Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites tra politica e sociologia (1896-1979)

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Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites tra politica e sociologia (1896-1979)

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Saggi

Danilo Breschi – Gisella Longo

Camillo Pellizzi La ricerca delle élites tra politica e sociologia (1896-1979)

Rubbettino

Questo volume è stato pubblicato con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione generale per i beni librari e gli Istituti culturali.

© 2003 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 - Tel. (0968) 662034 www.rubbettino.it

Glossario

ACP

Archivio Camillo Pellizzi

ACS

Archivio centrale dello Stato

AFGG

Archivio Fondazione Giovanni Gentile

AFM

Archivio Fondazione Mondadori

AFUS

Archivio Fondazione Ugo Spirito

ASUCSC

Archivio storico Università cattolica Sacro Cuore

CO

Carteggio ordinario

CUS

Carteggio Ugo Spirito

CR

Carteggio riservato

DBI

Dizionario biografico degli italiani

ENIOS

Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro

FO

Foreign office

INCF

Istituto nazionale di cultura fascista

MCP

Ministero della cultura popolare

PCM

Presidenza del Consiglio dei ministri

PRO

Public record office

SPD

Segreteria particolare del duce

b

busta

f

fascicolo

sf

sottofascicolo

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Premessa

Il Novecento italiano ed europeo ha visto l’affermarsi di numerose e diverse figure di “intellettuale militante”. Teorico di una sorta di elitismo fascista, presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista negli anni cruciali della seconda guerra mondiale, Camillo Pellizzi incarna a nostro avviso molti tratti di questa figura sociale e culturale novecentesca. Di formazione essenzialmente letteraria e filosofica, cresciuto all’interno dell’ambiente dell’attualismo gentiliano, il giovane Pellizzi pone subito al centro della propria riflessione temi come il ruolo della nazione, la selezione di una classe politica forte e responsabile, la forma di governo più adeguata per una nascente società di massa. Temi tra loro strettamente connessi e soprattutto tali da renderci immediata ed evidente l’idea pellizziana di una cultura “interventista” sul piano politico e sociale1. Questa caratteristica è immediatamente percepibile anche dall’intenso contributo fornito a numerose riviste dell’intelligencija fascista, da «L’Italiano» di Leo Longanesi al «Selvaggio» di Mino Maccari a «Critica Fascista» di Giuseppe Bottai, solo per citarne alcune. Si tratta di collaborazioni che testimoniano, oltre ai fruttuosi rapporti intellettuali e di amicizia con i maggiori protagonisti della cultura politica di quegli anni, un fermento di idee e di azione politica concreta, seppure esercitata da un punto di vista “esterno” ma privilegiato, quale poteva essere quello di un italiano residente a Londra. Peraltro, è importante notare il fatto che il percorso intellettuale pellizziano non si esaurisce affatto nell’attività pubblicistica. Numerosi sono, infatti, gli incarichi universitari e politici ricoperti nei circa vent’anni di soggiorno in Inghilterra (dal 1920 al 1939), dall’insegnamento all’University College di Londra alla fondazione del Fascio di Londra. Nel corso 1 Cfr. L. MANGONI, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Roma-Bari 1974.

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di questi anni sviluppa inoltre una fortissima sensibilità religiosa che metterà in crisi anche il suo rapporto con l’immanentismo attualista. Le sue riflessioni, a partire da quelle dedicate ai temi dell’educazione, saranno infatti sempre più pervase da un senso mistico e trascendente dell’esistenza umana. Una prospettiva del genere non può non trasformare anche analisi e giudizi circa la realtà politica circostante, così che questioni di principio come la natura e la funzione dell’autorità cominciano ad essere affrontate in un’ottica in cui indiscutibile è la centralità dell’individuo, concepito nella sua essenza universale, ovverosia nella sua intima spiritualità. Questi nuovi elementi, intervenuti nella vita privata di Pellizzi, ne condizionano fortemente anche l’interpretazione dei profondi mutamenti determinati dall’avvento della società di massa e, soprattutto, di una società dei consumi, alla quale necessitano nuovi punti di riferimento in sostituzione dei valori tradizionali. A partire dai primi anni Quaranta, egli prende progressivamente atto del passaggio epocale da una civiltà della penuria ad una civiltà dell’abbondanza. Ad una trasformazione sociopolitica di tale portata deve accompagnarsi l’adozione, che non potrà che essere lenta e faticosa, di una corrispondente «etica dell’abbondanza»2. Il 25 luglio del 1943 rappresenta per Pellizzi una cesura biografica e intellettuale decisiva. La seconda metà della sua vita sarà infatti segnata dalla intima convinzione di essere uscito dal laboratorio della politica, totale e totalitaria, senza avere compiuto quella rivoluzione nella leadership e nella coscienza politica e sociale del popolo italiano tanto auspicata dalla sua personale idea di fascismo3. La convinzione di aver fallito una cruciale operazione di “chirurgia politica” renderà Pellizzi alquanto refrattario all’impegno politico-partitico. Subentrato un certo pudore e perfino un certo scetticismo nei confronti di una cultura concepita come consigliere, se non ancella, della politica, Pellizzi però non dismetterà mai nella sostanza i panni dell’“intellettuale militante”. Reintegrato nell’insegnamento dopo quasi sette anni di una doppia epurazione (da parte della Rsi prima, della nascente repubblica democratica poi), egli diventa il titolare della prima cattedra universitaria di sociologia in Italia. Vero e proprio 2 A tale proposito ci sia consentito rimandare il lettore a D. BRESCHI, G. LONGO (a cura di), «La società di massa» di Camillo Pellizzi, in «Trasgressioni», a. XVIII, n. 1 (36), gennaio-aprile 2003, pp. 59-68 e 93-101. 3 L’immagine di un chirurgo che ha fallito l’operazione è stata usata più volte dallo stesso Pellizzi nel secondo dopoguerra, secondo quanto ci è stato riferito da separate testimonianze, sorprendentemente convergenti su questo punto, di amici e colleghi, quali Luciano Cavalli e Giovanni Bechelloni, che qui ringraziamo.

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pioniere delle scienze sociali nella nostra penisola, Pellizzi inizia una nuova fase della sua vita fatta di impegno scientifico che non disdegna il commento sull’attualità politica e sociale. La collaborazione alle iniziative editoriali di Longanesi, in particolare «Il Borghese», e soprattutto ad alcuni quotidiani nel corso degli anni Sessanta, in particolare «Il Giornale d’Italia» e il «Corriere della Sera», testimoniano di un’idea di “militanza” culturale che costituisce un forte elemento di continuità nell’itinerario intellettuale pellizziano. La stessa attività di sociologo, particolarmente sensibile e attento alle tematiche dei rapporti umani (human relations) nel lavoro e della formazione della classe industriale e del management, è svolta all’insegna di quelle preoccupazioni e di quelle esigenze che già animavano il Pellizzi teorico delle élites fasciste. Anche in questo caso, alla teoria si affianca la pratica, dal momento che egli ricoprirà per ben tre anni, dal 1954 al 1957, l’incarico di direttore della Divisione Fattori Umani dell’Agenzia Europea della Produttività (AEP), organo dell’OECE. Il presente lavoro costituisce un primo tentativo di dare forma e continuità alla biografia intellettuale di un autore finora conosciuto solo a metà, una metà – quella relativa al periodo fascista – su cui peraltro si lamentava, da tempo e da più parti, «l’assenza di uno studio complessivo»4. Sull’attività e il pensiero di Pellizzi nel periodo fascista esiste già una letteratura, anche se priva di un approfondimento specifico e sistematico che qui si è voluto invece compiere5. Per quel che concerne invece la seconda 4 R. PERTICI, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l’itinerario politico di Delio Cantimori, in «Storia della storiografia», n. 31, 1997, p. 67, nota 12. Emilio Gentile ha definito Pellizzi sia «uno dei più interessanti ideologi del fascismo» (Alcune considerazioni sull’ideologia fascista, in «Storia contemporanea», n. 1, 1974, ora in ID., Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 83) sia un «rappresentativo intellettuale fascista» (La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 19992, p. 182), in quanto «uno dei più sensibili interpreti dei miti fascisti» (Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 20013, p. 105). 5 I saggi che si sono occupati specificamente dell’attività di Pellizzi nel periodo fascista sono: R. SUZZI VALLI, Il “fascismo integrale” di Camillo Pellizzi, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», VI, 1994, pp. 243-284; ID., Il fascio italiano a Londra. L’attività politica di Camillo Pellizzi, in «Storia contemporanea», n. 6, anno XXVI, dicembre 1995, pp. 9571001; G. LONGO, Il primo convegno dei gruppi scientifici dell’Istituto nazionale di cultura fascista sull’“Idea di Europa” (23-24 novembre 1942). Le relazioni di Camillo Pellizzi e di Gaetano Pietra e l’intervento di Ugo Spirito, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», VI, 1994, pp. 127-186; ID., Corporazione, partito e Stato: il dibattito tra Ugo Spirito e Camillo Pellizzi (1931-1939). Carteggio tra Ugo Spirito e Camillo Pellizzi (1924-1943), in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», VII, 1995, pp. 149-187; ID., L’Istituto nazionale fascista di cultura. Gli intellettuali tra partito e regime, Pellicani, Roma 2000. Si trovano riferimenti più o meno am-

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metà della sua vita, dobbiamo registrare a tutt’oggi un’assenza pressoché totale tanto della storiografia quanto della sociologia italiana. Si tratta di una lacuna abbastanza grave dal momento che le vicende biografiche pellizziane del secondo dopoguerra rivestono un’importanza che va oltre il peso specifico della produzione saggistica prodotta da questo letterato prestato alle scienze sociali. Pur nei limiti di un pensiero che non partorirà mai niente di sistematico nell’ambito della cultura sociologica italiana, l’opera e l’attività culturale di Pellizzi negli anni Cinquanta e Sessanta si rivelano una fucina di progetti e iniziative accademiche ed extra-accademiche non di rado anticipatrici di studi e settori di ricerca sviluppatisi soltanto qualche decennio dopo. Egli è stato talvolta il maestro, talvolta l’amico, senz’altro il punto di riferimento per molti tra i maggiori scienziati sociali (sociologi, scienziati della politica, semiologi) dell’Italia degli ultimi quarant’anni6. L’essere stato il primo professore ordinario titolare di una cattedra di Sociologia in Italia ha senz’altro costituito per Pellizzi una risorsa politico-accademica fondamentale, a cui non si è fino ad oggi prestata la dovuta attenzione. Nelle storie che ricostruiscono la fortuna della sociologia nell’ambiente culturale italiano egli è, nel migliore dei casi, menzionato in qualche nota a piè di pagina. Eppure Pellizzi è il fondatore di una rivista come la «Rassegna italiana di sociologia», da lui diretta per vent’anni e ancora oggi autorevolmente presente nel mondo degli studi sociologici nazionali e internazionali. La «Rassegna» è stata indiscutibilmente negli anni Sessanta un fondamentale punto di incontro e di promozione per molte nuove leve della sociologia italiana, costantemente stimolate al confronto con le altre scienze sociali, dall’antropologia alla sociolinguistica, e con i risultati che tali discipline conseguivano all’estero. pi ad alcune opere e tesi del Pellizzi ideologo fascista in L. MANGONI, op. cit.; D. SETTEMBRINI, Democrazia senza illusioni, Laterza, Roma-Bari 1994; E. GENTILE, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), il Mulino, Bologna 1996 (1ª ediz. 1975); ID., Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, cit.; ID., La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, cit.; M. SALVATI, Cittadini e governanti. La leadership nella storia dell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997; ID., Longanesi e gli italiani, in P. Albonetti, C. Fanti (a cura di), Longanesi e gli italiani, Edit, Faenza 1997, pp. 161-180. 6 Francesco Alberoni, ad esempio, scrive a Pellizzi il 22 dicembre del 1964: «Considero un onore essere avviato alla sociologia nel periodo in cui Lei la rappresentava in Italia come primo ed unico ordinario. La nostra disciplina è legata, per la storia futura, al Suo nome e al Suo ricordo, non solo scientifico, ma anche umano, al Suo coraggio morale, alla Sua sincerità, al Suo stile, che sono per me ammaestramento indelebile» (ACP, b. 41, f. 69).

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Per questi motivi il presente studio offre la possibilità di allargare un poco lo sguardo oltre la vita e l’opera del protagonista, cioè di oltrepassare in parte i limiti tradizionali di una biografia. Ripercorrere le principali tappe dell’attività intellettuale di Pellizzi consente infatti allo studioso di ricostruire spezzoni importanti della vita politica e sociale dell’Italia fascista, nonché individuare alcuni rapporti – finora trascurati – tra la cultura italiana e quella inglese negli anni compresi tra le due guerre mondiali. Allo stesso modo, affrontare in dettaglio l’attività scientifica e didattica del Pellizzi sociologo offre la possibilità di abbozzare una storia della sociologia e della sua istituzionalizzazione nel nostro Paese più ampia di quanto si è fatto finora7. La molteplicità ed eterogeneità degli interessi e delle discipline coltivate da Pellizzi, nonché la sua longevità intellettualmente prolifica, hanno reso consigliabile una divisione e specializzazione del lavoro che si è tradotto in questo libro a quattro mani. Unendo formazioni e competenze diverse, entrambi abbiamo cercato di adottare un approccio multidisciplinare, pronto ad accogliere il contributo di diverse discipline innestate su un impianto rigorosamente cronologico, ovverosia su una base di tipo storiografico. A noi è parso il modo migliore, se non l’unico, per poter affrontare quasi settant’anni di una produzione culturale che annovera saggi sul teatro inglese e pamphlets sull’ideologia fascista, studi sul simbolo e sul rito, sulla comunicazione e la sociolinguistica. Strutturato essenzialmente come una biografia politico-intellettuale, il libro mette in secondo piano la produzione più strettamente letteraria che comunque fa da sfondo alla trattazione di alcuni aspetti della vita del personaggio. Molte biografie sono state dedicate alla vita e all’opera di intellettuali fascisti. Poche sono quelle che hanno affrontato l’intero percorso biografico di quegli italiani i quali dal periodo fascista, in cui erano magari esponenti di spicco dell’intelligencija del regime mussoliniano, si sono poi ritrovati catapultati nella vita della repubblica democratica, dove con alterna fortuna hanno proseguito nella loro professione di studiosi e intellettuali, oltre che nella loro vita di cittadini. L’Archivio di Camillo Pellizzi, dotato di un carteggio ricchissimo, ci ha consentito di fare della vita e dell’opera di questa complessa figura di intellettuale, a suo modo éngagé, una postazione privilegiata da cui osservare la storia della politica e della cultura italiana del Novecento. Danilo Breschi – Gisella Longo 7 Un primo studio in tal senso è stato effettuato a metà degli anni Settanta da L. BALBO, G. CHIARETTI, G. MASSIRONI, L’inferma scienza. Tre saggi sull’istituzionalizzazione della sociologia in Italia, il Mulino, Bologna 1975.

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Ringraziamenti La presente biografia è il frutto di un intenso lavoro di équipe svolto presso la Fondazione Ugo Spirito di Roma, dove è conservato in copia l’intero archivio di Camillo Pellizzi. Ringraziamenti particolari vanno a Giuseppe Parlato, direttore della Fondazione Spirito, e a Lucia R. Petese, la quale ha catalogato e inventariato le carte Pellizzi e la cui preziosa consulenza ha accompagnato l’intero sviluppo della ricerca e della stesura del libro. Di grande aiuto ci sono stati anche tutti i collaboratori della Fondazione Spirito, che hanno reso il lavoro di ricerca assai meno faticoso. Un grazie a Giovanna Mattino che ha raccolto presso altri istituti, biblioteche e archivi lettere di Pellizzi per integrare il patrimonio di documenti depositato presso la Fondazione Spirito. Ringraziamo per la disponibilità e la gentilezza alcuni familiari di Camillo Pellizzi, da noi contattati e/o intervistati: i figli Francesco e Antonio, la nipote Francesca, il fratello Giovanni, sua moglie Ada Cecchetti e il loro figlio Matteo. Numerosi sono poi stati gli amici, i colleghi, gli allievi e i collaboratori di Pellizzi che ci hanno fornito preziose testimonianze, utili alla ricostruzione della sua personalità e delle sue qualità di sociologo nel secondo dopoguerra: Giovanni Bechelloni, Sergio Caruso, Luciano Cavalli, Margherita Ciacci, Paolo Fabbri, Franco Ferrarotti, Pier Paolo Giglioli, Luigi Lotti, Gianfranco Poggi, Peter I. Russell, Giacomo Sani, Giovanni Sartori, Gilberto Tinacci Mannelli, Giuseppe Vedovato, Vittorio Volpe, Antonio Zanfarino. Numerosi, infine, gli enti ed istituti presso cui è stato reperito materiale per rendere il più possibile ampia ed esauriente la presente ricerca: Accademia della Crusca, Archivio Centrale dello Stato, Archivio di Stato di Roma, Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, Archivio privato famiglia Tarroni, Biblioteca Cantonale di Lugano, Biblioteca Civica “Paolo e Paola Maria Arcari” di Tirano, Biblioteca “Forteguerriana” di Pistoia, Biblioteca Nazionale di Roma, Biblioteca Riccardiana, Fondazione Mondadori, Fondazione Giovanni Gentile, Fondazione Primo Conti, Gabinetto G. P. Vieusseux – Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti”, Galleria Nazionale di Arte Moderna, Società Nazionale “Dante Alighieri”, Sindacato Nazionale Scrittori, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Università di Pavia, Università di Roma “La Sapienza”. Questo volume usufruisce del contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (legge n. 513/99).

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PRIMA PARTE

L’aristocrate del fascismo (1896-1943) di Gisella Longo

Capitolo I

Alla vigilia della rivoluzione

1. “Lo Spirito della vigilia” [...] Conosciamo una landa solitaria ed aprica, là fra l’alpe di Seravezza ed il mare, fra l’alpe bianca e rossa di marmi che s’incendiano verso il tramonto, e il mare Tirreno paziente che per bufera o bonaccia ripete, sempre a chi gli sa voler bene, le stesse verità senza parola; conosciamo un’alta casa, rossa e bianca di mattone cotto e di marmi, e numi della casa conosciamo che ci sono tutti, io credo, per consuetudine presa, propizi. E quanto posto ci sarebbe pei libri nella casa, e quanta bella solitudine per divagare pensando e parlando, su la sabbia umida di primavera o fra le pioppete d’argento! E che luce e che aria e che pace, che noi perdiamo annaspando così fra la polvere e il tumulto e il grigiume delle città!1

Così Camillo Pellizzi, rivolgendosi all’amico e maestro Armando Carlini, descriveva il suo luogo ideale, la casa estiva di Forte dei Marmi, luogo dove si rifugiava e si ritemprava, che rappresentava una sorta di riparo dal mondo e dalle sue preoccupazioni spesso per lui pesanti e insostenibili, ma che per una responsabilità ed un senso del dovere insiti nel vivere dovevano comunque essere eroicamente affrontate. Camillo Pellizzi era nato a Collegno (Torino) il 24 agosto 1896 da genitori emiliani; il padre Giovanni Battista, allievo di Cesare Lombroso, e psichiatra di fama, all’epoca della nascita di Camillo si trovava ad esercitare la professione proprio nell’ospedale psichiatrico di Collegno2; la madre, Giannina Ferrari, morì nel 1905, quando Camillo aveva solo nove anni. C. PELLIZZI, Gli Spiriti della vigilia, Vallecchi, Firenze 1924, pp. 8-9. A Collegno Pellizzi, ancora bambino, aveva conosciuto Friedrich Nietzsche, lì ricoverato, il cui incontro, più tardi ebbe a ricordare: «Lo assiteva mio padre nel manicomio di 1 2

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Nel 1904 la famiglia si era trasferita a Pisa dove il padre – che si risposò nel 1909 – aveva ottenuto la cattedra di psichiatria e neuropatologia e dove poi diventò, per qualche tempo, il rettore dell’università. La formazione del giovane Pellizzi trovò fondamento sia nelle radici emiliane della famiglia, che negli influssi dell’ambiente pisano; ma soprattutto furono le lunghe vacanze estive che egli trascorse regolarmente con la famiglia nella villa di Forte dei Marmi, località che con il passare degli anni era diventata un importante punto di incontro per intellettuali e uomini di cultura, che influenzarono sensibilmente la sua preparazione3. Sin da piccolo egli aveva potuto giovarsi dell’enorme quantità di stimoli forniti da un ambiente familiare alto borghese, all’interno del quale il padre ebbe una enorme importanza per la sua educazione morale ed intellettuale, che egli stesso più tardi definì: «tutta laica, sebbene non irreligiosa: anticlericale e socialistoide»4. L’ambiente intellettuale toscano, nel quale Pellizzi compì la sua maturazione, era attraversato in quegli anni da una ventata di modernità e di rivoluzione delle tradizionali categorie del conoscere; esperienze come quelle delle riviste «Il Leonardo», «Lacerba» e «La Voce» avevano inciso fortemente sul rinnovamento della tradizione culturale italiana senza però distruggerla o snaturarla: Un buon toscano può dir tutto ciò che vuole, in fondo all’anima egli non rinnega mai un solo attimo di tutta la sua storia; anzi non c’è forse altro popolo dove la storia rimanga tutta così duramente scolpita nei caratteri umani, dove ogni nuova esperienza resti acquisita, e dove, tuttavia, permanga una fisionomia generale antichissima. Questa gente non ha bisogno di credere nel suo passato, perché lo vive tuttora e lo vivrà sempre; né quindi le occorre una fede nell’avvenire poiché nella macignosa certezza di se medesima essa ha già presente e certa l’eternità5. Torino; e un giorno che le monache avevano organizzata una festicciola nell’istituto, ci fui condotto anch’io, come altri figli di medici. Nietzsche, che amava i bambini, mi prese sulle ginocchia e m’imboniva con delle calie mezzo tedesche e mezzo italiane. I suoi libri li lessi molti anni dopo [...]». C. PELLIZZI, Popolo Vecchio, in «Il Selvaggio», a. IX, 15 agosto 1932, p. 41. 3 È interessante notare che fra coloro che passavano il soggiorno estivo a Forte dei Marmi si annoveravano Giovanni Gentile, Armando Carlini, Leo Longanesi e Gherardo Casini, solo per citarne alcuni. 4 Autobiografia scritta per «L’Assalto» nel 1927, ora in 20 giovani leoni. Autobiografie pubblicate su “L’Assalto” negli anni 1927-’28, a cura di C. Barilli, M. Bonetti, Volpe, Roma 1984, pp. 33-40. 5 C. PELLIZZI, Le lettere italiane del nostro secolo, Libreria d’Italia, Milano 1929, p. 230.

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Il senso della tradizione e della storia caratterizzarono profondamente il pensiero di Pellizzi; sebbene costantemente teso verso la rivoluzione della società, egli non intese mai quest’ultima come uno sconvolgimento destinato a fare tabula rasa delle esperienze precedenti, considerandolo al contrario uno strumento idoneo a recuperare ed attuare nella realtà i valori ideali, rimasti sopiti o dimenticati, di quella tradizione. A Pisa Camillo ebbe modo di completare i suoi studi iscrivendosi precocemente, a soli sedici anni, alla facoltà di giurisprudenza. La scelta dell’università non era stata però profondamente sentita; negli studi giuridici egli aveva, comunque, trovato la possibilità di dedicarsi in particolar modo alla filosofia del diritto, tentando di avvicinarsi il più possibile ad una comprensione più ampia della società, al modo di organizzarsi e di contemperare i rapporti tra individui. Ne aveva tuttavia subìto il formalismo e l’astrattezza e di fatto non aveva frequentato a lungo i corsi, poiché dal 1913 al 1914 aveva prestato servizio militare nel 7° Reggimento Artiglieria da campagna e poi, il 24 maggio 1915, era stato richiamato; sicché riuscì a laurearsi durante una licenza dalla guerra, nel gennaio del 1917, con una tesi su I poteri di inchiesta del Parlamento, discussa con Santi Romano. I suoi maggiori interessi e le sue letture si concentrarono sin dall’inizio verso la filosofia e le lettere. L’iter della sua formazione si può ripercorrere scorrendo i taccuini presenti nel suo archivio, che altro non sono se non diari con frammenti di testo sparsi nei quali egli annotava estemporaneamente non solo le proprie riflessioni o intuizioni, ma anche e soprattutto i propri commenti ai libri che andava leggendo, o gli appunti preparatori dei suoi lavori. Già questi primi abbozzi dimostrano che la matrice di Pellizzi non era quella di un pensatore sistematico, e che egli offriva le sue intuizioni più calzanti di getto, tratteggiando con acume il tema, senza mai però approfondirlo fino in fondo, rifuggendo da ogni categoria rigida. Questa sua caratteristica, unita alla grande lucidità critica, lo rendevano poco adatto a elaborazioni di grandi opere di tipo speculativo. La sua formazione era stata fortemente influenzata dalla rigenerazione intellettuale determinata dall’ambiente vociano toscano, ed in particolare dalla figura di Giovanni Papini, del quale in un primo tempo egli aveva ammirato la forte critica antiborghese, l’incitazione a capovolgere le categorie stantie, a distruggere i luoghi comuni e a suscitare le energie spirituali6. Presto però si era reso conto che la feroce critica antigiolittiana e 6 Non a caso in uno dei suoi taccuini Pellizzi annota una frase emblematica del Papini ripresa dal suo volume Il tragico quotidiano e il pilota cieco, Libreria della Voce, Firenze

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l’appello alla rinascita spirituale operato da quegli ambienti e teso al recupero del mazzinianesimo, si dimostrava incapace di condurre realmente il paese ad un cambiamento per l’assenza di contenuti ideali forti e per l’incapacità di tradurre in azione quella aspirazione ad una rigenerazione morale e sociale degli italiani. In questo senso, rifacendosi al giudizio di Renato Serra sui vociani, egli riteneva che questi fossero intellettuali affetti da “cerebralismo”; perciò il loro impeto riformatore veniva, per così dire, “guastato” da un eccessivo scetticismo che non permetteva mai di aderire integralmente ad una idea o ad un valore e ne isteriliva le idee sul piano pratico. La loro politica riesce fredda e poco penetrante; la loro “modernità” è troppo un imparaticcio di mode e cose straniere, accolte per amor del diverso senza un sicuro discernimento; il praticismo prezzoliniano si riduce a tutto comprendere senza mai saper cosa fare, se non divulgare libri e produrre carta, carta e ancora carta stampata!7

Nella stessa direzione va interpretata anche la temporanea adesione di Pellizzi al movimento giovanile nazionalista di Pisa, al quale egli si era iscritto con la vana aspirazione di conciliare le sue giovanili idee “socialistoidi” con “l’idea imperiale”. Ben presto l’ambiente nazionalista italiano lo aveva deluso, poiché egli si era reso conto anche qui dell’assenza di contenuti ideali originali e propri; il movimento era piuttosto merce d’importazione mutuata dalle esperienze francesi ed inglesi ed il nazionalismo sembrava trasferire sul piano nazionale quell’individualismo che era ritenuto da Pellizzi la malattia delle democrazie parlamentari. La critica al nazionalismo, quale elemento spurio, estraneo alla tradizione italiana, rappresentò in Pellizzi un motivo dominante, soprattutto quando, negli anni successivi, tale ideologia verrà assorbita dal fascismo; sin dagli anni giovanili egli si era reso conto che la saldatura con i valori del Risorgimento non poteva avvenire per effetto di idee che non possedevano nulla di “universale”, ma erano il frutto della cultura di un singolo paese. 19132, p. 16: «Vogliamo vivere a marce forzate, in tempo accelerato, una vita che non sia camminare, ma correre, danzare, volare!». Archivio Camillo Pellizzi, (d’ora in poi ACP), Serie IV - Attività scientifica 1909-1979, b. 12, f. 93, Note I. 7 C. PELLIZZI, Lettere italiane del nostro secolo, cit., p. 241. Bisogna però precisare che questo suo giudizio negativo non si estendeva a tutti gli intellettuali di quell’ambiente. Ad esempio Ardengo Soffici, con il suo Lemmonio Boreo, (Libreria della Voce, Firenze 1912), costituiva una eccezione a questo tipo di cultura, e non è un caso che negli anni successivi Pellizzi intesserà un fitto rapporto epistolario con Soffici. Cfr. ACP, Serie V - Corrispondenza, b. 26, f. 18.

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E, in un certo senso, anche il Futurismo – fenomeno prevalentemente italiano, che aveva avuto il merito di scrollare la cultura e l’arte in nome della tecnologia, del movimento e dell’azione – rimaneva però anch’esso privo di profondi contenuti ideali con una sua funzione pratica prevalentemente negativa, tanto da finire per essere «più idolatria della volontà che non volontà vera e propria». Tuttavia il fermento che queste nuove correnti avevano portato in Italia aveva contribuito a smuovere criticamente lo stagnante clima culturale italiano, anche se, nonostante la dichiarata volontà di propugnare una cultura attiva, politicamente impegnata, esse rimanevano tuttavia distaccate dalla realtà politica concreta. Inoltre, proprio per merito di quei movimenti letterari e di pensiero, la lingua italiana – ad avviso di Pellizzi – aveva ripreso nuovo vigore e si era creato un collegamento fondamentale tra arte e vita. Fu l’esperienza della guerra a dinamizzare queste forze e a metterle di fronte ad una scelta. Uno stato d’animo diffuso rifiutava la società esistente, considerata nel suo complesso un prodotto tutto (e solo) razionale, quindi artificiale, falso e disumanizzante di una oligarchia che tendeva a contrapporre la società alla comunità. La comunità era un concetto ricco di valori quali la tradizione, il sentimento, la spontaneità, la volontà, il cameratismo. Per cui, ad una gerarchia fondata su uno status sociale e graduata da esso, si doveva sostituire una gerarchia delle funzioni – tipica della comunità – dotata di una forza tale da negare ogni altra gerarchia, anche quella del numero, della maggioranza, tipica della democrazia parlamentare. In queste riflessioni del primo Pellizzi si ravvisava la necessità di organizzare una nuova società, un mondo determinato dai giovani, gli unici in grado di portare una ventata di rinnovamento. L’intero sistema liberale e i valori che ad esso erano collegati erano ormai in una crisi profonda e si faceva sempre più pressante la prospettiva di mobilitare le masse e la necessità di dare la sensazione di essere in un continuo rapporto diretto col capo e con i luoghi e le situazioni della politica. È in questo quadro che si fa strada l’elemento più importante – ed anche allarmante – dello sviluppo del pensiero politico moderno: l’apparizione di un nuovo potere, il “potere mitico”, nel quale il rapporto con la realtà (specialmente se esso è critico e conflittuale), viene risolto attraverso la sua trasposizione in miti, che da un lato danno risposta e sollievo a profondi malesseri ed aspirazioni e dall’altro offrono una fede, una speranza di rigenerazione, la prospettiva di un legame collettivo solidaristico8. 8

Ma è bene precisare cosa si intenda in questa sede per “mito politico”: esso può esse-

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In Italia, l’esigenza di un “potere mitico” era strettamente connessa alla necessità di creare uno “Stato nuovo” che rinforzasse il legame tra le masse e la nazione, fornendo quell’unità e saldezza morale e sociale senza la quale l’Italia non avrebbe mai potuto esprimere le sue potenzialità e realizzare la sua missione nazionale. Tutta l’azione dello stato doveva quindi essere tesa al recupero della identità nazionale ed al compimento degli ideali risorgimentali, ma in una chiave moderna. Pellizzi aderì integralmente a questa aspirazione: e l’esperienza della guerra costituì un elemento di profonda rigenerazione morale e intellettuale, dove l’ideale eroico, giovanilistico, rivoluzionario e palingenetico di una “Guerra dell’Idea”9 si saldava alla critica della classe politica postunitaria10. In Pellizzi diventò fondamentale la finalità “mitica” della nuova azione politica, sull’onda degli echi della lezione di Sorel, del quale l’adolescente Pellizzi aveva certamente letto le Considerazioni sulla violenza, tradotto in italiano nel 1909 su iniziativa di Benedetto Croce11. La partecipazione alla guerra, con il grado di tenente, accese in lui un fortissimo senso patriottico, peraltro contemperato dalla consapevolezza della profonda divisione tra le classi, alla quale la crisi di Caporetto aveva dato significativo risalto12. E tale consapevolezza, anche prima dell’entrare inteso come un insieme di credenze e di idee, di ideali e di valori condensati in una immagine simbolica che “mobilita”, che spinge all’azione l’individuo e le masse suscitando in essi fede, entusiasmo e volontà di agire, di cambiare. Emilio Gentile ha ben definito la forma contemporanea del mito politico sottolineandone l’aspetto reale: «[...] che il mito sia parte integrale della realtà dei movimenti politici di massa del nostro secolo e che esso abbia una influenza di variabile intensità nel promuovere la mobilitazione e la partecipazione delle masse, nel definire il ruolo in cui i movimenti politici di massa agiscono, considerano se stessi, discriminano amici o nemici, organizzano il regime dopo la conquista del potere e cercano di plasmare la coscienza delle masse». E. GENTILE, Il mito dello stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 269. 9 Cfr. ACP, Serie IV - Attività scientifica 1909-1979, b. 13, f. 97, Note III, 20 agosto 1918. 10 E. GENTILE, Un’apocalisse della modernità. La Grande guerra e il mito della rigenerazione della politica, in «Storia contemporanea», ottobre 1995, pp. 783-787. 11 G. SOREL, Considerazioni sulla violenza, Laterza, Bari 1909, trad. di A. Sarno, con introduzione di B. Croce. Pellizzi aveva letto l’opera di Sorel, come egli stesso aveva annotato nei suoi taccuini. 12 Sull’impatto della disfatta di Caporetto sul fronte interno e sui suoi riflessi sul tessuto sociale vd. La grande guerra e il fronte interno. Studi in onore di George Mosse, a cura di A. Staderini, L. Zani, F. Magni, Università degli studi, Camerino 1998; inoltre M. ISNENGHI, Il mito della grande guerra, Laterza, Bari 1970; P. FUSSELL, The Great War and Modern Memory, Oxford University Press, London-Oxford-New York 1981; P. MELOGRANI, Storia politica della grande guerra. 1915-1918, Laterza, Bari 1969.

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ta in guerra, aveva costituito il primo vero banco di prova dello scontro ideologico in Italia, evidenziatosi principalmente nella battaglia fra neutralisti ed interventisti. Una simile problematica non sfuggì all’attenzione critica del giovane Pellizzi, che, subito dopo la fine della guerra, si trovò a scrivere alcuni articoli proprio sui compiti spettanti a quei ceti medi intellettuali che avevano acquisito una fisionomia propria e che dovevano rendersi i principali interpreti e promotori del moto di rinnovamento che la guerra aveva reso evidente. È in quel momento che Pellizzi iniziò ad elaborare la propria teoria aristocratica (che poi ebbe a perfezionare lungo il corso del ventennio fascista) che certamente, pur risentendo delle teorie di Mosca, Pareto e del Michels, ne trasformava le rispettive categorie sociologiche quasi in un programma politico per la classe intellettuale italiana. Sulla concezione aristocratica di Pellizzi si tornerà in seguito; per ora va notato che essa cominciò a definirsi proprio per effetto dell’esperienza bellica. Egli rimarcava l’impressione che la classe dirigente italiana, totalmente distaccata dalle masse, è in realtà priva di valori e contenuti ideali e di una propria identità. In questo vuoto morale, l’ardore costruttivo lo conduceva a riflettere sulle caratteristiche della classe media intellettuale, vera produttrice di nuovi valori, che incarnava lo spirito dell’Italia nuova. Questa classe era fortemente minacciata dalle classi operaie socialiste, beneficiate negli ultimi anni dall’aumento dei salari, che aveva portato ad un aumento del costo della vita e ad un contemporaneo peggioramento del tenore di vita delle classi medie. I socialisti rischiavano dunque di minare dalle fondamenta il paese nel tentativo di trasformarlo, cancellandone i valori tradizionali e minacciando da vicino coloro che erano i «produttori di valori», ossia le classi medie intellettuali13. Alla fine della guerra, nel settembre 1919, Pellizzi venne destinato, come ufficiale istruttore aggiunto, presso il Tribunale militare di Milano14, e questa fu un’esperienza che gli fece percepire ancor più chiaramente la crisi che incombeva sul paese. E fu nello stesso anno che Pellizzi, ormai congedatosi, iniziò la sua attività come pubblicista, cominciando a precisare alcune linee di fondo, che poi verranno sviluppate nelle sue opere successive, quali ad esempio la convinta necessità di una rivoluzione C. PELLIZZI, La rivolta degli intellettuali, in «La Riforma», 20 dicembre 1919. Cfr. ACP, Serie I - INCF e attività politica e culturale, b. 6, f. 35. Documenti militari. Da essi risulta che Pellizzi fu insignito della Croce al merito di guerra. 13 14

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antiliberale e antisocialista che modificasse profondamente il sistema partitico in nome di una più equa giustizia sociale. Ma il clima del dopoguerra aveva reso evidenti le lacerazioni ideologiche fino a quel momento latenti e innestò un processo di estraniazione delle masse da una esperienza bellica che si era rivelata il primo momento realmente unificante nella storia d’Italia. Il ripudio dei valori patriottici delle masse socialiste, da un lato, e la discutibile conduzione delle trattative per la pace da parte dell’élite liberale, dall’altro, portarono il giovane Pellizzi a vivere l’immediato dopoguerra con un profondo senso di amarezza e disgusto, accompagnato dal desiderio di allontanarsi dall’Italia anche per un breve periodo15. L’occasione gli venne fornita nel 1920 dall’ottenimento di una borsa di studio a Cambridge, la cui domanda egli aveva presentato casualmente, giacché la materia per la quale era stata bandita non era direttamente inerente al cursus di studi seguito fino ad allora. Quello che doveva essere un breve soggiorno, si rivelò, in realtà, l’esperienza più importante della formazione di Pellizzi. Trasferitosi dopo tre mesi da Cambridge all’University College di Londra, in qualità di lettore di italiano, trovò nel contatto con il mondo politico e culturale inglese un approdo fondamentale per l’approfondimento del suo pensiero antidemocratico e per la sua adesione al movimento fascista. Egli stesso molti anni più tardi affermerà: [Al fascismo] io aderii quando stavo e lavoravo in Inghilterra e la mia adesione fu motivata in gran parte dalle conclusioni di un ponderato confronto fra la realtà e i problemi della democrazia in Italia e le realtà e i problemi della democrazia in Gran Bretagna. [...] Oggi ho trent’anni di più sulle spalle, e voglio sperare che non ricadrei nelle scalmane di allora, nelle illusioni di allora. Ma nemmeno allora io mi illusi mai che quella da noi presa fosse in assoluto e in ogni senso la strada migliore e più giusta. Era semplicemente una strada. L’altra, quella di coloro che ad ogni passo ripetevano la parola “democrazia”, non era una strada; era un piano inclinato verso l’abisso. L’Inghilterra mi insegnava che la democrazia non si fa colle chiacchiere; in Italia mi appariva chiaro che si intendeva di farla soltanto colle chiacchiere16.

Pellizzi riteneva che in Inghilterra, da secoli, si fosse ormai affermata una “minoranza qualificata”, una “aristocrazia” politicamente responsabi15 Egli annoterà sui suoi diari nel 1920: «Due categorie avvantaggiate dalla guerra: i militari di carriera, i rivoluzionari di carriera. E tuttavia erano le due categorie fra cui trovatasi più gente che non la voleva». ACP, Serie IV, b. 14, f. 112, Note XX, 28 settembre 1920. Una conferma di questo suo stato d’animo e della profonda amarezza per aver visto insultare e deridere la divisa dell’esercito, ci è stata fornita dal figlio, Prof. Francesco Pellizzi. 16 C. PELLIZZI, Alloggi di lusso, in «La Nazione italiana», 23 ottobre 1951.

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le, che garantiva il processo democratico dal decadimento dei valori e dalla corruzione. In Italia, invece, il liberalismo postunitario aveva importato un modello democratico-parlamentare che proveniva dai modelli inglese o francese ma che poco o niente aveva a che fare con la reale situazione del paese, il quale, ancora non maturo e scarsamente coeso, necessitava di modelli politici più comprensibili e accessibili alle masse e soprattutto più concreti: I democratici del secolo scorso erano soliti chiedere al popolo il suo responso sui problemi prospettati in forma scientifico-empirica, per lo più economistica o sociologica o giuridica. Ora il popolo, che la sua politica la fa in pieno, e non su schemi predisposti ad arte, quei problemi non li sentiva, cioè non li capiva; essi non rappresentavano nulla alla coscienza storica ed alla sua volontà morale. Interrogato se preferiva il protezionismo al liberismo, le imposte dirette o le indirette, la ricerca o meno della paternità, e così via, esso rispondeva a impulsi, a seconda di attrazioni o interessi superficiali o momentanei; e cioè non esprimeva nulla, e chi rispondeva efficacemente eran poi sempre quelli che avevano proposte e formulate le domande. Scienziati positivi, che si facevano il più delle volte lo scrupolo di essere astorici, quando pur non erano antistorici. Quindi il democratismo che oggi tramonta, oltre ai suoi molti errori teoretici generali, falliva nella sua pratica condotta, ottenendo il linea di massima l’opposto risultato da quello a cui tendeva17.

Emerge qui un tema che sarà poi centrale in Pellizzi, soprattutto per effetto del suo incontro con l’idealismo gentiliano e cioè quello del senso della storia; che non si basa solo sulla storia passata, trascorsa, ma dispiega la propria intima essenza nel “farsi”, per cui l’Uomo – inteso nella sua accezione universale, sia esso artista, filosofo, letterato, operaio o altro – attraverso tutte queste attività svolge comunque una funzione “politica”, ove egli sia “moralmente attivo”. Tale moralità si trasfonde nella realtà attraverso l’azione consapevole, la volontà, la quale è conscia non solo del proprio punto di partenza, per così dire “storico”, ma anche, continuamente, della propria intima realtà, la quale è l’Ideale, cioè l’Idea che si fa realtà. Ne conseguiva, nel pensiero di Pellizzi, che il divenire dell’Uomo nella storia si compone di tre elementi: la personalità del singolo individuo, con il suo bagaglio di esperienze, di educazione e di cultura, che rappresenta la coscienza storica ed è la base di ogni atto volitivo18; l’azione, che è la volontà del nuovo, ed è caratterizzata dalla moralità, cioè dalla re17 18

ACP, Serie IV, b. 14, f. 112, Note XX, annotazioni fra l’agosto e il settembre 1920. È chiaro qui il riferimento al pensiero crociano.

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sponsabilità del proprio volere; l’obiettivo dell’azione, che è l’ideale, la cosa creata e rappresenta «il momento mistico nella vita dell’Universo»19. Questi tre elementi devono essere caratterizzati dall’intima consapevolezza e dalla moralità dell’agire. Per questo motivo Pellizzi riteneva che il movimento operaio, così come era uscito dal conflitto, non perseguisse una vera lotta contro il capitale e la borghesia, in realtà organismi complessi ed astratti, ma sentisse solo odio verso atteggiamenti o individui determinati; e riteneva, altresì, che il rivoluzionario si trincerasse dietro una teoria generale, perché di fatto, non era in grado di dire concretamente cosa combattesse o quale ideale volesse attuare. Una rivoluzione, effettivamente tale, doveva chiarire sul piano della realtà i propri obiettivi ideali e, soprattutto, essere intimamente caratterizzata da un agire etico. La lotta tra operai e borghesi, che in quel momento si stava svolgendo in Italia, era invece combattuta sulla base di un identico principio materiale e come tale costituiva «un grosso affare privato»20. Già prima dell’incontro con Gentile, erano in lui evidentissimi gli influssi della lettura della Teoria generale dello spirito come atto puro; e dei Fondamenti della filosofia del diritto21; Pellizzi, come moltissimi altri giovani intellettuali della sua generazione, trovava riassunte nell’idealismo attualistico gentiliano le aspirazioni palingenetiche presenti nel clima culturale dei primi del Novecento e soprattutto nelle speranze alimentate dalla Guerra mondiale. Il suo soggiorno inglese ebbe in questa fase una enorme importanza, in quanto se da un lato egli arrivò a definire meglio le proprie idee politiche, e soprattutto la propria teoria “aristocratica”, si rese anche conto di quanto fosse “provinciale” la cultura filosofico-politica italiana, che invece trovava nell’idealismo crociano e gentiliano un elemento di forte connotazione identitaria, ampiamente riconosciuto in Europa22. L’interesse di Pellizzi per la filosofia si approfondì proprio in questi anni, trovando che tale disciplina gli permetteva non solo una migliore chiave di lettura della realtà, ma anche la possibilità rivoluzionaria di congiungere cultura e politica, pensiero e vita. Dimostrano ciò anche alcune sue battute sul comACP, Serie IV, b. 14, f. 112, Note XX, annotazioni fra l’agosto e il settembre 1920. Ibidem. 21 G. GENTILE, Teoria generale dello spirito come atto puro, Tip. F. Mariotti, Pisa 1916; ID., Fondamenti della filosofia del diritto, Tip. Mariotti, Pisa 1916. 22 Su questo aspetto cfr. S. NATOLI, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhieri, Torino 1989. 19 20

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mon sense britannico, dove si deduce questo primato da lui assegnato alla filosofia: Trovo qui un sacco di gente per cui non la filosofia è chiamata a controllare il senso comune, ma il senso comune è l’ultimo controllo e la minacciosa riprova della filosofia. Indizio certo che il loro senso filosofico non è nulla più che [...] comune!23

In realtà il suo atteggiamento verso il mondo anglosassone era ambivalente: se da un lato ne ammirava la forza delle tradizioni connessa ad un saldo pragmatismo, che avevano permesso il consolidamento di un sistema politico dove la democrazia era la naturale promanazione di tutta la propria storia, dall’altro l’impero britannico era da lui considerato come «la cristallizzazione di un grosso compromesso»24. Egli vedeva, in quel momento, un decadimento dei tradizionali valori inglesi e il pericolo di una profonda crisi ideale: Gli inglesi di oggi sono per eccellenza il popolo sbandato. In filosofia, in morale, in letteratura, in arte, sulla scienza: non hanno una sola idea ben determinata che li guidi. E al peggio si è che, se non ne hanno una unica, non si può dire neanche che ne abbiano molte. E in politica, poi, la loro antica saggezza si direbbe ormai naufragata nel “mare magnum” che è rappresentato da quella mistura di empirismo antistorico e di idealismo astratto che possiamo far andare sotto il nome comprensivo di democrazia. Restano ad essi, elementi che li salveranno ancora per un bel po’: il finto opportunistico e lo spirito di compromesso25.

L’assenza di un fine ideale nell’agire politico, di una responsabilità etica profonda, fu ritenuta da Pellizzi un fondamentale ostacolo allo sviluppo della nuova società di massa. La fusione di questo ideale nella pratica politica concreta diventò dunque l’obiettivo primario della sua attività come intellettuale e come uomo (nel senso “politico” prima illustrato). L’adesione al fascismo coincideva quasi “necessariamente” con l’adesione all’idealismo attualistico gentiliano: per Pellizzi – che fu uno dei primi a rendersi conto di un simile connubio –26 questo collegamento venne 23 ACP, Serie IV - Attività scientifica 1909-1979, b. 14, f. 112, Note XX, annotazioni fra l’agosto e il settembre 1920. 24 Ibidem. 25 Ibidem. 26 La corrispondenza di alcuni punti ideali tra idealismo e fascismo era già stata notata e sottolineata nel 1922. Come afferma Emilio Gentile: «gli elementi comuni tra idealismo e fascismo si ritrovano nella situazione del dopoguerra, nella mentalità attivista e antidemocratica comune ad entrambi. Fu Camillo Pellizzi (fautore di un incontro Mussolini-Co-

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concepito come una naturale evoluzione del corso degli eventi, dove, pensiero e azione venivano a fondersi. A questo proposito Emilio Gentile afferma: Pellizzi credeva che vi fosse, fin dalle origini del fascismo, e ancor prima del suo effettivo incontro con l’idealismo, un collegamento ideale e morale fra un movimento politico che nasceva dall’azione ma aspirava a formularsi nel pensiero, e un movimento di pensiero che era necessariamente spinto, per coerenza con le sue premesse filosofiche, verso l’azione.

Giovanni Gentile sembrò essere l’intellettuale che meglio di altri avrebbe potuto consolidare culturalmente l’idea fascista, senza peraltro determinare alcuna frattura con la tradizione politica e culturale dalla quale il filosofo continuava ad attingere motivi ideali di impegno politico come prosecuzione degli ideali risorgimentali e soprattutto del mazzinianesimo. Su questo tema la sensibilità di Pellizzi era accesa: egli aveva approfondito il pensiero mazziniano, in particolar modo l’aspetto mistico del suo pensiero politico, che rispondeva perfettamente all’esigenza di una “nuova politica”27. In tal senso l’accezione di “nuova” implicava che essa non poteva essere giudicata in base ai tradizionali sistemi politici occidentali, poiché non era costruita razionalmente, ma utilizzava assai più significativamente elementi quali lo spiritualismo, la mistica del capo, i rituali, il culto dell’immagine e dignola prima della marcia su Roma) a mettere in risalto le affinità ideali tra pensiero idealista e pratica politica del fascismo. [...] Secondo Pellizzi la mentalità fascista era essenzialmente idealistica e antidemocratica e si situava nel processo di pensiero avviato in Italia e in Europa dalla ripresa della filosofia idealista». E. GENTILE, Le origini dell’ideologia fascista, (1918-1925), il Mulino, Bologna 19962, p. 410. 27 Utilizziamo qui il temine “nuova politica” così come inteso da Mosse, dove l’autore adopera questo termine per definire un nuovo stile politico, sperimentato concretamente dai regimi totalitari, e che aveva le proprie radici nell’idea di sovranità popolare nata nel XVIII secolo, in particolare con la rivoluzione francese. In esso è di grande importanza il pensiero di Rousseau e in particolare «la ricerca di una moralità (e di una unità, quindi) laica e sociale, che sostituisca l’etica religiosa tradizionale e che tragga il suo valore universale (razionale ed emotivo) dalla “volontà generale”». Così R. De Felice, introduzione a G.L. MOSSE, La nazionalizzazione delle masse, il Mulino, Bologna 1984, p. 8. La “nuova politica” è un fenomeno trasversale rispetto alle classi sociali e alle singole nazioni occidentali. Per cui lo stile politico – che faceva appello a sensazioni e aspirazioni radicate nel senso comune – viene fissato mediante miti, simboli e l’estetica della politica. In tal senso i fenomeni politici del Novecento hanno poco in comune con quei sistemi razionalmente e logicamente costruiti come la teoria dello stato in Hegel o anche la stessa teoria di Marx. Essi sono un “atteggiamento” piuttosto che un sistema compiuto di dottrine.

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del mito politico. È assai significativo che Pellizzi ritrovasse nel pensiero di Mazzini le radici culturali di un simile atteggiamento politico28. Pellizzi aveva iniziato nel 1920 un intenso rapporto epistolare con Armando Carlini, il quale lo aveva contattato perché lo aiutasse a reperire alcuni libri inglesi per un lavoro su Locke. Ed attraverso Carlini egli approfondì e chiarì il suo rapporto con l’idealismo. Un momento importante per la definizione del suo pensiero ideale fu la partecipazione al congresso internazionale di filosofia tenutosi ad Oxford, nel settembre del 1920. Pellizzi ne pubblicò il resoconto, per il tramite di Carlini, sul «Giornale critico della filosofia italiana»29. Il congresso fu anche l’occasione per intessere relazioni con il mondo intellettuale e filosofico inglese. In particolare Pellizzi divenne progressivamente il punto di contatto fra gli idealisti gentiliani e i filosofi inglesi che prestavano particolare attenzione all’attualismo, il cui maggiore esponente era il Bosanquet30. Per effetto di questo suo ruolo divennero sempre più numerosi i suoi interventi a conferenze, traduzioni e lezioni sull’idealismo attualistico e sul movimento fascista italiano31. Accanto all’approfondimento teoretico di alcuni aspetti dell’attualismo, egli sentiva emergere con prepotenza la necessità di “agire”, di entrare nell’agone politico con qualcosa di concreto. La volontà di rappresentare le migliori energie italiane all’estero e di far conoscere la tradizione culturale e politica si coniugava con una urgenza pratica: per questo motivo Pellizzi, agli inizi del 1921, divenne uno dei fondatori del Fascio italiano di Londra32. 28 Egli riporta nei suoi taccuini alcuni significativi brani dell’opera mazziniana, dove spicca sempre l’elemento mistico: «La vera energia è magnetismo sulle moltitudini». Lettera di Giuseppe Mazzini a Carlo Alberto, citata in ACP, Serie IV, b. 14, f. 112, Note XX, annotazioni successive all’ottobre 1920. 29 C. PELLIZZI, Note sul Congresso internazionale di filosofia di Oxford (24-27 settembre 1920), in «Giornale critico della filosofia italiana», p. I, f. IV, vol. II, 1921, e p. II, f. I, vol. III, 1922. 30 Sul pensiero di Bosanquet cfr. G. CAVALLARI, Istituzione e individuo nel neoidealismo anglosassone, Giuffrè, Milano 1996. 31 Tra le molte istituzioni con le quali ebbe rapporti possiamo ricordare l’Aristotelian Society, The Conservative Women’s Reform Association, The British-Italian League, The Ethical Church, The British Institute of International Affaires. Tra le riviste: «Foreign Affairs», organo ufficiale della Union of Democratic Control, «The Socialist Review», rivista “indipendente” legata al partito laburista, e «The Sociological Review». 32 Su questo aspetto si veda: R. SUZZI VALLI, Il fascio italiano a Londra. L’attività politica di Camillo Pellizzi, in «Storia contemporanea», XXVI, 6, dicembre 1995, nonché, con particolare riguardo allo sviluppo del suo iter intellettuale e politico in quegli stessi anni,

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La sua adesione chiara al fascismo risale proprio, come egli stesso afferma, all’inverno del 1921, ma le sue idee erano affini a quelle del movimento fascista sin dalla guerra. In una sua lettera a Mario Casotti, direttore della rivista «La Nostra Scuola», rivista del fascio di educazione nazionale33, alla quale egli collaborava, così rievocava le fasi del suo avvicinamento al fascismo: Io sono nel fascismo, attivamente dall’inverno del 1921; per simpatia, fin dall’autunno del ’19, quando la plebe rossa insultava la mia divisa per le vie di Milano, e Mussolini, quasi solo e mostruoso nella sua audacia, manteneva le sue posizioni ideali della primavera del 1915. Fin da allora io compresi che in Italia bisognava scegliere fra la nazione, da un lato, e i dogmi irriducibili del liberalismo a tipo Monti e Prezzolini, dall’altro; e che non si poteva avere, come suol dirsi, la botte piena e la moglie ubriaca. Per questo fui fascista ben deciso, senza vacillazioni teoretiche; e percorsi senza ombra di incertezze tutta la catena delle deduzioni che scendevano da quella posizione iniziale, fino alla marcia su Roma, fino alla dittatura34.

Il fascio italiano a Londra venne fondato il 12 giugno del 1921, ma già nel febbraio di quell’anno Pellizzi aveva condotto alcune attività che ne costituivano concreta premessa. Egli sosteneva di avere avuto direttive in tal senso espressamente da Mussolini, anche se non vi sono documenti che attestino un mandato in tal senso. Nella visione di Pellizzi, la fondazione del Fascio doveva costituire un impulso al rinnovamento della colonia italiana in Inghilterra e certamente egli fu portatore, assieme agli altri membri del direttorio del fascio, di quel nuovo stile politico che connotava il movimento fascista e che andava contro la cultura liberal borghese dell’Italia di fine Ottocento. Anche in questo caso la sua attività si concentrò sull’educazione e quindi sulle scuole italiane e sul comitato di Londra della Società Dante Alighieri. Il comitato londinese era stato fondato nel 1912 su impulso, tra gli altri, del prof. Antonio Cippico, amico di vecchia data della famiglia Pellizzi, il quale aveva fatto in modo che Pellizzi ottenesse l’incarico di lettore all’University College di Londra. L’attività del comitato sino a quel momento ID., Il “fascismo integrale” di Camillo Pellizzi, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito 1995», Roma 1998, pp. 243-284. 33 Inoltre Mario Casotti era redattore capo della rivista «Levana», diretta da Ernesto Codignola. 34 Comune di Scandicci, Archivio Ernesto Codignola, Pellizzi a Casotti, 8 febbraio 1923.

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era stata piuttosto stentata, ma dopo la fondazione del fascio ricevette un nuovo impulso dai fascisti, soprattutto per curare più a fondo la qualità dell’insegnamento che si svolgeva nelle scuole italiane, fino ad essere sostituito da un nuovo comitato. Dopo la marcia su Roma, l’attività del fascio londinese fu oggetto di attenzione da parte della stampa britannica; nel dicembre 1922 Pellizzi venne nominato delegato statale per i fasci italiani di Gran Bretagna e Irlanda e nel 1923 iniziò a dirigere, assieme a Franco Ciarlantini, il bollettino mensile dei fasci «XXX Ottobre». Questa attività di Pellizzi, seppure apparentemente collaterale, costituiva invece un elemento che gli permetteva di precisare la sua posizione di “fuoriuscito”; ma non per questo estraneo alle questioni politiche vive, laddove anzi, proprio per effetto della sua lontananza, egli manteneva più sano, puro e vitale l’impeto rivoluzionario. La sua attenzione era costantemente indirizzata alla formazione dei “veri fascisti”, i quali dovevano sentire la responsabilità morale del momento politico e fornire al partito i contenuti essenziali alla trasformazione della società. Questo suo atteggiamento riguardava anche la posizione assunta nei confronti dei movimenti fascisti sorti all’estero, che Pellizzi sentiva profondamente differenti dal fascismo italiano, poiché questo era sorto dalle esigenze rivoluzionarie della piccola borghesia, mentre quelli erano per lo più l’espressione dell’alta borghesia e della nobiltà ed avevano la funzione di contrastare il pericolo bolscevico con un intento prettamente reazionario. La funzione internazionale del fascismo nel suo pensiero si espletava non tanto nella conquista di nuovi ambiti di potere al di fuori dell’Italia, attraverso l’azione di movimenti pseudo-fascisti, ma piuttosto attraverso il diffuso riconoscimento della novità e della necessità del messaggio fascista, il quale inevitabilmente avrebbe poi dovuto precisarsi ed esplicare la propria azione contro il mito comunista, rendendo questa lotta innanzitutto lotta di idee. La nostra Internazionale, quella veramente costruttiva, fascista, potrà nascere solo dalla nostra opera diretta e dal nostro diretto esempio, e non da questi doppioni meschinucci e insufficienti come tutte le imitazioni, che vanno sorgendo ora fuori di casa35. 35 C. PELLIZZI, Il fascismo in Inghilterra, in «Critica Fascista», 1 maggio 1925; cfr. anche su questo stesso tema ID., Noi e i fascismi allogeni, in «il Popolo d’Italia», 24 febbraio 1925.

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Egli quindi riconduceva sempre il dibattito sulla definizione del fascismo all’interno del movimento, che appariva ancora incerto, privo di robusti fondamenti ideali, e soprattutto composto di personaggi nei quali non sempre il livello della responsabilità e della eticità si poteva dire sufficientemente sviluppato. 2. Educare gli italiani Per effetto di questa esperienza Pellizzi si rese conto sempre più chiaramente delle affinità fra l’idealismo attualistico gentiliano e la politica di Mussolini, anche se le radici culturali di quest’ultimo erano di altro tipo. Le due strade si incontreranno per effetto di quella che Augusto Del Noce ha chiamato “armonia prestabilita”. Secondo Del Noce, Mussolini fu il prodotto delle culture prevalenti nei primi decenni del nostro secolo, prodotto alla cui formazione tutte, anche le più opposte tra loro, dal crocianesimo al futurismo, in qualche misura contribuirono, e che il pensiero di Gentile potè negli anni Venti essere considerato come il loro vertice, almeno in Italia36.

Certamente l’ideologia di Mussolini era frutto di un percorso formativo che nulla aveva in comune con il neoidealismo e con Gentile; il filosofo, tuttavia, era giunto ad uno stadio del suo iter intellettuale in cui il consenso al fascismo non poteva che essere la naturale e coerente prosecuzione di quell’unità tra filosofia e politica, pensiero e vita, che egli «sentiva come una obbligazione morale rispetto al proprio pensiero»37. Ma ancor prima 36 A. DEL NOCE, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, il Mulino, Bologna 1990, p. 296. Sul giovane Mussolini aveva forse influito più Croce che Gentile: in Mussolini infatti ricorrevano tutti i motivi antidemocratici, antipositivistici e antilluministici che Croce aveva reso accessibili alla cultura media ai primi del Novecento, inoltre era presente Sorel e l’influenza del «Leonardo» e della «Voce», nonché Marx, Nietzsche, il pragmatismo di James, Pareto, Bergson, Le Bon, e così via, influssi che, eccettuate le conclusioni sulla filosofia di Marx, nulla avevano a che fare con la filosofia gentiliana. Ivi, pp. 320-321. Per un riferimento di carattere più generale all’ideologia del fascismo si veda P.G. ZUNINO, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, il Mulino, Bologna 1985. 37 A. DEL NOCE, op. cit., p. 294. A conclusioni di segno diametralmente opposto è giunto Gennaro Sasso, il quale sostiene che «L’idealismo attuale non ha niente a che fare con il fascismo: come, del resto, con nessun’altra «politica» con la quale, in spirito di contrapposizione polemica, si pretendesse di identificarlo. [...] In quanto tale, la filosofia non

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dell’adesione di Gentile al fascismo, Pellizzi ne vide con chiarezza le affinità e non mancò di sottolinearle in un articolo intitolato appunto Idealismo e fascismo apparso su «Gerarchia» alla vigilia della marcia su Roma38. Nell’articolo egli respingeva la tesi dell’inconciliabilità del fascismo con una corrente filosofica e indicava nella mentalità attivistica e antidemocratica del movimento fascista l’esistenza di caratteri propri dell’idealismo attualistico: Fascismo è cioè negazione pratica del materialismo storico, ma più ancora negazione dell’individualismo democratico, del razionalismo illuministico, e affermazione dei principi di tradizione, di gerarchia, di autorità, di sacrificio individuale verso l’ideale storico, affermazione pratica del valore, della personalità individuale e storica (dell’uomo, della nazione, dell’umanità) contrapposta e opposta alla ragione della individualità astratta ed empirica degli illuministi, dei positivisti, degli utilitari. [...] Ora, poiché noi fascisti andiamo per l’appunto facendo la revisione e critica in atto di quella rivoluzione [la Rivoluzione francese n.d.a.], poiché siamo in atto la creazione politica più nettamente antiborghese e antidemocratica, perché abbiamo ereditato dal socialismo e dalla sua critica il principio sano del sindacalismo, poiché abbiamo un senso nettamente dinamico dello Stato e un senso tradizionalistico e gerarchico della società, noi, dico, siamo appunto quel movimento che, dilagando o anche solo divenendo Stato nel nostro paese inizierà la rovina degli imperialismi economici e della organizzazione borghese del mondo. Ora, come questo è il nostro problema d’azione nella sua maggiore ampiezza, questo in fondo è lo stesso massimo problema intorno a cui si agita la scuola idealista italiana. Essa elabora la coscienza di quello che noi andiamo facendo. Essa, che ha liquidato il concetto di uno spirito teoretico puro; che ha ricapìta la storia e valorizzata l’arte come qualità fondamentale della vita dello spirito; che ha negata l’individualità astratta (quindi la massa) e messa al suo posto la personalità storica e il valore; essa, infine, che dei principi di autorità e libertà, di edonismo e di moralità, va ricercando le fonti e le verità più profonde nella tradizione e nella fede, essa è, dico, in modo inconfondibile ed esclusivo, per ragioni ideali e per ragioni nettamente storiche, la nostra filosofia. Le sue origini sono le nostre origini, i suoi intenti sono i nostri intenti39. ha, perché strutturalmente non può avere, alcun «commercio» con la politica». In tal modo l’autore si pone in netto contrasto con l’interpretazione “transpolitica”, delineata in particolare da Del Noce, poiché essa – secondo Sasso – parte dalla convinzione che il senso della filosofia e il suo valore risiedano al di fuori di essa, in una sorta di «accadimento storico/cosmico». G. SASSO, Le due Italie di Giovanni Gentile, il Mulino, Bologna 1998, cfr., in particolare, pp. 56 e ss. L’autore amplia e precisa una tesi che aveva solamente accennato in La fedeltà e l’esperimento, il Mulino, Bologna 1993, pp. 80-81, parlando di un “bipolarismo” della teoria gentiliana. 38 C. PELLIZZI, Idealismo e fascismo, in «Gerarchia», Milano, 25 ottobre 1922. 39 Ibidem.

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Individuata questa affinità, si trattava per Pellizzi di trasferire sul piano pratico l’idea portante, rivoluzionaria dell’idealismo attualistico, vale a dire lo Stato Etico. Questo sarebbe diventato il mito politico del fascismo e per integrarne la comprensione era necessario impegnarsi a fondo sul piano educativo per creare una nuova coscienza morale. È in questo momento che si fece strada in lui l’idea che alla base di una rivoluzione spirituale vi debba essere una radicale riorganizzazione del sistema educativo del paese secondo una specificazione delle competenze. Questo elemento, retaggio dell’esperienza della guerra, si inseriva in pieno nel clima di quegli anni, dove era assai diffusa l’aspirazione ad una riorganizzazione della società ad una sua maggiore efficienza. Pellizzi, quasi trenta anni più tardi, descrisse efficacemente questo clima, di cui era stato uno dei protagonisti: Nel periodo post-bellico, e nella mentalità dei reduci soprattutto, l’istanza che si esprimeva nella formula “largo alle competenze!” rispecchiava anche degli abiti e delle tendenze acquisite nell’esperienza militare. Era, insomma, una traduzione o “sublimazione” in termini di vita civile della gerarchia militare. Poiché richiedeva a gran voce una maggiore efficienza esecutiva da parte degli organi pubblici, l’esperienza militare suggeriva che a tale efficienza non si sarebbe mai potuti giungere senza una qualche forma precisa di gerarchia fra gli uomini e i valori preposti a quelle funzioni [...] Tuttavia, se nella vita militare la gerarchia era determinata e consacrata dalle differenze di grado e di anzianità [...] nella vita civile e politica il fondamento della gerarchia doveva essere diverso e far centro sopra il valore intellettuale e morale, e sulle capacità tecniche e funzionali degli individui [...] Un governo efficiente e forte in una società senza privilegi, dove ognuno pensasse e comandasse in ragione del suo merito [...] Questo atteggiamento oscillava fra il polo socialista-sindacalista delle precedenti tradizioni mussoliniane, corridoniane, ecc., e il polo liberale, che sembrava aver acquistato maggior forza in seguito alla polemica contro i partiti di sinistra, e all’affluire nel fascismo stesso di tanti elementi, soprattutto reduci, i quali, non tanto per interesse di classe, quanto per tradizione e mentalità, tendevano a una funzione liberale delle funzioni dello Stato [...] Perciò, in quell’ambiente che più tardi senz’altro si sarebbe definito fascista, si ricominciò a dire che occorreva un governo forte, che fosse libero dalle pastoie elettorali e parlamentari, ma affinché tale governo si liberasse anche dalle “bardature di guerra”, e ridesse pieno e libero giuoco all’iniziativa privata. Però un regime il cui governo potesse governare senza troppi impacci elettorali e parlamentari, per attuare una maggior giustizia sociale e, in pari tempo, decentrare le funzioni dello Stato e ridare il massimo giuoco all’iniziativa privata, avrebbe pur avuto bisogno di fondare la propria autorità, e la scelta delle proprie gerarchie, su un qualche principio: questo principio pareva che venisse fornito senz’altro dal concetto della gerarchia delle “competenze” nelle funzioni della vita pubblica40. 40

C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, Longanesi, Milano 1949, pp. 27 e ss.

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Una occasione per specificare le competenze del fascismo in campo educativo venne fornita dalla questione della libera scuola media e superiore, nell’ambito di un programma che avrebbe potuto vedere assieme fascisti e popolari, del quale Pellizzi scrisse al gentiliano Ernesto Codignola, perché potesse intervenire in merito col ministro Anile. In quella stessa lettera Pellizzi chiedeva a Codignola se non fosse il caso di costituire una più chiara solidarietà tra il fascio di educazione nazionale, costituito prevalentemente da gentiliani e tecnici vicini al ministero dell’Istruzione, e il partito fascista, ed anzi Pellizzi affermava: «Il F.E.N. [fascio di educazione nazionale n.d.a.], potrebbe entrare nel partito in qualità di “Gruppo di competenza (scolastica)” [...] E sarebbe liberissimo, dato che il programma fondamentale è comune»41. Proprio su questo punto Pellizzi organizzò il 23 o 24 settembre 1922, un incontro a tre con Codignola e Mussolini, a Milano nella redazione del «Popolo d’Italia», al quale da quell’anno Pellizzi collaborava assiduamente42. Inoltre egli si rese intermediario tra Codignola e Massimo Rocca, dal momento che quest’ultimo non era esperto di problemi scolastici e Codignola voleva che sia Pellizzi che Armando Carlini fossero chiamati all’interno del Gruppo di competenza per l’istruzione per rendere più salda la presenza gentiliana. I nomi che vennero fatti per la costituzione del Gruppo erano, oltre a Pellizzi, Codignola e Carlini, quelli di Agostino Lanzillo, Franco Ciarlantini e Dante Dini, con la collaborazione di Giuseppe Bottai. L’incontro con quest’ultimo fu estremamente importante per Pellizzi poiché sin dall’inizio si instaurerà fra loro una intesa profonda anche se talvolta non priva di dispute, ma assai creativa sul piano politico-ideologico. Circa la composizione del Gruppo di competenza si scatenarono varie polemiche, dal momento che molti nel partito fascista non vedevano positivamente l’inserimento di personaggi che al fascismo non appartenevano come Carlini e Codignola. A ciò bisogna aggiungere l’elemento assai rilevante della nomina da parte di Mussolini a ministro dell’Istruzione di Giovanni Gentile, che a quell’epoca non era ancora iscritto al partito. Nei primi mesi del 1923 l’attività di Pellizzi, per indirizzare le riforme del fascismo sul piano educativo e per conciliare le forze intellettuali intorno ad un simile programma, fu assai rilevante. Nella già citata lettera al Casotti egli afferma: 41 Comune di Scandicci, Archivio Ernesto Codignola, Pellizzi a Codignola, 10 settembre 1922. Sui riflessi politici dell’attività del Fascio di Educazione Nazionale si veda: C. PELLIZZI, il Fascio di Educazione nazionale e il suo problema politico, in «La Nostra Scuola», Firenze, 31 luglio 1922. 42 Archivio Codignola, Pellizzi a Codignola, 16 settembre 1922.

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Io lavorai per condurre le forze del F. di Ed. N. a collaborare col partito avendo di mira, ve lo confesso, piuttosto la fortuna del futuro governo fascista che non il successo programmatico del F. di Ed. N. [...] Il fascismo di oggi non deve soltanto fare gli italiani; deve cominciare col fare, in gran parte, gli stessi fascisti. Ed è degno di un fascista riconoscerlo. A Pisa si osteggia l’ingresso nel partito del Prof. Carlini. A Firenze si osteggia il Codignola. Sulla stessa linea e nello stesso stile si è osteggiato a Milano l’ufficiale ingresso nel partito di Gioacchino Volpe. Non parlo del Santoli e di parecchi altri. Il Fascismo è meraviglioso all’apice, fra i capi massimi; è meraviglioso alla periferia, fra i più giovani e ardenti squadristi, ragazzi che vogliono e sapranno dare all’Italia, quando sarà il loro turno un più degno avvenire. Ma è quello che è nel mezzo; in quella categoria di triari, di politicanti, di mezzi intellettuali, che ora, dopo la marcia su Roma e la cessazione quasi totale delle attività violente e militaresche, pensano venuto il momento, e fanno e disfano, e arruffano e arraffano, e ambiscono e procacciano, e danno beghe infinite al Duce, che ha bisogno assoluto di un esercito di silenziosi esecutori e non di una pleiade di segugi politicanti. La colpa? La colpa è vostra, amici e non amici del mondo intellettuale italiano. La colpa è vostra, perché nella più parte dei casi avete fatto dell’astrattismo e dell’accademia fino a ieri; anzi fino ad oggi. Vostra, perché vi siete chiusi, ad esempio, in questo problema isolato della scuola, e avete creduto di poter andare d’accordo con chicchessia, pur con molte riserve e precauzioni, purché la riforma scolastica andasse avanti. Ora in questo do perfettamente ragione a Gobetti. (Non esistono problemi isolati, e la scuola fa parte inscindibilmente della nazione e dello Stato, come complessi morali, economici, giuridici, politici in senso stretto.) Molti di voi (non parlo di Casotti o Codignola) avete cominciato a simpatizzare col fascismo solo all’ultimo momento, solo perché in quanto Mussolini aveva eletto Gentile alla Minerva; Gentile, che non è fascista. Insomma vi siete sempre mantenuti ostentatamente fuori dalla politica vissuta e militante; o entrandovi quasi di soppiatto, avete tenuto a mettere in chiaro che lo facevate solo per appoggiare la vostra soluzione di un problema, vastissimo, ma sempre particolare. Risultato è stato questo: che il Fascismo, la forza più sana, è rimasto privo di quasi tutte le intelligenze più sane. Ed è naturale, umano, quasi necessario, che gl’intellettuali o i quasi-intellettuali che frattanto si son fatti dei meriti in seno al partito, ora vi osteggino, e non siano disposti a cedervi senza lotta posizioni a cui essi hanno per lungo tempo ambìto e attivamente ambìto. Che gli amici del Fascio di Educazione Nazionale cerchino oggi di entrare nel Fascismo è bene; ma che questa nostra associazione di spiriti divenga senz’altro l’organizzazione di competenza educativa del Partito, anche mettendoci la miglior volontà di noi tutti, è per oggi impossibile43. 43

Archivio Codignola, Pellizzi a Casotti, 8 febbraio 1923.

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Emergono nella lettera alcuni aspetti assai importanti ai quali Pellizzi si dedicherà in tutto il ventennio. Il primo riguardava la funzione degli intellettuali, della loro necessaria imprescindibile scelta di militanza nell’agone politico. Il secondo atteneva alla configurazione del partito e del fascismo, alla sua essenza ideologica e alla necessaria ed assoluta originalità rispetto ad altri movimenti, per definire la quale era fondamentale, ad avviso di Pellizzi, l’apporto delle menti migliori. Vi era inoltre l’idea, portante in tutta l’opera intellettuale di Pellizzi, del primato della politica: il ritenere che tutti gli aspetti della realtà umana per quanto più diversi finissero comunque per avere un riflesso politico. Non era un caso che egli stesso, proprio su questo aspetto facesse richiamo al pensiero di Piero Gobetti; e non era un caso che, in qualche occasione, proprio in quegli anni e da ambienti fascisti, egli venisse accusato di “gobettismo” per la sua concezione aristocratica della funzione degli intellettuali44. Egli stesso, più tardi, dopo la morte dell’intellettuale torinese nel 1926, ammettendo alcune affinità intellettuali, avrebbe scritto che, pur essendo un suo avversario politico, Gobetti partiva da una corretta analisi della storia italiana postrisorgimentale, ed anche alcune delle sue idee riformatrici erano dettate da intenzioni morali assai sensibili al clima dei tempi. Ma egli era incappato – a suo avviso – nell’errore di rimanere lontano dalla concretezza politica del momento e nell’aver prematuramente ritenuto il paese pronto ad una esperienza di “democrazia sostanziale”45. Il Gruppo di competenza per l’istruzione era uno strumento ideale per creare quel legame tra politica e cultura che ad avviso di Pellizzi era condizione imprescindibile per l’affermazione del fascismo. Le sue preoccupazioni, tuttavia, più che riguardare la programmazione di un vasto ed efficace lavoro del Gruppo, erano semmai legate alla affermazione di una adesione profondamente sentita al fascismo da parte dei massimi espo44 Mario Isnenghi utilizza questa stessa definizione in M. ISNENGHI, S. LANARO, Fascismo esorcizzato. Cinque schede sulla rivolta piccolo-borghese, in «Belfagor», 31 marzo 1970, pp. 226-227. Gherardo Casini in un suo articolo dal titolo Curzio Suckert. Il maestro della destra fascista, in «L’idea fascista» di Pisa del 16 marzo 1924, definiva Pellizzi, assieme a Gentile, Pannunzio, Corra e Grandi, «uno dei massimi esponenti della mentalità borghese sopravvivente e dominante», segno evidente che l’idealismo di Pellizzi e alcune suggestioni “gobettiane” del suo pensiero, prevalentemente legate ad un profondo senso di distacco rispetto alle masse “involute” non sfuggivano ai critici più intransigenti. 45 ACP, Serie IV, b. 15, f. 118, Note XXVII, aprile 1924-aprile 1926.

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nenti della cultura italiana. Giovanni Gentile, benché ministro nel governo Mussolini, non era iscritto al partito e questo elemento era fonte di preoccupazione per Pellizzi, il quale ne ebbe a parlare con Codignola e con Bottai46. Ed anche l’attività dei Gruppi di competenza rischiava di essere vanificata dalla situazione di un partito ideologicamente confuso. L’impegno profuso da Pellizzi nei suoi contatti in quei mesi era proprio teso a rendere il Gruppo uno strumento di chiarificazione intellettuale per il Pnf. La stessa preoccupazione era avvertita da Giuseppe Bottai che, come Pellizzi, era convinto della opportunità di un legame tra idealismo attualistico e fascismo, e si rammaricava di una situazione nella quale non si procedeva decisamente lungo la via di una seria riforma proprio attraverso il lavoro dei Gruppi di competenza47. Ma Pellizzi, perseguendo il proprio obiettivo, insisteva sulla opportunità che i Gruppi di competenza divenissero una sorta di motore per la rivoluzione del fascismo e sollecitava i principali responsabili dei Gruppi affinché, superando le difficoltà e le pastoie del partito, traducessero in azione questo programma. Ciò emerge da alcune lettere di Dante Dini, il quale esponeva le difficoltà dei gruppi di competenza, da lui stesso promossi, e la complessa relazione tra questi e il governo con particolare riguardo alla fase attuativa della riforma dell’educazione; per questo Dini esortava anche a tenere con maggiore frequenza le riunioni dei Gruppi: Mi sembra che i gruppi di competenza siano ancora assenti dalla responsabilità di distruggere e di edificare nella quale si è con tanto merito e pericolo impe46 In una lettera a Codignola del 30 aprile 1923 Pellizzi scrive: «Caro Professore, se, come penso, il Gruppo di competenza si riunisce in questi giorni, La prego di voler anche a mio nome proporre un voto esprimente il desiderio che il Ministro venga d’ufficio iscritto al Partito. Il Carlini mi suggerisce di scriverne al Presidente, ma non credo che proprio ora sarebbe opportuno o utile. Tuttavia vedrò. Voglia presentare al Ministro le mie felicitazioni per la riforma passata in questi giorni». Comune di Scandicci, Archivio Ernesto Codignola, Pellizzi a Codignola, 30 aprile 1923. Di tenore analogo doveva essere stata una lettera scritta a Bottai a giudicare dalla sua risposta: «Carissimo, avrai già appreso che Gentile si è iscritto ai Fasci e che, quindi, il pericolo di cui tu parli è scongiurato. Ti ò già scritto per avere la tua collaborazione alla mia rivista (Critica Fascista) che uscirà il quindici di giugno. Ti rinnovo l’invito». ACP, Serie I, b. 2, f. 6, Bottai a Pellizzi, 2 giugno 1923. 47 «[...] Non so più nulla del gruppo di competenza, Né ò più visto Codignola. Il Fascismo, come partito, attraversa purtroppo un momento di confusione straordinaria. Seguo la tua collaborazione sul Popolo d’Italia sempre con molto interesse». ACP, Ivi, Bottai a Pellizzi, 9 febbraio 1923.

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gnato il Governo. Quando ci metteremo all’opera, quelle divergenze, alle quali tu accenni, se proprio ci saranno e saranno profonde, orienteranno la discussione e gioveranno al vaglio delle conclusioni48.

Ma evidentemente Pellizzi non era convinto che vi fosse una reale volontà di rendere i Gruppi uno strumento rivoluzionario del Partito; e Dini, risentito di queste sue perplessità, gli scriveva: Caro Pellizzi, è falso, falsissimo che io abbia mai ostacolato il Gruppo [...] il mio animo è rivolto al fare; e alla concordia del fare hanno teso i miei sforzi. Sfido chiunque a rimproverarmi un fatto od anche una parola49.

Era una lettera piuttosto perentoria, che presupponeva una sollecitazione piuttosto brusca di Pellizzi. Dini concludeva scrivendo: «P.S. Ora scrivo al prof. Carlini», facendo così intuire che entrambi avevano sollevato il medesimo problema. La presenza di elementi non fascisti alimentava una certa freddezza del partito nei confronti del lavoro del Gruppo di competenza. Pellizzi se ne rendeva ben conto e agì anche su Massimo Rocca per poter superare questa difficoltà. Alla richiesta da parte di Pellizzi di maggiori incontri e di mezzi più consistenti per il Gruppo, Rocca rispondeva: Tu comprenderai che i Gruppi di competenza non possono essere indipendenti dal Partito, come non lo sono io, e che non mi si può chiedere più del possibile. Frattanto ho firmato io i moduli per richiesta di iscrizione nel partito di Codignola, Ciarlantini e del prof. Carlini50.

Non è questa la sede per affrontare il problema del fallimento dei Gruppi di competenza. Bisogna però sottolineare che il programma che i componenti riuscirono a stilare, nella parte riguardante la riforma scolastica, ricalcava quelle che poi sarebbero state le linee guida della riforma gentiliana della scuola, ma risentiva anche delle idee di Pellizzi, quali quelle sul culto per la tradizione, sulla concezione dello stato e sull’attività del Gruppo intesa come supporto all’opera del Governo51; segno questo ACP, Serie V, b. 27, f. 27, Dini a Pellizzi, 19 marzo 1923. Ivi, Dini a Pellizzi, 9 aprile 1923. 50 Ivi, Rocca a Pellizzi, 10 aprile 1923. 51 Questo è il programma del Gruppo ritrovato nell’archivio Pellizzi: «Principi programmatici del gruppo di competenza nazionale per l’educazione (s.d.) 1. PRINCIPI GENERALI: il nostro sistema di educazione pubblica deve prefiggersi sovrattutto di temprare il carattere morale dei giovani; a questo fine supremo devono indirizzarsi i maggiori sforzi del Fascismo, cui spetta di promuovere con ogni mezzo lo spirito di iniziativa, il senso di responsabilità individuale, il rispetto e il culto per i più alti valori 48 49

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della intensa attività svolta in quei mesi a favore di una sorta di conciliazione fra il mondo culturale e la politica fascista. Nel suo modo di intendere il fascismo, Pellizzi si rendeva conto delle difficoltà che il movimento avrebbe incontrato se non avesse saputo trovare la propria legittimazione culturale. Molti anni più tardi egli avrebbe però ammesso che l’idea dei gruppi di competenza, basata su un principio di specializzazione tenocratica, era troppo diversa e quasi anarchica rispetdella nostra tradizione nazionale e religiosa. Il fascismo concepisce lo stato come la suprema concretezza della volontà collettiva e gli assegna quindi una funzione sostanzialmente etica, che si deve esplicare in primo luogo col promuovere l’educazione nazionale onde sottrarla agli arbitrii dei partiti e delle sette. Ma, pur assegnando allo Stato il compito di supremo educatore e regolatore degli studi, il Fascismo deve promuovere e incoraggiare tutte le libere e sane iniziative che si contendono la palma nel campo dell’educazione e dell’istruzione. Non bisogna confondere il supremo diritto dello Stato di improntare di sé l’istruzione nazionale con l’uniformità burocratica e il regime monopolistico che sono la negazione del concetto stesso di educazione. Altro caposaldo della nostra politica scolastica sarà la sostituzione di un regime di accurata selezione compiuta dall’alto, e di rigida responsabilità individuale, all’attuale sistema di elezionismo demagogico dal basso e di controllo reciproco fondato sulla disistima e sul sospetto, che ha moltiplicato gli organi e le funzioni inutili ed ha distrutto ogni senso di dignità e di gerarchia nella scuola e nelle amministrazioni. 2. ATTIVITÀ DEL GRUPPO: Il gruppo di competenza fascista non sarà una semplice accademia consultiva, ma promuoverà con ogni mezzo in suo potere, quelle iniziative pratiche le quali possono affiancare e integrare l’opera del Governo. Il gruppo dovrà anzitutto fare opera vasta ed intensa di propaganda, perché le iniziative e le riforme del Governo Fascista nel campo dell’istruzione vengano comprese nel loro intimo spirito e secondate dall’opinione pubblica, in particolar modo negli ambienti scolastici. Dovrà poi curare la fondazione di tutti quegli speciali enti che possano secondare e completare, per mezzo di iniziative private, l’opera del Governo nazionale. A tale scopo il gruppo ha ferma fiducia che tutti i gruppi locali daranno cordiale e valida cooperazione alle sue iniziative, e si prefigge di disciplinare la formazione di questi gruppi locali in modo da garantire la coerenza e identità di vedute e la unità di funzionamento di tutto l’organismo tecnico-scolastico del Partito Fascista. 3. RIFORMA SCOLASTICA: I capisaldi su cui si deve imperniare l’azione del partito fascista nei riguardi dei varii ordini di scuole sono i seguenti: 1) rapido ed energico incremento dell’istruzione popolare sino alla completa eliminazione dell’analfabetismo. Rinvigorimento ed estensione dell’obbligo scolastico. Lo Stato eserciti una rigida e severa sorveglianza su tutte le istituzioni di cultura elementare e popolare, ma promuova con ogni mezzo il graduale ritorno dell’istruzione primaria a tutti i comuni che siano degni di amministrarla. 2) Il tipo fondamentale delle scuole medie deve essere il classico: ad esso spetta il compito di formare le supreme gerarchie della Nazione. Anche le scuole magistrali devono essere ricondotte alla loro funzione naturale, venire chiuse alla clientela che persegue fini estranei all’indole loro e trasformate in istituti di cultura liberale a base classica. Non è ammissibile differenza sostanziale fra gli studi che avviano al magistero educativo e quelli che avviano alle professioni liberali. L’ideale umanistico che deve presiedere a tutto l’insegnamento medio non ha, però, da essere inteso come puro e semplice ritorno ad un sapere meramente filologico-lette-

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to agli obiettivi di un partito in ascesa52 mentre i valori del richiamo alla tradizione risorgimentale connessi con il movente rivoluzionario ben si incontravano con alcuni degli aspetti dell’idealismo attualistico, ma anche con altre istanze politico-culturali presenti nel paese. Per questo motivo il sistema teoretico di Pellizzi non fu mai ideologicamente chiuso. Per Emilio Gentile si trattava infatti di un suo «sincretismo ideologico»53, nel quale si fondevano idealismo, spiritualismo e rivoluzione, senza però chiudersi al dialogo con i non fascisti. Ne sono testimonianza diverse lettere presenti nel suo archivio, scritte da personaggi che non aderirono al fascismo ovvero che aderirono solo più tardi: ad esempio il suo amico Gioacchino rario, bensì come il mezzo più acconcio di prender coscienza della nostra storia e di conservare la nostra fisionomia nazionale nel movimento della cultura moderna. A questo fine l’insegnamento umanistico deve essere integrato dallo studio della filosofia delle scienze e delle lingue e delle letterature moderne, fra le quali spetterà la preferenza alla lingua o al gruppo di lingue che meglio risponde alle opportunità e alle esigenze della vita delle varie regioni: ad ogni modo è da spezzare il predominio che il francese conserva nelle nostre scuole [...] 3.) La scuola tecnica, rispondente a un ampio e vario numero di bisogni culturali del paese, ha da essere mantenuta e riformata in modo da sottrarla al disordine provocato dalla pletorica affluenza e dall’enciclopedico suo programma di insegnamento [...] Lo Stato, insieme al progresso delle scienze, dovrebbe promuovere più stretto collegamento fra scienza e industria nazionale. 4) Il carattere prevalente degli istituti universitari deve essere non quello professionale, ma quello puramente scientifico, l’Università italiana sia il tempio consacrato all’attività del pensiero e al culto del sapere disinteressato. Attraverso e mediante l’esercizio scientifico puro si formino quegli abiti mentali che, sustanziandosi nell’esperienza, abilitano poi a tentare dignitosamente l’esercizio delle professioni liberali. Gli istituti universitari devono essere autonomi didatticamente e amministrativamente. [...] 4. CONSIDERAZIONI GENERALI: L’insegnante in ogni ordine di scuola non deve considerarsi come un semplice impiegato appartenente a una classe che può organizzarsi esclusivamente per la tutela dei propri interessi economici. Egli non deve mai dimenticarsi di essere educatore. Il Gruppo ritiene quindi che ad accrescere il senso di responsabilità dell’insegnante, e nel suo stesso interesse, sia opportuno introdurre l’esame di stato o altro sistema equivalente che valga a mettere in rilievo il valore di chi più sa e più fa per la istruzione e l’educazione nazionale. 2) La scuola deve favorire in ogni modo una più intensa e cordiale partecipazione degli studenti alla sua vita. Anche in questo i giovani fascisti devono porsi all’avanguardia e cooperare energicamente con gli organi dirigenti del partito nell’opera di riforma intesa a trasformare la scuola da fucina di diplomi in organo formativo e selettivo delle migliori capacità direttive e tecniche. A favorire e rafforzare questo nuovo spirito tra la gioventù italiana il gruppo di competenza aiuterà validamente tutte le iniziative e le organizzazioni che sorgeranno spontanee fra gli studenti, e in particolar modo fra le avanguardie fasciste, purché non discordino dai principi generali che informano questo programma. Il senso civico e politico delle nuove gerarchie deve cominciare a formarsi nelle libere organizzazioni goliardiche». ACP, Serie V, b. 27, f. 27. 52 C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., pp. 36 e 42-43. 53 E. GENTILE, Le origini dell’ideologia fascista, cit., p. 414.

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Nicoletti54, esperto di filosofia politica e di storia delle dottrine politiche, che si trovava Inghilterra per un soggiorno di studio, gli dichiarava apertamente il proprio antifascismo e le perplessità sui metodi violenti e antidemocratici del movimento: Ogni giorno di più mi convinco che la mentalità dei tuoi amici di partito è identica a quella degli avversari, dei quali sono costretti ad accettare, imitandoli, anche i metodi di lotta (invasione di terre, pressioni per lavori da concedersi alle cooperative etc.). Mi sembra poi che andiate ogni giorno sempre più distruggendo nel Paese il senso della solidarietà nazionale. Poiché questo è un momento in cui occorre parlar chiaro e dire esplicitamente la propria opinione ti dirò che sono contro il fascismo con tutta la forza del mio sentimento e delle mie convinzioni. State creando, ad un socialismo liquidatosi per propria insipienza, un martirologio addirittura gratuito ed abbassando il livello della lotta politica sino all’indicibile. Ma lasciamo andare: potrei, infatti, continuare per due ore. Questo bottone te lo riattaccherò quanto prima ed a fil doppio55.

Nicoletti, in un’altra sua lettera del mese successivo, affermava: Il Fascismo ha commesso, a mio avviso modestissimo, due grandi errori, che tu stesso nella tua ultima, mi confermi. Il primo è che ha creato un martirologio addirittura gratuito ad uomini già liquidati dalla pubblica opinione, e che poseranno a vittime per un altro decennio. Il secondo è che sarà costretto, dopo aver accettato nelle proprie file le organizzazioni proletarie, a fare una decisa politica di classe, o a morire. Di questo secondo fatto, dovranno ridere bene amaramente gli industriali che hanno finanziato il movimento, e che si troveranno, domani, di fronte ad un proletariato più esigente ancora, il quale ammanterà le proprie richieste, invece che del vessillo dell’internazionale, di quello tricolore. Frattanto nella lotta fratricida il costume politico si è abbassato ad un livello da repubblica messicana, ed il senso della solidarietà nazionale, invece che rafforzarsi, è irrimediabilmente andato in pezzi. Caro Pellizzi sono in questi giorni molto isolato. Puoi immaginare quindi, con quanto piacere ti rivedrò. Ti assicuro che con le nostre chiacchierate metteremo a posto il mondo56. 54 Gioacchino Nicoletti era nato a Castel di Tora (RI) il 4 novembre 1897 da una famiglia della borghesia locale. Combattente della Grande guerra aveva ricavato da questa una esperienza che decise di raccontare in un libro di ricordi intitolato Sotto la cenere, edito da Treves nel 1927. Nel 1922 era diventato redattore capo della rivista di Gobetti «Rivoluzione Liberale» e del «Foreign Press Service» di Giuseppe Prezzolini. Cultore del pensiero politico di Mazzini, fu, accanto a Salvemini, dissidente del regime fascista e nel 1927 venne mandato al confino a Marina di Pietrasanta, dove conobbe Giovanni Gentile, il quale lo avrebbe portato ad abbandonare la sua opposizione al fascismo prospettandogli quest’ultimo come la naturale prosecuzione del progetto politico mazziniano. 55 ACP, Serie V, b. 27, f. 26, Nicoletti a Pellizzi, 30 agosto 1922. 56 Ivi, 9 settembre 1922.

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Ma infine dopo la marcia su Roma, con tono assai più rassegnato, scriveva all’amico: Occorre che [Mussolini] chiarisca il suo atteggiamento su certi problemi fondamentali, principalissimo quello delle pubbliche libertà. La libertà è un bene che non ha corrispettivi, se esso viene a mancare, tutto il resto non ha che un valore assai relativo57.

Il tono della lettera era diverso dalle altre, più moderato; ma Nicoletti continuò a sostenere la propria posizione, diventando uno dei firmatari del “contromanifesto” crociano. Tuttavia Pellizzi non aveva difficoltà a frequentare personaggi di varia estrazione politica, e questo anche per effetto della sua posizione fuori dalla patria, che lo rendeva in certo qual modo più libero ed aperto ad incontri eterogenei, nella sua funzione di collegamento con il mondo politico e culturale italiano, per effetto della quale spesso gli veniva richiesto di rendersi tramite tra gli intellettuali inglesi e gli italiani58. L’apertura di Pellizzi alle più diverse posizioni era comunque “strumentale”; egli si rendeva conto che, in quella fase iniziale, il fascismo aveva bisogno di consolidare la propria base ideologica con l’ausilio del maggior numero di contenuti, purché facenti parte integrante della tradizione culturale italiana. Ed in effetti il fascismo fece proprie una serie impressionante di tradizioni culturali, fortemente eterogenee (dalla letteratura nazionalista di Corradini, all’imperialismo romantico di D’Annunzio, al neoidealismo filosofico di Giovanni Gentile, al futurismo, alle suggestioni del gruppo fiorentino della «Voce»). Con esse il fascismo condivise la critica del liberalismo parlamentare, il rifiuto della cultura borghese e l’atteggiamento rivoluzionario nei confronti dell’ordine sociale e istituzionale esistente. Una volta pervenuto al potere, il fascismo se, da un lato, non accettò in toto e non portò alle coerenti conseguenze queste tradizioni o moviIvi, 14 dicembre 1922. Per citare un esempio fra i tanti H. Wildon Carr invitò Pellizzi, in occasione di una visita di Benedetto Croce a Londra, a cenare assieme a casa sua, segno evidente che Pellizzi già conosceva personalmente Croce. ACP, Serie V, b. 27, f. 27, H. Wildon Carr a Pellizzi, 21 giugno 1923. Inoltre, dopo il delitto Matteotti, quando molti fuoriusciti italiani si rifugiarono in Inghilterra, Pellizzi comunque non si astenne dall’incontrare questi personaggi, ed anzi, in particolare con Don Sturzo, intrattenne frequentazioni più che amichevoli, come risulta da una testimonianza del figlio, Prof. Francesco Pellizzi. 57 58

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menti, allo stesso modo, non ne rinnegò mai nessuna: tuttavia questo atteggiamento, culturalmente irrisolto, lo rese debole ideologicamente. Per rimanere al potere e realizzare le sue aspirazioni rivoluzionarie, il fascismo doveva legare le masse degli italiani al regime, facendo nascere tra le prime e il secondo un vincolo profondo e creare così un nuovo livello di coscienza nazionale. In tal senso molte energie furono spese per far sì che il concetto di nazione “italica”, reso vivo mediante la profonda rivalutazione del Risorgimento operata dagli intellettuali fascisti – soprattutto attraverso la rielaborazione teoretica di Gentile –59, si fondesse e diventasse un tutt’uno con il regime fascista, per cui alla fine non fosse più possibile distinguere l’italiano dal fascista. A ciò si univa il tentativo di distruggere la tradizionale base classista della cultura italiana, colmando il fossato esistente tra società e cultura. Il regime tentò di dare attuazione a queste due aspirazioni, da un lato, avvicinando le masse alla cultura; dall’altro, rimuovendo la caratterizzazione classista degli intellettuali. Il fatto che fece mutare radicalmente l’atteggiamento del fascismo nei confronti del mondo della cultura fu la crisi seguita al delitto Matteotti. Come osserva Philip Cannistraro: I fascisti cominciarono a pensare ai problemi culturali in termini concreti soltanto in seguito ad una crisi politica che scosse improvvisamente il paese, modificando in modo radicale il sistema politico italiano. L’assassinio, da parte di agenti fascisti, del deputato socialista Giacomo Matteotti nel giugno del 192460.

Tale evento segnò una svolta decisiva, poiché Mussolini, per fronteggiare la situazione, si vide costretto a consolidare l’apparato di governo in regime61. A questo scopo, l’originario atteggiamento del fascismo nei confronti degli intellettuali cambiò e venne ad essere stimolata la discussione sul rapporto col mondo della cultura, in precedenza trascurato. Durante la riunione della direzione del Pnf, tenutasi a Roma il 6 agosto 59 Vd. a questo proposito A. DEL NOCE, L’idea di Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1968, pp. 163-215. 60 PH. V. CANNISTRARO, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 16. 61 Sulla crisi Matteotti e gli eventi che la seguirono cfr. R. DE FELICE, Mussolini: il fascista.I. La conquista del potere (1921-1925), Einaudi, Torino 1966, pp. 619-730; nonché M. CANALI, Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, il Mulino, Bologna 1997.

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1924, Mussolini prese apertamente posizione contro coloro che accusavano il fascismo di “anticultura” e sottolineò l’impellenza dell’assunzione di un preciso impegno sul fronte culturale e intellettuale62. Questa improvvisa preoccupazione era alimentata ancor più dal fatto che, in seguito alla eliminazione di Giacomo Matteotti, molti esponenti della intelligencija si erano irrigiditi verso il regime; lo stesso Croce, che inizialmente aveva guardato con benevolenza al governo Mussolini, ritenendolo temporaneamente utile a ristabilire l’ordine, si era ormai definitivamente allontanato, assumendo una posizione critica. Di qui l’esigenza di ricreare un clima favorevole al fascismo e di presentarsi all’opinione pubblica con una immagine culturalmente e ideologicamente più preparata e positiva. In realtà il fascismo, sin da allora, mirò sostanzialmente alla distruzione del concetto crociano dell’autonomia degli intellettuali (confortato in questo anche dall’idealismo attualistico), criticando ferocemente quegli intellettuali che se ne rimanevano “alla finestra”, al di fuori della lotta politica, costringendoli così a servire gli interessi politici e sociali del fascismo. Tuttavia, non può trascurarsi che, per Gentile, era viceversa assolutamente primario “creare” la coscienza di una nuova Italia e fare in modo che gli elementi, che in diversi modi le si contrapponevano, fossero invece funzionali ad un graduale processo di autocoscienza per essere poi inseriti anch’essi in un nuovo quadro politico, il quale andava inteso in senso totalitaristico, in quanto comprendente sia le tesi fasciste (lette attraverso l’attualismo), sia quelle che ad esse si opponevano. Questo atteggiamento era aspramente criticato dai fascisti estremisti e tradizionalisti, dai monarchici assoluti e dai futuristi che avversavano le idee di fondo del convegno degli intellettuali fascisti tenutosi a Bologna nel marzo 1925 e del manifesto degli intellettuali fascisti, che ne era il frutto, poiché ritenevano che l’esigenza conciliativa, che nasceva dalla proposta gentiliana di rivolgersi a tutti gli italiani, menomasse in qualche modo il significato attivo, rivoluzionario e primordiale del fascismo, eliminando qualsiasi elemento di rottura e di novità rispetto al passato, e servisse inoltre a mascherare, sotto altre vesti, l’antico liberalismo democratico-parlamentare63. B. MUSSOLINI, Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, XXI, La Fenice, Firenze 1956, pp. 50-51, Sintesi della lotta politica. 63 Si vedano ad esempio gli articoli apparsi su «Il Sabaudo» il 4 aprile 1925 dove si accusava Gentile di essere: «il cavallo di Troia del liberalismo», e su «l’Impero» il 1° aprile 62

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Ma l’adesione di Gentile al Pnf, avvenuta nel 1923, era stata vista da alcuni dei suoi collaboratori, quali ad esempio Carmelo Licitra64, come l’evento che permetteva di rinnovare il clima politico italiano attraverso il connubio tra filosofia e politica65. Gentile sembrò essere l’intellettuale che meglio di altri poteva consolidare culturalmente l’idea fascista, senza peraltro determinare alcuna frattura con la tradizione politica e culturale dalla quale il filosofo continuava ad attingere motivi ideali di impegno politico, come prosecuzione degli ideali risorgimentali e soprattutto del mazzinianesimo. D’altro canto, questa eredità era proprio ciò che serviva al fascismo nella crisi del 1924, poiché il Risorgimento, inteso come rivoluzione non perfettamente compiuta, costituiva la spinta ideale adatta a fornire al fascismo un preciso ruolo nel processo di integrazione della società italiana. Pur rimanendo fermamente convinto del valore della tradizione, l’idealismo di Giovanni Gentile aveva quella carica attualistica che ben si adattava alle esigenze di rinnovamento e di fondazione di una coscienza civica nuova proprie del fascismo. A questo proposito, come ha ben sottolineato Maria Luisa Cicalese, per Gentile [...] la politica si configura con la vita stessa morale e culturale di un popolo, e va diretta verso mete sempre più alte, autonome e libere. La filosofia come scienza della politica e l’empirica ideologia pratica non vengono distinte, mentre l’idealismo soltanto sembra capace di garantire l’ideale e proporlo all’azione puro da ogni contaminazione dommatica e chiesastica. Il laicismo, il liberalismo antiindividualistico, confluiscono nel dopoguerra 1925, dove si affermava che nemmeno i futuristi fascisti erano contenti del convegno culturale fascista. Sull’atteggiamento dei fascisti monarchici si veda: F. PERFETTI, Fascismo monarchico. I paladini della monarchia assoluta fra integralismo e dissidenza, Bonacci, Roma 1988, pp. 258 ss. Sull’opposizione a Gentile da parte dei fascisti intransigenti si veda A. TARQUINI, Gli antigentiliani nel fascismo degli anni Venti, in «Storia contemporanea», XXVII, 1, febbraio 1996, pp. 5 e ss. 64 Carmelo Licitra apparteneva alla cosiddetta “scuola romana” di Giovanni Gentile, assieme a Ugo Spirito ed Arnaldo Volpicelli, nel 1923 aveva fondato la rivista «La Nuova Politica Liberale», che aveva tra i suoi promotori e collaboratori G. Gentile, B. Croce, A. Anzilotti, G. Lombardo Radice e G. Volpe. Tra i suoi scritti è utile ricordare La nuova scuola del popolo italiano, De Alberti, Roma 1924; Dal liberalismo al fascismo, Roma, De Alberti, 1925; La storiografia idealistica, De Alberti, Roma 1925. Morì il 24 febbraio 1929. 65 Per Licitra, infatti, il fascismo era: «l’unico partito nel quale potessero innestarsi e trovare una nuova fase della sua vita quel liberalismo che abbiamo ereditato dalla vecchia destra, e che nelle nostre dottrine filosofiche ha trovato il suo ideale sviluppo e la sua nuova forza». C. LICITRA, Giovanni Gentile fascista, in «La Nuova Politica Liberale», I, 4, aprile 1923, p. 242.

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nel “particolare fascismo” gentiliano, che vorrebbe configurarsi come dialetticamente onnicomprensivo66.

L’attualismo di Gentile contribuì a rinvigorire l’attivismo fascista e contemporaneamente a liberare il fascismo dall’etichetta di movimento “dispregiatore della cultura”, facendogli ereditare i principali elementi che l’idealismo era andato via via elaborando nell’analisi della società italiana. Per questo motivo, il fascismo si presentò, grazie all’idealismo attualistico, come il naturale sbocco di un movimento di pensiero che risaliva ai primi del Novecento; la qual cosa gli evitò di essere considerato un mero fenomeno politico contingente. Pellizzi, a quell’epoca perfettamente in linea con le tesi gentiliane, si adoperò costantemente per raggiungere i suddetti obiettivi e, rendendosi conto delle difficoltà legate ad una efficace attività del Gruppo di competenza per l’istruzione, si dette da fare per creare contemporaneamente una alternativa: un ente di cultura che potesse collaborare col governo per la costruzione di una cultura fascista. Sempre attraverso la collaborazione del Codignola, venne precisato un progetto in tal senso67. Nel suo archivio, in un promemoria indirizzato a Mussolini, si legge: 4) Per l’erigendo Ente Nazionale di Cultura mi permetto ricordare che il partito dovrebbe stanziare la prima somma di venti e più mila lire necessaria per la costituzione in ente morale. Forse questo potrebbe venire deciso nel prossimo Gran Consiglio. [...] Per quanto riguarda il Gruppo di Comp. Nazionale dell’Istruzione [sic] e l’erigendo Ente, ogni disposizione potrà venire trasmessa al prof. Codignola, Ministero della Pubblica Istruzione68.

L’occasione per la creazione di un ente nazionale di cultura, che poi diverrà Istituto nazionale fascista di cultura venne fornita dal I congresso degli intellettuali fascisti, tenutosi a Bologna il 29-30 marzo 1925, al quale si è fatto cenno, all’insegna della ricerca e della definizione di un connubio tra la nuova politica italiana e il pensiero storico e filosofico dal quale essa traeva il proprio fondamento ideale. 66 M.L. CICALESE, La filosofia politica di Giovanni Gentile, in Il pensiero di Giovanni Gentile, vol. I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1977, pp. 247-266. 67 L’impegno di Pellizzi e di Codignola per una adesione del fascio di educazione nazionale al Pnf nel settembre 1922, come gruppo di competenza per la scuola, e per un incontro con Mussolini a questo fine è documentato, tra l’altro, in: G. TURI, Giovanni Gentile. Una biografia, Giunti, Firenze 1995, p. 544. 68 ACP, Serie V, b. 27, f. 27, (1923), Promemoria per S.E. Mussolini.

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Il congresso degli intellettuali fascisti – o, come venne chiamato nella dizione originaria, il “I convegno per le istituzioni fasciste di cultura” – venne organizzato da Franco Ciarlantini; Gentile lo presiedette69. Tra i temi trattati nel convegno vi erano state le relazioni di Giorgio Masi e Giuseppe Bottai riguardanti, rispettivamente, «le istituzioni di cultura» e «le funzioni e finalità dei centri di cultura». Questi temi preannunciavano la costituzione di un organismo culturale che avrebbe legato i due termini: fascismo e cultura70. L’idea di celebrare questo convegno era maturata, negli ambienti del Pnf, anche su impulso dei collaboratori del Gruppo di competenza per l’istruzione di cui Ciarlantini faceva parte. Franco Ciarlantini, direttore dell’Ufficio propaganda del Pnf, lo fece coincidere con la riunione del consiglio nazionale del partito. Al convegno parteciparono circa duecentocinquanta intellettuali filofascisti71; esso si articolò in tre parti: la prima riguardante la definizione dei fondamenti politico-filosofici del movimento fascista, la seconda riguardante le esigenze di coordinamento delle istituzioni di cultura e le loro finalità in rapporto con il nuovo regime; infine la terza riguardante il problema di una rivalutazione della cultura italiana in campo internazionale, con una particolare attenzione allo sviluppo della cultura tecnica. L’intervento di Gentile si caratterizzò per la sua adesione “critica”, che mirava a far maturare il movimento fascista dall’interno. Tale proposito venne specificato nel testo che divenne poi il “Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni”, che ne racchiudeva i risultati e che apparve sulla stampa nazionale il 21 aprile 1925, in occasione della ricorrenza del Natale di Roma. Esattamente dieci giorni dopo l’uscita del manifesto gentiliano e, significativamente, il 1° maggio 1925, venne pubblicato su «Il Mondo» il manifesto degli intellettuali antifascisti, quale «risposta degli scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti». Il “contromanifesto”, che ebbe firme più numerose e autorevoli del documento gentiliano, era stato redatto da Croce come 69 Franco Ciarlantini, redattore del «Popolo d’Italia», fondatore della rivista «Augustea» e della casa editrice Alpes, per la quale dirigeva la collana Biblioteca di cultura politica, già membro del Direttorio, era stato capo dell’ufficio stampa e propaganda del Pnf (1924’25) ed era membro del Gran Consiglio (1924-’25). 70 Su questo binomio si sarebbe soffermato in seguito anche G. GENTILE, Fascismo e cultura, Treves, Milano 1928. 71 Per un elenco degli intellettuali intervenuti E. R. PAPA, Storia di due manifesti, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 45-47.

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reazione contro quel metodo che pretenderebbe piegare l’intellettualità a funzioni di “Instrumentum regni” e vuole essere in pari tempo la protesta sollevata da alcuni liberi intelletti contro la versione e l’interpretazione delle cose d’Italia che gli intellettuali fascisti hanno creduto di dover diffondere al di là dei confini d’Italia72.

L’attacco era molto forte e ben argomentato, ma in quel momento il connubio tra attualismo e fascismo era dotato di una forza pragmatica tale da risultare preminente sul piano dell’attività politica e quindi, in tal senso, politicamente vincente. 3. Una rivoluzione All’impegno profuso da Pellizzi sul piano concreto della politica si accompagnò il suo intenso lavoro indirizzato alla fondazione delle basi dot72 Il “contromanifesto” è riportato in E. R. PAPA, op. cit., pp. 92 e ss. In tale scritto Croce ribadiva l’autonomia della cultura, che non poteva e non doveva essere “contaminata” con la politica, la quale era una pura esigenza pratica e non poteva strumentalizzare la cultura ai suoi fini. Vi compaiono tutti gli elementi della polemica intercorsa tra Croce e Gentile nei mesi precedenti sul problema del liberalismo, che da una parte vedeva quest’ultimo quale assertore della tesi secondo cui solo grazie al fascismo l’Italia avrebbe potuto realizzare definitivamente il Risorgimento secondo il modello prospettato da Mazzini, poiché l’evoluzione risorgimentale era rimasta, per molti versi, incompiuta, laddove Croce rivendicava il valore della lenta costruzione con cui i liberali avevano consolidato le strutture dello Stato e allargato i confini della società politica per far sì che il processo di integrazione sociale e politica si completasse. Del Noce ravvisa in questa «indeducibilità della pratica politica dalla teoria» il nucleo del conservatorismo crociano. Cfr. A. DEL NOCE, Giovanni Gentile..., cit., p. 404. Per la polemica Croce-Gentile svoltasi in quei mesi, si veda, tra i numerosi articoli, G. GENTILE, Il liberalismo di Benedetto Croce, in «Educazione politica», III, 2, aprile 1925, pp. 49 e ss., e ID., Croce e il suo liberalismo, in «Epoca», 21 marzo 1925, secondo cui «tutta l’educazione filosofica e la costante e più profonda ispirazione del pensiero del Croce, ne fa uno schietto fascista senza camicia nera», nonché B. CROCE, Liberalismo, in «La Critica», XXIII, 2, 20 marzo 1925, pp. 125 e ss. Croce, pur sostenendo di avere «molta stima per Mussolini», ribadiva che per lui «il fascismo era contrario al liberalismo. Ma quando il liberalismo degenera com’è degenerato in Italia negli anni tra il 1919 e il 1922 e resta poco più di una repugnante maschera, può essere benefico un periodo di sospensione della libertà: benefico a patto che restauri un più severo e consapevole regime liberale», lettera a S. Timpanaro del 3 giugno 1923, in Epistolario, I, Istituto Studi Storici, Napoli 1967. Sull’atteggiamento politico di Croce di fronte al fascismo, cfr. R. COLAPIETRA, Benedetto Croce e la politica italiana, II, Centro librario, Bari 1970, pp. 439 e ss.; G. PEZZINO, L’intellettuale e la politica in Croce attraverso “La Critica”, in Benedetto Croce, a cura di A. Bruno, Giannotta, Catania 1974, pp. 382 e ss.

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trinali di un nuovo modello politico, rappresentato dal fascismo. Il punto di partenza della riflessione di Pellizzi era costituito dall’analisi della situazione politica italiana dell’ultimo cinquantennio: Il democratismo come si è svolto da noi, infine, è stato un vero moto di elevazione delle maggioranze, non di abbassamento delle aristocrazie. Le quali abbrutendosi credevano avvicinarsi al popolo e far propria la sua causa. E il popolo, lusingato, credeva salire eleggendo costoro a nuovi capi; e invece si abbassava ancor più. Atonia morale e superficialità filosofica furono le caratteristiche, e ancora lo sono, di tutto quel movimento estremista rivoluzionario che, per quanto si veli di altri nomi, non cessa di essere l’ultima degenerazione del democratismo. Come conclusione non furono i molti a migliorare avvicinandosi ai pochi, ma i pochi che peggiorarono, credendo, sempre in buona fede, di avvicinarsi così ai molti. L’“èlite” essendo caduta in basso, il volgo cadde ancora più in basso. Ciò va tenuto presente da tutti coloro che, nelle miserie della nostra società italiana di oggi, non si contentano di deplorare soltanto, accademicamente, di rodersi dentro e di lasciarsi andare al precipizio con orientale fatalismo. Il primo germe dell’errore stava nell’aver creduto l’uomo empirico un valore morale assoluto. Dal che venne il feticismo delle moltitudini. Da cui il deciso movimento retrogrado di tutta l’educazione intellettuale, e soprattutto morale, sociale, politica73.

Il tema etico era quindi il principale elemento sul quale far leva per la costruzione di un nuovo Uomo, dotato non solo di ingegno, ma soprattutto di forza di volontà, sostenuta dalla consapevolezza di sé, e da una saldezza etica, tali da fare di questo Uomo un simbolo della Responsabilità, intesa come concetto-mito del nuovo agire politico. Pellizzi lavorò su un progetto, poi irrealizzato, dal titolo Metafisica della Responsabilità, nel quale egli affrontava le caratteristiche di un’etica per una nuova era, contrassegnata dal dovere derivante da una volontà consapevole. Il senso della responsabilità era un motivo forte che assumeva toni storici e universali: ritenendosi egli responsabile, assieme ad altri, del sovvertimento violento del sistema democratico liberale in Italia, sentiva in lui un impegno morale profondo nei confronti della rivoluzione. L’obiettivo ideale di una simile opera viene espresso nei suoi taccuini: Vorremmo che ogni italiano fosse un rivoluzionario. Un uomo, cioè, che crea e guida avanti nel mondo una sua forte idea – volontà. Ma vorremmo anche risparmiarci la via crucis cui si è accennato: il sacrificio dei valorosi, l’abuso dei 73 ACP, Serie IV - Attività scientifica 1909-1979, b. 14, f. 112, Note XX, annotazioni successive all’ottobre 1920.

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disonesti, l’acquiescenza dei vili; se ogni italiano si proponesse veramente di essere un Uomo, la parola rivoluzione non si userebbe più; poiché domani fra mezzo secolo ogni rivoluzione logicamente plausibile sarebbe perfetta e compiuta, ed il mondo potrebbe vantarsi di possedere una Patria Ideale. Quel giorno la Storia sarebbe forse finita: e io so bene che non accadrà: perché vi sono delle pseudoidee a cui non corrisponde una volontà [...] perché di italiani che vogliano fare il proponimento suddetto ve ne sono forse due o trecento, o pochi di più; perché, infine (e questa è la ragione più grave e che esige un esame più attento) una ideavolontà non può che essere storica74.

Al di là delle valutazioni possibili circa l’utopistica visione del giovane Pellizzi, questa annotazione è importante per comprendere quale fosse lo spirito animatore della sua opera di intellettuale, senz’altro fuori dalla massa. Questo suo tratto distintivo, aristocratico, costituì infatti un elemento che caratterizzò profondamente l’opera e la indirizzò, in uno sforzo costante che potremmo definire quasi “messianico”. In tal senso egli lavorò in maniera intensissima in quegli anni, alimentato da un ardore riformatore che aveva come obiettivo l’educazione di un nuovo modello di Italiano, pur rendendosi conto che la realtà concreta era ben lungi da questo ideale75. Lasciato solo, io lavoro. Lavoro talvolta con disperazione e per disperazione. Il sogno, le finalità, che si agitano dentro di me lavorando, possono esprimersi così: speranza che l’opera mia mi riporti in una più intima comunità con gli altri uomini. Ma quando il lavoro è sospeso e sto fra i miei simili, il mio tormento è avvertire che l’opera è stata scarsa, che l’intimità agognata non è raggiunta, che ACP, Serie IV, b. 14, f. 114, Note XXII, settembre 1921-maggio 1922. Circa l’intensissima attività intellettuale di Pellizzi di quegli anni è utile riportare una sua riflessione sull’ozio o l’attivismo: «Quando sento uomini affermare; “ero in vena per quel lavoro”; oppure “non ero in vena”, io penso che la sorte mi ha dato una natura o deplorevolmente imperfetta, o stupefacentemente superiore. Poiché io torno a casa la sera con una lieve pesantezza del capo, dopo una giornata gravosa, e penso: non posso lavorare sul serio stasera; copierò qualcosa del già scritto. E così comincio a fare. Ma poi mi accorgo, ad esempio, che una cosa già scritta va ristudiata e rifatta. E poiché voglio che nella serata almeno una parte di opera, quale che sia, venga fatta, approfondisco quella difficoltà; penso, consulto libri, abbozzo qualcosa di nuovo, poi lo copio, poi lo ricopio ancora, e alla fine mi trovo ad aver lavorato molto più quella sera che non in tante e tante altre sere in cui ero “in vena”. Insomma sentire una predisposizione momentanea esterna alla volontà, e che non risulti all’atto concreto una mera fantasia del cervello in un momento di quasi ozio, una predisposizione – dico – che non sia una volontà, tutto questo io non so più ormai, dopo vari anni di lavoro, che significhi». ACP, Serie IV, b. 14, f. 112, Note XX, annotazioni fra settembre e ottobre 1920. 74 75

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gli uomini continuano per le loro vie polverose senza che di me nulla li illumini, nulla dia altra impronta al loro essere; a ciò si aggiunge il tormento più grave: la paura, il sospetto di esser trascinato anch’io nella corrente senza luce, di venire assorbito dai più, invece di essere io di fronte ad essi l’uno. Se l’insoddisfazione è orgoglio io non conosco persona più orgogliosa di me76.

In questo suo aristocratismo si rintracciavano facilmente gli echi di un atteggiamento spirituale tipico della generazione di Pellizzi, e si coglievano anche elementi di un tormento interiore che nasceva dall’avvertire una enorme distanza tra sé e il resto dell’umanità e che si traduceva in un profondo senso di solitudine (e questo suo tratto psicologico e umano, come vedremo, sarà alla base di una sua profonda crisi esistenziale). Il biennio fra il 1924 ed il 1926, periodo che vede la più prolifica produzione di scritti di Pellizzi, fu caratterizzato da profonde aspettative, quasi “palingenetiche”, nel suo giovane animo. Il volume più importante di questa produzione fu senza dubbio Problemi e realtà del fascismo, che inizialmente Pellizzi voleva pubblicare col solo titolo di Fascismo, che poi fu costretto a cambiare, perché l’editore Vallecchi aveva pubblicato, proprio nel 1923, un volume dallo stesso titolo ad opera di Emilio Papasogli. L’idea del volume era maturata nel corso del 1923 e Pellizzi ne aveva parlato varie volte ad Ernesto Codignola, amico e collaboratore dell’editore Vallecchi nonché fervido sostenitore della produzione intellettuale di Pellizzi77. Uno degli ispiratori di questo volume era stato anche il senatore Antonio Cippico, professore di lingua e letteratura italiana a Londra, che aveva aiutato il giovane Camillo nei primi tempi del suo soggiorno londinese e lo aveva poi seguito da lontano, una volta tornato a Roma per impegni istituzionali. Sebbene non ne fosse stato il solo ispiratore, il volume venne dedicato proprio a quest’ultimo. Pellizzi, oltre ad assolvere ad un debito di gratitudine e ospitalità, con ciò riconosceva a Cippico, quale fondatore del Fascio di Londra, il ruolo di antesignano del fascismo e di «fascista della prima ora» (come Pellizzi sottolineava nella dedica): quindi, come tale, egli rappresentava emblematicamente le doti politiche necessarie ad una definitiva affermazione politica del fascismo. Il motivo ispiratore del volume stava in questa preoccupazione: il fascismo, inteso quale movimento, quale azione violenta e concreta era doACP, Serie IV, b. 14, f. 112, Note XXI, estate 1920. Si vedano a tal proposito le lettere di Pellizzi a Codignola presenti nell’archivio di quest’ultimo, in particolare, quelle dal 5 maggio 1923 al 24 marzo 1924. 76 77

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tato di forti motivi antiborghesi ed antiliberali; ma in un uomo di intelletto, come Pellizzi, erano chiari i suoi punti deboli, riassumibili nella mancanza di una base ideale forte, positiva, creativa, articolata e sostanziata, che avrebbe dovuto fornire i contenuti sui quali fondare la rigenerazione della società italiana. L’intenzione di Pellizzi era anche quella di rompere molti luoghi comuni ed erronee idee correnti sul fascismo. Di qui la necessità di creare anche un nuovo linguaggio politico, adatto a questa novità storico-politica. Pellizzi non trascurava questo aspetto e nella parte iniziale del volume egli ipostatizzava concetti-chiave del moderno linguaggio politico, definendoli come concetti-mito. Infatti la prima parte del volume era costituita da una premessa generale nella quale l’autore riteneva necessario chiarire e definire – fascisticamente – concetti quali “la politia”, “l’economia”, “la democrazia”, “la forza”, “la metessica”, “la mimetica”, “la società”. In particolare egli riprendeva i concetti di mimetica e metessica, utilizzati dal Gioberti nella Protologia 78, utilizzandoli come strumenti speculativi per condurre la propria riflessione storico politica. In particolare Pellizzi intendeva la metessica come quella continua tensione della politica verso l’attuazione di un Mito, di un ideale, e non come pura e semplice amministrazione. In questa tensione ideale riteneva fondamentale il ruolo di una aristocrazia che avesse consapevolezza che il mito da attuare nel presente non era solamente frutto della contemporaneità, ma il prodotto di miti anteriori che venivano in esso rivissuti e superati. L’aristocrate è un rivoluzionario; perché altera le realtà di oggi in vista di una mèta futura; ma egli rispetta e comprende tutte le leggi, in quanto egli stesso è portatore di una legge, che non sarà la negazione bensì una rinascita di tutte le leggi passate. Coerente in ogni dettaglio ai suoi fini lontani, egli è così un “uomo d’ordine”, ma di un ordine che non è mai un fatto, bensì tutto e sempre un da fare. In lui e per lui tutto rivive, e quindi nulla si conserva immutato. Questo tipo d’uomo, che non si trova mai allo stato puro in alcun individuo fisico, ma che si definisce e purifica collettivamente, attraverso il processo di affermazione di ogni personalità storica, è la radice, la linfa ed il fiore delle civiltà; quello per la cui virtù attiva esse vivono e si fecondano, e, maturando, e affrontando sempre nuovi problemi, si dice anche che progrediscono79. 78 Pellizzi aveva letto Gioberti attraverso la mediazione di Giovanni Gentile che ne aveva analizzato la figura intellettuale assieme ad altri protagonisti del Risorgimento italiano. Cfr. G. GENTILE, I profeti del Risorgimento italiano, Sansoni, Firenze 19443, pp. 65125. L’articolo era stato pubblicato per la prima volta nella rivista «Politica» nel 1919. 79 C. PELLIZZI, Problemi e realtà del fascismo, Vallecchi, Firenze 1924, p. 17.

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Alla base di ogni progresso della società in un senso creativo e rivoluzionario vi era quindi quella che potremmo definire una virtù politica, la metessica appunto, che era contrapposta alla mimetica, la quale, pure essenziale, rappresentava invece l’elemento che tendeva a persistere e a conservare, incarnando quindi una forza continuativa e connettiva della società: Vi è un momento in ogni processo storico in cui il mito rivoluzionario dei pochi diviene monumento sociale e interesse consuetudinario, anche spirituale, di una moltitudine; la quale vive, opera, prospera in esso e per esso, e si abitua a vedere nei capi, non gli assertori di un valore originale, che è loro, che è indipendente, che è creativo, bensì i rappresentanti e quasi i burocrati di un principio che precede e trascende le loro persone e la concretezza della loro opera storica: così il re non è che l’investito della monarchia, il presidente della repubblica è l’investito della sovranità popolare ecc. D’altro lato l’aristocrate intende al suo fine nuovo, che è divino ed umano, ora e qui, coi piedi poggiati su questa realtà, su questa tradizione passata che rivive nel presente; volendo rifare, egli vuole anche, in qualche modo, conservare. Appunto perché il passato è vivo e operante, perch’egli ne è non il burocrate, ma il continuatore che gli dà nuova vita, in una nuova mitologia, egli è l’avversario di tutti coloro che del passato ancor vivono, e che meramente continuano il successo di precorse aristocrazie80.

Queste due energie erano entrambe necessarie perché potesse concepirsi una società che si traducesse in uno stato inteso non come aggregazione di singoli individui, che perseguono ognuno il proprio interesse, o come sottoscrizione di un contratto; venivano così rigettati sia i modelli dello stato liberale, sia il modello rousseauiano. Per Pellizzi lo stato aveva una sua personalità storica e come tale era dotato degli strumenti per la realizzazione del Mito dominante in quell’epoca. In tal senso esso era in continua evoluzione ed autorigenerazione. Esso era quindi Stato in quanto conteneva in sé l’attuazione di tutti i Miti precedenti, ma contemporaneamente nel suo farsi era un non-stato, poiché era processo in atto. Lo Stato non è, si fa, esso è una dinamo. Sono evidenti qui gli influssi dello Stato etico gentiliano, inteso questo non già quale realtà sovrapposta alla volontà degli individui, ma come essenza stessa dell’individualità, manifestantesi attraverso la volontà che da individuale assurge al rango di universalità, e diventa legge: di qui il “circolo” (inteso quale elemento di coessenzialità necessaria) di autorità e 80

Ivi, p. 19.

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di libertà81, rivendicato dal fascismo quale identità tra liberalismo autentico ed eticità dello stato82. In Pellizzi tale concezione si incontrava con la necessità di affidare questo compito palingenetico ad una classe di aristocrati, consapevoli del Mito, che potessero tradurlo più efficacemente in prassi; riteneva questa classe l’unico possibile motore del processo rivoluzionario. Egli si rendeva conto che il fascismo era in una fase embrionale e quindi aveva bisogno di essere meglio definito e quasi accompagnato nel proprio processo formativo. Per questo era consapevole che le sue definizioni del fascismo erano attinenti a ciò che egli voleva che il fascismo fosse, piuttosto che a ciò che effettivamente era; di qui il carattere formativo ed esortativo del volume, che non costituiva certo una descrizione dello stato delle cose, quanto piuttosto il tentativo di tracciare le premesse ideali di una “rivoluzione in atto”. È chiaro, è verità tangibile che oggi noi siamo sulla faccia del globo un popolo senza gerarchie storiche in atto. Ma siamo anche il popolo che, per la molta storia non vissuta invano, per le virtù mimetiche poderose, latenti in ogni sua fibra, ha il massimo bisogno di una classe storica dominante. E questa classe storica dominante deve formarsi tutta attraverso un processo rivoluzionario lungo ed acutissimo; rivoluzionario all’interno e all’esterno del paese. Se il fascismo polarizzerà gli sforzi degli italiani verso la periferia e il mondo, ecco, la rivoluzione muoverà poi dalla periferia verso il centro; gli emigrati, gli esuli, i guerrieri, imporranno alla grande Metropoli una rivoluzione continua per oltre mezzo secolo di storia, e forse molto di più. [...] Notate che da noi i germi di una classe storica prevalente non esistono: gl’industriali, anche quando son brava gente operosa, non hanno né i principî né l’educazione del dominio politico. La media borghesia? I professionisti e gl’intellettuali? Proteggi o grande Iddio la Patria degli italiani dalla costoro “epistemarchia”, dalla costoro “intelligenza”, dai costoro “programmi”! I proprietari terrieri? Gente cui si fa notte innanzi sera. I contadini: infinita e misteriosa miniera di “materie prime” da elaborare. Gli operai: reduci da una sbornia grossa di materialismo storico, debbono tornare a sorgenti molto antiche e profonde di educazione e di eticità per essere anche solo una classe 83.

Pellizzi tentava quindi di definire quale fosse il Mito dominante dell’Italia contemporanea: cosa ne connotasse la sua essenza e la sua unicità, Così lo definisce A. DEL NOCE, Giovanni Gentile..., cit., pp. 393-396. G. GENTILE, Il mio liberalismo, in «La Nuova Politica Liberale», I, 1, gennaio 1923, pp. 9 e ss. 83 C. PELLIZZI, Problemi e realtà del fascismo, cit., p. 155. 81 82

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ripulendola da tutte le importazioni di modelli politici stranieri. All’origine di ciò che individua lo stato vi era il suo “mito animatore”, una sorta di omologo, a livello di massa, di ciò che era l’intuizione a livello individuale. Esso rappresentava una credenza cui partecipavano le masse, che portava ad una vera simbiosi spirituale tra il popolo ed il suo Capo, in virtù della quale i valori affermati dal Capo venivano altresì creduti ed affermati dal popolo. Era necessario allora recuperare le proprie radici storiche, dove la cultura italica aveva dato il meglio di sé: nell’impero, prima con la Roma imperiale, poi con la Roma cristiana e infine l’Italia del Rinascimento, culla della civiltà occidentale. Su queste radici storiche andavano rintracciate le caratteristiche dominanti di un popolo, rappresentate dalla creatività e dalla originalità e soprattutto nella universalità di questi valori, a dispetto della decadenza dei valori occidentali, di cui il liberalismo democratico ne era la più evidente espressione: «Il nostro dovrà essere domani un Impero Etico nel mondo»84. Era evidente qui lo sforzo di Pellizzi di rendere l’immagine del fascismo quella di un movimento non solo basato sulla forza fisica, ma anche su quella “mistica” di un elevamento interiore; e proprio in base a queste caratteristiche egli individuava coloro che potenzialmente potevano rappresentare la classe degli aristocrati, che in questa prima fase poteva essere impersonata dai ras. Uomini come Farinacci, Lanfranconi, Scorza, Ricci ed altri – anche se difettavano di quelle doti che potevano renderli buoni statisti – erano tuttavia dotati di volontà: una virtù che poteva renderli adatti al compito della rivoluzione85. Il fatto che il fascismo, movimento che si componeva prevalentemente di giovani, avesse una difficoltà oggettiva, anche se temporanea, nella conduzione del paese, era considerato da Pellizzi come un problema primario, che poteva essere risolto circondando Mussolini, aristocrate “puro”, di uomini che avessero intelligenza politica, abilità, senso della disciplina, ma soprattutto volontà e pulsione alla rivoluzione continua. Viceversa l’intransigente Pellizzi si scagliava contro coloro che manifestavano un atteggiamento tiepido verso il fascismo o che vi avevano aderito per calcolo o debolezza86: l’unica via per mantenere continuamente in fieri la Ivi, p. 152. Ivi, p. 105. 86 Contro le paure di costoro per una rivoluzione permanente egli affermava: «Non è roseo, non è tranquillizzante, non è per questo che avevate simpatizzato con noi? E chi mai vi disse di simpatizzare con noi? Avversari dovevate essere, aspramente avversari! Ed anche 84 85

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spinta all’agire era avere una fede, una mistica politica non solo nel capo, ma nella rivoluzione. Questo nuovo tipo di Uomo e di Umanità prospettati da Pellizzi, non potevano essere pensati al di fuori della religione, e in particolare della religione cattolica: Diciamo che il fascismo è una forza cattolica; resterà poi a vedere in che modo il fascismo possa prospettare l’esser proprio di fronte a quello che è finora il più illustre monumento del misticismo cattolico, di fronte alla Chiesa Romana87.

Anche se in questo contesto l’adesione al cattolicesimo pareva essere strumentale al disegno politico perseguito, in realtà per Pellizzi questo postulato, sul quale aveva avuto modo di soffermarsi già in passato88, diventò sempre più importante. Provenendo da una educazione sostanzialmente laica, egli pervenne alla fede attraverso una profonda crisi spirituale ed esistenziale; nel suo pensiero era già evidente il ruolo centrale assegnato alla religione cattolica considerata quale elemento fortemente identitario per la cultura e la tradizione italiane, cui si aggiungeva la considerazione dell’importanza del rapporto instauratosi tra il cattolicesimo e le dottrine filosofiche spiritualistiche, in particolare l’Idealismo. Ciò consente di meglio comprendere il difficile avvicinamento di Pellizzi alla fede, alla quale giunse anche grazie all’influsso dell’idealismo: Esso [l’idealismo attualistico] insegna l’astrattezza del reale e la concretezza dell’azione; la realtà della fede e la irrealtà della c.d. Natura; la verità della storia (nella nostra coscienza storica attuale) e la falsità di quelle “teorie della storia” che cercano d’incapsularla in un solo aspetto della vita spirituale, guardandola in sé e non in noi stessi; che vede il Mito come una realtà e la logica formale come un’astrazione. [...] Questa mentalità filosofica ci aiuta a saldare il nostro romanticismo alla nostra classicità, e ci chiarisce in che modo e in qual punto il fascismo si riconnetta ad una Fede, a una religione positiva89. noi saremmo divenuti più forti e migliori. Ma siete saliti in barca e la barca è già in alto mare; alla terraferma di partenza non ci si torna più; e guai alle ciurme indisciplinate». Ivi, p. 155. 87 Ivi, p. 173. 88 Egli infatti aveva scritto: «[...] nel fascismo sono alcuni germi della religiosità degli italiani, germi di eticità ispirata e non soltanto razionale [...] nel suo processo storico ispirazione e ragione si legano nel punto concreto dell’azione eroicamente intesa. spregiudicata, costruttiva, violenta. Un’azione simile implica Dio e la tradizione, così come implica il pensiero e la scienza». C. PELLIZZI, La dialettica e il sillabo, «Il Popolo d’Italia», 13 novembre 1923. 89 C. PELLIZZI, Problemi e realtà del fascismo, cit., p. 181.

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La filosofia idealistica quindi aveva avuto il merito di saldare fede e storia ed aveva reso evidente il calarsi dello spirito divino nella materia; il fascismo, a sua volta, riconduceva la religione cattolica all’interno dello stato. Pellizzi, ben comprendendo la delicatezza di questo tema, rivolgendosi a Curzio Suckert e Ardengo Soffici affermava: Vorrei obiettare anche a due valorosi camerati, il Suckert e il Soffici, che affermano essere lo spirito del fascismo: “controriforma”. Come se invero possa esservi stata mai una riforma della Chiesa di Roma! Come se avesse alcun senso positivo, oggi, parlare di una “contro-riforma!” Noi siamo dei formatori. La Fede di Roma e la premessa assoluta e universale di tutte le nostre creazioni contingenti e particolari. Ritrovando il nostro dogma, ritroviamo anche in esso la più genuina fonte della nostra libertà90.

Il riferimento a Suckert non era casuale, in quanto questi considerava Pellizzi un “idealista liberale” e non aveva esitato ad attaccarlo, ritenendo il suo pensiero non italiano, ma influenzato dal liberalismo inglese. Inoltre Suckert criticava le frequentazioni non fasciste di Pellizzi a Londra, come ad esempio la sua amicizia per Gioacchino Nicoletti, accostandolo per questo alle figure di Ansaldo e di Gobetti91. Giuseppe Bottai non aveva mancato di rimarcare questa posizione di Suckert, scrivendo all’amico: Suckert che, come conosci, scarta tutta la filosofia della Mente, ha accenni polemici anche in riferimento al tuo pensiero, che è in sostanza il mio. Dice che il nostro revisionismo è neo-liberalismo. E sta bene. Il nostro liberalismo non è la concezione liberale atomistica della politica, ma il liberalismo filosofico tedesco e della dialettica, contro il quale in altri tempi reagì pure Gioberti, accettandolo poi nella sua ultima attività filosofica92.

Anche Gherardo Casini, che non condivideva le posizioni di Pellizzi, non aveva mancato di evidenziare, facendole sostanzialmente proprie, le 90 Ivi, p. 184. Curzio Suckert, noto con lo pseudonimo di Curzio Malaparte, pubblicista e scrittore fu membro del primo Consiglio nazionale delle Corporazioni fino al 1933. Direttore della rivista «La conquista dello Stato» a partire dal 1924. Diresse anche «La Stampa», «L’Italia letteraria» e la rivista «Prospettive» e collaborò al «Corriere della Sera». Autore di numerosi romanzi racconti e saggi. Su di lui si vedano G.B. GUERRI, L’arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte, Bompiani, Milano 1980; G. PARDINI, Curzio Malaparte. Biografia politica, Luni, Milano 1998. 91 Vd. C. SUCKERT, Una serena discussione sulla ideologia fascista, in «Corriere italiano», 30 aprile 1924. 92 ACP, Serie I, b. 2, f. 6, Bottai a Pellizzi 7 maggio 1924.

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affermazioni di Suckert. Egli criticava la visione filosofica di Pellizzi, basata sulla identità tra fascismo e idealismo, in quanto vedeva nel continuo divenire della realtà un tentativo di camuffare il liberalismo sotto altre spoglie93. L’intera opera Problemi e realtà del fascismo, anche se talvolta può risultare disorganica in alcune sue parti, per la continua commistione di valutazioni politiche con elementi di critica storica, di filosofia e di asserzioni ideologiche, appare comunque continuamente pervasa da un fervore mistico, da un senso messianico di attesa della nuova era. Pellizzi era ben consapevole di aver tratteggiato nel volume il proprio fascismo; ma era altresì certo che gran parte degli elementi descritti corrispondevano effettivamente alla realtà realizzatasi o da realizzare e questa sua fiducia gli proveniva anche dalla coscienza di avere cercato di mettere in pratica alcuni dei precetti descritti. Il volume uscì ai primi di gennaio del 1924, ma non ebbe la diffusione che Pellizzi e l’editore avevano sperato, in quanto risultava essere un’opera complessa e non propriamente divulgativa. Tutto ciò non faceva che rendere ancor più evidente come nelle fila fasciste fossero poche le persone in grado di interessarsi ai fondamenti ideali del movimento, che certo non era considerata una delle priorità, nemmeno da Mussolini94. Pellizzi ne rimase interiormente colpito, in quanto riteneva, da alcune previsioni fatte, che la diffusione del libro sarebbe stata ben più ampia e in tal senso aveva insistito anche con il Codignola, affinché venisse stampato al più presto95. 93 Gherardo Casini in un suo articolo dal titolo Curzio Suckert. Il maestro della destra fascista, in «L’Idea Fascista» di Pisa del 16 marzo 1924, definiva Pellizzi, assieme a Gentile, Pannunzio, Corra e Grandi, uno dei massimi «esponenti della mentalità borghese sopravvivente e dominante». 94 Cfr. a tale proposito, R. DE FELICE, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere (1921-1925), cit. 95 Nel frattempo, l’editore Vallecchi si era già impegnato a pubblicare un suo secondo lavoro, sebbene il primo stesse vendendo assai poco. Ernesto Codignola, promotore del volume presso l’editore Vallecchi scrive a Pellizzi il 20 aprile 1924: «Caro Pellizzi, il suo manoscritto è in tipografia. In pochi giorni sarà composto. L’ho fatto passare davanti a lavori urgentissimi per accontentarla, ma le devo fare con schiettezza, una proposta, ch’ella spero accetterà con altrettanta schiettezza. Il suo volume sul fascismo, come il contemporaneo volume del Giuliano, sull’esperienza politica dell’Italia ha avuto un esito disastroso. Gli italiani non leggono e non leggono in particolar modo libri politici. Non so che esito possa avere questo secondo volume, ma se si ripetesse il caso del primo, lei dovrebbe almeno rim-

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Se ne rammaricò anche con l’amico Carlini, il quale il 22 febbraio 1924 gli rispose: Nei prossimi giorni di vacanza farò la recensione al tuo “Fascismo” sul quale dura la meditazione – come io dicevo – o l’ignoranza: come dicevi tu. Insomma il silenzio. È disperante. [...]96.

Tuttavia il volume era arrivato a Mussolini attraverso il senatore Cippico ed era piaciuto al duce, contribuendo a rafforzare in Mussolini la già buona opinione che aveva di lui. Da una lettera di Lando Ferretti a Pellizzi del 31 gennaio 1924 si legge: [...] Forse non è a tua conoscenza una frase che ti riferisco testualmente con la quale il Duce e presidente dell’Assemblea [del Consiglio nazionale del Partito, composta dai fiduciari, dai membri del Gran Consiglio e dai dirigenti del partito. n.d.a.] incominciò a dire: “Il mio amico Pellizzi, di Londra, uno dei pochi cervelli operanti del fascismo ecc.” Mussolini alludeva alle tue opere di pensiero fascista sostenendo la necessità di dar nuovo contributo di studio e d’idee al partito97.

Il volume era stato inviato anche a Gioacchino Volpe, il quale lo lesse con attenzione e poi rispose a Pellizzi: [...] Ora conosco anche il volume sul fascismo. C’è, me lo permetta, qualche scivolata storico-filosofica tirata giù alla brava: difetto della invidiabile gioventù. Ma c’è ricchezza di idee e fervore di vita e nobile sforzo di capire la realtà e agire per la realtà. Bisogna operare in modo che questo movimento rappresenti sempre più il meglio e il nuovo della vita italiana e lasci dietro di sé scorie e vecchiumi camuffati da novità. Può essere che fra 10 anni esso non esista più con le forme attuali. Ma che si possa dire: è stata la bandiera che ha aiutato l’Italia a risollevarsi e camminare; è stata l’espressione provvisoria, contingente, ma energica del nuovo spirito degli italiani che presto ha superato anche il Fascismo, non si è appagato già neppure di esso dopo che esso aveva assolto il suo compito, ed ha cercato altre bandiere, altri miti, altre scale per salire98. borsare a Vallecchi le spese di tipografia. Il Vallecchi è delicatissimo e non le farebbe mai questa proposta, ma io che lo seguo giornalmente nei suoi sforzi eroici e conosco tutti i sacrifici che ha fatto e sta facendo per la cultura italiana le debbo dire come stanno le cose e invitarla a fare anche lei un piccolo sacrificio, se sarà proprio necessario». ACP, Serie V, b. 27, f. 28. 96 Ibidem. 97 Ibidem. 98 Ivi, Volpe a Pellizzi, 27 marzo 1924. Nella lettera Volpe inoltre affemava: «Credo che lei abbia ragione in quel che mi diceva per la società delle nazioni. Cessato, per noi, il

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Benché non avesse avuto la diffusione attesa, il libro era stato comunque recensito in diverse riviste, e tra le recensioni più importanti vi furono quella di Vittorio Santoli su «Nuova politica liberale» nel febbraio 192499, nonché quella di Armando Carlini apparsa su «Educazione nazionale» nel marzo 1924100; fu inoltre pubblicata un’ampia recensione sullo «Spectator» di Londra. Anche Casini recensì criticamente il volume, ribadendo che, in alcuni suoi punti più oscuri, l’attualismo di Pellizzi, portato alle estreme conseguenze, avrebbe condotto alla affermazione di un principio relativistico di stampo liberale101. Nonostante questi attacchi, egli era diventato assai noto e la sua posizione politica si era consolidata; Giuseppe Bastianini, segretario generale dei fasci all’estero, gli aveva comunicato la sua nomina a delegato centrale momento della giusta diffidenza e della necessaria reazione, può essere venuto il momento dell’azione. La quale presuppone essere qualcuno a possedere la forza per contare qualche cosa. A Ginevra stanno orridamente i potenti e piccoli disposti a servire. Noi non siamo né l’una cosa né l’altra. Ma più la potenza, o almeno il credito verrà, più dovremo cercar di maneggiar anche noi qualcuna delle leve e dei timoni che la società delle nazioni può fornire». 99 Ivi, pp. 56 e ss. 100 Ivi, pp. 154 e ss. 101 G. CASINI, Ragguaglio di idee sul fascismo, in «La Rivoluzione Fascista», 1 settembre 1924. Si veda, altresì, g.c., Classici, romantici e scettici del pensiero fascista, ivi, 18 maggio 1924. Casini aveva già manifestato questa sua avversione a Pellizzi in una lettera del 3 luglio 1923: «Egregio dottor Pellizzi, Non Le avevo scritto per invitarla a collaborare a Rivoluzione fascista” perché l’amico Contri mi aveva detto che molto difficilmente ella avrebbe aderito – essendo contrario alla nascita di nuove riviste –. Contri mi accenna ora alla possibilità di una sua collaborazione che, come può figurare, noi accetteremmo con molto piacere. La “RIVOLUZIONE FASCISTA”, come Ella avrà veduto, non è una rivista nel senso comune della parola: è un tentativo (modestissimo) di trarre dal Fascismo una rivoluzione di pensiero e di forme politiche, di considerare il Fascismo come fenomeno iniziale di un lungo processo storico. Non sono affatto favorevole al suo pensiero filosofico (e lo dirò nella recensione del suo libro che spero di fare per il prossimo numero), tuttavia apprezzo molto il Suo sforzo e la Sua nobile ricerca. S’Ella può e vuole aiutarci dandoci la Sua collaborazione gratis – perché siamo poveretti – avrà tutta la nostra riconoscenza. Come credo che le abbia scritto Contri, desidererei avere la collaborazione di qualche giovane scrittore di cose politiche dall’Inghilterra. Potrebbe occuparsene? [...]». ACP, Serie V, b. n. 27, f. 27. La rivista era stata fondata da Casini nel maggio 1924, con la direzione di Nino Sammartano. Essa aveva come sottotitolo «Quindicinale Politico di Polemica» ed era nata per fiancheggiare «Critica Fascista».

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dei fasci all’estero per la Gran Bretagna e l’Irlanda, carica che lo portò a dirigere e sovrintendere l’organizzazione dei fasci in tali stati102. Nel frattempo, attraverso l’intercessione di Franco Ciarlantini, Pellizzi aveva ottenuto la direzione di una collana edita dalla Alpes, su “l’Europa moderna”, nella quale pubblicherà nel 1926, il suo volume Cose d’Inghilterra, ed aveva inoltre iniziato una collaborazione con «Critica Fascista» dell’amico Bottai103. Per effetto di questi nuovi incarichi, la sua attività pubblicistica era notevolmente cresciuta; ciò anche dopo la pubblicazione del suo secondo volume Gli Spiriti della vigilia, uscito nella primavera di quello stesso anno. Il volume era stato ispirato da Armando Carlini, cui Pellizzi lo dedicò, in quanto egli era per lui «l’amico mio più severo e il mio più dolce maestro». Esso era nato dall’idea di tracciare alcuni profili di uomini, morti nel pieno della giovinezza, che potenzialmente rappresentavano, ognuno a suo modo, l’ideal-tipo dell’aristocrate “puro”, perché dotati di intelletto, sensibilità, intuizione e soprattutto volontà. Si trattava di Carlo Michelstaedter, Giovanni Boine e Renato Serra; queste figure avevano colpito Pellizzi perché tutti loro, anche se in forma germinale, si erano posti il problema della coscienza di sé ed erano in qualche modo i precursori di quello spirito nuovo che agitava gli animi della sua generazione. I profili, non solo letterari, di tali personaggi rappresentavano quindi la ricerca delle proprie radici, di cui quasi costituivano il simbolo. Michelstaedter104, l’eroe di un errore, era il personaggio psicologicamente più complesso, ma anche il più amato da Pellizzi, colui che – con il suicidio seguito alla sua prima opera dal titolo La persuasione e la rettorica –, aveva «vissuta la bella morte». Pellizzi aveva colto l’intima contraddizione del gesto ed aveva saputo mettere in evidenza anche la correlativa deficienza ACP, Serie V, b. 27, f. 28, Bastianini a Pellizzi 12 gennaio 1924. «Critica Fascista» (giugno 1923-luglio 1943). La rivista aveva come sottotitolo «Rivista quindicinale del fascismo». Venne fondata da Giuseppe Bottai ed Emanuele Modigliani. Il direttore era Bottai, affiancato da Gherardo Casini al quale sarebbe succeduto Nicola de Pirro. 104 Carlo Michelstaedter nacque a Gorizia il 3 giugno 1887. Ebbe una educazione interamente italiana e studiò all’Istituto Superiore di Studi di Firenze. Il suo lavoro La persuasione e la rettorica pubblicato postumo nel 1913 dall’editore Formiggini, era in realtà il frutto della sua tesi laurea; egli si suicidò non appena lo ebbe ultimato e spedito a Firenze il 10 ottobre 1910. Oltre a questo suo lavoro unito a Le sei appendici e a Il prediletto punto d’appoggio della dialettica socratica, pubblicati postumi in un unico volume dall’editore Vallecchi di Firenze nel 1922, rimane il volume di poesie Dialogo della salute, Formiggini, Genova 1912. 102 103

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etica: il dualismo di vita pura ed impura. Se per Michelstaedter l’idea era vita e fatto, il suo limite risiedeva nello scindere l’assoluto dal contingente, l’eterno dallo storico e fissare l’ideale tutto nell’assoluto. L’esito della sua ricerca, una volta individuata la purezza dell’idea, si concludeva nella mera contemplazione. Dopo aver riassunto tutto l’ideale della vita fuori dal vivere, la morte dominava l’atto, ripetizione e disintegrazione graduale. Egli lasciava così il Bene, storicamente immobile, fuori della realtà e la realtà, immobile, fuori del bene. Giovanni Boine105, la vittima inquieta, rappresentava, invece, l’esperienza umana divisa tra la tensione verso il misticismo e la molteplicità: era colui che si leva a difendere i valori della tradizione, il provinciale che fa della provincia un vanto, con saldi principi, legati alla cultura contadina, che comunque ne sostanziano lo spirito. Egli non era interessato alla grandezza, non aveva ambizioni né invidie, né, tantomeno, mutevoli interessi politici. Questo elemento costituiva, ad avviso di Pellizzi, la grandezza e nel contempo il limite di Boine: il romanticismo spiritualista, la nostalgia della terra, del popolo e del passato, della realtà certa e secolare, lo avevano trattenuto dal gettarsi nell’azione, cosa che invece il suo impulso spirituale e i suoi studi avrebbero richiesto. La sua opera era appunto caratterizzata dal contrasto fra una concezione della vita basata sui valori tradizionali e l’altra fatta di volontà e profonda responsabilità personale. Renato Serra106, la vittima disperata, colui che aveva la certezza divina del Bello – quale esponente di una sensibilità artistica e letteraria tipica del classicismo – era invece il più famoso dei tre. Pellizzi ne analizzava il critico, il letterato e l’artista, ma soprattutto l’uomo, che non era inscrivi105 Boine nacque nel 1887 a Finalmarina, (Savona). Completò la sua formazione frequentando l’Accademia scientifico-letteraria a Milano, dove si unì al movimento modernista lombardo la cui espressione era la rivista «Rinnovamento». Collaborò alla «Voce». Ammalatosi di tisi fu nel sanatorio di Davos in Svizzera dal 1912 al 1913. Tornato a Porto Maurizio vi trascorse i suoi ultimi anni di vita, morì nel 1917. Le sue opere, riunite, sono state pubblicate in varie edizioni, tra le quali ricordiamo: Il peccato, Plausi e botte, Frantumi e altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano Garzanti 1983. 106 Serra era nato a Cesena nel 1884. Era stato scolaro di Carducci a Bologna. Laureatosi nel 1904 aveva fatto il corso di perfezionamento a Firenze nel 1907-8, per poi tornare a Cesena, come direttore della biblioteca Malatestiana fino al 1915. Richiamato alle armi, nel maggio 1915 aveva avuto un grave incidente d’auto, ma era tornato al fronte troppo presto, ai primi di luglio e il 20 luglio 1915, mentre guidava un attacco sul Podgora, era stato colpito a morte. Le sue opere principali sono: Esame di coscienza di un letterato, seguito da ultime lettere dal campo, a cura di G. De Robertis e L. Ambrosini, Treves Milano 1915 e due volumi di Scritti, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, Le Monnier, Firenze 1938.

