La coscienza infelice. Carlo Emilio Gadda 8878026867

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La coscienza infelice. Carlo Emilio Gadda
 8878026867

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Andreini, G. Baldi, C. Cases,

ti, G. Guglielmi, M. Guglielminetti, nganaro, R. Rinaldi, M.A. Terzoli

Alba Andreini

a cura di e Marziano GuglieIminetti

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Il volume raccoglie gli Atti della Giornata di Studi LA COSCIENZA

INFELICE. CARLO

EMILIO

GADDA

NEL CENTENARIO

DELLA NASCITA Torino, 23 e 24 novembre 1993

Si ringraziano per l'autorizzazione alla riproduzione: la direzione di Versants. Rivista svizzera delle letterature romanze per l’articolo di M. Guglielminetti, «Gadda/Gaddus: diari, giornali e note autobiografiche di guerra», uscito nel n. 25, 1994, pp. 81-96; l’editore Einaudi per il contributo di M.A. Terzoli, «Gadda poeta»,

una redazione ampliata del quale si legge come «Introduzione» all’edizione critica delle Poesie di Gadda, curata dalla stessa Autrice, Torino 1993; le Editions du Seuil

per il capitolo di J.-P. Manganaro, «La chute de l’idéal et l'escalier en spirale», estratto dal volume delle stesso Autore Le Baroque et l’ingénieur, Paris 1994. L’Editore del presente volume,

dopo aver richiesto e sollecitato l’autorizzazione,

rimane a disposizione degli aventi diritto per la riproduzione del saggio di G. Guglielmi, «Gadda e la tradizione del romanzo», apparso in Rendiconti, n. 34, 1994 (Editore Telemaco, Bologna).

© 1996 Edizioni Angelo Guerini e Associati s.p.a Viale Filippetti, 28 - 20122 Milano

Prima edizione: luglio 1996 Ristampa:

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1997

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1999

2000

2001

Copertina di Laura Mauceri

In copertina: foto del 1943 scattata in Versilia da Franco Antonicelli (Livorno, Fondazione Antonicelli) Printed in Italy

ISBN 88-7802-686-7

E vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, non auto-

rizzata, compresa la fotocopia. L'Editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO), via delle Erbe, 2 - 20121 Mi 21 Milano, x) ), SEEK e fax 02/809506. tel.

Alba Andreini, Guido Baldi, Cesare Cases, Marco Cerruti, Guido Guglielmi, Marziano Guglielminetti, Jean-Paul Manganaro, Rinaldo Rinaldi, Mania Antonietta Terzoli

O EMILIO GADDA COSCIENZA INFELICE

a cura di Alba Andreini e Marziano Guglielminetti

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Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation

https Ilarchive.org/details/carloemiliogadda0000unse_e7g4

INDICE

Premessa di Alba Andreini e Marziano Guglielminetti 11

CESARE CASES La lombatina di Gadda

17

GUIDO GUGLIELMI Gadda e la tradizione del romanzo

39

RINALDO RINALDI I dioscuri senza Leda: biografia e letteratura nel primo Gadda

97

GuIpo BALDI «Pasticcio» e ordine nella Cognizione del dolore

IZ

MARZIANO GUGLIELMINETTI Gadda/Gaddus:

diari, giornali e note autobiografiche di guerra 141

ALBA ANDREINI Gadda e il suo tempo: ifurori di un testimone

155

MARCO CERRUTI Alcuni rilievi sul Gadda «critico»

165

MARIA ANTONIETTA TERZOLI

Gadda poeta 181

JEAN-PAUL MANGANARO La chute de l’idéal et l’escalier en spirale

189

Indice dei nomi

198.

Indice degli scritti gaddiani citati

195

Note sugli autori

PREMESSA

La ricorrenza del centenario della nascita di Carlo Emilio Gadda ha segnato nel 1993, con il fiorire di iniziative a essa legate, la punta massima dell’attenzione dedicata allo scrittore negli ultimi anni. I numerosi eventi culturali con cui la data è stata festeggiata hanno contribuito a marcare il carattere celebrativo che contraddistingue la tappa più recente della fortuna di Gadda rispetto alla precedente. Dalla fase della celebrità, inauguratasi quando lo scrittore, in vita, quasi ultrasessantenne, era stato colto di sorpresa dall’inaspettata esplosione del suo caso e da un tardivo successo popolare, si è passati col tempo alla sua consacrazione. Oggi è del tutto ovvia e scontata la sicurezza con cui si può attribuire a Gadda il posto di grande tra i più grandi del Novecento:

anzi, questa valutazione

è

diventata ormai non solo un tributo di stima pagato alla sua inventiva ma anche una moneta da spendere, se «gaddiano» si è imposto come aggettivo applicabile ad altri, per definire appunto uno stile che da Gadda deriva. Indubbiamente Carlo Emilio, al quale le definizioni calzano strette, è soprattutto uno scrittore di quelli che hanno fatto scuola: grazie a Contini, alla «funzione Gadda» si intito-

la un capitolo importante del nostro secolo letterario. Come già era avvenuto nella storia dell'accoglienza di Gadda, a segnalarne sul filo cronologico l’ultima scansione è intervenuta ancora una volta un’operazione editoriale: la prima sistematica raccolta postuma dell’opera omnia in cinque volumi, che, avviata nel 1988, si è coronata appunto nel 1993. Se l’uscita del Pasticciaccio nel

1957 per i tipi Garzanti aveva portato Gadda alla notorietà presso il grande pubblico, determinando una svolta nell’affermazione dello scrittore, antecedentemente ristretta alla critica d’élite, con l’attuale

pubblicazione Gadda viene ad avere oggi, nel tripudio dei riconoscimenti, il suo monumento

di autore classico. L’assemblaggio

in

corpus unico dell’intera produzione di Gadda recupera infatti alla disponibilità degli scaffali di biblioteca anche ciò che non era finora agevolmente raggiungibile e mette fine alla necessità di ricostruire l’iter della sua attività scrittoria, che, prima della risolutiva consulta-

zione dei fondi, ha a lungo impegnato gli studiosi in pazienti indagini tese alla completezza bibliografica, con la ricerca di collaborazioni giornalistiche sconosciute o di tesi inedite. Adunando le membra sparse degli scritti gaddiani, l’impresa provvede anzi a evidenziare la complessiva, imprevista voluminosità che l'originaria modalità, da parte dell’autore, del dare alle stampe a singhiozzo e per frammenti, con interruzioni e riprese, coerentemente alla propria

poetica dell’incompiuto, aveva finito per dissimulare. L'effetto che

la gran massa dei testi sortisce sul lettore è di una mole imprevista:

la corredano utilmente gli indici che, con il loro implicito invito a incursioni nel corpo vivo dell’autore, fanno anche auspicare altri strumenti d’accesso, quali ad esempio le concordanze per uno scandaglio dell’intertestualità. La sistemazione della variegata vicenda scrittoria di Gadda, letterato non tale di professione, sollecita un’interrogazione critica che tenga conto di tutti i suoi molteplici interessi oggi così facilmente ripercorribili. Dopo le acquisizioni di tale sforzo ordinativo, la partita che si gioca sul terreno esegetico può prefigurarsi la meta di un’interpretazione globale dell’opera proporzionata all’unitarietà del suo allestimento e rispondente, per incrocio di ottiche e competenze, alla sfida rivolta su più fronti dalla vastità reticolare del conti-

nente gaddiano. Attualmente, nella fitta produzione di interventi critici, difficile

da mappare nella sua varietà di ampiezza e tipologia, gli atti dei convegni tenutisi nel 1993 finiscono per esplicitare, in quanto manifestazioni legate al centenario della nascita, l’occasione esterna dell’ulti-

ma ondata di entusiasmo per lo scrittore. Tra di essi, quelli raccolti qui costituiscono il momento propriamente convegnistico di un incontro torinese, indirizzato in special modo ad un pubblico studentesco e comprendente anche, a complemento dei lavori della giornata di studi, altre iniziative: una mostra fotografica sul rapporto di Gadda con la città, ricostruito sia attraverso i suoi vincoli di lavoro

(sezione Le collaborazioni) sia attraverso alcuni aspetti artistici e culturali di Torino che hanno colpito la sua immaginazione (sezione La Torino di Gadda); la proiezione del film di Pietro Germi tratto dal Pasticciaccio, Un maledetto imbroglio del 1970, presentato da Gianni Rondolino, e dell’intervista a Gadda di Gian Carlo Roscioni e Ludovica Ripa di Meana, Sulla scena della vita: Carlo Emilio Gadda del 19772, introdotta da Alba Andreini, allo scopo di illustrare da un lato i legami di Gadda con il cinema e di presentare, dall'altro, la figura e

il temperamento del Gadda uomo di umori ed estri leggendari

anche alle soglie degli ottant'anni; infine una tavcla rotonda, con la partecipazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, Gian Piero Bona,

Stefano Jacomuzzi e Sebastiano Vassalli, dal titolo «Gadda e dopo», finalizzata a fare il punto sull’eredità di Gadda nella narrativa di oggi.

Le relazioni, qui riproposte nel loro ordine espositivo, si prefiggono di tracciare un ritratto complessivo dello scrittore attraversandone l’universo nelle varie direzioni della sua attività: romanzesca, diaristica, pamphlettistica, poetica, critica. A tale profilo, in cui all’a-

nalisi dei testi si affianca quella del rapporto di Gadda con i suoi tempi, non potevano mancare il corollario di una testimonianza sull’eccentricità che ha reso Gadda un mito, ed è stata rievocata con un

aneddoto biografico-gastronomico dalla diversa ‘milanesità’ di Cesare Cases, né un bilancio che soppesasse la grandezza innovativa dello scrittore. Quest'ultima viene misurata sullo scarto rispetto alla tradizione romanzesca e a fonti precise, che, nell’iperletterarietà di una scrittura mediata dalla memoria, rappresentano un importante

tassello di quell’insieme di letture ancora in larga parte da esplorare, tra i vari aspetti di un destino letterario definito da Gadda, nell’autoritratto dell’intervista, di «infelice creatura, sfortunata e infelice».

È stato accolto in questo volume anche un intervento di Jean-Paul Manganaro. Un vivo ringraziamento, oltre che a lui e ai relatori, va

a quanti hanno collaborato a vario titolo alla realizzazione del convegno: in particolare alla Provincia di Torino, Settore Istruzione, e

alla Regione Piemonte, Assessorato ai Beni culturali, per il patrocinio e il contributo;

alla RAI Radiotelevisione

Italiana e al Museo

Nazionale del Cinema di Torino per la loro collaborazione. Un grazie particolare va a Giulia Dondona, per l’attenzione con cui ha seguito, ben al di là di ogni dovere editoriale, tale pubblicazione, e

a Sara Latella cui si deve la compilazione degli indici. Alba Andreini e Marziano Guglielminetti

Torino, maggio 1996

CESARE CASES

LA LOMBATINA DI GADDA

Ciò che ho in comune con Gadda è di essere un milanese eretico, un milanese ribelle. Abbiamo avuto esiti molto diversi, ma certamen-

. te un punto di partenza molto simile, anche se io sono nato ventisette anni dopo Gadda. Quando si disse da varie parti che il mio articolo su Gadda era l’unico scritto contro di lui e non a suo favorel, io mi ribellai, perché

non era questo che intendevo scrivendolo, ma qualche cosa d’altro. Appunto far vedere come

da una stessa base di partenza, e da una

stessa reazione ad un medesimo ambiente (perché in ventisette anni non era cambiato di molto), fossimo pervenuti a due approdi molto diversi: quello del Gran Lombardo

e quello del Piccolo Lombardo,

se vogliamo chiamarlo così. Ecco: questa è la ragione per cui questo mio vecchio articolo è stato praticamente ignorato dalla critica gaddiana che prima e dopo è stata irreale e laudativa. Quello che c’era di vero nell’accusa era che Gadda veniva guardato dall’esterno e non dall’interno come in generale si faceva. Questa è l’unica accusa che io considero valida

nei confronti del mio articolo, un’accusa che per me è un pregio, perché questo scritto — modestia a parte — si potrà leggere anche quando la fama, forse eccessiva, di Gadda sarà declinata.

La differenza reale tra noi due fu sottolineata come sempre in modo egregio da Gadda medesimo quando gli portarono finalmente questo articolo, che era uscito nel "58 in occasione della pubblicazione del Pasticciaccio, e nessuno osava mostrargli perché egli temeva ogni giudizio, ed aveva paura di chi dissentiva da lui, sia pure in tono solidale, come era solidale il mio. Quando qualcuno, forse Giulio Cat-

taneo, gli mostrò l’articolo, lui lo lesse, e disse, giustamente: «Il Cases vorrebbe che il Gadda fosse socialista, ma il Gadda non è socialista».

1 Si fa qui riferimento a «Un ingegnere de letteratura», in Mondo operaio, XI (1958), supplemento scientifico-letterario al n. 5, ora in C. Cases, Patne lettere, Ei-

naudi, Torino 1987, pp. 41-69.

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La battuta da una parte metteva il dito sulla piaga, cioè sulla bizzarria di un certo tipo di critica militante cui allora io indulgevo, che non

capiva che la critica deve essere immanente, deve partire sempre dalla

posizione dello scrittore. D’altra parte, metteva però in rilievo proprio

il punto centrale, la differenza tra noi: lui non era socialista, io lo ero.

La nostra comune formazione aveva avuto esiti diversi. L'identità iniziale la si può riscontrare semplicemente mettendo delle virgolette o idem in molte pagine di Gadda in cui si parla della repressione milanese, o anche della repressione sessuale (per esempio in quel fa-

moso racconto San Giorgio in casa Brocchi), o in generale della diffidenza verso il principio del piacere. C'è un curioso capitolo in quel curiosissimo libro che è La meditazione milanese che si intitola «La grama felicità»: qui si discorre molto del gramo e pochissimo della felicità, che Gadda probabilmente non sapeva neanche dove stesse di casa. Nonostante i suoi lunghi discorsi sull’impossibilità di conciliare il dovere con la felicità, egli ha tentato in ogni modo di avvicinarli. Probabilmente identificava la felicità con il dovere, specialmente in guerra dove, come sappiamo dai suoi diari, egli aveva assimilato l’ha-

bitus del soldato. Leggere tutto questo fa effetto, soprattutto in un’epoca in cui si indulge anche troppo al principio del piacere, senza ricordare che non si può parlare di morale senza il principio del dovere. Insomma non si può parlare di moralità senza un minimo riferimento a quella repressione di cui Gadda ha ampiamente sentito gli effetti nella sua formazione milanese. Erano davvero molte le affinità fra noi. Io ero stato al Liceo Parini come Gadda e avevo sentito parlare di sua madre, prima ancora che di lui, perché la mia matrigna era stata alunna di Adele Lehr e

ne serbava un ricordo traumatico: era stata terrorizzata da questa donna che evidentemente vessava i suoi allievi, prima ancora di suo figlio. Avevamo quest’atmosfera in comune, quindi ero in grado di intendere le ambasce, i terrori di Gadda, la paura cronica che lo ca-

ratterizzava e di cui si hanno molti esempi. Uno lo ricorderò perché dà titolo a queste righe e cioè quello della lombatina. Come capirete bene la lombatina non è un riferimento all'opera di Gadda — anche se il corpus gaddiano è così variopinto e ricco da render possibile che ad un certo momento spunti una lombatina (considerando il suo interesse per il mondo della cucina) — ma si riferisce ad un’esperienza autobiografica, e cioè ad un episodio collegato all’inaugurazione della libreria Einaudi a Roma. Einaudi aprì una libreria in via Veneto con annessa filiale della casa editrice e chiamò me a dirigerla. Ci fu quindi l’inaugurazione, a cui partecipò anche, come invitato d’onore, Carlo Emilio Gadda, che io vedevo allora per la prima volta (questo avveniva mi pare alla fine del 61). Gadda si mise a suo agio, cioè fu costretto a mettersi a suo

agio, in una poltrona che era stata riservata a lui, poiché un centi-

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naio di persone che si muovevano in libreria occupavano tutto lo spazio piccolo disponibile. E lì sarebbe rimasto, se a un certo punto non fosse apparso un uomo più alto di lui, e dall'aspetto che incute-

va rispetto, se non altro: Giulio Bollati di Saint Pierre, noto editore

(allora faceva parte dello staff di Einaudi, oggi è editore indipendente). Bollati dava a Gadda l’impressione di essere non solo fisicamente ma anche gerarchicamente superiore a lui. In Gadda c’è sempre il sottufficiale che si alza in piedi quando vede un ufficiale, e lui infatti appena vide Giulio Bollati di Saint Pierre scattò sull’attenti e abbandonò la poltrona, dicendo: «Forse lei era seduto qui». Soltanto dopo

che Bollati lo ebbe rassicurato, si riadagiò nuovamente. Poi andammo tutti a una vicina trattoria, «Le colline emiliane», a festeggiare. Io ero a un tavolo qualsiasi con altre persone, ed Einaudi

era insieme a Gadda ad un altro tavolo. Ad un certo momento Einaudi sì alzò e venne da me e mi disse: «Cases non potresti fare il piacere di prendere un po’ della lombatina di Gadda perché per lui è troppa?». Io fui doppiamente non entusiasta. In primo luogo perché non avevo nessuna voglia di mangiare la lombatina di Gadda e in secondo luogo perché quello era il primo giorno che io lavoravo alle dipendenze di Giulio Einaudi, e se lui già il primo giorno mi costringeva a mangiare i resti dei pasti altrui, questo non lasciava presagire nulla di buono per l’avvenire. Devo dire a suo onore che poi non mi fece mangiare altre lombatine; ma non la mangiai neanche quella volta, appunto perché mi opposi recisamente a questa pretesa. Einaudi mi trascinò da Gadda,

il quale mi disse: «Veramente, sa, Cases, questa lombatina supera di gran lunga le mie possibilità manducatorie». E allora io lo rassicurai poiché conoscevo bene i miei polli: eravamo appunto tutti e due milanesi, e borghesi milanesi, e sapevo che per un borghese milanese non c'è delitto peggiore che lasciare qualche cosa nel piatto. Quindi potevo comprendere questa sua mentalità che a Roma sarebbe stata difficilmente concepibile. Così lo rassicurai, gli spiegai che poteva anche lasciarla nel piatto quella lombatina, che non gli sarebbe successo niente, che non sarebbe stato punito da nessuna autorità, da

nessun Superego e da nessun corpo armato di qualsiasi genere e grado. E Gadda si acconciò a questa soluzione che certamente contrastava con tutto il suo mondo, tutta la sua ideologia. Ecco questa è la storia della lombatina, che mi sembra abbastanza caratteristica, illuminante sullo scontro tra due milanesi degeneri,

che proprio per questo si capivano benissimo, poiché avevano in comune un tipo di educazione repressiva, anche se con delle differenze. Io appartenevo alla borghesia ebraica e, diciamo, di modeste origini, mentre Gadda apparteneva al ceto «mercativo-politecnico», CO-

me affermava, cioè alla borghesia, alla buona borghesia, certo un po’ impoverita nel suo caso, perché chi ha letto i suoi scritti sa che le

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sue lamentele sulla povertà sono costanti fin da principio. Inoltre apparteneva alla borghesia cattolica e quindi c'erano altre differenze. Differenze che lui intuiva immediatamente ed a cui annetteva grande importanza. Non che i milanesi siano razzisti, direi proprio di no,

però questo tipo di borghesia milanese tiene sempre a classificare, a ordinare. La smania ordinatrice di Gadda si riflette nel suo rispetto per il discorso indiretto di Giulio Cesare, per l’ordine latino insomma, e per il continuo riaffiorare di motivi latini, per esempio il ter-

mine «Gaddus» o «Carolus» che lui usava per designare se stesso. Questa mentalità faceva sì che lui immediatamente classificasse qualcuno anche quando non era necessario, anche quando era in qualche modo sbagliato, come nel caso che racconterò e che ho già raccontato una volta. Parlando con Gadda, dopo che aveva pubblicato La cognizione del dolore, io gli dissi che riconoscevo in qualche modo i paesaggi ed anche la mentalità soggiacente, perché io da buon borghese milanese passavo le estati sempre nello stesso luogo, non in una casa di proprietà della mia famiglia, come succedeva al patrizio Gadda, ma in una casa d’affitto, che però affittavamo sempre.

Per undici anni siamo stati sempre nella stessa casa, in un paesino vicino a Longone al Segrino dove lui risiedeva. Dopo avermi ascoltato attentamente lui disse: «Ah sarà Lambrugo!» Ed io rimasi stupitissimo, perché di paesini ce ne son tanti in quella zona lî, e che lui indovinasse subito che era Lambrugo e non Inverigo o qualsiasi altro paese della zona, questo mi stupiva moltissimo. E gli dissi: «Ma come mai lei ha indovinato di primo acchito che io andavo a Lambrugo?» Lui mi spiegò: «Sa, perché il suo nome finisce in consonante: e poi a Lambrugo c’erano i‘Puecher. Allora io ho fatto un’associazione, ho

pensato, Cases — Puecher: due nomi che finiscono in consonante, due nomi di ebrei... probabilmente anche lei andava a Lambrugo». Il che era un ragionamento sbagliatissimo, perché i Puecher non erano affatto ebrei, bensì di origine ungherese (uno è diventato un

noto regista, l’altro è stato un martire della resistenza). E poi, insomma, non era vero che tutti gli ebrei andassero a Lambrugo, che Lambrugo fosse un covo di ebrei! C'era qualche ebreo, come ce ne sono

dappertutto dove ci sono villeggianti, anche in paesi piccoli. Quindi non era affatto detto che un ebreo dovesse necessariamente passare le sue vacanze a Lambrugo, ma per la mentalità di Gadda questo era plausibile se non inevitabile. Qui viene fuori appunto il suo positivismo, di cui hanno parlato

tutti. Egli credeva che dappertutto ci fossero delle leggi, delle leggi che lui avrebbe voluto rovesciare, ma che sono inesorabili e che si ve-

rificano sempre. Aveva stabilito così questa legge per cui a Longone al Segrino dovevano andare i Gadda, i Sessa e tutti gli altri membri della tribù «mercativo-politecnica» di Milano, mentre a Lambrugo dovevano andare i membri di seconda categoria della stessa classe

I) milanese: i milanesi arrivati un po’ in ritardo, che non c'erano ai

tempi non dico di Carlo Maria Maggi, ma neanche del Manzoni. Ecco, da questi aneddoti traspaiono le analogie ed anche le diversità fra noi due. ; Gadda si ribellò all'ordine attraverso il linguaggio, soprattutto at-

traverso l’eversione del linguaggio. Ciò che io non approvo in lui, e lo avevo scritto nel mio vecchio articolo, è proprio questo, appunto perché io ero socialista e quindi mi aspettavo l’eversione da una eversione esistenziale, politico-sociale, mentre invece lui l’aspettava sostanzialmente dalla riforma del linguaggio, dall’uso eretico del lin-

guaggio. In questo senso devo dire che continuo ad essere non gaddiano, cioè continuo a credere che i problemi della letteratura non si risolvano all’interno della letteratura, neanche con la genialità del Gran Lombardo. Questo mi permetto di suggerire, di dire come Piccolo Lombardo, ricordando la figura straordinaria di Carlo Emilio Gadda.

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GUIDO GUGLIELMI

GADDA E LA TRADIZIONE DEL ROMANZO

Quando Gadda lavorava al Racconto italiano di ignoto del novecento, era già uscita La coscienza di Zeno di Svevo. Pirandello aveva scritto testi fondamentali del teatro del Novecento, e aveva alle spalle una lunga

carriera di narratore. Già si erano affermati scrittori come Savinio e Bontempelli. C'era già stato Tozzi. E presto sarebbero seguiti scrittori di primaria importanza, da Landolfi a Delfini, da Moravia a Bilen-

chi a Vittorini, nel decennio più ricco della nostra prosa di questo secolo. Era insomma cominciata la stagione della narrativa, dopo una stagione di straordinari poeti. Del 1926 è l’esordio di Solaria, che ebbe Gadda tra i suoi primi collaboratori, una rivista - come poi Letteratura — apertissima a tutto quanto si stampava in Europa in fatto di letteratura, e in fatto di romanzo. Ebbene, il romanzo europeo

aveva preso una nuova strada, rifacendosi a una linea sperimentale della letteratura di cui — e non solo per quello che riguarda Gadda — Contini avrebbe ricostruito la storia. Nella sua prefazione alla edizione einaudiana del Cahier d'études di Gadda, Isella ha ricordato che nel 1925 Gide pubblicava Les faux-monnayeurs, dove teorizzava un tipo di romanzo inclusivo, senza il taglio di un intreccio, non più come tranche de vie, sviluppato nella direzione del tempo e secondo un principio di economia del racconto: en largeur o en profondeur, non più en longueur. Tra i materiali da fare entrare nel romanzo dovevano esserci, oltre al romanzo stesso — l’autoriflessione dello scrittore —, anche le circostanze del romanzo, senza escludere alcuna realtà. Gide farà del carnet del romanzo il romanzo stesso, fino a dar-

ci il carnet del carnet. E al suo personaggio e portavoce farà dire: «Je voudrais tout y faire entrer, dans ce roman. Pas de coup de ciseaux

pour arréter, ici plutòt que là, sa substance. Depuis plus d'un an que j'y travaille il ne m’arrive rien que je n'y verse, et que je n°y veuille faire entrer; ce que je vois, ce que je sais, tout ce que m’apprend la vie des autres et la mienne....»1. Romanzo quindi come opera in pro-

1 Cfr. A. Gide, Romans, récits et soties, La Pléiade, Paris 1958, p. 1082.

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gress, eterogenea, informale. Altra questione è se Gide l’abbia realizzato. Ma il discorso sembra riguardare proprio Gadda. Il romanzo

che fa le sue grandi, supreme prove nell’Ottocento,

è artisticamente costruito in ogni sua parte, e tuttavia organico. E lo diciamo giustamente classico. La forma —- il principio unificatore — la dissimula. Esso non vuole presentarsi come artistico. Vuole essere antiretorico, o di una retorica impalpabile, tutto rivolto alla cosa da esporre, commentare, raccontare. E sì un romanzo della pluralità o

della prosa. Ma i propri materiali li compone, li omogeneizza, li riconduce a un’unità del giudizio e della forma. Al disordine impone una legge. Al contrario il romanzo nuovo appartiene alla linea della distruzione della forma: a una linea, in senso largo, manieristica. Es-

so mette a nudo il proprio procedimento. Dilata il particolare; s’intrattiene lungamente sul non organico, sul dissociato, sul pezzo staccato. Alla misura contrappone la dismisura. Scinde il semplice nel complesso. Sotto l’identico legge il diverso. Rifiuta l’unità. E non può dare quindi quadri in sé compiuti. Si è per esempio detto che Svevo ha in fondo inventato un solo personaggio, scritto un solo romanzo. Ma solo la Coscienza di Zeno rappresenta il tipo nuovo di romanzo. Ognuno dei capitoli della Coscienza di Zeno infatti (e un discorso simile si potrebbe fare per l’ Ulysses di Joyce) ha una sua piena autonomia, racconta l’intera vita del personaggio raccolta attorno ad un tema (Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio...). E i diversi capitoli non sono funzionali l’uno all’altro, non si distribuiscono secondo un intreccio, non si integrano in un’unità

gerarchicamente superiore — chiamiamola epica — di senso. Il principio che li governa non è quello della subordinazione, ma quello della coordinazione. Un principio a cui nel 1908 si richiamava Pirandello nel saggio L’umorismo, dove, tra l’altro, troviamo già come

prefigurati alcuni dei caratteri maggiori dell’arte di Gadda: il privilegiamento dei dialetti contro la monolingua retorica e umanistica; l’eccentricità (come si legge) di stile?; il procedere per divisioni e

sdoppiamenti; la polemica contro le sintesi idealizzanti e le edificazioni morali. Basti qui citare due brani. Il primo riguarda la tendenza soggettivo-espressionistica degli scrittori umoristi. Scrive Pirandello che a contrastare in Italia l’arte umoristica, «l'ostacolo maggiore

fu la retorica imperante»3. E fatto riferimento agli effetti liberatori del romanticismo lombardo (anche per Pirandello la figura ammirata è Manzoni), prosegue: «Ma questo così detto romanticismo fu l’ultima e clamorosa levata di scudi della volontà e del sentimento

| ? Cfr. L. Pirandello, Opere, vol. vI, Saggi, poesie, scritti varii, a cura di M. Lo Vec-

chio-Musti, Mondadori, Milano 1960, p. 116.

