – non è identico a sé. Per uscire da questo labirinto di specchi, si dovrebbe poter affermare che qualcosa muta in-

24.  Uso in questo caso il corsivo per il termine “qualcosa” al fine di ricordare che esso dovrebbe richiamare immediatamente al lettore il termine “cosa” che gli è immancabilmente sotteso. Ogni cosa è un determinato e, per questo, è sempre se stessa e non altro. 25.  E. Severino, Tautótes, cit., p. 22.

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dipendentemente dal momento che lo precede, che la cenere diventa cenere isolandosi dal nesso di causalità che la lega al foglio che è stato bruciato; in tal caso però bisogna esser disposti ad accettare un altro assurdo logico: la cenere vien fuori dal nulla. Il metodo dialettico è, secondo Severino, il tentativo più eminente di risolvere questo problema cercando di salvare il divenire delle cose: infatti Hegel, pur cogliendo che al divenire appartiene immancabilmente la contraddizione, rileva altresì che tale movimento è il movimento costitutivo e necessario dell’esistente. Proprio nel pensiero dialettico hegeliano manca, secondo Severino, un’autentica conciliazione degli opposti, la quale permetterebbe a Hegel di poter considerare la contraddizione come tolta: per giungere al vero a all’intero realmente risolto, si dovrebbe negare in maniera categorica il movimento della Aufhebung che, al contrario, si presenta nella filosofia hegeliana come il vero e proprio motore che conduce verso il risultato finale. Hegel crede di poter trovare nella congiunzione dialettica degli opposti un equilibrio che sia il frutto di un prendere e un togliere da parte delle determinazioni finite in questione, potendo dar vita, tramite questo processo, proprio a quella conservazione dell’ente e del divenire che risultava difficilmente realizzabile vista la sua forte aporeticità. Può risultare utile tener presente quanto affermato da Severino su questo punto: «La Aufhebung delle determinazioni finite è, insieme, il loro annientamento e la loro conservazione»26 e confrontarlo con quanto già Platone pone in maniera fortemente problematica nel Fedone: Non solo la grandezza stessa non vorrà mai essere, insieme, un esser grande e un esser piccolo, ma anche la grandezza che è in noi non vorrà mai accogliere in sé la piccolezza o essere sopportata da essa e quando il suo contrario, la piccolezza, le si

26.  Ivi, p. 34.

33 avvicina, essa, la grandezza, o fugge o gli lascia il posto, oppure quando quella sopraggiunge, perisce.27

Il metodo dialettico nasconde a se stesso l’alterità da sempre presente nell’identità che deve necessariamente supporre se vuole rimanere una struttura di pensiero logica e coerente. Secondo Severino, infatti, rimanendo coerenti alle regole del pensiero dialettico, la legna diventa cenere non poiché essa sia semplicemente passata dal suo primo stato all’esser cenere, ma sostanzialmente tenendo ben fermo che qualcosa dell’esser legna si conservi cosicché a essere diventata cenere è la legna, o meglio: quella cenere è la cenere prodotta dal divenire altro da parte della legna. Appare sensato, dunque, approdare a tale conclusione: nel risultato finale, l’esser cenere convive e coesiste anche l’esser legna. Tale considerazione appare in sé poco problematica poiché l’Occidente ha dimenticato o non si avvede che, come indicava anche il passo già citato di Platone, in una medesima cosa non possono coesistere due nature differenti, né tanto meno si può pensare che da un loro particolare rapporto possa derivare la natura di un prodotto. Nella dialettica hegeliana, riflette Severino: «Lo “stesso” è l’esser se stesso del risultato, cioè l’esser altro, da parte dell’altro in cui il qualcosa si porta» e «solo nel divenir altro si costituisce lo “stesso”»28. In altri termini: la dialettica hegeliana è la volontà più forte da parte del pensiero occidentale di pensare l’altro come la “casa” dello stesso, il tautòn, come fondato e autoprodotto dal suo contrario: il diverso. Il pensiero dialettico, tuttavia, è in grado, o forse si crede in grado, di scansare la propria fondamentale auto-contraddittorietà: infatti, esso tenta di mostrare che il

27. Plato, Phaed., 102d-e. 28.  E. Severino, Tautótes, cit., p. 47.

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divenir altro interno allo stesso costituisce il momento necessario e mediato per l’effettivo toglimento della contraddizione29. Severino, proprio a tal proposito, in Tautótes scrive: Il “se stesso” – l’identità – si costituisce come risultato del divenire in cui consiste l’“esser-altro”. Il divenir altro è la produzione dell’identità. (Anche questo testo conferma cioè che per Hegel il divenire, nel suo significato concreto, non è la contraddizione impossibile e necessariamente inesistente, ma è il superamento della contraddizione che si produce con l’isolamento del questo ora e del suo essere un già stato – questo secondo isolamento essendo il risultato soltanto negativo del movimento dialettico).30

Il brano appena citato apre ad altre riflessioni e interrogativi che non possono essere ulteriormente rimandati: se è vero che l’identità si costituisce solo a partire, paradossalmente, dal gioco degli opposti, nonché in ultima analisi dal risultato che deriva dal toglimento della parzialità del questo come semplice determinazione sensibile non ancora mediata ad opera dell’altro, appare chiaro che tale risultato deve essere inteso come ciò che resta. Secondo Severino, l’universale, l’intero, può dirsi tale perché qualcosa, anche all’interno del sistema hegeliano, risulta indiveniente. L’universale è per Hegel, nella rilettura di Severino, la coscienza di ciò che resta nell’incessante movimento del divenire. Detto in altri termini: se è vero che il processo

29.  Cfr. ivi, p. 53: «Quando l’isolamento è tolto, il divenir altro non è, per il pensiero dialettico, contraddizione, ma è anzi l’autoproduzione dell’esser se stesso. In quanto tale, il divenir altro non è contraddizione: è contraddizione in quanto […] esplica, rimanendo nell’isolamento, la contraddizione dovuta all’isolamento. Raggiunta la relazione concreta tra il finito e il suo altro – la relazione dove l’altro è ormai “per sé”, ma è anche “l’altro di un altro” –, il divenir altro non è contraddizione, ma oltrepassamento, negazione della contraddizione». 30.  Ivi, p. 80.

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dialettico conduce all’universale, sarà necessario pensare che esiste un principio il quale, in virtù della sua stabilità, permetta il divenire; il divenire stesso, come tutti i concetti particolari concepiti dal sistema hegeliano, ha bisogno di passare nel suo contrario per essere se stesso. Ne risulta che il divenire, per dimostrare la propria forza, deve necessariamente non divenire, permanere identico a sé, proprio auto-negandosi. A ben vedere, a questo punto, però, cosa viene alla luce? Viene alla luce che il divenire non è una struttura immediatamente interna alla logica dell’ente31, o, quanto meno, risulta molto difficile accettare in maniera del tutto assiomatica che il divenire sia una configurazione atta a garantire la salvezza dell’ente in generale32. Il divenire, in altri termini, non rappresenta un primum così saldo da poter annullare ogni messa in discussione

31.  Qui s’intende il divenire presentato nella sua forma nichilistica (quella ammessa e mai posta in dubbio veramente dalla cultura occidentale). Esiste, però, una forma di divenire – o meglio, una forma di mutamento – promossa dalla cultura cinese che sarebbe, forse, considerata diversamente da Severino stesso. L’interessantissimo articolo di Massimiliano Cabella, dal titolo Il “divenire dell’essere” nel pensiero cinese e nella filosofia di Emanuele Severino, mostra che il mutamento (Yi), per la sapienza cinese, non è affatto accostabile al divenire che altera e cambia le cose. Piuttosto esso va inteso come qualcosa di interno alle energie opposte della natura che alimentano l’essere stesso. Il mutamento non rinvia a qualcosa d’altro rispetto alla natura stessa, non permette il non-senso denunciato da Severino a causa della necessità che il medesimo diventi altro da sé per essere se stesso. L’alternanza e lo scambio degli opposti, di Yin e Yang, rinvia, significativamente, piuttosto, all’eterna e univoca modalità dell’esistenza delle cose. Secondo la concezione del mutamento presente nell’Yi Jing «il mutamento è il sommo vertice della realtà […] [tanto che] il mutamento naturale delle cose non viene avvertito come un problema esistenziale e conoscitivo da risolvere» (M. Cabella, Il “divenire dell’essere” nel pensiero cinese e nella filosofia di Emanuele Severino, in «La filosofia futura», n. 5, 2005, pp. 25-45, in part. p. 33). 32.  Cfr. E. Severino, Tautótes, cit., p. 131: «Il divenire a cui si rivolge il pensiero dell’Occidente è fondato sullo stesso isolamento che dovrebbe oltrepassare».

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riguardo alla sua fermezza; essendo esso stesso fondato, si può ben dubitare che esso sia un fondamento33. Secondo Severino, l’Occidente ha reso elemento regolativo non la verità ma l’errore. Tale errore, come si è già detto, consiste nell’aver creduto possibile l’identità degli opposti, un’identità che risulta tale perché è, a ben vedere, non-identità. Il senso stesso dell’identificazione di qualcosa tramite qualcosa – si pensi a un predicato che segua semplicemente un soggetto – risulta essere una pratica tutta all’interno del nichilismo. «In quanto il soggetto è isolato dal predicato, il soggetto è sempre un altro dal predicato. Anche quando il predicato è il soggetto stesso (come in “A è A”)»34. Il far convenire il predicato A al soggetto A (Severino scrive: “A-soggetto” e “A-predicato”) denota la difficoltà della struttura logica creata dall’Occidente di far essere A ciò che per essenza è: A. Il paragrafo che segue è dedicato giustappunto al problema appena prospettato riguardante la separazione del soggetto dal predicato e ciò che tale separazione comporta rispetto al dire e al principio di non contraddizione.

33.  Cfr. ivi, p. 86: «nel risultato non è conservata l’immediatezza del cominciamento, ma il contenuto di esso; e il passato, che è conservato e permane nel risultare dell’universale, non è l’immediatezza di quel cominciamento che è questo ora, ma è il contenuto essenziale (la forma, la “traccia”) di esso. Nel metodo dialettico, non solo diventa esplicito che la coscienza indiveniente del divenire è risultato del divenire (e cioè che solo “alla fine” si produce la comprensione totale e concreta del divenire), ma resta anche ripresentato (oltre che il principio aristotelico del sostrato) il principio kantiano che la percezione del permanente è la condizione della percezione del cambiamento». 34.  Ivi, p. 102.

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2. La separazione tra soggetto e predicato e il principio di non contraddizione Nonostante il convincimento, diffuso nella moderna logica simbolica, che non ci si possa arrestare a questa forma di relazione [soggetto-predicato], essa rimane la forma fondamentale di relazione, perché anche le forme più complesse di relazione sono riconducibili al dire e al pensare che qualcosa è (predicato di) qualcosa. Anche una “funzione” saturabile da più argomenti, come ad esempio “x è situato tra y e z”, è pur sempre un dire qualcosa (“situato tra y e z”) di qualcosa (x).35

Secondo Severino, la logica occidentale, anche quella moderna, non riesce in alcun modo a liberarsi dalle catene di un pensiero il quale debba necessariamente fondare l’identità di qualcosa tramite la predicazione di qualcos’altro. Il problema è ben posto da Tommaso d’Aquino, il quale riflettendo asserisce che l’identità così come è pensata dall’Occidente è qualcosa che si costituisce solo come ens rationis, come contenuto razionale dell’intelletto. L’identità, detto in altri termini, non costituisce un elemento reale. Essa deve essere intesa, afferma Severino interprete di Tommaso, come un noema, ciò che per la propria natura puramente logica e razionale non necessita di predicazioni per essere asserita. L’essente è identico in sé, nel momento stesso in cui l’intelletto – ma si potrebbe pensare anche all’atto del dire – lo pone semplicemente come stante a sé (A)36. Nella struttura logica dell’Occidente, però, ogni rapporto regolato dal divenire è rapporto di dipendenza del soggetto dal predicato: pensare che la legna diventi cenere significa non solo 35.  Ivi, p. 97. 36.  Ivi, pp. 110 s. Cfr. quanto afferma V. Vitiello in Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992, p. 231: «Se in Hegel è la mediazione che “contiene” la immediatezza, in Severino è vero esattamente il contrario. In Hegel A è tolto in A = A, la Sostanza nel Soggetto; in Severino (A = A) in A: il discorso nell’intuizione. Perché A è già – già da sempre –, perciò è possibile la sua esposizione in (A = A)».

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pensare che nel passaggio dall’esser legna all’esser cenere, nel divenire, vi sia qualcosa che spieghi puntualmente il come e il perché di questo avvenimento, ma anche che la cenere diventa il predicato della legna e che la legna diventa soggetto del predicato “cenere”. Sperando di essere più chiari: se si afferma che A diventa B si afferma che A sarà B; ciò è inconcepibile se non si è disposti a pensare che B non sia già in qualche modo predicato di A, e che A, a sua volta, non sia già soggetto di B (riproponendo l’esempio consueto, è la legna – A-soggetto – a divenire cenere – B-predicato) 37. Si potrebbe però avanzare la seguente obiezione: credere che la cenere sia il predicato prodotto dal divenire del soggetto “legna” è un errore, poiché la legna sarà cenere non prima che si sia realizzata la sua nientità, non prima cioè che essa sia diventata niente; in altri termini: c’è una voragine che separa la legna dalla cenere cosicché il secondo termine, la cenere, non va considerata predicato del soggetto legna. Quando si afferma altresì: “A sarà B”, occorre sempre pensare che nel passaggio che permette il divenire da A a B ha luogo, innanzitutto, l’annullarsi di A. Dal nulla che ha annichilito A, poi, si ha B. In tal caso però, riflette Severino: quando il pensiero dell’Occidente si convince che, per diventar cenere, la legna deve diventare innanzitutto un niente e che, a sua volta, è il niente della legna e della cenere in quanto tali a diventar cenere, anche in questo caso, nel diventare niente da parte della legna il niente diventa il predicato della legna e la legna diventa il soggetto del niente; e, nel diventar cenere da parte della nientità della legna e della cenere in quanto tali, la cenere diventa il predicato del niente e il niente il soggetto della cenere.38

Si tenga ora presente che è impossibile che qualcosa diventi un niente, poiché il passaggio che conduce, o dovrebbe condurre, 37. Cfr. supra, cap. I, § 1, p. 36. 38.  E. Severino, Tautótes, cit., p. 129.

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un ente al suo esatto contrario – il ni-ente – rimane, secondo Severino, assolutamente indimostrato. Di conseguenza, risulta ugualmente impossibile che la cenere possa derivare dalla nientità della legna, che quest’ultima possa essere considerata in termini di soggetto rispetto al nulla, il quale, a sua volta, sarebbe soggetto rispetto al predicato ulteriore: la cenere. Occorre, dunque, ripensare il rapporto tra soggetto e predicato in modo che la predicazione non risulti esterna all’identità del soggetto39; dire che la lampada è accesa significa dover affermare che parte del significato del soggetto “lampada” è affidato al predicato “accesa”, di conseguenza, l’identità dell’ente in questione – in questo caso la lampada – è affidato all’essere “accesa”. A ben vedere si sta affermando dunque, paradossalmente che l’essere A di A è B40. I numerosi studi ad opera di Emanuele Severino circa il vero significato del principio di non contraddizione mirano a mostrare come il fondamento vero di tale principio sia stato travisato o addirittura obliato. Infatti, sia in Fondamento della contraddizione che in Essenza del nichilismo, l’autore afferma che la vera impossibilità che al medesimo convenga e non convenga insieme la medesima determinazione, nel medesimo istante, è data dall’assenza di significato, l’assoluto non-senso, generato dall’accostamento dei due contrari41. Infatti, riflette Severino, il diorismós posseduto dal principio di non contraddizione indicherebbe perentoriamente che la predicazione di contrari non solo è impossibile, ma genera

39.  Anche V. Vitiello sembra arrivare a tale conclusione in Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, Edizioni ETS, Pisa 2009, pp. 101 s. 40.  Cfr. E. Severino, Tautótes, pp. 140 s. 41.  Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 427, e Id., Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, p. 25.

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l’impossibile, l’assoluto-non. Dire: “il bianco è nero” significa non affermare assolutamente nulla, non dire. Il predicato “nero” annulla il soggetto, sottraendolo da ogni possibile significazione. La parola “bianco”, inoltre, quando accostata alla parola “nero” non solo sembra non aver significato ma perde ogni possibilità, anche solo ideale, di poter essere rappresentata; la mente stessa che produce tale accostamento produce contemporaneamente la dissoluzione dell’operazione che sta tentando di compiere: in parole più semplici, il pensiero che tenta tale formulazione, non pensa nulla42, resta immobile nel vuoto. Infatti se nella stessa mente coesistessero due convinzioni che hanno come contenuto giudizi contraddittori, ognuna delle due convinzioni implicherebbe l’inesistenza dell’altra convinzione. Lo stesso ragionamento può dirsi valido se lo si applica a quanto detto in precedenza, infatti, quando si afferma: “Il bianco è nero” questa affermazione dovrebbe essere vista come contraddittoria proprio perché sottende due enunciati inconciliabili: Il bianco appare bianco. Il bianco appare nero. 42.  Su questo tema si prenda in considerazione quanto affermato da Severino nel suo articolo Esser convinti di ciò che non è, cit. L’autore tenta di spiegare perché pensare nella contraddizione significa non pensare nulla. Già secondo Platone, nel Teeteto, l’allievo di Socrate teorizzava, anticipando lo Stagirita, l’assoluta fermezza e solidità del principio di non contraddizione. Ecco le parole di Severino: «il Teeteto sembra dunque dire sia pure in modo implicito, che, qualora si sia in grado di mostrare come sia possibile esser convinti di ciò che è falso, questa convinzione non può realizzarsi che in rapporto agli enti che appartengono al mondo della dóxa, dove essi sono stati altro e possono diventar altro da ciò che sono; sì che l’esser convinti del falso è ritenere che un ente che esiste in un certo modo esista in un modo diverso; laddove per l’uno che non è il due – sia che insiste nel modo in cui esso non è in due – è impossibile che esso sia esistito o che possa venir a esistere in quel diverso modo nel quale esso è il due – e quindi è impossibile l’esser convinti che l’uno sia il due» (E. Severino, Esser convinti di ciò che non è, cit., pp. 122 s.).

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Bisogna altresì comprendere, afferma Severino, che il principio di non contraddizione ha il suo fulcro fondamentale e viene davvero compreso se il diorismós, ciò che lo fa essere così saldo, lo si considera come unito ed inscindibile con l’impossibilità assoluta della sua confutazione: l’élenchos. Severino nei primi capitoli di Fondamento della contraddizione43 mira giustappunto a spiegare che ogni tipo di confutazione del principium firmissimum ne afferma il diorismós, così come il diorismós, proprio perché è tale, contiene già in maniera chiara, distinta e logica l’impossibilità di confutazione. L’errore più comune di molti studiosi che si sono interessati a quanto espresso da Aristotele sul principio di non contraddizione è stato proprio quello di non comprendere la compenetrazione e l’unità tra il diorismós e l’élenchos. Da ciò deriva, secondo Severino, l’errore più rilevante di Jan Łukasiewicz, il quale si mostra alquanto critico riguardo l’assoluta impossibilità di prescindere da parte della logica dal principio di contraddizione44. Ogni discussione che voglia ritenere il principio di contraddizione come principio primo, e dunque come imprescindibile legge di base per la formulazione di qualsivoglia pensiero logico, deve arrestarsi e quantomeno ammettere che l’originarietà che permetterebbe a tale principio di essere indiscutibile e indubitabile è solo presunta e non dimostrata. Secondo Łukasiewicz, Aristotele non dà una dimostrazione del princium firmissimum, e il fatto che egli stesso nel libro Γ affermi: «è ignoranza il non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba ricercare»45 rende ancor più evidente la difficoltà dello Stagirita di poter tranquillamente affermare, senza possi-

43.  Cfr. E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., pp. 61-76. 44.  Così è chiamato da J. Łukasiewicz in O zasadzie sprzeczności u Arystotelesa, Wydawnictwo Naukowe PWN, Warszawa 1987; tr. it. di G. Maszkowska, Del principio di contraddizione in Aristotele, Quodlibet, Macerata 2003. 45.  Aristot., Metaph., Γ, 4, 1006a 6-8.

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bilità di confutazione, che tale principio sia primo e tra tutti il più saldo. L’autoevidenza che si vorrebbe attribuire al principio di non contraddizione si rivela insufficiente e, secondo le parole del filosofo polacco, «un residuo di quello “psicologismo” che ha portato la logica filosofica su una falsa pista»46. Cerchiamo

46.  J. Łukasiewicz, O zasadzie sprzeczności u Arystotelesa, cit., p. 103; tr. it. cit., pp. 101 s. Tale perplessità sembra condivisa anche da Riccardo Berutti. L’autore avanza il dubbio di una forza positiva della negazione in grado di affermare, per un istante, la sua posizione, essendo, positivamente, puramente se stessa: «l’attimo, l’istante del toglimento non deve conoscere tempo, perché è subitaneo ed immediato – in questo senso non c’è un periodo in cui la negazione attenda ad essere rimossa –, eppure, ciononostante, affermando che quello della negazione è un auto-toglimento – cioè, una rimozione operata da sé –, si deve giocoforza scindere questo istante in più parti ed attribuire surrettiziamente alla negazione una doppia presenza scenica, una duplicità di ruoli che, a rigore, non dovrebbe essere compossibile allo stesso personaggio: quella di chi toglie la negazione e quella di chi è tolto come negazione, quella di chi rimuove e quella di chi viene rimosso. In questo senso l’élenchos, l’arma più affidabile del fondamento, esattamente esprimendosi nei termini, che pure gli sono decisivi, di auto-toglimento della negazione, proprio nella determinazione specifica di questo “auto” (di questa “identità”) incorre nel rischio di presupporre almeno un istante in cui la negazione sia se stessa, come negazione, ma prima del proprio toglimento» (R. Berutti, L’enigma della negazione. Considerazioni intorno alla figura dell’elenchos e del fondamento nel pensiero di Emanuele Severino, in «La filosofia futura», n. 5, 2005, pp. 9-24: pp. 21 s.). Sollecitato dal dubbio posto da Berutti, sento di poter avanzarne un altro: se il negativo deve e riesce a togliere se stesso, grazie ad un movimento a sé intrinseco (significativamente Berutti pone in corsivo più volte la parola “auto”) ciò risulta possibile, soltanto affermando, giocoforza, un carattere positivo, altrimenti non riuscirebbe nemmeno ad auto-negarsi essendo la stessa auto-negazione possibile in forza soltanto di una qual certa posizione. Inoltre se si vuole attribuire al negativo soltanto la forza di auto-togliersi ciò potrebbe essere fatto, ancora una volta e per un’altra motivazione, solo dal positivo proprio in forza della stessa idea a cui Severino non rinuncerebbe mai: siccome dal nulla, niente può derivare, dal mero negativo non può derivare alcun reale toglimento. Dall’auto-negarsi della negazione, infatti, risulterebbe comunque un positivo: l’assoluta impossibilità di negare il positivo.

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di capire meglio, però, perché e cosa intende Jan Łukasiewicz con l’affermazione precedente. L’autore polacco prende in considerazione il principio di non contraddizione nelle tre formulazioni presenti nella Metafisica: quella ontologica47, quella logica48 e quella psicologica49. La formulazione psicologica, oltre a non essere dimostrata di fatto, influenza in qualche modo anche il nostro giudizio rispetto all’assoluta fermezza del principio di non contraddizione riguardo la formulazione ontologica e quella logica. Due convinzioni contraddittorie circa un medesimo oggetto non possono sussistere nello stesso tempo in una stessa mente, di conseguenza – e si faccia ben attenzione a questo connettore di causalità – è impossibile che si possa concepire un oggetto che abbia e non abbia contemporaneamente uno stesso attributo, così come, sempre di conseguenza, non è possibile concepire due giudizi come veri, nello stesso tempo e sotto il medesimo rispetto, se uno due attribuisce al soggetto proprio quel predicato che l’altro giudizio gli aveva sottratto. Ciò che prova a mettere in rilievo Łukasiewicz è la presunta mancanza di una vera e propria dimostrazione analitica del principio di non contraddizione sostituita, erroneamente, dalla convinzione che una presunta derivazione della parte logica e ontologica da quella psicologica possa essere una dimostrazione sufficiente. In altri termini: la derivazione di conseguenza del principio logico e ontologico da quello psicologico non è garanzia di effettiva fermezza del principio. Secondo Severino, Łukasiewicz non 47.  Aristot. Metaph. Γ, 3, 1005b 19-20: «Nessun oggetto può possedere e non possedere uno stesso attributo nello stesso tempo». 48.  Ivi, Γ, 6, 1011b 13-14: «Non possono essere veri nello stesso tempo due giudizi, dei quali uno assegna all’oggetto proprio quell’attributo che dall’altro gli viene negato». 49.  Ivi, Γ, 3, 1005b 23-26: «Due convinzioni, a cui corrispondono giudizi contraddittori, non possono sussistere nello stesso tempo nella stessa mente».