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bile in categorie; sebbene avesse sentito profondamente gli influssi della poesia carducciana, egli era intensamente attaccato alla vita, ne sentiva la bellezza, in tutte le sue forme e nel contempo ne apprezzava l’umiltà e la semplicità. Il suo limite, ad avviso di Pellizzi, era stato quello di risentire del «grande errore dell’epoca», cioè nello scindere scientificamente in parti la realtà unitaria, prediligendo un approccio specialistico e settoriale alle arti, invece di seguire l’impeto originario delle proprie intuizioni. Attraverso Serra, Pellizzi coglieva anche l’occasione per riabilitare l’opera e la figura di Carducci: Non accusiamo quindi di retorica il vecchio grande Carducci, e tutti coloro che da lui appresero un certo sentimento speciale dell’arte e della Patria! La prima base politica della nostra Italia è la classicità dell’opera sua. Patria e arte dunque, dissociate in Michelstaedter e in Boine, furono segretamente congiunte nell’anima di Renato Serra: e questo è il segreto della sua grandezza e della sua fine107.

Tutti e tre questi personaggi costituivano, ognuno a suo modo, l’idealtipo, in nuce, dell’aristocrate puro, nonostante il fallimento dei rispettivi obiettivi. E l’incompiutezza appunto era ciò che interessava Pellizzi: Soltanto la fede e l’empito dell’azione possono far tollerare, a uno spirito chiaro e profondo la necessaria rettorica dell’azione stessa, il doveroso morale compromesso quotidiano fra i principi e gli elementi puri e in sé della coscienza; c’è una debolezza che consiste nel non vedere la realtà e spiritualità insieme di questo dovere, e una simile debolezza è comune ai tre uomini che abbiamo indicati. Comune anche al loro tempo; da cui però si distinsero perché ebbero in sé i germi e le aspirazioni fondamentali di un’epoca successiva108.

Il volume piacque molto nell’ambiente idealistico. Nell’agosto del 1924 Ugo Spirito ne fece un’ampia recensione sulla rivista dell’Istituto fascista di cultura «Educazione politica» – fondata da Gentile e in quegli anni da lui stesso diretta –, nella quale definiva Pellizzi «uno spirito acuto ed entusiasta». Per Spirito quest’opera manifestava un Pellizzi «con una salda preparazione filosofica e anche con un pathos narrativo da artista e uno spirito critico di prim’ordine»109. C. PELLIZZI, Gli Spiriti della vigilia, cit., pp. 213-214. Ivi, p. 22. 109 U. SPIRITO, recensione a Gli Spiriti della vigilia, in «Nuova politica liberale», agosto 1924, p. 253. 107 108

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Riguardo alla concezione della vita di Pellizzi, Spirito riteneva che, pur partendo da posizioni indubitabilmente immanentistiche ed etiche, egli non avesse ancora chiarito le sue esigenze ed il percorso intellettuale da seguire: Il Pellizzi è uno spirito inquieto e lo stesso argomento di questo libro è sicura espressione di questo suo stato d’animo. È un po’ uno spirito della vigilia anche lui e la sua sicurezza di aver superato davvero la vigilia è più apparente che reale. E, d’altra parte, la realtà non è sempre anche vigilia?110

Ed effettivamente l’atmosfera del volume era proprio quella di una ricerca interiore, condotta attraverso l’analisi dei personaggi. Pellizzi infatti si poneva proprio il problema esistenziale dell’incompiutezza dei rispettivi disegni quasi come se questa incompiutezza fosse un tarlo della sua mente, il problema centrale di fronte al quale egli si trovava continuamente, e che, attraverso lo studio di questi personaggi, cercava di sondare per trovarne una soluzione. Gioacchino Volpe, che aveva letto il volume, colse acutamente questo suo atteggiamento: Qua e là mi sono anche chiesto se l’Autore non abbia visto più cose che quegli spiriti non contemplassero [...] Ma, con tutto ciò, un bel vigore ricostruttivo e molti bei lampeggiamenti e ansiosa ricerca di sé stesso mentre si ricercano gli altri111.

La ricerca di sé era strettamente legata al momento storico in atto: il giovane Pellizzi sentiva che il proprio destino e l’inveramento della rivoluzione erano sostanzialmente legati; e l’annacquamento di alcune delle idee di punta del fascismo-movimento non poteva sfuggirgli. Egli fu tra quelli che meglio avvertirono che il regime si trovava alle soglie di una svolta, che da una fase rivoluzionaria era passata lentamente ad una sorta di conservatorismo112, ad una “normalizzazione” di quel fermento culturale e politico che aveva animato i primi venti anni del secolo, per la quale si assisteva al ritorno di alcuni valori e istituzioni tradizionali che per Pellizzi costituivano elementi di contrasto con la rivoluzione fascista, quasi una tendenza a rientrare in un quadro culturale “di maniera”: [...] Il periodo furioso che copre il primo ventennio del secolo dà una letteIbidem. ACP, Serie V, b. 27, f. 28, Volpe a Pellizzi, 8 novembre 1924. 112 Su questo punto cfr. R. DE FELICE, Mussolini il fascista, II. L’organizzazione dello Stato fascista (1925-1929), Einaudi, Torino 19952, pp. 372-373. 110 111

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ratura a sfondo introspettivo, critico-filosofica, riformatrice, di contenuto. Il periodo attuale è invece calligrafico, accademizzante e a suo modo estetizzante113.

Questo pericolo, tratteggiato molto bene sul piano culturale, si traduceva sul piano politico appunto in un conservatorismo che diverrà più evidente dal 1925-26 in poi, per culminare nel 1929 con la crisi dell’attualismo da un lato, e con il Concordato dall’altro. Pellizzi ne ravvisava segnali provenienti da più parti: dall’evidente allontanamento degli italiani dal fascismo, specie dopo il delitto Matteotti, che aveva reso il partito sostanzialmente immobile, ma che in realtà non aveva fatto altro che renderne sempre più chiaro il contrasto fra l’apparente mobilitazione armata e l’incapacità sostanziale di costruire un nuovo ordine sociale; dalla polemica sul revisionismo114, nel quale egli vedeva, a dispetto del suo amico Bottai, degli esercizi di intellettualismo che rischiavano di non approdare a nulla se non ad un annacquamento degli ideali più puri del fascismo, benché si sentisse comunque legato ad alcuni personaggi coinvolti nella polemica medesima, dei quali ammirava «la rettitudine e l’ingegno»115; e infine anche dall’atteggiamento tipico degli idealisti, per i quali sembrava a volte che parlare di rivoluzione equivalesse a farla, elemento – questo – che lo aveva portato ad interrogarsi a fondo su alcuni degli atteggiamenti eccessivamente filosofeggianti del movimento, anche se poi, nel profondo, egli si sentiva geneticamente un attualista116. Di qui la frenesia C. PELLIZZI, Le lettere italiane del nostro secolo, cit., pp. 175 ss. Il dibattito revisionista era iniziato ufficialmente su iniziativa di Massimo Rocca, che aveva pubblicato un articolo dal titolo Fascismo e paese, su «Critica Fascista» del 15 settembre 1923. Mussolini si era fortemente adirato per questo, arrivando ad espellere Rocca dal Pnf, salvo poi reintegrarlo, ma Rocca, ormai isolato, aveva infine preferito emigrare in Francia. Cfr. R. DE FELICE, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere (1921-1925), cit., p. 545 e ss. 115 Si veda a tale proposto il suo articolo Cose serie alla buon’ora!, apparso sulla rivista di Bruno Spampanato «La Montagna», 1 marzo 1925, nel quale cita anche la proposta dei Centri di cultura fatta da Bottai, con il quale egli, pur avendo sostanzialmente una comunità di vedute, talvolta entrava in una polemica amichevole, poiché quest’ultimo vedeva da vicino i problemi contingenti e cercava di porvi rimedio, mentre Pellizzi era sempre più preoccupato del fine ideale del fascismo. 116 In una lettera diretta a Ernesto Codignola aveva scritto: «[...] Sembra che oggi si avrà il rimpasto ministeriale. Spero che Gentile sia fuori pericolo. Tuttavia le mando la presente soprattutto per rassicurarla che, a parte certi miei dubbi filosofici e generici, espressi anche per la stampa, io continuo ad essere pronto, prontissimo a sostenere Gentile ministro e la sua Riforma in tutti quei modi che lei e gli altri amici del Maestro potessero giudicare opportuni. Tenga conto di questa mia dichiarazione e mi utilizzi in ogni caso e senza riguardo al113 114

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attivistica, che lo portò nel biennio 1924-25 a scrivere moltissimo e molto spesso, soprattutto nei suoi articoli, a calcare la mano sull’intransigentismo, sulla riconduzione del fascismo ai suoi motivi più puri, tanto da arrivare a vedere nei ras i rappresentanti di quella aristocrazia ideale sulla quale si era tante volte intrattenuto117. Il suo atteggiamento era dettato dalla preoccupazione di vedere nelle polemiche tra revisionisti e integralisti, più degli artifici intellettualistici che non un lavorio costruttivo teso ad uno sviluppo organico del fascismo nella costruzione della nuova società. Soprattutto dopo il delitto Matteotti questa preoccupazione era cresciuta, poiché era chiaro che il fascismo fosse giunto ad un punto cruciale. A tale proposito, dopo il discorso di Mussolini alle Camere del 3 gennaio 1925, Pellizzi scriveva: La Caporetto dello “scandalo Matteotti” ha decimato il rassismo e ha dato un fiero colpo al Fascismo della prima maniera; il contrattacco fascista del 3 gennaio 1925, ha, o dovrebbe avere, superato e nullificato il “revisionismo”. Giova insistere su questo punto e chiarire; anche se ciò che si dice possa tornare discaro a molti, fra i quali amici a cui ci sentiamo, e ci sentiremo sempre, legatissimi. Fino al Maggio 1924 il Fascismo è stato, in gran parte, un’improvvisazione fortunata. Il suo successo era dovuto alla novità, alle contingenze particolari della sua nascita, alla momentanea adesione di moltissimi che fascisti non furono e non potranno essere mai, al disorientamento degli avversari di fronte a una forza del tutto inaspettata, alla unità del comando, alla potenza dominatrice della personalità di Mussolini. [...] cuno [...]». Archivio Ernesto Codignola, Pellizzi a Codignola, 30 aprile 1924 (il corsivo è sottolineato nel testo). 117 Gioacchino Volpe non aveva mancato di notare questa sua posizione: «[...] Seguo quando posso i suoi articoli sui giornali e relative apologie dei ras. C’è visibilmente, e volutamente, un po’ di paradosso, in opposizione ai “normalizzatori” del quieto non muovere e che vogliono mille belle cose, ma solamente dalla buona volontà e dallo sviscerato amore reciproco dei 40 milioni di italiani. Tuttavia io penso: ottimamente anche i ras, se necessario a costruire; se necessario a ciò che è il bisogno massimo della vita italiana: governare e amministrare bene, con più vigore, con più sguardo sul futuro, con animo nazionale non partigiano. Si attua questa condizione? Non so. Vedo solo gli italiani che sempre più si allontanano dal fascismo [...]». ACP, Serie V, b. 27, f. 28, Volpe a Pellizzi, 8 novembre 1924, cit. Questo elemento non è sfuggito a Mariuccia Salvati, la quale ha sottolineato la coincidenza del concetto pellizziano di aristocrate in un primo momento proprio con i ras, anche se poi il ruolo di aristocrati verrà via via assegnato a classi differenti nel corso del ventennio, tra le quali, anche, gli intellettuali. Cfr. M. SALVATI, Longanesi e gli italiani, in Longanesi e gli italiani, cit., pp. 161-180.

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Era evidente che un moto cosiffatto, e (per un breve periodo) così incontrastatamente vittorioso, doveva essere la Torre di Babele delle improvvisazioni, la cuccagna degli improvvisatori. Un poco è tale anche oggi. E i suoi mali più profondi si possono riassumere così, nella parola “improvvisazione”. La campagna revisionista appunto a questo puntava: a sgonfiare le improvvisazioni e puntellare le forze che potevano lavorare e costruire sul serio. È merito dei revisionisti aver difeso fino in fondo le opere di uomini come De Stefani e Gentile. Meno aggiustato fu il revisionismo nella critica. La campagna contro il cosiddetto rassismo era in gran parte non chiara, e male impostata. Poiché il Ras, come ispiratore e condottiero di eroismi squadristici, non era un improvvisatore, ma anzi era un uomo perfettamente al suo posto: e doveva essere ammirato, onorato, tenuto negli altissimi ranghi delle nostre gerarchie. Bensì bisognava smontare là dove a posto non era, ossia nei ranghi degli amministratori, dei critici e teorici del nuovo regime, e (se questa categoria esista) dei politici puri. [...] La riprova dei fatti ha dimostrato che il Fascismo ha bisogno ancora di tenere pronta tutta la sua forza materiale e insurrezionale. Meglio un Ras fuori posto che degli squadristi sbandati e disorientati per mancanza del loro legittimo Ras! Il Fascismo ha bisogno di sentirsi più milizia che partito; non ha bisogno di conservare una mentalità che aspiri ad una immediata normalizzazione, perché questa parola implica rigorosa accettazione della costituzione vigente, ossia in definitiva del liberalismo. [...] E in conclusione oggi il fascismo non può essere che integralista, ossia fedele ai propri principi, fiero della propria storia, tenace continuatore delle proprie tradizioni (poiché già ve ne sono), fermo nella disciplina e pronto alla battaglia; conscio solamente di un programma minimo e generico da attuare, sotto la guida del Duce, nell’immediato futuro. E questo rudimentale programma minimo si riassume in una riforma della costituzione e degli abiti costituzionali, che renda pacifico e acquisito allo Stato italiano ciò che essenzialmente il Fascismo è: Milizia Volontaria, Sindacati nazionali, Governo del Re e non del Parlamento118.

La polemica sul revisionismo era stata quindi un ulteriore spunto per iniziare concretamente un cammino verso la riforma dello stato. Non erano mancati coloro che avevano considerato «un po’ ingiusto» questo attacco integralista di Pellizzi al revisionismo; tra questi Bruno Spampanato, direttore de «La Montagna», che aveva apposto una nota al testo dell’articolo di Pellizzi, ritenendo che il revisionismo avesse invece posto alcune giuste questioni sul piano ideale, nonché Gherardo Casini che gli aveva scritto una lettera nella quale lo metteva in guardia dal mostrare 118

C. PELLIZZI, Integralismo fascista, in «La Montagna», 15 gennaio 1925.

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troppo precocemente una posizione integrale rispetto a questioni e ad istituti che il fascismo non aveva ancora definito119. La polemica aveva investito anche il rapporto che Pellizzi aveva con Bottai, il quale spesso aveva postillato gli articoli di Pellizzi apparsi su «Critica Fascista» in quei mesi. I due, benché molto simili nelle idee di fondo, erano assai diversi nel modo di affrontare i problemi contingenti; ciò non toglie che Pellizzi – sebbene apparentemente deluso dall’atteggiamento mantenuto da Bottai nel corso della crisi seguita al delitto Matteotti – considerava comunque Bottai una sua guida sul piano politico, anche se spesso gli aveva fatto richieste nel senso di una maggiore chiarezza di indirizzo sul piano politico pratico120. Pellizzi riteneva che occorresse dare una definizione dei fondamenti ideali del fascismo e che quindi le numerose riviste scientifiche – e prime fra tutte «Critica Fascista», sulle quali gli intellettuali discutevano per lo più teorie personali, piuttosto che porre i fondamenti del fascismo – rischiavano di confondere ancora di più il panorama delle idealità fasciste con il risultato di continuare a far permanere il vecchio ordine liberale e borghese. Quindi, sebbene egli aderisse ad un revisionismo teso a ripulire il fascismo e a ricondurlo ai suoi elementi originari, non poteva condividerne la connessa visione dello stato e l’attacco di Bottai allo squadrismo, che questi considerava un fenomeno ormai superato e una delle principali cause della crisi del Pnf121. Bottai, dal canto suo, sentiva la comunanza di alcune idee di fondo con Pellizzi, come la critica alle gerarchie del partito fascista, la difesa dell’idealismo gentiliano e la necessità di creare una nuova classe dirigente fascista; tuttavia, soprattutto in merito alla polemica sul revisionismo, riteneva che Pellizzi peccasse di scarsa aderenza alla realtà e di eccessiva astrattezza filosofica. La polemica aveva permesso a Pellizzi di chiarire e rendere più saldi ACP, Serie V, b. 28, f. 29, Casini a Pellizzi, 5 febbraio 1925. In una lettera di Bottai a Pellizzi del 9 febbraio 1926 si legge: «[...] Non capisco che cosa tu voglia da me. Tu mi vuoi seguire? E dove posso io guidarti se io stesso ò bisogno di guida? Io non sono un capo, tra tanti che credono di esserlo, La coscienza di avere una critica ha un po’ costituito un processo di chiarificazione che oggi dà i suoi frutti. Ò avuto ed ò anch’io le mie incertezze, ma almeno dentro di me, trovo in tutta la mia opera una linea. [...]». ACP, Serie I, b. 2, f. 6. 121 Si vedano, nel merito, gli articoli di G. BOTTAI, Disciplina, in «Critica Fascista», 15 luglio 1923; ID., Esame di coscienza, ivi, 1 ottobre 1923; ID., L’illegalismo fascista, in «Corriere italiano», 8 gennaio 1924. 119 120

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alcuni suoi punti di vista. Egli infatti non aveva mancato di ritornare sul problema del rapporto tra idealismo e liberalismo, specie per quello che riguardava l’ambiente che ruotava attorno a Bottai: [...] Bottai si è sempre impegnato con ogni coraggio e spregiudicatezza su posizioni critiche attendibilissime, ma in fatto di costruzione programmatica non ci ha dato nulla di chiaro. Ed io ho il sospetto che lui, e molti suoi collaboratori e amici, abbiano in fondo al cuore, nell’angolo ove si nascondono i sogni più cari, ancora e sempre “lo Stato liberale forte” della vecchia Destra e del vecchio Idealismo germanico! Lo stesso Gentile, che proviene da quella Destra e da quell’Idealismo, è oggi molto ma molto più in là! Di fronte a Bottai, Gentile è un estremista!122

Mentre Bottai non riusciva ad esprimere una visione chiara, non potendo perciò essere una concreta guida non solo sul piano intellettuale ma principalmente su quello politico, Gentile rappresentava per Pellizzi il vero Maestro. Egli non smise mai di richiamarsi alla sua attività, e di difendere la sua riforma dell’educazione anche quando l’adesione all’attualismo divenne più tiepida. In quel momento egli ne ammirava l’impegno profuso per la riforma dello stato: e Gentile, che dal canto suo apprezzava le idee di Pellizzi, gli aveva chiesto di raggiungerlo a Roma per contribuire, sotto la sua guida, agli studi per la riforma dello stato, per i quali la commissione dei quindici stava lavorando123. Pellizzi non si era potuto trasferire, ma il promemoria inviato a Gentile conteneva elementi utili per comprendere quali fossero le finalità immediate della rivoluzione nella visione ideale di Pellizzi. Egli riteneva necessaria una estensione dei poteri del Senato, parallelamente ad un ridimensionamento di quelli della Camera bassa nei confronti dell’esecutivo e «degli altri enti legislativi». Auspicava poi la creazione di un organismo tecnico e sindacale autonomo le cui funzioni avrebbero affiancato, con eguale peso costituzionale, quelle della Camera bassa; infine riteneva necessario studiare una nuova legge elettorale124. Ben presto però anche il mancato decollo di queste riforme aggiunse un ulteriore motivo di delusione in Pellizzi, il quale rese più aspri i toni C. PELLIZZI, Integralismo fascista, art. cit. Su questo argomento cfr. A. AQUARONE, L’organizzazione dello stato totalitario, Einaudi, Torino 1995, pp. 52 e ss. 124 ACP, Serie V, b. 27, f. 28, Pellizzi a Gentile, 12 novembre 1924. Sulle riforme istituzionali si vedano anche gli articoli di Pellizzi La riforma dei poteri, in «Gerarchia», agosto 1924; Parlamento e sindacati, in «Il Popolo d’Italia» 9 ottobre 1924; In tema di riforme, ivi, 25 novembre 1924. 122 123

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della polemica con le gerarchie fasciste, ritenendo che fosse necessario un programma più rigidamente rivoluzionario. La nomina a ministro dell’istruzione di Pietro Fedele, e l’attacco alla riforma Gentile sostenuto anche da Farinacci, nuovo segretario del partito, accentuò la convinzione che si fosse di fronte ad una nuova involuzione del fascismo: il quale con la propria transigenza non faceva altro che far sostanzialmente perdurare il vecchio stato liberale e che, nonostante la disciplina militaresca voluta da Mussolini, in realtà produceva solo dei “leccapiattini” anziché degli aristocrati125. L’atteggiamento di Pellizzi, come quello di altri intellettuali che si erano espressi in modo analogo, venne ritenuto eccessivo, tanto che proprio Mussolini si rammaricò delle posizioni prese negli articoli apparsi su «La Rivoluzione Fascista» considerandoli frutto di un «dissidentismo di intellettuali, di insoddisfatti», che faceva dubitare che Pellizzi potesse rientrare nei ranghi. Per questo egli venne allontanato dal «Popolo d’Italia», mentre anche le riviste «La Rivoluzione Fascista» di Casini e «La Montagna» di Spampanato, alle quali collaborava, venivano chiuse. In una lettera a Giovanni Gentile, che costituisce quasi uno “sfogo” col maestro, avrebbe scritto: Quanto al nostro Fascismo, è curioso come ci si attenda da ciascuno nient’altro che la schiena curva ed i soliti inutili e pericolosi incensi! Mussolini dev’essersi abituato a considerare che ogni suo seguace è un leccapiattini o un imbecille; quando trova un uomo (sia pure umilissimo e modestissimo) lo scambia per un nemico o per un traditore! L’assicuro che non ho mai pensato sul serio a farmi dissidente o a creare un dissidentismo; ho pesato sulla penna, in quel certo articolo, perché alla buon’ora certe cose venissero udite ed ascoltate [...] Quel Casini è un ragazzo, son d’accordo con Lei; ma per lo meno, ha avuto il coraggio di pubblicare. E già nel gruppo degli amici fiorentini mi chiamano “il novello Socrate, corruttore della gioventù”!126

Pellizzi sentiva che era necessario “fare il punto” sulle posizioni da lui assunte in quegli anni, specialmente su organi ufficiali del fascismo come «Gerarchia» e «il Popolo d’Italia». L’occasione gli venne dalla casa editrice 125 Si veda a tale proposito C. PELLIZZI, L’Origene moderno, in «La Rivoluzione fascista», 15 aprile 1925; I conservatori, ivi, 1 maggio 1925; Perché insistiamo, ivi, 15 maggio 1925; nonché ID., Gli aristocrati e i leccapiattini, in «La Montagna», 1 giugno 1925. 126 Archivio Fondazione Giovanni Gentile (d’ora in poi AFGG), Pellizzi a Gentile, 6 maggio 1925.

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Alpes di Milano, e in particolare dall’amico Franco Ciarlantini che ne dirigeva la collana di cultura politica. Pellizzi raccolse tutti quegli articoli scritti dal 1923 in poi, nei quali precisava progressivamente il proprio concetto di aristocrazia fascista e più in generale la funzione e il significato del fascismo nella storia italiana. La raccolta era preceduta da una significativa lettera aperta indirizzata a Mussolini, nella quale – sebbene il volume fosse dedicato al duce – Pellizzi si dichiara consapevole che molti dei principi in esso espressi non erano necessariamente coincidenti con il pensiero del duce. Tuttavia riteneva che fosse opportuno precisare alcuni punti anche con lo stesso Mussolini: debbo chiarire che l’aristocrazia quale io la intendo e la vedo, esclude a priori la possibilità di un capo assoluto ed unico, di un regime e di un sistema rigidi e fissati una volta per tutte, di una disciplina puramente militaresca e puramente passiva [...] In politica non tanto si tratta di vincere, quanto di sostituire l’avversario. L’avversario battuto ma non sostituito è in questo campo un avversario tuttavia vittorioso. E per sostituirlo non basta un capo, e non serve un esercito: occorrono gli uomini. Un sistema di uomini scelti, di gentiluomini, che riassorbano e facciano proprie tutte le funzioni, le qualità, i meriti dei nemici disfatti.

Gli echi della teoria paretiana delle élites erano evidenti, specialmente in tema di sostituzione di una classe dominante ad un’altra precedente127. Il problema del fascismo per Pellizzi non stava nel Capo, ma nei suoi gregari e nel fatto di sentire l’assenza di una classe dirigente adeguata, come l’obiettivo più urgente del fascismo. Qui Pellizzi non negava di aver preso delle posizioni talora estreme, ma affermava di averlo fatto perché sentiva integralmente la responsabilità del suo essere fascista, che non gli proveniva né da Mussolini, né da altri, ma era intrinseco alla sua coscienza e quindi egli non poteva fare a meno di indicare quanto di meschino e di inadeguato vi fosse all’interno di questo fascismo indistinto e impuro, anche a costo di dispiacere il suo duce128. Anche la sua posizione presso il direttorio del fascio di Londra dal marzo del 1925 era diventata piuttosto critica, in quanto il suo atteggiamento era stato ritenuto eccessivamente intransigente e quasi sovversivo, inoltre gli era stata mossa l’accusa di non preoccuparsi troppo degli emi127 Cfr. a tale proposito, M. SALVATI, Cittadini e governanti. La leadership nella storia d’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 87 e ss. 128 C. PELLIZZI, Fascismo-aristocrazia, Alpes, Milano 1925, pp. 7-14.

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grati delle classi meno abbienti. Per questi motivi, con una lettera a Giuseppe Bastianini, il 15 luglio del 1925 avrebbe rassegnato le proprie dimissioni dalla carica di delegato dei fasci di Gran Bretagna e Irlanda129. E sempre in quei mesi estivi avrebbe meditato un suo definitivo rientro in Italia, anche per effetto di un fraintendimento circa la mancata assegnazione di un posto di reader, che non gli sarebbe stato conferito dall’University College, a suo avviso, per motivi politici. Tuttavia questo non avvenne, poiché in realtà vi erano motivi formali all’origine della mancata assegnazione del posto, e comunque Pellizzi continuò a svolgere le stesse funzioni come senior lecturer, come gli era stato scritto da Edmund Gardner, titolare della cattedra alla quale collaborava, e come anche l’amico Harold Goad, direttore del British Institute di Firenze lo aveva rassicurato130. Ma la crisi di Pellizzi nell’estate del 1925 si approfondì anche per motivi personali. Il mancato inveramento delle idealità fasciste non era che uno degli elementi che scatenarono in lui una crisi esistenziale. La conversione al cattolicesimo, avvenuta nel 1924, dopo aver ricevuto la prima comunione, aveva acutizzato l’impellenza di un chiarimento con l’attualismo, in particolare sul problema dell’immanenza che ancora aveva per lui dei contorni non chiari, in quanto egli sentiva di voler ribadire che la propensione per la filosofia, come via per la comprensione del reale, non era ispirata da altri che da Dio: Dio e la fede morale sono il fondamento e l’origine dei valori e dei successi umani, non la loro conclusione e risoluzione immanente. La vecchia immanenza e la vecchia trascendenza si sono risolte e come trasfigurate: alla radice della nostra immanenza abbiamo trovato una trascendenza che nella sua precisa formulazione teoretica dovrà pur essere nuova, ma nel suo definitivo significato e valore è antica come il mondo degli uomini! Ispirata fede che, per essere appunto un eterno di là, e non la nostra diretta coscienza del reale, della vita, è un processo di lotta e di profanazione continua: ma doverosa profanazione, poiché la natura propria di quella fede è di doversi fare, e non di essere già131.

Anche i suoi articoli su «Critica Fascista» avevano affrontato questo L’episodio è descritto in R. SUZZI VALLI, Il fascio italiano a Londra..., art. cit., p. 982. Si vedano a tale proposito la lettera di Goad a Pellizzi, senza data, ma presumibilmente del luglio 1925 e quella di Edmund G. Gardner del 26 luglio 1925 in ACP, Serie V Corrispondenza, b. 28, f. 29. 131 C. PELLIZZI, Gli Spiriti della vigilia, cit., pp. 214-215. 129 130

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tema; in particolare era entrato in polemica con Volt (Vincenzo Fani Ciotti), il quale, inizialmente amico di Romolo Murri, era poi diventato antimodernista e fautore di un regime neo-assolutistico, in cui il cattolico doveva mostrare la propria fede e non una adesione pseudofilosofica e in definitiva razionalistica. In un suo articolo intitolato Questi improvvisi cattolici, Pellizzi replicava a queste posizioni, dichiarandosene preoccupato, poiché esse erano esteriori, formali e non facevano altro che alimentare un atteggiamento superficiale e retorico verso la religione. La Chiesa cattolica – sosteneva Pellizzi, rivolgendosi a Volt, Settimelli, Carli, Soffici e Suckert, intellettuali tutti che collaboravano alla rivista «L’Impero» –132 non è uno stato estero, ma una potenza interiore che pervade la coscienza dell’individuo dall’interno e si propone non come problema politico o pratico, ma come tema morale e di conseguenza filosofico. Se si pone il rapporto con la religione sul piano del dogma, si rischia di perdere definitivamente il vero senso della religione e della spiritualità133. Ma Volt nella sua replica, ribadendo la propria posizione, mise in evidenza alcuni elementi deboli del pensiero di Pellizzi: [...] egli, da bravo idealista, tende a confondere l’oggetto col soggetto, trasformando il problema religioso in un semplice caso di coscienza. Il Pellizzi non sa concepire la Chiesa come una istituzione storica, con la quale si possa anche trattar dal di fuori. Con ciò egli cade subito nell’eresia (pardon!) protestante di negare la Chiesa visibile. Ma che la Chiesa, come potenza politica, esista, lo provano i varii concordati, che le nazioni civili hanno stretto con essa. [...] Intanto è certo che la filosofia moderna, compreso l’idealismo più o meno assoluto, ha fallito il compito che si era presuntuosamente assunto, di funzionare come un surrogato della religione. Il nostro odio per questa filosofia non è una posa, ma deriva da insoddisfazione profonda. [...] Lo stato etico è figlio dello stato di diritto, come lo stato di diritto è figlio del contratto sociale. Siamo sempre nell’atmosfera spirituale della Rivoluzione [francese n.d.a]. Ma se il fascismo, di fronte alla rivoluzione liberale, vuol dare a sé un principio autonomo, e la concezione antidemocratica del fascismo non vuole esaurirsi in un atteggiamento sterilmente negativo, occorre che il fascismo faccia propria la concezione cattolica dello stato, adottando l’opposto principio del diritto divino. 132 Mario Carli, ex futurista, diresse con Emilio Settimelli e Filippo Tommaso Marinetti la rivista «Roma futurista» e «L’Ardito»; Ardengo Soffici, letterato di fama, era stato tra i fondatori delle riviste fiorentine «La Voce» e «Lacerba»; aderì al futurismo e dopo la guerra diresse le riviste «Rete mediterranea» e «Galleria», collaborò al «Corriere italiano». Su Soffici cfr. M. RICHTER, La formazione francese di Ardengo Soffici. 1900-1914, Vita e Pensiero, Milano 1969; L. CAVALLO, Soffici. Immagini e documenti, 1879-1964, Vallecchi, Firenze 1986. 133 C. PELLIZZI, Questi improvvisi cattolici, in «Critica Fascista», 15 febbraio 1924.

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O sovranità popolare o diritto divino; o trascendenza o immanenza: non c’è via di mezzo. Sfido tutti i superatori di professione dell’universo a trovare una concezione dello stato che non sia né immanente, né trascendente; salvo s’intende, contentarsi di una concezione veramente empirica, come quella offerta dalla sociologia positiva. [...]134.

A Volt non era sfuggita la possibile aporia della posizione di Pellizzi, il quale, per effetto del suo avvicinamento al cattolicesimo, stava ridefinendo la propria adesione alla filosofia di Gentile. Egli infatti, diversamente che in passato, aveva meditato sull’origine della volontà dell’individuo autocosciente, sostenendo che la sua fonte non poteva che essere Dio, cercando in tal modo di dimostrare possibile un incontro tra idealismo e fede cattolica135. Inoltre, era tornato sulle sue posizioni del 1922 in merito alla coincidenza ideale di fascismo e attualismo, ritenendole filosoficamente errate, in quanto – seppure essi erano nati per cause analoghe – non era possibile che l’attualismo fosse il fondamento filosofico del fascismo poiché la spinta all’attività politica era sempre “afilosofica”136. Il fascismo era prevalentemente azione e forza e la mentalità revisionista, alla quale anch’egli aveva contribuito, ne aveva affievolito lo spirito guerriero più genuino col tentativo intellettualistico di farlo rientrare forzatamente in un sistema di pensiero che tuttavia rischiava di rimanere assai vago. La rimeditazione dell’idealismo era comunque il frutto di una crisi più generale in Pellizzi, il quale in quei mesi attraversò una profonda depressione cui avevano contribuito, oltre a radicati motivi esistenziali, le delusioni sul piano ideale e politico137. Questa crisi lo porterà a modificare radicalmente il suo rapporto con la realtà, ma lo aiuterà anche a chiarire alcune motivazioni profonde, rendendolo più consapevole del proprio ruolo nell’azione politica e intellettuale.

VOLT, Risposta a Camillo Pellizzi, ivi, a. II, n. 6, 15 marzo 1924. C. PELLIZZI, Confessione cattolica, in «Gerarchia», gennaio 1925, nonché ID., “Ne statuas hoc nobis...(Aggiunta agli atti di confessione cattolica)”, ivi, marzo 1925. Fra i cattolici, tuttavia, non era mancato chi aveva criticato questa posizione, ritenendo che Pellizzi, nell’affermare l’esistenza di Dio, ricadeva in realtà nella sfera dell’essere, del fatto e del presupposto, uscendo in pratica dall’immanentismo della filosofia idealista. Cfr. P. BIONDOLI, Sguardi in profondità, in «L’Italia», 19 aprile 1925. 136 C. PELLIZZI, I filosofi e le grancasse, in «La Montagna», 1 aprile 1925. 137 A tale proposito si vedano le annotazioni nei suoi diari e in particolare, ACP, Serie IV, b. 15, f. 118, Note XXVII. (aprile 1924-aprile 1926). 134 135

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Capitolo II

L’Italia fuori d’Italia

1. Rimeditare il fascismo e l’attualismo La crisi attraversata da Pellizzi nella primavera del 1925, dopo il suo avvicinamento alla religione cattolica1, scaturiva da un profondo disagio personale, aggravato dalle delusioni politiche ed intellettuali2 ed investiva direttamente quelli che sino ad allora erano stati i suoi riferimenti ideali più forti: l’immanentismo idealistico e la fiducia nelle doti di Mussolini e del fascismo al fine di rivoluzionare la società italiana. [...] Mussolini e il fascismo finora, si rifiutano decisamente a compiere alcuna scelta di uomini. Si affidano al caso. Ma poi parlano di “nuova classe dirigente” e di aristocrazia!3 1 Pellizzi, parlando di ciò, scriveva: «Perché da un prete cattolico? Anzitutto perché la confessione oggidì è ricevuta soltanto, si può dire, dai preti cattolici, perché sapevo che la mia mamma era stata cattolica e mi aveva battezzato cattolico; e mi ricordavo ancora di quando mi portava alla messa, che io ero incerto tra il ridere, lo sbadigliare e il pregare. Poi perché le altre chiese cristiane e non cristiane, per quel poco ch’io le avevo osservate e giudicate nei loro effetti sul mondo, in qualche modo mi dispiacevano tutte, mentre per molti motivi, da questo punto di vista razionale obiettivo ed estrinseco, mi piaceva la Chiesa di Roma. Dopo la confessione venne la comunione, poi la cresima. Poi, di nuovo il peccato». Forte dei Marmi Pasqua 1925. ACP, Serie IV, Note XXVII, b. 15, f. 118, aprile 1924-aprile 1926. 2 In merito al suo stato depressivo Pellizzi scriveva: «Altra fatica, altre anime sul mio cammino. E si vive. Non più forse (o non più tanto) il timor della morte; ma il timore di me stesso, e l’incubo del suicidio. [...] Se soffro perché queste cose del fascismo mi paion ridevoli e infruttifere e grossolane, sono un sognatore matto che vuole l’impossibile, ma questa pazzia è umana». ACP, ivi, 4 maggio 1925. La figura e l’aiuto del padre Giovan Battista si sarebbero rivelate essenziali per superare questa crisi. 3 ACP, ivi, aprile 1924.

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L’inerzia del partito, la tendenza a renderlo sempre più militarizzato, svuotandolo dei contenuti ideali, costituiva una forte preoccupazione per Pellizzi, il quale si era allontanato dalle polemiche revisioniste, proprio perché, a suo avviso, contribuivano a rendere ancor più fumosi e indistinti i contenuti ideali del fascismo. Egli inoltre riteneva che il fascismo non potesse reggersi solamente sul carisma e l’abilità del suo capo, per quanto abile e sagace; a lungo andare, l’amor di patria e l’ammirazione del duce erano forze destinate ad esaurirsi, se non sostenute da una mentalità comune e da valori di fondo generalmente riconosciuti. A tale proposito, poco dopo il delitto Matteotti, aveva scritto: Un movimento che non abbia una sua precisa mentalità, un sistema anche embrionale di concetti, entra nella cronaca, nell’episodica, ma non nella storia. Potrà scomparire da un momento all’altro per la più futile delle circostanze, sarà come quei depositi marini che una marea porta e la successiva marea fa scomparire. È necessario stabilire certe idee. È necessario stabilire un metodo. È necessario avere alla testa, non un’anima ed un cervello, ma un sistema di anime e di cervelli. Altra illusione: che la selezione degli uomini migliori si faccia da sé, alla prova delle circostanze. Anzitutto i pessimi possono sempre rovinare la casa prima di essere costretti a lasciarla; e poi, il sistema oggi in vigore nel fascismo dà luogo ad una selezione precisa in questo senso: che uno dopo l’altro i migliori se ne vanno. Perché oggi vige nel partito il sistema “democratico” e “liberale” nel pessimo senso di queste parole. Prevale chi si butta in avanti; chi riesce a galleggiare, come la schiuma, sulle onde confuse e agitate. Prevale la schiuma. [...] E bisogna farsi un sistema. Evitare in egual modo il dogmatismo sistematico e il dogmatismo antisistematico. Capire che il sistema è uno scheletro ma non dev’essere una camicia di forza. Il sistema è ciò che uno scandalo, o anche una crisi di nervi di un’intera nazione, non potranno mai abbattere né diminuire. E ricordiamo anche che un sistema è necessariamente dialettico; si muove in pratica fra due poli, fra due interpretazioni estreme, che sono entrambe necessarie alla vita del sistema stesso. Così, nel Fascismo, possono essere ugualmente utili “L’Impero” e “Critica fascista”4.

Il parziale avvicinamento alle posizioni degli integralisti de «L’Impero», e in particolare a quelle di Volt, non significava per Pellizzi l’ab4 C. PELLIZZI, Enormità (il fascismo debole), in «Critica Fascista», 1 agosto 1924, pp. 560-561.

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bandono completo di una prospettiva di rivoluzione “aperta”. Egli – da buon attualista – continuava a ritenere proficuo che il fascismo contenesse al suo interno posizioni opposte, tuttavia riteneva che la strada degli integralisti fosse senza dubbio più chiara e identificabile, perché essi dichiaravano apertamente i principi cardine del loro sistema di pensiero, tanto da arrivare a pubblicare, a firma di Volt, un Programma della destra fascista5. L’avvicinamento alle posizioni degli intransigenti è testimoniato anche da una lettera scritta all’amico Bottai il 5 novembre 1925, in cui ribadiva la condivisione di alcune idee di Volt, sebbene non partecipasse «di quella sua inclinazione tra il cinico e l’indifferente». In quella stessa lettera sosteneva inoltre di non essere affatto concorde con le posizioni assunte da «Critica Fascista» dopo il discorso del 3 gennaio 19256. La rivista, infatti, nel difficile tentativo di comporre il dissidio tra intransigenti e revisionisti e nel contempo di prendere le distanze dalle posizioni di Alfredo Rocco, il quale vedeva la rivoluzione fascista come “restaurazione”, aveva intrapreso un ampio dibattito teso a specificare una proposta di riorganizzazione politica e culturale dello stato7. Di fronte al progressivo affermarsi della proposta autoritaria di Rocco, e con la caduta della polemica tra intransigenti e revisionisti a seguito dell’affidamento dell’incarico di segretario del Pnf a Roberto Farinacci, rappresentante dell’integralismo e dello squadrismo provinciale, Bottai aveva ritenuto opportuno occuparsi dell’organizzazione del partito, svolgendo un discorso complesso e in alcuni tratti pericoloso. Egli partiva dal presupposto che il fascismo era una rivoluzione di popolo e dava una definizione di democrazia quale partecipazione materiale e spirituale del popolo allo stato: ma concludeva che, in realtà, tale tipo di democrazia non era mai esistita in Italia e il fascismo, che aveva utilizzato la spinta antidemocratica per spazzare via la vecchia classe dirigente, rappresentava soprattutto un movimento che si rivolgeva al popolo al fine di integrarlo nella gestione della cosa pubblica. In tal senso anche il partito doveva essere riorganizzato su base democratica, non escludendo anche la pratica delle elezioni, che VOLT, Programma della destra fascista, Edizioni de «La Voce», Firenze 1924. Archivio Gherardo Casini, Pellizzi a Bottai, 5 novembre 1925. 7 Su questo aspetto si veda L. MANGONI, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Bari 1974, pp. 116 e ss. 5 6

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avrebbero permesso al fascismo di diventare il più grande dei partiti di massa. Nella visione di Bottai, il partito era uno strumento idoneo a mediare il rapporto tra le masse e lo stato e nel contempo – scopo più inconfessato –, così organizzato, avrebbe potuto contenere il predominio assoluto della volontà di Mussolini8. Pellizzi, nella ricordata lettera, si dichiarava molto distante da questa visione della «democrazia nuova» (alla quale anche Bruno Spampanato aveva aderito), e sosteneva invece che per fare un popolo, «bisognava cominciare dai pochi e non dai molti o da tutti», ribadendo così la propria visione aristocratica, l’unica a mettere al riparo il fascismo dalla demagogia e in definitiva da un sostanziale immobilismo9. Anche Pellizzi era preoccupato dell’andamento delle vicende del fascismo e soprattutto della scelta dei capi, e ciò nonostante sia lui che Bottai avessero ribadita la loro lealtà verso il nuovo segretario del partito10. Pellizzi certamente avvertiva il pericolo di rendere il partito una caserma, sotto la gestione di Farinacci, la cui azione sembrava viziata da una certa miopia, anche se forse necessaria in quel determinato contesto11. Ma la sua principale preoccupazione era quello che il fascismo doveva diventare. Occupato come era a definire l’originalità di un movimento che non aveva precedenti, e che proprio per questo motivo necessitava di rimanere scevro da importazioni ideologiche, egli riteneva che la discussione sui principi del fascismo dovesse essere portata su un piano più alto, universale, in quanto risiedeva in questo il suo messaggio rivoluzionario. Di conseguenza, le riflessioni sui problemi contingenti, sull’azione politica immediata, ai quali forse Bottai era più incline a prestare la propria attenzione, correvano il rischio di distorcere ulteriormente la sua già precaria affermazione. Bottai aveva risposto alle obiezioni di Pellizzi: [...] Oggi io credo che la somma necessità sia far rivivere il Partito, agitarne lo spirito, scuoterlo dal suo sonno profondo. Qui tutto si impaluda, si corrompe, si guasta. Le gerarchie sono burocratizzate, irrigidite, inerti. Tu parli di aristocrazia, e sta bene, ma l’aristocrazia è quale cosa che si crea, e G. BOTTAI, Epilogo del primo tempo, in «Critica Fascista», 1 novembre 1925. Archivio Gherardo Casini, doc. cit. 10 Cfr. G. BOTTAI, Farinacci e noi, e C. PELLIZZI, Funzione di Farinacci, in «Critica Fascista», 1 ottobre 1925. 11 Vd. ACP, Serie IV, Note XXVII, b. 15, f. 118, aprile 1924-aprile 1926. 8 9

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quelle che qui dominano sono formazioni miserabili e imposte con criteri bassissimi12.

Ma tali riflessioni, pur se incontravano la sensibilità critica di Pellizzi, tuttavia non bastavano a quest’ultimo, che vedeva in Bottai, oltre all’amico, una potenziale guida sul piano ideologico e culturale: Bottai è un altro che ameremmo seguire; ma egli dovrebbe dirci qualche volta, o, meglio, una volta per tutte, dove si va13.

A suo avviso Bottai, dotato di grande ingegno e di intuito politico, si sprecava nel voler valutare tutti i singoli aspetti di un tema, soppesandone le varie posizioni, senza arrivare però mai a definire le linee guida di un proprio fascismo. Il pericolo avvertito da Pellizzi era quello di vedere il partito sostanzialmente burocratizzato, come tutto il resto, senza uomini capaci che potessero indirizzarlo. Ma ciò che ancor più preoccupava entrambi era il progressivo irrigidimento del partito. Sebbene nella crisi del 1924-25, la scelta di Farinacci e l’applicazione di alcuni suoi metodi violenti fossero da loro giudicati “necessari” è vero altresì che durante la segreteria di Farinacci il Pnf si era ulteriormente svuotato di contenuti e, con la riapertura del tesseramento, aveva perso sempre più i propri, già incerti, connotati ideali. Bottai scriveva in quei mesi all’amico: [...] Credo che gran che da fare, ora, non ci sia. È giuoco forza stare nel Partito. [...] Si può preparare del materiale [...] La lotta nel Partito cui tu accenni nel tuo articolo, esiste, sorda e latente: da una parte gli uomini del Partito, una espressione rivoluzionaria, dall’altra quelli che vogliono il partito vivo e funzionante. Io sono fra questi, per mille ragioni evidenti, e perciò vicino a Farinacci, sebbene con gradi o finalità assai diverse14.

Dopo la sostituzione di Farinacci con Augusto Turati, vi fu la sensazione della fine di un periodo assai confuso, nel quale il partito aveva rappresentato l’espressione violenta del potere, e l’illusione che qualcosa di nuovo stesse per avvenire; tuttavia questa novità non andava nel senso sperato né da Bottai né da Pellizzi. La segreteria ACP, Serie I, b. 2, f. 6, Bottai a Pellizzi, 25 gennaio 1926. È una annotazione sui suoi taccuini, ACP, Serie IV, b. 15, f. 118, Note XXVII, aprile 1924-aprile 1926 che poi sarebbe stata pubblicata come Articolo in nuce su «L’Italiano» di Leo Longanesi, n. 1, 1926. 14 ACP, Serie I, b. 2, f. 6, Bottai a Pellizzi, 9 febbraio 1926. 12 13

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Turati infatti avrebbe accentuato i caratteri organizzativi e burocratici del partito, irreggimentandone le energie più vive e, in definitiva, seguendo quella che era la volontà latente del duce, che con le leggi fasciste della fine del 1926 avrebbe dato una svolta autoritaria al quadro istituzionale, sino ad arrivare, nel 1928, alla subordinazione giuridica del partito allo stato per effetto della legge sulla giurisdizionalizzazione del Gran Consiglio15. La crisi personale che aveva investito Pellizzi e che lo aveva fatto allontanare dal «Popolo d’Italia» era durata poco: già nel dicembre 1925 egli aveva ripreso la sua collaborazione con il giornale di Mussolini e anche con «Gerarchia». Nel frattempo aveva iniziato a collaborare con la rivista di Maccari «Il Selvaggio», con «L’Italiano» di Longanesi, con la rivista bolognese «Vita Nova» e, più tardi, con «L’Universale» di Berto Ricci. Pellizzi stava sfumando nettamente i contorni del proprio attualismo e lo faceva proprio guardando agli ambienti intellettuali che avevano rappresentato l’ala più intransigente e che ora, abbandonata la pregiudiziale squadrista, davano inizio all’esperienza artistica di “Strapaese”, nella quale tuttavia permanevano alcuni aspetti centrali: la polemica antiborghese e l’antiliberalismo. In quegli anni Pellizzi si dedicò ad affrontare i temi politici da un punto di vista assai nuovo: la sua visione onnicomprensiva di un fascismo-rivoluzione, attivato dai fondamenti ideali dell’idealismo gentiliano, stava perdendo quella forza che aveva in Problemi e realtà del fascismo. Aveva contribuito a ciò il rapporto con la religione cattolica, ma anche l’atteggiamento di molti attualisti, mostratisi tiepidi verso le realizzazioni più intransigenti del fascismo e soprattutto l’aver constatato che, nonostante tutti gli sforzi, il fascismo continuava ad accusare la mancanza di forti principi ideali. Pellizzi aveva cominciato ad attenuare i caratteri di questa coincidenza tra idealismo e fascismo perché ne intravedeva il pericolo. In una lettera a Bottai, nella quale parlava del convegno degli intellettuali fascisti tenutosi a Bologna nel marzo 1925, aveva scritto: Questa mania, poi ora, di appiccicare al fascismo una filosofia, come 15 Su questo aspetto cfr. A. AQUARONE, op. cit., nonché E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo stato nel regime fascista, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995.

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un’etichetta sopra una medicina, è grossolana e degna di “parvenus” del pensiero, ché troppi dei nostri sono. L’attualismo, sì (io l’ho detto nel 1922), è parallelo al fascismo, sorge da analoghe cause o fonti, ma non si riattaccano i due in un circolo perfetto, come taluno crede. Nessuna filosofia si può riattaccare in tal modo a un moto politico16.

La filosofia di Gentile aveva fornito, a suo avviso, una sorta di paravento, una copertura filosofica al fascismo, che tuttavia continuava a restare un movimento sostanzialmente incolto: Il fatto che Giovanni Gentile sia un eminente fascista mette l’animo in pace a molti: pensa lui? Basta! [...] I gentiliani, nel fascismo, sono i sacerdoti di una divinità che la massa teme, onora e non comprende. [...]17.

Il confronto con la realtà politica italiana era stato il primo elemento che lo aveva fatto dubitare dell’assoluta congruenza della formula politica attualista con le realizzazioni del fascismo; a questo si era aggiunta anche l’esperienza personale e la profonda delusione scaturita dalla caduta di un ideale puro ed assoluto, così come era maturato durante i suoi anni giovanili: Quando io ero un idealista-attuale nel senso più ortodosso mi sentivo personalmente e immediatamente responsabile di tutto l’universo, e di tutto il passato e di tutto l’avvenire. Poi feci l’esperienza che questo atteggiamento può condurre ad un solo esito: la pazzia. La quale è una realtà empirica certa, ma è, soprattutto, un fatto morale positivo. Allora capii che il responsabile è veramente Iddio. Di fronte a cui io sono responsabile della realtà quale essa si viene formando nel mio spirito, e delle reazioni per cui mezzo la mia volontà trasforma e muove il suo reale18.

L’elemento mistico e spirituale era un fattore fondamentale della vita di ogni uomo considerato nella sua interezza, e quindi anche (e soprattutto) nella sua politicità19. Su questo tema egli si era trovato in Archivio Fondazione Mondadori, Pellizzi a Bottai, 19 marzo 1925. ACP, Serie IV, Note XXVII, b. 15, f. 118, aprile 1924-aprile 1926. Questi appunti sarebbero poi stati pubblicati su «L’Italiano» come Articoli in nuce. 18 Ibidem. 19 Su questo elemento, considerato fondamentale nella mobilitazione del consenso nei regimi totalitari, si vedano gli studi di G.L. MOSSE, La nazionalizzazione delle masse, cit., nonché E. GENTILE, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari 1993. 16

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un difficile confronto con la maggioranza degli attualisti, per i quali la religiosità in politica si identificava, piuttosto, con la religiosità di tipo tradizionale che non faceva altro che accentuare il carattere integrale della politica, la quale non si distingueva dalla morale, dalla religione e da ogni concezione della vita e quindi, in ogni caso, doveva essere ricompresa e risolta nella teoria dello stato etico. Ma questo atteggiamento evidenziava una chiusura nei confronti dell’elemento culturale della politica: infatti – a suo avviso – l’esito naturale dell’idealismo attualistico doveva essere la fede cattolica, in quanto anch’essa di ispirazione universale. Nei suoi taccuini aveva annotato: La religione come momento dell’oggettività, di cui parla il Gentile, non contenta forse il pensiero ateo, che si vede consacrato, lì in mezzo al suo campo, un minaccioso rivale; ma meno ancora può contentare un’anima religiosa, anche la più immune da preconcette idee dommatiche o teologiche. L’anima religiosa, per lo meno se cristiana, dirà sempre che quel momento oggettivo è limite, è negatività, anche per essa: che è la religione vista nella sua ombra, che è la negativa del calco, e non l’immagine vera, positiva della religione, la quale si compone di attributi estremamente soggettivi. Non è che si sia religiosi perché non si può costruire il mondo ogni volta, a capriccio dell’io; bensì l’io comincia ad essere religioso in quanto seriamente intenda a costruire il suo mondo. Solo allora egli si avvedrà che l’oggetto, dapprima è ostile, sordo, negativo; poi è irrilevante, poiché l’io scopre che il suo lavoro di costruzione esso l’ha da fare in se stesso; poi, diviene supremamente grato ed amico, essendo che l’io, ricostruitosi nell’ascesi, trova in ogni cosa, in ogni oggetto, una pronta e fraterna risposta alla sua volontà d’amore. Non si può pensare azione dell’io senza il limite del non-io; ma che il positivo cominci dalla sua negazione è assurdo; è il positivo che crea il negativo; ogni negazione presuppone un’affermazione. E la religione è azione, anche nei contemplativi, forse più in quelli che negli altri. E allora bisogna ammettere che, o la religione non c’è, come vuole il sistema del Croce, oppure è al centro e all’inizio di tutto il processo per cui l’entità astratta uomo, pura ipotesi empirica o di qual altra natura, si personalizza, in spiritualità concreta20.

La funzione della volontà del soggetto nell’idealismo attualistico perdeva significato se all’origine di essa non vi era Dio21. Pellizzi aveva tentato di conciliare idealismo e fede cattolica, ma evidentemente 20 21

ACP, Serie IV, Note XXVII, b. 15, f. 118, aprile 1924-aprile 1926. C. PELLIZZI, Confessione cattolica, in «Gerarchia», gennaio 1925.

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avvertiva che questo argomento era in netto contrasto con le tesi degli idealisti22, tra i quali, però bisognava fare delle opportune distinzioni. Egli individuava sostanzialmente due anime della scuola e del pensiero gentiliano, la prima rappresentata da Armando Carlini, il quale insisteva sul problema religioso, che non era più tanto quello della definizione di una religiosità, bensì quello di far riacquistare alla religione il proprio ruolo essenziale, che – ad avviso di Pellizzi – era «credenza secondo una tradizione ed un’autorità, e pratica di vita conforme»23. Questa corrente della destra gentiliana era stata influenzata, sul finire degli anni Venti, dall’opera di Maurice Blondel, L’action, tradotta in italiano da Ernesto Codignola nel 192124, e rappresentava l’estrema destra dell’idealismo gentiliano, di fronte alla quale la chiesa cattolica si manteneva, prudentemente, in posizione critica. La seconda corrente era rappresentata da Giuseppe Saitta e Guido De Ruggero e insisteva sul motivo immanentistico e sulla interpretazione del pensiero di Mazzini e Gioberti come risolutore, sul piano politico, del problema religioso. Su questa posizione Pellizzi si sarebbe soffermato qualche anno più tardi: [L’estrema sinistra gentiliana] inclina ad uno storicismo antropomorfico, lineare ed euclideo, dove l’uomo, inteso come soggetto storico, è il centro ed è il tutto; ed esclude questa possibilità, che sembra invece derivare dalla opposta corrente, il concepire Dio come l’unico pieno e concreto soggetto della storia, un soggetto che è umano e storico, e al tempo stesso assoluto da ogni astrattezza, ultratemporale e ultraspaziale; perfettamente individuato, ma pure infinito ed eterno25.

Pellizzi aveva già preso le distanze da una simile posizione; tuttavia il continuo confronto anche con la cosiddetta sinistra gentiliana non cessò, come testimonia la sua collaborazione, nel 1926, alla rivista 22 Prima del Concordato Pellizzi era intervenuto ripetutamente sul «Popolo d’Italia» per sensibilizzare l’opinione pubblica sul rapporto tra fascismo e questione religiosa: Etica fascista e morale cattolica, in «Il Popolo d’Italia», 12 luglio 1927; La Chiesa e il fascismo, ivi, 30 luglio 1927; Religiosità dello Stato, ivi, 20 agosto 1927. E dopo la firma del Concordato aveva ribadito i suoi principi; si veda tra l’altro: L’iniziativa individuale nella politica fascista, in «Gerarchia», dicembre 1931. 23 C. PELLIZZI, Le lettere italiane del nostro secolo, op. cit., p. 217. 24 M. BLONDEL, L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Alcan, Paris 1893. L’edizione italiana fu tradotta da Ernesto Codignola: L’azione. Saggio di una critica della vita e della scienza della pratica, Vallecchi, Firenze 1921. 25 C. PELLIZZI, Le lettere italiane del nostro secolo, cit.., p. 218.

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gentiliana «Vita Nova», diretta da Giuseppe Saitta, ma alla quale collaborava anche Armando Carlini. Essa costituì da un lato il luogo di confronto tra idealismo e cattolicesimo e dall’altro una reazione alle posizioni “controriformistiche e barbare” quali quelle di Suckert – che sulla rivista «Valori plastici» aveva vagheggiato un ritorno al barocco – e a quelle inneggianti alla “riforma”, come ad esempio quella di Gobetti26. Il significato della collaborazione di Pellizzi alla rivista risiedeva proprio nella necessità di preservare un confronto dialettico fra queste correnti. Pur rivolgendosi agli intransigenti, quali Volt o Suckert, come a propri antagonisti, in realtà la sua preoccupazione era anche quella di alimentare il confronto all’interno dell’idealismo per definire alcuni punti cardine sul piano della prassi politica. Come sempre egli riusciva a cogliere in maniera precisa il clima generale del momento e nel luglio del 1926 scriveva: ho osato eccepire che il fascismo presenta già anche troppi caratteri d’una frateria, e che semmai gli occorrono istituti e caratteri civili non frateschi. Caratteri umani. Caratteri politici individuali; da educare appunto in coloro che voglian dirsi fascisti. E per far questo giova prender altra rotta, e seguire quella che io chiamerei “la dialettica delle aristocrazie”. Uso la parola dialettica a bella posta, benché la sappia sgradita a tutti i miei critici. Con un impiego della filologia che può star a paro del loro uso della storia, costoro dicono che è una parola tedesca. Tedesca invece, o meglio squisitamente barbarica, è la loro concezione e della monarchia e dell’impero, e tutto in blocco della filosofia, della storia, della cultura. Barbarica è la loro concezione dello spirito, di cui non vedono l’intima vita e la perpetua originalità creativa, né quindi, la dialettica. Per vero non è tempo di nasconderelli o 26 Su questo aspetto si veda L. MANGONI, op. cit., pp. 186 e ss. Solo di sfuggita è opportuno sottolineare che nel 1925 proprio Piero Gobetti pubblicò per i tipi della propria casa editrice l’opera di Curzio Malaparte Suckert, Italia barbara, una raccolta di saggi sulla controriforma e l’antimodernismo, premettendo al volume una sua nota, che è utile riportare per comprendere i toni della polemica: «Presento al mio pubblico il libro di un nemico. Coi nemici si vuole essere generosi: qui poi Curzio Suckert ci aiuta a combatterlo, mi piace essere settario-intransigente, non settario-filisteo. Ho giurato di non rinunciare mai a capire né ad essere curioso. Curzio Suckert dunque è la più forte penna del fascismo: io non gli farò l’oltraggio di confutarlo. Confutare immagini, opporre politica a variopinta fantasia e a stile pittoresco non è di mio gusto. Il mio antifascismo non combatte mulini a vento. Gli spiriti bizzarri amo lasciar sbizzarrire e anche della loro faziosa toscana letteratura, quando è letteratura, applaudirli».

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mezze parole. L’ideale confuso ma attivo di molti fra questi nostri scrittori, è una specie di granducalismo secentista, mimetico, livellatore, burocratico, accentratore, buzzurro. Vedi Suckert27.

L’idealismo costituiva ancora per Pellizzi un fenomeno fondamentale per la cultura italiana, tanto che a suo avviso non si poteva affrontare uno studio della storia, della letteratura o delle arti contemporanee prescindendo dal significato e dall’influsso della filosofia idealistica su di esse. Ma egli avvertiva chiaramente che, sul finire degli anni Venti, l’idealismo non era più l’unica filosofia, l’unica chiave interpretativa del reale e che anzi andavano facendosi strada «venti di fronda» nei riguardi dell’idealismo. Lentamente si delineavano nuove esigenze, legate piuttosto ad una tendenza classicista che si andava affermando principalmente nelle arti figurative – si pensi all’esperienza del gruppo di artisti che ruotava attorno alla rivista «Valori plastici» – e ad un rifiuto della filosofia come metodo conoscitivo in favore invece dell’esigenza di un maggiore “realismo”, elemento – questo – che si affermerà prepotentemente agli inizi degli anni Trenta. Nella seconda metà degli anni Venti, Pellizzi si inserì in un più generale movimento – di cui la rivista di Bottai fu la principale rappresentante – che lentamente portò ad avvicinare la cultura cattolica al fascismo, lasciando l’idealismo in secondo piano. Questa evoluzione venne influenzata da vari fattori, tra i quali il principale fu senz’altro l’affermarsi di uno stato fascista ispirato più alla costruzione giuridica di Alfredo Rocco che non alle teorie di Gentile. In Pellizzi andava ad aggiungersi l’intima necessità di riaffermare valori trascendenti per poter trasportare il messaggio fascista su un piano universale. Non è un caso che uno dei temi principali su cui si concentrò la sua attenzione fu proprio la nazione, uno degli elementi cardine della teoria dello Stato Etico. In un suo articolo apparso su «Gerarchia», egli aveva affrontato il confronto tra il concetto di nazione e quello di Impero: Diciamo dunque che la nazione si basa sopra una concezione e un valore immanente, l’impero sopra una trascendente: La nazione è intellettuale, l’impero è mistico. La nazione è, alla radice, economica (edonistica); l’impero è etico. La nazione è borghese; l’impero è monarchico, oligarchico e popolare28. 27 28

C. PELLIZZI, Aristocrazia imperiale. Replica a Volt, in «Vita Nova», luglio 1926. C. PELLIZZI, La nazione e l’Impero, in «Gerarchia», 18 luglio 1924.

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Il tema della nazione, considerato un mito borghese da estirpare, fu uno dei terreni principali su cui si sarebbe svolto il suo dissenso con i gentiliani. In due articoli che Pellizzi inviò a Spirito, quale direttore della rivista dell’Istituto nazionale fascista di cultura «Educazione politica» nel maggio del 1925, egli appunto indicò nel rapporto tra stato e nazione «uno dei problemi del fascismo a cui mi sono sempre interessato»29. Pellizzi ben immaginava che i suoi due articoli avrebbero potuto creare qualche imbarazzo in Spirito, quale direttore della rivista gentiliana, tanto che, nella lettera che li accompagnava, scrisse: «Pubblichi su “Educazione politica” se crede; cestini altrimenti. In ogni caso le sarò grato di un cenno»30. Il primo articolo di Pellizzi non venne pubblicato che nel giugno del 1926, non sappiamo se per sole esigenze redazionali o perché aveva suscitato qualche imbarazzo, non essendo del tutto in linea con l’indirizzo della rivista gentiliana. Ne Lo stato e la nazione31, Pellizzi si sforzava di definire un concetto di stato che fosse libero da quelli che lui stesso definiva «inquinamenti nazionalistici» e per ciò stesso ancora connessi ad un vecchio modo di intendere lo stato, intimamente legato alla nazione e, per questo motivo, ad un sistema demo-liberale che l’Italia fascista doveva superare. Per Pellizzi il concetto di Nazione non apparteneva alla tradizione italiana, ma costituiva piuttosto una derivazione dalla tradizione culturale delle democrazie occidentali. Egli sosteneva che il nazionalismo italiano aveva tratto ispirazione dall’Action française, dall’imperialismo britannico di epoca vittoriana, dalla scuola della realpolitik tedesca, nonché dalla teoria del superuomo di Nietzsche; e ciò aveva contribuito a costruire un concetto di nazione astratto, slegato dalla tradizione e dal comune sentire italiani, preoccupato della fondazione delle istituzioni più che dell’educazione ad esercitarle, del consolidamento dell’ente più che della sua trasformazione. In una tale visione Pellizzi riteneva fosse molto strana la fusione di nazionalismo e fascismo, che in realtà rappresentavano fenomeni opposti: il primo sostanzialmente conservatore e indissolubilmente legato al modello democratico-parlamentare; il secondo rivoluzionaArchivio Fondazione Ugo Spirito (d’ora in poi AFUS), Pellizzi a Spirito, 13 maggio 1925. 30 Ibidem. 31 «Educazione politica» giugno 1926, pp. 317 e ss. 29

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rio, antiborghese, imperiale. Anche nei programmi essi erano fondamentalmente difformi: l’unico elemento di comunanza era una ispirazione, un’intenzione, quella di «ricostruire la personalità e la forza degli italiani»32. Per i nazionalisti comunque la nazione era un presupposto, un mito già dato; per il fascismo essa doveva essere uno strumento di nuove azioni politiche, più vaste e sostanziali. È per questo che il fascismo doveva prediligere una versione universalistica del proprio messaggio politico, rifacendosi piuttosto alla propria latinità: Il concetto di nazione è un misto di razza, cultura, lingua, territorio, religione, istituti, tradizione, i quali formano un insieme che ha valore puramente occasionale ed emotivo [...] non esiste un concetto di “nazione italiana”, [...] lo stato fascista non solo sovrasta la nazione, ma la riassorbe ed elimina33.

Pellizzi in sostanza era convinto che il carattere peculiare e distintivo della storia degli italiani non potesse essere l’unità, intesa come premessa storica, o come scopo ultimo dell’agire politico; essa era stata al massimo un mezzo di difesa per rafforzare l’indipendenza. La potenzialità storica degli italiani risiedeva nella pluralità delle loro origini e tradizioni. Di conseguenza l’Italia, nella multiforme varietà delle sue regioni, doveva essere il simbolo del superamento dei nazionalismi europei di matrice fondamentalmente borghese, per l’instaurazione di un ordine superiore a carattere universalistico. Con simili presupposti si rendeva necessario concentrarsi sulle potenzialità delle singole regioni, favorendo il confronto dialettico tra loro per il raggiungimento di una sintesi superiore che non fosse solamente una unità di tipo empirico, economico, ma una «unità spirituale ed energetica, ultranazionale»34. Egli, quindi, respingeva il concetto di nazione perché non appartenente all’esperienza italiana; tendeva a svalutare il ruolo dei nazionalisti e ad attuare una specie di selezione volta a riportare all’origine più peculiare le fondamenta ideali del fascismo, ripulendolo da tutti quegli aspetti che via via si erano aggiunti, e talvolta sovrapposti, ai principi originari del fascismo; sovrapposizioni e inquinamenti dovu33

C. PELLIZZI, Problemi e realtà del fascismo, cit, pp. 70 e ss. C. PELLIZZI, Lo stato e la nazione, in «Educazione politica», giugno 1926, p.

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C. PELLIZZI, Problemi e realtà del fascismo, cit., pp. 54 e ss.

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ti a quella necessità di consenso che spinse il regime ad una sorta di onnicomprensività di tutte le istanze politiche. È per questo motivo che la redazione prese le distanze dall’articolo di Pellizzi, sollecitando nel contempo l’apertura di un dibattito in merito. I componenti della redazione di «Educazione politica», stretti intorno alla figura di Giovanni Gentile ed al suo idealismo attualistico, mal recepivano l’istanza di Pellizzi di “purificare” la rivoluzione fascista da elementi che non le erano propri. Nella loro prospettiva di storicizzare lo stato etico, di farlo coincidere con la volontà di ogni singolo individuo per la realizzazione dello stato fascista, ritenevano piuttosto che ogni forza politica potesse essere dialetticamente inserita in questo processo di attualizzazione dell’idealismo in questa tensione totalitaria, che però rischiava di lasciare indeterminate le caratteristiche del fascismo. Sempre su «Educazione politica» Pellizzi pubblicò un altro articolo intitolato Rinascimento politico35, nel quale – smorzando un po’ i toni – ritornava comunque sullo stretto legame del concetto di nazione con quello di democrazia parlamentare e sulla estraneità alla tradizione italiana di queste due esperienze, che dopo sessanta anni si erano rivelate sostanzialmente fallimentari: «basti pensare – egli sosteneva – all’estremo regionalismo che caratterizza il modo di sentirsi italiani e che rendeva estranei tra di loro italiani vissuti al nord e al sud». Ritornando poi ai nazionalisti affermava: Il nazionalismo per quanto si dibatta fra le maglie della sua logica intrinseca, non può non essere democratico. Può raggiungere l’ideale d’una grande gerarchia burocratica; ma uno stato burocratico è ancora una democrazia36.

Pellizzi, pur provenendo dall’idealismo gentiliano, avvertiva che la posizione del filosofo siciliano sul concetto di nazione avrebbe potuto esaurire il processo di trasformazione dello stato etico, rendendone poco efficace la portata rivoluzionaria; inoltre intuiva che i gentiliani sarebbero caduti facilmente nell’equivoco di sovrapporre e confondere la loro costruzione filosofica con i fatti, con la vita concreta. Egli inoltre criticava l’aspetto deteriore dell’idealismo: quello di avere degli epi35 C. PELLIZZI, Rinascimento politico, in «Educazione politica», luglio 1926, pp. 389 e ss. 36 Ibidem.

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goni troppo pedissequi ed ingombranti, accademizzanti e sostanzialmente mediocri che rendevano il movimento più freddo e inefficace. Ma il principale confronto tra idealismo e cattolicesimo si misurava nel campo dell’educazione. Nonostante le enormi difficoltà incontrate dalle organizzazioni giovanili cattoliche, la chiesa aveva impiegato grandi energie nel mantenere per sé una funzione pedagogica e culturale indipendente; e, nonostante la riforma Gentile nel 1923 avesse previsto in larga misura l’insegnamento della religione nelle scuole elementari, questa non veniva insegnata nei gradi superiori dell’istruzione. Su questo punto intervenne, in maniera singolare, proprio Pellizzi che a proposito della riforma Gentile scriveva che essa: aveva non riammessa, ma in un certo modo reimposta la dottrina e l’ispirazione cattolica nelle scuole elementari [...]. Ma aveva poi cercato che quell’insegnamento religioso venisse di preferenza affidato agli stessi maestri delle scuole, ossia, per lo più, a laici [...]. Si vuole invece che rimanga fermo il concetto che le scuole sono scuole dello Stato, e quindi cattoliche, non per ragione diretta, ma indiretta, cioè perché lo Stato stesso è cattolico37.

Il fascismo, attraverso l’attualismo, non era riuscito a fornire una valida alternativa filosofica e morale alla religione. Pellizzi si rendeva conto che di fronte al lento ma progressivo ritirarsi dell’attualismo dalla posizione di filosofia ufficiale, lo stato sarebbe rimasto privo di fondamenti tradizionali ed etici. Questi potevano ben essere rappresentati dalla religione cattolica, la quale tuttavia si presentava come una risposta realistica molto concreta, lungi dall’essere invece una soluzione sul piano culturale e filosofico38; di qui la necessità di allargare il proprio orizzonte a temi politici che potessero ravvivare la portata rivoluzionaria del fascismo. Per questo motivo il corporativismo poteva costituire il punto fondamentale del nuovo costituzionalismo fascista; e anche a questo tema Pellizzi cominciò a dedicarsi con particolare attenzione. Nella sua visione, esso era strettamente legato al problema della rappresentanza: in un articolo apparso su «Critica Fascista» nel 1927, Pellizzi aveva paventato il pericolo di una rappresentanza, come quella corporativa, C. PELLIZZI, Il problema dell’educazione religiosa, in «Critica Fascista», 15 gennaio 1927. 38 Cfr. a tale proposito, C. PELLIZZI, Residui, in «Critica Fascista», 15 giugno 1931 e ID., Esame di coscienza di un italiano, in «L’Italiano», luglio 1931. 37

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basata unicamente sulle categorie professionali, come previsto dal progetto per la Camera dei fasci e delle corporazioni. Se è vero che queste preoccupazioni riguardavano principalmente il problema della rappresentanza, è vero anche che l’intero inquadramento della personalità individuale in categorie materialistiche, economico-produttive era uno dei maggiori rischi nei quali poteva incorrere il corporativismo39. Il corporativismo, ad avviso di Pellizzi, doveva essere strettamente legato alla sfera politica, in quanto la formula corporativa forniva un modello per la seconda rivoluzione fascista. Ma bisognava stare attenti a non cadere in un concetto materialistico ed economicistico della storia, di chiara matrice marxista. Il dibattito sul corporativismo consentì a Pellizzi di insistere sul tema della rivoluzione, anche se egli ben avvertiva che, sul finire degli anni Venti, il clima si era completamente trasformato, dando l’impressione della fine di un ciclo storico. Per questo motivo egli aveva dato inizio ad una serie di collaborazioni a riviste, per così dire “di fronda”, come «L’Italiano» dell’amico Leo Longanesi, «Il Selvaggio» di Mino Maccari e più tardi «l’Universale» di Berto Ricci. Esse gli consentivano di manifestare il proprio dissenso, anche se in maniera controllata, rispetto ad alcune manifestazioni del fascismo divenuto regime: [...] Oltre il fascismo partito, oltre il fascismo disciplina pratica e azione immediata [...] esiste anche un fascismo problema; esiste una Italia a venire, la quale non rinuncia menomamente ad essere la discendente diretta della rivoluzione fascista [...] Noi siamo in pochi e lavoriamo a una cosa diversa, quando ce lo consentono l’ingegno e le spese di tipografia: suona presuntuoso il dirlo ma noi lavoriamo alla originalità morale ed intellettuale ed estetica dell’Italia fascista40.

L’idea della rivista di Longanesi era nata in collaborazione con Gherardo Casini e Ardengo Soffici e Pellizzi se ne era reso sostenitore. In una lettera a Gherardo Casini, Pellizzi scriveva: 39 C. PELLIZZI, Rappresentanza professionale, in «Critica Fascista», 1 aprile 1927, nonché ID., Distilleria, in «L’Italiano», 21 marzo 1927. Sulle critiche avanzate da Pellizzi sul tema della rappresentanza professionale si veda F. PERFETTI, La Camera dei fasci e delle corporazioni, Bonacci, Roma 1991, pp. 90-91. 40 C. PELLIZZI, Ortodossia, in «Il Selvaggio», 15 febbraio 1929. Sulla funzione e il significato di questa rivista nel panorama culturale italiano fra le due guerre, oltre al già citato lavoro della Mangoni si vedano: G. LUTI, La letteratura del ventennio fascista. Cronache letterarie tra le due guerre, 1920-1940, La Nuova Italia, Firenze 19722; M. OSTENC, Intellectuels italiens et fascisme. 1915-1929, Payot, Paris 1983.

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Una rivistina politico-critico-letteraria col Soffici sarebbe davvero una buona idea. Una cosa quasi clandestina e senza gesticolazioni, per quei pochi che sono il meglio. Con note e commenti brevi, semplici, sensati, anonimi... È un mio vecchio sogno. Se doveste fare alcunché del genere, io mi terrei onorato d’entrare nella “compagnia picciola”41.

L’idea era appunto maturata all’interno del gruppo che collaborava a «Rivoluzione Fascista»; ma poi ne aveva ereditato l’idea il giovane Longanesi, il quale già dimostrava la sua caustica natura di giornalista corrosivo e scettico dal linguaggio incisivo e dal temperamento fulmineo, che nei decenni successivi avrebbe influenzato fortemente lo stile giornalistico italiano42. La rivista nacque nel 1926, e parlandone all’amico Pellizzi, Longanesi scriveva: Questa rivista doveva essere fatta da Gherardo con Soffici, io e Maccari (il direttore del Selvaggio). Dopo lunghe peripezie la rivista l’ho ereditata io. Soffici tuttavia vi collaborerà e ne sarà una specie di tutore. Sono stato a Firenze e ho letta la lettera che tu scrivesti a Gherardo, nella quale lettera, tu eri assai felice, per l’idea di un foglio uso Lacerba, cioè mezzo politico e mezzo letterario43.

L’intreccio della satira politica con il gusto per le belle lettere era una formula che Pellizzi avrebbe apprezzato. Egli divenne il principale collaboratore de «L’Italiano» nonché la sua mente politica più robusta, avendo in comune con Longanesi alcuni elementi che divennero i punti centrali della rivista, come il ripudio del revisionismo, del liberalismo e del nazionalismo e un «fascismo nero, di pura marca rivoluzionaria, rassista, pellizziana»44. Ma vi erano pure delle divergenze, soprattutto riguardo all’idealismo gentiliano. Pellizzi lamentava il pericolo di un vuoto ideale, che al posto della dottrina gentiliana rischiava di non lasciare alcunché. In una lettera a Longanesi, poi pubblicata molti anni dopo in forma di articolo, riferendosi al gruppo di intellettuali che collaborava alla rivista, tra i quali vi erano Volt, Suckert, Soffici e Maccari, aveva scritto: Archivio Gherardo Casini, Pellizzi a Casini, 4 dicembre 1925. Per un ritratto di Longanesi si vedano le biografie di A. ANDREOLI, Leo Longanesi, La Nuova Italia, Firenze 1980; I. MONTANELLI e M. STAGLIENO, Leo Longanesi, Rizzoli, Milano 1984, nonché il suo volume autobiografico Parliamo dell’elefante. Frammenti di diario, Longanesi, Milano 1947. 43 ACP, Serie I, b. 4, f. 12, Longanesi a Pellizzi, s.d. 44 Ibidem. 41 42

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E insomma bisogna avere qualcosa da dire sul serio, che bruci dentro senza riposo; oppure star zitti. A tirar sassate e basta ci si può fare tutt’al più la posizione di ricattatore. E tu non sei di quella pasta. I non fascisti vi handicappano ancora. Vi metteranno nel sacco sempre. Non perché abbiano più idee, ché non ne hanno; ma perché anche delle loro non-idee mantengono la coerenza. [...] Insomma cos’è che più mi ha fatto incazzare? Il vostro continuo attacco contro Gentile e l’Idealismo. E non tanto per amor loro, quanto per amor vostro. Perché il vostro essere troppo grossolani e coglioni ci fa sfigurar tutti. Per esempio: “Vogliamo Dio e non vogliamo l’atto puro”, è una coglioneria; come tant’altre che voi stampate in materia. Cercate di farvi una ragione più grave e onesta, spiritualmente onesta, del vostro lavoro, e con voi io lavorerò sempre volentieri45.

Era certamente un eccesso, poiché Pellizzi si rivelò un ottimo collaboratore, specialmente con i suoi Articoli in nuce, con i quali in forma estremamente secca e sintetica, riusciva a sostanziare la rivista di temi politici fondamentali per la costruzione del nuovo stato e per la selezione di una nuova classe dirigente; o con la rubrica magazzino, che raccoglieva le impressioni e le notizie dall’estero allo scopo di sprovincializzare la cultura italiana. Entrambi avrebbero determinato qualche problema con i gerarchi del partito e con lo stesso Mussolini46. Come ha sottolineato Mariuccia Salvati, la rivista era una occasione nella quale si incontravano «la concretezza più terragna di Longanesi con l’astrattezza dei concetti di Pellizzi. Longanesi cerca le cose, Pellizzi cerca la coerenza»47. Questo incontro generò buoni frutti, in quanto, nella seconda metà degli anni Venti, grazie a «L’Italiano» Pellizzi aveva trovato un veicolo per precisare il proprio pensiero sulla borghesia e sui caratteri del popolo italiano. Il modulo comunicativo utilizzato dalla rivista era ottimo: la satira e il cinismo, le espressioni caustiche e stringate permettevano a Pellizzi una forte incisività, evitando il pericolo di ricadere in quell’atteggiamento psicologico integralista, che lo aveva portato all’esaurimento. In quegli articoli riprendeva ancora una volta il proprio concetto di aristocrazia, sostenendo la necessità di una classe dirigente che rimanesÈ una lettera scritta da Pellizzi a Longanesi il 14 giugno 1926. Vd. ACP, Serie I, b. 4, f. 12, Longanesi a Pellizzi, 21 novembre 1929. In una lettera del 9 febbraio 1926, Bottai gli avrebbe scritto: «ò letto i tuoi articoli in nuce sull’Italiano, giornale che a me piace nel complesso, ma che à suscitato le ire dei grandi, compreso il maggiore», ivi, b. 2, f. 6. (Il corsivo è sottolineato nel testo). 47 M. SALVATI, Longanesi e gli italiani, cit., pp. 161-180. 45 46

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se aperta, di un partito che si rendesse motore ideale della rivoluzione (poiché, altrimenti, sarebbe valsa la pena di abolirlo), sul nazionalismo e l’impero, sulla designazione dei possibili successori di Mussolini48. Ma l’elemento che emerge con maggiore evidenza nella rivista di Longanesi è certamente la polemica antiborghese, lo strapaesismo, la rivendicazione del classicismo, della chiesa, l’avversione alla democrazia. Questi temi divennero terreno di confronto per il dibattito sulla borghesia e sui caratteri distintivi del popolo italiano. Esso si svolse fra Longanesi e Pellizzi con gli pseudonimi di Lasca e Cinquale. Nella definizione dei caratteri peculiari dell’italiano-tipo, il dibattito si riferiva al bolscevismo e alla ricerca della “terza via” tra comunismo e liberalismo, alla concezione storica che emergeva dalla Storia d’Italia del Croce, al rapporto tra la borghesia e la libertà – dove Pellizzi affrontava un tema sul quale si sarebbe soffermato poi dalle colonne del «Selvaggio» –, ritenendo necessario distinguere la libertà dalla degenerazione che ne aveva fatto il liberalismo, prevedendo delle libertà che in ultima analisi non si erano rivelate altro che dei privilegi49. Il confronto sulla borghesia metteva in evidenza una importante e profonda divergenza tra le posizioni dei due amici. Pellizzi, che proveniva dall’alta borghesia, era intimamente convinto della necessità di una nuova borghesia, giacché la vecchia rappresentava una tradizione culturale che aveva poco a che fare con la storia italiana. Essa andava costruita dedicandosi ai nuovi istituti del regime come il corporativismo; e a questo tema egli si dedicò anche di lì a poco, affrontando il dibattito sulle giovani generazioni. Longanesi invece più che contro l’idealtipo borghese, si scagliava contro gli stereotipi, i luoghi comuni e la cafoneria dei piccolo borghesi, con una critica prevalentemente di costume, che a volte perdeva di vista il fatto che era proprio questa la classe sulla quale il fascismo fondava il proprio consenso. Questa divergenza si rivelò a mano a mano, arrivando al suo acme nel 1932. Da un lato Pellizzi, che non poteva scindere i fatti artistici e di costume da quelli politico-sociali, continuava a sostenere la necessità di una nuova borghesia media e conservatrice della quale enumerava le qualità, tra le quali vi era anche quella di aver favorito e sostenuto l’affermazione del fascismo; egli sembrava essere appesantito 48 49

Si vedano gli Articoli in nuce pubblicati sui nn. 1 e 2 del 1926. Vd. «L’Italiano», n. 1, 1931.

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dalla solita satira sulla mentalità borghese, manifestata nella rivista, la quale esprimeva «il tipo romantico del borghese antiborghese»50. Per Pellizzi la nuova borghesia era cattolica e fascista e rappresentava i migliori caratteri della conservazione e della rivoluzione, dei quali la famiglia era la principale espressione. Longanesi aveva risposto sottolineando che il borghese di Pellizzi era un mito legato più alla sua connotazione cattolica che non al suo essere borghese medio; egli non vedeva possibile l’avvento di una borghesia che fosse il simbolo dell’uomo civile. Per questo anche lui come Pellizzi distingueva tra un borghese vero ed uno falso, ma a differenza dell’amico, che era incline al pensiero astratto filosofico, non si preoccupava di tratteggiare quali sarebbero potute essere le caratteristiche della vera borghesia, preferendo dedicarsi alla satira nei confronti di quella vecchia51. La collaborazione di Pellizzi a «L’Italiano» si sarebbe interrotta, anche se l’amicizia con Longanesi sarebbe rimasta saldissima. Non a caso era stato proprio quest’ultimo a far conoscere a Pellizzi, nel 1929, Raffaella Biozzi, che sarebbe poi diventata sua moglie nel 1933. Tra loro i rapporti erano e sarebbero rimasti sempre di grande schiettezza, come è dimostrato dall’intenso carteggio e come la stessa Raffaella Pellizzi ha testimoniato. Ma l’impegno politico-intellettuale di Pellizzi lo portava ad approfondire alcuni elementi che richiedevano un approccio diverso, ideale e scevro da cinismo ed evidentemente la rivista dell’amico non possedeva più i caratteri giusti per questo mutamento di indirizzo nel suo percorso intellettuale. In questi stessi anni Pellizzi stava precisando i suoi studi di critica letteraria, che poi sarebbero confluiti nel corposo volume Le lettere italiane del nostro secolo52, uno dei suoi lavori più importanti che lo avrebbero accreditato come ambasciatore della cultura italiana all’estero53. Il volume forniva a Pellizzi lo spunto per fare un bilancio delle 50 C. PELLIZZI, Ragioni del borghese moderno, in «L’Italiano», n. 11, 1932 e ID., Esami di coscienza di un italiano, ivi, n. 5, 1932. 51 Sugli sviluppi dell’attività giornalistica di Longanesi, oltre ai volumi citati, si veda R. LIUCCI, L’Italia borghese di Longanesi. Giornalismo, politica e costume negli anni ’50, Marsilio, Venezia 2002. 52 Il volume venne pubblicato dalla Libreria d’Italia per la diffusione del libro italiano all’estero nel 1929. 53 Nel 1932 Pellizzi sarebbe stato nominato delegato della Società Dante Alighieri a Londra, carica che avrebbe mantenuto sino al 1940.

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diverse correnti letterarie, filosofiche storico-politiche e figurative italiane fra Otto e Novecento, attraverso un quadro storico d’insieme; era inoltre l’occasione per cimentarsi nella critica letteraria, affrontata con un rigore estetico e filologico che aveva progressivamente affinato durante gli anni passati a studiare e leggere opere italiane54. Anche in questo volume era presente l’impegno politico; l’analisi delle maggiori correnti culturali italiane veniva condotta interpretando queste ultime alla luce del fascismo, storicizzando il movimento con l’intenzione da un lato di propagandare la cultura e la tradizione italiana, facendone conoscere le sue produzioni da quelle illustri alle meno famose, dall’altro con l’obiettivo di leggere il fascismo come la risultante o la reazione alle maggiori correnti di pensiero fra la fine dell’Ottocento e il Novecento55. Il lavoro dimostrava la maturazione intellettuale di Pellizzi, ed un ampliamento delle sue collaborazioni alla luce del quale andava inserito anche l’incarico come corrispondente estero del «Corriere della Sera», cosa che era assai dispiaciuta a Longanesi che vi aveva visto il segnale di una “normalizzazione” dell’amico56. Va inoltre considerata l’influenza che ebbe su di lui la moglie, Raffaella, che lo introdusse ancor più saldamente negli ambienti letterari ed artistici italiani. Pellizzi lentamente cominciò a diversificare il tono e il tenore dei propri articoli, sviluppando nel contempo anche la propria teoria aristocratica, pur mantenendo la collaborazione con alcune riviste “critiche”, la principale della quali era «Il Selvaggio». 54 Pellizzi preciserà la propria posizione nei confronti dell’estetica crociana, a partire dalla quale egli analizza e approfondisce la propria concezione dell’arte. In tal senso hanno particolare rilievo, oltre al già citato volume Le Lettere italiane del nostro secolo, alcuni suoi articoli che appariranno su «Primato» nel 1940, intitolati rispettivamente: Unità delle arti, «Primato», 15 aprile, 1940, p. 1, Funzione dell’arte, ivi, 1° giugno 1940, p. 14; “Téchne” e “humanitas”, ivi, 15 novembre 1940, p. 2. In tali studi egli inscrive il proprio concetto di arte in una più generale riflessione sulla natura dello spirito umano. 55 Non ci si soffermerà in questa sede sulle caratteristiche letterarie dell’opera, giacché gli interessi di Pellizzi in questo campo meriterebbero un lavoro dedicato prevalentemente ai suoi lavori letterari e alle sue opere sul teatro e la letteratura inglesi, tra le quali è opportuno citare Il teatro inglese, Treves, Milano 1934, nonché Romanticism and Regionalism, Oxford University Press, Oxford 1929. 56 Longanesi infatti gli aveva scritto: «ho ricevuto la tua lettera dal Forte e sono desolatissimo della tua nomina a corrispondente del “Corriere” da Londra. A poco a poco si finirà tutti col diventare commendatori e buonanotte. Peccato!» ACP, Serie I, b. 4, f. 12, Longanesi a Pellizzi, ottobre 1929.

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2. Gli anni Trenta Pellizzi aveva iniziato a collaborare sporadicamente con la rivista di Maccari già dalla fine del 1926, a seguito della svolta definitiva di quest’ultima verso la proposta politico-culturale di strapaese e il deciso abbandono dei temi squadristi; dal febbraio 1928 iniziò, poi, la serie di Lettere provinciali, nelle quali disegnava due idealtipi di italiani: Veio Siculo e Silenzio Urbiciani. Questi rappresentavano, sinteticamente, i caratteri delle dispute politico culturali di quel periodo, in quanto vi era il mito strapaesano dell’amore per la provincia, per la terra e le tradizioni, il disgusto per l’immoralità della vita politica e la contrapposizione fra la sana provincia e la corrotta capitale; ma, ancor più interessante, vi era il confronto fra il cattolicesimo e l’idealismo gentiliano, attraverso il quale Pellizzi tentava anche un chiarimento della propria posizione spirituale57. Il cattolicesimo era a volte tratteggiato come ripulsa dell’idealismo, a volte invece valorizzato e spiegato alla luce del nuovo metodo filosofico. In particolare nella figura di Veio Siculo – inizialmente uomo politico attivamente impegnato nella lotta, illusosi che qualcosa sarebbe cambiato per poi scagliarsi invece contro il malcostume politico: disgustato, ma comunque in qualche modo indissolubilmente legato alla politica, alla disperata ricerca di un fondamento morale ed etico, anche se scettico nei riguardi della filosofia dello spirito – ritroviamo, oltre a Pellizzi, molti fra gli intellettuali della sua generazione, che dalla filosofia idealistica sarebbero passati alla religione cattolica, anche se più che di un passaggio netto si può forse parlare di un ridimensionamento dell’idealismo gentiliano. Questo costituì il tratto distintivo degli anni fra il 1928 ed il 1930, durante i quali il Concordato e soprattutto la crisi economi57 Si veda in particolare la sesta lettera in «Il Selvaggio», 31 ottobre 1928, nella quale Pellizzi scrive: «La tua ultima e grave domanda è stata questa: Tu fino a ieri convinto discepolo degli idealisti, oggi ti dichiari cattolico; v’è contrasto fra le due posizioni; in qual modo sei passato dall’una all’altra? Rispondo innanzitutto, che non ritengo di avere disertato; il pensiero si sviluppa ma non può mai disertare se stesso. In un modo o nell’altro, si è sempre convinti di quel che si fa; a non voler entrare qui, in un discorso della pazzia, che potrebbe essere rilevante ed interessante, ma non decisivo sul punto in questione. Moralmente parlando, mi sento oggi cogli Idealisti, com’ero ieri; nel senso che vedo in essi uno scrupolo della verità, che in troppi altri difetta; e credo che, semmai, l’errore loro non consista nell’essersi voluti mettere per cattiva strada, ma nel non aver percorso ancora quella strada fino in fondo».

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ca del 1929 avrebbero segnato una cesura profonda e la netta consapevolezza della fine di un’epoca, sentimento che era diffuso non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente58. La rivista di Maccari forniva a Pellizzi un ottimo spunto per occuparsi del tema a lui più caro: la selezione delle nuove classi dirigenti. Inevitabilmente questo tema doveva connettersi a quello dei giovani e dopo la crisi economica del 1929, questi furono trattati in una maniera assolutamente diversa, nella quale il corporativismo sembrava essere la formula non solo economica, ma soprattutto politica, che meglio di altre poteva fornire margini per una ripresa rivoluzionaria del fascismo59. Si rendeva però necessario un chiarimento sulle basi dottrinali del corporativismo. I giovani, cresciuti nel clima dello strapaesismo, ave58 Vastissima è stata la letteratura della “crisi” europea tra le due guerre; oltre alla essenziale opera di O. SPENGLER, Der untergang des abendlandes, Beck, München, 19181922, trad. it., Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Longanesi, Milano 1957, è utile citare alcuni fra i numerosissimi libri sull’argomento: G. FERRERO, La vecchia Europa e la nuova, Treves, Milano 1918; A. DEMANGEON, Declin de l’Europe, Payot & C., Paris 1920; G. ENGELKE, Rhythmus des neuen Europa, Jena 1921; H.S. TRUBETZKOY, Europa und die Menschheit, München 1922; A. TILGHER, La crisi mondiale e saggi critici di marxismo e socialismo, Zanichelli, Bologna 1921; F.S. NITTI, La tragedia dell’Europa. Che fa l’America?, Gobetti, Torino 1924; J.R. BECHER, An Europa, Leipzig 1926; L. ROMIER, Qui sera le maître: Europe ou Amerique?, Librairie Hachette, Paris 1927; L. ZIEGLER, Der europäische Geist, Otto Reichl, Darmstadt 1929; E. HERRIOT, Europe, Rieder, Paris 1930; R. GUENON, La crisi del mondo moderno, tr. it. Hoepli, Milano 1937. Mentre una menzione a parte merita il pensiero di Ortega y Gasset, (di cui l’opera più significativa sul tema è La rebelion de las masas, Madrid 1930, tr. it., La ribellione delle masse, a cura di S. Battaglia, Nuove Edizioni Italiane, Roma 1945) che, pur prendendo atto di una oggettiva difficoltà del pensiero occidentale, è sempre rimasto convinto di una intrinseca realtà storica e spirituale dell’Europa. 59 In questo ambito non va trascurata l’intensa attività di Bottai in qualità di ministro delle corporazioni. Egli ribadiva le ragioni della differenza del primo fascismo, da quello che le giovani generazioni si aspettavano. Il fascismo della marcia su Roma era stato un momento di unione di differenti aspettative, non poteva dirsi quindi un atto unitario, ma ora, nella fase di costruzione del sistema istituzionale fascista, era più che mai necessario raggiungere una unità di pensiero. Su questo aspetto si veda il discorso tenuto da Bottai all’inaugurazione del corso di legislazione corporativa dell’Università di Pisa il 13 novembre 1928, poi pubblicato su «Critica Fascista», 1° dicembre 1928. Su questo tema si veda: G. GERMANI, Autoritarismo, fascismo e classi sociali, il Mulino, Bologna 1975; N. ZAPPONI, Il partito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del fascismo 1926-1943, in «Storia contemporanea», ottobre 1982, pp. 569-633; M. ADDIS SABA, Gioventù italiana del Littorio, Feltrinelli, Milano 1973.

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vano visto il fascismo principalmente come reazione al liberalismo e al capitalismo. Elementi questi che lo rendevano non molto diverso dal bolscevismo. La dottrina corporativa, nella quale si stavano affievolendo gli elementi dell’idealismo gentiliano, oltre ad un attacco al capitalismo sembrava essere l’annuncio di uno stato produttore dove le classi sarebbero state abolite. Il vuoto creato dall’indebolimento dell’idealismo poteva rendere il fascismo un mero contenitore all’interno del quale la parola rivoluzione era capace di assumere significati assai ampi60. Pellizzi non aveva mancato di raccogliere la sensazione di questo vuoto e gli era altresì chiara la propensione delle giovani generazioni per il comunismo. In un articolo a forma di lettera indirizzata a Maccari aveva scritto: Sai tu Maccari quali sono le segrete simpatie dei giovani più intelligenti e vivi tra le nuove generazioni? Tu lo sai, ma io te lo ripeto lo stesso: sono per il comunismo. Pericolo? No; ma sintomo grave certo. Tu e io siamo venuti alla luce in tempi di pseudolibertà e di disordine, di viltà ufficiale e di sfiducia privata; siamo di quella generazione, che nella guerra e nel dopoguerra ha dovuto conquistarsi, si può dire dal nulla, una patria, uno Stato, un principio positivo e creativo di vita civile. Per noi il fascismo è una cosa voluta e perciò un valore positivo; ma pei giovanissimi che della guerra, stando a casa, hanno visto solo l’aspetto negativo e peggiore, e cui il fascismo è stato, diremmo così, sovrimposto da noi, si tratta solo di scegliere fra una od un’altra forma di subordinazione o servitù [...] nulla ha contribuito a sviluppare in quei giovani il sentimento dell’autonomia spirituale, della libertà. E se schiavismo dev’essere, vanno a cercare quello più lontano, più duro, più 60 In un articolo dal titolo Gazzettino ufficiale apparso sul «Selvaggio» 30 novembre 1931 si legge: «A chi abbia buon fiuto non può sfuggire, in questi giorni, un certo che che è nell’aria e che sta tra la perplessità, l’ansia e la paura. Tali sono infatti gli atteggiamenti che vanno assumendo, senza naturalmente arrivare ad espressioni concrete, quei ceti e quelle zone sociali, che hanno vissuto finora nella irremovibile persuasione e anzi nell’assoluta certezza, che il fascismo altro non fosse se non emanazione delle loro mentalità, difesa delle loro ragioni, paradiso dei loro gusti: un inaudito fenomeno di vitalità piccolo-borghese [...] Questa parola “rivoluzione” che sempre ha suonato fastidiosa per codesti presuntuosi sedicenti vincitori della lotta politica italiana ha il potere di oscurare sinistramente i loro cervelli [...] Non sanno precisamente identificarla. Ma il malessere, il disagio che provano li spinge a rievocare un pauroso fantasma, il bolscevismo! Bisogna dire che il timor panico di codesti disgraziati non è senza motivo: in dieci anni il gusto della rivoluzione comincia finalmente a formarsi in Italia [...] È fuor di dubbio che a soffiar nel fuoco della nuova coscienza rivoluzionaria è sopraggiunta la nuova crisi economica».

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integrale e tragico; se rinuncia e sacrificio debbon essere, agognano una totale universale rinuncia, un completo sacrificio di sé. Prima di deplorarli bisogna averli capiti61.

Nella sua risposta Maccari, che certo era personaggio meno sensibile a livello ideologico, riteneva che invece la tendenza al comunismo non rivelasse niente altro che la manifestazione di un «gusto rivoluzionario» che il fascismo sino ad allora non era stato in grado di cogliere e di incanalare. Egli riteneva che la grande crisi economica avrebbe potuto contribuire ad eliminare quegli atteggiamenti e quelle pratiche “normalizzatrici” che avevano impedito fino a quel momento l’incontro del fascismo-sistema con la propensione alla rivoluzione diffusa tra i giovani62. Gli articoli di Pellizzi suscitarono le reazioni di Mussolini, come testimoniato da una lettera scrittagli da Longanesi: Caro Camillo, ti avverto che il tuo articolo sul Selvaggio non è affatto piaciuto, che Mino è stato chiamato e che soffia per te un’aria non buona. Occorre un po’ di sosta e cambiare argomento. Tu sei lontano e non sai cosa siano certe cose, ma non importa. Quando verrai in Italia è bene che tu vada dal Duce, dammi retta63.

Longanesi aveva colto uno degli elementi che più avevano influito sull’atteggiamento di Pellizzi, il fatto che egli risiedesse fuori dall’Italia, se da un lato non gli consentiva di avvertire fino in fondo quanto il fascismo avesse creato un clima di pesantezza e di sospetto, era nel contempo l’elemento che invece gli permetteva di intervenire più liberamente e in maniera diretta, ritenendo che il silenzio e l’assenza di dibattito sui problemi politici italiani, fosse il peggior servigio da rendere al fascismo. Questa sua preoccupazione veniva ben illustrata in un altro articolo apparso su «Il Selvaggio», nel quale Pellizzi faceva il resoconto di una assemblea di un gruppo fascista regionale alla quale aveva assistito e dove, dopo le relazioni del segretario del gruppo rionale e del segretario federale – che peraltro si erano fatti aspettare oltre quaranta minuti, senza che nessuno protestasse per l’attesa – nessuno era intervenuto nel dibattito successivo: C. PELLIZZI, Seconda lettera sopra gli argomenti della prima, in «Il Selvaggio», 30 dicembre 1931. 62 M. MACCARI, Risposta a volta di corriere, ivi. 63 ACP, Serie I, b. 4, f. 12, Longanesi a Pellizzi, 1° marzo 1932. 61

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Così non la potrà durare [...] Certe cose se le dici a poche persone in privato, fai scandalo ed è male. Ma a dirle in pubblico su un giornale, perdono tutto il veleno e te ne rimane chiara la responsabilità. Il discorso avrebbe dovuto essere questo, a un dipresso: non può durare, che quattrocento persone riunite non a casaccio, una volta l’anno, cittadini di una stessa città e di uno stesso rione, e tutti colla testa sulle spalle, professori, studenti, avvocati, medici, ingegneri, possidenti, industriali, studiosi, dopo aver sentita una relazione amministrativa e politica di venti minuti, non abbiano nulla, assolutamente nulla da dire. Che non abbiano osservato nulla di notevole nell’anno decorso; che non abbiano nulla da suggerire per l’anno che viene. Che tutta la vita politica e amministrativa, civica e statale e gran parte della vita sociale, ed il derivante ed inerente lavoro degli intellettuali di queste quattrocento persone per tutto un anno si riassuma nell’ascoltare venti minuti di relazione e dieci minuti di ammonimenti, sembra impossibile. Se non è così vuol dire che tacciono per timidezza, o per prudenza: e questo è un male. Se è, il male è ancora più grave. Vuol dire che ancora oggi non c’è un briciolo d’iniziativa e di saggezza e d’intelligenza politica in tutta la classe colta degl’italiani. (Forse che i contadini e gli operai possono dare di meglio e di più? Non mi risulta). [...] E soprattutto non bisogna impedire ma incoraggiare lo sviluppo e l’affermazione di ogni singola personalità entro la sfera del fascio64.

L’aver combattuto contro la predominante cultura liberale, borghese e individualistica non significava ripudiare completamente il passato. Certo era necessario fare una scelta radicale tra il vecchio e il nuovo, ma in questo nuovo dovevano essere travasati tutti i massimi valori morali del passato, il cui valore principale, ad avviso di Pellizzi, era la libertà. Il fascismo era una organizzazione aristocratica che doveva da un lato indirizzare il popolo, ma dall’altro vivere del libero consenso della base65. Per questo motivo si avviava in Pellizzi una profonda riflessione sulla natura del corporativismo, la quale si sarebbe arricchita attraverso il confronto con Ugo Spirito e con i collaboratori della rivista «Nuovi studi di diritto economia e politica»66. In un primo momen64 C. PELLIZZI, Assemblee, in «Il Selvaggio», 15 aprile 1931, poi pubblicato anche in «Critica Fascista», 1° maggio 1931. 65 C. PELLIZZI, Terza lettera, «Il Selvaggio», 31 marzo 1932. 66 A proposito della rivista «Nuovi studi di diritto economia e politica» (d’ora in poi «Nuovi Studi») si veda tra l’altro il saggio di L. PUNZO, L’esperienza di “Nuovi studi di diritto economia e politica”, in Il pensiero di Ugo Spirito, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1989, pp. 367 e ss.

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to Spirito aveva invitato Pellizzi ad essere uno dei principali collaboratori della rivista, ma questi rispose, in una lettera del 27 febbraio 1928, che non si sentiva in grado di collaborare «ad una pubblicazione così specializzata e quasi tecnica», ma che tuttavia gli avrebbe mandato qualcosa sul problema dell’autorità nello stato fascista, riprendendo così un tema che per lui era tra i più impellenti del momento: il fondamento dell’autorità e l’affermazione di questo principio nello stato fascista67. Uno dei sui principali interlocutori, e anche antagonisti, su questo argomento era Bottai, con il quale Pellizzi spesso si era confrontato, soprattutto riguardo all’intenso dibattito sulle corporazioni. In una lettera, quest’ultimo gli aveva scritto: Tu [...] ami vedere i contorni ideali delle cose. Bravo, anch’io. Ora c’è un contorno netto che non vedo nello Stato fascista, ed è dove risieda l’autorità, dove abbia base. Non credo che questa base debba essere nelle Corporazioni. Questo ti sembrerà eterodosso. Comunque, se vuoi, e se il problema è maturo (come soglion dire) ne potrai scrivere per “Critica” in lungo e in largo68.

Questo tema, formulato in maniera assai imprecisa, verrà a chiarirsi faticosamente nel corso degli anni Trenta in stretta connessione con il dibattito sul corporativismo ed in particolare con le idee di Spirito maturatesi attorno alla tesi della corporazione proprietaria. 67 Spirito inizialmente non accolse questa proposta e nella sua risposta del 20 marzo gli propose piuttosto di occuparsi di una rubrica speciale di «Nuovi studi», dedicata alle rassegne dei movimenti culturali italiani e stranieri, chiedendogli esplicitamente una rassegna sugli studi di politica in Inghilterra. Pellizzi tuttavia non fu entusiasta della proposta e infatti di tale rassegna non vi è traccia su «Nuovi studi». Per un più approfondito esame dei rapporti tra Pellizzi e Spirito negli anni del fascismo si veda G. LONGO, Corporazione, partito e Stato: il dibattito tra Ugo Spirito e Camillo Pellizzi (1924-1943), in «Annali della Fondazione Ugo Spirito - 1995», Fondazione Ugo Spirito, Roma 1998, pp. 149 e ss. 68 ACP, Serie I, b. 2, f. 6, Bottai a Pellizzi, 8 marzo 1928. In una seconda lettera in risposta alle perplessità di Pellizzi Bottai aggiungeva: «Puoi scrivere dell’argomento che vuoi e come vuoi. Anche delle Corporazioni, le quali, non essendo ancora costituite, non possono essere la base dell’autorità e, anche costituite, non saranno che mezzi d’attuazione della volontà che promana dallo Stato nei vari ordini della produzione, ma tu scrivi. Se non saremo d’accordo io postillerò garbatamente e tu non te l’avrai a male». Ivi, Bottai a Pellizzi, 14 marzo 1928. Effettivamente Pellizzi avrebbe publicato su «Critica Fascista» del 1° giugno 1928 un articolo dal titolo Il problema dell’autorità.

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Nel luglio del 1933 Pellizzi tornò a riproporlo anche alla luce degli articoli corporativi di Spirito apparsi su «Nuovi studi» e delle polemiche seguite al suo intervento al secondo convegno di studi corporativi, organizzato dal Ministero delle corporazioni a Ferrara nel 193269. Lo spunto gli fu fornito dal famoso articolo di Spirito Il corporativismo come liberalismo assoluto e come socialismo assoluto, pubblicato nel novembre del 1932 nel quale, riprendendo i temi trattati nella sua relazione al convegno di Ferrara, l’autore presentava, tra l’altro, il corporativismo come il momento culminante di un lungo processo storico, in grado di accogliere il meglio delle precedenti esperienze del liberalismo e del socialismo e di tradurlo in un nuovo modello di società. Lo scritto fu consegnato da Spirito a Pellizzi in forma di estratto e da questi fu annotato in maniera significativa70. In ragione di questo articolo e di alcune riflessioni che da tempo andava elaborando su questi problemi, Pellizzi decise di proporre a Spirito un suo intervento su «Nuovi studi». A sottolineare l’interesse di Pellizzi per il lavoro di Spirito valgono le annotazioni fatte dallo stesso Pellizzi in margine: nel punto in cui Spirito affermava che La corporazione intesa come punto di incontro fra stato e individuo permette l’instaurarsi del gruppo che è una collettività parziale che più facil69 Cfr. la relazione tenuta da Spirito a Ferrara in Ministero delle corporazioni, Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi (Ferrara 5-8 maggio 1932), I, pp. 179 ss. 70 L’articolo avrebbe poi costituito uno dei capitoli del volume spiritiano Capitalismo e corporativismo del 1933, volume che raccolse tutti gli articoli di Spirito di quegli anni su questo argomento, poi in ID., Il corporativismo, Sansoni, Firenze 1970. Per una visione più ampia della posizione di Spirito su questo tema si vedano: A. NEGRI, Dal corporativismo comunista all’umanesimo scientifico (itinerario teorico di Ugo Spirito), Lacaita, Manduria 1964; S. LANARO, Appunti sul fascismo di sinistra. La dottrina “corporativa” di Ugo Spirito, in «Belfagor», settembre 1971, pp. 577 ss.; G. SANTOMASSIMO, Ugo Spirito e il corporativismo, in «Studi storici», gennaio-marzo 1973, pp. 61 ss.; F. PERFETTI, Il Sindacalismo fascista. I - Dalle origini alla vigilia dello stato corporativo (1919-1930), Bonacci, Roma 1987; ID., Ugo Spirito e la concezione della corporazione proprietaria al convegno di studi sindacali e corporativi di Ferrara del 1932, in «Critica storica», XXV, n. 2, giugno 1988; G. PARLATO, Il sindacalismo fascista. II. Dalla “grande crisi” alla caduta del regime (1930-1943), Bonacci, Roma 1989. ID., Ugo Spirito e il sindacalismo fascista (1932-1942), in Il pensiero di Ugo Spirito, cit., pp. 79 e ss.; ID, (a cura di) Il convegno italo-francese di studi corporativi, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1991, nonché R. DE FELICE, Ugo Spirito e la politica fra le due guerre, in Il pensiero di Ugo Spirito, cit., pp. 255 e ss. Infine G. DESSÌ, Ugo Spirito. Filosofia e rivoluzione, Luni, Milano 1999.

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mente può aderire alla volontà del singolo e più difficilmente può comporsi nell’unità del tutto71.

Pellizzi annotava: valutazione vocazionale (nel significato inglese: vocational=professionale), politica, variabile col tempo, il luogo, le circostanze.

Più avanti Pellizzi, sempre in margine, scriveva che le corporazioni, così come intese da Spirito, facevano capo ad un’etica, ad una ideologia; non alla politica, né tanto meno ad una idea costituzionale. Egli inoltre si mostrava scettico circa la suddivisione di tutto il corpo sociale in unità funzionali o professionali come le corporazioni. Nel frattempo, Spirito fece apparire nello stesso numero di «Nuovi studi» un altro articolo dal titolo L’iniziativa individuale72, nel quale spiegava le ragioni per cui una iniziativa particolare, privata, in realtà era sempre anche sociale e perciò pubblica. La distinzione tra privato e pubblico era solo di carattere dialettico. Era il bisogno di ogni uomo di ottenere un consenso dai propri simili che lo spingeva a far coincidere il proprio bene con quello di tutti, a sprivatizzarsi e rendersi un uomo pubblico. Per Spirito, quindi, la vera affermazione della personalità e dell’iniziativa individuale non poteva avvenire se non nell’ambito dell’organismo sociale visto nella sua totalità, cioè nello stato. Ogni individuo si affermava nello stato attraverso i valori sociali che, nella sua visione, coincidevano con la gerarchia spirituale e cioè funzionale: in altri termini, attraverso le corporazioni. Spirito metteva tuttavia in guardia dalla creazione di uno stato in cui l’individuo fosse un minuscolo ingranaggio di una totalità indifferenziata ed avvertiva che anche lo stato, nella sua storicità, doveva cambiare poiché ancora vi si attestavano i residui del vecchio stato liberale. Ma per Pellizzi queste argomentazioni non erano del tutto convincenti: non a caso egli, intervenendo nel dibattito intorno alla tesi corporativa di Spirito dalle pagine del «Selvaggio», aveva indicato il rischio dell’eccessiva astrattezza delle tesi del gruppo di «Nuovi studi»: [...] Io sono ben lieto che Spirito e Volpicelli e altri, come mi ha avvertito “Critica Fascista”, siano stati fatti professori; ma ho molta paura che anch’essi, per la particolare atmosfera nella quale si dibattono questi proble71 72

L’estratto con le annotazioni di Pellizzi si trova nell’Archivio di Ugo Spirito. «Nuovi studi», novembre-dicembre 1932, pp. 345 e ss.

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mi, e un poco forse per difetto inerente all’impostazione dottrinale che è loro propria, tendano alla costruzione di sistemi che suonano perfetti nell’aula universitaria, ma sulla base dei quali, poi, non si riuscirebbe nemmeno ad unire in sindacato i bidelli. Vedi Ugo Spirito: «identificazione di individuo e stato; corporativismo integrale; corporazione proprietaria». Gli economisti diranno la loro per ciò che li riguarda. Ma io mi domando: quale individuo e quale stato? Basta soltanto che io sia l’individuo di cui si parla e l’edificio vacilla. Io come soggetto concreto e politico non mi identifico mai con lo stato che è, bensì con lo stato che voglio che sia; e questo non avviene perché io sia un vizioso individualista, una specie di criminale della politica [...] Non perché nel mio senso dello stato esistano delle lacune, ma anzi perché e in quanto non ve ne sono, io sono civis, cioè individuo che è un soggetto di volontà politica [...] Se lo stato non è un punto di convergenza, sempre mobile e vivo, di questa varietà positiva, attiva e quasi infinita, esso non è più niente altro che una astrazione eretta a dogma e sovraimposta dall’esterno all’individuo e alle altre concrete unità sociali. Nel caso di Spirito una specie di teocrazia dell’atto puro. L’idea nostra dello stato si ravvicina semmai a quella pensata e sentita da Hegel quando, con l’attributo etico intendeva di costume. Confluenza dialettica di molteplici istinti politici reali in un popolo. Presso questi nostri filosofi, invece, noi sospettiamo che il concetto di stato sia ancora quello dell’imperativo categorico di Kant [...]73.

Benché Pellizzi apprezzasse molto il pensiero di Ugo Spirito, considerandolo lo studioso che con maggiore originalità aveva contribuito alla definizione del fascismo74, individuava già in queste pagine gli aspetti che, a suo avviso, costituivano il limite più rilevante del pensiero del filosofo. Pur riconoscendogli il merito di aver cercato di superare il concetto di privatismo, di per sé astratto e dogmatico, 73 C. PELLIZZI, Postilla alle lettere. Il fascismo come libertà, in «Il Selvaggio», 1° maggio 1932, pp. 22. L’articolo costituisce l’ultimo di quattro articoli apparsi sul «Selvaggio»: C. PELLIZZI, Lettera con vari ragionamenti, 30 ottobre 1931; Seconda lettera sopra gli stessi argomenti della prima, cit., 30 dicembre 1931; Terza lettera, cit., 31 marzo 1932. In questi articoli vi è una lucida analisi della svolta che il fascismo stava vivendo in quegli anni e, soprattutto, della condizione morale e politica dei giovani in quegli anni di fronte al regime. A tale proposito cfr. R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso (1929-1936), Torino 19962, pp. 239 e ss. Oltre agli articoli di Pellizzi si vedano la risposta alla Seconda lettera, il già citato articolo di M. MACCARI, Risposta a volta di corriere, 30 dicembre 1931 e in «Critica Fascista» DOGANIERE [G. CASINI], Verità pacifiche, 30 dicembre 1931, nonché l’editoriale Esortazioni al realismo, a cura di U. D’Andrea, del 15 febbraio 1932. 74 Egli ritornerà su questo concetto anche in Una rivoluzione mancata, cit., p. 181.

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risolvendolo nello stato – e quindi di conseguenza di superare anche il classismo, lo statalismo astratto e la burocrazia, costruendo un concetto di corporazione intesa come gerarchia funzionale dei valori e delle competenze tecniche di ciascun individuo –, egli comunque attribuiva alla costruzione spiritiana la responsabilità di non aver saputo completare l’opera di identificazione del privato con il pubblico. In altri termini, dopo aver ridotto il concetto di privato a quello di individuale e dopo aver identificato l’individuo nello stato etico, non aveva saputo trasformare il concetto di pubblico, di stato, astrattamente e burocraticamente inteso, in quello di società, concepita come unità organica di individui; non aveva saputo, cioè, operare quella che Pellizzi chiamava la «sprivatizzazione dello stato». Lo stato rischiava dunque di rimanere un complesso di istituzioni e di ordini precostituiti, facile strumento di quanti, nel regime, volevano esercitare il potere piuttosto che sviluppare e far circolare l’autorità che il nuovo stato fascista avrebbe dovuto esercitare. Qui Pellizzi esprimeva un concetto del tutto originale: nella sua visione il fascismo e i suoi istituti, nella loro essenza ultima, erano espressione della libertà e principalmente su questa accezione si fondava la loro rivoluzionarietà75. Anche le corporazioni risentivano della artificiosità nella quale il regime stava cadendo; e a questo proposito Pellizzi sosteneva: [...] Del corporativismo dico che intorno a questo problema centralissimo dovrebbe essere tenuta sveglia quotidianamente la coscienza di tutto il paese [...] il fine è sempre di far sì che ogni istituto fascista pur essendo guidato e controllato dall’alto, sorga, in pari tempo, e per quanto più sia possibile, dal basso. Oggi il corporativismo non ne sorge affatto [...] perché il sistema entri nella pelle e nelle ossa degli italiani, bisogna che questi contrasti vengano prima lasciati affiorare tra la gente. C. PELLIZZI, Postilla alle lettere, cit.: «Il fascismo, nella sua radice prima, nel suo valore profondo, nella sua destinazione ultima, si esprime con la parola libertà [...] Libertà non vuol dire affatto democrazia nel senso comiziaio e ottocentesco della parola. Libertà è personalità; consapevole di vita, e sviluppo di ogni unità storica, e concreta, dall’individuo allo Stato, in quanto abbia una sua spontaneità interiore che la distingue e che la fa soggetto di valori e creatrice di valori». Su questo specifico punto e sulla ambiguità della concezione di Pellizzi in queste pagine si veda R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso (1929-1936), cit. pp. 242-243, dove comunque l’affermazione di Pellizzi deve essere inserita in una visione più ampia che ne fa uno dei più acuti interpreti del malessere dei giovani di fronte alla evidente stasi del processo rivoluzionario del regime all’inizio degli anni Trenta. 75

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[...] Il fascismo tende ad una società dove il massimo desiderabile di collettivismo si concilii di volta in volta, con il massimo possibile di individualismo; la massima pieghevolezza alle esigenze nuove con la maggior solidità e fecondità delle fondamentali tradizioni. Per questo l’autorità esecutiva deve essere fortissima [...]; parallelamente, ogni attività intesa a far maturare e a svolgere problemi reali, grandi o piccoli, dovrebbe essere non solo libera, ma incoraggiata76.

La connessione del concetto di autorità con quello di libertà era senza dubbio originale e venne ripresa anche negli articoli di Pellizzi per «Nuovi studi», come un elemento che avrebbe permesso di superare l’eccessiva astrattezza del sistema ideale degli attualisti. Pellizzi in una sua lettera a Spirito del luglio ’33, avanzava dei dubbi circa le loro posizioni, ritenendole troppo teoriche e, sollecitando Spirito ed i suoi collaboratori, scriveva: [...] l’ingegno che avete posto a buon frutto nel rivedere criteri economici; nel punzonare luoghi comuni sociologici e giuridici, potrebbe dare ottimi risultati anche nell’esame dei problemi schiettamente politici e costituzionali del fascismo. Con questo in più, che uscendo dal trattare concetti e idee, e venendo invece a considerare uomini e cose, anche il vostro corpus doctrinarium si insanguerebbe di maggior concretezza77.

Insieme a questa lettera Pellizzi inviò a Spirito un suo articolo, che apparve su «Nuovi studi» nel maggio-giugno del ’33, dal titolo Lo stato corporativo e il problema dell’autorità, che costituiva una risposta all’articolo di Spirito L’iniziativa individuale del dicembre 1932. In esso si rilevava la preminenza, nella concezione corporativa di Spirito, di motivi etici che però non si traducevano direttamente in elementi politici e costituzionali; neppure in quello che per Pellizzi era il problema politico e costituzionale per eccellenza: «la lotta del giusto contro l’ingiusto e la diversa concezione di quel bene che tutti sono disposti a riconoscere teoricamente come unico». Spirito, facendo coincidere l’interesse particolare con quello pubblico, rischiava, secondo Pellizzi, «di identificare il bene con la sua particolare concezione dello stato». In altri termini per Pellizzi, Spirito aveva ben risolto il suo problema filosofico ed etico nella riduzione dell’antinomia tra privato e pubblico, ma non aveva minimamente affrontato quello che in realtà 76 77

C. PELLIZZI, Terza lettera, cit. AFUS, Pellizzi a Spirito, 1° luglio 1933.

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era il nodo centrale del fascismo: il principio dell’autorità. Pellizzi infatti riconosceva il merito dell’idealismo attualistico (soprattutto in Gentile, Spirito e Volpicelli) di aver distrutto la vecchia distinzione fra le categorie economiche e giuridiche e la categoria etica, dove la società, la politica e il diritto si fondevano mirando ad una statalità in cui trovassero sbocco ed orientamento tutti i rapporti del vivere associato. Tuttavia, osservava, la socialità non era, per sé sola, creatrice di autorità, poiché essa era un fatto e non un principio e quindi il principio dell’autorità, che era il principio stesso della legge e dello stato non poteva avere la sua fonte nella socialità. L’autorità non era una risultante, ma doveva essere un principio. Questo era un elemento che gli attualisti non riuscivano a cogliere nella loro significazione ultima; ed anche il prestigio personale del capo, cioè di Mussolini, non poteva essere interamente spiegato con i suoi meriti, le sue qualità. Pellizzi infatti evidenziava un elemento dell’ideologia fascista che, a suo avviso, il gruppo degli idealisti sottovalutava: Lo stesso prestigio del capo non si spiega interamente con i suoi meriti e le sue qualità, per così dire, umane (chiarezza di visione, forza di volontà, ecc); c’è fra Lui e i seguaci, fra Lui e le folle, anche un’intesa d’altro ordine, un’intesa che io non esito a chiamare mistica. Come se egli per primo ascoltasse una voce superiore e le obbedisse, chiamando gli altri a obbedire con lui. Questo mussoliniano senso di obbedienza ad una legge superiore, che tuttavia si incarna perfettamente nel grande uomo di governo, e si articola nelle sue deliberazioni e volizioni, non è altro che il sentimento trascendente dell’autorità: nucleo vivo dello Stato, fonte e principio specifico dello Stato78.

Questo aspetto mistico della politica era, per Pellizzi, un elemento fondamentale; ed anzi l’azione degli intellettuali doveva anche tendere a «ricostruire in noi un senso religioso dello stato». Il suo disagio all’interno dell’idealismo attualistico – lo si è visto – va ricondotto al tempo della conversione al cattolicesimo nel 1925; egli aveva da allora cominciato ad avvertire in modo differente il compito del fascismo, che di per sé aveva delle chiare caratteristiche religiose, anche se ancora in una forma non compiuta. Il fascismo avrebbe dovuto reinter78 C. PELLIZZI, Lo stato corporativo e il problema dell’autorità, in «Nuovi Studi», maggio-giugno 1933, pp. 149 e ss.

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pretare la politica in chiave religiosa, rispondendo a quella visione universale che lo faceva tendere all’ideale mistico di un impero. Per Pellizzi l’esito naturale dell’idealismo attualistico doveva essere la fede cattolica, in quanto anch’essa di ispirazione universale. La funzione della volontà del soggetto nell’idealismo attualistico perdeva significato se all’origine di essa non vi era Dio. Pellizzi aveva tentato di conciliare idealismo e fede cattolica79, ma, soprattutto dopo il Concordato, il rapporto tra gli idealisti e il Vaticano si era irrigidito, sino ad arrivare ad un momento di vera e propria crisi nel 1934, con la condanna delle opere di Croce e di Gentile da parte del Santo Uffizio. A chiusura del suo articolo, Pellizzi tornava a ribadire che lo stato corporativo non era il principale fondamento della rivoluzione fascista, la quale – ben prima della dottrina corporativa – aveva ripristinato il principio dell’autorità, che per lui era il vero motivo rivoluzionario del fascismo. Il principio dell’autorità non era, come sostenevano gli attualisti, e fra questi Spirito, immanente alla società, ma «proveniva dall’alto»; così egli concludeva: [...] gli studiosi del fascismo hanno di fronte a sé questo compito prima di ogni altro, di capire e fascisticamente definire l’autorità. Tutto il resto vien dopo. E il problema politico centrale del fascismo, per oggi e per domani, è il problema costituzionale: cioè come e per quali organi si realizzi questa autorità che è dall’alto. Per il momento si può dire che lo Stato fascista non è intrinsecamente, necessariamente, né monocratico né democratico; di fatto a tutt’oggi, esso non è nemmeno aristocratico. La formazione di un nucleo aristocratico nel centro della vita fascista sembra tuttavia più che desiderabile, necessario [...] chiarire quali siano le forze reali, di individui, di categorie, di classe, che hanno maggior peso e più utile peso nella vita della nazione e stabilire quelle che dovrebbero averne uno maggiore. Nel processo di autoformazione di una nuova aristocrazia, la funzione degli studiosi fascisti dovrebbe essere già di per se stessa una funzione aristocratica80. 79 Prima del Concordato Pellizzi era intervenuto ripetutamente sul quotidiano di Mussolini per sensibilizzare l’opinione pubblica sul rapporto tra fascismo e questione religiosa: Etica fascista e morale cattolica, in «il Popolo d’Italia», 12 luglio 1927; La Chiesa e il fascismo, ivi, 30 luglio 1927; Religiosità dello Stato, ivi, 20 agosto 1927. E dopo il Concordato vi era tornato sopra per ribadire i suoi principi; si veda tra l’altro: L’iniziativa individuale nella politica fascista, in «Gerarchia», dicembre 1931. Sulla questione del rapporto tra stato e chiesa nel pensiero di Giovanni Gentile e sulle polemiche suscitate dalla sua posizione si veda tra l’altro: A. TARQUINI, Gli antigentiliani nel fascismo degli anni Venti, in «Storia contemporanea», febbraio 1996, pp. 5-59. 80 C. PELLIZZI, Lo stato corporativo e il problema dell’autorità, art. cit.

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Questa concezione dell’autorità era perfettamente inscritta nella sua visione religiosa della politica: l’autorità aveva una origine trascendente. Tuttavia in questa sede Pellizzi non portava alle estreme conseguenze le implicazioni insite in una simile interpretazione, che nasceva più dall’esigenza di negare che l’autorità risiedesse nel popolo, che di affermare positivamente che discendesse da Dio. Pochi mesi prima, nelle pagine del «Selvaggio», egli aveva affrontato questo stesso tema, essendo stato chiamato espressamente a chiarire quale fosse il suo pensiero: Ora sento che qualcuno mi domanda: “Da quale principio dunque secondo voi discende l’autorità di uno stato fascista? Da un carisma divino o dal consenso della maggioranza, o da che altro?”. Rispondo che l’autorità nello stato fascista come in qualunque altro stato, non discende da nulla o da nessuno; l’autorità non è altro che un attributo variabile e oscillante per sua natura e non mai esclusivo, di chi abbia un potere qualunque sugli altri uomini. E lasciamo che le civiltà vecchie, decadenti e paurose si affannino a irrigidire, incatenare, dogmatizzare il principio dell’autorità politica. Questo significa aver paura di aver coraggio; aver paura che di fronte a nuovi problemi, ed in una con essi, sorgano nuove forze, capaci di alterare un equilibrio sociale stagnante. Il solo consiglio da impartire in simili casi ad un uomo politico è: “sii tu questa nuova forza, e affronta tu stesso questo nuovo problema”. È un consiglio fascista 81.

Su questo punto Pellizzi rimaneva stranamente, ma intenzionalmente, cauto e vago: da un lato l’elaborazione del problema avrebbe richiesto una riflessione più robusta che non poteva essere condotta in un articolo di giornale; ma più verosimilmente – nonostante ponesse il tema dell’autorità al centro delle questioni istituzionali del regime – egli non voleva inscriverlo in un sistema interpretativo rigido sino a quando il fascismo stesso non avesse chiarito e sperimentato i propri istituti. Così la sua concezione di una autorità trascendente appariva inevitabilmente contraddittoria poiché – pur inserendosi ancora, almeno formalmente, in un sistema politico-filosofico come quello gentiliano – Pellizzi, nell’affermare l’esistenza di Dio, trascendeva l’atto, riproponendo il dualismo soggetto-oggetto e ricadendo nella sfera dell’essere, del fatto, del presupposto, così venendo meno, in sostanza, all’immanentismo dell’idealismo attualistico gentiliano. Senza dubbio nel suo pensiero persisteva una certa confusione, che però negli anni andò 81 C. PELLIZZI, Postilla alle lettere. Il fascismo come libertà, in «Il Selvaggio», cit. I corsivi sono nel testo.

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chiarendosi: dopo la guerra, in quella che può essere considerata una riflessione a posteriori sul fascismo, Pellizzi, ritornando sul problema dell’autorità, avrebbe posto come condizione essenziale per una sua corretta definizione la distinzione tra autorità e potere in quanto l’autorità, derivando dal latino auctor, era strettamente legata al «lavoro inteso come atto libero, creativo, e soprattutto come atto sociale», dove la libertà era intesa in senso hegeliano come volontà creatrice in continuo divenire. Essa si esplicava attraverso il prestigio e l’ascendente che esercitava sugli altri uomini: «è il libero ed efficace esercizio di una virtus», laddove, viceversa, il potere costituiva un «plusvalore dell’autorità: l’ambizione». In una tale visione l’autorità poteva essere esercitata solo dagli uomini e non risiedeva nelle istituzioni in quanto tali; tantomeno nello stato, che diventava in questo senso «la massima fonte di potere, di plusvalore politico, e perciò di prevaricazione ai danni della vera autorità». A queste conclusioni Pellizzi giungeva però solo nel 1949, analizzando le cause della caduta del regime e del fallimento della rivoluzione corporativa, mentre in passato la sua posizione certo non poteva dirsi così apertamente antistatalista. La chiarificazione del concetto di autorità è importante, ai nostri fini, principalmente per ciò che Pellizzi suggerisce più avanti, parlando della concezione corporativa di Spirito: Tutta la polemica corporativa dovrebbe tendere a questo: a liberare la coscienza e la condotta dell’uomo sociale dal pregiudizio magico o totemistico degli istituti, e dello stato, come supervalori da seguire, rispettare o subire indipendentemente dalla autorità concreta della gerarchia che volta a volta, e in atto, impersona e concreta gli istituti e lo stato. Il corporativismo deve essere rivendicazione della autorità in mezzo agli uomini, e liberazione degli uomini dal potere82.

Questo inquadramento del problema corporativo era già chiaro all’epoca della polemica su «Nuovi studi» e non a caso Pellizzi più volte aveva indicato nella libera adesione al corporativismo e nella proliferazione di idee nuove, che potessero esplicarsi senza la coartazione di istituti sovrimposti, la chiave per il progresso della rivoluzione corporativa, dove il concetto di libertà, inteso come civiltà, costituiva il fine ultimo del fascismo. E Pellizzi esprimeva questa equazione fascismo=libertà, sempre dalle pagine del «Selvaggio»: 82

C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., p. 203.

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Il fascismo è nato come supremo sforzo di un popolo civile per attuare una forma di comunismo civile. Ossia risolvere il problema [sociale] del comunismo dentro il maggior problema della civiltà [...] il fascismo è nella sua intima e universale significazione un comunismo libero dove comunistico è lo strumento, mentre il fine reale è la civiltà, ossia la libertà [...] il comunismo fascista si chiama corporativismo83.

La particolare posizione assunta da Pellizzi nei confronti del corporativismo e, in special modo, di quello espresso nelle teorie di Ugo Spirito e dei collaboratori di «Nuovi studi», se non poteva dirsi di appoggio incondizionato alla teoria “organica” del corporativismo, esprimeva tuttavia un sostegno critico, in cui venivano manifestate le perplessità per una teoria corporativa che rischiava di rimanere su di un piano puramente astratto, e che sostanzialmente tralasciava quello che per lui costituiva il vero problema: rifondare il rapporto individuo-stato, tenendo conto del ruolo che l’autorità doveva assumere in un tale rapporto. Ma la posizione di Pellizzi non era poi così lontana dalle tesi di Spirito. Come ha notato giustamente Renzo De Felice: Anche ammettendo che il fascismo riuscisse ad esprimere una politica più aderente alle aspirazioni delle nuove generazioni, è evidente che nella logica del discorso di Pellizzi queste si sarebbero sempre poste di fronte al fascismo con uno “spirito di libertà” diverso da quello del fascismo mussoliniano. Per “viva” che fosse infatti la concezione che Mussolini poteva avere del fascismo, il nodo centrale del regime rimaneva pur sempre l’esigenza di “armonizzare” unità dello Stato e iniziativa dell’individuo e ciò escludeva a priori la possibilità per lo “spirito di libertà” di realizzarsi veramente84.

83 ID., Postilla alle lettere, cit. Sulla necessaria compresenza della forza e del consenso, della coercizione e della persuasione nello stato moderno sono stati condotti molti validi studi, tra i tanti si veda F.E. OPPENHEIM, Dimensioni della libertà, Feltrinelli, Milano 1964. 84 R. DE FELICE, Mussolini il duce. I., cit., p. 242. Conviene valutare per un momento anche la posizione di Bottai su questi argomenti. Egli infatti, in qualità di ministro delle corporazioni, aveva partecipato al famoso convegno di Ferrara sostenendo una posizione che, in opposizione alle tesi più radicali di Spirito, che potevano essere quasi considerate un attacco alla proprietà, tuttavia salvaguardava l’opportunità della programmazione economica, specificando però che lo stato fascista non si opponeva all’individuo, come nel socialismo, ma coincideva con esso tramite le corporazioni. Su questo aspetto vd. G. BOTTAI, Statalismo corporativo, in «Critica Fascista», 1° febbraio 1933.

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Alla tesi di Pellizzi replicò Arnaldo Volpicelli, che era totalmente in linea con le tesi di Spirito85, con un intervento dal titolo Lo stato corporativo ed il problema dell’autorità apparso su «Nuovi studi» nel luglio-ottobre del 1933. Volpicelli si sentiva chiamato in causa direttamente, essendo stato sollevato un problema prettamente istituzionale legato alla teoria dello stato corporativo. Egli rimproverava a Pellizzi di aver riesumato «la dottrina teologica dell’autorità», indicando l’evidente aporia per la quale risultava insuperata la distinzione di società e stato, di economia e politica, di governato e governante. In particolare Volpicelli si domandava: Come può essere trascendente l’autorità, se l’uomo ha da essere “libero” (metafisicamente, spiritualmente libero), se l’autorità deve costituire un “valore” e non un “fatto”? Non solo, ma se essa è trascendente (cioè, un fatto) e l’uomo quindi non è libero, non perde forse significato lo stesso concetto di autorità? Infatti. Come può essere autorità quella che interviene o che si impone da fuori? Sarà essa una “forza” e non una “autorità”.

Ad avviso di Volpicelli, Pellizzi errava nel volere attribuire alla teoria dei direttori di «Nuovi studi» una pretesa derivazione dell’autorità dalla società, invertendo per suo conto tale rapporto, col derivare la società dall’autorità. Il corporativismo era in realtà il culmine di un processo immanentistico nel quale autorità e società coincidevano nella più adeguata forma di speculazione e di organizzazione statale immanentistica del mondo moderno. Il corporativismo conciliava ed immedesimava integralmente la più autorevole unità dello stato e la più libera molteplicità della società, esso attuava, direttamente e continuamente, la sovranità di tutti i cittadini. All’interno di questo stato le forme di partecipazione, però, dovevano essere organizzate in modo gerarchico e non livellatore. Anche Pompeo Biondi e Giuseppe Bruguier intervennero nel dibattito con un articolo dal titolo Autorità e stato corporativo su «Nuovi studi» nel gennaio ’34, con una critica alle teorie volpicelliane, senza peraltro risparmiare nemmeno una nota nei confronti di Pellizzi, sostenendo che egli aveva erroneamente posto l’autorità come principio proveniente dall’alto, mentre non vi era nulla di più immanente dell’autorità che si realizzava con la rivoluzione; egli aveva con85 Per il rapporto tra Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli si veda R. DE FELICE, Ugo Spirito e la politica tra le due guerre, cit., pp. 255 e ss.

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fuso il concetto di autorità con quello di gerarchia (ove addirittura non avesse voluto negare in pieno l’idealismo ed il suo concetto immanentistico dell’autorità)86. Ma il dissenso più profondo si avvertiva su di un altro aspetto. Pellizzi infatti continuava a sostenere che la corporazione non potesse essere l’unico termine medio tra stato e individuo, l’unico motore dell’azione rivoluzionaria del fascismo, anche se la sua funzione in tal senso era essenziale87, poiché essa non poteva assorbire l’intera personalità sociale dell’individuo in quella strettamente economico professionale. Inoltre egli era convinto che la corporazione, per quanto spazio si volesse dare al suo contenuto etico, non avrebbe potuto mai perdere del tutto il carattere prevalente che era quello meccanicistico, cioè economico. Era per questo che si rendeva necessaria la prospettazione di quello che lui chiamava un alterum quid, di un elemento che fosse il vero motore della rivoluzione, vale a dire il partito. Esso per Pellizzi doveva diventare il giunto nodale anche rispetto alla organizzazione corporativa e bisognava dirigere i propri sforzi affinché il partito assumesse un ruolo fondamentale nel nuovo costituzionalismo88. Il dibattito tra Spirito e Pellizzi vide l’epilogo in un articolo di Spirito apparso in «Civiltà Fascista» nel gennaio 1934, intitolato Regime gerarchico, nel quale, pur non essendovi una esplicita risposta a 86 Pellizzi, in una lettera scritta a Spirito il 4 gennaio del 1934, sosteneva di essere ancora molto in dubbio se ci fossero o meno dei punti di contatto con la linea assunta da Spirito e dagli altri collaboratori di «Nuovi Studi». Pellizzi comunque era certo del fatto che entrambi erano «alleatissimi nel desiderare un rapido e vivo attuarsi degli organi corporativi, e un loro disimpegnarsi dalla pura politica, la quale tuttavia dà[va] il tono dell’ambiente sociale italiano». 87 Vd. a tale proposito, C. PELLIZZI, Sulla internazionalità del Fascismo, in «Critica Fascista», 15 febbraio 1933. 88 Il partito e le ragioni del suo mancato sviluppo ideale saranno oggetto dell’attenzione di Pellizzi per molto tempo fino ad arrivare alla pubblicazione, nel 1941, dell’opuscolo Il partito educatore (Roma, Istituto nazionale di cultura fascista), che costituiva una summa di queste riflessioni. Il partito doveva costituire il canale più diretto per la rappresentanza del popolo, in quanto una rappresentanza effettuata attraverso le corporazioni e i sindacati menomava i multiformi aspetti della personalità sociale e politica riducendoli semplicemente ad un unico parametro: quello delle categorie economico-produttive. Nella sua visione quindi il partito doveva essere il centro della vita del regime, dove si doveva verificare un continuo fermento di idee e, soprattutto, una valida educazione politica.

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Pellizzi, è possibile rintracciare gli echi della disputa. Spirito infatti analizzava il concetto di aristocrazia, fondamentale nel pensiero di Pellizzi, sostenendo che esso, pur essendo eticamente diverso dalla democrazia, poiché l’aristocratico rivendicava il solo diritto di servire lo stato nella sua universalità, tuttavia conservava il dualismo di governati e governanti. Per Spirito non era possibile un buon governo se a governare era una sola classe. Per questo l’attività dello stato non poteva esplicarsi solo attraverso una aristocrazia dirigente. Essa operava viceversa attraverso l’attuazione di una gerarchia totalitaria, che era nella logica dell’ordinamento corporativo e che comportava, appunto, l’inquadramento di tutti gli individui in una scala di attività implicantisi in un sistema unico e articolato di competenze tecniche. Il nuovo concetto di gerarchia assommava in sé le caratteristiche migliori dell’aristocrazia e della democrazia, risolvendone l’antinomia in una sintesi superiore, dove «si rispetta e si esalta la personalità senza cadere nell’egoismo esclusivista dell’aristocrazia». L’economia e la politica, ripulite dai loro residui liberalistici e partitocratici, si riducevano così in un’unica e integrale gerarchia tecnica nella quale ogni individuo governi l’intero organismo modificandolo con la sua azione specifica che sarà tanto più vasta e più importante per il sistema quanto più grande la sua capacità e la sua forza di iniziativa. Nella scala di uomini che ne risulta non vi sono pochi governanti di fronte a molti governati, ma tutti: governati e governanti insieme.

La tesi gerarchica fondata sulla competenza tecnica costituì l’ultima evoluzione del pensiero spiritiano in ordine al problema corporativo, e fu anche quella destinata a durare più a lungo, giacché, ancora nel 1942, Spirito tornava su di essa con un articolo intitolato La tecnica strumento della rivoluzione89. In tal senso egli auspicava la sostituzione di una società classista con una società organizzata in gradi gerarchici amministrativi ai quali si potesse accedere per pura ragione di competenza tecnica; e presupponeva una fiducia illimitata nella neutralità della tecnica, nella sua impermeabilità rispetto alle differenze sociali dei punti di partenza di ciascun individuo. La tecnica era il presupposto fondamentale per assicurare una società dove gli interessi particolaristici fossero assenti90. In «Scuola Fascista», I, 1942, 6, p. 2. Su questo aspetto del problema, Spirito ritornerà anche nella sua relazione tenuta al Convegno italo-francese di studi corporativi: «Lo stato corporativo è un 89

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Pellizzi dirà, poi, di aver aderito integralmente a questi concetti, dedicando una parte del suo libro Una rivoluzione mancata, pubblicato nel 1949, a questo articolo di Spirito. A suo avviso in esso, meglio che altrove, si esprimeva il concetto di gerarchia al quale il regime avrebbe dovuto tendere, ma, al tempo stesso, si rammaricherà del fatto che Spirito, a chiusura di quell’articolo, vedesse troppo prematuramente nel consiglio nazionale delle corporazioni – la cui attivazione avvenne con il discorso di Mussolini del 14 novembre 1933, nel quale si sancì la nascita delle corporazioni – il definitivo compimento di questa prospettiva ideale, poiché ciò non aveva fatto altro che cristallizzare una situazione che in realtà ancora non aveva dispiegato e chiarito le proprie potenzialità rivoluzionarie. Pellizzi tuttavia iniziò, proprio per effetto di un simile confronto, una rimeditazione della teoria aristocratica, nella quale, di fronte ai profondi mutamenti della civiltà occidentale, resisi evidenti dopo la grande crisi, i soggetti preposti a raccogliere l’eredità di élite propulsiva di una rivoluzione non erano più i ras, ma i tecnocrati e gli uomini di cultura. Su questo cambiamento influirono la lettura delle tesi di Luigi Fontanelli raccolte in Logica della corporazione91, in polemica con Ugo D’Andrea, Elio Lusignoli e Sergio Panunzio, nonché di James Burnham, espresse in The managerial revolution, volume pubblicato nel 1941, che sarebbe stato tradotto proprio da Camillo Pellizzi nel 1946 per l’editore Mondadori, con il titolo La rivoluzione dei tecnici. In esse si dava risalto ai temi della pianificazione economica e alla necessità – in una società sempre più programmata e indirizzata – di affidare ai managers il predominio sociale92. Negli anni Trenta Pellizzi avviava una riflessione che sarebbe proseguita in modo compiuto dopo la guerra, a partire dagli anni Cinorganismo dove tutti i cittadini sono organi gerarchicamente disposti e tecnicamente esprimenti la loro volontà individualmente differenziata. Se ogni cittadino adempie ad una specifica funzione, ogni cittadino ha una specifica sfera entro la quale esprime sovranamente la sua volontà di individuo e di stato», Corporativismo e libertà, pubblicata poi in «Nuovi studi», maggio-giugno 1935, p. 104. 91 L. FONTANELLI, Logica della corporazione, Ed. Novissima, Roma 1934. 92 È sintomatico che il pensiero di entrambi gli autori soprattutto sulla definizione delle élites nell’era postcapitalistica, sia stato influenzato dalle idee di Pareto, Mosca, Sorel e Michels, pensatori che avevano avuto una grande importanza anche nella formazione di Pellizzi. Sulle prospettive politiche di una rivoluzione tecnocratica nel fascismo si veda anche il volume di G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, il Mulino, Bologna 2000.

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quanta. Attraverso questi dibattiti egli lentamente precisava la propria teoria delle aristocrazie, affidando anche agli intellettuali un compito di mobilitazione civile che sarebbe divenuto più chiaro negli anni Quaranta. Il problema degli intellettuali si poneva con urgenza in relazione al tema delle giovani generazioni, che non avevano partecipato alla prima ondata del fascismo e che ora vivevano una sorta di rifiuto dell’idealismo, del formalismo e dell’intellettualismo. In questa posizione si esprimeva il movimento “realista”, sorto proprio all’inizio degli anni Trenta, nel tentativo di combattere ciò che era inattuale e mediocre, proponendo il “realismo” in filosofia, il “costruttivismo” in critica e il “contenutismo” nell’arte, alla ricerca di una cultura che fosse più aderente ai bisogni concreti dell’uomo contemporaneo in relazione alla crisi e alla trasformazione della società moderna93. Il movimento ebbe un suo momento significativo nella stesura del “Manifesto realista”, apparso sull’«Universale» di Berto Ricci il 10 gennaio 1933, che – in palese contrasto con l’idealismo gentiliano, e soprattutto contro i connotati borghesi che questa filosofia rappresentava – si proponeva di trovare una “via italiana” al processo di modernizzazione, che conservasse il valore della tradizione senza restarne bloccata e offrisse un modello di società nuova anche agli altri paesi94. Ma – come ebbe cura di rilevare Camillo Pellizzi, chiamato da Ricci ad aderire al Manifesto –, l’ambiente giovanile rivelava innanzitutto uno scarso interesse per la filosofia e per l’ideologia: se l’aggettivo “realista” si poneva in contrasto con la parola “idealismo” e quindi con la filosofia gentiliana, egli osservava però che ad una scuola filosofica ci si poteva opporre solo in base ad una diversa filosofia, mentre era evidente che nella posizione dell’«Universale» la filosofia fosse assente. Egli inoltre esprimeva il suo dissenso con i giovani anche 93 Sull’esigenza di realismo nei movimenti giovanili si veda: M. SECHI, Il mito della nuova cultura. Giovani, realismo e politica negli anni Trenta, Manduria 1984; nonché L. MANGONI, L’interventismo della cultura, cit. 94 Su Berto Ricci si veda il lavoro di P. BUCHIGNANI, Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del ventennio, il Mulino, Bologna 1994. Luisa Mangoni ritiene che esperienze come quella di Ricci – dove si assiste alla mancanza di una chiarezza ideologica – gli consentirono di appropriarsi indifferentemente di temi artisticamente innovatori senza che il suo discorso fascista ne venisse modificato, (L. MANGONI, op. cit., p. 217).

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riguardo alla questione religiosa, liquidata troppo sbrigativamente da questi ultimi, mediante una associazione della degenerazione borghese al cattolicesimo95. Pellizzi era preoccupato inoltre del distacco degli intellettuali dalla classe politica, poiché, a suo avviso, l’omogeneità culturale faticosamente raggiunta, rischiava di essere compromessa dalla tendenza ad appartarsi di gran parte della intelligencija italiana. Egli riteneva che l’unità non fosse altro che una premessa per più vaste e sostanziali conquiste sul piano politico e sociale; ma se in passato spesso l’unità culturale aveva sopperito in Italia alla mancanza di unità politica, ora invece sembrava che la conquista dell’unità politica avesse compromesso la tradizionale unità culturale, provocando una frattura fra ceto intellettuale – che per Pellizzi costituiva l’elemento trainante di quella “aristocrazia” che avrebbe dovuto esercitare la propria egemonia spirituale nel paese – e classe politica. Ciò che distraeva dai propri compiti gli intellettuali era forse il fatto che la politica italiana fosse divenuta un sistema privo di consistenti margini di intervento, tale da lasciare spazio solo alla piccola diatriba letteraria. Richiamando gli intellettuali al loro ruolo, Pellizzi osservava: La funzione storica degli intellettuali, nell’Italia di oggi, è di riconquistare, ognuno per la sua via, in collaborazione dialettica gli uni con gli altri, la perduta unità. Funzione morale e sociale, immanente a tutta la storia del pensiero, delle lettere, dell’arte italiana, la cui esigenza, oggi, è più che mai sensibile e grave. Ma funzione dialettica, perché l’unità esteriore è raggiunta ormai, e anche troppo; e una feconda e viva unità interiore non può raggiungersi che attraverso il gioco di posizioni diverse fra loro, ma, ciascuna, perfettamente individuata, autonoma, responsabile, coerente. Sono appunto gli intellettuali che dovrebbero dare agli italiani l’esempio di come si possa e si debba collaborare dissentendo, dimostrare la infinita fecondità del diverso96.

Ancora una volta egli prendeva posizione contro il fascismo inteso come sistema monolitico, preoccupato della possibilità che il regi95 Cfr. C. PELLIZZI, Sul Manifesto realista, nell’«Universale», gennaio 1933, pp. 44-46. Nella sua Risposta a Pellizzi che seguiva nello stesso numero della rivista, Ricci confermava il suo distacco dalla filosofia proprio «nel senso spicciolo cui allude Pellizzi», ma che rispetto alla questione religiosa il Manifesto realista non poteva certo dirsi irreligioso come Pellizzi aveva affermato, e anzi nasceva proprio dalla sentita istanza religiosa, ma tuttavia non spettava agli uomini risolvere quel problema. 96 C. PELLIZZI, Irritabile genus, in «L’Universale», 3 ottobre 1932, pp. 137-140.