3 Ibidem, p. 107.

19

ribelli all’intelletto», cioè, come ha appena spiegato, a una letterattura fatta «di leggi e norme astratte di composizione»; aggiungendo che l'umorismo rappresenta una linea sotterranea della letteratura, quella non ufficiale, di cui il saggio ricostruisce la storia, e infine —

ecco l'indicazione che qui ci interessa — che solo fra gli «scrittori so-

litari, ribelli alla retorica, fra i dialettali, bisogna cercar gli umoristi»

e «fin dagli inizi della nostra letteratura». Il secondo brano - del re-

sto ben noto — è il seguente: «L'umorismo, come vedremo, per il suo intimo, specioso, essenziale processo, inevitabilmente scompone, disordina, discorda; quando, comunemente, l’arte in genere, com'era insegnata dalla scuola, dalla retorica, era soprattutto composizione esteriore, accordo logicamente ordinato»?. Dove è facile capire perché, in un libro filosofico come Meditazione milanese, e quindi

in sede teorica, Gadda chiamasse Pirandello il «nostro grande tragico»8. La coordinazione per contrari diventa in effetti in Gadda coordinazione per polarità, per disgiunzione di punti di vista: per «dissociazione noetica». Con questo non si vuole dire che nel ’24 Gadda avesse trovato la sua strada. Il Racconto italiano è una ricerca di poetica. C'è già lo straordinario scrittore, ma si tratta non più che di appunti. Non c’è

ancora la poetica (o è appena intravista) che avrebbe fatto considerare il Pasticciaccio un romanzo artisticamente concluso. Nel ’23 Borgese aveva pubblicato Tempo di edificare, proponendo una ripresa del romanzo

ottocentesco, ma cogliendo anche un momento

di svolta.

Era venuto il tempo del romanzo. E Gadda ne riverifica il modello di tradizione realistica e naturalistica. Inventa un gran numero di personaggi, ognuno con una sua storia (Grifonetto, Maria, Carletto, Nerina, l'ing. Morone, Emma Renzi, Cesare Manni ecc.) e studia le

possibilità di comporli in una trama organica. Il protagonista (Grifonetto) è un architetto fascista — con il quale il narratore s’identifica — che secondo il progetto finisce suicidandosi: coinvolto ortisianamente (è ancora Isella ad annotarlo) in una vicenda tragica, politica

e sentimentale. Lo sfondo è quindi quello dell’attualità più viva. Romanzo come cronaca di storia contemporanea. Ma citando indirettamente il narratore manzoniano che deve tenere insieme le fila del racconto come il ragazzo i «porcellini del gregge» perché non si («il mestiere

sbandi, Gadda sperimenta le difficoltà del raccontare

del raccontare è difficile»), e incontra i problemi dell’intreccio:

4 Ibidem, p. 108. 5 Ibidem, p. 49.

l

l

6 Cfr. C.E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del novecento (d’ora in avanti R.I.), in

Opere di C.E. Gadda, Edizione diretta da D. Isella, vol. v, Scritti vari e postumi, Garzanti, Milano 1993, p. 815.

7 Ibidem, po ose:

20

«per ora è questa per me la maggiore difficoltà: ‘l'intreccio’ dei vecchi romanzi, che i nuovi spesso disprezzano». Gadda sa già dunque che ci sono nuovi romanzi. E mentre considera i modi «di avviare e

legare la materia del romanzo», riflette che questa materia è sfuggente. È la vita. E la vita non è fatta di ordinati costrutti, non è age-

vole legarla: «Ma in realtà la vita è un ‘intreccio’ e quale ingarbugliato intreccio!»8. Per il momento Gadda aggira la difficoltà facendo crescere il romanzo, sovrapponendo senza economia personaggio a personaggio, avviando tante storie parallele (che utilizzerà in seguito). Per sfuggire all’univocità dell’intreccio, egli prende la strada della complicazione dell’intreccio. Ed è già evidente il fatto che quanto più cresce il romanzo, tanto più si allontana la sua chiusura. Mentre le storie si moltiplicano, delle loro conclusioni ci sono solo

tracce ideative. E di una linea complessiva che le raccolga tutte, c’è solo un’esigenza che è appunto oggetto di analisi e di studio. È sintomatico che Gadda subito dirotti il discorso sul punto di vista: romanzo ab interiore o ab exteriore? Punto di vista e parola del personaggio, o punto di vista e parola del narratore? Ed è sintomatico che una parola drammatica ab interiore quale potrebbe essere quella dei Malavoglia del Verga venga passata sotto silenzio. E che non venga fatto il nome di Flaubert. Che la realtà abbia una logica interna, e basti cederle la parola o illuminarla con la parola conveniente — juste +, perché si abbia il romanzo, è un’idea che non viene neppure presa in considerazione. La tranche de vie infatti elude il problema del punto dove si operi il taglio. Quel distanziamento di una materia intensamente affettiva e memoriale che Verga opera, sdoppiandosi in ioscrittore, io-scienziato e quasi etnologo, ed io internamente partecipe non interessa Gadda. Il quale è ormai lontano da una concezione di mondo come processo inesorabile di cause ed effetti. «Il determinismo — scrive — è la lettura della curva dell’ananche, non la sua spiegazione»9. Si ferma troppo presto, alle cause prossime. In

realtà non c’è una serie causale che determini il comportamento normale, e un’altra serie causale che determini l’abnorme. Il nor-

male e l’abnorme coesistono, bene e male sono polarità che si richiedono reciprocamente: «L’immoralità sussiste in quanto sussiste la moralità e viceversa, il crimine in quanto sussiste il giusto, e reagiscono a vicenda». E sembrerebbe che qui Gadda utilizzi e interpreti il suo Leibniz, il Leibniz della giustificazione del male, ma spoglian-

dolo di ogni teodicea. Il termine giustificatore infatti per Gadda

non è Dio, ma la assai più oscura vita. E la vita non esprime mai un

tipo unico, ma sempre anche il suo contrario: «se la necessità socia-

8 Ibidem, p. 460. ° Ibidem, p. 407.

2

le ha creato un determinato tipo sociale, nella vita rientra anche il dissociale»!0. Né si tratta semplicemente di una necessità a parte objecti, ma di una necessità della vita e — vedremo — dell’etica della vita. Per intanto sembra che Gadda abbia interpretato Leibniz (si tratta del resto di un debito dichiarato) attraverso Bergson, nel quale la

vita è élan, espansione, ma anche contrazione, arresto, materia!!. «Dissoluzione»!?, si dice nel Cahier: perdita delle connessioni orga-

niche, reversione della vita, involuzione dell’io in se stesso. Ma scartata l’impersonalità della narrazione, l'astensione del narratore dal giudizio, il cosiddetto «ritegno critico»13, il discorso di

poetica è ancora tutto da costruire. Gadda - si sa — è nato lirico. Per altro il narratore che si sarebbe definito «minimissimo Zoluzzo di Lombardia»!4, non poteva accontentarsi del proprio espressivismo lirico, o — nei suoi termini — della propria «intuizione», del proprio «momento conoscitivo» e lirico-conoscitivo. Egli doveva passare — sono ancora sue parole — attraverso «i momenti conoscitivi, (sia lirico-

estetici, sia etici, sia teoretici) o i pratici del personaggio». E viene

ricordato come esempio di romanzo ab interiore Il piacere di D’Annunzio. D'altra parte D'Annunzio non gli basta. E si capisce. Il romanzo

dannunziano

è fondato su una sola intuizione, su un solo

punto di vista organizzatore del racconto. Si tratta di una soluzione semplice che non converrebbe a un romanzo complesso. E Gadda vuole scrivere un «romanzo psicopatico e caravaggesco»!5, dialettico, a molti punti di vista. La riflessione sul romanzo ab interiore ed ab

exteriore occupa tormentate pagine del Cahier perché è in gioco una questione fondamentale di poetica, nientemeno che la realizzazione di un romanzo plurivoco. Si chiede infatti Gadda: «Passando dal semplice al complesso, dall’uno al molteplice (e io ci dovrò passare essendo il mio un romanzo della pluralità), come viene il gioco ‘ab

interiore’ trattandosi di più personaggi? Trattandosi anzi di moltissimi personaggi? Quali sono le possibilità di sviluppo rappresentativo e drammatico?»!7. Un tale romanzo esige un’estroflessione nel mondo, là dove «il dotto parla da dotto, il delinquente da delinquente»!8. L’autore deve trasferirsi in coscienze altrui, in lingue al-

tre, straniere. 10 !l 12 13

E qui Gadda si richiama a un meccanismo primordia-

Ibidem. Ibidem, p. 874. Ibidem, p. 460. Ibidem, p. 462.

14 Cfr. C.E. Gadda, / viaggi la morte, (d’ora in avanti V.M.), in Opere, vol. m, Saggi giornali favole e altri scritti, Garzanti, Milano 1991, p. 243.

15 R.I., p. 461. 16 Ibidem, p. 411.

17 Ibidem, p. 462. 18 Ibidem, p. 475.

22

le, magico-mimetico. L’intuizione dell’altro ci rivela quello che

avremmo potuto essere, le possibilità in noi irrealizzate, l’altro che noi siamo. Così il maschile comprende in sé il femminile, e vicever-

sa: «noi siamo degli ‘onnipotenziali’»!9. L'autore dovrà quindi moltiplicarsi per quanti sono i personaggi, pur mantenendo la sua differenza, allo stesso modo che l’altro sesso come possibilità non toglie la barriera tra i sessi: il maschile resta maschile, e il femminile fem-

minile. Gadda parla di «intuizione nostra di intuizioni altrui, o di realtà altrui’»2° o di «conoscenza della conoscenza»?!: Epp del personaggio che riflette sul suo mondo e come la «Vita»?7, magari degradandosi, ritorna su se stesso; e dalla parte del narratore che riflette sul mondo dei personaggi. Ed a questo punto il romanzo ab interiore diventa romanzo ab exteriore: «E bene che il romanzo dipinga forse anche ab exteriore, almeno in parte»?3: Gadda non pone un’alternativa tra i due tipi di narrazione, piuttosto li combina.

Tanto più che a sua volta «l’autore può funzionare come personaggio»?4. Possibilità che qualche pagina più avanti si converte in necessità: «Insomma necessità di creazione di una personalità dell’au-

tore»?°. Sicché la teoria dell’impersonalità si trova ad essere esatta-

mente rovesciata. Romanzo poliprospettico quindi (ab interiore), ma con attiva presenza dell’autore, ed eventualmente del personaggio-autore (ab exte-

riore). E qui il grande modello è il Manzoni. Manzoni e Gadda sono scrittori assai diversi e perfino opposti. C'è il monolinguismo dell’uno, e il polilinguismo dell’altro. Sono scrittori quanto mai dissimili, e tuttavia strettamente imparentati. Una comune aria di famiglia circola nelle loro pagine. Il fatto che l’Apologia manzoniana rientri nel Cahier, cioè nell’ambito

di una poetica del romanzo,

significa che

Manzoni è un termine di riferimento essenziale di Gadda. ne dei Promessi sposi è sempre implicita nella narrazione Né tanto pensiamo a una intertestualità di superficie che forme, dal calco stilistico alla parodia, pure è presente,

E la leziodi Gadda. in diverse quanto a

orientamenti ideologici fondamentali, in direzione della critica del

linguaggio e della maccheronea. Si ripassi mentalmente l’azione dei Promessi sposi. Si prenda il cap. xIv. È giorno di sommossa e si grida contro chi comanda. Renzo che non ha voluto lasciare il suo nome sul libro dell’oste, se la prende contro la trovata di metter sempre

19 Ibidem, p. 463. 20 Ibidem, p. 465.

21 22 23 24 25

Ibidem, Ibidem. Ibidem, Ibidem, Ibidem,

p. 472.

p. 465. p. 474. p. 479.

23

nero su bianco. Vi sente un imbroglio dei signori ai danni del popolo. E alla battuta di un compagno di tavola (i signori mangiano tante oche che qualcosa debbono pur farsene delle penne) esclama: «È un poeta costui». C'è lo spirito di un poeta. Il poeta dunque visto dal basso. E Manzoni si serve della trivializzazione di Renzo per comicizzare a sua volta, dal suo punto di vista dialogico e ironico (in

proposito ci sono pagine ricchissime di Raimondi?$), l’immagine del poeta, del gaddiano «figurino del ‘vate’»27. «Per capire questa baggianata del povero Renzo - scrive — bisogna sapere che, presso il volgo di Milano, e del contado

ancor più, poeta non significa già,

come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e far dire loro le cose più lontane dal loro legittimo significato! Perché, vi domando io, cosa ci ha che fare

poeta con cervello balzano?»?8. È un esempio che abbiamo tutti in mente. Ed è appena necessario ricordare, oltre allo straordinario pastiche dell’ Introduzione, l’erudita esposizione delle gride e i commen-

ti del narratore; il volgare del dottor Azzeccagarbugli e i fraintendimenti di Renzo; il dispaccio del capitano di giustizia che ordina in latino l’arresto di Renzo, inframmezzato dalla traduzione in volgare.

E questo tanto per limitarci a citazioni d’obbligo. Sicché il maccheronico vero e proprio di Renzo (sempre nel cap. xIV): «siés baraòs trapolorum» che contraffà il latino di don Abbondio e la parlata di Ferrer, non ci prende affatto di sorpresa. C’è una frode del linguaggio. «Trufferia di parole» — dice Manzoni (cap. XXXI), con riferimento al contagio che ci si ostina a non voler riconoscere: «In principio, dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proi-

bito anche di proferire il vocabolo. Poi febbri pestilenziali: l’idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa al-

la quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea es-

pressa dalla parola che non si può più mandare indietro». Non si vuole dire la cosa com’è per qualche miserabile interesse. La frode aspetta solo un'occasione, e la trova. E con l’invenzione degli untori

26 Cfr. E. Raimondi, L'’osteria della retorica, in Id., La dissimulazione romanzesca.

MAIS manzoniana, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 81-110. 2 V.M., p. 431.

da

28 Citiamo dall’edizione a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, «I classici Mondadori».

24

si torna a misconoscere il pericolo. Così Manzoni. Gadda a sua volta combatteva il principio: nomina sunt consequentia rerum. «La parlata falsa ne falsifica l’animo»?9 — scrive. I nomi sono la causa della falsificazione delle cose. Lo stesso sospetto Gadda fa pesare sul linguaggio. Per accondiscendere all'opinione dominante, niente invero di più facile che «manomettere le parole» o — gaddianemente — fissarsi «in un caramello di modi di dire»?°. Ma le omologie non si fermano ai modi di rappresentazione, ai conflitti dei punti di vista. Alla dialettica del discorso. Esse toccano anche la costituzione dei personaggi, la struttura del racconto. E forniamo due esempi. Ne La Madonna dei filosofi (racconto) l’ingegner Baronfo, curioso di vecchi libri, ha trovato su un lungosenna

una rarità settecentesca. Si tratta di un bouquin dove a un certo punto «era tirato in ballo certo Ismaele Digbens [...] benemerito della

filosofia (dogmatica) e più specialmente di quel ramo di essa chiamato settecentescamente pneumatologia o pneumatica, ovverosia scienza dell'anima». Gadda riprende parodicamente le magistrali deduzioni del benemerito filosofo. Le pagine sarebbero tutte da leggere, ma qui basterà darne qualche estratto. Il cavalier Digbens — leggiamo - fu «benemerito altresì della fisiologia e della fisica. Contro il ‘lockiano’ Burner, accumulò dodici prove dell’esistenza di Dio: quattro chiamò metafisiche, quattro fisiche, e quattro miste. [...] Inoltre aveva dimostrato che le bestie non posseggono ragione, salvo in alcuni casi specialissimi [...] ammetteva che esistessero regioni dello spazio vuote di materia, ossia insostanziali. [...]. Invece

il cervello dei minorati, degli idioti nati e dei morti senza battesimo era un pieno o sostanza, ma scarsamente dotato di attitudini modali [...]. L'anima concepiva come un essere o sostanza semplice...»3), E così via. Ismaele Digbens si muove insomma tra i sofismi (meravi-

gliosi), i vacui sillogismi, le sostanze e gli accidenti di Don Ferrante. Il quale poi è una versione comica dell’hidalgo don Chisciotte (l’archetipo cervantino così importante per Gadda). E non manca di evocare l’altra figura della celebre coppia manzoniana. E, tra l’altro,

— è il nostro secondo e più mediato esempio — in uno dei più citati racconti gaddiani: San Giorgio în casa Brocchi. Qui la contessa Giuseppina è una donna intraprendente e zelante, come donna Prassede tutta dedita a invigilare sulla moralità della casa, sulle frequentazio-

nì del figlio Gigi (ormai giovane fatto), e a contrastare i disordini

del mondo, la scostumatezza dei nuovi tempi. Mentre dal canto suo lo zio Agamennone è — ancora una volta — un letterato che sta scri-

Sl Cfr. C.E, Gadda, La Madonna dei Filosofi, in Opere, vol. 1, Racconti e romanzi, 1, Garzanti, Milano 1988, pp- 89-90.

25

vendo un libro, promesso a Gigi per il suo diciannovesimo compleanno, un trattato «da servire di guida; all’entrar della vita, per i giovani delle più cospicue famiglie»? Un «libro scritto da un Brocchi, per un altro Brocchi!»33, Ma al di là della figura dello zio è fatto segno di un divertentissimo pastiche nientemeno che Cicerone, l’au-

tore del De Officiis, lettura scolastica quanto mai utile per il giovane alle prese con le tentazioni dell’età. Il quale proprio il giorno in cui puntualmente

riceverà il libro dello zio, sarà iniziato alla vita dei

sensi dalla bellissima Jole, la serva latrice del dono. Naturalmente

lo zio è una caricatura di Cicerone, che anch'egli aveva dedicato il suo libro a un giovane, il figlio Marco: «Cicerone era il classico, lo

zio era il neoclassico»34. Ma il bersaglio di Gadda è tutta una letteratura splendida (e Gadda ne è affascinato) e non vera o giudicata tale; tutta una trattistica fatta di massime e precetti ineseguibili, che

— sappiano — non «morde in ‘corpore veritatis’»35. Cicerone diventa il grande Azzeccagarbugli dell’antichità che compone un «minestrone di fagioli stoici, di verze accademiche e di carote peripatetiche»36, per di più in tempi di disgrazia personale e della Repubblica. «D'altronde — leggiamo — erano ormai scaduti i bei giorni, quando i mille Renzi d’Italia recavano all’Azzeccagarbugli urbano (più autorevole forse e più coraggioso dell’autentico) il vistoso imbonimento de’ lor grassi capponi»37. E non c’è dubbio che l’inserto comico-parodistico di Gadda sarebbe piaciuto a un così strenuo indagatore degli inganni delle parole e critico del loro falso prestigio, qual era il Manzoni. Immediatamente — a tutta prima — o mediatamente, sempre si trova Manzoni in Gadda. Manzoni è un grande scrittore dialettico. E Gadda gli attribuisce un umorismo delle cose e del racconto, l’umo-

rismo sottile e impalpabile con il quale nota le infinite contraddizioni della vita, il guazzabuglio

del cuore, l'oscurità e indecifrabilità

contro cui l’analisi più penetrante e più necessaria alla fine si scontra. Nel Manzoni per altro il nodo è destinato a sciogliersi, l'oscuro a chiarirsi definitivamente. C'è un luogo promesso e trascendente, che ci supera infinitamente, in cui la storia sarà sospesa, il suo male guarito. E l’aspetto romantico dei Promessi sposi. Senonché proprio l’inaccessibilità di questa prospettiva delle prospettive rende il Manzoni così acuto nel cogliere e fissare quello che si dice il negativo

82 C.E. Gadda,

San Giorgio in casa Brocchi, in Accoppiamenti giudiziosi, in Opere,

vol. II, Racconti e romanzi, Il, Garzanti, Milano 1989, p. 651.

33 Ibidem, p. 665.

54 Ibidem, p. 690.

35 V.M., p. 479.

36 San Giorgio in casa Brocchi, cit., p. 673.

37 Ibidem, p. 675.

26 della storia, l’inestricabilità dei suoi grovigli, la nudità fattuale. Il pa-

radosso di Manzoni è che lo spiritualismo — il rigore etico-religioso — è la condizione del suo realismo. L’ umiltà davanti alla storia gli vie-

ta di risolverla (è l’obbiezione di fondo di Gadda a Moravia38) in equazioni rassicuranti.

E ne fa un grande realista, uno storico impa-

reggiabile e disincantato, in cui la lucidità dell'intelletto si coniuga con la gaddiana «sensazione della complessità»39, dell’infinita complessità del mondo. L'istanza del giudizio insomma è rinviata al di là della storia, e intanto la storia è lasciata alla sua problematicità, agli urti e alle dissonanze che ne formano il tema fondamentale. E Gadda allora, nel famoso

excursus del 24, può giustamente

leggere il

Manzoni come uno scrittore della disarmonia, e riconoscervi un tutto pirandelliano sentimento del contrario. «La mescolanza degli apporti storici e teoretici più disparati, di cui si plasmò e sì plasma tuttavia il nostro bizzarro e imprevedibile vivere, egli ne avverti le derivazioni contaminantisi in un’espressione grottesca»49, scrive Gadda che, sottolineando l’arte suprema del Manzoni di rappresentare gli

stati spastici e violenti del mondo, può fare dei Promessi sposi un proprio archetipo. Ma la parentela — si diceva benj;aminianamente — si sposa con la dissomiglianza. E basta aprire le pagine dei due scrittori per accorgersene. I due modelli di scrittura sono contrapposti: anche contrapposti. L’antitesi del resto già Gadda la stabilisce all’inizio del Cahier: «Manzoni concetto morale-civile./ Io concetto più agnosticoumano»"l. Dove «agnostico-umano» è evidentemente da interpretare come: nei limiti dell’uomo, nei confini del mondo; sotto la condi-

zione del tempo. Osserviamo che per Manzoni - allo stesso modo che per i grandi narratori classici della tradizione realistica — la conciliazione del disparato — della disparatezza della vita — non è mai data, e tuttavia è sempre postulata. Essa è insieme inconseguibile nel fatto, e idealmente necessaria. L'orientamento di poetica è verso la sintesi. Tutt'altra la via seguita da Gadda. Si tratta infatti della via del tentativo o dell'esperimento. Una via già trovata lavorando a un progetto di romanzo che non era ancora quello cercato: «Uno studio è gia una cosa completa, finita, se pur riveste i caratteri di tentativo»42. E sperimentale è appunto la poetica dello «studio». Per dirla con parole di Gadda (si trovano nella nota introduttiva a Novella se88 C.E. Gadda, Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, in Scritti dispersi, in Ope-

re, vol. III, cit., pp. 1175-1181.

i

, r C.E. Gadda, Meditazione milanese (d’ora in avanti M.M.), in Opere, vol. v, cit.,

PIST2I

40 RI, p. 591. 41 Ibidem, p. 397. 42 Ibidem, p. 576.

27 conda), e che Gadda ha lungamente meditato, prima di risolversi

per la sua strada, Manzoni è lo scrittore che intende «arrivare al pubblico fino attraverso il grosso»43. Egli persegue — secondo la sua ben nota opposizione — se non un senso comune, un comune buon senso. E ha bisogno di costituirsi - e magari di genialmente inventarsi — una koînè, una lingua unitaria e un pubblico nuovo, non di letterati, o non solo di letterati. Il suo è un monolinguismo politonale. Per Gadda occorre invece parlare di monolinguismo esploso. C'è un'immagine manzoniana che è un esempio supremo dell’arte dell’attenuazione e del ritegno. Quando dopo il passaggio dei soldati imperiali — nel capitolo xxx dei Promessi sposi - don Abbondio ritorna nella sua casa, riconosce nel focolare i resti di mobili bruciati, i segni di ciò che è andato distrutto e che è appunto paragonato alle «molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo». C'è qui la mirabile arte del Manzoni della dissimulazione ironica. Ebbene, Gadda avrebbe fatto riemergere il sottinteso, la trama della

diacronia. Lo scrittore manzoniano raccoglie le contraddizioni in un'attesa di senso. Lo scrittore gaddiano le acuisce e rende stridenti. Le rende «spastiche». L’uno ricerca un superiore intendersi tra uomini di garbo, un’ideale sincronia: una comunicazione possibile. L’altro rifiuta di esprimersi secondo l’economia della comunicazione. E la sua lingua è diacronica e stratificata. L'uno è un classico, se per classico s’intenda un perfetto equilibrio — o sovrapposizione — di letteratura e comunicazione. L’altro è un manierista, un deformato-

re del linguaggio, uno scompositore di parole. Sarebbe possibile a questo punto parlare di espressionismo, tanto più che Gadda nell’Intervista al microfono del 1950 si è richiamato a un

proprio modo

di narrare,

sottolineandolo

come

proprio:

«Nella mia vita di ‘umiliato e offeso’ la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la ‘mia’ verità, il ‘mio’ modo di vedere [...] lo strumento in assoluto del riscatto e della vendetta»44. E l’intimità dello stile (che Pirandello at-

tribuiva agli umoristi) certamente appartiene a Gadda. Ma l’espressionismo, in una sua eccezione, ristretta se vogliamo, rifiuta la mediazione della parola, il ritardo della parola rispetto all’urgenza del

dire, alla intensità del vissuto. Ed è stato detto, per esempio, che l'estetica del Croce è un’estetica espressionista perché considera la parola — la grammatica — un impaccio all'espressione. Abbiamo quindi parlato di manierismo, e non semplicemente di espressioni smo, perché c’è in Gadda - e potrebbe essere la sua differenza rispetto all’espressionismo primonovecentesco — una passione della scrittura che ne fa un autore iperletterario (quale non aveva voluto 43 Nota di C.E. Gadda a Novella seconda, in Opere, vol. 11, cit., p. 1318. 44 V.M., p. 503.

