Carlo Emilio Gadda. Il narratore come delinquente
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Opere di WALTER PEDULLÀ

I maestri del racconto italiano (in coll. con Elio Pagliarani, 1964) La letteratura del benessere (1968 e 1972) La rivoluzione della letteratura (1972) Il morbo di Basedow ovvero dell'avanguardia (1975) L'estrema funzione (1975) Alberto Savinio scrittore ipocrita e privo di scopo (1979 e 1991) Miti, finzioni e buone maniere di fine millennio (1983) Il ritorno dell’uomo di fumo (1987 e 1992) Lo schiaffo di Svevo (1990)

Le caramelle di Musil (1993) Sappia la sinistra quello che fa la destra (1994) La narrativa italiana contemporanea 1940-1990 (1996)

Walter Pedullà

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Proprietà letteraria riservata © 1997 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano ISBN 88-17-84308-3

Prima edizione: marzo 1997

Carlo Emilio Gadda Il narratore come delinquente

L'asparago e il topo La favola mai scritta di Carlo Emilio Gadda

Se sono Svevo e Pirandello idue maggiori narratori italiani del Novecento, chiè il terzo? È dai tempi di Dante, Peic Boccaccio. che puntiamo alla terna vincente in letteratura. Dopo un secolo, giocando a tombola e al lotto, ci sono ormai i numeri per dire che è gaddiano uno dei tre massimi sistemi narrativi del nostro secolo.

Ora che Gadda è sul podio, concludiamo l’estenuante conflitto critico ma chi ha perso non si è arreso. A denti stretti da qualche critico si concede e si sottrae: Gadda è supremo prosatore ma come narratore è un perdente. Non basta essere autore di tre grandi romanzi, La meccanica, La

cognizione del dolore, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana? Senza contare quel racconto lungo che è un romanzo breve, cioè «San Giorgio in casa Brocchi», e tutti gli altri abbozzi di romanzo che si sono «ridotti» a racconti, com-

presi i «disegni milanesi» dell’ Ada/gisa. La sconfitta ottiene l’onore delle armi. Gadda non è mai disarmato. Dopo Caporetto è inviperito: farà sentire i suoi denti a tutti quelli che hanno rovinato la sua vita. Rovinerà la vita di tutti, tutta la vita. È avvelenato pure il Pasticciaccio, il romanzo gaddiano più accattivante, dolce e champagne di una narrativa che fa anche tanto ridere. Il romanzo è la sua vita nel senso che in partenza è autobiografico? Piuttosto il romanzo come vita. Gadda dà in pasto la propria vita al romanzo. Lo si faccia a pezzi, ma ne va della vita, se Gadda non la trasforma in romanzo: narrativa che prima somma e poi moltiplica ipoemetti in prosa dentro 9

una rete che «fa quadrato» sul particolare. Solo il romanzo può sciogliere l’intreccio, lo gnommero, che è la vita. Il linguaggio gaddiano racconta la caduta e insieme costruisce la rete che salverà dall’urto mortale. Naturalmente il narratore verifica in ogni momento la tenuta della sua maglia. Gadda tesse una prosa fitta e nodosa che lo difenda dalla paura del vuoto. L’acrobata però talvolta mette il piede, o la testa, in fallo. Ci sono insomma anche delle cadute. Una vita per il romanzo ma anche un romanzo per vivere. Giorno per giorno, pagina per pagina, parola per paro-

la: parole di una pagina pronta a mettersi al servizio di un organismo narrativo che teme gli strappi. Un romanzo che non dimenticherà mai d’essere stato diario (o giornale di guerra), genere minore in cui la vita quotidiana potrebbe essere arrivata all’ultimo giorno: quando chi pensa o sente di morire dice la verità sulla vita, la propria e l’altrui. Al fronte la morte di un soldato suggerisce a tutti la propria. Il romanzo del quotidiano come racconto di una storia in cui l’uomo che è contro tutti si accorge d’essere in guerra con se stesso. Così tutto torna ma intanto ora si è diversi. Si è

pronti a morire. Muore il Pasticciaccio quando il commissario Ingravallo si rivede bambino che parte per la scuola baciato dalla nonna. Gadda soggiorna con tanto piacere in periferia perché è sicuro d’essere sempre al centro. Ovviamente tocca scavare quando si ha a che fare non solo con l'ignoto ma soprattutto con l’inconscio. Se la realtà, o destino, indirizza al profondo, tocca scrivere il romanzo del profondo. Che, secondo

Jakobson è fatto come il linguaggio, e che, secondo Debenedetti, è fatto come l’atomo. L'anima come la materia e come

la storia. Secondo Gadda, «storia è anche il linguaggio». Sia atomico il romanzo del Novecento e ci sarà un’esplosione di senso che potrebbe seppellirci ma che intanto ci dà molta energia, sia pure sporca.

Essere narratore significa per Gadda stare immerso nella vita e insieme tenere alta la testa per respirare, guardare e 10

capire. È sempre sul punto di annegare, come fa intuire il frenetico agitarsi della mano che scrive nell’aria. È il corpo ad essere troppo pesante o è la sua psiche a tirarlo giù? Il romanzo è la ciambella di salvataggio con cui si tiene a galla ed è anche la forza che lo trascina nel profondo. Pure quando è narrazione di superficie un racconto di Gadda travolge per la violenza della corrente. Si sente dappertutto il grido d’aiuto dell’autore e qualche risata, magari isterica. Un suo romanzo è un tempio che rischia sempre di crollare. Gadda lo puntella disperatamente. Il suo barocco è lombardo (ecco: «barocco lombardo» è un'espressione usata da Gadda per il suo primo scritto critico: attenti al titolo: «Apologia manzoniana»). Ha le visioni il grande realista. Gadda oltre agli occhi ci mette tutti gli altri sensi. Attenti soprattutto all’orecchio: Gadda aspira da sempre al «genio lirico espressivo». Dividetelo per tre e vedrete le conseguenze: è un genio, è anche un grande narratore lirico, ed è così espressiva la sua voce da far tremare la casa comune. Gadda ha cominciato a scrivere romanzi suppergiù negli stessi anni per i quali Borgese disse che era ormai «tempo di edificare», ma l’Ingegnere mina l’edificio in cui andrà a vivere la famiglia borghese della Meccanica e di «San Giorgio in casa Brocchi». Questo geniale narratore che sa far «brillare» ogni parola è pure colui che ha architettato una delle strutture più complesse e più robuste del secolo. Pasticciaccio è diventato ormai termine proverbiale quanto un mito? Potrebbe essere la verità. Hanno qualcosa in comune i tre maggiori narratori ita-

liani? Sono tutt’e tre autori di «romanzi di famiglia». Storie di drammatici conflitti coi genitori. Ma avevano tutt'e tre molto umorismo. Ce ne aveva di più Svevo, che come Kafka sapeva ridere pure del rapporto col padre. Fa dell’ironia sulle madri Gadda, che però più spesso le fa fuori. Solo a lui era successo che in famiglia lo si giudicasse un imbecille, un buono a nulla. Scrisse una piccola variante al giudizio del padre: fu «buono al Nulla». 11

Giocando con le parole, si vince al gioco delle cose. O si perde. Gadda avverte come sconfitta anche la vittoria. Pure dopo la vittoria avrebbe desiderato essere nessuno. Non basta vincere nell’estetica (almeno La cognizione del dolore piaceva a Gadda) e nell’etica (il bene l’aveva sempre fatto, onestamente), se perdi con la metafisica. Era isterico perché privo di adeguate risposte metafisiche o è metafisica la malattia dei nervi? A questo gioco l’uomo del Novecento non finisce mai di perdere. Gadda non aveva il fisico per vincere ma la nevrastenia non è solo un suo modo di essere. La nevrosi è stata una guida all’Essere? Se lo dicono o lo sentono anche Svevo e Pirandello, nonché Palazzeschi, Savinio e Tozzi, po-

trebbe essere un’altra verità. Ovviamente è una verità passeggera, direbbe Gadda. Poi tocca trovarsi un’altra salutare malattia. Insomma date prima un’occhiata al corpo. Gadda gli ha dato l’anima. Il meccanicismo positivista, disse Gadda, sarà presto una favola come quella di Encelado cui la mitologia attribuisce l'origine dei vulcani. La filosofia e la scienza creano solo mitologia, cioè storie che diventeranno incredibili? La verità è solo una favola per bambini? Chi dice allora la verità? La letteratura? Forse è un mito ma Gadda ci deve credere. «Se io credessi in Dio, non farei altro che pregare», disse Svevo. Gadda non fa altro che scrivere. Da miscredente che cerca la verità refrattaria al fuoco e ai lapilli dei vulcani. Perenne è solo il mito, racconto che cambia perennemente senso. Il mito di Gadda è il racconto di chi non trova? Ecco uno che potrebbe dire che la risposta ce l’ha sulla punta della lingua. Anche chi sputa sui miti spera di inventarne uno su cui si apra bocca per millenni.

Oltre a favole e ad altra narrativa, Gadda ha scritto poesia, saggistica, prose scientifiche storiche e filosofiche, critica letteraria e d’arte, testi teatrali, diari. Gadda ha servito

«onorevolmente» tutti i generi letterari mettendoli al servizio della sua narrativa. Che infatti sa essere lirica (tutto è rac4

conto, che dev'essere anche «poesia»), «teatrale» (romanzi «parlati» dove si fa i fatti propri e quelli altrui il dialogo, diretto o indiretto), critica (analisi «deformanti» e giudizio «negativo»), saggistica (il narratore come intellettuale che indica sempre una via: compreso il cambiare strada), storica (storia, ma «al presente», in questo preciso momento), filosofica (i personaggi sono pieni di idee, teoria da trasformare in letteratura), nonché ovviamente, trattandosi di un ingegnere, scientifica (i linguaggi della scienza possono essere caldi carburanti e dinamici propellenti). Il narratore ha ridotto in servitù ogni linguaggio che abbia toccato con mano. «Fanno racconti» il poeta, il «pittore» o paesaggista, il pensatore, lo scienziato, il critico, il giornalista, il biografo e il favolista. Morale della favola: come Mida, anche Gadda trasforma in oro tutta la materia che tocca? In realtà Gadda ha

ricavato pochi guadagni dalle sue macchine e dalle sue scoperte. Che sono brillanti ma lui non ci fa moneta. E tuttavia una singolare moneta ce l’ha: si vede la testa, ma sotto c’è sempre la croce. Un prestidigitatore ha fatto apparire forme di vita che prima l’occhio umano non vedeva. Leggete come si deve la sua mano. È un sensibilissimo sismografo in grado di trascrivere «liberamente» il terremoto di una mente ballerina sin dall’infanzia. Ha lanciato l'allarme a suo tempo, al suo tempo, questo vecchio narratore che fa ancora tremare. Gadda, scrittore «corporale», ha portato in superficie la scottante materia eruttata dalla nevrosi. E ha trasformato questa malattia, che può far impazzire, in occasione di salute mentale. Pochi hanno capito del nostro tempo quanto questa «mente tarmata». Da quando è un uomo bruciato, da Caporetto, Gadda

non ha mai smesso di usare la fiamma contro tutto ciò che era a portata di mano e di mente: la propria vita, la famiglia, la borghesia, il fascismo, le masse oceaniche nelle quali annega il senno degli uomini, e specialmente delle donne. Che acuto interprete d’anima femminile è questo misogino! Si chiami a testimoniare Zoraide, sua prima creatura da ro15

manzo. Potrebbe dire che è nato donna il primo personaggio gaddiano. Quante gravidanze isteriche nella narrativa di Gadda! Che fu scottato da un’interpretazione di Contini, cui parve che il personaggio gaddiano avesse pensieri da donna proustiana. Gadda temeva che una Caporetto sessuale avesse dato fuoco alla sua vita? Non era che una battaglia persa e il narratore invece credette d’averci perso la guerra della sua esistenza? Interrogate la madre, immancabile in ogni suo romanzo, almeno finché non viene uccisa.

«Il Pasticciaccio è una boiata.» Che c’entra il boia? Gadda scriveva come se avesse la testa sotto la ghigliottina. Affettatelo pure ma non buttate il grasso (nemmeno Eros e Priapo, che non è una boiata ma neppure un capolavoro). Scrittore altamente calorico, Gadda fa salire il sangue al cervello ma lo irrora come pochi altri scrittori. Non sempre i suoi libri hanno la testa a posto ma il corpo della sua prosa ha intuito cose fondamentali del nostro tempo: dal socialismo al fascismo, dalla famiglia all'individuo, dalla vita alla morte. E l’amore? Dell’amore ha sentito che non rima solo con cuore. E andato più a fondo, comunque negli organi inferiori. Ha raccontato come essi danno alla testa. Specialmente nelle donne. Il viscerale amore delle donne fasciste per Mussolini è analizzato in Eros e Priapo. E il libello molto viscerale di uno che si faceva salire il sangue alla testa per meglio capire. Aveva forse previsto Gadda che le donne del fascismo avrebbero generato le masse assatanate dall’uomo forte di turno? Fu mai davvero fascista questo scrittore che così profondamente ha capito l’anima femminile? Gadda intuì che c’era più psicologia che ideologia nell’adesione di tanti deboli intellettuali al fascismo.

Non è un buon momento per Gadda: i lettori d’oggi non amano il plurilinguismo né l’espressionismo che mischia il dialetto con la lingua, né la narrativa «grassa» e densa, né la 14

scrittura «spastica», né l’alta percentuale di metafore, né la sofisticata tecnica del «troppo lungo» racconto di Gadda. Lui saprebbe come rispondere a Pirandello che odia lo «scrittore di parole». Ha preso alla gola le parole e, strozzando ogni eloquenza, le ha costrette a rivelare significati che esse non sapevano di possedere. C'è sempre qualcosa sotto le sue, pur così pietrose, parole. Si direbbe che sono solo la punta dell'iceberg, se questo non fosse di ghiaccio. Gadda però non naviga fra metafore così bianche. I suoi colori sono sgargianti, un pugno nell’occhio. Le sue urla si sentono a settant'anni di distanza, Gadda

ha molti più decibel del ticchettio dei cervelli di Svevo e di Pirandello: narratori che procedono a forza di concetti. Con loro si impara come l’uomo del Novecento pensa. In Gadda vediamo come parla lo stesso uomo quando le idee non ce la fanno a dire la verità. Gadda è narratore più rumoroso. I suoi concetti li grida un narratore che deve andare oltre il pensiero. Interrogate la sua logorrea. Guardategli la lingua. E impastata. E la lingua di un narratore insaziabile, pantagruelico. Fate bene, se pensate a Rabelais. Guardate il fisico in Gadda. Il suo corpo è un pachidermico sistema di segni. Non è solo aria nemmeno il peto del carabiniere che rimbomba nella camera in cui vengono ritrovati i gioielli della Menegazzi. Non si sprechi nessun suono della prosa gaddiana. Non tutto è significativo ma non si riduca al silenzio nessun significante. Sfiata con mille rumori l'angoscia di un narratore che digerisce sempre di meno la vita.

È una fatica frustante anche l’inesauribile saccheggio di vocabolari delle lingue e dei dialetti, se non tappano realmente i buchi della conoscenza. Una goccia della prosa di Gadda può essere più dissetante di un romanzo-fiume. Ed ha pure più significato una parola che, per essere costantemente minacciata dal vuoto, si appoggia a quelle accanto formando catena di metafore. La parola gaddiana è sempre al limite: sconfina, rapina e rientra nei propri territori dopo averli estesi. E anche il dialetto, dissonanza fonica e «delin-

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quenza» semantica, torna a far orchestra nella lingua italia-

na. Gadda ha messo in musica il lombardo, il veneto, il ro-

manesco e il napoletano: sempre più giù, dove il dialetto fa ridere. È sempre più grottesco il pasticciaccio nazionale. Un popolo che è una risata. Butta non acqua bensì il sangue questo scrittore ma taluni interpreti continuano a credere che sia solo inchiostro. Ci sono molte pagine oscure, qualche pagina nera, ma, dove fa grumo, lì la prosa gaddiana dimostra all’analisi che si tratta di densità semantica insolubile. Un gomitolo di senso di cui è arduo venire a capo. Laddentro è rinchiuso l’io, laggiù è prigioniero l'Altro. Gadda e il doppio. Un narratore che tuttavia ha più di due livelli. Il suo Altro ha un doppio fondo. Nemmeno Ingravallo, geniale investigatore, ci è arrivato.

Con l’inchiostro Gadda ha nascosto il cruento segreto della propria e dell’altrui vita. Gadda, che non possiede la vocazione narrativa di Svevo, ha dalla sua l'ingegneria più sofisticata. In quanto alla filosofia, l’autore di Meditazione milanese non ne ha meno di Pirandello, sulle cui idee hanno modellato le proprie scrittori di tutto il mondo. Gadda su questo saggio ha modellato il proprio mondo, nostro mondo, lungo un’audace proiezione per la quale la realtà è uno gnommero, un groviglio, un pasticcio non dissimile strutturalmente dalla psiche individuale. Ecco una delle tante verità: l'Altro ha la stessa forma della materia. Come è materiale l’anima gaddiana! Si tocca con mano quello che pensa Gadda. Diventano tangibili anche le sue interpretazioni psicoanalitiche. Seguite il topo sognato dal brigadiere Pestalozzi: vi condurrà verso il più segreto desiderio dell'anima umana. C'è l’interdetto ma nessun carabiniere impedirà a Gadda di confessare le trasgressioni annidate nella psiche. Solo in tal senso, cioè per la concretezza delle sue visioni, è (diversamente da come usava questa definizione Savinio) un «verista dell'anima». Nelle mani di questo scrittore insomma l’anima dice spesso la verità. 16

La realtà freudiana o gaddiana non è strutturalmente diversa dal linguaggio e nemmeno da quella particella atomica di cui si ignorano velocità e direzione. Cambia improvvisamente la direzione del racconto, sono frequenti i cambi di velocità della narrazione gaddiana. Questa scrittura ubriaca non fila mai diritta ma mette spesso in piedi verità salde. È vero anzitutto che Gadda di passaggio schiaccia molte verità di cartapesta. Scricchiolii e altri rumori sospetti per i quali è necessaria molta sensibilità, anzi un’ipersensibilità che per|cepisca quanto prima era impercettibile. Muovendosi come una particella atomica fra le parole, Gadda ha scoperto la materia che è energia. Lui forse la crea pensando agli effetti distruttivi che essa ha sulla famiglia e sulla società del nostro secolo, ma l’energia nucleare può essere usata anche per scopi pacifici. Gadda ci costruisce romanzi che compiono stragi ma con l'energia linguistica ricavata dalla sua prosa i suoi «nipotini», Pasolini e Testori anzitutto, hanno raccontato storie persino edificanti. È la scoperta del secolo, non ci ha messo mano solo Gadda, ma lui è tra quelli che maggiormente hanno influito sulla capacità contemporanea di dare senso all’insignificante. Dove prima c’era una sola stella, ora fa luce nell’universo culturale d’oggi un'immensa costellazione. Un microscopio che è un gigantesco cannocchiale mette a nudo ogni cellula dell’uomo. Gadda ha lanciato una delle prime sonde: e c’è vita in tanti pianeti che sembravano ghiacciati agli occhi e alla lingua dei vecchi narratori. È dai tempi della Bibbia, scrive Gadda, che lo scrittore

ha prioritari problemi con la tecnica. L'Ingegnere prega Dio di dargli la tecnica con cui liberare la verità, che nel Novecento si nasconde sempre più sotto. Gadda tenta la fusione di tecnica e verità. Dio è arrivato dov'è o dove si crede che sia usando una particolare tecnica, come attesta la Bibbia, libro divino scritto a somiglianza d'uomo. Chi trova la tecnica con cui si perviene alla verità è un Dio, o quasi. Uno che inventa un mondo. Dio regala la grande scoperta a chi rischia ly

la vita nel laboratorio. Gli elementi non debbono essere necessariamente nuovi. Nuova sia però la combinazione. L'ars combinatoria è un’arte secentesca da rimettere in funzione. Dal secolo barocco arriva a Gadda l’invito ad aprire un'officina che non rifiuti nessun materiale: volgare o prezioso che sia, italiano illustre o dialetto osceno. Sono tutte

creature di Dio. Se le interrogate con il linguaggio in cui si trovano a loro agio, vi racconteranno delle storie inaudite. E i linguaggi tecnici si metteranno a cantare come quello della poesia. Che commozione può procurare il lessico della radiologia, se guarda i polmoni di un povero operaio! Ai raggi si vede in modo lampante che nel Novecento si fa grande arte coi più sofisticati artifici. «E storia è il linguaggio» Gadda ha assistito in anni liceali all’esplosione delle avanguardie futuriste ed espressioniste (nonché dadaiste): il primato del linguaggio, l'inconscio, il materico, il disordine come premessa di ordine nuovo, la polemologia, le forme come madri di significati imprevedibili, il rovesciamento dei valori attraverso il massacro comico di essi. Ha passato la giovinezza in guerra e in prigionia, ha frequentato dall’infanzia alla maturità incroci di lingua e dialetto (lombardo e veneto, toscano poi, infine romanesco e altro centro-sud) e di lingue diverse (il tedesco della prigionia, lo spagnolo del primo lavoro in Argentina). È un ingegnere che sa usare i numeri, disegnare geometrie, passare dal progetto alla realizzazione. Razionale è il progetto, la realizzazione è labirintica. Non è certo che Gadda sia Teseo: potrebbe essere il Minotauro. Gadda è stato un modello della narrativa del secondo Novecento non solo per le parole, per la scrittura, ma anche per la struttura: quella che consiglia di procedere per punti di vista in un secolo abbandonato dalla Verità. Solo l’estremismo può credere di possederla ancora. Da un particolare punto di vista Gadda può essere stato fascista, ma la struttu18

ralo contraddice quando pareggia come in un cubo le sei diverse prospettive. Gadda era sei volte un estremista ma neppure una volta è monoteista. Chiamereste tale poliprospettivismo tumore della pelle? No, non è ulcerata solo la superficie del racconto gaddiano! Chi ha davvero necessità dell’oncologo è l’anima di Gadda, io tarmato, psiche suppurata, ma questa malattia dà salute alla democrazia. In uno scatto d’ira Gadda fustigherebbe il suo avversario ma presto gli passa la parola perché dica liberamente la sua. Perciò un suo romanzo può suggerire il contrario di quel che pensa un personaggio, magari l’alter ego dell’autore. Un’anima femminile? Gadda rinvia all’«onnipotenzialità» per cui all’origine non eravamo né maschio né femmina. Cherchez la femme! La femmina vede la vita e il mondo con una sensibilità partigiana che guida verso una conoscenza che prima in potenza, poi in atto, è di tutti. Sta avendo il sopravvento l'elemento femminile, l’irrazionale e l’uterino?

Trionferanno le femmine sui maschi e nei maschi? Masse di femmine, le femmine che sono le masse, imporranno il loro

punto di vista? Una visione, una profezia? Hanno un grande futuro le donne di Gadda, tranne naturalmente quelle uccise dai figli. Date loro però tempo ed esse cambieranno opinione. Ovviamente se sopravviverete alla violenza dei sentimenti estremi. Gadda fa uccidere molte donne assolutiste (come possono essere le sue madri) ma presto si accorge che hanno anche le loro buone ragioni. Potrebbe avere ragione la Vecchia Signora della Cognizione del dolore, che il figlio Gonzalo ammazzerebbe in uno dei suoi attacchi di nevrastenia: anzi è convinto di avere «psicologicamente» armato la mano dell’assassino. Alcuni dati «concreti» sulla vita poco «fantastica» di Gadda. Nacque nell’ultimo decennio dell’Ottocento, un anno dopo la fondazione del Partito Socialista. La prima formazione avviene in epoca positivista; che però in quegli an-

ni Novanta è al tramonto. Agonizzava anche ma tardava a morire il naturalismo. Magari era più vivo Bourget che non 19,

Zola: prosperava cioè il «verismo dell’anima», vigilia d’espressionismo. In poesia trionfava il simbolismo: linguaggio che «suggerisce». Ne raccolgono la bandiera in guerra col realismo gli ermetici, che Gadda frequenterà nei fiorentini anni Trenta.

Torniamo alle origini. Gadda vedrà la nascita del futuri-

smo, ma «aborrisce il pandaezzonium» dell’informale quan-

do non è coscientemente «procurato». Combatté nella prima guerra mondiale, che concluse in prigionia. La Caporetto di Gadda, una sconfitta che peserà sul suo futuro. La sconfitta della vita. Segue la vittoria della letteratura. Gadda era andato alla guerra cercando la grandezza che compete all'uomo d’azione. Uomo dell’Ottocento, aspira nientemeno che all’eroismo. Però il destino, cioè la realtà, è

diverso: forse non ci sono più eroi, e comunque lui non lo è. Glielo impediscono l’anima e il corpo, alleati che preparano la Caporetto del patriota risorgimentale. L'anima dà in escandescenze prossime alla demenza; il corpo si debilita in diarree frequenti, che non sono tuttavia sintomo di paura. Il giovane combattente è felice nella battaglia: la guerra sarà sempre un bel ricordo dello studente d’ingegneria che ama l'avventura. _ E ammorbante il mondo circostante, i generali, i soldati. È asfissiante l’intera società italiana, a cominciare dai bor-

ghesi che esaltano la guerra, nella quale mandano a morire i figli degli altri. Non va bene nemmeno il rapporto con la madre, specialmente dopo la morte del fratello. Carlo Emilio è un imbranato, non ci sa fare né coi gesti né con le parole: serie infinita di lapsus. Gadda denuncia con ogni comportamento la condizione canonica dell’«uomo senza qualità». L'«imbecille di famiglia» a Caporetto si arrende dinanzi alla prova decisiva della sua incapacità a vivere in un mondo fatto come quello che ha visto in guerra. Disperato, pensa al suicidio, ma anche questa azione, a suo modo eroica, è impossibile. Gadda è condannato a vivere. Vivrà però come uno che non sa vivere. Non sa lavorare

e non ama farlo. Sarà spesso occupato per brevi periodi e 20

spesso disoccupato, uno che si emargina dalla società «civile»: inconsciamente, perché l’impiego lo cerca anche all’estero. Cosa sa fare allora il giovane Ingegnere, che saprebbe bene costruire ma che è più bravo a distruggere? Ebbene, l’Ingegnere sa scrivere. La letteratura è il suo destino, cioè la sua realtà. Al presente, nella guerra, scrive un diario: Giornale di

guerra e di prigionia. Nel suo futuro c’è solo la scrittura. Soltanto con la scrittura Gadda è quello che è: un uomo che può dimostrare la propria grandezza raccontando le guerre che non sapeva combattere fisicamente. L’uomo senza qualità vince con un'attività inutile: la letteratura. Cominciando a scrivere il proprio romanzo, Racconto italiano d’ignoto del Novecento, Gadda pensò di correggere così il titolo: Raccorto d’autore mediocre del Novecento. Un narratore «mediocre» va a combattere sul fronte della letteratura quella battaglia che l’«imbecille» aveva perso a Caporetto. Vincerà la sua guerra personale con la narrativa ma ora è lui a scegliere di star fuori dal mondo. L'«imbecille» che per tutti era Gadda prende la propria «debole» esistenza e le carica addosso il destino dell’uomo

contemporaneo, altrove rappresentato come «uomo senza qualità». Se Gadda ha fatto del proprio estremismo la base per arrivare al centro della questione umana, quali sono gli estremi? L’essere disprezzati come incapaci e astratti; i lin-

guaggi bassi dai quali hai una visione deformata degli uomini; i dialetti con cui si è compresi solo da una parte della nazione; la malattia dei «nervi» che aliena nel rapporto con gli altri. Tendere al massimo l’elastico che collega elementi lontani e poi lasciarlo andare di colpo. La conoscenza arriva come una frustata. Vola la conoscenza che lascia il segno: sulle ali della metafora più ebbra, callida junctura. C'è astuzia in questa operazione ma, oltre al calcolo, al progetto, c’è il destino, la necessità. L’imbecille era destinato a diventare un

«genio», uno che crea «dal nulla». Se Savinio esalta lo «stato scemo del genio», facciamo i conti. All’origine della narrativa italiana del Novecento ci 21

sono un inetto (Svevo), un pazzo (Pirandello), un buffo (Palazzeschi), uno scemo (Savinio) e un imbecille (Gadda). Cin-

que uomini sono arrivati a dimostrare d’essere geniali, pur essendo deboli di testa, o meglio, partendo da una cultura debole. Il ribaltamento del negativo in positivo è un mito canonico del Novecento ma Gadda ha capito che il ribaltamento puro e semplice non basta: si rovescia la solita frittata. Abusando della metafora, si aggiunga che l’Ingegnere ha rotto le uova nel paniere a chi si illudeva che bastassero le rivoluzioni politiche per cambiare radicalmente il mondo. Chi cambia radicalmente il volto della vita è semmai chi fa rivoluzioni artistiche: da inetto, pazzo, buffo, scemo o imbecille

che sia. La salute non fa bene alla mente. A Gadda, per esempio, ha fatto bene, dal punto di vista artistico, una nevrosi che di volta in volta lo rendeva imbecille, scemo, folle,

inetto e buffo. In tale prospettiva è un rivoluzionario questo «delinquente» che deforma linguaggi per costringerli a dire la verità. Encelado espelle dal profondo materiali scottanti, prima illuminanti e poi nutrienti ma, se il vulcano è sempre attivo, il mito è spento: come il razionalismo positivista che eruttava sentenze nella giovinezza di Gadda. «Artista? Una parola cretina.» Gadda è insomma anche in guerra con l’Arte, o meglio con l’arte che fa la cretina, che

non «interviene» nel conflitto e che sta comoda nelle retrovie a mettere in bella l’orrenda esistenza di chi combatte in prima linea per sfondare il fronte. Si tenga alta invece la bandiera dell’arte che combatte chi impedisce la conquista di un nuovo territorio all’invadenza dell’uomo; ci si armi di una

nuova cultura per sconfiggere il nemico, che ora è anzitutto il nemico interno. Dentro, in interiore homine, Gadda è pe-

netrato fino alla santabarbara. Questo narratore esplosivo ha fatto saltare per aria i baluardi del modo di pensare, sentire, parlare e agire di una cultura arroccata a difesa di una società borghese rincretinita. Che cretini i borghesi di «San Giorgio in casa Brocchi» dinanzi ai quadri di un’esposizione, che nella fattispecie erano opere d'avanguardia! Che cre22

tini però anche gli autori d'avanguardia che dicono sciocchezze sulla morte dell’arte! Sulla «cretineria» della parola «artista» Gadda potrebbe siglare una segreta alleanza con le avanguardie storiche: compreso quel dadaismo che irrideva la sacralità dell’arte e che sarà il modello per tanta letteratura degli anni Sessanta, per la controcultura della neoavanguardia che sceglierà come maestro pure Carlo Emilio Gadda. Sia un maestro per gli anni Novanta: decennio che ha da apprendere sia come si delinque, sia come si mette ordine in letteratura. «San Giorgio in casa Brocchi» non è un racconto edificante ma intanto è una salda struttura narrativa dove, chi

smantella, contemporaneamente architetta qualcosa di nuovo. Lì c'è la prova concreta ed eloquente dell’efficacia del programma massimo di Gadda: il «deformarsi integrativo». La deformazione come fondamento di un nuovo ordine. Non è neoclassicismo ma non è nemmeno avanguardia. Semmai post-avanguardia: l’integrarsi della rivolta che è assunzione del potere da parte di chi ha fatto una rivoluzione artistica. Con le teorie «delinquenti» e con la pratica «deformante» del suo laboratorio (Racconto italiano d’ignoto del Novecento) Gadda ha costruito uno dei più complessi ed emozionanti racconti del nostro secolo. Mettetelo alla stessa altezza dell’«Incendio di via Keplero». Dove il migliore tra gli uomini e le donne che hanno pochi attimi per salvare la cosa più cara è il ladro, che salva dal fuoco un bambino. L’epifania di Gadda non è meno bella di quella di Joyce.

Si può fare arte anche con le parole cretine. Gadda, prosatore aristocratico, è un egalitario in fatto di lingua. Ogni lingua può condurre al capolavoro. Ovviamente bisogna scrivere quello che si deve in quel preciso momento. Il consiglio: tenersi pronti con ogni linguaggio per usare quello che serve. Quante parole già intelligenti diventano cretine nel mutamento di prospettiva storica, culturale, politica, linguistica, e viceversa. Se uno le sorregge opportunamente

con la sintassi adatta, sprizzano intelligenza le parole più im-

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becilli. Tocca stare all’erta con le parole: da un giorno all’altro diventano impronunciabili. Ogni giorno a valutare se una parola può essere detta: secondo combinazione e caso. ‘11°

e

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Il complesso del contadino

Gadda non era un uomo normale, anzi si ritiene proprio «anormale». E tuttavia non ne fece una malattia. Disse «in teoria» (negli appunti del suo primo tentativo di romanzo, Racconto italiano d’ignoto del Novecento) che gli piacevano tante cose negative: il complicare, il deformare, il giocare, il ridere e altri verbi, sostantivi e aggettivi di cui si mise a capovolgere il senso in positivo. Eppoi, nessuno è normale.

Nemmeno l’agricoltore vicino di casa, un buon uomo che è tranquillo e sensato. Sentite cosa racconta in un saggio dei Viaggi, la morte. L’agricoltore ha una passione innocente: quando maturano gli asparagi, prende delle grandi e robuste forbici e tronca la pianta alla radice. Il taglio improvviso fa crollare all’indietro il buon possidente, che cadendo a gambe all’aria, scoppia a ridere felice come un bambino. La sentenza di Gadda, dello psicoanalista, è netta: l'agricoltore non lo sa ma ha un complesso di castrazione. Quell’innocenza nascondeva un trauma. Non solo la sua però: ogni gesto innocente e tranquillo può nascondere un complesso. Tocca guardare alle radici di ogni «asparago», o di altra cosa o parola che ha una bella e nutriente immagine. E non è mai innocente la risata, nemmeno quella dei bambini. Bisogna «sospettare» di tutti i gesti, di tutti i sentimenti, di tutte le parole. Hanno interessi loschi o volontà di potenza o manie: parola di Freud, Marx e Nietzsche. Vengono chiamati a consulto tre maestri del sospetto su ogni frase o comportamento. L'equivoco minaccia ogni termine o ortaggio. Ricordarsi: l’ortaggio, le radici, il taglio, la giravolta, il riso. In questa storia a cinque tappe c’è il destino dell’uomo contemporaneo che crede di essere psicologicamente normale ma non lo è. Guai a chi guarda solo in superficie: come 24

fanno realisti, naturalisti e neorealisti. Attenti dunque alle radici. E non dimenticate: ci può essere qualcosa di doloroso sotto il più innocente riso. Si ride così anche in Gadda: che si bea di ribaltamenti di posizioni, e che lavora molto con le forbici a sezionare romanzi e a ridurli in «frammenti» o «tratti narrativi». C'è sempre un romanzo alle radici dei suoi poemetti in prosa. Il racconto comincia sotto e lì trova

nutrimento. Mangiate la foglia, sospettate delle cose superficiali. L’asparago è solo il più caro degli ortaggi della tavola gaddiana. Poi di volta in volta appariranno il sedano in coppia con la culatta, la patata in compagnia della carota («dici carota e pensi patata») e la cicoria («Il caffè-cicoria è realtà come il caffè-caffè»). Più in là si parlerà della carne degli animali di Gadda, un narratore che ingrassa con ogni tipo di alimentazione, persino con ciò che fa dimagrire gli altri. Non sono apparenze le sostanze di cui si nutre la sua prosa. Ha le radici profonde, che affondano nella Terra. Anche gli ingegneri sanno che oltre alle scoperte che fanno la differenza, ci sono le permanenze. Gadda cerca differenze capaci di diventare permanenze: come la verità. Non la vediamo e c’è venuto il complesso. E normale l’autobiografia, il diario preciso delle proprie giornate in guerra? In un certo senso lo è, o almeno lo è in superficie, nelle parti in cui Gadda osserva e tiene sotto controllo il paesaggio, le retrovie, il proprio stato d’animo: che è dapprima quello di chi attende con certezze un futuro di grandezza personale e nazionale. Poi però si fanno sentire le radici e si dà un taglio alla tranquillità. Urla come uno scannato il giovane ufficiale che non si rassegna a una esistenza «merdosa». Infine arriva la depressione con la visione di un avvenire nero, cui sarebbe preferibile la morte. In una vita c’è ogni vita a saperla guardare fino alle radici. Prendi la tua stessa vita e facci un romanzo, costringendo ogni particolare di essa a rivelare quanto nasconde. In nessuna vita affondi meglio che nella tua propria. L'individuo può arrivare, può tornare, alla fase onnipotenziale o univer2)

sale. Gadda vorrebbe parlare di sé così profondamente che tutti vi si possano riconoscere. È questa la verità? La vita vissuta ha una oscura curva narrativa, oppure

gliela si dà. Senza saperlo, registrando fatti di giornata, Gadda si accorge di avere scritto un «libro». Ecco: il diario aveva alle radici un romanzo? I frammenti colano il sangue del taglio ma si combinano e si suturano in modo da formare una impensata opera organica. Gadda era partito per scrivere i frammenti di un diario e scopre di avere scritto un romanzo autobiografico. C'è un narratore alle radici invisibili del diario, del Giornale di guerra e di prigionia. Ha le stesse radici il Pasticciaccio, romanzo di giornata, sempre caldo, in prima linea e scoppiettante. Esplodono fiori barocchi da questa mala pianta. Succede anche agli altri generi letterari praticati da Gadda di trasformarsi in prosa diversa da quella progettata. Il narratore prova a scrivere un romanzo (Racconto italiano d'i-

gnoto del Novecento) e si ritrova in mano solo dei frammenti (fra i quali quello bellissimo che Gadda scelse per La Madonna dei Filosofi: «Manovre di artiglieria da campagna»). Salva frammenti o episodi anche dal romanzo La meccanica, che invece ha quasi concluso. I suoi «tratti», episodi o poemetti narrativi si trasformano in romanzi, e i romanzi diventano racconti: secondo necessità, letteraria e psicologica. Sembra normale che uno scelga di scrivere un romanzo o un racconto ma l’asparago invita a guardare come lo si taglia. C'è un complesso di castrazione dietro questo lavorio di forbici? Non pensate a una sola causa per un effetto che vedete, consiglia il commissario Ingravallo. In altri termini non insistete a spiegare tutto con la psicoanalisi. Consideratela comunque una concausa di forte determinazione. Non trascurate l’interesse, una parola che rimanda al sociale e alla storia. «E storia è il linguaggio.» Ha una storia e fa storie il linguaggio di Gadda, narratore le cui radici sprofondano fino all’alba dei tempi, dove la storia è antropologia, paletno-

logia e archeologia. Nella prosa gaddiana sono presenti mille anni di storia,

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di lingua e di pensiero. E fanno un groviglio inestricabile sul quale pende la spada di Damocle di una critica che non può dare un taglio su un nodo così intricato. Sotto non c’è solo una radice psicologica. Gadda fa mostra di molta psicoanalisi. È un fatto evidente. Ebbene, c’è qualcosa di misterioso pure dentro la psicoanalisi. Interrogativo radicale: l’uomo è stato castrato da Dio? Ha un complesso di castrazione l’esistenza umana? Nutriamo desideri impossibili? Per ora registriamo l’ipertrofia dei segni privi di senso. La meccanica è il primo romanzo incompiuto di Gadda: un’abitudine, un vizio, un sintomo. Non ne finirà mai uno.

Più tardi Gadda riunirà i frammenti e farà un bel romanzo come La meccanica. Diventa un racconto («San Giorgio in casa Brocchi») quello che sarebbe dovuto essere un romanzo. Si spezza in «disegni milanesi» L’Adalgisa, che alcuni leggono come un romanzo. La cognizione del dolore fu a lungo una serie di «tratti» o prose autonome. I poemetti in prosa si

sarebbero trasformati dopo in capitoli di un romanzo che l’autore ha squartato con moventi che sono folli quanto il suo protagonista, Gonzalo Pirobutirro, personaggio che farebbe a pezzi sua madre. Non è colpevole il reo confesso e potrebbe essere innocente l’assassino. Un documento si mette a funzionare da connettivo funzionale alla narrazione; una descrizione impersonale raffredda un risentimento; una pagina di storia diventa lirica. E narrativa un libello politico come Eros e Priapo. E letteratura di frizzante espressività il saggio filosofico Meditazione milanese. Gadda mette l’anima sua ulcerata anche negli scritti scientifici. E sono prosa artistica gli articoli dedicati alla pittura e al teatro. Sembra d’essere in una pièce teatrale quando si legge il parlato, il dialogato, dei romanzi gaddiani. Sono una cosa e sono altro tutte le pagine di Gadda. Non prendetelo mai «alla lettera»: le sue confessioni sono minacciate dal lapsus sin dai tempi in cui per la morte del padre disse 2A

una parola che causò un malinteso con la famiglia, teatro grottesco della sua tragedia personale. Lo spiazzamento è una strategia della fedeltà alle radici di un essere umano che non ha requie se non colpisce nel segno. Sul dettaglio Gadda ha davvero una mira infallibile. I suoi proiettili centrano il cuore dopo aver attraversato il cervello. Un narratore ad alto tasso di cerebralità, con qualche colpo di testa. Un difetto di circolazione? In Gadda il collegamento fra gli organi è tenuto dai nervi. Quando hanno i nervi, i suoi personaggi arrivano meglio al cuore del problema. Gadda spara spesso all'impazzata. E tuttavia non vi fate ingannare dall’apparenza: anche quando ammattiscono, i vari Gaddus, Gonzalo, Virginia, non si limitano a testimo-

niare la loro pazzia. Tocca andare pure dietro e sotto l’inconscio. Ogni causa potrebbe essere anche un effetto. L'essere non si arrende mai: fa vedere la sue foglie, pratica il ribaltamento, scoppia a ridere e indica le radici, sempre più profonde. L’agricoltore, uomo della terra, ha dimostrato inconsapevolmente che si può essere felici anche con un trauma. O almeno fanno così gli uomini inconsapevoli che tali vogliono restare. Naturalmente non Gadda, che vorrebbe sempre sapere tutto. La verità è fatta di particolari ma il testimone dica sotto giuramento tutta la verità su se stesso e sul proprio,

nonché sull’altrui, tempo. I personaggi del romanzo gaddiano tirano fuori dalla loro mente anche quello che non hanno mai saputo. Col terzo grado confessano tutto. Gli è negato il sesto grado, quello che consente le più audaci levitazioni. Gadda non sublima nessuno e niente. Avrebbe voluto abbracciare solo l’operaio socialista Luigi Pessina che andava a morire in guerra ma si pentì: come si pentì di aver pen-

sato tanto bene di un ufficiale che nei capitoli finali della Meccanica gli somigliava assai. Non si pentì mai di avere esaltato l’impresa di uno scarafaggio che si immola per i figli: cosa che il padre di Gadda non aveva nemmeno tentato di fare. Non gli vengono bene gli eroi positivi. Una giovane pro28

stituta innamorata invece strappa le lacrime al lettore con una sublime pagina del Pasticciaccio.

Sono tracce lasciate in superficie come impronte anche i fatti, che invece per un verista o un neorealista parlano di per sé. E normale che un proiettile uccida ma non si dimentichino la pistola e chi spara. La pistola non è un asparago ma pensate cosa nasconde il gesto di chi preme il grilletto. Colui che spara non può essere capito per quello che fa. Narratore anormale, Gadda brucia i fatti per interrogarne le ceneri. O meglio, castra i fatti per mettere in evidenza le radici.

Guardate alle radici di ogni gesto di Gadda. Sia che faccia i suoi due giochi (il gioco ab interiore, o drammatica, e il gioco ab exteriore, o lirica), sia che usi il dialetto invece della lingua, sia che rida, non consideratele azioni innocenti. Alle loro radici c’è sempre un autore anormale: il suo dialetto non è quello mimetico dei realisti ma è quello creativo degli espressionisti; sotto il riso si annida una tragedia; i due giochi sono tre (c’è un «altro» giocatore, oltre all’autore e ai personaggi). Una parola italiana ha le radici in un latino di cui si strania il significato; un muricciolo evidenzia l’attaccamento alla proprietà privata; il poliprospettivismo denuncia perdita della verità. La conoscenza per punti di vista è però anche pratica di pluralismo. Gadda, che fa follie con i suoi faziosi giudizi particolari, è strutturalmente un maestro di tolleranza. Si iscriva in un cubo la narrazione gaddiana e ci sarà una moltiplicazione di significati. Gadda è di famiglia borghese, e non gli dispiace: è un dato, per lui è sempre normale essere un buon borghese dell’Ottocento. Si è ammalata alle radici, però, la borghesia del Novecento. Ha contratto la nevrosi, l’oscura e invisibile ma-

lattia borghese che contagerà tutta la società nel Novecento. Che disgrazia l’intelligenza! Che disgrazia la vita dell’intellettuale borghese! È una sventura e tuttavia solo chi ha la ne-

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vrosi capisce. Fine della paura: chi capisce ride anche delle nevrosi.

Gadda fa tante parti in commedia. Anche in tragedia. Non avrebbe mai detto come suo «nonno» Carlo Dossi che il Novecento è un secolo destinato alla sola comicità. Rideva di ogni rigida precettistica questo narratore che sapeva essere contemporaneamente

fazioso sostenitore di più cause.

Gadda ha tuttavia insegnato a ridere di tutto agli scrittori della neoavanguardia. I quali da lui hanno appreso l’importanza prioritaria del linguaggio, l'uguaglianza di ogni vocabolario, il carattere autodistruttivo di una struttura che,

avendo optato per il massacro comico globale, conclude il proprio cammino col suicidio. Se si muore dalle risate, segue sempre una tragedia. Aveva previsto anche questo il riso di Gadda. Prima o dopo trionfa sempre la tragedia. Ma la comicità va messa di mezzo, se si vuole capire quant’è ridicola questa tragica vita.

Siamo ancora a questo interrogativo: è Gadda un narratore comico o è un tragico? Gadda è grande nel far ridere e nel far piangere delle tragedie quotidiane. Il riso è nobile di per sé in Gadda, che gli si abbandona con tutto il cuore: è cordiale la risata del lettore dinanzi a tanti episodi comici di racconti e di romanzi gaddiani. Nulla è più «superficiale» del riso ma nulla è più profondo di esso. Notoriamente vien su con un'esplosione: un bersaglio inconscio è stato colpito. La gallina della Zamira non si domanda se è una tragedia fare la cacca ai piedi di un brigadiere. Lo fa senza porsi il quesito baudelairiano se quella cacca è un episodio di comicità voltairiana. Nel teatro, nonché nella vita, nel teatro del-

la vita c'è anche la commedia dell’arte: che fa comicità assoluta o meiafisica. In un diverso quadro, in un altro momento, trionfa il dramma più dolente. Gli si dia spazio: Gadda gli dà spago, come al riso. Ognuno faccia quel che gli piace dal proprio punto di vista. Il romanzo tirerà le somme registrando le opposte voci. Somme? Semmai moltiplicazioni. E divisioni. 30

L'io è diviso, e l’uomo può ridere allegramente senza doverci riflettere sopra. In Gadda il comico è comico, e il tragico è tragico. L'uomo sdoppiato di Gadda ride o piange. Il comico e il tragico sono due facce dello stesso problema, una faccia ride senza domandarsi se l’altra piange. Gadda è un grande narratore comico e un grande narratore tragico. Rideva di cuore e a gambe all’aria il vicino di casa Gadda ma sotto sotto, all’origine, c’era una ferita della psiche. Ottimo lenimento la risata, ma presto tornerà a bruciare il trauma. La comicità gaddiana sta in mezzo a due tragedie. Questo è il «sentimento risultante» di una narrativa a doppia faccia. Vi può capitare, guardando la maschera tragica dell’uomo nevrotico, di scoppiare a ridere. Una commedia? Anche, ma potrebbe essere una nuova forma di tragedia. C'è una scena tragica, la più alta della narrativa gaddiana, nella Cognizione del dolore. È quella in cui la Vecchia Signora ricorda il figlio morto e dimentica il vivo. Qui la tragedia non ammette deroghe, il linguaggio è cosciente d’essere dinanzi a un evento sublime sul quale non si può scherzare. Sta parlando, o pensando, la Madre. Non tollera il riso né l’ironia né altra comicità. Naturalmente ha anche lei qualcosa da nascondere. Nemmeno lei è normale. Ed è una tragedia immedicabile per il figlio. O la Madre sta facendo la commedia? Quanti interrogativi dinanzi a una scena gaddiana. Si può ridere anche nell’episodio in cui il brigadiere Pestalozzi, associando topi e topazi, corre in motocicletta verso il nulla che precede la nascita. «Il Saggio ride tremando», dice Baudelaire citando uno che aveva intuito la doppiezza della comicità.

Tre lingue italiane. Con questa differenza: gli autori che sono nati in periferia (la Trieste di Svevo, la Sicilia di Pirandello sono più marginali della Milano gaddiana rispetto all’asse vincente Roma-Firenze) si sono felicemente accaniti nel tradurre in italiano i loro dialetti natali. Svevo e Pirandello tentavano di dimenticare i propri dialetti, Gadda inve31

ce si accaniva a parlare anche quelli altrui. Normale è che uno usi il suo, ma si sospetti di chi imita l’altrui. Tuttavia non è una scimmia l’animale araldico di Gadda. Il suo dialetto è oltre il realismo: cui fa omaggi che i realisti nei fatti gli negano. Nasconde un complesso di castrazione la sua ipertrofica miscela linguistica? Di passaggio è fedele a qualcosa di reale che lui ha sentito nella lingua del popolo ma vuole ben altro che asparagi la voracità lessicale di Gadda. Cercate alla radice di tale ingordigia. Anche la voce vi dice di che natura è il peccato di gola gaddiano. L'italiano non ha abbastanza parole per raccontare l’immenso pasticciaccio che è la vita d’oggi agli occhi di uno scrittore che intende chiamare per nome ogni cosa che fermenta nella mente di un nevrotico. La miscela deformante dei diversi dialetti può allora diventare la lingua di un “altro”. Gadda racconta un’esperienza metafisica con la lingua cara ai realisti? Ebbene, negli stessi anni in cui coi dialetti meridionali i neorealisti narravano il loro impegno per il mutamento sociale del Sud, Gadda col romanesco e col napoletano dipinge un funereo quadro barocco. Alla luminosa rinascita proposta dal nuovo naturalismo Gadda continua a rispondere raccontando espressionisticamente come muore

una civiltà. Il barocco lombardo ha dovuto trasformarsi in barocco romano? Il romanzo più realista è insieme il più «esasperatamente» barocco; il romanzo più figurativo è insieme il più informale; il romanzo più visivo è insieme il più visionario; il

romanzo più oggettivo è il più profondamente personale. Non è normale? E vero, è anormale, ma è così che Gadda ottiene la coincidenza di io e Altro, soggetto e oggetto, vista e visione,

realtà e irrealtà. L’inaudita realtà dell’antirealismo. La prima lingua che Gadda apprese fu il milanese, lingua della vita. Ascoltò molti dialetti italiani in guerra: sicché li masticava un po’ tutti. In prigionia imparò a leggere, a

scrivere e a parlare, il tedesco, lingua della bellicosa e severa disciplina. Hélderlin: «Dove c’è il male, là c’è il rimedio». Dovette emigrare in Argentina per lavorare. Fece di neces-

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sità virtù. Imparò lo spagnolo, lingua barocca che più tardi sarà parlata da Gonzalo Pirobutirro, hidalgo matto. L’ingegnere lombardo, il longobardo, va a scuola di fantasia e di follia ma ha paura dei mostri che la fantasia genera. Tornato in Italia l’infedele manzoniano risciacqua i suoi panni non in Arno, ma nella periferia popolare e vernacolare di Firenze. A Roma! a Roma!, dove c’è il papa, che è pure un lontano parente. L'ultima lingua che Gadda apprese fu il romanesco. È questo dialetto la lingua della morte? O è la lingua della sopravvivenza? Muore la narrativa di Gadda coi dialetti del Pasticciaccio, che forse è il suo romanzo più vivo. Sembra la morte di una società, ma Roma sopravviverà. Sul punto di

morire, la nostra società trova sempre le parole con cui ottiene la dilazione della condanna. Fiorisce nel letame romano il mito di Sheherazade. In questa città ha le radici il merdoso mondo contemporaneo, romano e non, fascista e non. Un’altra Roma eterna. L'Altro ha la stessa mappa di Roma?

Svevo, Pirandello e Gadda sono tra quelli che sono «tornati a casa» dopo le guerre dell'Ottocento. In altri termini, hanno tutt’e tre narrato quei «romanzi di famiglia» con cui il Novecento s’è portato in casa i conflitti mortali. La famiglia uccideva anche prima ma nel nostro secolo ha compiuto stragi: specialmente parricidi o matricidi. Per lo più, in verità, con l’immaginazione. Non fu convocato infatti il criminologo, bensì lo psicologo, o più precisamente, lo psicoanalista. Sono stati mandati dal dottor Freud sia Svevo che Pirandello e Gadda. Rimandateglieli ma non confesseranno i loro segreti, ignoti d’altronde a loro stessi: specialmente ai primi due. Se il terzo confessa, è pure per depistare. Il primo, Svevo, fu un paziente molto impaziente. Il terzo, Gadda, invece, più che un paziente, è un seguace. L’allievo ne sa quanto il maestro, forse anche di più. Ha fatto esperienza in casa. La famiglia Gadda era un terreno fertile per scoprire il segreto dei rapporti fra figli e genitori. Quella 33

gaddiana è già una «famiglia che uccide». Carlo Emilio scriverà romanzi in cui i figli si prendono beffa o uccidono o delegittimano madri e padri. Il fatto ricorrente nella sua narrativa è la beffa alla madre, un matricidio reale («Novella seconda»), un matricidio

psicologico (La cognizione del dolore), l'assassinio di una madre adottiva (Il Pasticciaccio). C'è una coazione a ripetere, potrebbe esserci un trauma. È un fatto ma naturalmente, come in ogni fatto a sentir Gadda, c’è dell’altro. Il matricidio è solo un dato esterno: la sua radice è invisibile e affonda in un terreno fecondo e continuamente concimato. Cosa si può pensare di uno che uccide la madre? Se lo domandava Gadda: che non ha risposto in tre romanzi incompiuti. Un interrogativo assillante cui si risponde solo con la morte. Queste madri che muoiono precocemente sono una dura risposta alla vita. La Vecchia Signora muore per aver risposto male al figlio che l’adora. Gadda comincia con l'autobiografia. Come Savinio, come Tozzi e come l’ultimo Svevo. La «nascondono» invece Pirandello,

Palazzeschi,

Bontempelli,

Moravia,

Landolfi,

Fenoglio e D'Arrigo. Gadda non vuole nascondere nulla. E d’altronde è una necessità. Le coazioni autobiografiche diventano fattori di libertà per Gadda. È un borghese, classe dominante, prepotente e decadente, ed è molto legato alla famiglia, cominciando dalla madre, personaggio che già di suo è romanzesco. E un uomo di transizione tra l’Otto e il Novecento: dall'oggetto al soggetto, dal meccanicismo alla probabilità, dalla causalità al caso, dall’unità alla scissione

dell’io, atomo di inesauribile energia. Girando sempre nei pressi della sua vita, Gadda fa vortice. La punta è indirizzata, più che verso il cuore, verso l'ombelico, o anche più giù. Non trascurate Eros e Priapo, coppia del più furioso testo di Gadda, antifemminista che fa coppia con antifascista. Ricordate: è colpa delle donne se sono nati tanti fascisti nella famiglia borghese. Partendo dalla sua vita, da sua madre, dall’avtobiografia

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Gadda ha trascinato dentro la propria narrativa tutto il secolo: la fisica dei quanti, la scissione dell’io, il flusso di co-

scienza, la quotidianità colloquiale, lo straniamento, la de-

viazione dalla norma, il poliprospettivismo, l’annegamento

nel materico, la forma dell’informe, la libera associazione se-

mantica. Lui però non ha mai desiderato tornare all'infanzia del pensiero. Un giorno, anzi, Gadda si rivolse persino al neoclassicismo, il linguaggio con cui semmai si torna dal padre. Uomo d’ordine, egli ha provato anche con la letteratura «edificante»: detto con l’ironia della «Ronda». Naturalmente è tarmato pure il ritorno all'ordine di Gadda. Le sue costruzioni — a cominciare dal suo più bel racconto, cioè «San Giorgio in casa Brocchi» — sono minate: dal «male invisibile». Non prevedono nemmeno più la figura del padre. Il genere umano, la continuità della nostra specie, è a rischio nella narrativa di Gadda. Che comunque si sforza a innalzare un argine. Si sente l’urto dell’ondata che batte su ogni episodio dei romanzi gaddiani. Non è mai scomparso del tutto il «maroso» che apparve alle origini del narratore. Gadda è il cavallone e insieme il frangiflutto.

Tre esperienze fondamentali nella vita — e nell’arte — di Gadda: la borghesia, la guerra, il fascismo. Una cosa bella e due orrende. Orrende sono la borghesia e il fascismo, bella è la guerra. Gadda farà guerra alla borghesia e al fascismo. Ci ha preso gusto: per lui infatti il fascismo è anzitutto questione di gusto. Non è bello il fascismo, che semmai è il brutto della borghesia. Il massimo della bruttezza è la borghesia fascista. E pensare che Gadda è stato fascista e che è ancora un borghese. Le dichiarerà guerra nel Pasticciaccio. E questo è bello per tutti e per sempre. Finché ci sarà la borghesia, questo romanzo è il suo nemico. E lei la vera assassina di un giallo volutamente irrisolto. Gadda non è uno scrittore notturno: racconta tutto del-

la vita, il giorno e la notte. Su ogni cosa della sua narrativa fa 35,

giorno e fa notte. Anzi, Gadda fa di tutto, compreso quello che non si vede. Se quello che non si vede fosse uguale a quello che si vede, Gadda avrebbe portato a termine il suo lavoro lasciandolo incompiuto. Se da un romanzo incompiuto si capisce anche il seguito di una ricerca senza fine, potrebbero essere completi i romanzi che Gadda non finisce ma che rifinisce con tale perfezione formale da suggerire anche ciò che ancora non è cominciato a rappresentare? Il narratore è arrivato al confine del suo sistema, dove sarebbe de-

stinato a ripetersi. E naturalmente non è contento. Anzi, ha le vertigini. È attrazione del vuoto? Ogni limite è un burrone. Non è allegro raccontare sempre sull’orlo di un precipizio. Tuttavia, attirando, il vuoto è fattore di nuovo dinamismo? Si sen-

te dire che il nulla esercita una forte spinta, di cui la cultura si serve per andare avanti. Andiamo avanti, e, procedendo sull’orlo del precipizio, diciamolo: si sta coi piedi per terra ma si avverte che il terreno sta franando. O frana la mente, che non si accontenta di ciò che tocca? C'è un senso di vuoto, e da quel vuoto nasce l’esigenza di conoscere altro, «deformando» tutto, all’infinito. L'infinito, il vuoto, il nulla sono i motori della cultura moderna, la cultura laica che de-

ve andare avanti senza l’aiuto di Dio. La prosa gaddiana, che pur frulla vorticosamente ogni materiale, rallenta la corsa (l’indugio del realista? il panico della fine?) ma teme di sapere dove va a parare ogni discorso. La psiche è un pozzo senza fondo? Si urta contro qualcosa. S'è toccato il fondo?

Gadda non ha fantasia? Una volta scrisse che la odiava: perché genera mostri. Ha sempre preferito tenersi sul concreto, sulla realtà tangibile, sulla vita vera, la propria, quella che preme sulla sua anima e sul suo corpo. Gliel’ha detto la psicoanalisi che la normalità è solo apparente: come il buon senso, la sana razionalità e il bel gesto. Ecco allora dove va a sfociare l’inarrestabile esigenza di fantasia: nelle invenzioni della psicoanalisi, la più fantastica delle scienze moderne. Gadda non ha dubbi, è una scienza, ma sa bene che essa di-

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venta concreta nella più sottile e impalpabile interpretazione. Interpretando, egli crea. La psicoanalisi passa ma la narrazione psicoanalitica di Gadda è destinata a restare. Sulla base delle ipotesi scientifiche della psicoanalisi, Gadda vola. E va a colpire il più fantastico dei bersagli: l’uomo, l’uomo del Novecento, il meno concreto e il più instabile degli uomini. Una vitalità che segue «fedelmente» il percorso dell’inconscio con Gadda è diventata cosa reale. Il vitalismo gaddiano inventa la vita adatta all’uomo che vive alla giornata, attimo per attimo. Col linguaggio giusto la vita è tragica ma è sempre vita. È il linguaggio un'alternativa alla vita? È un correlativo oggettivo della realtà? Suppergiù come l’asparago brutalmente separato dalle radici. C’è nostalgia di tornare a vivere insieme ma la ferita è incurabile. Lo sentono le radici, che vivono doloranti in un terreno dilaniato. Chi era Gonzalo Pirobutirro? Questa è la domanda fon-

damentale della Cognizione del dolore. Rispondono il medico, la madre, la Peppa, il peone, i vigilantes e tutti gli abitan-

ti del paese in cui hanno villa scalcinata i Pirobutirro. Tanti punti di vista per dire che Gonzalo è un matto, un mangiatore pantagruelico, un nevrastenico, istericamente geloso della madre, che però spesso minaccia di morte. Molte immagini deformanti che però proprio per questo hanno una buona dose di verità. Gonzalo rassomiglia molto a Gaddus, protagonista del Giornale di guerra e di prigionia. Gadda circonda Gonzalo per sapere chi è lui stesso? La ricerca fa un cerchio e va a colpire alle spalle l’autore? I protagonisti dei romanzi gaddiani vanno oltre il soggetto. Tocca andare sotto il soggetto, questo asparago che è stato separato dalla radice: io che parla d’altro per moventi segreti. Stessa strategia conoscitiva per Liliana Balducci. Della vittima parlano Ingravallo, il marito, il cugino, le zie, la portinaia, Don Corpi. Sei punti di vista per sapere chi era veramente Liliana. La vittima potrebbe essere la vera colpevole. È lei la causa prima del delitto? Troppe cause ha il fattaccio, il pasticciaccio. Andasse a farsi fottere, sbotta Ingravallo,

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che è disamorato dal comportamento nevrotico della donna. Gadda è Ingravallo o è Liliana? Il giallo della questione

femminile in Gadda, uno che sa tutto, o quasi, dell’anima

femminile. Nella prima redazione del Pasticciaccio era omosessuale Liliana. Gadda taglia l’episodio: si potrebbe capire che la giovane signora è stata sgozzata dalla figlia adottiva troppo esuberante. Il «giallo» non può essere risolto. Lo dimostra il Palazzo degli Ori, sceneggiatura neorealista. Di Verdi Massimo Bontempelli scrisse che «aveva preso la musica in cielo e l'aveva portata in terra». Di Gadda invece si dica che «presa la musica in terra, l’ha portata in cielo»: nella sua prosa cioè si sente lo squilibrio dell’universo. Serva di due padroni, mentre è al servizio della narrativa, la scrittura gaddiana tresca con la poesia. Gadda non avrebbe separato ciò che la sua estetica, la sua etica e la sua metafisica, hanno unito. Naturalmente ci sono suoni di cui

non si capisce il significato e idee che stonano. Gadda odia l’intonarumori futurista ma sa che si fa musica anche col silenzio. Succedono un sacco di cose nel bianco che divide un frammento dall’altro di un suo romanzo «a tratti». La notte di Gadda è sempre stellata. Non rinuncia a un millimetro dell’universo uno scrittore che aspira all’estetizzazione di tutto il sapere. In un romanzo di Gadda si celebra ogni oralità. Lui ci fa persino teatro. Non solo quello lirico, ma anche il teatro drammatico. Gildo e Zoraide duettano nel primo capitolo del primo romanzo di Gadda, La meccanica. Duellano la madre e Gonzalo Pirobutirro, di cui sono celebri anche i mo-

nologhi. I romanzi di Gadda sono raccontati, sono detti prima che scritti. Ci vuole orecchio. Gadda poi è dotato anche di una vista superlativa; celebri le sue descrizioni: pare al lettore d’essere in viaggio con l’autore del Castello di Udine. Non solo sui paesaggi ci mette tutti i sensi. Sono acuti fino all'ultimo respiro. Soffocherebbe Gadda, se avendo fiato, ta-

cesse. Non tace nulla di quanto ha visto, sentito e percepito.

La vista e l’udito, il tatto e l’olfatto, e niente è insipido. 38

Gadda è un narratore totale: nella sua opera c’è l’uomo

intero, e pure di più. Ha ottenuto la metaforizzazione totale;

è una metafora pure il significato più letterale, se lo si guarda da un altro punto di vista. È partigiano anche il significato più neutrale. E molto calda anche la scrittura gaddiana che sembra di grado zero. Si increspa sempre la superficie della prosa, anche quando pare piatta come una lastra di ghiaccio. Per Gadda tutto è narrabile: un risveglio, un affresco popolare, un assopimento in macchina, le reliquie di un vecchio garibaldino, un insegnamento di Cicerone, un pettegolezzo di comari, una tempesta, un fulmine, una visita medi-

ca. Gadda è curioso di sapere come è arrivato lì quell’oggetto, da dove viene e che cerca. Ogni pagina un racconto o quasi, mille racconti in un romanzo. La vita è sempre romanzesca, anche se è reale. C’è un racconto in ogni parola. Da ogni parola potrebbe partire un racconto e arrivare a conclusione senza voltar pagina. Tutte le parole gaddiane arrivano da lontano: hanno viaggiato tra i latini, tra gli spagnoli e nei dialetti. Vorrebbero fermarsi ma bisogna andare. Gadda va, cioè narra, perché è urgente andare oltre quello che si vede. Ogni personaggio interrogato potrebbe raccontare il romanzo della propria vita. Interrogata, la parola italiana mostra la propria radice latina. «Delinquere»? Non è un reato. Significa abbandonare definitivamente la riva, staccarsi da un punto saldo per correre l'avventura sul mare. Il pirata che è ogni scrittore non aspetta sulla riva il cadavere della propria cultura ma si mette in viaggio verso un altro approdo. Gadda arriva e riparte. Un fattaccio romanzesco può finire, non il romanzo, non La

meccanica, La cognizione del dolore, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Se le gabbie sono così ben fatte, al delinquente piace essere riacchiappato. Anche perché Gadda lascia la porta aperta.

La rete narrativa di Gadda da una parte affetta la realtà ma dall’altra la setaccia per salvare il salvabile. I suoi roman39

zi sono l’«ultimo» argine contro la dissoluzione nel materico. Si ricordi che Gadda non è solo un reduce della prima guerra mondiale, ma è pure reduce dalla guerra che futuristi e vociani hanno fatto al romanzo quando lui era alle prime armi, anche in letteratura. La sua prosa ha assistito al massacro dei narratori naturalisti o realisti del suo secolo. Sia pietas o altro sentimento meno caritatevole, Gadda ne raccoglie le sparse membra, ricompone lo scheletro incompleto con le reliquie e rimette in circolazione questo miracolato residuo dell'Ottocento. Fare un romanzo nuovo con i resti, coi frammenti, coi denti: tale il destino del Novecento.

È naturale

che il racconto gaddiano abbia i nervi a fior di pelle. Gadda tirerebbe giù tutti i santi con le sue bestemmie. Come si può dire che è solo un prosatore uno che ha sempre pregato Dio di donargli la capacità di mostrare in quale maniera un minuscolo dettaglio fa sempre parte di un grande, infinito, organismo, e in che modo ci si fa storia? Il racconto si annoda e vortica intorno alla parola. Se non segue tutti ifili nel loro percorso intero, è perché taglia i rami secchi. È sempre verde una narrazione che allaccia con le metafore eventi assai distanti. Le metafore gaddiane fanno nodi gordiani che resisterebbero alla spada d’Alessandro. Il critico non separi ciò che questa prosa ha unito per diventare narrativa. Fa notte chi si ferma a leggere una sua pagina, se vuole mettere in chiaro ogni aspetto oscuro del testo. A questo narratore che soffoca per la nevrosi basta tenerci col fiato sospeso. Siamo troppo tesi per tirare un sospiro di sollievo. La narrazione gaddiana è un campo elettrico, corti circuiti, shock. Si può prendere la scossa su ogni parola di Gadda. Molte metafore sono fulminanti. Gadda va a cercare il pelo nell’uovo? A chi sta a guardare il capello nei maggiori romanzi di Gadda, l’autore ha confessato passione per la tricotomia, sottilissima arte di coloro che raccontano spaccando il capello in quattro. Lui la chiamava «capilloctomia», con uno di quegli understatement 40

linguistici di cui era goloso ma per i quali palesa insofferenza una generazione di lettori che è sazia di linguaggi bassi e «microscopici». Scrittore «molteplice» e complicato, Gadda ha un diavolo per capello ma talvolta è un angelo. Lo guiderà quel pelo alla scoperta della creazione, qui rappresentata dall’uovo? Ebbene, potrebbe esserci un uovo in ogni pelo, in tutte le parole di Gadda. Attenzione: le uova gaddiane hanno almeno due tuorli. Se ne darà subito qualche assaggio. Questa introduzione parla del dialogo interrotto fra l’asparago e la sua radice. Dunque l’agricoltore amico di Gadda gode soprattutto di poter troncare di netto vicino alle radici l'enorme asparago. Di questo conosciamo il destino: un bel contorno o ingrediente di un saporito pasticcio. L’aneddoto gaddiano finisce qui, ma qui comincia il racconto, il romanzo, la narrativa di Gadda.

Chi soffre della tremenda ferita è la radice dell’asparago castrato. S'è sentita così vicina la morte, poi il taglio orrendo, indimenticabile, incurabile. E allora torna in scena, alla grande, madre natura. Che fa gemmare la radice troncata, la

fornisce di virgulti che sembrano fiori, fa esplodere i più luminosi colori. Non si può raccontare il miracolo della natura se non con metafore, immagini che portano molto lontano: fino a far rimuovere la violenta offesa subita alla radice dell’anima e del corpo. È stata tale la paura che ne è derivato attaccamento ossessivo, vitalistico, all’esistenza. Tuttavia

non ha gran futuro l’asparago: sa che presto tornerà l’agricoltore a troncarlo. Un trauma, un complesso? Si favoleggia di un complesso di castrazione, ma Gadda ha raccontato l’episodio soltanto per ricordare che non esiste l’uomo normale. Tale non è neppure Don Ciccio Ingravallo, che somiglia tanto al suo autore, alter ego a sua volta di Gonzalo Pirobutirro. L’Ingegnere costruisce macchine narrative che pratica-

mente non possono avere alcuna applicazione? Secondo

Bontempelli, vita e letteratura, nel Novecento, procedono su

linee parallele: il linguaggio letterario non si incontrerà mai

41

più con l’esistenza. A Gadda, per opinione di critici realistici o moralistici, succede di peggio: si vede la letteratura ma la vita scompare sotto i fuochi d’artificio di uno scrittore che si limita a mandare rumorosi e innocui lampi nella notte. Sono metafore «ebbre» le sue, di quelle cioè che traballando cercano invano la strada di casa e non arrivano mai a coricarsi nel letto di un significato stabile e soffice. Gadda, positivo ed empirico, vede la superficie degli eventi da registrare (il romanzo come «registrazione di eventi» è definizione sua). Torniamo, abusandone, alla solita me-

tafora dell’agricoltore: si vede l’asparago di solido corpo verdeggiante ma delle radici si vede solo la ferita. Gadda parla abbondantemente dell’asparago ma pensa alla ferita che fa da bocca alla radice. Chi parla è l’asparago ma chi suggerisce è la radice dal profondo. Il realista mette sotto i denti quello che ha in mano, cioè l’asparago, ma vi cerca il sapore che ha ricavato dalla radice, la cui ferita occhieggia sul prato. Lo scrittore non ha in mano o in bocca che le parole. Potranno esse riavere il sapore della cosa segreta di cui sono latrici? Tocca nutrirsi di parole, se la verità è andata a nascondersi. Le parole castrate di un racconto che cerca di ricordare i tempi in cui l’uomo era intero, sopra e sotto, soggetto e

oggetto, dialetto e lingua, io e Altro. É una forma «assoluta» quella del Pasticciaccio, romanzo che cresce su se stesso e che se ne sta di là?

Gide se la prendeva assai con i narratori che si comportano come quei giocatori che, al Luna Park, tirando palle «a ogni colpo vogliono vincere un premio»: quelli cioè che pretendono un’emozione intellettuale a ogni parola. Gadda è anche peggio di così: lui fa cadere più di un bersaglio per volta, un suo proiettile abbatte i birilli come una palla da bowling. Non si dimentichi che questo scrittore gioca volentieri, ma presto anche giocando si ricorda d’essere in guerra con tutti e non salva nessuno. Naturalmente, essendo un uo-

mo d’ordine, corre a rialzare i birilli e a ricomporli in un nuovo disegno. 42

Con Gadda si va alla guerra come a una festa. A ogni parola una ricorrenza, non di rado anche triste. Gadda non fa mai brindisi con bicchieri colmi d’acqua. La sua prosa non è mai insapore, inodore e incolore. Lui ci mette tutto se stesso per risparmiare la vita umana. A cominciare dalla propria. Un duro allenamento al dolore ma anche alla gioia. Quanta gioia per il sottotenente Gadda, che pur non era un futurista, combattere con la morte in prima linea. E in prima linea la guerra con la madre. Tuttavia Gonzalo soffre di non essere in pace con lei. Perciò la celebra nel capitolo sulla Vecchia Signora impaurita dalla tempesta. La celebrazione si trasforma però in un processo. È nell’ordine naturale delle cose che una madre ami un figlio più di un altro. La natura registra anche il fatto che il figlio meno amato sia geloso e si ribelli. Abbraccia la madre, ma la strozzerebbe il figlio nevrastenico che l’adora. Ora finalmente lo capisce la vecchia madre ma continua a dimenticarne l’esistenza. La madre psicologicamente lo ha espulso dalla propria esistenza. Psicologicamente il figlio la uccide: per interposta persona, come succede spesso nella psicologia del profondo. In superficie La cognizione del dolore è il romanzo dell’amore di un figlio per la madre; nell’inconscio avviene un matricidio. Il lapsus più micidiale della letteratura d’ogni tempo. La parola che uccide senza toccare con mano la cosa.