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me divenisse asfittico. Naturalmente questi argomenti trovavano dei validi sostenitori in giovani come appunto Ricci, la cui rivista rappresentava alcuni dei temi cari a Pellizzi: vi era l’esigenza di universalizzare alcuni dei principi della nuova politica, ricollegandosi alla migliore tradizione risorgimentale, che era poi quella mazziniana; a ciò si accompagnava il ripudio di tutto ciò che rischiava di diventare standardizzato ed il rifiuto di una vulgata per così dire “ufficiale” del fascismo, preferendo piuttosto cadere nell’errore e nell’eresia, con l’intento di allargare il dibattito politico culturale, portandovi una nuova linfa vitale. Di qui l’impegno dei giovani intellettuali collaboratori della rivista a partecipare alle vicende civili, con l’abbandono di quella tradizione che riproduceva il “falso antico”, ed a portare alcuni temi cari al fascismo su un piano più alto, che era quello dell’impero. Profondamente convinto della necessità di una continua e reciproca integrazione tra cultura e politica, Ricci riteneva che si potesse superare il capitalismo per cogliere la composizione dei conflitti, raggiungendo una visione totale della realtà. Ciò lo avrebbe portato a quella posizione monistico-sintetica, nella quale lo stato totalitario rappresentava un momento di unità dove si armonizzavano, in una sintesi superiore, il realismo e la spiritualità, la socialità e l’aspirazione universale, la rivoluzione sociale e imperiale. In tal senso la rivista di Ricci dimostrava di essere il riflesso delle trasformazioni sociali intervenute in Italia e della crisi economica internazionale, che avevano portato al superamento delle tematiche espresse nello strapaesismo. Da un fascismo provinciale e rurale si assisteva ad un passaggio a quel fascismo che guardava alla città e all’industria – benché non perdesse alcuni dei motivi retorici ruralistici – ma che grazie al corporativismo si poneva il problema delle aristocrazie in stretta connessione con il nuovo tessuto sociale che si andava delineando e che in fin dei conti era un tessuto sociale borghese. Alla metà degli anni Trenta il dibattito corporativo, pur avendo una forte spinta sul piano ideale, non riuscì più a trovare un valido terreno politico, poiché da una lato l’impresa etiopica avrebbe posto urgenti problemi di mobilitazione delle masse e dall’altro la creazione delle ventidue corporazioni non aveva, di fatto, realizzato il corporativismo. Non a caso la rivista «Nuovi studi» come anche «L’Universale» e altre riviste giovanili, cessarono le proprie pubblicazioni proprio nel 1935. L’atteggiamento del duce nei confronti di questi movi-

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menti giovanili fu complesso ed ambivalente: egli li utilizzava per le proprie battaglie antiborghesi e contro i gerarchi, facendo appello al proprio animus rivoluzionario giovanile, con lo scopo prevalente di circoscrivere il potere di questi ultimi e di mantenere il controllo dei movimenti giovanili non allineati. I tentativi di mediazione delle teorie di Ugo Spirito si scontrarono con la chiusura di ogni spazio politico; e lo stesso tentativo di spostare il dibattito corporativo sul piano internazionale (si pensi ad esempio al Convegno italo francese di studi corporativi del 1935, la cui relazione tenuta da Spirito apparve poi pubblicata su «Nuovi studi» con il titolo di Corporativismo e libertà) non trovò un terreno adatto data la forzata chiusura “autarchica” dell’economia italiana negli anni dell’avventura coloniale97. 3. Tra Inghilterra e Italia La crisi etiopica apriva scenari nuovi e imprevisti. Mussolini, che pure aveva mostrato una certa propensione per le originali posizioni di alcune riviste “di fronda”, non poteva tollerare, alle soglie della svolta “imperiale” del regime, che vi fossero posizioni autonome e anticonformiste. Tuttavia la tensione politica, fino ad allora concentratasi sulla trasformazione del fascismo in regime, si orientava per una decisa svolta antioccidentale della politica italiana. Per molti vi era la convinzione che fosse finalmente giunto il momento della rivoluzione sociale anticapitalistica a completamento della rivoluzione imperiale. Questa convinzione sarebbe stata ulteriormente motivata dalla stessa polemica antiborghese voluta dal duce nel 1938-’39, pur con evidenti differenze di obiettivi. Sul finire degli anni Trenta erano chiari i segni della fine del ciclo delle rivoluzioni democratiche – iniziate con la rivoluzione francese – ed era altresì indubbio che si stesse definendo un modello totalitario, conforme ai valori e ai principi della “rivoluzione fascista”, che proponeva un nuovo rapporto tra le masse e l’autorità, indicando un diverso indice di partecipazione sociale. In questa dimensione, l’idea 97 A questo proposito si veda G. PARLATO (a cura di), Il convegno italo-francese di studi corporativi, cit., e ID., Ugo Spirito e il sindacalismo, in Il pensiero di Ugo Spirito, cit.

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di un fascismo “universale”, di un ambito europeo del fascismo, in opposizione alla vecchia Europa liberale, assumeva una sua rilevante importanza nel panorama ideale del regime (basti pensare all’esperienza dei Comitati d’azione per l’universalità di Roma)98. Ma con l’ascesa del nazismo questa prospettiva era apparsa inattuabile e aveva lentamente perso contorni definiti; e nel contempo si era rafforzato uno dei peculiari elementi, che pure l’avevano caratterizzata, quello della “romanità”, non più intesa in un quadro europeo, ma imperiale99. Questo fattore, se permise al fascismo di rivendicare una originalità nel quadro internazionale, rispetto al nuovo ordine nazista, tuttavia non si affermò a tal punto da diventare un elemento di aggregazione e di identificazione ideologica. In questi anni Pellizzi intrecciò uno stretto rapporto con Ezra Pound100, le cui tesi contro il capitalismo e le speculazioni finanziarie – definite da quest’ultimo col termine di “usura” – lo condussero ad approfondire il corporativismo alla luce di altre esperienze anglosassoni di politica economica, come quella del Social credit, alla quale Pound aderiva. Pellizzi e Pound si erano conosciuti tramite Odon Por, uno studioso ungherese, esule in Italia, che Pellizzi aveva avuto modo di apprezzare sin dal suo arrivo in Inghilterra, in occasione della pubblicazione di un libro di Por sul fascismo scritto per gli inglesi, nel quale Pellizzi aveva ritrovato alcune idee di notevole rilievo101. 98 Sui CAUR non esiste una bibliografia molto ampia: si vedano M.A. LEDEEN, L’internazionale fascista, Laterza, Roma-Bari 1973; E. SANTARELLI, Storia del movimento e del regime fascista, Editori Riuniti, Roma 1967, II vol., pp. 142 e ss. e A. DEL BOCA, M. GIOVANA, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano 1965, pp. 62 ss. Infine, riguardo alle ultime assemblee organizzate dai Comitati di azione per l’universalità di Roma, vd. I tentativi per la costituzione di un’internazionale fascista: gli incontri di Amsterdam e di Montreux attraverso i verbali delle riunioni, a cura di G. Longo in «Storia contemporanea», giugno 1996, pp. 475-567. 99 Su questo argomento si vedano i saggi di D. COFRANCESCO, Il mito europeo del fascismo, in «Storia contemporanea», febbraio, 1983, pp. 5-45; ID., Appunti per una analisi del mito romano nell’ideologia fascista, ivi, giugno, 1980, pp. 383-411; ID., Ideas of the Fascist Government and Party on Europe, in Documents on the History of European Integration, I. Continental plans for European Union 1939-1945, de Gruiter, Berlin-New York 1985, pp. 179-199. 100 Su questo argomento si veda L. GALLESI, Il carteggio Pound-Pellizzi negli anni del fascismo, in «Nuova storia contemporanea», maggio-giugno 2002, pp. 69 e ss. 101 O. POR, Fascism, translated by E. Townshend, The Labour Publishing Company, London 1923. Questo volume era piaciuto ai laburisti inglesi e ad avviso di Pel-

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Dal rapporto tra Pellizzi e Pound si deducono alcune interessanti constatazioni. In primo luogo, la scarsissima considerazione che Pellizzi aveva dell’attività di propaganda svolta dai giornali dei fascisti italiani nel Regno Unito102 – ai quali Pound gli suggeriva di collaborare con maggiore impegno – perché eccessivamente inquadrati e di scarso tenore, cosa che non permetteva alcun confronto reale sugli eventuali sviluppi della politica fascista; era senz’altro più fruttuoso, ad avviso di Pellizzi, concentrarsi sulle riviste italiane come «Civiltà Fascista» o «Critica Fascista»: e se anche queste riviste erano lette da poche persone, tuttavia le idee espressevi sarebbero lentamente maturate per poi essere diffuse più ampiamente. In secondo luogo, va notata la rilevante attività di stimolo svolta da Pellizzi per suscitare l’interesse di Mussolini e dei suoi più stretti collaboratori su alcune nuove idee riguardanti la politica finanziaria e monetaria103, delle quali Pound e il gruppo che ruotava attorno al movimento del Social credit erano gli interpreti104. Pellizzi recensì sul «Corriere della Sera», in data 14 febbraio 1936, il volume di Pound Jefferson and/or Mussolini 105. Il poeta americano veniva elogiato per avere perfettamente compreso l’essenza del fascismo, per aver intuito che «gli Italiani erano intenti ad un’opera d’arte più comprensiva e vasta, le cui fila maestre facevano capo, com’è naturale, alla mente e alla volontà di un Uomo, ma al cui sviluppo [...] collaboravano tutti». lizzi, almeno inizialmente, era stato la causa della mancanza di ostilità dei laburisti nei confronti del movimento fascista. Dello stesso autore si veda anche Guilds and Co-operatives in Italy, Translated by E. Townshend, The Labour Publishing Company, London 1923. 102 Essi erano il giornale «Italia nostra» ed il supplemento settimanale «British Italian Bullettin», diretti da Carlo Camagna. Si vedano le lettere di Pellizzi riportate nel volume di L. GALLESI, art. cit. 103 Pellizzi riteneva assai interessanti le idee di Pound, peraltro espresse anche da Odon Por, ma quest’ultimo, ad avviso di Pellizzi, aveva una prosa poco brillante e troppo tecnica, mentre quella di Pound risultava essere molto efficace. Odon Por avrebbe riassunto le teorie finanziarie del Social credit nel volume Finanza Nuova. Problemi e soluzioni, Le Monnier, Firenze 1940. 104 Circa queste tesi si veda: W.K.A.J. CHAMBERS-HUNTER, British Union and Social Credit, Greater Britain Edition, London 1938. Circa l’influenza del pensiero di Pound in Italia si veda: N. ZAPPONI, L’Italia di Ezra Pound, Bulzoni, Roma 1977. Per alcuni cenni biografici si veda inoltre il volume di M. DE RACHEWILTZ, Discrezione. Storia di un’educazione, trad. it. Rusconi, Milano 1973. 105 Stanley Nott, Londra 1935.

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Il carteggio tra Pound e Pellizzi, denso di suggestioni letterarie ed artistiche, meriterebbe una attenzione più mirata; in questa limitata sede esso ci fornisce comunque lo spunto per comprendere l’evoluzione del pensiero di Pellizzi su quei temi economico finanziari, che ritroveremo negli articoli scritti negli anni successivi e soprattutto nel volume Italy, pubblicato da Pellizzi in inglese nel 1939. Riguardo alle materie economiche e aziendali, l’amicizia con Odon Por permise a Pellizzi di approfondire le sue conoscenze e in seguito all’impresa etiopica di guardare con un occhio più “tecnico” anche i problemi relativi all’autarchia, la quale – a loro avviso – non significava economia chiusa, ma iniziativa economica dello stato tesa a produrre quei beni necessari alla comunità che l’iniziativa privata non produceva106. L’impresa etiopica aveva aperto una profonda ferita nei rapporti italo-britannici; e la sua rapida accelerazione aveva presto fatto cadere l’illusione, maturata con il Patto a Quattro, che la politica estera fascista fosse tesa ad una strategia di equilibrio107. Mussolini aveva voluto l’avventura coloniale non solo, come sostengono alcuni storici, per trovare una soluzione ai problemi economico finanziari nei quali l’Italia si dibatteva a causa della crisi rilanciando il sistema economico attraverso le commesse belliche108; e neanche soltanto per rispondere alla politica imperialista, nazionalista e colonialista che si era venuta affermando prepotentemente a partire dagli inizi degli anni Trenta109. Questi motivi sono certamente assai fondati110, ma, ancor più delle ragioni di politica interna, aveva pesato sulla decisione di Mussolini la consapevolezza che in quello specifico momento, in considerazione del prestigio internazionale raggiunto, nessuna delle potenze internaSu questi temi si vedano le numerose lettere di Por in ACP, Serie V, b. 27, f. 28. Su queste problematiche cfr. J. PETERSEN, La politica estera del fascismo come problema storiografico, il Mulino, Bologna 1972, nonché G. CAROCCI, La politica estera dell’Italia fascista 1925-1928, Laterza, Bari 1969. 108 In tal senso si vedano le tesi di F. CATALANO, L’economia italiana di guerra (1935-1943), Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione, Milano 1969, pp. 3 e ss.; G. ROCHAT, Militari e politici nella campagna d’Etiopia. Studio e documenti 1932-36, Angeli, Milano 1971, pp. 105 e ss. G.WEBSTER BAER, La guerra italo-etiopica e la crisi dell’equilibrio europeo, trad. it. Laterza, Bari 1970, pp. 39 e ss. 109 Su questo aspetto insiste ad esempio M. GALLO, L’affaire d’Ethiopie aux origines de la guerre mondiale, Le Centurion, Paris 1967, pp. 113 e ss. 110 Questa è infatti la tesi di F. CHABOD, L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino 1961, pp. 91 e ss. 106

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zionali avrebbe avuto la volontà di impedire all’Italia l’espansione in Etiopia, dal momento che Francia e Inghilterra avevano bisogno dell’appoggio italiano per contrastare l’avanzata nazista, e che la Germania, dal canto suo, non era ancora sufficientemente potente da poter contrastare l’avanzata italiana in Africa orientale111. In un simile scenario era evidente che una azione diplomatico-culturale tesa a condizionare l’opinione pubblica britannica – in Francia viceversa il governo del fronte popolare era assai più refrattario al fascismo – si rendeva quanto mai utile se non necessaria, dato il peso determinante che essa aveva sul governo. Il ruolo di Pellizzi diventava dunque assai importante. Egli era in stretto contatto con Gino Gario, direttore dei servizi della propaganda del Ministero della cultura popolare, e in questo ruolo aveva avuto anche dei colloqui con Mussolini, al quale aveva inviato una lettera assai significativa, nella quale Pellizzi sottoponeva al duce la necessità di far smorzare i toni antinglesi della stampa italiana, per poter lasciare degli spazi per ricucire i rapporti con l’Inghilterra. Agli effetti politici immediati, qualche parola amichevole, pronunciata da voi opportunamente, potrebbe aver forse effetti decisivi. Basterebbe chiarire la distinzione fra un particolare problema di oggi, [...] e un’antica e profonda solidarietà civile fra i due popoli, che non dovrebbe subir pregiudizio. Se non giudicate opportuno che questo gesto parta oggi da Voi direttamente, qualche articolo nel senso detto che apparisse nella nostra stampa, bene in evidenza, potrebbe ottenere qualche effetto utile. Potrei forse scriverne qualcuno anch’io, posto che la mia quindicenne esperienza d’Inghilterra mi mette in grado di farmi capire dalla lenta opinione britannica! Solo da Voi, in ogni caso, potrebbe venir, per un’opera simile, approvazione ed appoggio. Io potrei pubblicare sul “Corriere della Sera”; altri altrove112.

Mussolini fu evidentemente d’accordo con questa proposta, giacché Pellizzi iniziò una intensa e meditata attività di raccolta di informazioni provenienti dai giornali italiani, inglesi e anche da quelli dei 111 In tal senso, R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso, cit., pp. 613 e ss. Su questo tema si veda lo studio di L. GOGLIA, F. GRASSI, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Laterza, Roma-Bari 1981. 112 ACP; Serie V, b. 32, f. 40. La lettera è conservata in bozza e non porta la data, ma è stata scritta, presumibilmente, nel settembre 1935.

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Dominions, che gli fece realizzare un intero dossier sulla questione, da lui intitolato De bello Aethiopico. Ma evidentemente egli temeva che la sua preoccupazione di ricostituire un rapporto amichevole con gli inglesi fosse da altri intesa come dettata da motivi di carattere personale. Infatti nella stessa lettera a Mussolini egli teneva a precisare: Devo forse aggiungere che tutto ciò non ha rapporto alcuno con la mia posizione professionale in Inghilterra, la quale, se non in caso di ostilità dichiarate, non credo sia compromessa, o sia per esserlo. Posizione, del resto, penosa e difficile oggi, come potrete intendere, e alla quale si torna, in fondo, come si tornasse in trincea! Più lieto sarebbe potersi battere ai diretti ordini Vostri, in mezzo ad amici e contro nemici scoperti. Agli ordini vostri sono e resto in ogni caso, e per ogni attività nella quale mi crediate meglio impiegato.

Il ruolo di Pellizzi in Inghilterra non era pertanto solamente quello di rappresentante della cultura italiana all’estero, ma ben più efficacemente quello di osservatore e di operatore politico-culturale a ciò incaricato direttamente da Mussolini. A riprova di ciò stavano le sue numerose udienze col duce, troppo frequenti per essere concesse ad un semplice professore di lingua e letteratura italiana, benché rappresentante della Società Dante Alighieri in Inghilterra. In particolare la sua principale funzione negli anni del soggiorno londinese fu quella di osservatore delle vicende inglesi: lo testimoniano le richieste di colloquio fatte al segretario particolare del duce negli anni 1934-’36, nelle quali spesso si fa accenno alla necessità di riferire sue “impressioni inglesi” e ricevere in merito ad esse “indicazioni e istruzioni” da Mussolini113. Pellizzi collaborò ad una operazione tesa ad indirizzare l’opinione pubblica inglese o almeno quelle frange più favorevoli alla politica estera italiana, sottolineando il fatto che la questione abissina andava 113 Per le udienze con Mussolini vd, ACP, Serie IV, b. 15, f. 123, Note XXX, 1932-1974; nonché ACS, SPD CO, f. 509150, “Pellizzi Camillo”. Le udienze richieste da Pellizzi venivano accordate da Mussolini il giorno stesso o il giorno successivo; tale tempestività può indurre a ritenere che il ruolo rivestito da Pellizzi a Londra fosse molto importante per il duce, che, quindi, preferì lasciarlo oltre Manica fino alla guerra. Tale compito emerge dai taccuini di Pellizzi, cit., ove si descrivono le sue udienze con Mussolini l’11 aprile e il 28 agosto del 1934 e il 15 luglio 1935.

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vista prevalentemente sotto un profilo nazionale e non fascista114. Questa posizione era certo assai difficile da motivare, tuttavia egli cercò di influenzare anche alcuni membri della Camera dei Comuni con l’invio di materiale informativo. Pellizzi, aveva anche affiancato l’ambasciata italiana nella sua attività politica, in qualità di rappresentante della Società Dante Alighieri. Ci si rendeva conto che sull’opinione pubblica inglese più che il motivo imperialista, influiva il pacifismo e quindi, puntando su questo aspetto, nei mesi tra l’autunno del 1935 e la primavera del 1936, vennero intensificati enormemente gli incontri e le conferenze presso le università e i circoli politici e culturali, nonché i contatti per far apparire sui giornali inglesi articoli che illustrassero le ragioni italiane del conflitto italo-abissino. In questa opera Pellizzi si confrontò con alcune istituzioni che si ponevano come validi interlocutori per la ricerca di una via che potesse salvaguardare i rapporti italo britannici, come ad esempio il BritishItalian council for peace and friendship. Gli inglesi, che erano contrari ad una rottura dei rapporti con l’Italia, erano mossi da varie motivazioni tra le quali vi era il desiderio di mantenere una nazione amica per contrastare il pericolo nazista, l’avversione per le sanzioni – che avrebbero comportato una escalation verso una guerra sul piano europeo, dal momento che si sarebbe creato un precedente per applicare le medesime anche alla Germania, la quale aveva violato i Trattati di pace – e la consapevolezza che in Abissinia, paese membro della Società delle nazioni, continuava a perdurare l’istituto della schiavitù: argomento, quest’ultimo, che venne largamente utilizzato dalla propaganda italiana per negare all’Etiopia il diritto ad un trattamento equanime, dal momento che aveva contravvenuto ad una delle condizioni per le quali era stata ammessa nella Società. Tale tesi venne illustrata da Pellizzi in numerosi giornali inglesi sotto forma di lettere al direttore115, nelle quali – facendo leva sulla crescente sfiducia nella capacità della Società di risolvere tensioni internazionali – egli non perdeva mai l’occasione di mostrare la Società delle nazioni non come un “Super-stato” in grado di imporre leggi e norme, ma piuttosto Si veda ad esempio la sua lettera al direttore del «Times» pubblicata il 16 settembre 1935. 115 Si veda ad esempio la lettera pubblicata sul «Catholic Herald» il 20 dicembre 1935. 114

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come una società di eguali uniti assieme da una convenzione liberalmente stipulata. I suoi interventi destarono numerose reazioni e anche l’accusa da parte di alcuni funzionari della Società delle nazioni, di aver fatto del British-Italian council for peace and friendship niente altro che un ufficio di propaganda per il “signor Mussolini”116. Di fronte a queste critiche Pellizzi intensificò la propria attività, sostenendo che la politica sanzionista avrebbe impedito la pace in Europa ed oltre ad essere contraria al diritto internazionale avrebbe ottenuto lo scopo di ridurre il potere e l’autorità della Società delle nazioni. In quei mesi si stava lavorando ad una soluzione pacifica di compromesso attraverso il piano Laval-Hoare, che prevedeva la cessione da parte dell’Etiopia del Tigrai orientale e di una serie di territori al confine tra la Dankalia e l’Eritrea e tra l’Ogaden e la Somalia, ricevendone in cambio uno sbocco sul mare, preferibilmente nella baia di Assab. Da parte sua, l’Italia avrebbe visto riconosciuta una zona di espansione economica e colonizzazione in un territorio sotto la sovranità etiopica al confine tra Etiopia e Kenia. Il piano, inviato a Roma ed Addis Abeba nel dicembre 1935, fallì per effetto del mancato sostegno da parte dell’opinione pubblica inglese, opportunamente sollecitata da quanti nel governo inglese volevano la sostituzione di Hoare, il quale rassegnò le proprie dimissioni il 18 dicembre 1935117. Gli avvenimenti successivi sono noti; ci si limiterà ad osservare che dal 1935 la posizione di Pellizzi in Inghilterra diventò sempre più delicata, anche se la sua notorietà e la competenza circa le materie di politica internazionale era assai aumentata. Lo dimostra l’invito del Royal institute of international affaires a collaborare ad un vasto progetto culturale, assieme ad altri professori di differenti paesi, ed in particolare alla preparazione di un rapporto sui problemi di economia e politica mondiali, incentrato sui concetti di nazione e nazionalismo, 116 Si veda ad esempio la lettera di Leslie R. Aldous, addetto stampa della Società delle nazioni, pubblicata sul «Hampstead and St. John’s Advertiser» il 2 gennaio 1936. 117 Su questi avvenimenti è di estremo interesse un rapporto scritto da Grandi per Mussolini il 27 dicembre 1935, nel quale Grandi sostiene che l’opinione pubblica inglese fosse stata pilotata, mentre invece era generalmente risaputo che essa era fondamentalmente pacifista e quindi contraria alla soluzione sanzionista. Il documento è integralmente riportato in R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso 1929-1936, cit., pp. 924 e ss.

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seguiti attraverso l’analisi dello sviluppo di questi fenomeni in Europa e nel resto del mondo118. Anche Mussolini continuò a ritenere utile la sua funzione di “osservatore delle vicende inglesi” per tutta la seconda metà degli anni Trenta, durante la quale il progressivo avvicinamento tra Germania e Italia mutò il quadro internazionale e l’immagine dell’Italia all’estero. A tale scopo occorreva fornire, secondo Pellizzi, una visione più attuale dell’Italia nel mondo; per questo motivo egli maturò in questi anni l’idea di un volume che potesse fornire in maniera asciutta e sintetica un quadro della storia e della politica italiana a partire dall’unità. La collana nella quale venne pubblicato il volume era diretta da E.H. Carr, esperto di politica internazionale, che conosceva da tempo Pellizzi e lo stimava. E la prefazione fu scritta da Alberto De Stefani, all’epoca ministro delle finanze, al quale Pellizzi l’aveva richiesta, anche per dare una maggiore dignità, per così dire ufficiale, al volume. Esso rappresentava una summa di quelle tradizioni e di quella cultura italiana che Pellizzi ritenne doveroso fossero propagandate all’estero; ed era anche un interessante affresco sul modo di intendere i problemi politici, economici e culturali a lui coevi. Evidenti apparivano gli echi dell’opera storiografica di Volpe119, e della sua formazione idealistica. Il libro, diviso in cinque capitoli, analizzava la storia d’Italia a partire dall’Unità, dando ampio risalto alle cause della mancata integrazione delle masse nella vita politica del paese, di cui il primo vero momento identitario era stato fornito dall’esperienza della Grande guerra, nella quale, sin dal 1914, si erano manifestati quei principi che poi sarebbero stati recepiti dal movimento fascista nel programma del 1919. La narrazione di Pellizzi, asciutta e lucida, seguiva alcuni motivi portanti, già espressi nei suoi scritti giovanili: il problema sociale e il patriottismo, che rappresentavano a suo avviso il fil rouge attraverso il quale interpretare la storia italiana. Anche rispetto al giudizio critico sulla vecchia classe dirigente liberale egli teneva conto del fatto che il volume era destinato all’estero, per cui lo scritACP, Serie V, b. 33, f. 43, lettera del segretario H. Harvey del 13 luglio 1938. Ad esempio nell’importante ruolo politico attribuito al partito socialista sul finire dell’Ottocento, che, colmando un vuoto, si era trasformato in partito attivamente patriottico, si ritrovano i temi espressi nelle opere di Volpe. 118 119

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to era sempre misurato e serio data la principale preoccupazione di fornire tutti gli elementi per far ben comprendere che il fascismo era stato per la società italiana un fenomeno nuovo, rivoluzionario e dirompente. Pellizzi si concentrava soprattutto attorno alla definizione del corporativismo, sottolineandone la prevalente funzione antitetica rispetto alla finanza privata, da cui trasparivano evidenti gli influssi del dibattito con Ezra Pound e con Odon Por; alcuni dei provvedimenti fascisti in materia finanziaria, come ad esempio la legge sul controllo bancario, erano presentati come il frutto di un confronto con le teorie del Social credit. Ma tali provvedimenti dovevano sempre essere inseriti in un più vasto contesto ideale antimaterialistico, che ne comprendesse gli aspetti politici e costituzionali. Chiaro era quindi il ritorno all’idea di un primato della politica rispetto alle altre discipline; e proprio a partire da questa interpretazione il corporativismo poteva combattere la finanza privata, giudicata da Pellizzi come la principale causa di decadenza della civiltà occidentale120. Era viceversa nel sesto capitolo, dedicato alla crisi etiopica, all’alleanza con la Germania, alle leggi razziali e alla guerra civile spagnola, che si notava una certa difficoltà nel mantenere la stessa chiarezza e linearità. Riguardo all’alleanza con la Germania, Pellizzi rilevava come molti pensavano che le leggi razziali in Italia fossero state ispirate dai tedeschi. Tuttavia egli sottolineava l’ontologica diversità dei due tipi di razzismi, quello nazista, ispirato essenzialmente ed in generale da ragioni biologiche; quello italiano, in cui il dato biologico riguardava solo le popolazioni delle colonie, mentre la questione propriamente ebraica si fondava invece su «an acute consciousness of the historical, cultural and religious differences between the Jewish community and the Italian nation»121. E Pellizzi ben avvertiva la delicatezza e la difficoltà di mantenere simili posizioni ed ammetteva che le leggi razziali contrastavano lo spirito del Concordato con la chiesa 120 Sul carattere fortemente antimaterialistico dei totalitarismi, e in particolare del fascismo italiano, Mosse ha insistito, affermando che il semplice gioco degli interessi economici, non fornisce valide motivazioni all’azione politica degli individui in tali sistemi. Cfr. G.L. MOSSE, Towards a general theory of fascism, in International fascism. New thoughts and new approaches, Sage Pubblications, London-Beverly Hills 1979, pp. 7, 19, 26. 121 C. PELLIZZI, Italy, Longmans Green & Co., London-New York-Toronto 1939, p. 191.

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cattolica, con la quale peraltro occorreva una ridefinizione dei rapporti. Il governo fascista ne era consapevole, ed insisteva molto sugli aspetti coloniali del problema. Nel tentativo di legittimare i provvedimenti contro gli ebrei Pellizzi affermava che essi avevano di fatto colpito circa 40.000 persone, le cui ricchezze raggruppate erano quaranta o cinquanta volte più grandi della ricchezza degli italiani non ebrei. L’intero ragionamento era evidentemente debole, tanto che Pellizzi, alla fine, concludeva in senso rassicurante affermando che «Italy is not and never be a country for pogroms»122. L’intento giustificazionista di Pellizzi era reso ancor più chiaro da un poscritto aggiunto al capitolo nell’imminenza della pubblicazione, avvenuta dopo l’entrata della Germania in Boemia e Moravia e lo sbarco italiano in Albania. A tale proposito Pellizzi affermava che: «L’unione sotto la corona Savoia, non altera la possibilità di uno sviluppo autonomo dell’Albania. Anche le sue rappresentanze diplomatiche all’estero sono rimaste le stesse [...] L’Italia può ora sentirsi sicura nell’Adriatico. La sua posizione rafforzata nei Balcani, non indica nessun desiderio di espansione territoriale»123. Affermazioni che, in quella primavera del 1939, ormai non potevano più avere quel voluto effetto rassicurante di fronte all’accelerato susseguirsi di eventi aggressivi da parte delle potenze dell’Asse. Ma Pellizzi, che sottovalutava la “lenta” opinione pubblica inglese, riteneva che simili affermazioni potessero in qualche modo influire su un effettivo rallentamento delle reazioni inglesi. Era invece l’ultimo capitolo a costituire la parte più originale del volume. Pellizzi vi analizzava a fondo i caratteri principali del fascismo, cogliendo l’occasione per tracciare le linee guida del “proprio” Ivi, p. 194. La posizione di Pellizzi rispetto al problema razziale non è di facile interpretazione. Da un lato nelle poche occasioni nelle quali ha trattato il tema, si è sempre adoperato nel distinguere il razzismo biologico nazista, da una concezione spirituale della razza, preferendo piuttosto finalizzare le persecuzioni razziali contro gli ebrei come lotta contro l’alta finanza, concetto, questo, sul quale ritorna in un suo articolo, Note sulla funzione internazionale del fascismo, in «Rivista del lavoro», gennaio 1939. Deve però essere ricordato un episodio nel quale in una segnalazione dell’Ufficio razza, si leggeva che Pellizzi, assieme a Riccardo Del Giudice, presidente dell’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro (ENIOS), si era rifiutato di firmare l’indirizzo del Consiglio superiore della demografia e la razza datato 25 aprile 1942. ACS, SPD CR, b. 83, “Del Giudice Riccardo”. 123 C. PELLIZZI, Italy, cit., p. 202. Tradotto dall’autore. 122

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fascismo. Il quale aveva portato il paese più debole in Europa ad un alto livello di benessere sociale, di istruzione. La dittatura era uno stato transitorio, necessario per creare uno stato autoritario senza privilegi, basato sul lavoro, principio cardine della società. In sintesi il fascismo era definito una «democrazia totale e funzionale». Pellizzi non perdeva l’occasione di riprendere il suo tema più caro: l’idea di una gerarchia/aristocrazia, basata su meriti personali e differenze funzionali nelle quali abilità, potere e responsabilità dovevano coincidere il più possibile. Egli riteneva che il regime stesse lavorando verso una nuova e più sostanziale democrazia che non guardasse semplicemente all’eguaglianza, immagine di per sé livellatrice e incapace di garantire vera democrazia. Ogni individuo avrebbe dovuto tendere a perfezionarsi nel suo modo e ogni perfezione individuale avrebbe contribuito ad un generale progresso dell’intero corpo sociale124. Pellizzi guardava a una società ideale, nella quale il connubio – impossibile per molti – tra fascismo e libertà, veniva riproposto come prospettiva per la creazione di una democrazia sostanziale. Erano temi che però, di fronte al precipitare degli eventi, apparivano poco realistici, anche se rientranti in un più generale progetto di politica educativa che verrà intrapreso, di lì a poco, da Pellizzi assieme all’amico Giuseppe Bottai, diventato ministro dell’educazione nazionale. Ma ormai egli meditava il ritorno in patria, che nel 1939 era diventato una certezza, e di lì a poco sarebbe stato chiamato a cimentarsi con incarichi assai impegnativi, dei quali egli stesso percepiva tutta l’importanza. Questi argomenti costituivano quindi una sorta di lascito, la volontà di fornire agli inglesi una immagine dell’Italia e della politica fascista che potesse ancora essere considerata accettabile. Tuttavia avrebbe continuato ad insistere sulla definizione dei principi-cardine del fascismo, nella continua tensione verso un loro chiarimento sul piano ideale. In un articolo apparso sulla «Rivista del lavoro» aveva riassunto alcuni punti che caratterizzavano la funzione internazionale del fascismo: 1) Autoritario, Corporativo, Autarchico: questi tre caratteri dello Stato fascista sono strettamente interdipendenti fra loro, e sono tutti e tre ugualmente essenziali alla ragion d’essere di questo Stato; 2) Il carattere del tutto nuovo, e non ancora chiuso in forme rigide, di questo Stato, ne determina, in ultima analisi, anche la politica estera: la 124

Ivi, pp. 211 e ss.

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quale dovrà perciò essere capita e giudicata in funzione della rivoluzione fascista, e secondo i suoi termini; 3) Universali sono la ragione e la funzione del Fascismo; interessano tutti gli uomini. In questa luce dobbiamo guardare, ed illustrare agli stranieri, i fatti e i propositi della politica estera dell’Italia fascista. Se in quindici anni l’Italia è passata da una funzione di comparsa a una funzione di protagonista, la ragione storica di questo fatto è da ricercare nella verità, universale, che il Fascismo esprime e realizza; 4) A quelle verità bisogna sempre riferire i bisogni e i diritti non ancor soddisfatti del popolo italiano, come di ogni altro popolo che si trovi in analoghe circostanze. Bisogni e diritti, che si debbono soddisfare non per ingordigia egoistica, ma per consentire la piena maturazione degli ordinamenti economici, sociali e spirituali della civiltà fascista125.

Ma la sua attenzione si sarebbe poi concentrata sui caratteri della guerra in Europa e sul chiarimento dei motivi ideali del fascismo126. Di fronte all’imminente conflitto si facevano sempre più urgenti i problemi della formazione di una nuova classe politica. Pellizzi aveva iniziato ad insistere su questi aspetti dalle pagine di «Critica Fascista» sin dal 1937, intervenendo in un vasto dibattito nel quale – in risposta alle istanze del gruppo di Bottai per una più efficace cultura politica che potesse formare le nuove classi dirigenti –127, riprendeva C. PELLIZZI, Note sulla funzione internazionale del fascismo, art. cit., p. 37. Si vedano a tale proposito alcuni suoi articoli apparsi su «Critica Fascista»: Sbandati e dispersi, 1° ottobre 1939; La crisi del sistema capitalistico e la guerra, 1° febbraio 1940; Problemi dell’integrazionismo europeo, 15 marzo 1940. 127 In un articolo di Bottai del dicembre 1936, leggiamo: «Adoperiamo con preciso intento la parola “azione” perché quella che occorre, così come occorre uno strumento, è, accanto alla “cultura-laboratorio”, una “cultura-azione”. Un’attività, cioè, della mente e del pensiero, volta alla difesa e all’offesa, al combattimento [...] La cultura per la cultura è un tempo della cultura, la cultura per l’azione è un altro tempo, il più lungo forse, e, sotto certi aspetti, il più decisivo nella storia dei popoli [...] Il compito degli Istituti fascisti di cultura si definisce proprio in questo trapasso all’azione. Dalla cultura in genere alla cultura fascista, si potrebbe dire: perché è in questo farsi fascista, nel darsi una tendenza e una direttiva che è il primo moto dell’azione [...] Basta, dunque, con le meschine attività dilettantistiche, con le piccole accademie, con le contraddittorie esibizioni, in cui ancora si perdono certi enti e Istituti e purtroppo, certa carta stampata. Noi abbiamo preso parte, dicitori o auditori, ad alcuni gironi di conferenze di cui non sapremmo dire oggi, se fossero più dannose che noiose, perché non legate da un metodo, non “dirette” a uno scopo. che non può essere per Istituti “politici”, come lo sono quelli fascisti di cultura, che questo fornire idee a dei combattenti, idee che eccitino e alimentino la volontà di imporsi, di dominare. Tutto il 125 126

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anche temi già affrontati dalle pagine del «Selvaggio» e analizzava le cause dell’insuccesso dell’attività educativa nella creazione di una coscienza politica fascista, rintracciandole in una scarsa insistenza del fascismo ad influire sulla vita privata degli italiani, sulle consuetudini familiari e sull’istruzione tradizionale. Questo atteggiamento aveva permesso di continuare a tenere separate la sfera politica e le aspirazioni personali dei giovani. Ma il nuovo progetto politico del fascismo procedeva rapidamente verso la svolta totalitaria e ciò comportava la “fascistizzazione” di tutti gli ambiti della vita di un individuo. Per questo, a suo avviso, era necessario introdurre nella scuola, a tutti i livelli, insegnanti esperti di dottrina del fascismo. Inoltre sui Corsi di preparazione politica, voluti dall’entourage di Bottai, egli riteneva che questi avessero contribuito a formare una buona burocrazia fascista, dei buoni funzionari di partito, ma non già una aristocrazia politica e quindi una classe dirigente capace e consapevole. La formazione di una simile classe dirigente non poteva avvenire solo attraverso dei corsi, ma coinvolgeva la formazione del carattere, il coinvolgimento della famiglia e la capacità di seguire i giovani in tutti i possibili ambiti della loro crescita128. È in questo clima che, a mano a mano, si farà avanti l’ipotesi di una presidenza dell’Istituto nazionale di cultura fascista affidata a Camillo Pellizzi, dal momento che egli era molto vicino alle posizioni del ministro dell’educazione nazionale Bottai, anche se su questi argomenti aveva mantenuto con lui sempre un dibattito critico assai acceso.

movimento culturale moderno tende a questo, in un esplicito, confessato, aperto orientamento politico [...] Cultura in azione, dunque. Questo chiedono i giovani. Questo devono dar loro gli Istituti fascisti di cultura, nella loro rinnovata unità», G. BOTTAI, Cultura in azione, «Il Messaggero», Roma, 16 dicembre 1936. 128 C. PELLIZZI, Educazione fascista e classe dirigente, in «Critica Fascista», 15 giugno 1937; ID., Educazione fascista e classe politica, ivi, 1° agosto 1937. È evidente qui l’affermazione di un totalitarismo fascista, nel quale tutta la sfera privata deve risolversi in quella pubblica. Su questo tema si vedano H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1967; R. ARON, Dèmocratie et totalitarisme, Gallimard, Paris 1965; L. SHAPIRO, Totalitarianism, MacMillan, London 1972; di recente si è soffermato su questo tema E. GENTILE, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002.

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Capitolo III

Una cultura per la guerra

1. L’Università italiana Il rientro in Italia era stato meditato da lungo tempo. Come risulta dai suoi taccuini e dal fascicolo personale della segreteria particolare del duce1, Pellizzi già dal 1935 aveva prospettato a Mussolini la possibilità di ritornare in Italia. Questa richiesta, avvenuta in occasione dell’impresa etiopica, aveva per Pellizzi un profondo significato, legato alle realizzazioni della rivoluzione corporativa e al suo ruolo universale, ma a quei tempi Mussolini, come si è visto, ritenne che Pellizzi avrebbe reso migliori servigi alla rivoluzione fascista rimanendo a Londra. L’idea di un rientro in patria comunque rimase viva e sin dal 1938 abbiamo nell’archivio Pellizzi prove che attestano i suoi colloqui tenutisi nel periodo estivo con i massimi esponenti della cultura accademica italiana circa lo stato delle università e la possibilità di bandire un concorso a cattedra nella materia di Storia e dottrina del fascismo, che facesse al caso di Pellizzi. Ne abbiamo testimonianza, oltre che dalle numerosissime lettere del padre, anche, tra l’altro, da alcune missive di Armando Carlini, di Pompeo Biondi, di Jacopo Mazzei e non ultimo dello stesso Bottai, che giocherà un ruolo primario nel rientro in Italia del suo amico e collaboratore. Il concorso (che poi verrà vinto da Pellizzi) venne bandito nel febbraio 1938 dall’Università di Messina; sin da allora, però, Pellizzi aveva tra i suoi progetti di occuparsi non più soltanto dell’insegnamento ma anche di altre questioni più propriamente attinenti alle istituzioni fasciste. Lo si deduce 1 ACP, Serie IV, Note XXX, b. 15, f. 123. Per il fascicolo vedi ACS, SPD CO, f. 509150, “Pellizzi Camillo”.

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da una lettera del padre del 7 marzo 19382, nella quale, questi – prima ancora che il figlio superi concretamente la prova concorsuale – già auspica un suo trasferimento da Messina a Roma con l’aiuto di B. (presumibilmente Bottai, allora ministro dell’educazione nazionale). Sin dall’inizio, quindi, il rientro di Pellizzi in Italia non avviene certamente solo nella prospettiva di una carriera accademica, ma perché Bottai lo vuole accanto a sé tra i principali collaboratori di una vasta opera di riforma educativa. Pellizzi, superato il concorso, venne nominato professore straordinario di Storia e dottrina del fascismo all’Università di Messina a partire dal 1° dicembre 1938, ma in realtà non insegnò mai in quella sede, poiché per il primo anno ottenne dal Ministero dell’educazione nazionale un comando a Londra, dove rimase, intrattenendo nel frattempo tutta una serie di contatti per poter ottenere un insegnamento nella Facoltà di Scienze Politiche di Firenze. Uno dei principali sostenitori di questo suo trasferimento fu senz’altro Jacopo Mazzei, il quale, sin dal dicembre 1938, si adoperò in modo tale da creare un posto nella Università della quale egli era appunto il pro rettore3, mentre l’altro personaggio che sostenne la soluzione fiorentina era l’amico Pompeo Biondi, il quale – come si deduce da una lettera del padre di Pellizzi del marzo 1939 – fu uno dei principali fautori presso il Consiglio di facoltà della chiamata di Pellizzi a Firenze4. Il rientro in Italia come professore appariva non privo di incognite. Da un lato vi erano gli innumerevoli compiti nel campo politico, che Pellizzi non intendeva certo trascurare; ma altre esitazioni (di non minore peso) derivavano dal dubbio di poter sostenere sé e la famiglia col solo stipendio universitario, in quanto dopo aver passato tanti anni fuori dal suo paese, erano proprio gli aspetti pratici e quotidiani ad essere per lui i più difficili da valutare. Questa preoccupazione traspare da una serie di lettere nelle quali Pellizzi chiede ad amici e conoscenti quale sia il tenore di vita in Italia e quali le possibilità di trovare, all’occorrenza, ulteriori introiti con la sua attività di pubblicista e di uomo di cultura5. 2 3

ACP, Serie V, b. 33, f. 43. Giovan Battista Pellizzi a Camillo Pellizzi, 7 marzo 1938. Si vedano le lettere di Mazzei del 5 e del 28 dicembre 1938 in ACP, Serie V, b. 33,

f. 43. 4 Nella lettera Giovanni Battista Pellizzi accenna pure ad altri problemi inerenti la cattedra. Infatti sul posto vi era già un incaricato, il prof. Fantechi e inoltre tra gli aspiranti vi erano anche Farinacci e Paolo Orano e rispetto a questi ultimi Giovanni Battista Pellizzi scrive: «Certo è che B. (Biondi) non può avere molto piacere che gli capiti tra capo e collo come collega di facoltà un Orano o un Farinacci». ACP, Serie V, b. 34, f. 44, Giovanni Battista Pellizzi a Camillo Pellizzi, 18 marzo 1939. 5 Ad esempio in una lettera del 5 giugno 1939 Luigi Contu, suo amico e direttore

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Ciò appare alquanto sorprendente se si pensa che nel 1939 Pellizzi godeva in Italia di una notevole fama e che i suoi articoli erano molto ricercati dai direttori di quotidiani, riviste e periodici non solo di area fascista, ma anche di stampo prettamente letterario. Basti pensare che tra il gennaio e il luglio del 1939 Pellizzi ricevette diverse proposte per collaborare a riviste quali «Lingua nostra» edita da Sansoni, «Il Frontespizio», «rimessa in piedi» da Soffici e Papini, per i quali la sua collaborazione era “ambitissima”, ed inoltre «Primato», ancora in fase di progettazione, per collaborare alla quale, come scrive Vecchietti, «Pellizzi è da vari mesi il numero uno»6. Ad accentuare la notorietà di Pellizzi in Italia nello stesso anno fu la sua partecipazione alla giuria del X premio letterario Viareggio, che era composta da Filippo Tommaso Marinetti, Ermanno Amicucci, Guelfo Civinini, Cornelio Di Marzio, Ezio Maria Gray, Domenico Melli, Guido Rispoli, Ardengo Soffici e Attilio Fontana. Ciò stava a dimostrare che il volume Le lettere italiane del nostro secolo e i suoi numerosi rapporti con i massimi esponenti del mondo letterario lo avevano collocato in una posizione di rilievo nel panorama della critica letteraria in Italia. Altra prova della forte notorietà di Pellizzi nel mondo accademico emerge proprio dal suo archivio: in particolare dalle numerosissime lettere di congratulazioni giuntegli all’indomani della sua nomina prima a Messina e poi a Firenze7. D’altro canto non si può dimenticare che il principale artefice del rientro di Pellizzi in Italia fu, come si è detto, proprio Giuseppe Bottai, il quale, da ministro dell’educazione nazionale, aveva cercato di favorirlo in tutti i modi perché egli potesse gestire il suo passaggio dall’Università di della confederazione fascista lavoratori industria, scrive: «Ti assicuro che tu godi in Italia di una grande considerazione, quale forse non puoi misurare personalmente – ma sei lontano e indipendente ora – domani che ti stabilissi qui e fossi costretto a chiedere qualche cosa, quanti dei tuoi estimatori attuali si comporterebbero con te in maniera da non offendere la tua sensibilità? [...] Ma ecco, prima di accettare la cattedra, se fossi al tuo posto, chiederei di avere assicurate concretamente altre possibilità di lavoro. In conclusione: durante l’estate vieni a Roma, parleremo a fondo della cosa ed io ti darò suggerimenti pratici circa le persone e gli ambienti. Puoi essere sicuro, in ogni caso che Cianetti, con il moltissimo che può, io, con la mia amicizia, ti saremo fraternamente vicini». ACP, Serie V, b. 34, f. 44. 6 Ivi, Giorgio Vecchietti a Pellizzi, 1° luglio 1939. 7 Ad esempio il 26 settembre 1939 Armando Carlini scrive dall’Università di Pisa una affettuosa lettera a Pellizzi, felicitandosi di essere finalmente colleghi universitari insieme e scrive: «Ricordi quando si ventilava l’idea durante il mio rettorato?». Ivi.

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Londra a Firenze nel modo più indolore possibile. Lo si ricava da una lettera che Bottai, in qualità di ministro, scrisse a Pellizzi il 28 giugno 1939: In relazione a quanto mi hai scritto circa il tuo trasferimento a Firenze, ti comunico che ho avuto, in proposito, uno scambio di vedute col Rettore dell’Università e vedrai che tutto andrà secondo i tuoi desideri. In quanto alla necessità che tu mi prospetti, che si tenga conto dei tuoi impegni in Inghilterra per il prossimo anno, della cosa potremo parlare più concretamente, quando sia stato raggiunto il primo obiettivo8.

Questo accenno al rettore Arrigo Serpieri non è casuale, in quanto quest’ultimo era preoccupato della possibilità che il posto venisse ricoperto da qualcuno che poi non sarebbe rimasto ad insegnare a Firenze. Serpieri infatti nella sua lettera a Pellizzi del 27 settembre 1939, dopo le felicitazioni e gli auguri per l’ottenimento del posto, non perse l’occasione di sottolineare che la facoltà di scienze politiche [...] ha bisogno di essere potenziata con uomini che risiedano qui, e che curino gli allievi, con qualcosa di più delle solite tre orette di lezione per 15 o 16 settimane all’anno, quando va bene!9

Ma Pellizzi in realtà non lasciò mai formalmente l’University College di Londra, rimanendo di fatto fuori ruolo. Peraltro le sue iniziali intenzioni (in cui vi era la prospettiva di mantenere l’insegnamento anche per il 1939-’40, con un comando, come aveva fatto per l’anno precedente) furono frustrate, da un lato, dalla mutata situazione internazionale e, dall’altro, soprattutto dall’atteggiamento di Serpieri, elementi che convinsero Pellizzi ad abbandonare questo progetto10. L’impegno di Pellizzi nell’Università di Firenze fu assai intenso, anche se nei mesi e negli anni successivi egli venne assorbito da ulteriori impegni istituzionali. Per le sue caratteristiche, la facoltà di scienze politiche veniva intesa da Pellizzi quale centro di formazione per l’alta dirigenza. Sulla funzione e struttura di tale facoltà vi era da tempo un dibattito aperto, legato soprattutto alla sua natura multidisciplinare, che proprio per il suo aspetto scarsamente specialistico poteva farla sembrare a molti una inutile riproduzione di facoltà già esistenti. Pellizzi si inserì in questo Ivi, Giuseppe Bottai a Pellizzi, 28 giugno 1939. Ivi, Arrigo Serpieri a Pellizzi, 27 settembre 1939 (sottolineato nel testo). 10 Ad esempio in una lettera del 4 luglio 1939, Jacopo Mazzei, gli diceva che «il rettore è ormai pienamente per la tua venuta». e poi affermava: «non ho parlato al rettore per tue difficoltà di insegnamento per l’anno prossimo, non mi è parso il momento». Ivi. 8 9

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dibattito portando con sé il proprio bagaglio di esperienze; ed uno dei primi passi da lui fatti per una organizzazione più razionale e specialistica della formazione fu appunto il progetto per costituire una Accademia, o Collegio di educazione politica, la quale doveva essere una sorta di “scuola di perfezionamento” per tutti coloro che si accingevano ad intraprendere la carriera politica. L’Accademia si sarebbe dovuta costituire a Firenze con sede nel palazzo San Clemente11. Il progetto, di cui Bottai era coautore, consisteva nella creazione, accanto all’università, di un organismo che rimanesse comunque distinto ed autonomo, tanto da consentire una formazione completa dei nuovi quadri dirigenti dell’amministrazione dello stato. Non era difficile ritrovare in tale idea una chiara influenza del mondo anglosassone e, in particolare, della figura degli organi di “alta cultura” di quel paese. Pellizzi vedeva infatti nell’Accademia la trasposizione italiana dei colleges inglesi12. Questo progetto incontrò alcuni ostacoli: innanzitutto mise in allarme Giovanni Gentile, rettore della “Normale” di Pisa, il quale temeva delle opposizioni di interessi con la scuola da lui diretta. Lo si deduce da una lettera di Bottai a Pellizzi: Caro Pellizzi, a proposito del Collegio [di educazione politica n.d.a.], della cui progettazione mi dai notizie con la tua del 2, è bene che costà sappiate, se non ne avete avuto già sentore, che a Pisa se ne è un po’ allarmati. Fu da me l’altr’ieri Gentile a sondare le acque. Io feci il “vagamente-informato”, per non alimentare eventuali, o certe, opposizioni d’interessi. Comunico tutto ciò a te riservatamente, essendo bene che io rimanga estraneo alle prime schermaglie per intervenire al momento opportuno. C’è dell’altro. Il mio direttore generale, da me incaricato di esplorare gli uffici degli Esteri, à fatto un accenno a Vitetti, che avrebbe manifestato la sua netta contrarietà all’idea di affidare a collegi la formazione di personale diplomatico; e avrebbe aggiunto tale essere il parere del Ministero. Sarà vero? Più in là io ne parlerò con Galeazzo. Se sarà vero, daremo al collegio altro indirizzo13.

La preoccupazione di Giovanni Gentile non era certo infondata. La Scuola Normale Superiore di Pisa era sempre stata il luogo privilegiato di formazione delle nuove classi dirigenti, ma certo su di esse influiva il ACP, Serie I, b. 6, f. 27, Progetto per una Accademia di educazione politica. In merito a tale progetto si vedano le varie lettere scritte da Bottai a Pellizzi tra la fine del 1939 e gli inizi del 1940, ACP, Serie I, b. 2, f. 6. 13 Ivi, lettera del ministro dell’educazione nazionale, Giuseppe Bottai, a Pellizzi 9 gennaio 1940. 11 12

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taglio più filosofico e letterario dato alla formazione superiore, piuttosto che quello “tecnico”, da esperti del settore dell’amministrazione della cosa pubblica, ipotizzato invece da Pellizzi e da Bottai per l’Accademia. Il secondo ostacolo, come si deduce dalla medesima lettera, derivava poi dal Ministero degli Esteri, ed, in ultima analisi, soprattutto da Mussolini. Come risulta da una lettera ufficiale scritta da Bottai, quale ministro dell’educazione nazionale, ad Arrigo Serpieri, nel marzo del 1940, il progetto fu accantonato «per motivi finanziari» dei quali però non venne fornito alcun ulteriore chiarimento14. La laconicità della comunicazione di Bottai risulta quantomeno singolare, se si pensa anche al fatto che egli era stato uno dei promotori dell’iniziativa. È probabile che in un colloquio dei primi di marzo del 1940, come risulta da altra lettera di Bottai a Pellizzi15, Mussolini si fosse opposto a tale progetto per non frantumare l’esercizio dell’educazione politica dei quadri dirigenziali, che per lui rimaneva compito fondamentale dello stato. E si potrebbe anche ragionevolmente pensare che Mussolini, a quella data, avesse già deciso, o quanto meno progettato, di nominare Pellizzi presidente dell’INCF. In tale ottica poteva ritenere inutile o superfluo un impegno di Pellizzi nella direzione dei collegi, dovendogli affidare un incarico che certo poteva ricomprendere anche quello di occuparsi di “alta cultura”; questa deduzione, seppur presumibile, può tuttavia essere enunciata in via ipotetica, in assenza di riscontri concreti. Il progetto dell’Accademia di educazione politica era stato determinato dalla preoccupazione di Bottai e dei suoi collaboratori ed amici, fra i quali anche Pellizzi, di un crescente senso di distacco tra il regime e l’alta cultura, sempre più relegata in ambito accademico e scarsamente coinvolta nelle vicende dello stato. Ciò era sentito in maniera tanto più urgente all’alba di un conflitto nel quale l’Italia avrebbe dovuto presentarsi con motivi ideali chiari e con un apparato politico culturale in grado di sostenere il confronto con l’alleato tedesco. Il coinvolgimento degli intellettuali era strettamente connesso a quello dei giovani. In questo contesto, di fronte ad un dilagante disagio giovanile – che si rilevava non solo negli atenei, ma anche fra gli studenti delle scuole superiori – era essenziale riconsiderare anche il ruolo dell’e14 Ivi, lettera del ministro dell’educazione nazionale, Giuseppe Bottai, al rettore della Facoltà di Scienze Politiche di Firenze, Arrigo Serpieri, 7 marzo 1940. 15 Ivi, Bottai a Pellizzi, 1 marzo 1940.

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ducazione e dell’istruzione superiore. Ed il problema dei giovani e delle università era tornato prepotentemente alla ribalta proprio a partire dal 1941, grazie anche alla organizzazione di una serie di convegni interuniversitari, che si erano sostanzialmente sostituiti ai littoriali. Tra questi giova ricordare il convegno nazionale di geopolitica, organizzato dai Gruppi universitari fascisti di Roma nel novembre di quell’anno e presieduto da Pellizzi, dove uno dei temi principali fu appunto la «formazione e il problema delle competenze dei dirigenti, dei tecnici e delle maestranze nell’economia italiana del dopoguerra». Si riproponeva, ancora una volta, il tema della formazione di una nuova classe dirigente; Pellizzi tuttavia tentava adesso di tradurre questi problemi – che fino ad allora erano stati esaminati in un’ottica esclusivamente fascista – in una chiave sociologica, impostandoli come problemi transpolitici. Il suo modo di affrontare i temi universitari risentiva senz’altro della esperienza inglese16, ma non era mai disgiunto dalla consapevolezza della specificità dell’esperienza italiana e soprattutto del totalitarismo. Ne è un esempio il Convegno interuniversitario sul tema della “Funzione e struttura della facoltà di scienze politiche” (ovvero per la riforma della facoltà di scienze politiche) svoltosi presso l’Università di Firenze il 16-17 aprile 1942, presieduto da Riccardo Del Giudice, al quale Pellizzi partecipò con un significativo intervento. Oggetto del convegno era costituito dalla necessità di rendere la facoltà di scienze politiche autonoma e maggiormente funzionale agli scopi della formazione di una classe dirigente per la pubblica amministrazione. In tal senso uno degli esiti emersi dal convegno e sottoposti al ministero dell’educazione nazionale era quello [...] che un piccolo numero di facoltà di scienze politiche debba essere trasformato in maniera tale da contribuire alla formazione di una aristocrazia politica mediante un nuovo ordine di studi, impostato sulle seguenti basi: a) una facoltà-collegio, a corso quinquennale, che accolga un numero limitato di giovani dalla maturità classica o scientifica, debitamente selezionati; che si svolga secondo un piano di studi composto di un triennio propedeutico e di un biennio di specializzazione, e che educhi nei giovani la personalità scientifica e morale; 16 Di tale avviso è V. ZAGARRIO, Giovani e apparati culturali nella crisi del fascismo, in «Studi storici», 3, 1980, pp. 621-622, dove inoltre l’autore, parlando di Pellizzi, afferma: «La sua formazione anglosassone, i suoi interessi letterari, oltre che sociologici e teatrali, ne fanno un personaggio anomalo nell’universo fascista [...] Pellizzi sogna, insomma, nel solco di una grande destra, uno stato autorevole, quello che fa dire ai suoi amici inglesi I wish I had Mussolini».

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b) un corso di perfezionamento annesso alla facoltà-collegio, che accolga un numero limitato di laureati provvisti di qualsiasi laurea, debitamente selezionati. Tale corso consterebbe di un primo anno introduttivo e di un successivo anno di specializzazione e concederebbe un diploma di perfezionamento politico, qualificato in relazione alla già posseduta laurea17.

In questa prospettiva Pellizzi, nella sua relazione dal titolo Educazione politica e collegi, ravvisava nelle università la necessità di una nuova impostazione, da cui potesse emergere un afflato comune tra docenti e discenti, e dove l’università assomigliasse sempre di più ad un “collegio”, una sorta di club, un “convivium”, che fosse «abito di conversazione e di dibattito permettendo così un confronto aperto tra gli studenti universitari ed i professori». In particolare, effettuando un bilancio in ordine alle prospettive di formazione di una classe dirigente, egli affermava: Direi che, [...] nell’Italia dell’ultimo ventennio si sia spento il seme di quella minoranza ristretta che prima di tale periodo, bene o male (e forse più male che bene), aveva guidato le nostre sorti; in luogo di quella minoranza, che possedeva un certo suo abito operativo, una mentalità e una cultura, abbiamo ora un grandissimo Capo e, intorno a Lui, poche eminenti personalità isolate. Non nego che esistano oggi in Italia notevoli valori individuali nei campi della scienza, dell’insegnamento, della magistratura, della burocrazia, delle iniziative tecniche ed economiche; manca però, e tutti ne sentiamo la mancanza, un denominatore comune politico e direttivo a tutti questi valori individuali, l’amalgama che li coordini, contenga, la sostanza che li indirizzi; noi sentiamo che manca pur l’embrione di quello che impropriamente, forse, da molti si auspica affermando la necessità di una “classe” dirigente18.

Pellizzi passava poi ad esaminare l’esperienza dei centri di preparazione politica costituiti presso il Pnf per l’educazione dei dirigenti del partito; criticando la dicotomia creatasi tra i due tipi di formazione, egli riteneva assurdo che in uno stato totalitario dovessero esistere due tipi di educazione superiore alla dirigenza, uno per i dirigenti del partito e l’altro per i dirigenti statali, in quanto: «l’espressione più pura del fascismo e della ACP, Serie I, b. 5, f. 16. Vedi Atti del convegno universitario 16-17 aprile 1942 - XX, con premessa di Arrigo Serpieri, Firenze 1943. In particolare il tema centrale del convegno era costituito dall’urgenza di fornire maggiore dignità ed autonomia alla facoltà di scienze politiche, troppo spesso considerata un ripiego rispetto a quella di giurisprudenza. Una delle relazioni più interessanti in tal senso fu quella di Pompeo Biondi impostata nel senso di renderla più che una facoltà in senso stretto, una scuola di perfezionamento per la «formazione di una aristocrazia politica». 17 18

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razza italiana è lo Stato». Ma soprattutto nelle conclusioni del Convegno effettuava un intervento assai significativo sul suo modo di vedere e di intendere il ruolo educativo di uno stato totalitario: Io ho parlato anche dei collegi inglesi, ma è diverso il tipo sociale, diverso il tipo umano dell’italiano rispetto all’inglese [...] e sono diversi anche i fini politici e sociali cui noi miriamo. Poiché il sistema dell’educazione a collegio in Inghilterra portava a quella determinata aristocrazia inglese che era insieme feudale e liberale. Noi abbiamo voluto superare quei termini, o li vogliamo superare, onde il nostro problema è inverso. Lo Stato totalitario non è feudale né liberale, è anti-feudale e anti-liberale. [...] L’ecc. Volpe ci ha detto cose illuminanti circa il concetto in base al quale fu costituita la Facoltà di Scienze politiche di Roma. Si pensava di fare una facoltà per quegli abbienti i quali, per natura di cose, erano predestinati alla politica: benestanti, latifondisti o comunque possidenti terrieri, figli di ricchi industriali, figli di ministri o di altri personaggi che avevano già una posizione nella vita pubblica; insomma era destinata ad una casta che, sebbene non fosse rigidamente definita, tuttavia esisteva. Io sono abbastanza vecchio per ricordare l’esistenza di quella casta, che fu la casta dirigente italiana fino all’altra guerra ed alla Rivoluzione Fascista. In realtà il potere di quella casta si è spezzato, ne siamo completamente fuori; e questa è una delle profonde ragioni della non vitalità delle Facoltà di Scienze politiche come sono costruite tuttora. È proprio l’esigenza dell’educazione al comando che non trova soddisfazione nelle attuali Facoltà di Scienze Politiche. In Italia, secondo me, è molto difficile trovare della gente che sappia comandare. Non è vero che l’Italiano sia difficile o restio ad obbedire: io trovo, semmai, che è spesso troppo pronto ad obbedire senza convinzione, quindi a metà, o anche peggio19.

Pellizzi arrivava qui ad ipotizzare, provocatoriamente, anche l’abolizione della facoltà di scienze politiche, la quale, se non avesse mutato radicalmente il proprio indirizzo, sarebbe risultata a suo avviso totalmente inutile, e questa proposta proveniva non solo da lui ma da una nutrita schiera di intellettuali, i quali erano arrivati a costituirsi in un comitato per l’abolizione della facoltà, anche se poi la vera intenzione era quella di proporre una sua radicale trasformazione anche attraverso la predisposizione di un nuovo statuto20. Il vasto dibattito sorto intorno alle università investiva in maniera immediata questioni in quel momento assai delicate relative al ruolo ed Ibidem. Ibidem, tra i personaggi coinvolti possiamo annoverare Pompeo Biondi, Salvatore Valitutti ed Ugo Spirito. 19 20

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alle peculiarità educative di un regime totalitario. Una parte significativa di questo dibattito si era svolta, non a caso, su «Primato» nel 1941, e si era incentrata sul rapporto tra cultura e università. In una lettera del dicembre 1940, Giuseppe Bottai, nell’invitare Ugo Spirito a scrivere per quella rivista, gli illustrava alcuni degli aspetti di più vasto interesse che sarebbero stati ivi trattati. Tra questi vi erano: il rapporto tra cultura universitaria ed extrauniversitaria; i principali orientamenti dei giovani; il ruolo delle università nella vita nazionale e la loro funzione in uno stato corporativo; i compiti della cultura universitaria nel dopoguerra21. È evidente che il dibattito svoltosi su «Primato» altro non era che il sintomo della sostanziale attenzione di Bottai ai temi della cultura dell’università e dei giovani, con uno specifico interesse per l’“ordine nuovo”. Proprio per questo – e anche nel tentativo di contrastare quella tendenza del regime (e nella specie dello stesso Mussolini) ad allontanarsi dagli intellettuali e dai temi a loro cari – questi convegni universitari, uniti ai dibattiti sulle riviste, dovevano servire a sostenere la spinta al rinnovamento delle università (ma non solo di quelle), che si concretizzò nella costituzione del “comitato di alta cultura” presso il Ministero della educazione nazionale22, del quale faceva parte lo stesso Pellizzi assieme ad altri uomini di cultura23. In realtà l’attenzione verso gli atenei era rivolta, più specificamente, alla cultura italiana nella sua interezza ed alle sue sorti in un nuovo ordine europeo. Lo confermano alcune intuizioni di Bottai, che si evincono dalla lettera indirizzata a Ugo Spirito24, e che sfociarono nella promozione del vasto dibattito sulle università e la cultura apparso su «Primato», nel cui contesto vi era una linea comune ai numerosissimi interventi: il problema universitario veniva inteso come problema di cultura e di definizione di nuovi spazi in senso più generale. Inizialmente il fascismo aveva rappresentato per le università e la vita culturale del paese, una ipotesi di rinnovamento, in quanto esso si era evidentemente posto come movimento anti-accademico, in lotta contro la vecchia classe politica e quindi contro la cultura superiore, essenzialmenACP, Serie I, b. 2, f. 6, Bottai a Spirito, 3 dicembre 1940. A questo proposito si veda la lettera di Bottai a Spirito del 30 ottobre 1940 nell’Archivio Spirito e inoltre la lettera di Pellizzi a Barbieri del 13 ottobre 1941 in ACP, Serie I, b. 3, f. 9, nelle quali si parla diffusamente di questo comitato. 23 Di tale comitato facevano parte Celestino Arena, Gino Barbieri, Ugo Spirito, Giuseppe Bottai, in qualità di ministro dell’educazione nazionale, e anche Pompeo Biondi, cfr. ACP, Serie I, b. 3, f. 11, Arena a Pellizzi, 23 gennaio 1943. 24 Archivio Spirito, Bottai a Spirito, 3 dicembre 1940. 21

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te liberale e concepita come valore politico in sé e per sé, chiusa ed autosufficiente. Il fascismo delle origini aveva rappresentato la negazione di un tale firmamento etico, poiché affermava la totale responsabilità politica di ogni individuo e quindi anche del suo pensiero. Attraverso l’idealismo attualistico e l’attivismo che ne costituiva il nucleo ideale, aveva cercato di soddisfare quella esigenza di interezza morale a cui non poteva sfuggire nemmeno l’uomo di scienza. Ma il fascismo – una volta giunto al potere e quindi “normalizzatosi” – aveva assunto di fronte alle università e alla cultura un atteggiamento contraddittorio: esso infatti non era stato capace di rinnovare la cultura dall’interno, sulla base dei suoi stessi presupposti attivistici, né di costringere la cultura a farsi azione, ma, lasciando intatte le istituzioni universitarie con il loro carattere intellettualistico, si era limitato a svalorizzare la cultura e a toglierle ogni funzione concreta nella vita del paese, preferendo svilirla, deriderla o negarla piuttosto che impegnarsi a fondo per la creazione di una propria cultura attivistica. Questa incapacità venne sottolineata da Pompeo Biondi nel suo intervento nel dibattito apparso su «Primato», nel quale egli notava con acume: L’attivismo non crea la sua cultura, ma si trascina dietro la vecchia cultura, non si sa bene se per deriderla o per venerarla, certo non per servirsene e farla servire come tale, nell’opera costruttiva della rivoluzione. D’altronde la cultura italiana si poneva bensì come il primo ostacolo per il rinnovamento profondo del costume italiano, ma si presentava anche come un patrimonio di venerande tradizioni, una specie di misterioso idolo che sembrava dovesse incenerire chiunque si provasse ad alzare anche un solo pensiero irriverente. Perciò il fascismo ha seguito nella sua prima fase e per lunghi anni in sostanza la politica di screditare sempre più questo idolo, come una sempre maggiore e sempre maggiormente dimostrata estraneità della viva Nazione da ciò che pensavano e ragionavano gli studiosi nella loro torre d’avorio. Ma d’altronde ha mantenuto l’idolo screditato sul suo piedistallo25.

Sulla difficoltà di confrontarsi o scontrarsi con «la cultura occidentalizzante degli ultimi due o tre secoli, la cultura franco-britannica, protestante e nazionalista, individualista e analitica, utilitaria ed estetizzante», si era soffermato anche Pellizzi, il quale però ravvisava in questa cultura dei chiari segni di decadenza ritenendola ormai superata. Il problema era semmai definire chiaramente da che cosa essa fosse superata: se infatti, 25 P. BIONDI, intervento nel dibattito su: Le università e la cultura, in «Primato», II, 7, 1 aprile 1941, p. 5.

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secondo Pellizzi, in Italia si era cercato di fare molto lavoro, almeno fino al 1935, per tentare di costruire una nuova cultura, una nuova visione della società moderna e dei nuovi rapporti tra individuo e comunità sociale che essa comportava, tuttavia – con l’ingresso in quello che Pellizzi chiamava «il ciclo delle guerre fasciste» – questo processo, solamente abbozzato, si era arrestato. Egli rilevava il pericolo della perdita di moventi ideali con l’appressarsi dei vari conflitti ai quali l’Italia si era via via dedicata: [...] ben poco lavoro si è fatto, e qui e in Germania, e non sempre ottimo lavoro, se pensiamo all’altezza del compito, all’impegno che esso comporta. Inutile avere delle idee se non si hanno delle baionette, ma ancor più inutile, anzi in definitiva dannoso, aver delle baionette se non si hanno delle idee. Nelle università e fuori delle università, dove sono gli ingegni e che fanno? Non si sono ancora accorti che essi costituiscono le prime linee, le forze di rottura, in questa guerra? O si sono già dati per vinti prima di combattere?26

Pellizzi cercava di individuare le cause di una scarsa partecipazione delle università alla vita culturale del regime, rilevando sì la mancanza di collaborazione del mondo accademico, ma nel contempo precisando che, quando si parlava di “collaborazione”, si supponevano sempre due soggetti collaboranti; e in tal senso egli si chiedeva se anche il regime non si fosse reso latitante nei confronti di una politica culturale che rimaneva tutta da definire. I vari organi del regime, fortemente impegnati in sede esecutiva e politica, ben raramente avevano trovato il modo e il tempo di intensificare e arricchire la loro azione politica sostanziandola di nuove idee, di motivi etici e culturali di ampio respiro, tramite la collaborazione degli uomini e degli strumenti della cultura. Per Pellizzi, ciò era tanto più grave per il fatto che il regime fascista proponeva un modello totalitario del consorzio civile; quindi, proprio in un’ottica totalizzante, era assurdo mantenere le distanze da quella che doveva essere invece la fonte ideale di questo “stato nuovo”: In un regime del vecchio modello parlamentare e democratico, si potrebbe tenere altro discorso. In un regime totalitario, a mio subordinato avviso, è funzione degli organi pubblici far da ponte fra la cultura universitaria e quella, nonuniversitaria, impegnandole entrambe, in vario modo, ma a fondo e senza possibili evasioni, in tutta l’opera amministrativa e politico-culturale del regime”

e poi parlando del compito degli uomini di ingegno nella guerra: 26 C. PELLIZZI, intervento nel dibattito su: Le università e la cultura, ivi, II, 5, 1 marzo 1941, p. 5.

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Nell’Università, e fuori delle Università, dove sono gli ingegni e che fanno? Non si sono ancora accorti che essi costituiscono le prime linee, le forze di rottura, in questa guerra? O si sono già dati per vinti prima di combattere?27.

Ma, accanto a queste riflessioni, Pellizzi poneva una questione emblematica per la maggior parte degli intellettuali italiani durante la seconda guerra mondiale. Partendo dal confronto tra la prima e la seconda guerra mondiale, egli sosteneva che la guerra attuale sarebbe apparsa agli storici come un vero e proprio conflitto tra culture. Pellizzi partiva da quello che era stato un po’ il leit motiv della sua speculazione, ossia il rapporto con la modernità a partire dalla caduta dei valori tradizionali. Egli individuava nella seconda guerra mondiale il definitivo crollo della cultura occidentalizzante «[...] la cultura franco britannica, protestante e razionalista, individualista ed analitica, utilitaria ed estetizzante»28. Ma il quesito centrale era: da che cosa questa cultura sarebbe stata sostituita? E non è un caso che fosse proprio Manlio Lupinacci, sempre su «Primato» a riprendere il quesito di Pellizzi, notando che egli aveva posto il problema, assai importante, del potenziale “vuoto” ideale e culturale nel quale gli intellettuali europei si dibattevano29. Come detto, è certamente non privo di interesse il fatto che, mentre la guerra stava assumendo toni sempre più aspri, si intensificassero i dibattiti e il confronto sul ruolo della cultura nella società. Ciò potrebbe risultare incomprensibile se non ci si soffermasse su due aspetti interessanti: il primo riguardante la funzione che la guerra stava assumendo per molti intellettuali, i quali – dato il fallimento del regime nel cercare di creare uno stato corporativo, organicisticamente inteso e totalitaristicamente organizzato – vedevano nella guerra una possibilità di realizzare questa “rivoluzione mancata” e, contemporaneamente, sentivano l’urgenza di sostenere il conflitto «con motivi ideali profondi»30 (per moltissimi infatti, specialmente tra i più giovani, la chiamata alle armi e la guerra Ibidem. Ibidem. 29 M. LUPINACCI, Un nuovo romanticismo, in «Primato», II, 6, 15 marzo 1941. Su questo aspetto si veda “Primato” 1940-1943, antologia a cura di L. MANGONI, De Donato, Bari 1977, in particolare pp. 49-51. 30 Si veda lo scritto di U. SPIRITO, Guerra rivoluzionaria, a cura e con introduzione di G. Rasi, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1989, nonché, per comprendere meglio l’atteggiamento giovanile, F. GAMBETTI, Controveleno, Barulli, Osimo 1942, dove l’autore vede nella guerra l’estrema occasione di realizzare integralmente la rivoluzione fascista. 27 28

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furono «la fuoriuscita dall’ambito dei sentimenti privati e la reintroduzione nei problemi del mondo»)31. Il secondo elemento era dettato dall’idea che, quand’anche il regime fosse crollato, la via totalitaria e corporativa – che per il fascismo non aveva rappresentato altro che una etichetta – rimaneva comunque la risposta alla esigenza di costruzione di una nuova organizzazione politico-sociale in risposta ai problemi posti dalla società di massa, a prescindere dalle forme politiche nelle quali una simile realizzazione avrebbe potuto concretizzarsi, convinti comunque della sostanziale inadeguatezza dei modelli occidentali. Come ha scritto Alfassio Grimaldi: Potevamo ammettere che si negasse il fascismo, ma per andare oltre, non per tornare a quelle posizioni che nella loro deficienza ne avevano appunto giustificato l’avvento. La storia cominciava il 28 ottobre dell’anno fatale: prima c’erano il marasma e l’utopia32.

2. L’Istituto nazionale di cultura fascista Fin dal 1938, e in particolare prima dell’entrata in guerra, Mussolini aveva registrato un progressivo distacco dalle istituzioni di molti esponenti della cultura italiana; ma egli riteneva che tale classe fosse imbevuta di decadentismo e, qualora non fosse stata in grado di “stare al passo” con i mutamenti del regime, sarebbe stata presto radicalmente trasformata. Ben più utile era per Mussolini occuparsi dell’educazione delle masse. Tale sua posizione però aveva ancor più contribuito ad allontanare gli intellettuali italiani dalla cultura ufficiale e dal regime. Questo fenomeno, come ha sottolineato De Felice, riguardava principalmente quelli fra gli intellettuali che si erano formati prima che il fascismo arrivasse a controllare totalmente l’istruzione, e quelli che avevano creduto che il fascismo sarebbe rimasto comunque nell’ambito di una tradizione culturale preesistente, i quali viceversa si erano dovuti ricredere, perché oramai il regime si muoveva lungo dei binari che non avevano più nulla a che fare con quella tradizione33. 31 La generazione degli anni difficili, a cura di E. A. Albertoni, E. Antonini, R. Palmieri, Laterza, Bari 1962. Testimonianza di U. Alfassio Grimaldi, p. 51. 32 U. ALFASSIO GRIMALDI in Autobiografie di giovani del tempo fascista, Morcelliana, Brescia 1947, p. 55. 33 Vedi R. DE FELICE, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario (1936-1940), Einaudi, Torino 1981 p. 727. Sul rapporto tra il mondo intellettuale italiano e il regime fascista si

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Tra i collaboratori del duce vi era però chi aveva chiaramente percepito il possibile danno derivante da questo allontanamento e aveva tentato di metterlo in guardia. Giuseppe Bottai, il 20 luglio 1940, aveva inviato a Mussolini una lunga lettera-relazione, che in realtà era stata redatta da Ugo Spirito: in essa si esponevano i rischi insiti nel trascurare una politica culturale che tenesse conto del mondo degli intellettuali, senza i quali il regime avrebbe corso il serio pericolo di far arrivare il paese impreparato, e culturalmente disorientato, al tavolo delle trattative per la pace; ma, soprattutto, si sottolineava come, con l’ausilio degli intellettuali, l’Italia avrebbe potuto fronteggiare meglio la Germania sulla questione dell’“ordine nuovo”34. In particolare nella relazione si affermava che la cultura italiana, dopo la guerra d’Etiopia, aveva rinunciato ad ogni tipo di collaborazione col regime; e mentre l’idealismo era entrato in crisi, la classe intellettuale si era sempre più ritirata su posizioni tradizionali ed antirivoluzionarie, dalle quali derivava il disorientamento in cui si era trovata l’Italia di fronte al conflitto. Conseguentemente, il documento conteneva una esortazione a far cadere le diffidenze verso gli intellettuali e a coinvolgerli nel processo di “rinnovamento morale” che Mussolini voleva raggiungere attraverso la guerra; ciò appunto per uscire dall’incertezza e per presentarsi accanto alla Germania «con idee chiare e di ampio respiro»35. Per raggiungere tale scopo era necessario quindi mettere in moto un vasto movimento di idee che arrivasse ad avere influenza sul piano ideologico e culturale; ma prima vedano anche: M. ISNENGHI, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, Einaudi, Torino 1979; V. DE GRAZIA, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, trad. it., Laterza, Bari 1981; G. TURI, Il Fascismo e il consenso degli intellettuali, il Mulino, Bologna 1980, nonché ID., Lo stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002. Sugli aspetti specifici riguardanti l’Istituto nazionale di cultura fascista si veda G. LONGO, L’istituto nazionale fascista di cultura. Gli intellettuali tra partito e regime, Pellicani, Roma 2000. 34 Ivi, pp. 920 e ss. Come detto la lettera-relazione non era di Bottai, ma di Ugo Spirito, il quale era assolutamente in linea con Bottai su questo problema, aveva insistito più volte sulla opportunità di ripristinare il collegamento tra Stato e cultura e di assumere una posizione precisa di fronte al nuovo assetto che l’Europa avrebbe assunto alla fine della guerra; a tale relazione Bottai aveva aderito facendola passare come propria e cancellando nove righe dal testo originario, cercando così di ottenere un effetto più positivo ed una reazione proficua da parte di Mussolini, cfr. il saggio introduttivo, a cura di G. Rasi, del volume U. SPIRITO, Guerra rivoluzionaria, cit., pp. 16-18. Cfr. inoltre R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. I. L’Italia in guerra (1940-1943), Einaudi, Torino 1990, p. 851. 35 Cfr. la lettera-relazione, riprodotta integralmente in R. DE FELICE, Mussolini il duce. II., cit., p. 925.

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era altrettanto necessario restituire al mondo culturale italiano un suo spazio specifico che gli permettesse di esercitare un effettivo impulso di rinnovamento. La lettera-relazione non ebbe un effetto positivo su Mussolini. Tuttavia, Spirito continuò a insistere per altra via su questo tema e, assieme ad altri intellettuali, nel novembre del ’40, elaborò una proposta, presentata al Ministero della educazione nazionale, per la costituzione di un Consiglio centrale per l’alta cultura36: quest’organo avrebbe avuto il compito di rinsaldare il legame tra cultura e politica, facendo il punto sulla situazione italiana in ogni campo di studio, in patria ed all’estero, e sensibilizzando gli intellettuali, soprattutto i docenti universitari, ad intraprendere ricerche per le quali lo stato avesse un particolare interesse. Tutto ciò doveva servire ad individuare, sia all’interno che fuori dalle università, elementi di potenziamento e coordinamento delle iniziative culturali e scientifiche che rendessero più efficaci ed evidenti i contributi della cultura italiana. Così Spirito descriveva la cultura italiana di quel momento. L’intervento dello Stato nella cultura non è penetrato nella intimità degli organismi e solo ne ha promosso l’allineamento formale e burocratico. [...] Ma soprattutto questo interventismo statale nel campo degli istituti di cultura e di ricerca si è svolto senza alcuna relazione né diretta, né indiretta, con i problemi della vita e del funzionamento delle Università37.

Era una visione molto lucida della situazione, che in una immediata prospettiva non riservava nessun margine di mutamento. Bottai, il 9 dicembre 1940, inviò la proposta elaborata da Spirito a Mussolini, ma questi si limitò semplicemente ad autorizzare Bottai a «promuovere una vasta discussione universitaria sui temi della nuova Europa»38. 36 AFUS, Consiglio centrale per l’alta cultura (schema per la sua costituzione), 5-20 novembre 1940. A questo progetto dovevano collaborare, oltre a Spirito, anche Luigi Volpicelli, Delio Cantimori, Carlo Morandi, Giuseppe Chiarelli, Giuseppe Bruguier, Renato Spaventa, Livio Livi, Gino Barbieri e Salvatore Valitutti, che avrebbe dovuto essere il segretario del consiglio. 37 Ibidem. 38 Vedi R. DE FELICE, Mussolini il duce. II., cit., p. 854. Spirito tuttavia non smise di insistere sulla necessità che l’Italia assumesse un ruolo di guida ideale nel conflitto e, ancora nei primi mesi del 1941, insisterà su questo tema attraverso la stesura del volume “Guerra rivoluzionaria”, poi rimasto inedito; il testo venne sottoposto da Bottai a Mussolini nel novembre 1941, ma Mussolini negò il suo consenso per la pubblicazione a

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L’interesse del duce era concentrato sulla educazione capillare delle masse, nella necessità di “serrare i ranghi” in vista della guerra. In questo senso, le istituzioni del regime erano le uniche a poter fare fronte a questa esigenza; soprattutto, era necessario che gli uomini migliori del fascismo, i fascisti della prima ora, si impegnassero in questa opera di mobilitazione del popolo italiano. È in questa ottica che va interpretata la designazione di un uomo come Pellizzi alla presidenza dell’Istituto nazionale di cultura fascista. Tuttavia non va dimenticato che il principale sostenitore della sua candidatura era proprio Giuseppe Bottai. Pellizzi quindi rappresentava e garantiva le due esigenze emergenti: era uomo dotato di sensibilità nei confronti dell’alta cultura, ma nel contempo era profondamente convinto che gli intellettuali dovessero impegnarsi a fondo nella educazione del popolo per il raggiungimento degli scopi rivoluzionari del fascismo. In un primo momento Mussolini ebbe un atteggiamento evasivo di fronte alla richiesta di Bottai di un avvicendamento alla presidenza dell’Istituto, riconfermando nella carica Pietro De Francisci nel novembre del 193939. Ma già nell’inverno tra il 1939 e il 1940, Bottai fece in modo che Pellizzi fosse chiamato a presentare un nuovo progetto editoriale per la collana dei Quaderni dell’Istituto; e infine, in meno di un mese, dai primi di marzo ai primi di aprile del 1940, Mussolini decise il cambio della guardia, per cui Camillo Pellizzi diventò presidente dell’Istituto fascista di cultura il 5 aprile 1940. Non si conoscono le ragioni interne di questa repentina decisione, sulla quale però pesa certamente il particolare momento: a quella data Mussolini era convinto che l’Italia avrebbe dovuto entrare al più presto nel conflitto in atto e ciò stava a significare che era il momento di predisporre tutte le misure necessarie alla mobilitazione permanente. Il duce riteneva che un uomo di sicura fede fascista, quale Pellizzi, fosse altamente utile ai fini propagandistici. Inoltre la sua levatura intellettuale, l’ampiezza di vedute e l’intelligenza politica di cui era dotato lo rendevano il migliore candidato alla presidenza di un istituto che, oltre alla propaganda, si sarebbe dovuto occupare della mobilitazione morale e culturale per il fronte interno. causa della posizione contraddittoria assunta nei riguardi del proletariato e soprattutto perché non riteneva convincente la possibilità che l’Italia potesse condizionare la politica tedesca, cfr. altresì l’introduzione a U. SPIRITO, Guerra rivoluzionaria, a cura di G. Rasi, cit. e inoltre G. BOTTAI, Diario (1935-1944), a cura di G. B. Guerri, Feltrinelli, Milano 1982, p. 290. 39 ACP, Serie I, b. 2 f. 6.

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Come si è visto, Pellizzi godeva della stima e dell’apprezzamento di Mussolini da molto tempo, anche se nel passato vi erano anche state delle aperte critiche del duce verso alcuni atteggiamenti eterodossi assunti da Pellizzi. Egli tuttavia era portatore di idee nuove e inoltre la lunga permanenza in Inghilterra lo aveva messo al riparo dal logoramento ideologico che la militanza politica poteva comportare, in pratica poteva essere considerato un “uomo nuovo” per le istituzioni fasciste. Nel contempo, la sua formazione, compiuta per lo più sotto l’influsso dell’idealismo gentiliano, e il successivo sviluppo politico-ideologico, lo rendevano l’erede naturale di quelli che erano stati i motivi ispiratori della creazione dell’Istituto di cultura avvenuta durante il Congresso di Bologna nel 1925, alla quale, non va dimenticato, Pellizzi aveva contribuito. Come ha ben sottolineato Emilio Gentile: Nell’ideologia fascista la politica era il più alto dei valori umani, valore Metessico perché rivolto sempre al futuro e alla creazione di nuove realtà storiche. In questa valutazione Pellizzi concordava con Bottai, con Gentile, con lo stesso Mussolini. Del resto, la filosofia che circola nel pensiero di Pellizzi è l’idealismo gentiliano, con il senso dinamico e attivistico della vita e la concezione della storia come processo inesauribile40.

Se anche poi, come si è visto, la posizione di Pellizzi nei confronti dell’idealismo gentiliano si era fortemente evoluta sin dagli anni della sua formazione, rimaneva tuttavia essenziale in lui il riconoscimento della centralità dell’idealismo nel fascismo. È sintomatico il fatto che, il giorno stesso del suo insediamento, egli scrivesse una lettera a Gentile: Succedere a De Francisci è, moralmente, un onere troppo grave per le mie spalle. Materialmente l’onere è di altro genere: il compito cui dovremo assolvere è immenso ed impellente41.

Proprio su questo compito culturale Gentile aveva scritto a Pellizzi: 40 Cfr. E. GENTILE, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), cit., p. 395. Tuttavia si è visto che se, da un punto di vista metodologico, la dialettica gentiliana era costantemente presente nel pensiero di Pellizzi, non così avveniva per molte delle posizioni assunte da Gentile specialmente sul problema del rapporto individuo-stato e, ancora una volta, sul tema dell’autorità, in quanto Pellizzi in più di una occasione si era trovato in contrasto con Gentile per aver favorito una eccessiva immanentizzazione (dei valori civici e politici), finendo per svilirne il più alto significato etico. 41 AFGG, Pellizzi a Gentile, 5 aprile 1940.

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Caro Pellizzi, sono lieto che sia venuto alle vostre mani l’Istituto nazionale di cultura fascista. Voi saprete riaccendere la fede da cui l’Istituto fu creato, poiché non è possibile che esso si limiti all’ordinaria amministrazione della propaganda interna. Cultura vuol dire iniziativa di ogni giorno [...]42.

Pellizzi, con altra lettera a Gentile del 9 aprile, tornava su questo concetto, indicando l’esigenza di una educazione continua, perpetua, degli italiani alla politica43. Pellizzi aveva già affrontato questo argomento in un suo articolo del 1939, apparso su «Critica Fascista»: Educare politicamente un popolo non significa solo, né principalmente, mandarlo a certe scuole dove si insegnino certe dottrine. Significa soprattutto farlo vivere in un dato ordine e in un dato clima, e condurlo a partecipare consapevolmente, in modo sempre più profondo e attivo, allo Stato in tutte le sue manifestazioni ed organi; significa anche dare a categorie sempre più vaste del popolo e in modo sempre più chiaro e ragionato, la sensibilità delle esigenze mutevoli della vita politica e dei nuovi orientamenti che lo Stato di volta in volta richiede. Questo compito educativo non si potrà mai ritenere esaurito e, più ancora, per il continuo mutare della situazione e dei problemi della vita associata. Ogni cittadino anche ricchissimo di talenti, di esperienze e di dottrina, dovrà considerare come perpetuamente aperto e, in assoluto, irrisolto il problema della sua propria educazione politica44.

Il fine ultimo della educazione politica dei cittadini, non era però, come per Gentile, la costruzione dello Stato Etico, bensì l’inserimento di ogni attività tesa a produrre particolari interessi all’interno dello stato, secondo un continuo collegamento politico e funzionale tra popolo e stato45. ACP, Serie I, b. 2, f. 5, Gentile a Pellizzi, 4 aprile 1940. Nella lettera si legge: «Caro professore, vi ringrazio della vostra lettera, Cultura vuol dire iniziativa di ogni giorno: vorrei far entrare questa vostra massima nella testa di tutti i miei collaboratori, e di molti miei superiori. Ci riuscirò? I tempi sono a burrasca e mi diranno che majora premunt. Occorre certo intensificare e, soprattutto, migliorare i procedimenti mediante i quali si cerca di persuadere gli italiani alle esigenze del tempo che viviamo. E occorre sviluppare, rassodare, universalizzare le idee maestre [...]» AFGG, Pellizzi a Gentile, 9 aprile 1940, sottolineato nel testo. 44 C. PELLIZZI, Educazione e rappresentanza nella vita del partito, in «Critica Fascista», 31 dicembre 1939; l’articolo fu poi rifuso nel volume edito due anni dopo: Il partito educatore, cit., pp. 7 e ss. 45 Ibidem. 42 43

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Alla luce di queste prospettive, sembrò evidente che l’Istituto dovesse munirsi degli strumenti indispensabili per una educazione politica di tal genere, la quale richiedeva un’azione continua e capillare che si rivolgesse al numero più ampio possibile di persone. «Educare politicamente» gli italiani presupponeva un nuovo modo di porsi di fronte al problema della diffusione della cultura e anche della propaganda. Pellizzi si era dedicato a questo aspetto fin dall’inizio, presentando a Mussolini un promemoria – datato 4 aprile 1940, il giorno prima del suo insediamento ufficiale alla presidenza dell’Istituto – nel quale esponeva la necessità di occuparsi della propaganda in modo completamente nuovo: Il fine ultimo di ogni propaganda è la persuasione. La persuasione non è uno stato di passività: essa è invece una attività in potenza; non si riceve una persuasione, fatta e formata dall’esterno, ma la si sviluppa in noi stessi. Perciò l’uomo che deve essere persuaso deve collaborare alla propria persuasione. La propaganda più efficace, anzi la sola efficace, si svolge sempre attraverso una qualche partecipazione attiva dei “catecumeni”.[...] Quando si vuol persuadere qualcuno, bisogna sempre cominciare col dargli, in qualche modo, ragione. È evidente che le riunioni debbono essere quanto più possibile spontanee, senza ombra di precettazioni o simili, senza la presenza di gerarchi in uniforme ecc.46.

La persuasione, insomma, presupponeva che si instaurasse una relazione tra individui, tra il persuasore ed il persuaso; invece la semplice propaganda costituiva un atto individualistico che non avrebbe portato ad alcun risultato concreto per la crescita della coscienza degli italiani. La propaganda “persuasiva” necessitava perciò di nuovi mezzi e di una profonda riorganizzazione dell’Istituto sia a livello centrale che provinciale, e tutte le riunioni e le lezioni tenute nelle varie sezioni andavano reimpostate tenendo conto di queste nuove indicazioni. La riforma auspicata da Pellizzi prevedeva un ampliamento dei compiti del consiglio direttivo ed un ruolo più incisivo dell’Istituto nel coordinare tutti gli enti di cultura del paese in una “Federazione nazionale degli enti culturali fascisti” e nel formare un nucleo di “tecnici della propaganda” che avrebbe esercitato la propria azione presso le sezioni provinciali dell’INCF47. Vedi ACP, Serie I, b. 5, f. 17, Riassunto di promemoria presentato al duce nell’udienza del 4 aprile 1940, relativo alla propaganda capillare. 47 ACS, SPD, CO, f. 509150, b. 1034, «Schema di riordinamento dell’INCF », datato 21 aprile 1940. 46

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Di questa attività Pellizzi riferiva direttamente al duce. Lo dimostrano il numero di relazioni e rapporti inviati da lui, o dai suoi collaboratori, tra il ’40 e il ’43: non stupisce pertanto che le direttive date da Mussolini all’Istituto diventarono sempre più frequenti e particolareggiate, fin nei minimi dettagli, persino riguardo alle situazioni locali. E ciò sta inoltre a testimoniare che l’attività dell’Istituto di cultura fascista sotto la presidenza di Pellizzi era divenuta prioritaria rispetto all’attività propagandistica di altri enti48. Tuttavia, al di là della propaganda, era molto difficile per Pellizzi poter ottenere da Mussolini indicazioni specifiche su un più approfondito livello di attività culturali da parte delle istituzioni del regime49. L’elemento che più stava a cuore al duce in quel momento era invece proprio l’idea che il regime dovesse arrivare con i propri messaggi e slogan negli angoli più remoti del paese. È per soddisfare questa necessità che tra le funzioni delle sezioni locali fu inserita, da Pellizzi, anche la “capillarizzazione” dei compiti e delle attività dell’Istituto, da effettuarsi tramite la ulteriore ripartizione delle sezioni provinciali in «sottosezioni, nuclei di gruppo rionale, di fascio, di ente e di azienda»50. Era questa la formulazione di un piano concreto di quello che Mussolini aveva espresso in forma programmatica, cioè l’educazione politica delle masse attraverso un «lavoro in profondità», condotto per creare una “nuova civiltà”. L’azione capillare dell’Istituto aveva anche un secondo scopo, quello di misurare il livello di adesione della popolazione all’imminente conflitto o eventualmente stimolarla ove mancasse51. Ibidem. A tale proposito è significativa una nota, del ministro della cultura popolare Pavolini, che, in risposta a Pellizzi, il quale gli aveva chiesto quali potessero essere i “perfezionamenti” da apportare all’Istituto, il 4 novembre 1940, lamentando la carenza di una «vera e propria organizzazione di propagandisti», suggeriva che essa rientrasse tra le funzioni specifiche e prevalenti dell’INCF, che avrebbe dovuto: «[...] addestrare, con un metodo che non esito a dire scientifico, elementi di sicura fede, dei più vari mestieri, e, quindi, della più varia penetrazione ambientale, i quali, senza avere nulla di professionale e di interessato nella loro attività propagandistica, senza confondere la loro attività suscitatrice con altre attività informative (pur rispettabili e necessarie), parlino e controbattano, illustrino e polemizzino». E in seguito, dopo aver formato questi propagandisti, a parere di Pavolini, l’Istituto centrale avrebbe dovuto mantenere un costante contatto, costituendo per costoro un centro di studio e di informazione ben attrezzato. ACS, MCP, Gabinetto, b. 25, f. 363. 50 ACS, SPD, CO, f. 509150, b. 1034. 51 Proprio nella prospettiva di un ingresso dell’Italia in guerra, Pellizzi propose inoltre la creazione di una Consulta di studi e propaganda militare, un organo tecnico-consultivo avente competenza non solo generica, su problemi politici, ma anche specifica, su 48 49

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Secondo Philip Cannistraro, l’Istituto di cultura fascista fu scelto come «organismo di coordinamento centrale della informazione di guerra nelle province»52, proprio perché permetteva un tipo di propaganda cosiddetta “invisibile”, che non sembrava creata appositamente e non portava il marchio dell’ufficialità. Il piano di riordinamento presentato da Pellizzi il 21 aprile 1940 tendeva a fare dell’Istituto il motore culturale della nazione, uno strumento attraverso il quale il partito potesse mobilitare il paese53. Ma Mussolini non voleva che l’Istituto fosse semplice strumento del partito ed espresse ciò in modo inequivocabile, sottolineando – in contrasto con la stessa proposta di Pellizzi – che esso faceva capo allo stato, con scopi che lo inserivano a pieno diritto tra i suoi organi54. L’unico potere che il Partito doveva mantenere era quello di organizzare e coordinare le sezioni locali. Ma anche qui, poiché queste erano al tempo stesso dipendenti dall’Istituto centrale per ciò che riguardava «l’azione di diffusione delle idealità fasciste», la portata di tali disposizioni veniva notevolmente ridotta. Nella visione di Pellizzi, l’Istituto doveva essere in grado di intervenire concretamente nelle scelte di politica culturale e, per consentire questo, aveva pensato ad un duplice livello di attività: il primo, certamente più divulgativo, teso ad una rapida e capillare diffusione delle idealità fasciste; il secondo invece, dedicato a studi, ricerche ed approfondimenti, doveva problemi di carattere diplomatico e strategico. Il fatto che le attività dell’Istituto fossero tutte dirette a prepararsi al conflitto è ulteriormente messo in risalto da alcune disposizioni di Pellizzi, contenute sempre nello schema di riordinamento dell’Istituto: «Tutte le sezioni hanno ricevuto l’ordine di predisporre i quadri e il piano di organizzazione e di attività per il caso di emergenza. – Presso tutte le sezioni è in corso la costituzione dei Gruppi femminili, anche in vista del caso di emergenza. – A seguito del completo riesame delle singole situazioni provinciali compiuto dalla presidenza centrale, questa ha sollecitato i singoli Federali a sottoporre le proposte e a prendere i provvedimenti richiesti dalla situazione risultante in ciascuna provincia». Ibidem. 52 Cfr. PH. V. CANNISTRARO, op. cit., pp. 164-165. 53 Nel progetto si legge: «L’INCF deve accentuare il suo carattere di strumento del Partito. Posto alle dirette dipendenze del segretario del PNF, l’Istituto è l’organo attraverso il quale il partito, artefice della rivoluzione, sviluppa elabora e precisa la dottrina del fascismo ed attua, anche nel campo della cultura, la sua funzione di centro motore di tutta la vita nazionale. L’INCF cura la divulgazione del pensiero fascista con tutti i mezzi che si rivelino di volta in volta più appropriati; in coordinamento organico con tutti i Ministeri e gli enti interessati, per lo svolgimento delle varie attività culturali e propagandistiche». ACS, SPD CO, f. 509150, b. 1034. 54 Si veda ACS, SPD CO, f. 109150, b. 1034, “Direttive del Duce all’INCF”.

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svolgersi in una forma più riservata, nella quale potessero emergere liberamente le diverse posizioni55. I due livelli di attività, tuttavia, non avrebbero dovuto agire separatamente (come viceversa spesso accadde), poiché, nella visione di Pellizzi, il primo doveva essere l’espressione del secondo, senza il quale l’azione di diffusione culturale sarebbe risultata una mera e sterile propaganda56. Nell’estate del 1940, tra i progetti dell’Istituto, Pellizzi elaborò, in collaborazione con Arrigo Solmi, e quindi con l’Università di Firenze, il progetto di costituzione di un «comitato per lo studio dei problemi del dopoguerra»57. Benché fosse ispirato dalla certezza, a quel tempo, di una repentina, quanto illusoria, fine della guerra, esso merita attenzione per la prospettiva nella quale Pellizzi e Solmi avevano ideato il progetto che vedeva una stretta collaborazione tra mondo accademico e istituzioni culturali del regime58. Il comitato – che si doveva articolare in vari sottocomitati – avrebbe emesso le direttive generali, si sarebbe occupato di organizzazione politi55 In tal senso si può anche interpretare lo sdoppiamento, nel 1940, della collana dei “Quaderni” dell’INCF in una collana di “Quaderni di divulgazione” e “Quaderni di cultura politica”. 56 A tale proposito, in un rapporto indirizzato al vicesegretario del Pnf Carlo Ravasio, Pellizzi lamentava proprio questa separazione nelle attività delle sezioni provinciali dell’Istituto, tale per cui ci si era limitati ad una attività di propaganda attraverso conferenze che spesso avevano pochissimi uditori. Pellizzi aveva commentato: «Tutto ciò è controproducente, dispendioso e ridicolo in sommo grado. Se l’INCF deve rimettersi a fare l’organizzatore di conferenze sul tipo delle defunte Università Popolari, è meglio scioglierlo e non parlarne più». Vd. “Promemoria riservato intorno all’INCF”, indirizzato a Carlo Ravasio, vicesegretario del Pnf, in ACP, Serie I, b. 6, f. 31. 57 ACP, Serie I, b. 2, f. 7, Progetto per un comitato di studio dei problemi relativi alla pace. 58 I nomi proposti per la costituzione di questo comitato erano quelli di Maurizio Maraviglia, Amedeo Giannini, Giuseppe Balladore Pallieri, Gaspare Ambrosini, Ugo Bosco e G.U. Papi. All’interno del comitato, poi, sarebbe stata costituita una consulta, composta da pochi delegati, che avrebbe potuto impartire le direttive sugli studi da intraprendere e sulla scelta dei tecnici da convocare per i comitati speciali di studio. Tra i temi di maggiore rilievo venivano segnalati: 1) il problema del trattamento delle minoranze nazionali, osservando che, soprattutto per l’Europa centrale, orientale e balcanica, sarebbe stato necessario «dare luogo a regole giuridiche più complete e perfette di quelle che, pur tuttavia, furono sancite nei trattati sulle minoranze del 1919, non osservati poi, per il predominio di taluni stati misti»; 2) “il regime delle internazionalizzazioni” dei territori e punti strategici che non potessero essere ceduti ad alcuno stato senza una qualche limitazione o disciplina; 3) “il regime dei fiumi” per la navigazione internazionale, il quale era stato fino ad allora «del tutto negletto».

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ca generale, del problema della nazionalità e delle minoranze (degli “spazi vitali”) e dell’organizzazione e cooperazione internazionali59. L’articolazione del progetto doveva essere a cura di studiosi che avrebbero dovuto occuparsi innanzitutto delle capacità economiche anglo-francesi per poi affidarsi a fonti di rilevamento statistico, raccogliendo materiale per un orientamento generale da mettere in relazione con le condizioni economiche dell’Italia dell’ultimo ventennio. Il progetto Solmi-Pellizzi fu presentato a Guido Mancini, capo dell’ufficio studi e legislazione del Pnf60. Pellizzi diede quindi l’avvio alle cosiddette «commissioni di studio sui problemi dell’imminente domani», le quali, nel programma, erano state costituite d’ordine del Pnf, in particolare attraverso Pietro Capoferri e Guido Mancini. Ma, come risulta da un incontro fra Pellizzi e Mussolini il 22 luglio del 194061, il lavoro delle commissioni venne interrotto per ordine del duce, poiché per quest’ultimo esse non erano altro che un inutile duplicato della commissione centrale, costituita presso il Ministero degli affari esteri. Mussolini non escluse che in questa commissione potesse partecipare anche Pellizzi, come presidente dell’Istituto, ma respinse recisamente ogni suo tentativo per convincerlo sulla necessità di altre commissioni. Alla fine Pellizzi ottenne solo il benestare sulla possibilità di utilizzare giovani all’interno dell’Isti59 Gli altri sottocomitati erano i seguenti: 1) un comitato giuridico, competente per la definizione giuridica dei rapporti interstatali, della possibilità di una organizzazione europea superstatale e delle corti degli arbitrati internazionali; 2) un comitato economicofinanziario, che avrebbe studiato gli effetti economici e finanziari di eventuali “riparazioni”, avrebbe definito economicamente gli “spazi vitali” e il loro coordinamento, si sarebbe occupato della distribuzione delle materie prime, dell’autarchia in rapporto agli scambi internazionali; dei problemi monetari, doganali e delle comunicazioni; 3) un comitato sociale, che si sarebbe occupato dei problemi delle popolazioni in relazione alla ideologia degli “spazi vitali” con i conseguenti problemi dei trasferimenti e delle migrazioni, dei problemi della manodopera e della disoccupazione, di una organizzazione internazionale per la tutela del lavoro, dei problemi razziali, e infine di quelli dell’assistenza e dell’igiene; 4) un comitato coloniale, che avrebbe analizzato le crisi del “mandato” e le forme di colonizzazione, lo sfruttamento e il popolamento delle colonie, il problema delle nazionalità islamiche e quello della Palestina; 5) un comitato per la cooperazione intellettuale, che avrebbe organizzato i contatti internazionali per lo studio dei problemi del dopoguerra, si sarebbe occupato della diffusione della cultura italiana e dei problemi della propaganda; 6) infine un comitato militare, che avrebbe analizzato i problemi strategici ed, eventualmente, quelli del disarmo. 60 L’ufficio studi e legislazione del Pnf era stato voluto da Serena e chiuso al momento della sua sostituzione con Vidussoni nel dicembre 1941. 61 Cfr. ACP, Serie IV, f. 120, Note XXX.

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tuto che raccogliessero materiale e potessero confrontarsi su tali temi; il tutto in via assolutamente riservata62. La “diffusione capillare” dei principi culturali e ideologici del fascismo aveva però una preminenza assoluta. A differenza dell’impostazione voluta da Giovanni Gentile, tutta tesa a creare una scelta schiera di conferenzieri che potessero diffondere i principi culturali ad un pubblico altrettanto preparato, il nuovo Istituto aveva come compito principale quello di «educare il popolo»63, rispondendo così anche alla nuova formula proposta dal segretario del Pnf, Adelchi Serena, la cui azione era tesa a raggiungere il duplice obiettivo di estendere il controllo del partito su ogni aspetto della vita individuale e collettiva e di selezionare e preparare i quadri dirigenti64. Alla base di queste opzioni vi era la precisa volontà di Mussolini, il quale, alla vigilia della guerra riteneva fosse tempo perso preoccuparsi degli intellettuali e della loro fedeltà al fascismo – preoccupazione che invece nel 1925 era stata alla base della fondazione dell’INCF – in quanto essi costituivano una categoria che alla fine del conflitto si sarebbe radicalmente trasformata e che, per il momento, non doveva costituire un centro di interesse da parte del regime perché sostanzialmente innocua e fondamentalmente “borghese”; essendo viceversa ben più importante ed urgente occuparsi della mobilitazione delle masse, che per il duce avrebbero costituito, a guerra finita, la vera materia con la quale costruire la “nuova civiltà”65. 62 Ibidem. È questo uno dei tanti progetti che Pellizzi sosterrà, in qualità di presidente dell’INCF, nel continuo tentativo di ricreare concretamente quel legame tra cultura e politica che veniva ad essere sempre più compromesso. Ad esempio il prof. Mario Govi in una sua lettera a Pellizzi del 3 ottobre 1942, illustra un progetto di istituzione dei Centri di competenza legislativa, da istituire in seno alle strutture universitarie «per convogliare le attività scientifico politiche al fine del rinnovamento legislativo». L’idea piacerà a Pellizzi che ne parlerà anche in relazione al Pnf, al fine di rendere più efficace il lavoro dei Gruppi scientifici. ACP, Serie I, b. 2, f. 7/3. 63 Ad esempio vi era una attenzione particolare al coinvolgimento degli operai, come si può dedurre da una lettera di Paolo Fortunati, nella quale egli scrive a Pellizzi: «Tieni presente che da tempo io ho insistito perché accanto ai quaderni, l’INCF provveda alla pubblicazione di speciali opuscoli di divulgazione destinati alle masse operaie, istituendo per queste una speciale quota d’associazione». ACP, Serie I, b. 2, f. 7/1, lettera di Paolo Fortunati a Pellizzi, 2 maggio 1940. 64 E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo, cit., pp. 244 e ss. 65 Cfr. R. DE FELICE, Mussolini l’alleato. I., cit., p. 851.

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Negli anni dal 1940 al ’43 presso l’Istituto vennero attuati vasti programmi di ricerca: tra gli altri, si segnalano una «Inchiesta sul tenore di vita degli italiani sotto il profilo delle regioni e delle categorie», un «abbozzo dei piani economici di zona» e il «coordinamento dell’attività periferica dei gruppi scientifici», gruppi che erano stati costituiti per opera di Pellizzi presso tutte le sedi dell’INCF che erano nel contempo sede di università66. È sufficiente notare che gli strumenti utilizzati per l’attività culturale e di studio erano completamente nuovi; essi comprendevano, ad esempio, la rilevazione statistica e l’analisi delle economie di zona, strumenti che era stato possibile utilizzare grazie ad un considerevole aumento delle risorse fornite all’Istituto sotto la direzione di Pellizzi67. Secondo Philip Cannistraro per la prima volta l’Istituto impiegò su grande scala, per la sua propaganda culturale, i mezzi di comunicazione di massa. Il famoso programma radiofonico “Commenti ai fatti del giorno” veniva trasmesso alle sezioni locali dell’Istituto e ai fasci, e dal contenuto delle trasmissioni si attingevano temi per le conferenze dell’Istituto. Per tale via alle sezioni delle province arrivavano i grandi temi culturali che il regime si sforzava di diffondere tra le masse lavoratrici di tutto il paese. L’impiego del cinema cominciò nel 1940; nel 1942 l’Istituto fu autorizzato a creare, in collaborazione con l’Istituto L.U.C.E., una propria divisione cinematografica. Alla fine del 1942 l’Istituto usava addirittura proiettori e attrezzature per il sonoro montati su camion per portare i film della propaganda di guerra nelle zone rurali68. 66 ACS, SPD CO, f. 109150, b. 1034. È utile rilevare che uno degli ideatori e principali responsabili dei piani di zona era Odon Por, divenuto collaboratore dell’Istituto, vedi ACP, Serie I, b. 3, f. 10, A.M. Bassani a Pellizzi, 13 marzo 1942. 67 Con la legge del 10 settembre 1941, n. 1151, si autorizzava l’Istituto a percepire un contributo di 3.200.000 lire per la gestione dell’anno 1942-43. La legge veniva a regolare, e in parte a modificare, il provvedimento del 6 luglio 1940, n. 911, con il quale si era stabilita una somma di 2.100.000 lire. Nel 1942, i contributi raggiunsero i cinque milioni di lire, somma senza dubbio rilevante se si tiene conto del fatto che solo cinque anni prima, sotto la presidenza di Giovanni Gentile, il contributo statale ammontava a 625.000 lire. Vedi ACS, PCM, 1940-‘43, f. 3/3.5, prot. 1060. “Contributi dello Stato all’INCF”. Inoltre anche in questa materia Pellizzi aveva ottenuto l’ausilio di alcuni valenti collaboratori come Paolo Fortunati, già Presidente dell’Istituto fascista di cultura a Palermo e poi professore di statistica all’Università di Bologna, e segretario generale della società italiana di statistica estremamente sensibile alla portata innovativa delle nuove tecniche specialmente per l’analisi quantitativa dei problemi economico sociali. In tal senso per Fortunati la statistica avrebbe permesso notevoli punti di contatto tra politica e scienza. Vd. ACP, Serie I, b. 2, f. 7/1, lettera di Paolo Fortunati a Pellizzi 5 febbraio 1941. 68 PH. V. CANNISTRARO, Op. cit., p. 165.

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Pellizzi, che era il curatore del programma radiofonico “Commento ai fatti del giorno”, era anche il principale promotore dei programmi di attività dell’Istituto assieme ai suoi collaboratori, tra i quali i più attivi sino ad allora erano stati Guido Mancini e, soprattutto, il segretario generale dell’Istituto Giuseppe A. Longo. Anche la rivista dell’Istituto «Civiltà Fascista», sotto la direzione di Pellizzi mutò profondamente il proprio carattere: dall’analisi degli articoli in essa pubblicati si nota la tendenza a renderla sempre più un terreno di dibattito qualificato e di confronto, con l’obiettivo di ospitare anche articoli di personaggi non perfettamente allineati col regime. La rivista permise quindi all’Istituto di recuperare parzialmente un rapporto con gli intellettuali che diventava sempre più ambiguo e problematico. In un articolo programmatico, intitolato Posizioni, apparso su «Civiltà Fascista» nell’aprile 1940, Pellizzi aveva tracciato le linee essenziali sulle quali si sarebbe poi mossa la rivista stessa, manifestando appunto la sua intenzione di convogliare tutte le forze culturali per la costruzione di un polo di intellettuali che non si fermassero alla pura attività teoretica, culturale, ma che traducessero questa in precetti per la concreta azione politica: L’I.N.F.C. vuol diventare un grande utilizzatore, potenziatore, convogliatore di libere attività spirituali. Le sue sedi provinciali, la sua sede centrale, si sforzeranno di diventare i centri naturali di incontro e di aperta collaborazione di tutte le forze del pensiero italiano [...] esistono, anche in Italia, ben noti residui di una cultura programmaticamente e dichiaratamente antifascista. Con questa è evidente che noi non potremo avere rapporti formali; ma avremo rapporti sostanziali, anche suo malgrado, perché noi ci serviremo anche di essa. [...] I contrasti e le opposizioni, per chi abbia molta fede e una favilla di ingegno, diventano stimoli e occasioni a un’azione più vasta e migliore69.

La sentita esigenza di trasformare la rivista in uno strumento di promozione e di incontro di idee diverse, nonché di dibattito culturale vero e proprio, è confermata in una lettera di Salvatore Valitutti a Pellizzi in data 16 aprile 1940 nella quale Valitutti, ancora nella sua veste formale di redattore – mentre di fatto non lo era più già dal 1938 – esponeva le proprie perplessità circa il carattere che «Civiltà Fascista» – organo di un Istituto quale Pellizzi voleva fosse l’INCF – doveva avere. Innanzitutto egli indicava la necessità imprescindibile che, come nella conduzione dell’Istituto, così anche nella rivista, il ruolo di Pellizzi fosse primario: questi doveva fornirle quell’indirizzo di rinnovamento per il 69

CIVILTÀ FASCISTA, Posizioni, in «Civiltà Fascista», VII, 4, aprile 1940, p. 223.

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quale era salito alla presidenza. Nell’indicare tali suggerimenti, Valitutti forniva un suo giudizio sulla precedente presidenza di De Francisci, affermando che essa era stata meramente formale, priva di qualsiasi progettualità od originalità ed assegnata semplicemente per il prestigio che il nome di De Francisci poteva conferire all’Istituto. Più in particolare Valitutti, rammaricandosi di aver dovuto condurre la rivista da lontano – e di fatto avendola fatta dirigere da Giulio Tarroni, con il quale comunque intratteneva una comunità di intenti ed una amichevole frequenza di rapporti –, si doleva di aver più volte sollevato il problema (proponendo di essere dispensato da un incarico cui non poteva più assolvere), ma che in quei due anni non vi era stata alcuna volontà di modificare lo status quo, poiché «non si voleva procedere a trasformazioni che per quanto particolari avrebbero potuto mettere a soqquadro tutto». La soluzione del problema, era quindi molto chiara: l’Istituto e la rivista dovevano procedere di pari passo, l’una doveva essere il riflesso delle attività e della politica culturale espressa dall’altro: Voi dite che la rivista deve rispecchiare su un piano più alto la vita dell’Istituto. È giustissimo. Ma il separatismo della rivista da me voluto e difeso era, per così dire, un separatismo ascetico, dipendente dal fatto che la vita generale dell’Istituto era grama e frammentaria. Se la rivista avesse voluto rifletterla sarebbe diventata un bollettino di banali notizie. [...] Certo l’appartarsi della rivista, se è stato indispensabile, non ha potuto non restringere i suoi limiti e ridurre il suo respiro, nel senso che “Civiltà” per giustificare, in qualche modo, la sua natura di organo dell’Istituto si è via via determinata come rivista di cultura politica senza peraltro poter portare in questa cultura un indirizzo definibile al di là della generica serietà e dell’igiene elementare del pensare e dello scrivere con chiarezza e metodo70.

Da queste precisazioni, si intuisce che anche Pellizzi si fosse presumibilmente lamentato di una assenza di finalità e di indirizzo nella rivista, elemento, questo, al quale sin dall’inizio cercherà di porre rimedio ponendo «Civiltà Fascista» sotto la sua direzione. È chiaro quindi che la riforma della rivista non poteva essere che l’effetto di una riforma più generale e dovesse evolversi con essa; secondo Valitutti, se l’Istituto fosse rimasto inalterato nei propri indirizzi, sarebbe stato meglio che «Civiltà Fascista» avesse conservato «una posizione difensiva», o addirittura, sarebbe stato meglio «sopprimerla e creare al suo posto un bollettino di propaganda»71. 70 71

ACP, Serie V, b. 34, f. 45, Salvatore Valitutti a Pellizzi, 16 aprile 1940. Ibidem.

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I timori di Valitutti non erano però fondati: il nuovo presidente dell’Istituto aveva infatti accettato tale incarico ben sapendo che si rendeva necessaria una radicale trasformazione anche di «Civiltà Fascista». Ed effettivamente, le questioni affrontate fra il 1940 e il 1943 sulla rivista risentirono di tale progetto di Pellizzi, teso a ricreare una politica culturale valida attraverso l’Istituto ed i rapporti che la presidenza di questo gli permetteva di avere. La novità di «Civiltà Fascista» risultava evidente sin dai primi numeri usciti sotto la nuova direzione. La rivista nei tre anni seguenti acquisì nuovi e validi collaboratori; vi comparvero articoli di argomento assai vario: molti a sfondo economico, quali quelli tesi alla fondazione di un “nuova economia”; altri di ordine diverso come quelli della riforma degli istituti educativi, dell’“ordine nuovo”, della guerra intesa come spartiacque tra un vecchio mondo ed una nuova società; altri tesi ad interrogarsi sui caratteri della nuova cultura e del rapporto con la modernità e la tecnologia. I temi economici, ruotavano spesso intorno a due argomenti; il primo teso a chiarire e problematiche della pianificazione economica, intesa come vera e propria “rivoluzione” dell’assetto economico italiano ed europeo, partendo dall’analisi delle cause che avevano impedito che tale “rivoluzione” si attuasse fino ad allora. Il secondo concentrato sulla società di massa, sulle difficoltà di creare una nuova etica del lavoro, soprattutto del lavoro operaio, in una dimensione non alienante e che riqualificasse il lavoratore attraverso un nuovo rapporto con la tecnologia. In questo senso risultano estremamente significativi, tra i molti, alcuni articoli di Luigi Volpicelli, il quale – in polemica con la tradizione scolastica idealistica – si inseriva a pieno titolo nel processo di riforma portato avanti dalla carta della scuola ideata da Bottai, ponendosi il problema del rapporto tra educazione e modernità, tra progresso tecnico e mantenimento del senso della continuità e delle tradizioni72. Altrettanto importanti furono altre collaborazioni, come quelle di Giorgio Candeloro o di Delio Cantimori o di Paolo Fortunati, tutti personaggi che nel panorama intellettuale italiano non potevano dirsi perfettamente allineati col regime e che pure collaborarono con la rivista con articoli assai significativi, i quali, a saper leggere tra le righe, potevano 72 Cfr. L. VOLPICELLI, Natura e funzione del lavoro scolastico, in «Civiltà Fascista», IX, 4, febbraio 1942, pp. 236-246 e ID., Premesse di una cultura operaia, ivi, IX, 7, maggio 1942, pp. 430-438.

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anche nascondere l’ansia e la tensione verso una rigenerazione politica del paese73. Il significato della collaborazione di questi intellettuali alle riviste del regime come «Civiltà Fascista» o, ad esempio emblematicamente, a «Primato», è ancora oggi oggetto di studio e riflessione. Se da un lato, come sostiene Luisa Mangoni per ciò che concerne «Primato», esso non può essere disgiunto dalla valutazione dell’andamento della guerra, i cui eventi, anche se non apertamente, comunque influivano profondamente sul significato, sui modi e sui tempi di pubblicazione di alcuni articoli74, determinando quindi in coloro che dirigevano queste riviste una volontà di ribadire l’autonomia della cultura e dell’arte, seppure nell’ambito del regime. Tuttavia rimane da interrogarsi sulle caratteristiche di alcune collaborazioni sempre più dissonanti, che potrebbero essere diversamente interpretate proprio in rapporto al progressivo disfacimento del regime, come una possibilità di velata espressione del dissenso75. In effetti molti intellettuali si erano allontanati dal regime già ben prima della guerra, in seguito all’emanazione delle leggi razziali e anche all’atteggiamento antiborghese, antitradizionale e antiintellettuale assunto dal regime dal 1938 in poi76, che si era accentuato con le vicende che 73 Cfr. ad esempio, D. CANTIMORI, Egemonia e imperialismo, ivi, IX, 4, febbraio 1942, pp. 247-255, ora in ID., Politica e storia contemporanea, scritti 1927-1942, a cura di L. MANGONI, Einaudi, Torino 1991. G. CANDELORO, Sul concetto di classe politica, in «Civiltà Fascista», VIII, 1-2, gennaio-febbraio 1941, p. 71. Sul significato di queste collaborazioni e più in particolare sul ruolo di Paolo Fortunati nell’Istituto si veda G. LONGO, L’Istituto nazionale di cultura fascista. Gli intellettuali tra partito e regime, cit., nonché l’introduzione a cura di G. MELIS in Fascismo e pianificazione. Il convegno sul Piano economico (1942-43), Roma, Fondazione Ugo Spirito, 1997. In particolare su Giorgio Candeloro si veda R. PERTICI, Candeloro storico delle dottrine politiche, in La storiografia sull’Italia contemporanea, atti del convegno in onore di Giorgio Candeloro, Pisa, 9-10 novembre 1989, a cura di C. Cassina, Giardini, Pisa 1991, mentre sul ruolo di Delio Cantimori vd. R. PERTICI, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l’itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), in «Storia della storiografia», 31, 1997, nonché il volume di M. CILIBERTO, Intellettuali e fascismo. Saggio su Delio Cantimori, De Donato, Bari 1977; G. BELARDELLI, Dal fascismo al comunismo. Gli scritti politici di Delio Cantimori, in «Storia Contemporanea», XXIV, 3, giugno 1993, pp. 379-403. Per una rassegna degli studi sul percorso politico di Cantimori si veda poi G. CARAVALE, Delio Cantimori e il fascismo, in «Nuova storia contemporanea», 2000, n. 2, pp. 129-150. 74 “Primato” 1940-1943, a cura di L. Mangoni, cit., pp. 13 e ss. 75 In questa direzione procede l’interpretazione di R. BEN GHIAT, La cultura fascista, il Mulino, Bologna 2000, p. 299. 76 Cfr. R. DE FELICE, Intellettuali di fronte al fascismo, Bonacci, Roma 1985, p. 192.

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avevano preceduto l’entrata in guerra dell’Italia. Il conflitto costituiva per il regime una occasione per «ricominciare da capo», per riaccendere l’idea di una guerra rivoluzionaria, il che avrebbe comportato una rottura con molte delle idee propagandate da una certa schiera di intellettuali pure inseriti nel regime. Come ha ben osservato Niccolò Zapponi La nuova “etica della guerra” era in conflitto con l’indirizzo ideologico che, per circa un ventennio, aveva costituito, per così dire, la seconda anima del fascismo, con la concezione politica, per intendersi, propria del partito bottaiano, storicista e “revisionista”, assertore di una continuità naturale e dialettica tra passato e presente. In effetti nulla di meno conciliabile con l’interpretazione della guerra, nei termini di un evento che segnava la fine di un’era e avviava al tempo stesso un processo di rigenerazione “dal basso” (non mediato quindi dalla presenza di uno Stato “organizzatore”), dall’ideologia promanante dagli scritti di parte redazionale pubblicati regolarmente nelle prime pagine dell’ultima rivista di Bottai, e dello stesso nome “Primato” ad essa imposto, carico di ovvi richiami alle tesi cattolico-risorgimentali di Vincenzo Gioberti77.

La filosofia predominante dell’idealismo attualistico, tesa ad evidenziare una saldatura tra i valori del Risorgimento e il fascismo, soprattutto nel pensiero di Giovanni Gentile, attraverso la rimeditazione del mazzinianesimo, aveva ormai esaurito la sua portata ideale, benché in passato avesse costituito uno dei motivi fondamentali della adesione di molti intellettuali al fascismo. Non va inoltre trascurata l’importanza del pensiero filosofico cattolico in questi anni, nei quali molti filosofi idealisti attraversano una crisi che parte dal rifiuto degli elementi più stringenti dell’idealismo, quelli attinenti alla logica e alla gnoseologia. In questa prospettiva l’esperienza di «Primato», che si sovrappose a quella di «Critica Fascista», consentì a Bottai di spostare il centro dei suoi interessi da un progetto di politica culturale che traeva origine dall’idealismo ed era teso a inverare la filosofia nella prassi, ad un altro che prediligeva l’ambito delle lettere e delle arti figurative78. Sempre a proposito della lontananza degli intellettuali dai problemi sociali e politici, E. Garin parla di un “distacco” tradizionale degli intellettuali italiani dalle realtà sociali del paese in: La cultura italiana tra ’800 e ’900, Laterza, Bari 1963, pp. 20-21 e 100-101; mentre Gramsci rintraccia l’evolversi della separazione tra la cultura e le masse in Italia in: Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino 1967, pp. 13-14 e 21-54. 77 N. ZAPPONI, I miti e le ideologie, in Storia dell’Italia contemporanea, diretta da R. De Felice, vol. VII, Cultura e società 1870-1975, ESI, Napoli, pp. 187 e ss. 78 Zapponi imputa il significato di questo ribaltamento della logica di Bottai, da sempre tesa ad un programma di organizzazione totalitaria dello Stato, ad «un fallimento della

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In tal senso vanno osservate anche le numerose pubblicazioni messe all’indice dal regime che circolavano all’interno dell’Istituto, col permesso di Pellizzi. A tale proposito Giulio Tarroni, coordinatore e redattore di «Civiltà Fascista» ha affermato che nella biblioteca era possibile trovare volumi della letteratura “proibita” italiana e straniera, quasi irreperibili altrove: Il materiale raccolto sul socialismo, ad esempio, era notevolissimo. La biblioteca era aperta a tutti, il prestito era facilissimo. Essa è stata, credo, l’unica biblioteca pubblica che non ha mai tolto dal suo schedario i titoli proibiti per ragioni politiche o razziali79.

E nello stesso panorama si collocano altre iniziative ancor più radicali, come le traduzioni integrali di opere uscite durante la guerra in paesi nemici, che venivano tirate al ciclostile con la dicitura “riservato” e poi fatte circolare all’interno dell’Istituto fra i collaboratori. Evidentemente non si poteva trattare solo di attività isolate o, ancor meno, clandestine, svolte all’insaputa di Pellizzi, essendo piuttosto verosimile (o forse ovvio) che l’Istituto possedesse quelle opere “non allineate” al fascismo, acquisite per poter combattere gli oppositori con maggiore consapevolezza. Ciò sua aspirazione ad un ordine politico-culturale [...] fondato sulla preminenza di un’ideologia. [...] Egli tenta così di rimediare al declino del “revisionismo” con una dimessa demagogia culturale [...] restando evidente che l’ecumenismo della rivista non si realizzava attorno ad un asse ideologico, ma grazie alla sua assenza. D’altra parte non è insensato ipotizzare che il gerarca fascista intendesse anche valersi di “Primato” come bacino di riflusso, verso il quale incanalare correnti ideologiche inconciliabili col “revisionismo”, concedendo loro una ospitalità informale, ma non gli onori di un contraddittorio ufficiale». N. ZAPPONI, Op. cit., pp. 190-191. Renzo De Felice ritiene invece che l’esperienza di «Primato», pur non essendo esplicitamente politica, permise a Bottai di affrontare il futuro rapporto tra Italia e Germania e di prospettare una visione nuova, morale e rivoluzionaria della guerra: «Letto in questa chiave “Primato” riacquista la sua vera fisionomia, assai più politica che culturale e assai meno finalizzata di quanto spesso si dice ad una nuova forma di politica degli intellettuali». R. DE FELICE, Mussolini l’Alleato. I., cit., p. 856. 79 La testimonianza qui riportata si trova nell’archivio privato della famiglia Tarroni. Si tratta della memoria redatta dallo stesso Giulio Tarroni e presentata di fronte alla commissione di epurazione costituita presso il Ministero della pubblica istruzione nel dopoguerra. Essa, seppure debba essere vagliata con la dovuta cautela, come tutte quelle fornite a posteriori da quanti si trovarono a rendere conto del proprio coinvolgimento e del loro operato con le istituzioni del regime, tuttavia ha comunque un notevole valore documentario, poiché attraverso un confronto con altri documenti, presenti sia nell’archivio Pellizzi che nell’Archivio di Stato, contiene molte informazioni risultate attendibili. È presumibile quindi che le affermazioni di Tarroni non fossero solo di autodifesa, ma si basassero su fatti reali ed accertati.

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non toglie che tuttavia questi testi circolassero e che i collaboratori e i frequentatori dell’INCF potevano confrontarvisi80. Gli scritti stranieri, tradotti in italiano, venivano ciclostilati e fatti circolare tra i collaboratori e i frequentatori dell’Istituto. Lo stesso Tarroni espresse il proprio stupore per questa seppure ridotta “libertà d’azione”: Come potessi continuare così a lungo in tale lavoro senza urtare nelle reti della polizia e del partito, era per me motivo di quotidiano stupore, ed una continua prova, piccola ma concreta, del progressivo sfasamento del regime. Pur circondato di sospetti, in qualche momento gravi, ho avuto sempre la possibilità di lavorare81.

Tale “libertà d’azione”, in verità molto limitata, se da una parte poteva essere attribuita, come dice Tarroni, allo “sfasamento” del regime, dall’altra era il frutto di una intenzione precisa di Pellizzi: rendere l’Istituto una specie di “zona franca” che favorisse il dibattito culturale e lo sviluppo di idee nuove, aliene dalla retorica del regime, pur dovendo ciò avvenire in via del tutto riservata e per una cerchia molto ristretta di persone. Più tardi egli stesso ammise che se il regime avesse saputo creare intorno a sé le premesse per la formazione di una classe manageriale intellettualmente preparata e munita di doti di guida e di moderazione, forse sarebbe riuscito ad attuare quella “rivoluzione” la cui mancanza portò alla sua degenerazione82. Tutto questo ci induce a ritenere che Pellizzi avesse idee molto chiare sul disorientamento del regime e, benché sempre più disilluso e amareggiato, continuava però ancora a credere nelle possibilità rigenerative della rivoluzione fascista, le quali potevano essere dinamizzate dalla guerra in corso. 80 È il caso ad esempio del volume di E.H. CARR, Conditions of peace, Macmillan, London 1942, per il quale va osservato che Pellizzi stesso redasse una relazione su questo libro e sulla opportunità di assumere una posizione in merito ad alcune idee espostevi, in quanto in esso si mettevano in luce le prospettive che circolavano nella opinione pubblica inglese circa l’assetto post-bellico. Infine Pellizzi concludeva: «Poiché la guerra può essere l’atto che porta alla luce una nuova società, ma non la crea, e poiché, comunque, una collaborazione fra i due campi ad un certo momento si dovrà pure ristabilire, queste tendenze dell’altro campo hanno senza dubbio una grande importanza, e potrebbero essere seguite e utilizzate. Forse una risposta radiofonica alle tesi del Carr, in tono ponderato e, come essi dicono, “costruttivo”, trasmessa in inglese e per il pubblico inglese, potrebbe avere qualche efficacia». 81 Archivio Tarroni, Memoria, cit. 82 C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., p. 127.

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3. Il partito educatore Soprattutto in quegli anni cruciali, Pellizzi era consapevole delle difficoltà nelle quali il partito unico si dibatteva, specie nel vagheggiato ruolo di «motore ideale della rivoluzione fascista». Egli infatti si rendeva conto che un integrale accentramento dell’educazione ideologica degli italiani in seno al partito non sarebbe stata possibile per la peculiare tipologia di totalitarismo che il fascismo rappresentava. Per sua espressa volontà, ai ripetuti tentativi del partito di fascistizzare i vari ambiti dello stato, Mussolini aveva sempre ribadito il ruolo sovraordinato del governo in un continuo ed altalenante gioco delle parti, nel quale alla fine egli riservava a sé l’ultima parola83. Non va dimenticato, però, che a partire dall’impresa etiopica e soprattutto dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali, il Pnf aveva aumentato a dismisura il numero delle sue organizzazioni e dei suoi tesserati, trasformando la propria fisionomia ed estendendo il proprio potere di controllo sui vari ambiti della vita civile. Questa espansione non era del tutto gradita nell’entourage fascista, in cui molti gerarchi vedevano limitare lo spazio delle loro prerogative personali a favore delle gerarchie del partito. Comunque l’attività del Pnf era volta principalmente ad irreggimentare ed indirizzare le masse, mentre sul piano dei contenuti ideali per una educazione politica capillare esso rimaneva ancora ben lontano dal fascistizzare il paese «con un lavoro in profondità»84. Sotto questo profilo esisteva per Pellizzi un reale problema di individuazione dei contenuti ideali che potessero rendere il partito un punto di riferimento fondamentale; del resto l’auspicata soluzione di tale esigenza era ancor più sentita a cagione del continuo confronto con l’esperienza tedesca, nella quale il partito nazionalsocialista costituiva il cuore del regime totalitario. Il viaggio che Pellizzi fece in Germania nel novembre 194185 fu assai importante, poiché chiarì che la capacità del partito fasci83 Su questo aspetto della politica del duce, intesa come “mussolinismo” e sul controverso rapporto tra il Pnf e le istituzioni del regime si veda R. DE FELICE, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario, cit., nonché E. GENTILE, Fascismo. Storia e interpretazione, cit., pp. 125 e ss. 84 Fra la metà degli anni Trenta e gli anni Quaranta si susseguirono innumerevoli provvedimenti legislativi che ampliarono le prerogative del partito. Cfr. E. GENTILE, Fascismo, cit., pp. 185 e ss. 85 Il viaggio era stato progettato sin dal settembre del 1940 in occasione del viaggio in Italia del ministro dell’educazione tedesco Rust che si era recato anche presso l’istituto

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sta di incidere nella vita quotidiana degli italiani, al di là dell’inquadramento formale, delle parate, delle manifestazioni, del sabato fascista, era ben lungi dal rappresentare un elemento di reale educazione dell’individuo nella massa, di creazione di una nuova etica, di un sentire civico diverso che avrebbe dovuto portare all’“uomo nuovo”. Pellizzi rimase assai colpito dal grado di adesione del popolo tedesco alle manifestazioni organizzate dal partito ed al suo ritorno egli ebbe modo di descrivere la forte capacità di coinvolgimento che il partito nazista rappresentava per la gioventù tedesca e il suo potere mistico di suscitarne le energie creative migliori. Anche se poi, parlando del sentimento della religiosità e della sua importanza nella educazione, egli affermava: Non direi che i giovani risentano di questa lacuna [l’aspetto religioso n.d’a.], se tale sia; ma confesserò che non mi sarebbe dispiaciuto vedere in qualche parte dell’immenso Burg un luogo di raccoglimento dove il cervello e il cuore dei giovani si potessero raccogliere per qualche momento nel silenzio della meditazione e della preghiera, nella contemplazione dell’Assoluto e dell’Eterno. Non intendo suggerire con questo che vi si debba professare una od altra religione positiva, e riconosco di trovarmi al cospetto di un mondo animato da una religiosità che non è esattamente la mia; ma vorrei che si avesse anche questo coraggio, ideale, di saltare il fosso, di abbandonare posizioni mentali forse antiquate, riconoscendo che ogni vera educazione ha per fondamento una religione, e che ogni vera religione è un pensiero del trascendente. [...] Un vero tedesco è sempre troppo più vicino a Dio che non all’Uomo. Forse per questo si rifugiano essi nella comunità; nella comunità della vita, delle opere, del sangue, nella Volksgemenishaft teutonica, l’individuo tedesco comincia a sentirsi meno inadeguato e meno atterrito di fronte alla superiore voce o potenza che ferve profonda in lui. Dal sentir ciò al trasferire in quella comunità di sangue e di spiriti il principio del divino non è che un passo. Ma non è un passo finale; è un passo iniziale. Sentire potentemente Dio nella razza ha questo valore senza alcun dubbio positivo: che è una prima maniera di sentire potentemente Dio86.

In quel viaggio Pellizzi tuttavia svolse la propria attività non soltanto come presidente dell’Istituto di cultura, ma soprattutto in qualità di membro del direttorio e ispettore del Pnf. Questo lo si deduce da una letitalo germanico e l’INCF. Giuseppe Gabetti, direttore dell’Istituto italo germanico in Roma, che dipendeva dall’INCF ed aveva sede in villa Sciarra Wurts, aveva predisposto, nell’estate del 1941, la traduzione del testo della relazione che Pellizzi avrebbe tenuto in Germania. Vd. ACP, Serie I, b. 2 f. 7/1, Lettera di Giuseppe Gabetti - Istituto Italiano di studi germanici - villa Sciarra Wurts 18 settembre 1940. 86 C. PELLIZZI, Fiaccole nell’Algau, in «Corriere della Sera», 3 gennaio 1942.

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tera confidenziale inviata a De Cesare alla fine di novembre 1941, della quale Pellizzi conserva una bozza. Nella lettera egli ricorda di aver incontrato nel corso del suo viaggio, il Dr. Albert Prinzing, consulente per l’Italia nell’ufficio personale di von Ribbentrop, nonché capitano e uomo di fiducia nel corpo delle S.S. di Himmler: Secondo quanto mi ha detto a Berlino si teme che intorno al prossimo marzo l’Italia sarà quasi senza riserve di grano; la Germania avrebbe invece riserve notevoli, che furono accantonate in vista di una guerra lunga, e di cui ora non ha bisogno, perché è sopravvenuto l’apporto del grano dell’Ucraina. In ogni caso Prinzing mi sembra sinceramente convinto della gravezza morale che rappresenta, per il popolo nostro, la scarsità del pane. Nelle discussioni che potranno aver luogo a Berlino su questo tema, fra i diretti consiglieri dei capi germanici, egli si propone di sostenere la tesi della necessità di una larga cessione di grano all’Italia. Mi ha chiesto però di fargli avere i dati esatti circa le nostre riserve e il nostro fabbisogno. Dovrei mandarglieli in busta sigillata attraverso un suo corriere personale che fa la spola tra Berlino e Roma. [...] Se nella occasione presente egli potesse svolgere opera utile, gli sarebbe certo gradito di sapere che il Duce ne è informato. Sul merito del quesito io non posso che attendere ordini87.

Il duplice ruolo assunto da Pellizzi di presidente di un istituto di cultura, ma anche, per certi versi, quello di emissario del governo fascista derivava del resto dalla sua posizione all’interno del partito che lo rendeva automaticamente responsabile anche di quegli aspetti che riguardavano l’azione del partito e del governo all’interno e all’estero. Questo suo impegno si manifestò in numerose occasioni come si deduce dalla sua corrispondenza degli anni della seconda guerra mondiale: Pellizzi nel giro di pochissimo tempo era diventato un vero punto di riferimento per quegli studenti ed intellettuali che, seppure delusi dall’andamento della guerra e dall’evoluzione del regime, tuttavia ritenevano che la guerra potesse ancora indirizzare lo sviluppo del regime in un senso costruttivo e vedevano in lui un interlocutore capace, intelligente e abbastanza vicino al partito e a Mussolini per poter agire in maniera concreta. Tra le tante che testimoniano questo suo ruolo, vi è una lettera di Giorgio Vecchietti, spedita dalla Grecia dove era di stanza con il suo reparto, nella quale l’autore sollecitava Pellizzi ad organizzare un’opera di propaganda in quei luoghi, sostenendo che vi era molto lavoro da fare, ma che i mezzi a disposizione del87

ACP, Serie V, b. 34, f. 46, Pellizzi a De Cesare, 30 novembre 1941.

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l’esercito erano ridicoli. Vecchietti riteneva che il lavoro di propaganda dovesse essere fatto non già dall’esercito ma dai civili. Anche semplicemente l’insegnamento della lingua italiana rientrava in tale compito. La Grecia è soprattutto un paese sciagurato, senza una classe dirigente e con un campionario vastissimo di malversatori. [...] La penetrazione culturale sarebbe facile perché l’occupazione militare ed economica, che da noi farebbe insorgere anche l’operaio e il contadino, non è considerata con raccapriccio. [...] Ma ci vogliono uomini con tanta passione e ascendente e capacità personali88.

La precisazione di Vecchietti era importante, la scelta di uomini capaci e che unissero passione ed ingegno diventava sempre più difficile e Pellizzi era tra i più sensibili di fronte a questo problema del regime, che a suo avviso fu poi uno dei motivi del suo fallimento. Dai numerosi resoconti delle sue ispezioni presso le varie province italiane si ravvisava proprio questo: l’incapacità della classe dirigente, delle gerarchie del partito di guidare la nazione italiana in un così difficile momento, nel quale anche i particolari apparentemente più insignificanti erano invece il sintomo della disattenzione ed insensibilità di chi si trovava a dirigere il paese. Sintomatica a questo riguardo è un’altra lettera inviatagli dal suo collega ed amico di vecchia data, Cesare Foligno, docente di lingua e letteratura italiana ad Oxford, tornato anch’egli in Italia, come professore all’Università di Napoli. In quel contesto Foligno commentava con Pellizzi i ritardi degli approvvigionamenti con le tessere annonarie in quella città: È questa [i napoletani: n.d.a.] gente impareggiabile per tolleranza, ma della sua tolleranza si abusa in modo inqualificabile con effetti strazianti e che a me paiono avvicinarsi al limite di elasticità e quindi al pericolo. Si sanno queste cose? E, se si, è possibile che si tenti di confortare questi disgraziati dicendo e stampando che tutto va benone?89

Questo interesse di Pellizzi per gli approvvigionamenti era importante poiché egli si rendeva conto che uno dei motivi maggiori di disaffezione verso il regime era strettamente legato alla crescente scarsità di mezzi e alla disorganizzazione nella distribuzione dei beni. Durante le ispezioni 88 ACP, Serie V, b. 34, f. 46, Giorgio Vecchietti a Pellizzi, 3 ottobre 1941. Pellizzi prenderà in considerazione la lettera, scrivendo al ministro della Cultura popolare Pavolini, perché prenda le decisioni necessarie. Lo si deduce da una lettera inviata da Pellizzi a Vecchietti il 24 novembre1940. Ibidem. 89 ACP, Serie V, b. 37, f. 47, Cesare Foligno a Pellizzi, 22 febbraio 1942.

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per il Pnf nelle province italiane, il punto sul quale egli insisteva frequentemente era proprio questo, essendo sempre più chiaro che, a dispetto di una propaganda menzognera, gli italiani cominciavano a vedere anche dalle crescenti difficoltà della vita quotidiana che ormai il regime non era più in grado di fronteggiare una situazione sempre più critica90. Il sostegno di un fronte morale interno divenne, allora, per Pellizzi una costante preoccupazione, che lo impegnò in maniera quasi totale a partire dal 1941 e soprattutto nel 1942. Ne è prova il programma radiofonico Commento ai fatti del giorno, curato quotidianamente da Pellizzi con un impegno assai gravoso, se si tiene conto dell’ingente numero di altri impegni cui attendeva come presidente dell’INCF, elemento che testimonia quanto fosse importante per lui la propaganda capillare, il mantenere alto il tenore del fronte interno e quanto ancora fosse radicata la speranza di una guerra palingenetica, anche se – proprio nel fervore, un po’ retorico, di certe sue affermazioni – sono chiari ed evidenti i segni di una consapevolezza della crisi del regime. Lo stesso intento educativo lo si avvertiva anche nelle conferenze e lezioni tenute in tutta Italia su numerosi argomenti, da quelli di stampo letterario a temi di carattere economico o strettamente politico. Ed in quelle occasioni egli risultava meno persuasivo e più intimista, riportando spesso esempi della propria vita, quasi per entrare in una forma di confidenza con l’uditorio91. Ma, in tutte queste attività, Pellizzi aveva dovuto sempre destreggiarsi con i continui tentativi da parte dell’allora segretario del Pnf, Adelchi Serena, di affossare od ostacolare i progetti di rinnovamento dell’Istituto, che dovevano passare al vaglio del Pnf. Un’ampia documentazione attesta 90 Questo interesse di Pellizzi è testimoniato ampiamente nei documenti del suo archivio. Tra i molti possiamo ricordare una lettera dell’Ing. Guido Fratini, il quale si occupava di autarchia e sosteneva di aver individuato nella pianta dell’asfodelo un ottimo surrogato per produrre cellulosa e alcool. Era una pianta infestante molto diffusa in Italia e in Libia. Per questo motivo scrisse a Pellizzi, inviandogli una dettagliata relazione tecnica, perché si rendesse promotore del riconoscimento del brevetto e della sua applicazione su scala industriale. ACP, Serie V, b. 37, f. 47, Lettera di Guido Fratini a Pellizzi 9 maggio 1942. È un esempio che dimostra l’interesse di Pellizzi non solo per gli aspetti produttivi e autarchici, ma anche la sua capacità di creare legami e relazioni fra personaggi provenienti da ambienti diversi. Ne è una prova il fatto che egli inviò copia di questa nota al Presidente del CNR Giancarlo Vallauri, in data 10 maggio 1942, perché ne prendesse in considerazione gli aspetti tecnico-produttivi. 91 ACP, Serie I, b. 6, f. 29, Conversazioni radiofoniche, Commento ai fatti del giorno.

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che non solo i progetti di Pellizzi in merito all’Istituto erano sgraditi al segretario del partito, ma che le stesse posizioni dottrinarie di Pellizzi non godevano del suo favore. Serena aveva mostrato il proprio disfavore verso l’Istituto ed il suo presidente sin dal suo insediamento: in un rapporto riservato di pubblica sicurezza infatti si legge: Nell’aprile 1940 il Duce nominava Camillo Pellizzi (della vecchia Guardia Fascista, del «Popolo d’Italia», titolare della cattedra d’italiano a Londra e Firenze ecc.) Presidente dell’INCF in successione a De Francisci. Il Duce aveva detto a Pellizzi che doveva far parte del Direttorio del Partito come i suoi predecessori, Gentile, fondatore dell’Istituto, ex ministro e membro del Gran Consiglio e De Francisci, ex ministro e membro del Direttorio del Partito. Pellizzi è il terzo Presidente. Egli non avrebbe voluto entrare nell’alto consesso del Partito, ma il Duce replicò che era necessario per il prestigio dell’Istituto. E infatti con foglio di disposizioni n. 168 del luglio 1940 Pellizzi fu chiamato a far parte del Direttorio. Fungeva da Segretario del Partito Capoferri. Il potenziamento dell’INCF, voluto dal Duce, data appunto dall’avvento di Pellizzi. [...] Il Duce vuole che l’Istituto sia l’organo attraverso il quale il Partito, artefice della rivoluzione, sviluppi, elabori e precisi la dottrina del fascismo e attui, anche nel campo della cultura, la sua funzione di centro motore di tutta la vita nazionale. [...] Senonché alla fine di ottobre 1940 avviene il cambio della guardia: Serena sostituisce Muti e Capoferri, e Pellizzi non è compreso nel nuovo Direttorio e viene retrocesso a semplice ispettore di Partito. Una svista? Certamente. Se si pensa al prestigio che godevano i due predecessori di Pellizzi, Gentile e De Francisci, quando l’Istituto era ben lontano dall’essere quello che è oggi, [...] che del Consiglio direttivo dell’INCF fanno parte tre membri del Direttorio: Sellani, Ippolito e Parenti e ne è invece escluso il presidente stesso!!! Il Duce crede che Pellizzi faccia parte tuttora del Direttorio92.

Serena vedeva in Pellizzi un pericoloso antagonista, soprattutto per il modo di concepire la propaganda. Il carattere burocratico e populistico delle iniziative di Serena e dei suoi collaboratori ed il tono demagogico della propaganda organizzata dal partito andavano, infatti, in direzione opposta rispetto a quel tentativo fatto da Pellizzi, nel quale la “propaganda persuasiva” fosse solo un primo passo per creare un luogo di dibattito scevro da influenze ideologiche precostituite. Egli stesso nei suoi diari annotò questa difficoltà di intesa con il segretario del Pnf, il quale sin dall’inizio, stando alle affermazioni di Pellizzi, vide nell’Istituto di cultura fascista: 92

ACS, Min. Interno, Dir. Gen. di P. S., Divisione polizia politica, “Pellizzi Camillo”.

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un organo secondario, tutto chiuso nel misterioso e iniziatico recinto della cultura: specie di lazzaretto ai cui abitanti va imposta in ogni caso una quarantena [...]. Questa mentalità dotata di un buon senso grezzo che non va oltre l’astuzia, ha visto con orrore e disgusto il c.d. “potenziamento” dell’Istituto; deplora che gli si attribuiscano funzioni di propaganda; Pellizzi in ogni caso lo vede come uno sconosciuto che piove dal cielo (viene dall’estero, dunque, secondo i gossips di sede littoria, è un “uomo di Ciano”, al quale deve aver reso segreti servigi: questa, perlomeno, era una chiacchiera che circolava, e mi venne riferita come proveniente dallo stesso Serena). Da tutto questo una serie di restrizioni, ostruzionismi, svalutazioni e piccole angherie anche personali, fra cui si è vissuto in questi mesi; e figure nulle che dalla fitta rete di nullità dell’ambiente cercano di spingersi avanti aggavignando [sic] attribuzioni che il Duce voleva fossero dell’Istituto: o almeno così parve93.

Serena – che era fortemente infastidito dall’idea che l’attività dell’Istituto si svolgesse in proprio, fuori dal partito – tentò quindi di ostacolare ogni iniziativa presa da Pellizzi, insistendo sempre affinché tutti i progetti dovessero passare attraverso il Pnf; cosa che spesso Pellizzi riuscì ad evitare anche giovandosi della collaborazione del ministro della cultura popolare Pavolini, che gli forniva dei canali alternativi per portare a termine i propri programmi94. Da parte sua, viceversa, Pellizzi era convinto che il partito, così com’era strutturato non poteva assolutamente essere in grado di assumere un qualsiasi ruolo nel progresso educativo e morale del paese, data la sua elefantiaca organizzazione ed il suo eccessivo burocratismo connesso alla mancanza di validi motivi ideali che potessero fungere da polo di attrazione effettivo. In un suo articolo apparso su «Civiltà Fascista», poi ripubblicato nel volumetto dal titolo Il partito educatore, egli affermava: Un uomo non è mai un oggetto, la comprensione del quale possa risolversi nel suo inquadramento e incasellamento in categorie mentali predeterminate. Egli è soggetto di volontà. [...] La rivoluzione consiste nel principio della perfetta solidarietà e circolarità ACP, Serie IV, b. 16, f. 123, Note XXX. Ad esempio riguardo al progetto dei gruppi scientifici Pellizzi scrive: «[Mussolini] mi ordina poi di mandargli la bozza del comunicato per la stampa, per il tramite di Pavolini (il che mi risparmierà di doverlo sottoporre alle strettoie e ai ritagli del Partito, penso io). Sembra, nelle due udienze, che egli abbia intuito le mie difficoltà e che abbia voluto darmi un aiuto». ACP, ivi (il corsivo è sottolineato nel testo). 93 94

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delle tre funzioni, solo astrattamente distinguibili, di guida politica, di educazione politica e di rappresentanza politica95.