28

essere Manzoni). Gadda è infatti — allo stesso modo di un Joyce — un artista della parola e un artista del romanzo. E si può senz'altro affermare che se c'è un’antiletterarietà del romanzo come genere,

destinato per nascita al lettore medio, proprio essa dobbiamo adesso escludere. Con Gadda si è in presenza di uno scrittore della più gelosa — e fino maniacale — intimità, e di un sapientissimo

artifex,

un formidabile manipolatore di parole. Egli gioca con le parole, le «metastata», e le piega a dire verità inattuali. Viene in mente il mot-

to di spirito indagato da Freud, che nasce dal piacere delle parole, dal gioco delle contaminazioni e delle equivocazioni, ed è portatore di significati profondi ed esclusi. E del resto una postilla del Cahier suona: «Mantenere omonimia per accrescere confusione».

Che è già una precisa definizione della parola spastica. Ma vale la pena di ricordare che tra le cinque maniere che Gadda si è attribuite, la quinta non ha forse ricevuto l’attenzione dovuta. La leggiamo: «Finalmente posso elencare una quinta maniera (e), che chiamerò la maniera cretina, che è fresca, puerile, mitica, omerica, con

tracce di simbolismo, con stupefazione-innocenza-ingenuità. E lo stile di un bambino che vede il mondo (e che sapesse già scrivere)»45. Gadda schernisce i creatori. Non crede nella parola diretta, originale, immediatamente espressiva. E un pasticheur, cioè un elaboratore di lingue e di stili già dati — preesistenti (occorre sempre tener presente questo significato primario di pastiche). Ha bisogno dei codici più convenzionali e condivisi per rovesciarli e farli riuscire a una parola incondivisa: per portare alla luce, esporre, fare esplodere il sottinteso. Com'è il caso — ma è solo una verifica minima — di un «disegno» dell’Ada/gisa, quello intitolato Claudio disimpara a vivere, dove il protagonista è scacciato dalla casa di uno dei più celebrati e più riveriti costruttori di ponti, addirittura un professore del Politecnico, a causa di una parola sconveniente,

non

ammessa dal codice: ha detto che uno dei ponti è crollato, e proprio durante la visita degli studenti del Politecnico al cantiere (e con conseguenze di fratture e lussazioni). Dire la faccia idiota del

mondo è la divisa di Gadda. Ed è dal «colluttorio» delle parole di tutti, dei diversi dialetti e pronunce, che egli ricava il suo «timbro perverso»8, il suo tono fondamentale, la sua nota «puerile» e feli-

cemente caratteriale. E alienandosi nelle parlate del mondo che

egli può articolare la sua voce più propria. Solo narrando di altri,

può trovare la sua espressione.

4 R.I., p. 1269. 46 Ibidem, p. 386.

47 V.M., p. 436. 48 Ibidem, p. 437.

29

La parola di Gadda rielabora sempre un’altra parola in modi che vanno dalla parodia alla stilizzazione alto-mimetica (è la sua quarta maniera). Non è mai pura. Non risuona isolatamente, assolu-

tamente. Risuona spasticamente. E duale, allocutoria, mista. E pro-

prio per questo può essere pragmatica e etica. Smascherando l’insensatezza di ogni parlata — di ogni parlata che si voglia integra —, essa interpella il lettore. È fondata praticamente, polemica e critica. La realtà tende all’involuzione, alla stasi, all'arresto. La faccia idiota

del mondo è la sua faccia inoperosa. E le lingue del mondo tendono a loro volta a cristallizzarsi, a fissarsi in stereotipi, nomenclature

prefabbricate. Ergon, non energia. Le lingue si contraggono; si separano e si assolutizzano. Ridare ad esse vita significa allora dialettizzarle. Che è un’operazione sia di poetica che di etica. È l’operazione gaddiana, che è tanto riflessiva e critica, quanto d’invenzione e creativa. Gadda ha sviluppato una complessa elaborazione teorica, e dobbiamo tenerla presente. Non dobbiamo vedere nel suo lavoro di narratore un abbandono del lavoro teorico — che è poi soprattutto quello della Meditazione milanese —, quasi un voltar pagina, un volger-

si altrove. Le due cose stanno insieme. La Meditazione milanese fonda e giustifica la scelta di una tradizione narrativa che è quella del grottesco, non del ritegno (classico). Come in fondo ogni grande narratore, Gadda ci ha dato il romanzo e la teoria del romanzo, la «regi-

strazione di eventi»‘9, e la riflessione sugli eventi. E come dietro uno Sterne — secondo una tesi critica — sta l’empirismo radicale di Hume; così dietro Gadda sta il problematicismo del sapere e della scienza (la quale non può dirsi positivistica) di questo secolo. Solo così del resto possiamo capire perché i suoi romanzi siano interrotti e, insieme, dobbiamo considerarli artisticamente realizzati. Il non-finito, infatti, non che segnare una sconfitta della teoria, indica un

tratto formale. Il non-finito obbedisce cioè ad un modello di romanzo che anch'esso ha una tradizione, e ha una storia non meno ricca di quella del modello «classico», ben fatto, formalmente conchiuso,

organico. «Noi, cicisbei dell’Idea Frantumata»?° — ha scritto Gadda, riferendosi ai propri contemporanei, senza escludere se stesso. E se si

considera la Meditazione milanese , ci si accorge ben presto che il suo «programma ricostruttivo»?! comporta una completa dislocazione delle posizioni del razionalismo classico. Gadda risale ai suoi autori — Spinoza e Leibniz — e li corregge proprio là dove essi risultano più sicuri della sistematica della ragione e dell’ordine del mondo: proprio nel loro centro teorico. Leggiamo infatti: «Qualcuno fra i molti 49 Ibidem, p. 503.

|

50 C.E. Gadda, Un testimone, in Scritti dispersi, in Opere, vol. n, cit., p. 945.

51 V.M., p. 485.

30

razionalismi del secolo 17°-18° sarà stato certo della ‘finitezza in sé’ del sistema della conoscenza. Bastano a smentirlo le trovate del secolo 19° e 20°. Non ripetiamo noi lo stesso errore»??. C'è sì il dato ma esso è l’effetto della disgregazione dei millenni. Il dato è la memoria del mondo, ciò che è stato, la sua materia. E l’oggi - il corto

oggi — che eredita le rovine del passato. Gadda riconosce la pesantezza dei fatti. Ma il mondo lo considera bergsonianamente in divenire. E c'è un «amore del divenire»?3. Solo la pigra rApprescitazior ne (la «pigra consuetudine del comune rappresentare» 4) lo coglie immobile e definito in ogni sua parte. I limiti della conoscenza sono invece removibili. Niente di compiuto e di stabile — dal «contorno polito»95 — può essere affermato (l’ontologia è temporale). Possono essere formulate ipotesi. Ma appunto non bisogna dire — Gadda richiama la frase di Newton —- «Hypotheses non fingo»®%. In realtà ci sono solo ipotesi — e queste sono storiche e variabili. Anche i linguaggi più rigorosi patiscono di contraddizioni; e viene il tempo che le rivelano: «ciascuna scienza pone da sé i suoi termini, belli, lindi, certi, finiti, ben pettinati, indiscutibili, senza perplessità, senza angosce, senza nuvolaglie filosofiche e circondata da così indiscuti-

bili e ben pettinati perché, siede Regina del mondo. Guai però se qualche maligno pisano, o non pisano, sorge a imbrogliare le cose»97. I principî stessi della scienza sono soggetti a continua trasformazione : «Non esiste una ragione fissa ed eterna con le sue catego-

rie immutabili»?8. E non c’è metodo che l’assicuri. Il metodo ripro-

duce il noto, riguarda ciò che è già acquisito, non è euresi, invenzione del nuovo: «metodo si chiama di fatto, l’insieme de’ canoni con

cui il noto viene imitato e riprodotto»5?. Gadda svaluta il metodo in favore dell’euresi. E con questa tutta bergsoniana limitazione della potenza del metodo, prende congedo dalla scienza ottocentesca e positivista: «labile è il dato e labile il metodo»80, Da Spinoza — per dirla sommariamente — Gadda pare trarre il principio dell’identità dell’estensione e del pensiero, dell’ordo rerum e dell’ordo idearum, ma in accezione pragmatica per cui l’essere è il fare, le res diventano pragmata. E infatti quando parla di sistema intende sia il sistema teoretico, sia il sistema del mondo. Se «conosce-

57 58 59 60

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

p. p. p. p.

740. 733. 836. 675.

sl

re significa deformare»9!, anche l'oggetto — scrive — è in perenne

deformazione: «noi siamo convinti d’una cosa sola: che qualcosa accade e per accade intendiamo si ‘deforma’»82, Da Leibniz al contrario deriva il principio della molteplicità — dell’infinità delle monadi —, e degli insiemi logico-vitali. E si tratta di un Leibniz filtrato attraverso Bergson. Il mondo della vita appare infatti - ma con una drammaticità che è solo di Gadda — bergsonianamente mosso da forze ascensionali e involutive: come un mondo che si esprime in organizzazioni sempre più complesse, in articolazioni sempre più ampie, oppure si contrae, si parzializza, si divide — lascia che il plesso, il tessuto, si allenti e si disfi. La divergenza dai due grandi pensatori razionalisti — e dal razionalismo classico tout court — riguarda che cosa si debba intendere per scienza. Della scienza Gadda privilegia il momento esplosivo: non quello dell’assestamento, ma quello del mutamento (ad opera di qualche pisano o non pisano). Si potrebbe dire che egli opti — e riprendiamo per l’occasione la terminologia di Thomas Kuhn - per la scienza straordinaria contro la scienza ordinaria. E in termini di scienza straordinaria ogni volta la decisione razionale — quella più comprensiva — deve essere presa su un terreno mobilissimo dove i dati del problema appaiono cangianti e mai fissi. Ogni volta dal labile dato bisogna passare al superdato — al dato di secondo grado — e non ci sono fini prestabiliti: «In realtà l’idea di fine (come modello tematico per uno sviluppo o lavoro) implica in sé una conoscenza teoretica del punto da raggiungere, che è assolutamente smentita dai fatti nel caso del bene di 2° grado»®3. I fini sono statici, riguardano il mondo qual è, non il suo divenire aleatorio. Per altro, insieme con il pensiero finalistico, Gadda scarta anche il

pensiero causale tradizionale. L'universo è un «flusso deformatore»54, E nella «corrente sacra del gran fiume causale»55, le cause sono infinite. Sicché, con espressione di Musil che parodia Leibniz,

anche per Gadda si potrebbe parlare di principio di causa insufficiente. Le cause ci sono, ma sono insufficienti. Come

si vede l’ere-

dità positivistica è radicalmente problematizzata. Il programma del razionalismo

è criticato, svuotato dall’interno, e interamente

rifor-

o mulato. Ogni sistema chiuso ha solo un’apparenza di compiutezza. E af fetto — si ricorderà — da un’angoscia di sistema9%. Ha in sé un difetto — una lacuna — che ne invalida la coerenza. All'altezza del 1928 Gad-

61 62 63 64 65 66

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, fbidem, Ibidem,

p. p. p. p. p. p.

668. 742. 761. 760. 865. 740.

32

da ha fermamente stabilito il principio dell’ «impossibile chiusura d’un sistema»87. Non è qui il caso di apprezzarne la novità nella cul-

tura italiana strettamente filosofica. Certamente si tratta di un'apertura a orizzonti epistemologici e fenomelogici a quella data notevolmente inconsueti. E Gadda invero non manca di chiamare «cuori deboli»88 coloro che vorrebbero che il mondo ammettesse parametri fissi e rispondesse a una razionalità rassicurante. Ma che rappor-

to c’è tra la materia del mondo, ciò che preesiste, il dato — niente in-

fatti «si inventa o crea ex nihilo»99 — e il «programma ricostruttivo», il metter in ordine il mondo? L’ordine che non può essere che un

momento provvisorio — una «pausa» 70 — del flusso vitale, si ricava dal

caos. Ciò che assolutamente preesiste nel «letamaio diveniristico»”! del mondo è il caos. L'esempio che Gadda porta, illustrandolo graficamente, è quello dello scaffale di libri: al centro dello scaffale i li-

bri sono in posizione verticale; man mano che ci allontaniamo dal centro essi tenderanno ad adagiarsi, finché alle due estremità saranno in posizione orizzontale”. Finché essi si sostengono, sono in re-

lazione, ognuno è dialetticamente confine all’altro: laddove le relazioni vengono meno e il gruppo cessa di essere, si tocca il limite. Il limite è il niente, l’errore, la tenebra, la morte. Ed esso — è questo

un punto capitale - non è segnato in primo luogo dalla nostra finitezza nel vedere — dalla nostra corta veduta teoretica — ma dalla nostra (colpevole) finitezza nell’operare. Come dire che dove non giunge il nostro operare sta il caos: «il limite (o termine periferico)

segna il vanire della realtà nella tenebra (in quello che ci appare non realtà)»73. In termini filosofici si potrebbe dire che l’etica ha preminenza sull’intelletto, l’uomo pratico sull’homo theoreticus. La pura teoresi infatti è possibile se il mondo si presenta già sistematizzato; non è più possibile se si tratta ancora e sempre di sistemarlo. E il sistemarlo comporta il rischio dell’esperienza, deve fare i conti con la fondamentale instabilità di questa, con il dolore del divenire.

Abbiamo ripreso e interpolato più volte il testo gaddiano. Riprendiamolo ancora per una volta: «Io non vedo, noto qui tra parentesi,

né il fondo dell’abisso né l’assoluto cielo: ma partendo dal traballante ponte della realtà data cerco di estendere la conoscenza nelle (due) direzioni (ascensionale e involutiva). Aliter: non parto da un culmine assoluto né da un fondo assoluto, ma dal dato che è un

70 71 72 73

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

p. p. p. p.

874. 872. 679. 699.

33

punto del coesistente. E l’indagine si allarga come una chiazza d’olio sulla superficie sferica»”4. È qui il Gadda «più agnostico-umano» del confronto col Manzoni. Ma abbiamo finora trascurato di dire — o lo abbiamo lasciato implicito nel nostro discorso — che Gadda saggista, o filosofo, non cessa di essere un narratore, e un narratore argutissimo. La Meditazione

milanese è «contrappuntata» da una vivacissima narratività. La ma-

niera «logico-razionalistica, paretiana, seria, cerebrale» si mescola qui felicemente con le altre maniere. Gadda elabora una teoria, e la narrativizza. La realizza come scrittura. Per converso, lo scrittore più ricco, più straordinario, più abbandonato agli scatti o agli automatismi dell’invenzione, dell’opera futura, sarà sempre anche uno scrit-

tore intellettuale, cerebrale, filosofico

(pirandellianamente).

La

scrittura di Gadda in sostanza è una scrittura mediata da una teoria: da una filosofia di scrittore, vissuta, esistenziale. E se non vogliamo accontentarci di descriverla, ma vogliamo comprenderla, dobbiamo

guardare alla Meditazione milanese. E evidente infatti che il teorico della deformazione non poteva scegliere la poetica della forma. Doveva scegliere un’altra tradizione: l’altra tradizione. E doveva quindi lasciare in tronco il progetto di scrivere il romanzo di Grifonetto e Maria, salvo recuperarne degli «studi» in un secondo tempo. I compatti organismi narrativi non potevano soddisfarlo. E la fatica di «avviare e legare la materia del romanzo» doveva rivelarsi improduttiva. Ma già l’affollamento dei personaggi, le studiate confusioni onomastiche annunciavano un diverso progetto narrativo: un tipo di racconto che includesse la discontinuità dei suoi «momenti conoscitivi» - come Gadda li chiama —, e cioè capace di procedere per aggregazioni di realtà e per dissoluzioni di realtà, piuttosto che per combinatorie ben articolate. Nel Racconto italiano era già annunciata la poetica del groviglio. Torniamo adesso per un momento al Manzoni. Della correzione dei Promessi sposi, sappiamo che Gadda non condivideva la direzione del lavoro correttorio, pur ammirando il risultato di questo lavoro. A Gadda interessano infatti le mescolanze, non le eliminazioni. Ma del Manzoni egli non condivide soprattutto l’idea di un’ultima mano dello scrittore: la mano della perfezione. Il romanzo corretto lo vorrebbe ricorretto, e il ricorretto ancora corretto, e così via/?. Naturalmente dell’imperfezione del proprio romanzo Manzoni è il primo ad essere persuaso. Manzoni crede nella letteratura assai meno di Gadda. E tuttavia crede in una forma al li-

mite giusta o conveniente, a un’approssimazione alla forma giusta o

conveniente. E questa è una differenza significativa da Gadda.

74 Ibidem, p. 667. 75 Ibidem, p. 712.

34

Manzoni invero non dubita della forma, come non dubita di una verità in cui tutte le parzialità trovino una giustificazione e sì ricompongano in una legge. E lo stesso va detto dei grandi narratori classici. Si chiami questa legge — ci si consenta la semplificazione 7 Dio, o Spirito del mondo, o destino e necessità naturale. La forma è

un ideale da perseguire. Il compito è quello dell’approssimazione

alla verità. Ora Gadda parla di sistemi, e combatte il sistema. E, allo stesso modo, parla di totalità, intendendo per totalità una più comprensiva realtà, ed esclude uno sguardo complessivo sul mondo,

una presa di totalità. «Il processo euristico — scrive — è dunque l’autodeformazione del reale [...] e sembra non possedere modelli o te-

mi teoretici finali, non aver fini in senso teoretico stretto (chiamate

finali) pur ‘andando verso il diverso’. Potremo chiamare questo diverso il vieppiù differenziato [...] sebbene esista anche, come ho lumeggiato, il venir meno, il rilassamento del sistema di relazioni:

(cioè il deformarsi in regresso)»75. Dunque non c’è pausa, forma, «chiamata finale». C'è il movimento progressivo verso il diverso e più differenziato, non verso l’unità; o il regresso verso l’indifferen-

ziato o l’irreale. Gadda può quindi solo elaborare frammenti. E i suoi testi, che trasmigrano da un’opera all’altra, restano sperimenta-

li e in tensione. I suoi due romanzi — il Pasticciaccio come La cognizione del dolore— possono dirsi appunto una riunione di frammenti, raccolti e composti secondo un principio — si dice già nel Racconto italiano— di polarizzazione o differenziazione. La sua scrittura si espande non per sintagmi (lineari), ma per accumulo di paradigmi: si espande, per così dire, — l’espressione non è nostra — «a macchia d’olio». Ma occorre fare attenzione al significato di frammento. È infatti un significato paradossale. La coppia di Gadda è caos-cosmo”. Dove il «limite» tra i due elementi si sposta nei due sensi indefinitamente. Mentre di un’ultima chiusura dell’orizzonte non si può parlare. Non appartiene quindi alla struttura del mondo poter formare una totalità. Non si tratta più allora del frammento di un tutto — sperato o promesso o comunque possibile. Era questa la posizione dei romantici teorizzatori del frammento come pars totalis. Si tratta del frammento di un tutto che non c’è. E non può essere neppure idealmente postulato. È strutturalmente escluso. Frammento appunto come struttura. Il frammento diventa struttura. Ogni forma insomma non può essere che una «pausa». Il suo destino è quel «letamaio diveniristico» che è il cuore vuoto del mondo e che magari possiamo leggere come una trasformazione della «zucca levis, sbusata intus» del poema del Folengo. «Il fatto in sé, l’og-

76 Ibidem, p. 783.

TT V.M,, p. 445.

35

getto in sé — scriverà il tardo Gadda — non è che il corpo morto della realtà, il residuo fecale della storia»?8. E corpo morto e residuo è

(tocchiamo un ultimo punto) l’io in sé. Gadda non ha risparmiato il

suo scherno agli illusionismi dell’io, alle sue maschere, alla sua pre-

tesa di «consistere». L'io non è semplice. È plurimo, in metamorfosi. Non è una forma. Ma così si pone anche il problema della figura del narratore. Gadda se lo pone nel Racconto italiano. È un problema importante che riguarda non solo quello del rapporto del narratore col personaggio, quindi del gioco ab exteriore-ab interiore, ma anche quello del rapporto narratore-lettore. Su quale fondamento giudicare il personaggio? E come farsi riconoscere ed accettare dal pubblico? Con quale autorità rivolgersi al lettore? Gadda distingue tre maniere. C’è prima di tutto la maniera omerica. Omero racconta a un pubblico che ascolta cose che già sa. Raccontandole Omero le ricorda. Egli attinge all’ «universale umano». È il rappresentante di un’u-

manità unanime, di un’umanità «unidroma»”9. Ma evidentemente i nostri tempi non sono omerici, e non sono unidromi. Un altro

esempio è Dante. E Dante può parlare con suprema autorità, grazie alla sua fortissima personalità. Ma — citiamo — «una pesante casa non può poggiare sopra una pietra mal ferma»80. E «il signor grigiastro qualunque dei qualunqui»8!, come Gadda in via ipotetica si definisce, non può assimilarsi a Dante. La prima maniera non è quindi praticabile. Praticabile è invece la seconda maniera che non è più quella dell’universale umano. Lo scrittore può farsi interprete del senso comune, e farsi scrittore alla moda, scrittore del giorno.

Allora «il termine universale può essere sostituito da un termine non universale, ma a larga base»8?. Ma è la via del romanzo d'’intrattenimento. E Gadda la rifiuta, come rifiuta lo «straussismo»

un po’ il male lirico della nostra vita moderna»)

(«che è

di D’Annunzio83

— scrittore per altro rispettato —, e cioè la letteratura fatta di scintil-

lanti immagini che debbono mistificare il pubblico. E la letteratura della seduzione. Ma c’è una terza maniera. E in questa Gadda si rispecchia e si riconosce. Qui il «qualunque dei qualunqui» si inserisce nell’univer-

sale umano e dice: «‘ci sono’»84. Scriverà Gadda nella Meditazione milanese. «E anch’io, ultimo essere, non posso di me altro dire se non

78 Ibidem, p. 630. 99 RI., p. 476. 80 Ibidem, p. 477. 81 Ibidem.

82 Ibidem, p. 479. 83 Ibidem, p. 482. 84 Ibidem, p. 465.

36

le parole che di sé dice il biblico Primo: «Sum qui sum’»®5. Chi scrive allora non si presenta come un modello, ma si spoglia di ogni attributo e autorità: è «il signor grigiastro», l’uomo senza qualità, che fa una nuda dichiarazione di esistenza, e si tratti pure di un’esistenza abietta. «Questa coscienza della propria persona morale e ni anche abietta, è — leggiamo — automatica nei più potenti scrittori»??. Lo scrittore della terza maniera si presenta nella sua indiscutibilità di uomo: come «la pietra mal ferma» sulla quale dovrà poggiare la casa instabile. Non potendo sottrarsi alla trama mobile delle relazioni, egli non potrà farsi giudice. E i suoi giudizi saranno reattivi, non magistrali. La sua ironia sarà quindi anche autoironia, e la sua parodia autoparodia. La sua parola avrà due accenti semantici: riprenderà la parola dell’altro — le lingue antiche e nuove del mondo - secondo un’altra intenzione insieme propria e provvisoria; si sdoppierà in due parole; sarà due in uno, uno spasmo di parola. Gadda ha parlato — e la frase è famosa — della sua «identità di ferito, di smarrito, di povero, di ‘dissociato noetico’»87, coniugando insieme

momento affettivo e momento intellettuale, il pathos e il logos. La ragione in Gadda si dimostra invero affetta dal suo contrario. Il logos non sta fuori dalla corrente della vita, ma si divide secondo le proprie possibilità, patisce della propria infermità. «D’intorno a me,

d’intorno a noi, — si legge di seguito — è il mareggiare degli eventi mortiferi, il dolore, il lento strazio degli anni. Il concetto di volere si

abolisce, nel lento impossibile. L'’oceano della stupidità». «La cognizione del dolore», la tentazione dell’impossibile, il senso della mor-

talità costituiscono l’altra faccia — la faccia malinconica — di Gadda. Nel quale sublime e grottesco si congiungono sotto il segno della dismisura. Gadda ha un potente interesse per il teatro del mondo. Ma all'amore del divenire sottentra il dolore del divenire. E la cognizione del dolore è cognizione dell’assoluto errore, dell’«oceano della

stupidità», della tenebra. Le pulsioni regressive e negative della vita vanificano, e rendono risibile, ogni tentativo di darle un ordine. La

ragione sì scopre a un certo punto in infinito difetto. E la vis comi-

ca, fantastica, deformante si rovescia nel suo contrario. L’allegria del riso, del fescennio, della più festosa vitalità si mescola con una più interna, alto-simbolica, manieristica tristezza.

Rifacciamoci adesso per concludere all’inizio del nostro discorso. Abbiamo cominciato accennando ad alcune novità di struttura del romanzo novecentesco. E abbiamo ricordato La coscienza di Zeno. Svevo è scrittore di lingua povera. Con l’infinita ambiguità del suo 85 M.M,, p. 848. 56.R.i-p.A481 ST V.M. p. 431.

37

umorismo, egli smaschera le parole a senso unico, il dogmatismo delle lingue e delle grammatiche. E lo fa grazie a un’estrema riduzione del linguistico, tanto più risoluta quanto più discreta e in sottotono. Gadda è invece lo scrittore della moltiplicazione delle lingue. E tuttavia non mancano convergenze tra le due poetiche. Si prenda solo l’ultimo capoverso della Coscienza di Zeno. È un brano densissimo, da prendere alla lettera e al di là della lettera, offerto a

una pluralità di interpretazioni. Nella sua parodia dell’ Apocalisse (come l’abbiamo definita), Svevo ci dice — ma dobbiamo abbreviare

— che non può esserci fine del racconto, ma potrebbe esserci — ed è forse addirittura incombente — la fine del mondo: un evento -— o non-evento — che nessuno potrebbe raccontare, come nessuno potrebbe udire l’esplosione immaginata. Come in sostanza non c'è risoluzione della malattia della vita se non nella morte, così non c’è risoluzione del racconto. Sono quindi possibili solo gaddiane «pause». E La coscienza di Zeno termina appunto in medias res. Quando il romanzo s’interrompe, Zeno è malato, e il mondo ancora più mala-

to. Niente ha ricevuto compimento (e l’avventura del personaggio potrà quindi continuare). Svevo pone parallelamente il tema dell’impossibilità di guarire la vita, e il tema dell’impossibilità di chiusura del romanzo. Non ci sono storie dal «contorno polito». Né la vita, né il racconto hanno un punto fermo, un fine ultimo, un telos.