La guerra, la prima guerra mondiale, ma anche la seconda, senza la quale non avrebbe scritto il Pasticciaccio. Ogni guerra: quella delle nazioni (viva l’Italia, che bravi però i tedeschi!), quella delle classi (il socialismo contro la borghesia e meglio ancora viceversa), quella della famiglia (i figli contro i padri e le madri), quella della psiche (l’inconscio e la coscienza), quella del sesso (gli uomini contro o sopra le donne), quella della lingua (la rivolta dei dialetti per lo spazio vitale contro l’italiano), quella degli oppressi (i poveri, i figli, i soldati semplici contro i ricchi, i genitori e gli ufficiali), quella della cultura (contro la natura che si attarda e si oppone ai tempi nuovi, ma che anche manda segnali di ribellione in43

conscia), della comicità contro la tragedia, della musica con-

tro la sordità, della passione che tenta di resistere al tornaconto personale, dell'individuo contro le masse, del soggetto che vuole tornare al potere sull'oggetto, dell’ambiguità sulla perentorietà, della bellezza artistica sulla banalità quotidiana. Per gli ermetici il mistero suggerisce la propria presenza

ma impedisce che si penetri nel suo territorio. Gadda urla da questa parte: o meglio porta di qua l’al di là, il rimosso. Lo trasforma in realtà e ci fa il suo privato realismo. Il realismo di uno scrittore che si è inventato una realtà che così non esiste e un dialetto che nessuno ha mai parlato così. L'irreale realismo di un narratore che per essere «lombardo», cioè concreto, ha bisogno di essere «barocco», cioè di essere meraviglioso in virtù della parola che suggerisce altro. Un giorno, lo narra nel racconto «Cinema», Gadda si è

procurato i soldi per entrare in sala. La narrazione si dilunga davanti al botteghino, dove c’è ressa, dove premono le masse. Si ferma però prima che il protagonista entri nel buio «magico» della sala. La decima musa sta sempre, come le divine sorelle, dall’altra parte, irraggiungibile? Il bestiario di Gadda

Si chiamino ora a deporre alcuni degli animali cui ha dato vita Gadda. Non parlano ma sono eloquenti i loro comportamenti. Possono raccontare meglio di tutti la favola del loro creatore. Sono un maiale, un mulo, uno scarafaggio, un tarlo, una gallina e un topo. Il maiale fa una rapida apparizione in un saggio, e già si è detto quanto basta. Gadda lo affilia per assonanza a Maia. Potrebbe nascere un mostro, ma la madre di Ermes sa dare bellezza a ogni cosa terrena. Gadda celebra la parentela tra i linguaggi bassi e quelli più alti: lo scrittore dialettale conviverà col neoclassicismo più prezioso, come si vede dal Prizzo libro delle favole. Gadda sfrut44

ta l’animale per fare un gioco di parole su una dea, e tuttavia, la sostanza è un’altra. Che l’arte sia un'attività divina lo pensano solo gli animali che ci ingrassano. Essendo un uomo, Gadda non chiude gli occhi dinanzi allo spettacolo merdoso che l’esercito italiano aveva dato al giovane autore del Giornale di guerra e di prigionia; vede cosa fanno la famiglia e la società borghese; ascolta quello che dice il fascismo. Solo chi non teme di sporcarsi è invitato in luogo più alto dalle Muse. Altrimenti si viene scaraventati subito giù, nella materia schifosa da cui si è partiti. Questo non lo dice il maiale, che non parla. Parla la favola e potrebbe avere una diversa morale. Con la madre di Apollo non si sa mai quale significato darle. Si capisce subito che Gadda sarà uno «scrittore grasso». Parola di Stevenson e di Tomasi di Lampedusa, narratore che ama le Sirene. A saperla cucinare, è saporita assai l’esistenza umana. Gadda però non è cristiano quanto Pizzuto, per il quale il linguaggio è tutto: col linguaggio adatto cioè ti puoi fare la vita felice che desideri. Gadda non allungava la mano sulla Fata Morgana. Non parla nemmeno il mulo che trascina in alta montagna un cannone. Parlano altri più nobili animali: i soldati protagonisti di «Manovre di artiglieria da campagna», che è un frammento del Racconto italiano d’ignoto del Novecento e che fu pubblicato da Gadda nella Madonna dei Filosofi. Vi si narra come dei soldati, guidando un pezzo d’artiglieria su una impervia strada di montagna che costeggia una valle profonda, si trovano bloccati da insormontabile ostacolo del terreno. Ebbene, cosa fa l’animale più intelligente che in quel caso è ancora l’uomo? Si incaponisce ad andare avanti, frustando e prendendo a calci il mulo che non ce la fa a saltare l’ostacolo. Bestemmia l’uomo, è paziente invece il mulo che ha capito la situazione e aspetta il miracolo: abbia senno il soldato e si riprenderà la via, senza cadere nel burrone. Quando una strada è chiusa da un masso e non si può tor-

nare indietro del tutto invertendo la marcia, tocca manovra-

re il pezzo d'artiglieria in modo che le ruote trovino lo spa4

zio minimo per passare. Insomma finisce che il mulo rincula da solo di quel tanto che basta per cambiare il percorso: e così può spingere il cannone verso la destinazione. Il mulo non parla, questa non è una favola, ma è un episodio di vita militare quotidiana a cui forse Gadda ha davvero assistito. Una morale c’è, ma il narratore non è responsabile dell’interpretazione. Se avesse la parola, il mulo direbbe all’uomo anzitutto di non intestardirsi sulla strada bloccata. È una questione di cultura: il conservatorismo è un freno, mentre invece bisogna arrivare prima possibile dove si combatte la battaglia cruciale. La cultura degli uomini spesso si ostina a bastonare la natura ritenendola una forza bruta, ma

ciò serve solo a dimostrare una superiorità che gli eventi non confermano. È forse un invito a cedere il comando ai poveri soldati? Ebbene, no, il mulo non sta suggerendo un così semplice ribaltamento sociale. Il mulo, contraddicendo la propria natura, che lo vuole ostinato e irremovibile, sta proponendo se stesso come logica alternativa alla dissennatezza degli uomini, quando questi non hanno la cultura per capire l’impasse in cui si trovano loro, il cannone, la guerra, la vita. C’è un ordine naturale delle cose con cui si saltano gli ostacoli del terreno e della cultura. L'uomo ha inventato la ruota? Impari a usarla come si deve, cioè come vuole la natura che sia approdata a un ordine con cui le cose procedono senza finire nel burrone che sempre costeggia il cammino in salita dell’uomo. Un animale senza parola al quale si nega l’intelligenza rifiuta ostinatamente il precipizio, se ne tiene lontano e così fa avanzare anche l’uomo. Se non ci fosse la rivolta della natura a imporci cocciutamente la sopravvivenza, che fine farebbe il soldato della vita che è lo stanco uomo del Novecento?

Il terzo animale araldico di Gadda è uno scarafaggio: quello di cui l’Adalgisa racconta l’eroica impresa che si conclude con la morte per mano del marito entomologo, del sior Carlo. È dieci volte almeno più grande del suo corpo la palla di sterco che l’insetto trascina per avvallamenti e rilievi del 46

terreno verso casa, dove lo attendono la sposa e i piccoli. L’epica di cui sono incapaci i soldati italiani è invece naturale nel comportamento dello scarafaggio. E Gadda gli rende omaggio con un tono che aveva riservato per raccontare semmai il proprio eroismo. L'eroe qui è un insetto che muore per amore della propria famiglia. Le sta portando una grossa palla di merda, che però per gli scarafaggi è sempre un gran bel pasto: da distribuire sagacemente per tutto l’inverno. Non è la stessa materia, anzi è oro, ma non è poi tanto diverso strutturalmente il

comportamento del buon borghese che porta in banca i risparmi di una vita laboriosa. É eroica anche l’azione dei borghesi risparmiatori? Quelli presenti non si offendono d’essere stati paragonati a un lurido insetto. Dal tono del sior Carlo hanno capito che è un onore rassomigliare a quello scarafaggio che cade nell’espletamento del proprio dovere. Pochi uomini si meritano l’epica con cui Gadda canta le meravigliose gesta del bacarozzo. Non è vero insomma che il mondo contemporaneo ignora l’eroismo. Per trovarlo, bisogna guardare verso il basso? Verso le classi umili? L’eroismo è più facile scovarlo tra gli animali che gli uomini considerano ignobili e che invece hanno un nobilissimo senso del dovere. Ma forse è vero soltanto che Gadda ha un desiderio di eroismo e di grandezza, almeno dieci volte maggiore di quello degli altri uomini. Gadda racconta un evento che suscita anche qualche risata; più intensa è, invece, la commozione per il gesto del-

l’insetto. L’epica declina progressivamente verso l’epicedio. Se l’è proprio meritato lo scarafaggio il monumento funebre che l’autore dell’Ada/gisa gli erige. Ha aspettato che gli si presentasse

la migliore occasione

per raccontare

un

esempio di grandezza e non l’ha sprecata. E così umano quello scarafaggio! Tanto quanto gli uomini non sono mai stati, né lo sono al presente. E il futuro? Sarà migliore, solo se rispetterà l’«ordine naturale delle cose», quello che fa ; coppia con la logica. Quarto è il tarlo. Fa cri-cri nel legno del noce ma il suo47

no si ingigantisce nella testa di Gonzalo e della madre. Sono fatti della stessa materia. Non è molto logico ma diciamolo ugualmente: Gadda si sente uno scarafaggio, ma di quelli che sono capaci di un’impresa epica. È tarmato l’io di Gonzalo, è un trapano il movimento dell'Altro nel cervello di madre e figlio. Soffre sicuramente di meno il noce: il dolore di Gonzalo e della Vecchia Signora è intollerabile, da impazzire. Impazzisce il figlio al pensiero che la madre non lo ami abbastanza, e la madre non ha requie pensando al figlio morto. È roso dall’interno anche il racconto: c’è un prigioniero laggiù che manda incomprensibili messaggi dal buio. Cri-cri, cri-cri: non è una bella musica, il rumore non diven-

terà mai un segno di cui si possa dare un’interpretazione veritiera. È possibile andare oltre il rumore e trovare il significato? Gadda scende a vedere cosa pretende quel tarlo, cosa vuole comunicare il linguaggio del corpo, ma il tarlo, il rumore, il suo significato scappano sempre per evitare di esse-

re presi. Parola di Lacan, medico di menti tarlate. Ed ecco a voi, quinta, la gallina. Una performance spettacolare: danza e canto, una star nella fattoria degli animali gaddiani. Fa le uova per la Zamira e fa la cacca sui piedi del brigadiere Pestalozzi. Un’offesa alle sacre istituzioni: parola della Zamira, Sibilla cumana che sguazza nella merda e la sa interpretare con grande fiuto. L'interprete della narrativa di Gadda non ha dubbi da parte sua: è uno scrittore satirico chi ha inventato questa gallina che irride le forze dell’ordine, vigili guardiani delle ricchezze delle Menegazzi e di ogni buon borghese che trasforma in oro e gioielli i propri risparmi. Tutta la cacca invece per le povere ragazze che tolgono i pantaloni ai carabinieri cui sono saltati i bottoni per il desiderio pressante e per lo stomaco pieno. Canta in modo stupendo e straziante la Ines, una delle ragazze dell’équipe della Zamira che lasciano l’antro e corrono verso la magnifica città dei papi, verso le sue strade, o meglio, verso i suoi mar-

ciapiedi. Se fosse una gallina, dopo aver dato spettacolo agli investigatori che le fanno il terzo grado, la Ines chissà cosa butterebbe addosso a quei funzionari delle Stato che la tor48

turano per farle fare l’uovo, cioè confessare la partecipazione ai delitti su cui lei si indaga. Mentre lei piange, fa il pagliaccio il dottore Fumi, napoletano attore di varietà. Comunque sembra più grave il dramma della colpevole che non la tragedia della vittima. Il sesto animale, infine, il topo, entra in scena quando è

evocato dalla fantasia erotica del brigadiere Pestalozzi. Sta sonnecchiando sulla motocicletta, gli è venuto in mente il topazio rubato alla Menegazzi, i suoni rincorrono significati proibiti, il topo-topazio non lo ferma nessuno. O meglio, quando cerca di entrare nella natura — topo cerca topa secondo ordine naturale delle cose: legge suprema del sistema della vita — della contessa dal cognome quasi osceno, ecco che si scopre che è negato l’ingresso: la donna ha ermetiche mutande di cartone. Quasi fosse un incesto. La Menegazzi non è sua madre ma un suo personale tabù blocca il povero brigadiere e con lui chissà quanti hanno voglia di donna che sia negata da interdetto. I fatti intanto continuano ad essere quello che sono: Pestalozzi nel dormiveglia mattutino desidera possedere la Menegazzi o altra Circe capace di trasformare uomini in maiali. L’inconsapevole Pestalozzi sogna forse di rientrare nel ventre da cui è nato. L’umile brigadiere sta forse addirittura esprimendo un desiderio estremo? Chiede alla sua vita un felice approdo al Nulla. Se ci siamo spinti troppo in là, troppo in alto, torniamo coi piedi per terra. Per terra non dimenticate che c’è l’asparago castrato dall’agricoltore. Potreste mandargli addosso il topo troppo voglioso che va a sbattere contro un interdetto. Non è proibito pensarlo: in questa favola priva di morale persino l'erotismo potrebbe essere, più che alternativa, aspirazione al Nulla. La parola è un’alternativa o è un’aspirazione alla cosa? Nell'episodio del brigadiere — che si può portare a esempio della più fastosa e lussureggiante, oltre che lussuriosa, scrittura gaddiana - minuscola è la cosa ma immensa è la parola. Tale è sempre il rapporto tra parola e cosa: una modesta co49

sa che è quasi nulla ha un’enorme forza d’attrazione per cui si scatena incontenibile la parola. Il Nulla come fattore di dinamismo, generatore di desideri, inesauribile propulsore. Alta tensione, turbine di immagini, groviglio di fili che trasmettono associazioni foniche e semantiche, l’al di là della

materia dove trionfa la pura energia della parola; e naturalmente anche quella impura. Potrebbe realizzarsi l’identità fra cosa e parola? La parola mima il Nulla (barocca è la parola, perché «la vita è barocca») o è la sua più concreta alternativa? Sprizza vitalità la frase che corre come un treno deviando su innumerevoli scambi, sono irresistibili calamite i suoni per i significati più nascosti, si sfrena la sarabanda di una musica che fa festa in

una giornata probabilmente luttuosa. E la morte? Piuttosto la vita. La vita della parola che cerca la verità, sfuggente e irraggiungibile traguardo. La parola di cui va resuscitato ed esaltato il senso. La realtà della parola. La parola che dà sostanza al suono. Le mille verità possibili ai particolari di un sistema che è stato disabilitato a trasmettere la cosa che è origine e fine di tutto. La parola e la cosa. La parola sopra la cosa. La parola separata dalla cosa. Il doppio livello: come l’asparago e la sua radice. Desidera esso tornare a unirsi alla cosa? Non è più possibile. Diverso è ormai il destino della parola e della cosa. La parola è fiorente e la cosa è ferita. Si ammiri la grande vitalità della parola staccata dalla cosa. Non ha futuro senza la radice ma ha uno splendido presente. Sa però di dover morire priva com’è di nutrimento sotterraneo. È l’attaccamento alla vita a darle lo splendore o è il senso, il presentimento, della morte prossima? Non ha i colori della morte la magnifica parola di Gadda. Semmai della morte e della vita. La parola dà la vita e racconta la morte. Muore qualcuno ma non muore una letteratura che sia insieme consapevole da una parte della fine e dall’altra di una nuova crescita. È nell’«ordine naturale delle cose» che l’asparago castrato risorga. La rinascita ricomincia sempre a un centimetro dalla terra. 50

È stato tagliato il cordone ombelicale con la verità? L’uomo viene buttato nella vita e soffre di non essere attaccato alle sue radici. Unito, aveva senso, traeva linfa vitale da ciò che

ha lasciato nella terra materna. Lì ha preso il latte con cui ha potuto fiorire e crescere come svettante virgulto. Ora giace sul terreno. E possibile non essere divisi? Ebbene, no, l’a-

sparago non sarà più riattaccato alla sua radice. É stato troncato il verde smagliante della giovinezza. Dopo Caporetto è spezzato ogni legame con gli ideali radicali di chi si aspettava grandezza dalla vita. Lo aveva educato a ciò la madre, latrice di valori antichi. Sarebbe bello rientrare nella radice, ma così ormai è la vita. Tale è l’esi-

stenza infelice di chi ha subito una castrazione psicologica e metafisica: quella che non fa comunicare più la superficie e la profondità, la parola e la cosa, la realtà e il sogno, la co-

scienza e l’inconscio, l’io e l'Altro. Si può ridere con l’asparago ma dalle radici giungono urla strazianti come quelle di Gaddus e di Gonzalo. Invece Ingravallo, il commissario, che è diventato un uomo «normale», si pente di tutto, forse an-

che d’esser nato.

.

PARTE PRIMA

Il diario verso il romanzo

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CAPITOLO PRIMO

Le prime parole di Gadda

Le parole di Gadda non furono sempre «con la gobba» come le vide Moravia nella Cogrizione del dolore e nel Pasticctaccio. In gioventù esse erano snelle, magre e diritte come un pugnale. Nel Grorrale di guerra e di prigionia sono inflessibili nella direzione impressa dall’autore, irriducibili nell’intenzione di infilzare la cosa da esprimere e taglienti nel trinciare giudizi. Gadda usa la punta quando deve incidere un paesaggio e dà fendenti sulla testa di ufficiali superiori, commilitoni, e di tutti quelli che vengono a tiro della sua mano e della sua mente, «assassina» per moralità o risentimento.

Le parole hanno giurato fedeltà ed eseguono gli ordini dell’autore senza reticenze. All’inizio era stato più facile, perché Gadda si sta guardando intorno: è in attesa degli eventi che gli daranno modo di dimostrare la propria grandezza. Però presto lo spettacolo delle retrovie non lo può lasciare indifferente: né impassibili restano le parole, che registrano gli stati d’animo di un nevrastenico che sinora si è controllato. Non basta più il vocabolario delle parole della comunicazione civile. E allora, quando Gadda per ira o indignazione diventa «incivile», vengono fuori le parole proibite dalla buona educazione borghese. Le male parole che si prende la moglie di un fotografo! Gli epiteti ingiuriosi e osceni che si attirano i generali, i ministri, gli industriali, il Re. Gadda se ne strafotte del reato di lesa maestà. Quando una parola non ce la fa da sola ad ammazzare una persona odiata, lo scrittore ne fa una spiedata, ne infilza DI

cioè cinque o sei: secondo furia omicida, che replica la pugnalata. Deve averlo intuito allora Gadda che non bastano più le parole che corrispondono alle cose nel vocabolario italiano. Anzi le parole gli stanno giocando un brutto tiro: in apparenza sono fedelissime esecutrici del mandato espressivo affidato loro, ma in sostanza o non ce la fanno più a capire cosa gli è stato ordinato di dire o fanno una traduzione sbagliata del pensiero del capo. Diventano frequenti i lapsus: involontaria metafora che fa da ponte aereo tra un suono deformato e un significato vero. Ecco: le metafore. Sta finendo il tempo giovanile in cui uno pensa carota e dice carota. Quando tornerà dalla prigionia, Gadda si porrà il problema. Per ora ammassa parole se deve dire qualcosa che non può più essere detto con una breve frase. Ingrassa la frase del prigioniero sedentario, che inonda la pagina di parole quando la depressione lo spinge verso il suicidio. È come spuntato il pugnale che vorrebbe indirizzare sul proprio cuore. Urge cambiare arma, vocabolario e pensiero. Le parole di Gadda si piegheranno sotto il peso dei densi significati di cui si dovranno far carico nel secolo che ha ratificato il divorzio tra cosa e parola. Alle metafore! alle metafore! È opinione assai comune che Gadda con la parola ci faccia cose mai viste. Presala dal vocabolario o dalla strada, la

costringe a guadagnarsi da vivere diversamente da come sinora è stata abituata. Non importa l’età che ha: può essere vecchia di secoli e tuttavia tornare utile per esprimere qualcosa che una giovane non riesce a fare altrettanto bene. Smontando e rimontando, con due parole usate è capace di ricavarne una nuova. Se poi quella che serve non c’è nel vocabolario italiano, Gadda non disdegna di prenderla da uno straniero, ad esempio, il tedesco appreso in prigionia, o lo spagnolo, dell’esilio argentino dell’Ingegnere. Oppure la prende dalla strada, parola che batte il marciapiede e che fa la vita meglio di tante parole della koinè borghese. Non di rado sono parole dialettali che sono fiorite in 56

mezzo al popolo del posto, Milano Venezia Firenze Roma Napoli e giù di Jì, o che sono appena arrivate dalla provincia. Parole di periferia che vogliono integrarsi nel centro, portandovi l’energia di cui sono dotate per il lungo allenamento in un'esistenza di miseria, violenza e solidarietà tra umiliati.

Per esempio, le venete a Milano fanno una splendida figura: suppergiù come la Zoraide della Meccanica, la popolana che alza la pressione sanguigna ai milanesi che la vedono passare nella sua arrogante bellezza. La parola di Gadda si piazza sul crocevia da cui si arriva nella piazza dove si danno convegno quelle che da sole non sopravviverebbero. E al centro di una rete di relazioni che è prigione e insieme sostegno. Di là non la schiodi senza farle perdere la vitalità. Se si appoggiano l’una all’altra, le sue parole formano una robusta cordata, fanno un nodo che non

scioglieresti facilmente. Lo gnommero che è anzitutto l’io e che diventerà il pasticciaccio si manifesta per ora come groviglio di parole. Subito dopo ripartono per un’altra avventura del discorso, inesauribilmente. Hanno sempre almeno quattro vie d’uscita nel quadrivio dove talvolta il lettore viene davvero messo in croce per spiegarsi il senso nascosto dentro il nodo di parole. La croce: un movimento verticale e uno orizzontale che si incontrano al centro, al punto di confluenza. Si inchiodano significati che arrivano da ogni dove. È davvero un povero cristo lo scrittore che cerca invano la rivelazione della verità. Abbandonato da Dio, il narratore del Pasticciaccio mette in testa a Ingravallo la voglia di «ripentirsi, quasi». Per

chi ha visto il Golgota, il Parnaso è un piccolo monte. È bello salirci, ma resta il desiderio d’altro.

Sopra non c’è niente e nessuno, e sotto? Scritta alla luce del sole, la parola di Gadda è notturna. Se brilla tanto, è perché l’autore le ha dato fuoco. Un narratore brucia parole per essere illuminante. Gadda è uno scrittore tornato dal viaggio nel profondo. Come è fatto? È solo una metafora ma aiuta a definire una vita che, ad osservarla dall’interno dell’autore, è una bolgia, ovvero un indigesto pasticciaccio. DI

Dunque all’inizio Gadda non aveva naturalmente la grande maestria nella creazione o nell'impiego inedito della parola che ora tutti gli attribuiscono. Nel diario non è ancora l’artista della parola, quello che fa meraviglie con la metafora. La sua parola potrebbe passare inosservata, se spesso Gadda non la gridasse. L’eccesso fonico, l’accento del significante, cerca di ovviare a un significato che è troppo povero in relazione a quanto l’autore vorrebbe dire. Dove più tardi ci sarà la densità figurativa della metafora, ora c’è la smodata intensità del suono. Ovviamente, se la sradichi, la parola

isolata si dissangua ed essa deve riparare nel vocabolario, deposito millenario da cui escono quelle che di volta in volta meritano di essere chiamate a collaborare nella frase. Sembrò «assoluta» qualche metafora «ebbra» e vertiginosa. Gadda non cerca parole di per sé belle. Molte sono anzi le brutte parole con cui apostrofa le persone. Si sente in corpo tanta cattiveria per le disavventure patite che «per iscritto» non imita certo il cerimonioso interlocutore che lui è nella conversazione quotidiana. Nel segreto del suo diario può sparare le parole che in quel preciso momento la sua nevrosi gli ha messo sulla lingua. Gadda sputa il rospo ma la sua parola non gracida mai. È un proiettile ed esce con scoppio. Non colpisce il cervello come nella prosa più matura dei romanzi ma trapana l'orecchio. Quando Gadda urla tanto, è stato ferito il suo più profondo Essere. Il suo nucleo è liquido bollente. Gadda, scrittore di Terra.

L'Essere di Gadda non si presenta coi biscottini, le celebri madeleines, di Proust; o con le campane che tante emozioni suscitano in Joyce. Anzi, Gadda non può nemmeno sentire le campane senza che gli torni alla memoria il padre, che per dotare di campane una chiesa della Brianza, fece mancare alla famiglia non solo i biscotti ma anche il pane. Pure per Gadda il trascurabile può diventare estremamente importante. Attenti dunque al dettaglio per cui il diarista si scatena in urla isteriche. Seguite il filo ed esso vi condurrà alle radici della nevrosi. Non c’è una parola delegata ad aprire 58

il cancello, ma qualcuna si fa trovare più spesso nei paraggi. Inevitabili le forzature. Più in là la parola di Gadda si farà notare perché «deforme», più precisamente, «spastica». È un handicap ma Gadda lo trasforma in un vantaggio. Si sa che per lui «deformare significa conoscere». Naturalmente la deformazione non aiuta solo a conoscere il senso più vero di una singola parola. L'handicap che fa correre più svelti verso la verità va visto nel corpo intero o almeno nell’organo dalla cui norma devia per farlo funzionare meglio. Gadda non ama le parole «bagasce»: danno piacere ma evitano d’essere feconde. La parola di Gadda dunque vola pure da sola ma non si dimentichi mai il nido in cui trova alimento. Vive meglio in compagnia, e guai a staccarla dal resto, dal contesto. Non puoi mettere il sale sulla coda di una parola e bloccarne il senso. Quindi le si fa violenza a isolarla. Chi usa una parola di Gadda deve trascinarsi dietro la frase dove ha fatto nido. Allora potete snidarla, ma c’è sempre il rischio di fare una frittata. Se non si può fare a meno di prenderne una per volta, si usi la massima cautela. Bisogna comunque avere comprensione per chi la tira via da sola: è molto nutriente per chi si accinge alla difficile impresa di cercare il pelo nell’uovo. L’Ingegnere è uno che vuole costruire, e sa mettere sem-

pre il mattone al posto giusto. Bisogna evitare di fare confusione, sappiamo quanto avesse in odio il disordine. Per ora non si rischia di mandare alla rovina una grande architettura, come può essere un romanzo di Gadda. Stiamo cercando tra i materiali da costruzione del Giorzale di guerra e di prigionia, quelli che possono servire a una costruzione diversa. È permesso, Gadda non ha mai consacrato il suo tempio. Prendiamo allora le parole che fanno da colonne per lo scrittore futuro. Se dunque si isolano le parole del Giornale, è perché il testo è fatto a pezzi. Dentro il frammento, che non sempre è un gioiello, il singolo termine spicca, e spesso punge. La prosa di Gadda ha una superficie ruvida, non procede mai soffice, mancano le curve dei lunghi periodi, la carta non abSE

bonda e non c’è tempo per sottilizzare, ti limiti ad appuntare, accosti e non hai la pazienza di cucire. C'è sutura ma la cicatrice continua a bruciare. Abbiate considerazione della temperatura della frase: le parole, tagliate dal corpo, diventano fredde. Si prendano con le pinze: non sono mai asettiche, le ha contagiate una mente malata. Essendo in guerra, si ha il diritto di fare la spia? Sono parole coperte dal segreto militare quelle che svelano le idee e i sentimenti di Gadda quando era in servizio o quando è prigioniero. Farà la spia con se stesso, si manderà messaggi non

cifrati. Per noi sono ancora in cifra, ignoto ci è ancora il codice segreto. E siamo sotto il peso della preventiva condanna di Gadda: «Non crediamo che siano arcani i mali, no: i ma-

li vengono per lo più da asineria». Ci sentiamo asini dinanzi ai mali arcani di Gadda, e tentiamo di svelarli. Così ha sempre fatto Gadda, questo è il suo modello conoscitivo: smettere d’essere asini e capire l’arcano che è diventata la vita da quando è andata a nascondere il proprio segreto nel profondo della sua anima. Tocca fare la spia all'anima di Gadda. Con queste parole cos'altro si può combinare? Potreste fare un ritratto di Gadda da quando nasce come scrittore in prima linea a quando alza le mani dal diario. Anche il futuro narratore nasce da queste parole del Giornale di guerra e di prigionia: non si arrendono mai, e stanno sempre in prima li-

nea nella prosa di Gadda. Combattendo con esse, si può perdere e si può vincere. L’«ars» è di Gadda, ma la combinatoria può farla anche il lettore. È stato Gadda uno dei primi nel Novecento a far funzionare l’«istituto delle combinazioni» con le quali il caso non di rado arriva alla necessità.

Le prime tre parole sono quelle che stanno sulla copertina del libro. Già con esse potreste fare terno. Non è il gioco del lotto, anche se si danno i numeri. Torniamo allora alle parole. Le altre non sono nell’ordine in cui l’ha collocate Gadda. Siamo all’alfabeto della sua prosa, ma le sue lettere talvolta fanno vedere doppio o triplo. 60

GIORNALE. A Gadda si addice il «giornale», la forma-diario. Gli è congeniale, si confà alla sua natura e alla sua cultura. Raccontare o descrivere quanto succede o si vede in quel giorno, in quel preciso momento e luogo. Lasceranno il segno nella sua narrativa futura, e spesso le incontrerete, la frammentarietà; la discontinuità; la disponibilità ad acco-

gliere ogni argomento o parola; la casualità con cui si mani-

festano gli eventi; l’incoerenza di superficie; la concretezza

del dettaglio; la pluridirezionalità della vicenda; la precarietà in cerca di intensità espressiva; il frazionamento dell’individuo; l’orizzontale serialità che aspira alla verticalità dell’emozione; la piattezza della vita quotidiana che tenta di prendere quota; la quota sulla quale si combatte per allargare il proprio territorio fino alla conoscenza di tutti. Una conoscenza frantumata ma fitta di picchi illuminanti. Che sorpresa conoscere il presente nel suo balenare! Questa scrittura fulminea propaga un incendio che è impossibile spegnere. Gadda scrive mettendo la mano nel fuoco e non la tira via quando brucia. Con le fiamme del suo inferno fa luce su se stesso, sul proprio interno. Un pioniere della «cognizione del dolore» fa strada all’esercito di nevrastenici che conquisterà il Novecento. GUERRA. Dopo la si sarebbe chiamata la Grande Guerra, ma a occhio nudo appare una guerra davvero piccola. Sembra una guerra insignificante quella che egli combatte nella vita quotidiana ma dentro Gadda è scoppiata la Prima Guerra Mondiale dichiarata all'uomo dal suo inconscio. Un ribaltamento totale. Tante cose sarebbero andate a gambe all’aria, la visione del mondo sarebbe stata rovesciata, non sarebbe più stato facile stare coi piedi per terra. Ribaltata la prospettiva, ciò che per altri è minuscolo, per l’individuo sensibile è enorme. Gadda l’ha sempre sentita come una guerra «per la grandezza»; una «santa guerra», dalla quale arriverà finalmente la grandezza che giustifica il vivere. E invece tutto congiura contro la sua grandezza, per «fare di /ui un uomo comune, 61

volgare, tozzo, bestiale, borghese, traditore di se stesso, italiano, adatto all'ambiente». Per «ribaltamento», ora sa cosa

è, per cominciare, la grandezza: essere fuori del comune e della norma, essere singolare, sottile e umano, magari supe-

rumano, combattere la furba mentalità borghese, difendere la propria unica identità, essere «romano» o tedesco, e met-

tersi in guerra con l’ambiente. Meglio essere un disadattato che integrarsi in una società tanto volgare. Gadda va in guerra non solo contro gli austriaci e i tedeschi ma soprattutto contro la borghesia, che ha smesso di fare la guerra come nell’Ottocento e ora la fa fare agli altri. La borghesia ignora la bellezza della guerra, che è giovinezza, vita, amore del pericolo e tanti altri sentimenti con cui si esaltano la conflittualità naturale: nonché la violenza con cui fa guerra la cultura polemologica del primo Novecento. Questo sarebbe stato un secolo di competizioni, rivolte, bat-

taglie, ribellioni, gare, rivoluzioni e ancora guerre. Solo chi rischia di morire in un conflitto ha diritto alla sopravvivenza. La vita è vissuta come se fosse sempre l’ultimo giorno o il primo. Il momento della verità. La letteratura come «dialogo sull’estrema soglia». AMORE. Nel Pasticciaccio l’amore viene chiamato «erotìa» dal commissario Ingravallo, che la accoppiò con «interesse» per indicare i due fattori principali del comportamento umano. Nel giovane Gadda non si vede l’«interesse», anche se c’è. E evidente che egli agisce per «erotìa», la passione che gli fa dimenticare ogni altro interesse. Se poi interesse c’è, sia appassionato. Metteteci il cuore in quello che vi interessa e sarà bruciato il calcolo fatto dal cervello. Gadda ci mette molto calore in ciò che pensa. E così il narratore lirico ha fatto meglio l’interesse di tutti. In principio ci fu l’amore, quasi un romantico. Una temperatura affettiva elevata, un cuore grande così, simpatia per tutti, una ipersensibilità per cui i nervi suonano per un nonnulla, un fervore che rende scottanti i sentimenti, un vulca-

no sempre pronto ad esplodere. Gadda era andato in guerra 62

| per difendere i valori ereditati dall’infanzia, cioè dal secolo in cui era nato, dall’Ottocento lombardo, che dopo essere

stato illuminista e romantico, è anche positivista, scientista e naturalista. La nuova «guerra d’indipendenza» avrebbe reso maggiore e migliore la patria. L’interventista era nazionalista: aveva gridato Viva D'Annunzio! Morte a Giolitti! Che delusione però gli italiani, col loro «egotismo» e col loro disordine! Gadda invece si sente altruista e coltiva un amore sviscerato per l’ordine. L’amore per la patria lo tiene in vita, o meglio, è quello per cui darebbe la vita. Gliel’ha inoculato dalla nascita la mamma, primo amore viscerale di Gadda. Un pensiero assillante: che pena la lontananza dalla madre! quanto tardano le notizie, specialmente quanto di più si sente carenza d’affetto. Si sacrifica la mamma, ma che carattere duro! Dopo la morte del fratello Enrico però Gadda annota: «la mamma vuol più bene ai muri di Longone, alle seggiole di Milano, che a me, che a Clara malata». Non si può contar meno di una seggiola per la propria madre. Non lo comprende; comunque molto meno che non gli amici, Tecchi, Betti e altri compagni di vita militare e di letteratura. Gadda ama molto la letteratura. Ha scritto parecchie poesie prima di andare in guerra e ora è un gran conforto trovarsi nel Lager in compagnia di tanti altri scrittori. Amerebbe molto scrivere un romanzo ma dopo un tentativo subito fallito, desiste. In cambio legge quelli degli altri, Tolstoj,

Balzac; non Manzoni, che però conosce quasi a memoria.

Scrivendo scopre d’essere diverso, il vero Gadda. Scriva un libro diverso. Manca in questo romantico patriota l’amore per il padre. Che un giorno fece un «grazioso vaticinio» a Carlo Emilio: «Non farai niente di buono nella vita». Un buon profeta il cattivo padre. Carlo Emilio non avrebbe fatto niente di buono nella vita, cioè dove per Gadda contava di più il risultato. Il buon vate non si pronuncia sulla letteratura: per lui non esiste, e comunque è attività da fannulloni. Forse per questo Gadda farà qualcosa di buono come scrittore: una vendetta 63

riuscita. Visto però che non farà quasi nulla di buono nella

vita, non lo farà nemmeno nella letteratura. Non si contano

nei suoi libri le cattiverie nei confronti del padre dittatoriale. E sarà cattivo anche verso la madre troppo autoritaria, che non ama molto o abbastanza la letteratura. «I genitori questi reazionari» (Savinio ne La tragedia dell'infanzia). C'è altro amore nella vita di Gadda? Il Giornale dice che una volta «limona» con una donna. Un rapporto agro degli anni verdi che ingiallisce lentamente senza maturare. Fine dell'amore per la donna. Ora per questo romantico che prevede un futuro «senza famiglia» non c’è che da attendere la morte. Non ci sarà mai la celebre coppia nella vita di Gadda? Nemmeno nella sua narrativa i giovani più eccitati morirebbero per amore. Quelli di «San Giorgio in casa Brocchi» farebbero morire la madre pur di accoppiarsi. Eros e Priapo? Più Priapo che Eros. BATTESIMO. C'è il «battesimo del fuoco» sia per il combattente che per lo scrittore. Vedranno tutti cosa è in grado di fare questo «minchione» nel quale nessuno ha fiducia. Avrebbe dimostrato di che eroico sprezzo del pericolo era capace uno che era considerato un vile. Gadda scalpita, è pronto al combattimento, la disciplina darà certamente i suoi frutti, l’allenamento è finito. Gadda è proprio felice di andare in battaglia. Dopo tante scaramucce, cannonate, fucilate fra trincee ecco la prova del fuoco. Gadda fa la guerra con tutti i sacramenti. Non dimenticherà mai le emozioni della battaglia, ma non c’è religione se così vicino al battesimo del fuoco arriva l’«estrema unzione» di Caporetto. E la prima sconfitta della guerra, il battesimo di una vita piena di sconfitte, di difficoltà economiche, liti familiari, incomprensioni, disoccupazione, insuccessi professionali. Quante occasioni perdute per vincere. Sinonimo di sconfitta, simbolo della resa, allegoria della vergogna, Caporetto è una parola che lo fa arrossire per tutta la vita: può impazzire a pensarci chi aveva puntato tutto sulla vittoria. Meglio morire. Ammazzate i prigionieri. Sia 64

proibito arrendersi. Un brutto ricordo: Gadda che alza le

mani. La memoria in prigionia è una spina. D'ora in poi la

vita sarà cucita col filo spinato del Lager. Non sarà possibile spezzare il ricordo della vergogna. Sale il sangue alla testa del povero cristo fatto prigioniero. È il battesimo dello scrittore in quanto prigioniero di una vergogna. Non era questa

la corona promessa a chi era partito per fare l'eroe. La vita è segnata: ogni giorno ci sarà una scaramuccia in

attesa della grande battaglia. Combatterà con la penna che è stata la sua compagna nel pericolo, anche se è convinto di perdere. Che battaglia la letteratura! A ogni parola una quota da superare. Cercando parole appena nate, parole cui dare i natali. Ne ha battezzate di parole questo prosatore che fa fuoco e fiamme per dimostrare che è nato un narratore con tutti isacramenti. Il suo Dio? La Verità. Una quota ardua da toccare, una battaglia in salita e destinata alla sconfitta, non-

ché alla prigionia di non poter rinunciare a cercarla. Dica la verità ogni parola e potrebbe venire l’epifania. Gadda ha la religione della letteratura che insegue la verità con ogni linguaggio, compreso quello miscredente. Questo buon cristiano diventerà un «delinquente» per tentare di rubare un po’ di verità con la quale continuare ad aver fede nella vita. Nome di battesimo? Frammentista? Espressionista.

CAUSA. «Qual è la ragione psicologica di questa mia attuale intolleranza?» Si getti un ponte tra questa e un’altra citazione: «Non mi dice nulla delle cause», annota il diarista.

Gadda cerca sempre prima di tutto la causa di quanto vede o sente. «Nor crediamo che siano arcani i mali, no: i mali ven-

gono per lo più da asineria.» La si smetta di fare gli asini dinanzi ai mali e si cerchino invece le cause. Va svelato l’arcano dell’intolleranza, del male ignoto o invisibile. Guerra all’asineria di chi si rassegna. Il positivista non ha dubbi: chi conosce le cause del suo male può sperare di guarire. Gadda però indica, come causa, l’ipersensibilità, che è un effetto. Si

è asini, se si cerca l’arcano del Novecento col meccanicismo positivista. Non basta essere maestri di una scienza che non

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ha più i mezzi per capire e curare l’arcano che fa tanto male. Si resta sempre asini dinanzi a certi mali della vita come la nevrastenia di Gadda. Non basta una gran testa per capire l’arcano. Il corpo è un brutto animale ma manda oscuri segnali da interpretare. Con una psicologia diversa da quella positivista qualcosa si può capire dell’«intolleranza» di Gadda. Poi egli diventerà più tollerante (quanti punti di vista in assenza di una sola verità!) ma la sua intolleranza è ancora «attuale». Si può scendere a guardare ma quel male è sempre «invisibile». Gadda non lo vede ma ha intuito che quello è «il male del secolo». Tocca stargli addosso, stargli sopra, sentirne l'energia malata. La scrittura di Gadda perde la testa a contatto con l’arcano, con l'invisibile male. È per «asineria» che Gadda non confessa la causa o perché la ignora? DIARIO. «Ob! Con quali parole, con quali affermazioni potrò smentire la taccia di vile che mi sarà fatta in eterno? Qual forza di chiacchiere o di sdegnoso silenzio potrà conferire altrui la certezza ch'io fossi un bravo soldato? Nessun documento mi rimane, nessun ricordo della mia vita nelle batta-

glie. Non fotografie, non lettere di superiori, non premi di sorta. Avendo girato di qua e di là, in diversi reparti, come potrei rintracciare i capi che mi hanno visto al mio posto? Come, d'altronde, potrei pregarli d’una testimonianza efficace? Il mio diario del Carso, le carte topografiche, gli schizzi, sono andati preda dei tedeschi... Così tornerò, se tornerò, a capo chino tra migliaia di traditori e di cani, di puttanieri da café chantant, di istruttori di reclute a base di bordello e di fiaschi in batteria, di eroi dei comandi di divisione, di araldi della vita comoda e quieta, fra le congratulazioni per lo scampato pericolo e le esortazioni a ben continuare nella vita.» Il diario come documento di vita. La testimonianza, il testimone della propria causa: il diario come prova a favore nel processo che Gadda si intenta. Dalla guerra, da Caporetto e dalla prigionia Gadda torna alla vita nello stato d’animo di chi preferirebbe essere morto. Non è un gran

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conforto per lui la vita scriverla, se non è riuscito a viverla come si deve. Per questo diarista più della scrittura conta l’azione ma è la scrittura la sua migliore azione. Una scrittura che fa a cazzotti in difesa di ciò in cui crede. Lo pretende la sua natura, come dire?, «conflittuale», lo vuole la sua cultura (nazionalismo, interventismo, D’ Annunzio, magari più in-

direttamente l’attivismo futurista). Ad entrambe mancherà l’azione, il clima elettrico della battaglia. E Gadda, se non nella vita, darà battaglia nella letteratura. Non è mai vile questa prosa che le canta tutte ai superiori. «Tutto questo diario potrà parermi o pare ad altri melodrammatico ed è, purtroppo, soltanto vero.» Del melodramma

il Giornale ha le romanze (particolarmente belle, eloquenti, strazianti, urlate quelle della prigionia). Ma non trascurate il recitativo (più abbondante nella prima parte), senza il quale la romanza non ha appoggio per gli acuti che trapanano il cervello. Solo così può fargli capire cose che in tono dimesso non gli entrerebbero in testa. Gadda dice tutta la verità di cui è capace ma gli è indispensabile la musica. Ha un bel ritmo anche il recitativo, la prosa descrittiva e analitica, ma la verità

passa attraverso le ariette. Comunque sono dei cicloni gli acuti di Gadda. Dicono il vero e insieme lo nascondono. Perché urla così il libretto? Perché quando finisce il maltempo e c’è silenzio, il diarista fa tesoro di quanto ha visto illuminato dalle folgori. Gadda scrive il diario per conoscersi. Prima di mettere sulla carta quello che è successo non capiva come egli era fatto. La letteratura serve a dire la verità negata alla vita, alla testimonianza orale. Vivetela intensamente la vita, ma, se volete intenderne il senso, scrivetela. E che Dio ve la mandi buona, cioè vi mandi la buona scrittura, quella che dà parole e musica per il melodramma dell’inconscio. (Vivete la vita e scrivetela, con sentimento. Con quale? Il DOLORE. «Soffro per la famiglia, per la patria, specie nei gravi momenti: allora anzi l'angoscia mi prende alla strozza. Ma il dolor bestiale, il macigno che devo reggere più grave, la rabbia porca, è quella, che già dissi: è il mancare all’azione, è l'essere immobile mentre gli altri combattono, è il non più potermi 67

gettare nel pericolo, ch'ero venuto ad amare sopra ogni cosa.» Conosce ogni dolore uno che «si mette fuori combattimento da se stesso». Duole tutto a Gadda: la testa, lo stomaco, le gambe, il cuore ecc. Darebbe l’anima al diavolo per non soffrire, ma è proprio l’anima a procurargli tutti quei dolori del corpo. Nell’azione militare Gadda vuole far correre un pericolo al corpo per dare requie alla sua anima? Ecco com'è finita la celebre coppia romantica. Gadda dichiara amore per il pericolo che gli darà morte eroica o la gloria. O questo era troppo romantico per la condizione cenciosa di un ipersensibile combattente del nuovo secolo?) EROISMO. Ecco la parola che avrebbe voluto trasformare in cosa. A Gadda par di vedere eroi in giro, ma potrebbe essere una visione, la sua visione della vita. Un desiderio?

Una chimera? Chi l’acchiappa una parola così? È sempre più vuota: non ti fanno fare l’eroe, ma è possibile l’eroismo che Gadda avrebbe voluto per sé. Ha visto qualche esempio concreto, e gli erige un monumento funebre singolare. «Tra il tumulto bavoso delle chiacchiere delle incertezze delle sciocchezze delle cecità più madornali, fra il dilagare delle ideologie diarroiche e delle speranze asinesche sui miglioramenti d’un mondo tisico marcio per forze puramente, la sua figura di uomo d'azione si leva nobilmente ed è una delle più splendide del nostro tempo: ed è tragico monito ai babbei impigliati nell’insipienza, nella incapacità di condurre un'analisi che si accosti al reale, e di proseguire conseguentemente ad una determinazione.» Un monumento funebre eretto per opposizione. Da una

parte quei babbei e inetti dei comandanti italiani, dall’altra il ritratto di un eroe inglese. Gadda immola i vivi sul rogo del combattente morto. Così vorrebbe morire Gadda, anzi così vorrebbe vivere: con qualcuno che facesse un suo ritratto alternativo a quello dei compagni d’armi. Si capisce dal diario che lui, malgrado i tanti difetti, è ben capace di «condurre un'analisi che si accosti al reale»edi trarre le conseguenti de68

cisioni? Gli dovrebbero fare un monumento e invece tutti lo stimano un minchione. Un De profundis per l'aspirante eroe. FRAMMENTI. «Questo diario non è ormai che un seguito di frammenti.» Cos'altro doveva essere? C'era un disegno in Gadda? Si aspettava forse che venisse fuori un racconto ordinato dell'impresa cui si preparava? Non ha nulla da narrare, la storia è a pezzi, scaramucce e vicende da furieri. Per ora si addice il frammento a Gadda. Non pensate al Notturno: c'è il sole e Gadda ha entrambi gli occhi aperti, almeno all’inizio, quando si sta a guardare il paesaggio. Non pensate nemmeno a «La Voce», anche se c’è una bell’aria di montagna, altezza morale e purezza di sentimenti elevati. Se la vita militare è una serie di giornate piatte, per uno che ha i nervi a fior di pelle, non c’è quasi frase che non si spezzi per la tensione. Avendo così rapidi sbalzi d’umore, ogni frammento trova sempre modo di esprimersi senza limiti di sorta. La prosa può procedere sul piano ma i migliori frammenti di Gadda comunque sono «verticali», prosa che mai giace e che non dorme. Fra i frammenti del diario ci sono parecchi schizzi. Sono neri ma non portano sempre brutte notizie. Poche linee per un disegno essenziale. Uno schema. C'è uno schema, una struttura, oltre che accanto, pure sotto il testo. Tracciate una

linea (la descrizione piana di un ambiente o di una situazione). Poi all’improvviso una forza costringe la mano a impennarsi o ad avvallarsi. Lo schizzo diventa allora un tracciato da sismografo al momento di un terremoto. Forse è un tracciato da elettrocardiogramma ma il disegno non cambia. Il paziente denuncia una nevrosi cardiaca ma non si tratta solo del cuore. È terremotata la ragione di Gadda, ha alti e bassi, furie e depressioni la sua anima. In questo c’è il tracciato della psiche di un nevrastenico che lancia schizzi di fango contro tutti. Non si risparmia. In principio ci sono le «note... stese addirittura in buona copia, come vien viene, con quei mezzi lessicografici e gram-

maticali e stilisti che» a Gadda «avanzeranno dopo la sveglia 69

antelucana, le istruzioni, le marce, i pasti copiosi, il vino e il caffè». Lui le chiama noterelle ma ci si impegna con tenacia, perseguendo l’obiettivo di una scrittura «vivida e corretta». È una felice accoppiata morale e stilistica: la correttezza di chi vuole rispettare la verità dei fatti e l'obbligo di dare vivacità a ciò che scrive. Scrivere con «un zinzino di fantasia e ragionevolezza». Gadda procede per coppie, ma c’è da attendersi il divorzio in una condizione che genera e diffonde dissennatezza, mentre la fantasia è mortificata dalla brutalità dei comportamenti. «Tanta amarezza si accoglie», nonché noia e rabbia. Parti noiose si alternano a parti rabbiose anche nel Giornale. IMBECILLE. «La miseria, l’inutilità, il grigio squallore, la bestialità degli argomenti, invogliano un povero diavolo a diventar imbecille perché la ragione non gli serve a nulla.» È in crisi il razionalista, l’illuminista non trova argomenti con cui sconfiggere la bestia, ma non s’era mai visto un imbecille che fosse anche tanto intelligente. La condizione è adatta a far perdere la ragione. All’inizio si sta muti («la lingua mi rimane ostinatamente appiccicata al palato»). Poi ci si infuria, si sproloquia, si urla da impazzire. Meglio l’imbecille, il debole di mente, che non la resa a una realtà così miserabile,

inutile, squallida e bestiale. Il povero diavolo non ha più ragioni valide da opporre, vuole provare con l’imbecillità dove la ragione fa cilecca. Prima o poi la lingua si staccherà dal palato e darà la parola alle sinora impensabili ragioni dell’inconscio. Il pensiero è debole ma Gadda dentro si sente una irresistibile energia. (Ad esempio, guardate come brucia IO [l'io]: «Porci ruf fiani, capaci solo di essere servi, e servi infedeli e servi venduti, andate al diavolo tutti. Non siete degni di chiamar vostri figli i morti eroici. Combattere tra soldati che hanno paura di una fucilata, che ingialliscono al rumore del cannone nemico, che se la

fanno addosso al pensiero di un pericolo lontano, e non perché hanno moglie e figli Inon raccontatemi mai una tal balla!] ma solo per paura personale, paura di me, paura di io, paura di esso 70

Io, del proprio Io, combattere tra questi, come sono due 0 tre dei miei giannizzeri che il diavolo li scoglioni, che gusto è?») A Gadda basta una scintilla perché risponda con una gran fiammata. In alcuni casi perde di vista gli argomenti da bruciare, ma stavolta ha illuminato il punto da cui partono i suoi spesso immotivati furori. Gadda ha un io che fa paura e che si accende al minimo attrito sulla pelle. Sul fuoco del suo io egli cucina persone, classi sociali, istituzioni. O ad attizzare il fuoco è un livello più profondo e inconscio del suo essere? Quest'uomo bruciato che sarà d’ora in poi un piromane possiede anche un forte Super-io. L’io di Gadda è schiacciato sotto il peso di responsabilità non sue. Non si nomina l’Altro per non accendere un discorso infinito. LETTERATURA.

«Non sono e non sarò mai un poeta

laureatus.» Di lauree basta quella per fare l’ingegnere. Non c'è laurea che conti per chi vuole essere un poeta. La letteratura non è una professione, meglio il «dilettante». Un diletto lo scrivere? Semmai una pena, un inferno, fuoco e gelo d’anima. In un certo senso la letteratura è un’attività contigua a quella dell’ingegnere: parole dentro una geometria, numeri, cioè musica, con molta filosofia. Letteratura illumi-

nista? Semmai letteratura di illuminazioni: «l’unica espres‘sione vivida e corretta, di cui posso rispondere, è l’espressione mediante il pensiero scritto». Meglio scrivere, tenendosi fedele ai pensieri, con il massimo di naturalezza, dicendo pane

‘al pane e vino al vino. Scrivere come mangiare e bere. Il modo più positivo di scrivere è quello, naturalistico, che nomi‘na le cose e che «fotografa le immagini». Se però queste im‘magini sono metafore, è segno che non basta la macchina fotografica o da presa. Il naturalismo, e la naturalezza espres‘siva, non hanno presa sulle cose che non si vedono ma che si sentono. Vengono prima le cose? Cercate il linguaggio adatto per comunicare con quelle cose che non hanno ancora ‘trovato le parole. «Non tutto è linguaggio, la realtà esiste e ha la forza del ‘destino. «Non occorre tanta letteratura», nemmeno se il mo71

dello è quello, per esempio, di Shakespeare, Balzac e Man-

zoni, i tre grandi che sono nella testa (o anche in mano, il

Balzac del Cugino Pons) del futuro ingegnere e del narratore di incerto futuro. Chi sente «da grande» farà la grande poesia, quella fatta secondo la logica che pensa cose nuove e le rende spontanee. Si costruisca subito il linguaggio che crea realtà, cioè destino.

(E tuttavia l’Ingegnere deve saperle legare in un LIBRO. Il Giornale si chiamerà «libro» quando sarà alla fine. Segno che lo è diventato in corso d’opera. Come sono cresciute le note con cui concludere per iscritto una giornata di marce faticose e di defatiganti pranzi! Hanno preso la loro strada i brevi appunti iniziali e sono arrivati al risultato di dar corpo a un’opera letteraria. Gadda, che ha rinunciato al tentativo di scrivere un romanzo, alla fine della guerra si ritrova in mano un libro. Un surrogato del romanzo fallito? Il romanzo di una lunga serie di frammenti che non sanno di raccontare una storia che, per il fatto d’essere frantumata, non è priva di un disegno. Non si perda d’occhio la curva di una vita che alla fine è a terra. «In questo libro, scritto tutto di prima mano, anche nei luoghi di bello stile 0 quasi, sono contenute molte notizie di piccole cose, tanto più importanti in quanto sfuggiranno alla Storia.» Piccole cose «sfuggenti» pensando alla Storia. Resteranno nella Storia queste note autobiografiche che per qualità di stile sono diventate un bel libro. Fate prigioniere queste note ed esse vi diranno della Prima Guerra Mondiale alcune piccole cose che non entrano nei libri di storia ma che fanno luce su un grande evento raccontandone la «vita quotidiana», i suoi risvolti minimi. Un diario nato con intenzio-

ni umili va a prendere le dimensioni di un «romanzo». Si «epifanizza», il trascurabile diventa essenziale, come

succede a molti grandi narratori del Novecento? Così si scrive una Storia più «vera» della guerra mondiale con le noterelle di Gadda. Non pensava ad Abba, quando cominciò a scrivere il diario. Lo stile è più bello là dove usa «brutte» parole, insulti, ingiurie, minacce, espressioni rabbiose, isteriche e 2

«dementi». Si nasconde lì l’essenza di Gadda? Non è ancora

il più bel Gadda, ma il migliore sarà sempre il Gadda cattivo.)

MERDE. «Sono sparse, di tutte colori, d’ogni qualità e consistenza, nei gli accampamenti: gialle, nere, cenere, de, solide ecc.» Non la guerra come

le dimensioni, forme, dintorni immediati descure, bronzine, liquiopera d’arte, nessuna

estetizzazione della guerra. Lo scrittore guarda sempre dove mette i piedi, oltre che le parole e i pensieri. D'Annunzio no, ma Ungaretti sì che notava le merde sparse per i campi di battaglia, anzi ci faceva poesia. Ebbene, Gadda dedica loro questo frammento di prosa per descriverne colore e consistenza. Dall’analisi gli risulta che tra i soldati ci sono anche dei valorosi, ci sono dei coraggiosi: non tutti, è evidente, hanno la diarrea. A questo scrittore visivo non sfugge che i combattenti, al contrario dei cavalieri erranti, mangiano, e naturalmente cacano, spesso cora77 populo, specialmente il popolo dei soldati: gli ufficiali no, loro hanno un cesso privato dove non si vede che hanno la dissenteria, magari per il panico. È diversa la classe, gli ufficiali non faranno mai vedere che se la fanno addosso. Come farebbero sennò i soldati ad avere il morale alle stelle? Cacano sangue solo i poveri soldati, più qualche ufficiale ipersensibile come Gadda, che non è andato in guerra per fare poesia bensì per ragioni etiche e politiche. Una condizione veramente poco estetica.

Gadda ha lo stesso privilegio, non ha il morale alle stelle, ma c’è differenza. In qualunque modo impegni il corpo, ci mette l’anima. Gli era toccata in sorte una guerra immon-

da: cosa da impazzire o da farsi venir il mal di stomaco, o giù di lì. La mente ci può anche stare, la fede c’è e la volontà non manca? E allora chi lo tradisce è il corpo, che si ribella. Questo traditore poi è anche un delatore. Il corpo di Gadda insomma fa la spia. La diarrea è la spia di una condizione che giustamente lo scrittore ha definito «merdosa». È il corpo ad avere intuito per primo che qualcosa non andava, che quella guerra non era fatta per lui, e che magari 73

la vita sarà sempre così schifosa per tutti, se non la si cambia. In prigionia si vede di meno, ci sono le latrine, ma la sostan-

za è sempre la stessa. Un’esistenza nauseante. Lo avverte

non solo il naso ma tutto il corpo, il corpo di tutti, ovviamente, di tutti quelli che hanno sensibilità. Nessuno approfitti della descrizione minuziosa per dire che Gadda non ha fiuto. Forse non ha tatto ma lui chiama le cose con il loro nome «terrestre». Segue il consiglio di un poeta maledetto, Verlaine: dite pane al pane, vino al vino e merda alla merda. Altrove accenna al letame, nel quale Savinio aveva ricordato esserci morto Eraclito. La grande narrativa del Novecento si concima anche così. (Forse sarebbe stato più elegante affidare la rappresentanza della M a MATEMATICA. «Se avessi una decisa avversione per la matematica, sarei un uomo felice: mi getterei freneticamente sul lavoro filosofico e letterario: ma tanto più mi piace la matematica, e la meccanica razionale, e la fisica, e tanto più là dove più si elabora e si raffina l’analisi. Così l’un lavoro mi distrarrà dall'altra e non concluderò mai nulla.» Gadda sarà

sempre forte in geometria, l’analisi non potrebbe essere più raffinata, ma perché il teorema non trova la soluzione? Questo frenetico si getterà sul lavoro filosofico e letterario: il ri-

sultato è eccellente ma i numeri sono irrazionali. Anche le parole, che non saranno mai meccaniche. La risposta alla fisica, alla microfisica, quella delle particelle atomiche, di cui

si ignorano velocità e direzione. Gadda non ha sbagliato strada, non ha sbagliato letteratura. L’aritmetica dà i numeri, ma la geometria dà forma ed equilibrio all'insieme. La meccanica razionale della narrazione. E razionale che nella prosa di diario e di racconto ci siano anche i numeri del reggimento, della compagnia e della quota alpina. Si fa buona prosa con tutto, se lo scrittore ha i numeri. Non si scrive solo con le parole, solo col vocabolario. Sia preciso ogni più piccolo o grande dettaglio, e con esso magari puoi dare i numeri, ma guai a dimenticare la meccani-

ca con cui, dando ordine e razionalità a tutti i pezzi diversi, il

racconto procede. Bisogna evitare che vada in folle. Ve lo at74

tira un motore che è spesso su di giri. Come è difficile tenere la mano quando è così vertiginosa la velocità del pensiero!) In un diario di guerra non può mancare la MORTE. La morte in guerra è dappertutto, e tuttavia nel diario non si vede. Più forte la paura di morire. Si muore eroicamente o da vili. Ci si fa l’abitudine e non c’è dolore. La morte per cui Gadda soffre di più non la vede: quella del fratello. Si sente morire ma intanto per il dolore è come se morisse la madre, alla quale è stato sottratto il figlio adorato. Nessuno gli dà la morte? Gadda se la darebbe da sé, ma ha fatto l’abitudine al-

l’idea del suicidio. Il rimosso del sopravvissuto. MADRE.

Questa è una storia in otto scene. Manca l’e-

pilogo, ma c’è l’antefatto. Che potrebbe essere il proemio della narrativa di Gadda. Scena prima. Gadda è seduto al tavolino per scrivere il diario dopo una giornata faticosa. Ha un pensiero assillante, non pensa quasi ad altro. Scrive con la sincerità di uno che non ha motivo per non dire tutta la verità in un quaderno che nessuno leggerà: «Penso soprattutto alla mamma». Il ventiduenne sottotenente Gadda ha nostalgia della madre lontana. La ricorda spesso, le manda lettere e soldi. Una madre che si fa sentire anche a grande distanza, che ispira un forte sentimento nel figlio: è un debole e ha un debole per la mamma troppo forte. Una mamma sempre presente, sia pure nel pensiero: un sostegno nelle depressioni e nella solitudine. Che dolore aver dimenticato il suo compleanno! Una madre che non si fa rimuovere. Scena seconda. C’è un verbo con cui Gadda definisce il suo affetto per la madre: venerare. Da Venere, dea dell’amore? Sentire nella madre una divinità. Gadda sente un amore sovrumano per la madre adorata e venerata. Il credente è in ginocchio dinanzi a una madre che egli stesso mette sull’altare. Non si può toccare una donna posta così in alto. C'è un serpente sotto il piede della donna eccelsa? Gadda è schiacciato da una così pesante figura materna. Scena terza. Molto tempo dopo Gadda tira fuori il ro79)

spo. La madre ha una colpa grave: non ha fatto niente per capire il figlio, si è rassegnata subito a considerarlo un imbranato, un inetto. Forse lo ritiene pure lei, come i colleghi di Carlo Emilio, un minchione.

Con la massima

cautela

Gadda lancia l’accusa: «La mia adorata mamma essa stessa non mi ha compreso; ciò anche perché io sono essenzialmente infelice nel contegno e nell'espressione; l’unica espressione vivida e corretta, di cui posso rispondere, è l’espressione mediante il pensiero scritto». Si è accontentata di giudicarlo dalla goffaggine delle azioni, dall’impaccio di discorsi confusi. Una madre può non sapere interpretare il linguaggio del corpo del figlio? Gadda capisce che deve scrivere se vuole essere compreso. Basterà essere vividi e corretti per far capi-

re l’arcano della psiche del «minchione»? Scena quarta. «La luce del giorno si dilegua nella pianura come le speranze fuggenti della mia gioventù e della mia milizia, come le ragioni della vita. Ho afferrato questo dilaniato intesto di clamorosi piagnistei, perché nel tramonto di tutte le luci il pensiero della mamma mi tirava a dire una preghiera per lei e a venerarla nell'animo. Ma Raspaldo è sopraggiunto, poi ha frugato nella cassa, poi è venuto Nani e m'ha consigliato di passeggiare, poi Raspaldo mastica galletta come un cavallo carrubbe, Bruno fa il caffè, e l'incanto è sparito, e la mamma è più lontana che mai; e io più solo, più povero, più arrabbiato. Vedo il martirio prolungarsi e smarrisco la percezione di un futuro che non sia carcere.»

Scena quinta. E morto «l’adorato Enricotto». Da allora la madre non si è più ripresa. Non la consola la presenza dell’altro figlio, di Carlo Emilio, e della figlia Clara. Anzi, è come se non ci fossero, come se non fossero mai nati. Il figlio per lei era Enrico, altro non le interessa. E Carlo Emilio ne soffre e

se ne lamenta: «Vuol più bene ai muri di Longone, alle seggiole di Milano, che a me, che a Clara malata». Verrebbe voglia di trasformarsi in un muro, in un oggetto, per il dolore. Tocca essere freddi. E dissimulatori. Si può dissimulare l’angoscia del figlio abbandonato? Gadda finge d’essere gelido, la lava è una roccia, ma la mente di Gadda è sempre più fragile. 76

Scena sesta. Inutile parlare alla madre del figlio morto. È

schiantata, non segue i discorsi di Carlo Emilio, non ha la testa per i suoi progetti, né per altri scopi. «La mamma mi dis-

se delle parole senza senso, e basta.» La madre ha perso i sensi, ha perso i suoi sentimenti, da quando è morto l’adorato Enrico. E Carlo Emilio ricorda l'episodio, Carlo Emilio non dimentica. Se ne ricorderà l’autore nella Cognizione del dolore. Non basta a Carlo Emilio una madre insensata, una ma-

dre che ha smesso di guidare con parole chiare e perentorie. Si comunica con lei scrivendo parole prive di senso? Scena settima. È possibile ricondurre la madre alla ragione, riconquistarla all’affetto del figlio sopravvissuto alla guerra? Gadda insiste, prova a coinvolgerla: perché non tentare una ricostruzione della vita di Enrico con fotografie, documenti, lettere ecc.? «Cor la caparbietà dei maniaci ella non ne vuol sentire; ogni accenno, ogni insistenza finisce in una

scenata.» Manie, coazioni a ripetere, e infine urla rabbiose e parossistiche. Urla anche Carlo Emilio, il figlio respinto. Fanno scenate ormai sia la madre che il figlio. Incomincia la tragedia delle ossessioni. Scena ottava. Il comportamento della madre è intollerabile. Gadda ha consumato la sua bontà filiale, non intende

essere più un buon figlio, nella sua demenza avverte d’essere capace di tutto, magari anche di ferire la madre che non fa nulla perché Carlo Emilio si senta figlio come un altro. Naturalmente è geloso di un affetto così profondo, di un amore che lo esclude e che anzi lo annienta. Sono parole, Gadda non alzerebbe un dito sulla madre adorata, anche se essa ha la colpa di non averlo compreso, ma confessa che non prevede nulla di buono per i loro rapporti futuri. «Con la Mamma fui cattivo e prevedo che sarò sempre, perché troppe divergenze abbiamo su tutto.» Si preannuncia un crudele conflitto fra madre e figlio (o è uno che sarà sempre un figlioletto chi dice: «fui cattivo»?). Ci saranno divergenze

con la madre in tutti i libri di Gadda. Attenti all’iniziale maiu-

scola: con una Mamma così ormai ci saranno divergenze e

cattiverie per motivi maiuscoli o minuscoli. Questa la previ-

TA

sione, la profezia che si avvererà. Carlo Emilio sarà cattivo con la Mamma, con ogni Mamma. Nei suoi romanzi le madri muoiono per mano o per micidiale desiderio di figli legittimi, naturali o adottivi che sono solo inconsciamente cattivi. «Cattivi» anche nel senso latino di prigionieri? Il prigioniero di un sentimento così radicato e potente non sarà mai

libero. Da prigioniero che non potrà mai lasciare il carcere Carlo Emilio sarà cattivo con tutto il mondo, con la vita stes-

sa oltre che con chi gliel'ha data. Questa però è una storia che va raccontata non solo per frammenti. Nei frammenti del Giornale potete comunque vedere i germi patogeni dei due romanzi maggiori di Gadda. NEVROSI.

«La nevrosi cardiaca è una cosa non nuova

in me e proviene dall'aver troppo, troppo patito di male d'ogni qualità, anche nell'infanzia; i miei dolori, i miei terrori infantili sono stati troppo forti, tanto più per il mio temperamento

ipersensibile, e banno devastato il mio organismo morale e minato il mio organismo fisico. Nell’adolescenza e negli ultimi tempi le cause di dolore, di schianto tragico, hanno raggiunto la violenza tambureggiante di un fuoco di annientamento.» Anche le metafore sono andate in guerra. Devastato, minato, fuoco di annientamento. Colpisce al cuore la nevrosi. Gadda però è minato dall’infanzia. Bisognerebbe chiamare lo psicoanalista, ma nessuno spegnerà mai questo fuoco. Per la nevrosi la frase si mette a tambureggiare con sempre maggiore violenza, finché Gadda non si sente annientato. Uno schianto, poi il nulla. Non regge il cuore, troppo forte il dolore, l’anima è devastata. C'è una mina che esplode dentro

Gadda. La miccia era accesa dalla nascita, nel grembo materno ha origine quel fuoco. E il tamburo ribatte l’idea che non si può vivere così, con niente. Non basta certo la guerra delle parole, la deflagrazione delle metafore. La più bella vita? La guerra che annienta e che esalta.

ORDINE. Il disordine gli dà sui nervi, basta un foglio di carta fuori posto per fargli venire una crisi isterica. Persi78

no in trincea, se tutto non è a posto, Gadda urla. C'è sempre qualcuno che mette in pericolo l’ordine del mondo. Quale

ordine? L’«ordine naturale delle cose», le cose che stanno al

loro posto. Anche la pioggia ha una sua logica. «Esse bufere erano nell'ordine naturale delle cose e io in loro ero al mio posto; io sono atterrito al pensiero che il soffitto del mio abituro sgocciola sulle mie gambe: perché quella porca ruffiana acqua lè è fuor di luogo, non dovrebbe esserci, perché lo scopo del baracchino è appunto quello di ripararmi dalle fucilate e dalla pioggia. Sicché, per non morir nevrastenico, mi do all’apatia.» Gadda è pure lui un po’ liquido se si atterrisce al pensiero dello sgocciolare di un soffitto. Qualcuno ha costruito male il baracchino della sua mente o qualcuno lo ha bucato. E possibile ripararlo, si può porre riparo a quel disordine da cui arrivano fucilate? Le alternative sono l’apatia, che funziona se il caos è la «porca ruffiana acqua», o la nevrastenia,

il naufragio della ragione. Certo quest’acqua ha provocato una bufera nell’anima di Gadda. Bisognerebbe domandare a Bachelard se significa qualcosa quel diluvio di parole per poche gocce d’acqua. Chi ha costruito così male questo Gadda che fa acqua da tutte le parti, fuori dall’ordine naturale degli uomini? E possibile ripararlo? Non basterà un tappabuchi per rimettere in ordine un cervello che cola giù così. È colpa dell’acqua? Che senso ha questo liquido? PERICOLO. Questo vile sottotenente che è Gadda ama il pericolo, dichiara nel segreto del diario nostalgia della battaglia, confessa di provare godimento fisico e fantastico quando affronta un pericolo mortale. «Certo le wzie capacità militari sono poche: ma appena sento il rumore della battaglia, appena i cannoni urlano nelle foreste, una specie di commozione sovrumana mi pervade l’anima: appena la fucileria tambureggiante si fonde in un solo boato, l’ardore della lot-

ta mi prende, sotto forma d'un moltiplicarsi della energia, del-

la volontà, del vigore fisico, della spensieratezza e dell'entu-

siasmo... Sotto ilfuoco, presente, immediato, provo il tormen-

79

to che prova ogni animale nel pericolo: ma prima vi è solo il desiderio di fare, di fare qualche cosa per questa porca patria, di elevarmi nell'azione, di nobilitare in qualche maniera quel sacco di cenci che il destino vorrebbe fare di me.» È questa la santa guerra di Gadda, la sua guerra santa, il momento più felice della vita di Gadda, la sua «più bella vita». La guerra al naturale, come quella di un animale, l’animale che nel pericolo ha paura ma che vi si butta da spensierato, cioè senza darsi pensiero dello scopo. Il pensiero va alla patria, ma l’azione di Gadda è un’altra: scaricare energia, fulminare persone e cose, provocare incendi esterni della stessa forza di quelli che gli bruciano l’anima. PRIGIONIA.

Colui che scalpitava per entrare in azio-

ne è ora in un Lager. L’aspirante eroe è stato sconfitto e si è arreso. Un intero esercito ha alzato le mani disarmate, ma

come è caduto in basso il sottotenente Gadda. Studia il tedesco, ma figurarsi, ancora parole: come si dice nelle altre lingue vergogna? Non che abbia più colpe degli altri: il proprio dovere l’ha fatto sempre come si deve, ma ora che conta? La bandiera bianca è un cencio. Non ci sarà altra tela da tessere. Non c’è più il gomitolo, lo gnommero verrà dopo. Non serve più la camicia di forza per trattenere quel pazzo di Gadda. Il suo discorso è come dietro le sbarre, non può scappare, ma pensa sempre alla fuga dal Lager, dal campo in cui si concentra ogni suo pensiero.

Gadda vorrebbe andare lontano da ogni prigionia, non solo quella cui l’ha portato Caporetto. Ancora non sa che sta combattendo contro un mostro maggiore della vergogna d’essere stato malamente sconfitto e preso prigioniero. Ora è prigioniero di una cultura che ha perso, di una lingua disarmata, di una sintassi troppo stretta, di un lessico denutri-

to. E invece il prigioniero deve dire una cosa per cui non ci sono ancora le parole e forse non ci sono parole. Nella disperazione e nella depressione la prosa scorre fluente e brucia l’anima. O meglio è questa che è in fiamme, e si alimenta con ogni materiale culturale che incontra sul 80

proprio cammino. Prende fuoco anche il dato più insignificante della realtà e lascia le ceneri, su cui lo scrittore indiriz-

za il proprio soffio. Gadda tenta, se non di spegnere, di circoscrivere l’incendio. Contro questo nulla può fare, ma allora ogni suo sforzo è indirizzato a imprigionare il fuoco attizzato dall’interno, dal profondo di un’anima che si sente all'inferno. Gadda bestemmia contro il destino che gli assicura una futura vita cenciosa, ed è quasi sull’orlo della follia il giovane sottotenente nel quale si sono alleati nemici esterni ed interni. Com'è povera la lingua che deve esprimere quello spettacolo di devastazione! Che fatica per la sintassi tenere a bada quel magma rovente! E tuttavia questo sarà d’ora in poi il suo destino: limitare l’incendio, buttare sabbia sopra, co-

prirlo, nasconderlo. Gadda sa che dentro non cesserà mai di bruciare, che è imprigionato, e non sarà mai liberato. Si sentirà l’urlo, ma sarà soffocato da parole che, per non diventa-

re assordanti, faranno di tutto per distrarre l’attenzione. Magari a furia di metafore, immagini che celano per illuminare. QUOTA. Che nostalgia dell’alta quota in cui si respirava un’altra aria! Gadda aveva alzato il tiro all’arrivo in prima linea. Tutte quelle cime che fanno da orizzonte debbono essere conquistate. La guerra si combatte in salita specialmente per l’esercito italiano, che si arrende di fronte a compiti elevati. Tuttavia in mezzo alle cannonate l’ansia concede la tregua. Finalmente anche per lui il dilemma quotidiano della guerra degli uomini di animo elevato: vincere o morire. Di vincere non se ne parla nemmeno, e in quanto a morire è

più facile parlarne. Oltre la cima c’è il nemico, dietro ogni ostacolo c'è un avversario, e non di rado sono un ostacolo i compatriotti.

Torna la depressione in prigionia e subito tocca il fondo. Si solleva il ritmo della prosa ma prende quota l'angoscia. Dilaga nella pagina e travolge tutto, persino il sentimento di solidarietà e di pietà per i morti, che ora lo lasciano quasi indifferente. Gadda scrive in modo febbrile, la temperatura è 81

a livello di fusione, e in quel caos liquido che è la sua mente lo scrittore annegherebbe volentieri. Galleggia per forza di volontà l’amore di patria, ultimo appoggio nel naufragio e pare affondato l’affetto per la madre troppo autoritaria, che sembra amare lui meno della casa in Brianza. Che senso ha tornare a casa, tornare in patria?

Perde quota chi aveva volato verso l’eroismo, precipita ogni desiderio di grandezza, ed è una catastrofe l’impatto del prigioniero con una condizione che non decollerà mai più. Sale e scende anche la frase. Parte dal basso e risale come per alti gradini, ma scalati con la velocità di chi invece precipita. RAGIONE.