Il partito per Pellizzi avrebbe dovuto essere l’elemento di unione di questi tre compiti; inoltre avrebbe dovuto costituire il canale più diretto per la rappresentanza del popolo, in quanto una rappresentanza effettuata attraverso le corporazioni e i sindacati menomava i multiformi aspetti della personalità sociale e politica riducendoli semplicemente ad un unico parametro: quello delle categorie economico-produttive. Pellizzi, infatti, continuava a sostenere che la corporazione non potesse essere l’unico termine medio tra stato e individuo, l’unico motore dell’azione rivoluzionaria del fascismo, poiché essa non poteva assorbire l’intera orbita sociale in quella strettamente economico-professionale. Inoltre egli era convinto che la corporazione, per quanto spazio si volesse dare al suo contenuto etico, non avrebbe potuto mai perdere del tutto la sua ontologica connotazione che era quella meccanicistica, cioè economica. Era per questo che si rendeva necessaria la prospettazione di quello che lui chiamava un alterum quid, cioè di un elemento che fosse il vero motore della rivoluzione: vale a dire il partito. Esso, per Pellizzi, doveva diventare l’elemento nodale anche rispetto alla organizzazione corporativa; e dunque bisognava dirigere tutti gli sforzi affinché il partito assumesse un ruolo fondamentale nel nuovo costituzionalismo. Nella sua visione ideale, il partito avrebbe dovuto costituire il centro ideale della vita del regime, dove fosse possibile un confronto di idee e, soprattutto, una valida educazione politica. Ma il dubbio del fallimento di una simile prospettiva si era probabilmente già insinuato nella sua mente. Egli infatti nello stesso articolo affermava: Il problema del partito come supremo educatore-rappresentante politico del popolo è problema centralissimo e che investe tutta la vita del Regime; è uno di quei problemi in base ai quali la storia dirà se e di quanto la rivoluzione abbia assolto ai suoi compiti, se e di quanto abbia fallito96.

Una simile conclusione può essere interpretata come segno della sfiducia nella capacità di rinnovamento del partito e con esso del regime. Era chiaro quindi che l’unico compito cui ormai il partito potesse assolvere era quello della grande propaganda di massa fatta di adunate, di manifestazioni e cerimonie, di opuscoli a grande tiratura e di volantini. 95 96

C. PELLIZZI, Il partito educatore, cit., p. 9. Ivi, p. 17.

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Invece Pellizzi, secondo la ripartizione di competenze stabilita, avrebbe voluto che l’Istituto si dedicasse ad altro tipo di propaganda, della quale il partito non era più capace di occuparsi (o forse non lo era mai stato), la quale fosse: «divulgativa e educativa, capillare, minuta, assidua»; ma per fare questo l’Istituto avrebbe dovuto avere dietro di sé l’appoggio del Pnf. Questo scontro tra il progetto di mobilitazione culturale del regime attraverso l’INCF e il piano di Serena per un rinnovamento del Pnf, al fine di renderlo il vero ed unico elemento di mobilitazione politica della cultura, va analizzato più a fondo. È vero infatti che, nella percezione di Pellizzi, Serena poteva sembrare un personaggio ottuso, un burocrate che non voleva far altro che mantenere un controllo formale del Pnf su tutte le istituzioni del regime. Tuttavia, secondo una tesi di Emilio Gentile, il progetto di Serena altro non rappresentava se non l’estremo tentativo per far sì che il Pnf si trasformasse nel vero unico motore ideale della rivoluzione97. Serena infatti, a differenza dei suoi predecessori, si mostrò sensibile alla funzione culturale del Pnf, rimanendo convinto che «il partito era il centro dove si elaboravano i principi, le direttive, le mete e i metodi di azione della “rivoluzione continua”»98. [...] durante la segreteria Serena il partito, per la prima volta, intervenne direttamente nelle discussioni che riguardavano la definizione della sua natura, dei suoi compiti e della sua posizione nello Stato. Infatti la segreteria Serena fu quanto mai prodiga di dichiarazioni ideologiche, espresse soprattutto attraverso il “Notiziario settimanale dell’Ufficio stampa del PNF”, che iniziò le pubblicazioni nel marzo del 1941 [...]. Inoltre se di un nuovo “staracismo” si può parlare, a proposito della politica di Serena, occorre precisare che fu uno “staracismo” politicamente più consapevole, meno ossessionato dai problemi di stile e più assillato dall’esigenza di dotare il partito di strumenti adeguati, compresi gli strumenti culturali, ideologici, giuridici per far valere il primato del partito nel regime e nello Stato. La politica di Serena per il potenziamento del partito, con la valorizzazione delle sue organizzazioni femminili e giovanili, con l’estensione e la moltiplicazione dei suoi compiti, anche in settori rischiosi come il controllo dei prezzi, era ispirata ad una concezione del partito totalitario, che non considerava ancora compiuta la sua rivoluzione99.

Attraverso la costituzione dell’Ufficio studi e legislazione del Pnf, con il foglio di disposizioni n. 20 dell’11 dicembre 1940, Serena aveva tentaE. GENTILE, La via italiana al totalitarismo, cit., pp. 250 e ss. Ibidem. 99 Ivi, p. 254. 97 98

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to di creare un organismo di consultazione legislativa per il regime e di stimolo dottrinale per la “rivoluzione continua”. Questo elemento di certo si sovrapponeva ad alcune funzioni che Pellizzi avrebbe voluto per l’INCF. I due personaggi probabilmente volevano raggiungere lo stesso fine; la differenza forse risiedeva nel ruolo che essi avrebbero voluto assegnare al Pnf: Serena infatti voleva renderlo del tutto autonomo e su tale autonomia basare il ruolo di “motore della rivoluzione” (non a caso infatti la segreteria Serena, attraverso l’Ufficio studi e legislazione, aveva elaborato un progetto di riforma del Pnf teso a valorizzarne tale funzione)100; Pellizzi invece, pur volendo ravvivarne la funzione rivoluzionaria, lo concepiva comunque inserito all’interno delle istituzioni, essendo egli contrario a quanti si dichiaravano fautori del primato di un partito rivoluzionario al di fuori dello stato. Come ha notato Gentile: Muovendo da una diversa idea della politica totalitaria e dei metodi per realizzarla, Pellizzi sosteneva che il partito fascista, inserito nello Stato, aveva cessato di essere “partito” e non aveva più una propria idelogia, ma solo la funzione di “educatore rappresentante politico del popolo fascista, ossia di tutto il popolo che ha, come suo Stato, lo Stato fascista”. Come tale il partito “è un organo, non solo dello Stato, ma dello stesso governo” [...] l’organo che stimola e controlla tutte le funzioni esecutive dello Stato, senza avere, necessariamente, alcuna funzione esecutiva sua propria101.

Questa posizione, intrinsecamente idealistica, era ravvivata dal timore della proposizione di una dualità Partito-Stato, per effetto della quale lo stato correva il rischio di rimanere in una posizione subalterna rispetto al primato ideale di un partito che fosse la linfa dottrinale del fascismo102. 100 In un appunto autografo di Serena sono indicati i punti sui quali questa riforma avrebbe fatto perno: «Elaborazione rivoluzionaria della dottrina e della legislazione. Compito del partito. Partito e Stato. Carta del Partito. Designazione sindacato politico. Difesa della rivoluzione. Controllo ed educazione degli uomini. Collaborazione legislativa. Stile fascista. Illustrare i principali istituti. Cumulismo. Studiare di impedire il fenomeno», citato in E. GENTILE, op. cit., p. 281. Si vedano altresì il progetto di riforma del partito e la relazione espositiva, datata 20 dicembre 1941, ivi riportati integralmente, pp. 301 e ss. 101 Ivi, p. 265. 102 Ivi, pp. 265-266. Pellizzi esponendo queste tesi nel suo volumetto Il partito educatore del 1941, ribadiva questo concetto insistendo con vigore: «Non dobbiamo vedere lo Stato come un fantoccio esanime, e il Partito come un pugilista che lo tiene in perpetua agitazione con dei pugni ben assestati! Il Fascismo è rivoluzione continua, non insurrezione continua», p. 32.

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Ma la differenza tra le due posizioni non si fermava qui. Vi era in Pellizzi una visione fortemente aristocratica, che influiva anche sulla sua visione del partito: e soprattutto egli riteneva che il Pnf non fosse in grado di trasmettere quei valori tradizionali che avrebbero dovuto caratterizzare la classe dirigente fascista dopo Mussolini. La sua preoccupazione si era acutizzata, anche in questo caso, a seguito del confronto con l’esperienza tedesca, dove il tema della razza costituiva un forte elemento identitario. Egli allora insisteva nel voler individuare quali fossero gli elementi ideali che costituivano la tipicità del fascismo: Funzionalità della ricchezza; politicità antiprivatistica del rapporto fra l’uomo e i beni materiali o comunque fungibili; autorità eminente dello Stato su tutta la vita economica, programmazione economica; funzione educativa dello Stato, educazione selettiva ecc. Questi, con altri, sono i tratti ormai certi della rivoluzione totalitaria in atto: tratti certi, sebbene ancor non realizzati in pieno o non ancora sufficientemente istituzionalizzati. [...] I popoli che hanno creato questi nuovi organismi, gli stati totalitari, nel dare vita o sviluppo ai medesimi non potranno sfuggire a quello che sono le leggi naturali immanenti la vita di tutti gli organismi politici. Dovranno quindi anch’essi uscire dalla fase mitica, autocratica, “monarchica” e “feudale”, per entrare in una vera e propria fase aristocratica. La nazione sociale, ossia lo stato fascista, sarà veramente sicura del proprio avvenire solo quando sarà veramente sicura di una propria aristocrazia, valida, stabile e feconda. Un’aristocrazia è, per natura sua, ereditaria, questo non vuol dire che il figlio di un dirigente sostituirà sempre il padre nella medesima dirigenza. L’ereditarietà di un’aristocrazia non è tutta e necessariamente dinastica e nemmeno castale. Può esprimersi con un’altra parola: tradizione. [...] La tradizione politica è un vincolo immensamente più forte e più fecondo di tutte le leggi e di tutte le istituzioni messe insieme. Essa nasce dal fatto che il vero aristocrate non vuole, e non può, morire tutto; onde egli trasmetterà ad altri, intatto o accresciuto, lo spirito della sua potenza e del suo comando103. 103 C. PELLIZZI, Dell’aristocrazia fascista, in «Dottrina Fascista», a. VI, dicembre 1941, pp. 3-8. (Sottolineato nel testo). Il confronto con la Germania è un tema ricorrente, nello stesso articolo egli sostiene che nel fascismo ci sono due motivi portanti: «Il primo fa centro sulla nazione (che, nell’etimo, non è cosa diversa dalla razza); il secondo verte sul problema sociale, ossia del rapporto fra categorie. [...] Nella Germania di Hitler ci sembra che il motivo della razza sia quello dominante, poiché anche il problema sociale viene affrontato e sentito in funzione sua: tutelando e innalzando il lavoratore tedesco si potenziano in lui le qualità, e se ne riconoscono i diritti, che sono appannaggio del sangue eletto, ossia della stirpe germanica. In Italia non si può dire che questa religiosità “particolaristica” del sangue sia sentita altrettanto fortemente; certo non è sentita allo stesso modo. L’esigenza universalistica, che è profonda nei nostri istinti e nella nostra cultura, ci porta a vedere la

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Per arrivare a questo però era necessario che il fascismo selezionasse gli elementi migliori proprio all’interno del partito, che doveva essere il crogiuolo dove si sarebbero dovuti forgiare questi uomini nuovi dotati di ingegno e di virtù morali; ma, allo stato dei fatti, il partito sembrava essere piuttosto un vivaio di burocrati e quindi era meglio dirigere le proprie energie nel rafforzare quegli istituti educativi come l’INCF, che potevano agire con un minimo di autonomia. In questa prospettiva era quindi inevitabile che i due uomini, Pellizzi e Serena, si trovassero a scontrarsi proprio su obiettivi che potevano sembrare uguali, ma che, nello spessore morale e intellettuale erano profondamente differenti. L’insistenza di Serena nel voler rinnovare e rendere autonomo il Pnf e nel far controllare da esso sempre più vasti settori del governo del paese – insieme al fatto che nel frattempo egli si era creato nemici potenti – come ad esempio Buffarini-Guidi – i quali premevano su Mussolini per un suo avvicendamento – fu uno dei motivi che portarono alla sua sostituzione dal vertice del partito. Il pretesto fu uno scontro con il ministro dell’Agricoltura Tassinari, per una questione riguardante il controllo dei prezzi; ma in realtà alla base dei motivi che portarono alla sua sostituzione – avvenuta il 26 dicembre 1941 – stavano proprio il suo spirito di autonomia critica e soprattutto il suo “senso del partito”, fattori che Mussolini evidentemente tollerava poco104. Pellizzi comunque, anche dopo la sostituzione di Serena continuerà a trovare nei segretari del Pnf Vidussoni e infine Scorza, degli antagonisti più che degli alleati, riuscendo a condurre in porto le sue iniziative sempre con l’ausilio di Bottai e Pavolini105. razza in funzione di generale progresso umano, e a sentire il problema sociale in termini di giustizia. [...] Di questa dicotomia latente nel pensiero fascista troviamo segni evidenti nella pubblicistica, la quale va dalla corporazione proprietaria o aziendale di Spirito, dalla Rivoluzione sindacale di Chilanti, da un lato, alla concezione di Evola, dall’altro lato, di una “razza eletta” Romana, i cui esponenti dovrebbero possedere, ed ereditare, come per divina investitura, il privilegio e i doveri del comando. In altre discussioni, parlandosi di classe dirigente, taluno fonda tutto il problema sui concetti di competenza e di sapienza tecnica; altri di eroismo, di sacrifici compiuti, di sentimento mistico del dovere nazionale». Ibidem. 104 Sui motivi della sostituzione di Serena si veda G. BOTTAI, Diario (1935-1944), cit., pp. 275-276 e 294-295, nonché G. CIANO, Diario 1937-1943, a cura di R. De Felice, Milano, Rizzoli, 1980, p. 570, ma soprattutto E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo, cit., pp. 288-290. 105 Lo si deduce da una lettera scritta da Pellizzi al segretario del Pnf il 1° febbraio del 1943, la quale può considerarsi un estremo tentativo di rafforzare l’Istituto e di definirne

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4. Un “nuovo ordine” La capacità del regime di rendersi ancora interprete delle istanze di rinnovamento della società italiana era sempre meno forte, ma in Pellizzi non si era spenta la volontà di indicare le linee potenziali di sviluppo del fascismo in un senso rivoluzionario. Egli era ancora convinto di poter realizzare – attraverso gli strumenti forniti dall’Istituto da lui diretto, quali i gruppi scientifici – un circuito ed una collaborazione tra cultura e politica106. E, in un suo articolo apparso su «Civiltà Fascista», illustrava i motivi ispiratori e le finalità del progetto: La cultura in venti anni, non ha dato alla politica fascista un contributo sufficiente, né diretto, né di opposizione, ossia dialettico. Una delle cose di cui più più precisamente i compiti, il presidente dell’Istituto chiedeva maggiori mezzi, ma anche una attenzione più puntuale da parte delle istituzioni del regime e una maggiore incisività dell’Istituto sulle decisioni in materia di organizzazione della cultura. Ma la lettera non ebbe l’effetto voluto; Pellizzi allora inviò un promemoria al vice segretario del Pnf, Carlo Ravasio, che sicuramente era un personaggio più sensibile ed attento ai segni di decadenza del partito e spesso manifestava le sue perplessità in merito. Nel promemoria Pellizzi delineava, con un estremo tentativo, i fattori che avevano impedito al regime di divenire “educatore”. Il presidente dell’Istituto vi affermava che l’ambiguità del ruolo ricoperto dal partito nei confronti dell’“educazione politica” aveva impedito anche all’INCF di assumere questo ruolo di educatore. Inoltre l’equivoco della distinzione tra propaganda ed educazione politica aveva poi creato dei notevoli attriti tra questi due organismi, tanto che spesso il partito aveva temuto di essere “svuotato” della propria funzione di propaganda dall’INCF. In questo senso Pellizzi sosteneva che il problema della educazione politica non era mai stato affrontato dal partito in modo completo: «[...] c’è tutto un problema di politica culturale (e di attività di studi) al quale il partito non può sfuggire, e al quale non ha mai fatto fronte, se non in piccola parte coi suoi organi interni. [...] Sorge a questo punto il problema del rapporto funzionale tra l’ufficio studi e legislazione del Partito e l’INCF. È assurdo che due uffici o enti del partito facciano la stessa cosa. [...] Ognuno dei due organi viene ad essere diminuito dall’altro. [...] Non si può dire che l’ufficio studi, nei suoi 14 mesi di vita, abbia “portato via” alcuna iniziativa o attività che già fosse dell’INCF, ma per la sua stessa esistenza, [...] ha rarefatto l’aria intorno all’Istituto, rendendogli impossibile qualsiasi maggiore impegno in questo campo. Solo l’iniziativa dei gruppi scientifici “passò”, per il semplice fatto che, data la sua importanza, la si dovette sottoporre al Duce, e il Duce la incoraggiò nel modo più alto e più fervido». ACP, Serie I, b. 6 f. 31, Promemoria intorno all’INCF, per il fascista Carlo Ravasio, vice segretario del PNF. 106 I “Gruppi scientifici” dell’INCF erano stati costituiti con il foglio di disposizione n. 152 il 7 luglio del 1941, su impulso di Camillo Pellizzi con l’aiuto di Paolo Fortunati, professore di statistica all’Università di Palermo, nonché presidente dell’Istituto di cultura fascista di Palermo e poi, trasferitosi all’Università Bologna, componente della società italiana di statistica.

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ha sofferto il fascismo è di non aver trovato una opposizione abbastanza valida in sede culturale [...] La causa della molto lamentata e insufficiente circolazione e collaborazione tra cultura e politica nel regime fascista è da ricercarsi anzitutto nella carenza o insufficienza di uno dei due elementi; ossia della cultura. [...] Parlo della cultura in quanto linfa circolante nelle arterie della vita pratica immediata, perciò come fatto sociale e politico: non solo, né tanto, come “cultura politica” in senso tecnico, bensì pensiero e ricerca ispirati ai problemi nostri e di quest’epoca, confluenti nella nostra vita collettiva [...] L’iniziativa, ispirata a motivi che sono essenzialmente e sottilmente politici, non può né deve precludere analoghi eventuali sviluppi nel campo strettamente accademico e nella vita delle facoltà universitarie, dove si comincia ad avvertire una esigenza di forme di collaborazione più strette, e anche di un orientamento verso argomenti di ricerca di interesse più immediatamente “politico”107.

L’esigenza di ricreare un legame tra l’alta cultura e il regime trovava la sua ragion d’essere anche nella costituzione all’interno delle università dei centri di consulenza legislativa, e dei comitati tecnici per lo studio delle riforme legislative, di cui si è detto. L’attività dei gruppi non può essere compresa se non alla luce dei rapidi mutamenti intervenuti nel corso della guerra; essa costituiva, appunto, anche la risposta a quella esigenza, fortemente avvertita, di creare più stretti legami con la cultura accademica. Ma il progetto aveva incontrato notevoli difficoltà: il primo convegno, nel quale fu fatto il punto sul lavoro elaborato dai gruppi, venne organizzato solo tra la fine del 1942 ed i primi del 1943. I maggiori ostacoli nell’organizzazione del Convegno si ebbero soprattutto durante il periodo in cui Adelchi Serena era stato segretario del Pnf, poiché il progetto era dovuto passare attraverso quelle che Pellizzi definiva “le pastoie” dell’Ufficio studi e legislazione del partito, ufficio voluto e creato dallo stesso Serena e che vedrà la propria fine con la sua sostituzione108. Ad ogni modo il progetto riuscì ad andare in porto grazie anche all’interessamento del ministro della cultura popolare, Pavolini, e dello stesso Bottai. I due temi del convegno: «Il Piano economico» e «L’Idea di Europa» erano strettamente legati dall’esigenza di una chiarificazione ideale sulC. PELLIZZI, A proposito dei gruppi scientifici dell’INCF, in «Civiltà Fascista», VIII, 7, luglio 1941 pp. 543 e ss. 108 Sul punto si veda E. GENTILE, La via italiana al totalitarismo, cit., pp. 225 e ss. e, in particolare, pp. 257-258. 107

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l’ordine nuovo, specie in un momento in cui l’andamento del conflitto appariva assai incerto109. L’atteggiamento di Pellizzi nei confronti della pianificazione economica sin dalle origini era stato quello di ritenere le corporazioni degli strumenti capaci di superare e vincere l’economia, il denaro astratto, gli interessi materiali, per realizzare quella “comunità”, le cui peculiarità fondamentali – caratterizzate dalla solidarietà e dalla concezione organica dell’individuo e dello stato – egli aveva delineato molti anni prima nel suo volume Fascismo aristocrazia. Ma, in una situazione del tutto nuova e drammatica, i termini per la costruzione di una nuova economia si ponevano in modo diverso. Pellizzi, condividendo pienamente le idee espresse da Ugo Spirito nel convegno, riteneva che una economia interamente pianificata avrebbe totalmente appiattito l’iniziativa individuale, vanificando così anche il lato positivo del messaggio corporativo, inoltre, pur essendo l’economia puramente individualistica in rovina, tuttavia anche un’economia programmata o comunque determinata dallo stato, avrebbe 109 Il primo convegno dei gruppi scientifici dell’INCF si tenne in prima sessione, dal 23 al 26 novembre del 1942 ed in seconda sessione il 5 e 6 aprile 1943. A proposito del convegno lo stesso Pellizzi così lo ricordava, anni più tardi: «Negli ultimi mesi del 1942, quando l’offensiva di Rommel verso l’Egitto appariva ormai fallita, senza speranza, la supremazia aerea degli alleati dava prove di sé ogni giorno più terribili, e lo sbarco degli alleati stessi in Africa Settentrionale dimostrava che essi intendevano portare la guerra decisamente sull’Europa; le idee e gli uomini, così nell’ambito delle organizzazioni fasciste, come nel paese in genere, già presentavano molti segni della crisi incombente. l’Istituto nazionale di cultura fascista, fino dai primi di quell’anno, aveva assegnato ai propri “Gruppi scientifici” periferici due temi principali di discussione e di studio: “L’unità d’Europa” e “Il piano economico”. A conclusione dei lavori furono invitati a Roma, per una discussione possibilmente conclusiva, coloro che più attivamente avevano contribuito agli studi, unitamente ad altre personalità nel campo scientifico che si riteneva potessero dare un contributo rilevante al dibattito. La scelta del tema sul “Piano economico” era partita dall’Istituto stesso; ma quando il progetto era stato sottoposto a Mussolini, egli lo aveva approvato con calore, osservando che c’era in giro, in Italia e fuori, un «rincrudimento di posizioni liberali e liberistiche», soprattutto tra gli economisti, ma anche, sia pure sotto molteplici mimetizzazioni, nella pubblicistica. L’Istituto d’altronde insisteva a che i suoi collaboratori in questi studi si esprimessero con assoluta libertà, e voleva essere, nell’ambito del regime, una zona franca, dove si potesse lavorare e discutere senza eccessivo timore di interventi o sanzioni politiche. Una riprova di questo è nel fatto che nel dibattito di cui parliamo, «si trovano di fronte concordi e discordi, uomini che solo tre anni dopo emergevano nella vita pubblica come esponenti delle più diverse tendenze e partiti e nei rispettivi campi di attività trovavano nuova occasione di dar prova del loro personale valore». C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., pp. 138-139.

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reciso la libertà dell’individuo aggravando ulteriormente il problema del progresso economico110. Circa l’«Idea di Europa», Pellizzi aveva affrontato il tema tenendo ben presente il problema del confronto con l’ordine nuovo tedesco, e sapendo che su questo aspetto la dottrina fascista non era stata affatto coerente e lineare111. L’atteggiamento del regime rispetto all’Europa ed al ruolo dell’Italia al suo interno era stato ambivalente: tra la fine degli anni Venti e per buona metà degli anni Trenta, esso aveva dato impulso, ad esempio attraverso i Comitati d’azione per l’universalità di Roma (CAUR)112, all’immagine del “fascismo universale”, sovranazionale, per accreditare il mito della “rivoluzione universale del fascismo”. Ma, con la salita al potere del nazionalsocialismo, il panorama internazionale era profondamente mutato e si poneva prepotentemente alla ribalta il problema dell’antisemitismo, che inizialmente il fascismo non seppe affrontare in modo sostanziale, mentre al suo interno il regime faceva ancora i conti con la difficoltà di elaborare una chiara dottrina corporativa. L’impresa etiopica dirottò l’attenzione verso una visione “imperiale” del ruolo dell’Italia, determinando una cesura profonda nella evoluzione di una idea e di un comune sentire europei per cui la visione nazionale, europea e universale venivano riassorbite in quella imperiale113. Tuttavia ad avviso di Pellizzi, questa vocazione all’universalismo – insita nella mentalità e nella cultura italiana – era un elemento che assegnava alla politica fascista un valore mitico, quasi religioso; e ciò l’avrebbe posta su un piano di superiorità morale rispetto all’alleato tedesco114. 110 Cfr. C. PELLIZZI, Ivi, pp. 139 e ss. Per gli atti del convegno sul “Piano economico” si veda: G. MELIS (a cura di), Fascismo e pianificazione. Il Convegno sul piano economico (1942-’43), cit. 111 Per un esame approfondito dei temi emersi durante il convegno si veda G. LONGO (a cura di), Il fascismo e l’idea di Europa. Il convegno dell’Istituto nazionale di cultura fascista (1942), Fondazione Ugo Spirito, Roma 2000. 112 Per una bibliografia riguardante i CAUR vd. supra, cap. II, nota n. 98. 113 Sul “fascismo universale” si veda M.A. LEDEEN, Op. cit. Sulla fortuna del concetto di “Europa” si veda D. COFRANCESCO, Il mito europeo del fascismo, art. cit., pp. 5-45; per uno studio dedicato in materia particolare all’eurofascismo si veda il saggio di H.W. NEULEN, L’Eurofascismo e la seconda guerra mondiale. I figli traditi dell’Europa, tr. it. a cura di N. Cospito, Volpe, Roma 1982; infine sull’ambiguità dell’atteggiamento di Mussolini nei confronti del fascismo universale si veda R. DE FELICE, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso (1929-1936), cit., pp. 595 ss. 114 C. PELLIZZI, Italia e Germania. Problemi del nuovo ordine. II, in «Civiltà Fascista», 15 febbraio 1942.

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Il tema della nuova europa era quindi centrale per riaffermare una specificità del ruolo italiano nel conflitto. Su «Civiltà Fascista» proliferò un intenso dibattito sul nuovo ordine, anche in preparazione del convegno del novembre del ’42115. Fra i collaboratori della rivista, come, sotto diverso profilo, fra quelli di «Primato» e di «Critica Fascista», il nuovo ordine del continente europeo veniva spesso trattato con attenzione ai profili pragmatici e tecnocratici della nuova società occidentale. In particolare, profonda era la consapevolezza di trovarsi ad una svolta della storia occidentale, come anche la preoccupazione per le forme che la nuova società nascente avrebbe assunto, soprattutto per effetto della guerra, con sviluppi non facilmente prevedibili. Si sentiva soprattutto la necessità di confrontarsi con il regime bolscevico, dove la pianificazione economica era un fatto già da tempo consolidato116. 115 Ad esempio il numero di febbraio del 1942 della rivista fu interamente dedicato ai temi dell’ordine nuovo. Copiosa era la pubblicistica sul tema della nuova Europa come pure i dibattiti sul nuovo ordine; basti pensare alla vasta eco che trovava presso i giuristi il tema del superamento dello Stato nazionale, inteso non tanto rispetto alle espressioni istituzionali degli stati totalitari, quanto piuttosto alla necessità di razionalizzare l’assetto politico europeo: tra i molti studi si vedano, ad esempio, i contributi di L. Vannutelli Rey e F. Pierandrei al saggio di C. SCHMITT, Il concetto di impero nel diritto internazionale. Ordinamento dei grandi spazi con esclusione delle potenze estranee, a cura e con prefazione di L. VANNUTELLI REY e con una appendice di F. PIERANDREI dal titolo La politica e il diritto nel pensiero di Carl Schmitt, INCF, Roma 1941, pp. 5 e ss. e pp. 139 e ss. Gli argomenti di carattere economico-corporativo erano però prevalenti, tra il 1940 e il 1944 numerosissimi furono gli articoli e le opere pubblicate sui problemi economici posti dall’ordine nuovo. È opportuno ricordarne alcuni: G. ACERBO, Dalla vecchia alla nuova economia europea, in «Atti della Reale Accademia di agricoltura», Bologna 1941; A. BONAJUTO, I traffici dell’unione economica europea, Edizioni de «La Critica», Roma 1943; L. GANGEMI, Europa nuova, Ed. italiane, Roma 1942; F.S. ORLANDO, L’economia bellica e i problemi della Nuova Europa, Bocca, Milano 1941; ID., Il nuovo ordinamento economico nel nostro continente, Bocca, Milano 1941; G. VASSALLO, L’economia della nuova Europa, Palermo 1942; F. GUARNIERI, Autarchia e scambi internazionali, in «Storia e politica internazionale», giugno 1941. 116 L’interesse di Pellizzi nei confronti dell’Unione sovietica è assai forte, lo si deduce da una lettera di un giovane collaboratore dell’Istituto, Aurelio Cassanello, il quale risponde all’invito di Pellizzi a scrivere una nota sulla Russia bolscevica, poiché nel momento egli si trovava proprio sul fronte russo. Ma Cassanello non pare aderire immediatamente alla proposta che vede assai impegnativa: «troppi vengono qui con idee preconcette, la critica al Comunismo rischia, attraverso i troppi superficiali, di fare un passo indietro [...] Scriverò quanto voi mi dite non appena avrò raggiunto una certa unità di visione soprattutto nei campi più oscuri (problema estetico). Credo che il nocciolo della cosa sia sempre lo stesso: la critica al Sovietismo va fatta sul campo delle idee e non dei fatti sensualmente visibili: materialismo storico e personalità umana. Il resto è relativismo caotico quando non è

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Per rappresentare la varietà di questi atteggiamenti e metterli a frutto, Camillo Pellizzi aveva preparato una relazione introduttiva al convegno sull’Idea di Europa che tentava di mettere sul tappeto tutti questi temi pur senza indicare alcun indirizzo preferenziale. Il punto centrale della questione, per Pellizzi, risiedeva nell’affermazione e nel riconoscimento dell’esistenza di una volontà comune: una idea-forza un “sentirsi europei” al di là delle singole nazionalità. In tal senso, egli individuava in tutta la storia europea un movimento perennemente convergente alla sua unità, nonostante le guerre susseguitesi nei secoli potessero far supporre il contrario; viceversa, per Pellizzi, anche esse rappresentavano in realtà un mezzo di scambio ed integrazione fra le varie nazionalità. Proprio per effetto di tale movimento verso l’integrazione era quindi assurdo ritenere fuori dall’Europa nazioni come la Gran Bretagna o la Russia. Una simile posizione poteva apparire eccessivamente onnicomprensiva e in definitiva inconsistente ed eccessivamente astratta, o addirittura, come afferma Dino Cofrancesco, Pellizzi sembrava applicare in tal modo [...] una filosofia della storia di sapore tardo idealistico che, se da una parte preannunciava l’ultimo velleitario tentativo di Salò di riconciliare le ideologie più antitetiche, dalla nazionalista alla socialista, [...] dall’altra, allargando oltre misura i confini materiali e ideali dell’Europa, finiva per relegare il discorso su un piano irrimediabilmente utopico, caratterizzato dalla pretesa di veder realizzate in terra quelle mediazioni e quei trapassi che al filosofo erano riuscite così bene nell’empireo delle idee imbalsamate [...] Sicché viene quasi il sospetto che il Pellizzi, già sullo scorcio del 1942, stesse piuttosto preparando – certo senza esserne del tutto consapevole – un proprio eventuale ruolo nel post-fascismo, un ruolo di mediatore, s’intende – quello connaturato, del resto, all’intellettuale italiano tipo117.

Non è facile determinare quali fossero le reali intenzioni di Pellizzi in quel momento e quale fosse il suo effettivo atteggiamento tanto nei confronti dei fascisti quanto di coloro che si ponevano contro il regime. Certo il convegno dei gruppi scientifici venne da lui organizzato in maniera da poter ospitare una vastissima gamma di personaggi che solo pochi anni dopo sarebbero confluiti nei diversi partiti della neonata Repubblica. sconfessione di vecchie idee sul movimento sovietico. Qualche volta mi viene il dubbio che questi diavoli abbian prima di noi realizzato il Corporativismo!», ACP, Serie V, b. 37 f. 47, Lettera di Aurelio Cassanello del 8 agosto 1942. 117 D. COFRANCESCO, Il mito europeo del fascismo, art. cit., pp. 26-27.

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Interpretare quei mesi alla luce di ciò che accadde dopo è un tentativo arduo, poiché la prospettiva è inevitabilmente condizionata dagli eventi successivi al 25 luglio del 1943: ma nel caso in esame, si può affermare che Pellizzi invitò al convegno alcuni collaboratori ed amici ben sapendo che essi già nutrivano un atteggiamento ormai contrario al regime118. 118 È questo il caso di Paolo Fortunati, stretto collaboratore ed ispiratore del convegno sul piano economico, nel quale tenne la relazione introduttiva sul tema della pianificazione economica, in maniera attenta ma ambivalente. Invitato a parlare da Pellizzi egli aveva risposto: «Carissimo, grazie dell’affettuoso invito per la relazione generale sul piano [economico n.d.a.], che accetto, anche... se pericoloso. Ma mi batterò a fondo, responsabilmente». ACP, Serie I, b. 2, f. 7/3. Paolo Fortunati a Pellizzi, 14 ottobre 1942. Fortunati militava nel gruppo cladestino “Antonio Labriola”, ma anche altri personaggi, come Guido Carli o Francesco Vito non potevano certo dirsi in linea col regime. In tal senso può essere significativa – anche se assai successiva ai fatti – una lettera scritta da Pellizzi a Fortunati: «Io ti invitai a partecipare alla prima delle due discussioni (quella sul piano economico) così come invitai l’einaudiano Carli, il gemelliano Vito, e tanti altri, non perché condividessi i loro orientamenti o disorientamenti, che anzi mi davano molta tristezza, ma perché nel “vuoto storico” che si era creato giudicavo la miglior cosa da fare fosse offrire un terreno di incontro a queste vecchie posizioni che “faute de mieux”, andavano riemergendo, nella speranza che qualcosa di nuovo o positivo potesse uscirne. Era chiaro ormai che il fascismo aveva impostato, ma non avviato nella realtà, l’evoluzione corporativa delle strutture sociali; e d’altro lato, il suo nazionalismo aveva trovato un avatar [sic] nell’alleanza coi nazisti. In più e in peggio la guerra andava male, il che spiegava, se anche non giustificava, il pullulare delle crisi di coscienza». ACP, Serie V, b. 38, f. 60, Pellizzi a Fortunati, 27 febbraio 1955. L’affermazione di Fortunati di una sua adesione al gruppo “Labriola”, trova il suo fondamento in due fattori: il primo è che egli sostiene nella sua lettera del 1955 di essere andato a trovare Pellizzi in clinica nell’autunno del 1942, e ciò corrisponde al vero in quanto Pellizzi subì una appendicectomia nell’ottobre 1942; il secondo è che nell’agosto del 1943 Fortunati scrisse alcune lettere a Pellizzi dal cui tono si capisce che la sua aperta adesione al comunismo era da tempo nota a Pellizzi. In una lettera di Fortunati infatti si legge: «Come da tempo ti avevo detto la crisi è scoppiata. Tu ancora non ti vuoi convincere del fallimento della borghesia italiana (come classe economica, culturale, tecnica). Spetta solo alle forze autentiche del lavoro di esprimere e di far esplodere energie nuove e di trovare su un nuovo fermento una nuova unità italiana. Pensaci. Tu sei fra i pochi, fra i pochissimi che mi hanno ascoltato quando tutto era euforia e la nazione – bestie!». ACP, Serie V, b. 35, f. 48, Fortunati a Pellizzi, 10 agosto 1943. E in una lettera successiva insiste sullo stesso tema: «Oggi come oggi e da decenni ad oggi la massa dei dirigenti la vita italiana è stata esclusivamente selezionata tra la borghesia. [...] Ora questa borghesia è fallita. Fallita sul piano culturale, fallita sul piano militare. Dico fallita come fenomeno di massa e come valore di classi dirigenti. [...] Bisogna disperatamente puntare sulle forze proletarie, nella speranza che il ricambio sociale degli ultimi trenta o quarant’anni in Italia non abbia funzionato per vincoli sociali e che quindi nel proletariato vi siano ferme capacità e volontà di dare un volto, una struttura e un orientamento all’Italia nel quadro di un’Europa Unita». ACP, Serie V, b. 35, f. 48, Fortunati a Pellizzi, 23 agosto 1943.

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La situazione del paese aveva reso preponderante la necessità di ricreare, prima ancora di un nuovo ordine istituzionale, un ordine di valori morali tale da fondare le premesse di una più alta giustizia sociale, la quale non necessariamente avrebbe dovuto realizzarsi nelle condizioni istituzionali in cui l’Italia si trovava, potendo essere il frutto delle profonde trasformazioni che l’effetto della guerra stava accelerando. Cresceva la preoccupazione di delineare per l’Italia un ruolo ben preciso, che fosse comunque efficace per l’assetto europeo, anche nel caso di una sua sconfitta. Ben consapevoli ormai che l’Europa rivestiva una importanza sicuramente inferiore rispetto ad altre potenze internazionali in campo, tuttavia si riteneva che essa dovesse rappresentare il risultato dell’unione di molte nazioni; non essendo al contrario concepibile, in questo quadro, il dominio di una sola di esse (la Germania), poiché ciò fatalmente avrebbe aperto il varco all’intervento in Europa delle grandi forze extraeuropee. È questa la tesi sostenuta in un articolo redazionale, apparso su «Civiltà Fascista» nel dicembre del 1942 – probabilmente scritto o da Giulio Tarroni, redattore capo della rivista e responsabile dell’ufficio studi dell’Istituto, ovvero da Pellizzi stesso –, nel quale, tra l’altro, si evidenziava la necessità di creare una nuova Europa basata sul rispetto delle nazionalità, poiché solo in tal modo essa avrebbe costituito un elemento di equilibrio tra le forze continentali che, per effetto della guerra, si andavano affermando nel mondo119. Questo articolo risentiva di certo dell’influsso di alcune tesi espresse nel convegno su «L’idea di Europa», tenutosi nel mese precedente, nel quale più volte era emersa la difficoltà di ricreare degli equilibri europei nella prospettiva di quelli nuovi internazionali che si sarebbero raggiunti dopo la guerra. Proprio per questo era necessario esortare le potenze angloamericane a delineare il quadro internazionale entro il quale la nuova Europa avrebbe dovuto inserirsi e a fornire una visione unitaria del nuovo ordine. Era certo un atteggiamento cauto, che – di fronte alla possibilità di una disfatta militare che ogni giorno diventava più chiara – permetteva di lasciare aperta una porta al dialogo con i futuri vincitori. Ma vi era anche, più forte ancora, la necessità di allontanarsi, almeno sul piano ideale, da un alleato divenuto assai scomodo, dal quale molti in Italia intuivano ormai di dover prendere le distanze, recuperando un proprio ruolo autonomo. A tal fine Pellizzi non perdeva occasione per evidenziare due differenti modi di procedere del pensiero italiano e germanico: il primo predili119

N. R., L’idea di Europa, in «Civiltà Fascista», X, 1, dicembre 1942, pp. 63-66.

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geva quello che lui chiamava «l’elemento del rapporto esterno», e cioè un modus procedendi che ha un «minimo di concretezza e un massimo di universalità»; il secondo, invece, assumeva come primario «l’elemento del rapporto interno», che aveva «un massimo di concretezza e un minimo di universalità». Più semplicemente, data la caratteristica creativa delle due rivoluzioni, quella fascista e quella nazionalsocialista, per Pellizzi la “rivoluzione italiana”, partendo dal concetto di società, si era dimostrata più “universale”. La “rivoluzione tedesca”, invece, ponendo alla propria base il mito della razza per dedurne poi un dover essere sociale, si era posta come fenomeno unicamente tedesco: Il mito della razza non vale a risolvere i nuovi problemi che si impongono. Esso è un grande principio animatore dei rapporti interni, ma non ha nulla da dire nell’ordine dei rapporti esterni. [...] L’ordine corporativo scioglie l’individuo dai vincoli particolari di famiglia, gruppo, sindacato, patria, razza, non perché li distrugga, ma perché li invera, li inserisce e coordina in un sistema più organico e umano120.

Per questo la corporazione, tesa a creare il “consenso” tra le varie forze in campo, rendeva l’Italia portatrice di una “funzione di civiltà” all’interno del nuovo assetto europeo, accanto alla dimostrazione di forza di cui la Germania era certamente protagonista. Già in una conferenza tenuta a Vienna nel novembre 1941, egli aveva indicato il diverso contributo all’ordine nuovo, che la Germania forniva principalmente: con un impulso materiale e morale più evidente e più decisivo del nostro; ma quando la guerra presente sia coronata dalla vittoria, e la vittoria debba tradursi in un ordinamento di pace che significhi comprensione e giustizia per tutti, forse il contributo dell’Italia mussoliniana, rivoluzionaria e tradizionalista insieme, potrà essere ancora più prezioso nella grande e nuova opera di costruzione di un mondo migliore121.

A Pellizzi premeva accentuare la distinzione dalle basi dottrinali nazionalsocialiste, soprattutto per ciò che concerneva il problema razziale. L’autore, infatti, insisteva sul fatto che per l’Italia il principio della razza non era che uno dei risultati di un processo di rinnovamento del C. PELLIZZI, Italia e Germania. Problemi del nuovo ordine. II, art. cit. ACP, Serie I, b. 5, f. 25, Spunti (o motivi) della lezione inaugurale che il Prof. Camillo Pellizzi si propone di tenere all’istituto italiano di cultura in Vienna il 7 novembre 1941, XIX su “Tradizione e rivoluzione nella cultura italiana contemporanea”. 120 121

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proprio abito mentale, una conseguenza del rinnovamento della società. Anche se tali argomentazioni potevano apparire alquanto artificiose, è comunque importante sottolineare che le valutazioni di Pellizzi miravano a differenziare la concezione italiana sul razzismo – nell’intenzione di renderlo quasi marginale rispetto alla dottrina del fascismo – da quella nazionalsocialista, che l’assumeva invece come principio cardine, basilare per la “rivoluzione tedesca”; egli proprio per questo, tendeva a far apparire il razzismo come fenomeno prettamente interno alla cultura tedesca, «prigioniero di quella idea particolaristica della società razzista nazionalsocialista»122. Questa preoccupazione in lui si rafforzò progressivamente e in un suo viaggio in Germania, nell’aprile 1942, Pellizzi tenne una conferenza, concertata con il duce, che piacque assai poco ai tedeschi. In essa venivano comparate le originalità del pensiero fascista e nazista, e si attribuiva dignità ed un tratto distintivo al pensiero italiano caratterizzato dall’Humanitas, la quale doveva estendersi anche alle valutazioni e ai giudizi emessi sulle popolazioni più deboli o eventualmente sconfitte123. 122 Italia e Germania. Problemi del nuovo ordine, cit. Questa posizione di Pellizzi non era senza conseguenze, lo si può vedere dalle lettere conservate presso il suo archivio dalle quali emergono numerose perplessità sulla posizione italiana verso il problema razziale e la Germania. È utile citare la lettera di Carlo Camagna, direttore dell’Agenzia Stefani, del 20 aprile 1942, nella quale quest’ultimo esprime diversi dubbi circa questo articolo di Pellizzi del febbraio precedente, dal momento che egli non è convinto che: «il razzismo debba aver l’effetto isolante che tu gli attribuisci [...] Nulla porta a credere che il preconcetto razzista e la prassi razzista possano avere paralizzato l’impeto dinamico che promana dall’esperienza storica, ossia dalla civiltà germanica. Sostengo, anzi, che il razzismo, idea “particolaristica”, può benissimo venire a contatto col mondo esteriore ed essergli modello e norma». ACP, Serie I, b. 37 f. 47. 123 La relazione di Pellizzi, intitolata Principi e ragioni del fascismo, conservata presso il suo archivio, è molto significativa; essa sarebbe stata pubblicata parzialmente su «Gerarchia» nel maggio 1942, con il titolo Principi e ragioni del fascismo, ne riportiamo alcuni brani che sono forse i più interessanti: «Noi giudichiamo la diversità di valore degli individui e delle razze umane, perché ci riferiamo ad un criterio che sovrasta gli oggetti del nostro giudizio. È molto difficile fissare rigidamente, obiettivamente, le misure di valore nelle cose umane; tuttavia ognuno di noi, ad ogni momento, si serve di un criterio di questo genere. Se io debbo scegliere, fra vari aspiranti, un collaboratore di fiducia, l’uomo che io scelgo non è migliore degli altri per il fatto che io lo scelgo, bensì io lo scelgo perché lo giudico migliore degli altri. Non mi arrischierò ora ad entrare più addentro in questo difficile problema. Mi limito ad accettare come ormai chiari due punti che hanno importanza decisiva per la mia illustrazione. Il primo è che le razze e gli uomini sono tutti fra loro diversi di qualità e di valori; il secondo è che noi giudichiamo queste differenze secondo un criterio che noi trovia-

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Pellizzi stesso ricorda che, appena finita la sua relazione, il rappresentante del governo tedesco, presente alla manifestazione, si affrettò a sottolineare la diversità dei principi del nazismo basati sul blut und boden e sul führerprinzip124. Inoltre la stampa tedesca non fece alcun accenno ai mo in noi stessi, e che non deriva semplicemente dai fatti. I fatti ci forniranno bensì una grande parte del materiale al quale noi applicheremo il nostro criterio. Se io non mi inganno, questo secondo punto segna il carattere distintivo più marcato della nostra civiltà europea. In altre parole noi troviamo in noi stessi un sentimento dei valori, che non dipende dai fatti fisici o storici, ma li sovrasta spiritualmente e cerca di dominarli con l’azione. Questo sentimento spirituale è molto vicino a ciò che i nostri antichi chiamavano umanità, humanitas. [...] È questo innato sentimento umano che ci impone di agire nella società, perché essa realizzi valori più alti e superi i più bassi. È ancora esso che ci impone di volere una società che sia una gerarchia di eguali. Questo concetto può apparire strano e contraddittorio, ma è fondamentale. Gli uomini sono molto diversi, ma non tanto che non si possa stabilire fra tutti loro un raffronto; non v’è civiltà o razza tanto bassa che non possa rappresentare qualche cosa nel grande quadro dell’umanità. Dicendo che il nostro sentimento del valore sovrasta e supera tutti i singoli individui e i singoli fatti, noi veniamo anche a dire che esso li include tutti; poiché li giudica tutti, esso non può escluderne a priori, nessuno; nulla può essere interamente straniero al nostro sentimento della civiltà. Ma, per la stessa ragione, nulla può sottrarsi alla volontà dell’uomo civile, che è sempre quella di raggiungere un ordine superiore nelle cose umane. Noi accettiamo ogni realtà umana perché dobbiamo giudicarla agli effetti pratici; dopo aver giudicato, dobbiamo agire di conseguenza. Dobbiamo agire non per interesse nostro, ma in funzione di quei valori, che sono validi per tutti. Noi vediamo quindi intorno a noi un mondo di eguali, ma di eguali che debbono venire gerarchicamente ordinati, in ordine e in funzione dei singoli valori ai quali si riferiscono le diverse gerarchie. E poiché tutte le cose umane sono in perpetua evoluzione, e sempre mutano i valori dei singoli uomini, così noi vorremo che anche le gerarchie siano in perpetua evoluzione e in continuo processo di adattamento [...] Il principio corporativo è, a mio avviso, l’espressione politica della tradizione cristiana occidentale. Tradizione di pensiero e di sentimento, la quale ha fissato in noi, in tutti noi, il concetto che ogni essere umano è in sé portatore, anche solo potenziale, di un valore assoluto. Solo l’Occidente con il suo alto senso “aristocratico” del valore della personalità, poteva assumere questo concetto e tradurlo in istituzioni durevoli e civilmente utili [...]». ACP, Serie I, b. 5, f. 17. 124 C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., p. 127. Nel diario di Pellizzi vi è un resoconto abbastanza minuzioso della visita e in particolare parlando dei commenti di Mussolini alla relazione lì tenuta, riporta integralmente l’incontro avuto con lui prima della partenza: «[Mussolini] osserva che i tedeschi trovano dovunque nemici, persino nel lontano Ecuador, al quale non hanno mai fatto e non potranno mai fare nulla di male; noi siamo i loro soli amici, ed egli crede o spera che a questa sola amicizia non vorranno con troppa leggerezza rinunciare. I tedeschi sono nemici terribili e sono amici “difficili”. [...] Circa le dottrine del “Führung” tedesco su tutta l’Europa, che vanno articolandosi in Germania, dice che i tedeschi hanno tendenza a rinchiudersi dentro queste concezioni teoretico-pratiche [...], ma vanno anche soggetti a uscire da queste formae mentis senza quasi che ne resti traccia». ACP, Serie IV, b. 16, f. 123, Note XXX.

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contenuti enunciati durante la conferenza, poiché evidentemente sarebbe stato difficile e imbarazzante giustificare le evidenziate differenze. Pellizzi rimase turbato dall’atteggiamento dei tedeschi nei confronti dell’Italia; ciò è confermato anche da Bottai nel suo diario: «Pellizzi, tornato di Germania, sintetizza le sue impressioni di viaggio in questa spicciola formula: “scendono”: e allude a una calata in Italia»125. Al disagio nutrito verso un alleato così scomodo, si accompagnavano anche delle crescenti perplessità nei confronti del duce e della linearità di alcune sue scelte. Ed anche nelle alte gerarchie fasciste vi era una viva preoccupazione per il perdurare del regime sotto la guida di un uomo che dava segni di stanchezza e di irrazionalità126. Vi è un ulteriore elemento a riprova che lo stesso Pellizzi in quei mesi avesse mutato il suo atteggiamento verso il regime: tale elemento peraltro, apre nuovi interrogativi sul vero ruolo giocato da Pellizzi fra il 1942 ed il 1943. Da un rapporto redatto dal Foreign Office nel marzo del 1943 in merito alla visita di Pellizzi in Portogallo per una delle sue conferenze, tenuta in qualità di presidente dell’INCF in occasione della inaugurazione di una mostra del libro italiano tenutasi a Lisbona, si apprende che Pellizzi tentò di stabilire dei contatti – attraverso un rappresentante della legazione polacca, Kowalewsky – con il Governo britannico. Nel suo rapporto, Sir R. Campbell, dell’ambasciata britannica a Lisbona, sostiene che Pellizzi, attraverso il pretesto di parlare della situazione italiana, aveva in realtà dichiarato di «Appartenere ad una sezione del partito fascista che ha intenzione di sostituire Mussolini». Gli inglesi ritenevano che quello di Pellizzi fosse un tentativo di saggiare il terreno per un eventuale accordo di pace. In una seconda nota dell’ambasciata inglese a Lisbona, del 25 marzo 1943, si rende noto che Pellizzi e Kowalewsky avevano avuto un altro incontro nel quale il presidente dell’INCF «aveva mostrato, apparentemente, di voler iniziare un movimento di opposizione in Italia, mentre Kowalewsky [aveva risposto] con una tirata sulle atrocità tedesche in Polonia». L’incontro con l’emissario polacco è testimoniato anche da un rapporto riservato, redatto dallo stesso Pellizzi al suo ritorno dalla visita effettuata in Portogallo e Spagna dal 15 marzo al 1° aprile 1943, in cui egli G. BOTTAI, Diario (1935-1944), cit., p. 289. A tale proposito si veda R. DE FELICE, Mussolini l’alleato, II., cit., nonché il recente volume di P. NELLO, Dino Grandi. Mussoliniano ribelle, il Mulino, Bologna 2003. 125 126

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afferma di aver avuto, durante tale viaggio, un colloquio con un non meglio specificato colonnello polacco, addetto militare del governo Sikorski a Lisbona e «di fatto uomo di stretta fiducia di Sikorski, arrivato di recente da Londra». Nel corso del colloquio, durato circa quattro ore, Pellizzi afferma che questi gli avrebbe parlato delle condizioni del popolo polacco «sistematicamente decimato o dai tedeschi o dai russi», nonché della presenza di campi di concentramento nei quali sarebbero rinchiusi milioni di polacchi. Al termine del rapporto Pellizzi scrive: I polacchi vorrebbero che l’Italia agisse sul Governo tedesco per alleggerire i guai dei suoi concittadini rimasti in patria, e offrono in cambio i loro buoni uffici a favore di ciò che il colonnello chiamava, malgrado le mie interruzioni, “la questione italiana”127.

È questa una testimonianza interessante se posta in riferimento con il rapporto del Foreign Office già citato, in quanto conferma alcuni dei contenuti del colloquio di Lisbona riportati nel rapporto inglese e quindi avvalora la tesi di un possibile tentativo di stabilire un contatto con gli inglesi. I quali, comunque, risposero con fermezza a queste proposte, sostenendo di non voler avere nulla a che fare col nemico e preoccupandosi che anche gli Alleati facessero lo stesso128. Questi elementi – seppu127 ACP, Serie I, b. 5, f. 17, Conclusioni di una visita in Portogallo e Spagna - 15 marzo1° aprile 1943, Roma, 4 aprile 1943. 128 È utile riprodurre integralmente il testo delle due note dell’Ambasciata britannica a Lisbona e delle annotazioni del Foreign Office. Il primo è un telegramma di Sir R. Campbell del 18 marzo 1943: «Signor Camillo Pellizzi, director of the Italian cultural Institutes and a member of the directorate of the Fascist party, arrived in Lisbon on March 17th in order to attend the inauguration of an Italian book exhibition. Signor Pellizzi has intimated indirectly to Mr. Kowalewsky of the Polish Legation that he would like to meet some member of His Majesty’s Embassy in secrecy for purpose of giving an account of the present situation in Italy. Signor Pellizzi is said to belong to a section of the Fascist party wich contemplates superseding Signor Mussolini. Mr Kowalewsky has been informed that we have no wish to meet Signor Pellizzi, who doubtless wishes to put out a peace-feeler». Su questo telegramma c’è una nota del Foreign Office, datata 25 marzo e siglata Laskey, nella quale si legge: «This would seem an abortive peace-feeler. Signor Pellizzi is presumably the ex-professor of London mentioned in R460. If he has concrete proposals the Embassy will no doubt hear of Them trough Mr Kowalewsky». in Public Record Office, Foreign Office, 371/37227, R. 2600/460/22. Il 25 marzo segue una lettera, sempre dell’ambasciata britannica a Lisbona, nella quale si legge: «With reference to our telegram n. 96 saving of the 18th March, it was with surprise and some misgiving that we noted that Mr Kowalewsky should have been in contact with this Signor Pellizzi. We hear now that they have had another talk, lasting some six hours, in the course of which Pellizzi apparently indicated that he wanted to start an opposition movement in Italy, while Kowa-

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re non suffragati finora da altre prove o testimonianze dirette – fanno sorgere il dubbio che Pellizzi, già dall’autunno del 1942, si stesse allontanando da Mussolini. A conferma di questo vi è la testimonianza di Egidio Ortona, collaboratore di Bastianini a Palazzo Chigi, il quale nel suo diario annota: 23 luglio 1943: Atmosfera di vigilia. Vengono vari uomini politici al ministero [...] Io vedo Pellizzi alla sera. Invoca a gran voce un cambiamento di Governo con defenestrazione del Duce e sua sostituzione con un Governo annacquato e intermedio, che comprenda però anche qualche fascista, e mi raccomanda vivamente di dire a Bastianini di essere fermo e non deflettere129.

La posizione di Pellizzi, in questa difficile fase di transizione non poteva certo essere netta: egli si era progressivamente raffreddato nei confronti di Mussolini ed il suo mutato atteggiamento non era passato inosservato. In un rapporto di pubblica sicurezza del 28 giugno del ’43, ad esempio, si legge: Sono stati raccolti i seguenti commenti nell’ambiente locale: 1) il Presidente dell’Istituto fascista di cultura, Pellizzi, ha pubblicato in “Civiltà Fascista” un articolo nel quale pone sullo stesso piano ideologico la dottrina fascista, comunista, nazionalsocialista e similari. 2) Che l’affermazione è indizio di “guerra in famiglia” e che Italia e Germania stanno facendo una marcia di avvicinamento verso il comunismo per mettersi d’accordo con Stalin e aver mani libere per poter tagliare tutto il potenziale bellico contro gli anglosassoni130.

Il rapporto si riferisce all’articolo intitolato Ordine corporativo e programmazione sociale, apparso su «Civiltà Fascista» nel fascicolo n. 6 dell’aprile del 1943, dove egli illustrava un parallelismo tra la rivoluzione corporativa fascista ed il regime sovietico, sostenendo che se si dovevano distinguere i regimi sociali in due grandi tipi, quelli privatisti liberisti e lewsky responded with a tirade about German atrocities in Poland. This may be all, but, as you know, our instructions, which be observed scrupulously, are to make it clear that we will have nothing to do with this enemy subjects. The effect is rather spoilt if our Allies have no such qualms. For all we know, other more dubious contacts take place. The problem presumably applies at other posts too, and we wonder whether the question has been considered of a general directive on the subject from the Foreign Office to Allied Govts. in London». PRO, FO, 371/37227, R. 2943/460/22. 129 E. ORTONA, Il 1943 da Palazzo Chigi. Note di diario, in «Storia contemporanea», anno XIV, n. 6, dicembre 1983, p. 1129, ora in E. ORTONA, Diplomazia di guerra. Diari 1937-1943, il Mulino, Bologna 1993. 130 ACS, Min. Interno, Dir. Gen. P. S., Divisione polizia politica, “Pellizzi Camillo”.

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quelli collettivisti programmati; l’ordine corporativo si trovava certamente tra i secondi, accanto a quello comunista, con una sola differenza: «che il comunismo propone a priori un’idea della società perfetta. Il corporativismo prescrive solo un principio etico (l’interesse come valore collettivo), e propone un metodo»131. Pellizzi inoltre faceva intendere di essere ormai certo di una vittoria degli Alleati, esortando inglesi ed americani, “vincitori”, a rimettere ordine nelle proprie idee e nei propri istituti economico-sociali, poiché, ad esempio, gli inglesi all’interno sviluppavano un programmismo di marca collettivista, mentre promettevano liberalismo e parlamentarismo ai paesi neutri e nemici su cui speravano di acquistare il predominio. Il nuovo quadro economico internazionale necessitava, secondo lui, di una maggiore coerenza e chiarezza alla quale dovevano essere chiamati per primi i paesi che sarebbero risultati vincitori del conflitto132. Indubbiamente la guerra aveva reso necessario un più approfondito tentativo di analisi del tessuto ideale del regime e del contesto internazionale nel quale si stava svolgendo il conflitto; ma proprio per effetto di questa attenzione critica si era resa più evidente l’inadeguatezza dei mezzi che il regime aveva a propria disposizione. Di qui quella diversa disposizione d’animo che Pellizzi aveva assunto tra il ’42 ed il ’43, aperta a tutti i nuovi e possibili esiti politici di questa crisi e certamente più comprensiva verso quegli intellettuali che avevano cercato soluzioni al di fuori del fascismo133. Pur restando ferma in lui l’esigenza totalitaria dello “stato 131 C. PELLIZZI, Ordine corporativo e programmazione sociale, in «Civiltà Fascista», X, 6, aprile 1943, pp. 351-355. 132 Ibidem. 133 Nel corso di un dibattito apparso su «Primato» nei primi mesi del ’43, Pellizzi intervenne con un articolo intitolato La buona volontà, la cui apertura è assai significativa: «Quando lo si osserva da vicino, quando lo si senta e riviva nell’intimo della sua sostanza e nella natura dei sentimenti e delle reazioni che esso suscita, il rapporto degli intellettuali, dei letterati, degli artisti con la guerra, è certo cosa assai diversa da quanto figura una retorica borghese o una classificazione di comodo. È falsa l’idea di una reazione unica, che ammette solo il suo contrario e che va da un entusiasmo-tipo ad una apatica indifferenza: c’è invece solo una complessa vibrazione dell’animo – meglio degli animi – in infinite risonanze: c’è il vagare alto del pensiero, anche di chi non sia filosofo, nelle certezze ultime della propria esperienza. In fondo nessuno è apatico davanti alla guerra: anche il silenzio è carico di riflessioni, più di quanto si pensi, nutrito di meditazioni nasconde spesso oscuri complessi e indicibili sentimenti. Comunque portato all’esame del rapporto fra intellettuali e guerra sul piano delle intime condizioni, esso è null’altro che quello d’un momento e di una espressione dell’anima contemporanea. Bisogna perciò, innanzitutto, accogliere le voci, scende-

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nuovo”, egli constatava il fallito inveramento degli ideali fascisti nelle proprie istituzioni. La costruzione dello stato nuovo avrebbe dovuto implicare un maggiore pluralismo, anche se inteso organicisticamente. Ma il difetto fondamentale del fascismo era stato quello di non possedere un “dogma finalistico”; il regime era giunto ad una posizione intrinsecamente rigida, incapace di uno sviluppo ulteriore, persino sulla stessa linea delle premesse ideali proprie del fascismo-movimento. Tale congiuntura coinvolse anche la presidenza di Pellizzi: nel febbraio del 1943 venne a mancare l’appoggio di Bottai, sostituito all’educazione nazionale da Biggini; la qual cosa di certo indebolì la posizione di Pellizzi, già peraltro non più salda. La sua sostituzione alla Presidenza dell’Istituto nell’aprile del 1943, rientrò in un rimpasto più generale che aveva visto l’avvicendamento, nel giro di pochi mesi, di varie personalità nelle più alte cariche dello stato. Nella specie, essa fu voluta dall’allora segretario del Pnf, Scorza, succeduto a Vidussoni, il quale, a detta di Bottai, avrebbe voluto mettere al suo posto un proprio protetto: Vincenzo Buronzo. Bottai vedeva in questa sostituzione una ennesima riprova della crisi del regime che oramai era nella sua fase discendente, crisi che era, innanzitutto, culturale, morale e ideale, prima che politica ed economica134. Il 25 luglio del 1943, con il crollo del fascismo, Pellizzi si trovava già in un profondo disagio morale e materiale: le sue prospettive di una militanza intellettuale erano state messe da parte ed egli aveva avviato un generale ripensamento che coinvolgeva sia il profilo della natura e del destino del fascismo, sia quello del proprio personale ruolo di intellettuale prestato alla politica. Ma questo non significava il totale ripudio del suo amore per la politica, la quale veniva vista come arte, anzi come arte sociare nelle loro più intime inflessioni, in alcuni anche lontani presupposti: per potere veramente intendere le reazioni ai casi quotidiani, valutarne il timbro, discuterne eventualmente le idee». C. PELLIZZI, La buona volontà, in «Primato», IV, 1, 1° gennaio 1943, p. 1. 134 Bottai nel suo diario annota: «7 giugno 1943: Scorza ha scoperto Vincenzo Buronzo quale successore di Pellizzi (e di Gentile e De Francisci) all’Istituto di Cultura. Un metro più basso dunque di quello di Starace. [...] 8 giugno 1943: colloquio con Pellizzi, che per decisione di Scorza lascia l’Istituto di Cultura Fascista per cedere il posto a Vincenzo Buronzo. Quattro nomi: Gentile, De Francisci, Pellizzi, Buronzo. Tutta la storia a parabola discendente d’un istituto, d’una cultura d’una idea». G. BOTTAI, Diario (1935-1944), cit., pp. 381-382.

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le, presupposto fondamentale perché tutte le altre forme d’arte possano realizzarsi: qualunque arte io eserciti, sempre essa conterrà un riflesso implicito o esplicito di questa mia centrale arte dell’esser sociale. È pensabile, almeno in astratto, una società senza arti, ma non è possibile una qualsiasi arte senza socialità. Questa è l’arte che muove e condiziona tutte le altre, e che poi tutte le riprende e le riassorbe... Fra tanti orrori e dolori, e tonfi e sirene d’allarme che si sentono in giro, voi mi direte che questo è uno strano farneticare. Non lo è. Noi siamo nelle doglie di un tempo nuovo che sorge; ed io credo che dipenderà molto da noi, su questa piccola vecchia penisola, se il tempo nuovo porterà in sé i valori della bontà e della bellezza135.

Pellizzi esprimeva l’essenza della sua passione di intellettuale militante ormai deluso, nel quale continuava però ad essere vivo l’interesse per la società, per la politica intesa quale scienza legata alla socialità umana. Fra l’estate del 1943 e l’inverno 1943-’44, dopo essere sfollato con la famiglia a Riofreddo, ebbe modo di avviare una rimeditazione integrale del suo impegno intellettuale per il quale le prospettive di interpretazione della realtà e di inveramento nella storia dell’Idealismo attualistico sembravano ormai essere definitivamente tramontate: valendo ciò non solo per lui ma per una intera schiera di filosofi e uomini di cultura che si erano formati nell’ambiente attualistico136. Inoltre, la crisi di civiltà che la guerra aveva drammaticamente messo in luce imponeva un diverso e radicale cambiamento del rapporto dello studioso con la realtà, fosse essa rappresentata dai fenomeni sociali o dalla politica. In questa prospettiva, Pellizzi riteneva tuttavia che un nuovo metodo conoscitivo dovesse essere ancora precisato in termini logici, poiché le due maggiori teorie della conoscenza – la materialistica e l’idealistica – mostravano tragicamente i segni della loro Il successore di Pellizzi non sarà poi Vincenzo Buronzo, ma Giuseppe Maggiore, che, di fatto, non riuscirà mai a raggiungere la sede centrale a Roma. 135 C. PELLIZZI, La politica, ossia l’arte, in «Corriere della Sera» 11 giugno 1943. 136 Tra le molte trasformazioni in senso rivoluzionario o spiritualista, del pensiero degli eredi di Giovanni Gentile, si pensi, ad esempio, al mutamento in senso spiritualista della filosofia di Armando Carlini, oppure alla svolta verso il Problematicismo, rappresentata dall’opera di Ugo Spirito, che ne La vita come ricerca del 1937, prende decisamente le distanze da quegli aspetti dell’Idealismo attualistico che avevano reso rigido ed asfittico il rapporto tra individuo e realtà. Alcuni ritengono però che il Problematicismo, più che un cambiamento di rotta costituisca una evoluzione possibile dell’attualismo. Cfr. a tale proposito H.A. CAVALLERA, Ugo Spirito. La ricerca dell’incontrovertibile, Seam, Roma 2000.

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crisi. È per questo che egli avviò uno studio sulla Società di massa137, rimasto inedito, ma che costituiva per lo studioso un modo per traghettare la sua visione ideale del rapporto tra stato e cittadini dal fascismo al postfascismo. L’avvento della società dei consumi avrebbe portato con sé nuove relazioni sociali, nuove prospettive di sviluppo e, di conseguenza, modificato la natura dei rapporti tra i cittadini e tra questi e lo stato. In concreto, tale avvento si configurava come una vera e propria rivoluzione; una rivoluzione innanzitutto dei costumi e delle abitudini, che poteva essere ben più profonda e capillare di una rivoluzione condotta in base ad ideali politici. Come si vede il tema della rivoluzione sociale rimaneva vivo e centrale in Pellizzi, nonostante le profonde delusioni per la “mancata” rivoluzione fascista.

ACP, Serie I, b. 5, f. 22, Bozze e appunti dei capitoli IX e X di Società di massa. L’inedito è stato recentemente pubblicato: D. BRESCHI, G. LONGO (a cura di), «La società di massa» di Camillo Pellizzi, in «Trasgressioni», a. XVIII, n. 1 (36), gennaio-aprile 2003, pp. 69-92; 103-127. 137

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SECONDA PARTE

L’«umile demiurgo» della sociologia italiana (1943-1979) di Danilo Breschi

Capitolo IV

Sette anni da epurato

1. L’epurazione fascista E venne il 25 luglio. Nella notte fra il 24 e il 25, in quell’estate del 1943, Mussolini è isolato e messo in un angolo dalla maggioranza dei membri del Gran Consiglio e dalla monarchia, tutti egualmente desiderosi di trovare una via di uscita ad una guerra rovinosa. Il duce viene arrestato, il fascismo crolla. Proprio alla vigilia di quell’evento così decisivo anche per la sua vita, Camillo Pellizzi scribacchia quattro pagine rimaste inedite1. Vorrebbero essere la “premessa” di una riflessione sulla guerra, stimolata dalla lettura di un libro dello storico americano Brooks Adams, la cui traduzione Pellizzi aveva invano caldeggiato dovendosi poi arrendere di fronte a quella che, proprio in quelle pagine, definisce l’«ottusità dei nostri organismi burocratici»2. Non è dato sapere come avrebbe potuto svilupparsi il ragionamento appena abbozzato dall’ex presidente dell’INCF, poiché lo scritto sta a livello di appunto incompleto, ma è certo che in esso affiora l’amara constatazione della natura meramente distruttiva della guerra in corso3. Pellizzi Il manoscritto reca a margine la data del 24 luglio 1943. Il fatto che tale data venga persino citata nel testo («Chi rifletta su tutte le fasi di questa guerra fino a questo giorno 24 luglio 1943...») pone qualche dubbio sulla veridicità della data e rende plausibile l’ipotesi di una retrodatazione operata da Pellizzi. Il contenuto del manoscritto non è comunque tale da essere inficiato o modificato da una diversa datazione, e perciò assumiamo come valida la data apposta dallo stesso Pellizzi, fino a prova contraria. 2 Premessa (24 luglio 1943), in ACP, b. 5, f. 24, doc. 5, p. 1. Il libro di Brooks Adams (1848-1927) è Saggio sulla grandezza e la decadenza, secondo la traduzione del titolo proposta dallo stesso Pellizzi (tit. orig.: The Law of Civilization and Decay. An essay on history, New York 1895). 3 Un possibile sviluppo delle idee contenute nel testo si ha nel saggio La violenza e la libertà, pubblicato nel 1944. Vedi infra. 1

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non presagisce minimamente cosa accadrà di lì a poche ore, però nelle sue parole sono scomparsi quella baldanza e quell’«ottimismo della volontà»4 che animavano i suoi interventi in Italia e all’estero compiuti in qualità di presidente dell’INCF. Forse era proprio il ruolo istituzionale ricoperto, nonché la natura pubblica di quegli interventi, a dare un tono più incalzante e un po’ meno meditativo alle cose scritte e dette nei precedenti anni di guerra. Una guerra che non appare più tanto come una legittima guerra di «sacrosanti interessi di popoli poveri, laboriosi, secolarmente sfruttati», né tanto meno «un grande conflitto di culture»5. Ciò che adesso più colpisce Pellizzi è il fatto che, per usare la terminologia di Brooks Adams, la guerra in corso «non è una guerra di libertà, è una guerra di violenza», poiché nasce dalla volontà di alcuni popoli di rovesciare l’ordine e la libertà esistenti in quanto i potenti mezzi bellici che la tecnologia ha messo loro a disposizione non possono non alimentare una simile volontà6. Così si spiegano le drammatiche condizioni in cui versa l’esercito italiano: «l’Italia si trova in gravi difficoltà perché i suoi apprestamenti offensivi erano, e non potevano non essere, insufficienti»7. Secondo Pellizzi, sin dall’inizio nessuno in questa guerra ha voluto difendere la libertà, perché nessuno aveva approntato un armamentario meramente difensivo, con l’eccezione forse della Francia che, non a caso, è stata ben presto sottomessa di fronte alla schiacciante aggressività tedesca. In ogni caso, ancora una volta, come già in un discorso del dicembre 1942, Pellizzi attribuisce a Roosevelt e al suo entourage la principale responsabilità della guerra, non solo della sua estensione oltre i confini europei ma anche del suo scoppio. Però, ed è questa una prima novità, non viene evocato il solito complotto plutocratico, dove l’economia guida la politica estera e l’indirizza verso i propri fini. Al contrario, Pellizzi giudica «fiacca e logora propaganda» quella che addebita alle lobbies occulte di «usurai» capitalisti la politica bellicista statunitense8. Pur non facendone mai un argomento centrale della giustificazione da lui addotta all’entrata in guerra dell’Italia, Pellizzi non nega la natura plutocratica degli Stati 4 L’espressione era stata usata da Pellizzi in un testo abbozzato per una conferenza da tenere in Ungheria, cfr. Principi e orientamenti della politica fascista (Schizzo di conferenza), s.d. (ma 1941-42), in ACP, b. 5, f. 25, p. 3 («Mussolini ha insegnato agli Italiani l’ottimismo della volontà e il piacere del pericolo e della lotta»). 5 Risposta all’inchiesta sulla cultura universitaria (1942), in ACP, b. 5, f. 16, doc. 7, p. 5. 6 Cfr. Premessa, cit., p. 3. 7 Ibidem. 8 Ivi, pp. 3-4.

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Uniti così come, in altra sede, aveva affermato che «non si può permettere che un qualsiasi ricco ebreo, attraverso il possesso privato di dieci grandi giornali, imponga le proprie idee e le proprie direttive ad una società di uomini liberi e attivi, che non sono né ricchi né ebrei»9. Insomma, le argomentazioni addotte quale presidente dell’INCF non differivano da quelle con cui Mussolini aveva dichiarato guerra alle potenze occidentali nel giugno 1940, né evitavano la ripetizione di alcuni stereotipi antisemiti (come quello dell’ebreo capitalista che tira le fila dell’economia e, quindi, della politica mondiale). Adesso, negli appunti del 24 luglio 1943, il realismo prevale nettamente e si fa amaro, mentre un po’ di scoramento trapela nella piccola profezia cui Pellizzi si abbandona. Egli prospetta infatti la possibilità che l’espansionismo statunitense giunga ad assorbire l’impero britannico, l’Europa continentale e il Giappone, con il che si avrebbe un faccia a faccia tra Stati Uniti e Russia, «una lotta ciclopica fra due gruppi continentali perfettamente definiti»10. Fino ad allora mai era emersa dalle parole di Pellizzi la possibilità di una sconfitta per le forze dell’Asse; tutt’al più in esse si prospettava, e forse si auspicava, un’interruzione che avrebbe cristallizzato la situazione del momento e sottratto l’Italia da una posizione oramai soccombente dopo le vicende belliche dell’autunno 1942. Probabilmente sta emergendo più chiaramente una sostanziale sfiducia nella leadership di Mussolini. All’indomani del 25 luglio e della formazione del governo Badoglio, colui che più di altri aveva investito energie morali e intellettuali nel fascismo, sempre e comunque definito come una «rivoluzione», si ritrova spaesato, senza riferimento alcuno. Lo stesso atteggiamento del nuovo governo, segretamente in attesa di stipulare un armistizio con gli Alleati, non è chiaro circa il destino di chi, come lo stesso Pellizzi, ha ricoperto incarichi di primo piano nel regime mussoliniano. In queste settimane che passeranno poi alla storia come i “quarantacinque giorni” è soprattutto il giovane storico Carlo Morandi a manifestare il proprio sostegno all’ex presidente dell’Istituto di cultura fascista. Il 29 luglio Morandi, docente a Firenze presso la Facoltà di Lettere nonché assistente dello stesso Pellizzi nel corso di Storia e dottrina del fascismo alla Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”, scrive al collega: 9 Principi e orientamenti della politica fascista (Schizzo di conferenza), s.d. (ma 194142), cit., p. 9. 10 Premessa (24 luglio 1943), cit., p. 4.

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mi auguro che tu possa continuare nella carica attuale. Non vedo proprio perché debba sacrificarti: tu porti la tua intelligenza, la tua dirittura (da tutti riconosciuta) e la tua competenza. Se di Pellizzi ve ne fossero stati trecento, negli anni scorsi, il “vecchio corruttore” [probabilmente Mussolini, ndr.] avrebbe cambiato metodo o se ne sarebbe andato prima. Quanto all’Università, le notizie sono queste: si attende di giorno in giorno la nomina dei nuovi Rettori (forse, a Firenze, Calamandrei) i quali dovranno promuovere una revisione del personale, forse con sospensione (per ora) degli squadristi. Ma possono essere notizie infondate. Comunque, la tua proposta è giusta e non dubito che tutti i colleghi (i quali ti vogliono bene e conoscono il tuo valore) saranno concordi nel sostenerti. Io ne parlerò, con tutto il cuore, a tempo opportuno; se sarà il caso anche a Severi11.

Pellizzi desidera continuare l’insegnamento universitario a Firenze. La «proposta» avanzata da Pellizzi cui Morandi si riferisce è il cambiamento di cattedra, con il passaggio all’insegnamento della sociologia. Renato Galli, preside del “Cesare Alfieri”, assicura il collega che la Facoltà è ben lieta di mantenere il rapporto con lui12. Pellizzi si rende conto però che la situazione si fa sempre meno facile per i fascisti, per così dire, “di prima linea”. Ettore Janni, nuovo direttore del «Corriere della Sera», dispone la fine della collaborazione di Pellizzi al quotidiano milanese, che oramai datava dal 192913. Alla risoluzione del rapporto non segue però un’immediata corresponsione della relativa liquidazione. In altri termini, una dopo l’altra, cessano tutte le collaborazioni e gli incarichi professionali avuti sotto il regime e, con essi, vengono meno tutte le fonti di reddito. Pellizzi si ritrova praticamente sul lastrico. Il 30 agosto il commissario liquidatore dell’INCF gli comunica che non ci potrà essere né liquidazione né altre forme di rimborso oltre la corresponsione di sette giorni di indennità e 9/12 della tredicesima mensilità14. L’indennità di liquidazione chiesta da Pellizzi ammonterebbe a oltre 17.000 lire, una cifra considerevole per l’epoca. A settembre Morandi gli fa sapere che la casa editrice Barbera è completamente ferma e che ha interrotto ogni rapporto di collaborazione, quindi anche questa fonte di reddito è d’improvviso scomparsa e diventa impossibile pretendere le indennità spettan11 ACP, b. 35, f. 48. Leonardo Severi è il Ministro dell’Educazione Nazionale nel primo governo Badoglio. 12 Lettera del 31 luglio 1943, in ACP, b. 1, f. 2, sf. 2/1. 13 Tra il 1929 e il 1938 Pellizzi collabora con il «Corriere» come corrispondente da Londra («si trattava di notiziario culturale», scrive Glauco Licata nel suo libro Storia del Corriere della Sera, prefazione di Giuseppe Are, Rizzoli, Milano 1976, p. 339). 14 Lettera del Comm. Rag. A. Vaccari a C.P., 30 agosto 1943, in ACP, b. 3, f. 11.

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ti. Quanto all’insegnamento londinese, questo gli era stato revocato dopo l’anno di aspettativa e l’entrata in guerra dell’Italia. Almeno fino all’8 settembre, l’Inghilterra è una potenza nemica e dopo sarà in ogni caso un’alleata sospettosa. E in mezzo a tutto questo, la famiglia Pellizzi è sfollata a Riofreddo, nella provincia di Roma, ospite della famiglia Sebastiani. La volontà di proseguire comunque nell’insegnamento si scontra però con un ostacolo non facilmente aggirabile. Ciò che rende Pellizzi più “scomodo” di altri docenti fascisti è il fatto che la sua cattedra era stata quella di Storia e dottrina del fascismo, e questo quasi lo rendeva più visibile come fascista della stessa carica di presidente dell’INCF da cui era stato comunque rimosso circa venti giorni prima del 25 luglio. L’intenzione del nuovo Ministero va nel senso della soppressione di un insegnamento così scandaloso e ormai “anacronistico”. Da una lettera di Morandi pare comunque non esserci da parte del Ministero l’intenzione di colpire automaticamente anche i titolari di tale insegnamento e di collocarli a riposo15. Pellizzi pensa quindi ad un cambio di cattedra, e si fa strada l’ipotesi di assumere l’incarico di sociologia. Ipotesi che si rafforza dopo che Emilio Bodrero, anch’egli titolare della cattedra di Storia e dottrina del fascismo alla Facoltà di Scienze Politiche di Roma, è trasferito a storia moderna (prendendo la cattedra che era stata di Gioacchino Volpe)16. Su questa operazione coinvolge tutti i colleghi fiorentini a lui più vicini. Anche Arrigo Serpieri si dichiara dalla sua parte17, ma confessa di poter fare ben poco. Serpieri è infatti rimosso dalla carica di rettore dell’ateneo fiorentino il 3 settembre 1943, mentre Piero Calamandrei, che di fatto esercita il rettorato fino all’8 settembre, non pare mostrare una particolare simpatia per Pellizzi e nemmeno per la Facoltà di Scienze Politiche, giudicata una tipica “creatura” del regime fascista18. In ogni caso, il periodo compreso tra il 25 luglio del 1943 e l’inizio del 1944 pare sospeso in una sorta di limbo, e sotto questo profilo la situazione universitaria, almeno a Firenze, rispecchia la più generale situazione politica nazionale. La proposta di trasferimento di cattedra va avanti a rilento, perché assenze ora dell’uno ora dell’altro membro impediscoC. Morandi a C.P., 26 agosto 1943, in ACP, b. 1, f. 2, sf. 2/1. C.P. al padre, 30 dicembre 1943, in ACP, b. 35, f. 48. 17 Cfr. lettere di A. Serpieri a C.P. del 5 agosto 1943 (ACP, b. 1, f. 2, sf. 2/1) e del 7 settembre 1943 (ACP, b. 3, f. 11). 18 Cfr. lettera di Serpieri a C.P., 7 settembre 1943, cit. Su Calamandrei (1899-1956), si veda la voce curata da Stefano Rodotà in Dizionario biografico degli italiani [d’ora in poi, DBI], vol. XVI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1973, pp. 406-411. 15 16

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no la riunione del Consiglio di Facoltà. La realtà è che soprattutto si sta a guardare l’evoluzione degli eventi in una situazione che appare estremamente fluida e incerta, specialmente dopo il 12 settembre 1943, quando Mussolini viene liberato da un commando tedesco e spinto da Hitler alla costituzione della Repubblica sociale italiana, ufficialmente sorta il 23 settembre con sede a Salò, sulla riva del lago di Garda. A questo punto, anche le pratiche burocratiche si complicano perché si ha come uno sdoppiamento delle amministrazioni dello Stato, tanto che, ad esempio, il Ministero dell’Educazione Nazionale viene insediato a Padova mentre parte degli uffici e del personale resta a Roma. Adesso per Pellizzi può diventare controproducente, se non pericoloso, restare quell’«ozioso che guarda gli eventi dalla finestra» e che confessa al giovane Ugo Grimaldi di far parte ormai di quella categoria di persone che «deve tacere: per dignità propria e per volontà di coloro che tengono il mestolo in mano»19. D’altronde, proprio nelle lettere a Grimaldi dell’estate del ’43, appare evidente come con il 25 luglio per l’ideologo dell’«aristocrazia fascista» sia finito ogni progetto totalitario e non ci sia quindi più alcuno spazio concreto per qualsivoglia restaurazione fascista. Con il che si spiega la mancata adesione alla Rsi, decisione che procura a Pellizzi l’avversione di Biggini, ministro dell’Educazione Nazionale nel governo di Salò. Così, mentre nella seduta del 19 gennaio 1944, il Consiglio di Facoltà del “Cesare Alfieri” approva all’unanimità la proposta di trasferimento di Pellizzi alla cattedra di sociologia20, la posizione della Rsi si irrigidisce nei con19 C.P. a U. Grimaldi, 12 agosto 1943, in ACP, b. 35, f. 48. Il giovane in questione, collaboratore anche di «Civiltà Fascista», organo dell’INCF, è Ugoberto Alfassio Grimaldi, che nell’immediato dopoguerra sarà collaboratore di «Critica sociale», settimanale risorto nel settembre 1945. Egli si collocherà così sulle posizioni di un socialismo contrario alla subordinazione del PSI al PCI e alla strategia dell’URSS e favorevole, semmai, ad ipotesi terzaforziste. Di Grimaldi, si vedano Autobiografie di giovani del tempo fascista. Quaderni di «Humanitas», Morcelliana, Brescia 1947 e Il socialismo in Europa, Garzanti, Milano 1957. Cfr. anche A. A. MOLA, La «Critica sociale» nel primo dopoguerra, in Il Parlamento italiano 1861-1988, vol. XIV (1946-1947), Nuova CEI, Milano 1989, pp. 569-570. 20 Si tenga conto che il Consiglio di Facoltà era all’epoca composto dai soli professori ordinari. Presenti alla seduta del 19 gennaio 1944 sono il preside prof. Renato Galli, il prof. Pompeo Biondi e il prof. Giuseppe Maranini (segretario del Consiglio). Assente giustificato, oltre a Pellizzi, il prof. Rodolfo De Mattei. La motivazione è la seguente: «La Facoltà prende in esame i titoli del Prof. Pellizzi e constata che tutta la sua produzione, anche quella di critica letteraria, è ispirata e fondata sulla valutazione dei problemi sociali, coscientemente intesi con larghezza di vedute e con acume di valutazione scientifica. [...] Per questi motivi la Facoltà ritiene di proporre e propone il trasferimento del Prof. C. Pellizzi alla Cattedra di Sociologia». Cfr. la riproduzione di copia autentica da originale agli atti

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fronti dei docenti che non si recano nelle facoltà di appartenenza a svolgere regolare attività didattica. L’ex presidente dell’INCF non è diventato un antifascista. Il 4 settembre del 1943 risponde al giovane Grimaldi che gli chiedeva dei possibili contatti con il gruppo romano dei “federalisti europei”, guidati da Altiero Spinelli: Gli ultimi contatti personali che ho avuto a Roma coi nostri “federalisti” (con due di essi) sono stati poco incoraggianti: chiunque sia stato fascista, per loro, deve andare al palo o a Canossa. Ho risposto che io andrò al palo, se non posso evitarlo, ma non a Canossa21.

Pellizzi, insomma, si ritrova d’improvviso tra due fuochi, non schierandosi né con gli uni né con gli altri e riscoprendo semmai nello studio una nuova passione e un motivo di conforto. I temi discussi dai Gruppi scientifici dell’INCF nei due convegni da lui fortemente voluti e svoltisi nel novembre 1942 e nell’aprile 1943, ossia “Il piano economico” e “L’idea di Europa”, risultano adesso i punti di partenza per una seconda stagione intellettuale dopo il crollo dell’«utopia» fascista22. Se ancora nell’aprile del 1942, Pellizzi ritiene che «al Fascismo non esiste altra alternativa, a lunga o breve scadenza, che il caos»23, un anno e mezzo dopo di fronte al caos preferisce ipotizzare una soluzione federalista per l’Europa, che consenta al Vecchio Continente sia di ricucire le lacerazioni prodotte dagli egoismi nazionali sia di fronteggiare l’incipiente espansionismo sovietico. presso il Ministero della Pubblica Istruzione in ACP, b. 16, f. 125. La proposta è successivamente accolta dal Senato Accademico con deliberazione presa all’unanimità. 21 C.P. a U. Grimaldi, Riofreddo (Roma), 4 settembre 1943, in ACP, b. 35, f. 48. 22 «Non dirò certo a voi, ascoltatori intelligenti e cortesi, che il Fascismo italiano abbia già fatto tutto, che il suo programma sia attuato, che la sua utopia si sia realizzata su questa terra» (Principi e orientamenti della politica fascista, cit., p. 10). Negli appunti di un discorso da tenere all’Istituto italiano di cultura a Vienna, si legge anche: «[...] quando la guerra presente sia coronata da vittoria, e la vittoria debba tradursi in ordinamento di pace che significhino comprensione e giustizia per tutti, forse il contributo dell’Italia Mussoliniana, rivoluzionaria e tradizionalista insieme, potrà essere ancor più prezioso nella grande e nuova opera di costruzione di un mondo migliore» [Spunti (o motivi) della lezione inaugurale che il prof. Camillo Pellizzi si propone di tenere all’Istituto italiano di cultura in Vienna il 7 novembre 1941XIX, su “Tradizione e rivoluzione nella cultura italiana contemporanea”, in ACP, b. 5, f. 25, doc. 19, p. 4. Il corsivo alla fine del testo è mio]. Sui convegni del 1942-43, cfr. G. LONGO (a cura di), Il fascismo e l’idea di Europa. Il convegno dell’Istituto nazionale di cultura fascista (1942), Fondazione Ugo Spirito, Roma [d’ora in poi, FUS], 2000; G. MELIS (a cura di), Fascismo e pianificazione. Il convegno sul piano economico (1942-43), FUS, Roma 1997. 23 Giro d’orizzonte (aprile 1942), in ACP, b. 5, f. 24, doc. 2, p. 5.

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Nel dialogo a distanza che si instaura tra il giovane precoce orfano del fascismo, deluso e disorientato, in cerca di nuovi ideali politici, e l’«amico-maestro», non meno deluso e non meno disorientato, c’è in nuce tanta parte del futuro percorso politico-culturale di Pellizzi24. Forse Pellizzi, il quale ha vissuto l’intera parabola dell’avventura fascista, è sorprendentemente meno orfano del giovane Grimaldi, nel senso che le sue idee paiono già chiare, sia pure nella loro concisione. Inoltre, la concezione che ha del possibile futuro assetto geopolitico di un’Europa federata è tutt’altro che ingenua e sprovveduta, e mostra semmai un notevole grado di maturità teorica e competenza tecnica: [l’idea federalista] farà comunque la sua strada anche attraverso l’opera dei partiti di sinistra già oggi in piena attività; e se dobbiamo diffidare del federalismo dei comunisti, che ha un po’ troppo i connotati della Ghepeù, non si deve neppure scartare la possibilità di utili futuri incontri con una positiva e tollerabile politica europea della Russia. [...] Il problema della gerarchia fra stati non sussisterà, almeno nelle forme consuete, quando sia rotta la testa del drago, che è il concetto di sovranità statale; né tale rottura è necessario avvenga di punta, ma può avvenire di lato: devolvendo, per esempio, ad organi interstatali europei la gestione di certi comuni interessi (valute, comunicazioni, scambi esterni ecc.; e poi, difesa, colonie, e via dicendo). Tutto ciò implica e presuppone senza dubbio un processo di natura rivoluzionaria, ma dopo le esperienze degli ultimi anni non credo che gli ostacoli sarebbero insuperabili, né che il superarli comporti di necessità nuove tragedie collettive. Mi sembra di vedere con chiarezza questo punto: occorrerà in tutta Europa un minimo comune denominatore ideologico, anche se non troppo preciso e impegnativo per tutti25.

A suo avviso, un efficace fattore ideologico di coesione fra i singoli Stati nazionali «potrà essere fornito da un socialismo ammodernato, spregiudicato e fondato sul principio delle grandi programmazioni intese a far fronte ai bisogni essenziali delle grandi masse di popolazione civile dei paesi europei»26. Sicuramente Pellizzi sbaglia nell’attribuire alla sinistra italiana, che si sta rapidamente ricostituendo in partiti e gruppi politici e culturali, una 24 «È all’amico-maestro che mi rivolgo per manifestargli tutto il disorientamento in cui mi trovo dopo gli avvenimenti», così esordisce Grimaldi nella lettera a C.P. del 4 agosto 1943, in ACP, b. 35, f. 48. Pellizzi risponde il 12 agosto 1943, nella lettera già citata, definendo Grimaldi «uno dei pochi giovani seri e valenti che ho incontrati [sic] nella mia esperienza del caduto regime» (la sottolineatura è nel testo dattiloscritto) [ACP, b. 35, f. 48]. 25 C.P. a U. Grimaldi, 4 settembre 1943, in ACP, b. 35, f. 48. La sottolineatura è nel testo. 26 Ibidem.

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volontà europeista che semmai è propria della sua idea di «un socialismo ammodernato» e che troverà qualche consenso nelle ipotesi “terzaforziste” avanzate tra il 1947 e il 1949 da liberali di sinistra e socialdemocratici27. Ha però, sin dall’estate del 1943, individuato, persino prima di averne piena consapevolezza teorica, l’ambito nel quale condurre una battaglia di idee che abbia come obiettivo il riscatto dell’Italia, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale. È proprio questo ciò che più sta a cuore dei due protagonisti della corrispondenza intercorsa durante i “quarantacinque giorni” di Badoglio: dare «all’Italia una ragione e una funzione non meramente coloniale (cioè come colonia altrui)»28. Appare così evidente il motivo per cui la risposta data dal fascismo repubblicano non persuada affatto Pellizzi, soprattutto la persistenza dell’alleanza con Hitler e l’occupazione dell’Italia da parte delle truppe naziste. Si ostina però a voler mantenere l’insegnamento universitario, sia pure cercando di ricoprire una cattedra che più si addica al suo nuovo impegno intellettuale. Potremmo pure aggiungere: impegno politico, poiché anche in questo frangente il recente fallimento del suo progetto pedagogico totalitario non gli ha tolto la convinzione che è «inutile avere delle idee se non si hanno delle baionette, ma ancor più inutile, e anzi in definitiva dannoso, avere delle baionette se non si hanno delle idee»29. Questo discorso continuerà a valere anche fuori dal contesto bellico, nella vita politica dei tempi di pace: l’analisi e la riflessione intellettuale vengono pensate come militanza politica, come intervento delle idee nella prassi governativa. Senza idee l’azione politica è cieca ed il suo esito non potrà che essere confusionario e nocivo per la collettività; di questo Pellizzi resterà sempre fermamente convinto, anche nei momenti di maggiore disincanto. Quando tutto sembra quindi risolto perché questo impegno culturale prosegua nell’ambito universitario, arriva come una doccia fredda un inatteso «cambiamento di scena», secondo l’espressione usata da Renato Galli in una lettera del 7 marzo 1944. Scrive il preside della Facoltà di Scienze Politiche di Firenze: La posizione di coloro che trovandosi a Roma si sono trovati senza mezzi di trasporto, è stata posta, per lo meno in un primo tempo, sullo stesso piano delle 27

Cfr. Sulla «terza forza», a cura e con introduzione di L. MERCURI, Bonacci, Roma

1985. 28 C.P. a U. Grimaldi, 12 agosto 1943, cit. Sui “quarantacinque giorni” si veda E. AGA ROSSI, Una nazione allo sbando, il Mulino, Bologna 20033. 29 Risposta all’inchiesta sulla cultura universitaria (1942), cit., p. 6.

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altre; ed è già venuta la disposizione per De Mattei e per te di sospensione dal servizio e dallo stipendio. Sono stati bloccati anche gli stipendi arretrati [...]. De Mattei si è messo a posto riprendendo le lezioni. Il Rettore si è molto prestato e telegraficamente il Ministero ha revocato il provvedimento. De Mattei, di conseguenza, resterà qui tutto marzo per fare anche delle lezioni straordinarie. Vedi tu che cosa convenga per il tuo caso. Io sono sempre dello stesso parere; e crederei per te molto opportuno venire a Firenze. Guarda che non si tratta di fare pochissime lezioni e ritornartene; dovresti prevedere di trattenerti un po’ di tempo. Reputo superfluo svolgere o meglio ripetere le considerazioni che stanno a base della mia convinzione. Fammi sapere qualche cosa30.

Il provvedimento di collocamento a riposo dei professori che non hanno fatto né esami né lezioni nei mesi precedenti era stato emanato a fine febbraio31. La speranza di Galli e degli altri colleghi fiorentini è che la posizione di chi, come Pellizzi e Rodolfo De Mattei32, era materialmente e fisicamente impossibilitato a recarsi al Nord sia giudicata separatamente e, in ultima istanza, benevolmente dal Ministero. In effetti, i mesi successivi al 25 luglio 1943 vedono Pellizzi quasi sempre impossibilitato a muoversi. In una lettera al padre dichiara «affatto involontaria» la sua prolungata assenza da Firenze33. Sfollato a Riofreddo, può tutt’al più recarsi con una certa frequenza a Roma presso il Ministero, dove però, dopo il 23 settembre 1943, le informazioni vengono date in modo confuso e soprattutto senza quel potere decisionale che adesso si è trasferito al Nord. Inoltre, la vita romana per chi non ha più uno sti30 R. Galli a C.P., 7 marzo 1944, in ACP, b. 35, f. 49. Il rettore è Mario Marsili Libelli, che manterrà la carica fino alla liberazione di Firenze. 31 Si veda la lettera di Marsili Libelli a Pellizzi (28 febbraio 1944, in ACP, b. 16, f. 125): «Sono spiacente di doverVi comunicare che l’Eccellenza il Ministro dell’Educazione Nazionale, con provvedimento in corso, Vi ha sospeso dall’ufficio e dallo stipendio fino a contraria disposizione». 32 Su Rodolfo De Mattei (1899-1981) vedi la voce curata da Luciano Russi, in DBI, vol. XXXVIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1990, pp. 606-608. 33 «Carissimo Papà, due righe in fretta perché domattina partono amici per Firenze. Avevano promesso di portare anche me, ma poi non è stato loro possibile. Ciò sarebbe utile anche agli effetti dell’Università, dove la posizione, causa questa mia assenza (del resto affatto involontaria) è peggiorata» [lettera del 2 maggio 1944, in ACP, b. 35, f. 49]. Quanto ai problemi di salute quale impedimento fisico al suo spostamento a Firenze, cfr. il certificato medico del dott. Nicola Perrotti dell’8 marzo 1944 che parla di attacchi ripetuti di «coliche epatiche accompagnate a volte da colecistite» [ACP, b. 6, f. 34].

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pendio regolare diventa drammatica, tanto che Pellizzi si vede costretto a vendere alcuni beni personali34. O meglio, tenta di venderli, ma il mercato nero è talmente diffuso e il bisogno di beni di prima necessità talmente urgente fra la popolazione di Roma che i guadagni sono irrisori, e più che vendere si finisce per svendere. A dicembre Pellizzi era riuscito a recarsi a Firenze, ma poi la situazione si era fatta sempre più rischiosa per gli spostamenti e sempre più raro è trovare nei primi mesi del 1944 un mezzo di trasporto che conduca al Nord. Peraltro, Pellizzi è padre di ben tre bambini, l’ultimo dei quali è nato il 15 gennaio 1943. Il timore di esporre la famiglia a pericoli tutt’altro che remoti lo blocca per intere settimane tra Riofreddo e Roma. Inoltre, i mezzi di trasporto sono pochi, mal sicuri e le azioni belliche sono sempre in agguato, tra bombardamenti, annunci di sbarchi e avanzamento delle truppe alleate a sud di Roma. Egli preme comunque sui colleghi fiorentini, in particolare Galli e Pompeo Biondi, perché facciano tutto il possibile per ottenere la revisione del provvedimento di sospensione dal grado e dallo stipendio. Dopo una breve visita del ministro Carlo Alberto Biggini a Firenze, grazie anche ai buoni uffici del nuovo rettore dell’ateneo fiorentino, Mario Marsili Libelli, il 20 marzo 1944 il provvedimento viene revocato. Resta in piedi la sospensione ordinata dalla Prefettura di Firenze, ma una soluzione positiva della vicenda sembra ormai imminente dopo la decisione ministeriale. Invece, ennesimo colpo di scena: l’Università di Firenze riceve il 20 aprile un telegramma dal Ministero dell’Educazione nazionale con cui si conferma la sospensione dal grado e dallo stipendio per chi, come Pellizzi, persisteva nella sua assenza dalla sede universitaria35. Dal canto suo, De Mattei aveva in marzo ripreso regolarmente l’attività didattica a Firenze e perciò era stato pienamente reintegrato. Pellizzi, invece, resta un “latitante”. Egli Per avere un’idea della difficile situazione materiale e psicologica in cui versa Pellizzi nel 1943-1944 si vedano le lettere scritte da Camillo al padre, Giovanni Battista, il 4 marzo, il 26 marzo, il 10 aprile e il 17 aprile 1944 (ACP, b. 35, f. 49). Da queste lettere e da molte altre di quel periodo, sempre provenienti dai vari parenti, emerge il forte legame esistente nell’intera famiglia Pellizzi, pur così estesa e sparsa lungo la penisola, e soprattutto il costante e decisivo aiuto finanziario fornito a Camillo dal padre e, in parte, dal fratello Carlo, residente a Milano. 35 Cfr. R. Galli a C.P., 27 aprile 1944, in ACP, b. 35, f. 49. Colpiti da analogo provvedimento con analoga motivazione numerosi altri docenti dell’Università di Firenze, tra cui Pietro Agostino D’Avack e Giorgio La Pira. Su D’Avack (1905-1982), si veda la voce relativa curata da Francesco Margiotta Broglio in DBI, vol. XXXIII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1987, pp. 89-92. 34

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è praticamente un “traditore” agli occhi del fascismo repubblicano ed è questa, di fatto, la sua prima epurazione. L’avversione nei confronti dell’ex professore di Storia e dottrina del fascismo da parte dei fascisti che avevano seguito Mussolini a Salò è testimoniata da due articoli usciti a breve distanza l’uno dall’altro. Causa scatenante, ancor prima e ancor più dell’assenza dalla cattedra fiorentina, è la pubblicazione sul primo numero del 1944 di «Critica Politica», rivista del “Cesare Alfieri”, di un breve saggio dal titolo La violenza e la libertà36. Il saggio reca in calce all’ultima pagina la data dell’agosto 1943 e dal suo contenuto si deduce chiaramente che si tratta dello sviluppo di quella breve inedita “Premessa” datata 24 luglio 1943. Inoltre, all’inizio del testo si segnala in nota che il saggio è l’anticipazione di uno studio su «La società di massa» che, si annuncia, «è in preparazione». In effetti, è almeno dalla prima metà del 1943 che il pensiero di Pellizzi si concentra sempre più intorno alla constatazione che la società contemporanea è ormai, inevitabilmente e irrevocabilmente, una «società di massa». Ciò che colpisce in queste riflessioni, avviate da un articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 13 luglio 1943, è l’atteggiamento non più ostile e sprezzante nei confronti di ciò che è massa37. Pellizzi non viene meno alla sua antica convinzione che la politica, così come la storia, siano appannaggio di ristrette minoranze di uomini capaci e volitivi, però ciò non può e non deve avvenire a scapito o a dispetto della maggioranza ottusa e ignara. Sotto questo profilo, le pagine di Problemi e realtà del fascismo e di Fascismo-aristocrazia sono assai lontane. Adesso, il teorico dell’«aristòcrate» è sicuro che «in un popolo antico e differenziatissimo come l’italiano, “la massa”, nel senso attuale del termine, si è venuta e si viene formando senza alcuna “standardizzazione” di individui o di gruppi»38. Sorprende soprattutto la serenità con cui egli accetta come dato acquisito il fatto che 36 C. P., La violenza e la libertà, in «Critica Politica», n. 1, f. I, 1944 (vedi l’estratto in ACP, b. 16, allegato 5). Anche Bottai annota nel suo diario, in data 31 maggio 1944: «Qualche notizia di fuori. Tentativi, a Firenze, circa tre mesi fa, da parte della Facoltà di Scienze Politiche, d’una rivista, diremo così, libera: o autonoma. Direttori: Rodolico e Galli. Al primo, ed unico numero un articolo di Pellizzi e una nota di Morandi. Intonazione: proposito di contribuire alla ricostruzione nazionale con i lumi d’una critica obbiettiva, etc. etc., gradita e necessaria, etc. etc.» (G. BOTTAI, Diario 1944-1948, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 2001, p. 82). 37 C.P., La società di massa, in «Corriere della Sera», 13 luglio 1943. 38 Ibidem.

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nella massa siamo ormai tutti, con infinite e talora mai percettibili sfumature di posizione, di mentalità e di interessi: dentro e da questa massa si enucleano e si avvicendano uomini e gruppi di governo [...]. Nessuno è mai governante in toto, nessuno è massa e soltanto massa: è questione di gradi: ma una volta che lo Stato si è costituito e funziona, dentro lo Stato si distinguono, e in certo senso si contrappongono assai chiaramente, quei pochi uomini al centro che posseggono un massimo di funzioni e di responsabilità di governo, e i moltissimi in periferia che di tali funzioni partecipano solo in modo assai frammentario e indiretto39.

Il tema paretiano della circolazione delle élites si articola in senso parzialmente “democratico”, cioè Pellizzi ora ammette anche una genesi “dal basso” che rende assai meno esclusivo quel «criterio ereditario» strenuamente difeso negli anni Trenta40. Probabilmente è il particolare storicismo pellizziano a rendere necessaria questa apertura e commistione con la dimensione “orizzontale” dell’agire politico. Già nel 1931 egli sosteneva infatti che «il Politico [...] dev’essere un capitano di mare che naviga sul mare, che non finisce mai di conoscerlo, che ogni giorno ne affronta le nuove sorprese», colui che sa cogliere e interpretare «il fluire della storia di un popolo»41. In questo è il realismo di Pellizzi che prende campo e subordina l’afflato ideologico duramente provato dalle vicende belliche e dall’altra constatazione, questa sì più amara, che il ducismo, e in generale ogni forma di tirannide personale, ha il fiato corto rispetto ai tempi moderni, è insomma un anacronismo. Ma, sotto questo aspetto, le perplessità e le critiche di Pellizzi erano già note da tempo e già presenti nei suoi libri degli anni Venti. Semmai il problema urgente in quell’inizio d’estate del 1943 è che il regime fascista fatica a prendere atto di una simile trasformazione epocale e fatica altresì a modificare le proprie strutture in modo conseguente. Certo è che quando Pellizzi, come scrive nel saggio La violenza e la libertà, sostiene che «le tirannie molto conquistano e poco tengono; le aristocrazie, al contrario, tengono più che non conquistino»42, le reazioni dei fascisti repubblicani non tardano a farsi sentire. Sia «Italia e Civiltà» che «Civiltà Fascista» segnalano con feroci stroncature il saggio dell’ex presidente dell’Istituto di cultura fascista e colgono l’occasione per ribadire vecchie accuse al suo atteggiamento filo-inglese e al suo “liberalismo”43. Ibidem. Gerarchia o Burocrazia? (tre lettere di Camillo Pellizzi, Ugo Ojetti e Giuseppe Bottai), in «Critica Fascista», a. IX, n. 2, 15 gennaio 1931, pp. 21-23. 41 Ibidem. 42 C.P., La violenza e la libertà, cit., p. 2. 43 Mastarna, Violenza e libertà, in «Italia e Civiltà», a. I, n. 13, 1 aprile 1944, p. 1; cfr. 39 40

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Intanto, sul piano politico e penale, nei confronti di Pellizzi viene emesso un ordine di arresto che giunge a Roma da Salò, secondo quanto gli riferirà in seguito il Commissario di Pubblica Sicurezza, Martina, che non dà però esecuzione al provvedimento44. 2. L’epurazione antifascista Passata indenne la primavera, Pellizzi assiste nell’estate del 1944 all’inizio del processo che lo porterà ad una seconda epurazione, stavolta antifascista45. Dai giornali apprende che, liberata Firenze nell’agosto, le Autorità Alleate hanno decretato a loro volta la sua sospensione dall’insegnamento, in attesa di una regolare sentenza emessa da un’apposita Commissione per l’epurazione del personale universitario46. L’attesa dura fino al giugno 1945, e nel frattempo Pellizzi non percepisce né stipendio né altre forme di indennità. Sollecitata da una sua lettera del maggio, la Commissione di primo grado si riunisce e il 10 giugno 1945 addebita a Pellizzi quattro capi d’accusa, tra cui il reato di apologia del regime fascista e quello di essere stato “antemarcia” e “squadrista”47. La titolarità della cattedra di Storia e dottrina del fascismo e la presidenza dell’Istituto nazionale di cultura fascista costituiscono gli elementi principali su cui poggia l’accusa e su cui, nonostante l’opposizione tentata da Pellizzi, si giunge il 18 agosto alla sentenza di primo grado che propone la dispensa dal servizio (senza perdita di pensione) in base a quanto previsto dal decreto legislativo luogotenenziale del 27 luglio 194448. anche «Civiltà Fascista», XI, 1-4, aprile 1944. L’articolo su «Italia e Civiltà» chiude con questo interrogativo: «a che titolo mai, e con quale coscienza, il Pellizzi si arrogava di dirigere l’Istituto nazionale di cultura fascista?». 44 Cfr. le varie versioni dei ricorsi presentati da C.P. presso la Commissione Centrale di Epurazione tra il 1946 e il 1948, in ACP, b. 16, f. 125. Nessun documento ufficiale conferma questa che resta una dichiarazione fatta ripetutamente da C.P. in sede di ricorso presso la Commissione di Epurazione e il Consiglio di Stato. Da una lettera di Rodolfo De Mattei a C.P. del 7 marzo 1944 si può dedurre la possibile natura e motivazione dell’ordine di arresto: deferimento al Tribunale militare in quanto mobilitato civile renitente (cfr. ACP, b. 35, f. 49). 45 Sull’epurazione in Italia si vedano H. WOLLER, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, il Mulino, Bologna 1997 e L. MERCURI, L’epurazione in Italia 19431948, L’Arciere, Cuneo 1988. 46 C.P. al Ministro della Pubblica Istruzione, 10 maggio 1945, in ACP, b. 6, f. 34. 47 Cfr. ACP, b. 16, f. 125. 48 Cfr. Ibidem. Pellizzi è prosciolto dall’imputazione che lo qualificava come «squadri-

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Mentre Pellizzi, coadiuvato dall’avvocato Salvatore Marino, si appella presso la Commissione centrale di epurazione per essere giudicato dal Consiglio di Stato, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in base al decreto legge del 9 novembre 1945, n. 716, dispone (con altro decreto del 22 gennaio 1946, n. 19) il collocamento a riposo di Pellizzi. È la seconda, apparentemente definitiva, epurazione. Seppur comunicatagli un mese e mezzo dopo dal rettore dell’Università di Firenze, Piero Calamandrei, la sentenza veniva impugnata nuovamente da Pellizzi ma anche stavolta con esito negativo49. D’altronde, entrambi i decreti inibivano agli interessati la possibilità di ricorrere, sia in via amministrativa sia in via giurisdizionale, contro il provvedimento. Inizia così, o più semplicemente prosegue da quel 25 luglio del 1943, un calvario che terminerà soltanto nell’autunno del 1950. Pellizzi non si dà totalmente per vinto, anche perché nel frattempo si assiste alla revisione di molti altri casi di epurazione, in buona parte revocati alla luce della legislazione adottata in materia successivamente al 194550. Sotto il profilo strettamente legale, la svolta sarà data dal fatto che il decreto del 22 gennaio 1946 era stato emanato sulla base di norme stabilite da un decreto decaduto. Infatti, il decreto legge del 9 novembre 1945, n. 716, secondo quanto previsto dall’art. 2, entrava in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 22 novembre 1945. Questo decreto consentiva in via eccezionale al Consiglio dei Ministri di collocare a riposo i dipendenti civili dello Stato, anche se inamovibili, entro 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto stesso. Ciò vuol dire che il 21 gennaio 1946 «l’eccezionale potere» conferito al Governo cessava e subentrava un difetto assoluto di potere che rendeva palesemente illegittimo il tipo di provvedimento emesso il 22 gennaio51. Da qui si apre la strada per un ricorso presentato presso il Consiglio di Stato il 29 luglio del 1948. L’organo in questione si pronuncerà nella seduta del 19 sta». Del resto, l’attività del fascio italiano a Londra era di tipo essenzialmente commemorativo, cfr. R. SUZZI VALLI, Il fascio italiano a Londra. L’attività politica di Camillo Pellizzi, in «Storia contemporanea», anno XXVI, n. 6, dicembre 1995, pp. 957-1001. 49 Cfr. minuta di Salvatore Marino in ACP, b. 16, f. 125. Da notare che il decreto del Capo Provvisorio dello Stato, che respingeva l’ultimo ricorso di Pellizzi, fu emanato il 19 luglio del 1946 e registrato alla Corte dei Conti il 13 settembre 1946, ma venne ufficialmente comunicato al diretto interessato soltanto il 23 luglio 1948. Pellizzi ebbe notizia della decisione solo tramite i giornali. 50 Cfr., ad esempio, «Il Tempo» del 15 e del 19 febbraio 1948. 51 Ricorso del 29 luglio 1948 presso il Consiglio di Stato - Sezione Giurisdizionale, in ACP, b. 16, f. 125.

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gennaio 1949, annullando i decreti con i quali Pellizzi era stato collocato a riposo52. A questo punto, due sono i passaggi successivi per giungere al reintegro a pieno titolo e al ritorno in cattedra. In primo luogo, Pellizzi si muove per ottenere la chiamata della sua vecchia Facoltà di Scienze Politiche di Firenze quale titolare della cattedra di Sociologia. Esiste di fatto il precedente della deliberazione presa nel gennaio 1944 e ratificata dal Senato Accademico di allora. Certo è passato del tempo, compresa una guerra civile e un dopoguerra in cui l’antifascismo si è fatto vieppiù intransigente, specie nell’Ateneo fiorentino. Se alcuni colleghi, pur divenuti noti e rigorosi antifascisti, mantengono un sincero legame di amicizia con Pellizzi, e fra questi il caso più significativo è quello di Carlo Morandi53, c’è chi accentua un’avversione già presente all’indomani del 25 luglio ’43, come nel caso di Calamandrei, e chi modifica il proprio atteggiamento, facendosi un po’ più rigido. È questo il caso di Renato Galli che manifesta dubbi sulla competenza specifica del collega in ambito sociologico e sulla sua assiduità in sede didattica; dubbi dietro i quali lo stesso Pellizzi ritiene ci siano motivazioni di opportunità politica le quali sconsigliano il recupero di un ex “gerarca”54. Del resto anche il nuovo rettore fiorentino, Bruno Borghi, mostra notevoli perplessità che sono alimentate anche dall’opposizione che nei confronti di Pellizzi nutre il cosiddetto «gruppo Calamandrei»55. Questo nu52 Cfr. ACS, Consiglio di Stato, Sez. IV, a. 1949, decisione n. 120. La decisione in questione riguardava anche i ricorsi presentati dai professori Antonino Sammartano (il quale era stato funzionario presso il Ministero della Cultura Popolare) e Saverio Grana, anch’essi difesi dall’avv. Marino. 53 Cfr. lettera di C. Morandi a Rodolfo De Mattei, s. d. (ma 1949), in ACP, b. 16, f. 125. Si vedano anche gli amichevoli suggerimenti dati da Morandi a C.P. in una cartolina del 17 aprile 1949: «A quanto tu dici vorrei aggiungere, se me lo consenti, un suggerimento ch’è frutto di esperienza del nostro mondo accademico. Vedi di collaborare un po’ a riviste scientifiche italiane (e magari straniere, se da noi mancano quelle pertinenti agli studi sociologici): recensioni critiche, rassegne e saggi su argomenti specifici, dimostreranno che tu ti occupi attivamente e segui il movimento degli studi» (ACP, b. 36, f. 54). 54 Cfr. le lettere di R. Galli a C.P. del 26 marzo 1949 e del 3 maggio 1949, e quelle di C.P. a R. Galli del 10 aprile (mai spedita) e del 12 aprile 1949, in ACP, b. 16, f. 125. 55 Su Borghi sono interessanti alcuni giudizi dati da parenti e colleghi universitari di Pellizzi. Scrive, ad esempio, il cognato Cataldo Cassano: «Conosco bene il rettore di F., è un uomo retto e non fazioso di certo, ma di difficile carattere, poco malleabile, scontrosissimo. Non so se convenga scrivergli; forse sarebbe migliore tattica cercare di parlargliene in maniera da evitare che possa inalberarsi (mi preoccupa la faccenda della residenza romana!)» [lettera a C.P. del 13 aprile 1949, in ACP, b. 36, f. 54]. Scrive invece Cicala a C.P., il

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cleo di professori fa pressione sul rettore, il quale, dal canto suo, indugerà quasi due mesi prima di trasmettere al Ministero della Pubblica Istruzione la deliberazione del Consiglio di Facoltà del “Cesare Alfieri” il quale, a fine maggio del 1950, propone Pellizzi per l’insegnamento della sociologia che, non essendovi un titolare della materia, era da tempo ricoperto da Francesco Bernardino Cicala in qualità di supplente. La deliberazione avviene a maggioranza, due contro uno: a favore Biondi e Maranini, contrario Galli. Il 22 luglio il Senato Accademico approva tale deliberazione. Maranini, ora preside del “Cesare Alfieri”, si impegna attivamente per favorire il reintegro di Pellizzi nel corpo docente della Facoltà fiorentina56. C’è da dire che il “Cesare Alfieri” vedeva da circa cinque anni incerto il proprio statuto e il proprio futuro, al pari delle altre Facoltà di Scienze Politiche di cui era stata decisa la soppressione all’indomani della fine della guerra dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione Guido De Ruggiero, sia per motivi politici (erano state istituite in epoca fascista) sia per motivi culturali (della politica non si fa scienza, secondo il giudizio di Carlo Antoni) sia per motivi accademici (sono doppioni delle Facoltà di Giurisprudenza, sempre secondo Antoni)57. Queste Facoltà erano state soppresse con un provvedimento del 1945, revocato poi in sede amministrativa, in attesa che il Parlamento discutesse e approvasse un progetto di legge, pronto sin dal 1948, inteso a rimetterne in ordine l’ordinamento interno. Di fatto le Facoltà di Scienze Politiche proseguirono ancora con i vecchi ordinamenti, ma trovarono nel ministro democristiano Guido Gonella uno strenuo difensore. La presenza di Gonella, nominato da De Gasperi ministro della Pubblica Istruzione il 13 luglio del 1946 e rimasto poi in carica fino al 18 luglio 1951, aveva già avuto molta influenza nel mutamento subito dalla politica di epurazione del governo58. Proprio sulla questione degli epurati, sul trattamento più o meno intransigente da riservare loro, 19 settembre 1950: «Trovo veramente incomprensibile e sommamente arbitrario il gesto del Rettore...!!!» [ACP, b. 37, f. 55]. Il gesto cui ci si riferisce è l’aver Borghi inviato a parte al Ministero della P.I. una relazione contenente le proprie osservazioni (presumibilmente personali riserve critiche) sulla deliberazione del Consiglio di Facoltà di Scienze Politiche. 56 Tra le numerose missive, si vedano le lettere di Maranini a C.P. del 23 giugno 1950 (ACP, b. 37, f. 55) e s. d. (ma agosto 1950) [ACP, b. 37, f. 55]. In quest’ultima Maranini informa che «la deliberazione del Senato Accademico è stata trasmessa in ritardo e mutilata, in seguito a sollecitazioni. Provvedo a inviarne personalmente un’altra copia al Petrocchi, con la lettera di cui pure ti accludo copia». Su Giuseppe Petrocchi vedi infra. 57 Cfr. C. ANTONI, La Facoltà degli spostati, in «Il Mondo», 23 luglio 1949, p. 1. 58 Vedi la voce su Guido Gonella (1905-1982) curata da Giorgio Campanini in DBI, vol. LVII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2001, pp. 666-670.

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nell’aprile del 1947 c’era stato uno scontro tra Gonella e un gruppo di professori, membri del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (fra cui Guido De Ruggiero, Arturo Carlo Jemolo, Gustavo Colonnetti e Concetto Marchesi), i quali avevano infine rassegnato le dimissioni. Nell’autunno del 1950 il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione è chiamato a pronunciarsi sulla deliberazione dell’Ateneo fiorentino nei riguardi di Pellizzi. La composizione del Consiglio risulta senz’altro più favorevole per l’ex “gerarca” fascista di quel che poteva essere pochi anni prima59. Dalla fitta corrispondenza intrattenuta da Pellizzi fra la primavera e l’autunno del 1950, cioè nel periodo che intercorre fra la nomina alla cattedra fiorentina di sociologia e la decisione del Consiglio Superiore, emerge la vasta rete di amicizie e di conoscenze di cui gode il Nostro. Non poche di queste amicizie si attivano immediatamente e con grande impegno, come nel caso di Ugo Spirito, il quale scrive di propria iniziativa una lettera indirizzata a Felice Battaglia, rettore dell’Università di Bologna e membro del Consiglio Superiore e la offre a Pellizzi per spenderla come una sorta di “raccomandazione”60. Contatti con altri consiglieri avvengono grazie ai suggerimenti, all’iniziativa e alla sollecitazione di colleghi, che prima di tutto si dimostrano sinceri amici di Pellizzi. In tal senso si muove molto Francesco Bernardino Cicala, che arriva fino a Gonella61. 59 Tra i consiglieri figurano, fra gli altri, i professori Felice Battaglia, Antonino Pagliaro, Giuseppe Capograssi, Carmelo Colamonico, Alfredo Tesauro, padre Agostino Gemelli. 60 Spirito invia a Pellizzi il testo di una lettera di raccomandazione indirizzata a Battaglia, lasciando l’amico e collega «arbitro di inoltrarla o meno». La lettera non sarà inoltrata. Cfr. ACP, b. 37, f. 55, lettere 212, 212/1 e 212/2 (18 ottobre 1950). Pellizzi aveva esortato l’amico filosofo ad intervenire in suo favore presso Battaglia, del quale scrive quanto segue: «Credo non sia prevenuto contro la persona, ma poco portato, temo, a apprezzare il mio lavoro sul simbolo» [C.P. a U. Spirito, in Fondo Ugo Spirito, Carteggio Ugo Spirito (d’ora in poi, CUS), n. 3252. La sottolineatura è nel testo]. Cfr. anche la lettera di C.P. a Spirito del 21 ottobre 1950, CUS, n. 3262. Spirito contatta anche Capograssi (ma qui, forse, su invito dello stesso Pellizzi), cfr. U. Spirito a C.P., 23 ottobre 1950, b. 37, f. 55. Per Capograssi si muove anche Pompeo Biondi, il quale si avvale dell’intermediazione di Astuti e Salvatore Valitutti, cfr. P. Biondi a C.P., 5 ottobre 1950, in ACP, b. 37, f. 55. Su Capograssi (1889-1956) si veda la voce redatta da Vittorio Frosini, in DBI, vol. XVIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1995, pp. 655-657, e C. VASALE, L’individuo nell’età dei totalitarismi. Politica diritto e morale nell’«esperienza comune» di Giuseppe Capograssi, introd. di A. Rigobello, R. Barabba, Lanciano 1977. Sul pensiero politico di Felice Battaglia, cfr. N. MATTEUCCI, Filosofi politici contemporanei, il Mulino, Bologna 2001, pp. 55-66. 61 «Carissimo, la tua gentilissima ultima si è incrociata con una mia indirizzata a Forte dei Marmi, in cui ti comunicavo la risposta (molto cortese e a mio avviso favorevolissima) del Ministro Gonella» (F.B. Cicala a C.P., 19 agosto 1950, in ACP, b. 37, f. 55).

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Un altro dato che emerge è l’importanza dell’ambiente culturale cattolico col quale Pellizzi entra in contatto e che gli fa indubbiamente da autorevole tramite presso gli ambienti ministeriali. In tal senso è importante il nome di Giorgio Del Vecchio, decano della filosofia del diritto, del quale Gonella era stato assistente presso la Facoltà di Giurisprudenza di Roma62. Suggerito da Cicala, di cui era vecchio amico, il contatto con Del Vecchio si trasforma subito in un rapporto amichevole, fatto di attestazioni di reciproca sincera stima e simpatia63. Due su tutti sono i nomi che acquistano particolare importanza in questa delicata fase della vita accademica, e non solo, di Camillo: padre Agostino Gemelli e don Luigi Sturzo64. Ciò che accomuna i due e li rende entrambi perfetti interlocutori per il Pellizzi del 1949-1950 è l’interesse per la sociologia, nonché la loro estraneità (se non ostilità) all’antifasci62 Cfr. G. CAMPANINI, Gonella, Guido, in DBI, cit., p. 666. Una proposta di contatto indiretto con l’allora neo-ministro Gonella era stato suggerito da Jacopo Mazzei a C.P. già nel 1946. Il tramite, in quel caso, avrebbe dovuto essere Giorgio La Pira, all’epoca membro dell’Assemblea Costituente nelle file democristiane. Cfr. J. Mazzei a C.P., 1° novembre 1946, in ACP, b. 36, f. 51: «Riservatamente ti racconterò che ho avuto occasione di parlare varie volte di te col nostro costituente La Pira (come forse sai fu nascosto qui per vari mesi al tempo dei tedeschi). Egli è convinto che è doveroso fare tutto il possibile per riportarti “a galla” e si proponeva di parlarne con Gonella». 63 Simpatica è anche la richiesta che l’anziano e illustre Del Vecchio, da subito amichevole [«Ti chiedo anzitutto il permesso di lasciare il freddo Lei per il più simpatico tu» (sottolineatura nel testo)], fa al più giovane Pellizzi, e cioè gli chiede la revisione della traduzione di una relazione tenuta a Londra un paio di mesi prima, dal momento che «la cordialità da te dimostratami e l’incomparabile tua padronanza della lingua inglese mi incoraggiano a pregarti di un favore» (G. Del Vecchio a C.P., 9 ottobre 1950, in ACP, b. 37, f. 55). 64 Per un sintetico resoconto della vita e dell’opera di Padre Gemelli (1878-1959), si veda N. RAPONI, Gemelli, Agostino, in DBI, vol. LIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1999, pp. 26-36. Allo Sturzo studioso di sociologia Pellizzi dedica alcune considerazioni in un suo scritto del 1956: Gli studi sociologici in Italia nel nostro secolo (Parte II), in «Quaderni di Sociologia», n. 20 (estate 1956), pp. 139-140. Inoltre, pur non trattando specificamente della sociologia sturziana, Pellizzi partecipa con un suo saggio alla pubblicazione dei tre volumi di scritti in onore del fondatore del Partito popolare italiano: La struttura elementare del comportamento consapevole, in AA.VV., Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo, vol. III, a cura dell’Istituto Luigi Sturzo, Zanichelli, Bologna 1953, pp. 81-109. Sulla sociologia di Luigi Sturzo già aveva scritto nel 1920 Vilfredo Pareto (L’economia e la sociologia nel discorso di don Sturzo, in «La Vita Italiana», a. VIII, f. XCV, novembre 1920, pp. 393-403). Cfr. anche F. FERRAROTTI, Lo storicismo sociologico di Luigi Sturzo, in ID., La sociologia. Storia, concetti, metodi, ERI, Torino 1967 (5ª ediz. riv. e ampl.), pp. 187-195 e C. VASALE, Democrazia e pluralismo nella sociologia storicista di Luigi Sturzo, Città Nuova, Roma 1975.

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smo militante della sinistra italiana del tempo, il che li rende quantomeno “possibilisti” su un reintegro a pieno titolo di un ex fascista nella vita culturale, se non politica, della neonata repubblica. A Sturzo Pellizzi si rivolge con una lettera del 17 luglio del 1950 in cui si accenna anche all’atteggiamento assunto a Firenze dal rettore e da altri docenti dell’ateneo: [...] Un piccolo gruppo di colleghi fiorentini (potremmo definirlo il “gruppo Calamandrei”) l’altro giorno, presente il Rettore, poco prima che io arrivassi per una riunione di Facoltà, ha fatto una vera e propria dimostrazione ostile, dicendo che “è uno scandalo che si riammetta nella Facoltà di Sc. Politiche un gerarca”. Il Rettore taceva ma non dissentiva. Temo che anche il Ministero risenta di queste influenze. [...] In questi conflitti mi sento disarmato, perché non riesco nemmeno a comprenderne il senso e la ragione. Tanto più dunque mi sarebbe prezioso un Suo consiglio in questa emergenza, poiché Ella unisce, a un’alta competenza nella materia di cui si tratta, un’esperienza non meno profonda di questi problemi amministrativi e del loro “back-of-the-stage”65.

Sturzo si adoprerà presso il professor Giuseppe Petrocchi, direttore generale dell’Istruzione Superiore presso il Ministero della Pubblica Istruzione, il quale, dal canto suo, assicurerà la massima attenzione e l’impegno ministeriale «perché si possa al più presto regolarizzare la posizione del Prof. Pellizzi rispetto alla Cattedra cui devesi intendere reintegrato in servizio»66. L’interesse e la sollecitudine mostrati da Sturzo sono dettati soprattutto dalla convinzione che con Pellizzi la sociologia italiana possa riacquistare il prestigio e l’«onore» perduti nel mondo degli studi67. Quanto ad Agostino Gemelli, il legame si crea e si consolida anch’esso in virtù della comune passione per gli studi sociologici, di cui l’Università Cattolica di Milano, fondata e retta dallo stesso Gemelli, è all’epoca una 65 C.P. a L. Sturzo, 17 luglio 1950, in ACP, b. 37, f. 55. La sottolineatura è nel testo della lettera. 66 G. Petrocchi a L. Sturzo, 26 agosto 1950, in ACP, b. 37, f. 55. 67 «Spero che il Consiglio Superiore della P.I. non porti alle lunghe la decisione. Occorre che la Sociologia sia rimessa in onore» (L. Sturzo a C.P., 21 novembre 1950, in ACP, b. 37, f. 55). Con l’occasione, Sturzo chiede se è possibile una futura recensione ad un suo recente lavoro. Pellizzi avrà poi rapporti di collaborazione con l’Istituto Luigi Sturzo, costituito nel 1951, in quanto componente la commissione esaminatrice di un concorso internazionale bandito dallo stesso Istituto sul tema «Il significato metodologico e il valore normativo delle cosiddette leggi sociologiche. Raffronti con le leggi fisiche, economiche ed etiche» (cfr. L. Sturzo a C.P., 19 maggio 1958, in ACP, b. 39, f. 63).

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delle pochissime strutture accademiche che se ne occupa fattivamente. Non a caso questa Università era stata inaugurata il 7 dicembre del 1921 con l’avvio di due facoltà: filosofia e scienze sociali. È inoltre emanazione diretta della Cattolica la «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», forse la prima in Italia ad occuparsi seriamente di sociologia all’indomani della seconda guerra mondiale. Ne è direttore il professore Francesco Vito, con il quale Pellizzi entra in contatto grazie a Gemelli e con il quale inizia una collaborazione che vede la pubblicazione di alcuni articoli e saggi pellizziani di argomento sociologico, fra i quali Proposta di una nuova definizione del simbolo68. Una fitta corrispondenza fra Pellizzi e Gemelli inizia nell’ottobre del 1949, dopo che il primo ha messo il secondo al corrente delle proprie vicissitudini accademiche, e fitta si mantiene per tutto il 1950. L’intesa fra i due nasce subito sulla base della comune constatazione del «fatto che purtroppo anche in Italia non si conosce l’importanza delle indagini sociali su dati positivi», anzi, aggiunge padre Gemelli, «noi siamo qui alla coda, come avviene purtroppo anche in altri campi»69. E il rettore dell’Università Cattolica è persuaso che, con Pellizzi, la sociologia è salva: non posso dirLe in che maniera e come, ma se Firenze avrà buon senso, la sociologia è salva70.

In termini pratici, padre Gemelli si attiverà in due direzioni per aiutare colui che pare dunque chiamato a “salvare” la sociologia italiana. Anzitutto, si muove presso il ministro della Pubblica Istruzione, assicurando che andrà direttamente a Roma a parlare con Guido Gonella appena gli sarà possibile71. In secondo luogo, quando nell’autunno del 1950 spetterà al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione pronunciarsi sul trasferimento di materia, Gemelli garantirà il proprio appoggio in quella sede essendone uno dei membri72. 68 In «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», XXII, 6, 1950, pp. 552-567. Cfr. anche F. Vito a C.P., 16 agosto 1950, in ACP, b. 37, f. 55. 69 A. Gemelli a C.P., 14 ottobre 1949, in ACP, b. 36, f. 54. Padre Gemelli da subito si dichiara disponibile a dare una mano al più giovane collega: «Per la Sua questione universitaria se posso esserLe di qualche aiuto me lo dica e sarò ben volentieri a Sua disposizione, lieto se potrò in qualche modo contribuire a farLe ottenere giustizia». 70 A. Gemelli a C.P., 24 dicembre 1949, in ACP, b. 36, f. 54. 71 A. Gemelli a C.P., 21 ottobre 1949, in ACP, cit. 72 A. Gemelli a C.P., 30 maggio 1950, in ACP, b. 37, f. 55. Nella successiva lettera del 6 giugno 1950, Gemelli assicura di nuovo Camillo: «Ella può star certo che mi interesserò per la questione Sua e poiché Ella dice che il Prof. Pagliaro è favorevole, prenderò con lui

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Nonostante l’appoggio di tali eminenti personalità, o forse proprio per questo, il giudizio positivo di reintegro formulato dal Consiglio Superiore alla fine di novembre del 1950 rappresenta soprattutto una vittoria della stima e dell’amicizia che Pellizzi si era conquistato da tempo come studioso serio e capace. D’altronde, a 54 anni, egli è pur sempre un epurato d’eccezione, in quanto intellettuale di chiara fama, in special modo nel campo della lingua e letteratura inglese per cui è anche conosciuto e apprezzato all’estero. Poteva risultare infine clamoroso continuare a ostracizzarlo, proprio mentre l’epurazione segnava ormai il passo e le reintegrazioni si moltiplicavano di giorno in giorno. Peraltro, il suo caso giudiziario dimostra come i legami nel mondo intellettuale seguissero un po’ meno di quel che si pensi le logiche di parte e le divisioni ideologiche, anche nell’Italia uscita di recente dall’infuocato scontro elettorale del 18 aprile 1948. Alla sua causa ha giovato poi l’estraneità e l’equidistanza che Pellizzi mantiene in quegli anni nei confronti degli schieramenti partitici di destra, di sinistra e di centro. E infine, last but not least, il clima politico è indubbiamente mutato dopo le elezioni del 18 aprile, ed è ormai evidente la volontà della DC di chiudere almeno certi conti con il recente passato. 3. Giornalista e traduttore Prima di vedere risolta la propria vicenda accademica, Pellizzi medita in più occasioni di lasciare l’Italia per tornare ad insegnare in Inghilterra. Impossibilitato a fare ritorno alla cattedra dell’University College di Londra, egli non esclude ipotesi alternative come gli Stati Uniti e persino l’America Latina73. In tutti i casi, le risposte degli amici presso cui si rivolge accordi su quello che conviene fare. Speriamo!». Su Pagliaro si era mosso direttamente Pellizzi, che conosceva da tempo il professore siciliano; cfr., al riguardo, la risposta di C.P. del 4 giugno 1950 alla lettera appena citata di A. Gemelli, in A.S.U.C.S.C. (Archivio Storico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore), Fondo Corrispondenza, Cart. 221, f. 385, sf. 2826. Cfr. anche le lettere di A. Pagliaro a C.P. del 2 settembre e del 10 ottobre 1950 (ACP, b. 37, f. 55). 73 Si veda, ad esempio, la lettera di Carlo Foa a C.P., del 22 luglio 1946, in ACP, b. 36, f. 51. Foa era docente presso l’Università di São Paulo. Per gli Stati Uniti, si veda la lettera di Giuseppe Prezzolini a C.P., 14 agosto 1945, in ACP, b. 36, f. 50. Per l’Inghilterra si vedano la lettera di Armando Carlini del 5 agosto 1946 [«Mi pare impossibile che qualche università non finisca col chiederti. Ci vuole ancora tempo, un poco: che gli animi si acquietino del tutto, e che l’orizzonte politico (se è possibile) si schiarisca», in ACP, b. 36, f.

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sono negative. Il peso del recente passato incide anche all’estero, forse ancor più che in Italia. Gli anni che vanno dal 1944 al 1950 sono quindi all’insegna della disoccupazione, cui Pellizzi cerca di rimediare, oltre che con l’aiuto della famiglia e in particolare del padre, con una forsennata attività di traduzione e di articolista quasi a cottimo. È pressoché impossibile fornire un numero preciso dei libri che Pellizzi traduce, per lo più dall’inglese74, negli anni compresi fra il 1945 e il 1953, cioè nel periodo più intenso della sua attività di traduttore, iniziata per necessità, diciamo pure per sopravvivenza o quasi. Non si spiegherebbe altrimenti una produzione in quantità industriale di traduzioni, realizzate a ritmi impressionanti, anche sotto forma di dettatura a segretarie mentre, contemporaneamente, si intrattiene con ospiti o scrive articoli e recensioni per i giornali75. Una lettera di Valentino Bompiani, in cui l’editore chiede la revisione di una traduzione zeppa di refusi ed imprecisioni, è la gustosa testimonianza indiretta di un lavoro frenetico a cui Pellizzi si trova costretto76. Le case editrici per cui lavora sono Mondadori, Bompiani, Longanesi e Laterza. Dai libri tradotti, non pochi su suggerimento dello stesso Pellizzi, si può in parte dedurre il percorso intellettuale compiuto dall’ex fascista in questi anni di epurazione. Anni senz’altro di difficoltà economica, ma che comunque non lo vedono né isolato né rassegnato. L’ambiente letterario romano, e non solo, frequentato nei decenni precedenti e ancora coltivato dalla moglie Raffaella, continua a mostrargli amicizia e stima, coinvolgendolo in non poche iniziative. Fra queste il premio letterario “Strega”, animato da Maria Bellonci. Pellizzi fa parte dal 1947 della giuria in quanto è uno degli “Amici della Domenica”, cioè membro dell’associa51] e le numerose lettere di Roberto Weiss scritte nella primavera-estate del 1946 (cfr. ibidem). 74 Giovanni Bechelloni, nel suo ricordo all’indomani della morte, conta ben 46 volumi tradotti dall’inglese. Cfr. G. BECHELLONI, Camillo Pellizzi: ricordo scomodo di un outsider, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XX, n. 4, ottobre/dicembre 1979, pp. 545-556. 75 Una scena del genere ci è stata riferita personalmente dal poeta inglese Peter Russell, che incontrò Pellizzi intorno al 1949 nella sua casa a Roma su suggerimento del comune amico Ezra Pound (testimonianze all’autore del 12 maggio e del 13 luglio 2002). Cfr. anche la lettera di Henry Swabey a C.P. del 29 ottobre 1949 (ACP, b. 36, f. 54), in cui si legge, fra l’altro: «Pound writes enthusiastically about your work. [...] I expect that you have seen Peter Russell by now and that he may have discussed the translation of your work into English. E.P. [Ezra Pound, n.d.r.] thinks that you, C.H. Douglas and M. Belgion are the only people capable of constructive thought in our present stress». 76 V. Bompiani a C.P., 6 maggio 1946, b. 36, f. 51.

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zione culturale che ha istituito il premio con l’aiuto finanziario dei fratelli Alberti, produttori del liquore “Strega” di Benevento77. Sempre nel 1947, diventa uno dei soci dell’Associazione culturale «Fiera Letteraria», grazie all’interessamento del suo presidente Giovanni Battista Angioletti78. Nel febbraio del 1949 fa richiesta di iscrizione al Sindacato Nazionale Scrittori, e alla relativa cassa di previdenza e al consorzio case. La richiesta è approvata, ulteriore segnale di un’epurazione in via di evaporazione79. La traduzione probabilmente più significativa per quel che concerne l’evoluzione del pensiero politico di Pellizzi è quella della famosa opera di James Burnham, The Managerial Revolution. Uscita negli Stati Uniti nel 1941, Pellizzi aveva avuto modo di leggerla già in edizione inglese, probabilmente intorno al 1942, secondo quanto accennato nel suo libro Una rivoluzione mancata, pubblicato qualche anno dopo, nel 194980. Il volume di Burnham, quindi, non era per lui nuovo nel momento in cui lo traduce per Mondadori nel 194681. La prima edizione esce nel marzo di quell’anno e sia il traduttore che l’autore della Premessa alla traduzione italiana compaiono sotto lo pseudonimo “E.i.p.”. Dietro questa sigla sibillina si cela Pellizzi, come risulta dalla seconda edizione del libro, sempre per Mondadori, in cui traduzione e introduzione compaiono stavolta 77 Cfr. le lettere di Maria Bellonci (nata Villavecchia) del 1° e del 25 giugno 1948, in ACP, b. 36, f. 53. Il marito, Goffredo Bellonci (1882-1964), giornalista e critico letterario, originariamente su posizioni nazionaliste aveva poi aderito al fascismo. Cfr. A. BOCELLI, Bellonci, Goffredo, in DBI, vol. VII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1965, pp. 755-757. 78 Cfr. G. B. Angioletti a C.P., 25 marzo 1947, in ACP, b. 36, f. 52. 79 C.P. alla Segreteria del Sindacato Nazionale Scrittori, 21 febbraio 1949, in ACP, b. 36, f. 54. La risposta del presidente del Sindacato, Corrado Alvaro, è del 1° marzo 1949, in ACP, b. 36, f. 54. 80 C.P., Una rivoluzione mancata, Longanesi, Milano 1949, p. 146. Scrive Pellizzi: «A ciò l’altro [Paolo Fortunati, ndr.] rispondeva che sono anche gli ingegneri; e sembrava evidente che, nel suo pensiero, rimaneva un posto assai importante, nella vita della produzione, per quei famosi managers di cui allora non si parlava, ma che incombevano come un’ombra minacciosa su tutto il problema. E chi presiedeva alla discussione, infatti, poiché già a casa sua aveva potuto leggere il Burnham, poneva la domanda impegnativa: “Le forze che oggi animano l’economia sono i dirigenti o gli imprenditori?”» (p. 146). La discussione cui si fa riferimento è quella dei “Gruppi Scientifici” sul tema del “piano economico”, promossa dall’INCF e tenutasi a Roma nel novembre 1942, con un’appendice nell’aprile del 1943 (cfr. G. Melis, op. cit. e G. Longo, op. cit.). Da qui la nostra ipotesi circa l’anno in cui Pellizzi ha letto il libro di Burnham. 81 J. Burnham, La rivoluzione dei tecnici, con una Premessa di C. Pellizzi, Mondadori, Milano 1946 (2ª ediz. 1947).

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firmati con nome e cognome. L’anonimato parrebbe giustificato dalla necessità di nascondere i «trascorsi fascisti»82 del curatore di un volume uscito in una collana, Orientamenti, inaugurata nell’ottobre del 1945 e pensata e voluta da Alberto Mondadori quale contributo a «quell’educazione politica e morale che è fondamento necessario e un’autentica ricostruzione dell’Italia»83. In realtà, la motivazione risulta meno chiara, se si pensa che nello stesso anno, il 1947, Pellizzi compare quale traduttore e curatore della seconda edizione italiana di The Managerial Revolution, mentre per l’altra famosa opera di Burnham, The Machiavellians. Defenders of Freedom (1943), anch’essa pubblicata da Mondadori, egli figura sotto lo pseudonimo di “E. Mari”84. Il titolo italiano del primo libro del politologo statunitense è La rivoluzione dei tecnici, che l’editore sceglie tra le perplessità del traduttore, ben consapevole, come scriverà pochi anni dopo, che «il Burnham è chiarissimo nel precisare che la “società dei managers” di cui egli parla non è una tecnocrazia nel senso specifico di questa parola»85. La tesi centrale del libro, che segna il distacco definitivo di Burnham dall’ambiente trozkista americano, parte dal presupposto che nel mondo industrialmente avanzato sta prendendo forma una netta separazione tra proprietà e controllo dei mezzi di produzione e, più in generale, dell’impresa86. Questo processo 82 E. DECLEVA, Arnoldo Mondadori, UTET, Torino 1993, p. 340. L’A. rileva la connotazione chiaramente antifascista della collana Orientamenti: «Una dedica preposta a ciascun volume “a Poldo Gasparotto, Mario Greppi, Bruno e Fofi Vigorelli, a tutti i Caduti per la libertà” valeva ad un tempo come un richiamo ai legami ed agli impegni contratti nel periodo luganese e come una ulteriore conferma della volontà della casa editrice di sentirsi partecipe del “fervore di rinnovamento democratico e di riabilitazione umana in atto”» (p. 340). 83 Ivi, pp. 339-340. 84 Cfr. J. BURNHAM, I difensori della libertà (1943), Mondadori, Milano 1947. Cfr. anche E. DECLEVA, op. cit., p. 372. 85 C.P., Una rivoluzione mancata, cit., p. 106, nota 1. A proposito delle perplessità circa il titolo italiano, si legga quanto Pellizzi scrive nel 1947: «Non si tratta ancora, secondo il Burnham, di tecnici in senso stretto; e questa parola, stampata dall’editore Mondadori sulla testata del libro cui mi riferisco, e che io stesso ho tradotto per lui e presentato in veste italiana, è del tutto erronea e contraria all’intenzione dell’Autore» (Il tramonto della massa, in «Il Globo», 5 novembre 1947). 86 Per un profilo biografico e intellettuale ampio e dettagliato di Burnham si veda il recente volume di G. BORGOGNONE, James Burnham. Totalitarismo, managerialismo e teoria delle élites, prefazione di Bruno Bongiovanni, Stylos, Aosta 2000. Per un inquadramento storico e teorico dell’ambiente culturale nel quale maturano le idee di Burnham, rielaborazione di tesi preesistenti, cfr. A. SALSANO, La «rivoluzione manageriale» prima di Burnham, in ID., Ingegneri e politici. Dalla razionalizzazione alla «rivoluzione manageriale», Einaudi, Torino 1987, pp. 95-159; ID., Introduzione a J. BURNHAM, La rivoluzione mana-

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avviene nei paesi capitalistici a regime democratico in virtù del sorgere e diffondersi di grandi società anonime (corporations), in cui gli azionisti perdevano la gestione diretta dell’intera ed effettiva organizzazione della produzione a vantaggio di una ristretta élite di “direttori generali”, i managers appunto87. Nei regimi totalitari, in irrefrenabile ascesa negli anni in cui è concepito e scritto il libro, il passaggio è accelerato dall’occupazione sistematica dei gangli del sistema politico ed economico da parte del partito unico. Sotto questo profilo, Germania nazista e Russia sovietica sono assai simili, per via appunto di un partito fattosi Stato e che, mediante gli strumenti coercitivi a disposizione della struttura statale, esercita un controllo tendenzialmente “totale” sull’economia e la società. Il mondo sviluppato sta quindi convergendo verso un unico modello di organizzazione socio-economica, a seguito di un passaggio di consegna (pacifico nelle democrazie, cruento nelle dittature totalitarie) tra vecchia e nuova classe dominante. Sulla base di un’impostazione di fondo che combina l’approccio marxista alla teoria elitista, Burnham disegna un grande affresco metastorico che preconizza l’avvento di una nuova éra post-capitalistica. A distanza di qualche anno, la tesi della rivoluzione manageriale mostra già tutti i suoi limiti, a partire dall’affermazione secondo cui la Russia europea sarebbe stata attratta nell’orbita della Germania nazista (data per longeva), e la Russia asiatica verso il Giappone88. Pellizzi ne è consapevole, ma ancora nel 1946 ritiene assai valida la teoria manageriale sotto il profilo euristico e, soprattutto, «la crisi politica, più o meno latente ma inconfondibile, sembra trovare nelle pagine del Burnham una precisa profezia»89. geriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. VII-XXX. Questa è la nuova edizione del libro di Burnham, basata sulla traduzione di Pellizzi riveduta e corretta da Salsano, e che vede rimossa l’originaria Premessa alla traduzione italiana (sostituita da una breve “avvertenza” in cui si accenna a Pellizzi). 87 Si veda quanto scrive Pellizzi nella sua Premessa alla traduzione italiana: «[...] la parola “managers” tradotta in tecnici vuol significare tecnici di direzione della produzione. La parola “managers” ha quindi un significato più vasto di dirigente, che può essere interpretato, più che tradotto, in tecnico-dirigente. Così “management” è: direzione tecnica» (ediz. it. del 1946, p. 14). Cfr. anche il cap. VII del libro di Burnham (pp. 71-87 dell’ediz. it. del 1992) dall’eloquente titolo Chi sono i managers? 88 Cfr. ID., La rivoluzione manageriale (ediz. it. del 1992), cap. XIV (La via russa), pp. 194-214. Nella seconda edizione americana, Burnham aggiungerà una nota alla fine del cap. XIV, nella quale dichiarerà: «Credo che questo errore nella “previsione dei tempi” sia risultato da una applicazione troppo schematica dell’analisi sociologica ed economica del nostro problema, non accompagnata da una valutazione adeguata dei fattori strettamente militari» (ivi, p. 214). 89 C. PELLIZZI, Premessa alla traduzione italiana, cit., p. 12.

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Certamente Pellizzi non può non trovare affinità tra le tesi dello studioso americano e alcune riflessioni da lui stesso maturate negli anni immediatamente precedenti. Soprattutto, analoga è la convinzione che la guerra abbia favorito l’emergere e il consolidarsi di un «sistema dei tecnici»90. Il suo apprezzamento nei confronti dell’opera di Burnham scemerà in parte col tempo, senza per questo che egli continui, anche a distanza di quasi vent’anni, a riconoscere quanto lo studioso americano sia stato «geniale, originale e valido in una vasta parte della diagnosi»91. Il vero problema è che «quasi tutte le sue prognosi sono state contraddette dai fatti», a conferma che ogni buon sociologo deve sempre ricordarsi del monito che «si potrebbe riassumere nella formula: non profetare mai!»92. È questo il principale rimprovero mosso a Burnham dal suo traduttore italiano, rimprovero che cresce col maturare in Pellizzi della forma mentis del sociologo, o, meglio, dello scienziato sociale, che manca allo scrittore americano, filosofo di formazione e poi polemista e politologo di professione93. Ciò che della teoria burnhamiana affascina maggiormente Pellizzi è, invece, la combinazione tra un’analisi strutturale di impronta marxista e la teoria elitista del potere. Riferendosi alla seconda opera di Burnham da lui tradotta, I difensori della libertà, egli ne sottolinea le «serie letture italiane» dei grandi classici del realismo politico, da Machiavelli a Pareto, da Mosca a Robert Michels, fino a Sorel94. Questi ultimi due vengono considerati a tutti gli effetti degli italiani, tant’è vero che Michels prenderà la cittadinanza italiana e del Sorel «non è chi non conosca i mille vincoli spirituali che lo legavano all’Italia»95. Pellizzi ama poi dello studioso americano il carattere eterodosso delle tesi, tali da renderlo «a Dio spiacente ed ai nimici sui», come deve essere ogni buon sociologo e realista politico che si rispetti96. È evidente il nuovo ruolo a cui sta già aspirando Pellizzi, e che, tra l’altro, riflette la condizione di outsider da lui vissuta in quegli anni. Dal confronto con Burnham emerge, però, anche un altro aspetto del pensiero politico e sociale pellizziano, già da qualche tempo in via di rielaborazione. Sin dalla premessa alla traduzione della Managerial Revolution, Ibidem. C. PELLIZZI, La «Rivoluzione dei tecnici» venticinque anni dopo, in «Quaderni di scienze sociali», IV, n. 1, aprile 1965, p. 1. 92 Ibidem. 93 Cfr. G. BORGOGNONE, op. cit. 94 C. PELLIZZI, Burnham americano italianizzante, in «L’Ora d’Italia», 27 luglio 1947. 95 Ibidem. 96 Ibidem. 90 91

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Pellizzi muove due obiezioni teoriche di fondo alle tesi burnhamiane, oltre al rimprovero per quella scarsa accortezza metodologica propria di chi si abbandona facilmente alle profezie. In primo luogo, non lo convince per niente la riduzione dell’Inghilterra ad entità perfettamente capitalistica, e perciò destinata a subire lo stesso destino di dissolvimento riservato al capitalismo mondiale. Tanto meno lo convince l’assimilazione delle socialdemocrazie europee ai sistemi capitalistici, perché egli è, al contrario, persuaso che «la politica dei Laburisti, oggi al potere in Inghilterra, rientri perfettamente nel profilo generale della teoria della “rivoluzione dei tecnici”, sia per le statizzazioni ch’essa porta seco all’interno, e sia per i suoi atteggiamenti nei rapporti all’estero»97. Sotto questo primo aspetto, emerge chiaramente la preoccupazione e la sensibilità che Pellizzi ha sempre mostrato nei confronti dei problemi del lavoro, e che diverranno centrali tanto nella teoria quanto nella prassi dello studioso e docente di sociologia98. In secondo luogo, di fronte al marxismo un po’ elementare di Burnham il suo traduttore italiano sottolinea la necessità di considerare il ruolo autonomo che la società civile, e gli individui che in essa operano, possono svolgere rispetto allo Stato e alla classe politica. La formazione marxista dello studioso americano «lo porta, involontariamente, a non tenere conto abbastanza dei fatti psicologici, o morali come anche vengono detti, in confronto a quelli funzionali ed economici, che fanno centro nel “controllo” dei grandi mezzi di produzione»99. Ciò che Burnham non pare tenere presente, e che invece è convinzione ormai forte in Pellizzi, è il ruolo attivo e indipendente «delle mille forze particolari, estravaganti, che operano nella vita sociale e nella stessa attività economica»; in altre parole, «di quell’immensa somma di energie e di imprevedibili sviluppi che nascono dalla concorrenza e dalla lotta, o, più semplicemente, dal libero formarsi ed agire dei singoli e dei gruppi»100. Leggendo queste affermazioni sorge quasi spontaneo domandarsi se tra le letture di quegli anni ci fosse stata anche quella dell’economista austriaco (trasferitosi in Inghilterra nel 1931) Friedrich A. von Hayek, divenuto un best-seller grazie al libro The Road to Serfdom. Edito nel 1944, il volume ebbe subito un grande successo in terra inglese, e di lì a poco anche negli Stati Uniti101. 97 ID., Premessa alla traduzione italiana, cit., p. 13. 98 Una conferma in tal senso ci è venuta da quanto

cortesemente riferitoci da Luigi Lotti (testimonianza all’autore, 5 dicembre 2002). 99 C. PELLIZZI, Premessa alla traduzione italiana, cit., p. 13. 100 Ibidem. 101 Cfr. F.A. VON HAYEK, La via della schiavitù, Rusconi, Milano 1995, pp. 13-17.