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riesce a comprendere l’assoluta necessità del principio di non contraddizione proprio perché non comprende che la verità necessaria presente nel diorismós, essendo compenetrata con quella dell’élenchos, si trova già e sempre necessariamente dimostrata analiticamente proprio perché apparentemente non lo è50. Appare utile tener presente quanto Severino afferma nel già citato Fondamento della contraddizione: «L’“evidenza”(phanerón) affermata nel testo aristotelico, del­ l’impossibilità di essere persuasi della contraddittorietà del­ l’ente, è compromessa dall’ombra che avvolge l’intero pensiero occidentale; e tuttavia la struttura formale del contenuto di tale “evidenza” […] appartiene già alla struttura della Necessità, cioè alla regione che già da sempre e per sempre si mantiene aperta al di fuori dei confini del nichilismo e in relazione alla quale soltanto, l’essenza dell’Occidente (l’epamphoterízein) appare come nichilismo». […] Appunto da quella struttura formale il saggio di Ł. rimane inevitabilmente lontano. E innanzitutto non riesce a cogliere il modo in cui tale struttura si presenta nel testo aristotelico, ossia come dimostrazione, sul fondamento del «principio più saldo», del diorismós essenziale di tale principio.51

Se si tenta di trovare una fondazione al principio di non contraddizione che sia analitica, si finirà per andare al di là del 50.  Giulio Goggi afferma che «il fondamento è la sintesi originaria dell’essere sé non contraddittorio e dell’élenchos, che è l’apparire della incontrovertibilità dell’essere sé […]. Per esigenze espositive, il linguaggio presenta prima l’universalità dell’essere sé e poi fonda su di essa l’élenchos. Ma, in verità, l’élenchos appartiene […] alla struttura originaria del destino» (G. Goggi, Al cuore del destino. Scritti sul pensiero di Emanuele Severino, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 49 s.). La struttura originaria del destino non sarebbe se stessa se non contemplasse, ab origine, da sempre, e senza timore di alcuna contraddizione critica, l’élenchos. Il fondamento può dirsi veramente tale solo se lo si comprende non solo come piena coincidenza di se stesso con se stesso ma anche come avente a che fare con l’élenchos. 51.  E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., pp. 77 s.

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diorismós, ma andare al di là di quest’ultimo significa, come si è visto, abolire ogni possibilità di significato, non dire nulla, rimanere fermi nel vuoto non-senso. L’élenchos, a sua volta, è proprio questo: la ferma dimostrazione secondo la quale chiunque voglia tentare di sbarazzarsi del principio di non contraddizione lo riafferma52. Si badi bene, inoltre, che se si accusa questa soluzione di essere valida solo nel pensiero, o meglio, solo come puro convincimento del pensiero, si dimentica che, come mostrato, a questo livello, Severino sembra opporre a tale obiezione le parole di Parmenide: «La stessa cosa è pensare e il pensiero che è. Che senza l’essere in cui è espresso non troverai il pensiero»53. Non vi è possibilità di pensiero se non vi è l’essere del pensiero. Tutto ciò che è pensiero deve, secondo Severino, apparire nell’orizzonte necessario dell’essere determinato. Il principio di non contraddizione, per questo, diviene lo scenario imprescindibile di ogni possibilità. Ogni cosa, persino la contraddizione, che si rivela sempre come tolta e mai posta, ha come

52.  Sul rapporto tra diorismós ed élenchos si segnalano per acutezza e profondità le riflessioni di Riccardo Berutti. L’autore, pur non negando l’intima e necessaria connessione tra diorismós ed élenchos, pur confermando che ogni tentativo di confutazione del principium firmissimum lo riafferma, auto-negandosi, proprio nel momento in cui si pone, avanza una pungente riflessione secondo la quale «che la negazione affermi anch’essa il principio di non contraddizione non v’è dubbio, ma che essa lo possa fare, in certo senso, privatim – a suo proprio modo – risulta, se non altro, una concessione assai sospetta offerta proprio, sorprendentemente, dalla stessa manovra di confutazione. Infatti – sfruttando l’ausilio concettuale di una metafora – si potrebbe mostrare come, in una simile formulazione dell’élenchos, resterebbe implicitamente suggerita l’idea che la negazione, benché dominata, non possa mai essere interamente addomesticata, e che il principio, benché vittorioso, si debba comunque rassegnare ad una conquista dal sapore più propriamente politico che non effettivamente ontologico» (R. Berutti, L’enigma della negazione, cit., p. 13). 53.  D-K 28, B 8, vv. 28-30.

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fondamento della propria pura pensabilità astratta l’apparire come negata, come da sempre logicamente non-possibile. Per questo motivo anche il contraddittorio, il non-senso, ha fondamento nell’apparire come non posto54. Nel linguaggio dell’Occidente si tenga presente che ciò che dovrebbe apparire come già da sempre negato appare come pienamente affermato, «come il terreno sicuro in cui i mortali possono nascere e vivere»55 e quindi come la verità stessa. Il positivo significare del nulla costituisce il mondo tramite l’alterazione del significato: l’isolamento della terra dal destino della verità56, secondo Severino, fa sì che si costituisca un altro significato, il quale, però, cresce nell’errore57. Il significato che Severino attribuisce 54.  Cfr. E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., p. 79: «Certo, il “nulla” e la “contraddizione” appaiono (sebbene in modo diverso a seconda che appaiano nella verità o nella non verità); ma nel destino della verità appaiono come negati – dove del nulla è negato il suo esser qualcosa che è e che appare. Per esser negati – e all’essenza del destino appartiene la loro negazione – è necessario che appaiono, e che, in questo senso, siano». E ivi, p. 80: «si tratta di comprendere che anche nella non verità l’apparire dell’errare, cioè della contraddizione, è possibile solo in quanto la contraddizione appare come negata, e che questa negazione si fonda da ultimo sulla negazione (dell’errare e della contraddizione) che appartiene al destino della verità». 55.  Ivi, p. 83. 56. Ne L’intima mano, Severino spiega il senso profondo della parola destino, «costruita in modo analogo a termini come de-amare, de-vincere, dove il de esprime l’intensificazione dell’amare e del vincere, sì che il de-stino è l’intensificazione estrema dello “stare”, cioè dell’inamovibilità in cui consiste la “veglia assoluta”» (E. Severino, L’intima mano, Adelphi, Milano 2010, pp. 131 s.). 57.  È assolutamente condivisibile la riflessione di Brianese circa il valore dell’errore nella filosofia di Severino e in relazione al destino della necessità: «anche le forme alienate del vivere umano (individuali o sociali che siano) e la follia nichilistica stessa, alla quale tutte e ciascuna appartengono, un significato senza dubbio lo possiedono. Anzi, si deve riconoscere che sono esse stesse, senza eccezione alcuna, essenziali al concreto dispiegarsi della verità davvero onnicomprensiva dell’essere. […] E quella verità non escludente ed elenchicamente inconfutabile che, negli scritti severiniani, prende il nome

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all’espressione “isolamento della terra” vuole riferirsi proprio alla lontananza creatasi tra ciò che si considera l’intero sistema di significati sul quale si erige la cultura occidentale e il significato originario e non corrotto, esterno alla contraddizione58. La terra isolata appare, grazie paradossalmente alla ricchezza dell’errore, il luogo supremo ove si dispiegano i significati, tuttavia, al contrario, esso si rivela la casa del nulla e dunque della contraddizione accolta erroneamente in sé e non come già da sempre tolta, risolta.

3. La “contraddizione C” come forma di contraddizione interna al destino della necessità ed esterna all’isolamento della terra Col tramonto al quale il destino della terra è destinato […], tramonta l’errare e la contraddizione in cui consiste tale iso-

di destino, della quale anche le forme molteplici del nichilismo costituiscono, in un certo senso loro malgrado, delle tracce positive, le quali non solo possono, ma in un certo senso debbono essere, tutte e ciascuna, prese in considerazione e discusse; anche perché discuterle significa, mascherandone la contraddittorietà intrinseca, rendere via via sempre più adeguatamente e concretamente manifesta incrollabilità (la necessità) della verità del destino (o del destino della verità)» (G. Brianese, L’ontologia “anarchica” di Emanuele Severino, in «La filosofia futura», n. 3, 2014, pp. 9-32: pp. 21 s.). Inoltre la riflessione di Brianese trova un valido alleato anche nel pensiero di Luigi Vero Tarca quando afferma: «La testimonianza della verità dell’essere è la testimonianza dell’onnitudine» (L.V. Tarca, Negazione del non essere e verità dell’essere, in «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012, p. 45). 58.  Cfr. quanto detto da V. Vitiello circa cosa specificamente intende E. Severino con l’espressione “isolamento della terra” ne Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002, p. 41. Inoltre si presti attenzione a quanto Vitiello afferma nelle pagine immediatamente successive circa il rapporto tra l’isolamento della terra e la necessità che l’errore, in Severino, debba considerarsi già da sempre “tolto” nella prospettiva del destino.

48 lamento (ossia tramonta ciò che è la radice di ogni isolamento). Ma non tramonta ogni contraddizione. Non tramonta la «contraddizione C».59

Esiste, secondo Severino, un secondo tipo di contraddizione che può dirsi completamente distinto da quello sinora discusso. Esso innanzitutto non appartiene primariamente al dire, non riguarda il poter affermare in maniera sensata o il poter pensare correttamente qualcosa di qualcos’altro; esso ha a che fare con la dimensione ontologica della verità. Tale contraddizione non ha in sé il carattere dell’errore, del nonsenso che conduce al nulla, al contrario è la verità stessa del destino che, calandosi nell’orizzonte finito e insufficiente dei significati che appaiono, si mostra come contraddizione. Ma perché ciò che non ha il carattere del contraddittorio accoglie in sé comunque il carattere della contraddizione? Come va inteso il contenuto di tale contraddizione? Tentiamo di capire: anche all’interno dell’apparire della verità come destino di tutte le cose, accolte cioè, come distinte dall’approccio nichilistico dell’isolamento della terra, si ha il dispiegarsi sempre e soltanto di un apparire parziale della verità che appartiene ad un determinato ente. Quando un ente entra nel cerchio infinito dell’apparire come necessità del destino, vi entra sempre come apparire finito dell’infinito. Può rivelarsi utile riflettere su quanto Severino scrive in Fondamento della contraddizione: La contraddizione C è il destino della verità, in quanto apparire finito dell’infinito – e il destino accoglie la terra, ossia tutto ciò che sopraggiunge senza fine nell’eterno cerchio finito del destino –; giacché anche se la terra allarga all’infinito quel cerchio, in esso non appare la totalità infinita dell’essente, non appare il destino in quanto accoglie in sé tale totalità e

59.  E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., pp. 87 s.

49 pertanto essa, sì, appare – ogni essente appare nel suo appartenerle –, ma non appare nella concretezza totale delle sue determinazioni; sì che ciò che appare come totalità non è la totalità, appare e come totalità e come non totalità.60

La contraddizione alla quale si sta facendo riferimento non è una contraddizione che conduce all’errore, non è contraddizione perché contraria ad ogni logica struttura che possa dirsi corretta, essa si rivela contraddizione per la motivazione seguente: la verità stessa di ogni essente diventa contraddizione ogni qualvolta quest’ultimo entra nel cerchio dell’apparire e, dunque, come ente in se stesso appare. Esso tuttavia non appare mai come totalità assoluta, celando parte del suo destino necessario, ovvero mostrando, tramite il suo apparire, la contraddizione del proprio esser, ad un tempo, ciò che entra nel cerchio dell’appare, ma anche, sotto un altro rispetto, ciò che ne rimane inevitabilmente fuori61. Cerchiamo di essere più chiari utilizzando un esempio che lo stesso Severino fa: questa stanza illuminata mostra la propria verità, ovvero l’esser una stanza illuminata proprio perché ci appare così. La contraddizione insita in questo modo di ragionare risulta proprio nel considerare vero solo ciò che appare – la stanza illuminata, in questo caso – solo come a noi appunto appare. Esiste, secondo Severino invece, un fondamento necessario che afferma e conferma pienamente l’eterna realtà ontologica della stanza indipendentemente dall’apparire illuminata o non illuminata. Da tale ragionamento seguirebbe che la stanza illuminata ci appare tale perché a livello fondamentale – utilizzando le parole di Severino – nella logica del destino della necessità, dunque

60.  Ivi, p. 88. 61.  Si tenga presente quanto affermato da Severino circa tale argomento: «La contraddizione C è appunto questo apparire della totalità e delle determinazioni dell’essente, dove ciò che appare appare nel suo essere e non essere ciò che esso è» (ibidem).

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fuori dal cerchio dell’apparire, essa è e non è illuminata. L’astrattezza dell’universale rende possibile l’apparire dell’ente sotto una specifica forma proprio perché contiene anche ciò che non appare. Ecco venir fuori quel tipo di contraddizione che, come si è detto, è necessaria. Essa non ha a che fare con l’errore o con il contraddittorio non senso del pensiero nichilistico. La storia del pensiero occidentale è storia del nichilismo, come già si è accennato, poiché esso si fonda sulla credenza che l’essenza delle cose, la natura degli enti, sia caratterizzata in maniera peculiare dal proprio esser ciò che sono e anche, divenendo, ciò che non sono. Si badi bene a una fondamentale sottigliezza che, a questo livello della trattazione di Severino, si viene palesando: sembrerebbe che lo stesso Severino ricada nell’errore che egli stesso denuncia in quasi tutte le sue opere come la «malattia mortale» dell’Occidente. Sembrerebbe, infatti, che l’autore stia alimentando la contraddizione nichilistica proprio da lui denunciata ma a ben vedere non è così. Severino, infatti, tenta di spiegare quanto segue: questa stanza che ora appare illuminata rimane la medesima stanza che può apparire illuminata anche quando non è illuminata. Tale discorso sembra una vera e propria contraddizione e infatti lo è, è proprio quella contraddizione che viene denominata “contraddizione C” e che Severino mostra come contraddizione intrinseca e necessaria all’ontologia del reale visto fuori dall’ottica nichilistica62. Noi 62.  Nel già citato L’aporia del fondamento, Massimo Donà mostra che la contraddizione è parte necessaria della realtà totale di ogni ente e del fondamento stesso. In questo, al di là e a dispetto di letture, forse, semplicistiche, si dimostra allievo non traditore del pensiero di Severino. Infatti benché affermi che «il rapporto tra essere e nulla si fonda su una relazionalità “aporetica” che, di quel principio, appare come originaria destituzione» (M. Donà, L’aporia del fondamento, cit., p. 35.), va rilevato che proprio Severino con la contraddizione C ammette e apre alla contraddizione come elemento necessario alla non contraddizione e al dispiegarsi della necessità. Così, il

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diciamo che questa stanza è illuminata quando a noi appare illuminata, ma in realtà, secondo Severino, l’esser illuminata della stanza non dipende affatto dal proprio apparire così. L’ontologia necessaria che riguarda tutti gli enti fa sì che ogni cosa sia fermamente come essa è. Eternamente questa stanza è e resterà illuminata, così come eternamente è e resterà buia indipendentemente dal suo mostrarsi a noi in tal modo o in tal altro. La stanza che noi percepiamo come illuminata è anche, in un’ottica lontana da quella nichilista, la stanza non illuminata. Si presti molta attenzione a questo passaggio: non si sta qui affermando che la stanza che a noi ora appare illuminata può apparirci non illuminata divenendo non illuminata, (poiché magari il sole che la rendeva illuminata non la illumina più) ma che proprio questa stanza, nell’ottica fondamentale del destino di tutti gli enti è illuminata e non illuminata rimanendo se medesima sottraendosi ad ogni contraddittorio63. Si mostra, da quanto appena detto, l’indubitabile originalità del pensiero di Severino, indipendentemente dal fatto che lo si possa considerare come pensiero valido, pensiero in grado di descrivere la struttura vera e reale del mondo, o che lo si consideri come pensiero orfano di sufficienti garanzie per dimostrare in maniera inconfutabile la propria validità. Tutti gli enti sono come sono, non mutano. La stanza che appare illuminata, appare tale perché è illuminata di fatto e sempre così come, allo stesso tempo, è non illuminata anche se ora appare illuminata e non appare nell’eterna e necessaria forma di non essere illuminata. Non si tratta dunque di ricacciare una parte

pensiero di Donà, potremmo azzardare, rende perfettamente manifesto ciò che rimaneva volontariamente più velato nel pensiero del suo maestro. 63.  Circa i problemi che incontra la posizione severiniana e se tale impostazione si sottrae davvero da qualsiasi contraddizione, cfr. V. Vitiello, Filosofia teoretica, cit., pp. 230-232. Cfr. anche G. Goggi, Al cuore del destino, cit., pp. 25 s.

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dell’ente nella pura potenza per lasciare spazio a un’altra che pienamente si fa ora atto. Entrambe sono pienamente presenti, una però, a differenza dell’altra, non appare. L’ente è ogni suo apparire e ogni suo non apparire. Pensare diversamente significa pensare che il nulla sia! Il medesimo discorso può essere compiuto prendendo in esame il celeberrimo esempio, riportato principalmente, ma non solo64, nel già citato Tautótes65, della lampada. Comunemente si dice: “La lampada che è sul mio scrittoio è accesa” se essa ci appare accesa. Secondo Severino parlare in questo modo è errato, o meglio contratto, non si dovrebbe dire: “La lampada è accesa” ma: “La lampada-accesa appare accesa”. L’esser accesa della lampada non può essere una semplice predicazione. Ciò che noi, tramite una struttura lontana dal senso originario della verità, predichiamo come elemento distinto e qualificante il soggetto è, secondo Severino, inscindibile parte dell’oggetto. Nel prossimo capitolo sarà importante mettere in luce caratteri di quella struttura del reale che Severino chiama originaria e che apre immancabilmente al destino della necessità.

64.  Cfr. ad esempio su questo tema il capitolo intitolato La lampada accesa, la lampada spenta, in E. Severino, Sortite. Piccoli scritti sui rimedi (e la gioia), Rizzoli, Milano 1994. 65.  Cfr. E. Severino, Tautótes, cit., pp. 187 ss.

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Capitolo II

La struttura originaria e il valore dell’immediatezza nell’ontologia del destino della necessità

1. La struttura originaria: immediatezza ontologica in rapporto alla struttura del dire Dopo aver affermato che la storia dell’Occidente è storia del nichilismo poiché il pensiero occidentale si fonda sulla presunta indubitabilità che tutti gli enti provengono dal nulla e ivi fanno ritorno, Severino deve mostrare quale struttura di pensiero possa dirsi maggiormente vicina alla verità. Detto altrimenti: se la storia del pensiero occidentale si è rivelata fallace in quanto incapace di descrivere la verità ontologica che è strutturalmente sottesa al reale, bisogna anche mostrare che tipo di struttura possa dirsi più adatta a dire le cose, rispettandone la costituzione vera e reale e perché quest’ultima si impone come tale. Ne La struttura originaria Severino afferma: La struttura originaria della verità dell’essere non è un «prodotto teorico» dell’uomo (come singolo o come gruppo sociale); e non è nemmeno «Dio» o il prodotto di un dio. Ma è il luogo, già da sempre aperto, della Necessità e del senso originario della Necessità. […] La struttura originaria della Necessità è innanzitutto l’apertura di senso, concretamente

54 determinata, che non può essere negata da uomini o da dèi, in alcun tempo, in alcuna circostanza, in alcun universo.1

Quest’estratto può condurci ad alcune riflessioni che ora si rendono quanto mai necessarie: la struttura originaria, così come descritta da Severino, appare come qualcosa di estremamente radicato e fondamentale, qualcosa che non si deve considerare prodotto da uomini o da altre identità; essa risulta essere, potremmo dire, l’uscio che ci immette immancabilmente in rapporto col senso originario della verità, come senso della necessità. Innanzitutto va inteso quanto segue: la struttura originaria è la struttura della necessità del reale ed è così chiamata da Severino poiché essa risulta essere lo scheletro che profondamente sta immutabile sia a livello logico, che a livello fenomenologico. Sin dall’introduzione de La struttura originaria, Severino ha premura di chiarire un punto che potrebbe condurre a facili incomprensioni: bisogna intendere il temine “struttura” non come legato primariamente alla costruzione dialettica e mediata, come configurazione del dire e/o dell’essere, essa è, al contrario, piuttosto come caratterizzata in maniera peculiare dall’elemento immediato2. Tale struttura può dirsi, infatti, indipendente da mediazioni che ne inficerebbero l’assoluta primarietà3. Severino distingue due tipi di immediatezza, i quali vanno intesi primariamente come ambiti che compongono in maniera assolutamente necessaria la struttura stessa: l’immediatezza logica (L-immediatezza) e l’immediatezza fenomenologia 1.  E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 13 s., 16. 2.  Cfr. ivi, pp. 16 s. 3.  Cfr. ibidem: «L’“immediato” è ciò che non mediante altro, ma per sé e in sé appare come Necessità. L’“originarietà” della struttura originaria è appunto l’“immediatezza” di questa struttura».

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(F-immediatezza). Severino con l’espressione L-immediatezza intende riferirsi alla proprietà semantica specifica della struttura originaria della necessità grazie al quale, immediatamente, è possibile scorgere il nesso tra significati ed enti significanti. Con l’espressione F-immediatezza, l’autore intende riferirsi a ciò che appare come necessità e destino dell’ente che appare. Tentiamo di essere più chiari: lo sforzo di Severino ne La struttura originaria è quello di mostrare come l’ente e il suo apparire debbano essere colti in una luce essenzialmente molto diversa da come lo sono in tutta la tradizione del pensiero occidentale. L’ente e il suo apparire vanno concepiti innanzitutto come in una profonda unità e unicità che si manifesta sia nell’apparire di quello specifico ente determinato, sia nell’apparire dello stesso apparire come condizione di se stesso e dell’essere dell’ente determinato che di volta in volta appare. Secondo Severino l’assunto fondamentale che riguarda ogni ente – vale a dire che esso sia e che in quanto tale non può assolutamente considerarsi come soggetto alla possibilità di nonessere più, di essere un puro nulla – apre un nuovo scenario anche per la fenomenologia: ciò che appare è da considerarsi come il sopraggiungere all’interno del cerchio immutabile dell’apparire dell’ente che in quel momento ci appare. La strutturazione completa dell’originario, così come intesa da Severino, porta alla luce una nuova concezione del divenire inteso solo e soltanto come apparire, qui ed ora, dell’immutabile. Il divenire non è affatto la prova che ogni ente muta ed è soggetto a corruzione. Il divenire mostra, al contrario, l’eternità e l’immutabilità dell’ente nell’occasione in cui proprio questa immutabilità si mostra visibile a noi4.

4.  Sull’intreccio necessario tra L-immediatezza e F-immediatezza appaiono interessanti i dubbi esposti da Gennaro Sasso: «Se, in effetti, si chiedesse perché mai l’essere, del quale incontrovertibilmente si dice che è immutabile,

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Si presti attenzione a questo passaggio: che l’ente sia e che strutturalmente è impossibile che diventi un puro nulla dipende dalla comprensione del contenuto effettivo (originario, non coinvolto dal nichilismo occidentale) dell’apparire. Non esiste una struttura originaria se non si è disposti ad ammettere che il fulcro di tale struttura è l’immediatezza fenomenologia, l’apparire immediato dell’ente che immediatamente appare. All’apparire come espressione suprema della struttura originaria della necessità va collegato, afferma Severino, il dire, il linguaggio. Infatti, se è vero che la struttura originaria ha come suo tratto fondamentale l’immediatezza del manifestarsi, (l’immediatezza fenomenologia) bisogna anche pensare che, tale concezione dell’apparire, essendo completamente distinta da quelle precedenti, esigerà anche un nuovo linguaggio, che per effetto del nuovo mostrarsi dica l’ente, la cosa in maniera differente. Si è già accennato al fatto che per avere un linguaggio che dica effettivamente la cosa così come appare, lontana dalla superstizione e l’errore promossi dal pensiero nichilistico dell’Occidente, bisognerebbe non separare il soggetto dal suo predicato. Ora, dovremmo essere in grado di comprendere meglio questo passaggio suggeritoci da Severino: è scorretto affermare: eterno, e perciò indiveniente, si renda manifesto nel segno della parzialità e della processualità, la risposta non potrebbe certo essere cercata nell’immutabilità ed eternità che, di per sé prese e considerate, non possono dare ragione se non di sé stesse, e non certo della loro contrario: ma nemmeno potrebbe essere cercata nell’apparire che, per la forza stessa dell’evidenza, offre bensì il fatto della processualità, ma non tuttavia la sua ragione» (G. Sasso, Il logo, la morte, Bibliopolis, Napoli 2010, p. 155). Anche Messinese sembra essere d’accordo nell’avanzare lo stesso dubbio sulla dualità tra verità dell’essere immutabile e verità fenomenologica dell’evidenza del divenire (cfr. L. Messinese, Severino e la metafisica, cit., p. 43). Il problema resta il seguente anche per Messinese: in che modo la logica dell’essere, immutabile e necessario, può giustificarsi a partire della fenomenologia immediata del divenire e, viceversa, l’immediatezza fenomenologica come può incastrarsi nella non fenomenologica verità del destino?

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“Questa lampada è accesa”, poiché l’ente lampada non è separabile dal suo apparire accesa, ora, in questa stanza, su questa scrivania. Tale affermazione acquisisce ancora più senso e può essere considerata sotto una diversa prospettiva, ora che si sono aggiunti alcuni elementi: essa, infatti, non è affatto il frutto, soltanto del mero esercizio teoretico del pensare, ma deve essere intesa come derivante dall’esercizio di comprensione e osservazione della realtà fenomenica. Risulta essere un fatto primariamente fenomenologico, che si fonda sul buon esercizio dell’osservazione di ciò che appare, il poter dire che esiste sempre ed eternamente la lampada-accesa, come esiste sempre ed eternamente la lampada-spenta. La lampada a noi appare accesa quando la lampada-accesa entra nel cerchio dell’apparire, appare invece spenta quando la lampada-spenta entra nel cerchio dell’apparire. Un passo presente ne La struttura originaria mostra bene i termini della questione: La lingua dell’Occidente, che non si trova già più a suo agio col semantema «l’esser acceso è di questa lampada», si rifiuta poi senz’altro di ricondurre «l’esser acceso è di questa lampada» a «l’esser acceso è questa lampada» e respinge quest’ultima espressione come priva di senso. Eppure, dire che questa lampada è accesa significa che la luminosità in cui consiste questo essere accesa non è una luminosità generica e isolata da un contesto specifico, e non è nemmeno, tale luminosità, una stella, o un fuoco terrestre, o un lampo, ma è appunto questa lampada, questa certa forma visibile da cui si diffonde questa luce: lo stare acceso è questo esser lampada (giacché questa lampada è questo esser lampada) e il predicato «accesa», che conviene alla lampada, è uno stare accesa.5

La struttura linguistica fondamentale dell’Occidente si fonda su un errato modo di predicare qualcosa di qualcos’altro, 5.  E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 29.