In mezzo

alla dissennatezza

generale,

Gadda conserva fiducia nella ragione umana: «... ir tutti, an-

che nei miserabili, v’è un po’ di ragione, 0 almeno la logica della realtà». Non debbono essere mai trascurate le ragioni degli altri da chi diffida del proprio punto di vista, delle proprie ragioni, nonché della propria ragione: il soggetto teme di impazzire dinanzi all’irragionevolezza della vita e del mondo. Se in tutti v'è un po’ di ragione, tocca andare a cercarla anche nei miserabili: magari attraverso più punti di vista. Tuttavia per ora lo scrittore del Grorzale vede solo coi propri occhi e pensa solo con la propria testa. Forse per questo egli così spesso sragiona diventando un visionario del proprio intollerante punto di vista. Non ci sono più buone ragioni per con-

tinuare a comportarsi così. Bisogna mettersi alla ricerca delle ragioni degli altri. E possibile dare ragione all’irrazionale? C'è da impazzire ma non è il peggio che possa capitare. ROMANZO.

C'è un rapido accenno all’intenzione di

scriverne uno. Di solito Gadda i romanzi non li finisce, ma

talvolta nemmeno li comincia. Ha capito però che ha in mano la materia. Ci sono già alcuni racconti, autobiografia, vita vissuta, ma che romanzo la guerra! Si può leggere come un romanzo Gyornale di guerra e di prigionia? Se basta che ci siano svolgimento, sviluppo, inizio e fine, intreccio, c’è tutto questo e anche altro: compresa la differenza fra ciò che s’è 82

scritto e ciò che s'è veramente detto. Si legga il Giornale di guerra e di prigionia come la storia di uno che è andato volontario al fronte per procurarsi la grandezza di cui si sente degno e che invece alla fine registra una totale sconfitta, anche se il suo paese è uscito vittorioso dalla guerra. È pure la storia di uno che si guarda curioso intorno e che finisce per guardare solo in se stesso, nel proprio profondo, da dove partono richieste d’aiuto. Vince l’interno, l’inconscio, il male invisibile.

E visibile lo sfacelo generale, ma Gadda non scende a guardare per quale motivo veramente l’anima urla tanto. Si limita a segnalare come scotta la superficie, traduce in ragioni concrete i suoi irragionevoli furori. Cerca cause storiche, ma grida la natura. Perché è incompresa? È troppo compressa? RISO. Chi l'avrebbe detto leggendo il Giornale? Gadda si attribuisce «facilità al riso e allo scherzo». Nel diario però la fa sempre tragica, dolori, disperazione, rabbia, nevrastenia, terrori, sofferenze, pianti, bestemmie. Mai un sorriso, mai una battuta scherzosa (magari un capitano storpiato in «gabidano»). Mette per iscritto che gli piace ridere ma non scrive nulla di comico. La guerra raggela il riso, troppo forte la paura perché uno ci rida sopra fino al momento in cui si siede a scrivere. La comicità è solo orale? Per

ora Gadda ride solo con la bocca ma fra qualche tempo riscoprirà il piacere di ridere. E allora saranno dolori per i suoi nemici.

Gadda fa «troppi scherzi», almeno così dice lui. Questa è la sua inclinazione, e dev’esser vero, se lo ripete uno che del dire la verità sgradevole anche su se stesso ha fatto una indelebile verità morale. Tuttavia non c’è pagina del diario in cui si scherzi. Gadda prende maledettamente sul serio tutto ciò che riguarda la guerra e non apre mai bocca per ridere. Lo reputa disdicevole: suppergiù come quella volta che ricevette una lettera di un amico, allegra e simpatica, ma da includere fra le «pazze scritture». Sembrano più pazze le scuse di Gadda. 83

«Se un giorno queste lettere dovessero conoscersi, potrebbero sembrar miserabili rispetto al tempo in cui furono scritte: ma in esse si esprimono solo quei sentimenti che la lontanan-

za vieta di altrimenti manifestare, solo quelle sciocchezze che allegrano talora la nostra antica conversazione; non è tutta la

nostra vita, tutto il nostro animo che vi si contiene: la parte migliore dei nostri sentimenti vi è quasi estranea, come se adombrasse di venir tratta ad accompagnare cose meno alte.» Dunque v'è una stagione adatta alla comicità, e ci sono stagioni in cui bisogna fare seriamente. La comicità è cosa

«meno alta», esprime la parte meno nobile dei sentimenti umani? Intanto il diario segnala che il ridicolo investe atteggiamenti, idee e discorsi di ufficiali, di politici e magari anche dello stesso Gadda, che però non racconta nulla che possa suscitare ilarità. Il momento è drammatico, il diario non ride: il massacro dei valori costituiti c'è ma non è comico. Ecco: per ora la comicità è accantonata, o meglio, rimossa, messa sotto, tra le cose meno elevate. Gadda farà la tra-

gedia tutte le volte che non è serio fare la commedia. Però lui per natura non è negato allo scherzo, al gioco, al riso e a tante altre «bassezze» del genere di Quer pasticciaccio o di alcuni episodi della Cognizione del dolore. SOPRAVVIVENZA. «Questo tutto che mi circonda è un’inutile e stupida sopravvivenza.» Non è ancora finita ma quanto durerà la stupida esistenza dell’arrabbiato? («La r2i4 più bella vita è finita in questa rabbia senza fine.») E venuta meno la voglia di scrivere che per Gadda è quasi una ragione di vita. «Non voglio più scrivere; ricordo troppo.» La minaccia è anche una promessa? Se tornerà a scrivere, sarà letteratura di memoria? Sono i ricordi di un rimorso,

di un rimosso che sarebbe troppo riportare alla mente? Scriverà d’altro, quando gli tornerà la voglia di scrivere? E scomparsa la curiosità per il mondo esterno sul quale scaricava un bel po’ di tensione, l’ipersensibilità e altro. «Paralisi assoluta di ogni emotività per il paesaggio, i luoghi nuovi, ecc. di solito in me così viva.» Tregua sul mondo esterno, la 84

guerra si è trasferita all’interno dello scrittore ed è stata persa. «Non ho tempo né voglia di notare i particolari di questo terribile periodo della mia vita.» Lo stato generale è lancinante. «Così non si vive, non si può vivere.» Così come? Non si può

vivere da prigioniero? «Molte cose non potrò esprimere con

l'intensità che vorrei, perché il dolore prostra, vuota, abbrutisce, distrugge, come dell'acido solforico versato sull’anima. Non resta più niente, se non la faccia della morte, che vorrei prossima e liberatrice... Vada la barca dove vuole, non me ne importa più nulla! Io non sono più un uomo.» Quello che sopravvive è un uomo diverso. Muore una cultura. Se ne faccia subito un’altra. Versate l'acido solforico, e venga pure la morte. TRIVIALONE. Gadda è ancora nel Lager, prigioniero di giudizi negativi dei compagni di sventura. «La maggior parte delle persone mi credono un ragazzo e un trivialone.» Gadda, come disse Joyce di se stesso, è non solo triviale ma anche quadriviale, conosce bene cioè le arti del trivio e del quadrivio, ma i commilitoni, che pur hanno intuito la natura infantile di Gadda, lo considerano un minchione.

«Io credo che i miei compagni si sono fatti della mia levatura intellettuale la seguente idea: minchione, perché non parlo e qualche volta faccio delle domande ingenue (per vedere come rimangon gli altri) e perché accetto troppo gli scherzi, per pigrizia e anche per non provocare bizze e malumori, il che reputo un dovere; buon geometra che non vede al di là

dell’ettaro; teorema di Pitagora, macchina a vapore (biblioteca per tutti), un po’ di campanelli elettrici, polo positivo e polo negativo.» Tuttavia il «minchione» è capace di diventare teste d’accusa contro se stesso in pagine dove non controlla i nervi. Che sia elettrico, lo si sente subito dalla scossa che le sue biz-

ze danno. Collocandosi poi sui poli opposti, talvolta dà la luce ma più spesso va in corto circuito. E allora non vede più di un ettaro di terreno un uomo che pure sa vedere molto più lontano degli altri. Gadda non è uno, non è nessuno e non è nemmeno centomila persone differenti, ma ci sono 85

tanti Gadda quanti emergono dalle varie situazioni con cui ha impatto. Sicuramente c’è un altro Gadda. C'è il «ragazzo» uscito da poco tempo dall’infanzia. Parla, altro che se

parla questo ragazzo ancora infantile, e si esprime con am-

mirevole ricchezza di vocaboli, con duttile sintassi e con precoce maturità intellettuale. Pensate alla quinta delle maniere che Gadda nel Racconto italiano d’ignoto del Novecento considera a lui più familiari: «la maniera cretina, che è fresca, puerile, mitica, omerica, con tracce di simbolismo, con stu-

pefazione-innocenza-ingenuità. E lo stile di un bambino che vede il mondo, e che sapesse già scrivere». Un bambino cresciuto, che sa scrivere come un grande. UMILI. «Sono nato alla vita collettiva: a una vita collettiva di miei pari, intendo dire di persone che avessero il mio animo: e ne ho incontrate, sopra tutto fra gli umili.» Li preferisce ai superiori e ai colleghi il manzoniano che Gadda sarebbe stato sempre, dall’adolescenza alla morte. Lo scrittore va verso il popolo? Gadda è pure capace di andargli contro, se gli pare che se lo meriti. Gadda non è un democratico, ed è antisocialista come lo era quasi sempre l’interventista e il nazionalista, ma nel suo «ordine naturale delle cose» c’è la

parità dei diritti di tutti gli uomini. Non ci sarà uguaglianza sociale, non si illude, gli umili staranno sempre sotto i ricchi

e i potenti, ma il manzoniano Gadda fraternizza meglio con loro che non con gli ufficiali di piccola e media borghesia. Lui con gli umili ci sa parlare, e l'umile linguaggio è un fecondo modello espressivo per il futuro narratore. Come tutti quei contadini che gli stanno accanto in trincea anche lo scrittore va a procurarsi le parole nel terreno che le rende più nutrienti. Coi linguaggi bassi il Novecento sa esprimere le idee più elevate per la collettività. Gli umili sono più vicini a Dio? Il linguaggio umile avvicina alla verità. O per lo meno alla realtà più profonda, al suo destino.

VERTIGINOSAMENTE.

(«È un pensiero facile, certa-

mente: si tratta di fotografare cose e immagini, ma ho scritto 86

un'oretta, vertiginosamente.») Gadda è preso dalle vertigini, anche se pensa idee facili e se fotografa cose che ha sotto gli occhi. «La penna arriva a stento a seguire il mio pensiero.»

Che cosa lo spinge l’aveva appena detto: il crescente «odio livido, immoderato, senza fine in eterno, contro i cani assassini

che hanno consegnato al nemico tanta parte della patria, tanti dei loro, tanti anni della nostra vita». Gadda scrive vertiginosamente se pensa 0 vede cose che accendono la sua rabbia. Il pensiero è facile, quasi ovvio, ma lui si scatena per moventi ben più profondi che non le cose che fotografa. Un fiammifero sul petrolio. Ne vengono fuori di fiamme non appena lo scrittore avvicina una mente che ha il fuoco dentro. «Cari, vili, che mi hanno lacerato e insultato, possano morir tisici, di

fame: sarebbe poco. Ne conosco alcuni: se li vedessi morire riderei di gioia. Li odio ben più dei tedeschi; vorrei essere un dittatore per mandarli al patibolo.» In superficie il fuoco può essere stato acceso da queste o altre persone, ma Gadda incendierebbe tutto il mondo, manderebbe al patibolo tutti i generali, i superiori e quelli di uguale grado (forse potrebbe salvare i soldati, umili vittime della dissennatezza dei capi). In un irrefrenabile crescendo la furia di Gadda non risparmia nulla della vita che sta fotografando. Il facile pensiero che anticipa una vertiginosa penna è la distruzione globale, un immenso patibolo da cui far pendere tutti i colpevoli, cioè tutti. Questo è il senso, anzitutto questa è la musica ver-

tiginosa di un libretto le cui parole possono appena suggerire lo straziante tormento che è il male invisibile. Si sente maturo per il suicidio. Se non altro annuncia quello dello scrittore: Gadda non scriverà più queste note autobiografiche. E non scriverà più «vertiginosamente». Sarà freddo, dissimulatore e si impunterà su ogni parola come un mulo. ZOPPICARE.

«La grammatica zoppica.» Non è que-

stione di piede e nemmeno di mano, se qualche pagina risul‘ta a Gadda claudicante. Come lo sveviano Zeno che zoppicava per fratture psicologiche? Zoppica anzitutto la sintassi mentale per tanti fattori di squilibrio. Come si fa a bloccare 87

la frase che si lancia in improperi, contumelie e sberleffi? La verità arriva zoppicando nel Novecento: deviazioni dalla

norma, straniamenti, effetti shock, atti gratuiti, epifanie, intermittenze del cuore, contropelo, tagli, fratture, schizomor-

fismi, discontinuità foniche e semantiche. La singola frase di Gadda può procedere in modo rettilineo, purché non dimentichiate che precipita in una voragine che si è aperta all’improvviso nella più tranquilla pianura. Si esce con le ossa rotte da tali esperienze dell’esistenza. «Adesso la ria realtà è l'orrore macerante della prigionia, la morte del mio Enrico adorato, la minaccia dell’incerto futuro.» Fallito è il disegno della sua vita. Non resta che rivolgersi alla letteratura. Sarà macerata la scrittura e resterà incerto il futuro. «Questo mio disgraziato diario va avanti come un asino frusto a digiuno: gli è che anche il mio spirito mi pare una barca scucita in un angolo di cattivo porto, dove la risacca sciaguatta ogni cosa.» Le pagine ormai non prendono più il largo, Gadda se ne sta in prossimità di un appiglio concreto, non inventa nulla, non sa dove andare, il discorso non fa un

passo lontano dall’approdo, lo minaccia la ripetizione, c’è ossessione in questa risacca del pensiero. Meglio il naufragio che non la paralisi che lo blocca sulle stesse idee. Bisognerebbe ripartire ma «i/ sottotenente C. E. Gadda, del 5° Reggimento Alpini, ha finito di scribacchiare chiacchiere. In questo libro, scritto tutto di prima mano, anche nei luoghi di bel-

lo stile o tanto più sto libro pieno di

quasi, sono contenute molte notizie di piccole cose, importanti in quanto sfuggiranno alla Storia. In quesono sfoghi di rabbia d’un povero soldato italiano, manchevolezze come uomo, pieno di amarezza per

motivi intimi, familiari, patriottici, etnici, ma forse non pessi-

mo come soldato». Quando si sarà liberato di questa condizione «cenciosa», il prigioniero andrà a combattere un’altra guerra, con altre parole, ma pur sempre con cose più o me-

no piccole. Servirebbe a raccontare la Storia meglio di chi ci ha fatto narrazione epica. Gadda dimostrerà di essere ottimo, anzi grande, come scrittore. Un invincibile soldato della letteratura.

CAPITOLO SECONDO

A Caporetto! A Caporetto!

Tutti gli altri soldati andavano in guerra, solo Gadda in| vece partì per Caporetto. E di là il giovane che fu interventista andò dritto al Lager. Dopo l'umiliazione del campo di concentramento, venne la vittoria. A questa non dette una mano, e ciò fu causa di grande dolore per tutta la vita. La mano la usò specialmente per scrivere: la letteratura è l’unico terreno di battaglia nel quale Gadda ebbe la meglio. La vittoria è anche nei fatti ma è soprattutto scritta: solo con la letteratura, Gadda vince la sua prima guerra mondiale. Si dica di lui tutto il peggio, ma nessuno dirà di lui cose peggiori di quelle che lui dice di se stesso in una lunga litania dei propri difetti. Ecco quello che desidera quando si difende da accuse che egli immagina gli vengano indirizzate da occulti o dichiarati nemici: smentire chiunque osi affermare che è stato un pessimo soldato. Purtroppo non ha più le prove del contrario: le ha perdute a Caporetto. I tedeschi gli hanno rubato la letteratura che avrebbe potuto salvare la sua vita.

«Ob! Con quali parole, con quali affermazioni potrò smentire la taccia di vile che mi sarà fatta in eterno?... Il mio diario del Carso, le carte topografiche, gli schizzi, sono andati preda dei tedeschi...» Dal Giornale, comechessia ritrovato, risulta che il sottotenente Carlo Emilio Gadda è stato un buon patriota, un ufficiale coraggioso, leale e scrupoloso. Non è il «minchione» che sembra ai suoi compagni, e ancor meno è l’imbecille che egli sarebbe secondo i superiori e magari anche secondo la 89

madre. Tuttavia il lettore si ritrova in mano il diario di uno che scappa, se non dalla battaglia, dalla vita. Alla fine come è cambiato ilpatriota Gaddus! Non si fa scrupolo di pensare al suicidio. È una Caporetto per l’interventista. Il dannunziano non ha scritto il Notturzo, anche se

il Giornale è un testo più «accecato». Gadda da terra ha visto una guerra meno celeste. Qui non si vola mai con la fantasia. La realtà della guerra dà a Gadda semmai gli incubi. Non dormirà più sonni tranquilli l’idealista. La scrittura rivelerà chi è il soldato della vita che risponde al nome di Carlo Emilio Gadda. Nella scrittura è l’ancora di salvezza di uno che si sente perduto quando parla o agisce. Ma dovrà esserci la Caporetto della sua scrittura positivista perché egli capisca qualcosa di sé, del se stesso che non ha ancora trovato la parola né parlata né scritta. La vita Gadda prima la vive e poi, alla fine della giornata, la scrive: così verrà fuori finalmente la verità sulla sua vi-

ta. Cosa sarebbe questa senza scrittura? Si scrive per dire la verità su ogni vita, a cominciare dalla propria. Le parole scritte sanno quali sono le cose a cui si appoggiano. Si lasci loro l’iniziativa ed esse non potranno non dire che Gadda, malgrado i numerosi difetti di temperamento e le malattie, aveva una sua «grandezza» morale e intellettuale. Così almeno pensa Gadda. La verità è però anche un’altra. Viene fuori pure un altro Gadda dal Giornale. E ciò potrebbe spiegare perché il diario è stato pubblicato oltre trent'anni dopo essere stato scritto. Aveva detto prima qualche verità sgradita all’autore? C'era stata una censura, sia pure involontaria? Ci dovrà essere la Caporetto del diario perché Gadda pubblichi il Giorzale di guerra e di vrigionia. Guerra, sconfitta, prigionia. Tre tappe di una vita che è una guerra sempre da perdere. Il buon soldato di una guerra senza fine in una vita cui sarebbe presto mancato anche lo scopo. Non sarebbe mancata la vittoria finale, ma quante sconfitte della sua cultura sono necessarie alla narrativa di Gadda per vincere la gara nel Novecento! 90

La guerra non è per lui come per Marinetti la sola igiene ‘del mondo. Gadda però si aspetta molto da essa: non la pulizia del vecchio mondo— nessuna illusione, nessuno lo ripulirà mai questo porco mondo — ma nientemeno che la prova idella propria grandezza, la gloria personale, molte imprese ‘eccezionali da cui tornare vittorioso. E vinca anzitutto l’Italia in questa «santa guerra» della quale egli vuole essere il ‘crociato. Gadda si è armato per liberare la patria: il relativo che ‘per il giovane è un assoluto. L'Italia per lui è tutto, e sono imolto gli italiani: almeno finché non vede tanti cialtroni sul campo di battaglia e in retrovia. Sarà una Caporetto per il ‘nazionalista: anche perché l’Italia non è all’altezza dell’imipresa in cui si è avventurata. Ci sarà la vittoria ma ormai ‘Gadda sa la verità sulla nazione in cui aveva una fede cieca. E sarà un futuro nero per quel reduce di guerra e prigionia

che Gadda non cesserà mai d’essere. |. Al momento di partire per la guerra, Gadda aveva fatto

‘il pieno delle migliori ambizioni, di valori, regole, principi ‘che rendono grande la vita di un uomo, ma presto dovette ‘cominciare a fare il vuoto delle giovanili illusioni e dei lumi‘nosi progetti. La vita è «cenciosa», la condizione finale è i«merdosa». La Caporetto del senso della vita. Una vita così ‘insensata è da buttare. L'alternativa per chi «amò solo l’av‘ventura e la guerra» è tra il suicidio e la prigionia. Soprav‘vissuto, il prigioniero racconterà il romanzo della propria, e I dell’ altrui, vita. E se questa puzza, la scrittura non ci proverà nemmeno a profumarla. Gadda in futuro cercherà di copri‘re il brutto odore della vita infima con quello del sangue. Ne ‘scorrerà tanto nei romanzi che si svolgono «in pace». Nel \Pasticciaccio i due odori faranno eccellente miscela. In assoluto, quasi per obbligo di struttura, egli sarà un ‘combattente, sarà un perdente, e sarà sempre un prigioniero. Ci sarà da lottare per non perdersi in questo soldato che ‘combatte contemporaneamente almeno due guerre. Gadda fa la guerra e perde su due fronti. Anzitutto su quello esterno, con gli austriaci, a Caporetto (indelebile 91

marchio d’infamia per chi alla guerra chiede la prova della propria grandezza); ma perde specialmente sul fronte interno, quello dove lotta dalla nascita e dove infuria l’«ipersensibilità»: tanto più violenta quanto più debole è la battaglia esterna, quella per un'Italia degna moralmente e culturalmente. Dalla nevrastenia Gadda è ferito assai più profondamente e dolorosamente che da un «proietto» invano cercato nel giorno della resa. Preso fra due fuochi, Gadda talvolta perde la testa e reagisce facendo esplodere una rabbia simile a demenza. La Caporetto del razionalismo. Quelli che in fondo gli stanno meno sui nervi sono gli austriaci. C'è «intelligenza col nemico» in questo «traditore» che ama tanto la disciplina e l’ordine dei tedeschi, in questo razionalista cui così spesso vien meno la ragione. Dentro ha più di un nemico che si prepara a infliggergli sconfitte. Si arrenderà a molti nemici e così Gadda vincerà. Caporetto è la scorciatoia per la vittoria di uno che vive per la letteratura. Caporetto, sua destinazione, o meglio, suo destino. Un

uomo predestinato a perdere: per via della natura, l’«ipersensibilità», e per via della cultura: una cultura che si è persa dietro miti di cartapesta, o magari, di carta scritta dai giornalisti dell’epoca («La retorica nostra scacazza i giornali»). Colui che per vivere non può non lottare è nello stesso tempo colui che non può non essere sconfitto. A questa guerra, in privato, nel Giornale di guerra e di prigionia, Gadda strappò la maschera, e vide il grottesco. Non strappò invece gli appunti del diario, e nemmeno li pubblicò per parecchi decenni. C'erano troppe prove delle sue debolezze, della sua sconfitta personale? Gli italiani in quella grottesca «guerra d’indipendenza» ci facevano una troppo brutta figura? Una mascherata, il solito spettacolo di un popolo che non prende nulla sul serio. E Gadda ne fa un dramma: in maschera naturalmente, anche se il diarista cre-

de di scoprirsi, di svelare ogni propria magagna. Ora tutti possono vederlo nudo. Non sarà il re ma è pur sempre uno che si firma per scherzo Duca di Sant’ Aquila. 92

Non basta denudarsi però, non si può più essere tanto suiperficiali da fermarsi alla pelle. Non ci si può più limitare a guardare il corpo dall’esterno. Potete arrivare sotto le ma‘schere, potete arrivare alla pelle, potete anche spellarlo ma | Gadda non dirà mai precisamente cosa c’è sotto. Risponde gridando alle domande che lo toccano nel profondo. La sua mano, magari per iniziativa autonoma dalla mente, indica sempre lì: cercate lassotto, laggiù è il campo di ten‘sione, scavate dove esplode la nevrastenia, dove si sente quel dolore profondo. Dove più acuto è il male, là c’è il rimedio, | dice un grande poeta tedesco. La vita nel Novecento attacca da sotto: non solo dal basso ma specialmente dal profondo. E sarà la Caporetto del naturalismo. La vita ha aperto un secondo fronte e da lì attacca Gadda, scrittore che è all’avanguardia nel dolore «fisico e metafisico». A lui duole soprattutto l’«anima». Non è più l’anima ‘romantica, sta più giù dei sentimenti. Ancora non tutti sanino cos'è ma presto non sarà più un «oggetto» misterioso

‘quest’anima o psiche che sta sotto il soggetto. Non è un «arcano», tuttavia è protetto per ora dall’«asineria» di chi ancora non ha letto l’austriaco che ha inventato la psicoanalisi. Ecco dunque una prima verità: sarà il corpo attaccato

‘dall’inconscio con dolori atroci e avvilenti a mettere a nudo l’anima di Gadda. Ce la farà allora la scrittura a tener dietro ‘a questo corpo e a questa psiche che vanno oltre le parole usate dalla «asinesca» cultura italiana di quel periodo? Sa\piente è per ora la natura incomprensibile di Gadda. La se‘conda verità: sarà perdente anche la cultura che capisce e ‘tuttavia bisognerà cercare sempre oltre. A partire sempre da ‘una «seconda natura»: avanguardia inconsapevole. Verità fondamentale del sistema gaddiano: si dia retta alla natura, specialmente se è storta. E sia spastica la letteratura. Saranno sempre dolori deformanti per chi scrive. Più tardi Gadda confessò che la guerra forse non la si vince mai in questa vita. Lo capì molto più tardi e lo disse in un’intervista degli anni Cinquanta. Fu allora, fu per questo, che Gadda diede alle stampe il Giornale? La guerra non era 93

più santa, poteva essere persa, anzi poteva non essere di-

chiarata e combattuta. E così il patriota può pubblicare il suo libro blasfemo. Non c’era più sacrilegio a stamparlo trentacinque-qua-

ranta anni dopo averlo scritto (1915-19). Rileggendolo, gli parve che la scrittura fosse «vivida e corretta» quanto Gadda chiedeva alla letteratura pure negli anni Cinquanta. Si stampino le pagine del «giornale» in fiamme. Nel diario scottano già i connotati essenziali della sua prosa. Mettiamoli a fuoco. Attenti però a non bruciare il ritratto segreto dell’autore. Quel diario sarebbe sembrato «scorretto» alla madre, e trop-

po «vivido» ai superiori? Alle stampe! alle stampe! La guerra psicologica Quando ha un po’ di tempo libero, dunque Gadda si siede al suo tavolino da campo e annota quello che ha visto o udito. Non è come stare a casa ma non si vede più sangue che in cucina. Il combattente come impiegato, come scrivano: un travet della guerra. Luoghi, persone, conversazioni, progetti, desideri. Tutto lì, sulla carta, a futura memoria. Per

Gadda conta comunque il presente, deve essere presente il passato, tutto deve sembrare essere successo oggi, come le pagine del Giornale. Sarà così anche quando avrà molto più tempo libero, così egli riscalda le vicende passate e le serve fresche. Raramente Gadda darà pagine avariate, anche se non mancano quelle insapori. Sta per arrivare in tavola però il peperoncino, spezia acuta che brucia la lingua. Il diario descrive paesaggi e ambienti; disegna ritratti, analizza problemi, sintetizza questioni lunghe e complicate, racconta fatti, registra battute di dialogo e le commenta, giudica individui, ricorda eventi e persone lontane, esamina il carattere di un popolo, fa congetture sul futuro, illustra con schizzi, esprime emozioni e intenzioni, enuncia principi ge-

nerali e si spreca in particolari. Il buon soldato fa per ora il buono: gli sta bene il paesaggio, e la guerra — il fronte è lontano — non potrebbe essere più «pacifica». Gadda per un 94

po’ è in pace con la vita, dal momento che la società è «en-

trata in guerra». Se c'è battaglia fuori, dentro, nell’anima, c'è

la tregua. E già al lavoro quel «grande pettegolo» che, secondo

Gadda, è sempre un narratore. Sa raccontare i fatti altrui, e

specialmente i propri. Lo fa con la scontata faziosità per cui la prospettiva personale ingigantisce i sentimenti dell’autore. Gli piacerebbe essere «impersonale», come ad esempio Flaubert (e talvolta lo è: anche se sembra assenza di personalità) ma «impassibile» non sarà mai uno scrittore che, dopo essersi soffermato per qualche minuto su una situazione si sente aggredito e offeso. Questo pettegolo è destinato ad essere sempre un maldicente. Gadda non dirà bene di nessuno o quasi. Il diarista diventa sempre più cattivo verso tutti e tutto. E racconterà un sacco di pettegolezzi pure

contro se stesso. Questo narcisista è capace di autodenigrarsi. Se vede nero, il disegno è una caricatura, ma per ora non si ride. In principio ci fu l'autobiografia. Era destino di Gadda. In quanto al progetto letterario, è forse vociana questa svettante prosa breve di vita vissuta? Gadda non intende fare poesia con questi frammenti che non di rado accettano di essere umile prosa senza canto. Scrittore che respira meglio in montagna, Gadda non rifiuta pianure e valli, le «mute» e sorde pagine di diario nelle quali non arriva mai la luce. Ci sono sì esperienze urtanti, acuti punti di vista, frantumi ta-

glienti di vita militare, episodi di guerra, ma all’inizio essi annegano nel tran-tran di giornate tediose che culminano nella mensa degli ufficiali. Dove l'assalto all'arma bianca è solo una lotta al coltello per tagliare le bistecche. A lungo le scaramucce più insidiose sono a tavola, e i fuochi d’artiglieria sono le battute di spirito tra colleghi che «hanno preso a bersagliar/o con scherzi spesso indiscreti». Gadda si gioca il brutto scherzo di presentarsi inconsciamente come un «facile bersaglio» per i buontemponi. Si vendicherà. L’imbranato coprirà presto di merda i colleghi 95

che si prendono gioco di lui. Nessuno oserà mai negare il fiuto a uno che maneggia gli escrementi come Gadda. Non dimenticate di guardare attentamente la galleria dei ritratti. Sono schizzi ma la guerra è il momento della verità per individui che trafficano quotidianamente con la morte. Per paradossale che sia, questi bei tipi talvolta si sfidano a duello per una sciocchezza. In prima linea non si scherza mai senza pericolo. Inutile dirlo: chi riceve più ferite è sempre Gadda. Lo ripetiamo che spesso però si ferisce da solo? Lo fa dopo avere infilzato tutti gli ufficiali che per il solo fatto di parlare si calunniano in modo micidiale. Quando è solo con se stesso e scrive, Gadda, sentendo-

si accerchiato dai suoi mali immaginari e veri, getta l’allarme: non si combatte, si fanno stupide chiacchiere, si fa lontana la grandezza degli eroi. Gadda è lacerato profondamente ed è furioso. Quanto più le parole risultano inadeguate ad esprimere l’oscura violenza interna, tanto più clamorosa è la reazione dell’umiliato. Gadda si abbandona a urla selvagge, a un chiasso indemoniato, a un’ira bestiale. C'è il pericolo concreto che il nevrastenico resti soffocato ma intanto vomita ingiurie su chi gli ha rovinato la digestione e la circolazione. Abbiate comprensione per le coliche e le isterie di un uomo che il mondo colpisce così duramente allo stomaco. Gadda non scherza nel lanciare fango su colleghi che se la fanno addosso per paura della morte. Anche l’autoritratto è sporco? Gadda si deforma quando urla? Pensate pure a un espressionista, ma non dimenticate: Gadda quando altera i propri connotati, tira fuori il peggio e così si conosce più

profondamente. Per ora questa è la sua prassi inconsapevole ma presto arriverà la teoria, secondo la quale «deformare è conoscere». E sarà la Caporetto del «bello scrivere». Gadda costruisce «divinamente» molte figure col fango: e ci sarà la nascita dello sporco uomo del Novecento. Che notoriamente nasce, più che piangendo, urlando. L’espressionista 96

conserva la figura umana ma stravolta. Bisogna essere matti per avere la testa a posto? Tutte le strade portano a Gadda, che arriva a se stesso partendo da qualsiasi argomento o condizione. Questo prepotente è un coatto che non dimentica mai la propria situazione. Perciò gli altri si prendono tutte quelle ingiurie da uno scrittore che non può non essere «insultante». Pure lui, come Svevo, è preso a cazzotti dalla vita: che lo aggredisce di sorpresa anche quando se ne sta tranquillo a misurare il campo e a osservare l’amato paesaggio alpino. Questi cazzotti menati dal suo interno lo fanno uscir di senno. È la Caporetto del buonsenso, ma l’atto gratuito regala rivelazioni anche a Gadda. Nella furia ha disegnato una figura profondamente diversa da quella che appare in superficie. Questo scrittore ha il diavolo in corpo: è incatenato ma tale condizione libera scottanti verità su tutto e su tutti. All’improvviso nella sua prosa scoppiano folgori mentali. Saette a ciel sereno indirizzano al cervello di Gadda, come alla causa scatenante. In questo campo magnetico i corti cir-

cuiti danno almeno la scossa. È una scrittura da elettroshock ma non c’è terapia per tanta isteria. Non è facile far luce sul suo linguaggio. Bisognererebbe staccare la spina, ma sarebbe il buio, nonché il silenzio. Andando a tentoni, toccheremo mai con mano la causa

prima di tanto sconquasso? Non serve l’elettroencefalogramma, ma il grafico disegna svettanti ictus. Un grumo di vecchia cultura blocca la circolazione? Picchia sulla parete colui che è prigioniero di un linguaggio che più non sa. Gadda, che con la baionetta o col fucile non ha ammazzato nessun austriaco, ferisce invece molti italiani con la

penna. L’alpino non risparmia i comandanti che non sono mai delle cime, e spara sui vertici lontani, su coloro che stan-

no in alto, nonché dietro questa guerra con cui ingrassano «quelle mucche gravide, quegli acquosi pancioni di ministri e di senatori e di direttori e di generaloni». L’animalizzazione come via all'essenza del personaggio ritratto? «Bestiale» 97

semmai è la reazione di Gadda che, alterando la voce, esprime con gli insulti l’interna violenza che lo ingravida. Ne nasceranno immagini turgide cui allatteranno gli scrittori futuri ma per ora Gadda è sempre sul punto di scoppiare per la rabbia. Ha preso la penna in mano un tarantolato. E la prosa gaddiana non sarà mai un balletto. Che dire poi di «quello scemo balbuziente d’un re»? Il monarchico Gadda appenderebbe a un pennone un re che non sa nemmeno fare parole. Fossero almeno muti quelli che parlano dinanzi a Gadda, gli ufficiali che si diffondono in discorsi stolti sulla guerra o sulla vita o sui fatti loro. Una orrenda compagnia è capitata a Gadda. Né basta cambiare reggimento o arma per trovare italiani che non siano «molto peggiori» di quanto si aspettasse quando andò a fare migliore la nazione. Non si va molto lontano con simili chiacchieroni: che sono imbelli e inetti. Si avvicina la Caporetto del sogno personale di grandezza, e allora Gadda si sfrena in un linguaggio «patibolare». Ha una voglia matta di tagliare le teste vuote di questi capi dissennati. Intanto sciabola i periodi, se non dicono nulla o balbettano. Il «regicida» è un torrente, la sua prosa è travolgente. Galleggiano i relitti della società italiana insieme ai resti delle illusioni di Gadda. È una mina vagante lo scrittore. Guardate cosa succede a una donna che va a sbattere contro i nervi di Gadda. «Nani tornò ma mi disse che ilfotografo non sapeva nulla delle mie fotografie e cascò dalle nuvole. Questo è l'ordine e la cura che gli Italiani pongono nell’accudire ai loro interessi, al loro commercio: poi ci si meraviglia, o meglio gli Italiani si meravigliano, quando la Germania intraprende il commercio suo nel mondo, impadronendosi di tutti i mercati. Speriamo che altrettanto non faccia della nuova film, quella puttana porca sfondatissima stroiazzata vacca d'una moglie del fotografo, cagna asinesca e bubbonica: altrimenti le pianto una grana che non finisce più.» Mai visto così Gadda. Arrivano in superficie inauditi 98

messaggi osceni, fiondati con sostantivi e aggettivi che dicono solo in parte quello che sentono. Questa buona pasta d'uomo lievita troppo. La frase è presto sul punto di straripare. Quasi un’inondazione. Non si può arginare tanta furia naturale. Gadda in un lampo ha visto dove conduce il disguido di quel minuscolo dettaglio, ha tirato le fila dell’intero gnommero, e vi ha scorto, più che il germe, la mossa iniziale di un disordine che avrebbe soffocato non solo il commercio, bensì tutta la società italiana. Una parola comincia ad essere nido e nodo di un sistema che si smaglia in zona vulcanica. Per il piantagrane che è Gadda un minuscolo dettaglio è «una grana che non finisce più». Arriva fino a Eros e Priapo l’isterica guerra che Gadda dichiara alle donne, queste fasciste! Il motivo di tanto furore è ovviamente interno all’autore. Per Gadda le donne sono da sempre una grana infinita. Non s’era mai scritto nulla di più violento e osceno contro una donna. Dalla prima donna a tutte le donne. Di passaggio si dica, lo dice lui stesso, Gadda pensa sempre alla madre adorata. Non è un dettaglio trascurabile. Gli ha dato la vita, che ora è da buttar via. Questa della madre è una grana che non finisce più. È il suo destino: scrivere a partire da cose viste. Il testimone l’ha giurato a se stesso: tutta la verità, null’altro che la verità, anche se è sgradevole. Alla verità si arriva attraverso la realtà più dimessa e concreta. Solo così si saprà la verità su che cosa è stato davvero Gadda in guerra. Un bravo soldato | che aveva paura ma che aveva anche un gran coraggio e molto sprezzo del pericolo, un uomo buono e feroce, puerile e saggio, concreto e sognatore. Due Gadda? Anche più di due. Non gli sfugge questa verità, c'è sdoppiamento di personalità («e io sfuggo a me stesso»). Un doppio Gadda, il doppio di Gadda, la doppia verità di Gadda. C'è il Gadda che dice «io» e c’è un altro che gli prende la mano, e la parola, per comunicare qualcosa di cui lo scrittore non è consapevole. L'io e l'Altro, l’io è l Altro, l'Altro si è travestito da

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io? È una cosa vista anche l'Altro, e lo si tocca con mano, an-

che se scotta. L’inconscio può essere verista? Savinio ha definito gli espressionisti «veristi dell'anima». Gadda registra i connotati di un’anima che non è più verista. Si convochi Freud. Che infatti più tardi arriverà al capezzale — nonché il capo, la testa, il cervello, la cultura, la filosofia — di Gadda e

mai più lo abbandonerà. Sarà preso prigioniero da Freud o liberato dalla sua psicoanalisi? Come Savinio, questo soldato che non ha cominciato a guardare con scienza nel profondo guarda attentamente in basso, dove gli altri mettono i piedi. La realtà sociale non ha cessato d’esistere perché è diventata violenta l'aggressione psicologica. Gadda non smetterà mai di mettere a fuoco l’occhio «esterno e l’occhio interno», e sarà un incendio da

cui trarranno tutti calore e luce. L'epica della realtà si intreccia con l’epica dell’esistenza in Gadda. Gadda in concreto, vedendo quanto facilmente si rompono gli scarponi dei soldati, metterebbe sotto i piedi la testa degli industriali, che, mentre si arricchiscono, fanno re-

torica in città. Il suo guardare pelle pelle non è mai superficiale. Vedrete che andrà a guardare persino cosa finisce sotto gli scarponi dei soldati; o anche accanto. Dagli scarponi dei soldati Gadda in poche righe arriva alla testa del sistema politico e sociale che sta dietro i calzaturieri, e non può non arrabbiarsi, se pensa che così non sta in piedi il suo personale progetto di gloria. Intanto però ci ha ricavato una regola per la conoscenza della verità: bisogna partire dal basso, da ciò che tocca terra, e poi risalire al resto. Semmai guardi sottoterra e non in cielo il metafisico. L'essere è umile e cammina magari a piedi nudi nel Novecento ma non è un buon motivo perché i calzaturieri si arricchiscano mandando scalzi a morire in battaglia i poveri soldati. Farà molto cammino Gadda su questa strada che lo conduce a vedere in ogni individuo una specie e in ogni dettaglio una parte di tutto. Lui va sempre oltre la scarpa. Gadda vede non solo in che stato è la pelle degli scarponi dei soldati, ma non gli sfugge che sono questi a rischiare 100

la pelle più di tutti. Non c'è demagogia, e d’altronde Gadda non pensa sempre alla pelle dei suoi soldati. Se però insiste sulla pelle, vede bene che la borghesia cura la propria. Prenderebbe a calci ufficiali, profittatori di guerra e giornalisti che alimentano il culto della guerra combattuta dagli altri. Sulla propria pelle Gadda ha capito quali sono le vere vittime del conflitto. E se ne ricorderà al momento di descrivere nella Meccanica l'operaio pacifista e socialista che, tubercolotico, viene spedito in prima linea al posto del vigoroso figlio di un notaio che l’ha imboscato in fabbrica. Per capire meglio la realtà sociale della guerra, farà molta strada il nazionalista che ha fatto le marce degli interventisti. La Caporetto dell’antisocialismo. Preso il via dagli scarponi, Gadda disegna l’intero quadro dell’esercito italiano, usando immagini che levano la pelle ai politici, ai militari e ai borghesi. Arrivato alle stringhe, Gadda se le annoderebbe intorno al collo per soffocare l’indignazione che l’assale al pensiero delle proprie illusioni messe sotto i piedi da generali e industriali. Potesse prenderli a calci! Invece le sue parole, scritte, so-

no dei pugni. Di proprio pugno Gadda scrisse la guerra come la visse, nero su bianco, ma quante macchie. L’inchiostro di Gadda ha macchiato la sua guerra personale ma nel Giornale si fa capire che sono assai rari i soldati puliti. Il sangue che abbonda in guerra? vi domanderete. Non si vede o quasi mai il rosso del sangue. Forse si sente di più quello che sale alla testa del diarista indignato per ciò che vede. Suggerisce, è vero, che ha buttato il sangue per fare il proprio dovere senza che gli altri se ne accorgano, ma è una metafora. Alla lettera invece Gadda, nel diario, attesta che in guerra ha visto scor-

rere abbondanti più che le emorragie le diarree. Anche il suo corpo si debilita per la dissenteria, vede pochi buttare il sangue ma molti gli escrementi. Non per il sangue ma per l’abbondanza delle feci puzzano le trincee di Gadda. Caporetto ammorba tutta l’esistenza ma l’aria del fronte è sempre stata soffocante per Gadda. E la rabbia 101

esplode irresistibile. Un iracondo sta passando una vita d’inferno. È corso a combattere una guerra di merda l’idealista che avrebbe dato volentieri il sangue per l’Italia. Mangia moltissimo, è insaziabile, ma non è solo questione di stomaco, c'è una tempesta nelle interiora: è profonda la radice di tanta fame e di tanta diarrea. Il fatto è che vuole dire la sua il corpo. Non solo il proprio, si fa sentire e vedere il corpo di tutti i combattenti. Il corpo ha un linguaggio universale. In guerra, con esso, anche perché è implacabile la censura, si comunica quasi tutto. Mangiare, cacare, dormire, chiacchierare senza senso, urlare, agitarsi, fare tanti gesti fisici senza significato. Amare? Non ha senso, non è questo il senso della guerra. Semmai odiare. Gadda è uno buono che compie molte buone azioni ma odia quasi tutto. Il suo corpo è ipersensibile e non tollera quasi nessuno. Alza la voce per soffocare una verità rimossa? Se non è Gadda a lanciare escrementi, allora chi è? Non usa linguaggi elevati l'«altro» Gadda: a parte gli urli con cui si degrada l’uomo, ancorché depresso. La logorrea dell'Altro è omologa alla diarrea del corpo gaddiano? È liquido il cervello di un nevrastenico che non sa quello che dice. Sta suggerendo qualcosa che non può essere nominato. La Caporetto della scrittura letterale. Non starà vincendo il futurismo, linguaggio informe? Si scatena il materico dei futuristi, ma anche Flaubert aveva implorato: «Essere materia». Fatica Gadda a restare figurativo quando la sua testa erutta materiali così infuocati. Anche l’anima è fatta di materia. E con la materia Gadda sa fare dell’eccellente metafisica. Annega negli escrementi la santa guerra di Gadda ma qualcosa di buono galleggia. Ci sono gli alti e i bassi dell’anima e del corpo. In una guerra che sembra tanto piatta c’è in verità un’altalena di nobili sentimenti e brutali sensazioni. Gadda che soffre di dissenteria è lo stesso soldato temerario che si esalta al momento della battaglia. Dalla pianura nebbiosa alle cime luminose la prosa mescola il sublime e le cose turpi della guerra. Nella vita ci sono queste e quello: lo si scriva subito sul diario, nella pagina di quel preciso giorno 102

così effimero. L'uomo di Gadda è un animale capace di sentimenti elevati ma Gadda ha il merito di aver ricordato che la si è combattuta anche in mezzo a tante bassezze: molti correvano alla latrina per paura piuttosto che contro il nemico. E sarà la Caporetto del romanticismo, linguaggio dei sentimenti che scottano. La guerra può essere esaltante, dà euforia al corpo e di là all'anima. Se non c’è la Caporetto del pacifismo, è perché a Gadda è sempre piaciuta la guerra. Gli piace il duello, prendere di punta il nemico, col fioretto o con armi meno nobili. Se prima dei nemici smerda i compagni di trincea non vuol dire che nessuno è pulito. Lui ad esempio lo è, ma c’è qualcosa di sporco pure in Gadda, io diviso. «I pronomi sono i pidocchi del pensiero», dirà un giorno un personaggio scisso quanto Gaddus. In questa sua porca guerra Gadda impara a capire l’importanza decisiva del «sapere basso». Max Jacob avrebbe detto: nel nostro secolo trionfa lo stile del ventre. È viscerale l’amore profondo di Gadda per la guerra. Sono viscerali anche i suoi colpi di testa, ma c’è lo stile di testa nella bellicosità di uno che ha un buon quoziente di illuminismo. Gadda ha una grande testa sul collo, ma il corpo fa il matto. Non basta più il romantico «stile di petto», anche se uria così spesso. Non viene dal petto e nemmeno dalla testa il grido di Gadda, bensì dalle viscere, dalle parti più basse del corpo. Hanno forse origini sessuali la fame, la diarrea, l’ipersensibilità, la noia, la rabbia, l’urlo, gli squilibri mentali,

il disprezzo del pericolo in battaglia e il disprezzo per il resto dell’umanità. Magari escludendo madre e fratello. O non li escludiamo? Non si può escludere nessuna delle cause del comportamento umano. Più tardi Gadda, o meglio Don Ciccio Ingravallo, escluderà che ce ne sia una sola. Gadda non lo dice ma si comporta già come se ce ne fossero parecchie: e spesso introva‘bili, sia pure per «asineria». Che è bestialità da curare con una cultura diversa dall’illuminismo, dal romanticismo e dal positivismo. Lo manda a dire il corpo del nevrotico con la 103

diarrea e con gli urli. Una prosa da leggere con l'orecchio: come al teatro. Nella Caporetto della sua cultura quale organo del corpo ha il sopravvento? Dell’intestino s'è detto, sui nervi bisognerà tornare spesso, sul cervello non si finirebbe mai di dire. Si dica allora che Gadda comincia come ogni buon naturalista con l’usare molto l’occhio, il senso che non ha profondità. Con la vista lo scrittore tenta di tenere in superficie tutte le questioni che sono a portata di mano. Anzi, se non lo sono già, ce le conduce. E il suo modo di tenerle prigioniere. Perciò gridano, per far capire che ci sono anche motivazioni profonde di ciò che sembra superficiale. E in vista la Caporetto del verismo. Gadda, lo dice lui stesso, «fotografa cose ed emozioni».

La scrittura come fotografia, arte dell’essere fedeli a ciò che succede nella realtà. Tutto quello che si tocca con mano, il presente che cade sotto i suoi occhi, il precario che c’è in questo preciso momento, e che si fa «notare» e annotare da chi osserva l’ambiente nel quale forse compirà qualche grande impresa. Gadda però spesso vede il trascurabile e trascura l’importante. La sua vista è faziosa, parteggia per ciò che importa soprattutto a lui, all’osservatore di forti sentimenti. La sua pellicola è infiammabile: approfittate della vampata per vedere cosa l’ha accesa. Non è solo l’occhio che è di fuoco per l’ira, qualcosa brucia prima dentro l’osservatore. La nevrosi ha messo a fuoco la vista interiore. Esiste solo quello che Gadda vede, ma stravede un uo-

mo indemoniato. Dal suo interno un essere incivile si scatena in volgari oscenità contro superiori, uguali e inferiori. Un villano insolentisce le donne per un nonnulla; un matto perde le staife a ogni pur piccola contrarietà. Un «demente»: come egli stesso ammette dopo la sfuriata non appena torna in sé. Ci sono due punti di vista in questo soggetto. Ed è una Caporetto per chi credesse all’unità dell’io. Una pagliuzza, un nonnulla, va nell’occhio dello scrittore e lo infiamma. Sono surriscaldati tutti i sensi di Gadda. 104

Una improvvisa reazione furiosa e la prosa raggiunge come un fulmine il livello più alto. In un attimo si è al vertice di una crisi nevrotica. Gadda gira col «cranio scoperchiato», come Svevo diceva di Joyce registratore d’inconscio? Sul suo cervello non può posarsi nemmeno la polvere di un’idea irritante. Gonzalo Pirobutirro avrà suppergiù la stessa infiammazione cerebrale, anche se brucia idee diverse.

L'ipersensibilità di Gadda non è una malattia della pelle. Lui grida anzi prima che qualcosa lo tocchi. Ci mette tutti i sensi nel reagire al mondo esterno. Futili motivi e ragioni di fondamentale importanza. Il disordine sul tavolo e la cialtroneria degli italiani, uno scherzo sgradevole in più dei commilitoni ai suoi danni e la disonestà degli industriali, l’acqua che cola dal tetto sgangherato della baracca e la dissennatezza dei comandanti. Un massacro progressivo, travolgente, ossessivo da cui non si salva niente e nessuno. Una malattia micidiale per Gadda e «salutare» per la cultura. Un uomo accecato dalla rabbia ha una visione illuminante. Il «terzo occhio» dei pazzi di genio. Questo diarista è un visionario? Gadda coinvolge con la sua nevrastenia il re «balbuziente», e, a scendere, Salandra, i ministri, i senatori, i deputati, gli industriali, i giornalisti, i generali, gli ufficiali, i sottuffi-

ciali, i furieri, nonché i soldati. Non gli vanno bene l’artiglieria, la fanteria, la strategia, i rifornimenti, la mensa, i comportamenti, i discorsi, le azioni e le idee. Non tollera ciò che

vede e ciò che ascolta. Urla perché non è stato promosso e perché non sopporta l’egotismo dei connazionali. Odia il proprio corpo, che con le frequenti crisi intestinali lo debilita. Lo mette a terra poi la prigionia, la vergogna della resa. La nevrastenia e l’isteria gli portano una depressione da cui non si solleva se non per improvvisi attacchi d’ira incontenibile. Soffocando, Gadda scarica una mitraglia di parole micidiali. Contro il mondo e contro la propria vita. Il Giornale racconta la contestazione globale di uno che già prima di Caporetto ha perso su tutti i fronti. Una scissione insanabile: la patria è sacra ed è necessaria la sua vittoria ma non muterebbe la sorte di Gadda. Che per105

de anche l'affetto della madre, sconvolta dalla morte dell’al-

tro figlio e ormai quasi indifferente ai problemi di Carlo

Emilio e di Clara. Gadda è solo e senza futuro, inutile e de-

stinato a orribile esistenza senza famiglia. Priva di senso ormai la vita e torna assillante l’idea del suicidio. Gli son venuti meno i sostegni con cui si reggeva una vita che vanamente

aveva aspirato al sublime: la patria, la madre, l'ambizione personale. Gadda stacca la mano dal foglio, come se staccasse il tubo dell’ossigeno. Finisce così un periodo asfissiante. Inizia la «inutile» sopravvivenza di chi ritiene d’aver fallito in tutto. Un flusso, per così dire, d’incoscienza che sarebbe potu-

to piacere alle prime avanguardie. Anche in Gadda si compie il percorso che conduce dall’annegamento dell’io nel materico alla riproposta del materico come io. L'altro Gadda usa l'immaginazione con i fili, ma essi sono spesso tanto tesi che si rompono. Non c’è più un legame diretto fra ciò che si vede e ciò che si sente. L’orecchio è chiamato in causa più dell’occhio: nella Caporetto dei significati, trionfa il significante, musica che va oltre il libretto. Malattia salutare la nevrastenia. Con la sua rabbia Gadda ha cambiato i connotati alla società italiana. L'ha deformata e presto, di conseguenza, «in coerenza» conosce la ve-

rità: quella società è davvero deforme. Ecco: il realismo della creazione che indovina la verità. Il suo estremismo ha centrato il bersaglio. Se conoscere significa deformare, si conoscono solo cose e persone deformi? Quanto sono lontane dal fronte e dalla mente di Gadda «le meraviglie d’Italia». È dal corpo dunque che parte l’attacco alla mente di Gadda. Carlo Emilio osserva, esamina, giudica, scrive con la

tranquilla intelligenza di chi domina meglio d’ogni altro la situazione. All’improvviso arrivano scariche ma non di fucileria. Lo stanno bersagliando acuti dolori intestinali, nonché emicranie. Il corpo non risponde agli ordini del sottotenente nemmeno quando sta con i colleghi e coi superiori: quanto inferiori a lui per cultura, anche militare, e per impegno 106

morale! È un nemico il corpo per questo giovane ufficiale: lo colpisce a tradimento provocando quell’impaccio nei gesti che lo ridicolizza agli occhi degli altri. La natura è anche per lui matrigna e la madre non sarebbe d’aiuto, se fosse vicina. Non fa bene né all’anima né al corpo di Gadda la madre. Gadda vorrebbe poterne riassumere il controllo ma il suo corpo obbedisce a un altro padrone. Chi è l’altro nemico cui non sa opporsi il corpo ribelle di Gadda? La sua mente non resiste all’attacco concentrico di queste due forze ostili. E una Caporetto per l’intellettuale che fa tanto affidamento sulla propria ragione, sulla propria cultura. Un nemi-

co assurdo si sta introducendo nella mente dell’uomo moderno che Gadda non vorrebbe essere. Il razionalista sottovaluta forse il messaggio che gli mandano il corpo e l’anima? Il positivista non li capisce e se ne libera come di fastidiose malattie che prima o poi curerà. Ed essi sono costretti a infierire, rendono più frequenti e violenti gli assalti, accentuano gli squilibri fisici e psicologici, lo debilitano con insonnie e colpiscono con la demenza l’organo di cui Gadda più mena vanto, il cervello. Così egli continua a non intendere il messaggio privo di parole; anzi pure il parlato disobbedisce alla mente. Si arrenderà? Non c'è alternativa? È possibile il dialogo, gli verrà concessa una tregua, può essere firmato un compromesso?

Ecco: il firmare, dunque lo scrivere. Con la scrittura — Gadda ne è convinto — riprenderà il sopravvento sui due ribelli, li ridurrà alla ragione. Dunque, la scrittura lo salverà. E non sarà un’altra Caporetto. Questa almeno è la sua volontà. Altri semmai sono i risultati. Saranno sorprendenti, ma non tutti negativi, anzi si ribaltano in positivo tante certezze ne-

gative. Potrebbero persino essere degli amici quelli che sinora ha considerato suoi irriducibili nemici. O sennò potrebbe diventare nemica l’amica scrittura. La verità appone sempre firme false. Con la scrittura Gadda ha dimestichezza, il giovane Ingegnere si intende di lettere e filosofia, quest'«uomo senza qualità» ha enormi doti di prosatore. Senonché, incompren107

sibilmente, di colpo, la scrittura gli prende la mano o qualcuno prende la mano alla sua scrittura. In breve, anch'essa è presa dalle furie che travolgono le resistenze fisiche. Qualcuno si è impossessato della sua sintassi e l’ha costretta a tener dietro a pensieri folli; qualcuno ha trasformato in insulto il suo argomentare e ora lo usa come proiettile contro chiunque sia venuto in mente allo scrittore. C’è un'unica ispirazione dietro gli assalti al suo corpo e alla sua parola, e ora pure dietro la sua scrittura. L’inconscio impazza dentro Gadda e non gli lascia scampo. E arriva la Caporetto della scrittura che dice pane al pane e vino al vino. Gadda non ha bevuto ma la prosa è ubriaca. Chiamiamolo, come Gadda, natura il suo inconscio, ma

è questo il nuovo linguaggio con cui il diarista sta facendo inconsapevolmente i conti. Così la Caporetto della sua cultura ottocentesca diventa l'avanguardia della sua vittoria nella letteratura del Novecento. Gadda registra la sua scrittura «bestemmiata» come materia che non può essere convertita in nuove ragioni senza essere repressa e impoverita. Il

prigioniero mette in catene il proprio discorso finché può, ma esso fa sentire l’urlo attraverso le sbarre della sintassi tradizionale. Il Giornale urla a squarciagola, ma non è solo la gola dello scrittore ad essere squarciata. Gadda vomita per non tenersi sullo stomaco le nauseanti ipocrisie di chi con le vecchie ideologie ci mangia. Non sono meno brucianti le depressioni. Gadda esprime l’intenzione di uccidersi. Dopo avere però sterminato tutti coloro che ritiene responsabili della triste sorte della patria e della propria malasorte. Vorrebbe essere un dittatore per mandare a morte i disfattisti, quelli che hanno desiderato la disfatta o gioito per essa. Fatti fuori tutti gli altri, Gadda, che non ha più nessuno che l’ami dopo che pure la madre sembra morta con l’altro figlio, rivolgerebbe l’arma contro se stesso. E rimasto solo il prigioniero. E soltanto letteratura? Nel senso che ci sarà solo il «suicidio dello scrittore». Non scriverà più, non ci sono più motivi per farlo. Dopo la Caporetto del soldato c’è quella dello 108

scrittore. «Qui finiscono le note autobiografiche del periodo

post-bellico; e non ne incominciano altre né qui né altrove.» Non scriverà più niente o non scriverà più pagine autobio-

grafiche? Non parlerà più di se stesso o lo farà «in altro modo»? Gadda sta solo annunciando il suicidio dello scrittore in quanto diarista. Non vivrà più alla giornata. Se vivrà, scriverà altra letteratura per raccontare cos'è la vita, sua e altrui. E narrerà non suicidio bensì omicidi. Letteratura aggressiva da rivolgere contro gli altri. Non sarà stato lui il primo a soffrire e a urlare tanto per traumi profondi, ma intanto è tra i primi ad arrendersi a quell’irrazionale che pretende attenzione ed espressione, parole «incompiute» ma assordanti. Gadda lo «derubrica» positivisticamente a ipersensibilità, irascibilità, emicrania e dissenteria, ma così il corpo gli comunica l’esistenza di un linguaggio che pretende d’essere auscultato. Il naturalista, che fa lealmente il suo mestiere di registrare il reale, si mette così al servizio del nemico che lo colpirà alla testa. La cultura faccia presto ad arrivare in soccorso con il linguaggio adatto. Gadda non si arrende al monologo interiore, che sarebbe la Caporetto dell’illuminismo, ma deve talvolta alzare le mani

di fronte al linguaggio di chi gli dà ordini dall’interno. Il sottotenente Gadda non può irreggimentare l’informe, il caos. L’inconscio disobbedisce ai suoi ordini, fa il comodo proprio, travolge ogni resistenza intellettuale, dilaga in frasi dissennate. Anche Gadda disobbedisce a se stesso,

cioè alla sua cultura abituata a porre un freno a simili follie. Registrando incontrollabili monologhi, fa concessioni, prima pericolose e poi salutari, al «nemico».

Senza saperlo, e magari opponendo resistenze, Gadda è in anticipo rispetto a tante clamorose alternative radicali di linguaggio. O meglio è la sua nevrosi all'avanguardia. È in viaggio verso il futuro? No, Gadda è già arrivato nel maggiore Novecento col Giornale di guerra e di prigionia.

Siamo ancora sulla strada che conduce a Caporetto. Ci sarà la Caporetto del diarista, giornaliero della scrittura. Nel 109

Giornale di guerra e di prigionia si registra la nascita di un narratore. Gli urli che bucano le orecchie del lettore non sono vagiti, ma è uno scrittore «infantile» quello che grida nel diario. Il Giornale è testo scritto immediatamente, quasi «senza memoria», a distanza minima dai fatti. Una corta me-

moria di quanto è successo nella giornata, finché il pensiero non è attirato da qualcosa per cui si va fuori di senno, e si scrive come posseduti dal diavolo. («Che porca rabbia, che porchi italiani! Quand'è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi, di tutti i ceti, impare-

ranno a tener ordinato il proprio tavolino da lavoro?») La nascita di un ossesso del Novecento. Un nipote di Dostoevskij? La lettura di Tolstoj, quello di Guerra e pace, lo annoia. Altra è la guerra nel nostro secolo, e Gadda non avrà mai pace, se non la racconterà come si deve quando lui scrive, negli anni Dieci del decimo nono secolo. Pochi anni dopo scriverà: «Ho letto Dostoevskij. Bene». Il manzoniano Gadda è in verità un dostoevskiano? Gadda scrive di quel che sente mentre scrive. E allora il lettore vede persino la mano che scrive «vertiginosamente». Molte pagine del diarista perdono il senso del tempo. Così sia lo scrittore: il passato sia presente e avrà futuro. C’è anche il futuro narratore in questa scrittura che dà un taglio al tempo prendendosi il massimo spazio per raccontare fatti di cronaca o di storia. Il sentimento fa perdere il senso del tempo alle idee. Gadda sarà sempre un lirico come narratore. La sua mano accompagna con la musica ogni frase. Mai però mitologie senza tempo. Non ha tempo il manzoniano Gadda nemmeno per scrivere romanzi storici. Farà semmai delle sue esperienze dirette una cronaca che farà storia. Se si guarda alle spalle, Gadda vede solo gli eventi ancora freschi. il suo mito è essere contemporanei. E le sue guerre sono sempre attuali. Borghesia, famiglia, guerra o fascismo che sia. Sono questi gli inferi nei quali Gadda farà il suo viaggio con l'inconscio: luogo delegato dalla storia, dall’unità di natura e cultura, a rappresentare il centro della crisi. Ecco il 110

mandato della storia all’arte del primo Novecento: la vita è malata lì, nel profondo, e lì tocca cercare. Gadda paga caro l’essere arrivato in anticipo là dove la vita dà l’appuntamento alla storia. La sua natura «ipersensibile» ha intuito la verità ma è stata bloccata dalla cultura, che si attarda nell’Ot-

tocento positivista. Ci sarà la Caporetto del positivismo e la natura di Gadda si farà una nuova cultura. Allora finalmente il narratore potrà persino ridere del suo dolore. E sarà la Caporetto della tragedia. Si è a terra e all’improvviso una grande energia sotterranea proietta in su una frase deflagrante. Ci può essere una mina a ogni passo. Saltano spesso i nervi del diarista. La vita quotidiana può svelare dappertutto l’esistenza di una santabarbara. Gadda è fatto così. La battaglia può essere calma, e invece fa fuoco e fiamme la tregua. Puoi saltare in aria per una parola urtante. Non sai se appoggiare il piede: potresti perdere in ogni momento l’equilibrio. Lo scrittore avanza verso lo squilibrio permanente, ma nel Grorrale troppe pagine sono ancora terra terra. Non sarà a lungo così. Gadda un giorno andrà più a fondo. Non farà mai voli con la fantasia: cercherà invece il vuoto in cui precipita la frase del depresso. Serviranno molte parole non vuote. Il Giornale è non di rado scritto «a tamburo battente». La prosa è davvero assordante quando un evento batte sulla pelle del diarista. Il suo stile è uno strumento a percussione. Gadda mazzola violentemente chiunque gli capita a tiro, e, siccome è lui stesso il più vicino, è lui quello che prende più botte. Quando è invasato, o è solo invaso dalla tensione nevrotica, manda giù una raffica crescente di colpi: è attratto dal vuoto perché il tamburo potrebbe tenere prigioniero un segreto chiuso ermeticamente? Alla fine del diario Gadda batte e ribatte sullo stesso punto ma non sfonda. Gadda batte dall’interno nella segreta speranza che nessuno gli apra? 111

Vedrete che tenterà di riempire il vuoto che rimbomba dietro la coriacea pelle. Gadda ricorda fatti e persone tutt'altro che memorabili, molti anzi sembrano insignificanti. Gadda non è Joyce, nei dettagli non si nasconde Dio: non si rivela un segreto, per Gadda non esiste. Non c’è nulla al di sopra delle vette dei monti per il buon cristiano d’educazione cattolica. Non s’aspetta certo la manna. Tuttavia gli arrivano dei messaggi misteriosi. Sono repentini e imprevedibili come le epifanie, e come queste capitano nel mezzo di eventi trascurabili. Pare che ci abbia messo forse la coda il diavolo nelle improvvise sfuriate che accecano Gadda. La nevrastenia qui è come uno strumento di Satana.

Un’epifania capovolta? Se le cose girano per il verso giusto, si metterà coi piedi per terra una di quelle rivelazioni con cui cammina il mondo. Sono le scoperte del «negativo», motore non immobile di verità che fanno molto male. Gadda ce l’ha col mondo, e non tarderà a prendersela con la vita. Passa dalla trasgressione la sua verità. Sta vivendo l’inferno, e inferno si vede intorno. Gadda sta privatizzando il senso del mondo e presto sarà collettiva l’immagine personale della vita. La sua denigrazione è destinata a diventare candida verità.

Gadda si arruolò e fu spedito a fare l’alpino. Si vedono di più le cime ma questo scrittore è una miniera, anche se non ha ancora cominciato a scendere laddove c’è tanto calore e dolore. Scavando nel Grorrale troverete la materia prima di Gadda. Dalla superficie per ora si sente quanto scotta il nucleo, ma penetrarci sarà un’impresa destinata alla sconfitta. Cercherà sotto, farà luce dove prima c’era il buio, trarrà fuori tanta ricchezza, ma il nucleo gli è negato. E stata bruciata la causa prima, che forse non è mai esistita.

Comunque non la si troverà mai più, per quanto si cerchi nella miniera da cui Gadda estrarrà i materiali roventi dei suoi maggiori romanzi. E questa la realtà, cioè il destino: la penna tocca i nervi, 112

che non sono ancora a fior di pelle. Presto avrà i nervi anche quella realtà oggettiva e saranno dolori per tutti e per tutto.

La guerra fra la mente e la scrittura

Ma ecco la sorpresa. Cosa stanno combinando gli appunti del diario? Per strano che sembri, anch'essi tramano ai danni di Gadda. Si sono messi a significare qualcosa di diverso da quello che avrebbe voluto il diarista. E qui ora c'è la Caporetto della scrittura che registra fedelmente i fatti scambiandoli per la verità. Ai lapsus del corpo e della parola si aggiungono quelli della scrittura. Nemmeno la sua scrittura è ragionevole. Memorabile davvero quella volta che arriva in visita al campo un capitano. Grande la sua cordialità quando sa che si tratta del fratello di Enrico Gadda. Questi sarà presto promosso, ma per l’altro Gadda, quando arriverà la promozione? domanda Carlo Emilio. Nessuna risposta, il dialogo diventa freddo, finché non si riscalda nuovamente per trasmettere tanti saluti al fratello bravo. E allora si fa scottante la situazione di colui che in guerra sa specialmente scrivere. Una parola inattesa provoca una tempesta di domande intorno alle quali Gadda si avvita. Un vortice lo trascina giù, nell’inferno di una mente infuocata. «“Addio Gadda, e in gamba! neb! Mi saluti tanto suo fra-

tello.” E la voce a quest’ultima frase divenne più affettuosa. Rimasi male, scontento di me: mi parve che quelle parole volessero dire: “Credevo meglio di lei, a quanto il suo legame di parentela con l’altro Gadda mi poteva far supporre”. Inoltre l’espressione “stia in gamba” poteva benissimo essere interpretata in due sensi: il più bonario è un voto ch'egli mi faceva: “non si lasci cogliere dagli austriaci”; il più severo un rimprovero: “Non abbia paura”. «Paura io? paura di che? Qual moto o accento poteva avergli fatto venire una simile idea? Forse ilfatto che invece di stargli a fianco io lo seguivo? Facevo ciò in segno di rispetto. DIS

Forse il tremito della mia voce quando mi vidi solo con lui? Era questo il prodotto della commozione che prende un cuore facile alla stima e al rispetto quando una persona illustre 0 autorevole vi onora d'una speciale attenzione. (Vedi il sarto dei Promessi Sposi.)»