La lingua di Svevo — concludendo — ci suonerà sempre un po’

straniera. Familiarissima invece ci suona la lingua di Gadda, tanto da apparirci intraducibile in lingua straniera. Comune per altro è il principio dell’incompiutezza come struttura. Svevo è l’artista grandissimo di un’arte povera. Egli trapianta un pezzo d'Europa, o di Mitteleuropa, in un terreno altrimenti costituito. Gadda fa in qual

che modo un’operazione uguale e inversa: innesta il tronco della tradizione o delle tradizioni italiane nelle correnti più vive della cultura del suo — e del nostro - tempo. Gadda non ha mai parlato di Svevo. E del resto ha appena accennato a Pirandello. Ma dobbiamo ripensare insieme la teoria dell’umorismo di Pirandello, la poetica

della parola spastica di Gadda, e l’idea del personaggio come «abbozzo» di possibili di Svevo. Dobbiamo avvicinare questi tre scrittori. E ciò che li avvicina è appunto la scelta di una tradizione, la poetica del dissociare e dello scomporre, la critica delle forme.

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lt Ibidem, 6 Ibidem, *Ibidem, ®Ibidem,

p. 527. p. 529. p. 530. p. 654. p. 655.

129

generalità anagrafiche, il nuovo titolo suona parimenti spoglio di ogni indicazione militare e suppone altro genere di racconto personale: «Note autobiografiche redatte in Cellelager»; poi il solito verso di Virgilio, e finalmente le generalità militari: «Tenente Carlo Emilio Gadda, del 5.° Reggimento Alpini»®. Non si cela del tutto, insomma, ma scompone di nuovo la sua persona, quasi che il narra-

tore non fosse il proprietario del taccuino su cui sta scrivendo. A dissipare il sospetto, soccorrono nel retro estese Annotazioni, firmate e datate, in cui il proprietario, il tenente Gadda insomma, chiama

«libro» queste Note, dice dov'è stato acquistato (a Celle, «provincia

di Hannover», in un negozio e con un prezzo individuabili), forni-

sce informazioni sulla «numerazione preventiva delle pagine di questo libro» e spiega che «costituisce il secondo volume delle sue note personali per l’anno 1918»!0. In altri termini, l'ipotesi che, nel corso degli anni, tre fossero divenuti i Gadda, l’autore, il narratore, l'attore (il tenente o sottotenente Gadda, il Gadda senza gradi e

Gaddùs) si affaccia sì nell’intitolazione dei suoi giornali, diari o libri

autobiografici che dir si voglia, ma non è robustamente voluta. In definitiva segnala una confusione, non so ancora se proficua, di prospettive narrative, che l’autore forse avvertì per primo, se ha cercato d’imbrigliare, ripetendo sino all’esasperazione il rituale di attribuzione a sé, uno più che trino, la responsabilità del racconto di

guerra e prigionia. Ultima viene la Vita notata. Storia, un altro titolo autobiografico, come il precedente, ma senza oscillazioni nell’individuare l’autore, che è il ben noto «tenente», mentre destano qualche interrogativo le date. Nel retro, firmata e datata, è la solita av-

vertenza sulla numerazione progressiva delle pagine»!!.

Riassumendo, i testimoni a disposizione (o meglio sopravvissuti alla guerra) hanno dimostrato la riduzione non facile del diverso

materiale scrittorio allo stesso autore-narratore-personaggio, e la progressiva trasformazione del «giornale» in «diario», e di questo in struttura autobiografica, sì da meritare alla fine la qualifica di «libro». Questo alla data 1918, legittimando fin da ora la pubblicazione nel ’55, presso Sansoni, di un libro col titolo di Giornale di guerra e di prigionia, sia pure libro che conserva solo alcuni tratti del testo

così come ci è stato restituito oggi (manca il primo «giornale», poi recuperato nell’edizione Finaudi del ’65; e mancano

in entrambi il

Diario del ’17, il «pro-memoria» ed il primo gruppo di note sulla prigionia, resi noti nel ’91 dagli eredi Bonsanti per Garzanti). Altro senso, meno

esteriore, alla parola «libro» non so dare, per adesso,

laddove quegli altri di «giornale» e di «diario», di «note autobiogra-

9 Ibidem, p. 775. 10 Ibidem, p. 776. 11 Ibidem, p. 826.

130 fiche» e di «vita notata», mi paiono meritevoli di attenzione, se inci-

dono sulla scrittura (dimenticavo il «pro-memoria», correttamente ribattezzato da Isella «Memoriale»). Il primo Giornale di Campagna, che va dal 24 agosto del ’15 al 15 febbraio del 16, gode di un’avver-

tenza, fuori computo se pur datata, che dice subito, chiaramente, a quale tipo di operazione scrittoria Gadda si uniformi nella circostanza:

Edolo, 24 agosto 1915. Le note che prendo a redigere sono stese addirittura in buona copia, come vien viene, con quei mezzi lessigrafici e grammaticali e stilistici che mi avanzeranno dopo la sveglia antelucana, le istruzioni, le marce, i pasti copiosi, il vino e il caffè. Scrivo sul tavolino incomodo della mia stanza, all'albergo Derna, verso le una e

mezza pomeridiana. Le imposte chiuse e i vetri aperti mi lasciano entrare l’aria fresca e quasi fredda della montagna, i rumori dei trasporti e le voci della gente: mi impediscono la veduta di un muro, che si trova a due o tre metri in faccia e in cui non figurano che finestre chiuse,

e delle rocce del Baitone!?. È subito evidente che Gadda rinuncia a quell’ideale di scrittura espressionistica che sarà poi tutto suo, fin dalle prime opere a stampa. Per adesso si adegua alla norma linguistica del «giornale», che serba la prima traccia degli avvenimenti vissuti, distinguendo bene, per altro, l’otium della scrittura dai negotia bellici, o meglio prebellici (subito, per altro, risulta l’estraneità di Gadda alle abitudini non serie dei suoi compagni; e, per converso, subito si dipinge la condi-

zione di sofferenza e di rischio cui vanno incontro quanti già sono al fronte). In queste condizioni, scrivere, pur verificandosi in una specula che isola e protegge (sia pure una camera d’albergo, che equivale, abbandonato il registro alto, alla «cameretta» non identificata di un'ispirazione maggiore), non comporta assumere una posizione dall'alto, «ad epica distanza» direbbe Bachtin. In data 8 gennaio 1916, ad inizio di un nuovo anno, ci si imbatte in questa conferma (ma non solo) dell’esistenza di una sorta di controfigura dell’autore nell’ambito del «diario», non «giornale»: «Diario del Gad-

dus / Sempre in culo a Cecco Beppo!»!3. Lo scadimento di livello

stilistico qui si accentua; ma si crea anche una sorta di complicità

fra il protagonista e lo spazio espressivo che lo costituisce. E c'è da chiedersi quanto giovi il constatare che non solo questa volta, ma molte altre Gadda si rivolga al suo scritto come a un «diario»!4: è un’oscillazione già segnalata a livello esterno, ma ora operante al-

12 Ibidem, p 443. 13 Ibidem, p. 518. 14 Passim.

Lal

l'interno, e quasi sempre, devo aggiungere, con un’intonazione solidale, se non affettuosa, che fa del «diario» un interlocutore, o me-

glio un compagno, cui ni: nel primo Giornale sta nominalmente, ma formata da «Gaddus»

è affidato un compito difficile (in altri termidi Campagna l’autore coincide col protagoniin realtà sotto di loro vive un’altra coppia, e dal «diario»). Tipica di questo rapporto è

una constatazione come la seguente, datata «Ponte di Legno, 30 di-

cembre 1915»:

Questo mio disgraziato diario va avanti come un asino frusto a digiuno: gli è che anche il mio spirito mi pare una barca scucita in un angolo di cattivo porto, dove la risacca sciaguatta ogni cosa. Un giorno passa presto: ma come un seguito di noiuzze e di amarezze, derivanti sopra tutto dal cattivo equilibrio delle mie facoltà, vecchia morchia del sottoscritto: sicché alla redazione del giornale mancano tempo e

voglia!9.

| Parrebbe quasi di capire che il «diario» vada avanti comunque, coincidendo

con

la vita, con

la trascrizione immediata

della vita,

mentre il «giornale» sia frutto di elaborazione ulteriore, o forse di composizione seguente, coincidendo con quella che poi Gadda chiamerà

«vita raccontata».

Ma sono supposizioni; confortate, per

altro, ancora da una dichiarazione d’autore del 16 gennaio 1916: «Grave lacuna nel mio diario provocata da pigrizia»!5: ovvero, il dia-

rio non è responsabile di per sé, se non trascrive immediatamente la vita di ogni giorno. Se Gaddus e il diario coincidono, non vuol dire, come già si è lasciato intendere, che Gadda sia tutto nel diario:

può aprirgli un vuoto, e il diario allora cessa di rappresentarlo. Il «giornale» nell’insieme non risente di questi buchi improvvisi. E di «Gaddus» che dire? La sua formazione è certamente comi ca, e ben si addice allo stile basso del «diario», ma non per questo, come sembra suggerire una battuta in latino: «hic est», pronunciata davanti ad una «casa di piacere» di Edolo, la sua probabile lingua è quella d’origine terenziana o plautina. La percezione tragica della guerra imminente impedisce simile degradazione del sottotenente protagonista; e difatti, quando Gadda accetta di discorrere di «Gaddus», con l’aggiunta dell’epiteto di «Duca di Sant'Aquila», gli impresta un’immaginazione epico-lirica che, quand’anche fosse di seconda mano, si allontana vistosamente dal linguaggio asciutto delle «note» del diario, come pure dai tentativi oratori di riversarvi paro-

le di sdegno, di commiserazione, di angoscia. Qui soltanto, in tutti i

diari degli anni di guerra e di prigionia, «Gaddus» si conquista una 15 Ibidem, p. 513. 16 Ibidem, p. 521.

132

zona espressiva propria, introdotta sì da un avverbio di tempo latino, sostenuta sì da toscanismi d’accatto, ma poi tosto proseguita alterando linguaggi convenzionali (la prescrizione scritturale come la canzone alpina) in modi che prefigurano il maggior Gadda: Hodie quel vecchio Gaddus e Duca di Sant'Aquila arrancò du'’ore per via sulle spallacce del monte Faetto, uno scioccolone verde per castani, prati, e conifere, come dicono i botanici, e io lo dico perché di lonta-

no guerciamente non distinsi se larici o se abeti vedessi. Ahi che le rupi dure e belle del corno Baitone si celavano nelle nubi, forse per ira

della non giusta preferenza data ai rosolacci. Ma è destino che chi vuole non possa, e chi può non voglia. Ora, questo Gaddus amerebbe adunghiare questo Baitone, ma gli è come carne di porco, a volerla mangiare di venerdì: Moisè ti strapazza. Ora, questo è il venerdì, perché è il tempo delle mortificazioni, e Baitone è porco, perché piace, e il generale Cavaciocchi, buon bestione, è Moisè, perché non vuole. E il

Gaddus è il pio credente nella legge, e nella sua continova sanzione. Per che detto Duca seguitò per prati e boschive forre la sua buona mandra, che lungo la costa cantò nel silenzio della valle. Cantò la canzone dell’alpino che torna, poi che chi non torna né pure avanza fiato

a cantare, e che gli è chiesto come s’è cambiato in viso dell’antico colore: è stato il sole del Tonale che mi ha cambià il colore, rispose l’alpi-

no: e la sua ragazza si contenta!”. E via di questo passo, fino alla comparsa danzante di due «orsi umani ubriachi», messi in fuga dalle «cannonate», e il ritorno del «silen-

zio» nello scenario alpestre, sì che della guerra sortisce, infine, un'immagine grottesca, ma non affatto evasiva. Qui nasce, qui vive e

qui muore «Gaddus». Poco conta al riguardo ch'egli sia (tra parentesi) il protagonista del secondo Giornale di Campagna, o Giornale di guerra per l’anno 1916. La nota d’avvio, datata «Vicenza, 4 giugno 1916, ore 13», avvisa subito che metamorfosi ironiche sono, adesso che Gadda ha rag-

giunto il fronte, impossibili:

Rinnovo in queste pagine, all’inizio di un nuovo periodo della mia vita militare, il giornale di guerra che intralasciai durante l’inverno; con la speranza che per alcuna sua nota possa credermi soldato combattente

nell’opera della redenzione!8.

«Gaddus» farà solo più una capatina nella pagina finale di questo Giornale, protagonista di questa eroica (si fa per dire) decisione:

17 Ibidem, p. 452. 18 Ibidem, p. 531.

133 Quindi Carlo Emilio Gadda, Duca di Sant'Aquila, (Gaddùs)

parte col

piede sinistro e si avanza con passo scozzese verso Malga Fossetta per partecipare, se pur si farà, alla offensiva del 20.° Corpo d’Armata!9.

Ancora, se si vuole, si potrebbe prelevare qualche espressione latina, incorniciare a sé il ritratto sarcastico del «vecchio e bravo capitano, a cui il Ministero ha tardato la promozione, a cui la guerra ha cosparso di peli e di sudiciume la faccia, ha impolverato le scarpe e bisunto il vestito» («Asineria N. 2», del 3 luglio 1916)?9; oppure circoscrivere lo «spettacolo quasi comico [...] offerto dal duello di una nostra batteria, credo di automobili,

[...] con artiglieria nemica»?!

del 30 giugno. Ma sono comunque momenti rari, che allentano di ben poco la tensione ideologica e la carica esistenziale di questo «giornale»

(al solito, nel suo corso, prevale la parola alternativa

«diario», ed in un caso almeno: «i giudizî poco benevoli verso i superiori sono chiusi in questo diario come in una tomba»?%, riappare

netta la minore disponibilità del diario a farsi pubblico). Il nucleo umano

e mentale del «giornale», o «diario» che dir si voglia, tenuto

nel ’16, è dominato ormai dalla partecipazione dell’ufficiale protagonista alla guerra di trincea, ed è subito segnalato, prima ancora di entrare nella zona calda del conflitto. Accade a Vicenza, il 5

giugno: Il mio animo, non ostante la placida vita di questi giorni, non è affatto sereno: alle ragioni permanenti della mia tristezza, latente sotto le attività consuete del cervello, si uniscono quelle fittizie, concernenti la no-

stra situazione militare. La preoccupazione patriottica, etnica e politica, vela come di un colore di desolazione l'aspetto della mia patria divina, della serena mia gente

[...]. Il pensiero della mia famiglia e un

po’ anche quello del mio pericolo mi angustiano; ciò non ostante la volontà è fermissima, la ragione fermissima, nel decidere che è doverosa la mia presenza al fronte. Spero che il mio sistema nervoso, viziato congenitamente da una sensitività morbile, sostenga, grazie allo sforzo cosciente dell’anima, l’orrore della guerra, che ancora e sempre e non per ostinazione polemica e non per indifferenza di «imboscato» io credo necessaria e santa. E crederò questo con la ragione anche se pallido e contraffatto e fuori di sé e stremato dall’emozione e incapace di parlare e lurido e angosciato, affamato e assetato e pieno di sonno, ne invocherò la cessazione per debolezza, per stanchezza?3.

19 Ibidem, pp. 650-651.

20 Ibidem, 21 Ibidem, 2° Ibidem, 23 Ibidem,

p. 561. p. 555. p. 631. p. 533.

134

Nasce qui, in questo pronunciamento interventista minato dalla «nevrastenia»?4 la violenta polemica, direi quasi di timbro malapartiano, contro l’«italiano» immorale ed apatico («l'italiano carogna»,

insomma)?5, soldato o graduato che sia. Alla polemica, ovviamente,

fanno riscontro tutte quelle «note» (e sono la maggioranza) che raccontano le azioni militari in termini obiettivi, con tanto di nomi,

oggetti e disegnini illustrativi, perché non «sfuggano alla Storia»?9, come Gadda sottolinea. E dire che la rappresentazione di sé come

autore, se ancora si colloca entro la «camera» di un albergo, «al lu-

me della lucernetta a petrolio»?” — c’è una famosa poesiola di fine Settecento che rilancia siffattamente il grande motivo umanistico del santo Girolamo nel suo studiolo! —, già però proietta il soggetto di questa figurina del valore astraente dello scrivere fuori di qualsivoglia dimensione protettiva: «Giorno 25 giugno 1916: in trincea, nel luogo descritto il 22. — Scrivo verso le 10 del mattino, una venti-

na di metri più indietro del mio primo pezzo, seduto sopra una cassa di bombe a mano, con un sole acciecante»?8. È la formula meno

enfatica possibile, questa, di chi allora teneva un «giornale di guerra», e non provava alcuna tentazione futuristica d’immergersi nello «zang-tumb-tumb» emerso sulla pagina scritta sin dall’ottobre del "12, ad Adrianopoli, in una battaglia di quel conflitto bulgaro-russo che tanto esaltò Marinetti. Nel terzo diario a disposizione, «di guerra per l’anno 1917», come recita il titolo, ma ben presto di prigionia, il «Duca di Sant’Aquila (Gaddus)» non riemerge in alcun spazio espressivo, a meno di non

interpretare, come

traccia sua, quella offerta dai disegni non

informativi, non tecnici, non ingegnereschi, che raffigurano oggetti

della vita del prigioniero in baracca (letti, stufe, e soprattutto il «vassello del cibo — recipiente simile a quello in cui si abbeverano i porci —»?9 della Caponiera, o luogo di reclusione nella fortezza di Ra-

statt). E nessuna delle letture denunciate, ora, specialmente di Maia, o Laus vitae, può scalfire in alcun modo il ritratto serio di sé,

lasciato in precedenza; neppure quando si fa menzione del «Tartarin sur les Alpes»9, intravedo Gaddus nella raffigurazione animale-

sca di sé, evocata in margine al libro di Daudet: «Con avidità di bel-

va, con voluttà serpentesca, le mie labbra, il mio palato, il gozzo e lo

stomaco raccolsero dalla scodella la pappa di rape e l’altra di fave 24 25 26 27 28 29 30

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

p. p. p. p. p. p. p.

860. 537. 650. 616. 547. 681. 684.

135

disciolte, una specie di beverone da cavallo»3!. Parimenti capita nell’altra zona conquistata nel diario precedente. Se alla polemica contro i compatrioti sì sostituisce quella contro i nemici, se alla descrizione della morte in guerra succede quella della fame in carcere, Gadda non si discosta per nulla dal «giornale» precedente, anche nelle abitudini formali intraprese; e non è sforzo di continuità, ma

permanere di mentalità e prosecuzione di abitudini descrittive (la preoccupazione iniziale circa l’ora delle «indicazioni del tempo nel presente diario»3? va in questo senso). Ma c'è una lacuna enorme in questo «diario» (e non più «giornale», in alternativa), che ne infirma la natura, e rende tosto neces-

sario un supplemento: praticamente non vi si racconta come l’ufficiale Gadda ed il suo drappello sono caduti nelle mani del nemico, durante la ritirata dell’Isonzo. A ciò provvede il successivo memoriale, ovvero: «I particolari della battaglia dell’Isonzo e della mia cattura, raccolti pro-memoria,

in caso di accuse.

(Narrazione

per uso

personale, scrupolosamente veridica)»33. Non fa neppure bisogno di notare che la divisione in capitoli numerati della materia qui raccolta segnala subito che siamo fuori del tempo narrativo del diario,

e che siamo entrati nell’ambito delle scritture apologetiche, se non forensi (Gadda del resto, al termine della guerra, dovrà giustificare il suo ppurpie nella circostanza davanti ad una commissione d’inchiesta). In questa prospettiva il diario precedente è quasi retrocesso al livello di contenitore di notizie da utilizzare, ma non

per

questo è ignorato il rapporto diretto con la realtà che gli appartiene costituzionalmente

(«scritto con memoria fresca, nel campo di con-

centramento, tra le 13 e le 16 del giorno 7 novembre 1917»55, vi si

legge ad esempio, volendo Gadda dare «assicurazione delle idee e dei fatti»; ed è chiaro che innesta nell’otre nuovo vino vecchio, ma genuino!). Differentemente dal diario, ancora, è ovvio che tacciano nel memoriale i risentimenti e le invettive, taddove si accampano (e

fin troppo) non solo le giustificazioni, ma gli auto-clogi, estensibili ai propri collaboratori (la mini-epopea dell’attendente Sassella, in specie)39. Restano, comunque, qua e là, aree oggettive di racconto, e sono tanto di grande astinenza sentimentale quanto di grande concentrazione mentale. Tale risulta il ricupero del cadavere del soldato ferito a morte da una granata, pur rivendicato all’estensore

31 Ibidem, pp. 684685. 32 Ibidem, p. 657.

33 Ibidem, p. 697.

1

34 Cfr. G. Ungarelli, «Grandezza e servitù militare per Carlo Emilio Gadda», PRE Lingua e letteratura, a. vui, n. 16, pp. 5-47. 35 C.E. Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti, cit., p. 702. 36 Ibidem, p. 665.

136 del memoriale

(«credo che nessun soldato italiano sia stato così

sollecitamente e premurosamente raccolto dal suo ufficiale e dai suoi compagni»; e si noti che il soggetto diventa grammaticalmente il complemento d’agente, non identificato e accomunato ad altri, quasi una sorta di punizione del proprio auto-elogio): Di sasso in sasso raggiungemmo il baracchino: il cadavere era bocconi, decollato completamente col collo fuori della terrazza, disteso attraver-

so il terrazzino di materiale di riporto [a fianco un disegnino illustra il tutto]... Sollevammo il cadavere: sangue e cervello colavano lungo il muro. Per un filatello della mucosa labiale, il palato e la corona dei denti rimasero attaccati con un po’ di barba e mandibola inferiore al collo tagliato?”.

Tale, ancora, casta e concentrata appare la visione di Caporetto ca-

duta nelle mani dei tedeschi, sempre gestita in prima persona plurale (non parlo di castità di costumi): All’entrata del paese, e anche nelle case, muli morti e cadaveri

d’un ufficiale in una casa) asfissiati gli uni e gli altri: qualcuno di estrarre la maschera. Nei prati pozze di granate, (ricordo 305) ma in complesso non come a Magnaboschi, e tanto meno ti. Gli è che quelle granate arrivarono addosso a gente non

(uno

in atto una da sul Faiavvezza

(chauffeurs, borghesi, comandi) e cariche di gas asfissianti, producen-

do più panico che danno. Due cocottes piene di sifilide e di sguaiato servilismo pregarono De Candido di raccomandarle a ufficiali tedeschi. Cola e lui chiesero quale fosse la loro sorte e si fermarono a chiacchierare: io impaziente feci loro premura e proseguimmo. Ricordo le sfacciate parole della più piccola delle due SIRO «Per noi italiani o tedeschi fanno lo stesso!», dette con allegria”8. Dove lo sdegno dell’autore non nasconde, non deforma, la crudità

della cosa.

Tutti i diari successivi, che vanno dal primo gennaio del ’18 al 31 dicembre del 19 (Rastatt ancora, poi Cellelager ed infine il ritorno in Italia, a Milano, a casa in primo luogo), venendo meno il con-

fronto con la guerra e con la sua dinamica, e riducendosi necessa

riamente al resoconto della prigionia (fame, patimenti, malattie, brutalità dei tedeschi, ecc.), quando non insistono su tasti già tocca-

ti più volte (insufficienza morale degli italiani) o non si risolvono

nel prevedibile elogio dei compagni di reclusione più affini (gli scrittori Tecchi e Betti), lasciano trapelare una crisi ben più profonda e complessa, che il memoriale ha, a propria volta, occultato, e 37 Ibidem, p. 718. 38 Ibidem, pp. 739-740

13% che esplode ora in tutta la sua intensità. Il 19 febbraio del 18, in Ra-

statt Gadda tenta, come in ogni diario che si rispetti, una sorta di riepilogo della propria vita che fa risalire all’«adolescenza» l'origine del disagio attuale: quegli «anni tormentosi» spiegherebbero i «difetti» attuali, «l’eccessiva sensibilità e umanità»,

che definisce

splendidamente come «piaga aperta alla violenza del vento»; e poi «la timidezza», «la scarza forza di volontà», con un ricupero critico dell’alfierismo di maniera39, che lascia intendere la possibilità di

un’analisi interiore per nulla bloccata in facili schemi letterari. L'ambizione di un maggiore racconto di sé in questo periodo opera ancora poco, ma nelle successive Note autobiografiche redatte in Cellela-

ger apprendiamo che la precedente serie di note da Rastatt doveva essere il primo volume di «note personali», se questa ne è «il secondo». «Gaddus scribit» è l'incipit delle Note autobiografiche, ma, se non è una formula rituale, magari propiziatoria, la materia ora me-

no che mai consente il rivestimento comico del protagonista. Non per questo l’autore si adagia comodamente nelle consuetudini del «diario», chiamato sì in causa, ma con qualche difficoltà («questo diario non è ormai che un seguito di frammenti», scrive Gadda il 20

settembre del ’18 da Celle#!). E la ragione della crisi della forma «diario» è da individuare nella domanda sinora inespressa. «Oh! Con quali parole, con quali affermazioni potrò smentire la taccia di vile che mi sarà fatta in eterno?», si chiede Gadda l’11 maggio; e subito risponde negativamente, avendo da un lato smarrito la testimonianza, in parte scagionante, di un altro diario («il mio diario del

Carso», con «carte topografiche» annesse e «schizzi») e, d’altro lato, non potendo contare sui propri soldati, ormai dispersi per il mondo. E prosegue nei modi dello sdegno, dei quali si è fatto cenno poco prima: Così tornerò, se tornerò, a capo chino, tra migliaia di traditori e di cani, di puttanieri da café-chantant, di istruttori di reclute a base di bordello e di fiaschi in batteria, di eroi dei comandi di divisione, di araldi

della vita comoda e quieta... E l’usbergo del sentirmi puro, del mio vecchio maestro di fede, potrebbe esser pieno di letame, che sarebbe egualmente lucido e ammirato. Se pure è lucido il mio, che lo vedo già intaccato dal morso della delusione consigliatrice a mal fare”?.

Non insisto oltre: è evidente che non siamo di fronte ad una di quelle previsioni dell’accadibile, che appartengono pure alle con-

39 Ibidem, 40 Ibidem, 41 Ibidem, 42 Ibidem,

p. 755. p. 776. p. 812. pp. 782-783.

138 suetudini del genere, ma ad un rovesciamento dell’immagine di sé,

costruita in tante note di anni precedenti. E il rovesciamento è tratto distintivo forte della costruzione autobiografica di ascendenza agostiniana, coincidendo per larga parte con la conversione dalle tenebre alla luce: qui, nondimeno, il movimento è esattamente il contrario, dall’«aria fresca e quasi fredda della montagna di Edolo», nel primo Giornale, al «letame» della città malsana ed immorale (sti-

racchio un po’ la seconda citazione di quest’ultimo testimone autobiografico, ma sono convinto che la contrapposizione accennata esista, ed appartenga all’allora tanto proclamata, dai futuristi, antitesi «guerra-mondo»). Non manca neppure una trascrizione cattolica di questo rovesciamento-conversione, là dove si dà il resoconto della visita del nunzio del Vaticano al campo di prigionia, il 23 settembre

del ’18. Non solo le lacrime condiscono l’incontro, ma questo si conclude con un ulteriore atto di diminuzione della rivolta del protagonista a difesa di sé: Sentii con quella forza subscosciente che è tanto forte in me nei momenti patologici che realmente la mia, la nostra vita è un brevissimo tempo; che già mezza è trascorsa senza frutto d’onore, senza una gioia; sentii con intensità spasmodica che non un sorriso di giocondità ha rallegrato i miei giorni distrutti: ho patito tutto, la povertà, la morte del padre, l'umiliazione, la malattia, la debolezza, l'impotenza del corpo e dell’anima, la paura, lo scherno, per finire a Caporetto, nella fine

delle fini*8.