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la frase: “La lampada è accesa” è per Severino una riduzione che conduce all’errore. La frase suddetta, a livello logico, può essere formalizzata nel modo seguente: A = B. Come si può facilmente notare quando si riduce: “La lampada è accesa” alla formula “A = B”, si costringe il soggetto A ad uscire da sé e a essere ciò che non è, e cioè B. Tramite tale contrazione del linguaggio l’Occidente dimentica la vera struttura del dire connessa alla struttura originaria del reale, si dovrebbe infatti dire: “La lampada-accesa appare accesa”, oppure: “L’essere accesa è di questa lampada e ciò, ora, appare”. Si presti bene attenzione: l’espressione “lampada-accesa” rimanda a un unico ente. Per questo Severino afferma che la formulazione logica che dice meglio la struttura originaria della necessità è la seguente: (A = B) = (B = A). Infatti, per Severino, ad ogni affermazione simile a “La lampada è accesa” (A = B) è sottesa un’espressione non ridotta: “La lampada è accesa in quanto l’esser acceso della lampada appartiene alla lampada” ([A = B] = [B = A])6. Quanto espresso da Severino può essere formalizzato logicamente così: (A = B) → (B = A) ovvero: “Se la lampada è accesa, allora l’esser acceso della lampada appartiene alla lampada”. La validità di tale ragionamento può essere supportata anche dalla logica formale, infatti: secondo le regole che sottostanno all’implicazione materiale, la proposizione in questione è falsa solo nel caso in cui il primo membro della proposizione (A = B) sia assunto come vero e il secondo (B = A) come falso. Da ciò si può desumere che la verità di (A = B) – la lampada è accesa – è dipendente da (B = A) – l’essere acceso della lampada appartiene alla lampada – poiché, come si è mostrato, non può darsi il caso secondo cui la proposizione: “La lampada è accesa” sia vera senza che non sia vera anche la proposizione: “L’esser acceso della lampada appartiene alla lampada”. 6.  Cfr. quanto detto da C. Scilironi in Necessità del significato e destino del linguaggio in E. Severino, cit., p. 421.

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Ora, occorre ricordare che la struttura originaria è per Severino: «l’essenza del fondamento […] e cioè lo strutturarsi della principialità, o dell’immediatezza»7. Appare chiaro che l’essenza del fondamento è in diretta e strettissima connessione con ciò che Severino chiama “immediatezza”. Si può notare, infatti, che nell’affermazione appena riportata, non a caso l’autore sceglie di mettere in risalto la congiunzione inclusiva “o” che unisce così i termini “principialità” e “immediatezza”. L’essenza del fondamento è racchiusa, infatti, nell’immediatezza del rendersi principalità mostrandosi come se stessa, vale a dire fondamento non contraddittorio. Ciò significa che il fondamento, proprio perché è in se stesso ciò che senza mediazione si manifesta, è anche, in maniera incontrovertibile, esclusione immediata (cioè che non ha bisogno di mediazione logica) della sua negazione e del suo negativo8. È necessario ora porre il seguente interrogativo: in che modo si rende dimostrato e incontrovertibile che l’essere ha necessariamente come peculiarità intrinseca alla sua struttura originaria l’immediato manifestarsi? Ciò che è immediato è per definizione ciò che è per se stesso noto, ciò che dispensa da altro per essere manifesto. Si comprende, da quanto detto, che la stessa posizione del problema è un errore poiché porre il problema risulta contraddittorio: infatti, una dimostrazione necessita di una soluzione mediata e ciò rimanderebbe a qualcosa al di fuori della condizione base per il corretto svolgimento della questione. Se tuttavia comunque si volesse perseguire nella posizione della domanda: “Cosa ci dimostra in maniera inconfutabile che l’essere sia immediatamente? Chi ci attesta l’immediatezza dell’essere?”, si può dunque cercare una soluzione provando a 7.  E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 107. 8.  Cfr. ivi, p. 112: «l’apertura del fondamento risolve originariamente in sé lo sviluppo della sua negazione: non ne dipende (nel senso che non ne attende, per porsi, la conclusione)».

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ragionare nel modo seguente: premesso, come si è appena mostrato, che pretendere una dimostrazione dell’evidenza immediata dell’essere significherebbe pretendere di negare ciò che si tenta di dimostrare, si consideri anche che, come afferma Severino, «non solo è per sé noto che l’essere è, ma è anche per sé noto che l’essere che è noto è ciò per cui si afferma che l’essere è»9. Non è solo per sé noto che l’essere è, ma è anche per sé noto che l’essere è per sé noto. Tale ragionamento può essere trasposto per quanto riguarda il problema dell’immediatezza: è per sé immediato non solo che l’essere sia, ma è immediato che l’essere sia immediato. Detto con le parole di Severino: questo sviluppo aporetico è eliminato rilevando, come si è indicato, che il contenuto concreto dell’essere che è per sé noto include immediatamente questa perseità o immediatezza stessa, per la quale si può affermare appunto […] che l’essere è.10

2. Necessità e libertà dell’apparire: cosa significa incominciare e smettere di apparire Ogni ente è eterno. Quindi è eterno anche quell’ente che è lo stesso accadere dell’ente. Nella verità, l’accadere non è l’incominciare ad essere, ma l’incominciare ad apparire. Che l’ente incominci ad apparire significa che esso, eterno, esce dall’ombra del non apparire ed entra nella luce dell’apparire. Cade in questa luce. Anche questo passaggio dall’ombra alla luce ha un significato, cioè è un ente; e quindi è eterno.11

L’accadere è per Severino la vicenda dell’incominciare ad apparire di un qualsiasi ente determinato. Questo incominciare 9.  Ivi, p. 153. 10.  Ivi, p. 155. 11.  E. Severino, Destino della necessità. Κατὰ τὸ χρεών, Adelphi, Milano 1980, p. 97.

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ad apparire è necessario. Perché tale accadimento è per Severino imprescindibile e non contingente? La natura dell’ente stesso è inscindibile dal suo presentarsi: questo foglio è, appunto, sempre questo foglio. L’incominciare ad apparire è consustanziale al foglio che ci è dinnanzi proprio perché soltanto dal suo apparire noi siamo in grado di valutarlo come presente. Ma ciò cosa vuol dire? Vuol dire, forse, che l’apparire decide circa l’essere e il non essere degli enti in questione? Tutt’altro. L’incominciare ad apparire determina necessariamente la vicenda dell’accadere che riguarda l’ente in questione; per questo, si potrà affermare, secondo Severino, che l’ente viene a noi in presenza quando entra nel cerchio dell’apparire, parimenti, esso esce dal cerchio dell’apparire e ritorna nell’ombra, quando a noi non appare più12.

12.  Sul rapporto tra apparire e non apparire più, risultano interessanti le riflessioni di Mauro Visentin nel suo contributo dal titolo Immutabile/mutevole. L’essere nell’apparire dell’ente. Tra tutte, però, si segnala per particolare acutezza quella riguardante il rapporto tra l’apparire del concreto e l’apparire trascendentale e, ancora, il rapporto tra lo scomparire e lo stesso orizzonte trascendentale. Visentin mette ben in luce il problema che necessariamente si pone quando occorre pensare un rapporto non estrinseco tra non apparire più e apparire trascendentale: «Severino, probabilmente, ritiene che se il sussistere e l’apparire del legame fra la cosa, il suo apparire e l’apparire trascendentale è la ragion d’essere del fatto che la cosa (ci) appare così come (ci) appare, la ragion d’essere dello sparire della cosa (e del suo apparire) possa essere ricondotta puramente e semplicemente allo sparire di questo legame. Ma la questione è più complicata: in un caso (quello del legame come ragion d’essere dell’apparire delle cose) è il sussistere e l’apparire del legame la ragione in virtù della quale le cose appaiono, nell’altro è solo lo sparire di questo legame (che, infatti, continua a sussistere e non può che continuare a sussistere). D’altra parte, dal momento che l’apparire trascendentale è uno e non sparisce (appare soltanto), se il legame con esso in un caso sussiste apparendo e nell’altro sussiste non apparendo, ciò non può comportare che questa conseguenza: l’essere di questo legame e il suo apparire possono sciogliere il loro vincolo, che tuttavia è (o dovrebbe essere), non solo eterno e immutabile come tutti i vincoli e gli enti (ogni vincolo è anche un ente in questa prospettiva di pensiero) per il fatto generico che è qualcosa, ma eterno e immutabile anche in

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Bisogna anche tener per fermo un punto: è errato separare l’apparire dall’incominciare. L’apparire è sempre un apparire incominciante, tanto che ogni apparire segna un incominciamento del manifestarsi. Secondo Severino tutta la tradizione filosofica occidentale, a partire quantomeno da Platone in poi, ha assegnato all’apparire il ruolo dell’anello fragile che permette l’oscillazione tra essere e nulla da parte dell’ente. Per Heidegger l’apparire è nulla, afferma Severino, perché in maniera arguta l’autore tedesco comprende che non esiste un apparire che sia in sé autonomo dall’ente che appare. L’apparire è sempre apparire di qualcosa. Si faccia ben attenzione: ciò non significa però che l’apparire in virtù di tale inscindibile relazione con la cosa debba essere inteso come un mero nulla che può aprire alla libertà, all’indecisione dell’oscillazione tra essere e nulla, l’apparire apre, piuttosto, alla necessità di essere in “relazione con”. Da ciò si può desumere quanto segue: l’apparire apre immancabilmente alla necessità. Quest’ultimo risulta, per questo, sempre dalla parte dell’essere. D’altronde, dunque, se l’apparire è sempre, allora si deve dedurre che esso è eterno. Ma si è appena detto che non esiste un apparire che non sia l’apparire di un ente determinato, da ciò ne consegue che non può esistere un apparire eterno se anche l’ente, del quale tale apparire è la manifestazione, non è eterno. Per Severino, se si riflette profondamente, è eterno anche l’apparire dell’apparire. Se l’accadere è il cominciare ad apparire, è chiaro che anche l’apparire stesso deve apparire come ciò che eternamente sopraggiunge quando qualcosa appare. Cervirtù del fatto specifico che quella cosa particolare rappresentata dall’apparire, nella filosofia di Severino […], deve appartenere costitutivamente a se stessa, ovvero non può che apparire, giacché se smettesse di apparire, data la natura strutturale di questa autoappartenenza, dovrebbe smettere anche di essere» (M. Visentin, Immutabile/mutevole. L’essere nell’apparire dell’ente, in Aa. Vv., Il destino dell’essere, cit., pp. 15-28: pp. 20 s.).

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chiamo di essere più chiari: se si conviene con quanto si sta sin qui affermando, ossia che nessun ente incomincia a essere o termina di essere, ma tutti gli enti incominciano ad apparire entrando nel cerchio di ciò che appare e cessano di apparire uscendo da esso, è chiaro che anche il sopraggiungere dell’apparire deve apparire. Per questo Severino ha premura di sottolineare quanto segue: se ciò che sopraggiunge nell’apparire (ossia ciò che incomincia ad apparire) fosse soltanto un ente e cioè non fosse insieme l’apparire dell’ente che sopraggiunge (ossia non fosse quell’ente che è l’apparire dell’ente che sopraggiunge), allora il sopraggiungere si manterrebbe ancora all’interno del senso nichilistico dell’accadere.13

Al di fuori della concezione nichilistica dell’accadere è necessario che il sopraggiungere non riguardi solo l’ente ma anche l’apparire di quell’ente. Con ciò si può dire apertamente che per Severino la totalità degli enti è sempre presente, in natura. Detto in altri termini: non si dà mai creazione di un ente dal nulla, così come non si dà mai la propria fine o distruzione. Ora, sebbene la totalità degli enti è da intendersi come eterna ed eternamente presente, sembra chiaro che tale totalità non può mai apparire, poiché, stando a quanto detto poco più sopra, l’apparire è sempre un sopraggiungere nel cerchio dell’apparire di un questo determinato. La terra e i suoi enti sono eternamente destinati al cerchio dell’apparire; tutto ciò che accade o che accadrà è, afferma Severino, «già qui dinanzi, nella vicinanza estrema, sempre e per sempre»14, tuttavia tale appartenenza e vicinanza degli enti al cerchio dell’apparire è per propria natura sempre un incominciare. Come è possibile risolvere questa apparente con13.  E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 104. 14.  Ivi, p. 141.

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traddizione? Bisogna intendere più profondamente i rispettivi significati di: “eterno” e “incominciare”, cercando di comprendere anche in che relazione tali termini stanno tra loro. Quando Severino afferma che tutti gli enti sono eterni e che eternamente sono destinati all’apparire, intende quanto segue: tutti gli enti non essendo alla mercé del divenire così come è inteso dal nichilismo, non provenendo dal nulla e non ritornandovi, sono eternamente presenti nell’unico regno possibile: quello dell’essere. Occorre, però, anche tener presente che ogni apparire è sempre un incominciare ad apparire, l’incominciare ad apparire rende a noi manifesto ciò che eternamente è, ciò che, indipendentemente dal suo apparire, già era, è, ed eternamente sarà quale ente immutabile. Le cose della terra15 appartengono eternamente al cerchio del­ l’apparire ma entrano ed escono da esso; entrandovi incominciano ad apparire, uscendovi cessano di apparire16. Cosa significa che un ente esce dal cerchio di luce dell’apparire? Significa che entra nell’ombra del cerchio del non-apparire e così a noi sembra che quell’ente non sia più. In realtà quell’ente resta immobile, pur essendo fuori dal cerchio di ciò che ci appare17. Si può, da quanto detto, avanzare la seguente riflessione: come l’apparire incominciante non aggiunge nulla al Tutto eterno,

15.  Questa espressione è molto utilizzata da Severino soprattutto in Destino della necessità, cit., pp. 144 ss. 16.  Cfr. quanto detto da Angelo Crescini in Emanuele Severino, cit., p. 477. Si presti ben attenzione, ché l’autore parla dell’entrare e uscire dal cerchio dell’apparire nei termini seguenti: «per Severino […] non si può mai parlare propriamente di un uscire dal nulla delle cose che si formano e di un rientrare nel nulla di quelle che spariscono definitivamente. Esse semplicemente entrano nell’orizzonte dell’esperienza cosciente e ne escono». 17.  Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 101: «Il comparire di qualcosa è lo sparire di qualcosa e viceversa; qualcosa può comparire (ossia entrare nell’apparire) solo se qualcosa sparisce, e viceversa».

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così l’apparire cessante non toglie nulla a quest’ultimo, questo semplicemente perché anche l’apparire incominciante e l’apparire cessante sono sempre all’interno del Tutto eterno. Si potrebbe obiettare: se l’apparire incomincia, se l’apparire cessa, com’è possibile che il Tutto eterno non venga minimamente alterato da questi due movimenti? Ben riflettendo, ci sembra sensato intendere l’entrare e l’uscire dal cerchio dell’apparire come momenti interni alla stessa eternità del cerchio dell’apparire: appare l’apparire incominciante e tale incominciare è eterno anche quando non appare, non appare più l’apparire cessante, e tale cessare è eterno anche quando apparirà l’apparire. In questa lettura circa la natura dell’ente in rapporto al Tutto e al proprio apparire, concetti come “destino” e “necessità” sembrano avere grande importanza e centralità, ma in che rapporto stanno tra di loro questi due termini? In che modo Severino ha pensato di mostrare l’intreccio tra la struttura ontologica sinora evidenziata e i due termini poc’anzi menzionati? L’autore è ben consapevole di dover mostrare che necessità e destino non provocano, collegati all’eternità degli enti, l’estromissione assoluta del concetto di “libertà” dalla natura delle cose della terra. Si badi bene: anche per un sistema come quello proposto da Severino, il quale si fonda esplicitamente sulla necessità, è impossibile depauperare totalmente l’ente della libertà. Pensare le cose della terra bloccate, destinate, significherebbe concepirle, in qualche modo, come morte. Il pensiero di Severino, tuttavia, vuole esattamente l’opposto: tutti gli enti sono eterni e in quanto tali, sono eternamente estranei alla loro distruzione. Proprio nelle pagine finali di Destino della necessità18, Severino spiega che ciò che l’Occidente crede e ha creduto essere la libertà dell’ente non è altro che la sua concezione nichilistica, ciò 18.  Cfr, ivi, pp. 443-483.

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che, lungi dal renderlo liberamente ciò che per natura esso è, lo rende schiavo dell’oscillazione tra essere e nulla, vale a dire, lo rende schiavo di essere ciò che è e essere, al contempo, ciò che non è. Ciò è impossibile. Ciò che vorrebbe essere la libertà dell’ente, a ben vedere, è la follia del pensiero nichilistico che, credendo di aver trovato nell’indecisione il luogo supremo ove l’ente si manifesta, trova, al contrario, un concetto vuoto e auto-contraddittorio. Tale libertà costringe l’ente ad entrare in rapporto col suo contrario, ma ciò è impossibile perché non esiste, a ben vedere, il contrario dell’essente. Se il nulla lo si considera come ciò che è il contrario dell’ente, allora si pensa il nulla come qualcosa, ma allora anche esso è un ente. Appare evidente che una libertà fondata di questo tipo non crea luoghi del pensiero. Piuttosto che rivelarsi la chiave che apre la prigione, si rivela essere le sbarre che condannano il pensiero alla prigionia. Occorre mostrare, dunque, una libertà diversa da quella a cui si è fatto riferimento fino a qui, una libertà in piena continuità con la struttura di pensiero sinora argomentata da Severino, occorre mostrare una libertà non affetta dalla malattia mortale dell’Occidente, una libertà intrinseca alla necessità. L’ente sarà realmente libero se si riuscirà a comprendere che può realmente esserlo solo se è decisamente, necessariamente, se stesso. La libertà di ogni ente è, per Severino, ciò che permette a quest’ultimo di essere eterno: l’ente è necessariamente e sempre sottratto al nulla19.

19.  Cfr. quanto espresso da U. Soncini in Critica al monismo metafisico neoparmenideo di Severino, in «Filosofia», XLIV, n. 1, 1993, pp. 137-177, in part. pp. 145-147. In queste pagine l’autore solleva il problema dell’autonomia dell’Io nel sistema severiniano. Di particolare rilevanza appaiono anche le riflessioni compiute dall’autore circa il “debito” che il sistema di pensiero di Severino avrebbe nei confronti di quello hegeliano.

67 […] questo modo di pensare, che riduce a un semplice fatalismo la destinazione della terra all’intramontabile, è un rimanere ancora sul terreno del nichilismo. Affermare infatti che, se l’accadimento della terra è necessario, la terra accade come è necessario che accada, qualunque cosa i mortali decidano e qualunque iniziativa essi prendano, significa credere ancora che le decisioni e le iniziative siano «libere», cioè possano essere come non essere prese; significa credere ancora che i mortali siano liberi di incrociare le braccia e di sottrarsi alla necessità secondo la quale accade tutto ciò che accade. Poiché tutte le cose della terra accadono necessariamente, allora anche le decisioni e le iniziative accadono necessariamente e quindi il loro accadere non è indifferente né all’accadimento totale, né alla totalità dell’ente.20

Pensare che alle nozioni di “destino”, “necessità” ed “eternità” di tutti gli enti sia immancabilmente collegata quella di mero fatalismo significa, per Severino, non capire realmente cosa comprenda il destino della necessità. La totalità dell’ente può dirsi appartenente al destino della necessità come ente eterno, proprio perché sono eterne e necessariamente destinate anche le azioni e le decisioni che lo coinvolgono. Appare sensato prendere in considerazione quanto detto circa questo argomento in Essenza del nichilismo. Nell’ultimo capitolo di questo volume21, Severino cerca di spiegare che eterni possono considerarsi tutti gli enti, a condizione che, anche lo spazio sia considerato come eterno. Con le parole dello stesso autore: Se un vento si leva lì fuori e preme sulla finestra per entrare, la silenziosa penombra della stanza non appare più: il lume, i fogli, i libri, i fiori ora appaiono con quel vento e hanno perciò mutato volto e senso. Proprio perché la voce nuova del

20.  E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 447. 21.  E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., pp. 412-442.

68 vento è entrata nell’apparire, proprio per questo la stanza assopita, questo inconfondibile timbro dell’essere, non appare più: ora appare un altro, un nuovo e altrettanto inconfondibile timbro.22

Cosa è l’«inconfondibile timbro dell’essere» a cui Severino fa riferimento? È sicuramente la spazialità intesa nel suo complesso, la quale è nient’altro che la totalità dell’apparire dichiarata sinora come eterna e che accompagna tutti gli enti. Non può esistere un ente eterno se lo spazio non lo si concepisce come ciò che è sempre in relazione a ciò che accade. Ciò che accade, tuttavia, è ciò che entra nel cerchio dell’apparire, lo spazio eterno ove ogni ente è eterno. Il lume, i fogli, i libri appaiono, e apparendo sono all’interno di uno spazio che si mostra anch’esso. Lo spazio di cui si sta trattando non è soltanto lo spazio inteso come luogo ove ogni ente trova collocazione, lo spazio eterno a cui si sta facendo riferimento è lo spazio inteso anche come luogo23 dell’azione. Sino ad ora è venuto alla luce che la storia dell’Occidente è storia del nichilismo poiché, nell’ottica di Severino, il pensiero occidentale crede di salvare la stabilità dell’ente affermando che tutto diviene. Il divenire, come è inteso dall’Occidente, tuttavia, si fonda sulla convinzione che l’ente sia nulla. Il divenire, dunque, piuttosto che essere la casa sicura ove l’ente si conserva forte nella luce dell’essere, diviene il non luogo, l’aperto non-senso24. Si è così accennato alla necessità di una nuova prospettiva: l’ente non proviene né fa ritorno al nulla bensì entra ed esce dal cerchio dell’apparire. Ciò determina, come si è cercato di 22.  Ivi, pp. 100 s. 23.  Si intenda qui con il termine “luogo” lo spazio non meramente fisico, bensì la condizione di possibilità che rende ogni azione reale e presente. 24.  Cfr. supra, cap. I, §§ 2-3 concernenti il principio di non contraddizione.

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mostrare, la sua eternità, tratto che evidenzia, come, secondo Severino, la natura dell’ente non oscilla tra essere e nulla ma tra apparire e scomparire. Si è accennato, altresì, alla libertà vera e reale, ovvero non nichilistica, alla quale può aprire l’impostazione severiniana: l’ente ritrova la sua più piena e vera libertà rimanendo rigidamente determinato secondo il destino e la necessità che gli sono propri25. Si tenga ben presente che lo stesso Severino è consapevole che quanto espresso necessita un completamento: poiché la concezione ontologica sin qui mostrata, lungi dal condurre ad una risoluzione completa apre ad altre domande. Già ne La struttura originaria26 l’autore si mostra consapevole che la manifestazione dell’intero come eterno è solo formale.

25.  Si tenga presente che la necessità che riguarda in maniera rigida la natura dell’ente attiene anche e soprattutto all’essere che, per Severino, è ciò che è. Enrico Berti muove una critica a tale posizione: «La critica che io continuamente gli facevo era che l’essere non è un genere, come dimostra il fatto che esso si predica anche delle proprie differenze, il che per i generi è impossibile (cfr. Aristotele, Metaph. III, 3). Non essendo un genere, l’essere si dice in molti sensi, cioè è un insieme di essenze tra loro diverse, nessuna delle quali è l’essere. Per esempio, come dice Aristotele, per una soglia essere significa essere situata in un certo luogo e per il ghiaccio essere significa essere acqua condensata in un certo modo (cfr. Metaph. VIII, 2). Di conseguenza non c’è nessun ente che contenga l’essere nella propria essenza, cioè che esista necessariamente, come Severino invece sostiene a proposito di ogni ente quando afferma, con Parmenide, che “l’essere non può non essere”» (E. Berti, Severino e Aristotele, cit., p. 136). Tuttavia c’è da rilevare che la critica di Berti non risulta del tutto adeguata a scalfire la saldezza su cui si erige il sentiero severiniano. Per Severino, infatti, pur accettando quanto affermato da Aristotele circa il fatto che l’essere si dice in molti modi, essi possono tutti variamente esistere proprio perché si raccolgono intorno a una necessaria unità e unicità: quella della sostanza. L’essere della sostanza rivela che ogni modo nell’essere si riduce a uno fondamentale: l’obbligatorietà di essere in relazione al destino della necessità. 26.  Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 335-364.

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Ciò non è da considerarsi un problema di trascurabile entità o un dettaglio secondario all’interno dalla logica che Severino intende proporre, infatti è ribadito con assoluta chiarezza e decisione ne La Gloria: il «compito» è di condurre alla manifestazione […] il Tutto nella sua concreta e esaustiva ricchezza. E il passo si domanda se tale compito non debba essere inteso come infinito, mai concluso, e se in questa infinità non si debba scorgere il dispiegarsi indefinito della manifestazione dell’essente (ossia dell’eterno); e, ancora, se in questo indefinito dispiegamento non si debba scorgere, con le parole di Fichte, «la nostra destinazione per l’eternità», ossia la destinazione dell’apparire dell’essente a una vicenda che non potrà avere mai termine.27

Nel prossimo capitolo si tenterà di seguire il percorso che lo stesso Severino mostra di voler intraprendere al fine di dar risoluzione al problema poc’anzi esposto. Occorrerà, per questo, prendere in esame in maniera critica principalmente due testi: La Gloria e Oltrepassare. L’autore stesso conferisce a entrambi un ruolo centrale, nella ferma convinzione che in essi siano contenute le risposte alle problematiche che si sono palesate in tutto il suo percorso di pensiero.