Non c'è battuta di dialogo che non sia un lapsus. Non ne fa solo lui quando parla. Non appena prendono la parola gli uomini rivelano altro da quello che pensano. Il capitano tanto cortese con Gadda lo sta offendendo con l’insinuazione inconscia che il sottotenente sia un vile e un inetto. Nessuno dice la verità, la verità è negata al parlato: o meglio, affiora semmai una verità diversa da quella «comandata» dalla mente. C’è stato un ammutinamento interno di cui si fanno interpreti inconsci i gesti e le parole. Ma non va molto meglio con la scrittura. La quale fa la prima prova di quella che sarà la strategia conoscitiva di uno che procede avanzando parecchie domande a ogni azione, a ogni parola, e a tutte dando più di una risposta. Lo scritto involontariamente lo dice in modo eloquente: un nevrastenico sta ingigantendo il trascurabile con interrogativi maniacali. Quel cervello sdoppia ogni pensiero, provoca ingorgo su ogni evento, complica l’elementare e si aggomitola intorno alle proprie ossessioni. È su questa stessa strada anche il Pasticciaccio, metastasi di metastasi. Obiettivamente, a sentire il diario, il sottotenente Gad-

da non merita d’essere promosso, e paradossalmente «non sa scrivere»: nel senso che il testo comunica un senso diverso da quanto Gadda crede di dire. Il diario «parla male» di colui che lo scrive. Anche la scrittura insomma lo tradisce. Il corpo e la scrittura si sono alleati per suggerire qualcosa che non può essere detto con la lingua della ragione. Hanno un nemico comune che è l’io di Gadda, del quale debbono rompere le resistenze e costringerlo a farsi carico delle loro esigenze. Hanno un linguaggio omologo, hanno la medesima struttura, il corpo che duole e la scrittura fu114

riosa. E fanno entrambi follie proprio perché quell’io non li capisce. Il corpo che obbedisce all’educazione borghese di Gadda è impacciato, e fa tanti danni al suo padrone da farlo giudicare un minchione. Lo stesso fa il parlato, a causa del quale Gadda è considerato un imbecille. Represso, il corpo si scatena in sofferenze fisiche, fame e dissenteria; il parlato invece scivola in frequenti lapsus, che a Gadda fanno dire cose diverse da quelle che egli pensa veramente. Due schiavi hanno iniziato la rivolta. E il racconto perde la testa, sede di alta razionalità. Quando meno se l’aspetta, la scrittura gli prende la mano e gli fa dire quello che lui desidera profondamente ma che ignora di desiderare che venga detto. Così la scrittura diventa il linguaggio di ciò che è proibito dire. Lo proibirebbero i superiori, e alla madre non piacerebbe che lo si dicesse. Ma è anzitutto di Gadda l’interdetto. Lo sproloquio come schermo. La Caporetto della sincerità. È la scrittura proibita di uno che crede d’essere in regola. Nel suo caso, però, essere in regola significherebbe dare un’immagine falsa di sé e della realtà. Tocca uscire dunque dalla regola per tentare la via della verità. La verità che Gadda ha appreso dalla sua scrittura «irregolare» è che lui è vero quando va fuori regola. La scrittura di Gadda è sempre illecitamente incinta di novità proibite. Una gravidanza isterica? Nascerà qualcosa di nuovo da dolori corporali che fanno urlare e torcere la scrittura. Il prigioniero sta alzando le mani dal foglio per un’altra resa (che senso ha scrivere così?). Non funziona più la scrittura tangibile, nitida e mordente. Serve una nuova scrittura per questa mente che delira, per questo corpo che fa pazzie. Si deve scrivere come se fosse il corpo a parlare? Quando le salde ragioni culturali e morali sono disarmate, il corpo si scatena e manda disperati messaggi in codice. Crisi isteriche, diarree, insonnie, astenie, irritabilità per mo-

tivi futili, rabbia inarrestabile, improvvise depressioni, fre(o)

quenti propositi di suicidio e qualche immotivata tregua. La Caporetto della ragione coincide con la vittoria del linguaggio del corpo. Il pensiero non sa trovare né le ragioni né le parole per interpretarlo ma non può evitare di registrare le reazioni sempre più prepotenti. Gadda sarà per sempre un

narratore «corporale». Pochi sapranno trovare come lui le parole con cui raccontare i desideri del corpo. Dove non arriva il termine preciso, si alzeranno in volo le metafore, aquile che mettono il becco dentro il cervello umano. Questa ipersensibile sentinella che inclina a vedere nemici dappertutto è pure un cecchino. È infallibile ma non gli basta un solo colpo. Guardate come mitraglia i suoi personaggi e se stesso con tre, quattro, cinque aggettivi («paura continua, incessante, logorante»; «bestemmie... orribili, atro-

ci, infami»; «I giorni passano noiosi, squallidi, ingloriosi»; «lurido e angosciato, affamato e assetato e pieno di sonno»; «triviale, bassa, porca, ruffianesca») o sostantivi («ingegno, fosforo, cerebro e materia grigia»; «l'energia, la severità, la sicurezza di se stesso»; «il tumulto bavoso delle chiacchiere delle incertezze delle sciocchezze delle cecità più madornali») o con la coppia sostantivo + aggettivo («la superficiale banalità del discorso, la cocciutaggine egotista, la fuga subitanea dell’innamorarsi di un’idea che poi si rivela assurda») o ribadendo maniacalmente un verbo («agisce agisce agisce»). Uno stile molto «attivo», battendo il pugno, per inchiodare qualche povero cristo che gli è capitato a tiro. Tutti scrivono stringendo la penna in pugno ma Gadda la usa come se dovesse dare un cazzotto alla persona che nomina. «La violenza frenetica dell’immaginare mi porta all’eccitazione fisica della marcia forzata.» Gadda parla di piedi, ma la spiegazione funziona soprattutto per la sua «mano». Procede anch'essa «forzata», coatta e violenta. Una scrittura

fisica per prendere a pugni e a calci uomini e cose che eccitano «negativamente» la sua immaginazione. Il sangue alla

testa va ad irrigare un cervello infaticabile nel lavoro del di116

re di no. Sta nascendo un mago della scrittura puntuale che parla d’altro. Gadda sa leggere la mano? No, ancora non sa interpretare ciò che la mano ha scritto. Lui nota quello che vede e ascolta, nonché tutto quello che sente. Fotografa cose e immagini, e per ora pensa solo a quello che arriva sotto i suoi occhi. Un mal di pancia però non significa solo che non digerisce bene. Il lettore deve smorfiare un testo apparentemente semplice, nel quale però il sintomo superficiale è messaggero di sotterranei turbamenti. La mano è corriva ma la mente ha le vertigini. Gadda scrive «di getto» una prosa delirante. In quanto al discorso, esso è chiaro, purché si sappia che molto resta sempre oscuro. Anzi sta dicendo cose oscure il linguaggio più chiaro. Il chiaro e l’oscuro convivono nella prosa di chi non può evitare il lapsus e la menzogna involontaria. Gadda spesso si scopre a scrivere a velocità tale che la mano fatica a tenere dietro al pensiero. Anzi il diarista si fa letteralmente prendere la mano da ciò che scrive. Quasi sempre comincia la pagina descrivendo oggettivamente la situazione ma presto le frasi vanno imponendo la legge del diario: genere letterario che esalta il punto di vista del soggetto. Contro la prospettiva dell’io Gadda tuttavia celebra la Caporetto del soggetto. Attenti a un connotato strutturale: Gadda non «traduce» il linguaggio demente in un discorso che comprende e interpreta la diversità. Fa invece una «traduzione» forzata, come poliziotto che trasferisca un delinquente. Non converte la «delinquenza» in nuovo ordine, ma trasporta la trasgressione lasciandola com'è. Il linguaggio dell’isteria è incurabile; o meglio è già sano: comunica un messaggio intraducibile che va bene com'è. Insomma non mettete la camicia di contenzione ai matti di Gadda. Hanno una visione profondamente diversa. L'Altro non scende a compromessi. L'uomo rotola via dal centro verso la x, diceva Nietz-

sche. Gadda avverte la presenza dell’incognita, ma non vor-

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rebbe arrendersi anche stavolta. Invece di decentrarsi, si

concentra su se stesso, si arrocca a difesa del proprio modo di pensare. Sconfitto a Caporetto, Gadda deve ora scontare la prigionia dell’io. Alla fine del diario Gadda è bloccato laggiù, nella sua natura nevrotica e nella sua cultura positivistica. Lì deve attaccare con la sua artiglieria intellettuale e morale. Tocca bombardare quel brutto soggetto che paradossalmente si sta guardando allo specchio invece di cercare la vera identità del prigioniero. Va bombardato quell’atomo, va disintegrato, se si vuol capire cosa c’è dentro. Gadda non lo sa ma è già a trazione atomica. Lo dice la sua energia, il suo corpo, la sua scrittura. È all'avanguardia quella «particella atomica» di nome Carlo Emilio. Lo studente d’ingegneria lo ignora, il giovane scrittore è inconsapevole delle leggi della microfisica ma intanto le «rispetta»: registra le sfuriate con cui si manifesta il suo essere e che sono imprevedibili quanto il movimento della luce delle particelle atomiche. L’Ingegnere disobbedisce alla propria scienza e si mette a comportarsi come prevedono le nuove leggi della materia. Il suo io è ancora al seguito della macrofisica, ma il suo linguaggio ha già sposato la causa della probabilità. La Caporetto della scienza meccanicistica. La vittoria spetta alla letteratura che fa esperimenti scientifici con il linguaggio che va a quanti. Ed è la Caporetto del verismo. Il soggetto non lo sa più intepretare. Urge ribaltare l’ordine: tocca al linguaggio in tali casi andare avanti; è nuovamente tempo di affidare la priorità al linguaggio. Più tardi arriveranno in aiuto le metafore, parole di confine che sconfinano, ma per ora l’incarico è affidato alla «lettera» del discorso. Ed essa, sentendosi inadeguata, va in affanno e urla. Sia nuova, oltre che la struttura, anche la scrittura: si dia

libertà alla metafora, traslato della parola che mente per avvicinarsi alla verità. Ma per ora invece c’è una lingua semplice per una situazione molto complessa. Tocca attrezzarsi 118

«scientificamente» per gettar luce nell’atomo che è l’uomo e che è la sua psiche. Ci vuole ingegneria, ci vuole filosofia. Ma chi è più avanti è la letteratura. All’avanguardia del sistema gaddiano c’è la parola, la scrittura, la parola che va a trovarsi il linguaggio con cui dar voce all’ansia. L'ingegnere aveva in mente degli esperimenti. Li farà con le parole del diario ma questo non basta. Servirebbe un romanzo: magari un romanzo che «tenga il diario». «E poi vorrei esprimere meglio e più.» È il suo destino, cioè la «realtà» della scrittura di Gadda: sempre di più, sempre meglio. Vorrei: un condizionale sempre presente, anche nel futuro. Nelle vecchie forme ottocentesche il meglio e il più stanno troppo stretti. Sta per nascere la scrittura spasti-

ca. Nel Giornale risuonano urla e pianti. Sono gravidi e sono fecondi di nuovi significati. Interpretateli. Dove c’è più energia, là nasceranno le metafore che esprimono meglio e con più ricchezza una condizione che potrebbe non essere così intollerabile se il discorso non fosse troppo semplice. Alcune parole verranno fuori «con la gobba» e porteranno fortuna allo scrittore futuro. Gadda come lettore di se stesso

Quand'è che lo scrittore accetta il Gaddus che va sopra le righe? Nei quaderni che diventeranno il postumo Raccorto italiano d’ignoto del Novecento, nel 1924, definisce i diari «logici, espressivi, acuti». Che i diari siano «espressivi e acuti» lo pensa anche il lettore ma sono «logici»? Nel senso che si tratta di un’«altra logica», una logica «altra» che Gadda ha recuperato a una diversa razionalità. E diventato cosciente che c’era stata una rivoluzione inconsapevole. E pubblica il Giornale. Una grande distanza divide il diarista e il lettore. Il primo scrive la vita (la sua quotidiana registrazione), il secondo la legge come letteratura. È diversa la vita a vederla dal nuovo punto di vista, è diversa la letteratura. Gadda da lettore BIO

ha visto un libro, un’opera, dove c’era il diario. E voi potreste vedere addirittura un romanzo nel Giornale di guerra e di prigionia. Quell’autobiografia è andata a cercarsi una vicenda in cui non c'è solo la sua vita reale.’ Era Gadda forse uno di quegli scrittori cari a Bobi Bazlen, cioè uno dei «pazzi che tengono la testa a posto»? Le sue crisi isteriche erano calcolate? Gadda è forse stato sempre un dissimulatore? Diciamo che il futuro ingegnere è sin dall’inizio uno scrittore sperimentale. Così vuol far credere quando riprende in mano il diario. Lo scrittore come mentitore che sa di mentire al fine di dire una verità per la quale va prima trovato un linguaggio. Gadda potrebbe aver fatto la commedia mentre faceva influire la sua personale tragedia. Nel suo caso, la demenza è un uscir di mente che allarga la mente. L'isteria di cui aveva subito le sfuriate è acquisita alla normalità. E logica la «follia», cioè è sotto il controllo del pensiero. L'io, mentre è soggiogato da violente forze interne e insieme «estranee», allarga il proprio territorio verso quell’inconscio che è il terreno di conquista dello scrittore del primo Novecento. Gadda ha individuato il terreno oscuro sul quale cominciare a far chiaro e così fondare la strategia futura della sua narrativa, della sua attività conoscitiva. D'ora in poi lavorerà a rendere «espressivo» l’urlo della nevrastenia e rendere logico quello che dapprima si manifesta come assurdo. La «demenza» di Gaddus aiuta a far diventare «acuta» la piatta esistenza borghese. Sarà profondo quel matto di Gonzalo e sarà una demente anche la saggia Liliana agli occhi del commissario Ingravallo. E potrebbe risolversi in una vittoria la sconfitta di Caporetto. Il soggetto accetta di venire a patti con l’irrazionale; ne riconosce la legittimità; non lo criminalizza più e nemmeno lo considera più una malattia; gli dà diritto d’asilo e ogni libertà d’espressione. Tuttavia, quando tenta di condurlo verso il proprio centro, di illuminarlo con buone ragioni e di conquistarlo, l’inconscio se ne sta sulle sue, si isola di là, ri-

fiuta la comunicazione: anche se l’urlo è una richiesta d’aiu120

e ie

to. Il grido è così alto che non si distinguono le parole. Il significante allontana il significato: e questo significa un’altra cosa. Una cosa è vera in un giorno, in una pagina del diario, ma può diventare falsa il giorno dopo, da una diversa prospettiva, per un diverso stato d’animo. Ed è la Caporetto di chi cerca la Verità assoluta. Il diario allinea una lunga serie di conoscenze ed emozioni particolari, finché Gadda non si accorge che esso è diventato un libro, cioè un testo in cui i particolari hanno assunto una figura, una storia, un senso. La Caporetto del diario coincide con la vittoria di uno scrittore che ha accettato le proprie fratture strutturali, sino al punto di giudicarle salutari. E meglio dell’unità la divisione dell’io, se concorre a definire una personalità, scissa ma vitale, anzi tanto più vitale

quanto più l’individuo è decentrato, disaggregato da un incurabile esaurimento che è non solo nervoso ma anche storico. In quanto alla storia della letteratura, questo diario mette molta carne sul fuoco. Si è nutrito il miglior Gadda futuro. Il Giornale si porta appresso la croce di non potere dire la verità assoluta. Il diario, che è il genere del minuscolo e del relativo (una piccola verità oggi e una opposta o diversa domani), afferma e smentisce sulla linea retta e orizzontale

in cui si mettono in fila i segmenti della quotidianità passeggera (un giorno ti va bene e uno male, ridi o piangi, ecc.: questa è la realtà). Sulla verticale che conduce dall’alto in basso (specialmente in giù, dove l'inconscio manda clamorosi richiami), si dice una cosa che è puntuale e acuta in superficie ma che viene delegittimata dal profondo. Una verità letterale è diventata la metafora di qualcosa che, se venisse nominato, risulterebbe essere una menzogna. Toccherà scendere là da dove partono segnali che sono ancora rumori, ma si preannuncia che si è sempre a un croce-

via: quattro o più interrogativi a ogni punto d’incontro della linea orizzontale e di quella verticale. Sarà difficile per la storia procedere, se si è fermati a ogni passo e dirottati e circuiti.

La croce dello scrittore: è necessario muoversi verso il basso ma è insieme indispensabile rispondere alle domande 121

che nell’inconscio proliferano incessantemente. Potrebbe essere la Caporetto del narratore, se Gadda non trovasse una via d’uscita. La pagina di un diario alterna punti di vista (il soggetto è uno solo ma l’io è diviso)? Gadda sarà un narratore canonico del racconto poliprospettico. La Caporetto del diario prelude alla vittoria del romanziere che Gadda si prepara a diventare. O crede di esserlo già, quando definisce «libro» gli appunti del diario. Quando rilegge l’infuocato diario per decidere se pubblicarlo o no, Gadda si riconosce. Era così e così continua ad

essere l’isterico imbranato onesto intelligente e volubile sottotenente degli alpini che trent'anni dopo è divenuto narratore. Nel linguaggio di un Horzo sapiens s'era però incarnato l’Horzo fictus che è uno dei due personaggi «proverbiali» della sua narrativa: il Gonzalo Pirobutirro della Cognizione del dolore. Come rassomigliano le crisi nevrotiche di costui a quelle del giovane diarista che è in guerra contro nemici palesi o occulti e che non sempre vive in pace con la madre! Lo scrittore accusato d’essere barocco è contento d’aver trovato la prova del suo «realismo» o era allarmato dal fatto di non sapere creare altro che la propria vita vissuta? Il Gaddus del Giornale è già un personaggio da romanzo o le opere narrative di Gadda sono tanto autobiografiche da non diventare mai veri e propri romanzi? Il Giorzale non è ancora

un romanzo ma è più di un diario. Nasce qui la narrativa di Gadda. Un’autobiografia inventata. E un’opera «artificiale» un diario che non potrebbe sembrare più naturale? È il Giornale il calcolato prodotto della cultura letteraria del giovane Gadda? Gadda «inventa» ciò che è già una realtà, sia pure inconscia? Il linguaggio gaddiano incontra sempre la vita, prima o poi. Un’altra vita: sperando che nel profondo così è la vita di tutti. Dunque, via libera alla scrittura, alla più libera scrittura. Senonché, appena si affida a questa, esplode una personalità diversa davvero dal cerimonioso Gaddus, dal suo parlato e dai gesti impacciati di un uomo considerato un minchione e 122

un imbecille. Non sarà un imbecille, anzi è molto intelligente, colto ed esperto d’arti militari e di uomini, ma è una testa spesso incontrollabile, un matto scatenato, un «demente»

che nei suoi scatti d’ira travolge tutto e tutti, dal re in giù, e giù i generali, gli ufficiali superiori, i furieri, i soldati, i giornalisti, gli industriali, e tutti gli italiani, cialtroni e inetti. E il diario di colui che era un imbecille è impubblicabile. Tuttavia quella scrittura che va oltre il mandato avuto, che si è ribellata all’autore, che lo tradisce e lo denigra presso il lettore, fa un’altra sorpresa. Fa intuire che aveva ragione il soldato ribelle e il figlio insofferente, l'ufficiale che si arrabbia per il disordine e l’uomo che non tollera più un’esistenza così cenciosa. Il trasgressore è il migliore difensore della legge, il matto è il più intelligente, il nevrastenico ha più energie di tutti, l’urlo testimonia in modo più ricco la condizione dell’uomo. Quella scrittura proibita dice la verità? Nessun parlato, nessuna scrittura diranno mai più la verità. Ogni parola, anche quella detta in un orecchio, dice il falso. Ed è inutile pubblicare un libro che è diventato una menzogna. Tuttavia la menzogna gaddiana è diventata una delle più convincenti verità del Novecento. E così dalla Caporetto dell'Ottocento si arriva pure alla Vittorio Veneto della nuova letteratura. — Gadda guarda le macerie del suo sistema culturale. È sparso per terra tutto il patrimonio intellettuale che s'era portato nella «santa guerra». È stata una Caporetto per l'io, per il naturalismo, per la logica, per la psicologia tradizionale, per il positivismo, per il linguaggio realistico, per la scrittura «di cose», per la fotografia, per il punto di vista unico, per il razionalismo, per il meccanicismo. Senza queste Caporetto però non avrebbe mai vinto lo scrittore che ha raccontato la fase di passaggio fra l’Ottocento realista e quell’avanguardia espressionista, che ha sfigurato l’uomo per mostrarcelo com’è davvero nel Novecento.

Il Giornale racconta la storia di un perdente. Gadda ha perso la testa (le idee di prima non bastano), l’anima (il ma(OS:

le è invisibile), la lingua (le parole tradiscono le cose), la causa (si sono ribellati gli effetti, figli sempre più illegittimi), l’ordine (che salta all’improvviso, per cause imprecisate), la gerarchia (il corpo non risponde alla mente), i sentimenti (la madre ama la casa più del figlio). E perde il diario: i cui frammenti dicono una cosa mentre il libro nel suo complesso ne dice un’altra. Il Giorrale, che era nato come autobio-

grafia dell’io, si è andato infatti trasformando progressivamente in romanzo scritto da un altro. Il diario fa il proprio dovere pagina dopo pagina, frase per frase, su ogni evento e parola. É necessario che sia così ma c'è altro da dire: il diario sta dicendo altro accorpando le pagine che vanno diventando un libro. Gli episodi, pur restando isolati per meglio dare espressione a «quel preciso momento», hanno stretto un’alleanza sotterranea per mutua assistenza: quella che trasforma la pagina singola in parte di una vicenda organica, anche se frammentata. Sarà sempre «diaristica» la narrativa gaddiana. A Caporetto alza le mani anche il diario. Si arrende allo scrittore che da tempo stava raccontando una storia segreta. Il diarista porta in grembo un romanziere. Venga alla luce il Giornale, lo si pubblichi.

PARTE SECONDA

La nascita del romanziere come «delinquente»

CAPITOLO PRIMO

Il gioco del rovescio

Gadda è tornato dalla guerra, o meglio dalla prigionia. Per essere più precisi, tornava da Caporetto il prigioniero di se stesso che era stato segnato da quella sconfitta. Si è laureato in ingegneria ed è stato vicino a laurearsi in filosofia. Non sarà mai un poeta laureato ma diventerà un maestro in letteratura: più precisamente narrativa, scritta con «profes-

sionistica» ingegneria e non dilettantesca filosofia. Gadda si è costruito un forte traliccio di idee per reggere una narrativa che in verità non se la prende con filosofia. In quanto alla sua vera scienza, è la psicologia dell’inconscio. «Carattere involutivo», nevrastenico imbranato, aveva

capito che solo per iscritto poteva comunicare con gli altri: cioè coloro i quali, a sentirlo parlare o guardando i suoi comportamenti impacciati e cerimoniosi, lo giudicavano un imbecille. La sua prima opera di ingegneria letteraria dopo il Giornale di guerra e di prigionia sarebbe stata un romanzo, genere con cui si ottiene gloria tra la specie degli uomini che leggono. Si sarebbe dedicato alla scrittura, avrebbe scritto tun romanzo e con esso avrebbe vinto un premio letterario già bandito. Sarebbe stato puntuale all'appuntamento con l'attualità, sia nel tema che nella forma.

In quel 1922 in cui Gadda inizia Racconto italiano d'ignoto del Novecento Marinetti pubblica Gl indomabili e sono approdati al romanzo gli scrittori della «Voce» e della «Ronda». Tozzi aveva già scritto grandi romanzi: se n'era accorto Giuseppe Antonio Borgese, in quegli anni autore di Rubè. Aveva finito di scrivere La coscienza di Zeno Italo

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Svevo: scriveva «microromanzi» Massimo Bontempelli; ed

era in attività colui che è ritenuto uno dei massimi narratori

del Novecento, Luigi Pirandello. Era cambiato il clima, il vento era di nuovo a favore del romanzo, e ci fu il «ritorno di Verga».

Gadda non poteva tornare a Verga, non bastavano più il verismo e il positivismo a tenere prigioniero del naturalismo l’Ingegnere. Gadda non mostra di sapere alcunché di Palazzeschi, Bontempelli, Pirandello, Svevo, Tozzi, Borgese. Esisteva D'Annunzio e si vedeva. Si vedeva Panzini, ma Gadda

se lo sentiva familiare per un umorismo del romagnolo che faceva pensare a Manzoni e a Dickens. Gadda avrebbe scritto il suo primo romanzo con molto umorismo, ma non poteva tornare nemmeno a Manzoni o a Dickens, anche se il suo

modello è il grande romanzo realista dell'Ottocento. Dunque, avanti verso la grande narrativa del secolo scorso! La strada era illuminata da Dostoevskij, maestro sorto in Oriente e tutt'altro che tramontato in Occidente, nel Novecento.

Il primo maestro è Manzoni, per il quale sta concependo l’«Apologia», con cui esordisce come saggista letterario. Una differenza c’è, anzi due, e radicali, dice l’autore di Rac-

conto italiano: «Manzoni concetto morale-civile. Io concetto più agnostico-umano».

Gadda non scrive con intento di

educazione morale, il suo romanzo è estraneo a un progetto «civile». Lui è agnostico, non ha preconcetti morali politici religiosi e sociali. Semmai ha coazioni, e, creato il sistema, ri-

peterà i suoi concetti sino alla fine dei suoi giorni. Venga fuori l’uomo com'è in realtà, come lo ha visto in guerra, dove si vede il meglio e il peggio del genere umano. Gadda s'è fatto il concetto «disumano» che la conoscenza arriverà meglio dai molteplici aspetti negativi, anormali, criminali degli uomini. Ci portano lontano i «delinquenti», quelli che hanno abbandonato la conoscenza protetta dalla legge. Gadda, l’«immorale» scrittore, l’«incivile» narratore.

L'agnostico, colui che non sa, indaga con illimitata disponibilità nell’umano che non ha più verità certe da difendere. Quando mancano i significati in cui credere, tocca sperimen128

tare i linguaggi in modo che sappiano estrarre o creare le verità che servono. L’agnostico che si considera solo «umano» e che dubita dei propri valori chiede aiuto anche alle forme

vuote. Le sperimenterà: se funzionano, se uno dentro ha na-

scosta 0 rimossa della sostanza, ci saranno delle belle sorprese. Lo stupore segnala che il linguaggio ha toccato qualche significato latente che non sarebbe mai emerso coi linguaggi tradizionali. Lo sperimentalista cercherà la verità nel vuoto e lo riempirà di parole che hanno presa e sorpresa. Gadda ha aperto officina in proprio, ha smesso di andare a scuola, non tifa per nessuna corrente e non ha un maestro che lo bacchetti se sbaglia. Non ne ha bisogno: bacchetta da sé la mano che non ha scritto bene, dà colpi sulla testa che ha sbagliato l’idea o il progetto: l’accusatore di se stesso non perdona. «Molte cose, specie nelle parti descrittive non mi piacciono. C'è poi la questione dell’espressione corrente e del parlato che non mi va: è la più difficile. O volgarità o irrealtà.» Nel futuro sarà «volgare» e sarà «irreale» per arrivare all’espressione che piace a lui e ora pure agli altri. Racconto italiano d’ignoto del Novecento uscirà postumo circa sessant'anni dopo la stesura del testo che sarebbe dovuto diventare il primo romanzo di Gadda e che invece finirà sbranato dall’autore. Sono stati salvati alcuni frammenti abbandonati fra gli appunti del quaderno o cabier. Si entri dunque nel suo laboratorio. È un laboratorio d’artigiano il quaderno in cui Gadda andava scrivendo il romanzo alternando testo narrativo e riflessioni sul narrare. Il racconto arranca, e invece corre la

teoria del romanzo. La coppia racconto-teoria non va d’accordo e si intuisce che presto ci sarà il divorzio. La parte narrativa andrà ad alimentare con alcuni suoi frammenti i racconti e i romanzi futuri; invece gli appunti teorici e criti‘ci emergeranno molti anni dopo e genereranno i saggi di I viaggi, la morte. Nel Racconto italiano d’ignoto del Novecen‘to si vede il laboratorio mentale di un narratore combattuto tra ciò che non può più scrivere e ciò che ancora non sa scrivere. 129

Gadda fa in casa tutto, e non butta nulla delle sue esperienze di prima durante e dopo la guerra. Monta e smonta i

pezzi, ma, se anche funziona la messa in moto, il motore si

ferma quasi subito. Dove aveva sbagliato? C'era stato un errore di tecnica? Meglio appuntare subito ogni cosa, idea, dubbio, giudizio. Si scriva che per ora non funziona nemmeno la scrittura, un carburante che aveva dato energia al Giornale di guerra e di prigionia. Era da cambiare la struttura? Gadda capisce presto che esiste un problema strutturale da risolvere per chi nel primo dopoguerra intende fare narrativa all’«altezza dei tempi». Quando inizia, due anni dopo La meccanica, il romanzo che

si protrarrà fino al ’29, Gadda cambia la scrittura e la struttura, ma queste non sono ancora all’altezza della narrativa cui chiedeva la grandezza letteraria negata all’esistenza. Testo di confine tra almeno due modi di raccontare e tra due culture, Racconto italiano d’ignoto del Novecento fa il contrabbando tra due linguaggi. Ecco: senza sconfinare troppo, va detto che Gadda opta per l’azione «delittuosa». Il passo da fare per scrivere un romanzo diverso, che tenga conto della diversità dell’autore, è infatti «delinquere». Il «delinquere» dei latini, l’abbandonare definitivamente una riva, nell’italiano di Gadda diventa la necessità inderogabile di smetterla con una narrativa stagnante, dovendo dire una cosa diversa da quelle in circolazione. Sul latino «delinquere», su una parola «criminosa», Gadda fonda la sua teoria gnoseologica e letteraria. È un infinito presente che dà una ricetta perenne per le culture stagnanti ma vale come imperativo per l'immediato, nonché per il futuro che è il nostro presente: abbandonare anzitutto i vecchi linguaggi, quelli che ormai si sono ridotti a «bollettino ufficiale» e che hanno «ufficializzato», cioè ideologizzato, un sapere che è ormai falso. Questo delinquente insomma è un virtuoso: solo chi delinque dalla vecchia conoscenza può approdare a nuove verità. Il giovane Gadda intanto «delinque» volentieri dall’italiano, e non di rado torna al latino per citare verità classiche 130

che diventano canoniche nel suo caso particolare. Ad esempio: latet in imo. In latino Gadda sta dicendo che nel suo profondo è nascosto un segreto? Potrebbe essere una direzione di marcia per chi si è scoperto un «carattere involutivo indipendente dall'ambiente» e quindi non può sperare la salvezza da mutamenti ambientali, storico-sociali. Traducete così come imperativo l'imperativo latino: deve scendere nel profondo chi ha un male invisibile. Sarà così guaribile? Risponde alle domande il solito latino: natura furca tamen expellas. Se si fa violenza alla natura, la si può cambiare. Come? Con un’altra cultura, con un linguaggio dotato di grande energia. Intanto, però, Gadda ha fatto violenza al proverbio latino che non era ottimista sulla possibilità di mutare natura. Naturam expelles furca, tamen usque recurret. «Ritornerà sempre la vecchia natura?» Il giovane scrittore non vuole sentirselo dire in nessuna lingua che in fondo, nel profondo, sarà sempre lo stesso. Proverà con la cultura a scacciare una natura inesorabile. Lo dicevano anche i latini (Urzversitas in bumano) quello che Gadda ora dice in italiano perché lo intendano tutti. Secondo lui, gli uomini in una fase iniziale sono «onnipotenziali», hanno cioè tutto nella loro natura. Poi si spostano verso i poli e si distinguono in maschio e femmina, buono e cattivo, tragico e comico ecc. Il passaggio dall'una all’altra sponda non è definitivo: il buono può diventare cattivo, il comico può tornare ad essere tragico, l’uomo si trascina in sé

la donna, che può avere il sopravvento. Se ci sono due poli, c’è un globo: nel globo terracqueo, su questo rotondo pianeta, la vita gira in modo che una cosa e il suo contrario una volta furono la stessa identica cosa, e a questa si può tornare. L'uomo è dunque onnipotenziale, si

colloca ai poli, e per gioco o necessità salta dall'uno all’altro. Così prende forma l’informe originario, principio e fine dell'avventura umana, nella sua globalità. Gadda sarà scrittore globale, cioè totale, per non dimenticare d’essere onnipotenziale. Abbiamo rimosso la nostra inesauribile ricchezza: cerchiamola dappertutto, in superficie e nel profondo. 131

In quale polo si colloca Gadda? Per «natura», per la sua ipersensibilità, e per «cultura», per scelta consapevole delle conseguenze, il polo preferito di Gadda è «il negativo». Dal polo negativo egli scarica elettricità fulminante su tutto e tutti. Ed è fondata sul negativo la sua strategia letteraria: lo scrittore ha un’inclinazione per il comico; e la malignità è virtù gnoseologica. Maledice e dice male di tutto un autore che raramente parla bene di qualcuno. Questo diavolo di narratore frequenta la verità negativa che sta sempre sotto ciò che ha un bell’aspetto. Deformatelo, e saprete cosa nasconde. Questo è infatti

l’altro verbo, il fondamentale infinito presente di Gadda, dopo il «delinquere»: deformare. Chi abbandona la riva e guarda da un’altra prospettiva deforma, e così conosce. Per conoscere basta deformare la vecchia forma. Non la forma radicalmente nuova delle avanguardie surrealiste: meglio tenersi nei paraggi di ciò che è reale, e «familiare», a cominciare dalla propria stessa vita. Non l’informe dei futuristi, anche se il «demente» sente la violenza di ciò che impazza sotto perché vorrebbe una forma che gli si adatti. Il deformare è scoperta graduale? Procede per varianti? La deformazione sia infinita come la conoscenza. «Deformare è conoscere.» Deformare come delinquere, «abbandonare definitivamente» una forma. De-formare come «scendere» da una forma alta, quella egemone, che si considera depositaria di verità. Cambiare una forma dal basso, utilizzando linguaggi umili. Dal punto di vista inferiore che si assegna alla comicità. La deformazione che è caricatura, disegno simile alla realtà cui vengono accentuati, esagerati, i connotati. Mimesi alterata, rappresentazione che è creazione, il deformare conserva molti tratti reali ma modifi-

ca quelli essenziali. La caricatura di un incubo. La deformazione è un'attività dell’occhio. Nel caso di Gadda è una visione, compreso il fatto che è anzitutto un’idea, sapere che prima è stato visto. Chi deforma è specialmente il pittore. Lo ricorda Ortega y Gasset, che fa coinci132

dere deformazione con disumanizzazione. Anche Gadda deforma per disumanizzare? Pure lui, come il pittore d’avanguardia che è il modello del filosofo spagnolo, tenta di sfuggire al «naturale» che lo opprime e che gli impedisce la conoscenza del se stesso innaturale, irreale, anormale, persi-

no demente, il cui linguaggio urla e simula insieme. Parte dunque dal negativo il viaggio di Gadda verso nuove avventure intellettuali e letterarie. Il vocabolario che fa legge per il giovane narratore (ha trent'anni quando tenta. il romanzo con Racconto italiano d’ignoto del Novecento) è decisamente trasgressivo, delinquente e deformante. Dove si sta dirigendo, cosa cerca questo scrittore che con le parole va indietro nel tempo, verso il latino, e che si sposta nello spazio della periferia con il dialetto? Ebbene, egli chiede — anche in italiano — al negativo di aiutarlo ad acquisire conoscenza, a portare avanti la narrazione, a dare vitalità alla | scrittura, a scoprire il vero senso di comportamenti che non sono chiari, a divertire i lettori, a fargli abbandonare sponde

bagnate sempre dalla stessa acqua, a condurli lontani dal luogo di partenza, dalla natura, che non è stata buona con gli italiani, e tanto meno con lui, con Gadda.

| C'è del positivo nel negativo di Gadda, onnipotenziale | capace di tutto, fazioso difensore del proprio polo e ambiguo traghettatore di opposti. Corre avanti e indietro la corrente fra i due poli: arriva energia nell'uomo, si accendono luci nella sua testa, si prende la scossa e ci sono corti circuiti. Senza il polo negativo non ci sarebbero illuminazioni, mancherebbe la forza motrice per la cultura del nostro seco- lo. Se non si muove la cultura, si blocca anche la natura. E

| Gadda non lo può tollerare, è insopportabile il male invisibile. Se c’è coazione a ripetere, ci sarà ossessione nella ricer| ca di una diversa condizione. Non è allegra la condizione dell’uomo schiacciato tra i poli. Nel Racconto italiano d’ignoto del Novecento, per cominciare, si possono individuare intanto nove parole «negative» (escludendo per ora pandaemonium che appartiene a Meditazione milanese). Gadda le usa a fin di bene, cioè per dar vi133

ta a un narratore moderno. Non dimenticate che Gadda è già «agnostico», una confessione d’«ignoranza» senza la quale non si capirebbe il rovello della ricerca. Ecco però l’elenco promesso, in ordine alfabetico: 1) Anormale; 2) Complicare; 3) Cretinoski; 4) Deformare; 5) Delinquere; 6) Demenza; 7) Gioco; 8) Maniera; 9) Spastico. Questi sostantivi,

aggettivi e verbi che confessano isteria, scemenza e frivolezza, nella teoria del romanzo di Gadda fanno invece una gran bella figura. Lo scrittore ne mostra tutte le virtù gnoseologiche, psicologiche, narratologiche, linguistiche, antropologiche ecc. Non pensate all’handicap: queste brutte parole sono fonti di grandezza, novità e bellezza letteraria. Ci sarà la conversione, ci sarà il rovesciamento, e saranno delle sante

parole. Gadda ci farà miracoli. Non s’era mai vista una così rigorosa apologia di reato.

C'è l'elogio del delinquente, dell’anormale e di chi procura disordine. Non ripugnano lo spastico, il demente e il cretinoski. Piacciono il gioco e la maniera, e godono di grande stima le complicazioni e le deformazioni. Deformatelo e conoscerete chi è veramente questo scrittore che sa di essere

anormale, e che decide di diventare complicato. Ci gioca, non usa le buone maniere, non disdegna la maniera «cretina» questo demente, questo delinquente. Manca ancora di forma. Ecco: attenti alle forme. La sostanza c’è ma si vede dopo l'operazione formale, che non è di facciata: come non lo sono d’altronde la figura spastica, la demenza psicologica e la maniera «cretinoski». Si cerca specialmente ciò che sta sotto, ma è in superficie che si svolge la prima fase della conoscenza in un secolo che ha perso i fondamenti, le verità di partenza. È solo un punto di vista, ma, se lo dicono tutti, ci dev'essere qualcosa di vero in tale necessità di affidare la priorità al linguaggio, alla tecnica e ad altri meccanismi inizialmente vuoti. Prima trovate la forma, i contenuti seguiranno. Si avvii un gioco (anzi due, e persino tre), una maniera

(cinque, per lo più umorismo), nonché una malattia come la 134

demenza: si tratta sempre di un linguaggio. Gli si dia la priorità. Complicare, deformare, delinquere, giocare sono modalità di comportamento di chi non accetta le cose semplici perché inadempienti, di chi sta a disagio nelle vecchie forme, ‘ di chi deve lasciarsi alle spalle il passato, magari affidandosi al gioco con una posta che può essere la più seria. Viene prima il linguaggio, è il linguaggio il soggetto dell’operazione formale. Strutturare significa strutturare una cosa, dice Gadda. Bisogna dare una struttura alla sostanza, dare una forma all’informe materia. Potete combinare le parole in ordine diverso da quello alfabetico ma «anormale» è termine che può stare sempre bene in prima fila. E registrazione di anormalità, è accettazione (l’anormale rientra nella legge) ed è un’esortazione (conviene essere anormali quando la norma del comportamento e del discorso paralizza la cultura, cronicizza la malattia naturale). Nessuno in sostanza è normale, va rivelata

l’anormalità che si tende a nascondere. C’è necessità di svelare l’anormalità nelle persone che sembrano normali. «Anche i fatti anormali e terribili rientrano nella legge, se pure apparentemente sono ex lege.» Questa è la «verità filosofica» che Gadda intende dimostrare intanto con il suo primo romanzo, ma forse pure in quelli successivi. Un ro-

manzo con fatti anormali e con personaggi che sono delinquenti. Se l’uomo è onnipotenziale, contiene in sé l’anormale, il criminale. Non criminalizzate quindi l’anormale. La sua ottica deformante vede qualcosa che sfugge all’occhio di chi

si crede normale. Si dilati l’occhio e gli si faccia vedere quanto è terribile l’esistenza. Gli anormali? «Sono guardiani e custodi, anziché generosi assaltatori.» Siano riammessi nella legge gli aggressori che saranno generosi di regali per il futuro di tutti. La deformazione dà la conoscenza che era ormai negata al modo di guardare della vecchia cultura. La deformazione è strategia di frontiera. La forma di prima infatti esiste, ed è sempre a questa che ti riferisci per cambiare. Non è giusto restare bloccati su un’immagine di realtà che ti lascia indif195

ferente. Cerchi altro, non può essere tutto qui. E allora provi a cambiarne i connotati. La figura è in fondo ancora naturalistica, ma, se la deformi, essa ti manda un messaggio inaudito. Cambiando un connotato, arrivi a un diverso che è co-

noscenza di cose nuove. Gadda deforma così: un particolare fa la differenza, e dove c’era impassibilità ora c’è lo stupore di chi conosce una cosa mai vista. Un particolare diverso non è mai trascurabile mutamento. E verranno utili le complicazioni dopo le deformazioni e le delinquenze. Sarebbe bello poter raccontare con linguaggio semplice, «ma così non viaggia l’anima mia», dice Gadda dopo averci provato ad essere scarno e preciso. Una scrittura ridotta all’osso non è consentita alla sua anima, alla sua condizione

psicologica, e forse nemmeno più a una cultura che non può limitarsi a registrare la «demenza» per come essa si manifesta. L'isteria è un linguaggio naturale che non potrebbe essere più simulato. Serve una illimitata molteplicità di particolari capaci di diventare così sottili da penetrare in fessure che fingono di essere porte aperte al segreto protetto dalle censure e dalle finzioni. Dovrà ben ingrassare lo scrittore che si .illudeva di restare magro ed essenziale. Toccherà trascinare su l’inesauribile materiale che sta dentro quel vulcano che è l’anima ustionata dalla nevrosi, il male invisibile che Gadda

condivide col secolo. Una fatica di Sisifo con tutti questi cervelli che fanno acqua. Solo ciò che è minuscolo può provare a passare di là, e non è detto che non ci si anneghi. Tale complicazione della ricerca è anche una via d’uscita. Lo scrittore che «complica le cose» e le deforma attraverso molti punti di vista, con i

quali surroga la perdita della prospettiva privilegiata, le vede sotto una luce diversa: e non è detto che tanti dettagli non finiscano per fare buio. Ma ormai non ci si può fermare: era una necessità addentrarsi, è una virtù cercare in tale buio. È

allora un obbligo estetico, morale e metafisico rinunciare alla semplicità del discorso e della parola. Anzi a questa toccherà il destino di diventare «spastica», parola deformata 136

che abbandona la perspicuità per trasformarsi in complicatissima metafora. «L'immagine nuda è abbastanza tragica e grande», scrive Gadda nel Racconto. È così l’immagine di Omero e dei grandi autori epico-drammatici. Gadda ci prova a seguire questi modelli capaci di esprimere l’universale («Descrivo io autore con tocchi sobri, epico-drammatici il ricomporsi delle piante dopo la tempesta, perché sono certo che tu hai visto uno spettacolo simile»). Senonché «non così può viaggiare l’anima» sua: né viaggia così l’anima dei contemporanei. La tempesta non finisce più, non c’è più il cielo sereno sotto il quale splenderà la nuda immagine dei classici. Ora tocca cercare al buio e nel caos con parole che accettano di diventare deformi per piegarsi alle esigenze espressive di menti sconvolte dalle tempeste storiche e personali. Sarebbe meglio continuare a esprimersi con immagini nude e semplici ma non è più il tempo. Ora la direzione è quella che conduce al molteplice, al complesso e al microscopico. Le immagini non saranno più nude e sobrie, saranno ben vestite e persino travestite, saranno sottili e intriganti. Ora le immagini debbono — è una necessità, ma è anche una virtù morale ed estetica — essere dimesse e comiche. La delega infatti è stata momentaneamente tolta alla tragedia: la cui immagine è nuda. Forse perché possiede la verità? Ci sarà da divertirsi in assenza di verità. «Ma non può così viaggiare l’anima mia.» Come viaggia l’anima di Gadda? Va dal semplice al molteplice, secondo «il

profondo e oscuro dissociarsi della realtà in elementi». Chi li tiene uniti è l’intreccio, che risponde all’«istituto delle combinazioni». Il romanzo non può isolare i personaggi, senza essere travolto dalla «dissoluzione», che è «esiziale» per l’organicità dell’opera. Bisogna poi tenersi pronti ad una dissoluzione ben più profonda del tessuto della realtà. E sarà un gran problema legare elementi che tendono ad agire «per il proprio (creduto) vantaggio o piacere e non in armonia al tutto». Ecco: l’anima di Gadda viaggia verso l’ars combinatoria in cui sapeva navigare il secentesco barocco. Il troppo 37

e il vano non esistono nella lingua. Dal troppo Gadda approda al vantaggio e al piacere di tutte le anime. Dal «vano» barocco estrae un bel po’ di realismo, sia pure esasperato. I vari episodi in Gadda saranno sempre così narcisisti da non abbandonare la riva su cui si specchiano. Curano i propri interessi di frammento che fa parte per se stesso. I capitoli si coalizzano contro colui che vuole integrarli nel romanzo. Le parole fanno dell’esibizionismo solitario. «Nel mio sinfonismo potrei curare una certa simmetria (procedimento ad antistrofi estetiche) o invece eleggere un vitalismo dallo sviluppo apparentemente disordinato (digressioni, ecc.).» Le digressioni si faranno belle e non vorranno sporcarsi con compiti servili. Se però qualche pagina si dà alla bella vita e alcune parti hanno una gran vitalità, Racconto italiano d’ignoto del Novecento agonizza. Il direttore non ha imparato ancora come si dirige l’orchestra. Per ora ci sono solo le digressioni, cioè il deviare dal percorso principale, il sentiero che non è una scorciatoia, la pausa dopo la quale non ti rimetti più in cammino. Il delinquente è un anormale che complica struttura e scrittura. Bisogna riacciuffare e rinchiudere il demente ma il delinquente è destinato a cambiare la vita della prigione. Va trovata la buona maniera, quand’anche fosse «cretinoski». Provate con la risata. Ci sono tanti modi per fare comicità. Gadda elenca cinque «maniere» che gli sono familiari e che vuole mettere in

piazza col suo romanzo. Quelle che fanno meglio al caso sono umoristiche. Ogni grado di comicità, non solo l’umorismo, che sta in alto quasi quanto l’ironia. Non è degradante scendere verso la parodia, e addirittura sino alla farsa. Un linguaggio «cretinoski» può svelare livelli di intelligenza che invece sono negati al buon senso di chi si limita a osservare i fenomeni in superficie. Esplode la risata per liberare il rimosso che è prigioniero di una finta tragedia. La tragedia c’è ma è un’altra, non quella che stanno scrivendo narratori o poeti che credono di fare sul serio solo perché si lamentano e piangono. 138

Inutile piangere se non c’è più una verità assoluta: ci sono solo dei punti di vista, potete giocarci come volete, vi daranno tante verità relative che fanno a pugni fra di loro ma intanto si risponde almeno con la vitalità, magari col vitali-

smo, a una cultura «devitalizzata» che non vuole sentirsi dire che il re è nudo. Non uno, ma due giochi, anzi tre, se si ag-

giunge il gioco combinatorio. Si deve anzitutto operare in due direzioni: l’interna e l’esterna. Dall’interno e dall'esterno. Dalla parte del narratore ad esempio, e da quella del personaggio; dalla parte dell’autore e da quella del lettore. Potenzialmente siamo insieme l’uno e l’altro, e dobbiamo concorrere all’unità. Per ora abbiamo due punti di vista da rispettare, ma ce ne sono altri da cui osservare gli eventi. Sia data a ognuno la libertà di dire tutto quello che pensa, e dirlo col proprio linguaggio. Deve essere «delinquente» anche con la lingua chi vuole rubare la verità. Lo si fa con i due giochi necessari alla narrazione di Gadda: il «gioco ab interiore» (l'antica drammatica — la parola ai personaggi), e il «gioco 40 exteriore» (cioè la lirica — la parola all’autore). Dall’interno si agisce anche con la scelta

del versante: comicità o tragedia? I linguaggi dell'umorismo gli sono «familiari» e la sua vita è una tragedia da «abbandonare» prima possibile. Dunque «delinquere» con la comicità, versante che fra l’altro non è gradito alla madre e ai superiori. I quali si esprimono con una lingua da «bollettino ufficiale». Va subito abbandonata questa lingua ufficiale: per esempio, accettando anche il dialetto, lingua di coloro che non hanno la condizione sociale per parlare italiano. Che delinquenti gli umoristi! Porta lontano il gioco caricaturale di Dickens, di Balzac, dei francesi. Quanti modi di-

versi di esprimere l’assurdo: comicità che si estranea dalla realtà, umorismo irreale. C'è l’assurdo ironico di Leopardi, e c'è quello ridendi causa, quello ratiocinandi causa, e quello

docendi causa. L’assurdo di Gadda invece è simbolico, efficiendi causa. Per produrre quale effetto? Non solo per ridere del presen-

te, per scoprire una ragione diversa, per ricavare un insegna-

195)

mento dall’assurdo, per ironizzare su chiunque si illudesse che basta la comicità a togliere tragedia alla realtà. Tutto questo ma più di questo. La comicità di Gadda sa raccontare anche la tragedia. Di nuovo il latino. Efficere. Realizzare? costruire? raccogliere? produrre? provare? o formare? costruire una forma in cui entri tutto e tutto sia ridicolo in quanto dissennato? Si abbandoni il latino se non sa dire né la causa né lo scopo dell’umorismo. A Gadda viene da ridere senza scopo: ciò fa bene, è una necessità in un determinato periodo. Chi deforma,

delinque, complica, gioca e compie altre azioni negative prima 0 poi costruisce, realizza, raccoglie e forma qualcosa di nuovo. Solo il delinquente può edificare il futuro. Potrebbe essere una conclusione «cretinoski», ma ridendo si rivelano tante cose serle. Si faccia la commedia - comicità, teatro, finzione cultu-

rale — e si ripeterà il miracolo della creazione di un uomo diverso da quello che è in natura. Il riso è una furca capace di scacciare il destino tragico di «persona forte che si perverte per l’insufficienza dell'ambiente sociale»? («Tragedia delle anime forti che rimangono impigliate in questa palude. Se grandi, coi loro vizi, pervertono popolo (reazione sociale dell’attività individuale); a sua volta popolo con suo marasma uccide anime grandi [reazione individuale della perversione o insufficienza sociale]»)

Gadda non si dà molte arie: lui non è il Creatore. O almeno non è solo sua la creazione artistica. C'è quella che compie il lettore: «lui compie l’ultima creazione». Non si sottovaluti il ruolo del lettore. «Tragedia è l'impressione che subisce il lettore, o l’autore in quanto lettore.» La ricezione come creazione. Non è un’invenzione di Gadda ma lui è tra i primi a capirlo. L’opera è d’ora in poi aperta alle più diverse impressioni del lettore. Si incontreranno mai i due creatori, lo scrittore e il lettore? Si incontrerà mai l’autore col testo che ha creato scrivendolo? L’umorismo è tragico 0 è comi-

co? Decide il lettore: l’impressione dal suo punto di vista è la verità. In una cultura miscredente l’abito fa il monaco. 140

«Così come il vecchio porcone di D'Annunzio si traveste da Santo Francesco.» Il travestimento da santo del vecchio porcone deve essere riuscito se a Gadda la personalità di D'Annunzio appare «più ingenua e perciò più nobile di quel che non paia». Così abbiamo davanti un D'Annunzio miracolato e beatificato dall’abito di san Francesco. Un linguaggio elevato ha portato in cielo il libertino. La forma sublime ha convertito il peccatore. Si può credere? Così è perché così pare. Trovate l'abito, metteteci l’anima, e l'accoppiata non

sarà sterile. Potrebbe Gadda da «carattere involutivo personale» trasformarsi in un personaggio di «buona razza»? Può un lirico diventare un romanziere? Quale abito dovrà indossare

per non sembrare un imbecille? Con che forma, in quale maniera si farà prendere sul serio? Con quale gioco vincerà, per una volta, la posta lo sconfitto di Caporetto? Gadda non diventerà mai san Francesco. Gli verrebbe da ridere: è tutto il contrario di D'Annunzio. Proverà allora coi linguaggi bassi, con la comicità, con miscele linguistiche popolari, con la maniera cretina che riduce a gioco la letteratura canonizzata e santificata dalla tradizione dannunziana. Gadda userà tutti gli ingredienti formali e sostanziali «negativi» — dalla deformazione alla complicazione, dalla maniera alla comicità — e cercherà la combinazione vincente. Non c’è però solo la forma, anche se le va sempre ceduto il passo; non ogni abito fa un santo, non si tratta di un miracolo. L'arte è un gioco, «artista è una parola cretina», ma ci

vuole ingegneria e ci vuole filosofia: cioè tecnica di costruzione e materiali intellettuali. Il demente diventerà un saggio? Il saggio ride tremando. Gadda, deformando e complicando, giocando e combinando, comincia a ridere. Fallirà il Racconto italiano, ma presto avrà di che essere contento. E pronto per scrivere un bel romanzo come La meccanica ed è sulla buona strada che conduce a quel piccolo capolavoro che è «San Giorgio in casa Brocchi».

CAPITOLO SECONDO

Il romanzo cubista: La reeccanica

«Le due misure sono interdipendenti, per il che non occorre aver noi alcuna notizia di trigonometria, ma ci pensa il cervello stesso dell’esagono» (dall’Adalgisa, in «Quattro figlie ebbe e ciascuna regina»). E allora Gadda fece a pezzi La meccanica. Il romanzo, iniziato nel ’24, era finito, o quasi. Ora bisognava trovare l’e-

ditore, ma presto Gadda capì che non era facile: anzi, alla prova dei fatti risultò impossibile pubblicarlo. Non la voleva nessuno questa opera che fa epoca nella storia nella narrativa degli anni Venti. La leggessero dunque almeno a pezzi, cioè racconti o frammenti. A Leo Longanesi che chiese il romanzo in lettura Gadda lo mandò trepidante: temeva che al giovane editore fascista non sarebbe piaciuto, o meglio non sarebbe piaciuta la simpatia per i socialisti dell’Umanitaria che «involontariamente» era venuta fuori dal romanzo. La meccanica infatti era andata oltre le intenzioni dell’autore. A Gadda i socialisti erano oltremodo odiosi soprattutto per la loro opposizione alla «santa guerra», e invece il romanzo aveva cambiato le carte in tavola: magari non le idee ma i sentimenti erano diversi. C'era simpatia, forse compassione, o almeno comprensione.

Non fu per questo motivo, però, che con Longanesi non se ne fece niente, chi per una ragione, chi per un’altra finivano tutti col dire di no. Non restava dunque che farlo a pezzi, cioè ridurlo in «tratti», il suo primo romanzo. Non era stato portato a termine, ma Gadda ne aveva vi142

sto chiaramente la fine; aveva scritto i capitoli finali, ma di

questi non era andato oltre una prima frettolosa stesura. Si vede che questo narratore non sa che farsene dei nudi fatti. Manca la narrativa: Gadda non riesce a mettercela. Un blocco letterario o psicologico? Era pronto a tornarci, se gli avessero detto di continuare, ma nessuno lo invitò a farlo.

E lui non sentiva, come è noto, urgenza e necessità di concluderlo. La meccanica è il suo primo romanzo avviato alla fine ma è senza coda. E la parte più lunga da scorticare? Ebbene, Gadda la tagliò, e accettò che il romanzo uscisse nel 1970 scodato. La narrativa di Gadda comincia mutilata. Esce mutilato da tutte le guerre ogni suo romanzo. Un esordio fatale per il romanziere: mai più avrebbe finito un romanzo, li avrebbe fatti tutti a pezzi (dopo La meccanica, La cognizione del dolore nonché L’Adalgisa), li

avrebbe dati da leggere come racconti o frammenti, li avrebbe collocati qua e là, in opere diverse. Era destino che l’autore della Cognizione del dolore e del Pasticciaccio alimentasse il dubbio che l’Ingegnere non sapesse costruire un romanzo a regola d’arte, o meglio secondo le regole di un romanzo ottocentesco: che resta il suo modello. Doveva finire così? Non avranno mai la coda i suoi romanzi? Di chi è la mano che li ha castrati? Di chi la mente? E una mente malata questa che non sa raccontare la fine dei romanzi? È in gran salute così com’è La meccanica, prima incompiuta.

Furono dunque mandati dei capitoli a saggiare il terreno, a fare da pionieri. Fu constatato che, se metteva da

parte le maggiori ambizioni, cioè il romanzo, Gadda veniva accolto bene. Doveva accontentarsi. Tre «lacerti» della Meccanica sotto tali mentite spoglie di racconto apparvero in Accoppiamenti giudiziosi: «Cugino barbiere», «Papà e mamma» e «Le novissime armi». Sono all’altezza dei due capolavori della narrativa breve gaddiana, «San Giorgio in casa Brocchi» e «L'incendio di via Keplero». È anche merito loro se risulta bellissima la raccolta di racconti, Accop143

piamenti giudiziosi, dove i tre episodi della Meccanica fanno da battistrada, avanguardia della migliore narrativa di Gadda. Nel primo capitolo, splendido battesimo «ufficiale» del narratore, duellano in magnifico teatro domestico Zoraide e Gildo. Straordinaria l’interpretazione di Zoraide, applausi a non finire per un capitolo memorabile della narrativa italiana degli anni Venti. Gran personaggio la donna, ma anche Gildo, che nella vita è un fallito pure come ladruncolo, nel

romanzo fa ottimamente la sua parte, non solo di «spalla». Non ruba niente a nessuno, se si dice che è un bravissimo at-

tore, un personaggio che semmai ruba la scena. Un duello, un duetto. I due, Gildo e Zoraide, non se le

cantano solo negli acuti. Anzi la rivelazione è nel dialogo «muto» dei pensieri che non sono mai elevati nel tema ma che spesso arrivano al fondo della loro anima. Ci dà dentro il narratore alle prese con anime nere quali appaiono gli uomini da quando è stato illuminato il loro inconscio. Non conoscono altro che cattiverie i due dialoganti. Peggioreranno rispetto all’inizio, scendendo sempre più in basso, anche se andrà a fondo solo Gildo. Si dicono a vicen-

da infamie, che presto risulteranno verità. Denigratevi pure, sarà più rapido far chiarezza sull'uomo. L'anima più nera è la splendida donna. Gadda le fa un ritratto degno di stare nella galleria dei personaggi da non perdere di vista. Fanno scintille incrociando le lingue e le insinuazioni i due combattenti. Due bocche da fuoco. L'incendio si propagherà nelle opere successive: dove ogni parola è una cannonata, anche se sembra d’essere dinanzi a fuochi artificiali.

Esplodono le rivelazioni di nefandezze fatte o pensate. Il racconto migliore è scritto dal nemico. E un pensiero negativo? Diciamo che Gadda si sdoppia ma non in negativo e positivo. E due volte negativo, e lo è tutte le volte che pensa insieme a un suo personaggio. Un camaleonte? Brutta bestia l’io diviso di Gadda. Sono divisi pure i due cattivi soggetti dalla lingua biforcuta. I due si scorticano vivi in modo che il lettore ci guardi 144

dentro. A Gadda Zoraide piace com'è al naturale, una donna che vive liberamente nell’«ordine naturale delle cose» e la vita se la gode senza scrupoli morali, sentimentali e sessuali. Ma è anche una bella testa Zoraide, magnifica femmina che si lascia metter sotto solo da chi vuole lei. Il narratore rende bene la psicologia femminile. È riuscito il primo travestimento. L’«onnipotenziale» Gadda ha il potere supremo di diventare tutti i personaggi di cui prenderà le sembianze. Non pensate a delle imitazioni. Lui crea personaggi cambiandogli i connotati. Un pugile infuria sugli avversari per strappare la maschera. Strappate la maschera a Gadda, e scoprirete che c’è anche l’anima della donna. Jole, l’Adalgisa, Liliana Balducci, Ines Cionini, la Zamira. Streghe

d’ogni classe. Naturalmente Gadda fa stregoneria anche con gli uomini. Per un romanzo che comincia con «Cugino barbiere» giustamente vengono evocate lame e forbici: nel primo episodio della Meccanica si fa veramente un bel taglio rispetto alla narrativa del naturalismo. Inutile chiedere a Gadda d’essere impersonale: è invece molto personale, narra tutto come se fosse un fatto privato questo scrittore che lavora di punta. Date un taglio ai discorsi di chi parlasse di narratore verista. Lo nega la struttura, lo nega la scrittura. Le sue lame non fanno solo la barba alle questioni di superficie. Gadda, lama penetrante con ogni parola. Si arriva più a fondo, comunque, se si sta attenti alle forbici, al taglio degli episodi. Un buon barbiere fa girare la testa. La battuta di dialogo colpisce, oltre che di punta, di taglio. Zoraide e Gildo lavorano di scherma un dialogo che è fitto di coltellate. Dove non ferisce la pugnalata, le forbici del narratore affettano il racconto in modo da far uscire umori da ogni frase. Sminuzza la pagina perché la vicenda non sia anemica. E ogni frase ha colore vivissimo e un sapo‘re atroce. In questi bassifondi della società splende l’acuminata vitalità di Zoraide: in barba a Gildo, le cui lame non ta-

gliano, nemmeno quando dà colpi bassi. 145

Siamo tuttavia solo agli inizi: Gadda sarà sempre più capillare, vorrà penetrare fino alle radici, per arrivare alla base del cervello, alla causa prima dei suoi pensieri troppo nervosi. Non è solo un problema fisico. La verità è ormai per sempre scorciata. Questo non lo dice Gildo, che non è un metafisico bensì un barbiere e un ladro. Lui consiglia di continuare a lavorare alla testa l’uomo, girandogli intorno e usando lo specchio. L'uomo, minacciato dalle forbici e, peggio ancora, col rasoio alla gola, confesserà il suo segreto. Quanti pidocchi, pensa Gadda, guardando in testa agli uomini.

C'è un romanzo del romanzo. Aveva cinque capitoli l’edizione del ‘70 ma La meccanica ne contava otto, dei quali dopo più di vent'anni erano stati pubblicati poco più di due. Ecco: Gadda fece in tre pezzi, divise in tre parti, La r2eccanica. Una parte, i tre suddetti episodi o «racconti», è in testa ad Accoppiamenti giudiziosi; una seconda, i due capitoli «socialisti» dell’Umanitaria e Luigi Pessina, furono ricuciti nel °63 con quelli già pubblicati nel volume di racconti e andarono a formare la prima edizione (1970) della Meccarica; la terza parte, i tre ultimi capitoli, riabbracciarono finalmente i fratelli separati solo quando Dante Isella li recuperò per l’edizione completa dell’opera gaddiana, conclusa nel 1993. Ci son voluti così quasi settant'anni perché vedesse la luce, in un certo senso per intero, il romanzo d’esordio di Gadda, essendo del 1924 «Papà e mamma». Un anniversario da festeggiare: era nato un grande narratore. Gadda si era ripromesso di «delinquere», abbandonare le sponde frequentate, i linguaggi che comunicano ovvietà? Nel Novecento i «delinquenti», coloro che hanno ucciso il romanzo dell'Ottocento, sono i futuristi, i vociani e i rondisti, coi quali tuttavia si era approdati su una riva

diversa da quella del naturalismo. Ora è venuto il momento di abbandonare i nemici del romanzo. Fine delle avanguardie, fine della rivoluzione, è tempo di edificare. L’In146

gegnere è un costruttore, Gadda non può limitarsi ai frammenti con cui i vociani hanno tentato il rinnovamento morale degli italiani. Deve lasciarsi alle spalle forme che hanno perso la conoscenza per avere puntato su un vertice narrativo. Ora ha davanti a sé il romanzo moderno. Sarà un «ricostruttore logico». Non più l’informe dei futuristi e dei dadaisti. È urgente salvare l’uomo dal caos che lo minaccia dall’esterno (i rapporti sociali, la miseria, la politica, la miseria della politica) e ancor più dall’interno (nevrosi e altre forze inconsce). Urlava il romanzo espressionista perché non ce la faceva più a stare dentro le rigide forme del verismo? Col dadaismo era stato in libera uscita ma si era a Carnevale. Finita la licenza, toccava tornare al lavoro. Al romanzo! Al romanzo! Quello con l’«intreccio» che disgustava vociani e rondisti, nonché molti futuristi. Non c’è futuro, secondo il Gadda di allora, per il ro-

manzo privo di intreccio e di un disegno ordinato. Non lo pensava solo lui. Nel dopoguerra scrivono romanzi i vociani, si danno al romanzo persino i rondisti. Pare che si torni indietro ma sulla strada del ritorno al naturalismo ci sono deviazioni obbligatorie, come ben sa Tozzi. Nasce il romanzo che racconta la verità con la deviazione dalla norma e con lo straniamento, coi punti di vista, col monologo interiore, con

le epifanie, col plurilinguismo, col frazionamento del rac‘conto. Grande delinquente, il romanzo moderno scappa da tutte le parti. E racconta l’infanzia terribile della narrativa |del nostro secolo.

Alla fine degli anni Venti Gadda amava il «romanzo ro|manzesco» come un rondista o un vociano o come un narra-

‘tore d’avanguardia non si sarebbe mai sognato di fare. Nel ‘’28, in una nota a «Novella Seconda» scrive: «Mio desiderio | d’essere romanzesco, interessante, Dumas, Conan-doyliano: ‘non nel senso istrionico (Ponson du Terrail) ma con un fare

intimo e logico. Orgasmo inespresso emanante dal racconto. ‘Piuttosto Conan Doyle, ricostruttore logico». Non ci crede|

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rebbe il lettore d’oggi, ma è sempre Gadda a dire: «Il pubblico ha diritto d’essere divertito. Troppi autori lo annoiano senza misericordia. Bisogna dunque riportare in scena anche il romanzo romanzesco». La vita, come Gadda scrive, «non è sempre semplice, piana, piatta» ma è «complicatissima e romanzeschissima». Avrebbe scritto romanzi molto più complicati deila vita, si sarebbe complicata la vita per creare un romanzo non piatto. Libri da scalare, testi in cui sprofondare. Il romanzesco al superlativo. Ci sarebbero state esagerazioni. Solo chi azzecca agli estremi farà centro nella vita. Gadda dunque in quegli anni aveva un piano: avrebbe provato ad essere un narratore popolare, e non si sarebbe fermato qui. Avrebbe prima corteggiato e sedotto il «pubblico grosso», e sarebbe poi arrivato al «pubblico fino». Insomma avrebbe cercato storie d’attualità in cui si sarebbe meglio trovata coinvolta la grande massa dei lettori. Essere attuali con un tema di interesse collettivo: questo il disegno di uno scrittore che invece, più tardi magari, diventerà famoso arrivando al grosso pubblico a partire da quello «fino». Non sarà l’unica inversione di tendenza di uno scrittore sempre in movimento tra gli opposti. Primo tema: la guerra mondiale, compresi anteguerra e

dopoguerra (dal Giornale alla Meccanica, dal Castello di Udine alla Cognizione del dolore); secondo: il socialismo (La

meccanica); terzo: il fascismo. E altri, fra cui ad esempio, i

più clamorosi, i più «romanzeschi», fatti di cronaca — ad esempio un matricidio o altre tragedie della famiglia — e di cultura. Una narrativa di grandi eventi? Semmai gli aspetti minuscoli dei grossi avvenimenti. Avrebbe ingigantito i fatti marginali e li avrebbe messi al centro dell’attenzione. È di scena l’elefantiasi dell’io. Gadda, per esempio, andò subito al cinema, arte popolare più del teatro e del melodramma, con cui avevano pianto le masse dell'Ottocento. Il narratore non si lascerà sfuggire l'enorme impatto del cinema sul popolo del Novecento e gli dedicherà il migliore racconto («Cinema») della Madon148

na dei Filosofi. Come la gente, anche lui è spinto a cercare il buio della sala. Quel far ressa per rinchiudersi a sognare nell’oscurità non s’era mai visto prima così. Bisogna correre per

andare a vedere prima possibile, quando nasce un nuovo linguaggio. Tocca essere tempestivi sul linguaggio vincente. Si indovinino il linguaggio e il tema attuali, e anche la letteratura vincerà. Deformando le figure, complicando i fatti co-

me in «Cinema», racconto molto «affollato».

Dove c’è un concorso di persone così massiccio, lì piacerebbe a Gadda essere presente. Lo scrittore sarà pure travolto dalla folla di femmine osannanti il duce in Eros e Priapo, ma questo accadrà più tardi. Per ora sono la guerra, la famiglia, il socialismo, la borghesia, il fascismo, non-

ché il cinema, i principali fenomeni di massa nei quali coinvolgere pure i lettori «aristocratici», il pubblico «fino» dei letterati. La smettano gli scrittori di fare gli schizzinosi, vadano al cinema, se vogliono conoscere l’anima del popolo d’oggi. Si lavori «all’interno» di un fenomeno — sondaggi, scavi, attraversamenti del territorio nemico — e si tornerà alla luce più ricchi e consapevoli. Non l’andare al popolo, magari meglio contro il popolo, ma non senza il popolo. La voce di questo è proverbialmente «divina»: si dia voce al popolo e lo si ascolti; anche quando parla in dialetto, magari miscelato con la lingua. Nel parlato c’è la verosimiglianza e c’è il lapsus, come Gadda ha provato sulla propria lingua al fronte e in prigionia. Non per un lapsus però nel Racconto italiano dissentirà dal Manzoni che attribuisce la colpa di tutti i guai ai potenti: per Gadda non è minore la colpa del popolo. Non per allontanarsi da Dio, comunque, il | narratore preferisce i linguaggi bassi. Fra i temi nessuna sorpresa: è il matricidio quello che in‘triga di più Gadda. Uno, ad esempio, colpì le masse negli anni Venti e fu un evento assai coinvolgente per Gadda. Il quale si ispira ad esso per Novella seconda e forse anche per La cognizione del dolore. Eventi privati capaci di sconvolgere

‘l'opinione pubblica. Episodi di vita quotidiana da narrare in 149

modo che emozionino anche le persone semplici. E così individui elementari diventeranno personaggi complessi. Gran garbuglio, inestricabile gnommero il matricidio. Delitto massimo andare alle sorgenti della vita. Saporitissimo pasticciaccio il groviglio di ragioni e di follie per cui si uccide la propria madre. Un tema davvero universale, che in certi periodi torna attuale. In Gadda poi è un'ossessione. Nella Meccanica c'è una madre, personaggio che più popolare non ce n’è, c’è la derisione dei genitori (in quegli anni poco ci manca che tra gli scrittori essa non sia un fenomeno di massa), e c’è la guerra: che non sempre è popolare, anche se è sempre il popolo a combatterla e magari è il solo che la perde sempre. Lo si vede bene dalla storia di Luigi Pessina, il socialista spedito al fronte malgrado un’avanzata tubercolosi. Il tema era popolare nel primo dopoguerra, quando Gadda scrive La meccanica, sia pure per condannare gli imboscati. Sarebbe stato dunque attuale il tema: la guerra, che per Gadda è pure un fatto personale. E sarebbe stato attuale lo stile o «maniera»: quello basso, ovvero l'umorismo, che gli era «familiare». Progetto e destino: sonderà l’«interiore» o inconscio, che in quel periodo culturale sta facendo pazzie non solo nella sua testa. Sia attuale il linguaggio e il tema colpirà tutti. Un punto di vista? Ecco: una questione tecnica di

composizione. La tecnica sia quella dei punti di vista e ci si approssimerà di più alla verità. Punti di vista per la struttura e per la scrittura. Un movimento vorticoso della frase dentro la svolta frequente della prospettiva. Così fa molto cammino il romanzo degli anni Venti. In quegli anni lo diceva in Russia anche Viktor Sklovskij. La meccanica è la storia della guerra per lo più vissuta, vista e raccontata dalla retrovia. Il rovescio della guerra, le cause del rovescio militare, l’immagine rovesciata della guerra cui Gadda era andato incontro come a una festa. Dopo la tragedia la commedia: sulla famiglia, sulla borghesia, sul popolo, sui generali e sugli industriali. Linguaggi bassi per personaggi intenti a sfuggire alla guerra (i socialisti pacifisti, i 150

giovani borghesi, le madri), o a guadagnarci (gli speculatori, gli industriali bellici) o a giocare alla guerra ma da inetti (i comandanti). Una tragedia di cui s’era capito troppo poco dall'interno: chi la vive se la scrive quasi contemporaneamente (il Giorzale), ma è anche una farsa. Ci sono tutti i gradi del comico, e quindi la parodia; e c’è la satira di un moralista, che è sempre un uomo di guerra. L’umorismo di Gadda ha i denti stretti. Il primo romanzo sarebbe stato una «commedia», o me-

glio, avrebbe fatto la commedia dopo la tragedia del Giorrale di guerra e di prigionia. Gadda avrebbe impiegato le buone e specialmente le cattive maniere dell’umorismo, la sua anima avrebbe viaggiato nei secoli e nei bassifondi alla ricerca di parole da mescolare liberamente. Al romanzo! Al grottesco! Al romanzo grottesco che è La meccanica!

In principio ci fu «Papà e mamma». L'episodio fu usato da Gadda come racconto degli Accoppiamenti giudiziosi, finché non tornò dove era nato, cioè all’interno della Meccari-

ca. Nasce lì quindi il romanzo, Gadda ha dunque cominciato a fare il romanziere con un «omaggio», sia pure non riguardoso, ai genitori. Meglio dire che il narratore ha iniziato a ridere come scrittore occupandosi di due persone fondamentali della famiglia. Ecco: è in famiglia che nasce la comicità di Gadda. Lo aveva detto che gli sono familiari gli stili dell'umorismo. Con ogni grado del comico avrebbe presto investito a cascata tutti ipersonaggi che avesse incontrato in casa, per istrada, nelle piazze, nella sua immaginazione. Da una coppia poco giudiziosa prende insomma l’avvio una narrativa che è anche lo sberleffo di un figlio degenere. Questa è una questione privata di Gadda, ma, se abbon-

dano gli scrittori impegnati negli stessi anni a dire male specialmente del proprio padre, e persino a maledirlo, la questione diventa un fatto collettivo da affidare alla storia della cultura, alla sociologia, oltre che alla psicologia. In quanto alla letteratura c'è quasi un’epidemia, che non risparmia do

nemmeno

i maggiori narratori di quel periodo, Svevo,

Kafka, Savinio, Tozzi, Alvaro e tanti altri «parricidi».

Gadda non tratta bene i padri. Anche nella Meccarica ce n’è uno, che però non fa male a nessuno. Quanto alle madri, se ne uccidono parecchie nella sua narrativa. Avrebbe voluto intitolare «Matricidio» un racconto che ora fa parte di Novella seconda. Come si può arrivare ad ammazzare la propria madre? si domanda l’autore di Novella seconda. Sembrano contente le madri che sono rimaste vedove; sono feli-

ci i figli che esse siano tutte per loro, per i matricidi. La prima madre della narrativa di Gadda dunque la si incontra nella Meccanica. È la madre di Paolo, un’aristocra-

tica che non fa mai dimenticare le proprie nobili origini e le sostanze attuali neppure al marito, un notaio che in verità non giustificherebbe nel figlio nessun complesso edipico. Nella famiglia gaddiana comandano le mogli: i padri, anche se hanno le loro colpe simboliche o reali, non contano molto; spesso scompaiono quando i figli sono giovani, lasciando vedove donne che li dimenticano subito. Potete dire pure che si tratta di vedovanza procurata dal narratore: per il quale la figura del padre o è assente o non è una bella presenza. Non è tema da scriverci un romanzo, stanno spesso fuori di casa, e ora lì li si lasci, fuori del romanzo.

Non gli vengono bene i padri a Gadda, e lui non si cimenta nell’ardua impresa di salvarli: si limita a farli fuori. Il padre migliore è il primo, il notaio della Meccarzica, uno che non ha colpe perché non può essere responsabile di alcunché: è sempre la moglie a decidere su quanto succede in famiglia. Forse un padre per Gadda non è mai buono, ma questo non è cattivo, e può essere perdonato. Il fatto non si ripeterà. Lo sa bene il padre di Gonzalo Pirobutirro. Le madri sono invece imperdonabili per il possessivo amore che sentono per i figli. Nella Meccarica il figlio è il punto debole della madre, cui l'affetto smodato fa dire tante sciocchezze. Il ragazzo è forte, non si applica molto agli studi di ingegneria, ma un figlio siffatto, un futuro ingegnere, un perfetto fisico d’atleta, non lo puoi sacrificare man152

de

dandolo come un poveraccio in guerra: va protetto dalla furia distruttrice di essa. Nulla di più naturale e saggio che far-

lo stare vicino ai suoi carissimi motori, nella fabbrica di un

industriale liberale che è amico di famiglia. Così il ragazzo può applicarsi sul magnifico corpo di Zoraide, la moglie di un operaio tubercolotico che — non secondo l’ordine naturale bensì secondo l’ordine culturale delle cose della società del primo Novecento, e anche dopo — prenderà il posto lasciato libero in trincea dal robusto studente universitario.

Potrebbe essere uno scandalo, Gadda è turbato, ma l’ordine

culturale borghese è implacabile, secondo la meccanica del determinismo sociale. All’Ingegnere non può piacere tale meccanica. Vedrete che metterà i bastoni fra le ruote ma la storia andrà avanti così anche nel futuro: è l’infinito presente di perdere il tempo dei poveri. Un giorno si sente la fanfara che accompagna i giovani in partenza per la prima linea. La madre, ardente di amore per la patria, esulta e applaude i valorosi combattenti di una guerra santa. Sarebbe troppo pretendere dalla signora che pensi alle altre madri. In un momento simile il pensiero va solo a se stessa, e per naturale lievitazionè, alla madrepatria. Il figlio è salvo nei fatti e ci si può permettere il lusso di essere sublimi nei sentimenti. Però ora il figlio per un «incidente» deve andare al fronte. Come sono lontani i giorni dell'entusiasmo patriottico della madre! Mentre si ripete una scena già vista e si sente una musica già sentita, passano i soldati che vanno in prima linea: li accompagna e li incita la fanfara. La musica è la stessa ma come è diversa la madre! Un cambio di prospettiva e lei si ritrova in una situazione opposta alla precedente, che pur sembrava quasi identica. Allora quella ridicola madre che diceva tante sciocchezze sulla guerra, finché essa era combattuta dai figli delle altre madri, comincia a far pena: impossibile irridere la repentina conversione. E nell’«ordine naturale delle cose» che lei si comporti come ora, le si può

concedere pietà. Ed è commovente ora la madre che prima

1595

faceva ridere. Insomma qui si gioca a dadi con i sentimenti. La musica comincia a non andare d’accordo col libretto. Da punti di vista opposti una madre fa due figure opposte. Una doppia verità, due mezze verità? Due lanci di dado fatti dalla stessa mano, dalla stessa persona. Il narratore si sdoppia, potrebbe non essere vera né l’una né l’altra scena, ma c’è la struttura a prendere l’iniziativa di sovrapporre le scene svoltesi in periodi diversi. E allora cosa manda a dire la forma del romanzo? Si può provare affetto, compassione e comprensione per una madre sciocca, autoritaria, altezzo-

sa, nel momento in cui assolve come si deve il compito affidatole dalla natura. Non sentirai mai tuttavia una seconda volta la stessa fanfara, anche se non è cambiato lo spartito. Repezzta juvant, si guadagna a vedere due o più volte la medesima scena, ma non siamo più gli stessi di prima, e siamo l’uno e l’altro. È eloquente e festosa la fanfara, ma può essere tanto triste, se cambia il punto di vista, o più precisamente l’orecchio. Non è solo un gioco di parole: la verità è sempre orecchiata? Ci sono solo punti di vista? Gadda sarebbe incline a identificare il proprio con la verità, ma non può continuare a fidarsi solo di se stesso. E allora si sdoppierà. Anzi si farà in quattro per conoscere la verità. E se non bastasse, anche in sei, quan-

ti sono i personaggi della vicenda. Potrebbero non bastare nemmeno sei punti di vista, ma la statistica dice che è probabile che ci si avvicini alla verità. Si dia dunque la parola a Gildo e a Zoraide. Gadda invece se la prende da solo e non gliela toglie nessuno. Ma avrà la sorpresa pure lui da un romanzo a più facce. Perderà la faccia il nazionalista, l’antisocialista.