E così ancora per un po’, in un crescendo di negatività che si riversa sul futuro e che travolge il messaggio di speranza della religione da cui è nata la meditazione su di sé. Si aggiunga, alla serie dei patimenti, la notizia della morte del fratello Enrico, che con la sorella

Clara aveva sinora popolato le poche pagine di speranza di questi diari, ma ne aveva anche incrementato la paura continua e profon-

da di una lacerazione fisica e morale. Della morte di Enrico, appresa a Milano, si legge in Vita notata. Storia, l’ultimo dei diari di prigionia ed anche, malgrado il titolo, quello dove di nuovo la scrittura diaristica riprende respiro (si tratta, non a caso, di raccontare la fi-

ne della reclusione ed il ritorno alla vita attiva, con incontri e viaggi che si alternano). «Non voglio più scrivere; ricordo troppo»4, è la reazione il 18 gennaio del ’19 alla notizia della morte di Enrico; ma l'impegno è mantenuto solo a fine d'anno, quando, ritornato in borghese e ripresi gli studi, Gadda identifica scrittura e vita militare, non avendo in mente altro che il diario: «Ho tralasciato ormai le 43 Ibidem, p.817. 44 Ibidem, p. 850.

139

mie note, le quali non potrebbero contenere se non la storia di una inutile, monotona vita»; ed in ultimo: «Non noterò più nulla,

poi-

ché nulla di me è degno di ricordo anche davanti a me solo». In altri termini, la fine della scrittura diaristica, da cui non è nata quella autobiografica, pur trapelante, coincide con la fine dell’esperienza bellica. Fatta oggetto di memoria, la medesima esperienza verrà selezionata in alcuni capitoli del Castello di Udine (1934): e la relazio-

ne non trascurerà modelli classici (Cesare, in primo luogo), piuttosto che i moderni (Remarque, Comisso). Muoverà, comunque, dal-

la dichiarata «impossibilità di un diario di guerra»: quello che ora abbiamo letto nelle sue prime e non omogenee componenti. Nel Castello Gadda non mancherà, difatti, di rifarlo a piccoli tratti ed integrarlo, non facendone miglior cosa, ma altra cosa, ovviamente dal

punto di vista linguistico. Ideologicamente s’irrigidirà in una difesa del proprio interventismo, che rischia addirittura qualche tono da «strapaese». Sono gli anni Trenta, quelli del Castello, i più difficili per Gadda, e non a caso, guardando

accanto a sé, ad altri diari,

oscillerà fra quello di Stuparich e l’altro di De Bono, che avevano edito solo ora il loro diario di guerra.

45 Ibidem, p. 865. 46 Ibidem, p. 867.

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ALBA ANDREINI

GADDA E IL SUO TEMPO:

I FURORI DI UN TESTIMONE

Gadda e ‘il suo tempo’ non costituiscono i termini irrelati di un binomio forzoso, di obbligatorietà manualistica, ma i termini inscindibili di un nesso fissato dalla moralità dello scrittore in quella «zona apicale (etica e parenetica) del nostro spirito»! che l’autore insegue. Anche quando il riferimento ai momenti storici, frequente nelle schede d’autopresentazione delle bandelle dei suoi libri, ubbidi-

sce al gusto descrittivo della cornice, dietro un accostamento divertito del privato allo scenario politico, affiora comunque un rapporto di partecipazione con il fondale evocato. Dice di sé Gadda in una

quarta di copertina:

i

Veduto arrivare, dopo la guerra etiopica, il cataclisma della belle alliance e della seconda guerra mondiale, non partecipò in alcun modo ai trasporti affettivi comportati dalle medesime. Visse a Firenze dal 1940 al 1950. Resistette: avanzando dalla propria personale privata esistenza poco fiato, alquanta fame, zero quattrini, e tormentose lombaggini?.

E quando il coinvolgimento di Gadda con i tempi non trapassa nella sua scrittura nemmeno come presenza sullo sfondo, la natura di «tiglioso e — per autodefinizione — bombardato moralista»3 spunta tuttavia fuori nel timore di una produzione poco confacente al clima storico. Il dubbio dell’inadeguatezza che Gadda enuncia in oc-

1 C.E. Gadda, Un testimone, in Il tempo e le opere. Saggi, note e divagazioni, a cura di D. Isella, Adelphi, Milano 1982, ora in C.E. Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti, 1 (1991), a cura di L. Orlando, C. Martignoni e D. Isella, vol. m dell’edizione delle Opere di Carlo Emilio Gadda, diretta da D. Isella, Garzanti, Milano 1988-1993, p. 945.

? Cfr. la «scheda autobiografica» che accompagnò l’edizione Vallecchi delle Novelle dal Ducato in fiamme (Firenze 1953), ora in C.E. Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti, 1 (1992), a cura di C. Vela, G. Gaspari, G. Pinotti, F. Gavazzeni, D. Isella,

M.A. Terzoli, vol. rv dell’edizione delle Opere, cit, p. 871.

3 C.E. Gadda, I miti del somaro, a cura di A. Andreini, Scheiwiller, Milano 1988,

p.- 35, ora nel vol. v di C.E. Gadda, Scniti vari e postumi, a cura di A. Silvestri, C. Ve-

la, D. Isella, P. Italia e G. Pinotti dell’edizione delle Opere, cit., p. 904.

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casione dell’uscita dell’Ada/gisa risponde a tale ansia partecipativa, sia pure commista, per la difficile convivenza che Gadda sembra

sempre avere con se stesso, alla exusatio formale e retorica di chi si

mette preventivamente dalla parte del torto per infondati sensi di colpa. Del libro uscito nel ‘44, dice:

Era destinato a tempi normali e sereni: volevo quasi fermarlo, ma l’editore aveva già sostenuto le spese e ha voluto uscire. I milanesi vorranno comprendere. Il mio dolore per la mia città, e per tutto, è infinito. Gli anni cui qui si allude sono, tra le diverse «ere» che toccò a Gadda di attraversare, quelli della seconda guerra mondiale: «gli anni belli, quand’era venuto il bello», nell’ironica definizione? dello scrittore. E ancora con ironia, altrove, l’ultima catastrofe storica, pa-

tita come sconquasso privato dopo l’esperienza della prima, diventa il «caro cataclisma n. 2>»É.

Non sempre però la guerra si designa per antifrasi; se ne illumina anche sinteticamente, o più diffusamente con flash circostanziati sugli accadimenti privati, la «significazione drammatica», viene nel racconto della nascita del Pasticciaccio:

come

av-

Vogliano indulgere, vogliano compatire alla pena, alla fatica, alla umiliazione, alla fame, di che ho dovuto tacitare gli anni, gli interminabili anni, a ottenere di lor grinfie lo scampo, la fuga «verso gli evi liberi».

L’obolo che pagherò a Caronte si chiama dolore”.

Le difficoltà del vivere sono poi indicate via negationis tramite il ricordo dei fasti dannunziani («Niente Capponcina»)8; e la reazione alla caduta del fascismo si fa, nel bilancio di Eros e Priapo, traboccante di furore. Coerentemente alla sua intrinseca incandescenza, il furore, pur

trovando la sua principale manifestazione in Eros e Priapo, si espande anche in altri testi: irrompe nel Pasticciaccio e, come scheggia residua, va ad ingrossare il serbatoio delle favole. Non a caso tutti i te-

sti toccati dall'esplosione del medesimo nucleo tematico antifascista 4 P. Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, Pan editrice, Milano 1974, p. 60. ° Cfr. la «scheda autobiografica» sulla quarta di copertina di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano 1957, ora in C.E. Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti, 11, cit., p. 872. 6 C.E. Gadda, «Gadda, come va la vita?», Pesci rossi, ottobre 1946, ora in C.E.

Gadda, Saggi giornali favole e altri scritti, 1, cit., p. 950.

? C.E. Gadda, Il Pasticciaccio, in I viaggi la morte, Garzanti, Milano 1958, ora in Saggi giornali favole e altri scritti, 1, cit., p. 510 per la prima citazione, pp.506-507 per la seconda. 8 Cfr. la «scheda autobiografica» cit. alla precedente nota n. 5, p. 872.

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sono cronologicamente contigui, per uno ‘scoppio’ databile intorno agli anni 1945-' 46. _ Anzi, per le due opere principali, Gadda dà esplicita indicazione di una nascita per deflagrazione: parla di una «sorta di incontenibile ed esplosiva urgenza del mio animo 1945-1946»9 per il Pasticciaccio e di un «buttar fuori il rospo» («il tegranale che m'ha oppilato lo stomaco trent'anni: quanto una vita!»10) per il «libello». Si può dunque rintracciare in entrambe le opere uno stesso sfogo, con la conseguente annessione del romanzo ad un'istanza autobiografica che, pur non interamente palese, stabilisce un’affinità con Eros e Priapo utile anche alla interpretazione di quest’ultimo. Al lemma

«furie»

Gadda

ricorre nel titolo (Libro delle furie, ap-

punto) dato alla pubblicazione parziale, sulla rivista Officina, di Eros e Priapo, nonché nell’adozione finale del sottotitolo esplicativo (Da furore a cenere)!! che chiarisce ulteriormente il significato della fune-

sta parabola del delirio mussoliniano. Nella diversa accezione che il termine ha, riferito a Gadda, il furore viene a coincidere con il momento della cenere fascista, collocandosi al punto terminale dell’arco

cronologico sotteso al declino delle esaltazioni del duce. Il differente approdo viene ad essere sottolineato dall’uso gaddiano del medesimo verbo «pervenire» ad indicare in luoghi diversi il tragitto storico del dittatore da un lato e quello mentale dell’autore dall’altro: e pervenne infine, dopo le sovvenzioni del capitale e dopo una carriera da spergiuro, a depositare in càtedra il suo deretano di Pirgopolinice

smargiasso, addoppiato di pallore giacomo-giacomo, cioè sulla cadrèga di Presidente del Conziglio in bombetta e guanti giallo canarino. Pervenne, pervenne.

° C.E. Gadda, Il Pasticciaccio, cit., p. 507. 10 C.E. Gadda, Eros e Priapo (Da furore e cenere), Garzanti, Milano Saggi giornali favole, 11, cit., p. 236.

1967, ora in

!l Apparvero su Officina tre puntate (nei numeri 1, maggio 1955, pp. 36-40; 2, luglio 1955, pp. 80-83; 3, settembre 1955, pp. 120-123) e, al posto della prevista quarta puntata, la rivista pubblicò nel n. 4 (dicembre 1955) una lettera di Gadda

con l’accompagnamento di una nota redazionale a giustificazione dell assenza del

«tratto’ del «Libro». Sulla storia esterna di Eros e Priapo, cfr. G. Pinotti, «Note ai testi», in C.E. Gadda, Saggi giornali favole, 1, cit., pp. 993-1023. Il significato del sottotitolo è spiegato da Gadda in un’intervista del 1967, «Cenere di martiri», ora in

C.E. Gadda, «Per favore, mi lasci nell'ombra». Interviste 1 9501 972, a cura di e Vela, Adelphi, Milano 1993. Alla domanda, di M. Lunetta, «Di chi è il furore e di chi è la

cenere?», Gadda risponde: «Il furore è di chi pervenne in cinque lustri, nei tumulti e nello strazio di una gente, al dominio dittatorio: e al teatrale e fanfaronesco usufrutto di esso in altri cinque. Il furore è del de quo e di tali o tali altri de quibus. /La cenere o le ceneri son quelle dei sacrificati e dei martiri: e delle rane scoppiate con inturgidirsi a bovi: rana rupta et bos, Fedro, Libro I, 24» (p. 126).

144 Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell'ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, che portava con la disinvoltura d'un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi del commendatore e dell’agente di cambio uricemico: dell’odiato ma lividamente invidiato borghese. Con que’ du’ grappoloni di banane delle du’ mani, che gli dependevano

a’ fianchi, rattenute da du’ braccini

corti corti: le quali non ebbono mai conosciuto lavoro e gli stavano attaccate a’ bracci come le fussono morte e di pezza, e senza aver che fare davanti ’l fotografo: i ditoni dieci d’un sudanese inguantato. Pervenne. Alla feluca, pervenne. Di tamburo maggiore della banda. Pervenne agli spa del cavallerizzo, agli speroni del galoppatore. Pervenne, pervenne!

Ben diverso dalla scalata del duce è il percorso dello scrittore: Vale per me, come per altri più generosi di me, la battuta di Tacito: «per silentium ad senectutem pervenere». E dei sacrificati si deve scrivere «ad mortem». Non ho potuto esprimere se non una parte del mio sentire, la parte ovviamente «agnostica», o almeno quella che non avrebbe offuscato la faccia alla «gnosi» degli anni che vaporarono via

dalla vita, fra il ’24 e il '4513.

Se Gadda, in una intervista a Dacia Maraini, fornisce un’indicazio-

ne sbagliata non solo per la stesura di Eros e Priapo (collocato inverosimilmente, anche come ideazione, al 1928), ma anche per il rifiuto

del regime (databilé a suo dire nell’inopinabile 1934, con la guerra

etiopica)!4, qui il consuntivo del suo rapporto con il fascismo risulta veridico: pur indefinito, il succinto resoconto appare fedele al chiaroscuro della realtà, non eliminandone le ombre e consentendo

quindi di ascrivere alla zona oscura delle manifestazioni eccezionalmente permesse di libertà di parola, ma in quanto tali condizionate al consenso, alcune collaborazioni giornalistiche di carattere preva-

12 C.E. Gadda, Eros e Priapo, cit., pp. 227-228. 13 C.E. Gadda, Il Pasticciaccio, cit., p. 508. Sul «tremore e terrore» che hanno riempito il silenzio di Gadda, cfr. l'intervista allo scrittore di C. Costantini, «Gadda pensa alla morte come a una definitiva liberazione», del 1967, ora in C.E. Gadda, «Per favore, mi lasci nell’ombra», cit., pp. 141-142. 14 Cfr. l’intervista a Gadda in D. Maraini, E tu chi eri? Interviste sull'infanzia,

Bompiani, Milano 1973, p. 17. Alla domanda «Quali erano i suoi rapporti con il fa-

scismo, allora?», Gadda risponde: «Solo nel ’34 ho capito cos'era il fascismo e come mi ripugnasse. Prima non me n’ero mai occupato. Le camicie nere mi davano fastidio anche prima, ma era un fastidio e basta. D'altronde il libro Eros e Priapo l’ho scritto nel "28 e mostra tutta la mia insofferenza per il regime. Ma solo nel ’34, con la guerra etiopica, ho capito veramente cos'era il fascismo. E ne ho awertito tutto il pericolo».

145

lentemente tecnico, cronologicamente comprese tra il 1931 e il ’41, delle quali si è avvalsa la critica per confutare la retrodatazione che Gadda fa del cambiamento delle proprie Opinioni in merito al fascismol?. Tralascio qui gli aspetti per così dire politici di tale pubblicistica, riconducibili alle contraddizioni cui allude concisamente l’annota-

zione di Gadda, e in ogni caso, meno rilevanti dell’irriducibile indi-

gnazione maturata «per silentium». La coercizione al silenzio confe-

risce alla «gnosi» che in esso tacitamente progredisce la carica rabbiosa con cui alla fine si estrinseca. Scaturita dunque dalla repressione, la polemica antimussoliniana di Eros e Priapo è segnata nel tono dalla tragicità del momento che la fa scattare ed ha la foga amara e rancorosa della reattività ad una catastrofe temuta e prevista.

Non costituiscono un filtro distanziante (ma sortiscono semmai un

effetto moltiplicatore) né il nascondimento dell’io forte dell’autore sotto l’anagramma del proprio nome Alì Oco De Madrigal, né l’uso di una lingua arcaica fiorentineggiante. Linguisticamente, per Gadda, «in gran parte il testo risulta di una prosa arcaicheggiante di tipo toscano-cinquecentesco,

con interpolazioni dialettali varie:

(ro-

manesco, lombardo) »!5. La veemenza inietta di veleno il lessico, sbizzarrendosi in un ve-

ro e proprio campionario di epiteti ingiuriosi nei riguardi del duce (tra i molti che l’inventario annovera: Appestato, Facciaferoce, Favente Genio, Gradasso ipocalcico, Gran Somaro Nocchiero, Gran Tamburone del Nulla, Gran tauro, Poffarbacco, Profeta forlimpopo-

lo, Provolone, Scipione Affricano del due di coppe, Somaro, Testa di morto, Trombone e Naticone ottimo massimo). Tutto il linguag15 Di tali scritti, ora leggibili in C.E. Gadda, Azoto e altri scritti di divulgazione scientifica, raccolti da V. Scheiwiller e presentati da A. Silvestri, Scheiwiller, Milano 1986, poi confluiti nella sezione Pagine di divulgazione tecnica in C.E. Gadda, Scritti

vari e postumi, cit., pp. 17-204 (con l’aggiunta dell'articolo «I metalli leggeri: leghe di magnesio»), si è occupato per primo R. Dombroski

in Introduzione allo studio di

Carlo E. Gadda, Nuove Edizioni Enrico Vallecchi, Firenze 1974, pp. 145-168. Sul rapporto di Gadda con il fascismo, cfr., di R. Dombroski, anche «Gadda: fascismo e psicanalisi», nel suo L'esistenza ubbidiente. Letterati italiani sotto il Jaseisma, Guida, Napoli 1984, pp. 91-114. Cfr., sull'argomento, anche: G.P. Biasin, «L'Eros di Gadda e il Priapo di Mussolini», Belfagor, 1969, n. 24, pp. 471-478; S. Guarnieri, «Gadda scrittore politico?», Nuova rivista europea, 1981, n. 24, pp. 92-118; L. Greco, «L autocensura di Gadda: gli scritti tecnico-autarchici», in Id., Censura e scrittura, Il Saggiatore, Milano 1983, pp. 51-98 e M. Bevilacqua, «Eros e Priapo: trattato, romanzo, 0

pp. 142divagazione parodistica?», La rassegna della letteratura italiana, 1985, n. 1,

147, poi in AA.VV., Gadda progettualità e scrittura, con una premessa di G. Manacor-

da, a cura di M. Carlino, A. Mastropasqua, F. Muzzioli, Editori Riuniti, Roma 1987, 1 Sei PP . 181-199. 16 Cfr. le citazioni dal carteggio Gadda-Mondadori in G. Pinotti, «Note ai testi», cit., p. 995.

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gio «a carattere irruente, e redatto con estrema libertà»!7 è improntato ad un’inventiva terminologica risentita e vendicativa la cui bruciante novità pare incisa nella carne. L’émpito emotivo della pagina investe anche l'andamento della frase, gonfiandola nella concitazione e imprimendole un ritmo in crescendo, inarrestabile, che ade-

gua la costruzione sintattica alla stessa tensione epifanica immessa nei neologismi, per puntare all’acme di una rivelazione. Attraversa

tutto Eros e Priapo lo stesso impeto da visione apocalittica del finale dei Miti del somaro, la cui stesura si intreccia a quella del primo nu-

cleo di Eros e Priapo (con il quale coincide tematicamente) nei mesi di settembre-dicembre

di un anno

(il 1944) che, ritenuto a lungo

inoperoso, viene proprio a datare oggi l'esplosione della collera antimussoliniana. Nel testo, la dimostrazione dell’infingimento dei miti fascisti fa

del logos, già qui in antitesi all’eros in una contrapposizione di valori, anche un metodo espositivo. Ma sull’impostazione argomentativa

della prosa prende poi il sopravvento la furia che accende figurativamente il finale poetico dove le facili previsioni mussoliniane delle future glorie si rovesciano nello scenario di una devastazione, a dipingere la quale concorrono la potenza suggestiva e l’orrore sacro dell’ Apocalisse giovannea: Un angelo mi portò in un deserto (nel deserto morale dei popoli assassinati) e mi fece vedere ancora la bestia scarlatta con sette teste e dieci corna coperte di nomi di bestemmie.

Ma ora aveva in groppa una femina: La meretrice era vestita di porpora e di scarlatto Adorna d’oro e diademata di perle. Teneva in mano una pàtera d’oro Spumante di sangue e di lussuria. Sulla sua fronte, ecco l’iscrizione misteriosa:

Babilonia la grande, Madre di tutte le prostituzioni, Di tutti i culti idrolatrici

E di ogni abominazione. Ella era ebbra del sangue dei martiri!8,

17 Ibidem. 18 C.E. Gadda, I miti del somaro, cit., pp. 69-70.

147

Ecco: Eros e Priapo continua il movimento di questa infiammata con-

clusione e nel mantenere fede ai propositi di prosecuzione «esporrò in altra mia pagina», «avrò a grugnire in più lontane mie pagi-

ne»!9, mutua dai Miti del somaro il modulo di tali annunci program-

matici come espediente retorico per segnalare l'impossibile chiusura di un’invettiva interminabile, senza fotofinish.

L'onda del ribollimento diventa in Eros e Priapo dato strutturale continuo e scombina anche la chiara ripartizione data alla materia dall’indice, con il passaggio di quest’ultimo da una versione articolata in numeri ad una versione che cancella parzialmente ia prima. Dall’impeto inesauribile Gadda si lascia prendere la mano per poi rammaricarsi di essersene lasciato travolgere: la difficoltà di arginare l’irruenza, per sua natura inesausta, si trasforma così in disagio a

mettere punto all’opera licenziandola pubblicamente. I fantasmi del dubbio per il suo stile sarcastico e feroce prendono corpo con l'opposizione della rivista Prosa ad accogliere il primo capitolo di Eros e Priapo: «Il lavoro non fu accettato perché oltrepassava i limiti ‘della decenza. Devo ultimare il volume, o no?»?9, scrive Gadda il 28 settembre 1946 all’editore Alberto Mondadori, succeduto alle NEI

nella pubblicazione del periodico. A Mondadori Gadda aveva offerto il libro, pur pagatogli già dalle NEI di Falqui, fin dal ’44, per risarcirlo della «mancata cessione dell’Incendio di via Keplero»?!. L’accordo, sancito nel ’47 dalla stipula di un contratto nonostante il rifiuto alla pubblicazione parziale in Prosa, subisce dopo quella data continui rinvii. Alle dilazioni, Gadda fornisce una spiegazione, a dispetto dei vari solleciti di Alberto Mondadori, soltanto nel ’56:

La ragione principale per cui non ho ultimato (cioè ritrascritto) «Eros e Priapo» è il fondato timore che il libro, nato da uno stato d’animo di esasperata polemica, non sia oggi opportuno e accettabile??, E il 2 febbraio del ’59, ribadirà a Vittorio Sereni: «Eros e Priapo», come ebbi a scrivere al comm." Arnoldo Mondadori,

non è pubblicabile oggi e forse non era neppure nel 1946. Bisognerebbe riscriverlo, edulcorarlo da cima a fondo: e ancora ci procurerebbe

odî e seccature, processi e minacce”.

La storia del libro si arresta, almeno sulla base delle testimonianze

a

tutt'oggi disponibili, al 1957, lasciando supporre per il decennio 19 Ibidem, p. 36 per la prima citazione e p. 65 per la seconda. 997. 29 _. il Landi CalidaMondadori in G. Pinotti, «Note ai testi», cit., p.

21 Ibidem, pp. 994-995. 22 Ibidem, p. 1000. 23 Ibidem, p. 1001.

148

che intercorre tra il ’57 e la prima apparizione in volume del testo

(nel 1967, per i tipi Garzanti) l’estraneità di Gadda al destino del li-

bro, consegnato ormai quasi del tutto all’iniziativa editoriale. Del resto la sua decisione di affidare buona parte dell’opera alla rivista Officina era già stata segno, negli anni '55-'56, di una volontà liquidatoria verso un testo definito poco dopo «un vecchio relitto sgradevole e rozzo»?4. La vicenda presenta gli ingredienti tipici dell’intricato iter editoriale dei testi gaddiani, riproponendone tutte le caratteristiche: dalla pluralità delle promesse, alla difficoltà di rispettarle (con il conseguente carico aggiuntivo degli impegni riparatori), alle dilazioni nella consegna, che cooperano a fare e disfare, oltre agli indici dei testi, anche la mutevole sinossi dei programmi. La perdita (o l’attuale irreperibilità) del manoscritto suggella le vicissitudini del libro quale emblema di un groviglio editoriale complicato dal timore che il testo non fosse proponibile per la sua scoperta visceralità. Con la paura di un eccessivo abbandono ai veleni istintivi, anche

la storia esterna dell’opera conferma dunque il «tono umorale», il carattere fortemente personale della polemica contro il regime. Del resto, a spiegare la molla di un così arroventato furore, non può bastare il venir meno delle speranze politiche che Gadda poteva aver riposto nel fascismo come restauratore dell’ordine: il contraccolpo della delusione appare da questo punto di vista sproporzionato rispetto alla parziale fiducia nel regime certificata unicamente da «qualche indulgenza» (come lui la definisce)? riscontrabile negli scritti tecnici. Da sola, la disillusione non rende totalmente

conto

degli strali cocenti di un Gadda che ha già sperimentato, e rappresentato, il crollo delle proprie aspettative nello «sciocchezzaio» e nella volgarità del primo dopoguerra, e, per dirla con le sue parole, ha già conosciuto il fendente della «folgore» sui propri «sogni». La furia con cui lo scrittore, quando «il ducato va in fiamme» (e cioè, come diceva ancora lui, «lo stato del duce» è «in procinto di andare a ramengo»)?8, ne celebra la demolizione, festeggia, con il trionfo

della ragione civile, l’esultanza di quella privata. Il canto di acre vittoria sale dal profondo di un io conculcato ed esacerbato a dettare il linguaggio della rivalsa ad un’analisi del fascismo che risulta di difficile classificazione, ma appare definibile nella sostanza come una trattazione, fondata su criteri psicanalitici, del «sostrato ‘eroti-

24 Ibidem, p. 1002. 25 Cfr. G. Cattaneo, Il gran lombardo, Einaudi, Torino 1991, p. 117.

26 C.E. Gadda, Lettere a Gianfranco Contini, a cura del destinatario, Garzanti, Milano 1988, p. 86. Per la stessa espressione, cfr. P. Gadda Conti, Le confessioni di Carlo

Emilio Gadda, cit., p. 82.

i

149

co’ del dramma ventennale testé chiuso»?7. Il carattere metastorico rilevato fin dal 1958 nell’antifascismo di Gadda da Cases?8 come ambiguità, e poi imputatogli più volte come difetto, va dunque riconosciuto come peculiarità di un testo che non esamina il fascismo

storicamente, nell’evolversi di una diacronia di fatti, ma nelle sue ti-

pologie e dinamiche caratteriali. La prospettiva è rara nella nostra

cultura letteraria; e, tra l’altro, se, come dice Segre, la trasgressione

linguistica simboleggia una rivolta contro il padre, Gadda viene ad incarnare per quella via la atipica tipologia di italiano parricida e non fratricida che Saba, in un testo composto negli stessi anni di Eros e Priapo e di limpido taglio psicanalitico, trovava assente nella nostra storia?9. La figura del duce è il principale bersaglio di Gadda e, non a caso, l’antifascismo di Gadda si risolve in un antimussolinismo. A fron-

teggiare la «persona scenica» di Mussolini si CIRO con il suo giudi-

zio, la «persona gnostica ed etica» dell’autore®'; in forte antagonismo, sì contrappongono dunque il vate e il non-vate, con le rispettive connotazioni, enunciate da Gadda per le due categorie nel saggio Come lavoro. Le motivazioni private del furore si configurano guidate dal logos, anziché dall’eros degenerato in priapismo che con il logos collutta, come sua forza contrastante. L’ethos di Gadda, detonatore del suo io protestatario, fa capo al

principio del lavoro, che pertiene strettamente alla identità lombarda dello scrittore, con tutti i risvolti connessi a un tale status. Pur

avendo espiato con l’umiliazione avvilente dei disagi materiali l’apparente fortuna di appartenere alla borghesia milanese, Gadda continuerà così a sentirsi rimproverare il «ceto mercantile e politecnico» quale marchio di ricchezza. E anche in tarda età, ormai sradica-

to da Milano, porterà come una croce quella condizione solo nominale: 27 Dalla «scheda descrittiva» riportata da G. Pinotti, in «Note ai testi», cit., p.