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Il fatto che Pellizzi abbia recensito il libro in un lungo articolo, addirittura due anni prima della sua edizione italiana, peraltro da lui fortemente caldeggiata102, testimonia di un interesse probabilmente dettato da un volume che ancora dopo due anni «suscita echi vasti in tutto il mondo anglosassone»103. Da qui a stabilire un’influenza diretta del liberalismo di Hayek sul pensiero politico di Pellizzi ce ne corre. Le sottolineature pellizziane circa l’importanza e la fecondità del contributo di una società civile se messa nelle condizioni di esplicarsi liberamente sono solo in parte coincidenti con la tesi hayekiana dell’«ordine spontaneo» che si autogenera e si autoregola104. Ma vedremo meglio certe possibili assonanze filosofico-politiche tra i due, esaminando Una rivoluzione mancata. Quel che v’è di certo sono le considerazioni svolte nella recensione scritta per «Cronache», peraltro già pronta nell’autunno del 1945 e pubblicata poi nel febbraio dell’anno successivo105. Dopo aver esposto fedelmente alcuni punti salienti del libro, Pellizzi avanza, tra i molti dubbi che «ci si presentano di fronte alla mente»106, due obiezioni di fondo alle tesi sostenute dall’economista austriaco. Innanzitutto, egli non condivide le motivazioni con cui Hayek confuta l’idea, di matrice socialista ma sempre più diffusa e condivisa, di una inevitabilità della pianificazione107. L’economista austriaco sostiene che il declino della concorrenza e lo sviluppo dei monopoli non sono l’esito necessario degli sviluppi tecnologici che trasformano radicalmente l’assetto socio-economico di tipo capitalistico, un po’ in tutto il mondo. Sono semmai la conseguenza dell’avvento e diffusione di alcune idee e pratiche politiche ed economiche, segnatamente socialiste, irradiatesi soprattutto dalla Germania di fine Ottocento108. Secondo Pelliz102 G. FERRARI (pseudonimo di Pellizzi), Anche la libertà ha il suo prezzo. La via della servitù di F.A. Hayek, in «Cronache», 2 febbraio 1946. La prima edizione italiana comparve nel 1948 per Rizzoli col titolo Verso la schiavitù. 103 Ibidem. 104 Cfr. F. A. VON HAYEK, Legge, legislazione e libertà (1973-1976), Il Saggiatore, Milano 1986. 105 Cfr. Lamberto Sechi a C.P., 20 novembre 1945, in ACP, b. 36, f. 50. 106 C. PELLIZZI, Anche la libertà ha il suo prezzo..., cit. 107 Cfr. F.A. VON HAYEK, La via della schiavitù, cit., cap. 4 (L’«inevitabilità» della pianificazione), pp. 91-105. 108 «Quantunque la portata del fenomeno venga spesso esagerata a dismisura, non si nega, ovviamente, il fatto storico del progressivo sviluppo dei monopoli durante gli ultimi cinquant’anni e la crescente restrizione degli ambiti dominati dalla concorrenza. La questione centrale è, piuttosto, un’altra, è quella di vedere se questo sviluppo è una conseguenza necessaria dei progressi tecnologici o se esso, invece, sia il risultato delle politiche perse-

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zi, invece, la «generale malattia protezionistica» è probabilmente dovuta «almeno in parte, a circostanze di natura strettamente economica»109. Sotto questo profilo, la lettura di Burnham si fa probabilmente sentire. La seconda obiezione ha a che fare, invece, con un postulato fondamentale della teoria hayekiana e, più in generale, dell’intera Scuola austriaca di scienze economiche e sociali (Menger, Mises, Hayek)110. Si tratta del significato e del ruolo attribuiti ai prezzi, considerati da Mises come da Hayek i soli autentici indicatori non solo del valore delle cose ma anche dei bisogni (non solo materiali) delle persone. Soltanto i prezzi espressi in moneta e formatisi nell’ambito del libero gioco di mercato possono consentire una valutazione esatta «di ciò che – scrive Pellizzi, interpretando il pensiero hayekiano – la gente veramente vuole o vorrebbe, di ciò cui una data società aspira per il proprio benessere morale e materiale»111. È questa pretesa che non persuade il recensore italiano, critico nei confronti di un liberismo che ritiene la libera concorrenza in un libero mercato capace di autoregolarsi fino al punto di soddisfare le esigenze della stragrande maggioranza dei soggetti che su quel mercato operano. Chi rimanesse escluso dal processo distributivo avrebbe, sempre e comunque, la certezza di un possibile riscatto, cioè di una mobilità sociale garantita dal permanere di una concorrenza non inquadrata od eterodiretta. Nel libro in questione, Hayek tiene a precisare che «la pianificazione contro la quale si rivolge la nostra critica è solo la pianificazione contro la concorrenza»112. È l’ideale, l’esigenza della giustizia sociale che anima le preoccupazioni e le obiezioni dell’ex fascista “di sinistra” Camillo Pellizzi113. Il passo che segue non potrebbe essere più eloquente: guite nella maggior parte dei Paesi. Vedremo subito appresso che la storia effettiva di questa evoluzione suggerisce con forza la seconda soluzione» (ivi, p. 92). Non si tratta solo di azioni politiche ma anche di teorie politiche: «La tendenza verso i monopoli e la pianificazione non è il risultato di “fatti oggettivi” al di fuori del nostro controllo, essa è invece il prodotto di idee alimentate e propagate per mezzo secolo fino a giungere al punto di dominare tutta la nostra politica» (ivi, p. 91). 109 C. PELLIZZI, Anche la libertà ha il suo prezzo..., cit. 110 Cfr. L. VON MISES, Il calcolo economico nello Stato socialista, in F.A. VON HAYEK (a cura di), Pianificazione economica collettivistica, Einaudi, Torino 1946; ID., Socialismo (1922), Rusconi, Milano 1990. Sulla “Scuola austriaca” si vedano: R. CUBEDDU, Il liberalismo della scuola austriaca, Morano, Napoli 1992; L. INFANTINO, L’ordine senza piano. Le ragioni dell’individualismo metodologico, La Nuova Italia, Firenze 1995; V. OTTONELLI, L’ordine senza volontà. Il liberalismo di Hayek, Giappichelli, Torino 1995. 111 C. PELLIZZI, Anche la libertà ha il suo prezzo..., cit. 112 F. VON HAYEK, La via della schiavitù, cit. 113 Cfr. S. LANARO, Appunti sul fascismo “di sinistra”. La dottrina corporativa di Ugo Spirito, in «Belfagor», XXVI, settembre 1971, pp. 577-599. Sulle tesi di Lanaro si vedano

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In una società in cui pochi uomini consumino mille cose inutili, e la maggioranza sia invece nella impossibilità materiale, e in definitiva anche mentale, di uscir da una stretta gamma di bisogni e di aspirazioni, che senso avrà dire che i prezzi vi rispecchiano nel modo migliore le libere scelte di consumo della totalità degli umani? Se il civilissimo cinese si adatta anche ai mestieri più vili per poter fare da servitore a un padrone europeo, così come oggi fa il nostro sciuscià di Napoli e di Roma col soldato americano, è lecito dire che il derivante “quadro dei prezzi” rispecchia le migliori e più giuste aspirazioni degli uomini? L’aspirazione verso un ordine giuridico e politico che diminuisca le disuguaglianze fra le fortune degli uomini, rendendole per lo meno più rispondenti ai sempre diversi meriti e valori dei singoli individui, non è eliminabile dal cuore dell’uomo, ed è destinata a farsi sentire tanto più fortemente in tempi come i nostri, in cui le complessità della vita hanno fatto sì che il benessere di ciascuno dipenda in tanti modi dalla buona volontà e dalla collaborazione di tanti altri114.

Un articolo del 1947, scritto stavolta con il proprio nome e pubblicato su «Il Globo», esplicita ulteriormente la posizione tenuta da Pellizzi nei confronti del liberalismo. Commentando il discorso tenuto dall’onorevole Giovanni Cassandro, esponente del Partito liberale italiano115, in occasione del Congresso liberale di Oxford, Pellizzi contesta la validità della teoria dello “Stato minimo”, cioè di uno Stato confinato al ruolo di garante della pubblica sicurezza e, con essa, del libero svolgimento dell’iniziativa individuale116. Anche in questo articolo motivo di dissenso è la «fede liberale nelle funzioni del mercato, questa grande urna dove ogni cittadino mette una scheda ogni volta che offre denaro per un acquisto, oppure offre il suo lavoro in cambio di denaro»117. Il fatto che «le ultime formulazioni del pensiero liberale» riconoscano la necessità di un intervento statale volto a «garantire la libertà di questa elezione economica, che avviene si può dire ad ogni istante e da parte di tutti, nonché l’incolumità delle urne» rivela le contraddizioni interne ad una tale tradizione di pensiero118. le osservazioni di G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, il Mulino, Bologna 2000, pp. 14-24. Quest’ultimo libro si propone di ridiscutere la categoria storiografica di “fascismo di sinistra”, individuando in un filone di sinistra “nazionale”, caratteristico della storia politica e culturale dell’Italia unitaria, le radici di un certo modo di intendere il fascismo, specie nell’ambiente sindacalista. 114 C. PELLIZZI, art. cit. 115 Su Cassandro si veda la voce relativa nel Chi è? Dizionario biografico degli italiani d’oggi, Filippo Scarano Editore, Roma 1961, p. 149. 116 C. PELLIZZI, Programmi in guerra, in «Il Globo», 20 aprile 1947. 117 Ibidem. 118 Ibidem. Il corsivo è nel testo.

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La prima contraddizione sta nella simultanea richiesta, da un lato, del “polso di ferro”, cioè di un intervento cautelativo e/o correttivo dello Stato sul mercato, e sulla società più in generale, e, dall’altro, di un limite, in intensità e durata, di tale intervento. «E chi può dare la durezza necessaria a quel polso?», si chiede Pellizzi, contrapponendo alla teoria quella che è la prassi dominante nella vita economica e politica del suo tempo. Ci sono degli industriali, in Italia, che fino a due mesi addietro gridavano libertà (perché vendevano a ottimo prezzo i loro prodotti sul mercato estero); ma oggi, poiché il mercato estero li batte sui loro prezzi, non chiedono più libertà, ma ricominciano a parlare di protezione. [...] Il polso di ferro dovrebbe impedire i monopoli delle imprese come il monopolio sindacale (e politico) del lavoro. Ma in tempi di penuria le inadeguate imprese esistenti hanno un monopolio quasi automatico: il consumatore continua a gettar voti nell’urna, ma l’esito della perpetua elezione economica non dipende da lui: dipende quasi del tutto da coloro che controllano le scarse valvole della produzione. D’altro lato, in tempi di produzione esuberante, secondo un’esperienza già fatta, le imprese tendono a fallire, producendo quell’ingorgo che determina anch’esso anemia del sistema sociale, sebbene per ragioni inverse. Insomma, lo stato deve intervenire quando c’è penuria, deve intervenire quando c’è abbondanza: ma quando è che non deve intervenire? Quando la situazione, spontaneamente e per circostanze fortunate, è equilibrata in modo perfetto, senza pericolo di squilibri imminenti?

E qui si manifesta la seconda contraddizione, la più profonda, della teoria politica liberale: «il sistema libero, o dell’economia di mercato, è l’optimum delle situazioni economicamente sane». Ma è come dire che il liberalismo economico è anzitutto utopico o, ancor peggio, astratto, avulso dalla «concreta realtà umana e sociale», la quale «è intrinsecamente, dannatamente “intervenzionistica”», poiché «ognuno di noi interviene ad ogni momento e in ogni occasione, nella vita propria e altrui; quasi nessuno, e quasi mai, ha la virtù di lasciarsi vivere e di lasciar vivere». Ma soprattutto, ciò che indebolisce la teoria liberale è la sua ovvietà, insita nel fatto che descrive un dover essere, un ideale di per sé condivisibile ma perseguibile solo tramite politiche economiche e sociali non liberali o, meglio, non liberiste. Sembra infatti naturale che lo stato non intervenga quando tutto va a meraviglia da sé: perché dovrebbe intervenire? Solo un pazzo chiamerebbe il dottore, quando la sua salute è eccellente. Ma quando è che una situazione economica è sana? E poi, sana per chi? [...] Comunque definita una situazione economica sana, troverete vaste categorie per cui invece essa è malsana. [...] Ma questo non toglie che ogni buon medico e ogni buon educatore vi consiglino sempre di lasciar fare alla natura, di non prendere medicine quando la

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vostra salute è appena appena decente, di non impicciarvi troppo degli altri, di lasciare che ogni personalità si sviluppi, al massimo grado, per proprio conto e senza subire l’influsso altrui. [...] Se nessuno mai ci ricordasse quello che dovremmo essere, finiremmo ad essere ancor peggio di quello che siamo. E sta bene; ma frattanto non dobbiamo dimenticare mai quello che siamo, e fummo, e probabilmente saremo: ossia quelle creature impiccione e tutt’altro che ascetiche, portate sempre a chiedere a noi stessi, e alla società, qualcosa di più di quello che siamo disposti a dare. O qualcosa di diverso, che viene al medesimo.

In altri termini, ciò che costituiva il principale obiettivo polemico del libro di Hayek è vigorosamente riaffermato nella sua validità da Pellizzi: la necessità della pianificazione. E i “piani” e i “programmi” hanno questa maledizione, che, se non li facciamo noi, per noi stessi, e per gli altri, c’è tutta la probabilità che li faranno gli altri, per se stessi e per noi. La vita, e specie la vita sociale, è una continua “guerra di programmi”; lo stato, di volta in volta, è la consacrazione di un programma sociale vincente. Quando non è questo, non è nemmeno uno stato.

Per usare una distinzione teorico-politica eminentemente italiana (contestata, fra gli altri, dallo stesso Hayek119), l’antiliberismo pellizziano è quindi assodato, almeno per il periodo post-bellico, mentre meno chiaro è il rapporto con il liberalismo120. Di sicuro, forte ed esplicito è il richiamo all’ideale della libertà e ben presente l’esigenza di dare forma e spazio alle libertà al plurale, e quindi ai singoli soggetti operanti nelle complesse società della modernità iper-industriale. L’articolo su Hayek viene pubblicato dal settimanale bolognese «Cronache», diretto da Enzo Biagi. Tra i redattori figurano Lamberto Sechi e Giorgio Vecchietti, ex condirettore assieme a Bottai della rivista «Primato». È proprio Vecchietti a contattare Pellizzi nell’agosto del 1945 per Per avere un’idea del liberalismo hayekiano, cfr. F.A. VON HAYEK, Liberalismo, prefazione di Lorenzo Infantino, Ideazione, Roma 1996. 120 Sulla distinzione italiana tra liberalismo e liberismo si veda il confronto tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi, risalente agli anni Trenta, ora in B. CROCE-L. EINAUDI, Liberismo e liberalismo, intr. di Giovanni Malagodi, Ricciardi, Milano-Napoli 1988. Per una recente riflessione sul tema, cfr. A. ZANFARINO, Culture politiche, Cedam, Padova 1999, pp. 62-65. A dimostrazione di come Pellizzi faccia propria questa distinzione, si veda ad esempio l’articolo firmato con lo pseudonimo Callicle, intitolato Si scandalizzano e pubblicato nella rubrica Eresie del settimanale «Cronache» il 22 dicembre 1945, in cui è scritto: «E proprio a questi signori [gli Alleati, ndr.], che sono i campioni mondiali del liberismo economico e del liberalismo politico, dovremo insegnare noi che ogni mercato ha le sue “ferree” leggi, che i prezzi vanno alle stelle quando la roba scarseggia al bisogno?». 119

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proporgli la collaborazione a questo nuovo settimanale che sarebbe uscito a partire dal settembre successivo121. Gli viene chiesto, prima di tutto, di contribuire alla rubrica intitolata Eresie, il cui contenuto dovrebbe essere, nelle intenzioni di Vecchietti, «un commento informativo e critico insieme all’avvenimento, all’uomo, all’idea di eccezione, italiana o non italiana»122. Quella a «Cronache» risulta una delle collaborazioni più assidue e meno vincolate da censure, piccole e grandi, tra le numerose che Pellizzi intrattiene nei primissimi anni del dopoguerra. Tra i molti scrittori tradotti da Pellizzi in quegli anni, compare per ben tre volte anche il nome di un filosofo con la passione e il talento dello scrittore, Bertrand Russell (che, non a caso, sarà insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1950). Le traduzioni di Socialismo, anarchismo, sindacalismo e di Autorità e individuo sono rispettivamente del 1946 e del 1949, mentre quella de La conoscenza umana è del 1951. Tutte e tre appaiono per i tipi di Longanesi123. Leggendo i testi di Russell, tradotti da Pellizzi, e in particolare i primi due, si può sostenere che il minimo comune denominatore è dato dalla ricerca di una società in cui la libertà dell’individuo sia promossa senza che ciò vada a scapito della tenuta del legame sociale124. La ricerca di una “società libera” è ciò che accomuna le riflessioni di autori, per tanti aspetti diversi, come quelli che abbiamo citato e che sono oggetto dell’attenzione del professore epurato: Hayek e Russell. La libertà è la parola chiave, diremmo quasi la parola d’ordine, di questi autori, compreso Wilhelm Röpke, studioso di cui circolano numerose traduzioni italiane in quei primi anni del dopoguerra e ben noto a Pellizzi che lo menziona in più d’una occasione. E la libertà è il tema che emerge con sempre maggior forza nella vita e nel pensiero di Pellizzi, nel corso di tutti gli anni Quaranta. 121 G. VECCHIETTI a C.P., 31 agosto 1945, in ACP, b. 36, f. 50. Tra i collaboratori figura anche Felice Chilanti. 122 Ibidem. 123 Ristampati più volte, noi ci siamo avvalsi delle seguenti edizioni, più recenti: B. RUSSELL, Roads to Freedom: Socialism, Anarchism and Syndicalism (1918), trad. it, Longanesi, Milano 1970; ID., Authority and the Indivual (1949), trad. it.,Tea, Milano 1997; ID., Human Knowledge: Its Scope and Limits (1948), trad. it., Longanesi, Milano 19753. 124 Bertrand Russell inizia con le seguenti parole la prima delle sue conferenze tenute alla BBC (le celebri Reith Lectures), poi pubblicate in volume col titolo Authority and the Individual: «Il problema fondamentale che mi propongo di esaminare in queste conferenze è il seguente: come possiamo unire fra loro quel grado di iniziativa individuale che è necessario al progresso e quel grado di coesione sociale che è necessario perché la nostra società sopravviva?» (Autorità e individuo, cit., p. 5).

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Sotto il profilo più strettamente politico e partitico, l’ex fascista trova consonanze e affinità ideali presso ambienti liberali. Se il mondo politico e intellettuale gravitante attorno alla Democrazia cristiana (anche su posizioni parzialmente autonome, come nel caso di Sturzo) rappresenta per Pellizzi un’occasione per evitare un’emarginazione integrale, consentendogli peraltro di accreditarsi come sociologo, è presso altri ambienti che egli riscuote maggiore consenso. Questi ambienti sono espressione di un liberalismo moderato o di una socialdemocrazia anche avanzata, ma sempre rigorosamente anticomunista. In non pochi casi, va detto, sono gli altri a cercarlo, proponendogli collaborazioni che possano rendere lustro alla testata. Curiosa e sintomatica una lettera di Cesare Cantoni, agricoltore di Mantova, responsabile provinciale del Partito liberale italiano, il quale nel luglio del 1946 si presenta a Pellizzi come un antifascista, «avendo sempre fatto professione di liberalismo con conseguenze non molto piacevoli», il quale è stato ed è «tuttavia un suo ammiratore»125. Intenzionato a dare vita, con il sostegno della locale Associazione degli Agricoltori, ad un giornale che si contrapponga all’organo del C.L.N., «Mantova libera», Cantoni propone all’ex fascista una collaborazione al nascituro quotidiano. In un secondo tempo, gli propone addirittura la direzione. Per quel che riguarda la prima proposta Pellizzi accetta, alla seconda non dà risposta, anche perché il giornale stenta a prendere l’avvio126. Dalla seconda lettera scritta a Pellizzi, si deduce come questi si definisca, in quel torno di tempo che va grosso modo dal 1943 al 1949, un «inviso a tutti politicamente»127. Se questo accade sul versante liberale, non dissimile è il “corteggiamento” ricevuto da Pellizzi in ambienti democristiani. Mario Melloni, direttore de «Il Popolo», propone e ottiene una collaborazione. In questo caso, è interessante notare il grado di distanza esistente tra Pellizzi e le posizioni espresse dall’organo dell’allora partito di maggioranza relativa. Soprattutto, emergono le difficoltà di gestire la penna di un vero e proprio “battitore libero”, che non può né vuole stemperare od occultare troppo i propri giudizi sulla politica estera come su quella interna128. Finché PellizC. CANTONI a C.P., 10 luglio 1946, in ACP, b. 36, f. 51. C. CANTONI a C.P., 21 luglio 1946, ibidem. 127 Ibidem. Scrive, infatti, Cantoni: «Caro professore, inviso a tutti politicamente? Bene, è la posizione naturale dei galantuomini alieni dai carnevali elettoralistici di politicanti vuoti ed ambiziosi». 128 Cfr. M. Melloni a C.P., 3 settembre 1946, in ACP, b. 36, f. 51. Scrive Melloni: «La ringrazio assai di essersi ricordato della Sua promessa di collaborazione alla quale, come Le 125 126

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zi si esercita nel tradizionale articolo di terza pagina, di taglio genericamente culturale e letterario, è ben accetto e anzi molto richiesto, quando invece si cimenta nella polemica o anche nella più contenuta analisi politica scatta sovente nei suoi confronti la reprimenda, e la conseguente censura129. In una di queste occasioni, che stavolta ha per protagonista il direttore de «Il Tempo di Milano», Renzo Segàla, Pellizzi sbotta amareggiato: «Io dovrò stare attento a non far capire quella che è la realtà, ossia che siamo tornati alla fase delle lotte fra i papi e i despoti barbarici»130. Sono quindi altre le testate presso cui poter esprimere liberamente il proprio pensiero. Fino ad un certo punto, almeno, dato che abbondano dissi, tengo molto. Ho letto il pezzo che mi ha mandato, molto interessante e di avvincentissima lettura. Lo pubblicherei senz’altro se non vi fossi trattenuto dal dubbio che non convenga in questo momento, soprattutto ad un giornale come il nostro notoriamente vicino al Ministro degli Esteri, pubblicare un pezzo antirusso. La nostra polemica con i comunisti, è cosa di ogni giorno; ma quando si tratta della Russia io preferisco andare molto cauto preoccupato di non procurare grane, sia pure minime, al Ministero degli Esteri che in questo momento sta sudando sette camicie a Parigi». Su Melloni, esponente DC nel CLNAI e deputato nelle prime due legislature repubblicane, si veda Chi è? Dizionario biografico degli italiani di oggi, cit., p. 432 e Il Parlamento Italiano (1861-1988), vol. XVII (1954-1958), Nuova CEI, Milano 1991, pp. 450-452. 129 Cfr. M. Melloni a C.P., cit.: «Spero che Ella comprenderà questo mio scrupolo e vorrà mandarmi presto altri pezzi per la terza pagina, per i quali può liberamente scegliere l’argomento, avuto riguardo naturalmente al carattere dichiaratamente cristiano che contraddistingue il nostro giornale. Benissimo, per esempio, il pezzo su Wells». Si legga anche la lettera sempre di Melloni a C.P. del 1º ottobre 1946, in ACP, b. 36, f. 51. Vi si legge, fra l’altro: «Sento ora che Ella ha pronto un altro pezzo per il “Popolo”. Le confesso che l’argomento è pericoloso, appunto dato il carattere del nostro giornale, che rende difficilissimo per certe materie azzeccare il tono giusto. Ma perché Lei che sa tante cose del mondo inglese, non mi scrive qualche bel pezzo vivace di costume su quel popolo, sui suoi gusti, sulle sue abitudini, sul suo carattere, ecc.?». 130 C.P. a R. Segàla, 19 giugno 1948, in ACP, b. 36, f. 53. Si veda quanto Segàla scrive a Pellizzi nel maggio 1948, poco dopo le elezioni del 18 aprile: «I Suoi articoli [...] piacciono molto al pubblico e io personalmente sono lietissimo di annoverarLa tra i collaboratori del giornale. [...] Con altrettanta franchezza devo però dirLe che le tesi politiche ch’Ella sostiene non coincidono in tutto con le nostre, in quanto, come avrà visto dal giornale, noi abbiamo sostenuto durante la campagna elettorale la Democrazia Cristiana e, benché s’intenda mantenere, nei riguardi della stessa, la più ampia libertà di giudizio e di critica, non possiamo ora avanzare tutti i sottili “distinguo” contenuti nel Suo articolo. Devo fare analoga riserva anche per la conclusione cui Ella giunge, non per una troppo profonda divergenza di idee, ma per ragioni di opportunità dovute alla diversità del “clima” e della prospettiva. [...] Ho piena fiducia che Ella comprenderà lo spirito dei miei rilievi e non me ne verrà se non posso pubblicare, così com’è, il Suo ultimo articolo: ne aspetto però subito un altro».

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in questo periodo gli articoli firmati con pseudonimi, tratti spesso dalla sua vasta cultura letteraria e filosofica (da Macometto a Puck, da Abelardo a Callicle, da Diogene a Gulliver). A partire dal 1947, comunque, cresce progressivamente il numero degli articoli firmati con il proprio nome, segno di un lento ma deciso reinserimento di Pellizzi nel mondo ufficiale del giornalismo e della cultura italiana del secondo dopoguerra. Va però ricordato come l’uso di pseudonimi continuerà anche nei decenni successivi, sia pure sporadicamente, e stavolta sarà più per vezzo che per opportunità o necessità politica e professionale. 4. Una rivoluzione mancata, un bilancio compiuto Mentre prosegue il graduale reinserimento nel mondo della cultura ufficiale e dell’accademia, Pellizzi medita sul recente passato, sulla propria esperienza politica e umana inevitabilmente intrecciata con la più generale esperienza politica e umana della società italiana. Il fascismo è il nodo irrisolto della nascente repubblica italiana, poiché inevitabilmente i conti con l’eredità del regime recentemente crollato non possono essere saldati in modo definitivo con un’epurazione di massa, soprattutto sotto il profilo del coinvolgimento psicologico e ideologico e delle responsabilità morali della popolazione italiana durante il ventennio. Se il problema di “fare i conti” con il fascismo non può essere del tutto evitato da chi si dichiara apertamente antifascista, e può vantare un passato di militanza e lotta in tal senso nel corso dei vent’anni precedenti, figurarsi il grado di coinvolgimento emotivo ed ideologico per chi quell’esperienza ha compiuto con convinzione e ora rivendica con orgoglio, o quantomeno non rinnega interamente né tantomeno rimuove ed occulta. Eppure, tra gli esponenti del mondo neofascista dell’immediato secondo dopoguerra il coinvolgimento emotivo e ideale con il cosiddetto “fascismo-regime” è tutto sommato limitato. Come è stato recentemente osservato, «nella prima fase del neofascismo, il legame con il regime fu assai labile, a causa delle polemiche che la Rsi aveva condotto nei confronti del periodo 1922-43. Per questo motivo, e anche perché il neofascismo era naturalmente costituito dai reduci di Salò, il vero punto di riferimento della maggior parte dei neofascisti della prima ora fu proprio l’ultima esperienza repubblicana»131. 131 G. PARLATO, La sinistra fascista, cit., p. 323. Sul forte legame identitario del MSI con l’esperienza di Salò, vedi anche M. TARCHI, Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubbli-

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All’indomani dell’aprile 1945 si diffonde pertanto una memorialistica che del fascismo rievoca in particolare i seicento giorni di Salò. Nonostante questo, non mancano diari, romanzi o resoconti in cui alcuni protagonisti, per lo più di secondo piano, del regime mussoliniano rievocano momenti e aspetti della vita politica, sociale e culturale degli anni Venti e Trenta. È soprattutto quest’ultimo decennio ad essere oggetto di ricordi e ricostruzioni. Si pensi al volume di Ruggero Zangrandi Il lungo viaggio che, come recita il sottotitolo, intende essere nel 1947, anno della sua prima edizione, un Contributo alla storia di una generazione132. In questo contesto, Pellizzi dà alle stampe alla fine del 1948 (uscirà all’inizio del 1949) un volume che si discosta in modo netto dai precedenti sia per il contenuto che per il taglio dell’analisi. Quanto al contenuto, il libro affronta l’intera vicenda fascista partendo dalle sue origini. Per quel che riguarda il taglio dell’analisi, non siamo di fronte all’ennesimo resoconto diaristico o memorialistico di un protagonista (in questo caso, di primo piano) del ventennio fascista133. Sia pure nei limiti che può avere, in termini di distacco scientifico, un libro scritto da un protagonista delle vicende politiche e culturali narrate, Una rivoluzione mancata presenta lo sforzo di una ricostruzione storiografica del fascismo seria e pacata che difetta in gran parte delle analisi prodotte nell’immediato secondo dopoguerra e che è praticamente assente nella pubblicistica neofascista134. Pelcana, Guanda, Parma 1995 e ID., Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, intervista di Antonio Carioti, Rizzoli, Milano 1995, passim. 132 R. ZANGRANDI, Il lungo viaggio. Contributo alla storia di un generazione, Einaudi, Torino 1947. Il libro, riveduto ed ampliato, uscirà in nuova edizione nel 1962 (Feltrinelli, Milano) con il titolo Il lungo viaggio attraverso il fascismo ed avrà in seguito numerose ristampe. Nell’Avvertenza alla nuova edizione, Zangrandi scrive: «Questo libro è apparso, in una più stringata stesura, pubblicato da Einaudi alla fine del 1947. Ebbe buona accoglienza e un certo successo di pubblico. Ma, già nel 1948, divenne introvabile». Sul ruolo svolto dal libro nella storiografia e nella cultura politica italiana del secondo dopoguerra, cfr. G. BELARDELLI, L. CAFAGNA, E. GALLI DELLA LOGGIA, G. SABBATUCCI, Miti e storia dell’Italia unita, il Mulino, Bologna 1999, pp. 143-148. Difesa di una generazione è invece il titolo di un libro di Gastone Silvano Spinetti pubblicato nel 1948 (Oet Edizioni Polilibraria, Roma). 133 Coevo al volume pellizziano è G. BOTTAI, Vent’anni e un giorno, Garzanti, Milano 1949. 134 Su questo specifico tema, cfr. F. GERMINARIO, L’altra memoria. L’Estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1999, e in particolare l’Introduzione dall’eloquente titolo Della difficoltà neofascista di fare storiografia (pp. 7-31). Per una panoramica sulla pubblicistica della destra missina nei primi anni della sua esistenza, si veda A. BALDONI, La Destra in Italia (1945-1969), Editoriale Pantheon, Roma 20002, in part. pp 100-135. Del libro di Pellizzi, Giovanni Bechelloni dirà: «forse l’opera sua più ricca dal punto di vista

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lizzi è ben consapevole del rischio di inficiare il proprio giudizio di fatto con un giudizio di valore non necessariamente positivo o assolutorio, ma comunque “inquinante” un resoconto che, nelle sue intenzioni, dovrebbe essere il più possibile veridico sul piano storico. A tale riguardo il passo che segue risulta «illuminante»135, per capire sia l’uomo che lo studioso, ma anche la personale modalità scelta per “fare i conti” con il proprio recente passato e, nei limiti del possibile, “superarlo”: Bisogna aver vissuto tutto il fascismo, e averlo fatto a pezzi tutto quanto, dentro di sé, per accorgersi che proprio in mezzo a quella grande rovina, e forse non altrove, si può ritrovare nell’epoca nostra un criterio di orientamento136.

«La rivoluzione mancata di cui si parla in queste pagine non è senz’altro quella del fascismo italiano nel suo complesso»: queste sono le parole che aprono la Premessa al libro. Con esse Pellizzi intende essenzialmente due cose: in primo luogo, operare una distinzione all’interno del regime, sia in termini di uomini sia di istituti, separando ciò che era valido e innovativo da quanto di caduco e nocivo, persino “pericoloso” e “orrendo”, in esso si era annidato; in secondo luogo, scrivere, «più che una storia di fatti, [...] un abbozzo della storia di certe idee politiche e loro sistemi, attraverso una fase di sperimentazioni che rimase embrionale»137. Se queste sono le intenzioni di fondo che animano il libro, è ovvio che il coinvolgimento diretto del suo autore nelle vicende narrate non esclude che «queste pagine potranno avere anche il significato di un esame di coscienza e di una confessione»138. Resta comunque il fatto che Una rivoluzione mancata ambisce ad essere una riconsiderazione critica del fascismo, e dell’esperimento corporativo in particolare, alla luce di un fenomeno di trasformazione sociale, politica ed economica più vasta corrispondente nelle sue linee essenziali a quella managerializzazione del mondo occidentale diagnosticata da James Burnham. Di tale analisi, Pellizzi si serve ampiamente per definire il condella sociologia sostantiva – colma com’è di osservazioni illuminanti e di interpretazioni perspicue sulle forze e sugli intendimenti profondi e nascosti che animarono un periodo non breve della nostra storia» (Camillo Pellizzi: ricordo scomodo di un outsider, cit., p. 549). 135 G. BECHELLONI, art. cit., p. 549. 136 C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, Longanesi, Milano 1949, p. 138. Per le idee e le immagini evocate e lo stile in cui sono espresse, la frase ricorda molto alcune pagine nietzscheane. 137 Ivi, p. 9. 138 Ivi, p. 10. I corsivi sono miei.

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testo storico mondiale al cui interno il fascismo risulta, più chiaramente se riconsiderato col senno di poi, una «manifestazione locale»139. Il vero fallimento del regime mussoliniano non sta nell’aver perduto la guerra, bensì nell’aver mancato una rivoluzione che, specialmente nel periodo compreso tra il 1925 e il 1933, avrebbe potuto godere di condizioni piuttosto favorevoli e quindi plausibilmente tradursi in realtà. L’Italia di quegli anni, scrive Pellizzi, «si trovava in una condizione relativamente buona per un esperimento quasi da laboratorio, in un optimum di circostanze interne e internazionali»140. Il regime mussoliniano godeva, infatti, di un esteso «consenso popolare» interno e di un governo forte e autorevole, capace, entro limiti sufficientemente ampi, di prendere decisioni e renderle esecutive ed efficaci141. Ma è qui che si palesa un limite, tanto intrinseco quanto inestirpabile, che è proprio di qualsiasi regime politico, e tanto più di una dittatura personalistica quale di fatto era il fascismo italiano: l’incapacità di gestire l’impopolarità e, nel caso di una tirannia, persino di pensarla. «La popolarità di cui godette il fascismo in Italia, soprattutto in certe sue fasi, fu dovuta in gran parte ai suoi caratteri manageriali, che rispondevano all’esigenza dei tempi, ma in parte anche alla sua stessa “debolezza” come oligarchia di managers»142. A differenza della Russia bolscevica, «dove il solo precedente era quello dell’autocrazia zarista e dell’oligarchia cortigiana e latifondista»143, la tradizione occidentale della libertà, della democrazia e dei diritti individuali era in Italia presente da lungo tempo e storicamente vissuta, sia pure parzialmente, anche in epoche recenti. Da Nicola II a Lenin «il salto era breve: da un’autocrazia all’altra, da un’oligarchia all’altra»; non così per il passaggio da Giolitti a Mussolini, nonostante il diffuso e 139 Ivi, p. 9. Per una rilettura critica delle tesi di Burnham ai fini di un’analisi dell’esperienza fascista, cfr. ivi, pp. 106-130. A tale proposito, è interessante una lettera a Pellizzi in cui un suo amico inglese commenta così il libro: «But in my opinion the spectacle of an ever more powerful bureaucracy in all modern societies is the most serious lesson to be derived from the discussions in your book and Burnham’s. It is not to be doubted in any sense that bureaucracy has a big future» (Matthew Josephson a C.P., 22 marzo 1949, in ACP, b. 36, f. 54). 140 C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., p. 125. Sul fascismo come totalitarismo e cioè «esperimento di dominio politico» e «laboratorio» per la creazione di un uomo e di una società radicalmente rinnovati, cfr. E. GENTILE, Fascismo. Storia e intepretazione, Laterza, Roma-Bari 2002. 141 C. PELLIZZI, op. cit., p. 124. 142 Ivi, pp. 114-115. 143 Ivi, p. 115.

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violento antiparlamentarismo che aveva alimentato «i giovani dei ceti colti»144 nell’immediato primo dopoguerra (è qui evidente, in Pellizzi, il riferimento autobiografico). D’altronde il fascismo aveva perseguito sin dall’inizio due «finalità storiche», condivise da tutti o quasi tutti i suoi seguaci: «una feconda concordia all’interno, e l’affermazione nazionale nel mondo»145. Già in questo duplice obiettivo è facile intravedere l’ambiguità di fondo su cui si reggeva la “formula politica” – l’ideologia – del fascismo. L’espansione verso l’esterno avrebbe richiesto una mobilitazione della società italiana dai ritmi e dalla durata insostenibili per un paese dalla forte tradizione individualistica e persino anarchica, almeno nel senso lato della parola. Del resto, qualsiasi tentativo rivoluzionario compiuto in Europa (per non parlare degli Stati Uniti) deve sempre tenere conto del fatto che «nella struttura morale e psicologica dell’Occidente l’elemento “libertà” rappresenta un fattore oscillante, ma immancabile»146. Siccome ogni rivoluzione, in quanto «brusca e forzosa sostituzione di un sistema nuovo a quello vecchio»147, comporta l’uso sistematico della violenza e l’inquadramento sia dei seguaci che degli oppositori, sia pure per opposti fini, è evidente come essa metta capo alla tirannia. È un «regime dittatorio e totalitario» (com’è lo stesso fascismo)148 la forma di governo cui ineluttabilmente approda la rivoluzione, di qualunque segno politico e ideologico essa sia. Per non incrinare il consenso di cui godeva, Mussolini ha pensato bene di dare vita a quello che potremmo chiamare, con una più recente formula storiografica, «compromesso autoritario» tra la vecchia e la nuova classe dirigente della penisola149. Quindi, il duce frenò in più occasioni per impedire una radicalizzazione dell’impatto del fascismo nell’economia come, più in generale, nella società italiana. Di qui, ad esempio, l’accordo, sia pure mai pacifico né particolarmente solido, con la classe capitalista. Pellizzi resta in ogni caso convinto che l’analisi del sociologo, quale Burnham viene considerato in queste pagine, debba essere integrata con quella dello storico, capace di cogliere le continuità nelle discontinuità, Ivi, p. 18. Ivi, p. 46. Il corsivo è nel testo. 146 Ivi, p. 115. 147 Ibidem. 148 Ivi, p. 72. 149 Cfr. M. LEGNANI, Sistema di potere fascista, blocco dominante, alleanze sociali. Contributo a una discussione, in AA.VV., Il regime fascista. Storia e storiografia, a cura di Angelo Del Boca, Massimo Legnani, Mario G. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 414-445. 144 145

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avendo egli «la sensibilità del continuo dentro il mutevole, dell’uno nel molteplice»150. I fatti, descritti da Burnham, e le parole, gli «slogan», cioè le idee e i valori, oltre alle ideologie, che esprimono sentimenti e “opinioni” delle persone, anzitutto di quelle che non ricoprono cariche dirigenti, devono essere messi in stretto rapporto per un’analisi teorica che sia feconda per il presente e per l’immediato futuro. La parte propositiva contenuta nel libro cerca di dare risposte alla seguente questione: In sede teorica prima, in sede pratica poi, si tratta di vedere come una società occidentale possa entrare in un ordinamento manageriale senza che si perda il patrimonio di autonomia spirituale e pratica dell’uomo, e anzi colla speranza che esso si accresca151.

In altre parole, si tratta di capire in cosa consista quella “rivoluzione” di cui il fascismo ha costituito un’occasione mancata, soprattutto nel periodo in cui maggiore era l’entusiasmo per il progetto corporativo. È a tale proposito che Pellizzi si confronta sia con le tesi dell’ultimo Gentile, quello che scrive Genesi e struttura della società, uscito postumo nel 1946152, sia con le tesi di colui che è definito il «massimo esponente in sede teorica», «il teorico più lucido e conseguente» del corporativismo fascista, ossia Ugo Spirito153. Centrale nel libro, tanto da ricorrere con impressionante frequenza quasi in ogni capitolo, è il pensiero spiritiano, in particolare l’idea di una società riorganizzata in funzione del lavoro inteso come tecnica, cioè competenza154. Il punto debole della dottrina corporativa fascista, anche nella versione spiritiana, è stato, ad avviso di Pellizzi, lo statalismo, anzi un iperstatalismo sconfinante nella statolatria. L’illusione è pensare che sia lo Stato (da notare come Pellizzi adesso usi piuttosto l’iniziale minuscola, a marcare sia la distanza dal fascismo sia la propria nuova posizione teorica) il motore del progresso sociale e ciò che assicura ordine e prosperità alC. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., p. 114. Ivi, p. 117. 152 G. GENTILE, Genesi e struttura della società, Sansoni, Firenze 1946. 153 C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., pp. 181 e 199. 154 Sulla componente tecnocratica del fascismo spiritiano ci sia consentito rinviare il lettore a D. BRESCHI, Tecnica e rivoluzione. Il fascismo nel pensiero di Ugo Spirito, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito 1997», vol. IX, Luni, Milano 2000, pp. 337-410. Cfr. anche G. PARLATO, Ugo Spirito e il sindacalismo fascista (1932-1942), in AA. VV., Il pensiero di Ugo Spirito, vol. I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1988-1989, pp. 79-120. Per un inquadramento generale dell’intero percorso intellettuale spiritiano, cfr. G. DESSÌ, Ugo Spirito. Filosofia e rivoluzione, Luni, Milano 1999. 150 151

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la società. L’ex fascista non ha dubbi: «lo stato non è che l’insieme più o meno organizzato dei particolarismi, l’abuso divenuto istituto»155. Non può certo essere eliminato o estinto, come invece ritiene l’anarchismo più ingenuo, ma tale proposito non può mancare tra gli ideali-limite che regolano il pensiero e l’azione di qualsiasi promotore del “benessere” sociale. In questo senso, Pellizzi riprende alcuni spunti suggeriti e subito abbandonati dallo stesso Spirito, il quale, in occasione del convegno su “Il piano economico” organizzato dall’INCF, rivede le proprie teorie alla luce della deriva statolatrica cui la pianificazione può facilmente cedere156. Scrive Pellizzi: Uno dei principali problemi della concezione corporativa (e di qualunque società, sempre, ma soprattutto nei tempi in cui viviamo) è quello di salvare dai rigori automatizzanti del piano, non solo Socrate o Cartesio, ma ogni uomo. L’otium che Spirito reclamava per i filosofi è un vero “diritto naturale” dell’uomo in quanto tale, perché è inerente alla natura spirituale dell’uomo: infranta la quale, non si potrà più parlare di umanità157.

Oltre ai ripensamenti spiritiani, il riferimento è alle forti e polemiche obiezioni mosse da Hayek alla programmazione economica in quel libro che Pellizzi aveva recensito qualche anno prima. Tali obiezioni vengono fedelmente esposte, ma subito dopo sostanzialmente respinte negli stessi termini della recensione apparsa nel 1946 su «Cronache». L’altro punto in cui parrebbe esserci un qualche riferimento alla teoria politica e sociale hayekiana (comunque sviluppata soprattutto nei decenni successivi) e a certe idee socialiste e libertarie di Bertrand Russell, ossia riferimenti ad autori letti e tradotti in quegli anni, è l’idea di società. Anzitutto, Pellizzi si definisce «un convinto sostenitore di un sistema pluralistico degli ordinamenti sociali» e il motivo è di chiara impronta liberale, e anarchica, nella misura in cui le due dottrine hanno radici comuni o affini158. Scrive infatti: Qui come in ogni altro campo, vedo nel molteplice la salvezza di quel principio per cui l’uomo è uomo, ossia del principio della libertà. L’unità [...] deve essere alla base della piramide, nella coscienza dell’uomo singolo; l’unità sovrimC. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., p. 217. Il corsivo è mio. Per gli interventi di Spirito al convegno si veda G. MELIS (a cura di), Fascismo e pianificazione, cit., pp. 98-103 e passim. Per un commento, cfr. D. BRESCHI, Tecnica e rivoluzione..., cit., pp. 404-407. 157 C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., pp. 204-205. I corsivi sono nel testo. 158 Ivi, p. 207. Il corsivo è nel testo. 155 156

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posta all’uomo, dagli istituti, non è che limitazione e menomazione dell’umanità sua159.

Pellizzi manifesta in queste pagine una profonda avversione per il potere, cui preferisce di gran lunga l’autorità, intesa come naturale primazia di un individuo sulle cose, e solo in quanto primeggia in un determinato ambito – professionale e non –, mostra cioè «virtù di produrle, effettuarle, farle avanzare»160 tale individuo può esercitare influenza sui suoi simili e di conseguenza ottenere il riconoscimento della propria leadership. Ma tale autorità non è né onnicomprensiva né univoca e nemmeno permanente e immodificabile. Laddove avremo forme di organizzazione “dal basso” si avranno forme di lavoro associato (ma il lavoro, almeno in interiore nomine, è sempre “associato”), nelle quali tutti i partecipanti, per quel che si è detto, saranno auctores, sebbene sia infinitamente vario il grado e il modo dell’autorità di ciascuno. E quando si dice che un ingegnere o architetto “ha autorità” sugli operai, si dovrebbe dire correttamente, invece, che tutti i lavoratori hanno autorità e rispetto su quel lavoro, ma in grado e modo diverso, e che l’autorità dell’architetto è preminente ed è riconosciuta come tale dagli operai161.

Perché ciò avvenga si tratta, in primo luogo, di far sì che la società si esplichi per quello che è, ovvero «un giuoco mobile ed elastico di gerarchie, maturatesi di continuo nel seno di quel complesso umano» che è la società162. I concetti di “benessere” e di “progresso” della società non potranno prescindere dalla “socialità” che in essa si attua, cioè dallo spirito di libera e spontanea integrazione reciproca, in essa, delle personalità umane che ne fanno parte. Onde non vi sarà libertà che non sia anche anelito di maggiore integrazione sociale; e, al tempo stesso, ogni passo compiuto dalla socialità sarà la conquista di una forma più alta e comprensiva di libertà. Ogni libertà, infatti, detrae qualcosa all’umano; ma altrettanto si deve dire di ogni asocialità o antisocialità163.

Questa posizione teorica, non facilmente classificabile secondo le tradizionali categorie politiche, si muove senz’altro tra anarchismo, sindacalismo e liberalismo, con l’aggiunta di un socialismo libertario e antistataliIbidem. Ivi, p. 194. 161 Ibidem. I corsivi sono nel testo. 162 Ivi, p. 182. 163 Ivi, pp. 182-183. 159 160

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sta. Da questa miscela emerge la sua «teoria corporativa anarchica». La società vagheggiata da Pellizzi è corporativa in quanto programmata secondo le esigenze di volta in volta espresse dalle diverse categorie produttive (non solo di beni materiali), per cui il lavoro nella sua più ampia accezione di «fatto spirituale, creazione, gerarchia e libertà, spontaneità, socialità» è criterio che definisce gerarchie «spontanee, non imposte dall’alto» che di continuo si rinnovano164. È anarchica (o di un liberalismo radicale) nella misura in cui rifugge il più possibile dallo Stato, a cui attribuisce un ruolo marginale, comunque secondario rispetto alla società. Lo Stato non deve essere altro che l’insieme di istituti che risultano dal libero svolgimento della vita sociale. Lo “statale” è insomma subordinato al “sociale”, a cui fornisce quel tanto di stabilità e continuità necessarie per garantire il libero dispiegarsi della attività dei singoli e dei gruppi. Interessante a tale riguardo un’osservazione che Augusto Venturi, ex gerarca fascista rifugiatosi in Brasile165, muove al libro che Pellizzi gli ha inviato: Quanto alle mie impressioni conclusive, a lettura terminata, ti dirò che il libro è indubbiamente originale, acuto e, sopra tutto, per dirla con gli americani, “provocative”. Il fatto che si possa non concordare con alcune conclusioni, principalmente in quelle che presuppongono una fede nel gioco “anarchico” di istituti destinati a fini di interesse pubblico, non toglie nulla all’interesse che suscita la tua analisi166.

Il modo migliore per dare un’idea del tipo di società teorizzata da Pellizzi nelle pagine di Una rivoluzione mancata è ricorrere alla metafora del “barrocciaio” usata dallo stesso autore nel brano che qui riportiamo: Non esistono istituti, poteri, leggi, che abbiano un valore positivo indipendentemente da chi li fa vivere, da coloro cui si applicano, dal modo come son fatti vivere e applicati: valgono, in definitiva, come quel sasso che il barrocciaio mette dietro una ruota quando deve fermarsi in salita; e la storia deve muoversi spesso in salita, né il suo moto può essere continuo e uniforme. [...] tutto il problema verte sull’eterno quesito: “chi è il barrocciaio?”167. Ivi, p. 193 e pp. 181-182. I corsivi sono nel testo. Augusto Venturi, iscritto ai Fasci di combattimento sin dal dicembre 1919 fu anche, tra le molteplici cariche ricoperte durante il ventennio fascista, vice-segretario del PNF dal 5 ottobre 1941 al 24 gennaio 1942 nonché presidente dell’Istituto per gli studi corporativi e autarchici e sottosegretario al Ministero delle Corporazioni con Cianetti. Cfr. M. MISSORI, Gerarchie e statuti del P.N.F. Gran consiglio, Direttorio nazionale, Federazioni provinciali: quadri e biografie, Bonacci, Roma 1986, p. 288. 166 A. Venturi a C. P., São Paulo, 8 giugno 1949, in ACP, b. 36, f. 54. 167 C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., p. 186. 164 165

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La «risposta corporativa» a tale domanda è la seguente: “Il barrocciaio” è [...] la società stessa, in quanto si componga di uomini “socialmente liberi”; e la direzione del movimento sarà quella impressa dal giuoco dei fini consapevoli di tale società168.

Ciò che Pellizzi contesta a Hayek è la negazione della programmazione in quanto tale, dal momento che nella misura in cui «una società sia consapevole convivenza di uomini, essa non può non essere programmata»169. Soprattutto è connaturata a qualsiasi società evoluta la convergenza della maggioranza dei suoi membri su alcuni obiettivi di fondo, pena la disgregazione più o meno rapida e lacerante della compagine sociale. Sull’«ordine dei mezzi» ci si può affidare ai singoli competenti di settore, ma sull’«ordine dei mezzi» ciascun membro della società è direttamente coinvolto e il problema maggiore posto dalla teoria politica pellizziana risiede proprio nell’individuazione dei meccanismi istituzionali che consentano una consultazione periodica dei “pianificatori”. Questi decisori sono, in ultima istanza, tutti i cittadini e l’evocata formula dell’«autogoverno» non è sufficiente a chiarire le concrete modalità di realizzazione del «corporativismo anarchico». L’unico dato assolutamente certo è il motivo che porta Pellizzi ad elaborare una simile teoria e a ritenerla più giusta e più efficiente di altre: la natura dell’essere umano. L’uomo possiede una natura molteplice ed una coscienza unitaria [...]. La società deve riprodurre, in qualche modo, lo stesso giuoco del molteplice e dell’uno; deve lasciare molteplici sbocchi alla coscienza e all’iniziativa; deve consentire alternative, luoghi d’asilo, garanzie. [...] Una società, quanto più è corporativa, tanto più sarà multipla e varia nelle sue forme, ordini ed aggregati. Nella famiglia, nella religione, nella cultura, nell’arte, nello sport, negli svaghi, gli uomini formano delle spontanee “società”, o infra-società, che hanno piena ragione e diritto di autonomia. In ogni caso, il fulcro e centro vitale di ogni forma di socialità dovrà trovarsi sempre, non fuori, ma al centro stesso della coscienza del singolo uomo170.

La robusta dose di astrattezza, specie sotto il profilo degli istituti attuativi, della teoria pellizziana della società esposta in Una rivoluziona mancata fa propendere per l’ipotesi che l’autore abbia qui voluto precisare i confini del proprio modello ideale di organizzazione sociale, della proIvi, p. 187. Ivi, p. 211. Il corsivo è nel testo. 170 Ivi, pp. 218-219. 168 169

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pria utopia politica insomma. Non è un caso che certe pagine del libro ricordino le descrizioni di utopisti del XVIII e XIX secolo, in cui la libera espressione della volontà di ciascuno si coniuga con un’autodisciplina interiorizzata grazie ad un piano pedagogico socialmente orientato: L’essenziale è che ogni individuo trovi le possibilità esterne di esprimere in pieno tutto il suo potenziale di autorità (cioè di lavoro), e che l’educazione corrente metta tutti in guardia, fino dall’infanzia, contro i pericoli e i mali di quell’abuso di autorità, che abbiamo chiamato il potere. Questo viene a dire che l’educazione deve coltivare nell’individuo tutti gli istinti collaborativi e sociali, il senso del proprio limite e della disciplina (che è essenzialmente autodisciplina), e la diffidenza verso lo stato171.

Il fascismo avrebbe potuto quantomeno spingere in avanti sulla strada di una siffatta società corporativa, e non soltanto per i potenti strumenti governativi a sua esclusiva disposizione e le condizioni storiche favorevoli. Il fascismo avrebbe potuto (e dovuto, secondo Pellizzi) dare spazio ai suoi «settori più vivi e propulsivi» in cui l’avversione al socialismo non era insensibilità al “problema sociale” né ostilità verso il “proletariato”: era soprattutto “antistatalismo”. Così, negli stessi settori, l’antiliberalismo e l’antidemocraticismo non erano certo aspirazione alla tirannide o insensibilità alle esigenze della persona umana e della civiltà: erano insofferenza (spesso giovanile ed acritica) delle ambagi, degli equivoci e delle ipocrisie elettorali e parlamentari, volontà di rinnovamento e di efficienza così nella politica come nell’amministrazione172.

Ma quest’ordine di motivi e questa categoria di uomini finirono ben presto in minoranza, e il corso degli eventi prese tutt’altra direzione, sostanzialmente a causa delle scelte di colui che del fascismo era stato l’artefice. [...] Mussolini fu spinto al potere, fra l’altro, dall’esigenza di un “governo forte”; poco più tardi egli cominciò invece a parlare dell’esigenza di uno “stato forte”; poi giunse alla formula dello “stato totalitario” (“Tutto nello stato ecc.”). Non erano spostamenti di parole, erano spostamenti di idee [...]. Volere un governo forte è come volere nella propria casa un domestico vigoroso e capace, anziché un uomo inetto, debole, e incoerente; volere uno stato forte, e massime se “totalitario”, significa in ultima analisi volere un padrone che ti faccia marciare a bacchetta in ogni momento della giornata173. Ivi, pp. 198-199. Il corsivo è nel testo. Ivi, pp. 178-179. 173 Ivi, pp. 179-180. I corsivi sono nel testo. 171 172

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Questa è, in sintesi, la rilettura che Pellizzi fa del fascismo, della sua storia suddivisa in precise e consequenziali fasi, e delle ragioni che ne provocarono prima la crisi e poi il crollo definitivo. All’indomani della seconda guerra mondiale, Pellizzi non può essere considerato un neofascista, e gli episodi che confermano una tale affermazione non mancano. Tra il proliferare di riviste che costellano la cosiddetta “galassia neofascista” ve n’è più d’una che corteggia l’ex presidente dell’INCF affinché assicuri la presenza della propria firma. Il verbo corteggiare non è scelto a caso; reiterate e insistenti sono infatti le proposte di collaborazione. Ci prova, ad esempio, Concetto Pettinato, il quale, in una lettera della fine luglio del 1949, annuncia a Pellizzi l’uscita a breve scadenza di «un settimanale politico indipendente» dal titolo «Il Nazionale». All’invito a collaborare il diretto interessato probabilmente risponde in modo vago, senza prendere impegni. Non possediamo la lettera di risposta, ma in una nota manoscritta, posta – secondo una sua consuetudine – a margine della lettera indirizzatagli, Pellizzi scrive infatti: Ma che tendenza avrà? È sicuro che io sia d’accordo? Mi mandi i primi due numeri e si vedrà174.

Nel settembre successivo un altro reduce della Rsi, Ezio Maria Gray, direttore politico de «Il Nazionale», rinnova l’invito annunciando l’uscita del settimanale per il 15 ottobre175. Chiede anche un incontro che, stando alle successive lettere di Gray, non avviene. A margine di una lettera che Gray spedisce a Pellizzi il 22 ottobre 1949 e in cui il mittente scrive: Vuoi darmi (decorosamente compensato... e appena pubblicato) un tuo articolo? Vuoi propormene l’argomento per non cadere in eventuale doppione? [...] Forse almeno la terza pagina spero abbia a tentarti.

Nella solita nota manoscritta a margine, in cui probabilmente è riassunto il succo della risposta, il destinatario aggiunge all’ultima frase di C. Pettinato a C.P., 28 luglio 1949, in ACP, b. 36, f. 54. E. M. Gray a C.P., 8 ottobre 1949, in ACP, b. 36, f. 54. Tra i collaboratori de «Il Nazionale» sono annunciati, oltre a Concetto Pettinato, Umberto Biscottini (ex direttore di «Civiltà fascista» nel periodo della Rsi, rivista che attaccò duramente Pellizzi nell’aprile ‘44, cfr. nota 43), Emilio Bodrero, Giorgio De Chirico, Massimo Rocca, Giuseppe Tucci, Luigi Villari e molti altri. Su E.M. Gray (1885-1969) si veda la voce a lui dedicata (a cura di Giuseppe Sircana) nel DBI, vol. LVIII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2002, pp. 778-780. 174 175

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Gray le seguenti, icastiche parole: «No, e per quali motivi [sottinteso: dovrebbe tentarmi?, ndr.]»176. Roberto Cantalupo, ex dirigente fascista ora vicepresidente del Partito nazionale monarchico177, scrive a Pellizzi nel febbraio del 1950, in quanto direttore di un nuovo periodico, «Governo». Con questa nuova creatura editoriale Cantalupo ambirebbe «fare a destra quello che i pochi ma valorosi sconclusionati di Mondo vogliono fare a sinistra»178. Pellizzi, nella solita postilla manoscritta, annota: «Per ora certo non posso; e non sono del tutto d’accordo»179. Se «Il Nazionale» e «Governo» sono organi genericamente inseribili nel variegato mondo della pubblicistica neofascista o in quello di una destra oscillante fra nostalgie monarchiche e pulsioni liberal-conservatrici, «Lotta Politica» è inequivocabilmente ascrivibile al Movimento sociale italiano, di cui è l’organo ufficiale. Editore del giornale è Giovanni Volpe, il quale scrive a Pellizzi una lettera nel dicembre 1949 cercando di persuaderlo a collaborare a quella che comunque si presenta come la «voce ufficiale del MSI». Volpe sottolinea così la natura «aperta» del giornale, «aperta a quanti, fuori dal MSI, non possono non essere sostanzialmente in una posizione assai simile alla nostra»180. Volpe imposta la sua lettera in questi termini, poiché riconosce in Pellizzi una di quelle «persone che non amano incasellarsi in un partito o che sono iscritte ad altro partito»181. Come si vede, Pellizzi non sempre oppone un rifiuto netto sotto il profilo ideologico, e il suo disaccordo, almeno per quel che ci dicono certi suoi appunti, è quasi sempre parziale. Questo spiega per metà l’adesione che negli Cinquanta darà a riviste collocabili a destra, non sempre esenti da nostalgie fasciste, come, ad esempio, «Il Borghese» di Leo Longanesi. Resta però il fatto che, in questi anni, la sua risposta è sempre “no, grazie”. Come si evince da una lettera di risposta a Edoardo Marino, collaboratore di «Lotta Politica», Pellizzi non intende scendere nuovamente nella mischia politica, almeno per il momento. Scrive nel giugno 1950: per molte ragioni non politiche, desidero rimanere lontano dalla politica attiva, di qualunque colore. Se come articolista mi capita qualche volta di dire il mio pensiero su uno od altro argomento politico, a tanto si limita la mia attività di E.M. Gray a C.P., 22 ottobre 1929, in ACP, b. 36, f. 54. Su Cantalupo si veda la voce relativa in Chi è?..., cit., p. 131. 178 R. Cantalupo a C.P., 2 febbraio 1950, in ACP, b. 37, f. 55. 179 Ibidem. 180 Giovanni Volpe a C.P., 27 dicembre 1949, in ACP, b. 36, f. 54. 181 Ibidem. 176 177

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“animale politico”. Tutto quello che posso dare alla “nuove generazioni” sono esperienze fatte, conclusioni raggiunte (ma sempre suscettibili di qualche ponderata revisione), e quel poco di lavoro scientifico che le circostanze della vita mi consenton di fare. “Né che poco io vi dia da imputar sono, ecc.” Può restar servito chi vuole, democristiano, comunista e missino che sia. Per quanto sta al sentimento, che è cosa diversa ma non necessariamente in contrasto col giudizio, con un uomo come te credo che potrò consentire sempre in molte cose; in altre forse no: ma proprio qui, dove il sentimento non aiuta o pone dissidi, dovrebbe aiutare il giudizio. Il quale non conosce “ultime istanze”, e deve rimaner sempre aperto a rivedere se stesso, massime quando a ciò lo spinga un amichevole contradditore, quale sei tu182.

Pellizzi può pertanto essere definito come un ex fascista o post-fascista, nel senso letterale del termine, cioè come qualcuno che all’età di circa cinquant’anni prosegue un personale percorso politico-culturale che lo allontana da alcuni principi cardine della dottrina fascista e lo avvicina a posizioni non facilmente connotabili al momento, dove i principi di libertà individuale si coniugano con istanze di giustizia sociale assicurate con interventi di piano. Certamente è cresciuta l’esigenza scientifica, propria del sociologo come di qualsiasi intellettuale “puro”, di «rimaner sempre aperto a rivedere se stesso». Questo percorso viene compiuto a partire dal 25 luglio 1943, anche se alcune obiezioni e perplessità erano maturate qualche tempo prima, ma senza che ciò fosse mai sfociato nell’aperta contestazione e nell’abbandono di un avamposto della politica culturale e della propaganda politica del regime quale era l’Istituto nazionale di cultura fascista. La mancata adesione alla Rsi è, senz’altro, un discrimine forte e significativo tra Pellizzi e molti protagonisti della memorialistica neofascista che, soprattutto dopo il 1950, prolifererà nell’Italia repubblicana. Sempre nella lettera a Edoardo Marino, si legge a tal proposito: Sta di fatto che io non aderii alla R.S.I., che è cosa ben diversa; e le stesse ragioni per cui non aderii fanno sì che, a fortiori, non possa ora appellarmi a quel precedente come a fonte di attuale ispirazione politica. Poiché questo mi sembra essere, in definitiva, l’atteggiamento tuo e dei tuoi amici politici [cioè esponenti del MSI, ndr.], basta questo fatto a chiarire una differenza importante fra la posizione vostra e la mia183.

Una rivoluzione mancata non si esime dall’affrontare le vicende di Salò, ma lo fa prendendo in considerazione soltanto le posizioni teoriche 182 C.P. a Edoardo Marino, 18 giugno 1950, in ACP, b. 37, f. 55. La sottolineatura è nel testo. 183 Ibidem. Le sottolineature sono nel testo.

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e pratiche assunte dal fascismo repubblicano in tema di corporativismo. Anzitutto, l’analisi dei documenti della Rsi relativi alla “socializzazione”, a cominciare dallo stesso “Manifesto di Verona” (1° novembre 1943), testimoniano del fatto che si tratta «piuttosto [di] un’affermazione di principio che non un vasto esperimento concreto dal quale si possano trarre insegnamenti e conclusioni di fatto»184. Accusati da Pellizzi non sono soltanto l’astrattezza e le velleità della legislazione elaborata dal fascismo repubblicano, ma anche quell’accentuazione dello «statalismo» del ventennio precedente che la normativa della Rsi in materia di gestione aziendale porta con sé. Sopravvive, e sembra anzi onnipotente, il Partito come supremo motore e regolatore di tutto il sistema (quasi esattamente come nei modelli totalitari russo e germanico). [...] I poteri d’intervento dei ministri nella vita delle aziende appaiono veramente totalitari 185.

Il postfascismo pellizziano è una conseguenza del trascorrere del tempo e della delusione di non aver compiuto quella rivoluzione del sistema politico e sociale italiano che il fascismo aveva promesso, ma che non era stato in grado di mantenere. L’idea di aver contribuito al fallimento di quell’esperimento, con tutto ciò che di tragico ha comportato, frena Pellizzi nell’idea di riabbracciare una concezione “militante” della cultura e del ruolo dell’intellettuale, soprattutto se inteso come una sorta di funzionario organico ad un partito politico. Nell’analisi del fallimento pare altresì maturare la convinzione della necessità delle libertà civili e politiche, del loro riconoscimento e, con esse, dell’autonomia della società civile da uno Stato onnipervasivo. Sotto questo aspetto si può, con ragione, rinvenire il superamento e l’abbandono da parte del Pellizzi degli anni Quaranta del fondamento illiberale e antidemocratico proprio del fascismo. Una rivoluzione mancata, il libro cioè che doveva rappresentare il bilancio di un’esperienza politica, sia personale sia di un’intera generazione, registra di fatto una rilettura selettiva ed eminentemente teorica del fascismo. Pellizzi prende dichiaratamente un aspetto del complesso fenomeno fascista, cosicché, declinato come corporativismo e recuperate di quest’ultimo le lontane ascendenze anarchico-sindacaliste, del fascismo storico resta una teoria politica e sociale tanto affascinante quanto vaga: il “corporativismo anarchico”, fondato su 184 C. 185

PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., p. 196. Ivi, p. 170. Il corsivo è nel testo.

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autogestione e “circolazione delle élites”. Faremmo però torto a Pellizzi, se non sottolineassimo come le tesi espresse nel 1949 fossero l’ulteriore esplicitazione e il logico approfondimento di concetti e principi già chiaramente espressi nei primi anni Quaranta, all’epoca della presidenza dell’Istituto nazionale di cultura fascista186. La stessa sensibilità per le tematiche del lavoro e della giustizia sociale si era già sostanzialmente formata nella passata esperienza politico-ideologica e in essa aveva trovato motivi teorici e ideali, sia pure appesantiti da un eccesso di retorica e di demagogia caratteristici della dittatura mussoliniana. Nel febbraio del 1946, sulle colonne di «Cronache», Pellizzi descrive la situazione politica e morale dell’immediato dopoguerra nei seguenti termini: Prima c’era la ganga fascista: in buona parte se n’è andata al Creatore, o vive più o meno alla macchia. Ma dal 1943 a oggi c’è stato il carnevalino anche degli antifascisti, più o meno autentici. Sono venuti fuori tutti dai loro rifugi: chi dall’estero, chi da un convento extraterritoriale, e qualcuno persino aveva degnamente combattuto alla macchia. Hanno avuto un giovedì grasso che è durato tre anni: bastava dir no dove prima si era detto sì, e appoggiarsi agli Alleati. E fra gli Alleati c’era la scelta per tutti i gusti: destra, sinistra, centro; le buone amicizie portavano molta gente alla Consulta; altra ai posti belli nei ministeri; altra ancora ai commissariati delle industrie, delle aziende, dei famosi enti parastatali. [...] E quando le cose andavano al peggio si poteva sempre, a mezza voce, ributtare tutta la colpa sugli Alleati187. 186 Si vedano, ad esempio, alcuni articoli apparsi su «Civiltà fascista», organo dell’INCF: Italia e Germania. Problemi dell’ordine nuovo (a. IX, n. 4, febbraio 1942, pp. 228235) e Ordine corporativo e programmazione sociale (a. X, n. 6, aprile 1943, pp. 351-355). Nel primo articolo si legge: «Non avremo paura di chiamare le cose col loro nome: il principio corporativo è la più alta e più consapevole affermazione del principio individuale nella vita associata. [...] ma quale che sia l’unità singola, l’individuo, che il principio corporativo contempla, esso non lo vede come individuo astratto, [...] lo vede bensì come persona» (p. 233). Nel secondo articolo si legge: «Nella logica della concezione corporativa, non è lo Stato ma è la società nazionale stessa che si fa, per molte e indirette vie, imprenditrice; è la società nazionale che si fa, per analoghe vie, consumatrice programmaticamente consapevole. [...] Lo Stato proprietario e lo Stato consumatore che vediamo oggi non sono affatto lo Stato corporativo; possono essere un passo concreto verso uno Stato corporativo, ma idealmente e strutturalmente sono quasi il contrario di esso [...]» (pp. 353-354). Si legge inoltre l’affermazione secondo cui «autogoverno» e «rappresentanze di categoria» «sono il mezzo e gli organi coerenti con lo stretto principio dottrinale corporativo» (p. 354). C’è poi l’articolo citato dallo stesso Pellizzi in chiusura del libro: La rivoluzione dei consumatori («Civiltà fascista», a. IX, n. 12, ottobre 1942, pp. 735-742). 187 IL FASTIDITO (pseudonimo di C.P.), Carnevali e quaresime, in «Cronache», 2 febbraio 1946.

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Dal brano che precede si possono ricavare alcune considerazioni. Anzitutto, l’assunzione di una posizione di sostanziale equidistanza tra fascismo e antifascismo da parte di chi della «ganga fascista» ha fatto parte sino al luglio del 1943. Di qui il tono del moralista, tipico dell’intellettuale italiano che giudica, per lo più negativamente, il tasso di virtù e di coraggio del popolo italiano, in questo caso della classe politica. C’è poi la sottolineatura di quel “fascismo degli antifascisti” che Guglielmo Giannini rende, proprio in quegli anni, formula diffusissima nell’Italia dell’«esarchia» ciellenista188. Ed è proprio al qualunquismo che fanno pensare certi toni e certe polemiche adottate da Pellizzi sulle colonne dei giornali ai quali collabora fra il 1945 e il 1949189. Tra le pagine delle decine e decine di articoli scritti in questo periodo, c’è la tendenza a prendere le parti e le difese della “gente comune” che, per salvarsi dal tracollo economico e finanziario prodotto dalla guerra, dà vita al mercato nero, in barba ai precetti dei liberal-liberisti tanto belli in teoria quanto astratti e inutili nella pratica190. Quella “gente comune” che è stata trascinata in guerra suo malgrado e che ora sconta l’esito inevitabile di ogni sconfitta che sia disastrosa e irrevocabile come quella del 1943: la perdita della fiducia nelle proprie capacità e qualità di popolo civile ed evoluto. C’è un popolo che si trovò impegolato in questa guerra per decisione personale di un suo tiranno, ma che in verità non aveva e non sentiva nessuna ragione grave di ostilità verso quegli stati che il tiranno lo costrinse a combattere. [...] Molto ha perduto in questa guerra il popolo di cui vi parlo: ma chi non ha molto perduto? Si potrà dire che esso ha perduto la cosa più preziosa di tutte, che è la fiducia in se stesso191.

Ma già in quest’articolo, peraltro firmato con il significativo pseudonimo “Il Sofista”, emergono elementi che indeboliscono una lettura delle posizioni politiche pellizziane in chiave strettamente qualunquista. In particolare, ciò che preme maggiormente a Pellizzi è la rimozione di questo senso di sfiducia collettiva che affligge il popolo italiano. Ad una ma188 Cfr. S. SETTA, L’Uomo Qualunque 1944-1948, Laterza, Roma-Bari 1995 (1ª ediz. 1975); E. BERSELLI, Qualunquismo, in «il Mulino», L, n. 394, 2001, pp. 271-276. 189 Ecco i titoli di alcune testate alle quali Pellizzi collabora in questo periodo: «L’Ora d’Italia», «Il Libraio», «Italia nuova», «Il Globo», «La Sicilia», «Il Mattino di Roma», «Il Tempo di Milano», «La Fiera Letteraria», «Il Lavoro italiano», oltre ai già citati «Cronache» e «Il Popolo». 190 Cfr. CALLICLE, Si scandalizzano, cit. 191 IL SOFISTA (pseudonimo di C.P.), La favola del vincitore, in «Cronache», 12 gennaio 1946.

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cerazione nella colpa collettiva egli preferisce l’esaltazione della lotta di liberazione, almeno in quanto vittoriosa; ad una fuga “qualunquistica” nel privato e nel gretto egoismo del “particulare” e dell’antipolitica egli predilige un rinnovato e fattivo entusiasmo nel domani, in ciò che poi passerà alla storia come “ricostruzione”. Ma anche a non ricordare che la fiducia in se stesso può a volte diventare folle e rischiosa, vogliate considerare che tale perdita non gli è inflitta dai suoi nemici, ma da sé medesimo, che sembra preso da una follia di dilaniarsi, e sbeffeggiarsi davanti alla gente, e fare atti e dir parole come d’invasato. Che se invece si accontentasse di mettere tutte le sue perdite nel conto passivo, e non pensarci più; e si proponesse con dignità e buon senso di lavorare che esso possa avere un domani di qualche nobiltà e bellezza?192

Questo guardare avanti, al futuro, per ricostruire una società ed una nazione italiane in grado di competere nuovamente sullo scenario internazionale, qualifica il pensiero politico di Pellizzi in un senso diverso da quello meramente qualunquista. Se lette con attenzione, le frasi sopra riportate esprimono meglio di qualsiasi confessione epistolare lo stato d’animo col quale l’ex presidente dell’Istituto nazionale di cultura fascista si pone nella vita civile e culturale dell’Italia repubblicana e antifascista. E non mancano i riconoscimenti a chi il fascismo ha combattuto: La lotta partigiana ha avuto molti martiri e molti eroi, e costoro, se non altri, hanno pure il diritto che il loro nome non venga sporcato da episodi di questo genere, che purtroppo non sono stati rari193.

L’episodio cui si fa riferimento è il presunto “tesoro” di Mussolini di cui si parla nei mesi immediatamente successivi l’uccisione del duce e di Claretta Petacci, tesoro che sarebbe stato rubato e poi occultato dal «“commissario politico” di una Brigata partigiana che li aveva in consegna per trasferirli in altro luogo»194. Tra gli eroi antifascisti elogiati da Pellizzi vi è anche Teresio Olivelli, giovane studioso che aveva vinto i Littoriali del 1939 per la sezione “dottrina del fascismo”, ed era stato quindi collaboratore dell’Istituto nazionale di cultura fascista scrivendo su «Civiltà fascista» proprio all’epoca della presidenza pellizziana, per poi passare nelle file della Resistenza e morire nel lager di Hersbruck il 12 gennaio 1945195. Ibidem. LORENZINO (pseudonimo di C.P.), La maschera di Bruto, in «Cronache», 27 ottobre 1945. 194 Ibidem. 195 Cfr. T. Olivelli all’INCF, 30 agosto 1942, in ACP, b. 3, f. 9; T. Olivelli a C.P., 20 192 193

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Dunque, Pellizzi oscilla tra una critica all’antifascismo, nella misura in cui in esso si annidano opportunismo e trasformismo, e una sua lode, nella misura in cui è stato ed è volontà di ripartire nel segno della libertà. A proposito del valore che tanto era stato esecrato e messo in sordina sotto la dittatura mussoliniana, l’ex teorico dell’aristocratismo fascista scrive: La libertà non è oggetto di giuoco o di recita: non è cosa da prendere o lasciare. Bisogna riconquistarla ogni giorno, e sentirne il bisogno lacerante come si sente l’amore di un figlio196.

Con accenti che richiamano alla mente un’idea forte del pensiero politico crociano, ma anche del liberalsocialismo calogeriano (che, in questo, tanto deve a Croce), Pellizzi formula una propria etica che pone l’accento sul valore della libertà anche se, probabilmente, non può essere definita esplicitamente liberale. Ognuno di noi diventa quello che è; ma anche per diventare quello che si è ci vuole un grandissimo sforzo. Questo sforzo è la libertà dell’uomo. È vano e stupido andare a stuzzicare questa libertà dal di fuori, complicare o mutare le condizioni della lotta che ogni uomo combatte contro se stesso per arrivare ad essere quello che è197. marzo 1942, in ACP, b. 3, f. 10; C.P. a T. Olivelli, 1° aprile 1942, in ACP, b. 3, f. 10. Nei tardi anni Trenta Olivelli è amico e compagno di studi di Ugoberto Alfassio Grimaldi al Collegio Ghislieri di Pavia. Sarà poi il giovanissimo Rettore del Collegio dal 1943 al 1945, anche se di fatto sostituito per gran parte del tempo da un reggente. Anche Carlo Morandi era stato dal 1921 al 1925 un “ghisleriano”. Su Olivelli, si vedano: A. CARACCIOLO, Teresio Olivelli, La Scuola, Brescia 1947; Libri senza moschetto. Riviste e periodici, monografie e opuscoli di cultura e propaganda del Ventennio, a cura di A. Arisi Rota e A. Mauro, presentazione di Arturo Colombo, Ibis, Como-Pavia 1995, pp. 10-14 e passim; Teresio Olivelli: il coraggio di una scelta. Nel cinquantenario del sacrificio, 1945-1995, a cura di A. Arisi Rota, Ibis, Como-Pavia 1996. Cfr. anche U. ALFASSIO GRIMALDI, Autobiografie di giovani del tempo fascista, cit. 196 LORENZINO, La maschera di Bruto, cit. 197 ARIO (pseudonimo di C.P.), Vita nuova..., in «Cronache», 5 gennaio 1946. Il corsivo è mio. A ribadire una latente ambiguità nelle posizioni politiche pellizziane dell’epoca, indubbiamente venate di qualche accento qualunquista, si legga il seguente passo dell’articolo in questione: «E così per i popoli. I Tedeschi potrebbero fare i soldati, gli amministratori e, dentro certi limiti, gli scienziati, un po’ per tutto il mondo [...]. E così ora c’è chi viene avanti con le rivelazioni sul conto dei Russi, che sono qui e sono là. [...] e non è nemmeno una novità che si facciano invadere fino al Volga e poi rimbalzino fino a Berlino. E così per gl’Italiani... Ma lasciamo perdere; agl’Italiani, per l’anno nuovo, raccomandiamo questo solo proponimento: che ognuno cerchi di essere semplicemente quello che è». L’invito potrebbe essere letto in due modi diversi: come appello all’autenticità o come esortazione al riflusso nel “particulare”. O, forse, l’una (l’autenticità) è premessa dell’altro (il particola-

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Si tratta, a questo punto, di capire quanto l’originario elitismo pellizziano abbia perso in pregiudizio antidemocratico e si sia convertito in una richiesta di leadership capace e responsabile al servizio e in funzione delle esigenze di una società di liberi ed eguali.

rismo antipolitico). Sul liberalsocialismo calogeriano ci sia consentito rinviare a D. BRESCHI, Dal liberalsocialismo alla liberaldemocrazia. Il pensiero politico di Guido Calogero, in «Il Pensiero Politico», a. XXXV, n. 2/2002, pp. 212-233. Cfr. anche M. DURST, Guido Calogero. Dialogo, educazione, democrazia, Seam, Formello (RM) 2002.

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Capitolo V

La rinascita sociologica in Italia

1. Tra Firenze e Parigi Il 1950 si chiude quindi con una grande gioia, la riammissione all’insegnamento, ma anche con un grande dolore. Infatti, il 5 novembre di quell’anno, poche settimane prima del verdetto definitivo sulla sua sorte accademica, Pellizzi perde il padre. Giovanni Battista muore dopo un improvviso peggioramento delle sue già precarie e debolissime condizioni di salute. Finisce così un rapporto di grande confidenza e di grande affinità, di natura quasi «medianica»1, che li teneva uniti anche a distanza. Ma torniamo alle vicende accademiche. La libertà tanto invocata da Pellizzi in molti articoli degli anni Quaranta è anche, tra le righe, la sua libertà personale, libertà di espressione, di dissenso, quindi libertà di dire ed anche, e soprattutto, di fare. In poche parole, ciò che egli anela più di ogni altra cosa è tornare all’insegnamento2. Il 1950 è l’anno del reintegro e il suo primo corso di Sociologia inizia 1 Testimonianza personale di Francesco Pellizzi, secondogenito di Camillo, all’autore (Roma, 31 luglio 2002). Della grande confidenza tra padre e figlio è testimonianza il fittissimo carteggio intercorso fra i due. Per qualche utile informazione su Giovanni Battista Pellizzi si veda anche la lettera di un suo vecchio collega, Giulio Bellini, del 9 novembre 1950 (ACP, b. 37, f. 55). Si veda anche quel che Pellizzi scrive a Bernardo Patrizi, diplomatico a Londra negli anni tra le due guerre: «Ti sono molto grato delle cose affettuose che mi hai scritto a proposito di mio Padre. Mi sento un po’, dopo la sua perdita, come un vecchio baby disperso, cui è venuto a mancare un grande appoggio morale» (lettera del 7 febbraio 1951, in ACP, b. 37, f. 56. La sottolineatura è nel testo). 2 Cfr. LORENZINO (pseudonimo di C.P.), La maschera di Bruto, cit., in cui si legge: «E la libertà, se pur talvolta ha bisogno del sangue, e del furore del popolo, poiché solo il sangue può dare tutta la misura e il segno del suo valore, e non v’è libertà vera che non si risolva in libertà di tutti».

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nel gennaio dell’anno successivo. A detta di Maranini, il programma del corso è «suggestivo», e verte su temi che Pellizzi è andato sviluppando negli ultimi anni3. Con ogni probabilità, la sua formazione sociologica deve molto alla lettura di Ernst Cassirer, di cui traduce Il mito dello Stato per Longanesi nel 19504. Ne consiglia le opere (tra queste, in particolare, il Saggio sull’uomo) a chi gli chiede letture per una valida e «profonda preparazione sociologica»5. Vi aggiunge quasi sempre i nomi di Richard Von Mises e Julius R. Weinberg, e ai suoi corsi propone altri campioni del neo-positivismo logico, di cui il cosiddetto Circolo di Vienna era stato il centro di elaborazione e diffusione6. Il Manuale di critica scientifica e filosofica del Von Mises è consigliato agli studenti in quanto testo che consente di «conoscere sinteticamente questo tipico neo-positivismo» che Pellizzi, come riferisce un suo allievo, «non condivide appieno»7. Promuove la conoscenza anche dell’altro, più celebre Von Mises, Ludwig, di cui discute in aula l’ultimo volume uscito a quell’epoca, Human Action8. Il positivismo è, per Pellizzi, il punto di partenza obbligato per chi voglia fare della sociologia una scienza empirica universalmente riconosciuta. Non condivide appieno i presupposti teorici di questo indirizzo gnoseologico, nemmeno nella versione fornita dagli esponenti del Circolo di Vienna. Ritiene però che l’acquisizione dell’abito mentale e metodologico 3 Maranini scrive a Camillo in una lettera del 16 dicembre 1950: «il tuo programma è suggestivo. Potrai benissimo, ormai, incominciare con giovedì 18 gennaio» (G. Maranini a C.P., in ACP, b. 37, f. 55). Il riferimento è, evidentemente, al corso di Sociologia, il primo che Pellizzi terrà, quello del 1950-51, ma anche, probabilmente, ad altri progetti legati a quell’Istituto di Sociologia che sarebbe sorto all’interno della Facoltà con riferimento alla sua cattedra. 4 Cfr. E. CASSIRER, The Myth of the State (1946), trad. it. di C. Pellizzi, Longanesi, Milano 1950. Per un primo approccio all’opera e al pensiero di Cassirer, cfr. G. RAIO (a cura di), Introduzione a Cassirer, Laterza, Roma-Bari 1991. 5 Lettera di Gianni C. Tibaldi a C.P., 12 gennaio 1952, in ACP, b. 38, f. 57. Si veda anche E. CASSIRER, An Essay on Man. An Introduction to a Philosophy of Culture (1944), trad. it. di Luca Pavolini, Longanesi, Milano 1948. Anche Giovanni Sartori ha sottolineato l’importanza della lettura di Cassirer nella formazione sociologica di Pellizzi (testimonianza rilasciata all’autore il 23 ottobre 2002). 6 R. VON MISES, Manuale di critica scientifica e filosofica, Longanesi, Milano 1950; J. R. WEINBERG, Introduzione al positivismo logico (1936), trad. it. di Ludovico Geymonat, Einaudi, Torino 1950. 7 Luigi Bellofiore a C.P., 9 luglio 1951, in ACP, b. 37, f. 56. Bellofiore scrive erroneamente che il Manuale di Von Mises è stato tradotto da Pellizzi. In realtà, il volume fu tradotto dal tedesco da Vincenzo M. Villa. 8 Cfr. la lettera di G. Sartori a C.P. del 4 ottobre 1950, in ACP, b. 37, f. 55.

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proprio del positivismo possa favorire il superamento dell’ostracismo che la cultura filosofica italiana, imbevuta di idealismo crociano e gentiliano, ha nutrito per mezzo secolo nei confronti della sociologia e delle scienze sociali in genere9. Gli scrive l’anziano filosofo Armando Carlini il 19 settembre 1950: dallo studio di Locke ebbi un beneficio immenso: quello studio mi aprì la via a uscire dagli schemi dell’idealismo crociano e gentiliano. Ma non rinunciai per questo all’essenziale: a quanto in quell’idealismo era di solido e di più profondo. Tu, invece, in nome di Locke vuoi gettare il bagno col bambino, come si dice, e fermarti a un positivismo gretto, irrespirabile, umiliante, anche se il pragmatismo prima, e ora il così detto “Circolo di Vienna” tentino di dare a esso un’apparenza più accettabile e più criticamente corretta10.

Il riferimento a Locke è dovuto al fatto che, in questo periodo, Pellizzi sta traducendo per l’editore Laterza una nuova edizione del Saggio sull’intelligenza umana, di cui Carlini scriverà poi la prefazione11. L’importanza dello studio della gnoseologia lockiana nella formazione sociologica pellizziana è rintracciabile nel primo capitolo di quelle dispense universitarie che accompagneranno gli studenti del corso di Sociologia del “Cesare Alfieri” dal 1951 fino ai primi anni ’60 e che, rivedute nel corso degli anni, usciranno come volume nel 196412. Come ogni disciplina che si rispetti, anche la sociologia ha la necessità di dotarsi di un linguaggio specifico, suo proprio, e l’analisi critica di tale linguaggio si chiama “semantica”, «di cui si possono trovare i primi fondamenti, in termini della cultura occidentale moderna, nella parte III del Saggio sull’intelligenza umana di J. Locke»13. Intorno alla cattedra di Sociologia della Facoltà di Scienze Politiche di Firenze, la prima in Italia ad essere ricoperta da un professore ordinario, nasce il relativo Istituto di Sociologia. All’inizio, le possibilità e le risorse a disposizione dell’Istituto sono scarse e Pellizzi è ancora per lo più intento 9 Per una ricostruzione sintetica della storia delle scienze sociali «più recenti» (sociologia, psicologia sociale, antropologia culturale) nella cultura italiana dal 1850 alla fine del ’900, cfr. F. FERRAROTTI, Scienze sociali e politiche, in La cultura italiana del Novecento, a cura di Corrado Stajano, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 599-651. 10 A. Carlini a C.P., 19 settembre 1950, in ACP, b. 37, f. 55. 11 Cfr. J. LOCKE, Saggio sull’intelligenza umana, 2 voll. (con un appendice curata da V. Sainati), Laterza, Bari 1951. Come dichiarato nell’Avvertenza del traduttore, Pellizzi ha condotto la traduzione sull’edizione inglese curata da A.C. Fraser (Clarendon Press, Oxford 1894). Fu Carlini a prestare a Pellizzi i due volumi del Fraser. 12 Cfr. C. PELLIZZI, Lineamenti di sistematica sociologica, Giuffrè, Milano 1964. 13 Ivi, p. 7.

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a irrobustire la propria preparazione sociologica, ben conscio di avere sulle proprie spalle la responsabilità di essere il primo titolare di cattedra in una disciplina ancora ampiamente osteggiata nel mondo accademico italiano e che, invece, egli intende diffondere e consolidare. Ancora nel 1954, dalle colonne della rivista di Longanesi «il Borghese», scrive a proposito delle Facoltà di Scienze Politiche, bersaglio costante di critiche e polemiche politiche: Esse tengono testa come possono a quel complesso imponente di problemi scientifici e didattici che in Francia, in Germania, in Inghilterra, in America ecc., già da tempo ha dato luogo alla creazione di importanti istituti universitari e post universitari largamente dotati, che funzionano egregiamente, assolvendo a un compito sociale di primo piano. [...] quella dizione di “scienze politiche” fu adottata nel 1932 perché trovò il favore di certi autorevoli ambienti fascisti; e fu un errore. Prima di allora si era sempre parlato di “scienze sociali”, e di scienze sociali (talora con l’aggiunta di “economiche”, “amministrative”, e simili) si parla in quei paesi stranieri che hanno una struttura accademica aggiornata. [...] Troppi in Italia, comunque, hanno di queste discipline un’idea confusa, arretrata, inadeguatissima. [...] Per fare un solo esempio, si contesta ancor oggi in Italia la legittimità della sociologia, ripetendo alla rinfusa argomenti che furono già proposti, con assai maggiore chiarezza e conoscenza di causa, nei dibattiti dei primissimi anni del nostro secolo. E il risultato, in questo caso, è il seguente: che mentre negli Stati Uniti esistono più di mille cattedratici di questa materia, in Italia ce n’è uno solo, e assai debole per giunta14.

Oltre all’insegnamento fiorentino, Pellizzi accetta nel 1951 di svolgere un corso di Sociologia alla Scuola di Perfezionamento in Filosofia del Diritto, che ha sede presso l’Università di Roma e il cui direttore è Giorgio Del Vecchio. Manterrà tale insegnamento fino al 195315. Nell’ottobre C. PELLIZZI, I misteri d’Italia, in «il Borghese», a. V, 15 gennaio 1954, pp. 42-43. L’impegno profuso da Pellizzi nella propria formazione di scienziato sociale, ancor prima della chiamata a Firenze, trova una testimonianza nelle fitte letture di opere e riviste, specie di lingua inglese, di cui fa frequente richiesta presso biblioteche di istituti americani (cfr. la lettera di D.A. Bullard, vice addetto culturale dell’ambasciata americana in Italia, a C.P., 24 maggio 1950, in ACP, b. 37, f. 55). 15 Cfr. la lettera di rinnovo dell’incarico del 25 novembre 1953 di Widar Cesarini Sforza (nuovo direttore del Corso) a C.P., in ACP, b. 38, f. 58, e la nota manoscritta ivi apposta in calce da Pellizzi, datata 27 novembre 1953: «Quest’anno non posso. Solo qualche incontro saltuario». Nel 1950 Pellizzi rifiuta invece la proposta di Felice Battaglia, rettore dell’ateneo bolognese, di assumere l’incarico di letteratura inglese «almeno per l’anno 1950-51» (F. Battaglia a C.P., 20 dicembre 1950, in ACP, b. 37, f. 55). 14

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del 1951 è invitato a far parte della Associazione Italiana di Scienze Politiche e Sociali, istituita nella primavera di quello stesso anno16. Pellizzi naturalmente accetta e, nel frattempo, si muove per trovare risorse per il suo Istituto e occasioni per accreditarsi presso le associazioni e gli ambienti accademici internazionali dediti agli studi sociologici. Fra l’altro, nel 1951 è nominato membro dell’Istituto Internazionale di Sociologia17. Così, sin dalla fine del 1949, egli si adopera per ottenere un qualche incarico di direzione o consulenza presso l’UNESCO o l’OECE, organismo nato nell’aprile del 1948 per coordinare il piano Marshall. Queste strutture, di recente costituzione e insediamento in Europa, «cercano la collaborazione di istituzioni esistenti sul posto interessate allo sviluppo della sociologia e se non esistono le creano “ad hoc”», come il Comitato Nazionale per la Produttività18. Tramite Riccardo Astuti di Lucchesi, presidente dell’Istituto Italiano per l’Africa, Pellizzi si rivolge direttamente presso la delegazione italiana permanente all’UNESCO, che ha sede a Parigi. La risposta ad Astuti di Lucchesi è del conte Jacini: La Delegazione [...] ha svolto con molta attenzione la pratica relativa al Prof. Camillo Pellizzi, il quale avrebbe tanti numeri per svolgere presso l’Unesco funzioni anche importanti. Sennonché non posso dissimularti che i di lui precedenti politici e le funzioni svolte sotto il passato regime costituiscono una difficoltà che il Direttore Generale non si sente per il momento di superare; non tanto perché esse gli ispirino delle prevenzioni nei confronti dell’interessato, quanto per l’impressione e le reazioni che una sua eventuale assunzione potrebbero suscitare: non ritengo che al riguardo sia stata detta l’ultima parola, ma credo che in ogni caso non convenga insistere per il momento19.

Dunque i tempi non sono ancora maturi, ma Pellizzi non demorde. A metà gennaio 1950, scrive infatti all’ambasciatore d’Italia a Parigi, propo16 Cfr. le lettere di Francesco Vito (presidente dell’Associazione) a C.P. del 1º e del 20 ottobre 1951, in ACP, b. 37, f. 56. 17 Cfr. la lettera (senza firma, ma intestata «Presidenza dell’Istituto Internazionale di Sociologia») a C.P., 25 maggio 1951, in ACP, b. 37, f. 56. 18 G. MASSIRONI, «Americanate», in L. BALBO, G. CHIARETTI, G. MASSIRONI, L’inferma scienza.Tre saggi sull’istituzionalizzazione della sociologia in Italia, il Mulino, Bologna 1975, p. 17. «Americanate» è il termine con cui Benedetto Croce definiva le scienze sociali «importate dagli USA» (p. 40). 19 R. Astuti di Lucchesi a C.P., 30 novembre 1949, in ACP, b. 36, f. 54 (la sottolineatura è nel testo). Il presidente dell’Istituto Italiano per l’Africa riporta il testo della lettera a Pellizzi, al quale aggiunge il seguente commento: «Ritengo molto saggia questa opinione espressa da Jacini. Piuttosto che esporsi ad un rifiuto definitivo, meglio attendere lasciando aperta la questione e quindi sempre viva la possibilità di una Sua assunzione».

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nendo la propria candidatura alla carica di capo-servizio per la sociologia, antropologia culturale e psicologia sociale che l’UNESCO «ha messo in palio»: I miei studi di sociologia sono concentrati massimamente, dopo un lungo e non sempre felice interesse per i problemi sindacali e politici, proprio su quel settore della sociologia che riguarda il simbolo e quindi la semantica, i miti, la linguistica e le forme d’arte viste come fatti sociali, ecc. [...] Apprendo da amici che Piovene intende lasciare l’UNESCO per andare in America. Se questo è vero, come sembra, la rappresentanza italiana in quell’Istituto verrebbe ad essere veramente esigua, e ciò forse potrebbe valere come argomento. [...] Se d’altronde qualcuno sollevasse la questione del “fascista”, si potrebbe forse far osservare che, con pochissime eccezioni, tutta la generazione italiana cui io appartengo è stata in qualche modo, prima o poi, più o meno, infarinata di quella farina. Come non si fa un minestrone con tutte carote, così un’organizzazione internazionale che voglia orientare verso una sintesi l’umanità del tempo nostro deve pure tener conto dei diversi temperamenti storici che lo compongono, e possibilmente farne uso20.

Pellizzi può contare sull’aiuto dell’amico di vecchia data Enrico Fulchignoni, direttore del Dipartimento audiovisivi e comunicazione di massa (Film Section) presso l’UNESCO21. È questi che, da Parigi, consiglia a Pellizzi di prendere contatti con Georges Friedmann, «eminenza grigia dei sociologi» francesi22. Il contatto avviene ad ottobre, quando il sociologo francese, in risposta ad una lettera di Pellizzi del 30 settembre, si congratula col nuovo collega italiano per avere ottenuto la cattedra a Firenze e, soprattutto, per aver adottato per i suoi corsi al “Cesare Alfieri” il libro sui Problemi umani del macchinismo industriale, pubblicato oltralpe nel 1946 e tradotto per Einaudi nel 194923. Si dice, inoltre, ben lieto di tenerlo aggiornato sulle attività e le iniziative del Centro di Studi sociologici, istituto collegato al CNRS, e di cui ricopre il ruolo di amministratore delegato24. C.P. all’ambasciatore d’Italia a Parigi, 16 gennaio 1950, in ACP, b. 37, f. 55. Sulla figura di Enrico Fulchignoni (1913-1988), regista teatrale e cinematografico oltre che docente di psicologia prima, e di sociologia dei mezzi di comunicazione di massa poi, sempre all’Università di Roma, si veda la voce redatta da Guglielmo Moneti, in DBI, vol. L, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1998, pp. 692-694. È stato anche presidente del Consiglio internazionale del cinema e della televisione dell’UNESCO. Cfr. anche E. FULCHIGNONI, La moderna civiltà dell’immagine, Armando, Roma 1964. 22 E. Fulchignoni a C.P., s.d. (ma fine marzo 1950), in ACP, b. 37, f. 57. In un’altra lettera del 2 gennaio 1951, Fulchignoni scrive a Pellizzi: «Friedmann è molto potente in Francia e può essere utilissimo» (ACP, b. 37, f. 56). 23 G. Friedmann a C.P., 17 ottobre 1950, in ACP, b. 37, f. 57. 24 Il comitato esecutivo del Centro è così composto: Georges Davy, Georges Gurvitch, Gabriel Le Bras, Henri Lévy-Bruhl. 20 21

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Non passa molto tempo che Friedmann invita Pellizzi a prender parte come osservatore straniero alla seconda edizione della Settimana Sociologica, che si sarebbe tenuta a Parigi dal 12 al 18 marzo 1951 sul tema “Civiltà urbana e civiltà rurale in Francia”25. L’avvicinamento al sociologo francese, ebreo e antifascista di sinistra, consente all’ex fascista di bruciare le tappe del proprio ingresso nel consesso internazionale dei sociologi. Il rapporto tra Pellizzi e Friedmann cresce rapidamente su basi di reciproca stima intellettuale e di un comune interesse sul ruolo dei rapporti umani nel lavoro26. Se per il francese si tratta, soprattutto, di problemi di sociologia industriale, per l’italiano la questione è vista prevalentemente nell’ottica della psicologia sociale e delle dinamiche di gruppo. In ogni caso, l’obiettivo principale è pubblicizzare e promuovere l’attività che la cattedra di Sociologia del “Cesare Alfieri” comincia lentamente a svolgere. In tal senso si adopera Pier Giovanni Pistoj, uno dei primi assistenti di Pellizzi, il quale giunge a Parigi nel 1953 con l’incarico di consulente presso la sezione “fattori umani” di un nuovo organo dell’OECE, l’Agenzia Europea della Produttività (AEP)27. Pellizzi mostra in questo periodo un dinamismo eccezionale. Prende contatti con la London School of Economics and Political Science, in modo da inserire il proprio Istituto di Sociologia in un più ampio circuito internazionale28. Dall’aprile 1953 è nominato membro del comitato editoriale della prestigiosa rivista «Current Sociology», il periodico bibliografico internazionale edito dall’UNESCO e curato dall’International Socio25 Dall’incontro nascerà poi il volume degli atti curato dal Centre d’Etudes Sociologiques e introdotto da Friedmann, Villes et campagnes. Civilisation urbaine et civilisation rurale en France, Paris, Librairie Colin, 1953. A Parigi, dal 1° al 7 aprile 1954, Pellizzi parteciperà ad un altro importante convegno internazionale organizzato da un istituto di ricerca francese, il Centre National de la Recherche Scientifique, dedicato alla struttura e condizione della famiglia nei principali Paesi europei. Cfr. la sua relazione al convegno (Structures familiales en Italie) in ACP, b. 18, f. 131, nonché il resoconto giornalistico dei lavori congressuali, da lui stesso scritto per un quotidiano italiano: C. PELLIZZI, L’anatomia della famiglia all’esame dei sociologi europei, in «Il Tempo», 28 aprile 1954. 26 L’amicizia tra i due crescerà al punto tale che la figlia di Friedmann sarà ospite dei Pellizzi a Forte dei Marmi (cfr. le lettere di Liliane Friedmann a Camillo del 14 e 20 agosto 1959, in ACP, b. 40, f. 64). 27 Cfr. le lettere di P.G. Pistoj a C.P. del 12 giugno e 11 luglio 1953 (ACP, b. 38, f. 58. Secondo quanto riferisce Pistoj nella prima delle due lettere, Friedmann avrebbe detto del suo collega italiano: «j’admire Pellizzi», 28 Cfr. Morris Ginsberg a C.P., 14 gennaio 1953, in ACP, b. 38, f. 58. Ginsberg è, fra l’altro, uno dei redattori del «British Journal of Sociology».

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logical Association (ISA)29. A seguito di tale incarico, Pellizzi è periodicamente consultato per dare il proprio parere su iniziative editoriali dell’ISA o come revisore di saggi da pubblicare su «Current Sociology»30. Quest’attività lo mette nelle condizioni di essere costantemente aggiornato sulla letteratura prodotta a livello internazionale nelle scienze sociali, dalla sociologia all’antropologia culturale, dalla semiotica alla psicologia sociale. Per quel che concerne l’Italia, invece, va segnalato che, nell’autunno del 1952, il suo nome risulta per qualche tempo tra i papabili per la successione a Panfilo Gentile nel ruolo di direttore de «La Nazione». Non se ne farà poi niente, ma la cosa in sé denota il rilievo nuovamente assunto da Pellizzi nel mondo del giornalismo italiano, oltre che in quello accademico31. A livello di organismi internazionali, e in particolare nell’ambito dell’OECE e delle sue strutture, cresce l’interesse per i problemi del lavoro, come testimonia questa lettera di Pistoj a Pellizzi del giugno 1953: Alcuni mesi or sono venne inviato un questionario alla Delegazione dei vari Paesi per conoscere i campi in cui essi avrebbero desiderato che l’O.E.C.E. svolgesse indagini apposite. L’interesse per il lavoro è stato da quasi tutti considerato un fattore preminente ed urgente di studio32.

Nel gruppo di lavoro a cui Pistoj sta prendendo parte, in quell’estate del 1953, è prevista la presenza di vari consulenti in rappresentanza dei diversi Paesi europei con il compito di esaminare due aspetti delle relazioni interpersonali nei luoghi di lavoro: l’adattamento del lavoro all’uomo e l’interesse dei lavoratori per il lavoro, la produttività e l’impresa33. Un’altra indagine svolta in quel periodo dall’OECE si è concentrata sul rilevamento di tutti gli organismi, enti e strutture varie che si occupano dei “fattori umani” in Europa. Nell’ambito di tale indagine Pistoj suggerisce a Pellizzi: Poiché la cosa potrebbe prendere sviluppi nel senso che l’OECE promuova delle ricerche di psicologia industriale, sarebbe veramente opportuno che Ella 29 Cfr. Stein Rokkan a C.P., 5 aprile 1953, ivi. Rokkan era all’epoca segretario esecutivo dell’ISA, carica poi assunta da Thomas B. Bottomore. L‘ISA sorge sotto gli auspici dell’UNESCO a Oslo nel settembre 1949 e stabilisce, sin dall’inizio, contatti permanenti con 53 Paesi del mondo (cfr. G. MASSIRONI, op. cit., pp. 42-43). 30 Cfr. le lettere di T.B. Bottomore a C.P. del 29 gennaio 1954 (ACP, b. 38, f. 59) e dell’8 febbraio 1957 (ACP, b. 39, f. 62). 31 Cfr. Silvano Tosi a C.P., 1º ottobre 1952, in ACP, b. 38, f. 57. 32 P.G. Pistoj a C.P., 12 giugno 1953, cit. 33 Cfr. ibidem.

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potesse stabilire dei legami col Centro di Produttività, in modo che sappiano l’esistenza e l’opera della Cattedra di Sociologia a Firenze. In ogni modo, se Lei avesse la compiacenza di mandarmi un appunto con la notazione di quanto è stato fatto (inchieste, libreria ecc.) e di quanto si vuol fare, mi sarebbe molto utile. Potrei così trovare il modo di farLa segnalare ufficialmente per l’inclusione nel nostro annuario degli organismi europei34.

Il Centro di Produttività cui si riferisce Pistoj nella lettera è il Comitato Nazionale per la Produttività (CNP), organismo creato dall’AEP nel 1951 e posto sotto la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Uno dei suoi compiti principali è quello di «diffondere nel Nord in sviluppo una serie di tecniche per modernizzare e razionalizzare l’apparato produttivo, note sotto il nome di “Scientific Management”»35. Presidente della giunta di coordinamento del CNP è in quel periodo il senatore democristiano Guido Corbellini, ingegnere di professione36. Spetta a tale organo segnalare ufficialmente ogni attività di studio e di ricerca svolta nell’ambito della produttività e delle relazioni industriali. È per questo, ad esempio, che Pistoj chiede notizie della Scuola di Perfezionamento sui Problemi del Lavoro che Pellizzi, col contributo del preside Maranini, va istituendo presso il “Cesare Alfieri” proprio in quei mesi del 1953 assieme ad un Centro di Studi, anch’esso dedicato ai problemi del lavoro. La Scuola consiste in un corso serale per laureati, mentre il Centro è un ente privato di diritto pubblico finalizzato a svolgere ricerche possibilmente commissionate da enti pubblici o privati37. Come scriverà anni dopo al responsabile di uno di questi enti finanziatori, la Shell Italiana Petroli, Pellizzi ha pensato al Centro come ad «un accorgimento amministrativo», nel senso che esso ha il compito di ottenere quei finanziamenti – altrimenti irraggiungibili o difficilmente raggiungibili – per ricerche il cui concreto svolgimento vieIbidem. G. MASSIRONI, op. cit., p. 22. 36 Vedi la voce su Guido Corbellini (1890-1976), a cura di Giuseppe Sircana e Ernesto Stagni, in DBI, vol. XXXIV, I Supplemento A-C, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988, pp. 766-767. Corbellini ha ricoperto la carica di Presidente della giunta di coordinamento del Comitato Nazionale per la Produttività dal 1952 al 1955. In seguito egli ha retto anche diversi Ministeri, tra cui quello delle Poste e Telecomunicazioni e dei Trasporti e dell’Aviazione Civile. 37 Sempre in quegli anni opera presso il “Cesare Alfieri” un Centro di Psicologia del Lavoro diretto da Alberto Marzi. Cfr. C. PELLIZZI, Il vecchio “Cesare Alfieri”, in «La Nazione», 19 luglio 1959. Marzi è inoltre, in quegli anni, direttore dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Firenze. 34 35

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ne effettuato dall’Istituto di Sociologia del “Cesare Alfieri” e dai suoi collaboratori38. Sin dall’inizio di quell’anno Pellizzi prende contatti con il senatore Corbellini proponendo l’avvio di una collaborazione che integri l’attività della Scuola di Perfezionamento con le iniziative del Comitato Nazionale per la Produttività. Tra queste iniziative vi sono corsi di formazione aziendale per preparare propri tecnici da immettere in aziende-pilota. Nell’ambito di questi corsi sono previste anche lezioni sulle relazioni umane, un tema su cui Corbellini si dice disposto a coinvolgere allievi della Scuola di Perfezionamento in qualità di osservatori. Pellizzi chiede ed ottiene anche l’interessamento del Comitato per l’assegnazione di borse di studio con le quali consentire ad allievi della Scuola, possibilmente giovani laureati, di fare esperienze presso università americane39. Intanto a Parigi Pistoj e Fulchignoni prendono contatti con l’ambasciatore Cattani, capo della delegazione italiana all’OECE, anzitutto per promuovere la Scuola e il Centro sui problemi del lavoro. Come scrive Pistoj nel gennaio 1954, con l’Agenzia Europea della Produttività si prospettano nuove possibilità di ottenere sostegno e finanziamenti: l’Agenzia per la Produttività nella quale lavoro ha previsto nel Suo programma dei contratti con istituti specializzati di ricerca scientifica al fine di intraprendere studi ed indagini su argomenti particolari, che abbiano valore dimostrativo e documentale, da poter poi diffondere sotto i suoi auspici. Il campo può esser quello tecnologico afferente ai Fattori Umani ovvero sociologico dei rapporti umani e di lavoro nell’impresa. Se, a parte la possibilità di ottenere una contribuzione a titolo di incoraggiamento, il Centro potesse attrezzarsi per una tale fatica, potrei anch’io avanzare una proposta concreta in tal senso. L’Agenzia è generosa e quindi i mezzi non farebbero difetto40.

In questa lettera stanno alcuni motivi per i quali Pellizzi preme per ottenere a Parigi l’incarico di direttore dell’Agenzia Europea della Produttività. Inoltrata la domanda presso il Comitato presieduto dal senatore Corbellini, inizia una serie di contatti e raccomandazioni che coinvolgono ambienti politici e sindacali. Nella vicenda sono direttamente coinvolC.P. a W. U. Bédon, 23 maggio 1964, in ACP, b. 41, f. 69. Cfr. G. Corbellini a C.P., 12 gennaio 1953 e C.P. a G. Corbellini, 18 gennaio 1953, entrambe in ACP, b. 38, f. 57. Nella seconda lettera, ad esempio, Pellizzi propone un suo studente per una borsa di studio che consenta di seguire, per almeno un anno accademico, i corsi di “human relations” presso l’Institute of Industrial Research della Harvard University. 40 P.G. Pistoj a C.P., 16 gennaio 1954, in ACP, b. 38, f. 59. 38 39

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te le massime cariche dei sindacati CISL e UIL. Italo Viglianesi, segretario nazionale della UIL, dichiara il proprio gradimento a che Pellizzi sia inserito nell’Agenzia41. Lo stesso dicasi per Giulio Pastore, segretario CISL, a cui Pellizzi cerca di giungere tramite Bruno Storti, altro esponente di spicco nella CISL, e il deputato democristiano Nullo Biaggi42. A giugno si muove anche presso Giulio Del Balzo, direttore generale degli Affari Esteri, il quale confida a Pellizzi che la sua nomina «sta a cuore anche a me giacché l’OECE non potrebbe fare un migliore acquisto»43. L’esito finale di una tale azione concentrica sulle autorità governative, compreso Giuseppe Medici, ministro dell’Agricoltura44, è la nomina a capo della Divisione Fattori Umani dell’Agenzia Europea della Produttività il 26 luglio 1954. Come gli comunica ufficialmente Guido Colonna, segretario generale dell’OECE, il contratto iniziale è annuale, essendo i primi sei mesi considerati come un periodo di prova45. A pochi giorni dalla nuova nomina, in una lettera di ringraziamento a Giulio Pastore, Pellizzi scrive tra l’altro: Mi consenta di esprimerLe la mia più viva riconoscenza per il Suo autorevole intervento, e ripeterLe direttamente l’assicurazione del mio proposito, che è di collaborare, per quanto stia in me, alla preziosa opera svolta dalla Confederazione che Ella dirige. Ogni volta che, in via personale, Ella vorrà farmi conoscere il 41 Cfr. I. Viglianesi a C.P., 30 giugno 1954, in ACP, b. 38, f. 59 («dobbiamo comunicarVi che il Prof. Pellizzi per quanto ci risulta, è persona sensibile ai problemi dei lavoratori oltreché elemento di alta competenza nel campo specifico previsto per il suo eventuale impiego all’A.E.P.»). 42 Cfr. Giuseppe Cassano a C.P., 20 luglio 1954, in ACP, b. 38, f. 59. Si veda anche la lettera di Pellizzi a Pastore, datata 11 agosto 1954, in cui il sociologo ringrazia il segretario della CISL per l’impegno profuso a favore della sua nomina all’AEP: «Di ritorno da Parigi, dove ho assunto gli impegni della mia nuova attività alla fine del mese scorso, trovo ad attendermi una cortese comunicazione del Ministro Medici, il quale mi assicura che Ella ha voluto scrivere in senso a me favorevole» (ACP, b. 38, f. 59). Cfr. N. Biaggi a C.P., 22 luglio 1954, ivi. 43 G. Del Balzo a C.P., 26 maggio 1954, in ACP, b. 38, f. 59. 44 Cfr. G. Medici a C.P., 31 agosto 1954, in ACP, b. 38, f. 59 («apprendo con viva soddisfazione che Ella è stata chiamata a far parte dell’Agenzia Europea della Produttività e me ne compiaccio vivamente. Sono sicuro che la Sua preziosa opera sarà molto apprezzata in seno all’anzidetta Organizzazione presso la quale Ella non mancherà di tutelare e valorizzare gli interessi del nostro Paese»). 45 Cfr. G. Colonna a C.P., 26 luglio 1954, b. 38, f. 59. L’indennità per l’incarico assegnato a Pellizzi sarà di 1.930.000 franchi. Circa un mese prima della nomina Pellizzi, accompagnato da Cattani e Colonna, aveva avuto un colloquio a Parigi con il direttore dell’AEP, cfr. il telegramma di Cattani a C.P., 19 giugno 1954, ivi.

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Suo pensiero su materia inerente al mio lavoro all’OECE, lo terrò come un favore, e sono certo che il Suo giudizio mi sarà di grande aiuto nei non facili inizi di questa attività, per me nuova nei suoi aspetti organizzativi e burocratici46.

L’attività all’OECE consentirà a Pellizzi di accreditarsi ulteriormente presso i più importanti istituti internazionali di sociologia e centri di ricerca in materia di human relations nel settore industriale. Nel 1956, ad esempio, entra a far parte del comitato editoriale estero della prestigiosa rivista «International», così che il suo nome è posto accanto a quello di altre cinque autorità nel settore (questo era il numero massimo di redattori stranieri previsti) come Georges Gurvitch, Leopold von Wiese, Morris Ginsberg e K. Tanaka47. Numerosi sono i congressi organizzati in questi anni da Pellizzi, e quelli a cui partecipa in veste di studioso di psicologia del lavoro e sociologia industriale. Come direttore della Divisione Fattori Umani dell’Agenzia Europea della Produttività organizza, fra il 13 e il 22 aprile del 1955, un incontro internazionale tra esperti di sociologia del lavoro. Oltre a numerosi docenti provenienti da tutto il mondo, il convegno vede la partecipazione di osservatori per conto di istituzioni quali l’Ufficio Internazionale del Lavoro, il Consiglio Europeo delle Federazioni Industriali, il Comitato Consultivo dell’Unione Sindacale Europea48. Oggetto di dibattito di quei dieci giorni di lavoro sono la definizione di human relations, dei suoi metodi di ricerca e di analisi, dei risultati raggiunti e i problemi relativi all’applicazione di tali risultati, sia nell’ambito dell’industria sia in quello dell’educazione49. Molti altri i temi affrontati in questi incontri internazionali; ad esempio, l’automazione nel processo produttivo, oggetto di un convegno a Milano nella primavera del 195650. Nel 1957 Pellizzi è invitato dall’International Sociological Association a presiedere la seconda sezione del IV Congresso Mondiale di Sociologia, dedicato al tema del “social planning” e per il quale egli stesso suggerisce la partecipazione di studiosi provenienti dall’area del Mediterraneo e dai Paesi subC.P. a G. Pastore, 11 agosto 1954, cit. Cfr. J.L. Moreno a C.P., 5 gennaio 1956, in ACP, b. 39, f. 61. Il comitato editoriale americano della rivista newyorkese è composto da Pitirim Sorokin, Ray Corsini, Robert Blake, Jiri Nehnevajsa e J.L. Moreno (capo redattore). 48 Si vedano gli Atti del Convegno curati da R. Clémens e A. Massart, Les relations humaines au cours du travail. Les entretiens de Florence, Paris, OECE, 1955. 49 Cfr. C. PELLIZZI, La sociologia del lavoro in Italia, in «Rassegna Italiana di Sociologia», a. III (Nuova Serie), n. 3, luglio/settembre 1962, pp. 326-329. 50 Cfr. Giorgio Sacco a C.P., 16 aprile 1956, in ACP, b. 39, f. 61. 46 47

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equatoriali51. La nomina di Pellizzi alla guida della Divisione Fattori Umani dell’AEP ha lo scopo di rafforzare il ruolo del Comitato Nazionale della Produttività presso tale sede, cercando di orientare eventuali finanziamenti a favore del mondo industriale italiano. Purtroppo, a distanza di due anni, i risultati si rivelano un po’ inferiori alle aspettative, a causa di una riduzione dei fondi destinati dall’OECE alla ricerca nei settori di competenza dell’AEP. Come scrive Pellizzi a Franco Ferrarotti nel giugno 1956, subito dopo la nomina di quest’ultimo a supplente del primo alla cattedra fiorentina, «per le scienze sociali, all’Agenzia, corrono tempi grami»52. Infatti, stando a quanto riferisce lo stesso direttore, «il bilancio previsto in questo settore è sceso da cinquanta a cinque o sei milioni di franchi annui!»53. I motivi addotti dai vertici dell’OECE sono di un certo interesse, in quanto ci segnalano alcuni elementi della “filosofia” di fondo che ispira la politica economica di una simile organizzazione internazionale: Sembra che ciò dia una maggiore impressione di “praticità” dell’Agenzia a un certo tipo di industriale, presumibilmente inglese, di cui qui ci si è fatto un “cliché” ossessivo. (A buon conto, in Inghilterra hanno un programma di studi di sociologia industriale da far invidia a chicchessia, fuori dagli S.U.)54.

Comunque sia, nel corso del 1955 Pellizzi si adopera per organizzare in Italia, sotto gli auspici dell’OECE, un convegno da tenersi a Roma tra il gennaio e il febbraio dell’anno successivo, in cui industriali, sindacalisti e sociologi specialisti delle human relations possano proficuamente incontrarsi, scambiare i propri punti di vista e, eventualmente, progettare qualcosa insieme. A tale scopo, tramite suoi collaboratori fiorentini, egli contatta Adriano Olivetti, il quale si dimostra «vivamente interessato al progetto»55. Ritenendo necessario che «perfino gli industriali comincino ad accordarsi fra loro», Olivetti reputa più opportuno «un convegno della generazione che li segue – i loro figlioli – che sono proprio “les hommes d’action” che dovranno valersi delle ricerche degli studiosi in campo di re51 Cfr. Merran McCulloch a C.P., 31 luglio 1957, in ACP, b. 39, f. 62. A quell’epoca presidente dell’ISA è Friedmann. 52 C.P. a F. Ferrarotti, 24 giugno 1956, in ACP, b. 39, f. 61. 53 Ibidem. 54 Ibidem. 55 Così dichiara Ferruccia Cappi Bentivegna a C.P. in una lettera del 1° maggio 1955 (ACP, b. 38, f. 60). A suo tempo anche Maranini aveva cercato «di stringere rapporti con Olivetti ed il centro di “Comunità”» (così G. Sartori a C.P., 12 novembre 1954, in ACP, b. 38, f. 59). La conferma di questi contatti ci viene anche da Antonio Zanfarino (testimonianza all’autore del 22 aprile 2002).

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lazioni umane, fra qualche anno»56. Sempre tramite Ferruccia Cappi Bentivegna, collaboratrice all’Istituto di Sociologia del “Cesare Alfieri”, vengono pure contattati Giovanni Treccani degli Alfieri, Paolo Marinotti e il conte Gaetano Marzotto, anch’egli propenso – come previsto da Olivetti – a far partecipare il figlio57. La pronta risposta e la disponibilità di quasi tutti gli interpellati è dimostrazione delle possibilità offerte dall’OECE. La Conferenza di Roma si svolgerà infatti all’inizio del 1956, raccogliendo in nove gruppi di studio più di trecento partecipanti tra imprenditori, studiosi e sindacalisti europei e americani, per un totale di undici nazioni partecipanti58. Pellizzi è per almeno due anni e mezzo, dalla seconda metà del 1954 fino a tutto il 1956, interamente assorbito dalla direzione della Divisione Fattori Umani dell’AEP59. La lunga permanenza a Parigi limita parzialmente la crescita sia del Centro che della Scuola di Perfezionamento sui Problemi del Lavoro, che a Firenze vengono portati avanti grazie all’impegno del preside Maranini e del giovane Giovanni Sartori. Come sottolinea C.B. Frisby, direttore del National Institute of Industrial Psychology di Londra, in una lettera a Pellizzi del maggio 1956, le difficoltà in cui si dibattono i due istituti fiorentini sono dovute agli impegni parigini che ne rendono «minima la supervisione generale» da parte del loro ideatore e fondatore60. A risentirne è soprattutto il progetto OECE, A Survey of Industrial In-Plant Training Programmes, avviato nell’autunno del 1954 con lo scopo di esaminare l’addestramento dei lavoratori semiqualificati. In Ibidem. Cfr. ibidem, e G. Marzotto a C.P., 9 maggio 1955, b. 38, f. 60. In questa lettera a Pellizzi, Marzotto tiene a precisare che «come Ella saprà, io ho sempre avuto ogni cura di raggiungere il benessere operaio, fisico, materiale e spirituale, nella persuasione che in difetto del benessere spirituale, materiale e fisico l’uomo non può soddisfare né ai bisogni del proprio spirito né della propria vita, e l’industria non può aspirare ad una proficua e pacifica attività». 58 Cfr. la sintesi che di questi lavori ha fatto R. CLÉMENS, Les relations humaines dans l’industrie. Synthèse des discussions de la Conférence de Rome, Vaillant-Carmanne, Liegi s.d. (ma 1958). Si veda anche Les relations humaines dans l’entreprise. Conférence de Rome, Paris, AEP, 1956. Sui contenuti dibattuti alla Conferenza di Roma e sul suo esito finale, cfr. C. PELLIZZI, La sociologia del lavoro in Italia, cit., pp. 329-331. 59 A livello amministrativo, nei tre anni di lavoro presso l’AEP, Pellizzi sarà posto alle dipendenze del Ministero degli Affari Esteri con decreto ministeriale del 14 dicembre 1954 (cfr. Ministero della Pubblica Istruzione a C.P., 3 gennaio 1955, in ACP, b. 38, f. 60). 60 «The difficulty at Florence seems to have been that your secondment to the Agency left a gap, which meant that effectively the general supervision of the Centre was minimal» (C.B. Frisby a C.P., 30 maggio 1956, in ACP, b. 39, f. 61). 56 57

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seguito si erano venuti a creare alcune incomprensioni tra Parigi e il Centro fiorentino di Studi sui Problemi del Lavoro, poiché quest’ultimo aveva aggiunto al progetto l’esame dell’addestramento di supervisori e managers61. Da qui ritardi e altri problemi nella stesura del rapporto finale. A questo si devono aggiungere difficoltà interne al “Cesare Alfieri” legate sia all’assenza prolungata del titolare della cattedra di Sociologia e di un suo supplente che fosse ufficialmente designato sin dall’inizio, sia a lotte intestine tra chi avversa la Scuola e il Centro e chi intende mantenerle quantomeno in vita62. Tra il 1954 e il 1957, infatti, il corso di Sociologia di cui Pellizzi è titolare viene svolto da diversi docenti. I primi due anni il corso è tenuto da Silvano Tosi, studioso di diritto e perciò evidente soluzione di ripiego preferita ad altre per pure logiche interne alla Facoltà63. Il terzo anno è chiamato Franco Ferrarotti, nome gradito sia a Pellizzi che al preside Maranini, il quale da tempo andava «facendo ogni sforzo per associare stabilmente al lavoro della Facoltà e del Centro» il giovane sociologo già collaboratore di Olivetti ed esperto, fra altro, di relazioni sindacali negli Stati Uniti e in Europa64. Ferrarotti è nominato supplente di Sociologia per l’anno accademico 1956-57, e con il suo ingresso ufficiale al “Cesare Alfieri” l’Istituto di Sociologia, con tutte le strutture ad esso afferenti (oltre alla cattedra, il Centro Studi e la Scuola di Perfezionamento), riceverà un forte impulso dinamico e fattivo65. È poi Cfr. ibidem. Scrive Maranini a Pellizzi: «Molto dobbiamo a Sartori. Ma ti assicuro che anch’io ci ho messo tanto il mio impegno, sia per raddrizzare i noti guai, sia per vincere la tendenza della maggioranza dei colleghi, che, annoiati da tante grane, avrebbero ceduto alla tentazione di eliminare con i responsabili, le istituzioni. Ma io penso fondamentalissima la cattedra di Sociologia, e necessari i suoi complementi e sviluppi» (19 giugno 1956, in ACP, b. 39, f. 61). 63 Cfr. S. Tosi a C.P., 13 novembre 1954, in ACP, b. 38, f. 59. Una prima ipotesi di supplenza fu quella di dividere il corso in due parti, una introduttiva (di epistemologia «e sullo “smontaggio” dell’economicismo», come scrive Sartori a C.P., 14 ottobre 1954, ivi), e una serie di esercitazioni dell’assistente, in questo caso Antonio Miotto (cfr. G. Sartori a C.P., 15 settembre 1954, ivi; A. Miotto a C.P., 5 ottobre 1954, ivi; G. Sartori a C.P., 14 ottobre 1954, ivi). Tale ipotesi sarà subito scartata dal Consiglio di Facoltà del “Cesare Alfieri” (cfr. Carlo Curcio a C.P., 24 ottobre 1954, ivi; A. Miotto a C.P., 20 novembre 1954, ivi). 64 G. Maranini a C.P., 19 giugno 1956, cit. Scrive inoltre Maranini: «Sta tranquillo: il giorno nel quale tu ritornerai, troverai fedelmente conservate, non solo, ma molto sviluppate, le iniziative e gli strumenti di lavoro a suo tempo creati, e ti sarà risparmiata l’ingrata fatica di ricominciare da principio». 65 Cfr. F. Ferrarotti a C.P., 24 giugno 1956, in ACP, b. 39, f. 61. Su alcune attività promosse da Ferrarotti all’interno di queste strutture, vedi infra. 61 62

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su iniziativa di Maranini, avallata anche da Pellizzi, che viene proposto (nel 1956) e istituito (nel 1957) in Facoltà l’insegnamento di una nuova materia complementare, Sociologia applicata, afferente ovviamente alla cattedra di Sociologia66. Nelle intenzioni di Maranini l’iniziativa nasce anche con l’obiettivo «di conservare la collaborazione dell’ottimo Ferrarotti, passandolo appunto a Sociologia applicata»67. Questa denominazione non piace a Pellizzi, che preferirebbe “sociologia metodologica”, ma in ogni caso la richiesta della Facoltà ottiene l’approvazione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione nell’estate del 1957 e nell’autunno Ferrarotti ne assumerà l’incarico per il primo anno68. L’urgenza e l’inderogabilità dei crescenti impegni cui l’Istituto fiorentino di Sociologia è chiamato spingono Pellizzi a lasciare l’incarico presso l’Agenzia Europea della Produttività. Con lettera del 27 giugno 1957 egli rassegna le dimissioni, motivandole con il desiderio di riprendere i propri obblighi accademici all’Università di Firenze. Il contratto con l’OECE ha così termine il 1º novembre di quell’anno, in concomitanza con la ripresa del servizio presso il “Cesare Alfieri”69. Negli anni in cui il sociologo si va formando, acquisendo peraltro un crescente credito presso numerose autorevoli sedi internazionali, continua il “corteggiamento” da parte di esponenti politici e culturali gravitanti intorno al Movimento sociale italiano o a formazioni genericamente definiCfr. G. Maranini a C.P., s.d. (ma 1956), in ACP, b. 39, f. 61. Ibidem. Cfr. anche G. Sartori a C.P., 29 novembre 1956, in ACP, b. 39, f. 61. Scrive Maranini a Pellizzi il 9 maggio 1957: «Circa Ferrarotti, il rettore fece respingere dal Senato accademico, nonostante le mie strenue resistenze, la denominazione da te proposta, e approvata dalla Facoltà. Si è alla fine ripiegato sulla sociologia applicata, che non so perché – forse solo perché il R.[ettore] era stanco della lunga battaglia, ha trovato minore resistenza ed è passata. Sono d’accordo con te che è una denominazione infelice: ma l’essenziale è avere un’altra cattedra sociologica alle tue dipendenze, e le etichette non contano molto» (ACP, b. 39, f. 62). 68 Ibidem. Cfr. anche F. Ferrarotti a C.P., 26 giugno 1957, in ACP, b. 39, f. 62. L’introduzione dell’insegnamento di Sociologia applicata nel corso di laurea in Scienze Politiche a Firenze fu consentito dalla legge 11 aprile 1953, n. 312, con cui, di fatto, venne “liberalizzato” l’inserimento di nuovi insegnamenti complementari negli Statuti delle singole Università, con le denominazioni ritenute più opportune dai Consigli di Facoltà e dal Senato accademico. Numerosi saranno gli insegnamenti complementari alla sociologia introdotti nel decennio successivo, soprattutto nelle Facoltà di Scienze Politiche, di Scienze Statistiche e di Economia e Commercio. Cfr. L’insegnamento della sociologia nell’Università italiana, in «Rassegna Italiana di Sociologia», a. VI, n. 1, gennaio/marzo 1965, pp. 151-155. 69 Cfr. C.P. al Segretario Generale dell’OECE (Grégoire), 27 giugno 1957, in ACP, b. 39, f. 62. Cfr. anche la lettera di Cittadini Cesi a C.P., 9 luglio 1957, ivi. 66 67

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bili come “di destra”. L’offerta più consistente è quella proveniente da Oddo Occhini, responsabile della Federazione romana del Msi, il quale, in una lettera del 29 gennaio 1952, propone a Pellizzi l’ingresso in un non meglio precisato Comitato culturale del partito missino. Il sociologo risponde il 1° febbraio successivo nei termini seguenti: Mi lusinga vedere il mio nome citato in mezzo a quelli di tanti valentuomini, fra cui non pochi amici. Debbo tuttavia declinare la Sua cortese proposta. Dal 1943 in poi mi sono fatto una regola di non partecipare in alcun modo alle attività di movimenti o partiti politici, quali che essi siano, e da questa regola non intendo deflettere. Non mi sono ritrattato mai, né in privato né in pubblico, di quel tanto o poco di attività politica che posso avere svolto in passato; ma voglio sia assorbito da altre cose quanto mi resta di vita e di attività nell’avvenire70.

Che Pellizzi non intenda scendere nuovamente nella mischia politicopartitica è ormai appurato, il che non significa però che non ami esercitare un diritto alla critica dell’esistente, quindi anche della situazione politica a lui coeva, in quanto prerogativa di ogni intellettuale che abbia a cuore le sorti della società in cui vive. In questo senso, l’“intellettuale impegnato” e il sociologo sono figure tra loro strettamente connesse, tali per cui l’una alimenta l’altra di dati e motivazioni. Anche la questione, al contempo teorica e pratica, intellettuale e politica, che aveva a lungo arrovellato Pellizzi nel periodo fascista, e cioè la questione delle élites e della loro selezione in un’Italia da sempre carente sotto quel profilo, viene per il momento accantonata. All’inizio del 1949 Alberto De Stefani71, ministro delle Finanze dal 1922 al 1925 e membro del Gran Consiglio del Fascismo, aveva proposto a Pellizzi un lavoro di carattere storiografico che si avvalesse dell’archivio personale che l’ex ministro delle Finanze di Mussolini avrebbe messo a disposizione. Non ho mai fatto lavori storici veri e propri – scrive Pellizzi –, e temo che sotto questo aspetto, nelle mie mani, il tuo archivio sarebbe sciupato: ove si trattasse, cioè, di trarne il massimo partito storico che esso comporti, e usare ogni documento rilevante a tracciare o completare una trama storica. Un libro storico, quando non mi interessa come se leggessi un bel romanzo, fissa sempre la 70 C.P. a O. Occhini, 1° febbraio 1952, in ACP, b. 38, f. 57. Non possedendo la lettera di Occhini, non ci è stato possibile ricuperare in altro modo la lista di nomi menzionata da Pellizzi. 71 Cfr. F. MARCOALDI, De Stefani, Alberto, in DBI, vol. XXXIX, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991, pp. 429-436.

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mia attenzione nelle cose che rivela come costanti, come meccanismi in sé. Non a caso la sociologia è la mia materia di elezione [...] Premesso questo, bisognerà vedere cosa dice e cosa è disposto a fare e dare l’editore, chiunque egli sia. Perché purtroppo, come Tu sai, io sono stretto dai bisogni; e soprattutto se gli Dei vorranno che io riprenda l’insegnamento colla Sociologia, molto del mio tempo libero, che già è assai poco, dovrà venire assorbito dallo studio di quei problemi sociologici più generali ai quali già da tempo vado dedicando le mie ore successive. Tu hai messo fuoco ad uno dei miei interessi più suscettibili e vivi, ma è certo che questo lavoro mi distrarrebbe da altri, più immediatamente necessari per l’insegnamento72.

L’episodio non è tanto significativo per il caso in sé, tenuto poi conto che De Stefani ci ripensa subito dopo e il progetto salta «per non parlar male di tanta gente servendosi della penna di una terza persona», cioè Pellizzi73. È un documento per noi rilevante, perché ci conferma, in primo luogo, la volontà di Pellizzi di far sì che lo scienziato (sociale) che è in lui prenda il sopravvento sull’intellettuale militante in lui prevalso tra il 1939 e il 1943. In secondo luogo, ci conferma della persistenza di un interesse giovanile, al contempo culturale e politico, per il problema del ruolo delle élites nella storia d’Italia e, in particolare, nel periodo fascista. Se al momento lo accantona è per dare spazio alla sua nuova avventura accademica e alla sistematizzazione di alcuni concetti fondamentali dell’analisi sociologica. Riflettendo sulla proposta avanzatagli da De Stefani, scrive a quest’ultimo: Ho ruminato in questi due giorni sulle cose che Tu mi hai dette, se dall’archivio io non potrei trarre un lavoro su questo tema: “Le baronie del ventennio”, o qualcosa di simile. [...] Si tratterebbe di enucleare obbiettivamente, fase per fase e problema per problema, quali furono i nuclei attivi o resistenti, che influirono di più sul regime; estrapolando volta a volta, o alla fine, qualche induzione sulla persistenza ed efficacia attuale e futura dei nuclei stessi (il sociologo non può a meno di essere sempre, almeno del desiderio, un clinico)74.

A proposito di fascismo, il bilancio compiuto in sede teorica con la pubblicazione di Una rivoluzione mancata viene sostanzialmente chiuso da Pellizzi in sede pubblica con una dichiarazione delle ragioni che lo ave72 C.P. a A. De Stefani, 30 gennaio 1949, in ACP, b. 36, f. 54. Le sottolineature sono nel testo. 73 Dalla nota manoscritta, datata 13 febbraio 1949, apposta in calce alla lettera sopra citata. 74 Ibidem. Il corsivo è mio.

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vano portato ad aderire al movimento mussoliniano. Chiuso senza abiure ma con alcune giustificazioni storiche, interessanti perché potrebbero essere estese ad una vasta schiera di italiani degli anni Venti, in particolare esponenti del mondo intellettuale. In una lettera al direttore de «La Nazione», in cui Pellizzi polemizza con il ministro Zoli a proposito di un provvedimento sugli affitti, si legge ad un certo punto la seguente dichiarazione: Al ben noto “movimento antidemocratico” io aderii quando stavo e lavoravo in Inghilterra e la mia adesione fu motivata in gran parte dalle conclusioni di un ponderato confronto fra le realtà e i problemi della democrazia in Italia e le realtà e i problemi della democrazia in Gran Bretagna. [...] Oggi ho trent’anni di più sulle spalle, e voglio sperare che non ricadrei nelle scalmane di allora, nelle illusioni di allora. Ma nemmeno io mi illusi mai che quella da noi presa fosse in assoluto e in ogni senso la strada migliore e più giusta. Era semplicemente una strada. L’altra, quella di coloro che ad ogni passo ripetevano la parola “democrazia”, non era una strada; era un piano inclinato verso l’abisso. L’Inghilterra mi insegnava che la democrazia non si fa colle chiacchiere; in Italia mi appariva chiaro che si intendeva di farla soltanto colle chiacchiere75.

Al di là del tentativo di stemperare l’entusiasmo che portò il giovane laureato in Giurisprudenza ad aderire al neonato movimento mussoliniano («nemmeno mi illusi mai»), non viene rinnegata la convinzione nutrita allora che quella fascista fosse l’unica via praticabile per la salvezza della nazione italiana. Secondo un’ottica prettamente nazionalista, la democrazia era sinonimo di parlamentarismo parolaio e inconcludente, causa certa di disordine e disgregazione politica. I motivi e gli argomenti che alimentarono e giustificarono l’adesione ai Fasci di combattimento di gran parte della piccola e media borghesia italiana sono qui racchiusi in perfetta sintesi, e sono ribaditi da Pellizzi come ancora validi e giustificabili nell’anno di grazia 1951. Il pragmatismo, inteso lato sensu, aveva permeato il fascismo pellizziano in virtù dell’esperienza inglese e del percorso di studi compiuto all’University College di Londra. Esauritasi l’opzione totalitaria proposta dal fascismo per palese fallimento, resta in Pellizzi la predilezione per soluzioni che siano immediatamente operative e funzionali. Si attenua considerevolmente l’afflato ideologico del suo pensiero e cresce, di converso, l’inclinazione alla descrizione e analisi del reale. Le scienze sociali vengono da lui studiate e promosse con questo specifico intento. 75

C. PELLIZZI, Alloggi di lusso, in «La Nazione», 23 ottobre 1951.

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2. Tra Bottai e Longanesi Tra la fine del 1949 e i primi mesi del 1950 a Roma si incontrano a più riprese cinque personalità del mondo della cultura, accomunate dalla passata adesione al regime fascista e dallo stretto rapporto di amicizia e collaborazione con Bottai e il suo entourage (la cosiddetta “covata bottaiana”)76. I loro nomi sono Ugo Spirito, Riccardo Del Giudice, Federico Maria Pacces, Mario Attilio Levi e Camillo Pellizzi77. Dal carteggio intercorso fra alcuni di questi studiosi, tutti docenti universitari riammessi all’insegnamento dopo una più o meno lunga epurazione, si deduce l’esistenza di un gruppo informale di cinque amici che per qualche tempo si incontrano, in particolare a casa di Levi, e formulano alcuni progetti. Si tratta, in sostanza, di una minuscola rete di amicizie e affinità politicoculturali che cerca di trasformarsi in qualcosa di strutturato, che possa avere una visibilità pubblica. Le opzioni in gioco sono essenzialmente due: una rivista di studi socio-politici e/o un partito politico. L’uso simultaneo della congiunzione aggiuntiva e di quella avversativa indicano che proprio intorno al dilemma “partito sì/partito no” si avvita il dibattito tra i cinque, di cui le lettere recano ampie tracce. L’abbondanza, l’importanza e la chiarezza delle riflessioni svolte in alcune di queste lettere ne rendono senz’altro necessarie ampie citazioni. All’indomani di un incontro tenutosi a casa sua – siamo nel febbraio 1950 –, Pellizzi sente l’urgenza di comunicare agli altri quattro le proprie riflessioni su quanto era stato discusso la sera precedente. Scrive così a Cfr. G. BOTTAI, Vent’anni e un giorno, Milano, Garzanti, 1949, p. 6. Su Del Giudice, cfr. G. PARLATO, Riccardo Del Giudice dal sindacato al governo, Roma, Fondazione Ugo Spirito, Roma, 1992. Su M.A. Levi si veda la voce relativa in Chi è? Dizionario degli italiani d’oggi, Roma, Formiggini, 19312, p. 420. Sull’attività di F.M. Pacces nel periodo fascista si vedano gli accenni contenuti in G. SAPELLI, Organizzazione lavoro e innovazione industriale nell’Italia tra le due guerre, Rosenberg & Sellier, Torino 1978, passim. Nel dopoguerra Pacces, professore ordinario di Tecnica Industriale e Commerciale presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, dà vita nel 1956 al Centro Ricerche e Documentazione per l’Industria. L’anno successivo fonda, con sede nella stessa Facoltà, la Scuola di Amministrazione Industriale, con l’obiettivo di formare risorse manageriali per le imprese. Il Centro diventa CERIS (Centro di Ricerche sull’Impresa e lo Sviluppo) nell’ottobre del 1964, per costituirsi poi dal luglio 1972, attraverso una convenzione tra il CNR e la Scuola di Amministrazione Industriale, in organo dello stesso Consiglio Nazionale delle Ricerche (nel 1980 si è trasformato in Istituto ed è tuttora attivo a livello nazionale). Come si vede, sia pure con competenze ed esiti differenti, Pacces e Pellizzi condividono negli stessi anni l’esigenza di coniugare il mondo della ricerca universitaria con quello dell’industria e, più in generale, del lavoro. 76 77

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Pacces una lettera in cui, di fatto, si rivolge anche agli altri amici. Esponendo per punti il proprio pensiero, egli inizia con il respingere nettamente l’affermazione di Spirito secondo cui tra «il padrone A» e «il padrone B», ossia tra Usa e Urss, non vi sia alcuna differenza. Io ho una certa fede in un’epoca umana in cui “il potere” sarà ridotto a forme marginali e da museo, come oggi il cannibalismo; ma ne siamo certo lontani. Oggi si tratta sempre di vedere quale e quanto potere c’è in ciascun caso. La verità è una questione di nuances (Constant), e tutta la sc.[ienza] empirica cerca di precisare le nuances. I categoremi assoluti servono nella loro sede; nelle valutazioni di fatto le sfumature sono tutto. E qui la sfumatura arriva a questo, che sotto B noi non ci saremmo mai riuniti, non saremmo forse nemmeno in circolaz[ione], e sarebbe utopia scrivere o agire in pubblico. Sotto A possiamo persino agire e parlare, entro limiti, contro A!78.

Riprendendo tesi a suo tempo abbozzate nelle discussioni con Grimaldi, Pellizzi espone la propria posizione federalista europea e tendenzialmente “terzaforzista” in materia di relazioni internazionali in un’epoca di bipolarismo e “guerra fredda”: I piccoli e i deboli debbono invece arrabattarsi per esser meno piccoli e deboli, e andare uniti, e come e dove possibile uscire dalla zona ideologica e strategica di conflitto fra i grandi. Tutte cose che, oggi almeno, quadrano ancora, e forse non avrà mai, la possibilità di difendere direttamente tutti i piccoli che sono più o meno nella sua orbita.

“Terzaforzismo” parrebbe la definizione più appropriata, ma è lo stesso Pellizzi a rifiutarla, suggerendo di «sopprimere la screditata dizione “terza forza”». Questo perché, a suo avviso, «le forze sono molte, e varie; mal capite, per lo più non studiate». Con un approccio rigorosamente sociologico, comincia così ad elencare le forze politiche, economiche e sociali, in altri termini le “oligarchie”, piccole e grandi, che si spartiscono quote di potere nella nostra penisola: oltre il Vaticano e Togliatti ci sono i pochi grossi dell’industria, la rete più larga ma durissima dei terrieri (fra cui anche gente di Chiesa), la grossa burocrazia, le camarille e concentrazioni politico-finanziario-burocratiche. Tutto questo è come un misterioso guanto da rivoltare, il dentro di fuori. C’è anche, dimenticavo, la “classe colta” (povera e slabbratissima, però non priva di una sua forza, per lo più dormiente e non organizzata; e a questa bisognerebbe molto puntare). 78 C.P. a F.M. Pacces, 25 febbraio 1950, in ACP, b. 37, f. 55. Le sottolineature sono nel testo.

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Ciò che preme a Pellizzi è un’operazione preliminare di chiarificazione concettuale e lessicale, affinché ogni analisi e, soprattutto, ogni azione politica risulti tanto ponderata quanto efficace. Insomma, un’impostazione dei problemi tipica di un intellettuale che ha abbandonato ogni abito ideologico e anzi intende respingerlo con forza, pena un’assoluta cecità di fronte alla realtà e la caduta nel più grigio conformismo. In attesa di quelle nuove sintesi metafisiche, di cui giustamente Spirito pone l’istanza, ideologizzare al minimo e “specolare” (non speculare) al massimo. Studiare la faccia vera del “capitalismo” di A, il socialismo inglese e d’altri paesi, tutto ciò che si può oltre la cortina, l’Asia e l’Africa; ecc. Si vedrà che l’Italia è uno dei paesi più arretrati come struttura economico-sociale (anche in confronto agli S.U.). Perché? Solo per cattiveria di uomini e resistenza di istituti? E quale sarà il giusto concetto di “arretrato”? Se non abbiamo idee e nozioni più chiare in tutto questo, più “concordabili”, inutile parlar male di Torlonia o Brusadelli, o anche, del resto, di Togliatti o Di Vittorio. Ma sulla terminologia dei politici, quali che siano, bisogna battersi con estrema chiarezza. “Classe”, “famiglia”, “democrazia”, “nazione”, sud e nord, ecc., son da rivedere; e sempre mettere il dito sulla vera incidenza del gravame e del beneficio di quanto si fa o propone, da chiunque.

Pellizzi ha in mente la formazione di una sorta di gruppo di opinione, in sostanza un’élite di intellettuali, ma che siano “scienziati” e non ideologi, studiosi cosmopoliti e seri competenti delle proprie discipline. Da quel gruppo di cinque persone, culturalmente e politicamente inclassificabili in quell’epoca di bipolarismo imperante e cogente, avrebbe dovuto prendere avvio una rivista di studi sociali e politici. Pellizzi suggerisce come titolo la sigla «Uomo e società», oppure «Uomini e società» e pensa ad una cadenza bimestrale per le uscite di questa pubblicazione. Ritiene inoltre necessario un processo aperto e continuo a tutti i partiti e gruppi, ideologie e istituti. Nessuna nostalgia di vani ritorni (di che? a che?). Né desiderio di menomare l’andazzo o regime attuale nel complesso; ma di renderne trasparenti i meccanismi veri, per affrettare la caduta delle parti fiacche o false, e la sostituzione di qualcosa di meglio. Non perdersi nei particolari minuscoli, ma nemmeno buttarsi alle grandi sintesi di tavolino, almeno finché non ci sia abbastanza materiale assodato con cui tentarle. Così per la Costituzione, per le rappresentanze (riprendere lo studio delle rappresentanze professionali), ecc.

L’atteggiamento pragmatico del sociologo formatosi nell’Inghilterra degli anni tra le due guerre trova conferma nell’intenzione di puntare su un «programma di lavoro» piuttosto che su «un “manifesto”». L’approccio

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da adottare è il seguente: «i 5 si pongono al servizio di chiunque voglia e sappia collaborare, nello stesso spirito». A tale scopo propone anche un reclutamento dei migliori studiosi presenti sulla “piazza”, affinché diventino collaboratori assidui della rivista e propone altresì di «invitarli individualmente a incontri per dibattere speciali problemi e impostare altro lavoro». Gli incontri proseguono, almeno fino all’aprile successivo79, e Pacces si impegna a redigere una prima traccia di quel «programma di lavoro» auspicato da Pellizzi e che ora pare maturo. In questi incontri le discussioni sono messe a verbale ed alcuni interlocutori prendono persino appunti personali, come testimonia proprio questa lettera di Pacces. Muoverò da una frase di Spirito, così come la trovo segnata nei miei appunti: “Non c’è possibilità di discutere in buona fede quando tutti hanno già deciso”; e sottintendeva deciso per l’America, deciso per Mosca. Per semplicità userò la prima persona. Non solo io non ho scelto la “libertà” (né il suo opposto dialettico) ma non intendo farlo finché non vi dovessi essere costretto; finché sarò, appunto, libero. [...] “Non decidere” è, per me, aver deciso di non parteggiare per nessuno dei due contendenti. È una decisione di rigorosa neutralità. [...] se ad essa venissero guadagnate man mano collettività più vaste e nazioni strategicamente importanti, la decisione di neutralità potrebbe avere un peso politico enorme, forse anche determinante per la conservazione della pace. [...] Quest’esigenza (comune a tutti i paesi europei) di una neutralità non soltanto in caso di conflitto armato (che, allora, non sarebbe neanche più possibile) ma nell’attuale conflitto ideologico e politico, era espressa nel nostro primo verbale d’incontro nei seguenti termini: “Non è dato trovare una ‘terza’ soluzione, se questa non ha dentro di sé una forza viva, capace di espansione, e di attuazione e non soltanto di movimenti passivi. Il primo ed essenziale requisito della nostra ricerca sarà quindi di porsi ‘fuori’ delle forze in contrasto; di non sentire particolare attrazione per l’una o per l’altra”. Nella lettera del 25 febbraio direttami da Pellizzi, questi esprime anche più incisivamente lo stesso concetto [...]. Ma per gli europei che non aspirino a diventare repubbliche ‘autonome’ dell’URSS o colonie americane, la conservazione della pace è l’interesse supremo. [...] E poiché, come giustamente scrive Pellizzi nella lettera citata, è pericoloso coltivare l’illusione, per i piccoli e i deboli, di fare da paceri e da mediatori fra i fortissimi, bisogna cercare di unire i piccoli e poveri popoli delle cento o quasi nazioni d’Europa in una comune politica di pace80. 79 Cfr. F.M. Pacces a R. Del Giudice, 4 aprile 1950, in Archivio Fondazione Ugo Spirito, Fondo «Riccardo Del Giudice», b. 8, f. «Corrispondenza varia 1948-79». Allegata al biglietto c’è la lettera del 31 marzo 1950 di cui vedi qui di seguito. La stessa lettera si trova sia nell’Archivio Pellizzi che in quello di Spirito. 80 F.M. Pacces a C.P., 31 marzo 1950, in ACP, b. 37, f. 55. Le sottolineature sono nel testo.