27.  E. Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 2001, p. 24.

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Capitolo III

L’“indifferenza ontologica” e la posizione dell’uomo rispetto all’eterno

1. In che senso può darsi a intendere l’eternità di tutti gli enti come concretamente reale Occorre, come già accennato al termine del capitolo precedente, ora, mostrare come può darsi a intendere l’eternità di tutti gli enti come concretamente reale. Infatti, appare fondamentale precisare che l’obiettivo primario, base imprescindibile di tutta la filosofia di Severino, è quello di affermare quanto segue: è assolutamente errato pensare che nella natura di ogni ente, nella natura della cosa, possa esistere una scissione che ci autorizzi a pensare tale natura come, a un tempo, transeunte, mortale, diveniente, schiava e soggetta alla possibilità di svanire nel nulla, e, a un tempo, d’altra parte, ritenerla stabile, immortale ed eterna. La metafisica occidentale, sin dai suoi albori attraverso il concetto di fondamento e di sostanza, ha cercato di attribuire un’essenza stabile in grado di sorreggere la cosa. Tale essenza, indifferentemente se la si concepisca come immanente alla cosa stessa o separata da essa, la si pensa, o meglio, la si è sempre pensata come carattere fondamentale dell’ente.

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Ora c’è da domandarsi: chi o cosa fa di tale carattere l’essenza dell’ente? Cosa è l’ente rispetto a tale essenza? E, per converso, cosa è tale essenza rispetto all’ente? Esiste un’essenza separata dalla cosa che può assegnarle maggiore dignità ontologica? Esiste un’essenza che rispetto all’ente è del tutto immanente ad esso? Se si vuole, in qualche modo, credere in un’essenza separata dalla cosa, si dovrà anche ammettere che ogni ente non sia soltanto transeunte e temporale ma sia anche – e ciò appare improponibile – se stesso nel suo carattere fondamentale, grazie a ciò che se stesso non è: l’altro. Occorre, dunque, mostrare che non solo l’essenza dell’ente è immanente a quest’ultimo, ma che quest’ultima è nient’altro che il suo esser cosa nella sua pura e semplice manifestazione. In questo modo, Severino si propone di annullare qualsiasi differenza ontologica tra essere ed ente, tra essenza dell’ente ed ente stesso. Tale operazione è condotta dall’autore sulla base di un ragionamento ben preciso: ogni ente è eterno, non deriva né fa ritorno al nulla, per questo esso è eternamente presente in tutte le sue possibilità anche quando alcune di queste non appaiono (sono esterne al cerchio dell’apparire). È chiaro che in tale prospettiva l’ente non ha nulla al di fuori di sé che attenga alla propria natura, nulla che lo sostenga in qualità di sostanza che sopravanzi a livello di mera qualità ontologica l’esserpresente dell’ente stesso: l’esser meramente presente diviene nell’ottica di Severino, direi, l’esser profondamente presente28.

28.  Le riflessioni di Messinese e di Sasso riguardo l’“indifferenza ontologica” (cfr. L. Messinese, Severino e la metafisica, cit., pp. 51-53, e G. Sasso, Il logo, la morte, cit., pp. 112 s.) nella filosofia di Emanuele Severino mettono in luce come il filosofo bresciano non riesca ad annullare il forte collegamento tra la sua filosofia e la metafisica classica. Nel pensiero severiniano si affaccia prepotentemente e con grande costanza una teoria ben fondata dell’essere. Infatti, se ogni cosa è in relazione al destino della necessità e qualsiasi cosa che appare non abbandona mai, nell’ottica non nichilistica, il suo riferimento

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Si rende necessario chiarire quanto si è appena affermato: la pura presenza acquisisce nel pensiero severiniano un carattere assolutamente primario, cosicché appare assolutamente appropriato poter parlare del sistema di pensiero severiniano come una metafisica della mera presenza o di una metafisica degli enti finiti, ove il mero apparire-presente rivela una profondità che, pur basandosi sulla sola presenza, va ben oltre il semplice apparire o l’esser meramente sottomano. Il carattere ontico assimila a sé il carattere ontologico. A questo punto si può comprendere meglio cosa intende Severino con l’espressione “destino” già ampiamente richiamata: per fare chiarezza rifacciamoci alle stesse parole dell’autore presenti ne La Gloria:

essenziale e definitivo alla verità dell’essere, allora, pur tentando di eliminare la differenza ontologica tra essere ed ente (poiché l’eternità non appartiene soltanto all’essere ma appartiene a tutti gli enti particolari), si afferma prepotentemente, comunque, una forte struttura metafisica che sorregge ogni cosa. D’altra parte, però, se “metafisica” viene intesa come μετά τα φυσικά, allora il discorso prende di nuovo il versante contrario poiché, effettivamente, nell’ottica severiniana non esiste alcuna cosa oltre le cose per natura e per ontologia perché, nel loro fondo più recondito, tutte le cose sono quell’essere che il pensiero violento e nichilistico ha voluto, erroneamente, riconoscere come altro da sé. Ad ogni modo, credo si possa essere d’accordo, questa volta senza ombra di smentita, con Paolo Pagani quando afferma: «Emanuele Severino è stato (ed è) protagonista di una rilevantissima rinascita della pertinenza ontologica, che passa anzitutto attraverso la mossa della semantizzazione dell’essere» (P. Pagani, Nota sulle modalità dell’essere, in Aa. Vv., Il destino dell’essere, cit., pp. 55-81: p. 55). Si rilevi inoltre che anche Brianese, avanzando un profondo parallelismo tra la filosofia di Spinoza e quella di Severino, non indugia ad affermare: «entrambe [le filosofie sono] fortemente connotate ontologicamente, le quali per un verso ci impongono di fare radicalmente i conti con noi stessi (o, meglio, con quello che, a torto o a ragione, siamo persuasi di essere), e per un altro hanno l’intenzione, pur parlando inevitabilmente con la voce dell’uomo, di pronunciare però le parole dell’essere» (G. Brianese, «Sentiamo e sperimentiamo di essere eterni». Emanuele Severino interprete di Spinoza, in ivi, pp. 83-103: p. 83).

74 il destino è l’apparire incontrovertibile dell’essente; ossia è l’apparire dell’esser sé dell’essente; ossia è l’apparire dell’eternità dell’essente in quanto essente – e pertanto della totalità dell’essente. L’incontrovertibilità del destino è la necessità dei nessi dell’essente – innanzitutto del nesso in cui consiste lo stesso esser sé dell’essente.29

Il destino è l’apparire dell’esser sé dell’essente, primariamente rispetto al nesso in cui consiste lo stesso esser sé dell’essente. Cosa bisogna intendere quando, come in questo caso, Severino utilizza il termine “nesso”? Cos’è questo nesso che riguarda il fulcro stesso dell’essente e da cui poi “dipende” il destino? Si può ben affermare, da quanto detto in precedenza, che il nesso interno all’ente, al quale Severino fa riferimento nel passo appena riportato, è ciò che rende l’ente eterno: l’essere presente sempre come totalità che è in se stessa completa e per questo rifugge ogni inutile alterità – sia essa di tipo metafisico-­ontologica o teologico-religiosa – che voglia ricercare il carattere sostanziale dell’ente in un fondamento altro rispetto all’unità già presente nella semplice attualità dell’esser sé dell’ente. In questo consiste ciò che Severino chiama “la Gioia” ossia la vera e piena natura dell’ente che si nasconde sul fondo di esso: la sua assoluta eternità. La Gioia è da intendersi come la naturale salvezza dell’ente tramite il toglimento della contraddizione. Si ribadisca qui che con l’espressione “toglimento della contraddizione” si intende l’affiorare della verità intorno alla reale essenza dell’ente e il conseguente tramonto della terra isolata30. La Gioia è, secondo Severino, un sentiero illuminato 29.  E. Severino, La Gloria, cit., p. 26. 30.  Si tenga presente quanto affermato in Destino della necessità (p. 597) e poi ribadito ne La Gloria circa il rapporto tra l’isolamento della terra e la Gioia: «L’isolamento del destino dal proprio essere la Gioia del Tutto – il suo nascondere il proprio essere l’infinito illuminarsi del tutto – è il fondamento

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ed eterno che da sempre e per sempre appartiene all’ente in quanto tale, e più specificamente essa attiene primariamente all’uomo. L’autore, infatti, non esita ad affermare: «La Gioia è insieme l’essenza inconscia dell’uomo. Nella regione più profonda e nascosta di noi stessi, noi siamo la Gioia»31. Cosa significa che noi siamo la Gioia? Cosa cerca di affermare Severino quando parla della “nostra regione più nascosta”? Che significato è possibile attribuire alle parole appena riportate secondo le quali la Gioia è l’essenza inconscia32 dell’uomo? Per provare a dare una risposta equilibrata a tali questioni, certamente ancora controverse e al centro di innumerevoli dibattiti, appare utile ricollegare questo aspetto con quanto, proprio in apertura di questo lavoro, si tentava di esprimere: commentando un passo centrale estratto da La struttura originaria33 – si diceva34, infatti, che a un livello profondo quasi ormai sepolto, l’Occidente vuole fortemente che le cose siano, vuole fermamente che gli enti abbiano una natura stabile la quale non sia soggetta alla follia del divenire: è impossibile pensare che l’ente nasca dal nulla e ivi faccia ritorno35. Si rifletta ora sull’elemento della volontà appena richiamato: come

dell’isolamento della terra dal destino. Solo all’interno dell’apparire finito del Tutto la terra può essere isolata e il mortale accadere» (E. Severino, La Gloria, cit., p. 27). 31.  Ivi, p. 29. 32.  Sul possibile rapporto tra Severino e Freud rispetto al problema dell’eternità dell’ente e l’a-temporalità dell’inconscio freudiano cfr. l’interessante saggio di G. Pulli, Freud e Severino, Moretti & Vitali, Bergamo 2009. 33.  Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 15. 34.  Cfr. supra, cap. I, § 1. 35.  In Intorno al senso del nulla, Severino, prendendo in esame alcuni passi della Fisica di Aristotele (cfr. Aristot., Phys., 187a 26 ss.), afferma che anche lo Stagirita è assolutamente convinto che se qualcosa si genera, può generarsi soltanto dall’essere e mai dal nulla (cfr. E. Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013, p. 35).

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bisogna intenderlo? Cosa significa specificamente: «l’Occidente vuole che le cose della terra, in quanto cose, non siano un niente»36? Si può provare a rispondere nel modo seguente: l’Occidente non vuole altro che la verità dell’ente lontana dal nichilismo. L’Occidente sa nel proprio inconscio che tutto è eterno e nulla è soggetto al divenire come mostrato dal pensiero nichilistico. Si provi ora a intendere, anche sulla base di quanto detto, il vero significato che Severino attribuisce alla parola “inconscio”: l’inconscio è sentirsi appartenente alla Gioia del Tutto. Detto con le parole di Severino: «Il sentiero che la terra percorre inoltrandosi nel cerchio dell’apparire è già da sempre tracciato nella Gioia»37. Divenire pienamente consapevole che il destino della terra è quello di appartenere alla Gioia del Tutto significa, dunque, divenire consapevole che ogni ente è assolutamente libero dalla solitudine della terra, questo è ciò che Severino chiama la Gloria. Nella Gloria l’ente porta a sé presente ciò che gli è connaturato: tutto è eterno: «questo foglio, questa penna, questa stanza, questi colori, suoni e sfumature e ombre delle cose e dell’animo sono eterni»38 proprio essendo e rimanendo enti finiti. La Gloria del Tutto, nel mostrare che tutti gli enti sono eterni, mostra anche che l’eternità non respinge affatto la loro finitezza. In questo senso appare giusto pensare che Severino voglia abbattere qualsiasi differenza ontologica tra essere ed ente, conducendo così a una sostanziale indifferenza ontologica39.

36.  E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 15. 37.  E. Severino, La Gloria, cit., p. 27. 38.  E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 28. 39.  È interessante rilevare che anche Donà, pur partendo da alcune considerazioni completamente antitetiche circa il rapporto originario tra essere e nulla, in L’aporia del fondamento giunge alla medesima conclusione cir-

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Ciò vuol dire sostanzialmente che, nell’ottica di Severino, non esiste nulla che non sia l’attualità stessa dell’ente. Tentiamo di essere più chiari: l’apparire finito e specifico dell’ente che di volta in volta entra nel cerchio originario dell’apparire è in se stesso una manifestazione eterna e, dunque, infinita, poiché essa, come afferma lo stesso autore, «non si arresta in alcuna configurazione definitiva della terra, non ha la strada sbarrata da alcuno spettacolo conclusivo»40. Ogni ente non rimanda a nulla, non rimanda, per essere più chiari, ad alcuna essenza o fondamento che non sia se stesso e la sua attualità. Ogni ente rimanda al suo apparire attuale come fondamento evidente di se stesso e rimanda al sopraggiungere dell’ente che apparirà come prova della propria eternità finita, quando esso sarà uscito dal cerchio dell’apparire. Ora, però, occorre interrogarsi su un concetto già richiamato che potrebbe sollevare molte perplessità e che tuttavia, volutamente sino a questo punto, si è cercato di tralasciare: tutti gli enti sono eterni, essi non incominciano a essere né cessano

ca l’indifferenza ontologica, affermando quanto segue: «l’esser condannato all’onticità da parte dell’essere dice appunto che nessuna reale differenza riesce a costituirsi tra essere ed ente; ossia che il primo esiste solo nella forma del secondo (il quale viene dunque a determinarsi come effetto dell’originaria aporia di un essere che, solo in quanto ‘non si distingue dal nulla’, esiste sempre ed esclusivamente nell’“è” che viene predicato di ogni determinatezza) (M. Donà, L’aporia del fondamento, cit., p. 38). Si rilevi altresì che tale conclusione condivisa tra Severino e Donà viene tratta nonostante il diverso modo di intendere la predicazione e il suo rapporto con il soggetto. Si rilevi ancora quanto affermato su questo tema da Enrico Berti: «Severino non ha mai dato importanza alla distinzione tra essere ed ente, divenuta di moda con Heidegger, ed ha perfettamente ragione, perché in Aristotele questa distinzione non c’è, essere ed ente sono due modi dello stesso verbo, l’infinito e il participio, e tutto ciò che vale per l’uno vale anche per l’altro, come pure vale per il presente “è”» (E. Berti, Severino e Aristotele, cit., p. 135, nota 4). 40.  E. Severino, La Gloria, cit., p. 30.

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di essere, essi entrando nel cerchio dell’apparire appaiono, uscendo da quest’ultimo scompaiono41. Si potrebbe innanzitutto osservare: gli enti che escono dal cerchio dell’apparire scomparendo perdono la loro attualità e perdendola si ritrovano senza luogo: perdere luogo equivale a rientrare nel nulla. Per questo Severino si mostra perfettamente conscio del fatto che la struttura specifica su cui si fonda la necessità che la terra si dispieghi all’infinito nel cerchio finito dell’apparire del destino – cioè l’impossibilità di un oltrepassante inoltrepassabile – è (come verrà mostrato) la stessa su cui si fonda la necessità che tale cerchio appartenga a una molteplicità infinita di cerchi, in ognuno dei quali il destino appare in modo finito e accoglie la terra che, isolata, lo contrasta e, oltrepassando il proprio isolamento, si dispiega all’infinito.42

La necessità di avere una molteplicità di cerchi è per Severino una logica conseguenza di quanto detto sinora. L’autore sa benissimo che la struttura originaria della necessità è caratterizzata dal rifiuto di dover credere che l’ente possa divenire un niente, di conseguenza, l’unico modo per poter ammettere il cerchio originario dell’apparire è ammetterne infiniti altri. Questa infinita costellazione è composta da cerchi che non appaiono, così come non appaiono gli enti che vi entrano. I cerchi unitamente agli enti esistono come possibilità che descrivono infinite configurazioni di mondo. Ora, da quanto appena affermato, si potrebbe legittimamente avanzare un dubbio: se i cerchi suddetti non appaiono, non possono dirsi attuali, non potendosi dire attuali, di conseguenza, non possono dirsi eterni. In che modo bisogna intendere la natura di questi cerchi in riferimento all’eternità che, pur secondo Severino, essi devono necessariamente possedere? Essi dovranno, afferma 41.  Cfr. supra, cap. II, § 2. 42.  E. Severino, La Gloria, cit., p. 167.

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l’autore, possedere un tipo di «attualità diversa da quella che compete al cerchio finito dell’apparire attuale, […] un’attualità che non appare all’interno di tale cerchio, ossia vi appare solo come forma astratta»43. L’argomento appare sin da subito molto complesso per cui una profonda comprensione del pensiero dell’autore circa tale tematica potrà scaturire soltanto da un’attenta analisi del percorso di pensiero che Severino intende intraprendere. Questa precisazione è necessaria in quanto si mostreranno di qui a poco delle sottili distinzioni e precisazioni circa l’apparire attuale del cerchio originario e circa la diversa attualità degli altri cerchi, e se non si è ben attenti e disposti a coglierle, si potrebbe non comprendere affatto ciò che Severino intende affermare. Se esistono – e si è poco prima appunto mostrato che è necessario che esistano – altri cerchi oltre a quello originario dell’apparire, anche essi dovranno essere sempre presenti, eterni, perché come ogni cosa, anche essi non potranno né derivare né ritornare nel nulla. Tuttavia, non essendo essi né il cerchio dell’apparire né una sua parte dovranno essere attuali senza apparire. Tentiamo di essere più chiari: ciò che esce dal cerchio originario – ossia il cerchio dell’apparire – non cessa di essere, ma cessa di apparire, vale a dire, cessa di essere presente ai nostri occhi, ma non per questo cessa di essere in assoluto. Parimenti l’ente che entra nel cerchio dell’apparire incomincia ad apparire, ma incominciando ad apparire non acquisisce ciò che già da sempre possedeva e possiede: la necessità di essere. Ora, se l’essere di ogni ente non dipende dal suo apparire e fermo eternamente sta, bisogna pensare uno spazio ove tutto sia eterno e attuale, indipendentemente dall’apparire attuale di ciò che ora appare. Questo spazio è costituito dall’infinita costellazione 43.  Ivi, p. 172.

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di cerchi che eternamente sono ma che non appaiono. In tal senso bisogna qui precisare che essi non possono dirsi attuali perché attualmente non appaiono, ma, al contempo, sono attuali perché ci sono in atto44. Che cosa vuol dire che i cerchi ci sono in atto? Vuol dire che essi non sono delle configurazioni del mondo in potenza che devono ancora realizzarsi, ma che al contrario sono reali ed esistono a pieno titolo, così come esiste il cerchio originario dell’apparire. Va sempre tenuto presente, però, che tali cerchi non appaiono. Appare, ad ogni modo, molto difficile poter anche soltanto pensare un’attualità e un esser presente che sia disgiunto dal suo apparire. Severino cerca in qualche modo di pensare oltre un concetto che è alla base del pensiero occidentale: ciò che riguarda la potenza ha a che fare con la possibilità e, in quanto la potenza non è ancora atto, non ha attualità. Inoltre l’atto è tale perché, a differenza della potenza, determinandosi si mostra, appare. Ora, se Severino affermasse che i cerchi che non appaiono appartengono alla possibilità, alla potenza e non all’atto, dovrebbe ammettere in primis il divenire di tutte le cose con la conseguente esclusione che esse siano eterne. Occorre precisare che l’operazione che Severino intende compiere – pensare ciò che non è attuale come già da sempre in atto – risulta a giudizio di chi scrive un’operazione che si fonda su una base molto fragile rispetto alla struttura salda e ben impostata alla quale Severino ci ha abituato. La difficoltà maggiore, è bene ribadirlo, è rappresentata dal fatto che strutturalmente il pensiero “inciampa”, nonostante gli sforzi, quando prova a pensare qualcosa che sia atto – cioè qualcosa che per definizione è sempre qualcosa di compiuto e determinato – che non si pone, non appare. Si potrebbe obiettare che si è troppo schiavi 44.  Il lettore noti che in questo essere attuale e non attuale degli altri cerchi che non sono il cerchio dell’apparire, si ripropone in una forma assai incisiva, in tutta la sua forza, la logica della contraddizione C.

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della struttura aristotelica e che Severino stia proponendo un suo superamento. Ciò sarebbe possibile, ma anche su questo è sicuramente sensato essere quantomeno dubbiosi e riflettere: Severino stesso quando accenna al cerchio dell’apparire si riferisce a quest’ultimo conferendogli sempre un primato ontologico, primato che lo fa essere il cerchio in cui la necessità e il destino dell’essente si fa evidente, appare. Da cosa deriva tale preminenza? Di certo essa dipende dal fatto che solo e soltanto nel cerchio dell’apparire appare la nostra esistenza nella sua attualità. Ecco di nuovo che si ripresentano i termini della questione e la difficoltà di scindere l’atto e il suo apparire. Lo stesso Severino non potrebbe conferire al primo cerchio alcuna preminenza, ma ciò è impossibile. Si tenga presente che lo stesso Severino in Oltrepassare afferma quanto segue: L’innegabile è l’esser sé di ogni essente (cioè dell’essente in quanto essente) e insieme, è l’apparire dell’esser sé di ogni essente. Questi due lati sono «insieme» perché l’esser sé di ogni essente è innegabile solo in quanto gli essenti appaiono, e perché l’apparire è, con necessità, l’apparire degli essenti, ossia del loro esser sé: l’esser sé degli essenti è innegabile solo in quanto è innegabile il suo apparire.45

Ad ogni modo, nonostante permangono su tale argomento molte perplessità, occorre rilevare che concepire i cerchi come sempre concretamente in atto permette a Severino di affermare ancora una volta che davvero tutto è eterno; infatti è possibile rilevare che, per quanto improbabile possa apparire l’esistenza di qualcosa in atto, anche se non appare in atto, solo così può darsi l’eternità di tutti gli enti come concretamente reale. Ora bisognerà soffermarsi sulla posizione dell’uomo e della morte dell’uomo rispetto all’eternità: se tutto è eterno anche

45.  E. Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, p. 95.

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l’uomo deve esserlo. Come può accadere qualcosa come la morte? Cosa è la morte per Severino? L’autore ha dedicato alla risoluzione di questa domanda molti testi, tra cui Oltrepassare. Esso è indicato dall’autore stesso come una seconda parte de La Gloria ove si conducono passi decisivi per una più completa ed esaustiva comprensione proprio di quei punti che, nel testo appena menzionato, destano perplessità46.

2. In che senso è possibile oltrepassare la morte: struttura persintattica e destino di tutti gli enti Nelle tenebre i corpi degli altri viventi si arrestano. Il loro giacere nel sonno, che è inquietante anche quando è giorno, li rende ancora più lontani. Assomigliano ancora di più ai corpi che giacciono da tempo senza muoversi e marciscono, e di cui pure si attende il risveglio. Anche per questa immobilità e per il dolore espresso dai viventi con cui si vuol vivere si leva l’angoscia. […] L’uomo agisce perché il dolore finisca, la luce del sole ritorni, i dormienti con i quali vuol vivere si sveglino e si liberino dalla marcescenza.47

Sin dalle prime pagine de La Gloria Severino tenta di fare luce sul rapporto che la cultura occidentale ha avuto con il problema e la paura della morte. Questo breve riferimento alla tradizione serve all’autore per indicare quanto e con quanta forza l’uomo abbia cercato da sempre di vincere la morte trasponendo la vita eterna in altro, lontano, dalla marcescenza dei corpi dei suoi simili che nella morte lo precedono. L’anima, libera dal destino infame e segnato del corpo, non si disfa, non perisce e così si solleva dal dolore e dall’angoscia della mortalità. Tuttavia, come rileva lo stesso Severino, con l’avanzare dell’età moderna 46.  Cfr. E. Severino, La Gloria, cit., p. 30. 47.  E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 31.

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e il consolidarsi della scienza moderna come campo di sapere autonomo e desacralizzato, postulare l’immortalità dell’anima non si offre più come soluzione che dà assoluto riparo. Infatti, la netta separazione tra il destino eterno e glorioso dell’anima e quello mortale e fatiscente del corpo genera, secondo l’autore, angoscia e dolore, questo perché con la morte del corpo i caratteri specifici di ogni ente – proprio quei caratteri che qualificano il sé come base dell’identità – sono abbandonati e destinati a ritornare, non si sa come, nel nulla. Si tenga ora presente quanto scritto ne La Gloria da Severino: la fede nella vittoria sulla morte è la fede o nella perpetuazione indefinita del divenir altro oppure nell’approdo del divenir altro a uno scoglio capace di resistere per sempre, una volta assestatosi come altro, al tentativo di distruggerlo, e di farlo divenire quell’altro che è la sua distruzione. La stessa «vittoria sulla morte» è cioè divenir altro, ossia è avvolta dalla radice della morte. Il «Verbo», che facendosi «carne» crede di dissolvere il «pungiglione della morte», è esso stesso questo pungiglione.48

L’uomo crede di poter vincere la morte divenendo altro, affidandosi ad essa. Il Dio cristiano, facendosi carne ed esperendo egli stesso la morte, lungi dall’essere ciò che libera dalla morte, è colui che massimamente ne conferma la forza. Cerchiamo di andare al cuore di questo ragionamento nel tentativo di capirne a fondo il nucleo concettuale che lo sorregge: Severino, come più volte si è affermato, è convinto che la storia dell’Occidente sia storia del nichilismo. Alla base di questa affermazione vi è la ferma convinzione che nulla in sé è eterno e tutto possa diventare nulla. La salvezza proposta dal Dio cristiano è perfettamente radicata su questo presupposto: per giungere a tale salvezza occorre che A perisca, si perda nel nulla e, così,

48.  Ivi, pp. 93 s.

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diventi B. Tuttavia, come si è tentato di spiegare ampiamente nei paragrafi precedenti49, ciò è impossibile. È impossibile che qualcosa divenga altro da sé, ciò, come già evidenziato, sottende l’assoluto non-senso, quella estrema follia della quale, secondo Severino, è pervaso il pensiero occidentale: ciò che diventa altro è già da sempre altro. L’obiettivo di Severino è affermare esattamente l’opposto: tutto è sempre ed eternamente ciò che è e non vi è spazio per il divenire così come è stato concepito dalla follia occidentale. L’ente è già da sempre “salvo” dal baratro del nulla; la salvezza appartiene all’ente perché l’ente stesso è, nell’ottica del destino non alienato della necessità, eterno. Il tentativo di Severino – ciò verso cui tutti gli scritti dell’autore cercano di approssimarsi e a cui tendono – è quello di mostrare come sia possibile e giusto cercare l’eternità di tutti gli enti nella natura di questi ultimi quale loro radice caratterizzante e peculiare. In altri termini: si tratta di mostrare, appunto nel senso di “porre sotto gli occhi”, in che modo l’ente è eterno, come e perché il carattere dell’eternità gli è proprio. Per avanzare nella comprensione di ciò che ci si è preposti, potrebbe risultare molto utile partire dalle parole dello stesso autore: volendo la propria immortalità attraverso il divenir altro, il mortale («anima», «io», «individuo», «persona», «soggetto», «coscienza», «Io trascendentale», ecc.) non solo vuole l’impossibile, ma perde di vista la grandezza dell’autentico oltrepassamento della morte – perde di vista la Gloria che egli è in se stesso, nella sua essenza più profonda.50

49.  Cfr. supra, cap. I, §§ 1-2. 50.  E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 173. Cfr. anche ivi, p. 174: «Nessun essente si sottrae al proprio cuore. […] Il cuore di ogni essente è il destino della verità dell’essente».