995.

28 La posizione di C. Cases sui limiti dell’antifascismo di Gadda in «Un ingegnere de letteratura» (Mondo operaio, supplemento scientifico-letterario al n. 5 del 1958) si legge ora in C. Cases, Patrie lettere, Einaudi, Torino 1987, pp. 41-69. Analoghe riserve sono espresse da C. Benedetti, «Il fascismo in chiave metastorica nel

‘Pasticciaccio’ di Gadda», JI Ponte, aprile-maggio 1977, pp. 509-527.

29 Cfr. U. Saba, la «scorciatoia» n. 4 (in Scorciatoie e raccontini, Mondadori, Milano 1963?, p. 20): «Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base

della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione. / Gli Italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli». Ilcarattere

freudianamente liberatorio che assume la lingua negli scrittori macaronici è esami-

nato da C. Segre, «La tradizione macaronica da Folengo a Gadda [e oltre]», in Se

miotica filologica, Einaudi, Torino 1979, p. 180.

30 C.E. Gadda, Eros e Priapo, cit., p. 345.

150 Diranno che io sono milanese e succhio il sangue ai poverelli [...] che

appartengo alle ricche e spietate «borghesie del Nord», ecc. ecc.31

E ancora: «Un'altra volta cercherò di nascere a Pantelleria»*?. Se la borghesia sarà sempre per lui un punto fisso di attrazione (per un concetto di ordine in quanto perizia ed operosità nordiche) e di ripulsa (per il male che quel falso ordine cela), il lavoro mantiene per Gadda il valore dell’unico credo atto a contrastare la labilità del tempo. L'avanzata degli anni, trovando argine soltanto nelle opere costruite dalla dura e consapevole disciplina delle genti, spazza via anche le imposture della propaganda del regime. Risulta in tal modo smascherata nella sua ‘inanità’ la sciagurata incompetenza delle imprese fasciste, denominata in modo ricorrente da Gadda quale «asineria». La falsità dei miti mussoliniani passa attraverso quella della parola, di cui si ribadisce insistentemente la natura di «sporca bugia», con il ricorso a tutti i termini afferenti all'area semantica della menzogna. A smascherare i soprusi di un uso profetico del mezzo espressivo, Gadda si muove armato sia delle proprie ‘inclinazioni speculative’, che lo portano ad avvalersi di sue vecchie argomentazioni filosofiche sulla negatività di un linguaggio di slogan volto a bloccare l’intrinseco divenire della realtà, sia delle proprie dichiarazioni di poetica: «Le parole sacre — scrive per sé in una favola —, vedute le labbra dell’autore, ne rifuggono. Le cose sacre, veduto il cuore dell’autore, vi si fermano»33.

Applicata all’esame di fatti storici, la parola diventa, nella «penna veridica» di Alì Oco De Madrigal, mezzo di conoscenza e ricerca del vero, in contrasto con la tendenza a non fare «computo bastevo-

le del ‘male’: e del problema del ‘male’» e a parlare «come se tutto andasse per il suo verso»34: La retorica dei buoni sentimenti, che è l’erba fine che induce la nostra

lingua in salive e mena per pagina le penne, mi appare essere non altro, a me, se non il relitto, il guscio voto, d’una storia bugiarda: quan-

do Don Agira d’una storia mancata. Mi aduggia, codesta luce falSaMie

24

31 P. Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, cit., p. 94. 32 Cfr. G. Cattaneo, Il gran lombardo, cit., p. 106. 33 Si tratta della favola n. 41 del Primo libro delle favole, Neri Pozza, Venezia 1952, ora in C.E. Gadda, Saggi giornali favole, ti, cit., p. 21. Per il sintagma «sporca bugia», cfr. C.E. Gadda, / miti del somaro, cit., p- 46 («bugia sporca» in Eros e Priapo,

cit., ad es. a p. 225).

3 C.E. Gadda, Eros e Priapo, cit., p. 304 per la prima citazione, p. 233 per le al-

tre.

35 C.E. Gadda, Come lavoro, cit., p. 434.

151

Discostandosi dagli storici «moraloni che raddrizzano le gambe ai

cani»35, Gadda addita tra i modelli prediletti Svetonio, Tacito, Machiavelli, Saint-Simon, Manzoni per tratteggiare una linea ideale di

storiografia in cui convivano l’alta moralità che sorregge la prosa irta delle pagine sulla «dispietata analisi» del male («Il male deve essere noto e notificato»)3”, e una vena più aneddotica. In un profilo autoesegetico del libro commenta:

A un contesto di pensiero e di giudizio si mescolano episodi varî, immagini, ecc., registrati in un tono umorale 38, E l’umore, atrabiliare in Eros e Priapo, intorbida la vena di insaziabile

curiosità con la quale Gadda dichiara di voler guardare alla «totale ricchezza» della vita, perché «ogni apporto è un merito: ogni reticenza è una debolezza; ogni bugia è una bugia»5°. Il gusto del pettegolezzo e dell’amenità, che alimenta in Gadda l’estro dell’annotatore di storia sociale e di costume nel ‘grande affresco della borghesia’, o la piacevolezza conversevole della storia radiofonica dei Luigi di Francia, è estraneo ad Eros e Priapo nella forma di una discorsività

magari pungente ma leggera. Nel livore del testo, l’aneddotica sugli ‘accertamenti biografici’ si riformula con ferocia e il contributo di documenti

‘triviali’ si colora di tinte fosche, in sintonia con le più

tenebrose e risentite tra le favole del ciclo mussoliniano”’. Che il timbro del sarcasmo uniformi al proprio registro tonale caustico i diversi modi del fare storia di Gadda, unificando in un

unico accento i differenti piani che egli interseca, è evidente riprova della forza del movente personale, nel quale si intrecciano le ragioni dell’io razionale e dell’io solitario, diverso, in un’epoca di esibizione priapesca della maschilità e «sitibonda di prole». Sul filo dell’autobiografia bisogna allora tornare al Pasticciaccio, per rilevare

questa volta analogie tematiche e non cronologiche con il romanzo. E non si tratta tanto di riferirsi ancora all’affacciarsi nel libro degli anni del fascismo, anche se la rappresentazione dell’epoca storica meriterebbe un approfondimento, per il tentativo che Gadda com-

36 C.E. Gadda, «L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore», in La cognizione del dolore, a cura di E. Manzotti, Einaudi, Torino

1987, pp.

Td 485-486. e pp. 234-235 per citazione prima la per 234 p. cit., Priapo, e Eros 37 C.E. Gadda, la seconda.

88 In G. Pinotti, «Note ai testi», cit., p. 995.

:

39 C.E. Gadda, Grandezza e biografia, in Il tempo e le opere, cit., pp. 830-831.

40 Cfr. le favole nn. 111, 129, 132, 134, 137, 138, 149, 150, 151 e 184, nel Primo libro delle favole, cit., pp. 35-48.

41 C.E.Gadda, Il Pasticciaccio, cit., p. 507.

1D2

pie di articolarla in una sommaria successione di fasi e di correlarla a un’ambientazione sociale precisa, collocandosi in una prospettiva più storica rispetto all’atteggiamento del pamphlet, alla quale si aggiunge tra l’altro un’apertura (impensabile nella Cognizione del dolore) alle ragioni degli umili. Si tratta piuttosto di recuperare nel Pasticciaccio, per stabilire un ulteriore parallelismo con Eros e Priapo, una delle proiezioni autobiografiche di Gadda più nascoste. Alla serie degli autoritratti che Gadda dissemina nella propria opera‘, il Pasticciaccio contribuisce con ben due autorappresentazioni palesi, calandosi nei personaggi dell’introverso commissario

Ingravallo e del goloso e maldestro commendator Angeloni, per una sorta di sdoppiamento cui ricorre anche l’io narrante di Eros e Priapo oggettivandosi nell’alter ego Alì Oco De Madrigal. Ma il gioco della moltiplicazione di sé non finisce qui. Se si considera che Mus-

solini

è nominato aa

come «assassino», e il regime è classificato

come «assassinio»4, la somiglianza del delitto nei due testi include anche un’analogia procedurale per l’indagine sul male e per la presenza di una vittima. Si stabilisce così un’equivalenza tra l’io di Eros e Priapo e Liliana Balducci quale simbolo del sacrificio inflitto a chi non corrisponde alle regole sociali: come il celibe Angeloni-GaddaAlì Oco De Madrigal, Liliana è sterile, non prolifera e anzi l’attenzione al dramma della donna non-madre sotto il fascismo, insieme

alla fame di Ines, finisce per correggere sensibilmente nel Pasticciaccio la fortissima misoginia di alcune pagine di Eros e Priapo dove la sudditanza della folla al duce «fallo paterno padronale e precipuo»4 si raffigura come sottomissione erotica della femmina al maschio. E alla morte inflitta a Liliana è equiparato ogni tipo di oltraggio, tema fisso di Gadda, «Poiché ogni oltraggio è morte»*°. Aveva ben ragione Pasolini, in un illuminante saggio del ’63, a

richiamare l’attenzione su questa forte causale assoluta, isolata tra due punti, a commento della morte del gattino che soccombe ai reiterati oltraggi della defenestrazione da parte del protagonista della Cognizione del dolore, Gonzalo, e nel quale va vista l'ennesima proiezione dell’autore, questa volta sotto le spoglie di una bestiola (il gat-

tino-gaddino di cui parla Pasolini)*9. L’oltraggio storico alla colletti-

42 Cfr. A. Andreini, «L’autoritratto di Carlo Emilio Gadda attraverso i suoi personaggi», in AA.VV., Il testo autobiografico nel Novecento, a cura di R. Klein e R. Bona-

dei, Edizioni Guerini e Associati, Milano 1993, pp. 93-99.

43 Basti al riguardo il sintagma «La causale del delitto» che apre il capitolo 2 di

Eros e Priapo, cit., p. 244.

44 Ibidem, p. 259. 45 C.E.Gadda, La cognizione del dolore, cit., p. 79.

46 P.P.Pasolini, «Un passo di Gadda», L'Europa letteraria, 1963, n. 20-21, ora in A. Ceccaroni, Leggere Gadda, Zanichelli, Bologna 1978, pp. 73-79.

153

vità, Gadda lo capisce dunque per una via dolorosamente personale, attraverso la ferita inferta alla propria soggettività. Il progetto di un'’autobiografia della propria generazione («questa generazione — scrive nel 1930 — [...] non ha ancora dato alle stampe la sua splendida pagina autobiografica») si attua dunque attraverso l’antagonistica contrapposizione tra sé e il duce, secondo un metodo (che la storiografia chiama prosopografia), assai frequente nel far storia di Gadda, in cui la biografia è adottata non solo per i suoi aneddotici

risvolti, ma come categoria interpretativa per ritrarre il diverso da sé: basti pensare al Napoleone dell’Adalgisa, o al Foscolo. E con questa specie di procedura da vite parallele, l’analisi che l’io fa del proprio profondo alla luce del contrario provoca la demolizione del personaggio vincente e negativo in forma umorale. Il furore si conferma allora l'importante denominatore tonale alla cui alta temperatura si fondono quei vari ingredienti che lasciano, in conclusione,

aperto l'interrogativo di fondo sotteso all’analisi di Eros e Priapo cir| ca il suo incerto genere espressivo: autobiografia? saggio storico? trattato psicanalitico? bizza? romanzo?

Tutte queste cose insieme,

per uno statuto misto che aggroviglia la pagina e fa del pamphlet il vero «pasticciaccio» di Gadda. 48 Gadda racconta dunque «il tempo e le sue storie»°*, come recita

un titolo cassato da Gadda per un altro testo, ma anche il loro trasformarsi ne ‘le storie del tempo”: storie intese o trattate come ‘romanzo’ a voler prendere a prestito da Pasolini la denominazione di un suo articolo, «Il romanzo delle stragi», intitolato precedentemente (nel ’74) «Che cos'é questo golpe?». E Pasolini ci fa capire, con tale trasformazione, di guardare all’oggetto con il logos di una ragione civile e con un intuito di scrittore: To so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca

[...] di immaginare

tutto ciò

che non si sa o che si tace [...]f9.

Le coordinate del «nipotino gaddiano» confermano una possibile linea che da Gadda discende anche da questo punto di vista, tanto

47 Cfr. la «Nota introduttiva» non firmata, ma di G.C. Roscioni, a C.E. Gadda,

La cognizione del dolore, Einaudi, Torino 19702, p. xl. ie

è usata da Gadda in una «Nota per la stampa del Supercorallo

«Il tempo e di Gadda» come uno dei possibili titoli (insieme a «I sogni e le furie»,

a Eile genti») per I sogni e la folgore (Einaudi, Torino 1955), nella lettera inedita qui naudi del 28 maggio 1955, depositata presso l'archivio della casa editrice (che si age per la consultazione). 49 P.P. Pasolini, «Il romanzo

1975, p.112.

pedi

i

mr

delle stragi», in Scritti corsari, Garzanti, Milano

154

più se di lui ricordiamo i rimproveri mossi al neorealismo nel suo rapporto con la storia, accusato di tradurla in una «catena crudamente obiettivante della cronaca», priva del «mistero» e delle «ragioni o [...] irragioni del fatto» che interessano a Gadda, perché «il

fatto in sé, l'oggetto in sé, non è — per lui — che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia»?9,

50 C.E. .E. Gadda, e «Un’opin pinione i sul neorealismo», i in i /

630 per tutte le citazioni.

raggi la morte,

Spie

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i

ug

-

MARCO CERRUTI

ALCUNI RILIEVI SUL GADDA «CRITICO»

Vorrei iniziare questo sintetico intervento sul Gadda critico da una sorta di sbeffeggio, felicemente gaddiano, nei confronti dei critici, che s'incontra in una sua risposta, del ’52, a un lettore di Epoca, che

domandava: «Che cosa pensano gli artisti della gloria?». Si rendono | conto che, in ultima analisi, lavorano per essa, soprassedendo persino all’onore e al guadagno?». Gadda un po’ scherzava, ma mica poi tanto, su quest’ultimo soprassedere, degli artisti, al «guadagno», per concludere: Quanto al successo, nessuno più di me ne rifugge lo sbalorditivo palcoscenico: i salotti, le accademie, i raduni. Nessuno più di me si

scorda dei critici, che meriterebbero tutti i riguardi dovuti alla perspicacia feconda, al dotto acume, alla chiarezza e all’eleganza della penna, al brillio dello spirito, all’amenità del discorso, ecc.

Se lo poteva del resto permettere, l’ormai attempato scrittore, perché, come si sa, egli non fu mai, forse anche per la formazione tecnico-scientifica e per le vicende della vita, un critico letterario in

senso stretto, o quale si considera solitamente. Nel primo volume infatti di Saggi giornali favole!, e in particolare nell’ampia sezione che s’intitola «Scritti dispersi», si trovano interventi occasionali, per lo più recensioni, degli anni Trenta e Quaranta su Betti, Montale,

Moravia, Paola Masino e altri, e soprattutto una fitta serie di «pagine sparse», riconducibili al decennio 1950-60, e legate al nuovo impiego in RAI e alla notorietà ormai raggiunta. Gadda è ormai una ‘firma’ di un certo richiamo, e vien richiesto di collaborazioni da

molti giornali e periodici: Il Popolo, Il Giorno, La Fiera letteraria, il Radiocorriere, L’Approdo letterario, Epoca, Belfagor, Giovedì, Civiltà delle mac1 Opere di Carlo Emilio Gadda, edizione diretta da D. Isella, IMI, Saggi giornali favo-

le e altri scritti, I, a cura di L. Orlando, C. Martignoni, D. Isella, Garzanti, Milano

1991. Gli «Scritti dispersi» si trovano alle pp. 671-1226, da cui sono tratte le citazio-

ni inserite nel testo.

156 chine, e altri ancora. Insomma un gran daffare, abbastanza confuso,

o meglio mélangé, in cui Gadda si fa non tanto critico, quanto piuttosto, direi, ‘opinionista’ di questioni letterarie?.

Vediamo allora di muoverci fra queste ‘opinioni’. Intanto, redu-

ce con qualche ammaccatura,

come

quasi tutti i letterati della sua

generazione, dal ventennio fascista e dalla politica culturale del Minculpop, Gadda si rivela attento alla figura dello scrittore impe-

gnato nella «propaganda». Rispondendo, sempre nel '52, alla domanda del solito «lettore», oggi si direbbe «la gente», se possa «un

vero artista [...] essere propagandista e assertore d’una qualunque ideologia politica», Gadda propone

una distinzione, per la verità

non inedita, anzi, fra «propagandisti» e «artisti» puri, o autentici: Penso che l’artista abbia avuto dal destino altro incarico di quello della propaganda. [...] Credo che l’artista, in quanto uomo

appartenente alla storia, possa

schierarsi dall’una o dall’altra parte di un conflitto di idee o di un conflitto con l’armi. [...]

Ma l’artista in quanto tale raggiunge e esprime, per solito, una cognizione più illuminata e profonda che non quella dell’interesse di parte. L’artista discerne i due termini di un’antinomia (Omero: Cervantes), li enuncia nel dolore: la sua «pietas» li produce all’attenzione di chi ascolta, di -chi vede o legge, come impulsi «commotivi» non dominati dal «movente» della propaganda. [...] I propagandisti, per solito, sono certi o si danno l’aria di essere certi che la loro tesi, il loro «termine», è il termine etico di un dilemma

in cui l’avversario rappresenta tutta la colpa, tutto il male: artisticamente vengono così a creare della «ipostasi» gratuite, dei personaggi estremamente schematizzati, e qualche volta delle fantasime o dei

fantocci, simili a quelli contro cui si tiravano tre palle per un soldo fas:

E in questo contesto non poteva non venire in mente a Gadda la questione manzoniana, aperta a suo tempo da Croce: Manzoni, l’amatissimo Manzoni, «poéta an orator»? Decisamente «grande artista»:

? Un'attenzione a perte varrebbero per altro le riflessioni sul «letterario» raccolte in alcuni capitoli de I viaggi la morte, ivi, pp. 427-667, alcune delle quali, come «Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche», risalgono agli anni giovanili di Gadda. Specialmente notevole, in questo ambito, «Psicanalisi e letteratura»,

apparso su La Rassegna d'Italia nel renze l’anno precedente: notevole pio su Saba e Proust, ma anche in questioni nella cultura italiana del

1949 e derivante da una conferenza tenuta a Finon solo per la finezza di certi rilievi, per esemconsiderazione del ridottissimo interesse per tali tempo.

) sx, Il Manzoni, romanziere illuminato oltreché illuminista, ha messo in

scena un parroco il quale si chiamò Don Abbondio e una monaca la quale si chiamò Gertrude. Egli ha avuto il senso del dramma, è stato un grande artista, oltre che un uomo coraggioso verso se stesso: non si può dire che col suo parroco e con la sua monaca abbia «fatto della propaganda» alle sue idee, nel senso stretto che usiamo dare alla parola «propaganda».

Sul tema Gadda ritornerà nel 1960, nella nota recensione apparsa su Il Giorno al saggio di Moravia «Alessandro Manzoni e l’ipotesi di un realismo cattolico». In queste pagine molto tese, dal titolo «Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia», Gadda polemizzava fra l’altro, con lo scrittore e in questo caso critico romano, sul fatto che

quest’ultimo «percepisce, nel capolavoro manzoniano, un intento propagandistico: e i momenti-propaganda più espliciti, più dichiarati, non raggiungerebbero l’arte: rimarrebbero alla fase oratoria, alla predica».

Sempre nell’articolo del ’52 su «artisti» e «propagandisti» si trova un malizioso riferimento a Carducci, là dove Gadda ammette

che

«l'artista, in quanto uomo appartenente alla storia, possa schierarsi dall’una o dall’altra parte di un conflitto di idee o di un conflitto con l’armi». Così Lamartine nel 1848, così Carducci, il quale «è stato a ora a ora fervido repubblicano e cordiale e rispettoso monarchico, (senza mai fare alle schioppettate né da repubblicano né da monarchico)».

Gatta ci cova, verrebbe

fatto di dire, visto che le

«opinioni» spesso fortemente umorali ma non disorganiche di Gadda tendono ad affiorare qua e là, con un procedere di torrente carsico. E difatti Carducci lo si ritrova in un’altra risposta, del ’56, a un

lettore di Epoca che aveva chiesto «come si giudica e come si spiega il dilagare del romanesco in questi ultimi dieci anni nel cinema, nella rivista, nella narrativa e, spesso, anche nella radio». La risposta, per altro assai bene argomentata, si riconduce fondamental-

mente all’«ovvia, per noi» «ricerca di un linguaggio più aderente al

vero». Ovvia,

all’uscire da un’epoca di magnanimità indiscussa ma linguisticamente appoggiata alle trombe (Alfieri Foscolo Carducci D’Annunzio nei momenti magnanimi) e da un ventennio di coercizione pseudo moralistica, stuccati dalla seriosità del dialogo perbenistico o scenico-pompieristico [...]. Di qui, detto ora per inciso, secondo Gadda la scelta del «romane-

sco», che «ci ha offerto quella vivezza pittorica, quei liberi toni del parlato, quell’humour che arricchiscono di armoniche sapienti e profonde lo schematismo cachettico delle idee seriose». E questo

158

sulla guida dell’«altissima opera» del Belli, «uno dei più grandi ed

autentici ‘poeti’ del nostro Ottocento, e di tutti i nostri secoli in ge-

i nere»?. Carducci, dunque, come esponente di spicco (e in pessima compagnia, almeno per quanto riguarda, e si vedrà di qui a poco, D Annunzio e soprattutto Foscolo) di «un’epoca di magnanimità [...] linguisticamente appoggiata alle trombe»: «alle trombe», cioè agli squilli, alle sonorità enfatiche e, linguisticamente appunto, vacue,

lontane dalla verità concreta degli uomini e delle cose. E Carducci è infine presenza centrale in un ampio e importante articolo scritto per l’Illustrazione italiana nel ’59, «La battaglia dei topi e delle rane», in cui Gadda riprendeva e precisava la sua difesa di una lingua aderente alla realtà e idonea a rivelarla, dunque per il passato il

Boccaccio di certi racconti, il «Goldoni veneto», l’Alfieri della Vita,

«opera documentaria e stilistica di incredibile valore», e per l’Ottocento Belli appunto, Porta, i «dialettali», in genere, il Fogazzaro di Piccolo mondo antico: Il Fogazzaro, in Piccolo Mondo Antico, ha saputo orchestrare col più aspro dialetto comacinocampionese, col milanese e col veneto, trapunti tutti e tre su fondo italiano, la sua mirabile attitudine espressiva: racconto, scene, dialoghi, persone vivono e si esprimono nella loro umile vigoria, nella loro autenticità di viventi: nella loro subli-

me (perché veridica) meschinità. C'è più poesia e più «arte» in quel romanzo che nella inane declamazione del Fuoco dannunziano.

E Gadda, come si legge in questo passo fortemente ironico, sempre riprendeva e precisava la polemica nei confronti del monolinguismo della tradizione alta: Nella lindura e nella splendidezza della monolingua immortale vivono eternamente lindi, eternamente splendidi, i poeti monolinguisti-

3 Sul Belli, da vedersi in particolare «Arte del Belli», ne / viaggi la morte, cit.,

pp. 548 ss. Circa il rapporto, sicuramente complesso, di Gadda con Carducci, un problema che del resto fu proprio della sua generazione e di quelle di poco precedenti, è illuminante anche «Intervista al microfono», del 1950, ivi, pp. 502-505. A questa domanda, «Se io fossi un carducciano [...], mi divertirei a domandarle per

quale caso (o ‘fato’) lei si sia incontrato

(o ‘scontrato’) con Carducci», Gadda ri-

spondeva: «Il Carducci, prosatore e poeta, è stata la mia lettura per molti anni dell'adolescenza, dopo il Manzoni e prima del D'Annunzio. I tre nomi stanno fra loro come tre schegge d’una bomba, lo so: e tuttavia le cose andarono così. Noi non scegliamo mai i nostri padri e raramente i maestri. Dove il destino ci ha deposto, nello spazio e nel tempo e nel costume, ivi principiamo a vagire. / Al Carducci devo gratitudine e rispetto anche se oggi lo sento, per più d’un motivo, alquanto lontano da me. Egli fu comunque un maestro: e io non sono e non sarò mai neppure uno scolaro».

159 ci del severo Ottocento, quali il Foscolo, il Manzoni stesso, il Carducci: a lasciar d’altri millanta [...]. Vive nel castone della monolin-

gua, come gemma in anel d’oro, vive e splende la loro sublimità distaccata: appartata dalla deformità mostruosa dei plurilingui, dei dialettali, dei plebei.

In Carducci poi, non solo la pratica della monolingua, ma qualcosa di ancor peggio: Tra i grandi poeti dell'Ottocento il Carducci esonda, a volte, nel-

l’impeto lirico e nell’inanità o nell’errore: inanità dell’immagine, errore di notazione: meno spesso carenza del vocabolo. Egli ha «posseduto la lingua», la monolingua. Ma l’ideazione talora gli farfuglia.