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Come si può notare, su non pochi punti, compreso il giudizio sulla politica internazionale, le posizioni di Pacces si avvicinano a quelle espresse da Pellizzi nella lettera del precedente mese di febbraio81. Nonostante queste convergenze, lo studioso torinese premette di voler «sottolineare i punti rimasti in ombra [...] e che, comunque, mi sembra opportuno chiarire a scanso di dubbi futuri». Resta soprattutto da chiedersi in cosa concretamente si traduca questo «programma di lavoro» vagamente messo in forma dalle discussioni del “gruppo dei cinque”. Che cosa vogliamo fare, Amici, di queste idee e di quelle altre che ci troveranno d’accordo? Questo interrogativo ce lo siamo posto tutti, nei nostri incontri: e forse con maggior chiarezza di tutti da Del Giudice: ci si vuol muovere sul terreno dell’azione politica, o su quello della cultura? Spirito e Pellizzi mi sono sembrati favorevoli a questa seconda alternativa, che costituirebbe così il nostro minimo comune denominatore. È una limitazione grave che poniamo a noi stessi; e tuttavia può essere una limitazione necessaria, se altrimenti non potessimo trovarci in completo accordo. Perché delle due l’una: o abbiamo fede nelle nostre idee, e allora (pur con le differenze e le sfumature dovute ai nostri diversi temperamenti personali) non possiamo accontentarci di professarle, ma dobbiamo agire per inverarle; o – ma evidentemente l’alternativa non regge. Piuttosto può darsi che le idee che ci uniscono non siano a tutti noi abbastanza chiare, abbastanza sicure (nessuna idea può dirsi definitiva) per passare all’azione. [...] a me sembra che non occorra (e anzi che sia dannoso) porre un distacco troppo netto fra opera di cultura e azione politica. Che la prima debba precedere la seconda, d’accordo. Precederla, ma non staccarsene, non disinteressarsene. Pensare prima e agire poi, ma non limitarsi solo a pensare. Cultura & azione.

In termini concreti, l’esito finale fu un nulla di fatto, anche se questo piccolo occulto dibattito tra alcuni “battitori liberi” del mondo politicoculturale italiano si trasferirà, quanto ai contenuti, in alcune esperienze editoriali degli anni Cinquanta: «abc» e «il Borghese». La scelta della cultura, che Spirito e Pellizzi pare prediligessero rispetto all’azione politica interna ad un partito – vecchio o nuovo che fosse –, è quella che di fatto sarà poi presa dai cinque protagonisti di questa breve storia di un progetto politico-culturale (forse anche partitico) nemmeno abbozzato e già fallito. 81 Da segnalare quel che Pacces scrive a proposito di quale sia, a suo avviso, l’iter maggiormente praticabile per un processo di integrazione europea: «Aggiungo che questo terreno d’intesa, per quanto difficile, è sempre più praticabile di quello di un’unione inizialmente economica o anche soltanto doganale». Gli eventi successivi si incaricheranno di dimostrare l’esatto contrario.

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Fallito anche perché velleitario, sicuramente confuso e non pienamente condiviso. L’ambiente della destra è quello in cui graviterà gran parte delle idee espresse in quegli incontri (ma, sotto alcuni aspetti, certi accenti avrebbero potuto tranquillamente ritrovarsi in ambienti liberal-radicali come «Il Mondo»). Per destra qui si intende uno spazio partitico compreso tra liberali e missini, nonché uno spazio culturale in cui si andava dal liberalismo conservatore al tradizionalismo evoliano82. In mezzo ad una vasta costellazione di riviste, per lo più effimere e poco strutturate, spiccano senz’altro «abc» e «il Borghese». La prima nasce come «quindicinale di critica politica» (così recita il sottotitolo) nel marzo 1953 per iniziativa di Giuseppe Bottai e già nell’editoriale di apertura c’è una forte spinta “europeista” che non si dissocia da un robusto sentimento patriottico, non propriamente nazionalistico. Scrive l’ex enfant prodige della politica e della cultura del regime fascista, il quale, con «Critica Fascista» prima e con «Primato» poi, aveva tentato di creare un’élite intellettuale al servizio della “rivoluzione corporativa”83: E noi non vogliamo assistere inerti al sopravvenire del temporale. C’è già gente, in giro, che s’è fasciata la testa; e sulle bende di garza americana o russa ha scritto, con l’inchiostro rosso, “fine dell’Europa”. Noi crediamo che non si sia a una fine, ma a una svolta, così brusca da parere all’inizio d’un nuovo cammino. L’Europa ha avuto in sorte di ricominciare da capo. Ha sempre avuto gli uomini capaci di ricominciare da capo, gli eretici di ieri divenendo gli ortodossi di oggi. [...] Gli è che essi non sono tutti in una Nazione, né tutti in un partito, né tutti d’un sol libro. Bisogna riunirli84.

Il riferimento ad un valore geopolitico più alto, l’Europa, perseguibile non malgrado ma in virtù di un riscoperto sentimento nazionale è ciò che accomuna Bottai e Pellizzi in questo frangente storico e politico e che moSulle culture di destra nell’Italia degli anni Cinquanta, cfr. G. TASSANI, Le culture della destra italiana tra dopoguerra e centrosinistra. Gentilianesimo, cattolicesimo ed evolismo a confronto e in concorrenza, in «Nuova Storia Contemporanea», a. VII, n. 2, marzo-aprile 2003, pp. 135-148. 83 Sulla figura politica e intellettuale di Bottai all’interno del periodo fascista, cfr. G. BRUNO GUERRI, Giuseppe Bottai, fascista, Mondadori, Milano 19962; A. DI MARCANTONIO, Bottai tra capitale e lavoro, Bonacci, Roma 1980; A. DE GRAND, Bottai e la cultura fascista, Laterza, Roma-Bari 1978. Si vedano anche G. BOTTAI, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 2001 e ID., Diario 1944-1948, a cura di G.B. Guerri, Rizzoli, Milano 2001. 84 (g. b.), Un linguaggio comune per un destino comune, in «abc», a. I, n. 1, 15 marzo 1953, p. 5. 82

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tiva la collaborazione di quest’ultimo ad «abc»85. Scrive infatti sul numero del 16 giugno 1953: Come nazione politicamente unita l’Italia è ancora “giovane”, e ancora sente la carenza di una propria “mitologia politica” unitaria. Condivido in pieno, e da tempi non sospetti, l’esigenza “europeistica”; ma l’europeismo non esclude, anzi rende più urgente e grave, l’istanza del mito nazionale. Non ci si può presentare all’Europa, e chiedere e offrire una nostra integrazione con essa, in veste di pura e semplice espressione geografica. Si può fare l’Europa integrando fra loro delle nazioni (anche, per estrema ipotesi, in un vincolo federale); non la si farà mai integrando delle espressioni geografiche. In ogni caso, chi non si presenta come nazione, e cioè con una propria salda mitologia nazionale unitaria dietro le spalle, verrà trattato sempre, dagli altri, come un parente povero e un peso morto86.

L’articolo in questione si rivela di estrema importanza, oltre che per le dichiarazioni appena riportate anche per altre due questioni facilmente intuibili già dall’occhiello che accompagna il titolo: “L’esperienza del ventennio”. Si tratta di questioni da Pellizzi più volte affrontate in questi primi anni del dopoguerra, eppure espresse ancora una volta in termini talmente espliciti e circostanziati da giustificarne un’ampia menzione in sede di ricostruzione di una biografia politico-intellettuale. Anzitutto, c’è l’ennesima presa di posizione rispetto al proprio passato fascista. A chi, come esponenti del Msi, lo accusano di “attendismo” e a chi, come esponenti liberali, lo accusano di nostalgismo, Pellizzi dichiara di appartenere a una vastissima categoria di persone che sono state fasciste, e non lo negano, non lo rinnegano, non lo nascondono, ma oggi non militano in nessun partito o movimento politico organizzato. [...] Personalmente io mi tengo fuori dalla politica militante, per ragioni di temperamento, e per una specie di necessità che mi appare connessa agli studi cui mi sono dedicato. Non rimpiango e non attendo nulla, per me, dalla politica. Riconosco che in questi anni ho potuto liberamente lavorare, e nei tempi in cui viviamo è già una gran cosa. Ho lavorato molto male da principio, finché tirava il rovaio delle epurazioni; assai meglio più tardi, malgrado arbitrari indugi dall’alto e più o meno velate e non legittime resistenze. Questo discorso finisce così, e non è da riprendere87. 85 Cfr. la lettera di G. Bottai a C.P. del 1º aprile 1953, in cui il primo annuncia al secondo la nascita della nuova rivista e ne auspica la futura collaborazione (ACP, b. 38, f. 58). 86 C. PELLIZZI, Elementi per un riepilogo, in «abc», a. I, n. 7, 16 giugno 1953, p. 6. 87 Ibidem. Affermazioni ancora più nette in senso europeista si leggono in C. PELLIZZI, La via dell’Europa, in «La Nazione», 29 giugno 1954: «Un’Europa integrata non sarebbe più, come l’Italia o la Francia o la stessa Inghilterra, una grande potenza di nome che è una

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Interessante e nuovo è, in questo brano, un giudizio sulla propria recente esperienza di epurato. Pellizzi appare sostanzialmente sereno e in pace con se stesso e con chi lo ha, per qualche tempo, sottoposto a prove non facili, facendogli scontare la precedente adesione al regime di Mussolini. Proseguendo, egli sottolinea inoltre i confini entro i quali ritiene opportuna e significativa una collaborazione alla nuova rivista di Bottai. Oltre all’amicizia e ai vincoli personali, c’è la necessità di un ripensamento che egli aveva personalmente già avviato con Una rivoluzione mancata, chiudendo il bilancio con il passato ma suggerendo che certe prospettive di rifondazione ab imis della società e dell’economia occidentali non dovevano essere abbandonate, ma semmai opportunamente revisionate e approfondite. Scrive infatti: Fuori da ogni questione di rapporti e amicizie personali, mi sembra che i collaboratori di questo periodico abbiano in comune, fra l’altro, la preoccupazione di recuperare e vagliare tutta l’esperienza vissuta di oltre un ventennio di storia, nel bene e nel male, e ritrarne qualche insegnamento. È altrettanto erroneo e pericoloso e immorale buttare via in blocco tutta questa esperienza, nella geenna, come da troppi si è voluto fare nell’ultimo decennio, quanto volerla tutta riprendere ed esaltare senza un discriminante giudizio88.

La seconda questione che rende particolarmente interessante questo articolo pubblicato su «abc» è la genesi storica del fascismo e le cause del suo fallimento, al contempo tragico e misero. Pellizzi sostiene che ogni nazione acquista una propria unità politica quando conferisce un’anima a quella comunità umana compresa entro quei dati confini territoriali, ossia dà un senso alla condivisione di doveri e sacrifici. La nazione italiana, a dispetto della retorica patriottica messa in campo a fini di mobilitazione generale, non entrò in guerra dotata di una simile anima. La guerra fu condotta, fino a Caporetto, con un disciplinarismo che ricordava il vecchio Piemonte, e che non presupponeva una già avvenuta integrazione piccola potenza di fatto: sarebbe una grande potenza di nome e di fatto. Una grande potenza culturale e politica, una grande potenza militare, e infine una grande potenza economica. L’Europa integrata non sarà forse mai per l’America, come è oggi la Russia, un pericoloso nemico ma sarà certo, e ben presto, un pesante concorrente». Pellizzi scrive all’epoca delle discussioni sulla CED, progetto di difesa comune affondato dal voto dell’Assemblea Nazionale francese, sostenendo che «danno prova di miopia, o di seguire un partito disonestamente preso, coloro che vedono nella CED, e negli altri istituti della solidarietà europea, solo e per sempre degli strumenti della politica americana, in funzione antirussa». 88 ID., Elementi per un riepilogo, cit., p. 6.

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della massa popolare entro il mito nazionale. E Caporetto fu quindi anche uno sciopero militare: confusa protesta di masse contro un sacrificio immenso di cui non sentivano tutto il significato (il “mito”). Né fu del tutto probante a tali effetti la ripresa successiva, la promozione agli esami d’ottobre; la ripresa fu minoritaria, dopo che era fallito l’esame di massa; Vittorio Veneto, relativamente parlando, fu opera di pochi, come era stato il Risorgimento. E parallelamente, la forza del mito risorgimentale si dimostrò anche insufficiente di fronte all’urto del “problema sociale”: insufficiente, per intendersi, in alto e in basso, nei ceti imprenditoriali e in quelli del lavoro89.

A tale proposito, risulta particolarmente significativa la posizione sostenuta da uomini come Camillo Prampolini, che Pellizzi cita ricordando «che era un patriota oltre che un socialista»90. All’epoca, la preoccupazione maggiore di Prampolini era stata proprio quella di favorire un’integrazione delle masse nella società e, soprattutto, nello Stato italiano, e a tale scopo si distingueva dal marxismo ortodosso il quale teorizzava il “tanto peggio, tanto meglio”, vedendo nella guerra l’occasione per innescare un processo rivoluzionario irreversibile. Non dissimile da questa era stata la posizione dell’ex socialista massimalista Benito Mussolini. Il socialismo cooperativistico e libertario, ma anche patriottico, di Prampolini aveva compreso bene quale potesse essere l’esito più plausibile di una guerra vinta in quelle condizioni storiche e sotto quella vecchia leadership sabauda: Come italiano e uomo generoso, vedeva chiaramente che la guerra, anche vinta, avrebbe potuto portare delle integrazioni in alto, non in basso; enucleare una nuova élite nazionale dirigente, fors’anche più numerosa di quella del passato, ma lasciando le masse in una posizione spirituale non migliore e forse peggioIbidem. I corsivi sono nel testo. Ibidem. Prampolini è imparentato, per parte di madre, con Pellizzi ed è grande amico del padre, Giovanni Battista. Il nome Camillo gli verrebbe proprio dalla parentela con l’esponente socialista. Rievocando l’infanzia del sociologo, Bechelloni scrive nel suo articolo commemorativo del 1979: «Nella casa paterna e nelle aule dell’università di Pisa assorbe umori e subisce il fascino di altri e diversi insegnamenti: il socialismo dell’apostolo delle plebi emiliane, Camillo Prampolini che gli è parente per parte di madre e di cui porta il nome; lo scientismo positivista di Lombroso, la sociologia di Toniolo» (Camillo Pellizzi: ricordo scomodo di un outsider, in «Rassegna Italiana di Sociologia», a. XX, n. 4, ottobre/dicembre 1979, p. 548). Cfr. anche la lettera di Bruno Rizzi a Pellizzi del 7 gennaio 1963: «Mi fa piacere sentire che è reggiano e discendente di Prampolini» (ACP, b. 41, f. 68). Sulla vita e l’opera di Prampolini, cfr. AA.VV., Prampolini e il socialismo riformista (Atti del Convegno di Reggio Emilia, ottobre 1978), vol. II, Istituto Socialista di Studi Storici, Roma 1981; S. PIVATO, Il socialismo evangelico di Camillo Prampolini, in AA.VV., L’età del positivismo, il Mulino, Bologna 1986, pp. 285-306. 89 90

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re, di quella di partenza. Il mito “Italia” poteva forse acquistare un maggiore significato per le minoranze, ma rischiava di perderne per le moltitudini, reduci da un grande sacrificio di cui non “sentivano” il corrispettivo. [...] Il socialismo, quello alla Prampolini, avrebbe forse potuto presentarsi come l’erede naturale del governo dopo una guerra persa; dopo una guerra vinta, malgrado le recriminazioni “caporettistiche”, ciò non era possibile. Le vecchie élites cercarono di condurre avanti il governo con i loro criteri di un tempo, ma non vi riuscirono. Ed è ingiusto deplorare quegli uomini delle vecchie élites che “vennero a patti”, come ora si dice, col fascismo. Era la cosa migliore che potessero fare in quelle circostanze, e il loro contributo ai primi anni di vita del governo fascista fu in molti casi prezioso91.

Il fascismo, però, da governo di coalizione non poté che trasformarsi in un nuovo regime politico il cui compito principale «era quello di portare avanti, almeno di un buon passo, il processo di integrazione nazionale del nostro popolo (ivi comprese molte categorie ricche e anche tradizionali)»92. Ma tale compito venne largamente disatteso, dal momento che durante il ventennio «il regime aveva battuto troppe note diverse, aveva troppe volte messo in sordina, o nel dimenticatoio, ciò che solo pochi anni, o pochi mesi prima, era stato presentato come un suo orientamento fondamentale»93. La mancanza di una coerente e univoca visione ideologica da parte dei vertici del regime minò alla base ogni possibilità di rendere solida e duratura l’integrazione delle masse popolari nello Stato. Ciò non toglie il fatto che nel giugno del 1943 il nostro popolo era senza dubbio “più nazionalmente integrato” di quanto non lo fosse nell’ottobre del 1922 [...]. Così bisogna riconoscere che il nostro popolo, ab antiquo individualista per tradizione e costume, si è assuefatto nel ventennio a un abito di maggiore collaborazione e solidarietà (e di ciò molto si avvantaggiano ora i comunisti)94.

Alla prova decisiva, rappresentata dall’impegno bellico, si manifestò comunque il punto debole del regime fascista, ossia l’incapacità di dare una direzione precisa (una «mitologia articolata») ad un pur accresciuto sentimento nazionale. All’idea e all’orgoglio di essere italiani, il fascismo non ha saputo associare alcun valore o principio politico per cui vivere, lottare e perire uniti come popolo. C. PELLIZZI, Elementi per un riepilogo, cit., p. 7. I corsivi sono nel testo. Ibidem. Il corsivo è nel testo. 93 Ivi, p. 8. 94 Ivi, p. 7. 91 92

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Per un inglese, ad esempio, “il mio paese” e “libertà” (con il particolare significato giuridico e politico e morale che egli annette a questa parola) vogliono dire praticamente la stessa cosa: ciò che si fa per l’uno si fa per l’altra, ciò che intacca l’uno intacca l’altra. Dopo aver creato un piedistallo unitario emotivo e di massa che mancava in Italia da secoli e millenni, e che è stato crimine e follia voler menomare così profondamente dopo la catastrofe, su quel piedistallo il fascismo ha costruito un insieme di “significati”, quasi in tutti i sensi e in tutti i campi, inconsistenti o contraddittori. La debolezza di una qualsiasi tradizione “fascista”, oggi, non è dovuta né alla catastrofe né all’antifascismo, che non ha portato quasi nulla di nuovo e di spiritualmente vigoroso, e non ha proposto nessuna sintesi politica originaria: quella debolezza è dovuta proprio a ciò che il fascismo di per se stesso è stato e non è stato, alle troppo diverse e incompatibili cose che volta a volta ha voluto essere, e figurare di essere. Nel campo costituzionale non ha saputo formulare ad esemplare un nuovo e chiaro rapporto tra l’esecutivo e le rappresentanze; nel campo sociale ha oscillato fra estremi quali la Carta del Lavoro e la “socializzazione” di Salò, per citare solo due dei suoi vari atteggiamenti; non ha lasciato dietro a sé né una tradizione monarchica né una tradizione repubblicana; e nel campo religioso, per non dir d’altro, è andato dai Patti Lateranensi al razzismo. Ne consegue che un’articolata e aggiornata “mitologia nazionale italiana” è ancora quasi tutta da fare, sebbene oggi si possa lavorare su presupposti psicologici e culturali, di massa, che non esistevano, colla stessa estensione ed intensità, prima del ventennio. Il fascismo ha dunque contribuito a preparare il terreno, ma il grande binario su cui potrà marciare questo popolo, con tutta la ricchezza delle sue interne articolazioni, ed anche contrasti, è ancora in massima parte da tracciare95.

Come si vede, pertanto, c’è da parte di Pellizzi un atteggiamento psicologico e culturale interamente proiettato nel futuro, nella prospettiva di poter agire sull’immaginario, le abitudini e i costumi del popolo italiano, cercando di realizzare quell’integrazione nazionale avviata solo in minima parte dal fascismo. Il contributo di Pellizzi alla nuova, ed ultima, avventura editoriale di Bottai si limiterà a questo lungo e denso articolo. Dopo di che la firma del professore di sociologia comparirà nuovamente solo per un articolo commemorativo compreso nel numero speciale del 1° marzo 1959, scritto all’indomani della morte del fondatore e direttore della rivista, deceduto ai primi di gennaio di quell’anno96. Moltissime sono in quel numero di «abc» Ivi, p. 9. La rivista chiuderà i battenti dopo l’uscita di questo numero per mai più riaprirli. Una nota di redazione comunicava che «con questo fascicolo, si chiude la gestione ammi95 96

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le testimonianze di affetto e di stima nei confronti dell’ex ministro dell’Educazione Nazionale (solo per citare uno degli innumerevoli incarichi ricoperti da Bottai nel regime fascista), il quale viene ricordato da Pellizzi come colui che più di qualsiasi altro gerarca consentì a molti ingegni anticonformisti e refrattari alla retorica del regime di «dare il meglio delle loro capacità», ottenendo cariche ed onori quando, invece, «l’Italia accademica, burocratica ed ufficiale, prefascista e fascista, [li] avrebbe relegati nel limbo degli uomini, per un verso o per l’altro, “impresentabili” e “impromuovibili”»97. È per questo che Pellizzi stigmatizza la loro assenza al funerale di Bottai, dal momento che quest’ultimo «inserì costoro, non tanto nel regime quanto nello Stato, e nella circolazione qualificata e autorizzata del pensiero nazionale»98. Il direttore di «abc» aveva avuto il merito di tentare quella selezione di un’élite nazionale, che sia pure lontana dall’ideale del coinvolgimento emotivo e politico delle masse, era comunque mèta condivisa dallo stesso Pellizzi. Anzi, possiamo dire che a quell’epoca Pellizzi, sicuramente negli anni Venti, era ben lungi da quelle posizioni di “socialismo nazionale e libertario” di cui aveva scritto nelle stesse pagine di «abc» sei anni prima, ed era semmai alquanto vicino alla linea politico-culturale perseguita dal giovane direttore di «Critica Fascista». L’élitismo pellizziano era ancora intriso di un romantico aristocraticismo, in cui la lettura di Carlo Michelstaedter si fondeva con quelle di Pareto e di Michels. E resta aperto l’interrogativo se quella critica dell’influenza nietzscheana giudicata assai perniciosa sul primo fascismo, espressa nelle pagine di Una rivoluzione mancata, non contenga anche qualche motivo autobiografico, e non sia perciò da considerarsi anche come una sorta di autocritica99. nistrativa di abc, fondata e diretta da Giuseppe Bottai. Gli abbonati che intendono ritirare la rimanenza della quota di abbonamento sono pregati di farne richiesta all’amministrazione. I redattori, tuttavia, ritenendo sempre valida l’impostazione politica di abc e il suo metodo di discussione e di critica, e tuttora vitali le direttive di pensiero che sono nate dall’opera di Bottai e dei suoi collaboratori, nutrono la speranza di poter riprendere presto la pubblicazione di abc» (Agli abbonati e agli amici di abc, in «abc», a. VII, nn. 3-4-5, 1º marzo 1959, p. 31). 97 C. PELLIZZI, Ricordi e previsioni, in morte di Giuseppe Bottai, in «abc», a. VII, nn. 34-5, 1° marzo 1959, p. 47. 98 Ibidem. 99 Cfr. C. PELLIZZI, Una rivoluzione mancata, cit., p. 42. Delio Cantimori curò un’ampia scheda su Nietzsche, considerato sia come filosofo sia come pensatore politico, per il Dizionario di Politica, a cura del Partito nazionale fascista, vol. III, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1940, pp. 275-276, ora in D. CANTIMORI, Politica e storia contempora-

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Nel secondo dopoguerra le posizioni di entrambi hanno subito profonde revisioni e si sono in parte distanziate fra loro, e Pellizzi non manca di ricordarlo nel suo articolo del 1° marzo 1959: Personalmente, non ero del tutto d’accordo con qualcuno degli atteggiamenti politici di Bottai negli ultimi tempi; e ritengo che tutto il precedente corporativismo sia da rimettere allo studio, ma che nessuna singola parte concreta di esso, teoria o prassi, debba o possa venir oggi ripresa e applicata. Ma quando sia ufficialmente riconosciuto (se mai ci si arriverà) che gli ultimi dieci anni del Fascismo, e i primi quindici anni dopo il crollo del Fascismo, sono stati quasi interamente sprecati agli effetti dello svolgimento di un autonomo e concreto pensiero sociale e politico degli Italiani, valido per noi ma in qualche misura valido anche per tutta la civiltà cui noi apparteniamo, solo allora si potrà riprendere una polemica costruttiva intorno a problemi reali ed autentici, al punto in cui esame e polemica furono interrotti venticinque anni fa100.

Queste precisazioni, sia pure poste sul piano astratto della teoria politica e sociale e sia pure tra mille distinguo, rendono conto di alcuni motivi della scarsa partecipazione di Pellizzi alle battaglie politiche e culturali condotte da «abc». La strenua difesa del libero mercato capitalistico, la correlativa ripulsa del socialismo identificato con lo statalismo, la fiducia riposta nella forma-partito e la conseguente insistita ricerca di un dialogo con alcuni partiti politici sono aspetti condivisi dai redattori e da molti collaboratori della rivista bottaiana e, in sostanza, dal suo stesso direttore. In numerosi editoriali Bottai stigmatizza la politica democristiana in quanto chiusa ad ipotesi di apertura a destra, complice spesso l’atteggiamento settario e impolitico delle varie destre presenti nel panorama partitico italiano. Ponendo sopra ogni altra cosa la tenuta della “diga” anticomunista, l’ex gerarca fascista preme dalle colonne del suo quindicinale affinché il centro democristiano e la destra (dai liberali ai missini) possano nea. Scritti (1927-1942), a cura di Luisa Mangoni, Einaudi, Torino 1991, pp. 492-497. Secondo lo storico romagnolo, gli uomini del fascismo «elaborarono entro un altro pensiero e un’altra dottrina politica i motivi di volontarismo, di energia, di spregiudicatezza e di critica alla morale “borghese” caratteristici del Nietzsche», tanto che «quelle idee hanno ricevuto nel pensiero di MUSSOLINI una trasformazione radicale» (ivi, pp. 492-493 e 495. Il maiuscoletto è nel testo). Per un’analisi delle voci del Dizionario di politica del PNF, cfr. A. PEDIO, La cultura del totalitarismo imperfetto. Il Dizionario di politica del Partito nazionale fascista (1940), Unicopli, Milano 2000. Sul periodo fascista di Cantimori, cfr. R. PERTICI, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l’itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1940), in «Storia della storiografia», n. 31, 1997, pp. 3-140 (con Appendici, pp. 141-168). 100 Ivi, p. 48. Il corsivo è nel testo.

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trovare «un terreno d’incontro, dove finalità d’ordine più generale si connettano al mantenimento o al rafforzamento delle condizioni di stabilità e di sviluppo dell’intero sistema politico, minacciato dalla pressione comunista»101. Di fronte al profilarsi sempre più prossimo di un governo di centro-sinistra, Bottai sostiene, in accordo ad esempio con Luigi Sturzo (personalità dell’area DC ascoltata e apprezzata da «abc»), la «necessità che sia la destra, una destra, e non la sinistra, a costituire l’alternativa di governo in un domani più o meno prossimo»102. A tale scopo si rivela cruciale lo sforzo, a lungo sostenuto da Bottai, per risolvere «il problema della destra» che è quello «di legittimarsi nello Stato democratico», attraverso un’azione politica che sia «nel pieno rispetto dell’ordine costituito, per contribuire alle applicazioni e revisioni e trasformazioni e riforme, attraverso le quali una Costituzione passa dalla carta nella viva coscienza d’un popolo»103. Un modo rapido ed efficace per mettere le destre italiane (monarchici compresi) di fronte a questa necessità di legittimazione e ammodernamento è il sostegno popolare al momento delle elezioni. Di qui l’invito in più occasioni, in particolare per le consultazioni del 25 maggio 1958, a che il voto “di destra” vada verso i partiti così definiti (o autodefiniti) e non confluisca nella DC. Chiamate a formare un governo con i democristiani le varie destre non potrebbero non aprirsi «alle esigenze di uno Stato moderno, senza retrive riserve», ma al contempo sarebbe preservata la democrazia dal pericolo comunista104. Per marcare alcune pur lievi differenze rispetto ad un Longanesi o ad un Bottai, bisogna ricordare che in Pellizzi è forte la presenza della fede religiosa, cristiano-cattolica. Essa è anzitutto una convinzione interiore e una pratica privata, quindi non è mai tale da inficiare un approccio dubbioso e persino un po’ disincantato ai problemi della società contemporanea, ma certamente esercita una qualche influenza sul suo pensiero politico. Ad esempio, a quegli intellettuali affascinati dal comunismo, egli concede che il motivo principale della loro adesione «è dato senza dubbio da 101 Una destra che possa dirsi centro, in «abc», a. V, n. 8, 16 aprile 1957, p. 2. L’editoriale, non firmato, è attribuibile senz’altro a Bottai. 102 Ibidem. Il corsivo è nel testo. 103 Ibidem. Significativo quanto Bottai scrive a Pellizzi il 24 aprile 1956: «[...] il successo avuto tra i vecchi abbonati di Critica Fascista, che erano parecchie migliaia, m’inducono a continuare la piccola impresa, che testimonia, se non altro, della capacità di certo ex fascismo, di ragionare pacatamente e serenamente» (ACP, b. 39, f. 61). 104 Per un nuovo schieramento, in «abc», a. VI, n. 8, 16 aprile 1958, p. 3. Editoriale non firmato, ma di Bottai.

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un alquanto utopistico idealismo, da un generico desiderio di sacrificio per il bene dell’umanità e, in particolare, degli oppressi»105. Però, al tempo stesso, ricorda loro l’insegnamento che può venire dalla tradizione tomista ancora perfettamente attuale: Ben pochi sanno o riflettono, per esempio, che già in San Tommaso si trova una concezione «organicista» della società e della economia sociale, la quale da sola potrebbe condurre ad applicazioni pratiche ancor più radicali di quelle attuate da Stalin106.

Pellizzi parte dal presupposto che la fede è «un’opzione necessaria», secondo un’espressione del filosofo Teilhard de Chardin che gli è molto cara e che cita a più riprese in articoli e saggi. Per questa ragione il motivo della libera scelta è compresente all’esigenza, assolutamente interiore e personale, di un vincolo all’entità che sola può dare senso compiuto all’esistenza umana nel mondo. In altri termini, la fede non può essere altro che l’esito di un’adesione tanto sincera quanto autonoma. A tale scopo si rivela importante l’educazione, ed è sotto questo aspetto che egli valuta positivamente l’operato di don Lorenzo Milani presso la parrocchia di San Donato in Mugello. Fare scuola per i ragazzi del popolo, istruirli è impegno meritevole, a cui Pellizzi rimprovera solo il fatto di scartare in partenza i figli dei “ricchi”, poiché «non i soli contadini e operai di San Donato, ma gl’Italiani tutti mancano di un “linguaggio sociale” nel quale possano tutti capirsi, anche dissentendo, fondato su un minimo indispensabile, a tutti comune, di persuasione e di sincerità»107. Se quindi questa idea trova Pellizzi consenziente, lo stesso non si può dire per quell’idea di cristianesimo sociale di cui don Milani è solo un esempio, peraltro migliore di molti altri. Troppi uomini di Chiesa, secondo Pellizzi, per resistere all’impetuoso vento di secolarizzazione si sono messi a correre in gara col libeccio; vogliono tener testa al secolo servendosi delle armi del secolo, che su quel terreno, inevitabilmente, la sa più lunga di loro; per gareggiare coi comunisti, che sono ormai i soli avversari validi ch’essi abbiano in quasi tutte le terre d’Italia, impiantano cinema parrocchiali e circoli di ricreazione, movimenti e organismi politici o parapolitici; e insomma combattono una 105 G.B. FERRARI (pseudonimo di Pellizzi), Affascinati certi “intellettuali” dalle spire del pitone bolscevico, in «Il Popolo», 20 aprile 1951. 106 Ibidem. 107 C. PELLIZZI, La scoperta di don Milani, in «il Resto del Carlino», 23 settembre 1958. Lo stesso articolo, col titolo Gli amari pascoli di padre Milani, era uscito il giorno prima su «La Nazione Italiana».

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guerra non loro con armi non loro, lasciando così che si spuntino o si arrugginiscano le loro vere armi, e che venga disertata la vera guerra, alla quale essi sono chiamati dall’Alto108.

Da queste poche frasi si può ben capire quale sia la posizione di Pellizzi, il quale non apprezza nemmeno un cattolicesimo «di destra» che degenera spesso nel bigottismo e nell’ipocrisia, dando manforte, ad esempio, alla «nostra etica corrente» che è «a senso unico, monosessuale», cioè maschilista109. Ciò che non gli piace è la commistione tra sacro e profano, cioè tra religione e politica di partito. La prima dovrebbe essere questione attinente al foro interiore di ciascuno e rivolgersi soprattutto alla dimensione del trascendente, mentre la seconda, e più in generale l’amministrazione della cosa pubblica, dovrebbe essere appannaggio dei competenti dei vari settori della società e far così fronte ai mutamenti insiti nella modernizzazione. Questo per quel che concerne il possibile peso della fede cattolica sulle opinioni politiche espresse da Pellizzi nel dopoguerra. Se poi si vuole trovare un qualche minimo comun denominatore che unisca le numerose – e non sempre perfettamente coerenti – riflessioni sulla passata esperienza fascista compiute fino a questo momento dall’ex presidente dell’INCF, l’unico dato costante rintracciabile è la questione corporativa. Sotto questo profilo, possiamo riscontrare una relativa affinità con il post-fascismo di Ugo Spirito. Non è un caso che, come si legge nell’articolo scritto per il numero commemorativo del 1º marzo 1959, l’interruzione dell’«esame» e della «polemica costruttiva» sull’assetto corporativo della società italiana sia fatta risalire a venticinque anni prima. Essendo l’articolo del 1959, la data cui Pellizzi si riferisce è il 1934 o giù di lì. Ed è proprio intorno alla metà degli anni Trenta che lo stesso Spirito, in diversi scritti pubblicati nel dopoguerra, ha collocato la fine dell’esperimento corporativista e, con esso, della spinta propulsiva della “rivoluzione fascista”110. Il corporativismo pellizziano appare come una strana forma di socialismo in cui elementi anarco-sindacalisti del primo Novecento si affiancano a suggestioni provenienti dall’ambiente politico inglese (tanto conservatore quanto laburista) e dalle frequentazioni di Ezra Pound prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Per quel che concerne alcuni insegnaIbidem. C. PELLIZZI, Riti e ritualismi, in «Corriere della Sera», 19 aprile 1966. 110 Cfr., ad esempio, U. SPIRITO, Memorie di un incosciente, Rusconi, Milano 1977, pp. 58-62. 108 109

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menti tratti dal soggiorno in Inghilterra, va sottolineata l’importanza che Pellizzi riconosce alla cosiddetta società civile. Egli si rende conto, infatti, «che scarseggia negli Italiani, e a volte manca quasi del tutto, il sentimento della società»111. Senza simili fondamenta affettive, però, è inutile attendersi il rispetto dello Stato, dei suoi istituti e degli uomini che lo incarnano. Lo Stato è un concetto, mentre la società è prima di tutto un sentimento; se manca il sentimento della società sotto il concetto dello Stato, lo Stato rimane una cosa fredda e campata in aria come il cappello del margravio, che i valligiani del Guglielmo Tell dovevano salutare quando ci passavan davanti. E gli italiani sono astutissimi: quando non posseggono, o scarsamente posseggono, un sentimento che dovrebbero avere, lo innalzano a simbolo astratto, come il cappello del margravio, e gli fanno inchini a più non posso; e finisce lì. Dopo tutto, un cappello, che noia dà?...112.

Quindi occorre prendere le mosse da una società italiana ancora da costruire. A tale scopo si rivela di fondamentale importanza l’educazione civica e politica, da impartire nelle scuole alle generazioni più giovani, proprio come in Inghilterra dove Pellizzi ricorda che facevano discutere ai bambini delle scuole elementari le ragioni per cui i Conservatori dopo le elezioni generali, avrebbero aumentato il prezzo del burro, mentre i Laburisti vi si opponevano. In Italia, ohibò, di simili cose non discutono nemmeno i Ministri!113.

C’è poi da considerare la frequentazione di Ezra Pound e del suo entourage. A tale proposito va segnalato che tramite il poeta americano Pellizzi viene a conoscenza dei cosiddetti monetary cranks, delle teorie sul Social Credit di Clifford Hugh Douglas e di Silvio Gesell, cioè «quegli economisti eretici per i quali il denaro, contrariamente a quanto pensano gli economisti ortodossi, ha un’importanza essenziale nel funzionamento del sistema economico, e soprattutto nel causare i peggiori mali della società»114. L’approccio etico ai problemi economici è sottofondo comune C. PELLIZZI, Educazione da fare, in «Il Tempo», 8 febbraio 1952. Ibidem. 113 Ibidem. 114 G. LUNGHINI, Introduzione a E. POUND, L’ABC dell’economia e altri scritti, prefazione di Mary de Rachewiltz, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 13. Pellizzi fa riferimento a Gesell e al suo Social Credit nella lettera a Pacces del 25 febbraio 1950, chiedendogli se lo ha letto e dichiarando lapidariamente: «Non da buttar via a priori, ma io ne mastico poco» (ACP, b. 37, f. 55). Anche Peter Russell, in una sua lettera a Pellizzi, menziona Gesell come lettura basilare (12 marzo 1949, in ACP, b. 36, f. 54). Russell, promotore a Londra di una 111 112

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a tutti questi autori, i quali pongono particolare attenzione al momento della redistribuzione della ricchezza. In un articolo del 1953, in cui Pellizzi si dichiara amico di Pound e «onorato della sua amicizia» perché nel poeta ha trovato «l’uomo meno ipocrita fra quanti io abbia mai conosciuto», leggiamo fra l’altro: della sua crociata contro l’usura troppi dotti e troppi orecchianti sorridono, con fatuità, senza accorgersi che Pound, con un intuito più da poeta che da studioso, ha qui spinto la sua grossa mano dura a toccare la piaga profonda, e forse mortale, di cui soffre la civiltà nostra da almeno due secoli. La nostra civiltà è fondata oggi sull’usura, sebbene ami illudere se stessa chiamandola «sistema di credito»; e le bombe atomiche di cui da un mese all’altro, e da una parte o dall’altra, ci si promette una così generosa aspersione, altro non sono che la suppurazione ultima di questa piaga morale115.

Altra influenza, seppur non ben ponderabile, è quella esercitata da Odon Por, amico sia di Pellizzi che di Pound sin dai primi anni Venti116. «Società Ezra Pound», nata come circolo di amici, tradusse in inglese sei trattati economici del poeta americano, già pubblicati in italiano nel periodo fascista, con il titolo Money Pamphlets by £ [cfr. H. CARPENTER, Ezra Pound, il grande fabbro della poesia moderna (1988), Rusconi, Milano 1997, p. 910]. Russell ristampò nel 1951 anche un pamphlet poundiano del 1935, Social Credit: An Impact (trad. it. in E. POUND, L’ABC dell’economia e altri scritti, cit., pp. 79-101). Sulle teorie di Douglas e del “Credito Sociale”, cfr. H. CARPENTER, op. cit., pp. 422-429. 115 C. PELLIZZI, Ezra Pound uomo difficile, in «Il Tempo», 20 marzo 1953. Nello stesso articolo, scritto anche per sostenere la campagna di liberazione del poeta americano dal manicomio criminale di Washington (D.C.), Pellizzi accenna al sospetto, circolante tra i gerarchi fascisti, che Pound fosse una spia e i suoi radiodiscorsi messaggi in codice a favore degli Alleati. Questo ed altri articoli pellizziani (ad esempio, Verità e mito di Ezra Pound, in «La Nazione», 28 maggio 1958) suscitarono anni dopo l’interesse del giovane Niccolò Zapponi alla ricerca di dati e informazioni sui rapporti tra Pound e l’Italia fascista (da cui poi nacque il libro L’Italia di Ezra Pound, Bulzoni, Roma 1976). Si veda la lettera di Zapponi a Pellizzi del 15 luglio 1972 (ACP, b. 43, f. 77). 116 Pellizzi si mobiliterà per aiutare Pound, inizialmente su invito di Russell ed Eliot e poi, in seguito, della figlia del poeta, Mary de Rachewiltz (di cui si veda una lettera cit. in H. CARPENTER, op. cit., p. 935). A tale proposito si veda la lettera di Prezzolini scritta a Pellizzi l’8 luglio 1953: «Quanto a Pound non credo di poter far nulla. Poi immaginati dove non riuscì Eliot con il suo prestigio, se potrei far qualche cosa. Forse guasterei tutto. Sono sulla lista nera. Montanelli ti conosce. Ti sarà facile trovarlo» (ACP, b. 38, f. 58). Curiosa un’altra lettera di Prezzolini a Pellizzi (2 agosto 1953, in ACP, b. 38, f. 58), in cui lo scrittore fiorentino chiede sorpreso dell’entusiasmo mostrato nei confronti dell’ultimo libro di Guido Piovene, De America, edito da Garzanti nel 1953 (libro che in un anno avrà ben quattro edizioni): «Come mai tu ti adoperi alla liberazione di Pound, e poi sottoscrivi a quello che scrive un partigiano nemico di Pound?» (La sottolineatura è nel testo).

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Ancora negli anni Sessanta, Por sollecita Pellizzi a dar vita ad un’iniziativa editoriale, un quindicinale, che abbia come titolo «Programmare» e che diffonda le tesi di una pianificazione decentrata e partecipata dal basso, democratica insomma117. Tesi del genere comparivano anche in alcune pagine di Una rivoluzione mancata. Per inciso, non si deve dimenticare che in Italia siamo alla vigilia del varo del primo governo di centrosinistra, il quale – soprattutto per bocca del Partito socialista – fa della programmazione un proprio cavallo di battaglia e un motivo centrale nell’affermazione della propria identità. Tornando a Pellizzi, è insomma da questa singolare commistione di idee e suggestioni che egli ritiene necessario prendere le mosse per rispondere efficacemente alla sfide emergenti nelle società complesse dell’Occidente industrializzato, e anzitutto alla sempre risorgente “questione sociale”. Questa miscela di elementi teorici eterogenei è probabilmente di difficile traducibilità pratica e politica, ma deposita nel pensiero di Pellizzi sensibilità e idee che mal si conciliano con posizioni di destra liberale e conservatrice. Quanto meno non ne soddisfano mai fino in fondo l’intima istanza “socialista”, precisando che per socialismo egli non intende affatto un massiccio e sistematico intervenzionismo statale. Tant’è vero che, in un articolo del 1954, egli non esita ad affermare che lo statalismo «rappresenta la patologia, e non la fisiologia, del socialismo»118. Infine occorre dire che le coordinate politico-culturali e i principi guida che Bottai attribuisce alla «destra che può e deve vivere» sono così vaghi e fondati sulla mediazione di istanze diverse che avrebbero potuto trovare concorde lo stesso Pellizzi119. Come quando, in un editoriale del luglio 1958, il direttore scrive: 117 Cfr. lettera di O. Por a Pellizzi del 10 ottobre 1962 (ACP, b. 41, f. 67), cui è allegato un prospetto programmatico del quindicinale. Vi si legge, fra l’altro: «Si vorrebbe con questa pubblicazione colmare il vuoto fra “pianificatori” (Stato - Parlamento - Burocrazia Commissioni - Esperti) ed i Cittadini. Questo vuoto esiste effettivamente e costituisce il pericolo che tutta la pianificazione vi si affondi. [...] Bisogna neutralizzare l’impressione (che prevale) che la pianificazione è una cosa arida, “schema”, materialista, redditizia per i pochi che ci stanno dentro. Bisogna colpire particolarmente l’immaginazione della gioventù, far sentire e capire che [...] vi si può collaborare “da volontari”, prender iniziative, senza aspettare il “Via” dal Centro, sul posto, nel loro paese – fare ed attuare piani per eliminare “guasti” locali nella vita locale». 118 C. PELLIZZI, Il paese del socialismo, in «Centro Italia», 25-31 gennaio 1954. 119 La destra che può e deve vivere, in «abc», a. VI, n. 13, 1° luglio 1958, pp. 1-2. Editoriale non firmato, ma di Bottai.

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La destra dovrà chiarire come il liberalismo economico abbia ragione di opporsi allo statalismo grossolano e massiccio che non persegue l’interesse dei più ma quello dei pochi, ma come siano irrecusabili certe necessità di organizzazione dell’economia per i fini di esigenze inderogabili della società contemporanea; e come il problema fondamentale dell’economia contemporanea sia appunto quello di contemperare le due necessità, nessuna delle quali può essere negata. Bisogna, dunque, rifare la destra ab imis fundamentis, se si vuole che viva, se si vuole, cioè, che esplichi la sua inevitabile funzione120.

Posizioni non del tutto dissimili sostiene Leo Longanesi negli stessi anni dalle colonne del suo quindicinale (poi settimanale dall’aprile 1954) «il Borghese». Soprattutto verso la DC, la linea editoriale delle due riviste presenta analogie: si criticano le correnti interne al partito democristiano disposte a dialogare, ed eventualmente ad allearsi, con le sinistre socialcomuniste; se ne auspica, al contrario, l’apertura a destra, in modo da rafforzare il fronte anticomunista altrimenti in via di cedimento. Nei confronti della destra in Bottai e Longanesi c’è un comune atteggiamento di ricerca di “un partito che non c’è”, nel senso che non esiste con quelle caratteristiche auspicate da Bottai e da Longanesi, caratteristiche non del tutto dissimili tra loro. Forse, e questa è la differenza maggiore, la ricerca è più sincera e chiara nelle intenzioni del direttore di «abc» che non in quelle del direttore del «Borghese». Quest’ultimo presenta un tasso di «cinismo estetizzante», che ne connota l’intera concezione e produzione giornalistica, ossia «la tendenza [...] – scrive Raffaele Liucci –, nel momento di esprimere un giudizio su di un fenomeno politico, di confondere il piano etico e politico con il piano estetico»121. Questa cifra stilistica, ancor prima che ideologica, è estranea a Bottai, il quale nei confronti della DC non arriverà mai a quella avversione e a quel livello di denuncia cui giungerà «il Borghese» intorno alla metà degli anni Cinquanta122. Longanesi lancia la sua nuova creatura editoriale nel marzo del 1950. Sin dal febbraio precedente invita l’amico Pellizzi a collaborare, chiedendogli, così per iniziare, «qualche recensione di libro inglese o italiano che ti sembra interessante»123. Gli chiede inoltre: Ivi, p. 2. R. LIUCCI, L’Italia borghese di Longanesi. Giornalismo politica e costume negli anni ’50, Marsilio, Venezia 2002, p. 210. L’espressione «cinismo estetizzante» è esplicitamente ripresa dall’articolo di A. GAMBINO, Longanesi si addice all’italiano «furbo», in «la Repubblica», 28 settembre 1977. 122 Ivi, pp. 113-132. 123 L. Longanesi a C.P., 6 febbraio 1950, in ACP, b. 37, f. 55. 120 121

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Poi mandami un articolo, possibilmente su questi temi: 1) “L’educazione nelle scuole inglesi. Come si fabbrica una classe dirigente. Vale a dire, studiare come qui, nelle nostre scuole e nelle nostre università, non la sappiamo fabbricare”. 2) “Le illusioni della psicologia”. Voglio dire l’eccessiva importanza che oggi si dà a questa parola, a questa scienza che è molto soggettiva, induttiva, valida quando chi se ne occupa ha talento e fantasia, come il Freud. [...] 3) “L’anima labourista inglese”. (Questo è l’articolo che preferirei per il primo numero). Cioè quel fondo quacchero da maestri elementari, da figli di pastori, che sta alla base della politica labourista. Con esempi, pezzi di articoli, dati ecc.. 4) Il mito di Robinson Crusoè: vale a dire R.C. primo borghese (anche questo tema è buono).

Pellizzi risponderà pochi giorni dopo, approvando l’iniziativa e le proposte ma dicendo che, al momento, gli impegni sono troppi e non ha il tempo per scrivere contributi al «Borghese»124. Una vera e assidua collaborazione inizierà nel 1952 e proseguirà fino alla primavera del 1954 per poi interrompersi. Riprenderà solo a metà anni Sessanta, all’epoca della direzione di Mario Tedeschi. Se dovessimo stabilire, semplificando un po’ la questione, verso chi vada la maggiore simpatia politico-culturale di Pellizzi, tra Bottai e Longanesi non sapremmo chi scegliere. Difficile dire, ad esempio, con chi dei due l’amicizia fosse più stretta; con entrambi essa risaliva agli anni Venti. E se con Longanesi c’erano anche legami famigliari (Pellizzi, ad esempio, doveva al direttore de «L’Italiano» la conoscenza della futura moglie Raffaella), con Bottai esiste un rapporto per cui questi, nel 1957, può scrivere all’ex presidente dell’INCF: «tu sei tra gli amici uno di quelli che più hanno inciso sulla mia vita»125. C’è poi da tener conto che anche la collaborazione alla rivista longanesiana cesserà intorno alla metà degli anni ’50. Inoltre, tanti degli attributi propri del giornalismo longanesiano, e del «Borghese» in particolare, sono estranei al pensiero di Pellizzi. Forse lo stile è quel che più si avvicina all’indole letteraria che il maturo sociologo porta con sé sin dai tempi di un libro come Gli spiriti della vigilia, edito da Vallecchi nel 1924. Ed è proprio Carlo Michelstaedter, uno dei tre scrittori annoverati tra gli “spiriti della vigilia”, a balzare alla mente non appena si leggono molti degli 124 «Bene. Ora ho troppo da fare». Da una nota manoscritta (datata 10 febbraio 1950) apposta da Pellizzi in calce alla lettera di Longanesi del 6 febbraio 1950. 125 G. Bottai a C.P., 21 ottobre 1957, in ACP, b. 39, f. 62.

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articoli pubblicati da Pellizzi sul «Borghese» nei primi anni Cinquanta126. Si tratta, per lo più, di dialoghi morali o massime brevi e caustiche, che hanno una lunga tradizione nella letteratura italiana e nella storia dell’invettiva politica. Si pensi a epigrammi e invettive come queste: In ogni caso, saremo “un popolo” solo quando avremo imparato a fare le code educatamente127. E non è vero che gli italiani sono un popolo anarchico (Dio volesse!). C’è solo un grande anarchico in Italia: lo Stato. Basta considerare, a convincersene, la Costituzione che ci hanno data: questo rudere artificiale, costruito appunto come rudere, per nostalgia dei tempi in cui le costituzioni si facevano così; ma tanto povero ed infelice, anche come rudere, che la gente si accorge della sua esistenza solo perché impedisce il traffico. Il nostro sistema, elettorale e parlamentare nella forma, “partitistico” (brutta parola che indica una bruttissima cosa) nella sostanza, offre al nostro bisogno di libertà soddisfazioni in gran parte formali, mentre alle nostre esigenze di integrazione risponde soltanto con il più o meno segreto funzionamento delle cricche al potere128.

La consonanza di accenti e tematiche con il qualunquismo e la destra neofascista, sia pure nello stile elegante e raffinato che è proprio di Longanesi, risulta in questo caso chiara e inequivocabile129. Nell’ultima frase riportata emerge però anche un tono differente rispetto al cinismo sterile e sostanzialmente impolitico, se non antipolitico, che emerge con forza dalle pagine di un periodico come «il Borghese». Di recente è stato scritto che, dal punto di vista ideologico, «ciò che maggiormente caratterizzò il “Borghese” longanesiano fu proprio la mancanza di una ben precisa ideologia»130. Sempre secondo questa recente lettura, peraltro inserita in una Su Michelstaedter Pellizzi torna proprio in quegli anni con un lungo articolo dedicato all’opera principale dello scrittore goriziano, La persuasione e la rettorica; cfr. C. PELLIZZI, Il mito della persuasione e la scienza della retorica, in «La Fiera Letteraria», 13 luglio 1952. 127 STEROPE, L’Italia che non si fa (Le code), in «il Borghese», a. III, 15 luglio 1952, p. 422. 128 C. PELLIZZI, I misteri d’Italia (Gli autocrati, Speditezza, I Plutomani), in «il Borghese», a. IV, 15 giugno 1953, pp. 355-357. 129 Si tenga peraltro conto dell’abitudine di Longanesi di «ritoccare e rimaneggiare gli scritti di quasi tutti i suoi collaboratori (con l’eccezione, forse, di Ansaldo e Prezzolini), per meglio rifonderli nella struttura unitaria del “Borghese”» (R. LIUCCI, op. cit., p. 91). Cfr. anche M. MONTI, Il dittatore di Bagnocavallo. Vi racconto com’era Longanesi, in «Millelibri», a. II, n. 5, 1988, pp. 74-79; G. PREZZOLINI, L’Italiano inutile, Longanesi, Milano 1954, p. 354. 130 R. LIUCCI, op. cit, p. 196. 126

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storiografia consolidata sull’argomento, la rivista longanesiana fu «luogo di raccolta di almeno tre tipologie di destre (la destra neofascista; la destra conservatrice di ascendenza risorgimentale, ascendenza, per la verità, un poco sbiadita; la destra, se così possiamo definirla, “apota”, incredula e disincantata, alla Prezzolini, versione intellettuale degli umori qualunquisti alberganti nel profondo della società italiana)»131. L’unico collante di queste diverse posizioni politico-culturali sarebbe stata piuttosto una «“antideologia”, una avversione, cioè, alla ideologia del tempo, alla storia ufficiale, all’arco costituzionale, alla ‘retorica’ della Resistenza, alla “democrazia dei partiti”»132. Se questo tipo di lettura pare appropriata per spiegare natura e finalità del «Borghese» e di tanto giornalismo della destra degli anni Cinquanta, pare altrettanto corretto sostenere che Pellizzi difficilmente possa essere collocato in una delle «tre tipologie di destre» sopra elencate. Nonostante si lasci andare al proprio estro letterario e al gusto per il motto arguto e l’aforisma da moralista latino, il sociologo non dismette mai del tutto i panni di colui che associa all’invettiva e alla polemica la mediazione offerta dall’analisi del dato e dal ragionamento critico e autocritico. Quel fenomeno stranamente congiunturale, e per certi aspetti mostruoso, che fu il nostro cosiddetto “Risorgimento”, ha lasciato dietro a sé uno stato che vorrebbe esser nazione, senza del tutto riuscirci; e una compagine di popoli che, per quel tanto che vorrebbe esser nazione, non si rispecchia nel proprio stato. [...] Il fascismo [...] non riuscì a decidere mai se voleva essere una gerarchia burocratica al servizio di un dogma, oppure una categoria dirigente. Il comunismo, per esempio, ha scelto di essere la prima di queste due cose: è la sua forza; [...]. Burocrazia e classe dirigente, da ultimo, sono termini complementari e non antitetici; ma una burocrazia non condizionata e ispirata da una classe dirigente diventa per natura di cose un’oligarchia chiusa e tirannica. [...] Il fascismo parlò fino dal principio di “gerarchia” e perfino di nobiltà: ma in pratica, tutto si risolse in forme nuove di snobismo, senza alcun vero impegno e senza fondamento di responsabilità133.

L’evidente insofferenza verso il sistema politico italiano, di cui già nel 1953 egli denuncia la natura «partitistica» e la farragine burocratica, non si riduce mai al motto qualunquista “si stava meglio quando si stava peggio...”. Certamente, Pellizzi si adatta in buona parte allo stile e al tono dell’invettiva generica e qualunquista della rivista longanesiana, ma nel contenuto non si discosta da quanto scrive altrove, anche in sede scientifiIbidem. Ibidem. 133 C. PELLIZZI, Misteri d’Italia ovvero dell’ambiguità, in «il Borghese», 30 aprile 1954, pp. 311-313. 131 132

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ca. Ci sono pagine, come quelle appena riportate, in cui il fascismo continua ad essere analizzato con quel taglio sociologico e quell’assenza di sconti e giustificazioni che ritroviamo in tutti gli scritti pellizziani del dopoguerra. Non si può insomma dire di Pellizzi quel che Liucci, riportando anche giudizi espressi a suo tempo da Pietro Nenni, dice a proposito di Longanesi e molti altri intellettuali a lui affini: del passato fascista, costoro continueranno a coltivare un sentimento di attrazione misto a rifiuto, di accondiscendenza mista a dileggio, di nostalgia mista a recriminazione, collocandosi ben lontano, a ogni modo, da qualsivoglia critica radicale e senza appello del ventennio mussoliniano134.

La stessa «critica radicale e senza appello» del regime fascista non manca in molte pagine pellizziane, anche in alcune scritte per «il Borghese». Certamente, non si potrà mai trovare in esse una condanna o un rigetto totale della propria adesione al fascismo e delle motivazioni che la sostennero, però si riscontrerà sempre un netto rifiuto sia del nostalgismo che di qualsiasi forma di apologia. Tra quei dialoghi morali o apologhi con cui sostanzia la propria collaborazione al «Borghese», ce n’è uno particolarmente eloquente, anche per l’evidente riferimento autobiografico in esso contenuto: Due esponenti del MSI intrattenevano Cabirio sulla opportunità che egli aderisse alla parte loro, nella quale, affermavano, egli avrebbe raggiunto senza dubbio una qualche eminenza. Cabirio ha ricoperto una modesta carica nel passato regime, e oggi afferma di essere l’unico epurato d’Italia; ma dice altresì che il presente ordine di cose, tutto sommato, gli piace, e che di sua scelta non ritornerebbe all’antico. “... E poi”, egli aggiungeva, rispondendo a quei due amici del MSI, “il vostro Movimento è tutto pieno di gente che è andata a Nord; Borghese, De Marsanich, Graziani, Cucco, Anfuso, Pettinato, Almirante, Mieville... Non so se rendo l’idea: tutta gente della Repubblica Sociale. Ora, sta di fatto che io, a Nord, non ci sono andato!”. “Questa non è una difficoltà”, rispondevano quei due. “Noi abbiamo per principio che tutti i buoni italiani possono entrare nel MSI. E poi, nel caso tuo, potrai sempre dire che la tua mamma, in quegli anni, era gravemente ammalata...”135. Ivi, p. 202. STEROPE (pseudonimo di C.P.), La madre ammalata, in «il Borghese», a. III, 15 giugno 1952, pp. 362-363. Questo apologo è uno della serie intitolata L’Italia che non si fa, una sorta di rubrica in cui Pellizzi, saltuariamente, accorpava alcuni pezzi brevi su temi di politica e costume dell’Italia del tempo. 134 135

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Nelle pagine pellizziane, non pare nemmeno determinante quella tendenza all’apotismo di prezzoliniana memoria che, in sede storiografica, è stata vista come attributo specifico di una nutrita schiera di intellettuali e giornalisti (intorno all’asse Guareschi – Giannini – Longanesi), nonché di un’ampia fascia dell’opinione pubblica della società italiana del dopoguerra136. In alcuni articoli di giornale e negli stessi pezzi per «il Borghese» si possono senz’altro rintracciare osservazioni e giudizi propri di chi intende distinguersi dalla massa “di chi la beve”, per citare il manifesto prezzoliniano scritto «per una società degli apoti»137. Ma, sotto questo profilo, una notevole fetta del mondo intellettuale italiano ha nutrito a lungo, pur da sponde politiche opposte, un simile atteggiamento di scetticismo misto a moralismo e pedagogismo (ideologico o anti-ideologico, cambia poco in questo contesto) nel rapporto con le cosiddette masse popolari. Frasi come quelle che riportiamo qui di seguito non paiono, insomma, sufficienti ad incasellare Pellizzi nella categoria degli “apoti”, vecchi o nuovi che siano. Veramente, la più profonda aspirazione politica degli italiani sarebbe quella di essere governati, in tutto e per tutto, da un tiranno morto. I viaggiatori che si trovano in uno scompartimento ferroviario attaccano fra loro discorso, e a un certo momento, avendo appurato che tutti si chiamano Alberto, si felicitano vivamente come di una bellissima sorpresa. Un viaggiatore solitario, che stava in un angolo e non aveva preso parte alla conversazione, a questo punto si alza, raccoglie la sua valigia e il soprabito, e fa per andarsene. Tutti gli domandano, con molta sollecitudine, perché se ne va. “Io non mi chiamo Alberto”, risponde quel viaggiatore138.

Rivelano semmai un certo distacco e una certa pretesa di indipendenza morale e intellettuale dalla maggioranza, secondo un’inclinazione che contraddistingue da sempre la categoria degli intellettuali dell’Occidente moderno139. Tale indipendenza è da Pellizzi frequentemente rimarcata nei confronti della destra neofascista, forse ancor più che nei confronti di altri 136 Cfr. S. LANARO, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Marsilio, Venezia 1992, pp. 111-128. 137 Cfr. G. PREZZOLINI, Per una società degli apoti (1922), in Le riviste di Piero Gobetti, a cura di Lelio Basso e Luigi Anderlini, Feltrinelli, Milano 1961. 138 STEROPE, Anime morte e Alberto, ivi, p. 363. 139 Per un’originale riflessione sul ruolo e la collocazione dell’intellettuale rispetto alle istituzioni e ai membri della società in cui vive ed esercita la propria critica, cfr. M. WALZER, Interpretazione e critica sociale (1987), trad. it. e cura di Agostino Carrino, Roma, Edizioni Lavoro, 1990; ID., L’intellettuale militante (1988), trad. it., il Mulino, Bologna 1991.

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schieramenti, ma non intacca gli eventuali rapporti di amicizia e il giudizio privato sui singoli esponenti di tale forza politica. Oltre al Msi, anche altri gruppi di estrema destra contattarono il sociologo ex fascista. Tra questi Roberto Suster, nazionalista monarchico, per molti anni corrispondente dall’estero del «Popolo d’Italia» e direttore dell’Agenzia Stefani dal 1941 al 1943. Avendo mantenuto la direzione della Agenzia anche dopo il 25 luglio, e quindi sotto il governo Badoglio, verrà poi arrestato e incarcerato dal nuovo governo fascista della Rsi140. Nel 1951 invita Pellizzi ad aderire al costituendo “Fronte Nazionale”, movimento politico di destra filodemocristiana di cui Suster assumerà poi la carica di segretario generale. La risposta, anche in questa occasione, sarà negativa, dal momento che, risponde il sociologo, «con gente tipo [segue una parola indecifrabile, ndr.] non posso aver nulla da spartire»141. C’è poi una differenza ancora più profonda, diremo fondamentale, tra Longanesi e Pellizzi, e riguarda l’atteggiamento nei confronti della democrazia. Del primo, è stata recentemente sottolineata la «disistima assoluta delle procedure democratiche», che maturata in epoca fascista proseguirà in epoca repubblicana142. L’insofferenza per la dilagante società di massa è poi molto distante da quell’attenzione, e in certi casi apprezzamento, che Pellizzi nutre nei confronti di tale fenomeno storico, e di cui già nei primi anni ’40 aveva colto pregi e difetti con obiettività di studioso143. Inoltre, a Longanesi mancò sempre un pensiero politico sistematico, e soprattutto la volontà di dotarsene, mentre il percorso culturale pellizziano è proprio nel senso di una crescita del proprio status di scienziato politico e sociale. Risulta in tal senso interessante mettere a confronto alcune considerazioni che Pellizzi accenna nel 1952 sulle pagine del «Borghese» nella consueta forma sintetica e quasi aforistica con un significativo e lungo saggio, da lui pubblicato nello stesso anno e intitolato La democrazia e la politica di massa144. Scrive sul quindicinale longanesiano: 140 Per alcune notizie su Suster fino al 1944, cfr. A. UNGARI, Introduzione a R. SUSTER, Gli ostaggi di San Gregorio. Diario 1943-1944, a cura di A. Ungari, Mursia, Milano 2000, pp. 5-29. 141 R. Suster a C.P., 2 novembre 1951, in ACP, b. 37, f. 56. La risposta è del 4 ottobre 1951, stando alla nota manoscritta apposta da Pellizzi direttamente sulla lettera di Suster. 142 R. LIUCCI, op. cit., p. 56 e passim. 143 Cfr. gli appunti inediti di quel libro progettato sulla società di massa tra il 1942 e il 1944, ora pubblicati in D. BRESCHI, G. LONGO (a cura di), «La società di massa» di Camillo Pellizzi, in «Trasgressioni», a. XVIII, n. 1 (36), gennaio-aprile 2003, pp. 59-126. 144 Cfr. C. PELLIZZI, La democrazia e la politica di massa, in «Studi Politici», a. I, n. 2,

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Ora, la democrazia essendo un sistema politico che vuole raggiungere, fra l’altro, una circolazione delle “élites” non legata di volta in volta, necessariamente, a una crisi di regime, se questa mentalità non cambia noi continueremo ad avere assai più gli svantaggi, che non i vantaggi, della democrazia145.

La mentalità cui si fa riferimento è quella tipica dell’uomo politico italiano, assolutamente incapace di accettare il principio dell’alternanza tra maggioranza e opposizione alla guida del governo. Sempre nel 1952 su «Studi Politici», la nuova rivista nata nell’ambiente accademico del “Cesare Alfieri”, Pellizzi afferma che una democrazia degenera ogni volta in cui «alle minoranze dialettiche, aperte, dei “regimi d’opinione” si sostituiranno minoranze dominanti, misteriosamente selezionate negli uffici e nei corridoi della direzione del partito»146. Dunque, come si può ben notare, alcuna differenza, se non nei toni e nel lessico adottato, tra quanto affermato nelle due sedi a proposito di una questione centrale come quella della democrazia. Così come può essere rilevata una sostanziale continuità nello sviluppo del pensiero politico pellizziano se si prende in considerazione la seguente definizione di democrazia con certe pagine di Una rivoluzione mancata: Se «democrazia» significa partecipazione attiva e responsabile dell’uomo comune a tutta la vita organizzata della collettività, le prime e più importanti affermazioni del principio dovrebbero presentarsi (come infatti si sono già presentate in vari luoghi) nella vita delle famiglie, nei rapporti fra i sessi, nei rapporti sociali ordinari, nel funzionamento interno delle aziende d’ogni genere, delle amministrazioni, delle scuole, ecc. L’estendersi di tale partecipazione, il suo approfondirsi in consapevolezza e responsabilità, dovrebbero comportare la riduzione di quel margine, sempre mal definibile, entro il quale l’autorità dei dirigenti del gruppo non appare integrata, per un processo spontaneo o anche istituzionale di reciproche investiture, nella vita del gruppo stesso, bensì la sovrasta come forza incombente ed estranea e, rispetto alla coscienza del gruppo, arbitraria: onde conviene che tale forza riceva altro nome, e si chiami potere. [...] La democrazia tende, dunque, sia pure all’infinito, all’eliminazione dello stato, e di tutti i suoi organi, in quanto «potere», per sostituirvi organi dotati d’autorità in quanto assolvano a funzioni sociali riconosciute necessarie o utili dalla società stessa147. settembre-novembre 1952, pp. 179-197. La rivista nasce nel 1952 come trimestrale diretto da Pompeo Biondi, Salvatore Valitutti e Giovanni Sartori. 145 STEROPE, L’Italia che non si fa (La circolazione delle «élites»), in «il Borghese», a. III, 1º ottobre 1952, p. 592. 146 C. PELLIZZI, La democrazia e la politica di massa, cit., p. 186. 147 Ivi, p. 179. I corsivi sono nel testo. Pellizzi cita in nota, oltre al suo libro del 1949,

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L’autorità è quella stessa forza per cui, di buon grado, ci sottomettiamo e obbediamo «ad un medico in cui abbiamo fiducia»148. Di colui che ha autorità riconosciamo la superiore competenza in materia, e la seria e onesta professionalità. Per Pellizzi, dunque, il sistema democratico si contraddistingue per una progressiva, seppur mai definitiva, risoluzione dello Stato e delle sue strutture nella società, e questo processo di “socializzazione della statualità” prende piede a mano a mano che la legislazione e il governo sono visti come «esercizio di una funzione sociale». L’aspetto infine interessante è il mutamento di registro che subisce la critica pellizziana del parlamentarismo. Non più respinto a priori, esso è giudicato nocivo soltanto nella misura in cui riflette il formarsi di una elitaria casta di politici di professione che sfrutta la rappresentanza della maggioranza che conferirebbe “autorità” e la snatura invece in “potere”, ossia in «forza incombente ed estranea». Ciò che manca è la partecipazione politica verticale, dal basso verso l’alto e viceversa. Dato il concetto invalso (ma per noi erroneo) della democrazia come suddivisione del potere statale, è inevitabile che il potere effettivo vada a finir quasi tutto nelle mani di quei politici che meglio degli altri sanno e praticano l’arte di inquadrare e disciplinare le moltitudini149.

L’elitismo pellizziano pare dunque assumere una chiara tonalità democratico-liberale, non così distante, ad esempio, dalle posizioni di Schumpeter o di chi, come Sartori, ritiene che le minoranze dirigenti siano «una necessità benefica» per la democrazia, laddove queste siano dotate di responsiveness, cioè ricettive nei confronti dei propri elettori150. La democrazia, descrittivamente parlando, è dunque una «poliarchia selettiva», e in termini prescrittivi è quel sistema politico che dovrebbe soddisfare la contemporanea presenza di tre elementi: elezione, selezione ed élites151. Certamente, anche il volume di un certo J. BURNS, La democrazia, Longanesi, Milano 1951 (ma, in realtà, si tratta di CECIL D. BURNS, Difetti e vantaggi della democrazia, sempre edito da Longanesi nel 1951, trad. it. del libro Democracy, Thornton Butterworth, London 1935). 148 Ibidem. 149 Ivi, p. 185. 150 G. SARTORI, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano 1993, p. 113. La definizione sartoriana di democrazia nasce dalla combinazione tra la «teoria competitiva della democrazia» di Schumpeter ed il principio delle «reazioni previste» di Carl J. Friedrich (Constitutional Government and Democracy, Ginn, Boston 1941). Di J. A. SCHUMPETER si veda Capitalismo, socialismo e democrazia (1942), Edizioni di Comunità, Milano 1955, parte IV (pp. 221-283). 151 Ivi, pp. 116-117.

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rispetto a Schumpeter o Sartori, Pellizzi è ben lungi dal configurarsi come un teorico della moderna democrazia liberale, almeno per quel che appare dai suoi scritti degli anni ’50. In essi troviamo l’affermazione di principio secondo cui la democrazia consiste nella partecipazione di tutti (almeno come obiettivo finale) al processo di elaborazione delle decisioni che interessano l’intera comunità. Non compare, però, alcuna preoccupazione per quelle che sono le regole procedurali e le garanzie costituzionali, intese come strumenti politico-giuridici necessari per rendere possibile il concreto e corretto esercizio della sovranità popolare. Non dobbiamo poi dimenticare l’elemento distintivo della teoria pellizziana della democrazia: la presenza di quell’ideale, riecheggiante teorie anarco-socialiste, di un’autorità che fagocita il potere e attorno alla quale diventa possibile coagulare comunità umane naturaliter politiche152. Si tratta di un ideale dotato di un indubbio fascino, che risente anche del cattolicesimo di Pellizzi e dell’esempio storico dell’autorità esercitata nei secoli dal magistero della Chiesa cristiana nei confronti sia della comunità dei propri fedeli sia di comunità politiche laiche, come gli Stati-nazione sorti in età moderna. Un simile ideale, però, fatica a trovare nelle pagine pellizziane degli anni ’50 qualche precisazione in termini di istituti o procedure di attuazione e, soprattutto, lo indirizza verso forme di autogoverno, se non di autogestione, lontane dalla tradizione liberale della democrazia parlamentare rappresentativa. In un articolo del 1954 il pensiero di Pellizzi sulla democrazia si fa più chiaro e netto. Egli premette che la sua idea di democrazia non collima affatto con il sistema politico vigente in Italia, degenerato in parlamentarismo e partitocrazia, per cui si assiste ad una «convulsione epilettica delle elezioni, con intervalli, fra un’elezione e l’altra, di oscure manovre di cor«[...] la funzione vera delle forze democratiche non è quella di “conquistare il potere”, bensì di ridurre ad infinitum i margini del “potere”, dovunque e comunque esso si manifesti» (C. PELLIZZI, La democrazia e la politica di massa, cit., p. 179). A tale proposito può risultare significativo il fatto che il celebre libro di Pierre Clastres, La società contro lo Stato, sia stato oggetto di un’attenta disamina immediatamente dopo la sua traduzione in italiano sulla rivista fondata e diretta da Pellizzi, vale a dire la «Rassegna Italiana di Sociologia» (cfr. M. NIOLA, Natura, società, potere. A proposito di La Società contro lo Stato di Pierre Clastres, in «Rassegna Italiana di Sociologia», a. XIX, n. 1, gennaio/marzo 1978, pp. 163173). Pura casualità, forse, ma suggestivo è pensare che permanesse anche nel vecchio Pellizzi un’impostazione teorico-politica che nelle tesi di Clastres trovava nuovi e ulteriori elementi storici e antropologici corroboranti. Cfr. P. CLASTRES, La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica (1974), Feltrinelli, Milano 1977. 152

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ridoio»153. Ma si tratta di un esempio storico fra i mille che si possono fare, dal momento che «sono esistite, o possono concepirsi, molte altre forme e tipi assai diversi di democrazia»154. Quel che più preme a Pellizzi è sottolineare il fondamentale significato implicito nel principio della sovranità popolare: il potere appartiene a tutto il popolo. Altra cosa è stabilire chi deve essere investito, temporaneamente, delle funzioni specifiche inerenti all’esercizio concreto del potere. Per Pellizzi il potere non si delega mai, quel che si può affidare è «l’esercizio di funzioni inerenti al potere stesso a certi organi speciali e determinati, con piena facoltà, sempre, di togliere, mutare o condizionare i termini di tale delega»155. È evidente come queste precisazioni siano, ancor prima che di ordine teorico, di natura polemica nei confronti degli abusi compiuti da un Parlamento soggetto al controllo oligarchico dei partiti. L’affermazione di principio che in democrazia il potere appartiene al popolo, cioè a tutti, senza distinzione alcuna, implica a sua volta l’idea che non vi è democrazia se non c’è partecipazione quotidiana di tutti, sia pure a vari livelli, alle vicende e ai problemi della collettività. Rimane tuttavia il sospetto che ancor oggi, per molti italiani, «democrazia» significhi il potere politico sottratto a qualcuno, senza che tutti gli altri lo assumano, con le relative responsabilità, oneri e costi. [...] Non è più nemmeno concepibile una democrazia politica, alla quale non si affianchi un deciso sviluppo di democrazia economica: con una sempre più vasta distribuzione di «tutte» le responsabilità della vita economica, ed il conseguente accorciamento delle distanze, e soprattutto delle grandi distanze, fra le condizioni economiche individuali. [...] la democrazia costa, e più deve naturalmente costare a chi più ha di carattere, di volontà, di ingegno e di quattrini. Costa uno sforzo e un fastidio quotidiano, maggiore o minore a seconda delle condizioni, ma ineluttabile e inevadibile per tutti.[...] La democrazia è come una grossa barca nella quale il destino, da ultimo, deve essere uguale per tutti156.

In questo articolo Pellizzi si spinge fino al punto di precisare quelli che, a suo avviso, sono i quattro requisiti essenziali per il corretto funzionamento di un sistema democratico: una società civile matura, ossia educata alla politica e sensibile alla cosa pubblica; il riconoscimento e la tutela del pluralismo politico e ideologico; il compromesso come mezzo per la C. PELLIZZI, La scuola della libertà, in «Centro Italia», 15-21 marzo 1954. Ibidem. 155 Ibidem. 156 Ibidem. 153 154

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soluzione dei conflitti politici e, infine, l’assunzione di decisioni da parte dei governanti tali da realizzare l’interesse generale tutelando al contempo i diritti delle minoranze. A tutto ciò va aggiunto il ripudio del radicalismo di chi non accetta il compromesso, considerandolo un vizio e un limite da rimuovere nel nome della purezza ideologica e dell’unanimità decisionale. In democrazia è cosa essenziale che il maggior numero possibile di cittadini «sappia che cosa vuole», politicamente parlando; e sapere questo vuol dire conoscere almeno i grandi termini di tutti i maggiori problemi. In secondo luogo, vivere in democrazia comporta il saper conoscere, pesare ed apprezzare tutte le più importanti volontà diverse dalla propria. In terzo luogo, significa saper puntare in ogni caso verso un compromesso che, subordinatamente ad un massimo di interesse comune, realizzi anche il massimo della volontà propria. (Chi non capisce che il compromesso non è un vizio, bensì una virtù fondamentale in democrazia, non è adatto a vivere in questo regime, e dovrebbe esserne escluso)157.

Con il 1954 si interrompono le collaborazioni di Pellizzi alle riviste di Bottai e di Longanesi. Al di là di possibili lievi divergenze su singole scelte politico-editoriali, c’è un motivo pratico ben preciso e molto importante: la nomina a direttore responsabile della Divisione Fattori Umani dell’Agenzia Europea della Produttività, presso l’OECE a Parigi. Il trasferimento nella capitale francese, dove trascorre gran parte dell’anno, e i numerosi impegni connessi a tale prestigiosa carica rendono praticamente impossibile mantenere inalterate molte collaborazioni giornalistiche. Inoltre le possibilità offerte e le risorse messe a disposizione dall’Agenzia stimolano come non mai i progetti e la passione del sociologo, ponendo temporaneamente in disparte il polemista e il politologo. Resta, in ogni caso, la preoccupazione per le sorti politiche ed economiche del proprio Paese. 3. Il sociologo come «clinico» L’approccio che Pellizzi adotta sin dall’inizio e i temi privilegiati nei suoi primi studi sociologici denotano un orientamento nettamente lontano dalle preoccupazioni teoriche e metodologiche del positivismo, vecchio e nuovo. Ciò che attira l’attenzione del “giovane” sociologo – maturo d’età, ma senz’altro giovane di studi, per sua stessa ammissione – sono quelle discipline che poco trovano rappresentanza negli istituti di ricerca e 157

Ibidem.

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divulgazione del sapere sociologico presenti in Italia (e non solo) tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta. Corrado Gini, docente di statistica che ha seguito da vicino le travagliate vicende accademiche di Pellizzi, è anche presidente della Società Italiana di Sociologia. Nel gennaio 1950, Gini invita Pellizzi, non ancora ufficialmente reintegrato nell’Università, a prendere parte al XIV Congresso Internazionale di Sociologia proponendogli di presentare una comunicazione «su uno dei temi posti all’ordine del giorno» oppure su un altro che risulti a lui più congeniale158. Nella lettera di risposta leggiamo: Se un’osservazione mi sia consentita, direi che, in proporzione agli altri settori della Sociologia, poco vi sia rappresentato quello che tocca i confini della psicosociologia da un lato, dell’etnologia, della “antropologia culturale” (come oggi dicono, soprattutto in America), e dall’altro arriva fino alla filologia e alla linguistica. Personalmente, mi sono impegnato ormai da qualche tempo nello studio del simbolo, e qualcosa ho già pubblicato che mi permetterò di mandarti. Altro ancora è alle stampe, e il più è in lavoro. Se Tu e il Comitato lo riteniate opportuno, io potrei dare un contributo, come tema di eventuale discussione, su Simbolo e società. Oppure, più accademicamente: “I problemi sociologici del simbolo”159.

Sono qui espressi i confini entro i quali Pellizzi conduce i suoi primi passi nel campo dell’indagine sociologica. Ed è sempre qui che può trovare conferma l’influsso di Cassirer e dei suoi studi che intrecciano filosofia, antropologia e teoria politica. Soprattutto, ritroviamo nella concezione antropologica pellizziana la stessa idea cassireriana dell’uomo quale animal symbolicum, capace di produrre simboli intesi come continue mediazioni fra sé e ciò che lo circonda. Queste mediazioni sono costituite da forme culturali (miti, religione, arte, scienza, ecc.), e sotto questo aspetto appare evidente il debito contratto nei confronti di Giambattista Vico e della sua nozione di «guisa della mente»160. Del resto, al filosofo napoletaC. Gini a C.P., 23 gennaio 1950, in ACP, b. 37, f. 55. C.P. a C. Gini, 2 febbraio 1950, in ACP, b. 37, f. 55. La sottolineatura è nel testo. 160 Cfr. G. VICO, Opere filosofiche, introduzione di Nicola Badaloni e cura di Paolo Cristofolini, Sansoni, Firenze 1971. Come ha osservato Badaloni, anche Benedetto Croce (La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari 1911, pp. 183-184) apprezza la ricerca di Vico nella misura in cui questa rivela un’acuta sensibilità per tematiche e approcci di studio che saranno in seguito appannaggio di discipline quali la sociologia e l’antropologia culturale. Vico, infatti, ha operato di fatto una «ricerca sulle mentalità primitive, per il nesso tra tali mentalità e le forme di società che loro corrispondono, per la tipizzazione della fonda158 159

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no Cassirer «dedica nelle sue opere costanti tributi di stima, soprattutto per avere per primo gettato le basi per un’indagine filosofica del mito, del linguaggio e della storia, ovvero delle forme della vita dello spirito»161. E a Vico, guarda caso, Pellizzi dedicherà sempre grande attenzione e in lui riconoscerà colui che per primo aveva posto «l’esigenza di una disciplina di osservazione dei fatti umani, sul livello delle strutture culturali (e quindi sociali)»162. In altre parole, Vico è per lui l’«immediato precursore della moderna sociologia», e sarà con un ritratto del filosofo napoletano che si aprirà il primo numero della «Rassegna Italiana di Sociologia», fondata da Pellizzi nel 1960163. Oltre a Vico e Cassirer, molti altri sono i nomi che circolano nei saggi sociologici che Pellizzi produce nel corso degli anni Cinquanta, e che vengono ampiamente citati nelle lezioni universitarie, da Emile Durkheim a Pitirim Sorokin, da George Herbert Mead a Georges Gurvitch, da Bronislaw Malinowski ad Henry Levy-Bruhl, da Georges Friedmann a Maurice Duverger164. Tra i testi usati per i corsi di Sociologia (dal titolare della cattedra e dai suoi supplenti) possiamo menzionare anzitutto il testo Sociologia, che raccoglie le dispense dei primi due anni di insegnamento di Pellizzi e che verrà utilizzato fino al 1958 quando verrà stampato, sempre a zione e dello sviluppo della moderna società» (Introduzione a G. VICO, Opere filosofiche, cit., p. XI). 161 S. CARUSO, Introduzione alla filosofia delle scienze sociali, (dispense a cura e con un’appendice di Brunella Casalini), Università degli Studi di Firenze, Firenze (Facoltà di Scienze Politiche), a.a. 1995-1996, p. 60. 162 C. PELLIZZI, Gli studi sociologici in Italia nel nostro secolo (Parte I), in «Quaderni di Sociologia», n. 20 (primavera 1956), p. 85. 163 Ivi, p. 75. Vedi infra, cap. VI. 164 Cfr., ad esempio, le lettere di S. Tosi a C.P. del 17 febbraio e del 29 maggio 1955, in ACP, b. 38, f. 60. Scrive Paolo Ammassari, prima allievo e poi assistente di Pellizzi: «Per conto mio, e su Suo consiglio, sto leggendo Mead e cerco di mettermi al corrente sugli sviluppi della Psicologia Sociale Americana, così come della Filosofia della Scienza e della Metodologia in generale» (lettera a C.P., 24 novembre 1959, in ACP, b. 40, f. 64). In quel periodo Ammassari era negli Stati Uniti, in qualità di assistente del prof. William Form della Michigan State University, entrato in contatto con Pellizzi nel marzo del 1959. È questo uno dei numerosi esempi che si potrebbero fare dei contatti internazionali, con università e istituti di ricerca di Stati Uniti, Inghilterra e Francia, stabiliti da Pellizzi nel corso degli anni ‘50, e di cui usufruiranno molti suoi allievi e collaboratori anche nel decennio successivo. A ulteriore conferma della notorietà acquisita da Pellizzi nell’ambito accademico internazionale, si veda inoltre cosa gli scrive William Form: «Il suo nome mi è stato riferito da parte dei miei amici e colleghi, Professors Joseph La Palombara, Leonard Moss e Harold Sheppard» (11 marzo 1959, in ACP, b. 40, f. 64).

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uso interno, un nuovo volume di dispense, dal titolo Lineamenti di sistematica sociologica, che poi uscirà per i tipi di Giuffrè nel 1964165. Ampio uso viene poi fatto di due libri del Gurvitch, Twentieth Century Sociology e La vocation actuelle de la sociologie. Pistoj adotterà anche I partiti politici del Duverger per un corso monografico sulla sociologia del partito politico tenuto nell’anno accademico 1954-55166. Altro testo proposto agli studenti è i Problemi umani del macchinismo industriale di Friedmann, autore che tra i primi nell’Europa del secondo dopoguerra affronta quei temi che trovano in Pellizzi uno dei più sensibili e attenti studiosi nell’Italia della ricostruzione167. L’altro tema che sta particolarmente a cuore al nuovo docente di sociologia è la tematica, a confine tra linguistica, antropologia e psicologia sociale, del simbolo e del linguaggio, e più in generale la questione delle forme di comunicazione tra gli individui, nella convinzione che il sistema segnico e la socialità siano strettamente connesse tra loro. Partendo dal presupposto che il simbolo nasce nel momento in cui l’individuo obiettivizza il proprio segno, ossia i propri comportamenti, e ciò avviene sin dalla prima infanzia, Pellizzi associa la formazione dell’identità individuale con lo sviluppo di un sistema simbolico. Quest’ultimo, a sua volta, produce effetti sul gruppo cui il singolo appartiene, e ne ristruttura così regole e comportamenti. Di qui la «socialità del simbolo»: Il simbolo, nella definizione nostra, ha una vita propria distinta nell’individuo singolo, per cui si dovrà dire che attraverso la struttura simbolica il singolo diviene già società a se stesso: di fronte al medesimo segno simbolico sentirà l’esigenza, o il dovere, di ripetere lo stesso comportamento; ma per questo solo fatto comincerà a sentire “se stesso” di fronte al segno, e cioè a “oggettivare” se stesso168. 165 Cfr. C. PELLIZZI, Sociologia, Firenze, C. a M. (Copisteria a Mano), 1952; ID., Lineamenti di sistematica sociologica: appunti tratti dalle lezioni del prof. Camillo Pellizzi, C. a M., Firenze 1958 (una seconda edizione in due volumi verrà stampata nel 1960). 166 Cfr. G. GURVITCH, W. E. MOORE (eds.), Twentieh Century Sociology, Philosophical Library, New York 1945; G. GURVITCH, La vocation actuelle de la sociologie, PUF, Paris 1950 (il volume sarà tradotto solo nel 1965 per i tipi del Mulino); M. DUVERGER, I partiti politici (1951), Edizioni di Comunità, Milano 1951. Cfr. anche P. Pistoj a C.P., 29 maggio 1955, in ACP, b. 38, f. 60. 167 Cfr. G. FRIEDMANN, Problemi umani del macchinismo industriale (1946), trad. it. di Bruno Maffi, Einaudi, Torino 1949. Vedi anche ID., Dove va il lavoro umano? (1950), Edizioni di Comunità, Milano 1955. 168 C. PELLIZZI, Simbolo e Società, estratto dagli Atti del XIV Congresso Internazionale di Sociologia (Roma, 30 agosto-settembre 1950), a cura di Corrado Gini, vol. III, Società Italiana di Sociologia, Roma 1950, p. 13.

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Il tema rivela subito tutta la sua complessità e novità, in virtù di un approccio interdisciplinare che Pellizzi predilige ma che cozza con buona parte del mondo accademico del tempo. Inviata ad Ugo Spirito una copia del suo saggio Proposta di una nuova definizione del simbolo, ammette infatti che il suo nuovo impegno scientifico «costituisce un pericoloso tuffo in acque nuove»169. Confessa inoltre che Le ipotesi sulla genetica del simbolo e dell’allegoria vanno lasciate agli specialisti: è materia, in buona parte, sperimentale, e riguarda etnologi e psicologi. Ma come si può fare sociologia, che non sia piatta descrizione quantitativa o arbitraria illusione, senza concetti di fondo relativi al linguaggio, che siano, non dico necessariamente i miei, ma almeno qualcosa che sostituisca i miei?

Resta comunque il fatto che «filosofi e linguisti continuano a parlare di queste cose senza darsi la pena, assai spesso, di osservare il fatto sociale, ossia di comportamento»170. Se, da un lato, lo studio del comportamento sociale viene compiuto attraverso una preliminare chiarificazione terminologica e concettuale di parole come segno, simbolo, gesto e, appunto, comportamento, dall’altro lato, non si trascura affatto l’osservazione diretta delle concrete dinamiche dei rapporti di gruppo, dove la socialità del singolo non può non manifestarsi. Ecco, pertanto, l’attenzione alla fenomenologia del comportamento individuale e collettivo nei luoghi e nei momenti più diversi (ma non contraddittori), dal gioco al lavoro171. Nel 1951 Pellizzi dà alle stampe un lungo saggio intitolato Pedagogia e sociologia, scritto in collaborazione con Gustavo Santoro172. Si tratta del diciassettesimo volume della Biblioteca dell’educatore, l’enciclopedia didattica diretta dal pedagogista Luigi Volpicelli. A proposito dell’indagine sociologica descrittiva e dei suoi aspetti pedagogici, Pellizzi non si esime, in conclusione del suo saggio, dal suggerire alcune possibili e necessarie applicazioni pratiche in ambito scolastico. Richiamandosi a ricerche promosse dall’Istituto di Pedagogia della Facoltà di Magistero di Roma, diretto da Volpicelli, Pellizzi afferma che

169 C.P. a U. Spirito, 18 novembre 1950, in Carteggio Ugo Spirito (d’ora in poi, CUS), lettera 3290. 170 Ibidem. 171 C. PELLIZZI, Elementi di sociologia (I gruppi umani nel giuoco e nel lavoro), ERI, Torino 1954. 172 C. PELLIZZI, G. SANTORO, Pedagogia e sociologia, Anonima Edizioni Viola, Milano 1951. Vedi la lettera di G. Santoro a C.P., 28 gennaio 1951, in ACP, b. 37, f. 56.

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Il rilievo sociologico-descrittivo è di importanza fondamentale per il funzionamento della scuola: basterebbe accennare alla scottante questione della vita extra-scolastica del fanciullo. [...] Tante assurdità scolastiche sarebbero evitate (scuole dislocate a distanze incomprensibili dal reale centro topografico della borgata, che non corrisponde a quello geometrico delle mappe municipali. Incredibile, ma vero! E gli interessi locali, che si nascondono sotto questi fatti, hanno buon gioco, per l’ignoranza dei responsabili. Bambini che sembrano instabili, e sono semplicemente tenuti in uno stato di ipertensione costante, a causa del tipo di alimentazione di una famiglia emigrata dal suo ambiente d’origine. Ecc. ecc.)173.

Ma l’affermazione che qui più ci interessa è la seguente: In molti paesi, anche non eccessivamente ricchi, indagini del genere sono considerate come premesse elementari di ogni iniziativa pedagogica. Noi ci auguriamo che l’interesse degli uomini di scuola, di questa scuola italiana continuamente “riformata”, si volga anche a questo ignorato e fondamentale aspetto dei problemi dell’educazione174.

In queste ultime due frasi è racchiuso il senso dell’impegno pellizziano per fare della sociologia, e delle scienze sociali in genere, strumenti conoscitivi di ausilio ad una politica riformatrice, capace di dare risposte efficaci a problemi (ritardi, disfunzioni, inefficienze) che affliggono la società italiana. L’esempio proveniente dai paesi anglosassoni, in particolare dagli Stati Uniti, è immediatamente recepito dal “neofita” studioso di sociologia. In particolare, Pellizzi ha ben presente la gran messe di ricerche sul campo condotte da dipartimenti e istituti statunitensi sin dagli anni Venti. Un settore di queste ricerche è da lui particolarmente curato, anche perché il più proficuo sotto il profilo dei finanziamenti che si possono ottenere. Si tratta dell’ambito delle cosiddette human relations, cioè di quei «rapporti umani nelle attività organizzate, soprattutto aventi scopo o sfondo economico»175. Siamo nel campo, sia pure rinnovato dall’introduzione di più raffinate teorie psicologiche, della sociologia industriale, a cui Pellizzi dedica attenzione a partire almeno dal 1953 con la pubblicazione del saggio I rapporti umani nel lavoro176. In un articolo pubblicato su «Civiltà italica» nel 1952, dall’eloquente titolo Scienza e prassi politica, Pellizzi riporta i risultati di un’inchiesta C. PELLIZZI, G. SANTORO, op. cit., p. 191. Il corsivo è nel testo. Ibidem. 175 C. PELLIZZI, Lineamenti di sistematica sociologica, cit., p. 91. 176 C. PELLIZZI, I rapporti umani nel lavoro, in «Studi Politici», a.II, nn. 1-2, marzoagosto 1953, pp. 98-124. 173 174

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condotta da un ufficio istituito nel marzo 1944 a Washington presso il Comando delle Forze Statunitensi, avente lo scopo di «raccogliere, selezionare e classificare tutti gli elementi che si potessero avere circa il morale del popolo e dei combattenti giapponesi» nella guerra in corso177. Le osservazioni contenute nel rapporto finale redatto dall’ufficio in questione e riassunte nel volume dello psichiatra e antropologo Alexander H. Leighton, Human relations in a changing world 178, avrebbero potuto aiutare enormemente le operazioni della Marina americana. Rimasero inascoltati i pareri espressi dall’équipe di studiosi (psicologi, sociologi, antropologi, storici e specialisti di lingua e cultura giapponese) a conferma di come i pregiudizi di cui erano intrisi i dirigenti politici e militari americani resistettero a lungo, finendo per inficiare l’efficacia della loro azione bellica. Pellizzi ne trae la seguente conclusione: Tutto questo [...] non vuol dire che si debbano confondere fra loro le due funzioni del capo ed esecutore militare o politico, da una parte, e dello studioso di scienze sociali dall’altra. La distinzione fra conoscenza ed azione è astratta, non concreta: ma ciò non vuol dire che non sia molto importante. [...] Distinguere fra scienziato e politico significa fare un’astrazione; ma questa astrazione è empiricamente preziosa, e in questo senso è anche concretamente “realistica”. Sebbene il conoscere e il fare siano in ultima analisi due aspetti astrattivi di una sola ed unica attività, resta di fatto la convenienza, e talora necessità, che gli uomini più impegnati nel conoscere stiano a fianco degli uomini impegnati nel fare, senza però confondersi con quelli, e così venir meno alla loro funzione specifica. L’uomo politico non può fare saviamente un passo senza lo scienziato al fianco, a meno che non voglia esporsi a enormi errori, o che non sia scienziato egli stesso (ma sarà per lo più uno scienziato mediocre, perché è molto difficile oggigiorno servir due padroni, se si pensa alla complessità che hanno raggiunto i problemi, sia della condotta politica e sia della scienza). E lo scienziato farà sempre bene a tenersi pronto a servire, colla sua scienza, il paese e l’umanità, ma non altrettanto pronto ad accettare le direttive di marcia, e di lavoro, delle potenze dell’ora, quali che siano. Questo equilibrio sempre instabile fra due distinti “poteri”, senza un deciso prevalere dell’uno sull’altro, è certo la condizione migliore per giungere ai massimi risultati sia politici e sia scientifici179.

Ma quel che più conta nell’esempio citato è il tipo di scienze dimostratesi utili a fini politico-istituzionali: 177 C. PELLIZZI, Scienza e prassi politica, in «Civiltà italica. Mensile di studi politici economici sociali», a. III, n. 2, febbraio 1952, pp. 109-115. 178 A. H. LEIGHTON, Human relations in a changing world: Observations on the use of the social sciences, Dutton, New York 1949. 179 C. PELLIZZI, Scienza e prassi politica, cit., pp. 114-115. Il corsivo è mio.

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[...] le esperienze del Leighton dimostrano un’altra cosa, mal compresa da molti in Italia, e persino in America: e cioè, che non sono soltanto le “tecniche” economiche, finanziarie e statistiche quelle di cui abbisogna il politico pratico, e per le quali abbisogna dell’ausilio degli studiosi. Ci sono altre scienze empiriche dell’uomo e della società, dalla psicologia alla sociologia, dalla etnografia all’antropologia, che possono dargli dei suggerimenti di importanza fondamentale, e l’ignorarle, come diceva quel Francese, “c’est pire qu’un crime: c’est une sottise”180.

Dunque, la figura di sociologo auspicata da Pellizzi presenta i tratti del riformatore sociale, o quanto meno del consulente del Principe. Quanto all’idea di riforma, egli nutre alcune riserve legate alla storia del riformismo in Italia, spesso ridotto a mero esercizio verbale privo di effettivi ed efficaci interventi sul campo. Parlando ad esempio del settore universitario in particolare e scolastico in generale, Pellizzi commenta: Anzitutto, dopo aver assistito a troppe riforme e controriforme, universitarie e scolastiche, nel nostro paese, ho raggiunto alla fine questo giudizio di massima: che conviene “riformare” il meno possibile. Si può sempre “amministrare” meglio, o diversamente, e lasciare che le novità penetrino nella vita delle scuole quasi per forza propria; le riforme più efficaci sono quelle graduali e indirette, e questo è un principio, che quasi non soffre eccezioni. Nel caso di tutte le scuole, poi, un altro principio fondamentale è che ogni riforma deve trovare un qualche fondamento ed appiglio nello spirito di molti insegnanti e scolari, e nelle famiglie di questi, e nelle condizioni sociali ed economiche e culturali in mezzo alle quali tutti costoro debbono vivere. La parte viva di ogni riforma scolastica è quella che riesce a trovare una qualche partecipazione volenterosa da parte dei maestri e degli alunni. Ogni riforma che non ottenga questo nasce morta, e farà assai più male che bene181.

Estendendo il discorso al di fuori del più ristretto ambito universitario, Pellizzi intende stabilire una «stretta collaborazione fra i cosiddetti “teorici” e i cosiddetti “pratici”», in particolare tra gli studiosi di scienze sociali e il mondo produttivo182. Interessante a tal proposito uno scambio epistolare tra Pellizzi e il dottor Gramazio, direttore dell’Istituto Italiano di Psicologia della direzione, un ente che ha lo scopo di promuovere «l’organizzazione scientifica e spirituale del lavoro». Gramazio, dirigente d’azienda da trent’anni, si dice concorde con le finalità di promozione della Ivi, p. 115. Il corsivo è nel testo. C. PELLIZZI, Università italiane e Università straniere, in «Civiltà italica», a. III, n. 4, aprile 1952, pp. 303-304. Il corsivo è mio. 182 C.P. a E.U. Gramazio, 19 maggio 1953, in ACP, b. 38, f. 58. 180 181

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qualità del lavoro umano in azienda, ma contesta a Pellizzi il ricorso a teorie ed esperienze di ricerca magari compiute decenni addietro e in Paesi stranieri. In particolare, non ne condivide l’idea che «la scienza delle relazioni umane abbia una data di origine e che il merito spetti all’americano Elton Mayo», come invece ritiene Pellizzi che dalle ricerche sul campo condotte dallo studioso americano prende le mosse per sviluppare la propria riflessione sui rapporti umani nel lavoro183. Ad avviso di Gramazio, è sufficiente richiamarsi alla plurisecolare tradizione italiana «in materia di accordi e conciliazioni spirituali», compresa la diplomazia del Papato, per risolvere, le controversie sul lavoro. Insomma, parrebbe sufficiente poco più che buon senso. Per cui, ammette Gramazio: Non intendo assolutamente essere un innovatore perché so benissimo che ogni novità è reminiscenza e oblio, perché tutto è stato detto ma tutto deve essere riproposto. Le novità sono forme di memorie dimenticate. Non ho nessun’altra ambizione se non quella di chiarire a me stesso questi concetti per essere un uomo d’azienda comprensivo ed umano nel senso vero della parola. [...] Perciò, per ora, mi limito a fare un lavoro di indagine e di ricerca personali. Verrà poi il momento dell’inserimento nella letteratura degli altri, che conosco, ma voglio ignorare perché i libri, Lei lo sa bene, sono magici e suggestivi: a forza di leggere, uno crede di pensare col proprio pensiero e poi s’accorge di pensare ed adoperare parole altrui. Ottima cosa le Sue interviste con gli operai, ma crede in questa utilità? Crede, in questi incontri occasionali, in cui ciascuno finge di spogliarsi della propria natura, di trovare punti di verità? È già un passo avanti il Suo, quello di uscire dalle biblioteche, ma io, in trent’anni di azienda, vivendo a contatto con gli operai, conosco ancora poco di questi problemi!

Inoltre, il dirigente d’azienda ritiene che spesso la cultura non sappia dialogare con il concreto mondo del lavoro, per cui osserva: Non ha trovato nei dirigenti di azienda cui si è rivolta comprensione e collaborazione? Non ha da meravigliarsene! I dirigenti sono gelosi delle intromissioni 183 E.U. Gramazio a C.P., 6 maggio 1953, in ACP, b. 38, f. 58. A proposito di Elton Mayo, cfr. C. PELLIZZI, I rapporti umani nel lavoro, cit., passim. Pellizzi si basa soprattutto sul libro di Mayo, The Social Problems of an Industrial Civilization (Routledge & Kegan Paul, London 1949), di cui ammette in nota: «Dobbiamo in parte notevole a questa opera l’impostazione generale del problema» (p. 98, nota 1). Peraltro, questo libro e il saggio di Pellizzi costituiscono i testi d’esame per il corso di “Problemi di rapporti umani nel lavoro” tenuto presso la Scuola di Perfezionamento. Consigliata, ma non obbligatoria, la lettura di E. MAYO, Human Problems of an Industrial Civilization, The McMillan Co., New York 1933 (cfr. C.P. a G. Tinacci Mannelli, 29 maggio 1958, in ACP, b. 19, sf. 139/1).

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della cultura, come spesso la cultura è gelosa delle intromissioni di qualche dirigente, tant’è vero che gli uomini di studio, la volta rarissima in cui trovano un dirigente che si occupa di questi problemi, parlano di cose morte, di autori sepolti, ma non di dirigenti vivi!

Pellizzi, dal canto suo, replica con una lettera succinta e strutturata per punti che, nella loro chiarezza e nel loro carattere programmatico, meritano di essere riportati per intero: 1) Un “dirigente” che si occupa di questi problemi con intelligenza e passione è da applaudire senza riserve. 2) I dirigenti che “sono gelosi delle intromissioni della cultura” sono invece onninamente da deplorare. 3) Anche la medicina è cominciata molto prima di Ippocrate. Ciò non esclude che le Facoltà di Medicina siano necessarie. 4) Gli studiosi dei rapporti umani nel lavoro non parlano davvero di “cose morte”, e non sono “autori sepolti”, bensì, a quanto mi risulta, ancora tutti vivissimi, trattandosi di una disciplina che, nel suo attuale profilo organico, non ha più di trent’anni di vita. 5) La stretta collaborazione fra i cosiddetti “teorici” e i cosiddetti “pratici” sembra tanto più necessaria, se è vero quanto Ella dice, con una modestia che Le fa onore, che in trent’anni di azienda conosce ancora poco di questi problemi. 6) Non mi sembra in nessun caso legittimo ignorare, e comunque non citare mai, il lavoro che altri hanno fatto nello stesso campo, e di cui hanno lasciato documentazione accessibile. 7) Non “poco”, ma nulla io ritengo di conoscere di questi problemi, appunto perché non ho mai avuto serie possibilità di uno studio diretto184.

Ecco dunque come i managers, la cui importanza nelle moderne società industriali avanzate veniva segnalata con forza da James Burnham nei primi anni ’40, diventano da oggetto di speculazione un “fattore umano” su cui operare un’azione di riforma e innovazione. Anzi, il traduttore dell’edizione italiana di The Managerial Revolution si dice convinto che «la “tirannia” dei managers, che il B.[urnham] profetizza, non sembra inevitabile, né comunque insormontabile, là dove lo studio sistematico dei rapporti umani nel lavoro, e la prassi conseguente, abbiano uno sviluppo adeguato»185. Lo stesso dicasi, ovviamente, per gli operai, siano o no manodopera qualificata. La sociologia, nelle sue varie specializzazioni, è lo strumento teorico con il quale compiere indagini e raccogliere informa184 185

C.P. a E.U. Gramazio, 19 maggio 1953, cit. La sottolineatura è nel testo. C. PELLIZZI, I rapporti umani nel lavoro, cit., p. 122, nota 1.

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zioni utili a rendere più confortevoli le relazioni umane nei luoghi di lavoro, ma anche efficaci i processi di produzione. Anzi l’una cosa alimenta l’altra, come insegnano le numerose inchieste e i diversi esperimenti condotti proprio da Elton Mayo in numerose aziende statunitensi sin dai primi anni Venti186. Nel 1955 Roberto Lucifredi, all’epoca sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, propone a Pellizzi di tenere alcune lezioni di sociologia nell’ambito di un corso di aggiornamento dei funzionari direttivi di grado superiore al VI (cioè capi divisione). La finalità perseguita dal corso, e cioè, nelle parole di Lucifredi, «ottenere un miglioramento delle qualità professionali dei pubblici impiegati, al fine di ottenere un miglioramento dell’azione amministrativa», è anche uno degli obiettivi assegnati da Pellizzi alla sociologia e ad ogni suo cultore187. In qualche modo, le invettive lanciate dalle pagine del «Borghese» contro l’anarchia dello Stato italiano preda di una burocrazia pletorica e inefficiente trovano in iniziative del genere un possibile sbocco pratico. Costituiscono, in sostanza, l’altro lato dell’attività intellettuale di Pellizzi, la prova concreta del suo impegno perché alcune idee siano tradotte in “istituti di comportamento” diffusi e condivisi. In questo senso egli è un riformista, cioè – secondo quanto scrive su «Civiltà italica» nel 1953 – qualcuno che introduce piccoli e graduali mutamenti in due direzioni ben precise: il modo di amministrare l’esistente e il modo di pensare un’alternativa all’esistente. Soggetti che pensano, e quindi operano diversamente rispetto alla consuetudine, possono incidere assai più in profondità di coartazioni esterne e repentine. È un altro modo che Pellizzi usa per dire: il buon governo si realizza facendo leva sull’autorità e non sul potere. Si tratta di persuadere e ottenere rispetto ed obbedienza con la forza della competenza, ossia delle capacità e dei talenti espressi dagli uomini giusti posti nel posto giusto al momento giusto, e non con l’imposizione estranea perché non condivisa e non motivata. Al ritorno da Parigi Pellizzi confida a Rensis Likert, professore dell’Institute for Social Research di Ann Arbor (Michigan), che le cose a Firenze si muovono, sia pure molto lentamente. 186 Cfr. ivi, pp. 110-116. Mayo si avvaleva nelle sue ricerche dei mezzi messi a disposizione dal Dipartimento di ricerche industriali della Graduate School of Business Administration dell’Università di Harvard. Pellizzi cita Mayo anche in altri suoi scritti: Elementi di sociologia (I gruppi umani nel giuoco e nel lavoro), cit., pp. 36-42 e Lineamenti di sistematica sociologica, cit., pp. 90-91. 187 R. Lucifredi a C.P., 5 maggio 1955, in ACP, b. 38, f. 60.

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My team from Florence, led by my junior Colleague F. Ferrarotti (who has done nearly three years in Chicago with Prof. Harbison and others), has already started with success a research in two factories near Naples: it is mostly consultant work so far, but we hope to derive some valuable generalizations from it, concerning industrial problems in our underdeveloped areas. Other developments, I am afraid, are bound to be very slow188.

Dunque, come si vede, per Pellizzi il lavoro di consulenza è solo una parte, certamente prioritaria per l’équipe del Centro di Studi sui Problemi del Lavoro. Come scrive a Likert, l’obiettivo più ambìto è forse quello di ricavare alcune valutazioni generali, empiricamente fondate, sulla base delle quali poter operare anche riforme politiche utili, ad esempio, al Mezzogiorno d’Italia. In ogni caso, la consulenza in azienda resta l’attività principale anche perché ancora poco diffusa e scarsamente accreditata nel mondo industriale nazionale. È quanto Pellizzi scrive al dottor Galeno Sambo del Centro Studi di Organizzazione Aziendale di Padova. Trovo del tutto augurabile che anche in Italia, come già avviene nei paesi economicamente e socialmente più sviluppati del nostro, la indagine, “diagnostica e clinica”, psicologica e sociologica, nelle aziende, venga impostata su un piano professionale; e, personalmente, non ho alcun motivo di rifiutare il mio concorso, ove la iniziativa sia condotta, come non dubito, con serietà scientifica e professionale. Specialmente al livello dei problemi sociologici dell’impresa, è altrettanto facile promettere la luna nel pozzo quanto, per l’eccesso opposto, scoraggiare gli operatori economici, esagerando le difficoltà, già per sé gravi, che questo lavoro “clinico” porta con sé. [...] Il Centro Studi cui è intestato questo foglio, e che io dirigo, ha già condotto e conduce ricerche sociologiche nell’industria. Esso ha lo scopo di addestrare i giovani a questi problemi, e di fornire una équipe di ricerca quando essa occorra189.

Il Centro di Studi sui Problemi del Lavoro è nato nel 1953 grazie all’interessamento di Pellizzi, e al sostegno del preside Maranini190, su un C.P. a R. Likert, 28 novembre 1957, in ACP, b. 39, f. 62. C.P. a L. A. Galeno Sambo, 21 febbraio 1958, in ACP, b. 39, f. 63. La sottolineatura è nel testo. Si veda la lettera di Galeno Sambo a C.P. di due giorni prima, 19 febbraio 1958, ivi. 190 Cfr. G. Maranini a C.P., 20 febbraio 1953, in ACP, b. 38, f. 58. Scrive il preside del “Cesare Alfieri”: «Quanto alla faccenda sulla quale richiami la mia attenzione (rapporti nel lavoro), ritengo che si tratti di argomento di estrema importanza per la Facoltà, e credo che ti dobbiamo essere tutti grati per quello che fai e cerchi di fare in questo campo. Troverai in me la più piena e decisa solidarietà. Cerchiamo di concretare in che modo la Facoltà possa assecondare il tuo sforzo». 188 189

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tema non nuovo per il “Cesare Alfieri”. Infatti il Centro nasce in concomitanza con la Scuola di Perfezionamento in Problemi sul Lavoro, atta a formare neolaureati o anche professionisti con mansioni di management a vario livello (dirigenti d’azienda, capireparto, funzionari di enti pubblici, ecc.). La direzione di questa Scuola, per il cui nome era stato inizialmente pensato a “Scuola di studi sindacali e aziendali”, è affidata a Pellizzi, tenuto conto proprio – gli scrive Maranini – dell’«interesse che tu porti ai problemi del lavoro»191. Si tratta di un istituto non del tutto inedito nella storia della Facoltà fiorentina, poiché tra le due guerre era stata in funzione una Scuola di perfezionamento in discipline sindacali diretta da Giovanni Balella in cui erano impartiti anche insegnamenti come Organizzazione scientifica del lavoro192. Lo ricorda Pellizzi allo stesso Maranini, il quale si è dichiarato pienamente favorevole a sostenere l’attivazione sia del Centro che della Scuola per l’anno accademico 1953-54 e ad affidarne al collega la direzione: la dicitura (anche se sia un poco diversa) ricorda in trasparenza i vecchi “studi sindacali e corporativi”: cosa che a me non fa certo scandalo, – e dopo tutto, è la vecchia idea cattolica (il rapporto “economico” subordinato al rapporto “personale e reale”), ed è, senza che loro lo sappiano, la nuova idea americana delle “human relations”. Ma non va bene, in tale quadro, “aziendale”. Ciò presuppone economia d’azienda, aziendalismo, commercio, pubblicità, ecc. È un’altra provincia, nella quale io non ho voce e competenza. [...]193.

Interessante, poi, la parte più “tecnica” di questa lettera a Maranini, in cui vengono elencati gli ambiti di studio e indagine su cui Pellizzi ha evidente intenzione di muoversi in futuro sia come singolo sociologo sia come direttore del Centro e della Scuola: Ibidem. Cfr. la lettera di Leone Cimatti a C.P. del 13 febbraio 1953, in ACP, b. 38, f. 58. Cimatti ricorda, in questa stessa lettera, di essere stato docente di tale disciplina e di avere esercitato la libera docenza in Psicotecnica del lavoro (di cui Padre Gemelli era stato sin dagli anni ’10 uno dei maggiori cultori e promotori in Italia) presso la Facoltà di Giurisprudenza di Firenze. 193 C.P. a G. Maranini, 23 febbraio 1953, in ACP, b. 38, f. 58. In seguito ad alcune proposte avanzate in Facoltà, Pellizzi precisa a Maranini i propri «ritocchi»: «Nel nome: “Scuola... dei problemi del lavoro”; oppure “dei problemi sociali del lavoro”; oppure “dei problemi sociali e politici del lavoro”. Nel programma: accentrare i proposti corsi secondo un’aggiornata visione dei problemi sociologici, economici e giuridici inerenti al lavoro (e politici); escludere tutte le parti tecniche (aziendalismo e simili) che non cadono in questo quadro» (le sottolineature sono nel testo). 191 192

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Oggi, negli studi e nella prassi (come la vedono gli Americani), si distinguono tre grandi capitoli, riguardanti la produzione: 1) scienze naturali, ingegneria, psicotecnica (adeguamento fra i mezzi fisici e l’uomo); 2) aziendalismo, organizzazione, smercio, pubblicità, ecc. 3) rapporti fra gli uomini (dalla schiavitù, più o meno contrattuale, che essa sia, fino alle più... trascendentali speculazioni della sociologia del lavoro). Io posso cercar di fare tutto ciò che vorrete nel terzo campo; negli altri, non è cattiva volontà, ma non ho veste. Avverti che ormai l’aziendalismo è disciplina elaboratissima, la quale trova la sua sede accademica giusta (o dovrebbe) nelle Facoltà di Econ. e Commercio. Noi dobbiamo star vicini alla psicologia e psicosociologia del lavoro, materie nelle quali la nostra Facoltà è poverissima. In breve, propongo una “Scuola” (meglio sarebbe dire “Istituto”) di Studi sui Rapporti Umani nel Lavoro. O se vuoi, “Istituto di Studi sui problemi sindacali e i rapporti umani nel lavoro”; o meglio, “Istituto di Studi Sindacali e dei Rapporti Umani nel Lavoro” (ISRUL, dato che ormai si vive di sigle).

Come si vede, dunque, esiste una strana miscela di vecchio e nuovo, di continuità e discontinuità nel percorso che conduce il sociologo Pellizzi a diventare uno dei pionieri della sociologia industriale e delle cosiddette human relations in Italia. E la continuità non è soltanto con alcuni interessi (sui temi del lavoro, ad esempio) maturati in epoca fascista e in quella determinata ottica ideologica, ma è continuità anche con la propria personale fede cattolica, come emerge dal passo appena citato. La cosa, poi, che un po’ sorprende è il fatto che pioniere Pellizzi non lo diventi tanto in sede teorica, in cui tutto sommato non produce una saggistica particolarmente significativa, quantomeno a livello quantitativo, ma piuttosto sul piano della formazione e della promozione di una folta schiera di giovani studiosi di sociologia e discipline affini, i primi cultori in un’Italia fino ad allora “antisociologica”, giovani pronti a condurre ricerche e sondaggi per conto di aziende, anche di grandi dimensioni. Soprattutto con l’aiuto di Ferrarotti, in forza al Centro dal 1956, fioccano contratti con industrie, tra cui l’IRI-Ansaldo e la Mobil Oil (per cui Ferrarotti e Sartori preparano un programma di «management development»)194. L’accordo con l’IRI, concluso nei primissimi giorni di luglio del 1957, riguarda una ricerca da condurre ai Cantieri Navali di Castellammare di Stabia (Navalmeccanica). La prima équipe incaricata di svolgere il lavoro è composta da Ceccanti, Buricchi e Tinacci Mannelli, con la supervisione di Ferrarotti195. Come questi scrive 194 195

Cfr. F. Ferrarotti a C.P., 26 novembre 1956, in ACP, b. 39, f. 61. Cfr. G. Sartori a C.P., 2 luglio 1957, in ACP, b. 39, f. 62.

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a Pellizzi nell’ottobre del 1957, l’indagine sul campo si articola in quattro fasi principali: «a) ricerca di sfondo; b) interviste dirette ai capi intermedi [nell’ottobre ne erano già state compiute 53 su 72, ndr.]; c) interviste agli operai ai vari livelli; d) verifica dell’ipotesi di lavoro»196. Entrando più nello specifico di quelle che sono le aree di ricerca su cui il Centro di Studi sui Problemi del Lavoro svolge le proprie ricerche, possiamo menzionare: la struttura della paga (dinamica e valore psicologico delle componenti del salario); lo schema organizzativo funzionale dell’azienda; la formulazione di questionari e uso di altre tecniche per rilevare ed eventualmente migliorare il “clima sociale” dell’azienda; la direzione del personale (politica sindacale in senso proprio, servizi sociali o salario indiretto); evoluzione della qualifica operaia in rapporto alla evoluzione del macchinario197. C’è poi l’«in-plant training», il quale comporta a sua volta una serie di attività: formazione e status dei trainers; sfondo antropoculturale dei gruppi da istruire; tecniche di educazione e istruzione a compiti specifici; rapporti con le scuole198. Ancora impegnato a Parigi, Pellizzi suggerisce altri possibili temi di ricerca all’amico Ferrarotti, il quale si è invece da poco stabilito a Firenze. Ad esempio: 2) Cultura e produttività (veda nostro Progetto-pilota per la Sardegna; e iniziative dell’UNESCO): analisi storica, psicologica e culturale (atteggiamenti, ecc.) dei gruppi di fronte ai vari problemi odierni della produzione; ossia, rapporto cultura-produttività. 3) “Supervisors” e capisquadra nell’industria italiana: origini, formazione, status, “background” culturale (origini agrarie, ecc.), funzione, comunicazioni, rapporto coi gradi più alti, atteggiamenti sindacali e politici. Questa è una zona per lo più arretrata e debole della nostra vita industriale, e quindi merita particolare attenzione199. 196 F. Ferrarotti a C.P., 16 ottobre 1957, in ACP, b. 39, f. 62. A proposito del team di lavoro, scrive Ferrarotti: «Il gruppo di ricerca va amalgamandosi abbastanza bene. Con il Suo ritorno, son certo che potremo sviluppare, con metodo, iniziative di cui abbiamo bisogno estremo. In particolare: corsi di addestramento per giovani ricercatori; inoltre, il “rispetto delle vocazioni”, per così dire, ossia il riconoscimento di competenze specifiche e di particolare status ad ogni ricercatore all’interno del gruppo di ricerca stesso». 197 Cfr. F. Ferrarotti a C.P., 15 giugno 1956, in ACP, b. 39, f. 61. Per una tabella riassuntiva dell’attività di ricerca svolta dal Centro di Studi sui Problemi del Lavoro dal 1955 al 1960, cfr. G. CHIARETTI, Un caso di organizzazione della scienza: la sociologia in Italia nel decennio 1958-1968, in L. BALBO, G. CHIARETTI, G. MASSIRONI, L’inferma scienza..., cit., p. 167. 198 Cfr. C.P. a F. Ferrarotti, 24 giugno 1956, in ACP, b. 39, f. 61. 199 Ibidem.

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Quindi, ancora una volta, emerge la preoccupazione nei confronti delle aree depresse, culturalmente ed economicamente arretrate della penisola. E per cultura qui Pellizzi intende cultura industriale ed imprenditoriale, così che nessuna economia florida si darà mai in contesti dove manchi lo spirito d’intrapresa e condizioni psicologiche di gruppo idonee all’iniziativa e al dinamismo economico. Il ruolo dei sociologi, ed in particolare di quelli formati alla Scuola di Perfezionamento e impiegati poi nel Centro di Studi, dovrebbe essere proprio quello di “addestrare” le menti ancor prima delle braccia tramite queste attività di inchiesta e conseguente consulenza ad hoc per un migliore management, una più comprensiva ed efficace gestione delle risorse umane. Pellizzi dimostra una tenace volontà di dare concreta realizzazione a progetti che vadano in questa direzione di riforma del sistema industriale italiano, ed è per questo che nel giugno 1957 ha deciso di lasciare l’Agenzia Europea della Produttività perché, in quel frangente, appare chiaro che «non ha nessun aiuto da dare, né economico né tecnico»200. Non per questo egli demorde dai suoi propositi e preferisce piuttosto cercare finanziamenti altrove, affidandosi alle proprie conoscenze maturate nel corso del soggiorno parigino e avvalendosi delle numerose cariche ricoperte presso prestigiose riviste e associazioni sociologiche internazionali. Mantiene, e anzi riprende con maggior vigore, i contatti con la CISL, soprattutto tramite Franco Archibugi dell’Ufficio Studi e Formazione del sindacato cattolico201. Nel corso degli anni Cinquanta, Pellizzi ha avuto quindi modo di dare concreta attuazione a diversi suoi propositi: in primo luogo, la diffusione della sociologia e delle scienze sociali in Italia, contribuendo a formare un gruppo cospicuo di giovani ricercatori capaci di fare ricerche sul campo, con interviste, questionari, e altre tecniche di rilevamento dei dati secondo una consuetudine tutta anglosassone. A questo scopo ha stabilito collegamenti tra il nostro Paese e università ed istituti di altre nazioni, in Europa e negli Stati Uniti, favorendo esperienze di studio e ricerca a non pochi di quei giovani ricercatori, tutti gravitanti, in tempi e modalità diverse, attorno alla cattedra di Sociologia del “Cesare Alfieri” (per citarne 200 C.P. a Giuseppe Di Nardi, 31 marzo 1958, in ACP, b. 39, f. 63. Per notizie bio-bibliografiche relative a Di Nardi si veda il recente volume di S. COLINI, F. GARELLO, Le carte Di Nardi nell’archivio della Fondazione Ugo Spirito, presentazione di Domenico Da Empoli, introduzione di Giuseppe Parlato, FUS, Roma 2003. 201 Cfr. le lettere di F. Archibugi a C.P. del 1° marzo 1957 e dell’8 ottobre 1957 (ACP, b. 39, f. 62).

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solo alcuni: Piero Pistoj, Paolo Ammassari, Gaspare Cavallina, e molti altri nel corso del decennio successivo, ad esempio Giacomo Sani, Pier Paolo Giglioli e Margherita Ciacci)202. In secondo luogo, ha coltivato la sua preoccupazione risalente all’epoca fascista, quella della selezione di minoranze dirigenti capaci e perciò autorevoli. E se il settore politico era forse quello su cui in precedenza aveva più puntato la propria attenzione, dagli anni Cinquanta è nei confronti del mondo industriale e quindi, più in generale, della classe imprenditoriale che Pellizzi concentra le proprie energie, e stavolta non solo per esortare a livello teorico ma anche per “educare” e coadiuvare con consulenze scientificamente attrezzate. A questo punto sono necessarie due precisazioni conclusive. Anzitutto, la componente educativa implicita in queste attività non è da leggersi in termini di “paternalismo sociale” o di un pedagogismo tipico di certo snobismo intellettuale. Stando alle parole dello stesso Pellizzi, questa obiezione è facilmente confutabile: Qualcuno, infine, critica questi studi e queste applicazioni, dicendo che esse tendono solo ad ottenere che l’operaio renda di più, a vantaggio dell’impresa. Si tratterebbe, come qualcuno dice, di una forma più scientifica di “paternalismo”. La risposta a questa obiezione è molto semplice, e cioè: tutto ciò che può rendere più soddisfacente e meno fastidioso il lavoro, a parità di ogni altra condizione, è un vantaggio acquisito per colui che lavora; e questo è vero in ogni caso, sia che egli lavori per un’impresa privata, oppure per un’azienda pubblica, statale, o per una cooperativa: ossia, per un’azienda in cui il profitto non va a beneficio di un privato imprenditore. E in quanto al “paternalismo”, diremmo che queste nuove tecniche del lavoro si muovano proprio nel senso contrario, perché tendono a dare ai gruppi di lavoro un massimo di partecipazione attiva e intelligente alla vita dell’impresa, di qualunque natura essa sia203.

Ancora nel 1962, tornando sulla tematica e sui problemi inerenti ai rapporti umani nel lavoro, che, a suo avviso, costituiscono «il nocciolo essenziale di tutta la sociologia del lavoro», Pellizzi constata la «resistenza attiva e passiva» che un tale tipo di studi incontra in Italia204: 202 A proposito di Ammassari Pellizzi dirà nel 1968: «È il solo mio allievo diretto che sembri aver tratto profitto da certi miei orientamenti, e che al tempo stesso sia molto aggiornato sugli indirizzi e sulla immensa letteratura recente, specialmente in metodologia» (lettera ad Antonino Pagliaro, 16 settembre 1968, in ACP, b. 23, f. 155). 203 C. PELLIZZI, Elementi di sociologia (I gruppi umani nel giuoco e nel lavoro), cit., p. 42. 204 C. PELLIZZI, La sociologia del lavoro in Italia, cit., pp. 332 e 324. Il corsivo è nel testo.

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In sede europea, dunque, e più e peggio in sede puramente italiana, le “relazioni umane”, lungi dal “venire introdotte” nell’industria italiana dopo il 1950 (come credono i nostri giovani sociologi “non borghesi”), incontravano ancora vaste e decise resistenze padronali, più o meno larvate, nel 1955 e ‘56, mentre i rappresentanti di organismi sindacali europei, cui sono associati anche taluni sindacati italiani, trovavano interessante e utile partecipare all’indagine di questi problemi in sede scientifica205.

Sono soprattutto i sindacati non comunisti a mostrarsi disponibili al dialogo, ed in particolare all’ipotesi di «quella formula organizzativa a tre (rappresentanti degli interessi d’azienda, rappresentanti dei lavoratori dipendenti, studiosi delle scienze dell’uomo applicate ai problemi del lavoro) che fu l’idea-madre della Conferenza di Roma, e che rappresenta un concetto e un principio in parte nuovi»206. Invece dei governi statali, Pellizzi propone gli studiosi qualificati nella veste di mediatori, in quanto realmente svincolati da interessi particolaristici o, senz’altro, in misura inferiore rispetto ai governi che sono necessariamente espressione di gruppi politici. Questo perché, a suo avviso, lo studioso qualificato, «quando si impegna nel nome della sua disciplina, è per lo meno vincolato da un impegno professionale, che dovrebbe imporgli certi scrupoli e un minimo di obbiettività»207. Ancora tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta l’ostilità e il pregiudizio nei confronti della sociologia del lavoro in genere, e delle human relations in particolare, provengono per lo più da «quelle aree politiche e sindacali sulle quali predomina la C.G.I.L.»208, mentre Ivi, p. 327. I corsivi sono nel testo. Ivi, pp. 329-330. Si legga quel che Pellizzi, lamentandosi degli scarsi appoggi ricevuti sia in ambiente governativo che confindustriale, scrive a Ferrarotti l’11 aprile 1960: «il Comitato Tripartito Italiano, che io tentai a più riprese di far nascere fino dai tempi del Convegno di Roma (febbraio 1956), e di cui non v’è traccia, benché la CISL, per parte sua, abbia più volte dimostrato di esser pronta a collaborare» (ACP, b. 40, f. 65). 207 Ivi, p. 330. 208 Ivi, p. 328. Anche secondo Ferrarotti, sullo sviluppo delle scienze sociali nella cultura italiana della seconda metà del Novecento ha agito negativamente «la ripresa del marxismo, tanto vigorosa e rigogliosa, legata com’era ideologicamente al Partito comunista e a quello socialista, quanto scarsamente interessata alle ricerche sul terreno». Questo è avvenuto perché il marxismo italiano «non tardò a scorgere nelle scienze sociali, specialmente nella sociologia – mentore G. Lukács – una variante della scienza “borghese”», dimostrando così di essere «”imbevuto di idealismo”, profondamente permeato di volontarismo soggettivistico, coltivato assai più da filosofi puri e da italianisti portati a “pensare apocalitticamente” che da ricercatori non immemori dei suoi [del marxismo, ndr.] fondamenti storicistici e materialistici e di quei capitoli sulla giornata lavorativa e sulla meccanizzazione della grande industria e del libro primo del Capitale, che fanno giustamente di Marx uno dei 205 206

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fra imprenditori e dirigenti si nota un’evoluzione favorevole negli ultimi cinque o sei anni, dovuta in buona parte (non è malignità, bensì legittima ipotesi sociologica) al relativo assottigliarsi della manodopera disponibile, specie ai livelli qualificati, e all’ampliamento e specializzazione delle aziende, con il derivante impiego di personale più colto e aggiornato ai livelli alti. Resta da fare molta strada per ciò che riguarda un grande numero di aziende, anche fra le maggiori, perché si è partiti quasi sempre dallo zero assoluto, e perché il giuoco politico e sindacale, facilitato anche dall’accrescimento del tono economico del paese, mantiene e talora esaspera un clima di guerra fredda nei rapporti fra categorie, e costringe gli studiosi a fare le loro ricerche quasi con dei sotterfugi, e per lo più senza la partecipazione attiva delle parti interessate209.

La seconda e ultima precisazione concerne l’ambito delle indagini che Pellizzi conduce sulle dinamiche di gruppo. Queste non si limitano al mondo del lavoro, poiché anche il cosiddetto tempo libero costituisce uno spazio assai ampio e influente nella condotta di vita del cittadino occidentale. Se c’è un concetto che unifica i molteplici interessi del Pellizzi sociologo questo è probabilmente la “comunicazione”. Lo studio del rito e del simbolo, così come da lui intesi sin dalla fine degli anni Quaranta, ha come oggetto di studio il comportamento consapevole che mette in relazione due o più soggetti, stabilendo appunto una forma di comunicazione (anzitutto, all’interno della stessa coscienza del singolo nel momento in cui il proprio io viene tematizzato e si forma l’identità soggettiva). Così Pellizzi non può, sin da subito, non interessarsi alle comunicazioni di massa, dalla radio al cinema sino alla televisione che proprio a metà anni Cinquanta mette piede in Italia con un escalation di abbonati Rai che si compie tra il 1957 e il 1960210. A proposito di radio, cinema e televisione, Pellizzi è convinto che queste tecniche di comunicazione di massa non si limitano ad incidere sul fatto sociale, culturale e di costume, non sono soltanto condizionanti e collaterali del fatto culturale e di costume; sono fattori formativi. [...] nel senso in cui si fondatori della disciplina sociologica» (F. FERRAROTTI, Scienze sociali e politiche, cit., p. 643). Tra anni Cinquanta e Sessanta, scrive dal canto suo Gianni Massironi, «la cultura di sinistra considera la sociologia una delle forme attraverso cui si manifesta l’imperialismo culturale americano, e teme la penetrazione di una ideologia che impedisca il formarsi della coscienza di classe e della solidarietà comunista» (op. cit., p. 18). 209 Ivi, pp. 328-329. 210 Cfr. S. COLARIZI, Storia del novecento italiano. Cent’anni di entusiasmo, di paure, di speranza, Rizzoli, Milano 2000, pp. 371-372. Si veda anche F. MONTELEONE, Storia della radio e della televisione in Italia, Marsilio, Venezia 1992.

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dice che sono formativi dei fattori come l’insegnamento della Chiesa, la scuola, oltre sia pur minori esperienze fondamentali211.

Questa capacità di incidere con forza nel processo formativo delle persone che fruiscono dei mass media non è però unidirezionale e non dà luogo ad una semplice ricezione passiva di qualsiasi messaggio. [...] queste tecniche non soltanto agiscono in modo più o meno cumulativo e correlativo sopra le strutture sociali, delle tendenze, delle strutture sociali di opinione, cultura e costume; cioè, non sono soltanto cause, ma anche effetti di una circolarità di cui va tenuto conto212.

È anche per questo che Pellizzi preferisce l’espressione “grandi comunicazioni” a quella di mezzi di comunicazione di massa, in quanto ritiene un dato oggettivamente riscontrabile, oltre che soggettivamente auspicabile, che gli ascoltatori radiofonici e gli spettatori televisivi non siano materia molle facilmente e rapidamente plasmabile secondo la volontà di coloro che emettono messaggi tramite questi strumenti di comunicazione213. Questa considerazione non toglie il fatto che soprattutto il cinema e la televisione, per il fatto di avvalersi di immagini, siano capaci di investire, impegnare, assorbire e in qualche modo dominare «la personalità conoscitiva e critica dello spettatore molto più, credo, di quanto non possa fare la trasmissione radiofonica, la quale, o dà soltanto un’esperienza musicale anche se di musica cantata, o dà un’esperienza conoscitiva e suscita un problema critico e di pensiero riflessivo»214. Secondo un approccio tipico del periodo e, più in generale, dell’analisi di un intellettuale, il mezzo di comunicazione di massa – e il riferimento specifico è, in questo caso, al cinema e alla televisione – è valido e da diffondere nella misura in cui possiede un contenuto educativo, «cioè a dire, elementi che facilitano l’apprendimento, la comprensione, l’adesione morale e sentimentale dell’educando rispetto alla cosa che gli si vuole insegnare»215. 211 C. PELLIZZI, Incidenza della radio, del cinema e della televisione su opinioni, cultura e costume, estratto dagli Atti del Symposium per lo studio della “Miranda Prorsus” (Roma, 19-20 aprile 1958), p. 1. Il corsivo è mio. 212 Ivi, p. 2. 213 Cfr. C. PELLIZZI, Introduzione a G. TINACCI MANNELLI, Le grandi comunicazioni. Lineamenti di una sistematica di studio, Forni, Bologna 1985 (2ª ediz. ampliata ed aggiornata), pp. VII-XIX. 214 C. PELLIZZI, Incidenza della radio, ..., cit., p. 3. Per il momento, il maggiore accusato, com’è ovvio che sia nell’Italia degli anni Cinquanta, è il cinema, perché «infiacchisce la personalità, la spontaneità soggettiva del giudizio critico» (ibidem). 215 Ibidem.

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Partendo dalla premessa che il cinema (come la TV) è da accettare «come un fatto ineluttabile», non piace però l’uso che ne viene fatto: anche come mezzo di evasione, se è vero che masse di uomini e di donne che arrivano negli ambienti della grande civiltà industriale hanno bisogno di un mezzo di evasione, e lo trovano solo nel cinema, questo è, certo, un uso sociale del cinema, ma è un triste rimedio ad un triste problema sociale216.

Quindi, una certa dose di pedagogismo e di elitarismo217 cacciato dalla porta rientra dalla finestra in queste considerazioni che Pellizzi svolge all’alba della diffusione della televisione (tant’è che il maggior spazio della sua analisi è dedicato al cinema, vero mezzo di comunicazione di massa nell’Italia degli anni Cinquanta). Quest’atteggiamento deriva anche dall’idea che Pellizzi ha del sociologo come «clinico», un’idea più volte affermata nel corso di questi anni e che ribadisce in occasione di questo convegno del 1958, spiegandone con dovizia tanto i motivi quanto le finalità. Mi trovo ad essere l’unico titolare italiano di questa specie di critica sociale sistematica che è la sociologia. Come se in Italia vi fosse un solo professore di critica medica. Evidentemente, questo professore di critica medica non perderebbe nessuna occasione per ripetere che occorre fare molto a servizio di clinica, che occorre spendere molti denari per le ricerche: che non si è fatto ancora quasi niente in materia, e si continua a legiferare e ad amministrare sulla base di dati umani in gran parte ignoti. Questa è, d’altronde, la semplice verità218.

Radio, cinema e televisione pongono al mestiere di sociologo così inteso una sfida inedita, un insostituibile compito di ausilio tecnico ai legislatori e agli amministratori della cosa pubblica in ogni singolo settore del vivere civile. [...] questi tre mezzi di comunicazione sociale, di comunicazione di massa, hanno una responsabilità sociale immediata, grave ed immensa. Non dico che i loro dirigenti o imprenditori, privati o pubblici che siano, manchino del sentimento di queste loro responsabilità; dico che non possono far fronte a queste responsabilità se non hanno una attrezzatura sufficiente di mezzi per la ricerca assidua, quotidiana, per la rilevazione «clinica» del rapporto che crea e degli effetti Ibidem. Va però aggiunto che, secondo Pellizzi, l’omogeneizzazione culturale prodotta dai mass media non riguarda solo alcuni ceti sociali, magari meno istruiti, dal momento che «la massa include tutto, anche gli studiosi di qualche materia, che tenderanno anch’essi ad essere standardizzati per tutto il resto» (ibidem). 218 Ivi, p. 5. Il primo corsivo è mio. 216 217

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che l’opera loro produce nella società: non soltanto attraverso le indagini classiche, e in parte sperimentali, della psicologia, ma anche attraverso le tecniche più ampie, di più diretto rilievo rispetto ai fenomeni della cultura, che sono le ricerche che interessano la sociologia219.

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Ivi, p. 6.

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Capitolo VI

Nel paese delle élites assenti

1. La «Rassegna Italiana di Sociologia» Il primo numero della «Rassegna Italiana di Sociologia» si apre, come abbiamo già accennato, con la riproduzione di un ritratto di Giovambattista Vico. Pellizzi si avvale della consulenza del suo amico di vecchia data Mino Maccari per la veste grafica e il tipo di impaginazione da dare a questa nuova creatura editoriale, la prima (e l’ultima) nella sua lunga attività culturale1. La stampa di questa rivista, che manterrà sempre una periodicità trimestrale, è curata dalle fiorentine Edizioni «Organizzazioni Speciali» (Edizioni OS) di Edoardo Abbele, ex consulente della Olivetti in tema di organizzazione industriale e poi collaboratore della Scuola di Perfezionamento sui Problemi del Lavoro. Grazie alla propria esperienza negli stabilimenti di Ivrea, Abbele era stato uno dei primi ad occuparsi e a promuovere studi scientifici sulle human relations. Nel 1951, ad esempio, aveva curato la traduzione del libro di Norah M. Davis, Human Problems in Industry2. La «Rassegna» si trasferisce nel 1962 da Firenze a Roma, nel senso che cambia editore passando alle «Edizioni di Scienze Sociali» di Luigi D’Amato. Infine, ai primi del 1965, la rivista approda al «Mulino» di Bologna, «immemorabile centro di studi sociali» secondo quanto scrive Pellizzi3. Tre edi1 Cfr. M. Maccari a C.P., 28 marzo 1960, in ACP, b. 40, f. 65. È proprio Maccari a suggerire l’inserimento del ritratto di Vico all’interno di un ovale di contorno. 2 N. M. Davis, Problemi umani nell’industria, a cura di E. Abbele, Editrice Universitaria, Firenze 1951, 19532. 3 C. P., «Migrazioni interne», in «Rassegna Italiana di Sociologia» (d’ora in poi, RIS), a. VI (Terza serie), n. 1, gennaio-marzo 1965, pp. 3-4. Cfr. anche la lettera a Pellizzi dell’allora presidente della Società editrice il Mulino, Luigi Pedrazzi (24 aprile 1965), e quella di Giovanni Evangelisti del 29 maggio 1965 (in ACP, b. 42, f. 70).

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tori in cinque anni sono molti per una rivista, ma è il prezzo pagato, scrive Pellizzi, per mantenere in vita un’iniziativa culturale in un ambito, quello delle scienze sociali, ancora poco affermato nel panorama editoriale italiano. E poi, soprattutto, è difficile restare a galla in una situazione simile quando non si hanno referenti politici o industriali. La nostra indipendenza da vincoli formali o informali di qualunque genere fa sì che, nel mercato librario italiano, questa Rassegna costituisca a tutt’oggi un onere non indifferente per chiunque ne assume l’editoria [...]. Un interessamento maggiore per questa rivista da parte di enti o privati (per essere precisi, un interessamento qualsiasi) avrebbe potuto alleviare il gravame ai nostri precedenti Editori, e forse risparmiarci qualche trasloco. Ma la Rassegna Italiana di Sociologia, se ci si passi la citazione, non è nata a percuotere le dure illustri porte4.

L’inserimento della rivista nel gruppo editoriale del «Mulino» darà, a partire dal 1965, una maggiore sicurezza e tranquillità al suo direttore tanto che, al di là di alcuni movimenti nel gruppo redazionale, essa continuerà ad uscire per l’editore bolognese ben oltre la data della morte di Pellizzi, tanto da giungere fino ai nostri giorni in cui si presenta ormai come la decana delle riviste di settore. In una lettera di ringraziamenti ad Abbele Pellizzi spiega il perché del primo cambio di editore, quello cioè che determina il trasferimento della «Rassegna» a Roma, ed accenna altresì alle motivazioni originarie della nascita della rivista, ossia l’«esigenza che si era presentata (personale, per me, ma anche obbiettiva) di lanciare una rivista di sociologia libera dalle influenze e jugulazioni di chicchessia, e che impedisse la maturazione di un monopolio cui certi gruppi ed ambienti tendevano»5. I motivi addotti da Pellizzi per il cambio di editore sono i seguenti: due anni di esperienza, e una valutazione degli sviluppi prevedibili nel nostro mondo culturale, hanno portato me, personalmente (e non altri, siano essi D’Amato, Sartori, o i vari altri collaboratori e condirettori con cui ne parlai) a concludere: – che urgeva riunire in una città sola, e quindi Roma, la direzione, redazione, amministrazione e stampa del periodico; – che bisognava retribuire, anche se modestamente, un redattore e i collaboratori; – che bisognava ridurre i prezzi, assicurare un lancio maggiore e diverso del periodico, tenere una media di 150 pagg. al numero. 4 5

Ibidem. C.P. a E. Abbele, 12 luglio 1962, in ACP, b. 41, f. 67.

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Questo non era possibile a Firenze, e perciò colla O/S6.

I cambiamenti di editore non avvengono quindi a seguito di discordie interne alla redazione, ma essenzialmente per ragioni di ordine economico e logistico. Lo dimostra il fatto che, ancora nel 1965, Abbele resta a far parte con Luciano Potestà e Gilberto Tinacci Mannelli della redazione, e che Luigi D’Amato diventa condirettore assieme a Giovanni Sartori, che della «Rassegna» è stato promotore fin dal 1960 assieme a Franco Leonardi e Franco Ferrarotti7. Quest’ultimo, assieme a Nicola Abbagnano, aveva dato vita nel 1951 ai «Quaderni di Sociologia», cui lo stesso Pellizzi aveva collaborato, e che costituiscono la prima rivista italiana ufficiale di studi sociologici del secondo dopoguerra8. Non dimenticando perciò questa 6 Ibidem. Dalla lettera si ricava anche la notizia che il numero 4 del 1961 della «Rassegna» era, nell’estate del 1962, «testo obbligatorio per gli studenti che devono dare ancora l’esame». Il numero in questione comprende, tra l’altro, quattro articoli sullo stato degli studi di sociologia rurale in alcuni Paesi (Italia, Francia, Olanda e Stati Uniti). 7 La cura redazionale, con il passaggio al «Mulino», ricadrà per alcuni anni soprattutto sulle spalle di Giovanni Evangelisti e Giacomo Sani. Sarà poi l’Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo» di Bologna a fornire via via nuovi giovani studiosi incaricati della cura redazionale. 8 A dire il vero, prima del 1960 compaiono altre riviste specializzate di sociologia, il cui rilievo però non pare paragonabile a quello che avrà la «Rassegna». Si tratta di: «Sociologia religiosa» (1957) di S. S. Acquaviva; «Sociologia. Bollettino dell’Istituto L. Sturzo» (1957); «Notiziario di Sociologia» (1958). Nell’estate del 1962 uscirà il primo numero di «Quaderni di Scienze Sociali», rivista quadrimestrale dell’Istituto di Scienze Sociali di Genova, fondata e diretta da Luciano Cavalli ed edita da Giuffrè (Milano). Pellizzi vi pubblicherà nel 1965 un breve saggio su Burnham (La «Rivoluzione dei tecnici» venticinque anni dopo, in «Quaderni di Scienze Sociali», a. IV, n. 1, aprile 1965, pp. 1-8). Nel 1963 nascerà la «Rivista di Sociologia», pubblicazione dell’Istituto di Sociologia dell’Università Internazionale degli Studi Sociali “Pro Deo” di Roma. Vice-direttore dell’Istituto, nonché direttore della rivista, è Franco Crespi, il quale inviterà subito Pellizzi a collaborare al primo numero (cfr. la lettera del 6 novembre 1962, in ACP, b. 41, f. 67). Un discorso a parte andrebbe fatto per quelle pubblicazioni di area cattolica, a cominciare dai «Quaderni di azione sociale», rivista delle ACLI pubblicata sin dal 1949, che pur non specificamente ed esclusivamente dedicate alla sociologia, ne seguono l’evoluzione e la produzione scientifica, discutendone metodi e contenuti (cfr. G. MASSIRONI, «Americanate», in L. BALBO, G. CHIARETTI, G. MASSIRONI, L’inferma scienza. Tre saggi sull’istituzionalizzazione della sociologia in Italia, cit., pp. 36-39). Sempre in questo settore di studi, una pubblicazione di fondamentale importanza sin dall’immediato secondo dopoguerra, in quanto vi «si affronta il problema della scientificità della sociologia», è la «Rivista Internazionale di Scienze Sociali» dell’Università Cattolica, diretta da Francesco Vito e a cui collabora, come si è visto, lo stesso Pellizzi nei suoi esordi da sociologo. Tra il 1959 e i primi anni ’60 l’Università Cattolica rafforzerà l’insegnamento della sociologia con la creazione nel 1959 di un Istituto di

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importante e storica primogenitura, ma ragionando in termini simbolici piuttosto che cronologici, non si può resistere alla tentazione di riconoscere nella «Rassegna» la prima grande rivista di sociologia dell’Italia del secondo dopoguerra. Per dare un qualche fondamento ad una simile affermazione si deve, anzitutto, tener conto che il suo fondatore e direttore è il primo, e ancora nel 1960 l’unico, cattedratico italiano di sociologia9. Inoltre, si pensi alla longevità della rivista e alle collaborazioni di cui beneficiò sin dall’inizio. Collaborazioni che ampliarono gli ambiti di competenza delle cosiddette “scienze dell’uomo”: dalla sociologia (sviscerata nelle sue molteplici specializzazioni di settore: dalla sociologia politica alla sociolinguistica) all’antropologia culturale, dalla psicologia sociale alla stessa scienza politica, almeno fino a quando non sorgerà nel 1971, per iniziativa di Sartori, la Sociologia, diretto da Francesco Alberoni, e di una rivista specializzata, «Studi di Sociologia», che inizierà le pubblicazioni nel 1963 e il cui direttore sarà Francesco Vito, mentre Alberoni sarà il redattore-capo. Per una rassegna completa delle riviste specializzate di sociologia negli anni ‘60, cfr. L. BALBO, G. CHIARETTI, G. MASSIRONI, op. cit., pp. 181-182 e 280. 9 Nel 1961 si terrà il primo concorso per la cattedra di Sociologia. La terna vincente vede i nomi di Franco Ferrarotti, Giovanni Sartori e Alessandro Pizzorno. I concorrenti alla cattedra sono numerosi: oltre ai tre vincitori finali, ci sono Diena, Braga, Acquaviva, Leonardi, Pennati, Mendella, Cavalli, Barbano, Alberoni, Palazzo, Marotta, Pagani e Ardigò. I membri della commissione esaminatrice sono: Pellizzi, Francesco Vito, Franco Lombardi e Renato Treves. Pellizzi risulta il più votato: circa quaranta voti di scarto rispetto al secondo (cfr. il telegramma di Sartori a Pellizzi del 5 agosto 1961, in ACP, b. 40, f. 66). Il primo titolare di una cattedra di Sociologia assegnata per concorso è dunque Ferrarotti, poiché Pellizzi era stato chiamato dal «Cesare Alfieri» senza concorso come professore ordinario, titolare di un insegnamento già presente nel corso di laurea in Scienze Politiche della Facoltà (e tenuto, su incarico, da Bernardino Cicala; vedi cap. IV). Va, comunque, ricordato che sia Ferrarotti che Sartori godettero dell’importante appoggio di Pellizzi in sede concorsuale, grazie anche ai contatti di quest’ultimo presso il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Cfr., a titolo di esempio, la lettera di Ferrarotti a Pellizzi del 4 agosto 1961; nonché le lettere di Sartori a Pellizzi del 28 aprile, 16, 23 e 25 maggio 1961, e quelle di Pietro Piovani a Pellizzi del 29 maggio e 7 agosto 1961 (ACP, b. 40, f. 66). Se ne evince la presenza di due «blocchi elettorali» e accademici, uno cattolico e l’altro “di sinistra”, tra i quali si incunea la presenza di Pellizzi e di quelli che sono considerati “suoi”candidati (anche se, in realtà, hanno entrambi una formazione indipendente e diversa, sia tra loro sia rispetto allo stesso Pellizzi). Scrive Piovani a Pellizzi, il 7 agosto 1961, all’indomani dell’elezione dei membri della commissione giudicatrice nel concorso di sociologia: «A lume di naso, senza commettere ora l’indelicatezza di mettere il naso stesso in affari altrui, mi pare che l’importante sia puntare tutto e soltanto sul binomio Ferrarotti-Sartori (dai più considerati entrambi, a lor modo, Tuoi alunni)» [Il corsivo è mio]. D’altronde, va detto che lo stesso Sartori, riconoscente, si dichiara «tuo allievo» in una lettera a Pellizzi del 21 dicembre 1962 (ACP, b. 41, f. 67).

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«Rivista Italiana di Scienza Politica». A proposito di scienza politica, è opportuno però ricordare la sostanziale contrarietà di Pellizzi ad usare un’espressione del genere, ritenendo che “sociologia politica” rendesse meglio conto della effettiva natura della disciplina (sulla cui autonomia – o, a maggior ragione, netta divisione – rispetto alla sociologia nutriva riserve e, in tal senso, avanzò alcune obiezioni all’amico e collega Sartori10). Un altro esempio del prestigio conseguito a livello internazionale dalla rivista è la lettera che nell’aprile del 1965 Peter L. Berger, fresco direttore di «Social Research», rivista della New School for Social Research di New York, scrive a Pellizzi11. Berger, alla ricerca di collaborazioni con riviste specializzate europee, propone al direttore della «Rassegna» e ai suoi allievi di inviare contributi, dicendosi ben lieto di pubblicarli sulla propria rivista, interessata a saggiare il livello degli studi di scienze sociali nel Vecchio Continente. Dal canto suo, la rivista di Pellizzi ha, a partire dalla metà degli anni Sessanta, una rubrica, intitolata Segnalazioni e notizie, nella quale si rende conto di tutto quanto avviene in Italia e nel mondo nell’ambito delle scienze sociali, sociologia in primo luogo ma non solo (i convegni, le riviste, le novità librarie, l’istituzione – soprattutto in Italia – di nuovi istituti di ricerca o dipartimenti universitari, i rapporti annuali 10 Nell’ambito del III Congresso Nazionale di Scienze Politiche e Sociali (Roma, 1314 marzo 1964), Pellizzi non esiterà a sostenere, presente anche Sartori, che l’espressione “scienza politica” è «una infelicissima dicitura, come è infelice anche sociologia, perché non dice quello che vuol dire e realmente riesce a sviare il discorso da quello che è il problema effettivo di questo insegnamento» [Gli studi politici e sociali in Italia. I diritti dell’uomo nella teoria e nella prassi politica, Atti del Terzo Congresso Nazionale di Scienze Politiche e Sociali (Roma, 13-14 marzo 1964), Vita e Pensiero, Milano 1965, p. 119]. Cfr. anche C. PELLIZZI, La dimensione filologica dell’empirismo, in RIS, a. XI (Terza serie), n. 2, aprile-giugno 1970, pp. 159-167. In questo articolo è recensita l’Antologia di scienza politica (il Mulino, Bologna 1970) curata da Sartori. Pellizzi, fra l’altro, commenta: «Il dibattito sulle rispettive competenze della sociologia politica e della politologia tout court, che il Sartori qui riprende nella sua Introduzione, e che già vide sulla Rassegna un nitido passaggio d’armi fra Sani e Sartori [...], ci interessa mediocremente» (p. 160). Soprattutto, ciò che non lo convince del tutto è «la fictio mentis delle “variabili”, dipendenti o indipendenti», dal momento che nelle scienze dell’uomo «non esistono, a priori e in assoluto, “variabili indipendenti”» (ibidem). Comunque, precisa Pellizzi, «questo non esclude la validità della linea di distinzione (non divisione) del “fatto politico” nell’area dei fatti sociali», a sostegno della quale suggerisce l’adozione della «distinzione fra istituti e istituzioni» (p. 161. Il corsivo è nel testo). Anche a proposito dell’antropologia, Pellizzi preferirà col tempo l’aggettivo “sociale” a quello “culturale”, a suo avviso indice di una fase letteraria, pre-scientifica, di una disciplina oramai ampiamente maturata. 11 Cfr. P.L. Berger a C.P., 12 aprile 1965, in ACP, b. 42, f. 70.