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Il mortale volendo la propria immortalità attraverso il divenir altro, secondo Severino, non si avvede che il vero e autentico senso della Gloria già da sempre gli appartiene. Ma in che modo può darsi realmente tale eternità? Sotto i nostri occhi costantemente si mostra il divenire, sotto i nostri occhi si impone da sempre la morte di alcuni essenti per poter lasciar spazio alla generazione e alla vita di altri. Severino ci invita ad avere uno sguardo più profondo: ogni ente è eterno e tale eternità va intesa come «l’insieme delle determinazioni del destino dell’essente»51. Cosa significa quanto appena affermato? Cosa si intende per “l’insieme della totalità del destino”? È lo stesso autore a dilungarsi su tale argomento cercando di far chiarezza, affermando poco più avanti che non certo ogni ente sia da considerarsi se stesso e ogni altra cosa, non che, ad esempio, questo foglio sia, insieme, questo foglio e quell’albero lì fuori, quel ramo e quella pietra, questa scrivania o qualsiasi altro essente. Bisogna, invece, intendere tale “insieme” come ciò che non costituisce concretamente l’essente; sarebbe, infatti, impossibile credere che l’eternità di tutti gli enti possa risolversi in un mero e semplicistico monismo metafisico. Non si tratta, secondo Severino, di affermare che “tutto è in tutto”, piuttosto che ogni cosa costituisce se stessa nel suo pieno significare lontano della menzogna del pensiero nichilistico, solo e soltanto attraverso l’essere in relazione con la totalità dell’essente. Ancora una volta, citare le parole dello stesso autore ci può aiutare a dissolvere qualche interrogativo e al contempo proporne altri: D’altra parte, poiché ogni essente è eterno, ogni essente è ciò che esso è e appare così come appare, solo in quanto esso è in relazione a ogni altro essente, e non solo alle determinazioni di quell’insieme. Il «predicato» necessario di ogni essente, quindi, è sia l’essere in relazione alle determinazioni persin-

51.  Ivi, p. 180.

86 tattiche, sia l’essere in relazione alle determinazioni iposintattiche, ossia alle determinazioni che sono specificazioni delle determinazioni persintattiche. Nessun essente può essere ciò che è e può apparire come appare, se non appare la persintassi e l’iposintassi dell’essente.52

Occorre ora partire dal testo su riportato per muovere alcune considerazioni al fine di rendere più chiara la posizione dell’autore. Ogni essente appare così come appare, solo in quanto esso è in relazione con gli altri essenti. Esso è in questa relazione. Tale relazione è, secondo Severino, “il predicato necessario” che caratterizza e qualifica ogni ente in quanto tale (vale a dire salvo dalla follia del pensiero nichilistico occidentale che lo vede oscillante tra essere e nulla). Ora si tenga presente che la relazione a cui si sta accennando è la relazione che ogni ente intrattiene con il “reticolo” delle determinazioni persintattiche, prima, e iposintattiche, poi53. Occorre, però, domandarsi: cosa intende Severino con l’espressione “persintassi”? Con essa egli vuole indicare «lo sfondo intramontabile della terra»54, con cui ogni ente è sempre in relazione. Ogni ente significa in se stesso e per se stesso proprio in virtù di questo essere insieme con, essere in questa relazione con le determinazioni persintattiche (dello sfondo). Si tenga presente quanto lo stesso Severino afferma circa l’essenza vera e reale di ogni ente: [La persintassi] «stabilisce» ciò che l’essente in quanto essente è, nel senso che l’essente è già da sempre lo «stare» in sé secondo le determinazioni della persintassi e pertanto è lo stare eternamente in sé non isolato, dunque, dal proprio «predicato»

52.  Ivi, p. 181. 53.  Mi preme precisare che i termini “prima” e “poi” non hanno qui un significato temporale. Li utilizzo al fine di indicare che, come afferma anche Severino (cfr. ivi, p. 181), le determinazioni iposintattiche vanno considerate specificazioni delle determinazioni persintattiche. 54.  Ivi, p. 182.

87 necessario. (Né all’essente possono convenire predicati non necessari).55

La persintassi fissa ciò che l’essente realmente è quale essente appartenente alla struttura eterna del destino: ogni ente non è isolato, ogni ente è se stesso come significato che si realizza in relazione alla totalità di tutti gli enti. Cerchiamo di essere più chiari vista la complessità dell’argomento: l’ente in se stesso sta in rapporto con le determinazioni persintattiche, ossia con la totalità degli altri enti. Ogni ente è, nell’ottica severiniana, un significato che oltrepassa già da sempre la sua semplice presenza come oggetto. Si badi bene, con ciò non si vuol assolutamente affermare che il medesimo esce da sé, e divenendo altro acquisisce un significato che gli appartiene più propriamente, come già si rimarcava all’inizio di questo scritto56, non si tratta affatto di inquadrare l’altro come la “casa” dello stesso, il tautòn, come fondato e autoprodotto dal suo contrario: il diverso; al contrario, bisogna riconoscere, in un’ottica non nichilistica, che all’ente appartiene come propria radice il suo esser connesso con il “reticolo” persintattico al quale appartengono tutti gli enti come eternamente significanti. “Oltrepassare”, titolo del volume più volte citato, indica a ben vedere il definitivo avanzamento compiuto dal pensiero di Severino, il quale condurrebbe a un riapparire e risignificare di tutto l’ente in una nuova ottica la quale sovverte tutta la storia della metafisica e dell’ontologia. Oltrepassare la struttura del logos folle dell’Occidente significa accogliere e concepire ogni singolo ente – così come ogni singolo accadere – come non isolato e dunque pienamente all’interno dei nessi necessari che fondano la struttura originaria della necessità. Con il sopraggiungere della terra che salva – così Severino chiama la terra

55.  Ivi, p. 184. 56.  Cfr. supra, cap. I, § 1.

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non isolata dallo sguardo del destino57 – si fanno innanzi gli eterni, ed essi non devono assolutamente intendersi soltanto come «le piante, i monti, le stelle, gli animali, ma anche le emozioni, gli impulsi, i pensieri, le sapienze, le immagini, i mondi che i mortali innalzano al di sopra di sé»58. Tutto è eterno poiché ogni cosa è connessa ad ogni altra. Nel­ l’ottica del destino della necessità nessun essente deriva dal nulla, così come nessun essente può annichilirsi in esso. Ogni essente è principalmente, piuttosto, un significato eterno della struttura persintattica che via via si mostra, ossia entra nel cerchio dell’apparire. Essere un significato vuol dire significare, ossia lasciare sempre, eternamente, una traccia, appunto, un segno, il quale, secondo Severino, apre all’infinito succedersi di configurazioni di mondo. Questa lampada che noi diciamo (erroneamente secondo l’autore)59 accesa è un eterno perché quando essa appare – vale a dire entra nel cerchio dell’apparire – appaiono altri e infiniti significati: appare la sua ombra, appaiono i fogli che essa illumina, appare in me il sentimento d’angoscia per il lavoro ancora da terminare. Queste determinazioni trovano la loro eternità nel continuo oltrepassamento delle configurazioni della terra. Oltrepassare, qui, vuol dire l’avvicendarsi eterno e infinito degli enti rispetto al cerchio dell’apparire. Ogni ente che entra in questo cerchio è un significato appartenente alla struttura persintattica della totalità dell’essente: niente, pertanto, nasce dal nulla, nulla muore annichilito nel nulla. Tutto ciò che appare può farlo soltanto perché è appartenente da sempre e per sempre alla struttura originaria della necessità che lo vede da sempre, eternamente, parte, significato sempre vivo di tale struttura. Nella Gloria 57.  Cfr. E. Severino, Oltrepassare, cit., pp. 359 ss. 58.  Ivi, p. 172. 59.  Cfr. supra, cap. I, § 2.

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del tutto non c’è più il problema del passaggio dalla manifestazione eterna e necessaria del Tutto significante all’accadere particolare delle manifestazioni finite60. Ogni accadere – anche l’accadere della morte – non è nient’altro che la manifestazione di un eterno che va a riscoprirsi lontano dall’ottica nichilistica, immediatamente61, quale significato vero e reale facente parte dell’unità eterna e necessaria del Tutto62.

60.  Vincenzo Vitiello ha osservato che «nella Gloria non c’è spazio per il mistero. Non c’è mistero nel “passaggio” dall’Ombra chiara del Tutto all’apparire del Tutto nel cerchio finito dell’apparire […]. Non c’è, e non può esserci, in quanto già da sempre nell’Ombra chiara del Tutto – nell’Inconscio in cui è il cerchio finito dell’apparire – sono gli essenti nella loro determinata determinatezza, nella loro molteplicità infinita» (V. Vitiello, Il Dio possibile, cit., p. 51). 61.  Si intenda qui il termine “immediatamente” come: “in maniera non mediata”. 62.  Cfr. ivi, pp. 37-62. Cfr. in particolare pp. 51-56.

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Capitolo IV

Sulla vita e la morte: riapparire, risignificare, oltrepassare

1. Potenza, volontà, violenza: l’Inflessibile e la cosa «Essere nel tempo, per la totalità degli enti, è non essere la totalità. Appunto per questo, il nichilismo intende come nulla il “prima” che precede l’inizio della totalità»1. Questo passo di Intorno al senso del nulla può fornire l’occasione di un’ulteriore riflessione sull’opera di Severino. In particolare, ci si può chiedere quale sia la natura di quel “prima”, quel “prima” che precede l’inizio della totalità, di cui Severino parla. Pensare a qualcosa che sia prima dell’inizio della totalità, qualcosa che sia prima del fondamento indistinto, delinea certamente un nonsenso, un vuoto logico che il pensiero filosofico non può non riconoscere come il suo stesso annullamento. Ma come mai il pensiero offre se stesso al suo macero? Nell’ottica nichilistica, il “prima” rappresenta una possibilità, quella di poter essere per sé, cioè non insieme ad altro. Tuttavia “essere possibile” significa essere, appunto, “prima” dell’essere reale, ossia, essere nulla. La possibilità così come è intesa dall’Occidente, di essere nel tempo, come meramente pos1.  E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., p. 15.

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sibile, risulta essere nulla: l’impossibile. Detto con le parole di Severino: «ponendo il nulla come la possibilità dell’ente si identifica il nulla all’ente»2. Aristotele chiama, invece, “potenza” la capacità di essere attraverso il divenire, riabilitando il concetto di possibilità e quindi – indirettamente, ma immancabilmente – quello di nulla. Al macero, all’auto-implosione, il pensiero è condotto dunque dalla fede nel divenire, che è fede nella potenza, nella possibilità e – in ultima analisi, secondo quanto detto – nel nulla. Scrive Severino: l’uomo rifiuta sin dall’inizio la morte. Ma fa esperienza di essa un poco alla volta, uscendo da un torpore ancora più antico di quell’inizio. Il senso della morte si sviluppa – come il senso stesso dell’uomo. Basta l’inesplicabile sopraggiungere delle tenebre – distruggono ogni forma visibile, smorzano i suoni, anche ogni cosa toccata, odorata, mangiata diventa estranea e insidiosa – perché l’angoscia si levi.3

Proprio alla morte, alla sua inevitabile apparenza4, si oppone la potenza e trova una sua ragione, l’opposizione tra il tempo e la totalità fuori di esso. Alla coppia di termini “dolore” e “angoscia” viene accostata quella composta da “destino” e “impotenza”. A queste due coppie l’uomo oppone quella di “volontà” e “potenza”, credendo di trovare nella trasformazione, nel divenire altro, la libertà e la possibilità che lo salvi dalla necessità del non essere più. […] la morte si presenta così: come dolore e angoscia. E innanzitutto in questa sua forma viene rifiutata. L’uomo agisce 2.  Ivi, pp. 16 s. 3.  E. Severino, Oltrepassare, cit., pp. 30 s. 4.  Si intenda qui: “che appare” ma anche, nel senso più ampio, in base al pensiero severiniano, come ciò che appartiene all’apparire, contrapposto a ciò che è, pur non apparendo, comunque eterno, nell’ottica del destino della necessità.

93 perché il dolore finisca, la luce del sole ritorni, i dormienti con i quali vuol vivere si sveglino e si liberino dalla marcescenza. […] Il rifiuto originario della morte vuole che questa vita non finisca.5

La potenza predispone all’agire e l’azione si esprime attraverso la volontà, la potenza e la volontà mostrano il carattere resistente, oppositivo, dell’uomo che vuole essere una possibilità determinata per definire altre possibilità. Al fine di ridurre l’inquietante natura del nulla, il puro indeterminato, ciò che non lascia spazio né alla potenza né alla volontà di potenza, Aristotele arriva ad affermare – osserva Severino – che ogni privazione è «non ente», me ón, ossia «niente»; ma questo niente è una proprietà dell’ente che è «privo» di una certa forma, ossia è piantato in esso, che è il «sostrato», hypokeímenon. Si sta dicendo che […] la «privazione» […] non è piantata in un qualsiasi ente, ma in certi enti. Ad esempio il calore di un corpo non proviene da qualsiasi ente […], ma proviene da quel certo ente che è quel corpo in quanto ancora freddo, ossia in quanto sostrato della privazione del caldo.6

Il nichilismo raggiunge il suo apice poiché, ancora una volta, si tende a considerare il nulla come qualcosa. La privazione è divenuta non l’assoluta assenza, l’assoluto negativo, ma il negativo di un positivo, e dunque anch’essa un positivo a tutti gli effetti. In tal senso l’uomo non proviene più dal nulla – così, erronea­ mente, egli crede di essere al riparo dal niente, dal dolore e dall’angoscia che quest’ultimo genera –, piuttosto proviene da un tipo particolare di niente, il proprio, quello che gli è permesso dalla propria potenza. Ma ancora una volta anche

5.  Ivi, pp. 31 s. 6.  Ivi, p. 46.

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questo è nichilismo, forse nella sua manifestazione più profonda: il nulla diventa una determinazione per salvare l’uomo dal nulla stesso. Anche il nulla, inteso nichilisticamente, lontano cioè dallo sguardo del destino della necessità, diventa una forma – molto alienata e perversa, di certo – di volontà di potenza. Accade altresì che, secondo l’ottica di opposizione alla morte, pur di volere, l’uomo vuole che il nulla sia7. «Si crede innanzitutto di esistere e di agire»8, scrive Severino. Ciò è inteso come evidenza incontrovertibile. Ma questa evidenza nasce nell’orizzonte della terra isolata, vale a dire nell’orizzonte dell’errore secondo cui il nulla è qualcosa. In questo contesto: «Il significare del nulla, in quanto significare è positività […], appartiene cioè all’essente, e propriamente alla totalità dell’essente in quanto essa appare, nella struttura originaria della verità, come ciò di cui il nulla è nulla»9. Severino dunque ammette l’esistenza, per quanto riguarda il significato, di un positivo significare del nulla, ma tale significato innanzitutto appartiene alla totalità dell’essente e al destino della necessità che lo ingloba e lo riferisce a sé; in secondo luogo, il positivo significare del nulla non contempla in nessun modo il porsi effettivo del nulla come essente, come qualcosa, poiché porre il nulla – solo per il fatto, ad esempio, che qualcosa viene posto – apre, in definitiva, all’auto-toglimento del significato del nulla10. In altre parole,

7.  Volendo che il nulla sia, l’uomo non ottiene alcunché se non discostarsi dall’unica volontà possibile: quella del destino, che è volontà incardinata nella necessità e nel suo apparire (cfr. E. Severino, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011, pp. 546 s.). 8.  E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., p. 114. 9.  Ivi, p. 112. 10.  Si tenga però presente anche quanto scrive Giulio Goggi: «la negazione del nulla si mette in contraddizione con se stessa perché suppone il riconoscimento di una qualche affermazione di quel contenuto: per negare l’esistenza

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seppur sia possibile individuare la positività del puro significato del nulla, quest’ultimo non può porsi come qualsiasi cosa, poiché ponendo il contenuto specifico e concreto di ciò che esso è, appare immediatamente il suo non essere, il suo non potersi porre, il suo essere niente11. In base a quanto detto è possibile ricollegare tale ragionamento al volere cui si faceva cenno poche righe più sopra: volere il nulla non risolve alcun problema, poiché non dà accesso ad alcun positivo su cui poter avere un’effettiva possibilità di gestione. Volere che il nulla sia, al fine che anche quest’ultimo sia nella piena disponibilità umana – credendo così di eliminare ogni forma di angoscia nei confronti di ciò che non è –, risulta un tentativo vano poiché su ciò che non si pone non si può sviluppare alcuna volontà di potenza. Imporre al nulla un’esistenza che lo renda naturalmente protagonista di una sequenza che lo porti dalla potenza all’atto – senza di fatto poter sostenere né l’atto né la potenza – risulta essere una violenza della volontà sull’essere ancor prima che sul niente. Infatti «nessun ente si sottrae al proprio cuore. Vi si sottrae il nulla. Il sottrarsi è nulla. Il cuore di ogni essente è il destino della verità dell’essente»12. Nessun ente, dunque, si sottrae

del nulla deve affermarne la presenza, l’essere presente. Il tentativo di messa da parte del nulla perché è impensabile, inesplicabile, presuppone dunque la sua possibilità e la possibilità di dirlo. Il che vuol dire che non è possibile estrometterne la semantica dall’orizzonte del significare» (G. Goggi, Al cuore del destino, cit., p. 17). 11.  A supporto di quanto detto, sembra utile ricordare le parole di Severino: «quando si afferma che il nulla, o il diventar altro (in senso preontologico e ontologico), o in generale l’impossibile non possono apparire né essere, e tuttavia proprio in questa affermazione essi appaiono e sono, allora ciò che di essi appare è il loro significato positivo, e tale significato è una contraddizione, la quale appare solo in quanto appare come negata» (E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., p. 90). 12.  E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 174.

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all’eternità, niente si sottrae alla propria salvezza. Addirittura è possibile affermare che il cuore di ogni essente, la sua radice essenziale, ciò che lo fa essere ciò che è, è il destino della verità: l’essere costitutivamente sottratto al nulla. Ciò che, invece, si sottrae costitutivamente all’essere è il nulla poiché, a ben vedere, il nulla stesso è intrinsecamente la sottrazione, il negativo. Per questo il negativo, come poc’anzi affermato, non può mai porsi come esistente, poiché ponendosi, pone un non porsi. Non c’è da sorprendersi, dunque, che Severino affermi: L’immortalità che il mortale vuole ottenere è impossibile in quanto è qualcosa di voluto dalla volontà di far diventar altro la vita, ossia dalla volontà che, in quanto volontà, vuole l’impossibile e fonda questo suo volere sulla fede nell’esistenza dell’impossibilità estrema – il divenir altro delle cose.13

L’immortalità che l’uomo cerca è una immortalità che genera violenza innanzitutto sulla natura dell’ente in quanto lo vuole lontano dal suo essere così e così, fuori dal suo essere attuale. In altre parole, la violenza si compie quando sulla natura dell’ente, già salvo, eterno e non isolato dalla configurazione persintattica e iposintattica del destino14, se ne vuole imporre un’altra. All’ente si intima, così, di cambiare pelle, di rinunciare a ciò che Severino definisce come il suo cuore. Per converso, però, si potrebbe avanzare l’ipotesi opposta: “violenza” è pensare un mondo pietrificato nella sua esistenza concreta, un mondo eternamente fermo, schiavo della sua eternità, un mondo, altresì, ove è inutile l’intervento di qualsiasi volontà

13.  Ivi, pp. 108 s. 14.  Si consideri quanto affermato da Severino in Destino della necessità: «Solo il destino è la volontà perfetta. In quanto è il destino stesso, la volontà è l’abissalmente altro dalla volontà in quanto isolamento della terra dal destino» (E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 581).

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poiché è assente ogni tipo di potenza. A questa obiezione, però, rispondono bene le parole di Severino: [Unita alla necessità dello sfondo esiste] la necessità dell’oltrepassamento di ogni oltrepassante. Ossia questa necessità sussiste perché l’apparire del cerchio del destino non è l’apparire di una radura, di una dimensione vuota in cui la terra si faccia avanti, venendo a costituirne l’unico contenuto, ma è l’apparire dell’intramontabile, dove la terra viene accolta. La luce del cerchio, prima ancora di illuminare la terra, illumina l’intramontabile, cioè lo sfondo su cui appare la terra. L’intramontabile è il destino stesso e pertanto è la sua relazione necessaria alla terra.15

Se dunque esiste la necessità che ogni cosa sia eterna, che viva eternamente come tratto indiscusso della verità e del destino, ciò non significa che non esista, parimenti, anche la necessità che ogni configurazione attuale venga oltrepassata. Il dinamismo è conservato, nell’ottica di Severino, proprio perché è esso stesso un tratto indiscutibile della stessa eternità a cui ogni cosa è destinata. Ogni cosa viene accolta come parte intramontabile dell’intramontabile, ma attraverso un continuo suo oltrepassamento. “Oltrepassare” non significa, per ogni ente, nell’ottica di Severino, divenire o, ancor peggio, passare in altro, significa qui oltrepassare se stesso e il suo significato concreto guadagnando quella dimensione di assoluta verità che lo vede protagonista nell’abbraccio con e tra gli altri enti significanti. “Oltrepassare” significa perdere la menzogna per guadagnare la verità del proprio significare all’interno della maglia stretta che avvolge ogni cosa con ogni cosa. Tutti gli enti sono così rischiarati dal proprio significato nell’ottica imperitura e avvolgente del destino. “Oltrepassare”, infine, significa accorgersi che ogni ente e ogni significato che gli appartiene non è abbandonato all’isolamento della terra ove ogni cosa sembra perdersi in una 15.  E. Severino, Oltrepassare, cit., pp. 177 s.

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radura buia, in cui ogni significato terreno si abbandona al nulla o, ancor peggio, si affida alla sua fine per significare. Se esiste l’Inflessibile, tutt’altro che essere ciò che opprime gli enti, i loro possibili significati e il loro esistere, questo è, invece, la loro profonda e unica condizione di possibilità salva dal non senso e dalla follia. Se infatti lo sfondo è indispensabile al senso della terra, vale anche il contrario: l’intramontabile è anche l’intramontabile della terra. Resta chiaro, da questa prospettiva, che ogni volontà, inquadrata a partire da un più completo ed esaustivo contesto generale del tutto, risulta essere una volontà violenta, vale a dire, non rispettosa della relazione significativa tra ente ed ente e tra ente ed essere. Per questo, secondo Severino, la migliore manifestazione dell’oltrepassare è, paradossalmente, permanere; parimenti la migliore manifestazione della potenza si manifesta negli infiniti sensi degli eterni. Perciò «una cosa […] ha bisogno di divenir altro solo se è isolata dall’altro. Se gli fosse unita, questa unione non avrebbe bisogno di esser prodotta mediante il divenir altro da parte della cosa»16. La volontà, dunque, che vuole il divenir altro per esprimere la potenza e contrastare la morte è, in realtà, volontà di distruggere, di annientare, di gettare nel nulla l’essere eterno già presente, per logica e per natura, in ogni ente. Per questo la volontà di unire il medesimo all’alterità, piuttosto che essere indice di conciliazione, di amore che conserva e protegge, è invece un tentativo di distruggere e annientare: «volere l’amore (l’unione) è volere l’odio (la separazione distruttiva); ogni volontà di pace è volontà di guerra»17. Alla base di questo pensiero vi è la consapevolezza che ogni ente, preso nella sua apparente singolarità, è invece già una 16.  Ivi, p. 107. 17.  Ivi, p. 108.

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sintesi: «Questa lampada accesa è un eterno, una sintesi ne­ cessaria»18, afferma Severino, rifondando sotto una nuova luce il concetto stesso di sintesi. Infatti la sintesi proposta da Severino è tale solo in quanto parte dal medesimo, è sintesi che giace nel medesimo, che vive al suo interno. A ribadire ciò interviene il fatto che per Severino, per un verso, «ogni sintesi, ossia ogni relazione, è, solo in quanto è un’identità»19, per un altro, invece, la relazione è l’insieme costituito da «aloni più o meno ampi di determinazioni che sono comuni a questa lampada accesa»20. Se il nichilismo, a primo acchito, dunque, è pensare il nulla come qualcosa, più in profondità significa pensare la relazione fuori dall’identità e l’identità fuori dalla relazione. In altri termini: presentare la sintesi, ora come qualcosa che giace nel medesimo, ora come qualcosa che risulta da più rappresentazioni che formano la cosa che appare, risulta un’errata espressione tutta interna all’ottica nichilistica. Di fatto, l’identità della relazione trova veramente se stessa quando l’unità si riconosce nel molteplice delle apparizioni e, contemporaneamente, nell’uni­ tà indivisa di ciò che appare e, senza mediazione né contraddizione, di ciò che non appare ancora (o non appare più). La cosa riesce a essere il fulcro della lotta, il frutto dello scontro tra l’Inflessibile e la volontà. Essa, infatti, nasce con tutte le determinazioni che le competono proprio perché, rompendo con l’Inflessibile, la volontà rompe con la totalità. Ogni cosa è il frutto che emerge e si concretizza da uno scontro, Severino infatti non sembra avere dubbi: Che la parola «cosa» significhi questa conflittualità, mostrata nelle antiche formazioni linguistiche della terra isolata è una 18.  E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., p. 88. 19.  Ibidem. 20.  Ivi, p. 90.