Notevole poi e gustoso un confronto fra Carducci e Belli circa il trattamento di un tema comune,

«Letizia Ramolino maritata Carlo

Bonaparte», con questa conclusione: La Nemesi del poeta romano ci appare un tantino agnostica e piccolo-borghese in apertura, ma in definitiva più pietosa e desolatamente a-storica che non la Nemesi alquanto carlyliana del Carducci; e si versa e rapprende in un dettato poetico impeccabile, se pur dialettale. Quella del Carducci è la Nemesi di un corso di filosofia della storia, come agli anni carducciani usava dire; profuma un che di solenne,

di sistematico, di universitario, di nobilmente popputo. I vocaboli e il tono casalingo e popolaresco del Belli battono, quanto a vis rappresentativa, la rigidità premeditante oltre che l’enfasi generica del professore. Taglienti anche, in questo ordine di idee, i rilievi sul D'Annunzio del

Fuoco, già richiamato, in chiave negativa, a proposito di Fogazzaro: Direi che in D'Annunzio è assai alta la percentuale dei personaggi vuoti, inespressi: dei fatti e delle notazioni insignificanti. Gli stessi protagonisti, nel romanzo e nel dramma, sono talora più vicini al pupazzo che all’eroe. E ancora, molto fine:

Molti dei pupazzi dannunziani rompono quello che si potrebbe definire il pomposo silenzio della pagina, o della riga, col solo suono del loro nome: lasciandosi chiamare o citare in scena dai fasullissimi colleghi o dallo stesso corègo. La onomastica del D'Annunzio [ES] è altrettanto fatua della onomastica ellenica del Foscolo: tira ad af-

fumare in d’éna quai manera il candore della pagina, il vuoto torricelliano della scena: «Riccardo Wagner è morto, disse Daniele

Glauro».

160

Il Foscolo, appena richiamato per la sua «fatua [...] onomastica el lenica»: il massimo bersaglio polemico di questo Gadda degli anni Cinquanta, e ben al di là, direi, del quadro di idee su cui si regge «La battaglia dei topi e delle rane». Qui già non mancano gli attacchi o le allusioni umorosamente malevole, oltre quanto ho prima ricordato. Mi limito a segnalare il punto sui poeti, monolinguisti, «eti-

chettati per sublimi», che «riescono a riuscir tali ogni volta»:

Poiché proprio accade che di chi abbi regalato alla Patria una manatella d’endecasillabi reputati melodiosi, o tempestosi, o comunque insoliti all'arte, cioè alla routine, oppure una scarica d’esagitati settenari per l’epicedio di un nano, tutto, tutto, ogni atto, ogni prurito,

ogni sternuto, ogni virgola, venga poi accolto con devoto animo in una sorta di obbligazione reverenziale, consacrato nel famedio, elevato nella luce.

Per poco che si conosca il sistema diciamo epitetologico di quest’ultimo Gadda, il «nano», o come poco oltre si trova il «Nano-Titano»

è sicuramente Napoleone Bonaparte (che solo in uno scritto del ’53 su Milano vien definito, con sorridente o meglio subsannante litote,

«il non gigantesco monarca ch’era nato dalla rivoluzione»: ma qui si trattava di celebrare, con spirito direi lombardofilo, la «vacca mi-

lanese» che «si lascia mungere in pace: più la mungono, e meglio si sente»).

E l’autore di «una scarica di esagitati settenari» in epicedio del medesimo non può essere che il Foscolo dell’«oda» A Bonaparte liberatore.

L’aspra e complessa avversione per «il Basetta» aveva trovato il suo culmine, un anno prima, nella più nota Conversazione a tre voci:

Il guerniero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, trasmessa il 5 dicembre

1958 sul Terzo Programma radiofonico,

in un quadro di trasmissioni intese a far dire chiaramente, ad alcuni illustri «fustigatori», il loro pensiero

«su certi non

meno

illustri

scrittori e artisti»*. Ma un notevole segno già si trova in uno scritto dello stesso ’58, Niccolò Ugo e l’«aurea beltade», che nel sopratitolo

Donne ed amori del Foscolo visti da C.E. Gadda ben rivela l’obiettivo del discorso, che risulta non tanto «fustigatore» quanto pesantemente demolitore nei confronti, come ha osservato di recente Franco Gavazzeni, di un «autore congenitamente aborrito». Interessante del

resto che nell’ottobre sempre del ’58 Carlo Emilio scriva al cugino

ÈLa si trova nel secondo tomo, del 1992, del citato Saggi giornali favole e altri scritti, vol. v delle Opere di Carlo Emilio Gadda, a cura in particolare di F. Gavazzeni, pp. 383-429. Dalla densa «nota» di quest’ultimo sono tratte le indicazioni che qui

sùibito seguono.

161

Piero Gadda Conti: «Il Foscolo mi che una lettera dell’aprile sempre quest'ultimo su Paradigma nel ’77, e insieme poeta si manifestava con

fa imbestialire». E molto già an’58, a Bigongiari, pubblicata da in cui il rifiuto del Foscolo uomo sorprendente virulenza:

Nelle mie note c’è un po” di storia, di sciagure napoleoniose, di trambusto a Milano; di attenuanti per i milanesi ch’egli vitupera (molto probabilmente perché non riuscivano a mandar giù la sua condotta pratica, di mandrillo, di spendaccione, di fatuo, di maidi-

cente arrogante, e di labbrone spiritato) e cornifica a tutto spiano.

Alcune sue lettere, come quelle zurighesi alla donna gentile, sono di

una bassezza [...]. Con la Fagnani vacchissima si autolaurea «spirito

sublime». [...] L’ode per la Palla Vicina brocco spaventatissimo, di qualunque salviolesca o parineggiante a orecchio, Carlo Zeppa, in un tempo che a Genova

vicino a Genova e per il suo provenienza sia, arcadica o è degna della musa di Gian si stringeva anche troppo la

cinghia, e ci pioviscolavano bombacce.

Notevole fra l’altro, in questa e altre incursioni sulla vita privata di

Foscolo, l’astio sprezzante in particolare per Antonietta, qui definita «vacchissima» e ricordata come fornita, in Niccolò Ugo e l’«aurea belta-

de», di «una faccia di cuoca»: secondo un singolare spirito, o piglio, di élite, che si ritrova, per esempio, nell’«opinione da parrucchiere»

del Guerriero. E credo valga anche la pena di rilevare, al di là dei discorsi più o meno pepati o corrosivi su questa o quella donna, l’attenzione che si direbbe ossessiva agli amori di Foscolo. Come si coglie, per una sorta di antifrasi, anche in passi come questo, che fa il verso ai foscoliani entusiasti alla Bodoni Tacchi del Guerriero: «Molte le donne da lui amate in una vita agitatissima, e pur dedita alla poesia, agli studi, al culto della beltade».

Non penso sia opportuno fermarmi a questo punto più di tanto sul Guerriero, in cui in forma di dialogo o forse meglio di teatro da camera si ritrovano e ricompongono i diversi temi del discorso antifoscoliano di Gadda. Questo anche perché Pietro Gibellini e più di recente il già richiamato Gavazzeni lo hanno riconsiderato con persuasiva attenzione. Mi limiterò quindi ad osservare che se nelle parole del professor Manfredo Bodoni Tacchi prendeva voce un certo modo ottocentesco e ancora primo e medio-novecentesco di guardare a Foscolo, ingenuamente

ispirato ed enfatico, circolante

soprattutto nei manuali scolastici e nelle occasioni celebrative ma

ancora presente, in qualche misura, nella monografia di Domenico

Bulferetti comparsa nel ’52, nei sarcasmi, nei lazzi e così via dell’av-

vocato Damaso De’ Linguaggi, l'antagonista, si manifestava l’avversione totale e profonda dell’autore, che per altro ricuperava, come è già stato appunto notato, una tradizione antifoscoliana ben viva,

in area lombarda (Pecchio) ma non solo, specie nel medio e tardo

162

Ottocento: tradizione che si era variamente compiaciuta, proprio come ora Gadda, a sottolineare e stigmatizzare gli eccessi, le tante

contraddizioni, il dandysm dell’uomo Foscolo. E per esempio, per

aggiungere un contributo personale alla piccola questione, non mi sembra difficile avvertire in certi jeux de massacre del cattolico Tommaseo un’anticipazione di certe sghignazzanti «bili» del De’ Lin-

guagi. Come là dove si legge, negli Studi critici del 1843, circa Jacopo e il suo «inventore»: «nell’agonia del dolore viene ragionicchiando come uomo che s’ammazza così per modo di dire. Ed infatti sebbe-

ne il diritto del suicidio gli stesse anco negli anni maturi nel pensiero, [...] pur visse». Più Gadda di così, anche nella scrittura!

Questo dunque, in buona sostanza, quanto credo si possa dire sul rapporto Gadda-Foscolo. Cui si possono però aggiungere due rilievi. Un primo, alquanto marginale, più che altro una curiosità: il «milanese» Gadda non ama, fra i tanti motivi di non-amore, Foscolo, in quanto ostile, centocinquant’anni prima, a Paneropoli. Già lo

si è visto nella lettera a Bigongiari. Ma lo si ritrova, in ben due punti, nel Guerriero. Già subito, alle prime battute. Bodoni Tacchi ricorda «le labbra vivide, carnose» del poeta, e

DE’ LINGUAGI Umettate di saliva. La bocca, appena aprirla, una ciabatta: come quella di .... BODONI TACCHI Come quella di? DE’ LIiNGUAGI Niente. Volevo dire che aveva una voce da cornacchia. Sì. Peggio della mia ... Quando non gli mollavano grana contro cambiali, schizzava sputi su tutti: sui milanesi non parliamone: pareva un lama inviperito, un geco ...

Un secondo, verso la fine, con rinvio al noto passo dei Sepolcri: DE’ LINGUAGI Un certo Parini. Celebre per essere servito al Foscolo. DONNA CLORINDA Servito a far che? DE’ LINGUAGI A fare ... l’unica cosa che sapesse fare il Basetta. A vituperare i milanesi. A incriminare i milanesi.

Un altro rilievo, di ben maggior peso, a proposito della polemica antifoscoliana del Guerrero, è che, oltre tutto quanto si è detto, vi

circolano due idee-guida, due persuasioni, per altro interconnesse: che da un'umanità, come quella di Foscolo quale appare a Gadda,

mediocre, viziosa, se non

depravata, non

può venire una buona

poesia; che buona poesia non possa essere quella che insorge da una mitizzazione e falsificazione del vero, che si muove

in un rap-

porto fittizio, inautentico con la realtà. Con il che si ritorna al nucleo concettuale, critico e di poetica de «La battaglia dei topi e delle rane», che segue di poco il Guerriero.

163

Già parlando de «La battaglia dei topi e delle rane» ho potuto indicare la pars construens della riflessione critica di Gadda. E qui il discorso potrebbe farsi, per questo riguardo, più analitico, e considerare per esempio la rispettosa attenzione alla «scapigliatura milanese», in pagine notevoli del ’49. Mi limito, per chiudere, a citare

un finissimo passo ancora della recensione a Moravia, in cui Manzoni, il Manzoni del Promessi sposi, definitivamente

(siamo, come det-

to, nel 1960) vien riproposto, campisce in funzione anti-foscoliana e anti-retorica e, com'è ormai ovvio, gaddiana: Ciò che incanta, in quel libro, e incanta massimamente un lombardo, si può dire per elenco. Annotata, cioè riconosciuta, la verità dei

rapporti di fatto (non dei rapporti sistematizzati, quali ci potrebbe

dare un utopista, un engagé, o un arrabbiato): tra poveri e poveri [...], tra umili e potenti [...]. Amore illuminato al documento e alla storia [...]. Incredibile felicità e suprema nettezza descrittiva, la sce-

na «veduta», il personaggio che «ti viene incontro», le vie di Milano e i bravi e il lazzaretto ricostituiti in prosa italiana, ma con l’arte antica e nuova d’un Caravaggio, d’un Canaletto. Forse il vecchio genio italiano non ancora sfibrato dalla verbosità e dalla violenza polemica, dalla fregola del vaticinio. Il suggerimento imaginifico del passato raccolto come

una musica, e d’altronde

come

un dato a noi

estrinseco, e alla nostra faciloneria fabulante: da sensi vergini, stupiti come quelli di un bambino.

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MARIA ANTONIETTA TERZOLI

GADDA POETA

Con

imbarazzo

e alquante precisazioni, nel settembre

del 1954,

Gadda rispondeva a un’inchiesta del settimanale Epoca sulle prime prove di poeti e scrittori, illustrate dalla loro viva voce:

Molti i conati, dai tredici in poi. Endecasillabi e prosa. Ottave infinite. Copiose terza rima. Ebbi rima facilissima, di tipo «estemporaneo». (Ugo Betti, a Cellelager, mi disse un giorno a titolo di beffa e di sfida: ebbene, fammi una rima in acca. Ed io du tic au tac: — Cecca [evitando la coprolalia] bislacca fa la vacca stracca.) [...] La pri-

ma estrusione formalmente accettabile, nella fattispecie un sonetto, è del settembre-ottobre 1910: anni miei pressoché diciassette. Non vale molto, s'intende. Mi ero proposto di occupare il sonetto con un unico periodo sintattico, disdegnando

l’enunciazione

franta e

per così dire disossata, non sorretta da un’impalcatura sintattica di tipo conforme: (scheletri dei grandi vertebrati nei musei).

Lo scrittore ormai affermato, nell'atto di confessare la priorità cronologica del verso rispetto alla prosa, deprimeva la portata di quei primi esercizi, designati con qualche sprezzatura «conati», ascritti a una lontana giovinezza. Se poteva riconoscere che i versi si ponevano all’esordio della sua carriera, più difficilmente avrebbe ammesso che la loro frequentazione non era relegata a quegli inizi. In realtà, dopo quell’esordio, la poesia non era mai stata del tut-

to intermessa dal prosatore. Seppur desultorio, l'esercizio si estende su un arco cronologico molto ampio: dal 1910, data presunta del primo testo, al 1963, anno dell’edizione in volume di una poesia del 1931, Autunno, già uscita su Solaria, e poi rielaborata come possibile ca finale lirico della Cognizione del dolore. riguardi nei Gadda in attiva però è Una singolare autocensura corrinon pratica in stesura di priorità alla dei suoi versi, e fa sì che

l Epoca, v, n. 206, 12 settembre 1954, pp. 6-7, la cit. è a P. 6; ora in C.E. Gadda, Poesie, edizione critica e commento di M. A. Terzoli, Einaudi, Torino 1993, p. 103.

166

sponda precocità di pubblicazione. Gadda dà alle stampe il suo primo componimento solo nel 1932, dopo essere già uscito allo scoperto con vari scritti in prosa. Pochissime sono, nel seguito, le occa-

sioni editoriali, e quasi sempre contingenti ed esterne: si tratti di inediti richiesti allo scrittore ormai affermato, partecipazioni a numeri in memoria di amici scomparsi, o primizie sollecitate in occa-

sione di premi e riconoscimenti. Mai approdate a una raccolta d’autore, le poesie già sparsamente edite e quelle mai stampate — in qualche caso, addirittura incompiute - sono state raccolte solo ora in un volume che propone l’intero corpus”. È l’occasione di gettare uno sguardo più attento a un aspetto dello scrittore rimasto fin qui in ombra. La censura dell’autore è stata, in effetti, così perentoria da coinvolgere nel suo silen-

zio anche i critici, poco attenti a questa zona oscura della produzione gaddiana, a parte le felici eccezioni di un lettore privilegiato come Giancarlo Roscioni e di un esperto di lirica come Guglielmo Gorni. Il desiderio di relegare le proprie poesie in una preistoria non definita, fissata in una rigidità da museo, si lascia riconoscere bene nell’articolo di Epoca, dove Gadda, per descrivere l’ «impalcatura sin-

tattica» del primo componimento, evoca gli «scheletri dei grandi vertebrati nei musei». Immagine emblematica per uno scrittore che aveva da poco licenziato un libro di favole in cui a uno scheletro di dinosauro era appunto affidato l’antico adagio «Oggi a me, domani a te», trasparente riscrittura di un memento morì: «Hodie mihi, cras tibi» («Il dinosauro, fuggito dal Museo, incontrò la lucertola che ancora non vi abitava. Disse: ‘Oggi a me, domani a te’», favola 20). Ma chi volesse trovare un emblema più adatto a queste prove della scrittura di Gadda, evocherà piuttosto quello di «plasma germinativo». Nell’ Ada/gisa, l’immagine si riferisce alla continuità delle generazioni degli uomini: ma pare adatta altresì a indicare il carattere primo della poesia, che più di ogni altra scrittura gaddiana — Cahier d'études e Giornali compresi - si configura come stadio iniziale per eccellenza, primo grado di aggregazione biologica o fisica, germine di organismi più complessi. All’indifferenziato come tratto distintivo di una raccolta in versi è sensibile lo stesso Gadda, che lo riconosce, con eccesso forse di

proiezione autoesegetica, nel libro dell'amico Betti, Il re pensieroso, testo decisivo per la sua propria poesia e altri esiti di scrittura. In ? C.E. Gadda, Poesie, cit. Di qui derivano tutte le citazioni delle poesie gaddia-

ne, indicate da un numero tra parentesi quadre che rinvia all'ordinamento proposto nell'edizione. 3 C.E. Gadda, Il primo libro delle Favole, a cura di C. Vela, in Saggi Giornali Favole e altri scritti, , edizione diretta da D. Isella, Garzanti, Milano 1992, p. 17.

167

una lettera all'amico del 25 agosto 1922, a proposito del libro riletto

nella sua recente veste editoriale, ma già frequentato con passione fin dai tempi della comune prigionia a Celle-Lager, Gadda confessa: «Il carattere unitario del tuo poema balza agli occhi: p. e. mia sorel-

la, che non è una cima, ma non è neanche scema del tutto, a cui

diedi il libro da guardare senza commenti, mi disse che le tue poesie ‘si rassomigliano un po’’.— Ciò significa in lingua povera che i richiami, i ritorni, gli allacciamenti dell’edificio si palesano, forse più intuitivamente che criticamente, anche a chi non è stato prima spe-

cialmente iniziato».

E appunto richiami, ritorni e allacciamenti costituiscono il primo e più riconoscibile carattere della poesia di Gadda, costruita tutta attorno a pochi temi ossessivi (quelli del Gadda prosatore), con recuperi anche a distanza di frammenti e di versi. Mi limito qui a una rapida campionatura. Il livello più semplice è costituito dall’iterazione di stilemi minimi, come «Fa radunata» ([7], 10 e [13], 156), | «rorida vita» («Soffio della rorida vita» [6], 76; «polla della rorida vita» [13], 122), «gole profonde» ([14], 20), «profonde gole» ([17],

IVa, 3), e così via. Ma la ripresa si presenta anche in maniera più articolata, come graduale approssimazione a diverse possibilità espressive, fino a coinvolgere più versi: «Il mio passo vi cerca la strada» ([6], 16), «Il mio passo è vano» ([7], 25), «Il tuo filo cerca / Nel piano una via» ([8], 4-5); «Forse qualcosa ho scordato / Forse un

pensiero per la felicità / Forse un antico mistero / De’ miei che non mi fu palesato» ([16], 20-23), «Ed animarci così vogliate del vostro

mistero / Che ancora non ci fu palesato. / Dove si perde il vostro ritornante pensiero?» ([17], III, 4-6). Talora la ripresa lessicale com-

porta anche il calco di elementi strutturali e retorici: per esempio il modulo iterativo di «Qualcosa disparve; si sente. / Niente, niente» ([12], 50-51) è ripreso nella forma: «Ma qualcosa, qualcosa ho lasciato / Quando quando si ritroverà?» ([16], 41-42).

DI

Il recupero, e la ridistribuzione, degli stessi elementi tematicie lessicali in pagine anche molto lontane, costituisce una pratica più volte segnalata dai critici, segnatamente da Contini e Roscioni. L'autore tentava di giustificarla fin dal 1924, adducendo una ragione di natura per così dire ontologica, quando annotava nel Cahier. «Ci

duole ritornare sulle nostre righe, ma anche altri, la Vita, ritorna sulle sue»?. Qui importa però sottolineare l’antichità del procedi mento, che si manifesta fin dalle origini della scrittura. O meglio presiede alla sua nascita e in qualche modo ne determina il seguito. 4 C.E. Gadda, L'’ingegner fantasia. Lettere a Ugo Betti 1919-1 930, a cura di G. Un-

dine) arelli, Rizzoli, Milano 1984, p. 67. d’études), a cura di di 5 C.E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento (Cahier Cahier. emente semplic avanti in d’ora 60; p. 1983, Torino D. Isella, Einaudi,

168

A conferma di una necessità che per Gadda è vitale: in senso etimo-

logico, si vorrebbe dire. Il corpus delle poesie consente di verificare,

quasi in forma sperimentale, la nascita, la persistenza e l’amplifica-

zione del procedimento, che partendo dal verso si estende progres-

sivamente alla prosa. L’opera che più attinge agli antichi componimenti è quella che ha carattere di mediazione tra la «fulgurazione» della poesia e le «brume o le nuvole ampie e rotonde del discorsivo», cioè il Cahier d’études, prima prova di lunga durata del prosatore. In queste pagine le riprese appaiono anzi così puntuali e fedeli, da indurre il sospetto che lo scrittore esordiente recuperi con intento sistematico i vecchi versi per il nuovo tessuto della prosa: che risulta, pertanto, farcita di moduli lirici e di frammenti desunti alla lettera da antichi scartafacci. Se talora si può parlare di riprese vagamente tematiche e di rielaborazioni più o meno fedeli di materiali anteriori, in altri casi si assiste a un vero e proprio innesto di frammenti trasferiti di peso. Per esempio, l’attacco di [14], «Poi che le nuvole sorgono, / Come sogni, dai monti / E dalle foreste» (vv. 1-3), è adibito a chiu-

sura di una pagina del 5 settembre 1924: «Vi sono grandi monti: ed ecco le nuvole sorgono, come sogni o come paurosi pensieri, dai monti, dalle foreste» (Cahier, p. 240). Così alcuni versi riferiti al «silente locomotore» di [16], «E traversi la pianura senza confini. /

Sfiori come uno spettro le tacite case mamma

i profumati bambini

/ Dove dormono presso la

/ Con la bocca semiaperta»

(vv. 10-

13), sono utilizzati per i treni evocati nel Cahier. «E i treni correvano nelle pianure, senza disturbare le case dove, durante la notte, quasi

tutti sogliono ripararsi e riposarsi. Dormono quivi presso la mamma

i caldi, profumati bambini, con bocche semi aperte» (p. 23). Persino lo «spettro» del v. 11 figura di nuovo in una lezione alternativa («O passavano come dolci spetri accanto ai casolari dove»). Ma il recupero più ampio, e certo non sarà un caso, è quello che Gadda opera dal poemetto incompiuto Viaggiatori meravigliosi [17], che presta intere sequenze a una pagina del 26 marzo 1924: «Quando le navi sono ferme nel porto e le guardie hanno tutto verificato, ne discendono i passeggeri dei paesi lontani. Corriamo! Nel riveder lor terra, avranno pianto. Gridiamo un saluto! Nel viso non è alcun segno di pianto. Il viso è immobile, muto. Meravigliosi viaggiatori, che avete respirato nei paesi paurosi. La fatica, la solitudine, vi hanno sole baciato, ecc. —» (Cahier, p- 213), trascrizione quasi letterale dal-

le prime due strofe della poesia: «Poi che le navi sono ferme nel porto, / Scendono i passeggeri dei paesi lontani / Ai compagni che

tornano vogliamo dare il conforto / Perché forse, nel rivedere la terra, hanno pianto. / [...] / Gridiamo il nostro saluto! / No, nel vi-

so non è segno di pianto / Il viso è immobile e muto. // Viaggiatori meravigliosi / Nei paesi d’oltre paura, / Fatica e solitudine vi bacia-

169

rono dunque». Quest'ultimo caso sollecita alcune considerazioni. L'ampiezza del recupero è proporzionale al grado di incompiutezza della poesia, i cui confini non ben definiti — anche materialmente labili nei manoscritti che ce la tramandano - sembrano incoraggiare a uno smembramento del testo e al travaso in altra scrittura. Il fatto stesso che la poesia presenti molteplici redazioni concorrenti della medesima strofa o di gruppi di versi consente persino di leggere la trascrizione in prosa come un’ulteriore variante espressiva, rielaborazione da aggiungere alla serie in versi. L’innesto di questo frammento nella prosa del Cahier ne faciliterà in seguito il recupero

in una pagina di Crociera mediterranea: «Ferme, al porto, le navi: ne discendono i passeggeri, che han lasciato i paesi lontani». Quello che si è mostrato è un percorso esemplare — dal verso alla prosa del Cahier, alle pagine più organiche delle raccolte successive — che si delinea in molti altri casi e si prolunga anche in testi molto più tardi. Tradurre in prosa gli antichi versi — la definizione è dell’autore, e giusto a proposito dell’esempio che si è appena citato («Difficile tradurre in prosa i miei vecchî versi») — si rivela in effetti operazione costante nella carriera gaddiana. Basti dire che nella Madonna dei Filosofi si depositano schegge liriche quali ad esempio i versi «Era un sepolcro di principi / Strangolati, che comandarono / Gli assalti nelle battaglie» di [13], vv. 130-32, riproposti in [17], vm, 5-6, «Dove dormono i re, coronati di ferro. / Comandarono gli as-

salti, nelle battaglie», e poi recuperati per designare l’innamorato di Maria disperso in guerra:

«aveva

[...] comandato

li assalti nella

cenere delle battaglie»8. Ho ricordato le riprese più antiche, rinunciando a dar conto di recuperi più tardi, che si lasciano leggere piuttosto come ripresa mediata, anche se lungamente operante. La «qualità lirica del temperamento», additata in Gadda da Contini nel simpatetico Saggio introduttivo alla Cognizion@, trova ora le prove anche materiali — prosa costruita con reliquie di poesie interrotte o ripudiate, ma conservate per anni — della sua folgorante necessità critica. A questa stregua la non pacifica inclusione di Autunno nel corpo della Cognizione, di cui sembra costituire —- almeno per un certo tempo - il finale lirico, appare come una macroscopica, integrale applicazione dello stesso

6 Poesie, cit., p. 32. ? Il Castello diUdine, a cura di R. Rodondi, in C.E. Gadda, Romanzi e racconti, 1, dizi

diretta da D. Isella, Garzanti, Milano 1988, p. 183.

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dei Filosofi, a cura di R. Rodondi, in C.E. Gadda, Romanzi e raccon-

i È ti, 1, cit., p. 102. Eidolore, del e Cognizion La Gadda, C.E. a ivo» ; È GAgondab «Saggio introdutt naudi, Torino 1963, p. 11.