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forniti dalle varie organizzazioni internazionali, ecc.). A quel che si dice e si scrive a proposito di sociologia negli Stati Uniti viene ovviamente dedicata una grande attenzione dai redattori della rivista, i quali non mancano però di segnalare anche le più piccole iniziative, universitarie o meno, che si hanno in Italia e che si rivelano utili alla promozione degli studi sociologici nella penisola. Quel che manca per tutti gli anni Sessanta è l’uso di abstracts che riassumano brevemente in inglese gli articoli apparsi su ogni numero della rivista. Giglioli lo farà notare in occasione del numero speciale della «Rassegna» dedicato alla sociolinguistica, da lui stesso curato, e che negli ambienti universitari americani avrà un ottimo riscontro12. E così, a partire dal 1969, gli articoli avranno il loro riassunto finale in inglese. Tra i collaboratori della «Rassegna», o anche i semplici ospiti occasionali, compaiono firme illustri, che segnalano la rapida, anche se tutt’altro che composta e pacifica, nascita di una comunità italiana dei sociologi e la sua apertura a quella che già esiste a livello internazionale. Soprattutto di questo cosmopolitismo culturale la rivista pellizziana può menar vanto sin dai suoi esordi, e ciò grazie ai contatti personali del direttore ma anche all’aiuto fornito anche in questa occasione dall’amico Fulchignoni da Parigi13. È poi da notare la presenza non solo di sociologi ma anche di antropologi, giuristi, filosofi, storici del pensiero politico, critici letterari; e non P.P. Giglioli a C.P., 5 ottobre 1968, in ACP, b. 42, f. 73. Il numero speciale della «Rassegna» (n. 2, aprile-giugno 1968) dedicato alla sociolinguistica presenta i contributi di A. Julien Greimas, Aaron V. Cicourel, Paolo Fabbri, William Labov, Jan-Peter Blom, John J. Gumperz, Susan Ervin-Tripp, Dan I. Slobin, oltre al curatore Giglioli. Il Mulino riceverà proposte di traduzione di questo numero della rivista persino da un editore argentino, interessato a farne un manuale introduttivo alla sociolinguistica (cfr. P.P. Giglioli a C.P., 16 gennaio 1969, in ACP, b. 23, f. 154). 13 Ad esempio Gaston Bouthoul (Disarmo e demografia, nel primo numero del 1961) e alcuni studiosi dei paesi appartenenti al cosiddetto Terzo mondo, come A. F. Dehoi (Panacee del nostro tempo: l’assistenza ai paesi sottosviluppati, apparso sul primo numero del 1960 e La feudalità e lo sviluppo sociale del mondo arabo sul secondo numero del 1961). Cfr. le lettere di Fulchignoni a Pellizzi del 18 ottobre e del 28 dicembre 1960 (ACP, b. 40, f. 65). Fulchignoni propone come collaboratore alla «Rassegna» anche Peter Lengyel, docente ad Harvard e specialista dei problemi riguardanti le implicazioni sociali dell’industrializzazione presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’UNESCO (cfr. E. Fulchignoni a C.P., 7 gennaio 1961, in ACP, b. 40, f. 66). Sulla «Rassegna» Lengyel pubblicherà un saggio sul tema La Costituzione Britannica e l’opinione francese durante la Restaurazione (18141830) [a. II, n. 4, ottobre-dicembre 1961, pp. 477-492]. Anche per un altro illustre studioso francese, Pierre Bourdieu, Fulchignoni è tramite per giungere a Pellizzi e alla sua rivista (cfr. E. Fulchignoni a C.P., 18 aprile 1965, in ACP, b. 42, f. 70). 12

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ci sono solo professori universitari, ma anche consulenti aziendali, operatori del settore radiotelevisivo e altri liberi professionisti specializzati in ambiti di interesse sociologico. Solo per citare i più noti, non possiamo non fornire questo lungo elenco molto più eloquente di tante altre considerazioni: Georges Friedmann, Sabino S. Acquaviva, Joseph La Palombara14, Giacomo Perticone, Franco Ferrarotti, Elémire Zolla, Gaston Bouthoul, Giovanni Sartori, Pietro Piovani, Marshall McLuhan, Bruno Rizzi, Franco Morandi, Seymour Martin Lipset15, Luciano Cavalli, William H. Form, Juan J. Linz, Alain Touraine, Morris Janowitz, Robert Schulze, A. Julien Greimas, Domenico Fisichella, Carlo Tullio Altan, Amitai Etzioni16, Ugo Spirito, Edward Shils, Giovanni Busino, Erving Goffman, Robert N. Bellah, Nicola Matteucci, Nicos Poulantzas, Gino Germani, Claus Offe, Johan Galtung, Paolo Farneti, Thomas Luckman, Giorgio Galli, Pierre Bourdieu, Samuel N. Eisenstadt, Norberto Bobbio, Marshall Sahlins, Tzvetan Todorov17, Richard Sennett. Moltissimi sono poi i giovani destinati ad una brillante carriera, futuri esponenti di spicco di quella che possiamo chiamare la “terza generazione” di sociologi (e politologi) italiani, considerando Pellizzi come uno dei pochi appartenenti alla prima generazione, e Ferrarotti e Pizzorno alla se14 La Palombara saluta subito con entusiasmo la nascita della nuova rivista proponendo la collaborazione sua personale e del dipartimento da lui diretto all’Università di Michigan, cfr. J. La Palombara a C.P., 11 febbraio 1960, in ACP, b. 40, f. 65. 15 Da segnalare un fatto curioso, ma sintomatico del prestigio internazionale rapidamente raggiunto dalla «Rassegna». È lo stesso Lipset, docente a Berkeley, a proporre un proprio saggio a Pellizzi, affinché venga pubblicato sulla rivista da quest’ultimo diretta. Scrive il sociologo americano: «Dear Professor Pellizzi, I would be most happy to see an Italian translation of my article, “The Changing Class Structure and Contemporary European Politics”, appear in your journal» (7 maggio 1964, in ACP, b. 41, f. 69). L’articolo in questione era già apparso su «Daedalus», rivista dell’Università di Harvard, ma Lipset propone in alternativa un secondo articolo, nato come prosecuzione del primo, Political Cleavages in ‘Developed’ and ‘Emerging’ Polities («You may publish this one if it interests you as an alternative to the other, or in addition to it if you so desire»). Sarà quest’ultimo testo ad uscire sulla «Rassegna» (a. V, n. 3, luglio-settembre 1964, pp. 293-336). Non pago, sempre nella stessa lettera Lipset chiede se la rivista abbia ricevuto per recensione il suo recente volume The First New Nation (Basic Books, New York 1963), se così non fosse, invita Pellizzi a richiederlo direttamente all’editore newyorkese. 16 È William Form a proporre Etzioni, presentandolo a Pellizzi come «one of the most talented and productive young sociologist in the United States» (W.H. Form a C.P., 18 gennaio 1965, in ACP, b. 42, f. 70). 17 Cfr. T. Todorov a C.P., 20 maggio 1966, in ACP, b. 42, f. 71. In questa cartolina da Parigi Todorov ringrazia Pellizzi per l’ospitalità ricevuta a Firenze.

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conda. Bastino i seguenti nomi: Gianfranco Poggi, Paolo Ammassari, Alberto Izzo, Paolo Fabbri, Pier Paolo Giglioli, Domenico De Masi, Margherita Ciacci, Luciano Pellicani, Lorenzo Infantino, Franco Cazzola, Mauro Calise, Giovanni Bechelloni, Renato Mannheimer, Francesco Remotti, Angelo Panebianco, Agopik Manoukian, Alessandro Cavalli, Marzio Barbagli, Gianfranco Pasquino, Arturo Parisi, Giordano Sivini. Una buona parte di essi collabora con l’Istituto di studi e ricerche «Carlo Cattaneo» di Bologna e alcuni saranno gli eredi della «Rassegna» dopo la morte del suo fondatore18. La scelta di Vico come effige che inaugura il primo numero della «Rassegna» non è certo casuale19. Risalgono sostanzialmente alle riflessioni del filosofo napoletano le premesse teoriche della tesi secondo cui la coscienza nasce come dialogo interno fra un ego e un alter, ed è in virtù di questa polarità intrinseca all’io che ogni singolo individuo umano è naturaliter sociale. Come scrive Pellizzi in un saggio del 1954, «se non altro nella dimensione del tempo, l’uomo è “società” anche a se stesso»20. In termini rigorosi, il primo fatto sociale non è né individualistico né fisiobiologico ma storico. Ed è su questo aspetto che Cassirer svilupperà la propria Filosofia delle forme simboliche 21. Di «temi e spunti “cassireriani”» parla anche il filosofo Pietro Piovani con preciso riferimento alle dispense universita18 L’Istituto «Cattaneo» nasce agli inizi del 1965 dalla riorganizzazione delle attività di ricerca promosse dall’Associazione omonima, costituita nel 1955 per coordinare le iniziative di studio e ricerca avviate dai vari comitati di studio promossi dal gruppo della rivista «il Mulino» (Pier Luigi Contessi, Nicola Matteucci, Renato Giordano, Fabio Luca Cavazza, Federico Mancini, Luigi Pedrazzi). Tra i primi presidenti del Comitato Direttivo dell’Istituto possiamo ricordare: Federico Mancini (1965-1966), Nicola Matteucci (1966-1969) e Vittorio Capecchi (1970-72). Cfr. G. CHIARETTI, Un caso di organizzazione della scienza: la sociologia in Italia nel decennio 1958-1968, in L. BALBO, G. CHIARETTI, G. MASSIRONI, L’inferma scienza..., cit., pp. 158-159. 19 Lo stesso Pellizzi, qualche anno dopo, la definirà «un’immagine propiziatoria» (cfr. C. PELLIZZI, Riepilogo e prospettive, in RIS, a. VII, n. 1, gennaio-marzo 1966, p. 3). 20 C. PELLIZZI, Socialità, simbolo semplice, mito, in ID., Rito e linguaggio, Armando, Roma 1964, p. 108. Il corsivo è nel testo. Il saggio era originariamente apparso nella rivista «Studi Politici», A. II, nn. 3-4, settembre 1953-febbraio 1954, pp. 447-461. Sempre nel volume Rito e linguaggio troviamo un passo di un saggio originariamente pubblicato nel 1958, in cui leggiamo: «il soggetto continuamente “dialoga con se stesso” attraverso il vario giuoco della memoria, ed è quindi già “società a se stesso”» (p. 217). 21 Cfr. E. CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche (1923-29), trad. it. di Eraldo Arnaud, 4 voll., La Nuova Italia, Firenze 1961-66. Su queste tematiche, cfr. S. CARUSO, L’intersoggettività intrasoggetiva. Note sulla coscienza come dialogo interno, in «Iride», a. VIII, n. 16, settembre-dicembre 1995, pp. 648-671.

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rie, già intitolate Lineamenti di sistematica sociologica e che diventeranno nel 1964 un libro per l’editore Giuffrè22. Piovani sostiene, proprio in base alla lettura delle pagine pellizziane, «che sull’istituto valga la pena di continuare a riflettere: serve al sociologo, serve al c.d. filosofo del diritto, serve allo storico, serve al glottologo»23. Piovani individua pure un’influenza «vichianeggiante» nelle riflessioni sociologiche pellizziane, e in generale apprezza il robusto impianto filosofico, diremo meglio: gnoseologico, alla base della sociologia del professore del «Cesare Alfieri»24. Anche dell’altro volume pellizziano, Rito e linguaggio, opera che raccoglie scritti pubblicati tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Sessanta su varie riviste e pubblicato nel 1964 dall’editore Armando nella collana «Problemi di Sociologia» diretta da Ferrarotti, Piovani coglie con piacere «il tono che direi cassireriano»25. Questa vicinanza di Pellizzi con il filosofo tedesco è indiscutibile, nonché dichiarata, per quel che riguarda la scelta dell’oggetto di studio e l’idea che la produzione simbolica sia l’attività psichica con la quale l’uomo costruisce la propria trama di relazioni con il mondo, entro cui ordinare e comprendere quel mondo altrimenti oscuro e impenetrabile. Ma le affinità e il debito riconosciuto non impediscono a Pellizzi di muovere un’obiezione di fondo all’impostazione di Cassirer: Dice il Cassirer: «La realtà fisica retrocede man mano che si sviluppa l’attività simbolica dell’uomo». Noi non condividiamo questo concetto, e riteniamo invece che la «realtà fisica», lungi dal retrocedere, «nasca», nella sua storica concretezza, nella e dalla attività simbolica dell’uomo, al suo livello più elementare. [...] La letteratura simbologica, a cominciare dall’ampio e ormai classico lavoro del Cassirer, merita di essere ricordata a grande onore della storia della scienza, ma a nostro subordinato avviso essa esige una revisione che tocca un punto centrale: quello che riguarda la struttura più elementare, non ulteriormente riducibile, del fatto simbolico26. P. Piovani a C.P., 19 giugno 1961, in ACP, b. 40, f. 66. È, per inciso, lo stesso Piovani a suggerire al destinatario della sua lettera: «Perché non pensa ad un’edizione a stampa?». Pellizzi entra in contatto con Piovani in quel periodo, su invito di Sartori, proprio in relazione alle vicende concorsuali di quest’ultimo (cfr, lettera di P. Piovani a C.P., 29 maggio 1961, cit.: «Anche le faccende universitarie, accademiche servono a qualcosa: ci hanno fatto conoscere: io ne sono stato veramente, intimamente lieto»). 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 P. Piovani a C.P., 2 agosto 1964, in ACP, b. 41, f. 69. 26 C. PELLIZZI, La struttura elementare del comportamento consapevole, cit., pp. 82 e 103. Questo saggio, parzialmente modificato, costituirà poi il capitolo IV di Rito e linguaggio, cit., pp. 79-105. La frase di Cassirer è tratta dal Saggio sull’uomo, cit., p. 47. Le altre 22

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Per una adeguata comprensione del fatto simbolico Pellizzi prende le mosse dallo studio del “significare” come comportamento osservabile, e ciò porta inevitabilmente la sociologia pellizziana a tener conto della psicologia, teorica e sperimentale, prendendone a prestito problemi, concetti, ipotesi e programmi di lavoro27. L’indirizzo psicologico-sociale predominante negli studi americani degli anni compresi tra il 1930 e il 1960 è il behaviorismo, secondo cui «l’unico oggetto possibile di una psicologia scientifica è costituito dal comportamento manifesto, cioè dall’insieme delle reazioni dell’organismo animale o umano osservabili dall’esterno dell’organismo stesso e verificabili intersoggettivamente»28. Pellizzi si richiama agli studi di autori estranei a questo indirizzo, come George H. Mead e Charles Morris, per tentare la dimostrazione di ciò che il behaviorismo nega in partenza, ossia il fatto che sono «osservabili a tutti gli effetti anche quei comportamenti dell’uomo che non hanno, o non hanno necessariamente, o almeno macroscopicamente, riflessi motori»29. Adottando un simile approccio, rientrano nell’analisi anche gli stati d’animo, i sentimenti, le visioni e tutto ciò che non può essere analizzato secondo il tradizionale metodo d’osservazione, ma piuttosto attraverso un procedimento conoscitivo di tipo analogico. Sulla base di una convinzione che va maturando in quegli anni, Pellizzi non ritiene che questa conoscenza per analogia sia necessariamente meno valida, e nemmeno sostanzialmente diversa, da ogni altra conoscenza fondata sull’osservazione. Con questo affermiamo anche l’esigenza, pregiudiziale ad ogni altra nei nostri studi, dell’indagine qualitativa degli istituti del comportamento umano al livello della comunicabilità30.

Il comportamento consapevole presenta una struttura di base che ha carattere simbolico, vale a dire che il soggetto che vive un’esperienza stabilisce un nesso, un «vincolo» tra il bagaglio di emozioni e informazioni varie che quella esperienza gli ha dato con il comportamento adottato nel momento in cui ha vissuto tale esperienza. In tal modo, opere cassireriane cui Pellizzi si riferisce in modo particolare sono: Philosophie der symbolischen Formen (Berlin, 2 voll., 1923 e 1931) e Language and Myth (trad. ingl. di Susanne K. Langer, New York 1946). 27 Cfr. C. PELLIZZI, Lineamenti di sistematica sociologica, Giuffrè, Milano 1964, pp. 176-187. 28 SADI MARHABA, Comportamentismo, in Enciclopedia di Filosofia, Garzanti, Milano 19822, p. 153. 29 C. PELLIZZI, La struttura elementare del comportamento consapevole, cit., p. 81. 30 Ivi, p. 82.

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quel comportamento diventa, per il soggetto, «il segno» di quella esperienza vissuta. In altre parole, il soggetto «interpreta e rappresenta» una propria vissuta esperienza, con ciò stesso obbiettivandola alla propria attenzione e fissandola nella propria memoria. Ma al tempo stesso, e per la stessa ragione, rimane obbiettivato e fissato nella sua memoria anche quel modo del comportamento, collegato con quella esperienza sebbene distinto da essa; onde quel comportamento diventa senz’altro rituale, ed è presupposto necessario di quel diverso e più complesso comportamento, che sarà la comunicazione linguistica31.

Precisato questo punto, il simbolo semplice ci appare piuttosto come una specie di obbligo che il soggetto impone a se stesso, al livello più elementare del rapporto tra esperienza ed azione, sapendo di imporselo e mantenendo (anzi, in realtà, ponendo) una prima e fondamentale distinzione tra questa esperienza e questa azione, che egli unisce e vincola fra loro nell’atto simbolico (sumba[llw: traggo o getto assieme). E il rapporto tra significato e segno, a questo livello, è reversibile, per cui, se il significante (poniamo, l’azione) richiama la «cosa», anche la «cosa» richiama il significante; se una parola o gesto evoca una data esperienza, anche l’esperienza evoca quella parola o gesto32.

Stante questo tipo di preoccupazioni, la sociologia pellizziana si connota sin dall’inizio come «l’esigenza di un’elaborazione sistematica dei concetti generali relativi ai fatti osservabili del comportamento consapevole (e cioè, di una “culturologia”)»33. Come «culturologia» potremmo appunto definire la sociologia pellizziana, nata dall’incrocio fra preoccupazioni di tipo filosofico (logica e gnoseologia), antropologico e storicoreligioso. Se dovessimo rintracciare le origini di questo tipo di interessi e di sensibilità culturale faremmo senz’altro riferimento al periodo londinese, dal momento che proprio la capitale britannica, e in particolare quell’University College dove Pellizzi insegnò per circa vent’anni, costituisce negli anni tra le due guerre il centro più importante, il vero e proprio fulcro degli studi folklorici ed etnologici europei. Non a caso Giuseppe CocIvi, pp. 84-85. Ivi, p. 90 (i corsivi sono nel testo). Aggiungiamo che il simbolo semplice di cui qui si parla è «ogni atto che abbia un preciso e obbiettivato valore per chi lo compie, ma contenga tutto il suo “scopo” in se stesso» (ivi, p. 93). Questa definizione si avvale di un’osservazione di Romano Guardini contenuta in Von Geist der Liturgie (trad. it. Lo spirito della utopia, Morcelliana, Brescia 1930), ripresa in più occasioni da Pellizzi che l’ha trovata citata in Homo ludens di Johan Huizinga (trad. it., Einaudi, Torino 1946). Guardini sostiene che la liturgia è «un’attività che non ha scopo ma è piena di senso». 33 Ivi, p. 92. Il corsivo è nel testo. 31 32

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chiara, amico di Pellizzi e titolare della prima cattedra in Italia di storia delle tradizioni popolari (all’Università di Palermo, in cui già nel 1944 è attivato pure l’insegnamento di antropologia sociale, affidato sempre a lui), si era formato proprio tra il 1930 e il 1932 nella Londra dei Frazer, dei Malinowski, dei Marett34. Intorno ai concetti di simbolo, mito e rito, e più in generale sulle questioni preliminari inerenti il grado e (eventuale) ruolo della consapevolezza nell’agire sociale (individuale e collettivo), Pellizzi è riferimento per diversi sociologi35. In mezzo ad una situazione semidesertica, con una sociologia ancora in fase di istituzionalizzazione36, Pellizzi costituisce uno dei pochissimi obbligatori punti di riferimento in Italia. Se non è un vero e proprio maestro, egli è senz’altro uno studioso cui rivolgersi per consigli, suggerimenti, indicazioni che sappiano coniugare letture e approcci diversi tra loro, dalla filosofia del linguaggio all’antropologia culturale, tenuto conto che la disciplina sociologica è assolutamente in fieri. Questa osservazione vale, ovviamente, con particolare riguardo per quegli studiosi desiderosi di sviluppare un approccio sociologico di tipo “interpretativo” e “qualitativo”37. Inoltre, si tratta prevalentemente di studiosi “etero34 Si veda la voce Giuseppe Cocchiara curata da Pietro Angelini, in DBI, vol. XXVI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1982, pp. 487-495. È Raffaele Pettazzoni, il fondatore degli studi storico-religiosi in Italia, a consigliare a Cocchiara il soggiorno londinese (cfr. ivi, p. 490). A Cocchiara si deve, tra l’altro, la cura delle edizioni italiane dei libri di James G. Frazer (Il ramo d’oro. Storia del pensiero primitivo: magia e religione, 2 voll., Einaudi, Torino 1950) e di Robert R. Marett (Introduzione allo studio dell’uomo, Palombo, Palermo 1944). Di Cocchiara, collaboratore negli anni Trenta del «Popolo d’Italia», si vedano anche le lettere scritte a Pellizzi tra il 1949 e il 1951. Un testo dello studioso siciliano particolarmente caro a Pellizzi, e più volte citato nei suoi saggi sociologici del dopoguerra, è Il linguaggio del gesto, edito dai Fratelli Bocca (Torino 1932). 35 Si veda, ad esempio, quanto Sabino Acquaviva scrive a Pellizzi il 5 luglio 1961: «[...] penso di cominciare un altro lavoro in autunno (di più vasto respiro), e tuttavia ancora fondato sull’approfondimento delle Sue argomentazioni. [...] e poiché, appunto, mi baso sui concetti di simbolo, mito, rito, sullo schema conoscitivo, eccetera, da Lei sviluppati, desidero parlarne anzitutto con Lei» (ACP, b. 40, f. 66). A quell’epoca, Acquaviva ha appena pubblicato L’eclissi del sacro nella società industriale (Edizioni di Comunità, Milano 1961). Interessante notare come Pellizzi suggerisca ad Acquaviva di porre attenzione ai regimi comunisti russo e cinese in quanto esempi di quell’«estensione» della categoria di sacro, propria dell’età contemporanea; cfr. S. Acquaviva a C.P., 2 ottobre 1961, in ACP, b. 40, f. 66. 36 Per una schematica distinzione in fasi dello sviluppo delle scienze sociali italiane nella seconda metà del Novecento, cfr. F. FERRAROTTI, Scienze sociali e politiche, in La cultura italiana del Novecento, a cura di C. Stajano, cit., pp. 643-644. 37 Questa nostra considerazione si avvale anche di alcune osservazioni e suggerimenti

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dossi” sia, appunto, sotto il profilo dell’approccio, se si tiene conto dell’allora incipiente e imminente ondata sociologica statunitense – fortemente “quantitativa” –, sia sotto il profilo politico-partitico e politico-accademico. In quest’ultimo caso, se non eterodossi, si tratta di studiosi quantomeno marginali rispetto alle due grandi famiglie ideologiche e partitiche degli anni Sessanta, quella democristiana e quella comunista. Pellizzi, il quale mantiene sin dagli anni Quaranta amicizie sia in ambito DC sia in ambito liberale e socialdemocratico, si situa parzialmente altrove; per usare una formula un po’ semplificatrice, con la quale tentare un inquadramento della posizione politico-ideologica pellizziana, potremmo dire: né a destra né a sinistra, anche se decisamente più a destra che a sinistra. In una lettera di Fulchignoni troviamo questa icastica definizione di Pellizzi e della sua possibile collocazione politico-ideologica: «laico non sinistrorso»38. Una definizione tutto sommato generica, ad ogni modo abbastanza efficace nel rendere l’idea dell’orientamento politico e culturale del sociologo negli anni Cinquanta e Sessanta. A tale proposito occorre precisare che è una destra democristiana o socialdemocratica, al massimo liberale, quella con cui mantiene contatti nell’ambito delle sue attività accademiche, culturali, insomma legate alle sue professioni di docente universitario, di consulente aziendale e, per tre anni, di direttore del dipartimento dei Fattori Umani dell’OECE. Ancora nei primi anni ’60 restano solidi e frequenti i rapporti con la CISL e la UIL, come testimoniano alcuni convegni organizzati da questi sindacati cui Pellizzi prende parte sui temi più disparati, dallo sviluppo economico nelle aree depresse ai problemi del piano regolatore e delle più generali politiche urbanistiche39. Così come intatti, grazie soprattutto al perdurare fornitici gentilmente da Margherita Ciacci e Paolo Fabbri (testimonianze all’autore, rispettivamente del 4 marzo e 11 aprile 2003). 38 E. Fulchignoni a C.P., 29 settembre 1961, in ACP, b. 40, f. 66. 39 Cfr. la lettera di Giuseppe Medici, all’epoca ministro della Pubblica Istruzione, con cui si affida a Pellizzi l’incarico di partecipare – in qualità di capo della delegazione italiana – allo stage su «La televisione e la gioventù», promossa dall’UEO e che si terrà a Roma dal 14 al 10 febbraio 1960 (lettera dell’11 febbraio 1960, in ACP, b. 40, f. 65). Si veda anche la lettera di Italo Viglianesi, segretario generale UIL: «Le formulo le mie più vive congratulazioni per l’ottima riuscita del Seminario di Sociologia Politica da Lei diretto a Firenze dal 23 al 27 maggio u.s. e al quale ha partecipato su mia designazione il dr. Giorgio Benvenuto. Nello stesso tempo mi è gradito esprimerLe la mia soddisfazione per la recente pubblicazione della Rassegna Italiana di Sociologia da Lei diretta, sicuro che essa servirà ad accentuare l’interesse nel nostro Paese per la sociologia» (lettera dell’8 giugno 1960, in ACP, b. 40, f. 65). Il Seminario cui fa riferimento Viglianesi è quello patrocinato dall’United States

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dell’amicizia con Ferrarotti, restano i rapporti con l’ambiente olivettiano40. Un discorso parzialmente diverso bisognerà invece fare per quel che concerne la destra cui Pellizzi aspira quando si dedica ad elaborazioni più strettamente politiche, se non ideologiche, e nelle vesti di semplice cittadino giudica la vita politica e partitica dell’Italia del suo tempo. Il Pellizzi sociologo manifesta una costante vivacità e curiosità intellettuali per tutti gli anni Sessanta, anche dopo il 1966, quando è ormai professore fuori ruolo. Per un paio di anni continuerà a tenere un corso libero al “Cesare Alfieri” con seminari cui prendono parte anche ex allievi come Paolo Fabbri e illustri studiosi stranieri, tra cui il linguista Greimas e il semiologo Roland Barthes41, così come fino al 1970 terrà lezioni al Information Service (USIS) e dedicato alla «Sociologia del partito politico e del sindacato», i cui Atti saranno poi pubblicati come numero monografico della «Rassegna Italiana di Sociologia» (a. I, n. 3, luglio-settembre 1960). Ad ulteriore testimonianza dei rapporti intrattenuti da Pellizzi con gli ambienti sindacali e politici democristiani, si vedano le lettere dell’onorevole Bruno Storti, segretario generale della CISL (2 ottobre 1962, in ACP, b. 41, f. 67), e di Aldo Moro, all’epoca ministro degli Affari Esteri (21 febbraio 1970, in ACP, b. 43, f. 75). 40 Ferrarotti, in una lettera a Pellizzi del 1961 (non sono specificati né giorno né mese), informa di essere intervenuto presso Riccardo Musatti, della Direzione Pubblicità della Olivetti, per ottenere la firma di un contratto con la «Rassegna» per 400.000 lire annue, e di averne ricevuto un assenso di massima (lett. 187, in ACP, b. 40, f. 66). All’indomani della morte dell’imprenditore, Maranini, in qualità di preside del “Cesare Alfieri”, aveva proposto il conferimento alla memoria della laurea honoris causa a Olivetti e chiede l’appoggio in tal senso a Pellizzi (3 marzo 1960, in ACP, b. 40, f. 65). Di Olivetti Maranini sottolinea il fatto che «era il solo, fra gli industriali italiani, che si appassionasse molto più per i problemi della cultura che per quelli dell’industria – il solo che nei suoi scritti tenacemente difendesse la funzione delle Facoltà di scienze sociali e politiche, che egli vedeva addirittura al vertice del processo di rinnovamento nazionale; il solo che profondesse generosamente parte dei suoi mezzi per promuovere una cultura politica nel nostro paese; il solo che avesse un interesse profondo alla Sociologia, alla solidarietà sociale, all’urbanistica intesa come scienza politica; il solo che si fosse dato cura di studiare le istituzioni politiche dei paesi più felici del nostro, ricavandone quelle sue visioni “comunitarie”, le quali in sostanza sono la proiezione su un piano di principio, o se si vuole di utopia, nel senso migliore della parola, delle istituzioni inglesi e soprattutto svizzere, nei loro valori più originali e veri, che sono i valori dell’autogoverno locale». 41 Si veda la lettera di Paolo Fabbri a Pellizzi del 25 aprile 1968, da cui si apprende che Greimas, ospite di Fabbri ad Urbino, città dove all’epoca il giovane semiologo aveva un incarico presso la Facoltà di Magistero, avrebbe tenuto ai primi di maggio un seminario sulla semantica e le scienze dell’uomo. Successivamente, lo studioso francese avrebbe tenuto una lezione anche a Firenze sul tema «Conditions d’une sémiotique du monde culturel» (ACP, b. 42, f. 73; si veda anche P. Fabbri a C.P., 13 febbraio 1968, ivi). Si veda inoltre la lettera di Greimas a Pellizzi del 4 dicembre 1969 (ACP, b. 43, f. 74). Conferma della presenza di

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corso di Sociologia presso l’Università di Urbino, dove Fabbri già insegna da tempo. È aggiornato sulla letteratura sociologica internazionale, segue le nuove pubblicazioni e traduzioni in italiano, le segnala ai suoi allievi e collaboratori42. Al tempo stesso, riceve con piacere suggerimenti e proposte in tema di letture e novità editoriali da parte dei numerosi giovani aspiranti scienziati sociali che passano dall’Istituto di Sociologia del “Cesare Alfieri” e dalle strutture ad esso afferenti, ossia il Centro Studi e il Corso di Perfezionamento sui Problemi del Lavoro43. L’intento dichiarato di Pellizzi è quello di promuovere una pattuglia di sociologi che sappia coniugare nella propria attività di studio e di ricerca la scientificità dell’approccio con la passione per il dibattito e il confronto dentro e fuori le mura dell’accademia, così da favorire anche nella cittadinanza una presa di coscienza di problemi che affliggono la vita associata ma che rischiano di restare ignoti ai più senza un’adeguata opera di divulgazione44. ospiti illustri ai seminari fiorentini ci è stata data da Matteo Pellizzi, che, studente del “Cesare Alfieri”, frequentò i seminari dello zio Camillo nel 1967-68 (testimonianza all’autore, 24 settembre 2002). 42 Si veda la lettera di G. Poggi a C.P., 30 dicembre 1962 (ACP, b. 41, f. 67), in cui il libro segnalato è The Sociological Imagination (1959) di Charles Wright Mills (trad. it. di Quirino Maffi, Il Saggiatore, Milano 1962). Ma si veda anche la lettera di Paolo Fabbri del 4 agosto 1964, da cui si evince che Pellizzi ha suggerito al giovane allievo la lettura dell’Essai sur le don di Marcel Mauss (trad. it. Einaudi, Torino 2002). Nella lettera Fabbri chiede consigli per la stesura di un’antologia di sociologi francesi del Novecento che Carlo Bo – rettore dell’Università di Urbino – intende pubblicare con la casa editrice universitaria urbinate. In margine alla lettera, Pellizzi scribacchia alcuni nomi da suggerire al suo giovane assistente: Touraine, Reynaud, Crozier, Naville, Merleau-Ponty, Teilhard de Chardin (ACP, b. 41, f. 69). Si tratta di autori sicuramente cari a Pellizzi o, comunque, da lui ritenuti meritevoli di essere inseriti in un’antologia. Inoltre, come si può ben vedere, non sono solo sociologi in senso stretto, ma anche filosofi accomunati da un forte interesse per la teoria della conoscenza e la fenomenologia. 43 Nell’ultimo periodo del suo insegnamento attorno a Pellizzi gravitano come collaboratori e assistenti Gianfranco Poggi, Giacomo Sani, Gilberto Tinacci Mannelli, Marzio Barbagli, Margherita Ciacci e Fiora Imberciadori. Poggi, proveniente da Berkeley (California) e collaboratore di La Palombara (a quel tempo direttore del Dipartimento di Political Science alla Michigan State University, East Lansing), svolge attività didattica e di ricerca con Pellizzi in qualità di assistente (prima straordinario, poi ordinario) dal 1961 al 1965, anno in cui rassegna le dimissioni dall’assistentato essendosi ormai trasferito a Edimburgo, dove già dal 1964 ha iniziato a collaborare con il Dipartimento di Sociologia della locale Università, e in cui rimarrà come docente per 24 anni. Cfr. G. Poggi a C.P., 28 gennaio 1961, in ACP, b. 40, f. 66 e G. Poggi a C.P., 11 maggio 1965, in ACP, b. 42. f. 70. 44 «Non si fa sociologia coi monologhi; ed è naturale che un discorso a più voci prenda, assai spesso, il carattere di un dibattito. A differenza di altri popoli, gli Italiani sono poco educati al dibattito: lo studio della sociologia dovrebbe essere, fra l’altro, una iniziazione

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Nell’editoriale del primo numero della «Rassegna» Pellizzi stabilisce le coordinate entro le quali la rivista intende muoversi. Esaminando l’arco ventennale entro il quale si dispiega la direzione pellizziana possiamo dire che tali coordinate saranno quelle effettivamente portate avanti, soprattutto se guardiamo al contenuto degli editoriali che, di volta in volta, il fondatore della «Rassegna» andrà pubblicando. Inserendosi in un contesto internazionale di “guerra fredda”, ossia di divisione netta tra due blocchi geopolitici contrapposti, la scienza della società deve fare i conti con il livello raggiunto dagli studi sociologici in Usa e in Urss. Pur riconoscendo gli enormi debiti nei confronti della scienza sociale americana degli ultimi decenni («si può dire che, senza di essa, noi stessi oggi quasi non esisteremmo in quanto sociologi»45), la sociologia italiana non può e non deve riconoscersi in essa. Tanto meno può farlo nei confronti della Russia sovietica, ancora troppo intrisa di ideologia per poter formulare un’analisi critica, pluralista e relativistica della realtà sociale. Per questo la «Rassegna» si propone come «uno strumento e una sede» di un duro e lungo lavoro che deve portare la sociologia italiana ad un livello di diffusione, profondità ed efficacia ancora assai lontano46. La scienza sociale italiana non solo non può, ma non deve nemmeno riconoscersi in quella americana, poiché Pellizzi nega risolutamente che «il generale quadro di valori cui si riferisce la sociologia americana (o almeno una sua parte cospicua) corrisponda al nostro, di noi Italiani, o, se si vuole sud-occidentali europei; allo stesso modo come siamo certi che i valori e i riferimenti di base della nostra cultura non corrispondono a quelli dei Russi»47. A dire il vero, Pellizzi non precisa quali siano i valori che costituiscono il quadro generale entro cui possa sorgere una sociologia italiana, ma afferma con sicurezza che ogni popolo possiede una propria tradizione culturale e che questa forgia la società che sarà poi oggetto di studio del sociologo. Si configura, quindi, anche un problema preliminare di lessico per una disciplina che deve fare i conti con «l’incidenza della variabile antropo-culturale»48. Ciò comporta che «una teoria sociologica alla difficile ed altissima arte del dibattito. [...] Tutti i motivi e gli impulsi possono essere compresi ed ammessi, a condizione che siano dominati da quella “dignità” mal definibile, ma la cui presenza, quando ci sia, è inequivoca, che si chiama interesse scientifico, ossia amore del vero» (C. PELLIZZI, Riepilogo e prospettive, cit., p. 16). 45 C. PELLIZZI, Ragioni e proponimenti, in RIS, a. I, n. 1, gennaio-marzo 1960, p. 2. 46 Ibidem. 47 Ibidem. 48 Ibidem.

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delle variabili culturali a noi appare, ancor oggi, quasi tutta da svolgere»49. Altro aspetto preliminare da affrontare per una rivista di sociologia italiana è la «deontologia sociologica», vale a dire il fine della ricerca applicata, «problema metodologico ed etico insieme, da non confondere con la motivazione della ricerca, che sia indipendente da ogni preoccupazione applicativa»50. Un altro punto chiarito preliminarmente da Pellizzi riguarda il rapporto tra giudizio di valore e giudizio di fatto: E se non sarà questa disciplina, come noi pensiamo che non debba essere, a suggerire essa i significati nuovi, e a sentenziare in merito ai valori, quanto meno essa dovrà tenere sgombro il campo della vita sociale dalle infinite incrostazioni pseudoscientifiche, distinguendo con metodo severo ciò che è sentimento di valore da ciò che è giudizio di verità. Operazione e funzione che divengono impossibili se il sociologo non apra porte e finestre ad accogliere tutti i suggerimenti, gli spunti e gli stimoli che gli possono derivare dalle esperienze culturali più disparate, la teologia o le arti, la psicologia o la matematica, e soprattutto, sempre, la storiografia. Anche la più modesta e sobria concezione del compito sociologico presuppone e necessita un’avidità culturale pandemia51.

Una vera e propria dichiarazione programmatica che avvicina, per certi aspetti, l’approccio di Pellizzi a quello di Max Weber, così come emerge anche dalle pagine di un articolo con cui il direttore della «Rassegna» commemora l’opera del grande sociologo tedesco e ne ricorda le tensioni ideali a cento anni dalla nascita52. A proposito di Weber, leggiamo infatti: Questo è forse il più grande interrogativo che la vita e l’opera di Max Weber hanno lasciato aperto dietro di sé: egli vedeva la politica, e perciò la più vasta e impegnativa azione sociale dell’uomo, come una grande vocazione a sé stante, un Beruf; e allo stesso modo vedeva la scienza, lo studio, l’insegnamento: un altro Beruf, del tutto distinto dal primo, ma altrettanto grave di obblighi e di responsabilità. [...] L’uomo vuole e l’uomo pensa: sono due moti paralleli che si aiutano a vicenda, ma non debbono incrociarsi né confondersi mai, sotto pena di indebolire e frustrare l’azione, e di contaminare e falsare la verità. [...] Lo sforzo scientifico doveva essere wertfrei, ossia indenne dall’interferenza di ogni principio di valore; i valori, e l’azione ispirata ad essi, dovevano giustificarsi di per se stessi, o per altre vie...53. Ivi, p. 3. Il corsivo è nel testo. C. PELLIZZI, Le scienze dell’uomo nelle Università italiane, in RIS, a. I, n. 2, gennaiomarzo 1960, p. 4. 51 ID., Ragioni e proponimenti, cit., p. 5. Il corsivo è nel testo. 52 ID., Nel centenario della nascita di Max Weber, in RIS, a. V, n. 4, ottobre-dicembre 1964, pp. 449-458. 53 Ivi, p. 453. 49 50

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La differenza sta forse nel fatto che Pellizzi non pone un’alternativa così netta e, soprattutto dopo il disastroso fallimento dell’esperienza fascista, non ha quel culto della forza come virtù massima dell’agire politico che anima invece, a suo avviso, «l’imperialismo germanico idealizzato» di Weber54. E poi c’è una teoria della razionalità rimasta impermeabile alle rotture epistemologiche verificatesi a cavallo tra Otto e Novecento, così che Pellizzi si sente di commentare così l’ultimo passaggio di Weber dal suo originario monarchismo parlamentare al repubblicanesimo degli ultimi anni di vita: Il fatto di rimanere soccombente in un grande conflitto non basta, di per sé, a condannare un uomo o un regime; ma se alcune almeno delle profonde origini del disastro sono da attribuire al sistema politico e costituzionale che ha portato ad esso, questo avrebbe dovuto essere un argomento per condannare quel regime fino dal principio. Se si accetta il concetto della «razionalità» che aveva il Weber, almeno per ciò che riguarda la vicenda umana, la condotta di lui ci appare «non razionalmente fondata» così prima come dopo la crisi della grande guerra55.

Di fronte a Weber Pellizzi è come se specchiasse parte della sua esistenza, è come se parlasse a se stesso, o almeno questa ci sembra una lettura plausibile oltre che allettante. Ad una scommessa su un regime politico (il Reich guglielmino per Weber, la dittatura fascista per Pellizzi), per entrambi perduta nella sconfitta bellica, segue una risposta diversa. O meglio: il sociologo italiano intende mettere a frutto l’insegnamento insito nel fallimento della propria esperienza politica. Anzitutto, non tornando a farsi “consigliere del Principe”, come Weber farà con l’elaborazione della Costituzione di Weimar. E poi, soprattutto, cercando di dare vita ad una teoria dell’agire sociale che prenda le mosse dal significato o «significanza» che qualsiasi condotta ha per chi la compie, ed in questo Pellizzi si mostra in sintonia con la «sociologia comprendente» elaborata da Weber (verstehende Soziologie)56. In termini più precisi, il direttore della «Rassegna» Ivi, p. 451. Ivi, pp. 452-453. 56 La letteratura su Weber e la sua teoria sociologica è, ovviamente, di dimensioni sterminate. Ci limitiamo, perciò, a citare un testo italiano pressoché coevo alle riflessioni pellizziane qui in oggetto, e il cui autore è un collega nonché amico di Pellizzi: cfr., con particolare riferimento alla verstehende Sociologie, F. FERRAROTTI, Max Weber e il destino della ragione, Laterza, Bari 1965, pp. 87-100. Peraltro, nella prefazione Ferrarotti dichiara l’intenzione di riprendere «nel prossimo avvenire temi e problemi qui solo accennati di passata e che per taluni aspetti hanno del resto già attirato l’attenzione di noti studiosi italiani» e, fra gli altri (Bobbio, Abbagnano, Felice Battaglia, Pietro Prini, Renato Treves, Franco Lombardi, Pietro Rossi), è citato Pellizzi (ivi, pp. 22-23). 54 55

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considera «l’ipotesi di lavoro su cui è fondata tutta la sociologia» la seguente considerazione di Léon Brunschvicg: «Proprio questo definisce l’essere che pensa: che la sua natura e il suo destino si trasformano in virtù dell’idea che egli si fa della sua natura e del suo destino»57. È all’interno di una simile premessa teoretica che Pellizzi tenta di elaborare una propria «sistematica» sociologica, vale a dire lo statuto e il lessico propri della disciplina, che ha per oggetto il “pensato” dell’uomo (le idee che questi ha su se stesso), in altri termini ciò che possiamo chiamare gli «istituti del comportamento consapevole». E sulla base dei diversi gradi di consapevolezza è possibile elaborare una tipologia dei comportamenti umani: la consapevolezza, che è il risultato dell’esercizio di quella facoltà, appare già, nelle sue forme più semplici, al livello del comportamento comunicabile (significanze di base, riti); passa da questi, e anche mediante questi, a comportamenti comunicanti (mito, parola, discorso); e finalmente può contemplare distaccatamente i propri miti, come non fossero suoi, e raffrontarli fra loro, e stabilire canoni di valore, parametri per la misura: e tutto questo comporta, fra l’altro, la mistica invenzione della identità, che in rerum natura non si trova, ma che gli consente di impiantare una logica formale, e più avanti una critica58.

Se queste sono le tematiche e le coordinate teoriche entro le quali Pellizzi prosegue i suoi personali studi di sociologo abbastanza anomalo nel panorama italiano quanto a formazione e interessi di ricerca, sulla «Rassegna» vengono portate avanti altre questioni. La rivista deve rappresentare il luogo in cui si rendono praticabili l’incontro e il confronto, anche serrato ma sempre scientificamente argomentato, tra le più diverse e antitetiche posizioni teoriche e politico-culturali. Pellizzi lo dichiara apertamente: Non riusciamo a concepire una vivente sociologia che non sia un colloquio a più voci, inserito nella vita stessa di quelle società di cui il sociologo si interessa; e il colloquio, là dove si profilano divergenze nette di presupposti, di procedimenti e di conclusioni, è senz’altro un dibattito. Né dobbiamo schermirci di fronte al fatto, inevitabile, che nell’intima sostanza di tali dibattiti vibrino anche divergenze culturali, morali, religiose, politiche. Questo non è né un bene né un male: è una realtà. È una realtà che può essere nefasta per la vita della nostra scienza, e per il suo nome nel mondo, solamente se viene ignorata o, peggio, nascosta. Ci sembra perciò doveroso, per chi dirige una rivista di sociologia, stimoC. PELLIZZI, Rito e linguaggio, cit., p. 167. Pellizzi cita direttamente dall’originale francese: «Cela même définit l’être qui pense, que sa nature et sa destinée se transforment par l’idée qu’il se fait de sa nature et de sa destinée» (la traduzione è nostra). 58 Ivi, p. 171. Il corsivo è nel testo. 57

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lare e promuovere la polemica, in tutti i settori più minacciati e controversi della nostra disciplina, qualora la polemica non si accenda spontanea fra i suoi collaboratori. [...] Non si tratta [...] di «impegnarsi» come cattolico, o come socialista, o che altro egli sia; si tratta di impegnarsi come sociologo, avvertendo gli eventuali contraddittori che nel suo spirito vigono certi valori di fondo, questi o questi altri, ai quali il procedimento scientifico non può dare, di per sé, né conferma né smentita59.

Nei primi numeri della rivista vengono quindi precisati i termini del dibattito di cui essa intende farsi promotrice «affrontando il gran deserto sociologico che si era venuto affermando in Italia»60, a fianco di quelle pubblicazioni che, come i «Quaderni di Sociologia», hanno iniziato questa opera di rifondazione e di quelle che vorranno unirsi. Sin dall’inizio, però, Pellizzi palesa un timore, che sarà poi litania tra i sociologi degli anni Settanta e Ottanta, e cioè che dalla quaresima si passi al carnevale, «il pericolo, già verificatosi altre volte, di una popolarità non proporzionata al rigore e alla serietà delle opere, e la inevitabile conseguenza di una nuova crisi di scetticismo e sfiducia»61. È dunque di fondamentale importanza e preliminare a qualsiasi dibattito specialistico stabilire un codice deontologico del sociologo. Pellizzi non ama l’espressione “impegnato”, sinonimo italiano del francese éngagé; lo considera «un brutto neologismo che, quando si parlava italiano, veniva solo impiegato con riferimento ai monti di pietà»62. Eppure, in mancanza di un’espressione più elegante e appropriata, egli la usa per invocare la diffusione in Italia di «giovani sociologi “impegnati”» nel compito di esercitare un pensiero critico dell’esistente allo scopo di riformare e quindi “migliorare” la società in cui viviamo. Il verbo “migliorare” è adoperato dallo stesso Pellizzi, il quale non nasconde l’ambizione che il sociologo sia un demiurgo umile (perché consapevole della sua quasi totale ignoranza e impotenza) intento a inserire nei processi storici, e perciò, a lungo andare, anche biologici, il lievito spirituale e il metodo operativo che potranno condurre la specie umana ad una forma di vita alquanto diversa da tutte quelle fin qui conosciute; e, si spera, “migliore”. Quest’ultima parola comporta un giudizio di valore 59 C.

PELLIZZI, Riepilogo e prospettive, cit., p. 9. I corsivi sono nel testo. PELLIZZI, Ragioni e proponimenti, cit., p. 6. 61 Ibidem. 62 C. PELLIZZI, Pericolose avventure della “verità”, in RIS, a. V, n. 1, gennaio-marzo 1964, p. 3. 60 C.

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che, a sua volta, impronta di sé tutto il problema etico delle scienze positive dell’uomo storico63.

Alla parola «impegno» Pellizzi ne preferisce comunque un’altra, «intervento», ma il significato è il medesimo. Scrive nell’editoriale che apre l’annata 1961 della «Rassegna»: Noi pensiamo che l’opera del sociologo sia sempre un intervento, e che sarebbe ingannare gli altri, e sviare noi stessi, se non ci rendessimo conto di questa verità, e delle responsabilità che essa comporta. L’intervento del sociologo si verifica a due livelli, che si possono chiamare «sistematico» l’uno e «clinico» l’altro. Il primo è quello della individuazione del problema, della elaborazione o scelta delle categorie, della formazione delle ipotesi. Il secondo livello s’incontra quando si va «sul terreno», e ci si mette di faccia al «caso», o ai «casi». [...] Siamo dunque assai lontani dal poter soddisfare l’onesta ma eccessiva e male ispirata pretesa di chi vorrebbe delle diagnosi impersonali, precise, obbiettive ed incontrovertibili, delle prognosi certe, e delle prescrizioni di sicuro valore taumaturgico. D’altro lato, [...] proprio questo intervento del sociologo sopra la realtà sociale, – ove sia accompagnato da adeguata coscienza e cautele, ha o può avere anche un valore catartico e terapeutico di importanza grande nella vita di una società. Si tratta, come nelle guarigioni psicoanalitiche, di un «acquisto di coscienza» da parte di tutti gl’interessati, ivi compreso il sociologo; di una benefica «lucidità condivisa». In questo, la ricerca sociologica assomiglia, assai più di ogni altra attività delle scienze empiriche, alla funzione educativa64.

In conclusione, si tratta di stabilire un’etica per il sociologo, qualcosa che vada al di là della deontologia professionale, o che, per meglio dire, la 63 C. PELLIZZI, Alcuni appunti di epistemologia e di etica sociologica, in RIS, a. IV, n. 1, gennaio-marzo 1963, p. 3. Il corsivo è nel testo. 64 C. PELLIZZI, Anno nuovo e problemi vecchi, in RIS, a. II, n. 1, gennaio-marzo 1961, p. 3. I corsivi sono nel testo. Come si vede, Pellizzi è in questo caso lontano dalla Wertfreiheit, solitamente attribuita alla sociologia weberiana: «una cosiffatta “libertà dai valori” non è cosa dell’uomo, nel concreto, mai, nemmeno nelle scienze fisiche, o nell’aritmetica o nell’altra matematica (anzi, qui, forse, meno che altrove). È bensì dell’uomo lo sviluppare e mettere in opera un particolare organo funzionale che si può chiamare discriminazione, o critica [...]: quello stesso che ci consente di vederci “io” fra “altri”, e intendere gli altri come degli “io” che non sono noi stessi; di intendere qualcosa di culture che si diversificano profondamente dalla nostra cultura; e via esemplificando» (ivi, p. 4). Ciò non toglie che il sociologo, come del resto lo storico, «sono moralmente e intellettualmente impegnati a perseguire la verità in quanto distinta dal valore» (C. PELLIZZI, Pericolose avventure della «verità», in RIS, a. V, n. 1, gennaio-marzo 1964, p. 9. Il corsivo è nel testo). Sul controverso tema della «oggettività sociologica» in Weber, cfr. F. FERRAROTTI, Max Weber e il destino della ragione, cit., pp. 55-71.

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intenda nel modo più ampio possibile. Vale a dire che far bene il proprio lavoro di sociologo significa anche sottoporsi al continuo e salutare esercizio di un dibattito che alimenti tanto la critica quanto l’autocritica, sia per la crescita della disciplina sociologica sia per la crescita della società civile. Vorremmo che in questo settore vitale, come in tanti altri, gli Italiani non si comportassero come colui che, dopo aver molto e a gran voce deplorato che gli si toglieva il cibo, si trovi finalmente davanti una tavola imbandita e si confessi inappetente. Il miglior modo per celebrare non una volta l’anno ma ogni giorno, la riconquistata libertà, è quello di farne uso; e la libertà del pensiero si celebra pensando. Senza abbandonare quegli abiti di individuale carità e urbanità (non “sociale”, purtroppo) che rappresentano un retaggio positivo delle passate civiltà nel carattere del nostro popolo, dovremmo prendere l’abitudine di accapigliarci tra noi anche nelle cose che riguardano il nostro lavoro scientifico. Due teste che pensano “liberamente” non potranno mai essere del tutto concordi, e la discordia che non si manifesta degenera facilmente in ipocrisia65.

Pellizzi intende fare della sua «Rassegna» un esempio riuscito di questo dibattito, di questo esercizio del libero pensiero, dove lo scontro avviene nel pieno rispetto dell’interlocutore. Numerose sono le conferme del successo raggiunto in questo senso dal direttore della «Rassegna». Si pensi, ad esempio, al fatto che sono numerose le firme autorevoli della sociologia, antropologia e scienza politica italiane che passano da questa rivista, compresi esponenti di “scuole” lontane, se non avverse, alla metodologia quando non anche alle posizioni politiche (ancor più quelle passate che non le recenti) di Pellizzi66. Nel segno di questa apertura al confronto scientifico con posizioni teoriche e ideologiche distanti e persino opposte alle proprie, può essere menzionata la collaborazione di Bruno Rizzi alla «Rassegna», con un contributo di ben nove scritti pubblicati tra il 1963 e il 197167. Rizzi è un intellettuale marxista, militante del Pcd’I negli anni Venti e vicino a posizioni trozkiste negli anni Trenta, da cui progressivaC. PELLIZZI, Pericolose avventure della “verità”, cit., p. 3. Il corsivo è nel testo. Si veda, ad esempio, l’interessante botta e risposta fra Pellizzi ed Ernesto de Martino. Cfr. C. PELLIZZI, Caproni, parrucche ed altro, in RIS, a. II. n. 1, gennaio-aprile 1961, pp. 99-112; E. DE MARTINO, Caproni, parrucche ed altro (risposta a C. Pellizzi), in RIS, a. II., n. 3, luglio-settembre 1961, pp. 389-399; C. PELLIZZI, Caproni, parrucche ed altro (Riflessioni intorno alla Risposta di E. de Martino), in RIS, a. II, n. 4, ottobre-dicembre 1961, pp. 493-501. 67 Il carteggio intercorso tra Pellizzi e Rizzi sarà pubblicato come appendice a D. BRESCHI, Oligarchie e masse. Camillo Pellizzi tra James Burnham e Bruno Rizzi, Fondazione Ugo Spirito, Roma (di prossima pubblicazione). 65 66

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mente si allontana a partire dalla pubblicazione di un libro, La bureaucratisation du monde, uscito in Francia nel 1939 e molto discusso negli ambienti della Quarta Internazionale68. In quest’opera si trovano anticipate alcune tesi che, due anni dopo, otterranno grande eco nel libro di James Burnham, The Managerial Revolution69. Questo tipo di interessi teorici e il fatto di presentarsi come «marxista» e come «rivoluzionario» socialista antisovietico fanno di Rizzi un interlocutore assai attraente per Pellizzi, il quale intende avviare un dibattito sull’attualità del pensiero di Marx e sulle possibilità del marxismo quale metodo di indagine della società adeguato ai tempi70. Nel 1966 il direttore della «Rassegna» constaterà con amarezza la scarsa attenzione prestata al dibattito sul neomarxismo, da parte sia dei collaboratori sia degli studiosi esterni71. L’episodio rivela la presenza di un rifiuto da parte dell’intellettualità marxista al dialogo con Pellizzi, ma, più in generale, ci segnala quanto sia ancora difficile negli anni Sessanta avviare un dibattito che ponga il marxismo sotto esame e ne 68 Cfr. B. RIZZI, La burocratizzazione del mondo, a cura di Paolo Sensini, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (MI) 2002 (si tratta della prima edizione italiana integrale). Sulla figura di Rizzi, cfr. il saggio introduttivo di P. Sensini a B. RIZZI, op. cit., pp. XIII-CXXXVIII e la Nota biobibliografica (ivi, pp. 395-401). Sull’antistalinismo trozkista, cfr. i brani di Trockij e l’introduzione ad essi di Bongiovanni in L’antistalinismo di sinistra e la natura sociale dell’URSS, a cura di Bruno Bongiovanni, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 175-256. Rizzi è annoverato da Bongiovanni fra gli esponenti dell’«antiburocratismo di sinistra» (cfr. op. cit., in particolare pp. 259-269). 69 Nel dopoguerra Rizzi, venuto a conoscenza del libro di Burnham, riterrà di essere stato vittima di un plagio da parte di Burnham, anche lui trozkista negli anni Trenta e «antiburocratico di sinistra» nel corso della guerra (per approdare a posizioni conservatrici e fortemente anticomuniste dopo il 1945). Sui termini della vicenda, cfr. M. TONELLI, Il caso Rizzi-Burnham: affinità e divergenze tra “collettivismo burocratico” e “rivoluzione dei tecnici”, tesi di laurea, rel. prof. Sergio Caruso, Facoltà di Scienze Politiche, Firenze, a.a. 19931994; G. BORGOGNONE, op. cit., pp. 156-170. 70 Cfr. B. Rizzi a C.P., s.d. (ma 1963), in ACP, b. 41, f. 68. A proposito dell’intervento rizziano, Pellizzi scriverà: «Del Rizzi, che è un antico comunista non di osservanza ufficiale, ci sembra estremamente interessante la posizione polemica nei confronti della “ufficialità” del suo movimento, e la sua tesi suonerebbe “liberista” a uno spirito disattento. [...] Per conto nostro, saremmo portati a plaudire a questa tesi, con tutte le riserve però, di carattere generale, cui abbiamo già fatto cenno a proposito di ogni interpretazione tecnoeconomica del fatto sociale» (Osservazioni intorno alle note critiche di Gianfranco Poggi, in RIS, a. IV, n. 2, aprile-giugno 1963, p. 351). 71 Cfr. C. PELLIZZI, Riepilogo e prospettive, cit., pp. 11-13. Il dibattito «circa la posizione che il pensiero di Marx può o deve avere nelle odierne scienze storiche e dell’uomo» (ivi, p. 11) prenderà avvio nel 1962 con un saggio di Alfred G. Meyer, cui faranno seguito nel 1963 gli interventi di Rizzi, Poggi, Franco Morandi e dello stesso Pellizzi.

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metta in discussione la presunzione di rappresentare l’«unica sociologia possibile del capitalismo»72. 2. Alcune idee per una giovane Destra Come scrive in una lettera a Libero Bigiaretti, presidente del Sindacato Nazionale Scrittori, Pellizzi manterrà fermo per tutta la seconda metà della sua vita «il voto di “castità partitica” fatto nell’autunno del 1943»73. Vale a dire che non si iscriverà e non militerà più per un partito o una qualsivoglia formazione politica. Schierarsi significherebbe condannarsi alla miopia, o, peggio, a vedere la realtà da un occhio solo. Proprio in questi termini scrive a Giovanni Volpe nel maggio del 1968: «Non voglio figurare monocolo, quando invece i tempi dimostrano che ci ho visto troppo bene, da tutti e due, per almeno 25 anni!»74. Nella lettera a Bigiaretti, che è di due anni dopo (1970), Pellizzi accusa il Sindacato Nazionale Scrittori di aver perso la propria autonomia ed equidistanza dalle forze politiche in campo, tanto da decidere «orientamenti ed atti che palesemente riflettono le intenzioni di alcuni Partiti, anche se non proprio dei precisi ordini di servizio»75. Una posizione del genere non lo trova consenziente, perché lo costringe ad adeguarsi ad una scelta altrui, solo in quanto membro di un’organizzazione cui aderisce «per ragioni professionali» dal 194976. Lo schierarsi a favore di questo o quel partito equivale a mettere la propria volontà e indipendenza di giudizio al servizio degli interessi – spesso ondeggianti in quanto dettati da opportunismo – di questo o quel gruppo politico. Questa è la convinzione che guida l’atteggiamento di Pellizzi nei confronti della politica italiana del secondo dopoguerra. In lui prevale senz’altro, almeno a livello di ideale cui uniformare la propria condotta, la figura dell’intellettuale, ma ancor meglio, dello scienziato sociale “puro” capace di mantenere una propria 72 Cfr. L. COLLETTI, Marxismo e sociologia in ID., Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, pp. 3-59. Il saggio costituisce il testo di una relazione tenuta da Colletti all’Istituto Gramsci in occasione di un convegno organizzato nel 1959 sul tema «marxismo e sociologia». Cfr. G. MASSIRONI, Un caso di organizzazione della scienza..., cit., pp. 105 e sgg. 73 C.P. a L. Bigiaretti, 17 gennaio 1970, in ACP, b. 43, f. 75. 74 Da un appunto manoscritto a margine della lettera di Giovanni Volpe a Pellizzi, del 24 maggio 1968 (in ACP, b. 42, f. 73). 75 C.P. a L. Bigiaretti, cit. 76 Ibidem.

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indipendenza di giudizio nei confronti degli eventi che intorno a lui accadono. Ciò non implica affatto l’evasione dalla realtà e il disimpegno, ma piuttosto consente un intervento intellettuale che mantenga al contempo la lucidità del competente e la passione civile. Quest’ultima, nelle intenzioni di Pellizzi, deve avere come referente il bene dell’intera collettività. È su queste basi che nasce nella primavera del 1962 la collaborazione con «Il Giornale d’Italia» di Angelo Magliano, un liberale che aveva preso parte alla Resistenza nelle file della formazione partigiana «Franchi» di Edgardo Sogno. Direttore dal marzo di quell’anno, Magliano punta ad un giornale che sia «violentemente anti Fanfani, favorevole ai Dorotei, cioè al ministro Colombo», cui Magliano «deve la nomina in gran parte»77. È Enrico Fulchignoni a suggerire a Pellizzi di incontrarsi con il neodirettore del «Giornale d’Italia», per dare vita ad una collaborazione giornalistica utile per tentare di incidere – sono parole di Fulchignoni – «sull’opinione pubblica di questo paese di cialtroni»78. Come scriverà dieci anni più tardi nel suo libro Esame di coscienza di un democratico, a Magliano sta a cuore, specie in quel periodo, la tenuta della democrazia in Italia e quindi l’individuazione di quelli che ne sono i difetti e i freni che le impediscono di funzionare correttamente: «La democrazia italiana è inquieta, scontenta del modo con cui è amministrata, incerta nei suoi ideali. C’è chi specula su questo stato d’animo, c’è chi sinceramente se ne preoccupa»79. Un atteggiamento non dissimile è tenuto da Pellizzi, il quale ritiene giunto il momento di tirare fuori lo scheletro più ingombrante che la Repubblica italiana nasconde nel suo armadio da quasi vent’anni: il fascismo. Nel suo secondo articolo pubblicato sul «Giornale d’Italia», e appunto intitolato Lo scheletro nel canterano, egli intende fare nuovamente i conti con il passato regime. Sono conti personali, in primo luogo, e qui Pellizzi afferma qualcosa di nuovo rispetto alle cose dette negli anni Quaranta e Cinquanta. Anzitutto, afferma che l’«autocrazia» mussoliniana «che avrebbe potuto forse giustificarsi come un mezzo al fine, si era degra77 Da una pagina, datata 16 marzo 1962, del diario privato di Enrico Serra, cit. in ID., Ricordo di Angelo Magliano, in «Nuova Antologia», f. 2223, luglio-settembre 2002, p. 97. 78 E. Fulchignoni a C.P., 15 maggio 1962, in ACP, b. 41, f. 67. In questa lettera Fulchignoni chiede all’amico se ha incontrato Magliano «che mi aveva parlato di te con tanta simpatia». Pellizzi ha già provveduto, come si può facilmente intuire dal fatto che il suo primo articolo sul «Giornale d’Italia» esce proprio il 15 maggio 1962 (La Santa Russia e l’Europa). 79 Cit. in E. SERRA, Ricordo di Angelo Magliano, cit., p. 98. Il libro di Magliano fu edito da Rusconi (Milano 1972, con una introduzione di Augusto Del Noce).

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data in un fine a se stessa», lasciando così l’ordinamento corporativo a languire e, infine, a dissolversi80. Dichiara poi di non essere «più disposto a controfirmare senza previa revisione» alcune considerazioni esposte nel libro Una rivoluzione mancata «circa un desiderabile ordinamento sociale», ammettendo così di aver abbozzato una teoria della società (tendenzialmente senza Stato) ricca di aporie e, in ultima istanza, velleitaria. Ciò che ritiene di dover salvare, a distanza di quasi quindici anni dall’uscita del libro, è piuttosto l’analisi storica del perché il fascismo andò al potere e del perché cadde. Sul secondo interrogativo Pellizzi oscilla fra la risposta più semplice (la guerra ha provocato la caduta) e quella un po’ più complessa, secondo cui i prodromi della crisi erano in gran parte inscritti nel regime sin dalla sua genesi. Ne consegue che il primo interrogativo – perché il fascismo ha preso il potere – è quello cruciale. A tale proposito Pellizzi tira in ballo quella che è una sorta di “legge” da lui personalmente coniata, e che potremmo forse meglio definire come il frutto di una semplice constatazione storica, e cioè che l’Italia attraversa una profonda crisi politica e sociale presso a poco ogni venticinque anni. Si tratta di una «malinconica regolarità» che attanaglia la storia dell’Italia unita e che fa presagire per il 1970 un nuovo rivolgimento sociale foriero di pericoli per gli istituti democratici della giovane repubblica italiana81. Resta quindi da chiedersi come mai si verifichino periodicamente crisi così gravi, come quelle del 1898, del 1922 e del 1945. Secondo Pellizzi ciò dipende dal fatto che le élites al governo del nostro paese non hanno mai saputo tenere il passo con i tempi e, in tal senso, ascoltare le richieste provenienti da soggetti non appartenenti all’establishment e meno che mai le esigenze espresse dalle giovani generazioni. Quel che accomuna la situazione dell’immediato primo dopoguerra a quella dei primi anni Sessanta è l’insoddisfazione per un sistema politico, quello parlamentare, e un sistema elettorale, quello proporzionale, la cui combinazione genera i mali denunciati da tempo dal suo collega ed amico Maranini: partitocrazia e “tirannide senza volto” di un’assemblea legislativa ostaggio di un’oligarchia di professionisti. Questo scrive Pellizzi in un altro articolo pubblicato nel C. PELLIZZI, Lo scheletro nel canterano, in «Il Giornale d’Italia», 14-15 giugno 1962. Oltre a scriverne ripetutamente in articoli, come in questi apparsi sul «Giornale d’Italia», Pellizzi ne avrebbe più volte parlato con colleghi ed allievi anche per spiegare il fenomeno della contestazione studentesca. Ce lo confermano la testimonianza di Luigi Lotti all’autore (5 dicembre 2002) e una lettera di Margherita Ciacci, la quale scrive da Davis in California: «Crede che gli attuali accadimenti in Italia siano i segni premonitori dell’avverarsi della famosa “Legge dei 25 anni”?» (9 gennaio 1965, in ACP, b. 42, f. 70). 80 81

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1963, sempre sul «Giornale d’Italia»82. Così il potere è ben saldo nelle mani di «privatissimi organismi ristretti, che non esprimono il Parlamento eletto dal popolo, bensì essi stessi, in larga misura, “fabbricano” quel Parlamento, e di poi lo controllano»83. Il difetto principale dell’ordinamento costituzionale vigente sta in un sistema elettorale che consente la nascita di un numero illimitato di partiti, i quali, anche se di dimensioni piccole o addirittura irrisorie, possono condizionare la formazione e le scelte del governo. L’Italia è, per di più, un paese la cui unità è assai recente, mentre affondano nei secoli le radici di una storia che ha visto la penisola divisa tra Stati e principati spesso non comunicanti, e non di rado in guerra fra loro. L’omogeneità del popolo italiano ne ha risentito fortemente, e di questo Pellizzi si rammarica in più occasioni. È l’assenza di una identità condivisa, sia pur minima, a impedire il formarsi di quella società civile che è, anzitutto, sentirsi parte di un patrimonio culturale e antropologico comune. È quel «sentimento della società» di cui Pellizzi parlava già dieci anni prima, e senza il quale lo Stato non può essere percepito se non come un’entità estranea e indesiderata, persino aggressiva e foriera di oppressione. Scriveva nel 1952: non è bene che si parli dello Stato, che si metta l’accento sullo Stato, se ancora non siamo certi di parlare a uomini e a donne, a ragazzi e ragazze, per i quali esista la società, una società, quella società, sentita come una cosa reale, importante, necessaria: una dimensione del proprio vivere84.

In quell’occasione Pellizzi sottolineava l’importanza dell’educazione civica delle giovani generazioni, bisognose di conoscere le regole e gli istituti fondamentali del vivere civile. È miopia politica quella che continua a formare gli italiani sulla base della cultura umanistica, quando la recente storia nazionale dimostra l’urgenza di “fare” la società. Ad avviso di Pellizzi, quel che manca in Italia non è il senso di essere una nazione, quanto piuttosto ciò che oggi potremmo definire un ethos civico. Prendete un ottimo studente di liceo, d’università: conosce gli aoristi e le di82 C. PELLIZZI, I partiti sono necessari come la corrente industriale, in «Il Giornale d’Italia», 25-26 aprile 1963. Il titolo apposto da Pellizzi era Brevi note sulla «partitocrazia», per marcare sia il proprio debito nei confronti degli studi di Maranini, peraltro ampiamente citato nell’articolo, sia il taglio polemico del proprio intervento. Il titolo scelto dalla redazione del quotidiano di Magliano fa riferimento a quanto asserito nella parte finale dell’articolo, fuorviandone probabilmente il significato complessivo. Cfr. infra. 83 C. PELLIZZI, Lo scheletro nel canterano, cit. 84 C. PELLIZZI, Educazione da fare, in «Il Tempo», 8 febbraio 1952.

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cotiledoni, le equazioni di secondo grado, l’imperativo categorico, Jacopo da Lentini, la legge di Gay Lussac, Tibullo e il Trattato di Utrecht. Anche qualche altra cosa: ma non sa come e di che vivano il novantacinque per cento degli abitanti della sua stessa città e che cosa realmente siano quegli istituti amministrativi e politici, sui quali sarà chiamato domani a dare il suo voto. Questo giovane è destinato a far parte della «classe dirigente» di una società che non esiste, e che pertanto non può neanche avere una classe dirigente. [...] Egli possiede una cultura tale da abbellire e nobilitare lo spirito di una «classe dirigente», ma non ha imparato a conoscere nulla di ciò che dovrebbe «dirigere» e in ogni caso non è stato educato a dirigere checchessia85.

Come si può ben capire, è l’esempio inglese che Pellizzi ha qui presente e che gli ispira l’analisi sulle tare del sistema politico e sociale italiano. Anzi, quel che è dubbio è che vi sia un “sistema” effettivamente in piedi e pienamente funzionante, e non domini piuttosto un coacervo di consorterie e spezzoni di una burocrazia priva di una guida univoca ed efficiente. L’invito è chiaramente a puntare sulla scuola, l’unica speranza di fare qualcosa di concreto, dal momento che «in Italia non si sono fatte “rivoluzioni”, ma solo sommosse ed intrighi, da non so quanti secoli», e se anche si facessero sarebbero soltanto indice di una «malattia acuta» della società e non di certo una soluzione86. Ecco dunque che si precisano sia la matrice che i termini concreti del sottile antistatalismo che serpeggia nelle analisi politiche di Pellizzi sulla società italiana del suo tempo, e su quella dell’intera storia unitaria. E sempre ispirato dal modello anglosassone (una robusta civil society, un sistema universitario costruito attorno ai colleges in cui grande spazio trovano le social sciences), il decano della sociologia italiana ribadisce con forza il ruolo fondamentale che può e deve essere svolto dalle scienze dell’uomo e della società nella formazione del cittadino. È appunto la cittadinanza la posta in gioco di molte battaglie condotte da Pellizzi negli editoriali scritti per la «Rassegna». La costante attenzione nei confronti del dibattito sulle riforme del sistema della pubblica istruzione, in particolare quella universitaria, scaturisce da motivi che oltrepassano di gran lunga l’interesse di categoria. D’altronde, Pellizzi è già fuori ruolo a metà degli anni Sessanta e, come dimostrano le vicende interne all’Istituto di Sociologia del “Cesare Alfieri”, non si dimostra particolarmente interessato ad esercitare un prolungato controllo accademico sui collaboratori gravitanti intorno alla propria cattedra 85 86

Ibidem. Ibidem.

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né a creare una “scuola” con tanto di dogmi e fedeli osservanti87. L’interesse per il dibattito, particolarmente vivace nell’Italia degli anni Sessanta, sulla riforma della scuola e dell’Università rivela semmai il persistere della preminente attenzione pellizziana ai processi di selezione e formazione delle élites dirigenti, e più in generale del cittadino italiano medio. Procedendo nell’analisi del rapporto intrattenuto con Giovanni Volpe, ci pare di poter dire che Pellizzi intende in un modo tutto particolare il contributo all’edificazione di una cultura della «nuova destra»88. La corrispondenza tende a scemare tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, fino a scomparire del tutto dopo il 1972. Difficile pertanto descrivere gli ultimi anni di vita di Pellizzi, capire quali siano i suoi giudizi sull’attualità politica e sociale89. Come vedremo, un peso crescente lo avrà la questione ambientale, dando vita ad una vera e propria fase “ecologista”. Sul piano più squisitamente politico, Pellizzi non viene mai meno al voto di castità partitica e al rifiuto della “politica politicante” decisi all’indomani del 25 luglio 1943. È indubbio, però, che la sua collaborazione alle iniziative culturali di ambienti di destra, anche vicini al Msi, si fa più intensa. Le ragioni plausibili sono diverse. Anzitutto, la cosiddetta “cultura di destra” conosce in quel torno di tempo che va dal 1968 al 1978 una vivacità sconosciuta nei vent’anni precedenti, almeno con quella qualità di forme e contenuti che contraddistinguono diverse iniziative editoriali del periodo, tra cui spiccano senz’altro quelle promosse da Giovanni Vol87 Ufficialmente Pellizzi lascerà l’Università soltanto nel novembre 1971, in occasione del suo collocamento a riposo per raggiunti limiti di età. Cfr. C.P. alla Direzione Generale ENPAS (Servizio Previdenza), 15 gennaio 1971, in ACP, b. 24, f. 158. Il collocamento a riposo decorrerà a partire dal 1° ottobre 1971 (cfr. Giorgio Sestini, rettore dell’Università di Firenze, a C.P., 29 novembre 1971, in ACP, b. 24, f. 158). Di fatto, professore fuori ruolo dal 1967, Pellizzi continuerà a svolgere un’attività scientifico-didattica fino al 1969, quando rinuncerà anticipatamente alla direzione dell’Istituto di Sociologia (cfr. la lettera del 14 febbraio 1969 del rettore dell’Università di Firenze al Preside della Facoltà di Scienze Politiche, in ACP, b. 24, f. 158). 88 Questa espressione è usata da Volpe in una lettera del gennaio 1972, in cui annuncia a Pellizzi l’uscita del primo numero della sua nuova rivista «Intervento» e lo invita a collaborarvi. Gli suggerisce un articolo, o breve saggio, sul tema «gli aristòcrati», che Volpe propone avendo di recente letto con grande piacere e interesse il vecchio testo pellizziano Fascismo-aristocrazia. Cfr. G. Volpe a C.P., 20 gennaio 1972, in ACP, b. 43, f. 1972. Sulla storia della rivista volpiana e di alcuni suoi collaboratori, cfr. F. GERMINARIO, Giovanni Volpe e «Intervento»: storia di una rivista di cultura della destra (1972-1984), in «Studi piacentini», n. 30, 2001, pp. 77-114. 89 Dall’archivio privato di Giovanni Volpe risultano alcune lettere di Pellizzi, scritte tra il 1974 e il 1977, il cui contenuto è però di scarso rilievo.

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pe. A quest’ultimo si legano anche iniziative di altro tipo, fra cui l’organizzazione di numerosi e prestigiosi convegni internazionali e la costituzione di una Fondazione culturale nel 197290. Questo fermento non nasce per caso; sono anni, questi, in cui la destra missina vede crescere considerevolmente i propri consensi sia alle urne (fino all’exploit nell’elezioni del 1972) sia presso larghi settori dell’opinione pubblica. E questo secondo tipo di consensi è, non di rado, più ampio di quello elettorale, anche se non pubblicamente dichiarato. Il fattore principale che spiega una tale crescita di consensi è ovviamente legato alle vicende della contestazione studentesca ed operaia, scoppiata tra il 1968 e il 1969, e alle paure suscitate in ampi settori della società italiana. D’altronde Pellizzi, ricordando nel 1962 il clima in cui si svolgeva la vita politica italiana intorno al 194748, gli stessi anni in cui lui andava redigendo Una rivoluzione mancata, è il primo ad essere convinto che allora si poteva temere che l’Italia rotolasse di peso nel comunismo, non per una genuina scelta del popolo suo, ma per dolore e dispetto, e soprattutto confusione di cose e di spiriti. A questo ruzzolone fecero ostacolo, dall’esterno, le forze americane; dall’interno, soprattutto, la Chiesa, le sue organizzazioni, e il partito ispirato da lei. Ma dal momento in cui, nelle elezioni del 1948, una forte e precisa maggioranza del popolo italiano ripudiò il «ruzzolone» e consentì al partito cattolico di governare secondo le leggi, la situazione di emergenza, il pericolo di morte a due passi, sono venuti a mancare: e con questo, fino da allora, e poi sempre più gravemente cogli anni, sono emerse in piena evidenza le contraddizioni e le lacune dei nostri attuali ordinamenti, e l’animo e l’abito di troppi fra coloro che precipuamente li reggono (o li sotto-reggono)91.

L’anticomunismo diventa però progressivamente marginale in Pellizzi, e dopo il Sessantotto non si riaccende con la stessa virulenza con cui infiamma non solo la stragrande maggioranza dell’intelligencija di destra (neofascista, liberale o democristiana), ma anche alcuni esponenti della cultura di sinistra (clamoroso e celebre il caso di Armando Plebe, filosofo ex marxista che diventa per alcuni anni organizzatore culturale del partito di Almirante92). Il direttore della «Rassegna Italiana di Sociologia» non ha 90 Cfr. È nata la Fondazione “Gioacchino Volpe”, in «Intervento», a. I, n. 2, aprile 1972, pp. 143-145. La denominazione completa di questo centro culturale era «Fondazione Gioacchino Volpe per la rinascita di una libera cultura». Ad essa vi aderiscono, tra gli altri, membri dell’Accademia dei Lincei come Marino Gentile, Massimo Pallottino, Ugo Papi ed Ettore Paratore. 91 C. PELLIZZI, Lo scheletro nel canterano, cit. 92 Su Plebe, cfr. P. IGNAZI, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, il Mu-

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l’ossessione della minaccia della sovversione “rossa” nei confronti dell’ordine costituito. Non coltiva alcun culto di una più o meno mitica tradizione (magari con l’iniziale maiuscola, per sottolinearne il carattere metastorico), cattolica o pagana che sia, come fanno invece molti allievi di Julius Evola e del tradizionalismo da questi elaborato e divulgato. Non ha quindi il sentimento della decadenza dei tempi né, di conseguenza, un pregiudiziale rifiuto della modernità; tanto meno ne respinge quelli che ne sono stati al contempo la causa e l’effetto: vale a dire, la scienza e la tecnica. Al contrario, ne coglie gli aspetti positivi, ben conscio delle possibili ricadute, molte delle quali sono sotto gli occhi di tutti, dimostrando così di adottare un approccio critico alla modernità che negli ambienti missini e della destra culturale neofascista comincerà ad essere invocato come necessaria conquista intellettuale soltanto nella seconda metà degli anni Settanta da quei giovani che poi confluiranno nel movimento di idee denominato «Nuova Destra»93. Tornando per un attimo alla storia del rapporto tra Pellizzi e Giovanni Volpe, è interessante rilevare come la serie degli articoli scritti per «Il Giornale d’Italia» fra il 1962 e il 196394 attiri l’attenzione dell’ingegnere-editore. Questi, proprio in quegli anni, ha deciso di gettarsi in un’avventura editoriale a sostegno della rinascita di una “cultura di destra” in Italia. Proprio a cavallo tra anni Sessanta e Settanta si inaugura quella «stagione delle riviste», breve ma piuttosto intensa, che vedrà Volpe protagonista con le sue riviste «Intervento» e «La Torre»95. Un primo contatto epistolare fra l’ingegnere e il sociologo avviene alla fine del 1961. Volpe scrive a Pellizzi: con alcuni amici stiamo organizzando una modesta attività editoriale del tutto anticonformista. Cercheremo, cioè, di far conoscere quella letteratura storico-politica che si suol chiamare di destra, con un particolare impegno nel demolire questo nuovo idolo che è la democrazia, assunto a metro di ogni valutazione. [...] Vuole darmi il Suo consiglio? Ha qualche autore da suggerire?96. lino, Bologna 1989, pp. 154-155 e M. TARCHI, Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, intervista di Antonio Carioti, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 97-101. 93 Specifico sul tema, si veda M. ANGELLA, La Nuova Destra. Oltre il neofascismo fino alle “nuove sintesi”, Fersu, Firenze 2000. Cfr. anche la testimonianza e l’analisi di uno dei protagonisti della «Nuova Destra»: M. TARCHI, Cinquant’anni di nostalgia, cit., pp. 116130; 131-151. 94 Nel 1964 la direzione di Magliano entra in crisi (si trascinerà, scrive Serra, per altri due anni scarsi) poiché «la tiratura del quotidiano continuava ad essere in perdita». Cfr. E. SERRA, art. cit., p. 97. 95 Cfr. F. GERMINARIO, Giovanni Volpe e «Intervento»..., cit., pp. 78-79. 96 G. Volpe a C.P., 22 dicembre 1961, in ACP, b. 40, f. 66.

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Pellizzi suggerisce la traduzione di due libri che aveva invano già proposto nei primi anni Quaranta: The Law of Civilization and Decay di Brooks Adams e Conditions of Peace di Edward H. Carr97. E aggiunge: «ma perché accanirsi contro la “democrazia”?», come a voler sottolineare il proprio dissenso da un antidemocraticismo neofascista che gli è estraneo98. Un secondo tentativo Volpe lo compie nel giugno del 1962, subito dopo aver letto con entusiasmo l’articolo Lo scheletro nel canterano sul «Giornale d’Italia». Ciò che lo affascina dell’articolo è soprattutto l’invito «ad un esame il cui ritardo credo sia stato già dannosissimo all’Italia»99, e ovviamente si tratta dell’esame del passato fascista cui Pellizzi, dai tempi di Una rivoluzione mancata, ha dedicato numerosi scritti di analisi e di riflessione critica ma non pregiudiziale, com’è ovvio che sia per un reduce non nostalgico di quell’esperienza. Prossimo a lanciare i primi volumi della casa editrice «Il Quadrato» che ha appena creato, Volpe scrive a Pellizzi nel giugno 1962: È il noto concetto della digestione del passato e non della sua integrale ripulsa: quello che in esso è di vitale circoli quale buona linfa nel nostro organismo, quello che è di scoria sia eliminato. Ma sarà inteso questo invito? Ne dubito. Finché la democrazia è considerata, nelle sue forme pratiche, un assoluto, chi oserà apparire blasfemo? [...] Tutto ciò premesso, Le dico che quanto Lei scrive si inquadra perfettamente nella attività di quella iniziativa editoriale di cui Le scrissi e che, concepita un po’ semplicisticamente quale azione di critica alla democrazia parlamentare (Lei dissentì, ma il Suo recente scritto mi pare denoti un notevole accostamento...), si è venuta via via chiarendo e arricchendo nella nostra testa. Infatti la terza collana Studi e documenti sul Fascismo, vuole essere esattamente un contributo alla conoscenza critica di quel periodo della nostra storia, fatto con quella serietà ed obiettività che non può mancare a un’opera siffatta, pena il renderla inutile e quindi dannosa. [...] È superfluo dirLe che se uno di questi volumi potesse essere assunto da Lei, noi ne saremmo oltre modo soddisfatti!100

Pellizzi risponde che un libro del genere lo ha già scritto e pubblicato per Longanesi101. Da questa lettera si coglie inoltre la differenza, apparen97 Cfr. E.H. CARR, Conditions of Peace, MacMillan and Co., London 1942. Su Brooks Adams si veda il cap. IV di questo libro. 98 È quanto Pellizzi scrive nella consueta nota a margine della lettera inviatagli, come ad appuntare il contenuto di quella che sarà poi la lettera di risposta (cfr. G. Volpe a C.P., 22 dicembre 1961, cit.). Si veda inoltre la successiva lettera di Volpe (22 giugno 1962). 99 G. Volpe a C.P., 22 giugno 1962, in ACP, b. 41, f. 67. 100 Ibidem. 101 Dalla nota manoscritta a margine della lettera citata nella nota precedente.

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temente sottile e formale ma in effetti sostanziale, tra la critica alla democrazia (segnatamente, quella parlamentarista e “partitocratica”) qual è svolta da Pellizzi e l’avversione pregiudiziale al sistema democratico in quanto tale nutrita da Volpe, in nome di «valori nazionalistici e addirittura tardottocenteschi» e non senza offrire il fianco ad accuse di apologia del fascismo102. Nonostante queste differenze, Pellizzi cede alla lunga azione di corteggiamento portata avanti dal figlio secondogenito di Gioacchino Volpe. Cede alle sue condizioni, e per questo il progetto non andrà in porto. Pellizzi propone infatti la raccolta in volume di una selezione di articoli tra quelli pubblicati sul «Giornale d’Italia» tra il 1962 e il 1963. Il possibile titolo di questo volume sarebbe stato Alcune idee per una giovane Destra, dove quel “giovane” era evidente sinonimo di “nuova”103. Al di là del primo, Lo scheletro nel canterano, Volpe non ha letto quella dozzina di articoli al momento della loro uscita sulle colonne del quotidiano diretto da Magliano. In un primo momento l’ingegnere-editore pare accettare la proposta pellizziana, ma nel frattempo, ad ogni occasione, reitera una controproposta, e cioè ristampare Una rivoluzione mancata oppure alcune sue parti104. Nel 1964 il progetto è ancora in alto mare e, alla fine, del libro sulla “giovane (o nuova) destra” non se ne farà più niente. Alcuni dei possibili motivi per i quali l’iniziativa abortisce sono rintracciabili nelle lettere di Volpe. Anzitutto, vi sono problemi finanziari legati al nodo della distribuzione, ma ci pare che il vero motivo consista nel fatto che l’editore è poco interessato a investire i già scarsi fondi su una raccolta di articoli sicuramente interessanti, ma di più corto respiro rispetto ad un volume che sia interamente ed esplicitamente dedicato al fascismo105. Che sia 102 F. GERMINARIO, Giovanni Volpe e «Intervento»..., cit., p. 100. Comunque Volpe rispose nel 1982 su «Intervento» ad alcuni collaboratori che lo rimproveravano di esaltare il fascismo con l’articolo Imbarazzi e assonanze (a. XI, n. 54, marzo-aprile 1982, pp. 74-81), in cui precisava che la critica delle istituzioni rappresentative non implicava affatto un «ritorno al fascismo mussoliniano» (p. 75). Cfr. F. GERMINARIO, op. cit., p. 113, nota 124. 103 Esiste nell’Archivio Pellizzi un fascicolo che raccoglie dodici articoli, ordinati con numeri romani (da II a XIV, mancano i numeri I e III), e che reca nel frontespizio il titolo manoscritto “Alcune idee per una giovane destra” (cfr. ACP, b. 21, f. 147). Quasi tutti erano usciti sul quotidiano di Magliano nel biennio 1962-63; gli articoli XII e XIV sono forse inediti. 104 Cfr. le lettere di Volpe a Pellizzi del 17 aprile, 30 maggio e 21 novembre 1963 (ACP, b. 41, f. 68). 105 «Lealtà impone di dirLe come io preferirei molto un’opera nuova e magari esplosiva, da tempo vagheggio un libro sulla cultura nel ventennio fascista» (G. Volpe a C.P., 22 gennaio 1964, in ACP, b. 41, f. 69).

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vecchio, cioè una ristampa, oppure nuovo, assolutamente inedito, poco importa a Volpe. Nell’ingegnere-editore agiscono con forza l’interesse politico e la passione ideologica che alimentano in lui la preferenza per libri sul fascismo, e possibilmente memorie di ex fascisti se non proprio opere scritte nel ventennio106. Lo testimonia l’insistenza con cui propone a Pellizzi l’ipotesi di ripubblicare Una rivoluzione mancata, e lo confermano anche proposte editoriali successive come quella di curare una piccola antologia di «Critica Fascista» oppure una di dimensioni maggiori, «tratta dalle più intelligenti e spregiudicate riviste e settimanali del periodo fascista»107. Oltre all’interesse politico e ideologico, non è da escludere nemmeno la compresenza di un ragionamento di tipo economico, dal momento che esiste un mercato potenzialmente ampio che la congiuntura politica – ossia il varo del centro-sinistra – ha probabilmente allargato a settori dell’opinione pubblica conservatrice e antisocialista. Conclusa nel 1963 l’esperienza con «Il Giornale d’Italia», Pellizzi torna a scrivere su «il Borghese», diretto ora da Mario Tedeschi. Inizia questa nuova collaborazione nel 1965, lo stesso anno in cui riprende, dopo oltre un ventennio, a scrivere per il «Corriere della Sera». I suoi articoli su «il Borghese» compariranno con una certa frequenza per circa un anno, fino alla fine del gennaio 1966. Saranno tutti firmati con il vecchio pseudonimo «Il Cinquale», usato sin dai tempi della collaborazione all’«Italiano» di Longanesi negli anni del fascismo. Proseguendo una linea già adottata sul «Borghese» longanesiano, Pellizzi esprime alcuni «suggerimenti qualunquisti»108, come egli stesso non esita a definirli, interessanti in quanto ri106 «Nel libro di Tamaro – Vent’anni di storia – che, previo aggiornamento serio mi piacerebbe molto ripubblicare, vedo spesso citato lei come autore di un: Fascismo-aristocrazia. Che è mai questo libro? Chi ne fu l’editore? [...] Chissà che non si potesse ripescare qualche scritto vecchio di Pellizzi e ripresentarlo ai giovani» (G. Volpe a C.P., 11 febbraio 1965, in ACP, b. 42, f. 70). Pellizzi, nella solita nota manoscritta a margine, accenna la risposta: «Non l’ho», dimostrando di non avere alcun interesse al recupero dei suoi scritti giovanili e maggiormente ideologizzati. Il libro di Tamaro menzionato, che in effetti Volpe ripubblicherà, è: Venti anni di storia (1922-1943), 3 voll., Roma, Tiber, 1952-1954. 107 Cfr. G. Volpe a C.P., 8 aprile 1966, in ACP, b. 42, f. 71; G. Volpe a C.P., 20 febbraio 1967, in ACP, b. 42, f. 72. Alla seconda proposta, quella di un’antologia delle riviste “di fronda”, Pellizzi accetta, ma anche qui l’operazione naufraga (cfr. G. Volpe a C.P., 28 febbraio e 10 maggio 1967, in ACP, b. 42, f. 72). Un altro progetto, anch’esso senza alcun esito, verrà proposto da Volpe a Pellizzi nel febbraio del 1968 (cfr. lettera del 13 febbraio 1968, in ACP, b. 42, f. 73). 108 Alcuni suggerimenti qualunquisti è il titolo di un articolo dattiloscritto, conservato nell’Archivio Pellizzi (b. 22, f. 150), e destinato alla pubblicazione su «il Borghese», come indica il titolo dell’occhiello – Memorie di dopodomani – che è il medesimo della rubrica te-

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velano la sostanza del pensiero pellizziano politicamente più “militante”, o quantomeno più polemico. La natura di molti degli articoli pubblicati sulla rivista di Mario Tedeschi trova una spiegazione nel titolo della rubrica nella quale essi compaiono, Memorie di dopodomani. Scrive Pellizzi: «Memorie di dopodomani» è un titolo con cui si vuole indicare che non ci attribuiamo nessun dono profetico, ma diamo per iscontate [sic] alcune cose importanti che hanno le loro palesi origini nell’oggi (chi guardi con un briciolo di obbiettività e di attenzione se ne rende conto), e che inevitabilmente verranno alla luce del sole «domani». È quindi lecito, e non del tutto arbitrario, parlarne come di cose «ricordate» in un momento ancor successivo. Fra l’altro, questo ci consente un certo distacco, una tal quale impersonalità, che un buon «ricognitore» deve avere. [...] e se riusciremo a capire e a far capire, intanto, qualcosa di più sull’Italia di oggi e dell’imminente futuro, questo sarà già un contributo all’azione109.

Ad alcuni lettori della rubrica che gli scrivono come mai dalle sue pagine non vengano mai suggerimenti ad una concreta azione politica, Pellizzi risponde che «il compito nostro, in questa rubrica, non è di dettare o suggerire una immediata strategia»110. Comunque sia, egli non manca di dare ai propri lettori alcuni suggerimenti, appunto «qualunquisti». Anzitutto, secondo un’idea che ha da tempo consolidato, sottolinea come gran parte dei malanni politici che affliggono la società italiana derivi dallo scarso livello di cultura della maggioranza dei cittadini. Dunque, occorre partire dalla riforma della scuola e dell’insegnamento, poiché «una scuola efficiente può sempre rimettere in piedi un paese distrutto, ma se la scuola è distrutta, o è carente, il paese non rinasce, o non migliora»111. La cosiddetta “mortalità scolastica”, ossia l’abbandono della scuola da parte di un’alta percentuale di ragazzi ancora in età dell’obbligo (secondo i dati riportati da Pellizzi nel 1965: un abbandono del 30% dopo la quinta elementare), fa correre all’Italia «il pericolo di diventare una colonia di nuovo genere, una grande riserva di lavoro mal qualificato, e quindi mal pagato, per tutto l’Occidente»112. Secondo un approccio già visto in passato, e che lo stesso Pellizzi non esita a definire «di schietto carattere pedagogico»113, nuta dal sociologo nella rivista diretta da Mario Tedeschi. Non ne abbiamo però rinvenuta alcuna traccia tra le pagine de «il Borghese» nel biennio 1965-1966 e oltre. 109 IL CINQUALE, Alcuni spostamenti del potere, in «il Borghese» (d’ora in poi, B), a. XVI, n. 28, 15 luglio 1965, p. 551. 110 Ibidem. 111 ID., Una piaga aperta: la scuola, in B, a. XVI, n. 14, 8 aprile 1965, p. 773. 112 Ibidem. 113 ID., La democrazia e l’autorità, in B, a. XVI, n. 47, 25 novembre 1965, p. 642.

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egli ritiene fondamentale per le classi dirigenti, in primo luogo quella intellettuale, favorire la diffusione di un alto livello di istruzione, anche perché solo cittadini “educati” (nel duplice senso della parola), e quindi dotati di senso civico, possono capire l’importanza di essere al tempo stesso obbedienti e indipendenti. La compresenza di queste due qualità è resa necessaria dal fatto che «costruire uno Stato equivale, in tutti i casi, a educare il popolo ad un sistema di autorità»114 Autorità, e non potere, secondo una distinzione che abbiamo già visto precisata da Pellizzi sin dalla fine degli anni Quaranta. Egli confida molto nell’educazione come fattore che può influenzare positivamente il comportamento politico dei cittadini, ritenendo che «vi sia sempre una differenza, e quasi sempre una differenza in meglio, fra il contegno politico delle persone colte e quello delle incolte»115. Questa differenza consisterebbe nel fatto che «i sentimenti, le scelte e gli orientamenti di una persona colta saranno, nella grande media, relativamente più “responsabili” di quelli dell’incolto»116. Come a dire che un processo di acculturazione diffusa favorirebbe senz’altro la maturazione di un’«etica della responsabilità» che, come nella stessa definizione che ne dà originariamente Max Weber, si contraddistingue per il fatto di commisurare sempre le azioni alle conseguenze che prevedibilmente queste produrranno117. Una simile modalità di condotta dell’agire politico rende maggiormente affidabile l’élite governante, ma anche più vigile la maggioranza dei governati e, di conseguenza, più solida la democrazia. Un voto «incolto» sarà più facilmente un voto fideistico, miracolistico, fanatizzante; e da un miracolismo a quello opposto il passo è molto breve. Lunga è invece la via che conduce dall’obbedienza irriflessiva al parroco, al capocellula o al notabile locale, su su fino ad un voto dato con la coscienza di assumersi una parte, sia pur minima, delle pubbliche responsabilità, e di influire sulla condotta della cosa politica118.

In altri termini, nessuno Stato regge senza una società civile matura e dinamica, ma perché quest’ultima esista occorre che i cittadini che la Ivi, p. 644. Ivi, p. 643. 116 Ibidem. 117 Pellizzi parla infatti di uomini più responsabili «intendendosi con questo che essi terranno conto, in qualche modo, di un quadro più ampio e articolato della realtà, e di una previsione di più lunga portata» (ibidem). Cfr. M. WEBER, Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi, trad. it. di A. Giolitti, con una nota introduttiva di D. Cantimori, Einaudi, Torino 19662, pp. 109 e sgg. 118 IL CINQUALE, Una piaga aperta: la scuola, cit., p. 773. 114 115

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compongono siano pervasi dalla «convinzione» che chi governa sia degno e meritevole di obbedienza e sostegno attivo. Si configura, cioè, un problema di legittimità, senza la quale non c’è esercizio della potestà governativa che possa risultare efficace e fecondo. Un problema politico derivante dal dato di fatto, antropologico ancor prima che storico, che «l’uomo non crede perché pensa, ma pensa perché crede»119. Ciò significa che «le “convinzioni” di base, che fanno muovere uomini e popoli, sono sempre, tutte, nei più vari modi, delle convinzioni “religiose”: quando queste ci sono, si muovono le montagne; quando mancano o si infiacchiscono, le più perfette argomentazioni del mondo non faranno decidere l’ultimo degli elettori ad andare a deporre la sua scheda nell’urna»120. Occorre insomma l’intima persuasione del fatto che sia giusto rispettare l’obbligo politico vigente, e questo è altamente auspicabile per l’attuazione di un effettivo sistema democratico. Questa condizione appare ancora più necessaria in un Paese come l’Italia, il quale, scrive Pellizzi, «ci appare come un corpo dilacerato da questa grande piaga, costituita dalla mancanza di comuni valori e di comunicazioni fra le categorie dirigenti, da una parte, e le moltitudini, dall’altra, che dovrebbero essere ispirate e dirette dalle prime, e non lo sono»121. Vagliando gli articoli apparsi sul «Borghese», viene da chiedersi quale sia la posizione tenuta da Pellizzi su due punti cruciali nella riflessione politica di un ex fascista (o fascista, come in non pochi ambienti ancora lo si considera), quali sono la democrazia e l’antifascismo, ed è per noi interessante compararli con quanto da egli stesso scritto e detto nel decennio precedente. A proposito di democrazia, si legga quanto segue: Se si intende che nessuno possa governare un paese, alla lunga, contro l’esplicita volontà dei suoi cittadini, e che debbano esservi istituti intesi a rilevare periodicamente tale volontà, siamo anche noi «democratici». Se si intende che nella crescente complessità della vita dei nostri tempi è necessario che il maggior numero possibile di cittadini acquisti un grado crescente di istruzione, non solo professionale ma anche civica, e perciò una maggiore consapevolezza dei problemi e meccanismi dello Stato, siamo d’accordo anche noi. Infine, se si vuol dire che la società d’oggi è una maglia sempre più fitta, che esige una crescente e cosciente partecipazione e integrazione di tutti i suoi componenti, e più elaborati programmi di attività comune, anche allo scopo di assicurare il maggiore «spazio di libertà» al maggior numero, ed evitare che l’integrazione prenda le forme di 119 ID., La democrazia 120 Ibidem. 121 ID.,

e l’autorità, cit., p. 644.

Una piaga aperta: la scuola, cit., p. 773.

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un cellulare carcerario, anche in tutto questo siamo «democratici». Si tratta di esigenze non soddisfacibili mai, in nessun luogo e tempo, ma sempre tali da fornire un orientamento di fronte a molti problemi politici (non certo a tutti)122.

Sull’antifascismo, Pellizzi esprime giudizi molto duri, affini a quelli di tanta pubblicistica conservatrice, spesso anticomunista, non soltanto neofascista. Affine a quest’ultima è anche il suo giudizio sul fascismo, meno critico rispetto al decennio precedente o, per essere più precisi, maggiormente disposto a riconoscerne intenzioni positive poi regolarmente disattese e contraddette. D’altronde, la direzione del «Borghese» è adesso nelle mani di Mario Tedeschi, combattente nella Rsi, e «capostipite del terzo filone dei collaboratori del “Borghese”, dopo gli apoti vecchi e giovani: i neofascisti»123. Tenuto conto della nuova linea editoriale, più vicina agli ambienti neofascisti e attenta all’attualità politica italiana, che ha assunto la rivista fondata da Longanesi, Pellizzi mantiene nel complesso la sua vecchia posizione di intellettuale indipendente “di destra”, post-fascista, critico dell’assetto istituzionale vigente in Italia ma assai più esplicito nel credito assegnato alla democrazia come valore e come metodo. Quello che certo non compare, né prima né dopo, è un riconoscimento ex post della Resistenza, e in un articolo dall’eloquente titolo I moribondi dell’antifascismo scrive piuttosto che: l’antifascismo è un sarcofago (alla lettera, un «divoratore di cadavere») dentro il quale non si ritrova più quasi nulla, e poco c’era fino dal principio. Amor di patria, gusto della tradizione, rispetto verso le naturali autorità, atteggiamento dinamico nel fare la propria storia, erano virtù che il fascismo teneva in onore e avrebbe voluto esaltarle, e non sempre vi riuscì; ma non sono virtù e atteggiamenti esclusivamente «fascisti». Anzi, l’averli confusi con tutto ciò che l’antifascismo pretendeva di combattere ha portato ad esecrarli e invilirli, nel disorientato spirito civico degli italiani, contribuendo al marasma in cui lentamente affonda l’attuale regime. Se poi si parla di idee e ideologie, il fascismo trovò un regime parlamentare in decomposizione, e tentò nuove vie. L’antifascismo ci ha portato di «nuovo» la rivoluzione proclamata da Marx ed Engels nel 1848, secondo le revisioni di Lenin e Stalin e l’esemplazione russa. Il fascismo tentò nuove vie anche fra loro contrastanti, con insufficiente approfondimento e convinzione; [...]. Tuttavia, qualcosa capì, dei tempi in cui viviamo (pur tra anacronismi e provincialismi di vario genere), qualche seme gettò124. 122 ID., La democrazia e l’autorità, cit., p. 642. 123 R. LIUCCI, L’Italia borghese di Longanesi, cit.,

p. 108. Tedeschi era direttore responsabile della rivista sin dall’aprile 1955. 124 IL CINQUALE, I moribondi dell’antifascismo, in B, a. XVII, n. 1, 6 gennaio 1966, p. 20.

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Insomma, molte delle incongruenze contenute negli articoli della prima collaborazione al «Borghese» si ripresentano in questi scritti degli anni Sessanta. Come mettono chiaramente in luce i passi appena riportati, c’è uno stridore sempre più forte tra la forma e la sostanza di quel che Pellizzi afferma. La ricerca di un’obbedienza che non sia passiva, quanto piuttosto riflessiva e critica, il senso dello Stato e l’elogio di una sorta di meritocrazia che è tale solo se vi è circolazione e comunicazione diretta tra la società e lo Stato denotano un atteggiamento politico che potremmo anche definire conservatore, a patto di intendere questo termine nella sua accezione inglese e quindi non troppo dissimile dal sostantivo e aggettivo “liberale” così come concepiti e tradotti nella prassi politica d’oltremanica. Non si può nemmeno dire che il suo particolare “conservatorismo” occhieggi in qualche misura alla morale cattolica così com’è presentata e difesa dalla destra democristiana125. Quindi, non può nemmeno essere definito un conservatore sul piano dei valori, e un innovatore, quale invece è di fatto, sul piano delle istituzioni pubbliche e delle politiche economiche. Altro elemento filo-inglese che emerge dalle pagine più propriamente “politiche” scritte negli anni Sessanta (in questo caso dalle colonne del «Giornale d’Italia») è la critica al numero elevato di partiti che competono alle elezioni, sostenendo in sostanza una soluzione bipartitica126. E al di là del numero eccessivo, Pellizzi trova estremamente deleterio per una democrazia il fatto che i partiti italiani siano «troppo vaghi e confusi, o ambigui, nelle loro direttive, e tutti più o meno infetti di ideologie e dogmatismi estranei a una libera vita politica, o assolutamente inattuali», così che «accade molto spesso che le elezioni sembrino indicare “bianco”, ma 125 Pellizzi scrive a proposito della legge Merlin: «era in gran parte utopistica, ma in ogni caso rispecchiava una concezione laica; sotto sotto, c’era quasi il mito del libero amore. I democristiani l’hanno interpretata come la solita guerra al sesso, che non sia consacrato e fecondo. D’altronde, qualunque altra soluzione è difettosa. Il problema è insolubile» [IL CINQUALE, Il monopolio di eros (Dialogo di una notte di mezza estate), in B, a. XVI, n. 32, 12 agosto 1965, p. 739]. Al suo interlocutore (Metodio) di un dialogo semi-immaginario Pellizzi mette in bocca le seguenti parole: «Non vedo altra soluzione plausibile e pratica se non che lo Stato assuma in proprio l’esercizio dell’amore mercenario» (p. 741) 126 «Il solo fatto che si presentino in campo otto partiti (trascuro i minimi) dimostra la grande immaturità del nostro Paese a una vita politica rappresentativa. Quanto più numeroso è un gruppo umano che vuole governarsi in libertà, tanto più semplici e chiare debbono essere le alternative che esso si propone quando deve decidere del suo immediato avvenire: e non è perciò immaginabile che esse vengano rappresentate da più di due o tre partiti in lizza» (C. PELLIZZI, Come ho votato e perché, in «Giornale d’Italia», 29 maggio 1963. Il corsivo è nel testo).

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l’indirizzo politico di fatto seguito dai governanti sarà poi “nero”, o un qualunque altro colore»127. Ne consegue che non c’è integrazione che possa dar vita sincera a una consultazione elettorale, se questa non investe, al massimo, due o tre punti di grande politica, e lascia fuori tutto il resto. Si viene a dire, con questo, che una relativamente seria elezione italiana si avrebbe solo quando fossero in lizza tre o quattro partiti al massimo: una Destra costituzionale e liberale, una «palude» cattolica, una sinistra socialdemocratica, e il comunismo. [...] Richiamare gli Italiani alla doverosa semplicità del supremo gioco politico dovrebbe essere, a mio subordinato avviso, il primo compito delle minoranze responsabili e illuminate. E, anzitutto, votare in modo tale da consentire una più semplice e più chiara dialettica: escludendo, perciò, non tutti i partiti meno uno per ciascun votante, ma tutti i partiti meno quei due che ciascun votante riterrà più idonei a recitare le principali battute sulla nostra scena politica, in un contrasto che non escluda mai l’accettazione sincera delle norme fondamentali su cui poggiano le nostre libertà; e, quindi, anche in una lotta fra quei due che inveri, anziché apertamente o subdolamente negare, lo spirito stesso che «ufficialmente» ispira la nostra Costituzione. [...] E tutti gridano «democrazia» e «largo al popolo», ma il più degli attuali partiti è legato, invece, a integralismi religiosi, o di categoria economica, o di ideologia politica e sociale: questi sono i partiti che, a nostro subordinato avviso, debbono essere esclusi, quanto più sollecitamente possibile, dal nostro orizzonte politico, facendo uso anche, a tal fine, del doppio voto che abbiamo128.

Così pare di poter dire che il pragmatismo – e persino la concezione “procedurale” della democrazia – di certo liberalismo anglosassone costituiscano un’importante eredità della passata esperienza inglese per l’ormai anziano sociologo italiano. Insomma, le idee politiche e sociali di Pellizzi non sono facilmente afferrabili né, tanto meno, incasellabili in rigide categorie politico-ideologiche, e ciò sarebbe confermato dalla sua stessa consuetudine di usare il doppio voto, per le elezioni di Camera e Senato, in modo differente l’uno dall’altro129. Negli articoli scritti per «il Borghese» si riscontra la solita insistenza sulla pars destruens, tipica del polemista mosso da tentazioni “antisistemiche” e di denuncia moralistica delle malefatte del regime130. Questa latenIbidem. Ibidem. I corsivi sono nel testo. 129 Così Pellizzi ammette, senza dichiarare per chi ha votato, nell’articolo pubblicato sul «Giornale d’Italia» con il titolo Come ho votato e perché, cit. 130 Non a caso un articolo reca il titolo Alcune geremiadi (in B, a. XVII, n. 4, 27 gen127 128

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te ma persistente vis polemica a noi pare il necessario portato di una forte passione politica, e anche ideologica, che riesce ad essere “civile”, ossia sempre e comunque misurata e non faziosa (cioè, non partitica, pro questo o quel partito), grazie all’effetto disciplinante che gli studi e lo status da sociologo producono nel polemista. Un relativo equilibrio conseguito, ovviamente, anche in virtù dell’esito fallimentare di un’esperienza politica, come quella fascista, vissuta e scontata sulla propria pelle con circa sette anni di epurazione e un’ostilità, talora strisciante talora palese, che ne determinerà sempre un relativo isolamento nel mondo accademico131. Insomma, Pellizzi sembra aver scelto e adottato con fermezza un ruolo da intellettuale non conformista, che sogna una «Destra costituzionale e liberale», decisamente anticomunista in un contesto di ancora accesa “guerra fredda”, ma soprattutto auspica un sistema politico retto da un’élite, democraticamente eletta e controllata dalla tradizionale divisione dei poteri, in grado comunque di governare con mano forte e decisa anche là dove le riforme, oggettivamente necessarie, non incontrino il favore della maggioranza. «Governare un popolo – scrive Pellizzi nell’aprile 1963 – significa anche saper vedere un poco più lontano di ciò che vede la media dei cittadini, e saper agire sulla realtà degli uomini perché muti là dove si ravvisa la necessità di un mutamento, anche se non vi sia una maggioranza presente ed esplicita che vede e vuole le stesse cose»132. E con un giudizio che ricorda come il riformismo spesso non paghi nell’immediato, egli conclude che «le vere e sostanziali riforme sono sotterranee, e chi le conduce a buon termine, generalmente, riscuote soltanto il plauso degli storici futuri»133. Qualcosa, e forse più di qualcosa, del vecchio ideale di gioventù di una forma di governo aristocratico di massa e anti-oligarchico, riformista e conservatore a seconda delle esigenze del momento, è probabilmente rimasto tra i pensieri dell’anziano sociologo. Che una simile immagine di governo (e di società) assomigli a quella di un’Inghilterra politicamente idealizzata è affermazione che non ci pare del tutto peregrina. Sempre sul fronte della pubblicistica di destra, è opportuno menzionare un interessante articolo che Pellizzi pubblica sulla rivista diretta da naio 1966, pp. 173-175). Un simile titolo rivela, forse in parte, la costante presenza in Pellizzi di una consapevolezza autocritica. 131 Su un relativo isolamento di Pellizzi nel mondo accademico a seguito del suo passato fascista convergono le testimonianze di molti suoi assistenti (Gianfranco Poggi, Giacomo Sani, Pier Paolo Giglioli, Paolo Fabbri: testimonianze all’autore). 132 C. PELLIZZI, I partiti sono necessari come la corrente industriale, cit. 133 Ibidem.

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Vito Panunzio, «Pagine Libere»134. È uno dei pochissimi esempi, se non l’unico, in cui il sociologo formula qualche concreta proposta politica. Accogliendo un invito rivoltogli da Panunzio, Pellizzi partecipa a L’inchiesta sulla partitocrazia promossa da «Pagine Libere» scrivendo un articolo che risponde ad un breve questionario relativo alle modalità di disciplina giuridica dei partiti135. Egli propone così alcune ipotesi di riforma costituzionale volte a «dare ai partiti la possibilità di assolvere alla loro funzione senza (troppo) prevaricare»136. Non ritenendo una soluzione l’introduzione del collegio uninominale, sostenuta invece dal collega Maranini, Pellizzi elenca quattro punti sui quali auspica «l’affermarsi di una corrente d’opinione, super-partitica, decisa a battersi per una sostanziale riforma del sistema parlamentare ed elettorale»137. Per rendere stabile ed efficace un controllo maggiore sui partiti – senza inficiare il criterio della rappresentanza – si ritiene utile incrementare le questioni da sottoporre a giudizio dell’elettorato. Così come si considera opportuno estendere, contemporaneamente ed entro limiti precisi, le prerogative sia del Capo dello Stato che della Corte Costituzionale, anche se non viene precisato di quali prerogative si tratti. Pellizzi entra più nel dettaglio a proposito della riforma del sistema parlamentare. Dichiara di essere da tempo un sostenitore convinto di un sistema parlamentare a tre Camere, con una ben differenziata struttura e funzione di ognuna di esse: la Camera dei Deputati, quinquennale, con elezioni a sistema proporzionale in cui le «preferenze» siano 134 Risposta di Camillo Pellizzi all’inchiesta sulla partitocrazia, in «Pagine Libere», a. XXI (Nuova Serie), n. 27, ottobre-dicembre 1967, pp. 240-243. «Pagine Libere» (che riprende la testata della rivista più autorevole del sindacalismo rivoluzionario, pubblicata tra il 1906 e il 1922) è fondata da Vito Panunzio nel 1946. La prima serie cessa le pubblicazioni nel 1952, riprendendole poi dal 1956 al 1958. Uscirà nuovamente dal 1963 al 1968, edita stavolta da Giovanni Volpe. Un ultimo tentativo di rilanciare la rivista sarà compiuto da Panunzio nel 1988. Cfr. A. BALDONI, La Destra in Italia (1945-1969), cit., pp. 125126; p. 134, nota 42. 135 Cfr. V. Panunzio a C.P., 6 dicembre 1967, in ACP, b. 42, f. 72. I quesiti posti dalla redazione della rivista sono: «entro quali limiti e mediante quali norme e istituti ritenete necessaria una disciplina giuridica dei partiti politici: a) nella loro costituzione intrinseca; b) nei loro rapporti con i cittadini, i sindacati, gli enti pubblici, lo Stato ed, eventualmente, con Stati ed organizzazioni estere; c) ritenete necessario, od almeno utile, il finanziamento pubblico dei partiti politici, ed entro quali limiti ne vedete l’eventuale pratica attuazione?». Nello stesso numero rispondono al questionario Carlo Curcio, Marino Bon Valsassina e Gianfranco Legitimo. L’inchiesta era iniziata con il numero precedente della rivista (n. 26, luglio-settembre 1967). 136 Risposta di Camillo Pellizzi all’inchiesta sulla partitocrazia, cit., p. 242. 137 Ibidem.

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incoraggiate e rese più efficaci che non siano oggi; competente a legiferare di tutte le materie tranne quelle economiche e tecniche. Una Camera di tipo corporativo, che potrebbe costituire uno sviluppo dell’attuale C.N.E.L., per ogni materia economico-finanziaria e tecnica, compresi i bilanci di vari ministeri. Questa Camera non dovrebbe avere scadenza e quindi elezioni generali ma solo parziali: poniamo, un terzo di essa verrebbe rinnovato ogni tre anni. Il Senato avrebbe funzioni di controllo, coordinamento e revisione d’opera delle altre due Camere; ogni quattro anni dovrebbero decadere e venire rieletti metà dei suoi componenti, con un sistema rappresentativo di piccole unità geografiche (più o meno, di due province ciascuna). Un Governo non dovrebbe dimettersi se non per un voto di sfiducia di almeno due Camere. I bilanci dei partiti e dei sindacati dovrebbero essere di ragione pubblica, e dovrebbe essere consentito solo un limitato ammontare di spesa ad ogni gruppo per ogni campagna elettorale (sistema che da molto tempo funziona ottimamente in Inghilterra)138.

Questa è dunque la risposta che Pellizzi dà ad un tema, quello della «partitocrazia», nato a destra nei primi anni Cinquanta proprio sulle pagine di riviste come «il Borghese» di Longanesi quale aspetto di quella più generale critica alle degenerazioni della democrazia parlamentare che è tipica di quest’area politico-culturale. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta il tema diventa oggetto di una trattazione scientificamente più rigorosa e ispirata al riformismo liberale grazie a Giuseppe Maranini, il quale aveva usato l’espressione «partitocrazia» con riferimento al sistema politico italiano già nel 1949139. Al di là dell’uso dell’aggettivo «corporativo», impopolare oggi come allora in quanto evocativo dell’ideologia fascista, la proposta di Pellizzi si presenta nei fatti come l’espressione di un riformismo liberale, cauto e «conservatore»140 ma niente affatto preIbidem. I corsivi sono nel testo. Cfr. Governo parlamentare e partitocrazia è il titolo della prolusione tenuta presso il “Cesare Alfieri” nel 1949 per l’inaugurazione dell’anno accademico 1949-50 (ora in G. MARANINI, Miti e realtà della democrazia, Edizioni di Comunità, Milano 1958, pp. 39-63). Per la produzione successiva si vedano i seguenti scritti di Maranini: Le istituzioni costituzionali, in G. MARANINI, P. GENTILE, R. TREMELLONI, R. CIASCA, R. MOSCA, Aspetti della vita italiana contemporanea, Cappelli, Bologna 1957, pp. 1-57 (ripubblicato recentemente come saggio a se stante, con il titolo Il Mito della Costituzione, prefazione di Marcello Pera, introduzione di Tommaso E. Frosini, Ideazione, Roma 1996); La Costituzione che dobbiamo salvare, prefazione di Georges Burdeau, Edizioni di Comunità, Milano 1961; Il tiranno senza volto. Lo spirito della costituzione e i centri occulti del potere, Bompiani, Milano 1963. 140 Scrive Pellizzi nell’estate del 1963: «lo spirito di una vera Destra è conservatore. Questa parola fa venire i brividi a tutti i pavidi e gli imbecilli che fanno ressa nel nostro mondo politico e pubblicistico: essa tuttavia racchiude ed esprime un valore fondamentale e ineliminabile di qualunque vita associata. [...] il “conservatorismo” esprime l’essere come 138 139

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clusivo nei confronti di politiche di intervento e programmazione economica da parte dello Stato. Non a caso, qualche anno prima aveva dichiarato di non essere «un lodatore del tempo andato, né un credente nel laissez faire»141. Nella risposta all’inchiesta promossa da «Pagine Libere», precisa in modo ancora più esplicito la propria indole politica riformista: «Ripeto che io non credo nelle rivoluzioni; certe trasformazioni, quando sono diventate necessarie, vanno affrontate sul piano «clinicamente» meno accidentato e pericoloso»142. Nei primi anni Settanta la collaborazione di Pellizzi con la cultura di destra si concretizza in almeno quattro articoli per altrettante testate della pubblicistica di quell’area: «La Torre» «l’Italiano» «la Destra» «Intervento»143. Il contributo più originale e interessante ai fini della nostra analisi è senz’altro quello pubblicato sul bimestrale diretto da Pino Romualdi, all’epoca presidente del Comitato centrale del Msi. Leggere quanto scritto in quest’occasione dall’anziano sociologo può risultare illuminante circa l’atteggiamento tenuto da Pellizzi nei confronti del neofascismo, e del Msi in particolare. Anzitutto va detto che si tratta di una intervista; più precisamente, sono dieci domande che Gianfranco De Turris ha posto sotto forma di questionario all’anziano sociologo, il quale ha risposto per iscritto144. Le domande vertono tutte sui temi dell’alienazione dell’uomo moderno del rapporto fra progresso tecnologico e condizione esistenziale e significanza primaria della coscienza umana a fronte dell’impulso del divenire, che è principio primario anch’esso, e, in qualche senso, complementare dell’essere» (Necessità di una Destra, in ACP, b. 21, f. 147. I corsivi sono nel testo). 141 C. PELLIZZI, I partiti sono necessari come la corrente industriale, cit.. 142 Risposta di Camillo Pellizzi all’inchiesta sulla partitocrazia, cit., p. 243. I corsivi sono nel testo. 143 Cfr. C. PELLIZZI, Provocazioni, in «La Torre», a. I, n. 3, luglio 1970, pp. 2-3; Dieci domande a Camillo Pellizzi, a cura di Gianfranco De Turris, in «l’Italiano», a. XII, n. 12, dicembre 1971, pp. 838-842.; ID., Sorel: l’uomo nel labirinto, in «Intervento», a. I, n. 6, dicembre 1972, pp. 93-111; ID., Il nulla e qualche cosa, in «la Destra», a. III, n. 3, marzo 1973, pp. 27-41. A dimostrazione del carattere non “militante” di questi articoli, basta segnalare come l’articolo Provocazioni fosse stato scritto per il «Corriere della Sera» e poi dirottato sul mensile edito da Volpe e diretto da Andrea Giovannucci, in quanto rifiutato da Spadolini perché politicamente non opportuno. «Carissimo Amico – scrive Spadolini –, fra uno sciopero intero ed uno articolato, fra una agitazione preordinata ed una improvvisata, il giornale è quasi paralizzato. In questo clima, pubblicare un elzeviro così estremamente politicizzato come il tuo, non mi sembra, francamente, opportuno» (G. Spadolini a C.P., 3 giugno 1970, in ACP, b. 43, f. 75). Cfr. anche le lettere di G. Volpe a C.P. (7 luglio 1970) e di A. Giovannucci a C.P. (24 luglio 1970) [ACP, b. 43, f. 75]. 144 Cfr. G. De Turris a C.P., 13 ottobre 1971, in ACP, b. 43, f. 76.

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tra scienza e «Tradizione», rigorosamente con l’iniziale maiuscola secondo l’insegnamento evoliano fatto proprio da De Turris così come dal figlio del direttore dell’«Italiano», il giovane ideologo neofascista Adriano Romualdi145. Interpellato in quanto sociologo nell’ambito di un dibattito sugli «enciclopedisti del ventesimo secolo» avviato da tempo dalla rivista, Pellizzi non cede in nessuna delle dieci domande alla tentazione di dipingere il tempo presente e la più generale modernità occidentale con le fosche tinte della decadenza spirituale. Non lusinga, cioè, nessun Leitmotiv della letteratura tradizionalista di destra. Non nasconde nemmeno la presenza di una forte dose di alienazione nella vita dell’abitante delle società occidentali. Ritiene, però, che una prima risposta consista nella «partecipazione» di ogni cittadino alla vita comune, possibile solo nella misura in cui vengono istituiti «controlli e garanzie di fronte al potere nelle sue forme molteplici»146. Alla domanda se la tecnocrazia sia realtà politica dominante, egli ribadisce la validità delle tesi di Burnham, secondo il quale i managers non sono tecnici, cioè competenti provenienti dal mondo dello studio e del lavoro, ma bensì «dirigenti autocratici» organizzati in ristrettissime consorterie147. Pur sensibile alla dimensione spirituale dell’uomo, e consapevole che le trasformazioni più profonde iniziano sempre dalla «rieducazione degli uomini», Pellizzi – da sociologo avvertito della cogenza di variabili storiche e antropologiche – ritiene che sia «impossibile parlare di valori permanenti» poiché «per farlo dovremmo conoscere tutti i valori passati e futuri»148. Si dice altresì convinto della ineluttabile dialettica fra la tradizione e la scienza, intesa come scoperta e innovazione. Invitato ad esprimersi sulla tesi tradizionalista, soprattutto evoliana, della necessità di un tipo umano capace di fronteggiare la modernità opponendole una resistenza morale e ideologica, Pellizzi fornisce la seguente risposta: Bisogna anzitutto sconsacrare il mito della «Modernità»: ciò che è o appare moderno non è a priori né buono né cattivo. Ma, quando il «moderno» mette in causa valori di alta dignità tradizionale, bisogna fargli il processo con animo spregiudicato ma fermo. Ciò che sopravvive a questo esame deve essere affrontato con coraggio e spirito di sacrificio. Due esempi precisi: un convinto cattolico esclude per sé il divorzio, ma questo non lo autorizza ad escluderlo dalla proble145 Fu proprio Adriano Romualdi a presentare Julius Evola a De Turris intorno al 1967-68, secondo quanto affermato da quest’ultimo nell’intervista rilasciata a M. BRAMBILLA, Interrogatorio alle destre, Rizzoli, Milano 1995, p. 152 e passim. 146 Dieci domande a Camillo Pellizzi, cit., p. 839. 147 Ivi, p. 840. Il corsivo è nel testo. 148 Ibidem.

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matica sociale del mondo in cui oggi viviamo. Secondo: la fecondità. Nel mondo moderno ogni bambino che nasce è una cambiale firmata in bianco da tutti i viventi: tutti siamo ormai materialmente e moralmente coinvolti nel problema della vita e delle fortune di ciascun altro essere umano; e tutti dovremmo oggi sapere (non è un’opinione) che la vita stessa del nostro Paese e della nostra specie è minacciata da un ritmo demografico ed ecologico che preannuncia catastrofi nemmeno troppo lontane. La diminuzione delle nascite, e comunque il loro controllo, costituiscono un problema al quale non si sfugge senza dimostrare grave ignoranza e grave responsabilità149.

Illuminante, e senza bisogno di alcun commento, è anche la risposta alla domanda di De Turris se tali problematiche fossero state presenti nei dibattiti culturali dell’epoca fascista: Troppe cose sono cambiate da allora, e troppe cose nuove e importanti abbiamo appreso (sulla natura e la società) negli ultimi decenni, perché abbia molta importanza ciò che si dibatteva «nell’epoca fascista». Gran vizio della nostra attuale cultura e vita politica, in Italia, è di stare continuamente voltata al ventennio fascista (per lo più ignorandolo nella sostanza, o deformandolo a discutibili usi), e non a tutto ciò che di grande è stato prima, e di meno grande, forse, dopo150.

L’intervista apparirà nel numero dell’«Italiano» del dicembre del 1971. La si può pertanto considerare come l’ultimo giudizio espresso da Pellizzi, almeno in sede pubblica e per iscritto, in materia di fascismo e post-fascismo. 3. Classe dirigente e crisi dell’Occidente Nel corso degli anni Sessanta Pellizzi non perde quei contatti col mondo dell’impresa e, più in generale, del lavoro industriale, faticosamente ma proficuamente sviluppati nel corso del decennio precedente. Anche per quel che concerne le tesi di laurea, egli continua ad assegnare (o a consentire) lavori su temi come l’analisi sociologica della vita di fabbrica oppure ricerche – a sfondo anche antropologico – su comunità montane o agrarie investite dai processi di modernizzazione, dunque tesi suscettibili di ricerche empiriche “sul campo”151. Già a metà degli anni Ivi, p. 841. I corsivi sono nel testo. Ibidem. 151 Anche Gianfranco Poggi sottolinea l’importanza che ha avuto l’opera scientifica e didattica di Pellizzi nella diffusione della nozione di “empirismo” nella cultura italiana po149 150

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Cinquanta, a fianco di laureandi su argomenti prettamente teorici come la sociologia della conoscenza in Durkheim, ve ne sono altri con lavori del tipo: «Indagine sociologica in una fabbrica ravennate» oppure «I rapporti umani di lavoro nell’opificio disseminato di Francesco di Marco Datini da Prato»152. Non pochi dei suoi laureandi sono studenti adulti, che già lavorano presso aziende anche multinazionali e ai quali sono assegnate pertanto tesi di taglio ancor più esplicitamente empirico e con intenti comparativi (si pensi, ad esempio, ad un argomento come il seguente: «I caratteri differenziali della direzione d’impresa negli Stati Uniti e in Italia»)153. Ci sono poi tesi che affrontano l’impatto dell’innovazione tecnologica sulla qualità del lavoro («L’automazione e i suoi aspetti umani») e tesi dedicate al mondo dei mass media e che tentano di analizzare i rapporti tra Rai, Stato e governo154. Peraltro, l’interesse per il mondo dei mezzi di comunicazione di massa, o, per usare l’espressione preferita da Pellizzi, delle “grandi comunicazioni” si concretizza nell’attivazione presso l’Istituto di Sociologia del “Cesare Alfieri” di un Gruppo Studi Audiovisivi. In tale ambito, importante è l’attività svolta da Gilberto Tinacci Mannelli, il quale lavora in Rai sin dagli anni Cinquanta e collabora con Pellizzi nella gestione del Corso di Perfezionamento sui Problemi del Lavoro155. stbellica, ancora intrisa di idealismo e antipositivismo (testimonianza all’autore, 15 marzo 2003). 152 Si vedano le lettere di Silvano Tosi a Pellizzi del 17 febbraio e 29 maggio 1955, in ACP, b. 38, f. 60. 153 È la tesi assegnata a Guido Lorenzotti, dipendente della Olivetti-Underwood di New York, e seguita direttamente da Paolo Ammassari. Cfr. la lettera di Ammassari a Pellizzi, 9 giugno 1964, in ACP, b. 41, f. 69, in cui il giovane collaboratore riferisce al suo professore i suggerimenti dati al laureando circa i possibili approcci al tema della tesi. Può essere utile riportarli qui di seguito: «1) le caratteristiche sociologiche del medio e alto dirigente (soprattutto la sua estrazione sociale e il tipo della mobilità professionale); 2) i caratteri ideologici dell’autorità imprenditoriale (la finalità dell’impresa economica così come intesa dal dirigente d’impresa e i riflessi che questa ‘definizione della situazione’ ha sul suo ruolo aziendale e sociale; 3) il tipo della struttura organizzativa aziendale (in particolare i caratteri formali, ma anche l’incidenza dei ruoli ‘informali’); 4) il tipo della presa di decisioni (sia a medio che ad alto livello, e le tecniche in uso, e le forme di comunicazione delle decisioni...)». 154 Vedi Ione Corsi a C.P., 15 marzo 1967 (ACP, b. 42, f. 72) e Carlo Massa a C.P., 14 marzo 1966 (ACP, b. 42, f. 71). 155 Cfr. G. TINACCI MANNELLI, Le grandi comunicazioni. Lineamenti di una sistematica di studio, introduzione di Camillo Pellizzi, cit. Ormai fuori ruolo, Pellizzi cercherà senza successo di introdurre nella Facoltà fiorentina di Scienze Politiche l’insegnamento facoltativo di “Teoria e tecniche delle grandi comunicazioni”, che avrebbe potuto a suo avviso as-

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L’interesse per la comunicazione, intesa nella sua accezione più ampia, ha portato Pellizzi sin dagli anni Cinquanta ad occuparsi dei mass media, favorendone sia lo studio teorico che ricerche di rilevamento quantitativo156. L’approccio prediletto resta comunque quello dell’analisi del linguaggio e delle sue strutture elementari, primordiali, secondo quanto messo a punto in oltre quindici anni di studi condotti sempre al confine tra linguistica e antropologia culturale (o sociale, come egli adesso preferisce dire). È proprio con l’intento di favorire uno studio delle diverse forme di linguaggio, da quelle dei popoli “primitivi” alle nuove tecnologie di comunicazione, che Pellizzi promuove nell’ottobre 1967 la costituzione del Gruppo Italiano di Sociolinguistica157. Pellizzi ne diventa il presidente, afsorbire il corso di “Storia del giornalismo” (vedi C.P. a Maranini, 4 maggio 1967, in ACP, b. 42, f. 72). Delle proposte sostenute di comune accordo da Pellizzi e Sartori, in Consiglio di Facoltà sarà approvato soltanto l’inserimento di Antropologia Sociale (vedi G. Sartori a C.P., 28 giugno 1967, ivi). Si impegnerà comunque per l’ottenimento da parte di Tinacci Mannelli della libera docenza in Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa – questa la denominazione ufficiale, cioè ministeriale (cfr. G. Tinacci Mannelli a C.P., 31 marzo 1967, ivi e C.P. a Maranini, cit.; G. Tinacci Mannelli a C.P., 17 gennaio 1968, in ACP, b. 42, f. 73). Interessante quanto scrive Pellizzi a Sartori, allo scopo di ottenerne l’appoggio e fare fronte comune a favore di questa disciplina presso il Consiglio di Facoltà: «La materia è già entrata, o sta entrando in altri Atenei. [...] Qua e là all’estero sta dilagando – anche troppo – ma noi non dovremmo restare del tutto al buio: tanto più che da anni la insegna il Tin. Mannelli [sic], ha avuto molte lauree, suscita molto interesse, fra l’altro ha portato verso la nostra Sociologia i nostri due migliori attuali assistenti, ossia Giglioli e Fabbri» (26 aprile 1967, in ACP, b. 42, f. 72). 156 Per il triennio 1967-69, Pellizzi e il suo Istituto ottengono un finanziamento dal CNR (peraltro di soli 2.888.000 lire, mentre la media è di circa 8-10 milioni per gli altri Istituti ed enti di ricerca) proprio per una ricerca dal titolo «Analisi dell’utilizzazione del mezzo televisivo nella propaganda politica italiana» (cfr. L. BALBO, G. CHIARETTI, G. MASSIRONI, L’inferma scienza. Tre saggi sull’istituzionalizzazione della sociologia in Italia, cit., pp. 261-263). Il progetto di ricerca, incentrato sull’analisi del «messaggio televisivo dei leaders politici» prevede un piano di lavoro articolato in tre punti: 1) profilo evolutivo dell’azione propagandistica dei partiti politici italiani nel dopoguerra (prima dell’uso della televisione); 2) analisi delle variazioni intervenute nella propaganda politica in seguito all’uso della televisione (aspetti linguistici; aspetti semiologici; aspetti sociopsicologici); 3) analisi delle reazioni provocate dall’impiego del mezzo televisivo quale veicolo di comunicazioni politiche (esame della stampa italiana sia di partito che indipendente nel primo anno di trasmissioni televisive; controllo della decodifica di trasmissioni politiche in corso)» [cfr. ACP, b. 19, sf. 139/2]. 157 Alla riunione del Comitato promotore, tenutasi a Firenze il 26 ottobre 1967, sono presenti Giorgio Braga (Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento), Tullio De Mauro (Istituto di Glottologia, Univ. di Roma), Luigi Heilmann (direttore dell’Istituto di Linguistica, Univ. di Bologna), Franco Leonardi (Univ. di Catania), Agostino Palazzo (Univ. di Pi-

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fiancato da Luigi Heilmann, direttore dell’Istituto di Linguistica dell’Università di Bologna. Come dimostra la composizione dello stesso Comitato direttivo, che va dall’antropologo Carlo Tullio Altan allo psicologo del linguaggio Giovanni Battista Flores D’Arcais, si tratta di un tentativo per favorire l’incontro fra le diverse scienze dell’uomo e della società attorno allo studio del linguaggio. E in tal senso può essere utile e interessante riportare alcuni passaggi del discorso di saluto del presidente del neonato Gruppo Italiano di Sociolinguistica, aderente sin da subito alla sezione di Linguistica dell’International Sociological Association (ISA): Questa corrente di studi ha avuto uno sviluppo considerevolissimo negli ultimi dieci o quindici anni, in tutti i paesi di cultura: contributi originali e nuovi orientamenti di grande interesse sono venuti ad essa dai più diversi luoghi: [...] e gli Stati Uniti, come ormai è di regola da qualche decennio, sono stati e sono il grande pool che raccoglie i più disparati afflussi e li arricchisce nel quadro della propria vasta attrezzatura. Non poteva mancare l’Italia in questo concerto a molte voci; e se è pur vero che la Sociologia, da noi, ha subito assurde e protratte eclissi quasi totali in tempi ancora recenti, il suo risveglio negli ultimi dieci o venti anni sembra animato anche dall’ansia di recuperare il tempo perduto. La nostra Linguistica, per altro verso, non ha subito oscuramenti totali o parziali a memoria d’uomo, e al “ponte” che noi vorremmo vedersi costruire offre un pilone di salda struttura. Non solo da noi, d’altronde, ma in tutto il mondo colto è tempo ormai che si abbiano degli avvicinamenti di lavoro tra le discipline storico-filologiche e le discipline più strettamente definite “sociali”. [...] Chi scrive non ha mai pensato ad una Sociologia che non fosse anche un sistematico avvicinamento storico-filologico al grande e molteplice “segreto pubblico” dell’uomo [...]158.

La prima uscita pubblica del Gruppo avverrà nel settembre del 1969 con le “Giornate Internazionali di Sociolinguistica”, organizzate con la collaborazione dell’Istituto Sturzo, che metterà a disposizione la propria sede di via delle Coppelle e pubblicherà il volume degli Atti159. Oltre a Pellizzi, a queste giornate di studio parteciperanno Julien Greimas, Dell H. Hymes, Vittoria Nicolaevna Iarzeva, esponente dell’Accademia soviesa) e Carlo Tullio Altan. Pellizzi è confermato presidente (lo era già del Comitato promotore), così come Heilmann nella carica di co-presidente. Braga è eletto segretario. La sede provvisoria è stabilita presso il “Cesare Alfieri” (cfr. ACP, b. 23, f. 154). 158 ACP, b. 23, f. 154. I corsivi sono nel testo. 159 La preparazione del convegno impegnerà Pellizzi per l’intero 1968, ma soprattutto Braga in quanto segretario e Giglioli per alcuni contatti con gli USA. Cfr. le lettere di Greimas e Braga a Pellizzi, in ACP, b. 23, f. 154.

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tica delle scienze, Norman Denison, Giacomo Devoto e un gruppo di sociologi, linguisti e antropologi italiani che presenteranno brevi comunicazioni160. A preparare il terreno per questo convegno internazionale ha pensato la «Rassegna», uscita nel 1968 con il numero speciale dedicato alla Sociolinguistica e curato da Pier Paolo Giglioli161. Questo numero riscuote un grande successo anche al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti, come dimostrano le numerose segnalazioni e recensioni apparse anche su quotidiani come «Il Resto del Carlino», «Il Popolo», «La Nazione», l’«Avanti!» e riviste come «La Fiera Letteraria» o «Studi Cattolici», tutte concordi nel sottolineare l’importanza del lavoro interdisciplinare fra sociologi e linguisti162. Nel suo intervento al convegno Pellizzi ribadisce alcune tesi di fondo, rese ormai note dalla pubblicazione di Rito e linguaggio, e contemporaneamente accenna ad un loro possibile sviluppo. Il mito è identificato con il linguaggio. Più precisamente, il mito è il «ricordo in tranquillità» (l’espressione è mutuata dal poeta inglese William Wordsworth163) delle significanze primarie, ossia quelle esperienze vissute dall’uomo, in quanto vengono da questi distinte, oggettivate e rivissute nel rito, e questa esperienza è «segno». Quest’ultimo è, dunque, una sorta di sigillo (signum) posto ad un’esperienza che ha provocato uno stato emotivo e cerebrale di una qualche intensità. Il segno non è una cosa, un oggetto, ma è un «impulso che “si impone” all’uomo nel suo intimo, e in pari tempo immagine che gli si “rivela”»164. Questo implica che il mito è il linguaggio nella sua forma primordiale di pensiero esplicitato, ma non ancora riflessivo e criti160 Nei programmi provvisori di gennaio ed aprile era prevista addirittura la partecipazione di Roman Jakobson, docente ad Harvard, su cui Pellizzi e Braga premeranno a lungo tramite i buoni uffici di Greimas. Alla fine i molteplici impegni di Jakobson ne impediranno la partecipazione (cfr. ACP, b. 23, f. 154). Devoto scriverà anche un articolo su «La Nazione» all’indomani del convegno (1° ottobre 1969). La relazione di Pellizzi sarà pubblicata anche nella «Rassegna» («Realtà», «segno» e altre note epistemologiche, in RIS, a. X, n. 3, luglio-settembre 1969, pp. 343-349). 161 Cfr. RIS, a. IX, n. 2, aprile-giugno 1968. Vedi supra. 162 Vedi la rassegna stampa in ACP, b. 23, f. 154. 163 Scrive Wordsworth (1770-1850) nella Prefazione alla seconda edizione delle Lyrical Ballads (1800), composte assieme a Samuel Taylor Coleridge (1772-1834): «I have said that poetry is the spontaneous overflow of powerful feelings: it takes its origin from emotion recollected in tranquillity» (W. WORDSWORTH, Poetry & Prose, with an Introduction by David N. Smith, Oxford University Press, Oxford 1921, p. 171). La Prefazione di Wordsworth è considerata il manifesto del Romanticismo inglese. 164 C. PELLIZZI, «Realtà», «segno» e altre note epistemologiche, cit., p. 348.

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co (passaggio dallo stadio mitico della consapevolezza a quello «noologico»). E, soprattutto, si intende riaffermare che il linguaggio è convenzione sociale, cioè interpersonale (ma anche intra-individuale), valida solo con riferimento a «valori saputi», pre-linguistici, della cui presenza il comportamento rituale ci fornisce il segnale. Dal discorso pellizziano risulta evidente come il sacro sia concepito come dimensione intrinseca all’esperienza umana e ne connoti il rapporto tra coscienza interiore e ambiente esterno. A fianco di questa riflessione sociolinguistica in cui Pellizzi riversa una passione per la gnoseologia e l’epistemologia che risale sin dagli anni giovanili165, prosegue l’attività tesa a collegare in modo sistematico sociologia e mondo dell’industria nella forma della consulenza e dell’indagine conoscitiva. L’attenzione di Pellizzi al mondo del lavoro è senz’altro ricambiata, soprattutto quando si tratta del problema della selezione dei ceti dirigenti colto nel suo momento germinale, cioè nella scuola. La formazione professionale è uno dei deficit che assilla l’Italia del “miracolo economico” e che riflette il più generale problema della mancanza di élites competenti ai posti chiave, dalla sfera politica a quella economica. La questione dell’inserimento delle scienze dell’uomo nell’istruzione secondaria superiore e universitaria implica un’altra questione, quella della preparazione dei giovani alle sfide del mercato del lavoro, nazionale e internazionale. Non è un caso che, nel settembre 1960, il presidente della Moto Guzzi scriva a Pellizzi dopo averne letto l’articolo apparso sul secondo numero della «Rassegna», al suo primo anno di vita, complimentandosi per una «brillante esposizione che pone in giusta luce argomenti di vitale interesse per la preparazione dei giovani»166. Detto tra parentesi, per la Moto Guzzi Pellizzi ha in precedenza fornito alcuni studi e relazioni corredate di osservazioni sul carattere, le attitudini, le capacità e la personalità dei dirigenti di un’impresa di quel tipo. Enrico Parodi, presidente dell’azienda motociclistica, riconosce come «appropriate e pertinenti e, soprattutto, sempre attuali» queste osservazioni fornitegli dal sociologo, tanto da avvalersene quale «oggetto di consultazione e fonte preziosissima di suggerimenti per le direttive da assumere nelle più diverse circostanze»167. Il tema della selezione delle élites professionali nei vari settori della società, dall’economia alla politica, è particolarmente caro a Pellizzi sin dagli Cfr., ad esempio, Taccuino Appunti Note XVI (marzo 1920), in ACP, b. 13, f. 108 e Taccuino Appunti Note XVII (maggio-giugno 1920), in ACP, b. 14, f. 109. 166 Enrico Parodi a C.P., 16 settembre 1960, in ACP, b. 40, f. 65. 167 E. Parodi a C.P., 11 novembre 1960, in ACP, b. 40, f. 65. 165

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anni Venti. Con il tempo la preoccupazione pellizziana di dotare il Paese di una leadership moderna e capace, cioè costantemente adeguata ai tempi, si coniuga con un’attenzione crescente non solo nei confronti della pluralità delle classi dirigenti che emergono da un società vieppiù complessa e articolata, ma anche nei confronti delle modalità della loro selezione nonché dei limiti dell’esercizio di questa loro leadership. Su un’analisi sociologica della dirigenza, ovvero delle «tecniche direzionali», Pellizzi propone nel 1964 a due suoi collaboratori, Paolo Ammassari e Giacomo Sani, di curare una rassegna per la rivista168. È in questo senso che prenderà il via sulla «Rassegna» una serie di saggi teorici e resoconti di ricerche condotte su temi di sociologia della burocrazia (e, più in generale, dell’organizzazione) e scienza della amministrazione169. In tale ambito rientrano un paio di ricerche finanziate dalla Shell. La prima è una ricerca, o meglio, una «indagine partecipante» – come Pellizzi la definisce scrivendo al dottor W. U. Bédon, direttore delle pubbliche relazioni della Shell Italiana Petroli170 – volta ad esaminare l’impatto non solo e non tanto economico, quanto socio-antropologico dell’attività decennale del Centro di Studi Agricoli impiantato dalla Shell a Borgo a Mozzano, in provincia di Lucca. In occasione delle celebrazioni del decennale di questo Centro, infatti, la Shell Italiana, in collaborazione con la Società Italiana di Sociologia Rurale, presieduta dal senatore Giuseppe Medici, organizza alcune “Giornate di Studio sulla Sociologia Rurale” nell’ottobre 1964, a cui Pellizzi viene invitato. Come precisa il presidente della Shell Italiana, Guicciardi, scopo di queste “Giornate” sarà quello di puntualizzare, attraverso il contributo di esperienza e di dottrina che ad esse daranno eminenti studiosi ed esperti, gli aspetti sociologici dei problemi inerenti alla nostra agricoltura nella presente fase di evoluzione e di delineare l’apporto che la sociologia rurale può dare alla identificazione e alla soluzione di tali problemi, così strettamente connessi allo sviluppo socio-economico e strutturale del nostro Paese171.

Allo scoccare del decennale, cioè nel biennio 1963-64, l’Istituto di Sociologia è incaricato di svolgere un’inchiesta retrospettiva sui dieci anni di presenza del Centro di Studi Agricoli a Borgo a Mozzano. Obiettivi Cfr. P. Ammassari a C.P., 15 maggio e 9 giugno 1964, in ACP, b. 41, f. 69. A partire dal 4° numero della RIS del 1964 (pp. 517 e sgg.), con saggi di Alberto Spreafico, Virgil B. Zimmermann, Jacques Lautmann, Salvatore Cimmino e lo stesso Sani. 170 C. P. a W.U. Bédon, 23 maggio 1964, in ACP, b. 41, f. 69. 171 D. Guicciardi a C.P., 27 maggio 1964, in ACP, b. 41, f. 69. 168 169

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dell’indagine sono la rilevazione dei mutamenti sociali verificatisi nel corso di quell’arco di tempo, valutando anche il ruolo e il livello di impatto che in questo senso può avere avuto il Centro. Le ricerche sono affidate da Pellizzi a due giovani neolaureate del “Cesare Alfieri”, Fiora Imberciadori e Margherita Ciacci, le quali provengono entrambe da famiglie «strettamente legate da generazioni alla campagna e all’agricoltura toscane»172. È lo stesso Pellizzi a precisarlo in occasione della relazione finale sui risultati della ricerca, tenuta il 5 settembre 1966 a Nottingham al Meeting annuale della British Association for the Advancement of Science, dove si svolge un simposio internazionale sulle implicazioni delle politiche di innovazione nelle aree disagiate del continente europeo. Le due giovani ricercatrici svolgono un’attività che complessivamente le porterà a sedici mesi di lavoro sul campo, compreso un non facile periodo iniziale di inserimento e accettazione da parte della popolazione locale. Quest’ultima si avvarrà talvolta delle due ricercatrici per mediare con gli specialisti del Centro, i quali, dal canto loro, continuano ovviamente a svolgere la loro attività tesa a modernizzare e aumentare i livelli di produzione agricola. Come scrive Pellizzi, la «filosofia» del Centro è stata, sin dall’inizio, quella di avere meno persone nei campi ma con una produttività assai maggiore e di migliore qualità. In altre parole, il suo compito «consiste nell’aiutare le persone ad aiutare se stessi»173. Insomma, un obiettivo fondamentale è favorire l’acquisizione da parte del tradizionale agricoltore di una mentalità aperta e ricettiva nei confronti del cambiamento e dell’innovazione sociale e tecnologica, ma anche stimolare l’adozione di un’atteggiamento che sia cooperativo all’interno della comunità rurale e competitivo al suo esterno. I principali problemi sotto esame da parte della Ciacci e della Imberciadori sono: stabilire la situazione sociale a quo della comunità in esame dal momento in cui il Centro è stato attivato, cioè dal 1954; descrivere il tipo e l’estensione dei cambiamenti sociali intervenuti nei successivi 172 «They both come from families that have been closely connected with Tuscan agriculture and peasantry for generations, and they found themselves at home with the local people from the beginning of their work» [C. PELLIZZI, Some Sociological Implications of the Borgo a Mozzano Centre of Agricultural Studies, estratto della relazione tenuta al meeting annuale organizzato dalla British Association for the Advancement of Science, dedicato a The Transformation of Rural Communities. A symposium on the implications of promoting change from subsistence to marketing agriculture in contrasted areas overseas (Nottingham, 30 agosto-7 settembre 1966), p. 2]. 173 «It was not in the ‘philosophy’ of the Centre that there should be more people on the land, but fewer people with a greater and better productivity» (ivi, p. 3); «[...] the philosophy of the Centre, which consists in ‘helping the people to help themselves’» (p. 8).

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dieci anni; stabilire il peso relativo del Centro nella manifestazione di questi cambiamenti174. L’approccio dell’analisi condotta dalle due ricercatrici dell’Istituto di Sociologia di Firenze è fondato sull’assunto che sono gli atteggiamenti, e non i nudi fatti, lo specifico ambito dell’interpretazione e dell’analisi sociologica. I fatti, scrive Pellizzi nella sua relazione, devono essere sicuramente accertati, ma questo è un altro tipo di lavoro ed è semmai compito della “sociografia”. Secondo l’insegnamento weberiano, «il lavoro del sociologo è rendere chiaro il significato e l’intenzione di quel che le persone fanno»175. Non esaltanti, tutto sommato, sono i risultati concreti di un lavoro che rivela anzitutto il peso determinante dei fattori strutturali ed etnoculturali sui processi di modernizzazione dell’agricoltura, se guardiamo alle conclusioni tratte da Pellizzi nella sua relazione: [...] il Centro dovrebbe ‘aiutare le persone ad aiutare se stesse’, e far loro acquisire le abitudini e le abilità che le mettano in grado di continuare e di risolvere nuovi problemi da sole, senza l’assistenza dell’esperto. Rispondere alla domanda se e come questo obiettivo sia stato raggiunto a tutt’oggi, dodici anni dopo l’avvio del Centro, potrebbe essere l’oggetto di una ulteriore ricerca. Nel 1964, quando la nostra ricerca è stata conclusa, quest’obiettivo è stato raggiunto solo in parte176.