100 figura che rinvia alla conflittualità originaria, dove la «cosa» è la risultante della lotta tra la volontà e l’Inflessibile, ossia è la forma originaria (quindi preontologica) del divenir altro. Dicendo che Pólemos è il padre di tutte le cose e che quindi ogni cosa è lotta, conflitto, Eraclito dice già implicitamente che il conflitto è il significato originario dell’esser «cosa» […], la cosa è madre di tutte le guerre.21

La cosa è dunque una parte, vale a dire una ragione che si è fortemente determinata, stabilita e imposta in virtù dell’originaria opposizione all’Inflessibile. Perciò è legata alla parola causa, che indica “ciò che si produce colpendo”. È la volontà a far sì che la cosa accada, poiché essa non può agire su tutto, mentre può agire sulla parte22. Tale azione della volontà è un de-cidere, ovvero far sì che qualcosa sia spezzato (più propriamente, che l’originario sia smembrato) per permettere la vita23. In questo modo si crede innanzitutto «di esistere e di agire»24, e se è pur vero che in questo modo la volontà riesce a far arretrare la barriera dell’originario che ne opprimeva qualsiasi libertà, è ugualmente vero che essa «subisce tuttavia la punizione che la morte le infligge per la sua prevaricazione e ingiustizia»25. Accade che la morte, temuta di fronte al sacro

21.  Ivi, p. 44. Cfr. anche E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 21: «La cosa non è un niente, perché è […]. Ma la cosa non sta al riparo dell’essere in modo definitivo: l’essere e il niente se la contendono, e quindi essa rimane indecisa tra i due, ossia non appartiene definitivamente né all’uno né all’altro […]. La cosa è il “dibattersi tra l’uno e l’altro [l’essere e il niente]”». 22.  Cfr. E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., p. 51. 23.  Anche il cristianesimo fa sua questa logica: la divinità per donarsi deve smembrarsi. Cristo, al fine di redimere l’umanità, è spezzato e dato. 24.  E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., p. 114. 25.  Ivi, p. 55. Su questo tema si segnalano per la loro acutezza le riflessioni di P. Barcellona, Gli abitatori del tempo, in Aa. Vv., Il destino dell’essere, cit., pp. 147-165: pp. 151-153.

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non ancora smembrato, alla barriera che si poneva come puro aliter rispetto alla volontà, si ripresenta nella sua veste ancora più tremenda della colpa per la decisione di uccidere l’altro, il divino. È una storia di continua e reciproca violenza: fino a quando il sacro rimane intatto rappresenta la morte dell’uomo, la morte della volontà, la morte della potenza intesa come poter essere al di fuori delle maglie stringenti del totalmente altro, quando però il numinoso – Severino designa l’Inflessibile anche in questo modo26 – non riesce più a esplicare la sua funzione di assoluta negazione, di barriera che si oppone ad ogni volontà, parimenti quest’ultima muore: viene espulsa e consegnata alla logica mortale del nichilismo. Ogni cosa, infatti, separata da ogni cosa e, ovviamente, separata dal destino della necessità, muore. Credere di vivere è, in questi termini, credere di poter morire, ovvero poter divenire altro rispetto al nesso necessario di se stesso con se stesso e di se stesso con il tutto. Seguiamo le parole di Severino: «L’errore è insieme l’orrore della violenza. Ogni potenza è violenza perché in essa parla l’errore che anche dicendo è annienta la diversità dei diversi»27. In ogni fede che la potenza sia ciò che libera dalla morte, s’annida il seme di una violenza. La volontà infatti crede nella potenza e credendo in essa non si avvede che ha fede nell’impossibile: che qualcosa, per essere, debba essere altro da sé. Anche la semplice affermazione che qualcosa è dà inizio alla violenza, poiché separa l’essere dal soggetto, disconoscendo la necessità che le cose, per il solo fatto di venire pronunciate, non possono essere altro che essere. Ciò che però è più interessante sottolineare è che, secondo Severino, tale violenza annienta la diversità. Si potrebbe credere

26.  Cfr. E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., pp. 48 ss. 27.  Ivi, p. 137.

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l’opposto: nel sistema severiniano, infatti, si potrebbe pensare che, proprio attraverso la rottura con il tutto, con l’Inflessibile, si crei la differenza. E Severino stesso sembra affermare ciò: [La volontà di vivere] dopo la paralisi iniziale riesce a vivere e ad avere un mondo perché riesce a penetrare nella Barriera dell’Inflessibile, infrangendola e smembrandola e comunque facendola arretrare ottenendo così lo spazio che è necessario per la trasformazione del mondo. […] il dio squartato e il mondo che la volontà può finalmente dominare; le membra del dio squartato sono le parti del mondo sulle quali la volontà dell’uomo può finalmente esercitare il proprio dominio.28

Da quanto osservato si dovrebbe poter dire che l’azione della volontà, ben lungi dall’eliminare la differenza, ne determina al contrario la possibilità, a danno del numinoso, e attraverso la violenza. Tuttavia non è così, in quanto, come già sottolineato, l’azione si rivela essere orrore e violenza, annientamento della diversità. Ma come è possibile ciò? Cosa significa affermare che proprio l’introdurre di fatto la diversità annienta la possibilità della diversità? Occorre andare più in profondità e comprendere che esiste una diversità che è frutto della violenza, di una volontà che vuole il medesimo fuori da sé per riconoscersi in quanto tale, e una diversità che lotta all’interno della medesimezza stessa. Il pensiero nichilistico, il pensiero che vuole l’impossibile, ha bisogno di pensare diversità e differenza quali proiezioni del medesimo fuori dalla sua natura, rovesciandosi aporeticamente nel loro contrario, attraverso il movimento contraddittorio del divenir altro. L’alterità si genera così non nella genuina e sana possibilità d’essere del medesimo che conosce la sua differenza, ma nell’insano alveo della malattia mortale e della contraddizione; la differenza prodotta dal pensiero nichilistico, per essere, attende l’apparire rovesciato della cosa.

28.  Ivi, p. 51.

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La cosa che risultava essere una pura resistenza nei confronti dell’Inflessibile si rivela ora, secondo il pensiero dell’errore, come l’addizione di più parti tra loro spezzate e messe malamente in comunicazione. Ma questa non è diversità; la contraddizione non è differenza. Essa si staglia con evidenza come un nulla che annienta lo scheletro stesso della cosa e, quindi, ogni sua possibilità. A proposito della differenza, Severino scrive: «[così intesa] è un dogma (volontà, fede); nel destino è la necessità […]. Ciò significa che, in quanto voluta (cioè in quanto fede, dogma), la differenza dei differenti differisce dalla differenza dei differenti in quanto essa è affermata dal destino»29. In tal modo, il concetto di cosa implode, pregiudicando ogni possibilità sia dell’identità, sia della differenza. Ecco perché Severino può affermare che se i popoli agissero sulla terra conoscendo la verità, ovvero «sapendo che la loro volontà di potenza è illusione (perché anche i gesti più umili e irrilevanti sono violenza che si presume capace di far essere o non essere le cose), quello sarebbe (propriamente: “sarà”) il tempo di una vita essenzialmente diversa da quella resa possibile dalle sapienze dell’Occidente»30. Detto in altri termini: ciò che l’uomo crede di poter fare sulla cosa non conduce al farla brillare, non aiuta la cosa a essere, a stagliarsi quale ente vivo e salvo nella sua integrità. L’operazione messa in atto è soltanto una violenza e come tale si esplica nel considerare la cosa come ente continuamente composto dall’addizione delle sue parti, per altro, in contraddizione tra loro. Non è possibile pensare, cioè, che la cosa chiamata “lampada” possa intendersi alla stregua di un ente spezzato tra le sue manifestazioni (l’essere accesa, quando è accesa, e l’essere spenta, quando è spenta). Proprio per questo bisognerebbe recuperare la relazione interna tra le manife-

29.  E. Severino, La morte e la terra, cit., pp. 32 s. 30.  E. Severino, Dispute sulla verità e sulla morte, Rizzoli, Milano 2018, p. 19.

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stazioni dell’ente e comprendere che la differenza veramente difesa, ordina (così come l’eternità di ogni ente è ordinata dal destino della necessità) che ogni ente rechi in sé una propria, granitica, necessaria unità delle proprie manifestazioni. Se sulla scrivania la lampada ora appare accesa ciò resta vero perché tale significato non è transeunte e temporaneo, ma è un significato eterno filtrato dall’unità che esso possiede con l’altro significato eterno e apparentemente contrario che potrebbe subentragli: quello dell’apparire della lampada spenta. Qualsia­si variazione che volesse affermare il divenire altro all’interno dell’essente (ad esempio il passaggio da accesa a spenta di una lampada) risulta essere una violenza che apre all’annichilimento della cosa stessa. «La variazione non è il diventar altro degli essenti»31, afferma Severino. Ciò che all’interno dell’ottica nichilistica appare come divenir altro, all’interno dell’ottica olistica del destino non è altro che un apparire del medesimo eterno che avanza nel cerchio dell’apparire: Chiamiamo «terra» l’insieme degli essenti (natura, uomini, dèi) che sopraggiungono in quel cerchio. La fede è innanzitutto la persuasione che la storia del diventar altro sia la regione con cui l’uomo ha sicuramente a che fare: la persuasione che isola la terra dalla verità del destino. La terra isolata contrasta pertanto il destino, lo emargina: non può riuscire ad annientarlo, ma attira su di sé il linguaggio e non gli lascia testimoniare la verità del destino.32

Esiste soprattutto una persuasione che ci fa credere che l’uomo abbia primariamente a che fare con il divenire altro. Se l’uomo, dunque, vuole essere padrone della terra e dei suoi significati deve “ammettere” il loro essere transeunti, il loro continuo avvicendarsi che presuppone ciò che, a ben vedere,

31.  Ivi, p. 164. 32.  Ivi, p. 165.

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è assurdo: il loro essere fintanto che sono e il loro non essere quando, sopravanzati da altro, saranno ricacciati nel buio ventre del nulla. Tale persuasione, però, risulta essere una forzatura innanzitutto sulla struttura originaria della verità. La terra isolata, i suoi significati, la volontà che si cela dietro tale isolamento costringono il destino a tacere, costringono il numinoso a non dare più testimonianza della propria verità: l’isolamento di ogni ente da ogni ente e di ogni ente dal suo destino è la storia di una violenza perpetrata contro ogni possibilità di verità e giustizia. Ma la violenza è, giocoforza, destinata a rivoltarsi contro la volontà medesima in quanto il de-stino della verità risulta essere per Severino innanzitutto «lo stare irremovibile del contenuto della coscienza»33. La forzatura della volontà va dunque a urtare principalmente contro la volontà stessa che ha come contenuto essenziale di coscienza l’agire costitutivamente contro la menzogna da sé voluta e costruita34. In altri termini, la coscienza dell’uomo reca in sé un contenuto granitico e irremovibile differente da tutto ciò che ha voluto credere come verità. Per questo «ormai la cosa – il modo in cui l’Occidente intende l’esser cosa – è madre di tutte le morti, di tutte le guerre e di ogni annientamento»35, è il frutto di una volontà che ha inteso separarla dall’Inflessibile attraverso un atto di violenza, inviso al destino della necessità che avvolge ineluttabilmente

33.  Ivi, p. 162. 34.  Sono interessanti le riflessioni di Brianese presenti nel saggio «Sentiamo e sperimentiamo di essere eterni» circa il rapporto tra volontà e necessità. Egli, dopo aver esposto la posizione di Spinoza e averla accostata (sottolineandone anche alcune differenze) a quella di Severino, afferma: «Il punto è che, ove libertà e necessità vengano correttamente intese e siano sottratte agli equivoci della metafisica, tra l’una e l’altra non vi è in effetti alcuna differenza» (G. Brianese, «Sentiamo e sperimentiamo di essere eterni, cit., p. 93). 35.  E. Severino, Dispute sulla verità e sulla morte, cit., p. 20.

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l’uomo. «Lungo la storia del mortale l’uomo è la convinzione di essere una forza che ha la capacità di trasformare il mondo e sé stessa»36, così egli ha creduto di poter essere, poter volere, tuttavia in questo modo, secondo Severino, egli ha aperto il varco alla mortalità37: «L’uomo è pertanto la manifestazione (più o meno “consapevole”) dell’esistenza delle cose del mondo e della forza capace di trasformarle o di essere trasformata, insieme a esse, da forze (cose) antagoniste»38, ma «diventando altro, qualcosa “non è più” quel che “era prima”»39. Sicché «per i mortali muore ogni momento della loro vita, alla fine, muoio­ no essi stessi»40.

36.  Ivi, p. 133. 37.  Utile è sicuramente richiamare il pensiero di Pietro Barcellona, il quale afferma: «Il prezzo dell’adesione al divenire del mondo si rivela, in ultima istanza, la vera fonte dell’angoscia di morte di cui tutti siamo più o meno consapevolmente partecipi. L’esser mortale del mortale è la condanna che accompagna la fede nel divenire e che mostra l’assoluta vanità di ogni tentativo di arginare questo correre incontro al nulla senza alcuna speranza di salvezza» (P. Barcellona, Gli abitatori del tempo, cit., p. 147). Tuttavia tale riflessione si accosta anche a un’altra che mette bene in evidenza quanto l’illusione del divenire, la volontà da parte dell’uomo di credere nel divenire, ha uno scopo preciso che è quello di avere un’«autorappresentazione antropologica come essere libero e dotato di volontà interpretante e progettante. Nell’Essere Eterno non si darebbe, al contrario, alcun movimento, alcuna possibilità di sviluppo, e la vita umana sarebbe destinata alla logica della necessità dell’iden­tità con l’essere immobile» (ivi, p. 149). 38.  E. Severino, Dispute sulla verità e sulla morte, cit., p. 133. 39.  Ivi, p. 134. 40.  Ibidem.

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2. Sull’embrione Cristianesimo e laicismo – e addirittura cristianesimo e anti­ cristianesimo – hanno la stessa anima (che certo si tratta di rintracciare, al di là del comune modo di interpretare la contrapposizione esistente tra i valori della civiltà occidentale); e ciò fa sì che la presente critica delle categorie che stanno alla base della dottrina della Chiesa sull’inizio della vita, e soprattutto la critica del concetto di «potenza», coinvolgano entrambi gli schieramenti che si sono combattuti e si combatteranno sul significato della vita umana e i suoi limiti della scienza e della tecnica.41

Cristianesimo e laicismo hanno la stessa anima, benché sembrino contrapporsi sul delicato tema dell’inizio della vita, del suo pieno significato e delle sue condizioni sufficienti e necessarie per intenderla veramente tale. Essi partono dallo stesso nucleo essenziale, dallo stesso errore42 che costringe entrambi a ergersi, nonostante tutte le evidenti differenze, su un’anima nera, una nube fuligginosa e tesa a oscurare ogni chiarezza incontrovertibile legata alla verità. Tale nube è la radicale incomprensione sul concetto di potenza. Secondo Severino, infatti, si continuerà in una sterile battaglia tra cristianesimo e laicismo, cristianesimo e anti-cristianesimo; per un errore d’impostazione non si riesce ancora a interrogare pienamen41.  E. Severino, Sull’embrione, BUR, Milano 2015, pp. 9 s. 42.  Appare inequivocabile il pensiero di Severino secondo cui entrambe le posizioni recano in sé il medesimo errore e ad apparire inadeguata non è soltanto la dottrina della Chiesa ma anche quella dei suoi “avversari”. Con uno stile efficace e piuttosto spartano, il filosofo bresciano afferma: «la Chiesa sta affrontando i problemi della fecondazione assistita con concetti che si frantumano. Ciò non significa che quelli dei suoi avversari rimangono intatti» (ivi, p. 87). Cfr. anche quanto affermato da Severino in Nascere: «il mio discorso filosofico non ha nemmeno alcunché da spartire con il laicismo, perché (per certi motivi a cui rinvio) vede che l’anima più profonda del laicismo e dell’ateismo è l’anima stessa del cristianesimo» (E. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, BUR, Milano 2012, p. 124).

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te il senso dell’essere, la sua necessità, passando attraverso la reinterpretazione del concetto di possibilità43. A impedire tale svolta si oppone l’incapacità di rintracciare un nuovo orizzonte semantico dei vari significati connessi al senso della vita, dell’apparire, della potenza, del permanere, dell’essere, del divenire44 e del nulla. La possibilità dovrebbe stagliarsi con forza quale non-altro rispetto all’orizzonte della necessità cogente della vita stessa. Appare allora del tutto sensato il riferimento che Severino fa alla radice primaria sulla quale tali concetti vanno pensati nuovamente. Essi vanno compresi e riformulati sino a un pregnante loro risorgere e risignificare. Appare, cioè, fruttuoso interrogarsi sulla struttura di fondo e il modo in cui una determinata tradizione, ormai granitica e sedimentata come quella del pensiero occidentale, vada inevitabilmente a influire sul modo di intendere e trattare la questione specifica dell’essere dell’embrione.

43.  Cfr. E. Severino, Sull’embrione, cit., p. 78: «da quarant’anni i miei scritti vanno mostrando che sia l’ateismo, sia la negazione dell’ateismo hanno la stessa anima e che quest’anima comune è l’alienazione più radicale che possa manifestarsi nell’esistenza dell’uomo – l’alienazione che culmina nella storia dell’Occidente. Dio e la negazione di Dio sono entrambi forme della convinzione che le cose (della natura, dell’anima, della storia eccetera) siano preda del nulla da cui escono e in cui ritornano. Tale convinzione è, insieme, la follia estrema (il senso autentico del nichilismo) e la radice della volontà di potenza e di ogni altra forma di volontà». 44.  Si tenga presente che Severino non pretende necessariamente che il concetto di divenire sia per forza abolito. Se esso, però, vuole essere recuperato, occorre che trovi il suo vero significato nell’ottica non nichilistica del destino della necessità. Vincenzo Vitiello a tal proposito resta scettico e afferma: «Divenire e tempo non hanno diritto di cittadinanza nella filosofia di Severino, se non come errore: l’errore dell’isolamento della Terra. E qui dico del divenire come comparire e scomparire dell’eterno, non già come uscire ed entrare dal e nel nulla. L’impegno di Severino di pensare un concetto del divenire alternativo a quello tradizionale non raggiunge l’esito sperato» (V. Vitiello, Tauta aei, cit., p. 183).

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«Alla radice del passato e dello sviluppo dell’Occidente si trova una volontà di verità che è stata chiamata, appunto, “filo-sofia”: “cura” (philéin, “desiderare”, “amare”, “volontà”) per il “chiarore” che è espresso dalla parola sophia, rifacentesi a saphés, “chiaro”, “luminoso” e dunque “innegabile”»45. Tale volontà di verità che vuole e desidera ciò che è limpido, incontrovertibile, luminoso, ciò che, insomma, non va incontro né a dubbi né a discussioni, viene a essere un «Dio immutabile»46. Egli viene riconosciuto come assolutamente oltre ogni possibilità di contraddizione e ogni confusione ostile alla chiarezza, non solo dalla teologia o dalla filosofia, ma anche dalla scienza, tanto che Severino non esita a parlare di «dimensione filosofico-teologico-­ metafisico-epistemica»47 pronta a riconoscere tale sicura e assoluta realtà. Ciò, tuttavia, sta cambiando: per necessità, ciò che è stato «l’indiscutibile per eccellenza»48 si scontra sempre più con un’altra forza altrettanto rigida che sottolinea la sua inflessibile cogenza: la morte di Dio. In questa locuzione, un po’ abusata, fino a giungere alla svalutazione del suo grande e profondo significato, si riunisce il senso drammatico ma anche inevitabile del crollo dei valori base della cultura occidentale. Ma – e qui sta una parte della grandezza dell’analisi critica di Severino – «si dovrebbe aggiungere che oggi la cultura laica si siede pigramente su quella distruzione, dandola per scontata»49. Di per sé, infatti, l’espressione “Dio è morto” non significa al­ cunché, poiché la comprensione profonda del suo vero significato è andata perduta. Dio è morto perché proprio l’Essere perfetto risulta il fulcro del non senso e della contraddizione:

45.  E. Severino, Sull’embrione, cit., p. 12. 46.  Ibidem. 47.  Ibidem. 48.  Ivi, p. 13 49.  Ivi, p. 14.

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se Dio, come pure ritiene Severino, è ciò che il cristianesimo assume come fondamento razionale per guidare il divenire, cioè la storia del mondo, risulta aporetico pensare che proprio Dio sia il risultato della più profonda irrazionalità, ove viene a manifestarsi l’altro polo della violenza. Se, come è stato rilevato, la separazione dall’Inflessibile, operata dalla volontà, risulta essere una pura violenza, è parimenti vero che la separazione da parte dell’Inflessibile dal destino della cosa mette capo alla medesima violenza. Attribuire esclusivamente a Dio il carattere dell’eternità, e costringere le cose a essere preda del nulla, destina gli enti a esser legati alla follia e al non senso; per altro verso, però, costringe Dio a essere il Signore eterno di qualcosa che è significativamente l’altro da sé, che, visto quanto detto, non può essere altro che il nulla. Qui si evidenzia con forza il cuore del nichilismo, la sua radice violenta e distorcente. Si tratta infatti di una violenza contro quell’essere chiaro, luminoso, a cui la filosofia dovrebbe tendere prima di diventare anch’essa spuria volontà di verità. Alla violenza di Dio, risponde la volontà di potenza attraverso un’altra violenza. Pensare l’eternità fuori dalla natura della cosa e non in ogni sua intima venatura significa, altresì, costringere inevitabilmente la volontà ad agire violentemente contro il pensiero della separazione. La violenza risponde alla violenza a causa di una separazione illegittima operata al fine di aggiudicarsi esclusivamente i caratteri di immortalità ed eternità da parte di Dio. La cosa perciò risponde separandosi, destinando se stessa alla menzogna e all’isolamento dal sentiero di luce che le appartiene da sempre. L’isolamento di cui si sta parlando è fede nell’impossibile, è l’incondizionata fiducia che il divenire preservi l’ente dal niente. Al contrario, in questo modo si mette in atto una violenza che identifica i diversi e che contiene il seme delle devastazioni che l’uomo e le cose subiscono da quando abitano la terra isolata. E in modo ancora più nascosto è proprio ciò

111 che nella terra isolata è vissuto come l’evidenza suprema e indubitabile del diventar altro delle cose ad essere quel positivo significare che da ultimo è il significar nulla.50

È da queste considerazioni che risultano dalla visione generale della filosofia di Emanuele Severino che bisogna partire per comprendere la sua posizione circa i problemi etici che la questione sull’embrione pone oggi. La posizione di Severino è sin da subito palese: egli avanza il forte dubbio circa la legittimità e la sensatezza della dottrina portata avanti dalla Chiesa cattolica di ritenere «l’embrione [come] una persona umana in atto»51 senza però avvedersi delle «conseguenze assurde che da essa scaturiscono»52. Una di esse è rappresentata dal problema

50.  E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., p. 92. Si tenga anche presente che questo discorso, legato al senso profondo del nulla e all’isolamento della terra dal destino della necessità e dei suoi significati, è inscindibilmente connesso con la natura distorta del linguaggio, il quale aumenta l’ingiusta separazione tra soggetto e predicato ogni qualvolta qualcosa viene a predicarsi di qualcos’altro, addirittura, anche in una predicazione tautologica ove dovrebbe risultare soltanto la mera identità del medesimo. Seguendo le parole di Severino: «In modo ancora meno esplicito e diretto significano da ultimo nulla i contenuti che nella terra isolata affermano l’identità con sé stesse delle cose, ad esempio la rosa è la rosa, o, in generale, A è A, o addirittura “l’essere è”. Infatti in queste identità il “soggetto” è pur sempre altro dal “predicato” (anche quando con Parmenide si dice che “l’essere è”). Anche in questo caso l’apparente innocenza del pensiero che la rosa è la rosa è la violenza che identifica i diversi e che contiene il seme delle devastazioni che l’uomo e le cose subiscono da quando abitano la terra isolata» (ibidem). 51.  E. Severino, Sull’embrione, cit., p. 9. 52.  Ibidem. Ho trovato molto utile il confronto apparso su «L’Espresso», n. 16, 2006, tra il cardinal Martini e Ignazio Marino. In esso si mostra, di certo, la posizione conservatrice della Chiesa cattolica ma anche una disponibilità al dialogo su alcuni temi che potrebbero sembrare il luogo di una insormontabile divergenza. Il cardinal Martini apre, ad esempio, cautamente, alla fecondazione eterologa con seme o ovocita di un individuo esterno alla coppia, oppure alla possibilità di utilizzare alcune tecniche che permettano il congelamento non dell’embrione ma dell’ovocita allo stadio dei due pro­

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circa il congelamento degli embrioni in sovrannumero, poiché, come nota Severino, «quando la Chiesa proibisce la produzione di embrioni in soprannumero, non propone altra alternativa che quella di lasciare che ognuno degli embrioni così “tutelati” rimanga eternamente un nulla»53. Come anticipato poc’anzi, la questione si gioca tutta sull’essere e il nulla. L’atteggiamento della Chiesa si affianca a quello laico54, proprio nel senso più profondo del nichilismo: pensare che il nulla sia qualcosa. Non-essere, non nascere, preferire che un embrione resti un eterno nulla, anzi, per essere più precisi, tra l’essere e il nulla, è secondo Severino la più grande opportunità che si possa concedere alle tenebre, al niente, rispetto alla vita e alla verità di essere, poiché qualcosa come l’embrione viene consegnato al suo regno, viene consegnato alla sua potenza. Ma il nulla è impossibile, ossia non giace in esso alcuna possibilità, quindi, a ragion veduta, lasciare gli embrioni al loro futile congelamennuclei, «cioè – come spiega Marino – nel momento in cui i due corredi cromosomici, quello femminile e quello maschile, sono ancora separati e non esiste ancora un nuovo Dna. In questa fase non è possibile sapere che strada prenderanno le cellule nel momento in cui inizieranno a riprodursi: potrebbero dare origine ad un bambino come a due gemelli monozigoti. Non c’è l’embrione, non c’è un nuovo patrimonio genetico e quindi non c’è un nuovo individuo. Dal punto di vista biologico non c’è una nuova vita» (Dialogo sulla vita. Colloquio tra Carlo Maria Martini e Ignazio Marino, in «L’Espresso», n. 16, 27 aprile 2006). 53.  E. Severino, Sull’embrione, cit., p. 21. 54.  Occorre evidenziare come lo scetticismo di Severino investa anche il mondo laico. I suoi attacchi, circa gli errori e le incomprensioni sullo statuto in generale della vita e della morte, e quindi dell’embrione, sono rivolti anche ad esso poiché: «La potenza del mondo laico è divenuta a sua volta una fede che si oppone a quella religiosa; un dogma in cui si ripete che Dio è morto o si esibisce un sussiego dietro il quale non c’è alcuna profondità» (ivi, p. 27). Per Severino la Chiesa come la tradizione laica occidentale continuano, senza alcuna distinzione nella sostanza essenziale delle cose, a voltare le spalle al fondamento del pensiero e della realtà. Il mondo laico è colpevole quanto il mondo cattolico di «galleggia[re e tagliare] il ramo su cui si è seduti» (ibidem).