La prima donna di Gadda

Era il 15 ottobre del 1915 quando Gildo Pessina, detto il Castagna, bussò alla porta di Zoraide. Per le date Gadda è pignolo come era stato nel diario. È importante il giorno,

conta l’anno, anzi va indicato quel preciso momento in cui i 154

fatti avvengono. Questo narratore non li lascia raffreddare,

più dei fatti gli interessa il calore che emana da essi, e in quanto ai ricordi li riscalda in modo che siano sempre scottanti. Il giorno dopo, un attimo più tardi, le cose potrebbero essere diverse. Questo è un «pettegolo» che non si offenderebbe se si insinuasse che è sempre lì presente a guardare, magari dal buco della serratura. Se i fatti appaiono minuscoli, sa lui come ingigantirli: accatastandogli sopra reazioni personali a non finire. Quella mattina del 15 ottobre Gildo s’è alzato col desi-

derio di provarci con la bellissima moglie del cugino che è stato spedito in guerra. Erotìa e interesse: Gildo pensa di farsi dare dalla donna anche alcune lire, di cui non ha meno urgente necessità che di sesso. Va perciò a trovare Zoraide pronto ad attaccare. Quando la vede così discinta, vieppiù si eccita, gli sale la pressione, ma subito lo deprime e lo scoraggia una donna che non è certo in crisi d’astinenza. Zoraide lo mette subito alle corde, lo immobilizza sul ballatoio della casa: sotto gli occhi delle curiose vicine, coro muto sul palcoscenico montato dalla stupenda moglie di Luigi Pessina. Il corpo di Zoraide suscita e trasmette energia alla prosa che lo descrive in azione, cioè nella sua capacità di condurre elettricità. È una continua sorpresa Zoraide per mobilità ed equilibrio di gesti, pensieri e parole, lingua o dialetto che siano. E il povero Gildo esce a pezzi dalla scena nella quale era entrato da padrone, quando aveva bussato imperioso alla porta di Zoraide. Il combattimento più intenso fra i due è sotterraneo, contrappunto sincero del filisteo dialogo di superficie. Gildo si ritrova in mente tutto ciò di cui è capace la sua testa travolta dal desiderio e poi dallo sconforto e infine dall’umiliazione. Il sangue gli ordina di buttare violentemente sul letto Zoraide ma è quasi come un sogno. Allora associa fulmineamente eventi lontani e vicini, propositi di violenza sessuale e ricordi di violenza, diciamo politica e sociale: come ad esempio le botte all'amante di Zoraide, Franco, che si è

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imboscato nella fabbrica dove lavora, si fa per dire, anche Gildo, e che va per fratte con le «spose di guerra». Il barbiere, che è un ladruncolo nella cui mente c’è la preoccupazione dell’arresto e del fronte, pure lui presto coniugherà il verbo di moda, cioè «andare». È infuriato, oltre che assatanato,

e il calore scioglie la sua materia grigia. Che si espande dappertutto, per richiamare alla mente ogni esperienza memorizzata e rimossa.

Gildo, cervello bacato, cervello bucato. Si può guardare dentro, i suoi pensieri sono panni sporchi al sole. Gadda non si tira indietro: in quel cervello raggiunge ogni angolo più oscuro con feroci sondaggi. Ne estrae di materiali dalla mente e dalla memoria di Gildo. Il racconto come ostetricia. Gadda, per sbirciare dentro il suo cervello, ha scoperchiato il cranio del personaggio, ma poi, al contrario di Joyce, il coperchio l’ha rimesso al suo posto. Lo ha torchiato a dovere il suo «sovversivo» e gli ha fatto confessare ogni crimine, ogni cattivo pensiero, nonché altre bassezze in sua lingua dimessa. Parli pure in dialetto, non è certo questa la peggiore delle deviazioni dalla norma del manigoldo che se ne infischia dei valori nazionali che non siano le monete. Scendendo nella testa di Gildo e di Zoraide, cosa trova

Gadda alla fine del duro confronto a tre, lui compreso? Ebbene, arriva fino alla conclusione della guerra, al Trattato di

Pace. Sarà quello che si merita un paese in cui nessuno dei giovani vuole andare alla guerra e in cui tutti preferiscono fare l’amore (tranne Luigi Pessina, che desidera piuttosto l’uguaglianza sociale e la libertà). Contano i rapporti di forza politica non solo durante la guerra, ma anche nel dopoguerra. Per l’Italia questa è la minestra. Vorrebbe buttarsi dalla finestra Gadda, ma poi finisce per prenderla con filosofia, e con avvelenata ironia. «Ma perché andiamo così rivangando l’orto barocco dei dispiaceri? Sono storie vecchie, dimenticate, finite. Oggi l’Alpe risfolgora, almeno per buona parte, nel sole, libera dai vecchi tiranni; è libero il mare, da Porto Said a La Valletta,

da Panama a Gibilterra; e le terre anche loro son libere, sal156

vo alcuni scampoli come le colonie francesi e inglesi, e il campicello di Monroe, chiuso da un leggiadro filo spinato. Sicché siam liberi noi di spargere il seme del futuro dove meglio ci aggrada; nel monte e nel piano, nel deserto e nel Redefossi. Le patate allesso, poi sono un piatto squisito e il brodo di fagioli è semplicemente delizioso: quanto alla minestra, ritengo opportuno di schierarmi a sostegno della tesi idealistico-critica, che cioè non debba essere troppo cotta. Oh! Viva la minestra! Se è meglio, così non verrà il cancro a nessuno.» Venisse insomma il cancro a chi s'è ingrassato mangiando la minestra che sarebbe toccata ad altri più meritevoli. L'idealismo giovanile ormai è cotto, anche troppo. È stato inutile avere combattuto valorosamente per la patria, aver mangiato tutte quelle «patate allesso» dietro un filo spinato. Finalmente libero! D'ora in poi Gadda spazierà per mari e monti, cominciando dal Redefossi, dalla città natale e approdando nel deserto. Nel futuro sarà un eremita, solitario manipolatore di parole roventi e minuscole come granelli di sabbia.

Come gioca Gadda AI contrario di Gildo che è un ladro, Gadda regala a ogni personaggio qualcosa di sé. Né si scandalizza per il fatto di ritrovarsi in testa pensieri feroci, desideri turpi e sentimenti maligni. Gadda ha fatto sempre della cattiveria una virtù gnoseologica. Però egli conosce, rubando ai suoi personaggi, le esperienze «anormali». Gadda arricchisce il suo romanzo con quello che sottrae a coloro che ha creato. La narrativa come ricettazione. Così ce la vende questo «delinquente».

Delinquono in un certo senso tutti i personaggi della

Meccanica. Uno, Gildo, è un ladro; un altro, Luigi Pessina, è un «sovversivo»; Zoraide è un’adultera; Franco (poi chiamato Paolo) è un fannullone e un imboscato: i suoi genitori usa-

no i privilegi sociali per evitare la guerra al figlio; l’industria15

le è sfuggito ai «rigori della legge» con l’aiuto del notaio che ora in cambio gli chiede di assumere nella propria fabbrica il figlio destinato al fronte. Questa è «la Terza Italia» che combatte la Grande Guerra. Negli ultimi capitoli del romanzo appare un ufficiale capace di fare il proprio dovere, ma non c’è più spazio per lui nella Meccanica, che sta per finire. Non c’è spazio e non c'è tempo (l'episodio è rimasto allo stato di abbozzo) per un «eroe positivo» nel romanzo. Ma Gadda se ne infischia se Zoraide va a letto con un uomo diverso dal marito e se Paolo insidia la virtù delle spose di guerra. Ai giovani Gadda permette ogni trasgressione, se sono belli e vigorosi. Che noia la letteratura se si rigasse diritti con i fatti, con la sintassi e col lessico! La narrativa di Gadda pratica la «delinquenza» per come guarda — in tralice? — i personaggi; per come li fa apparire — i retroscena, i sotterfugi —; per come li fa parlare — dialoghi in cui ognuno spiazza l’altro —; per come dispone i fatti - cambiando punto di vista —; per come accosta le parole — sceglie «individui» incompatibili e li accoppia «giudiziosamente». Prende sempre di sorpresa il racconto, e questo si arrende all'evidenza. È evidente: solo la pecora nera sa veramente qual è la vita del gregge all’interno di una rete di relazioni da cui non si scappa che per avventura. Gadda, narratore di transizione tra il vecchio e il nuovo secolo, fa il doppio gioco, fa i due giochi con cui prova a vincere nel Novecento. Farà il gioco 4b interiore, l’antica drammatica con cui si fanno parlare i personaggi. E farà specialmente il «lirico» gioco ab exteriore, quello con cui dice la sua il «narrante». Il primo gioco è un’eredità del naturalismo, linguaggio che usa molto l'orecchio e che ha una vista eccellente. Il secondo è quello per cui stravede uno che straparla. Il gioco ab interiore è dalla parte della realtà, quello ab exteriore usa l'occhio deformante di un soggetto cui niente sta bene. Sono due giochi e Gadda si diverte a combinazrli e indirizzarli a un unico scopo. Il gioco ab exteriore può essere uguale al gioco ab inte158

riore? Siamo sempre noi a parlare quando diamo la parola a un personaggio o è un personaggio anche il narratore, colui che gioca dall'esterno, commenta, interpreta, scherza e giudica? Potrebbe Gadda essersi nascosto in qualche angolo del romanzo? Guardate bene e forse troverete un autoritratto. Questo narratore è onnipotente, Gadda è un narratore prepotente. Col gioco ab exteriore l’io narrante può mettere becco su tutto, e infatti qui fatica a tacere. Una persecuzione, un assillo, una sanguisuga. Succhia idee, le commenta, le irride, le

sottolinea, sta sopra il personaggio, sopra le sue emozioni, le sue parole, le percezioni, lo attacca o abbraccia tutto quello che la sua testa può contenere. Chi narra è disponibile, si lascia adescare, si abbandona e confessa. Connette con la ragione e associa significati e suoni, avanza rigorosamente o

scarta, affonda e riemerge. Dal centro si vada alla periferia: quella sotterranea, l’interiore e l’inconscio; e quella laterale. Si dia voce all’altro, si

facciano parlare gli altri. Col loro parlato di periferia, compreso il dialetto. Coi loro pensieri ignobili, osceni, e con i loro bassi linguaggi. Scendendo dentro i personaggi, si incontra l'inferno dei pensieri impronunciabili. Da sotto tutti i personaggi mostrano il lato inferiore, anzi infimo. Prendeteli alle spalle o di profilo, ed essi liberano una personalità insospettata. Sospettate di tutti e di tutto, e scoprirete il colpevole. Gli innocenti qui non si vedono e forse non esistono in nessun altro luogo. Sotto dunque a far ruotare i punti di vista, si ricorra al racconto «a più facce» teorizzato e praticato da James! Il romanzo indossa tanti abiti diversi, di diverso colore culturale,

politico, sociale e morale. Così il narratore moderno cerca la verità. È possibile però conoscere la verità a furia d’essere faziosi? Ci avrebbe provato, Gadda avrebbe sperimentato

una struttura «a più punti di vista». La scrittura avrebbe fatto il resto, anche se in Gadda la scrittura pare essere tutto. E pure questo è un punto di vista che potrebbe non essere la VOX.)

verità. La struttura dice una verità diversa e potrebbe non essere solo un punto di vista.

Il Gildo esce dalla casa di Zoraide che è un uomo morto. E potrebbe essere morto anche il romanzo: nel primo capitolo ha infatti compiuto più di due terzi del suo percorso. Mancano quasi solo gli eventi dei tre capitoli finali, quelli esclusi dall’edizione della Meccanica pubblicata in vita dall’autore, sia pure in quasi totale distrazione. Muore tante volte questo romanzo che tenta di concentrare tutto in un punto. Sembra morire ogni volta che finisce un capitolo. Muore due volte Gildo (la prima simbolicamente, la seconda viene fucilato); muore due volte Luigi Pessina (una volta agonizza mentalmente sulla tradotta che lo porta al fronte; la seconda muore dissanguato da un’emottisi sul letto di Zoraide e Paolo). Vince almeno due volte Paolo (quando arriva in moto all’appuntamento con Zoraide, e alla fine quando è tra i vincitori della guerra) e vince due volte, o quasi, Zoraide (su Gildo e sulla sorte che è tanto cattiva con i

poveri da ammazzarli, per giunta in modo infame). Gli eventi si ripetono almeno due volte, ma al contrario di quanto diceva Marx, la prima volta qui c’è la farsa e la seconda volta la tragedia. La meccanica non appartiene alla «metamorfosi del cerchio» studiata da Poulet bensì all’«ordine quadro» caro a Savinio. Attenti alla composizione! Alla Meccarica la struttura porta imprevedibili novità. La meccanica cambia tanti punti di vista quanti sono i suoi personaggi, borghesi o popolani che siano. Gira l’angolo e scompare il protagonista di prima. Una rottura della visione, un succedersi di visioni di parte. Un narratore fazioso diventa «partigiano», prende le parti dei suoi personaggi. Gliene chiederà conto il romanzo, che fa la somma e poi moltiplica. Moltiplicazioni che passano dalla divisione, sottrazioni che danno il doppio. Qual è il doppio di Gadda? 160

Il romanzo corre la staffetta: ipersonaggi si passano il testimone, nonché la parola. Dopo Zoraide e Gildo, è il turno di Luigi Pessina; poi c’è il punto di vista dei borghesi: un notaio con la moglie, un industriale, ma specialmente Paolo, l’amante di Zoraide. Sei personaggi, altrettanti i punti di vista. E c’è qualcosa sotto: quanti livelli di conoscenza in ogni personaggio! Svolta dopo svolta, il romanzo si posa sul lato dove si compie il destino dei giovani, che sono i protagonisti di una storia. Gadda potrebbe maledire un «ordine culturale delle cose» per il quale muoiono solo i poveri. Cambiano i punti di vista ma i ricchi hanno un destino migliore. E questa è una verità, malgrado le eccezioni, e sebbene sia un’opinione sovversiva dei socialisti dell’Umanitaria. Alla quale tocca un intero capitolo per raccontare la storia dalla propria prospettiva. Dal punto di vista dei socialisti Gadda sbaglia a far fucilare il pacifista disertore e a risparmiare i profittatori. Il romanzo con la sua struttura a più facce lo suggerisce ma l’ideologia di Gadda non acconsente. Il suo linguaggio è più moderno delle sue idee? Il romanzo si è bloccato dopo il primo episodio. Che fare? Come può procedere la storia? Ebbene, Gadda si rivolge «manzonianamente» alla Storia: o più precisamente alla

storia del socialismo milanese e dell’Umanitaria. Un salto in campo avversario. Gadda va a nutrirsi di storia dal nemico. Quant'è ridicolo il socialismo con le sue velleità, con le sue ingenuità, e le disonestà individuali! Una fortuna per chi ha umorismo. Li farà cuocere nel loro brodo. Il risultato lo si saprà alla fine del romanzo, intreccio di punti di vista diversi e opposti. Ci sarebbe stata però la sorpresa: Gadda (il romanzo?) avrebbe fatto conoscenza di realtà ignote e gli sarebbero diventati simpatici i socialisti. Il miracolo dei punti di vista: potrebbero avere avuto ragione i socialisti a non volere la «santa guerra»? Attingerà alla realtà, come consigliano i maestri narratori dell'Ottocento. Farà parlare di socialismo il socialista Luigi Pessina. C'è proprio da ridere dinanzi a tante «falsità sia 161

pure dette in buona fede», dinanzi a tanta ingenuità ma Gadda è investito da tanto candore, ignoranza e visionarietà. Sui socialisti dell’Umanitaria fa quell’umorismo che, secondo Pirandello, è «sentimento del contrario». Ecco: Gadda ci

mette sentimento nell’irridere quei visionari e ne esce, se non con idee opposte, con un sentimento contrario a quello iniziale. Il fazioso Gadda così diventa tollerante. Dal suo punto di vista il narrante è sempre spietato: oltre che dell’umorismo, fa della satira o della parodia. Senonché, quando accompagna con parole e musica il povero Luigi che va a morire per una guerra che, secondo lui, non si sarebbe mai dovuta fare, Gadda abbraccerebbe il «capro espiatorio» della guerra santa. All’inizio del romanzo non avrebbe mai immaginato che, procedendo per la sua strada, quella che procede per punti di vista, sarebbe finito nelle braccia del nemico. Gadda se ne accorge alla fine, quando è mutato. Non sa neppure quanto, ignora l'iniziativa del ro-

manzo. Nella Meccanica semplice è la struttura, complessa la scrittura. Se la struttura ha più facce, la scrittura non potrebbe essere più sfaccettata. Ogni personaggio fa quadrato per difendere le proprie ragioni, nonché le follie, dal suo punto di vista, ma su ogni lato si fanno sentire voci che provengono da tutte le parti di un mondo assai ciarliero. Qui è assai elevato il quoziente di «parlato»: davvero un romanzo «ad alta voce». Aveva ragione Bachtin: il romanzo è il suo discorso indiretto. Così fa romanzo Gadda, colui che tradiva

se stesso quando parlava personalmente con gli altri. Se non basta la rabbia, se difettano le idee, se la vicenda si blocca, non resta che chiedere aiuto al linguaggio. Non solo al proprio linguaggio, bensì a quello degli altri. Sono un buon carburante, per una narrativa che tende alla lirica, i linguaggi della storia e della scienza. Guardate cosa fa con la radiologia. Gadda chiama il medico, se la narrazione si ferma anco-

ra e se la prosa diventa «bollettino ufficiale». In concreto è al 162

medico che si rivolge Luigi Pessina, quando i suoi disturbi polmonari si aggravano. Deve andare in guerra e all’esercito poco importa che lui stia male. Sta bene l’amante della moglie, ma è figlio del notaio amico dell’ex deputato liberale che è proprietario d’un’industria meccanica in cui il giovane studente d’ingegneria si imboscherà. A Luigi il medico che trova ai raggi i sintomi eloquenti di una tubercolosi consiglia altre visite prima di partire per il fronte, e tuttavia Cadorna ha fretta di avere in prima linea anche soldati «di seconda scelta». Si impietosisce ma si trincera dietro il linguaggio neutrale della scienza. Dopo che a Renzo, anche a Luigi si risponde col «latinorum», in tal caso quello dei termini tecnici della radiologia: lingua precisa e insieme inaccessibile all’incolto. Il referto medico registra la verità ma questa è incomprensibile nella sua specialistica esattezza. E allora che fa Gadda? Realisticamente registra pure lui il testo nella sua minacciosa potenza, ed esso diventa metaforico: la metafora del sopruso cui le istituzioni sottopongono i cittadini indifesi. Il narratore fa dell’ironia per non fare scoppiare la rabbia: Gadda si vede confermare nell’opinione che «è brutta cosa nascer poveri». La frase è manzoniana ma sarebbe stata bene sulla bocca del socialista Luigi Pessina e del nazionalista Carlo Emilio Gadda. Parlando di storia e di medicina, Gadda l’ha dimostrato: si può fare narrativa con tutto, con ogni linguaggio e con tut-

ti i temi. Aveva fatto della prosa memorabile con la scienza delle sue relazioni da ingegnere e con la filosofia di Meditazione milanese. Dalle parole di discipline periferiche Gadda assorbe significati che lui mette subito non solo in nuova forma ma anche in nuova sostanza. Il suo sistema letterario nella traslazione si trascina dietro tutto ciò che di nuovo arraffa la sua rete, la rete delle sue relazioni. Dopo essere stato ad ascoltare i suoi personaggi, Gadda cambia idea e sentimento. Il romanzo lo costringe a «pentirsi». La vera storia la racconta il narratore che mescola punti di vista. E la scienza diventa uno strumento con cui nasconde la verità chi ha la for163

za sociale per asservirla a loschi interessi politici ed economici.

La struttura racconta una storia diversa da quella che appare in un episodio? In questa struttura può aver torto l’autore. Non è la morte dell’autore ma è molto viva la struttura autonoma del romanzo. Staffetta assurda, i compagni di squadra si corrono incontro e sbattono l’uno contro l’altro. E Gadda è lì a mettere insieme i cocci. Se i personaggi sono chiusi nella loro partigianeria, il romanzo, l’autore e il lettore dialogano e assorbono differenza. In questo fitto scambio tra soggetto e oggetto la guerra fra le parti diventa pratica di tolleranza e libertà. Gadda parla più di tutti, ma è solo un primzus inter pares. Anche la sua verità è solo un punto di vista. Al gioco ab interiore non di rado vincono i nemici di Gadda. Personaggi partiti da direzioni opposte scoprono analogie tra di loro. Alla fine dalla superficie sembrano omologhi i contrari, gli avversari. È una virtù del romanzo moderno, questo delinquente che lascia solo il suo creatore. Il racconto si sviluppa dunque in lungo e in largo (in rispetto di struttura a più facce), ma la scrittura lo spinge prima di tutto in profondità (un avvitarsi interno che diventa tarlo). Così La meccanica diventa romanzo. Raccontare a te-

sta in giù. Una discesa luciferina, un uscire dall’opposto emisfero, sull’altra faccia del cubo. Una faccia è un fram-

mento ma il romanzo ha tante facce. Gadda si muove anche sulla faccia o superficie della narrazione ma il suo cammino è in direzione del nucleo. Una narrativa verticale, un

lento vortice. Un trapano apre la strada nel cervello di Zoraide e Gildo. Osservate la discesa in progressione verso il fondo. Il dialogo fra Zoraide e Gildo costringe i due contendenti a richiamare alla memoria tutto ciò che ha minimamente a che fare con loro due. Storie remote e recenti (lui, Gildo: il desiderio, i furti, le ricerche dei carabinieri, l'aggressione all’amante di Zoraide, la paura di andare in guerra, il cugino al fronte ecc.; lei, Zoraide: il disgusto fisico e il disprezzo mo164

rale per Gildo, il pensiero allarmato per l'amante pestato, la tiepida commiserazione per il povero marito ecc.), le persone chiamate in causa dai duellanti. Accenni di vicende, figure che balenano, rapporti sotterranei, messaggi dell’inconscio ecc. Zoraide e Gildo si strappano coi denti pezzi di vita, vicende dimenticate, inconfessabili azioni. Quanto più materiale estraggono, tanto più fanno il vuoto. Sono nati due personaggi che «perdono il tempo»: il loro presente ricorda il futuro del romanzo. Gadda sa far buon uso del tempo. A suo tempo scriverà così anche i capolavori. L'Ingegnere fa parecchie cose a occhio nudo ma spesso usa anche il microscopio. Gli serve per mettere a fuoco i punti minuscoli della narrazione. Così il narratore ingigantisce i dettagli che sono affiorati nel discorso di Zoraide e di Gildo: il marito e l'amante di lei, l'industriale nella cui fab-

‘brica si è imboscato l’amante e che dovrebbe evitare il servizio militare a Gildo. Quei minimi particolari diventeranno gli eventi e i protagonisti dei capitoli successivi della Meccanica.

Ogni punto può essere l’inizio di una grande storia. Ogni parola può essere il centro di un sistema di relazioni capace di consumare l’intero gomitolo di un’esistenza e persino di un romanzo. Aspettate un poco e vedrete che il gomitolo non rotola via ma si intreccia e si aggroviglia sino a diventare un garbuglio e infine un pasticciaccio. Dalla Meccanica si comincia a sentire l’odore, e non è un profumo.

«Complicate le cose»: questo l’imperativo che Gadda dà a se stesso e agli altri. Per capire meglio tocca addentrarsi nella foresta dei particolari. Complicare per arrivare alla soluzione. Se la foresta dei dettagli è impenetrabile, tagliare si può - il racconto fratturato dai punti di vista —, non sfrondare. Questo narratore non semplifica ma complica le cose perché sa che a chi vuole capire l’essenziale ora tocca addentrarsi nella giungla che è diventata la vita interna degli uomini. Complicandola con la sua «ipersensibilità» — che è malattia capace di percepire e dare forma e significato al tra165

scurabile — Gadda illumina e rende fecondo un territorio umano che prima semplicemente non esisteva per l’osservatore «normale». A ogni parola c'è un quadrivio. Gadda mette in croce i lettori che vorrebbero andare svelti, ma è inutile chiedergli la strada: questo è un narratore che confonde le idee al viandante. Il paradosso è che le confonde anche a se stesso. Non sa dove sta andando ma è attirato da qualunque strada che gli si apra davanti. Una parola tira l’altra che ha dietro, non si tocca mai il fondo, non si raggiunge mai il confine di un sistema in espansione inesauribile. Questo scrittore che si è «polarizzato» sulle posizioni che nutrono la satira tenta di tornare «onnipotenziale»? Solo sminuzzando la realtà fino a renderla quasi liquida è possibile penetrare nelle fessure che spesso sono le incrinature di un mondo ermetico. Gadda non vorrebbe restare di qua a fare congetture o disegnare simboli in cui condensare impenetrabili figure di destino. Gadda non è Kafka, scrittore «magro». L'autore della Meccanica ha cominciato la cura ingrassante che si concluderà col Pasticciaccio, dove la frase si atomizza, e genera energia dai più minuscoli dettagli. Il linguaggio gaddiano si disintegra per arrivare molto lontano. Gadda però non ha fretta di muoversi; semmai sembra felice di indugiare e di guardarsi intorno. Si direbbe che è arrivato quando può girare dentro un campo di tensione. Il girare vorticoso 0 lento di una trottola che è anche un trapano: il discorso si avvita, buca la superficie e va a infilare immagini per cui si urla o si ride. «Ci sono degli uomini che vogliono festeggiare ogni giorno il loro compleanno», diceva Bismarck, citato da Or-

tega y Gasset nella Disumzanizzazione dell’arte. Così è anche Gadda, che festeggia il proprio esordio di narratore con una scrittura in cui si stappa lo champagne in ogni frase, con ogni sillaba. Questa prosa che tracima e inonda tutte le pagine dà alla testa, è inebriante. I periodi ballano, le parole si 166

danno alla pazza gioia, suonano e cantano gli aggettivi e i sostantivi che descrivono la bellezza e il trionfo di Zoraide sull’uomo che non la merita. Una festa femminile. Gadda è narratore che quasi nasconde la struttura (la cultura diventa natura o forse la natura profonda diventa cultura nuova). Invece è già in evidenza la grassa scrittura gaddiana. Questa accumula significati, quella li moltiplica. La struttura è geometrica, la scrittura è aritmetica. Il narra-

tore procede in moto lento verso l’infinito con la struttura; invece accelera con la scrittura, che dà le vertigini. La prima cambia in superficie; la seconda avanza in profondità. La linea orizzontale della struttura incontra migliaia di volte la linea verticale della scrittura e ci fa nodo. È iniziato bene il viaggio che conduce a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Sulla tradotta che porta Luigi al fronte il narratore nazionalista, nonché interventista, e l’operaio socialista, non-

ché pacifista, sono molto malinconici. Il ridicolo è scomparso e il povero Luigi acquista una grandezza che all’inizio gli era negata per quelle idee che il narratore giudica delle sciocchezze. Sui due lati dell'ideale cubo che è la struttura del romanzo si confrontano due visioni opposte dello stesso fenomeno politico. Si comunicano inizialmente l’atteggiamento alternativo (il narratore contro il personaggio), poi diventano speculari (la complicità dell’interventista col pacifista). Luigi Pessina è un bravo e onesto artigiano, in politica è

un visionario che combatte per una società di uguali, ed è un accanito lettore che si affida alla cultura per diventare socialmente e intellettualmente migliore. Sulla tradotta che lo porta al fronte, da dove è certo di non tornare, il suo ram-

marico è di non avere studiato abbastanza. Gadda è profondamente commosso, anche se prova a sorridere di tanto candore. C'è complicità col nemico socialista, che ha tanta fede nella cultura e in un futuro migliore della società italiana tradita da una borghesia immorale e cinica. La vergogna di essere borghesi. 167

Combaciano le due sagome umane in parecchi punti: ad esempio, l'onestà, l’impegno nel lavoro, la visionarietà in politica, l’amore per la cultura più forte di quello per la donna. I socialisti dell’Umanitaria, questi innocenti! Erano così anche gli interventisti che andavano in guerra per fare più grande la patria che i profittatori avrebbero depredato. Gadda, che era su posizioni politiche opposte a quelle di Luigi Pessina, non può che obbedire poi a quella struttura del romanzo che lo assimila profondamente (comportamenti, sentimenti, ideali di moralità) al suo avversario.

Quando deciderà di prendere le distanze (nei tre capitoli finali), non riuscirà ad andare avanti nella Meccarica. Il ro-

manzo si rifiuta di obbedire alle perentorie intenzioni politiche di uno scrittore che vorrebbe ristabilire il pieno possesso dell’opera. La narrazione non va avanti e Gadda deve rinunciare a concluderlo. Non può morire tondo un romanzo che è nato quadrato: come un cubo cioè, che obbliga a esaminare i fatti da sopra, da sotto e da sei facce. Fate il gioco della struttura, provate col cubo, che è un solido. Dividete allora sei per due: ci sono tre personaggi su un versante sociale e tre sull’altra. Dalla parte del popolo ci sono Zoraide, Luigi Pessina e il Gildo; dalla parte della borghesia ci sono Paolo, la madre (il padre «non esiste») e il deputato liberale che imbosca il «meccanico» nella propria fabbrica. Paolo sta in un centro ai cui estremi ci sono le due donne che lo amano: la madre e Zoraide. Chi sta in opposizione, chi fa omologia, a Paolo? Luigi Pessina, che è il marito di Zoraide, amante di Paolo? O costui, che è l'amante di Zoraide, è in omologia e opposizione a Gildo, l’altro fannullone del gruppo, l’uno e l’altro «renitenti» alla guerra? Se Gildo resta fuori, non può che essere omologo dell’ex deputato liberale, il proprietario della fabbrica che si arricchisce con un'industria bellica di cui Gadda ha spesso condannato l’affarismo, quello che si sublima in patriottismo. Tocca però giocare ancora col dado che è il cubo. Qualora Paolo se la dovesse vedere con Gildo, allora 168

Luigi, che certo non ha nulla a che spartire col padre di Paolo, resta solo anche in questo gioco incrociato che assimila gli opposti? Se bisogna trovargli un compagno sul fronte opposto, quello borghese, non resta che il narratore, colui che fa il gioco ab exteriore. Ed è allora che Gadda lo abbraccia dalla opposta sponda politica. Anche lui è rimasto solo tra i borghesi che cianciano di patria ma si imboscano o si arricchiscono con traffici illeciti o tentano truffe grottesche: come quella dell’inventore di una macchina a raggi ultravioletti che dovrebbe far esplodere a distanza le torpedini del nemico. Gadda ci ride sopra ma farebbe saltare in aria generali e industriali che si sono coalizzati ai danni della nazione in guerra. Come un qualsiasi socialista dell’Umanitaria, o quasi. Fu forse saggia la decisione di escludere i tre capitoli finali dall'edizione del ‘70, quando Gadda era in vita? Era il romanzo in sostanza finito là dove finisce nel ’70? Lo si è pensato, lo si è scritto: è «fantasioso» ma potrebbe essere vero che il «bello» della Meccanica termina dove essa è stata tagliata nel ’70. Chi lo dice? Lo dice la sua scrittura, lo suggerisce la sua struttura. Che non potrebbe essere più quadrata. La logica del romanzo in quanto romanzo d’amore pretende che Paolo e Zoraide si corrano incontro, indifferenti a

chiunque volesse turbare l’«ordine naturale delle cose». Partito da Zoraide, il romanzo, dopo tante svolte (se non «il cervello dell’esagono» è quello del cubo), arriva da Paolo. O meglio, Paolo arriva a casa di Zoraide schizzando fango con la possente e veloce moto che gli fa dominare la scena. Il romanzo si sta sostanzialmente concludendo nello stesso cubo o camera in cui all’inizio è apparsa la magnifica immagine di Zoraide. In quanto a un’opera narrativa che è un romanzo sulla guerra, il nazionalista Gadda prova a fare diversamente i calcoli ma perde. Nei tre capitoli c’è la ritirata di Caporetto e c’è la Caporetto di un narratore che prova a imporre la propria ideologia al romanzo. Gadda sembra pentito di aver 169

trattato troppo bene il pacifista Luigi Pessina. Lo fa morire una seconda volta: il che è davvero troppo per un innocente. Eppoi gli fa fare pure una brutta morte. Fa fucilare Gildo, che è scappato dal fronte, e riabilita Paolo come ottimo soldato. Tali i nudi fatti del romanzo e Gadda deve cominciare a notare quanto poco essi contino nel romanzo. Nel senso che i capitoli finali sono una coda dove non arriva il sangue, né altri umori. Sono fedeli alle idee dell’autore ma tradiscono il romanzo. E questo si vendica destinando alla disfatta il tentativo di Gadda di chiudere la geometria della narrazione dove egli aveva cominciato a pensarla. La meccanica preferisce morire piuttosto che arrendersi al suo creatore, all’ideologia del giovane Gadda. C'è nei capitoli finali del romanzo un giovane ufficiale che partecipa con fervore patriottico alla guerra. «E pensava, con brucianti lacrime, nell’ardore della febbre il tenente

pensava. Dai verdi suoi baratri il Piave, che la terra d’un più lauto flutto la bagnerà, vigilato da una più ferma legione. Ed era certo, ché così voleva il profeta, che Pietro Calvi sarebbe risorto come il Cristo risfolgorante dalle fosse su di Belfiore: col suo fazzoletto rosso, con la sua spada come l’arcangelo, avrebbe comandato l’assalto. E balzando pallidi i giovani si sarebbero lanciati all’assalto.» Per trovare una pari ingenuità e altrettanto idealismo nel romanzo, tocca pensare a Luigi Pessina, l'operaio che com-

batte per un mondo socialmente e culturalmente migliore. Per ragioni opposte, ma con uguale candore, seppure con

diverso spessore intellettuale, i due «avversari politici» sono persone che darebbero la vita per quello in cui credono. Sono alternativi — l’uno è un pacifista socialista, l’altro è un interventista — e sono omologhi. I significati sono contrapposti, la struttura li rende simili.

Luigi e Gaddus sono nel romanzo le due vittime di quella guerra grottesca. Sono entrambi degli idealisti, due candidi combattenti di una guerra che ha nobili obiettivi (il socialismo di Luigi, il patriottismo del sottotenente). Verrà sporcato alla fine tale candore: Luigi vomita sangue, certamente 170

non solo perché vede la moglie a letto con l'amante: il tenente vomiterebbe tutto se stesso vedendo lo sfacelo morale della nazione. Nessuno dei due ha abbastanza stomaco per tollerare quel disgustoso spettacolo. Ciò che li rende diversi è la narrazione, la sua struttura

poliprospettica e la scrittura a più giochi o voci. Ora non c'è nessuno che irrida il tenente, nei cui pensieri patriottici non ci sono meno sciocchezze risibili che negli ideali socialisti di Luigi Pessina. Il «gioco 40 exteriore» con il quale il narratore imperversa sui personaggi non è stato messo in funzione

in capitoli che non sono entrati nel vivo. Gadda è annichilito dalla memoria di Caporetto e si arrende ai fatti. Ma così è costretto ad alzare le mani da un romanzo la cui cifra stilistica è l'umorismo. Non può morire come tragedia una storia che è nata come commedia. Una guerra grottesca non meri-

ta una tragedia. E Gadda ha imparato che bisogna continuare a ridere delle questioni, magari molto drammatiche, per le quali non si può scomodare il linguaggio tragico. Quel tenente è lo stesso Gadda. Che (ma in modo così

esplicito da vergognarsene, da rinunciare a completare l’episodio e da scodare il romanzo) salva solo se stesso dalla catastrofe morale del paese. Solo Gadda ha combattuto come si doveva la prima guerra mondiale; solo lui ha la coscienza civile, la grandezza morale, il senso di responsabilità sociale che invece sono state disertate da generali e soldati, da operai e da industriali, da pacifisti e da interventisti. E allora, se

è così, tenete fuori dal romanzo questo ingenuo che ci ha messo tanto a capire qualcosa della guerra. Non merita di restare in vita uno che è stato così imbecille. Nel 1970, quando pubblica La meccanica, a Gadda non importa più per niente che scompaia, insieme ai tre capito-

li finali, quel personaggio che rende così retorico l’autoritratto. Nessuno può più rendere semplice ciò che è molto ‘complicato. Zoraide vive perché non potrebbe essere per‘sonaggio più complesso di lei. Amputate il romanzo di questi capitoli che trasformano la guerra in esperienza tan171

to povera e fiacca. Le si neghi lo spessore in cui proliferano i tradimenti. Fuori dal suo romanzo un personaggio che vorrebbe raccontare la prima guerra mondiale come una tragedia! E stata una storia grottesca, la si dia da raccontare a un umorista (come nei racconti di guerra della Madonna dei Filosofi — vedi l'episodio «Manovre di artiglieria da campagna» — e del Castello di Udine.) Si tornerà alla tragedia quando quel tenente idealista diventerà Gonzalo Pirobutirro nella Cogr:zione del dolore. Non si dimentichi però che questo romanzo inizia raccontando la commedia del dopoguerra. Un popolo da ridere viene spesso incaricato di interpretare tragedie ma gli italiani in guerra, in quella e in altre guerre, sono comici. Fuori dalla Meccanica chi si illude che ancora sia possibile la tragedia! E fatela finita con un personaggio che parla solo in italiano «ufficiale». Buttate fuori tutti i patrioti che non capiscono nulla della guerra anche perché la interpretano con le morte parole della lingua nazionale più burocratica. Chi non muore sono i personaggi che miscelano l’italiano coi dialetti settentrionali, il veneto di Zoraide, il lombardo di Gildo. La narrativa moderna si procura per la strada il proprio linguaggio. E basso, è comico, e rende l’anima dura come il cuoio. Le parole siano come sampietrini: sono dei cubi o dadi, sono ben solidi e sono spigolosi, nonché acuti. Miracoli

di concretezza che sono pesanti e che sono capaci di volare, se è forte la mano dello scrittore. Naturalmente ci vuole occhio, ma Gadda sa metterci ogni senso nel cercare la parola che colpirà il bersaglio «abbassandosi» per trovare parole terra terra, quelle con cui parlano i poveri uomini destinati alla sconfitta, egli scrive una prosa narrativa che è fra le più alte dei nostri anni Venti. E così trasforma in vittoria letteraria la Caporetto che è sempre la sua vita.

CAPITOLO TERZO

La beffa riuscita: «San Giorgio in casa Brocchi»

Davvero un racconto favoloso. Non era mai andata così bene a un personaggio di Gadda. Un racconto davvero felice, il più bello dell'autore de «L'incendio di via Keplero» questo «San Giorgio in casa Brocchi» in cui si narra una beffa riuscita ai danni di una madre. Raccontandola per filo e per segno, con gran dovizia di brillanti particolari, Gadda si è davvero divertito un mondo. C’è persino una nuova «visione» globale in una favola siffatta che celebra la vittoria di due giovani amanti. Una favola con lieto fine che si potrebbe pure raccontare così. C'è un ragazzo che non sa di essere prigioniero: in sostanza non può fare quel che desidera o andare dove vuole. Una strega lo tiene in una prigione dorata: la madre, una contessa, che ha deciso di difenderlo dai pericoli del mondo esterno, pieno di malefemmine bramose di portare sulla loro cattiva strada l’ignaro figlio, un diciannovenne intatto. Il pericolo maggiore sono dunque le donne, in particolare la Jole, una procace ragazza splendente di salute. Sarà però lei a portare salute e salvezza al ragazzo inesperto del mondo delle donne, che tanto comincia ad attirarlo. Da

quando l’ha visto, in lei, che tanti giovani ha salvato dalle schiavitù sessuali delle famiglie, è nato il desiderio di liberare quel bellissimo e infelice prigioniero: e sarà lei a cogliere la palla al balzo quando si presenterà l’occasione favorevole. Prima però si dovranno superare molte prove, evitare o eliminare i numerosi mostri sociali, religiosi e morali che infe175

stano la vita di un giovane milanese, nobile e ricco, degli inizi del Novecento.

Non sono le dodici fatiche di Ercole ma non sono piccoli ostacoli sulla via dell’amore libero, oltre alla madre, il professor Frugoni, fanatico di Cicerone; lo zio Agamennone, un dilettante di filosofia morale che sta scrivendo un trattato sui doveri dei giovani di illustre progenie; i portinai che informano la contessa di ogni movimento della Jole; le orrende cameriere e le arpie che frequentano il palazzo dell'amica contessa. E ci sono altri nemici astratti con cui Luigi è in guerra concreta: il latino, Cicerone, la filosofia, la religione,

la matematica, le antologie scolastiche di poesia purgata, il vocabolario di Fanfani e Rigutini, e l’italiano della Crusca. Anche le parole infatti possono essere un ostacolo insormontabile, un pericolo mortale. E si vedrà presto il narratore fare magie per ridurle al proprio servizio. Alla fine i due ragazzi sanno dire pane al pane e vino al vino. L’ebbrezza arriverà mescolando bene le lingue: nonché una punta di dialetto meneghino. Ed esulta il racconto per il sobrio linguaggio con cui i due giovani si dicono l’essenziale loro verità. È una favola nella favola l’avventurosa storia di una prosa che approda al leggendario splendore del maggior Gadda. Alla fine quando Luigi è maturo per amare come si deve, il narratore ha maturato un capolavoro della narrativa italiana. Torniamo ai fatti, che per una volta nella narrativa di Gadda hanno un ruolo decisivo, anche se controcorrente ri-

spetto alle attese. Attraverso una serie di paradossali peripezie, la Jole arriva in casa del giovane, e in italiano semplice ma efficace gli dichiara il suo amore e se lo porta a letto, forse lo stesso su cui spesso riposa la contessa madre. Il contino ovviamente non è proprio un principe azzurro da sposare:

questa è solo una favola moderna, dove non sempre è vero che una cameriera sposi il rampollo di una ricca stirpe. D’altronde i due ragazzi se ne infischiano, hanno altro cui pensare, hanno altro da fare, visto che la strega è fuori per te-

nersi buono san Giorgio, cui è dedicata la chiesa di famiglia. Quasi un miracolo: è infatti anche per inconsapevole inter174

cessione del santo che il giovane cavaliere infilzerà il drago o serpente che sia. Trionfa così la fede novella nel giovane che tocca il cielo col dito mentre palpa la carne di Jole. Non credete sempre a tutto quello che Gadda vi vuol far credere. E difficile anche per lui credere a quello che dice. Vi ricrederete, se avete pensato che questo scrittore è migliore quando fa il tragico. «San Giorgio in casa Brocchi» mette in evidenza un sottile e scatenato talento comico. Pare incredibile ma ci sarebbe da ridere quasi a ogni parola, tutte le volte che si toccano due parole nella narrazione. Una delle due può essere vergine come un neologismo, l’altra viene da lungo e amorevole uso, ma insieme fanno corto circuito. Elettricità, e soprattutto esplosioni di riso. Che teatro questo racconto fitto di battute di dialogo, di parlato, discorso diretto e indiretto, libero e non! E allora dite commedia davanti a un magnifico esempio di narrativa che con umorismo scintillante e saporitissimo porta a buon fine la vicenda. E lieto Gadda di riuscire a raccontare, fa il «romanzo

di famiglia» nel modo liberatorio che è il riderci sopra. Savinio sta raccontando negli stessi anni la «tragedia dell’infanzia»? Ebbene, lui narrerà la «commedia dell’adolescenza».

«San Giorgio» è il racconto di una paradossale fuga, o almeno scappatella, dall’oppressione della famiglia. Con l’aiuto della fantastica Jole vola Luigi fuori dalle mura della sua prigione. Poca importa che domani verrà ripreso. «Delinquerà» di nuovo ora che ci ha preso gusto a darsi piacere con le donne, ora che non tollera più la dura sorveglianza della insopportabile madre. «I genitori, questi reazionari», avrebbe detto Savinio,

‘autore di esilaranti storie trasgressive ai danni della famiglia borghese. Nemmeno il giovane Gadda ne fa un dramma. Fugge di casa con la fantasia, scappa con ironia. Stavolta gli danno ragione persino i fatti, che in realtà impazziscono per | difendere le buone ragioni dei due giovani. I quali ignorano di essere progressisti già per il fatto di spingere in avanti i loro corpi, infischiandosene di madri e zii. Dunque, c’è l’eroe, il diciannovenne Luigi Brocchi, che 175

desidera una donna, una qualsiasi, purché giovane e bella.

C'è, si chiama Jole, non è chiusa in un castello, la si incon-

tra spesso per la strada, ed è lei ad avere adocchiato il giovane conte. Si direbbe che c’è un ribaltamento dei ruoli, ma in questa favola che sarebbe il «San Giorgio», ben altre cose vengono ribaltate e buttate a gambe all’aria. Come nel«opera dei pupi» alla fine il palcoscenico si riempie metaforicamente dei cadaveri di portinai, parenti, professori, artisti, mecenati, dentisti, aristocratici, borghesi, milanesi,

romani, filosofi, poeti, preti e santi. Li ha stesi la Jole che, mentre la madre funge da strega, fa la parte della fata. Questo in concreto: perché in astratto la buona fata è la fortuna o caso. Che fa di fiabesco il caso? Ebbene, la buona

fortuna aiuta gli audaci che trasgrediscono agli imperativi di genitori e maestri, trasformando tutti gli avversari in inconsapevoli alleati dei due giovani (che dalla loro avevano avuto solo l’eccitante poesia di Carcano e la licenziosa pittura di un modernista). Da allora, chissà per quante ore, i due ragazzi, che non si chiedono se si tratta di uno di quegli atti gratuiti frequenti nella narrativa degli anni Venti, vissero felici e contenti. Felice, come si diceva all’inizio, è il racconto; ed è contento il narratore, che alla fine con l’aiuto del caso ha beffa-

to la strega. Un puro caso? Il caso c'entra ma è tutt'altro che puro. Anzi potrebbe essere tutto uno sporco affare psicologico. Come gongola Gadda d’aver trasformato un caso negativo in necessità positiva! Morale della favola: una buona trasgressione genera una società migliore. In «San Giorgio in casa Brocchi» non c’è nessun castel-

lo, non ci sono né streghe né fate, il protagonista non è un principe. In concreto Luigi è solo un conte, non è un eroe,

ed è una metafora dire che la Jole ha combattuto tante battaglie. Non è la guerra di Troia, e non è nemmeno il dopoguerra: nessuno parla della prima guerra mondiale, che invece Gadda trova sempre modo di ricordare. Si vive in pace, siamo nella più dimessa vita quotidiana, a pianterreno fanno pettegolezzi le portinaie. Onore alle umili colleghe dei ro176

manzieri! Che, a sentire Gadda, debbono saper essere anzitutto dei grandi pettegoli. Nasce infatti da un pettegolezzo sulla travolgente bellezza di una cameriera una vicenda che, metaforicamente, smantella agli occhi del giovane protagonista un sistema di valori in cui credono la madre, i professori e i preti, nonché le portinaie. Solo in una favola si abbattono tanti e così potenti nemici della spensierata giovinezza. Fabula docet: meglio non darsi pensiero di niente che avere le idee della madre, dello zio, dei professori e persino di Cicerone. E primavera, il contino Brocchi ha il suo primo possente risveglio sessuale, ignora l’esistenza di Jole, una ragazza per cui la primavera non finisce mai. Non è la Grande Guerra, ci sono due giovani che vogliono abbracciarsi, baciarsi, stringersi ecc... Nulla di più naturale, un fatto obiettivamente insignificante, ma a dargli importanza ci si mette la madre di Luigi, altrimenti non ci sarebbe storia. E invece la storia c'è, anzi tante storie: la storia della lingua, la storia dell’arte, ia storia della filosofia, la storia della letteratura e tante altre

storie attraverso le quali passa noiosissima la formazione del nobile rampollo. A renderla esilarante ci si mette il narratore, che non risparmia linguisti accademici, macchiette di artisti d'avanguardia, filosofi dilettanti dalla mente debole e poeti da leggere con una mano sola. Gadda chiama notoriamente a consulto tutto il proprio sapere anche quando l’evento è minuscolo e apparentemente trascurabile come capello. Non che sia un tricomante, come un personaggio della bontempelliana Eva ultizza, ma di sicuro è un narratore che cerca il pelo nell’uovo: tanto più se è della Jole, significante che si riempie d’ogni significato purché maschile. E all'improvviso una smagliatura della più banale vita quotidiana avvia l’effetto frana. Appare sulla scena un personaggio esplosivo come Jole: e, come il fucile di Cocteau, prima o poi si farà sentire.

Insegna qualcosa di nuovo la favola? Ecco: se si è rotto un filo nel piatto tessuto della quotidianità, tiratelo a voi e vi trovate in mano il bandolo della matassa. Potrete tessere una 177

storia diversa, che meglio si adatta al nuovo tempo. Una frattura è la premessa di un ordine alternativo più logico e più genuino. Con lo stesso filo che ti strozza puoi raccontare una vicenda liberatoria. È la fine di un incubo per Luigi quando giace con quella bella ragazza che per la madre è una scostumata ma che lui vede solo priva d’abiti. Non è la nuda verità ma la vita così sembra più vera e più lieta. Anche Gadda si sente sollevato mentre racconta questa storia di una libertà sessuale conquistata. La cameriera pensa a tutt'altro che a una rivoluzione sociale: si limita a portare a letto un ragazzo timido e voglioso. Il fatto è che, quando sale sul letto, Luigi ha una prospettiva diversa delle cose, sul mondo di una famiglia protettiva che gli fa mancare il respiro, specialmente quello della Jole. Non la facciamo lunga con l’interpretazione. Gadda usa poche parole per raccontare la conclusione. C'è silenzio intorno ai due ragazzi che si tengono stretti, e non per paura della contessa. Quello è il mondo che desiderano, lontano dagli occhi della madre e dagli insegnamenti dello zio filosofo. L'hanno dimenticato alla lettera e lo hanno metaforicamente cancellato dalla loro mente. E tuttavia senza saperlo i due ragazzi hanno affrontato una questione culturale. Li si lasci fottere, detto con linguaggio che non è da favola. Il sesso con cui si trasgredisce in nome della natura è sempre un buon avvio per la conoscenza. A Luigi un’ora d’amore ha fatto capire della vita più di dieci anni di studi di letteratura, di filosofia e di religione. La sua religione ora è la più nuda natura: impersonata magnificamente dalla Jole. Non è la romantica forza dell’amore, il dio non è Eros bensì

Priapo, i due giovani forse non ripeteranno il sacrificio, e la Jole certo non si immola. A chi desiderasse altra morale della favola, si può proporre questa: eventi eroici non ci sono più

nel nostro tempo, mala vita quotidiana è capace di catastrofi, sia pure paradossali. Quando una cultura manca di dinamismo, si guardi in basso: anche se non proprio ai piedi. I due giovani hanno perso coscienza, ignorano le conseguenze del loro amplesso, se ne infischiano dei valori in cui

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crede la contessa. «San Giorgio in casa Brocchi» li ha svalutati annegandoli in una vicenda priva d’importanza. Se restano a galla, è perché sono gusci vuoti. Non resta che riempire di significato questa globale operazione di svuotamento portata avanti dal «San Giorgio», santo protettore della narrativa italiana che trasgredisce per dare un nuovo ordine naturale alla cultura del Novecento. Era passata «La Ronda», lontana è l'avanguardia, ma non si può tornare indietro. Non s'era finito di ridere di ciò che aveva suscitato il riso di futuristi e di dadaisti. La vicenda dunque è «insignificante» o quasi (la voglia primaverile di un adolescente), il linguaggio è «poco serio», cioè la comicità. Nulla più sarà serio quando Luigi avrà finito di fare il deserto di tutto ciò che lo circonda. Non si salva nessuna norma di vita e di pensiero della madre, dello zio filosofo, del professore di belle lettere e di ogni maestro. Sulla cultura della madre trionfa la natura del figlio, che con la Jole si sta facendo una cultura diversa, anzi alternativa. Saranno teste vuote i due giovani ma solo loro nel racconto vivono in pienezza di vita. Se non fossero occupati a fare cose serie, Luigi e Jole farebbero matte risate sulle preoccupazioni della contessa, testa piena di stupidi luoghi comuni. Che lei condivide con non meno dissennati parenti e ami. ci, aristocratici e borghesi, serve e preti, uomini colti o analfabeti. I due giovani non hanno ancora fatto in tempo a diventare ridicoli come i padri o le madri, nonché gli zii. Anche perché non parlano. Tutto quello che dicono i personaggi maturi di Gadda verrà usato contro di loro, questi scemi. Negli anni Venti, gli stessi in cui Gadda va scrivendo La | meccanica e progettando «San Giorgio in casa Brocchi», nel 1925 per l'esattezza, Ortega y Gasset nella Disurzanizzazione dell’arte individuava nei «giovani» scrittori e artisti di quegli anni una irresistibile tendenza alla scrittura comica: una inclinazione al riso per la quale si può dire persino che l’arte

stessa «non è una cosa seria». «La nuova ispirazione» dice il

filosofo spagnolo «è sempre, immancabilmente comica. Tutta l’arte batte su questa sola corda e su questo tono. La co-

16,2)

micità potrà essere più o meno violenta e potrà andare dalla aperta “buffonata” fino al lieve sorriso ironico, però non è mai assente... È l’arte stessa che ora diventa burla. Cercare... la finzione in quanto finzione è un tentativo che non può nascere se non in una condizione di giovialità di spirito. Si va verso l’arte appunto perché la si riconosce come farsa.» Dopo la disperazione della guerra, dunque, il riso. Ridevano molto i francesi, gli spagnoli, i russi, gli inglesi, e ridevano più di tutti gli italiani. Aveva cominciato a ridere il Gadda del Racconto italiano d’ignoto del Novecento: dove aveva trovato «familiari» proprio cinque «maniere» che si rifanno all’umorismo. Fa buon sangue ogni maniera di ridere. Maniere, cioè stili prima che contenuti. Prima viene il linguaggio, i problemi delle forme non sono secondi a nessun altro, non trascuri la tecnica chi aspira a fare scoperte. Dunque la maniera, dunque il riso. Si facciano esperimenti in tutte le maniere, si muova il riso quando l’arte ristagna. Si rida di un’arte che ripete la solita canzone. Rida di se stessa un'arte che la fa tragica per questioni ridicole. L'arte dell’umorismo non è inferiore a nessun’altra nel Novecento, anzi

è la più adatta al nuovo secolo. Lo aveva scritto Carlo Dossi. «Mai l’arte ha manifestato meglio il suo magico dono come in questa presa in giro di se stessa. Perché l’arte, facendo il gesto di annientare se stessa» scrive ancora Ortega y Gasset «continua ad essere arte e, per una miracolosa dialettica, la sua negazione è insieme la sua conservazione e il suo trionfo.» Nel Novecento abbondano gli autori che sono vivi solo quando raccontano la morte dell’arte. Anche Gadda fa arte irridendo il modo di farla dei contemporanei, compreso il pittore che espone alla Triennale opere d’avanguardia e non escluso il poeta di retroguardia ottocentesca Carcano. Non sarà negata la magia all’arte che si fa con autoironia, e con alchimia, alambicchi e miscele audaci. Trionferà la negazione gaddiana nella narrativa comica, e avrà «magico dono» uno scrittore cui nessuno regala niente. «Disumanizzarsi»? Noi proviamo con la comicità, dicono a Ortega y Gasset i giovani artisti degli anni Venti. Ci pro180

va anche Gadda. La comicità non è naturale, non è «umana», è artificiale. umorismo lo pretende la cultura ma è anche un obbligo per un narratore che considera congeniale il riso. Una coincidenza di progetto e destino presiede alla nascita di «San Giorgio in casa Brocchi». L’altrove che si vuole portare ‘ di qua; il futuro che è già presente. L'esperimento che è già riuscito. Il linguaggio che è diventato realtà. Il disumano uomo che non trova più nulla di serio. Se le forme sono invitanti, non ci si tiri indietro: il senso apparirà più tardi. Questo manda a dire la Jole, che pur non è una formalista russa. Alla comicità dunque! La prima trasgressione è dunque il riso. La seconda incita a seguire le «maniere» o stili della comicità. Contro ogni realismo della contessa, del professore e di Cicerone, si scriva a partire dallo stile, dal linguaggio, dalla struttura e dalle parole: seguiranno i significati, i concetti che forse stavano sepolti in testa o che forse non avevano trovato la forma in cui essere pensati. C’è un divenire della lingua, della composizione e ovviamente anche nel modo di ridere. Tu non riderai due volte nello stesso modo. Si ride in cento modi diversi in un racconto gaddiano.

Gadda cercherà tutte le «maniere», stili e linguaggi, con cui arrivare a deformare e a conoscere meglio quanto ora è

nascosto. Lo sperimentalismo è un obbligo permanente in un secolo in cui l’arte muore ogni giorno, spesso affogando nel ridicolo di vecchi linguaggi che invano si «voronoffizzano» (la metafora è gaddiana) per sembrare giovani. Il giovane Gadda ride come mai ha fatto prima la narrativa che irride il tradizionale modo di scrivere. Si dia continuità alla migliore tradizione con una frattura del linguaggio. Dentro «San Giorgio in casa Brocchi» l'umorismo appare in scena subito, contemporaneamente alla Jole. Un’accoppiata di forma e sostanza che genererà molte situazioni grottesche. Nessuna idea, discorso o azione, che non sia dei

due giovani, potrà essere presa sul serio. Baudelaire opponeva a una comicità «significativa», voltairiana, satirica, fondata su valori alternativi, una comicità

«assoluta», che mette in moto meccanismi privi di obiettivi 181

che non siano il riso. «San Giorgio in casa Brocchi», dissacrando, porta al potere l'immaginazione di Gadda. Che è contento come un bambino per avere giocato un brutto tiro ai borghesi di Milano coprendoli di ridicolo. In assoluto non resta nulla di serio in questa società. Non cambierà ma almeno si sa come è fatta. La narrativa come cognizione della realtà, ovvero del destino dell’uomo in un determinato periodo storico. È una rivelazione di senso nella storia di Luigi «la prima volta» con una donna. In coerenza con una segreta legge del racconto dentro «San Giorgio in casa Brocchi», quasi tutti i personaggi fanno il contrario di quello che avrebbero dovuto fare. Quando il racconto comincia a ridere, Luigi dà inizio a un esilarante e devastante gioco del rovescio. Bisogna aspettare la fine del racconto per vedere il giovane protagonista fare quello che era logico e spontaneo fare già all’inizio. C'è sempre una logica nella rivolta fondata sulle buone ragioni dell’«ordine naturale delle cose». Il sesso dà un senso e una direzione alla sua esistenza di studente che ha sempre voti molto bassi. Forse i voti scolastici non si alzeranno ma Luigi è molto su di giri quando si trova a portata di mano la Jole. Morte alla cultura materna che proibisce l'abbraccio della Jole. La cultura che porta al successo «San Giorgio in casa Brocchi» dà la benedizione all'unione dei due corpi. È silenzioso il linguaggio del corpo ma è eloquente il significato di un racconto che narra la vittoria della trasgressione. C'è logica in chi fa pazzie contro chi proibisce ciò che naturalmente piace: i veri folli sono i filosofi morali. I giovani fanno bene a scansare il libro che delegittima il loro amore. Il De officiis dello zio Agamennone è testimone muto di un evento che ha tentato di interdire. Lo si dica con umorismo: un’azione trasgressiva brucia un’intera biblioteca, a cominciare da Cicerone, una carogna che proibisce agli altri ciò che volentieri offre a se stesso. La prossima volta la Jole potrebbe essere altrove, in altro letto. Il fortunato Luigi è avvisato. Sono saltate le regole della vita, anche se ovviamente succedeva anche prima che un 182

giovane conte si portasse a letto la bella cameriera. D'ora in poi la Jole non basterà meritarsela. Il caso ha avvertito che non sempre ci saranno tutte le coincidenze favorevoli narrate in questo racconto. Chi ha la cultura adatta alla nuova realtà ha comunque più probabilità di farsi portare a letto dalla Jole. Tocca tenersi in disponibilità: potrebbe arrivare in casa da un momento all’altro una ragazza come la Jole. Fabula docet: non si sottovaluti il caso in un’epoca abbandonata dal meccanicismo naturalista. Luigi non lo sa ma è cullato dall’onda di probabilità. Chi l'avrebbe detto, un pettegolezzo di portinai, quattro chiacchiere con la padrona, ma è una torcia buttata in una polveriera. Il discorso indiretto libero dell’incipit del racconto è una fiammata che investe la povera madre. Quel satanasso della Jole si aggira nei paraggi di casa Brocchi? Peggio ancora, è già entrata nella casa dei Brocchi, sia pure per ora solo in quella del cognato, il conte Agamennone. Il quale in verità gode ogni mattina di vedersi portare a letto la colazione da quella stupenda ragazza per la quale vanno a sbattere contro i lampioni le biciclette e le gerle dei giovani panettieri. Ogni contromisura della contessa risulta inutile: bisogna rafforzare i baluardi, aumentare gli esorcismi, le preghiere e i voti. Il suo Luigi non deve assolutamente arrivare a tiro della Jole; che già prima che cominci la storia ha aperto una breccia, s'è fatta un lontano cugino di Luigi, uno che se ne

infischia della filosofia morale dello zio Agamennone. La madre non sa che santo pregare, e per giunta teme il castigo di san Luigi: gli ha preferito san Giorgio quando ha deciso di andare nella sua chiesa a portare di persona la tovaglia d’altare proprio nel giorno del compleanno del figlio, che sin dal nome è dedicato a san Luigi. In questa favola c'è pure una guerra fra santi. In verità sembrano essersi alleati contro di lei, ma nella vicenda ci deve aver messo la coda il

diavolo, se i «bassi» istinti sessuali di due ragazzi fanno crol-

lare un sistema culturale. Qui non si bestemmia nessuno ma

| vincono i due miscredenti. Dal momento che i due santi chiamati in causa stanno a 183

guardare, si è potuto pensare che hanno benedetto l’unione. Le nuove culture, trionfando, si sublimano. C'è la volontà di Dio nello scioglimento di questa intricata avventura, dove comunque un santo su due potrebbe uscire sconfitto. Vince

il diavolo — il cattivo, il delinquente, colui che deforma ridendo — ma, arrivato al potere, il trasgressore si santifica. Il

lettore prega che vada a buon fine l'impresa di quell’angelo che è Luigi e di quella indiavolata della Jole. San Luigi benedice ogni coppia di opposizioni celebrata da un narratore il cui linguaggio mescola il diavolo con l’acqua santa. Chi se la beve, sappia che ha attraversato ogni diavoleria linguistica, ideologica e sociale. Sia santificato dalla cultura moderna solo chi ha conosciuto Satana. Luigi è cambiato in meglio, è maturato a maggiori imprese, è cresciuto

anche intellettualmente, da quando si è abbassato per giacere con quella malafemmina della Jole. Potrebbe nascere qualcosa di buono da questa trasgressione, che è logica e spontanea, cioè naturale, insomma culturale, cultura d’opposizione al regime severo di vita imposto da una madre. Non c'è più religione, ovvero non c’è più la religione cattolica fra tante portinaie che pur fanno la litania sulle avventure della irresistibile cameriera. Quella della Jole è un’apparizione celeste, o quasi. La Jole si rivela come la forza del destino nei discorsi liberi, e non tanto indiretti, dei portinai. Un ritratto collettivo dove ogni osservatore usa le immagini adatte al proprio ruolo. C'è il popolo a dire la sua sulle forme tangibili della ragazza ma è ovvia la preferenza gaddiana per le metafore degli studenti di ingegneria. Il linguaggio come erotìa. La scrittura si è innamorata di Jole, non ne può fare a meno, sprizza energia da ogni frase, da ogni parola. Le parole riscaldate si piegano e fanno tutto quello che desidera uno scrittore contagiato, attraverso il «gioco ab interiore»,

dagli assatanati spettatori. Il coro canta l’osanna in un tripudio di oscene metafore. La madre intanto continua a pregare, continua a ricama-

re. Una tovaglia per altare non è un foglio di carta, ma bisogna pur sempre tracciarvi dei segni. Questa tovaglia ha 184

un'importanza centrale in «San Giorgio» e il racconto gira intorno al fatto che essa deve essere consegnata nel giorno del compleanno di Luigi. La contessa non lo sa ma sta disegnando indirettamente e involontariamente il proprio destino di madre che prega tutti i santi di proteggere il figlio dalle cattive donne. Non c'entra tanto la figura che sta ricamando, quanto piuttosto che deve finirla per quel giorno preciso e andare a portarla di persona. E tuttavia su questa tovaglia qualcuno fa il contraltare. Quasi il presentimento di un cuore di mamma che scorge dappertutto pericoli presenti e futuri. La contessa Brocchi sta ricamando una tovaglia per l’altare della chiesa posta fuori Milano nella proprietà di famiglia, con più devozione del solito. Deve chiedere sempre la stessa grazia: san Giorgio aiuti il figlio a resistere alle tentazioni del sesso, che potrebbe recar tanti danni alla sua gagliarda giovinezza. Non sta tranquilla, anche se il cognato Agamennone sta concludendo — per il compleanno del nipote — un volume, I doveri, sul quale educare i rampolli dell’aristocrazia milanese. La nobildonna rispetta la filosofia morale ma l’ira di san Luigi può essere terribile. E così sarà. Luigi, lasciato solo anche dal suo santo, cade nelle braccia sacrileghe della Jole. Riesce la beffa anche ai danni della vecchia filosofia morale. E Luigi si potrà godere meglio quella grazia di Dio che è la Jole. Mentrela madre ricama sul dritto della tovaglia, sul rovescio qualcuno matura un disegno che è in contrapposizione alla contessa e ai suoi alleati nella guerra contro i due giovani. Il punto di vista è invertito, la figura è capovolta, una delle due è a testa in giù. Dal rovescio la vita risulta più vera e più bella. Il rovescio del ricamo della madre va riconoscendo il diritto del figlio ad essere libero di far l’amore con chi vuole e con chi ci sta. Si vince sul rovescio, la natura sta tessendo il ribaltamento totale dei valori materni. E il disegno viene meglio sul versante opposto: il «negativo» sarà più ruvido ma fa sentire più viva l’esistenza quotidiana. Intorno a quella tovaglia di devozione il personaggio (la contessa Brocchi) e il figlio non fanno certo una disputa arti185

stica. Da questa reale e metaforica tovaglia si vede meglio che ricamino il racconto sta facendo alla madre. Disegna caricature? Ricama una vicenda alternativa a quella della contessa madre di Luigi. Mettendosi dalla parte opposta della tovaglia, in trasparenza si vede che si fronteggiano due nature e due culture. Quella della madre è una logica capovolta, ma lei è sempre convinta d’essere dalla parte del diritto. Mentre la madre vive la vicenda come un dramma, sul rovescio si as-

siste a una farsa. Dal rovescio si vede che il racconto sta giocando un brutto tiro alla devota nobildonna milanese.

All’inizio ci furono solo punture di spillo, ma poi si venne al cuore della situazione. Non fu risparmiato nessuno, né i pettegoli portinai che riportano le malignità della strada, né il professore di latino che esalta il pensiero e le azioni di Cicerone, l’italiano di Fanfani e Rigutini, le tragedie di Carcano, né lo zio, filosofo fatto in casa, né il pittore romano che

però è una simpatica canaglia, né i mecenati che finanziano la spazzatura artistica delle mostre, né il prete che aspetta la tovaglia dalla contessa, che è all’origine di tutto, sin dalla nascita del figlio. Lui è l’unico, con Jole, a salvarsi dalla derisione ricamatissima di Gadda. Si salvano solo i giovani con questo scrittore per il quale gli uomini si incanagliscono con gli anni e perdono il senno. Lavorando accanitamente d’ago (al narratore si addice il lavoro tipicamente femminile del ricamo: la prosa non sbaglia un punto, non c’è una parola che non punga), Gadda fa scoppiare i personaggi che parlano in rappresentanza dei valori sociali, culturali, morali, artistici, letterari, linguistici, religio-

si che una società aveva gonfiato oltre ogni dire. Non appena provano a dire qualcosa, i personaggi mostrano il loro lato ridicolo. «Deformandoli» fino alla caricatura, conosce il bas-

sissimo livello morale e mentale di questi imbecilli che sono ai vertici sociali e culturali della società. Saltino pure in aria questi palloni gonfiati che stanno sopra gli altri esseri umani. Nel rovescio del racconto il narratore ricama una storia utilizzando lo stesso filo della contessa. Come dire: io non 186

invento niente, mi limito a usare i discorsi dei vari personaggi che si avvicendano nella scena, col «gioco ab interiore». Gadda ci ricama sopra con effetti di straordinario realismo: quello che dà come verosimile quanto è vero per un narratore che crea la realtà dal proprio partigiano punto di vista. Il realismo della caricatura, il deformante realismo di un «de-

linquente», la visione di un cattivo soggetto che fotografa partendo dal «negativo». La tecnica di uno che vede nero e che aggiunge il colore necessario all’espressione del proprio furore o sarcasmo. Gadda dimostra quanto può essere espressivo — espressionista? — il naturalismo, se lo si disegna dal rovescio. In apparenza la struttura è la stessa, ma in questo narratore chi rovescia il senso è la scrittura. Insomma, mentre la madre rica-

ma per edificazione, il racconto disegna la distruzione. Gadda non rimanda mai a domani ciò che deve essere fatto oggi. Perciò «San Giorgio in casa Brocchi» può restare indietro per i fatti narrati ma non per la scrittura, avanguardia di stile insuperabile. Amica è la modernità, ma più amica è la verità. E la verità è che questo racconto continuerà a distruggere ogni ideologia che mettesse su famiglia oggi o domani. Gadda innalza un tempio fatto di parole alla negazione che dà un’idea logica e intensa dello stato delle cose: naturalmente quello che appare a un occhio per il quale ci sono alcune cose insopportabili. Ogni volta che Gadda mette a fuoco una visione, si registra un incendio che non sarà estinto. La sua ribellione non è un fuoco di paglia come in molti scrittori d'avanguardia. Ora chiedono di essere ascoltate le rane di Spallanzani. Attenti, non siamo più nella favola di prima, queste rane non parlano, non dicono moralità memorabili. Siamo nella zoologia, e potrebbero essere immorali alle orecchie della contessa. Invece sono solo naturali, quello che fanno è nell’ordine naturale delle cose cui vorrebbe obbedire Luigi all'arrivo della | primavera. Cosa fanno le rane secondo Spallanzani ve lo dice il cugino libertino di Luigi, il quale sfogliando un libro vi ha 187

letto che il loro orgasmo dura un quarto d’ora. Ebbene, i due giovani nobiluomini non fanno gli schizzinosi, non li offende per niente il paragone, essi invidiano le rane, che non hanno

blasone ma che fanno l’amore duraturo, anche se non eterno.

Non c'entra il romanticismo, non c'entrano il grande amore e la piccola morte che è l'orgasmo: la natura non tollera privilegi di specie razza o classe, bisognerebbe poter fare l’amore liberamente come queste rane. Non c’è alcuna differenza fra due esseri umani in amore e le rane? Sì che c’è: Gigi e Jole non gracidano, anzi hanno smesso pure di parlare. Cos’hanno gli uomini in più rispetto agli animali? Se è la cultura, nonché l’intelligenza e la fantasia, le usino, magari

non per avere orgasmi di un quarto d’ora, ma almeno per soddisfare la natura impellente. Fabula docet: le rane sono maestre di vita migliori del professor Frugoni, che si fa ispirare i doveri dei giovani da quel mascalzone di Cicerone, oratore e politico romano che gracida da duemila anni. Togliete la parola a quel retore, a ogni impostore, e datela a Gadda, che cerca la verità piena incarnata per ora da Jole. La favola insegna: non si mettono su delle forme se non danno un orgasmo duraturo. Eppoi la grande arte ha più durata di una rana. Si limita a gracidare lo sperimentalismo che non ci mette amore nell’arte. Questo è naturale: la moder-

nità non può rinunciare alla musica. S'è capito che Gadda odia l’intonarumori? Gli piace la dodecafonia? Lui sa accordare più di dodici suoni. «Tenendola sempre, la trascinò, come una dolce preda,

dove l’amore potesse essere più pieno e vero.» L'amore più pieno e vero è per Gadda l’accoppiamento. Di romantico c’è solo quel «dolce preda»; per il resto in amore Gadda è certamente un «materialista». L'amore «fisico» svetta in questo finale di racconto. «I seni della Jole opposero come una violenta promessa al torace quadrato di Gigi.» Sono un ossimoro logico le parole «opposero» e «promessa», per giunta «violenta». Gadda può respingere il lettore per troppi ossimori o altri traslati, ma quando lo prende di petto così, con 188

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tali parole, è davvero irresistibile. La violenza linguistica di Gadda promette sempre qualcosa di buono. Alle parole seguono i fatti. Nei realisti succede il contrario. Gadda spesso è il contrario di un narratore realista. Lasciamo l’ultima parola a Gadda. È un avverbio: «ruvidamente». Così ora il timido Luigi chiude la porta della camera in cui guida la Jole. Così agisce il ragazzo impacciato che prima obbediva solo agli ordini della madre. Ruvidamente: con una sola parola può chiudere una intricata vicenda questo narratore considerato prolisso. Non c’è un avverbio in più in «San Giorgio in casa Brocchi».

Due avverbi collocati in posti fra loro lontani: «cavallerescamente» indica un iniziale gesto di Luigi verso le donne, mentre invece il finale «ruvidamente» spinge sul letto la Jole. Fra i due avverbi Gadda può far scoccare la scintilla che mette in moto una lunga narrazione. Un avverbio, «ruvidamente», segnala che morta è la cavalleria, anche se Luigi,

maturato all'amore pieno, può ora cavalcare la sua bella. Si prepara a diventare grassa la narrativa gaddiana? Sì ma l’autore non sarà mai untuoso. La sua parola ha sempre energia da consumare. Il linguaggio di Gadda è molto gestuale. Molte sue frasi sono cazzotti, anche se il narratore ha

messo i guanti per ammorbidire il colpo. Non sono intruse da accantonare le lunghe digressioni gaddiane, racconti ai margini della storia principale e tuttavia ad essa strettamente abbracciati. Le digressioni di Gadda, che costruiscono il racconto, paradossalmente demoli-

scono i personaggi che fanno da contorno alla storia di Luigi. Comincia a manifestarsi la metastasi con cui il racconto gaddiano cresce per distruggere. Lungo il percorso Luigi incontra mostri che gli impediscono di arrivare all’oggetto del suo desiderio. Ebbene, prima li abbatte, poi li addomestica. Ed essi si mettono a collaborare perché si concluda felicemente l’impresa di Luigi. Gadda fa digressioni perché dalla periferia si arriva più ricchi al nucleo della questione. Solo chi viaggia spericolatamente nei linguaggi e nei temi più lontani ed estranei entrerà 189

nella capitale del sistema nemico. Tocca sempre cambiare il verso abituale alle cose, se le si vuole indirizzare al senso più pieno e più vero. Se non avesse visto la scandalosa mostra di pittura moderna, Luigi non avrebbe saputo dove mettere le mani con la Jole. Ogni digressione, ogni trasgressione, finisce nel letto su cui Luigi sdraia la ragazza. La filosofia morale, il latino, la letteratura, i vocabolari,

la tragedia di Shakespeare, la religione, l’arte, il museo e la Triennale, i giornali, le chiacchiere dei portinai, tutti ora sono al servizio del contino che deve fare l’amore con la Jole. Secondo i punti di vista, è uno scandalo o un miracolo: questi mostri sono nati per ostacolare il cammino verso la verità e invece si ritrovano ad andare controcorrente. Ci si può fidare o è stato solo un caso? Si immetta un elemento anomalo nel sistema dato e questo ci costruisce una storia alternativa. È un sistema coerente ed è pure migliore quello nato da un’incrinatura o rottura.