Resta da chiedersi cosa ostacoli un’acquisizione completa di una mentalità pienamente “moderna” e “modernizzatrice”. Sicuramente, osserva Pellizzi riportando gli esiti della ricerca del suo Istituto, un ostacolo proviene dal fatto che la cooperazione in ambito economico, e particolarmente in agricoltura, non è consuetudine radicata nell’Italia centrale e meridionale, cioè dalla Toscana in giù. Si tratta di fare i conti con «uno spirito individualistico fortemente radicato è ancora dominante qui, tanto fra i contadini quanto fra i proprietari terrieri»177. I progressi vi sono, Cfr. Ivi, p. 2. «The sociologist’s job is to clarify the meaning and intention of what the people do» (ivi, p. 4). 176 «[...] the Centre should ‘help the people to help themselves’, and make them acquire the habits and abilities that would enable them to march on and solve new problems by themselves, without the assistance of the expert. To answer the question as to whether and how far this aim has been achieved to this day, twelve years after the inception of the Centre, might be the subject of a further research. In 1964, when our research was concluded, this aim had been attained only in part» (ivi, p. 11). 177 «A deep-rooted spirit of individualism is still dominant here, among peasants and landowners alike» (ivi, p. 12). 174 175

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come ad esempio il fatto che, dopo dieci anni, si è affermata e diffusa presso la popolazione locale la convinzione che il consiglio tecnico dell’esperto del Centro di Studi Agricoli è sempre e comunque utile, in certi casi persino necessario. Questo, scrive Pellizzi, è un evento simile alla scoperta dell’importanza della medicina e dell’igiene per lo sviluppo del benessere sociale178. È l’idea di gruppo e, conseguentemente, di lavoro di équipe che fatica ad affermarsi, o meglio richiede tempi piuttosto lunghi per essere assimilata. E, infine, i ricercatori hanno trovato impossibile stabilire l’influenza, pur constatabile, della presenza e dell’azione del Centro in termini strettamente quantitativi. Tant’è che Pellizzi termina la sua relazione al meeting di Nottingham con queste parole piuttosto disarmanti: Non abbiamo dubbi che il Centro Shell abbia qualcosa a che fare con queste differenze, sebbene, come è stato detto in precedenza, ci risulta impossibile stabilire la sua influenza in precisi termini quantitativi179.

La parziale vaghezza di certe conclusioni della ricerca condotta a Borgo a Mozzano è già stata rilevata dal dottor Virone, della sede centrale di Londra della Shell, il quale scrive nel novembre del 1964, a conclusione del lavoro, una lunga lettera a Pellizzi. In essa leggiamo, fra l’altro: [...] avrei forse voluto esaminati più in dettaglio gli strumenti a disposizione, o non, del tecnico per convincere gli agricoltori. Il fatto ad esempio che a Borgo a Mozzano egli non fruisse direttamente di contributi o sussidi per gli agricoltori è un tema di generale interesse nell’applicazione dell’assistenza tecnica. Lo studio sulla leadership forse, a mio avviso, meritava l’analisi di alcuni casi concreti. Infine, e le chiedo scusa per il mio assillo applicativo, ché i miei anni di ricerca sono ormai troppo indietro nel tempo, avrei voluto veder scaturire dallo studio qualche pratico consiglio, qualche suggerimento che servisse un po’ da guida a chi si occupa di sviluppo rurale. Ma so perfettamente che questo non era il tema, né lo scopo di questo studio180.

Queste osservazioni critiche non nascondono però il fatto che il lavoro della Ciacci e della Imberciadori superi, in qualità e profondità, qualsiasi ricerca precedentemente condotta su Borgo a Mozzano e l’attività ivi esplicata dal Centro Shell di Studi Agricoli. Cfr. ivi, p. 13. «We have no doubt that the Shell Centre had something to do with these differences, although, as was said before, we would find it impossible to assess its influence in precise quantitative terms» (ivi, p. 14). 180 L. E. Virone a C.P., 24 novembre 1964, in ACP, b. 41, f. 69. 178 179

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Ogni qualvolta prendo ad esaminare un nuovo studio su Borgo a Mozzano, ciò faccio, lei mi comprenderà, con un misto di ansietà e curiosità. Questa volta l’ansietà di trovarvi punti di vista per me inaccettabili, interpretazioni superficiali o errate della realtà e del lavoro fatto in quel Comune è stata placata. [...] Ho trovato di estremo interesse i capitoli sulle comunicazioni. L’inserimento del tecnico nella struttura sociale del 1954 è stato tracciato con chiarezza e sensibilità. La funzione ed evoluzione della “leadership” locale sono state descritte convincentemente. Ho avuto la soddisfazione di vedere finalmente precisato, nero su bianco, il tema di tante lunghe ed appassionate mie discussioni con sociologhi [sic] e “social workers”: il vantaggio cioè dell’agronomo col suo “linguaggio agricolo” nell’essere capito da una comunità rurale e così metterne in moto l’evoluzione181.

Va dunque sottolineato questo limite dello studio condotto dall’Istituto fiorentino di Sociologia, un limite peraltro preventivato: la scarsità di suggerimenti e consigli pratici, cioè suscettibili di applicazione concreta ed efficace. Ciò lo si può spiegare ricorrendo a due ordini di motivi. In primo luogo, la poca dimestichezza con le tecniche di ricerca e rilevamento dati da parte di una sociologia ancora giovane, così come molto giovane è l’età di molti suoi cultori (e, segnatamente, delle ricercatrici del progetto su Borgo a Mozzano). In secondo luogo, una scarsa propensione del direttore di quell’Istituto per le analisi quantitative e a variabile multipla prevalenti nella sociologia di marca statunitense182. L’altra ricerca, o meglio l’altro filone di ricerche, anch’esse finanziate dalla Shell Italiana, partono addirittura prima di quella condotta a Borgo a Mozzano. Già nell’estate del 1962 la Shell Italiana, che ha sede a Genova, incarica Pellizzi, in qualità di direttore dell’Istituto di Sociologia dell’Università di Firenze, di programmare, dirigere e controllare ogni fase dell’inchiesta dedicata a «L’inserimento dei giovani laureati nell’industria» e di una monografia sulla «doppia laurea», ossia un’analisi della differenziazione di livello dei titoli accademici183. Ne risulteranno due inchieste, la quarta e la quinta della serie Inchieste Shell, i cui risultati verranno pubIbidem. Su questo aspetto hanno insistito sia Gianfranco Poggi che Giacomo Sani (testimonianze all’autore, rispettivamente del 15 e 20 marzo 2003). 183 Cfr. la lettera del direttore delle Pubbliche Relazioni, Bédon, e della Direzione Centrale della Shell Italiana che conferiscono l’incarico a Pellizzi (rispettivamente, 13 luglio e 21 dicembre 1962, in ACP, b. 41, f. 67). In entrambe le lettere si acclude un assegno di 300.000 lire quale primo e secondo acconto per il lavoro che verrà coordinato da Pellizzi. 181 182

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blicati nel 1964184. Pellizzi è quindi diventato un punto di riferimento fisso della società petrolifera in questione, come testimonia una lettera del gennaio 1965 di Giuseppe De Rita, in cui l’allora giovane consigliere delegato del CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali) chiede al professore di sociologia un parere sull’opportunità di proporre alla Shell «una indagine campionaria sulle caratteristiche qualificative e quantitative degli insegnanti delle scuole primarie e secondarie inferiori e superiori italiane, che prosegua quella serie di inchieste sulla società italiana, per le quali Ella ha svolto un ruolo importante»185. Tra il 1965 e il 1966 Pellizzi è coinvolto nella direzione della sesta Inchiesta Shell, dedicata al problema della scelta della facoltà universitaria e, quindi, mirata a fornire proposte concrete sull’orientamento dei giovani nel quadro dello sviluppo economico italiano. Questo è infatti il titolo (e sottotitolo) della monografia, pubblicata dalla Shell nel 1967, nella quale sono raccolti i risultati dell’indagine condotta con l’ausilio di vari docenti universitari, specializzati in diverse materie (dalla psicologia alla statistica, dalla pedagogia all’economia), operando su due campioni di giovani studenti186. Più precisamente, si tratta di diplomandi di scuole medie superiori e di frequentanti l’ultimo e penultimo anno di università. Su tali campioni sono stati effettuati due sondaggi curati dalla DOXA sotto la direzione di Pierpaolo Luzzato-Fegiz, il quale ha pure raccolto una serie di opinioni espresse in merito da alcuni professori universitari italiani. Han184 Cfr. Università ed industria (Shell Italiana, Genova 19641, 19652) e Lauree a più livelli (Shell Italiana, Genova 19641, 19652). Specie la prima inchiesta suscita l’interesse di altre imprese, come la Pirelli, la Triplex e la Chatillon (cfr. Francesca Pellizzi Ichino a C.P., 6 febbraio 1965, in ACP, b. 42, f. 70). Le prime tre Inchieste Shell avevano per tema: le scelte professionali degli adolescenti (Un mondo inquieto, 19591, 19612), i problemi dell’università nei riflessi del mercato del lavoro (Laurea e occupazione, 19591, 19612), il ceto di provenienza e l’ascesa sociale dei dirigenti (La classe dirigente italiana, 19611, 19622). 185 G. De Rita a C.P., 5 gennaio 1965, in ACP, b. 42, f. 70. Come si ricava dalle note manoscritte a margine della lettera, Pellizzi si incaricherà di sondare la Shell e di verificare la disponibilità dei ricercatori del suo Istituto, ma la risposta sarà negativa («Niente da fare», questo il commento finale). L’indagine proposta dal CENSIS avrebbe dovuto «definire la estrazione sociale, la formazione, la possibilità di carriera, il grado di consapevolezza del ruolo che caratterizza gli insegnanti nella nostra scuola». Questo tipo di analisi, sempre secondo quanto scrive De Rita, «dovrebbe essere valutato su scala territoriale, secondo l’età, il sesso, ecc. ed in connessione ai problemi di trasformazione in atto nelle differenti realtà urbane e rurali». 186 Cfr. La scelta della facoltà universitaria. Studio e proposte sull’orientamento dei giovani nel quadro dello sviluppo economico italiano, Inchiesta sull’orientamento professionale condotta da C. Pellizzi et alii, Shell Italiana, Genova 1967.

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no fatto seguito due indagini: la prima, curata da Aldo Visalberghi, ha cercato di rilevare i fattori cosiddetti “oggettivi” delle scelte dei giovani (condizione e tradizione familiare, circostanze economiche e geografiche, ecc.); la seconda, curata da Luigi Meschieri, si è concentrata sui fattori “soggettivi”, cioè psicologici, di queste scelte. C’è poi stata una ricerca, articolata in tre studi condotti dalla professoressa Ornella Andreani: uno studio ha riguardato la struttura e l’attività effettiva dei servizi di orientamento universitario presenti in Italia in quel periodo (1965-1967); un altro ha analizzato l’attività del Servizio di Orientamento Universitario dell’Università di Pavia nel 1964-65 e il terzo studio si è concentrato sulla scelta della facoltà in un gruppo di “matricole”, sempre dell’Università di Pavia. Il professore Francesco Forte, invece, ha elaborato un quadro di previsione di quelle che saranno le attività economiche del 1980, cioè dell’anno in cui, indicativamente, i laureati della seconda metà degli anni Sessanta dovrebbero avere trovato un impiego stabile. Si tratta, cioè, di uno studio teso a stabilire, con una proiezione di tipo statistico-economico, quali saranno almeno i settori prevalenti di impiego nella società italiana del 1980 e quelle che saranno le possibilità di trovare lavoro da parte di chi si laureerà tra il 1965 e il 1970 circa. Infine, l’inchiesta si avvale del contributo di quattro consulenti stranieri, ciascuno dei quali descrive la situazione dell’orientamento scolastico, della consulenza e degli istituti approntati per affrontarlo, in quattro importanti Paesi dell’Occidente industrializzato (Gran Bretagna, Germania Federale, Francia e Stati Uniti d’America)187. Si è dunque trattato di un ampio e dettagliato lavoro di équipe, senz’altro più articolato e meglio strutturato della ricerca di Borgo a Mozzano, dove l’Istituto ha operato avvalendosi solo delle proprie esigue forze. Pellizzi, presentando il profilo della ricerca nel volume che raccoglie i risultati di un tale imponente lavoro, precisa quali siano i tre quesiti che hanno orientato la ricerca: Come scelgono la loro carriera universitaria (e perciò, in larga misura, la carriera di tutta la vita) i giovani italiani? Come dovrebbe avvenire questa scelta? Come può essa avvenire?188.

Le precedenti inchieste della Shell hanno dimostrato la vischiosità del meccanismo di selezione delle classi dirigenti italiane e l’importanza del fattore socio-economico, ossia dell’estrazione sociale nel perseguimento di 187 188

Cfr. ivi, pp. 7-8. Ivi, p. 3. I corsivi sono nel testo.

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carriere di alto e altissimo livello con funzioni dirigenziali. Dalle risultanze della nuova inchiesta, Pellizzi constata che la società italiana degli ultimi dieci anni, quella cioè del boom economico (all’incirca, 1957-1966), ha visto l’inizio di un’inversione di tendenza rispetto al recente passato. Vale a dire che sono rintracciabili le avvisaglie di una mobilità sociale ascendente, tale da far sì che le categorie dirigenti costituiscano sempre meno quel che hanno rappresentato fino a ieri, «una casta, praticamente “chiusa”», trasformandosi lentamente in «una classe aperta ad un’attiva dinamica di rinnovamento»189. Ciò è in parte dovuto a due fenomeni concomitanti: il relativo aumento del livello medio del reddito pro capite e l’accresciuta frequenza della scuola media dell’obbligo, anche «per il sempre maggiore afflusso delle ragazze ai gradi superiori della scuola (provenienti da sempre più vasti ceti sociali)»190. Con ogni probabilità, sono tutte conseguenze positive del boom economico. La mobilità ascendente non è però ancora un fenomeno di proporzioni tali da rimuovere la realtà di una società – quella italiana – che, osserva con amarezza Pellizzi, spreca i talenti e le possibilità di una notevole parte di quei suoi giovani la cui carriera scolastica non oltrepassa la scuola dell’obbligo per motivi economici e famigliari, sebbene le loro personali attitudini siano superiori a quelle di una sensibile percentuale dei giovani che vanno alla scuola media superiore, e anche all’Università. È stato calcolato che ben oltre il trenta per cento di coloro che non proseguono dopo la scuola dell’obbligo avrebbero buone attitudini per proseguire191.

Questa emorragia di risorse umane, di intelligenza e capacità utili per formare future classi dirigenti degne di tal nome rappresenta per la società «una perdita secca, materiale e morale»192. Vale la pena riportare integralmente le parole con cui Pellizzi definisce la doppia natura di questa perdita, poiché in esse possiamo cogliere alcuni aspetti importanti del suo pensiero nei confronti della modernizzazione, delle sue sfide e dei suoi costi per la società (italiana, ma non solo). La perdita materiale è dovuta soprattutto al fatto che, in tal modo, si mantiene alta la percentuale dei non-qualificati, o scarsamente qualificati, in un mondo che ha sempre più bisogno, per il suo sviluppo, di lavoratori qualificati, o comunque suscettibili, per le loro attitudini e per la educazione di base che hanIvi, p. 4. Ibidem. 191 Ibidem. 192 Ibidem. 189 190

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no ricevuta, di facili e rapide «riqualificazioni» quando si debbano trasferire a tipi e ambienti di lavoro molto diversi da quelli di origine. Ma forse il danno morale è più grave ancora, mantenendo viva, e legittimando, nelle categorie meno agiate della popolazione, la convinzione che solo ai ricchi, o ai benestanti, sia riservato per privilegio l’accesso agli alti livelli della società193.

In un simile contesto diventa perciò importante dotare le strutture educative, dalla scuola media superiore all’università, di un servizio di «counselling» – questo è il termine usato da Pellizzi – con il compito di orientare i giovani studenti nella scelta delle carriere. Un servizio che si rende sempre più necessario in società in cui «la varietà e la mutevolezza dei posti di lavoro, disponibili oggi e in un vicino domani, vanno crescendo ogni giorno», e che, proprio per questo, ha bisogno di un costante aggiornamento. Si manifesta, insomma, la duplice esigenza di avere consulenti e, se così si può dire, consulenti dei consulenti. È proprio in questa ottica di rendere l’orientamento una forma di consulenza specializzata e istituzionalizzata che l’inchiesta Shell nasce, soprattutto nelle intenzioni di Pellizzi e dei suoi collaboratori. La civiltà si misura nel livello di istruzione e formazione, tanto umanistica quanto tecnico-professionale, e quindi l’educazione in Occidente diventa quasi una conditio sine qua non perché ciascun cittadino sia libero. Ciò può diventare una vera e propria contraddizione in termini là dove si trasformi il diritto all’istruzione in un dovere, fenomeno che, scrive Pellizzi, pare essere un esito paradossale ma plausibile delle società occidentali contemporanee. Quindi Pellizzi, da un lato, dimostra di accogliere le sfide poste dalla complessità crescente di società industriali dove l’innovazione tecnologica produce mutamenti continui negli assetti sociali e professionali, dall’altro, esprime la preoccupazione che la gestione di tali sfide richieda l’instaurazione di una vera e propria «tecnocrazia sociale»194. Se l’informazione e l’orientamento sono i servizi che una società moderna, al tempo stesso civile e prospera, deve saper fornire ai propri cittadini, restano necessarie «cautela» e «vigilanza critica» da parte sia dei politici che dei tecnici195. In altri termini, la posizione che Pellizzi assume di fronte ai dilemmi posti dalla complessità delle società del benessere è infine di tipo riformista: vale a dire che egli propone sempre e comunque la necessità dell’intervento delle istituzioni politiche e sociali, magari coadiuvate il più possibile dalle Ivi, pp. 4-5. Cfr. ivi, pp. 6 e 343. 195 Cfr. ivi, p. 343. 193 194

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conoscenze acquisite nell’ambito delle scienze dell’uomo (in questa occasione viene menzionata soprattutto la psicologia). Nel caso dell’orientamento dei giovani nella scelta del percorso di studi e della successiva occupazione lavorativa, Pellizzi propone, ad esempio, una vasta opera di riorganizzazione e potenziamento dei già esistenti Centri di orientamento scolastico e professionali dei Consorzi provinciali per l’istruzione tecnica. La gran parte di essi si è limitata all’orientamento a livello di mestiere, ignorando quello per l’università. Occorre pertanto un’estensione di funzioni e di attività informative, grazie alla preparazione del personale e al miglioramento dei collegamenti dei Centri di orientamento con i Provveditorati agli studi e le scuole, ma anche con le industrie e il mondo economico196. Le strutture di sostegno all’orientamento dovrebbero poi poter usufruire dei mezzi di comunicazione come la radio e la televisione, dal momento che «ben si possono promuovere certi atteggiamenti generali verso il problema, e soprattutto si può interessare ed indirizzare lo spettatore ad attingere ad ulteriori fonti di dati»197. Pellizzi dimostra, infine, di avere ben presenti sia l’esperienza inglese sia quella americana, a cui fa sovente riferimento come a modelli socioculturali in buona misura da imitare. Al tempo stesso, egli coglie le peculiarità del caso italiano e soprattutto i legami crescenti con gli altri Stati del continente europeo, così da formulare alcuni auspici che diverranno nei decenni successivi esigenze avanzate con forza (e, in certi casi, realizzate) dentro e fuori le istituzioni della comunità europea198: È appena il caso di far presente che il processo di integrazione europea, la più o meno libera circolazione delle forze di lavoro nell’area del M.E.C., i progressi che sperabilmente si faranno nell’equiparazione dei titoli di studio universitari, sono tutti elementi primari per la corretta determinazione del fabbisogno di laureati, e soprattutto delle loro prospettive di impiego. Sicché c’è da auspicare anche l’istituzione di un organo di studio e previsione del fabbisogno dei laureati a livello di Mercato Comune199.

A proposito di comunità europea, un’altra ricerca condotta dal Centro di Studi sui Problemi del Lavoro nei primi anni Sessanta è finanziata Cfr. ivi, pp. 335 e 339. Ivi, p. 337. 198 Per una esposizione sintetica ma dettagliata delle questioni prioritarie dell’agenda politica dell’Unione Europea, si veda G. MAMMARELLA, P. CACACE, Le sfide dell’Europa. Attualità e prospettive dell’integrazione, Laterza, Roma-Bari 1999. 199 La scelta della facoltà universitaria..., cit., pp. 336-337. 196 197

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direttamente dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). Nell’ottobre del 1961 Pellizzi riceve una risposta positiva da Lussemburgo circa la partecipazione del proprio Centro allo svolgimento di un lavoro di inchiesta e analisi delle condizioni salariali nelle acciaierie, e del modo in cui esse sono percepite e valutate dalle varie categorie che lavorano all’interno di queste imprese, dagli operai ai quadri dirigenti200. All’équipe del Centro viene affiancato Ferrarotti e, in particolare, il suo assistente Enzo Bartocci, con la possibilità di altri collaboratori sempre afferenti all’Istituto di Sociologia dell’Università di Roma. La durata della ricerca è prevista in tre anni e ha come compito preciso quello di «studiare l’atteggiamento di dirigenti e lavoratori in tre o quattro acciaierie italiane, con particolare riferimento ai cottimi di lavoro prevalenti in certi settori, dove l’attività tradizionale a squadre è stata ampiamente modificata dall’adesione di nuovi sistemi tecnici»201. Si tratta di una ricerca sociologica già condotta in altri Paesi europei e che in Italia ha avuto un precedente nello studio di tre laminatoi della ILVA202. Questa nuova ricerca, che sarà avviata nel corso del 1962, prende in esame gli stabilimenti siderurgici di Piombino, Bagnoli e Cornigliano203. Il capo dell’équipe di lavoro è Gianfranco Poggi nelle prime due fasi, e cioè: fase dell’inquadramento storico teso a fornire i precedenti di maggior rilievo dei temi da trattare e fase delle interviste con impiegati, lavoratori, sindacalisti e dirigenti dell’azienda. La fase finale, quella delle conclusioni da trarre dall’analisi dei dati raccolti, sarà portata a termine da Giacomo Sani, subentrato a Poggi, il quale nel frattempo si è trasferito all’Università di Edimburgo204. Cfr. C.P. a G. Maranini, 24 ottobre 1961, in ACP, b. 19, sf. 139/1. Dal verbale della seduta del Comitato Direttivo del Centro di Studi sui Problemi del Lavoro del 20 febbraio 1962 (ACP, b. 19, 139/2). Oltre a Pellizzi, direttore, i componenti del Comitato sono: F. Ferrarotti, G. Maranini, A. Marzi, C. Curcio, A. Carbonaro, G. Sartori, S. Tosi. 202 Alcuni anni prima la CECA aveva promosso una serie di ricerche comparative a livello europeo con lo scopo di valutare i modi di remunerazione, i salari, il cottimo, il mercato del lavoro e il prezzo della forza-lavoro. Per il Belgio aveva partecipato Jacques Dofny, per la Francia Alain Touraine e per la Germania federale Burkart Lutz. Per l’Italia l’incarico era stato affidato a Giuseppe Parenti, professore di Statistica all’Università di Firenze, «che se non aveva una specifica conoscenza nel campo della sociologia industriale aveva una notevole capacità politico-organizzativa». Va inoltre aggiunto che «le tre ricerche svolte in Europa in questo periodo sono diventate dei classici della sociologia industriale» (G. MASSIRONI, op. cit., p. 47. nota 73). 203 Verbale del 20 febbraio 1962, cit. 204 Poggi era stato proposto da La Palombara, che lo aveva avuto suo allievo a Berkeley, ad un Pellizzi in cerca di un collaboratore valido per questo tipo di ricerche. Tale infor200 201

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Se il Centro ha quindi una intensa attività, grazie a numerosi committenti italiani e stranieri, la Scuola di Perfezionamento negli Studi sui Problemi del Lavoro205 incontra invece maggiori difficoltà. Ancora alla fine degli anni Cinquanta, Pellizzi, in una lettera rivolta ai componenti il Consiglio Direttivo della Scuola, constata con amarezza ma senza sconto alcuno: La situazione della Scuola è ancora ben lontana da quel livello minimo che giudicheremmo adeguato ai suoi fini. Insufficiente, perché quasi inesistente, il finanziamento, inesistente l’appoggio di enti o ditte locali o altro; poco chiaro e praticamente inefficace il titolo del diploma che essa conferisce; scarso il numero degli iscritti; irregolare la loro frequenza e, qualche volta, poco soddisfacente anche l’assiduità degli insegnanti. Tali aspetti negativi della situazione sono legati e interdipendenti fra loro, e occorre dar opera per ottenere un miglioramento globale della situazione, attaccandola contemporaneamente da vari lati206.

Nonostante questa scarsità di mezzi e questo difficile processo di istituzionalizzazione, la Scuola prosegue anche nei primi anni Sessanta i suoi corsi, i quali prendono avvio ogni anno durante il mese di febbraio e finiscono tra maggio e giugno. Al termine dei corsi sono previsti i relativi esami, superati i quali si ottiene il diploma di perfezionamento post-laurea. Gli insegnamenti impartiti sono numerosi e mutano nel corso degli anni, a seconda anche di quali sono i docenti disponibili di anno in anno, dal momento che non è prevista per essi alcuna retribuzione. A titolo di esempio, possiamo menzionare alcuni di questi insegnamenti: Storia del sindacalismo e del problema sociale, Garanzie costituzionali del lavoro, Problemi di economia e politica economica del lavoro, Problemi politici del lavoro, Tecnica delle organizzazioni sindacali, Problemi e tecnica del lavoro direttivo, Interviste ed altre tecniche di comunicazione e di indagine, Statistica applicata ai problemi del lavoro, Psicologia del lavoro, Problemi mazione, così come quella dell’avvicendamento con Sani, ci sono state fornite dai due diretti interessati, Poggi e Sani (testimonianze all’autore, 15 e 20 marzo 2003). 205 Questa è la denominazione ministeriale a suo tempo approvata e che Pellizzi intenderebbe modificare in “Scuola di Perfezionamento in Scienze del Lavoro”. Quest’ultima espressione è più diretta e sottolinea quel rigore scientifico degli insegnamenti impartiti nei vari corsi a cui mira il direttore della Scuola, ma la richiesta inoltrata dall’Università di Firenze è respinta dal Ministero della Pubblica Istruzione [cfr. il Ministro della P.I. (Scaglia) al Rettore dell’Università di Firenze, 6 giugno 1959, in ACP, b. 19, sf. 139/1]. 206 Dal comunicato con cui Pellizzi, in qualità di direttore della Scuola, convoca i componenti del Consiglio Direttivo della Scuola (s.d., ma, probabilmente, dicembre 1958) [ACP, b. 19, sf. 139/2].

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di addestramento, qualificazione e riqualificazione del lavoro. Pellizzi riservava per sé l’insegnamento di “Problemi di rapporti umani nel lavoro”. L’elenco che abbiamo riportato è senz’altro indicativo sia della pluralità degli approcci con cui viene presentata la tematica del lavoro nell’epoca dell’industrializzazione avanzata, sia della varietà dei potenziali destinatari di questi corsi. Oltre a giovani in cerca di prima occupazione, tra gli iscritti vi sono persone che già lavorano in imprese di piccole, medie e grandi dimensioni, ai più vari livelli, dal manager al quadro, e che intendono aggiornarsi e conseguire una qualifica. Ci sono pure sindacalisti e aspiranti professionisti della politica. Un’analoga varietà si riscontra fra i docenti: a fianco dei professori universitari, del “Cesare Alfieri” e non solo, abbiamo un sindacalista come Franco Archibugi (della CISL) e un dirigente d’azienda come Alberto Tomasi, componente della Direzione Generale dell’Ansaldo207. Le problematiche inerenti il lavoro vengono affrontate in un’ottica a vasto raggio, tant’è che nel 1960 si tiene persino un corso di urbanistica, affidato all’architetto Lionello Boccia, membro dell’Istituto Nazionale di Urbanistica208. La dicitura precisa del corso è “Problemi di urbanistica nella moderna civiltà industriale209. L’aspetto più interessante di questa Scuola risiede proprio nel suo favorire l’incontro di diverse competenze e nel fornire un primo contatto fra mondo universitario e mondo del lavoro, cercando così, nel suo piccolo, di rispondere ad un’esigenza profondamente avvertita in una società in rapida trasformazione sociale ed economica come quella italiana negli anni del boom economico. L’iniziativa è, in questo senso, un esempio fra i pochi altri coevi che si potrebbero fare, sia in positivo per gli intenti che la animano sia in negativo per le inefficienze e il pressappochismo che la contraddistinguono. Come è stato osservato in sede di ricostruzione stori207 Oltre ai due menzionati e, ovviamente, a Pellizzi, tra i docenti succedutisi nei vari anni possiamo citare: Franco Ferrarotti, Alberto Marzi, Gastone Ceccanti, Gilberto Tinacci Mannelli, Carlo Curcio, Alessandro Franchini Stappo, Antonio Carbonaro, Mino Vianello, Renzo Ravà, Pier Francesco Bandettini, Pietro Merli-Brandini, Umberto Baldini. Quest’ultimo aveva lavorato fino al 1958 presso la Società Montecatini per poi trasferirsi all’Istituto per l’Addestramento nell’Industria (IAI) di Milano, scuola aziendale appositamente dedicata alla formazione degli operai e istituita sotto il patronato del Ministero del Lavoro e del BIT (Bureau International du Travail), ad opera di cinque aziende (Edison, Montecatini, Falck, Macchi, Pirelli). Un altro esempio, insomma, di docenze affidate ad operatori del mondo dell’industria. 208 Cfr. comunicato di G. Tinacci Mannelli, segretario della Scuola, ai frequentanti, 29 febbraio 1960, in ACP, b. 19, sf. 139/1. 209 Cfr. idem, 2 aprile 1960, in ACP, b. 19, sf. 139/1.

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ca, all’indomani della seconda guerra mondiale e ancora nel corso degli anni Cinquanta, in Italia, l’Università è strutturalmente senza rapporto con il mondo della produzione e non ha alcuna tradizione in merito alla formazione dei dirigenti industriali. Le direzioni aziendali sono caratterizzate da una serie di caste, da un’eccessiva distanza dei livelli gerarchici, dalla mancata delega di responsabilità, da un atteggiamento autoritario. I dirigenti vengono assunti per cooptazione dal vertice aziendale, e non esiste alcuno strumento di misura della loro efficienza210.

Se si esclude l’IPSOA (Istituto post-universitario per lo studio dell’organizzazione aziendale), costituito nel 1953 per iniziativa di Vittorio Valletta, presidente della FIAT, e di Adriano Olivetti, presidente dell’azienda omonima, con l’aiuto del presidente dell’Unione Industriale di Torino, non esistono istituti deputati alla formazione e selezione di giovani managers fuori dell’azienda211. Senz’altro non ve ne sono collegati direttamente al mondo dell’università. In questo senso, l’iniziativa di Pellizzi è tra le prime in Italia, assieme a quelle promosse nella seconda metà degli anni Cinquanta, sempre a Torino, dall’amico Federico Maria Pacces, docente di Tecnica industriale e commerciale212. La fiorentina Scuola di Perfezionamento negli Studi sui Problemi del Lavoro si configura come un vero e proprio corso di formazione post-universitaria che, svolgendosi regolarmente nelle ore serali (solitamente dalle 18 alle 20), consente anche la frequenza a persone che già lavorano213. GIANNI MASSIRONI, «Americanate», cit., p. 23. Cfr. ivi, pp. 23-24. Negli anni immediatamente successivi sorgono numerosi altri istituti di formazione, sempre e comunque «autonomi dall’università per sede, direzione, personale insegnante» e interamente finanziati dall’industria: ad esempio, il CPOA di Napoli, l’ISIDA di Palermo e il CUOA di Padova (cfr. ivi, p. 25). 212 Cfr. cap. V, nota 77. Altra cattedra di Sociologia che funge da catalizzatore e promotore di studi sociologici è quella di Vittorio Castellano, ordinario di Statistica e titolare dell’insegnamento di Sociologia nella Facoltà di Scienze Statistiche demografiche e attuariali di Roma. Presso l’Istituto di Statistica di tale Facoltà, Castellano darà vita nel 1957 al Centro di ricerche di sociologia empirica e poi alla Scuola di perfezionamento di sociologia e ricerca sociale “C. Gini” (cfr. G. CHIARETTI, op. cit., pp. 119 e 169-170). 213 Cfr. la lettera del Segretario della Scuola (G. Tinacci Mannelli) con cui si annuncia l’inizio dei corsi per l’anno 1956 (31 gennaio 1956, in ACP, b. 19, sf. 139/1). Inizialmente lo Statuto prevede l’ammissibilità alla Scuola dei soli laureati in Scienze Politiche, Giurisprudenza ed Economia e Commercio. Pellizzi già alla fine degli anni Cinquanta ritiene «assolutamente anacronistico» il divieto di aprire ai laureati in tutte le altre Facoltà o Istituti Superiori equiparati (cfr. comunicato di C.P. per la convocazione del Consiglio Direttivo, s. d., cit.). 210 211

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Come si è visto, i limiti della Scuola, sia in termini di strutture sia di insegnamento, sono già tutti chiaramente presenti alla mente del suo direttore. Restano, in ogni caso, la validità e la lungimiranza di un progetto avviato per volontà non solo di Pellizzi ma anche del preside del “Cesare Alfieri”, Giuseppe Maranini. E in questo ambito è opportuno ricordare che, negli stessi anni, Pellizzi dirige pure (svolgendovi anche alcune lezioni) il corso di Sociologia per la Scuola di Servizio Sociale214. In ogni caso, è da osservare che le iniziative pellizziane, i loro destinatari e il loro esito confermano quanto constatato in sede storiografica, e cioè che fino a tutti gli anni Sessanta sia l’opera di potenziamento e razionalizzazione dell’apparato produttivo, sia quella di miglioramento della qualità dei rapporti interni all’azienda tra i vari livelli dell’organigramma, «non coinvolgono mai i metodi di conduzione strategica dell’impresa [...] e non riescono a porre il problema della necessità dell’istituzionalizzazione della sociologia dentro e fuori della vita aziendale»215. Senz’altro, però, le attività della Scuola di Perfezionamento e, soprattutto, del Centro di Studi sui Problemi del Lavoro testimoniano del contributo significativo, e finora del tutto ignorato in sede storiografica, fornito da Camillo Pellizzi in questo processo di accreditamento della sociologia, e più in generale delle scienze sociali, presso il mondo dell’industria italiana. A proposito dell’istituzionalizzazione della sociologia in Italia, ossia di quel processo «che porta la sociologia italiana a darsi strutture associative e di produzione, prima fuori dell’università e in seguito nell’università», sono state individuate due fasi, grosso modo corrispondenti ai primi due decenni di vita della Repubblica italiana216. La prima fase, che va dal 1948 al 1958 circa, vede preminente il ruolo esercitato dagli Stati Uniti tramite gli aiuti del Piano Marshall e la presenza di organismi europei appositamente costituiti allo scopo di garantirne l’applicazione. L’Agenzia Europea per la Produttività è un esempio di questo intervento indiretto, e Pellizzi, come si è visto, ne è partecipe in prima linea. Se però si guarda al 214

Cfr. C.P. al Rettore dell’Università di Firenze, 16 marzo 1959 (ACP, b. 19, sf.

139/1). 215 G. MASSIRONI, op. cit., p. 26. In questo saggio, non si menzionano mai Pellizzi e le sue numerose, e talvolta pionieristiche, iniziative; lo si cita soltanto in nota, riportandone la definizione delle Human Relations come disciplina scientifica a tutti gli effetti (cfr. ivi, p. 48, nota 76). Qualche maggiore riferimento alle iniziative dell’Istituto di Sociologia del “Cesare Alfieri” nel saggio di G. CHIARETTI (Un caso di organizzazione della scienza: la sociologia in Italia nel decennio 1958-1968, pp. 167-169). 216 L. BALBO, G. CHIARETTI, G. MASSIRONI, op. cit., p. 67 e passim.

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livello del dibattito in corso nell’Italia degli anni Cinquanta all’interno del mondo accademico, Pellizzi pare distinguersi per una posizione in certa misura anticipatrice di esigenze che matureranno solo nella seconda fase del processo di istituzionalizzazione. Al Convegno di Bologna dell’aprile 1954, dedicato al tema «Filosofia e Sociologia» e organizzato dall’università bolognese e dalla rivista «il Mulino», la vera e propria controversia nasce su quale debba essere lo statuto deontologico dello scienziato sociale, e del sociologo in particolare. In altri termini, ai partecipanti al convegno bolognese non pare conciliabile la duplice natura di una sociologia intesa come tecnica di ricerca sociale, da un lato, e come disciplina dotata di un proprio stabile corpus teoretico. Come è stato scritto, il confronto con la pratica di quanti si interessano alla sociologia mette in luce la caratteristica fondamentale del lavoro sociologico in questa fase: la tacita divisione del lavoro tra il ristrettissimo gruppo dei sociologi propriamente detti, che opera nell’università, e i ricercatori sociali217.

Pellizzi, sotto questo profilo, si presenta sin dai primi anni Cinquanta, da un lato, come lo studioso che approfondisce autonomamente le ipotesi di fondo della disciplina, cercando di stabilirne una «sistematica», dall’altro, come il promotore di una serie di ricerche sul campo a cui organismi come l’AEP possono dare contributi – anzitutto materiali – irrinunciabili. La decisione di costituire la Scuola di perfezionamento e il Centro di Studi è proprio espressione evidente della volontà di creare una generazione di giovani ricercatori sociali, cioè sociologi professionalizzati anche secondo alcuni parametri delle scuole sociologiche nordamericane. E Pellizzi compie tutto ciò, nel piccolo ambito delle sue forze e nella condizione di marginalità – se non proprio isolamento – che inizialmente lo limita, pur non avendo particolare familiarità né, soprattutto, nutrendo grande simpatia nei confronti di gran parte della sociologia americana e della sua metodologia. Se è vero che l’impostazione dominante nella prima fase dell’istituzionalizzazione della disciplina (1948-1958), «risente ancora molto della visione tradizionale dell’intellettuale e dello studioso come qualcosa di “al217 G. MASSIRONI, in ivi, p. 45. Sulle prime iniziative del gruppo del «Mulino», cfr. G. CHIARETTI, in ivi, pp. 89-92. Sull’ambiente culturale gravitante attorno alla rivista «il Mulino» tra anni Cinquanta e Sessanta, si veda la recente testimonianza di uno dei suoi protagonisti, promotore e direttore del periodico per complessivi dodici anni (non consecutivi, ma divisi in tre distinti periodi): N. MATTEUCCI, Anticomunismo, addio. Come gira la ruota del «Mulino», in «Nuova Storia Contemporanea», a. V, n. 2, marzo-aprile 2001, pp. 129132.

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to e puro” staccato dalla realtà produttiva»218, allora possiamo dire che Pellizzi rappresenta un esempio assolutamente alternativo in quanto intellettuale pienamente calato nella realtà produttiva del suo tempo. La seconda fase del processo di istituzionalizzazione, compresa tra il 1958 e il 1968, parte dall’esigenza di ricominciare da quell’opera di penetrazione della disciplina e delle sue tecniche sia nell’università che nel mondo del lavoro, in cui gli USA avevano sostanzialmente fallito o, piuttosto, ottenuto risultati transitori e venuti poi meno con il parziale ritrarsi della potenza americana dalla scena europea219. Ancora alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta i protagonisti di questa seconda fase sono i filosofi e i giuristi, anche a causa della mancanza di corsi di laurea in sociologia220. Un ruolo crescente nella discussione su natura e finalità della ricerca sociologica lo acquista un marxismo critico e dissidente nei confronti del Pci, ancora più o meno attardato nella convinzione che la sola e unica sociologia possibile del capitalismo sia quella ricavabile dalla lettura di Marx221. Dopo i fatti di Ungheria e la conseguente crisi interna al comunismo italiano, un gruppo di intellettuali di formazione socialista e marxista comincia ad aprirsi ad ipotesi “riformiste”. Il nuovo corso del Psi e l’avvio del processo che porterà al varo del primo governo di centrosinistra sono eventi politici che rafforzano questa svolta, testimoniata peraltro dalla nascita di alcune riviste («Opinione», «Ragionamenti», «Passato e Presente»)222. Una considerazione svolta da Alessandro Pizzorno su una di queste riviste, pur inserita in un discorso politico complessivo assolutamente alieno e distante da quello pellizziano, evoca alcune curiose affinità con l’impostazione deontologica e metodologica che della sociologia ha il professore del “Cesare Alfieri”. Scrive, infatti, Pizzorno che la conoscenza che lo scienziato mette al servizio degli uomini [...] dev’essere intervento, la sua concretezza dev’essere efficacia, la sua descrizione deve diventare comprensione operante, la G. MASSIRONI, op. cit., p. 45. Ivi, pp. 62-63. 220 «I filosofi rivendicano un diritto di assistenza di tipo “teoretico-normativo” [...]. I giuristi, invece, tendono ad esercitare un diritto di “controllo” sullo sviluppo della sociologia come nuova corporazione accademica. La loro posizione di potere nelle Facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche condiziona permanentemente i tempi e i modi del processo di istituzionalizzazione della sociologia» (G. CHIARETTI, Un caso di organizzazione della scienza..., cit., p. 71, nota 3). 221 Cfr. ivi, pp. 75-76, 113-117. 222 Cfr. ivi, pp. 105-108. 218 219

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sua obiettività dev’essere coscienza della sua propria situazione e impegno di fronte alla società che si studia223.

Quel che qui interessa dimostrare è che Pellizzi sta dentro anche alla seconda fase del processo di istituzionalizzazione della sociologia italiana. Si pensi al contributo che fornisce a Mario Volpato e Aldo Testa per la nascita e il consolidamento degli Istituti Superiori di Scienze Sociali da loro diretti, rispettivamente a Trento e Urbino224. All’Istituto urbinate Pellizzi terrà per due anni accademici consecutivi, 1968-69 e 1969-70, un corso di “Storia e teoria delle scienze dell’uomo” e sarà nel Comitato Tecnico per la ristrutturazione dell’Istituto dove elaborerà assieme a Vittorio Lanternari (antropologo) e Luigi Meschieri (psicologo) alcune proposte per un piano di studi adeguato ad una istituenda Facoltà di Scienze Sociali225. Una terza fase nel lungo e travagliato processo di istituzionalizzazione della sociologia in Italia sarà inaugurata dal Sessantotto e dalla contestazione studentesca divampata in quell’anno. A questo punto, però, Pellizzi non può più giocare alcun ruolo di rilievo. I motivi di ciò, almeno quelli più immediati, sono ovvi: egli è ormai fuori ruolo e nel 1971 è definitivamente in pensione. Forse egli non vuole nemmeno avere un ruolo accademico in questa fase e quindi agire per vie istituzionali, ma sicuramente non intende abdicare ad un’attenta e partecipata riflessione sul proprio presente. Ultrasettantenne, egli preferisce usare gli editoriali della sua «Rassegna» come un osservatorio e, al tempo stesso, una tribuna dalla quale valutare i modi, i tempi e la direzione dell’evoluzione politica e sociale sia italiana che mondiale. In particolare, Pellizzi pone ad oggetto delle proprie riflessioni la civiltà occidentale tecnologicamente sviluppata e 223 A. PIZZORNO, E. MORIN, Sociologia e problema del potere, in «Ragionamenti», II, 1957, p. 122, cit. da G. CHIARETTI, op. cit., pp. 77-78. 224 Sulla genesi dell’Istituto trentino si veda la sintetica ricostruzione, corredata di alcuni documenti del periodo della Contestazione, compiuta da G. CHIARETTI, op. cit., pp. 134-147. Sul rapporto tra Pellizzi e l’Istituto urbinate, cfr. ACP, b. 23, f. 157. 225 Fuori ruolo dal 1966, ma ancora impegnato in varie attività comprese quelle dell’Istituto di Sociologia del “Cesare Alfieri”, Pellizzi terrà lezioni soprattutto nei giorni di sabato e domenica. Si avvarrà sempre più del contributo di Paolo Fabbri, suo assistente per l’insegnamento ad Urbino, e al quale poi lascerà nel 1970 l’intero corso. Per il carteggio relativo sia a questo incarico sia a quello presso il Comitato Tecnico, e anche per progetti di piani di studi, si veda ACP, b. 23, f. 157. Nel progetto elaborato nel febbraio 1969 da Pellizzi e Lanternari erano previsti due indirizzi, sociologico e antropologico. Il piano di studi proposto è accolto dall’altro docente universitario facente parte del Comitato, Luigi Meschieri, subordinatamente però all’accettazione da parte del Comitato di un indirizzo che conduca alla laurea in Psicologia (cfr. ibidem).

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ne sottolinea la natura dei rapporti con il resto del mondo sottosviluppato o in via di sviluppo. I toni dei suoi articoli si fanno un po’ più cupi, talvolta persino allarmati. Sono questi anni in cui la parola “crisi” circola senza sosta nei dibattiti politici e sulle pagine dei quotidiani, influenzando persino l’opinione pubblica. Nel 1972 esce il rapporto sui Limiti dello sviluppo, redatto dal System Dynamics Group del Massachusetts Institute of Technology (MIT) per conto del Club di Roma, suscitando grande clamore tanto da essere rapidamente tradotto in venti lingue. Nel loro rapporto gli studiosi del MIT giungono alla conclusione che «l’umanità non può continuare a proliferare a ritmo accelerato, considerando lo sviluppo materiale come scopo principale, senza scontrarsi con i limiti naturali del processo, di fronte ai quali essa può scegliere di imboccare nuove strade che le consentano di padroneggiare il futuro, o di accettare le conseguenze inevitabilmente più crudeli di uno sviluppo incontrollato»226. L’allarme per il futuro del pianeta e dei suoi abitanti risente delle vicende internazionali: in primo luogo, la crisi degli Stati Uniti impantanati nella guerra del Vietnam, l’apparente rilancio della politica estera sovietica e la comparsa della Cina comunista sulla ribalta internazionale quale nuova possibile superpotenza alimentano nuovi timori per una guerra nucleare. In secondo luogo, va ricordata la crisi petrolifera del 1973, con la sua catena di conseguenze negative sia sul piano economico sia sul piano del sistema di relazioni internazionali. Soprattutto, quel che emerge è la grande paura per il possibile esaurimento delle risorse energetiche, la cui vitale importanza si rivela per la prima volta con forza alle società altamente industrializzate dell’Occidente. Prima ancora di questi eventi, senz’altro seguiti con particolare attenzione, Pellizzi ha sotto gli occhi quel che succede in Italia nell’anno 1968. Dopo i primi segnali di disagio del mondo studentesco avutisi tra il 1966 e il 1967 a Trento, Roma, Milano e Torino, con l’inizio di quell’anno l’intero mondo universitario italiano è investito con un’accelerazione impres226 I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, prefazione di Aurelio Peccei, Mondadori, Milano 1972, p. 19. Il Club di Roma, così denominato perché riunitosi per la prima volta a Roma nel 1968, è, come recita la quarta di copertina del volume, «un gruppo internazionale di personalità del mondo scientifico, economico e industriale, individualmente preoccupati della crescente minaccia implicita nei molti e interdipendenti problemi che si prospettano per il genere umano». Si veda anche di Aurelio Peccei, ispiratore e co-fondatore del Club di Roma, Quale futuro?, Mondadori, Milano 1974.

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sionante da un’ondata di contestazione cui si lega, l’anno successivo, parte del movimento operaio delle fabbriche, soprattutto nel Nord227. Lasciando alla «Rassegna» le considerazioni di carattere più generale sul destino della civiltà occidentale, Pellizzi trova sulle colonne del «Corriere della Sera» lo spazio per esercitare un ruolo da intellettuale “militante”, cioè da colui che ritiene suo dovere intervenire nelle controversie e nei conflitti che dividono la società in cui vive portando un contributo di chiarezza e, se possibile, di mediazione. Oltre al dovere c’è anche un piacere, anzi una vera e propria passione per la politica che ci conferma una certa assonanza fra la vita di Pellizzi e quella di Max Weber. Se per il sociologo tedesco la conciliazione tra la Politik als Beruf e la Wissenschaft als Beruf costituì un dilemma di non facile soluzione, ci pare di poter dire che, sottoposto ad un assillo analogo, il sociologo italiano sia riuscito infine a trovare un modus vivendi et operandi 228. Questo, almeno, è ciò che si può affermare per gli ultimi vent’anni della vita di Pellizzi. Il ristabilirsi dei rapporti – interrottisi nel luglio del 1943 – con il «Corriere della Sera» favorisce ulteriormente il sociologo italiano in questa sua personale ricerca di una conciliazione tra scienza e politica. Contattato nel febbraio del 1965, l’allora direttore del quotidiano di via Solferino, Alfio Russo, si dice ben lieto di accettare la proposta di collaborazione dell’ormai illustre sociologo229. Inizia così un’intensa collaborazione che si protrarrà fino al 1972 e che gli consentirà, fra l’altro, di vincere nel 1966 il Premio giornalistico internazionale «Rustichello da Pisa» proprio con un articolo pubblicato sul «Corriere»230. 227 Per un resoconto coevo, cfr. Cronologia del movimento studentesco, in «Tempi Moderni», a. XI, estate 1968, pp. 77-84. Per una panoramica internazionale sul fenomeno della contestazione giovanile, cfr. P. ORTOLEVA, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 19982. 228 Per una ricostruzione della «biografia dell’opera» weberiana, si veda W. HENNIS, Il problema Max Weber (1987), trad. it. di E. Grillo, prefazione di F. Ferrarotti, Laterza Roma-Bari 1991. 229 Cfr. A. Russo a C.P., 9 e 25 marzo 1965, in ACP, b. 42, f. 70. Per notizie su Alfio Russo nel periodo della direzione del «Corriere», si veda G. LICATA, Storia del Corriere della Sera, prefazione di Giuseppe Are, Rizzoli, Milano 1976, pp. 459-468, 630. Nello stesso anno Pellizzi riceve l’invito a collaborare al quotidiano romano «Il Tempo», su cui già in passato aveva pubblicato numerosi articoli. Cfr. Renato Angiolillo (direttore del «Il Tempo») a C.P., 26 febbraio 1965, in ACP, b. 42, f. 70. 230 Cfr. Vittorio Galluzzi (Presidente della Giuria del Premio) a C.P., 14 marzo 1966, in ACP, b. 42, f. 71. L’articolo premiato è «La zampa del merlo», pubblicato sul «Corriere della Sera» il 25 ottobre 1965.

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Il contenuto di alcuni articoli pubblicati per il quotidiano milanese spiega meglio di qualsiasi altro documento i motivi per i quali Pellizzi desideri così tanto proporsi anche come giornalista sulle colonne di una testata a larghissima diffusione, al di là dell’aspetto economico e del prestigio che vi sono connessi. Egli ritiene fondamentale contribuire a formare un’opinione pubblica che in Italia manca, e ne è eloquente e disarmante dimostrazione la vischiosità del comportamento dell’elettorato. Il «corpo elettorale italiano» (se sia lecito usare questa immagine) è fatto di pezzi diversi, e ognuno di essi è duro e rigido, come una mummia: passano i decenni e le elezioni, e ogni «pezzo» continua a votare sempre nello stesso modo, nelle stesse identiche proporzioni sul totale. [...] Questi risultati, perciò, non esprimono di volta in volta un’opinione, non dicono come il Paese è frammentario, e che ogni frammento, verticale o orizzontale che sia, si preoccupa unicamente di mantenere la propria chiusa compattezza, contro tutti gli altri. Contro i danni e i malanni collettivi non vota nessuno [...]231.

Pellizzi mostra ormai di avere assorbito interamente la lezione inglese, poiché quello che afferma è di fatto espressione di un liberalismo che sottolinea il ruolo imprescindibile esercitato da una società civile e da un’opinione pubblica quali maturi pilastri di una democrazia moderna. Il ruolo dell’intellettuale dovrebbe essere quello di innescare il dibattito, ampio e approfondito, dal momento che «la mancanza, in Italia, è causa ed effetto insieme, in un circolo vizioso e ferreo, della mancanza di discussione»232. Perché si possa dire che esiste un’opinione politica mi pare che siano necessarie almeno due cose: prima di tutto questa opinione deve essere «plastica», cioè capace di corrispondere al mutare continuo delle circostanze e delle necessità; e in secondo luogo deve essere «imperativa», ossia ferma nel volere quello che vuole, e oso dire spietata nel condannare ciò che, a suo sentimento, oltrepassa i limiti della tollerabilità. [...] La cultura media degli italiani è forse arrivata a capire che non c’è libertà se non ci sono le opinioni. Si attende che arrivi a capire la totale irrilevanza delle opinioni se, di volta in volta, esse non diventano la opinione: diciamo così, il consuntivo e il preventivo che, di fronte a ogni nuovo problema della storia, precisa il sentimento della comunità e ne indirizza il cammino233.

Che la matrice e la fonte di ispirazione di queste considerazioni 231

C. PELLIZZI, Spuntature, in «Corriere della Sera», 22 luglio 1966. I corsivi sono nel

testo. 232 233

Ibidem. Ibidem. I corsivi sono nel testo.

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politiche siano l’Inghilterra e la sua cultura civica ce lo dice lo stesso sociologo italiano nel resoconto di un suo viaggio compiuto oltremanica nel settembre del 1966. Reduce dal convegno di Nottingham, in cui si è parlato dell’esperimento agrario di Borgo a Mozzano, Pellizzi constata la capacità della società inglese di conciliare innovazione e tradizione, e ciò grazie alla presenza di solide istituzioni sociali e di costume ancor prima che politiche ed amministrative. La Londra del 1966 sfata i più triti luoghi comuni sugli inglesi, i quali non hanno perso alcuni tratti peculiari del loro carattere nazionale ma hanno saputo senz’altro aprirsi alle novità di cui le nuove generazioni sono portatrici. È, insomma, in atto una «rivoluzione incruenta», la sola modalità di trasformazione sociale che l’isola conosca da ormai tre secoli234. E ciò è dovuto a quella che Pellizzi chiama una «energia corale», che consente alla società inglese di compiere mutazioni anche profonde senza lacerarsi e dar luogo così ad un eccesso di conflittualità interna. Solo in questo modo si rende possibile uno scambio proficuo tra le diverse, talvolta confliggenti, istanze espresse dalle varie generazioni che compongono il corpo sociale e dalle crescenti relazioni con il resto del mondo: un lento processo di integrazione tra le varie culture è in atto, e non consiste nel fatto che si vada formando una mescolanza confusa e ibrida; consiste invece nel fatto che ogni cultura, sulle proprie basi, si arricchisce di alcuni elementi tratti dalle altre, e con ciò acquista anche nuove possibilità di rapporti con quelle. In questo processo non si confondono tra loro, ma anzi si rafforzano, i singoli caratteri distintivi. Credo non dispiacerà a nessuno, e nemmeno ad Alberto Sordi, sentirsi dire che il fumo di Londra è in larga misura scomparso. Nella battaglia fra gli inglesi e lo smog hanno vinto gli inglesi: come a Dunkerque, con quella loro energia anarchica che riesce ad essere al tempo stesso intensamente individuale e corale, e che fino a questo momento li ha mantenuti a fior d’acqua, con un impero di più o con un impero di meno235.

Ecco così che trova nuova conferma l’origine e il riferimento storico di quel peculiare “anarchismo” che occupa ampio spazio tra le pagine di riflessione politica e politologica del Pellizzi del secondo dopoguerra. Inoltre, sulle colonne del «Corriere della Sera» egli mostra di avere definitivamente acquisito un approccio pragmatico ai problemi politici e sociali, dichiaratamente avverso all’ideologismo, tanto da affermare risoluta234 C. PELLIZZI, Ai patiti del luogo comune Londra può dare dei dispiaceri, in «Corriere della Sera», 23 settembre 1966. 235 Ibidem. I corsivi sono nel testo.

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mente che «tutte le ideologie grondano sangue umano»236. Egli distingue tra le istanze genuine presenti nelle correnti politiche del passato, e soprattutto tra quelle sorte nell’Ottocento come espressione di nuove realtà sociali ed economiche, e le degenerazioni ideologiche che queste stesse istanze hanno subito nel corso del Novecento. I sentimenti e gli interessi connessi ai valori della nazione, della libertà e della solidarietà sociale sono stati tradotti in “ismi”: nazionalismo, liberalismo e socialismo. La traduzione dei valori in ideologie comporta quasi sempre l’introduzione di un elemento «avversativo», di una dimensione antagonistica che necessita di un nemico da abbattere. E se originariamente è verificabile la presenza di ostacoli, grandi o piccoli che siano, disposti lunga la strada che porta alla realizzazione di quei valori, è altrettanto accertabile che l’avversione e l’atteggiamento bellicoso proseguono oltre il dovuto, anche quando l’elemento che giustifica l’antagonismo è venuto meno. Sorgono questi «ismi» quando qualcuno si sente condizionato, dominato, maltrattato nella sua libertà, nella sua patria o nella sua vita sociale: a torto o a ragione: il fatto importante è che egli sente così. Allora, prima o poi, cominciano le botte. Qualche liberale diventa libertario, poi anarchico [...] Ci si continua ad ammazzare per l’una o per l’altra, ma in realtà tutte e tre queste ideologie hanno già vinto, in linea di principio e nei loro valori essenziali. Senza le patrie, e tutto ciò che ad esse si ricollega, il mondo moderno sarebbe un caos irremeabile nel giro di tre ore; senza qualche «libertà», oggi, non si riesce a condurre nemmeno una prigione, per non dire un’industria o un ufficio; e senza un’adeguata «integrazione sociale» nessuno di noi potrebbe ragionevolmente formularsi un programma di vita nemmeno per la prossima settimana237.

Si precisa così la natura del pensiero politico pellizziano, che sulle colonne del «Corriere della Sera» appare meno velato dall’intento polemico maggiormente presente negli articoli scritti per «il Borghese» e «Il Giornale d’Italia». Scrive infatti sul quotidiano di via Solferino nel luglio del 1966: Non è possibile non essere «socialisti», oggi, un po’ come Benedetto Croce diceva che non è possibile non essere cristiani. Ma essere socialisti non basta, non tocca il problema vivo. Il socialismo è nato quando ancora eravamo nella «civiltà della penuria», e ne conserva i rancori e i fraintendimenti: dove la sua vittoria è stata formale e appariscente, esso dà l’impressione (inesatta, del resto) di tornare indietro: esso ha invece stravinto, come prevedeva Marx, proprio nei Paesi del 236 ID., Spuntature, cit. 237 Ibidem. I corsivi sono

nel testo.

400

più avanzato «capitalismo». Ha vinto ma non lo sa: le stesse ragioni, di sclerosi ideologica, che gli impediscono di capire la sua vittoria, gli impediscono anche di capire i nuovi problemi238.

Il confronto di Pellizzi con la democrazia, iniziato con un lento e talora contraddittorio processo di ripensamento sin dal crollo del fascismo, si fa oramai diretto ed esplicito. Egli non abbandona un approccio critico che gli ricorda i rischi di demagogia e omologazione nonché i problemi di efficienza ed efficacia decisionale propri della democrazia, gli stessi che facevano dire al premier laburista Clement Attlee: «Democrazia significa governo basato sulla discussione, ma funziona soltanto se riesce a fare in modo che la gente smetta di discutere». Pellizzi ritiene in ogni caso la democrazia «la sola soluzione “buona” del problema politico», come scrive in un articolo pubblicato sul «Corriere» l’ultimo giorno dell’anno 1967: «The man in the street» è una formula inglese, nata non so come o quando. È l’uomo visto in serie: ed è naturale che il concetto sia sorto nel paese che ha lanciato l’industria moderna. È un uomo qualunque preso a caso tra coloro che in questo momento passano sotto le nostre finestre. Si suppone che egli non capisca il linguaggio degli specialisti, degli uomini ufficialmente colti, degli intellettuali d’alto rango ossia «teste d’uovo» [...]. Insomma, è un personaggio mitico, però molto importante in democrazia, se e in quanto si possa dimostrare che questa cosa o quest’altra l’uomo della strada la sa, la capisce, la pensa, la vuole, la fa, e quest’altra invece non la capisce, non la vuole, eccetera. Va da sé che tutti siamo «della strada» per tutte le cose che ciascuno sa male o non sa affatto, fa o non fa e via dicendo.

E prosegue, precisando che qui è tutto il busillis del culto della Democrazia, che si esprime in tante parole e così pochi fatti. Perché ognuno essendo «stradaiolo» per un così gran numero di problemi, o si lascia che di ciascuna cosa decidano i pochi o l’unico che ne sanno qualcosa, e allora siamo alla oligarchia o monocrazia; oppure vogliamo che tutti intervengano o sentenzino, e allora è facile non concludere nulla o concluder male, perché mancherà il tempo di sentir tutti e quei tutti non saranno d’accordo fra loro, oppure lo saranno nel senso di una soluzione difettosa. La democrazia rimane comunque la sola soluzione «buona» del problema politico, ed è un peccato che non la si realizzi mai239.

Nel 1968 alla direzione del «Corriere» subentra Giovanni Spadolini, 238 239

Ibidem. C. PELLIZZI, A chi serve la strada, in «Corriere della Sera», 31 dicembre 1967.

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che manterrà quella carica fino al 1972240. Pellizzi intensifica la sua collaborazione e gli eventi che sconvolgono la società occidentale, in primis quella italiana, diventano ancora più di prima occasione per ribadire la necessità di dotarsi di un pensiero che sappia descrivere senza infingimenti le condizioni effettive in cui governanti e governati pensano ed agiscono. Pellizzi vuole demistificare, mettere a nudo le incongruenze di movimenti che, in molti casi, esprimono giuste esigenze di ribellione con linguaggi propri di realtà ormai scomparse e con obiettivi di conseguenza sbagliati. Per non parlare di metodi addirittura controproducenti, come la guerriglia urbana che spesso segue le dimostrazioni di piazza. Già nel 1966, in un breve saggio pubblicato nella «Biblioteca della Libertà», rivista della Fondazione Einaudi, il sociologo italiano ha voluto sottolineare il ritardo dell’élite intellettuale italiana. Nata e cresciuta nell’epoca in cui prevaleva una «civiltà della penuria», in cui le masse erano povere e incolte e perciò facili da sedurre e guidare anche per i fini più nobili di emancipazione e sviluppo, l’intelligencija italiana (ed europea, in genere) è convinta che «la civiltà di abbondanza è un male»241. Tra i motivi non dichiarati ma realmente operanti nella coscienza di queste categorie e gruppi sociali, radunabili sotto l’espressione intelligencija, gioca un ruolo pure l’invidia di quel qualcosa in più, non necessariamente molto in più, che può far accorciare le distanze sociali o ridurre il prestigio e l’influenza acquisite in epoche precedenti242. La tanto malfamata «industria culturale», che per Pellizzi è una delle manifestazioni della «civiltà dell’abbondanza», sta progressivamente erodendo i privilegi dei pochi che sapevano, dal momento che l’informazione e anche la cultura più qualificata cominciano a circolare ben oltre quel «giro di persone ristretto e abbastanza rigido» in cui è rimasta chiusa «fino a ieri almeno»243. Siamo evidentemente agli antipodi di un certo snobismo intellettuale e di un antimodernismo propri, ad esempio, di quegli autori della cosiddetta Scuola di Francoforte che tanto seguito hanno nei movimenti giovanili di Cfr. G. LICATA, Storia del Corriere della Sera, cit., pp. 469-486, 635. C. PELLIZZI, La società dell’abbondanza, in «Biblioteca della Libertà», a. III, n. 5, novembre-dicembre 1966, p. 24. 242 «Né si deve trascurare uno degli aspetti più miserevoli del cuore umano, per cui troppe volte ci dispiace, senza nemmeno confessarlo a noi stessi, vedere accorciarsi le distanze fra noi e coloro che stavano peggio di noi: anche se ciò comporti solo un miglioramento della situazione loro, e non un peggioramento della nostra» (ivi, p. 25). 243 Ivi, p. 23. 240 241

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contestazione degli anni Sessanta, a partire da Herbert Marcuse244. Rispetto ai filosofi “francofortesi” Pellizzi non legge i fenomeni di massa come esito potenzialmente, se non effettivamente, totalitario della società industriale avanzata. Semmai addita l’élite intellettuale in quanto responsabile di spregiare fenomeni che, pur tra molte contraddizioni e non senza rischi per i livelli di qualità di certe prestazioni individuali e collettive, rappresentano la vera essenza di quella democrazia che a parole si intende difendere e promuovere in ogni sede. In parte, questa élite non capisce la sostanziale ineludibilità del nesso tra democratizzazione e massificazione, in parte, non la vuole capire perché la rifiuta in quanto minaccia al proprio status sociale, economico e politico da tempo consolidato. È un male per le signore, che non trovano più il servizio domestico; per gli agrari, perché i contadini scappano; per gli imprenditori, perché il costo della mano d’opera cresce; per i religiosi pre-conciliari, perché «il mondo» acquista maggior fascino sulle anime; per i marxisti, perché Marx non aveva previsto questi sviluppi, i quali tuttavia debbono essere presi in considerazione da qualunque marxista voglia essere rispettoso del nocciolo della dottrina del Maestro; e in genere per tutti coloro – e costituiscono una larga parte della classe dirigente italiana – che hanno conquistato posizioni di relativo vantaggio nella società di penuria, e temono, più o meno ragionevolmente, di perderle nella società di abbondanza245.

Il problema sta quindi in una complessità crescente, che per essere gestita richiede una guida politica che sappia cogliere le diverse competenze espresse dalla società e sappia quindi riunirle e coordinarle ai fini dell’interesse pubblico. Il primo ostacolo da superare, come si può facilmente intuire, è però di tipo culturale, dal momento che «tutta la cultura che noi abbiamo ricevuta e assimilata fino a ier l’altro, dalla culla all’università ben compresa, nella famiglia, nella Chiesa, nella scuola, nelle forze armate, nel cinema e TV, ecc., è stata intrisa di “abito pauperistico”»246. 244 Cfr. H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione (1964), trad. it di L. Gallino e T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 1966 e ID., Eros e civiltà (1955; 19662), trad. it. di L. Bassi e introduzione di G. Jervis, Einaudi, Torino 1964 (19684). Sull’espressione «industria culturale», intesa in un’accezione fortemente negativa, si veda il celebre volume di M. HORKHEIMER, T. W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo (1947), trad. it. di L. Vinci, Einaudi, Torino 1966. Per un’analisi critica dell’atteggiamento degli autori della Scuola di Francoforte con la modernità tecnica e la società di massa, cfr. M. NACCI, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, presentazione di Gianni Vattimo, Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 152153; 228-259 e passim. 245 C. PELLIZZI, La società dell’abbondanza, cit., pp. 24-25. Il corsivo è nel testo. 246 Ivi, p. 24.

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È per questo motivo che La minoranza più colta grida e torce la bocca: mentalmente se non anche materialmente, nella cultura acquisita (nata in larga misura su presupposti di regimi pauperistici) se non anche nei patrimoni ereditati essa è una minoranza privilegiata; i suoi gusti e i suoi giudizi parlano il linguaggio (per lo più inconscio) del privilegio in regime di penuria diffusa. Di questa minoranza si può fare una tipologia distinguendola in tre tipi: quelli che tirano a campare meglio che possono, e raramente fanno sentire la propria voce; quelli che gridano contro l’abominio dei «tempi nuovi», contro la «democrazia» e il «livellamento in basso» che ne deriva, la morte delle «nobili tradizioni» ecc.; quelli, infine, che identificano l’abbondanza con la «società borghese», e sparano a zero contro di essa247.

L’analisi che Pellizzi svolge è dettagliata ed è tale da effettuare addirittura, secondo il costume sociologico, alcune classificazioni e tipologie che intendono porre ordine nel caotico svolgimento dell’agire sociale e smascherarne, se possibile, le reali motivazioni. Anche in questo si riscontra un’assonanza con Weber e la sua “sociologia comprendente” (Verstehende Soziologie). Per Pellizzi si tratta della definitiva acquisizione di una serie di idee comparse per la prima volta nei primi anni Quaranta, quando ancora infuriava la guerra mondiale e il contesto bellico svelava l’emersione di nuove istanze e nuove configurazioni sociali, economiche e culturali248. È in quel periodo che egli comincia ad avvicinarsi alla sociologia, alle sue problematiche metodologiche e ancor prima all’idea che la realtà sociale ha una sua autonomia e una sua forza autopropulsiva con cui l’intellettuale deve fare i conti. Come scriverà un ventina di anni più tardi, mettendo a fuoco in termini definitivi il suo pensiero in materia, che lo si chiami “progresso” o in altro modo, il moto della storia procede inesorabile. Se non si vuole esserne travolti, occorre trovare il modo per cavalcarlo al fine di indirizzarlo ai fini di un benessere più solido e diffuso. Ci si può «mettere in disparte» nei confronti di quel moto complessivo e confuso della storia, che taluno chiama «progresso», ma esponendosi al molto probabile rischio che il «progresso», nel suo cammino, ci venga a camminare addosso. Si può non intensificare la nostra produzione, ma in questo caso, prima o poi, dovremo comprare prodotti altrui con sacrifici più alti; si può non intensificare i propri sviluppi tecnici, ed applicativi, ma allora dovremo, come accade ogIvi, p. 27. I corsivi sono miei. Si vedano gli abbozzi di capitoli di un libro sulla “società di massa”, progettato e mai pubblicato, rimasti inediti fino ad oggi in D. BRESCHI, G. LONGO (a cura di), «La società di massa» di Camillo Pellizzi, cit. 247 248

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gi all’Italia, acquistare a caro prezzo i brevetti delle applicazioni straniere; si può lesinare sulle spese per le scuole e per la ricerca scientifica, ma in tal modo rimarremo sempre più arretrati rispetto agli altri Paesi, in tutti gli ordini e a tutti i livelli delle attività superiori e qualificate, e il più degli italiani dovranno continuare a guadagnarsi un misero pane con lavori duri e servili249.

Con questi presupposti di metodo e con questi convincimenti ideali, Pellizzi si pone di fronte alla contestazione studentesca che agita la vita sociale e politica dell’Italia a partire soprattutto dal 1968. La sua posizione non è di rigetto integrale e pregiudiziale di quel che i giovani studenti esprimono nelle aule di università e nelle piazze di mezza Italia. Semmai quel che lo preoccupa è la deviazione verso obiettivi fasulli e immaginari dell’energia e della carica innovatrice che alberga negli animi di molti di quei giovani da parte delle vecchie classi dirigenti, partitiche e sindacali. Il rischio è quello di far passare come espressione di una sorpassata «società della penuria» ciò che erompe da un’emergente «società dell’abbondanza». Il socialismo, pertanto, non c’entra niente con il disagio giovanile e le concrete richieste di un sistema scolastico e formativo all’altezza dei nuovi tempi, caratterizzati semmai dalla crescente richiesta di ampie e diffuse forme di autogoverno. Una delle condizioni necessarie, sebbene non sufficienti, perché si abbia una «rivoluzione socialista» del tipo marxiano è che la società viva in una economia di penuria, ossia che la maggior parte della gente possa soddisfare i propri elementari bisogni solo con molta difficoltà. Ora, per difetto di cultura e di fantasia molte persone, e non pochi studenti fra queste, volendo comunque una «rivoluzione», sanno volere soltanto quella che c’è già stata e che, per le mutate circostanze, non può esserci più. Non sanno pensare una rivoluzione fatta sulla realtà del mondo che si tratta di rivoluzionare. Perciò insorgono aspramente contro la «civiltà dei consumi» perché essa riduce sostanzialmente l’incidenza della penuria, e con ciò guasta il gioco a coloro che vorrebbero fare, nel 1969 e in Occidente, qualcosa di simile a ciò che si fece in Francia nel 1789 o in Russia nel 1917. [...] La «civiltà dei consumi» ha le sue grosse magagne, ma sovvertirla e invertirne il corso vorrebbe dire ricondurre alla fame e alla soggezione la grande massa della modesta gente dabbene. [...] Vorrebbe dire la falcidia di quel tanto di «libertà» che nasce, per ognuno di noi, dal sapere che un pezzo di pane, peggio che vada, potremo guadagnarcelo sempre250. 249 C. PELLIZZI, “Conoscersi”: l’esigenza di una lucidità condivisa, in «Rivista Shell Italiana», a. XVI, n. 6, 1965, p. 12. 250 C. PELLIZZI, Sassolini nell’Oceano, in «Corriere della Sera», 28 dicembre 1968.

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Libertà e benessere sono quindi inevitabilmente connessi tra loro, e negare questa relazione porta i presunti “rivoluzionari” a fare «esattamente quello di cui sono sempre stati accusati i “reazionari”, e cioè riportare o mantenere il popolo in una condizione di miseria, di servitù e di ignoranza»251. Scrive ancora Pellizzi, rimarcando il ruolo negativo svolto dalle vecchie generazioni che sistematicamente si ergono a maestri e istigatori delle azioni dei giovani: Le vecchie generazioni hanno insegnato ai giovani concetti e parole errati per indicare i fatti e i principi fondamentali del vivere associato. Hanno detto che lo Stato, la legge, le istituzioni, l’economia, le gerarchie, sono le cose che fondano e costituiscono il Sistema: e i giovani, che sono insoddisfatti del sistema, partono in guerra contro questi mulini a vento. La lotta è disordinata e confusa, e ne soffrono valori spesso molto importanti252.

I giovani, dal canto loro, sono le prime vittime di classi dirigenti inette o in malafede, in ogni caso tali da non fornire aiuto alcuno per una comprensione equilibrata della transizione, non ancora terminata ma sicuramente in atto, verso un’inedita «civiltà dei consumi». Tutti gli scompensi tra il costume vecchio e la realtà nuova li urtano spesso nel vivo e li offendono, anche quando non saprebbero dire perché (ma c’è sempre a tiro un qualche vecchio mal vissuto che fornisce loro un «perché» superato almeno da cento anni, falso dalle origini o diventato falso con l’età); oppure sentono solo il vuoto di quei valori, cui gli istituti senescenti o perenti non soddisfanno più. E allora sono fatali, direi quasi che sono necessari, il tumulto e la contestazione. E non sono la malattia: ne sono i sintomi253.

È un peccato che questo accada, e tutto si traduca in una protesta convulsa e miope, perché «è latente fra gli studenti la maturazione di una vera e propria élite rappresentativa della loro generazione»254. Cos’è che impedisce che tale “latenza” si manifesti appieno? Ostano a tale processo gli interessi degli agenti dei partiti e degli agitatori ormai più o meno professionalizzati. Questi tendono all’oligarchia, quindi temono l’affermarsi di una autentica «aristocrazia»; e hanno buon gioco per quel tanto che sussiste nell’animo di ogni italiano, ben compresi i giovani, quel tristo sedimento lasciatoci da due millenni di storia; quella mistura di barone arrogante e Ibidem. Ibidem. 253 Ibidem. 254 Ibidem. 251 252

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di servo infedele, che talvolta riesce a presentare le due facce opposte nello stesso momento e nella stessa persona. E hanno buon gioco perché anche fra gli studenti è molto nutrito il «parco buoi», la massa passiva che non sa o non vuole alzare la testa contro le speculazioni dei più aggressivi e dei meno sinceri. Ma è anche vero che la scuola italiana li ha scoraggiati sempre, prima durante e dopo il fascismo, dal coraggioso e aperto dibattito dei problemi attuali e comuni255.

La posizione assunta da Pellizzi nei confronti del movimento studentesco conferma, quindi, la natura sostanzialmente “moderata” e “riformista” del suo pensiero politico. Se nei contenuti dei suoi articoli non mancano la critica e persino la denuncia dura e recisa, nelle forma egli non abbandona mai i toni pacati e l’argomentazione fondata su criteri di ragionevolezza ed equanimità. L’ideologia non gioca alcun ruolo in queste riflessioni e non risulta incidere in alcun modo sui suoi giudizi politici la sporadica collaborazione di quegli anni – limitata, in sostanza, a qualche articolo – con alcune iniziative editoriali di quella destra culturale che si muove nei paraggi del Msi, talvolta su posizioni di parziale dissenso talaltra di sostegno alla linea almirantiana della Destra Nazionale256. Le pagine che abbiamo riportato e commentato costituiscono una lunga e insistita denuncia di una cronica assenza di leadership nell’accezione più ampia del termine. Quel che manca all’Italia sono élites dirigenti sia nella sfera politica che in quella culturale aperte e ricettive, sia pur criticamente, alle conseguenze della modernizzazione e di quella che oggi chiameremmo “globalizzazione”, ossia un’interazione economica e culturale crescente fra le diverse società del pianeta. Il processo è già in atto alla fine degli anni Sessanta e Pellizzi ne coglie le prime espressioni, soprattut255 Ibidem. 256 Sui primi anni della seconda segreteria di Almirante e sul progetto della Destra nazionale, cfr. P. IGNAZI, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, cit., pp. 135165; G. S. ROSSI, Alternativa e doppiopetto. Il Msi dalla contestazione alla destra nazionale (1968-73), ISC, Roma 1992. Ignazi segnala la partecipazione di Pellizzi, tra altri «prestigiosi esponenti dell’intellighenzia europea non riconducibili alla destra nostalgica» (Sergio Ricossa, Ernst Topitsch, Ronald Hartwell), al secondo Convegno dell’Associazione Internazionale per la Cultura Occidentale (AICO), organismo di cui è presidente Armando Plebe, svoltosi a Nizza dal 27 al 29 novembre 1974 e dedicato al tema «Conoscenza per la libertà» (ivi, p. 153, nota 44). Il Convegno di Nizza rappresenta, scrive sempre Ignazi, «il punto più alto dello sforzo di inserimento degli intellettuali della destra missina in un contesto più largo, comprendente anche esponenti lontani da posizioni di destra radicale e nostalgica» (ivi, p. 153). Viceversa, Marco Tarchi scrive che i convegni organizzati da Plebe tramite l’AICO «rimangono fini a se stessi, nonostante vi partecipino anche prestigiosi intellettuali stranieri» (M. TARCHI, Cinquant’anni di nostalgia, cit., p. 100).

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to per quel che riguarda l’Occidente industrialmente sviluppato, ma è già conscio dell’impatto che su tale parte del globo possono avere le scelte o le omissioni politiche del cosiddetto Terzo mondo. Testimonianza dell’acquisizione di una simile consapevolezza sono numerosi editoriali scritti negli anni Settanta per la sua «Rassegna». Sono fra le ultime cose pubblicate in vita da Pellizzi. Diciamo subito che appare evidente, anche perché esplicitamente dichiarata, l’influenza che negli ultimi anni esercita su di lui la lettura delle opere di Konrad Lorenz. Nel novembre del 1969, ancora sulle colonne del «Corriere della Sera», egli recensisce infatti uno dei libri più noti dell’etologo austriaco, che era stato da poco tradotto in italiano con l’accattivante titolo Il cosiddetto male257. Si tratta, come recita il sottotitolo, di uno studio sul comportamento aggressivo negli animali e nell’uomo che attira l’attenzione del sociologo italiano poiché in esso «lo studioso racconta quello che ha visto e non ci fa sopra della filosofia»258. Dal commento che Pellizzi fa al libro di Lorenz si avverte il presupposto di buona parte delle considerazioni sociologiche, ma preliminarmente antropologiche, svolte per circa vent’anni intorno ai concetti di «rito» e «mito»: l’evoluzionismo259. Quel che pare accomunare Pellizzi a Lorenz è il ruolo attribuito al «costume» sociale, ossia al bagaglio culturale che organizza e consolida nel tempo una qualsivoglia comunità umana, piccola o grande che sia, e alla sua origine che lo studioso italiano non esita ad attribuire al processo di selezione naturale. Dal canto suo, in numerose pagine del libro l’etologo austriaco riconosce l’importanza dei processi di ritualizzazione culturale che accompagnano i valori primigeni e fondativi di una comunità, sorti innanzitutto a livello di emozioni e stati d’animo profondamente sentiti. Le norme di comportamento sociale si 257 K. LORENZ, Il cosiddetto male. Per una storia naturale dell’aggressione (1963), trad. it. di E. Bolla, introduzione di G. Celli, il Saggiatore, Milano 1969 (poi ripubblicato con il titolo L’aggressività, da Mondadori, Milano 1990, che è l’edizione da cui citiamo). 258 C. PELLIZZI, Uomini e lupi, in «Corriere della Sera», 4 novembre 1969. L’articolo attira l’attenzione di Prezzolini, il quale, al di là di una piccola obiezione, non esita a definire «eccellente» quanto scritto da Pellizzi. Cfr. G. Prezzolini a C.P., 4 novembre 1969, in ACP, b. 43, f. 74. 259 Non ci sembra casuale il frequente richiamo da parte del cattolico Pellizzi a Pierre Teilhard de Chardin, filosofo gesuita che ha cercato di conciliare la fede cristiana con la teoria evoluzionistica (riletta in termini non materialistici e meccanicistici, bensì spiritualistici). Cfr. G. VIGORELLI, Il gesuita proibito. Vita e opere di Teilhard de Chardin, il Saggiatore, Milano 1963; S. QUINZIO, Che cosa ha veramente detto Teilhard de Chardin, Ubaldini, Roma 1967; A. GOSZTONYI, Teilhard de Chardin. Cristianesimo ed evoluzione, Sansoni, Firenze 1970.

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sviluppano poi con il precipuo obiettivo di preservare il gruppo dal pericolo che l’aggressività latente (in ogni specie animale, uomo compreso) esploda all’interno di esso e si trasformi così in potenziale autodistruttivo260. Le considerazioni più importanti che Pellizzi ritiene di poter trarre dalla lettura del libro di Lorenz sono due: la prima è che in tutti gli animali esiste un profondo spirito di aggressione, latente o palese, e l’uomo non fa eccezione alla regola. La seconda è che vi sono istinti o impulsi acquisiti, dagli individui ma soprattutto dai gruppi biologici, che si tramandano per eredità e anche per educazione, e che modificano, condizionano, talvolta praticamente annullano l’aggressività. Tali istinti, o come altrimenti si chiamino, spesso agiscono molto più nel profondo di qualunque consapevolezza, umana o animale, e si può fare un grande assegnamento sulla loro efficacia, per il bene e per il male, anche nel caso dell’uomo. Caino, oggidì, non ha più soltanto la mazza: ha il possibile accesso alla stanza dei bottoni “nucleari”. [...] L’unica salvezza certa potrebbe essere data da un’etichetta istintiva acquisita, come quella del lupo che non porta mai fino alla morte del nemico il duello col suo simile. Ma “in natura” un istinto simile si acquista solo attraverso centinaia di generazioni. Ammiro per molte ragioni la specie vivente cui ho l’onore di appartenere, ma non posso dire che essa mi ispiri una cieca fiducia.

Il tono della considerazione conclusiva è più cupo di quello che emerge dalle pagine dell’etologo austriaco, e che semmai anticipa quanto quest’ultimo scriverà qualche anno dopo, nel libretto uscito in lingua tedesca nel 1973 e l’anno dopo in italiano con l’eloquente titolo Gli otto peccati capitali della nostra civiltà261. Pellizzi non tarda a rendere conto dell’uscita del nuovo volume di Lorenz, insignito proprio nel 1973 del premio Nobel per la fisiologia e la medicina. Stavolta la tribuna da cui divulga le tesi dell’illustre etologo è la «Rassegna Italiana di Sociologia»262. Molti dei “peccati” denunciati dal premio Nobel austriaco sono già da qualche anno oggetto di una preoccupata riflessione da parte del sociologo italiano, in particolare il sovrappopolamento del pianeta (le cui risorse sono sfrut260 Scrive Lorenz: «le norme del comportamento sociale che si sono sviluppate tramite ritualizzazione culturale svolgono un ruolo perlomeno altrettanto importante nel contesto della società umana quanto la motivazione istintiva e il controllo esercitato dalla morale responsabile» (L’aggressività, cit., p. 331). 261 K. LORENZ, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (1973), trad. it di L. Biocca Marghieri e L. Fazio Lindner, Adelphi, Milano 1974 (199421). 262 C. PELLIZZI, I quattro capponi di Renzo, in RIS, a. XVI, n. 2, aprile-giugno 1975, pp. 179-183.

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tate come se fossero inesauribili) e la minaccia atomica263. Quel che più angoscia Pellizzi è la «folle corsa alla degradazione ecologica del nostro mondo»264 causata dal prevalere in Occidente di «un diffuso atteggiamento tecnicistico, di cui tutti risentiamo anche senza avvedercene» e che «consiste in un implicito asservimento alla logica del mezzo, accompagnato dalla trascuratezza del fine, che spesso è addirittura ignorato»265. È dunque necessario che la parte tecnologicamente e materialmente progredita del mondo passi da una «civiltà dello sviluppo, con tutti i suoi miti, entusiasmi ed illusioni» ad una «civiltà della moderazione»266. Questo modello di società sobria è l’unica via praticabile dall’Occidente per garantire la sopravvivenza della specie umana. Un obiettivo del genere, scrive Pellizzi, costituisce «la sola utopia che si possa oggi razionalmente intrattenere»267, come a dire che se c’è un principio che deve guidare la politica mondiale del futuro questo è il principio della responsabilità ecologica. Nonostante la reiterata e allarmata denuncia dell’«avvicinarsi [...] del redde rationem ecologico, ossia della bancarotta della gestione umana della Terra»268, l’anziano sociologo non intende vestire né i panni di Cassandra né quelli dei laudatores temporis acti. Al pari di Lorenz, egli ritiene che «un fatalismo pessimistico sarebbe comprensibile, ma non giustificato»269 dal momento che l’uomo può, se vuole, invertire la tendenza, per quanto travolgente essa sia. Proprio a chiusura dell’editoriale della «Rassegna» in cui esamina il libro dell’etologo austriaco, Pellizzi dichiara quale sia il suo 263 Per Lorenz gli «otto peccati capitali» sono: la sovrappopolazione della terra, la devastazione dello spazio vitale naturale, l’incessante e miope competizione fra gli uomini, l’infiacchimento emotivo e spirituale connesso al progresso tecnologico e farmacologico, il deterioramento del patrimonio genetico, la demolizione della tradizione, la maggiore disponibilità degli uomini all’indottrinamento, gli armamenti atomici (cfr. Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, cit., pp. 139-141 e passim). Vedi anche C. PELLIZZI, I quattro capponi di Renzo, cit., p. 180. 264 ID., Ipotesi di lavoro, in RIS, a. XII, n. 3, luglio-settembre 1971, p. 388. 265 ID., Sintropia e programma, in RIS, a. XI, n. 4, ottobre-dicembre 1970, p. 514. I corsivi sono nel testo. «Sintropia» è termine esplicitamente ripreso dal matematico Luigi Fantappiè (1901-1956), il quale affiancava all’entropia della termodinamica una forza sintropica di «integrazione e organizzazione» (ivi, p. 522). Pellizzi cita in nota il volume di Fantappiè, Principi di una teoria unitaria del mondo fisico e biologico, Humanitas Nova, Roma 1944. Si veda anche la voce Fantappiè, Luigi in La piccola Treccani. Dizionario enciclopedico, vol. IV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1995, p. 516. 266 ID., Ipotesi di lavoro, cit., p. 389. I corsivi sono nel testo. 267 ID., Sintropia e programma, cit., p. 515. 268 ID., I quattro capponi di Renzo, cit., p. 182. 269 ID., Sintropia e programma, cit., p. 515.

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principale timore: «non è che l’uomo non possa (con uno sforzo sostenuto, universale e cosciente) tener testa alla catastrofe che incombe; il nostro fondato timore è che non voglia farlo»270. La critica degli eccessi e dell’«autolesionismo organizzatissimo e largamente inconsapevole di cui soffre l’“homo technicus”»271 non si traduce mai nella negazione dell’homo faber, poiché è proprio sulla volontà dell’uomo di dare nuovi e diversi orientamenti al corso della storia che Pellizzi fa affidamento. La sobrietà e la misura cui egli si richiama dovrebbero costituire i presupposti condivisi per un diverso abito mentale e pratico, che da «etichetta» sappia trasformarsi in «ethos»272. Perché questo processo trasformativo si inneschi occorre prendere atto che il punto di partenza, e l’unico di appoggio per l’uomo, è senz’altro la conoscenza, tramite la quale si possono comprendere quali limiti, naturali ancor prima che morali, vengono quotidianamente violati. La conoscenza può inoltre attutire quello scontro fra le diverse nazioni, facilitando al contrario un «dialogo culturale» che diventa «ogni giorno più delicato e pericoloso, perché la frequenza e la facilità dei contatti accrescono le cause e le occasioni di malinteso e di attrito»273. Conscio della dimensione globale che molte delle minacce al pianeta hanno oramai assunto in «questo mondo “più affollato e più stretto”, in cui oggi viviamo»274, Pellizzi prende atto che solo forme di collaborazione internazionale, durature e solidali, possono produrre effetti che incidano in tempi brevi e in profondità275. Ad esempio, a proposito del pericolo nucleare appare ormai evidente a tutti l’urgenza di «arrivare ad un sistema di controllo internazionale che impedisca la fabbricazione e il possesso di armi atomiche o altre di analoga o maggiore potenza»276. Altri autori e libri con cui Pellizzi si confronta in questi anni sono chiaro indice della ormai prevalente preoccupazione ecologica: basti citare 270 ID., 271 ID.,

I capponi di Renzo, cit., p. 183. I corsivi sono nel testo. Sintropia e programma, cit., p. 516. Il corsivo è nel testo. 272 «Questo è un buon avvio, perché l’etichetta è la via umana che può condurre al concretarsi di nuove forme dell’ethos» (ivi, p. 518. I corsivi sono nel testo). 273 C. PELLIZZI, Asterischi, in RIS, a. XIV, n. 4, ottobre-dicembre 1973, p. 533. 274 Ibidem. In altra occasione Pellizzi scrive: «Un tratto specifico del “problema umano” quale si presenta oggi, e quale non sembra essersi presentato mai fino ad ora, è quello della sua globalità» (L’istituzione uomo, in RIS, a. XVI, n. 3, luglio-settembre 1975, p. 344. Il corsivo è nel testo). 275 «Un controllo globale e responsabile della specie sopra i suoi massimi problemi, e sul comportamento dei singoli individui e gruppi nel confronto di quei problemi stessi, si presenta oggi come la sola alternativa ad una corsa collettiva, e prima o poi irrefrenabile, verso l’abisso» (ID., L’istituzione uomo, cit., p. 343. I corsivi sono nel testo). 276 Ivi, p. 345.

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Edward E. Goldsmith, direttore della rivista «The Ecologist», e il Breviario di ecologia di Alfredo Todisco277. Del primo egli riporta un pensiero che da tempo circola negli editoriali della «Rassegna», e cioè che i dissesti ecologici cui va incontro il nostro pianeta possono essere combattuti «solo in modo globale e coordinato, promovendo una specie di rivoluzione culturale, che è il vero problema del nostro tempo»278. In termini pratici di politica internazionale, Pellizzi prende atto che ormai «si tende sempre più a ragionare per continenti e non per nazioni» e che «occorre dunque, di tutta evidenza, lo sviluppo concreto e militante di un continentalismo europeo occidentale»279. Fa così la sua ricomparsa quell’ideale federalista europeo coltivato sin dai primi anni Quaranta e che ancora si presenta come sbocco istituzionale necessario: non per andare a muovere guerre impossibili alla Russia o a chicchessia, ma anche solo per difendere la propria esistenza, e il MEC, in confronto al bisogno, è ancor oggi una parodia. Chi non voglia augurarsi una nuova egemonia di tipo napoleonico in Europa (e per molte obbiettive ragioni noi non la riteniamo augurabile), non può che ripiegare sopra un programma federativo, dal quale purtroppo la realtà europea è ancora molto lontana...280.

Pellizzi manifesta negli ultimi anni di vita una qualche preoccupazione per gli effetti politici e morali che può produrre la «civiltà di massa» e il «consumismo» ad essa connesso, avvicinandosi così ad alcune tesi della teoria critica dei filosofi e sociologi della Scuola di Francoforte in passato contestati. Soprattutto, quel che teme è che il consumismo induca «le moltitudini a voler consumare sempre di più, e massime del non necessario: e la produzione del superfluo è sempre stata un’arma di tirannia in mano agli autocrati»281. La preoccupazione pellizziana non supera mai la soglia del dubbio metodico, e così non si rovescia in condanna moralistica e senza appello della società occidentale. Semmai, ciò su cui punta il dito e addossa le maggiori responsabilità delle carenze e dei rischi di involuzione politica ed economica dell’Occidente è l’assenza di leadership. In questo ambito l’Italia costituisce, forse, il caso più esemplare in senso negati277 278

Cfr. A. TODISCO, Breviario di ecologia, Rusconi, Milano 1974. Cit. in C. PELLIZZI, «La gaia catastrofe», in RIS, a. XIX, n. 1, gennaio-marzo 1978,

p. 4. 279 ID.,

«More and more about less and less», in RIS, a. a. XIV, n. 3, luglio-settembre 1973, pp. 358-359. 280 Ivi, p. 359. 281 Ivi, p. 360.

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vo. Anzitutto, osserva Pellizzi, ci si trova negli anni Settanta a fare ancora i conti con residui antichissimi di alterigia e di servilità, per cui chi è in alto si attende che la gente comune dimostri anche la sua gratitudine verso coloro che hanno la condiscendenza di stare in alto a comandare, ed è considerata grave scorrettezza, infrazione alla decenza sociale, se qualcuno dei «comuni» arrischia una qualche forma di curiosità circa le vie di accesso al potere che sono state seguite da coloro che al potere sono effettivamente giunti282.

Da questa considerazione si passa all’amara constatazione che, sotto il profilo del rapporto tra governanti e governati, nei tre regimi politici succedutisi in Italia nel Novecento le cose non sono granché cambiate. Ad avviso di Pellizzi, anche la Repubblica nata nel 1946, «per quanto riguarda la circolazione delle alte cariche e dignità pubbliche, ripete la fissità degli altri due: cambiano i governi, in media, ogni dieci o undici mesi, ma gli uomini sono in gran parte sempre gli stessi, pur seduti molte volte su diverse poltrone»283. L’ingresso del PSI nel governo ha rinnovato di circa un quinto il personale governante, ma «alcuni ministeri-chiave sono perennemente affidati a esponenti della DC, e molto spesso alle stesse persone»284. Una simile viscosità di uomini e, quindi, di idee produce una sclerotizzazione dell’apparato decisionale, ossia l’incapacità di cogliere il nuovo, sia nei suoi aspetti positivi che in quelli negativi, e di affrontarlo con risposte adeguate. In ogni caso, l’élite dirigente italiana (non solo quella politica, più facilmente riconoscibile) è così vecchia da risultare persino ingenua nelle eventuali soluzioni avanzate, incapace com’è di individuare tutte le problematiche connesse al fatto che «l’interdipendenza, e spesso la subordinazione, del paese nostro a molti altri si è fatta più stretta e imperativa»285. La sociologia ha pertanto il compito di denunciare «la immaturità dei ceti dominanti, in tutti i settori, nel confronto di certi problemi»286. Una classe dirigente siffatta provoca come conseguenza inevitabile «disaffezione pubblica» nei cittadini, anche perché «la debolezza del sistema politico italiano consiste nel fatto che il Parlamento italiano, così come l’elettorato lo esprime, non può e non vuole esercitare il potere»287. 282 ID., Le domande 283 Ivi, pp. 5-6.

indiscrete, in RIS, a. XV, n. 1, gennaio-marzo 1974, p. 5.

Ivi, p. 6. Ivi, p. 3. 286 Ivi, p. 8. Il corsivo è nel testo. 287 ID., Disamore e sfiducia, in RIS, a. XV, n. 3, luglio-settembre 1974, p. 349. 284 285

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Non manca un esercizio del potere, presente sia pure «in modo saltuario, contraddittorio e illegittimo»288. Il fatto è che tale esercizio viene assunto dai partiti, molto più spesso dalle loro correnti, oppure dai sindacati o da altri gruppi di pressione, in ogni caso da soggetti extraparlamentari espressione di interessi particolaristici e mal conciliabili con l’interesse generale. A fianco dei motivi istituzionali, la mancanza di quella che gli inglesi chiamano «social affection» è dovuta anche alla sfiducia di fondo che gli italiani nutrono verso se stessi289. Oltre all’assenza cronica di leadership politica, questa sfiducia è l’immancabile corollario di una perdita del senso della nazione, per cui il fascismo ha le sue grosse responsabilità. Insomma, «lo Stato italiano non è amato dagli italiani» e, pertanto, «il problema di centro della vita pubblica italiana contemporanea è un problema assiologico»290 Se questo costituisce il nocciolo della crisi italiana, l’apertura all’Europa e la nascita di forme attive e continuative di collaborazione e programmazione internazionale rappresentano possibili risposte efficaci alle sfide che lo sviluppo tecnologico e la crescita del fabbisogno energetico mondiale portano con sé. Quantomeno questo è ciò che occorre fare sul piano strettamente politico. Concludendo, non si può parlare di un antioccidentalismo pellizziano, diffuso invece – ad esempio – presso certa destra tradizionalista e antimoderna. Ancora nel 1968, sulle colonne del «Corriere della Sera», egli sostiene che «la civiltà occidentale, alla quale noi apparteniamo anche senza volerlo, è pluralistica, disponibile al mutamento, tradizionalista ed insieme plastica, adattabile al nuovo»291. E tutto questo non è affatto negativo né da esorcizzare, è anzi un «virtuoso possibilismo» che sa coniugare mutamento e rispetto dei valori umani e «dà scandalo a tutti gli spiriti anchilosati dentro le formule di una qualunque dogmatica politica»292. È semmai in nome della scienza e della tecnica che Pellizzi lamenta i ritardi delle classi dirigenti occidentali nel cogliere i rischi insiti in alcuni fenomeni, dal boom demografico all’inquinamento ambientale. Quel che propone è una politica (e, ancor prima, un’etica) del limite che sia divulgata dalle scienze dell’uomo, le prime a fornire dati che vadano oltre qualsiasi surrettizio interesse ideologicamente orientato. Il pragmatismo pellizziano trova una conferma inequivocabile nell’insistita richiesta mossa anche 288

Ibidem.

289 ID., Riflessioni 290 Ibidem. 291 ID., Che 292 Ibidem.

di assiologia, in RIS, a. XV, n. 2, aprile-giugno 1974, p. 195.

cosa vogliamo?, in «Corriere della Sera», 1° dicembre 1968.

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alle pubbliche autorità italiane di porre sotto controllo la crescita demografica, regolando le nascite e quindi i costumi sessuali293. Dice questo da cattolico in un Paese cattolico quant’altri mai, dove ha sede lo Stato Pontificio. Pellizzi mostra dunque di essere un sociologo prima di tutto e nonostante tutto, ossia un vero e proprio “scienziato sociale” i cui valori e ideali non possono ignorare le “verità” riscontrate dalla scienza. Esattamente allo scadere del settimo decennio del Novecento, si conclude la parabola esistenziale e l’avventura intellettuale di Camillo Pellizzi. Rispetto a molti intellettuali suoi connazionali e suoi contemporanei, egli si distingue per un impegno che mira alla divulgazione della scienza sociale sia “in alto”, presso le élites dirigenti, sia “in basso”, presso cittadini che imparino ad avere una «opinione politica» informata e indipendente. Questo tipo di impegno che contraddistingue la seconda parte della sua vita sarà il frutto del quasi ventennale soggiorno londinese, della frequentazione di un mondo intellettuale, accademico e non, che gli trasmette empirismo e pragmatismo, così come la conoscenza della lingua inglese e gli interessi scientifici gli consentono di restare costantemente aggiornato sulla letteratura sociologica, psicologica, antropologica e politologica prodotta in quei decenni al di là dell’Atlantico. Da non dimenticare, poi, è l’esperienza accumulata nella direzione della sezione “Fattori Umani” di un’istituzione internazionale così importante come l’Agenzia Europea della Produttività, collegata all’OECE. La sua morte, avvenuta il 9 dicembre 1979, cade però nel silenzio generale del mondo accademico, compresi quei sociologi di cui egli era stato, nei fatti, il portavoce nel mondo universitario per circa un decennio, se non altro perché primo e a lungo unico titolare di cattedra della disciplina. Si distinguerà Giovanni Bechelloni, negli ultimi anni magna pars nella cura redazionale della «Rassegna», il quale ricorda la figura umana e l’opera di Pellizzi in un articolo di apertura proprio sulla rivista da quest’ultimo fondata e diretta fino alla fine294. Come si evince già dal titolo Cfr., ad esempio, ID., Riflessioni di assiologia, cit., p. 197. L’ultimo articolo di Pellizzi apparso sulla «Rassegna» sarà Tre papi e quasi due guerre (a. XX, n. 1, gennaio-marzo 1979, pp. 3-5), in cui si apprezzano le affermazioni di Giovanni Paolo I, il quale ha affermato che «il conflitto fra capitalismo e comunismo non incide in alcun modo sui dogmi della fede», e di Giovanni Paolo II, il quale «ha ribadito che la Chiesa non è coinvolta nella lotta fra le ideologie che oggi si contrastano il dominio politico del mondo, ma sta più in alto di esse con una dottrina che ha per maestro Gesù, il quale non fu un politico o un sociologo, bensì il Dio-uomo, la seconda persona della Trinità» (p. 3). Pur riconfermando la propria distanza rispetto ad una lettura del Vangelo nell’ottica ri293 294

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dell’articolo, Camillo Pellizzi: ricordo scomodo di un outsider, Bechelloni intende sottolineare che, pur essendo la sua biografia e la sua opera il segno di una presenza continuativa in luoghi centrali della storia italiana, la sua figura resta quella di un intellettuale aristocratico e solitario che, pur vivendo pienamente e interamente dentro ai fatti del suo tempo, conserva una posizione originale che gli consente di stare ai margini delle istituzioni e delle discipline nelle quali opera295.

Sin dal periodo londinese, accompagna Pellizzi la consapevolezza «di essere un sociologo, piuttosto che uno storico della letteratura o un filosofo», senz’altro, e non incompatibilmente con tale consapevolezza, «un intellettuale polivalente e non specialistico, sostanzialmente anti-accademico e poco interessato e per nulla coinvolto nelle dispute accademiche»296. Del periodo fascista Bechelloni tende a sottolineare la natura eterodossa e «utopica» dell’adesione intellettuale e pratica al regime mussoliniano. Rimarca l’importanza del libro Una rivoluzione mancata, a cui Pellizzi affida «la sua interpretazione del fascismo, allora decisamente controcorrente ma successivamente più volte rivisitata da quanti hanno cercato risposte più meditate e più “scientifiche” sulle origini e sulla “natura” del fascismo»297. Del periodo successivo, e soprattutto della direzione della «Rassegna», Bechelloni ricorda come questa iniziativa editoriale esprima forse meglio di ogni altro esempio la volontà pellizziana di continuare «quello stile di intervento che aveva caratterizzato la sua produzione culturale durante il ventennio fascista quando la sua presenza fu sempre acuta e stimolante in tutti i più significativi dibattiti dell’epoca»298. Ne ricorda, inoltre, le ascendenze culturali e scientifiche: da Vico a Cassirer, da Locke a Mead, da duttiva e fuorviante di una «militanza socialpolitica», Pellizzi dichiara anche: «Ciò non esclude, a nostro modesto avviso, che un cattolico possa essere anche un comunista militante, se lo ritiene, ma con esplicite riserve in talune importanti questioni di fede e di comportamento» (p. 3). 295 G. BECHELLONI, Camillo Pellizzi: ricordo scomodo di un outsider, in RIS, a. XX, n. 4, ottobre-dicembre 1979, p. 548. Nello stesso numero della rivista sono ripubblicate con diverso titolo alcune pagine originariamente scritte nel 1958 e poi ristampate nel volume del 1964 Rito e linguaggio (Proposta di una «utopia» per le scienze d’osservazione dell’uomo, pp. 207-215); cfr. C. PELLIZZI, Per una deontologia nelle scienze dell’uomo, in RIS, a. XX, n. 4, ottobre-dicembre 1979, pp. 557-564. 296 G. BECHELLONI, art. cit., p. 550. 297 Ivi, p. 551. 298 Ibidem.

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Freud a Jung, da Malinowski a Sorokin, da Weber a Berger e Luckman299. Dagli scritti pubblicati negli ultimi trent’anni di vita, Pellizzi «emerge come un metodologo attento ai problemi di epistemologia delle scienze sociali e come sociologo della conoscenza», concentrato soprattutto sull’obiettivo di elaborare una teoria dell’azione linguistica300. A conclusione di questa lunga opera di ricostruzione della vita e dell’opera di un “outsider di spicco” della sociologia e, in misura minore, della cultura politica dell’Italia del Novecento, non troviamo parole migliori di quelle con cui lo stesso Bechelloni salutava il “suo” direttore quasi un quarto di secolo fa: Considerato eretico dai fascisti, sociologo dai letterati, fascista e letterato dai sociologi, Camillo Pellizzi ha vissuto uno strano ma fascinoso destino, nell’Italia del ventesimo secolo. Avendo avuto esperienza della sua persona e avendo per299 Ivi, pp. 551-552. Illuminanti i giudizi che Pellizzi espresse su Weber e su Berger e Luckman, e che Bechelloni riporta nell’articolo. Al primo si richiamò indicandolo come «quello cui dobbiamo di più», e degli altri due notò quanto fossero «vicini e paralleli alle idee da me già abbozzate intorno al 1950» (p. 552). 300 Ivi, p. 552. Bechelloni osserva che: «la sua presenza dal punto di vista della sociologia in Italia è stata importante per il contributo attivo che ha dato alla istituzionalizzazione sia della sociologia sia della scienza politica» (ibidem). Un giudizio diametralmente opposto sul ruolo svolto da Pellizzi nella storia della sociologia italiana sarà espresso circa un anno dopo da Renato Treves, in un articolo che ricorda Gino Germani, morto anch’egli nell’autunno del 1979 (Gino Germani sociologo antifascista, in «Quaderni di Sociologia», a. XXIX, n. 2, 1980-1981, pp. 360-364). Rievocando l’intesa con Germani circa la necessità di «ogni presa di posizione» di fronte agli ex fascisti «che negli anni cinquanta e sessanta erano ancora presenti, attivi e influenti nel nostro mondo accademico», Treves ricorda in nota Pellizzi e, in particolare, un suo articolo – apparso proprio nei «Quaderni di Sociologia» – in cui affermava: «sul conto del corporativismo fascista manca a tutt’oggi una trattazione storica esauriente, libera da preoccupazioni apologetiche o pregiudizialmente polemiche. Scrivere, come è recentemente accaduto ad uno studioso di scienza politica, che esso servì solo a coprire “accademicamente il piatto paternalismo dello stato totalitario”, significa recare gratuita offesa a non poche persone che a quel movimento parteciparono con intelligenza e sincerità, e significa soprattutto precludersi la piena comprensione di un episodio importante della recente storia del pensiero sociale italiano» (C. PELLIZZI, Gli studi sociologici in Italia nel nostro secolo (Parte II), ivi, n. 21, 1956, p. 141, cit. da R. TREVES, art. cit., p. 363, nota 9). Questa pagina di Treves fornisce una conferma a quel che scrive Bechelloni nel 1979: «Il suo paradigma non ebbe fortuna nel tempo suo, sia perché nelle vicende della sociologia pesò sempre negativamente il fatto del suo passato fascista sia perché non ci fu concordanza tra il suo lavoro e quello dominante nel periodo» (art. cit., p. 552). Conferme su una marginalità dovuta a questo duplice ordine di motivi ci sono state offerte dalle testimonianze di chi con Pellizzi ha, in tempi diversi, collaborato all’Istituto di Sociologia di Firenze (Gianfranco Poggi, Giacomo Sani, Pier Paolo Giglioli).

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corso alcune delle sue opere, sono convinto che la cultura e la sociologia italiana siano in debito con lui e con la sua opera. Ricostruire filologicamente la sua biografia e i suoi itinerari intellettuali, estrarre dagli archivi, dalle riviste e dai giornali i suoi scritti, servirà a pagare questo debito e servirà, anche, a capire meglio ciò che è successo in Italia negli ultimi settant’anni. La biografia di una persona capace di autocoscienza, per evocare un tema caro alla riflessione pellizziana, serba tracce importanti della storia di una società301.

301

G. BECHELLONI, art. cit., p. 553.

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Indice dei nomi

A Abbagnano N., 329, 344 Abbele E., 327, 328, 329 Acerbo G., 182 Acquaviva S.S., 329, 330, 333, 338 Adams B., 199, 200, 358 Addis Saba M., 97 Adorno T.W., 403 Aga Rossi E., 207 Alberoni F., 10, 330 Alberti (fratelli), 222 Albertoni E.A., 146 Albonetti P., 10 Aldous L.R., 126 Alfassio Grimaldi U., 146, 204, 205, 206, 207, 253, 275 Almirante G., 297, 356, 407 Altan C.T., 333, 375 Alvaro C., 222 Ambrosini G., 155 Ambrosini L., 61 Amicucci E., 135 Ammassari P., 306, 320, 334, 373, 378 Anderlini L., 298 Andreani O., 384 Anfuso F., 297 Angella M., 357 Angioletti G.B., 222 Angiolillo R., 397

Ansaldo C., 56 Antoni C., 215 Antonini E., 146 Anzilotti A., 44 Aquarone, A., 68, 80 Archibugi F., 319, 390 Ardigò A., 330 Are G., 202, 397 Arena C., 142 Arendt H., 132 Arisi Rota A., 253 Aron R., 132 Astuti di Lucchesi R., 216, 259 Attlee C., 401 B Badaloni N., 305 Badoglio P., 201, 202, 207, 299 Balbo L., 11, 259, 318, 329, 330, 334, 374, 392 Baldini U., 390 Baldoni A., 236, 368 Balella G., 316 Balladore Pallieri G., 155 Bandettini P.F., 390 Barbagli M., 334, 341 Barbano F., 330 Barbieri G., 142, 148 Barilli C., 16 Barthes R., 340

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Bartocci E., 388 Bassi L., 403 Basso L., 298 Bastianini G., 59, 60, 71, 191 Battaglia F., 216, 258, 344 Battaglia S., 97 Bechelloni G., 8, 12, 221, 236, 237, 282, 334, 415, 416, 417, 418 Becher J.R., 97 Bédon W.U., 264, 378, 382 Belardelli G., 162, 236 Belgion M., 221 Bellah R.N., 333 Bellini G., 255 Bellofiore L., 256 Bellonci G., 222 Bellonci M., 221, 222 Ben Ghiat R., 162 Benvenuto G., 339 Berger P.L., 331, 417 Berselli E., 251 Biaggi N., 265 Biagi E., 231 Biggini C.A., 193, 204, 209 Bigiaretti L., 350 Biocca Marghieri L., 409 Biondi P., 112, 133, 134, 140, 141, 142, 143, 204, 209, 215, 216, 300 Biondoli P., 73 Biozzi R., 94 Biscottini U., 246 Blake R., 266 Blom J.-P., 332 Blondel M., 83 Bo C., 341 Bobbio N., 333, 344 Boccia L., 390 Bocelli A., 222 Bodrero E., 203, 246 Boine G., 60, 61 Bolla E., 408

Bompiani V., 221 Bon Valsassina M., 368 Bonajuto A., 182 Bonetti M., 16 Bongiovanni B., 223, 349 Borghese J.V., 297 Borghi, 214, 215 Borgognone G., 223, 225 Bosanquet B., 27 Bosco U., 155 Bottai G., 7, 36, 56, 60, 64, 67, 68, 77, 78, 79, 80, 81, 85, 92, 97, 101, 111, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 142, 147, 148, 149, 150, 161, 163, 177, 179, 189, 193, 210, 211, 236, 274, 279, 280, 281, 285, 286, 287, 292, 293, 294, 304 Bottomore Th.B., 262 Bourdieu P., 332, 333 Bouthoul G., 332, 333 Braga G., 330, 374, 375, 376 Brambilla M., 371 Breschi D., 8, 195, 240, 241, 254, 299, 348, 404 Bruguier G., 112, 148 Bruno A., 47 Brunschvicg L., 345 Brusadelli G., 276 Buchignani P., 116 Buffarini Guidi G., 177 Bullard D.A., 258 Burdeau G., 369 Buricchi G., 317 Burnham J., 115, 222, 223, 224, 225, 226, 228, 237, 238, 240, 313, 329, 349, 371 Burns C.D., 301 Burns J., 301 Buronzo V., 193, 194 Busino G., 333

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C Cacace P., 387 Cafagna L., 236 Calamandrei P., 202, 203, 213, 214 Calise M., 334 Camagna C., 121, 187 Campanini G., 215, 217 Campbell R., 189, 190 Canali M., 42 Candeloro G., 161, 162 Cannistraro Ph.V., 42, 154, 158 Cantalupo R., 247 Cantimori D., 148, 161, 162, 285, 362 Cantoni C., 233 Capecchi V., 334 Capoferri, 171 Capograssi G., 216 Cappi Bentivegna F., 267, 268 Caracciolo A., 253 Caravale G., 162 Carbonaro A., 388, 390 Carducci G., 61, 62 Carioti A., 236, 357 Carli G., 184 Carli M., 72 Carlini A., 15, 16, 27, 33, 34, 37, 38, 58, 59, 60, 83, 84, 133, 135, 194, 220, 257 Carlo Alberto di Savoia, 27 Carocci G., 122 Carpenter H., 291 Carr E.H., 127, 165, 358 Carr H.W., 41 Carrino A., 298 Cartesio R., 241 Caruso S., 12, 306, 334, 349 Casalini B., 306 Casini G. (Doganiere), 16, 35, 56, 57, 59, 60, 66, 67, 69, 90, 91, 104 Casotti M., 28, 34

Cassandro G., 229 Cassanello A., 182, 183 Cassano C., 214 Cassano G., 265 Cassirer E., 256, 305, 306, 334, 335, 416 Castellano V., 391 Catalano F., 122 Cattani A., 265 Cavallari G., 27 Cavallera H.A., 194 Cavalli A., 334 Cavalli L. 8, 9, 12, 329, 330, 333 Cavallina G., 320 Cavallo L., 72 Cavazza F.L., 334 Cazzola F., 334 Ceccanti G., 317, 390 Cecchetti Pellizzi A., 12 Celli G., 408 Cesarini Sforza W., 258 Chabod F., 122 Chambers-Hunter W.K.A.J., 121 Chiarelli G., 148 Chiaretti G., 11, 259, 318, 329, 330, 334, 374, 391, 392, 393, 394, 395 Chilanti F., 232 Ciacci M., 12, 320, 334, 339, 341, 352, 379, 381 Cianetti T., 135, 243 Ciano G., 137, 172, 177 Ciarlantini F., 29, 33, 37, 46, 60, 70 Ciasca R., 369 Cicala F.B., 214, 215, 216, 217, 330 Cicalese M.L., 44, 45 Cicourel A. V., 332 Ciliberto M., 162 Cimatti L., 316 Cimmino S., 378 Cippico A., 28, 50, 58 Cittadini Cesi G.G., 270 Civinini G., 135

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Clastres P., 302 Clémens R., 266, 268 Cocchiara G., 338 Codignola E., 26, 28, 33, 34, 36, 37, 45, 50, 57, 64, 65, 83 Cofrancesco D., 120, 181, 183 Colamonico C., 216 Colapietra R., 47 Colarizi S., 322 Coleridge S.T., 376 Colini S., 319 Colletti L., 350 Colombo E., 351 Colonna G., 265 Colonnetti G., 216 Constant B., 275 Contessi P.L., 334 Contri, 59 Contu L., 134 Corbellini G., 263, 264 Corra B., 36, 57 Corradini E., 41 Corsi I., 373 Corsini R., 266 Cospito N., 181 Crespi F., 329 Cristofolini P., 305 Croce B., 20, 30, 41, 44, 46, 47, 82, 93, 108, 231, 253, 259, 305, 400 Crozier M., 341 Cubeddu R., 228 Cucco A., 297 Curcio C., 269, 368, 388, 390 D D’Amato L., 327, 329 D’Andrea U., 104, 115 D’Annunzio G., 41 D’Avack P.A., 209 Da Empoli D., 319 Davis N.M., 327

Davy G., 260 De Cesare R., 168 De Chirico G., 246 De Felice R., 26, 42, 57, 63, 64, 102, 104, 105, 111, 112, 123, 126, 146, 147, 157, 162, 164, 166, 181, 189 De Francisci P., 149, 150, 160, 171, 193 De Gasperi A., 215 De Grand A., 279 De Grazia V., 147 De Marsanich A., 297 De Martino E., 348 De Masi D., 334 De Mattei R., 204, 208, 209, 212, 214 De Mauro T., 374 De Rita G., 383 De Robertis G., 61 De Ruggiero G., 83, 215, 216 De Stefani A., 66, 127, 271, 272 De Turris G., 370, 371, 372 Decleva E., 223 Dehoi A.F., 332 Del Balzo G., 265 Del Boca A., 120, 127, 239 Del Giudice R., 129, 139, 274, 277, 278 Del Noce A., 5, 30, 31, 42, 47, 53, 351 Del Vecchio G., 217, 258 Demangeon A., 97 Denison N., 376 Dessì G., 102, 240 Devoto G., 376 Di Marcantonio A., 279 Di Marzio C., 135 Di Nardi G., 319 Di Vittorio G., 276 Diena L., 330 Dini D., 33, 36, 37, 38 Dofny J., 388 Douglas C.H., 221, 290, 291

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Durkheim E., 306 Durst M., 254 Duverger M., 306, 307 E Einaudi L., 231 Eisenstadt S.N., 333 Eliot T.S., 291 Engelke G., 97 Engels F., 364 Ervin-Tripp S., 332 Etzioni A., 333 Evangelisti G., 327, 329 Evola J., 357, 371 F Fabbri P., 12, 332, 334, 339, 340, 341, 367, 395 Fanfani A., 351 Fani Ciotti V. (Volt), 72, 73, 76, 77, 84, 91 Fantappiè L., 410 Fantechi A., 134 Fanti C., 10 Farinacci R., 54, 69, 77, 78, 79, 134 Farneti P., 333 Fazio Lindner L., 409 Fedele P., 69 Ferrari G., 15 Ferrarotti F., 12, 217, 257, 267, 269, 270, 315, 317, 318, 321, 322, 329, 330, 333, 335, 338, 340, 344, 347, 388, 390, 397 Ferrero G., 97 Ferretti L., 58 Fisichella D., 333 Flores D’Arcai G.B., 375 Foa C., 220 Foligno C., 169 Fontana A., 135

Fontanelli L., 115 Form W.H., 306, 333 Formiggini (edit.), 60 Forte F., 384 Fortunati P., 157, 158, 161, 178, 184, 222 Franchini Stappo A., 390 Fraser A.C., 257 Fratini G., 170 Frazer J.G., 338 Freud S., 294, 417 Friedmann G., 260, 261, 267, 306, 307, 333 Friedmann L., 261 Friedrich C.J., 301 Frisby C.B., 268 Frosini T.E., 369 Frosini V., 216 Fulchignoni E., 260, 264, 332, 339, 351 Fussell P., 20 G Gabetti G., 167 Galeno Sambo L.A., 315 Gallesi L., 120, 121 Galli Della Loggia E., 236 Galli G., 333 Galli R., 202, 204, 207, 208, 209, 210, 214, 215 Gallino L., 403 Gallo M., 122 Galluzzi V., 397 Galtung J., 333 Gambetti F., 145 Gambino A., 293 Gangemi L., 182 Gardner E., 71 Garello F., 319 Garin E., 163 Gario G., 123

423

Gasparotto P., 223 Gemelli A., 216, 217, 218, 219, 220, 316 Gentile E., 9, 10, 20, 25, 26, 39, 80, 81, 132, 150, 157, 166, 174, 175, 179, 193, 238 Gentile G., 16, 24, 26, 30, 31, 33, 34, 35, 36, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 51, 53, 62, 64, 66, 68, 69, 73, 81, 82, 85, 88, 89, 92, 107, 108, 137, 150, 151, 157, 158, 163, 193, 240 Gentile M., 356 Gentile P., 262, 369 Germani G., 97, 333, 417 Germinario F., 236, 355, 357, 359 Gesell S., 290 Geymonat L., 256 Giani T., 403 Giannini A., 155 Giannini G., 251, 298 Giglioli P.P., 12, 320, 332, 334, 367, 375, 376, 417 Gini C., 305, 307 Ginsberg M., 261, 266 Gioberti V., 51, 56, 83, 163 Giolitti A., 362 Giolitti G., 238 Giordano R., 334 Giovana M., 120 Giovanni Paolo I, 415 Giovanni Paolo II, 415 Giovannucci A., 370 Giuliano B., 57 Goad H., 71 Gobetti P., 34, 35, 40, 56, 84 Goffman E., 333 Goglia L., 123 Goldsmith E.E., 412 Gonella G., 215, 216, 217, 219 Gosztonyi A., 408 Govi M., 157

Gramazio E.U., 311, 312, 313 Gramsci A., 163 Grana S., 214 Grandi D., 36, 57, 126 Grassi F., 123 Gray E.M., 135, 246, 247 Graziani R., 297 Greimas A.J., 332, 333, 340, 375, 376 Greppi M., 223 Grilli A., 61 Guardini R., 337 Guareschi G., 298 Guarnieri F., 182 Guenon R., 97 Guerri G.B., 56, 149, 210, 279 Guicciardi D., 378 Gumperz J.J., 332 Gurvitch G., 260, 266, 306, 307 H Harbison, F.H., 315 Hartwell R., 407 Harvey H., 127 Hayek (von) F.A., 226, 227, 228, 231, 232, 241, 244 Hegel G.W.F., 26, 104 Heilmann L., 374, 375 Hennis W., 397 Herriot E., 97 Himmler H., 168 Hitler A., 176, 204, 207 Hoare S., 126 Horkeimer M., 403 Huizinga J. 337 Hymes D.H., 375 I Ignazi P., 356, 407 Imberciadori F., 341, 379, 381

424

Infantino L., 228, 231, 334 Ippolito A., 171 Isnenghi M., 20, 35, 147 Izzo A., 334 J Jacini S., 259 Jakobson R., 376 James W., 30 Janni E., 202 Janowitz M., 333 Jemolo A.C., 216 Jervis G., 403 Josephson M., 238 Jung C.G., 417 K Kant I., 104 Kowalewsky, 189, 190 L La Palombara J., 306, 333, 341, 388 La Pira G., 209, 217 Labov W., 332 Lanaro S., 35, 102, 228, 298 Lanfranconi L., 54 Langer S.K., 336 Lanternari V., 395 Lanzillo A., 33 Lautmann J., 378 Laval P., 126 Le Bon G., 30 Le Bras G., 260 Leeden M.A., 120, 181 Legitimo G., 368 Legnani M., 239 Leighton A.H., 310, 311 Lengyel P., 332 Lenin V.I., 238 Lentini (da) J., 354

Leonardi F., 329, 330, 374 Levi M.A., 274 Lévy-Bruhl H., 260, 306 Licata G., 202, 397, 402 Licitra C., 44 Likert R., 314, 315 Linz J.J., 333 Lipset S.M., 333 Liucci R., 94, 293, 295, 297, 299, 364 Livi L., 148, Locke J., 27, 257, 416 Lombardi F., 330, 344 Lombardo Radice G., 44 Lombroso C., 15, 282 Longanesi L., 7, 9, 10, 16, 79, 80, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 99, 247, 258, 287, 293, 294, 295, 297, 298, 299, 304, 360, 364, 369 Longo G., 8, 9, 101, 120, 147, 162, 181, 195, 205, 222, 299, 404 Longo G.A., 159 Lorenz K., 408, 409, 410 Lorenzotti G., 373 Lotti L., 12, 226, 352 Lucifredi R., 314 Luckman Th., 333, 417 Lukács G., 321 Lunghini G., 290 Lupinacci M., 145 Lusignoli E., 115 Lussac G., 354 Luti G., 90 Lutz B., 388 Luzzato-Fegiz P., 383 M Maccari M., 7, 80, 90, 91, 96, 97, 98, 99, 104, 327 Machiavelli N., 225 Maffi B., 307

425

Maffi Q., 341 Maggiore G., 194 Magliano A., 351, 353, 357, 359 Magni F., 20 Malagodi G., 231 Malaparte C. (v. Suckert C.) Malinowski B., 306, 338, 417 Mammarella G., 387 Mancini F., 334 Mancini G., 156, 159 Mangoni L., 7, 10, 77, 84, 116, 145, 162, 286 Mannheimer R., 334 Manoukian A., 334 Maranini G., 204, 215, 256, 263, 267, 268, 269, 270, 315, 316, 340, 352, 353, 368, 369, 374, 388, 392 Maraviglia M., 155 Marchesi C., 216 Marcoaldi F., 271 Marcuse H., 403 Marett R.R., 338 Margiotta Broglio F., 209 Marhaba S., 336 Marinetti F.T., 72, 135 Marino E., 247, 248 Marino S., 213, 214 Marinotti P., 268 Marotta M., 330 Marsili Libelli M., 208, 209 Martina, 212 Marx K., 26, 30, 321, 349, 364, 394, 400, 403 Marzi A., 263, 388, 390 Marzotto G., 268 Masi G., 46 Massa C., 373 Massart A., 266 Massironi G., 11, 259, 262, 263, 318, 322, 329, 330, 334, 350, 374, 388, 391, 392, 393, 394

Matteotti G., 42, 64, 65, 67, 76 Matteucci N., 216, 333, 334, 393 Mattino G., 12 Maurizio M., 155 Mauro A., 253 Mauss M., 341 Mayo E., 312, 314 Mazzei J., 133, 134, 136, 217 Mazzini G., 27, 40, 47, 83 McCulloch M., 267 McLuhan M., 333 Mead G.H., 306, 336, 416 Medici G., 265, 339, 378 Melis G., 162, 181, 205, 222, 241 Melli D., 135 Melloni M., 233, 234 Melograni P., 20 Mendella M., 330 Menger C., 228 Mercuri L., 207, 212 Merleau-Ponty M., 341 Merli-Brandini P., 390 Merlin L., 365 Meschieri L., 384, 395 Meyer A.G., 349 Michels R., 21, 115, 225, 285 Michelstaedter C., 60, 61, 62, 285, 294, 295 Mieville R., 297 Milani L., 288 Mills Ch.W., 341 Miotto A., 269 Mises (von) L., 228, 256 Mises (von) R., 256 Missori M., 243 Mola A.A., 204 Mondadori A., 223 Moneti G., 260 Montanelli I., 91, 291 Monteleone F., 322 Monti A., 28 Monti M., 295

426

Moore W.E., 307 Morandi C., 148, 201, 202, 203, 210, 214, 253 Morandi F., 333, 349 Moreno J.L., 266 Morin E., 395 Moro A., 340 Morris C., 336 Mosca G., 21, 115, 225 Mosca R., 369 Moss L., 306 Mosse G.L., 20, 26, 81, 128 Murri R., 72 Musatti R., 340 Mussolini B., 25, 28, 30, 33, 42, 43, 45, 47, 54, 57, 58, 64, 65, 69, 70, 75, 78, 92, 93 107, 108, 115, 119, 121, 122, 123, 124, 126, 127, 133, 138, 142, 146, 147, 148, 149, 150, 152, 153, 154, 156, 157, 166, 168, 172, 176, 177, 188, 191, 199, 200, 201, 202, 204, 210, 238, 239, 252, 271, 281, 282, 286 Muti E., 171 N Nacci M., 403 Natoli S., 24 Naville P., 341 Negri A., 102 Nehnevajsa J., 266 Nello P., 189 Nenni P., 297 Neulen H.W., 181 Nicola II, 238 Nicolaevna Iarzeva V., 375 Nicoletti G., 40, 56 Nietzsche F., 15, 16, 30, 285, 286 Niola M., 302 Nitti F.S., 97

O Occhini O., 271 Offe C., 333 Ojetti U., 211 Olivelli T., 252, 253 Olivetti A., 267, 268, 269, 340, 391 Oppenheim F.E., 111 Orano P., 134 Orlando F. S., 182 Ortega y Gasset J., 97 Ortoleva P., 397 Ortona E., 191 Ostenc M., 90 Ottonelli V., 228 P Pacces F.M., 274, 275, 277, 278, 290, 391 Pagani A., 330 Pagliaro A., 216, 220, 320 Palazzo A., 330, 374 Pallottino M., 356 Palmieri R., 146 Panebianco A., 334 Pannunzio M., 35, 57 Panunzio S., 115 Panunzio V., 368 Papa R., 46, 47 Papasogli E., 50 Papi G.U., 155 Papi U., 356 Papini G., 17, 56, 135 Paratore E., 356 Pardini G., 56 Parenti R., 171 Pareto V., 21, 30, 115, 217, 225, 285 Parisi A., 334 Parlato G., 12, 102, 119, 229, 235, 240, 274, 319 Parodi E., 377

427

Pasquino G., 334 Pastore G., 265, 266 Patrizi B., 255 Pavolini A., 153, 169, 172, 177, 179 Peccei A., 396 Pedio A., 286 Pedrazzi L., 327, 334 Pellicani L., 334 Pellizzi A., 12 Pellizzi C., 12, 117, 209 Pellizzi F. 12, 22, 41, 255 Pellizzi G., 12 Pellizzi G.B., 15, 75, 134, 209, 255, 282 Pellizzi Ichino F., 12, 383 Pellizzi M., 12, 341 Pellizzi R., 94, 95, 221, 294 Pennati E., 330 Pera M., 369 Perfetti F., 44, 90, 102 Perrotti N., 208 Pertici R., 9, 162, 286 Perticone G., 333 Petacci C., 252 Petersen J., 122 Petese L.R., 12 Petrocchi G., 215, 218 Pettazzoni R., 338 Pettinato C., 246, 297 Pezzino G., 47 Pierandrei F., 182 Pietra G., 9 Piovani P., 330, 333, 334, 335 Piovene G., 260, 291 Pirro (de) N., 60 Pistoj P.G., 261, 262, 263, 264, 307, 320 Pivato S., 282 Pizzorno A., 330, 333, 394, 395 Plebe A., 356, 407 Poggi G., 12, 334, 341, 349, 367, 372, 382, 388, 389, 417

Por O., 120, 121, 122, 128, 158, 291, 292 Potestà L., 329 Poulantzas N., 333 Pound E., 120, 121, 122, 128, 221, 289, 290, 291 Prampolini C., 282, 283 Prezzolini G., 28, 40, 220, 291, 295, 296, 298, 408 Prini P., 344 Prinzing A., 168 Puccini D., 61 Punzo L., 100 Q Quinzio S., 408 R Rachewiltz (de) M., 121, 290, 291 Raio G., 256 Raponi N., 217 Rasi G., 145, 147, 149 Ravà R., 390 Ravasio C., 178 Remotti F., 334 Reynaud J.-D., 341 Ribbentrop (von) J., 168 Ricci B., 80, 90, 116, 117, 118 Ricci R., 54 Richter M., 72 Ricossa S., 407 Rigobello A., 216 Rispoli G., 135 Rizzi B., 282, 333, 348, 349 Rocca M., 33, 37, 64, 246 Rocco A., 77, 85 Rochat G., 122 Rodolico N., 210 Rodotà S., 203 Rokkan S., 262 Romano S., 17

428

Romier L., 97 Rommel E., 180 Romualdi A., 371 Romualdi P., 370 Roosevelt F.D., 200 Röpke W., 232 Rossi G.S., 407 Rossi M.G., 239 Rossi P., 344 Rousseau J.J., 26 Russell B., 232, 241 Russell P., 221, 290, 291 Russi L., 208 Russo A., 397 Rust B., 166 S Sabbatucci G., 236 Sacco G., 266 Sahlins M., 333 Sainati V., 257 Saitta G., 83, 84 Salsano A., 223, 224 Salvati M., 10, 65, 70, 92 Salvemini G., 40 Sammartano N., 59, 214 Sani G., 12, 320, 329, 331, 341, 367, 378, 382, 388, 389, 417 Santarelli E., 120 Santoli V., 34, 59 Santoro G., 308, 309 Sapelli G., 274 Sartori G., 12, 256, 267, 268, 269, 270, 300, 301, 302, 317, 329, 330, 331, 333, 335, 374, 388 Sasso G., 30, 31 Schmitt C., 182 Schulze R., 333 Schumpeter J.A., 301, 302 Scorza C., 54, 177, 193 Sebastiani (fam.), 203 Sechi L., 227, 231

Sechi M., 116 Segàla R., 234 Sellani O., 171 Sennett R., 333 Sensini P., 349 Serena A., 156, 157, 170, 171, 172, 174, 175, 177, 179 Serpieri A., 136, 138, 140, 203 Serra E., 351, 357 Serra R., 18, 60, 61, 62 Sestini G., 355 Setta S., 251 Settembrini D., 10 Settimelli E., 72 Severi L., 202 Shapiro L., 132 Sheppard H., 306 Shils E., 333 Sikorski W., 190 Sircana G., 246, 263 Sivini G., 334 Slobin D.I., 332 Smith D.N., 376 Socrate, 241 Soffici A., 18, 56, 72, 90, 91, 135 Sogno E., 351 Solmi A., 155, 156 Sordi A. 399 Sorel G., 20, 30, 115, 225 Sorokin P., 266, 306, 417 Spadolini G., 370, 401 Spampanato B., 64, 66, 69, 78 Spaventa R., 148 Spengler O., 97 Spinelli A., 205 Spinetti G.S., 236 Spirito U., 9, 44, 62, 63, 86, 100, 101, 102, 103, 104, 106, 107, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 119, 141, 142, 145, 147, 148, 149, 180, 194, 216, 240, 274, 275, 276, 277, 278, 289, 308, 333

429

Spreafico A., 378 Staderini A., 20 Staglieno M., 91 Stagni E., 263 Stajano C., 257, 338 Stalin J., 191, 288 Starace A., 193 Storti B., 265, 340 Sturzo L., 41, 217, 218, 287 Suckert ( Malaparte) C., 35, 56, 57, 72, 84, 85, 91, Susmel D., 43 Susmel E., 43 Suster R., 299 Suzzi Valli R. 9, 27, 71, 213 Swabey H., 221

Toniolo G., 282 Topitsch E., 407 Torlonia A., 276 Tosi S., 262, 269, 306, 373, 388 Touraine A., 333, 341, 388 Townshend E., 120, 121 Treccani degli Alfieri G., 268 Tremelloni R., 369 Treves R., 330, 344, 417 Trubetzkoy H.S., 97 Tucci G., 246 Turati F., 79, 80 Turi G., 45, 147 U Ungari A., 299

T V Tamaro A., 360 Tanaka K., 266 Tarchi M., 235, 357, 407 Tarquini A., 44, 108 Tarroni G., 160, 164, 165, 185 Tassani G., 279 Tassinari G., 177 Tedeschi M., 294, 360, 361, 364 Teilhard de Chardin P., 288, 341, 408 Tesauro A., 216 Testa A., 395 Tibaldi G.C., 256 Tibullo, 354 Tilgher A., 97 Timpanaro S., 47 Tinacci Mannelli G., 12, 312, 317, 323, 329, 341, 373, 374, 390, 391 Todisco A., 412 Todorov T., 333 Togliatti P., 275, 276 Tomasi A., 390 Tommaso (san), 288 Tonelli M., 349

Vaccari A., 202 Valitutti S., 141, 148, 159, 160, 161, 216, 300 Vallauri G., 170 Vallecchi (edit.), 57, 58, 60 Valletta V., 391 Vannutelli Rey L., 182 Vasale C., 216, 217 Vassallo G., 182 Vattimo G., 403 Vecchietti G., 135, 168, 169, 231, 232 Vedovato G., 12 Venturi A., 243 Vianello M., 390 Vico G., 305, 306, 327, 334, 416 Vidussoni A., 156, 177, 193 Viglianesi I., 265, 339 Vigorelli B., 223 Vigorelli F., 223 Vigorelli G., 408 Villa V.M., 256

430

Villari L., 246 Vinci L., 403 Virone L.E., 381 Visalbergi A., 384 Vitetti A., 137 Vito F., 184, 219, 259, 329, 330 Volpato M., 395 Volpe Gioac., 34, 44, 58, 63, 65, 127, 141, 203, 359 Volpe Giov., 247, 350, 355, 357, 358, 359, 360, 368, 370 Volpe V., 12 Volpicelli A., 44, 103, 107, 112, 148, 161 Volpicelli L., 161, 308 W Walzer M., 298 Weber M., 343, 344, 347, 362, 397, 404, 417

Webster Baer G., 122 Weinberg J.R., 256 Weiss R., 221 Wells H.G., 234 Wiese (von) L., 266 Wildon Carr H., 41 Woller H., 212 Wordsworth W., 376 Z Zagarrio V., 139 Zanfarino A., 12, 231, 267 Zangrandi R., 236 Zani L., 20 Zapponi N., 97, 121, 163, 164, 291 Ziegler L., 97 Zimmermann V.B., 378 Zoli A., 273 Zolla E., 333 Zunino P.G., 30

431

Indice

Premessa

p.

7

PRIMA PARTE

L’aristocrate del fascismo (1896-1943) di Gisella Longo

Capitolo I Alla vigilia della rivoluzione

15

1. “Lo Spirito della vigilia”, 15 2. Educare gli italiani, 30 3. Una rivoluzione, 47

Capitolo II L’Italia fuori d’Italia

75

1. Rimeditare il fascismo e l’attualismo, 75 2. Gli anni Trenta, 96 3. Tra Inghilterra e Italia, 119

Capitolo III Una cultura per la guerra 1. L’Università italiana, 133 2. L’Istituto nazionale di cultura fascista, 146 3. Il partito educatore, 166 4. Un “nuovo ordine”, 178

133

SECONDA PARTE

L’«umile demiurgo» della sociologia italiana (1943-1979) di Danilo Breschi

Capitolo IV Sette anni da epurato

p. 199

1. L’epurazione fascista, 199 2. L’epurazione antifascista, 212 3. Giornalista e traduttore, 220 4. Una rivoluzione mancata, un bilancio compiuto, 235

Capitolo V La rinascita sociologica in Italia

255

1. Tra Firenze e Parigi, 255 2. Tra Bottai e Longanesi, 274 3. Il sociologo come «clinico», 304

Capitolo VI Nel paese delle élites assenti

327

1. La «Rassegna Italiana di Sociologia», 327 2. Alcune idee per una giovane Destra, 350 3. Classe dirigente e crisi dell’Occidente, 372

Indice dei nomi

419

Finito di stampare nel mese di ottobre 2003 dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)

Saggi 1. Christopher Duggan, La mafia durante il fascismo Prefazione di Denis Mack Smith 2. Orazio Barrese, I Complici. Gli anni dell’antimafia 3. Jane e Peter Schneider, Classi sociali, economia e politica in Sicilia Prefazione di Pino Arlacchi 4. Massimo Caprara, Ritratti in rosso 5. Pasquale Marchese, L’invenzione della forchetta Prefazione di Sergio Bertelli 6. Joseph Lopreato, Evoluzione e natura umana A cura di Maria Luisa Maniscalco 7. Massimo Morisi, Le leggi del consenso. Partiti e interessi nei primi parlamenti della Repubblica 8. Carlo Fusaro, La Rivoluzione Costituzionale Con un saggio introduttivo di Augusto Barbera 9. Franco Ottaviano, La rivoluzione nel labirinto 10. Pietro Fantozzi, Politica, clientela e regolazione sociale. Il Mezzogiorno nella questione politica italiana 11. Fernando Miglietta (a cura di), L’unità e le differenze. Politica e cultura nell’orizzonte progressista 12. Franco Cazzola, Nodi e frammenti. Le radici lontane della crisi italiana 13. James Walston, Le strade per Roma. Clientelismo e politica in Calabria (1948-1992) 14. Gianfranco Pasquino (a cura di), L’alternanza inattesa. Le elezioni del 27 marzo 1994 e le loro conseguenze 15. Luigi De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio 16. Giampaolo Crepaldi - Salvatore Vassallo (a cura di), Una democrazia che si trasforma 17. Carla Corradi Musi, Vampiri Europei e Vampiri dell’Area Sciamanica 18. Janos Kelemen, Idealismo e Storicismo nell’opera di Benedetto Croce 19. Antonio Annino - Maurice Aymard (a cura di), Il mercato possibile. Sindacati, globalizzazione, Mercosur e Cee 20. Jeno˝ Szu˝cs, Disegno delle tre regioni storiche d’Europa Presentazione di Giulio Sapelli. A cura di Federigo Argentieri 21. Mario Tedeschi (a cura di), Il principio di laicità nello Stato democratico

22. Henri Bresc - Geneviève Bresc-Bautier (a cura di), Palermo 1070-1492 Mosaico di popoli, nazione ribelle: l’origine della identità siciliana 23. Pasquale Fornaro, Risorgimento italiano e questione ungherese (18491867) 24. Giuseppe Della Rocca, Lavoro pubblico - Lavoro privato. Imprese e Amministrazioni nella regolazione sociale 25. Simone Misiani - Pietro Neglie - Amedeo Osti - Dario Vascellaro, Il filo d’Arianna. Una Federazione sindacale nella storia d’Italia: il tessile-abbigliamento nel Novecento 26. Antonio Annino - Maurice Aymard (a cura di), Le cittadinanze di fine secolo in Europa e America Latina 27. Giulio Sapelli, Comunità e mercato 28. Luisa Bonesio - Grazia Marchianò - Elio Matassi - Caterina Resta, Terra Natura Storia. Scritti filosofici 29. Maria Carmen Belloni - Marita Rampazi, Luoghi e Reti. Tempo, spazio, lavoro nell’era della comunicazione telematica 30. Giulio Sapelli, L’Europa del Sud dopo il 1945. Tradizione e modernità in Portogallo, Spagna, Italia, Grecia e Turchia 31. Adalgisa De Simone, Splendori e Misteri di Sicilia in un’opera di Ibn Qal¯aqis 32. Grazia Marchianò (a cura di), Filosofia del Peso. Estetica della Leggerezza 33. Adolfo Pepe, Il Sindacato nell’Italia del ’900 34. Umberto Santino, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione delle sinistre 35. Orazio Barrese - Giacinta d’Agostino, La guerra dei sette anni. Dossier sul bandito Giuliano 36. Mario Casalinuovo, Processi 37. Magda Talamo (a cura di), Oltre le due culture. Scienze socio-umane, Scienze naturali, Sperimentazione Simulazione 38. Vincenzo Filice, Senso e mistero della storia. Per una storicità aperta Presentazione di Bruno Forte 39. Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto 40. Girolamo Cotroneo, Tra filosofia e politica. Un dialogo con Norberto Bobbio 41. Sergio Zoppi, Il Mezzogiorno di De Gasperi e Sturzo (1944-1959) 42. Alberto Giasanti, Morte di un’utopia. Bucharin, la rivoluzione e l’ombra 43. Pasquale Fornaro (a cura di), Transizione e sviluppo. Le periferie d’Europa (secc. XVIII-XIX) 44. Gioacchino da Fiore, Agli Ebrei (Adversus Iudeos). A cura di Massimo Iiritano. Presentazione di Bruno Forte

45. Tommaso Sorrentino, Storia del processo penale. Dall’Ordalia all’Inquisizione 46. Nestore Di Meola, Willy Brandt raccontato da Klaus Lindenberg 47. Gabriele De Rosa, La storia che non passa. Diario politico 1968-1989. A cura di Sara Demofonti 48. Maurice Aymard - Francisco Delich (a cura di), Cultura del lavoro e disoccupazione. Unione Europea e Mercosur 49. Mirella Baglioni - Mariella Berra (a cura di), Reti civiche. Comunicazione e sviluppo locale in tre casi regionali 50. Edgardo Sogno, La storia, la politica, le istituzioni. Scritti sull’antifascismo, sulla storiografia contemporanea e sulle riforme costituzionali 51. Gerardo Chiaromonte, Itinerario di un riformista. A cura di Gianni Simula e Renzo Trivelli 52. Dario Antiseri, L’agonia dei partiti politici 53. Salvatore Butera, L’Isola difficile. Sicilia e siciliani dai Fasci al Dopoguerra Prefazione di Piero Bevilacqua 54. Ilario Tolomio, Italorum sapientia. L’idea di esperienza nella storiografia filosofica italiana dell’età moderna 55. Lynne Viola, Stalin e i ribelli contadini. A cura di Andrea Romano 56. Donatella Barazzetti, Il bozzolo e la farfalla. Donne, territorio, lavoro nella Piana di Gioia Tauro 57. Lorenzo Speranza, I poteri delle professioni 58. Massimo Iiritano (a cura di), Sergio Quinzio. Profezie di un’esistenza 59. Melchiorre Briguglio, Quale Repubblica? Prefazione di Andrea Romano 60. Giovannella Greco, Socializzazione virtuale. Bambini e Tv nei nuovi scenari tecnologici 61. Magda Jászay, Il Risorgimento vissuto dagli ungheresi 62. Giordano Sivini, Migrazioni. Processi di resistenza e di innovazione sociale 63. Santi Fedele, Il retaggio dell’esilio. Saggi sul fuoruscitismo antifascista 64. Nicola Merola, Un Novecento in piccolo. Saggi di letteratura contemporanea 65. Osvaldo Pieroni, Tra Scilla e Cariddi. Il ponte sullo Stretto di Messina: ambiente e società sostenibile nel Mezzogiorno 66. Umberto Santino, La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi. Prefazione di Orazio Cancila 67. Lidia Decandia, Dell’identità. Saggio sui luoghi: per una critica della razionalità urbanistica. Presentazione di Enzo Scandurra 68. Paola Cadonici, La Voce. Dall’Immaginario al Reale. Tra Arte, Mito e Fiaba. Prefazione di Oscar Schindler 69. Giuseppe Romeo, La politica estera italiana nell’era Andreotti (1972-1992) 70. Antonio Cicala, Partiti e movimenti politici a Messina. Dal fulcismo al fascismo (1900-1926)

71. Enrico Caniglia, Berlusconi, Perot e Collor come political outsider. Media, marketing e sondaggi nella costruzione del consenso politico 72. Elio Sgreccia, Storia della medicina e storia dell’etica medica verso il terzo millennio 73. Vito Doria, La mia vita nell’. Autobiografia di un protagonista e testimone della guerra di Spagna e della Resistenza in Francia e Italia. A cura di Nuccia Guerrisi e Rocco Lentini 74. Pietro Neglie, Le stagioni del sindacato. Storia della Camera del lavoro di Ancona (1944-1978) 75. Mirella Fortino (a cura di), Il caso. Da Pierre-Simon Laplace a Emile Borel (1814-1914) 76. Serafino Negrelli (a cura di), Prato verde prato rosso. “Produzione snella” e partecipazione dei lavoratori nella Fiat del duemila 77. Renate Siebert (a cura di), Relazioni pericolose. Criminalità e sviluppo nel Mezzogiorno 78. Santi Fedele e Pasquale Fornaro (a cura di), Dalle crisi dell’impero sovietico alla dissoluzione del socialismo reale 79. Giovannella Greco (a cura di), Mediamorfosi. Conversazioni su comunicazione e società 80. Salvatore Cingari, Il giovane Croce. Una biografia etico-politica. Postfazione di Raffaele Colapietra 81. Pietro Cuoco, La necessità, la norma e il nulla. Per una filosofia della norma giuridica 82. Giovanni Matteoli (a cura di), Giorgio Amendola comunista riformista 83. Donatella Barazzetti - Carmen Leccardi (a cura di), Genere e mutamento sociale. Le donne tra soggettività, politica e istituzioni 84. Gianfranco Bettin Lattes (a cura di), La politica acerba. Saggi sull’identità civica dei giovani 85. Renzo Raggiunti, Problemi della conoscenza e problemi del linguaggio nel pensiero moderno 86. Emanuele Nutile, Analisi psicologica del Mezzogiorno. Come utilizzare efficacemente le peculiarità psicologiche delle popolazioni meridionali 87. Paola Cadonici, L’alchimia della balbuzie Prefazione di Aldo Carotenuto. Introduzione di Oscar Schindler 88. Annick Magnier (a cura di), Élite e comunità. I poteri locali nella transizione italiana 89. Valerio Romitelli - Mirco degli Esposti, Quando si è fatto politica in Italia? Storia di situazioni pubbliche 90. Raffaele D’Agata, La nemesi dei prestadenaro. Economia mondiale e guerra fredda (1944-1948)

91. Pietro Fantozzi (a cura di), Politica, istituzioni e sviluppo. Un approccio sociologico 92. Renzo Trivelli, L’impegno e la memoria. Anni con Enrico Berlinguer 93. Maria Mirabelli, L’istituzionalismo amorale. L’esperienza dei patti territoriali in una regione del Mezzogiorno 94. Vincenzo Saba, Il sindacato come associazione. Quattro saggi Prefazione di Andrea Ciampani 95. Marianna Gensabella Furnari (a cura di), Alle frontiere della vita. Eutanasia ed etica del morire. Vol. I 96. Giuseppe Caridi, Popoli e terre di Calabria nel Mezzogiorno moderno 97. Domenico Rizzo, Il partito socialista e Raniero Panzieri in Sicilia. 19491955 98. Pippo Lo Cascio, Comunicazioni e trasmissioni. La lunga storia della comunicazione umana dai fani al telegrafo 99. Girolamo Cotroneo, Le idee del tempo. L’etica. La bioetica. I diritti. La pace 100. Giulio Sapelli, Merci e persone: l’agire morale nell’economia Con un saggio sulla santità di Adriano Olivetti 101. Giuseppe Romeo, La fine... di un mondo. ...dai resti delle “Torri Gemelle” una nuova teoria delle Relazioni internazionali 102. Maurice Aymard - Fabrizio Barca (a cura di), Conflitti, migrazioni e diritti dell’uomo. Il Mezzogiorno laboratorio di un’identità mediterranea 103. Roberto Racinaro, C’era una volta la politica. Globalizzazione / destabilizzazione 104. Luciano Pellicani, Dalla società chiusa alla società aperta 105. Nino Alongi, La politica delle tribù. Tre anni di cronaca siciliana 106. Vincenzo Pinto (a cura di), Stato e Libertà. Il carteggio Jabotinsky-Sciaky (1924-1939) 107. Enrico Caniglia, Identità, partecipazione e antagonismo nella politica giovanile 108. Antonino Campennì, L’egemonia breve. La parabola del salariato di fabbrica a Crotone 109. Adele Maiello, Sindacati in Europa. Storia, modelli, culture a confronto 110. Giovanni Matteoli (a cura di), Paolo Bufalini. L’impegno politico di un intellettuale 111. Yves R. Simon, Trattato del libero arbitrio 112. Luigi Sturzo, Appello ai siciliani. Prefazione di Giovanni Palladino 113. Giovannella Greco (a cura di), ComEducazione. Conversazioni su comunicazione e educazione 114. Andrea Cuccia, Gli albori della Massoneria 115. László Pete, Il colonnello Monti e la Legione italiana nella lotta per la libertà ungherese

116. Rosella Faraone, Giovanni Gentile e la «questione ebraica» 117. Elz˙bieta Jogal--l a e Guglielmo Meardi (a cura di), Solidarnos´c´ 20 anni dopo. Analisi, testimonianze e eredità 118. Ferdinando Cordova, Il fascismo nel Mezzogiorno: le Calabrie 119. Giuliano Della Pergola, Israele, un amore inquieto. Discussioni sull’ebraismo contemporaneo 120. Martino Cambula, Ludwig Wittgenstein. Stili e biografia di un pensiero 121. Gilbert Keith Chesterton, Una breve storia d’Inghilterra. A cura di Paolo Allegrezza 122. Domenico Sarno, Le Piccole e Medie Imprese del Mezzogiorno. Introduzione di Adriano Giannola 123. Mario Casaburi, Fabrizio Ruffo. L’uomo, il cardinale, il condottiero, l’economista, il politico 124. Ezio Mariani, L’uomo, la cultura, l’anima. Riflessioni su questioni di antropologia e di teoria della conoscenza 125. Marianna Gensabella Furnari (a cura di), Alle frontiere della vita. Eutanasia ed etica del morire. Vol. II 126. Marta Craveri, Resistenza nel Gulag. Un capitolo inedito della destalinizzazione in Unione Sovietica 127. Magda Jászay, Incontri e scontri nella storia dei rapporti italo-ungheresi 128. Giuseppe Campione, La composizione visiva del luogo. Introduzione di Franco Farinelli 129. Rosanna Nisticò, La disoccupazione estrema 130. Raffaele D’Agata, Idee, potere e società. Dalla presa della Bastiglia alla caduta del Muro di Berlino 131. Dario Antiseri, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza. Con una Replica di mons. Rino Fisichella e una Lettera di Sergio Galvan 132. Paolo Ceri (a cura di), La democrazia dei movimenti. Come decidono i noglobal 133. Danilo Breschi-Gisella Longo, Camillo Pellizzi. La ricerca delle élites tra politica e sociologia (1896-1979)