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to significa già di fatto, non-essere, non avere possibilità. Per questo appaiono coerenti le parole di Severino, che non esita ad affermare: dallo stesso punto di vista della dottrina cattolica, è preferibile che l’embrione rimanga eternamente un nulla, oppure che, essendo egli un portatore degli stessi diritti dell’adulto, sia anche portatore di quel diritto supremo di partecipare, essendo nato, della felicità eterna del Regno dei Cieli? Lasciare eternamente nel nulla chi può nascere ed è ucciso innocente, è un omicidio infinitamente più grave di quello perpetrato da coloro che uccidono l’embrione per rendere più sopportabile la sofferenza di molti – tanto più che, ucciso innocente, ed essendo (secondo la dottrina della Chiesa) persona a tutti gli effetti, l’embrione merita senza alcun dubbio il Regno dei Cieli. […] L’alternativa è però impedirgli l’accesso alla vita eternamente felice e lasciarlo eternamente nel nulla per non ucciderlo.55

La provocazione di Severino è decisa, tanto che raggiunge pienamente il suo obiettivo. Le sue parole infatti fanno quantomeno sorgere la domanda e il dubbio su quale sia l’alternativa vera e reale proposta dalla Chiesa circa gli embrioni in sovrannumero. Che essi siano prodotti è un fatto al quale difficilmente la scienza e la tecnica, che di certo non seguono la logica della dottrina cattolica, si diranno disposte a rinunciare. Una volta, cioè, appurato il fatto che gli embrioni in sovrannumero esistono e che la pratica della fecondazione assistita ne ha bisogno per praticità e per assicurare la riuscita della pratica suddetta, rimane da domandarsi cosa farne degli embrioni che restano congelati e fermi, impossibilitati, di fatto, sia a nascere che a morire. In realtà il problema, più che dal punto di vista di un laico, si apre proprio in osservanza al pensiero strenuamente difeso dalla dottrina cattolica che ritiene ogni embrione un uomo a tutti gli effetti. Se infatti esso è da considerarsi a tutti gli effetti

55.  Ivi, pp. 21 s.

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un uomo sarebbe una violenza insopportabile, una responsabilità morale eccessiva per chiunque, decidere di sospendere la vita di qualcun altro tra l’essere e il nulla, non consentendogli di raggiungere la beatitudine eterna56. Questa spetta ad ogni vivente che sia nel giusto e non abbia commesso peccati gravi e irreparabili contro un altro essere vivente o contro Dio stesso. Tale violenza o responsabilità troppo grande diventa addirittura un abominio se si pensa che l’embrione congelato e sospeso tra l’essere e il non-essere raggiungerebbe di certo il Regno dei Cieli se gli fosse concessa la morte. Inoltre se il Dio della tradizione teologica cristiana è infinita sapienza, infinita volontà che predispone verso il bene di tutti e di ciascuno, non si capisce come possa decidere che qualcuno sia abbandonato nelle tenebre del nulla. Severino commenta dicendo: «Non è forse questa forma di volontà la radice più profonda dell’omicidio?»57. Lasciare qualcuno nel nulla sarebbe massimamente sconveniente a una dottrina e a quel Dio che valorizza la vita e che tramite essa, tramite la valorizzazione delle buone azioni, poi, permette l’accesso al massimo della beatitudine. Sarebbe come uccidere due volte una persona se ad essa non venisse consentita, oltre che la vita terrena, la vita eterna. Ma quanto Severino sta sostenendo contro la posizione della Chiesa è in realtà ben più profondo di un semplice attacco di un laico che non condivide i valori cattolici. Egli pensa che tali valori siano inadeguati a rispondere alle dispute etiche e bio­

56.  Severino tratta questo tema, oltre che in Sull’embrione, anche in Nascere, ove, peraltro, sembra essere più incisivo (cfr. E. Severino, Nascere, cit., pp. 105-119). 57.  E. Severino, Sull’embrione, cit., p. 22. Cfr. anche su questo tema E. Severino, La buona fede. Sui fondamenti della morale, Rizzoli, Milano 1999, cap. II.

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etiche, ossia non riescono a dare una risposta definitiva e totale su questi temi, perché essi sono tutti all’interno della storia occidentale ormai incamminata sul tetro sentiero della non-verità. A ben vedere, dunque, sotto accusa è il pensiero in generale e l’Occidente nelle sue categorie gnoseologiche e ontologiche, incapaci di affidarsi alla necessità logica e al suo destino. Infatti non si capirebbe perché Severino tenga a ribadire, anche quando sta discutendo di vita, morte ed embrioni, che i valori del mondo laico – la libertà innanzitutto – […] sono i dogmi della cultura laica. Lo sono, sino a che non si scorga il tesoro nascosto di cui dicevo. Sino ad allora essi sono i valori voluti dai popoli più potenti della Terra. Valori che vivono solo fino a che li si vuole, non perché se ne veda la «verità». Senza «verità», sono valori perché li si vuole.58

Un dogma – anche seguendo l’etimologia59 – è ciò che viene creduto, ciò a cui si vuole credere strenuamente, ma che spesso resta non verificato. Nell’ottica di Severino, per la quale appare indispensabile integrare la prospettiva della credenza con quella della volontà e, di nuovo, queste due prospettive con quella del destino della necessità, è tuttavia indispensabile fare riferimento all’impossibilità che ogni dogma (ogni cosa creduta) non abbia un profondo collegamento con qualcosa di più originario della volontà di credere, cioè di imporre un dato, ma sia il risultato di qualcosa che non può non mostrare il suo collegamento logico con il destino necessario dell’essente in generale. Tale destino, lontano dal nichilismo, lontano dalla pura credenza ingiustificata, frutto della volontà e della violenza superficiale, mette fine alla separazione dei significati con gli altri significati, mette fine alla separazione della terra dalla Gloria ove ogni cosa è significativamente, e non dogmaticamente, eterna, poiché di 58.  E. Severino, Sull’embrione, cit., p. 31. 59.  Dal latino dogma, che deriva dal greco δόγμα, ossia “opinione”, a sua volta derivante dalla stessa radice del verbo δοκέω, ossia “opino”, “credo”.

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diritto «se ne sta da sempre e per sempre in beata compagnia con tutto l’essere, al di fuori del tempo»60. Appare dunque chiaro che l’errore che esiste nel pensiero cattolico deriva dal fatto che si è sinora ignorata, a un livello più ampio e profondo, la dimensione olistica, vera e necessaria dei fatti e per questo «bisogna scendere nel sottosuolo della filosofia del nostro tempo»61 per poter disputare della vita, della morte, dell’essere uomo o del non esserlo in maniera piena e sensata. L’errore che siamo disposti a imputare alle posizioni cattoliche e cristiane è in realtà del tutto coerente con il «“sentiero della Notte”, percorso dall’intero Occidente e ormai del Pianeta»62. Ritornando alla questione dell’embrione, proprio in essa si rivela, con maggiore evidenza, che le due posizioni, cattolica e laica, apparentemente antitetiche, sono in realtà entrambe orfane della logica e, cioè, che pur non avvedendosene, cadano in contraddizione. Severino mostra come entrambi gli schieramenti siano concordi nell’attribuire all’embrione lo status di essere umano in potenza ovvero: “qualcosa che in condizioni ‘normali’ ha la capacità di diventare un essere umano”. Essi si scontrano invece sul modo di intendere la potenza: mentre i cattolici credono che l’essere uomo in potenza sia un essere uomo a tutti gli effetti, i laici affermano che, sebbene l’embrione sia un uomo in potenza, nulla rassicura del fatto che lo sarà anche in atto, attribuendo così, dal punto di vista ontologico, un notevole scarto tra l’essere in potenza e l’essere in atto. Ora, ed ecco il tratto decisivo dell’argomentazione, se si crede che nella potenza vi sia di diritto una predisposizione unica e prescrittiva, da parte dell’embrione, a essere uomo, allora si crede nella 60.  E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 30. 61.  E. Severino, Sull’embrione, cit., p. 32. 62.  Ivi, p. 33.

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necessità e nel fatto che ogni cosa sia governata dal destino di questa necessità. Se invece si crede che l’essere in potenza non implichi necessariamente un essere uomo già compiuto, che la potenza designi qualcosa che può essere tanto quanto può non essere, allora si abbandona l’ottica per la quale qualcosa è necessario che sia. Dietro a questa posizione si staglia un pericolo maggiore di quello che si nascondeva dietro la precedente: si apre alla possibilità assurda che qualcosa possa essere come non essere, che la potenza (che è qualcosa, altrimenti non potrei nemmeno nominarla) sia qualcosa di ibrido, che sospende l’essere frattanto che prenda una direzione verso l’essere o verso il nulla. Dunque, se si vuole affermare che l’embrione sia già un essere umano proprio perché in potenza lo è, si cade in errore poiché proprio il concetto di potenza che dovrebbe indirizzare verso l’essere, e indicare che quella potenza non è nulla, indica anche il contrario: il suo non essere ancora in atto. Parimenti, se si crede, invece, che l’essere in potenza non implichi necessariamente l’essere in atto, si finisce con l’affermare che dalla possibilità si genera il nulla. Si comprende allora perché Severino affermi che «una gigantesca incoerenza guida […] la nostra civiltà, che tuttavia, per essere potente, non ha bisogno né della verità, né della coerenza»63. È il concetto di potenza che genera l’alienazione e l’allontanamento dal concetto di verità e di coerenza logica, che costringe il pensiero, ormai alienato il nichilista, a indicare qualcosa o nei termini della contraddizione (ammettendo l’essere della contraddizione come essere puro già in atto), o pensandolo come nulla, in quanto in definitiva non ancora completamente formato.

63.  Ivi, p. 52.

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La posizione di Severino è sicuramente tesa a non considerare l’embrione come vita umana. Ma ciò che è più interessante è – ancora una volta – il suo discorso sulla potenza, perché in tale concetto si annidano molte insidie e contraddizioni64. In esso nascono i malintesi che danno vita al problema etico. Scrive Severino: «Il concetto di “potenza” è un grandioso costrutto teorico della follia. Il divenire del mondo deve essere reinterpretato al di fuori della categoria della “potenza”»65. Reinterpretare il divenire al di fuori della categoria di potenza non significa volerlo negare. Severino non vuole riaffermare un’eternità simile a quella imposta da Dio. Egli è, infatti, «la forma fondamentale della cattiva eternità, che è dominio sul mondo, ossia è violenza che cancella quel divenire che per i mortali e per gli stessi amici di Dio è l’evidenza suprema»66. Occorre piuttosto reinterpretarlo nella misura in cui l’eterno sia quello di ogni essente. In modo che, dunque, ogni ente sia concepito come eterno, completo e al tempo stesso complesso. Ogni ente è eterno poiché ritenere che non lo sia significherebbe disconoscere la sua necessaria unità per concederla alla contraddizione del divenire e quindi del nulla. Ogni ente, inoltre, deve essere considerato come complesso, e però tale complessità dovrà essere genuina rispetto a quella prefigurata dal sentiero della 64.  Su questo tema Severino è molto esplicito nel dire che «se […] non si affronta il problema del senso della “potenza” […] è inutile chiedersi quando la vita umana incominci» (ivi, p. 75). 65.  Ivi, p. 55. 66.  Ivi, pp. 34 s. Cfr. anche quanto lo stesso Severino afferma più avanti: «ogni cosa, ogni stato del mondo, ogni istante col suo contenuto concreto – ma poi ogni essente – sono eterni. L’eternità non è il privilegio di un Dio, ma compete a ogni essente, anche al più umile e umbratile degli essenti. Ma non si tratta dell’“eternità” della tradizione metafisico-teologica, che pone un Signore eterno al di sopra delle cose transeunti del mondo, bensì di quel senso inaudito dell’eternità, che sta al di sopra della volontà di potenza che compete a ogni Dio e a ogni Signore, e che tuttavia sta al fondo della coscienza di ogni uomo – sebbene sommerso dalle voci dell’alienazione» (ivi, pp. 78 s.).

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Notte e dal declino del pensiero occidentale. Affermare che un ente è in se stesso complesso nell’ottica severiniana significa infatti affermare che esso è profondamente e compiutamente solo se stesso, in tutte le sue manifestazioni visibili e invisibili. In altri termini: quella lampada che dichiariamo accesa va reinterpretata ammettendo in essa una complessità delle sue manifestazioni e dei suoi significati. La lampada-accesa appare accesa, ma resta eternamente in atto anche la lampada-spenta, e il significato proprio dell’oggetto in questione si compone soltanto nella sua eterna attualità. Esso, cioè, è composto dal suo essere lampada-accesa e lampada-spenta tenendo insieme eternamente, in maniera complessa ma non contraddittoria, entrambi i significati, sia le manifestazioni visibili, sia quelle invisibili. Nulla è filtrato dalla potenza e dal conseguente concetto di divenire, al contrario, tutto si raccoglie perennemente in atto sotto l’eternità necessaria del destino che permane nonostante qualcosa appaia e altro non appaia più. Ogni ente così prefigurato è dunque in se stesso completo, in virtù della sua intrinseca e non contraddittoria complessità. Si tratta di una complessità che non tradisce la natura unitaria e autoreferenziale dell’ente, che non si raccoglie al di fuori della medesimezza dell’ente stesso, contravvenendo alla logica per abbracciare il non senso e la follia. Ogni ente è completo e non ha senso rimandare alcuno dei suoi significati alla potenza, a qualcosa che sarà o non sarà, poiché tutto è eternamente in atto, soltanto come se stesso. Ora, sulla base di quanto detto, è possibile comprendere perché Severino affermi che sia impossibile pensare all’embrione come essere umano. Infatti, proprio coloro che difendono strenuamente i diritti dell’embrione come se fossero quelli di un essere umano a tutti gli effetti, attraverso il concetto di potenza, non si accorgono che proprio tale concetto è loro contrario. Proprio questi ultimi, attraverso il concetto di possibilità, non

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comprendono il destino della necessità, non comprendono la forza e la cogenza dello stare (a cui pure si collega etimologicamente, come indicato da Severino, il verbo destinare), indicando perentoriamente e senza altra possibilità che ogni cosa stia, per natura e per logica, graniticamente fissata nel quadro eterno che le spetta e che nessuna potenza, ovvero nessuna malsana volontà di accrescere se stessa, divenendo altro, può modificare o scalfire67. In questo contesto va inserita la riflessione sulla vita e sulla creazione intesa come venire alla luce, apparire. Ogni altro tipo di significazione che si voglia attribuire alla creazione fa parte dell’errore, del nichilismo, di una parte ancora ottenebrata dalle nebbie del nulla. In Essenza del nichilismo Severino scrive: Se la ‘creazione’ viene interpretata in termini di essere e di non essere – se cioè viene interpretata come implicante la possibilità di non essere (onde di una certa dimensione dell’essere si dice che sarebbe potuta non essere o potrebbe non essere: vertibilitas in nihilum) –, allora il concetto di creazione è l’esplicita negazione della verità dell’essere.68

Se la creazione si lega, in maniera indebita, alla possibilità di non essere, si dice che l’essere può non essere e si dice, altresì, che la possibilità può contenere la non possibilità. Da questa 67.  Enrico Berti, nel già citato Severino e Aristotele, dedica un breve ma interessante paragrafo sulla nozione di destino tra Severino e lo Stagirita (pp. 144 s.) dove mette ben in evidenza che, secondo lui, Aristotele non avrebbe condiviso affatto la posizione severiniana sul destino dell’essere: «L’unica eternità concessa agli enti contingenti [è] quella di appartenere, una volta accaduti, all’essere nel suo complesso, inteso anche come storia. Per esempio Socrate non è più (perché era un vivente, e per i viventi l’essere è il vivere), tuttavia è stato, perché è vissuto, e dunque fa parte dell’essere, nulla potrà cancellarlo. […] ripeto che ciò non significa che tutto accada necessariamente. Alcune cose sicuramente sono necessarie, ad esempio, per i viventi, la morte, altre invece non lo sono» (E. Berti, Severino e Aristotele, cit., p. 144). 68.  E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 115.

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doppia violazione del principio di non contraddizione risulta vincitore il nulla sulla verità dell’essere. Pensare la creazione come qualcosa di dinamico non apre alla sua difesa, al progredire delle prospettive sulla vita, non apre, altresì, all’accrescimento della vita dell’essere, piuttosto lo rinchiude annullandolo tramite il suo contrario. Ma se la creazione viene interpretata come una determinazione che riguarda l’apparire e lo sparire dell’essere, la creazione allora è un’autentica possibilità della verità dell’essere. Una possibilità – è cioè un problema […]. Dal punto di vista della verità dell’essere, la possibilità della creazione è la possibilità che nello spettacolo eterno dell’apparire giunga ad apparire ciò che sarebbe potuto non apparire; ossia che in quel momento dell’eterno che è l’attuale apparire, l’eterno si riveli più di quanto non sia destinato ad apparire. Ma, appunto, una possibilità che coesiste attualmente alla possibilità opposta, e cioè che la storia sia lo sviluppo necessario della rivelazione dell’eterno.69

La possibilità, all’interno del quadro significativo della necessità del destino (e quindi della verità dell’essere), è soltanto quella che qualcosa appaia e scompaia dell’immutabile spettacolo di tutto ciò che eternamente appare, che è eternamente. Qualcosa, da sempre e per sempre, esiste e insiste, legato non all’essere transeunte e all’ottica ipovedente del mortale70, ma come possibilità della necessità, e cioè tratto significativo di quella traccia che ogni eterno è, traccia che si ritrova fermamente salda all’interno dell’orizzonte trascendentale del destino. In tale prospettiva un embrione è un embrione (e non può es69.  Ivi, p. 115. 70.  Appare condivisibile la riflessione di Brianese, secondo cui le parole che Giuseppe Rensi spendeva per la filosofia di Spinoza possono essere sicuramente estese a quella di Emanuele Severino. Infatti entrambe le filosofie si pongono un grande obiettivo, quello: «di guardare la realtà non con occhi umani, ma con quelli stessi della realtà se essa ne possedesse» (G. Rensi, Spinoza, Guerini e Associati, Milano 1993, p. 69).

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sere altro, né un nulla né un uomo) perché ciò che appare è soltanto, esclusivamente, se stesso. La contraddizione, cioè, si toglie quando alla possibilità si toglie la possibilità di essere possibilità e le si ridona la necessità di essere necessità proprio grazie alla possibilità (vale a dire all’essere ciò che appare e, di conseguenza, per logica, non poter essere affatto nessun’altra cosa che non si appresti a sostituire pienamente quell’apparire con qualcos’altro). Per questo, secondo Severino, «l’embrione non è persona»71, in quanto non si determina altro che l’apparire attuale di un embrione. Appare ciò che appare fintanto che non scomparirà tale manifestazione eterna per lasciare il posto alla prossima. Se appare l’essere umano e scompare l’embrione (“scomparire” significa qui “non apparire più”, “uscire dall’orizzonte dell’apparire”), l’essere umano, comparendo, determina a favore della sua natura, della sua specie, il dominio su ciò che è altro da sé. L’essere umano scalza e oltrepassa l’embrione non perché ne risulta una sua evoluzione, un suo miglioramento, un completamento di ciò che vi era prima, ma semplicemente poiché entra nel cerchio dell’apparire, mentre l’embrione non appare più72. 71.  E. Severino, Sull’embrione, cit., p. 94. 72.  Severino in Nascere rileva, ancora una volta, che a fondamento dell’errore e di un pensiero contraddittorio e insoddisfacente vi è l’alienazione del concetto di potenza. Aristotele stesso ammette che qualcosa che è A può potenzialmente diventare non-A se determinate condizioni lo permettono. Secondo Severino lo Stagirita, così come è vero che è stato uno dei primi filosofi a interrogarsi sulla natura dell’embrione, così è stato uno dei primi a cadere in errore. Tale errore deriva proprio da una concezione alienata del concetto di potenza «per il quale l’embrione, se è lasciato vivere in un certo ambiente – innanzitutto il grembo materno – finisce col diventare un essere umano: è “indifferenziato” nei suoi primi giorni di vita e sarebbe “indifferenziato” perché, messo in ambienti diversi, potrebbe diventare molte cose diverse dall’esser uomo. È come se dicessero: un uomo vivente è indifferenziato perché se invece di lasciarlo a casa sua lo mettiamo sul fuoco egli diventa cenere, o se, vivo come si ritrova, lo mettiamo sotto terra diventa polvere,

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D’altra parte, essendo puramente se stesso, l’embrione è eterno, così come anche ogni altra cosa, ma risulta tale poiché lascia il posto nell’orizzonte dell’apparire trascendentale a qualcosa che apparirà secondo la necessità che gli conviene. Perciò nell’ottica non nichilistica della verità – della verità che non è alienata e che perennemente si conferma nonostante l’offuscamento derivato dai concetti precari e insoddisfacenti della logica, della filosofia del linguaggio –, se esiste la possibilità della creazione, essa deve essere possibilità della necessità, possibilità di esprimersi della necessità. O la creazione è questo – una manifestazione tutt’altro che esteriore al destino della necessità, una possibilità, cioè, del medesimo destino (il che vuol dire ancora una necessità della necessità) – oppure tale possibilità è nulla, e dunque si tramuta nel suo opposto, divenendo, l’impossibile, la contraddizione che regna sovrana, sicché i problemi logici diventano problemi etici. Risulta allora necessario concludere cercando di mostrare come sia possibile, per tutti gli enti, apparire e significare pienamente, lontano dall’errore, dalla menzogna e della malattia mortale, oltrepassando i confini del sentiero oscuro della notte e approdare, eternamente salvi, sul sentiero del Giorno ove il senso della Gloria smaschera e annienta, da sempre, per necessità, ogni falsa contraddizione.

3. Riapparire, risignificare, oltrepassare Come si è tentato di specificare nei due paragrafi precedenti, il concetto di potenza si collega, nell’ottica di Severino, al concetto di alienazione. Quest’ultimo si dispiega, nel suo sio se lo infiliamo nella bocca di un cannone diventa proiettile» (E. Severino, Nascere, cit., p. 114).

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gnificato più completo e originario, nella violenza e forzatura di trasferire qualcosa in altro indebitamente, di abbandonare il senso di qualcosa al suo contrario. Ma, paradossalmente, «il divenir altro e la volontà di divenire e far divenire altro sono l’alienazione estrema del destino della verità. Cioè sono una fede nell’(esistenza dell’)assolutamente impossibile»73. Si cerca la possibilità attraverso quel sentiero aperto dal desiderio e dall’amore verso ciò che non si possiede, credendo di vedere nell’altro da sé il proprio rinnovamento e quindi la propria immortalità e salvezza. Ma questo tipo di potenza (o di possibilità) è, a ben vedere, nient’altro che volontà di separazione, isolamento nichilistico dei significati che si spengono in un nonsignificare. Nella volontà che sospinge ogni possibilità si attesta dunque la violenza. E tuttavia la volontà, nonostante la sua “prepotenza”, non riesce a rompere le maglie necessarie del destino che, contrariamente all’infondata separazione di ciascun ente rispetto a tutti gli altri, comanda l’unione necessaria e l’interdipendenza di ciascun ente con gli altri sullo sfondo sicuro e non contraddittorio dell’eternità. Severino fa questo esempio: si consideri un oggetto (A) che sia spostato dal luogo X al luogo Y, la volontà ingenua e malsana, quella che crede nella salvezza del divenir altro, pensa che nello spostamento di A in Y non accada nient’altro che un semplice e naturale cambiamento di luogo. Tuttavia tale volontà è […] costretta ad ammettere (anche senza rendersene conto) che un legame unisce A in y e tutti gli eventi non voluti che «si producono» insieme ad A in y; e che tale legame non può essere un’ipotesi […]. [Infatti] nello sguardo originario del destino della verità appare l’impossibilità del divenir altro da parte di ogni essente, cioè la necessità dell’esser sé di ogni essente: la necessità dell’eternità di ogni essente. In questo sguardo, la necessità del legame necessario che 73.  E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 75.