La narrativa moderna quando meno te l’aspetti regala donne bellissime agli imbranati e fa doni corposi alle donne non astratte come la Jole o Zoraide. Potrebbe essere tragica una vita siffatta, ma non buttate via i momenti felici e allegri che essa offre. Mentre su un lato la madre piange, su un altro il figlio ride. E fatta così la vita disegnata come un cubo: sei punti di vista sulla stessa materia e molti ribaltamenti, quando si pensa che si tratta pur sempre di un dado. La geometria insomma è solida ma sono previsti sempre dei salti. Una inesauribile tempesta di commenti, insinuazioni, lepidezze, ammiccamenti osceni e sottili interpretazioni si abbatte su ogni oggetto o parola che si pari davanti all’autore. Mentre aggiunge, però, questo narratore toglie sempre qual-

cosa. Un instancabile scalpellino sbriciola il piedistallo sul quale borghesi e aristocratici si sono collocati. Sono al naturale e insieme sono delle macchiette. In questo ritratto realistico la realtà s'è telicemente assunta il compito di essere una caricatura: fisica (questi personaggi adulti sono orrendi o ridicoli) e mentale (cosa non pensano di insensato questi benpensanti). Col «gioco ab interiore» i personaggi ingrassano ma si

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ammalano mortalmente. La verità forse è che non tanto si prostrano dinanzi al vincitore, bensì che sono abbattuti. Si ammazzano parlando. Parlare è un delitto che non sarà perdonato. E invece questi sciocchi non sanno fare altro. Fanno ben altro Luigi e Jole, che infatti sono quasi muti, dicono frasi che preludono e servono a fare i fatti. Chi parla in questo racconto è uno sciocco o un furfante o un filisteo. Ammenocché non sia il narratore, che si salva perché non prende niente sul serio. Solo la scrittura umoristica mostra di saper comunicare significati: e c'è da ridere. «Il riso è un ottimo avvio per la dialettica»? Lo dice Walter Benjamin ma l’idea si adatta alla situazione di Luigi mentre intorno a lui si pratica il massacro comico. Il rovescio del riso potrebbe essere una verità seria. La scopre l’unico personaggio di cui non si ride in «San Giorgio in casa Brocchi». «Tutte le volte che lo guardavano loro (le ragazze), lo guardava anche la mamma, severa: e quegli occhi materni, che valicavano le spalliere delle seggiole, poi le spalle armoniose delle benefattrici, e, implacabili, lo raggiungevano nei più remoti “a parte” degli arzigogolati salotti, allora, gli divenivano insopportabili. «Sentiva allora, davanti a sé, come un ostacolo magico: l’impeto della volontà gli pareva infrangersi contro l’impossibile e rifluire in un tormento cupo, così come s’abbattono i marosi contro la vecchia muraglia del molo e ricadono, informi, nel mare, dopo aver vanamente tentato di essere forma. «La bumana societas gli sembrò tutta una grossa e grassa bestia, la qual mugliasse epifonemi frugonici ai pupi, con tono solenne d’autorità, nel momento, proprio, che maggio

metteva cinque gambe ai somari. Una bestia infinitamente più scema della Luigia, perché la Luigia, alla sua fame, gli recava risotto e bistecche, e gli uomini invece, per quell’altra disperazione, gli servivano un piatto di Cicerone rigutinizzato.»

È falsa la filosofia di Cicerone, è una mistificazione la

lingua insegnata da Rigutini. È bene pensare solo quello che è logico e autentico, e poi agire di conseguenza: non come Cicerone, che una cosa dice e un’altra fa. Né si può scrivere 191

in italiano come Cicerone scrive in latino. Una lingua per professori. Beffatela. Altro deve essere il vocabolario di un narratore, altra la

logica, la filosofia e la morale di chi racconta. Solo una scrittura eccitata ed eccitante conduce alla verità: quella che dà l’orgasmo perenne, più duraturo di quello delle rane. Così si scrivono racconti non noiosi che daranno alla testa come Cicerone e Rigutini non avrebbero mai potuto pensare e scrivere. A morte Cicerone! Ammazzate l'italiano della Crusca! Non si può raccontare nulla di vero con le idee di Cicerone, con la lingua dei vocabolari imposti dalle scuole. Col linguaggio di Cicerone Luigi non avrebbe mai posseduto la Jole, donna che non fala vita ma che frequenta la strada, dove il suo passaggio porta scompiglio nelle teste e nei cuori di chi la vede. . La Jole non porta Luigi sulla cattiva strada, bensì a letto, e pur sempre in una casa, per giunta nobile. La lingua gaddiana non teme d'essere aristocratica. Non si rinnova l’italiano per portare al potere la Jole. Non vincerà la sua lingua, o dialetto che sia. La cameriera resterà sempre, o quasi sempre, sotto il conte Brocchi. Gadda non prevede rivoluzioni dopo la morte di Cicerone e la liquidazione della Crusca. Cambia solo la cultura. Seguono i fatti. Quando Luigi capisce, non si comporta più «cavallerescamente», bensì «ruvidamente». E sia pure ruvida, energica

e stringente, è la lingua che vuole conquistare la Jole, cioè la donna del popolo. Mischino le lingue il popolo e l’aristocrazia, cioè si intreccino i linguaggi bassi e quelli preziosi, e sarà più saporito l'italiano, reso scorrevole come l’acqua, insapore, indolore e incolore dalle classi medie, dalla media o piccola borghesia. La lingua della burocrazia dice sempre il falso e l’ovvio. E più educata la lingua cavalleresca ma non serve a chi cammina nel mondo d’oggi. Non si intenda ciò come un invito a scrivere coi piedi: anzi, Gadda è inappuntabile pure quando usa i linguaggi bassi. «San Giorgio in casa Brocchi» di colpo impazzisce e conduce tutto a effetti grotteschi per imprevedibili inversioni di percorso e significato. Il buono diventa cattivo (Cice192.

rone, la madre, il professore Frugoni, il latino, nonché l’ita-

liano di Fanfani e di Rigutini) e il cattivo diventa buono (il pittore romano licenzioso e sboccato che a Luigi fa lo chaperonnage con il quale il ragazzo apprende parecchio sul corpo delle donne tanto desiderate; e ovviamente la Jole, che per la

madre è il diavolo). Obbligata dalla stessa logica stravolta, la contessa rispetta «religiosamente» l'impegno preso col parroco di portare per quel giorno la tovaglia per l’altare, e così lascia libera la casa per la prima prova d’amore del figlio, senza che i suoi occhi «insopportabilmente» infallibili abbiano avvertito cosa passa per la testa del diciannovenne. Lo zio Agamennone, che ha promesso per quel giorno la prima copia del suo libro sui doveri del giovane di buona famiglia, non si può alzare dal letto cui l’ha costretto una crisi di gotta, e deve mandare la Jole. Così quella che per il ragazzo era una prigione si trasforma in luogo di liberazione. Naturalmente prima del potere qui viene il sapere. Quando Luigi sa, allora fa, come sa fare già la Jole. L’arte è una cosa sublime come la considera la madre, come credono i nobili, icommercianti e i dentisti milanesi?

Il racconto di Gadda le sta preparando un bel servizio: alla madre, nonché all’arte. Sarà l’arte moderna, che tutti consi-

derano inutile, a fare da pronuba ai due innamorati. Che ti fa l’arte, un valore sacro ai buoni borghesi? Si mette a illustrare con gigantografie le forme femminili che Luigi non ha mai visto nude. Così il ragazzo si fa l'educazione figurativa per sapere com'è messa sullo scheletro la carne di donna che tanto desidera vedere e toccare. Ed ecco così smentiti coloro che dicono che l’arte non serve a niente. Per analogo paradosso possono essere amati persino

Carcano e Cicerone. La tremenda traduzione di Carcano dell’Arz/eto evoca immagini erotiche che rendono perdonabili all'occhio del ragazzo le noie della poesia. E in tal senso non è da bruciare nemmeno il faticoso latino di Cicerone. Forse che il suo De offictis non ha ispirato qui l'omonimo volume dello zio, senza il quale la Jole non sarebbe mai arriva193

ta alla presenza di Gigi per spiegargli, prima di passare alla pratica, la propria, sia pure «dilettante», filosofia? Serve anche la religione. Il prete ottiene che la contessa vada a consegnare direttamente la tovaglia per l’altare, ma così Luigi è libero di stendere sulle lenzuola della madre l’indiavolata Jole. «La c’è la provvidenza», direbbe il Manzoni così caro a Gadda, vedendo entrare la Jole nella casa lasciata indifesa dalla madre. A quel punto non è importante che sia illustre l’italiano con cui la ragazza dichiara il suo amore al contino. Messi rapidamente in fuga i fantasmi morali ereditati dall’educazione materna, Luigi non presta attenzione alle parole. Ora tocca dimostrare di saper fare i fatti. E il ragazzo non si tira indietro. Luigi sta mangiando il pranzo preparato dalla cameriera ma i suoi pensieri vanno ossessivamente al suo desiderio di donna. È vero, il ragazzo studia, ma sta leggendo una pagina del Carcano in cui il poeta caro alla madre parla di alcuni bottoncini collocati in un punto privilegiato del corpo femminile. La voglia di sesso fa salire il sangue alla testa del giovane eccitato. Partendo dal basso, anche i pensieri sono più elevati del solito, vanno più in alto dello stomaco, che è il terzo organo impegnato dal ragazzo in quel momento. Mangiando e eccitandosi, Luigi si vede vittima dell’ottusa autorità della madre e delle paternalistiche vessazioni di quel cretino dello zio filosofo. Un organo, sembra pensare Gadda, sta più in alto dell’altro ma in quanto ai linguaggi vanno messi alla stessa altezza e miscelati. Il sangue che arriva alla testa è lo stesso che passa dallo stomaco e dal sesso. Non tutti quelli che sono eccitati assurgono a rivelazione luminosa di sé, non tutti hanno da mangiare come il contino Luigi Brocchi, ma nel corpo umano l’apparato circolatorio è sempre lo stesso, che attraversi lo stomaco, il sesso e il cervello.

Così succede anche in un racconto di Gadda. C'è gerarchia fra testa e sesso, ma anche mutuo scambio, magari con lo stomaco al centro del sistema. Quando, dopo aver mangiato,

Luigi avrà finalmente usato bene la sua testa, si sarà meritato 194

il regalo e sarà soddisfatto il suo desiderio, quello sessuale. Arriva la Jole a mettere da parte il cervello e lo stomaco e a porre in evidenza il sesso. Poi si torna a mangiare con più appetito e magari vengono idee migliori. Per Gadda il corpo è un sistema di segni elementare e insieme complesso. In un suo racconto, che pur sembra isolarsi nelle digressioni e che fa perno su ogni particolare, contano soprattutto le relazioni. Il prosatore non dimentica mai d’essere un narratore. Questo narratore molto «corporale» ha anzitutto una grande testa. Gadda crea parole dotate di grande energia erotica ed intellettuale. Non si dica che è solo cerebrale, non

si elogi solo la capacità manuale. Gadda è capace di mettere la mano sul cuore quando i temi accelerano i suoi battiti. E diventa un lirico il narratore che manda più copioso il sangue dove c’è più bisogno in quel preciso momento del racconto. In «San Giorgio in casa Brocchi» è meno violenta del solito l’anima irascibile. E più allegra l’anima razionale ora che gli eventi hanno preso per fortuna il verso giusto. Rockefeller vuole trasformare in oro ogni oggetto che tocca? Gadda fa lo stesso con le parole. Ogni sua parola deve essere moneta sonante. Gadda non disprezza i metalli vili della lingua umile, anzi ci fa investimento: sa come lavorare una per una la parola o la frase finché non mandano bagliori. Se esse non brillano da una parte, o cambia punto di vista o le lucida, leviga o cesella. Gadda con queste parole ci deve mangiare. Con le sue parole ci vive. Nelle parole c’è tutta la sua vita. Solo se la parola è viva, non muore la sua narrativa. Con una digressione di Gadda ci puoi fare un rac‘conto. Al cambio non ufficiale ti danno un lungo racconto per una breve frase gaddiana. Una pagina di Gadda non sarà ‘mai carta straccia: non teme l’inflazione uno scrittore che trasforma in lingotto ogni periodo della sua prosa. Neoclassico lo stile che trionfa in «San Giorgio in casa Brocchi»? Il neoclassico fa pensare alla prosa monocolore di chi prende il sole uniforme sull’altopiano. Uno che si sia la‘sciato alle spalle le valli e le cime. La lingua perspicua e perentoria di chi ha risolto definitivamente i conflitti. Una pa195

ce immobile e luminosa. Non è così classico il Gadda di questo splendido racconto. Si immagini piuttosto un territorio fortemente segnato da rilievi. Non la miscela che attenua i toni, bensì quella che fa brillare la differenza dei colori, elementari come un urlo.

Graffiano ancora le parole appuntite come rocce, a ogni frase ci può essere un burrone, precipita o si innalza la musica del racconto. Il prosatore è notoriamente sanguigno. Da quando ha fatto in guerra l’ufficiale d’artiglieria, Gadda frequenta volentieri le catene montuose e il fuoco di sbarramento. «San Giorgio in casa Brocchi» colpisce quasi sempre il bersaglio. Il linguaggio gaddiano d’altronde non spara mai a salve. Non è vero allora che sono fuochi artificiali, come qualcuno sostiene? Solo nel senso che stavolta è festa per Gadda. Abbiamo detto degli occhi, dell’orecchio, della lingua, dello stomaco, del sesso e del cervello, ma la voce, come è la

voce di Gadda? Ebbene, la voce del narratore è tutta un gorgogliare, come di chi si trattiene dallo sbottare a ridere, un sommesso sghignazzare, un sornione fare il verso, sottolineare, fare lo gnorri e scimmiottare, e poi il piacere del commento «cretinoski», la caricatura, il colpetto di tosse, l’ammicco verbale, lo sberleffo, la gomitata per intendersi, l’e-

quivoco, la battuta becera, la farsa demenziale e coltissima. Che gioia per Gadda ridicolizzare il proprio mondo. Gadda si è tolto un peso dal cuore. E se non altro il prigioniero canta. Da molte bocche, con parecchi motivi e con musica che non si limita a sottolineare le parole ma che le spiazza con audaci stacchi e accordate riprese da un altro registro. Questo narratore orchestra strumenti dissonanti per non addormentare il lettore. Semmai per non disturbarlo, prende la frase dalla parte da cui non stride. Naturalmente fa sentire la voce di ognuno mentre la propria è così lieta di raccontare l’unica storia gaddiana che sia arrivata alla fine. Solo la commedia ha una fine nella narrativa di Gadda?

Non possono avere fine, tanto meno lieta, i suoi romanzi, le

sue future tragedie: La cognizione del dolore e il Pasticciaccio. 196

Si riderà ancora in un’opera di Gadda ma il caso non aiuta più come in «San Giorgio in casa Brocchi» a raggiungere la con-

clusione. Il narratore ha paura di trovare una brutta fine. Il romanzo è sempre una tragedia senza fine per questo scrittore. «San Giorgio in casa Brocchi» è una costruzione policentrica: da ogni personaggio parte una vicenda autonoma che si prende ogni libertà. Memorie «scatenate», insinuanti postille critiche, folgoranti analogie. Fulminei colpi di vento come rasoiate nella narrazione, e rapide suture. Il narratore è bravo col bisturi ma non è meno bravo col filo per ricucire le sparse membra del racconto, anche se è venuta fuori

deforme la figura dell’uomo d’oggi. Tutti credono di fare quello che vogliono ma intanto tutti obbediscono alla legge segreta della narrazione. I diversi episodi corrono inconsciamente dove li attira la struttura di «San Giorgio in casa Brocchi», che ribalta con le funzioni dei personaggi i loro valori. Tutti giurano di essere padroni del proprio destino ma invece sono tutti al servizio di un disegno che è divino solo per la perfezione della riuscita. Il racconto meglio finito è anche il più rifinito. L’orgasmo del lettore dura molto più di un quarto d’ora. Da quando è stato pubblicato «San Giorgio in casa Brocchi» non ha mai infatti cessato d’essere un racconto eccitante. Mai come stavolta il piacere della lettura è figlio del piacere della scrittura. È felice assai la mano del narratore che porta a palpitante equilibrio parole, idee e percezioni fatte convergere da ogni punto del sistema. Il prigioniero non avrebbe potuto festeggiare meglio la festa della propria liberazione.

PARTE TERZA INCOMPIUTA

I grandi pettegolezzi di Gadda

CAPITOLO PRIMO

Un «disegno milanese» Le muffe dell’Ada/gisa

Il «disegno milanese» che si intitola, come il libro, L’Adalgisa comincia con un acuto. L'Adalgisa è una cantante lirica, ma non c'entra con la professione — che d’altronde ha smesso dai tempi lontani del matrimonio col sior Carlo — il volume della sua voce all’inizio del «tratto» narrativo di Gadda. Alza la voce, quasi isterica, — la nevrastenia di certi personaggi gaddiani che somigliano molto all’autore— contro i pettegoli che le attribuiscono tante colpe: figurarsi, innumerevoli amanti; e questo a lei che invece ha avuto in tutta la vita solo un uomo, il marito. Ne aveva avuti, eccome, di corteggiatori all’epoca in cui

era una applauditissima artista ma non era tipo da far certe cose fuori del matrimonio. Ora è vedova, ha due figli da crescere,

tanti problemi pratici da risolvere ogni giorno e ben altri pensieri che non l’amore. Non ha più tempo per pensare nemmeno all’arte l Adalgisa. AI punto che quando le tocca di accennare alla poesia, ne pronuncia il nome — dice il narratore, che notoriamente è sempre «presente» quando parla un suo personaggio — come se parlasse di feci. «“Voglio dire sta’ allegra,

‘non essere così triste. E tutta poesia, nient'altro che poesia,

credi a me...” Disse “poesia” come avrebbe detto le feci o altri materiali putrescenti.» Chi ha tempo, cioè l’età giusta, e bellez-

za, meglio farebbe a prendersela più allegra, meno triste prosa della propria vita. Quasi la vita «merdosa» di Gaddus. Abbondano e hanno quasi parte di protagonisti gli escrementi in questo «disegno milanese». Gadda qui li usa per chiosare una parola dell’Adalgisa, ma più in là lungamente e altamente narra dello scarafaggio che trascina una palla di 201

sterco sotto gli occhi del marito di lei nel periodo in cui egli si diletta a fare l’entomologo. Il «disegno» gaddiano, come è nella natura di uno scrittore che la fa lunga su ogni parola, non corre ma va avanti e indietro, o gira intorno finché un traslato non vola per avvicinare cose lontane. Qui ad esempio fa ponte, come dire?, tra le feci e la poesia, cioè tra il punto più basso e il punto più alto di un vocabolario e di una vicenda in cui si mescolano gli opposti. Gadda, supremo alchimista, mostrerà di saper fare l’oro con ogni materiale, non escluse le suddette sostanze, per quanto immonde possano essere. Qui lo vedrete impegnato a comporre «poesia» di immenso valore con ciò che gli altri scrittori, nonché tutti gli altri uomini e donne, trascurano o

buttano. Si dica che è un componimento in prosa, ma non si parli di poemetto in prosa come qualche critico finisce sempre per fare quando vede Gadda in gran forma. Dall’ Adalgisa viene invece la conferma che è un narratore, come dire?, di

grande respiro. Gadda pretende molto fiuto dal lettore che cerca il senso della sua arte. Contrappuntandolo con qualche scapaccione ai figli irrequieti o con digressioni più o meno peregrine da cui prima o poi rientra nel suo discorso centrale, l’Adalgisa, che una fa e cento ne pensa, mentre le consiglia di non sprecare la giovinezza in «poetiche» fedeltà, disegna alla malmaritata cognata — che in effetti è già in cerca d’altro — il ritratto dello straordinario personaggio che era il marito. Quanto calore ci mette l Adalgisa nel raffigurare un uomo che passa «tranquillamente», o almeno così pare alla moglie, dai conti dei condomini di cui è l'amministratore a scarabei che trafficano per tutta la giornata con escrementi. Come se dovesse difenderlo da un invisibile nemico. Lei non ne ha coscienza, e del proprio inconscio non sa cosa sia e non ne fa conto e così Carlo giganteggia nel racconto che l’Adalgisa fa delle sue imprese scientifiche. Nel ricordo dell’ Adalgisa il Carlo ha il momento di massimo splendore quando trova il nesso tra la pecunia, che notoriamente 07 olet, e le feci, che quasi per antonomasia sono 202

sostanza puzzolente. Grand’uomo davvero quel ragioniere capace di trovare le tracce sotterranee che conducono a scoprire somiglianze tra individui di sesso, epoca e cultura tra loro apparentemente inconciliabili. Gli animali non erano mai parsi così simili agli uomini e a nessun uomo parve di essere tanto diverso dagli altri esseri umani che lo stavano ad ascoltare in ammirazione. In Gadda rimanda all'uomo ogni più piccolo e trascurabile particolare. Se hanno un così alto valore simbolico le feci, state attenti a ogni parola di Gadda: potrebbe esserci dentro una grande verità, universale o quasi. E puoi commuoverti più sulla morte di uno scarafaggio che non sulla vita di un piccolo borghese. Gadda non dimentica di avere scritto un giorno che all’inizio l’uomo è «onnipotenziale»: ad esempio è insieme maschio e femmina, e così via. Qui il suo personaggio va anche | oltre, anche più a fondo: nella struttura più elementare l’uo| mo non è poi tanto diverso dall’animale di più degradata condizione. Ad esempio uno scarafaggio che porta a casa pallottole di merda ha un movente non meno nobile del ricco borghese che porta i risparmi in banca. Mettono a frutto entrambi sostanze con cui garantire il futuro alla prole. Ad essere imparziali, fatica di più lo scarafaggio; e ad esso di conseguenza vanno la simpatia e l'apprezzamento del narratore. Il quale magari smorza la commozione provocando una risata. Non si ride mai invano con questo narratore che trasforma in oro anche le feci. | L’Adalgisa nonlo dice ma si sente che dal marito si sarebbe attesa un po’ d’oro in più in banca e qualche scarafaggio | morto in meno a casa. Essendo una buona borghese, le farebbe comodo un bel conto corrente cui attingere nelle attuali inecessità ma dalla sua bocca non esce alcun appunto al marito. Ovviamente il suo pragmatismo lombardo non può non ‘avvertire che c’è differenza concreta laddove il Carlo trova \identità strutturale tra il danaro del borghese e le feci dello \scarafaggio. Intanto però praticando la differenza strutturale

tra l’uomo in quanto borghese e l’uomo che vive di scienza, ‘Gadda non nasconde la preferenza per il secondo: anche se si 203

guarda bene dal lanciare cacca sul primo, presente con parecchi esemplari da salotto. Una vicenda intellettuale così sottile e annodata la racconti dal versante opposto una donna concreta che sappia tenere terra terra una questione con la quale un filosofo cervellotico rischierebbe di rompersi l'osso del collo. Naturalmente è un problema anche lei stessa. Sono sempre un problema per Gadda le donne, specialmente quelle che hanno figli. E una madre pure l’Adalgisa, ed è molto materna anche nei riguardi del suo adorato Carlo. Uscirà pure lui con le ossa rotte dal confronto con un forte personaggio femminile cui lo scrittore ha affidato la narrazione degli eventi? Inutile domandarsi perché Gadda ha scelto una donna per parlare di un personaggio maschile che gli sta tanto a cuore. Gadda fa qui il suo gioco preferito, anzi i suoi due giochi vincenti: quello 40 exteriore, con cui mette bocca — talvolta ridente e spesso irridente — su tutto, e quello 4b interiore, con cui dà la parola ai suoi personaggi perché dicano la loro dal loro personale e privato punto di vista. Coi due giochi fa intrecci, trame, nodi e gnommeri, tentando di non perdere il filo della matassa aggrovigliata che è una vicenda degna di racconto. Naturalmente chi l’ha aggrovigliata è lui stesso, narratore che aggiunge materiale sperando che il nuovo particolare lo conduca all’essenziale. Quante differenze per trovare la ripetizione che fa legge! Monologhi, dialoghi, discorso indiretto libero, l’Adalgisa prende la mano al suo narratore, fa quello che vuole, la sua

oralità occupa il territorio e sconfina, assecondata da un acquiescente io narrante. La parola straripa, la mente divaga, gli occhi non perdono di vista nulla di ciò che appare nei paraggi ma lei tiene tutto sotto controllo. La tempesta non investe so-

lo la sua lingua. Gadda le dà spago sapendo di non poterla legare a un’idea. Finge di arrendersi, ma le fa dire quanto le passa per la bocca nella certezza che verrà fuori quanto le passa per la testa. Prima o poi una parola farà la spia. Adalgisa, un nemico ti ascolta. Sotto un personaggio vulcanico in fase di massima eruzio204

ne si sente che c’è qualcosa che intenzionalmente non verrebbe mai fuori. Come il suo autore, l’Adalgisa si tappa la bocca, si dà l’interdetto: solo un lapsus potrebbe farla scivolare e farle confessare ciò che profondamente la assilla. Troppo roventi i suoi discorsi, perché non ci sia un incendio. L’Adalgisa prende fuoco ma è anche un eccellente pompiere, un personaggio che non vuole bruciarsi. Si tocca con mano che la donna ha carattere. Abbraccia la causa del marito ma non direbbe mai d’essersi scottata. Bisognerà aspettare qualche gesto innocente per trovarla in colpa. Come in una scatola cinese tre personaggi stanno uno

dentro l’altro: un io narrante contiene l’Adalgisa, la quale a sua volta porta in grembo il sior Carlo. D'altronde l’entomologo dilettante è davvero una creatura dell’Adalgisa, sposa materna e comprensiva, ammiratrice fervente ma anche in-

dulgente di un uomo che ha grande scienza ma poca esperienza di vita pratica: quella vita che una milanese empirica e positiva sa essere distante e ben diversa dalla poesia, forma e sostanza da buttar fuori. Potrebbe gettar via un uomo anzitutto interessato a quella specie di poesia che è la conoscenza perseguita senza fini di lucro? È una vittima o una colpevole questa madre presa fra due fuochi? L’io narrante è ambiguo, ha simpatia per entrambi ma il colpo finale lo assesta alla donna, al suo paradossale «empirismo» cimiteriale. Del marito non c’è che dire: è un uomo concreto, è uno

scienziato, non si dedica a fanfaluche poetiche o ad altre fantasie. Di professione è un ragioniere, uno che conosce il valore del danaro. La casa della coppia però è tutt'altro che piena di soldi: impegnato com'è lui a zavorrarla con quintali di minerali rari sui quali sa tutto il dilettante. Fa lo scienziato per ‘piacere ma conosce tutti i minerali a dovere, non c’è che dire. Ci sarebbe però da dire e da ridire sul fatto che di tanto in tanto il sior Carlo cambia disciplina: la geologia dopo la filatelia, da mineralogista che era, diventa entomologo e si mette a cac‘cia di farfalle vere e proprie, tangibile vita che vola. Con i suoi irraggiungibili pensieri lo scienziato è sempre altrove «come 205

un poeta»: sia pure dopo essere stato saldamente in un posto preciso, come si addice a chi fa esperimenti sulla realtà. Da narratrice orale naturalista come è sempre una lombarda del suo tempo si limita a riprodurre fedelmente dialoghi e ambienti, e in essi mette l’anima. Non è verista l Adalgisa, mentre il visionario è il marito. Detto così, per metter zizzania fra due personaggi profondamente diversi. Gadda però parteggia per l’entomologo: con un rispetto che ricorda quello riservato allo scarafaggio catturato sulla sabbia. Cosa hanno in comune e cosa fa la differenza? Ebbene, mentre lo scarafaggio trascina a casa una pallottola di escrementi per nutrire la famiglia, l’entomologo si carica di fossili da portare a casa per alimentare la propria fame di conoscenza. Due gesti uguali ma di significato differente: quello che pare il più egoista potrebbe essere il più altruista, l’uomo di scienza che pensa per tutti. Decolla a volo alto sopra gli altri un personaggio come il sior Carlo. Una come l’Adalgisa, che sta coi piedi per terra, segue i fatti e i detti di Carlo fin dove può. Ne ricorda con precisione i discorsi, è quasi un registratore, non ha dimenticato una parola o un atto del ragioniere posato e saggio che cerca in scienze diverse. Testimone fedele, la cantante tuttavia è inconsapevole del significato dello spettacolo che racconta. É una portatrice sana ma non è salute nemmeno il suo realismo. «Lo studio, la scienza, erano il suo pane. Non era certo

uno che viveva per il ventre. Nelle poche ore libere, studiava sui libri. Continuava a leggere fino all’una, in letto, che io ero già bell'e addormentata. Si occupava di tante di quelle cose! Faceva delle raccolte. Le raccolte, oltre ai ritratti dei paesaggi della Libia, erano il suo grande ideale.» Un filatelico prima ancora d’essere un mineralogista. Poi sarebbe stato un entomologo il ragioniere che l’Adalgisa aveva preferito a corteggiatori più ricchi e potenti. Eccolo qui l’uomo ideale di una piccola borghese cui non s’addice l’avventura. In quanto al sior Carlo la sua avventura l’aveva avuta in guerra: non la Caporetto di Carlo Emilio, ma la Libia del vincitore. Era un uomo vincente

quello sposato dalla cantante: almeno finché lei si poteva per-

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mettere il lusso di avere ideali, avendo messo a frutto la propria arte, non ancora ridotta a maleodorante poesia. Carlo era un uomo «normale» quanto lo era l’agricoltore che nel saggio gaddiano intitolato «Come lavoro» era felice quasi solo quando poteva esaudire il proprio massimo desiderio: tagliare di netto, più in fondo possibile, il gambo, quasi un tronco, di un asparago selvaggio. Ebbene, i francobolli, i minerali e gli scarabei sono gli «asparagi» di profondissima, irraggiungibile radice del sior Carlo. Arriverà mai alla radice del suo astratto problema l’entomologo che non si posa mai a lungo su una professione praticata da dilettante? Chi era questo infaticabile ricercatore l’Adalgisa non sa ancora dirlo. Il narratore le corre in aiuto, ma attenti alla coda

del discorso: «Seppe capire il Carlo. Lo apprezzò, lo intuì, lo studiò così a fondo, che certe volte, se glielo avessero domandato là per là, sui due piedi, fra il ferro caldo e la salsa d’amido,

non avrebbe saputo dire nemmeno lei cos'era: se un ragioniere o un mineralogista o piuttosto un filatelico, un entomologo (ma questo fu assai più tardi) o un valoroso, un reduce dalla Libia. O un minchione. “On bel mincionon d’om, con du oeucc, cont on par de barbìs...”». L'amore non manca, anche

i se non straripa, ma in quanto alla stima sempre così le donne di ‘Gadda che trafficano coi loro uomini, sposi o figli che siano. Minchioni, deliziosi acchiappanuvole, quando va bene. Sarà una coincidenza ma è proprio quello che, meno af|fettuosamente dell’Adalgisa, pensavano che fosse pure il sotitotenente Gadda i suoi colleghi al fronte. Un minchione. An‘che la «mamma adorata», che «non lo capisce» (Diario di pri\gionia), giudicava Carlo Emilio suppergiù un imbecille. L’a‘dorata Adalgisa non è la mamma di Carlo ma in sostanza non lo capisce più di quanto facesse la madre di Carlo Emilio.

(Nemmeno lei dubitava d’essere una persona normale; anor-

imale era invece solo Carlo Emilio, il figlio perdente, colui che ‘si perderà per la sua astrattezza. Astrattamente parlando, poitremmo fare l’ipotesi che Carlo sia una delle tante metaimorfosi di Carlo Emilio Gadda e che l’Adalgisa abbia preso il posto di ogni madre che ha parte di protagonista nei suoi ro207

manzi dalla Meccanica al Pasticciaccio. Sono dei minchioni anche gli ingegneri nei romanzi di Gadda: poeti, cioè manipolatori di sostanze putrescenti con le quali non si mangia. Mai un figlio normale. Se cercate un padre o una madre o un fratello al Carlo dell’Adalgisa, non è certo né lo studente d’ingegneria della Meccanica né il Gigi di «San Giorgio in casa Brocchi»: due fannulloni che odiano lo studio. Sorpresa: il padre o fratello è il Luigi Pessina della Meccanica, l’ebanista che passa la notte a leggere, anche se accanto, nel letto, giace e aspetta la magnifica Zoraide. Carlo ama l’Adalgisa più di quanto ami Zoraide Luigi, che, se pensa a una donna, questa è la madre. In quanto al-

le madri, che non mancano in un racconto di Gadda, l Adalgisa èla più «normale», naturalmente con quel che significa una parola sulla quale il narratore fa evidentemente dell’ironia. Li abbraccerebbe tutti come figli da educare e guidare nella vita pratica i vari Luigi (il Pessina e quello di «San Giorgio in casa Brocchi»), Gonzalo, il Carlo entomologo e ogni Carlo che non si sa cosa cerchi nella vita. Sono dei valorosi, come hanno

dimostrato d’essere in guerra Gonzalo, il Carlo dell’Adalgisa e l’altro Carlo, il creatore di questi nevrotici tifosi di metafisica conoscenza. Minchioni: detto con amore, anche se pensano di non averne ricevuto abbastanza dalla loro donna, sposa. o madre che sia. Luigi Pessina sulla tradotta che lo porta verso la morte si accusa di non avere letto abbastanza; il Carlo dell’ Adalgisa muore studiando i comportamenti di quegli umili esseri viventi che sono gli scarabei, animali che si guadagnano la vita rotolando sterco. Ha il «male invisibile» anche un ragioniere, che un giorno diventerà ingegnere nella Cogrizione del dolore. Passa da una scienza all’altra, dallo studio di fossili millenari a quello dei comportamenti animali, per scovare costanti e individuare differenze. Non soffrono di quel male invisibile gli scarabei. Ne soffrono i borghesi, anche quelli che credono di essere normali. Per non soffrire di male invisibile, l’uomo

dovrà tornare all'animale che fu? Sull’«ordine culturale» è bene che trionfi l’«ordine naturale delle cose»? O sarebbe 208

meglio instaurare un ordine culturale che rispetti l'ordine naturale? Era tornato felice Luigino Brocchi, quando aveva trasgredito agli imperativi della madre che gli tiene lontana la Jole. Ha un più nobile senso della famiglia, della paternità, lo scarafaggio che «naturalmente» muore portando il merdoso cibo ai suoi. Consiglio dell’eroico scarafaggio: date libero corso alla natura e fondateci una bella cultura, nella quale credere fino alla morte. Un minchione, secondo la moglie innamorata; come Carlo Emilio era un imbecille per la madre adorata. (Sempre assente il padre di questi cacciatori di farfalle.) L'imbecille di famiglia, come Flaubert era stato l’idiota della sua? Ecco allora di chi forse è figlio questo personaggio di vita borghese così irriducibilmente inquieto; ecco quale coppia ha generato il sior Carlo e persino chi è il padre letterario di Gadda. Ebbene, il padre potrebbe essere Flaubert; e la coppia «genitrice» potrebbe essere quella formata da Bouvard e Pécuchet, i due «imbecilli» che «consumano» le scienze più disparate cercan| do di sapere tutto su tutto. Faguet fece un'ipotesi suggestiva e tremenda che piacque a Borges: «Bouvard e Pécuchet studiano purché non capiscano». Il Carlo dell’Adalgisa studiava forse per non capire? Non è così imbecille, eppoi non si può dire che non capisca l’entomologo che ha scoperto la costante strutturale per cui si ‘apparentano uno scarafaggio che non spreca una polpetta di merda e un buon borghese che risparmia e raccoglie i propri guadagni. Una rivelazione che non offende i borghesi e che non dà alla testa allo scarafaggio. È una verità scientifica per la quale può giustamente darsi delle arie l’entomologo, ma la scoperta lo riconduce alla condizione di animale che realisti‘camente 0 simbolicamente manovra pur sempre escrementi. O il Carlo è per l’Adalgisa un minchione proprio perché si esalta per un risultato scientifico. Sarà poesia ma non ci mangi. Questo caro imbecille di famiglia perde il sonno e tra‘scura la donna che gli giace accanto per cercare simili verità o ‘addirittura la Verità. Un’ammirevole impresa da perdigiorno, ‘ima l’Adalgisa non si spingerebbe mai fino a tanto. Troppo |

209

ama la memoria del marito, anche se il dubbio è affiorato con

quella parola adorabile («mincionon») che è come lanciare pallottole di escrementi sull’entomologo. Come Bouvard e Pécuchet, che ci fanno il Carlo dell’A-

dalgisa e tutti gli altri Carli con quello che imparano? È tangibile: ne hanno una necessità inderogabile. Ecco: rassomiglia a quella per cui lo scarabeo perde la vita mentre scala immense dune che ritardano il ritorno a casa, dove la moglie aspetta il rotondo e inebriante cibo. Non ci arriverà, la morte lo coglie sulla strada di casa. Si può morire in ossequio all’«ordine naturale delle cose» come fa lo scarabeo. Si può morire anche per una necessità culturale ignota allo scarabeo che spinge la pallottola di sterco e dimenticata dal borghese che ammassa soldi in banca. È una vita di merda quella dello scrittore, ma per lui potrebbe essere concime per la grandezza, se non per l’eroismo. È mortale quest’ansia di conoscere che distingue strutturalmente l’uomo dallo scarafaggio. Perseguendo tale meta, si muore sempre per la strada, che è in salita anche quando si precipita insieme allo sterco, inebriante «come per il pugile la borsa». Forse ha ragione l’Adalgisa, forse ce l'aveva anche la madre di Carlo Emilio, potrebbero avere ragione tutte le madri che amano il loro Carlo o Luigi ma non lo stimano per la loro astrattezza, poetica o scientifica che sia: sono dei minchioni. Forse capiscono più di Bouvard e Pécuchet, ma è pur sempre una vita da imbecilli questa, di nevrotici che ossessivamente inseguono una verità irraggiungibile. Quando ne rag-

giungono una, ridono, felici. Nell’Ada/gisa si ride anche da infelici. Non è stato mai scritto un elogio funebre come questo dell’Adalgisa, che costruisce un monumento al marito visionario, al piccolo borghese che sa vivere con grandezza una innocua mania. Bouvard e Pécuchet non erano così imbecilli come questo minchione di Carlo, cui la moglie indirizza un commosso omaggio. All’entomologo non era sfuggito che specie di bestia è l’uomo, soprattutto quello che è disposto a sprofondare pur di scoprire le cause prime. Non ci sia rispar210

mio in tale ricerca, non si sprechino energia e tempo per acquisire e conservare il danaro che servirà alla prole, si può rinunciare alla prole finché non si è appreso a quale fine lavora la specie umana. Naturalmente l’Adalgisa non rinuncerebbe alla prole, da cui le viene costante assillo, ma è affascinata dalla sia pure sterile passione intellettuale del marito. Almeno finché i problemi pratici non la costringono a un’azione che demolisce l’edificio messo su dal sior Carlo. Da quando ha capito che quell’uomo geniale potrebbe essere un minchione, lAdalgisa non è più quella di prima. Non era mai stata scritta una pagina d’epica come quella di Gadda quando racconta l’eroica impresa dello scarabeo che si trascina un’enorme palla di sterco in cui mettere al caldo e nutrire una nidiata di nascituri. Più eloquente e solenne il livello della prosa che esalta la lotta per la vita dello scarafaggio. Semmai, mentre quando celebra l’impresa conoscitiva dello scienziato si consente un po’ di umorismo, nella vicenda dello scarafaggio si ride solo quando lui esce di scena e arriva il ragazzo che, madonnabbona mondoharne, stringe la polpetta di sterco e si riempie le mani di cacca. Nello scambio di parti e di linguaggi praticato dal «disegno milanese» l’epica tocca allo scarafaggio e la farsa ai borghesi. Si può essere eroi spingendo merda ed essere uomini vili accatastando metalli di gran valore. Lo si vede da come affrontano la morte, la propria e quella delle proprie cose mortali. C'era la canicola a Viareggio quella volta che il sior Carlo avvistò trionfante un magnifico esemplare di Ateucus sa-

‘cer. «Vele erano nel mare, lontane», un endecasillabo per

‘creare l'atmosfera adatta alla gigantesca impresa dello scarabeo che spinge una palla di sterco assai più grande di lui. Il metro, l’endecasillabo, è lo stesso di Monti per il Pelide

‘Achille, anche se l’eroe greco era assai più veloce dello scarabeo gaddiano. «Puntava sulle zampe anteriori e retrocedeva in una sicurezza perfetta, come sol ci vedesse dal pigidio. Ogni volta bi‘sognava afferrare le pallottole con le posteriori ed ecco, lo so241

spingeva all’insù, terribilmente, valicando con la tenacia di Si-

sifo le piccole dune, le increscature dell’arena, a noi nulla, ba-

stioni enormi a lui. La pallottola, perfettamente sferica e infarinata come una polpetta, era venti volte più grossa dell’ Ateycus, ma doveva averlo inebriato col suo profumo, come l’odor solo della “borsa” inebria il pugile alla lotta. «E la sfera ascendeva, lenta, si sublimava sopra la repulsione di quella pazienza color pece, superava i tenebrosi divieti della gravità. Tragredito il vertice, ripiombava rotolando nella gravità. L’Ateucus, infaticato, la sospingeva per monti e per valli fino alla dimora di sua donna, che attendeva, ansiosa,

per la piccola, per la imminente larva, quella balia provvidenziale.» Agli amici borghesi in salotto il Carlo dell’ Adalgisa spiega il comportamento dell’Ateucus sacer Linnaei, così «umano»: «Una volta che si sono assicurati la preda, ne traggono delle grosse pallottole,... confezionate a regola, in ciascuna delle quali la femmina depone un uovo. Così appena nato, il principino trova il mangiare bell’e pronto. Tale e quale come fosse un figlio di papà... E il sogno di poter allevare i nostri figli nel benessere, nella sicurezza del domani... di vederli crescere

forti, generosi, con l’orgoglio di sapersi nostri figli... E questo lo cerchiamo, lo otteniamo a prezzo di qualunque sacrificio.... valendoci della fatica, dei risparmi sacrosanti di tutta una vital».

Proprio come i ricchi borghesi; che a loro modo conservano le feci per il futuro proprio e della propria specie. Solo che prima le trasformano in oro e poi le depositano in banca. «Propi inscì! Ben detto!», rincalzarono tutti. Scopersero poi, felicitandosi reciprocamente della scoperta con dei nuovi «ben detto! vorevi propi dill anka mì», che i risparmi, per l’appunto, possono essere paragonati «al... alla... sì, insomma, a quella polpetta». C'è differenza e c’è progresso nell’identità strutturale di scarafaggio e uomo: anche perché l’uomo, se non ha saputo rendere inodori le proprie feci, trasformandole in soldi le ha, se non profumate, rese brillanti e sonanti.

Non si illuda però di avere creato lui la cultura di migliore

Do

odore e sapore. Hanno una cultura complessa e raffinata anche i necrofori, gli insetti che vanno a far nido dentro l’intestino del topo morto. «Questi necrofori, una volta seppellita la sua brava carogna, ci banchettano dentro, felici...» (Era felice anche lui.) «Denter in del venter, in di busekk del ratt...» Si

stirò i baffi. «Poi si accoppiano», e questa brutta parola fu pronunziata da un Carlo straordinariamente serio; «indi vi depongono i uovi...» «Un’agape sacrificale, un banchetto totemico. Poi l’orgia, a pancia piena, nella pancia del topo morto. Il futuro assicurato: una prole felice. «Così tutto è fecondo, nella infinita fecondità di natura.»

Gadda devia il più eloquente vocabolario e la più suggestiva musica degli uomini verso questi insetti capaci di una così solenne cerimonia per celebrare le nozze di amore e morte. L'infinita fecondità di natura chiude un periodo ma garantisce l’avvento di un altro, necessariamente non migliore: cosa | di cui i necrofori non si danno pensiero. Non è importante nemmeno appurare se pensano. Basta il loro comportamento: vivono che più allegramente non si potrebbe e assicurano il futuro ai figli. I migliori uomini potrebbero essere peggiori dei peggiori animali. Invece dello «stile di ventre» che, secondo Max Jacob, è tipico del Novecento, l’autore dell’Ada/gisa impiega il più ‘ classico «stile di testa», lessico nobile, impreziosito da suture

che fanno svettare i sostantivi di più brillante astrazione. Una | metafora «ebbra» sta celebrando un rito che nessun umori-

‘smo riesce a ridicolizzare. Non sono altrettanto religiosi i bor| ghesi nei loro banchetti, ubriacature per dimenticare il futuro. Un modello di vita quello dei necrofori per la cui consacrazione è legittimo resuscitare sintassi e vocaboli arcaici che non moriranno mai.

Carlo passa in modo fulmineo dalla «felicità» e allegria al tono «straordinariamente serio». Ci può scherzare sui suoi scarabei ma sa bene che, quando la festa è finita, la questione si fa seria. «Poi si accoppiano.» Non si accoppiano solo i necrofori. Si possono unire delle 213

cose molto distanti se hanno qualcosa di profondo in comune. La poesia e le feci, scarafaggi e borghesi, necrofori e membri di una setta religiosa, linguaggi alti e bassi, lingua e dialetto, comicità e tragedia. I necrofori si comportano come gli uomini ma non ridono. La struttura è la stessa, i significati sono

differenti. Si può ridere e si può piangere dinanzi al medesimo evento. Ci puoi fare la commedia e puoi farci una tragedia. Il comico che è tragico, il grottesco con cui procede la vicenda di Carlo e Adalgisa. Sarebbe diventato «straordinariamente serio» il Carlo, se

avesse visto l’Adalgisa buttar via come si fa con gli escrementi tutto il materiale da lui raccolto in anni di ricerche? Avrebbe trovato un animale capace di comportarsi così in ossequio a una legge naturale? Il Carlo se lo poteva aspettare dall’ Adalgisa, conoscendone il culto per ciò che è concreto e il fastidio per ciò che è astratto: quanto ora più di prima risulta essere stato il lavoro del marito. Non può essere risparmiata la poesia del povero Carlo. L’Adalgisa fa una tragedia sulla polverizzazione di minerali e di scarabei ma in effetti fa la commedia: le importa poco del nulla cui lei destina tutto il lavoro del marito quando c’è bisogno di rendere più comoda la casa. L'atto conferma il giudizio espresso a parole: un «mincionon», un’anima candida, un essere inutile, un adorabile idiota che non ha capito niente della vita. Di sicuro avevano un inestimabile valore scientifico tutti quei minerali che riempivano ogni angolo della minuscola casa, ma che fare, si domanda l’Adalgisa, se essi intralciano i

movimenti di chi spazza e lava? Bisogna essere realisti, passare all’azione decisiva, sia pure dolorosa, un crepacuore. Non resta che disfarsene, riempire una bella fossa, restituirli a

quella natura cui erano stati sottratti dall'amore di scienza del buon uomo: pietre che abbondano dappertutto, dice la portinaia per consolarla. Ma l’Adalgisa ha già altro cui pensare. Semmai la consola il pensiero di aver liberato la casa dei minerali e degli insetti e, perché no?, forse anche del marito e della sua poesia o ansia di conoscenza e di scienze con cui si mettono da parte non 214

soldi ma merdosi insetti. Le azioni dell’Adalgisa sono non di rado dei lapsus. L'agricoltore amico di Gadda ignorava, quando era felice di tagliare l’asparago, che stava compiendo una simbolica evirazione. Fioriscono le interpretazioni simboliche sugli innocenti gesti della donna. La partita dell’Adalgisa con Carlo sembra essersi conclusa quando lui muore e ancor più radicalmente quando la donna è «costretta» dalle necessità familiari a buttar via tutto ciò che del marito è la più illustre eredità, cioè fossili e insetti rari. La vita scorre priva della «poesia» con cui l’arricchiva il marito e piena di problemi pratici che occupano la giornata della vedova. Si direbbe un’esistenza normale, se non conoscessi-

mo al riguardo l’opinione di Gadda. Forse non è lui direttamente a giocare il brutto scherzo all’ Adalgisa, ma l’io narrante glielo fa vedere cosa comporta la normalità. Lei non lo sa ma si è rotto l’equilibrio che reggeva il forte carattere della donna assennata e realista come è sempre ogni buona madre lombarda. L’Adalgisa va spesso a portar fiori sulla tomba del marito sepolto nel cimitero di Milano. Non può stare con le mani in mano, non tollera il disordine e lo sporco l Adalgisa, pratica, fattiva e produttiva signora meneghina cui dà fastidio ogni cosa fuori posto. Immaginate la sua sorpresa, quando, visitando la tomba di famiglia di tre sue amiche, si accorge che in mezzo alle gambe di uno dei Saturni che la adornano, è cresciuta abbondante la muffa: sì, proprio vicino al sesso del marmoreo dio greco. L’Adalgisa non ci sta a pensarci più d’un attimo e passa all’azione. Si mette a grattare la muffa che rinverdisce il sesso del Saturno. La muffa è solo la muffa per una donna semplice che ne è disturbata mentre guarda la scultura. Non si tratta di un’opera d’arte né l’Adalgisa sembra impegnata in un lavoro di restauro. I guardiani del cimitero sono scandalizzati ma la donna è un essere più candido del marmo. Il suo gesto è deciso dalla ragione, muffa dell’inconscio. La questione è delicata, ma ogni interprete vorrebbe fare pulizia di vecchie incrostazioni critiche. Una nuova? L'Adal215

gisa inconsciamente fa teoria della letteratura. Ed è critica non solo verso quel minchione del marito ma anche verso quell’imbecille del suo autore. Dio li fa e poi li accoppia. Uno traffica con tenere feci, l’altro con fragili fossili: che lAdalgisa ridurrà in polvere come il ragazzo della Versilia schiaccerà con la mano la polpetta di escrementi. C'è da ridere ma ora siamo al cimitero. Dovremmo fare silenzio ma come l’Adalgisa abbiamo folli ragioni per parlare ancora a lungo. Possiamo approfittare del ridicolo in cui annega la protagonista del «disegno milanese» per buttarci a salvare o almeno tenere a galla alcune questioni sollevate dalla scena in cui l’Adalgisa gratta la muffa per liberare il sesso del dio Saturno? Il gesto semplice della donna attira le ipotesi più eccitanti e più complesse. L’Adalgisa, sposa che è anche madre, ci guida verso il nucleo da cui è nata l’arte di Carlo Emilio. Se nessun uomo è normale, come pensa il narratore, non dovrebbe essere normale neppure il critico. Sull’argomento ha fatto la muffa ogni interpretazione psi-

coanalitica e tuttavia l'Adalgisa sembra dire: dovete insistere, dovete fare chiarezza nella questione sessuale di Gadda. Gratta gratta, non è poi così determinante la distinzione fra maschio e femmina, anche se al riguardo le ipotesi di qualche critico non sono ancora ammuffite. Più che la guerra dei sessi conta quella fra una donna che è madre e un uomo che è figlio. Anche dove essi non ci sono? Togliete un po’ di muffa e scoprirete che nell’opera di Gadda ci sono sempre. Sono di marmo, l’autore non riesce a scalzarli, semmai li traveste.

In quanto scrittore quel figlio è troppo coinvolto nel vizio barocco di far muffa con le parole: un modo per nascondere la propria natura piuttosto che una strategia della rivelazione del più intimo se stesso. Sotto sotto ci sarà pure un marmoreo autore neoclassico, ma Gadda non risulterebbe quel dio che è come narratore, se ci si limitasse a guardare la parte solida della sua prosa (i fatti, che sono quasi gli stessi della sua vita; la psicologia su cui sono stati compiuti tutti i giochi di luci e d’ombra; la filosofia, per quanto salda e lucida sia). Il figlio del proprio tempo, cioè del Novecento, non rinuncia a cerca216

re una verità che possa essere perenne quanto un’epigrafe, ma in effetti quello che gli resta in mano sono le muffe. Esse sono tanto più fitte quanto più si allontanano da ciò che sta sotto: la realtà naturale e sociale che è anche cultura, come lo è il mar-

mo trasformato in dio nella complicata prosa di questo disegno milanese. Se fosse stato un naturalista, come lo vorrebbero lettori quali l Adalgisa, che ha bisogno di toccar con mano le cose perché esistano, Gadda sarebbe già polvere quanto i fossili

del sior Carlo: che invece aveva la fantasia per vedere le cerimonie nuziali dei necrofori. Lievita la prosa, anche se in qualche modo ha pur sempre le sue radici nella roccia dura a morire che è la verità assurta a mito. Sono le muffe della parola a rinverdire temi e vicende che ai loro tempi saranno anche stati divini ma che ora lascerebbero indifferenti i fedeli di Gadda. L'alto tasso metaforico nasconde davvero un complesso di castrazione? E così pallido il marmo del dio, gela ogni neoclassicismo, non fa più sangue il linguaggio dei veristi e dei neorealisti. Le muffe deformano il dio? Così si arriva alla conoscenza della verità, che non è di marmo e si suda a trovarla:

sempre diversa da come è apparsa a Carlo, prima filatelico, poi mineralogista, infine entomologo. É una muffa anche la verità, e ci vuol tempo perché si manifesti. Ci perdi a toglierla: sotto ci trovi divinità che potrebbero essere di cartapesta, se non ti rompessero la testa i detentori dei valori perenni. Finiscono tutti al cimitero, magari riuscendo anche a farsi innalzare un monumento. Durano di più gli autori che raccontano indimenticabili storie di morte e, perché no?, d’amo-

re o d’odio. Bisogna togliere le incrostazioni che i critici depongono sulle opere? Secondo l Adalgisa, che è donna oculata, intraprendente e pragmatica, sì, urge fare pulizia, occorre riportarle all’originario splendore. Secondo il Carlo, invece, bisogna lasciar fare alla natura: alla grande arte giova che sopra ci cresca la muffa; gli uccelli defechino pure sopra, malgrado l’azione corrosiva. Per l’Adalgisa gli escrementi sono come la poesia? Ebbene, Carlo è morto facendo poesia con gli Dig

escrementi di uno scarafaggio. Gli venga eretto un monumento. Se lo merita anche Gadda, per questo «disegno milanese» che attira tuttora la muffa della critica. Gadda è il sior Carlo edèlo scarafaggio. L’ultima parola all’ Adalgisa; e la donna, da empirica qual è, disse: non dimenticate che siamo in un cimitero, hanno fat-

to la muffa le divinità pagane, muoiono eroicamente solo gli insetti, gli uomini non sanno morire come si deve: cioè come

lo scarafaggio che si immola per la causa della sua famiglia. Gli esseri viventi migliori manipolano le feci e fanno poesia. Non c’è quasi distanza maggiore nel corpo umano di quella che c’è tra l’organo che fa le feci e la testa che fa poesia. La poesia ci sguazza in questa e in altre grandi distanze. Ad esempio fra la trasgressione e l’ordine, fra la malattia e la salute, fra il fatto e l’interpretazione, fra il centro e la periferia, fra la lingua e il dialetto ecc. Solo con la fantasia si possono coprire efficacemente simili distanze. Si voli con le metafore, viaggi fantastici fra due poli remoti. Corti circuiti. Gadda riesce a far luce anche con lo sterco umano. Nulla di ciò che è umano è estraneo a questo pover’uomo che cerca la verità attraverso ogni lingua e dialetto, compresi quelli di odore più ammorbante. Il letame è materiale fertile per la conoscenza. Si concimil’uomo e potrebbe evitare la fine dello scarafaggio. Vivrà in eterno il narratore che sacrifica la propria vita lottando in salita a favore della collettività, figli e altro. Il letame va messo alle radici, cioè in basso. In basso arrivi

la lingua che voglia sollevarsi a gustare i frutti. Fra le lingue inferiori che concimano la lingua nazionale ci sono i dialetti. Ebbene, il narratore dosi bene i dialetti e si vedranno magnifici frutti. Una buona dose è quella che forma una miscela in cui il dialetto va a sostituire le parole logore di una lingua divenuta sterile per l'abuso. Il dialetto serve a ridare energia alla lingua nazionale, la cui efficacia espressiva è l’inevitabile scopo di ogni scrittore. Avrà divine rivelazioni chi sa trafficare con il dialetto, muffa che frequenta in superficie le zone basse ma che guida a 218

verità profonde. Il dialetto, non quello realistico, ma la sua espressionistica miscela, nelle mani dell’Adalgisa e nella testa di Gadda vola verso significati altrimenti inafferrabili. Non scacciatelo come uno scarafaggio: se mettete bene a fuoco la visione, vedrete cose mai viste. E inaudite: conta infatti molto

il suono. Che non è mai da buttar via in una prosa che valorizza tanto le feci. Tintinnano come monete le parole lombarde in bocca all’Adalgisa. Si parla spesso di urto di registri linguistici nell’uso di narratori inclini a plurilinguismo. Con Gadda invece non c'è urto: lo scrittore usa un impasto morbido, un’espressione dialettale entri in una frase di lingua nazionale come nel suo letto naturale. Non che non si noti, anzi per un po’ svetta, ma poi si

adegua o magari costringe l’interlocutore ad arrendersi alla sua forza, che spesso è preponderante. Non conta solo la valenza semantica della parola. E non si dimentichi che il dialetto ha un suo odore, colore e sapore. Gadda sa mettere a frutto anche le sostanze acide. Savinio usava parole dialettali o straniere con un sapore così acuto da vincere sui sapori circostanti. E come lui si è usa-

to il lessico dialettale presso tanti neorealisti o neoespressionisti che si compiacevano della sorpresa prodotta da un vocabolo quasi incompatibile. Gadda, invece, cura molto l’innesto: sa che la sorpresa dura poco, e lui ambisce a scrittura che non finisce mai di sorprendere per effetto della miscela. Lui sconfina dal centro e dall’Italia per rientrarvi più ricco e più «valoroso». Gadda sa che ogni parola, nazionale o dialettale, uscita dalla testa su spinta di ogni organo umano, può diventare poesia. Era già successo al vocabolo scientifico di «umanizzarsi» nella Meccanica, ora tocca farlo con il dialetto mila-

nese. Puntano sulle consonanti le parole lombarde per arrivare dall’orecchio al cervello e al cuore. La lingua è ferita dallo sforzo per pronunciarle, ma viene premiata con significati che si sciolgono con la saliva. La prosa di Gadda non è mai acqua. E tuttavia c'è chi ancora non la considera potabile. Forse che con lo sterco uno scarafaggio non ha compiuto un’impresa epica, narrata con il linguaggio dell’epica? Gadda 219

ci ha messo il sentimento, suscitando commozione intorno a

quella bestia che tanto amore ha per i suoi figli. E si commuovono i borghesi milanesi che ascoltano il racconto del sior Carlo, pensando ai propri figli, per i quali mettono in banca i quattrini come lo scarafaggio conserva la palla di sterco e risparmiano perché i figli mangino e studino e vadano al teatro come il giovane ingegnere che accompagna allo spettacolo la zia in altri «disegni milanesi» dell’Ada/gisa. Il corpo umano è uno dalla testa alla lingua, dalla gola allo stomaco, dall’ano ai piedi. Gadda riconduce a unità culturale ogni corpo vivo in natura, compreso lo scarafaggio che banchetta sontuosamente nella palla di sterco. Chi oserebbe dire che puzza questa poesia che ribadisce la perennità della struttura e la molteplicità dei destini individuali? Non bisogna grattare via nemmeno le note che diventano una foresta nell’Ada/gisa. Sono le muffe dei «disegni milanesi». Non verranno scomodate audaci metafore. Queste volano e invece le note stanno coi piedi per terra. Sono annotazio-

ni erudite, storia lingua geografia ecc. locali, vita e parole di quartiere o quasi, un proliferare di dettagli che nel rispetto della forza si depositano sotto la narrazione. È eccezionalmente fitto il sottobosco che vegeta rigogliosamente sotto i «disegni milanesi». Succede sempre così nella narrativa più matura di Gadda: sotto le muffe barocche c’è sempre un realismo di marmo, la realtà dei rapporti sociali e delle ideologie. Sono di marmo le note ma non ci fai scultura né altra tangibile arte, se le stacchi da ciò che sta sopra. In scrittura espressiva si racconta quanto non può esser detto con stile candido e secco. Non si dimentichi però cosa c’è sotto. È possibile far risalire le note e farle confluire nel testo più alto? Possiamo dire all’Adalgisa di non separare più la muffa dal marmo? Il tempo ha celebrato il loro matrimonio col consenso di un dio. Col tempo Gadda si convincerà della necessità di innestare le note e le digressioni nella narrativa. Lo farà col Pasticciaccio, e sarà un capolavoro, romanzo nato con le note e cresciuto con le digressioni.

CAPITOLO SECONDO

La campana, il tarlo, il fulmine e il processo

«Come sono poco osservatore delle cose che non mi interessano! Da che sono in Valcamonica non ho mai sentito suonare una campana... Nessun campanile si anima mai né a mattina, né a vespro, né durante le feste. La torre di Edolo

non batte neppur le ore.» «Suona» nel Giorzale di guerra e di prigionia per la prima volta la campana ma non è la stessa che provoca improvvisi accessi di furore in colui che soffre del «male invisibile». Una campana risulta particolarmente assordante per Gonzalo Pirobutirro. È quella del paese della Brianza in cui il padre ha fatto costruire la villa nella quale ora vive la madre. Il battaglio della campana, con quel che suggerisce, dà suono profondo nel romanzo. E si ripercuote dappertutto, anche oltre la Brianza cui dà la sveglia. Gonzalo urla con tanta forza perché deve soffocare il suono di quella campana, di quel battaglio. Cosa risveglia in Gonzalo? Anzitutto il rancore di un figlio che, appena ne sente il suono, si vede davanti agli occhi la campana nel momento in cui sembra dilatarsi sotto i colpi del batacchio. Il suono che al padre doveva dare oltre che piacere un’enorme soddisfazione, perché gli ricordava una generosità con cui riaffermava «ad alta voce» il proprio prestigio sociale, riaccende nel figlio il disprezzo verso un uomo che per scioccaggine lo aveva privato del necessario. Non sarà mai spento l’odio per il padre che ha aggravato con la sua fatua prodigalità la sostanziale povertà di una famiglia che non si può permettere il lusso di regalare niente a nessuno. 221

Questo almeno è il libretto, il significato concreto, di

quella campana; ma la musica è diversa. Gonzalo le sta cantando al padre per tutt'altra colpa, anzi per tutte le colpe che ha un padre verso un figlio, per quello che gli dà, a cominciare dalla vita, e per quello che gli toglie, a cominciare dalla madre. In quella campana, in quel battaglio, ci sono tutte le colpe che un figlio, particolarmente affetto o costretto da Edipo, rimprovera al padre. La campana si allarga oltre misura sino a diventare il suo cielo, sotto il quale egli sin dalla nascita si sente, a dir poco, «sbatacchiato».

Questa metafora «spastica» deforma la condizione reale ma conduce alla conoscenza del destino di un uomo per il quale l’aria è irrespirabile. Gonzalo è prigioniero dentro quella campana anche ora che il padre è morto e che la campana è chiusa nel suo silenzio. Forse per questo Carlo Emilio Gadda è spesso uno che narra come se soffocasse. Gonzalo è sul letto. Lo sta visitando il medico, chiamato

d’urgenza per uno dei frequenti attacchi del suo male invisibile. Il medico non vede alcun male fisico nel corpo di Gonzalo. La nevrosi non è visibile e non è tangibile ma è una malattia totale: un morbo della struttura, una scontata metasta-

si del linguaggio. Il linguaggio del figlio contro il linguaggio del padre. Qualunque sia il punto che si tocca sotto quel cielo in cui riecheggia il suono della campana del padre, Gonzalo grida, esasperato, scatenato, irrefrenabile e sfrenato, fuori di

sé e fuori di senno, pure lui assordante come l’altro suono che gli fa scoppiare il cervello mentre giace sul letto sotto le dita del medico. Pietosamente consapevole di non avere medicine per quel male invisibile, pensa di trovargli moglie il buon medico che ha tante figlie da marito ma che non capisce Gonzalo e i suoi problemi psicologici e sessuali. Il positivismo del medico non capisce la nevrosi: la provincia arretrata è ferma al vecchio meccanicismo. E il linguaggio di Gonzalo non obbedisce più alla Causa Prima. Gratuiti sono gli atti di Gonzalo, arbitrari e inconsci. 222

Sarà matto, ma cosa non capisce Gonzalo quando ha un attacco di nevrastenia! È una storia invisibile, o quasi, questa del parricidio, ma la narrativa di Gadda lo perpetra. In due modi: irridendolo o aggredendolo come insano e stolido, «spagnolesco», cioè formalistico e fatuo, miserabile e fastoso; e distruggendo ogni possibilità di succedergli in quanto padre di suoi figli. Col linguaggio di Gadda non si possono avere figli. Ecco dove ha portato la cultura del padre. Una famiglia economicamente dissestata, un intero paese sottoposto ad angherie, imbrogli, ruberie, parassitismi, squilibri, assassini;

un figlio che non ci sta con la testa e non ci sta in un nessun altro modo in un mondo simile. Un padre vanaglorioso che impone il cerimoniale a una vita cenciosa. Gonzalo ha tentato di darsi ragione di una società che non potrebbe essere più squinternata, stupida, cialtronesca, ridicola, scriteriata, turpe e pazza. O almeno così appare al figlio. Se ci pensa, diventa furioso, è preso da attacchi isterici, urla a squarciagola, avendo davanti la «visione» di un

mondo dissennato che è capace di darsi una visione sbagliata pur di non capire quanto succede ai danni di tutti. Gonzalo capisce ma è prigioniero della campana paterna. Vorrebbe sfondare questa vecchia cultura di bronzo. Ottiene solo di agitarla ma così aumenta il rumore. L’altalena della campana gli ricorda tremendi movimenti che hanno terrorizzato la sua infanzia. E gli manca l’aria. Gonzalo sente un tarlo. È coricato sul letto mentre il medico lo visita. Il letto è di pesante noce: «tantoché il tarlo vi si udiva cigolare a fatica, con un giro duro e breve, di cavatappi, dopo stanchi intervalli». Gonzalo poggia l’orecchio, se non al suolo, sul noce del letto e ascolta i rumori lontani. Lo scrittore sta attento a ogni dato più minuscolo. I suoi

sensi potenziano ogni suono e lo centuplicano. La realtà esiste ma il suo ordine di grandezza è stabilito sulla base di come ti disponi, il punto di vista, la vicinanza e innanzitutto la sensibilità dello strumento di ricezione. L'occhio è un mi209

croscopio, l'orecchio è un sofisticato strumento acustico, la

mente «sospetta» di tutto e di tutti: una macchina di pensiero massacrante. Gonzalo sente il tarlo perché c'è il tarlo nel noce e in lui stesso. Il tarlo certamente c’è ma esiste soprattutto perché si è nella condizione di sentirlo: coricato o depresso, comunque in una posizione dalla quale senti ingigantito il messaggio che ti arriva dalla materia, dal mondo, dalla vita, dal più profondo te stesso. Tarlato, il linguaggio gaddiano può sentire fortissimo un rumore impercettibile per gli altri o essere sordo dinanzi a grandi eventi storici. Sono tarlati sia l’oggetto che il soggetto. Quanto è tarmato l’Altro! Vivere col tarlo. Un cavatappi che trapana il cervello. Della superficie chi ha sensibilità avverte subito che sotto c’è qualcuno che corrode il tessuto. È necessario andare a guardare in fondo, verificare da dove parte quel cigolare che tanto fatica. Si fatica a vivere con un tarlo che non può essere eliminato e che lavora senza stancarsi dentro il tessuto molle del cervello! Un tarlo che ti fa urlare quando un pensiero si fa strada nel cervello. Un tarlo che uccide. Il mondo è tarlato, l'io è un «idolo tarmato». Minuscoli insetti stanno attaccando gli individui e la società. Non si ferma mai il rovello di Gonzalo. Arriverà mai quel tarlo al nucleo del cervello? Solo un pensiero molto sottile e molto lungo può penetrare fino al punto dove il male invisibile ha origine. E sempre un processo profondo e oscuro quello che avvicinerà alla verità. Il narratore deve seguire il tarlo o sentire il rumore dall’esterno? Il racconto è esterno ma è al servizio dell’interno. La cognizione del dolore non dice quello che Gadda pensa. Il vecchio conflitto tra carota e patata. È bollente ogni pagina di un romanzo che suggerisce molto più di quel che nomina.

La cognizione del dolore è il seguito del Giornale di guerra e di prigionia. Il romanzo comincia dove finisce il diario. Gaddus è a pezzi dopo Caporetto e dopo la prigionia. È crollata ogni illusione, frantumata è ogni speranza di gran224

dezza. Cos’era il mondo in guerra l’ha visto il giovane sottotenente, cos'è il dopoguerra lo constata con raccapriccio l’ingegnere Gonzalo Pirobutirro. La società è corrotta, spregevole, dissennata. Si vivesse bene almeno in famiglia. Da quando è morto il fratello, invece, la madre non è più la stessa. O meglio, s'è accentuato un comportamento che già aveva addolorato Gaddus. La madre, ora una Vecchia Signora,

pensa sempre al figlio morto e dimentica il vivo. Gaddus sta affrontando un’altra Caporetto: una battaglia in famiglia, dove ci saranno morti e feriti, nonché prigionieri. In carenza d’affetto, Gonzalo abbraccia la madre,

che ne è come soffocata. Una mente insana ha il «male invisibile», metafora della nevrastenia che faceva impazzire Gaddus, ma sono tutti usciti di senno i personaggi che stanno a contatto di Gonzalo. Lo sono i borghesi che si son fatta la villetta per esibizione di ricchezza; lo sono i vigilantes, reduci che mantengono l’ordine sociale come le squadre d’azione fasciste; lo sono i contadini e lo sono i cittadini. Si sal-

vano la madre e il figlio? In mezzo a tanti personaggi da commedia, solo loro sono personaggi seri, anzi tragici.

Dialogano ma sono incomunicabili i loro discorsi: dove la parola non arriva mai puntuale all'appuntamento con la cosa. Una carezza diventa immotivatamente una mazzata.

Grida parole di morte il figlio che ama visceralmente la madre. E arriva la morte evocata da frasi sconnesse e parossistiche. Quel discorso parla a nome di qualcuno che «si nasconde» nel profondo: non l’io di Gadda, che è «bene intenzionato» e ama la madre. Qui una stilla d’acqua provoca un’inondazione: il vaso è colmo e ogni goccia in più tracima per travolgere persone ed epoche. Nel cervello di Gonzalo sta annegando non solo la sua ma con la propria la vita di tutti. Un massacro mentale, culturale, morale, e metafisico ma non fisico. Gonzalo urla,

ma non alza mai il braccio. Altri lo fa ma Gonzalo crede d’essere stato lui. La mente uccide più della mano, che pur fa i fatti: ai quali Gonzalo, d’accordo col suo autore, non dà importanza determinante. Eventi minuscoli e trascurabili 225

vengono ingigantiti da persone che hanno perso il senno. Non c’è più bisogno di ripetere che si sentono «normali». La stupidità popolare, quegli scemi dei borghesi, la protervia degli uomini pagati per tenere in ordine il caos di un paese senza avvenire. Con la sua mente malata Gonzalo può rivolgere l’indice verso se stesso per denunciare il vero assassino. Forse è la verità, magari la verità della psicoanalisi: scienza con cui si scopre che sono tutti colpevoli i personaggi del Pasticciaccio e qui, nella Cognizione del dolore, che sono tutti stolti e dissennati. Gadda non perdona la vita a nessuno, nemmeno a Gonzalo, che è il suo alter ego. Dov’era Gonzalo Pirobutirro quando si avvia La cognizione del dolore descrivendo un paese sudamericano che esce da una guerra con un paese confinante? Ebbene, era lì, anzi è suo l’occhio che guarda il paesaggio, suoi sono i pensieri, sono suoi i risentimenti per quel dopoguerra pieno di eroi della sesta giornata e di reduci frustrati. Da ogni pagina si sente il suo urlo, i suoi furori, l'indignazione e il sarcasmo.

Gonzalo è il fuoco che avanza ma è anche la santabarbara. Esplode ogni parola chiamata a descrivere l’ambiente in cui si svolgono i fatti. Non è realismo il termine adatto per indicare la descrizione del Maradagal o Italia del dopoguerra ma c'è una buona percentuale di realtà oggettiva nel disegno «deformato». Gonzalo ha conquistato il romanzo dalla prima pagina e da allora non lo mollerà mai più. Non ha bisogno d’essere presente per farsi sentire il nevrotico. Il contagio non risparmia il Narratore: che ha le stesse opinioni del protagonista. Basta una trascurabile scintilla per l’inarrestabile incendio che è La cognizione del dolore. Attenti: potrebbe scoppiare per la tensione interna una pagina che sembra partecipare di meno. Il terreno è tutto minato: se ci mettete sopra il pensiero, provocherete una catena di esplosioni. Un romanzo di Gadda ha sotto, in ogni punto, il deposito delle munizioni. C’è grande energia espressiva in ogni parola, non solo nelle metafore. Fanno metafora, cioè si associano, capitoli 226

che sembrano felici di starsene in splendido isolamento.

Non sono solo poemetti in prosa i «tratti» di un romanzo

che non si cura del prima e del poi e che si disinteressa della forza di gravità, delle leggi prospettiche canoniche e della superficiale razionalità degli eventi. Si può mettere la camicia di forza a Gonzalo ma non può essere messo in isolamento La cognizione del dolore. Gonzalo non si arrenderà più. E ora grida il suo no ai vigilantes che lo ricattano assicurando l’ordine minacciato anzitutto da loro; no ai contadini che chiedono più alta mercede per non fare niente; no alla madre che offre solidarietà ai poveri, senza accorgersi che lascia senza cena il figlio; no al padre che ha manie di grandezza come tutti i borghesi che si pavoneggiano nell’orrendo villino in cui consumano i risparmi; no al medico che gli propone il matrimonio con una delle figlie. Ecco la grande domanda nata da un insignificante fatto: potrà lui, Gonzalo, contribuire alla conservazione delia specie? Mai. Non seminerà mai il corpo di una donna. Gonzalo sterilizzerebbe l'umanità per non veder nascere un’altra infelice creatura come è lui e come sono anche gli uomini nati alla società, a cominciare da quella italiana. L'opposizione di Gonzalo è contestazione radicale e globale: il clamoroso no di chi non scende a patti. Gonzalo annega nell’urlo tutte le istituzioni politiche, sociali, economiche, morali, dalla famiglia allo stato borghese, dal fascismo a ogni populismo, dalla bontà stolida alla bieca degradazione, dalla patria retorica alla furbizia individuale, dalla lingua popolare che è troppo povera alla lingua dei «bollettini ufficiali» che comunicano menzogne. Meglio il dialettale italiano di un ufficiale medico napoletano che usa linguaggio e comportamento onesti; e sennò meglio dell’italiano medio, l’aristocratico italiano con cui si erige un monumento funebre alla Vecchia Signora. E no alla narrativa realista con la quale la borghesia si fa passare per normale, quando invece è evidente che è malata di mente. No insomma a una cultura superficiale e losca. La si anneghi in un mare di parole incendiate. 2240

Questo estremista non si arrende al giusto mezzo, il

compromesso di chi non solo non agisce ma nemmeno capisce. Affiorano e scompaiono brani di pensieri, uno spezzone di ragionamento, un’intuizione esplosiva, un giudizio bruciante. Gonzalo non può indugiare a spiegare, non c’è nulla da chiarire, il processo si è concluso, la condanna è stata emessa: nell’assordante voce dell’isteria. La nevrastenia non sente ragioni. È irrazionale, e tuttavia non è assurda. Solo chi ammattisce vede, pensa e parla come deve chi dice la verità. Pane al pane e vino al vino? Ebbra è la scrittura di questo narratore folle che però ha anche la testa a posto. L'ingegnere sa usare il calcolo.