170

procedimento: l’innesto di una poesia già disseminata nella prosa e infine esibita. Quasi che lo svelamento al lettore del proprio proces-

so di scrittura possa costituire un compenso per il mancato scioglimento narrativo. Una volta riconosciuta questa osmosi tra prosa e verso come un

carattere essenziale della pagina gaddiana, non stupirà reperire due endecasillabi, non

altrimenti

noti, in una

pagina del giornale di

guerra del 5 giugno 1916: «verso i monti guardo quasi con rincrescimento e paura, come all’origine d’una tempesta insostenibile, mentre altra volta pensai di loro: ‘muro con torre per la mia semente foste, avverso orda che di là s'accampa’»!9. Quasi il segno, nel prosatore, di una necessaria e sempre operante memoria poetica. Si è indicato come nel corpus delle poesie compaiano già, seppur în nuce e per assaggi minimi, i temi più cari allo scrittore. Ma sì può affermare anche, con buona approssimazione, che per Gadda la poesia costituisce pure il primo stadio di elaborazione di procedimenti formali poi sviluppati nella prosa. Da questo punto di vista i testi poetici offrono, in effetti, un prezioso contributo a riconoscere

la

genesi della sua scrittura. In particolare un elemento, squisitamente legato al verso, quale la rima, consente

di cogliere, in uno

stadio

germinale, l’insorgere di quello che, col senno di poi, si sarebbe chiamato «espressionismo gaddiano». Sia consentita allora una rapida descrizione dell’identità metrica di questi testi, alla quale l’autore stesso fa riferimento nella dichiarazione a Epoca che si è citata all’inizio, ricordando anche un metro,

l'ottava, di cui resta menzione in pagine contemporanee ai fatti, ma di cui non si conosce attualmente alcun esemplare. Importa anzitutto notare che gli esordi di questa poesia sono nelle forme più tradizionali — ottava, sonetto, terza rima — in quegli anni tra il 1910 e il 1915, decisamente minoritarie e arcaizzanti, o sottoposte a recuperi archeologici. L'unica eccezione è costituita da un testo del 1915, O

mio buon genio, divino ed umano, aereo Ariel, sorta di poème en prose composto sotto l’influenza della poesia di Whitman, frequentata nella traduzione di Luigi Gamberale. Lo spartiacque, per quanto attiene alla metrica, si colloca negli anni della guerra, o meglio della prigionia. Le poesie del dopoguerra appaiono formalmente nuove rispetto a quei primi esercizi di gusto scolastico. Alle forme metriche più tradizionali si sostituiscono polimetri di strofe diseguali, articolate in versi di scansione non canonica, organizzati intorno a una misura sillabica dominante. Il passaggio a forme più libere di

10 Giornale di guerra e di prigionia, a cura di D. Isella, in Saggi Giornali Favole, 1, cit., p. 533; d’ora in avanti semplicemente Giornale.

171

versificazione, con il ricorso a schemi metrici non regolari e l’adozione di versi liberi, sembra maturare anche grazie alla quotidiana frequentazione di Betti, per singolare destino rinchiuso nella stessa baracca (la numero

15 del campo di Celle), e autore, in quei mesi,

delle poesie pubblicate poi sotto il titolo di Re pensieroso!!. La suggestione esercitata sull’esordiente Gadda, studente del Politecnico e quindi professionalmente non letterato, dalla «natura apollinea» di Betti, laureato in giurisprudenza e in quei mesi già sicuro adepto di poesia, è ancora operante nella rievocazione di quell’intimità affidata alle commosse pagine di Compagni di prigionia, dove si rende omaggio, tra l’altro, al valore consolatorio che quella poesia ebbe per il prigioniero Gadda: «e furono i suoi versi come un conforto, e una risorgente speranza»!?, Una lettura avvertita del Re pensieroso mostra con ogni evidenza quanti e quali siano i debiti della poesia di Gadda nei confronti di questo libro di Betti, sia per i temi, sia nella lingua e lo stile. Non è questa l’occasione per una verifica puntuale delle riprese gaddiane dal Re pensieroso. Importa invece isolare il momento della scoperta, da parte di Gadda, dell’attività poetica che l’amico praticava in segreto. L’ineffabile racconto!3, degno di figurare in un’ideale antologia di primi incontri con un poeta, circoscrive l’attività versificatoria entro due elementi formali: l’uso dell’a capo («Dalla ineguale ricopertura delle righe vidi che eran dei versi») e la ricerca della rima

(«Forse inseguiva i suoi sogni, forse la rima, gallinella procace,

o deludente in circolo»). Il far poesia si risolve in una «amorosa battaglia» tra un «bel galletto», il poeta, e una «gallinella procace», la rima. In questa inattesa immagine del poeta — che si inquadra però in una serie di altre metamorfosi non meno eterodosse a cui Gadda sottopone lo scrittore — la poesia è un amoroso ludo in cui la posta in gioco, o meglio, l'oggetto del desiderio, capricciosamente sfuggente («deludente in circolo»), non è altro che la rima. Non

stupirà dunque che, nella dichiarazione rilasciata a Epoca citata all i nizio, Gadda, a proposito del far poesia, alluda alla propria facilità nel trovar rime, chiamando a testimone il compagno di prigionia 4 Ugo Betti. Il ruolo decisivo attribuito alla rima trova conferma in una pagi-

na della Madonna dei Filosofi, dedicata alle poesie di Emilio (il ragazzo amato dalla marchesina Maria e disperso in guerra). L'ampio spazio concesso alle indicazioni che la riguardano attesta dell’inte-

resse primario dello scrittore per questo elemento della versificazio-

ll U. Betti, ZI re pensieroso, Treves, Milano 1922.

1? Il Castello di Udine, cit., p. 163.

13 Si legge nel Castello di Udine, cit., pp. 161-164.

172 ne, privilegiato su tutti gli altri, compreso il ritmo, menzionato solo incidentalmente e in suo servizio («le rime, anche se il ritmo fosse libero, erano nòbili, agévoli, e ragionévoli: l'andamento metrico

non privo d’originalità»14). Persino la coerenza e la compattezza dello «stile» appaiono in sostanza garantite da un opportuno sistema rimico («lo ‘stile’ non riceveva a ogni passo un calcio di dietro, passando, come fanno, di colpo, dal pretestato allo sciatto [...]. Non

c’era caso che giunchiglia fosse tirata a rimare con parapiglia, né, con fidanza, vacanza o maestranza; ecc.»).

In effetti, a chi consideri l’intero corpus delle poesie gaddiane — che nella sua esiguità comprende individui di così varia morfologia — sarà subito evidente come il punto focale del verso, l'elemento decisivo della composizione, sia appunto la rima, o almeno quella che, in una prosodia tradizionale, sarebbe la sede canonica della rima, in fine di verso. La rima, da ingrediente tradizionale, adottato secondo

schemi prefissati, nelle mani di Gadda si trasforma in elemento forte di ricerca espressiva: luogo prediletto di sperimentazione fonica e aggregato minimo di quello che, per la prosa, si è soliti indicare coll'etichetta di «espressionismo gaddiano». Il movimento, com'era prevedibile, appare omogeneo alla presa di distanza dai metri della tradizione. Le primissime poesie di Gadda attestano la forte presenza, a livello formale, della lezione pascoliana, attiva anche su altri piani. Sembra decisiva, in particolare, la

complessa sperimentazione fonica e retorica a cui il Pascoli sottopone il sistema rimico, costruendo elaborate partiture di rime tra loro assonanti e consonanti, legate da allitterazioni, bisticci, paranomasie e da altre complicazioni retoriche, ritmiche o foniche. All’auto-

rità del Pascoli doveva però congiungersi, come si è detto, la suggestione di Betti: forte soprattutto per le circostanze in cui veniva a essere operante, non antitetica ai modi pascoliani, ma piuttosto portata a esaltarne alcune tendenze. Nelle citazioni precedenti si è spesso accostato il nome dell’amico alle osservazioni sulla rima. Questa ricorrente contiguità è un indizio da non trascurare: un’analisi sistematica dell’uso della rima in Gadda mostra infatti come, sulla lezione pascoliana, si innesti pro-

prio, per le poesie del dopoguerra, l’esempio di Betti, di intensa efficacia nella pratica quotidiana della prigionia. In effetti proprio nelle poesie del Re pensieroso, sembra di poter rinvenire il precedente più significativo dell’uso gaddiano della rima. Nella poesia di Gadda, come in tanta poesia novecentesca, non si dà un sistema metrico preciso a cui ricondurre la varia polimetria, e neppure si può indicare un uso sistematico e regolare della rima.

14 La Madonna dei Filosofi, cit., p. 77.

173

Si enuclea però una serie di costanti, che rispondono sommar iamente al parametri seguenti: schema rimico irregolare, con alta occorrenza di identiche e irrelate; sdruccioli con funzione di rima rit-

mica; rime imperfette; rime allitteranti; rime desinenziali e, inversa mente, variazione di desinenze grammaticali; paronomasia tra le rime; trama di assonanze e consonanze tra le parole in fine di verso,

gusto per la rima baciata o comunque ripetuta a breve distanza. Tutti fattori che caratterizzano anche, con maggiore o minore insisten-

za, le poesie di Betti: la novità di Gadda consisterà semmai nella diversa dosatura di questi fenomeni, e nel gusto più spiccato per certe aggregazioni foniche. Che è quanto dire in un più sofisticato gioco combinatorio: in aggregati fonici minimi (variazioni desinenziali © sistemi di assonanze), o in intere parole. Si è detto che in Gadda la rima, o meglio la fine del verso, con

esasperata eco di suoni e di timbri, vale non tanto in quanto iterazione, ma soprattutto in quanto pretesto a deformazioni di una

massa fonica originaria. Si è anche notato che questa elaborata ricerca delle possibilità espressive, a cui è sottoposta la rima fin dai versi del 1919, coincide con quello che, con sguardo retrospettivo, si può riconoscere come lo stadio germinale dell’espressionismo gaddiano. Al suo pieno manifestarsi non mancano che due incrementi. Il primo consiste nell’estensione dell’esercizio dalla parte finale all’intero verso

(eventualmente con rime al mezzo evidenziate da

trattini, come nella prima versione di Autunno) e quindi alla prosa. Ne è conferma la possibilità di reperire nella prosa quei medesimi fenomeni di cui si è riconosciuta la prima applicazione sulla zona sensibile della rima. L’altro, decisivo sviluppo consiste nell’allargamento qualitativo nella sua applicazione: il passaggio cioè da un sistema linguistico e grammaticale storicamente e geograficamente definito — ma appunto inadeguato a esprimere l’aggrovigliata combinatoria del reale - a una lingua anche

non

esistente, ma per ciò stesso non

delimitata,

aperta a una combinatoria infinita, a ogni potenziale deformazione di originari nuclei fonici e lessicali. Le esperienze estreme che marcano la fine del verso nelle poesie dell’apprendista scrittore sembrano in effetti contribuire in maniera efficace all'invenzione della sua prosa, dove talora è proprio la rima a generare nuovi composti lessicali («tra il frustume delle lire marce e la nichelaglia o ramaglia o acmonitaglia dei soldarelli, nichelini, decini gobbi e sbilenchi Io per citare un solo esempio tratto da una pagina dell’ Adalgisa'?). Romanzi e 15 L’Adalgisa (disegni milanesi), a cura di G. Lucchini, in C.E. Gadda, racconti, I, cit., p. 366.

174

Alla luce di quanto si è fin qui mostrato, meglio si comprende un’altra dichiarazione a Epoca: «Scrivendo in prosa mi astengo dalla rima, salvo che per consapevole gioco; in questo, pratico il contrario dei prosatori italiani giovani che incoccano filze di rime a sette a sette». Nella indicazione della rima come decisa opzione stilistica e come esuberante gioco retorico andrà registrata anzitutto una presa di distanza da ogni fortuita e accidentale presenza di omoteleuti, utilizzati da Gadda solo in funzione espressiva, mai come inerte au-

silio compositivo.

Ma la pagina è preziosa soprattutto perché consente di cogliere in atto — assistendo quasi materialmente al suo compiersi proprio dove se ne dichiara l’importanza - il processo che si è segnalato: l’irradiazione della rima al di fuori del limite del verso in direzione della prosa, cioè, in altre parole, la funzione svolta dal «consapevole

gioco» della rima nell’invenzione linguistica gaddiana. La «rima in acca», provocatoriamente sollecitata da Betti («ebbene, fammi una rima in acca»), è responsabile, infatti, non soltanto della immediata

risposta del compagno di prigionia («Cecca bislacca fa la vacca stracca»), ma anche della modalità, retorica e fonica, con cui questa

risposta è introdotta nella prosa di tanti anni dopo, «Ed io du tic au tac», con il gioco sulla vocale tonica e sulla consonante della rima. E l’irradiazione si allarga appunto alla frase che si è citata, «incoccano filze di rime a sette a sette», legata alla precedente dalla consonanza con la «rima in acca» e, per ironico ammicco a quella giovanile sfi-

da, col nome stesso-di Betti. Omaggio postumo, tardivo e ambiguo risarcimento di un lontano debito di poesia.

Se l’attività poetica di Gadda si estende su un arco cronologico di più di mezzo secolo, è però vero che le poesie appaiono concentrate nel 1919 (otto o addirittura dieci testi), e, per quelle datate, nei

primi mesi dell’anno, dal gennaio all’aprile (cinque). Il fatto è abbastanza singolare da richiedere un supplemento d’indagine, o almeno una puntuale ricerca che consenta di aprire qualche spiraglio su questi prodotti. Particolarmente significativa al riguardo appare la prima poesia della serie, Sul San Michele. (Gaddus, 4 luglio 1917)?®. Il titolo è designazione topografica di immediata riconoscibilità nella memoria nazionale, per chiunque conosca, direttamente o indi-

rettamente, le vicende della prima guerra mondiale. Il San Michele

è infatti l’altura del Carso, presso le foci dell’Isonzo, teatro di san-

guinose e reiterate offensive («Sito grigio, sito sassoso. / Lo chiama-

no monte, così, / Perché fu tremendo il salire. / [...] / Grigia terra, deserto salire / Al culmine / E riscendere della pietraia, / Grigio

16 Poesie, cit., pp. 10-12.

175

d’erbacce e di ghiaia», vv. 4-13), titolare in letteratura di altre più celebri menzioni, per esempio nella poesia di Ungaretti: «Come questa pietra / del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente / disanimata // Come

questa pietra / è il mio pianto / che non si vede» (Sono una creatura,

vv. 1-11)!7. Nel titolo Gadda registra, curiosamente, anche la data e

la firma «Gaddus, 4 luglio 1917», quasi configurando una pagina di diario che offra il resoconto di un momento preciso nella biografia dello scrivente: appunto la visita-pellegrinaggio compiuta sul San Michele il 4 luglio 1917 dal tenente Carlo Emilio Gadda. La somi-

glianza con una pagina di diario, di cui la poesia sembra mimare i caratteri (luogo, data, firma, temporalità prossima della narrazione,

«Ho detto ai soldati: ‘Per oggi riposo, / Per oggi aspettatemi qui’», vv. 1-2), è così forte che molti anni dopo, in occasione di un «riordinamento» del 1933, l’autore sentirà il bisogno di ribadire l’anno di composizione — che non coincide con quello dell’azione descritta — e di precisarne le modalità (ricordo e non registrazione immediata dei fatti): «Questa lirica ‘Sul San Michele’, è stata scritta nel 1919,

rievocando». Tanto scrupolo appare pleonastico se si considera che, per la prima parte della poesia, il manoscritto registrava già la data di stesura («28 gennaio 1919»), ma diviene più comprensibile se si interpreta come volontà di distinguere fermamente, all'altezza del 1933, due tempi inconciliabili: quello dell’azione e quello del suo

ricordo, quello del diario di guerra e quello della rievocazione successiva. In altre parole, nella biografia di Carlo Emilio, il prima e il dopo rispetto alla morte del fratello Enrico. Le pagine del giornale di guerra per il luglio del 1917 non ci sono pervenute. Appartenevano al «prezioso diario, contenente le mie speranze e la mia passione a Torino e sul Carso»

(Giornale, p.

701), abbandonato nell’imminenza del tragico 24 ottobre 1917, nella tenda sul Krasji nei pressi di Caporetto, di cui Gadda lamenta ossessivamente la perdita («ho perso sul Krasji il mio prezioso diario del 1917; perdere anche questo mi sarebbe un grave dolore», Gior-

nale, p. 761, e così via), caricandola, a posteriori, di implicazioni simboliche: «I giorni della sconfitta mi ritornano continuamente nell’anima con tutti gli orrori patiti, con la visione di tante cose per-

dute» (Giornale, p. 750). Dopo il rientro a Milano e la notizia della

morte del fratello questo sentimento di perdita, di scomparsa, si specializza per divenire l'emblema irreparabile di ogni altra perdita: «Qualcosa disparve; si sente» ([12], 50), «E i miei fratelli dove sono? Non ci sono. / [...] / Ma qualcosa, qualcosa ho lasciato / Quan-

Mondadori, 17 G. Ungaretti, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Milano 1974, p. 4l.

176

do quando si ritroverà?» ([16], 37-42). Le premesse erano però tutte registrate nel diario, fin dal 29 ottobre 1917, a ridosso della di-

sfatta, nelle prime ore della prigionia: «Desolazione, solitudine. Notizie gravissime, terribili, sull’avanzata tedesca; estrema mia desola-

zione. Penso a Enrico, ai miei. Quale orribile destino si approssimal!» (Giornale, p. 664), e, con più disperato presentimento,

due

giorni dopo, il 31 di quel mese: «Il mal di cuore, la patria perduta, la famiglia perduta, quest'ultimo amico perduto; il pianto, la demenza. Sassella Stefano, di Grosio (Valtellina), cl. 1897; anima

splendida e rara, devoto come gli eroi dell’Ariosto; piango come se avessi perduto mio fratello. [...] Io sono

ora finito: nella sventura,

nell’orrore anche questo amico ho perduto!» (Giornale, p. 665). Parole non facili da rileggere quando la similitudine evocata era divenuta atroce, immedicabile realtà.

La prima poesia scritta dopo il rientro rappresenta il disperato tentativo di riparare a una perdita, almeno a quella materiale del giornale di guerra, sostituendo a quelle pagine smarrite nei luoghi della disfatta, la loro rievocazione lirica, concepita nei termini di

una poesia, datata e firmata, il più possibile simile a una pagina di diario. Quelle che seguono immediatamente, le poesie di aprile, sono anch'esse minuziosamente firmate e datate nella loro fitta cronologia («CEG. 5 aprile 1919, Milano.»; «CEG. 6 aprile 1919, Milano.»; «9 aprile 1919.»; «Pasqua 1919. — Longone. —»). Sostitutive in tempo reale del diario (che per il mese di aprile si limita al giorno 1) sembrano tentare, a loro volta, compensi di natura simbolica, più astratta, per una perdita non tollerabile. L’ultima della serie, Chiara serenità della terra [10], dove le campane chiamano i vivi — da cui è escluso ormai il fratello — «Ad andare / Nel sole / E nell’aria», è

scritta nella casa di campagna, il giorno di Pasqua del 1919, appunto in occasione del «1°. ritorno a Longone dopo la guerra e la mor-

te di Enrico», come precisa una postilla molto più tarda!8. Sembrano, queste poesie, il primo tentativo di compensare

la perdita, di

esorcizzare la morte del fratello, poi destinato a ispirare pagine tra le più alte del Gadda prosatore. Ma restano un tentativo doloroso e inadeguato, che registra i segni del proprio fallimento iscrivendoli, letteralmente, nei versi: «Il mio passo è vano / [...] / Cade la mano» ([7], 25-29), memoria del virgiliano cecidere manus, riferito a Dedalo

impotente a scolpire nell’oro il tragico volo del figlio. Un volo dall’esito così simile a quello dell’ultimo volo di Enrico: «Orribile senso di miseria e di solitudine nella vita; e sempre Lui nella mente e negli occhi, raccolto disperatamente intorno alle manovre del suo aereoplano» (Giornale, p. 850).

18 Cfr. Poesie, cit., p. 109.

177 x

La scansione diaristica di questo gruppo di poesie compensa, si

è detto, l'assenza di note nel Giornale tra l°1 aprile e il 22 maggio 1919. Ed è proprio grazie a quest’ultima pagina che la precisione delle date delle poesie, per i giorni dell’aprile, si lascia riconoscere come dolorosa scansione del tempo, giorno dopo giorno, nel mese

anniversario della morte del fratello: «Il giorno 23 aprile volevo an-

dare a Sandrigo, a vedere la tomba d’Enrico. Non potendo allora (Politecnico), ci sono andato prima: ho viaggiato i giorni 11, 12, 13,

14 aprile» (p. 858). Tra le date registrate si cela anche quella del pietoso e disperato omaggio fraterno («la squallida tombae il dolore demenziale, istupidimento. [...] Forse scriverò con maggiori det-

tagli. La gita terribile e la visita alla tomba d’Enrico mi fecero una tremenda impressione»), che però non è dichiarata esplicitamente,

con forte reticenza, sottolineata dall’ossessiva, inutile, precisione

cronologica degli altri spostamenti: «La partenza da Vicenza il giorno ll sera (avevo viaggiato Milano-Vicenza la notte 10-11); VeneziaTreviso; notte sul 12 a Treviso. Il 12: Treviso-Udine-Cividale; colazio-

ne a Cividale». Notare le date si configura dunque, per il sopravvissuto, come scrupolo necessario e doloroso, vana scansione del tempo: «Noto soltanto alcune date, nell’orrore», così il 18 gennaio 1919 (p. 849), nel resoconto dell’arrivo a Milano e della disperata

scoperta. La prima data del nuovo, intollerabile tempo, il 23 aprile 1918, giorno della morte di Enrico (poi celebrato per anni nella memoria familiare: «Vi ho mandato un cablogramma in Via S. Simpl., per domani 23 aprile: Unito pensiero Carlo. Spero l’avrete avuto in tempo», così alla sorella il 22 aprile 192319), non era stata registrata in tempo reale, perché la notizia era stata taciuta allo scrittore fino al

giorno del suo rientro a Milano dopo la guerra e la prigionia, nel gennaio dell’anno successivo. Ma entro questo privato cerimoniale di atti riparatori e di compensi cronologici non poteva non essere «notata» anch'essa: di necessità in un tempo successivo, ma almeno

nel luogo esatto che avrebbe occupato nel diario se la notizia fosse stata immediata. Proprio nello spazio compreso tra le-note del 22 e quelle del 25 aprile 1918 compare infatti una parola, certamente inserita in un secondo

momento,

isolata con forte rilievo al centro

della riga: «Orrore—» (Giornale, p. 768). Una sola parola invece di una data intollerabile, che non si poteva più registrare sulla pagina, pena la falsificazione del documento. Ma la criptica indicazione,

«orrore», nel diario sarebbe stata, da qui in avanti, specializzata, ri-

servata a questo esclusivo dolore: «Vento freddo, desolazione. Orrore

19 Lettere alla sorella 1920-1924, a cura di G. Colombo, nota biografica di C. Viganò, Archinto, Milano 1987, p. 69.

1778 nelle ore di sera e di notte, nel sole, e sempre. Nessuna sosta al do-

lore. Nessuna emozione per l’Italia e le cose. Nessun sogno per il futuro. Solo Lui, il suo aereoplano, i suoi 21 anni» (22 gennaio 1919, Giornale, pp. 850-51); «il ricordo di Stefano Castelli e per associazione di Enrico; il mondo vuoto; le pezze di sole triste sui muri; orrore anche qui» (1 marzo 1919, p. 852); «i momenti in cui ricordo

e ripenso, e i minimi dettagli li rivedo con minuzia spasmodica; non posso scriverne, ma è troppo; troppo il dolore, l’orrore della notte e la solitudine dell'anima» (25 marzo 1919, p. 856); «Povero Enrico! E che ornibdile, atroce vita» (1 aprile 1919, p. 857), «il dolore presente sempre d’Enrico, l’orrore della casa sola e deserta [...] Dolore di Enrico; orrore, aumentato dalla solitudine della casa» (7 luglio 1919, p.

859); «Stavo anche per incontrare il più orrendo dolore della mia vita» (31 dicembre 1919, p. 867). E nella pagina del 22 maggio che si è ricordata: «Vita infranta. Il dolore per Enrico cresce, portandomi all’orrore. [...] la squallida tomba e il dolore demenziale, istupidi-

mento. Poi, per completare l’orrore, ho voluto andare fino a Caporetto e sul Krasji-Vhr. [...] vi salgo. [...] Prendo alcuni colpi per ricordo; non trovo le mie cassette, né il diario» (p. 858).

Scrittura come compenso della perdita, tentativo di esorcizzare l’orrore della morte del fratello e di tutte le altre che a quella ormai sempre rinviano.

Così non

stupisce che, nella poesia Sul San

Michele, possano essere utilizzate per i compagni morti («Riposa la fronte / Sopra l’orbite vuote / Nel buio della terra / E tace il monte / Che vi rinserra», vv. 82-86) frasi riferite al fratello nel diario:

«Lui ha finito e riposa per sempre nel buio della terra» (7 luglio 1919, Giornale, p. 859) e ancora «Egli è nel buio della terra, ai piedi

delle montagne amate e sognate nella nostra giovinezza» (31 dicembre 1919, p. 867). Anche l’esercizio straziante del ricordo, «E inutilmente, o sepolti, / Ricordo e ripenso» (vv. 87-88), è lo stesso

che si applica all’immagine di Enrico: «I momenti di solitudine nella casa e nella città deserta, poi, sono terribili;

i momenti

in cui ri-

cordo e ripenso» (25 marzo 1919, p. 856). In queste molteplici identificazioni postume tra Enrico e i compagni scomparsi il movimento funziona naturalmente anche in senso inverso. Si dovrà allora intendere come riferito soprattutto al fratello il desiderio, disperato e impossibile, di compiere insieme nuove eroiche imprese, che nella poesia è esplicitamente affermato soltanto per i compagni «di giovinezza e d’orgoglio»: «Vorrei parlarvi ed andare / Compatti dietro il cannone / Veder le granate a smontare / Pezzo per pezzo le corone / Delle trincere / Sopra i colli bruciati. / Avervi compagni [...] / E lungi dal soglio / Dell’opere prese / Altri monti vedere / Altre schiere / Avverse / [...] / Altro ridente paese. / Non vedo che un velo / Di nuvole perse / Tetre, nere, / Andare col vento nel

cielo» (vv. 54-73).

179 Mutare i dati della realtà, ritrovare i compagni caduti, cancellare

ogni perdita. Di questo doloroso delirio sarà data esplicita ammissione solo molti anni più tardi, nella prosa Compagni di prigionia, «in una forma di delirio sognavo, vedevo, volevo vedere!», proprio per introdurre le frasi che ricalcano alla lettera i versi della poesia: «Veder le granate a smontare pezzo per pezzo le corone delle trincere sopra le quote bruciate e i compagni andare, sapendo, sul monte! [...] e volevo imitarli e seguirli, dal soglio dell’opere prese altri monti vedere, altre schiere avverse, altro fuggente paese. Fuggenti sopra

la gabbia non erano che nuvole perse, tetre, nere»?°. Non consolato, ma osservato in una più tollerabile lontananza, questo dolore

nutre ora il sublime del finale: «Camminavo e camminavo, fagotto di cena, sulla strada buia dell'eternità. Agli entusiasmi ingenui del giovane ufficiale, registrati nelle pagine del diario («il desiderio di fare, di fare qualche cosa per questa porca patria, di elevarmi nell’azione, di nobilitare in qualche maniera quel sacco di cenci che il destino | vorrebbe fare di me», 25 ottobre 1916, Giornale, p. 645), si congiun-

ge ora, per chi aveva avuto esperienza diretta della morte dei compagni e solo poteva per lucida illusione disperatamente evocarli («sognavo, vedevo, volevo vedere [...] volevo imitarli e seguirli»), la nuova, più ferma sapienza di quella ineludibile meta, espressa appunto nei versi del 1919 (Sul San Michele, vv. 20-25): «Non vedo che schiere / Nel cielo di nuvole perse / Tetre, nere, / Passare, col vento, di là, / Come una gente che vada / Verso l'eternità».

20 I] Castello di Udine, cit., p. 165.

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