125 unisce ogni essente a ogni altro non è la «necessità» e la «non ipoteticità» con cui, dallo stesso punto di vista della volontà di potenza e della fede nel divenir altro, ci si può render conto che gli eventi coesistenti sono uniti: nello sguardo del destino la necessità autentica è il destino della necessità […] che gli essenti, in quanto eterni, siano eternamente insieme.74

Severino rileva che secondo il pensiero comune (o anche secondo il pensiero scientifico), se si intende spostare un corpo A dal punto X al punto Y, si crede che tale spostamento non implichi nient’altro che un mutamento di posizione riguardante solo il corpo A. Ma esiste un legame che unisce A e Y e, ancora, tutti gli eventi che si producono (non voluti) attorno ad A e, ancora una volta, in Y. Ciò che è veramente molto interessante rilevare, però, è che questo legame che unisce A e Y o A e gli altri eventi non è casuale, contingente, ma necessario al destino. Tale legame, riferendo la natura non accessoria del destino degli enti, dice anche la natura degli stessi secondo un’ottica di non-isolamento meramente autoreferenziale. La natura di ogni ente si intreccia con la natura di ogni altro ente tale che, nel destino della necessità (ora è possibile sciogliere questa formula in una significazione ulteriore: nello stare di ogni ente in quanto ente in riferimento all’intreccio conglobante che si nasconde nel suo fondo naturale, così come nel fondo di ogni cosa che ha ragion d’essere), risulta essere eterno, perché ogni ipotesi nichilistica di divenir altro perde ogni senso in quanto non rispettosa della configurazione globale del tutto. Si sta qui affermando, cioè, qualcosa di veramente decisivo: la necessità dell’esser sé di ogni essente si conferma non nella mera autoreferenzialità di un dato isolato, ma dal destino che questo ente intrattiene con l’altro. Tuttavia tale “altro” non è lo stesso altro prodotto dalla volontà nichilistica che tende ad alimentare la contraddizione, al contrario, è proprio tale medesimezza che 74.  Ivi, pp. 76 s.

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non uscendo fuori di sé trova l’altro come non contraddittorio, come, cioè, in definitiva e in sostanza, se stesso più vero, significato pieno e non più isolato. […] l’essente in quanto essente è ogni essente: non nel senso che legna, pioggia e ogni altro essente siano l’essente in quanto essente, ma nel senso che essi sono essenti, e la loro relazione all’essente in quanto essente è la stessa totalità dell’essente. Ma, anche, essi si distinguono dall’essente in quanto essente che, come distinto da essi è a sua volta una determinazione che è parte della struttura dell’incontrovertibilità. E tuttavia, se è distinto da essi non ne è separato, e in quanto non separato è, appunto, la stessa concreta totalità dell’essente. […] In quanto distinto dalla propria concretezza, l’essente in quanto essente è l’unità della totalità dell’essente – ossia è ciò per cui la totalità del molteplice è insieme l’unità del molteplice –, ma in quanto non è separato esso è la stessa totalità concreta e unitaria dell’essente.75

L’errore separa. Il nichilismo tende, attraverso la sua ottica miope e inadeguata, a considerare ogni essente come manifestazione distante dalle altre. L’essente in quanto essente è ogni essente (questo mette in luce, ancora una volta, quanto la filosofia di Severino sia una filosofia che tenta di abbattere, a suo modo, addirittura preservandola a volte, la differenza tra essere ed ente, la differenza ontologica76), ma senza che si cada 75.  Ivi, p. 88. Sul concetto di relazione in Emanuele Severino rimane sempre valido il lavoro di C. Fabro, L’alienazione dell’Occidente. Osservazioni sul pensiero di E. Severino, Quadrivium, Genova 1981, in part. cap. III, § c, pp. 67-73. 76.  Anche questa considerazione circa la volontà di abbattere la differenza ontologica, però, va interpretata e ben compresa. Benché infatti nella filosofia di Severino appaia chiaramente l’intenzione dell’autore di affermare che «l’essente in quanto essente è ogni essente», occorre precisare che la prospettiva severiniana non consente di affermare facilmente e in maniera superficiale che ogni ragione metafisica si appiattisce verso il mondo degli enti e delle cose per spegnersi. Al contrario, la dimensione mondana trova

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in un classico panteismo ove ogni distinzione sia stupidamente appianata. Persiste l’ente nella sua individualità, ed esso è l’essente in generale proprio perché preserva la sua concretezza e unicità. Ogni ente è un eterno e una manifestazione eterna dell’essente in quanto tale. L’essente in quanto tale si compone di essenti che non sono l’essente in quanto tale, ma sono in quanto tali e, per essere in quanto tali, devono essere l’essente in quanto tale pur non essendolo. Ciò indica una relazione tra l’essente in quanto tale e gli enti, celata e manifesta nel “sono”, vale a dire nell’essere che appartiene a quegli enti. Tale essere è possibile solo in riferimento all’essere in quanto tale. Per questo appaio­no più chiare, ora, le parole di Severino secondo le quali, in definitiva, gli essenti e «la loro relazione all’essente in quanto essente è la stessa totalità dell’essente». Si profila così l’idea secondo cui la totalità dell’essente in quanto tale è di per sé la totalità concreta degli essenti, senza però dover rinunciare alla singolarità di questi, che vengono a essere, dunque, distinti ma non separati dall’essente in quanto essente. La distinzione dell’essente in quanto essente dalla totale manifestazione concreta degli essenti permette di stabilire che la relazione tra orizzonte dell’essere e orizzonte degli enti rimanga viva pur non confondendo la mera manifestazione di questi ultimi con la ragione eterna del loro apparire. Essa ricade negli enti in quanto tratti eterni dell’eterno (in ragione della loro non separazione rispetto all’eterno) e, al contempo, cade fuori di essi in quanto distinti da quest’ultimo. Per que-

spazio solo all’interno di una teoria dell’essere e del metafisico in generale. Esso è soltanto chiamato a liberarsi da qualsiasi dogmatismo nichilistico che imponga impropri salti della ragione a favore di uno svilimento della materialità stessa. Si tratta piuttosto di capire come, per Severino, la dimensione orizzontale si completi in quella verticale proprio in quanto quest’ultima non è chiamata a separarsi totalmente da essa, e viceversa, proprio in virtù di tale rapporto, la dimensione verticale si trova giustamente eretta a protezione dello stesso mondo sensibile e delle sue manifestazioni.

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sto «ogni altra coincidenza o opposizione è subordinata, ossia è una parte di tale dimensione»77. Ogni coincidenza così come ogni opposizione, ogni identità e ogni differenza, ogni contraddizione e ogni non contraddizione si subordinano immancabilmente alla dimensione necessaria dell’eterno che, però, non è una dimensione esclusiva, non si esaurisce, cioè, in una figura monolitica che respinge ogni rapporto di comunicazione: la necessità dell’eterno è piuttosto la necessità degli eterni in comunicazione e in relazione. È per questo che «il destino della verità è l’apparire della necessità: l’innegabile apparire dell’innegabile»78, tuttavia l’innegabile è l’esser sé di ogni essente (cioè dell’essente in quanto essente) e, insieme, è l’apparire dell’esser sé di ogni essente. Questi due lati sono «insieme» perché l’esser sé di ogni essente è innegabile solo in quanto gli essenti appaiono, e perché l’apparire è, con necessità, l’apparire degli essenti.79

Quest’ultima riflessione di Severino specifica ulteriormente che il destino trascendentale della verità è legato a quello trascendentale dell’apparire80 e, ancora, il destino concreto di ogni cosa è legato alla sua astratta identità eterna, proprio per77.  E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 88. 78.  Ivi, p 95. 79.  Ibidem. 80.  Su questo tema è utile far riferimento ad altre parole presenti sempre nel libro di Severino Oltrepassare, ove egli spiega il significato profondo del termine “fenomenologia” e, in ragione di questo, mostra la sua necessaria connessione con il destino della necessità: «“fenomenologia” significa apophaínestai tà phainómena: far vedere ciò che si mostra in se stesso, procedendo da ciò che si mostra. […] Nel destino della verità l’apparire non è fede, certezza, perché non è separato da ciò da cui è invece separato nel pensiero fenomenologico, ossia non è separato dal non esser altro da sé, da parte dell’essente che appare e dell’essente in quanto essente. E, non separato dal non esser altro da sé, non è separato dall’autonegazione della negazione del destino della verità e dunque dall’autonegazione della negazione di quel

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ché in concreto appare tale identità. In tal senso l’apparire e l’essere sono “insieme” e in tale luogo condiviso ogni cosa è chiamata a riapparire e risignificare in ottica non nichilistica, vale a dire nell’ottica che ormai ha sconfitto la fede traviata e distorta nella natura separata di ogni essente con ogni altro essente. Una cosa infatti: «ha bisogno di divenir altro solo se è isolata dall’altro. Se gli fosse unita, questa unione non avrebbe bisogno di esser prodotta mediante il divenir altro da parte della cosa»81. Ciò apre alla considerazione dovuta e centrale nel pensiero di Severino secondo cui per qualsiasi essente si configura un intreccio con l’insieme delle altre determinazioni che ne dice l’effettiva natura. Tale intreccio è talmente interno alla cosa che ne risulta essere l’unico predicato possibile. Si è detto che ogni predicazione, così come è intesa dall’Occidente, è predicazione che sospinge l’errore, il nichilismo. Ora è possibile capire perché: la predicazione diventa la più grande forma di alienazione in quanto esiste già all’interno della cosa, nelle sue fibre più profonde, una predicazione più verace, una predicazione che non obbliga il soggetto ad alienarsi nel suo contrario per dirsi, tale predicazione è una predicazione risultante dall’«insieme delle determinazioni del destino dell’essente [che] è il “predicato” necessario di ogni essente – predicato “trascendentale”»82. Ciò vuol dire che ogni cosa è quello che è soltanto «in relazione a tale insieme – sì che, propriamente, predicato necessario di ogni essente non è questo insieme, ma l’essere in relazione ad esso»83. Si rifletta dunque che tratto del destino che è l’apparire stesso degli essenti» (ivi, pp. 144, 146. Cfr. anche E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. XII). 81.  E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 107. 82.  Ivi, p. 180. 83.  Ivi, p. 181. Cfr. ibidem: «D’altra parte, poiché ogni essente è eterno, ogni essente è ciò che esso è e appare così come appare, solo in quanto esso è in relazione a ogni altro essente». Su questo tema sarebbe interessante

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la predicazio­ne necessaria di ogni ente, quella che si è detta interna alla propria natura, quella che dunque non tradisce il senso della struttura necessaria dell’essere in quanto essere, non è nemmeno l’insieme delle determinazioni ma, piuttosto, la relazione eterna che sussiste tra di esse. In questo orizzonte conglobante non si unisce per non distinguere un apparire dall’altro, ma si unisce, al contrario, proprio per preservare l’essere necessariamente distinto ma non separato. L’isolamento della terra, ossia la visione secondo cui tutte le manifestazioni che crediamo essere isolate dal destino della necessità e da questo orizzonte conglobante, attraverso una distinta unione, risulta essere un significato distorto, e a ben vedere, un non-­significare. La vera essenza delle cose, dunque, deve riapparire al di là e a dispetto di quello che crediamo il dato indubitabile. Essa deve apparire nuovamente, secondo una pelle nuova, rigenerata, lontana dall’errore che crede ciecamente in ciò che vede senza, però, fondarsi sulla condizione necessaria dell’apparire stesso quale momento eterno dell’eterno: «Nessun essente può essere ciò che è e può apparire come appare,

effettuare uno studio che metta in rilievo le significative affinità e le eventuali differenze tra il sistema filosofico di Emanuele Severino e quello di Merleau-Ponty. Il filosofo francese infatti insiste più volte in Fenomenologia della percezione e ne Il visibile e l’invisibile sul concetto di un orizzonte che trasforma i significati delle cose oltre se stessi proprio attraverso la loro intrinseca concatenazione. Si prenda in considerazione, ad esempio, quanto Merleau-Ponty afferma: «Questa macchia rossa che vedo sul tappeto è rossa solo tenuto conto di un’ombra che l’attraversa, la sua qualità non appare se non in rapporto ai giochi di luce e quindi come elemento di una configurazione spaziale. Del resto, il colore è determinato solo se si stende su una certa superficie, una superficie troppo piccola sarebbe inqualificabile. Infine, questo rosso non sarebbe letteralmente lo stesso se non fosse il “rosso lanoso” di un tappeto» (M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, p. 10; tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 37).

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se non appare la persintassi e l’iposintassi dell’essente»84. La parola “sintassi” indica il radunare o il radunarsi di cose precedentemente disperse o isolate. Ciò significa che nell’ottica olistica, ove ogni cosa appare non più isolata ma connessa e intrecciata ad altro (ad ogni altro), muta considerevolmente anche il significato di ogni ente. “Riapparire”, nel senso di apparire nuovamente, non più nell’ottica restrittiva e cieca del puro nulla, dell’isolamento, apre a un nuovo significato non più decadente e preda del nulla. Con le parole di Severino: Si può dire che anche la relazione, da parte di ogni essente, alle determinazioni della persintassi del destino sia la «proprietà», il «predicato» di ogni essente; ma, appunto, essa è relazione originaria, tale cioè che non unisce al proprio «predicato» una dimensione che, sporgendo provvisoriamente dal nulla, è originariamente isolata dal proprio «predicato».85

La relazione è il fulcro del significato e del vero senso dell’apparire. Si intende qui una relazione originaria ove soggetto e predicato non sono né disgiunti né il medesimo (ciò formerebbe, da un lato, il costante annullamento del soggetto da parte del predicato, dall’altro, qualora si parlasse soltanto di una mera tautologia, il soggetto verrebbe a trovarsi chiuso in se stesso non avendo nulla da ricevere dal predicato come sua evoluzione), ma sono semplicemente in rapporto tra loro. Tale relazione che apre al nuovo apparire e al nuovo significare impone che ogni manifestazione della terra isolata (i suoi significati, le sue immagini, la fede sempre indubitata nell’apparire quale dimensione totale e conchiusa in se stessa) sia oltrepassata dal significato più pieno che le appartiene. Tuttavia tale oltrepassare non può essere inteso come “divenir altro” poiché ciò in-

84.  E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 181. 85.  Ivi, p. 184.

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dicherebbe una nuova disfatta del pensiero, ancora ingabbiato nell’ottica nichilista. “Oltrepassare” non può altresì significare “sostituire”, nella forma in cui qualcosa di nuovo sostituisce qualcosa di passato, sicché quest’ultimo viene annientato e cade nel nulla. “Oltrepassare” deve necessariamente significare che, finalmente, il linguaggio, l’essere e il suo apparire significano e si impongono necessariamente come immutabili manifestazioni eterne e sempre presenti. Dunque, paradossalmente, “oltrepassare” significa permanere nel reticolato e nei rimandi dei significati che la persintassi e l’iposintassi di tutti gli essenti e fra tutti gli essenti impongono. “Permanere” significa qui non permettere che il significato di qualcosa sia in altro e, al contempo e senza contraddizione, che ogni configurazione della terra sia oltrepassata in un significato nuovo, che però gli sia proprio, essendo da sempre e per sempre in se stesso. Poche pagine prima si richiamava l’importanza del de-stino di ogni ente, sottolineando il valore dello stare. Ogni significato, ogni apparire, ogni colore, ogni suono, deve considerarsi eterno poiché “protetto” dalla logica del destino (ove ogni cosa sta poiché è destinata alla sua permanenza) e, proprio perché permane ed è eterno, deve accettare il suo oltrepassamento come momento eterno dell’eterna impossibilità di non permanere. Con il necessario tramonto della terra isolata tramontano dunque anche ogni dolore, ogni angoscia, ogni morte, e anche ogni piacere, ogni felicità, ogni vita che si manifestano nella solitudine della terra. Tramontano; cioè sono oltrepassati; cioè ha compimento il sopraggiungere delle diverse forme in cui essi si presentano via via nella solitudine; diventano un passato. Ma appunto perché il loro tramonto è il loro oltrepassamento

133 concreto, essi sono concretamente, cioè interamente conservati nella luce che li oltrepassa86.

Ogni angoscia, ogni dolore, così come ogni piacere, in quanto manifestazioni isolate e quindi menzognere sono destinate a tramontare. Persino la morte è destinata a tramontare se considerata come significato isolato, come simbolo più alto di una cultura che crede nel non-senso, nella follia, nella contraddizione. “Tramontare” significa oltrepassare, essere necessariamente oltrepassato e, in un certo senso, completarsi, uscendo dalla follia di ciò che non può assolutamente essere. Ogni ente in quanto isolato diventa passato, ogni concetto, preso separatamente dal senso del tutto e dal destino della necessità, cade miseramente mostrando le sue vere vesti. Il loro tramonto è dunque necessario, come è necessario anche il loro errore: anche l’errare, il nichilismo, la menzogna si rivelano essere un tratto decisivo del destino della necessità, tratti della verità che non può essere diversamente da come appare e – attenzione a questo passaggio – non appare. Ma proprio essendo oltrepassato, dunque, ogni ente concreto, così come ogni concetto, ogni ombra, ogni luce, ogni attimo, ogni colore si ritrova conservato. Tale conservazione avviene nella luce dell’eterno, poiché è un nuovo significato che rischiara le cose, tutte insieme, e al contempo tutte distinte. Questo nuovo significato che si leva prepotente dà vita a un nuovo apparire che è finalmente l’apparire della terra che salva, ove ogni cosa sarà strappata costitutivamente dalle grinfie di quel predatore che l’Occidente ha creato e da cui lui stesso è divorato: il divenir altro, l’essere transeunte, l’essere destinato al nulla e alla morte. Tutti gli enti dunque non sono conservati all’interno di una semplice «rappresentazione», o «immagine», o «concetto», o «idea», ma in carne ed 86.  E. Severino, La Gloria, cit., p. 125.

134 ossa, così come si sono presentati; e in carne ed ossa stanno ai piedi del trono della Gloria da cui si domina la dimensione dell’essente che lungo il sentiero della terra li ha oltrepassati e all’infinito li oltrepassa. Accogliendo questa dimensione, l’Io del destino sta su quel trono e, libero dalla solitudine della terra che gli si era separata, continua peraltro a sperimentarla, e non perde nulla di essa. Non perde nulla di ciò che interessa e sta a cuore al mortale, dell’intimità della sua vita e delle vicissitudini alle quali ciò che interessa ed è intimo sono andati incontro.87

87.  Ivi, pp. 125 s.

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Id., Critica al monismo metafisico neoparmenideo di Severino, in «Filosofia», XLIV, n. 1, 1993, pp. 137-177. Spanio D., Anticipare il niente. Intorno alla lettura severiniana di Gentile, in Aa. Vv., Il destino dell’essere, cit., pp. 105-129. Taddio L., Un realismo relativistico in risposta a Emanuele Severino, in «La filosofia futura», n. 3, 2014, pp. 115-122. Tagliapietra A., Autenticità e verità nella filosofia di Emanuele Severino, in Aa. Vv., Le parole dell’Essere, cit., pp. 567-580. Tarca L.V., Parmenide (Frammento 2, verso 3), in Aa. Vv., Le parole dell’Essere, cit., pp. 581-632. Totaro F., Tecnica, ricerca del limite e agire per la verità, in «La filosofia futura», n. 2, 2014, pp. 123-137. Id., Severino interprete di Nietzsche, e la verità in prospettiva, in Aa. Vv., Le parole dell’Essere, cit., pp. 633-646. Ursini V., Risposta a Emanuele Severino, in «La filosofia futura», n. 3, 2014, pp. 123-125. Vander F., Dialettica dell’Infinito. Leopardi e il senso del limite, in «La filosofia futura», n. 7, 2016, pp. 28-43. Veca S., Sull’etica della responsabilità, in Aa. Vv., Le parole dell’Essere, cit., pp. 669-674. Venier V., Emanuele Severino e il respiro del pensiero, in Aa. Vv., Il destino dell’essere, cit., pp. 273-283. Vigna C., La fede, la ragione, l’essere. Obiezioni a Emanuele Severino, in Aa. Vv., Le parole dell’Essere, cit., pp. 675-689. Visentin M., Immutabile/mutevole. L’essere nell’apparire del­ l’ente, in Aa. Vv., Il destino dell’essere, in Aa. Vv., Il destino dell’essere, cit., pp. 15-28. Id., Ontologia e significato del tempo, in Aa. Vv., Le parole del­ l’Essere, cit., pp. 691-707.

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare i professori Vincenzo Vitiello e Francesco Tomatis, per avermi seguito con grande maestria e scrupolosità nel percorso che mi ha condotto prima alla Laurea Triennale e poi alla Laurea Magistrale in Filosofia. Un analogo ringraziamento va ai professori Giulio d’Onofrio, Armando Bisogno e Renato de Filippis, per avermi guidato nel mio percorso di Dottorato di ricerca in Filosofia, scienze e cultura dell’età tardo-­antica, medievale e umanistica, aiutandomi a superare momenti difficili. Ringrazio inoltre il professor Marco Russo, per avermi anch’egli seguito e consigliato, e il professor Gabriele Pulli, che mi ha dato l’occasione di approfondire il mio lavoro pregresso, approdando a questo volume; difficilmente riuscirò a ripagare la benevolenza e la fiducia che mi ha dimostrato. Ma ringrazio tutti i miei docenti, e tal­volta i miei colleghi, che – anche in maniera indiretta – hanno influenzato il mio modo di scrivere, di pensare e di intendere la ricerca e la filosofia: grazie per avermi insegnato, tramite l’esempio, che chi mantiene viva la domanda filosofica non ha bisogno di nient’altro! Un grande ringraziamento, infine, va al professor Massimo Donà che ha creduto in questo lavoro e che ne ha voluto fortemente la pubblicazione. Ciò ha per me grande va-

148

lore, sia per l’indiscutibile e nota eccellenza del suo pensiero, sia perché questo è un libro su Emanuele Severino, di cui egli è certamente uno dei più autorevoli allievi.

Indice

Presentazione di Massimo Donà

p. 11

Premessa

p. 13

Capitolo I Perché la storia dell’Occidente è la storia del nichilismo: divenire altro da parte del medesimo 1.  Il divenire come falsa struttura di verità nel pensiero occidentale 2.  La separazione tra soggetto e predicato e il principio di non contraddizione 3.  La “contraddizione C” come forma di contraddizione interna al destino della necessità ed esterna all’isolamento della terra

p. 21 p. 37 p. 47

Capitolo II La struttura originaria e il valore dell’immediatezza nell’ontologia del destino della necessità 1.  La struttura originaria: immediatezza ontologica in rapporto alla struttura del dire 2.  Necessità e libertà dell’apparire: cosa significa incominciare e smettere di apparire

p. 53 p. 60

Capitolo III L’“indifferenza ontologica” e la posizione dell’uomo rispetto all’eterno 1.  In che senso può darsi a intendere l’eternità di tutti gli enti come concretamente reale 2.  In che senso è possibile oltrepassare la morte: struttura persintattica e destino di tutti gli enti

p. 71 p. 82

Capitolo IV Sulla vita e la morte: riapparire, risignificare, oltrepassare 1.  Potenza, volontà, violenza: l’Inflessibile e la cosa 2.  Sull’embrione

p. 91 p. 107

Bibliografia

p. 135

Ringraziamenti

p. 147

Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Proposte Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Francesco Valagussa, La scienza incerta. Vico nel Novecento. 2. Alfredo Gatto, René Descartes e il teatro della modernità. 3. Fabio Vander, Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele. 4. Ernesto Forcellino (a cura di), Verità dell’Europa. 5. Lucilla Guidi, Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger. 6. Armando d’Ippolito, Arte e metafisica delle forme. Creazione. Crisi. Destino. 7. Guido Bianchini, L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cristianesimo. 8.  Pedro Manuel Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell’essere. 9. Antonio Branca (a cura di), Possibilità. Dell’uomo e delle cose. 10. Federico Croci, Deus Terribilis. Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo.

11. Federica Buongiorno, La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl. 12. Giuseppe Pintus (a cura di), Figure dell’alterità. 13. Marco Martino, Il sistema dei bisogni di Hegel. Un possibile itinerario. 14.  Maria Teresa Pansera, La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica. 15. Massimo Donà - Francesco Valagussa (a cura di), Alterità e negazione. 16. Giuseppe Pintus (a cura di), Relazione e alterità. 17.  Maurizio Maria Malimpensa, La scienza inquieta. Sistema e nichilismo nella Wissenschaftslehre di Fichte. 18. Marco Bruni, La natura divisa. Hans Jonas e la questione del dualismo. 19. Nazareno Pastorino, Destino ed eternità. L’opera di Ema­ nuele Severino.

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 19 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISNB ebook 9788855290760

«Questo foglio, questa penna, questa stanza, questi colori, suoni e sfumature e ombre delle cose e dell’animo sono eterni». Questa affermazione del filosofo Emanuele Severino si fonda sulla pura ragione, libera dall’ottundimento nichilistico in cui versa l’Occidente. Il tentativo di questo libro è di illustrare quanto possa essere affascinante pensare ciò che nessuno mai oserebbe pensare, e cioè che ciascuna cosa è connessa a tutte le altre, e che proprio grazie a tale intreccio è possibile trovare un nuovo significato del tempo e dell’eternità. È appunto in questa tesi dell’eternità di tutte le cose, dell’impossibilità di ogni cosa di venire dal nulla e finire nel nulla – perché semplicemente il nulla non è – il fascino inconfondibile dell’opera di Severino. Questo libro cerca di restituirlo, pur tenendo vivo il vaglio critico che temi di così alta levatura filosofica, e di grande bellezza, necessariamente richiedono.

Nazareno Pastorino è dottore di ricerca in Filosofia tardo-antica, medievale e umanistica, cultore della materia Psicologia filosofica presso l’università di Salerno. È autore di saggi sull’opera di Severino Boezio, Maurice Merleau-Ponty, Antonio Damasio, ed è stato relatore in alcuni importanti convegni, fra i quali il recente “Heidegger nel pensiero di Severino – Metafisica, Religione, Politica, Economia, Arte, Tecnica (Brescia, 13-15 giugno 2019)”. I suoi attuali interessi di ricerca vertono infatti sulla filosofia contemporanea, e in particolare sulle opere di Merleau-Ponty e di Emanuele Severino.

€ 8,00