Un fulmine corre pazzamente nella Cognizione del dolore. Non fa certo il percorso per cui era stato montato il parafulmine dall’esperto che così risulta un incapace. Mentre il fulmine fa fuoco e fiamme in una villa brianzola che il proprietario era convinto fosse quasi a prova di bomba, scoppia dalle risate il lettore. Da allora mancherà l'elettricità alla villa ma non al racconto. D'altronde già bastava a dargli la scossa la nevrastenia di Gonzalo. I corti circuiti sono infatti all'ordine del giorno in un libro dominato dalla presenza di un ex combattente dai nervi elettrizzati. E tornato dalla guerra con la certezza d’essere stato guidato al fronte da generali stupidi, ma anche in pace emergono gli incompetenti, se un cretino attira invece

di scaricare i fulmini. Anzi tutti i parafulmini montati dalle istituzioni per proteggere i cittadini ottengono risultati grot-

teschi. Stanno bruciando una nazione gli ingegneri, i costruttori di un governo che spreca i risparmi della colletti-

vità. Così è finito il tempo di edificare con cui inizia il dopoguerra. Ed è stato insensato affidare ai fascisti il nuovo ordine. Il loro parafulmine, la protezione contro il socialismo, si scarica sulla borghesia che l’ha pagato. Il fulmine girovaga allegramente dal tetto allo scantinato e oltre. Sicché ora non cessa mai di raccontarne le gustose evoluzioni un moralista che non risparmia le saette contro 228

dilettanti, incapaci e profittatori. Questo fulmine non lo sa ma è un’allegoria della condizione nazionale. Una tragedia per cui si muore dal ridere. Si può morire in una scena senza pensare necessariamente alla morte. È ammesso isolarsi nel riso o nel pianto in un romanzo che esalta i punti di vista senza smentire la coerenza strutturale del testo. C'è un cubo anche dentro La cognizione del dolore. Si mettono in sei per esprimere il loro punto di vista su Gonzalo: è comico, su una faccia, un romanzo che è tragico nella figura complessiva. Passa la corrente da un polo all’altro e non manca mai la luce. Non mancano nemmeno le scosse e i black out. Molto resta all'oscuro in un romanzo di Gadda,

scrittore che nasconde 1 fili dell’elettricità sottotraccia. Gadda del fulmine ha la capacità di colpire e di incendiare qualsiasi cosa che incontra sul proprio cammino. In Gadda c’è la diga ma c’è specialmente la turbina. Questo narratore anzi è una centrale elettrica. Di nuovo

c’è che la corrente arriva anche in luoghi cui non è collegata direttamente. Ci sono esempi di «immaginazione senza fili» in questo narratore poco futurista ma creatore di linguaggio che cerca sempre l’alta tensione. Sembra lento ma fa chilometri in una pagina che anticipa il futuro: magari quello di un programma da computer, dove basta un clic su un’icona per far apparire un sottosistema, e poi un sotto-sottosistema. Andando troppo veloci, siamo passati inavvertitamente dall’elettricità all'elettronica. Ma Gadda ha energia per l’avvenire più remoto. Andrà in tilt ma non gli manca la logica. La stravolta visione popolare del pasto pantagruelico di ‘Gonzalo deforma il personaggio ma illumina la voracità di ‘un nevrotico che è incontenibile anche col cibo. Il romanzo ‘non è meno famelico. Gli organi più usati ovviamente hanno uno sviluppo sproporzionato: lo stomaco, il cervello e il si‘stema nervoso. A uno così furioso non serve caricare le pile. Non ce l’ha mai scariche, non c’è una pagina in difetto di voltaggio. Gadda non frequenta le digressioni per allentare la tensione. A tale scopo funziona meglio la comicità. Fa ri229

dere il fulmine che sta bruciando la casa borghese da difendere. È più intelligente il fulmine che non il proprietario, o l’ingegnere che l’ha montata. La narrativa gaddiana sa che bisogna saper usare l’interruttore quando una pagina è spenta. È inutile illuminare zone del racconto che funzionano da connettivo. I realisti lo fanno ma il lettore del Novecento si mette a dormire sulle lunghe descrizioni, sulle minuziose motivazioni sociologiche e psicologiche. L'ingegnere Gadda invece le usa solo quando può farci passare un fulmine che accende un’immagine essenziale. Non sono fuochi artificiali le sue esplosive rivelazioni. L'autore della Cognizione del dolore ha portato l’elettricità e la luce in zone che prima erano all’oscuro. AI lettore non viene data pace né noia. A toccare questi fili se non si muore si è folgorati. La narrativa di Gadda ignora i materiali refrattari. Se c’è il black out, lo scrittore oscura

la pagina: o meglio, lascia lo spazio bianco a ricordare che è successo qualcosa, in mezzo, su cui è utile tacere. Nel ro-

manzo di un nevrastenico urlante fa musica anche il silenzio. Alla fine, ogni capitolo tace spegnendosi come se avesse consumato tutte le energie. Un collasso nevrotico conclude sempre la «giornata» sfibrante e sovreccitata. Il romanzo gaddiano può garantire la propria unità sostanziale solo se si fa a pezzi. Per lui era una necessità lasciare «in bianco» quello che non può essere narrato. Non tutto può essere spiegato. Per essere empirici, conviene sce-

gliere quello che scotta. Ovviamente non conviene fidarsi di un racconto che sembra vita vissuta o autobiografia; e non è solo questione di nervi. Questi partono dal cervello e lì tornano. Hanno una matrice intellettuale i romanzi di Gadda ma li si giudichi per le reazioni fisiche, compresi i decibel della voce. Naturalmente ha un senso anche il suono più insensato.

I romanzi gaddiani non procedono in modo rettilineo

bensì andando avanti e indietro, a destra e a sinistra, in alto

e in basso: inseguendo i particolari cui lo scrittore ha tolto il guinzaglio. Gadda abbandona il percorso tipico e si mette

230

fuori strada, in un angolo della narrazione dove soddisfa il desiderio di alimentarsi di ciò che in quel momento è più appetitoso e nutriente. Dove ci si è fermati, lì è sempre un luogo centrale, per via che qualsiasi cosa singola è collegata al resto. Il «delinquente» ha dato un nuovo ordine a un mondo ormai a pezzi, della cui disintegrazione va tenuto conto. E il lettore scavi nell’episodio sul quale è stato bloccato. Dopo la digressione sul fulmine, cala il buio su una società abitata da scemi, da truffatori, da parassiti, da ricchi

che sprecano leciti, nonché con furberie non funziona

in imprese stolide i loro guadagni più o meno da poveri che si accontentano di sopravvivere o ruberie. Non funziona il parafulmine ma bene nemmeno la vita. Non è una metafora

che il fulmine cali dal cielo. Ovviamente, oltre alla fisica,

c'è la metafisica nel fulmine che scende dal cielo per bruciare tutto sul suo passaggio. Solo Gonzalo è un uomo giusto ed è insieme il solo cui è negata la salvezza. Dopo la morte della Vecchia Signora il fulmine dovrebbe appiccare il fuoco a un mondo dissennato, pieno solo di imbroglioni, malfattori e idioti. La Vecchia Signora è sola in casa quando scoppia un temporale che quasi annega la Brianza. Lei non lo sa, ma qualcuno la aspetta al varco. Viene offerta l’ultima occasione alla Vecchia Signora: dimostri di essere innocente della colpa che il figlio le imputa. È vero che in sostanza per lei è come se Gonzalo quasi non esistesse? E la stessa domanda di Gaddus. Non finisce mai il maniacale processo che il figlio escluso ha promosso contro la «mamma adorata» che «non lo capisce». Gliela ripropone ora Gonzalo: l’imputata si dichiara innocente? Lo dimostri, risponda chiaramente al suo figlio imbecille e mediocre, all'uomo senza qualità che ha generato. Questi i fatti essenziali: la madre è presa sempre più dal panico: nella tempesta è sola e non sa a chi chiedere aiuto. Ce l’aveva un figlio, ma è morto in guerra, e lei ora non sa a chi rivolgersi. Uno scorpione aumenta il suo terrore sino a 231

paralizzarla. Povera vecchia signora vedovata dell’unico figlio che le potesse portar soccorso! Ecco dunque che si è ripetuto l’irreparabile. Forse per la paura le è sfuggito un pensiero colpevole. È stato un lapsus ma intanto ha confessato: ancora una volta ha dimenticato il figlio vivo, Gonzalo, il figlio malato che le fa scenate perché offre affetto a tutti meno che a lui. Quando ripara all’errore, dispiaciuta di non aver rammentato che ha ancora un figlio, è troppo tardi. Anche stavolta alla Vecchia Signora è passato di mente il figlio ingegnere, colui che vive con lei un’esistenza disperata. L’aveva cancellato dalla propria mente, la mamma adorata. È stato soltanto un lapsus ma questo come prova è anche più perentoria. Inconsciamente Gonzalo per la madre non esiste, non è mai esistito. La Vecchia Signora ha avuto un so-

lo figlio, quello che è morto in guerra. Nei fatti egli esiste ma i fatti contano poco; nel suo inconscio, che segnala le verità più profonde, lo priva dell’esistenza. E come se la madre ammazzasse il secondo figlio, Gonzalo. Nei fatti muore lei, ma psicologicamente è come se l’avesse ammazzata Gonzalo. Il Narratore, così simile a Gadda, «pone fine» alla vita della

Vecchia Signora, e Gonzalo crede d’essere lui l'assassino, colui che desiderava vendicarsi della madre da cui non ha avuto abbastanza affetto. L’averla minacciata di morte in uno dei tanti attacchi di nevrastenia basta a Gonzalo per sentirsi colpevole. Ne aveva il desiderio, ha creato le condizioni favorevoli al delitto?

Questo è un fatto ma la narrazione racconta proprio la trascurabilità dei fatti «reali» rispetto alla fondamentale importanza dei-delitti della psiche, luogo dove si ingigantiscono le colpe e dove si compiono massacri sulla base di crudeli sospetti. La nevrosi di Gonzalo ha armato la mano «innocente» del peone che uccide la padrona. È un punto di vista estremistico ma solo chi deforma con estremo coraggio intellettuale sarà integrato in una verità non passeggera. È una questione

di morte ma per Gonzalo è anzitutto una questione di vita. L'ingegnere si sta interrogando sull’esistenza umana. 252

Una tragedia. Gonzalo spera che sia cambiata la madre di Gaddus. Non può non aver capito il figlio lungamente incompreso. La Vecchia Signora sta replicando la parte che nel Giornale di guerra e di prigionia si era assunta la madre di Gaddus, più affezionata, dopo la morte del figlio, ai mobili e alla casa che non ai figli sopravvissuti. Non può essere invece diversa la madre, non può essere diverso il figlio. Una tragedia, due tragedie: quelle di due persone che sono state un corpo solo. Ma anzitutto la tragedia di un figlio che ancora non s'è rassegnato al fatto d’essere diviso, separato dalla madre. É tornato ad essere un bambino, non è tuttora altro che

un bambino l’uomo adulto che vorrebbe essere ripreso in grembo dalla madre. Non ha mai accettato la vita e ora strilla per la più piccola privazione. Gli è stato sottratto qualcosa di insostituibile. Così l’esistenza è intollerabile: da urlare contro ogni suo aspetto.

Il figlio vorrebbe perdonarla ma gli eventi prendono l’iniziativa e travolgono la Vecchia Signora, che nei fatti è innocente ma non nel suo inconscio; e comunque non nell’inconscio di Gonzalo. Gonzalo ama profondamente la madre che certamente vuole bene a questo suo figlio sventurato, anche se non lo ha mai stimato. Troppo lontano da lei per idee, comportamenti e linguaggio. La sua cultura ignora mali del genere, rifiuta l’isteria con cui reagisce Gonzalo al minimo disagio, non tollera il suo modo di esprimersi, le ossessioni urlanti, l’ipersensibilità angosciosa. Ha pietà per il disordine mentale del figlio ma non può comunicare con quella follia. La mamma adorata continua a non capire: come la madre di Gaddus. Gonzalo sente che è fallito l'estremo tentativo di comprensione reciproca. Così era destino, questa è

la realtà: la madre non può amarlo quanto lui desidera. Nonle può risparmiare la vita ma le offre imassimi onori. La morte sarà officiata con la lingua più cara alla madre. Ecco: la Vecchia Signora pensa con il linguaggio magnifico dei grandi personaggi tragici. Il figlio fa miracoli per sollevare il personaggio ai più alti livelli espressivi. Ovviamente non può essere contento di sé. Troppo forte il rimorso che assilla chi 233

celebra la cerimonia funebre. Gonzalo, però, dedica un solenne monumento letterario alla Vecchia Signora, che ha deciso il suo e di cui lui ora decide il destino. La madre ha paura perché il figlio non c'è ma non avrebbe una paura minore se il figlio fosse presente. Ha intuito che potrebbe ucciderla quel Gonzalo che la accusa di dimenticarlo e di disprezzarlo. Tanto più ora che lei sa che il figlio folle ha ragione. La tragedia: capire la propria colpa e non potersi sottrarre. Non la madre, che sa di avere un figlio vivo ma che continua a rimuovere: come se i suoi piedi non calpestassero il suolo battuto dai viventi. Né Gonzalo, il quale ama molto più di se stesso la madre che non può riamarlo come lui vorrebbe. Madre e figlio sono isolati. Parlano linguaggi differenti che non si capiscono. La madre non capisce che ogni espres-

sione affettuosa verso il figlio rende manifesta la sua disistima. Così lo ricorda con affetto materno che perdona ogni debolezza del figlio. Ma allora è il figlio a non perdonare. Gonzalo ripropone la goffaggine e l’isteria di Gaddus, che si lamenta di non essere capito nemmeno dalla mamma adorata. Minaccia di ammazzarla. Per vendetta? Per amore? Questo è l’unico amore che interessa a Gonzalo ma è anche

il solo che non ha possibilità d’essere ricambiato. Questo è il suo destino, cioè la sua realtà. Non c’è realtà fuori di questa passione per la vecchia madre, che per pietà può stringere fra le braccia ma che sarebbe capace di strozzare in un attacco di nevrastenia. Il male invisibile comunica solo volontà di morte? Interrogata nell’inferno ricreato in famiglia dal figlio impazzito, la vecchia madre dà il responso: Gonzalo non avrà mai l’amore senza il quale la vita è tremenda e incurabile sofferenza; e lei continuerà a pensare più al figlio morto che al vivo. La Vecchia Signora, donna «normale», usa comportamenti e discorsi che significano qualcosa di ben diverso da quel che lei ritiene. Lei lo evita per tutte le paure che una madre può sentire dinanzi a un figlio che pretende troppo e che giura di non avere ottenuto nulla. Il figlio ora prova da un’altra parte, con win altro lin234

guaggio: deve dare il meglio di sé per conquistare la madre:

perciò ha imparato a scrivere come i supremi artisti che le

sono più cari. Risponderà la madre nella propria lingua, una lingua d’altri tempi? Nemmeno così però la madre adorata lo capisce. E allora, che muoia! Tace il dialetto, sono escluse le parole straniere, il Suda-

merica spagnolo ammutolisce, sono ridotte al silenzio le parlate popolari, non si sente nemmeno una di quelle risate che esplodono nel resto del romanzo, sono stati messi da parte i linguaggi bassi con cui si alimentano la parodia, la farsa e l’oscenità. Non alza la voce il figlio isterico, non arriva in scena il chiacchiericcio della Peppa e dei peones, sono lontani i loschi vigilantes e il buon medico che cerca marito per le figlie. Per la Vecchia Signora il romanzo mette in musica il lessico più prestigioso, la sintassi di maggiore smalto, una interpunzione di prima scelta con punti interrogativi che agganciano un pensiero da isolare. Splendono le parole astratte che sublimano un robusto termine concreto, sono gioielli espressivi gli ablativi assoluti, c’è una strage di articoli per dare solennità a sostantivi che preferiscono non essere determinati, l’orchestra ovatta le sensazioni, fa tambureggiare i palpiti di un cuore colto dal panico, alterna elegia a epicedio. Raramente la nostra prosa aveva mescolato meglio la perspicuità lessicale, l’audacia delle immagini, l'elasticità dei suoni. Un'impresa vertiginosa, una magistrale acrobazia mentale: come dire che il rischio di precipitare a ogni parola esalta uno scrittore che non manca l'appuntamento con l’inafferrabile. Uno spettacolo da guardare con continua meraviglia, da ascoltare con la sorpresa che viene ingigantita dalla difficoltà di far arrivare al cervello un messaggio inaudito. Il giovane che amava soprattutto la grandezza la conquista per intercessione e ispirazione materna. Per inconsapevole intercessione e atto d’amore della madre Gadda diventa un magistrale prosatore italiano. Lo scopo è stato raggiunto: Carlo Emilio non è l’imbecille di famiglia come ha sempre creduto la madre. Ora co200

stei ha la prova dell’errore durato per tutt'una vita, anzi tutt'e due le vite dei protagonisti. Gadda ha dimostrato anche a se stesso di non essere «il mediocre autore» che in giovinezza diceva d’essere. La grandezza negata alla sua vita pratica è stata conquistata con la letteratura. E non poteva che essere dedicato alla madre il più bel capitolo della prosa gaddiana. Il Narratore, che ha messo su la più grande orchestra letteraria della scrittura del Novecento, le ha cantate alla mam-

ma adorata che non capisce né Gaddus né Gonzalo. Forse però lei non capisce nemmeno il monumento che le ha innalzato il figlio con lingua sublime e potente orchestra. La madre non smette di ritenere di avere generato una non memorabile creatura.

Le parole non sono colpevoli di quel che segue a loro, ma a loro modo sono dei fatti. Le parole pensate possono uccidere, commette omicidi la psiche. La cognizione del dolore narra infatti un matricidio psicologico. Muore prima la madre ma il figlio le sopravvivrà per poco, sempre più imbecille, come lo vedeva, come lo voleva, sua madre. Che senso avrebbe la vita senza la mamma adorata, che ha continuato

ad accusarlo pure quando le manifestava tutto il suo ossessivo, coatto, infantile amore? Che senso avrebbe condannare

un assassino che fra l’altro è innocente al confronto con il figlio che ha distrutto la vita della madre? Quel coltello che non ha usato contro la madre ora lo rivolge verso il romanzo e gli dà un taglio, netto come una decapitazione. Gonzalo sarà più morto che vivo dopo la morte della Vecchia Signora ma, più a lungo vive, più lunga è l’espiazione. Staccato dalla radice che lo teneva in vita, non può darsi la morte e non può darla al peone assassino. Non la darà nemmeno al romanzo. Scodato, mostra una ferita che non

cicatrizzerà mai. La cognizione del dolore è un romanzo a ferita aperta, che morde e rimorde incessantemente. Gonzalo ha «psicologicamente» ucciso colei che gli ha dato la vita.

CAPITOLO TERZO

Le due ultime parole dell’investigatore

Le ultime parole del Pasticciaccio sono «ripentirsi» e «quasi». Chi «sente di ripentirsi, quasi», è il commissario Ingravallo dopo la reazione indignata della Tina alle sue accuse di reticenza, se non omertà, con l’assassino di Liliana Bal-

ducci. Poi il romanzo si interrompe, portandosi dietro anche il segreto di quel pentimento e di quel «quasi» che risponde più no che sì a chi crede di potere «sgrovigliare» facilmente l’ultimo pasticciaccio del romanzo. Due parole, la cortissima coda di un discorso. Sono le ultime parole del romanzo e insieme di Gadda. Con esse si pentono, o quasi, Ingravallo, il Pasticciaccio e il suo autore? Gadda, parlando di Manzoni, aveva invitato a non trasferire le parole finali di Renzo all’autore dei Prozzessi sposi. Tuttavia nella narrativa gaddiana una frase, dopo essere stato un «fatto», corre a rappresentare qualcosa che è molto lontano, metafora che associa al significato letterale un senso apparentemente estraneo. «Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi.» Qualcuno ha notato che quell’alta ruga è verticale come l’inferiore ferita femminile da cui inizia l'avventura di ogni uomo. Nulla in Gadda rimane pelle pelle. Tina porta in fronte un segno superficiale e insieme profondo. Don Ciccio si ripente, si pente molto, insiste nel senti-

mento e si ripete il pentimento. Troppo forte il pentimento se è solo per avere ingiustamente accusato la Tina. Nascon204

de forse un rimorso quel ripentirsi? O è il romanzo che, prima di morire, invita Ingravallo a ripentirsi, o quasi? Si deve pentire anche Gadda? Il romanzo

non riconosce innocenza

a nessuno, nem-

meno a Ingravallo. Ora che ha davanti la morte — sta morendo il padre di Tina ma il personaggio più importante è la morte — tocca pentirsi per ogni azione o pensiero. E ve-

nuto il momento di pentirsi per come si è vissuti, per come si è pensato, per quel che s'è fatto. Ingravallo ci ha riflettuto, è paralizzato dalla scoperta di avere tanto sbagliato e non va avanti nella ricerca del colpevole. Il suo autore ha ricevuto l'ordine di smettere. Gadda dirà di voler continuare il romanzo ma non lo farà mai. E questo è un fatto. E un’interpretazione invece dire che il Pasticciaccio finisce dove risulta nei fatti finito. L'ultimo giallo: «ripentirsi, quasi». Le due ultime parole di un romanzo giallo in cui tutti risultano colpevoli di qualche delitto. Nella Cognizione del dolore il protagonista si accusa di matricidio, e l’autore, che nei fatti lo assolve, non se

la sente di assistere all’arresto del contadino che ha ferito mortalmente la Vecchia Signora. In un «giallo» normale tutti sono innocenti, tranne uno. In un «giallo» gaddiano come il Pasticciaccio potrebbe essere colpevole anche l’autore. Che quindi ha di che «ripentirsi, quasi».

A Gadda è sempre piaciuta la cronaca nera, specialmente quella che, ignoto il colpevole, assume il colore giallo. Il giallo per lui è il colore della vita, delitto perfetto. Anche il colore della cultura e della conoscenza è giallo. È una teoria: per Gadda ogni fatto può essere l’avvio di un giallo. Allora chiamate l’investigatore che sappia svelare il mistero. Si ricorra al romanziere: serve il romanzo per raccontare il giallo che è la vita. E fate intervenire lo psicanalista, nonché tutti gli altri maestri della scuola del sospetto. Non solo ogni personaggio ma ogni oggetto e parola sono sospettabili di omertà, reticenza, falsa testimonianza.

Il romanzo come istruttoria e analisi dei segreti e del238

l'inconscio. La sospettosa psicoanalisi trasforma in colpevoli tutti i personaggi. Un romanzo analitico scopre sempre che gran delitto è il mondo, anzi la vita. Nel giallo di Gadda non ci può essere il lieto fine. Fa sempre una brutta fine chi entra in un romanzo gaddiano. Da «ripentirsi, quasi» d'essere vivo. Non si può concludere mai il giallo che è la vita. Inutile trovare l’unico colpevole, l'assassino che fa morire e vivere così.

Il romanziere interroghi i suoi personaggi, faccia il terzo grado alla realtà, e dia il siero della verità a se stesso. Il poliziotto sospetti sempre il misfatto in ogni evento. A scavar sotto, ogni azione umana è un delitto, e non c’è uomo che sia innocente. L'investigatore sospetti di tutti. Magari scoprirà

che i personaggi non hanno commesso quella malazione ma abbonda l’illecito dentro qualsiasi uomo. Ogni personaggio è un indiziato, e non mancheranno le testimonianze a carico.

Pensate il peggio di un uomo e qualcosa di quello che è stato immaginato sarà vero. Non ci si sbaglia mai a parlar male degli uomini, questi assassini. I sospettati prima o poi cantano. Il narratore deve farli parlare, e basta «registrare» l’interrogatorio. Le difese dell’indiziato cadono a una a una. Ci vuole il forcipe, la rottura delle acque. Sono fluviali i discorsi di coloro che si liberano di un segreto. La confessione è un lavacro? Troppo sporchi quei fiumi di parole per poter pulire menti così sozze. Interrogate duramente ogni uomo e questo vi racconterà di sé storie inconfessabili. Sono fatti ma per arrivarci bisogna attraversare discorsi che diventano sempre più sottili. Diminuisce il calibro della frase gaddiana, che si liquefà o quasi per approdare a una scoperta «esplosiva». Non è innocente nemmeno la vittima.

Chi l'avrebbe detto che dietro la «normalità» di Liliana ci fosse tanta follia? Il lettore conoscerà dei fatti imprevisti ma toccherà riprendere l’indagine. Quando crede di saper la verità, Ingravallo dovrebbe ripartire verso il vero colpevole. E

potrebbe risultare che anche lui, o lei, è una vittima. Un gial-

lo da «ripentirsi». Quasi perché l'interrogativo assilla. Cade

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la mano sul foglio ma la testa riapre la questione con quel «quasi» finale. Ingravallo aveva quasi messo sull’altare la bellissima e fine signora borghese. Non è solo il prete però a buttar giù l’immagine di Liliana consacrata da Ingravallo. Tutti i testimoni lo fanno. Raccontano di lei vita, miracoli e pazzie il marito, il cugino, le zie, la coinquilina contessa Menegazzi, la portinaia del Palazzo degli Ori, il prete. Sei punti di vista per sapere cosa faceva, pensava, diceva, sentiva, di cosa soffriva e come parlava Liliana Balducci. Sia un investigatore anche il lettore e scoprirà quali delitti è capace di pensare un innocente.

Tutti i personaggi di contorno fanno ritratto e insieme autoritratto. Entrano in scena come testimoni e ne escono

come personaggi di cui si dovrebbe occupare se non altro la giustizia divina. Non parliamo solo di Don Corpi, che non è meno pettegolo di una portinaia: rispetto alla quale ha il vantaggio delle informazioni segrete che arrivano in confessionale. Forse il prete rappresenta solo se stesso ma la Chiesa di Roma non produce più cardinali come il manzoniano Borromeo. A Roma la Chiesa è potente ma non dì forza alle anime inquiete del nostro secolo. Forse non è colpa della Chiesa e non è tutta colpa del fascismo, ma non sono buoni cristiani i borghesi, e nemmeno il popolo romano, per non dire di tutti coloro che sono corsi nella Capitale portandosi dietro idee e parole da tradurre. Un immondo verminaio che nessun santo potrà restituire all'umanità. Roma è una città abbandonata da Dio. Furbizia, destrezza, estro, inventiva, allegria, vis comica

e chiacchiera sì ma nessuna dignità, principio morale, idealità, propensione a correggersi. Si sono piazzati in un mondo degradate e lì mangiano, fornicano, scherzano, fanno la commedia. Ingravallo cerca di tirarli dentro il dramma ma essi riluttano, non capiscono, sono estranei: la loro cultura, il

loro linguaggio, il loro corpo è il risultato di un processo secolare che è approdato alla farsa. Si danno tutti alla bella vita gli orrendi personaggi che sopravvivono nel Pasticciaccio. 240

Ridono questi disgraziati cui certo non concede la grazia il commissario Ingravallo, fratello minore e maggiore di | Gaddus e di Gonzalo. Semmai si pente, o quasi, di avere intrapreso una carriera, di poliziotto o di narratore, che lavora a riportare l’ordine nella società. Dove i più innocenti sono i colpevoli: quei poveri ragazzi, quei ragazzi poveri, che vivono secondo l’ordine naturale delle cose perché l'ordine culturale — lo Stato, la Chiesa eccetera — li ha dimenticati e abbandonati al loro destino, cioè a una realtà che non avrà lie-

to fine. Che futuro possono avere questi giovani nati e cresciuti in ambiente contagioso? Romanzo sempre incompiuto quello di coloro che sognano un mondo più giusto di uguali. Tutti colpevoli e nessuna speranza di una migliore vita futura. Il «giallo» ha scoperto il colpevole ma cade la penna dalla mano dello scrittore che volesse raccontare l’arresto dell’assassino. La figlia adottiva, dopo avere sgozzato la «madre», le solleva la gonna per indicare inconsciamente il luogo, l'organo, nel quale ‘è collocato — non un fatto ma un'’interpretazione — il baricentro della vicenda. Da pentirsi, o quasi, di far parte del genere umano. Insomma, l’erotìa, dopo, o con, l'interesse.

AI Sud! al Sud!, gridava la narrativa italiana uscita dalla guerra e dalla Resistenza, oltre che dai Lager. Bisognava an‘dare a raccontare quella «questione meridionale» che torna ‘sempre di moda e che si era ripreso a considerare centrale. In casi simili il ricorso al realismo è quasi d’obbligo. Un ‘realismo nuovo, o precisamente il neorealismo, variante del inaturalismo, con più alto tasso di espressività. La ricetta: fatti veri, documenti di vita vissuta, ambienti poveri, prima ‘contadini o artigiani e poi operai, volontà di riscatto sociaIle, linguaggi bassi: quelli d’uso popolare, in altri termini imolto dialetto. Ci sono nel Pasticciaccio tutti i dialetti che si parlano da Roma a Napoli, nonché tra Napoli e Roma, e dintorni, cioè ‘Abruzzo e Molise, regione natale del commissario Ingravallo. Quanto poi al plurilinguismo che mescola lingua e dialet241

to, Gadda vi era arrivato vent'anni prima, cioè ai propri esordi come narratore. I linguaggi bassi li aveva frequentati sin dalle prime prose e il discorso indiretto libero con cui i neorealisti rendevano omaggio a Verga e al verismo lo aveva praticato sin da quando si era messo a scrivere Racconto ita-

liano d’ignoto del Novecento. Al Sud! al Sud! ma la questione gaddiana non è solo meridionale. Gadda scende verso il Sud e si ferma a Roma: dove convivono, si aggrovigliano, fanno gnommero, insomma «pa-

sticciaccio» linguistico i dialetti di tutti coloro i quali partono dalle regioni meridionali per trovar lavoro nella Capitale. A Roma! a Roma! nel centro che è anche periferia, babele in cui si miscelano cento dialetti. Sono i dialetti ad andare da Gadda o è Gadda ad andare dai dialetti che sembrano storicamente delegati a raccontare la storia di un determinato periodo? Era stato lombardo fino a quando parve che la letteratura italiana risiedesse a Milano. Quando il centro letterario è Firenze, Gadda è lì, con gli ermetici, i maggiori rappresentanti della corrente lettera-

ria dominatrice degli anni Trenta. Infine Roma, la capitale di una nazione sempre più barocca.

Ecco: un romanzo che intorno a un’esile struttura architettonica splendesse e attirasse per il fulgore degli esorbitanti aggetti. Da questi, dalle parole spastiche, dovete giudicare il Pasticciaccio, non dai fatti che racconta. E comunque cercate i fatti veri sotto le parole di Gadda. Sono tutte auree, come si conviene a barocco esasperato; in esse

c'è il massimo di vita; e infine si sente che è prossima la morte. I dialetti meridionali stanno piu in basso per sentire l’Essere vicino al Nulla? I linguaggi del Centrosud sono negati al sublime o alle favole della solidarietà? Il parlato della piccola borghesia confluita a Roma ha inaridito ogni speranza in un'esistenza socialmente e moralmente più decorosa. Nella Capitale dell'impero fascista si parla così perché tale linguaggio è il risultato di un processo di degenerazione o tale degenerazione è figlia di una cultura che si è accomodata in quella mi242

scela linguistica? È la lingua della sopravvivenza dei poveri che condiscono il dialetto con la furbizia e con l’estro. È la lingua cui si affida la borghesia mercantile e impiegatizia per difendere i propri minuscoli privilegi con sotterfugi, fariseismi, ammiccamenti, sornionerie, camuffamenti, reticenze e

paternalistiche prepotenze. Non si possono nominare nei dialetti mescolati per formare il romanesco nobili sentimenti, concetti elevati, sottili percezioni? Nella miscela linguistica meridionale di Gadda c’è tutto e nulla. Un mondo impoverito che teme di restar secco. E allora tutti a ingrassarlo e a insaporirlo con le espressioni più fantasiose e acrobatiche. Quasi la cucina di chi non ha altra car-

ne da mettere al fuoco che la propria. Insomma una sovrabbondanza di condimenti, spezie, e battute salatissime, che

potrebbero dar fastidio ai palati fini ma che sono una tregua comica alla tragedia quotidiana. In questa lingua si può campare ma è degradante vivere, anche se talvolta è divertente. Su questo terreno linguistico non attecchirà mai più la grandezza. L'immonda tragedia di una collettività che non potrà più nominare la dignità umana. E ad Ingravallo vien voglia di «ripentirsi, quasi» di trovarsi in mezzo a gente simile. È però lui a parlare il più inventivo dialetto e la lingua di più nobile e antico vocabolario. Il plurilinguismo fa di lui il personaggio che vive con più coraggioso e umile senso tragico la situazione. Nel suo parlato convivono la proverbiale saggezza popolare e il più severo rigore intellettuale. Ci guadagna l’italiano della più illustre tradizione ad attingere energia espressiva nei dialetti. Col romanesco però ti potresti pentire quasi di vivere così. La mortuaria vitalità

della città papale. La questione meridionale non sarà dunque risolta col linguaggio gaddiano. Che però non prevede soluzione, non solo per tale questione locale ma nemmeno per la questione umana. In altri termini la morte va raccontata in italiano ma alla vita si addice la miscela di dialetti. Dinanzi alla morte Ingravallo può ripentirsi di essere uno scrittore dialettale ma 243

non dinanzi alla vita. La vita? Non le resta che quella energetica miscela di lingua e dialetto. E dite pure che il Pasticciaccio è un romanzo d’amore. Ci sono tutti i modi d’amare, permessi e proibiti: omosessualità, compreso l’amore lesbico; la necrofilia, l’onanismo, e forse anche l’incesto. Non tutti i modi sono praticati ma per Gadda i fatti non sono così importanti. Sono inconsci il lesbismo di Liliana, l’incesto del marito e la necrofilia di Ingravallo. È un fatto che una mattina fu scoperto un grosso cero fra le lenzuola della ardente Milena. Non l'aveva acceso, anzi aveva tentato di spegnere il fuoco delle sue vene. Si svena il Balducci per tacitare la bellissima Virginia, che è poi colei che ucciderà Liliana. Alla quale per sfregio l’assassina ha sollevato le gonne sul petto per mostrarne il sesso. È lì l’origine di tutto, nascita, amore e morte. Tina porta in fronte il segno che significa tutto, o quasi: la morte nell'ultima scena la rappresenta il padre agonizzante. Amore e morte ma il romanticismo non c'entra col Pasticciaccio. Pochii fatti, molte le interpretazioni, innumerevoli le digressioni. Un romanzo molto parlato. Dove non parlano i personaggi parla il Narratore. Un monumento alla oralità del raccontare. E cosa non esce di tremendo da quelle bocche! Fateli parlare e prima o poi verrà fuori la verità. Di quale verità si tratta lo dice il commissario Ingravallo. «Il mondo delle cosiddette verità, filosofò, non è che un contesto di favole: di brutti sogni. Talché soltanto la fumea dei sogni e delle favole può aver nome verità. Ed è, su delle povere foglie, la carezza di luce.» Facendo un interrogatorio come scavo, processo interiore, sonda, luce sul profondo, Ingravallo sa che si deve aspettare sogni e favole ma nessuna verità esplicita. Perciò si mette in attesa di veder apparire un po’ di luce capace di illuminare le povere foglie che sono i personaggi: esseri mutevoli e inafferrabili. «Il troppo e il vano non esiste.» Mille parole ascoltate aspettando un lapsus. Prima o poi si tradiranno. Tradiscono tutti, a saperli ascoltare. A tradimento scoprono 244

che non esiste, o quasi, l’amore, quello cosiddetto normale. E anormale ogni amore, o quasi. Tranne cioè quelli dei giovani come Ines Cionini. Chi vuole sapere cos'è l’amore ascolti la Ines durante il terzo grado in una caserma di poliziotti romani. Per lei l’amore è tutto in quella scena che è un particolare ma che ha un valore assoluto. «Col suo sdentato ghigno, e con quel fiato da pozzo nero che lo distingue, il senso comune si sbeffava già del racconto, voleva ridergli una maialata sulla faccia, a Don Ciccio, scaracchiargli il no rotondo dei furbi sul suo parruccone di questurino non ancora cavaliere. Ma non si può impedire il pensiero: arriva prima di lui. Non si può scancellare dalla notte il baleno di un’idea un poco sporca, poi... Non si può reprimere l’antico fescennino, sbandire dalla vecchia terra la favola, la sua perenne atellana: quando vapora su su, lieto e turpe, il riso, dalle genti e dall'anima: come non si può smagare dell’aroma proprio né il timo, né il mentastro o l’origano, gli odori sacri della terra, dello scarno monte, nel vento.

Su su, dalle città gremite, dalle genti, da, da ogni spalletta del ponte: dalle polo distorto e argentato degli ulivi, te. Quando gli tremola un poco, alle

da ogni cantone di strabrune piagge, e dal poche ascendono il moncase e a tutti li tetti de-

gli uomini, un aere azzurrino sopra il colmo. Quando il cal-

do letamaio fuma, sopra il gelo, risorgenti speranze: le speranze favolose della verità! Quando si dissolve, ogni porca, dentro fumanti arature! Quando la diritta discesa del pennato consacra al frutto l’ulivo, e ne sfronda menzogna. A Ingravallo gli balenò, tra il dolore e lo sdegno, ch’era molto più naturale e più semplice, una cosa molto più logica, postoché davvero Liliana ci teneva tanto, a un bambino, che invece di

regalargli lei, a quel bel guappo lì (che gli stava avanti), le ca-

tene d’oro dei morti... bambini, dalle catene d’oro, non ne

vien fuori di sicuro... era molto più presto fatto se si faceva regalare lei, da lui, invece, un qualche altro ninnolo un po'

‘più adatto allo scopo. Quella storia, invero, sentiva di fan-

donia. Tutte stupidaggini, tutta na commedia.»

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L’indignazione accresce in Ingravallo non solo la pressione morale ma anche quella sanguigna, che scarica una verità negata alla calma. Così la tragedia si può ribaltare in commedia; nel comico che è anche oscenità, riso che non

teme d’essere triviale, un parlare papale papale che sblocca ogni censura. L’osceno può essere una necessità, una via alla verità. Tocca perdere la ragione, se si vuole dire tutta la verità, o quasi. Le situazioni vanno portate all'estremo, o quasi. Portata all’estremo la tragedia è comica; e viceversa è tragedia questa immane commedia interpretata da attori meridionali.

La comicità ha un valore doppio in un narratore come Gadda. Gadda non può pentirsi d’aver fatto ridere: semmai procura che la risata continui anche quando è superato il motivo che l’ha suscitata. Non ci si pente d’aver riso una volta: succederà tutte le volte che uno legge una sua pagina comica. La sua comicità non è solo quella «voltairiana» che spesso si sgonfia insieme con l’idea o azione dissacrante, ma è anche quella «assoluta» della commedia dell’arte: nella quale si ride non in rapporto a ciò che si vuole distruggere ma in sé: la comicità «disinteressata» che si affida ai meccanismi. Vola la risata «non deperibile» di Gadda a collegare i versanti del comico e del tragico ma intanto l’autore sa che la vita permette anche delle belle risate di cuore, e non solo di testa. Abbiamo tutti il fescennino nel sangue: è naturale, è popolare, e farebbe bene la cultura a non essere schizzinosa dinanzi alla farsa. Si pente forse Gadda di avere raccontato una tragedia in mezzo a tante risate? Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è un’opera ad alto tasso di comicità, di ogni grado di comicità (fescennino, satira, sberleffo, farsa, commedia dell’arte, parodia, sarcasmo, umorismo, ironia). Ammicchi, ri-

satine, sorrisetti, cachinni e grandi risate. Se la prendono i personaggi più smaliziati e il sardonico Narratore allegramente mentre intorno avanza la peste che non risparmia nessuna mente e nessun’anima. C’è anche molto riso spensierato: gli episodi della Menegazzi, di Don Corpi, del dot246

tor Fumi con le americane a caccia di opere d’arte italiane, del brigadiere Pestalozzi sulla moto e ai Due Santi, lo show di Ascanio, i pantaloni troppo stretti ed «esplosivi» del carabiniere che raccoglie i gioielli, nonché tutte le buone «maniere» umoristiche del Narratore. La comicità è una digressione necessaria, anzi centrale, nella tragedia che in fondo è sempre la Vita. Ingravallo dal suo punto di vista non ride mai ma la vita è sotto molti aspetti da ridere. Gadda si pente di averla fatta tanto tragica? Quasi. Non si pentirà mai di alcuni epi-

sodi tragici del romanzo: la morte di Liliana, l’interrogatorio di Ines Cionini, la morte del padre di Tina. Dopo questo non farà né tragedia né commedia. Si pente forse di avere scritto? Quasi. Il fatto è che dopo di allora non scriverà più nulla, o quasi. I vari lati della Cogrizione del dolore si voltano le spalle ma fanno parte della stessa figura. La sua struttura ha moltissime facce diverse, che hanno altrettante bocche e il doppio in quanto a occhi, orecchi e narici. Ognuna di esse guarda, sente e parla come se fosse la sola: e qui il personaggio racconta i fatti dal proprio punto di vista, quello cui per faziosità sembra delegata la verità personale. Spesso non sa cosa succede nel lato contiguo, dove un altro personaggio obbedisce alla stessa regola di entrare in azione quando è più sollecitato dai sensi. Come nel Giornale di guerra, ogni cosa succede sotto i tuoi occhi. Il presente è infinito nella narrativa gaddiana, che racconta sempre i fatti del giorno. Domani sarà un altro giorno ma la vita è fatta così: ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, bisogna vivere come se fosse l’ultimo giorno. Sia così ogni episodio e pagina del romanzo. E sempre «il momento della verità» nella narrativa gaddiana: almeno dai tempi dell’«Incendio di via Keplero». Mentre rischi di morire, puoi salvare solo una pagina: quella in cui si riconosce il tuo essere più profondo. Non si può buttare una pagina del Pasticciaccio. La narrazione rifiuta la fretta e trattiene fino a farti di247

menticare il tempo che passa. In un sistema di relazioni fra le parti nel quale ogni dettaglio è un nodo da sciogliere — pena l’incomprensione del tutto — il tempo si dilata e non accetta d’essere misurato a ore, minuti e secondi. Nel secondo in cui si scandiscono due o tre parole il pendolo va avanti e indietro a richiamare il passato prossimo o remoto, memorie che chiedono al lettore di sostare con esse dentro una digressione che non vorrebbe restituire mai la parola alla storia centrale. Una frase di Gadda perde il tempo ma non il senso. In questo romanzo «quadrato» si avvicendano facce contigue o in opposizione sulle quali convivono, ignorando d’esser parenti, personaggi situazioni vicende idee e parole di un’unica «estrazione» ma capaci di mille espressioni diverse. Da sotto, dai sottosistemi, affiorano improvvisamente in superficie memorie d’un altro mondo, sentimenti che parevano estinti, parole che non avevi mai avuto occasione di pronunciare, pensieri che non avevi pensato ma che subito riconosci come tuoi. Nel ragionamento più coerente si in-

trufola un'idea nata in un’altra testa, una parola detta in un’altra lingua. Se perdi un po’ coscienza, senti che c’è un intruso nel tuo discorso. La mente viaggia spesso lontano da ciò che sta sotto gli occhi. Come è facile passare da un sentimento a quello contrario! Sul «cranio scoperchiato» di Joyce dove una cosa è contigua a ogni altra, Gadda, da uomo ordinato, rimette la calotta ma il cervello funziona come se

fosse all’aria aperta. Volano i pensieri secondo come tira il vento ma più spesso sono controcorrente. Ingravallo potrebbe alla fine «ripentirsi, quasi» di qualcosa che è successo molto tempo prima, persino in un altro romanzo. Occhieggia qua e là un pensiero evocato per assonanza

o per contiguità; balena una visione di cui si ignora perché si faccia vedere ora. Un ricordo rimosso emerge per caso quando si sta parlando d’altro. Il Pasticciaccio ha mille occhi, cento orecchie, dieci voci, e più di una testa a racco-

gliere esperienze remote o contrastanti che vanno raccordate nel rispetto del «sentimento risultante» nel quale Gadda ha sempre indicato il suo obiettivo fondamentale. Tecnica, 248

storia, filosofia che sia, il romanzo che «deforma» deve co-

noscere emozionando. E, quindi, sotto a procurarsi un’emozione per ogni frase o persino parola, da farci orchestra anche con chi stona. i E dai tempi di Meditazione milanese che Gadda sa musicare testi che sembrano negati all’accordo. Per esempio, fa romanze in cui canta meravigliosamente una gallina. Eppoi chi è più bravo di lui nell'opera buffa? A piazza Vittorio si esibisce con voce non bianca il giovanissimo Ascanio, che taglia la porchetta come suonasse il contrabbasso. Dinanzi poi al cadavere di Liliana Balducci Gadda tocca toni che nella Cognizione del dolore erano stati riservati alla madre di Gonzalo. Narratore «viscerale», l’autore del Pastic-

ciaccio fa «sinfonismo» ora con i timbri dell’epicedio più accorato, ora con l’«intonarumori» del carabiniere sotto-

sforzo. Oppure, se fosse chiamato a consulto, Bachtin — interprete di cultura popolare — direbbe che nel caso di Gadda, peraltro devoto di Dostoevskij e di Rabelais, si tratta di «romanzo polifonico». Un lettore entra nel teatro che è la narrativa gaddiana senza sapere a che spettacolo assisterà. Garantita è solo la

qualità, non il genere: compresa la musica leggera con cui si fanno sentire la portiera e i carabinieri. Hai appena finito di sentire una storia tristissima come quella di Ines che arriva in scena il commissario Fumi a fare il pagliaccio. La struttura narrativa del Pasticciaccio offre a ogni personaggio l’occasio-

ne di cantare il pezzo con cui rende eloquente la propria identità. Gadda dà la parola a un personaggio minore o minimo per due minuti e questo si esibisce in una romanza ric-

ca di acuti con la quale pungono la fantasia del lettore: la portinaia, la Menegazzi, Angeloni, Camilla, Lavinia e Tina. Lo sanno che Gadda può ridurli al silenzio se non danno subito il meglio. Questo narratore che spesso la fa così lunga, in realtà è un impaziente. Tutti i particolari si affollano intorno a lui pregandolo di dar loro vita, storia, senso. E Gadda è subito indaffarato a individuare il punto da cui un dettaglio opaco trasmette lu249

ce ed elettricità. Naturalmente si riscalda prima di tutti lui stesso. Questo sovrano scrittore lavora a strappare alla morte la lingua italiana che si è ossificata, marmorizzata o metallizzata. Dal vitalismo si approda a una forma più alta e sana di vita? O ti limiti a dare vita effimera al nulla? È di questo che si pente forse Gadda? Di aver costruito un sistema che condanna tutto all’apparenza fondata sui punti di vista, alla vitalità di parole che hanno definitivamente divorziato dalle cose? Si sente in colpa per avere svuotato il mondo e di non sapere reggere il confronto col vuoto da lui stesso procurato? Ha il mondo un aspetto così negativo perché lui lo ha osservato con linguaggio deformante? È la realtà delinquente di un narratore che non sa non delinquere? Si pente Gadda di avere complicato, reso spastico, umoristico e abietto il mondo che viene a contatto con i suoi sensi e umori e pensieri? Si pente il realista d’essere diventato barocco? «Barocca è la vita», diceva Gadda. «Realisticamente» il narratore vuol dire che, essendo barocca, la vita, lui scrive letteratura barocca. Il male è invisibile, quello che si vede, cioè i sintomi esterni, sono segnali ingannatori, messaggi

criptati difficili da interpretare. Parvenze, simulacri, tracce che surrogano la verità annidatasi nel profondo. Scrivere barocco allora è patinare d’oro ogni oggetto sottraendolo all’opacità che lo minaccia. Il barocco insomma è la vita. Il barocco non è la rappresentazione della vita, ma la sua creazione. Il barocco serve quando è forte l’odore della morte e ancora più intenso è il desiderio di vivere. «La vita è barocca.» La prima volta che appare il termine «barocco» in Gadda è in «Apologia manzoniana»: un saggio pubblicato nel ’26 in «Solaria», ma già in Racconto italiano d’ignoto del Novecento. Gadda inviò a Tecchi il saggio con una lettera in cui il giovane scrittore esprime l’intenzione di proporre «... un’interpretazione del romanzo manzoniano, fatta più di intuizioni che di pedanteria... Ha tinta lievemente polemica contro il vituperio, ormai supera250

to, che hanno fatto di quel povero diavolaccio. Non mi creda per questo un fanatico, né un ortodosso: pensi che leggo Kant, che mi piace la Viz4 del Cellini, che dovrei fare la mia tesi di laurea su Leibniz. Il Manzoni mi è stato sempre simpatico e caro... Credo poi che, tecnicamente, chi vuol prepararsi muscoli forti, dovrebbe cercare almeno di interpretarlo...». Segue quell’omaggio — non fanatico ma tutt'altro che freddo nella «distanza» frapposta dallo stile «straniero» della prosa — all’autore dei Promessi sposi, che è «Apologia manzoniana». Barocca era la sua vita. E barocca sarà la vita che Gadda racconta. Una vita che è messa in condizione di venir fuori sempre calda, e spesso rovente. Una vita bollente che tracima quando c’è la temperatura che serve a un determinato sentimento per sollevare qualche idea che giace al fondo del cervello. Ogni momento può essere buono, a ogni momento

Gadda è pronto a esaltare il suo spirito: umorismo o indignazione che sia, ma anche maniere più tiepide. Nella vita barocca non ci sono priorità o gerarchia: sale il sentimento o il concetto che se lo merita di volta in volta. Così fatta è la vita moderna, o meglio la vita come la si sente oggi, a partire dal fatto che così sente la vita Gadda. La «Vita», ogni forma di vita: dolori, risate, fame, nevrosi, manie, miserie, turpitudini, giochi, fantasticherie, soprusi

pubblici, private violenze, battute di spirito, estri e follie, idee e scemenze, ordine e dissennatezza, ingiustizie e generosità, commozioni e cinismo. La vita, come in ogni grande

romanzo o poema o opera teatrale. La vita «centrifugata»

del barocco lombardo. } La vita policentrica del Novecento che fa centro in ogni periferia: i dialetti, la «delinquenza», la comicità, le diverse

prospettive, i linguaggi bassi, i giochi; e in tutte le singole scene. Non si contano le fermate di una vita che la narrazione decentrata mette in grado di manifestare il meglio e il peggio di sé. La vita che è farsa e che è dramma, che è riflessione e che è sentimento, che è sdegno e che è furbizia, che è sopruso e che è fragilità, che è salute e che è malattia, che 251

è fame e che è indifferenza, che è chiacchiera e che è conoscenza, che è chiara e che è ambigua, che è lampante e che è

folgorante. Il romanzo fa luce su ogni vicenda e incendia ogni parola. È così la vita? No, così è la vita barocca, la vita creata da Gadda. Nella descrizione che in «Apologia manzoniana» fa dei Promessi sposi constaterete qual è il destino che Gadda si augura per sé. «Da poi che i mali palesi ed esterni, quali sono l’arbitrio, la derisione, le percosse, il saccheggio, la contu-

melia, il patteggiamento, la prepotenza, la miseria, la paura; da poi che i mali profondi e interiori, costituenti il germine oscuro dei primi, quali sono l’ignavia dell’anima e i suoi nefandi errori nel conoscere e nell’eleggere, il creder possibile il bene d’uno senza quello di tutti, l’amare il suo figlio e non la sua figlia, il seppellire vivente chi è nato come noi (e la luce deve arrivare ad ognuno), l’accettare come vita una chiusa dabbenaggine, come saggezza e onestà il lavoro dei soli muscoli e l’abnegazione della campestre fatica, l’affidare la propria storia e il destino al volere di altri, il limitare il proprio pensiero secondo una regola imposta da altri e perciò non sentita, il proprio senno rivangato fuori da vecchi detriti; da poi che questi mali e queste abominazioni non sono palesi alle anime, ebbene ultimo male a cui consentire: la fame; ultimo sbocco di una vita dissociale: la peste.» Un quesito: nell’inizio della storia di Gadda c’è anche la fine? Nella prima scena della Meccanica c’era tutto il romanzo, 0 quasi: ma il «quasi» la dice lunga sulla differenza della conclusione rispetto al principio. La verità è che la struttura impone la propria legge profonda agli eventi della superficie. Andando alle vere origini, potrebbe il Giorzale avere imposto la propria forma «diaristica» a tutta la narrativa gaddiana? Però quanto è ingrassata la pagina del diario a leggerla nel Pasticciaccio! E ciò fa una bella differenza. A parte la ben superiore bellezza del romanzo, si noti che la narrazione di Gadda ha necessità di dilatarsi per pressione interna ed esterna. Non sta facendo la rana: meglio si direbbe che fa il pieno per fare il vuoto. E su questo vola verso la più elevata 292

4 i

meta, verso una metafisica verità. Che all’inizio non c'era, o

non era manifesta. Il primo sintomo della peste d’oggi è stato avvertito nella psiche di personaggi, dove sono gravissimi i «mali profondi e interiori». Da essi parte il contagio che non risparmia il palese e l’esterno, e la corruzione del molteplice: che qui elenca in serie rettilinea tutte le forme della dissennatezza e del dolore degli uomini. Ecco il desiderio: un romanzo in cui suppurasse ogni piccola o grande infezione, un testo che tirasse fuori ininterrottamente bubboni, la decomposizione del reale che è stato abbandonato da ogni ideale. E ogni cellula fa da centro propulsore di un’esplosione a catena. Stavolta l’acqua dovrebbe essere quella del diluvio. Anche perché, inutile speranza, nel ’45 la pioggia non disinfetterà la vita appestata del Novecento. La peste del Novecento non teme il miracolo della pioggia che lava i mali. Questa del nostro secolo è una peste nella quale è impossibile salvare l’anima. Nell’anima aveva l’inferno Liliana Balducci, santa donna. Non c’è salvezza per chi è stato contagiato dal male palese ed esterno che è questa società, ancor più con il fascismo. Che è una malattia della Storia: ma non la Storia che ritorna bensì quella che permane in un «dato», miscela di divenire e di persistere. Il fascismo non è solo una questione estetica e non è nemmeno

solo una questione etica: è una questione metafisica, l'eterno fascismo che persiste nella Storia italiana. Da «ripentirsi, quasi» d’essere italiano. Una bestemmia, o quasi, per uno che è corso felice a combattere la Prima Guerra mondiale. Che non è mai finita e mai finirà: come il Pasticciaccio. Ingravallo viaggia su un’automobile che ha riempito di poliziotti per raggiungere la casa della Tina, dove spera di trovare il colpevole. Teme però che non ce la facciano a reggere il peso le gomme. «Le gomme, i fascioni, i fascisti.» I «fascioni» nella mente infuocata di Don Ciccio fanno associazione fonica con fascisti: per colpa loro mancano le macchine, date invece generosamente alla polizia politica, quella che protegge, il duce, il Buce. È arrabbiato Ingravallo in 203

quell’alba, anche se i campi che vede dintorno attivano le sue nostalgie di contadino. La Testadimorto che guida l’Italia sta portando alla rovina la nazione con la fallimentare campagna del grano; e campagna e grano sono parole e cose care a Ingravallo, contadino inurbato. Dalla questione privata si passa alla politica, e da questa all'economia e alla moralità: spinto dall’ira, Don Ciccio scaraventa idee che investono violentemente il fascismo. Non importa quanto sono politicamente corrette: lui non parla di politica; Ingravallo reagisce così per questione di gusto, moralità e cultura. Ecco: le ragioni della cultura. Siano autentiche, brucianti e travolgenti. Gadda non ha mai pensato che allo scrittore toccasse andare oltre le parole: perciò si limita a dare la scossa. E Ingravallo si scatena in improperi mentali di «inaudita» violenza. L’isteria è il linguaggio impotente di chi ha concluso che è inutile ogni terapia civile dei mali della società e della vita? Sull’automobile, alle prime luci dell’alba, ancora non accantonato il torpore da chi non ha dormito abbastanza, accorrono nella mente di Ingravallo sogni o ricordi remotissimi. La natura presenta quadri idillici e concilia il dormiveglia sui cuscini dell'automobile. Nella campagna romana, che gli riporta alla memoria immagini della sua prima età, riappare la figura della nonna che sveglia dolcemente i nipotini: è ora di andare a scuola. E venuta a strapparlo al sonno o a ricondurvelo? E tornata nella sua mente per alimentare la nostalgia di una vita felice che da allora non ha concesso molte repliche? Mentre l’auto procede in direzione dell'assassino, la mente di Ingravallo torna all’infanzia. Il pensiero corre verso la nonna, a colei che venne al mondo prima della madre. La nonna è il prima della nascita? Sta forse sognando Ingravallo di essere in grembo? Sta chiudendo il suo cerchio una vita in cui felice è stata solo la prima età? Celebra forse così il Pasticciaccio il rientro nell’«onnipotenzialità» da cui si parte per l'avventura nella quale gli uomini prendono strade diverse? 254

A quel caos originario però il romanzo ha dato forme e

significati, figura e intepretazione, sapori e musica. Ogni po-

tenzialità è stata realizzata ma la musica non è cambiata. Quell’informe prenatale non doveva essere abbandonato? Il barocco è il ritorno, la regressione, al caos originario, al pardemonion procurato in cui hanno cercato salvezza la modernità, le avanguardie? In quell’automobile che cullandolo lo addormenta, Ingravallo potrebbe avere sentito il desiderio di non esser nato in quel mondo che annega nel disordine massimo. E allora che lui comincia a pentirsi? Quasi. Dopo l’attraversamento di paesini e di campagne, Ingravallo arriva alla casa di Tina, dove trova la ragazza occupata ad amministrare il trapasso del padre, «albore vetroso» sulle guance, lì lì per accedere all’eternità, «medichessa infallante». La morte del padre della Tina puzza di escrementi umani. La stanza dove egli giace, due ceri pronti per essere accesi, esala odori ammorbanti che emanano non solo dalla padella in cui fa i propri bisogni il moribondo. Ingravallo, che è andato a torchiare la Tina per farle dire quanto sa, è indignato perché la ragazza era assente ai funerali della sua benefattrice. Quello che vede e che sente tuttavia non lo lascia indifferente: chiunque muoia, è sempre la morte a dare spettacolo. Essa manda sempre un cattivo odore, messaggero di prossima decomposizione. Lì non sta morendo solo un miserabile contadino, un vecchio fetido. Al padre di Tina, Gadda ha dato la rappresentanza «collettiva» della morte. Così muore ogni uomo normale. Potrebbe morire così anche Ingravallo. L’immaginativa di Ingravallo, «peritosa e pietosa», si precipita verso il dopo, corre ai funerali, incensi, turiboli,

asperges di preti, chiacchiere di persone al seguito del feretro. La prosa tenta di esorcizzare la morte con pensieri e lessico solenni ma le narici ricordano che l'evento è un maleodorante ritorno all’inorganico. Il richiamo a un quadro del Pontormo dà nobiltà alla scena. Non è la fine del mondo, muore soltanto un uomo, nella fattispecie un poverac255.

cio, ma l’evento è di quelli che danno un taglio a una vicenda. Nessuno pensa all’aldilà, non è possibile nessun altro pensiero. Ingravallo sente di «ripentirsi, quasi». E il romanzo non va avanti.

Stavolta non si pente solo il pensiero di Ingravallo ma anche il racconto di Gadda. Sinora pareva che potesse non essere dissennato continuare a scrivere. Ora però tocca pen-

tirsi anche di avere cercato la verità con il narrare. Non è più possibile andare avanti col romanzo, è anzi inutile e assurdo fare ancora il narratore. Gadda si pente e si ripente di stare lì a mettere insieme in frase musicale parole, pensieri, fatti, sentimenti. Lo smacco della conoscenza va ben oltre la mancata scoperta dell’assassina di Liliana. Non si viene a sapere la verità. Sotto i nostri occhi ora c’è solo la morte del padre di Tina e per oggi può bastare. Prima però di chiudere definitivamente, un’ultima parola pretende di dire la sua: o quasi. E dentro il romanzo ma sta quasi fuori. O almeno sul burrone che divide il terreno su cui frana la storia e si sente il vuoto. Gadda si aggrappa a quel quasi. Si sta forse pentendo non solo Ingravallo ma anche il suo autore? Ma di che cosa può pentirsi Gadda? Di quello che sta pensando, facendo, scrivendo? O si pente d’aver pensato di smettere, di indagare, di scrivere? Per lui scrivere è più importante che vivere. Ci vorrebbero molte pagine per rispondere agli interrogativi che sempre sollevano il vivere e lo scrivere. Però è stanco anche per un peso trascurabile come la penna. D'ora in poi ci sarà solo il silenzio? Quasi.

| CONCLUSIONE PROVVISORIA

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Perché scrive l’imbecille di famiglia

La domanda prima di uno scrittore, il «perché scrivo», Gadda se la pone subito. Magari non proprio all’inizio: lo fa quando già sta finendo il Giornale di guerra e di prigionia, che tuttavia è in sostanza il suo primo scritto. Qui c’è la «prima domanda» di Gadda: la preistoria della sua narrativa, i grezzi materiali roventi delle sue costruzioni letterarie. E c’è la nascita dell’Ingegnere come prigioniero. Gadda nel 1918 è in campo di concentramento. Il prigioniero ha subito un’altra sconfitta; la prova è ancora una volta fallita, perso è il braccio di ferro con tutti quelli che lo considerano un incapace, e persino un imbecille. Nessuno lo capisce, nessuno sa cosa c'è dietro i suoi comportamenti impacciati e goffi. Nemmeno la «madre adorata». Nessun segno di comprensione per quanto fa o dice questo figlio: l’altro sì che si capisce chi è e cosa sarà: il primo, quello che

muore in guerra, Enrico. Carlo Emilio invece è vivo e aspetta di essere liberato dalla prigionia, scrivendo il Giornale. Sinora ha steso in una prosa parossistica e nevrastenica

la sua indignazione per quello che vede succedere sotto i suoi occhi o per quello che sente dire da stolidi ufficiali di basso o alto grado: gli stessi che non si curano di nascondere la loro disistima per il sottotenente Carlo Emilio. Enrico Gadda, l’altro Gadda, sì che è bravo, lui sì che avrà la promozione. In un certo senso non si stima nemme-

no Carlo Emilio Gadda, che fra l’altro è, per così dire, felice di riconoscere le migliori qualità del fratello. Si analizza con tenace accanimento e rivela senza reticenze i suoi squilibri 293

psicologici, le manie del carattere, la labilità del sistema nervoso. Lui però non è solo questo, è anche altro, e tuttavia dal suo comportamento non si vede. Bisogna far vedere l’altro Carlo Emilio. Glielo farà vedere a tutti, anche alla «madre

adorata» che non lo capisce. Per questo scrive. Perché quando scrive riesce a espri-

mere quello che ha dentro e che è molto diverso da quello che mostrano i suoi gesti e le sue parole. Per dire chi è, lui non deve parlare, deve scrivere. Scrivendo si può far capire finalmente non dagli ufficiali, dei quali se ne infischia, ma dalla madre, la «madre adorata» che non ha mai fatto il mi-

nimo sforzo per comprendere quel suo inintellegibile e forse nemmeno intelligente figlio. Per questo scrive Carlo Emilio Gadda? È colpa della «madre adorata» se lui è costretto a scrivere.

Ha qualche colpa la madre nei suoi confronti, ma forse che per questo è meno adorata? Anzi, ora può dirlo per iscritto e non solo a parole (il suo normale modo di parlare che gli nega la possibilità di farsi intendere) che egli adora la madre, colei che pure ha la prima responsabilità dei suoi fallimenti. Gadda scrive per la madre, scrive alla madre per rivelarsi altro da quello che la madre vede o constata. Scrivere serve a capire. L'unico che sinora ha capito infatti è Tecchi, un letterato. «Tecchi mi è buon compagno delle ore di studio, ha un po’ compreso il mio stato, ha penetrato il complicatissimo sistema morale, che risponde all’etichetta del mio nome. Non è cosa nuova per me essere mal giudicato nella vita: riconosco in me difetti gravissimi, qualità negative: ipersensibilità, timidezza, pigrizia, nevrastenia, distrazione fino al ridicolo.

Ma troppo severi e troppo superficiali sono i giudizi che fanno di me anche molti che credono di conoscermi a fondo. La mia adorata mamma essa stessa non mi ha sempre compre-

so; ciò anche perché io sono essenzialmente infelice nel contegno e nell’espressione; l’unica espressione vivida e corretta, di cui posso rispondere, è l’espressione mediante il pensiero scritto. Ricordo che inginocchiato al letto di mio padre

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morto, esclamai nel pianto: “Ho appena quindici anni!”, intendendo di dire: “Solo per questo breve periodo ti sono sta-

to vicino, o babbo”. Questa frase fu invece interpretata, e

forse ragionevolmente, nel senso egoistico: “O babbo, mi lasci in età nella quale il tuo aiuto m’era necessario”. Bisogna riconoscere che questo era il pensiero rispondente all’espressione, e che l’espressione non rispondeva invece al mio pensiero. É questo un esempio tra mille. Così nella vita mi occorse sovente, lo confesso a me medesimo, di passare per imbecille, o per orgoglioso, o per egoista o per pazzo: mentre ero distratto, timido, riservato, stanco. Un altro difetto

grave, da cui devo correggermi, è la calda simpatia per ogni mio simile, tanto p:2 se sofferente o valoroso; questa tendenza a una forma superiore di cordialità e di umanità evangelica deve esser repressa, occorre guardare i cosiddetti nostri simili con freddezza di calcolatore, soffocare in noi la ri-

percussione simpatica della loro sofferenza; anche nel far loro del bene occorre esser freddi e dissimulatori, a fine di non

passare per imbecilli.»

Celle-Lager; 21 maggio 1918. Gaddus . «Sidicecarotaesi pensa patata» scrive Gadda dieci an‘ni dopo nella Meccanica, che sui rapporti tra madre e figlio ‘tesse pagine piene di crudele e affettuosa derisione. Il narratore comincia subito a sostituire gli ortaggi della sua ricchissima cucina. Gadda scrive perché se pensa patata vorrebbe dire patata. Il positivismo della sua formazione gli garantisce che è possibile farlo. Così può anche credere che, se scrive «madre adorata», non ha detto altro da quello che dice let‘teralmente la sua espressione. Si è accorto però mai lo scrittore che la carota «madre adorata» nasconde la patata bollente di un sentimento che brucia e fa andare in fumo la dichiarata adorazione? L’attributo della madre non è pleonastico: serve ad at‘tutire, con un ribaltamento di segno, il colpo che il figlio infligge alla «madre adorata», attribuendole la colpa di una 261

incomprensione che fa di Gadda una vittima per tutta la vita. Era questo che lo scrittore aveva pensato? Il pensiero è una patata, che è diversa dalla carota. La patata, il pensiero profondo, è più nutriente, sta sotto, è di un altro colore e

sapore. Quello che veramente Gadda pensa della madre lo si trova sbucciando ciò che dichiara non solo a parole ma anche per iscritto. È da tempo un’opinione intoccabile che nemmeno scrivendo si riesce a dire quello che si pensa veramente. Nemmeno la scrittura quindi consente a Carlo Emilio Gadda di far capire chi egli realmente sia? Anche le parole scritte dicono una cosa diversa da quella che si pensa? Ma allora perché scrivere, se nemmeno con la scrittura si può dire carota alla carota e se non si può dare parola fedele alla patata bollente che si è pensata? A meno che lo scrivere non sia proprio questo: esprimere molto più di quanto si è pensato e detto; magari qualcosa che è proibito dire e persino pensare. E infatti, coperto da quell’«adorata» che dice un affetto profondo a cui forse anche pensa, Carlo Emilio Gadda suggerisce che colei che gli ha dato la vita è la causa prima del fallimento della sua vita. Colei che gli ha dato la vita, gli dà però anche la letteratura. Dopo il vivere lo scrivere. Vincerà scrivendo o sarà un altro smacco? Eviterà almeno la Caporetto della scrittura? Solo se scriverà in un modo diverso dalla madre, una che di-

ce pane al pane e vino al vino, donna forte che si è formata alla scuola del positivismo. La domanda prima — perché scrivo? — trova dunque la risposta in colei che è il fattore primo della necessità di scrivere, la sua «forza motrice», il bersaglio da raggiungere, il fine, l’inizio e la fine di tutto. La nascita dello scrittore coinci-

de con la rottura del cordone ombelicale che lo lega alla madre fino al campo di concentramento. Scambierà pure lui carota e patata, sarà difficile distinguerle; sarà pressoché impossibile discernere il cibo genuino da quello «artefatto». Che cosa dissimula quell’aggettivo «adorata» che abbraccia la mamma ma sembra volerla strozzare? Sarà una 262

storia lunga da raccontare, Gadda la racconterà a lungo e in opere diverse. Quello che per ora lo scrittore non dissimula

è l’odio verso tutti coloro, ufficiali o parenti, che non lo comprendono e lo disprezzano. Li strozzerebbe in uno dei suoi

frequenti attacchi di nevrastenia.

«Occorre guardare i nostri cosiddetti simili con freddezza di calcolatore.» D'ora in poi Gadda farà così i suoi roventi calcoli mentali. L'espressione sarà «corretta e vivida» anche quando darà morte. Alla lettera, una scrittura che ammazza. Per ora non diremo della metafora, che nasconde

violenze mentali assai più feroci. Scritto, il pensiero di Gadda, per stare in guerra contro tutti, comincia dall'inizio, cioè dall'origine, insomma dalla

«mamma adorata». Quest’aggettivo, non appena ha finito di dichiarare amore per la madre, la colpisce duramente. La parola «tradisce» il pensiero. La narrativa di Gadda colpirà con ogni parola traditrice del suo pensiero. Prima di cominciare a scrivere «per arte» il racconto «La passeggiata autunnale», del 1918, che inaugura il filone principale della sua narrativa, quello giallo-poliziesco, Carlo Emilio Gadda si è fatto un programma che è insieme di let| teratura e di vita. Tocca essere «freddi e dissimulatori»: vale a dire il contrario di quello che era stato sinora sia nella vita | (la sua franchezza, la schiettezza delle sue reazioni e dei rapporti con gli altri, ecc.) sia nella scrittura (tutte le saettanti e infuocate espressioni del suo sdegno per i vari modi di essei re «disordinati» che ha fedelmente registrato sinora nel | Giornale di guerra e di prigionia). Questo ha imparato dalla | vita, e può servirgli nella letteratura: Gadda ci metterà freddezza e dissimulazione nella scrittura quando racconterà la | guerra mondiale, la sua guerra nazionale e personale. Sta pensando a un inganno con cui ottenere quanto il calore e la sincerità non gli avevano dato. Se la letteratura è «finzione», serve un artificio con cui costruire il linguaggio | adatto a uno che deve esprimere qualcosa di diverso da quello che sa dire a voce. Scrivere è un altro modo di dire rispet|

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to al parlare; narrare è un altro ancora, più artificiale e inventivo: la finzione più complessa è la narrativa. In quanto ai suoi studi scientifici, Gadda ha scoperto l’utilità di essere ingegnere anche ai fini del narratore: ci vuole un progetto, un disegno, una macchina, o meglio ancora una macchinazione,

persino una «frode», che è peccato oltremodo diabolico. D'ora in poi si vedranno le sataniche macchinazioni dell’Ingegnere. E la sua sarà la più complessa ingegneria narrativa del nostro Novecento. La prima cosa che Gadda fa di grande è la guerra. La Grande Guerra di Gadda è una guerra mondiale, anzi totale. E lui farà sempre la guerra. Non sarà mai più in pace: né con la società, né con le istituzioni, né con la cultura, né con

la letteratura, né con la famiglia, né con la madre e con il padre, né con se stesso, né con la vita. La sua prima guerra mondiale è la prima manifestazione della sua guerra universale. Una guerra su tutti i fronti e comunque combattuta sempre in prima linea. La frase resterà d’ora in poi sempre al fronte: una prima linea fatta di «cocuzzoli», di quote, curvata o ingobbita da frequentissimi rilievi, improvvisi bagliori notturni e laceranti scoppi, d’ira, d’isteria, furori morali e intellettuali. Ed è

una notte in cui si fa luce illuminando ogni parola e facendo esplodere sensi anche da quella che sembra averli persi. Gadda è in guerra e in prima linea con ogni più piccolo segmento di discorso. Forse è solo nevrastenia, ma intanto in

guerra lo scrittore ha preso l’abitudine di vivere ogni attimo come estremo momento della verità. «Dialogo sull’estrema soglia», direbbe il Bachtin di Dostoevskij. Una scrittura della sopravvivenza con la quale si strappa il massimo possibile di vita a una condizione precaria che è quotidianamente minacciata dalla morte. Tocca sottrarre alla morte anche la più umile parola, mandandola in guerra, in prima linea. Chi ha merito e buona sorte si salva. «Freddo e dissimulatore» Gadda sarà nel costruire la struttura della sua narrativa. Una struttura di guerra per una 264

scrittura di guerra. Una struttura che moltiplichi gli elementi conflittuali di una scrittura che usa le parole come proiettili. Una struttura in cui non combatta solo lui, come nell’effusione immediata, personale, privata del Giornale di guerra e di prigionia. L'Ingegnere deve inventare una struttura che sappia dissimulare con freddezza anche il massimo calore. Fingerà una scrittura calda che dia una spinta alla struttura. Il Giornale ancora scotta. Gadda prepara in laboratorio una struttura — la più artificiale è la più naturale: quasi un’autobiografia — in cui mettere tutto il sentimento, la sincerità totale di una mente che

fa fuoco con ogni idea o percezione. La sua prima guerra Gadda la combatte nella struttura. Una struttura — un diario o quasi, un romanzo del giorno per giorno — che manda in prima linea ogni episodio, ogni frase, ogni personaggio. Si salvi chi può, chi vale e chi ha fortuna. Chi è sconfitto, cade prigioniero. La struttura è una prigione per sopravvivere? Ora serve

una struttura per evadere, per fuggire da sé, dalla propria nevrosi, guerra che si combatte in ogni momento, di giorno ma anche di notte. Il male di Gadda è «invisibile» ma è un cecchino che va sempre a segno. Scapperà da questa prigione ‘mentale? Fugga il «delinquente» — colui che abbandona un linguaggio che è diventato un carcere — e sarà libero Gadda. Un'altra cultura, un’altra natura

Un inetto, un acchiappanuvole, un nevrastenico, un debole

che non sa quello che vuole. È il ritratto dell’imbecille della ‘famiglia. Gliela farà vedere lui a tutti di che cosa è capace, ‘dove è necessario più coraggio, concretezza, tempestività di

‘decisione e doti di controllo. Dunque alla guerra! Ma i superiori e i colleghi la pensano come la madre sull'ufficiale Carlo Emilio Gadda. Nulla da ridire su costui, ma ‘il fratello è un’altra cosa: e muore. Resta in vita Carlo Emilio, ‘che salva la vita arrendendosi. Il prigioniero però non ha | |

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perso solo l’ultima battaglia. Non ce n’è una che egli abbia saputo vincere. Quest'uomo sconfitto è anche un perdente. «La mia vita è inutile, è quella d’un automa sopravvissuto a se stesso, che fa per inerzia alcune cose materiali, senza

amore né feste. Lavorerò mediocremente e farò alcune altre bestialità. Sarò ancora cattivo per debolezza, ancora egoista per stanchezza, e bruto per abulia, e finirò la mia torbida vi-

ta nell’antica odiosa palude dell’indolenza che ha avvelenato il mio crescere mutando la possibilità dell’azione in vani sterili sogni.» Potrà mai fare delle azioni che corrispondano alle sue intenzioni? Ci sarà mai un fatto che andrà all'appuntamento con le sue idee? O le sue sole azioni saranno quei «vani e sterili sogni» che si realizzano nella scrittura con cui racconta i fatti, la prova concreta della sua inettitudine? Carlo Emilio si impegnerà d’ora in poi a dimostrare come stanno veramente le cose. Questa è ora la guerra. Gadda deve evitare la Caporetto della sua letteratura. Alla fine della guerra questo è Gaddus; un automa «sopravvissuto a se stesso», una vita inutile, inerzia, un avvenire

di «cattivo per debolezza, ancora egoista per stanchezza e bruto per abulia». Questa è la natura di Gadda. È possibile liberarsi? E questo è il progetto con cui cambiare il destino: andare lontano da tale natura. Allora Gadda punta tutto sulla cultura: organizzare una nuova vita, inventarla. I «fatti del-

l’invenzione son fatti e son dunque natura». Il desiderio di combinarsi una diversa natura. Con una diversa cultura. Ogni fiducia nella cultura: se questa riesce bene, si è liberato dalla sua «torbida» natura. Comincia a liberarsi Gadda del suo io carceriere, ma cambia solo prigione: da quella «naturale» alla prigione di un sistema culturale di rigida geometria e di implacabile coerenza oggettiva. Le fredde sbarre di una prigione che per «redimere» deve essere inflessibile. L’impassibile sistema di rapporti in cui il nevrastenico mette i suoi dati naturali perché diventino segmenti di un altro disegno. Non è d’altron266

de una natura da buttar via: piuttosto è da riadattare, rimettere in funzione dentro la società. Ci vuole una struttura so-

lida, quadrata, anche se non fissa. Un cubo? Un cubo che sia

anche un dado. Un corpo solido che si stacca da terra e vo-

la, cambiando faccia. Ovviamente ci vuole fortuna, se la malattia è irrazionale.

Se fosse possibile cambiare anche all’interno, far volar via quel «male invisibile» che gli è connaturato! La cultura sì che aiuta a cambiar faccia, aspetto, lingua, luoghi, città, stile.

Dia essa il linguaggio liberatore al prigioniero che non può non scappare. Sbarre, reticolato, e altri quadrati, magari quelli di una scacchiera: essere prigioniero della stessa scacchiera nella quale si gioca il destino di tutti gli uomini. Serve un cavallo, figura che si sposta con uno scarto dalla retta e dalla diagonale. Gadda non sarà più una semplice pedina nelle mani della madre autoritaria. Gadda le tenta tutte per sfuggire alla propria natura. Entra nella solida figura di un cubo e vola. In questo sistema sei costretto a giocare anche se sei abulico, indolente, egoista. Un gioco che ti aiuta a uscire dal tuo io, il primo e più pericoloso «pidocchio del pensiero». «I pronomi sono i pidocchi del pensiero» grida Gonzalo Pirobutirro. I pronomi si attaccano al pensiero come pidoc| chi sino a dissanguarlo. Siccome danno prurito, Gadda è sin dall'inizio della sua attività letteraria a spidocchiarsi, cioè a | spersonalizzarsi, letteralmente a togliere i pronomi personali, a cominciare ovviamente dall’io, «questo palo». É conficcato nel suo cervello e non sarà facile estirparlo, ma urge liberarsi . di quest’io, di questo pidocchio così invadente e penetrante, ‘un parassita che ti si attacca al cervello al punto che non si rie| scea pensare ad altri che a se stessi. Naturalmente è quasi im| possibile fingere che non ci sia. Anzi, tocca partire proprio di | là, dal punto dove ti aggredisce. Essere «freddi e dissimulatori». Una questione di forma. | | La necessità di un nuovo linguaggio: per essere meglio se | stesso o anche per essere diverso. Essere diverso per essere |meglio se stesso. Chissà che non sia stato un difetto di lin|

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guaggio essere così infelice, abulico, indolente, nevrasteni-

co? Un linguaggio per essere meglio accetto a quelli che non lo stimano, magari gli ufficiali che non stima ma che intanto hanno reso lampante il suo fallimento di uomo e di combattente. Un nuovo linguaggio con cui conquistarli: anche nel senso di fargli guerra e poi ottenerne il consenso. Un linguaggio che piaccia, che diverta, che sia gradevole, magari che faccia ridere. Far ridere i suoi colleghi ufficiali e civili: anche su se stessi, senza accorgersene. Quello è il suo pubblico di lettori, questi i suoi nemici. Se sarà freddo e saprà ben dissimulare i suoi sentimenti, sarà diverso il risultato. E lui sarà diverso. Sarà il vincitore di una guerra in cui Gadda sembrava comunque predestinato a perdere. «Il caffè di cicoria è realtà come il caffè. I “pastiches” delle madame cinquantenni sono realtà quanto le chiome arruffate di una modella: il motore elettrico non è meno “natura” d’un ciottolo o d’un vulcano.» É una «meditazione milanese» che dice, nel solito stile «genuino-popolaresco», quel che Gadda pensa di natura e cultura. Una cultura che libera natura e le si adegua. C’è sempre il caffè caffè, come ci sono elementi naturali immutabili, ma la maggior parte di quelli che considerate elementi naturali e che vi paiono caffè caffè sono in effetti caffè cicoria. La cultura ce la dà a bere: caffè cicoria è caffè, le dame posticce sono belle, il motore produce più calore di un vulcano. La realtà si può creare dal niente e non è meno realtà di quella che sembra esserci stata da sempre. Fatevi la vostra realtà e datevela a bere. Potrebbe piacervi di più. «Quei fatti della invenzione son fatti e son dunque natura: ché la mente disegnatrice è natura e la storia degli uomini è natura.» Tutti i fatti sono natura, anche l’invenzione, che però è anche cultura, frutto di mente disegnatrice. La storia degli uomini è storia di culture che diventano natura. Tutto

è natura, e insieme, tutto è cultura, un disegno riuscito che è

diventato natura. La mente disegnatrice non ha però pensato tutto: chi le darà il nuovo materiale? Lo trova in natura o

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lo crea? Lo inventa per virtù autonoma di mente o attinge a

una natura che non è passata alla fase del segno consapevole? C'è una periferia del centro illuminato dalla cultura. Questa periferia non finisce mai, sposta i confini, è ambigua transizione tra natura e cultura. Inventare storie sotto la pressione della natura e della storia che non hanno trovato la loro cultura, i loro segni coscienti. Faccia presto la mente a dare un disegno alla periferia che urge ai confini e che urla da sotto, dal profondo. La si porti al centro dell’attenzione, in superficie. Gadda inventa partendo da ciò che c’è, dalla vita che ha vissuto. Un matricidio più volte ripetuto, con un linguaggio che li fa diventare le invenzioni vere come un fatto di natura. La finzione di Gadda è di quelle a cui si crede. Rimescolata con fatti reali ora sembra vera. Chi legge Gadda non dubita mai che si tratti di fatti reali: magari di cronaca come Novella seconda. Sembrano fatti di cronaca anche La cognizione del dolore e il Pasticciaccio, romanzi «inventati», sia pure non di sana pianta. Non si inventa nulla se si dice che

quella di Gadda è una mala pianta, o più precisamente una pianta malata dalle radici. Gli piacerebbe sradicare il suo io. Forse è più facile spezzarlo. Presto sarà a pezzi l’io gaddiano. Cosa tocca inventare per conoscere un io siffatto? Servi‘ rebbe la sostituzione, ma ci sia almeno lo spostamento: non | la metafora, bensì la metonimia. Al racconto! Al racconto!

L'esperimento narrativo iniziale è fallito. Il Racconto ita| liano si è risolto con un’altra Caporetto. Non sono bastati ‘ due «giochi» — ad interiore e ab exteriore — e nemmeno cin| que maniere per ridere. Colpa del carattere anomalo e involutivo di Gadda. Per evitare le coazioni della psiche, bisogna | pensarci a fondo, ci vorrà molta filosofia, urge creare un si| stema personale. Alla filosofia! Alla filosofia! Alla Meditazione milanese! Ci vuole del metodo per uscire dalla follia. |

Conoscere è deformare. Nella storia dell’arte la defor-

mazione fa subito pensare all’espressionismo, arte cara alla | psicologia del profondo, linguaggio della rivolta contro i ge269

nitori. L’arte della deformazione è quasi per antonomasia la caricatura, quella da cui parte Baudelaire per il suo saggio Sull’essenza del riso. Deformare ridendo: la deformazione del volto di chi ride. La degradazione, ilinguaggi bassi della comicità: che è un atto di superiorità compiuto dal basso, dal rimosso, dal represso. Il satanico riso di chi si deforma e deforma gli altri per conoscere. Ridendo e scherzando, si aggredisce la forma in cui si blocca la nostra conoscenza. È una maschera e va subito strappata. È una maschera anche il volto di chi ride. Strappate tutte queste maschere, guardate ancora più sotto, non vi fermate mai, non potrete mai più essere felici: è la vostra condanna questa di scoprire cosa c’è sotto e di accorgervi che è solo una maschera della verità. Sempre così vicina da allungarci la mano per toccarla, ma presto è così lontana la conoscenza del vero. L’inevitabile smacco della conoscenza da quando è fuggita la Verità. Attesa e rinvio eterno, questa la pena. Continuando a scendere, a degradarsi, magari col contrappasso del tragico senso di superiorità imposto a chi si deforma nel riso per conoscere sempre di più. L'ha già detto Hélderlin che è un inferno questa necessità di ridere di tutto. Non è più possibile tornare in alto, recuperare la perduta bellezza, che è anche verità. Nemmeno la figura è più il cerchio, lungo il quale gira l'eterno ritorno. Il poliedro di Meditazione milanese è una figura «deformata» che promette, o minaccia, un futuro di

inesauribile ricerca in direzione di una rivelazione che è destinata a essere sempre rinviata. Il destino dell’uomo è questo: una cultura dopo l’altra, per mettere ordine, sia pure per un po’ di tempo. Deformazioni di deformazioni negate alla bellezza dell’assoluto. Ma sotto allora non c’è nulla? Non si sa, bisogna continuare a cercare, a deformare, a conoscere. È ridicolo ma è anche una tragedia questa condanna a cercare ciò che non può essere trovato. C’è una cultura sotto un’altra cultura. Lo sa chi ha frequentato la «scuola del sospetto», quella in cui si impara a scrivere gialli. Non è poca cosa però cambiare cultura. Se 270

cambia la sua cultura, Gadda spera di riceverne diversa natura e forse guarirà del fiatuirale «male invisibile». Ci sarà la metafisica ma ora sta soffrendo in modo intollerabile il fisico a causa di una mente malata, di una cultura vecchia e bacata che demonizza idesideri del corpo di Gadda. Sotto la sua metafisicac'è il suo corpo, compresa l’anima. È molto fisica l’anima di Gadda. Possono fare coppia il sesso e la metafisica? Come si può inventare qualcosa senza fantasia, accusata d’essere generatrice di mostri? Ebbene, se conoscere è creare qualcosa di nuovo, basta deformare quello che c’è nella realtà. Che bisogno c’è di rivolgersi ad altro quando uno ha già come materiale la propria vita? Non l’autobiografia però, che è come ripetere la vita nella stessa forma in cui si è svolta. Tocca deformarla «con freddezza e dissimulazione», due

buone regole per chi deve trovare una nuova forma. Vanno deformati i fatti, che di per sé non significano molto. Anzitutto deformare è privare della precedente forma: che è sempre un modo per mutare la sostanza. Possedere forma capace di nuova conoscenza in Gadda è uguale ad essere «deforme»: quasi una necessità per un sistema In incessante movi-

mento. Si fissi l'attimo fuggente della deformazione e quella forma durerà a lungo. La «deformità» come forma. Che non è la stessa cosa che l’informe e l’informale. Savinio proponeva alla letteratura del Novecento la formula dell’arte come «forma dell’informe», in opposizione all’«informe come forma» caro a futuristi e dadaisti. Gadda invece propone come forma il deforme: che non è mai rinuncia alla forma quanto piuttosto una forma che, per non rinunciare a se stessa, si sganghera, si ingobbisce, si gonfia: magari col rischio di esplodere come succede a figura barocca. Deve fermare una transizione e nello stesso tempo restare disponibile ai materiali che premono ai confini della forma da ogni periferia per entrare, per deformare, per creare una inedita figura capace di prendere statuto di conoscenza. La deformata nuova conoscenza che sembra una verità bell’e buona. AL

La deformazione è l’ultima spiaggia per coloro che non vogliono arrendersi alla disintegrazione della forma. Tuttavia è il primo atto di chi non intende illudersi che basta rimuovere psicologicamente il disordine per sconfiggerlo. Per accettare tutto il disordine che preme alle porte di Roma o che anzi è già dentro le mura, Gadda nel Pasticciaccio è costretto a fare del proprio, invero molto disordinato, ordine il massimo

di disordine possibile per una struttura nata con l’intento di dargli regole e di conquistarlo. La deformazione frequenta la transizione fra il vecchio e il nuovo. La deformazione permanente di Gadda, ordine saldo ma passeggero. Una struttura che ha sempre un’apertura, una figura dell’incompiuto. Gadda non chiuderà mai un romanzo. Il deforme romanzo con cui egli ha dato la più vera forma alla nostra caotica vita. La deformazione dell’ordine. La forma di una conoscenza che ha la natura doppia del confine: una faccia che è volta all’interno «civilizzato» e l’altra che guarda all’esterno «barbarico». Gadda fa accettare ai barbari l’idea del confine in cambio della licenza di scorrazzare liberamente nel territorio sottoposto a leggi. Un narratore per natura e cultura «longobardo». Il barbaro si insedia a Milano e di là manda ordini. Vince chi ha più numeri?

N + 1 è la formula della conoscenza. All’inizio c’è il confuso N. Solo uno sciocco può credere di essere tutto in quella lettera. Il narratore, che ha più attenzione per l’oggetto, deve sapere di essere già N + 1, poi sarà N +2 e via di seguito coi numeri in progressione. Il racconto struttura un sistema di conoscenza che è N + 1 ma sa che presto ci sarà con la stessa lettera un numero diverso. Lo scrittore del Novecento organizza il precario, il marginale, l'oscuro, il rumore: il 3, il 4, e il 5, ecc. all’infinito, all’«ennesimo» numero. Una regola: niente e nessuno

può essere escluso dal sistema, pena la sua immediata falsità. C'è la storia in quei numeri: mettetecene il più possibile in quella N e cambierete natura. Potrebbe essere unì progresso.

ID.

| Conoscere significa strutturare tutto in una nuova figura |coerente. Che perciò ha l’obbligo di deformarsi ancora, se non vuole ideologizzarsi, cioè assegnarsi apparente e «lo| sco» statuto di verità definitiva. Conoscere è anche dissolve-

re i miti, attraverso la deformazione e la «removibilità dei li-

miti». La conoscenza è un processo infinito di deformazione e di formazione, cioè di riduzione a nuova forma. Sappia l’uomo di avere a disposizione infiniti numeri per conoscersi sempre meglio. E talvolta avrà l’impressione di possedere la verità alla lettera. Gadda gioca con la lettera e con le metafore in modo diverso dalle avanguardie futuriste e surrealiste. La loro tra| sformazione è «rivoluzione»: tenersi pronti alla svolta con cui il sistema cambia radicalmente, cioè quando N diventa (O, e poi P e le successive lettere dell’alfabeto. Gadda non ci pensa a cambiare lettera, non crede a questa «rivoluzione»: ‘ forse egli non troverà un se stesso che gli sia gradito nemmeno cambiando alfabeto. N è la lettera del destino dell’uomo. All’interno di essa egli gioca tutti i suoi numeri. N+1,N+2, N + 3, ecc. all’infinito. La natura umana ha connotati mute-

voli ma alcuni sono persistenti. Diamo una diversa quantità e forse cambierà la qualità. Se fate buone riforme, ci sarà una

rivoluzione culturale che darà più numeri alla natura. Le rivoluzioni artistiche, per non dire di quelle scientifiche, possono essere più pratiche delle rivoluzioni politiche e sociali. Ci sono i dati, ma ancora più importanti sono le relazioni. Queste sembrano astratte e quelli concreti, ma in effetti risultano concrete queste e astratti quelli: che quasi non esistono al di fuori delle relazioni che li legano fra loro. Organizzare significa inventare. È sempre concreta l’invenzione gaddiana. Gadda deve far presto a diventare un altro rispetto a quello che ha perso tutte le sue guerre. Non bastano le «parole bagasce» che attirano come Circe con i suoni. Non saranno mai parole virtuose o monogame ma, anche se folleggiano come ebbre metafore, debbono sapere che sono in 2

una rete di relazioni. Non una sola rete, ma tante, una sopra

l’altra: strati di sistemi che aumentano i filtri da cui passano le parole combinate in verticale e in orizzontale. Agitarsi acrobaticamente ma dentro la rete o magari sopra la rete. Questo è un letto di Procuste, questo è un grande circo in cui non tocchi mai terra. La rete ti impedisce di romperti l’osso del collo. Non ti devi lasciar andare a testa in giù. Nella mente la rete, pur elastica, si smaglia e il sistema tende a franare sopra l’autore che tenta di arginare il disordine. Allora arriva il pasticciaccio: cioè il massimo di disordine che l'ordine di Gadda può consentirsi, per non regredire al rumore e all’informe. Che bambini i futuristi! In «San Giorgio in casa Brocchi», Gadda è solo divertito da come vende (nessun moralismo: l’arte è anche merce, ev-

viva gli artisti venduti) le sue forme informi il pittore modernista, un artista bagascione che deforma ma che non ha nulla di nuovo di cui informare. Un manierista come Gadda si rifiuterà sempre d’essere. Senza rete non si prende niente di buono ma l’acrobata deve avere corpo, testa, sangue, muscoli e ossa. Non c’è forma senza sostanza. Lo sapeva bene Palazzeschi, l’acrobatico futurista dell’«Uomo di fumo», l’esse-

re leggero che sa tutto dell’umanità in carne e ossa. Per Gadda la realtà esiste. Lui non è ancora Manganelli: per il quale l’unica realtà è la parola onnicomprensiva, «onnipotenziale». L'ordine. L'ordine naturale delle cose. L'ordine sociale. Il disordine sociale, culturale, mentale. L'ordine naturale co-

me regola. L'ordine naturale contro l’ordine sociale. Mettere in ordine il disordine. Estendere l’ordine fin dove c’è disordine. La periferia dell’ordine. Ridurre all’ordine la periferia, conquistarla. Oltre la periferia. Al confine del nuovo disordine. L'ordine «aperto». L’eterna transizione. Una messa in ordine che è creazione di disordine. L'ordine compresso. La deformazione dell'ordine. Il mito del disordine. Il disordine come pasticciaccio. Una saporita forma deforme di cui non smetteremo mai di nutrirci. C'era stato il disordine futurista, e ancora più radicale 274

quello dadaista. Non si poteva continuare così. Era necessa| rio un nuovo ordine dopo l’anarchia. È tempo di edificare.

La costruzione della rivoluzione. L’ordine dei surrealisti, co-

| munisti poi trockisti. La restaurazione dell'ordine e della | tradizione. «La Ronda.» La postavanguardia. Gadda si oppone all’informale e al pandemonio non bene «calcolato». Non serve rimuovere il disordine bensì controllarlo, irretir-

lo, metterlo in una rete di relazioni, in una combinazione:

questa la parola d’ordine di Gadda, cui è cara l’ars combina| toria e altro «meraviglioso» Seicento. La forma dell’informe | di Savinio, amante dell’«ordine quadro». Il cubismo di Savi| nio e di Gadda. Sei maschere per un volto. Una realtà a sei | facce. Andiamo per ordine: parlino tutti ma non facciano di| sordine. Il massimo possibile di ordine per una realtà travolta dal disordine. Un ordine solido: il cubo della Meccanica e | di «San Giorgio in casa Brocchi». Non quello però che fa saltare in aria la casa, cioè il nuovo ordine dei fascisti. Come

i «vigilantes» di Cognizione del dolore che difendono dall’al| trui rapina ma non dalla propria. Il grottesco ordine fascista. . Ridicolo mettere ordine così tra le lingue, reprimere i dialet| ti, tornare ai classici di cartapesta. i

Guardate la figura che dal centro di Meditazione milane‘se passa a conquistarsi la copertina. Ben quindici angoli esterni di un poliedro penetrano nel territorio che già fu di nessuno. Una figura deforme disegna la sagoma del sistema | gaddiano. E la sua struttura? È la prigione di un uomo che ‘aspira a libertà sempre maggiore. Gadda è chiuso dentro un disegno dove quanto maggiore è l’ordine, tanto maggiore è il disordine. Il suo ordine marcia con quindici, almeno per ora, punte verso la periferia oscura e rumorosa. Gadda oppone un mostro a un altro mostro: l’ordine contro il disordine. Un ordine che è costretto dai propri moventi interni, dalle proprie leggi, dalla propria struttura a impadronirsi di territori che finiranno per metterlo in crisi. Non è un circolo ma è vizioso questo poliedro «mostruoso». Non rivolge forse contro di noi, contro le nostre zone oscure gli aculei? 279

Le sei facce di una questione Il cubo. Sei facce, una alta, una bassa, quattro laterali. Quadrati che sono quadri a sé stanti. Una faccia per volta come se fosse l’unica. Con la massima concentrazione, il mondo

in quella faccia, mischiando i materiali, gioco 4b interiore per gli altri, gioco 45 exteriore per le opinioni del narratore. Tutto orecchi, per il gran parlare, molto parlato, e occhio sempre vigile, puntuali descrizioni e altro. Un «capitolo» per faccia, e potrebbe bastare. Il destino del poemetto in prosa. Un «capitolo» che deve diventare capitolo di una storia cui sono indispensabili le altre prospettive per poter ambire a chiudersi. Ci perde molto a essere staccato dagli altri. Sta bene anche da solo ma insieme fanno il romanzo. Il romanzo è tutto? No, però è una totalità anche quando è incompleto. E così pure La cognizione del dolore, che non è solo una raccolta di capitoli. Resta comunque difficile per Gadda la svolta, l'angolo acuto su cui la storia continua, magari procedendo sui lati. E modificato rispetto all'Ottocento il rapporto con lo spazio e col tempo. Sul cubo il prima può venire dopo e il punto di partenza non è lontano dal punto d’arrivo, se all’inizio della Meccanica è già quasi successo tutto quello che sarà raccontato da un’altra prospettiva, per avere lo svolgimento che permette la conclusione logica, cioè l’incontro finale di Paolo e Zoraide. Alla fine di «San Giorgio in casa Brocchi», Gigi e Jole si ritrovano soli nello stesso cubo di camera nel quale, all’inizio del racconto, è stata nominata l’irresistibile ragazza. Dio gioca a dadi e vince. Il trucco di Gadda. La madre di Paolo, nella Meccazica, che ridere! Almeno

a guardarla e sentirla quando esalta le doti del figlio. Ovviamente, non pensa che al modo di evitargli il fronte. Patriottica, si sente la pelle d’oca ogni volta che arriva alle sue orecchie la musica della fanfara che accompagna i soldati di leva verso il treno che li scaricherà in prima linea. Cambiato però 276

il punto di vista, cioè quando sa che il figlio dovrà partire, altra è la musica. Le viene da piangere sentendo la fanfara militare che prima aveva alimentato il suo patriottismo. Ora è solo una povera madre che ha paura per la vita del figlio. Le facce del cubo sul quale si manifestano i diversi 0 opposti punti di vista non sono «trasparenti». Una persona non

è insieme l’una e l’altra; è invece prima l’una, poi l’altra. Al| meno sei persone per una sola visione. Il narratore prende le distanze dalla madre ma le resta legato dentro un cubo che la rende prima ridicola, poi commovente. Un punto di vista ma è un modo per capire meglio, più «solidamente», come stanno le cose. Potrebbe essere la ve-

| rità quello che lo scrittore comprende scendendo per la strada, punto di vista di chi si pone all’altezza della realtà. L’ul| tima scena della Meccarica, con l’arrivo di Paolo sulla potente moto, la osserva «personalmente»

il narratore, da

| «passante» che può essere messo sotto. Vista da sotto, ingi| gantisce la figura del giovane e irresistibile conquistatore di |donne: una deformazione che fa conoscere meglio di ogni verosimiglianza naturalistica i veri rapporti di forza sociale. E soggiogato anche Gadda dalla prepotenza della visione: quell’ordine sociale è inesorabile e imbattibile. Sembra «na| turale», come la potenza fisica di Paolo e della sua moto. Tutto combacia anche nell’ordine che si è andato sviluppando nel romanzo. Il trionfo di Paolo occupa nella seconda parte il posto occupato nella prima dalla straziante partenza | dell’operaio socialista Luigi Pessina per il fronte. Non è una | coincidenza bensì la conferma di una necessità, non solo | narrativa. La struttura del racconto schiaccia sulla sua faccia

| inferiore l’esistenza di chi è povero e debole, e tiene sulla ‘ faccia alta e illuminata il prepotente. Lo specchio deforman|te delle facce opposte del cubo fa «conoscere» in quale condizione è realmente ridotta la società. Si è visto chi sta sta| bilmente sopra, ovviamente non solo sopra la moto. Nella struttura, a cubo, della Meccarica Luigi Pessina sta | in opposizione a Paolo Velaschi, come dire due facce della | stessa questione, sentimentale (Zoraide) e sociale (l’operaio TA

vero e quello finto). Similmente possiamo mettere su altre due facce contrapposte Zoraide e la madre di Paolo; come

persone, due donne, che vivono d’amore, materno o che al-

tro sia. Nella terza coppia di facce tocca allora porre in alternativa e omologia il Gildo e l'industriale amico del padre di Paolo: cioè da una parte un volgare e miserevole ladruncolo, un patetico mariuolo che fatica per sopravvivere, e dall’altra un uomo che si arricchisce con le speculazioni dell’industria di guerra e con altre ruberie. La struttura della narrazione, quindi, stabilisce relazioni tra elementi lontani, e mentre dà loro spessore, assimila figure apparentemente opposte. L’industriale perciò rispetto al Gildo è solo un ladro che è riuscito a far quadrare i suoi conti con l’ordine sociale vigente. Proprio come Paolo che, facendo il «finto meccanico» strappa all’operaio vero Luigi Pessina la moglie, nonché la vita, mandandolo malato in guerra in propria vece. È una realtà deformata ma è pure la verità massima possibile, oltre che un punto di vista partigiano. Solo chi è partigiano sentirà il sapore della verità, sia pure passeggera. Sarà mille volte partigiano Gadda nel Pasticciaccio: più profondamente ma analogamente a quanto succedeva nel Grorrale di guerra, diario riscaldato dalla faziosità del giorno. E della notte. La struttura gaddiana lavora infatti anche al buio, all’oscuro, nel profondo.

Sbaglia chi legge i capitoli della Meccazica come «capitoli» o «poemi in prosa». Lungo le facce del cubo si sta svolgendo un romanzo in piena regola: le regole di un nuovo modo di narrare, in cui i fatti accadono, si riflettono, si in-

trecciano a coppie: il potere o potenza, anche fisica (Paolo contro Luigi), l’erotìia (Zoraide contro la madre di Paolo),

l’interesse (Gildo contro l’industriale). Il lettore può accoppiare i personaggi anche in modo diverso. Nel romanzo ci sono sette personaggi per sei facce. Dove mettete il padre di Paolo? E il padre, un borghese ridicolo, colui che è escluso dalla lotta più seria. Gadda fa un brutto tiro al lettore che credesse che tutto è chiaro. Un numero in più e la figura deve essere diversa. Basta una pedina per mutare i rapporti fra 278

i pezzi di una scacchiera. Gadda esclude il padre ma è proprio con lui che il narratore è in opposizione, sia pure non palese, ovvero inconscia. Questo almeno però sia chiaro a tutti: giocando col cubo, alternando il gioco ab interiore con quello ab exteriore, con freddezza e con dissimulazione, deformando e cono-

scendo il diverso e il contrario, andando in periferia a parlare in dialetto e nei bassifondi della coscienza collettiva o negli scantinati della lingua nazionale più preziosa, sempre a spostarsi per cambiar faccia, con la sua struttura «artificiale» e con la sua scrittura «naturale» o viceversa, Carlo Emilio Gadda, nazionalista, conservatore, accanito antisocialista, interventista furioso, diventa, quasi inconsciamente, uno dei

più feroci critici del sistema sociale per la cui difesa era andato in guerra. Non cambia solo faccia Gadda, saltando da un lato all’altro del cubo. Solo un lato è il suo personale e se lo deve giocare contro altri cinque. Così girando, Gadda diventa diverso da quello che era prima, in «natura». Con una «forma», un artificio strutturale, con un nuovo linguaggio, si è fatto una cultura, e ora gli pare la sua vera natura. Il linguaggio gli ha ordinato di dare ragione a chi è oppresso socialmente: potevano aver ragione i neutralisti, i socialisti? La struttura è la vera padrona dei contenuti. E il romanzo dà un cazzotto al narratore che volesse obbligarlo a un senso di| verso da quello implicito nel linguaggio. Gadda sente spesso | la «mano di ferro» del linguaggio, struttura profonda. È l'infinito presente il tempo del verbo che racconta la vita dei poveri, dei diseredati, dei miserabili, nei quali l’U-

manitaria suscita le speranze di liberazione proponendo | l'avvento del socialismo: «Costruire case ponti canali, gittar traverse e rotaie, batter mine, vetri soffiare e lavorare dighe

argini e terre, in terra straniera»: questa l’eterna vita dell’operaio, il suo infinito presente, la perpetua ripetizione di un faticoso lavoro che tale è stato nel passato e tale per fatica sarà nel futuro, senza che il verbo cambi tempo. Questo è il tempo immutabile e fatale dei lavoratori cui il socialismo 279)

promette un tempo migliore. Promessa sempre presente e

senza futuro. Qualcuno non può aspettare e cerca la solita via della sopravvivenza, ma è una via che destina a un futuro identico al passato. L’infinito presente della disperata e inutile trasgressione, del furto, del terrorismo, dell’autolesionista rivolta:

«Qualcuno portafogli grattare, coltellate regalare, polpette involtare (di dinamite): tutte ragazze contentare. O nel guazzo delle cloache, operosi alle cantine e a contrarchi delle fogne profonde, budelli neri della metropoli per tutto lo stronzame dell’umanità». Quando mai finirà questo tempo, questo infinito presente che condanna a stare per sempre nella cloaca chi delinque perché non ce la fa più a sopportare un'esistenza da fogna? La frase non ha tempo e non ha nemmeno verbo, e, se ce l’ha, non coniuga ma sceglie impersonali gerundi o participi. «Molti, fra barbe e specchiere, pirlando insaponate vertiginose. Sbatter con uno sparo ampio le sue salviette pseudo-vergini; svolazzano indaffarati alla ripesca dei cosmetici e degli arricciabaffi, riflettati negli specchi senza scivolar mai: vispi e cerimoniosi al paltò, inimmaginalmente fertili nello spifferamento imbuti forme dei ringraziamenti, agglutinata la vittima in un imbuto succhiante di libri cavallereschi e accademici.» Servi, all’infinito, oggi come ieri e come domani. L'infinito presente degli umili leccapiedi. «Fregarsene del Padreterno, confidare nel Proconsole solo, nella di cui fortuna e comando è il segno degli dèi immortali: il pacco dei cenci liquidarlo a mano di qualche rigattiere venuto di Galilea, fra la Suburra e il Teatro di Marcello. Dimenticare ogni pianto, nei tramonti rossi, dipartendosi la Flaminia senza ritorno verso le genti e il mondo infinito. Corne i soldati della decima aver davanti dopo gli Elvezi Ariovisto, dopo Ariovisto Dumnorige, dopo Dumnorige Vercingetorige, e insieme agli ultimi enormi orripilanti, tinti nella maschera del glastro loro violetto, borribilesque ultimosque Britannos.» Una serie infinita di nemici, una guerra ininterrotta al seguito di Cesare nella quale perdono all’infinito i 280

poveri soldati come Luigi Pessina. Guerre che sono sempre all’ultimo sangue; sempre comunque il sangue dei poveri, per il quale cambia sempre solo il nome del nemico. Guerre per il progresso ma senza progresso. L'infinito

impersonale e inconiugabile dei futuristi qui diventa il tempo di esseri anonimi che combattono ogni giorno per un futuro che non arriverà mai a coniugarsi nel presente della realtà da toccar con mano. L'infinito presente di una cultura che lotta contro la cultura precedente con risultati non diversi da quelli di chi ha visto Dumnorige sostituire Ariovisto, poi sostituito da Vercingetorige, con la speranza vana di

trovarsi dinanzi all’«ultimo britanno». Non c’è mai l’ultimo britanno, c'è sempre un «britanno» da combattere nell’infinito presente dei miserabili che desiderano la vittoria del socialismo, nonché di tutti gli infelici che aspirano alla vittoria contro una vita il cui infinito presente è una sconfitta appena mitigata dalla speranza in una nuova cultura. Gadda combatte per dare un tempo coniugabile e personale all’infinito presente della natura, accanen-

dosi con l’infinito futuro di una cultura che si sfrena per trovare un avvenire meno dissennato di questo infinito infelice presente che sembra il tempo immutabile della natura umana. Sbaglia la cultura a pensare una vita diversa? E nella natura della cultura provarci ancora a cambiare le cose. Se è nell’ordine naturale delle cose lottare per un mondo diverso, non si può non insistere: va mutato quel tremendo infinito presente. Ci sarà un altro modo? Si potrà coniugare al futuro un diverso destino degli oppressi? (Accusato di essere triviale, James Joyce rispose che era vero: anzi, oltre che triviale e più che triviale, era quadriviale. Nella sua narrativa in altri termini ci sono le arti del trivio e del quadrivio. Anche il trivio di Gadda è quadriviale, un intreccio di conoscenza che ha il suo punto nodale in un’espressione triviale. Chi è più triviale della voce che racconta Eros e Priapo? Ma dentro c’è il quadrivio in cui si incontrano psicologia delle masse, storia di un popolo, patologia del 281

potere, interesse personale e collettivo. In un’espressione

triviale di Gadda si annodano dunque sette strade provenienti da ogni settore e livello del sapere. Questo è il «sentimento risultante»: la somma geometrica o risultante di questi infiniti sottosistemi. Il triviale Gadda conta più di sette vie, perché ci sono anche «aggruppamenti deformi o abnormi assolutamente periferici, esprimentisi in sentimenti per-

versi o mostruosi». Dalla periferia arrivano all’incrocio molti mostri, che vanno subito stretti in nodi. Nella prosa di Gadda urla un mostro prigioniero che vorrebbe rompere tutto. Quanto più è impotente, tanto più è osceno, cioè tri-

viale, nonché quadriviale.) Contro Cicerone

Cicerone è convocato da Gadda nel «San Giorgio in casa Brocchi», a rappresentare i linguaggi della tradizione scolastica più canonica. Un esempio classico, o per meglio dire, orrendo di lingua nazionale. Fa molti danni il ciceronismo nell'educazione, nella morale, nella politica, nella cultura e

nell’espressione artistica. Dalle parole ai fatti? Piuttosto le parole contro i fatti. Ecco chi è veramente Cicerone: un autentico mascalzone, uno di quegli intellettuali benpensanti che accompagnano il buon senso delle idee con le più spregevoli azioni, uno scrittore che nasconde e violenta la verità smaltendola con una prosa precisa, chiara, elevata, equilibrata, modulata, armonica e ben lustrata.

Sulla prosa del De officiis il contino Luigi dovrebbe imparare il retto vivere e il dire retto: questo il consiglio dello zio Agamennone, fanatico ciceroniano. Cicerone invece funziona meglio come ruffiano: ispirando l’opera di filosofia morale Doveri allo zio Agamennone che diventerà lo strumento dell'educazione sessuale del conte milanese Luigino Brocchi. Il libro dello zio, portato dalla Jole al giovanotto, ora è lì, abbandonato chissà dove, a fare da spettatore agli amori dei ragazzi. Solo così Cicerone e i suoi testi possono tornare utili ai giovani. E l’unica buona azione, sia pure involontaria, di quel gran282

de farabutto che per tutta la vita ha insegnato a fare il contrario di quello che riteneva giusto fare per sé. Gadda dichiara subito guerra alla bella scrittura degli scrittori che dalla tradizione vanno a scuola di inganno, di fraudolente moderazioni e di scintillanti adulterazioni. Meglio la scrittura spastica: smorfia da cui si conosce in che stato è la società, nonché la vita.

Gadda sputtana la lingua di Cicerone anche quando racconta le proprie Favole con lingua preziosa. Più in alto o più in basso, ma mai al livello di quel filisteo di Cicerone che «sta in mezzo» come fosse virtù. Una canaglia, una lingua canagliesca, che media e modera per nascondere la verità. Quale lingua? Quella che ha sotto gli occhi il lettore di «San Giorgio in casa Brocchi». Potrebbe essere neoclassica la prosa di Gadda a cavallo fra gli anni Venti e Trenta? È naturale: la natura cui è approdata la nuova cultura. La postavanguardia di Gadda trasmette un modello narrativo con cui farebbe ancora bella figura la narrativa d’oggi. Succede sempre così quando si è creata una macchina duratura quanto mostra d’essere «San Giorgio in casa Brocchi». Giuliano, il cugino della Liliana Balducci, vive, nel Pasticciaccio, vendendo lubrificanti per motori. Questo è il la-

voro, che gli rende parecchio. Altrettanto bene che nel lavoro riesce con le donne, con le quali ha un intenso traffico. Da chi ha imparato a sedurle? Dal suo lavoro, la vendita dell’olio per macchine. Le donne sono macchine diverse e usano più olio da cucina che non quello per motori, ma per conquistarle non c’è niente di meglio di un linguaggio ben oliato. Che non è molto diverso da quello che a Giuliano serve per vendere i lubrificanti. Lo spiega al commissario Ingravallo con parole appropriate. Più precisamente appropriate ai lubrificanti e

ai motori, ma, a sentire Giuliano, non c'è da cambiare una

virgola rispetto a quello che si potrebbe fare allo scopo di sedurre una donna. Sono delle clienti da persuadere come gli acquirenti dell’olio. Chi sa usare efficacemente un linguag283

gio di tecnica provata lo può applicare per tutti gli altri interessi pratici. Un motore con tutti i sentimenti.

Una buona lingua, dinamica, dura come il metallo e agile, basta per dire tutto, e non solo quello per cui è stata creata. Quella scientifica ad esempio, tecnica, specialistica, dei lubrificanti funziona benissimo per parlare d’amore e alimentare sentimenti. Un buon motore, se lo olii come si deve,

ti porta dappertutto. Un meccanismo come gli altri, con cui si fanno affari e si fa l’amore. Ci vuole tecnica e arrivi al cuore di una donna. Una lingua «finta» per parlarsi francamente nel comune interesse. Una invenzione per essere sinceri.

Una storia di seduzione in amore come persuasione non occulta di un acquirente o venditore di lubrificanti. Sono troppo diversi i due registri linguistici? Allora non ci credete che si possano fare degli affari con amore, e si può fare l’amore con un ottimo senso degli affari? Invece, come possono essere affaristi i romantici e gli umanisti! Con la lingua della scienza si possono conquistare tutti i temi, se uno ha abbastanza olio nel motore. È una delle lezioni di Gadda agli scrittori sperimentali degli anni Sessanta. Pizzuto invece consigliava il cherosene, per volare. Il narratore che usa un buon olio può conquistare anche il lettore più restio. Gadda ha fatto sempre di tutto per andare giù facile dentro la testa. Comincia a scrivere Racconto italiano d’ignoto del Novecento con l’idea di narrare con una lingua accessibile. Lui vuole il successo, non i fischi dei futuristi. Ovviamente non ha mai pensato che la sua prosa dovesse scendere come l’acqua: se fosse così leggera, incolore, inodore, non ci sarebbe bisogno del lubrificante. Sa che le sue parole fanno attrito, restano nella strozza, intasano l’in-

testino, per non dire le coronarie. La corsa può essere accelerata solo dalla forte spinta dei propellenti satirici e dalla piena del furore, ma Gadda non vuole travolgere il lettore: deve fargli distinguere talvolta i dettagli, i detriti trascinati da una prosa scatenata. Il suo mo-

vimento è più lento come di chi supera a ogni parola un ostacolo. E allora sotto con l’olio di frasi che si espandono, sci284

volano, circolano negli organi vitali di una scrittura artificiale che cerca la verità. Gadda è un narratore che butta olio sul fuoco per alimentare incendi e che con l’olio placa la tempesta da lui stesso suscitata. Uno scrittore «macchinoso» che fa mandare giù con l’olio, come l’olio, i bocconi più indigesti, purché nutrienti. Perché allora il suo romanzo, motore perfetto e ben lubrificato, si blocca, e mai arriva alla fine? È per la lotta intestina che caratterizza la narrativa moderna dopo le avanguardie, e in ordine di tempo, il tempo di Gadda, dopo «La Voce» e «La Ronda» nemiche di romanzo? Gadda non si stancherebbe mai delle parole che ha in bocca, le tritura, le mastica, le me-

scola: frammenti, poemetti in prosa, racconto lirico. Una narrativa dove farebbe tutto l’io dello scrittore se non avesse necessità d’altro. L’io di Gadda è capace di stare ore su una mollica: la gonfia con la saliva, col rischio di strozzarsi. La lingua di Gadda è una sostanza che continua a dar sapore agli ormai insipidi conflitti familiari dell’autobiografia dell’autore. Ma ha bisogno del lubrificante per spingere avanti o dietro o giù i frammenti. Non è sempre facile mandarli giù, a parte quelli che lo scrittore ama farsi sciogliere in bocca, specialmente quelli più «parlati». Gadda li rigira finché i frammenti, cubetti di cibo solido, non calano giù.

Qualcuno gli resta sullo stomaco. Non sono poche le pagine che tuttora restano sullo stomaco dei lettori di Gadda. L'errore di chiusura

Due citazioni, il numero dei poli, e mettiamo in mezzo il lavoro di Gadda. Sono tratte da Meditazione milanese, che lin-

guisticamente si pone tra due poli: il colto e il colloquialepopolaresco. Fanno un miscuglio assai saporito, che è un unicum nel linguaggio della saggistica italiana. Mai è stato così in basso un discorso che svetta a livelli tanto alti della speculazione filosofica. Prima citazione: «In genere aborrisco il pandemzonion proveniente da incuria e disordine: nel mentre mi tuffo vo285

lentieri nel pandemzonion quando sia deliberatamente instituito e “lance” — per simboleggiare l’orgiastica forza». Seconda citazione: «Ora è possibile che solo il sistema della conoscenza umana debba essere in sé chiuso e perfetto? Unica eccezione alla regola? No. E così tutti i sistemi filosofici contengono certamente un residuo o un errore di chiusura». Il pandemonion da una parte e il sistema chiuso dall’altra. Gadda aspira a «festa e orgia voluta». Mettere in forma l’informe della «libera e folle vita». Un sistema consapevole dell'errore di chiusura? Gadda propone il poliedro, che illustra efficacemente il suo sistema della conoscenza. Il suo disegno infatti presenta una periferia assai frastagliata per angoli che invadono lo spazio vuoto esterno ai poliedri, e per insenature, foci e altre cavità che si arrendono al disordine delle zone non ancora conquistate perfettamente dalla conoscenza. Il poliedro dimostra pure che il sistema non cresce solo ai lati, orizzontalmente, ma anche verticalmente, in quei punti detti bi-comuni, tri-comuni, quadri-comuni, ecc. nei

quali si sovrappongono altri sistemi laterali, creando spessore laddove il sistema sembra semplice. Appaiono semplici e piane le facce del poliedro ma invece sono complicate e ispessite da un numero infinito di sottosistemi che nel gioco delle prospettive fanno un parderzonion voluto. Diventando un solido, il poliedro di Gadda crea piramidi, cubi e triangoli acuti che vanno a incunearsi in uno spazio non ancora raggiunto da un qualsiasi ordine. E allora i suoi racconti, ancor più i suoi romanzi, saranno un parde-

monion di spigolose figure solide che si inoltrano nel caos circostante fino ai nuovi confini, dove si prende visione di un ulteriore, inesauribile disordine. Quel poliedro è proprio una figura terrificante ma è pur sempre geometria. E avrà una figura solida anche l’infinito Pasticciaccio. Analogamente, ogni parola di Gadda si comporta come se fosse un incrocio di parecchie linee che portano messaggi da sovrasistemi o sottosistemi o sistemi laterali. La singola parola è già un nodo di fili multicolori che compiono 286

ogni sforzo per concordare subito un senso, ma che sanno di dover presto concorrere a un senso ulteriore. «E la somma geometrica o risultante di questi infiniti sottosistemi è il sentimento risultante.» La parola dunque va al poliedro e ai suoi solidi esterni ed interni, al cubo e al margine di oscurità che non sai come illuminare. Forse sarà illuminato da un sistema culturale successivo ma comunque lascerà sempre un’incognita. Infatti ci sono «aggruppamenti deformi o abnormi, assolutamente periferici, esprimentesi in sentimenti perversi

o monstruosi». In tale periferia infinita trova forma, sistema e chiarezza solo una parte molto esigua. L'ordine conquistato è sempre alla deriva nell’illimitato panderzonion che è l’universo. Gadda sa di mettere ordine solo precariamente nello spazio e nel tempo. È cosciente di che impresa disperata sia quella di rendere figurativo un universo di dati che naturalmente sarebbero destinati all’informale. Il suo positivismo lo costringe a prendere quanto si può toccare con mano e di affidargli statuto di realtà, sia pure passeggera e provvisoria. Il «realismo» di Gadda è una cosciente, voluta, artificiale ridu-

zione del mondo da parte di uno scrittore «tradizionale» che non accetta quella trascrizione del caos con cui fanno arte informale le avanguardie futuriste e surrealiste. L'estremismo, malattia infantile dei futuristi! Regredendo, hanno giocato col caos. Da grandi bisogna avere un disegno, sia pure deformato. Gadda, che ha senso della misura, prenderà le misure a

un mondo che intorno è smisurato. Empiricamente, da ingegnere, ha geometria e capacità di costruzione. La sua tentazione più forte sarebbe di distruggere tutto, ma ha buoni motivi per credere che si tratta di una questione personale. L’assillo c'è. Chissà che a costruire qualcosa di diverso da quel che ora vorrebbe non gli sia possibile mettere insieme un nuovo disegno alla propria vita.

Sulle parti solide che è quanto viene sottratto all’infinito magma, Gadda si aggrappa come un naufrago circondato da 287

un’illimitata distesa di mare in tempesta. Il realismo è un appiglio, un sostegno, un galleggiante, ma per Gadda non è salvagente. Semmai salva il narratore dall’annegare nel-

l’informe che tanto lo attira. È informe il male invisibile, e deforma, cioè aiuta a conoscere come è dentro ogni uomo.

Il linguaggio che uccide

Gadda scrive sempre, interamente spellato, a ferita aperta. Qualsiasi parola egli poggia sulla carne cruenta del proprio corpo, provoca una acuta sensazione di dolore. Vivendo in società non può evitare il contatto con le cose più grosse: la Milano borghese e quella socialista, la guerra e i suoi generali e i soldati, i privilegi dei ricchi e le astuzie della sopravvivenza dei poveri, il grottesco formalismo dell’educazione dei gentili e la brutalità innocente dei diseredati, i ricatti sentimentali dei genitori, il fascismo e il becero servilismo delle masse,

nonché la viltà degli intellettuali, lo sfruttamento sociale e la speranza ingenua di porgli fine, il formicaio della città e la bestialità degli individui, la nevrosi del singolo e la mortale epidemia che non risparmia la moralità di nessuno. Sono gli «oggetti» che fanno male a chi se li sente sulla pelle non ferita, figurarsi se vanno a premere sulla carne viva di uno che «ha i nervi» e che certo non è uno stoico né un cinico.

Ce ne sono tanti di scrittori che urlano sotto la pressione dei soprusi sociali, delle storture morali, delle follie ideologiche, della violenza politica, della scelleratezza dei singoli, dell’abbrutimento delle masse, della comicità dei comportamenti della cultura dominante o dominata. Gadda urla anche per questo e sa dar voce a orrori e desideri collettivi e individuali come pochi realisti sanno fare. Un corpo senza pelle gli duole in ogni organo, su ogni millimetro, al centro come alla periferia. In Gadda il centro è figurativo, ma il sistema resta informe. Grida dalla periferia il suo essere ferito. Quando ogni millimetro della pelle è scoperto, basta un nonnulla a provocare dolori lancinanti per cui si è pronti a urlare. Gadda urla per un nonnulla. Visto però che trattiamo 288

con uno scrittore che frequenta i giochi di parole, si dica anche che urla per il Nulla. Nelle sue condizioni psicologiche basta che gli si posi addosso un po’ di polvere, ogni problema fisico o metafisico, perché urli oltre misura. Anzi non è raro che il dolore si presenti a lui più intollerabile e bruciante attraverso quello che ad altri sarebbe soltanto motivo di disagio o di fastidio. Lo terrorizza il Nulla, il vuoto. In Gadda c’è un ribaltamento della prospettiva per cui si ingigantisce un dato minuscolo e si rimpicciolisce un grande problema. Si vada oltre la realtà che si tocca con mano. «I miei personaggi sono persone immaginarie, o sogna-

te... Io creo, non ritraggo. Vi prego di non fare insinuazioni, di non ripetere queste assurdità.» Quali «assurdità»? Che il matricidio fosse un suo pensiero fisso? Che tutti i suoi romanzi uccidono una madre o una matrigna, perché questo è il desiderio, nemmeno tanto inconscio, di Gadda?

Gadda si è assunto il peso di ammazzare per tutti la madre. L'ordine era stato impartito dalla psicoanalisi. Chi lo esegue «uccidendo» il padre (Savinio, Tozzi o Kafka), chi la madre. Gadda non risparmia nessuno dei due genitori: ovviamente quelli immaginari. Il sogno di far fuori il padre e la madre lo stanno facendo in molti in quell’inizio del Novecento. Gadda compie matricidi psicologici e vede sanguinare le proprie mani innocue. Non innocua né innocente è la sua mente, questa assassina involontaria.

Una favola assurda? Facciamo un’altra «insinuazione»: Gadda finge di raccontare storie vere per essere creduto, ma così comunica meglio l'incredibile, e cioè che bisogna creare un linguaggio che uccida ininterrottamente il lin| guaggio da cui si è nati. Forse che il linguaggio fondato sul | «punto di vista» non uccide il padre, il depositario della ve| rità assoluta? Nella narrativa di Gadda si ammazza molte

| volte quella verità che era il valore massimo della cultura madre: la cultura del padre. È un mito «astratto» ma Gadda lo ha reso concreto facendo soffrire come se fosse una

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storia vera, autobiografica. E invece è una storia «esemplare» del Novecento.

Gonzalo Pirobutirro «uccide» la madre? È il tema obbligato di ogni opera di Gadda. Uno, dieci, cento matricidi. Appena ha cominciato a scrivere, a Gaddaèvenuta irresistibile la voglia di colpire la madre, di «vendicarsi». La ferisce per la prima volta in una pagina di diario nella quale la considera colpevole del suo fallimento di uomo e della sua incapacità di comunicare con gli altri e di farsi capire per quello che è realmente. È costretto a scrivere, se vuole manifestare la sua vera natura. E non appena la penna è sul foglio bianco, essa si mette a infilare parole che vanno a infierire mortalmente su una madre. In «San Giorgio in casa Brocchi», il giovanissimo Luigi

la ferisce nella sua natura di madre, la possessiva gelosia di ogni madre, e nella sua cultura di una madre borghese fanatica di grandezza, di prestigio sociale, di aristocrazia intellettuale, di alterigia morale e di ogni comportamento «superiore» a quello degli uomini comuni. Un personaggio comico, come la madre di Paolo nella Meccanica, che fa tragedie su sciocchezze quali sono i suoi risibili tabù. Una madre tutta da ridere nelle idee e nei comportamenti. A lasciarla fare, formerebbe un figlio inetto, inesperto, timido e goffo: quello che in guerra si è scoperto Carlo Emilio Gadda, tragico figlio della commedia di «San Giorgio in casa Brocchi». Chi è la madre, e perché viene uccisa nella Cogrizione del dolore? A suo modo una risposta la dà il capitolo centrale: quello che ha per protagonista proprio la madre di Gonzalo Pirobutirro. La scena si svolge al buio, interrotto dai lampi di una tempesta che ha violentemente investito la zona in cui è collocata la villa della Vecchia Signora. Quel buio tinge di nero l’intero capitolo ma ottenebra tutto il romanzo, che ne resta come impregnato: luogo dove si covano la tragedia e la morte. Eccola la mitica «discesa agli inferi» della Cognizione del dolore. In questa nékzia parla quasi soltanto la madre, men290

tre Ulisse, cioè Gonzalo, raccoglie la rivelazione: il destino del figlio e quello della madre. Si è ricordata del figlio soltanto quando si è sentita colpevole di averlo dimenticato. Da parte sua, Gadda non dimentica certo che il pensiero della madre si è fissato sul figlio morto. Figura tragica, la madre di Gonzalo non riesce a nascondere che si comporta come se avesse perduto entrambi i figli. La sua memoria ha cancellato il secondo figlio, che è quello vivo: cioè lo ammazza, lo priva di esistenza nei propri pensieri. Una madre ammazza il figlio con la mente e con la mente il figlio la uccide: rendendo trascurabile il fatto, il gesto del peone che ferisce mortalmente la Vecchia Signora. Il rimorso è reale ma la scena è anche teatrale. Gonzalo è un figlio che non merita nemmeno di entrare in una tragedia shakespeariana. Egli è un personaggio da opera comica, dialettale, inferiore, picaresco, un essere deforme cui è negata la nobiltà di intendere e di comportarsi. È uno sconfitto per il quale si può nutrire pietà ma che può facilmente passar di mente. Gonzalo penetra nella mente della madre e la vede piangere solo per il fratello morto. La sente piangere col lin| guaggio prezioso, solenne, regale e altisonante del dramma | elisabettiano del quale ha tentato sempre di trasmettere la | passione ai due figli. Ecco la verità: la Signora non perde l’oc| casione offertale dal figlio vivo di dimostrare che grande attri| ce tragica è, sia pure inconsapevolmente, per sublimazione di ‘amore materno. Ella si contrappone al figlio mediocre, debo‘Je, spastico e matto. Una grande attrice del teatro del sublime. | Protagonista è il linguaggio della madre. Tocca a lei ora | dire la sua, dopo che hanno raccontato il loro modo di vedere Gonzalo il peone, la Peppa, il medico e il figlio stesso. Nel cambio di prospettive che il romanzo attua, ora la parola è alla madre, sia pure per interposto discorso indiretto. Questo dovrebbe prendere le distanze dal linguaggio della | madre ma in realtà funziona come discorso diretto: del quale d’altronde la prosa registra a caldo le battute indirette drammatizzandole, dialogo che è sempre di scena, sempre al presente. 291

Quel sottoscala dove ripara per il terrore della violenta tempesta è un boccascena nel quale va completando la parte che ha fatto per tutta la vita. La pietà che si conquista presso il pubblico dei lettori se la sta meritando da sola: è il suo momento, è lei che parla, e chiede aiuto per una tragedia che lei ha scritto. Il figlio ha prestato la mano, da quel nevrastenico che è: uno che fa una tragedia per un lapsus. Ma ora la Vecchia Signora è pronta per morire. Nel linguaggio è la malattia. Nel linguaggio è la terapia? La tragedia della madre è il suo linguaggio tragico, appreso sul Re Lear di Shakespeare. Non piange tanto la madre di Gonzalo quanto piuttosto il suo linguaggio. Quello del dramma elisabettiano è il suo lessico alto, quella è la sintassi complessa e nobile. Privata del figlio durante la guerra, i suoi pensieri denunciano le auliche fonti linguistiche, l'elevato tasso metaforico del modello, la sublimazione della propria sventura.

La madre si è messa nei panni di una eroica genitrice secentesca e va a calcare la scena nel primo dopoguerra italiano. Se deve raccontare con le proprie parole la disgrazia che l’ha colpita, non concede alternative al linguaggio che ha sempre amato e che unico ora le pare degno di raccontare la sua storia di madre che ha perso un figlio. L'altro è come se non l’avesse mai avuto, visto che ne rimuove l’esistenza me-

diocre e comunque non eroica: non all’altezza dell’educazione che gli era stata data. Lei non è una delle tanti madri che hanno perso un figlio in guerra. Può essere umile, generosa, facile alla solidarietà e alla compassione verso tutti i bisognosi e gli amici, ma in quanto madre ferita non c’è che il linguaggio della grande tragedia a poterla rappresentare. Per come vede la propria storia dalla sua prospettiva personale, solo l’elefantiasi del linguaggio tragico risulta adeguata alla gigantesca sua sofferenza. Il grande dolore si è cercato il linguaggio che ad esso si confà o è un linguaggio grandioso, solenne ed eloquente, che va costruendo un dolore sovrumano come quelli di cui si legge nella tragedia 292

classica. Torna a proposito la formula continiana dell’espressionismo naturalista. Il dolore c’è ed è naturale ma è aggettivo, attributo della sostanza vera che è quella del linguaggio deformante, spastico, «barocco» con cui si esprime. È tea-

trale ma è anche reale; almeno così lo avverte Gonzalo, che

ne è schiacciato. Gadda vuole dire che la madre di Gonzalo non soffre realmente quanto pare ad ascoltarla? Intende negarle autenticità proprio nella sofferenza per cui solo ella esiste? La madre è colpevole di simulazione? O invece è innocente, e colpevole è il linguaggio con cui è stata educata ad esprimere sentimenti, idee, comportamenti, insomma la sua cultura? E

lui stesso è la vittima di una madre che ha prediletto il primo figlio a scapito del secondo, o è la vittima di un linguaggio? Basterà cambiare linguaggio per liberarsi del «male invisibile»? Gonzalo ha colpito mortalmente non il corpo ma il linguaggio materno? Ma allora perché è così ossessivo il rimorso? Non basta avere eretto un monumento alla madre per essere «perdonato»? Basterà averne fatto un grande personaggio tragico? O è la madre ad avere regolato sull’arte del figlio se stessa come grande personaggio. In un giallo senza fine le risposte sono congetture. Il pasticciaccio universale

Gonzalo Pirobutirro rassomiglia molto al Gadda che andò in guerra e scrisse il Giorzale di guerra e di prigionia. Ingravallo invece è quello che Gadda è diventato attraverso le numerose trasformazioni, anzi deformazioni, cioè conoscenze

ulteriori di se stesso. Dopo tante metamorfosi non è più lui. Il commissario Ingravallo, investigando in sé e negli altri, ha messo un po’ d’ordine in se stesso, tanto che se n’è dato qualche regola per interpretarlo. Ordine nel Pasticciaccio? Il massimo possibile d’ordine: che per paradosso è anche il massimo di disordine consenti to dal romanzo. Il poliedro che illustrava la Meditazione milanese ora occupa l’intera città di Roma, dal centro alla peri293

feria, alla campagna circostante, al limite estremo del territorio romano, dove vivono i «barbari» e comunque dove non si conoscono né regole né lingua nazionale, malgrado il Duce. Più si estendono i confini, più cresce la complessità del sistema. La rete delle relazioni si annoda, aumenta gli incroci, provoca ingorghi, produce lo spessore paralizzante dei sottosistemi. Si sconfina per allargare gli spazi conquistati alla civiltà ma contemporaneamente si sono inseriti elementi nuovi che rimettono in gioco l’intera struttura, in vista

di un’integrazione che progressivamente fa metastasi. Cosa non succede nella testa dei personaggi che sono attraversati da un grosso gomitolo o gnommero di fili che portano notizie contraddittorie e incomprensibili dall’interno e dall’esterno! Il commissario rischia di annegare in quel pasticciaccio, in quel disordine, in quel caos che tanto più monta quanto più gli si estendono gli argini. Se Gonzalo Pirobutirro vive con l’acqua alla gola ogni situazione, Ingravallo è diverso, è un altro, o meglio è diventato un altro. Uno

che ha imparato a vivere? Un uomo giunto all’equilibrio? Semmai un uomo che ha trovato l’equilibrio con cui imparare a morire.

Il mondo scatena inesauribilmente energie che sono la vita e insieme la morte. Un mondo così va liquidato dall’origine, dalle matrici? Non serve uccidere le madri. Un mondo siffatto si destina alla disintegrazione, all’informe originario, al pasticciaccio cui si tenta di dare ordine, disegno, figura. Freddo e dissimulatore, Gadda è arrivato a costruire un personaggio come Ingravallo in cui c’è tutta la realtà e che controlla tutte le realtà possibili. Gadda ha preso le distanze dal nevrastenico che urlava per un nonnulla e che era preso da crisi parossistiche dinanzi al disordine di una scrivania al fronte o un foglio di carta volante nella trincea. Superata la trincea psicotica, si era inoltrato nel mondo e aveva posto i paletti con cui segnare i confini della propria progressiva consapevolezza. Il disordine intimo è placato o rimosso, non travolge più la realtà come la nevrosi di Gonzalo. Ingravallo 294

è un uomo d’ordine che istruisce ogni pratica trasgressiva della società, compresa la psiche degli individui. Allargando le indagini dentro e oltre le mura, Gadda però ha fatto una tremenda scoperta. Una volta il caos era un connotato della sua personalità, era la sua peculiare e privata malattia; ora invece il caos è dappertutto, è la sigla del mondo intero. Lui individualmente potrebbe anche essere guarito, ma nel frattempo si è ammalato gravemente il mondo altrui, quello di tutti. Dal proprio disordine personale è passato al disordine universale. Quello che era il suo singolare «pasticciaccio» diventa comune a tutta l'umanità. Aveva solo contagiato il mondo col proprio destino di uomo condannato dalle origini, dalla nascita, dalla «madre» al disordine? Il traguardo è così simile al luogo di partenza? La cultura, la sua inesauribile ricerca del nuovo, i suoi sconfinamenti, le sue deformazioni, i

suoi spasmi, la sua ingegneria lo hanno ricondotto alla sua odiata natura, quella segnata privatamente dalla «disistima» materna e storicamente da Caporetto? Da Caporetto stavolta arriva la sconfitta ma giunge anche la vittoria. Il linguaggio di cui ha inventato la geometria ha aperto le porte al prigioniero e gli ha mostrato lo spettacolo di un mondo affetto della sua stessa malattia e come lui inguaribile. Se Messene piange, Sparta non ride. Gadda invece ride, anche se sotto sotto piange di una tragedia. Una tragedia da ridere? È questa la sua vittoria? L’imbecille di famiglia ha imparato a ridere di cose su cui sarebbe imbecille continuare a piangere. Che massa di imbecilli popola il mondo. Non si salva nessuno. Nemmeno lui d’altronde. Non si guadagna tanto a capire e a ridere. Viene da ridere, ma forse è vero che la differenza consi-

ste in sostanza nell’essere «imbecille» in modo diverso da prima, da quando a Gadda glielo dicevano i generali e lo pensava anche la madre. Quello che era falso era anche vero? Quello che era superficiale era anche profondo? Quello che era privato era anche pubblico? L’Io era anche l'Altro? Che imbecille ad averci messo tanto a capirlo. Sì, ma adesso

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l’aveva capito e non era proprio la stessa cosa. Non era la stessa cosa essere Gonzalo ed essere poi Ingravallo. Due personaggi con cui Gadda vince in letteratura suppergiù con gli stessi punti.

Come Ingravallo non c’era nessuno nel mondo e nemmeno nella narrativa. Un personaggio che sapesse compren-

dere tanto del mondo e della vita; che si era spinto in periferia, alla periferia della società e della psiche, per ascoltare le ragioni palesi e segrete di tutti, usando sofisticati grimaldelli per penetrare nel pasticciaccio di ognuno. Come Ingravallo, laddove non può arrivarci personalmente dal suo punto di vista, Gadda manda i suoi brigadieri e marescialli a istruire il processo al mondo: cioè i suoi innumerevoli dialetti, le sue tecniche, i suoi incroci, la sua ars combinatoria, i procedi-

menti binari e i terzi posti. In ogni miseria rivede la propria; in ogni impossibilità di vivere scorge la sua come in uno specchio deformante. Ancora la deformazione, fattore di conoscenza. Non si finisce mai di conoscere, ma a che serve? Una domanda imbecille? No, metafisica. La malattia dell’a-

nima è la malattia del corpo. Un particolare potrebbe dare la rivelazione dell’essere: come quella volta in cui nell’«Incendio di via Keplero» — che fa coppia di gioielli narrativi con «San Giorgio in casa Brocchi» ogni personaggio dovette scegliere in un attimo l’oggetto che lo interessava più profondamente. Il ladro salvò un bambino e un vecchio garibaldino perse la vita per salvare i cimeli senza i quali era meglio morire. Vanno a coincidere troppe cose che avevano cominciato a muoversi da punti opposti. Quel pasticciaccio era stato una sua visione privata, una

previsione, un'invenzione e ora se la trovava davanti come realtà tangibile, anzi intoccabile. Era stata una sua nevrosi e ora eccola lì in sembianze di mondo squilibrato, spappolato, corrotto. Quell’«imbecille» del sottotenente Gadda aveva costruito sui propri nervi un romanzo che può competere

con le grandi opere narrative dell'Ottocento. E non sarebbe certo stato il realismo caro alla mamma. Gliel’avrebbe fatto vedere che bello spettacolo è raccon296

tare quel che succede nella realtà. Ora gliela può portare su un piatto la loro bella realtà. Un bel pasticcio davvero, un pasticciaccio, una realtà immangiabile, che quanto più tenti di arginare tanto più straripa, materiale lavico che è anche maremoto, flutto continuo che ti assale da sopra e ancor più da sotto. È un mondo ben concreto, ci puoi mettere la mano sopra, ma sappi che scotta e dà la scossa. Vogliono sapere chi ha fatto un mondo così? Non esiste in natura, nella sto-

ria? Anche questo, ma l’ha inventato e costruito chi ora sembra vero, l’ingegner Carlo Emilio Gadda, l’imbecille di famiglia, con le sue mani, con la lingua che s’è fatta in casa,

con la sua povera testa malata. Era un anormale? Dopo il Pasticciaccio lo sono tutti ma Gadda è uguale agli altri. C’è solo l'inferno e il narratore trascina tutti giù con sé. La Caporetto universale, il perenne campo di concentramento, il tentativo d’evasione. Se la letteratura fa evadere, si è subito ri-

presi. E il resto della vita è anche peggiore. Una domanda ancora prima di chiudere. Dov'è nel Pasticciaccio quel Gaddus che non mancava mai dopo il Giornale di guerra e di prigionia e che, per esempio, era diventato Gonzalo nella Cogrizione del dolore? Il personaggio che nel Pasticciaccio somiglia di più a Gaddus e Gonzalo è una donna, Liliana Balducci. È lei, la dolce ed equilibrata signora romana, ad essere la nevrotica che si scatena in colloqui ‘privati, col cugino e col confessore. Quali pazzie non ha fat‘to o almeno pensato la squisita e gentile borghese che era os‘sessionata dalla propria sterilità. Sorpreso e furibondo, Don ‘Ciccio Ingravallo perde la pazienza e sbotta in un fescennino che brutalmente può essere riassunto così: andasse a farsi fottere quella donna. All'origine di questa nevrosi c'è una patologia sessuale, e, se non la sterilità, un complesso di ca‘strazione? Impossibile dare una risposta secca alla doman‘da. Gadda è maestro anche nel lasciare aperte le questioni.

Il topazio della Menegazzi nel Pasticciaccio è un’osses-

‘sione per il brigadiere Pestalozzi. E l’alba: una motocicletta

lo porta a continuare le indagini nella campagna di Roma. Il

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topazio gli è rimasto in testa come un pensiero «pazzo» (pa-

rola d’avvio del flusso di coscienza del brigadiere) che impazza saltando da una parola a ogni altra. Se, come dice il commissario Ingravallo, i moventi delle azioni umane sono in fondo l’interesse e l’erotìa, ha veramente tanto interesse

professionale il brigadiere da sognarsi il topazio mentre attraversa in dormiveglia strade e sentieri dell’agro romano? Che c’è sotto tale interesse? Cercate allora la suddetta erotìa ingravallesca, e la troverete nel seguito del sogno. Un sogno erotico in cui Pestalozzi corre sfrenatamente dietro quel pensiero pazzo del topazio che lo conduce nel resto della sua mente, della sua cultura, della sua natura.

Un topazio giallo le cui sfaccettature riflettono una fuga di colori. Un topazio che non sta fermo un attimo, che si spinge in ogni direzione, dovunque lo attiri un suono o un senso. Ecco da dove viene fuori il topaccio, che subito fila rapidissimo come un treno, topazio topaccio che cerca la sua meta, significante che insegue il suo significato. Quale interesse ha un topaccio, quale erotìa? Nell’ordine naturale delle cose c’è scritto che un topo, sia pure grande, non può che correre verso un topo femmina. Corre sempre verso la topa, verso la natura della donna. Ecco quindi dove sta correndo il topaccio nato dal vicino suono del giallo topazio; ecco dove si dirige per erotìa la fantasia del brigadiere. Si può brigare quanto si vuole, ma si finisce sempre lì. Ne abbiamo un desiderio folle. Da qualunque brillante o lucentezza, da qualunque suono o parola si arriva sempre qui, all’origine di tutto, all’animale da cui discendiamo. Per via di erotìa e d’interesse ogni parola si tira dietro tutto il vocabolario, l’intero sistema dei significati. Sulla motocicletta il brigadiere corre con la fantasia dal «pazzo» al topazio, dal topaccio ai porci della maga Circe, da Ulisse alla scuola e alle alunne baccanti, dai porci di Circe al Circeo, a Castel Porcaro o Porcino, dalla maiale-

sca nobildonna del topazio al Pernod e al Ratafià, al Papa, a Pape, al grande Aleppo, all’onnipresente Dio e all’onnipotente Duce. Quel pazzo del topazio-topaccio è una brutta 298

bestia che arriva dappertutto. Dalla periferia in cui l’ha stanato il brigadiere il topazio penetra fino al centro, dove si spegne, sia pure per poco. Per Gadda ogni parola è un topazio. Può essere un brillante ma anche un topo, da siepe o da fogna. Corre da un significato all’altro, per associazione fonica o per altro sotterraneo o superiore cammino. Dove corrono le parole di Gadda? Pure il suo topazio-topaccio cerca il punto d’arrivo che è anche punto di partenza, origine e causa prima dell’esistenza umana. Ogni sua parola conduce all’eros, produce eros. Persino la sua saggistica, la sua critica letteraria, cerca, non dico la madre, bensì il padre, cioè il teorico di questo frenetico correre del topazio-topaccio, cioè Freud. Quel topo sta correndo dietro al freudismo. Quel topo-topaccio-topazio va pure oltre il freudismo. Non lo ferma nessuno nei lunghissimi e velocissimi periodi apertigli dal monologo interiore del brigadiere. Tocca ideologie culturali, sfiora tradizioni letterarie, associa mitologie classiche e moderne, attraversa l’intero sistema mentale e i

sottosistemi del modesto sottufficiale. Quel topaccio della sua mente prende i binari della Roma-Napoli e poi ogni altro binario lungo il quale corre il suo cervello. Quanti scambi per arrivare a coprire l’intera rete di relazioni. Il topacciotopazio conduce anche alla parodia del freudismo. Non ridete. Quel topazio che è diventato un topaccio sta tornando a quel «pazzo» da cui è cominciato il monologo. Tutto è nato da quella pazzia: siamo tutti dei pazzi ad immaginare tante cose che non esistono nella realtà. Sono solo dei sintomi, o forse tutto è soltanto sogno, ma quel topaccio ci sta mangiando il cervello. Siamo noi uomini quel topaccio? Saremmo pazzi se lo credessimo. Non siamo nemmeno un topazio, anche se talvolta brilliamo. Guardate nel cranio scoperchiato dal monologo interiore: si accendono delle luci a ogni passaggio del topaccio. È una luminaria questo spettacolo pazzesco e grottesco nel quale l’immonda bestiaccia si mette a splendere come un topazio. In questo mondo pazzo, in un linguaggio pazzo, ridere e piangere pos299

sono essere solo la metamorfosi di uno stesso sentimento del disadattato alla vita. Ermetiche mutande nel sogno o dormiveglia impediscono al brigadiere di rompere il tabù originario. Pestalozzi corre verso la topa perché vorrebbe rientrare nel grembo della prima donna della sua vita? Il brigadiere sta così tornando dalla madre? Il «normale» brigadiere sta sognando la massima trasgressione sociale. Non è proibito: potete pensarlo: anche Gadda, travestito da brigadiere, potrebbe volere rientrare nel grembo da cui si è stati espulsi con dolore. Pestalozzi non lo sa ma sta correndo in moto verso il mito di Edipo. Cosa spera di trovarci? Nulla, o meglio, il Nulla.

INDICE

CETO A

pag.

PARTE PRIMA

Il diario verso il romanzo CAPITOLO PRIMO

pP-piineparole diGadda

8,

ar

CAPITOLO SECONDO

mtaporetto A Caparettolt

ic. la

89

PARTE SECONDA

La nascita del romanziere come «delinquente» CAPITOLO PRIMO

biioco del rovescio Ria nn CAPITOLO

24)

SECONDO

Il romanzo cubista: La meccanica Li...

142

CAPITOLO TERZO

La beffa riuscita: «San Giorgio in casa Brocchi» .........

1979

PARTE TERZA INCOMPIUTA

I grandi pettegolezzi di Gadda CAPITOLO PRIMO

Un «disegno milanese» Le muffe dell’Ada/gisa .......... CAPITOLO SECONDO

La campana, il tarlo, il fulmine e il processo. ............ CAPITOLO TERZO

Le due ultime parole dell’investigatore ................

201 221

2061,

CONCLUSIONE PROVVISORIA

Perché scrive l’imbecille di famiglia ...................

259

INNI 39001037543256

Finito di stampare nel mese di marzo 1997 presso Legatoria del Sud Via Cancelliera 40 - Ariccia RM Printed in Italy

H_A3522840 GADDA

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